James Patterson
La memoria del killer Romanzo Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani
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James Patterson
La memoria del killer Romanzo Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani
www.lnfiniteStorie.it
il grande portale del romanzo TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol www.tealibri.it Copyright © 2006 by James Patterson Ali rights reserved First published by Little, Brown and Company, New York, NY. Published by arrangement with Linda Michaels Limited, International Literary Agency © 2006 Longanesi & C., Milano Edizione su licenza della Longanesi & C. Titolo originale Cross Prima edizione TEADUE aprile 2011
Dedicato alla Palm Beach Day School; a Shirley e al preside Jack Thompson
PROLOGO Scusi, come ha detto che si chiama? THOMPSON:
Sono il dottor Jack Thompson, del Berkshires Medical Center. Quanti spari ha sentito? CROSS:
Parecchi.
THOMPSON:
Scusi, come ha detto che si chiama?
CROSS: Alex THOMPSON: CROSS: HO
Fa fatica a respirare? Ha male?
male all'addome. Sento bagnato. E ho l'affanno.
THOMPSON: CROSS.
Cross.
Si rende conto che le hanno sparato?
Si. Due volte. E morto? Il Macellaio, Michael Sullivan, è morto?
THOMPSON:
Non lo so. Sono morte diverse persone. Okay: mi passate una maschera per l'ossigeno, per favore? E due flebo di soluzione fisiologica. Presto! Adesso cercheremo di spostarla, la porteremo in ospedale. Va bene, signor Cross? Tenga duro, mi raccomando. Mi sente? Mi sente, signor Cross? CROSS: I miei figli... Ditegli che gli voglio bene...
PAR T E P R I M A Nessuno ti amerà mai come ti amo io — 1993 « Alex, sono incinta. » Mi ricordo tutto, di quella sera. Ancora adesso, a distanza di anni, dopo tanto tempo, dopo tutto quello che è successo, dopo tanti omicidi, alcuni risolti e altri no. Ero in piedi nella stanza buia e abbracciai mia moglie Maria, le posai la testa su una spalla. Avevo trentun anni, all'epoca, e non ero mai stato tanto felice. Mi sembrava che avessimo tutto quello che si poteva desiderare, io, Maria, Damon e Jannie. Era l'autunno del 1993 ma, a ripensarci adesso, mi sembra che siano passati un
milione di anni. Erano le due del mattino e la nostra piccola Jannie soffriva di coliche. Povera bambina, non riusciva a dormire quasi mai, la notte. Maria la teneva in braccio e la cullava, cantandole una ninnananna, e io abbracciavo dolcemente lei. Mi ero alzato per primo ma, per quanto provassi, non riuscivo mai a far riaddormentare Jannie. E così Maria, dopo un'ora o due, era venuta a prenderla in braccio. Al mattino, ci saremmo dovuti alzare presto tutti e due per andare a lavorare, lo stavo indagando su un omicidio. « Sei incinta? » le chiesi, con la testa sulla sua spalla. « Brutto momento, vero, Alex? Stai pensando a un futuro pieno di neonati che piangono in preda alle coliche, pannolini, notti insonni? » « Questa è la parte che mi piace di meno. Andare a letto tardi, svegliarsi presto... dormire poco, insomma. Ma mi piace la nostra vita, Maria. E sono felice di avere un altro figlio. » La abbracciai, accesi il carillon appeso sopra la culla di Jannie e danzammo insieme al ritmo di Someone to watch over me. Maria mi fece uno dei suoi sorrisi a metà fra il timido e il malizioso che mi avevano conquistato sin dalla prima volta che l'avevo vista. Ci eravamo conosciuti al Pronto Soccorso dell' ospedale St. Anthony, durante un'emergenza. Maria faceva l'assistente sociale e aveva portato in ospedale un membro di una gang con alcune ferite d'arma da fuoco. Amava il suo lavoro e quella sera la trovai molto protettiva: forse perché io ero un ispettore della Omicidi e lei non si fidava granché della polizia. In questo, peraltro, non potevo che darle ragione. La strinsi a me. « Sono felice, lo sai. Mi fa piacere che tu sia incinta. Dovremmo festeggiare, anzi. Vado a prendere lo champagne. » « Ti piace fare il papà, eh? » « Si. Non saprei spiegarti esattamente perché, ma sì, mi piace molto. » « Ti piace cullare bambini urlanti nel cuore della notte? » « Prima o poi smetteranno. Non è vero, Janelle? Signorina, sto parlando con te! » Maria si voltò, sempre cullando la piccola che gridava come un'ossessa, e mi diede un bacio sulla bocca. Aveva labbra morbide, invitanti e sexy. Adoravo i suoi baci. Dappertutto. Alla fine, si staccò da me. « Torna a letto, Alex. Non ha senso che stiamo alzati tutti e due. Anzi, già che ci sei, potresti dormire un po' anche per me. » In quel momento, notai una cosa nella camera da letto e scoppiai a ridere. « Cosa c'è di tanto divertente? » mi chiese, sorridendo. Glielo indicai, e scoppiò a
ridere anche lei. Tre mele, ciascuna con un piccolo morso, vicino alle zampe di tre dinosauri colorati. Doveva essere stato Damon, che era entrato in camera di sua sorella a giocare. Mentre mi avviavo verso la porta, Maria mi fece un altro dei suoi sorrisi e, stavolta, mi strizzò l'occhio. Poi sussurrò - non me lo scorderò mai - « Ti amo, Alex. Nessuno ti amerà mai come ti amo io ». Una sessantina di chilometri a nord di Washington, a Baltimora, due killer con i capelli lunghi e l'aria baldanzosa, fra i venticinque e i trent'anni, ignorarono il cartello che diceva INGRESSO RISERVATO AI SOCI ed entrarono nel St. Francis Social Club di South High Street, non lontano dal porto. Erano armati fino ai denti e sorridevano come una coppia di comici. Nel club quella sera c'erano ventisette mafiosi, fra boss e picciotti, che giocavano a carte, bevevano grappa e caffè e guardavano una partita di basket alla TV: i Bullets stavano perdendo con i Knicks. Di colpo nella sala scese un silenzio carico di tensione. Nessuno entrava al St. Francis senza essere stato invitato. E meno che mai se armato fino ai denti. Uno dei due nuovi arrivati, che si chiamava Michael Sullivan, si fermò sulla porta e fece il saluto militare ai presenti, come se niente fosse. Dentro di sé trovava la situazione molto divertente: tutti quei malavitosi con l'aria da duri si stavano chiedendo chi fosse. Il suo compare, Jimmy Calati detto « Fedora », si guardò intorno. Indossava un cappello di feltro nero come quello di Squiggy in Laverne &Shirley. Il club non aveva niente di speciale: seggiole dallo schienale diritto, tavoli da gioco, un bar rabberciato, troppi italoamericani per i suoi gusti. « È questa l'accoglienza che ci riservate? Non avete nemmeno fatto venire un'orchestrina? » chiese Sullivan, che amava il conflitto, sia fisico che verbale. Era sempre stato così: lui e Fedora contro il resto del mondo, da quando avevano quindici anni ed erano scappati da casa, a Brooklyn. « Chi siete? » chiese un picciotto, alzandosi in piedi. Era grande e grosso, molto muscoloso, con i capelli corvini. « Lui è il Macellaio di Sligo: ne hai mai sentito parlare? » rispose Jimmy Fedora indicando Sullivan. « Siamo di New York. Ne hai mai sentito parlare? » Il picciotto tutto azzimato non reagì, ma un uomo più anziano, in completo nero e camicia bianca abbottonata fino al colletto, alzò la mano con gesto papale e parlò lentamente e con un forte accento straniero. « A cosa dobbiamo questo onore? » chiese. « Naturalmente abbiamo sentito parlare del Macellaio. Come mai è qui a Baltimora? Che cosa possiamo fare per voi? » « Siamo solo di passaggio » rispose Michael Sullivan. « Dobbiamo fare un
lavoretto per Mister Maggione a Washington. Avete mai sentito parlare di Mister Maggione? » Molti annuirono. Il tenore di quella conversazione lasciava intendere che i due uomini facessero sul serio. Dominic Maggione era un boss mafioso di New York, che controllava la maggior parte della East Coast, fino ad Atlanta come minimo. Tutti in quella sala sapevano chi era Dominic Maggione e sapevano anche che il Macellaio era il suo killer più spietato. Si diceva usasse coltellacci, bisturi e mannaie per uccidere. Un giornalista di Newsday aveva scritto, a proposito di un delitto da lui commesso, che « non poteva essere opera di un essere umano ». Il Macellaio era molto temuto sia dai mafiosi che dalla polizia. A sorprendere i presenti era il fatto che fosse così giovane e avesse il look dell'attore hollywoodiano, con lunghi capelli biondi e splendidi occhi azzurri. « Non mostrate rispetto? Ne sento parlare continuamente, ma qui non ne vedo » disse Jimmy Fedora, che come il Macellaio era noto per aver amputato mani e piedi alle sue vittime. Il picciotto che si era alzato in piedi si fece avanti, e il Macellaio lo colpì con un gesto fulmineo, recidendogli la punta del naso e il lobo di un orecchio. Il picciotto si portò le mani al volto e arretrò tanto in fretta che perse l'equilibrio e cadde sul parquet. Il Macellaio, rapidissimo, usò il coltello con la maestria per cui era noto. Sembrava un siciliano dei vecchi tempi. Ed effettivamente era da uno di essi che aveva imparato a usare i coltelli, a Brooklyn. Gli riusciva facile amputare le sue vittime, farle a pezzi. La considerava la sua specialità, un simbolo della sua spietatezza. Jimmy Fedora nel frattempo aveva estratto la pistola, una semiautomatica calibro 45. Fedora era soprannominato anche « Jimmy il protettore » ed era la spalla del Macellaio. Da sempre. Michael Sullivan avanzò nella sala, rovesciò con un calcio un paio di tavoli, spense la TV e staccò la spina della macchina per l'espresso. Tutti pensarono che stesse per fare una strage. Ma perché? Perché Dominic Maggione aveva mandato i suoi killer proprio da loro? « Vedo che vi aspettate un piccolo show » disse il Macellaio. « Ve lo leggo negli occhi. Me lo sento. Non voglio deludervi, ovviamente. » Di colpo si abbassò e pugnalò il picciotto a terra. Gli tagliò la gola, quindi gli piantò ripetutamente il coltello nella faccia e nel petto finché non smise di dibattersi. Era difficile dire quante volte lo avesse colpito, ma dovevano essere almeno dieci. Poi accadde una cosa davvero strana. Sullivan si rialzò in piedi e si inchinò davanti al morto. Come se si aspettasse degli applausi alla fine dell'esibizione. Dopo l'inchino voltò le spalle al suo pubblico e si avviò tranquillamente verso la porta. Non sembrava avere paura di niente e di nessuno. Si voltò appena e disse: «
È stato un piacere, signori. La prossima volta, mostrate più rispetto, per favore. Per Mister Maggione, se non per me e il mio amico Jimmy Fedora». Jimmy Fedora sorrise, toccandosi il cappello. « È proprio bravo, vero? » disse. « Sapete una cosa? Con la sega elettrica è ancora più bravo. » Il Macellaio e Jimmy Fedora si scompisciarono dalle risate ripensando alla scena al St. Francis Social Club, durante il viaggio lungo la I-95 fino a Washington, dove avevano un lavoretto delicato da svolgere. Mister Maggione aveva chiesto loro di fermarsi a Baltimora a dare una piccola dimostrazione a un paio di boss del posto che sospettava stessero cercando di fregarlo. Il Macellaio era sicuro di aver svolto alla perfezione il compito assegnatogli. Doveva costruirsi una reputazione, peraltro: voleva essere considerato non soltanto un killer straordinario, ma anche un professionista estremamente affidabile. Stavano per entrare a Washington, lungo la strada panoramica che passava vicino al Monument e ad altri luoghi ricchi d'arte e di storia. Jimmy Fedora cantava, stonatissimo e imitando l'accento irlandese, My country 'tis ofthee. Sullivan scoppiò a ridere. « Dove cazzo l'hai imparata, questa? Non sei di New York anche tu? » « Alla St. Patricks School, a Brooklyn, dove ho imparato anche a leggere, scrivere e far di conto. E dove ho conosciuto te, mio folle amico. » Venti minuti dopo parcheggiarono la Pontiac Grand Am e si unirono alla parata notturna di giovani lungo M Street, a Georgetown. Una massa di studenti imbecilli da una parte, e loro due, killer professionisti di tutto rispetto, dall'altra, pensò Sullivan. Chi se la cavava meglio nella vita? Chi guadagnava di più? « Non hai mai pensato di andare all'università?» gli chiese Fedora. « Non me ne importava niente: a diciott'anni guadagnavo già settantacinquemila dollari l'anno! Chi me lo faceva fare di vivere in bolletta per studiare? E poi a me piace il mio lavoro... » Si fermarono al Charlie Malone's, un locale molto frequentato da studenti universitari, per motivi che Sullivan e Fedora non riuscivano a capire. Nessuno dei due era andato oltre le superiori, ma Sullivan attaccò discorso con due ragazze che dovevano avere una ventina d'anni, se non di meno. Siccome leggeva molto e aveva un'ottima memoria, riusciva a fare conversazione con chiunque. Quella sera, parlarono dei soldati americani recentemente uccisi in Somalia, di alcuni film appena usciti e persino del Romanticismo inglese e delle poesie di Blake e Keats, che le studentesse sembravano ammirare molto. Michael Sullivan era un ragazzo affascinante e anche piuttosto bello, e sapeva di esserlo. Era magro ma muscoloso, abbastanza alto, con i capelli lunghi e biondi e un sorriso irresistibile.
Non lo sorprese, pertanto, che la ventunenne Marianne Riley di Burkittsville, Maryland, iniziasse a lanciargli occhiate neanche troppo velatamente interessate e a toccarlo non appena ne aveva l'occasione, come fanno le ragazze disinibite. Sullivan le si avvicinò e le disse: « Marianne, Marianne... non c'era una canzone che faceva così? La conosci? Marianne, Marianne ». La ragazza profumava di fiori selvatici. « È una canzone vecchia... Io non ero ancora nata. » Gli fece l'occhiolino. Aveva bellissimi occhi verdi, labbra carnose, rosse, e un bel nastro scozzese fra i capelli. Era anche piuttosto civetta e a Michael Sullivan questo piaceva. Gli piaceva giocare. « Capisco. E Keats, Byron, Blake, allora? Sei nata anche dopo di loro... » Le sorrise. Poi le prese la mano e gliela baciò, la aiutò a scendere dallo sgabello e le fece fare qualche passo di danza, a ritmo con il brano dei Rolling Stones trasmesso dal juke-box. « Dove mi porti? » gli domandò lei. « Anzi, dove credi di portarmi? » « Non molto lontano » rispose lui. « Cosa vuol dire non molto lontano'? » « Lo vedrai. Non farmi domande. Fidati di me. » La ragazza rise, gli diede un bacio sulla guancia e disse: « Come faccio a resistere al tuo sguardo assassino? » Marianne in realtà non aveva nessuna voglia di resistere al bel ragazzo di New York. E lì in quel bar di M Street si sentiva al sicuro. Che cosa poteva succederle di brutto? Qual era la cosa peggiore che poteva capitarle? Che qualcuno mettesse un brano dei New Kids on the Block al juke-box, probabilmente. « Non mi piacciono le luci della ribalta » le sussurrò lui, accompagnandola verso il fondo del locale. « Chi ti credi di essere? Tom Cruise? Il tuo bel sorriso funziona sempre? Riesci sempre a ottenere tutto quello che vuoi? » Anche lei sorrideva, stuzzicandolo. « Non saprei » le rispose lui. « Certe volte funziona, altre... mah. » E, nella penombra in fondo alla sala, la baciò. Fu un bacio dolce, del genere che Marianne si aspettava. Anzi, forse ancor più romantico di quel che si aspettava. Michael non cercò neppure di palparla, mentre la baciava: non che a lei sarebbe dispiaciuto... « Wow » esclamò, prendendo fiato e passandosi una mano davanti alla faccia, a mo' di ventaglio. Lo fece un po' per scherzo, un po' sul serio. « Fa caldo qui, vero? » le disse Sullivan.
La ragazza sorrise di nuovo. « Non si respira.» « Scusami, ma non vengo via con te. Ci siamo appena conosciuti. » « Capisco » ribatté lui. « Lo immaginavo. Ero abbastanza sicuro che non saresti venuta via con me. » « Certo. Sei un gentiluomo, dopo tutto. » Sullivan la baciò di nuovo, più a lungo e più in profondità di prima. A Marianne piacque che non si fosse arreso subito, ma era comunque decisa a non andare da nessuna parte con lui. Non era sua abitudine. Non l'aveva mai fatto prima. « Mi piace come baci » gli sussurrò. « Anche tu baci bene » replicò lui. « Sai che ti dico? E' stato il bacio più bello della mia vita. » Si appoggiò a una porta e dopo un istante si ritrovarono dentro la toilette, abbracciati. Immediatamente si palesò Jimmy Fedora, che gli copriva sempre le spalle e che si mise di guardia nel corridoio davanti alla porta della toilette. « No, no! » disse Marianne. Ma non riusciva a smettere di ridere. Erano finiti nella toilette degli uomini! Che buffo! Non le era mai successa una cosa del genere. « Pensi di poter fare tutto quello che vuoi, vero? » gli chiese. « Sì, Marianne. Penso proprio di sì. » Con gesto fulmineo tirò fuori un bisturi e glielo avvicinò alla gola. In un batter d'occhio, era cambiato tutto. « Non dire una parola, Marianne, o ti giuro che sarà l'ultima che pronuncerai su questa terra. Te lo giuro sulla testa di mia madre. » « Questo bisturi è sempre macchiato di sangue » disse il Macellaio con voce roca, per spaventarla. « Lo vedi? » Si toccò i jeans all'altezza del pube. « Questo non ti farà male. » Le passò la lama davanti agli occhi. « Questa invece sì. Ti posso sfigurare, sai? Guarda che non scherzo... » Si sbottonò i pantaloni e premette la lama contro la gola di Marianne Riley, ma senza farle neanche un graffio. Le alzò la gonna e le scostò gli slip azzurri. « Non voglio sfigurarti, lo sai, vero? » Marianne era senza voce. « Non lo so... » « Hai la mia parola, Marianne. »
La penetrò lentamente, per non farle male. Sapeva di non avere molto tempo, ma non voleva perdersi l'occasione. Non l'avrebbe mai più vista in vita sua. Ne era certo. Marianne fu abbastanza furba da non mettersi a gridare e da non opporre resistenza dandogli unghiate o ginocchiate. Quando Sullivan ebbe finito, le mostrò alcune foto che portava sempre con sé. Per essere sicuro che la ragazza capisse la situazione. « Le ho scattate io. Guardale bene, Marianne, Marianne. Non devi dire a nessuno che cosa è successo stasera. A nessuno. E meno che mai alla polizia. Hai capito? » Marianne annuì, senza guardarlo in faccia. « Voglio che tu me lo dica chiaro e forte, bella. Voglio che mi guardi negli occhi, mentre me lo dici. » « Va bene» disse la ragazza. « Non dirò niente a nessuno. » « Guardami. » Marianne lo guardò negli occhi. Era cambiata in maniera impressionante. Era spaventata e piena di odio. A Sullivan questo piaceva moltissimo, per ragioni legate al suo passato. Si trattava di una lunga storia, che risaliva alla sua infanzia a Brooklyn e a suo padre. Una storia che preferiva non raccontare a nessuno. « Brava. Sai, è strano, ma mi piaci molto. Voglio dire, provo un certo affetto per te. Adesso ti saluto. Good-bye, Marianne, Marianne. » Prima di uscire dal bagno, le frugò nella borsa e le prese il portafogli. « Per assicurarmi che non parlerai con nessuno. » Aprì la porta e uscì. Marianne Riley si buttò a terra, scossa da un tremito convulso. Non si sarebbe mai più dimenticata quello che le era successo quella sera. Men che meno quelle terrificanti fotografie. « Chi è già in piedi a quest'ora? Accipicchia, guarda un po'. Lei è per caso il signorino Damon Cross? E' lei la signorina Janelle Cross? » Nana Mama arrivò, puntuale come un orologio svizzero, alle sei e mezzo, come ogni giorno feriale. Quando entrò in cucina, io stavo dando la pappa a Damon, mentre Maria faceva fare il ruttino a Jannie, che aveva ripreso a piangere. « Gli stessi che sono stati svegli praticamente tutta la notte » risposi io, imboccando Damon. « E' capacissimo di mangiare da solo » mi rimproverò mia nonna, posando la propria roba sul bancone della cucina. Aveva portato biscotti ancora caldi e marmellata di pesche, fatta in casa, oltre al suo solito assortimento di libri di favole. Dissi a Damon: « Nana dice che sei in grado di mangiare da solo. Mi fai vedere? » « Damon, prendi in mano il cucchiaio » gli disse lei. Naturalmente, il piccolo ubbidì: nessuno osa contraddire Nana Mama. « Brava, Nana » dissi, e presi un biscotto. Era squisito.
« Bravissima. » Maria disse: « Alex ha la testa fra le nuvole, in questi giorni, Nana. E' troppo impegnato con le sue indagini. Gliel'avevo detto anch'io che Damon sa mangiare da solo. O, meglio, che sta imparando a mangiare da solo ». Nana annuì. « Bisogna che impari. Se vuole mangiare, deve provarci da solo. Vuoi patire la fame, Damon? No? E allora mangia da solo. Bravo bambino. » Maria cominciò a mettere a posto le carte che le servivano quel giorno. La sera prima era rimasta a lavorare fino a tardi in cucina. Da assistente sociale si occupava di molti casi disperati. Prese una sciarpa viola appesa al gancio dietro la porta e il suo cappello preferito, che si accordava bene al suo abbigliamento, generalmente nero o blu. « Ti voglio bene, Damon. » Gli diede un bacino. « Ti voglio bene, Jannie. Nonostante la notte in bianco che mi hai fatto fare.. . » La baciò su tutte e due le guance. Poi abbracciò Nana. « Voglio tanto bene anche a te. » Nana sorrise, neanche l'avessero appena baciata Gesù o la Vergine Maria. « Anch'io, tesoro. Sei una donna meravigliosa. » « Fate pure come se io non ci fossi » dissi, dal mio posto vicino alla porta della cucina. « Okay » ribatté Nana con un sorriso. Prima di andare a lavorare, anch'io dovetti baciare e abbracciare tutti quanti. Saremo stati anche un tantino sdolcinati, ma ci piaceva. Alla faccia di chi dice che quando si hanno bambini piccoli si è troppo stressati per andare d'accordo. « Baci, baci a tutti! » dicemmo io e Maria in coro, prima di uscire. Come tutte le mattine, accompagnai Maria al lavoro, in un centro di assistenza sociale di Potomac Gardens, a un quarto d'ora circa da Fourth Street. Erano gli unici momenti in cui potevamo stare insieme da soli. Avevamo una Porsche nera, l'ultimo lusso che mi ero potuto permettere. Nei tre anni di pratica privata come psicologo, avevo guadagnato bene. Poi però ero entrato nel dipartimento di polizia di Washington a tempo pieno. Maria aveva una Toyota Corolla bianca che a me non piaceva granché, ma a lei sì. Quella mattina, lungo G Street, mi parve assorta. « Stai bene? » Sorrise e mi strizzò l'occhio. « Un po' stanchina, a dire il vero. Ma male non sto, tutto considerato. Stavo
pensando a un caso che mi è stato segnalato ieri da Maria Pugatch. Una studentessa della GW University, stuprata nella toilette di un bar di M Street. » Aggrottai la fronte e scossi la testa. « Da un compagno di università? » « Dice di no. Ma non ha voluto dire altro. » La guardai perplesso. « Probabilmente lo conosce. Che sia un docente? » « Nega nel modo più assoluto. Giura che non lo conosceva. » « Le credi? » « Sì. Certo, io credo sempre a tutti. Ma mi sembra una ragazza per bene. » Non ero abituato a ficcare il naso nel lavoro di mia moglie. E neanche lei lo faceva. O perlomeno entrambi provavamo a non interferire. « Vuoi che faccia qualcosa? » le domandai. Maria scosse la testa. « Sei talmente impegnato... Dovrei parlarle di nuovo oggi. Marianne, si chiama. Spero di riuscire a farmi dire qualcosa di più. » Pochi minuti dopo accostai davanti al suo studio di Potomac Gardens, fra Thirteenth Street e Pennsylvania Avenue. Maria era andata a lavorare lì lasciando un impiego molto più comodo e sicuro a Georgetown. Penso che il motivo fosse che aveva vissuto in quel quartiere fino a quando aveva compiuto diciott'anni ed era andata a stare a Villanova. « Bacio » mi disse. « Ho bisogno di un bel bacio. Sulla bocca, non sulla guancia. » Mi chinai e la baciai appassionatamente. Non riuscivo a capacitarmi di quanto ero fortunato ad averla al mio fianco, e di quanto la amavo. II bello era che anche lei provava lo stesso per me. « Meglio che vada » disse alla fine, scendendo dalla macchina. Prima di chiudere la portiera, però, si affacciò di nuovo dentro l'abitacolo. « Non so se si vede, perciò te lo dico: sono felice, Alex. » Con quel suo sorriso ammiccante. La guardai mentre saliva la scala che portava al suo studio. Detestavo separarmi da lei. Non riuscivo a farci l'abitudine. Mi chiesi se, prima di entrare, si sarebbe voltata a guardare se c'ero ancora. A un certo punto lo fece: si voltò, mi vide, sorrise e mi salutò con la mano. Poi scomparve oltre la soglia. Facevamo così praticamente tutte le mattine, e non mi stancavo mai. I sorrisi di Maria mi scaldavano il cuore. Nessuno ti amerà mai come ti amo io. Non avevo il minimo dubbio.
