JORGE MOLIST L'ANELLO DEL TEMPIO (El Anillo. La Herencia Del Último Templario, 2004) A Jordi, David e Gloria In memoria ...
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JORGE MOLIST L'ANELLO DEL TEMPIO (El Anillo. La Herencia Del Último Templario, 2004) A Jordi, David e Gloria In memoria di Enric Caum Nel suo anello papale, è nascosto un demonio. Accusa mossa da Filippo IV di Francia, carnefice dei templari, a papa Bonifacio VIII 1 Non capita spesso che una donna riceva due anelli di fidanzamento, per giunta lo stesso giorno. Per questo il mio ventisettesimo compleanno fu tanto speciale. Il primo, su cui era montato uno splendido solitario, mi fu regalato da Mike, con cui uscivo da più di un anno. Bel colpo. Mike è il ragazzo ideale, che ogni giovane in età da marito sogna - o dovrebbe sognare - di incontrare. Se non lei, sicuramente sua madre vorrebbe imparentarsi con un tipo simile. Mediatore di Borsa o, per essere più precisi, il figlio del proprietario dell'agenzia. Davanti a sé non aveva solo un futuro promettente, ma un avvenire dorato: la fortuna dei suoi genitori. Immagino, però, che vi starete chiedendo dell'altro anello. Ebbene, anche il secondo gioiello (sorpresa!) mi impegnava, anche se non come fidanzata. O forse sì? In effetti, mi avrebbe legato non a un uomo, ma all'avventura. Un'avventura davvero insolita. Naturalmente, quando lo ricevetti non potevo saperlo, e non avevo la minima idea riguardo all'identità del mittente. Se me l'avessero detto, non ci avrei creduto. Quell'anello era il regalo di un morto. Allora, non sospettavo nemmeno che i due gioielli - o, meglio, i due impegni - fossero incompatibili. Così, li tenni entrambi, e cercai di abituarmi all'idea del matrimonio e al fatto che avrei cambiato il mio cognome in Harding, nonostante la mia curiosità nei confronti di quello strano regalo non fosse diminuita. Sono fatta così, e i misteri mi eccitano enormemente.
Ma forse sarà meglio cominciare dal principio... Quando suonarono alla porta, la festa era al culmine. Jennifer, con il suo abito lungo dalla scollatura profonda, e Susan, con i pantaloni aderenti a vita bassa, avevano cominciato a ballare, sfidando i ragazzi presenti, alcuni dei quali si erano fatti diversi bicchieri, e adesso se le mangiavano con gli occhi. Che sfacciate! Non c'è che dire, si divertivano un mondo a provocarli! Fatto sta che due stupidi si unirono a loro, con il bicchiere in mano, ed ebbero inizio le danze. Personalmente, non m'importava che li facessero sbavare; ormai ero una donna impegnata e Mike, il mio bel fidanzato, mi teneva per la vita, e tra una risata e un goccetto, un goccetto e una risata, continuavamo a baciarci. Al mio dito brillava un anello stupendo con un solitario enorme, di moltissimi carati. Me lo aveva dato qualche ora prima, mentre eravamo a cena nel lussuoso ristorante vicino al mio appartamento da single, a Manhattan, dove mi aveva portata a festeggiare il mio compleanno. «Oggi scelgo io il dessert», disse. Il cameriere arrivò con un magnifico soufflé al cioccolato. Io vado matta per il cioccolato. Al terzo o quarto assalto a quella delizia, il cucchiaino si imbatté in qualcosa di duro. «La vita è come un soufflé al cioccolato», commentò Mike, imitando la voce di Tom Hanks in Forrest Gump. «Non sai mai quello che ci trovi dentro.» Immagino che volesse mettermi in guardia, temendo che, in preda al mio vorace entusiasmo, finissi con l'ingoiarlo. E in mezzo alla gustosa massa nera notai un bagliore accecante. Io già speravo che, un giorno o l'altro, il mio genio di Borsa si presentasse con una piccola fortuna sotto forma di anello con diamante, accompagnandola con promesse di amore eterno. Di amore e ricchezza, in effetti: se gli avessi detto di sì, mi sarei assicurata un futuro in cui il lavoro, da relativa necessità, si sarebbe trasformato in passatempo assoluto. «Buon compleanno, Cristina», mi disse, estremamente serio. «Ma questo è...!» strillai, e iniziai a ripulirlo, leccando il cioccolato. «Vuoi sposarmi?» mi chiese, dopo essersi messo in ginocchio. Che romantico, pensai. I camerieri e i commensali dei tavoli vicini, allertati dalla mia esclamazione, ci osservavano curiosi. Io assunsi un'espressione seria e, godendomi lo spettacolo, mi guardai intorno: il tappeto persiano, il sontuoso lampada-
rio a gocce di cristallo, i tendaggi... Finsi di pensarci su. Mike mi guardava, ansioso. «Ma certo!» esclamai, quando la suspense si fece insostenibile. Mi alzai e gli saltai al collo per baciarlo. Lui mi sorrise, felice, e l'elegante clientela celebrò l'evento con un applauso entusiasta. Ma torniamo alla festa... Tra il chiasso dello stereo e il vociare degli ospiti, non sentii suonare il campanello; John e Linda sì e, invece di chiamarmi, decisero che un tipo interessante come quello dovevano vederlo tutti i presenti. Così, lo fecero entrare. Mi trovai davanti un individuo alto, vestito da motociclista, in nero; non si era nemmeno degnato di togliersi il casco. «La signorina Cristina Wilson?» chiese. Sentii un brivido corrermi lungo la schiena: quell'individuo aveva un aspetto sinistro e sembrava portare all'interno l'oscurità della notte. Qualcuno aveva abbassato la musica. Erano tutti lì, ad ascoltare le sue parole. «Sono io», risposi, lasciandomi sfuggire un sorriso. Ma certo! Adesso mi avrebbe cantato Tanti auguri a te...! E sicuramente avrebbe improvvisato uno strip-tease per mostrarci i muscoli scuri nascosti sotto il cuoio nero! Una sorpresina da parte di una delle mie amiche: forse Linda, o Jennifer. Sarebbe stato divertente. L'uomo fece una pausa, aprì la cerniera lampo del giubbotto e, quando pensavo che fosse sul punto di toglierselo, tirò fuori un pacchettino da una tasca interna. Gli invitati fecero capannello intorno a noi, i visi euforici, gli occhi di chi ha bevuto molto. «Questo è per lei», disse, mentre me lo passava. E io continuai a guardarlo, in attesa. Quando iniziava lo show? Ma, anziché cantare, aprì un'altra lampo, e invece di togliersi i pantaloni in pelle, estrasse carta e penna. «Posso vedere un documento?» mi chiese, in tono brusco. Iniziò a sembrarmi un po' eccessivo, ma dovevo stare allo scherzo. Così, trovai la patente e gliela mostrai. E lui, tranquillo, trascrisse i dati sul modulo. Era un attore provetto; noi tutti pendevamo dalle sue labbra, dai suoi movimenti. Forse adesso avrebbe cominciato. «Metta una firma qui.» «OK, quando pensi di iniziare?» gli chiesi, dopo aver scritto il mio nome. Tutti quei preamboli mi sembravano esagerati. Mi guardò in modo strano e, dopo aver strappato una copia del modulo, me la passò. «Arrivederci», disse, dirigendosi verso la porta. Non me lo aspettavo. Lanciai un'occhiata interrogativa a Mike, che sol-
levò le spalle, incapace di darmi una risposta. Guardai il foglio che mi aveva lasciato, ma era poco leggibile e riuscii a decifrare soltanto il mio nome. Non c'era alcun mittente. «Aspetta!» gridai, correndogli dietro. Ma sul pianerottolo non c'era. Aveva già preso l'ascensore. Tornai verso Mike, pensierosa. Dunque quel tizio non era un attore ingaggiato per farmi una sorpresa. Faceva sul serio. Che cosa curiosa: un uomo tanto misterioso! Chi mi mandava quel pacco? «Allora? Ti decidi ad aprire il regalo?» fece Ruth. «Vogliamo vedere cos'è!» saltò su un ragazzo. Mi resi conto che lo stavo ancora stringendo tra le mani; l'avevo completamente dimenticato, a causa di quello strano uomo vestito di nero. Mi sedetti su un divano e, appoggiando il pacchetto sul tavolino di cristallo, provai a togliere lo spago che legava l'involucro, senza riuscirci. Erano tutti intorno a me; volevano sapere che cos'era e chi me lo inviava. Qualcuno mi passò il coltello per la torta; avvolta nella carta trovai una scatoletta di legno scuro, con una rudimentale chiusura metallica. Sembrava piuttosto vecchia. Dentro, appoggiato su un cuscinetto di velluto verde, c'era un anello d'oro, con incastonata una pietra color granata. Doveva essere molto antico. «Un anello!» esclamai. Provandolo, notai che si adattava al mio dito medio; era solo un po' largo. Lo lasciai lì, accanto a quello di fidanzamento che brillava all'anulare. Tutti volevano vederlo, e quell'occasione fu una scusa per elogiare di nuovo le dimensioni del diamante regalatomi da Mike. «È un rubino», disse Ruth, osservando la pietra granata. È un'esperta di gioielli antichi; lavora per Sotheby's e s'intende di gemmologia. «Che forma strana», commentò Mike. «È perché secoli fa le gemme non venivano tagliate come oggi. L'intaglio era alquanto rudimentale, e le pietre venivano lavorate fino ad assumere un aspetto tondeggiante, proprio com'è stato con questo rubino.» «Un vero mistero!» esclamò Jennifer, prima di disinteressarsi della faccenda. Alzò il volume della musica e ricominciò a ballare. E, al ritmo del suo posteriore, la festa tornò a rianimarsi. Mentre Mike preparava qualche cocktail, mi misi a osservare la scatola e l'anello. E mi soffermai a considerare la ricevuta di consegna. Era lì, sul tavolino. Riesaminandola attentamente, con qualche difficoltà, dal momento che la carta copiativa quasi non aveva lasciato segno, riuscii a leggere:
BARCELLONA, SPAGNA. Sentii una stretta al cuore. «Barcellona!» esclamai. Quanti ricordi, in quel nome! 2 La torre infuocata crollò con la sua massa colossale, abbattendosi sugli infelici che si trovavano sotto, con un ruggito terrificante. La gente fuggiva. Una nuvola di polvere e cenere, come un vento del deserto carico di sabbia, avanzava penetrando nelle vie, coprendo ogni cosa con un manto bianchiccio. Mi rigirai nel letto. Dio mio, che angoscia! Ancora il ricordo di quella mattina infausta, quando erano cadute le torri più alte... Non è niente, mi dissi. È successo mesi fa; sono nel mio letto. Tranquilla, tranquilla. Dopo la mia festa di compleanno, Mike era rimasto a dormire da me, e adesso sentivo il gradevole calore del suo corpo accanto al mio; e il suo respiro lento, appagato, disteso. Gli accarezzai la schiena, ampia e forte. E, abbracciandolo, mi calmai. Eravamo nudi, sotto le lenzuola; nonostante l'intensità della passione, aveva avuto la forza di dirmi che continuava ad amarmi anche dopo avermi amata, ed era riuscito a sciorinare qualche galanteria prima di addormentarsi come un ghiro. E anch'io, spossata da quella giornata tanto intensa, ero caduta in un sonno dolce, credo... fino a quando non ero stata svegliata da quelle immagini angoscianti. Lanciai un'occhiata alla sveglia. Erano le quattro e mezza di domenica mattina; avevo ancora molto tempo per dormire. Chiusi gli occhi, calma. E subito tornò a tormentarmi quella scena tragica: il crollo, le macerie, la gente in preda al panico. Era un sogno diverso, però. Non mi trovavo a New York. E quelle che cadevano non erano le Torri Gemelle. No, qualcosa era cambiato; e immagini e suoni giungevano sino a me, senza che potessi evitarlo. La gente urlava. Il crollo delle torri aveva aperto una breccia, e gli uomini armati di spade, lance e balestre, e protetti da elmetti di ferro, cotte di maglia e scudi, si affrettavano in mezzo al polverone a raggiungere la crepa nella muraglia, incitandosi l'un l'altro. Sparirono nella nebbia sudicia, nello strepito, per non fare mai più ritorno. Di lì a poco, la foschia vomitò un'orda di guerrieri urlanti. Erano musulmani, e brandivano scimitarre insanguinate. Nonostante portassi la spada alla cintola, ero incapace di com-
battere; mi rendevo conto che le mie forze se ne stavano andando insieme al sangue che sgorgava dalle ferite. Non riuscivo a brandire un'arma, e nemmeno a sollevare il braccio, e mi affannai a trovare un riparo. Guardai la mia mano e anche lì, nel sogno, portavo l'anello con il suo rubino rosso intenso. Donne, vecchi e bambini carichi di fagotti, alcuni con cavalcature, altri con capre e pecore al seguito, correvano verso il mare. I bimbi piangevano terrorizzati, e le lacrime scorrevano formando dei solchi sui visetti sporchi di polvere. I più grandi stavano dietro alle loro madri, mentre queste ultime tenevano per mano o in braccio i più piccoli. Con la carica degli assalitori, che accoltellavano i fuggitivi, arrivò il panico. La folla strillava, abbandonando i propri averi; alcuni lasciavano persino i figli, e pensavano soltanto a scappare. Senza sapere dove. Era davvero terribile. Sentii una gran pena per quei poveretti, ma non ero in grado di soccorrerli. Che ne sarebbe stato di quei bambini rimasti senza madre? Forse si sarebbero salvati, finendo in schiavitù. Grandi portoni di legno, rinforzati con metallo, si stavano chiudendo. Dietro, avrebbero trovato protezione; ma i soldati, con le spade sguainate, tenevano a bada la moltitudine, e lasciavano passare solo pochi. Quelli che si accalcavano fuori, iniziarono a implorare a gran voce. Tra gli spintoni, si levavano pianti, suppliche, insulti. I guardiani urlavano loro di allontanarsi, di andarsene al porto. E, quando la folla ammassata tentò di farsi largo con la forza, questi cominciarono a menar fendenti alle persone più vicine. Poveri infelici, come gridavano di dolore e di paura! Attraverso un piccolo varco tra la folla, vidi che i portoni, ormai, erano quasi chiusi. Io continuavo a sanguinare, e temevo di morire lì, in mezzo a quella calca disperata. Incespicando, mi lanciai verso le spade dei soldati. Dovevo assolutamente entrare! Mi svegliai di soprassalto. Ansimavo, e avevo gli occhi colmi di lacrime. Che angoscia! Era addirittura maggiore di quella provata durante l'attentato alle Torri Gemelle. E il sogno, per me, era addirittura più reale della tragedia dell'11 settembre. Non mi aspetto che riusciate a capirlo; del resto, io stessa lo trovo difficile, ancora oggi. Ma un'immagine finale mi era rimasta impressa. L'uomo che comandava i sicari a guardia del portone era vestito di bianco, e sul petto portava la stessa croce rossa dipinta sulle mura della fortezza. Quella croce... mi ricordava qualcosa... Mi girai verso Mike, in cerca di sostegno. Adesso era supino e continua-
va a dormire felice, con un mezzo sorriso dipinto sul volto angelico. Di certo i suoi sogni dovevano essere molto diversi dai miei. Io non potevo condividere la sua serenità; quell'anello - non il suo, l'altro - era per me un motivo d'ansia. Vi ho detto che in quel momento ero nuda. Non del tutto, in effetti. Al medio e all'anulare brillavano due anelli. Non ero abituata ad andare a letto con gioielli, ma coricandomi non mi ero tolta il puro diamante, simbolo del nostro amore, della mia promessa, della mia nuova vita. E, non so perché, avevo tenuto anche l'altro anello. Quello dell'incubo. Ne ero tanto ossessionata da vederlo anche in quel sogno tragico? Decisi di osservarlo meglio, e lo misi sotto la piccola lampada che tenevo sul comodino. Accadde allora e rimasi a bocca aperta per la sorpresa. La luce, incidendo sulla superficie della pietra, incastonata in modo tale da essere bloccata soltanto lateralmente, proiettava una croce rossa sulle lenzuola bianche. Bello. Ma decisamente inquietante. La croce, poi, era molto particolare: aveva quattro bracci uguali, che si aprivano alle estremità formando due piccoli archi, che si allargavano nella parte finale. Fu allora che me ne resi conto: era la stessa del sogno! Quella dell'uniforme dei soldati che caricavano la folla, quella dipinta sulle mura della fortezza. Chiusi gli occhi e respirai profondamente. No, non poteva essere vero. Forse stavo ancora sognando? Provai a calmarmi e, spegnendo la luce, cercai rifugio accanto a Mike che, ancora addormentato, si era girato di schiena. Lo abbracciai. Il gesto riuscì a rasserenarmi, almeno un po', ma nella mia mente i pensieri si susseguivano a gran velocità. Tutto ciò che si riferiva a quell'anello era misterioso: il modo in cui l'avevo ricevuto, l'apparizione in sogno, la visione di quella croce prima ancora di notarla nella stessa pietra... Quel gioiello aveva una storia da raccontare. Non era un regalo qualsiasi. Celava un mistero... La mia curiosità aumentava. E con essa la paura. Qualcosa mi diceva che quel regalo inaspettato non mi era arrivato per caso. Era una sfida del destino, una vita parallela a quella che stavo vivendo che, come una porta segreta, si rivelava all'improvviso, aprendosi al mio passaggio, e mi spingeva ad attraversare una soglia ignota...
Intuii che quell'anello avrebbe messo a soqquadro la vita confortevole, prevedibile e ricca di promesse di felicità che mi si prospettava. Era una minaccia. Una tentazione. Maledetto gioiello! L'avevo appena ricevuto e non mi lasciava dormire in quella che sarebbe dovuta essere una notte felice. Accesi di nuovo la luce e studiai attentamente la pietra rossa; aveva uno strano fulgore, interiore, e formava una stella a sei punte che sembrava muoversi sotto la superficie, a seconda di come giravo l'anello, in modo tale che quella lucentezza fosse sempre davanti ai miei occhi. Esaminai la parte più interna. C'era un intaglio d'avorio alla base, che formava un incavo sul rovescio del rubino, e faceva in modo che la luce, attraversando il cristallo, proiettasse quella bellissima croce color rosso sangue. Bene, ero riuscita a capire il meccanismo fisico che produceva quella piccola meraviglia; ma la mia curiosità nei confronti della sua provenienza e del motivo per cui mi era stata spedita continuava ad aumentare. All'improvviso spalancai gli occhi, colpita da un pensiero. Quell'anello! Quello con il rubino. Io l'avevo già visto! Era come un'immagine che tornava dalla nebbia in cui erano avvolti i ricordi della mia infanzia; ne ero convinta, ero assolutamente sicura. Riuscivo a vederlo in un luogo appartenuto al mio passato. Lo indossava qualcuno. Mi rigirai nel letto, agitata. Ero ancora bambina, vivevo a Barcellona. Sì, non avevo dubbi. Ma a chi apparteneva la mano che sfoggiava quel gioiello? Nonostante gli sforzi, non riuscii a ricordarlo. Ormai ero certa che appartenesse alla mia fanciullezza, e forse a un passato molto più remoto. Ma chi me l'aveva spedito? E perché? Se vuoi fare un regalo a qualcuno per il suo compleanno, non ti comporti in modo tanto misterioso; di solito, ti fai riconoscere. Non è vero? E in quel momento tornai a pormi la domanda che da sempre volevo rivolgere a mia madre, ma che non ero mai riuscita a formulare a voce alta. Si trattava di un piccolo enigma, una di quelle curiosità a cui non dai importanza, ma che continuano a ronzare a voce bassa in un angolo della tua mente, e che un giorno, all'improvviso, si trasformano in una grande incognita. Perché non eravamo mai tornati nella città in cui sono nata?
Ci trasferimmo da Barcellona a New York quando avevo tredici anni. Mio padre è originario del Michigan e, per diversi anni, occupò il posto di responsabile della filiale spagnola di un'azienda americana. Mia madre è figlia unica e appartiene a una «buona» famiglia dell' antica borghesia catalana. I miei nonni materni non ci sono più, e tutti i parenti rimasti in Spagna sono lontani, e non ci frequentiamo. Fu proprio a Barcellona che i miei si incontrarono. Fu il classico colpo di fulmine. Si sposarono e misero al mondo chi vi sta raccontando questa storia. Mio padre mi ha sempre parlato in inglese; io lo chiamo Daddy, papà, e lui chiama Mary mia madre, Maria del Mar. Sin dall'inizio avrei voluto chiedere a Mary perché non fossimo più tornati a Barcellona, ma lei evitava sempre l'argomento. E io mi chiedevo se ci fosse un motivo particolare. Papà si era inserito abbastanza bene nel gruppo di amici di mia madre; la Spagna gli piaceva molto. A quanto sembra, però, fu lei a insistere affinché ci trasferissimo negli Stati Uniti. E, alla fine, ebbe la meglio. Mio padre ottenne un posto nella sede di Long Island, a New York. E così traslocammo. Maria del Mar lasciò la sua famiglia, i suoi amici, la sua città e partì contenta per l'America. E non facemmo più ritorno a Barcellona, nemmeno per una visita. Strano, no? Mi rigirai nel letto, e diedi un'altra occhiata alla sveglia. Era l'alba di domenica: i miei ci aspettavano a casa loro, a Long Island, per festeggiare il mio compleanno. Io e mia madre avevamo molte cose di cui parlare. Ammesso che lei volesse farlo. 3 «Ti amo», mi disse Mike, distogliendo per un attimo lo sguardo dalla strada; mi accarezzava un ginocchio. «Ti amo anch'io, tesoruccio», risposi, avvicinando la sua mano alle mie labbra per baciarla. Era una bella mattina d'inverno; Mike era al volante, rilassato e felice. Il sole faceva brillare i tronchi e i rami spogli degli alberi a foglie caduche, e si perdeva nel verde degli abeti. Ma la trasparenza e la luminosità di quel giorno erano ingannevoli: dall'abitacolo dell'automobile, riscaldato dal sole, sarebbe stato impossibile immaginare la gelida temperatura esterna. «Dovremo decidere una data», mi disse lui. «Una data?»
«Ma sì. Per il matrimonio.» A giudicare dal suo sguardo, la mia distrazione l'aveva sorpreso. «Oh, sicuro», risposi, pensierosa. Ma dove avevo la testa? Dopo un fidanzamento ci si sposa, riflettei. E se Mike mi ha regalato l'anello è perché intende sposarmi. E se gli ho detto di sì significa che lo voglio anch'io. Avrei dovuto essere ansiosa di celebrare le nozze. Ma i miei neuroni non erano occupati a fare progetti pieni di felicità sul mio abito bianco, su quello delle damigelle d'onore, sulla torta e su tutto ciò che sarebbe stato necessario per organizzare il giorno più bello della mia vita; Mike mi aveva colta in un momento in cui la mia attenzione era rivolta altrove: stavo pensando all'anello. E non al suo, ma all'altro. Quello del mistero. Ma, ovviamente, non avevo alcuna intenzione di confessarglielo. «E, una volta fissata la data», aggiunsi, «dovremo occuparci degli inviti, degli abiti, del banchetto, della chiesa...» «Naturalmente.» «Stupendo!» dissi, sorridente. Che pasticcio, pensai. Ma com'ero arrivata a questo punto? Mi tornò in mente il giorno in cui tutto aveva avuto inizio... Quella mattina arrivarono gli uccelli che portarono la morte, pilotati da uomini suicidi. Con il loro fuoco, falciarono migliaia di vittime, abbatterono i simboli della nostra città. I nostri cuori erano in lutto. Venivano dalla notte scura, lontana mille anni, dove a dar luce ai fanatici c'è solo una mezzaluna di sangue. E adesso fa male. Il crollo delle Torri fa male. Come dicono degli arti amputati: non ci sono più, ma il dolore continua a farsi sentire. L'immenso vuoto è ancora lì, e i suoi fantasmi sembrano popolare la notte della città. Non è più la stessa. E non tornerà più a esserlo. Ma è ancora New York. E lo sarà sempre. Quel giorno e quella notte cambiarono la mia città e il mondo. E cambiarono me e la mia vita. Quella mattina ero attesa in tribunale per una complicata causa di divorzio, e stavo attraversando la reception del mio studio, nei pressi del Rockefeller Center, quando notai qualcosa di strano. Un colpo, una debole scossa. Strano, pensai: a New York non ci sono terremoti. Salii al mio piano; avevo appena salutato i miei colleghi e stavo entrando nel mio ufficio, quando giunse la notizia. Una segretaria strillò al telefono: «Oh, my
God!»; intorno a lei si formò un crocchio di persone incredule. Per verificare quanto avevamo sentito, salimmo sulla terrazza dell'edificio, da cui, come da tante altre a New York, si intravedevano le Torri. Scorgemmo il fumo e gridammo inorriditi, assistendo all'arrivo del Secondo aereo e dell'incendio provocato dall'impatto; da quel momento in poi, fu la follia. Non si trattava di un incidente, bensì di un attacco: poteva accadere qualsiasi cosa. All'inizio le notizie erano confuse; poi si fecero drammatiche. Infine, giunse l'ordine di abbandonare il palazzo, e la raccomandazione di lasciare Manhattan. Il ronzio delle pale degli elicotteri che colpivano il cielo faceva da contrappunto all'ululato angoscioso delle sirene delle autopompe, delle ambulanze e delle macchine della polizia, che percorrevano le strade come formiche in un formicaio sconvolto, nel tentativo inutile di fare qualcosa. Io non sapevo se abbandonare l'isola attraversando uno dei ponti o prendere un taxi per andare dai miei, a Long Island. Alla fine, decisi di tornare nel mio appartamento per guardare in TV quello che stava accadendo. Avvertivo un tremendo senso di oppressione. Iniziai a chiamare le persone che conoscevo che lavoravano al World Trade Center, o nelle vicinanze. Ma le linee erano intasate, ed era difficile telefonare; quando riuscii a mettermi in contatto con Mike, lo sentii abbattuto. Lavorando a Wall Street, aveva molti amici con gli uffici nelle Torri Gemelle, e aveva passato tutta la mattina a cercarli, con scarso successo. Ci conoscevamo da mesi, e io sapevo di piacergli. E molto. Sì, era un bel tipo, ed era simpatico; ma la cosa finiva lì. Gli ingredienti c'erano tutti, ma mancava il catalizzatore che li facesse quagliare. Lui avrebbe voluto che ci frequentassimo di più, che diventassimo più intimi, ma io mettevo il freno. A volte uscivamo da soli, altre volte in compagnia; il sabato prima, per la precisione, c'eravamo trovati con alcuni amici. «Tu pretendi troppo dagli uomini», mi ripeteva mia madre. «Trovi difetti a tutti», insisteva. «Chissà se riesci a trovarne uno che duri più di sei mesi...» Sempre la solita solfa. A volte non la sopporto proprio... «Tranquilla, Mary», interveniva Daddy. «Un giorno di questi apparirà lui: l'uomo meraviglioso. E non è detto che debba essere il primo che si incontra, no?» E mi strizzava l'occhio, con complicità. Mia madre diceva il giusto. Io mi godo la compagnia maschile, ma quando cominciano ad assillarmi e pretendono di limitare la mia vita, chiedendomi sempre di più, mi stanco e chiudo la storia. Fortunatamente non ho difficoltà a stringere nuove amicizie. Papà aveva ragione: non avevo ancora incontrato l'uomo giusto. Se invece era già successo, me ne sarei
resa conto molto presto. Non saprei dire che cosa provai quella mattina, quando parlai con Mike. Forse, in lui avevo notato la stessa angoscia che opprimeva il mio cuore. Comunque, lo invitai a casa mia. Avremmo cenato con quello che c'era nel frigorifero. Sapevo che avrebbe accettato. Infatti, arrivò. Lo aspettai con una bottiglia di cabernet-sauvignon californiano aperta; quando entrò, mi disse che il suo migliore amico lavorava nella seconda torre, in un ufficio che si trovava sopra al punto d'impatto dell'aereo. Era scomparso. Ci sedemmo davanti al televisore bevendo vino, e sussurrando il nostro stupore. Non c'erano interruzioni pubblicitarie, quel giorno: continuavano a mandare le immagini del duplice attacco, a volte con riprese diverse: la gente che si gettava dalle finestre, l'attesa agitata, il crollo... la tragedia. Eravamo come ipnotizzati, non riuscivamo a distogliere lo sguardo dallo schermo. All'improvviso, davanti a quelle scene di terrore, Mike iniziò a piangere. E la cosa mi sollevò, perché era da un po' che volevo farlo anch'io. Così, mi unii a lui. E tra le lacrime gli accarezzai una guancia, e lui ricambiò. Poi mi baciò. Un bacio tenero, a sfiorarmi le labbra. Io lo baciai fino all'ugola. Era la prima volta che ci spingevamo così in là. Non so se vi sia mai capitato di farlo nel bel mezzo di un piagnisteo, uno scambio di saliva un po' disgustoso, con lacrime e muco mescolati insieme. Ma in quel momento sentivo il bisogno di perdermi del tutto tra le sue braccia. A volte mi chiedo, con un po' di rimorso, se avrei fatto lo stesso con un altro. Ma, cosa davvero strana almeno per me, quella sera avevo bisogno della protezione di un uomo; e non stavo fingendo, come talvolta mi divertivo a fare. Era la verità. O forse mi sarebbe bastato aver vicino una donna. Non so. Anche Mike, comunque, sentiva la necessità di un sostegno. Infilò la mano nella mia camicetta e trovò il mio seno, nudo. Io aprii qualche bottone della sua camicia, e la mia mano iniziò a scivolare lungo il suo torso, per poi scendere. Quando, un momento dopo, decisi di spingermi più giù, sentii il suo membro che cercava di far scoppiare i pantaloni. E lui, tra i sospiri eccitati che si erano sostituiti ai singhiozzi, mi stava baciando i capezzoli. Facemmo l'amore sul divano, disperati, come yonkies alla ricerca di una dose per dimenticare il mondo. Non ci fu il tempo di spegnere il televisore, una finestra aperta su quello che avremmo preferito ignorare; i nostri sussurri erotici si mescolarono alle esclamazioni di sconcerto e di terrore della gente. Lui raggiungeva il piacere, quando io fui distratta da qualcosa: aprendo gli occhi, vidi quei poveretti che si gettavano nel vuoto. Li chiusi di nuovo e mi misi a pregare.
Poco dopo ricominciammo in camera, senza l'orrore di quelle immagini, e senza quei suoni apocalittici. E all'improvviso, dopo la passione, sentii nascere in me un enorme affetto. Ero grata a Mike: quando era arrivato a casa mia, il mio cuore era talmente contratto che mi doleva il petto, ma facendo l'amore era tornato alla sua grandezza normale, e forse era addirittura cresciuto. In quella notte orribile, sentii le migliaia di anime senza corpo che si aggiravano per New York confuse, terrorizzate e disperate, cercando il loro cammino nell'oscurità, mentre noi vivi piangevamo la loro assenza. Io e Mike restammo abbracciati nel mio letto, rincuorati da quella felicità che si prova quando si cessa di essere molto infelici. Le tenebre e l'orrore erano fuori, lontani. E io pensai che forse sarebbe stato sempre così. Quando Mike se ne andò, la mattina dopo, mi chiese di vederci la sera stessa, e io gli dissi di sì. Così, iniziammo a fare sul serio. E, ovviamente, la mia vita da donna senza un uomo fisso cambiò per sempre. Da quel giorno. 4 La casa dei miei genitori si trova nella zona più signorile di Long Island. Non è una di quelle dimore costosissime che si affacciano sul lido, ma è comunque graziosa: in stile coloniale inglese, disposta su due piani, con un ampio giardino. Mentre imboccavamo il vialetto di ghiaia che conduce alla porta principale, diedi un colpo di clacson; adoro quando vengono fuori ad accogliermi. Per primo uscì Daddy, che stringeva tra le mani il giornale della domenica. «Buon compleanno, Cristina!» disse abbracciandomi, e ci scambiammo due baci. In quel momento ci raggiunse mamma, con indosso un grembiule; evidentemente, l'avevamo sorpresa mentre cucinava uno dei suoi famosi manicaretti. Mia madre è una cuoca eccezionale; per un po' aveva sognato di aprire un ristorante in stile mediterraneo a Manhattan. Non permette quasi mai che sia la domestica a preparare da mangiare. E, a giudicare dal profumo, in quel momento stava cucinando uno dei suoi squisiti piatti di pesce, che lei chiama suquet de l'Empordà. Dopo i baci e i saluti, papà e Mike andarono in salotto, mentre io ac-
compagnai mia madre in cucina. Devo ammettere che non è una stanza che visito di frequente, ma desideravo anticiparle la notizia. «Un anello di fidanzamento!» esclamò vedendo il gioiello, battendo le mani e saltellando per la gioia. «È bellissimo!» disse, dandomi un altro bacio e stringendomi in un forte abbraccio. Era felicissima; per lei Mike era il ragazzo ideale. «È meraviglioso! A quando le nozze?» «Non l'abbiamo ancora deciso, mamma», risposi, piuttosto infastidita dalle sue pressioni. «Di sicuro non ho alcuna fretta; stiamo benissimo così, il lavoro va alla grande e, per il momento, non desidero avere dei figli. Forse gli proporrò di andare a vivere insieme, prima di sposarci.» «Ma prima devi fissare la data!» «Ci penserò.» La cara donna iniziava ad assillarmi. Certo, non era affatto male avere un fidanzato bello e ricco. Ma io non avevo alcun bisogno di correre. Prima che quel maledetto matrimonio si trasformasse in un motivo di polemica, cercai si spostare la sua attenzione sull'anello. «Ma hai notato la bellezza di questo enorme solitario?» dissi, mettendole il brillante sotto al naso. La sua vista fa un po' cilecca, ultimamente. Allora, fissò attenta la mia mano, e all'improvviso notai un sussulto da parte sua seguito da un fremito. Addirittura, ebbi l'impressione che fosse sul punto di indietreggiare. Spostava alternativamente lo sguardo dal mio viso alla mia mano, spaventata. «Che cosa ti succede?» «Niente», mentì. «Sembri sorpresa.» «Sono affascinata dall'anello che ti ha regalato Mike. È bellissimo», disse, dopo un momento. «Ma... questo? Non te l'avevo mai visto.» «Mi è arrivato in un modo molto misterioso», risposi entusiasta. «Ma preferisco conservare questa storia per dopo, quando saremo a tavola con papà.» Feci una pausa e aggiunsi: «Però ho una sensazione strana. Come se l'avessi già visto. A te non sembra familiare?» «No, io non me lo ricordo», disse, pensierosa. Ma la conoscevo abbastanza da accorgermi che non era la verità; mi stava nascondendo qualcosa. E la mia curiosità aumentava a dismisura. A pranzo, i miei genitori ebbero il buon gusto di dissimulare la gioia suscitata in loro dall'aspetto costosissimo del diamante; ma sono certa che mia madre - a volte con lei sono proprio cattiva - si sarebbe messa a dieta per una settimana, pur di conoscere subito il prezzo di quel prezioso gioiel-
lo. L'attenzione cadde sull'altro anello quando ormai la conversazione cominciava a languire, esauriti gli elogi riguardo allo stupendo brillante di Mike. Fu allora che quest'ultimo iniziò a raccontare dell'apparizione del misterioso motociclista durante la mia festa di compleanno. Gli piace esagerare e condire le storie. Adesso, il messaggero era alto due metri, e sembrava la versione newyorkese di Darth Vader, il cattivo di Guerre Stellari, vestito com'era di nero, casco incluso. Mancava soltanto che vivacizzasse il racconto con musica ed effetti speciali, con i versi tipici dei bambini. Si dà il caso, però, che mamma e papà fossero molto interessati. Il ragazzo è bravo a raccontare storie, ma sono convinta che i miei, sapendo che la loro figlia avrebbe sposato il fantastico proprietario di un gran numero di carte Oro, Platino e Diamante (ammesso che esistano), avrebbero ascoltato con piacere qualsiasi racconto. «Un bel mistero!» esclamò mio padre, che sembrava alquanto interessato. «Non sarà uno scherzo?» «Uno scherzo che al mattacchione costerà caro», dissi. «Una mia amica lavora per Sotheby's, ed è un'esperta di gioielli. Secondo lei, l'anello è antico, e la pietra è un rubino di eccellente qualità, ma lavorato secondo il metodo in uso diversi secoli orsono.» «Fammi un po' vedere», mi chiese lui. E mentre me lo toglievo, lanciai un'occhiata a mia madre. Non aveva detto una parola; stava fingendo ma, a giudicare dalla sua espressione, ascoltava una storia che conosceva bene. «La cosa curiosa è che la ricevuta di consegna dice che il pacco è stato spedito da Barcellona.» «Barcellona!» esclamò papà osservando il gioiello che teneva tra le mani. «Io l'ho già visto. Ma certo, sarà stato quando vivevamo a Barcellona.» «Anch'io ho avuto la stessa impressione!» feci io. «E tu, mamma?» Mi sembrò alquanto allarmata. «Forse. Non me lo ricordo.» Ma io ero sicura che conoscesse con esattezza la provenienza di quell'anello. Allora perché negava? A che scopo? «Ma sì!» saltò su papà. Io mi sentivo in bilico. «Adesso ricordo!» «Avanti, parla!» lo incalzai, impaziente. «Apparteneva a Ernic. Ricordi Mary?» «Sì, è possibile», disse lei, dubbiosa. È chiaro: sapeva più di quanto volesse far credere. «Ernic chi?» chiesi. «Il mio padrino?»
«Proprio lui.» «Ma se è morto!» «Già, è vero», confermò papà. «E come può un morto mandare un regalo?» intervenne Mike, sempre più interessato. Probabilmente stava già pensando alla storia favolosa che avrebbe raccontato ai suoi amici di Wall Street. «Enric era il mio padrino. Te ne ho parlato diverse volte. Vedi», gli spiegai, «quando un bimbo cattolico viene battezzato, due parenti o due amici - un uomo e una donna - accettano la responsabilità di prendersi cura di lui, fisicamente e spiritualmente, in caso di scomparsa dei suoi genitori. Enric morì in un incidente d'auto l'anno in cui noi ci trasferimmo qui. Giusto?» chiesi infine ai miei. Mia madre scambiò una strana occhiata con Daddy, prima di rispondere: «Sì...» E in quel momento ebbi la certezza che mi nascondevano qualcosa, riguardo a Enric. È sempre così, con Maria del Mar; per lei, esistono le bugie a fin di bene; bugie socialmente corrette, che si dicono per non offendere qualcuno, o per evitare i confronti diretti, da cui rifugge. «Voi mi nascondete qualcosa», affermai. E all'improvviso compresi: «Ma è chiaro! Enric non è morto, è ancora vivo e si trova da qualche parte... per questo mi ha mandato il suo anello!» Daddy guardò mia madre: «Cristina è grande», le disse, serio. «Dobbiamo dirle la verità.» E lei annuì con il capo. Li osservai entrambi, e poi spostai gli occhi su Mike, ansioso quanto me, se non addirittura di più. Intrigata, mi preparai ad ascoltare. «Enric è morto», disse papà, con lo sguardo triste. «Su questo non ci sono dubbi. Ma non morì in seguito a un incidente automobilistico, come ti abbiamo sempre fatto credere. Si suicidò. Si sparò un colpo in bocca.» Rimasi impietrita. Io adoravo Enric. Da bambina, a Barcellona, lo consideravo uno zio; anzi, dopo i miei genitori era l'adulto che amavo di più. Me lo ricordo come una persona gentile, affettuosa e sorridente, che inventava sempre dei giochi nuovi perché noi tre ci divertissimo alla grande: io, suo figlio Oriol e suo nipote Luis. Ricordo le sue sghignazzate, e il modo in cui riusciva a farci ridere... Non avrei mai immaginato che un uomo così vitale e positivo potesse arrivare a decidere di togliersi la vita. «No, non può essere.» «È così, Cristina. Non c'è alcun dubbio», confermò mia madre. Il suo sguardo era sereno, adesso; non aveva più quell'aria colpevole che avevo
notato in cucina. «Sapevamo che la cosa ti avrebbe fatto stare male. Per questo abbiamo preferito nascondertelo.» «Ma io non riesco a crederci», mormorai. Mia madre non si sbagliava. Anche a distanza di tanti anni, quella notizia mi arrecò un immenso dolore. Fui assalita da un'enorme tristezza. «Non ci riesco. Non è possibile che uno come lui...» Loro mi guardavano in silenzio, afflitti. «Ma perché?» esclamai, aprendo le braccia per rendere più drammatiche le mie parole. «Perché si suicidò?» «Non lo sappiamo», rispose mia madre. «La sua famiglia non volle dirmelo. E io non ho voluto insistere più del dovuto, per non sembrare irriguardosa. Dobbiamo ricordarci di lui come di una persona vitale, colta, positiva. Io non ho mai smesso di pregare per la sua anima.» Sembrava così triste. Già: gli voleva bene come a un fratello. Appoggiai le posate sul piatto. Avevo perso l'appetito, non mi andava neppure la torta di compleanno. Forse era meglio lasciarla per la merenda. Intorno alla tavola era sceso il silenzio, avevo gli sguardi di tutti puntati addosso. «E l'anello, allora?» chiesi, dopo un po'. «Che senso ha? Perché qualcuno dovrebbe inviarmi l'anello di Ernic, adesso, come regalo di compleanno?» Guardai prima mia madre, poi mio padre, ed entrambi mi fecero capire che non avevano la minima idea del perché mi fosse capitata una cosa tanto strana. Anche Mike si strinse nelle spalle, come se la domanda fosse stata rivolta a lui. «Da quando l'aveva ricevuto, Ernic lo portava sempre al dito. Non se lo toglieva mai», disse infine mia madre. Ma brava! fui sul punto di esclamare. Adesso ti ricordi, vero? Da quando te l'ho mostrato, in cucina, non hai fatto altro che fingere! Avrei voluto dirglielo, ma preferii tacere: avrei conservato rimproveri e domande per quando fossimo rimaste sole. In quel momento avrebbe negato ogni cosa. «Non lo vidi mai con nessun altro anello», continuò. «E sono convinta che lo avesse al dito anche quando morì.» A quella notizia, trasalii. «Ma di solito le persone non vengono seppellite con i gioielli a loro più cari?» Mi pentii della domanda prima ancora di averla formulata. Gli altri tre si limitarono a fissarmi, senza dire nulla. Io guardai il sigillo. Attraverso le trasparenze vermiglie, la pietra mostrava la sua luce a forma
di stella. Una stella rosso sangue, pensai. Ero davvero confusa. Che razza di pasticcio! Mi sforzai di riordinare le idee, e di riassumere tutti i misteri che quell'anello portava con sé. Perché una persona tanto amante della vita come il mio padrino aveva deciso di suicidarsi? Chi era stato a mandarmi il suo gioiello preferito? Perché proprio a me? A che scopo? E perché, contrariamente alle consuetudini, Ernic non era stato sepolto con l'anello al dito? Un momento: come facevo a esserne sicura? A quel pensiero, mi si rizzarono i capelli. Gli altri continuavano a guardarmi. «Un bel mistero, no?» dissi, sforzandomi di sorridere; tentai di essere positiva. Li osservai uno a uno. Mike ricambiò con un largo sorriso; quella storia lo affascinava. Daddy fece una smorfia spiritosa, a sottolineare la gran confusione; mamma, però, era molto seria. Sembrava intimorita. Continua a nascondermi qualcosa, mi dissi. Quest'anello la preoccupa. Anzi, sarei pronta a giurare che la spaventa. Ce ne stavamo andando, quando, all'improvviso, mi ricordai del dipinto. «Hai notato questa tavola?» domandai a Mike. Era sempre stata appesa a una parete della sala da pranzo, ma, nel corso delle visite precedenti, non aveva mai attirato l'attenzione di Mike, né io avevo pensato di mostrargliela. Ci avvicinammo, per osservarla meglio. È un quadro dalle dimensioni abbastanza ridotte, trenta centimetri circa di base per quaranta d'altezza; è una tempera sopra una tavola di legno tarlata ai lati, privi di stucco; dev'essere stata sottoposta a qualche trattamento per eliminare gli odiosi parassiti ed evitare lo sgretolamento. Ciononostante, la superficie dipinta è quasi intatta. Raffigura una Madonna seduta, con il Bambino in grembo. La Vergine porta il velo, e guarda davanti a sé, immobile e maestosa; ha il viso dolce, ma serio, e il capo è circondato da una stupenda aureola dorata, con incisioni floreali. In braccio tiene il bimbo, che deve avere intorno ai due anni; è leggermente inclinato, e siede sulla gamba destra della madre; benedice l'osservatore. La sua aureola è più piccola e meno elaborata. Le labbra accennano un sorriso. Mi ha sempre stupito il contrasto tra la staticità della Madonna e il movimento del piccolo. Allora non lo sapevo, ma il bambino, la nuova generazione, possiede l'impulso del gotico che si contrappone alla tranquillità della madre, che conserva delle caratteristiche romaniche. Nella parte superiore della tavola ci sono due archi a ogiva sovrapposti,
formati da due piccoli rilievi dorati come lo sfondo, che sembrano chiudere le immagini in un'antica cappella. È ancora il gotico a imporsi. E, nella parte inferiore, ai piedi della Vergine, si legge un'iscrizione latina: Mater. Prima ho detto che il quadro era sempre stato lì: be', non è del tutto vero. Quasi, però. Io e i miei genitori arrivammo a New York nel gennaio del 1988. Restammo un paio di mesi in hotel, fino a quando i miei non trovarono questa casa, dove ci trasferimmo in marzo, dopo aver apportato qualche modifica. Ebbene, il lunedì di Pasqua, puntuale come sempre, mi arrivò la tavola, un regalo da parte del mio padrino. E, visto che le pareti erano ancora piuttosto spoglie, le trovammo subito una collocazione. Io aspettavo con ansia il presente di Enric. Non era mai venuto meno ai suoi doveri ma, ovviamente, considerata la distanza, non poteva mandarmi una mona, la tradizionale torta pasquale, come aveva fatto ogni anno. Al suo posto, quindi, mi fece avere quello splendido quadro.
Poche settimane dopo, ricevevo la notizia della sua morte. Fu una vera tragedia, per me, e non mi è difficile comprendere per quale motivo i miei avessero preferito mentirmi. Adoravo Enric. «È un bel quadro», osservò Mike, distogliendomi dai miei pensieri. «Sembra molto antico.» «Me lo regalò il mio padrino poco prima di morire.» «Hai notato?» fece lui. «La Madonna porta il tuo anello.» «Che cosa?» Guardai la mano sinistra della Vergine, quella che reggeva il bambino. In effetti, l'artista aveva dipinto un anello, al dito medio. Un
anello con una pietra rossa. Era proprio il mio! Per alcuni secondi mi sentii frastornata, in preda alle vertigini. Fui assalita da un presentimento, che quasi mi colpì fisicamente. Dio mio! Era tutto collegato. L'anello. La tavola. Il suicidio di Enric. 5 Nonostante avessi scoperto, all'improvviso, che l'anello che tante volte avevo visto raffigurato nel quadro era appartenuto a Enric, e nonostante fossi convinta che quel gioiello nascondesse una storia misteriosa, continuai a portarlo accanto al solitario. Avevo iniziato a provare uno strano affetto, per quei due gioielli: uno rappresentava l'amore del mio fidanzato, l'altro quello del mio padrino, a cui avevo voluto tanto bene. Non me li toglievo mai. nemmeno quando andavo a dormire. Ma non potevo evitare che quel mistero tornasse ad assalirmi sotto forma di domande, quando meno me l'aspettavo, quando avrei dovuto concentrarmi su altre cose. Succedeva anche al lavoro, magari durante un processo, quando difendevo un cliente; avvertivo una strana sensazione alla mano, guardavo la pietra con la sua misteriosa lucentezza che faceva pensare al sangue, e iniziavo a chiedermi perché mi avessero mandato quell'anello. E perché Enric si fosse sparato un colpo. Ah, ho dimenticato di dirvi che sono un avvocato. Ma forse l'avevate capito da soli. A quanto pare sono molto brava, e spero di diventarlo ancora di più. Un avvocato deve dedicare rutta la propria attenzione al caso di cui si occupa; anche i minimi dettagli sono molto importanti. Bisogna considerare continuamente tutti i risvolti e le possibili implicazioni della causa, verificare se esistono precedenti nelle sentenze del passato... e così via. E per chi fa il mio lavoro non è consigliabile tenere la mente occupata con enigmi gotici. Ma io non riuscivo a resistere al mistero. Pensai di chiamare qualcuno a Barcellona. Ma dei miei amici d'infanzia, Oriol e Luis, avevo perso le tracce da quando avevamo lasciato la Spagna. Chiesi a mia madre di aiutarmi a contattare i cugini Bonaplata e Casajoana, ma lei mi disse che aveva smarrito la sua vecchia agenda: non aveva più sentito nessuno, dal giorno della morte di Enric, né aveva modo di trovare i recapiti delle due famiglie. Non le credetti, ma non volli nemmeno farle pressioni: qualcosa mi diceva che avrebbe preferito tener nascosto, dimenticare quel passato segre-
to. Così, un giorno provai a rivolgermi al servizio informazioni elenco abbonati spagnolo. Niente: Oriol e Luis sembravano essere scomparsi da Barcellona. Decisi di tranquillizzarmi e di aspettare. Se qualcuno si era preso il disturbo di cercare il mio indirizzo per inviarmi quell'anello, alla fine si sarebbe fatto riconoscere. O, almeno, era quello che speravo. Ricordo quell'estate: la burrasca e il bacio. Ricordo il mare infuriato e la sabbia, gli scogli, la pioggia, il vento e il bacio. Ricordo quell'ultima estate: una burrasca e il primo bacio. E ricordo lui, il suo calore, il suo pudore, le onde e la sua bocca che sapeva di sale. Ricordo la mia ultima estate in Spagna, e lui nel mio primo bacio di passione. Non avevo dimenticato il mio primo amore, non ho dimenticato nulla, ricordo lui. Oriol. Scoprire che il mio anello era raffigurato in quel quadro mi turbò. Profondamente. Mi sorpresi a pensare a Oriol, al ragazzino che per primo mi aveva fatto battere il cuore; e poi alla mia infanzia, a Enric e agli enigmi a cui in passato non avevo prestato abbastanza attenzione. Perché non eravamo mai tornati in Spagna? Perché non eravamo più stati a Barcellona? Queste e altre domande mi tormentavano con insistenza, assillandomi. Molte volte avevo chiesto a mia madre di riportarmi nel Paese in cui ero nata, ricevendo sempre la stessa risposta: «Non è il momento, magari l'anno prossimo; io e papà abbiamo deciso di andare in vacanza alle Hawaii, in Messico o in Florida». Già: mai in Spagna. Nemmeno in occasione delle Olimpiadi del '92. Io stavo per compiere diciassette anni, e mia madre mi disse che non sarebbe stato carino andare a festeggiare mentre i nostri amici di Barcellona erano ancora in lutto per la morte di Ernic, rimasto vittima di «un incidente automobilistico». Erano passati quattro anni dalla scomparsa del mio padrino; Sharon e la sua famiglia andavano in Spagna per i Giochi, e avevano invitato anche me. Mamma sbiancò in volto, quando glielo dissi. Iniziò a trovare delle scuse. Alla fine, riuscì a convincermi, promettendomi in cambio patente e automobile. E io accettai.
Capii, però, che aveva tessuto una ragnatela per impedirmi di attraversare l'oceano e di tornare a Barcellona. Maria del Mar è figlia unica, come me. Il nonno morì negli anni Sessanta, la nonna quando io avevo dieci anni. Pertanto, non aveva fretta di tornare. «Devi adattarti bene al Paese di tuo padre», mi diceva, «perché è questa la tua terra, adesso. Non c'è posto per la nostalgia.» E io iniziai a incapsulare i miei ricordi e a immagazzinarli in quella biblioteca di rimpianti in cui a volte si trasforma la nostra mente. Ricordi della nonna, dei miei amici, del mio padrino, e anche di lui, del mio primo amore: Oriol. Erano evocazioni perfette di un mondo bellissimo, in cui mi rifugiavo quando andavo a dormire per creare avventure immaginarie, fino a quando il sonno non aveva la meglio. E nei miei sogni arrivava lui, insieme al mare, il sole, la burrasca, il sale, la sua bocca, e il bacio. Daddy mi ha sempre parlato nel suo americano del Michigan. A Barcellona frequentavo una scuola quadrilingue, ed ero la prima della classe in inglese. Per di più, sono convinta che noi donne, in media, siamo più portate per l'espressione verbale. Non ho mai avuto problemi, in tal senso. E quel che è certo è che mi adattai molto bene alla vita newyorkese. Con il passare degli anni, diventavo sempre più popolare nella mia scuola, e gli amici aumentavano. Il desiderio di tornare a Barcellona piano piano si affievolì, e io finii con l'accettare il gioco di mia madre, che continuava a posticipare il viaggio. Terminai gli studi al college e mi laureai in giurisprudenza. In seguito, iniziai una carriera professionale; una carriera brillante, almeno fino a questo momento, perché non dirlo? Nel frattempo mi sono fatta degli amici e ho avuto dei fidanzati, degli amanti... E i miei ricordi catalani restavano lì, sugli scaffali della mia biblioteca delle nostalgie, da cui ogni tanto - con frequenza sempre minore scappavano. Come ho già detto, ero convinta che mia madre non avesse alcuna intenzione di tornare a Barcellona, o di permettere alla sottoscritta di partire da sola. Il suo atteggiamento era per me incomprensibile e, naturalmente, rappresentava il secondo motivo che mi spingeva a partire. Il primo era Oriol. Non che fossi ancora innamorata di lui: sono uscita con parecchi ragazzi, e adesso amo Mike. Ma conservavo il dolce ricordo di quei momenti, dell'inizio dell'amore, e desideravo rivederlo. Chissà com'era diventato... Ero riuscita comunque a tenere tutto sotto controllo; poi arrivò quell'anello di sangue a sconvolgere ogni cosa, a mettere sottosopra la mia biblio-
teca delle memorie. E mi tornarono in mente le immagini di quella burrasca di fine estate, e il sorriso tra il timido e l'ironico di Oriol, e le mie amiche del collegio che sorgeva lungo il pendio di Collcerola, e tutto il resto... Quell'anello mi chiedeva di tornare laggiù. Ormai avevo deciso: avrei trascorso le vacanze successive a Barcellona, con o senza il benestare della mamma. All'improvviso, quasi avessi subito una scossa, il desiderio di tornare si fece perentorio. E il ricordo ripetitivo, insistente. Era un pomeriggio di fine agosto, o di inizio settembre. Le famiglie iniziavano a rientrare in città, e ovunque si udivano frasi di commiato, «ci vediamo l'estate prossima». I più ottimisti azzardavano un «dobbiamo trovarci a Barcellona». Noi eravamo soliti trattenerci sino alla fine; tornavamo a casa giusto in tempo per preparare ogni cosa prima dell'inizio della scuola. Quegli ultimi giorni avevano un sapore agrodolce. Avevamo la sensazione che qualcosa di bello stesse per concludersi, ed eravamo pervasi dalla nostalgia prematura di quell'estate non ancora finita. Come molti fra gli amici che frequentavamo, avevamo una casa di villeggiatura in Costa Brava. Il paesino è incantevole: c'è un'ampia spiaggia, quasi una piccola baia, delimitata alle due estremità da monti, ricoperti di pini, che declinano verso il mare formando scogli. Su un lato, le mura segnate di alcune solide torri rotonde si arrampicano sulle rocce: ancora oggi, come un tempo, proteggono l'antico borgo cristiano dagli attacchi dei pirati saraceni, e anche da qualche abitante del posto, in cerca di bottino o di giovani donne da schiavizzare. Le rupi su cui sorge la fortificazione sono ripide e scoscese ma, più a sud, danno accesso a una piccola cala di sabbia e pietre: una vera meraviglia. Lì, il verde dei pini, le sfumature di grigio degli scogli, il cielo blu e brillante dell'estate e le tonalità di verde, indaco e bianco dell'acqua offrono un'immagine idillica, da cartolina. Per noi era il paradiso. A quella cala scendevamo quasi sempre io, Oriol, suo cugino Luis e la combriccola di amici e di amiche con cui ci riunivamo ogni estate. Con dei semplici occhialini, un boccaglio e delle ciabattine di plastica per non ferirci i piedi, esploravamo la natura sottomarina tra giochi più o meno innocenti. Dico questo perché, ora che mi ricordo, noi ragazze dovevamo avere dodici o tredici anni, quell'ultima estate, i ragazzi ne avevano quattordici o quindici. Pure, nonostante fossimo più giovani,
eravamo sempre le prime in fatto di birichinate. Quel giorno, le mamme erano occupate a chiudere le case per l'inverno, e a preparare i bagagli per il rientro in città. I papà, finite le vacanze, erano da tempo tornati a Barcellona, e si facevano vedere solo nei week-end. Il pomeriggio era caldo, appiccicoso, tutto sembrava presagire quello che sarebbe accaduto. Mentre nuotavamo, inseguendo dei pesci tra gli scogli, il mare divenne cupo e il vento, sempre più forte, iniziò a spingerci verso la costa, il rumore dei tuoni superava quello delle onde che si abbattevano contro le rocce. In pochi minuti, il cielo si riempì di nuvole plumbee cariche di oscurità; il mare assunse un aspetto tenebroso. Cominciò a gocciolare. «Andiamo, sbrigati», mi disse Oriol. Sulla spiaggia, vedevo la ragazza che badava a noi che ci gridava di uscire tutti dall'acqua, immediatamente. Luis e gli altri stavano già raggiungendo gli asciugamani che raccolsero in tutta fretta per salire di corsa le scale che portavano alle mura, e cercare riparo in paese. «Aspetta, non lasciarmi qui», lo supplicai. Il mare agitato e nerastro, dall'aspetto minaccioso, rifletteva le nuvole pesanti, tenebrose. Sapevamo tutti perfettamente perché dovevamo sbrigarci a raggiungere la spiaggia: quando un fulmine colpisce l'acqua, uccide ogni essere vivente nel raggio di diversi metri. Io avevo paura, ma qualcosa mi diceva di non affrettarmi e così finsi di essere in difficoltà. Oriol accorse in mio aiuto e, quando raggiungemmo la costa, si scatenò una classica burrasca. La furia era tale che le nuvole sembravano volersi scaricare in un istante. Sulla spiaggia non c'era più nessuno; gli altri avevano raccolto tutti gli indumenti e, nella confusione, forse non si erano nemmeno accorti della nostra assenza. La cortina di pioggia impediva di vedere più in là di qualche metro. Dissi a Oriol che ero sfinita, e mi diressi verso un piccolo riparo che si apriva tra le rocce. L'acqua ci bagnava, e lo spazio esiguo ci costringeva a stringerci l'uno all'altra. Io cercavo il contatto. Oriol mi era sempre piaciuto, ma nelle ultime settimane avevo letteralmente perso la testa per lui. Ma il ragazzo non prendeva l'iniziativa. Forse perché era timido, o perché pensava che fossi troppo piccola per lui. Magari non gli piacevo... O, più semplicemente, non era abbastanza maturo, e un'idea del genere non gli aveva ancora attraversato la mente. «Ho freddo», mormorai, rannicchiandomi contro di lui.
Aprì le braccia per accogliermi, e notai che stava tremando. Attraverso i costumi da bagno e le nostre pelli bagnate, sentimmo con piacere il calore dell'altro corpo. Se il mondo intorno a noi fosse sprofondato, in mezzo alla burrasca e alle onde furiose, non me ne sarei accorta, in quel momento, per me esisteva soltanto Oriol. Mi voltai per guardare i suoi occhi, di un blu profondo nonostante la luce grigia. Fu allora che accadde. La sua bocca, il bacio, l'abbraccio. Il sapore della sua saliva e del sale. Il mare ruggiva, i tuoni spaccavano il cielo, la pioggia risuonava sulle rocce... tremo ancora, al solo pensiero. Ricordo la mia ultima estate in Spagna, la burrasca e il bacio. Ricordo il mare infuriato, la sabbia, gli scogli, la pioggia, il vento e il mio primo bacio d'amore. Non ho dimenticato nulla, ricordo lui. 6 Così, passarono alcune settimane. Io continuavo a sfoggiare i miei due anelli, e con Mike era tutto perfetto, però... c'era sempre quel misterioso gioiello con la sua pietra di sangue. Mi piaceva proiettare la croce rossa su un foglio di carta, su un tovagliolo o sulle lenzuola. Tutto, di quell'anello, era misterioso. Come e perché era arrivato sino a me? Riuscivo a intuire che quell'enigma celava qualcosa di più profondo; che non si trattava di un semplice regalo di compleanno. Ogni volta che lo guardavo rivedevo immagini della mia infanzia: il mio padrino Enric, suo figlio Oriol, Luis e tanti altri piccoli dettagli e aneddoti che avevo conservato fra i miei ricordi, e che avevo ignorato per molto tempo. Sapevo che sarebbe arrivato qualcosa, e che l'anello era solo l'inizio. Ma incominciavo a spazientirmi; la curiosità era troppo forte. E alla fine successe quello che mi auguravo, quello che intuivo dovesse accadere, accadde. «Miss Wilson», disse il custode del palazzo, al citofono, «stamattina hanno portato una lettera raccomandata per lei.» Subito pensai che riguardasse uno dei casi trattati dal mio studio; poi capii che era un'idea del tutto assurda. Non avevo mai ricevuto una citazione al mio indirizzo privato. Dovevo essere prudente: poteva essere una di
quelle lettere assassine contenenti carbonchio, o un'altra fra le piaghe che andavano di moda in quel periodo. «Vuole che gliela porti su adesso?» continuò. «Arriva dalla Spagna.» «Sì, la prego.» Un'improvvisa emozione mi strinse il petto. Finalmente! Il segno che stavo aspettando! Afferrai la lettera con le mani che mi tremavano, e con un sorriso che voleva esser cortese salutai, non troppo cordialmente, il signor Lee, che avrebbe voluto approfittare dell'occasione per parlarmi di cose molto importanti sul condominio. Il mittente era un notaio di Barcellona. Non ebbi il tempo di cercare un tagliacarte, o un coltello, cosicché strappai la busta con le mani. Alla cortese attenzione della signora Cristina Wilson Gentile signora, con la presente ho l'onore di convocarla alla lettura del secondo testamento di don Enric Bonaplata, in cui il suo nome compare tra quelli dei beneficiari. La suddetta lettura avrà luogo nel nostro studio alle dodici di sabato 1° giugno 2002. La preghiamo di confermarci la sua presenza. Seguiva la firma del notaio. «Bene», dissi. «Adesso mia madre non potrà più trattenermi. Andrò a Barcellona.» Ma lei ci provò ugualmente. Glielo dissi a tavola, quando andai a trovarla insieme a Mike, la domenica. Lei non fece alcun commento, ma mio padre si mostrò sorpreso. Un testamento? La lettura si sarebbe dovuta tenere subito dopo la morte di Enric, e l'eredità ormai doveva già essere stata spartita. Forse i testamenti erano due? E aveva specificato che il secondo doveva essere letto quattordici anni dopo il primo? Davvero strano. Già, tutto era molto strano. E misterioso. «Non farlo, Cristina», mi disse mia madre, quando riuscì a parlarmi a quattrocchi. «Ho una sensazione sgradevole, riguardo a questa faccenda. C'è qualcosa di sinistro.» «Ma perché mamma? Perché secondo te non dovrei andare?» «Non lo so. Questa storia di un secondo testamento è assurda. Qualcuno, per qualche strana ragione, vuole attirarti a Barcellona.» «Mamma, tu mi stai nascondendo qualcosa. Di che si tratta? Perché hai
tanta paura?» le chiesi. «Perché non siamo mai tornati in Spagna, neanche per una visita? Perché non hai mantenuto i contatti con i tuoi amici?» «Non lo so. È una sensazione... un'impressione. Comunque, laggiù ti attende qualcosa di brutto.» «Be', io penso di andare.» «Non farlo, Cristina.» Dal tono, capii che era in ansia. «Dimenticati di questa storia. Non andare. Te lo chiedo per favore.» Le onde si abbattevano furiosamente su una spiaggia di ciottoli, ai piedi di una scogliera. Trascinavano con sé le pietre che, tornando indietro con la mareggiata, producevano un rumore acuto, che mi faceva pensare a ossa che cozzavano fra loro. Il cielo era denso di piccole nubi, che si rincorrevano velocemente proiettando giochi di sole e ombra su una scena terribile. Sulla spiaggia, alcuni uomini incatenati tra loro e a un tronco, si lamentavano gridando. Erano vestiti di stracci, puzzavano e avevano un aspetto ripugnante: supplicavano, insultavano e si dimenavano nel tentativo di scappare o di difendersi. Altri pregavano aspettando il loro turno e guardavano passivi, senza reagire, i compagni che venivano sgozzati. C'era del sangue sulle pietre, sul terreno, sui corpi distesi e su quelli che si agitavano disperati... e sulle mie mani. E il sole spuntava a illuminare la lama luccicante e assassina della spada, per poi nascondersi dietro le nubi, lasciando la morte distesa come un'ombra sul terreno, e sui cadaveri. Mi si stringeva il cuore, provavo una gran pena: pure, ero tra quelli che, con indosso una tunica grigia, lavoravano con movimenti veloci ed esperti, tirando per i capelli la testa delle vittime e tagliando loro la gola con uno o due colpi, fino ad arrivare alla giugulare. Altro sangue. Uno dei miei compagni, il più giovane, uccideva quegli uomini con le lacrime agli occhi. Un boia con la tunica scura portava ricamata sul lato destro la croce rossa del mio anello. L'uomo dell'anello era lì, a dare ordini ai carnefici. E io vedevo ogni cosa attraverso i suoi occhi, anch'essi pieni di lacrime. Le grida si spensero, il movimento cessò. Morto l'ultimo prigioniero, quell'uomo cadde in ginocchio sulle pietre, per pregare, e io percepii il suo dolore. E cominciai a piangere sconsolata, senza riuscire a trattenere i singhiozzi. Provavo una pena profonda, infinita, che mi sgorgava dal petto, dalle viscere. Mi ritrovai seduta sul letto. Piangevo davvero, e quella sensazione di dolore era così reale che non riuscii più a prendere a sonno. Fortunatamente, alla sveglia mancava soltanto mezz'ora, e passai quei minuti a riflettere
sull'origine di un simile incubo. Che cosa mi stava succedendo? Mi ero lasciata impressionare dal regalo postumo di Enric fino a questo punto? E l'anello aveva qualcosa a che fare con quelle visioni antiche cariche di dolore? Guardandomi la mano con i due anelli, notai che il rubino di sangue sembrava molto più brillante del diamante regalatomi da Mike. Quando, infine, suonò la sveglia, mi sentii decisamente sollevata. Non vedevo l'ora di tornare alla realtà! 7 Nom me ne resi conto fino a quando non terminò l'udienza del mattino, in tribunale. Dalla mia borsa mancavano chiavi e telefono, anche se il portafoglio e tutto il resto erano ancora lì. Come avevo fatto a perderli? Proprio non capivo. All'improvviso, mi venne un'idea. «Ray», dissi a un collega, «prestami il tuo cellulare.» Chiamai il portiere. «Signor Lee? Non riesco a trovare il mio portachiavi. Volevo solo avvisarla, perché lo tenesse presente.» Dall'altra parte sentii un silenzio sorpreso. Mi allarmai. «Che succede?» chiesi. «Veramente lei ha prestato le chiavi ai tecnici che sono venuti questa mattina.» «Quali tecnici?» senza volerlo, urlai. «Di che cosa sta parlando?» «Ma sì, quelli che dovevano riparare il suo impianto audio.» «Ma cosa dice?» «Signorina Wilson», fece lui, stupito, «non ricorda? Mi ha telefonato lei, in mattinata, per avvisarmi dell'arrivo dei tecnici. Mi ha detto di aver lasciato loro le sue chiavi.» Sentii un brivido corrermi lungo la schiena. «Io non le ho fatto nessuna telefonata.» «Mi ha detto di chiamarla sul cellulare, se fosse sorta qualche difficoltà. E io l'ho fatto, quando quegli uomini se ne sono andati. Lei mi ha ringraziato.» «Non ero io. Mi hanno rubato anche il telefonino.» Bob Lee aveva una copia delle mie chiavi, e mi accompagnò a controllare l'appartamento. Avevano rovistato negli armadi, e spostato specchi e quadri in cerca di un'eventuale cassaforte. Ma non mancava nulla. Che cosa volevano?
Ricostruii l'accaduto. Quell'intrusione era stata progettata con cura. Qualcuno sapeva che sarei rimasta in tribunale tutta la mattina. Qualcuno che mi aveva sentito parlare in un processo, una donna in grado di imitare la mia voce. Qualcuno che sapeva che, quando ero in aula, staccavo sempre il telefono. Qualcuno che mi aveva rubato il cellulare e le chiavi dalla borsa mentre preparavo il mio intervento, o mentre riguardavo le mie carte, senza che me ne accorgessi. Quindi, avevano ingannato Bob simulando la mia dizione. E la donna aveva tenuto il cellulare, nel caso lui avesse chiamato. Due uomini erano entrati nel mio appartamento. La cosa strana era che uno di loro aveva con sé una valigia; ma il custode, credendo che fossi al corrente della faccenda, non si era preoccupato troppo. Una trama tanto complicata per non portare via nulla? Erano dei veri professionisti. E non avevano trovato quello che cercavano. Se n'erano andati con la valigia vuota. Già: ma che cosa cercavano? La mia vita stava cambiando. E molto in fretta. Prima avevo ricevuto quell'anello misterioso. Poi mi ero resa conto che si trattava dello stesso gioiello che portava il mio padrino, a cui volevo bene quasi quanto ai miei genitori, e che non era morto in un incidente automobilistico, come pensavo, ma suicida. Quindi, Mike aveva scoperto un anello identico al mio al dito della Vergine, in un quadro antico regalatomi da Ernic poco prima di morire. Infine, ero stata convocata per la lettura di questo strano testamento, a quattordici anni dalla sua scomparsa. E adesso qualcuno - di certo non un ladro qualsiasi - si era introdotto nel mio appartamento e lo aveva messo a soqquadro. Non sono una fifona; anzi, a volte sono addirittura imprudente, forse perché, fortunatamente, non mi è mai successo nulla di male. Ma l'intrusione nel mio alloggio, e il fatto che qualcuno potesse entrarvi con tanta facilità, o potesse trovarsi accanto a me e derubarmi senza che me ne rendessi conto, imitando la mia voce... be', tutto questo mi inquietava. Mi sentivo in ansia, per la prima volta avevo davvero paura. All'improvviso, mi accorsi di essere molto vulnerabile. Provai di nuovo quella sensazione di pericolo che avevo sperimentato dopo la tragedia dell'11 settembre, solo che questa volta era su un piano più direttamente personale. Al tempo stesso, però, tutta quella storia mi intrigava; era eccitante. Mi trovavo davanti a un autentico mistero! Forse l'intrusione nel mio appartamento era legata all'anello?
Stavo uscendo dalla doccia, tamponandomi con l'asciugamano, quando squillò il telefono. Chi poteva chiamarmi alle sette e mezza del mattino? «Cristina?» «Sì, sono io», risposi automaticamente in spagnolo. La persona all'altro capo del telefono non aveva pronunciato il mio nome in inglese. È sorprendente il modo in cui la nostra mente riesce a selezionare le lingue. A volte non ti rendi nemmeno conto di parlare un idioma, piuttosto che un altro. In ogni caso, collocai immediatamente quella voce al di là dell'Atlantico. «Ciao! Sono Luis. Luis Casajoana. Ti ricordi?» «Luis?» In un istante, recuperai dal magazzino dei ricordi l'immagine di un ragazzetto grassoccio, paffuto e sorridente, quasi fossi in videoconferenza con il passato. Luis è il cugino di Oriol. «Luis! Ma certo che mi ricordo!» Ero davvero felice di sentirlo. «Che sorpresa! Come hai avuto il mio numero di telefono? Che gioia! Non sarai qui a New York...» «No, ti chiamo da Barcellona. Scusa l'ora, ma volevo essere sicuro di trovarti prima che andassi al lavoro.» «Ed eccomi qui.» «Il notaio ti ha convocata alla lettura del testamento di mio zio, giusto?» «Già, è stata una vera sorpresa.» «Verrai, spero.» «Sì.» «Stupendo! Fammi sapere quando arrivi, vengo a prenderti in aeroporto.» «Grazie, è molto gentile da parte tua. Che mi dici di Oriol? Ho pensato tanto a voi due, da quando ho ricevuto la lettera del notaio.» «Oriol sta bene. Ti racconterò. Ma ti chiamo per avvertirti di una cosa.» «Di che si tratta?» Mi resi conto di essere allarmata. «Per caso, Ernic ti inviò un quadro, prima di morire?» «Sì.» «Bene, mettilo al sicuro. Ci sono delle persone molto interessate a quel dipinto.» «Ma che cosa stai dicendo?» «Fidati, è così. Ha qualcosa a che fare con il testamento di Enric.» «Come?» «Per il momento è solo una voce, un sospetto. Lo saprò con sicurezza
quando ci leggeranno le ultime volontà di mio zio.» «Dimmi qualcosa!» La curiosità mi stava uccidendo. «Credo che quel quadro, in qualche modo, sia collegato all'eredità. Tutto qui.» Rimasi in silenzio. Dunque quegli uomini cercavano il quadro! E sapevano che poteva entrare in una valigia. Dio mio! Che cosa c'era dietro quel mistero? «Questo l'hai già detto. Di che si tratta?» «Non lo so. Vieni a Barcellona, e scopriremo tutto il 1° giugno. Almeno spero.» Non dissi nulla; stavo pensando. E Luis rispose: «Hai sentito? Dicono che...» «No, non ho sentito nulla. E come avrei potuto, vivendo a New York...?» «Dicono che mio zio stesse cercando un tesoro, prima di morire.» La sua voce si era ridotta a un sussurro. «Un tesoro?» non riuscivo a crederci. Sembrava uno di quei racconti che Ernic era solito inventarsi, per abbagliare noi ragazzi. Addirittura, organizzava per noi delle cacce al tesoro con indizi, mappe e corse concitate nella sua grande villa di campagna di avenida Tibidabo. Il mio padrino era una persona incredibilmente creativa. Un tesoro! Sì, era tipico di Ernic. «Hai capito bene. Ma questa volta è vero», affermò Luis, convinto; la sua voce era così bassa che quasi non riuscivo a sentirlo. «Ma per saperne di più dobbiamo aspettare i primi di giugno.» Riflettei per qualche istante. Quando collegai la persona con cui stavo parlando con la scheda conservata nella mia memoria, scartai immediatamente la storia del tesoro. Era sempre stato un ragazzino credulone e fantasioso. Mi resi conto, però, che non aveva ancora risposto a una domanda che mi interessava particolarmente. «Luis.» «Che c'è?» Era tornato a un tono normale. «Come hai avuto il mio numero di telefono?» «Semplice», rispose, ridendo. «Il notaio è un amico di famiglia, e il tuo indirizzo non è un'informazione riservata, coperta dal segreto professionale. Ha assunto un investigatore perché scoprisse il tuo domicilio a New York. Sembrava che la terra si fosse aperta e avesse inghiottito l'intera famiglia Wilson...» Non appena riattaccai, chiamai mio padre. «Scusa Daddy, mi dispiace se ti ho svegliato... hai presente il quadro che
Enric mi mandò come regalo di Pasqua? Sì, quello della Vergine gotica. Per favore, portalo subito in banca. Mettilo in una cassetta di sicurezza...» Un tesoro, mi dissi. Ero ancora davanti al telefono, nuda. Diamine, un tesoro vero! Poi scossi il capo, incredula. Bah, ormai siamo adulti... anche se, evidentemente, Luis non è cambiato molto. È ancora immaturo per la sua età. Che stupidaggine! Stavamo correndo da più di mezz'ora, entrambi in tenuta sportiva: la sua più maschile, la mia più civettuola. Facevo fatica a tenere il ritmo di Mike. Dovevo chiedergli di mollare un po', se non volevo rimanere indietro. Ma non avevo intenzione di supplicarlo di fare una pausa; a lui piace dimostrare di essere più forte, spinge in fuori il petto e mi guarda con aria di sufficienza. Dal canto mio, mi diverto a ripetermi che sono più furba, e di tanto in tanto gli rovino l'esibizione inscenando un finto malessere. La storta alla caviglia è un classico. Assumo un'espressione dolorante, e lui si preoccupa. Quando inizio a lamentarmi, si gira (probabilmente pensa, «ecco, ci risiamo») e corre ad aiutarmi, premuroso. Mi fa un massaggio, e io mi appoggio a lui; a volte non riesco a fare a meno di ridere, quando mi palpa la caviglia e non può vedermi il viso. «Ti fa male?» mi chiede, ansioso, non sapendo che la mia è solo una risata mal trattenuta. «Sì, un po'», gli rispondo, con una voce che suscita compassione. «Ma sto già molto meglio. Sei incredibile.» Se proprio non riesco a trattenermi e scoppio a ridere, gli dico che mi sta facendo il solletico. A volte, appena ho ripreso fiato, parto di corsa e lo lascio indietro. Allora, divertito, mi accusa di averlo ingannato, ma io nego tutto. Altre volte fingo di avere le palpitazioni, o di non riuscire a respirare. Quel giorno andò diversamente. «Mike», gli gridai quando, sbadato come sempre, mi aveva dato diversi metri. Lui di solito si giustifica dicendo che ha bisogno di tenere un ritmo più sostenuto. «Che c'è?» fece lui, continuando a correre. «Io me ne vado.» «Come te ne vai?» Sentendo le mie parole, si fermò per aspettarmi e diede un'occhiata all'orologio. «Ma se stiamo correndo da poco più di mezz'ora. Io inizio adesso a scaldarmi.» «Vado a Barcellona.»