Ero un ispettore abbastanza quotato, a quei tempi. Sempre in azione, sempre di corsa, sempre indaffarato. Inevitabilmente, quindi, stavano cominciando ad affidarmi casi sempre più difficili e importanti. Ma quello a cui stavo lavorando in quel momento non faceva parte della categoria, purtroppo. Il dipartimento di polizia di Washington sosteneva che la mafia italiana non aveva mai colpito in maniera eclatante nella capitale, forse per via di accordi più o meno segreti con FBI e CIA. Tuttavia, ultimamente i boss dei cinque clan più importanti si erano incontrati a New York e avevano deciso di espandere il proprio raggio d'azione anche a Washington, Baltimora e in alcune zone della Virginia. Come prevedibile, la criminalità organizzata locale non aveva gradito, specie le cosche asiatiche che controllavano il traffico di cocaina ed eroina. La settimana prima un signore della droga cinese di nome Jiang An-Lo aveva fatto ammazzare due emissari italiani. Non era stata una bella mossa. Sembrava che la mafia newyorkese adesso avesse mandato il suo killer più spietato a dargli una lezione. Avevo appreso queste informazioni nel corso di una riunione di un'ora quella mattina, al quartier generale. In quel momento stavo andando con John Sampson nel luogo da cui Jiang An-Lo operava, ovvero una villetta all'angolo fra Eighteenth e M Street, nel Northeast. La sorveglianza del temibile boss era affidata a due squadre. Posteggiammo fra Nineteenth e Twentieth Street e cominciammo il nostro turno di sorveglianza alla palazzina, di un giallo sbiadito e piuttosto malconcia, con le finestre sbarrate da assi di legno o lamiere di metallo. Il giardino era incolto e pieno di spazzatura. Eppure Jiang An-Lo era un pezzo grosso fra i narcotrafficanti. Stava cominciando a fare caldo e le strade erano piene di gente che passeggiava o si fermava a chiacchierare. « Che cosa smercia di solito? Ecstasy, eroina? » mi domandò Sampson. « Sì, e altre pasticche varie. In un'area che praticamente copre tutta la East Coast: Washington, Philadelphia, Atlanta, New York. E' un mercato che fa gola a molti, motivo per cui gli italiani gli stanno rompendo le scatole. Cosa pensi della nomina di Louis French al Bureau?» « Non lo conosco. Se gli hanno affidato quella carica, però, vuol dire che non è tagliato per fare il direttore. » Scoppiai a ridere della battuta di Sampson, che conteneva più di un briciolo di saggezza. Quindi mi diedi un contegno e ripresi ad aspettare l'arrivo di un manipolo di mafiosi pronti a far fuori Jiang An-Lo. Sempre che le informazioni che avevamo ricevuto fossero corrette. « Sappiamo niente del famigerato killer? » mi domandò Sampson. « Pare sia irlandese » risposi. Guardai John, curioso di vedere la sua reazione.
Fece una faccia perplessa e si voltò dalla mia parte. « E com'è che un irlandese lavora per la mafia italiana? » « Pare sia molto in gamba. E' anche un po' fuori di testa. Lo chiamano ' il Macellaio». Un uomo anziano e ingobbito stava attraversando la strada, guardandosi ostentatamente intorno. Fumava una sigaretta. Incrociò un vecchietto con un bastone in alluminio appeso al braccio. Si salutarono con grande solennità in mezzo a M Street. « Che tipi » fece Sampson, sorridendo. « Chissà se anche noi un giorno diventeremo così. » « Chissà. Se siamo fortunati... » Fu in quel momento che Jiang An-Lo decise di fare la sua comparsa. Jiang An-Lo era alto e molto magro, quasi emaciato, e aveva una lunga barbetta nera sul mento. Aveva fama di essere un uomo molto intelligente, competitivo e crudele, spesso anche quando non era affitto necessario, come se per lui la vita fosse un gioco, pericoloso e spesso letale. Era cresciuto per le strade di Shanghai e si era trasferito prima a Hong Kong e poi a Baghdad, per approdare infine a Washington, dove controllava diversi quartieri come un novello signore della guerra cinese. Guardai a sinistra e a destra lungo M Street, per vedere se c'erano segnali di pericolo. Le due guardie del corpo di Jiang erano all'erta e io mi chiesi se non avessero ricevuto una soffiata. Ma, se mai, da chi? Possibile che avessero un infiltrato nel dipartimento di polizia? Sì, possibilissimo. Mi chiedevo anche se il killer irlandese era davvero tanto in gamba. « Secondo te ci hanno visto? » mi domandò Sampson. « Penso proprio di sì. In fondo siamo qui più che altro per fare da deterrente. » « Dici che ci ha visto anche il killer? » « Se è da queste parti, probabilmente sì. Sempre che sia davvero bravo come dicono.» Mentre Jiang An-Lo si dirigeva verso una Mercedes nera lucidissima parcheggiata lungo la strada, in M Street svoltò una Buick LeSabre, che accelerò sgommando. Le guardie del corpo di Jiang reagirono immediatamente, tirando fuori la pistola. Sampson e io aprimmo le portiere della macchina. « Altro che deterrente » borbottò il mio compagno. Jiang ebbe un attimo di esitazione, poi si allontanò a passi lunghi e un po' goffi, come se stesse cercando di correre con la gonna lunga, per rientrare nella palazzina da cui era appena uscito. Probabilmente pensava che proseguire verso la Mercedes fosse più pericoloso.
Ma ci stavamo sbagliando tutti: Jiang, la sua scorta, Sampson e io. Perché gli spari arrivarono dalla parte opposta della strada, alle spalle del trafficante. Furono tre, e provenivano da un'arma da fuoco di grosso calibro. Jiang stramazzò a terra e vi rimase. Era immobile e dalla testa gli usciva un fiotto di sangue che pareva una fontanella. Dubitavo che fosse ancora vivo. Mi voltai e alzai lo sguardo verso il tetto di una villetta a schiera sull'altro lato di M Street. Vidi un uomo biondo, e gli vidi fare la cosa più strana del mondo. Si inchinò verso di noi. Non riuscivo a crederci: davvero si era inchinato? Poi lo vidi scomparire dietro un parapetto. Sampson e io partimmo di corsa ed entrammo nella villetta ma, quando arrivammo sul tetto, del cecchino non c'era traccia. Non sembrava esserci nessuno in vista. Era stato il killer irlandese, il cosiddetto Macellaio, a sparare a Jiang? Era stata la mafia newyorkese a mandarlo? Non riuscivo a capacitarmi di quello che avevo appena visto. Non solo che il killer avesse ammazzato Jiang con tanta facilità, ma che ci avesse anche fatto un inchino. Il Macellaio non ebbe difficoltà a mescolarsi fra gli studenti nel campus della George Washington University. Indossava un paio di jeans e una maglietta grigia stropicciata con la scritta ATHLETIC DEPARTMENT e aveva in mano un romanzo di Isaac Asimov. Aveva passato la mattina a leggere La trilogia della fondazione su una panchina, occhieggiando le ragazze e soprattutto cercando Marianne. Okay, era un po' ossessivo, ma quello era il minore dei suoi problemi. Quella ragazza lo aveva colpito. La stava tenendo d'occhio da ventiquattr'ore. Marianne gli aveva spezzato il cuore. E non gli aveva ubbidito, Sullivan lo sapeva per certo, perché l'aveva sentita parlare con la sua migliore amica, Cindi, dell'assistente sociale cui si era rivolta qualche giorno prima. Ci era persino tornata una seconda volta, nonostante quello che lui le aveva raccomandato. Hai commesso un grosso errore, Marianne. Dopo la lezione di mezzogiorno sulla letteratura inglese del Settecento, Marianne era andata via dal campus. Lui l'aveva seguita, in mezzo a una ventina di studenti, e aveva capito che Marianne stava tornando a casa. Molto bene. Forse per quel giorno non aveva altre lezioni, o forse aveva un paio di ore libere. Non importava: l'unica cosa che contava era che gli aveva disubbidito e che quindi doveva pagare. Una volta scoperto dov'era diretta, decise di batterla sul tempo. Marianne abitava fuori del campus, in un piccolo appartamento di due stanze fra Thirty-ninth Street e Davis, che divideva con Cindi. Era al quarto piano senza ascensore, e Sullivan non ebbe difficoltà a entrarci: il portone aveva una serratura soltanto. Un gioco da
ragazzi. Decise di mettersi comodo, mentre l'aspettava. Si spogliò e si tolse le scarpe: la verità era che non voleva macchiarle di sangue. Rimase in attesa della ragazza leggendo ancora un po' del suo libro e, non appena Marianne entrò in casa, l'afferrò e le puntò il bisturi alla gola. « Marianne, Marianne » disse. « Non ti avevo raccomandato di tacere? » « Non ho detto niente a nessuno » replicò lei con un filo di voce. « Ti prego! » « Bugiarda. Te l'avevo detto, no? Ti avevo avvertito. Perdio, ti ho persino mostrato le foto! » « Non ho detto niente a nessuno. Te lo giuro. » « Anch'io ho giurato, Marianne. Sulla testa di mia madre. » Con un gesto rapidissimo, le tagliò la gola, da sinistra a destra e poi da destra a sinistra. Mentre la poveretta cadeva a terra e si dibatteva, soffocando, le scattò una serie di foto. Ottime, senza dubbio. Foto straordinarie, indimenticabili. Marianne, Marianne... La sera successiva il Macellaio era ancora a Washington. Sapeva benissimo a cosa stava pensando Jimmy Fedora. Il suo amico però era troppo codardo per chiederglielo direttamente. Cosa cazzo continuiamo a fare qui a Washington? Perché non ci togliamo da qui? Il Macellaio era al volante di una Chevy Caprice con i finestrini fumè, rubata, e si trovava nel Southeast di Washington. Stava cercando una casa ben precisa. Tutto per colpa di Marianne. La ragazza che parlava troppo. Aveva memorizzato l'indirizzo ed era quasi arrivato. Ancora un lavoretto e poi finalmente lui e Jimmy se ne sarebbero potuti andare via da Washington. Caso chiuso. « Queste strade mi ricordano i posti dove sono cresciuto » disse Jimmy Fedora, seduto davanti. Stava cercando di fare l'indifferente, come se non ci fosse niente di strano a rimanere a Washington dopo l'assassinio del cinese. « Perché? » gli chiese il Macellaio, tenendo la lingua contro l'interno di una guancia. Sapeva già che cosa gli avrebbe risposto Jimmy. Era quasi sempre in grado di anticipare le sue reazioni ma, più che infastidirlo, la prevedibilità del suo compare gli dava sicurezza. « Tutto a pezzi, malconcio, una merda. Come a Brooklyn. Ecco perché. Li vedi i negri che ciondolano a tutti gli angoli? Chi altro vuoi che ci abiti, in un posto così?» Michael Sullivan sorrise, ma il suo non era un sorriso di contentezza. Fedora sapeva essere una lagna, a volte.
« Se volessero, i politici potrebbero fare qualcosa. Non ci vorrebbe molto, Jimmy. » « Mikey, tu vedi sempre il lato positivo delle cose. Dovresti darti alla politica. » Jimmy Fedora scosse la testa e guardò fuori del finestrino. Sapeva che era meglio non esagerare. « Ti chiederai come mai siamo ancora qui. Non penserai che sono più matto di un cavallo, vero? Magari vorresti scendere dalla macchina e prenderti un treno per tornartene a New York per conto tuo. Dico bene? » Il Macellaio sorrideva, mentre lo diceva, e quindi Fedora pensò che forse andava bene se rideva anche lui. Forse. In quell'ultimo anno aveva visto Sullivan far fuori due loro « amici »: uno con una mazza da baseball, l'altro con una chiave inglese. Meglio stare attenti... « Sì, effettivamente me lo chiedevo: com'è che siamo ancora qui? » domandò Fedora. « A quest'ora dovremmo essere già a New York. » Il Macellaio si strinse nelle spalle. « Sto cercando la casa di uno sbirro. » Fedora chiuse gli occhi. « Oh, Gesù. Uno sbirro? Perché uno sbirro? » Si abbassò il cappello sugli occhi. « Non voglio vedere. » Il Macellaio fece spallucce, ma si stava divertendo un mondo. « Fidati di me. Ti ho mai lasciato nelle peste? Mi hai mai visto esagerare? » Scoppiarono a ridere tutti e due. Michael Sullivan esagerava sempre. Ci vollero altri venti minuti per trovare la casa che stava cercando. Era a due piani, riverniciata di recente, con tanti fiori sui davanzali. « Vive qui lo sbirro? Non è male, tutto sommato. L'ha ristrutturata come si deve. Eh? » « Già. Ma sono tentato di rovinargliela un po'. Cosa ne dici, Jimmy? Potrei usare la sega elettrica. Facciamo due foto. » Fedora fece una smorfia. « Sei sicuro che sia una buona idea? Guarda che non sto scherzando: te lo chiedo sul serio. » Il Macellaio si strinse nelle spalle. « Lo so, amico. Lo vedo. Sei preoccupato, eh? » « Come si chiama 'sto sbirro?» domandò Fedora. « Non che mi interessi poi più di tanto. » « Infatti. Comunque, si chiama Alex Cross. »
Il Macellaio parcheggiò in Fourth Street, a circa un isolato di distanza dalla casa dello sbirro. Scoprire l'indirizzo era stato relativamente facile: la mafia era in buoni rapporti con il Bureau, dopo tutto. Si avvicinò stando attento a non farsi vedere, ma non era preoccupato. Nei quartieri come quello la gente teneva la bocca chiusa, anche se vedeva qualcosa di strano. Doveva fare in fretta, entrare e uscire dalla casa in pochi secondi e poi tornare a Brooklyn, per festeggiare il successo della sua ultima impresa e riscuotere il compenso. Attraversò un'aiuola vicino alla veranda sul retro, quindi scavalcò la ringhiera. Poi aprì la porta di servizio, che cigolò come un animale agonizzante. Fino a quel momento, nessun problema. Era riuscito a introdursi nella casa con facilità. Sicuramente anche il resto sarebbe andato liscio come l'olio. In cucina non c'era nessuno. Possibile che in casa non ci fosse anima viva? Senti piangere un bambino e tirò fuori la sua Beretta, giocherellando con il bisturi che teneva nella tasca sinistra. Sviluppo interessante, pensò. Quando in casa c'era un bambino piccolo, la gente non badava ad altro. Lo aveva sperimentato in precedenza, sia a Brooklyn che nel Queens. Una volta aveva filtro a pezzi un tipo che aveva sgarrato nella sua stessa cucina e l'aveva riposto ordinatamente nel frigo, in maniera che i suoi recepissero bene il messaggio. Percorse il piccolo corridoio, furtivo come un'ombra, senza fare il minimo rumore. Sbirciò nel salotto. Non trovò proprio quello che si aspettava: un uomo alto e di bell'aspetto stava cambiando il pannolino a una bambina. Sembrava abbastanza esperto. Sullivan se ne accorse perché aveva avuto a che fare con tre fratelli più piccoli, da ragazzo. E aveva cambiato lui stesso un bel po' di pannolini. « Sei tu la padrona di casa? » domandò. L'uomo - l'ispettore Alex Cross - alzò lo sguardo. Non sembrava spaventato. Non mostrò neppure sorpresa nel trovarsi in casa il Macellaio. Eppure non poteva non essere almeno un po' scioccato e spaventato... Dunque era un tipo con le palle. Disarmato, indaffarato a cambiare il pannolino alla figlia, manteneva il contegno. E la calma. « Chi sei? » chiese, come se avesse il controllo della situazione. Il Macellaio incrociò le braccia, tenendo la pistola nascosta alla bambina. Non voleva spaventarla. I bambini gli erano simpatici, erano gli adulti a stargli sulle palle. Gli adulti come suo padre, tanto per citarne uno. « Tu non sai perché sono qui? Non ne hai la minima idea? » « Un'idea ce l'ho, a dire il vero. Tu sei il killer dell'altro giorno. Ma perché sei qui,
in casa mia? Non capisco. » Sullivan si strinse nelle spalle. « Lo credo. Del resto, sai, io sono un po' matto. O almeno così dicono. Sai che mi chiamano 'il Macellaio'? » Cross fece di sì con la testa. « Sì, l'ho sentito. Ascolta, per favore, non fare del male a mia figlia. In casa non c'è nessun altro. » « Perché dovrei fare del male a tua figlia? O a te davanti a tua figlia? No, non è il mio stile. Sai cosa ti dico? Me ne vado. Ti avevo avvertito: sono un po' pazzerello. Sei stato fortunato. Arrivederci, piccola. » Fece un inchino, come dopo aver ammazzato Jiang An-Lo. Poi si voltò e se ne andò per dove era venuto, lasciando l'ispettore a chiedersi cosa mai fosse successo e perché. Ma c'era del metodo nella sua pazzia. C'era del metodo in tutto quello che faceva. Michael Sullivan sapeva sempre che cosa faceva, perché, e quando. Quella sera il Macellaio mi scioccò come non mi era mai successo in tutta la mia carriera. Era entrato in casa mia e si era insinuato fin nel salotto, dov'ero insieme con i miei figli. Come dovevo interpretare una simile stranezza? Era stato un avvertimento? Dovevo ringraziare il cielo di essere ancora vivo? Che fortuna, il killer ci aveva risparmiati! Ma perché era venuto a cercarci, allora? Il giorno successivo fu tra i peggiori da che ero entrato in polizia. Con una pattuglia di guardia davanti alla mia casa, partecipai a ben tre riunioni sull'omicidio di Jiang An-Lo. Lo scontento per il fallimento dell'operazione era tanto e si parlava di un rimpasto all'interno del dipartimento. Per via di tutte quelle riunioni impreviste, più le formalità da assolvere e il lavoro normale da svolgere, arrivai tardi a prendere Maria a Potomac Gardens, quella sera. Mi sentivo in colpa. Non mi ero ancora abituato al fatto che lavorasse in una zona tanto pericolosa e non volevo assolutamente che girasse da sola, di sera. Oltre a tutto, era incinta... Erano le sette e un quarto, quando arrivai davanti al centro di assistenza. Maria non era davanti alla porta ad aspettarmi, come le altre sere. Parcheggiai, scesi dall'auto e mi avviai verso il suo studio, che era al piano terra. Dopo un po', mi misi a correre. A quel punto la vidi uscire dalla porta principale e provai un enorme senso di sollievo. Aveva una cartella talmente piena di documenti che non era riuscita a chiuderla, più una serie di classificatori in mano. Ma riuscì lo stesso a farmi un cenno di saluto, non appena mi vide. Non era donna da serbare rancore e mi perdonava facilmente. Mi perdonò anche quella sera, nonostante fossi in ritardo di più di mezz'ora.
Ero felice di vederla. Potrà anche sembrare sdolcinato, ma fra noi era così: prima venivano lei e i bambini e poi il mio lavoro. Eravamo una bella famiglia. Maria mi chiamò. « Alex! Alex! » salutandomi con una mano mentre io le correvo incontro. Un paio di ragazzoni appoggiati al cancello ci guardarono e scoppiarono a ridere. « Ciao, bellezza! » le dissi. « Scusa se sono in ritardo. » « Non ti preoccupare, tesoro. Avevo un sacco da fare. Ehi, Ruben? Sei geloso, chico?» chiese poi a uno dei ragazzi che ciondolavano vicino al cancello. Il giovane scoppiò a ridere. « Ti piacerebbe, eh? Di' la verità: preferiresti stare con me che con lui... » « Credilo pure, caro mio. » Ci baciammo, senza fare troppe scene perché i ragazzi ci stavano guardando. Poi le presi la cartella e i classificatori e ci avviammo verso la macchina. « Che galantuomo » disse Maria, prendendomi in giro. « Se vuoi, porto in braccio pure te. » « Mi sei mancato. Più del solito. » Sorrise, poi mi appoggiò la testa sulla spalla. « Ti amo tanto... » La sentii cedere. Solo dopo udii gli spari: due schiocchi lontani, che non mi parvero preoccupanti. Non vidi chi aveva sparato, né da dove. Maria sussurrò: « Oh, Alex... » Poi basta. Era immobile e non capivo neppure se respirava ancora. Prima che mi rendessi conto di cosa era successo, la vidi scivolare a terra, sul selciato. Era stata colpita all'altezza dello stomaco. Era troppo buio, e io ero troppo confuso per capire. Cercai di farle scudo con il mio corpo, ma dalla ferita sgorgava sangue a fiotti. La presi in braccio e mi misi a correre. Ero tutto sporco di sangue e forse gridavo, ma non ricordo che cosa successe quando cominciai a rendermi conto che Maria era ferita gravemente, che le avevano sparato. I ragazzi che ci avevano visto prima davanti al cancello, nel frattempo, ci avevano raggiunto. Riconobbi Ruben. Forse volevano darmi una mano, ma non c'era più niente da fare. Avevo una paura terribile che Maria fosse già morta. L'ospedale St. Anthony non era lontano e io correvo più forte che potevo con Maria in braccio, priva di sensi. Avevo il batticuore, ansimavo, non sentivo più niente a parte un rumore che pareva il fragore di un'onda enorme che mi stava trascinando nell'abisso. Avevo paura di cadere, perché le gambe non mi reggevano più. Ma sapevo che non
potevo permettermi di fermarmi, che dovevo continuare a correre fino al Pronto Soccorso. Maria non aveva più emesso suono, dopo aver sussurrato il mio nome. Ero terrorizzato, scioccato, e non vedevo niente intorno a me. Correvo, correvo come un disperato. Arrivai in Independence Avenue finalmente vidi le luci rosse dell'insegna del Pronto Soccorso poco più avanti. Dovetti fermarmi prima di attraversare la strada, perché il traffico era intenso e le macchine correvano. Cominciai a gridare, chiedendo aiuto a un gruppetto di dipendenti dell'ospedale che parlavano fra di loro. Ma non mi avevano ancora visto e non mi potevano sentire per via del rumore del traffico. Non avendo scelta, mi buttai fra le macchine, per attraversare la strada. Alcuni veicoli cercarono di schivarmi, una station wagon inchiodò di colpo. Vidi l'espressione esasperata dell'uomo alla guida, i suoi figli che allungavano il collo da dietro il sedile. Nessuno suonò il clacson, forse perché mi videro in faccia e vi lessero panico e disperazione. Altre auto si fermarono per lasciarmi passare. Pensavo che forse ce l'avremmo fatta. Dissi a Maria che eravamo arrivati all'ospedale, che doveva tenere duro, che entro pochi minuti un medico si sarebbe preso cura di lei. « Ti amo » le dissi anche. Raggiunsi l'altro marciapiede e vidi che Maria apriva gli occhi. Mi guardò, con gli occhi sbarrati. Lì per lì mi parve confusa, poi più cosciente. « Ti amo, Alex » disse, e ammiccò. Poi abbassò le palpebre per l'ultima volta. Morì fra le mie braccia, a un passo dall'ospedale. Maria Simpson Cross morì fra le mie braccia in mezzo a una strada, e io non lo raccontai a nessuno, a parte Sampson e Nana Mama. Non volevo parlare degli ultimi istanti che avevo passato con lei: non volevo la compassione altrui, non volevo sguardi curiosi intorno a me, voci, mormorii, dettagli drammatici da sussurrarsi nelle orecchie. Le indagini sulla sparatoria si protrassero per mesi, ma io non raccontai nulla di quel che era successo fra me e Maria, in quegli ultimi attimi: erano affari nostri. Sampson e io interrogammo centinaia di individui, senza riuscire a trovare nemmeno l'ombra di una pista che ci aiutasse a scoprire chi era l'assassino. Controllammo dov'era a quell'ora il killer della mafia che si era introdotto in casa mia e scoprimmo che aveva un alibi: era sul volo per New York, quella sera. Evidentemente dopo essere venuto a cercarmi a casa aveva lasciato la città. L'FBI partecipò alle indagini, visto che la vittima era la moglie di un membro delle forze dell'ordine. Ma l'assassino non era il Macellaio. Alle due del mattino dopo la sparatoria, ero in casa con la fondina e la pistola ancora addosso, e passeggiavo avanti e indietro per il salotto con Janelle in braccio che piangeva e strillava come un'aquila. Non riuscivo a smettere di pensare che
stava piangendo così disperata perché sentiva che la sua mamma era morta, proprio a due passi dall'ospedale in cui lei era nata sei mesi prima. Cominciai a piangere, stravolto dal dolore, ancora incredulo di fronte a quella tragedia. Non sapevo come avrei fatto ad andare avanti, e meno che mai a consolare la bambina urlante che tenevo in braccio. « Buona, buona, va tutto bene » le sussurravo nell'orecchio. Ma la piccina aveva le coliche e voleva la sua mamma. « Andrà tutto bene, Jannie, vedrai. » Continuavo a ripeterlo, ma sapevo che era una bugia. Pensavo che non era giusto che sua madre non ci fosse più. Il fatto che quella povera bambina non avrebbe mai più visto la sua mamma era per me un pensiero insopportabile. Non l'avrei più rivista nemmeno io... Oh, Maria, moglie adorata! Non aveva mai fatto del male a nessuno, eppure era stata ammazzata. Nessuno, nemmeno Dio, avrebbe mai potuto spiegarmi perché. Maria, Maria! Mentre passeggiavo avanti e indietro con la bambina in braccio, le parlavo. Come potuto succedere, amore mio? Come potrò andare avanti senza di te? Come farò, se non ti avrò più al mio fianco? Sto troppo male, amore mio. Stasera vedo tutto nero. Ma ce la farò, vedrai. Stasera lasciami piangere, però, solo stasera. Sapevo che non mi avrebbe risposto, ma era stranamente confortante per me pensare che potesse sentirmi, e magari anche dirmi qualcosa. Mi pareva di sentire la sua voce, proprio come prima. Diceva: « Ce la farai, Alex. Per amore dei bambini ». « Oh, Jannie, povera piccola. Ti voglio tanto bene » sussurrai alla testolina calda e sudata della mia figlioletta. Poi vidi Nana Mama. Mia nonna era sulla porta, nel corridoio che conduceva alle due stanze da letto della nostra casa, con le braccia conserte. Mi osservava, in silenzio. Stavo forse parlando da solo? Avevo espresso i miei pensieri ad alta voce? Non ne avevo la più pallida idea. « Ti ho svegliato, vero? » le chiesi a voce bassa. Una domanda assurda, visto che Jannie piangeva come un'ossessa, ma mi dispiaceva vederla in piedi nel cuore della notte. Nana era calma e controllata. Era rimasta a dormire da me per aiutarmi con i bambini. « Non riesco a prendere sonno » disse. « Penso che tu e i bambini dovreste tornare a stare da me, in Fifth Street. La casa è abbastanza grande. Davvero, Alex, è la cosa migliore. » « La cosa migliore? » domandai, un po' confuso. Il fatto che Jannie mi urlasse in un orecchio non mi aiutava.