«Certo. Ma partiremo solo fra qualche settimana.» «No, Mike. Io vado a Barcellona. Da sola.» «Come sarebbe a dire da sola?» disse lui, scandalizzato. «Eravamo d'accordo che sarei venuto con te!» «Ho cambiato idea.» «Ma abbiamo già preparato tutto! Doveva essere un anticipo della nostra luna di miele. E adesso mi dici che vuoi partire senza di me?» «Ascoltami», lo supplicai, «devi capirmi. Ci ho riflettuto molto. Questo è un viaggio nel mio passato, che mi servirà per ritrovare me stessa. Devo farlo da sola. Ci sono delle cose che non capisco: l'atteggiamento di mia madre, le circostanze in cui è morto il mio padrino. Potrei avere delle sorprese poco piacevoli.» «A maggior ragione, quindi, dovrei accompagnarti.» «Assolutamente no. È una cosa che devo affrontare da sola», lo interruppi, energica. «Ci ho pensato molto e ormai ho deciso.» Subito, però, ritornai a un tono tenero. «Senti, Mike... stare insieme è stupendo, e in generale non c'è nulla che desideri di più. Ma perché il nostro amore funzioni, dobbiamo rispettare l'uno i momenti d'intimità dell'altra. A volte, abbiamo bisogno di restare per conto nostro.» «Io non ti capisco», disse, aggrottando le sopracciglia e incrociando le braccia; era lì, dritto davanti a me, e usava la sua mole come una parete. «Non riesci a trovare una data adatta per le nozze, e adesso, tutto d'un tratto, te ne esci con questa storia che vuoi andare a Barcellona da sola, quando avevamo deciso diversamente. Ma che cosa ti succede? Mi ami ancora?» «Ma certo, amore mio. Non essere sciocco», dissi, gettandogli le braccia al collo per baciarlo. Era teso, non aveva gradito la notizia. «Io ti adoro! Ma ho bisogno di fare questo viaggio da sola...» Lo baciai di nuovo. Notai che stava iniziando ad ammorbidirsi. «Ti prometto che, al mio ritorno, fisseremo una data. Il giorno stesso. OK?» Lui grugnì, imbronciato. E io capii che, ancora una volta, l'avevo spuntata. 8 «Davvero un bell'anello, signorina», esordì il mio vicino di posto in prima classe. «Sembra molto antico.» Io l'avevo già notato; era un tipo attraente, che doveva aver passato i
trentacinque. Le mani erano prive di gioielli, segno che non era impegnato o che voleva tenerlo nascosto. Ma ai polsini della camicia bianca, che portava con il colletto aperto, sfoggiava dei gemelli d'oro discreti, a cui abbinava un orologio classico. Una curiosa combinazione di lusso e austerità. Mi resi conto che aspettava il momento opportuno per intavolare una conversazione, e non volli facilitargli le cose. Prima mi misi a guardare fuori dal finestrino, e poi mi concentrai su una rivista. Ero pronta a scommettere che avrebbe cominciato a parlare durante la cena, e in effetti andò esattamente così. Decisi di finire di mangiare con calma, mandando giù il boccone prima di rispondergli in inglese, in tono molto serio: «Mi scusi?» dissi, nonostante avessi capito perfettamente. «Parla spagnolo?» insisté lui, in castigliano. Non potevo negarlo. «Dicevo che porta due anelli molto belli»; e io notai che aveva cambiato leggermente la frase. «Quello con il rubino sembra molto antico.» «La ringrazio. Sì, in effetti è antico.» «Medievale», affermò. «Come fa a saperlo?» D'un tratto, la curiosità superò il desiderio di mantenere un atteggiamento indifferente, come si conviene a una donna molto, molto impegnata (e il mio diamante non lasciava dubbi in proposito). L'uomo sfoggiò un bellissimo sorriso. «È il mio lavoro, signorina. Sono un antiquario, e un esperto di gioielli.» «Quest'anello mi è arrivato in un modo molto strano», improvvisamente ogni barriera era caduta: era un po' come confidarsi con il proprio medico, sperando di ricevere una diagnosi benigna. «Quindi lei pensa che sia davvero antico?» Lui infilò una mano in un'elegante valigetta di pelle che teneva per terra, vicino ai piedi, e da una cassetta tirò fuori una lente d'ingrandimento, di quelle che usano gli orologiai. «Permette?» disse, tendendomi la mano. In fretta, mi tolsi l'anello e glielo diedi. Lo guardò da ogni lato, molto attentamente, e iniziò a mormorare, quasi parlasse tra sé e sé. Mi teneva in sospeso. Mise la pietra controluce e, dopo averla osservata, proiettò la croce rossa sulla tovaglia. «Stupefacente», disse infine, contemplando assorto l'immagine. «Questo è un pezzo unico.» «Davvero?» «Sono assolutamente sicuro che quest'anello sia antico. Secondo me, deve avere almeno settecento anni. Se lo vende bene, può ricavarne una for-
tuna. Non solo: se riesce a ricostruirne la storia, ne moltiplicherà il valore.» «La storia non la conosco, ma forse ne saprò di più quando arriverò a Barcellona.» Mi ricordai del quadro e dell'anello al dito della Vergine, ma un improvviso attacco di prudenza mi indusse a tacergli quel dettaglio. «E sa che cosa lo rende unico?» «Mi dica, la prego», dissi, già immaginando la risposta. «La croce proiettata dalla luce quando attraversa il rubino.» «È un bell'effetto, vero?» «È molto di più. Questa è una croce patente.» «Una che?» chiesi, sorpresa. «Una croce patente», ripeté, sorridendo e fissandomi. Era davvero bello; e io mi resi conto che era già la seconda o la terza volta che gli facevo ripetere qualcosa. Probabilmente iniziava a pensare che fossi dura d'orecchi, o un po' tonta. «La croce patente», continuò, davanti al mio silenzio stupito, «ha la stessa forma di quella intagliata nel suo anello. È la croce templare.» «Ah, una croce templare!» dissi, mentre passavo in rassegna i miei archivi mentali alla ricerca disperata di un ricordo qualsiasi che mi suggerisse il significato di quell'aggettivo. Ero sicura di averlo già sentito, e immediatamente lo ricollegai alla mia infanzia a Barcellona, e a Ernic; ma non avevo la minima idea di che cosa stesse parlando, e non volevo ammettere la mia ignoranza. «Come di certo ricorderà, i templari erano dei monaci guerrieri apparsi nel primo ventennio del secolo XII, durante le Crociate in Terra Santa, ed estintisi duecento anni più tardi, in seguito a un'infame cospirazione da parte dello Stato.» «Sì, qualcosa so.» Il mio amor proprio mi spinse a mentire e lui, da vero cavaliere, mi diede le informazioni necessarie fingendo di credere che conoscessi molto bene l'argomento. «Ma i miei ricordi sono piuttosto limitati. Perché non mi parla di questi templari?» «Apparvero dopo la conquista di Gerusalemme, portata a termine con la prima crociata. Re Baldovino concesse loro parte dell'antico Tempio di Salomone, perché vi ponessero la propria sede: per questo divennero noti come cavalieri del Tempio. Almeno all'inizio, preferivano chiamarsi Poveri Cavalieri di Cristo. Sebbene la loro missione originaria consistesse per proteggere i pellegrini in visita a Gerusalemme, finirono per trasformarsi in un'imponente macchina militare, la più ricca e disciplinata dell'epoca,
cui i regni cristiani d'Oriente ricorsero per difendersi dall'avanzata implacabile di saraceni e turchi. Inizialmente andavano di moda; ricevevano imponenti donazioni da parte di sovrani, nobili e plebei, che speravano di comprarsi il paradiso favorendo la loro causa eccelsa. Tale entusiasmo giunse al culmine quando il re d'Aragona lasciò il suo regno in eredità ai templari e ad altri due ordini militari: i cavalieri del Santo Sepolcro e gli Ospedalieri. Dopo un arduo negoziato, il legittimo successore al trono riuscì a rientrarne in possesso, in cambio di notevoli concessioni territoriali. E fu così che questi monaci, che avevano fatto voto di povertà, castità e obbedienza, e si erano impegnati a lottare con le armi fino alla morte per difendere la Terra Santa, divennero la maggiore potenza economica del tempo; una potenza che poteva vantare un'onestà che nessun banchiere era in grado di eguagliare. Furono loro a inventare la cambiale; si trasformarono in un'organizzazione finanziaria che arrivò a custodire persino tesori di re, cui concedevano prestiti quando questi ne avevano bisogno, abituati com'erano a sperperare i propri beni in lussi e guerre. Tale sacrificio economico serviva a sostenere la presenza cristiana in Oriente; i templari costruirono una flotta imponente per trasportare cavalli, armi, guerrieri e denaro al di là del Mediterraneo, arruolarono migliaia di turcomanni, mercenari musulmani che combattevano contro i propri correligionari, edificarono grandi fortezze... Presi singolarmente erano poveri, per via dei voti, ma ricchissimi come organizzazione. E quest'anello, per forza di cose, doveva appartenere a un alto gerarca templare; doveva essere il simbolo della posizione che occupava, dal momento che un semplice frate, fosse sergente, cappellano o cavaliere, non avrebbe mai potuto sfoggiare un gioiello.» Dopo aver proiettato ancora una volta la croce sulla tovaglia, lanciò un altro sguardo ammaliato all'anello, che mi restituì. «Congratulazioni, signorina. Lei possiede un pezzo unico.» Me lo infilai, mentre cercavo di mandar giù la storia che quell'uomo mi aveva raccontato. «Mi chiamo Cristina Wilson», gli dissi con un sorriso, tendendogli la mano. «Artur Boix», rispose, stringendola. «Lieto di conoscerti.» La sua pelle, al tatto, era calda e gradevole. «Hai detto che stai andando a Barcellona?» «Esatto.» «È la mia città. Che cosa ti porta laggiù?» Gli raccontai dell'inaspettata eredità. «Davvero un bel mistero!» osservò, alla fine. «Comunque, se questo a-
nello è un anticipo di quello che ti ha lasciato il tuo padrino, credo di poterti essere molto utile.» Mi porse il suo biglietto da visita. «Io e i miei soci facciamo affari sia in Europa sia negli Stati Uniti. Non trattiamo solo antichità e gioielli; in effetti, siamo noti soprattutto come mercanti d'arte antica. E qui c'è un'importante differenza che occorre tenere in conto. La valutazione di un gioiello può essere effettuata prendendo in considerazione tre aspetti diversi: il valore dei suoi componenti, come l'oro e le pietre preziose; la fattura e la qualità artistica; la sua importanza come pezzo storico. Passare da un livello a quello successivo può significare moltiplicare per dieci il prezzo dell'oggetto in questione. In altre parole, un gioiello che in Spagna potresti vendere a una certa cifra, io sarei in grado di piazzarlo negli Stati Uniti per una somma cento volte superiore. Non esitare a chiamarmi, sarò felice di darti una mano. Non importa se non intendi vendere i gioielli: io posso comunque autenticarli e stimarli.» Poi, abbassando la voce e intensificando lo sguardo, aggiunse: «Ma se vuoi portar fuori dal Paese delle opere d'arte catalogate che necessitino di un' autorizzazione, e desideri evitare gli obblighi doganali, posso farteli recapitare senza problemi a New York». Rimasi sorpresa, quando mi resi conto che esisteva l'eventualità che non mi fosse concesso di tornare in America con l'eredità lasciatami da Enric. Per la verità, non mi era neppure passato per la mente che il lascito potesse consistere in opere d'arte e adesso mi rendevo conto che era la cosa più probabile. Fino a quel momento mi ero concentrata solo sulla parte avventurosa della storia ma le parole di Artur Boix mi fecero realizzare che in gioco poteva esserci una consistente somma di denaro. «In ogni caso, di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, anche solo di un parere, chiamami. Chiamami anche solo per dirmi come ti vanno le cose.» Quando ampliò la sua offerta, lo guardai con maggiore attenzione. Era un po' troppo gentile. Non aveva visto il mio anello di fidanzamento? Mi sorrideva, ed era attraente. In fondo, non c'è niente di male nell'avere un amico in una città dove non sai che cosa puoi trovare. Se poi è anche bello, elegante e piacevole, tanto meglio. «Grazie», risposi, ricambiando il sorriso. «Lo terrò presente. Ma raccontami che cosa accadde ai templari. Hai detto che scomparvero in seguito a un'infame cospirazione. E che erano molto ricchi, giusto?» «Giusto. E fu proprio questa l'origine delle loro disgrazie.» Rimasi in silenzio, in attesa che riprendesse il suo racconto. «Nel 1291, il sultano d'Egitto conquistò le ultime ridotte cristiane in Terra Santa. In quell'offensiva morirono molti templari, e tra questi anche la
loro massima autorità, il maestro dell'ordine; ma la cosa peggiore, per i Poveri Cavalieri di Cristo, fu il fatto di dover abbandonare il fronte, la prima linea della lotta contro i musulmani. Da un certo punto di vista, con la capitolazione di San Giovanni d'Acri i templari non avevano più ragione di esistere. La loro presenza era necessaria solamente nei regni iberici, dove la guerra contro i mori proseguiva. Pure, non era più fondamentale come due secoli prima, quando i territori cristiani erano in uno stato di pericolo costante. Nel Trecento, Aragona, Castiglia e Portogallo erano ormai monarchie potenti, in grado di prendere l'iniziativa nella lotta contro gli arabi, e di compiere frequenti incursioni nell'Africa del Nord; l'unico regno musulmano ancora presente nella penisola era quello di Granada, tanto indebolito da essere costretto a pagare un tributo ai cristiani. «Il sogno dei templari era tornare in Terra Santa; ma lo spirito che aveva animato le crociate si era esaurito, e i sovrani cristiani non erano disposti a sostenerli. Così, Filippo IV di Francia, detto il Bello, sempre a corto di denaro, dopo aver catturato, torturato e spennato i mercanti lombardi e gli ebrei che vivevano nei territori del suo regno, mise gli occhi sugli immensi possedimenti dei Poveri Cavalieri di Cristo. «È una lunga storia; comunque, alla fine fece incarcerare i templari, accusandoli ingiustamente di molti crimini, e li costrinse a confessare ciò che voleva mediante tortura, appropriandosi della maggior parte delle ricchezze che possedevano in Francia. Infine mandò al rogo le massime gerarchie dell'ordine, quasi fossero degli eretici. Il papa, anch'egli francese, praticamente un ostaggio di Filippo il Bello, oppose una debole resistenza; poi, intimorito, finì col dare ragione all'ignobile sovrano. Gli altri monarchi europei adottarono soluzioni più miti, ma, davanti all'insistenza del pontefice, appoggiarono la soppressione dell'ordine. E naturalmente, in cambio del loro aiuto, in misura diversa attinsero ai beni dei templari. Ma non riuscirono a prendere tutto ciò che avrebbero voluto... perché non furono mai in grado di trovarli.» «Di trovare cosa?» gli chiesi. «I tesori che, apparentemente, i Poveri Cavalieri di Cristo che risiedevano in altri Paesi riuscirono a nascondere, avendo avuto più tempo per reagire.» «Ah...» «Questa è una delle tante leggende sorte intorno ai templari. Un'altra dice che il gran maestro, mentre bruciava sul rogo, convocò davanti al tribunale di Dio il re Bello e il papa Timoroso. E quel che è certo è che entram-
bi morirono prima della fine di quell'anno.» «Davvero?» «Davvero», rispose lui, molto serio. «Ma ci sono altri aneddoti privi di qualsiasi fondamento storico, e decisamente più fantasiosi.» «Per esempio?» «Per esempio il fatto che cercassero l'Arca dell'Alleanza che Dio fece costruire a Mosè, o che custodissero il Santo Graal, o ancora che proteggessero l'umanità dalle porte dell'inferno, e via dicendo.» «E tu che cosa credi?» «A nessuna di queste cose», disse, convinto. Forse non sapevo molto sui templari, ma conoscevo abbastanza il comportamento delle persone, ed ebbi l'impressione di leggere nella mente dell'antiquario. «Però sei sicuro che riuscirono a nascondere i loro tesori, dico bene?» «Su questo non c'è dubbio.» «E immagino che ti piacerebbe trovarne qualcuno.» Artur Boix mi guardò con attenzione. «Certamente», fece lui, serio. «Niente mi farebbe più felice. Il mio lavoro, oltre a consentirmi di vivere bene, è la mia grande vocazione. Per me è un vero divertimento. Trovare uno dei tesori dei templari? Sarei disposto a dare anni della mia vita, in cambio. E poi, chi è più adatto di me? Io sarei in grado di farne una stima artistica, e saprei situarlo nel suo contesto storico; e se fosse necessario - e, credimi, ogni tanto lo è - riuscirei a ricavare il maggior rendimento economico da un'eventuale vendita. Se mai ti capitasse di trovare qualcosa del genere, magari grazie all'eredità, ti prego, rivolgiti a me. Anche solo per mostrarmi i pezzi: sarebbe già un privilegio poterli contemplare.» Appoggiò la sua mano sulla mia. Il contatto era ancora caldo, piacevole. «Te lo chiedo per favore, Cristina, tienimi in considerazione. Lo farai?» Devo ammettere che rimasi colpita dal suo tono di supplica. «Ma certo», gli risposi, gentile. A Madrid prendemmo un altro aereo, e capitammo ancora seduti vicini. Io sonnecchiai fino a quando Artur, scrollandomi un braccio, mi svegliò per farmi ammirare il panorama. Mezza addormentata, guardai giù. L'aereo aveva virato sul mare, raggiungendo la posizione per entrare in aeroporto, offrendoci una magnifica vista sulla città. Era una mattinata limpida. «Eccola qui», disse lui, indicando. «Barcellona è una vecchia signora
sempre giovane. Vive tra le montagne e il mare, e trasuda una creatività prodigiosa. È piena d'arte, piena di vita.» Da lassù vedevamo il porto e la parte antica, in cui spiccavano gli edifici delle chiese e un viale che attraversava la zona, serpeggiando. «La Rambla», mi disse Artur. E più in là c'erano dei blocchi di grandezza uniforme, ma distinti, tagliati da corsi e viali alberati; il sole, galleggiando sul mare e dirigendosi allo zenit, illuminava le facciate meridionali facendole risaltare, creando delle ombre a nord. «L'Ensanche», mi spiegò, «un museo vivente del modernismo. Ecco, questa è la signora: ha più di duemila anni, e sembra fare la siesta al calore del sole, tranquilla e insensibile al formicolio della gente, comodamente sdraiata tra il Mediterraneo e le montagne, tra passato e presente. In realtà, all'interno freme.» Fece un ampio gesto con la mano, come se stesse presentando due persone: «Barcellona, questa è la signorina Cristina Wilson. Cristina, quella che vedi ai tuoi piedi è Barcellona. Ti auguro un soggiorno sereno. Goditi la città». Lo persi di vista al controllo passaporti, ma ci rincontrammo al ritiro bagagli. Una delle mie valigie tardava ad arrivare e lui, gentile, si offrì di attendere con me. «Ti ringrazio, ma non ci sono problemi», assicurai. «Sono un avvocato e parlo perfettamente spagnolo. Se mi hanno perso una valigia saprò trattarli come meritano.» Lui rise e, congedandosi, insisté perché lo chiamassi, nel caso avessi avuto bisogno di qualsiasi cosa. Pensai che non mi sarebbe dispiaciuto incontrare di nuovo l'affascinante Artur, ignorando che sarebbe giunto un momento in cui avrei desiderato di non averlo mai conosciuto. 9 Detesto aspettare le valigie, soprattutto quando tardano, si rompono o vengono smarrite. A volte, però, non c'è altro da fare; dopo alcuni minuti, il mio ultimo pacco apparve sul nastro trasportatore. Lo presi e con il carrello puntai verso la porta. «Cristina Wilson», diceva il cartello. Mi fece molto piacere vedere il mio nome in mezzo alla gente che aspettava, così lontano da casa. Sollevai
lo sguardo, per vedere in faccia la persona. E lo riconobbi a fatica. Era Luis Casajoana Bonaplata. I suoi lineamenti si erano allungati e, nonostante fosse piuttosto corpulento, non era più il ragazzo grassoccio con la faccia arrossata che ricordavo. Quando i nostri sguardi si incrociarono, sul suo volto si dipinse quel sorriso che conoscevo bene. «Cristina!» esclamò. Non saprei dire se avesse rivisto in me quell'adolescente che aveva lasciato Barcellona quattordici anni prima, o se ad allertarlo fosse stata la mia espressione nel vedere il cartello. Mi abbracciò e mi diede due baci, prendendo il carrello. «Come sei cresciuta!» disse, dirigendosi verso l'uscita, e lanciandomi uno sguardo di apprezzamento. «Sei bellissima!» «Grazie.» Me lo ricordavo come un tipo piuttosto appiccicoso, e bloccai subito quell'eccesso di entusiasmo. «E tu non sei grassoccio come qualche anno fa.» Lui sbuffò, e scoppiò a ridere. «Tu, invece, sei cattiva proprio come allora.» Forse. Ma in tal modo speravo di averlo smontato. Francamente, non avevo voglia di sentirmi il fiato sul collo per tutta la durata del mio soggiorno. E in quel momento, uscendo dall'edificio, vidi per la seconda volta quel tipo strano. Che sfrontato: non mi levava gli occhi di dosso. Io l'avevo guardato fisso negli occhi quando si era aperta la porta automatica, un secondo prima di notare Luis e il suo cartello. Era anche lui fra la gente che aspettava. Ad attirare la mia attenzione era stato il suo aspetto, anche se al momento non gli avevo dato troppa importanza. Ma in quella seconda occasione, quando lo sorpresi a guardarmi, cercai di reggere il suo sguardo, per punire la sua impertinenza. Ma lui fece lo stesso, fino a quando, sentendomi a disagio, fui costretta per prima a guardare altrove. Sentii un brivido corrermi lungo la schiena, e mi misi in allerta. L'uomo era piuttosto anziano, e doveva essersi rapato circa un mese prima. Aveva capelli e barba bianchi, lunghi un centimetro, che contrastavano con la giacca nera e con il resto degli abiti, pure scuri. Ma il dettaglio più significativo erano gli occhi, di un blu slavato: scrutatori, freddi e aggressivi. Quel tipo ha proprio l'aspetto di un pazzo, pensai. Mi ero già pentita di averlo sfidato con lo sguardo. Vi ho detto di non essere una persona paurosa, ma quello era il classico individuo con cui non avresti mai voluto trovarti da sola. Nel frattempo, Luis voleva sapere se il viaggio era andato bene, se ero
stanca, se ero riuscita a dormire... Quando arrivammo alla macchina, una bella decappottabile color argento, mi stava già chiedendo della mia famiglia e spiegandomi che i suoi genitori avevano lasciato la città per andare a vivere in un paesino incantevole nel nord della Costa Brava. Durante il tragitto verso l'albergo, mi fece qualche domanda sulla mia vita. «Ah, allora hai un ragazzo.» «No, un fidanzato», chiarii. «Io mi sono laureato in economia aziendale, ho fatto un master in marketing e adesso sono un imprenditore.» «Hai avuto tempo per fare un sacco di cose», commentai, ironica. «Già. E sono anche riuscito a divorziare.» «Sì, sì», dissi, ridendo, «questo non mi è difficile crederlo.» Anche lui si mise a ridere. Di sicuro, Luis non aveva perso il suo stupendo carattere. «Sei cattiva», ripeté. «Sì, me lo dicevi già quattordici anni fa.» Un'altra risata. «Ero grassoccio, ma saggio.» Quando Luis iniziava a parlare di sé, poteva andare avanti all'infinito; così cambiai argomento. «E che mi dici di Oriol?» «Oriol?» Il fatto che gli chiedessi notizie di suo cugino sembrò infastidirlo, e notai che, senza rendersene conto, stava pigiando sull'acceleratore della sua BMW. «Sì, Oriol. Ricordi? Tuo cugino.» «Certo che me lo ricordo», rispose, accigliato. «E non essere insistente, caporale.» Era riuscito di nuovo a farmi ridere. Forse era stato il tono della sua voce, o quella parola che non sentivo da quattordici anni. Caporale: da ragazzini, mi chiamava spesso così. «Bene», continuò, «il superdotato della famiglia... naturalmente mi riferisco all'intelletto, visto e considerato che dal punto di fisico il primato spetta proprio a me...» Mi sorrise, lanciandomi uno sguardo di sufficienza. «E dai, dacci un taglio!» «Agli ordini, caporale.» Non dissi nulla, aspettando che fosse lui a parlare. Quando capì che non avevo intenzione di rispondere alla sua provocazione, continuò: «Come
dicevo, il superdotato della famiglia è diventato un hippie anarchico e okkupante». «Cosa?» Rimasi di sasso. Oriol, il brillante Oriol. Il cavallo vincitore di tutte le scommesse... un alternativo? «Alla fine, come vedi, non ha voluto integrarsi nell'establishment.» «Non si è laureato?» Ero attonita. «Sì, questo sì. Ha preso anche tre o quattro specializzazioni. È un cervellone.» «E di che cosa si occupa?» «Tiene lezioni di storia all'università. E, insieme a un gruppo di strafatti con pantaloni stretti e capelli rasta, mette su centri di cultura popolare e di assistenza sociale in ville disabitate. Fino a quando non arriva la polizia a farli sloggiare.» «Faccio fatica a immaginarlo.» «Be'... ha partecipato a molti scontri. Ovviamente, tu non hai sentito dell'assalto della polizia al cinema Princesa, sbaglio? Un gran pasticcio. Ecco, mio cugino era lì.» «E dopo gli è successo qualcosa?» «Ha passato una notte al commissariato. La nostra famiglia ha ancora una certa influenza in questa città, e lui non è uno di quelli violenti...» Luis accompagnò le sue parole con un gesto ambiguo della mano. Eravamo arrivati all'hotel, e un giovane sorridente venne ad aprirmi la portiera. Un altro corse a prendere le valigie, mentre Luis consegnava a un terzo le chiavi della decappottabile. Che cosa voleva dire con quel gesto? Continuavo a pensarci. Che diavolo stava insinuando, a proposito di Oriol? «Vieni, la reception è di sopra», disse e, prendendomi per un gomito, mi condusse all'ascensore. «La stanza che ti ho prenotato si trova al ventottesimo piano, ed è rivolta a sud. La vista è incredibile. E ti avverto che, normalmente, non riservano camere ai piani alti. So che, rispetto ai grattacieli di New York, quest'edificio è piuttosto basso; ma da queste parti è considerato eccezionale.» Si soffermò a guardarmi. «Non avrai paura dell'altezza, dopo l'11...» «No, non importa. Mi è capitato di trovarmi in uffici molto più alti, dopo la tragedia.» In effetti, il portiere mi diede una stanza al ventottesimo piano. «Salgo un momento con te per vedere il panorama, e per assicurarmi che vada tutto bene.»
«No, grazie», gli dissi con un sorriso. «Ti conosco. Spiavi sempre noi ragazzine, quando ci cambiavamo il costume da bagno.» «OK. D'accordo», fece lui, con un viso da bambino cattivo. «Ma adesso sono cambiato. E anche tu... adesso lo spettacolo dev'essere migliore», commentò, lanciando un'occhiata al mio seno. Normalmente, se si fosse trattato di un'altra persona, mi sarei offesa. Ma Luis riuscì a farmi ridere ancora una volta. «Addio. Grazie di essermi venuto a prendere.» «E dai, lascia che salga a controllare», insisté, con aria maliziosa. «Va tutto bene, molto bene», assicurai. «Credimi. Ci vediamo», dissi, alzando la voce, e il suono si diffuse per la sala spaziosa, tra gli ascensori e la parete di cristallo. Alcune fra le persone sedute ai tavolini di vimini, vicino alla vetrata, si girarono a guardarmi. «Dammi almeno un bacino d'addio... caporale», negoziò. Luis aveva detto bene. La stanza guardava a sud, e la vista era magnifica. A sinistra, il mare e le spiagge che arrivavano fino al porto antico della città, ora una zona dedicata al tempo libero. Vedevo gli ormeggi dei velieri del club nautico, un ampio quartiere di negozi e di divertimenti e, più in là, due navi che sembravano transatlantici in attesa di portare i turisti in crociera. In fondo, si innalzava la montagna di Montjuïc, con il castello ai margini della scogliera e i giardini alberati sul resto della cima allungata; e, all'altra estremità, il grande complesso del Palacio Nacional, con la sua architettura ampollosa del primo Novecento. La passeggiata sul mare e la statua di Colombo segnavano l'inizio di una grande città che si estendeva fino a delle colline coperte di vegetazione. Barcellona è la mia città. La città in cui sono nata. Guardai verso la zona di Bonanova, dove avevo vissuto con la mia famiglia, ma non riuscii a distinguerla; in verità, non ero in grado nemmeno di scorgerla in lontananza, in mezzo a quell'oceano di abitazioni diverse per forma e grandezza, che, nel loro disordine, sembravano possedere una strana armonia. Ma un pensiero mi tormentava. Che cos'aveva voluto dire Luis, a proposito di Oriol? I facchini mi portarono le valigie, che iniziai a disfare, mentre quell'idea continuava a frullarmi nella mente. «Bene», decisi. «Mi toccherà andare a pranzo con Luis.» Avevo troppo domande da fargli, e speravo che lui avesse delle risposte. Ma chi volevo vedere era Oriol, il ragazzino che mi
aveva fatto scoprire l'amore. Era mercoledì. Pensai di mangiare qualcosa per cena e di andare a riposare. Di sicuro, avrei visto Oriol sabato, alla lettura del testamento. Già: ma sarei riuscita a resistere fino ad allora senza cercarlo? La mia speranza era che fosse lui a mettersi in contatto con me. Che cosa aveva voluto dire Luis? Oriol sapeva che mi trovavo in città? E se gli avessi telefonato io? Ma non avevo il suo numero. E in che modo potevo averlo, se a New York non c'ero riuscita? Dovevo chiederlo a Luis. Chiamai i miei genitori e Mike, per rassicurarli, e nonostante il sonno, mi misi a sfogliare alcuni libri con delle grandi fotografie della città, che avevo trovato su un tavolino. Non volevo andare a letto prima delle dieci, per far abituare il mio corpo al nuovo orario. Quindi, ordinai una cena leggera. Mentre mangiavo, notai come, al calar della notte, Barcellona si popolava di luci, ombre e tenebre. E una sensazione di mistero mi penetrava, a mano a mano che l'oscurità avanzata sopra la città. Capivo che in mezzo a quegli edifici ammassati là in basso erano celate le risposte alle mie domande. Cos'era questa storia dell'eredità? Perché Ernic si era suicidato? Perché mia madre non voleva che tornassi a Barcellona? Che segreto mi nascondeva? e che cosa celava l'anello che portavo al dito? Guardai il rubino e la sua enigmatica brillantezza, che formava quella stupefacente stella a sei punte all'interno della pietra. Mi accorsi che il suo scintillio, adesso che mi trovavo nella mia città, sembrava più intenso e più misterioso, e sembrava venire dalla parte più interna della gemma. Troppe domande. Morivo dalla curiosità: chissà che cosa sarei riuscita a sapere da Luis. Composi il suo numero e mi rispose la segreteria telefonica. «Luis», dissi, «sono Cristina. Ti invito a pranzo, domani. Puoi?» Infilai il pigiama e spensi le luci. Decisi di non abbassare le tapparelle. Le luminarie della città arrivavano appena a quell'altezza, e solo quelle esterne dell'edificio illuminavano gradevolmente la stanza. Non chiesi di essere svegliata: ci avrebbe pensato il sole. Mi sdraiai sul letto e i miei pensieri iniziarono a vagare... dopo tanto tempo ero di nuovo a Barcellona... che strana sensazione... In quel momento suonò il telefono. «Cristina!» «Ciao, Luis.» «Sapevo che non potevi stare senza di me...» Ero quasi sul punto di cambiare idea e di riappendere. Quel ragazzo mi dava il tormento. Mi faceva ridere, sì, ma era davvero assillante.
«Domani ti offro il pranzo», gli dissi, ignorando le sue scemenze. «No. Ti invito io a cena.» «Ah, no», risposi, brusca. «Mi dispiace, ma non accetto cenette intime con un uomo che non sia il mio fidanzato. Nemmeno per lavoro, è una questione di principio.» Quindi, enfatica, aggiunsi: «Non se ne parla, se non si tratta del mio promesso». Fece un rumore curioso con la bocca. Suonava quasi come una negazione giocosa. «OK, hai vinto», disse infine. «Che cosa devo prometterti?» Mi tappai la bocca per non ridere. Certo che a volte Luis sa essere davvero divertente. «A pranzo, o niente», ripetei, energica. «Sono impegnato con il consiglio degli azionisti di una delle mie imprese, domani a quell'ora.» «Che sfortuna», feci io, rassegnata. «Allora ci vedremo alla lettura del testamento. Grazie della telefonata.» Era un bluff. Non credevo alla sua scusa, e confidavo che avrebbe ceduto. In caso contrario, la mia curiosità e le domande che mi tormentavano mi avrebbero costretta ad accettare il suo invito. «Ti porto fuori a cena», ripeté, noioso. «Ti ho detto di no!» gridai nella cornetta. Dall'altra parte sentii silenzio. «E va bene, hai vinto», disse, infine. «Al diavolo gli azionisti. L'impresa sta fallendo, manderò un telegramma dicendo che sono fuggito in Brasile con i soldi. Passo a prenderti in albergo, alle due.» «Così tardi?» «Siamo in Spagna, caporale. Te ne sei già dimenticata?» 10 «C'è sempre stato un certo ermetismo da parte della mia famiglia, nei confronti di Enric», esordì Luis, riempiendosi la bocca di insalata di astice, e guardandomi tranquillo mentre masticava. Sapeva che pendevo dalle sue labbra, e approfittava della situazione tenendomi sul filo. Considerato il mistero con cui condiva la conversazione, intuii che fosse sul punto di rivelarmi qualcosa di sorprendente; ma non volevo avvantaggiarlo ulteriormente, mostrandogli la mia impazienza. Così, lo imitai: presi una cucchiaiata di minestra fredda di mandorle, e mi misi a contemplare i soffitti alti, i
mobili e l'arredamento che creavano un armonioso insieme in stile modernista, in quel ristorante situato al primo piano di un edificio centenario nella Diagonal. «Per i Bonaplata non era facile accettare la sua omosessualità», riprese, lasciandomi a bocca aperta. Enric gay? Compiaciuto, Luis osservò l'effetto della sua rivelazione. «Mia madre lo sapeva», continuò, «ma lui non si confidò mai con il resto della famiglia. Era bravo a dissimulare: non mostrava alcuna affettazione. A meno che non volesse farlo, ovviamente.» «Gay?» esclamai. «Ma com'è possibile? Era sposato con Alicia... e insieme hanno avuto un figlio, Oriol!» «Svegliati, bimba. Nella vita non è solo bianco o nero: ci sono molti colori», fece lui, sorridendo con sufficienza, «Il grande cowboy non è più sempre buono e non sono sempre i buoni a vincere. «Enric e Alicia non si sono mai sposati, non in chiesa, per lo meno. Anche se i nostri genitori fecero di tutto per farcelo credere. Erano una coppia di convenienza: se stavano insieme era soprattutto per giustificarsi socialmente. Entrambi, però, avevano amanti del proprio sesso; quello che non so è se si divertissero anche quando capitavano nello stesso letto.» Gli si illuminarono gli occhi, mentre sulle sue labbra danzava un sorriso lascivo. «Forse organizzavano delle orge. Te lo immagini?» continuò. Poi rimase in silenzio per qualche istante. Me lo immaginavo, sì. Ma la mia mente non era occupata dai presunti incontri orgiastici di Enric e Alicia. No: l'immagine che vedevo era quella di Luis vestito da fauno, con piccole corna e barbetta da caprone. Mi venne da ridere, notando la sua espressione. Subito, però, mi pentii. «No, mi è difficile crederci», dissi, in tono molto decoroso. «Andiamo... ammettilo. Riesci perfettamente a immaginarti la situazione...» «No, invece!» «E dai, Ally McBeal. Confessa.» No, questo no! Detesto quando mi chiamano Ally McBeal. È troppo facile prendere in giro una giovane avvocatessa di successo come me chiamandola come il personaggio di una vecchia serie televisiva: Ally, una trentenne nevrotica dalla gonna troppo corta e sentimentalmente turbata. «Sei davvero poco originale, Luis. Questa battuta è ormai trita e ritrita. E poi, io e lei non abbiamo niente in comune.»
Davanti al suo sorriso, mi ricordai di quando litigavamo, da ragazzini. Provocare gli era sempre piaciuto. Iniziava tirandomi le trecce, o con altre piccole aggressioni fisiche o verbali. Io ho sempre avuto un vocabolario molto ricco: gli davo del «grassottelle schifoso», o del «sacco di lardo e merda», oppure me ne uscivo con un'altra osservazione sul suo aspetto fisico, altrettanto arguta e delicata. Ma lui non faceva una piega, si infilava un dito nel naso e gonfiava le guance, assumendo ancora di più le sembianze di un maialino. A quel punto era normale che scoppiassi in una sonora risata. Ed è molto difficile rimanere arrabbiati con una persona che riesce a farci ridere. «Perché stai sorridendo?» mi chiese. «No, niente. Mi sono ricordata di quando litigavamo da ragazzini. Non sei cambiato tanto.» «Nemmeno tu. Riesco ancora a offenderti.» Però, pensai. Il cicciottello è rimasto lo stesso provocatore di una volta. Anche se adesso è più magro. All'improvviso, mi tornò in mente l'inizio della conversazione, e mi feci seria. «Povero Oriol», dissi. «Dev'essere dura per lui.» «Ti riferisci ai suoi gusti sessuali?» Luis non sorrideva più. «Be'... riguardo alle sue tendenze... sai, è cresciuto circondato da donne con atteggiamenti molto mascolini. Cosa vuoi? È normale. E poi, dal punto di vista genetico... considerando che entrambi i genitori erano omosessuali...» «Ma che cosa stai dicendo?» Io pensavo alla sua situazione famigliare, mente lui parlava di Oriol. «Che cosa stai insinuando? Io non ne so nulla. Dimmi quello che devi dire, e basta.» «Solo questo. Che nemmeno le preferenze di mio cugino sono molto chiare.» «Ma perché? Su che cosa ti basi? È stato lui a dirti qualcosa?» «No. Lui non parla mai dei suoi segreti. Ma certe cose si vedono. Non ha una fidanzata e, a quanto ci risulta, non l'ha mai avuta. E poi questo suo strano modo di vivere...» Scrutai attentamente il mio amico. Nei suoi occhi non c'era un briciolo di umorismo. Sembrava parlare sul serio. La storia di Alicia non mi sorprendeva, e in effetti nemmeno mi interessava; quanto a Enric, invece, ero assolutamente stupita. Ma che Oriol fosse gay... quell'insinuazione mi colpì come uno schiaffo. I miei sogni di adolescente, quei bellissimi ricordi del mare, della burrasca e del bacio andavano in mille pezzi. Mi ero immaginata Oriol come
fidanzato, come amante, come sposo... Ripensai a quegli anni; di sicuro, ero sempre io a prendere l'iniziativa, e mai lui. Oriol si lasciava condurre, e io credevo che tale atteggiamento fosse dovuto alla sua timidezza. Finite le vacanze, ci vedevamo in quella scuola elitaria alle falde della Sierra di Collcerola, ai piedi della quale sorge la città dove la borghesia progressista e liberale mandava i propri pargoli, perché ricevessero un'educazione catalana, condita con salsa europea. Lui frequentava un corso superiore, e ci incontravamo soltanto nei corridoi. Io iniziai a mandargli dei bigliettini. E ci vedevamo anche alle riunioni che gli amici dei nostri genitori organizzavano ogni tanto, nel fine settimana. Ricordo l'ultima, prima della nostra partenza per New York. Oriol aveva l'aria triste, e io ero sconsolata. Avevano preparato una festa d'addio a casa di Enric e Alicia, nell'avenida Tibidabo. Non fu cosa facile eludere Luis, per restare da soli. Ma il giardino era ampio, e riuscimmo a restare per qualche minuto in intimità. Ci baciammo ancora. Io mi misi a piangere, e Oriol aveva gli occhi rossi. Avevo sempre creduto che anche lui avesse pianto. «Ti va di essere il mio fidanzato?» gli chiesi. «Va bene.» Gli feci promettere che non mi avrebbe dimenticata, che mi avrebbe scritto, e che ci saremmo incontrati non appena fosse stato possibile. Ma lui non mi scrisse, non rispose alle mie lettere. E io non seppi più nulla di lui. Mi resi conto che Luis mi stava parlando, e che io non gli stavo prestando ascolto. Feci attenzione alle sue parole. «Oriol non ha un appartamento suo, vive con sua madre. Be', qui in Spagna non è una cosa anormale, come negli Stati Uniti. A volte passa la notte con i suoi amici, in una delle proprietà altrui che hanno occupato. E quando gli va dorme nella grande villa alle falde del Tibidabo. Ha una camera sempre in ordine, il cibo è buono, gli fanno il bucato e mamma è contenta.» «Ma ci saranno anche delle ragazze, no, in questo gruppo di okkupanti? Voglio dire, può darsi che abbia anche delle amiche.» «Ma certo», fece Luis, sorridendo. «Però... a quanto pare ti preoccupa sapere con chi va a letto mio cugino.» «Ti stai basando solo su delle supposizioni, su delle prove circostanziali. Non hai nessun argomento valido che dimostri che Oriol sia gay.» «Ma questo non è uno dei tuoi processi», disse Luis, con un sorriso di-
vertito. «Non c'è niente da dimostrare. Ti sto solo avvisando.» Dal mio punto di vista, stava facendo qualcosa di peggio che giudicare: stava condannando Oriol sulla base di alcune insinuazioni maligne. Decisi che era ora di cambiare argomento. «Che cosa credi che succederà, sabato?» gli chiesi. «Che cos'è quest'eredità misteriosa? Non è assurdo che un testamento venga letto a quattordici anni dalla scomparsa di chi l'ha redatto?» «Be', il testamento di Enric è stato letto poco dopo la sua scomparsa; Oriol e Alicia sono stati i principali beneficiari. Ma questa volta è diverso.» «Diverso?» Ero infastidita dal modo in cui dosava le informazioni, gli piaceva tenermi sul filo. «Esatto.» Decisi di restare in silenzio, e di aspettare che riprendesse il racconto senza fargli ulteriori domande. «Si tratta di un tesoro», disse, dopo qualche minuto. «Sì, sono sicuro che si tratti di un favoloso tesoro templare.» Aveva già accennato alla faccenda per telefono; mi tornò in mente la conversazione del giorno prima con Artur Boix, in aereo. «Sai chi erano i templari?» continuò. «Naturalmente.» Questa volta fu lui a restare sorpreso. «Non pensavo che conosceste così bene la storia medievale negli Stati Uniti.» «Pregiudizi. Certo che la conosciamo», risposi, soddisfatta. «Allora saprai che la maggior parte dei sovrani europei, pur sospettando fortemente che ciò che avveniva in Francia fosse ingiusto, obbedì agli ordini del papa, e approfittarono dell'occasione per incrementare il più possibile il proprio peculio. «D'altronde, si dice che nel regno di Aragona, dove l'azione dei frati si prolungò, questi ultimi riuscirono a nascondere una parte dei propri beni mobili. Ed essi comprendevano enormi quantità di oro, argento e pietre preziose.» A Luis brillavano gli occhi. Mi sembrava di vederlo, con il viso grassottelle di quattordici anni prima, quando Enric organizzava per noi delle cacce al tesoro, nella grande villa dell'avenida Tibidabo. «Riesci a immaginare che valore potrebbe avere, sul mercato nero, una partita ingente di oreficeria risalente ai secoli XII e XIII? Crocifissi d'oro, argento e smalti, con zaffiri, rubini e turchesi incastonati. Cofanetti d'avorio intagliato, calici ricoperti di pietre preziose, corone di re e conti... diademi di principesse... spade cerimoniali...»
Chiuse gli occhi. Lo splendore dell'oro lo abbagliava. «Quindi pensi che sabato riceveremo un tesoro?» gli chiesi, incredula. «No, non un tesoro. Ma gli indizi per trovarlo. Sarà un po' come tornare a giocare con Enric... solo che questa volta si fa sul serio.» «E tu come fai a sapere tutte queste cose?» Il mio sospetto era che Luis stesse vivendo uno dei suoi sogni sventati, ma non avrei ottenuto nulla mettendo in discussione le sue fantasie. «Allusioni, commenti che ho sentito in famiglia. A quanto pare, quando si suicidò, mio zio era sulle tracce di un tesoro...» «E che cosa c'entra il mio quadro gotico con tutta questa faccenda?» «Ancora non lo so. Ma, in quel periodo, Enric andava a caccia di tavole gotiche. E, se non sbaglio, la tua risale esattamente all'epoca templare: fine XIII, inizio XIV secolo.» Rimasi un istante a guardarlo, senza dire una parola. Sembrava molto convinto. «E... perché si uccise?» gli domandai, alla fine. «Non lo so. Secondo la polizia, fu un regolamento di conti fra trafficanti d'arte. Ma non riuscirono a provare nulla. Tutto qui, non so altro.» «E allora perché mi hai telefonato per mettermi in guardia?» «Perché, apparentemente, il tuo quadro contiene degli indizi che conducono al tesoro.» Rimasi a bocca aperta. «Sai che qualcuno ha cercato di rubarlo?» gli chiesi. Fece no con la testa, e dovetti raccontargli l'accaduto. Lui mi disse che stava indagando dal giorno in cui aveva ricevuto la convocazione alla lettura del testamento. No, non mi avrebbe rivelato le sue fonti; ma era sicuro che nel mio dipinto ci fosse la chiave per arrivare al tesoro. «Dove si suicidò?» Ormai mi ero resa conto che non sarei riuscita a strappargli altre informazioni. «Nel suo appartamento del paseo de Gracia.» «E Alicia che cosa dice? Teoricamente è sua moglie, no?» «Non mi fido di lei.» «Perché?» «Quella donna non mi piace. Nasconde sempre qualcosa. Vuole avere tutto sotto controllo, cerca sempre di comandare tutti. Fai attenzione, con lei. Molta attenzione. Credo che appartenga a una setta.» Mi chiesi se fosse un caso che mia madre mi avesse dato quasi lo stesso consiglio, riguardo ad Alicia. Prima di uscire di casa, mi aveva detto di
evitarla. E questo, naturalmente, non fece che accrescere il mio desiderio di incontrarla. 11 Decisi che il commissariato di polizia era il posto ideale da cui cominciare le mie indagini sulla morte di Enric. Tornai in albergo per cambiarmi: un paio di pantaloni a vita bassa, di quelli che mostrano fianchi e pancia, e un top corto. Un ombelico in vista era il miglior biglietto da visita se, come speravo, la maggioranza degli agenti era composta da uomini. Non si trattava di civetteria, ma di efficienza. Be', sì, forse c'era anche un pizzico di civetteria. Mi venne in mente Ally McBeal. «Non ha niente a che vedere con me», mi dissi, sorridendo. «Lei è un avvocato; io adesso sto facendo il detective. Lei mostra le gambe; e io l'addome.» Una volta in stanza, notai che la lucina del telefono lampeggiava: c'era un messaggio per me. «Ha chiamato la signora Alicia Núñez», mi disse l'operatrice. «Desidera che si metta in contatto con lei al più presto.» Caspita! La donna tanto temuta da mia madre, che riusciva a spaventare persino il caro cugino cicciottello. Luis cercava di nasconderlo, ma io lo conosco troppo bene! Bruciavo dalla curiosità. Ripensai alla madre di Oriol... avevano gli stessi occhi di un blu profondo, lievemente a mandorla. Quegli occhi che avevo amato tanto da ragazzina... Alicia non frequentava il nostro gruppo di villeggianti. In effetti, Oriol trascorreva l'estate a casa dei nonni Bonaplata con la zia, la madre di Luis. Ernic veniva a trovarlo ogni tanto, nei fine settimana, e passava nel paesino circa quindici giorni; ma lui e Alicia non si incontravano quasi mai. Quando non era in viaggio all'estero, o occupata in lavori a quei tempi non considerati adatti a una donna, faceva visita a Oriol nei giorni feriali, e non si fermava mai per la notte. Già da bambina, intuivo che non era una «mamma» come tutte le altre. Ma non ci avevo più pensato, fino a quando Luis, a pranzo, mi aveva rivelato la chiave per comprendere il suo comportamento atipico. Alicia mi attirava, come tutte le cose proibite. Mi attirava per via del timore di mia madre, e degli avvertimenti di Luis. Che cosa poteva volere
da me? Mi dissi che non c'era fretta, che la signora Núñez poteva aspettare. Almeno per il momento. Al commissariato dissi la verità: che ero tornata in Spagna dopo quattordici anni, e che volevo sapere che cosa era successo al mio padrino. Nessuno di loro si ricordava di quel caso di suicidio in un appartamento sul paseo de Gracia. Sarà stato il mio sorriso, o la mia storia di emigrante in cerca delle sue radici. O, magari, il mio ombelico da baiadera. Comunque, gli agenti di guardia furono estremamente gentili. Uno di loro disse che, probabilmente, Lòpez si ricordava di quel fatto, dal momento che all'epoca era già in servizio. In quel momento era di pattuglia, e lo chiamarono alla radio. «Certo che mi ricordo», disse. Gli agenti alzarono il volume del ricevitore per permettermi di sentire. «Ma del caso si occupò Castillo. Quel tizio chiamò il commissariato, ed era al telefono con lui quando si sparò un colpo in bocca.» «Castillo non lavora più qui», mi spiegò l'agente. «È diventato commissario, e l'hanno trasferito. Può andare a trovarlo al nuovo indirizzo.» All'altro commissariato, mi dissero che l'avrei trovato la mattina del giorno seguente. Dimenticai subito l'inconveniente e mi proposi, per lo meno, di godermi la passeggiata. Tenendo stretta la borsa, come Luis mi aveva consigliato, tornai alle Ramblas, e mi immersi nel fiume di gente che fluiva al centro del corso. La rambla, in spagnolo, è l'alveo di un fiume, ed è esattamente questo che sono le Ramblas di Barcellona. Una volta portavano acqua; adesso portano gente. Solo che la gente, nonostante la portata si riduca all'alba, a differenza del liquido dell'antico ruscello che scorreva parallelo alle mura medievali, non si esaurisce mai. Come può il corso mantenere il suo incanto, il suo spirito, con una fauna umana sempre diversa? Come può un mosaico rimanere uguale a se stesso se le tessere cambiano? Forse questo accade perché non guardiamo ai singoli elementi, ma all'insieme. Certi luoghi hanno un'anima; un'anima che a volte è tanto grande da assorbire la nostra piccola quantità di energia, convertendola in una parte del tutto. E le Ramblas di Barcellona sono così. Per certi versi ricordano i corsi dei piccoli centri abitati, dove la gente va per guardare e per farsi guardare. Tutti sono attori o guardoni, ma più in grande, in una dimensione cosmopolita.
La signora in abito da sera va all'opera, al Gran Teatro del Liceo, con il suo accompagnatore in smoking; più in là c'è il travestito dal trucco pesante, che fa a gara con le prostitute per vendere piacere; e qui ci sono marinai di ogni nazionalità e colore, con le loro uniformi militari; il turista biondo e l'emigrante moro; il magnaccia e l'agente di polizia; e poi belle donne, vecchi vagabondi, curiosi che guardano ogni cosa, persone troppo affaccendate che non vedono nulla... Così ricordavo le Ramblas, più per quello che avevo sentito da bambina che per esperienza personale. E così le ritrovai in quella radiosa mattina di primavera. Vagando tra le bancarelle di fiori, avevo l'impressione di assorbire quell'esplosione di colori, di bellezza e di fragranza, attraverso la pelle, e attraverso l'aria che respiravo. Mi trattenni con i gruppetti che osservavano gli artisti di strada, i musicisti, i giocolieri, le statue viventi ricoperte di polvere bianca e porporina; principesse, guerrieri dai movimenti rigidi che con un gesto grazioso o improvviso ringraziano i curiosi delle monete ricevute. Vidi un ragazzo appoggiato al tronco grosso e pieno di protuberanze di un platano centenario, in attesa. E una ragazza con un largo sorriso malizioso, che gli si avvicinava discreta, di spalle, per regalargli una rosa, rompendo tutti gli schemi. Vidi la sorpresa, la felicità, il bacio e l'abbraccio tra il corteggiato e la sua pretendente. Era tutto perfetto: quel brillante mattino di primavera, il movimento vitale della gente e i due ragazzi che, come artisti rambleros, mettevano in scena il loro amore: ma non lo facevano per denaro. I loro sentimenti erano sinceri. Provai nostalgia, invidia. Cercai conforto nel solitario, simbolo del mio amore per Mike, che brillava alla mia mano. Accanto, però, c'era l'intruso: la luminosità interiore di quel rubino misterioso scintillava ironica, quasi volesse prendermi in giro. Forse era la mia immaginazione, ma quell'anello sembrava avere vita propria, e in quel momento ebbi la sensazione che volesse dirmi qualcosa. Scossi la testa, per allontanare una simile fesseria, e osservai i due giovani amanti che si tenevano per mano, perdendosi tra la folla. E allora credetti di vederlo. Il tipo dell'aeroporto, quel vecchio con la barba e i capelli bianchi, vestito di scuro. Era in piedi davanti a una delle edicole che espongono la mercanzia su un lungo banco frontale. Fingeva di sfogliare una rivista, ma in realtà guardava me. Quando i nostri sguardi si incontrarono, tornò a fissare la pubblicazione; quindi, la posò sulla pila di giornali e si allontanò. Allarmata, continuai a passeggiare, chiedendomi se si trattasse davvero della stessa persona.
12 «Ma certo che mi ricordo di quell'uomo!» Alberto Castillo aveva all'incirca trentacinque anni, e sfoggiava un sorriso gradevole. «Che impressione! Non riuscirò mai a dimenticarlo!» «Come andò, esattamente?» «Chiamò il commissariato, e disse che aveva intenzione di farla finita», mi spiegò, assumendo un'espressione seria. «Io ero un novellino, e non mi ero mai trovato in una situazione simile. Cercai di dissuaderlo, di tranquillizzarlo. Ma, tra i due, apparentemente era lui il più calmo. Non ricordo che cosa riuscii a dirgli; comunque, fu del tutto inutile; continuò a parlare, poi appoggiò una pistola al palato e si fece saltare le cervella. Bang! Il rumore dello sparo mi fece fare un balzo sulla sedia. Solo a quel punto capii che diceva sul serio. «Quando riuscimmo a localizzarlo, era seduto su un divano, con i piedi appoggiati su un tavolino; il balcone, aperto, si affacciava sul paseo de Gracia. Aveva sorseggiato tranquillamente un costosissimo cognac francese e fumato un sigaro di marca. Era vestito in modo impeccabile e portava la cravatta. La pallottola era uscita dalla parte superiore del cranio. La casa era antica e lussuosa, con i soffitti alti, e lì in alto, accanto ad alcune preziose greche di fiori e foglie, vidi del sangue e un frammento di materia cerebrale. C'era un giradischi antico, per dischi di vinile, e sul piatto trovai una registrazione di Jacques Brel; mi resi conto che era la musica che avevo sentito durante la conversazione telefonica. Prima aveva ascoltato Viatge a Itaca, di Lluís Llach. Chiusi gli occhi. Preferivo non immaginarmi quella scena. Che orrore! Mi venne in mente Enric, quando il lunedì di Pasqua si presentava a casa nostra insieme a Oriol con un'enorme mona, il dolce di Pasqua. Al centro, c'è una scultura di cioccolato duro e nero. Una volta ne portò una che raffigurava il castello di una principessa, con delle figurine di zucchero colorato. Era gigantesca, e non permisi a nessuno di toccare il cioccolato. Volevo tenere il castello da parte, quasi fosse una casa delle bambole. Enric si divertiva tanto quanto noi bambini. Riesco ancora vedere il suo sorriso entusiasta. Gli volevo bene quasi come a mio padre. Sentii un nodo in gola, gli occhi umidi. «Ma perché», balbettai. «Perché si uccise?» Castillo alzò le spalle. Eravamo seduti in un ufficio sobrio, il tipico uffi-
cio da poliziotto. Io mi ero cambiata; adesso indossavo una gonna corta, e tenevo le gambe accavallate. Ogni tanto, lo sguardo gli cadeva lì, ma io fingevo di non accorgermene. In cima a uno schedario teneva una cornice con una sorridente foto di famiglia. La moglie e i due bambini, un maschio e una femmina. Era evidente che il commissario gradiva la mia compagnia, e che mi avrebbe raccontato ogni cosa. «Non so perché lo fece. Ma ho una mia teoria.» «Cioè?» Volevo sapere. «Come può ben immaginare, avendo poco più di vent'anni rimasi molto impressionato, e chiesi di poter partecipare alle indagini. Mi ricordavo che, durante la nostra conversazione, il suo padrino mi aveva detto di aver fatto fuori qualcuno. Alcune settimane prima, c'era stato un quadruplice omicidio in una villa di Sarrià; allora non trovammo le prove, ma io sono sicuro che dietro ci fosse lui.» «Mi sta dicendo che, secondo lei, Enric aveva ucciso quattro persone?» Non riuscivo nemmeno a immaginare che il mio padrino, sempre gentile e pacifico, avesse assassinato qualcuno. «Esatto. Erano tutte legate all'ambiente degli antiquari, proprio come lui. Solo che due di esse avevano dei precedenti per furto e traffico illecito di opere d'arte; gli altri due uomini erano semplicemente dei bulli, degli scagnozzi. Tipi pericolosi. Quando riesaminammo gli affari di Bonaplata, però, ci sembrarono onesti. Non solo: costui aveva ereditato tanto denaro che, anche se avesse deciso di scialacquarlo con ogni genere di stravaganza, divertimento o eccesso, ne avrebbe avuto abbastanza per mantenere quel tenore fino alla fine dei suoi giorni.» «Come fa a sapere che non aveva un complice?» «Uccise tutti con la stessa pistola.» «Ma questo non significa necessariamente che non sia stato aiutato.» «Comunque, io credo che abbia agito da solo. E le dirò anche perché, signorina. Quella casa era una specie di bunker, e i quattro uomini facevano parte di una banda criminale. Avevano un sistema di sicurezza con videocamere e allarmi collegati a un modulo centrale. Adesso è una cosa abbastanza normale, ma non per quegli anni. Disgraziatamente, ciò consentiva di effettuare una sorveglianza periferica, ma non di registrare dei filmati. In qualche modo, riuscì a ingannarli. Da solo. Non avrebbero mai fatto entrare due uomini insieme e, se avessero avuto il minimo sospetto, di certo non si sarebbero lasciati cogliere di sorpresa. Si presentò alla porta, e
loro lo fecero passare. Sicuramente, prima di farlo accomodare nella stanza dove si trovavano i capi, lo perquisirono. Erano dei professionisti, e i due giovani erano armati, anche se non ebbero tempo di sparare. Al momento del ritrovamento, uno dei cadaveri stringeva un revolver. Anche il più vecchio cercò di usare una pistola, che probabilmente teneva in un cassetto della scrivania, sulla quale erano sparpagliate una montagna di banconote. Questo dimostra che l'assassino non voleva denaro: il che si addice perfettamente a Bonaplata. Il suo movente era la vendetta.» «Ma com'è possibile che un uomo abbia ucciso da solo quattro persone, tre delle quali erano armate? Dove prese il revolver? Enric non era un tipo aggressivo...» «Non so dirle né dove lo prese, né dove lo nascose.» «Ma non si suicidò sparandosi un colpo? Non venne rinvenuta un'arma accanto al cadavere?» «Certo.» «Quindi?» «Non era la stessa pistola. Gli esami balistici confermarono che i proiettili che avevano ucciso i quattro uomini erano stati sparati da un'arma diversa.» «Allora, probabilmente, l'assassino non era lui.» «Invece sì», disse, convinto, guardandomi negli occhi. «Sarei pronto a scommetterci qualsiasi cosa.» «Ma perché si sarebbe dovuto prendere il disturbo di nascondere una pistola, per poi suicidarsi con un'altra? È assurdo.» «No, non lo è. Enric Bonaplata era un tipo sveglio. Se si fosse suicidato con la stessa pistola, avremmo avuto prove sufficienti per inchiodarlo.» Mi misi a ridere. Che stupidaggine! «Ma che cosa poteva importargli di essere incolpato, una volta morto?» chiesi, ironica. «Per l'eredità. Aveva previsto tutto. I suoi eredi avrebbero dovuto risarcire quelli delle vittime.» La sua risposta mi lasciò senza parole. In effetti, il commissario aveva ragione. Senz'altro, era un buon motivo. Se Enric odiava quelle persone al punto di volerle morte, perché mai avrebbe dovuto lasciare il suo patrimonio alle famiglie dei suoi nemici? Castillo mi guardava con un mezzo sorriso sotto i baffi, aveva un'aria simpatica. Lasciò cadere di nuovo lo sguardo sulle mie gambe, con una certa sfacciataggine, e poi se ne uscì con una domanda sconcertante: «Sa-
pevi che il tuo padrino era una checca?» Di punto in bianco, aveva iniziato a darmi del tu. «Una checca?» «Ecco, non proprio una checca. Più che altro, era un culattone.» Lo guardai, fingendomi scandalizzata. «Ma che cosa dice?» Anche se Luis mi aveva avvertita il giorno prima, decisi di approfittare della loquacità del commissario per carpirgli tutto ciò che sapeva. «Semplicemente questo», rispose lui. Vista la mia reazione, prima di continuare cercò un termine più adatto. «Che era omosessuale.» «Ma se ha avuto un figlio!» «Non significa nulla.» «Che motivi ha per fare un'affermazione simile?» gli chiesi, seria, come avrei fatto con un testimone durante un processo. «Si spieghi.» «Quando telefonò in commissariato, dopo avermi detto che aveva deciso di farla finita, volle sapere la mia età, e il colore dei miei occhi. Come se stesse cercando di rimorchiarmi. Incredibile, vero? E stava per farsi saltare le cervella.» «È piuttosto strano, considerando che stava per suicidarsi», osservai, pensosa. «Per quanto fosse omosessuale. Non crede?» «No, non da parte sua», affermò Castillo, enfatico. «OK, era una checca: ma sotto aveva un bel paio di coglioni.» Dentro di me, gli fui grata di aver dedicato a Ernic quello che, nonostante il linguaggio, doveva essere il miglior elogio appartenente al suo repertorio. Il tono della voce tradiva una certa ammirazione. Aspettai che riprendesse il suo racconto, in silenzio. «Ricostruii l'accaduto», continuò. «Secondo me, uccise i trafficanti tra le sei e le sette di sera; alle otto e trenta ci chiamò la moglie del più vecchio, stravolta, per denunciare il quadruplice omicidio. Era appena arrivata alla villa. «Bonaplata aveva pianificato ogni cosa, ne sono certo: aveva deciso di fare una grande uscita. Nelle settimane successive fece perdere le sue tracce, spostandosi da una parte all'altra; non sembrava minimamente preoccupato dai diversi interrogatori cui venne sottoposto dai colleghi incaricati del caso, qui a Barcellona. Stavano mettendo insieme le prove necessarie per incolparlo. «Lui però lo sapeva, e riuscì a farla franca per sempre. Un giorno, come usava fare di tanto in tanto, andò a mangiare nel suo ristorante preferito.
Da solo. Si rimpinzò dei suoi piatti favoriti, e si scolò una bottiglia intera di una delle riserve più costose. Liquore e sigaro. «Poi tornò nel suo appartamento, sul paseo de Gracia; mise un disco, si scelse un altro sigaro, si versò un bicchiere di cognac e, da cittadino per bene quale era, decise di informare la polizia. E, naturalmente, non poté evitare di fare la corte a un giovanotto come me. Per tutta la vita aveva nascosto le sue tendenze, temendo il giudizio della famiglia; perché avrebbe dovuto smettere proprio all'ultimo momento? Gli piacevano i ragazzi giovani, sai?» «Era un pedofilo?» Adesso sì che era riuscito a scandalizzarmi. «No», rispose Castillo, sorridendo davanti al mio tono alterato. «Non abbiamo prove né sospetti, a proposito di un suo interesse nei confronti dei bambini. Ma di certo aveva una predilezione per i ragazzi già maggiorenni, di dieci o vent'anni più giovani di lui.» Le sue parole mi fecero sentire meglio. Riflettei un istante, prima di rivolgergli una nuova domanda. «Ma perché si uccise?» Volevo evitare di sentire altri dettagli sulla vita sessuale di Enric. «Stando al suo racconto, non soffriva di depressione, si godeva la vita al massimo. E poi, se davvero fu così bravo, dal momento che la polizia non riuscì a dimostrare la sua colpevolezza, probabilmente l'avrebbe fatta franca.» «Eravamo sul punto di incastrarlo; se fossimo andati avanti con gli interrogatori, ci avrebbe dovuto spiegare un sacco di cose. Ma ci lasciò con la voglia in corpo, e prese un biglietto di prima classe per l'altro mondo.» Castillo sembrava triste, sembrava non aver mandato giù l'ultima fuga di Enric. «Forse è tutto legato alla morte di un giovane poco più che ventenne, avvenuta qualche settimana prima», aggiunse, dopo un pausa. «A quanto pare erano fidanzati.» «Davvero?» «Sì. Il ragazzo si occupava del negozio di antichità che Bonaplata dirigeva nel quartiere vecchio.» «È tutto un po' troppo ricercato, non crede?» «No. Io penso che sia andata così: Bonaplata e i trafficanti erano in lite per qualcosa. Qualcosa di molto prezioso. Picchiarono il ragazzo per farlo parlare; ma la situazione degenerò, e finirono con l'ucciderlo. Il tuo padrino ne fu sconvolto. Tese una trappola agli assassini; riuscì a nascondere una pistola e, quando meno se l'aspettavano... Pim, pam, pum! E, con due coglioni così, mandò quei quattro all'inferno. Gli avevano ucciso il ragaz-
zo, e si era voluto vendicare. Semplice, no?» «Ma questo non si addice affatto alla persona che ho conosciuto; Enric amava la vita, era una persona stupenda.» Ripensandoci, mi tornarono le lacrime agli occhi. «Faccio fatica a credere che fosse gay, ma non è questa la cosa importante, di certo non cambia l'opinione che ho di lui. Mi rifiuto di pensare che si sia suicidato per sfuggire alla giustizia. In effetti, non riesco nemmeno a credere che l'abbia fatto. Quanto a uccidere quella gente, poi... Non posso neanche immaginare che abbia assassinato qualcuno a sangue freddo. Era sempre stato un tipo pacifico. Come poté fare una cosa simile?» Il tono della mia voce si alzava a ogni domanda. «Come riuscì a ingannare quelle persone? Sapevano che le odiava; non ha forse detto che erano dei mafiosi?» «Non lo so. Non sono in grado di spiegare ogni cosa», gridò Castillo, in tono disperato; aprì le braccia e rivolse i palmi al soffitto, quasi pregasse di ricevere qualcosa. «Ci penso da quattordici anni, e ancora non so darmi una risposta. Questa è la mia teoria: ci sono delle lacune, è vero, ma sono sicuro che il colpevole sia lui. Fu Enric Bonaplata a uccidere quei quattro. E lo fece da solo.» 13 Avevo bisogno di schiarirmi le idee. In taxi, pensai e ripensai a quello che avevo sentito da Castillo e, una volta arrivata in albergo, decisi di fare una passeggiata nel giardino attorno alla piscina, al primo piano. Ero appunto diretta lì, quando lo vidi. Era seduto a uno dei tavoli vicini alla vetrata, e mi stava guardando. Adesso non avevo più dubbi: era l'uomo dell'aeroporto. La stessa barba, gli stessi capelli bianchi, sempre vestito di scuro; forse indossava addirittura gli stessi abiti. E quei minacciosi occhi blu. Mi fissava come il giorno del mio arrivo. Mi spaventai, e questa volta distolsi immediatamente lo sguardo. Che cosa ci faceva nel mio hotel? Cambiai idea, feci un mezzo giro e mi avviai nella direzione opposta, verso gli ascensori, dopo aver incrociato il banco della reception. Giunta nel corridoio, mi guardai indietro. Non gli avrei mai permesso di seguirmi; ero terrorizzata dall'idea di ritrovarmi da sola con lui nell'ascensore. Nel frattempo, ragionai. Che strana coincidenza imbattermi ancora una volta nello stesso individuo, in una città grande come Barcellona. Per di più, non aveva affatto l'aspetto di un ospite dell'albergo.
Stavo salendo insieme a una tranquillizzante coppia di una certa età americani della costa occidentale, non v'erano dubbi - quando giunsi a una spiegazione logica. Dopotutto, il fatto di incontrare di nuovo quel tizio non era così improbabile: forse, quando l'avevo visto all'aeroporto, stava aspettando qualcuno arrivato con il mio stesso volo; forse era un autista di un'agenzia, in attesa del suo cliente. Anche adesso, nel mio albergo. Ma certo, doveva essere per forza così... Ma allora che cosa ci faceva sulle Ramblas? Accompagnava qualche turista? Chiunque fosse, una volta rientrata nella mia stanza, e dopo essermi chiusa a chiave, mi sentii più tranquilla. Era il suo aspetto feroce, il modo in cui mi guardava a darmi fastidio. Non avevo altri motivi, mi dissi. Andai dritta alla finestra, per osservare di nuovo la città da quella posizione privilegiata. Lì sotto, a destra dell'ampia distesa marina, si stendeva la vecchia signora facendo la siesta sotto il sole pomeridiano. Individuai la fine del lungo viale, grazie al monumento a Colombo, e con lo sguardo feci il percorso inverso, risalendo il viale dov'ero stata il giorno prima. Non era facile seguire il tragitto poiché a quella distanza, e a quell'altezza, i palazzi nascondono le vie e solo la forma degli edifici ti consente di indovinare la collocazione dei viali. Ciononostante, i miei occhi vagarono lungo le linee aeree del corso più singolare di Barcellona. Girandomi, notai il telefono: una lucina rossa lampeggiava. Avevo dei messaggi in segreteria. Il primo era di Luis, aveva chiamato alle dieci del mattino, insistendo perché accettassi il suo invito a cena. Voleva che lo richiamassi in ogni caso. Era interessato alle mie scoperte, e aveva voglia di fare due chiacchiere. Il secondo era di una donna che, in un primo momento, non riconobbi. «Ciao, Cristina», diceva. «Benvenuta a Barcellona. Spero ti ricordi ancora di me. Sono Alicia. Chiamami. Abbiamo molto di cui parlare e, come tua madrina, sarei felice di ospitarti per tutta la durata del tuo soggiorno.» Sembrava cordiale, tranquilla, sicura di sé. Quindi, ripeteva due volte un numero di telefono, che annotai sul bloc-notes posto sul comodino. «Aspetterò la tua chiamata, tesoro.» Ecco, mi dissi, l'incubo di mia madre, la donna che la spaventava tanto. Sta di fatto che il mostro aveva una voce profonda, ma al tempo stesso vellutata e gradevole. Mi chiesi se fosse il caso di richiamarla, ma decisi di pensarci su. Che cosa avrebbe comportato il fatto di incontrarla? Avrei contrariato mamma, ovviamente. Ma era già successo altre volte, e questo
non era un fattore decisivo nel mio calcolo. Anche Luis mi aveva messo in guardia da quella donna. Ma nemmeno la sua opinione era particolarmente importante. D'altro canto, Alicia doveva sapere un sacco di cose, che mi sarebbero state utili nella mia indagine sulla morte di Enric. Ammesso che avesse voluto condividerle con me... Come aveva fatto a trovarmi? Semplice, mi dissi: suo figlio era stato convocato per la lettura del testamento, che avrebbe avuto luogo il giorno seguente e di conseguenza, io dovevo già essere a Barcellona. Ed era logico pensare che un'americana avrebbe alloggiato in un hotel appartenente a una catena statunitense. Si trattava solo di prendere il telefono e di chiedere di Cristina Wilson. Ovvio. Di sicuro, quel messaggio riuscì a stuzzicare la mia curiosità. La madre di Oriol. Perché era tanto affettuosa con me? Io avevo sperato che mi chiamasse il figlio, non lei. Chissà se anche lui conservava un ricordo tenero di quell'ultima estate, del mare, della burrasca, del primo bacio. Perché non mi telefonava? Forse, per lo stesso motivo per cui non aveva mai voluto rispondere a nessuna delle mie lettere; già, forse per quello che Luis diceva di lui. Era omosessuale? Alicia diceva di essere la mia madrina. Ma non era così. Anche se sarebbe corretto chiamare madrina la moglie del proprio padrino. In occasione del battesimo, però, al bimbo vengono assegnate entrambe le figure, che non sono legate tra loro. In realtà, non ricordo chi fosse la mia vera madrina; di certo doveva essere un'amica o una parente di mia madre. Ma non lei, non Alicia. Lei ed Enric non si erano nemmeno sposati in chiesa. Per di più, anche se ogni tanto veniva a trovarci insieme al resto della famiglia, Enric e Oriol si presentavano quasi sempre da soli. Da piccola, avevo l'impressione che il mio padrino e la sua compagna formassero una coppia piuttosto strana. Vivevano in case separate, Oriol stava con la madre, nella villa di avenida Tibidabo ed Enric ogni tanto si fermava a dormire lì, quando non tornava nel suo appartamento. Quello sul paseo de Gracia. Quello in cui si tolse la vita. A stringere un legame con i Bonaplata erano stati i famigliari di mia madre, i Coll: il mio nonno materno e il nonno paterno di Oriol, il padre di Enric, erano come fratelli. I loro genitori, i nostri bisnonni, erano diventati molto amici durante gli ultimi anni del XIX secolo, quando una sfacciata Barcellona pretendeva di contendere a Parigi il ruolo di capitale artistica. Frequentavano Els Quatre Gats, dove incontravano Nonell, Picasso, Rusiñol o Cases. Appartenevano a famiglie dell'alta borghesia catalana; ma
erano due giovani ribelli che, prima di mettersi in lista tra i fanatici del Gran Teatro del Liceo, seguendo la tradizione e le consuetudini famigliari, dovevano entrare negli ambienti artistici dell'epoca. Qui, visitarono brevemente tutti gli ismi di quel mondo mutevole di fine secolo, senza dimenticare anarchismi, comunismi, cubismi, esistenzialismi e, in modo più permanente, il postribolismo di calle Aviñó e di calle Robador, dove invitavano artisti di poche risorse, ma dotati della stessa libidine e di un grande talento, come quel giovane di nome Picasso. Risalivano a quell'epoca le collezioni di quadri comprati per pochi soldi per fare un favore a un amico, a un artista povero, e che adesso valevano una fortuna. E questa fortuna era stata ereditata dai nostri nonni, e quindi distribuita tra i vari eredi. Tornai alla finestra per contemplare quella città, nel cui respiro l'arte continuava a vibrare. Perché mia madre aveva abbandonato una lunga tradizione, lasciando dietro di sé tutte quelle leggende? Perché aveva finito con lo sposare un americano, praticamente fuggendo da Barcellona? Sì, è chiaro, si innamorò di mio padre. Aveva ereditato fortune provenienti dal passato, create dal lavoro di telai, da velieri che solcavano gli oceani per commerciare con le Indie, e poi nobilitate dall'opera, al Liceo; fortune che la scapestrata generazione posteriore aveva illustrato attraverso movimenti artistici d'avanguardia, che i nostri nonni avevano frequentato in qualità di facoltosi mecenati bohémien. E, alla fine, si era invaghita di un ingegnere americano. Ma certo. Tra loro era amore... già. Amore. Ma in tutta questa storia c'era qualcosa di più. Qualcosa che mi si nascondeva agli occhi, ma la cui presenza era chiara. Ero immersa in questi pensieri, quando squillò il telefono. «Pronto?» risposi. «Ciao, Cristina!» Riconobbi immediatamente la mia interlocutrice. «Sono Alicia, la tua madrina.» «Alicia! Come stai?» «Benissimo, tesoro. Ti ho lasciato due messaggi, in cui ti chiedevo di richiamarmi.» La sua voce cordiale e profonda aveva un leggero tono di rimprovero. «Stavo per farlo.» Perché sentivo il bisogno di giustificarmi? «Ma sono appena rientrata.» Guardai l'orologio, ed ebbi la prova che stavo mentendo. Mi trovavo in albergo da oltre un'ora. «Bene. Ti ho preceduto», concluse lei. «Ti sto aspettando qui, alla recep-
tion.» «Qui dove?» chiesi, stupidamente. «Qui in hotel, tesoro. E dove, se no?» Rimasi in silenzio. In hotel? Che cosa ci faceva Alicia nel mio albergo? «Coraggio, non farmi aspettare. Vieni giù», riprese, davanti al mio silenzio. «OK, vengo subito», dissi, obbediente. «A tra poco, mia cara.» «A tra poco.» Alla fine, ci saremmo incontrate. La riconobbi subito. Doveva aver passato i sessant'anni, ma la donna che si alzò sorridendo da uno dei tavolini del bar, vicino alla reception, ne dimostrava molti di meno. Era piuttosto robusta: me la ricordavo come una matrona dai fianchi larghi, una caratteristica che, evidentemente, si era accentuata nel tempo. «Tesoro! Che piacere vederti!» esclamò con la sua voce profonda, tendendomi le braccia. Dopo avermi stretto in un abbraccio vigoroso, mi stampò due sonori baci sulle guance. Aveva un profumo penetrante e i suoi bracciali d'oro tintinnarono. «Ciao, Alicia!» In qualche modo, la forte personalità di quella donna e il carisma che irradiava mi fecero sentire di nuovo una ragazzina di tredici anni. E quegli occhi. Quegli occhi di un blu profondo, leggermente a mandorla, come quelli di suo figlio Oriol. Rivedendoli, sussultai. «Come sei bella!» esclamò, allontanandosi un po' per osservarmi. «Sei diventata una donna stupenda. Non vedo l'ora di vedere la faccia di Oriol, quando vi incontrerete.» Menzionando il figlio, scrutò la mia espressione, ma io mi sforzai di mantenere il mio sorriso, imperturbabile, e non dissi nulla. «Coraggio, siediti», m'invitò, incurante del mio silenzio. «Raccontami qualcosa della tua famiglia. Come va negli Stati Uniti?» Obbedii, ma solo dopo aver lanciato un'occhiata al punto in cui, poco prima, avevo notato lo sconosciuto dell'aeroporto. Non vedendolo, mi sentii sollevata. Alicia era una donna molto loquace, e trascorremmo dei momenti piacevoli chiacchierando di banalità. Avevo molte cose da chiederle, ma non riuscii a infilare le mie domande nella conversazione. Non eravamo ancora abbastanza in confidenza. All'improvviso, disse: «Sono venuta a cercarti
per portarti a casa mia». «Scusa?» «Sì, voglio che tu venga a stare da me.» «Ma...» «Niente ma, tesoro.» La sua voce era profonda e vellutata, ma molto autoritaria. «Ho una casa enorme, con una sacco di stanze per gli ospiti, e non permetterò che la mia figlioccia se ne stia in albergo da sola.» «Non se ne parla», rifiutai, mentre cercavo di pensare con rapidità. Alicia, tanto temuta da mia madre e da Luis, mi stava chiedendo di andare a stare da lei; nella casa in cui viveva Oriol. Quanti intrighi su Enric sarei riuscita a scoprire? «Non voglio disturbare.» «Disturbi se rimani qui!» ribatté, categorica. «Sarebbe quasi un'offesa. Allora è deciso. Andiamo da me, e domani ti accompagno alla lettura del testamento, insieme a Oriol.» «Ma...» Ormai non mi ascoltava più. Andò in portineria, e iniziò a dare istruzioni. La seguii, con l'intento di fermarla, anche se immaginavo che sarebbe stato del tutto inutile. In realtà, io ci volevo andare. La osservai in azione: quella donna godeva di un'autorità stupefacente. Parlava quasi sussurrando, e la gente si chinava verso di lei, per sentirla meglio. Lasciò la sua carta di credito sul banco, e mi disse che era tutto a posto, e potevamo andarcene. «Che non ti salti in mente di pagare il conto.» «Già fatto.» «Mi rifiuto.» «Arrivi tardi. Il direttore dell'albergo è un mio amico, e non accetteranno il tuo denaro. Sei ospite della tua madrina.» Malgrado le sue parole, avvertii, decisa, l'impiegato alla reception che avrei saldato personalmente il conto, ma lui mi disse che la signora l'aveva chiesto quando mi trovavo ancora nella mia stanza, e si era fatta carico di tutto. Annullare la transazione sarebbe stato impossibile. «Devo prendere le mie cose», le dissi, infine. Mi sentivo a disagio in sua compagnia, non tanto perché pagava le mie spese, quanto per il dominio che sembrava esercitare sulle persone che la circondavano, me inclusa. «Di questo non devi preoccuparti, tesoro», ribatté, liquidando la faccenda con un gesto della mano. «La cameriera dell'albergo e la mia cameriera personale, che sta già venendo qui, si occuperanno dei tuoi bagagli. In un attimo, troverai tutto perfettamente ordinato nella tua nuova stanza, a casa mia.» Prendendomi sottobraccio, mi condusse all'uscita.
«Stai dimenticando la carta di credito.» «Ci pensa la mia cameriera.» «Non avrai firmato il conto in bianco, spero!» Alicia scoppiò a ridere. «E che importa?» fece, allegra. «Questo è un hotel americano. E voi americani siete tutti onesti, no?» Notai che la sua voce vellutata aveva un tono lievemente scherzoso. Se sapessi, pensai. «Hai davvero delle belle gambe, mia cara!» La macchina di Alicia era ferma a uno dei semafori delle Ramblas; con l'inaspettato arrivo della donna in hotel, non ero riuscita cambiarmi, e adesso che ero seduta su quel sedile basso la minigonna che avevo indossato per il colloquio con il commissario non arrivava nemmeno a metà coscia. Mi accarezzò un ginocchio e io mi misi in allerta. Per un attimo, mi pentii di aver accettato la sua ospitalità. «Grazie», risposi, prudente. «Ho dato istruzioni al personale dell'albergo di prendere nota delle tue chiamate, come se fossi ancora loro ospite», mi disse, sorridendo. «Così, non c'è bisogno che in America sappiano che sei venuta a stare da me.» Sapeva che mia madre non sarebbe stata entusiasta. Attraversammo la città lungo l'asse verticale, che va dal porto vecchio alla sierra di Collcerola. Ramblas, paseo de Gracia, Mayor de Gracia, fino ad arrivare all'avenida Tibidabo. Alicia viveva ancora nella grande casa modernista dei Bonaplata, da cui si godeva di una vista privilegiata sulla città. Durante il tragitto, la donna mi raccontò alcuni aneddoti su Barcellona e, nel paseo de Gracia, mi mostrò i palazzi dove abitavano ancora degli amici delle nostre famiglie, su alcuni dei quali aveva dei brevi e piccanti pettegolezzi. Usava il tono complice di chi confida dei piccoli segreti a un'amica; sentivo uno strano cameratismo, in sua compagnia. 14 La città era cambiata sotto molti aspetti, però quella casa era esattamente come la ricordavo. Tuttavia, sembrava tutto più piccolo, rispetto a quei giorni lontani. Durante la mia ultima visita, prima della nostra partenza, dovevo essere più bassa: adesso, ogni cosa aveva delle dimensioni ridotte se confrontata con i miei ricordi. Tra questi, c'era l'allegro scampanellio
del tram blu, l'unico ancora funzionante in città, che passava sferragliando davanti alla casa di Alicia, salendo e scendendo lungo il pendio. Era uno dei modelli più antichi in circolazione, e trasportava i visitatori dalle Ferrovie Catalane alla funicolare che li depositava sulla cima, vicino al tempio del Sagrado Corazón e al parco dei divertimenti del Tibidabo. Il viale, il tram, la funicolare, l'antico impianto - che restava tale nonostante i rinnovamenti - con i suoi meravigliosi automi ottocenteschi ancora in funzione, l'aereo finto, il labirinto e il castello della strega; ogni cosa aveva esercitato su di me una magia speciale, da bambina. Ed era ancora così. «Il tuo albergo non è l'unico edificio da cui si goda un panorama meraviglioso», disse Alicia, dopo avermi mostrato la parte della grande scalinata centrale, la dependance con la cucina e il salone che dava sul giardino perfettamente curato, teatro di memorabili avventure d'infanzia. «Vieni.» E salimmo direttamente al terzo piano, dove c'era il suo salottino privato. Non ero mai stata in quella stanza: da lì, si vedeva la città dalla parte opposta. In fondo c'era il mare, di un blu intenso, illuminato dal sole che arrivava da dietro le nostre spalle, e la montagna di Montjuïc con il suo castello. E lì, al centro, si stendeva la città, che a poco a poco si copriva di ombre vespertine. «E così l'hai ereditato tu l'anello di Enric», disse Alicia all'improvviso. Forse fu il tono diverso della sua voce, o l'espressione del suo viso da gatta o, forse, aveva un proposito preciso. In ogni caso, le sue parole mi spaventarono. Fece servire la cena nel suo salottino all'ultimo piano. Nel cielo, tra le nuvolette rosa che fluttuavano sul mare, si vedevano ancora i riflessi di un sole già nascosto, mentre più in basso dominava il crepuscolo, e le luci della città si accendevano ai nostri piedi. Avevo avuto tempo di controllare che le mie cose - arrivate con sorprendente velocità - venissero disposte come volevo nella mia stanza, e di visitare quel giardino a me tanto caro. Con mia grande delusione, lui non apparve. Alicia l'aveva nominato soltanto una volta, indicandomi la sua stanza, che si trovava accanto alla mia. Non me l'aveva mostrata, però; forse lui la teneva chiusa a chiave. Mi trattenni dal fare domande ma, in fondo al mio cuore, speravo di incontrarlo sulle scale, o in giardino, dietro un curva. Probabilmente non era in casa. Parlammo dei miei genitori e di com'era diversa la vita a New York, e all'improvviso fissò lo sguardo sulla mia mano.
«È un anello di fidanzamento?» «Sì.» «Dev'essere un ragazzo di successo», disse, sorridendo. «Infatti. Lavora in Borsa.» «La gente di Wall Street è abituata a prendersi il meglio.» Nei suoi occhi blu notai una luce maliziosa. Le sorrisi senza rispondere, e fu allora che uscì con quella frase: «E così l'hai ereditato tu l'anello di Enric». Aspettai di riprendermi dal soprassalto, prima di parlare. «L'ho ricevuto a sorpresa in occasione del mio ultimo compleanno, qualche mese prima della lettera del notaio con la convocazione per domani.» «Il tuo padrino ti voleva molto bene», disse, lentamente. Il suo sguardo si fece triste, quasi provasse della gelosia nei miei confronti. «Ti adorava», enfatizzò. «Era sempre affettuoso, con me. Lo consideravo quasi uno zio.» «E voleva molto bene anche a tua madre. Molto.» A questo non riuscii a rispondere. Non avevo gradito il fatto che avesse incluso mia madre nella conversazione. Voleva insinuare qualcosa? «Avrei dovuto immaginarlo», continuò. Parlava come se fosse persa nei suoi pensieri, come se stesse rimuginando un'antica offesa. «L'anello. Non era destinato a me. E nemmeno a suo figlio. Lo ha fatto recapitare a te, come regalo di compleanno...» Quella donna mi stava facendo sentire in colpa perché portavo al dito quel rubino; mi sentivo a disagio, e avrei preferito trovarmi nel mio hotel. Da sola. Addirittura, avrei preferito andare a cena con Luis. In quel momento, sentii la mancanza dell'insopportabile e divertentissimo cugino. Ma il suo largo viso da gatta si illuminò con un sorriso cordiale, quasi mi avesse letto nella mente. «Ma sono felice che ce l'abbia tu, mia cara!» Passò la mano sulla tavola, in un punto sgombro da stoviglie, e accarezzò la mia. «Posso vederlo?» Mi tolsi l'anello e glielo diedi. Lei lo prese fra le mani, rispettosamente, e lo guardò controluce. «È bello», disse. «È un capolavoro dell'oreficeria dell'epoca, del secolo XIII. Guarda!» Si alzò per spegnere la luce del lampadario e, avvicinando l'anello alla fiamma di una delle candele poste sul tavolo, ne proiettò la luce sulla tovaglia. Ed eccola. La croce rossa, che appariva sfumata per la distanza, e pulsava a seconda del movimento della fiammella. Inquietante.
Misteriosa. «Non lo trovi favoloso?» «Sì. È incredibile come siano riusciti a incastonare il rubino sull'anello d'oro, appoggiandolo sulla base bianca lavorata in avorio...» «Avorio? Ma di che avorio parli?» «Be'... di quello dell'anello. Della base che sostiene la pietra, e che permette di proiettare quella croce rossa grazie ai bordi bianchi. È d'avorio...» Alicia fece una risatina. «Non è avorio, tesoro.» «Ah, no? E che cos'è, allora?» «Osso.» «Osso?» «Sì. Osso umano.» «Che cosa?» Un'altra risatina. «Non allarmarti. Il pezzo bianco lavorato alla base dell'anello è parte di un osso umano.» Guardai quel gioiello con apprensione. Certo non era piacevole portare al dito un frammento di cadavere. Forse mi sta prendendo in giro, pensai. Si prendeva gioco di una turista americana credulona, raccontandole vecchie storie di fantasmi. «È una reliquia», aggiunse. «Ne hai mai sentito parlare?» «Be', ho sentito qualcosa, ma non ho mai...» «Oggi non sono più popolari come un tempo. Ma avevano un'importanza fondamentale nel Medio Evo e, praticamente, è stato così fino a pochi anni fa. Sono spoglie mortali di santi. In passato venivano montate addirittura sulle spade e si realizzavano favolosi pezzi di oreficeria, per meglio custodire quei sacri resti. Ancora oggi, in molte chiese, vengono venerati. Non sappiamo a chi appartenesse la reliquia contenuta nell'anello. Forse a un eroe templare, morto da martire per difendere la fede.» «Un templare?» «Non dirmi che non hai mai sentito parlare neppure dei templari...» Alicia spalancò gli occhi, come meravigliata. In essi si rifletteva la luce delle candele, che le conferiva un aspetto misterioso, da maliarda. «Ecco, io... qualcosa so.» Con lei non potevo fare la furba come con Luis. Avrei fatto meglio ad ascoltarla. «Erano frati che, oltre ai voti di povertà, castità e obbedienza, facevano quello di difendere la fede cristiana con le armi. Si raggruppavano in ordini, ciascuno dei quali aveva delle proprie gerarchie e un capo supremo: il
gran maestro. Oltre a quello del Tempio, esistevano gli ordini dell'Ospedale, del Santo Sepolcro, dei cavalieri teutonici. E, quando i templari si estinsero, ne sorsero una moltitudine di nuovi. Non ti dirò altro, perché ho il presentimento che da qui a pochi giorni diventerai un'esperta. Questo è uno dei simboli templari.» Proiettò di nuovo la croce sulla tovaglia. «Si dice che quest'anello appartenesse al gran maestro. Chi lo possiede ha una grande responsabilità, mia cara.» «Perché?» «Perché deve dimostrare di esserne degno. Esso dona a chi lo porta una grande autorità morale. E tu sei la prima proprietaria donna nella storia.» La guardai, senza sapere che cosa rispondere; quell'anello era una continua sorpresa. Alicia mi prese la mano e la accarezzò. Avvertii uno strano miscuglio di attrazione e repulsione nei suoi confronti e mi venne la pelle d'oca. Allarmata, mi dissi che quella donna era una maestra di seduzione. Quindi, con tenerezza, lentamente, mi mise l'anello al dito. E riprese ad accarezzarmi la mano, mentre mi diceva con la sua voce profonda: «Se ce l'hai tu, significa che lo meriti». Tacque per un istante. «Non sai quanto ti invidio, tesoro.» Quella notte feci fatica a dormire. Mi avevano sistemato in una bella stanza, arredata con dei bei mobili d'epoca, con un ampio finestrone affacciato sulla città. Nonostante la gustosa conversazione con la padrona di casa, preferii porre fine alla serata abbastanza presto e, una volta arrivata in camera, mi chiusi dentro: grazie a Dio c'era il chiavistello. Che strana donna era Alicia! Non mi sentivo affatto tranquilla. Dov'era Oriol? Guardavo il mio anello con una certa apprensione. Ci mancava solo la storia della reliquia! Non mi piaceva per niente. La pietra brillava fievole alla luce della lampada, quasi fosse addormentata. Che cosa mi avrebbe riservato il giorno seguente? Avrei rivisto lui. Dal notaio. E l'eredità? Era un ultimo scherzo di Enric? Mi infilai il pigiama, ma ero troppo agitata per andare a letto. Spensi le luci e aprii la finestra. Fui accolta da una brezza fresca, ma gradevole. La notte. Un'altra volta la notte, e la città. La vedevo da lontano, e sentivo il rumore di un'auto che percorreva il viale vicino, e lo stridore di un veicolo che sfrecciava a una velocità esagerata per le strade, là in basso, in mezzo alle strade. Poi, il silenzio. 15
Non c'è ansia che riesca ad anticipare un avvenimento desiderato, non c'è impazienza che faccia girare più velocemente le lancette dell'orologio. Al contrario, a volte hai l'impressione che si sia fermato, o che vada indietro. Quel che è certo, è che il momento arriva quando deve arrivare, e che ciò che deve maturare matura, o resta acerbo... per sempre, e bla, bla, bla... A volte, quando sono nervosa, tendo a parlare troppo. Data la mia professione di avvocato, sto imparando a controllarmi. Ma in un giorno come quello, mentre ero seduta nel taxi, non potevo evitare che il mio io interiore chiacchierasse in modo compulsivo con quest'altro io, che, misteriosamente salta fuori nei momenti di tensione, e che a sua volta non smetteva di cianciare. Comunque, alla fine l'avrei rivisto. La notte non avevo dormito bene. Mi ero messa a pensare a ciò che doveva aver provato Ernic durante le sue ultime ore, o a quello che aveva potuto fare nei giorni che il commissario Castillo non era riuscito a ricostruire. Alicia era fin troppo affettuosa, e le sue carezze sembravano quelle di una donna che sa davvero come donare piacere. E poi c'era l'anello, con le spoglie umane. Chissà che cosa mi avrebbe riservato la misteriosa eredità del mio padrino. Ma la mattina seguente avrei finalmente rivisto Oriol. E allora ricominciavo dall'inizio. Mi chiedevo che reazione avrebbe avuto lui, quando ci fossimo incontrati e che relazione ci fosse tra il testamento letto a quattordici anni dalla morte di Enric e l'assassinio di quegli uomini di Sarrià. Forse era stato un errore accettare l'invito di Alicia. Il rubino di sangue brillava al mio dito. Mentre sonnecchiavo, finii addirittura con l'ossessionarmi, convinta che la pietra volesse mettermi in guardia da qualcosa. Immediatamente, la giostra di immagini e pensieri ricominciava a girare. Ero riuscita a dormire un pochino, ma non saprei dire quanto. Certo è che la mattina dopo dovetti ricorrere al trucco, per nascondere almeno in parte le occhiaie. Arrivai in taxi all'indirizzo dello studio. «Sarei felice di accompagnarti», mi aveva detto Alicia, «ma non credo che si aspettino la mia presenza.» E così, con estrema semplicità, si era sottratta all'offerta del giorno prima. Mancavano venti minuti all'appuntamento, e mi dissi che, più che un caffè, avrei fatto meglio a prendere una camomilla; comunque, entrai in un bar e ordinai un espresso e un croissant. La bevanda aveva un profumo
fenomenale, e il croissant non era uno di quelli laccati, ma aveva i cornetti tostati a puntino, e mi ricordò, con una piacevole nostalgia, le granjas, quelle caffetterie per la colazione e la merenda con uno stile che ho trovato solo a Barcellona, e la cioccolata in tazza, densa e amara. Cinque minuti all'ora fissata per la convocazione. Salii al piano principale dell'edificio, dove si trovava lo studio. Il palazzo era antico, pieno di fiori e di belle volute scolpite nella pietra; le pareti interne erano decorate con motivi ispirati alla vegetazione. La porta dello studio, in legno pregiato lavorato con lo scalpello, munito di uno stupendo spioncino e da altri ornamenti in metallo brunito, era all'altezza dei particolari artistici del resto dell'immobile. «Il signor notaio la sta aspettando», mi disse la segretaria cinquantenne, quando venne ad aprire. Fui sorpresa. Di solito, i notai si fanno attendere. La donna mi accompagnò in una stanza luminosa, dai soffitti alti, con due finestroni che davano sulla strada. Il parquet in rovere ricopriva il pavimento e le pareti sino a metà altezza. «Signorina Wilson!» Un uomo intorno alla sessantina si alzò da dietro una grande scrivania per salutarmi. Si presentò come Juan Marimón, e fece il gesto di baciarmi la mano. Seduto di fronte al tavolo c'era anche Luis, che, sorridente, si alzò per darmi due baci. «Si accomodi», disse il notaio, indicando una sedia accanto a quella di Luis. «Il signor Oriol Bonaplata sarà qui a momenti.» «Speriamo...» aggiunse il cugino, con un sorriso scherzoso. «Il signor Enric Bonaplata era un caro amico», continuò l'altro, senza prestare attenzione al commento, «e la sua morte fu un duro colpo, per tutti noi.» Poi, rivolto a me, chiese: «Le dispiacerebbe mostrarmi il suo passaporto? Sa, dobbiamo rispettare le procedure. I signori Bonaplata e Casajoana li conosco da anni». Presi il documento e lui fece le sue annotazioni. Quindi, si lanciò in una dissertazione sulle virtù di Enric. Il mio sguardo incontrò quello di Luis, che approfittò per strizzarmi simpaticamente l'occhio. Indossava un elegante abito grigio, una camicia di un salmone molto pallido, quasi bianco, e la cravatta. Quindi, fissai il mio orologio: erano già le dieci e due minuti. I miei occhi tornarono a posarsi su quelli del notaio che, tranquillo e in tono gentile, non aveva smesso di parlare da quando c'eravamo seduti. Ma dove diavolo era Oriol? Non poteva certo mancare alla lettura del testamento del padre.
«... e la mattina di quel fatidico giorno il signor Bonaplata si trovava in quest'ufficio.» Quella frase riuscì a distogliermi dai miei pensieri. All'improvviso, mi si presentava la possibilità di ricostruire le ultime ore di Enric. Ma il discorso del notaio si spostò in un'altra direzione. «Ha detto che quella mattina era stato qui?» lo interruppi. «Proprio così.» «Verso che ora?» «Non saprei dirglielo con esattezza.» «Più o meno.» «Mi chiamò la mattina, e mi chiese un appuntamento per quel giorno. Io avevo l'agenda completa, ma trattandosi di lui... Mio padre era stato il notaio del suo, e mio nonno quello di suo nonno. E così via, fino ai nostri bisnonni. Naturalmente non potevo negargli un favore, considerata la sua insistenza... perché...» «Quindi, gli concesse un appuntamento.» Non potei fare a meno di interromperlo. Lui tacque e mi guardò, dispiaciuto; e io mi sentii in colpa. Quell'uomo non seguiva il ritmo di New York. Luis mi osservava con un sorriso divertito. «Sì, gli fissai un appuntamento», disse, infine. «Gli trovai un buco nella tarda mattinata, verso l'ora di pranzo.» «E come stava? Lo vide turbato?» «No, non ricordo nessun atteggiamento particolare. Però mi sorprese la sua richiesta di redigere un secondo testamento, senza cambiare il primo.» In quel momento, alcuni colpetti alla porta interruppero i miei pensieri. «Avanti», fece il notaio. «Il signor Oriol Bonaplata», annunciò la segretaria. E apparve lui, sulla soglia. La prima cosa che vidi furono i suoi occhi blu, leggermente a mandorla. Quegli occhi che ricordavo così bene. E il suo sorriso, largo e affettuoso. Nonostante il passare del tempo, lo avrei riconosciuto in mezzo a un milione di persone. Rivedendolo, mi ricordai di lui, e dell'ultima estate, della burrasca, degli scogli, del mare, e del primo bacio. «Cristina!» esclamò, venendo verso di me. Mi alzai, e ci scambiammo due baci sulle guance; poi mi strinse in un abbraccio che quasi mi tolse il fiato, e non per la sua forza, ma per i sentimenti sopiti che rimescolò dentro di me.
«Come stai, Oriol?» gli chiesi. Ma se avessi dovuto fare quello che mi suggeriva il ritmo accelerato del mio cuore in quel momento, mi sarebbe uscito un: «Maledetto, perché non hai mantenuto la tua promessa? Perché non hai risposto a nessuna delle mie lettere?» Lui e il cugino si salutarono con un altro abbraccio. Quindi, Oriol strinse la mano al notaio. Non era più quel ragazzetto alto con i foruncoli sul viso, magrolino e timido, che non sapeva che cosa farsene di quelle gambe tanto lunghe. Era alto, questo sì. Ma adesso aveva un fisico atletico, e si muoveva con sicurezza. Si accomodò sulla sedia libera alla mia destra e, con un gesto affettuoso, mi posò una mano sul ginocchio. «Quando sei arrivata?» mi chiese; e, senza darmi il tempo di rispondere, aggiunse: «Sei bellissima». Quasi mi venne un colpo. Il breve contatto della sua mano calda con la mia gamba, fu una scarica di mille volt. «Grazie, Oriol», balbettai. «Sono a Barcellona da mercoledì.» «E i tuoi come stanno?» Non sembrava preoccuparsi minimamente degli altri due, quasi fossimo soli in ufficio. La cosa mi lusingò. Osservandolo con più attenzione, notai che era abbastanza presentabile; dopo quanto avevo appreso da Luis, avevo qualche timore al riguardo. Invece, indossava un paio di pantaloni a sigaretta, un maglione con il collo rotondo e una giacca scura, intonata. I capelli erano raccolti in un codino, e, senza dubbio, quella mattina si era fatto la doccia e si era rasato. Mi sentii sollevata Non odorava per niente. Non mi aspettavo che usasse del profumo, ma quanto agli odori, no news, good news. Durante quella notte tormentata trascorsa a rimuginare, non vedendolo rientrare nella lussuosa dimora della madre, me l'ero immaginato in un sacco a pelo, sdraiato sul pavimento di una villa abbandonata, senza acqua corrente, con i capelli in disordine, stile rasta, e pieno di cenere caduta da qualche canna di marijuana. «Se non le dispiace, signor Bonaplata», ci interruppe il notaio, con un sorriso gentile, «procederei con la lettura del testamento di suo padre. Sono certo che, più tardi, avrete molto tempo per parlare.» Oriol acconsentì, e il notaio, dopo essermi messo un paio di occhiali, e dopo essersi schiarito la voce, iniziò a leggere in tono solenne. Il 1° giugno 1988, disse in tono solenne, Enric Bonaplata si era recato da lui, notaio dell'illustre albo, bla, bla, bla... E lo stesso Marimón aveva constatato che era nel pieno delle sue facoltà fisiche e mentali. Dopo i consueti
preamboli retorici, cominciò: «Alla signorina Cristina Wilson, la mia figlioccia, lascio la parte centrale di un trittico risalente alla fine del secolo XIII, o all'inizio del XIV raffigurante la Vergine Maria con il Bambino. È dipinta a tempera su una tavola di legno, e misura all'incirca trenta centimetri per quarantacinque». Restai alquanto sorpresa. Quindi il mio quadro faceva parte di un gruppo di tre? «E a lei lascio anche un anello in oro risalente al medesimo periodo, con un rubino incastonato. Il quadro in questione è già in suo possesso, avendoglielo io stesso inviato in occasione della Pasqua di quest'anno. Quanto all'anello, lo affido al notaio Marimón perché glielo faccia recapitare il giorno del suo ventisettesimo compleanno, che cadrà alcuni mesi prima della lettura del presente testamento. «A mio nipote Luis Casajoana Bonaplata, lascio la parte destra del trittico, una tavola di circa quindici centimetri per quarantacinque che raffigura Gesù Cristo sul Calvario nella parte superiore e, in quella inferiore, San Giorgio; è custodita in una cassetta di sicurezza, in banca. «A mio figlio Oriol, infine, lascio la parte sinistra del suddetto trittico, delle stesse dimensioni della precedente; in essa sono raffigurati il Santo Sepolcro e la Resurrezione e, in basso, San Giovanni Battista.» Il notaio aprì una parentesi, per comunicarci che quella che stava per leggere era una lettera scritta dallo stesso Enric, e da lui autenticata. Miei cari, secondo la tradizione, il trittico contiene un codice che consente di localizzare una fortuna leggendaria. Si tratta del tesoro dei templari dei regni di Aragona, Valencia e Maiorca, che il re Giacomo II non riuscì mai a trovare. Qualcuno sostiene che in esso si celi niente meno che il Santo Graal, il calice contenente il vero sangue di Cristo coagulato, raccolto da Giuseppe di Arimatea ai piedi della Croce. Se così fosse, il potere spirituale di questa Santa Coppa sarebbe incommensurabile. Tale leggenda viene confermata sottoponendo le tre tavole ai raggi X: sotto il dipinto, infatti, sono nascoste alcune frasi che parlano dell'esistenza del tesoro. Ho avuto poco tempo per studiarle, ma ho potuto verificare che manca qualcosa, che le informazioni non sono complete. Starà a voi trovare le chiavi mancanti, giacché la mia ora sta per giungere, e non mi restano energie sufficienti per portare avanti la ri-
cerca. Devo avvertirvi, però: non siete gli unici ad avere un interesse nei confronti del tesoro. Mi auguro che, con il passare del tempo, i miei nemici ne abbiano perso le tracce, o la speranza di localizzarne l'ubicazione. Se così non fosse, voglio che sappiate che sono persone molto pericolose: anche se io sono riuscito a vincere una battaglia, la vittoria finale è ancora lontana. Siate discreti e cauti. Per motivi diversi, vi voglio bene quasi foste tutti figli miei. La vita separa la gente, ed è mio desiderio che voi tre torniate a unirvi, come lo eravate da adolescenti. Il trittico e l'anello sono, in effetti, i pezzi di minor valore della mia eredità. E, dal mio punto di vista, scarso è pure il valore di questo tesoro leggendario, pari alla fortuna di un re. Quello che intendo lasciarvi è la possibilità di vivere l'avventura della vostra vita, l'occasione di rinnovare l'amicizia che unì le nostre famiglie per generazioni. Godetevi il tempo che passerete insieme; godetevi questa avventura. E speriamo che essa si concluda con successo. Ho scritto una lettera a ciascuno di voi. Che Dio vi doni la gioia. Marimón ci guardò da sopra gli occhiali, con aria seria, professionale: osservava l'espressione dei nostri volti. Quindi, sul suo viso si dipinse un sorriso quasi infantile: «Emozionante, no?» 16 Chiedemmo al notaio di mostrarci un luogo in cui potessimo restare soli. Io ero alquanto turbata; non sapevo che cosa mi avesse eccitato di più, se la conferma dell'esistenza di un tesoro o il fatto di aver rivisto Oriol. Morivo dalla voglia di parlare da sola con lui, ma non era ancora il momento opportuno, dovevo avere pazienza. «Allora è vero! C'è un tesoro!» esclamò Luis, non appena ci fummo accomodati nella saletta che il notaio ci aveva messo a disposizione. «Un tesoro reale! Non come quelli che cercavamo da ragazzini, con Enric.» «Mia madre mi aveva avvisato», intervenne Oriol, tranquillo, nascondendo a stento il suo entusiasmo. «Non mi stupisce», disse sorridente, guardando nella mia direzione. «E tu, Cristina? Che cosa pensi?» «Io invece sono sorpresa, anche se Luis mi aveva anticipato qualcosa. Non riesco a crederci.»
«Nemmeno io», affermò Oriol, «malgrado la convinzione di mia madre. Ma fino a che punto sarà vero? Mio padre era abbastanza fantasioso. D'altro canto... se quel tesoro fosse esistito sul serio? È possibile che nessuno sia riuscito a trovarlo in tutti questi secoli? E, ammesso che ci sia ancora, noi tre saremo in grado di arrivarci?» «Certo che c'è ancora», affermò Luis. «E farò di tutto per trovarlo. Ve lo immaginate? Apriremo scrigni pieni d'oro e di abbaglianti pietre preziose. Wow!» A quel punto si fece serio e, guardando il cugino, disse: «E dai, Oriol. Non fare il guastafeste. La grana capita a proposito. Se non hai interessi materiali, lascia il tesoro a noi poveretti». Oriol acconsentì. Avrebbe fatto il possibile per trovarlo. In fin dei conti, era l'ultima volontà di suo padre, no? «Anche a me piacerebbe partecipare alle ricerche», dissi. «Che esista o meno il tesoro. Questo sarà l'ultimo dei numerosi giochi che facevamo da ragazzini insieme a Enric. Lo faremo in suo onore, e per il gusto dell'avventura.» Allora mi soffermai a pensare. Avevo chiesto una settimana di ferie, allo studio. Ero arrivata mercoledì, e adesso era sabato; il ritorno era fissato per il martedì successivo. Non avevo idea di quanto tempo occorresse per trovare un tesoro, ma di certo tre giorni non erano sufficienti. I cugini Bonaplata dovettero leggere qualcosa nella mia espressione, perché mi guardavano con aria interrogativa. «Che succede?» chiese Luis. «Martedì ho il volo per New York.» «Non se ne parla!» fece Oriol, mettendo una mano sulla mia, che era appoggiata al bracciolo della poltrona. «Tu rimani con noi. Fino a quando non avremo trovato il tesoro, di qualunque cosa si tratti.» Il contatto con la sua pelle, il suo sguardo, il suo sorriso, l'odore del mare, l'estate e il bacio... Ebbi un sussulto. «Ma devo tornare al lavoro!» «Chiedi un anno sabbatico», disse Luis. «Prova a immaginare che figurone farà nel tuo curriculum il ritrovamento di tutte quelle ricchezze medievali! 'Brillante avvocatessa esperta in testamenti con tesori'; un successo assicurato. Tutti gli studi di New York faranno a gara per averti!» A quella stupidaggine, non potei fare a meno di ridere. «Resta con noi», mi interruppe Oriol con la sua voce profonda, che mi ricordò quella della madre. La sua mano era ancora sopra la mia. Non risposi di sì. So resistere alle pressioni. Ma desideravo rimanere con
tutta me stessa. Ci ricordammo che dovevano correre in banca prima della chiusura, per recuperare le altre due parti del trittico. Proposi di incontrarci dopo pranzo nell'appartamento di Luis; avevo bisogno di un po' di tempo per pensare, e volevo leggere da sola la lettera di Enric. Camminai verso il porto, e in breve mi immersi nell'ambiente vivace delle Ramblas, in mezzo a quella moltitudine variopinta, a quella vibrazione vitale che mi attraeva come una calamita. Ricordo che da bambina, un giorno, mentre Enric accompagnava tutti e tre alla fiera di Natale, passammo davanti a quella fontana circondata da lampioni, quella di Canaletas. «Volete sapere una cosa?» ci disse. «Chi beve quest'acqua, per quanto possa andare lontano, prima o poi torna a Barcellona. Sempre.» Bevemmo tutti e tre. Per anni mi ero ripetuta che, probabilmente, non l'avevo mandata giù. Alcuni artisti di strada ballavano il tango, energici, invitando al movimento, sulle note di un potente radioregistratore. Lui indossava abito e cappello neri, lei una gonna aderente con un lungo spacco che lasciava scoperta una gamba, e aveva i capelli impomatati. Trasudavano erotismo. Intorno si era formato un crocchio di curiosi, che lasciavano loro delle monete, alcuni spontaneamente, altri sollecitati da un'altra splendida ballerina, che li avvicinava sorridendo, con un berretto in mano. Mi trattenni a guardarli, erano davvero bravi. Entrai in un bar le cui ampie finestre permettevano di vedere la gente che camminava lungo il corso, e mi sedetti a un tavolo da cui potevo osservare lo spettacolo. Ordinai qualcosa da mangiare e tirai fuori dalla borsa la lettera di Enric. Mi soffermai a contemplare la busta che portava il mio nome, scritto accuratamente con il pennino. Avvertii un timore reverenziale nei confronti di quell'involucro, rimasto chiuso per quattordici anni, che adesso incominciava a ingiallire. Il mio cuore era stretto in un pugno. Alla fine, con molta attenzione, e aiutandomi con un coltello, strappai una delle estremità. Mia cara. Ti ho sempre voluto bene come a una figlia. È un vero dolore non vederti crescere, ora che vivi tanto lontano! (E a quel punto, davanti a un'insalata di pollo e a una coca light, mi vennero le lacrime agli occhi. Anch'io gli volevo bene! E tanto!) Se si avvererà quello che
penso, oggi starai vivendo un'esistenza molto diversa, lontano dai tuoi amici d'infanzia. Sicuramente non vedrai Oriol e Luis da molti anni. Per questo motivo, per il fatto che sei distante dagli altri, ho voluto che fossi tu ad avere l'anello. Esso ti obbligherà a tornare. Ha un potere. Non può appartenere a una persona qualsiasi: chi lo possiede acquisisce una singolare autorità. A volte, però, chiede più di quello che uno può dare. Presentati con l'anello alla libreria Del Graal, nel quartiere vecchio, e mostralo al proprietario. Sono sicuro che sarà ancora aperta, fra quattordici anni. Ma se, per qualche motivo a me sconosciuto, non fosse così, il signor Marimón, il notaio, ha un elenco degli indirizzi delle persone a cui devi rivolgerti: gliel'ho consegnato io stesso, in una busta chiusa. Quest'anello simbolizza la tua missione. Dovrai conservarlo fino a quando non avrai trovato il tesoro. Potrai disfartene solo se l'impresa avrà successo, o se deciderai di abbandonarla. Allora, lo regalerai alla persona che riterrai più adatta. Dev'essere forte di spirito, perché il gioiello possiede una vita e una volontà proprie. Forse, quella persona sarai tu. Goditi quest'ultimo gioco con me. Trova il tesoro che io non riuscii, non volli o non fui degno di trovare. Sii felice con Luis e Oriol. Ti voglio molto bene, sin da prima che venissi al mondo. Il tuo padrino Enric Le lacrime mi scendevano lungo le guance, e minacciavano di cadere sul tavolo. Mi coprii il volto con le mani. Enric. .. il mio caro padrino. Dio, anch'io lo amavo moltissimo! «Ti voglio bene, sin da prima che venissi al mondo»: che cosa aveva voluto dire, con quella frase? Probabilmente non l'avrei mai saputo. Si riferiva forse a mia madre? Notai che avevo le dita umide, e cercai di nascondere le lacrime guardando il corso luminoso, molto frequentato e pieno di colore. Il vetro mi restituiva il riflesso della mia immagine indistinta, dai tratti velati, impressionisti. I capelli biondi, appena sulle spalle, le labbra che conservavano ancora il rossetto che mi ero messa quella mattina, e gli occhi, quasi invisibili. Ero io quella? O era solo il fantasma della ragazza che sarei diventata se non avessi lasciato Barcellona? La donna che non sarei più stata. Un singhiozzo mi scosse il
petto, e le lacrime tornarono a sgorgare a fiotti. Dio mio! Era davvero doloroso ripensare alla mia infanzia. E a Enric. E a quell'adolescente smilzo che avevo baciato durante la burrasca, che di certo non aveva nulla a che vedere con l'uomo che quel giorno avevo salutato chiamandolo Oriol. La tristezza per la tragica morte di Ernic si era trasformata in autocommiserazione, e le lacrime, prima amare, adesso avevano un sapore dolce. Provai compassione per quella bambina che si era persa nel tempo, e per quella giovane donna sfinita dalle emozioni delle ultime ore, e da quei sentimenti che la tenevano sveglia la notte. Chiamai il cameriere e ordinai un bicchiere di vino; poi pensai che avrei fatto meglio a prendere mezza bottiglia. Normalmente non tocco alcol a pranzo, ma quel giorno avevo deciso di concedermi il piacere di abbandonarmi ai miei lacrimevoli ricordi. E una coca light non era certo la bevanda più adatta. 17 Luis vive in un attico di Pedralbes, che guarda sul monastero che dà il nome al quartiere: un armonioso convento formato dalla chiesa, da un chiostro e da altri edifici risalenti al secolo XIV, guarnito da torri e tetti splendidi, e protetto da alte mura. Adesso la zona è stata inglobata dalla grande città, ma Luis mi ha raccontato che, quando venne fondata da donna Elisenda de Montcada, la sposa del re, si trovava sperduta ai piedi del monte, lontano dal centro urbano; a quei tempi, era battuta da numerosi banditi, e le monache dovevano proteggersi da visite indesiderate dietro le muraglie, difese da uomini d'armi. Dall'appartamento è possibile guardare anche nella direzione opposta: la città e, in fondo, la linea del mare. Stranamente, risulta intestato alla madre di Luis: forse è una tattica di protezione, simile a quella adottata dalle monache Clarisse. Per questo il servizio informazioni dell'elenco abbonati non era riuscito a trovare nessuno dei cugini Bonaplata o Casajoana a Barcellona. Entrambi, in un modo o nell'altro, si nascondono dietro le rispettive madri. Avranno i loro buoni motivi. Mi aspettavo di trovarli allegri ed entusiasti. Ma sbagliavo. Luis, quando venne ad aprirmi, fece una smorfia triste, e con il dito si segnò la guancia, seguendo la traiettoria di una lacrima. Lo capii al volo, mi stava dicendo che Oriol aveva pianto; quindi, fece un gesto ambiguo, riferendosi alle
tendenze sessuali del cugino, sapendo di non essere visto. La sua mimica mi disgustò. A voce alta mi dava il benvenuto, ma in silenzio mi diceva un'altra cosa. Oriol era dentro, in salotto, e non doveva vedere i suoi gesti, che mi ricordavano il periodo della nostra infanzia. In quella situazione, però, non erano affatto divertenti. «Ciao, Cristina», mi salutò Oriol senza alzarsi dalla poltrona. Aveva l'aria abbattuta. I suoi occhi blu erano arrossati: è vero, aveva pianto. Ma questo non significava necessariamente che fosse gay, o effeminato, come Luis aveva appena insinuato con la sua imitazione. Io lo capivo perfettamente. La lettera di Ernic mi aveva fatto piangere parecchio. Quante lacrime avrei versato se fosse stato mio padre? Un padre perduto durante l'infanzia, che aveva fatto sentire la sua mancanza, e che adesso tornava a parlare con una lettera postuma. Una missiva che, dopo quattordici anni, comunicava i suoi pensieri. Chi non si sarebbe emozionato? Avrei dato qualsiasi cosa per poter leggere la lettera indirizzata a Oriol. Ma era una cosa molto intima, e non ebbi il coraggio di chiedergliela. Almeno per il momento. «Guardale», disse Luis, indicando due piccole tavole appoggiate sopra un comò. Misuravano ciascuna poco meno di una spanna in larghezza, per due in altezza; messe una accanto all'altra, raggiungevano le dimensioni di quella che tenevo a casa dei miei genitori. Erano identiche per stile e colore. «Quindi queste due formano un trittico con la mia, giusto?» «Esatto», confermò Oriol. «Il legno, anche se è stato trattato, è abbastanza rovinato dai tarli. Ma si vedono ancora i resti delle bandelle. Per fortuna, i dipinti venivano eseguiti a tempera, su uno strato di gesso, indigesto per i tarli.» «Bandelle?» chiesi. «Sì, cerniere», mi spiegò Oriol. «Considerate le dimensioni, era un piccolo altare portatile. Queste due tavole si chiudevano come due porte sopra la tua, la più grande. Doveva avere una specie di maniglia; non essendo molto ingombrante, era facilmente trasportabile. I templari lo usavano per le messe al campo.» «Templari?» intervenne Luis. «Come fai a sapere che apparteneva ai templari?» «Per via dei santi.» «Chi sono?» chiesi io. «Sulla tavola di Luis, che stava alla sinistra di quella centrale, nella se-
zione superiore è raffigurato Cristo crocifisso sul Calvario; sotto, invece, c'è San Giorgio, in piedi sul dragone di cui narra la leggenda.» Guardai il dipinto collocato alla mia destra, che corrispondeva alla sinistra del trittico. Come diceva Oriol, era divisa in due riquadri: in quello inferiore c'era un guerriero che calpestava una bestia con le sembianze di una specie di rettile, non più grande di un cane; indossava una cotta di maglia sotto la tunica corta, mantello, elmo e aureola intorno al capo. Con la mano destra stringeva una lancia. «E quello sarebbe il dragone?» chiesi. «Che porcheria.» Risero entrambi. «Già», fece Luis. «Che schifo di bestia. Anziché ucciderlo, avrebbe potuto scacciarlo a pedate.» «La pittura gotica, almeno quella del secolo XIII e dei primi del XIV, non si preoccupa delle proporzioni, o della prospettiva», ci spiegò Oriol. «La cosa importante è che il santo sia riconoscibile. Se l'artista dipinge un guerriero che calpesta un rettile, è chiaro che si tratta di San Giorgio. Questo, però, è piuttosto particolare.» «Perché?» chiesi. «Perché di solito viene rappresentato con una croce rossa sul petto, ma molto più sottile e allungata: quella dei crociati, per intenderci. Questa è dichiaratamente una croce patente; la croce del Tempio. Le origini del santo vengono collocate in Asia Minore. Era un ufficiale dell'esercito romano che, dopo essersi convertito al cristianesimo, soffrì ogni tipo di martirio, e morì decapitato. Non ci sono riferimenti storici al personaggio, ma, secondo la leggenda, liberò una principessa da un terribile dragone. I crociati lo fecero cavaliere. In seguito, divenne un importantissimo simbolo della vittoria del bene sul male. Dicono che apparve in un paio di battaglie: la prima venne combattuta in Aragona, la seconda in Catalogna. Menando fendenti con la sua spada, determinò la vittoria dei cristiani sui musulmani.» «Per questo è patrono di Catalogna e Aragona», affermò Luis. «In effetti è così; ma è anche patrono di Inghilterra, Russia e di qualche altro Paese. Andava molto di moda nel Medio Evo. In ogni caso, ricordatevi che morì decapitato. Nel riquadro superiore, in quella che sembra una cappella, avrete riconosciuto la scena di Cristo crocifisso sul Calvario. Molto classica. La Vergine sembra sul punto di svenire, e San Giovanni apostolo, addolorato, poggia una mano sulla guancia, in segno di costernazione. È un'immagine molto frequente nell'arte gotica, tanto in pittura
quando in scultura. Addirittura, gli antiquari l'hanno soprannominato il santo 'con il mal di denti'. «Quanto al mio dipinto, che stando alle bandelle si collocava alla destra del trittico - alla sinistra di chi guarda - nel riquadro superiore, sempre all'interno di una cappella, è raffigurato un Cristo trionfante, mente risorge uscendo dal Santo Sepolcro.» Guardai la sezione appena descritta da Oriol, racchiusa da un arco leggermente acuto, simile a quello del mio quadro con la Vergine, e mi resi conto che questo elemento era diverso nella tavola di Luis: in essa, l'arco era diviso in due parti.
«Nella parte inferiore, invece, abbiamo San Giovanni Battista, il precursore di Cristo», continuò Oriol, «che lui battezzò nelle acque del fiume Giordano. Era il santo patrono per eccellenza dei Poveri Cavalieri di Cristo, il nome che si scelsero gli stessi templari.» «Be', sì, non ha certo l'aspetto di un ricco», affermai. Aveva la barba e i capelli lunghi, e nella mano sinistra stringeva una specie di pergamena. Era vestito con delle pelli di pecora. «Morì decapitato, proprio come San Giorgio», ci spiegò Oriol. «Grazie del dettaglio. Ma potevi anche risparmiartelo», scherzai, fingen-
domi infastidita. «Salomè, la concubina del re, chiese a quest'ultimo di esaudire un suo desiderio. Lui glielo concesse, e lei ottenne la testa del Battista su un vassoio. «Che schifo!» affermò Luis. «Quindi i templari prediligevano i santi che perdevano la testa», conclusi, guardando Oriol con aria d'intesa. «Certo», rispose lui, reggendo il mio sguardo con un mezzo sorriso. Non ero sicura che avesse afferrato il tono della mia affermazione. «Urge una spiegazione, signor storiografo.» Adesso era Luis a essere curioso. «A quanto pare, questi templari erano una setta piuttosto stravagante.» «È una lunga storia. Tutto ebbe inizio quando i principi cristiani, in gran parte borgognoni, franchi, teutoni e inglesi, infiammati dalle aringhe di vari frati che predicavano in Europa, si precipitarono in Terra Santa, abbattendosi su di essa come un flagello. E andò anche peggio. Anche l'Impero Bizantino e la sua capitale Costantinopoli, di religione cristiana ortodossa, subirono gli attacchi di quella banda di selvaggi. Ci furono bagni di sangue inenarrabili. I regni iberici misero a disposizione solo pochi contingenti, dal momento che avevano già il loro da fare con la Reconquista; questo accadeva all'incirca un secolo prima della battaglia di Navas di Tolosa. All'epoca, i musulmani controllavano la maggior parte della penisola, e i regni cristiani erano sotto continua minaccia.» «OK, ma cos'ha a che fare tutto questo con le teste?» domandai impaziente. «Logorato dal tempo, l'impeto dei nobili cristiani in Terra Santa si fece più moderato, e gli eserciti cominciarono a trattare. Così, quando un cavaliere veniva catturato in combattimento, si negoziava un riscatto per la sua libertà. Se si trattava di un plebeo senza risorse, questi veniva ridotto in schiavitù. Cosa che non accadeva con i Poveri Cavalieri di Cristo che avevano fatto voto di povertà, e di morire lottando per la fede; erano macchine addestrate alla guerra. Pertanto, i musulmani sapevano che, indipendentemente dal rango del templare in questione e dalle fortune possedute dall'ordine, non avrebbero mai ottenuto il pagamento di una somma in cambio della sua liberazione. E i Poveri Cavalieri di Cristo non erano utilizzabili neppure come schiavi; sarebbe stato come mettersi in casa una bomba a orologeria. Quindi, quando riuscivano a prendere vivo un cavaliere dalla croce rossa patente, con molto rispetto e ammirazione, si affrettavano a
scannarlo. Per questa stessa ragione, i templari si battevano fino alla morte, non si arrendevano, non chiedevano tregua e non si aspettavano clemenza. «Capisco», fece Luis, con un sorriso spiritoso. «Per questo i templari sentivano una sorta di cameratismo con i santi decapitati; erano colleghi.» Oriol annuì. «Ah!» esclamai, associandomi all'ironia di Luis. «Questo spiega tutto. Conservavano anche frammenti di cadavere nei loro anelli. Che gente strana.» «OK, adesso cosa si fa?» chiese Luis. «Qui ci sono le tavole con i santi decapitati prima che perdessero la testa, mentre quella centrale si trova a New York. Secondo Enric, il trittico custodisce il segreto di un tesoro leggendario», proseguì, guardando nella mia direzione. «Quindi dovrai farti spedire la parte mancante, no?» «Aspetta un momento», lo interruppe Oriol. «Nessuno è obbligato ad accettare un'eredità. Cristina non ha voluto darci una risposta prima, e adesso deve decidere se ha intenzione o meno di cercare il tesoro. Nel primo caso, si farà carico di un impegno che comporterà dei cambiamenti nella sua vita, forse importanti. Tanto per cominciare, dovrà fermarsi per un po' qui a Barcellona», disse; poi, lanciando un'occhiata al mio anello di fidanzamento, osservò: «E, senza dubbio, negli Stati Uniti ha degli impegni». «Che ti succede, Oriol?» saltò su Luis. «Perché questa domanda? Ma certo che Cristina vuole cercare il tesoro!» «Lascia che sia lei a dirlo. Anch'io ho dei sentimenti contrastanti, in proposito. Sai cosa credo? Che a volte ci siano delle cose che è meglio non rimuovere. Non bisogna resuscitare i morti.» La sua voce aveva un tono triste, che mi commosse. «E con questo che cosa vuoi dire?» Luis cominciava a spazientirsi. «Siamo alle solite, Oriol? Per Dio! Stiamo parlando delle ultime volontà di tuo padre!» «Io voto per cercare il tesoro», dissi d'impulso, mettendo fine alla polemica che si stava scatenando, consapevole della confusione che ciò avrebbe provocato a New York. «Anch'io», fece Luis; entrambi pendevamo dalle labbra di Oriol. Lui guardò il soffitto, apparentemente assorto nei suoi pensieri. Subito dopo, il suo viso fu illuminato da quel sorriso con cui, da ragazzino, mi aveva fatto innamorare. Sembrava quasi che, dai nuvoloni, fosse spuntato il sole.
«Non lascerò a voi due tutto il divertimento», disse, sollevando il mento con un'arroganza maliziosa. «E poi, senza di me, il tesoro non lo trovereste mai. Gioco anch'io.» Poco mancò che mi mettessi a saltare dalla gioia. Guardai Luis: la collera era già passata, adesso sorrideva anche lui. Era un po' come tornare all'infanzia, come giocare di nuovo con Ernic. Solo che lui non era più con noi. O forse sì? «Bravo!» esclamò Luis, sollevando la mano per darci un cinque. «Allora si va a caccia del tesoro!» Improvvisamente, l'espressione di Oriol si rabbuiò. «Non lo so», disse, deglutendo. «Forse non è una buona idea.» I nostri sorrisi scomparvero, e io pensai che sapesse qualcosa che io e Luis ignoravamo. A che cosa erano dovute le sue riserve? Che cosa poteva avergli scritto suo padre nella lettera postuma? 18 Quella notte, ancora una volta, feci fatica ad addormentarmi; pensando e ripensando a quell'intricata faccenda. Mi sedetti al buio a contemplare le luci di una Barcellona che, nonostante fossero le quattro passate, sembrava decisamente meno addormentata della notte precedente. Ovvio, era sabato. Eravamo usciti a cena tutti e tre, e poi andati a bere qualcosa in un locale alla moda. Luis mi stuzzicava, faceva il galletto. E, in teoria, io dovevo essere la gallina. Mi riempiva di complimenti, ricorrendo a doppi sensi la cui connotazione sessuale aumentava di pari passo con i bicchieri mandati giù. Ma i suoi elogi non mi davano fastidio, mi faceva ridere. Non volli fermarlo, per vedere la reazione di Oriol. Questi osservava divertito il cugino, e di tanto in tanto aggiungeva una frase carina sul mio conto. Perché le stesse parole, pronunciate da lui, avevano un suono più piacevole? E i suoi occhi. I suoi occhi blu brillavano nella penombra del locale. Non alzava la voce come Luis, e ogni volta che diceva qualcosa, per riuscire a sentirlo in mezzo a quella confusione, mi avvicinavo a lui, quasi smettendo di respirare. All'inizio il giochetto mi divertì; poi, però, ebbi la sgradevole impressione che Luis fosse il galletto, io la gallina... e Oriol il cappone. E la cosa mi deprimeva; decisi, quindi, di non prolungare troppo la serata. Volevo chiamare New York a un'ora ragionevole. Mia madre gridò infuriata. Mi aveva detto che era una trappola; sicuramente, il tesoro era solo l'invenzione di qualcuno che voleva attirarmi a
Barcellona. Come potevo gettare al vento la mia strepitosa carriera di avvocato prendendomi un anno sabbatico proprio adesso? Anche se si fosse trattato soltanto di un mese o due, avrei comunque rovinato ogni cosa. E Alicia, poi! Di sicuro la colpa era di quella strega! Non dovevo assolutamente avvicinarmi a lei! Quanto alla tavola della Vergine, non aveva alcuna intenzione di spedirmela: potevo scordarmelo. Mi supplicava di tornare in America, quella faccenda non le piaceva affatto. E Mike? Che cosa sarebbe successo con lui? Io cercai di spiegarle che si trattava di un'avventura meravigliosa, di quelle che gli adulti sognano di vivere, senza mai veder realizzato tale desiderio. Doveva stare tranquilla: Mike avrebbe capito, e lo stesso avrebbero fatto i soci del mio studio. In caso contrario, mi sarei trovata un impiego migliore al mio ritorno. «Ma non lo capisci, Cristina?» mi disse. «Se adesso decidi di rimanere, non tornerai mai più», aggiunse, singhiozzando. Feci del mio meglio per calmarla. Di solito, mia madre è una persona molto misurata. Perché quegli eccessi, allora? Che cosa le stava succedendo? Mike fu molto più ragionevole. «OK, devo ammettere che sembra un'avventura alla Indiana Jones», argomentò. «Ma non è che, per caso, qualcuno ha perso qualche rotella? Un tesoro! Certo, è molto eccitante, ma non si trovano tesori nella vita reale. Be', forse in Borsa o al casinò... ma questo capita solo ai professionisti. «Se vuoi fermarti qualche giorno in più, fallo, purché stabiliamo sin dall'inizio la durata del tuo soggiorno. Quanto ti serve? Un paio di settimane? Un mese?» A quel punto si fermò. «Ricordati che siamo fidanzati, e che non abbiamo ancora fissato una data per le nozze.» «Sì, signore!» Quando Mike si metteva a ragionare, per negoziare i termini di un accordo, era una macchina dalla logica irrefutabile. «Mi sembra una proposta sensata. Affare fatto. Non appena sarò di ritorno, stabiliremo la data. D'accordo?» «Sì, d'accordo», rispose lui, cauto. «Ma non mi hai detto quanto tempo ti fermi.» «Perché ancora non posso dirtelo con precisione... meno di un mese. Sicuramente», affermai, enfatica. «Ma non avevamo deciso di stabilire con precisione la durata del tuo soggiorno?» Ebbi l'impressione che si stesse irritando.
«Sì, certo», mi affrettai a dargli ragione. «Ma per sapere quanto tempo mi serve, mi serve tempo...» Dall'altra parte, silenzio. Mi chiesi se Mike avesse qualche difficoltà a digerire il gioco di parole che mi era uscito; lui è più bravo con i numeri. Forse, semplicemente, si stava infuriando. «Tesoro?» chiesi dopo un po'. «Ci sei ancora?» «Sì, ma questa storia non mi piace affatto», borbottò. «Voglio sapere per quanto cazzo di tempo la mia fidanzata ha intenzione di rimanere al di là dell'oceano. Capisti?» A volte, Mike cerca di dire qualcosa in spagnolo, ma gli viene un italiano del Bronx. Pensavo a questo e ad altre cose, alle quattro del mattino, mente contemplavo le luci lontane della città attraverso l'oscurità del giardino; sentivo che solo una parete mi separava da lui, da Oriol. Capivo perfettamente il fastidio di Mike: non gli avevo comunicato la data precisa del mio ritorno. D'altra parte, credevo di essere in grado di tenerlo ragionevolmente sotto controllo. E lunedì avrei parlato con il mio capo. Gli avrei chiesto un'aspettativa. Forse non mi avrebbero garantito un posto al ritorno, ma mi ero fatta una certa reputazione e, alla mia età, trovare un altro impiego non sarebbe stato troppo complicato. La cosa non mi preoccupava. Marìa del Mar. Lei sì che era un problema. Mia madre si rifiutava di inviarmi il dipinto, e avrebbe mantenuto la parola cascasse il mondo; sotto certi aspetti ci assomigliamo. Sarei dovuta andare personalmente a New York a prenderlo. Diavolo! La tavola era mia! Non le stavo chiedendo un oggetto di sua proprietà. Ma a inquietarmi era il suo atteggiamento. Non che sia eccessivamente equilibrata nel manifestare la sua personalità: anche se sepolte nel profondo del suo animo, le forti emozioni glielo impediscono. Ma era passato molto tempo dall'ultima volta in cui l'avevo sentita tanto alterata. Alicia. C'era qualcosa di molto personale tra loro. E io che le avevo fatto credere di chiamarla dall'hotel! Non volevo nemmeno immaginare la reazione che avrebbe avuto, quando avesse scoperto che alloggiavo dalla madre di Oriol. Di sicuro era successo qualcosa, tra quelle due; qualcosa che mia madre non mi aveva mai raccontato, e che non aveva intenzione di fare. Naturalmente, questo era successo in passato; adesso, forse, non le restava che aprire lo scrigno dei suoi segreti. Dovevo trovare un argomento valido per farmi spedire il dipinto. Altrimenti, sarei andata a prendermelo.
L'avrei colta di sorpresa, senza darle il tempo di nasconderlo... Mentre ero persa in questi pensieri, probabilmente mi addormentai. Quando mi svegliai, il sole, intruso, penetrava nella stanza con piccoli punti di luce attraverso le fessure della persiana che si intravedeva dietro la tenda. Mi ci volle un po' per capire dove mi trovassi: quello non era il mio appartamento di New York, e nemmeno la casa dei miei a Long Island. Ero a Barcellona, a casa di Oriol! Era domenica, il mio quinto giorno nella città, anche se avevo la sensazione di essere lì da molto più tempo. Due pensieri mi assalirono contemporaneamente: avevo fame, e desideravo vedere il ragazzo dagli occhi blu. Il mio stomaco dovette attendere che mi facessi una doccia e che mi dessi una sistemata. Poi scesi in cucina, con la speranza di incontrare Oriol. Al suo posto, però, trovai Alicia. «Buongiorno, mia cara», mi disse con un sorriso, dandomi due baci. «Avete fatto tardi ieri sera, vero?» Mi teneva entrambe le mani, e all'improvviso, quasi seguendo un impulso subitaneo, con gli occhi cercò l'anello. Riuscii soltanto a restituirle il buongiorno. Alicia ricominciò a parlare, questa volta guardandomi negli occhi. «Gli alchimisti catalogavano il rubino come pietra ardente, come un carbonchio. Sì, è lo stesso nome che si dà a quella piaga del terrorismo biologico che va tanto di moda nel tuo Paese ultimamente, l'antrace. Riferito alle gemme, il termine carbonchio è ormai perduto; non lo troverai nel dizionario con questa accezione», vibrava la sua voce profonda. «Veniva impiegato nell'ambito della scienza occulta; deriva da carbunculus, che significa carbone ardente, e si riferisce al fuoco interno di questa pietra.» Mi prese la mano e, accarezzandola, avvicinò il viso agli anelli per vederli meglio; si concentrò su quello del Tempio, e ne cercò il fulgore interno. La pietra sembrava affascinarla, abbagliandola. Attraeva il suo sguardo come una calamita. «Il rubino è dominato da Venere e Marte. L'amore e la guerra, la violenza e la passione. Il rosso del sangue. È proprio da questo colore che prende il nome. Sai che ci sono rubini maschi e rubini femmine?» Io la guardai e non potei evitare di rimanere stupita, anche se ormai quasi nulla riusciva a meravigliarmi. Pietre con un sesso? Ma che idea! «Secondo l'occultismo è così», continuò, abbassando ancora un po' la
voce, quasi volesse confidarmi un segreto. «Si differenziano per la brillantezza. E. tuo è maschio. Guardalo bene: il suo fulgore è interno. Vedi la stella a sei punte che si muove dentro al cristallo, quando muovi l'anello?» Annuii. Mi ero già soffermata sul suo splendore profondo, sulla stella racchiusa nella pietra. Ma in quel momento non riuscii a dire nulla, quella donna mi aveva colto di sorpresa. Forse ero ancora un po' addormentata, e non mi era facile assimilare un'informazione tanto inaspettata quanto straordinaria. «Il rubino femmina brilla verso l'esterno, è dominato da Venere. Il tao no. Il tuo è color sangue di colomba, è maschio; risponde a Marte, al dio della guerra, della violenza...» Fu allora che i suoi occhi blu tornarono a cercare i miei, quasi fosse uscita da una trance. Lasciò andare la mia mano, delicatamente, e il suo viso fu attraversato da un sorriso caloroso. «Ci sono delle fette di pane tostato in cucina, se vuoi fare colazione. Ma non mangiare troppo: tra un paio d'ore si pranza.» Quella donna camaleontica era cambiata un'altra volta, adesso sembrava una matrona affettuosa e sollecita. Era cordiale, non aveva nulla a che vedere con la descrizione di Luis e di mia madre, che la dipingevano come una strega nel bel mezzo di un sabba; mentre era assorta nel suo racconto alchimistico, per qualche istante ero riuscita a vedere la maliarda da cui mi avevano messo in guardia. «Ho invitato anche Luis. Adesso, vai in terrazza. Oriol è già lì, sta facendo colazione.» Mi parve un'idea eccellente. Mi affrettai a obbedire. Temevo che, fissando l'anello, Alicia cadesse di nuovo in estasi; e la cosa avrebbe di sicuro aumentato la mia angoscia. 19 Sulla terrazza, seduto a un tavolino in mezzo alle variopinte rose in fiore, c'era Oriol. Leggeva un giornale, sorseggiando il suo caffè. All'esplosione di colori, sullo sfondo del verde brillante delle foglie, si univa il sole, che si profondeva in chiazze luminose tra le ombre proiettate dagli alberi. Una dolce brezza dava movimento alla scena, accarezzandomi la pelle. Mi soffermai a contemplarlo. Avevo l'impressione di trovarmi davanti a uno dei giardini dipinti da Santiago Rusinol, appesi alle pareti della grande villa; ero sicura che uno di quei quadri riproducesse proprio quella scena. Riempii i polmoni d'aria e mi resi conto che tutta l'apprensione causata dal
racconto di Alicia era scomparsa. Mi concentrai su Oriol, che continuava a leggere e non si era accorto della mia presenza. Era cambiato, è vero, ma era sempre lo stesso ragazzo di cui mi ero innamorata da bambina. «Buongiorno», lo salutai, sorridendo. «Buongiorno.» «Sono felice di trovarti qui», dissi, per tastare il terreno, «perché questo significa che non hai passato la notte a occupare qualche proprietà.» Mi guardò con malizia, invitandomi con un gesto ad accomodarmi. Obbedii e, mordicchiando una fetta di pane tostato, insistei sull'argomento. «Mi hanno detto che, quando non sei impegnato con le lezioni all'università, ti dedichi all'occupazione di proprietà altrui.» Mi lanciò lo stesso sguardo di prima, quasi volesse dirmi: «Vuoi la guerra, eh?» «Proprietà abbandonate», mi rispose alla fine, prendendo un sorso di caffè. «Ci sono persone che non hanno una casa, e bambini poveri che hanno bisogno di educazione e di qualcuno che li faccia giocare quando non sono a scuola. Usare una proprietà che non serve a nessuno - e che resta vuota in attesa che la speculazione faccia salire il mercato immobiliare - per aiutare qualcuno è un atto di carità, e non un reato.» «Potresti portare quelle persone qui: c'è un sacco di spazio che non usate.» Si mise a ridere; era davvero affascinante. Con calma, spalmò burro e marmellata d'arancia sul suo toast. Corrugò la fronte, fingendo di pensare, e incominciò a mangiare. Intanto, faceva sì con la testa, come se volesse darmi ragione. «Non è una cattiva idea. Ma non lo faccio per due motivi.» «Cioè?» «Primo, mia madre mi ucciderebbe.» Scoppiai a ridere. «Secondo, perché la casa non è libera.» «Ma c'è posto per altra gente. Perché non ospiti qualcuno?» Volevo metterlo alle strette. «E dai, avvocatina!» I suoi occhi blu fissarono i miei, con uno sguardo divertito. «Lascia che sia un po' inconsistente, nei miei principi. E poi, mia madre sta già dando rifugio a una povera ragazza americana, no?» Non risposi e, sorridendo, mi concentrai sul sapore del caffè, su quella piacevole mattina di sole e sugli alberi e le rose in fiore, sul prato curato. E al tempo stesso guardavo lui, ammirata. Senza nasconderlo. Decisi di go-
dermi quel momento. «Sei cresciuto, ragazzone», gli dissi. «Non hai più i brufoletti, e sei diventato un bell'uomo.» Rise. «In Spagna, di solito, è l'uomo che fa complimenti alla donna, e non viceversa.» «Bene, allora fammeli», dissi, sollevando il mento in atteggiamento di sfida. «Ma cerca di usare uno stile migliore di quello di ieri sera, per favore.» Stai civettando, mi dissi. Fai attenzione, è un po' troppo presto. Non esagerare. Ma ormai ero in marcia, e non avevo alcuna voglia di fermarmi. Mi guardò ancora con quello sguardo divertito. Prese tempo, con il caffè, il pane e tutto il resto... mi teneva in attesa. Sapeva controllare bene le pause, non aveva fretta ed era bravo a schivare gli attacchi come aveva fatto prima, quando avevo messo in discussione i suoi principi. Sarebbe stato un buon avvocato. «Anche tu sei cresciuta, caporale.» Questo era un colpo basso. Era stato Luis a darmi quel soprannome poco lusinghiero, e non era carino che lo usasse anche lui. «Avevi due tettine insignificanti, e adesso guarda che bei promontori. A meno che sotto non ci sia un trucco, ovviamente.» «Nessun trucco», mi affrettai a mettere in chiaro. Non mi ero aspettata una risposta simile. Fece un'altra pausa, come se stesse facendo una valutazione della mia persona. Se non avessi avuto una buona opinione di me stessa, mi sarei sentita molto, molto a disagio. Forse lo faceva apposta. Per qualche ragione, voleva punirmi. «E il tuo sedere, poi. Che belle rotondità!» «Stai insinuando che è grosso?» «Anzi, direi che è quasi perfetto. Le sedie devono essere molto contente quando lo appoggi sopra di loro.» «Che carino.» Mi guardava divertito, sfacciato. No, mi dissi, non può essere gay; Luis si sbaglia. Non è il cappone che mi immaginavo ieri sera. Però... chissà, forse lo è e finge di non esserlo e quindi usa un linguaggio volgare e mordace per scoraggiarmi e tenermi lontana. Forse ero stata troppo audace. «Sei molto bella», concluse. «Grazie. Ti è costato dirmelo. Anche se non hai imparato molto, dopo ieri sera.» Ci guardammo per un istante, sorridendo, e tornammo alla nostra colazione. Malgrado i complimenti poco raffinati e la sua falsa aggres-
sività, ero felice. Assaporai quel momento. D'un tratto, però, come di scatto, mi tornarono in mente quei pensieri che custodivo dentro di me da tanto tempo. «Perché non mi hai mai scritto?» gli rinfacciai, all'improvviso. «Perché non hai mai risposto alle mie lettere?» Mi guardò, serio. Sembrava quasi che non sapesse di cosa stavo parlando. «Tu e io, ci ritenevamo fidanzati. Non ti ricordi? Avevamo deciso di scriverci.» Dentro di me sentii una sorta di delusione; un dolore, quasi. Un antico risentimento. «Mi hai mentito.» Lui continuava a guardarmi con i suoi occhi blu; aveva uno sguardo stupito. «No, non è vero», disse, infine. «Sì, invece!» affermai io. Ero indignata. Come poteva dire una cosa simile? Che razza di disgraziato! Feci di tutto per evitare che gli occhi mi si inumidissero. «Non è vero, ti dico.» «Ma come puoi negarlo?» Feci una pausa, e presi un respiro profondo. «Allora nega anche che ci siamo baciati durante la burrasca, quell'ultima estate in Costa Brava. E che l'abbiamo rifatto di nascosto, proprio qui, in questo giardino; sotto quell'albero.» Tacqui. Ero furiosa, e triste. Oriol voleva rubarmi i migliori ricordi della mia adolescenza. Ero sul punto di dirgli: «Se sei gay, e ti sei pentito di quello che è successo, dimmelo subito. Ma non raccontarmi bugie». Ero davvero dispiaciuta. Quell'insolente non aveva risposto alle mie lettere, e adesso faceva finta di niente. «Negalo, se hai abbastanza fegato», insistei. Stavo per dire coglioni, al posto di fegato, ma all'ultimo momento riuscii a controllarmi, e usai il primo «sinonimo» che mi venne in mente. La traduzione era la versione delicata dell'espressione americana. «Certo che mi ricordo. Ci siamo baciati e ci siamo fidanzati. O, almeno, questo è quello che ci siamo detti. E ci siamo promessi di scriverci», disse, serio. «Ma io non ho mai ricevuto nessuna lettera, e quelle che ti ho spedito non hanno mai avuto risposta.» Lo guardai, stupita. «Tu... mi hai scritto?» Ma in quel momento apparve Luis, allegro e sorridente. Lo odiai per averci interrotto. Quando una persona ha la capacità di dare fastidio, lo fa anche senza rendersene conto.
Iniziò a chiacchierare e io fui costretta a tenermi i miei dubbi: Oriol mi aveva scritto davvero? A pranzo, parlammo senza alcuna discrezione del testamento e del tesoro, incoraggiati da Alicia. Sembrava entusiasta quanto noi, se non addirittura di più. Fu chiaro sin dal primo momento che tenerla fuori sarebbe stato impossibile. Non mi ero resa conto, accettando la sua ospitalità, che questo sarebbe stato il prezzo da pagare... Una parte, almeno. E noi tre eravamo troppo eccitati per tacere o per parlare di qualcos'altro. Nemmeno Luis si contenne, anche se era stato proprio lui a mettermi in guardia dalla madre di Oriol. Ebbi l'impressione che Alicia avesse programmato ogni cosa; sapeva dell'esistenza del tesoro da prima di noi, e conosceva cose che noi ancora ignoravamo. Non parlava troppo, ascoltava per poi formulare una domanda pertinente e valutare la risposta. Ci osservava con attenzione. Il ricordo del momento di estasi che aveva provato davanti al mio anello, e del suo racconto alchimista, mi preoccupava. Che cosa sapeva quella donna? Che cosa ci nascondeva? 20 Non ricordavo che il viale della cattedrale fosse tanto largo, né che lo spazio tra gli edifici fosse tanto ampio e libero. Le immagini che avevo conservato si riferivano a quando venivamo alla fiera natalizia per comprare il necessario per albero e presepe. Faceva freddo e avevamo il cappotto; diventava buio presto, e tutte le bancarelle erano piene zeppe di luci; alcune avevano delle file di lampadine colorate che si accendevano e si spegnevano a intermittenza. In sottofondo si sentivano le note di Al vinticinc de decembre, fum, fum, fum, e di altre melodie natalizie, cantate da voci eternamente infantili. Era un mondo di illusioni gioiose, di storie sacre trasformate in racconti per bambini, di statuine di terracotta, di muschio e sughero. Erano giorni magici che precedevano la notte in cui un ceppo detto El Tió distribuiva ghiottonerie, e Babbo Natale e i Re Magi facevano a gara per portarci i balocchi migliori. L'odore di muschio umido, di abete, eucalipto e vischio ci riempiva le narici. Il ricordo di quei paesaggi con i pastori e le loro greggi in miniatura, con gli angeli, le case, i monti, i fiumi, gli alberi, i ponti... tutto così piccolo e innocente, è qualcosa di straordinario: lo serbo ancora, come uno dei tesori della mia infanzia. Ed Enric. Ernic se la spassava come noi ragazzini; la maggior parte dei miei ricordi delle nostre leggendarie visite alla fiera è legata a lui. Si offriva sempre di
accompagnarci. Il suo negozio era molto vicino alla cattedrale, e non voleva sentire scuse: andavamo tutti insieme, noi tre, mia madre, la madre di Luis ed Enric. Poi lui ci invitava a fare merenda con una tazza di cioccolata in una granja di calle Petrichol. «Ricordi quando venivamo alla fiera di Natale?» chiesi a Luis. «Come?» fece lui, sorpreso. Probabilmente stava pensando a un tesoro di pietre preziose e oro, mentre io rivivevo quegli speciali ricordi di cui avevo fatto tesoro. Era metà mattina, quando Luis parcheggiò in un sottopassaggio nei pressi della cattedrale. Avevamo stabilito, insieme a Oriol, che noi due saremmo andati alla libreria Del Graal, mentre lui, con l'aiuto di alcuni amici restauratori, avrebbe sottoposto le due tavole ai raggi X. «Ti ho chiesto se ti ricordi quando venivamo qui a comprare le statuine e il muschio per il nostro presepe», ripetei. «Ah, sì. Ma certo», disse, con un sorriso. «Ci siamo divertiti un sacco. A Natale fanno ancora la fiera, ma adesso tutta la zona è diventata pedonale.» Attraversammo il viale, mentre io riscoprivo la superba facciata della cattedrale, filigrana intagliata nella pietra. «Voglio entrare», dissi. Il giorno prima, quando avevamo ricordato la libreria, Alicia ci aveva detto che esisteva ancora, e io non avevo nessuna fretta di arrivarci. Aspettavo di vedere che cosa sarebbe successo nel negozio, e al tempo stesso ero inquieta, temendo che non sarebbe accaduto nulla. Avevo il timore che quella storia fantastica della caccia al tesoro potesse finire bruscamente, scivolandomi tra le dita e svanendo, come quando, da bambina, sulla spiaggia afferravo una manciata di sabbia fine. Così, come un bimbo che rimanda il piacere di assaporare la sua leccornia per gustarsela di più, decisi di ritardare di qualche istante il nostro arrivo. «Vuoi metterti a fare la turista? Adesso?» si lamentò Luis. «Solo pochi minuti», gli dissi. «Voglio vedere se è come la ricordo.» Accettò, controvoglia. Il giorno prima, a pranzo, Oriol ci aveva spiegato che quella struttura formidabile venne edificata nei secoli XIII e XIV, quando i templari erano al loro apogeo, e che l'ordine scomparve prima che i lavori fossero portati a termine. Quei frati furono dei grandi promulgatoli dello stile gotico. Attraverso il piccolo vestibolo di legno all'entrata, si accede all'enorme spazio interno in pietra lavorata, dove i pilastri si levano sottili a formare colonne e colonnine e archi acuti che si incrociano tra loro, creando delle
volte ogivali. E ogni cupola, al centro, è chiusa da un cuneo: la chiave rotonda e scolpita, che sostiene tutto; un medaglione gigantesco che sembra fluttuare nell'aria, e che raffigura santi, cavalieri, blasoni e re. In quelle laterali, sopra le cappelle, le grandi finestre ogivali con magnifiche vetrate multicolori illuminano le superfici di pietra. L'interno della cattedrale non deluse affatto i miei ricordi; ma fu il chiostro ad affascinarmi. Vi si respirava pace; era così distante e isolato dal mondo materiale che mi riusciva difficile credere di trovarmi nel cuore di quella città indaffarata. Il giardino centrale è popolato da palme da datteri e da magnolie che, quasi volessero scappare, si innalzano verso il cielo, superando gli archi gotici, e sovrastando un laghetto con oche bianche. Era come se ci trovassimo a diversi chilometri e a secoli di distanza: eravamo in pieno Medio Evo. Fu allora che lo vidi. Quell'uomo. Era appoggiato a uno dei pilastri, accanto alla fontana coperta di muschio su cui cavalcava San Giorgio. Fingeva di osservare gli uccelli. Sentii un brivido. Era l'individuo dell'aeroporto; lo stesso tizio che aspettava qualcuno nel mio albergo, che mi era sembrato di scorgere anche sulle Ramblas. Indossava gli stessi abiti scuri; la barba e i capelli erano bianchi. E aveva sempre quell'aria da demente. Questa volta, i suoi occhi blu non incontrarono i miei. Probabilmente, stava dissimulando. «Andiamo», dissi a Luis, tirandolo per la giacca. Sorpreso, mi seguì attraverso una delle porte che davano sulla strada, di fronte a un vecchio palazzo. «E adesso che cosa ti prende?» mi chiese. «Perché tanta fretta...?» «Si sta facendo tardi.» Non volevo dargli spiegazioni. Attraversammo la piazza, diretti alla libreria Del Graal, che si trovava in una viuzza lì vicina; speravo, con quell'uscita brusca, di aver depistato il tizio dai capelli bianchi; ormai, ero convinta che mi stesse seguendo. La libreria Del Graal era davvero antica, come i libri che trattava. Aveva sede in una casa dall'aspetto ancora più vetusto, di cui non oserei indovinare l'età, o l'epoca. La porta e le piccole vetrine avevano uno zoccolo di legno e, attraverso i vetri, sembrava tutto ammucchiato; le stesse vetrine erano piene zeppe di libri, collezioni antiche di cromolitografie, pile di biglietti, cartoline, locandine e calendari vecchi di molti, molti anni e sopra tutto, un venerabile manto di polvere. Quando entrammo, suonò una campanella. Non vedendo nessuno, io e Luis ci guardammo, incerti sul da far-
si. Il disordine che si poteva presagire da fuori era addirittura superato dalla realtà all'interno. Il locale si allungava attraverso un corridoio, ai cui lati si innalzavano delle scaffalature alte sino al soffitto, piene di volumi dalle rilegature e dalle dimensioni più varie; al centro, alcuni tavoli coperti da vecchie riviste formavano un'isoletta, che divideva il corridoio in due più stretti. Sulle copertine c'erano disegni di ragazze sorridenti, secondo la moda degli anni Venti. I miei occhi furono immediatamente attirati da una collezione di coloratissime bamboline da ritagliare, con i loro begli abiti d'epoca. «Che posto!» esclamai, guardandomi intorno. Sarei volentieri rimasta delle ore a curiosare in quel mondo di anticaglie affascinanti. Le bambole illustrate, gli eserciti di soldatini da ritagliare, le incisioni di animali dipinti. Ricordi di infanzie vissute, appartenenti forse a un secolo prima. Ma eravamo venuti per cercare qualcosa di molto concreto e, dopo l'incontro con quell'uomo nella cattedrale, non mi sentivo affatto tranquilla. Così, spinsi Luis nel negozio. «Salve!» gridò, quando nessuno si fece vivo al suono della campanella. Fu allora che percepimmo un movimento in fondo al corridoio. Un ragazzo intorno ai vent'anni ci osservava da sopra un paio di occhiali con le lenti spesse, quasi si sentisse offeso poiché due intrusi chiassosi avevano profanato la sua pace di solitario lettore della libreria. Senza dubbio eravamo giunti in un momento inopportuno: lo avevamo distolto da quel mondo sicuro di antiche fantasie, riportandolo alla realtà moderna prosaica e pericolosa, da cui si difendeva rifugiandosi dietro barriere di lettere, muraglie di parole, trincee di frasi, capitoli e libri. «Desiderano?» ci apostrofò. «Salve», ripetei, mettendomi accanto a Luis; non avevo idea di come fare a raccontargli la nostra strana storia. «Siamo venuti a prendere una cosa che il signor Enric Bonaplata ha lasciato per noi», gli spiegò Luis, facendo qualche passo avanti. Il ragazzo fece un'espressione stupita, prima di rispondere. «Non lo conosco.» «È successo molti anni fa», insisté Luis. «Quattordici, per l'esattezza.» «Non capisco di che cosa stia parlando.» A quel punto, gli mostrai la mano con gli anelli. «Di questo», dissi. Mi guardò allarmato, come se lo stessi minacciando. «Che cos'è?» dietro quei fondi di bottiglia, i suoi occhi sembravano
quelli di un pesce. Mi guardava le unghie. Se avessi portato lo smalto rosso, mi dissi, gli sarebbe preso un attacco di panico. «L'anello!» esclamai, con impazienza. E i suoi occhi si posarono sui due gioielli. Li osservò un momento, senza reagire. «Questo anello!» chiarì Luis, afferrandolo con il mio dito dentro, e avvicinandolo al suo viso. E lui mi guardò sbigottito, prima di esclamare: «L'anello!» «Esatto, l'anello.» Il giovane ci diede le spalle e fece qualche passo verso l'interno del negozio, gridando: «Signor Andreu! Signor Andreu!» Con mia grande sorpresa, la libreria si prolungava oltre il corridoio e, da qualche luogo recondito, qualcuno rispose allarmato: «Che cosa succede?» «L'anello!» E apparve un uomo magro, che sembrava aver superato da diversi anni l'età della pensione. L'insulsa conversazione - L'anello? Quale anello? - si ripeté. Alla fine, misi il sigillo templare sotto il naso del signor Andreu. Lui spostò la mia mano, portandola a una distanza adeguata ai suoi occhi e alle sue lenti. «L'anello», esclamò, e non distolse lo sguardo dal gioiello nemmeno quando mi chiese: «Posso vederlo?» Lo esaminò da tutte le angolazioni, guardandolo controluce, e alla fine dichiarò: «È lui, non ci sono dubbi». Certo che è lui, pensai. È dall'inizio che ve lo dico! Fu allora che il vecchio smilzo si tolse gli occhiali e iniziò a misurarmi con lo sguardo. «Una donna!» disse. Mi sembrava evidente: ero una donna con un anello. Adesso riusciva a capirlo? Tutti quei gesti e quelle esclamazioni cominciavano a seccarmi, ma rimasi cautamente in silenzio. Ero curiosa di vedere che cosa avrebbe fatto. «Com'è possibile che sia una donna ad avere l'anello?» Il tono era alquanto indignato. «Tanti anni di attesa, ed ecco che cosa mi tocca vedere! Sarà mai possibile?» «Sabato c'è stata la lettura del testamento del signor Bonaplata», intervenne Luis, «e io stesso, la signorina Wilson e il figlio di Enric, Oriol, siamo gli eredi designati...» «Non m'interessa», disse il vecchio scontroso, interrompendolo. «Farò quello che devo, e basta.» E borbottando una frase del tipo: «Bonaplata... ma come gli è venuto in
mente? Un'altra donna...» si voltò verso la sua tana; me la immaginavo come un labirinto di carta antica che lui rosicchiava quando era affamato probabilmente senza riuscire a digerirla, visto il suo aspetto e il suo umore. Il ragazzo si strinse nelle spalle, quasi volesse scusarsi per il brutto carattere dell'anziano, e io mi girai a guardare Luis, che sollevò un sopracciglio: non disse nulla, ma capii che voleva sapere che cosa sarebbe successo. D'un tratto, ebbi come un presentimento. Luis dava le spalle alla porta e, guardandolo, scorsi qualcuno all'esterno, che osservava la scena attraverso i vetri. Ancora lui! L'uomo con i capelli bianchì! Sussultai. L'uomo sostenne il mio sguardo per un istante, e scomparve. Non poteva essere una coincidenza! Notando la mia agitazione. Luis si voltò verso la porta. Troppo tardi. «Che cosa succede?» volle sapere. «Ho appena visto il tizio della cattedrale», sussurrai. «Quale tizio?» Già: non gli avevo detto nulla. «Ecco qui.» Il vecchio comparve con un fascicolo di carte, senza darmi l'opportunità di rispondere al mio compagno. Era legato con dei nastri, sigillati con ceralacca rossa. La cartella esterna, ingiallita, portava delle lettere scritte con una penna d'oca, che non riuscii a decifrare. L'uomo mise il pacco tra le mie mani e sbuffò di nuovo, guardando Luis in cerca di solidarietà. «Un'altra donna!» ripeté. Fui tentata di rinfacciargli la sua misoginia, ma non lo feci: avevo quello che ero venuta a cercare, e l'apparizione dell'uomo con la barba bianca mi preoccupava. Così, passai il mucchio di carte a Luis e ringraziai il libraio brontolone, dirigendomi immediatamente verso la porta. Uscii a metà, guardandomi in giro con circospezione. No, l'uomo non c'era più. Due signore avanti con gli anni si spostavano lungo il vicolo, ma di quel personaggio sinistro non c'era traccia. Io, però, avevo paura. Non mi sentivo tranquilla. Avevo come un presentimento. 21 Ci incamminammo per le stradine quasi deserte, diretti al parcheggio; d'un tratto, notai due giovani ben vestiti che ci venivano incontro. Non avevano nulla in comune con quello strano vecchio, e iniziai a sentirmi più tranquilla. Quando ci incrociammo, però, fui abbordata da uno dei due, che
mi spinse contro un portone di legno chiuso. «Se state zitti e fate quello che vi diciamo, non vi accadrà nulla», ci avvertì. Mi spaventai, notando che impugnava un coltello a serramanico, che muoveva minacciosamente davanti al mio viso. Con la coda dell'occhio, mi sembrò di capire che Luis si trovava in un guaio simile. «E questi che cosa vogliono?» fece lui. «Dammi la cartella.» «Non ci penso nemmeno.» «Dammela, o ti taglio la gola», gridò il tizio che lo minacciava. Poi, prese a strattonare i documenti che Luis si rifiutava di consegnargli. Vogliono le carte, pensai, sorpresa. Immaginai il mio amico moribondo, steso a terra in una pozza di sangue, mentre io cercavo di aiutarlo. Non doveva morire per quel fascicolo; e nemmeno per il tesoro, ammesso che esistesse. Niente valeva un simile sacrificio: era una cosa su cui avevo riflettuto molto, dal giorno del crollo delle Torri Gemelle. «Daglielo, Luis!» gridai. Ma lui continuava a resistere, e l'uomo che gli si opponeva sferrò una coltellata verso le sue mani. Fortunatamente, Luis diede uno strattone e non si fece raggiungere. Io avevo la schiena appoggiata al portone e il secondo facinoroso, punzecchiandomi il collo con la lama, urlò: «Lascia andare quelle carte o la uccido!» Da quel momento in poi, accadde tutto in un istante. Dietro ai nostri aggressori, quasi fosse spuntato dal nulla, arrivò il vecchio con la barba e i capelli bianchi. Aveva gli occhi fuori dalle orbite. Io ero mezza morta di paura, ma vedendo quell'uomo avvertii una strana debolezza nelle gambe. Per poco, me la feci sotto: era puro panico. Si abbatteva su di noi, annunciando la morte ormai prossima. Brandiva un pugnale dalla lama larga e dalla brillantezza sinistra, e portava la giacca nera arrotolata sul braccio sinistro. Luis si lasciò sfuggire un lamento; il coltello dell'aggressore l'aveva colpito alla mano con cui reggeva le carte. Poi, seguì un ululato di sorpresa mista a dolore: il vecchio aveva affondato la sua daga nel fianco destro dell'uomo che mi minacciava. Quest'ultimo lasciò cadere l'arma, e io fui molto sollevata non sentendo più la punta della lama sul collo. In quel momento, Luis, ferito alla mano, lasciò cadere la cartella, ma il suo assalitore, impegnato a dare una coltellata al vecchio che gli stava saltando addosso, non poté approfittarne. L'ultimo arrivato, con un'agilità e una collera sorprendenti per la sua età, parò il colpo con il braccio sinistro, protetto dalla giacca, e immediatamente restituì il favore, ferendo l'aggressore con
quell'enorme pugnale, simile a una spada corta. L'altro, più giovane, lo schivò con un salto. Io ero sempre appoggiata al portone di legno, e vidi il malvivente ferito darsi alla fuga, zoppicando. Il secondo, che era rimasto di fronte al vecchio, e che dava le spalle a Luis, cercò ancora una volta di colpire l'inaspettato avversario, che parò la coltellata come aveva fatto poco prima. L'assalitore non attese oltre e, senza dare al vecchio il tempo di reagire, ne approfittò per correre dietro al suo complice. Ma io non ero ancora tranquilla. Quell'anziano riusciva a terrorizzarmi anche più dei due furfanti che aveva messo in fuga. Ripose la daga nel fodero di cuoio che portava al fianco, senza preoccuparsi di ripulirla dal sangue e poi, con calma, guardando ora me. ora Luis con i suoi occhi blu, piuttosto smarriti, si infilò la giacca stropicciata, nera come il resto della sua tenuta. Notai che, con quella indosso, riusciva a nascondere l'arma alla perfezione. E adesso che cosa voleva quel folle? Sia io che Luis eravamo rimasti immobili, ancora scossi, osservando con diffidenza il nostro salvatore; il mio amico si teneva la mano ferita, mentre io avevo ancora la schiena incollata alla porta. Lentamente, il vecchio raccolse le carte e, consegnandomele, disse: «Cerchi di stare più attenta, la prossima volta». La sua voce era roca, e gli occhi erano fissi nei miei. Fece un mezzo giro e, senza interessarsi a Luis, se ne andò. «Quel tizio li avrebbe uccisi, senza la minima preoccupazione!» esclamò Luis, muovendo l'aria con la mano fasciata. Eravamo nel suo appartamento di Pedralbes, e il fascicolo era appoggiato su un tavolino circondato da grossi cuscini, su cui c'eravamo accomodati tutti e tre. «Quei due sono stati fortunati, sono riusciti a fuggire», intervenni io. «Il vecchio non tradiva alcuna emozione, non aveva alcuna pietà.» «Però è accorso in vostro aiuto», osservò Oriol. «Come vi spiegate tale protezione nei vostri confronti, se sembra tanto malvagio?» Aveva un sorriso appena accennato, e gli occhi di un blu profondo, tanto diversi da quelli del vecchio misterioso, brillavano divertiti. Non sembrava essere molto impressionato dal nostro concitato racconto. Dio! Era bellissimo! «Non lo so», risposi. «Non capisco cosa stia succedendo. Qualcuno ha provato a rubarci questa cartella, di cui ignoriamo il contenuto, ma che si suppone sia legato all'esistenza di un tesoro leggendario. All'improvviso è apparso quell'uomo dall'aspetto sinistro, che mi segue da quando sono ar-
rivata a Barcellona, e ha messo in fuga i nostri aggressori. Quei due sapevano che cosa stavano cercando, non hanno voluto né soldi, né gioielli. Non si sono nemmeno disturbati a prendermi la borsa. Volevano solo il contenuto del fascicolo. Sanno del tesoro!» «E che cosa c'entra quel tipo con questa storia?» intervenne Oriol. «È possibile che ti segua per proteggerti?» «Lo ignoro», ammisi. «Ci sono troppi punti oscuri, ho l'impressione che tutti voi ne sappiate molto più di me. E che mi stiate nascondendo qualcosa.» Lanciai un'occhiata a entrambi. Oriol, voltandosi verso il cugino, sorrise. «Che ne dici, Luis? Ci stai nascondendo qualcosa che dovremmo sapere?» «No, non credo, cuginetta. E tu? Che cosa ci nascondi?» «Niente di importante», fece lui, con un sorriso ancora più grande. «Ma non vi preoccupate. Se mi viene in mente qualcosa che riterrò rilevante ve lo dirò, quando sarà il momento.» La sua ambiguità mi indignò. «Lo stai affermando e negando nello stesso tempo!» esclamai. «Se sai qualcosa, dillo! Oggi abbiamo rischiato di essere uccisi, maledizione!» Oriol mi guardò. «Certo che so più cose di te», disse, serio. «E lo stesso vale per Luis! E per tutti noi. Sei stata via quattordici anni, ricordi? E in questo lasso di tempo sono successe molte cose. Te ne renderai conto un poco alla volta.» «Ma là fuori c'è della gente che mena coltellate», risposi, indicando la mano fasciata di Luis. «Ci sono domande che non possono aspettare. Chi sono quelle persone?» «Non lo so», e si strinse nelle spalle. «Ma ho il sospetto che possano essere gli stessi uomini che dovette affrontare mio padre quando cercava questo tesoro. Tu che ne pensi, Luis?» «Sì, potrebbe darsi. Forse stanno ancora seguendo le tracce che conducono alla fortuna dei templari. Ma nemmeno io ne ho la certezza.» Mi venne in mente l'intrusione nel mio appartamento, e mi convinsi che avevamo dei nemici che ci stavano alle calcagna. Ma il vecchio non faceva parte del gruppo. «E il pazzo?» chiesi. «L'uomo con la barba e i capelli bianchi?» Luis scosse la testa. «Non ne ho idea.» Oriol si strinse ancora nelle spalle, facendomi capire che non ne sapeva
nulla. «OK, bando alle ciance», fece Luis, impaziente. «Vogliamo aprire questo fascicolo?» Sulla copertina incartapecorita della cartella si leggeva, a fatica: «Arnau d'Estopinyá». Era legata con dei nastri di un rosso scolorito, a loro volta chiusi da vari sigilli di ceralacca. Riconobbi immediatamente la croce patente del Tempio, identica per aspetto e dimensioni a quella del mio anello. Luis andò a prendere un paio di forbici e, con molta attenzione, tagliò solo i nastri necessari per poter estrarre i documenti. Erano dei fogli ingialliti ricoperti da una calligrafia irregolare, in un inchiostro azzurrino. Erano numerati: Luis cominciò a leggere il primo. 22 «'Io, Arnau d'Estopinyá, frate sergente dell'ordine del Tempio, sentendo che le forze mi vengono a mancare e che sono ormai prossimo a rendere l'anima a Dio, narro le mie imprese nel monastero di Poblet, nel mese di gennaio dell'anno del Signore milletrecentoventotto. «'Né le torture degli inquisitori domenicani, né le minacce dei rappresentanti del re d'Aragona, né le altre violenze e i danni arrecatimi dagli avidi e dai miserabili che sospettavano io sapessi qualcosa riuscirono a strapparmi il segreto che la morte porterà via insieme al mio corpo. «'Fino a oggi ho mantenuto fede alla parola data al buon maestro del Tempio dei regni di Aragona, Valencia e Maiorca, frate Jimeno da Lenda, e al suo luogotenente, fra' Raimondo Saguardia. Ma se, in seguito al mio decesso, il mio segreto morirà con me, la promessa rimarrà inosservata. È per via di questa inquietudine, e non per raccontare le metamorfosi delle mia vita, che ho chiesto a fra' Giovanni Amanuense di scrivere la mia storia, dietro la solenne promessa di mantenere il silenzio.'» D'un tratto, Luis smise di leggere, continuando però a scrutare il documento. «Questo è un falso!» disse dopo un momento, guardandoci allarmato. «Si legge con troppa facilità, per essere un testo medievale. Tu che ne pensi, Oriol?» Suo cugino prese uno dei fogli e lo osservò in silenzio. «Questo scritto non è anteriore al XIX secolo», sentenziò. «Come lo sai?» indagai, delusa. «È in catalano antico, ma non risale affatto al Trecento; i termini sono relativamente moderni. E poi, questo tipo di carta non può avere più di
duecento anni; e le lettere sono state tracciate da un pennino di metallo piuttosto elaborato.» «Come puoi esserne tanto sicuro?» «Sono uno storico, e ne ho piene le tasche di questi documenti stagionati», rispose, sorridendo. «Soddisfatta?» «Sì», dissi, avvilita. «E capisco perché ridi. È una vera delusione!» «Non rido, ma non voglio nemmeno allarmarmi più del dovuto; leggere trascrizioni di testi più antichi è una cosa abbastanza frequente, nel mio lavoro. Il fatto che il documento non sia originale non significa necessariamente che il contenuto sia falso. Bisogna saperne di più, prima di trarre delle conclusioni. E poi ci sono anche i sigilli di ceralacca con la croce templare.» «Perché? Che cos'hanno di particolare?» chiese Luis. «L'impronta è identica a quella che lascerebbe un timbro che ho trovato tra le cose di mio padre.» «Stai insinuando che è stato lui a falsificare l'incartamento?» Volevo capire. «No. Può darsi che si tratti davvero di un documento antico, anche se non più vecchio di due secoli; ma sono sicuro che lo decorò perché avesse un aspetto più solenne.» «Secondo me, ci troviamo ancora una volta nel bel mezzo di uno dei suoi giochi», affermò Luis. «Come quando eravamo piccoli.» «Quindi si tratta soltanto di uno scherzo postumo?» «No. Io credo che sia una cosa estremamente seria», rispose Oriol. «So che mio padre cercò quel tesoro con convinzione.» «Allora il tesoro c'è?» insistei. «Sicuro! O, almeno, c'era. Chi lo sa? Forse qualcuno è arrivato prima di noi. Ricordate quando andavamo a caccia di quelli che nascondeva lui?» Annuimmo. «Nascondeva monete di cioccolato avvolte in carta stagnola, che riproducevano dobloni d'oro e d'argento. E qual era il momento in cui vi divertivate di più? Quando eravate impegnati nella ricerca, o quando vi gustavate quelle ghiottonerie?» «Durante la ricerca», dissi. «Ma adesso è diverso», affermò Luis. «Non siamo più dei ragazzini, e c'è parecchio denaro in gioco.» «Io sono d'accordo con Cristina», disse Oriol. «Mio padre è stato molto chiaro nel testamento: il tesoro esiste, ma la vera eredità è l'avventura che
vivremo per trovarlo. Lui adorava l'opera e la musica classica. Ma sapete quale fu l'ultimo pezzo che ascoltò? Jacques Brel. Le moribond, per essere precisi: la canzone d'addio di un uomo in agonia, che continua ad amare la vita. E prima aveva ascoltato Viatge a Itaca, di Lluís Llach, ispirata a un poema del greco Konstantinos Kavafis; si fa riferimento all'Odissea, al racconto delle avventure di Ulisse, che cerca di tornare in patria. Enric credeva che, nella vita, ognuno di noi cerca di raggiungere la propria Itaca; l'esistenza consiste nel viaggio, non nell'arrivo. La morte è il porto ultimo. E quella sera di primavera di quattordici anni fa, la nave di mio padre attraccò per l'ultima volta alla sua Itaca.» Restammo in silenzio, pensierosi e tristi. «Miei cari», aggiunse Oriol, dopo un momento di riflessione, «non abbiamo ereditato un tesoro, bensì una caccia al tesoro. Proprio come quando giocavamo da ragazzini.» «Che cosa faccio?» chiese Luis, dopo un momento. «Continuo a leggere?» Pensai che della ricerca se ne infischiava altamente; lui voleva il tesoro. «'Nacqui in una regione dell'entroterra, ma il mio destino fu quello del marinaio'», continuò Luis. «'Non sono nobile, ma mio padre era un uomo libero e un buon cristiano. Non fui nominato cavaliere, nonostante i miei meriti, perché i membri dell'ordine, che facevano voto di umiltà, conservavano il ceto sociale cui appartenevano sin dalla nascita. «'Quando avevo dieci anni, siccità e fame nera flagellarono le terre di mio padre, che mi mandò da un suo fratello, un mercante di Barcellona. «'E che cosa vi posso dire? Vedendo il mare, rimasi affascinato; mi incantava addirittura più che contemplare la grande moltitudine che popolava incessantemente le vie di quell'enorme città, in mezzo a un chiacchiericcio e a un frastuono costanti. Il commercio marittimo con Perpignan, e con i nuovi regni strappati ai saraceni dal re don Giacomo I nelle zone di Maiorca, Valencia e Murcia, era continuo, e le navi e i mercanti catalani percorrevano tutto il Mediterraneo fino a raggiungere Tunisi, la Sicilia, l'Egitto, Costantinopoli e la Terra Santa. «'Ma io sognavo la gloria delle armi, la possibilità di servire la cristianità; preferivo le navi al commercio. Volevo attraversare il mare e toccare le misteriose città orientali; e quando mio zio mi inviava al porto per qualche commissione, restavo imbambolato guardando le imbarcazioni, e facevo il possibile per farmi raccontare da qualche marinaio l'ultimo suo viaggio, o
per farmi spiegare come si manovravano gli strani apparecchi a bordo della nave. «'Le banchine erano un mondo molto diverso da quello dell'entroterra, da cui venivo; era un mondo esotico, affascinante. C'erano ricchi mercanti di Genova e Venezia con abiti lussuosi, pieni di gioielli; normanni biondissimi e alti, giunti dalla Sicilia, e cavalieri catalani e aragonesi con destrieri, armi, servitori e uomini in armi che si imbarcavano per le guerre d'oltremare; almogaveri, i mercenari al servizio della corona catalano-aragonese, vestiti di pelli, dall'aspetto rozzo e fiero, che oggi partivano per lottare per il nostro sovrano, Pietro III, contro i saraceni ribelli di Montesa, e l'indomani si imbarcavano per combattere nell'Africa settentrionale, pagati dal re di Tremancén. E c'erano neri giunti dal sud, stivatori che caricavano fagotti e moriscos, gli arabi battezzati rimasti in Spagna dopo la Reconquista, coperti di stracci. Si parlavano lingue sconosciute e la notte, intorno ai falò e nelle locande, udivo canzoni nuove e racconti incredibili di guerre e amori. L'attività era frenetica e i mastri d'ascia, già nei cantieri in riva al mare, segavano, martellavano e calafatavano incessantemente. Costruivano la flotta destinata a dominare il Mediterraneo. Come mi manca quel periodo! Le mie narici conservano ancora l'odore di pino, catrame, sudore, e il profumo delle sarde arrostite che si diffondeva all'ora dei pasti. «'Ma ad affascinare quel ragazzino erano i frati della milizia. I frati che non frequentavano le osterie, e a cui la gente cedeva il passo rispettosamente. Tra tutti, spiccavano quelli del Tempio, che si distinguevano soprattutto da quelli dell'ordine di San Giovanni dell'Ospedale. Sempre austeri, i capelli tagliati corti, ben vestiti e ben nutriti. Le loro tuniche sembravano confezionate su misura, e non avevano nulla a che vedere con gli stracci dei francescani, né con gli indumenti dei soldati del re, che sembravano rubati ad altri. I frati templari, nonostante fossero molto ricchi, a differenza di altri ecclesiastici non si permettevano alcun lusso; la loro regola era molto severa. Le più grandi navi del porto appartenevano a loro, e il maestro provinciale aveva autorità nei regni del nostro re, Pietro III, e del fratello di quest'ultimo, re Giacomo II di Maiorca, suo vassallo. «'Io cercavo sempre di conversare con loro. Ero commosso dalla loro fede, dalla loro fermezza, e dalla loro assoluta fiducia nel trionfo finale del cristianesimo sui propri nemici. Avevano una risposta per tutto ed erano disposti a dare la vita in combattimento, in qualsiasi momento. Mi resi conto, inoltre, che i cavalieri del Tempio preferivano lottare in sella ai loro destrieri; raramente comandavano delle navi. Questo era un lavoro riserva-
to a frati di origini più umili. Come me. «'Al compimento del quindicesimo anno, ottenni da mio padre il permesso di entrare nell'ordine. Volevo comandare una nave da guerra e lottare contro turchi e saraceni, volevo vedere Costantinopoli, Gerusalemme, la Terra Santa. I giovani nobili potevano prendere i voti a tredici anni, ma io non portavo alcuna donazione, a parte la mia fede, il mio entusiasmo e le mie mani. «'I miei amici templari, che avevo conosciuto nei porti, vollero intercedere per me presso il commendatore di Barcellona, che accettò di vedermi; ma, malgrado il mio entusiasmo, il vecchio frate mi disse di pregare molto e di perseverare. Dovetti attendere un anno, per mettere alla prova la mia fede. «'Fu un anno molto intenso. Io continuavo a dare una mano allo zio; con i preparativi in vista della guerra, gli affari erano in aumento. La flotta aragonese, sotto la guida del nostro grande re, Pietro III, partì alla conquista di Tunisi. Quello sì che fu un sovrano eccezionale! Dio lo terrà nella sua gloria. «'Ai ragazzi della mia età piaceva osservare truppe, cavalieri e destrieri che si imbarcavano. Vedemmo il re, l'ammiraglio della flotta, Ruggero di Lauria, conti e nobili. Era uno spettacolo, e noi non ci stancavamo di gridare evviva per le strade, e di seguire le comitive fino al porto. «'Anche il Tempio inviò alcune navi e qualche truppa a sostegno del monarca, ma solo perché obbligato, e senza alcun entusiasmo. Venni a sapere che fra' Pietro di Moncada, all'epoca nostro maestro provinciale, ne era totalmente disgustato. Il Santo Padre, che era francese, aveva riservato quei regni nordafricani a Carlo d'Angiò, re di Sicilia e fratello del re di Francia. «'Così quando Pietro III, già asserragliato a Tunisi e pronto a dare inizio alla conquista, chiese appoggio al pontefice, Martino IV, questi glielo negò. E, mentre si trovava nell'Africa settentrionale, incerto se continuare la guerra sfidando il volere del papa, ricevette una delegazione di siciliani, che si erano ribellati a Carlo d'Angiò per via dei soprusi subiti dai francesi. Il nostro monarca, infastidito dall'atteggiamento del pontefice, che dimostrava di essere un alleato di questi ultimi, sbarcò in Sicilia, cacciò i francesi e venne incoronato re. La collera di Martino IV fu tale da indurlo a scomunicarlo. «'Così, l'anno trascorse e alla fine fui ammesso, solo come mozzo laico, sulla nave di fra' Berengario d'Aliò, sergente capitano. Quello stesso anno,
l'ammiraglio Ruggero di Lauria batteva la flotta francese di Carlo d'Angiò a Malta; l'anno seguente, lo sconfisse di nuovo a Napoli. «'Il papa, indignato con il nostro re perché seguitava a perseguitare i suoi protetti, indisse una crociata contro di lui, offrendo i suoi regni a qualunque principe cristiano fosse riuscito a reclamarli. Naturalmente, il candidato prescelto fu Carlo di Valois, figlio del sovrano di Francia e di Isabella d'Aragona. Gli eserciti francesi attraversarono i Pirenei e cinsero d'assedio Gerona. Noi templari catalani e aragonesi, malgrado rispondessimo direttamente al pontefice, attraverso il nostro gran maestro, cercammo delle scuse per non intervenire, appoggiando celatamente il nostro re. «'Con l'arrivo della flotta dell'ammiraglio, iniziò la fine di quell'ignominiosa crociata. Ruggero di Lauria distrusse la flotta francese nel Golfo del Leone, e le truppe degli almogaveri che trasportava si lanciarono sul nemico in terra con una tale ferocia che questo fu costretto a fuggire, subendo delle gravi perdite. Dio non voleva i francesi in Catalogna, e non voleva nemmeno quel pontefice sciagurato. «'Io avevo diciotto anni ed ero già un bravo marinaio; l'ammiraglio catalano-aragonese era il mio eroe. Il mio sogno era comandare una galera e partecipare a grandi battaglie, come quelle di Ruggero di Lauria. «'Cosa posso dirvi? Dopo le buone notizie, giunsero quelle cattive. Due anni più tardi, Tripoli cadeva in mano ai saraceni; nel tentativo di difenderla, morirono illustri cavalieri templari catalani, tra cui due Moncada e i figli del conte di Ampurias. Era il presagio della disgrazia che sarebbe seguita. Fu in quell'anno tragico che, finalmente, professai i miei voti e divenni frate templare. «'Il disastro successivo fu quello di San Giovanni d'Acri. Io avevo già ventiquattro anni e da due mi trovavo a bordo della Na Santa Coloma, una bella galera di quelle chiamate bastarde, con ventinove banchi di rematori e due alberi; era la più veloce dell'intera flotta templare catalana. Io ero ancora sotto il comando di fra' Berengario d'Aliò. La nostra missione era proteggere le navi del Tempio dei regni di Aragona, Valencia e Maiorca; ma, nonostante avessi partecipato a un buon numero di scaramucce e abbordaggi ai berberi, non avevo mai visto nulla di simile a quello che stava accadendo ad Acri. «'La Na Santa Coloma non era mai andata oltre la Sicilia, e io ero entusiasta. Finalmente avrei visto la Terra Santa! Noi templari dei regni iberici dovevamo già combattere una crociata interna, e raramente partecipavamo alle guerre in Oriente. Ma la situazione era disperata; il sultano d'Egitto,
Al-Ashraf Khalil, stava ricacciando i cristiani in mare, dopo oltre un secolo e mezzo di presenza nei territori orientali. Acri era sotto assedio, ma fortunatamente la nostra flotta dominava le acque, l'unica via d'accesso alla città, nonché unica via di fuga. Al nostro arrivo la situazione era critica, e inviammo un gruppo di balestrieri a proteggere le mura nelle zone controllate dai templari. «'La città era in fiamme: tetti e muri ardevano, colpiti dalla pioggia di recipienti di nafta incendiata lanciati senza sosta da un centinaio di catapulte. C'era odore di carne bruciata. Le fiamme sembravano incendiare anche le pietre, e non c'erano braccia sufficienti per trasportare l'acqua necessaria a spegnere gli incendi. «'Di quando in quando, si sentiva il rimbombo dell'impatto delle rocce di diverse tonnellate scagliate da due marchingegni giganteschi, fatti costruire dal sultano. Muri, case e torri sprofondavano sotto quei colpi, tra nuvole di polvere. «'Tutto lasciava prevedere un finale tragico; così, accettammo di imbarcare donne, bambini e uomini cristiani incapaci di lottare entro le mura, per portarli a Cipro. Ma dovevamo lasciare un po' di spazio. Io avevo l'ordine di trarre in salvo per primi i nostri fratelli templari, quindi i frati del Santo Sepolcro e quelli dell'Ospedale, i teutoni e cavalieri e dame di alto rango. Infine, i comuni fedeli. Un giorno udimmo un rumore profondo, simile a un terremoto: una delle torri più alte e parte della muraglia, minate dai musulmani e colpite di continuo dai proiettili, stava crollando. Una foschia di polvere e fumo copriva il sole. Poi sentimmo l'ululato dei mamelucchi che assaltavano la città, e le grida della gente che fuggiva per le strade. Alcuni cercarono un'ultima nave che lasciasse il porto, altri provavano a rifugiarsi nella nostra fortezza, situata al centro della città e circondata da mura, che aveva un proprio imbarcadero. Ma risorse e spazi erano limitati, e fummo costretti a lasciare fuori molte persone. Fu un'esperienza straziante: cacciammo cristiani, donne, bambini e vecchi menando fendenti, e li lasciammo nelle mani di quegli infedeli assetati di sangue, ben sapendo che non avrebbero trovato nessun altro riparo nella città in preda al caos...'» «Aspetta un momento», supplicai. «Fermati, per favore.» Luis interruppe la lettura, e lui e Oriol mi guardarono incuriositi. Fui percorsa da un brivido, e mi si rizzarono i capelli; confusa, mi coprii il viso con le mani. Dio! Avevo appena ascoltato il racconto di quel sogno che avevo fatto a New York, nel mio appartamento, soltanto qualche settimana prima! Qual-
cuno aveva descritto la mia visione diversi secoli prima che io facessi quell'esperienza! La torre che crollava, la nuvola di polvere, le persone che fuggivano, le coltellate - adesso lo sapevo - dei templari, che cercavano di impedire alla gente semplice di rifugiarsi nella loro fortezza già troppo affollata... Era impossibile. Assurdo. «Che cosa c'è?» chiese Oriol, toccandomi un braccio. «Niente!» Mi alzai. «Devo andare al bagno.» Mi sedetti sulla tazza; ero così impressionata che le gambe non mi reggevano. Volevo riflettere, volevo trovare una logica in quello che stava accadendo. Ma non c'era. Non era una questione di ragione, ma di sentimenti: e quello che sentivo da alcuni mesi, e che sentivo in quel momento, superava di gran lunga qualsiasi tentativo di razionalizzazione. Ne ero spaventata. Ero incerta se parlare o tacere. Temevo che si prendessero gioco di me, soprattutto Oriol. Luis lo avrebbe fatto di sicuro. E non mi è mai piaciuto trovarmi in una situazione in cui non posso difendermi. Ma l'intera faccenda del tesoro e dei templari era strana... davvero strana. Ammettiamolo, non è una cosa che capita tutti i giorni. Pensai che avrei fatto meglio ad accettare le implicazioni surrealiste di quella storia, e decisi di parlarne con gli altri due. In realtà, morivo dalla voglia di condividere con loro quella strana sensazione. Luis mi guardò con un sorriso burlone e incredulo, che tanto mi ricordava l'adolescente grassottello di un tempo, ma non disse nulla. Oriol si grattò la testa, pensieroso. «Che strana coincidenza!» commentò. «Coincidenza?» esclamai. «Perché, credi che sia qualcosa di più?» Mi osservava incuriosito. «Io non so che cosa pensare.» Gli ero grata che mi avesse risparmiato le sue risate. «È così strano.» Lui fece un gesto ambiguo e rimase in silenzio. «Se ci racconti i tuoi sogni, posso fare a meno di leggere», intervenne Luis, ironico. «Devo continuare?» «No», feci io, decisa. «Sono esausta. Voglio andare a riposare.» Desideravo conoscere il seguito della storia di Arnau d'Estopinyá, ma dopo le emozioni di quel giorno ero sfinita. «Parla con mia madre», mi raccomandò Oriol. «Cosa?» domandai, sorpresa. «Parla con Alicia Méndez del tuo sogno sulla caduta di Acri.» «Stai attenta a non farti fare un incantesimo», mi avvertì Luis, in tono
scherzoso. Che sfacciato! Stava esagerando: una cosa era darle della strega di nascosto, un'altra era dirlo apertamente davanti a suo figlio. «Chissà», disse Oriol, senza scomporsi. «Con le sue stregonerie o, per meglio dire, con la sua capacità di vedere altre dimensioni della realtà, potrebbe essere in grado di aiutarti.» «Grazie», risposi. «Ci penserò.» 23 Oriol ci salutò, dicendo che si era messo d'accordo con un gruppo che organizzava una specie di manifestazione benefica a favore degli emarginati, e io dovetti tornare in taxi, da sola, a casa di Alicia. Devo ammetterlo, ero delusa. Luis mi invitò a cena, ma rifiutai. Poi, durante il tragitto in auto in quella serata uggiosa, pensai che avrei fatto meglio a cenare con lui, a sopportare le sue insinuazioni e a ridere alle sue stupidaggini. Mi sentivo sola e indifesa, in quella città dalle strane vibrazioni, che improvvisamente era diventata oscura a ostile. Avevo bisogno del calore di quelle risate che riempiono l'anima, e sentii nostalgia delle scemenze di Luis. «Psicometria.» «Cosa?» «Psicometria.» Dunque avevo capito bene. Ma era la prima volta che sentivo quella parola, e non immaginavo nemmeno lontanamente che cosa potesse significare. Aspettai che continuasse. «Si chiama psicometria il fenomeno per cui una persona è in grado di percepire i sentimenti, le emozioni e gli eventi passati che impregnano un oggetto.» Alicia aveva preso le mie mani tra le sue e mi guardava negli occhi. «A te è successo con l'anello.» Era seria e decisa, sembrava convinta di quello che diceva. «Vuoi dire che...» «Che quello che hai sognato è accaduto davvero», mi interruppe, energica. «Il crollo della torre e l'attacco ad Acri, il guerriero ferito che, barcollando, riesce a raggiungere la fortezza sono immagini reali, che appartengono al passato. L'angoscia e l'emozione dell'uomo che lo portava hanno impregnato questo anello. E tu sei riuscita a percepirle.» «Ma com'è possibile? Vuoi dire che ho sognato qualcosa che una persona ha vissuto realmente ad Acri, settecento anni fa?»