Nana raddrizzò la schiena. « Hai bisogno di me: non puoi tirarli su da solo. Ti pare, Alex? Sappi che lo faccio volentieri. » « Non ti preoccupare, Nana » le risposi. « Ce la faremo. Ce la faremo da soli. Dammi solo un po' di tempo per capire come organizzarmi. » Nana insistette: « Posso essere d'aiuto sia a te che ai bambini, Alex. Non parliamone più. Mi prenderò cura di voi. Non discutere, per favore ». Mi si avvicinò e mi mise le braccia al collo, stringendomi con tutta la forza che aveva. « Ti voglio bene, Alex. » Dopo un istante, aggiunse: « Volevo bene anche a Maria. Non riesco a capacitarmi che... E voglio bene ai bambini. Adesso più che mai ». Crollammo, tutti e due, e cosi ci ritrovammo in tre a piangere disperatamente nel salotto. Su una cosa dovevo dare ragione a mia nonna, comunque: non potevamo più restare in quell'appartamento. Troppi ricordi... « Dalla un po' a me » mi ordinò Nana, prendendo in braccio Jannie. Sospirai e la lasciai fare. Non potevo ribellarmi a quella donna minuta ma dallo spirito di acciaio che mi aveva tirato su da quando ero rimasto orfano a dieci anni. Cominciò a picchiettare delicatamente la piccola sulla schiena e a massaggiarle il collo. Dopo un po', Jannie fece un rutto sonoro e noi due scoppiammo a ridere, nostro malgrado. « Come sei rozza, piccolina » disse Nana sottovoce. «Adesso però, smettila di piangere e datti una calmata. Mi hai sentito? Basta piangere, Janelle. » Jannie ubbidì. Fu l'inizio della nostra nuova vita.
PAR T E S E C O N D A Cold Case – 2005 Quel giorno ricevetti una lettera di quello psicopatico di Kyle Craig, che mi fece uscire di testa. Come era riuscito a mandarmela? La lettera arrivò in Fifth Street. Che io sapessi, Kyle era ancora rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Florence, Colorado, ma ricevere un messaggio da lui mi turbò non poco. Anzi, mi fece venir voglia di vomitare. Alex, sento tantissimo la tua mancanza, ultimamente. Mi mancano le nostre chiacchierate, ed è per questo che ti scrivo. A essere sincero, mi dispiace che tu sia così inferiore a me, sia dal punto di vista intellettivo che in fatto di immaginazione.
Eppure sei stato tu a incastrarmi e a farmi rinchiudere qui. Potrei pensare a un'intermediazione divina, ma naturalmente non sono così imbecille. In ogni caso, so che sei molto occupato e perciò non voglio abusare del tuo tempo. Voglio solo che tu sappia che sei nei miei pensieri e che spero di vederti presto. Contaci. Voglio uccidere Nana e i tuoi figli sotto il tuo sguardo attento e poi ammazzare te. Non vedo l'ora di rivedervi, tutti quanti. A presto. Contaci, K Lessi la missiva due volte, poi la strappai e cercai di fare esattamente il contrario di quello che Kyle voleva, ovvero di non pensarci. Ci provai, perlomeno. Chiamai il carcere di massima sicurezza del Colorado, spiegai che mi era arrivata una lettera di Kyle Craig e chiesi sue notizie: volevo essere sicuro che fosse ancora rinchiuso lì. Era sabato e non dovevo lavorare. Niente indagini, almeno per quel giorno, niente folli assassini all'orizzonte. All'epoca usavamo ancora la vecchia Toyota Corolla che era stata di Maria. A parte il valore affettivo, non mi piaceva particolarmente, né dal punto di vista estetico né della funzionalità: era bianca, con la vernice un po' scrostata e parecchie ammaccature. Per il mio compleanno i ragazzi mi avevano regalato alcuni adesivi da attaccare sul paraurti: « Sarò anche lenta, ma intanto tu sei dietro » e « Fatemi un favore: rubatemi questa macchina ». Neanche a loro piaceva molto. Quel sabato limpido e soleggiato portai Jannie, Damon e il piccolo Alex a cercare un'automobile nuova. Mentre io guidavo con Twista che lappava Overnight Celebrity in sottofondo, e poi All Falls Down di Kanye West, i ragazzi non smisero un momento di parlare della nuova macchina che secondo loro avrei dovuto prendere. Jannie avrebbe voluto una Range Rover, ma io non ero d'accordo, per molte ragioni. Damon cercava di convincermi a prendere una moto, pensando che anche lui avrebbe potuto guidarla una volta compiuti diciott'anni (ovvero quattro anni dopo). Era una proposta talmente assurda che non gli risposi neanche. A meno che i grugniti non siano una risposta, ovviamente. Il piccolo Alex, detto Ali, non aveva preferenze in fatto di marche o modelli, purché il colore fosse rosso, o un bel blu brillante. Avrei anche potuto accontentarlo, ma solo sul blu. Ci fermammo davanti a un concessionario Mercedes di Arlington, Virginia, abbastanza vicino a casa nostra. Mentre Jannie e Damon guardavano interessati una CLK500 Cabriolet grigia metallizzata, io e Ali salimmo su una R350. Volevo un'auto che andasse bene per una famiglia: sicura, bella, facile da rivendere, che soddisfacesse sia l'intelletto che le emozioni.
« Questa mi piace» sentenziò Ali. « E' blu, è bellissima. Va proprio bene. » « Hai molto gusto in fatto di automobili, figlio mio » mi congratulai. « E' una sei posti, confortevole. Guarda il tettuccio. Non è una meraviglia? » « Bellissimo » dichiarò Ali. « Allunga le gambe. Non la trovi molto comoda e spaziosa? Questa sì che è una macchina! » Laurie Berger, la venditrice della concessionaria, ci era stata vicino tutto il tempo senza essere né insistente né invadente, cosa di cui le ero molto grato. « Avete domande? » chiese. « Volete qualche informazione? » « No, grazie. Una volta che ci sali sopra, non puoi non volerla comprare. » « Lo so: mi facilita molto il lavoro. La R350 è una crossover, una via di mezzo fra una station wagon e un SUV. E disponibile anche in nero, con gli interni grigio cenere. » « Davvero una bella macchina. » Sorrisi a Laurie. In quel momento mi squillò il cercapersone. Emisi un gemito di sconforto. Non di sabato... E non mentre sto per comprarmi una macchina nuova, per favore! Dovete proprio disturbarmi mentre sto provando la Mercedes R350? « Oh-oh » fece Ali, sgranando gli occhi. « Il cercapersone! » Chiamò i fratelli. « A papà è suonato il cercapersone! » « Non si fa la spia » gli dissi, dandogli un bacio sulla testa. Mi piace molto baciarlo sulla testa e lo faccio spesso. Ali si mise a ridere e mi diede una pacca sul braccio. Poi rise di nuovo. Apprezza molto il mio senso dell'umorismo. Non a caso andiamo d'accordissimo. Purtroppo, quando controllai il cercapersone, mi resi conto che non c'era molto da ridere. Era Ned Mahoney, dell'Antisequestri. Magari voleva invitarci a un barbecue a Quantico, non si può mai sapere... Chissà perché, tuttavia, ne dubitavo. Lo richiamai sul cellulare. « Sono Alex Cross. Mi hai cercato? E' successo qualcosa? » Ned non perse tempo in chiacchiere. « Hai presente Kentucky Avenue, vicino a Fifteenth Street, nel Southeast? » « Certo. Abito lì vicino. Adesso però sono ad Arlington con i ragazzi. Vogliamo cambiare macchina. E la vogliamo scegliere tutti insieme. » « Ci vediamo all'incrocio fra Kentucky e Fifteenth, allora? Ho bisogno del tuo aiuto, Alex. Delle tue conoscenze. Non posso dirti altro, al cellulare. »
Mi diede due o tre informazioni, ma non mi volle spiegare nient'altro. Come mai? Che cosa stava tenendo per sé? Maledizione... « Fra quanto, Ned? Ho i ragazzi con me... » « Mi spiace, Alex. Io e i miei uomini saremo lì fra un quarto d'ora al massimo. E scoppiato un casino, Alex. Non scherzo. » Ci credevo. Perché altrimenti l'Antisequestri dell'FBI sarebbe intervenuta in quella zona della città? E perché Ned Mahoney mi avrebbe disturbato di sabato pomeriggio? « Cos'è successo? » mi domandò Ali, guardandomi negli occhi. « Devo andare a un barbecue » risposi. Non posso mancare: sulla graticola mettono me. Promisi a Laurie Berger che sarei tornato per la R350 e portai a casa i ragazzi, che rimasero zitti e immusoniti tutto il tempo. Anch'io ero di pessimo umore, comunque. Avevo davanti una station wagon con un adesivo che diceva PRIMA L'IRAQ E POI LA FRANCIA. Ne avevo già visti parecchi, in giro per Washington. Gli Hoobastank imperversavano dal lettore CD, rendendo l'atmosfera ancor più tesa e caotica. I ragazzi erano ragazzi, io ero il loro padre e li stavo abbandonando per andare a lavorare di sabato pomeriggio. Non potevano capire che per me era necessario guadagnare abbastanza da riuscire a mantenerli e che era una situazione di emergenza. A parte il fatto che... cosa poteva essere successo all'incrocio fra Kentucky e Fifteenth? E perché proprio di sabato? « Grazie della bella giornata » disse Jannie, scendendo dalla macchina davanti a casa. « Memorabile, oserei dire. » Il suo tono sarcastico e saccente mi impedì di chiederle scusa, come avevo invece intenzione di fare. « Ci vediamo presto » borbottai. E poi aggiunsi: « Vi voglio bene ». Era vero. « Sì, certo! Cosa vuol dire presto, a proposito? La prossima settimana? » chiese Jannie acida, facendomi il saluto militare. Le sue parole mi trapassarono il cuore. « Sentite, ragazzi, mi dispiace. Vi chiedo scusa. » Partii verso Kentucky Avenue, dove avevo appuntamento con Ned Mahoney e i suoi uomini, che mi avrebbero finalmente detto che cosa era successo di tanto grave. In realtà, dovetti fermarmi a una decina di isolati di distanza, perché c'erano blocchi stradali a tutti gli incroci. Doveva trattarsi di qualcosa di veramente grave. Scesi dalla macchina e proseguii a piedi.
« Cosa c'è? Ne sa niente? » chiesi a un uomo in mezzo alla strada. Lo conoscevo di vista, perché lavorava alla cassa di una panetteria dove compravo spesso krapfen alla marmellata per i ragazzi. Non per me, ovviamente. « Un gran casino » mi rispose l'uomo. « C'è polizia dappertutto. Sbirri da tutte le parti, Cristo santo! » Evidentemente non sapeva che avevo lavorato per la polizia e adesso ero nell'FBI. Annuii e feci finta di niente. Era difficile sopportare tanto astio e risentimento nei confronti delle forze dell'ordine, anche se a volte era giustificato. E brutto che l'opinione pubblica disprezzi chi rischia la vita per garantire la sicurezza dei cittadini. Molti non si rendono conto di quanto è dura la vita del poliziotto. Non saremo perfetti, ma facciamo davvero un mestiere pericoloso. Tu non rischi la pelle nella tua panetteria, amico, avrei voluto dirgli. Mi trattenni, però: ingoiai il rospo e passai oltre. Ero a dir poco agitato, quando vidi Ned Mahoney. Mostrai il tesserino per avvicinarmi. Non sapevo ancora che cosa era successo di preciso. Sapevo solo che alcuni individui non meglio identificati erano stati presi in ostaggio all'interno di un laboratorio in cui venivano sintetizzate sostanze stupefacenti. Non immaginavo che una situazione del genere richiedesse un tale spiegamento di forze, però. Cosa c'era che io non sapevo? « Meno male che sei arrivato, Alex » esclamò Mahoney appena mi vide. « Siamo nella merda fino al collo. Non ne hai un'idea. » « Scommettiamo? » « Okay. Dieci dollari che non hai mai visto una cosa del genere. Ci stai? » « Ci sto. » Gli strinsi la mano, sperando con tutto il cuore di non perdere la scommessa. Ned si grattò la testa e il mento non rasato, mentre mi parlava con il tipico tono di chi non vuole essere interrotto. Non riuscivo a smettere di guardargli il mento cosparso di peluria biondastra. Ned è di carnagione chiara ed è molto fiero di quell'accenno di barba che riesce a farsi crescere a quarantanni suonati. A volte è insopportabile, ma nel complesso a me è simpatico. Lo trovo una brava persona. « U n certo numero di individui armati, probabilmente cinque o sei, hanno fatto irruzione nel laboratorio per una rapina » cominciò a spiegare. « Ma evidentemente hanno incontrato degli ostacoli e si sono barricati dentro insieme con diverse persone del quartiere, che a quanto abbiamo capito collaboravano con questa gente. E questo è uno dei problemi. L'altro è che... » Alzai una mano, per fargli una domanda. « Queste persone del quartiere a cui ti riferisci sono donne? Madri, nonne, che aiutano a confezionare la roba per gli spacciatori? E' così? Sono persone di fiducia, che non denuncerebbero mai i proprietari della raffineria?»
« Hai capito perché ti ho chiamato? » disse Mahoney. Sorrise, o perlomeno mi mostrò gli incisivi. Il suo tono mi ricordò quello di Jannie poco prima: fra il sarcastico e il saccente, a nascondere la propria vulnerabilità. « Dunque dentro quel laboratorio ci sono sia i rapinatori che narcotrafficanti? Lasciamo che si ammazzino tra di loro...» « Ci abbiamo già pensato » replicò Mahoney senza batter ciglio. « Ma non ho finito, Alex: il bello deve ancora arrivare. Quelli che sono venuti a rubare la droga, armati fino ai denti, sono delle squadre speciali di Washington. Sì, esattamente: metà dei cattivi sono tuoi ex colleghi. Della serie 'tutto può succedere e succederà'. Mi devi dieci dollari. » Mi venne male. Conoscevo parecchia gente nelle squadre speciali. « Sei sicuro? » « Sicurissimo. Alcuni agenti di pattuglia hanno sentito degli spari e sono andati a vedere. Uno è rimasto ferito all'addome. Li hanno riconosciuti. » Mossi la testa da una parte e dall'altra, con il collo improvvisamente contratto. « Dunque l'Antisequestri è qui per combattere contro le squadre speciali del dipartimento di polizia di Washington? » « Sembra proprio di sì, amico mio. Benvenuto in un mare di merda! Hai qualche brillante idea su come procedere? » Sì, pensai: andarmene via e tornarmene dai miei figli. E' sabato e io dovrei essere in festa. Gli diedi i dieci dollari della scommessa. Non avevamo idea di come uscire da quel pasticcio terrificante, né io né nessun altro. Per questo Mahoney mi aveva chiamato: sperava che lo aiutassi a trovare una soluzione geniale. Ma i guai non vengono mai soli, specie di sabato pomeriggio, quando splende il sole e tutti vorrebbero essere tranquilli e beati a rilassarsi, non alle prese con una situazione delicatissima in cui può scappare il morto - o i morti - da un momento all'altro. La prima riunione si tenne in un vicino auditorium, gremito di funzionari della polizia di Washington, agenti FBI e dell'Antisequestri. Si stava pensando a un raid. Verso la fine della riunione il capitano Tim Moran, responsabile delle squadre speciali della polizia, ricapitolò i fiuti. Doveva essere molto scosso, ma all'apparenza era calmo e perfettamente controllato. L'avevo conosciuto abbastanza bene, ai tempi in cui lavoravo nel dipartimento di polizia, e sapevo che era un uomo coraggioso. Lo stimavo anche per la sua integrità, più che mai quel pomeriggio in cui rischiava di doversi mettere contro i suoi stessi uomini. « Riassumendo, il bersaglio è una palazzina di quattro piani in cui il 'catrame nero' veniva trasformato in polvere e quindi monetizzato. Fra gli ostaggi abbiamo almeno
dieci persone che lavoravano nel laboratorio, prevalentemente di sesso femminile. Abbiamo anche una decina di guardie del laboratorio, armate e presenti su almeno tre piani, e sei membri delle squadre speciali che hanno tentato di rapinare il laboratorio e sono rimasti bloccati al suo interno. Sembra che si siano impossessati di parecchi soldi e parecchia droga e che siano rimasti immobilizzati fra i trafficanti e personale vario ai piani superiori e un'altra mezza dozzina di guardie armate, che si sono presentate quando la rapina era già in corso. Siamo a un'impasse, dunque. Abbiamo preso contatto con entrambe le parti e per ora nessuno si vuole arrendere. Immagino che pensino di non avere nulla da guadagnare e nulla da perdere e quindi restino fermi a vedere come si evolverà la situazione. » Tim Moran prese fiato, poi continuò in tono pacato: « Dal momento che all'interno della palazzina ci sono alcuni elementi delle squadre speciali, a dirigere le operazioni sarà l'Antisequestri. La polizia ha assicurato la piena collaborazione all'FBI ». Il riassunto del capitano Moran era stato chiaro e conciso. Affidare l'operazione all'FBI aveva certamente richiesto un atto di coraggio, ma era la cosa giusta da fare, se davvero si stava pensando a un raid. Anche se erano mele marce, erano sempre nostri colleghi e sparare ai colleghi non è mai facile. Ned Mahoney mi venne vicino. « Allora, Einstein, che si fa? Siamo in un mare di merda, lo vedi? Capisci, adesso, perché ti ho disturbato? » « Sì, capisco. Ma tu capirai che non ho nessuna voglia di dirti grazie, per questo. » « Oh, be', ti dirò prego lo stesso. » E mi diede una pacca sulla spalla. Scoppiammo a ridere entrambi. L'aveva nel sangue. Il Macellaio aveva l'abitudine di intercettare le comunicazioni fra i poliziotti quando era a Washington e questa volta aveva avuto una bella sorpresa. Che gran casino! Squadre speciali della polizia contro Antisequestri: una meraviglia! Da qualche anno cercava di lavorare di meno e di farsi pagare di più. Tre, quattro missioni l'anno, più qualche favore ai boss. Anche così guadagnava abbastanza, a parte il fatto che il nuovo padrino, Maggione Jr., non lo vedeva di buon occhio. L'unico problema era che gli mancava il brivido, l'adrenalina, il fatto di essere sempre in azione. Per questo la grana scoppiata in seno alla polizia gli sembrava una vera pacchia. Rideva, quando parcheggiò la Range Rover a una decina di isolati dal luogo della possibile sparatoria. Il quartiere era in subbuglio: sembravano tutti molto in ansia. Anche a piedi, era difficile avvicinarsi più di tanto. Mentre cercava di farsi largo tra la folla lungo Kentucky Avenue, contò oltre venticinque furgoni della polizia e un numero impressionante di volanti. Poi vide un gruppetto di giacche a vento azzurre e capì che si trattava di uomini
dell'Antisequestri venuti apposta da Quantico. Per la miseria! Quelli avevano fama di essere ossi duri, professionisti molto preparati. Un po' come lui, insomma. Che bellezza! Non voleva perdersi lo spettacolo per nulla al mondo, benché fosse un filino pericoloso per lui stare lì. Notò una serie di veicoli che delimitavano la zona centrale e, proprio in mezzo, credette di identificare il comandante. Poi vide una cosa che lo preoccupò. C'era un uomo, in borghese, che parlava con un agente dell'FBI. Lo conosceva. Si chiamava Alex Cross e aveva un conto in sospeso con lui. Gli venne in mente anche un'altra persona: Marianne. Una delle sue vittime preferite, a cui aveva scattato foto spettacolari. Di bene in meglio pensò. Capivo benissimo perché Ned Mahoney mi aveva convocato. Una raffineria di eroina in cui si stimava ci fossero oltre centocinquanta chili di droga, del valore di circa sette milioni di dollari, una rapina in cui si dicevano coinvolti membri delle forze dell'ordine... Be', era proprio una brutta situazione. Sentii il capitano Moran dire, a un certo punto: « Vi manderei tutti quanti all'inferno, ma visto che ci lavoro, non lo faccio: non vorrei vedervi tutti i giorni ». In qualche modo, quelle parole riassumevano perfettamente la situazione. Nessuno sembrava volersi arrendere, né i trafficanti né i nostri colleghi delle squadre speciali. E quelli che lavoravano nel laboratorio erano intrappolati al quarto piano: nessuno li lasciava uscire. Di alcuni di loro conoscevamo nome ed età, e sapevamo che erano per la maggior parte donne fra i quindici e gli ottantun anni. Abitavano nel quartiere e non riuscivano a trovare altre occupazioni perché non avevano qualifiche e non conoscevano la lingua, ma avevano bisogno di lavorare. Non mi veniva in mente niente di intelligente che potessimo fare per risolvere quell'impasse. Forse fu per questo che, verso le dieci di sera, decisi di uscire a fare un giro oltre le barricate. Volevo schiarirmi le idee e speravo che, allontanandomi, mi venisse un'ispirazione. A quel punto si erano radunati centinaia di curiosi, reporter e cameraman. Passeggiai lungo M Street con le mani in tasca. Arrivai a un incrocio piuttosto affollato, dove alcuni giornalisti intervistavano le persone del quartiere. Feci per superarli, assorto nei miei pensieri, quando sentii una ragazza che diceva, singhiozzando: « Là dentro c'è mia nonna! E nessuno fa niente per liberarla! » Mi fermai ad ascoltare il resto dell'intervista. La ragazza doveva avere vent'anni ed era incinta. A occhio, avrei detto che il bambino sarebbe potuto nascere da un momento all'altro. « Ha settantacinque anni e lavorava in quel posto per pagare la retta della scuola cattolica ai miei figli. Si chiama Rosaria ed è una donna meravigliosa. Non voglio che muoia!» Ascoltai altre interviste, altrettanto commoventi, a parenti degli ostaggi. Capii che
uno di essi, che faceva il corriere per i trafficanti, aveva soltanto dodici anni. Alla fine decisi di tornare indietro e di andare a cercare Ned Mahoney. Lo trovai insieme con alcuni funzionari in giacca e cravatta e il capitano Moran, vicino a uno dei furgoni del posto di comando. Stavano parlando della possibilità di togliere la corrente al palazzo. « Mi è venuta un'idea » dissi. « Era ora. » Il Macellaio era ancora nei paraggi e sapeva che stava correndo un grosso rischio. Sarebbe dovuto tornare nel Maryland, a casa, già da ore. Ma non riusciva a schiodarsi da lì. Si aggirava fra i curiosi sentendosi come un bambino che si è perso a una fiera. O perlomeno così immaginava dovesse sentirsi un bambino che si è perso a una fiera. Per la miseria, c'erano persino i venditori di hot-dog e di gelati. La gente aveva gli occhi sgranati, aspettava eccitata di godersi uno spettacolo unico. Esattamente come lui. Le situazioni drammatiche, le stragi imminenti o appena avvenute, lo inebriavano. Probabilmente era per via di suo padre, che aveva l'abitudine di sintonizzarsi sulle frequenze di polizia e vigili del fuoco a Brooklyn e, da piccolo, lo portava a vedere incendi e sparatorie. Erano i ricordi migliori che aveva di lui. Chissà se lo faceva perché con un bambino piccolo vicino dava meno nell'occhio... In verità suo padre era matto da legare. Gli piacevano i cadaveri, i morti sull'asfalto, fra le lamiere contorte, quelli rimasti carbonizzati negli incendi. Lo chiamavano il Macellaio di Sligo - l'originale era lui - e aveva anche altri nomignoli meno lusinghieri. Michael aveva raccolto la sua eredità e adesso era uno dei killer più temuti e ricercati del mondo. Era un grande! Poteva fare tutto quello che gli pareva. Come in quel momento... A riscuoterlo dai suoi pensieri fu la voce di un uomo che parlava al microfono davanti alla palazzina in cui si trovavano gli ostaggi. Alzò gli occhi e lo riconobbe: era Alex Cross. Era destino, dunque: il Macellaio era perseguitato dai fantasmi del passato. La mia era un'idea un tantino balzana, ma non era detto che non servisse a salvare qualche vita. E poi nessuno aveva tirato fuori niente di meglio, almeno per il momento. Così, a mezzanotte, sistemammo i microfoni dietro una fila di auto della polizia e di furgoni fermi lungo l'altro lato di Fifteenth Street. Era uno spettacolo insolito, se non altro, e i giornalisti lo ripresero da tutti gli angoli possibili e immaginabili. Nel giro di un'ora, demmo la parola a diversi parenti degli ostaggi, che raccontarono la loro storia al microfono e implorarono i sequestratori di consegnare le armi e uscire dall'edificio, o perlomeno di liberare i prigionieri. Quasi tutti sottolinearono che rifiutare di arrendersi era inutile e non avrebbe portato da nessuna parte. Era in gioco la vita di molte persone. Alcune delle storie erano
commoventi e molti fra gli astanti non riuscivano a trattenere le lacrime. Le parti migliori erano quelle aneddotiche, i racconti di vita vissuta: l'appello per il padre che avrebbe dovuto arbitrare una partita la domenica pomeriggio, le suppliche di una diciottenne incinta per il fidanzato coetaneo, che faceva il corriere della droga. Dopo un po', ottenemmo una reazione. Fu mentre una ragazzina di dodici anni parlava di suo padre, che lavorava nel laboratorio: nella palazzina riecheggiarono alcuni colpi di arma da fuoco. La sparatoria si protrasse per circa cinque minuti. Non capivamo che cosa potesse essere successo. Sapevamo una cosa soltanto: le parole di quella gente disperata non avevano commosso nessuno, là dentro. Nessuno si era arreso, nessuno aveva consegnato le armi, nessuno era uscito. « Va tutto bene, Alex » disse Ned prendendomi da parte. « Forse abbiamo guadagnato tempo. » Ma non era questo il risultato che speravamo. Tutt'altro. All'una e mezzo il capitano Moran spense i microfoni. Sembrava che nessuno fosse pronto alla resa. Poco dopo le due, si decise per un raid da parte della squadra Antisequestri dell'FBI. L'idea era che entrassero loro per primi nell'edificio e che la polizia li seguisse. Nessuno delle squadre speciali, però. Era una decisione abbastanza dura, ma era così che andavano le cose in quel periodo a Washington, forse per via degli attentati terroristici di quegli ultimi anni. Quando c'era una crisi, non si negoziava più di tanto: si interveniva e basta. Non ero sicuro che fosse la strategia migliore, ma ne comprendevo le motivazioni. Ned Mahoney e io facevamo parte della squadra che sarebbe entrata per prima. Ci riunimmo in Fourteenth Street, sul retro della palazzina sotto assedio. Eravamo tesi, inquieti. Passeggiavamo nervosamente, ci scambiavamo qualche parola, cercavamo di rimanere concentrati. « Sono un po' perplesso » mi confidò Ned. « I colleghi delle squadre speciali sanno benissimo come ragioniamo. Probabilmente sanno anche che interverremo stanotte.» « Tu li conosci? Quelli che sono lì dentro, intendo? » gli chiesi. Ned scosse la testa. « Non veniamo invitati spesso agli stessi party » rispose. Indossammo tute nere antiproiettile e ci armammo di MP5. Non si può mai sapere come andrà a finire un raid notturno, soprattutto quando fra i malviventi ci sono membri delle squadre speciali. Ned ricevette un messaggio in cuffia e si voltò verso di me.