«Esatto.» Fissai i suoi occhi blu, mentre le sue grandi mani calde mi trasmettevano una strana calma. Alicia stava dando una spiegazione all'inspiegabile. Non aveva senso, e io stessa non ci avrei creduto in circostanze normali; ma se mai vi è capitato qualcosa di misterioso, che va al di là di ogni logica, allora saprete quanto è gradita una giustificazione. «Non avevo mai sentito niente di simile.» «È una forma di chiaroveggenza.» «Ma com'è che succede?» «Francamente, non lo so.» Sul suo viso era dipinto un sorriso dolce. «Secondo gli occultisti, esistono dei registri cosiddetti acasici, che conservano la memoria di tutto ciò che è accaduto. In determinate circostanze, abbiamo la possibilità di attingervi. E questo anello sembra essere un veicolo d'accesso. A Enric accadeva la stessa cosa.» «È successo anche a lui?» «Sì, mi raccontava che, a volte, aveva delle visioni di avvenimenti antichi, quasi sempre tragici. Avvenimenti che avevano suscitato emozioni molto forti nelle persone che li avevano vissuti. E attribuiva tutto questo all'anello; credeva che fosse una sorta di magazzino di vissuti.» Guardai quel rubino che brillava misteriosamente sotto la luce del salottino di Alicia. Pensai agli strani sogni che mi tormentavano da quando ne ero entrata in possesso. Ne ricordavo solo alcuni, vagamente; adesso, però, avevo una spiegazione per quella insolita attività onirica degli ultimi mesi. Ma, per quanto mi sforzassi, al di là di un paio di casi concreti di cui avevo conservato delle sequenze molto chiare, non ero in grado di ricordare niente di significativo o di distinguere tra le poche immagini che custodivo nella memoria. Attraverso l'ampio finestrone si vedevano le luci della città coperta dalla notte; luci sfumate dalla foschia piovigginosa che le avvolgeva. Una collezione di splendide statue criselefantine, con il corpo in avorio e il vestito in bronzo, alcune ricoperte di pietre preziose, ci facevano compagnia da sopra i vari mobili, tra cui spiccava un grande comò. Erano tutte giovani donne: chi danzava, chi suonava uno strumento. Un'altra ballerina nuda, un bronzo modernista a grandezza naturale, immobile in un eterno passo di danza, sosteneva un'alta lampada di cristalli impiombati in fiori. Sotto la sua luce, il vino nei calici brillava di un rosso vellutato dalle sfumature scure e profonde. Eravamo solo io e Alicia, a cena, all'ultimo piano della villa, nella sua stanza privata; un luogo acco-
gliente e appartato, un belvedere su quella città magica. La sua compagnia mi rincuorava. Lei era ansiosa di sapere che cos'era successo durante la giornata, e io non avevo motivo di nasconderglielo. Quando arrivai al racconto di San Giovanni d'Acri, dovette percepire la mia angoscia. Fu allora che, avvicinandosi con la sedia, prese le mie mani fra le sue. «Ma non mi era mai successa una cosa simile.» Mi resi conto che mi stavo lamentando come una bambina che, cadendo, si era sbucciata le ginocchia. «Non sei tu», mi consolò. «È l'anello.» Adesso accarezzava quel rubino misterioso che sembrava avere vita propria, con la sua luce intensa, con la stella a sei punte che custodiva all'interno. Poi passò ad accarezzarmi le mani. Mi sentivo bene. Provavo una sensazione di dolce torpore; dopo la tensione e lo stress di quella giornata, il mio corpo si rilassava, si lasciava andare. Che giornata! Prima la ricerca nella libreria Del Graal. Poi l'aggressione e l'apparizione di quell'uomo misterioso e violento. E ancora, la lettura del manoscritto, e la scioccante scoperta che conteneva la descrizione di un sogno che avevo fatto qualche settimana prima; un sogno inverosimile. «C'è qualcosa, in questo anello. Non è facile esserne il proprietario», disse d'un tratto Alicia. «Ha dei poteri.» Quel commento mi spaventò. Mi tornò in mente il testamento. Me n'ero quasi scordata, dopo gli ultimi avvenimenti. «Non può appartenere a una persona qualsiasi: chi lo possiede acquisisce una singolare autorità»: così aveva scritto Ernic nella mia lettera; e aveva aggiunto che dovevo tenerlo con me fino al ritrovamento del tesoro. Adesso, quelle parole suonavano quasi come una minaccia. Mi ripromisi di leggerla di nuovo, non appena fossi tornata nella mia stanza. «Quest'anello stabilisce una relazione molto particolare con chi lo possiede; una relazione di vampirismo», aggiunse, poco dopo. «Ruba la tua energia per dar vita a quello che ha dentro, e te lo restituisce sotto forma di sogni di gente morta.» Guardai il gioiello con apprensione. Il rubino brillava, rosso, e mi parve quasi di avere una sanguisuga al dito. Se non mi fossi sentita impegnata nei confronti di Enric, me lo sarei tolto immediatamente. «Non preoccuparti, tesoro», affermò la donna, che sembrava leggermi nel pensiero. «Ci sarò io ad aiutarti.» Notai una sfumatura particolare nella sua voce profonda, che mi indusse a fissare quegli occhi blu tanto simili a quelli di suo figlio. Le sue parole
riuscirono a consolarmi: mi resi conto che Alicia era l'unica persona in grado di capirmi. Con la bocca, che nascondeva un sorriso, mi sfiorò i capelli. Poi mi diede un bacio sulla guancia. Il secondo bacio si avvicinò alla mia bocca. Quel contatto mi innervosì. E quando, con il terzo, posò le sue labbra sulle mie, mi allarmai. Mi accorsi che mi stava abbracciando, e mi alzai di colpo. «Buonanotte, Alicia», dissi. «Vado a letto.» «Buonanotte, mia cara.» Il suo sorriso si era fatto più grande. «Dormi bene. Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa.» Non fece nulla per trattenermi, come se si aspettasse la mia reazione e la contemplasse divertita. Quando arrivai nella mia stanza, chiusi la porta con il chiavistello. Quel giorno le emozioni erano state davvero troppe. Ero esausta, ma non mi sentivo tranquilla e, nel dormiveglia che precede il sonno, fui assalita da una strana visione. Era come se mi trovassi lì. Un urlo squarciò come un coltello l'aria densa, e rimbombò nell'immonda cantina, rimbalzando contro i grandi conci di pietra di antica fattura. La nebbia che entrava dalle piccole finestre chiuse da sbarre si mescolava al fumo delle braci, su cui i ferri venivano arroventati, e delle torce che illuminavano quella scena infernale. Fra' Ruggero aveva sopportato bene la prima ora di supplizio, ma adesso cominciava a cedere. Quando l'eco del grido cessò, proseguì con un indegno piagnucolio. Io tremavo. Addosso avevo solo un cencioso copripudende, non sapevo se a farmi tremare era la paura o la nebbia gelida che mi penetrava fin nelle ossa. Sentivo dolore in tutto il corpo: ero sdraiato sul cavalletto, incatenati mani e piedi, sentivo che al prossimo giro di dado mi sarei spezzato. Ma dovevo resistere. Continuai a pregare: «Signore Gesù Cristo, Dio mio, aiutatemi a superare questo momento. Aiutate fra' Ruggero, aiutate i miei fratelli. Devono tener duro: nessuno deve arrendersi, nessuno deve mentire». Sentii la voce dell'inquisitore, che interrogava il mio compagno: «Confessate: adoravate il Bafometto! Sputavate sulla croce! Fornicavate con i vostri fratelli!» «No, non è vero», mormorò fra' Ruggero sottovoce. E poi il silenzio. Attesi spaventato l'urlo successivo, che non tardò ad arrivare. Il frate domenicano che mi interrogava era rimasto in silenzio per qual-
che istante, forse per gustarsi la tortura inflitta al mio fratello. Subito, però, ritornò alle sue domande: «Rinnegavate Cristo, è vero?» «No! Non l'ho mai fatto!» «Adoravate la testa del Bafometto?» Aprii gli occhi. La mia visione era annebbiata dalle lacrime; il soffitto era pieno di nebbia e fumo, le travi si distinguevano appena. Vidi i lineamenti duri dell'inquisitore, che si copriva con il cappuccio della veste domenicana. «Confessate, e io vi libererò», disse. «No, non è vero», risposi. «Vai con il ferro», ordinò al boia. E un momento dopo sentii sulla pelle della mia pancia, tesa come quella di un tamburo, la bruciatura del ferro rovente. Il mio grido riempì la stanza. Mi ritrovai seduta sul letto; la sensazione di dolore era così reale che quella notte il mio sonno si limitò a piccoli intervalli di sfinimento. 24 «'Fu un'esperienza straziante: cacciammo cristiani, donne, bambini e vecchi menando fendenti, e li lasciammo nelle mani di quegli infedeli assetati di sangue, ben sapendo che non avrebbero trovato nessun altro riparo nella città in preda al caos.'» Luis aveva ripreso la lettura, ritornando sulle ultime frasi lette il giorno precedente, prima della mia interruzione. «'Ad Acri trovò la morte il maestro generale dell'ordine, Guglielmo di Beaujeu, in seguito alle ferite ricevute mentre difendeva le mura, quando i mamelucchi misero a ferro e fuoco la città.'» Il sole aveva abbandonato l'appartamento di Luis, per nascondersi dietro il monte di Collcerola. Si stava facendo sera, e noi tre eravamo di nuovo riuniti per proseguire con la lettura dell'incartamento di Arnau d'Estopinyá. La mattina, Oriol aveva avuto da fare in università e, nonostante l'impazienza e il nervosismo provocato dal sogno sanguinoso della notte prima, decisi di aspettare il suo arrivo. Ovviamente, Luis confessò di non aver resistito: aveva già letto diverse volte il documento. E adesso lo stava rileggendo a voce alta, mentre eravamo seduti ciascuno sul proprio cuscino, su un bel tappeto persiano, sorseggiando un caffè. «'Riuscimmo a resistere altri dieci giorni, anche se tanto noi quanto i saraceni sapevamo bene che, malgrado le mura spesse tre o quattro metri, la
fortezza sarebbe caduta in poco tempo'», continuò Luis. «'Il tempo che i musulmani avrebbero impiegato a ricollocare le più grandi fra le loro macchine d'assedio. L'ultimo giorno fummo costretti a coprire l'imbarco delle scialuppe dirette alla galera servendoci dei pochi balestrieri rimasti. In quel momento, il pericolo più immediato non era rappresentato dagli infedeli, bensì dalle persone che si erano rifugiate nella fortezza, che, in preda al panico, volevano raggiungere le navi a ogni costo; erano disposte a pagare qualsiasi prezzo, tutti i loro beni. Ci fu chi fece fortuna, sfruttando la situazione. Si dice che questo fu il caso di Ruggero di Flor, un frate templario che, dopo aver abbandonato l'ordine per sfuggire al suo castigo, sarebbe divenuto il grande capitano degli almogaveri, il flagello di musulmani e ortodossi. Grazie alla galera che comandava, e grazie alla miseria dei rifugiati, avrebbe accumulato grandi ricchezze. «'La nostra nave, carica di feriti che si lamentavano a ogni sobbalzo, si allontanava dalla costa alla volta di Cipro; a malapena riuscivo a vedere, in mezzo alla foschia di fumo e di polvere che fluttuava sopra le rovine di San Giovanni d'Acri, le insegne dell'Islam. Provai una profonda tristezza. Non solo per la perdita dell'ultimo grande baluardo in Terra Santa. No. Quel giorno ebbi la premonizione della fine ormai prossima dell'ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo, l'ordine dei templari. «'Tra i feriti c'erano due frati giovani e ardenti, i cavalieri Jimeno da Lenda e Raimondo Saguardia. Saguardia era con il maestro generale, Guglielmo di Beaujeu, quando questi cadde dopo aver ricevuto un colpo mortale. Cercò di prestargli soccorso e lui, agonizzante, gli consegnò l'anello di rubino. Si salvò per miracolo: in pieno attacco mamelucco, nonostante le gravi ferite, riuscì a trascinarsi sulle sue gambe sino alle porte della fortezza del Tempio, situata all'interno delle mura di San Giovanni d'Acri. Stava per morire in mezzo alla folla, a pochi metri dall'entrata. Durante il lungo viaggio di ritorno a Barcellona, ebbi l'occasione di stringere amicizia con entrambi.'» Saguardia, pensai. Doveva essere lui il cavaliere che portava l'anello, nel mio sogno. «'Raggiunte le coste catalane, la Na Santa Coloma tornò ai propri compiti ordinari, che comprendevano la custodia delle navi e le incursioni contro i moriscos'.» Luis leggeva con la sicurezza di chi conosce bene il testo. «'Pochi anni dopo, il re Giacomo II e il nostro maestro provinciale, Berengario di Cardona, decisero di rinunciare agli ampi possedimenti templari nei pressi di Valencia - che l'ordine aveva ottenuto da Giacomo I per il suo
contributo alla conquista del regno - in cambio della città di Peñíscola, della sua fortezza, del porto, dei vari castelli nei dintorni, dei boschi e delle campagne circostanti. Da poco ero stato nominato sergente; fu allora che il nostro maestro decise di affidarmi il comando di una fusta, una nave da carico che faceva rotta verso Barcellona, Valencia e Maiorca. «'Non era certo quello che volevo, ma mi sforzai di svolgere il mio compito, rispettando il voto di obbedienza; ma ciò non mi impedì di parlare con i miei superiori e con i miei amici, i frati da Lenda e Saguardia, per persuaderli che le mie capacità erano più adatte alla guerra che al trasporto. «'Qualche anno più tardi, mi venne affidato il comando di una galera a un albero, con ventisei banchi di rematori. Nostro Signore volle concedermi la vittoria in diversi combattimenti, in cui catturai molte navi nemiche. Tutto sembrava procedere bene, ma frate Jimeno da Lenda era preoccupato. Un giorno mi disse che un certo Esquieu di Floyran, un vecchio commendatore templare espulso dall'ordine per empietà, si era presentato al cospetto del nostro sovrano, Giacomo E, per rivolgere atroci accuse contro il Tempio. Il monarca gli aveva offerto una notevole ricompensa, in cambio di prove concrete; ma Esquieu non era stato in grado di fornirgliele, e lui si era dimenticato della faccenda. «'Quell'anno perdemmo l'isolotto di Ruad, ultimo possedimento templare in Terra Santa. Jimeno era sempre più teso, sosteneva che forze oscure tramavano contro l'ordine: se non avessimo recuperato in fretta una parte dei territori perduti in Oriente, la nostra sacra missione sarebbe stata infangata, e il nostro spirito si sarebbe indebolito. «'Due anni dopo, a Elche, Giacomo II firmò la pace con i castigliani, annettendo al regno di Valencia parte della Murcia, includendo tutta la costa fino a Guardamar. La zona da proteggere adesso era molto più vasta: si estendeva verso sud, ed era decisamente più esposta agli attacchi dei moriscos. Fu allora che il mio vecchio superiore, Berengario d'Alio, per ragioni d'età, rinunciò al comando della Na Santa Coloma. E io ne divenni il capitano. «'Che dire? Mancava poco al 1307; in quell'anno nefasto, frate Jimeno da Lenda divenne maestro di Catalogna, Aragona, Valencia e regno di Maiorca, mentre fra' Saguardia fu nominato commendatore dell'enclave principale del Tempio, nel regno di Maiorca. La commenda di Masdeu, nel Roussillon, divenne sua luogotenenza. Accadde che quel traditore di Filippo IV di Francia attirò a Parigi, con falsi onori, il nostro maestro generale Giacomo di Molay; la mattina del 13 ottobre, le truppe reali sferrarono un
attacco a sorpresa alla fortezza del Tempio, catturando il maestro, che non oppose resistenza. Contemporaneamente, e con la stessa tattica, vennero assoggettati castelli e commende templari in tutta la Francia. Quel sovrano sacrilego, ricorrendo a calunnie, fandonie e alle accuse più terribili, cercò e ottenne la condanna del nostro ordine. E lo fece forse per amore della giustizia, o per l'amore di Dio? No! Voleva semplicemente mettere le mani sulle ricchezze custodite dal Tempio, per finanziare la sacra missione della riconquista della Terra Santa. Filippo IV, detto "il Bello", sapeva quello che stava facendo, e sapeva come farlo; non era la prima volta che incarcerava, torturava e uccideva per denaro. Anni prima aveva perseguitato i banchieri lombardi per derubarli dei loro possedimenti francesi; e in seguito fece lo stesso con gli ebrei. «'Ma non accusò soltanto i frati francesi: per occultare il suo crimine calunniò l'intero ordine, e ogni singolo templare, e inviò lettere ai re cristiani, incluso il conte di Barcellona, don Giacomo II re di Aragona, Valencia, Corsica e Sardegna - come gradiva essere chiamato. Aveva aggiunto al suo titolo le isole ricevute dal pontefice come ringraziamento per aver fatto guerra al fratello minore, Federico, re di Sicilia. Da ciò si può intuire che razza di persona fosse il nostro sovrano. «'Le notizie di ciò che stava accadendo in Francia raggiunsero in fretta la commenda di Masdeu; fra' Raimondo Saguardia, senza indugi, partì con due cavalieri e un servente, galoppando ininterrottamente sino al nostro quartier generale, nel castello di Miravet. Raimondo non si fidava dei monarchi, convinto com'era che fossero avidi uccelli rapaci, e portava con sé i beni più preziosi della sua commenda per metterli in salvo. Al momento della partenza, inviò emissari negli altri territori del Tempio di Roussillon, Sardegna, Maiorca e Montpellier, perché trasferissero le proprietà più care all'ordine a Miravet. Frate Jimeno da Lenda, venuto a conoscenza dell'accaduto, indisse con urgenza la riunione del capitolo del Tempio. Tra i convocati erano presenti anche il commendatore di Peñíscola e me stesso. La decisione finale fu quella di chiedere aiuto al nostro re, Giacomo E; in segreto, però, cominciammo a rinforzare e ad approvvigionare le fortezze, preparandoci all'eventualità di un lungo assedio. «'A me, però, i frati Jimeno e Raimondo riservarono un onore molto speciale. Il loro desiderio era proteggere i possedimenti più pregiati custoditi da ciascuna commenda, che vennero radunati nel castello di Miravet. Se la situazione si fosse aggravata, sarei dovuto partire alla volta di Peñíscola con il tesoro, per poi caricarlo nella stiva della Na Santa Coloma, che
nessuna galera reale era in grado di raggiungere; quindi, lo avrei nascosto in un luogo sicuro, dove sarebbe rimasto per tutta la durata di quel periodo di instabilità. Promisi, pena la dannazione eterna, che nessuno che non fosse stato un buon templare avrebbe mai messo le mani su quei gioielli. Raimondo Saguardia mi regalò il suo anello, quello con la croce patente di rubino, in ricordo della mia promessa e della mia missione. Io ero molto emozionato per la fiducia che quegli uomini importanti riponevano in me e trascorsi i giorni che precedettero l'arrivo del tesoro digiunando, e pregando il Signore di rendermi degno di una simile impresa. «'Avrei dato la mia vita, avrei dato ogni cosa pur di portare a termine il mio compito.'» 25 «Fine», disse Luis. «Il manoscritto termina qui.» «Come?» chiesi, sorpresa. «Ma la storia non è finita.» «Già. Le carte sì, però. Questo è tutto.» Guardai Oriol. Era pensieroso. «Il tesoro non è solo una leggenda», disse, alla fine. «Se non altro, adesso sappiamo per certo che è esistito. Chissà, magari non l'ha ancora trovato nessuno, e sta aspettando noi.» «E sappiamo anche che l'anello di Cristina è autentico», affermò Luis. «E che appartenne al gran maestro e, in seguito, a Raimondo Saguardia e ad Arnau d'Estopinyá.» Io ero ancora impressionata per la coincidenza tra il mio sogno e il racconto del manoscritto, e accettai le conclusioni di Luis senza discutere. In effetti, avrei creduto a qualsiasi cosa mi avessero raccontato, per quanto insolita. Era evidente: durante la caduta di Acri, era fra' Saguardia a portare l'anello. Lo stesso che, nonostante le gravi ferite, era riuscito a trascinarsi sino alla fortezza del Tempio, in pieno assalto mamelucco. E la mia visione era stata esattamente quella. Attraverso gli occhi di fra' Raimondo, avevo visto la gente fuggire disperata per le vie della roccaforte, in cerca di rifugio. Guardai l'anello con la sua pietra rosso sangue, che brillava alla luce della lampada. Quanta violenza c'era, al suo interno? E quanto dolore? «Però il testo non menziona la tavola.» Luis continuava con la sua analisi. «È l'unico elemento il cui legame con il racconto ci è oscuro.»
«Ma un legame c'è», intervenni. I due cugini tacquero, in attesa di sentire quello che avevo da dire. «La Vergine del mio dipinto porta quest'anello, alla mano sinistra. Questo stesso anello.» Per un momento rimasero entrambi in silenzio, e mi guardarono imbambolati, attoniti. «Ne sei sicura?» mi domandò infine Oriol, ancora esterrefatto. Io assentii con un movimento del capo, senza dire una parola. «Allora è tutto collegato», intervenne Luis. «Già», fece il cugino, pensieroso. «Però è molto strano. Sei certa di quello che hai detto?» «Assolutamente. Perché, c'è qualcosa che non ti torna?» «Le vergini del gotico non portano anelli; e questo vale soprattutto per il periodo compreso tra il secolo XIII e l'inizio del successivo. Sono un esperto di arte medievale, e ho avuto modo di vedere centinaia di raffigurazioni di Maria con il Bambino. I santi antichi non sfoggiavano gioielli; solo quando la Madonna era rappresentata come una regina indossava una corona regale. I vescovi e gli alti dignitari ecclesiastici erano gli unici a portare anelli, a volte con rubini, e generalmente sui guanti bianchi. I primi anelli comparvero nella pittura fiamminga e in quella tedesca nel secolo XV, e la moda si diffuse nel Cinquecento. Ma le nostre tavole sono molto più antiche. In effetti, a quell'epoca, i cattolici del regno d'Aragona non vedevano di buon occhio l'ostentazione di gioielli.» «E allora che senso ha un anello nel quadro di Cristina?» chiese Luis. «È un particolare molto strano», rispose Oriol. «Anzi, sarebbe stato uno scandalo per quei tempi. Negli scritti dell'epoca, ai mariti veniva consigliato di non regalare gioielli alle proprie mogli, e comunque di evitare che queste ultime li sfoggiassero in pubblico.» Poi, come se gli fosse appena venuto in mente, aggiunse: «Se ricordo bene, devo aver visto una Vergine con un anello al dito risalente all'epoca delle nostre tavole. Ma è un falso: un falso che imita un dipinto gotico del XIII secolo». «Credi che il mio quadro non sia autentico?» chiesi, delusa. «Credi che tuo padre mi abbia regalato un falso?» «No», rispose lui, brusco. «Spedire un falso a te? È assurdo. A volte penso che volesse più bene a te che a me. Enric aveva abbastanza soldi da comprare qualsiasi dipinto desiderasse, e aveva fama di essere uno scialacquatore. Sono sicuro che sia autentico.» «E allora come si spiega la presenza dell'anello?» «Dev'essere un indizio.»
«Un indizio?» fece Luis. «Forse per te, che ti intendi di arte antica. Ma per me e Cristina non ha alcun significato. Fosse dipeso da noi, sarebbe passato del tutto inosservato.» «E secondo te chi avrebbe messo quest'indizio nel dipinto? Il pittore stesso, o qualcuno venuto dopo di lui?» «Sono sicuro che si tratti della stessa persona che ha nascosto un messaggio nelle tavole.» «Stai dicendo che il messaggio esiste davvero?» domandò Luis. «Sì. Con l'eccitazione del manoscritto vi siete dimenticati di chiedermi dell'esplorazione a raggi X che ho fatto eseguire. Mi hanno dato l'esito questa mattina.» «Che cos'hai trovato?» Morivo di curiosità. «In entrambe le tavole, nella parte inferiore e ai piedi dei santi, esattamente come ha lasciato scritto mio padre nel testamento, c'è un'iscrizione che in seguito è stata ricoperta con della pittura.» «Che cosa dice?» volle sapere Luis. «Una 'il tesoro', l'altra 'grotta marina'.» «Quindi il tesoro si trova in una grotta marina!» esclamai. «Sì. Così sembra», ammise Oriol. «E si incastra perfettamente nella storia. Lenda e Saguardia incaricarono un marinaio di nascondere il tesoro.» «Allora abbiamo una pista», osservò Luis. «Già. È una traccia importante», gli rispose il cugino, «ma insufficiente. Chissà quante caverne ci sono lungo le nostre coste. Dovremmo perlustrare tutto il Mediterraneo occidentale e, anche limitandoci alle zone sottoposte al controllo della provincia templare di cui era maestro fra' da Lenda, ci restano tutta la costa catalana, incluse le zone francesi di Perpignan e Montpellier, quella di Valencia, parte della Murcia e le isole Baleari. E, se fosse arrivato più lontano, escludendo i territori in mano ai moriscos, dovremmo aggiungere Corsica, Sardegna e Sicilia. Senza dettagli più specifici, dovremmo dedicarci a questa ricerca fino alla fine dei nostri giorni.» «Vorrà dire che cercheremo degli altri indizi», dissi. «Ci manca ancora la parte centrale del trittico», mi ricordò Luis. «La tua.» «Me la farò spedire.» Mentre pronunciavo quella frase, mi domandavo in che modo sarei riuscita a convincere mia madre. «Vengo a Barcellona», disse, non appena sentì la mia voce al telefono. «Tu?» La domanda mi uscì spontanea. «Perché?»
«Senti, Cristina, stanno succedendo delle cose strane», rispose Maria del Mar. «Non ti trovo mai in albergo, neanche quando dovresti essere a letto. Credi che sia stupida? Tu non alloggi in quell'hotel. Prendono i messaggi per te e tu mi richiami più tardi, Dio solo sa da dove.» Però... In fondo, era stata figlia prima che mamma. «Vuoi sapere che cosa penso? Penso che tu ti stia mettendo nei pasticci», proseguì. «Dimentica l'eredità di Enric, le sue storie e i suoi tesori. Era un tipo molto fantasioso. La tua vita è qui a New York, adesso. Torna a casa.» «Mamma. Ti ho già detto che voglio arrivare fino in fondo a questa faccenda, indipendentemente dal fatto che questo racconto corrisponda a verità. E tu non verrai affatto a Barcellona. Non ci sei tornata per quattordici anni, e adesso, all'improvviso, hai una gran fretta di farlo. Lasciami finire le mie cose: poi, se vuoi, vieni qui e fai quello che ti pare.» «Ah! Quindi la mia presenza sarebbe un fastidio per te?» Ecco, si è già offesa, pensai. Perché i rapporti tra noi erano sempre così difficili? «No, mamma», dissi, gentile. «Ma questa è una faccenda che riguarda soltanto me.» «Bene. Se non disturbo, allora ti comunico che arriverò dopodomani.» Il suo tono era deciso. «Ho già consultato gli orari. Ti troverò ad aspettarmi all'aeroporto, vero?» Oh, no! Quell'affermazione mi allarmò. Già immaginavo mia madre che discuteva con me e con i cugini del tesoro. Che cosa ridicola! O mentre cercava di spillare qualche informazione al commissario Castillo. Io e lei che mostravamo le gambe... Bella coppia di detective! E provai a immaginarla con Alicia: era palese che non potesse vederla nemmeno in fotografia. E, dopo averci avuto a che fare personalmente, iniziavo a pensare che, probabilmente, doveva avere i suoi motivi... «In effetti sì, mamma», dissi, all'improvviso. «Francamente, averti qui mi darebbe fastidio.» La linea restò in silenzio, e io mi sentii in colpa. Povera donna! Avevo esagerato. «Stai da lei, vero?» mi chiese, infine. «Come?» Non mi aspettavo una domanda del genere. «Sei ospite di Alicia. Dimmi se sbaglio.» «No, non ti sbagli. E con questo?» mi difesi. «Non sono più una bambina. È da parecchio tempo, ormai, che le mie decisioni le prendo da sola.»
«Ti avevo detto di non avvicinarti a quella donna.» Mi sentii come quando, da piccola, mi beccava a fare qualche marachella. Adesso, però, avevo ventisette anni e non ero obbligata a obbedirle. Restai in silenzio, senza sapere bene che cosa risponderle. «Ci sono cose che non sai.» Il suo tono non era più accusatorio. Mi stava pregando. «Alicia è pericolosa. Vattene da quella casa. Te lo chiedo per favore.» Non riuscii a dirle nulla. Quel cambio di registro, da autoritario a supplichevole, mi lasciò sconcertata. «Io vengo a Barcellona, e tu torni a New York con me.» «Ancora con questa storia, mamma!» La sua insistenza finì con l'irritarmi. «Credimi. So che cosa è meglio per te.» «Risparmiati il viaggio. Non mi troverai.» Lei rimase di nuovo in silenzio. E, ancora una volta, mi sentii in colpa per il tono che avevo usato: ma non ero disposta a lasciare che fosse lei a dirmi che cosa dovevo fare. È vero, vivere comporta dei rischi, e mia madre è piena di affetto e di buone intenzioni nei miei confronti, ma non avrei permesso a Maria del Mar di tenere la sua bambina nella bambagia, per impedire che si rompesse. Qui si trattava di mettere su un piatto della bilancia i suoi timori, e sull'altro la mia libertà. E la mia libertà ha un peso maggiore. «Mi dispiace, mamma», dissi, più conciliante. «Non metterti in mezzo. Io intendo fare quello che credo sia un mio dovere.» Chi ha detto che essere figlia unica è facile? pensai. «Io parto, che ti piaccia o no.» «Sei libera di fare quello che vuoi, e di andare dove desideri.» Questo è il punto in cui mamma inizia a giocare duro, mi dissi, e devo evitare che si ringalluzzisca troppo. «Ma non contare su di me.» Lei non disse nulla. «Sei ancora lì?» chiesi, dopo un po'. «Sì, tesoro.» «Hai sentito quello che ho detto?» «Cristina, cambiamo argomento, oggi sei intrattabile», fece lei; il suo tono era insieme irritato e rassegnato. Mi sorprese il fatto che rinunciasse a battersi con tanta facilità. Poi, però, mi domandò: «Volevi chiedermi qualcosa?» La sua decisione di venire a Barcellona mi aveva fatto dimenticare l'og-
getto della mia telefonata: volevo convincerla a spedirmi la tavola. Fu allora che compresi tutto chiaramente: lei stava aspettando che arrivassi al punto. «Ah, sì. Me n'ero scordata», finsi. «Ho bisogno che tu mi spedisca il mio quadro.» «È un oggetto prezioso. Sarà meglio che te lo porti di persona.» «Oddio, mamma! Ancora con questa storia? Ne abbiamo già parlato.» «Io e il dipinto viaggiamo insieme.» Attraverso la sua voce, riuscii quasi a udire il suo sorriso trionfante. Rimasi senza parole. Sapevamo bene tutte e due che era lei ad avere il coltello dalla parte del manico. «Non hai il diritto di tenerlo», dissi, lamentosa. «Appartiene a me.» «Anche tu appartieni a me: sei mia figlia, eppure fai quello che ti pare.» Di nuovo silenzio. «Senti, tesoro», aggiunse di fronte al mio mutismo, adesso in tono tenero, «sarai contenta di avermi lì. Ci sono delle cose che devi sapere.» Quella frase mi illuminò. Ma certo! Mi aveva nascosto dei fatti relativi agli anni trascorsi a Barcellona. Forse aveva un indizio riguardo al tesoro? O alla morte di Ernic? Sicuramente avevo un sacco di domande da rivolgerle. E sarebbe stato stupendo se mi avesse risposto con sincerità. «D'accordo», dissi, alla fine. «Vi prenoterò una stanza.» «Sì, una doppia, per me e per te.» «E Daddy?» «Papà rimane a New York.» Veniva senza papà! Probabilmente, doveva rivelarmi più di quanto pensassi. 26 «Vuoi vedere la tavola di cui ti ho parlato?» mi disse Oriol. «Il falso della Vergine con l'anello.» Io mi ero alzata abbastanza intontita; per fortuna, in cucina, il caffè era già pronto. Me ne stavo appunto versando una tazza, quando era comparso lui. Quella mattina non aveva lezione all'università, ed era decisamente gentile. Accettai il suo invito, felicissima, ma prima lo convinsi a fare colazione con me. «Se anche faremo aspettare un po' la Madonna, non le cadrà certo l'anello», osservai. E Oriol rise, discreto.
La villa ha una grande mansarda che funge da ripostiglio per le varie cianfrusaglie su cui il tempo ha posato un velo di polvere. Si tratta di mobili e vecchi oggetti appartenenti ai Bonaplata, alcuni da diverse generazioni. Oriol cercò in mezzo ad alcuni quadri privi di cornice, appoggiati sulla base in un angolo della stanza. Ne estrasse uno piuttosto piccolo. «Eccolo qui», disse. E io rimasi a bocca aperta. «Oriol», gli dissi, quando mi ripresi dallo choc, «questa tavola è identica alla mia!» «Cosa?» mi chiese, stupito. «Ne sei sicura?» «Sicurissima.» Lui si portò la mano al mento, con fare pensoso, e io sollevai il dipinto per esaminarlo. Il peso era simile, ma questo aveva uno spessore maggiore, e i fori dei tarli sui lati sembravano pitturati. «È una copia», affermò Oriol. «L'ho osservato diverse volte, attratto dal misterioso anello al dito della Vergine: anche se a prima vista sembra autentico, è un falso di epoca moderna. Ma il gioiello non è l'unico aspetto curioso del dipinto.» «Cioè? Che altre stranezze ci sarebbero?» «La posizione del Bambino. Nelle sculture, nelle statue e nei quadri dell'epoca è quasi sempre seduto sulla gamba sinistra della Vergine, almeno nelle rappresentazioni del periodo e della zona in cui trova collocazione il dipinto. Alcuni anni dopo, gli artisti cominciarono a rompere la monotonia della composizione, e dipinsero il Bambino mentre gioca con gli uccellini, o con la corona della Madonna - quando questa è raffigurata come regina. Ma, come dicevo, siede quasi sempre sulla gamba sinistra della madre; quasi mai sulla destra.» Rimasi in silenzio, a riflettere. Non avrei mai pensato che potessero esserci tante stranezze in un quadro. L'artista non dovrebbe avere piena libertà? «È sorprendente», fece lui. lo sguardo sempre posato sulla Vergine. «Che cosa?» Ero disposta a meravigliarmi davanti a cose che mai, prima di quel momento, avevo ritenuto possibili cause di stupore. «Che Enric conservasse una copia. Probabilmente la commissionò prima di inviarti l'originale.» «Ma perché avrebbe dovuto far dipingere un'imitazione? Il quadro gli piaceva fino a questo punto?» Lo appoggiai su una vecchia toilette, e accostai il mio anello a quello della Madonna. A parte le dimensioni, erano identici. «E, se gli piaceva tanto, perché non lo appese in una delle molte stanze della casa? Perché lo nascose?»
«Sono sempre stato attratto dalle antichità», disse Oriol, senza rispondere alla mia domanda; forse non mi aveva nemmeno ascoltato. Sembrava assorto nei suoi pensieri, negli enigmi contenuti nella tavola. «E da piccolo adoravo salire quassù a riempirmi di polvere, mentre spostavo le cose. Conoscevo a memoria ogni oggetto. Sono cianfrusaglie appartenute alla mia famiglia, che mio padre avrebbe potuto vendere nel suo negozio ma non volle mai farlo. E adesso mi è tornata in mente una cosa sulla tavola, a cui all'inizio non avevo dato importanza. Un particolare che potrebbe essere significativo.» «Di che si tratta?» «La trovai qui in mansarda proprio nel periodo in cui papà morì. Prima non c'era. Me la ricordo perfettamente: era stata messa da parte, insieme alle altre, ma non era affatto impolverata.» «Credi che abbia qualcosa a che fare con la sua morte?» «Mia madre mi raccontò la storia delle tavole, e mi parlò della possibilità di una seconda eredità e dell'esistenza di un tesoro; ma non arrivai mai a pensare che il dipinto potesse essere legato a tutto questo.» Fece una pausa, come se volesse chiarirsi le idee; poi fissò i suoi occhi blu nei miei. «Ma ci sono troppe coincidenze, e sono sempre più sicuro che sia tutto connesso: la tavola, l'anello, il tesoro e il suicidio di mio padre.» Notai che Oriol voleva parlare e gli proposi di prendere un altro caffè, questa volta seduti al tavolino in giardino, all'ombra degli alberi, circondati da siepi e roseti in fiore. «Perché si tolse la vita?» C'eravamo appena accomodati, quando gli sparai la domanda a bruciapelo. «Ancora non riesco a spiegarmelo.» Il suo sguardo era perso sulla città che, tra i cipressi, si intravedeva all'orizzonte occidentale, sotto la linea blu del mare. Compresi che si era già fatto un'infinità di volte quella domanda, e che ancora lo feriva. «Mia madre mi disse che aveva dei problemi con dei rivali in affari, membri di una mafia internazionale che si occupava di traffico internazionale di opere d'arte antiche. A volte mi sforzo di credere che non si suicidò, e che lo assassinarono. Soffro, quando penso che scelse di abbandonare la sua lotta, di andarsene. E di lasciarmi.» I suoi occhi si appannarono, ma le lacrime si fermarono lì. «Sono certo che per qualsiasi problema poteva esserci una soluzione migliore che spararsi un colpo in bocca. Ha lasciato un enorme vuoto nella mia vita. Ancora oggi mi fa male.»
«Mi dispiace.» Rimasi in silenzio, per rispetto nei confronti del suo dolore. «Dicono che uccise quattro di quei mafiosi», riprese, dopo un po'. «Ma non sono mai riusciti a provarlo.» «Credi che sia stato lui?» «Sì.» «Ma perché? Perché un uomo tanto cortese avrebbe dovuto commettere un crimine simile?» «Posso solo dirti quello che venni a sapere da mia madre. Si contendevano le tavole, sospettavano che celassero un messaggio, un indizio che portasse a qualcosa di più grande: al tesoro dei templari. Gli scritti di Arnau d'Estopinyá, siano essi la traduzione di altri più antichi o la trascrizione di una tradizione orale, lo confermano. Ed è vero che, sotto il colore, nascondono un messaggio, anche se incompleto, o per noi incomprensibile. Di sicuro quei trafficanti sapevano della sua esistenza e provarono a comprare il trittico da mio padre, ma lui non volle vendere. E loro passarono alle intimidazioni. Papà aveva un socio, o un amico...» Qui Oriol fece una pausa significativa. «Forse era il suo amante. Comunque sia, quegli uomini lo pestarono, probabilmente per spaventare Enric. Ma finirono con l'ucciderlo, non so se di proposito o accidentalmente. Secondo mia madre, fu allora che iniziarono le telefonate in piena notte. Minacce. E non erano dirette solo a mio padre, ma anche a noi.» «E lui li uccise.» «Così pare. Non volle cedere le tavole. Non so nemmeno se volesse proteggere la sua famiglia, o vendicare il suo amico. Hai sentito parlare di Epaminonda?» «Chi è, un abitante di Paperopoli?» scherzai, cercando di sdrammatizzare. Mi sembrava il nome di un eroe greco, ma non ne sapevo molto di più. «Epaminonda, il principe tebano», rispose con un sorriso. Presi la mia tazza di caffè e mi preparai ad ascoltare attentamente ciò che mi avrebbe raccontato. «Questa storia ossessionava mio padre come il suo protagonista. Era il suo paradigma, me la raccontò diverse volte. Epaminonda fu un capo militare eccezionale, che si distinse, inoltre, per la sua grande cultura; era sempre circondato da filosofi, poeti, musicisti e scienziati. E questo, agli occhi di mio padre, lo rendeva degno di ammirazione. Nel IV secolo a.C, Sparta dominava la Grecia e i suoi guerrieri erano considerati i migliori del mondo antico. Né Atene, né una qualsiasi delle altre città stato osavano affron-
tarla. Ma Tebe si ribellò; e quando il poderoso esercito spartano, decisamente superiore, si avventò sulla città, Epaminonda e la sua sacra falange lo batterono ripetutamente.» «Che cos'è questa sacra falange?» «Era il nucleo centrale dell'esercito tebano, un corpo d'elite di circa trecento giovani nobili che, raggruppati a due a due, giuravano di morire piuttosto che abbandonare il proprio compagno. Ed era proprio quella lotta disperata, quell'estrema passione a renderli invincibili.» «Ah!» esclamai. Adesso iniziavo a capirne un po' di più, sapevo che, per gli standard morali dell'antica Grecia, in un uomo erano ammissibili sia l'omo che la bisessualità. «Lo stesso accadde tra i cavalieri templari. Quando si trovavano in una situazione limite, quando dovevano battersi con un esercito numericamente superiore, lottavano in coppia e nessuno abbandonava mai il proprio compagno. Né da vivo, né da morto. I templari non si arrendevano. Un sigillo dell'ordine è piuttosto chiaro, in proposito: in esso sono raffigurati due guerrieri che cavalcano il medesimo destriero. Un'immagine simbolica, che non corrispondeva alla realtà. I Poveri Cavalieri di Cristo non avevano certo penuria di cavalli: ogni cavaliere, secondo il regolamento dell'ordine, disponeva di due buone bestie... Il sigillo era il simbolo della coppia legata dal giuramento.» «Quindi tu sei convinto che tuo padre non uccise per la famiglia, o per te, bensì per vendicare il suo amico», dissi, concludendo il pensiero abbozzato da Oriol. «Credi che avesse fatto una promessa al suo compagno, seguendo l'esempio dei soldati della sacra falange, o dei templari raffigurati sul sigillo.» Lui non rispose, lasciando che il suo sguardo si perdesse di nuovo oltre i cipressi, verso il mare. Feci lo stesso, e i miei occhi si riempirono della luce di quel mattino limpido e del blu del Mediterraneo, che brillava sullo sfondo. Presi un sorso del mio caffè, ormai freddo, e rimasi lì a contemplare quel ragazzo che da bambina avevo adorato. Alla fine il suo sguardo, lucido per le lacrime trattenute, cercò il mio ed era così intenso che sentii quasi un solletico alla nuca. A quel punto, con un gesto che Luis avrebbe descritto come effeminato, disse: «Non è stupendo?» «Che cosa?» «Amare qualcuno tanto da dare la propria vita.» 27
Il suo sguardo e quella frase, «amare qualcuno tanto da dare la propria vita», penetrarono nel profondo della mia anima. Non riuscivo a smettere di pensarci, avevo ancora davanti i suoi occhi blu umidi per l'emozione. «Non è stupendo?» aveva detto. Sì, mi dicevo, era bello, poetico, commovente. Ma quella lirica dai toni tragici nascondeva degli indizi, dei sentimenti che mi turbavano. Era evidente: Oriol era convinto che Enric avesse assassinato quattro persone per poi suicidarsi per amore di un uomo. E lui si era sentito abbandonato da un padre che tanto ammirava per il suo gesto eroico, ma a cui non poteva perdonare il fatto di averlo lasciato orfano, consapevolmente. Ripensando alla nostra infanzia, ricordai l'affetto e l'adorazione di Oriol nei confronti di Enric: ricordai il modo in cui lo prendeva per mano e lo guardava dal basso in alto, con un sorriso sciocco, quando lui organizzava uno dei suoi giochi magici. E poi, soddisfatto, gonfiava orgoglioso il petto, quasi volesse dire: «Quello è il mio papà». E poi c'era la questione dell'omosessualità dichiarata di Enric. Un amore smisurato, tragico, di cui ovviamente Oriol non si scandalizzava e che, al contrario, sembrava destare la sua ammirazione. Un altro indizio a proposito delle sue tendenze. Avevo ricominciato a fare congetture sulla sua sessualità e avevo paura. Paura di innamorarmi di nuovo di lui, come una stupida... come quella bambina che aveva versato tante lacrime per il suo amore. Quel pomeriggio non avevo niente da fare, ed ero piuttosto nervosa. La nostra caccia al tesoro era entrata in una fase di stallo: l'eccitazione che ci aveva animato solo poche ore prima era andata scemando. Forse era solo un'ultima fantasia di Enric; forse avrei dovuto ascoltare mia madre e tornare a New York; forse, senza saperlo, ero già coinvolta in quegli oscuri pericoli che lei pronosticava. E magari il peggiore era proprio Oriol, o quei sentimenti che non riuscivo a controllare. Stando così le cose, decisi di abbandonare l'osservatorio sulla città offerto dalla villa di Alicia, per immergermi nell'umanità errante delle Ramblas. Passeggiando per il viale, lasciai che i colori della folla, il suono della musica di strada a caccia di monete e il profumo dei fiori dei chioschi penetrassero i miei sensi. Volevo sentire; e volevo smettere di pensare. Quasi senza rendermene conto attraversai plaza del Pi e, dirigendomi verso la cattedrale, mi accorsi di trovarmi di fronte a un negozio di antichità. Era quello che era stato di Enric! Ne ero assolutamente sicura. I piedi, a mia insaputa, mi stavano conducendo alla mia infanzia. Guardai attraverso
la vetrina, ma non ebbi il coraggio di entrare. Gli oggetti in esposizione erano diversi, ma a me sembravano quelli di sempre. Varie pistole avantcarga, un paio di statuine criselefantine, simili a quelle collezionate da Alicia, un comò in stile francese di legno di caco e rosa, alcuni chiaroscuri di epoca barocca... Ritornai la bambina di un tempo e, con il cuore stretto in una morsa e il battito accelerato, aspettai ingenuamente di intravedere il mio padrino attraverso il vetro. Sorridente e un po' pienotto, i capelli radi pettinati all'indietro, e quello sguardo furbo che ogni tanto ritrovavo negli occhi di Oriol. Alla mano destra, sentii pulsare impaziente il suo enigmatico anello di rubino. Di lì a poco, però, mi resi conto che, per quanto attendessi, e per quanto strofinassi i ricordi del mio passato quasi fossero una lampada magica, non sarei riuscita a evocare il fantasma di Enric. A quel punto, sentii il bisogno di allontanarmi in tutta fretta, e mi diressi con passo rapido alla cattedrale. E mentre passavo sull'altro lato della strada, dove sorgevano altri negozi di antichità, lessi la scritta a lettere dorate sulla vetrina: ARTUR BOIX. Dove avevo già sentito quel nome? Artur Boix... Artur Boix... Ma certo! Il mio compagno di viaggio! Ancora una volta restai imbambolata di fronte al vetro, ma senza posare lo sguardo sugli oggetti esposti; in effetti, forse nemmeno li vidi. L'unica cosa che riuscivo a fissare era quella scritta dorata: ARTUR BOIK ANTIQUARIO. Non saprei dire se me ne andai correndo, trotterellando, o camminando come uno zombi. La prima cosa che ricordo, dopo quel momento, è la sottoscritta all'interno di una cabina telefonica sulla piazza della cattedrale, che compone il numero del commissario Castillo. Fortunatamente, questi rispose subito; l'impazienza mi stava distruggendo. «Commissario», esordii, sforzandomi di mascherare il mio tono alterato, «lei si ricorda i cognomi delle persone che, presumibilmente, furono assassinate dal mio padrino?» «Ma certo», fece lui, di buonumore. «Questo è il mio mistero preferito, conservo una copia della pratica nell'armadio del mio ufficio, e un' altra in una valigetta che tengo sotto il mio letto. Dunque la signorina americana vuole aiutarmi a risolvere questo intrigo da romanzo noir, alla Marlowe?» mi chiese, spiritoso. «Devo soltanto capire in che modo il suo padrino riuscì a uccidere quei quattro in un colpo solo...» Gli promisi il mio aiuto, in cambio di quei nomi. E lui li sciorinò, quasi recitasse dei versi imparati da bambino per le feste in famiglia. Due di essi
non avevano alcun significato, per me; gli altri, però, furono un'autentica rivelazione: Arturo e Jaime Boix. Avevo appena avuto la conferma di ciò che mi aveva suggerito l'istinto qualche minuto prima. Quell'uomo affascinante che era seduto accanto a me durante il volo da New York sapeva chi ero, e conosceva il motivo del mio viaggio in Spagna. Era il figlio di uno degli uomini travolti da Enric. La mafia dei trafficanti di opere d'arte era sopravvissuta e, a giudicare dall'impressione che mi aveva fatto Artur, godeva decisamente di buona salute e di bell'aspetto. Mentre ci accomodavamo al tavolino del caffè, la conversazione si spostò sui meriti turistici della città; non appena portarono le nostre bibite, però, sparai a bruciapelo: «Il nostro incontro in aereo non è stato una coincidenza, vero?» «Non è stato difficile farmi dare il posto accanto al tuo», disse Artur, con il suo sorriso da bellone. «È bastato dare una bella mancia alla persona giusta. Nel mio lavoro lo faccio di frequente.» Lo osservai attraverso il mio bicchiere di coca light. Nemmeno ottenere un appuntamento con lui era stato un problema. «Ci hai messo un bel po' a chiamarmi», mi rimproverò, come se quell'incontro fosse dovuto a un interesse personale e non a una presunta questione d'affari. Almeno per lui. Parlava come se fosse convinto di aver fatto colpo, e come se si aspettasse una mia telefonata. Era un tipo presuntuoso ma, devo ammettere, anche molto interessante. «E sei stato tu a introdurti nel mio appartamento di New York.» Non si scompose e non perse il suo sorriso. «Non personalmente. Se n'è occupato un mio socio.» «E lo confessi così? Con questa disinvoltura?» «E perché no?» Adesso la sua espressione si era fatta assolutamente seria. «Ho diritto a quelle tavole, e all'eventuale tesoro, almeno quanto voi tre. Se non di più.» Dal tono sembrava convinto. Rimasi in silenzio, alquanto sorpresa. In base a che cosa credeva di avere un simile diritto? Aspettai che fosse lui a riprendere la parola. «Devi sapere che il tuo padrino assassinò mio padre, mio zio e un paio di loro soci in affari.» «Soci? Pensavo fossero due gorilla.» «E che cosa importa? Quello che conta è che lui li uccise.»
«Non è mai stato dimostrato, non ci sono prove a suo carico.» «Prove?» ribatté, ridendo. «E a che cosa mi servono? Io so che è stato lui. So che si erano accordati per una transazione. E so che Bonaplata non solo si rifiutò di consegnare la tavola della Vergine, contravvenendo ai patti, ma rubò anche le altre due, quella di San Giorgio e quella di Giovanni Battista.» «Rubò le due piccole?» «Esatto.» Artur mi osservò attentamente, leggendo la sorpresa sul mio viso. «Ma come...?» «Il tuo padrino e la mia famiglia appartenevano a una sorta di club segreto, vennero a sapere dell'esistenza del tesoro nello stesso periodo e seguirono le tracce del trittico fino a un luogo nei pressi del monastero di Poblet, da dove provenivano originariamente. Da mercanti d'arte professionisti quali erano, si mobilitarono velocemente per entrarne in possesso; ma, per una stupida questione di eredità famigliari, la tavola centrale e quelle laterali avevano due proprietari differenti. Qualcuno le aveva separate un paio di generazioni prima. Ci volle del tempo per localizzarle, e la circostanza infelice fu che, mentre la mia famiglia riusciva a trovare e ad acquistare le due più piccole, il tuo padrino faceva lo stesso con la maggiore.» «E non giunsero mai a un accordo», lo interruppi. «Esatto. Bonaplata e il suo fidanzato non furono molto ragionevoli; pretendevano di comprare le nostre tavole, volevano il tesoro soltanto per loro.» «E la tua famiglia? Era disposta a vendere?» «No. Ma era disposta a negoziare...» «E che cosa accadde al socio del mio padrino?» «Ecco... diciamo che abbandonò le trattative prematuramente.» Nei suoi occhi notai una scintilla di ironia. «Lo avete ucciso!» «Fu un incidente.» «O piuttosto un tentativo di intimidazione...» «Si dà il caso che fossero arrivati a un accordo...» «E tu come lo sai?» «Me l'ha detto mia madre.» Non dissi nulla; non avevo intenzione di mettere in discussione la sua affermazione. «Bonaplata ci avrebbe consegnato la tavola centrale in cambio di una certa somma di denaro. Ma non
lo fece. Al contrario, uccise i suoi rivali e rubò gli altri due dipinti.» «Mi sembra così assurdo: in che modo il mio padrino riuscì a ingannare e a far fuori quattro malavitosi?» «Non lo so. Ma lo fece.» Artur aveva corrugato le sopracciglia. «Per colpa sua, io rimasi orfano.» «Ma eravate stati voi a cominciare, assassinando l'uomo che amava.» Forse Artur aveva i suoi buoni motivi per odiare Enric, ma io sentivo il bisogno di difenderlo. «Non importa chi incominciò.» L'uomo che avevo conosciuto in aereo, affascinante e cortese, dentro di sé era duro e risentito. «Si comportò da vera canaglia, da snaturato. Ruppe un patto, e non tenne fede alla parola data.» Serrai le labbra e lo guardai dritto negli occhi, prima di rispondere. «Enric voleva solo proteggere i suoi cari. La tua famiglia minacciava la sua.» Non credo che stesse ascoltando le mie parole. Il suo sguardo si perse verso il fondo del locale per qualche minuto, come se stesse rimuginando qualcosa che faceva fatica a digerire. Ci mise un po' a parlare e, quando lo fece, mi trafisse con un'occhiata. «Tra la mia famiglia e i Bonaplata», disse, con voce bassa e roca, «c'è un debito di sangue.» Sangue rosso come i suoi occhi in quel momento. 28 «Enric fu il mio primo amore, il mio grande amore.» Guardai mia madre: non riuscivo a credere a quello che avevo appena sentito. Aveva detto che voleva parlare con me. E lo fece. Eccome. Poco mancava che soffocasse. Io stavo ascoltando esterrefatta. Aveva taciuto per anni, il suo segreto era come una barriera invisibile che ci separava; era tra noi due, si interponeva e io, senza saperlo, me n'ero accorta in diverse occasioni. E improvvisamente quella barriera si ruppe, e lei si lasciò andare. Da brava figlia ubbidiente, ero andata a prenderla all'aeroporto e, vedendo i bagagli, mi chiesi perché mai si fosse portata tante cose. Per un attimo temetti che intendesse rimanere con me a Barcellona per un bel po' di tempo. Ah, no! Questo no! Ma poi mi dissi che una delle valigie conteneva la tavola, accuratamente imballata. In ogni caso, il bagaglio restava notevole. A mia madre è sempre piaciuto viaggiare ben equipaggiata. Andò ad alloggiare nello stesso albergo in cui ero stata io al mio arrivo; aveva prenotata un'ampia stanza doppia, a un piano alto, dando per scontato che sarei
andata a stare con lei. Io osservavo la sua intrusione con cautela, lasciandola fare. Avevamo un accordo: lei mi avrebbe portato la tavola da New York, e io, come prima cosa, avrei dovuto abbandonare la casa di Alicia per tornare in albergo. «Oggi arriva mia madre», dissi a quest'ultima. «Torno in hotel.» «Già», mormorò, serrando le labbra in una specie di sorriso. Conosceva meglio di me l'opinione che Maria del Mar aveva di lei. «Sarai di nuovo la benvenuta, quando se ne andrà.» Mamma aveva iniziato un discorso fiume sul mio viaggio, sul suo, su come aveva lasciato papà a New York; ma aveva serbato la sorpresa per la cena. «Enric fu il mio primo amore, il mio grande amore.» I suoi occhi cercarono i miei. Io rimasi di stucco. Non sapevo cosa pensare, cosa dire e la mia prima reazione fu di incredulità, doveva essere uno scherzo. Ma non c'era divertimento nel suo sguardo, e le sue labbra non volevano sorridere. Quel viso con la fronte rugosa e le zampe di gallina, il volto che identificavo con mia madre era di fronte a me, e aveva l'espressione dell'accusato che aspetta il verdetto della giuria. Appoggiai le posate sul tavolo e balbettai: «Ma... e papà?» «Lui venne dopo...» «Ma se Enric era... era...» «Omosessuale», disse lei per me. «Appunto. Evidentemente non doveva essere tanto gay, altrimenti...» «Altrimenti non avrebbe avuto un figlio...» Tacqui, cercando di assimilare quello che avevo appena sentito, e lei fece lo stesso per qualche istante, quasi volesse riprendere fiato. Poi, diede inizio al suo racconto. «Come sai, i Bonaplata e i Coll avevano dei rapporti molto stretti, che si mantennero per generazioni. Mio nonno, verso la fine del XIX secolo, frequentò Els Quatre Gats insieme al nonno di Enric, e l'amicizia continuò con i nostri genitori. «Da bambini giocavamo insieme, quando le nostre famiglie si riunivano; studiavamo entrambi al Liceo Francese e, da adolescenti, alle prime uscite, facevamo parte dello stesso gruppetto, tanto in città come in Costa Brava, d'estate. «Io avevo sempre sentito una forte attrazione nei suoi confronti. Era sveglio, simpatico, fantasioso; aveva sempre una risposta pronta e arguta.
Ero convinta di piacergli e, quando iniziarono a formarsi le prime coppie, ancora al liceo, io mi conservai per lui; in modo abbastanza naturale, diventammo una coppia anche noi due. Io lo amavo alla follia. I nostri genitori erano felici che uscissimo insieme, la nostra relazione avrebbe unito due famiglie i cui legami d'amicizia non avrebbero potuto essere più stretti; era una cosa attesa da generazioni. I miei non avevano mai nulla da dire se, quando ero fuori con Enric, rincasavo tardi.» «Vi baciavate?» chiesi, curiosa. Notai che mia madre si spostava sulla sedia, a disagio. Rimase qualche istante in silenzio, evidentemente era difficile, per lei, continuare quella conversazione. «Sì», rispose alla fine. «Ma tieni presente che questa storia risale a più di trent'anni fa, e le ragazze della nostra classe sociale erano solite arrivare vergini al matrimonio. Anche quando erano promessi sposi, e noi due non arrivammo mai a esserlo, tenevano i freni tirati. I nostri baci e le nostre carezze erano piuttosto casti.» «E immagino che lui non facesse molte pressioni», insistei, maliziosa. «Dico bene?» «Sì. Allora, quando mi soffermavo a pensarci, mi rendevo conto che ero sempre io a prendere l'iniziativa», disse, sospirando. «Credevo semplicemente di essere più affettuosa di lui.» «Ma perché non gliel'hai mai fatto notare?» «Ho pensato e ripensato anche a questo», sospirò ancora, scuotendo il capo con un'espressione incredula. «Nessuno, allora, sapeva delle sue tendenze. Ma, naturalmente, io ero la sua ragazza e non ho scusanti. Lui dissimulava, non voleva che la sua famiglia sapesse: a quell'epoca, avere un figlio gay sarebbe stato umiliante per i Bonaplata, sarebbe stata una vergogna sociale. E io, che lo amavo, ero l'alibi perfetto. Immagino che Enric stesse cercando la propria identità, e che gli facesse comodo stare insieme a me, mentre esplorava i suoi sentimenti. Iniziai a notare che non approfittava del privilegio di poter rimanere con me fino a tardi senza che la mia famiglia protestasse. Mi riportava a casa sempre prima, e a volte cercava qualche scusa per non vedermi. I primi sospetti sorsero quando, chiamandolo a casa diverse ore dopo che ci eravamo lasciati, non lo trovavo. Andava nei locali frequentati da omosessuali, a incontrare qualche amico.» «E poi che cosa accadde? Come arrivaste alla rottura?» «Un bel giorno, dopo essere giunta alla conclusione che Enric conduceva una doppia vita, gli domandai dove fosse stato la sera prima: fu allora
che mi disse che mi voleva molto bene, ma solo come amica. Rimasi di stucco. Mi chiese, per favore, di mantenere il segreto, e mi confessò di essere gay. Ribadì il suo amore per me, ma non come compagna, e disse che sarebbe stato molto egoista, da parte sua, farmi perdere tempo. Enric era un po' più grande di me, e io dovevo essere davvero ingenua, dal momento che la prima cosa che mi venne da chiedergli fu come poteva essere sicuro della sua omosessualità, se non avevamo mai fatto l'amore. Lui rise. Ti ho già detto che lo amavo alla follia; gli dissi che non mi importava del tempo, non mi importava di nulla, purché non mi lasciasse. Lo supplicai. Io. Riesci a immaginarlo? In un primo momento acconsentì, ma mi ripeté che avrei dovuto abituarmi all'idea che la nostra storia sarebbe finita, e che avrei fatto meglio a cercarmi un bravo ragazzo da sposare. Dovevo scordarmi di lui, perché non poteva darmi quello di cui avevo bisogno e la nostra relazione avrebbe finito col rovinarmi la vita. Poi iniziò a raccontarmi qualcuna delle avventure che viveva la notte, dopo che mi aveva riportata a casa. Ma io non volevo rinunciare a lui e arrivai perfino ad accompagnarlo nei bar che frequentava; addirittura, accettai le moine di qualche donna, pur di adeguarmi all'ambiente. «Ero disperata. Non mi interessava più nulla, tutto quello che desideravo era lui. Avrei accettato la sua omosessualità, lo avrei sposato e avrei permesso che continuasse a vedere degli uomini, pur di tenerlo con me. Glielo proposi, e per un po' credo che avesse considerato tale soluzione. «Lui accettava le mie carezze, e adesso penso che lo facesse per obbligo, per non umiliarmi. Mi feci coraggio, e decisi di tendergli una trappola. Me ne sarei pentita per tutta la vita. «Un pomeriggio che ero sola in casa, gli chiesi di venirmi a prendere e cercai un pretesto per farlo entrare in camera mia. E lì facemmo l'amore.» «Che cosa?» esclamai. «Ma non era gay?» «Sì», rispose, alquanto a disagio. «Ma, se voleva, poteva andare con una donna.» «Lui oppose resistenza?» «Sì, ma io mi impegnai a fondo. Volevo fargli provare piacere. Ero fuori di me. Volevo restare incinta. Qualunque cosa, pur di non perderlo.» «Ma tu eri vergine, no?» «Ma certo, te l'ho detto! E dopo quel pomeriggio non lo fui più. Fu un gesto disperato.» «E che cosa successe?» «Lui non volle più uscire con me.» Lo disse in tono triste. «Sosteneva
che la cosa mi avrebbe fatto stare male, e mi assicurò che saremmo sempre rimasti amici. Mi voleva bene, ma come se ne vuole a un'amica, o a una sorella. Io stavo malissimo, mi rimproveravo il fatto di averlo violentato, e pensavo di averlo perduto per questo motivo.» «Hai fatto l'amore con l'uomo che amavi», cercai di consolarla. «Che cosa c'è di male?» «No, non avrei dovuto forzarlo.» «È stupido continuare a incolparsi. Se, come mi sembra di capire, siete andati fino in fondo, evidentemente per lui non era stato un grande sacrificio. Ma dimmi: che cosa accadde, dopo?» «I Coll e i Bonaplata presero molto male la notizia della rottura, ma io ed Ernic continuammo a vederci nelle riunioni periodiche delle nostre famiglie. Lui era sempre affettuoso con me. Il tempo passò, io uscivo con qualche amica e qualche amico, cercando di rimettermi in sesto: finché arrivò il giorno in cui venni a sapere che lui viveva con una donna.» «Alicia!» «Esatto. Enric chiese di vedermi per dirmelo di persona. Mi disse che lui e Alicia conducevano lo stesso stile di vita, e che avevano raggiunto un accordo.» «Un accordo?» «Sì. In questo modo, si erano costruiti un'esistenza convenzionale di facciata, e i loro genitori erano felici.» «Ma hanno avuto un figlio.» «Faceva parte dell'accordo. Lo desideravano entrambi. La cosa, però, mi fece stare male. Era tutto così doloroso, per me: la fine della nostra relazione, il fatto che si fosse messo con Alicia e che avessero avuto un figlio... fu un'esperienza durissima. Lui mi consolava, e si giustificava dicendo che ero una piccola borghesuccia, e che non ero preparata ad affrontare la vita ambigua che avrebbe potuto offrirmi: non avrei retto. Sarei stata davvero infelice. Alicia, invece, era come lui.» «Ma poi hai conosciuto Daddy e ti sei innamorata di nuovo», cercai di rianimarla. «Sì.» «E poco dopo sono nata io.» «Sì, tesoro. E sono riuscita a rimettere insieme la mia vita.» «Ma hai continuato a vedere Enric.» «La nostra amicizia, anche se rovinata, si mantenne, e noi cercammo di seguire la tradizione delle nostre famiglie e per dimostrargli che non gli
portavo rancore, gli chiesi di farti da padrino. Lui accettò, entusiasta; ti voleva bene come a una figlia.» Visto che era in vena di confidenze, decisi di chiederle una cosa che mi incuriosiva da tempo: «Ma perché, se le cose andavano tanto bene, non sei mai voluta tornare a Barcellona?» Lei mi guardò per qualche istante in silenzio. Sembrava quasi che stesse riflettendo sulla mia domanda. Intanto, osservando il suo viso, pensai alla ragazza di trent'anni prima. Doveva assomigliarmi molto. Un'altra generazione, diverse considerazioni sociali, ma era giovane. Come me adesso. Provava dei sentimenti, soffriva, cercava l'amore e l'amore le scappava... «Tutti, incluso Enric, erano convinti che ci fossimo lasciati di comune accordo e senza rancori. Ma, da parte mia, quella era una farsa dolorosa. Continuavo ad amarlo, e odiavo Alicia sin dal giorno in cui ero venuta a sapere della sua esistenza. Mi faceva male vederli insieme: la buffonata del loro amore apparente, il fatto che fosse sempre lei a comandare e che si mostrasse così brillante... Pensavo che, semplicemente, Enric aveva preferito lei. La sera in cui mi giunse la voce della sua gravidanza, non riuscii a dormire. Fu allora che conobbi tuo padre, e mi sposai. «Continuavamo a incontrarci in occasione delle riunioni famigliari; a volte, fortunatamente, veniva da solo con Oriol, altre volte con Alicia. Il loro rapporto mi faceva soffrire ma lo sopportavo, forse perché non volevo rassegnarmi a perdere del tutto la sua amicizia, o forse perché, nonostante fossi innamorata di tuo padre, sentivo ancora qualcosa per lui. Ma non riuscii mai ad abituarmi e, con il passare degli anni, la cosa divenne insopportabile. Io tenevo duro, ma a un certo punto sorse un motivo molto più importante che mi spingeva a lasciare Barcellona per non farvi mai più ritorno.» «E cioè?» Mi guardò negli occhi, in silenzio, prima di rispondere: «Tu». «Io?» le chiesi, meravigliata. «Sì.» Tacqui. Aspettai che fosse lei a parlare. Sapevo che era venuta da New York per dirmi qualcosa. «Erano i primi di settembre. Tu eri ancora una ragazzina, e io, insieme alla domestica, stavo chiudendo la casa estiva prima del ritorno in città. Era un pomeriggio afoso. All'improvviso, una raffica di vento sollevò le tende alle finestre, e vidi delle nubi plumbee giungere veloci dal mare, annunciando l'arrivo di una burrasca. Sapevo che eri alla spiaggia; presi un
paio di asciugamani e un ombrello e uscii a cercarti. Ero quasi in riva al mare, quando vidi la ragazza che badava a voi ragazzi correre con i tuoi amici in paese, a cercare riparo. Non riuscivo a trovarti, e gli altri non sapevano dirmi dov'eri. Allarmata, mi avvicinai al mare. Con quell'acquazzone non riuscivo a vedere bene, ma continuai a cercarti. E alla fine, al riparo tra gli scogli, vidi una coppia di ragazzi che si baciavano. Eravate tu e Oriol.» Fece una pausa e io dovetti restare a bocca aperta. Non riuscivo a credere che, in qualche modo, mia madre condividesse con me quel ricordo così intimo. Se l'avessi saputo allora, sarei morta di paura! «Ero così sorpresa che non ebbi alcuna reazione: tornai di corsa a casa, dove arrivai bagnata fradicia. Provai una sensazione di panico, di terrore.» «Ma perché?» «Avevo notato com'era cresciuto Oriol. Ha gli occhi di sua madre. Dio mio, quanto la odio! Ma quasi tutto il resto è di suo padre. Se ci penso, mi fa ancora male!» Si fermò, e il suo sguardo si perse in fondo al locale. Una lacrima le scivolò lungo la guancia. Mortificata, nascose il viso dietro le mani. Le accarezzai un braccio, cercando di consolarla. E pensai che, trent'anni prima, forse era davvero come me. Ma non volevo diventare come lei, in futuro. «Oriol ti ricordava il fallimento della tua relazione con Enric», le dissi, dolcemente. Per alcuni minuti non rispose, e io rispettai il suo silenzio. «Sì. Ma ormai mi ero abituata all'idea della sconfitta», mi guardò ancora negli occhi. «Era il tuo fallimento che mi terrorizzava. Credi forse che, prima di vedervi sulla spiaggia, non mi fossi accorta che ti piaceva?» «E che cosa c'era di male, se ci piacevamo?» «Hai sentito bene le mie parole? Mi ero accorta che lui ti piaceva, non che vi piacevate.» «Che cosa stai insinuando?» «A differenza degli altri ragazzi, Oriol non correva dietro a un pallone prendendolo a calci; te l'ho detto, mi ricordava molto suo padre...» Fece una pausa; poi, con enfasi, aggiunse: «Me lo ricordava soprattutto in questo». «In questo... cosa?» «Nelle sue tendenze sessuali.» «La tua è un'affermazione del tutto gratuita», mi difesi.
«No, non lo è», rispose, con fermezza. «Oriol è uguale a Ernic, è uguale a sua madre. Sono della stessa risma. Non lo vedi? È gentile, probabilmente ti vuole bene come se ne vuole a un'amica, a una sorella. Se provi a violentarlo, magari ti lascerà fare, per non offenderti. Ma alla fine se ne andrà, e tu avrai il cuore spezzato. È nella sua natura. Anche volendo, non potrebbe fare altrimenti.» «Ti sbagli.» «No, invece. Non sbaglio adesso, e non mi sbagliavo allora. Vidi con orrore che si stava per ripetere quello che era accaduto a me. Mi resi conto che per anni, senza saperlo, avevo temuto che potesse succedere una cosa simile. Quando scoprii che cosa provavi per Oriol, iniziai a fare pressioni su tuo padre perché sollecitasse il suo trasferimento a New York, o in America Latina. Volevo andare lontano. Volevo portarti via. Volevo evitare che tu soffrissi come avevo sofferto io. Per questo ce ne andammo, per non tornare mai più.» «Ma non avevi il diritto...» «E le lettere», continuò, concitata, «le lettere che gli scrivevi. E che lui ti scriveva. Le feci sparire.» «Che cosa?» Per poco non feci un salto sulla sedia. «Sì», disse, con sguardo di sfida. «Le feci sparire una dopo l'altra... fino a quando la corrispondenza cessò.» «Come ti sei permessa!» Questa volta, allo stupore si univa l'indignazione. «Non avevi nessun diritto di intrometterti così nella mia vita.» «Certo che ne avevo il diritto! Assolutamente! Sono tua madre, c'ero già passata ed era mio dovere proteggerti... E avevo il diritto di trasferirmi in America, di portarti con me, per cambiare radicalmente la tua esistenza e il tuo destino. Era una mia precisa responsabilità evitarti di soffrire. E lo è ancora adesso.» Fu allora che tornò alla carica; mi disse che dovevo dimenticarmi di Oriol e di quei favolosi racconti sull'esistenza di tesori, e che dovevo tornare a New York con lei. Basta con le avventure: il mio futuro era con Mike; era lui il mio tesoro. Non potevo rovinare ogni cosa per stare dietro alle scemenze del mio padrino. E andò avanti a parlare, continuando a ripetere le stesse cose. Non so dire a che punto smisi di ascoltarla, fingendo di prestarle ancora attenzione. Ancora una volta mi immaginai di lì a trent'anni, mentre cercavo di evitare che mia figlia commettesse i miei stessi errori. Il suo racconto mi stupì. Dove aveva trovato il coraggio di costringere Ernic a fare sesso con lei?
Aveva avuto la stessa determinazione con cui adesso pretendeva di riscattarmi dal suo presunto errore. Non potevo perdonarle di aver rubato le mie lettere, ero indignata, ma una gioia improvvisa mi colmò il cuore. Era vero: non gli avevo creduto, quando me l'aveva detto, ma era vero. Oriol mi aveva scritto. E mi chiesi se la decisione di abbandonare Barcellona, e di tagliare i ponti con il passato, fosse dovuta realmente alla volontà di proteggermi, e non piuttosto al desiderio di non vedere più Enric insieme ad Alicia. Terminammo il vino e restammo sedute a tavola a chiacchierare, davanti a un bicchierino di liquore. I bicchierini si moltiplicarono: continuammo a bere, fino a quando il ristorante cominciò a chiudere. D'un tratto, sentii uno strano cameratismo con lei. «Raccontamelo ancora una volta», dicevo, quando ormai era l'alcol a manipolare la mia lingua. «Spiegami un po': com'è che ti sei scopata Enric?» E lei, che aveva bevuto quanto me, rideva, faceva delle smorfie educate e si scusava dicendo che in quei momenti era molto nervosa; e io, cattiva, glielo chiedevo di nuovo, insistevo scherzosamente per avere i dettagli. Poi si mise a piangere; la abbracciai e provai lo stesso impulso. Tra le lacrime, la maledissi a voce alta per avermi rubato le lettere di Oriol. Lei reagì dicendomi, tra un singhiozzo e l'altro, che l'avrebbe rifatto mille volte, e che non avrebbe permesso che soffrissi come lei. Dovevo staccarmi da un uomo di quel genere. «Davvero te lo sei portato a letto?» tornavo a domandarle. Non riuscivo ad abituarmi all'idea. Non era possibile, non da parte di mia madre. Per me, lei non era una donna. Era la mia mamma, e le mamme non fanno certe cose. Ma lei non rispondeva, e ribadiva fino alla noia quanto fosse stupendo Mike. Spinte dall'alcol, avremmo prolungato fino all'alba la nostra chiacchierata o, meglio, la nostra coppia di monologhi, se non avessi visto lui. Era seduto in un angolo, con il bicchiere in mano, solo come la morte. L'uomo dai capelli bianchi, con gli occhi di un blu pallido e gli abiti scuri. Il vecchio che teneva una daga nascosta sotto la giacca. Era lì. E quando notai che mi stava guardando, fui percorsa da un tremito. «Corvo!» gli dissi, in preda all'alcol, puntandogli il dito. Ma dubito che riuscisse a sentirmi, in mezzo al chiasso del locale. «Smettila di seguirmi.» Si limitò a fissarmi. Per un attimo, ebbi l'impressione che fosse sul punto di lasciarsi sfuggire un sorriso. Ma non accadde.
«Vattene», lo apostrofai ancora. Mia madre volle sapere che cosa stava succedendo, ma quando iniziai a raccontarglielo, lui era già sparito. Andai al bancone, e chiesi che ci chiamassero un taxi; fino a quando non vidi l'automobile di fronte al bar, non ebbi il coraggio di uscire in strada. 29 Il nostro letto, enorme, era orientato verso sud, verso la montagna di Montjuïc; Maria del Mar, con indosso solo i suoi indumenti intimi, vi cadde addormentata. Lo sforzo di togliersi il vestito, nonostante il mio aiuto, era stato troppo per lei. Nel giro di qualche istante, ronfava dolcemente. I vecchi reggono meno l'alcol, mi dissi. Poi pensai che, forse, bevono di più. Mi sdraiai al suo fianco, e mi resi conto che il mobile del televisore, unico ostacolo tra il letto e l'ampia vetrata che dava sul vuoto, era talmente basso da non impedirmi, anche da quella posizione, un'ampissima veduta sul porto e sul monte. Le prime luci del giorno cercavano di trapassare le nuvole plumbee, lottavano per imporsi sull'oscurità. Ma non ci riuscivano. I lampioni delle banchine erano ancora accesi e si riflettevano nelle acque nere; più in alto, le luci di Montjuïc percorrevano le strade e le cime dell'altura. Le sfumature grigie opache della vegetazione, ancora notturna, ne marcavano i contorni contro il grigio e il blu intenso della nebbia del cielo, e facevano presagire un'alba che premeva per arrivare senza riuscirci. La presenza dell'uomo vestito di nero aveva risvegliato la mia attenzione e il torpore provocato dall'alcol sembrava essere svanito. Dio mio, quante sorprese! Enric e mia madre. Che storia incredibile. Quanto doveva aver sofferto, la poveretta! Dormiva accanto a me, rannicchiata in posizione fetale, quasi tentasse di difendersi dal prossimo colpo che la vita le avrebbe riservato. Scostai i suoi capelli tinti di castano chiaro, nel vano tentativo di imitare il colore e la brillantezza della gioventù, e le diedi un bacio sulla fronte. Non ce la facevo ad aspettare e disimballai da sola la tavola della Vergine; mai come in quel momento l'avevo trovata misteriosa. Confrontai i due anelli di rubino, quello che portavo al dito e quello dipinto, entrambi bellissimi ma sinistri. Poi, lanciai uno sguardo a quell'alba titubante, che non riusciva ad avere la meglio sulla notte. Le luci del porto, che adesso era un lago custode di neri misteri, la città che dormiva ai miei piedi, incantata
ma triste, una strega enigmatica. Come la tavola. Il mio ultimo pensiero, prima di chiudere gli occhi, andò a quel vecchio funesto. Ma perché avvertivo quello strano senso di paura? In quel momento, mi resi conto di conoscerlo già da prima. Ma da quando? E perché continuavo ad avere paura di lui, se era intervenuto per proteggermi all'uscita dalla libreria Del Graal? Artur Boix mi chiamò il giorno seguente. Si scusò per essersi lasciato prendere dalle emozioni; d'altra parte, se io avevo sofferto in seguito alla scomparsa del mio padrino, potevo immaginare che cosa avesse significato, per lui, perdere il padre e lo zio. In effetti, anch'io mi ero eccitata durante il nostro ultimo incontro, che era finito in modo burrascoso. Mi invitò a cena, e io gli dissi che non cenavo da sola con un uomo che non fosse il mio fidanzato, e che oltretutto mia madre era in città. Dopo un momento di esitazione, ribatté che sarebbe stato felice di portar fuori la signora e il signor Wilson e tutta la mia famiglia; percepii il suo sorriso all'altro capo del telefono. Aggiunse anche che era un tipo serio, e che le sue intenzioni erano buone. «Se è così, preferisco venirci da sola», risposi, ridendo. Mi piacciono gli uomini con il senso dell'umorismo, e Artur di sicuro non ne è privo. «Però usciremo a pranzo, dopo che mia madre sarà ripartita.» «Non te ne pentirai. Ho molte cose da raccontarti.» Maria del Mar si trattenne altri tre giorni. Tre giorni che dovetti dedicare esclusivamente a lei; facemmo un giro nostalgico della città; visitammo la nostra vecchia casa, quella dei nonni, le nostre vie più amate... Andammo a bere una cioccolata nelle granjas che frequentavamo allora, esplorammo i suoi ristoranti preferiti; e lei mi raccontò aneddoti di quando era bambina, adolescente, e giovane sposa. Qualche storia la conoscevo, altre non le avevo mai sentite. Ridemmo come due ragazzine, e sentii che il cameratismo tra noi due andava crescendo. Andammo perfino a cena con Luis e Oriol. E in quell'occasione, ci fece un regalo inaspettato. «Questa è la radiografia della tavola della Vergine», disse, consegnandoci una busta enorme di cui, fino a quel momento, non aveva voluto rivelarmi il contenuto. «L'ha fatta la tua amica Sharon; la lascio a voi, e vi auguro con tutto il cuore di trovare il tesoro di Enric.» Aveva le lacrime agli occhi, ma dubito che questo colpì particolarmente i due cugini, che fissavano ipnotizzati la busta. La aprii con molta cautela, in cerca dell'iscrizione occulta ai piedi della Madonna. Era lì, infatti. Ma riuscii a leggere solo: «si trova in una».
«'Il tesoro si trova in una grotta marina'... ecco il messaggio completo», disse Oriol, deluso. «Lo sapevamo già. Il dipinto non dice niente di nuovo», osservò Luis. Educati, la ringraziammo del pensiero. Non era l'indizio sperato, pensai. Dovevamo continuare a cercare. Come mi aspettavo, mia madre non volle incontrare Alicia, e non cambiò opinione, che mi ripeté cento volte, nemmeno sul ragazzo dagli occhi blu. Dovevo dimenticarmi di lui, dovevo tornare da Mike. Ma fu abbastanza discreta da andarsene quando incominciavo ad averne abbastanza di lei. Ero impaziente di riprendere la nostra caccia al tesoro, dopo l'interruzione. Devo ammettere che la sua compagnia fu davvero piacevole, e che i giorni trascorsi insieme furono ben spesi. Ciononostante, dopo averla accompagnata all'aeroporto, corsi in albergo, feci le valigie e tornai a casa di Alicia. 30 «Ti va di vedere una galera?» mi chiese d'un tratto Oriol. «Una galera?» ripetei, sorpresa. La sua domanda mi coglieva impreparata. Se ricordavo bene, era un tipo di imbarcazione, di cui avevamo letto nel manoscritto. «Esatto. La nave comandata da Arnau d'Estopinyá, il frate sergente del Tempio», mi spiegò, notando la mia esitazione. «Lo so che cos'è», risposi, offesa. «Allora? Ti va di vederne una?» Mi sorrideva; i suoi denti bianchi erano luce, i suoi occhi a mandorla, blu, un mistero. Quel ragazzo, anzi quell'uomo, continuava a sedurmi. È un'enorme imbarcazione di legno e occupa un'ala dell'antico edificio che un tempo ospitava i cantieri navali di Barcellona, e che oggi è noto come Museo Marittimo. Grandi archi sostengono il tetto di tegole: si dice che l'originale venne costruito proprio qui, più di quattro secoli fa. Al di là della curiosità di sapere com'era fatta la nave di Arnau, avevo un interesse personale nei confronti della visita: per la prima volta nella mia vita uscivo da sola con Oriol. Ammesso che andare a vedere delle galere potesse essere considerato un vero «appuntamento». Mi dissi che, per una donna impegnata come me, quell'«uscita culturale» non rappresentava un tradimento, e non era troppo audace. Guardai l'anello di Mike e mi sorpresi
vedendo, ancora una volta, che la luce interiore del rubino templare era molto più forte di quella del diamante, tagliato solo di recente. Una galera è una lancia gigantesca, i cui fianchi relativamente bassi permettono ai lunghi remi di arrivare all'acqua con facilità. Non ha nulla a che vedere con quelle imbarcazioni dalle alte coperte, cariche di cannoni, o con le caravelle di Colombo. Sembrava avere centinaia di remi, tutti ritti. «Era un vascello tipicamente mediterraneo, pensato per le azioni belliche», mi spiegò Oriol indicando il legname, quando gli esposi le mie impressioni. «Questo è una riproduzione a grandezza naturale di quello che venne costruito in questi stessi cantieri per Giovanni d'Austria, fratellastro di Filippo II, l'imperatore, che partecipò alla famosa battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, in cui una flotta composta da navi spagnole, veneziane e papali sconfisse definitivamente i turchi. Quegli stessi turchi che, tre secoli prima, avevano cacciato i nostri templari dalla Terra Santa, e che avevano continuato a espandersi nel Mediterraneo, conquistando Cipro, Creta e arrivando persino a minacciare l'Italia, e in particolare il regno di Napoli e le grandi isole, all'epoca dominio della corona spagnola. La cosa curiosa è che a quella battaglia parteciparono anche alcune galere degli ospedalieri, i maggiori rivali dei Poveri Cavalieri di Cristo, nonché eredi di gran parte dei loro beni. Tre secoli dopo, l'ordine dell'Ospedale sopravviveva con il nome di ordine di Malta; cacciato dalla Terra Santa in seguito all'avanzata turca, e costretto a lasciare Cipro, Rodi e Creta, stabilì il proprio quartier generale a Malta, ottenuta da Carlo I - detto dai tedeschi Carlo V -, titolare della corona d'Aragona.» Mi guardò, sorridente. «In Spagna si dice che furono i nostri a guidare la flotta alla vittoria, ma se avrai occasione di visitare il Museo Navale di Venezia, ti accorgerai che i veneziani sostengono di essere stati loro al comando. E sono certo che il pontefice reclamava per sé quel merito. Begli alleati!» Risi, discreta, al suo commento ironico e distolsi lo sguardo da quegli occhi blu che continuavano a turbarmi. Guardandoli fissamente, avevo sentito sulle mie labbra il sapore del sale, ricordo della sua bocca, e il sapore del mio primo bacio. Ma, apparentemente, lui non condivideva le mie sensazioni, e proseguì con la sua tiritera, come se niente fosse. «La storia risente dell'influenza di chi la scrive. Una cosa è sicura, però: Venezia contribuì con molte più navi dell'intero impero spagnolo, che allora comprendeva non solo la Catalogna, Valencia e Maiorca, ma anche Napoli e la Sicilia.»
L'entusiasmo di Oriol nei confronti del passato rendeva difficile per una donna di oggi come me attirare la sua attenzione davanti alle curve sensuali di una galera. Se ne stava lì, estasiato, a contemplare il vascello. «Questo modello subì poche modifiche nel corso di sei secoli», mi spiegava. «Nell'Impero Bizantino, intorno all'anno Mille, aveva già raggiunto una forma simile a questa: rappresentava il culmine delle migliorie tecniche apportate al combattimento navale antico. Era l'erede diretta della trireme romana, nonché delle imbarcazioni di greci e fenici. Possiamo tranquillamente affermare che questo tipo di nave dominò il Mediterraneo per duemila anni. Era stata progettata per essere veloce; si lanciava sulle navi nemiche per affondarle, conficcando il rostro anteriore in una fiancata; nel Medio Evo, però, il rostro venne impiegato soprattutto come ponte per abbordare gli avversari. Questa che vedi montava già dei cannoni, che si collocavano soprattutto a prua, e in parte a poppa e lungo le fiancate, ma l'artiglieria non era ancora molto potente. Quando i cannoni migliorarono, le galere non vennero più impiegate come navi da guerra. È naturale: se il nemico poteva essere affondato a cannonate, perché giocarsi la nave nell'attacco? «La galera di Arnau d'Estopinyá era una delle cosiddette bastarde: il termine indicava le imbarcazioni dotate sia di vele sia di remi. Poteva spiegare due grandi vele latine, e montava trentasei banchi di tre rematori ciascuno su entrambi i lati. Questa è un po' più grande e più larga, anche se ha una lunghezza leggermente inferiore; aveva trenta banchi, e ogni remo era manovrato da quattro galeotti. I remi venivano impiegati solo in combattimento, quando occorreva muoversi più rapidamente, o quando mancava il vento. Riesci a immaginartelo? Settantadue remi che colpivano la superficie del mare contemporaneamente! C'era bisogno di un tamburo che segnasse il ritmo, perché tutti andassero a tempo.» Gli brillavano gli occhi per l'entusiasmo. Oriol vedeva la nave di Arnau d'Estopinyá, la chiglia che divideva il mare, lanciandosi a tutta velocità contro un vascello nemico. «All'epoca, era l'imbarcazione più rapida», aggiunse. E così, Oriol continuava a istruirmi. Io lo seguivo, doppiamente attenta; certo, le sue parole mi interessavano. Ma devo confessare che era la sua persona a rendere il racconto affascinante. Perlustrammo la nave per tutta la sua lunghezza, camminando all'altezza della chiglia. Da lì riuscivamo a vedere soltanto il legname dello scafo; in alcuni punti mancavano delle assi, per permettere ai visitatori di osservare
le viscere dell'imbarcazione, e di studiare gli attrezzi custoditi nelle varie parti. Arrivando alla poppa, ammirai il castello altissimo, che da terra appare maestoso, dalle ricche decorazioni barocche. «La Na Santa Coloma non aveva nessuno di questi fregi. Quella che vedi qui era la prima nave, comandata da Giovanni d'Austria, fratello dell'imperatore della corona ispano-tedesca. Il secondo uomo per importanza dello Stato più ricco del mondo. L'unica decorazione della galera di Arnau d'Estopinyá doveva essere la croce patente, o quella patriarcale del Tempio, dipinta sulla poppa e sugli scudi che proteggevano galeotti e balestrieri.» Salimmo varie rampe di scale, fino ad arrivare a una piattaforma collocata sopra ai primi banchi dei rematori, alla stessa altezza della cosiddetta carrozza, il ponte di comando della nave. Lì viaggiavano gli ufficiali della galera, insieme al secondo e al timoniere. Non si mescolavano alla ciurma dei vogatori, né ai corniti e alle guardie che facevano eseguire gli ordini. Da lì si vedeva la zona dei remi e, in fondo, il rostro di prua. Su uno schermo collocato sopra le nostre teste, partì un filmato, sicuramente programmato per avviarsi automaticamente; riproduceva i galeotti che faticavano ai remi. E questi venivano proiettati quasi sui banchi della nave reale. Fu allora che accadde; me ne resi conto all'istante. Era l'anello. Un'altra volta. E, d'un tratto, le immagini e i suoni registrati vennero superati da una visione mille volte più potente. Una visione che mi veniva da dentro, più forte di qualsiasi realtà. Udivo i battiti del tamburo, che segnava il ritmo di voga, e lo sciabordio dei remi nell'acqua; sentivo il fetore acre e penetrante del sudore e della sporcizia dei galeotti che, coperti di stracci e incatenati ai banchi, erano costretti a fare lì i loro bisogni. Sentivo la brezza, vedevo il blu del cielo e del mare, la spuma bianca sulla cresta delle onde. Il giorno era limpido, ma il mare mosso faceva sobbalzare il vascello. Davanti a noi c'era un'altra galera, in cima agli alberi sventolavano le bandiere verdi dell'Islam. Sui nostri, invece, ondeggiava il gagliardetto templare da combattimento marittimo, un teschio bianco su fondo nero. Le guardie facevano la ronda lungo il corridoio centrale, minacciando con il nerbo chi non spingeva sui remi con energia sufficiente, quando un uomo appollaiato sull'albero maestro gridò qualcosa. Udii una voce, forse la mia, che chiedeva di correre alla catapulte; e da prua arrivava il rumore
vibrante del legno incurvato, che tendeva a recuperare la forma naturale. Il battito del mio cuore era accelerato e, con molta tensione, tenevo stretta l'impugnatura della spada che portavo alla cintola; sapevo che, di lì a poco, la morte avrebbe spazzato via molte persone. Forse anche me. La nave nemica si dava alla fuga sfruttando i suoi remi, ammainando le vele come avevamo fatto noi pochi momenti prima. Ma ero convinto che l'avremmo raggiunta. «Più veloci!» gridai. E l'ordine venne trasmesso a grida dai corniti lungo la corsia fino al tamburo che, da prua, marcava la cadenza delle vogate. I nerbi cominciarono ad abbattersi sulle schiene dei forzati che non riuscivano ad adattare la propria velocità al ritmo massimo. La ciurma, in coro, cominciò a borbottare per lo sforzo ogni volta che i remi s'immergevano in acqua e la nave accelerava. Le urla di dolore si accompagnavano allo schiocco di frusta. Il tanfo dei corpi arrivava fino a me, ora più intenso, con l'aria che proveniva da prua; e percepii quello che molte volte, in simili episodi di trance, avevo notato nel puzzo. Quel fetore addizionale tenue e infido: l'odore della paura. La distanza dal nostro obiettivo diminuiva, ma anche la nave nemica era veloce, e le pietre scagliate dalle nostre macchine da guerra non riuscivano a raggiungerla. La corsia, a prua, era piena di balestrieri che aspettavano di avere i saraceni sotto tiro. Uno lanciò un dardo che si conficcò nelle assi di poppa del vascello nemico, ma da quella distanza il rischio di errore era grande, e ordinai loro di fermarsi per risparmiare le frecce. Fu allora che i moriscos scoprirono la carrozza della galera e il marinaio appollaiato sull'albero gridò: nafta! Linee di fumo si disegnarono nel cielo, mentre giare di combustibile in fiamme cominciarono a cadere intorno alla nostra nave. I soldati si coprirono con le corazze, poco utili contro il fuoco, ma la ciurma remava senza protezione e, tra i banchi diciotto e diciannove a dritta, una giara cadde proprio sopra uno di quegli infelici, trasformando il disgraziato in una palla di fuoco liquido che sfiorava i suoi compagni. Gli uomini ululavano angosciati e, quando lasciarono andare i remi, la nave virò a babordo. Il timoniere cercava di correggere la rotta, gli strilli degli ustionati erano spaventosi; ma quello non era il momento per cedere alla paura o alla compassione. «Gettate delle fronde sul fuoco!» ordinai.
Non era la prima volta che ricorrevamo a quello stratagemma. Mentre corniti e soldati cercavano di spegnere il fuoco con secchi d'acqua, i marinai salirono dalla stiva con sacchi di frasche e miscela per calafatare che gettarono sulle fiamme, che, all'aria, continuavano ad ardere sotto forma di braci. Di lì a poco, una colonna di fumo nero si levò sopra la nave. «Smettete di remare!» gridai. «Remi in acqua!» L'ordine venne trasmesso per la corsia e la nave si fermò, oscillando e abbandonando l'inseguimento. Le fiamme erano già sotto controllo, quando la vedetta urlò che i saraceni stavano riducendo la vogata, e la loro nave stava virando. Per un attimo, le tracce di fumo dei loro proiettili si arrestarono e, mentre viravano, riaprirono il fuoco, questa volta dalla corsia di prua. I nostri corniti tolsero rapidamente le catene a feriti e moribondi della sezione vogatori, mentre i rematori volontari, i cosiddetti bonavoglia, che non avevano bisogno di ceppi, prendevano il loro posto. La nostra galera, coperta da una spessa nuvola di fumo che i marinai si erano fatti carico di alimentare, sembrava ferita a morte; in realtà, era pronta a combattere. La nave nemica veniva verso tribordo, scagliandoci fuoco e frecce; volevano approfittare della confusione per colpirci. Non avrebbero mai osato abbordare una galera come la Na Santa Coloma, se il suo equipaggio non fosse stato ridotto. I miei uomini si muovevano in mezzo al fumo, come se la situazione fosse realmente grave, e i dardi moriscos già raggiungevano il legname e i galeotti dei primi banchi, che cominciarono a gridare. Eravamo a circa duecento metri, quando ordinai: «Tirate i dardi! Remate!» Gli ordini si diffusero velocemente verso la prua, e il tamburo cominciò a risuonare, insieme alle frustate e ai lamenti. Una nuvola di frecce volò sul nostro nemico e, di lì a poco, si udirono grida dall'altra galera, che aumentarono quando, per nostra fortuna, riuscimmo a colpire la coperta con una pietra. I saraceni non si resero conto dell'inganno fino a quando, mentre la nostra nave balzava in avanti, il fumo del focolare, non alimentato, iniziò a spegnersi. Allora commisero il secondo errore. Nel tentativo di evitare lo scontro virarono a babordo per schivarci ma, grazie alla forza dei nostri rematori, che si erano riposati mentre i loro vogavano, e alla nostra maggiore potenza, riuscimmo ad affondare il nostro rostro nella fiancata di tribordo, vicino alla carrozza, facendo saltare assi e schegge. Nel frattempo i nostri balestrieri, cercando di non colpire i galeotti del vascello nemico sicuramente schiavi cristiani, ebbero il tempo di lanciare una seconda saet-
ta su guerrieri e ufficiali; la mira era più sicura, grazie alla distanza ridotta. Al grido di arrembaggio, i nostri, esperti in questo tipo di combattimenti, corsero sul rostro gridando «Per Cristo e per la Vergine», e saltarono con facilità sull'altra nave. Nonostante le perdite subite a causa delle frecce e delle sciabolate more, e dimenticandoci della soldatesca ammucchiata per la maggior parte a poppa, attaccammo con ferocia la carrozza a poppa, dove in pochi istanti guardie e ufficiali furono decapitati. Quando tutti i nostri furono a bordo e incominciarono ad avanzare per la corsia verso la prua, tra i banchi dei galeotti che ci acclamavano, seppi che avevamo vinto. E dal mio petto, gonfio di gioia e di orgoglio, si levò un grido vittorioso. A quel punto mi resi conto di trovarmi di nuovo nel museo. Dovevano essere passati solo pochi secondi; Oriol stava parlando. «... i modelli d'alto bordo, come le caravelle di Colombo, veniva utilizzato anche ai tempi di Arnau. Ma erano navi da carico, destinate al commercio. Navigavano solo a vela, e lo scafo più profondo permetteva di trasportare pesi notevoli. L'antecedente più ovvio era la cosiddetta coca, oppure l'orca, la caravella e tutta la famiglia delle imbarcazioni minori chiamate 'fuste'; quanto alle galere, ve ne sono almeno dodici tipi distinti...» Mi aggrappai al corrimano e, sedendomi a terra, portai una mano al petto. Avevo il battito accelerato, mi mancava l'aria. «Che cos'hai?» chiese Oriol allarmato, interrompendo la sua dissertazione. «Mi è successo un'altra volta», mormorai, quando ripresi fiato. «L'anello.» 31 Dopo quell'esperienza angosciosa, mi sarei aspettata un po' di comprensione da parte di Oriol. Contavo sulla sua sensibilità, e credevo si rendesse conto degli strani poteri posseduti da quell'anello. Di certo, non immaginavo che sarebbe stato proprio lui il protagonista del mio successivo spavento. Indugiammo negli antichi cantieri navali il tempo necessario per raccontargli dell'accaduto e, quando si fu assicurato che mi fossi più o meno ripresa, forse con l'intenzione di rincuorarmi, mi disse che voleva mostrarmi un posto molto speciale. Attraversammo un viale e, dopo essere entrati in
un quartiere di case vecchissime, girammo un angolo, poi un altro, per infilarci in un minuscolo bar. Indubbiamente, si trattava di un posto speciale: alle pareti sudice erano appese mensole piene di bottiglie, ricoperte da uno strato di unto vecchio di decenni, insieme ad alcuni quadri deprimenti, talmente sporchi che a stento si intravedevano le donne raffigurate, che fumavano sigarette guardandoti con un'espressione infinitamente schifata. I ritagli di giornale incorniciati confermavano la singolarità del locale. Si sentivano le note di una musica francese, provenienti da una di quelle vecchie radio di legno verniciato, prima dell'era dei transistor. «Questo è il bar Pastis», mi informò Oriol, dopo aver ordinato una bibita simile all'anisetta allungata con acqua, che a me non piacque affatto. Immagino che volesse tirarmi su con quel beverone, ma ebbi l'impressione di non essere sulla strada giusta. Se solo ripensavo alla visione avuta poco prima, ai cantieri, mi veniva la pelle d'oca. Inevitabilmente, il mio sguardo andava all'anello con la pietra maschio, color rosso sangue; forse, cercavo di intravedere nella sua trasparenza il fantasma del vecchio templare che sembrava abitarlo. «Amo la leggenda di questo posto», aggiunse, distogliendomi dalle mie tetre congetture. Con lo sguardo percorreva l'intera topaia, e i suoi occhi avevano la stessa espressione nostalgica che gli avevo notato al museo, quando con il pensiero era andato alle grandi battaglie dei vascelli di legno, e agli eroi annegati nella acque del Mediterraneo. A giudicare dalle condizioni del locale, quella che stava per raccontarmi doveva essere per forza una vecchia storia. Oriol era fatto così; gli piaceva vivere nel passato. Chissà se ripensava anche alle onde, alla burrasca, al bacio. «Venne fondato nel '47 da Quimet, un pittore dilettante che conduceva una vita da bohémien, al suo ritorno da Parigi. Vi era emigrato dall'Africa come pied noir alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Andava in cerca di successo, come già avevano fatto Picasso e Juan Gris. Allora la città francese era la capitale dell'arte, e New York aspirava a rubarle il posto. Insieme a lui c'era anche Carme, una robusta alicantina, piena di temperamento, forse sua cugina. Lei lo amava con passione ed era convinta del talento artistico del suo ragazzo. Lavorava nei bar, puliva, faceva qualsiasi cosa per guadagnare il denaro sufficiente per mantenere entrambi. Ma i quadri di Quimet, ispirati alla nausea esistenzialista, non vendevano. Chi avrebbe mai voluto appendere nel suo salotto delle immagini tanto scadenti e deprimenti?» Sorseggiai quel liquido bianchiccio che Oriol aveva ordinato senza dar-
mi scelta, e guardai le tele annerite dal fumo. Donne dallo sguardo vuoto davanti a bicchieri ugualmente vuoti, uomini che fumavano. Figure femminili per la strada, sicuramente prostitute in attesa di clienti. Non mi era sfuggito che la zona in cui mi aveva portato faceva parte dell'antico Barrio Chino, baluardo della prostituzione a buon mercato della città. Annuii con il capo. Di sicuro, non avrei mai appeso niente di simile alle pareti di casa mia. «Probabilmente, Quimet aspirava a divenire un Toulouse-Lautrec in chiave esistenzialista, nella Barcellona degli anni Cinquanta, e metteva su tela le immagini della realtà che lo circondava», continuò Oriol. «Si firmava Pastis. All'epoca, era la cultura francese a riscuotere l'ammirazione degli ambienti colti, a discapito di quella anglosassone. Le famiglie borghesi inviavano i propri rampolli al Liceo Francese.» Come mamma ed Ernic, pensai. «Quel che è certo è che Quimet radunò un gruppo di amici e di fedeli in un circolo pseudoartistico marginale, per ascoltare Edith Piaf, Yves Montand, Juliette Gréco e Jacques Brel, sorseggiando pastis, mentre discutevano delle ultime tendenze diffusesi nella capitale del mondo.» Prese un sorso dal suo bicchiere e si guardò intorno, prima di fissarmi dritto negli occhi. «Mio padre frequentava questo bar», mi confidò. Mi sforzai di sostenere il suo sguardo; aveva gli occhi umidi? Lo squallore del locale mi diede una scusa per avvicinarmi un po' di più a quel ragazzo timido e introverso, trasformatosi in un uomo affascinante e ambiguo. Lo amavo ancora? E lui provava - o aveva mai provato - qualcosa, per me? Restammo in silenzio, a guardarci, con le antiche ballate da chansonnier che sussurravano parole d'amore nella penombra; nonostante cinque o sei clienti, che quasi riempivano il locale, la situazione mi sembrò molto intima. Ed ebbi l'impressione che si avvicinasse, che le nostre labbra si desiderassero: mi mancava il sapore della sua bocca. Mi vidi riflessa nelle sue pupille. Una ragazzina di tredici anni che anelava il suo primo bacio d'amore, durante una burrasca di settembre. Una donna scriteriata che fantasticava di ricostruire una relazione rovinata dal tempo e dalla distanza. Una relazione interrotta sul nascere, esistita soltanto nel mondo parallelo dei miei sogni. Mi avvicinai di qualche millimetro ancora; il cuore mi batteva all'impazzata. «Fu lui a portarmi qui.»
«Chi?» chiesi, stupidamente. Era come se mi fossi risvegliata all'improvviso, ancora una volta, senza sapere dove mi trovassi. Esattamente com'era accaduto ai cantieri, poco prima. Solo che adesso il responsabile dell'incantesimo non era l'anello, ma lui. «Mio padre, Enric.» Oriol era sempre lì, vicinissimo; ma la magia si era spezzata. Lo aveva fatto di proposito? Aveva avuto paura di quel bacio che i nostri sguardi sembravano promettere? Non aveva avuto il coraggio di spingersi oltre? Forse era davvero gay, come dicevano. Lanciai un'occhiata alle pareti anguste, per dissimulare l'imbarazzo. «Fu lui a parlarmi della leggenda. Se leggi gli articoli appesi a questi vecchi muri, troverai delle storie diverse. Ma, per me, l'unica versione autentica è quella di Enric.» «Avanti, racconta.» «Quimet era un tipo brillante, carismatico, capace di attirare la gente. In questo locale si riuniva un fedele gruppo di clienti e amici. Ma nessuno, oggi, parla del suo lato oscuro.» «Lato oscuro?» «Esatto. A parte dipingere, chiacchierare, bere, boxare e fumare, non faceva molto altro. A parte...» «A parte che cosa?» «A parte suonarle di santa ragione a Carme, quando era ubriaco.» Mi indicò una piccola cornice dietro il bancone. «Guarda, quella foto li ritrae insieme.» Osservai inorridita l'immagine in bianco e nero, ormai ingiallita; un uomo con i capelli pettinati all'indietro e una donna attraente, con la bella chioma acconciata secondo la moda degli anni Cinquanta, con indosso un grembiule immacolato, sorridevano guardando l'obiettivo. «E perché glielo lasciava fare?» «Perché lo amava.» «Non è una giustificazione.» «Lo mantenne durante il periodo trascorso a Parigi, e continuò a lavorare per lui anche qui, a Barcellona.» «Ma perché, oltre a permettergli di bighellonare tutto il tempo, sopportava anche le sue aggressioni?» «Perché lo amava.» «Ma non è un buon motivo...» «Era malato. E un brutto giorno Quimet morì, vai a sapere se di cirrosi,
di sifilide, o in seguito a una sbronza», mi interruppe. «E fu allora che questo bar e l'amore di Carme divennero leggenda.» «Perché?» «Carme decise di lasciare tutto com'era quando Quimet era in vita. Guarda le bottiglie sulle mensole.» «Sono coperte da uno strato di unto.» «Le pareti non vennero mai tinteggiate, la musica continuò a essere quella di sempre; Carme, con il grembiule bianchissimo e inamidato, stava dietro al bancone, e quando le chiedevi qualcosa che non fosse un pastis, metteva il muso e criticava sottovoce. Quando entravi, ti accoglieva con un sorriso, mentre puliva il bancone con uno strofinaccio, e ti chiedeva: «Che cosa prendi? Un pastiset?» come se fosse il tributo obbligato alla memoria del suo sant'uomo. A me, che ero solo un bambino, era concesso di prendere una bibita fresca. «All'inizio, tutti sentirono la mancanza del pittore; addirittura uno dei suoi amici, un membro del movimento de la nova cançó, gli dedicò una poesia in catalano che venne incisa su un disco: 'Quimet del bar Pastis ja no et veurem mai mes...' (Quimet del bar Pastis ormai non ti vedremo più...) e continuava dicendo... 'però hi ha un fet que no es enten: cada vegada hi ve mes gent' (Ma accade un fatto incomprensibile: arriva ogni volta più gente). «La leggenda del bar Pastis come monumento dell'amore di Carme per Quimet era sopravvissuta al pittore dal fegato scoppiato. E Carme che, nonostante i maltrattamenti subiti, era una donna tutto pepe, cercò sempre di mantenere un ambiente decente, cacciando fuori senza esitazione i clienti non graditi. Quando si ritirò, al principio degli anni Ottanta, il Pastis conservava ancora la sua popolarità, e i suoi continuatori hanno fatto di tutto per mantenerne lo spirito.» Oriol prese un sorso del suo pastis, e mi guardò un'altra volta. Sulle sue labbra danzava un sorriso appena accennato. «Saresti capace di amare tanto, Cristina?» Riflettei alcuni istanti, prima di rispondergli. «Io credo nell'amore.» «Ami il tuo fidanzato fino a questo punto? Lo ami quanto Carme amava Quimet?» Il fatto che avesse tirato in ballo Mike mi mise a disagio. Dentro di me, ammisi che, volendo essere onesta, avrei dovuto rispondere di no. «Non lo so. Mi sembra un'esagerazione», sussurrai. «Io non ebbi modo di conoscere Quimet, ma quando chiedevi di lui a
Carme, lei ti diceva che era un artista; il suo sguardo tornava al passato, le sue labbra si incurvavano a formare un sorriso, e dalle sue parole traboccava l'ammirazione. Tu potresti mai arrivare a stimare tanto un uomo? Lo sosterresti con il tuo lavoro, ti prenderesti cura di lui nella malattia, e sopporteresti i suoi maltrattamenti?» «No!» esclamai, scandalizzata. E lui sorrise, soddisfatto. «Lo vedi?» disse, con aria trionfante. «Esistono diversi modi di vivere. E diversi modi di amare. Ci sono persone disposte a sacrificarsi, per l'oggetto del loro amore. Alcuni danno persino la propria vita.» Quell'osservazione mi fece pensare. Che cosa voleva dirmi? Si riferiva a suo padre? A se stesso? O, magari, a entrambi? Usciti dal bar, ci avviammo verso le Ramblas. Lasciai la mano sinistra a penzoloni, vicina alla sua, forse sperando ingenuamente che si sfiorassero, o che finalmente si unissero, come capitava qualche volta quando da ragazzini andavamo alla spiaggia. Non mi ero accorta della ragazza che, venendo dietro di noi, bloccò Oriol afferrandolo per un braccio. «Ciao, tesoro!» disse, con una strana voce. Oriol si voltò, e non riuscii a vedere la sua espressione. «Ciao, Susi!» Susi indossava una minigonna in pelle rossa, e delle calze nere. Era alta e bella, ma aveva esagerato con il trucco e con i tacchi a spillo. «È un bel pezzo che non ci vediamo, dolcezza.» La sua voce... «Stavo per dire lo stesso», rispose lui. Poi aggiunse: «Ti presento Cristina, un'amica d'infanzia che è venuta a trovarci da New York». «Molto piacere», disse lei senza lasciargli il braccio, lanciandomi due baci senza nemmeno sfiorarmi le guance, e facendo schioccare le labbra come se me li avesse dati davvero. E io, che continuavo ad avere una strana sensazione, feci lo stesso. Susi portava un profumo forte, dolciastro. «Piacere mio», dissi. Ma non lo era affatto. Ero sorpresa che Oriol potesse avere tanta confidenza con una ragazza del genere. Era una vera burina. «È un'amica speciale?» gli chiese Susi. Aveva un seno decisamente abbondante. «È un'amica a cui voglio molto bene», affermò, mentre sulla sua bocca
si dipingeva un sorriso malizioso. «Ah!» esclamò. Le sue labbra carnose e sensuali si aprirono in una risatina, mostrando i denti ingialliti dal tabacco. Mi guardò. «Allora possiamo fare una cosa a tre.» Rimasi sconcertata per qualche secondo; alla fine, turbata, cominciai a comprendere l'incomprensibile. Susi era una prostituta che cercava di vendere la sua mercanzia. Ci illustrò quello che avremmo potuto fare insieme, descrivendo le scene nei dettagli e fornendoci ogni genere di particolari scabrosi, senza alcun pudore. Lanciai un'occhiata a Oriol. Lui mi osservava sorridente, quasi aspettasse una mia decisione. Mi sentii male, quando mi resi conto che stavo arrossendo; erano anni che non mi agitavo così, io che mi vanto di essere molto sicura di me, e di sapermela cavare in qualsiasi frangente. Ma devo confessare che la brillante avvocatessa, dalla risposta pronta e intelligente, non era preparata a una cosa simile; quella situazione andava al di là delle mie possibilità. Riuscite a immaginarvi la scena? Ma il peggio doveva ancora arrivare. Passato il momento di sorpresa, riuscii a visualizzare alcune delle immagini descritte da Susi. E fu allora che mi illuminai. «Tu non sei una donna!» L'esclamazione mi uscì senza che riuscissi a evitarlo. «Sei un uomo!» «La prima osservazione è abbastanza corretta, tesoro», ribatté Susi, senza perdere il sorriso. Solo adesso notai il prominente pomo d'Adamo. «Non sono ancora completamente donna. Quanto al resto, ti sbagli: non sono nemmeno un uomo. Non vedi che tette?» E, così dicendo, le sollevò con le mani. Come avevo già notato, erano davvero voluminose. «Avanti, Oriol, facciamo qualcosa tutti e tre insieme», insisté, guardando lui. «Solo cinquanta euro, venticinque a testa. E il letto lo metto io.» Non riuscivo a credere a quello a cui stavo assistendo. Era come se accadesse a un'altra persona, in un altro posto. Era del tutto irreale. Quando poi sentii la voce di Oriol, mi crollò il mondo addosso. «Che ne dici del programma, Cristina?» Quegli occhi blu a mandorla che tanto avevo amato da ragazzina mi stavano guardando, mentre un ampio sorriso lasciava intravedere i suoi denti. «Andiamo?» «Sì, andiamo», esclamò Susi, prendendo entrambi per la vita. «Andiamo, signorina; io so dare piacere tanto agli uomini quanto alle donne... Di certo non ti capiterà mai più l'occasione di vivere un'esperienza come questa; con un uomo e con me, contemporaneamente.»
Per un momento soltanto provai a immaginarmi tra loro due, e solo per un breve istante sentii una morbosa eccitazione. Poi sopraggiunse l'orrore... 32 Quella sera, mente contemplavo la città dalla mia stanza, telefonai a Mike. Erano due giorni che non parlavo con lui, e me lo rinfacciò. E io accettai il rimprovero; avevo bisogno del suo amore, della sua devozione, del suo affetto. «Ti amo, mi manchi», mi disse, dopo la sgridata. «Lascia perdere quella sciocca caccia al tesoro, e torna da me.» «Anch'io ti amo.» Sentivo profondamente quelle parole. «Darei qualunque cosa per averti al mio fianco in questo momento. Ma devo trattenermi fino alla fine di questa storia.» Quella conversazione, e il fatto di sapere che Mike continuava ad amarmi, furono un vero balsamo per le mie ferite. Perché di questo si trattava: mi sentivo ferita. E molto. Davvero Oriol avrebbe voluto organizzare un incontro con il travestito? Se apparteneva a quel genere di viziosi e se questo era stato il suo scopo, per avere una minima probabilità di successo doveva almeno aspettare che tra noi ci fosse una relazione. La sua proposta era un vero e proprio insulto. No, non era quello il suo proposito. «Non mi aspettavo di incontrare Susi, e ho improvvisato. Era uno scherzo», mi disse. Io avevo attraversato la strada quasi di corsa, fino alle Ramblas, senza rispondere alla sua offerta indecente. Lui aveva salutato Susi, raggiungendomi al centro del corso. «Be', non mi è piaciuto.» «Andiamo, non arrabbiarti. Le ho dato corda per vedere la tua reazione... mi sembrava una cosa divertente.» Le sue spiegazioni non mi avevano convinto. Ero molto addolorata e, quando mi chiusi nella mia stanza, mi vennero le lacrime agli occhi. Oriol era riuscito a deludermi profondamente. Dov'era finito il ragazzo timido di cui mi ero innamorata da bambina? Quella sera, affacciata alla finestra, vedendo le luci della città e singhiozzando ancora per il disgusto, non riuscii a evitare di rimuginare su quei due episodi. Prima a quello del bar. Oriol mi aveva messo di fronte a un modo di vivere e di pensare diverso dal mio. Quella devozione della
donna al suo uomo, quella sottomissione volontaria. Che cosa voleva insinuare? E poi l'incontro con Susi. Lo aveva preparato lui? Mi aveva mentito, dicendomi che era stato un caso? Ero sicura che Oriol si aspettasse una risposta negativa, da parte mia; a stento riesco a pensare a una situazione più inadeguata per proporre di fare sesso a una donna. Allora perché l'aveva fatto? Forse, nel mio rifiuto, cercava un alibi alla sua omosessualità? E Susi. Quella complicità, quella confidenza; senza dubbio si conoscevano da tempo. Ma che relazione avevano? Forse quello che li univa era proprio questo: la loro condizione sessuale. Magari andavano a letto insieme. Quando andai a dormire non riuscii a prendere sonno. Le immagini della psicometria che avevo sperimentato ai cantieri ritornavano ogni volta che chiudevo gli occhi. Le linee di fumo della nafta incendiata che volava verso di noi, l'odore terribile delle escrescenze umane accumulatesi sui corpi per mesi, il tanfo di carne bruciata, le urla degli ustionati e di chi era stato ferito dalle lame di spade e sciabole. Avevo la nausea. Mi alzai per bere dell'acqua e vidi quell'anello malefico che emanava la sua luce rosso sangue. Me lo sfilai al dito e lo posai sul comodino. Avrei dormito con il diamante puro e trasparente del mio fidanzato. Quella notte non sarei riuscita a sopportare altre terribili visioni del passato. Impiegai non so quante ore ad addormentarmi e, quando finalmente ci riuscii, fu una tragedia. Tornai a sognare, e questa volta la colpa non era dell'anello con il rubino. All'inizio fu un sogno erotico, piuttosto stupido, simile ai tanti che talvolta ci assalgono la notte. Ma, considerato il mio stato d'animo, il finale non fece che aumentare la mia inquietudine. Cominciò in modo molto dolce, con Oriol che si avvicinava per baciarmi, mentre io socchiudevo le labbra e abbassavo le palpebre per assaporare la sua saliva, il sale. Sentendo la sua mano sotto la gonna, fui sul punto di scoppiare dal desiderio. Ma quando aprii gli occhi mi spaventai, vedendo che ad accarezzarmi lì era un altro uomo. Cercai di protestare, e smisi di baciare Oriol; e in quel momento vidi che il secondo uomo, continuando a palparmi, iniziava a baciare lo stesso Oriol, che ricambiava la sua passione. Non riuscivo a sottrarmi a quello strano abbraccio a tre in cui, mentre cercavo l'amore di Oriol, facevo sesso con un individuo che aveva l'aria di essere l'amante del mio amico. No, non era un travestito come Susi, ma aveva lo stesso profumo. Al risveglio, il mio respiro era irregolare. Sentii un miscuglio di eccita-
zione e di angoscia. Chissà come sarebbe proseguito il sogno. Non voglio nemmeno immaginarlo. Era un'ambigua mescolanza di orrore e piacere. E dietro a tutto questo c'era il timore che mi accompagnava: Oriol era gay? O forse gli piacevano sia gli uomini sia le donne? Quel dubbio mi turbava. E poi dovevo riconoscerlo: continuavo a sentire qualcosa, forse più di qualcosa, per lui. Si sarebbe ripetuta anche per me la storia già vissuta da mia madre? Quella mattina, arrivai quasi alla depressione. Seduta sul letto, guardavo con timore l'anello di rubino posato sul comodino. E pensavo a Oriol, scoraggiata. Al diavolo il tesoro e quelle antiche storie di dolore! Avrei fatto meglio a dar retta a mamma e a Mike. Desideravo sentirmi amata, e non mi sarebbe dispiaciuto nemmeno farmi coccolare un po'. Iniziai a programmare il mio ritorno. In quel momento, però, squillò il telefono. Era Artur, che mi invitava a pranzo. Accettai subito; se non altro, lui era un tipo galante. E, sotto tanti aspetti, molto più attraente di Oriol. «Non capisco. Perché non denunciaste il furto delle tavole alla polizia?» gli chiesi. «Come sai che non l'abbiamo fatto?» Mi guardava sorridente. Sì, mi dissi. Era decisamente più attraente di Oriol. «Ho le mie fonti.» Mi guardò, molto interessato. «Te l'ha detto Alicia?» «Non ne ho parlato con lei. L'ho saputo dal commissario Castillo. Fu lui a condurre le indagini. Non venne denunciato nessun furto. Ci fu davvero?» «Ma certo.» «Allora come speravate di recuperare la merce, senza una denuncia?» «Abbiamo le nostre tecniche.» «La stessa che avete usato con l'amico del mio padrino?» «Senti, Cristina. Noi abbiamo il nostro modo di lavorare, e non vogliamo che la polizia metta il naso dove non deve.» «Siete dei mafiosi, vero?» Artur scosse il capo disgustato. Poi riprese a parlare, misurando le parole, e il sorriso un po' forzato tornò sulle sue labbra. «Questo è insulto, mia cara.» Fece una pausa. «Siamo solo dei commercianti che seguono un proprio regolamento negli affari.»
«Un regolamento che include l'omicidio...» «Solo se è indispensabile...» Guardai il suo bel viso, mentre cercavo di decidere se andarmene o meno in quel momento. Mi resi conto di avere le labbra serrate, segno che ero furiosa. Senza dubbio, quello era un uomo pericoloso. Ma non era il pericolo a spaventarmi: cercavo solo di capire se fosse il caso di piantarlo un'altra volta in asso. La sua arroganza, il modo in cui si sentiva al di sopra della legge mi indignavano. Probabilmente dipende dall'avvocato che è in me. Artur sembrò indovinare i miei pensieri, e si affrettò ad aggiungere: «Non credere che loro siano migliori...» «Loro chi?» «Oriol, Alicia e gli altri...» «Perché? Che cos'hanno che non va?» «Fanno parte di una setta.» «Ma che stai dicendo?» «È la verità», affermò, del tutto convinto. «Almeno io sono sincero, e non faccio mistero delle mie intenzioni. Loro, invece, te le nascondono.» Non dissi nulla, e cercai di assimilare quanto avevo sentito. «Avanti, raccontami quello che devi dirmi, una volta per tutte», gli dissi, infine. Mi spiegò che, spinto dal romanticismo di fine Ottocento e dall'esaltazione del Medio Evo da parte degli artisti catalani, dai poeti agli architetti, un avo Bonaplata, frequentatore assiduo di circoli massoni e rosacruciani, fondò un suo gruppo segreto, resuscitando una versione molto sui generis dell'ordine dei templari. Ne facevano parte i Coll, la mia famiglia e la sua, i Boix. Ma, passate alcune generazioni, quando Ernic venne nominato maestro dell'ordine, il padre e lo zio di Artur iniziarono a sentirsi a disagio per via del carattere sempre più esoterico e ritualista assunto dal gruppo. E non fu di grande aiuto il fatto che Enric fosse riuscito a cambiare lo statuto, perché venissero ammesse le donne, e che la prima dama templare fosse Alicia, una donna dalla forte personalità che, oltre a imporre i suoi criteri, si dilettava a praticare pseudostregonerie e a studiare leggende occulte sui cavalieri del tempio di Salomone. «Fu allora che apparve Arnau d'Estopinyá.» «Arnau d'Estopinyá?» chiesi, sorpresa. «Sì», fece lui, molto serio. «Proprio lui, il templare.» «Ma com'è possibile?» esclamai. «Come 'apparve'?» Ero sconcertata. Artur non mi sembrava tipo da credere ai fantasmi, ma la sua espressione
era davvero convincente. «Apparve... a chi?» «Al tuo padrino.» Mi resi conto che l'antiquario si compiaceva della mia perplessità. «A Enric?» I miei pensieri correvano a gran velocità. Forse questa storia aveva qualche legame con le visioni che Alicia attribuiva al mio anello? «Esatto. Un bel giorno, quell'uomo si presentò al tuo padrino. Disse di essere anche lui un templare, e chiese l'ammissione al nostro 'magistero'...» «Un momento», lo interruppi, «Arnau d'Estopinyá morì nel secolo XIV!» «Tu credi?» «Ma certo!» «Allora non sarà la stessa persona», rispose lui, enigmatico. Scossi la testa, annuendo, senza riuscire a nascondere il mio stupore. Quello scherzo incominciava a irritarmi. Artur doveva avermi preso per una stupida. «E invece no», fece lui, all'improvviso. «Sembra proprio che si tratti dello stesso Arnau d'Estopinyá di settecento anni fa.» Rimasi in silenzio, aspettando che fosse lui a riprendere il discorso; quello che diceva era impossibile. Mi stava prendendo in giro, e volevo vedere fino a dove si sarebbe spinto con quella storia assurda. «In realtà, quest'uomo non è il vero Arnau; ma è convinto del contrario, crede di essere il vecchio templare», aggiunse, con un sorrido divertito. «Ma non è possibile, no?» «Dev'essere pazzo!» «Infatti. Ma in quel momento Enric decise di concedergli un'udienza e di approvare la sua candidatura. Anche mio padre faceva parte della commissione che ascoltò la sua storia e, sebbene fosse piuttosto diffidente, votò a suo favore.» «Ma perché lo ammisero, se era pazzo?» «Per il tesoro.» «Il tesoro?» «Già. Quel tipo era davvero un frate, espulso dal suo ordine perché violento e soggetto a frequenti cambiamenti d'umore. Addirittura, era arrivato ad accoltellare un altro monaco dopo aver discusso sul canale televisivo da guardare. Ma si presentò al gruppo proclamandosi continuatore di una stirpe di frati custodi del segreto del tesoro templare delle corone di Aragona, Maiorca e Valencia. Portava un anello che non ho mai visto; ma se do credito a quello che mi hanno raccontato, doveva essere molto simile al tuo.»
Guardai il gioiello. Alla luce del ristorante brillava debolmente, quasi fosse addormentato. «Credi che sia questo?» mi chiese. «Sì.» «Allora per loro dev'essere estremamente importante.» «Per loro?» «Sì. Per la setta dei nuovi templari, quella di Oriol e di Alicia; quell'anello rappresenta il potere all'interno dell'ordine. Secondo Arnau d'Estopinyá, il sigillo proviene dallo stesso maestro generale, Guglielmo di Beaujeu, che morì combattendo ad Acri. Il suo anello, simbolo dell'autorità templare e del tutto simile a un gioiello posseduto dal pontefice, venne raccolto da un cavaliere che, nonostante le gravi ferite, riuscì a imbarcarsi sulla nave di Arnau; e proprio a quest'ultimo avrebbe affidato il prezioso sigillo, quando i templari aragonesi e catalani vennero catturati dal re.» Sentendo quella storia, che combaciava perfettamente con il racconto contenuto nel manoscritto, mi allarmai. Artur proseguì, senza notare il mio turbamento. «Alla morte di Arnau, avvenuta a Poblet, l'anello, la tavola e la leggenda del tesoro passarono di frate in frate, in una curiosa successione di prescelti, fino ad arrivare a oggi.» «Ma tuo padre ed Enric credevano fosse molto più che una leggenda.» «Effettivamente è così. Entrambi si lanciarono alla ricerca delle tavole nella zona dei monasteri cistercensi di Poblet e Santes Creus. Ma fu il tuo padrino a organizzare la carognata.» «E cioè?» «Essendo il maestro dell'ordine dei nuovi templari, non impiegò molto a convincere il frate pazzo che quella setta era l'erede diretta dell'ordine del Tempio. Così, accolse tra i membri Arnau e gli concesse una pensione vitalizia, che pagò di tasca sua. Il frate ne fu felicissimo; giurò eterna obbedienza al tuo padrino, consegnandogli l'anello che credeva gli spettasse di diritto, essendo maestro dell'ordine. A quanto pare, quell'uomo non aveva mai considerato il gioiello una sua proprietà, ne era semplicemente il depositario.» «E che cosa fece alla morte di Enric?» «Mio padre e mio zio avevano abbandonato la setta diversi mesi prima, in seguito alla discussione riguardo alle tavole e al disaccordo con l'autorità crescente di Alicia. Quando morì suo marito, quest'ultima, contravvenendo alla posizione tradizionalmente affidata alle donne dai templari e
servendosi dell'appoggio di un gruppo di sciocchi rimasti vittima del suo fascino, assunse la carica di maestro. Mantenne la promessa fatta da Enric, e continuò a pagare puntualmente la pensione ad Arnau, il quale, folle ma lucido, le giurò fedeltà. Alla fine - alcuni controvoglia - tutti accettarono la guida della donna; io non la conosco personalmente, ma ho sentito dire che ha carisma, e che è riuscita a unire perfettamente la tradizione occultista che avvolge il mito templare ai suoi intrighi, ottenendo il rispetto e l'ammirazione dei fratelli dell'ordine.» «Spiegami un po' questa storia dell'occultismo e dei templari.» «Intorno all'ordine sono sorti racconti di ogni genere: la tragica fine dei poveri cavalieri di Cristo, le accuse di eresia, le grandi ricchezze... tutto ciò ha stimolato l'immaginazione di migliaia di persone. Se a questo aggiungi la leggenda secondo cui Giacomo di Molay, l'ultimo dei grandi maestri dell'ordine, mentre bruciava sul rogo citò davanti al tribunale di Dio il re di Francia e il papa, entrambi deceduti entro la fine di quello stesso anno, ottieni un quadro misterioso e inquietante. Altri ancora sostengono che i templari fossero i custodi del Santo Graal, delle Tavole della Legge dettate da Dio a Mosè, o addirittura che possedessero un reliquiario contenente alcune schegge della vera croce di Cristo, responsabili di miracoli incredibili...» «E che cosa c'è di vero, in tutto questo?» «Vuoi la mia sincera opinione?» «Naturalmente.» «Niente! Sono solo racconti.» «Ma al tesoro ci credi.» «È diverso. In alcune lettere inviate a Giacomo II, giunte sino a noi, è scritto che quando i templari consegnarono il castello di Miravet, ultima fortezza dell'ordine in Catalogna, nonché quartier generale dei regni di Aragona, Valencia e Maiorca, gli agenti reali non vi trovarono la fortuna sperata. Soltanto i libri, allora un bene di lusso, riuscirono a compiacere il monarca. Ma il favoloso tesoro che si pensava fosse nascosto nel castello era svanito. E, che si sappia, non riapparve mai più.» La suspense continuò ad aleggiare sopra di noi e, come se l'argomento fosse ormai esaurito, Artur iniziò a interessarsi della mia vita a New York, raccontandomi aneddoti sulla grande mela. Dopo un po', ridevamo entrambi. Artur è un tipo molto sottile e, probabilmente, durante il nostro incontro
aveva voluto soltanto gettare un seme: voleva indurmi a dubitare dei miei anfitrioni, i Bonaplata. E di certo aveva le sue ragioni. Erano alquanto misteriosi. Chissà cos'altro mi stavano nascondendo. Comunque, indipendentemente dalla veridicità delle sue storie, l'antiquario era riuscito a risollevarmi il morale, facendomi uscire dalla depressione in cui ero caduta per colpa di Oriol. Mi guardava sorridente, e non smetteva di elogiare tanto il mio cervello quanto il mio corpo. Normalmente, non avrei fatto molto caso a quell'adulatore; ma la mia autostima aveva bisogno esattamente di questo. Sembrava quasi volesse corteggiarmi e, al momento dei saluti, mi baciò la mano. «Non essere ridicolo», lo censurai, segretamente compiaciuta. E gli stampai due baci sulle guance. Più tardi, chiamai mia madre. «Sì, è vero», mi confermò. «Sia tuo nonno sia il padre di Enric appartenevano a una specie di club religioso. Ricordo che si autodefinivano templari. È normale che Oriol, essendo il primogenito maschio, abbia seguito la tradizione.» Quella notte, ancora una volta, mi rigirai nel letto. Forse Artur aveva ragione. Il suo sorriso mi appariva nell'oscurità. Che pasticcio! 33 Mi svegliai di nuovo all'alba. Era una delle notti più corte dell'anno, e non sapevo da dove venisse quel grido. Poi mi resi conto che ero stata io a urlare. Mi trovavo in quella brevissima fase di lucidità in cui riesci ancora a ricordare perfettamente tutto quello che hai sognato; e quel sogno era stato tanto reale, tanto impressionante che non ebbi paura di dimenticarlo. Accesi la luce, per essere sicura di non dormire. L'anello mi bruciava il dito, e la sua pietra brillava come un occhio insanguinato. Sentii il bisogno di sfilarmelo, e di avvicinarmi alla finestra per prendere un po' d'aria fresca. Le luci della città, ancora avvolta nelle tenebre, mi confermarono che ero sveglia. Sempre che quello che stavo vivendo non fosse un sogno ancora più grande, l'allucinazione di una persona morta da anni e che, come quando eravamo bambini, trasformava il suo desiderio di andare a caccia di tesori in realtà, anche se solo per un momento, per far divertire noi tre mocciosi. Non mi vedevo il viso. Davanti a me c'era solo una porta. Suonai. In
mano avevo una valigia. Sapevo che, oltre quella soglia, c'era la mia fine, il porto ultimo, la morte. Non avevo alcuna possibilità di sopravvivere, stavo andando incontro a un suicidio. Ma dovevo farlo: dovevo mantenere la promessa che mi univa al mio innamorato fino all'aldilà. Come gli antichi templari, come i giovani nobili tebani di Epaminonda. Non si abbandona il proprio compagno e, se viene ucciso, bisogna vendicarlo. Lo avevo giurato, e avrei tenuto fede alla parola. Ed era proprio questo senso dell'onore ad aver fatto dei tebani di quell'epoca - breve e sfolgorante come una stella - i greci più potenti, gli eroi più brillanti della storia. Lo stesso era accaduto ai templari, prima della loro decadenza. E io appartenevo a quella razza di paladini: mi preparavo ad affrontare il torneo finale. Mi si strinse il cuore, al pensiero dell'amico che mi era stato portato via, e di quel figlio che non avrei più rivisto; intanto, la videocamera di sorveglianza osservava la mia attesa paziente. Sentii un nodo alla gola, gli occhi mi si riempirono di lacrime e iniziai a mormorare una preghiera per loro. Quando la porta si aprì, trovai ad aspettarmi due individui che non conoscevo, entrambi in abito elegante e cravatta. Uno dei due si tenne a una certa distanza, mentre l'altro, senza dire una parola, mi spinse di schiena contro la porta, obbligandomi a mollare la valigia. Mi perquisì. Una, due, tre volte. Controllò il mio portafoglio, la penna stilografica e le mie chiavi. Assicuratisi che non avevo armi con me, ispezionarono la valigia. «Tutto a posto, può passare», disse il più anziano, prendendo la valigia. Voleva giocare d'anticipo. «Un momento», feci io, afferrandolo per un braccio. «Questa è roba mia, e continuerà a esserlo finché non avremo chiuso la transazione.» Lui mi guardò negli occhi, e dovette scorgere lo sguardo di chi non è disposto a cedere. «Fa lo stesso», disse con una scrollata di spalle al suo collega, che già si avvicinava minaccioso. «Lasciagli la sua cazzo di valigia. È tutto sotto controllo.» La sala era grande, ed era decorata con pezzi di valore in stile eclettico. Jaime Boix, il più giovane dei due fratelli, aspettava seduto su un magnifico divano Chippendale, mentre Arturo era dietro a un'imponente scrivania in stile impero. Si alzarono entrambi, vedendomi entrare. Jaime, che sorrideva sotto i baffetti grigi, mi tese la mano. «Benvenuto, Ernic», disse. Non gliela strinsi.
«Diamoci una mossa e facciamola finita.» Jaime smise di sorridere, mentre il fratello, serio, mi indicò una poltrona. «Siediti, per favore.» Nonostante l'espressione cortese, il suo non era certo un invito. Obbedii, tenendo la valigia ferma sui piedi. Jaime si accomodò sul sofà alla mia destra, mentre Arturo prese posto dietro il mobile napoleonico. Alle sue spalle, appese alle pareti, vidi le altre due tavole del trittico; le tele di San Giovanni Battista e di San Giorgio. Mi soffermai a guardarle per alcuni istanti. Non c'erano dubbi, erano proprio i due pezzi mancanti. I due gorilla rimasero in piedi; li osservai con astiosa curiosità. Dovevano essere gli esecutori materiali dell'omicidio del mio amato Manuel. Uno si mise alla mia sinistra, l'altro di fronte, bloccando l'uscita. «Ti sei assicurato che non porti un microfono?» chiese Arturo allo scagnozzo alla porta. «Niente microfono e niente armi, glielo confermo.» Poi, con un sorriso bieco, aggiunse: «L'ho perquisito fino ai coglioni». «Prima di portare a termine la transazione, ci teniamo a dirti qualcosa», fece Arturo, scambiando un'occhiata con il fratello. «Non volevamo che accadesse una cosa simile; ci dispiace per il tuo ragazzo; si è messo a fare l'isterico e ha opposto resistenza. È stato un incidente. Ma siamo felici di vedere che sei abbastanza assennato da voler chiudere un contratto da vero cavaliere. Da cavaliere templare», aggiunse, con una punta di sarcasmo. «Hai minacciato la mia famiglia.» Il sangue mi stava salendo alla testa. Odiavo quell'individuo, lo detestavo con tutte le mie forze. «E questo non è certo un comportamento da cavaliere. È una cosa indegna e spregevole.» «Desidero che tu sappia che non abbiamo niente contro i tuoi cari, contro te o la tua famiglia. E non avevamo niente contro quel ragazzo.» Fece una pausa. «Ma tu non sei stato affatto ragionevole; la colpa di quello che è accaduto è soltanto tua. Ti abbiamo dato un sacco di opportunità. Siamo uomini d'affari, e questo è il nostro affare. Non potevamo lasciarcelo scappare per la tua ostinazione. Mi dispiace.» Si interruppe per aprire un cassetto, da cui estrasse diverse mazzette di denaro. «Io e mio fratello abbiamo deciso di aggiungere alla cifra mezzo milione di pesetas. Il prezzo accordato era già pari al doppio del valore di una tavola gotica di inizio Trecento. Nessuno ci obbliga a farlo, ma è il nostro modo di dirti che ci dispiace per il tuo amico, e di saldare i conti.» Saldare i conti. Mi si torsero le budella dall'indignazione. Credevano di
cavarsela con mezzo milione di pesetas. Mi tremavano le mani, e dovetti fare uno sforzo per tenerle ferme. «Bene, a questo punto potresti mostrarci la merce», disse Jaime. «Siamo impazienti di vedere questa famosa Vergine.» Aprii la valigia e tirai fuori la tavola, poggiandola con cautela sulle ginocchia. Gli sguardi di tutti si fissarono sull'immagine, e io non diedi loro il tempo di accorgersi che si trattava di un falso; strappai il cartoncino che rivestiva il rovescio e, dal buco, estrassi la pistola che vi avevo nascosto. La afferrai con mano tremante e mi alzai in piedi, mentre il dipinto cadeva a terra. Avevo pensato di uccidere prima Arturo, e poi Jaime. Secondo i miei calcoli, avrei avuto giusto il tempo di far fuori i due fratelli, prima di essere liquidato dai due scagnozzi. Ma all'ultimo momento, forse la paura, forse il mio istinto di sopravvivenza - o entrambe le cose insieme - mi fecero cambiare idea. La prima pallottola finì nella pancia del sicario alla mia destra. Stranamente, sentendo il botto recuperai la calma, e con la seconda lo colpii al centro del volto. Quindi, potei affrontare tranquillamente il gorilla che avevo davanti. L'uomo aveva già messo mano al suo revolver. Mio padre, quand'ero piccolo, mi aveva insegnato i rudimenti della specialità olimpica del tiro al bersaglio. E olimpico fu lo sparo che gli trapassò la testa. Mi restavano cinque colpi. Più che sufficienti per terminare il lavoro. Affrontai Arturo, che aveva sparpagliato le banconote sul tavolo, nello sforzo frenetico di far fuoco con l'arma che aveva appena estratto dal cassetto. Gli scaricai due pallottole in petto. Jaime era immobile, a bocca aperta. Si era pisciato addosso, seduto sulla poltrona Chippendale. Che spreco! «Per favore, Enric», mi supplicava, balbettando. «Non volevi vedere la Vergine?» gli chiesi. Poi feci una pausa. «Ti prego», farfugliò. «Allora? L'hai vista?» Aveva gli occhi stralunati. Nei miei scorgeva la sua morte; muoveva la bocca, senza dire nulla. «E adesso vedrai Satana», sentenziai. Quando partì il colpo, mi sentii bene come mai in vita mia. E, qualche secondo dopo, mi sentii malissimo. Non riuscivo a credere di essere ancora vivo e, crollando sul divano, incominciai a piangere. 34
Vi ho già detto di non essere una persona timorosa. Anche se mia madre mi crede, piuttosto, una temeraria. Fatto sta che ogni tanto mi metto in situazioni critiche... OK, diciamo pure pericolose. E, quando mi capita, mi rendo conto che non dovrei trovarmi in quel posto, in quel momento. Devo riconoscere che quella volta andai a infilarmi proprio nella bocca del lupo; avevo paura, e a un certo punto mi misi addirittura a pregare per uscire incolume da quella trance. Mi vidi ancora un paio di volte con Artur Boix; era divertente, un vero seduttore e mi dava sempre dettagli nuovi sui Bonaplata e sulle loro attività segrete. Era stato lui a organizzare l'aggressione all'uscita dalla libreria, mi confessò; non poteva accettare il rifiuto di Oriol di negoziare una spartizione del tesoro. Mi giurò che i suoi scagnozzi non mi avrebbero mai fatto dal male: era ancora furioso con quei due inetti per essersi dati alla fuga. In parte, però, la colpa era sua: non aveva tenuto conto della possibile reazione del tizio che mi seguiva. Tutto ciò lo indusse a definire i nuovi templari una setta pericolosa, un gruppo di fanatici, di fantocci fuori di testa. E io, che ancora non conoscevo il funzionamento dell'ordine, solo per la simpatia che mi legava a Enric e a Oriol lo accusai di esagerare per interesse. Gli conveniva metterli in cattiva luce. La mia difesa dei templari sembrò irritarlo. Mi disse che celebravano cerimonie segrete, di cui erano al corrente solo gli iniziati, e la prova era che mi avevano tenuto fuori da tutto questo nonostante fossi una parte interessata, e nonostante vivessi con loro. Il fatto di possedere l'anello, poi, non solo mi rendeva di diritto un membro della setta, ma mi conferiva anche un certo rango. Lui insisteva e io, offesa dalla possibilità che Oriol mi tenesse all'oscuro di proposito (quanto ad Alicia, la cosa non mi interessava), iniziai a ridicolizzare la sua storia. Il bel sorriso sparì dal volto di Artur, che assunse l'espressione di un bimbo imbronciato. Quando serrava le labbra, cessava di essere attraente per rimanere semplicemente bello. A quel punto mi disse: «Scommetto che non hai il coraggio di presentarti a uno dei loro capitoli segreti». Gli risposi che è da maleducati andare in un posto in cui non si è stati invitati. E lui commentò che avrei potuto osservarli senza che mi vedessero. Non stava bene, obiettai; e mi accusò di avere paura. Quindi, aggiunse
che sapeva come entrare e uscire di nascosto: si trattava soltanto di avere tutto il necessario. Gli chiesi se avesse il coraggio di venire con me, e mi disse di sì, ma solo fino alla porta, per ovvie ragioni. Io, un'amica di famiglia, per di più con l'anello della massima autorità templare, se fossi stata scoperta me la sarei cavata. Ma a lui, in una circostanza simile, avrebbero riservato un trattamento decisamente più aggressivo. «La verità è che, anche se continui a negarlo, nemmeno tu ti fidi di loro», aggiunse. Non saprei dire se fosse la terza o la quarta sfida che mi lanciava. Il suo sorriso ironico lo rendeva ancora più attraente; e quella punta di sarcasmo era come il gusto acidulo del sorbetto al limone. Lo rendeva più appetitoso. «Certo che ho il coraggio di farlo», gli dissi. Poi tacqui, sfidandolo con lo sguardo. «Anche se la tua audacia ti permette solo di aprirmi la porta per lasciarmi passare, io entro.» Mi stava manipolando, e lo sapevo. Che cosa voleva ottenere, mandandomi in una chiesa a mezzanotte? Senza dubbio, voleva che osservassi i presunti riti templari, perché la sua credibilità aumentasse a discapito di quella di Alicia e Oriol. Glielo chiesi senza indugi. Disse che mi voleva al suo fianco, nella caccia al tesoro. E non gli importava che potessero scoprire che mi aveva attirato dalla sua parte, o che sapessero, una volta per tutte, che li stava minacciando: dovevano scendere a patti. A lui spettava di diritto buona parte di quella fortuna e la cosa migliore per tutti era raggiungere un accordo. Be', pensai, questo è quello che credi tu. Era la notte di San Giovanni, la più corta dell'anno; la notte del solstizio d'estate, dell'oscurità magica e delle ombre luminose, vegliata dalle streghe; di San Giovanni Battista, il patrono del Tempio che venne decapitato. Quella notte, secondo Artur, la setta si sarebbe riunita in un'antica chiesa gotica nei pressi di plaza de Cataluña. Mi disse che la liturgia cattolica celebra sempre la morte dei suoi santi, e la nascita di uno soltanto: quella del Battista, che, nel calendario, si trova nel punto esattamente opposto al Natale, la nascita di Gesù, che coincide con il solstizio d'inverno. Le date non furono scelte a caso: si sovrappongono alle celebrazioni popolari dei solstizi, che portano con sé riti pagani ed esoterici precristiani. E i cavalieri del Tempio di Gerusalemme vi partecipavano pienamente. Sentivo la città vibrare di un'energia eccezionalmente intensa, era una
notte di festa e nessuno si preoccupava del giorno seguente: niente lavoro. Nel cielo esplodevano fuochi d'artificio e per le strade, affollate come se fosse giorno, gruppi di giovani lanciavano petardi tra corse e risate. Era una notte di fuoco, di spumante e di quel dolce dalla consistenza dura, che chiamano coca, con glassa di zucchero e ricoperto di frutta candita e pinoli. Artur mi consegnò una pianta del tempio, illustrandomi la disposizione interna. Alla chiesa di Santa Anna i fedeli accedono attraverso quella che oggi è l'entrata principale, situata all'estremità destra della crociera: il portico è segnato da cinque archi gotici che poggiano su colonnine. Una statua della Vergine presiede l'accesso, che dà sulla piazzetta di Ramòn Amadeu. La seconda entrata si trova ai piedi della croce latina che forma la pianta originale del tempio, una croce attualmente piuttosto indistinta, per via delle cappelle laterali che vennero aggiunte in seguito. Quest'entrata comunica con il chiostro, una splendida costruzione a due piani, entrambi decorati da archi gotici, che coprono un corridoio che circonda un giardino quadrato. Al chiostro si accede anche dalla piazzetta, sebbene tale ingresso sia chiuso da un cancello di ferro, aperto solo in occasioni importanti. Alti edifici moderni circondano la chiesa e la piazza, chiudendole in una zona fuori dal tempo, occulta, un luogo che ha nostalgia di un passato assai più prospero. La sera, anche plaza de Ramon Amadeu viene chiusa da due cancellate di metallo; una si trova davanti a un portone che si apre nel centro di una casa abitata, vecchia di secoli, che dà su calle Santa Anna; l'altra, molto più moderna, dà sul passaggio Rivadeneyra, che a sua volta comunica con la plaza de Cataluña. È un luogo nascosto, apparentemente protetto in modo eccessivo, ma comprensibile, quando si viene a conoscenza delle vicissitudini economiche e delle violenze subite da quel venerabile edificio, prima monastero dell'ordine del Santo Sepolcro, poi collegiata e infine parrocchia. Tutti i terreni su cui sorgono le case che la circondano un tempo erano proprietà del monastero, e furono via via venduti per venire incontro alle necessità monetarie dei vari periodi; in seguito, si fece lo stesso con estesi possedimenti in Catalogna, Maiorca e Valencia. La chiesa venne chiusa dai francesi durante l'invasione napoleonica, e subì diversi assalti, prima e dopo. Pochi sanno che, su una parte di quella che oggi è la piazza, all'inizio del XX secolo venne eretta una stilizzata chiesa neogotica dagli alti pinnacoli, estensione del tempio attuale. Rimase in piedi appena ventidue anni: durante la Seconda Repubblica, venne bruciata e fatta saltare in aria.
E non sfuggì al fuoco neppure il vecchio edificio che, nonostante il crollo di alcune coperture, riuscì a evitare la dinamite per il suo status di monumento nazionale. Minor fortuna ebbero il parroco e diverse persone legate alla chiesa, assassinati in quei tempi convulsi. Esiste un terzo accesso al tempio, utilizzato solo dal personale religioso, che ha inizio nel passaggio Rivadeneyra, dove si trova la casa parrocchiale, e corre lungo il lato di quest'ultima, separandola dall'edificio vicino per poi sboccare nel chiostro. È chiuso da alcune grate, e serve come parcheggio per l'auto del parroco. In fondo al chiostro, poi, è delimitato da una porta, anch'essa dotata di inferriate. La sala capitolare, che comunica sia con la chiesa sia con il chiostro, e che un tempo veniva chiamata cappella dell'Angelo Custode, era il luogo in cui si riunivano i nuovi templari per officiare le proprie cerimonie. Era questo il mio obiettivo. Ma esiste un quarto ingresso, che quasi nessuno conosce. Addossate all'altare maggiore, e situate lungo il braccio corto della croce, ci sono due cappelle; attraverso quella di destra, quella del Santissimo, si accede alla sagrestia. Quest'ultima, in fondo, comprende due piccoli uffici, uno dei quali possiede una porta a vetri che, sul retro, dà su un patio circondato dalle mura della chiesa e dalla mole di una banca e di un'abitazione piuttosto alta, che nascondono interamente quell'estremità della costruzione me-
dievale. Il patio è diviso in due da un muro, che delimita la zona appartenente alla chiesa da quella della banca; in esso, si apre un vecchio portone fuori uso. Nella parte di proprietà dell'istituzione, una solida porta metallica comunica con un vicolo, formato dall'edificio bancario e dall'immobile vicino, che sbocca nell'ampia zona pedonale del Portai de l'Àngel. Da lì, in teoria, sarei dovuta entrare io. Il taxi ci lasciò sul lato est di plaza de Cataluña; a piedi, percorremmo i pochi metri che ci separavano dall'entrata misteriosa. Durante il tragitto, Artur ripassò con me la disposizione interna del tempio, e mi consegnò le chiavi del portone che separa il patio dall'entrata posteriore della sagrestia. Lui mi avrebbe aspettato nel vicolo. In quel momento, non mi sentivo sicura al cento per cento, e solo il mio amor proprio mi impediva di tirarmi indietro. E se fossi rimasta chiusa in quel vecchio edificio? Tra i deliziosi dettagli che avevo appreso dall'antiquario, c'era anche l'antica destinazione di quel luogo, un tempo adibito a cimitero. Lo ringraziai del gesto cavalleresco di voler aspettare fuori, ma senza esitazioni gli chiesi la chiave della porta metallica che dà sulla strada. Lui mi guardò con il suo sorriso cinico, dal sapore acidulo. «Paura?» mi chiese. «Prudenza», risposi, anche se in una situazione come quella era difficile distinguere tra le due cose. «Buona fortuna», mi augurò, sempre sorridendo e, accarezzandomi una guancia, avvicinò le sue labbra alle mie e mi diede un bacio in bocca, lingua inclusa. Non mi aspettavo un simile gesto d'affetto, ma lo accettai. In verità, non vi feci molta attenzione: in quel momento, le mie preoccupazioni erano altre. «Goditi quest'esperienza, dolcezza», aggiunse. E io mi chiesi se quel vanitoso si riferisse all'avventura che avrei vissuto o, piuttosto, al bacio. 35 Quando la porta si chiuse alle mie spalle, ebbi l'impressione di trovarmi in un altro luogo, in un altro tempo. Forse era solo la mia immaginazione, ma percepivo una strana vibrazione nell'anello di rubino. La luce di quella notte illuminata mi permise di trovare la porta che separava il patio della banca da quello della chiesa senza bisogno della torcia elettrica. Il muretto era basso e non nascondeva le pareti del tempio; e lì, nel contrafforte di pietra, nella penombra mi sembrò di vedere un rilievo scolpito. Mi allar-
mai, e vi puntai la torcia solo per un istante: era una croce. Era consumata dal tempo e aveva due traverse, identica a quella che avevo visto sul bastone del Cristo risorto che usciva dal Santo Sepolcro, nella tavola di Luis... Ma in quel momento, non so perché, spensi la luce guardando in alto e contro il cielo stellato si stagliava un' altra croce di pietra, che coronava un tetto. Era uguale a quella del mio anello: guardai il rubino, che rispose alla lanterna con un bagliore rosso. Un semaforo che mi metteva in guardia dal pericolo imminente. Tremai. Le coincidenze erano troppe. E proprio allora, notai un movimento nel patio. Non ero sola! Il cuore accelerò, mentre la schiena cercava protezione contro il muro, e la mano stringeva la torcia. Puntai il raggio di luce in quella direzione, e vidi due occhi brillare come fari. Un gatto. Stavo per morire di spavento per un merdosissimo gatto. Non sono superstiziosa, e nemmeno paurosa, ma avrei giurato che quella maledetta bestia era nera. Mi vennero in mente le storie sulle streghe che si trasformano in mici neri. Ma che diavolo ci facevo, lì? Era la notte delle streghe, e stavo per entrare in una chiesa che un tempo era stata un cimitero, piena di lunatici che si credevano templari e praticavano l'occultismo! Portai una mano al petto, come per frenare il cuore, che batteva all'impazzata. Trassi un respiro profondo e, quando incominciavo a riprendere il controllo, infilai la chiave, un pezzo di metallo così grande da somigliare a un martello, nella serratura. Girarla e aprire il portone non fu affatto semplice. Il cigolio delle cerniere mi fece sobbalzare. Il rumore lasciava intendere che quell'accesso non veniva usato da tempo. Mi rimproverai. Dannazione, non ero ancora entrata ed ero già un fascio di nervi. Considerai la possibilità di tornare in strada, ma mi resi conto che avevo più paura di affrontare il sorriso cinico del bell'Artur che tutti i templari vestiti con tunica e cappuccio, stile Ku Klux Klan - così li immaginavo allora - che si supponeva occupassero l'edificio. Inoltre, la mia curiosità era giunta a un livello tale che non mi sarei perdonata una fuga. Pertanto, la strada era una sola. Chissà dove aveva preso le chiavi Artur. Ricordai quanto mi aveva detto riguardo al modo in cui corrompeva le persone. Decisi di lasciare la porta socchiusa, in parte per evitare altri rumori, in parte perché, se fossi stata costretta a scappare fuori, non volevo impedimenti. Mi ritrovai in un patio angusto, in cui erano ammassate pietre scolpite, forse resti di qualche antico edificio. C'era un'altra porta: la parte su-
periore era a vetri, ed era protetta da sbarre. Era decisamente più moderna della precedente, e si aprì con facilità, con una piccola chiave. Lì c'era l'ufficio indicato sulla pianta; proseguii, entrando in una grande sala con mobili addossati alle pareti, che probabilmente servivano per riporre gli oggetti del culto. La sagrestia. Oltrepassai un'altra porta; stando al disegno, quella in cui mi introdussi era la cappella del Santissimo. Lentamente, accendendo la torcia solo alcuni secondi per orientarmi, mi diressi verso quello che doveva essere uno dei bracci della navata trasversale; alla mia sinistra c'era una struttura in legno, teoricamente il vestibolo dell'entrata da plaza Ramon Amadeu. Girando a destra, arrivai alla crociera. Rimasi ferma qualche istante, abituandomi al buio, per riuscire a distinguere l'interno della chiesa. Non c'era alcuna luce, oltre alla fiamma che contrassegnava la posizione dell'altare maggiore alla mia destra, nel presbiterio. Mi orientai con facilità. In direzione opposta, alla mia sinistra, c'era lo spazio più ampio del tempio, la navata centrale e, in fondo, alla base della croce che forma la pianta dell'edificio, l'uscita che dà sul chiostro. Lì, a destra, doveva trovarsi la cappella in cui si riunivano i templari. Mi sembrò di notare un bagliore, e di udire un mormorio. Sì, non avevo dubbi, là dentro c'era qualcuno. Illuminai la navata con la torcia, per studiare la collocazione dei banchi e per sapere come muovermi. Quindi avanzai nell'oscurità, facendo attenzione a non inciampare. Arrivata in fondo, vidi l'origine di quella luce. Alla mia destra, all'estremità di un corridoio piuttosto corto, si trovava una porta di legno ad arco con un riquadro centrale in vetro smerigliato al cui centro stava una croce. Il vetro era protetto da alcune artistiche spirali in ferro lavorato. Le voci provenivano da lì dentro: era la sala Capitolare. Si stava celebrando la messa, ma non riuscivo a comprendere le parole del rito. Attaccai l'orecchio alla porta, sforzandomi di cogliere qualcosa. Non parlavano catalano, né castigliano: doveva per forza essere latino. Volevo spiare quelle persone ma, se avessi aperto la porta, mi sarei ritrovata nella parte laterale della cappella, vicino all'altare, e sarei stata immediatamente scoperta da tutti i presenti. L'idea mi attirava poco, così decisi di osservarli senza essere vista dall'entrata del chiostro, cui loro in teoria davano le spalle. Tornai nel corpo principale della chiesa, dove trovai il piccolo vestibolo di legno che collega quest'ultima al chiostro. Nessuna delle porte era chiusa a chiave; senza problemi, arrivai al patio e, attraverso il giardino centrale, vidi le luci della città riflesse nel cielo, e il bagliore di un fuoco d'artificio contro il profilo di una palma da datteri e di un arancio. Già: era la not-
te di San Giovanni. Senza bisogno di accendere la torcia elettrica, si distinguevano le ombre più scure delle colonne sottili che, sormontate da archi gotici, delimitavano il chiostro. A destra c'era la porta socchiusa della sala capitolare, con due finestroni ogivali su ogni lato: i vetri colorati lasciavano passare una luce tenue. Mi incamminai verso quell'entrata. Fu allora che percepii un movimento nell'oscurità, alle mie spalle. Il primo istinto fu quello di avvicinarmi al muro. Il cuore aveva ricominciato a battermi più forte. Un altro gatto? Puntai il raggio della torcia in quella direzione, e non vidi nulla. Mi avvicinai alle colonne che circondano il chiostro, illuminando il corridoio laterale destro: niente. Mi voltai per esaminare la parte opposta quando, con la coda dell'occhio, mi sembrò di scorgere attraverso la vegetazione un'ombra che cercava rifugio dietro i pilastri, sull'altro lato del patio. Dunque c'era qualcuno! Il cuore mi batteva all'impazzata, e mi resi conto che stavo morendo di paura. Maledissi lo stupido orgoglio che mi aveva condotto in quel luogo, proprio in quel momento. Decisi di non accendere la torcia per nascondermi dallo spettro, chiunque lui fosse, e mi spostai dietro le colonne. E, nel contempo, si mosse anche l'ombra! Ma chi mi costringeva a mettermi in una situazione del genere? Avanzai di parecchie colonne, e lo sconosciuto fece lo stesso, parallelamente. Stavo quasi per mettermi a correre, e l'avrei fatto, se solo avessi saputo dove andare. Invece rimasi ferma, osservando con gli occhi sbarrati l'oscurità sull'altro lato del chiostro, dove avevo scorto l'ultimo movimento; con il cuore in gola, cercai di prendere un respiro profondo e di calmarmi. In quell'istante, avrei dato qualsiasi cosa pur di trovarmi in un altro posto, tanto che decisi di entrare nella cappella. Che importava se anche mi avessero scoperta? In effetti, era quello che avrei dovuto fare sin dall'inizio: avrei dovuto affrontare Alicia e Oriol, chiedendo direttamente a loro se quella storia della setta neotemplare fosse vera. Mi avvicinai con cautela alla porta socchiusa, e la aprii di qualche centimetro per osservare l'interno. Un gruppo di persone, con indosso dei mantelli bianchi e grigi, guardava verso l'altare, dandomi la schiena. Non ebbi il tempo di vedere altro. Qualcuno mi afferrò per le spalle, e sentii la punta fredda della lama di un coltello sul collo. Udii l'urto della torcia che cadeva a terra e, in silenzioso terrore, mi divincolai per guardare in faccia il mio aggressore. Dio! Quasi morivo per la paura! Quell'espressione da pazzo furioso! Quella barba bianca, rada. Era l'uomo dell'aeroporto! Sì, quello che mi seguiva.
Non è da me alzare troppo la voce, ma quella volta mi uscì un urlo di terrore, lacerato, acuto e vergognoso... Non ricordo di aver mai strillato così in tutta la mia vita. Tutti si voltarono, allarmati, e l'uomo misterioso, con il pugnale sempre puntato alla mia gola, mi spinse all'interno della cappella. Difficilmente riesco a immaginare un modo più spettacolare per presentarsi a un gruppo di persone, ma, in tutta sincerità, in quel momento avevo altre preoccupazioni, e poco mi importava rendermi ridicola. Restammo immobili per qualche secondo, come in un fermoimmagine: io guardavo loro, loro guardavano me. Infine, dal fondo della sala si udì la voce di Alicia, che indossava un mantello bianco con una croce rossa, con due traverse, la stessa croce che avevo visto scolpita nella pietra. «Benvenuta, Cristina», disse, con un sorriso. «Ti stavamo aspettando.» Poi, rivolgendosi al mio aggressore, aggiunse: «Grazie della prontezza, frate Arnau. Adesso può lasciar andare la signorina». Mi venne incontro, e mi diede due baci sulle guance. «Fratelli», riprese, richiamando l'attenzione delle circa cinquanta persone che riempivano la cappella, «vi presento Cristina Wilson, portatrice dell'anello del maestro, nonché membro di diritto del nostro ordine.» Qualcuno mi salutò con un cenno del capo. Notai che tutti portavano la croce rossa con la doppia traversa sulla spalla destra. Vidi Oriol che, come tutti gli uomini presenti, sotto il mantello bianco indossava abito e cravatta. Sorrideva divertito. E riuscii a riconoscere il vecchio libraio scontroso della libreria Del Graal che, accigliato, mi guardava con espressione poco amichevole, e il vivace notaio Marimón, con un sorriso paterno. «Bene», aggiunse Alicia. «Sarà ammessa nella nostra comunità, se lo desidera, e se seguirà i nostri riti di iniziazione.» «Lieta di conoscervi. Scusate l'interruzione», balbettai, come una studentessa universitaria che ha sbagliato aula. «Continuate, vi prego.» Alicia mi prese sotto la sua protezione e mi condusse al primo banco, dov'era seduta lei; quindi fece un segno al sacerdote, e questi riprese la celebrazione della messa in latino. Arnau, pensavo. Arnau d'Estopinyá. Lo sospettavo da quando Artur mi aveva raccontato quella storia, ma adesso ne ero sicura: l'uomo dell'aeroporto e l'ex frate, che si credeva Arnau d'Estopinyá, erano la stessa persona. Lo stesso folle. 36
Lui non voleva, ma insistei tanto che finì con l'accettare. Io avevo già ricevuto due inviti per il veglione di San Giovanni, ma non il suo. Uno era di Luis, che mi propose di andare a una festa nei pressi di Cadaqués in una spettacolare villa su una scogliera a picco sul mare. Non ebbi alcun problema a rifiutare gentilmente. Con Artur, invece, fu più difficile. La sua festa era in una vecchia casa di Sarrià; smoking o vestito scuro per gli uomini e abito lungo per le signore. Devo confessare che mi sentivo attratta da quel tipo, pur sapendo che era un mascalzone. Be', un delinquente in guanti bianchi. E forse era proprio questo a renderlo tanto appetibile. Ma l'invito che speravo di ricevere non arrivò. Così, dissi ad Artur che avrei deciso in seguito, se fossi stata dell'umore di festeggiare all'uscita dal covo dei templari. E lui fu tanto gentile, o forse era tanto interessato - alla sottoscritta o ai suoi affari - che accettò la mia risposta ambigua. In realtà, mi auguravo segretamente di andare al veglione con Oriol. Al termine della messa, Alicia pose fine alla cerimonia pronunciando poche parole. Evidentemente, gli argomenti occulti ed esoterici erano stati trattati prima del mio arrivo. Tutti i presenti ripiegarono con cura il proprio mantello e uscirono dalla porta che dà su calle Santa Anna. Frate Arnau si fece consegnare le chiavi che avevo usato per entrare. «D'ora in poi, faremo scorrere il catenaccio all'interno», disse Alicia, sorridendo. Uscendo, vidi Artur che ci osservava tenendosi a una certa distanza, e gli feci segno che era tutto a posto. Mi appiccicai a Oriol e iniziai a chiedergli quali fossero i suoi programmi per la nottata. Mi disse che sarebbe tornato a casa con sua madre, per levarsi quei vestiti, e che poi sarebbe andato a festeggiare con degli amici. Visto che, apparentemente, non aveva alcuna intenzione di invitarmi, decisi di prendere l'iniziativa e gli chiesi di portarmi con lui. L'idea non sembrò entusiasmarlo e Alicia, che non si era persa una sola parola della conversazione, intervenne dicendo che era il minimo che ci si potesse aspettare dall'ospitalità dei Bonaplata. Alla fine accettò, ma sapevo bene che non potevo sperare che mi aprisse cortesemente la portiera dell'auto. Tornando a casa, Oriol rimase in silenzio, mentre Alicia fu molto amichevole. Io mi sentivo a disagio per la scena di cui ero stata protagonista in chiesa; la donna, invece, l'aveva presa con molta naturalezza. «L'uomo che ti ha scoperta, nel chiostro, è Arnau d'Estopinyá», mi confermò.
«Sì, tutti i particolari corrispondono alla storia che mi ha raccontato Artur. Quel tizio mi sta seguendo da quando sono arrivata a Barcellona.» «Sì, tesoro. Ti segue e ti protegge. Non dimenticare l'aggressione fuori dalla libreria Del Graal. Se non fosse stato per lui, non sareste mai riusciti a liberarvi degli scagnozzi del tuo amico.» «In chiesa hai detto che mi stavate aspettando...» «Era probabile che quell'uomo ti proponesse di fare quello che hai fatto. Sapevamo che vi stavate frequentando, e io sospettavo che avesse le chiavi del vicolo.» «E perché non avete cambiato le serrature?» «Pensavo che al tuo amico, forse, interessava qualche pezzo antico conservato nella chiesa», disse, con un sorriso. «Se fosse caduto in tentazione, adesso sarebbe in carcere.» Tacqui, pensierosa. Quella donna sembrava avere tutto sotto controllo. Aveva teso una trappola al suo nemico. Mi rallegrai del fatto che Artur fosse troppo furbo per lei. In auto, mentre andavamo alla festa, da soli, chiesi scusa a Oriol per la mia intempestiva apparizione in chiesa, e lui rise: non era per nulla sorpreso, disse, mi conosceva. A quanto pare, sua madre aveva previsto ogni cosa e, sapendo della mia relazione con Artur, aveva mantenuto il segreto riguardo alle riunioni templari, sperando che lui scoprisse le sue carte. Io mi sentivo a disagio. Avevo l'impressione che tutto il mondo mi stesse manipolando. Così, per contrattaccare, ironizzai sul suo vestito, sulla cravatta e il mantello. «È la tradizione», mi assicurò, senza perdere il sorriso. «I nostri avi volevano così.» «Ma com'è che una persona così poco convenzionale si presta a un gioco simile?» Tacque alcuni istanti. Poi disse: «Lo faccio per onorare la memoria di mio padre». E restammo in silenzio; con quelle parole aveva messo fine alla questione. Il traffico era intenso, non sapevo dove mi stava portando. Ma ero con lui, e per me era sufficiente. «Voglio che tu sappia che non ho una relazione con Artur.» Non so perché, sentii la necessità di dirglielo. «Lui insiste che saprebbe piazzare meglio di chiunque altro i pezzi del tesoro, e sostiene di avere diritto quanto noi a mettere le mani su quella fortuna. Secondo lui, dovremmo trovare un
accordo...» «È il tesoro di mio padre», mi interruppe Oriol, tagliente. «Se lui non volle trattare, non posso farlo nemmeno io.» Mi sorprese il suo tono drastico. La sua espressione sembrava dire: «O sei con me, o sei contro di me». Cominciavo ad avere un'immagine più chiara della situazione, e mi tornarono in mente le parole di Artur: tra le due famiglie esisteva un debito di sangue. Sospirai, pensando che la faccenda del tesoro poteva finire molto male. Speravo soltanto che i Boix e i Bonaplata non si trovassero ad affrontare una nuova tragedia, com'era già successo anni prima. 37 Era una fitta pineta che arrivava fino alla spiaggia. Il suolo era ricoperto di sabbia finissima, nascosta in alcuni tratti dagli aghi degli alberi. Quando arrivammo, un falò ardeva in riva al mare, a diversi metri dalla vegetazione. C'erano dei tavoli pieghevoli, con coca, bibite e bicchieri di carta; mancavano le sedie, però, e la gente sedeva per terra. Dovevano esserci una sessantina di persone; tutti salutarono Oriol, che evidentemente godeva di una certa popolarità. Bevevano, chiacchieravano. Oriol iniziò una conversazione con un gruppo di rasta, riguardo al programma delle cose da fare in una casa disabitata, che a quanto pare avevano preso con la forza. Okkupazioni, così chiamavano le loro invasioni. Parlava enfaticamente, e sembrava guidare la discussione. Facevo fatica a credere che fosse la stessa persona che, qualche ora prima, indossava vestito, cravatta e un mantello bianco con la croce rossa patriarcale dei cavalieri templari. Non conoscendo nessuno, e non avendo altro da fare, ascoltai il dibattito, nonostante non fossi interessata e non avessi alcuna intenzione di intervenire. A meno che non fosse uscito l'avvocato che è in me, chiedendomi di informarli che quanto facevano era un reato. Come se non l'avessero saputo! Fantastico, pensai. Se quella era l'idea che aveva Oriol di festa, ero davvero sistemata. In quel momento, una ragazza che seguiva la conversazione accanto a me mi passò una sigaretta, che sembrava aver percorso un lungo tragitto. Arrotolata a mano, aveva un'estremità accesa, mente l'altra, senza filtro, aveva un aspetto schifoso, bavoso. Mi sforzai di sorriderle gentilmente, e rifiutai. La guardai con attenzione. Non sarebbe mai riuscita a superare l'ispezione da parte degli addetti alla sicurezza di un aeroporto appena decente.
Portava diversi pendenti a un orecchio, e aveva piercing alle sopracciglia, al naso, al mento; probabilmente nascondeva numerose altre incrostazioni metalliche anche nelle sue parti più recondite; in effetti, se pure fosse passata sotto il metal detector nuda come mamma l'ha fatta, avrebbe fatto suonare tutti gli allarmi. Anche lei, però, mi fissò. Mi scrutò dalla testa ai piedi, con le mani sui fianchi. Succhiava lo spinello che, con un equilibrio ammirevole, teneva sulla punta delle labbra. Quando finì, dopo avermi catalogata, senza ricambiare il sorriso mi disse: «E tu da dove sbuchi?» Oriol non si era preso il disturbo di dirmi con chi ci saremmo incontrati, o di darmi un consiglio sull'abbigliamento. Non una parola. E mi resi conto di essere io quella fuori posto, e non la mia inaspettata rivale: dovevo farle la stessa impressione che avrebbe fatto lei a me, se si fosse presentata alla mia festa di compleanno nel mio appartamento di Manhattan, con vista — anche se da lontano - su Central Park. Di fatto, il mio amico aveva abbandonato la sua seria conversazione per osservarci. E lo faceva con un sorriso per nulla dissimulato; ebbi l'impressione che si stesse godendo quello che, a suo parere, era un castigo meritato per aver imposto la mia compagnia. Comunque, devo ammettere che, anche se mi avesse avvertita, frugando nelle mie valigie non sarei riuscita a trovare un abbigliamento adatto per mimetizzarmi. «Ecco, io...» risposi, a disagio. «Sono a Barcellona in visita.» «Una turista!» esclamò, mentre Oriol le toglieva di mano lo spinello per fare un tiro. «Che cazzo ci fa qui una fottuta turista?» Io so essere abbastanza aggressiva se ce n'è bisogno, o se qualcuno mi provoca; in quel momento, però, mi sentivo intimidita, e guardavo Oriol pur sapendo che non sarebbe venuto in mio aiuto. Sarei voluta sparire. Ma, dall'altra estremità del falò, iniziò a levarsi il picchiettio di alcuni bonghi, a cui se ne aggiunsero subito degli altri, e poi altri ancora, fino a quando la mia avversaria perse ogni interesse nei miei confronti e, recuperando la sigaretta artigianale, andò a occuparsi di altre cose. E cessò anche la polemica sul ministero degli aiuti sociali del governo okkupazionista della casa, prima vuota e adesso sovraffollata: i conferenzieri non riuscivano a far arrivare alle orecchie dei loro interlocutori le proprie utopie. La gente iniziò a sedersi e, con mia grande sorpresa, apparvero altri strumenti a percussione. Quasi tutti ne avevano uno, e battevano le mani a un ritmo accelerato, che a poco a poco raggiunse una cadenza frenetica. Il rumore delle onde si perdeva in quel fragore, e le fiamme del falò si innalzavano formando una corona di scintille, che giocavano a fare le stel-
le per qualche istante. Astri fugaci, fuochi fatui di resina di pino. Era bello, avevo l'impressione di trovarmi in mezzo a un'altra civiltà, in un altro mondo. Una ragazza con i capelli raccolti in varie trecce, con una T-shirt e una gonna lunga e aderente, si alzò e, quasi fosse in trance, cominciò a muovere le braccia e i fianchi al folle ritmo che la moltitudine segnava all'unisono. La sua sagoma si stagliava contro le fiamme sullo sfondo; sembrava la sacerdotessa di un culto pagano, una sirena che, danzando, attirava verso il fuoco i naviganti della notte. Mi fece pensare alla mia amica Jennifer, alle nostre feste a New York. Come lei, anche questa ragazza portò la festa all'apogeo, muovendo le chiappe a tempo. Nella grande mela succede la stessa cosa, mi dissi, stupidamente meravigliata. Ma qui è tutto molto primitivo, senza luce elettrica. Quelli che non suonavano ballavano; la notte si trasformò in un rito vudu. Mi ritrovai immersa in quella frenesia di massa; il mio corpo si muoveva insieme agli altri. In quel momento l'aria vibrò, mossa da un suono acuto e penetrante, che perforava chiunque lo sentisse. Se il ritmo degli strumenti a percussione faceva muovere i piedi, quel suono mi scosse l'anima. «È una gralla», mi disse Oriol, prima che lo trascinassi a ballare. Poco importava se fosse una gralla o un altro strumento: l'atmosfera era contagiosa, e io ero eccitata. Lanciai le scarpe lontano e mi unii alla danza con entusiasmo. Non saprei dire per quanto tempo ballammo. I miei piedi nudi affondavano nella sabbia fine, fredda, che li frenava, al tempo stesso massaggiandoli. I volti brillavano alla luce e al calore del fuoco, e a farci da soffitto c'era un cielo stellato benevolo e festoso, periodicamente ricamato dalle luci colorate dei fuochi d'artificio che scoppiavano in lontananza. Oriol non fu un partner fedele nel ballo; continuava a spostarsi da un crocchio all'altro, ballando tanto con le donne che con gli uomini, con una persona singola o con un gruppo. Era il suo modo di relazionarsi. Io lo osservavo con attenzione, era ovvio che non faceva coppia fissa, né con un uomo, né con una donna: non in quella compagnia, in ogni caso. Comunque, sospettavo che il mio amico facesse parte contemporaneamente di varie tribù, e frequentasse diverse persone. Le fiamme del falò si erano abbassate, il picchiettio dei bonghi andava via via attenuandosi e fu allora che vidi Oriol prendere un ragazzo per mano e sussurrargli qualcosa all'orecchio. L'altro gli sorrise, e io sentii una stretta al cuore. Malgrado lo spumante bevuto in un bicchiere di plastica, e malgrado l'euforia ritmica, non mi lasciavo sfuggire nemmeno un particolare di quello che accadeva;
avevo già notato diverse coppie, alcune formate da persone dello stesso sesso, altre da un uomo e da una donna, addentrarsi nella pineta con dei teli da mare, che senza dubbio fungevano da lenzuola per un improvvisato talamo di sabbia e aghi di pino. «Che razza di stupida», mi censurai, a mezza voce. «Ma che ti prende? Sei fidanzata con Mike. Lo ami. Che importa se Oriol è felice con un altro uomo?» Ma non potei evitare di sentire un nodo in gola. Gli occhi mi si colmarono di lacrime, quando li vidi dirigersi verso il bosco, tenendosi per mano. Dovetti dire addio ai miei ricordi più cari: il mare, la burrasca, il primo bacio, il sapore dolce e salato della sua bocca... «Aveva proprio ragione mia madre!» mormorai di nuovo. «Lei l'aveva capito sin dall'inizio.» In quel momento, però, si voltarono e, con le mani ancora intrecciate, si misero a correre verso il fuoco e saltarono. Caddero a un'estremità del falò, quasi fuori, sollevando uno zampillo di scintille. Quindi, già lontani dalle fiamme, si diedero un cinque per festeggiare il salto, ridendo. Altre coppie li imitarono. Oriol tornò a saltare con uomini e donne. Lo facevano sempre nello stesso senso, dal bosco verso la spiaggia. C'era una certa logica in tutto questo: il fuoco ardeva ancora e se due persone, saltando in direzione opposta, si scontravano in mezzo alle fiamme, non solo subivano il colpo, ma correvano il rischio di riportare gravi ustioni. Inoltre, era ovvio che, in caso di bruciature, bisognava correre verso il mare. A quel punto Oriol, dopo avermi lasciata sola tutta la notte, venne verso di me. «Il fuoco significa purificazione, rinnovamento. Significa bruciare il vecchio per ricominciare da capo. Si getta via tutta la merda», mi spiegò, sorridendo. E quando salti il fuoco con una persona, nella notte di San Giovanni, fai pace con lei, bruci tutto ciò che è negativo e cerchi di perfezionare la tua amicizia, o il tuo amore. Più tardi, qualcuno getterà anche degli oggetti; oggetti che rappresentano le cose di cui ti vuoi sbarazzare, e che nella tua vita sono di troppo.» «Salterai con me?» gli chiesi. «Ancora non lo so, con sicurezza», disse, strizzandomi un occhio. «Tutto ciò che si perdona, tutto ciò che si chiede saltando sopra il fuoco in questa notte speciale viene registrato dalle streghe in un grande libro. È un impegno che dura per sempre.» «E tu hai paura di impegnarti con me, in qualche modo? O forse dovrei
perdonarti qualcosa?» «Non si dice mai prima, altrimenti non vale.» Cercai le mie scarpe, chiedendomi se sarei riuscita a salvarle dal fuoco, e, felice, mi dissi che valeva la pena correre il rischio. Ci prendemmo per mano e andammo verso la pineta, dove si stava formando la coda di coppie. Solo pochi bonghi continuavano a suonare, ora più sommessamente e in tono smorzato. Feci un respiro profondo e, stringendo la mano calda di Oriol, mi resi conto che stavo vivendo un momento unico e straordinario della mia vita. Ebbra di felicità, sentii i battiti accelerati del mio cuore: tutto riempiva i miei sensi, l'odore di fumo e di resina bruciata, la notte rischiarata dalle stelle, la musica. Ricordo quel salto quasi con la stessa emozione del primo bacio. Oriol ha le mani grandi, e prese la mia circondandola dolcemente, ma con fermezza. Volammo sopra le fiamme; io caddi un pochino più indietro di lui, sulle braci, ma non ci rimasi nemmeno mezzo secondo, in parte per la spinta della rincorsa, in parte per lo strattone che mi diede. Non riuscii a chiedergli che cos'avesse chiesto, e rimasi con la voglia di baciarlo come facevano alcuni, dopo il salto. Ma lui si voltò per parlare con qualcuno. Gli altri continuavano a lanciarsi sulle fiamme, quando una ragazza si avvicinò al falò e vi gettò un fascio di carte; poi, un giovane buttò quella che sembrava una cassa di legno. Quindi, l'odalisca che aveva dato inizio alle danze si tolse la maglietta per bruciarla, scoprendo due seni ben fatti e abbondanti. Non so se fosse un costume della tribù o, piuttosto, un'invenzione del momento; fatto sta che il gesto riscosse molto successo e altre donne seguirono il suo esempio, rimanendo nude dalla vita in su, senza offrire, però, uno spettacolo tanto interessante. Qualche ragazzo fece lo stesso, mentre Oriol bruciò delle carte. Naturalmente, la cosa mi intrigò. Terminato il falò degli oggetti che si supponeva fossero negativi, i bonghi accelerarono di nuovo il ritmo, e tutti quelli che pretendevano di essere musicisti fecero del loro meglio per creare la maggior confusione possibile, con l'intento di raggiungere la stessa cadenza. Le danze si animarono e la ragazza che si era fatta notare durante la prima parte della serata lo fece di nuovo, questa volta con i seni che ballonzolavano. Aveva un grande tatuaggio che le copriva una spalla e parte della schiena. Oriol, seduto sulla sabbia a una certa distanza dalla festa, contemplava le fiamme e i profili dei ballerini controluce. Mi sedetti accanto a lui, a terra.