« Ci siamo, Alex. Testa bassa, mi raccomando: questa è gente che sa il fatto suo. » « Stai attento pure tu. » In quel momento, successe l'imprevedibile. E, per una volta, fu una cosa buona. Il portone della palazzina si aprì, ma per qualche secondo non vedemmo nulla né nessuno sulla soglia. Che cosa stava succedendo? Poi apparve una signora di una certa età, con un camice. Uscì, sotto luci fortissime tutte puntate su di lei. Alzò le mani e disse: « Non sparate, per favore. Non sparate!» Dietro di lei, uscirono altre donne, anche loro in camice, più o meno giovani, e due ragazzini sui dodici o tredici anni. Da dietro gli sbarramenti si sentirono gridare i loro nomi. Tutti applaudivano festosi. Poi la porta della palazzina si richiuse di colpo. L'esodo era già terminato. Il rilascio di undici ostaggi segnò un cambiamento di programma: annullamento del raid e riapertura delle trattative. Arrivarono il commissario di polizia e il capo della sezione investigativa e si consultarono con Moran. Giunsero anche alcuni sacerdoti della zona. I reporter continuavano a girare servizi e fare interviste, nonostante l'ora. Verso le tre, giunse la comunicazione che il raid nonostante tutto era confermato. Poi però ci fu un altro ritardo. Sbrigatevi! Aspettate! Sbrigatevi! Aspettate! Alle tre e mezzo, ci diedero il via. Ned e io partimmo di corsa verso un ingresso laterale della palazzina insieme con una decina di uomini dell'Antisequestri. Il bello delle tute protettive è che fermano proiettili che altrimenti ti manderebbero al Creatore. Il brutto è che ti rallentano un sacco, impedendoti di respirare e di correre liberamente. Alcuni tiratori scelti tenevano le finestre sotto controllo, per limitare al massimo la resistenza all'interno della palazzina. Mahoney chiamava quel genere di incursione « cinque minuti di panico e adrenalina », ma io detestavo i raid. Avrei potuto tirarmi indietro, ma non era la prima volta che Ned e io ci trovavamo fianco a fianco in quel tipo di operazione e non me la sentivo di abbandonarlo. Un'esplosione assordante abbatté la porta di servizio. Ci ritrovammo in mezzo a una nuvola di fumo nero e di macerie, ma continuammo a correre, sperando di non beccarci una pallottola nella testa o in qualche altra parte del corpo non coperta dalla tuta protettiva. Speravo con tutto il cuore che non morisse nessuno.
A un certo punto qualcuno cominciò a spararci addosso. Non sapevamo chi fosse: i trafficanti? I nostri colleghi delle squadre speciali? Tutti e due? Il rumore delle raffiche di mitragliatore e gli scoppi delle granate rimbombavano per i corridoi. Ci avviammo guardinghi su per una scala a chiocciola. Sembrava che dentro quella palazzina sparassero tutti all'impazzata: non si capiva più niente. Il fragore ci mandava in confusione, impedendoci di mantenere la concentrazione. « Bastardi! » sentii gridare sopra di noi. Seguì una raffica di mitra. Lampi accecanti nel buio. Poi Ned emise un gemito e cadde per terra. Lì per lì non riuscii a capire dov'era stato colpito, poi vidi la ferita vicino alla clavicola. Non sapevo se a provocargliela era stato un proiettile o un frammento volante. Stava perdendo molto sangue, però. Rimasi con lui e chiamai rinforzi via radio. Da sopra provenivano rumori di spari, esplosioni, grida di uomini e donne. Il caos più totale. A Ned tremavano le mani. Non lo avevo mai visto spaventato, prima di quella volta, ma quella confusione e quel frastuono erano davvero terrificanti. Notai che era sempre più pallido. Aveva una faccia che non mi piaceva per niente. « Stanno arrivando i soccorsi, Ned » gli dissi. « Tieni duro. Mi senti, Ned? » « Che stupido sono stato » sussurrò dopo un momento. « Senti male? » « Potrebbe andare peggio. Anche meglio, però. A proposito, ti sei accorto che sei ferito anche tu? » « Ce la farò » dissi a Ned, sulle scale. « Anch'io, spero » mi rispose. Qualche minuto dopo arrivarono i soccorsi. Quando finalmente riuscirono a portare Ned fuori della palazzina, sembrava che la sparatoria fosse giunta al termine. « Cinque minuti di panico e adrenalina », come diceva lui. Stavano iniziando ad arrivare i rapporti. Il capitano Tim Morali mi riferì personalmente l'ultimo: l'assalto alla raffineria di eroina aveva avuto risultati sia positivi che negativi. Molti di noi ritenevano fossimo partiti troppo presto, ma non era una decisione che spettava a noi. Quattro uomini, due poliziotti e due dell'Antisequestri, erano rimasti feriti. Ned era già in sala operatoria. Le vittime dall'altra parte erano sei, compresi due colleghi delle squadre speciali. Fra i deceduti c'era una diciassettenne, madre di due bambini. Anche suo marito era morto. Aveva sedici anni. Arrivai a casa alle sei del mattino, esausto e sconfortato. C'era qualcosa di irreale nel tornare a casa così tardi. O così presto, a seconda dei punti di vista.
E non era finita: Nana mi stava aspettando, sveglia, in cucina. Aveva davanti una tazza di tè e una fetta di pane tostato e sembrava una vecchietta inerme. Ma io la conoscevo troppo bene. Era arrabbiatissima. I ragazzi dormivano ancora. Il piccolo televisore in cucina era sintonizzato sul telegiornale locale, che stava mandando in onda i servizi sul raid notturno. Mi fece uno strano effetto vedere quelle immagini da casa. Nana mi guardò male. Poi fissò ostentatamente la benda che avevo sulla fronte. « È solo un graffio » minimizzai. « Sto bene. » « Non dire sciocchezze! E non mi trattare come se fossi una povera scema, capito? Un proiettile ti ha sfiorato la scatola cranica, lo vedo benissimo. Pochi centimetri più in là e ti avrebbe spappolato il cervello, lasciando i tuoi figli orfani anche di padre. Sbaglio, forse? No, caro mio, non sbaglio! » Continuò: « Sono stufa, stufa e arcistufa. Vivo con questa spada di Damocle sulla testa da più di dieci anni, Alex. Adesso basta. Non ne posso più, hai capito? Non ne posso proprio più. Basta. Sì, hai capito benissimo: me ne vado. Lascio sia te che i bambini ». Alzai le mani come per difendermi. « Nana, ero fuori con loro. Mi hanno chiamato d'urgenza, non sapevo che cosa era successo. Come facevo a saperlo? Non potevo farci assolutamente niente... » « Potevi mandarli a farsi friggere. Invece hai accettato di andare. Come sempre. Chiamala dedizione, senso del dovere. Io la chiamo follia. » « Nana, non avevo scelta. » « Sì, invece. È proprio questo che sto cercando di farti capire. Puoi anche dire di no, qualche volta. Hai tre figli, no? Cosa pensi che ti farebbero, se per una volta rifiutassi di presentarti? Pensi che ti licenzierebbero? Sai una cosa? Anche se ti licenziassero, sarebbe solo un bene. » « Non so cosa farebbero, Nana. Dopo un po', però, mi licenzierebbero. Questo è certo. » « E sarebbe una tragedia? Tu credi? Oh, lascia perdere...» Sbatté la tazza sul tavolo. « Fai come vuoi: io me ne vado. » « Per l'amore del cielo, Nana, non essere ridicola. Sono stanco morto, mi hanno sparato addosso... Quasi sparato addosso... Possiamo parlarne in un altro momento? Ho bisogno di dormire un po', adesso. » Nana si alzò in piedi e mi venne incontro, con l'espressione furibonda e occhi di fuoco. Era tanto che non la vedevo cosi. Forse da quando ero ragazzo e la facevo disperare. « Ridicola? Pensi che io sia ridicola? Come osi? »
Mi diede una manata sul petto. Non mi fece male, ovviamente, ma mi turbò. « Mi dispiace » le dissi. « Scusami, sono stanco. » « Prenditi una governante, una ragazza alla pari, quel cavolo che vuoi. Sei stanco? Be', sono stanca anch'io. E sono anche stufa di preoccuparmi per te. » « Scusami, Nana. Cos'altro vuoi che ti dica? » « Niente. Non dire niente, Alex. Sono stufa anche di starti a sentire. » Uscì e se ne andò in camera sua, furiosa. Mi sedetti al tavolo, stanco e depresso. Almeno la discussione con Nana era finita, però. Mi sbagliavo. Pochi minuti dopo, infatti, riapparve con una vecchia valigia di pelle e un piccolo trolley. Mi passò accanto senza degnarmi di uno sguardo, attraversò la sala e uscì dalla porta principale senza proferir parola. « Nana! » urlai, alzandomi a fatica dalla sedia per correrle dietro. « Per favore, Nana, aspetta! Senti, parliamone. » « Sono stufa di parlare. » Vidi un taxi azzurro tutto ammaccato che la aspettava sputando nuvole di fumo dalla marmitta. Uno dei numerosi cugini di Nana, Abraham, faceva il tassista. Lo riconobbi dalla testa di riccioli. Nana salì sul taxi e se ne andò. « Dov'è andata Nana? » mi chiese una vocina. Mi voltai e vidi Ali, che mi aveva raggiunto silenziosamente sulla veranda. « Non lo so, piccolo mio. Ci ha abbandonati. » Mio figlio mi guardò sbigottito: « Ci ha abbandonati? » Michael Sullivan si svegliò di scatto, rabbrividendo, e capì subito che non sarebbe più riuscito a riaddormentarsi. Aveva sognato di nuovo quel bastardo di suo padre, che lo perseguitava anche di notte, regalandogli gli incubi peggiori. Quando era piccolo, lo portava con sé nella macelleria due o tre volte la settimana, durante l'estate. Questo dall'età di sei anni finché non ne ebbe compiuto undici e smise di andare. La bottega era al piano terreno di una casetta di mattoni a due piani in Quentin Road, all'altezza di East Thirty-sixth Street. Kevin Sullivan era considerato il macellaio con la carne migliore del quartiere, capace di soddisfare i gusti non solo dei suoi compatrioti irlandesi, ma anche degli italiani e dei tedeschi. Nella macelleria c'era sempre parecchia segatura sul pavimento, che veniva spazzato tutti i giorni. Anche le vetrine erano sempre perfettamente pulite. Kevin Sullivan aveva un vezzo: ogni volta che mostrava un taglio di carne ai suoi clienti, faceva loro un inchino. E con quell'inchino conquistava chiunque. Michael, sua madre e i suoi tre fratellini conoscevano anche l'altro lato del suo
carattere, però. Kevin Sullivan aveva due braccia enormi e le mani più forti del mondo, o almeno così sembrava a suo figlio. Una volta aveva preso un ratto, in cucina, e l'aveva stritolato in una mano. Ai figli diceva che avrebbe potuto fare lo stesso con loro, e la madre aveva sempre qualche livido bluastro sul corpo fragile e minuto. Ma non era quella la cosa peggiore, né quella che rendeva insonni le notti di Michael. L'orrore, quello vero, era iniziato quando lui aveva sei anni e stavano pulendo la bottega, una sera dopo l'orario di chiusura. Suo padre l'aveva chiamato nel retro, dove teneva una scrivania, un piccolo archivio e una branda. « Siediti qui, figliolo. A fianco a me. » « Mi spiace, papà » aveva risposto Michael, pensando di aver sbagliato qualcosa o combinato qualche guaio. « Adesso rimedio subito. » « Siediti e sta' zitto! » aveva urlato suo padre. « Avresti parecchio da rimediare, ma non adesso. Ascoltami bene, figliolo. » Gli aveva messo una mano sul ginocchio. « Tu sai che ti posso fare molto male, vero? » gli aveva detto. « Lo sai, Michael? » « Sì, papà. Lo so. » « Be', se lo andrai a dire in giro, ti farò molto, molto male. » Dire in giro che cosa? aveva pensato il bambino, ma si era guardato bene dal chiederlo. Suo padre non amava essere interrotto quando parlava. « Non devi dirlo a nessuno. » Gli aveva strizzato il ginocchio finché a Michael non erano venute le lacrime agli occhi. Poi si era chinato e aveva baciato il figlio sulla bocca, facendogli cose che un padre non dovrebbe mai fare al proprio figlio. Kevin Sullivan era morto da molti anni, ormai, ma era sempre vivo nella testa di suo figlio, il quale aveva escogitato i modi più diversi per sfuggire ai demoni della propria infanzia. Verso le quattro del pomeriggio andò a fare shopping al centro commerciale Tysons Galleria di McLean, Virginia. Stava cercando qualcosa di molto speciale: una ragazza giusta. Voleva giocare con lei a semaforo rosso e semaforo verde. Girò per una mezz'oretta per la Galleria e approcciò un paio di possibili compagne di gioco davanti a Saks Fifth Avenue, Neiman Marcus e Lillie Rubin. Aveva una tecnica, che non cambiava mai. Un bel sorriso e: « Ciao, mi chiamo Jeff Carter. Posso farti un paio di domande? Ti dispiace? Farò in fretta, prometto ». La quinta o sesta ragazza che abbordò in questo modo aveva un viso grazioso e innocente, da Madonna rinascimentale, e lo ascoltò con attenzione. Altre quattro
ragazze con cui aveva parlato prima erano state abbastanza simpatiche e una aveva addirittura fatto un po' la civetta, ma alla fine se n'erano andate via tutte. Non era un problema, comunque. Gli piacevano le donne in gamba, ed era giusto che le ragazze fossero prudenti e non si lasciassero abbindolare dal primo che passava. « Non proprio domande domande » precisò con la Madonna della Galleria. « Ma, se ti dico qualcosa che ti dà fastidio, smetto subito. Okay? Proviamo? Se non ti va, dici Rosso. Se ti va, mi dai il Verde. Okay? » « Mi sembra un po' strano » disse la ragazza. Era bruna e aveva davvero un bel viso e, da quel che si intravedeva, era graziosa anche di corpo. Non aveva una splendida voce, ma... insomma, nessuno è perfetto. A parte lui, forse. « Innocuo, però » le fece notare lui. « Belli i tuoi stivali, a proposito. » « Grazie. Questo me lo puoi dire. Piacciono anche a me. » « Hai anche un bel sorriso. Lo sai, vero? » « Attento. Non esagerare. » Scoppiarono a ridere tutti e due. Michael Sullivan pensò che stava andando bene. Avevano cominciato a giocare: doveva solo stare attento a non beccare il rosso. « Continuo, okay? » le domandò. Era importante chiedere sempre il permesso alle ragazze. Se l'era imposto come regola generale: sii sempre educato. La ragazza fece spallucce e alzò gli occhi al cielo, spostando il peso da un piede all'altro. « Se proprio vuoi. Visto che abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno. » « Mille dollari per un'ora » le propose. Era a quel punto che capiva se aveva vinto o perso, di solito. La ragazza smise di sorridere, ma non se ne andò. A Michael Sullivan cominciò a battere forte il cuore: forse ce l'avrebbe fatta. Doveva cercare di concludere in fretta. « Ti prometto che non ti chiederò niente di strano » le disse, assumendo un tono seducente ma non troppo. « Me lo prometti? » fece la ragazza, aggrottando la fronte. « Un'ora » ripeté lui. Il trucco stava nel modo in cui lo diceva. Doveva sembrare una cosa senza importanza, niente di strano, o di pericoloso: un'ora, mille dollari. Perché no? Che male c'è? « Rosso » dichiarò la Madonna della Galleria e se ne andò impettita, senza nemmeno salutare. Era chiaro che l'aveva presa male.