«Che cos'erano quei fogli che hai bruciato?» Mi guardò, sorpreso, quasi si fosse scordato della mia presenza, e addirittura della sua. I suoi occhi, in cui vedevo riflessa la luce delle fiamme, erano umidi. «Non si può dire», disse con un sorriso, timido. «Sì che si può», feci io, prendendo la sua grande mano tra le mie. «Prima di saltare non si poteva, ma adesso sì. Un dolore condiviso con qualcuno pesa meno. Ricordi? Da ragazzini ci raccontavamo tutto.» «Era una lettera», mi confidò, dopo essere rimasto qualche istante in silenzio. «Che lettera?» Già sospettavo la risposta. «Quella di mio padre. Quella dell'eredità.» «Ma... come hai potuto bruciarla?» gli chiesi, preoccupata. «L'ultima lettera di Enric! Te ne pentirai.» «Me ne sto già pentendo.» «Perché l'hai fatto?» «Perché vorrei riuscire a dimenticarlo, o almeno a non pensare a lui tanto spesso, con tanto dolore. È stato la tragedia della mia infanzia. Mi sono sentito abbandonato, quando si è tolto la vita.» Mi tornò in mente l'immagine di noi bambini, di quando suo padre arrivava in paese. Oriol usciva in strada per dargli un bacio, poi lo prendeva per mano e, tirandolo, per dichiarare la sua proprietà, lo portava da una parte e dall'altra. Guardava in alto con quel sorriso gioioso: «Questo è il mio papà», sembrava dire. Era pieno di ammirazione. «Avrà avuto le sue ragioni», lo consolai. «Sapevi che non amava nessuno quanto te. Di certo non era sua intenzione abbandonarti.» Oriol non rispose, e si portò uno spinello di marijuana alle labbra. Io rimasi al suo lato, zitta, e glielo rubai per fare un tiro. «Vuoi sapere una cosa?» gli chiesi dopo un po'. Lui non disse nulla. «Ricordi le lettere?» insistei, qualche secondo dopo. «Quali lettere?» rispose infine, distratto. «Le nostre!» Ero leggermente irritata. Come, quali lettere? Forse al mondo c'erano delle lettere più importanti di quelle? «Quelle che ci siamo scritti.» «Sì?» «Adesso so perché non le abbiamo mai ricevute.» Di nuovo silenzio. Non io, però. Gli raccontai dell' amore di mia madre per suo padre, e di come lei temeva di ricordare quel periodo, per paura
che la sua esperienza si ripetesse con me; voleva impedire che noi due ci amassimo, per questo aveva intercettato la posta, nascondendo quelle lettere che non avevamo mai ricevuto. Tralasciai di dirgli della convinzione di Maria del Mar riguardo alla sua omosessualità. «Che peccato», disse infine. «Misi tanto sentimento nelle mie parole. Soprattutto quando morì mio padre. Me lo ricordo bene. Mi sentivo solo, e continuavo a scriverti disperatamente, anche se non ricevevo risposta. Mi illudevo che almeno tu le leggessi; avevo bisogno di parlare con te. Mi sarebbe piaciuto così tanto chiacchierare! Ma non avevo nemmeno il tuo numero di telefono!» Mi avvicinai un po' di più. «Forse tutto quello che ci siamo scritti e che è andato perduto potremmo raccontarcelo di nuovo...» In quel momento, la ballerina dal corpo stupendo, ora luccicante di sudore, venne verso di noi, e si sedette accanto a Oriol. Prese il suo spinello, di cui ormai restava solo una cicca, e fece un tiro; poi cominciò a bisbigliargli qualcosa all'orecchio. Sembrava quasi che glielo stesse mordicchiando. Di tanto in tanto le sfuggiva una risatina, e lui si univa a lei. Alla fine si alzò, prendendolo per mano. Sussultai. Quella tipa voleva che andasse con lei nella pineta. Lui oppose resistenza per un po', scherzando. Poi lei, decisa a non lasciarlo andare, se lo portò via. Non potete nemmeno immaginare il mio dispiacere. Pochi istanti prima mi disperavo pensando che Oriol fosse gay. E adesso mi disperavo perché se ne andava in compagnia di quella ragazza statuaria. Avrei dovuto essere contenta: avevo la prova che era etero. Già... ma a me cosa importava? Niente! Ero fidanzata e mi sarei sposata non appena fossi tornata negli Stati Uniti. Mike era un ragazzo stupendo, di gran lunga superiore a tutti i presenti. Ma quando lo vidi tornare con una chitarra, pochi minuti dopo, il cuore mi scoppiò di felicità - in così poco tempo non potevano aver combinato nulla. Che gioia, quella tipa non l'aveva avuta vinta! Di sicuro, mi dissi, nella buia pineta avrebbe trovato un serpentello pronto a soddisfare il suo furore uterino. A volte so essere cattiva. Oriol si sedette sulla sabbia, a un metro da me, e cominciò a suonare qualche nota, sommessamente. D'un tratto, mi domandai se fosse gay. Ma certo, non poteva essere altrimenti. Nessun uomo poteva resistere a una baldracca come quella. Poi mi diedi dell'idiota. Dall'altro lato del falò suonava ancora qualche timpano, ma ormai non
ballava più nessuno; dopo il lancio degli oggetti nel fuoco, l'entusiasmo era andato progressivamente calando. Il suono degli strumenti a percussione era dolce, riflessivo, intimo. Oriol cominciò a pizzicare le corde; poi suonò un pezzo classico che non riuscii a riconoscere, per continuare con un malinconico Cant del ocells, pieno di sentimento. Si mise a cantare in catalano, come se lo facesse solo per noi due, accompagnandosi con gli accordi. «Cuan surts per fer el viatge cap a Itaca...» Vidi le lacrime nei suoi occhi, e capii che quella non era una canzone qualsiasi. Non era una di quelle che Enric aveva ascoltato prima di morire? Ascoltai con attenzione. Cantava a voce bassa, soavemente, in tono intimo e solitario; ma gli altri si radunarono intorno a lui, formando un crocchio. C'era una sorta di rispetto, da parte di quelle persone, e mi resi conto che alcuni erano complici di un segreto che io non conoscevo. Quando terminò gli batterono le mani, chiedendogli di continuare, ma Oriol rifiutò. Ebbi l'impressione che il pubblico avesse spezzato la sua intimità. Insisté per passare la chitarra a qualcun altro; alla fine, la consegnò alla ragazza con cui avevo avuto un confronto all'inizio della serata. E lei, non riuscendo a fare entrambe le cose insieme, cedette il suo bavoso spinello di marijuana a un vicino, e intonò una canzone decisamente più disinvolta: parlava della casa di una certa Inés, che voleva che le facessero qualsiasi cosa, o roba simile. Un ragazzo la accompagnava con i bonghi. Ero sicura che l'interprete e la protagonista della canzone fossero la stessa persona: erano della stessa risma. Approfittai del fatto che Oriol non fosse più al centro dell'attenzione per sussurrargli all'orecchio: «Stavi pensando a Enric, mentre cantavi». «Mio padre adorava questa canzone. La ascoltò anche prima di morire.» «Come fai a saperlo?» «Era sul suo giradischi, quando lo trovarono. Di certo l'aveva ascoltata. Hai capito quello che diceva nel testo?» «Ma certo. Si riferisce a Ulisse e al suo viaggio di ritorno da Troia. Navigò per anni, per approdare a Itaca, la sua isola.» «Esatto. Prende spunto dalla poesia del greco Konstantinos Kavafis.» Lentamente, come se stesse ricordando, iniziò a recitare: «Quando parti, per Itaca, fai in modo che il viaggio sia lungo, che duri molti anni; non avere fretta di arrivare e, quando attracchi sull'isola, ormai vecchio e colto per ciò che hai appreso nel cammino, non aspettarti che essa ti arricchisca. Itaca ti ha donato il viaggio e, anche se ti sembrerà povera, non ti avrà ingannato. La tua nuova saggezza ti farà comprendere che cosa rappresenta
Itaca per ciascuno di noi». Non mi guardava, teneva gli occhi fissi sul rosso brillante della brace. Rifletté per qualche minuto, prima di ricominciare a parlare. «Passiamo la vita a desiderare qualcosa, inseguendo dei sogni e credendo che, realizzandoli, raggiungeremo la felicità. Ma non è così. L'esistenza sta nel cammino, non nel finale. Non importa quanto sia bello, significativo o spirituale ciò che vogliamo. L'ultima fermata è sempre la morte. Se non sappiamo essere felici, o migliori, se non siamo in grado di essere ciò che vorremmo durante il tragitto, non ci riusciremo neanche all'arrivo. Per questo motivo dobbiamo goderci ogni momento. La vita è piena di tesori che la gente insegue, credendo di ottenere la felicità: ma spesso si tratta di miraggi e, talvolta, chi soddisfa i propri desideri si ritrova a mani vuote.» «Stai forse dicendo che tuo padre vuole ingannarci, con questa storia del tesoro? Che sta cercando di farci giocare allo stesso gioco che facevamo da bambini?» «Non ne sono sicuro», sospirò. «Ma so per certo che, secondo la sua filosofia, il vero tesoro è il cammino, l'emozione della ricerca, la tensione del desiderio, e non il relax che sopraggiunge con la sazietà. Credeva nella necessità di godersi ogni istante: i latini dicevano carpe diem, cogli l'attimo. Ricordo che, quando giocavamo alla caccia al tesoro, alla fine trovavamo solo qualche ghiottoneria. L'importante era l'eccitazione, l'intensità di ogni momento che dedicavamo alla ricerca.» Le palpebre si facevano sempre più pesanti, le parole più lente e i pensieri confusi; mi stavo addormentando. Era stata una notte di emozioni straordinarie e adesso, all'improvviso, avevo un crollo. L'ingresso clandestino nella chiesa di Santa Anna, la cattura da parte di Arnau d'Estopinyá, la presentazione ai templari, il ballo primitivo, il salto del falò e l'ansia che avevo provato vedendo Oriol dirigersi verso la pineta con un'altra persona. Troppo, per una sera sola. Era questo il carpe diem? O non si trattava, piuttosto, di cogliere la notte? Oriol aveva smesso di conversare e stava ascoltando la cantante. E io, seduta sulla sabbia e coperta da un telo di spugna che aveva preso dalla macchina, cercavo di ripararmi dalla rugiada e di restare sveglia. Non riuscivo a vedere le lancette dell'orologio, ma dovevano essere all'incirca le sei. Qualcuno indicò l'orizzonte, sul mare. Una linea grigioblu si disegnava tra il nero e il blu marino. Vari percussionisti si animarono e ripresero a pestare sulle membrane dei loro timpani, cercando di ottenere un ritmo coerente. Quando ormai il cielo si tingeva di toni chiari, e negli istanti in-
terminabili in cui la luce sembrava non aumentare, diminuendo addirittura d'intensità come se il mare la inghiottisse per stemperarne i colori, tutti coloro che avevano qualcosa che emetteva un suono lo stavano percuotendo, in un impressionante baccano, frutto di un entusiasmo sfrenato. Poi, un punto dorato brillò sulla linea che segnava il confine tra un mare assopito e un cielo senza nubi. Il frastuono aumentò ancora, per qualche minuto, e tutti si misero a urlare per salutare l'astro. Lo feci anch'io. Erano dei primitivi che adoravano le loro divinità, e io facevo parte della tribù. A poco a poco il sole, che già feriva i nostri occhi socchiusi, creò una riga di luce dorata sull'orizzonte e venne verso di noi, moltiplicandosi sulle onde calme, per poi salire fino a staccarsi dal mare. Fu allora che un ragazzo e una ragazza, nudi, entrarono in acqua, saltando e gridando. Altri li seguirono. E altri ancora. Oriol si tolse i vestiti e io, ripresami completamente dalla sonnolenza di pochi minuti prima, pensai che il mio amico non era affatto messo male. «Vieni?» mi chiese. Non mi ero mai spogliata in pubblico e, prima d'allora, raramente mi ero messa in topless. Ma non aspettai un secondo invito: gettai l'asciugamano da un lato, vi riposi i miei indumenti senza troppa attenzione e, vestita soltanto dei due anelli, corsi verso il mare tenendo la sua mano. L'acqua, in contrasto con la temperatura della notte, era tiepida, e si poteva camminare per metri e metri senza restare sommersi, salvo incontrare una buca inaspettata. Tutti si immersero, nudi come vermi, sguazzando e ridendo. Dopo il bagno, molti rimasero a dormire in spiaggia, ma noi decidemmo di tornare a Barcellona. Quando mi rivestii, però, non riuscii a trovare le mie scarpe. Le stavo appunto cercando, quando una voce, alle mie spalle, disse: «E tu, biondina? Che cos'hai gettato nel falò?» Mi voltai, e vidi che si trattava di Inés, la tipa con i piercing. Si stava asciugando con un telo. Una semplice occhiata confermò i miei sospetti di inizio serata: aveva il piercing ai capezzoli e all'ombelico, e di sicuro qualcuno si trovava in luoghi più nascosti. Questa ce l'ha proprio con me, mi dissi, mentre decidevo se risponderle o meno. Ero stanca, dopo quella lunga nottata, e il mio umore non era dei migliori. Sforzandomi di fare la gentile, le dissi: «Niente». «Ti sbagli», fece lei, sorridendo. «Hai bruciato un paio di scarpe costose.» «Che cosa?» Pensai che mi stesse prendendo in giro.
«Ecco la lezione di questa notte: si può andare per il mondo senza indossare necessariamente un paio di scarpe da duecento euro.» Quella stronza aveva un atteggiamento davvero trionfale. «Le ho buttate nel fuoco quando sei entrata in acqua.» «Stai scherzando.» «No, biondina. Vedrai come si cammina meglio, scalzi.» Ero sicura che bluffasse. Ma mi avvicinai al fuoco, che in qualche punto ardeva ancora, e a lato, dove avevo lasciato i vestiti, c'erano le mie scarpe, tra le braci; una era bruciacchiata, l'altra era già carbone. C'era puzza di cuoio bruciato. Nonostante le vedessi con i miei occhi, facevo fatica a crederci. La tipa rideva; immagino che stesse commentando l'impresa compiuta con la sua combriccola. In effetti, aveva ragione. Senza scarpe si può camminare. Si può anche correre. Non ricordo i dettagli: so solo che l'incazzatura mi tolse qualsiasi freno o senso delle convenzioni sociali, facendomi dimenticare stanchezza e prudenza. Di certo lei non si aspettava una cosa simile dalla «biondina». Era di spalle e parlava con alcune amiche, doveva ancora vestirsi. La presi per le trecce e le diedi un tale strattone che la scaraventai a terra. Tenendola stretta per i capelli, e dandole della figlia di puttana, la trascinai sulla sabbia con tutte le mie forze, mentre lei cercava di reagire. Non so che cosa sarebbe successo dopo, se Oriol e un gruppo di persone non fossero venuti a separarci. Avrei avuto voglia di gettarla nel fuoco, insieme alle mie scarpe, o almeno di strapparle i piercing ai capezzoli, ma, passato il primo scatto, lasciai che Oriol mi allontanasse dalla mischia. La metallara si era ripresa e mi urlava addosso una sfilza di insulti; dal suo sguardo, capivo che avrebbe voluto spaccarmi la faccia. Fortunatamente, in quel momento la trattenevano. Oriol rise durante l'intero tragitto fino a Barcellona. Con le dita dei piedi tastavo la gomma dei tappetini dell'auto, mentre cercavo di fare un bilancio della situazione. Che troglodita. Mi ero comportata peggio di tutti quei primitivi. «Credi che ce la farai ad affrontare la vita senza le tue scarpe da duecento euro?» mi apostrofò, divertito. E io risi con lui. Quell'avventura valeva molto di più. Carpe diem. 38 Mi svegliò la lagnosa suoneria del mio cellulare. Devo cambiare musi-
chetta, mi dissi. Quella mi aveva già stufato, e in quel momento la trovai addirittura insopportabile. Chi poteva chiamarmi a quell'ora? Non potevano aspettare che fossi sveglia? Era Artur Boix, che voleva sapere com'era andata la nottata. La nottata? Per me non era ancora finita! Certo che ero andata a letto tardi! Tanto tardi che per me era troppo presto. No, i templari mi avevano trattato bene. Potevamo vederci a pranzo? Naturalmente no. Era già l'una, insisté lui. E io ero davvero spiacente, ma volevo dormire. Avrebbe potuto richiamarmi quando fossi stata sveglia. Non fui molto gentile, mi ricordai di non aver portato il mio nuovo cellulare alla festa. Artur doveva aver chiamato per sapere se andava tutto bene. Ripensai a quando avevamo sguazzato nel mare, e a Oriol nudo. Mi assopii. Ma probabilmente non riuscii ad addormentarmi, perché quel dannato telefono suonò di nuovo. Ma perché non l'avevo spento? Questa volta era Luis. Era eccitato. «Ce l'ho!» strillò. «Che cosa?» «La chiave. La chiave per andare avanti.» «Ma di che parli?» «Stanotte, all'improvviso, ho avuto l'ispirazione!» esclamò, entusiasta. «L'ho visto con chiarezza. La lettera di Enric spiega ogni cosa.» Restai in silenzio, cercando di assimilare quello che avevo sentito, ma Luis non era disposto a darmi tregua, perché recuperassi i sensi. «Sono a Cadaqués e vado dritto a casa di Oriol. Tu sei lì?» «Sì.» «OK, allora avvisalo. Ci vediamo da voi.» Aprii la persiana e vidi Barcellona già bagnata dal sole del pomeriggio; mi sembrò più addormentata che in un normale giorno festivo. Forse era il riflesso del mio stato. Mi feci una doccia. Quando scesi di sotto, erano le tre passate. Se non fosse stato per Luis, starei ancora dormendo, mi dissi. E non gli ero grata del suo servizio di sveglia telefonica. Caro Luis, ricordi quando giocavamo alla caccia al tesoro con Oriol e Cristina, e io nascondevo gli indizi nella casa dell'avenida Tibidabo? Si tratta dello stesso gioco. Solo che adesso è vero. Sii felice, con Cristina e Oriol. Tuo zio, Enric
Tutto qui. La lettera di Luis non diceva nient'altro. La lesse ad alta voce e ce la passò, perché vedessimo con i nostri occhi che sapeva leggere. Non potendo fare altrimenti, prima io e poi Oriol esaminammo lo scritto nei dettagli, in silenzio. Niente. Solo questo. Seduti al tavolo del giardino, forse con l'intenzione di evitare Alicia, o forse perché un tempo quello era il nostro regno, muti, guardammo Luis, che ci osservava con il viso raggiante di chi sa, o crede di sapere più degli altri. «Non è chiaro?» Per me non lo era affatto, e probabilmente neanche per Oriol; ci guardammo in silenzio, stringendoci nelle spalle. «Gli indizi. Ci nascondeva gli indizi in giardino», spiegò, infine. «E qual era il suo posto preferito?» «La pietra del pozzo!» esclamammo all'unisono. A pochi metri da dove eravamo seduti c'era uno spiazzo privo di alberi con al centro un pozzo, che aveva svolto il suo dovere sino alla fine dell'Ottocento, quando ancora la zona non era raggiunta dall'acqua corrente. Per noi era sempre stato un elemento decorativo; in realtà, possedeva una caratteristica magica. Una delle pietre della costruzione artistica, una pietra piccola, rasoterra, si muoveva lasciando una cavità che, in passato, era stata protagonista di molte cacce al tesoro. Solo un adulto sapeva della sua esistenza: Enric. «E tu credi che abbia lasciato un indizio lì?» Pronunciate quelle parole, mi resi conto che era ovvio, e ridondante. «Naturalmente! La lettera dice così, no?» In effetti, sì, se nel contenuto volevi leggere questo. «Andiamo?» propose Oriol. Al solo sentire quel verbo, avvertii una sensazione di vuoto nello stomaco. Era l'emozione. Come quando ero bambina. Ci alzammo in piedi di scatto, e arrivammo al pozzo correndo come ragazzini. Allora, tutti volevamo smuovere la pietra e, ricordando certamente quel particolare, Luis mise in chiaro che il merito sarebbe spettato a lui, questa volta. Non ci fu alcuna discussione. Con cautela, iniziò a estrarre la pietra, servendosi di una fessura che era sempre stata lì. Il cuore mi batteva all'impazzata e, dopo un istante che sembrò durare in eterno, con una lentezza irritante, la tirò fuori. Infilò la mano e ci guardò, prima uno, poi l'altra, sorridendo. Lo avrei ucciso: molte persone non cambiano mai, e lui era ancora quel ragazzino grassoccio e insopportabile che adorava stare al cen-
tro dell'attenzione. «C'è qualcosa», disse, alla fine. Estrasse una busta di plastica. La aprì con attenzione e vi trovò una pistola, con un biglietto. «Questa volta non si tratta di un gioco. Usatela, se ce ne sarà bisogno.» Mi venne la pelle d'oca: avevo un presentimento sinistro, che non volli condividere con gli altri. Quella doveva essere l'arma che cercava il commissario Castillo. Quel revolver aveva ucciso quattro persone: era quello del mio sogno. Ed Enric lasciava intendere che avrebbe potuto ammazzare ancora. Quanto al tesoro, però, non ci dava nessun indizio. «C'è altro?» chiesi, impaziente. Dovemmo sopportare la stessa cerimonia di ricerca di pochi minuti prima. Alla fine, con la mano nel buco, Luis disse: «Sì». «E che cosa aspetti a tirarlo fuori, dannazione?» sbottai. Mi guardò risentito, ma lo fece. Estrasse un'altra busta, molto più piccola. Dentro c'era un biglietto, con la scritta seguente: TU QUI LEGIS ORA PRO ME «È latino», ci spiegò Oriol. «Tu che leggi, prega per me.» «Una frase che si addice perfettamente a un colto cavaliere templare», bisbigliai. Ci scambiammo un'occhiata. I miei due amici avevano un'espressione sorpresa, addolorata. Enric ci chiedeva di pregare per lui. E noi obbedimmo, con le lacrime agli occhi. Me lo immaginavo mentre nascondeva la pistola, forse in preda a rimorsi di coscienza sapendo che stava per morire e che i suoi peccati erano tanti, se credeva a queste cose. Aveva bisogno delle nostre preghiere. Chissà che cos'aveva provato, lasciandoci quella supplica postuma. Una solitudine infinita, forse. Paura, per quello che aveva fatto, per quello che stava per fare, e per ciò che sarebbe venuto in seguito. Ma perché? Che cosa lo spinse a togliersi la vita? «Propongo di andare a messa», disse Oriol, troncando le mie lugubri speculazioni. Quando entrammo in chiesa il sole splendeva ancora, anche se gli edifici circostanti impedivano ai suoi raggi di arrivarvi. Riesaminai alla luce del giorno il luogo dov'ero stata la sera prima, ma non ero affatto in vena di fermarmi a contemplare ciò che avevo intorno.
La piazzola ha un'aria tranquilla. Un tempo c'era un cippo a forma di croce, davanti all'entrata che conduce dallo spiazzo al chiostro. È rimasto solo un lungo tronco di pietra; probabilmente, la parte superiore era andata perduta durante una di quelle scorribande anticlericali, tanto frequenti nella Barcellona di fine Ottocento e inizio Novecento. O forse si era trattato di un atto vandalico. Un vero peccato. Mi sarebbe piaciuto vedere la forma dei bracci. La croce riportata sul foglio con gli orari delle messe, identica a quella di pietra lavorata presente in vari angoli della chiesa ne aveva quattro. Ed era identica a quella che avevo visto sui mantelli dei nuovi templari. «I Poveri Cavalieri di Cristo usavano due modelli di croce», mi informò Oriol, quando glielo feci osservare. «La croce a quattro bracci si chiama patriarcale, dal patriarca di Gerusalemme, nonché di Lorena e di Calatrava: forse ha anche altri due nomi. A parte questa, avevano la croce formato sigillo, con tutti i lati uguali e le estremità allargate. Come quella del tuo anello.» «E come mai in questa chiesa sono raffigurate le croci del Tempio?» «Perché la croce patriarcale fu contesa da molti. La sfoggiavano tanto i cavalieri dell'ordine del Santo Sepolcro quanto i templari; per un periodo ne fecero uso anche gli ospedalieri e, naturalmente, i membri dell'ordine di Calatrava. La chiesa di Santa Anna divenne la sede a Barcellona dei cavalieri del Santo Sepolcro. Attualmente, questi usano come distintivo una croce rossa circondata da quattro croci più piccole, in ricordo delle cinque piaghe di Cristo. E, ufficialmente, l'edificio continua a essere il loro quartier generale in Catalogna.» «E ufficiosamente?» «Lo sai già», mi rispose, strizzandomi l'occhio con aria complice. Era da tempo che non seguivo una funzione religiosa così intensamente. La supplica contenuta nel biglietto di Ernic mi aveva trafitto l'anima. E la pistola mi aveva reso profondamente, lugubremente triste: mi ricordava il dolore che avevo provato rivivendo l'assassinio dei Boix. Come aveva potuto una persona come Enric, un amante appassionato della vita, uccidere e uccidersi? Doveva essere davvero disperato. E solo. Come aveva potuto abbandonare Oriol? Passai buona parte della messa a piangere in silenzio, pregando per la sua anima. Di tanto in tanto osservavo i miei amici. Oriol sembrava concentrato come me, mentre Luis si distraeva guardando da una parte e dall'altra; di certo, però, a tratti si sforzava di recitare come meglio
poteva le sue orazioni. Sempre ammesso che le ricordasse. La funzione mi fece bene. Alla fine, mi sentii decisamente meglio; trassi qualche sospiro profondo, esaurendo gli ultimi singhiozzi, ma ero rilassata. Felice, quasi. Avevo soddisfatto la richiesta del mio padrino, pregando e ancora pregando. Mi ripromisi che, da quel momento in poi, l'avrei fatto regolarmente. Speravo di aver aiutato la sua anima, come la cerimonia e la preghiera avevano aiutato il mio spirito. Oriol ci fece un cenno, e ci condusse verso la porta che dava sul chiostro. Sulla destra, c'era il corridoio che portava all'accesso dalla chiesa alla sala capitolare, dove si celebravano i riti templari. Al ricordare la mia avventura e l'incontro con Arnau d'Estopinyá, sentii un brivido corrermi lungo la schiena. «Il messaggio di mio padre non conteneva solo una supplica per la sua anima», ci disse Oriol, a voce bassa. «Sono certo che le nostre preghiere gli avranno giovato, ma sono altrettanto sicuro che le sue parole siano, in realtà, un indizio.» «Un indizio?» chiese Luis, quasi in tono d'esclamazione. Io cercavo di pensare, il più velocemente possibile. «Come fai a saperlo?» «Guardate alla vostra sinistra.» Obbedimmo. Lì, sulla parete, c'era una statua sdraiata. Raffigurava un certo Miguel de Borea, ammiraglio generale delle galere spagnole, morto secoli e secoli addietro. Mi tornò in mente quello che mi aveva detto Artur: quella chiesa era anche un cimitero. Ci avvicinammo. Oriol indicò una lapide sul pavimento, che recava un'iscrizione: TU QUI LEGIS ORA PRO ME Io e Luis restammo muti per lo stupore. «Quand'è che te ne sei reso conto?» Chiese lui, dopo un po'. «Subito.» Aveva un sorriso scaltro dipinto sul volto. «Vengo in questa chiesa da quando ero bambino. La conosco nei minimi dettagli.» Non gli dissi nulla. Avevo la voce roca, a furia di recitare preghiere e di piangere per colpa di quel biglietto, e adesso saltava fuori che si trattava soltanto di un altro anello del gioco. Quel porco di Oriol si era divertito a spese dei miei sentimenti. Riflettendoci, considerai che pregare non mi aveva certo nuociuto: lo aveva fatto anche lui. Però mi sentivo in debito. «E adesso che cosa si fa?» chiese Luis.
«Per il momento, usciamo nel chiostro. Se il prete mi becca a bisbigliare nella sua chiesa, si arrabbierà come quando ero bambino.» Andammo a discutere della mossa successiva in una granja di calle Santa Anna. Io e Luis sostenevamo che fosse necessario sollevare la lapide, per vedere che cosa nascondeva. Un cadavere, rispose Oriol. Ovviamente, rispondemmo noi, oppure era necessario controllare se ci fosse dell'altro. Ma così avremmo profanato una tomba! Per riesumare una salma occorreva seguire delle procedure etiche, legali e religiose. Luis gli fece notare che, se non aveva problemi a occupare abitazioni altrui, non avrebbe dovuto temere l'eventualità di entrare in un abitacolo del genere: il proprietario non avrebbe sporto denuncia. Già: lui no, ma il parroco sì. «Vorrà dire che lo faremo di notte, quando lui non c'è», insisté Luis. Ma Oriol non poteva ingannare il don, era uno dei suoi. «Che ci aiuti, allora», fu la nostra proposta. E decidemmo di rivolgerci a lui. Questi cominciò a gridare allo scandalo. «Voi vorreste aprire la tomba dell'ammiraglio? Neanche a pensarci!» disse a Oriol. «Anche tuo padre mi fece la stessa richiesta, e glielo impedii. E poi, sotto la statua non c'è niente: per diversi anni è stata esposta al Museo Marittimo.» «Mio padre voleva aprire il sepolcro?» fece Oriol. «Sì, te l'ho appena detto: voleva metterci dentro qualcosa. E io mi opposi.» «Che cosa fece, allora?» «Diede a me l'oggetto che voleva seppellire, perché ve lo consegnassi quando foste venuti con la stessa richiesta.» Pochi minuti dopo stringevamo tra le mani un incartamento dello stesso stile di quello che avevamo recuperato nella libreria Del Graal. Portava addirittura lo stesso sigillo di ceralacca. Ci guardammo raggianti. Era la parte mancante! 39 Tornammo a essere tre ragazzini. In effetti, quando ripenso a quei giorni, mi rendo conto che rivivevamo in continuazione il periodo della nostra infanzia. Luis ci condusse al suo appartamento, mentre tutti e tre chiacchieravamo eccitati. Una volta in casa, togliemmo i sigilli di ceralacca, identici a quelli
del primo manoscritto, e ritrovammo la stessa calligrafia, lo stesso tipo di carta. Oriol insisté affinché riprendessimo la lettura dalle ultime frasi del primo documento; Luis obbedì e le parole del vecchio frate Arnau d'Estopinyá tornarono sulle sue labbra: «'A me, però, i frati Jimeno e Raimondo riservarono un onore molto speciale. Il loro desiderio era proteggere i possedimenti più pregiati custoditi da ciascuna commenda,'che vennero radunati nel castello di Miravet. Se la situazione si fosse aggravata, sarei dovuto partire alla volta di Peñíscola con il tesoro, per poi caricarlo nella stiva della Na Santa Coloma, che nessuna galera reale era in grado di raggiungere; quindi, lo avrei nascosto in un luogo sicuro, dove sarebbe rimasto per tutta la durata di quel periodo di instabilità. Promisi, pena la dannazione eterna, che nessuno che non fosse stato un nobile templare avrebbe mai messo le mani su quei gioielli. Raimondo Saguardia mi regalò il suo anello, quello con la croce patente di rubino, in ricordo della mia promessa e della mia missione. Io ero molto emozionato per la fiducia che quegli uomini importanti riponevano in me e trascorsi i giorni che precedettero l'arrivo del tesoro digiunando, e pregando il Signore di rendermi degno di una simile impresa. «'Avrei dato la mia vita, avrei dato ogni cosa pur di portare a termine il mio compito.'» Luis fece una pausa. Poi prese il primo foglio del secondo incartamento, e riprese a leggere. «'Il cinque di novembre, frate Jimeno da Lenda andò a colloquio dal nostro re, per chiedere il suo appoggio, e questi gli assicurò di essere convinto della nostra innocenza: non poteva decidere di aiutarci, però, prima di aver discusso la faccenda in consiglio. Ma Giacomo II rinfacciò al nostro maestro di aver ordinato l'approvvigionamento dei nostri castelli; ovviamente, ci teneva sotto sorveglianza. «'L'incontro con il monarca non riuscì a tranquillizzare frate Jimeno, che fece in modo che il suo luogotenente e amico, fra' Saguardia, posticipasse il ritorno alla commenda di Masdeu, nel Roussillon, e restasse al quartier generale di Miravet. Il maestro continuò a intercedere presso il monarca, in favore del nostro ordine, e ottenne un nuovo colloquio il diciannove di novembre, a Teruel. Mentre noi, a Miravet, attendevamo con ansia, fra' Saguardia ricevette la notizia che il re aveva convocato il domenicano Giovanni di Lotger, inquisitore generale, il quale chiedeva la nostra incarcerazione. Immediatamente, inviò un messaggio al suo superiore. "Signo-
re, abbiamo motivo di ritenere che voi, e tutti i frati che si trovano a corte, siate in grande pericolo." Tuttavia frate Jimeno non si preoccupava della sua sicurezza poiché gli interessava soltanto salvare la nostra congregazione. Così, abbandonando ogni prudenza, rimase accanto al sovrano. «'Dopo la prima messa del giorno successivo, e con la benedizione di fra' Saguardia, partii alla volta di Peñíscola, con una scorta numerosa. Spingemmo i carri al massimo e non mi sentii sicuro fino a quando non misi piede sulle solide tavole della mia galera, e fino a quando non vi ebbi caricato l'intero tesoro. Chiesi al commendatore di Peñíscola, Pere de Sant Just, una guardia speciale per la notte, e all'alba del giorno seguente salpammo. Qualche giorno dopo feci ritorno, veleggiando. Ero soddisfatto di aver portato a termine senza problemi l'incarico affidatomi dal maestro, ma al tempo stesso ero triste per aver dovuto sacrificare i miei galeotti saraceni, che mi avevano aiutato a nascondere il tesoro. Alcuni, fra i mori, erano stati nostri schiavi per anni, e tagliare loro la gola fu per noi un grande dolore.'» «Aspetta un attimo!» ordinai a Luis. Ci ero già passata, e ormai avevo una certa esperienza. Mi chiusi nel bagno. Dio mio, stava succedendo di nuovo! Il sogno di quelle persone sgozzate. La spiaggia, il mare mosso, le nubi che fuggivano in cielo, e i frati che tagliavano la gola a quegli infelici in catene. Era orribile! E Arnau d'Estopinyá lo raccontava con naturalezza, senza darvi troppa importanza. Respirai profondamente, cercando di calmare il mio spirito. Non potevo abituarmi a una cosa del genere, era fuori questione. Guardai l'anello, responsabile delle mie angosce, che brillava fievole, calmo. Non ero per nulla sorpresa che ad Arnau - non quello del XIV secolo, che aveva dettato quei manoscritti, ma quello moderno, il demente che credeva di essere il frate templare - fosse andato in tilt il cervello. Ma non doveva essere tanto pazzo, se era riuscito a disfarsi di quel gioiello con la croce di sangue per darlo a Ernic, in cambio di una pensione. Era stato quell'anello perverso a spingere il mio padrino a uccidere, e a togliersi la vita? Lo guardai di nuovo. Era lì, imperterrito, con quell'aria innocente. Sembrava addirittura bello, con la sua stella a sei punte che brillava all'interno. In quel momento mi ricordai degli avvertimenti di Alicia, e conclusi che aveva ragione, perché Marte, la violenza, il sangue comandavano quel rubino maschio. Quando tornai di là, Luis stava preparando il caffè, mentre discuteva con Oriol del fatto che Arnau probabilmente riteneva di essere stato molto misericordioso, avendo soltanto sgozzato i suoi rematori: era credenza diffu-
sa, tra i musulmani, che i morti per decapitazione non potevano entrare in paradiso. E immagino che pensasse di essere un vero spasso, dal momento che subito dopo fece un commento scherzoso con il suo tipico tocco impertinente, riguardo alle mie visite al bagno. Oriol mi sorrideva, strizzando i suoi occhi a mandorla, quasi volesse dare adito alle battute del cugino. «Ti fa ancora male il dito?» mi chiese, indicando la mia mano. E io capii che con quel sorriso non voleva appoggiare Luis, bensì me; sapeva dell'anello, e intuiva la mia angoscia. Luis riprese a leggere e udimmo di nuovo la voce di Arnau d'Estopinyá, che giungeva sino a noi attraverso i secoli. «'Al mio ritorno, seppi che il nostro maestro, malgrado il pericolo, aveva deciso di seguire il re fino a Valencia, per continuare a intercedere per il nostro ordine. E così fece: andò nel nostro convento della capitale, dove il monarca, nonostante i bei discorsi fatti in precedenza, lo fece incarcerare il cinque di dicembre. Ma re Giacomo non si fermò qui: due giorni dopo, faceva catturare tutti i frati di Burriana, per poi impadronirsi del castello di Chirivet, che non oppose resistenza. Proseguì verso nord, in direzione della fortezza di Peñíscola. Il voltafaccia del re aragonese, e quello del miserabile sovrano francese, permisero di cogliere molti fratelli di sorpresa. Alcuni non provarono nemmeno a resistere. Quando venni a sapere che sarebbero arrivati, ero sul punto di salpare di nuovo a bordo della mia nave, per fare rotta verso sud. Non era stagione, ed ero privo di galeotti; ma la Na Santa Coloma, fedele al nome che portava, poteva navigare a vela perfettamente, e io potevo contare sul mio fidato equipaggio. «'Ma, dopo una fuga simile, non avremmo potuto attraccare in alcun porto catalano, valenciano o del regno di Maiorca. Forse non avremmo potuto fermarci in nessuna terra cristiana. Non ci restava che pirateggiare contro il regno di Granada, Tremercén o Tunisi, poiché giammai lo avremmo fatto come corsari al soldo dei mori. E avremmo dovuto aspettare che il Tempio recuperasse la sua libertà e il suo onore. Ma se papa Clemente V, come si vociferava, appoggiava l'azione dei monarchi, ribellandomi avrei rimediato la scomunica, e io e i miei uomini saremmo stati destinati ad assaltare navi saracene fino a trovare la morte in combattimento, decapitati per mano dei mori o, peggio ancora, impiccati con corde cristiane. Ma tutto questo non mi faceva paura: un pirata con una galera come la mia e con tanta esperienza avrebbe accumulato grandi ricchezze, e pochi avrebbero osato attaccarlo. Mi resi conto che non avrei mai potuto abbandonare i miei fratelli in una condizione simile.
«'E che cosa posso raccontarvi? Parlai con fra' Pere de Sant Just, commendatore di Peñíscola, il quale mi disse che era molto vecchio, e che aveva deciso di consegnare la piazzaforte al re. Allora gli chiesi il permesso di mettermi in viaggio, insieme a tutti coloro che avessero voluto seguirmi, per la fortezza di Miravet, dove ero certo che fra' Raimondo Saguardia avrebbe affrontato il re traditore. Con la sua benedizione, partii al galoppo con tre sergenti, un cavaliere e sette laici, tra marinai e soldati. Nonostante sapessimo che re Giacomo aveva dato ordine di imprigionarci tutti e di incamerare i nostri beni, indossavamo orgogliosi i nostri abiti, decorati dalla croce rossa del Tempio, e senza preoccuparci di nascondere le armi. Nessuno, né i soldati, né le milizie locali osarono fermarci nei posti di controllo lungo il cammino. «'Due giorni dopo, il dodici dicembre del 1307, in seguito alla conquista di Peñíscola, che non oppose resistenza, e alla presa delle fortezze e delle commende nei dintorni, tutte le proprietà dell'ordine nel regno di Valencia erano state pignorate, e tutti i frati incarcerati. «'Come mi aspettavo, fra' Saguardia rispose con un rifiuto all'ordine reale di consegnare il castello di Miravet e, quando arrivammo, l'assedio era già cominciato. Nemmeno le milizie di Tortosa e dei paesi vicini, che secondo le istruzioni reali stavano formalizzando gli ultimi dettagli per l'attacco, osarono fermarci. «'Fra' Saguardia ci accolse con gioia, mi abbracciò e, quando seppe che avevo portato a termine la mia missione, si mostrò sollevato. Volle che fossi io a custodire l'anello: nessuno doveva sapere perché lo portavo e in quel momento, nonostante avessi perduto per sempre la mia adorata nave, mi sentii felice, e seppi che mi trovavo nel posto giusto. Ero lì, a lottare insieme ai miei fratelli. Lì si erano rifugiati anche i commendatori di Saragozza, Grañena e Gebut, e ci preparavamo ad affrontare un lungo assedio. «'Alla fine dell'anno arrivò la notizia che Masdeu, la commenda di fra' Raimondo Saguardia, insieme alle altre proprietà templari comprese nei territori di Roussillon, Sardegna, Montpellier e Maiorca, erano state confiscate da re Giacomo II di Maiorca, zio del nostro re Giacomo II. Non ci fu resistenza, e i frati arrestati vissero in un regime di relativa libertà. «'All'inizio del 1308, in Catalogna resistevano solo due castelli, quello di Miravet e quello di Ascó; nel regno di Aragona, la fortezza di Monzón e vari castelli tenevano duro. Uno di essi, Libros, riuscì a resistere eroicamente all'assedio per sei mesi con un solo templare, fra' Pere Rovira, aiutato da un gruppo di laici fedeli.
«'Il re inviò una lettera il venti di gennaio, in cui ci intimava di obbedire agli ordini del papa; fra' Saguardia chiese di negoziare, ma il sovrano non rispose. In seguito, Giacomo II minacciò di condannarci alla forca, di confiscare i nostri beni e di compiere rappresaglie nei confronti delle famiglie dei soldati che ci difendevano. Fra' Berengario di Sant Just, commendatore di Miravet, propose di rilasciare i soldati al suo servizio, corrispondendo loro la paga dovuta fino a quel momento; Saguardia si dichiarò d'accordo, e negoziò con gli ufficiali del re l'uscita della truppa, impedendo danni a persone e cose. Non volevamo che quegli innocenti e i loro cari patissero per essere stati fedeli al nostro ordine. Così, tristemente, fui costretto a dire addio ai miei ultimi marinai. «'A quel punto, fra' Saguardia chiese al re di inviare dei messaggeri a Roma per difendere la nostra causa davanti al santo pontefice. Per tutta risposta, Giacomo II ordinò di costruire macchine da assedio e di cominciare a scagliare pietre contro il nostro castello. Fece venire dei rinforzi da Barcellona e chiese aiuto allo zio, il re di Maiorca. «'E così trascorse quel periodo d'assedio, con intenti infruttuosi di negoziati e tradimenti, con i viveri che diminuivano e la pressione reale sopra di noi, che aumentava ogni giorno. A nulla servì ricordare al monarca i servigi prestati a lui e ai suoi antenati, riconquistando i suoi regni, e la fedeltà mostrata nei confronti di suo padre, quando questi era stato scomunicato dal papa, che aveva indetto una crociata contro di lui. In ottobre, ottenemmo di far uscire indenni i giovani cavalieri e altri novizi che non avevano ancora preso i voti ecclesiastici, che poterono tornare liberamente alle loro famiglie. «'Fra' Saguardia non si fidava del re, ma credeva ancora nel papa. La nostra comunità pregava e pregava affinché il pontefice vedesse finalmente la luce e si rendesse conto della nostra innocenza, tornando ad appoggiarci. Con il sostegno di Clemente V, quel coraggioso templare credeva di essere in grado di sconfiggere lo stesso re d'Aragona. Fra' Sant Just e gli altri commendatori erano convinti che il male fosse il pontefice stesso, e volevano che accettassimo le condizioni negoziate con il monarca. «'Alla fine, si impose l'opinione della maggioranza e, suo malgrado, il luogotenente Saguardia, dopo aver resistito per oltre un anno, fu costretto a consegnare Miravet e Ascó il dodici di dicembre. Monzón e Chalamera lottarono ancora qualche mese. «'All'inizio la nostra prigionia fu piuttosto leggera; io ero recluso nella commenda di Peñíscola, insieme a un cavaliere, a un cappellano e a due
sergenti. Fui io a chiedere di essere mandato lì, per poter vedere il mare. La Na Santa Coloma non c'era più, era già stata portata a Barcellona. «'Due mesi dopo, toccò a me affrontare l'interrogatorio dell'Inquisizione. Avevano un questionario in cui mi chiedevano se avevo sputato sulla croce, se avevo rinnegato Cristo Nostro Signore, se avevo baciato i miei fratelli sull'osso sacro o sulle pudenda, se avevo commesso altri atti impuri o simili indecenze con altri frati. «'Che cosa posso raccontarvi? Nonostante avessi già sentito parlare di tali domande, ne restai assolutamente indignato. Avevo visto morire i miei compagni mentre abbordavano navi saracene, ero presente quando gli egiziani avevano abbattuto le mura di Acri; conoscevo centinaia di templari morti in difesa della vera fede, e sul corpo portavo cicatrici, a testimonianza del sangue che avevo versato per Nostro Signore Gesù Cristo; e adesso dovevo rispondere alle immonde domande di quei domenicani, di quei chierici che non avevano mai visto nemmeno una goccia del proprio sangue, se non ferendosi accidentalmente con gli strumenti che utilizzavano per torturare altri cristiani. «'Noi frati, che avevamo opposto resistenza, ottenemmo dal re il rispetto delle nostre persone. Ma il monarca traditore, ancora una volta, non tenne fede alla parola: non solo eravamo sottoposti a una maggiore sorveglianza, rispetto a coloro che si erano consegnati spontaneamente: addirittura, l'estate successiva ci fece mettere in catene. «'Che dire? Se non ci si è passati, non si può sapere che cosa si prova, schiacciati per mesi e mesi dal peso del ferro, che ti impedisce di muoverti, la pelle rotta dal metallo, gli arti che si gonfiano. Per comprendere una simile situazione bisogna viverla. I vescovi si riunirono a Tarragona, e chiesero al re di toglierci dai ceppi. Ma gli inquisitori domenicani, al contrario, vollero un rigore ancora maggiore nel nostro trattamento. «'Ci portarono a Tarragona, in occasione di un nuovo concilio; i vescovi rinnovarono la loro richiesta al re ma, di lì a poco, giunse una lettera del papa, in cui questi esigeva che fossimo sottoposti a tortura. «'Fummo condotti a Lerida, e io venni messo sul cavalletto una mattina di novembre. Una mattina di nebbia fitta.'» Questa volta non interruppi la lettura. Dopo l'esperienza precedente, ero certa che l'episodio della tortura fosse contenuto nelle pagine di Arnau. Mi limitai a chiudere gli occhi e a prendere un respiro profondo. Quindi, dominando il mio turbamento, ascoltai con attenzione. «'Sapevamo di dover resistere; non dovevamo cedere al dolore come a-
vevano fatto alcuni fratelli francesi.'» Luis continuava a leggere, senza rendersi conto dell'angoscia che mi opprimeva. «'Furono ore interminabili; i boia facevano due pause al giorno, in modo che ogni frate fosse sottoposto a tre sessioni di torture quotidiane. Gli inquisitori mi chiesero le stesse oscenità della prima volta; adesso, però, c'erano anche gli ufficiali del re, che volevano sapere dove avevamo nascosto i nostri tesori, che sembravano svaniti nel nulla. Monarca bugiardo, ladro e assassino! Nessuno di noi confessò di aver offeso la regola, di aver rinnegato Cristo Nostro Signore, di aver adorato il "Bafometto", o di aver fornicato con i suoi fratelli. E non ammettemmo nemmeno di aver occultato dei tesori. Meglio morire, che permettere a quel re indegno, a quel papa codardo e crudele e agli spregevoli inquisitori di impossessarsi dei nostri beni. «'Nessuno tra i frati catalani, aragonesi o valenciani cedette al supplizio, e noi tutti continuammo a sostenere la nostra innocenza. Alcuni morirono, in seguito agli spasmi, altri rimasero invalidi; e Giacomo E, il nostro ipocrita sovrano, per ingraziarsi i nostri sostenitori, inviò dottori e medicinali. Che commediante. «'Quasi un anno dopo, ci raggrupparono a Barberà, dove venimmo dichiarati innocenti dal concilio di Tarragona. «'Ma il Tempio non esisteva più. Mesi prima, Clemente V aveva promulgato la bolla Vox in excelso, sopprimendo per sempre il nostro ordine, che tanta gloria aveva portato alla cristianità. Inoltre, proibì a chiunque, pena la scomunica, di "farsi passare per templare". Ci aveva tolto persino il nome! «'Il re ci assegnò una pensione, a seconda della carica che ricoprivamo; a me, in qualità di sergente, toccarono quattordici denari. Dovevamo vivere in case amministrate da sacerdoti che non erano stati templari, e mantenere i voti di castità, povertà e ubbidienza. Al quarto, quello di lottare contro gli infedeli, potevamo rinunciare. In effetti, non avevamo più i mezzi per farlo. «'Erano passati cinque anni da quando avevo messo piede l'ultima volta sulla Na Santa Coloma e, durante quella lunga e orribile penitenza, chiudendo gli occhi vedevo le vele gonfie della mia nave, con la croce rossa al centro, illuminate dal sole del mattino; facevamo rotta verso Almerìa, Granada, Tunisi o Tremancén, per abbordare o affondare i vascelli saraceni. Quella visione mi assaliva mentre recitavo il mattutino, quando mangiavo, passeggiavo, in qualsiasi momento. Una volta riavuta la mia libertà, per un attimo pensai di fuggire con qualche frate, di trovare una galera e di torna-
re a lottare contro gli infedeli. Era il mio sogno; passavo il tempo a fare piani, insieme ad altri fratelli. Alcuni di loro non si erano mai imbarcati. Ma tutti noi desideravamo sentirci di nuovo utili, volevamo recuperare la nostra dignità. Ecco che cosa significava essere liberi. Alla fine, però, non facemmo nulla. Erano fantasticherie da vecchi. Io avevo passato i quarantacinque anni, e, dopo le torture e la prigionia, la mia salute languiva. Mi sentivo un codardo, e l'idea di pregare sino alla fine dei miei giorni mi appariva sempre più gradevole. Un frate mi insegnò i rudimenti della pittura, e con la mia pensione potevo procurarmi legno, stucco, colla e colori. Pensavo che la mia opera umile e sgraziata sarebbe stata più utile al Signore: avrei dipinto i suoi santi, perché il popolo li potesse pregare. «'Nel frattempo, ci giungeva notizia che il papa e re Giacomo ET litigavano come avvoltoi per le spoliazioni del nostro patrimonio. Con la bolla Ad providam Christi di quell'anno, in cui il pontefice assegnava ai frati dell'Ospedale tutti i beni appartenuti all'ordine, il sovrano aveva ottenuto l'esclusione dei regni di Spagna. Quindi, aveva fatto approvare la creazione dell'ordine di Montesa, a lui fedele, che avrebbe ereditato le proprietà templari nel regno di Valencia. Alla fine, Giacomo II accettò di consegnare il resto dei beni di Catalogna e Aragona all'Ospedale, non prima, però, di essersi preso tutto ciò che poté, con la scusa delle spese sostenute per causa nostra. Si appropriò di denaro e gioielli, al punto che in alcune chiese divenne impossibile celebrare il culto per mancanza di oggetti liturgici. Passarono inoltre al suo peculio le rendite delle nostre proprietà, da lui amministrate nei dieci anni di disputa con il papa, oltre ad alcuni castelli in posizione strategica. Per finire, fece in modo che fossero i frati dell'Ospedale a pagare le nostre pensioni, fino alla fine dei nostri giorni. «'Noi non potevamo chiamarci templari in pubblico, ma nessuno si adattò a passare a un altro ordine. «'Erano passati quasi due anni dalla nostra liberazione, quando giunse la notizia dalla Francia. Quel sovrano miserabile, Filippo detto il Bello, aveva condotto al rogo in tutta fretta il maestro del Tempio, Giacomo di Molay, e due dei suoi dignitari. Il vecchio, negli ultimi istanti di vita, recuperò la dignità perduta, in seguito all'incarcerazione e alle torture, e proclamò la purezza e l'integrità dell'ordine, accusando re e pontefice. Morì tra le fiamme, gridando la sua innocenza, e l'innocenza di noi tutti. Si dice che, durante il supplizio, convocò il sovrano francese e il papa davanti al tribunale di Dio. Entrambi morirono misteriosamente entro la fine di quello stesso anno.
«'Re Giacomo visse ancora a lungo. Spirò un anno fa, nel monastero di Santes Creus, vicino a quello di Poblet, in cui mi trovo. Si narra che rese l'anima a Dio quando ormai si faceva notte, e si accendevano le lucerne. Nel suo registro mortuario si legge: Circa horam pulsacionis cimbali latronis. Io non capisco molto di latino, ma quella è l'ora della penombra. Quella che chiamano l'ora del ladro. «'Così, con la giustizia finale, la giustizia di Dio, termina il mio racconto. Anch'io spero di comparire presto davanti a Lui, e prego per la sua pietà. Lo supplico, inoltre, di permettere che in futuro l'ordine del Tempio torni in qualche modo a lottare per la luce, per il bene. «'Che dire? Giunto alla conclusione del mio cammino, disseminato di orgoglio, superbia, vittorie e sconfitte, sofferenze e passioni, ho scoperto che il segreto di ciò che ho custodito si trova in Dio. È nascosto sotto la terra che i santi calpestarono, e nella divinità della Vergine. Che Dio Nostro Signore perdoni i miei peccati, e abbia pietà della mia anima.'» 40 Ci guardammo in silenzio. La narrazione mi aveva commosso. Infine, Oriol prese la parola, da vero esperto di storia. «Il racconto sembra autentico. È come se un vero frate del Tempio ci avesse offerto la sua testimonianza, ma con un linguaggio moderno. Inoltre, usa le stesse forme di interrogazione rivolte al lettore che impiegava Ramon Muntaner, il Caudillo catalano cronista dell'epopea degli almogaveri in Turchia e Grecia, contemporaneo di Arnau: 'Che cosa posso dirvi?' 'Che dire?' «Forse, il testo è una copia di scritti più antichi tradotti; o forse qualcuno decise di mettere su carta una tradizione orale. Io propendo per la prima spiegazione, ci sono dettagli troppo precisi. Conosco molto bene quel periodo storico, e le cose andarono esattamente come narra Arnau. Anche se dipinge Giacomo II come un miserabile, mentre in effetti fu un re capace. Anziché affrontare il papa, come avevano fatto suo padre e il suo bisnonno, lo manipolò per bene, riuscendo a ottenere la Corsica e la Sardegna. Finse di fare guerra al fratello, su richiesta di Clemente V, ma, quando ormai era vicino alla vittoria, si ritirò, lasciando che continuasse a regnare sulla Sicilia, l'isola di cui lui stesso era stato sovrano. Così, essa rimaneva in mano alla sua famiglia, lontano dalla corona francese. Con lui, il potere della casa di Barcellona e Aragona nel Mediterraneo si consolidò definiti-
vamente. Il papa non ottenne nessuno dei possedimenti templari dei regni di Aragona e Valencia; al contrario, Giacomo II riuscì davvero ad approfittarne! Fu una logica misura di difesa, di fronte al rivale francese, che mise da parte una fortuna grazie ai templari. Il denaro era, ed è ancora oggi, un elemento strategico fondamentale, imprescindibile per equipaggiare gli eserciti. «Infine, nonostante Arnau descriva i suoi compagni come eroi che resistevano alle torture, nel regno di Aragona si fece il minimo indispensabile: i frati vennero torturati, certo, ma solo per compiacere il papa, che continuava a lamentarsi che i boia, qui, non si applicavano a fondo. Non lasciamoci ingannare: ci furono delle torture, è vero. Ma alcuni supplizi si possono sopportare, altri no. Re Giacomo II era convinto che fosse tutta una menzogna architettata da Filippo il Bello, che aveva sequestrato il sommo pontefice, ma che voleva comunque venirne fuori bene. Al contrario, in Francia vennero applicate le peggiori forme di tormento, e molti confessarono tutto quello che chiedeva il sovrano. 'Se vogliono che confessi che ho ucciso Cristo, lo farò, disse un cavaliere templare francese, 'ma non posso resistere oltre.'» «OK, passi la lunga lezione di storia», intervenne Luis. «Ma non ci dà nessun indizio.» «Invece sì», fece Oriol, pensieroso. «Ti riferisci alla penultima frase, vero?» chiesi. Luis riprese in mano le carte, e cercò l'ultima pagina. «'Il segreto di ciò che ho custodito si trova in Dio. È nascosto sotto la terra che i santi calpestarono, e nella divinità della Vergine'», lesse. «La terra che i santi calpestarono!» esclamò. «E infatti è proprio sotto i piedi dei santi e della Vergine che abbiamo trovato le iscrizioni nascoste.» «Esatto», affermò suo cugino. «Oriol», intervenni. Avevo un'idea: «Le tavole non sono state sottoposte interamente ai raggi X». «Ma sì», fece lui. «Hai visto anche tu le radiografie.» «Guardiamole un'altra volta.» Ce le mostrò tutte e tre. I dipinti si distinguevano a fatica. «Non è forse vero che, quanto più una zona del quadro è oscura ai raggi X, tanto più bianca appare?» osservai. «Sì.» «E se è completamente bianca significa che un pezzo di metallo impedisce la visione.»
Oriol sorrise. «Ho già capito dove vuoi arrivare.» «Di che cosa state parlando?» chiese Luis, impaziente. «Facile», rispose il cugino, entusiasta. «C'è una parte della tavola centrale che non è stata sottoposta ai raggi X. Vedi quella zona totalmente bianca?» «La corona della Vergine!» esclamò Luis. «Sì. Arnau parla della 'divinità della Vergine': dev'essere un indizio. Avrebbe dovuto dire 'santità della Vergine', dal momento che Maria è umana, e non divina. E, nell'iconografia cristiana, la santità viene rappresentata con un cerchio dorato intorno al capo, che viene detto aureola o corona. Quando è apparso nella radiografia non ci ho fatto caso, mi sembrava normale. In alcuni dipinti dell'epoca, soprattutto italiani, e in alcune icone greche, l'aureola non è fatta di stucco, con un pannello d'oro, bensì di metallo; stagno dorato in cui precedentemente erano stati incisi motivi floreali, o qualche iscrizione.» Oriol andò a prendere una cassetta degli attrezzi, mentre noi due osservavamo la corona della Madonna sul dipinto. In effetti, poteva tranquillamente trattarsi di un pezzo di stagno. «Che stupido», disse, al suo ritorno. «Se invece dei raggi X, come indicava mio padre nel testamento, avessi usato gli infrarossi, avremmo visto se sotto il metallo c'era un disegno, o una scatta. Ma non aspetteremo sino a domattina per la riflessografia...» Già: nessuno era disposto ad aspettare. Appoggiammo il quadro su un tavolo e, con un coltello sottile, Oriol cominciò a sollevare i lati dell'aureola. Di lì a poco, alzò un bordo. Era vero! Era di un metallo sottile, e piuttosto elastico! Con estrema attenzione, staccò la corona, che venne via in un solo pezzo. Sotto, a occhio nudo, si leggeva: «Illa Sanct Pau». «Isola di San Pablo!» esclamai. «Il tesoro si trova in una grotta marina, nell'isola di San Pablo!» «Isola di San Pablo?» fece Luis. «Non l'ho mai sentita in vita mia.» «Già», confermò Oriol. «Nemmeno io.» Il sorriso mi si gelò sulle labbra. San Pablo. Un'isola sconosciuta! Doveva essere molto piccola, o molto lontana. La cercammo, negli atlanti e su mappe di qualsiasi tipo, io e i miei compagni chiedendo a chiunque potesse sapere qualcosa, dagli armatori ai geografi. Quando ci riunimmo, il pomeriggio, nessuno aveva idea di dove si trovasse l'isola.
«Non ho fatto altro che pensarci, tutto il giorno», disse Luis. «Non avrà cambiato nome? I templari, dato il loro status di religiosi, non davano alle isole nomi di santi?» «È molto probabile», convenne Oriol. «Sulla mappa ci sono San Pietro e Sant'Antioco in Sardegna», recitai, guardando i miei appunti. «Più lontano, in Italia, c'è un'altra San Pietro, nel piccolo arcipelago delle Lipari, nel mar Tirreno; e nel golfo di Taranto c'è un'isola di San Antico. Dopodiché dovremmo spostarci nel mare Adriatico per cercare altri santi.» «No, troppo distante», affermò Oriol. «Ho cercato anche tra i nomi nella guida di un atlante, ma non ho trovato nessuna isola di San Pablo, Sant Pau, Sant Pol, Saint Paul, San Paolo; non ho trovato nemmeno i nomi senza il santo davanti», conclusi, efficiente. «Dev'essere relativamente vicina a Peñíscola», osservò Oriol. «Perché?» Io e Luis volevamo sapere. «Le date indicate nel manoscritto costituiscono un indizio», ci spiegò il nostro esperto di storia. «Secondo Arnau d'Estopinyá, il colloquio tra fra' Jimeno da Lenda e re Giacomo II a Teruel, tenutosi il 19 novembre, segnò il momento in cui i templari decisero di nascondere i loro tesori. È una data piuttosto tarda per una galera. Quel genere di imbarcazioni navigavano solo da maggio a ottobre. Erano molto rapide, ma di poco pescaggio, e non erano pronte ad affrontare mari mossi e turbolenti. Inoltre, offrivano scarsa protezione agli equipaggi; i galeotti vivevano in coperta, quasi nudi. E questo fu un elemento decisivo durante la battaglia di Lepanto, che si combatté quasi trecento anni dopo. La flotta combinata dei cristiani attaccò le galere turche nel suddetto golfo, dove queste si erano rifugiate per l'inverno. Era l'inizio di ottobre, e parte degli equipaggi ottomani aveva fatto ritorno alle proprie case. «Un capitano di galera esperto come Arnau non avrebbe messo a rischio nave e carico affrontando un lungo viaggio, in quel periodo dell'anno. Non solo: era già tornato da tempo quando, il 5 dicembre, il re fece catturare il maestro. Di conseguenza, poteva aver trascorso in mare una decina di giorni in tutto. Io concentrerei le ricerche in un raggio limitato: secondo me, il nascondiglio non si trova a più di due giorni di viaggio da Peñíscola e questa zona include le coste che erano più familiari ad Arnau. Guardate...» Andò alla cartina del Mediterraneo, che avevamo steso sul tavolo, prese un compasso e, dopo aver poggiato la punta su Peñíscola, lo aprì in modo
tale che l'altra estremità cadesse su Cap d'Agde; quindi, tracciò un arco che includeva le isole Baleari e, a sud, arrivava a Mojácar. «Non credo che si sia avvicinato a Cap d'Agde. Una nave templare in territorio francese correva pericoli seri; oltretutto, al nord avrebbe trovato freddo, tormente. Un marinaio esperto come lui, buon conoscitore della sua nave, non avrebbe mai osato attraversare la zona della Tramontana, in quel periodo dell'anno. Se volete sapere come la penso, si diresse a sud, o a est. Il raggio includerebbe le isole Columbretes, molto vicine a Peñíscola, le Baleari e tutta la costa mediterranea - ma non oltre Guardamar - forse fino al Capo di Palos. A partire da questo punto, iniziava la zona in mano ai mori.» «Non ci sono isole con nomi di santi, tra le Columbretes, e nemmeno tra le Baleari, né lungo la costa valenciana o murciana», affermai. «Però ci sono degli isolotti prima di arrivare a Capo di Gata: San Pedro, San Andrés e San Juan.» «Troppo lontano, e poi non c'è il nostro santo», disse Oriol. «C'è un paese, lungo la costa catalana, chiamato Sant Pol e, ad Alicante, Santa Pola», commentò Luis. «Di fronte a Santa Pola c'è un'isola che potrebbe essere una buona candidata», dissi. «Ma non ha il nome di un santo: sulla cartina viene indicata come Nueva Tabarca, o isla Plana.» «So qualcosa, al riguardo», continuò Oriol. «Carlo III, nel secolo XVIII, stanco del fatto che l'isola fosse una base permanente per i pirati, fece costruire un paese cinto da mura, e lo ripopolò con cristiani liberati di origine genovese, prigionieri degli algerini, provenienti dall'isola di Tabarka, un antico possedimento spagnolo nell'Africa del nord, dove veniva praticata la pesca del corallo. Di qui il nome.» «Quindi fu un covo di pirati. Pirati saraceni, no?» chiesi. «Che cosa accadeva sull'isola quando non era in mano ai cristiani?» «Secondo le cronache musulmane del regno di Murcia, cui apparteneva la zona prima della Reconquista, era disabitata; ma possedeva un porto agevole da raggiungere, di cui si servivano i nemici dell'Islam per pirateggiare.» «Arnau d'Estopinyá incluso?» «Sicuramente», affermò Oriol. «Il re di Murcia, intorno alla metà del secolo XIII, divenne vassallo del sovrano di Castiglia, fino a quando una rivolta mudéjar costrinse Giacomo I, nonno di Giacomo II, a intervenire in aiuto dei castigliani. La regione fu annessa definitivamente alla corona
aragonese grazie a un trattato firmato con la Castiglia all'inizio del Trecento, un paio d'anni prima della caduta dei templari. Arnau doveva conoscere bene l'isola, fosse per proteggere le terre cristiane o per attaccare e saccheggiare i musulmani.» Restammo d'accordo che Oriol avrebbe ripassato la storia delle isole, nel tentativo di trovarne una che poteva essersi chiamata Sant Pau, San Pol o San Pablo. La candidata numero uno era l'isola di Nueva Tabarca. Il mattino seguente mi chiamò sul cellulare. «Prendi nota», disse, senza aspettare che andassi a prendere una matita. «Gli storici Mas i Miralles e Llobregat Conesa credono che il nome di Santa Pola sia prearabo; prima doveva chiamarsi Sant Pol, dal momento che gli arabi cambiavano i toponimi al femminile. Loro scrivevano Shant Bul, la cui pronuncia è vicinissima a quella di Sant Pol. Il nome del santo deriva dal presunto sbarco di San Paolo a Portus Ilicitanus, denominazione romana di Santa Pola, nel 63 dopo Cristo: suo compito era evangelizzare la Spagna. Di conseguenza, l'isola divenne isola di San Pablo e, secondo altri storici, per molto tempo la zona abitata di Tabarca venne indicata nei libri parrocchiali come villaggio di San Pablo.» Sentii una stretta al cuore. «È già nostro», mormorai. 41 La vedemmo quando ormai scendeva la sera. Il sole illuminava l'isola, che si allungava quasi in parallelo contro l'orizzonte limpido, che galleggiava sull'acqua di un blu profondo. La muraglia si innalza nella parte destra dell'isola, sul mare, e raccoglie al suo interno il villaggio, che ha come edificio principale una chiesa del tutto simile a una fortezza. Ogni costruzione, dai muri ai tetti, brillava alla luce rossiccia del crepuscolo, in un contrasto di ombre che conferivano volumi cubisti alle abitazioni del villaggio che, dalla nostra prospettiva, sembrava uscito da un racconto di pirati. L'isola è molto più lunga che larga e si stringe al centro, dove c'è un porto che guarda a nord, verso il continente. Nella parte sinistra appariva rada e marrone, con un paio di torri, una delle quali risultò essere un faro. Eravamo in cima al monte di Santa Pola, e Luis ci aveva condotto al faro; la vista era spettacolare e l'isola, invasa dalla luce, contrastava con la spiaggia in ombra ai piedi del dirupo che segnava bruscamente l'estremità
del monte, dalla parte del mare. Se ti sporgevi, ti venivano le vertigini. L'isola del tesoro, pensai a voce alta. Quant'è bella! C'era profumo di pino. All'improvviso, dalla parte inferiore della scogliera, si elevò silenziosamente una farfalla dalle ali rigide, gigantesca e multicolore, che fluttuò nell'aria sopra le nostre teste. Era una ragazza con il parapendio, seguita da un ragazzo, e da un altro ancora. Emergevano dalle ombre laggiù, per essere illuminati in pieno dal sole della sera. Uno spettacolo davvero stupendo. Luis ci spiegò che la brezza del mare, andando a sbattere contro il monte, provocava una corrente d'aria quasi verticale, e che per questo riuscivano a guadagnare una certa altezza sul faraglione. Non so perché, ma in quegli apprendisti angeli mi sembrò di vedere noi tre. Loro sospesi sull'abisso, appesi a fragili ali di tela, e noi che fluttuavamo in un'avventura di parole antiche e storie remote. Facevano quasi paura. Forse intuivo il pericolo che si annidava nel nostro lancio? Mi venne voglia di abbracciare Oriol che, come Luis, contemplava il panorama in silenzio. Ero in piedi in mezzo a loro, e li abbracciai entrambi per la vita; non volevo fare distinzioni. Loro mi misero un braccio intorno alle spalle; sentii i loro corpi caldi, e rivissi la stessa sensazione di cameratismo di quando eravamo ragazzini, e andavamo d'accordo. Mi tornarono in mente le parole del poeta Kafavis in Itaca, e capii che bisognava vivere quel momento di illusione e di speranza; occorreva godere ogni istante dei giorni che sarebbero venuti. Rivolsi la mia attenzione alla bellezza del paesaggio e al calore dei sentimenti che provavo per i miei due amici; e dopo essermi riempita i polmoni nel vano tentativo di trattenere ogni cosa, e di conservarla - il sole, l'amicizia, l'emozione, il colore del mare, la luminosità dei muri dell'isola - sospirai. «Che cosa ci riserverà quest'avventura?» dissi. Oriol e Luis non risposero. Forse si stavano facendo la stessa domanda. La vedemmo avvicinarsi dalla prua dell'imbarcazione che compiva il tragitto da Santa Pola a Nueva Tabarca. Il giorno era chiaro, il mare calmo e il sole, ancora basso, riverberava sull'acqua, così che l'isola sembrava galleggiare su un lago di luce. Da quel lato, alcuni scogli precedevano l'isola e poi si vedeva il villaggio, appollaiato e rinchiuso tra le mura. Subito dopo, la mole della chiesa, che spiccava in mezzo agli altri edifici. Le quattro grandi finestre barocche, che superavano i tetti di ogni altra costruzione, mi ricordarono le feritoie di un brigantino, da cui presto sarebbero
spuntati i cannoni. I gabbiani volavano sulle nostre teste, e nell'acqua limpida vedemmo galleggiare una medusa purpurea, grande quasi quanto un pallone da calcio. Sulla barca, non molto affollata a quell'ora, c'erano turisti diretti sull'isola, dove avrebbero trascorso la giornata; in loro onore, quando arrivarono in porto, i marinai gettarono del pane in mare, richiamando centinaia di pesci belli, argentati e voraci, che si accalcavano intorno al pasto. «Non perdere tempo a guardarli», mi disse Oriol. «Ne vedremo fino a stancarci.» Sbarcammo e, incamminandoci verso il villaggio, varcammo una porta nella spessa muraglia di pietra calcarea, giallognola e consumata. Mi sentivo come quando, da ragazzina, visitavo l'attrazione dei pirati, in un parco divertimenti della Florida. All'interno di quel recesso ci sono due nicchie, una dedicata alla Vergine e l'altra contenente varie immagini di santi e fiori di plastica. Lasciammo poi le nostre cose in hotel, e ci affrettammo a fare un giro d'ispezione. L'isola non era sconosciuta ai due cugini che c'erano stati un paio di volte da ragazzini, con le loro famiglie. Nueva Tabarca fa onore al suo secondo nome di isla Plana. In realtà, sono quasi due isole, che si estendono in tutto quasi milletrecento metri, ciascuna con una pianura centrale, che nel punto medio arriva a sette o ottocento metri sopra il livello del mare. La più piccola, a ovest, è la più elevata, ed è anche quella che, circondata da mura, contiene il villaggio. Le mura sono quasi tutte costruite sui dirupi a strapiombo sul mare. Al centro l'istmo, più basso, ospita una spiaggia a sud e il porto a nord, verso il continente. Lì i miei due amici poterono apprezzare qualche cambiamento: una zona urbanizzata con rampe di scale e diversi ristoranti affacciati sulla spiaggia. Sull'altra parte dell'isola, la maggiore, si trovano una torre di difesa, che risale all'epoca del villaggio, anche se le fondamenta sono romane, poi un faro e, all'estremità più lontana, il cimitero. Ci sono anche i resti di un'antica fattoria, ma tutto ciò che oggi cresce nella zona con un certo successo, al di là dei cespugli, sono le ortiche. Fummo tutti d'accordo nel ritenere che, data la brusca elevazione dell'isola dal mare, e considerata la forma capricciosa delle rocce, la presenza di grotte era garantita. La nostra esplorazione del mare iniziò il pomeriggio. Ci munimmo semplicemente di occhialini da immersione, boccaglio e scarpini, che non impediscono di nuotare e permettono di camminare sulla riva evitando punture di ricci e tagli, appoggiando i piedi sulle rocce sommerse. Era proprio come da bambini, solo che allora usavamo ciabatte di plastica. Eravamo
del tutto simili ai tanti turisti che accorrono a godersi l'affascinante fondale marino che circonda l'isola. Uscimmo dal villaggio passando attraverso la porta che si apre nel muro ovest, e ci imbattemmo in uno sperone roccioso, quasi unito a un isolotto, detto la Cantera, troppo basso per celare delle grotte, e che quindi decidemmo di non esplorare. La sera si levò il lleberig, un vento di sudovest che si abbatté sul mare dal lato meridionale. Tuttavia, a nord l'acqua era ancora calma e lì, sotto il muraglione che si elevava verticalmente sopra le nostre teste, iniziammo a nuotare. Eravamo eccitati, di ottimo umore, e di tanto in tanto i ragazzi si sfidavano in velocità, lasciandomi indietro. Oriol, più alto e snello, vinceva sempre, nonostante Luis, che aveva conservato in parte la robustezza di un tempo, sembrasse più muscoloso del cugino. In un'occasione, mentre erano distratti a osservare un banco di salpe, i cui fianchi d'argento a strisce d'oro brillavano al sole, partii sparata: una volta lontana, li avrei presi in giro per la loro lentezza. Mi sentivo come quando, da ragazzina, soltanto vedendo i loro corpi già pienamente sviluppati, percepivo il passare del tempo. Perlustrammo circa trecento metri in direzione est, fino a raggiungere il porto, e notammo un paio di punti in cui le muraglie presentavano delle cavità a livello dell'acqua; forse erano antiche caverne sepolte. Decidemmo di tornare a ispezionarle più dettagliatamente in seguito. Separata dal baluardo, c'era una piccola grotta senza molte possibilità e, dopo averla esplorata, trovandoci vicino al porto, proseguimmo dietro la scogliera. La parte di muro successiva cominciava su un isolotto; una costa accidentata con lastre rocciose si addentrava nel mare, e una scarpata di tre o quattro metri separava la linea della costa dal piano superiore. Più in là, trovammo un arco sommerso, che separa gli scogli da una grande vasca da bagno rocciosa piena d'acqua calda, aperta verso la riva. L'isola, in quel punto, ci offriva un fantastico paesaggio sottomarino formato da rocce piene di vita, anemoni verdi e gialli, rosse stelle di mare, ricci, piumini, coralli... che all'improvviso si aprivano a cascata, nelle profondità blu, o sulle estese praterie di verde posidonia oceanica, che sull'isola viene chiamata erroneamente anche alga; in realtà, si tratta di piante vere e proprie, con radice, fusto, foglie e frutti. Crescono sulla sabbia bianca, a poca distanza dalla superficie e lì, tra le foglie, pascevano tranquilli innumerevoli pesci. Banchi di occhiate, salpe, orate e saraghi argentati. E poi pesci verdi e pesci donzella multicolori che, uno alla volta, si avvicinavano a curiosare guardando attraverso le lenti dei miei occhiali. Il mare era tranquillo e il
sole filtrava sott'acqua, creando sfumature rosse e gialle a profondità maggiore, ma mantenendo i colori naturali nei pressi della superficie, dove noi nuotavamo. Fu un pomeriggio delizioso. Non eravamo riusciti a trovare altre tracce di grotte quando, giunti alla cosiddetta rocca de la Tanda, all'estremità ovest dell'isola, decidemmo di porre fine all'esplorazione per quel giorno; ma i nostri animi erano ancora colmi d'emozione. Prima di cena, in un bar, attaccammo discorso con un vecchio pescatore oriundo dell'isola il cui cognome, Pianelo, sottolineava la storia del luogo. Ci parlò della «Cova del llop marì», situata, di fatto, a pochi metri da dove ci trovavamo, sotto le difese meridionali di quel villaggio fortezza. Ci raccontò le leggende della caverna, il luogo in cui l'ultima foca monaca si rifugiava nel primo trentennio del XX secolo; e poi storie di pirati, contrabbandieri, pescatori e donzelle rapite, il cui lamento si ode nelle lunghe notti invernali, sferzate dal vento. A livello del mare, la grotta si inoltra per diversi metri verso il centro dell'isola e Luis propose di dirigerci subito lì, la mattina seguente. Secondo Oriol, invece, avremmo dovuto portare avanti l'esplorazione in modo sistematico, iniziando dalla roca de la Tanda, avanzando lungo la costa meridionale verso ovest, fino a incontrare la cova una volta giunti al recinto murato. Toccò a me decidere. Vinse la proposta di Oriol. Ricordo quella cena con particolare affetto; mi sentivo stanca e dolorante per lo sforzo, ma mangiammo e bevemmo bene, ridendo molto nonostante le battute e le insinuazioni a sfondo sessuale che mi lanciava Luis o, forse, proprio grazie a esse. Era tornato a fare il galletto del pollaio, in modo divertente e aggressivo al tempo stesso, e apparentemente non considerava Oriol un possibile rivale quando giungeva il momento di corteggiarmi. Sembrava avere molto chiaro l'orientamento sessuale del cugino. Troppo chiaro. Io guardavo Oriol, pendevo dalla sue labbra: ero ansiosa di udire i suoi commenti, la sua reazione alle stupidaggini del cugino, e di vedere quel sorriso che spuntava continuamente mentre osservava ora me, ora Luis. Volevo sentire la sua risata: quella risata a volte chiassosa, che mostrava i suoi denti splendidi. In effetti, i suoi gesti potevano sembrare effeminati, in qualche occasione; ma io non potevo evitare di sentire sempre qualcosa di molto speciale nello stomaco, quando i nostri sguardi si incontravano, quando gli occhi dell'uno indugiavano, provando piacere, in quelli dell'altra.
Decidemmo di fare una passeggiata prima di andare a letto, e Luis disse che doveva salire un momento in camera. Io andai verso la porta con Oriol e, decisa, varcai la soglia. Non avevo alcuna voglia di aspettare il nostro compagno, e giustificai la mia cattiva coscienza dicendo «L'isola è piccola, ci troverà». 42 Camminammo verso la muraglia nord, passeggiando per viuzze i cui muri occultavano giardini segreti; dalle recinzioni sbucavano buganvillee e gelsomini odorosi, e l'illuminazione pubblica metteva in risalto il bianco, il colore malva e cannella che spiccavano sullo sfondo verde. La bella di notte si apriva sulla piazzola della chiesa e il profilo esotico di una palma si stagliava contro il cielo stellato. Era una calda notte di inizio luglio e l'isola, una volta partite le ultime barche di turisti, appariva intima, raccolta. Presi Oriol per la mano, con il cuore che mi batteva eccitato per l'ardire del mio gesto, e per il piacere di sentire la mia mano circondata dalla sua, grande e calda. In silenzio, andammo verso il cammino di ronda, in cima alle mura. Di fronte a noi si allargava la baia, incorniciata dalle luci della costa; le acque nere erano solcate da alcune barche di pescatori. Santa Pola era di fronte a noi, mentre a destra c'era il faro, sulla cima del monte. Più in là, la città di Alicante. Ci sedemmo sulla balaustrata del cammino di ronda, diversi metri sopra le onde che si infrangevano dolcemente contro la parete, con un rumore continuo e pacato. E, dopo qualche minuto di silenzio, a bassa voce, d'un tratto cominciò a parlare, forse riprendendo la conversazione della notte di San Giovanni. «Soffro ancora per la morte di mio padre. Mi ha abbandonato.» «Sono sicura che non voleva farlo. Forse aveva preso un impegno che ha dovuto onorare.» Oriol mi guardò con aria interrogativa. «Forse aveva fatto una promessa a un amico.» Preferii non dirgli nulla della visione che avevo avuto: sapevo che Enric era deciso a morire per vendicare il suo amante. Preferii tacere, almeno per il momento. Davanti al suo silenzio, continuai: «Pensavo al giuramento dei templari... quello della sacra legione tebana, di cui mi hai parlato...» Ricordavo le sue stesse parole: «Non è stupendo? Amare qualcuno tanto
da dare la propria vita?» «Quella storia non è finita», disse dopo un po', meditabondo, forse indovinando i miei pensieri. «Tra noi e i Boix potrebbe scorrere altro sangue.» Tremai. Artur aveva detto la stessa cosa. «Concentrati su questa pace, sulla bellezza del momento», continuò. «Ho l'impressione che sia la calma che precede la tempesta. Artur Boix non rinuncerà al tesoro. Non so come, ma sono certo che ci sta tenendo d'occhio.» La sua mano teneva ancora la mia e, quando pronunciò quelle parole, la strinse ancora di più. E all'improvviso, davanti al mio silenzio, lo disse: «La promessa, quella dei cavalieri templari: giureresti con me?» La sua proposta mi lasciò stupefatta e pensierosa. Storicamente, si trattava di un patto tra persone dello stesso sesso. Forse stava insinuando che quello era il nostro caso? Non sapevo se avevo voglia di rispondere, per lo meno a parole, e decisi di rischiare con un bacio. Lo desideravo. Con il cuore che mi batteva sempre più forte, cominciai ad avvicinare la mia bocca alla sua. Volevo sentire ancora una volta il sapore del mare, dell'adolescenza. «Allora siete qui!» Delle centinaia di volte in cui ho odiato Luis, quella fu senza dubbio la numero uno. Ha la capacità di dar fastidio anche quando non vuole. Era lì, in fondo al cammino di ronda, e veniva verso di noi; era ancora lontano, però, per rendersi conto della nostra situazione nella penombra. La distanza da Oriol, che qualche secondo prima si era ridotta, aumentò improvvisamente, e io gli lasciai la mano. Non credevo che Luis si fosse accorto di nulla, e non volevo dare adito alle sue battute insensate. Quando, poco dopo, ci ritirammo nelle nostre stanze, sentivo ancora il calore della mano di Oriol nella mia, e il desiderio frustrato di quel bacio. Sospiravo, appoggiata al davanzale della finestra che dava a sud, sul mare aperto, contemplando le luci lontane di qualche barca, quando udii quei colpetti discreti alla porta. Sentii una stretta al cuore. Dev'essere Oriol, mi dissi. Anche lui, probabilmente, provava le stesse cose, e l'arrivo del cugino doveva averlo infastidito almeno quanto me. Andai di corsa alla porta e, aprendola, mi trovai davanti Luis. Sorrideva, a metà tra il burlone e il seduttore. «Ti tengo compagnia per un po'?» si offrì. «Vai a farti fottere, cretino!» esclamai, chiudendo la porta con tutta l'in-
tenzione di sbattergliela sul naso. Ma davvero quell'idiota credeva che le sue battute potessero essere prese sul serio? Indignazione, frustrazione, ansia: non saprei dire che cosa provai in quel momento. Comunque, la rabbia se ne andò in fretta. Ero alterata, desideravo quel bacio ed ero sicura che, qualche minuto prima, Oriol l'avrebbe accettato con piacere. Me lo diceva un non so che denteo di me. No, non potevo restare così, con un simile fallimento. Guardai i miei due anelli. Quello di diamante brillava innocente, puro, e mi ricordava il mio impegno nei confronti di Mike. Quello rosso rubino, ora rosso di passione, scintillava ironico. Li tolsi entrambi e li posai sul comodino; infuriata, li coprii con il cuscino. Non volevo vederli. Pensai a mia madre e alla sua storia con Enric. Se non altro, lei aveva avuto il coraggio di provarci. Era andata male, ma non per colpa sua. Forse ero una codarda? Aprii la porta e uscii nel corridoio, cauta: di Luis, nessuna traccia. Mi fermai davanti alla camera di Oriol con le nocche sollevate, pronta a bussare. E rimasi così, immobile come una rimbambita: che cosa gli avrei detto? «Ti faccio compagnia per un po'», come aveva fatto Luis? O «Mi dai un bacio»? Mi resi conto che era proprio quello che Maria del Mar aveva cercato di impedire durante gli ultimi quattordici anni. D'un tratto, ebbi paura. Che cosa avrebbe pensato lui? Mi avrebbe respinta? Era davvero gay? O, peggio ancora, mi avrebbe lasciato fare, come aveva fatto Enric con mia madre? E Mike? Mi vergogno ad ammettere che battei in ritirata, e feci dietrofront nella mia stanza. Pensai a mamma. Bisognava avere coraggio per fare una cosa simile! Soprattutto se si prova qualcosa per l'altra persona, e se si teme di rovinare tutto. Quella notte piansi per la mia vigliaccheria, con il viso sul cuscino. I due anelli erano chiusi nel cassetto del comodino. Il giorno successivo si annunciò brillante e limpido. Il mare era calmo e, aprendo la finestra, i malumori della notte volarono fuori. Decisi di godermi la giornata e, dopo una bella colazione, piena di risate e di occhiate ricche di intenzione, ci sentimmo tutti e tre carichi di energia. La mattina fu la continuazione dell'indimenticabile pomeriggio precedente. Un sole che accarezzava la pelle anche sott'acqua, illuminando praterie di verde posidonia sopra sabbie bianche, in contrasto con le pareti rocciose che cadevano quasi verticali verso profondità invisibili, con centinaia di pesci che fluttuavano ad altezza diverse, in mezzo a sorprendenti
trasparenze di blu. E poi il sapore di sale in bocca, che mi ricordò il mio primo bacio. Il Mediterraneo tenero e gentile mi riportava indietro, a quei bei giorni d'estate della mia infanzia. Al di là della piacevole nuotata, l'esplorazione del tratto compreso tra l'estremità orientale di Tabarca e la spiaggia non portò ad alcuna scoperta. Invece nella zona a sudovest, sotto delle enormi rocce su cui sorgevano le mura del villaggio, ci attendeva una sorpresa. Nel punto in cui ci aspettavamo di trovare la «Cova del llop marì», non ci imbattemmo in una grotta, bensì in due, separate da una cala. Erano molto simili, anche se una era più profonda dell'altra. Vi si accedeva a nuoto; il suolo restava sommerso per i primi metri, per poi elevarsi sino a emergere dal mare, offrendo un fondo roccioso in alcuni tratti ricoperto da pietre. Ambedue conducevano in breve a una zona chiusa sul fondo da grandi macigni. C'eravamo preparati con delle torce, ma l'esplorazione non diede il risultato sperato. Nei due giorni seguenti riesaminammo coscienziosamente tutte le grotte, addirittura scavando con degli attrezzi il fondo di sabbia o pietrisco posti al di sopra del livello dell'acqua. Iniziammo a scoraggiarci: stavamo perdendo la speranza di trovare qualcosa; a poco a poco le risate cessarono, e insieme allo sconforto giunsero la stanchezza e la delusione. Noi tenemmo duro, ma alla fine arrivammo a una dolorosa conclusione: la nostra avventura finiva lì. 43 AL ritorno, Oriol volle fermarsi a Peñíscola, per visitare la base marittima templare da cui Arnau d'Estopinyá sferrava i suoi attacchi contro l'infedele. «Magari troveremo qualche indizio», addusse, per convincerci. Ma non eravamo in vena di gite turistiche; avevamo il morale a terra. Il racconto dei tesori e dei pirati era svanito con l'ultimo giro intorno all'isola e nulla aveva richiamato la nostra attenzione, nelle due grotte localizzate in precedenza, che tornammo a esplorare al millimetro. Nessun indizio per supporre che il leggendario tesoro di Arnau fosse nascosto lì sotto. E non riuscimmo nemmeno a individuare altre caverne. Perlustrammo tutto meticolosamente soffermandoci a osservare ogni crepa, spostammo pietre, scavammo nella sabbia. Niente. Era come quando, da piccoli, giocavamo con una di quelle grandi e bellissime bolle di sapone che hanno un arcobaleno sulla superficie, e che, una volta scoppiate all'improvviso, ci lasciavano il
viso bagnato, e un'espressione delusa. «Qui non troveremo niente», rispose Luis, demoralizzato. «Faremo ritorno a Barcellona quanto prima.» Ero d'accordo, ma appoggiai ancora una volta Oriol. Aveva davvero sempre ragione, o ero io che volevo compiacerlo? La risposta era ovvia. Visitammo la parte antica della città e la fortezza. Oriol aveva un'energia sorprendente, e sembrava di buonumore, mentre io e Luis praticamente trascinavamo i piedi, in preda allo sconforto. Vedemmo il castello di Benedetto XIII, lo scismatico detto il Papa Luna, vissuto un paio di secoli dopo il nostro Arnau e il vecchio commendatore Pere de Sant Just, che il 12 dicembre 1307 consegnò la sua fortezza, il porto e il villaggio alle truppe di Giacomo II senza opporre resistenza. Dall'epoca dei templari, sono sorte molte costruzioni, ma si possono ancora riconoscere elementi architettonici del secolo XIII, le stesse pietre che dovette vedere Arnau d'Estopinyá, ammesso che tale personaggio sia realmente esistito. Quindi, Oriol volle visitare il complesso monumentale dalla spiaggia e noi due - nonostante il malumore di Luis e la mia stanchezza - lo seguimmo. Fu lì, in riva al mare, con la fortezza in lontananza, che Oriol disse: «Credo che abbiamo trovato la grotta». «Che cosa?» esclamammo in coro. «Ce l'abbiamo.» Sorrideva soddisfatto, vedendo le nostre facce. «Ma se non abbiamo trovato niente!» feci io. «Sì, invece.» Il suo sorriso divenne ancora più grande. Si stava godendo la nostra reazione. «E che cosa avremmo trovato?» A giudicare dal tono aggressivo, Luis pensava che suo cugino ci stesse giocando uno scherzo. «Un indizio. Un indizio importante.» «E cioè?» «Pietre.» «Andiamo, Oriol.» Luis cominciava a infuriarsi. «Abbiamo visto milioni di pietre. Ho le mani distrutte, a furia di spostarle.» «Vero. Ma poche di granito o di marmo.» «Granito o marmo?» dissi, cercando di ottenere altre informazioni. «Pietre arrotondate. Tipo ciottoli, di tre o quattro chili.» «Ne abbiamo viste montagne», risposi. «Ma devono essere di granito o di marmo», ripeté Oriol. «Non ci abbiamo fatto caso. Ebbene?» sbottò Luis. «Dove vuoi andare a parare?»