Michael Sullivan era arrabbiatissimo. E anche molto eccitato. Avrebbe voluto prenderla e strangolarla nel bel mezzo del centro commerciale, farla a pezzi, sfigurarla. Ma il gioco era carino: semaforo rosso, semaforo verde. Mezz'ora dopo, ci riprovò davanti al Victoria's Secret del vicino Tysons Corner Mail, e arrivò alla proposta di mille dollari per un'ora con una biondina sognante con una canottiera che diceva JERSEY GIRL e un paio di shorts cortissimi. Non riuscì a concludere neanche quella volta, però. Stava cominciando a perdere la pazienza. Aveva bisogno di vincere, di sfogarsi, aveva voglia di una bella scarica di adrenalina. La ragazza che abbordò subito dopo era una rossa molto graziosa, con un fisico da modella, gambe lunghe e affusolate e seni abbastanza piccoli ma che si muovevano ogni volta che gesticolava. Quando le propose mille dollari per un'ora, la rossa incrociò le braccia sul petto. Un messaggio non verbale che a Michael parve molto esplicito. Ma non se ne andò. Evidentemente era tentata di accettare. Michael era raggiante: gli piacevano le donne incerte, titubanti. « Decidi tu tutto quanto » le disse. « Se vuoi andare in albergo o portarmi a casa tua. Facciamo come vuoi tu. Quello che vuoi tu. Decidi tutto tu. » La ragazza lo squadrò in silenzio, e lui capì che stava valutando che tipo era. In genere, a quel punto lo guardavano tutte negli occhi. Intuiva che la rossa era un'istintiva e che le piaceva l'idea di essere lei a decidere. Inoltre i mille dollari dovevano farle comodo. E poi Michael Sullivan era davvero un bell'uomo. Alla fine la rossa sussurrò, per non farsi sentire da nessuno: « Paghi in contanti? » Michael le fece vedere un rotolo di banconote da cento. « Sono tutte da cento? » chiese lei. Gliele mostrò. « Posso chiederti come ti chiami? » le domandò. « Sherry. » « E' il tuo nome vero? » « Certamente, Jeff. Andiamo? La tua ora è cominciata adesso. » Andarono. Finita l'ora con Sherry, che poi si prolungò a un'ora e mezzo, Michael Sullivan non le diede neanche un dollaro. Gli bastò mostrarle la sua collezione di foto, e il bisturi che si era portato appresso. Semaforo rosso, semaforo verde: era davvero un bel gioco. Due giorni dopo essersene andata di casa, Nana tornò. Grazie al Cielo e a tutti i santi che evidentemente avevano interceduto per noi. Era stata una lezione per tutti, ma soprattutto per me. Avevamo capito quanto le volevamo bene e quanto avevamo bisogno di lei. E ci eravamo resi conto di quante cose faceva per noi. Era indispensabile e faceva un sacco di sacrifici per noi, che nemmeno le dicevamo
grazie. Non che Nana ci lasciasse veramente dimenticare quanto era importante per noi, in circostanze normali. Ma, per quanto ce lo ricordasse, tendevamo a darla per scontata. Quando entrò in cucina e beccò Jannie che mangiava cereali al cioccolato per colazione, disse con il suo tono inimitabile: « Mi chiamo Janelle Cross e sono dipendente dal cioccolato ». Jannie alzò tutte e due le mani in segno di resa, poi prese e andò a buttare i cereali nella spazzatura, guardò Nana negli occhi e disse: « Se viaggi alla velocità della luce e accendi i fari, che cosa succede? » Poi l'abbracciò, senza lasciarle il tempo di dare quella risposta impossibile. Anch'io andai ad abbracciare mia nonna e fui abbastanza furbo da non dirle niente. Quando tornai a casa dopo il lavoro, quella sera, la trovai in cucina che mi aspettava. Mi spaventai, ma lei allargò le braccia e, per la seconda volta in un giorno solo, mi abbracciò. « Vieni » mi disse. Mentre mi stringeva forte forte, mi disse: « Scusami, Alex. Non avevo nessun diritto di andarmene e abbandonarvi al vostro destino. Ho sbagliato, mi spiace. Mi siete mancati da subito. Da quando sono salita sul taxi di Abraham ». « Avevi tutti i diritti, invece... » cominciai. Ma Nana mi interruppe. « Non discutere con me, Alex. Per una volta che sei in vantaggio taci. » Richiusi immediatamente la bocca. Era una cosa grossa, e bisognava fare qualcosa. Il venerdì mattina di quella settimana, alle nove appena passate, mi ritrovai davanti all'ufficio del direttore Robert Burns, al nono piano dello Hoover Building, quartier generale dell'FBI. Ero da solo. L'assistente del direttore, Tony Woods, fece capolino dalla porta dell'anticamera. Aveva un'espressione ingannevolmente tranquilla. « Ah, è già qui! Vuole entrare? Complimenti per l'altro giorno, a proposito. Tenuto conto delle circostanze, quello di Kentucky Avenue è stato un successo. Il direttore le vuole parlare di questo, e non solo. Ho sentito che Ned Mahoney se la caverà senza troppi problemi. » Un successo? Ma se ci avevo quasi lasciato le penne... Seguii Woods nell'ufficio del direttore. Neil Mahoney si era beccato una pallottola nel collo. Aveva rischiato di lasciarci le penne pure lui. Robert Burns mi stava aspettando. E' una persona molto particolare e, benché sia un tipo schietto che ama arrivare subito al dunque, col tempo ha imparato il valore dei
convenevoli e dei sorrisi. A Washington è indispensabile saper fare un po' di pubbliche relazioni, specie quando si ha a che fare con i politici. Purtroppo Robert Burns è abbastanza negato. Si sforzò di parlarmi un po' del tempo e di sport, ma in meno di un minuto e mezzo arrivò al punto. « Che intenzioni ha, Alex? » mi domandò, a bruciapelo. « Tony mi ha detto che mi voleva parlare: immagino abbia in mente qualcosa. Anch'io ho delle cose da dirle, peraltro. Innanzi tutto, volevo proporle un nuovo incarico: un serial killer che opera nel Maine e nel Vermont. » Annuii e lo lasciai parlare. Di colpo, però, mi sentivo teso e un po' insicuro. Alla fine, lo interruppi. « Scusi, non so come dirglielo: voglio rassegnare le dimissioni. E' molto difficile, e anche imbarazzante. Le sono molto grato di tutto quello che ha fatto per me, ma ho preso questa decisione per motivi familiari. Ed è una decisione irrevocabile. » « Merda » fu la reazione di Burns. Batté il palmo della mano sul tavolo, con violenza. « Porca miseria, Alex, perché ci lascia proprio adesso? Non capisco. Sta facendo carriera... Sa cosa le dico? Non accetto le sue dimissioni. » « Non può impedirmi di andarmene » gli ricordai. « Mi dispiace, ma sto facendo la cosa migliore. Sono due o tre giorni che non penso ad altro. » Burns mi guardò negli occhi e probabilmente si accorse che ero deciso, perché si alzò in piedi e mi venne incontro con la mano tesa. « Sta facendo un errore che le costerà carissimo in termini di carriera, ma mi rendo conto che non ha senso stare qui a discutere. È stato un piacere, Alex. Ed è stato anche molto istruttivo lavorare con lei » disse. Mi strinse la mano con calore. Dopo qualche minuto di insulsi convenevoli, mi alzai in piedi e uscii dal suo ufficio. Ero ancora sulla porta quando sentii che diceva: « Alex, spero di poterla ancora chiamare, ogni tanto. Posso, vero? » Risi, mio malgrado, perché era l'atteggiamento tipico di Burns: non mollare mai. « Certamente » risposi. « Ma le sarei grato se aspettasse qualche mese, prima di farlo.» « Qualche giorno aspetterò sicuro » replicò Burns. E mi strizzò l'occhio. Scoppiammo a ridere tutti e due. Di colpo mi resi conto che la mia brillante carriera nel Federai Bureau of Investigations era finita. Ero disoccupato. Non mi piace particolarmente guardarmi indietro e rimpiangere il passato, ma il periodo che avevo trascorso all'FBI era stato intenso e positivo e mi aveva
arricchito molto. Avevo imparato un sacco di cose, avevo raggiunto risultati importanti, come per esempio fermare quel sadico psicopatico che si faceva chiamare il Lupo, un boss della mafia russa. E mi ero fatto anche parecchi amici, come per esempio il capo dell'Antisequestri e forse anche il direttore Burns. Sicuramente questo mi avrebbe aiutato, in futuro. Non ero preparato all'incredibile senso di sollievo che provai nel portare via dall'ufficio le mie cose dentro una scatola di cartone, tuttavia. Mi sembrava di essermi liberato di un fardello pesantissimo, di cui fino a quel momento non ero stato nemmeno consapevole. Non sapevo se avevo fatto la scelta più giusta, ma ero comunque soddisfatto. Avevo detto addio ai mostri, agli psicopatici, agli assassini. Per sempre. Mi avviai verso casa prima di mezzogiorno. Mi sentivo finalmente libero. Avevo i finestrini abbassati e la radio accesa, che trasmetteva No Woman No Cry di Bob Marley. Cantavo anch'io. Non avevo progetti per il futuro, neanche immediato, e questo mi piaceva tantissimo. In realtà mi piaceva l'idea di non fare niente per un po' e stavo cominciando a pensare che forse ci sarei riuscito bene. C'era una cosa che pensavo di dover fare subito, finché ero dell'umore giusto: andai al concessionario della Mercedes e cercai Laurie Berger. Provai la R350 e mi resi conto che su strada era ancora più spaziosa che nell'autosalone. Mi piacevano la sua ripresa e il climatizzatore multizona con regolazione differenziata di temperatura, che Nana avrebbe certamente apprezzato molto. Ma la cosa più importante era che sia io che il resto della mia famiglia ci liberassimo della vecchia auto di Maria. Era giunto il momento. Siccome potevo permettermelo, comprai la R350. Ero al settimo cielo. Arrivato a casa, vidi il biglietto di Nana sul tavolo della cucina. Era per Jannie e Damon, ma lo lessi lo stesso. Uscite a prendere una boccata d'aria. C'è del pollo al vino bianco pronto che vi piacerà sicuramente. Apparecchiate la tavola, per cortesia. E prima di cena cominciate a fare i compiti. Damon, ti ricordo che stasera hai il coro: conserva il fiato. La zia Tia e io abbiamo portato Ali allo zoo. Sappiate che, anche se non ci sono, vi tengo d 'occhio lo stesso! Sorrisi. Quella donna era stata la mia salvezza tanti anni prima, e adesso era la salvezza dei miei figli. Avevo sperato di passare il pomeriggio con Ali, ma mi consolai pensando che avrei avuto occasione di farlo molto presto. Mi preparai un panino con alcune fette di arrosto di maiale avanzato e insalata e, chissà perché, mi feci anche un po' di pop corn. Ma sì, che male c'era? Non amavo molto i pop corn, ma in quel momento me ne era
venuta voglia. E mi sentivo libero di essere me stesso e anche di mangiare qualche porcheria ogni tanto. Finito di mangiare, suonai il piano per un paio d'ore: Duke Ellington, Jelly Roll Mortoli, Al Green. Lessi anche alcuni capitoli di L'ombra del vento. Poi feci una cosa per me assolutamente straordinaria: mi concessi un pisolino. Prima di addormentarmi, ripensai a Maria, a quanto eravamo stati felici insieme, alla nostra luna di miele alle Barbados. Sentivo ancora moltissimo la sua mancanza e avrei voluto che fosse lì con me, per raccontarle che avevo dato le dimissioni. Il telefono non squillò nemmeno una volta, quel pomeriggio. Non avevo più il cercapersone. Nessuno poteva più rompermi le scatole... Nana e Ali tornarono a casa per primi, seguiti da Jannie e poi da Damon. Questo mi diede il destro di fare bella mostra della macchina tre volte e di godermi tre manifestazioni di giubilo. Una giornata assolutamente perfetta. Quella sera mangiammo il pollo di Nana, che era delizioso. Tenni nascosta la bella notizia fino a dopo cena, quando avemmo finito anche il gelato e il caffè. Jannie e Damon stavano già per alzarsi da tavola, ma io li trattenni. Jannie protestò che voleva finire il suo libro. Le ricordai che doveva essere la quinta volta che lo leggeva: era molto appassionata di Eragon. « Cosa c'è? » chiese, spazientita, alzando gli occhi al cielo. « Devo dirvi una cosa » dichiarai. Damon e Jannie si scambiarono un'occhiata perplessa e scossero la testa. Erano tutti convinti che stessi per annunciare una trasferta di lavoro per qualche caso importante. Immaginavano che sarei partito presto, magari addirittura quella sera stessa. « Non parto » li informai. Sorrisi. « Al contrario. Pensavo di venire a sentirti cantare, stasera, Damon. Mi farebbe molto piacere. Vorrei capire quanti progressi hai fatto ultimamente. » « Che cosa? » esclamò Damon. « C'è mica un serial killer nel nostro coro? » La stavo prendendo un po' alla larga, ma mi godevo ogni istante. Guardai tutti, uno per uno: non se lo aspettavano. Neanche Nana, che pure sembrava sapere sempre tutto, pareva aver capito. Alla fine Jannie guardò Ali: « Chiediglielo tu, Ali. Così finalmente ce lo dice ». « Papà » fece il piccoletto, che sapeva davvero come prendermi. « Ce lo dici, prima che Janelle diventi matta? » « E va bene! Allora: vi annuncio ufficialmente che sono disoccupato e che siamo poveri in canna. No, questo non è vero. Il fatto è che stamattina mi sono licenziato. E ho passato la giornata a oziare. E intendo passare la serata ad ascoltare il coro di Damon. » Nana e i ragazzi applaudirono. « Po-ve-rin-can-na! Po-ve-rin-can-na! »
cominciarono a cantare i ragazzi. Mi sentivo davvero bene. Ero così contento di aver chiuso con i mostri... La storia proseguì così: John Sampson diventò il fiore all'occhiello del dipartimento di polizia di Washington. Da quando Alex Cross se n'era andato per entrare nell'FBI, era sempre più stimato, apprezzato e famoso per le sue capacità. Lui, però, se ne fregava altamente. Non gli era mai interessato quello che gli altri pensavano di lui, a parte forse Alex Cross. Ma, anche con Alex, era molto relativo. Il caso di cui si stava occupando era molto difficile, forse anche perché provava un'antipatia profonda per il personaggio che stava cercando di catturare. Si trattava di un certo Gino Giametti, detto il Viscido, che gestiva una serie di loschi locali e night club, da Washington fino a Fort Lauderdale e Miami. Era specializzato in adolescenti, a volte davvero giovanissime, che metteva a disposizione di pervertiti e maniaci. Pareva che fosse lui stesso un pedofilo. « Maledetto boss » borbottò fra sé Sampson, percorrendo la strada di Giametti nel quartiere di Kalorama. Giametti era legato alla malavita organizzata ed era ricchissimo. Era stato uno dei primi mafiosi a rendersi conto di quanti soldi si potevano guadagnare facendo venire negli Usa ragazze giovani e carine dall'ex Unione Sovietica, dalla Polonia e dalla Repubblica Ceca. E si era specializzato in quel settore. Sampson gli stava dando la caccia e aveva un unico rimpianto: avrebbe voluto lavorare con Alex Cross. Sarebbe stato bello catturare insieme quel porco di Giametti. Era mezzanotte passata, quando si fermò di fronte alla casa del boss. Giametti non viveva nel lusso più sfrenato, ma non si faceva mancare nulla. La mafia soddisfaceva tutti i bisogni dei suoi adepti. Sampson guardò nello specchietto retrovisore e vide due auto accostare dietro di lui. Parlò al microfono che gli spuntava sotto il colletto della camicia. « Buonasera, signori. Sarà una bella serata, me lo sento. Andiamo a svegliare il Viscido. » Il compagno di squadra di Sampson, in quel periodo, era un ispettore ventottenne che si chiamava Marion Handler ed era grande e grosso quasi quanto lui. Non era Alex Cross, però. Viveva con una cheerleader dal seno molto grande e dal cervello molto piccolo e voleva farsi un nome nella squadra Omicidi. « Sono destinato a far carriera » diceva sempre, senza un briciolo di senso dell'umorismo o di modestia. Sampson trovava stancante e piuttosto deprimente anche solo stare accanto a quel pallone gonfiato, che oltre a essere insopportabilmente arrogante, era anche molto stupido. « E' okay se prendo io il comando, stasera? » chiese Handler quando furono davanti alla porta di Giametti.
C'erano anche altri quattro agenti con un ariete, che guardarono Sampson in attesa che desse il via. « Nessun problema, Marion » rispose Sampson. « Accomodati. Il primo che entra in questa casa è anche il primo che finisce all'obitorio. » Poi si rivolse al collega con l'ariete in mano. « Abbattete la porta. Entrerà Handler per primo. » Dopo due colpi potenti di ariete, la porta cadde per terra e si attivò l'allarme. Gli ispettori entrarono di corsa. Sampson guardò la cucina buia: non c'era nessuno. Gli elettrodomestici erano nuovi. Per terra c'erano un iPod e alcuni CD: Sampson ne dedusse che c'erano dei ragazzi in casa. « E' di sotto» disse ai colleghi. « Non dorme più con la moglie.» Scesero di corsa le scale di legno in fondo alla cucina. Dopo venti secondi al massimo, abbatterono la porta del seminterrato. « Polizia! Mani in alto! Giametti! » urlava Handler. Giametti si svegliò subito e si raggomitolò in un angolo del grande letto. Era basso e peloso, con un pancione prominente. Doveva avere fra i quaranta e i cinquant'anni. Aveva la faccia stralunata di chi si è appena svegliato, o magari ha bevuto o preso qualcosa. Ma John Sampson non si lasciò ingannare dall'aspetto: sapeva di avere di fronte uno spietato assassino. Un delinquente pericoloso. Nel letto c'era anche una ragazzina molto carina, nuda, con i capelli biondi e la carnagione chiara. Cercò di coprirsi il seno e il pube rasato. Sampson sapeva che si chiamava Paulina Sroka ed era polacca. Immaginava di trovarla lì: si diceva che il Viscido fosse follemente innamorato di quella ragazza, che aveva fatto arrivare sei mesi prima. Secondo alcune fonti, aveva ucciso la sua migliore amica, quando questa si era rifiutata di avere rapporti anali con lui. « Non avere paura » le disse Sampson. « Siamo della polizia di Washington. Non corri rischi. Lui è nei guai fino al collo, invece. » «Tu sta' zitta! » urlò Giametti alla ragazza, confusa e spaventata. « Non dire nemmeno una parola, hai capito, Paulina? Ti avverto: tieni la bocca chiusa! » Sampson si mosse più veloce di quanto Giametti si aspettasse e lo atterrò per poi ammanettarlo. « Guai a te se parli! » continuava a urlare il boss, nonostante avesse la faccia per terra, schiacciata contro il tappeto. « Non dirgli niente di niente. Ti avverto, Paulina! Mi senti? » La ragazzina sembrava sperduta e disperata. Sedeva fra le lenzuola sgualcite e si copriva pudicamente con una camicia che le aveva porto uno dei poliziotti.
Alla fine sussurrò: « Lui fa fare a me tutto quello che vuole. Altrimenti tratta male. Fa molto male. Voi capite cosa dico, vero? Non posso quasi camminare... Ho quattordici anni ». Sampson si voltò verso Handler. « Portalo via tu, Marion. Non voglio nemmeno toccarlo, quel verme schifoso. » Un'ora dopo Gino Giametti era al Primo Distretto, dove gli venne fatto il terzo grado in una saletta per interrogatori. Sampson non gli toglieva gli occhi di dosso. Il gangster aveva la brutta abitudine di grattarsi la testa in continuazione, e talmente forte da farsi sanguinare il cuoio capelluto. Sembrava non rendersene neanche conto. Marion Handler aveva gestito l'interrogatorio fino a quel momento, facendo la maggior parte delle domande preliminari, ma Giametti non parlava. Sampson li osservava tutti e due. Fino a quel momento Giametti sembrava averla vinta: era molto più in gamba di quanto desse a vedere. « Mi sono svegliato e Paulina dormiva nel mio letto. Dormiva, capite? Come quando siete entrati voi. Cosa vi posso dire? Ha una camera sua, al piano di sopra. Ma ha paura del buio. Non c'è tutta, poveretta. Fa i lavori di casa per mia moglie. Volevamo iscriverla a scuola. Le abbiamo proposto le scuole migliori. Prima però deve imparare un po' di inglese. Stiamo cercando di darle una mano, povera crista. Perché siete venuti a rompermi le scatole? » Sampson stava perdendo la pazienza. Drizzò la schiena e chiese: « Lei recita molto bene, signor Giametti .» E tu potresti fargli da spalla, Marion. « Lo so, lo so » replicò il gangster con un sorrisetto. « Non è il primo che me lo dice, sa? Le dirò, mi sa che erano sbirri pure gli altri che me l'hanno detto. » «Paulina ci ha detto che l'ha vista ammazzare la sua amica Alexa, che aveva sedici anni. Lei l'ha garrottata! » Giametti batté un pugno sul tavolo. « Ve l'ho detto che non c'è tutta con la testa! Non è vero! Cosa le avete detto, che la rispedirete in Polonia? Che la rimanderete a casa? Perché è quella la sua paura... » Sampson scosse la testa. « No, le abbiamo detto che la aiuteremo a restare in America, se possibile. Che la faremo studiare, le daremo una mano. » « E' una bugiarda. E non c'è tutta con la testa. Ve l'ho già detto: è tanto carina, ma è matta come un cavallo. » Sampson annuì lentamente. « È bugiarda? Okay. Come spiega allora che Roberto Gallo dice esattamente la stessa cosa? Mente pure lui? Perché anche lui sostiene che lei ha ammazzato Alexa e ha caricato il cadavere nel bagagliaio della sua Lincoln... »
« Mente pure lui. Non è vero niente: è una stronzata. Lo sapete benissimo sia voi che Roberto Gallo. Alexa? Chi sarebbe questa Alexa? L'amica immaginaria di Paulina?» Sampson fece spallucce. « Perché io dovrei sapere che Roberto Gallo mente? » « Perché non è andata così, ecco perché! Avrà patteggiato con voi, quell'infame. » « Cosa vuol dire che non è andata così ? E' andata in maniera diversa? Gallo non è un testimone oculare? Paulina sì, però. È questo che sta dicendo, signor Giametti? » Il gangster scosse la testa, accigliato. « Mi ha preso per fesso, detective? Guardi che non sono un cretino. » Sampson allargò le braccia, indicando le pareti della cella. « Però è qui. » Giametti riflette un paio di secondi, poi indicò Handler. « Mandi il suo amico pivello a fare una bella passeggiata, per cortesia. Parlo con lei e solo con lei. Okay? » Sampson lanciò un'occhiata a Marion Handler. Scrollò le spalle e alzò gli occhi al cielo. « Vuoi andarti a prendere un caffè, Marion? » Handler era tutt'altro che contento, ma si alzò e uscì dalla saletta facendo un sacco di rumore. Sembrava un adolescente che il prof ha appena mandato fuori della porta. Rimasto solo con Giametti, Sampson non disse una parola e si limitò a fissarlo, cercando di leggergli nel pensiero. Quell'uomo era un assassino, questo era assodato. A quel punto doveva essersi reso conto di essere nella merda fino al collo. Paulina Sroka aveva quattordici anni... « E' un tipo grande grosso e taciturno, detective? » fece Giametti con un ghigno. « O la sua è tutta scena?» Sampson continuò a tacere. Il silenzio durò qualche minuto. Alla fine Giametti si protese in avanti e parlò con voce bassa e serissima. « Senta, lo sa anche lei che queste accuse sono false, no? Ha l'arma del delitto? Non credo. E il cadavere? Neanche. Io non ho ammazzato nessuna polacca chiamata Alexa. Paulina non c'è tutta con la testa, mi creda. E' giovane, ma non è una bambina. Al suo paese batteva per strada. Lo sapeva lei questo? » Sampson a questo punto parlò: « Io so che lei ha avuto rapporti sessuali con una quattordicenne in casa sua. E ho le prove». Giametti scosse la testa. « Non ha quattordici anni. E' una troietta. E io ho una cosa da offrirle. Riguarda un
suo amico, un certo Alex Cross. Mi ha sentito, detective? Io so chi è stato ad ammazzargli la moglie. E so anche dove potete trovarlo. » John Sampson scese lentamente dalla macchina e percorse il vialetto che portava alla casa del suo più caro amico, in Fifth Street. Davanti alla porta ebbe un attimo di esitazione e cercò di riordinare i pensieri. Doveva calmarsi. Non lo aspettava un'impresa facile, e ne era perfettamente consapevole. Era al corrente di alcuni fatti riguardanti l'omicidio di Maria che neanche Alex conosceva. Dopo un po' suonò il campanello, come aveva fatto mille volte prima. Quel giorno, però, gli costò un'enorme fatica. Temeva quell'incontro, temeva non ne sortisse nulla di buono. Anzi, temeva che potesse mettere fine a una lunga amicizia. Rimase sorpreso nel vedersi aprire la porta da Nana Mama. Aveva una vestaglia a fiori sul blu e sembrava ancor più minuta del solito. Eppure, in quella casa, era adorata. E anche lui l'ammirava e le voleva molto bene. « John! Cos'è successo? Accipicchia, quasi ho paura a chiedertelo... Vieni, entra. Se no mi spaventi tutto il vicinato. » « La gente di questo quartiere vive nella paura » le ricordò Sampson. « Siamo nel Southeast! » « Non mi prendere in giro, John. Guai a te, sai! A cosa dobbiamo la tua visita? » Sampson si sentì di colpo come un ragazzino di fronte a un adulto molto severo. Era una situazione così assurdamente familiare... Gli venne in mente quella volta che lui e Alex erano stati beccati a rubare un disco da Grady's, ai tempi delle medie. E quell'altra volta che il vicepreside li aveva sorpresi mentre fumavano erba dietro la John Carroll High School e Nana era stata convocata d'urgenza dal preside. « Devo parlare con Alex » rispose Sampson. « È una cosa importante, Nana. Sveglialo. » « Sono le tre del mattino, ti ricordo » disse la vecchietta battendo il piede per terra. « Alex non lavora più per le forze dell'ordine. Non potreste lasciarlo in pace, fra tutti? Proprio tu, John Sampson, vieni qui a chiedergli aiuto nel cuore della notte? » Sampson in genere non discuteva con Nana Mama, ma questa volta si fece coraggio e ci provò. « Non sono venuto a chiedergli aiuto, Nana, ma a offrirgli il mio: ne ha bisogno. » E, nonostante le perplessità di Nana, entrò in casa e andò a svegliare Alex. Erano le quattro del mattino e io e Sampson stavamo tornando al Primo Distretto con la sua macchina. Ero sveglissimo, ormai, e teso come una corda di violino. L'assassino di Maria? Dopo più di dieci anni? Dopo tutto questo tempo ci si presentava la possibilità di catturare l'uomo che aveva sparato a mia moglie? Mi
sembrava di vivere in un sogno. Avevo indagato per un anno, all'epoca, e non avevo mai completamente smesso. Possibile che adesso fossimo sulla pista giusta? Non osavo sperarci. Arrivammo in Fourth Street ed entrammo in centrale di corsa, senza parlare. Non vedevo l'ora di parlare con Giametti. Di notte tutte le stazioni di polizia assomigliano stranamente a un Pronto Soccorso: non sai mai cosa ci troverai dentro. Entrando, mi colpì il silenzio: era molto strano. Ma tutto cambiò nel giro di pochissimo. Arrivati alle celle, capimmo subito che c'era qualcosa che non andava: ci saranno stati cinque o sei agenti, tutti con l'aria estremamente preoccupata. Non era normale. L'ispettore che lavorava in coppia con Sampson, Marion Handler, ci vide e ci venne incontro. Mi ignorò, e io feci finta di niente. Ci eravamo parlati in un paio di occasioni e non mi aveva fitto un'impressione particolarmente buona. Mi era parso un pallone gonfiato e mi chiedevo come facesse John a sopportarlo. Forse vedeva in lui qualcosa che a me era sfuggito, o forse stava diventando più tollerante nei confronti del mondo intero. « Non ci crederai: è successa una cosa assolutamente inaudita! » disse a Sampson. « Qualcuno è arrivato a Giametti. Qui dentro, Sampson! E' morto stecchito. L'hanno fatto fuori in cella. » Mentre Handler ci accompagnava all'ultima cella in fondo, mi sentii gelare: non riuscivo a crederci. L'informatore che poteva darmi la possibilità di arrivare all'uomo che aveva sparato a mia moglie era stato ammazzato? In cella? « Era in cella da solo » disse Handler a Sampson. « Come hanno fatto ad arrivare fino a lui? Ad ammazzarcelo sotto il naso? » Sampson e io non provammo neppure a rispondere ed entrammo nella cella. Due tecnici della Scientifica stavano lavorando intorno al cadavere, ma io vidi subito tutto quel che c'era da vedere. L'assassino aveva conficcato un punteruolo da ghiaccio dentro il naso di Gino Giametti. Prima, doveva avergli cavato gli occhi. « Non vedo, non sento, non parlo » commentò Sampson con la sua voce profonda. « Dev'essere stata la mafia. » Quando rincasai, quella mattina, sapevo che non sarei riuscito a dormire. Non era una novità, peraltro. I ragazzi erano a scuola e Nana era uscita: in casa c'era un silenzio di tomba. Nana aveva appeso alla porta del frigo un altro dei buffi titoli che trovava sui giornali: « Si è spento l'uomo che si è dato fuoco ». Era abbastanza divertente, ma non ero dell'umore giusto. Mi misi a suonare un po' il piano e bevvi un bicchiere di vino rosso. Ma restavo inconsolabile. Mi sembrava di vedere la faccia di Maria, di sentire la sua voce. Perché, appena cominciamo a dimenticare, capita sempre qualcosa che ci fa rivivere momenti passati con le persone che ci hanno lasciato? Mi sentivo come se fossi rimasto di
nuovo vedovo. Finalmente, verso le dieci e mezzo, salii in camera mia. Avevo passato già tanti giorni e tante notti così. Ero abituato a dormire da solo. Non era il caso di essere tanto triste. Mi coricai e chiusi gli occhi, ma non mi aspettavo di addormentarmi. Volevo solo riposare. Non riuscivo a non pensare a Maria, da quando ero andato in centrale. Rivivevo il periodo in cui i bambini erano piccoli. E non solo i momenti belli, anche quelli difficili. Ripensando a lei, mi sentii assalire dalla tensione e dopo un po' capii una cosa: volevo che la mia vita tornasse ad avere un senso. Non sapevo da che parte cominciare perché accadesse, però. Come avrei fatto ad andare avanti, a lasciarmi dietro il passato? Be', forse un'idea l'avevo. C'era una persona per cui sarebbe valsa la pena di darmi una scrollata. O mi stavo illudendo soltanto? Alla fine mi assopii e piombai in un sonno inquieto ma senza sogni: il massimo in cui potessi sperare, in quel periodo. Dovevo semplicemente darmi una mossa, no? Cambiare qualcosa nella mia vita. Mi ero liberato della vecchia automobile di Maria e avevo comprato una macchina come si deve. Dovevo cercare di fare qualche altro cambiamento intelligente... Ma perché non ci riuscivo? Il venerdì successivo passai la giornata a pensare al mio appuntamento. Siccome era un appuntamento importante, scelsi un locale importante: il New Heights Restaurant in Calvert Street, vicino al Woodley Park. Avevo invitato la dottoressa Kayla Coles per le nove, ora in cui finiva di lavorare. Presi posto, perché avevo paura che lasciassero il tavolo a qualcun altro se Kayla fosse arrivata in ritardo. Ma Kayla arrivò alle nove e un quarto soltanto. Ero contento di vederla. È una donna affascinante, con un bel sorriso, e soprattutto sto bene con lei. Abbiamo sempre qualcosa di cui parlare, a differenza di molte altre coppie di mia conoscenza. « Wow! » esclamai nel vederla entrare nella sala. Aveva scarpe basse, forse perché è molto alta e non ha bisogno di tacchi, o forse perché è sana di mente e vuole bene ai suoi piedi. « Wow tu! » replicò lei. « Ti trovo in splendida forma, Alex. Che bel posto! Che vista! » Avevo scelto un tavolo di fronte alla vetrata che dava su Rock Creek Park, e devo ammettere che la vista era spettacolare. Ma anche Kayla era un bel vedere: camicia beige, giacca di seta avorio e calzoni neri con fusciacca dorata. Ordinammo una bottiglia di Pinot nero e un antipasto — medaglione di formaggio di capra e fagioli neri - che dividemmo, seguito da salmone selvaggio per lei e costine di maiale al pepe per me. Concludemmo la cena, squisita, con un dessert al cioccolato extra fondente. Era tutto molto bello, dai ciliegi in fiore nonostante fosse
autunno ai quadri appesi alle pareti e al profumo di spezie nella sala illuminata da una miriade di candele. Ma, più che il ristorante, io guardavo Kayla, e soprattutto i suoi occhi profondi, scuri, intelligenti. Dopo cena, andammo a fare due passi sul Duke Ellington Bridge, verso Adams Morgan e Columbia Road. Ci fermammo in uno dei miei negozi preferiti, Crooked Beat Records, e io acquistai qualche CD di Alex Chilton e John Coltrane da Neil Becton, uno dei proprietari, un vecchio amico che ha scritto anche per il Post. Regalai i CD a Kayla, poi la portai al Kabani Village, poco distante, dove bevemmo un mojito e guardammo una performance teatrale. Mentre tornavamo alla mia macchina, ci tenemmo per mano, sempre parlando di un sacco di cose interessanti. Alla fine Kayla mi diede un bacio... sulla guancia. Non sapevo come interpretare quel gesto. « Grazie della bella serata » mi disse. « Sono stata proprio bene, Alex. Sto proprio bene con te. » « Anch'io» replicai, ancora un po' confuso da quel bacio così casto. Kayla sorrise. « Non ti avevo mai visto così rilassato. » Penso che non avrebbe potuto dirmi niente di più bello. La perdonai per il bacio fraterno. Ma a quel punto Kayla me ne diede un altro, sulla bocca. E io risposi con calore. Ero molto contento. E lo fui ancor di più a casa sua, dove passammo il resto della notte. Almeno per quelle ore, mi parve che la mia vita stesse ricominciando ad avere un senso. Il Macellaio aveva sempre pensato che Venezia fosse sopravvalutata. Quel giorno, con le strade piene di turisti, soprattutto americani ingenui e arroganti, gli avrebbe dato ragione chiunque. O forse no, perché il mondo è pieno di imbecilli e lui l'aveva capito a quindici anni, per le strade di Brooklyn, dopo essere scappato di casa. Era stato un adolescente difficile, problematico, vittima delle circostanze o forse geneticamente tarato. Era arrivato a Venezia in macchina e l'aveva lasciata in piazzale Roma. Poi aveva preso un vaporetto. Quasi tutti i turisti per le strade avevano l'espressione rapita, affascinata. Pecoroni: non erano in grado di ragionare con la loro testa e di capire se un monumento era bello o brutto senza l'aiuto della guida turistica. Ma anche Sullivan doveva ammettere che la città che affondava lentamente nella laguna, con la luce giusta, era uno spettacolo interessante. Mentre viaggiava sui canali verso la sua destinazione, cominciò a pensare al lavoro che lo aspettava: Martin e Marcia Harris. Era così che li chiamavano amici e conoscenti a Madison, Wisconsin. A Sullivan non interessava chi fossero veramente, anche se lo sapeva. Per lui rappresentavano centomila dollari già depositati sul suo conto in Svizzera, più le spese, per un paio
di giorni di lavoro. Aveva fama di essere uno dei killer più bravi del mondo, e si sa che, più si paga, migliore è il servizio. A parte nei ristoranti di Los Angeles. Si era sorpreso, quando John Maggione lo aveva chiamato per offrirgli quell'incarico. Ma aveva accettato comunque. Scese dal vaporetto al Rio di San Moisè, nei pressi del Canal Grande, e percorrendo calli strette e piene di negozi arrivò in piazza San Marco. Era in contatto radio con un collaboratore, che lo informò che gli Harris stavano passeggiando nella piazza, guardando con calma il panorama. Erano le undici di sera e Sullivan si chiese che cosa avessero in mente di fare: sarebbero andati in qualche night club? Avevano in programma uno spuntino di mezzanotte da Cipriani, o magari un drink all'Harry's Bar? Li vide: lui indossava un Burberry, lei aveva uno scialle di cachemire e teneva in mano Dove cadono gli angeli. Venezia e altri misteri, di John Berendt. Li seguì, mimetizzato tra la folla festosa di turisti. Si era vestito in maniera molto anonima, con una felpa, calzoni beige e un berretto impermeabile di cui si sarebbe potuto liberare in fretta. Sotto, indossava un completo di tweed marrone, camicia e cravatta. In tasca aveva anche una coppola. Il suo travestimento da professore, uno dei suoi preferiti, quando andava in Europa per lavoro. Gli Harris imboccarono Calle Tredici Martiri. Sullivan sapeva già che soggiornavano al Bauer Hotel e immaginò che si stessero recando lì. « Mi state rendendo tutto fin troppo facile » borbottò fra sé. Poi pensò: Errore. Seguì Martin e Marcia Harris che camminavano sottobraccio lungo la calle stretta e buia, così tipica di Venezia, ed entravano nel Bauer Hotel. Si chiese come mai John Maggione li voleva morti, ma solo fugacemente: in fondo, non erano fatti suoi. Qualche minuto dopo si sedette a poca distanza dai due sulla terrazza dell'albergo. Era molto bella, con vista sul canale e la Chiesa della Salute. Il Macellaio ordinò un Bushmills, ma ne bevve soltanto un sorso o due, giusto per allentare un po' la tensione. Aveva il bisturi nella tasca dei calzoni. Ci giocherellò brevemente, osservando gli Harris. Sembravano proprio due piccioncini, pensò, vedendo che si baciavano. Perché non ve ne andate in camera? Neanche gli avesse letto nel pensiero, Martin Harris chiese il conto e lasciò la terrazza, ancora abbastanza affollata, insieme con la moglie. Sullivan li seguì. Il Bauer era un tipico palazzo veneziano, sembrava più una casa che un albergo. Era molto curato in tutti i dettagli, davvero lussuoso. Sarebbe piaciuto tantissimo a sua moglie Caitlin. Peccato che non ce l'avrebbe mai potuta portare. Neanche lui ci sarebbe mai più potuto tornare. Non dopo la raccapricciante tragedia che si stava per compiere in quel palazzo. Perché era questa la sua specialità: le tragedie raccapriccianti.
Sapeva che c'erano novantasette camere e diciotto suite al Bauer e che gli Harris avevano preso una suite al terzo piano. Li seguì su per le scale coperte di moquette e pensò di nuovo: Errore. Ma chi era stato a commetterlo? Loro o lui? Era una domanda cruciale, a cui bisognava assolutamente trovare risposta al più presto. Arrivò sul mezzanino e... di colpo andò tutto storto. Gli Harris lo stavano aspettando al varco, pistole puntate contro di lui. Martin aveva un ghigno satanico sul volto. Probabilmente volevano trascinarlo in camera loro e ucciderlo. Gli avevano teso un agguato! Erano due professionisti! Avevano fatto un buon lavoro, doveva ammetterlo. Sì, meritavano più o meno otto su dieci. Ma chi era il mandante dell'operazione? Chi aveva deciso la sua morte a Venezia? E, soprattutto, perché? Chi lo voleva morto e per quale ragione? Avendo due pistole puntate addosso, però, non gli parve il momento più adatto per arrovellarsi. Meno male che gli Harris avevano commesso diversi errori. Si erano fatti seguire fin troppo facilmente, erano stati troppo tranquilli e disinvolti, e anche troppo romantici, per essere una coppia sposata da vent'anni, per quanto in vacanza a Venezia. Per questo il Macellaio era salito su per le scale con la pistola in pugno e, non appena li aveva visti con le armi puntate, aveva fatto fuoco. Non ebbe un attimo di esitazione, neppure mezzo secondo. Essendo uno schifoso maschilista, ammazzò per primo l'uomo, che riteneva il più pericoloso. Gli sparò in faccia, spappolandogli bocca e naso. Un colpo mortale, decisamente. Martin Harris piegò la testa all'indietro e perse il parrucchino biondo. Sullivan si buttò a terra, rotolò verso sinistra e schivò il colpo sparato da Marcia Harris. Fece fuoco di nuovo e colpì la sua avversaria alla gola. Per sicurezza, le sparò anche al petto. E poi diritto al cuore. Sapeva che gli Harris, stesi sul pianerottolo in un lago di sangue, erano morti, ma non scappò di corsa. Tirò fuori il bisturi e li sfigurò. Se avesse avuto tempo, gli avrebbe cucito occhi e bocca, perché il messaggio fosse inequivocabile. Prima di andarsene, scattò una mezza dozzina di foto per la sua collezione. Un giorno avrebbe mostrato le foto dei due killer morti a colui che aveva dato loro l'incarico di eliminare il Macellaio. Ovvero a John Maggione, il boss. Quando era Michael Sullivan, era abituato a essere molto riflessivo. Su tutto, non
solo nelle questioni professionali. Pensava spesso anche alla sua famiglia, a piccoli dettagli riguardanti la loro vita. Gli tornava spesso in mente suo padre e la sua macelleria con la tenda a strisce arancioni, bianche e verdi, come la bandiera irlandese, i muri bianchi e il tritacarne elettrico che sembrava far tremare le pareti ogni volta che veniva acceso. Per la sua nuova vita, lontano da Brooklyn, aveva scelto la contea di Montgomery, nel Maryland, ricca e borghese. E, in particolare, la città di Potomac. Il suo aereo dall'Europa atterrò verso le tre del pomeriggio. Salì in auto e attraversò la città a venticinque miglia all'ora, fermandosi puntualmente a tutti i semafori, specie a quello fastidiosamente lento all'angolo fra River Road e Falls Road. E, lungo tutta la strada, pensò. In maniera quasi ossessiva. Chi era stato a mandargli i due killer? Davvero Maggione lo voleva morto? Che cosa significava questo per lui e la sua famiglia? Era prudente tornare a casa in quel momento? Per la sua vita privata aveva scelto un travestimento che lo divertiva moltissimo: quello del padre di famiglia borghese alternativo. Seguiva una dieta povera di grassi, prediligeva i piatti etnici, aveva comprato alla moglie un SUV con l'autoradio perennemente sintonizzata su NPR: le gioie degli yuppie non finiscono mai. Era assurdo, e anche profondamente ironico. I suoi tre figli andavano alla Landor School, rigorosamente privata, insieme con figli di papà molto beneducati ma spesso anche sadici e maligni. Nella contea di Montgomery abitavano parecchi medici benestanti che lavoravano per l'NIH, l'FDA e il Bethesda Naval Medicai Command. Sullivan in quel momento stava per uscire dalla contea di Montgomery diretto verso quella di Hunt, dove abitava. Ed eccola, finalmente, casa dolce casa. L'aveva acquistata nel 2002 per un milione e mezzo di dollari. Sei ampie camere da letto, quattro bagni, piscina riscaldata, sauna, tavernetta con megaschermo. La radio satellitare Sirius era l'ultima passione di Caitlin e dei ragazzi. La dolce Caitlin, l'amore della sua rispettabile vita, che seguiva i consigli del suo guru e ultimamente si serviva persino di un guaritore, pagati grazie ai soldi che guadagnava lui. L'aveva chiamata al cellulare e adesso era lì, in giardino, pronta ad accoglierlo con i ragazzi. La sua bella famiglia felice lo salutava affettuosa, ignara di far parte di un travestimento, una sceneggiata, una copertura. Perché non era altro che questo, no? Sullivan scese dalla Cadillac con un sorriso da pubblicità e intonò Daddy's Home, la canzone più famosa di Shep and the Limelites. « Daddy's home, your daddy's home to stay. » Al che, Caitlin e i ragazzi continuarono: « He's not a thousand miles a-waaay!» La vita è una cosa meravigliosa, pensò. Peccato che adesso qualcuno volesse togliergliela. E, naturalmente, il suo passato restava lì, minaccioso, con le strade di
Brooklyn in cui era cresciuto, il padre folle, l'uomo che veniva a ritirare le carcasse, il retrobottega in cui avevano avuto luogo tante nefandezze. Meglio non pensarci... Era arrivato a casa sano e salvo, ce l'aveva fatta ancora una volta. Fece un inchino alla sua famiglia che salutava il ritorno dell'eroe. Perché questo era Michael Sullivan: un eroe.
PARTE TERZA Terapia « Ciao, Alex! Da quanto tempo... Tutto bene? Ti trovo in gran forma. » Feci un cenno di saluto a Malina Freeman, una donna minuta e abbastanza carina, e continuai a correre. Malina era una specie di istituzione nel quartiere, come me. Aveva più o meno la mia età e lavorava nel negozio in cui da bambini dilapidavamo la nostra paghetta in caramelle e bibite. Avevo sentito dire che le piacevo. Anche a me piaceva lei, peraltro. Mi era sempre stata simpatica. I miei piedi continuarono a correre lungo Fifth Street conte se conoscessero la strada. Nei pressi di Seward Square svoltai a destra, il che significava fare il giro lungo. Non era logico, ma non era per logica che decisi di passare da quella parte. Non riuscivo a smettere di pensare che ero stato a un passo dallo scoprire chi aveva ammazzato mia moglie e trovavo assolutamente normale non aver voglia di tornare nel luogo in cui l'avevo persa. Mi sforzavo di ricordarla come era stata da viva, non da morta. Nello stesso tempo, cercavo costantemente di rintracciare il suo assassino, che sospettavo essere ancora in giro. Svoltai in Seventh Street e mi diressi verso il National Mail, aumentando lievemente la velocità. Quando arrivai al mio portone in Indiana Avenue, presi fiato e feci i gradini a due a due, fino al quarto piano. Il mio nuovo studio era un monolocale recentemente ristrutturato, con un piccolo bagno e un angolo cottura. Dai vetri del bovindo entrava un sacco di luce. E proprio lì avevo sistemato due poltrone e un divanetto, per le mie sedute di psicoterapia. Ero molto emozionato all'idea di dedicarmi a quel lavoro. Non vedevo l'ora di ricevere il mio primo paziente. Sulla scrivania avevo tre classificatori pieni di pratiche dell'FBI e del dipartimento di polizia di Washington. Erano quasi tutte potenziali consulenze, per me. Non mi dispiaceva l'idea di risolvere qualche caso ogni tanto. Il primo dossier che esaminai riguardava un serial killer della Georgia, che un giornalista aveva soprannominato « l'uomo di mezzanotte » e che aveva già ucciso tre neri, a intervalli di tempo sempre più ravvicinati. Era un caso che mi si addiceva, a parte il fatto che fra Washington e Atlanta c'erano quasi mille
chilometri. Misi da parte la pratica. Il caso successivo era più vicino a casa. Due professori di storia della University of Maryland, che forse avevano una relazione, erano stati trovati morti in un'aula, impiccati alle travi del soffitto. La polizia locale aveva un sospettato, ma voleva consultare un profiler prima di prendere iniziative. Attaccai un post-it giallo alla pratica e la posai sulla scrivania. Giallo stava per « possibile ». Sentii bussare alla porta. « Avanti! » dissi e subito dopo fui assalito dalla solita paranoia. Che cosa mi aveva detto Nana, quando ero uscito di casa, poco prima? Sta' attento a non farti ammazzare. Certe abitudini sono dure a morire... Ma alla mia porta non c'erano né Kyle Craig né altri maniaci assassini del mio passato. A bussare era stato il mio primo paziente. Anzi, la mia prima paziente. Occupava quasi tutta la porta ed era titubante, come se avesse paura a farsi avanti. Con la bocca all'ingiù e la mano sulla maniglia, cercava di riprendere fiato e darsi un contegno. « Quando pensa di mettere l'ascensore? » mi chiese, ansante. « Mi spiace » dissi. « Lei dev'essere Kim Stafford. Piacere, Alex Cross. Prego, si accomodi. Vuole un bicchiere d'acqua? Un caffè? » La donna entrò con passo pesante nel mio studio. Era obesa e non aveva ancora trent'anni, ma ne dimostrava almeno dieci di più. Era vestita in maniera molto formale, con una gonna scura e una camicetta bianca dall'aria vecchiotta, ma di buon taglio. Intorno al collo aveva una sciarpa di seta azzurra e lilla. « A quanto ho capito dal messaggio che mi ha lasciato sulla segreteria telefonica, a indirizzarla a me è stato Robert Hatfield » le dissi. « Siamo stati colleghi, in polizia. E' suo amico? » « Non proprio. » Okay, non sei un'amica di Robert Hatfield. Aspettai che si spiegasse, ma Kim Stafford non disse altro. Rimase lì, in piedi in mezzo allo studio, a guardarsi intorno. « Vogliamo sederci? » la invitai. Kim Stafford aspettò che mi sedessi per primo. Alla fine si sedette anche lei, sul bordo della poltrona, giocherellando nervosamente con la sciarpa con una mano e stringendo l'altra a pugno.
« Ho bisogno di aiuto per capire una persona » mi disse. « Una persona che va soggetta a crisi di rabbia. » « E' una persona a lei vicina? » La donna si irrigidì. « Non voglio dirle chi è. » « Non mi interessa sapere il nome. Mi dica solo se fa parte della sua famiglia. » « E' il mio fidanzato. » Annuii. « Da quanto tempo state assieme, se posso chiederglielo? » « Quattro anni » rispose lei. « Vuole che dimagrisca, prima di sposarmi. » Sarà stata la forza dell'abitudine, ma stavo già delineando il profilo psicologico dell'uomo in questione. Probabilmente incolpava lei di tutto ciò che non andava bene nel loro rapporto, non si assumeva nessuna responsabilità e la incolpava di essere obesa. « Quando parla di crisi di rabbia, che cosa intende esattamente? » « Be', lui...» Kim Stafford aspettò un momento prima di rispondere e io pensai che fosse perché si vergognava, più che per mettere in ordine i propri pensieri. Poi vidi che le venivano le lacrime agli occhi. « Ha mai avuto comportamenti violenti verso di lei, Kim? » le domandai. « No, no » rispose, un po' troppo in fretta. « Non è violento. Però... Sì, okay, diciamo che è violento. » Sospirò, forse in segno di resa. Poi però si tolse la sciarpa e se la lasciò cadere in grembo. Rimasi di stucco. I segni erano visibilissimi. Rossi, brutti, tutto intorno al collo. Ne avevo già visto parecchi, così, ma in genere su cadaveri. Dovetti ricordare a me stesso che mi ero lasciato alle spalle gli omicidi, che si trattava di una seduta di psicoterapia. « Come ha fatto a procurarsi quei segni sul collo, Kim? Mi dica tutto quello che può.» La ragazza fece una smorfia e si rimise la sciarpa. « Se mi suona il cellulare, devo rispondere. Gli ho detto che andavo da mia madre. » Rimase così turbata che capii che sarebbe stato prematuro cercare di farla parlare degli abusi subiti. Senza guardarmi in faccia, si sbottonò il polsino. Non capivo che cosa volesse fare,
ma poi notai un segno rosso sopra il polso, che stava cominciando a guarire. « E' un'ustione? » le domandai. « Fuma il sigaro » fu la sua risposta. Presi fiato. Kim Stafford aveva un tono neutro, pacato, privo di emozioni. « Ha chiamato la polizia? » Kim fece un'amara risata. « No. » Si portò la mano alla bocca e distolse lo sguardo. Evidentemente aveva talmente paura che sentiva di dover proteggere l'autore di quelle violenze. Le suonò il cellulare nella borsa. Senza una parola, Kim Stafford lo prese, guardò il display e rispose. « Ciao, caro. Cosa c'è? » Il tono era tranquillo, dolce, del tutto convincente. « No » disse. « La mamma è uscita un attimo a comprare il latte. Certo che sono sicura. Te la saluto io quando torna. » Ero affascinato dalle sue espressioni: Kim non stava recitando solo per lui, ma anche per se stessa. Probabilmente era l'unico modo per tirare avanti, per lei. Quando chiuse la comunicazione, mi guardò e mi fece un sorriso assurdo, come se quella telefonata non fosse mai avvenuta. Durò un paio di secondi soltanto, poi Kim scoppiò in singhiozzi. Si piegò in avanti, con le braccia conserte. « Non ce la faccio più... » disse con voce soffocata. « Mi scusi, ma io... Io non posso essere qui... » Quando il cellulare squillò per la seconda volta, Kim fece un salto sulla sedia. Quei controlli a sorpresa rendevano molto più difficile il nostro lavoro psicoterapeutico: è troppo arduo cercare consapevolezza e al tempo stesso negare... Si asciugò gli occhi, come se lui potesse vederla, e rispose con lo stesso tono dolce di prima. « Ciao, tesoro. No, ero andata a lavarmi le mani. Scusami, se non sono riuscita a risponderti subito. » Sentivo che la voce di lui era alterata, rabbiosa. Kim annuiva, paziente. Alla fine mi fece un cenno, si alzò e andò a parlare fuori della porta. Utilizzai quella pausa per controllare alcune informazioni su Internet e cercare di calmare la mia stessa rabbia. Quando Kim Stafford tornò, le porsi un elenco di centri di accoglienza, ma lei rifiutò di prenderlo. « Devo andare » mi disse. Dopo la seconda telefonata, si era chiusa a riccio. « Quanto le devo? »
« Per la prima seduta, niente. Mi pagherà dalla prossima in poi. » « Non voglio la sua carità, dottore. Anche perché non credo di poter tornare. Mi dica quanto le devo. » Riluttante, risposi: « Si parte dai cento dollari a seduta e si va a scalare. Me ne dia cinquanta». Contò le banconote, prevalentemente da cinque e da uno. Doveva aver messo da parte i soldi poco per volta. Poi uscì. La mia prima seduta era finita. Errore. Grave errore. Un mafioso del New Jersey, un ex killer di nome Benny « Goodman » Fontana, stava fischiettando una canzone di Frank Sinatra mentre girava intorno alla sua Lincoln blu per aprire la portiera del passeggero con un inchino e un sorriso a trentadue denti. Dalla macchina scese una bionda prosperosa e con le gambe lunghissime. Aveva ventisei anni, aveva partecipato al concorso per l'elezione di Miss Universo ed era di una bellezza mozzafiato. Troppo bella e troppo elegante per uno come Benny, che sicuramente aveva messo mano al portafoglio per conquistarla. Fontana era un duro, ma non era propriamente un divo del cinema. Un personaggio alla Tony Soprano, piuttosto. Il Macellaio osservava la scena dalla propria auto, parcheggiata poco distante. Calcolò che la bionda dovesse avergli chiesto sui cinquecento dollari l'ora, o magari duemila dollari per tutta la notte. Chissà, forse la signora Fontana era andata fuori città a trovare la figlia, che studiava al Marymount Manhattan College. Michael Sullivan guardò l'ora. Mancavano otto minuti alle otto. Dopo l'increscioso episodio di Venezia, aveva deciso di mandare qualche messaggio alle persone giuste. E quello era il primo. Alle otto e un quarto, prese la valigetta dal sedile posteriore e attraversò la strada, tenendosi all'ombra degli aceri e degli olmi. Non dovette aspettare a lungo perché una donna con i capelli azzurrini, impellicciata, uscisse dal portone del palazzo. Sullivan le tenne aperto il portone con un sorriso ed entrò. Era più o meno tutto come ricordava. L'appartamento 4C apparteneva al clan da anni, da quando alla mafia italiana si erano aperte molte strade a Washington. Veniva messo a disposizione dei membri del clan che avevano bisogno di un po' di privacy, per un motivo o per l'altro. Anche il Macellaio l'aveva usato un paio di volte, quando lavorava per Benny Fontana, prima che John Maggione prendesse il posto di suo padre e cominciasse a estrometterlo dagli affari. Anche la serratura sembrava la stessa, più o meno. Errore. Sullivan la forzò servendosi di un attrezzo da tre dollari che si era portato da casa e che rimise nella valigetta. Poi prese la pistola e un bisturi molto, molto speciale. Il salotto era in penombra. C'erano due coni di luce, uno che proveniva dalla cucina a sinistra e l'altro dalla camera da letto a destra. Sentendo ansimare insistentemente
Benny, Michael Sullivan capì che non aveva più molto tempo a disposizione. Attraversò il salotto in punta di piedi e andò a sbirciare dalla porta. Miss Universo era sopra, ma questo non lo sorprese. Gli dava la schiena. « Così, amore, così. Sì, mi piace » diceva Benny. « Adesso ti metto il dito nel... » Sullivan fece fuoco, una volta sola, con il silenziatore. Colpì Miss Universo alla testa, facendo schizzare sangue e materia cerebrale addosso a Benny Fontana e sul letto. Il boss si mise a urlare come se avessero sparato a lui. Riuscì a districarsi da sotto il cadavere e a rotolare giù dal letto, allontanandosi dal comodino e quindi dalla propria arma. Il Macellaio scoppiò a ridere. Non voleva mancare di rispetto al boss, o alla povera morta, ma quella sera Fontana aveva commesso un errore via l'altro. Stava perdendo colpi. Ed era per questo che Sullivan aveva cominciato proprio da lui. « Buonasera, Benny. Come stai? » gli disse, accendendo la luce. « Dobbiamo parlare di quel che è successo a Venezia. » Prese un bisturi con una lama speciale, fatta apposta per incidere i muscoli. « Voglio mandare un messaggio a Maggione tramite te. Mi faresti questo favore, Benny? Mi faresti da ambasciatore? A proposito, hai mai sentito parlare dell'operazione di Syme? E' una tecnica per l'amputazione del piede. » Michael Sullivan non poteva tornare subito a casa nel Maryland, dopo quello che aveva fatto a Benny Fontana e alla sua donna. Era troppo agitato, si sentiva ribollire. Ed era ossessionato da vecchi ricordi del retrobottega di suo padre, a Brooklyn, con la segatura ammucchiata nella carriola, il pavimento di cotto con le fughe bianche, le seghe, i coltellacci, i ganci nella cella frigorifera... Così passeggiò per un po' a Georgetown, in cerca di sfogo, di qualcosa di suo gusto. Gli piacevano le donne di una certa classe: avvocatesse, professoresse, bibliotecarie. Meglio se portavano gli occhiali, tenevano la camicetta abbottonata fino al colletto e sfoggiavano pettinature classiche. E se erano controllate. Era bello portarle piano piano a perdere il controllo, ad abbandonarsi. Per lui era un modo per sfogarsi, per violare le regole di una società che gli faceva schifo, per prendersi una rivincita. Georgetown era l'ideale, per rimorchiare quel genere di donna. Ma tutte quelle che incontrò quella sera erano un po' troppo nervose, e la scelta non era molta. Era troppo tardi. Si consolò pensando che non aveva bisogno di trovarne tante, in fondo: gliene bastava una. E, forse, l'aveva già avvistata. O almeno così gli pareva. Gli dava l'idea di essere un'avvocatessa, elegante nel tailleur di tweed, con i tacchi che risuonavano sul marciapiede. Eccomi qui, parevano dire. Eccomi qui. Le Nike di Sullivan, al contrario, facevano pochissimo rumore. E la felpa con il cappuccio lo faceva sembrare uno dei tanti maniaci del fitness usciti a fare jogging per il quartiere. Se qualcuno lo avesse visto dalla finestra, non avrebbe fatto caso a lui.