«Pietre arrotondate di granito o marmo, in un'isola in cui non esiste questo tipo di roccia. Questo vi dice qualcosa?» «Che non quadra», feci io. «Che sono fuori luogo.» «Le avranno trasportate le correnti», azzardò Luis. «Tu credi che le correnti spingano le pietre sul fondo del mare per poi riportarle verso la superficie?» «Forse.» «No, quei ciottoli li ha portati l'uomo, e adesso bloccano l'ingresso di una caverna sommersa.» Io e Luis ci guardammo, meravigliati. «Proprio così. E sono arrotondati perché erano usati come proiettili», continuò. «Proiettili per catapulta, che servivano anche per zavorrare le galere.» Rimase in silenzio. Ci osservava. «E dillo, una buona volta!» esclamò Luis, spazientito. «Bene. Ascoltate la mia teoria. Nella parte meridionale dell'isola, sul lato est, c'è un cumulo di ciottoli molto simili tra loro; si trovano di fronte a una scogliera, sotto mezzo metro d'acqua con la bassa marea. Hanno dimensioni simili e si tratta di minerali che non esistono a Tabarca. In quella zona ci sono solo rocce metamorfiche color verdastro scuro, oltre a qualcuna ocra; in passato, dall'isola si estraeva questo minerale. L'avevo notato già durante la nostra prima esplorazione, e l'ho verificato in quelle successive. Le pietre a cui mi riferisco le ha trasportate l'uomo. Chi avrebbe potuto trasferire quei ciottoli così uniformi e di diversa conformazione? La cosa più logica è che non fossero stati caricati apposta, ma che qualcuno che li utilizzava abitualmente avesse deciso di liberarsene per una precisa necessità. Sono giunto alla conclusione che doveva trattarsi di una galera; i ciottoli venivano usati come zavorra o come proiettili.» «Spiegami questa cosa dei proiettili», volle sapere Luis. «Le galere avevano un equipaggiamento regolamentare, a seconda delle dimensioni. Gli inventari scritti che ci sono pervenuti sono assai rigorosi al riguardo: molti remi, timoni di scorta, elmi, corazze, lance, balestre, archi, saette, macchine da guerra e... proiettili per queste ultime. Alla fine del secolo XIII, le galere veneziane erano già dotate di artiglieria, ma è probabile che la Na Santa Coloma di Arnau d'Estopinyá usasse ancora le vecchie catapulte. E queste scagliavano rocce arrotondate per danneggiare le navi nemiche, e giare colme di nafta incendiata per bruciarle. Comunque, se anche Arnau avesse avuto l'artiglieria, all'epoca i cannoni sparavano
pietre. Semplice, no? «Se vuoi nascondere una grotta che si apre vicino alla superficie del mare con un piccolo sifone, come probabilmente in questo caso, devi spostare le rocce più grandi per evitare che le più piccole rotolino verso il fondo, e coprire il resto con i proiettili che tieni nella stiva come zavorra. Così hai ottenuto il tuo scopo, ma puoi sempre riaprire la caverna rimuovendo i ciottoli maneggiabili dall'ingresso. Allora? Che ve ne pare?» «Incredibile!» esclamai, impressionata. «Quindi il tesoro potrebbe esistere ancora?» «Sì.» «E perché hai aspettato tanto a dircelo?» Nonostante la sua voce indicasse eccitazione, Luis sembrava risentito. «Perché ho paura di Boix e dei suoi uomini. Ho tenuto gli occhi aperti durante tutto il viaggio, e non ho visto niente di strano, nessuna persona sospetta; ma sono sicuro che ci stessero osservando. Artur Boix non si darà per vinto; ho pensato che la cosa più intelligente fosse quella di far credere che ci stessimo ritirando, scoraggiati. Mi stupisce non aver notato niente, ma sono convinto che lui sia al corrente di tutto ciò che facciamo. Inoltre, ho paura che abbia piazzato dei microfoni nell'auto. Per questo ho preferito parlarvi qui sulla spiaggia; e adesso vi chiedo di non tirar più fuori l'argomento né in auto, né in casa. «Ma presto o tardi dovremo tornare a Tabarca», affermai. «Presto», rispose Oriol. «Da un paio di giorni sto meditando sul passo successivo. Ecco il mio piano: domani riprenderemo la nostra vita normale, e fingeremo di tornare alle nostre attività quotidiane. Dopodomani, tu, Cristina, noleggerai un'auto e andrai a fare la finta turista sulla Costa Brava. Tu, Luis, andrai a Madrid per affari. Ci assicureremo di depistare chiunque provi a seguirci. Il vostro bagaglio dovrà essere ridotto al minimo indispensabile: una borsa a mano, o roba del genere. Io, dopo diversi giri, andrò a Salou, dove mi farò prestare da un amico una barca di dodici metri, dotata di gommone, e con essa mi dirigerò a Valencia. Lì passerò a prendere Cristina, al porto turistico. Ti suggerisco di lasciare l'auto noleggiata, con le chiavi nascoste all'interno, vicino alla stazione di uno dei paesi che visiterai, e di prendere un treno per Barcellona, e poi quello per l'aeroporto; lì acquisterai un biglietto per Valencia, usando la carta d'imbarco all'ultimo minuto, cosicché nessuno conosca la tua destinazione fino a quando non sarà troppo tardi per seguirti. Quanto a Luis, lo passerò a prendere al porto di Altea. Ti propongo di utilizzare la stessa tattica di Cri-
stina per due volte, una per il volo da Barcellona a Madrid, l'altra per quello da Madrid ad Alicante. Se qualcuno dovesse seguirvi, e solo in caso d'emergenza, chiamatemi sul cellulare per cambiare i piani. Se non vi sento, saprò che è andato tutto bene. Sulla barca ci sarà l'attrezzatura da immersione, per facilitarci il lavoro in acqua.» «Non starai esagerando, con tutte queste precauzioni?» chiesi. Oriol mi guardò con i suoi occhi a mandorla, del colore del mare. Uno sguardo profondo, che mi fece tremare. Come poteva quell'uomo turbarmi soltanto con un'occhiata? «Tu lo conosci.» Lo sapeva, e gli risposi con un lieve cenno della testa. «No, invece. Non lo conosci», continuò. «Non sai chi è veramente. È sveglio, e crudele. È un delinquente. Crede che noi Bonaplata siamo in debito con la sua famiglia, e vuole un risarcimento. Non mollerà, non si darà per vinto.» Ancora una volta ripensai alle parole di Artur riguardo al debito di sangue, ma rimasi in silenzio. «Quel tipo è pericoloso. Molto pericoloso. Qualunque sforzo per tenerlo lontano sarà comunque insufficiente.» Artur Boix, l'uomo che Oriol considerava tanto pericoloso, mi corteggiava. Ed era un pretendente decisamente appetibile. Forse non per me, che avevo un fidanzato a New York; ma di sicuro lo era per quasi tutte le donne. E ne era consapevole. Lo avevo già notato nei nostri precedenti incontri. Usava tutta la sua bellezza, la sua classe e la sua mondanità per farti arrivare meglio i suoi elogi. Riesce sempre a farti sentire una regina. In effetti, questo è quello che accadde durante la prima parte del pranzo che mi offrì, il giorno successivo al mio rientro da Tabarca. Sembrava quasi che mi stesse aspettando. Pur non menzionandolo, ricordavamo entrambi il bacio che mi aveva dato - e che io, sorpresa, avevo accettato - prima che entrassi furtivamente nella chiesa di Santa Anna, attraverso la porta sul retro. Devo confessare che, giunti al dessert, provavo già una certa attrazione nei suoi confronti. Quel tipo è un seduttore professionista. Non sta bene dire una cosa simile; inoltre, a quel punto dovevo avere un'idea abbastanza chiara a proposito dei miei affetti. Ma, dal giorno del mio arrivo a Barcellona, inevitabilmente mi ero fatta trascinare dagli eventi, vivendo intensamente la strana vita che mi aspettava in quella città, senza avere il tempo di
pensare troppo. Ero già impegnata, e seria. Ma le circostanze mi avevano portato a confrontarmi con il mio primo, e per molti anni unico, amore, nonostante la lontananza. E stare con lui mi turbava. La situazione era già abbastanza complicata, e adesso mi ronzava intorno quest'altro seduttore, capace di ricorrere a ogni mezzo per risvegliare la passione di una donna. Stavo appunto pensando a questo, quando Artur allungò una mano a cercare la mia. Quindi, la strinse e la baciò, mettendo fine alle mie meditazioni. Chiusi gli occhi e sospirai: se la mia capacità di gestire i sentimenti era stata un po' scombussolata, negli ultimi giorni, potevo ben sperare che riprendesse a funzionare. «Com'è andata la caccia al tesoro, a Tabarca?» A quella domanda inaspettata mi allarmai. Il mio corteggiatore aveva un interesse finanziario. «Come sai che sono stata lì?» «Lo so», disse, sorridendo. «Proteggo i miei affari. Parte di quel tesoro mi appartiene.» «Ci stavi spiando?» Si strinse nelle spalle e mi dedicò uno dei suoi affascinanti sorrisi. Sembrava un bambino sorpreso a compiere una birichinata di poco conto. «Allora saprai anche che non abbiamo trovato neppure un ' misero indizio», mentii. «Già, così pare. È una vera delusione, avevo riposto le mie speranze in te.» «In me?» «Certo. Siamo soci», disse, prendendomi di nuovo la mano. «E possiamo essere qualcosa di più, se lo vuoi. Io ho diritto a due terzi del tesoro, in qualità di erede legittimo delle due tavole che Enric rubò alla mia famiglia. L'altro terzo è vostro. Ma quel cocciuto di Oriol non ha mai voluto trattare con me. È uguale a suo padre.» Lo osservai, per capire se le sue parole nascondessero qualche proposito malvagio, ma né il tono, né i gesti mi sembrarono ironici. «Cerchiamo di arrivare a un accordo», disse. «Sono disposto a cederti parte di quanto mi spetta, se accetti di fare squadra con me. E darei qualcosa anche agli altri due, pur di trovare un po' di pace.» «Quello che dici è giusto», riposi. «Ma non c'è niente da negoziare. Il tesoro non esiste.» Decisi di mentirgli. Artur mi piaceva, ma non avevo alcuna intenzione di tradire Oriol. Forse l'antiquario aveva ragione: forse dovevamo giungere a un accordo. Era una questione di cui avremmo dovu-
to parlare. «E adesso che cosa farai?» mi chiese. «Ne approfitterò per trascorrere qualche giorno in Costa Brava. Parto domani.» «Da sola?» «Sì.» «Vengo con te.» Lo osservai di nuovo. Voleva sedurmi o sospettava che quella non fosse la mia vera destinazione? «No, Artur. Ci vedremo al mio ritorno.» Uscendo dal ristorante, mi invitò a casa sua. Confesso che esitai qualche secondo, prima di rifiutare. Ma avevo due buone ragioni per farlo: gli altri due uomini. In testa, però, regnava una grande confusione. 44 Questa volta ci apparve prima l'estremità est dell'isola. Eravamo partiti dal porto di Altea, dove avevamo prelevato Luis, e sulle cui acque protette avevamo trascorso la prima notte. Era una barca grande, con un ampio letto sotto la prua, che i cugini, galanti, mi cedettero. Un letto enorme. Loro dormirono nell'anticamera, una grande sala che conteneva la cucina e due brande. Oriol ci svegliò all'alba e, con un'abilità che mi sorprese, nonostante fossi venuta a sapere che era armatore di yacht, compì tutte le manovre precise per salpare. Pochi minuti dopo, navigavamo verso sud. Quando scorsi in lontananza il suo colore terroso illuminato dal sole, che sorgeva alle nostre spalle, sentii una stretta al cuore. Era ancora lei, l'isola del tesoro. E adesso l'avremmo trovato! Gettammo l'ancora al lato sudorientale; il sonar segnava sette metri di profondità, e venticinque erano quelli che ci separavano dalla costa. Lì di fronte c'era la fortuna di Arnau, celata da un cumulo di proiettili per catapulta. «Sarà meglio usare tute in neoprene, scarpini e guanti. Ci proteggeranno dai colpi, dai graffi e dal freddo», ci spiegò Oriol. «Le pinne, al contrario, sarebbero d'impaccio. Useremo sandali di plastica sopra gli scarpini, per avere più protezione dalle rocce.» Ci mettemmo al lavoro con entusiasmo. Il mare era calmo e il letto di ciottoli uniforme, esattamente come li aveva descritti Oriol, si estendeva ai piedi di un faraglione che si innalzava quasi verticalmente, superando di
cinque metri il livello del mare. La prima cosa che facemmo io e Luis, dopo esserci tuffati dalla barca e aver raggiunto la riva a nuoto, fu verificare la conformazione dei sassi: in effetti, alcuni erano di granito e basalto, altri sembravano di marmo o quarzo, anche se c'erano alcune rocce vulcaniche verdastre, o frammenti di ocra calcarea, originari di quella parte dell'isola. Sebbene non dubitassimo di Oriol, comprovare le sue parole fu una vera soddisfazione. Avevamo dei simpatici vicini, talvolta un po' rumorosi; sulla scogliera, abbastanza in alto rispetto alle nostre teste, si erano annidati dei puffini dal ventre bianco, che andavano e venivano, impegnati in una frenetica attività di pesca. Con la bassa marea, i ciottoli si trovavano a circa cinquanta centimetri di profondità; a un metro, quando l'acqua saliva. Iniziammo a spostare le rocce verso un declivio situato a poca distanza, in mare; depositandole lì, evitavamo che le onde minori le riportassero nel punto da cui le avevamo prelevate. Il confine tra il fondale di ciottoli arrotondati e la zona di maggiore profondità era formato da una piccola barriera di rocce più grandi che, come sospettavamo, potevano essere state trasportate tranquillamente dall'uomo. All'inizio ci posizionammo al limite della barriera ed era facile lanciare i sassi dall'altra parte, in special modo quando l'acqua era bassa e non occorreva respirare attraverso il boccaglio; ma quando dovemmo spostare le pietre a una distanza maggiore, considerando che muoversi sui ciottoli era alquanto disagevole, decidemmo di formare una catena. Uno raccoglieva la pietra e la passava al secondo, mentre il terzo la lanciava sopra la barriera. In breve, braccia e reni cominciarono a farci male, e ci rendemmo conto che ci sarebbero voluti alcuni giorni per portare a termine il lavoro. Ci fermavamo di frequente per fare una pausa, e quando saliva l'acqua ci riposavamo per alcune ore. Oriol era sempre allerta, e la sua inquietudine finì col contagiare anche noi due. «Non credo che Artur si lasci ingannare tanto facilmente», ripeteva. «Potrebbe farsi vivo in qualunque momento. E allora le cose si metterebbero male...» Così, guardavamo con sospetto qualsiasi imbarcazione si avvicinasse; fortunatamente, però, in quella zona l'ancoraggio non era autorizzato. Andavano tutti alla spiaggia sud, circa quattrocento metri più a ovest, dopo una piccola isola e un isolotto. Da lì, con l'aiuto di un gommone, o in alcu-
ni casi a nuoto, i turisti si recano ai ristoranti allineati lungo la spiaggia, o al villaggio. Come una sposa infedele al proprio marito, mi sentivo in colpa per non aver raccontato a Oriol dell'incontro con l'antiquario, dopo il ritorno a Barcellona. Assurdo. Non c'era niente con nessuno dei due; al limite, mi sarei dovuta sentire in colpa nei confronti di Mike. A mezzogiorno spostammo la barca verso la zona della spiaggia e, come tre turisti, montammo sul gommone e andammo a gustarci un saporito paiolo tabarchino in un ristorante. «Non dobbiamo dimenticarci il piacere. Non lasciamo che il lavoro eccessivo ci rovini quest'avventura», disse Luis a Oriol, quando iniziarono a discutere perché il primo aveva ordinato la seconda giara di sangria. «Ricorda la filosofia di tuo padre. La vita va goduta durante il cammino. Quando arrivi in fondo, c'è poco da gustare. L'obiettivo è l'avventura, il tesoro è solo una questione di fortuna.» «Hai ragione», ammise Oriol. «Ma sono preoccupato per via di Artur. Ho paura che piombi qui all'improvviso, e non sarò tranquillo fino a quando non saremo riusciti a entrare in quella grotta.» Da spettatrice, trovai alquanto curioso quello scambio di ruoli tra cugini. L'okkupante, il ribelle contro il sistema pensava a obiettivi materiali, mentre il capitalista, il prosaico schiavo della valuta cercava di godersi l'attimo, quando aveva una fortuna a portata di mano. Chi vivrà vedrà. All'alba del terzo giorno iniziò a soffiare il mestral, un vento di nordovest; ma, essendo ancorati a sudest, il corpo dell'isola ci proteggeva, consentendoci di proseguire con il nostro lavoro senza grossi inconvenienti. Avevamo riportato alla luce un'entrata nella roccia, che mostrava un passaggio verso il centro dell'isola, a circa settanta centimetri dalla superficie, con la bassa marea. Ma c'erano ancora molte pietre da rimuovere. A turno cambiavamo di posto, passandoci i ciottoli, per evitare di stancarci mantenendo sempre la stessa posizione; ma avendo fatto scendere il livello del fondo, le operazioni si erano fatte più difficoltose, e dovevamo lavorare con occhiali e boccaglio tutto il tempo. Quel pomeriggio lavorammo come non mai, il tunnel cominciava ad aprirsi davanti ai nostri occhi e, nonostante l'esaurimento, l'emozione ci indusse a continuare. Nel frattempo, il vento era cambiato: il llevant, arrivando da est, alzava delle onde che si infrangevano contro il faraglione. Alla fine non ci restò che utilizzare giubbotto salvagente, bombola d'ossi-
geno e una torcia per vedere all'interno della cavità. Quando il sole si nascose, il tunnel sembrava già praticabile, ma decidemmo di aspettare il mattino seguente. Eravamo troppo stanchi per portare a termine la nostra avventura quella sera, e poi le onde battevano contro gli scogli con una furia eccessiva. Era pericoloso, a maggior ragione adesso che eravamo senza forze. «Dicono che il llevant di solito soffi per tre giorni», ci informò Oriol. «E peggiorerà. Avremo una notte movimentata. Sarebbe più prudente cercare rifugio nel porto.» Ma gli dicemmo di no. Avere ormai il tesoro tra le mani e abbandonarlo lì era troppo. Secondo le previsioni avremmo avuto onde della forza di due o tre nodi, fastidiose ma non pericolose. Oriol decise di allontanare la barca di altri dieci metri da riva, quindi gettammo l'ancora in un punto in cui la profondità era di undici metri. Raddoppiai la mia dose consueta di pasticche contro il mal di mare. La doccia fu una vera sfida: l'acqua andava da una parte e dall'altra, a seconda del dondolio della barca; dovevi cercare di seguirla, e se riuscivi a farla cadere su di te era già una vittoria. La cena si limitò a qualche sandwich, che consumammo quasi in silenzio. Il mare ti sfinisce, quando è agitato. Se le altre sere eravamo caduti sui letti stravolti, dopo quella giornata crollammo. Ma io non potei fare a meno di pensare che l'indomani sarebbe stato il gran giorno, quello che tanto avevamo sognato. Il giorno in cui avremmo riportato alla luce il tesoro. Mi addormentai pregando che il vento si placasse, che le onde diminuissero, per permetterci di entrare. Ma ero agitata. Era l'emozione? O forse avevo un presentimento? Qualcosa stava per succedere. Durante la notte, si udì un colpo molto forte. Probabilmente avevo il sonno leggero, inquieto, e balzai in piedi. Cercai la luce per riuscire a orientarmi, ed ebbi la conferma che si muoveva tutto, addirittura più di quando mi ero coricata. Che cosa stava succedendo? Avevamo urtato qualcosa? Prima di andare a letto avevamo controllato l'ancoraggio e, a giudicare dagli strattoni, non doveva essersi mossa l'ancora, non potevamo essere alla deriva. Dall'anticamera non arrivava nessun rumore, e pensai che avrei fatto meglio a indagare sull'accaduto. Feci scorrere la porticina a soffietto che mi separava dalla saletta e, accendendo la luce, trovai Luis seduto a terra che cercava di capire dove fosse finito. Era caduto dalla cuccetta
in seguito a una sbandata della barca, e la sua espressione addormentata e intontita mi fece ripensare al ragazzino grassottello della mia infanzia. Nemmeno le mie risate riuscirono a svegliare Oriol. 45 Il vento di llevant continuava a soffiare, nonostante avesse virato lievemente verso sud, e portò con sé un'alba senza nebbia, con un sole che apparve quasi senza preavviso, spuntando da un orizzonte in cui mare e cielo si univano. Guardai verso l'isola, le onde colpivano instancabili la scogliera, ma non erano eccessive, pur sembrando pericolose. Delusa, mi dissi che in quelle condizioni non saremmo riusciti ad accedere alla grotta. I puffini in cima al faraglione erano già svegli, e volavano contro vento gareggiando con i gabbiani per procurarsi il cibo. Mi parve piuttosto strano scorgere così presto dei turisti in quella parte dell'isola. Durante i giorni in cui avevamo lavorato lì, nonostante stesse ormai iniziando la stagione, non avevamo visto molta gente; ci trovavamo in un luogo lontano dal villaggio e dalla spiaggia, e pertanto poco frequentato. Ma non vi attribuii molta importanza. Andai alla toilette e decisi di prendere un'altra pastiglia per il mal di mare e di tornare a letto. Non so per quale ragione, mi venne in mente di dare un'altra occhiata fuori. Due barche grandi più o meno come la nostra venivano verso di noi a una velocità tale che saltavano sopra le onde. Non mi resi conto di quanto stava accadendo fino a quando non riconobbi un membro dell'equipaggio: era Artur. «Ci stanno abbordando!» gridai ai due cugini che ancora dormivano. «Artur ci sta abbordando!» Oriol e Luis tardavano a reagire, e gli altri arrivavano a tutta birra. Manovrarono abilmente, e la barca di Artur ci colpì a poppa, non troppo forte. All'improvviso, Oriol sembrò comprendere quello che stava succedendo e, balzando in piedi come se avesse già vissuto molte volte quella situazione nei suoi sogni, senza indugi né esitazioni, afferrò la gaffa e, salito in coperta, iniziò a usarla come mazza per impedire l'abbordaggio da parte degli uomini dell'antiquario. A uno sferrò un colpo sulla testa, ed ebbe tanta fortuna da farlo cadere in acqua. Ma lui si trovava a poppa, e non poté evitare che due tizi della seconda barca saltassero sulla nostra prua. Eravamo perduti.
«Chiamate la polizia!» gridò Oriol. Mi precipitai alla radio ma Luis, che aveva lasciato il cugino solo in mezzo a quel gran casino, mi tirò per un braccio, facendomi scendere dal ponte. «Lascia stare», mi disse. «Se arriva la polizia potremo scordarci il tesoro. È meglio negoziare con loro.» «Negoziare?» ripetei, sorpresa. «Ma come puoi...» non riuscii a finire la frase; uno dei bulli di Artur aveva fatto il giro della cabina da tribordo, e stava per prendere Oriol alle spalle. «Oriol, dietro di te!» gridai. Lui si voltò rapidamente, facendo girare la gaffa, ma l'altro gli si era già lanciato addosso e riuscì a parare il colpo con le braccia. Artur e un altro tizio saltarono appena dietro Oriol, il quale, girandosi e trovandosi di fronte il suo nemico, senza dubitare neppure un istante, lo colpì alla bocca con uno schiaffone. Mi sorprese. L'okkupante sembrava un esperto di arti marziali. Per essere un pacifista, se la cavava bene. Gli altri due, alti quasi quanto lui ma molto più robusti, mentre lo invitavano a stare calmo lo mettevano fuori gioco con due pugni alla bocca dello stomaco. Il colpo incassato dall'antiquario non era stato molto forte, ma questi si portò una mano alle labbra per assicurarsi che non sanguinassero. Soddisfatto, riprese i suoi modi mondani e mi fece un sorriso. «La Costa Brava è un po' più a nord», mi disse. «Lo sapevi, mia cara?» «Sì, tesoro», risposi, con lo stesso tono cinico. «Cambiamento di piani.» Chinò leggermente la testa, accettando educatamente la spiegazione di una signora. «Signor Casajoana», disse a Luis, «vedo con piacere che lei è un uomo di parola, e che tiene fede ai suoi impegni.» Luis! Dunque era d'accordo con Artur... ma com'era possibile? «I patti sono fatti per essere onorati», rispose lui. «Adesso tocca a lei. Eravamo d'accordo che avrebbe trattato con i miei amici fino a raggiungere un compromesso vantaggioso per tutti.» «Ci avevo già provato, ma senza successo. Crede che adesso sarebbero più ricettivi?» Artur sorrideva, maligno. Stava approfittando della sua vittoria. «Sì, sono certo che la ascolteranno», affermò Luis, lanciandomi uno sguardo supplichevole. «Ma come hai potuto farlo?» lo rimproverai. «Perché ci hai traditi?» «Io penso che anche il signor Boix abbia diritto a una parte del tesoro»,
disse, sollevando il mento con un gesto che voleva esprimere dignità. «E gliel'hai riconosciuto a nome di tutti?» «Non solo, mi ha anche venduto la sua parte», chiarì Artur. «Qualche mese fa il tuo amico, che aveva investito nell'e-commerce, ha perso molti soldi, non solo suoi. Era al verde. Abbiamo negoziato e ho comprato la sua parte del tesoro. Oggi ha mantenuto la sua promessa.» «Ma come hai potuto...?» «Ho dovuto farlo!» Luis era alterato. «Minacciava di uccidermi!» Il suo tono cantilenante mi ricordò il frignone grassottello di un tempo. Dio! Mancava solo che si mettesse a piagnucolare. .. Ero talmente furiosa che gli avrei spaccato la faccia! «E adesso ci ucciderà tutti», intervenne Oriol. «Non te ne rendi conto, razza di stupido? Non capisci che, anche se arrivassimo a un accordo, non potrebbe mai rivendere tranquillamente i pezzi del tesoro, sapendo di avere tre testimoni che possono denunciarlo?» «Credi di essere molto furbo.» Artur si mise di fronte a Oriol, ancora trattenuto per le braccia dai due facinorosi. «Pensavi di potermi ingannare, vero? Eri convinto che il crimine di quel degenere di tuo padre sarebbe rimasto impunito, e che ti saresti impossessato di tutto... E hai osato anche colpirmi...» sollevò il pugno destro e si lanciò contro la bocca di Oriol, che non poté difendersi. Si sentì un suono smorzato, e qualcosa che si rompeva. Corsi a mettermi in mezzo, e Artur mi spinse da un lato. «Stanne fuori», ruggì. «Questa è una cosa tra noi due...» Come avvocato, non consiglierei a nessuno di infilarsi in una situazione simile, tanto meno di provocarla. Ma se una donna è indecisa fra due uomini, il modo migliore per far luce sui suoi sentimenti è vedere i suoi pretendenti affrontarsi... seriamente. Il suo cuore prende immediatamente le parti di uno dei due. Vedere Oriol bloccato tra quei due bulli, con le labbra coperte di sangue, e Artur che lo aggrediva trionfante mi fece sentire un'immensa tenerezza per il ragazzo dagli occhi a mandorla, e odio per il suo avversario, pur sapendo che era stato lui a cominciare. Così, com'era prevedibile, il mio cuore si schierò dalla parte di Oriol, e colsi l'occasione per mettere a frutto il corso di difesa personale che non avevo mai usato per mancanza di aggressori. Fu una cosa istintiva. Gli piazzai un calcio in mezzo alle gambe. Un colpo secco, seguito da un grugnito e da un grido interminabile che gli uscì dalla gola. Cadde sulle ginocchia, proteggendo con le mani le parti intime e poi si sdraiò, rannicchiandosi in posizione fetale. Devo ammettere che riusciva a fare anche questo con stile ed ele-
ganza. Oriol approfittò del momento di confusione e, divincolandosi dal tipo che lo teneva per il braccio destro, gli diede una gomitata sul viso. L'individuo cadde all'indietro, mentre lui sferrava un pugno all'altro che, nel tentativo di schivarlo, lo lasciò andare. Oriol non ci pensò neppure un istante e saltò fuori bordo. Capii immediatamente quello che intendeva fare, e fui presa dal panico. Nuotava, senza nessun tipo di equipaggiamento o di protezione, verso l'entrata della grotta, battuta in continuazione dalle onde. Era un suicidio. Non sapevamo che cosa c'era dall'altra parte. L'antro poteva essere ostruito da un crollo, o inondato; e lui, dopo aver lottato con gli uomini di Artur e aver sprecato energie in quella nuotata nel mare mosso, poteva non avere più forze sufficienti e rischiava di finire schiacciato contro la parete. O chissà cos'altro. Uscirne vivo sarebbe stato un miracolo. Da quella nostra conversazione notturna al villaggio, durante il primo viaggio, non avevo mai smesso di pensare alla promessa templare che Oriol mi propose di scambiare con lui, interrotta da suo cugino. La promessa della sacra legione di Tebe, dei cavalieri del Tempio che giuravano di non abbandonare il proprio compagno, ed erano pronti a dare la vita per lui. Quella che aveva portato Ernic a uccidere quattro uomini per vendicare la morte del suo amante. Dentro di me sentivo la stessa emozione, la stessa forza che mi spinse a difendere il mio amico, mollando un calcio ad Artur nel basso ventre, senza preoccuparmi delle conseguenze. E, in quel momento, vedendo lottare contro le onde il ragazzino magro e timido che tanto avevo amato, e a cui avevo dato il mio primo bacio, dal profondo del mio animo uscirono queste parole: «Te lo prometto». La sera prima, sfinita, mi ero buttata sul letto senza compiere un'operazione fondamentale per l'attrezzatura da immersione. Avrei dovuto smontarla e pulirla. Lì c'era la mia tuta in neoprene, con gli scarpini sopra ai piombini e il giubbotto salvagente con la bombola già attaccata e il regolatore montato. Avevo solo chiuso l'aria. Approfittando della confusione e del fatto che tutti fossero impegnati a osservare Oriol, mi precipitai all'attrezzatura e, aprendo l'erogatore, verificai che restavano poco di più di cento atmosfere. Abbastanza per salvare tutti e due. Infilai gli scarpini, misi gli occhiali e il boccaglio al collo e, appoggiando il giubbotto con la bombola su una cuccetta, riuscii a indossarlo. Non c'era tempo per indossare la tuta, o per i piombini. In quel momento udii il primo sparo, poi un altro. Il cuore iniziò a battermi più forte. Volevano ucciderlo! Miserabili!
Sparavano a un uomo indifeso che lottava contro le onde. «Fermatevi, idioti!» sentii Artur gridare; fortunatamente, non l'avevo colpito con troppa violenza. «Non fate rumore! Maledizione! Non vedete che non può scappare? L'isola è piena di uomini.» Non mi piacque per nulla il modo in cui ci considerava in trappola, né il fatto che la sua unica preoccupazione riguardo agli spari fosse il rumore. Ma questo non cambiava nulla. Non cambiava la mia promessa. E, quando ormai ero sul punto di saltare, guardai la linea della costa e vidi che, in effetti, c'erano diversi uomini - più di quanti ne avessi notati in precedenza - che ci sorvegliavano. Qualcuno mi aveva afferrato da dietro. In tono sarcastico, e alzando la voce perché tutti lo sentissero, mi chiese: «E tu dove vai, bellezza?» Era uno dei bulli di Artur. Mi dimenai per divincolarmi, ma, a giudicare dal modo in cui mi teneva per le spalle, compresi che non ce l'avrei mai fatta. Disperata, cercai di colpirlo scalciando. Fu inutile, lui strinse ancora più forte. Da piccola, avevo un pensiero che mi ronzava per la testa: io piacevo a Luis. Anzi, era innamorato di me. Per questo si comportava male con me, e mi infastidiva: voleva dimostrare a se stesso che quello che provava non era amore, ma odio. Forse, in quel momento sentiva per me quello che io avevo sentito qualche secondo prima per suo cugino, e che mi aveva spinto a colpire Artur; in ogni caso, lo vidi spuntare alla mia destra, mentre issava uno di quei galleggianti che servono a proteggere la barca dai colpi laterali. Quindi, lo scagliò addosso al tizio che mi stava immobilizzando: una botta tremenda, che suonò come un macigno cavo. «Salta, caporale!» mi ordinò, aiutandomi con l'attrezzatura. Indossai gli occhiali e, un istante dopo, stavo gonfiando al massimo il giubbotto, tuffandomi in acqua. Nuotando, sentii una strana felicità. Per lui, per Luis, e per quello che aveva fatto. Per la dignità che aveva recuperato. Non sapevo se il suo gesto sarebbe servito a qualcosa, forse eravamo tutti condannati a morte. Ma il signor Grassottello aveva avuto il suo momento di gloria. E il suo comportamento generoso ed eroico l'aveva riscattato. Oriol e io ce la saremmo vista brutta. Ma la sua situazione era decisamente peggiore. Era l'unico di noi rimasto nelle mani dei pirati, l'unico su cui avrebbero sfogato le proprie frustrazioni. 46
Nuotai e nuotai. Nuotare senza pinne, con l'attrezzatura, è davvero estenuante, e dovetti sgonfiare in parte il giubbotto per usare meglio le braccia. Per un attimo credetti di vedere Oriol sollevato dalle onde qualche metro più avanti; doveva trovarsi appena dopo il frangente. Poi non lo vidi più. Mentre mi avvicinavo, mi misi a studiare il ritmo ondoso, più violento di quello della sera prima. Dovevo sfruttare la spinta di un'onda e immergermi prima che il riflusso mi trascinasse indietro. La profondità era scarsa e più in basso la forza della mareggiata diminuiva parecchio: forse sarei riuscita ad affrontare il tunnel con successo. Sgonfiai completamente il giubbotto, allungai il boccaglio e portai l'erogatore alla bocca, respirando una tranquillizzante boccata d'aria. Funzionava! Mi immersi proprio quando un'onda raggiunse il punto più alto, dando un colpo di reni per scendere. Sotto era una gran confusione. Malgrado il fondo roccioso, c'erano frammenti di foglie morte di posidonia, e mille altre particelle sospese che si mescolavano con la spuma, e alle bolle prodotte da me. Mi ritrovai intrappolata nella corrente che tornava verso il mare, e mi muovevo avanti e indietro senza riuscire a vedere quasi nulla. Pensai a Oriol. Lui non aveva ossigeno a disposizione, e di certo non vedeva niente. Non sarà riuscito a passare, mi dissi. Nuotai verso il basso e in avanti, disperata; tenevo una mano di fronte a me per proteggermi dai colpi, e con questa palpai le rocce del pavimento della grotta. Avanzando a forza di bracciate, vidi i contorni dell'entrata. Curiosamente, in quel momento sentii davvero paura, per la prima volta in tutta la giornata. Forse Oriol non era stato capace di entrare nella caverna. O, peggio ancora, mi sarei potuta imbattere nel suo cadavere. Per un attimo immaginai il suo corpo che bloccava il passaggio, galleggiando contro il soffitto del tunnel. Tremai. Ma non c'era modo di tornare indietro e decisi di affrontare l'oscurità. Maledizione! Mi ero scordata di portare una torcia! Ma non mi fermai. Sentii immediatamente la corrente interna, che mi spingeva alternativamente avanti e indietro, però sforzandomi avanzavo, e il riflusso indicava che, se non altro, da qualche parte c'era una sacca d'aria. Mi ero inoltrata poco più di un metro, quando rimasi impigliata. Il cuore iniziò a battermi più forte. Non potevo andare avanti. Poggiando le mani sul pavimento, mi spinsi indietro: niente. Fui assalita dalla paura, e mi feci prendere dal panico. Provai a divincolarmi, inutilmente. Avete mai sofferto di claustrofobia? È orribile. Avrei dato qualsiasi cosa per uscire da quella
tomba scura, fredda e umida. Ero bloccata, non potevo muovermi, e con le braccia toccavo le pareti laterali ad appena trenta centimetri. Quello spazio era così angusto! Feci uno sforzo disperato per spostarmi in avanti. Niente. Riprovai in senso contrario. Mi sentivo soffocare, nonostante la bombola, e, dopo l'ennesimo strattone isterico e inutile, iniziai a pregare. Mi venne in mente il consiglio che si dà sempre ai sub: evitare di entrare in un luogo chiuso, sott'acqua, se non ci si è sottoposti a un addestramento speciale. Cosa che io non avevo fatto. Mi era rimasto solo il giuramento, che avevo prestato pochi minuti prima: avrei accettato di morire, pur di non abbandonare il mio compagno. Ed è esattamente ciò che sarebbe successo. Anzi, stava già accadendo. Una delle morti più orribili, intrappolata nell'oscurità, con i minuti contati. Quel pensiero mi indusse a fare un altro sforzo disperato. Finii con l'ansimare, senza avanzare di un centimetro in quel lugubre sepolcro, facendo moltissime bolle che scappavano rubandomi attimi di vita. Quanto mi rimaneva? Mezz'ora d'aria, forse? Avevo già cominciato a morire. Mentre mi avvicinavo alla fine, mi accorsi che aspirare diveniva sempre più difficile. Di lì a poco, non ci sarei più riuscita. Mi ripromisi che, quando ciò fosse accaduto, non mi sarei dibattuta, ma avrei lanciato il boccaglio da un lato, e avrei respirato profondamente... acqua. Strano. L'idea di affrontare la morte con dignità, e di accettare il mio destino, mi aiutò a tranquillizzarmi. La respirazione. Se fossi riuscita a calmarmi, avrei usato meno aria. A poco a poco, iniziai a controllarmi. Ero in trappola. O, per meglio dire, la mia attrezzatura era rimasta incastrata da qualche parte. Senza di essa, sarei andata avanti. Avrei potuto slacciare le cinghie, prendere una profonda boccata d'aria e proseguire a nuoto; l'uscita dall'altra parte del sifone doveva essere vicina, altrimenti nessuno sarebbe riuscito a entrare, a maggior ragione senza equipaggiamento. E, nel secolo XIII, si poteva contare solo sui propri polmoni. In quel momento mi ricordai che la sera prima avevamo lavorato finché aveva fatto buio. Avevamo usato delle torce. E dove avevo messo la mia prima di tornare alla barca? Chissà, forse era... Sì, in una tasca del giubbotto! Lo tastai, e in quella destra sentii un interruttore duro. Luce! La prima cosa che feci fu guardare l'indicatore di pressione. Settanta atmosfere! Mi restava ancora qualche momento di vita! Quindi verificai la mia situazione. Lì, tra le rocce, la visibilità era migliore che fuori, e scoprii che pochi centimetri più in là della
mia testa il soffitto del tunnel si alzava; addirittura, per un attimo, mi sembrò di scorgere una luce dall'altra parte. Il problema era che, probabilmente, non avevamo rimosso tutte le pietre dal corridoio, e la mia bombola si era incastrata in una cavità del soffitto. Lo stesso giubbotto salvagente mi impediva di abbassarmi quel tanto che bastava per liberarmi. Ideai un piano, lo ripetei mentalmente una, due, tre volte riesaminando eventuali contrattempi, fino a quando mi decisi a metterlo in atto. Slacciai tutte le fibbie del giubbotto, infilai la torcia accesa nei pantaloni, inspirai profondamente e, allontanando il boccaglio, mi spostai in basso e in avanti. Il giubbotto si staccò con relativa facilità. Ad appena due metri, vidi la superficie dell'altro lato e, quando ebbi abbastanza spazio per compiere la manovra, feci un mezzo giro, mi introdussi nel corridoio e, tirando verso il basso, liberai il giubbotto. Impiegai alcuni lunghissimi istanti, ma alla fine riuscii a trovare il cordino per gonfiarlo e, tenendo una mano sollevata per evitare di sbattere la testa, risalii in superficie che era sorprendentemente vicina. Salva! Almeno per il momento. Era un luogo singolare. Mi trovavo in una grotta dal tetto relativamente alto, che sembrava salire e scendere a seconda del livello dell'acqua, spinta dalla corrente del tunnel. Quest'ultima era il prodotto dell'effetto sifone, che trasmetteva gli innalzamenti del mare all'esterno, causati dalle onde, attraverso il condotto da cui ero entrata. Da un punto del soffitto si proiettava un flebile raggio di sole, che mi comunicò un'allegria difficile da spiegare. Su un lato di quel laghetto segreto, notai una zona in cui la roccia si elevava gradatamente; mi ci arrampicai, tirandomi dietro il giubbotto. E lo vidi immediatamente. Era sdraiato a pancia in su, in un punto in cui l'acqua non arrivava. Quasi mi scoppiò il cuore per la gioia. Era vivo! Non si muoveva, è vero: ma se era arrivato sin lì doveva essere vivo. Lo illuminai con la torcia, e non reagì. Che angoscia. Oltre al labbro inferiore sanguinante, aveva diverse contusioni su tutto il corpo. Ero sorpresa che fosse riuscito a raggiungere quel luogo. Indossava soltanto i calzoncini che usava per dormire, e che adesso avevano una gamba rotta. Mi inginocchiai accanto a lui, e gli accarezzai la fronte. «Oriol», dissi, a bassa voce. Nessuna reazione. Mi spaventai, forse non respirava. «Oriol!» ripetei, più forte. Forse per il freddo, che a poco a poco si era impadronito del mio corpo, o forse per la paura, iniziai a tremare come una foglia. Non reagiva. Maga-
ri era morto in seguito allo sforzo eccessivo. Cercai di sentire le pulsazioni facendo una leggera pressione sulla carotide: niente. «Oriol!» gridai. A quel punto, per la seconda volta, mi feci prendere dal panico. Provai a fargli la respirazione artificiale, e sentii ancora il sapore di mare nella sua bocca. Adesso, però, si aggiungeva anche quello del sangue. Ma respirava. Sì, stava respirando! Che sollievo! Ringraziai Dio, mentre, abbracciandolo, mi mettevo sopra di lui e, attenta a non impedirgli di respirare, cercai di dargli il mio calore e di sentire il suo. Di nuovo, andai in cerca delle sue labbra, del loro sapore. Forse furono le mie carezze a dargli forza, perché, poco dopo, aprì gli occhi: quegli occhi che adoravo e che, nella penombra, potevo immaginare più che vedere. Non dissi nulla e, stretta a lui, aspettai, evitando di strofinare il mio corpo sul suo, per non sfiorare le ferite. «Cristina!» esclamò, alla fine. «Sì, sono io.» Si guardò intorno di nuovo e, quasi avesse compreso all'improvviso la situazione, esclamò: «Ma che cosa fai, qui?» «Sto con te.» «Come sei entrata?» «Dal tunnel, come hai fatto tu.» Lo accarezzai, spostandogli i capelli dalla fronte. «Sei matta?» «E tu?» «Mi ero ripromesso che sarei stato io, e non quell'Artur, a trovare il tesoro di mio padre.» «E io ho giurato, come i giovani nobili della sacra legione tebana, e come i cavalieri del Tempio, di non abbandonare il mio compagno.» «Hai giurato?» allentò leggermente l'abbraccio, cercando di guardarmi negli occhi. «Sì, quando ti ho visto saltar giù dalla barca.» Lui non rispose e restammo un momento in silenzio. Immaginai che stesse valutando la situazione. «Grazie, Cristina», disse, infine. La sua voce era pregna d'emozione. «In ogni caso, ci ucciderà. Ma sarà bello morire così.» Non potei farne a meno, e lo baciai di nuovo. Questa volta rispose. Di nuovo il sale, il mare mosso, le sue labbra... addirittura la grotta e il freddo, come quell'estate. Anche se adesso, a fare la differenza, c'era il sapore del
sangue, un presagio sinistro. Ma non m'importava e mi lasciai trasportare dai ricordi di quello che fu, e dalla mancanza di quello sarebbe potuto essere, e che non sarebbe più stato. I miei sogni di ragazzina, in cui partivamo insieme, tenendoci per mano, alla scoperta del mondo, e quelle lettere spedite, colme di poesie d'amore, che mai arrivarono - e mai sarebbero arrivate - a destinazione. Ormai non poteva più succedere nulla di tutto ciò. Oriol aveva ragione, Artur ci avrebbe uccisi. E all'improvviso mi venne in mente il tesoro. Già, il tesoro! Me n'ero completamente scordata, com'era ovvio. Io non ero entrata nella grotta per un tesoro. Ma per lui. Nemmeno Oriol sembrava avere alcuna fretta. La verità è che quando una persona sa che sta per morire, o quando le sue possibilità di sopravvivenza sono decisamente scarse, inizia a dare un valore diverso alle cose. Perché noi due volevamo trovare un tesoro? La nostra amicizia, l'affetto che ci legava, i minuti che ci restavano erano le uniche cose che avessero qualche importanza, dentro quella grotta. OK, forse Oriol sentiva ancora il bisogno di trovarlo. Ma per suo padre. E questo sì che aveva un valore. Restammo così, non so per quanto: ma quel momento mi sembrò così breve... Ci accarezzammo, ci baciammo dolcemente, con l'intensità di chi sa che lo sta facendo per l'ultima volta. Trovandoci in un luogo asciutto, quello scambio di tenerezze mi fece sentire meno il freddo. Fu allora che accadde l'imprevisto. Cominciai a sentire una pressione familiare contro il basso ventre. «Oriol!» esclamai, sorpresa. Lui non disse nulla, ma la pressione aumentava. «Oriol!» ripetei, questa volta con intenzione, allontanandomi quel tanto che bastava per cercare di guardarlo negli occhi. La situazione, nella sua tragicità, era comunque divertente. «Come puoi vedere», disse, «sto recuperando le forze.» Non credevo che avesse questo tipo di forze... «Ne sei sicuro?» volli sapere. «Di che cosa?» «Del fatto che tutto questo stia accadendo in mio onore.» «Assolutamente.» Il dialogo terminò qui. Lo sigillammo con un bacio, nel quale ci dimenticammo del suo labbro sanguinante, delle contusioni disseminate sui nostri corpi, dei tesori, e persino della morte che ci attendeva fuori da quella tana d'amore. Non ci accorgemmo nemmeno delle pietre sul pavimento. E
il freddo? Smisi di sentirlo non appena mi tolsi il pigiama bagnato. Ci amammo con una passione estrema. Non ricordo di aver vissuto niente di simile nella mia vita, né prima né dopo; se avevo ancora dei dubbi riguardo ai gusti sessuali di Oriol, quella mattina vennero spazzati via completamente. Era ovvio che lui non stava facendo un'eccezione per via dell'emergenza in cui ci trovavamo, e che non era la prima volta che andava con una donna. Sapeva esattamente che cosa fare, in ogni istante, e si destreggiava come un amante esperto. Ci amammo con disperazione. Con l'urgenza accumulata in quattordici anni di attesa. Come se fosse la prima volta. Come se fosse l'ultima. Senza alcuna preoccupazione, senza alcuna precauzione. Per noi, non c'era domani. Io non sono così. Simili impeti riproduttivi sono abbastanza infrequenti, da parte mia. Diciamo pure rari. Sono tanto strana? O forse sono le situazioni critiche che mi fanno quest'effetto? Come la sera dell'11 settembre, nel mio appartamento con Mike. O magari è la tipica reazione della nostra specie, di qualunque specie animale, che, sentendo odore di morte, cerca di generare la vita, di perpetuare la specie. Forse, invece, fu solo un tentativo di combattere la paura, di allontanarla per qualche istante mentre mi rifugiavo nell'amore, nella passione. Restammo lì, l'uno contro l'altra, abbracciati, palpitanti, mentre il fuoco si estingueva e noi prendevamo coscienza delle nostre molteplici contusioni. Cercai ancora le sue labbra, e il sapore di mare, l'infanzia che cedeva il passo all'adolescenza, il primo bacio. Per qualche istante provai un'immensa felicità, subito seguita da un dolore ancora più grande. Il mio petto sussultò due volte, brevemente, quasi stessi singhiozzando, e dovetti fare uno sforzo per non piangere. Sì, morire era una cosa orribile, ma lo era ancora di più andarsene senza aver vissuto. Non mi sarei potuta godere quell'amore. Era terribilmente ingiusto: avevamo scoperto che per noi c'era un futuro nel momento stesso in cui ci veniva tolto. Mi ripromisi, però, di godermi ogni singolo istante, di lì sino alla fine. 47 Passarono alcuni minuti, e noi restammo lì, abbracciati. Poi, a poco a poco ci separammo. «Dobbiamo vedere se la grotta ha un'altra uscita», mi sussurrò all'orecchio.
Ci alzammo, ed esaminammo l'antro. La laguna interna manteneva il suo movimento, il solito viavai. Le onde all'esterno non erano cessate. Quel mormorio instancabile giungeva sino a noi. Ci trovavamo su una piattaforma relativamente liscia, nonostante fosse costellata di pietruzze, e il raggio di sole che entrava da una fessura a circa tre metri dalle nostre teste si era abbassato, descrivendo un arco da sinistra a destra sulla parete rocciosa sul lato della terra. Ed eccola, a circa un metro dal punto soleggiato, dipinta sul muro: una croce rossa patente. Come quella del mio anello. «Guarda!» esclamai, indicandola a Oriol. «Si trova in quella posizione perché venga illuminata dal sole di mezzogiorno», commentò, dopo averla osservata. «Questa grotta è un nascondiglio perfetto.» In quel momento, il raggio di speranza si spense, e osservammo allarmati la fessura. «Sono i puffini che hanno fatto il nido nella crepa», mi informò Oriol. «È un buon rifugio.» Un battito d'ali confermò le sue parole. Poi, mettendomi un braccio intorno alle spalle, aggiunse: «Non preoccuparti, non oseranno entrare qui. Non con questo mare. Ci aspetteranno fuori». Mi guardò negli occhi. Adesso sì che riuscivo a vedere il blu dell'iride. «Mi dispiace. Non avrei voluto metterti in questa situazione.» «Non sei stato tu», risposi. «Sono maggiorenne e vaccinata, e assolutamente responsabile di tutto ciò che può succedermi.» Mi strinsi a lui, e i nostri corpi nudi si scaldarono, ritrovando una nuova energia. Un altro abbraccio lungo, senza fretta. Quando ci lasciammo andare, tornammo a cercare un'eventuale uscita. La fessura attraverso cui entrava la luce si trovava sopra l'acqua, su una parete quasi liscia, ma era piccola e inaccessibile. Impossibile uscire di lì. A sinistra, rispetto alla mensola sui cui ci trovavamo, la grotta era ostruita da alcuni grandi blocchi di pietra. Inamovibili. Proseguendo verso destra, lungo il percorso che avrebbe compiuto il raggio di sole, si giungeva al fondo dell'antro, costituito da un mucchio di ciottoli che penetravano in acqua e, un paio di metri più in là, salivano all'asciutto. Seguendo quella via, a un metro e mezzo dal mare, si apriva una mensola parallela, più profonda. La illuminai con la mia torcia. C'era un forziere! «Il tesoro!» esclamai, senza troppo entusiasmo. Oriol non disse nulla e, senza soffermarci a verificare il ritrovamento,
continuammo in quella direzione, alla ricerca di un'uscita. La parete di roccia si stringeva e il pavimento saliva. La grotta si trasformava in un corto passaggio, chiuso da grossi massi. La strada finiva lì. «Questo è tutto», sospirò. «Non c'è via di fuga.» «Noi, il tesoro e la morte», dissi, pensierosa. «Se non altro, moriremo ricchi», scherzò lui. «Non vuoi vedere di che cosa si tratta?» «Sì, certo.» Puntai la luce della torcia sul baule. Era uno scrigno di dimensioni medie, in legno rinforzato con strisce di metallo ribadito, che si era mantenuto sorprendentemente in perfetto stato. «Non ci sono chiusure. Non c'è nemmeno un lucchetto», osservò Oriol. «Non ce n'è bisogno.» Appoggiò una mano sul coperchio e lo sollevò, senza difficoltà. La luce della torcia illuminò... delle pietre. Ma comuni. Un mucchio di pietre, volgarissimi sassi, ciottoli... simili a quelli che abbondavano sull'isola. Oriol iniziò a tirarli fuori, e a gettarli a terra; sembrava impazzito. «Non c'è nessun tesoro! Non c'è!» urlava, a mano a mano che si avvicinava al fondo del forziere, senza trovare nient'altro che sassi. Si voltò, guardandomi con un sorriso felice. Aveva qualcosa in mano. «Siamo salvi!» esclamò. «Il tesoro non esiste!» «Artur», dissi, come intontita. «Artur non ci ucciderà?» «Certo che no! Perché dovrebbe? È un tipo ragionevole, un uomo d'affari. No, non lo farà, non vorrà esporsi a un rischio simile per niente. Forse gli piacerebbe. Ma per lui questo è un gioco di probabilità e ricompense. Se non ci sono benefici, non corre rischi.» Io non ne ero tanto sicura. Per l'antiquario non si trattava soltanto di un affare: mi tornarono in mente le sue parole riguardo al debito di sangue. Ma non volli scoraggiare il mio amico. «Che cos'hai in mano?» gli chiesi. «Sembra un biglietto. Un biglietto protetto da una busta di plastica.» Era di Enric, e diceva: Miei cari. Spero e confido nel fatto che un giorno leggerete queste parole. Avete trovato il tesoro! Adesso siete grandi per le caramelle e la cioccolata. Ma mi auguro che non siate troppo giovani, o troppo vecchi, per godervi quest'esperienza. Se siete arrivati sino a qui, avrete
vissuto un' avventura che non dimenticherete mai. Ed è questo il tesoro della vita. Sappiate viverla fino in fondo. Con amore, Enric Restammo in silenzio, assorti. Era tutto un gioco, uno scherzo. Esattamente come quando eravamo ragazzini, ma più in grande. «Carpe diem», sussurrai. Benedetto quel gioco che ci avrebbe salvato la vita. Adesso riuscivo a pensare più in là di quelle pareti di roccia, più in là del mare e dell'oceano. Non ero ancora del tutto certa della reazione che avrebbe avuto Artur, ma la nostra sopravvivenza era più che probabile. A quel punto, ogni cosa iniziò a cambiare. Mi resi conto che, scarpini a parte, ero completamente nuda, e sentii un pudore che prima avevo scordato di avere. Cercai il mio pigiama con l'aiuto della torcia, e andai a raccoglierlo per coprirmi. Mi sentivo in colpa. Ero io che avevo preso l'iniziativa, con Oriol, forse l'avevo forzato. Io, che portavo al dito un anello di fidanzamento. Non mi ero comportata bene. No davvero. Una cosa era desiderarlo, un'altra farlo. Probabilmente, lui notò la mia espressione colpevole, perché mi prese per un braccio e, tirandomi verso di lui, mi baciò. Io mi lasciai andare, e facemmo di nuovo l'amore. Non c'era dubbio: la cosa gli piaceva. Fu molto bello, ma non come prima: questa volta sì che mi accorsi delle pietre. Restammo seduti l'una accanto all'altro, sfiorandoci. Quando passò il secondo momento di passione, cominciai a sentire freddo. «C'erano dei dettagli molto strani», disse Oriol, ragionando. «Ma ero talmente accecato dall'idea dell'avventura che non volevo vederli. Messaggi antichi nascosti sotto un dipinto. Che stupidaggine! È roba da romanzi, poco originale e per niente realistica. Oggi, nel XXI secolo, abbiamo a disposizione mezzi per riportare alla luce disegni rifiutati e in seguito coperti da altri dipinti. Ma nel Duecento a nessuno sarebbe venuto in mente di occultare un messaggio servendosi di questa tecnica, a meno che non desiderasse farlo sparire per sempre.» Nella sua voce notai una certa delusione. Siamo davvero degli esseri strani, pensai. Pochi minuti prima quasi scoppiavamo di felicità, per aver scoperto che il tesoro era solo un'invenzione, e che per questo avremmo avuto salva la vita. E adesso Oriol, dimenticata la paura, si lamentava.
«Ma le tavole sono autentiche, vero?» «Sì. Ma mio padre, che era un abile restauratore, le ha manipolate. Ha realizzato quelle iscrizioni con uno stile così perfetto che è riuscito a ingannarci tutti. E si è preso la briga di scrivere i due manoscritti.» «Sono falsi?» «A giudicare da quello che ha fatto con i dipinti, suppongo di sì. Anche se ci sono dei dettagli sorprendentemente realistici, e anche se le descrizioni coincidono perfettamente con la storia, è possibile che abbia inventato tutto.» «Tu credi che Arnau d'Estopinyá sia un personaggio fittizio?» Adesso anch'io iniziavo a sentirmi delusa. «E l'anello? Da dove è saltato fuori?» «Non ne ho idea. Ma posso dirti che Arnau è esistito davvero; il suo nome compare nei documenti della commenda templare di Peñíscola, e nei rapporti dell'Inquisizione. Ma quanto corrisponde a verità? E quanto è soltanto un'invenzione di mio padre?» «Però Ernic era convinto che un tesoro ci fosse. Arrivò persino a uccidere, per questo.» «Non credo che l'abbia fatto per denaro. Forse a spingerlo fu la sua etica particolare, il suo personale codice d'onore. È vero, cercava un tesoro: ma tutti gli indizi ci lasciano intuire che non riuscì mai a trovarlo, e che al suo posto decise di ideare uno dei suoi giochi, una caccia al tesoro postuma.» Tacque un momento. Poi esclamò: «Ma come ho fatto a non rendermene conto?» «Di che cosa?» «Mio padre ci portò diverse volte su quest'isola. Era affascinato dai suoi fondali. La conosceva bene, faceva immersioni in apnea e con la bombola. Sono troppe le coincidenze.» «E adesso che cosa importa?» Il sole era già arrivato a illuminare la croce sulla parete, e la luce mi consentiva di vederla bene, anche senza l'aiuto della torcia. Gli sorrisi. E lui fece lo stesso. «Noi due vivremo! Te ne rendi conto?» Avevo una sete terribile, e ciò rese ancora più evidente la necessità di uscire da quel luogo irreale, da quella grotta delle meraviglie, prima di perdere ulteriormente le forze. Il mare all'esterno, a giudicare dal saliscendi del lago interno, era ancora piuttosto mosso. Oriol avrebbe voluto andare per primo, in apnea e senza attrezzatura, ma io lo convinsi ad aspettare mezz'ora, dopo la mia uscita. Artur avrebbe creduto più facilmente a me, e
avrebbe reagito meglio se fossi stata io a dargli la notizia. Speravo che il basso ventre non gli facesse più così male, e che non mi portasse troppo rancore. Lasciai la grotta senza problemi. Scendemmo entrambi, con il giubbotto sgonfio, fino all'altezza del tunnel sottomarino, ciascuno attaccato a un boccaglio per respirare; quando ormai ero quasi del tutto fuori, mi passò il salvagente. Io gli lasciai la torcia; da quel punto in avanti, mi sarei servita della luce esterna. Respiravo bene. Nuotai verso il fondo e verso il mare aperto, per evitare le onde che si infrangevano contro la scogliera. Quando credetti di trovarmi a una distanza ragionevole, e sentii diminuire la risacca del fondale, gonfiai il giubbotto e, tenendomi a esso, risalii in superficie. Iniziai a respirare l'aria esterna attraverso il tubo, mentre cercavo di orientarmi. Lì, a pochi metri, c'erano le barche. Nuotai con ritmo rilassato, chiedendomi che tipo di accoglienza mi sarei dovuta aspettare da Artur. La prese male. Molto male. Ma aveva recuperato i suoi modi eleganti, e riuscì a comportarsi con una forzata cortesia. A Luis, però, non avevano riservato lo stesso trattamento. Il mio eroe dell'ultimo minuto aveva dovuto subire tutta la rabbia di quegli uomini. Aveva il viso coperto di lividi, ma almeno era vivo. Sorrise felice, quando mi vide, e ancora di più quando comprese il significato salvifico della notizia che avevo portato a bordo. Oriol aveva visto giusto. Artur, dissimulando il suo dispiacere in modo ammirevole, finì col credere alla mia storia. Accettò di mandare un gommone, legato a una delle barche perché non si scontrasse contro le pareti rocciose, con due uomini muniti di. attrezzatura da sub. Oriol fece attenzione a lasciare il biglietto di suo padre dove l'aveva trovato, e venne caricato a bordo senza problemi. Ci trasformammo necessariamente in ospiti di Artur, fino a quando i suoi uomini non tornarono dalla grotta dopo averla perlustrata pietra per pietra. Un'operazione che si concluse il giorno seguente, a metà mattina. Non fu tempo perso. Oriol adesso era disposto a negoziare, e si dimostrò molto persuasivo davanti a un Artur abbattuto. Ammise che tra le famiglie Boix e Bonaplata esisteva un debito inestinguibile, che però doveva essere lasciato ai morti. Toccava a loro rispondere dinnanzi a Dio. Quanto ai vivi, potevano saldare i conti materiali e lui, Oriol Bonaplata, riconosceva che suo padre aveva rubato le due tavole laterali del trittico. Era disposto ad acquistarle, come ricordo, per una cifra che andava a coprire anche il debi-
to che suo cugino aveva con l'antiquario. La tavola centrale era sempre stata di proprietà di Ernic, e adesso era mia, e su questo punto non avrebbe accettato polemiche. Non potei non notare che la somma di cui discutevano comprendeva un sovrapprezzo notevole, che aveva lo scopo di scoraggiare qualsiasi vendetta futura da parte di Artur. Fu un negoziato difficile, che si concluse solo la mattina dopo. Rimasi impressionata, una volta tradotto l'accordo in un documento privato, dalla scarsa importanza che Oriol sembrava attribuire al denaro, e dalla sua generosità nei confronti di Luis. Durante il viaggio di ritorno, non sapevo che cosa fare con Oriol; entrambi ci comportammo come se non fosse successo niente dentro quella grotta. A un certo punto, arrivai addirittura a dubitare che fosse accaduto davvero, forse si era trattato solo di un sogno: soltanto il dolore alla schiena e le escoriazioni inflitte dalle pietre rimanevano a testimoniare quei momenti di passione. Osservai, in modo casuale, che una volta arrivata a Barcellona avrei dovuto cominciare a preparare le valigie per il mio ritorno a New York. E osservai la reazione di Oriol. Non disse nulla, sembrava distratto, come se avesse cose più importanti a cui pensare. Io mi aspettavo almeno un suggerimento gentile, un invito a trattenermi ancora qualche giorno. Ma non arrivò, e io mi sentii ferita nella mia vanità. O, forse, sentii qualcosa di più. Giunsi alla conclusione che, per lui, quello che era accaduto tra noi non aveva alcuna importanza. Magari voleva addirittura dimenticarsi dell'incidente. Quanto a Luis, Oriol non volle sentire scuse. Disse che era tutto OK. Adesso la tavola di San Giorgio era anche sua, e non gli importava se il prezzo era stato alto, altissimo. Per questo c'era l'altra eredità di suo padre. Quindi, lo abbracciò. 48 Il giorno seguente, mi resi conto che era finito tutto. Oriol era scomparso la sera prima, senza augurarmi la buonanotte, forse temendo che l'avrei seguito nella sua stanza. Di buon'ora scesi a fare colazione, con la speranza di incontrarlo, ma Alicia mi disse che si era alzato ancora prima. Fu una vera delusione. Fui costretta a fare conversazione con lei, e a rispondere alle molteplici domande che le erano rimaste sulla punta della lingua, dopo il racconto della sera prima, a cena; la donna era avida di informazioni.
Naturalmente, le nascosi quanto era successo tra noi due, nella grotta. Ma lei aveva fama di strega, e sembrava sempre indovinare i tuoi pensieri. Forse fu per lo sconforto con cui parlavo. A un certo punto quasi mi vennero le lacrime agli occhi, e mi scusai dicendole di avere mal di testa. Non riuscii comunque a ingannarla. Contavo così poco, per Oriol che non voleva nemmeno dirmi addio? Sapevo che era giunto il momento di fare le valigie. Aprii l'armadio, quasi desiderando che fossero scomparse, ma erano ancora lì. Il solo fatto di vederle mi fece crollare. Mi lasciai cadere sul letto, singhiozzando. Era la fine. La caccia al tesoro era terminata. Quell'amore possibile era morto all'interno di una grotta marina, e solo le mie contusioni mi fecero ricordare che non si era trattato di un sogno. Fu allora che posai lo sguardo sul comodino: qualcuno, durante la notte, vi aveva lasciato due vecchi dischi in vinile. Uno era Viatge a Itaca, l'altro era di Jacques Brel. Sussultai. Dio mio! Erano i dischi che aveva ascoltato Enric prima di morire! Chi li aveva messi lì? Oriol? Alicia? Doveva essere stato Oriol. Era un suo messaggio per me. L'insegnamento del nostro viaggio, l'esperienza della ricerca. Si trattava di questo. Non avevo imparato la lezione. Il cammino era la meta. L'obiettivo finale era la vita. Mi era difficile comprenderlo sino in fondo. Quando mi ero sistemata in quella camera, avevo notato che, stranamente, oltre a un modernissimo stereo, c'era anche un giradischi. Era uno di quelli automatici. Vi misi entrambi i dischi. Funzionava alla perfezione. Volevo riuscire a dare un significato a quell'avventura, un senso che ancora non ero riuscita a trovare. Con le braccia strette intorno alle custodie delle incisioni, mi sdraiai e chiusi gli occhi. Udii il vento e il mare in sottofondo, mentre la musica iniziava a imporsi. Mi venne in mente l'immagine delle verdi praterie di posidonia sopra la sabbia bianca di Tabarca e, in mezzo, i banchi di perché i cui fianchi d'oro e d'argento brillavano alla luce del sole, mentre nuotavano a poca profondità. Il mare calmo e dolce del principio, quello mosso degli ultimi giorni. Entrai nella grotta, e ancora una volta trovai Oriol disteso a terra. E ricominciò tutto da capo. Si trattava di questo, no? Di vivere il momento. E ricordarlo in seguito. A volte per sempre, costantemente, per tutta la vita. Come il primo amore, la burrasca, il sale, il primo bacio. Ma chissà se il saggio poeta, Konstantinos Kafavis, aveva anche un consiglio su come evitare che il cuore, dopo aver seguito la filosofia del carpe
diem, finisse in pezzi. Probabilmente, smisi di singhiozzare solo quando mi addormentai. E sognai di nuovo. «Polizia. Parli pure.» La voce sembrava energica, al telefono. «Buonasera», risposi. Ero irrigidito, avevo un nodo alla gola, ma volevo vivere quegli istanti intensamente. «Buonasera. Dica», insisté l'agente, perentorio. «Sto per spararmi un colpo.» Dall'altra parte, un silenzio sorpreso. Cercai di immaginare il viso sbalordito che corrispondeva a quella voce giovane. «Come?» balbettò. «Le ho detto che sto per suicidarmi.» «Non dirà sul serio.» «Certo che sì.» Sorrisi. Mi divertiva il suo sconcerto. Quel ragazzo doveva essersi scordato la parte del manuale relativa al comportamento da tenere con un presunto suicida. «Ma perché? Perché vuole togliersi la vita?» Il suo tono si era fatto angoscioso. Buttai fuori una boccata di fumo, dopo aver fatto un tiro dal mio Davidoff. Dalla poltrona, attraverso le imposte spalancate del balcone, potevo vedere le foglie color verde scuro dei platani del corso, in quella sera dolce e soleggiata di primavera. Era una giornata limpida, trasparente e la vita germogliava con quel vigore impetuoso che, anno dopo anno, continuava a stupirmi. Jacques Brel cantava la sua canzone d'addio... «Adieu l'Émile je vais mourir. C'est dur de mourir au printemps tu sais...» Sì, era difficile morire in un giorno come quello, in cui tutto, nella vecchia città di Barcellona, gridava alla vita: le colombe, la brezza, gli alberi del viale, e anche la gente, quella di sempre, che muovendosi per la strada trasudava un'energia esuberante. Ma quello era il giorno della mia morte. «Ho fatto fuori quattro individui.» «Che cosa?» «Sì, li ho uccisi. Con una pistola.» «Accidenti!» esclamò l'agente. Fece una pausa, prima di riprendere: «D'accordo, lei mi sta prendendo in giro. Non ci credo». «Parola mia.»
«Allora mi dica dove e quando avrebbe ammazzato queste persone, cosicché possiamo verificarlo.» «Sono passati un po' di giorni, e adesso non c'è tempo per le verifiche. Tra qualche minuto mi farò saltare le cervella. E poi, se le raccontassi tutto, il suo lavoro diventerebbe una noia.» «No, lei non vuole morire.» Il giovane sembrava aver ritrovato la calma. «Sta chiamando per chiedere aiuto. Se davvero volesse togliersi la vita, l'avrebbe già fatto.» «Ho chiamato perché non voglio che incolpino nessun altro della mia morte.» Dentro di me pensai che la ragione vera, forse, era che non volevo morire da solo. Presi un sorso di cognac e il mio sguardo si posò sul mio quadro preferito di Ramon Casas. Un uomo e una donna della borghesia catalana di fine Ottocento, con abiti bianchi estivi, che prendevano una bibita fresca sotto una vite rampicante. I miei nonni. Erano così belli. Un gioco di luci riverberanti, di ombre, di colori pastello sfumati; assopimento e piacevole decadenza. «È più pratico che scrivere bigliettini», aggiunsi. «Mi dia il suo nome e il suo indirizzo. Parliamo. Per quanto sia complicata la sua situazione, di sicuro ci sarà una via d'uscita.» Aspettai a rispondere. Ascoltavo per l'ultima volta quella canzone che potevo ripetere a memoria, parola per parola. Je veux qu'on rie Je veux qu'on danse Quand c'est qu'on me mettra dans le trou... «Ernic Bonaplata, paseo de Grada», dissi, infine. «E se si sbrigano e mandano subito una pattuglia, di fronte alla Manzana de la Discordia riusciranno anche a sentire lo sparo.» Poi, presi a parlargli con dolcezza: «Quanti anni hai ragazzo?» «Venti.» «Di che colore sono i tuoi occhi?» «Che importa? Perché me lo chiede?» rispose, irritato. «Volevo fare un po' di conversazione. Non starete cercando di localizzare la chiamata, vero? Avanti, di che colore sono?» «Verdi.» «Mmmm...» Feci un altro tiro, prima di continuare. Mi immaginai un bel ragazzo, con gli occhi da gatto. Il complemento ideale per il bicchiere di cognac e per il sigaro. «Ragazzo dagli occhi verdi, hai mai visto morire qualcuno?» «No.»
«Be', adesso lo sentirai.» «Aspetti!» «Ti auguro una vita lunga e felice, mio giovane amico. Perdonami, se interrompo qui la conversazione, ma non sta bene parlare con la bocca piena.» «Aspetti! Aspetti un momento!» Posai la cornetta sul comodino, accanto al sigaro che fumava ancora. E ascoltai: C'est dur de mourir en printemps tu sais. Mais je pars aux fleurs la paix dans l'âme... Io non sentivo la pace che cantava Brel nella sua canzone. Il mio petto era agitato da emozioni, nella mia mente, le immagini di una vita facevano a gara tra loro: ciascuna voleva essere l'ultima. Ma dovevo farlo, per la mia famiglia, per la mia dignità. Contemplai il quadro di Picasso appeso a una delle pareti. Una finestra aperta su una città mediterranea, forse era Barcellona vista da un luogo elevato; case, palme, vegetazione... e il mare... Toni vibranti, un'esplosione di colore, pennellate lunghe. Presi un ultimo sorso del mio cognac, tenendolo in bocca alcuni istanti. Lo assaporai, ne respirai gli effluvi. Quindi, mi infilai in bocca la canna del revolver, puntandola contro il palato. Vidi due ragazzi, uno morto e l'altro con ancora davanti tutta una vita: mio figlio Oriol. Mio Dio, aiutalo a superare tutto questo! Presi un respiro profondo, volevo che i miei occhi, ammirando il corso, si colmassero della luce e del verde intenso di quella forza inarrestabile: l'energia della vita; la primavera. Questa sarebbe stata l'ultima immagine. Lo sparo arrivò al giovane agente Castillo attraverso il telefono, e lo fece sobbalzare sulla sedia. Le colombe del corso spiccarono il volo tutte insieme, formando una nube, quasi stessero aspettando quel colpo, mentre i passanti guardarono allarmati verso quel bell'edificio modernista con un balcone con le imposte spalancate. Aprii gli occhi e guardai il soffitto. Jacques Brel stava cantando il pezzo successivo, e io balzai in piedi. Di nuovo! Era successo di nuovo! Ero abbastanza irritata con Oriol perché quel maledetto anello mi facesse rivivere ancora una volta storie di morti! Di scatto, mi tolsi il gioiello con la croce di sangue, e lo posai sul comodino accanto a quello di Mike. In quel momento, non avrei saputo dire quale fosse per me più gravoso.
Scesi a cercare Alicia. Le raccontai quello che mi era appena successo, e lei mi condusse nel suo salottino. Lì, con la città radiosa e soleggiata ai nostri piedi, vuotai il sacco. «Ecco, prendi. Ti aiuterà a superare lo choc», disse, servendomi un cognac. Mi fissò con attenzione. «È... è lo stesso...» balbettai, al primo sorso. Aveva lo stesso sapore di quello del sogno. «Già. Io bevo lo stesso cognac che beveva Enric.» Mi sentii una specie di cavia, e mi alzai per andarmene. «Perdonami», si scusò. «Non l'ho fatto di proposito... Non me ne sono resa conto fino a quando non ho visto la tua faccia.» Non le credetti, e rimasi in piedi davanti alla porta, incerta se uscire o restare. Lei si alzò e prese la mia mano con la sua, calda e grande, tanto simile a quella di Oriol. Quindi, mi fece accomodare su una poltrona. «Scusami, mia cara.» La sua voce era profonda e persuasiva. «Resta. Mi farò perdonare raccontandoti una storia che troverai di certo interessante. Te lo meriti.» Aspettai, un po' tesa: ero quasi sicura che mi stesse giocando un altro dei suoi tiri. Poi cominciò a parlare, in tono lento e tranquillo... «Ormai ti sarai resa conto che a Enric non piacevano le donne, e che a me non piacciono gli uomini. Decidemmo di stare insieme per le nostre famiglie, e perché volevamo avere un figlio: all'epoca, non c'erano altre soluzioni. Ciascuno faceva la sua vita, anche se riuscimmo sempre a essere amici. Per mettere al mondo Oriol abbiamo dovuto fare un sacrificio, ma ne è valsa la pena, no?» Mi guardò, sorridente. «È un ragazzo stupendo», continuò, senza aspettare la mia risposta. «E, nel caso avessi ancora dei dubbi, è etero. In fondo», sospirò, rassegnata, «nessuno è perfetto.» Sorrise di nuovo. «Enric e io ci raccontavamo quasi tutto, e lui fece in modo che l'ordine templare fondato da suo nonno e dal tuo bisnonno - anch'essi massoni modificasse il proprio statuto per farmi ammettere. Ma quando comparve Arnau con la sua storia delle tavole e del tesoro, divenne tutto più complicato. Ernic era un romantico, e resuscitare l'ordine templare era una delle sue passioni. Immagina quando venne a sapere del tesoro: divenne la sua ossessione. Fu allora che iniziò la disputa con i Boix. Non solo. Fece ammettere nella congregazione con il titolo di cavaliere il suo amico Manuel; stavano insieme, e lui lo amava alla follia. Erano uniti dal giuramento templare, quello dei tebani di Epaminonda.» Mi guardò, come se volesse capi-
re se sapevo qualcosa al riguardo. A un mio cenno, proseguì. «Quando lo assassinarono, si disperò. Ricordo di averlo visto piangere sconsolato, proprio qui, seduto sulla stessa poltrona che stai occupando tu. Sapevo che sarebbe accaduta una tragedia, e lo pregai di calmarsi. Rimasi sorpresa quando, qualche giorno dopo, mi disse che aveva ucciso quattro uomini, e che aveva vendicato Manuel. Il tuo padrino non era un gangster. Probabilmente fu molto fortunato.» Non le dissi nulla, ma pensai che nessuno conosceva quella parte della storia meglio di me. «Però la polizia iniziò a stringere il cerchio delle indagini intorno a lui. Molte persone sapevano che non correva buon sangue tra Ernic e i suoi concorrenti, i Boix, antichi confratelli templari. Ed erano note anche la sua relazione con Manuel e la morte violenta di quest'ultimo. «Per un periodo smisi di avere sue notizie: la polizia insisteva per parlargli, e gli agenti vennero addirittura qui per interrogarlo. Non avevano un mandato d'arresto, ma era ovvio che sospettavano di lui. Non mi raccontò mai che cos'aveva fatto in quei giorni, ma credo che avesse cercato il tesoro, senza successo. Una sera tornò a casa; cenò con noi e parlò un momento con Oriol e poi, quando il ragazzo andò a letto, noi due salimmo quassù, per farci un bicchierino di cognac. Mi chiese di fargli le carte. Accettai: all'epoca la cosa mi divertiva. Quella volta, però, già nelle prime mani, si disegnò una combinazione di morte. Prima uscì lo scheletro, che lo guardava brandendo la sua falce. Il messaggio era chiarissimo, ma gli dissi che i simboli erano contraddittori. Mi fissò, senza dire nulla. Mischiai le carte, e gliele passai perché facesse lo stesso. Tagliò. Trasalii, quando, subito dopo, accadde una cosa simile. Il teschio gli sorrideva. Ero angosciata. Raccolsi le carte e, alla terza mano, pregai perché uscisse qualsiasi altra figura. La stessa combinazione. Le carte sono davvero testarde, quando vogliono dirti qualcosa! Di solito non sono una piagnucolona, ma raccolsi quel maledetto mazzo con le lacrime agli occhi. Non sapevo che cosa dire, e restammo entrambi in silenzio. Enric prese un sorso di cognac, mi sorrise, invitandomi a non preoccuparmi: disse che le carte avevano ragione, e che presto se ne sarebbe andato. Sembrava molto tranquillo. Mi confidò che da tempo gli avevano diagnosticato l'AIDS, e che iniziava a sentire i primi sintomi di decadimento. Allora non c'erano cure per la malattia, e la scienza non era nemmeno in grado di garantire una certa qualità di vita. La polizia gli stava alle calcagna, come anche la mafia dei contrabbandieri d'arte a cui appartenevano i Boix, che minacciavano addirittura di rapire o ferire Oriol. Mi assicurò che non sarebbe morto in carcere, e che, la notte,
non intendeva coricarsi con un revolver sotto il cuscino. Se non avessero avuto nessuno da ricattare, Oriol non avrebbe più corso alcun pericolo. Probabilmente fu allora che pianificò e diede il via a quest'ultima caccia al tesoro destinata a voi tre.» Rimase in silenzio, pensierosa, e, guardandomi negli occhi, disse: «Ernic era un uomo molto rigido nelle opinioni e negli atteggiamenti. Visse e morì secondo le sue regole, secondo il suo stile personale. Sono convinta che, quando se ne andò, era in pace con se stesso». Alicia tacque e, contemplando la città con nostalgia, prese un sorso di cognac. Io feci lo stesso e, assaporandolo, pensai a quanto era accaduto qualche momento prima. «Alicia.» «Che c'è?» «Quando dormiva qui, Enric usava la stanza in cui ho dormito io?» «Sì.» «Sei stata tu a lasciare quei dischi in vinile sul mio comodino?» «Esatto.» «Quindi volevi che succedesse...» Non credo che la mia voce comunicasse rabbia, o un qualsiasi altro sentimento malevolo. Ero semplicemente curiosa. Lei non disse nulla e, sorseggiando il suo cognac, tornò a contemplare la città. Dopo un po', i suoi occhi a mandorla, di un blu che avevo visto soltanto a lei e a Oriol, fissarono i miei. «Morì in pace, vero?» mi chiese. Dal tono, suonava come una supplica. «Sì», mentii, dopo aver riflettuto un istante. 49 Non mi restava più nulla da fare in città, e fui presa dalla malinconia. Entrai nella mia stanza e aprii la finestra. Appoggiata al davanzale, riesaminai la mia situazione. Fu allora che compresi che, in realtà, una cosa in sospeso c'era. E avrei dovuto risolverla prima di lasciare Barcellona. Prima di lasciarla per sempre, e di non tornarvi mai più, come aveva tentato di fare mia madre. Arnau d'Estopinyá. Nelle settimane precedenti, avevo preso l'abitudine di scrutare la gente con timore, cercandolo. Ma, negli ultimi giorni, il frate sembrava essere svanito. Di sicuro, Alicia sapeva dove trovarlo!
Questa volta i ruoli si invertirono: mi appostai in un baretto sul marciapiede di fronte al suo portone. Era una viuzza stretta della città vecchia, ubicata nella zona un tempo chiamata Barrio Chino, quindi Distrito Quinto e adesso Raval. Gli alloggi lì sono a buon mercato, e il quartiere è invaso dagli immigranti. I phone center fanno affari d'oro, le strade sono percorse da una folla colorata e multirazziale, che parla idiomi diversi e, in gran parte, indossa abiti autoctoni. Alicia mi aveva detto che viveva lì, in una pensione o in un appartamento in subaffitto. Evidentemente, la rendita pagatagli da quella donna non doveva essere così consistente. Quando lo vidi, era a quindici metri dall'ingresso di casa sua. Era vestito come sempre: indossava una maglietta nera sotto un abito di un grigio talmente scuro da risultare indefinito. Camminava dritto, con passo marziale e fermo; qualche persona sembrava evitarlo scendendo dal marciapiedi, vedendolo arrivare. Si era tagliato la barba e i capelli bianchicci, che adesso non superavano il mezzo centimetro di lunghezza. Attraversai la strada di corsa, ma quando lo raggiunsi mi dava già le spalle. Stava introducendo la chiave nella serratura. «Arnau», dissi, posandogli una mano sulla spalla. Si girò con espressione fiera, mentre portava la mano al petto, dove teneva la daga. Piantò i suoi occhi di un blu sbiadito nei miei e quello sguardo da folle riuscì ancora una volta a mettermi paura. «Frate Arnau. Sono io, la ragazza dell'anello», mi affrettai a dirgli. «Sono un'amica.» Il suo viso si ammorbidì, quando mi riconobbe. «Che cosa vuole?» chiese lentamente, con la sua voce roca. «Parlare con lei.» Notai che il suo sguardo andava alle mie mani, e mi ricordai che l'anello, per lui, era un simbolo d'autorità. Non ottenni risposta; così, cercando di usare le parole giuste, e con un tono che mi sembrò militare, dissi: «Frate sergente d'Estopinyá. La invito a pranzo». Era titubante. I suoi occhi si spostarono di nuovo dai miei all'anello. Alla fine, accettò con un grugnito. Era un bar ristorante a conduzione famigliare: il menu del giorno era panino con calamari e odore di frittura. Riuscii a farmi dare un tavolo lontano dal televisore, dalla slot-machine e dal rumore dei piatti e dei cucchiai che si levava dal bancone, ma nonostante la relativa intimità, non riuscivo comunque a instaurare una conversazione con il frate. Quando ci portarono il pane, benedisse il cibo e, appoggiando i gomiti sulla tavola, iniziò a mor-
morare le sue preghiere. Si interruppe, in attesa che seguissi il suo esempio. E così feci. Quando terminò le sue orazioni, non mi concesse neppure un istante di cortesia, e si buttò sul pane, senza aspettare il primo piatto. Io cercavo di farlo parlare, ma tutto ciò che ottenevo erano monosillabi. Arnau non era un grande conversatore, e non doveva nemmeno essere abituato a chiacchierare con la gente; la sua voracità, però, era notevole. Era evidente che non aveva consumato grandi pasti, nella sua vita. O magari digiunava, per le sue convinzioni religiose o per mancanza di risorse. E tracannava volentieri anche il vino, per cui così ordinai un'altra bottiglia, sperando che gli si sciogliesse la lingua. E all'improvviso, terminato il secondo piatto, si mise a parlare, prendendomi di sorpresa. «Quella a cui appartengo è una stirpe di frati pazzi. Io so bene perché il maestro Bonaplata si tolse la vita.» Lo guardai. Per la prima volta dall'inizio del pranzo, aveva pronunciato due frasi di seguito. Mi resi conto che non l'avevo mai sentito parlare tanto. «Non creda alle cose che le raccontano. Anche il frate che mi designò quale erede dell'anello si suicidò, e così molti altri, prima di lui. Tutti, nella mia congregazione, lo credevano un pazzo. Tutti, tranne me. Mi affidò l'anello; poi, decisero che ero un demente anch'io. Tutto ha inizio con le visioni. Lei ha subito torture? È stata interrogata dagli inquisitori? Ha visto crollare le mura di San Giovanni d'Acri? Ha sentito le ferite dei pugnali dei saraceni? Quanti assassini le ha fatto vedere l'anello? Quante mutilazioni? Molte vite, molto dolore: è questo che contiene. E poi loro vengono a vivere con lei, e non la lasciano più, né di giorno, né di notte.» «Ma chi sono?» volli sapere. «Chi sono?» mi chiese, aprendo gli occhi, quasi sorpreso dal fatto che gli stessi chiedendo qualcosa che avrei dovuto sapere. «Gli spiriti dei frati sono nell'anello. E con ogni apparizione ti lasciano qualcosa in più. Io non sono più quello di un tempo. Un giorno feci un sogno diverso. Avevo già avuto diverse visioni di frate Arnau d'Estopinyá, ma fu in quell'occasione che il suo spirito afflitto rimase dentro di me. Per sempre. Da allora, io sono Arnau. «È un'anima del purgatorio, e soffre per i crimini commessi. Ma non è questa la sua pena più grande; sa che la sua missione non è stata compiuta, che il tesoro non è ancora tornato nelle mani dei cavalieri del Tempio.» Mi guardava con gli occhi fuori dalle orbite, e io non osai contraddirlo.
«Io sono Arnau d'Estopinyá», ripeté, alzando la voce. «Sono l'ultimo templare. L'ultimo, autentico templare.» Tacque, e mi guardò negli occhi, forse aspettandosi che mettessi in dubbio la sua affermazione. Mi guardai bene dal farlo. Quindi, il suo tono si ammorbidì. A voce bassa, riprese: «Faccia attenzione, signorina. L'anello è pericoloso. Il giorno in cui mi imbattei nel nuovo ordine dei templari, e conobbi il maestro Bonaplata, capii di aver trovato la mia casa. E quando gli consegnai il gioiello, provai un grande sollievo. Si dice che papa Bonifacio VIII ne avesse uno molto simile; secondo Filippo IV di Francia, detto il Bello, al suo interno viveva un diavolo. «Il re voleva calunniare il pontefice, e ricorreva a qualsiasi mezzo per accusarlo; ma aveva una fitta rete di spie, e costruiva le sue infamie basandosi su fatti reali. C'è qualcosa che vive dentro quella pietra, nella stella a sei punte... Nessuno riesce a conservare quell'anello senza patire terribili sofferenze...» «Oltre al gioiello, al signor Bonaplata consegnò anche degli incartamenti?» lo interruppi. Non volevo sentire altro, su quell'anello. «No. Raccontai al maestro la vita del frate sergente Arnau d'Estopinyá, che in parte mi era stata narrata dal mio predecessore; il resto, l'avevo vissuto personalmente, attraverso le visioni.» Rimasi a osservarlo, mentre vuotava il bicchiere di vino. Se già in precedenza avevo avuto delle riserve nei confronti del gioiello, adesso avevo addirittura paura. Poco mi importava sapere se quell'alienato era davvero posseduto dallo spirito del vecchio Arnau. Io li avevo già identificati come la stessa persona. Per me, quell'uomo era frate Arnau d'Estopinyá, l'ultimo vero templare. «E le tavole?» chiesi. «Le tavole, insieme all'anello e alla tradizione verbale su Arnau, facevano parte dell'eredità passata di frate in frate per centinaia di anni. Vennero rubate nel 1845, quando il monastero di Poblet fu saccheggiato e incendiato, durante le sommosse anticlericali. Sappiamo che non furono distrutte dal fuoco, dal momento che i frati inseguirono i ladri, anche se la folla impedì loro di raggiungerli. Molte opere d'arte vennero gettate nel fuoco, in quei giorni, ma non le tavole. Forse, chi le rubò conosceva la storia.» «Perché mi seguiva?» «Il gran maestro, Alicia, mi ha ordinato di tenerla informata riguardo ai suoi movimenti. Poi, quando ho scoperto che portava l'anello, l'ho tenuta
d'occhio per proteggerla. Come quando l'hanno aggredita.» «Se voleva proteggermi, perché non l'ho più vista negli ultimi giorni?» «Perché avete lasciato la città. Ed è qui che si trova il pericolo. Per questo non l'ho seguita.» «Ma di che cosa sta parlando?» «È qui, a Barcellona.» «Cosa?» insistei. «Quale pericolo?» Non rispose. Aveva lo sguardo perso e, vedendo alcuni magrebini al bancone, mormorò qualcosa. «Non vede? Stanno tornando.» C'era rabbia, nella sua voce. «Un giorno taglierò la gola a qualcuno.» Quindi, si richiuse nel suo mutismo anteriore. Sussultai. Il frate diceva sul serio. 50 Al mio ritorno, nel pomeriggio, mi trovai di nuovo davanti alle valigie. Quella vista mi deprimeva e pensai che la cosa migliore fosse farle, una volta per tutte, e porre fine a tutte le mie angosce. In quel momento, però, mi tornò in mente qualcosa. Sapevo che Oriol non era in casa e, di soppiatto, mi avvicinai alla porta della sua stanza, separata dalla mia soltanto da una parete. Provai a girare il pomolo: non aveva messo il chiavistello. Rapidamente, scivolai dentro, furtiva. Sapeva di lui. Non che Oriol usasse qualche profumo, o avesse un odore particolare. Ma mi piaceva immaginarlo. Quel luogo era impregnato della sua presenza. Osservai il suo letto, l'armadio, la scrivania collocata di fronte a una finestra che, come la mia, dava sulla città. Mi resi conto che non potevo trattenermi a lungo, non volevo rischiare di essere sorpresa mentre mi trovavo lì. Così, iniziai a perquisire i cassetti dello scrittoio, dove trovai una montagna di foto che non potei fare a meno di guardare: foto che lo ritraevano con amiche - c'era anche la ragazza della spiaggia - e amici. Dovetti richiamarmi all'ordine. Proseguii con il comodino, poi con il comò... niente. Passai all'armadio, al cassetto della biancheria. Era lì. Il revolver di suo padre. L'arma con cui aveva fatto fuori i Boix, che avevamo trovato nel buco alla base del pozzo. Me lo infilai nella cintura, dirigendomi verso la soffitta. Lì, non ebbi difficoltà a trovare il quadro. La copia del mio. Strappai il cartoncino che rivestiva la parte posteriore, e vidi che l'interno era diverso, rispetto a quello della mia tavola. Era meno solido, nonostante lo spessore fosse maggio-
re, per via di alcuni listoni laterali che formavano il bordo del dipinto. Ce n'erano alcuni anche al centro: in parte servivano a rinforzare la struttura, in parte a creare un elaborato sostegno. Collocai la pistola nel fodero di legno, e constatai che si incastrava alla perfezione. Una volta dentro non cadeva, nemmeno scuotendo il quadro; ma usciva con facilità, se impugnavi il calcio e tiravi con un po' di forza. Ripetei il gesto, lo sperimentai diverse volte, ripensando il mio sogno sull'assassinio dei Boix. Sì, era vero. Era andata esattamente così. Avevo risolto l'enigma del commissario Castillo, anche se lui non l'avrebbe mai saputo. Ma il ricordo del mio padrino in quel sogno sanguinoso, la prova che era accaduta realmente ogni cosa, precisamente come io l'avevo vista, non mi fece sentire meglio. Al contrario. Ero stanca di quelle visioni raccapriccianti. Decisi di tornare al mio noiosissimo compito. Prima, però, chiamai il mio ufficio di New York, chiedendo di riprendere a lavorare la settimana successiva. Il mio capo mi disse che avrebbe dovuto parlarne in consiglio. I soci dello studio non avevano affatto gradito la mia prolungata vacanza. Il suo tono positivo, però, mi fece intuire che conservavo ancora l'impiego. Quindi, chiamai mia madre, per avvisarla che sarei tornata. Ne fu felicissima. Ma quando le dissi che avevo intenzione di rompere con Mike, gridò allo scandalo. Le raccontai quanto era accaduto con Oriol e, senza sorprendersi troppo, mi disse che questo non era un buon motivo per lasciare un ragazzo come Mike. In ogni caso, non si restituiva un anello per telefono. Mi invitò ad aspettare, a rimandare le decisioni al mio rientro. Una volta a casa, ne avremmo discusso insieme. L'avventura era giunta alla fine. Era stata un'esperienza fantastica, ma la mia vita era a New York. Con o senza Mike. Avevo compiuto un viaggio nel tempo e nello spazio. E dentro di me. Avevo soddisfatto quell'ansia nei confronti di Oriol, che per tanti anni avevo represso: avevo ricucito quella ferita del mio passato, che rimaneva un amore estivo, consumato ed esaurito. Ero tornata a Barcellona, alla mia infanzia mediterranea bruscamente troncata a tredici anni, e per qualche istante ero riuscita a recuperarla, a sanarla. Quel viaggio complesso aveva cambiato il mio modo di vedere il mondo, la gente. No, non ero più la stessa Cristina di prima. Ora potevo affrontare la vita scalza. Ero in grado di farlo.
E adesso che ero arrivata a un porto, per quanto il finale potesse sembrarmi vuoto e deludente, non dovevo lamentarmi se Itaca mi appariva povera e infruttuosa. Avevo imparato strada facendo, mi ero goduta ogni singolo istante. In questo consiste la vita. Niente, ormai, mi tratteneva a Barcellona. Il mio futuro era a New York. Quando Oriol bussò alla porta della mia stanza, il letto era coperto di vestiti, c'erano due valigie aperte sul pavimento, e una confusione di cose sparse per tutta la camera. «Mia madre mi ha detto che parti», disse. «Sì. L'avventura è terminata, e devo tornare. Sai, la famiglia, le responsabilità...» Guardò le mie mani; dopo la conversazione con mia madre, mi ero rimessa al dito il diamante di Mike. «Dov'è l'anello di mio padre?» «L'ho lasciato sul comodino. Mi fa paura.» «Sì, Alicia mi ha raccontato...» mi interruppe lui. «Quando parti?» «Domani.» «Voglio comprare la tua tavola.» Lo guardai, tristemente. «Non è in vendita. È il regalo di una persona a cui ho voluto molto bene.» «Decidi tu il prezzo.» La sua insistenza mi offese. «So bene che sai essere molto generoso, Oriol. Lo hai già dimostrato togliendo Luis dai guai.» Avevo voglia di piangere. «Ma io non ho bisogno di denaro, e so essere altrettanto generosa. Se la desideri tanto, è tua. Te la regalo.» Il suo volto fu illuminato da un grande sorriso. «Grazie infinite.» «Se è tutto, vorrei continuare a fare i bagagli.» Volevo che se ne andasse, volevo restare sola per piagnucolare in santa pace. «Perché non posticipi il ritorno?» «E perché mai? Non c'è niente che mi trattenga qui.» «Io non posso accettare un regalo tanto prezioso, e se non vuoi vendere la tua tavola, allora diventeremo soci, il che ti obbligherà a trattenerti qualche giorno in più.» Il suo sguardo sicuro e il suo tono, che mi sembrò alquanto prepotente,
ferirono il mio amor proprio, in quel momento già abbastanza alterato. Ma la curiosità mi impedì di mostrarmi offesa. «Soci in che cosa?» «Nella caccia al tesoro dei templari!» Lo scrutai attentamente, cercando di indovinare se mi stesse prendendo in giro. Ma lui, eccitato, iniziò a parlare. «Quando sono rimasto solo nella grotta di Tabarca, ho cominciato a pensare, e da allora non ho più smesso. Il fatto che mio padre avesse collocato degli indizi fasulli nelle tavole non implica necessariamente che esse non siano autentiche, né che la storia del tesoro non sia vera. E se corrispondesse a verità, i segnali dovrebbero essere visibili, anche se solo all'occhio di un iniziato. Non ce ne siamo resi conto perché eravamo accecati dalla presenza delle iscrizioni nascoste sotto la pittura, e non abbiamo riconosciuto la vera pista indicata da mio padre. Ieri notte quasi non ho chiuso occhio, e stamattina ho preso subito il tuo quadro e l'ho portato, insieme ai miei, nel miglior laboratorio di restauro della città. Mi ci è voluto quasi un giorno per farli analizzare, e per raccogliere i pareri di alcuni esperti. Avanti, vieni con me!» E, prendendomi per mano, mi trascinò nella sua stanza. 51 Lì, in cima al comò e appoggiate contro la parete, c'erano le tre tavole. «Guardale bene», mi disse. Vidi quello che avevo sempre visto. La tavola di sinistra divisa in due rettangoli, ciascuno di circa quindici centimetri di base per venti di altezza: sopra, sormontato da un'arcata decorativa di stucco dipinto, era raffigurato Gesù Cristo, che usciva dal sepolcro trionfante; sotto, vestito di pelli d'agnello, San Giovanni Battista, il precursore del Messia, che prima di lui aveva predicato il messaggio divino. Nel dipinto centrale, anch'esso caratterizzato dalla presenza di un arco acuto, c'era Maria, la madre del Signore, e ai suoi piedi l'iscrizione latina Mater, a caratteri gotici. Guardava davanti a sé, e aveva un'espressione triste. In grembo teneva il Bambino. La parte metallica dell'aureola era ancora staccata, e lasciava intravedere la scritta Illa Sanct Pol. Gesù, più allegro, benediceva con la mano destra. La terza tavola mostrava, nella parte superiore, Cristo in croce, affiancato da San Giovanni apostolo e dalla Vergine. Sotto, San Giorgio, che calpestava un ridicolo dragone.
«Tanto per cominciare», continuò Oriol, «oggi ho fatto analizzare le iscrizioni ai piedi dei santi e sotto l'aureola: sono state eseguite con un tipo di pittura sintetica, la stessa utilizzata per ricoprirle. Queste aggiunte risalgono ai giorni nostri, dal momento che quei materiali non esistevano, nel Medio Evo. Quindi, ho avuto la dimostrazione che i testi occulti sono decisamente recenti: di sicuro furono opera di mio padre. Tuttavia, l'elemento che più mi ha stupito, l'anello al dito della Vergine, è di epoca medievale. Tolte le iscrizioni, le tavole risalgono senza dubbio alla fine del secolo XIII, o all'inizio del XIV.» «E ciò confermerebbe che la storia si basa su fatti reali.» «Esatto. È il primo indizio autentico. È un elemento visibile, che oggi sembra del tutto normale, ma che allora richiamava immediatamente l'attenzione. La Vergine è una Madonna classica, non porta una corona, indossa solo una tunica. Però il suo capo è circondato da un'aureola, e questo rende ancora più singolare che possa portare un anello. Come ti ho detto, i gioielli non erano ben visti tra i cristiani. Ne facevano uso solo le alte cariche ecclesiastiche.» «Sarà anche strano, ma non è un falso», conclusi. «Certo. Quindi, abbiamo due elementi medievali arrivati sino a noi, che possiamo ritenere autentici: le tavole e l'anello. Solo grazie a essi Arnau d'Estopinyá, o chi per lui, avrebbe potuto trasmettere il suo messaggio attraverso i secoli.» «E che cosa mi dici del racconto di Arnau? Non pensi che possa contenere qualcosa di vero?» «Assolutamente sì! La tradizione orale è fondamentale, in alcune culture; è sorprendente come, a volte, storie molto antiche passino di generazione in generazione. E, dal momento che in questo caso si tratta di un segreto vitale per le persone implicate, è possibile che a noi sia giunto il racconto originale, quasi privo di omissioni o di aggiunte.» «Ma non saremo mai in grado di fare una distinzione tra le parti reali e quelle inventate.» «Hai ragione. Ma io considero l'intuizione, ciò che non è strettamente razionale, una fonte di sapere. Non tutta la conoscenza umana è frutto del pensiero scientifico.» Riflettei sulle sue parole. Mi tornò in mente il brivido che avevo provato scoprendo il supporto per la pistola all'interno della tavola falsa, in soffitta. Ma Oriol aveva già ricominciato a parlare del dipinto. «Per un iniziato, l'impronta templare nel trittico è inequivocabile. Se la
Vergine era un motivo comune nei dipinti dell'epoca, il radicamento del culto mariano nell'ordine e la presenza dei suoi santi patroni raffigurati prima della decapitazione, nelle tavole laterali, evidenziano che questo piccolo altare portatile era di proprietà dei frati guerrieri. Inoltre, vi sono le due croci usate dai templari: quella patriarcale sul bastone di Cristo risorto, e quella patente, sugli abiti di San Giorgio. E questo è davvero strano. La croce di San Giorgio è quella dei crociati: rossa e sottile, come quella dello scudo di Barcellona. Il santo non viene mai rappresentato con una croce patente.» «Quindi è appurato che le tavole sono autentiche, e che appartennero ai templari», dissi. «E questo dove ci porta?» «Ci porta a capire che, se contengono qualche messaggio, deve trovarsi in un punto visibile a tutti. Non credi?» «Immagino di sì», risposi, non molto convinta. «Perché non credo che ci sia qualche indicazione, nell'anello. La superficie è liscia; non presenta tacche, né incisioni.» «Bene, allora ci restano solo la storia di Arnau, ammesso che possa considerarsi autentica», io non volli interromperlo, ma avevo i miei motivi per accettare la veridicità di gran parte del racconto, «e i dipinti», concluse Oriol, osservando le tavole con attenzione. «Adesso si tratta di guardarle con gli occhi di un detective di fine Duecento, o inizio Trecento. Quali elementi avrebbero attirato l'attenzione di un segugio dell'epoca?» «Sei tu l'esperto di storia medievale», dissi, alzando le spalle. «Solo tu puoi occupartene, temo.» «OK. Allora ti dirò che, al di là di quanto abbiamo già rilevato, a incuriosirmi è l'iscrizione ai piedi della Vergine. Mater...» «Perché?» «Significa madre, in latino, ed è ridondante. Tutto il mondo sa che la Vergine Maria è la madre di Gesù. Perché l'artista volle scriverlo, quando era ovvio? Le iscrizioni per identificare i santi sono abbastanza comuni, soprattutto quando l'artista non era in grado di differenziarli dagli altri; è una caratteristica abbastanza diffusa, nella pittura romanica. Ma chiunque, osservando le nostre tavole, potrebbe riconoscere la Madonna, San Giorgio che calpesta un dragone, vestito da guerriero, e Giovanni Battista, coperto di pelli, con in mano una pergamena che allude all'Antico Testamento, che profetizzava l'avvento di Gesù. È impossibile confonderli, non ci sono possibilità d'equivoco.» «Forse l'artista voleva rafforzare la presenza della Vergine.»
«No, non credo. La Madonna domina la tavola; e poi, nella pittura antica i modelli si ripetono di frequente, e io non mai visto un'iscrizione in cui la Vergine venga chiamata 'madre'. Di solito si usa l'espressione Maria, o Santa Maria. Se avesse voluto riferire quella scritta alla Madonna, il pittore avrebbe scritto Mater Dei, madre di Dio.» «Qual è la tua conclusione?» «Che Mater non si riferisce alla Mater Dei.» «E a chi, allora?» «Se la parola si trova nella tavola centrale, riguarda qualcuno che è raffigurato in essa. E se non si tratta della madre del Bambino sarà...» «La madre della madre!» «Esatto. E la madre di Maria era...» La religione non era mai stata una delle materie in cui eccellevo, ma la risposta mi venne come un fulmine... forse fu la mia memoria, o forse un'intuizione. «Santa Anna!» Ci guardammo, con gli occhi spalancati per la sorpresa. «Santa Anna!» esclamai. «La chiesa di Santa Anna!» Santa Anna. Il tempio in cui si riunivano i nuovi templari di Enric e Alicia. L'iscrizione della tavola aveva davvero qualcosa a che vedere con quella chiesa? O eravamo noi due a voler trovare una relazione a tutti i costi? Troppe coincidenze. O magari si trattava dell'ennesimo falso indizio di Enric? Scartammo questa possibilità. Oriol aveva sottoposto a un'analisi, questa volta esaustiva, i pigmenti utilizzati in ciascuna delle parti dei dipinti, e quelli delle iscrizioni erano originali del Medio Evo. L'intuito mi diceva che la chiesa di Santa Anna era la chiave, anche se dovevo riconoscere che, forse, mi aggrappavo a quell'idea perché, in mancanza di altri indizi, era l'unica speranza che avevo di continuare quell'avventura. «Accetteremo questa possibilità solo come ipotesi di lavoro», concluse Oriol, dopo una lunga polemica con cui cercò di porre un freno al mio entusiasmo. E al suo. Gli rinfacciai che, qualche minuto prima, aveva difeso l'intuizione, l'istinto come fonte di conoscenza, mentre adesso si atteggiava a scienziato. Sapevo che aveva ragione, e che avevamo bisogno di un metodo di lavoro. Ma il dibattito è uno dei miei punti forti, e mi attirava l'idea di prendere l'iniziativa perdendomi per qualche minuto in discussioni bizantine. Molte donne, si sa, hanno la capacità di portare avanti due conversazioni
contemporaneamente; così, mentre intrattenevo Oriol con una discussione che già sapevo non avrebbe portato a nulla, lanciavo occhiate al trittico, chiedendomi quale altro strano particolare potesse nascondere. «Gli archi!» esclamai, d'un tratto. Oriol mi guardò, sconcertato. Che cosa c'entravano gli archi nella disputa tra intuito e metodo? «Gli archi», ripetei. «Sarebbe più normale se i due archi delle cappelle laterali fossero uguali. Non credi? È strano.» «Sì. Hai ragione», mi rispose, non appena riuscì ad afferrare il filo della nuova conversazione. «E quell'arco della tavola di destra: ha catturato la mia attenzione sin dalla prima volta che l'ho visto.» «Davvero curioso, no?» «Già. E molto, anche. Credo che sia venuto il momento di fare un'altra visita alla chiesa maggiore di Santa Anna. Tu verrai con me, vero?» Chiusi gli occhi per qualche secondo, cercando di imprimere nella mia mente quell'istante di vita. Io e Oriol eravamo nella sua stanza, a osservare le tavole, che in teoria nascondevano le chiavi del tesoro. E in quella accanto, la mia, mi attendeva una confusione di indumenti sparpagliati ovunque, in procinto di essere sistemati nelle valigie, per poi essere spediti, insieme a me, nella Grande Mela. E lui mi aveva appena chiesto se l'indomani, il giorno della mia partenza, l'avrei accompagnato a decifrare quel mistero. E che cosa potevo rispondergli? «Sì», dissi. E mentre pronunciavo quella parola mi resi conto che, come avrebbe detto mia madre, avevo appena gettato via il mio futuro. Né il recente impegno con l'ufficio, né quello più vecchio raggiunto con Mike mi impedirono di pronunciare quel sì, lo voglio: per la seconda volta, mi stavo fidanzando con l'avventura. Del resto, chi avrebbe resistito a una simile tentazione? 52 Il mattino successivo si annunciò radioso, prometteva di essere uno di quei giorni d'inizio estate in cui la brezza del Mediterraneo benedice Barcellona con un'aria trasparente e una temperatura ideale. Il sole entrava dalla mia finestra e mentre mi stiracchiavo accarezzata dai suoi raggi, mi tornò in mente quell'alba primitiva dopo la notte di San Giovanni: la confusione, il bagno, e tutto il resto... Non mi sarebbe spiaciuto rifarlo. La
città, attiva, ronzava ai miei piedi, con il blu del mare e del cielo come sfondo. E in alto vidi un aereo brillante, che all'improvviso si trasformò ai miei occhi in un nero calabrone che mi ricordava New York e «le mie responsabilità». Era come se stessi marinando la scuola. Dovrò approfittarne, mi dissi, correndo verso la doccia, e immaginando la colazione con Oriol di sotto, nel roseto. Caffè fumante e aromatico, croissant, fette di pane tostato, burro, marmellata... e lui; avevo già l'acquolina in bocca. «Carpe diem», gridai, quasi fosse un alibi e un antidoto contro i rimorsi. Entrammo attraverso il portico che si apre nel lato sud della navata trasversale, il braccio corto della croce latina che costituisce la pianta dell'edificio. Rispetto alle visite precedenti, in cui non mi ero nemmeno soffermata a considerarli, gli archi erano divenuti motivo di grande attenzione. Ci fermammo nella crociera, sotto la cupola, e subito ci rendemmo conto che esisteva una sola possibilità di vedere tre cappelle allineate, come nel trittico: bisognava rivolgere lo sguardo all'abside. In effetti il presbiterio, al centro, è molto più grande rispetto alle cappelle laterali. A sinistra si trova quella del Santo Sepolcro, e a destra quella del Santissimo. «Pensa alle tavole», mi sussurrò Oriol. «Sono tre, e ognuna di esse, secondo l'uso dell'epoca, mostra un arco nella parte superiore, a raffigurare un oratorio. La prima, quella a sinistra, con il Cristo risorto, presenta un arco a botte, leggermente appuntito: un passaggio dal romanico al gotico. Non poggia su nessuna mensola, ma cade direttamente sul pilastro, senza mostrare alcuna discontinuità.» «Proprio come nella cappella che vediamo davanti a noi, a sinistra», commentai, eccitata. «Guarda, coincidono! Santo Sepolcro nel quadro e Santo Sepolcro nel luogo corrispondente della chiesa.» Oriol, annuendo con un sorriso, continuò: «La tavola centrale possiede un arco simile, che però poggia su un piccolo bordo; e sopra ce n'è un secondo, più appuntito». «E coincidono anche questi!» «Infine, ricordati che il dipinto di destra ha un arco piuttosto strano, con un lobo centrale. Gli archi lobati sono frequenti nella pittura dell'epoca, dello stesso stile della nostra; ma hanno diversi lobi, e non uno solo. E che cosa abbiamo qui, alla nostra destra?» «La cappella del Santissimo; prima, però, ci sono due volte formate da archi ribassati, che terminano su mensole a loro volta posate sulle spesse
pareti laterali e su un muro centrale, più sottile, che le separa.» «Ma se volessi disegnare quelle volte prendendole di fronte, apparirebbero come archi ribassati, mentre il muro centrale sembrerebbe una colonna. Non credi?» «Certo.» «E se togli la colonna mediana, la tavola e la chiesa diventano molto simili. Quindi, non era un singolo lobo centrale, ma l'appoggio comune, sulla stessa mensola, degli archi ribassati. E poi ricordati che, nel dipinto, il palo maggiore della croce coincide con il punto in cui qui si trova la colonna. In realtà, rappresenta questo muretto.» «Sarà un caso?» chiesi, per provocarlo. «Diavolo, no!» esclamò, entusiasta. «Certo che no! Il pittore lo fece di proposito. Le tavole sono una sorta di mappa di questo tempio! Le cappelle del trittico riproducono quelle reali della chiesa, guardando dalla navata verso l'abside. Il tesoro è qui, Cristina!» Decidemmo di studiare a fondo la chiesa di Santa Anna: dovevamo analizzare anche i dettagli più insignificanti. Ci dividemmo il lavoro. Io avrei cercato informazioni nelle fonti moderne, mentre lui, data la sua professione, avrebbe studiato i documenti antichi. Raccolsi ogni scritto che menzionasse quell'edificio e la sua storia, dalle guide turistiche della città a tomi voluminosi sull'architettura gotica catalana. Oriol, visto il legame della sua famiglia con il Tempio, sapeva già molte cose, e mi facilitò il compito dandomi una vera e propria perla: un libro sulla chiesa dallo spessore considerevole, pubblicato di recente, a diffusione estremamente limitata. Conteneva tutto ciò che volevamo sapere. Sarei diventata un'autorità in materia! Il sorriso ironico con cui il mio amico accolse quell'affermazione entusiastica riuscì a mandarmi in estasi e, al tempo stesso, a offendermi. Sei tanto bello quanto pedante, dissi tra me e me. I giorni successivi li dedicai interamente a leggere e a visitare la chiesa, dove abbastanza di frequente incontravo Arnau d'Estopinyá. A volte non rispondeva nemmeno al mio saluto, altre volte lo faceva con un grugnito; in ogni caso, non cedette mai ai miei tentativi di intavolare una conversazione che comprendesse più di due frasi. Nonostante la forte tentazione, non vi annoierò con i dettagli delle mie vaste letture su Santa Anna. La sua storia documentata, comunque, sembra
avere inizio nel 1141, con il testamento del re aragonese Alfonso I, che donò l'intero regno agli ordini militari del Tempio, dell'Ospedale e del Santo Sepolcro. Quello stesso anno, un canonico di nome Carfillius venne a negoziare, per conto di quest'ultimo ordine, con l'erede al trono, il conte di Barcellona Raimondo Berengario IV, che scambiò beni e prebende con i tre ordini per recuperare il regno. Così, il Santo Sepolcro si ritrovò, dalla sera alla mattina, con ampi possedimenti in Catalogna e Aragona e tra questi c'era anche la chiesa di Santa Anna, fuori dalle mura, senza dubbio risalente a un'epoca anteriore. Qui decisero di stabilire il monastero dedicato alla stessa santa, che ottenne beni non solo in Catalogna, ma anche nei regni di Maiorca e di Valencia. Nella sua storia agitata e turbolenta, passò da un primo periodo di fasto e ricchezza a secoli di decadenza, durante i quali cessò di essere un monastero per divenire collegiata, e poi parrocchia. I suoi numerosi possedimenti furono venduti, inclusi i terreni circostanti, su cui oggi si innalzano gli edifici che circondano quel che resta dell'antico splendore. La chiesa venne saccheggiata e chiusa durante l'invasione napoleonica, profanata da gruppi armati, e quindi chiusa al pubblico nel 1873, con la Prima Repubblica, e incendiata e depredata nel 1936, con la Seconda. Fu allora, come mi aveva raccontato Artur, che la nuova chiesa venne fatta saltare in aria. Gli unici resti di quell'edificio neogotico stilizzato ancora visibili sono alcune pareti che delimitano uno dei lati di plaza Ramòn Amadeu. Oriol alternava ricerche e lavoro; ci trovavamo la sera, o quando avevamo un momento di tempo, per confrontare gli appunti. Nel nostro primo incontro espressi il mio entusiasmo nei confronti di una foto che mostrava l'interno della chiesa dopo l'incendio: nei resti di un altare appariva una gigantesca croce patente, senza dubbio originariamente nascosta. «I nostri nonni si riunivano qui», affermò Oriol, categorico. «E, diversamente dall'ordine del Santo Sepolcro, il nostro culto è sempre rimasto segreto.» Il complesso attuale venne edificato nel corso dei secoli. Esiste una documentazione che attesta che il presbiterio e la navata trasversale furono costruiti tra il 1169 e il 1177, la navata centrale e alcune cappelle nel Duecento, altre, come quella del Santo Sepolcro, nel Trecento, come anche il portico principale. Il chiostro e la sala capitolare risalgono al XV secolo,
mentre la cappella del Santissimo, del XVI, venne modificata nel Novecento. Subito, però, mi resi conto che esisteva un anacronismo tra il trittico e la costruzione. Se la cappella del Santissimo non venne eretta prima del Cinquecento, come poteva comparire un oratorio nella tavola di destra? Non stavamo sbagliando chiesa? Inoltre, nonostante la coincidenza del Santo Sepolcro nel quadro e nel tempio, questa cappella risaliva al secolo XIV, a un periodo sicuramente posteriore all'artista; tra le altre, poi, nessuna corrispondeva, in quanto a santi. Nel presbiterio, sull'altare maggiore, si venera la patrona, Santa Anna, raffigurata mentre apre le braccia, a proteggere la figlia e il nipote. Ed è quello il suo posto. E anche se le immagini sono moderne, ovviamente successive all'incendio del secolo passato, anche allora doveva essere così: l'altare principale è riservato alla patrona. Inoltre, la cappella di destra, quella moderna, del Santissimo, non mostra alcuna crocifissione. Anche se c'è un affresco contemporaneo incorniciato, che ritrae la Pietà. Le coincidenze erano molte, ma molti anche i punti contrastanti. Mi sentivo piuttosto scoraggiata. Ancora una volta, stavamo seguendo la pista sbagliata. «Abbiamo voluto credere alle nostre fantasie, Oriol», gli dissi, quando ci trovammo. E gli illustrai tutto il mio ragionamento precedente. «Gli edifici vecchi come questo non sono sempre stati come li vedi ora, né gli oggetti hanno sempre occupato il loro posto attuale», rispose lui. «D'altra parte, Santa Anna non è stata sufficientemente studiata.» «Credi che i libri sulla chiesa sbaglino?» «Qualcosa, sì. Tanto per cominciare, le parti più antiche del tempio non sono il presbiterio e la navata trasversale. Solo la data del primo è documentata. Quando l'ordine del Santo Sepolcro prese possesso della chiesa, essa esisteva già. Altrimenti, l'edificio sarebbe stato chiamato convento del Santo Sepolcro, e non di Santa Anna. Fin qui sei d'accordo?» Annuii. «E dove dovrebbe trovarsi l'antico edificio?» Alzai le spalle. «Vieni con me!» Tornammo alla chiesa e, prendendomi per mano, mi condusse fino al presbiterio. «Noti qualcosa di strano, nelle finestre?» Sulla parete dell'abside in alto, dietro l'altare maggiore, si apre una grande vetrata gotica e, più in basso, due strette finestre ad arco acuto, del tutto
simili alle tre che si aprono nel muro di destra, che dà a sud, che si trovano alla stessa altezza. «Ci sono delle finestre nella parete destra, ma non in quella sinistra.» «E poi?» Prima di rispondergli, feci un giro d'ispezione. «Al di là della grande vetrata in alto», conclusi, «nessun'altra finestra del presbiterio dà sull'esterno: le due in fondo comunicano con la sagrestia, le tre sulla destra con la cappella del Santissimo.» «E questo cosa ti induce a pensare?» «Che, quando venne costruita l'abside, tutte le finestre davano all'esterno e che, se nel lato nord, a sinistra, non ce ne sono, è perché lì sorgeva un altro edificio. Forse la chiesa originale di Santa Anna.» «Esatto! Dove adesso si trova la cappella del Santo Sepolcro, sorgeva l'antica chiesa in stile romanico, edificata probabilmente nel secolo XI.» «E allora perché gli studiosi moderni la fanno risalire al Trecento?» «Perché non conoscono bene i fatti, e hanno redatto una valutazione dell'edificio basandosi su quello che oggi è ancora visibile. L'antica cappella romanica crollò durante l'incendio del '36, insieme a molte altre parti della chiesa e alla cupola, che saltò in aria trasformandosi in un gigantesco camino. La ricostruzione presenta un arco a botte appuntito, che ricorda il presbiterio e la navata trasversale; quello originale, però, non doveva essere così. Inoltre, ho trovato alcune piante della chiesa del 1859, firmate da un architetto di nome Miguel Garriga: in esse, la struttura delle pareti della cappella Dels perdons, com'era chiamata allora, sono completamente diverse dai restanti muri della chiesa. Erano più spesse, e comprendevano delle nicchie, in cui sicuramente erano conservate immagini di santi. «Quanto alla parte che si trova a destra del presbiterio, quella che oggi è conosciuta come cappella del Santissimo, non esisteva nel secolo XIII, dal momento che le finestre davano all'esterno. Lì, nel Cinquecento, venne costruita la sagrestia. Invece, all'epoca c'erano due oratori, la cui struttura, coperta da due piccole volte gotiche a crociera, oggi è visibile all'entrata della suddetta cappella: nel quadro, sono rappresentati da quell'arco ribassato posto in cima alla croce, in cui avevamo creduto di vedere un lobo, ma che in realtà rappresenta i due oratori. L'entrata principale, con il suo portico, si trova proprio accanto a essi; è datata 1300 e, visto che il suo stile gotico sembra coincidere con quello dei due oratori, possiamo supporre che vennero costruiti nello stesso periodo.» «Quindi Arnau, se continuiamo a credergli, doveva vedere quattro archi
e non tre, come si nota nelle tavole.» «Certo. I trittici sono ricorrenti nella pittura gotica, e gli insiemi di quattro dipinti non esistevano, semplicemente. La cappella situata alla nostra sinistra rappresenta quella del Santo Sepolcro, con Gesù risorto e trionfante, con un bastone che, all'estremità, porta la croce patriarcale, quella dei templari. Nella tavola centrale, che per grandezza corrisponde al presbiterio, abbiamo la Vergine, anche se il termine mater si riferisce a Santa Anna. Proseguendo nella stessa direzione, arriviamo ai due oratori, che si mantennero tali e quali fino all'incendio del 1936. All'epoca, nel primo era collocata la Vergine della Stella, una scultura gotica simile alla Madonna del dipinto centrale; il secondo, invece, dava accesso alla sagrestia. E indovina un po' a chi era dedicato questo secondo oratorio.» Rimasi in silenzio, in attesa della sua risposta. «A Gesù crocifisso!» disse, sorridente. «C'era una grande croce, con una figura quasi a grandezza naturale.» «Come nelle tavole!» sussurrai. 53 Uscimmo dalla chiesa per parlare con comodo e, mentre camminavamo per calle Santa Anna, verso le Ramblas, Oriol continuò. «Supponiamo che il personaggio di Arnau avesse realmente a che fare con l'anello e con le tavole, come dice mio padre nel suo racconto, basato sulla tradizione orale. Considerando che la parte del portico e gli oratori vennero costruiti intorno al 1300, dovette vedere la chiesa di Santa Anna così com'è rappresentata nel trittico. I templari non furono perseguitati sino al 1307 e, secondo i manoscritti, Arnau d'Estopinyá visse almeno fino al 1328, l'anno successivo a quello della morte di Giacomo E.» «Tutto combacia», dissi, convinta. «Una persona dell'epoca che avesse familiarità con la chiesa l'avrebbe riconosciuta nei dipinti.» «Le cose, probabilmente, andarono così», continuò. «Con la sua galera, Arnau fece rotta verso nord, e non verso sud. A differenza che con l'ordine dell'Ospedale, i templari mantennero sempre dei buoni rapporti con i colleghi del Santo Sepolcro. Si trattava di un ordine molto più piccolo, che non giustificava rivalità simili a quelle esistenti con i cavalieri di San Giovanni. Inoltre, i cavalieri del Santo Sepolcro non avevano un braccio militare in Catalogna, erano chierici comuni. I frati Lenda e Saguardia avevano già preso accordi con il commendatore dell'ordine del Santo Sepolcro di
Barcellona per la custodia dei loro tesori, e Arnau d'Estopinyá sbarcò su una spiaggia nei pressi della città, evitando tanto la sede del Tempio, molto vicina ai cantieri e senza dubbio posta sotto sorveglianza, come il porto di Can Tunis, situato sulla costa sud della montagna di Montjuïc, e protetto da un castello presidiato dalle truppe del re. Permise solo ai suoi galeotti saraceni di vedere a chi avrebbe consegnato il carico; quindi, durante il viaggio di ritorno, li fece sgozzare perché non parlassero al loro arrivo a Peñíscola. Aveva le sue ragioni per temere che gli agenti dell'Inquisizione o del re interrogassero il suo equipaggio. I frati del Santo Sepolcro, invece, erano Liberi da ogni sospetto e trasportarono il tesoro nel loro monastero, custodendolo nella chiesa, che già allora era nota come chiesa di Santa Anna. Il monastero si trovava fuori dalle mura di Barcellona, e per questo possedeva difese proprie; proprio in quel periodo, però, stavano costruendo la seconda muraglia della città, che avrebbe finito con l'includere la chiesa stessa. Non saprei dirti se il muro proteggesse già la commenda del Santo Sepolcro. Quel che è certo, però, è che i frati avevano una loro porta, dal momento che il loro convento presto avrebbe confinato con le difese della città; oppure, godevano del privilegio di entrare senza sottoporsi al pagamento di tasse o a perquisizioni. E ciò evitò loro di dare spiegazioni.» «Ma forse le cose non stavano così», dissi. «Già. Forse il tesoro venne trasportato via terra, dal castello di Miravet. Ma il risultato finale sarebbe lo stesso.» «OK, d'accordo. Il tesoro dei templari si trova nella chiesa di Santa Anna. E adesso che cosa facciamo?» Oriol si grattò la testa, quasi stesse pensando. Ci trovavamo in piena Rambla de las Flores, accarezzati dal fulgore e dalla vivacità di quel pomeriggio d'estate e della pittoresca moltitudine. Si fermò davanti a un chiosco e, prendendo un bouquet di fiorellini variopinti, me lo donò, accompagnandolo con un bacio sulle labbra. Nonostante lo desiderassi intensamente, rimasi sorpresa, dopo il comportamento distaccato degli ultimi giorni; ma recuperai all'istante i miei riflessi e, gettandogli le braccia al collo, mi unii a lui in uno sbaciucchiamento appassionato. «Adesso bisognerà cercarlo», mi disse, quando allentammo la stretta. «Non credi?» sorrideva. Nei suoi occhi blu a mandorla, vidi la felicità. «Già», affermai. E, tenendoci per mano, scendemmo lungo la Rambla, parlando di questo e di quello, ridendo per niente, forse solo per la vita che stavamo vivendo, per quell'istante di felicità. Che importanza aveva il tesoro? Tesoro? Di che
tesoro stavamo parlando? Ci godemmo il pomeriggio, la città, la notte; all'alba eravamo nudi, seduti sul letto disfatto di Oriol, con la finestra aperta su una Barcellona notturna, silenziosa, intenti a osservare le tavole, illuminate da un paio di lumini. Dopo alcuni minuti di silenzio, senza rispettare la profonda meditazione in cui era caduto il mio compagno, che sembrava voler carpire tutti i segreti dei quadri solo con la forza della mente, volli riassumere a voce alta le mie idee. «Sappiamo che il trittico è una sorta di pianta della chiesa», dissi. «Adesso dobbiamo trovare il tracciato sulla mappa.» «Sì», ammise lui, pensieroso. «Dovremo cercare tutti i particolari che ci sembrano curiosi...» «La collocazione del Bambino, sulla gamba destra della Vergine», mi interruppe. «Ti ho già detto che non è affatto consueta. La maggior parte delle Vergini gotiche aragonesi risalenti a quell'epoca, tanto in pittura come in scultura, tiene il Bambino in grembo, ma a sinistra, come se volessero stringerlo con la mano destra. Non la nostra, però.» «Un altro indizio!» «Esatto. Inoltre, di solito Gesù è raffigurato con un libro in mano, mentre gioca con gli uccelli, o mentre dona un frutto alla madre. Nella maggior parte dei casi, benedice.» «Ed è proprio quello che fa nella mia tavola!» «No! Guarda bene! La benedizione viene impartita con l'indice e il medio della mano destra sollevati. Come nella tavola di sinistra, in cui il Cristo esce dal sepolcro.» «Già: il Bambino solleva soltanto l'indice.» «Infatti, non impartisce una benedizione. Indica qualcosa.» «Ma cosa? Il dito è rivolto al cielo, ed è leggermente piegato verso sinistra. Non indica niente di concreto.» Poi, pensierosa, aggiunsi: «Probabilmente rappresenta la promessa del regno dei cieli al credente...» «No, niente di tutto questo! Osserva, l'ho appena visto!» Oriol fece ruotare la tavola del Santo Sepolcro su una cerniera inesistente, chiudendola su quella centrale, come fosse l'imposta di una finestra. «Adesso dov'è il dito del Bambino?» Guardi l'angolo formato, in quel momento, dalle due tavole. «Indica l'interno della tomba, del Santo Sepolcro.»
«L'interno di una tomba, nella cappella situata a sinistra dell'altare principale nella chiesa di Santa Anna di Barcellona», recitò Oriol. «La cappella dei cavalieri del Santo Sepolcro! Quella Dels perdons!» Riflettei. Mi sembrava tutto molto complicato. Ma c'era una certa logica. Cercai di ricordare la chiesa. «Sei sicuro che il tesoro si trovi lì?» gli chiesi, alla fine. Lui sollevò le spalle. «È l'unica alternativa che ci resta.» «E come otterremo il permesso di scavare nel pavimento della chiesa?» «Parlerò con mia madre», rispose Oriol. «Sono certo che riuscirà a convincere il parroco a lasciarci esplorare quella cappella. Lei e la 'confraternita' che presiede sono i principali benefattori della chiesa. Quanto a te, cancella definitivamente il tuo ritorno. Non mi lascerai solo in questa cosa... Ricordati, ci siamo giurati di non abbandonarci mai.» Che domanda retorica! Lasciarlo solo? Se anche gli archi, le volte, le colonne, le mensole, i cunei di quella benedetta chiesa fossero crollati, insieme alle altre pietre sospese sopra le nostre teste, abbandonare l'avventura era l'ultima scelta che avrei fatto in quel momento. 54 Trascorremmo quelle notti meravigliose nella sua stanza, decifrando i misteri del corpo e dello spirito l'uno dell'altra, dal momento che quelli delle tavole non erano più una valida scusa. Nella mia camera c'era ancora un caos di valigie da fare... o da disfare. E parlammo del primo bacio, del mare, delle nostre lettere andate perdute... e anche di quello che era accaduto negli ultimi giorni. L'odalisca che Oriol aveva respinto la notte di San Giovanni era una sua alunna all'università: per questo, e per via della mia presenza, aveva pensato che sarebbe stato poco elegante andare con lei a sollazzarsi nella pineta. Susi, il travestito che avevamo incontrato uscendo dal bar Pastis, si era rivolto a un'opera assistenziale promossa da uno dei gruppi di azione sociale a cui apparteneva Oriol, che aveva sede in una casa occupata del distretto. Gli aveva retto il gioco, quando aveva proposto di fare qualche giochino a tre, perché si divertiva a vedere la mia espressione preoccupata. Ridendo, mi assicurò che i travestiti non lo attraevano sessualmente. Poi si fece serio, e mi disse che, se anche avesse avuto una particolare predilezione nei loro confronti, non sarebbe mai andato con Susi: aveva l'AIDS, e lo scopo
dell'opera assistenziale era appunto aiutare le persone prive di mezzi di sostentamento che avevano contratto il virus. Lo faceva in onore di suo padre. Mi scandalizzai, sapendo che un tipo come quello si prostituiva: era un pericolo. Bisognava impedire una cosa simile. Oriol si strinse nelle spalle. Sì, forse avevo ragione, mi disse. Ma, AIDS a parte, Susi continuava a essere una persona, con tutti i suoi diritti; una persona libera, che soffriva, e aveva bisogno di lavorare per mangiare e per vivere. Oriol non sbagliava. Ma le sue parole non mi convinsero, ciascuno è schiavo delle proprie paure. In effetti, non mi soddisfò nemmeno la sua spiegazione riguardo allo scherzo, e mi sfogai con lui, rinfacciandogli il suo pessimo senso dell'umorismo. I giorni dedicati alla caccia al tesoro nella chiesa furono indimenticabili. Ci godemmo una Barcellona splendida, l'estate appena inaugurata e il nostro amore. Ed era proprio il sentimento che ci univa a rendere tutto ancora più meraviglioso. Io abbandonai il telefono, staccandomi completamente dagli Stati Uniti. Prima, però, sfidai l'impossibile, chiedendo ancora una volta allo studio di accettare un prolungamento delle mie vacanze. Poi chiamai Mike, per comunicargli che il nostro rapporto era in crisi, e per dirgli che gli avrei spedito l'anello tramite corriere. Fu una lunga conversazione, in cui lui non volle darsi per vinto. Infine, parlai con una Maria del Mar avvilita, rassegnata a quel fato implacabile cui il comune mortale, per quanto lotti, non è in grado di sottrarsi. Le dissi di non preoccuparsi, che con Oriol andava tutto a gonfie vele. E la invitai a non stare in pena, se non mi fossi fatta sentire per qualche giorno. Io sarei stata bene. Benissimo. Visitavamo la chiesa di Santa Anna di frequente, esaminandone minuziosamente anche il più piccolo indizio. «La chiesa possiede una cripta», mi disse Oriol, una mattina. «Una cripta? Vuoi dire una cappella sotterranea?» «Sì. Ne sono sicuro. Dev'esserci per forza. L'edificio originario venne costruito intorno alla metà del secolo XI, circa cinquant'anni dopo la distruzione di Barcellona a opera di Almansur, che aveva portato via tutti gli oggetti di valore presenti in città, oltre ad alcune migliaia di schiavi. Le scorrerie dei moriscos erano ancora frequenti, ed era naturale che la popolazione temesse un nuovo saccheggio. Quindi, considerato che la chiesa si trovava al di fuori della protezione offerta dalla muraglia della città, doveva possedere non solo delle mura di difesa, ma anche un nascondiglio in
cui riporre gli oggetti di culto, o i paramenti di valore, in caso di assalto.» «Ma la tua è una semplice congettura.» «No, invece. Ho trovato dei documenti molto antichi in cui viene menzionata la cripta di San Giuseppe.» «E dove si troverebbe?» «Sotto la cappella del Santo Sepolcro», affermò. «Perché?» «Perché è la parte più antica, e in passato fu anche la più venerata. Un tempo, nelle mura esterne dell'oratorio del Santo Sepolcro erano scolpite delle conchiglie dei pellegrini, in riferimento al perdono che veniva concesso in questa cappella, simile a quello ottenuto a chi si recava in pellegrinaggio al Santo Sepolcro di Gerusalemme. Immagina l'importanza spirituale ed economica che tale indulgenza aveva per il convento. Tutti quegli indizi sono scomparsi. Nella ricostruzione avvenuta in seguito all'incendio del 1936, in cui crollò il vecchio soffitto a volta a botte, le conchiglie e altre parti strutturali scomparvero. Ma è più che probabile che si sia conservato ciò che era nascosto sottoterra. Nessuno, oggi, sa dell'esistenza della cripta; nessuno sa dov'è collocata. Ma incendi e crolli non sono riusciti a danneggiarla: al massimo, ne hanno occultato l'entrata. Sono sicuro che da qualche parte, sotto queste lastre, si nasconde una cripta segreta. E scommetto che si trova precisamente sotto l'antica cappella Dels Perdons.» Servendoci di palanchini di ferro, e con l'aiuto del sagrestano e di una piccola gru, riuscimmo a rimuovere la stele sepolcrale della cappella, in cui è scolpito un ecclesiastico. Il risultato fu deludente. Ossa. La brillante teoria di Oriol si sgretolava davanti ai nostri occhi. Lui propose di sollevare il pavimento, ma il parroco rifiutò. Il fatto che la confraternita dietro cui si nascondeva l'ordine dei nuovi templari di Alicia fosse un importante sostegno economico per la chiesa non lo smosse dalla sua decisione. Anni prima, nel pavimento della navata centrale era stato installato un impianto di riscaldamento, e durante i lavori erano venuti alla luce numerosi resti umani. Era stato molto imbarazzante. No, il parroco non intendeva permettere che venissero effettuati altri scavi. «Se esisteva un'entrata da questa cappella», diceva Oriol, «probabilmente venne chiusa in seguito a uno dei tanti restauri cui è stata sottoposta.» Così, facemmo lo stesso tentativo nel presbiterio. A tal fine, dovemmo rimuovere gli stalli dell'abside. Scoprimmo quattro
steli in quelli ai lati dell'altare maggiore, con croci a due bracci e simboli cardinalizi. Supponemmo che si trattasse della tomba dei cardinali che erano stati parroci della chiesa ma, sollevando le prime due, quelle più vicine alla cappella del Santo Sepolcro, non trovammo nulla. Tuttavia le nostre speranze vennero esaudite quando aprimmo la terza: davanti a noi apparve un'angusta scala, dai gradini profondi, che scendeva nell'oscurità. «L'entrata alla cripta!» esclamai. I miei occhi cercarono quelli di Oriol, pieni di emozione. Lui accese una candela e si preparò a scendere. Mi sembrò uno sciocco arcaismo. E gli dissi che sarebbe stato meglio usare una delle torce che avevamo preparato. «È per l'ossigeno», mi informò. «Molta gente è morta calandosi in pozzi, o scendendo in sotterranei, per non aver preso questa precauzione. L'anidride carbonica e altri gas più pesanti dell'aria tendono a ristagnare in queste depressioni, e le persone che entrano continuano a respirare aria priva di ossigeno sino a quando svengono, asfissiate. Si tiene la fiamma all'altezza della cintura e se si spegne significa che sotto non si respira, che bisogna uscire di corsa.» Orgogliosa, pensai che il mio amante era davvero preparato, e mi preparai a seguirlo, armata di torcia. Lui scese camminando in avanti, appoggiandosi alle pareti e al soffitto; ma la scala era così stretta e ripida che io decisi di girarmi di spalle, e di aggrapparmi ai gradini. La prospettiva di ruzzolare in quella sinistra oscurità non mi attirava affatto. Era un recinto poco più piccolo dell'abside, con una volta a botte appoggiata su una parete piuttosto bassa, che conferiva alla stanza un'altezza massima di circa due metri e mezzo. In fondo c'era soltanto un altare di pietra e più in là, sul muro, una grande croce patriarcale dipinta di rosso. La stessa che condividevano templari e cavalieri del Santo Sepolcro. La candela di Oriol era sempre accesa; la posò sull'altare, ove si trovavano alcune urne. «Forse sono le reliquie di Santa Anna e di Santa Filomena, o il lignum crucis, conservati nella chiesa prima della guerra», affermò il mio amico. «Il parroco dell'epoca e diversi sacerdoti furono assassinati. Il segreto, evidentemente, si perse con loro.» «Non mi sembra che ci sia nessun tesoro, qui», dissi. Oriol non rispose, e cominciò a esplorare con la sua torcia il pavimento, in cerca di lapidi. Di tanto in tanto si fermava, come se leggesse dei segni
su alcune pietre, che a me non dicevano nulla. «I cardinali devono essere sepolti qui», osservò infine, indicando delle steli ai suoi piedi. Sembrava deluso. Ci raggiunsero anche il sagrestano e il custode, come noi armati di torce, e ci aiutarono nella ricerca. Ma non trovammo nulla di rilevante. Le lapidi della cripta custodivano soltanto delle ossa. La caccia al tesoro, quindi, sembrava giunta alla fine. Oriol disse che, a quel punto, era meglio rassegnarsi, e chiese al parroco il permesso di continuare a ispezionare la cripta noi due soltanto, durante la notte, promettendogli che avrebbe sistemato tutto per l'inizio della prima messa dell'indomani. Il vecchio sacerdote, dopo averci propinato un rosario di avvertimenti, acconsentì malvolentieri. Nonostante tutto, l'aiuto economico di Alicia aveva il suo peso. Oriol mi invitò a mangiare un boccone fuori, ma non ne avevo alcuna voglia. Curiosare sotto steli funerarie non stimola esattamente l'appetito, e io non mi sentivo molto bene. Lui, però, insisté: dovevamo recuperare le forze. «Una conchiglia. L'hai osservata bene?» disse d'un tratto Oriol, al ristorante. «C'era una conchiglia del pellegrino, scolpita in una pietra della parete sinistra della cripta; la lastra è grande quasi quanto una lapide e un uomo riuscirebbe a passare attraverso quel buco.» «E questo che cosa vorrebbe dire?» «Ricordati che la conchiglia è il simbolo della cappella Dels Perdons, quella del Santo Sepolcro», gli brillavano gli occhi per l'entusiasmo. «È uguale a quelle che un tempo erano visibili sul muro esterno dell'oratorio, scomparse con il restauro successivo alla guerra civile.» «E quindi...?» «Perché mai avrebbero dovuto scolpire una conchiglia del pellegrino in una cripta sotto l'abside, che in teoria non ha alcuna relazione con la cappella vicina?» «Per indicare che tra le due c'era un legame?» chiesi, non troppo sicura. «Ma certo!» Sulle sue labbra si dipinse un sorriso trionfale. «Dev'essere l'accesso all'altra cripta, la prima, la più antica. Quella che non siamo riusciti a trovare dalla superficie. Deve trovarsi lì!» Cenammo il più rapidamente possibile, per poi tornare alla chiesa passando da calle Rivadeneyra, entrando attraverso il passaggio accanto alla casa parrocchiale, che dà accesso al chiostro. Il parroco ci aveva prestato le chiavi che aprivano la cancellata del vicolo. Passando davanti alla sala
capitolare, e vedendo il chiostro immerso nell'oscurità, sussultai, ricordando l'incontro avvenuto qualche giorno prima con Arnau d'Estopinyá, proprio in quel luogo. Questa volta eravamo soli con i nostri palanchini; dopo un paio di tentativi, la lastra con l'incisione iniziò a cedere, e rimuoverla non ci costò molta fatica. Un vapore stantio uscì dalla nera apertura e Oriol avvicinò una candela, appoggiandola a terra, all'entrata dell'orifizio, fermandosi un momento a guardarmi. Sorrise. Ci prendemmo per mano, scambiandoci un bacio. Il cuore mi batteva all'impazzata per l'emozione, e mi resi conto che avrei dovuto assaporare quel momento unico. Il tesoro leggendario era davvero nascosto nelle tenebre che intravedevo attraverso il buco? Oriol, da vero cavaliere, si scostò gentilmente per farmi passare, ma io mi accorsi che, nonostante la curiosità, non ero per nulla felice di entrare lì dentro. Guardai la candela, che ardeva senza cedimenti ai miei piedi, chiesi al mio amico di tenermi la mano e, dicendomi carpe diem, chinai la testa per introdurmi nella fessura, che si abbassava come se ci fosse un gradino. Tenevo la candela davanti a me, sotto la vita. Mi tranquillizzai, vedendo che non si spegneva, e dovetti sollevarla sopra il capo per vedere l'interno della stanza. Subito, Oriol venne in mio aiuto con la sua torcia. Era una camera piuttosto piccola, rispetto alla precedente, e il soffitto era costituito da archi a tutto sesto appoggiati sulle pareti, e da un gioco centrale di tre colonne, che secondo il mio compagno potevano essere di epoca visigota. Ma, in quel momento, quel dettaglio ci parve del tutto insignificante. Vedendo il contenuto della catacomba, Oriol esclamò: «Il tesoro!» 55 Tremai per l'emozione. Effettivamente, ci trovavamo nella parte centrale di una cripta dalle dimensioni ridotte, in uno spazio abbastanza ampio ma circondato da bauli; più in là, c'era una gran quantità di urne ammucchiate contro le pareti, ognuna di esse, alla luce della torcia, emanava un bagliore metallico. Posai la mia candela sopra un'arca, fissandone la base con la cera, e chiesi a Oriol di aprirne una. Lui illuminò quello a me più vicino, e io feci appello a tutte le mie forze per sollevare il coperchio cigolante. Era vuota! Oriol ne aprì un'altra... vuota! Vuota, vuota, vuota... erano vuote tutte e sei! «Qui non c'è niente!», gli dissi, sconsolata. Lui mi guardò, quasi fosse stato vittima di un bidone.
«Io penso di sì», rispose, dopo aver riflettuto qualche secondo. «Mancano l'oro e l'argento, ma credo che il tesoro che i templari consideravano più prezioso sia ancora qui. Osserva gli scrigni.» Erano numerosi, tutti molto belli. Alcuni erano di metallo, decorati con smalti tipo Limoges, altri avevano delle piccole sculture in avorio, o erano ricoperti di damaschino, o di legno stuccato in rilievo, con immagini simili a quelle della mia tavola. «Di sicuro qualcuno è ancora pieno...» mi assicurò. Ne aprii uno, aspettandomi di vedere la brillantezza dell'oro e delle pietre preziose; invece, trovai il bagliore dei denti di un teschio con i capelli, e con la pelle secca ancora attaccata all'osso. «Oh, mio Dio!» esclamai, in preda a un senso di repulsione. «Questi sono resti umani!» Oriol, che aveva già aperto altre due scrigni, puntò la torcia su di me. «Sono reliquie. Non era facile trafficare illegalmente nel mercato dei resti sacri.» Mentre parlava, prese una cassa di legno decorata con dipinti di santi, in stile romanico. Sul coperchio c'era una croce identica a quella del mio anello: Ricordandomene in quel momento, lo illuminai per osservare il suo fulgore, e la pietra rosso sangue sembrò trasmettermi una strana vibrazione. «Non ci sono dubbi: abbiamo trovato il tesoro perduto del Tempio», disse Oriol, prima di aprire il piccolo scrigno. Conteneva altre ossa, alcune delle quali avevano ancora attaccata della pelle incartapecorita. «Nelle cronache della chiesa che ho esaminato, si dice che nel secolo XV l'ordine del Santo Sepolcro venne sciolto, e il convento divenne una collegiata agostiniana. Non era più abitata da frati, bensì da canonici regolari, che non facevano voto di castità e che, in numerose occasioni, vennero sanzionati per la loro vita dissipata e per le spese incomprensibilmente alte per un ordine mendicante. Orti, rendite ed elemosine percepite dalla comunità non servivano nemmeno a coprire la centesima parte di quel dispendio. Mentre leggevo, mi sono convinto che il tesoro doveva essere stato qui, e che la parte monetaria doveva essere stata dilapidata circa un secolo dopo la morte di Arnau. Ma per i templari le reliquie dei santi avevano un valore decisamente maggiore rispetto all'oro e all'argento, e di sicuro i canonici agostiniani che vivevano qui le rispettavano, e forse ne erano addirittura intimoriti. Era del tutto improbabile che cercassero di venderle.»
«Non mi sorprende che avessero un certo riserbo. Usciamo di qui», lo implorai. «Questo è un cimitero.» Avevo la nausea e lo stomaco sottosopra. Non mi aspettavo una cosa simile. E d'un tratto sentii una sorta di timore superstizioso, come se avessimo violato una tomba e, per questo, meritassimo un castigo. Ho già detto che, generalmente, non sono una persona paurosa, ma quella notte la chiesa oscura, la cripta con il suo odore nauseabondo e i resti dei defunti nelle casse mi comunicarono un senso di pericolo, misto a ripugnanza. Avevo bisogno di uscire di lì, ma volevo che Oriol mi accompagnasse. Non mi sentivo in grado di affrontare di nuovo, da sola, la chiesa lugubre che ci aspettava di sopra. Ma mi sbagliavo. Ad attenderci non c'erano le tenebre, ma una luce che ci puntava dritto negli occhi e una voce conosciuta. «Cristina... io ti credevo già in America...» Riconobbi il tono cinico di Artur, che cortesemente mi prendeva la mano per aiutarmi a uscire da quella catacomba. «O in Costa Brava...» Uno, due, tre gorilla armati di torcia e revolver. Anche Oriol, che veniva dietro di me, si ritrovò con una pistola puntata. «Credevi di avermi ingannato, vero?» lo attaccò Artur, con un tono molto diverso da quello che aveva usato con me. «Non mi fido mai di chi paga una cifra troppo alta per un'opera d'arte, soprattutto se conosce il suo valore di mercato. Come potevi pensare che avrei abboccato?» «Non c'è oro, là sotto», mi affrettai a informarlo. «Ci sono solo reliquie.» Pensavo che, forse, saremmo riusciti a salvarci un'altra volta, se Artur si fosse convinto che il valore di ciò che era nascosto di sotto non avrebbe ripagato il rischio che avrebbe corso uccidendoci. «No, mia cara», fece lui. «Ho ascoltato quanto basta della vostra conversazione. Ci sono dozzine di scrigni, e di reliquiari risalenti al XII e al XIII secolo. Metallo ricoperto di smalti di Limoges, casse stuccate e dipinte, in stile romanico e gotico. Cofanetti con immagini intagliate in avorio. È una vera fortuna. Non sarà stato un tesoro per un re di quell'epoca, anche se lo erano le reliquie per i frati. Ma per un antiquario del XXI secolo questa è una ricchezza incalcolabile. Ci sono in giro pochi pezzi di quel periodo e sono quotati molto bene.» «Che cosa intendi fare con le reliquie?» chiese Oriol. «Le carogne le lasceremo dove si trovano», rispose, rapido. «Inclusa la tua.»
In quel momento mi resi conto che questa volta eravamo perduti. Chi mai aveva corrotto per ottenere l'accesso? O forse aveva un altro mazzo di chiavi? Del resto, cosa importava? Chiunque fosse stato ad aiutarlo, adesso non avrebbe aiutato noi. Iniziai a pensare, in preda alla disperazione, a un modo per toglierci dai guai. Vidi il mio cadavere accanto a quello di Oriol, che giaceva nell'oscurità, in cima ai resti mortali mezzi putridi e secchi di tutti quei santi, tolti dagli scrigni, ammucchiati in un angolo e chiusi per sempre nella cripta segreta. «Posso darti del denaro, se è questo che vuoi», offrì Oriol. «Non mi interessano i tuoi soldi.» Artur lo guardò con aria schifata, come se l'avesse offeso nel profondo del suo amor proprio. «Non lo capisci? Questo potrebbe essere il più importante ritrovamento di arte medievale del secolo. E poi, sequestrare le persone non è affar mio.» «E assassinare sì?» chiesi, indignata. Davvero non capivo come avessi potuto essere attratta da quel tipo vanesio e snob, da quel Aghetto di merda... «Mi dispiace, tesoro», rispose lui, fingendosi addolorato. «Ma a volte è compreso nel prezzo.» «Artur, dev'esserci un'altra soluzione», cercò di negoziare Oriol. «Prendi quello che vuoi, e rinchiudici da qualche parte fino a quando non avrai portato via tutto. Nessuno sapeva dell'esistenza di questa cripta, gli oggetti conservati là sotto non sono mai stati catalogati: nessuno potrebbe accusarti. Ti promettiamo, ti giuriamo su quello che vuoi che non diremo mai nulla. Prenditi tutto.» Lo sguardo dell'antiquario si perse nell'oscurità, dirigendosi al soffitto. Sembrava riflettere. «No. Mi dispiace», disse, dopo alcuni istanti che sembrarono eterni. «Mi rincresce davvero, non per te, ma per lei. Ma, una volta passata la paura, mi denuncereste. Non potrei mai godermi in pace queste opere d'arte. Non si tratta solo di denaro. I pezzi migliori li terrò per me, per contemplarli, per toccarli e accarezzarli, soltanto per il piacere di possederli.» Parlava a bassa voce; nonostante la situazione, sentivamo tutti uno strano rispetto nei confronti del tempio. La morte. Artur stava per ucciderci. Lo avrei supplicato, se non fossi stata convinta che non sarebbe servito a nulla, ma ero grata a Oriol di averci provato, e volli pensare che l'aveva fatto più per me, che per se stesso. Forse avrei detto qualche parola se fossi riuscita a pensare a qualcosa di sensato. Ma la paura iniziava ad attanagliarmi e, in preda al panico, fissavo il
buco nero della catacomba da cui eravamo appena usciti. «Mi dispiace non poter conversare oltre con voi. Fatemi il favore di scendere. Se non farete scenate, nessuno soffrirà inutilmente.» Soltanto da morta mi sarei fatta rinchiudere là sotto, pensai. La mia mano cercò quella di Oriol, che l'afferrò con forza. Mi era sempre sembrata grande e calda, ma adesso era fredda, gelida quasi quanto la mia. Dovevamo fare qualcosa, non potevamo morire senza tentare nulla. Io in quel momento mi sentivo totalmente incapace, ma strinsi energicamente la sua mano, e mi avvicinai a lui fino a quando i nostri omeri si scontrarono. Ero certa che Oriol avrebbe reagito, in un modo o nell'altro, e io, nonostante fossi paralizzata, lo avrei seguito fino all'ultimo istante di vita. «Noi non torneremo là sotto.» Parlò con voce ferma, anche se riuscivo a percepire la sua tensione. «Cerca di capire, Bonaplata», fece Artur, come se si stesse lamentando dell'atteggiamento poco civile di Oriol. «Voglio solo evitare di sporcare la chiesa.» Non c'è via di scampo, mi dissi, mente cercavo di valutare la situazione. Ero spaventata, e molto. Non vedevo alcuna possibilità, per noi due. Le torce formavano un quadrilatero di luce dai lati mobili, che si spostavano a seconda dell'oggetto su cui i gorilla dirigevano il raggio. E le nostre facce erano illuminate dalla torcia di Artur. L'antiquario, evidentemente, voleva farci scendere nella cripta insieme ai suoi scagnozzi, per non dover essere presente all'esecuzione. Chissà, forse aveva ancora un briciolo di coscienza... Ma proprio quando credevo che Artur stesse per dare l'ordine di assassinarci lì, si udì un grido dalla navata della chiesa. Era uno dei gorilla. I raggi delle torce si diressero verso quel punto, e illuminarono una scena terribile. Senza mollare la torcia e la pistola, l'uomo cercava di opporsi a una persona che lo afferrava alla mandibola, da dietro; un istante dopo, il luccichio di una lama d'acciaio, e il sangue che incominciò a sgorgare a fiotti dal suo collo. Poi uno sparo, che in quello spazio chiuso risuonò come una bomba; quel tizio sparava senza centrare il bersaglio, nel vuoto, alla sua morte, che gli volteggiava sopra la testa. Riconobbi l'aggressore; i capelli corti e bianchi, la follia che brillava nei suoi occhi. Era Arnau d'Estopinyá. Aveva appena tagliato la giugulare al sicario, che cadde a terra, dissanguandosi. Dio mio! Ero davvero capace di sgozzare un uomo, proprio come nel mio sogno della spiaggia. Ma non c'era tempo per le riflessioni, gli altri due presero a sparare al vecchio, e notai che Oriol aveva lasciato la
mia mano per lanciarsi su uno di loro, nel tentativo di strappagli l'arma. Artur stava cercando qualcosa nella giacca: un'altra pistola, forse. La mia posizione era favorevole e, quasi senza pensarci, come fossi una molla, gli assestai un calcio che lo colpì proprio nel punto in cui l'abbottonatura dei pantaloni si unisce alla parte posteriore. Zac! Come a Tabarca. Cacciò un urlo, afferrandosi le parti lese, anche questa volta troppo tardi. Dovevo sentire una specie di attrazione freudiana nei confronti di quel particolare anatomico dell'antiquario. Arnau cercò di prendere la pistola della sua vittima, ma cadde nell'oscurità, abbattuto dalle pallottole, a un paio di metri dalla torcia che adesso illuminava il pavimento. Oriol cercava di opporsi al gorilla, tenendo con due mani la pistola di quest'ultimo, che a quanto pare la stringeva con tutte le sue forze. La sua torcia era caduta sul pavimento. «Scappa, Cristina!» mi urlò. «Vai, adesso!» E, tra la luce e la penombra, riuscii a vedere che il suo avversario lo colpiva al viso con una testata. Dubitai un istante. Non potevo lasciarlo solo! Ricordai il giuramento templare che ci univa. Ma mi resi conto che, se fossi riuscita ad andarmene, non avrebbero osato farlo fuori. Così, quasi al buio, dal momento che solo uno dei gorilla teneva ancora la sua torcia, mi misi a correre verso la porta che dà sul chiostro, con la speranza di trovare aperte anche le due cancellate che mi separavano da calle Rivadeneyra. Eravamo entrati da lì; a metà navata, però, mi venne in mente che le avevamo richiuse entrambe, lasciando aperta soltanto la porta da cui si accedeva al chiostro. E le chiavi le aveva Oriol. Da dove erano entrati gli altri? Dalla sagrestia, come avevo fatto io la prima volta? Ma ormai era tardi per tornare indietro. «Non fatela uscire», disse Artur con un filo di voce, riuscendo però a farsi sentire. Il gorilla diresse il raggio della sua torcia verso di me, e nel sacro recinto risuonò un altro sparo. La morte veniva a prendermi. «Ferma, o sparo!» gridò, subito dopo aver fatto fuoco. Mi vennero i brividi, e per un istante sentii le gambe deboli, ma continuai a correre verso quella trappola per topi in cui si era trasformato il chiostro chiuso. Mi ricordai che qualcuno, che si atteggiava a esperto, aveva detto che è molto difficile, anche per un tiratore provetto, colpire una persona in movimento, anche se a pochi metri di distanza soprattutto se il bersaglio cambia traiettoria. E che, malgrado quello che vogliono farci credere i film, fare centro, in quei casi, è più una questione di fortuna che di abilità. Mi dissi che l'oscurità della chiesa avrebbe giocato a mio favore, e mi ripetei che, finché fossi riuscita a fuggire, io e Oriol saremmo rimasti
in vita. Ma quella speranza durò solo qualche secondo. Nonostante il buio che avvolgeva quell'estremità del tempio, ero riuscita a guadagnare la porta, con un buon vantaggio sul mio inseguitore, ma, attraversando il piccolo vestibolo di legno e uscendo nel chiostro, mi trovai faccia a faccia con un uomo, che mi bloccò immediatamente. Artur aveva un altro scagnozzo nascosto nelle tenebre! Allora, superata anche la paura, provai un grande dolore. Che finale triste! Tentai disperatamente di sottrarmi al mio aggressore, che mi tappava la bocca con una mano, e in quel momento vidi che c'era altra gente nella penombra del chiostro. L'uomo che mi teneva ferma mi disse di calmarmi, perché ero al sicuro: era della polizia. Cercai il muro per appoggiarmi, e mi resi conto che si trovava accanto a una delle finestre che mettono in comunicazione il chiostro con la sala capitolare, quella dei riti templari. Alla fine, dovetti sedermi sul pavimento. Quello che accadde avvenne molto rapidamente. Il killer che mi inseguiva finì nelle braccia dello stesso agente, a cui però si unirono un mucchio di poliziotti, che gli puntarono due pistole alle tempie. Dalle tenebre emerse anche Alicia, insieme al parroco. Era stata lei a chiamare la polizia, che adesso cercava di entrare anche dalla Porta de l'Ángel, attraverso i cortili posteriori e dall'accesso di calle Santa Anna, che dà sulla piazza di Ramòn Amadeu, dove si trovano l'entrata principale e quella del chiostro. L'impressione era che a comandare fosse la stessa Alicia. Mi ha sempre sorpreso l'autorità di questa donna. Il capitano che dirigeva le operazioni le chiese un paio di volte di tacere, ma tutti, incluso lui, finivano col seguire le sue istruzioni. Trovava sempre la cosa giusta da fare, in qualsiasi momento. Oriol era un po' ammaccato e perdeva sangue dal naso, ma stava bene. Ci stringemmo in un abbraccio. Il sicario rimasto in chiesa, rendendosi conto della situazione, gettò la sua arma lontano, e addosso ad Artur non ne trovarono nessuna. È un peccato che abbia ottenuto la libertà condizionata, dopo aver passato appena una notte in commissariato. E sta ancora aspettando il processo. I cadaveri restarono dov'erano, nel corridoio centrale del tempio, poco più avanti della crociera. Non potevano essere rimossi, fino all'arrivo del giudice. Lì a terra c'era il corpo di Arnau d'Estopinyá, steso a faccia in giù, vicino
alla sua daga insanguinata, alla pistola sottratta alla sua vittima e a un telefono cellulare. Non si addiceva al vecchio templare. In seguito, però, venni a sapere che era stata Alicia a darglielo, perché la avvisasse nel caso ci fossimo trovati nei guai. Mi spiegò che, per lui, quella chiesa era come una casa; più di una notte l'aveva passata lì, in penitenza, a pregare in ginocchio, fino a quando non si era addormentato sul pavimento, o su un banco. Non morì subito. Ebbe il tempo di disegnare a terra, con il suo stesso sangue, una croce patriarcale: quella a quattro bracci, la stessa che si poteva vedere in ogni punto della chiesa. La morte lo colse mentre la baciava. Non posso farne a meno: ho sempre identificato quell'uomo con il vero Arnau; per me erano la stessa persona. E per me, quella che aveva letto Luis in quei manoscritti, apparentemente vergati da Enric - che aveva inventato, sentito o udito quel racconto - continua a essere la vera storia di Arnau, il posseduto, il vecchio, il nuovo. Entrambi. La stessa persona. Molte volte mi ero spaventata davanti al suo sguardo da folle, e al suo aspetto di facinoroso, di fanatico: ma quando lo vidi lì disteso, in una pozza di sangue, mi si riempirono gli occhi di lacrime, e sentii un nodo allo stomaco per l'emozione. Era un disadattato, un uomo venuto al mondo nel secolo sbagliato, un emarginato, un solitario, un individuo fisicamente violento, ma sempre fedele alla sua pazzia, al suo credo, ai suoi ideali. Era pronto a morire per la sua fede. Forse salvarci non era la sua priorità, ma lo fece, e non ci pensò due volte a offrire l'unica cosa che possedeva, in qualità di Povero Cavaliere di Cristo: la vita. Aveva dato la sua vita per impedire che l'ultimo tesoro del Tempio cadesse in mano agli empi. Questa sua esistenza, come quella di settecento anni prima, non era stata né dolce, né bella, né, a mio parere, edificante. Erano state due vite dure, marcate dalla violenza, e dalla disgrazia. Ma i suoi ultimi momenti erano stati decisamente belli, per un templare. Morì uccidendo per la fede, combattendo gli infedeli, salvando la vita ai suoi compagni d'armi e difendendo le reliquie dei martiri. Cos'altro poteva chiedere un Povero Cavaliere di Cristo? Alicia organizzò un funerale degno di un eroe. La camera ardente venne allestita nella sala capitolare, e cadavere e feretro vennero vegliati costantemente da quattro cavalieri che indossavano i loro mantelli bianchi, con la rossa croce patriarcale sulla spalla destra. La stessa che Arnau aveva baciato al momento della morte. A titolo postumo, fu nominato cavaliere, e Alicia impose la spada al corpo lì giacente. Io fui nominata dama del Tempio,
l'anello me ne dava diritto, anche se, dal canto mio, mi consideravo parte dell'ordine sin da quando mi ero tuffata in mare, giurando di non abbandonare Oriol. Ma la verità è che tutte quelle cerimonie, che i presenti prendevano tanto sul serio, continuavano a sembrarmi delle ridicolaggini. L'unica cosa autentica, lì, era il cadavere, lo stesso Arnau: l'ultimo dei veri templari. E, ironia della sorte, lui che aveva dedicato la sua vita a quell'utopia, da vivo aveva potuto indossare soltanto il mantello scuro dei sergenti, mentre i membri nobili o ricchi soltanto per motivi di nascita, sfoggiavano quello bianco da cavaliere. Era una pagliacciata. Ciononostante, assistei emozionata alla cerimonia funebre, accanto a Oriol. E fu lì che la mia mente fu attraversata da un pensiero. Proprio in quel momento, la nostra nave arrivava alla fine del suo viaggio. A Itaca. La nostra avventura si era conclusa. 56 Sarò rapida, nel raccontare questa parte. Perché è triste. Triste come la distanza che separa la realtà dai sogni. Ormai erano passati i giorni di questa nostra seconda infanzia, i giorni dell'avventura, regalo postumo di Enric. Molte volte gli amici, i compagni, gli amanti eccezionali che incontriamo in circostanze irripetibili non sono più adeguati, quando si tratta di porre le basi del resto della nostra vita. Io lo amo ancora, e lui ama me. Abbiamo fatto uno sforzo, ma il nostro amore, evidentemente, non era tanto forte da gettare un ponte abbastanza lungo sull'abisso delle nostre differenze. Immagino che quell'avventura ci avesse avvicinati; io non ero più la fighetta incapace di andare scalza per la vita, qualora ne avessi avuto bisogno. Riuscivo ad accettare il fatto che le «Susi», le persone malate di AIDS, avessero il diritto di vivere e di amare; ammettevo che potevano esistere persone capaci di rinunciare a tutto per amore, ma io non ero fra queste. Anche lui cambiò. Non era più il tipo radicale, anarchico e contraddittorio di un tempo. Aveva trovato il tesoro di suo padre, cancellando così un vecchio debito rimasto insoluto. Ancora non so chi dei due, padre e figlio, fosse creditore, e chi debitore. Ma sono certa che, chiudendo quel capitolo, Oriol firmò una pace, non so se con gli altri, con se stesso, o con un ricordo. Disgraziatamente, i cambiamenti non bastarono: io e lui eravamo ancora
molto lontani. La vita ci aveva fatto prendere strade diverse e, per quanto ci si sforzi, non si torna mai indietro; il tempo si muove solo in una direzione. La Costa Brava, la burrasca e il bacio restavano sotto la sabbia del passato. Che peccato. Vi chiederete che cosa accadde al tesoro. Be', ancora non ne conosco la destinazione finale, e di certo la questione non ha un grande interesse per me, almeno dal punto di vista personale. Non voglio tenere nessuno di quegli scrigni, nonostante il loro valore artistico e storico. E di certo non voglio custodirne il contenuto. L'idea di conservarne uno nel mio appartamento di New York mi dà i brividi. Mi è bastato l'anello, tanto macabro quanto bello, con i resti umani incastonati al suo interno. E sembra che nemmeno Oriol, nonostante la sua passione per il Medio Evo, ambisca a possedere uno di quei reperti. Desidera solo poterli studiare. Lui è convinto che il tesoro sia stata l'avventura che abbiamo vissuto; è l'unica, vera eredità di Enric. Niente e nessuno al mondo potrà portarcela via. E io la penso come lui. Come dice Kavafis: Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos'altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio con tutta la tua esperienza addosso, già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare. Ma non tutti la vedono in questo modo. L'intervento della polizia rese pubblica la nostra scoperta, e questo scatenò l'inferno. La diocesi di Barcellona ritiene che il tesoro ritrovato, all'interno di una chiesa, le appartenga. Ma, all'epoca dei fatti, il tempio faceva parte del monastero di Santa Anna, dell'ordine del Santo Sepolcro, che ha ancora sede lì, in Catalogna, e conserva i propri diritti... Ma le reliquie e gli scrigni che le contenevano erano di proprietà dei templari, sciolti dal papa che, d'accordo con il re di Aragona, decise di cedere i possedimenti di questi ultimi - i pochi rimasti dopo la spoliazione reale - all'ordine di San Giovanni dell'Ospedale, che è tuttora attivo con il nome di ordine di Malta,
legittimo erede del tesoro. D'altra parte, si tratta di un tesoro artistico e storico, e Io Stato spagnolo può fare valere la sua autorità. Ma, dal momento che appartiene al patrimonio culturale catalano, e che questo è stato uno dei trasferimenti da parte dello Stato centrale, la Generalitat ha molte cose da dire, al riguardo... E non parliamo, poi, dei successori autentici e genuini dei Poveri Cavalieri di Cristo... Esistono centinaia di gruppi che si autoproclamano veri successori del Tempio. Incluso quello di Alicia. È evidente che il tesoro spetta soltanto a una delle province templari; quella che raggruppava i regni di Aragona, Maiorca e Valencia. E questo limita il numero dei possibili eredi. Nel regno di Valencia, a succedere al Tempio, per un capriccio di Giacomo II, fu l'ordine di Montesa, voluto dallo stesso sovrano. Ma, all'epoca, il regno di Maiorca era indipendente dagli altri due regni, e comprendeva anche territori catalani e provenzali, oggi appartenenti alla Francia. Pertanto, anche gruppi neotemplari francesi potrebbero considerarsi beneficiari... Alicia è molto sveglia, e non ha voluto presentare reclami vantando eredità morali templari... Si sarebbe cacciata in un ginepraio. Ha avanzato la sua richiesta in nome degli scopritori del tesoro; Oriol e me stessa. Quella donna, a parer mio, ha un interesse inquietante nei confronti di quelle reliquie, un interesse che supera addirittura quello per i magnifici contenitori materiali. Non voglio sapere perché. Non m'interessa. .. Come avvocato, sono davvero curiosa di sapere come andrà a finire questo imbroglio. Anche se sono convinta di una cosa: Alicia otterrà buona parte di quello che desidera. Come ha sempre fatto. Ed eccomi qui, mentre, come una stupida, guardo la mia mano priva di anelli, a bordo dell'aereo che mi sta riportando a New York. Da sola. Chi ha detto che la vita è facile? L'anello di fidanzamento, con il suo impressionante solitario, l'avevo rispedito a Mike quando la storia con Oriol si era fatta incandescente. L'altro, il bellissimo anello con il rubino maschio, quello che possiede una forza marziale, e che al suo interno mostra una stella a sei punte, che ha una croce templare e un frammento di osso umano, e che risplende di una luce rosso sangue, e che contiene delle anime in pena... Ebbene, quello l'ho dato ad Alicia. Nella sua lettera, Enric diceva che era destinato alla persona secondo me più meritevole. Inclusa me. «Deve appartenere a una persona forte di spiri-
to», diceva il suo biglietto. «Perché il gioiello possiede una vita e una volontà proprie.» In quel momento, non avevo dato molta importanza a quell'avvertimento, ma a poco a poco avevo imparato a conoscere tutto ciò che quell'anello implica per il suo possessore. Mi fa paura. E la persona che più di tutte lo merita è Alicia. Più di chiunque altro. Merita di essere il gran maestro dei nuovi templari. Lo era già senza anello, e adesso può mostrare il simbolo storico della sua posizione. Inoltre, lei sa meglio di chiunque altro a che cosa va incontro. E sono sicura che, se esiste davvero una persona in grado di possedere quella pietra, quella è Alicia. Mi sorrise, quando glielo diedi. Non mi disse grazie, né altre sciocche frasi gentili come, «No, ti prego, Enric lo diede a te. Tienilo, è tuo». Semplicemente, se lo mise al dito. Come se fosse sempre stato suo. Però mi diede due baci, e mi abbracciò. Sono certa che ha sognato molte volte di essere un antico templare, in groppa al suo destriero da combattimento, con l'elmo d'acciaio, la cotta di maglia, mentre si dirige verso il campo di battaglia, con il pube ben incollato tra il cavallo dell'armatura e la sella. E dietro viene il suo scudiero, a cavallo, con le sue armi, e con una terza cavalcatura da guerra, di riserva. Quello scudiero poteva essere uno qualsiasi di noi, una persona qualunque. Non troppo nobile, non troppo autoritaria. Una persona diversa da lei. «Grazie», mi disse, dopo averlo contemplato al suo dito. Così, l'anello dell'avventura abbandonò la mia mano, e segnò la fine del periodo più bello che abbia mai vissuto in tutta la mia vita. Era tutto finito. E adesso tornavo a New York, a riprendere, causa dopo causa, la mia ascesa come brillante avvocato. I miei genitori mi avevano detto che sarebbero venuti a prendermi in aeroporto e... sorpresa! Insieme a loro trovai anche Mike, felice che avessi superato quel brutto periodo, con il suo anello, il favoloso solitario dalla lucentezza pura e onesta, promessa di una vita lussuosa senza fine, insieme al rampollo di una delle famiglie più ricche di Wall Street. Le cose stanno così. Non sempre il finale è da film. Sfortunatamente, la realtà è quello che è. Avevamo trovato il tesoro, e Arnau era stato sepolto nella stessa chiesa di Santa Anna. Dopo quei giorni di pazza felicità, arrivò il momento di ragionare, e di pianificare il futuro. Vieni con me, gli dissi. Resta, fece lui. Insistei: a New York ho una carriera brillante. E io ho un impiego a Barcellona, fu la sua risposta. Non mi
arresi: quello che hai qui lo puoi avere ovunque; di sicuro, in America troverai qualcosa di meglio. Un ricercatore medievale a New York? Rise, controvoglia. Tu sì, mi disse, che puoi essere un avvocato di successo anche qui a Barcellona. Gli spiegai che nello studio in cui lavoravo c'erano i migliori avvocati del mondo, e che in nessun altro posto avrei potuto apprendere tanto, arrivando molto in alto. Vieni tu, lo pregai. Abbi il coraggio di essere l'uomo della tua donna; non essere maschilista, lo supplicai. Non mi sarei mai aspettata un simile atteggiamento da te, aggiunsi. Lui mi rispose con le lacrime agli occhi. Non si tratta di questo, Cristina. Tu hai un paio d'ali, io delle radici. Io appartengo a questa città. Questa è la mia cultura. Vivo per essa. Non posso andarmene. Rimani qui, a Barcellona, e insieme a me cerca di arrivare più in alto che puoi. Venne a salutami all'aeroporto, e facemmo un ultimo tentativo di convincerci a vicenda. Ma tutto finì con un: «Addio, Oriol. Ci vediamo presto», mentii, e ancora adesso non so perché. «Ti auguro di trovare la felicità.» «Addio, amore mio. Vola con le tue ali, fino a realizzare le tue ambizioni. Arriva in alto, dove mai nessuno è arrivato.» Triste, non è vero? Ho passato il viaggio di ritorno a piangere. Ho fatto fuori tutti i miei fazzoletti di carta, più quelli della toilette. E adesso sto percorrendo il corridoio del JFK, l'aeroporto internazionale di New York. E qui, dopo il controllo immigrazione e la dogana, mi aspettano i miei genitori, insieme a Mike, felici di veder tornare la pecorella smarrita. Dietro di me, resta quello che avrebbe potuto essere, e che non sarà mai. Un grande amore. Non una storiella, ma un Amore con la A maiuscola. Oriol fu il primo e, se la mia famiglia non avesse lasciato Barcellona, quasi sicuramente sarebbe stato l'ultimo. Ma bisogna essere ragionevoli. Bisogna essere pratici. Ragionevoli? Pratici? E perché mai?! Perché non potevo permettermi di concedere una seconda opportunità a quella vita parallela? Il cuore mi chiedeva di tornare, la ragione mi impediva di abbandonare la mia carriera a New York. Forse, pensai, sarei riuscita ad avere successo nella mia professione anche a Barcellona. Perché non provarci? Sarei rimasta per tutta la vita con quel dubbio? Con quel dolore?
Carpe diem. Dunque non avevo imparato niente? Avevo perso i negoziati con Oriol ma, a volte, accettare per tempo una sconfitta conduce alla vittoria. Dovevo tentare. E fu così che me ne andai. Lasciai i miei bagagli. Lasciai tutto lì. Tutto. Andai al banco e acquistai un biglietto per il primo volo per Barcellona. «Il signorino Oriol non è in casa», rispose la cameriera. «Sa dirmi quando rientra?» chiesi, nervosa. «Non saprei, ma di certo non oggi, né domani. È partito per un viaggio, e non ha lasciato detto quando sarà di ritorno.» Sentii il mondo crollarmi sotto i piedi: avrei voluto che quel maledetto aeroporto sprofondasse, con me dentro. Che delusione! Barcellona, che prima era stata così piena di tutto, adesso era un deserto, un vuoto assoluto. Mancava l'unica cosa di lei che volevo in quel momento. Mi sentivo sola, abbandonata, senza un futuro. Ci aveva messo davvero poco a consolarsi, dopo la mia partenza! Un viaggio. Con un'amichetta? Magari con l'odalisca della spiaggia? E io che ero venuta qui per sorprenderlo, per offrirgli la mia vita, per dargli ogni cosa, la mia carriera, il mio amore... tutto. Che stupida! Avevo un nodo in gola, ero rimasta senza parole, al telefono. «Credo che abbia detto che andava a New York», aggiunse la donna, davanti al mio silenzio. Con un filo di voce la ringraziai, e riappesi. A New York! Dio mio... a New York, mi ripetevo, mentre cercavo una panchina per sedermi. Ancora una volta sentivo le gambe molli. Anche lui era pronto a sacrificare ogni cosa per me! Osservai un istante le mie mani, ora prive di anelli: il simbolo di una libertà che per me, adesso, valeva molto meno dell'amore. Con un sospiro profondo, chiusi gli occhi e, buttando la testa all'indietro, contro lo schienale, notai che le mie labbra si allargavano in un sorriso felice. Vidi l'immagine della nostra nave che lasciava il porto di Itaca, le vele bianche gonfiate dal vento: avremmo affrontato insieme l'avventura della nostra vita, e sopportato le prove e le fatiche riservateci dagli dei. Le poesie di Kavafis e la musica di Llach risuonavano nelle mie orecchie. Vidi il mare blu della Costa Brava, a mezzogiorno, e quello di Tabarca; i banchi di salpe, con le loro squame color oro e argento che brillavano alla luce del sole, tra la posidonia verde e la sabbia bianca, sentii il sapore del sale in
bocca, e ricordai il primo bacio, e la burrasca. Ricordai lui, il mio primo amore. L'ultimo. Ma una voce inopportuna, dentro di me, aggiunse: «Forse...» FINE