Ma nessuno pareva guardarlo, nemmeno Miss Tailleur di Tweed. Errore, pensò Sullivan. La donna camminava veloce, con la borsa a tracolla e la ventiquattrore stretta sottobraccio manco contenesse il Codice da Vinci. Camminava sul lato esterno del marciapiede: insomma, faceva tutto quello che doveva fare una donna sola per strada a quell'ora. Il suo unico errore era non guardarsi intorno, non controllare che cosa succedeva per la strada, non notare l'uomo con la felpa che invece di fare jogging le camminava alle spalle. Errore! E potenzialmente fatale. Sullivan si nascose nell'ombra, quando Miss Tailleur di Tweed passò sotto il lampione. Era ben fatta, un gran bel culo, nulla da dire. E non portava la fede all'anulare sinistro. I tacchi continuarono a risuonare sul marciapiede, ritmici, per un po', poi rallentarono davanti a una casa di mattoni rossi. Bella, ottocentesca, di quelle ristrutturate e divise in appartamenti. La donna tirò fuori dalla tasca le chiavi prima ancora di arrivare al portone e Sullivan si preparò ad attaccare. Si infilò una mano in tasca e tirò fuori un foglietto. Cos'era? La ricevuta della lavanderia? Poca importanza... Non appena la donna infilò la chiave nella serratura, le gridò: « Mi scusi, signora? Le è caduto questo! » Miss Tailleur di Tweed non era una sciocca: sua madre l'aveva istruita come si deve. Capì immediatamente di essere in pericolo, ma non fece lo stesso in tempo a mettersi in salvo. Sullivan la raggiunse prima che lei potesse sbattergli in faccia la porta a vetri e chiuderla a chiave. Nell'atrio c'era una finta lampada a gas, che mandava una luce piuttosto fievole, ma lui riuscì a leggere il terrore nei suoi occhi azzurri. La lama del bisturi che teneva in mano brillò nella penombra. Sullivan gliela avvicinò al volto. Voleva che la vedesse bene, e che si concentrasse su quella, anziché su di lui. Era un trucco che funzionava sempre: il novanta per cento delle vittime di aggressione ricorda nei particolari l'arma, ma non l'aggressore. Miss Tailleur di Tweed inciampò goffamente, prima che lui la raggiungesse e si piazzasse con le spalle alla porta per impedire a eventuali passanti di vedere che cosa stava succedendo. Mentre con una mano le teneva il bisturi davanti agli occhi, con l'altra le strappò le chiavi dalle dita. « Non dire una parola » intimò, indicandosi le labbra con la lama. « E ricordati che non uso anestesia, e nemmeno Betadine: taglio e basta. » La donna arretrò, in punta di piedi, verso la balaustra barocca della scala. Gli porse
la borsetta firmata. « Ecco. Prendila e vattene, per favore. » « No, no, ti sbagli. Non è questa che voglio. Ascoltami bene. Mi stai ascoltando? » « Sì. » « Vivi sola? » le chiese. Le sue parole sortirono l'effetto desiderato. Il silenzio di lei fu una risposta chiarissima. « No » sussurrò la donna, troppo tardi. Le cassette della posta erano tre e solo la numero due aveva un nome, uno soltanto: L. Brandt. « Saliamo, signorina Brandt. » « Io non... » « Sì, invece, sei la signorina Brandt. Non c'è bisogno di mentire. Dai, sbrigati, prima che sia troppo tardi. » Arrivarono all'appartamento della donna, al primo piano, in meno di venti secondi. Il soggiorno era come la sua proprietaria: elegante e ordinato. Alle pareti erano appesi poster di baci in bianco e nero. Erano locandine di film, Insonnia d'amore, Ufficiale e gentiluomo. Dunque Miss Tailleur di Tweed era una romanticona. Anche Sullivan, a modo suo, lo era, o perlomeno era convinto di esserlo. Quando la sollevò di peso, la sentì irrigidirsi. Era minuta e riuscì a portarla in camera da letto con un braccio solo. La buttò sul letto e lei rimase lì, immobile, terrorizzata. « Sei molto bella » le disse. « Una bambolina. Se non ti dispiace, ti vedrei volentieri senza tutta questa roba addosso. » Con il bisturi tagliò via i bottoni dell'elegante tailleur. La donna era inerme, totalmente succube di lui. Non dovette neppure ricordarle di stare zitta. Le tolse mutande e reggiseno con le mani. Erano neri, di pizzo. Eppure è un giorno feriale, pensò. Non portava collant e aveva le gambe molto ben fatte e abbronzate. Unghie dei piedi scarlatte. Quando chiuse gli occhi, Sullivan la schiaffeggiò: voleva che stesse attenta. « Stai con me, L. Brandt. » Gli cadde l'occhio su un oggetto sul comò. Un rossetto. « Mettitelo, dai. E, già che ci sei, mettiti anche due gocce di profumo. Scegli tu quale.» L. Brandt ubbidì. Sapeva di non avere scelta. Sullivan si masturbava con una mano e con l'altra impugnava il bisturi: una scena che la donna non avrebbe dimenticato mai più. La penetrò.
« Voglio che tu stia al gioco» le disse. « Fai finta, se necessario. Sicuramente non sarà la prima volta. » La donna fece del proprio meglio, inarcando la schiena e gemendo persino. Ma evitò di guardarlo in faccia. « Guardami » le ordinò. « Guardami, t'ho detto. Forza, guardami. Guardami, guardami... » Finì così. Per lui, ma anche per lei. « Vorrei fare due chiacchiere, prima di andarmene » le disse. « Perché, che tu mi creda o no, me ne voglio andare. Non voglio farti del male. Non più di quello che ti ho già fatto. » Raccolse la borsetta dal pavimento e dentro trovò quello che cercava: una rubrica nera e la patente di guida. La avvicinò all'abat-jour sul comodino. « Ah, ti chiami Lisa. Bella, la foto. Anche se di persona sei meglio, devo dire. Adesso ti faccio vedere io qualche foto. » Non ne aveva molte, soltanto quattro. Ma erano fra le sue preferite. Le dispose a ventaglio, mostrandogliele. Lisa si irrigidì. Gli venne da ridere: cosa credeva, che se fosse stata ferma immobile lui l'avrebbe risparmiata? Le mostrò le fotografie una per una. « Queste sono persone che ho incontrato due volte nella mia vita. Io e te ci siamo visti una volta soltanto. Per ora. Se ci rivedremo o no dipende unicamente da te. Mi segui? Sono stato abbastanza chiaro? » « Sì. » Sullivan si alzò e si avvicinò al suo lato del letto. Voleva darle qualche secondo per comprendere bene il significato delle sue parole. Lisa si coprì con un lenzuolo. « Allora, Lisa, ci siamo capiti? Siamo sicuri? So che per te è difficile concentrarti, adesso come adesso. Me ne rendo conto. » « Non dirò niente » mormorò lei. « A nessuno. » « Ti credo » fece lui. « Nel caso, comunque, prendo questa. » Le mostrò la rubrica nera. La aprì alla lettera B. « Ecco qui: Tom e Lois Brandt. Immagino siano i tuoi genitori. Vero Beach, Florida. Dev'essere un bel posto. LaTreasure Coast...» « Per favore... » « Dipende solo da te, Lisa » ripeté Sullivan. « Se vuoi il mio parere, mi dispiacerebbe proprio che tu facessi la fine di quelle altre delle foto. Smembrate, a pezzettini... Quando mi arrabbio, sono capace di qualsiasi cosa. » Scostò il lenzuolo e la guardò un'ultima volta. « Sarebbero dei bei pezzettini, nel tuo caso. Ma mi dispiacerebbe comunque. »
Con quelle parole, se ne andò, lasciando Lisa Brandt sola con il ricordo di lui. « Ecco perché non porto la cravatta. » John Sampson si allentò il nodo alla cravatta e se la sfilò dalla testa, esasperato. Poi la gettò nel cestino della spazzatura, insieme con quello che restava del suo caffè. Era rimasto sveglio quasi tutta la notte con Billie, perché la piccola Djakata aveva la febbre. Aveva bisogno di caffeina. Quando gli squillò il telefono sulla scrivania, si rese conto di non aver voglia di parlare con nessuno. « Pronto. » Era una donna. « Parlo con il detective Sampson? » « Sì. Chi parla? » « Sono Angela Susan Anton, del Secondo Distretto. Mi occupo di violenze sessuali.» « M i dica.» Sampson aspettò che la collega gli spiegasse la situazione. « Mi sto occupando di un caso difficile e speravo che lei potesse darmi una mano. » Sampson cercò il bicchiere di caffè che aveva appena buttato nel cestino. Per fortuna non si era rovesciato. « Di che caso si tratta? » « Uno stupro, avvenuto ieri sera a Georgetown. La vittima è stata ricoverata al Georgetown University Hospital, ma non vuole dire nulla. Ammette solo di essere stata aggredita: non vuole dare informazioni sull'aggressore, si rifiuta persino di descrivercelo. Sono rimasta con lei tutta la mattina e non sono arrivata da nessuna parte. Quella donna è terrorizzata, detective. Mai visto niente di simile in vita mia.» Sampson si appoggiò la cornetta sulla spalla e cominciò a prendere appunti su un blocco con la scritta « Il notes di papà», che gli aveva regalato Billie per la festa del papà. « Capisco. Ma sarei curioso di sapere perché si è rivolta proprio a me, detective. » Bevve un sorso di caffè, che gli sembrò meno cattivo di prima. La donna ebbe un attimo di esitazione prima di rispondere: « So che lei è amico di Alex Cross ». Sampson posò la penna e si appoggiò allo schienale. « Ho capito. » « Speravo che lei potesse... » « Sì, ho capito, detective Anton. Lei vuole che io interceda presso di lui. »
« No » replicò lei con grande prontezza. « Rakeem Powell mi ha detto che, insieme, voi due siete una squadra imbattibile. Vorrei chiedere la vostra collaborazione su questo caso. Sono stata poco diplomatica, forse, ma...» Sampson non disse niente, aspettando di sentire come avrebbe finito la frase. « Abbiamo lasciato un messaggio al dottor Cross ieri sera e stamattina, ma immagino che sia piuttosto richiesto, adesso che lavora come consulente. » « Sì, ha ragione: lo vogliono tutti » replicò Sampson. « Ma Alex è adulto e vaccinato e sa fare le sue scelte. Perché non prova a richiamarlo? » « Detective Sampson, abbiamo a che fare con un soggetto particolarmente violento e sadico. Non posso perdere tempo, o farne perdere agli altri. Mi scusi se l'ho disturbata, o se l'ho offesa. Ma la prego di tener conto che questa è un'emergenza. Per farla breve: ha intenzione di darmi una mano o no? » Sampson sorrise. « Se la mette giù così... Va bene, ci sto. Ma non posso prendermi impegni per Alex Cross. Cercherò di parlargli al più presto. » « Grazie. Le mando i file. A meno che non voglia venirseli a prendere di persona. » « I file? Sono più di uno?» « Be', detective, se ho interpellato lei e il dottor Cross è perché siete esperti di casi seriali. » « Omicidi seriali, detective Anton? » « No. L'uomo che stiamo cercando è uno stupratore, non un assassino. » « Non è una consulenza, è un favore » dissi a Sampson. « Che sto facendo a te personalmente, John. » Sampson inarcò le sopracciglia. « In altre parole, hai promesso a Nana e ai ragazzi di non svolgere più lavoro sul campo. » « No, non ho promesso niente a nessuno. Però adesso concentrati sulla guida e vedi di non investire nessuno. Okay? » Eravamo a McLean, in Virginia. Volevamo parlare con Lisa Brandt, che era andata a stare da un'amica, preferendo non tornare nel proprio appartamento di Georgetown. Avevo la pratica sulle ginocchia, insieme con quelle di altre tre donne che erano state stuprate e si rifiutavano di collaborare alle indagini, a costo di lasciare che il loro stupratore colpisse ancora. Era la prima volta che avevo modo di leggere quel materiale, ma mi ero trovato subito d'accordo con il detective Anton: le aggressioni erano tutte opera dello stesso uomo, che era decisamente uno psicopatico. Le vittime sopravvissute appartenevano tutte alla stessa tipologia: bianche, fra i venti e i trentacinque anni,
single, vivevano sole nella zona di Georgetown. Erano inoltre tutte libere professioniste: una era avvocatessa, una capitano dell'esercito, una faceva la commercialista, Lisa Brandt l'architetto. Insomma, donne in gamba, ambiziose. Che non volevano dire una parola a proposito dell'uomo che le aveva violentate. Avevamo a che fare con un maniaco dotato di un certo discernimento e autocontrollo, che sapeva terrorizzare le proprie vittime al punto da convincerle a non denunciarlo. Ci era riuscito non una, ma quattro volte o forse anche di più. Perché non era escluso che ci fossero altre vittime, ancor più spaventate e ancora più zitte. « Eccoci arrivati » disse Sampson. « E' qui che si nasconde Lisa Brandt. » Alzai gli occhi dai dossier che avevo sulle ginocchia e vidi che avevamo imboccato un vialetto che conduceva a una casa in stile neoclassico, con un alto colonnato, che sembrava una fortezza suburbana. Capii perché Lisa Brandt aveva pensato di andarsi a rifugiare lì. Ci venne ad aprire la sua amica, Nancy Goodes, che uscì un momento fuori per parlarci in privato. Era bionda e dimostrava più o meno la stessa età di Lisa Brandt, che aveva ventinove anni. « Non occorre che vi dica che Lisa è ancora sotto shock » ci sussurrò a voce bassissima. « Vi sarei grata se limitaste al massimo le domande. In realtà, non capisco che bisogno ci sia di un altro interrogatorio. Ha già parlato con la polizia... Che bisogno c'è, me lo potete spiegare? » Si portò le braccia sul petto, evidentemente a disagio. Io e Sampson rispettavamo il fatto che volesse proteggere la sua amica, ma non potevamo andarcene via così. « Cercheremo di fare il più veloce possibile » disse Sampson. « Deve capire, però, che lo stupratore è ancora a piede libero. » « Non cercate di farle venire sensi di colpa, per l'amor del Cielo! Non provateci neanche. » La seguimmo nell'atrio, che era tutto marmi, con una scala che seguiva la curva del grande lampadario di cristallo appeso al centro del soffitto. Quando sentii voci di bambini a sinistra, mi colpirono come fuori posto, in un ambiente tanto formale. Mi chiesi come facessero a essere tanto ordinati. La signora Goodes sospirò e ci fece entrare in un salottino, dove Lisa Brandt sedeva da sola. Era minuta ma graziosa, anche se evidentemente provata. Era vestita normalmente, con una camicia a righe e un paio di jeans, ma aveva le spalle curve e lo sguardo mogio e spaventato. Forse temeva che il dolore che provava non la lasciasse mai più. Sampson e io ci presentammo. Lisa Brandt ci invitò ad accomodarci e si sforzò persino di sorridere, prima di distogliere nuovamente lo sguardo. « Che belle » dissi, indicando le azalee in un vaso sul tavolino basso che separava la mia poltrona dalla sua. Lo dissi perché era vero, e anche perché non sapevo da
che parte cominciare. « Oh. » Lisa Brandt guardò i fiori, distratta. « Nancy ha un gusto squisito. Tutta casa e famiglia, ormai. Ma ha sempre desiderato fare la mamma. » Sampson cominciò, con delicatezza. « Ci dispiace molto per quello che le è successo, Lisa. So che ha già parlato con parecchie persone e cercheremo di non farle ripetere quello che ha già dichiarato. Va bene? » Lisa guardava in un angolo. « Va bene, grazie. » « Sappiamo che è stata in ospedale, ma non ha voluto sottoporsi ad analisi per la raccolta di prove biologiche o materiali e che per il momento preferisce non fornire descrizione alcuna del suo aggressore. Dico bene? » « Sì. Non solo per il momento. Non lo farò mai. » Continuò a scuotere la testa per un po', come a ribadire il concetto. « Non è obbligata a farlo » la rassicurai. « Non siamo qui per estorcerle informazioni che lei non è disposta a fornirci. » « Ciò detto, abbiamo fatto alcune supposizioni » si intromise Sampson. « Per esempio, che lei non conosceva il suo aggressore. E che costui l'ha minacciata, affinché lei non lo denunciasse e collaborasse con la polizia per farlo arrestare. Se la sente di confermarci almeno questo, Lisa? » La donna si irrigidì. Cercai di capire che cosa le passava per la testa analizzando la sua espressione e il suo linguaggio corporeo, ma non ci riuscii. E siccome non rispose alla domanda di Sampson, tentai un approccio diverso. « Le è forse venuto in mente qualcosa da quando ha parlato con i nostri colleghi? Qualcosa che magari vorrebbe aggiungere alla sua deposizione? » « Anche il più piccolo dettaglio potrebbe essere utile alle indagini » disse Sampson. « Non voglio nessuna indagine su quello che mi è successo » esclamò la donna. « Dipende da me, vero? » « Veramente no », rispose Sampson con grande delicatezza. « E perché no? » Il tono di Lisa Brandt sembrava disperato. Cercai le parole più giuste. « Siamo abbastanza certi che quello che è capitato a lei non è stato un episodio isolato, Lisa. Altre donne hanno... » Fu troppo, per lei. Cominciò a singhiozzare, si piegò su se stessa, si tappò la bocca con tutte e due le mani.
« M i dispiace» mormorò fra le lacrime. « Non posso. Non posso! Scusate. » La signora Goodes rientrò di corsa nella stanza. Probabilmente era fuori della porta che origliava. Si inginocchiò davanti a Lisa e la abbracciò, cercando di consolarla. « Scusatemi » mormorò di nuovo Lisa. « Non ti devi scusare, tesoro. Stai tranquilla. Se hai bisogno di piangere, piangi. Non ti preoccupare » le disse Nancy Goodes. Sampson lasciò il biglietto da visita sul tavolino. « Noi andiamo » dichiarò. La signora Goodes gli rispose, senza nemmeno voltarsi: « Sì, bravi, andatevene. E non tornate, per cortesia. Lasciatela in pace, povera Lisa ». Il Macellaio aveva una missione da compiere. Un colpo, pagato profumatamente, che fra l'altro gli avrebbe consentito di non pensare a John Maggione e a quanta voglia aveva di vendicarsi. Stava osservando un uomo di una certa età, sottobraccio a una ragazza giovane. Lui dimostrava una sessantina di anni, lei venticinque al massimo. Erano una coppia inconsueta: non si poteva fare a meno di notarli. Per il Macellaio, questo poteva costituire un problema. Erano davanti al Claridges Hotel che aspettavano l'auto di lui, come avevano fatto la sera prima e quella mattina alle dieci. Fino a quel momento non avevano commesso grossi errori. Nessun passo falso di cui lui avesse potuto approfittare. L'autista dell'uomo fungeva anche da bodyguard, ed era armato. Un professionista, uno che lavorava come si deve. Aveva un unico difetto: la ragazza non lo voleva intorno. La sera prima, quando erano stati a un ricevimento alla Saatchi Gallery, aveva cercato di convincere il vecchio a scaricarlo. Ma non c'era riuscita. Al Macellaio non restava che osservare gli sviluppi della situazione. Si immise nel traffico qualche auto dopo la Mercedes CL65 nera, lucidissima. Era una macchina potente, oltre seicento cavalli, ma nel traffico londinese procedeva comunque come una lumaca. II Macellaio era un po' spaventato, e ne aveva ben donde. Ma aveva ricevuto quell'incarico tramite un contatto abbastanza affidabile di Boston. E poi la ricompensa, di quelle a sei cifre, gli faceva comodo. Ci fu una possibile apertura a Long Acre, vicino alla stazione della metropolitana di Covent Garden. La ragazza scese dalla macchina al semaforo e si incamminò da sola. Poco dopo, scese anche l'uomo. Michael Sullivan accostò subito al marciapiede e lasciò la macchina lì dov'era. L'agenzia presso cui l'aveva noleggiata non sarebbe mai risalita a lui, comunque. Non gli importava di abbandonare la macchina nel centro di Londra. Poco male...
L'autista, invece, non avrebbe fatto altrettanto con una Mercedes da duecentomila dollari, e questo significava che Sullivan aveva qualche minuto di tempo, prima che li raggiungesse. Le strade intorno a Covent Garden erano affollatissime, ma lui vedeva la coppia, le due teste che si muovevano ridendo: probabilmente erano felici di essere sfuggiti al controllo dell'autista/bodyguard. Li seguì lungo James Street. I due continuavano a ridere e a parlare, tranquilli e beati. Errore. Grosso errore. Vide il mercato, con il tetto di vetro, e la folla che ammirava questo o quell'artista di strada. C'erano mimi che parevano di marmo e si muovevano solo quando gli lanciavi una moneta. Sullivan raggiunse la coppia, calcolò che le condizioni erano ideali e sparò due colpi con la Beretta, munita di silenziatore. La ragazza cadde a terra come se le avessero sfilato un tappeto sotto i piedi. Sullivan non sapeva chi fosse, né chi la voleva morta o perché. E non gliene importava niente. « Un infarto! Qualcuno ha avuto un infarto! » urlò, lasciando cadere la pistola. Poi si voltò e scomparve tra la folla. Si diresse verso Neal Street, passò davanti a due pub in stile vittoriano e ritrovò la macchina esattamente dove l'aveva lasciata. Che bella sorpresa... Era meno rischioso restare a Londra ancora una notte: avrebbe preso il volo del mattino per Washington. Soldi facili... come sempre. O, perlomeno, com'era sempre stato fino al pasticcio di Venezia, di cui si doveva ancora vendicare. John e io ci incontrammo in palestra per un piccolo allenamento di boxe dopo la mia ultima seduta. Avevo sempre più pazienti e la mia vita era molto più bella e ricca di soddisfazioni di quanto non mi succedesse da anni. Mi sembrava di cominciare a capire che cosa volesse dire normalità. « Sta' attento o ti mando KO » disse Sampson. Provai a concentrarmi, ma senza grossi risultati. Sampson mi sferrò un destro che mi fece parecchio male. Lo colpii dove si era scoperto, ma forse mi feci più male io alla mano di quanto il mio pugno fece a lui. Continuammo per un po', ma io ero distratto. Dopo meno di venti minuti, sollevai i guantoni. Avevo male a tutte e due le spalle. « Basta, hai vinto tu » capitolai. « Ti offro da bere. » Finimmo a berci due Gatorade davanti alla palestra. In realtà io avevo in mente qualcos'altro, ma pazienza. « Allora » fece Sampson. « O io sono migliorato tantissimo, oppure tu eri proprio
fuori fase, stasera. Tu cosa pensi ?» « Che non sei migliorato così tanto. » « Sei ancora turbato per la storia di ieri? Vuoi parlarmene? » Eravamo rimasti male tutti e due, dopo il colloquio con Lisa Brandt. Un conto è strapazzare un teste e arrivare a qualcosa, un altro è mandare in crisi una persona senza cavare un ragno dal buco. Annuii. « Sì, mi disturba. » Sampson si sedette vicino a me, sul marciapiede. « Devi prendertela meno a cuore, Alex. » « Cos'è? La massima del giorno? » « Mi pareva che le cose ti stessero andando bene » continuò Sampson. « Negli ultimi tempi.» « Sì, è vero » dissi. « Il lavoro va bene. Meglio di quanto mi aspettassi, anzi. » « Allora dov'è il problema? Va troppo bene? Cos'è che ti turba, amico? » La risposta non era difficile. « Maria » risposi. Sampson capì al volo quello che volevo dire. « Ti è tornata in mente dopo la storia di Giametti? » « Sì. Mi sono ricordato di una cosa » replicai. « Anche quando le hanno sparato c'era in giro uno stupratore seriale. Te lo ricordi? » Sampson strizzò gli occhi. « Sì, è vero. Me l'ero dimenticato... » Mi fregai le nocche doloranti l'una contro l'altra. « Ecco, è questo che dico. Qualsiasi cosa succeda, mi fa venire in mente Maria. Qualsiasi cosa io faccia, mi fa venire in mente che le hanno sparato. E' come se non riuscissi a uscire da questo purgatorio. Non so come fare. » Sampson aspettò che avessi finito di parlare. E uno che capisce subito quando è meglio tacere. In quel momento, non aveva niente da dire. Alla fine, sospirai, mi alzai e cominciai a camminare. Sampson mi seguì. « Hai sentito più parlare del suo assassino? Ci sono novità? » gli chiesi. « O pensi che Giametti ci pigliasse per il culo? » « Alex, perché non cerchi di dimenticarti questa storia, di andare avanti? » « John, se potessi, lo farei. Ma non ci riesco. »
Sampson si guardò le scarpe per un po'. Poi mi rispose, burbero: « Se scoprirò qualcosa, sarai il primo a saperlo ». Michael Sullivan aveva smesso di farsi mettere i piedi in testa a quattordici o quindici anni. Tutti in famiglia sapevano che suo nonno James possedeva una pistola e che la teneva nell'ultimo cassetto del comò di camera sua. Un pomeriggio di giugno, subito dopo la fine della scuola, Michael entrò in casa del nonno e gliela rubò. Passò il resto della giornata a ciondolare nel quartiere con la pistola nella cintura dei pantaloni, nascosta sotto la camicia. Non aveva bisogno di farla vedere in giro: gli bastava sapere di averla per sentirsi meglio. Molto, molto meglio. Il fatto di avere una pistola cambiava tutto. Michael non era più un ragazzino in gamba: era diventato invincibile. Era rimasto in giro fin verso le otto, poi aveva preso Quentin Road, diretto alla macelleria di suo padre. Voleva arrivare all'ora in cui chiudeva bottega. Un'autoradio trasmetteva una canzone che lui odiava, Crocodile Rock di Elton John. Gli venne voglia di sparare al cretino che apprezzava quella musica di merda. La porta della macelleria era ancora aperta e, quando Michael la varcò, suo padre non alzò neanche gli occhi: doveva averlo visto arrivare dalla vetrina. L'espositore di giornali, con Irish Echo, era al solito posto. Era tutto uguale, come sempre: apparentemente in ordine e pulito, ma sotto sotto malato, profondamente disturbato. « Cosa vuoi? » gli chiese burbero il padre. Stava spazzando il pavimento con una ramazza munita di una spatola per togliere il grasso dal pavimento. Pulire il pavimento della macelleria era un lavoro che Michael detestava. « Parlarti » rispose il ragazzo. « Non c'ho tempo. Devo guadagnarmi da vivere. » « Davvero? Sei troppo impegnato a pulire per terra? » Allungò il braccio, con gesto fulmineo. E, per la prima volta, colpì suo padre. Lo colpì con il calcio della pistola, sulla tempia, vicino all'occhio destro. Poi lo colpì di nuovo, sul naso, facendolo cadere per terra, fra la segatura e il grasso di maiale. L'uomo gemette e sputò. « Sai che ti posso fare molto male, vero? » disse Michael, citando la frase preferita di suo padre. « Ti ricordi questa frase, Kevin? Perché io non me la scorderò mai. » « Non chiamarmi Kevin, pagliaccio.» Michael Sullivan colpì suo padre un'altra volta, con il calcio della pistola. Poi gli mollò una pedata nei testicoli. Kevin Sullivan emise un gemito. Il ragazzo si guardò intorno, disgustato. Diede un calcio all'espositore del pane
McNamara, tanto per sfogare la rabbia, poi puntò la pistola alla testa di suo padre e armò il cane. « Ti prego » lo implorò l'uomo, con gli occhi pieni di paura. Forse era la prima volta che si rendeva conto di che tipo era il figlio. « Non farlo, Michael. Te ne prego. » Michael premette il grilletto. Si udì uno scatto metallico, ma nessuna esplosione. La pistola non fece fuoco, la testa di Kevin Sullivan non scoppiò come un'anguria. Scese un silenzio profondissimo, come in chiesa. « Non oggi, ma un giorno lo farò » dichiarò Michael. « Quando meno te lo aspetterai. Un giorno in cui non avrai nessuna voglia di morire, ti ammazzerò. E non sarà una bella morte, Kevin. Non sarà rapida e indolore come un colpo di pistola alla testa.» Uscì dalla macelleria e, da quel momento, divenne lui il Macellaio di Sligo. A diciotto anni, tre giorni prima di Natale, tornò a casa e uccise suo padre. Come aveva preannunciato, non gli sparò: usò uno dei suoi coltellacci. E scattò diverse foto ricordo. Michael Sullivan era nel Maryland, dove adesso abitava, e aveva una mazza da baseball sulla spalla. Non era una mazza da baseball qualsiasi, ma una Louisville Slugger d'epoca con cui avevano giocato gli Yankees nel 1986. Un pezzo da collezione, che a parer suo, però, andava usato. « Okay, vediamo cosa sei capace di fare, figliolo » disse al bambino sulla montagnola del lanciatore. « Tremo dalla paura, sai? » Era difficile pensare che Mike Junior fosse abbastanza grande per fare un caricamento così fluido, invece era così. Ed era anche bravissimo a cambiare velocità alla palla. Michael Sullivan vide arrivare il suo lancio lento a inganno solo perché glielo aveva insegnato lui. Non intendeva favorirlo in nessun modo: sarebbe stato come insultarlo. E perciò colpì la palla con forza, immaginando che fosse la testa di John Maggione. « E via! » urlò. Corse da una base all'altra per fare scena, mentre Seamus, il figlio minore, andava a prendere la palla oltre la rete. « Bravo, papà! » gridò, raccogliendo la palla nel punto in cui era caduta. « Meglio che andiamo, papà. » Il figlio di mezzo, Jimmy, si era già tolto il guantone e la maschera. « Dobbiamo uscire per le sei e mezzo. Te lo ricordi, papà? » Jimmy era molto eccitato all'idea di andare al concerto degli U2 alla 1st Mariner Arena di Baltimora. Sarebbe stata una bella serata. I concerti erano una delle poche
attività familiari che Michael sopportava. Lungo la strada, cantò insieme con il CD, finché i suoi figli, seduti dietro, non incominciarono a protestare e a prenderlo in giro. « Vedete, bambini, vostro padre è convinto di essere Bono » disse Caitlin. « Invece è più... Ringo Starr? » « La mamma è invidiosa » replicò Michael ridendo. « Voi ragazzi e io abbiamo sangue irlandese, mentre lei non ha altro che sangue siciliano... » « Ah, be'. Vi risponderò con una domanda: preferite la cucina italiana o quella irlandese? Non dovete neanche rispondermi. » I bambini scoppiarono a ridere e applaudirono la madre. « Mamma, cos'è questo? » chiese Seamus. Caitlin si voltò a guardare: era un minuscolo cellulare argentato. Seamus l'aveva trovato sotto il sedile davanti. Quando Michael lo vide, si sentì male. Era il cellulare di Benny Fontana. Glielo aveva preso la sera in cui era andato a trovarlo e lo cercava da allora. A proposito di errori... Errori potenzialmente fatali... Rimase imperturbabile. « Scommetto che è il telefonino di Steve Bowen » mentì. « Chi? » domandò Caitlin. « Steve Bowen, il mio cliente. Gli ho dato un passaggio fino all'aeroporto, l'ultima volta che è stato qui. » Caitlin lo guardò perplessa. « E come mai non ha cercato di farselo restituire? » Perché me lo sono appena inventato, tesoro. « Probabilmente perché è a Londra.» Sullivan continuava a improvvisare. « Mettilo nel vano portaoggetti, per favore. » Adesso che aveva ritrovato il cellulare, non vedeva l'ora di usarlo. Non riusciva più a resistere. Arrivò il più vicino possibile allo stadio e accostò al marciapiede. « Ecco. Più avanti di così non posso andare. Vado a posteggiare e vi raggiungo. » Non impiegò molto a trovare un parcheggio con qualche posto libero. Salì al piano più alto per avere un po' di privacy ed essere sicuro che il segnale fosse buono. Il numero che cercava era lì, memorizzato nella rubrica. Lo cercò. Dovrebbe funzionare. Speriamo solo che il bastardo ci sia. Che veda pure chi lo sta chiamando.
Rispose John Maggione in persona. « Chi parla? » domandò, irritato. Tombola! Lui e Sullivan si detestavano da quando Maggione Senior gli aveva affidato alcuni lavoretti. « Indovina, Junior. » « Non lo so. Come cazzo hai fatto ad avere questo numero? Chiunque tu sia, sei morto. » « Abbiamo qualcosa in comune, allora. » Sullivan era carico di adrenalina, si sentiva inarrestabile, infallibile: lui sì che sapeva scegliersi un obiettivo e raggiungerlo. Si divertiva un mondo a prendere in giro le sue vittime. « Okay, Junior. Adesso da cacciatore sei diventato la preda. Sono Michael Sullivan, ti ricordi di me? Volevo solo dirti una cosa: la prossima volta tocca a te. » « Il Macellaio? Sei tu, buffone? Avevo già deciso di farti fuori, ma adesso te la farò pagare anche per quello che hai fatto a Benny. Sei un pezzo di merda. Non avrò pietà.» « Quello che ho fatto a Benny non è niente in confronto a quello che intendo fare a te. Ti taglierà in due con una sega da macellaio e manderò una metà a tua madre e l'altra metà a tua moglie. E voglio che Connie si goda lo spettacolo, prima di scoparmela davanti ai tuoi figli. Cosa ne pensi? » Maggione sbottò: « Sei morto! Morto! Morto! Tu e tutto quello che hai di più caro al mondo. Non mi sfuggirai, Sullivan ». « Va bene. Mettiti in coda. » Chiuse la comunicazione e guardò l'ora. Era stato un vero spasso far arrabbiare Maggione in quel modo. Ed erano solo le otto meno dieci: non si era perso nemmeno il pezzo di apertura del concerto. Avevo appena concluso l'ultima seduta della giornata e stavo consultando per l'ennesima volta i dossier relativi alla morte di Maria, quando sentii bussare alla porta. Non aspettavo nessuno: chi poteva essere? Aprii e mi vidi davanti Sampson. Aveva sotto braccio una confezione da dodici bottiglie di Corona che sembrava ridicolmente piccola, rispetto a lui. C'era qualcosa che non andava. « Mi spiace, ma non è permesso bere durante le sedute. » « Va bene. Allora io e il mio amico immaginario andiamo a bere da qualche altra parte. » « Aspetta: ho constatato che hai bisogno urgente di terapia, perciò per una volta farò un'eccezione. »
Mi porse subito una birra fresca. C'era decisamente sotto qualcosa: Sampson non era mai venuto nel mio studio, prima di quella sera. « Carino, qui » commentò. «T i devo regalare una pianta o qualcosa del genere. » « Okay, ma nulla di artistico, te ne prego. » Trenta secondi dopo si sentirono le prime note di un CD dei Commodores - scelta di Sampson - e John si accomodò sul divano. Ci stava a malapena. Senza lasciarmi il tempo di rilassarmi, mi chiese: « Conosci Kim Stafford? » Bevvi un sorso, per non lasciar trapelare le mie emozioni. Kim era stata la mia ultima paziente di quel giorno. Era possibile che Sampson l'avesse incontrata per le scale. Ma come faceva a conoscerla? Non ne avevo la minima idea. « Perché me lo chiedi? » « Be', sono un ispettore di polizia e l'ho appena vista qua fuori. Difficile non notarla. E' la donna di Jason Stemple. » Jason Stemple? Sampson l'aveva detto come se io dovessi sapere chi era. Invece, nonostante sapessi parecchie cosette sul suo conto, non conoscevo il suo nome. Kim era tornata, dopo la prima seduta, ma continuava a non voler fare il nome del suo compagno. Eppure le violenze che subiva stavano peggiorando. « Lavora nel Sesto Distretto » disse Sampson. « Dev'essere entrato dopo che tu te ne sei andato. » « Nel Sesto Distretto? Fa il poliziotto? » « Sì. Non lo invidio, però. E' una zona terribile, di questi tempi. » Ero confuso e avevo lo stomaco chiuso. Il fidanzato di Kim Stafford era un poliziotto? « Come procede il caso di Georgetown? » chiesi, per cambiare discorso. « Niente di nuovo » rispose Sampson. « Ho parlato con tre delle quattro vittime e non ho ancora scoperto niente. » « Nessuna di loro vuole parlare? Dopo quello che hanno passato? E' difficile da credere. Non ti sembra un po' strano, John? » « Sì. La donna con cui ho parlato oggi, che è capitano nell'esercito, ha ammesso che lo stupratore ha minacciato lei e la sua famiglia. Ma avrebbe preferito non dirmi nemmeno questo. » Finimmo la birra in silenzio. Quando non pensavo al caso di Sampson, mi venivano in mente Kim Stafford e il suo fidanzato poliziotto. Sampson ingollò l'ultimo sorso della sua Corona, si alzò e ne andò a prendere altre due. Me ne porse una. « Sai, devo sentire ancora una delle vittime, l'avvocatessa. Chissà che lei non si lasci scappare qualcosa. »
Vedrai che adesso cerca di coinvolgermi... « Lunedì pomeriggio? » Mi voltai sulla poltroncina girevole per guardare l'agenda, che era aperta. « Peccato, sono impegnato. » Stappai la bottiglia e mi voltai verso il mio amico, che mi fissava con il suo sguardo truce. Era grosso come una montagna. E infatti uno dei nomignoli che gli avevo affibbiato era Maciste. Un altro era Big John. « A che ora? » chiesi. « Alle tre. Ti passo a prendere, Sugar. » Fece tintinnare la sua bottiglia contro la mia. « Sette dollari mi sei costato, sai? » « In che senso? » « Ho preso la confezione da dodici » disse. « Se mi fossi immaginato che avresti ceduto tanto in fretta, avrei preso quella da sei. » Il lunedì successivo alle tre ero pronto. Avrei preferito essere ovunque, anziché lì. La mia prima impressione fu che lo studio legale Smith, Curtis e Brennan fosse specializzato in clienti ricchi. L'ingresso era lussuoso, con le pareti rivestite in legno e tavoli sui quali erano posate riviste tipo Golf Digest, Town & Country e Forbes: i clienti dello studio non abitavano nel mio quartiere. Filomena Sunderland era una giovane socia dello studio ed era anche la terza vittima dello stupratore a noi nota, in ordine cronologico. Si muoveva a suo agio nel tailleur grigio firmato, con la cortese riservatezza della gente del Sud. Ci fece accomodare in una saletta e abbassò le tapparelle della vetrata, prima di cominciare il colloquio. « Temo di non potervi essere d'aiuto » esordì. « Non ho nulla di nuovo da dirvi. L'ho già detto alla vostra collega. Più volte. » Sampson le porse un foglio. « Ci chiedevamo se questo non potesse servire. » « Cos'è? » La bozza di un comunicato stampa. Se mai dovessimo rendere pubbliche delle notizie, sarebbero queste. » Mentre l'avvocatessa leggeva, Sampson si spiegò meglio. Dichiariamo che le indagini vengono condotte d'ufficio, senza che nessuna delle vittime abbia sporto denuncia. Specifichiamo inoltre che le vittime non vogliono in alcun modo collaborare all'identificazione dell'aggressore o testimoniare contro di lui.» « E' vero?» chiese la donna, alzando gli occhi dal foglio. Sampson fece per rispondere, ma il mio istinto mi disse che era meglio intervenire.
Tossii. Era una mossa goffa, ma funzionò. « Mi scusi. Posso avere un bicchier d'acqua, per favore? » chiesi. Appena l'avvocatessa fu uscita dalla sala, mi rivolsi a Sampson. « Penso sia meglio non dirle che dipende tutto da lei. » « Va bene. Hai ragione.» Sampson annuì, poi cominciò: « Se però mi chiede... » « Lascia fare a me » gli dissi. « A naso, credo di aver capito che tipo è. » Ero famoso per il mio « fiuto », ma penso che, se ci fosse stato il tempo, Sampson avrebbe sollevato delle obiezioni. Filomena Sunderland, però, tornò subito dopo con due bottigliette di acqua minerale e due bicchieri. Si sforzò persino di sorridere. Mentre bevevo, notai che Sampson si era appoggiato allo schienale. Capii che avrebbe lasciato parlare me. « M i piacerebbe se riuscissimo a trovare un compromesso, Filomena, fra quello che lei si sente di dirci e quello che noi abbiamo bisogno di sapere. » « I n che senso?» « Nel senso che non ci è indispensabile un identikit dell'aggressore, per poterlo prendere. » Interpretai il suo silenzio come una disponibilità a collaborare, anche se minima. « Vorrei farle alcune domande, a cui potrà rispondere semplicemente sì o no, anche solo con un cenno del capo. Se non vuole rispondere, non insisterò. » Vidi l'ombra di un sorriso sul suo volto. La mia era una proposta ingenua, e lei lo sapeva. Ma l'importante era che non si sentisse in pericolo. Filomena Sunderland si scostò i capelli dalla fronte. « Va bene. Proceda pure. » « La sera dell'aggressione, le vennero fatte minacce specifiche per dissuaderla dal parlare di quel che era successo? » La donna annuì, poi disse: « Sì ». Mi si riaccese la speranza. « L'aggressore minacciò di prendersela anche con altre persone di sua conoscenza? Parenti, amici? » « Sì. » « L'ha più contattata, dopo quella sera? Si è fatto vivo in qualche modo? » « No. Credo di averlo visto per strada, una volta. Ma forse me lo sono solo immaginato. » « Le sue minacce furono verbali o anche di altro tipo? Fece anche qualcos'altro per avere la certezza che lei non lo denunciasse? »
« Si. » Avevo fatto centro, me ne resi conto immediatamente. Filomena Sunderland abbassò gli occhi qualche secondo, poi mi guardò di nuovo. Non sembrava più tesa come prima, bensì molto determinata. « La prego, Filomena. E' molto importante. » « Mi prese il BlackBerry» disse lei. Dopo un attimo di silenzio, spiegò: « Dentro c'erano tutte le mie informazioni personali. Indirizzi, nomi... Amici, parenti a Westchester... » « Capisco. » Capivo veramente. Coincideva perfettamente con l'immagine che mi ero fitto di quel mostro. Cominciai a contare silenziosamente fino a dieci. All'otto, Filomena riprese a parlare. « Aveva delle foto. » « Foto? » « Sì, foto di persone che aveva ucciso. O perlomeno così mi disse. » Le ci volle un momento, per trovare la forza di proseguire. « Ucciso e mutilato. Disse di aver usato strumenti chirurgici, coltelli da macellaio.» « Cos'altro può dirmi di quelle loto, Filomena?» « M e ne fece vedere diverse, ma per la verità io ricordo soltanto la prima. Era lo spettacolo più raccapricciante che avessi mai visto in vita mia. » Al pensiero di quella foto, impallidì. Mi resi conto che era terrorizzata. Il suo sguardo si perse nel vuoto. Dopo un po', si riprese e ricominciò: « Le mani... » « Cosa avevano le mani, Filomena? » « Gliele aveva mozzate. Ma sembrava ancora viva, nella foto. Gridava. » La sua voce era ormai un sussurro. Eravamo arrivati al limite, lo sapevo. « La chiamava Beverly. Come se fosse una sua amica. » « Se preferisce, Filomena, possiamo fermarci qui. » « Sì, è meglio » disse lei. « Ma... » « Ma? » « Quella sera, aveva un bisturi. Ed era insanguinato. » Era uno sviluppo importantissimo. Ma c'era un piccolo particolare. Se quello che Filomena Sunderland ci aveva detto era vero - e perché non sarebbe dovuto esserlo? - non stavamo parlando soltanto di stupri, ma di omicidi seriali. Mi tornò in mente Maria, e lo stupratore che imperversava nella zona nel periodo in cui era stata uccisa. Cercai di ragionare su una cosa alla volta, tuttavia: non potevo mettere troppa carne al fuoco.
Scrissi tutto quello che ricordavo del colloquio con Filomena Sunderland mentre Sampson mi riaccompagnava a casa in macchina. Avevo preso qualche appunto durante la conversazione, ma a volte mettere le cose nero su bianco mi aiuta a farmi un quadro più preciso della situazione. Il profilo dello stupratore che avevo abbozzato sembrava corretto. La prima impressione è sempre quella giusta, come afferma Malcolm Gladwell nel suo bestseller In un batter di ciglia. L'abitudine di conservare loto come quelle che Filomena aveva descritto e di documentare omicidi pregressi era abbastanza comune fra i serial killer. In genere gli assassini le usano nei periodi di inattività fra una vittima e l'altra. Nel caso specifico, avevano anche la funzione di spaventare le donne che sopravvivevano allo stupro, in maniera che non lo denunciassero. Quando arrivammo nel Southeast, finalmente Sampson apri bocca. « Voglio che partecipi anche tu alle indagini, Alex. Ufficialmente » dichiarò. « Voglio che lavori con noi. Con me. Facci una consulenza, o quello che vuoi. » Lo guardai. « Pensavo ti fossi offeso perché avevo voluto condurre io l'interrogatorio. » Sampson fece spallucce. « Figurati. Hai ottenuto un bel risultato, no? E poi, da un certo punto di vista, sei già coinvolto. Tanto vale farti pagare. Insomma, ti avverto: anche se vuoi, ormai non riuscirai più a tirarti indietro. » Scossi la testa. Ma Sampson aveva ragione. Quel caso aveva catturato la mia attenzione, i miei pensieri. E anche per questo che faccio bene il mio lavoro: quando mi prende, mi prende. « E a Nana cosa dico? » domandai. Era il mio modo per dire di sì. « Dille che è un caso troppo importante, che ho bisogno di te. » Svoltò in Fifth Street, nei pressi di casa. « Meglio che ti trovi una scusa subito. Capirà all'istante. Te lo leggerà negli occhi. » « Mi accompagni? » « Non ci penso neanche. » Accostò al marciapiede, senza nemmeno spegnere il motore. « Vado » gli dissi. « Che Dio me la mandi buona con Nana. » « Be', amico: lo sai anche tu che fare il detective è un mestiere pericoloso. » Quella sera lavorai al caso nella mansarda fino a tarda ora. Poi scesi e mi infilai in tasca la chiave della macchina: avevo preso l'abitudine di andarmi a fare un giro sulla Mercedes nuova quasi tutte le sere. Andava da Dio ed era confortevole come una poltrona del salotto. Bastava accendere il lettore CD,
appoggiarsi allo schienale e rilassarsi. Una meraviglia. Quando rientrai e finalmente mi misi a letto, i miei pensieri mi riportarono dove ogni tanto ho ancora bisogno di andare. E un luogo che proteggo con grande attenzione: il mio viaggio di nozze con Maria, i dieci giorni più belli della mia vita. Erano ancora così impressi nella mia memoria... Il sole tramonta dietro le palme e scende verso il mare azzurro oltre il balcone della nostra camera d'albergo. L'altra metà del letto è ancora calda: Maria era lì fino a poco fa. Adesso è in piedi davanti allo specchio. E' bellissima. Indossa soltanto una delle mie camicie, aperta sul davanti. Si sta preparando per la cena. Sostiene di avere le gambe troppo magre, ma io le trovo bellissime. Mi eccito al solo vederle, riflesse nello specchio. La guardo mentre si raccoglie i capelli con una molletta, scoprendosi il collo. La adoro. « Rifallo » le dico. Mi accontenta, senza una parola. Quando inclina la testa per mettersi un orecchino, il suo sguardo incontra il mio nello specchio. « Ti amo, Alex. » Si volta a guardarmi. « Nessuno ti amerà mai come ti amo io. » Mi guarda negli occhi e a me pare di leggerle nel pensiero. Siamo così incredibilmente vicini. Allungo la mano verso di lei e le dico... Sensazioni che mi emozionavano profondamente. Ma che adesso non ricordavo più. Mi tirai su a sedere, solo nel letto, ancora mezzo addormentato, ancora scosso da quel ricordo. Ero arrivato a un punto morto, mi ero scontrato con un'amnesia come non ne avevo mai avute prima. I particolari del nostro viaggio di nozze alle Barbados erano sempre stati cristallini, chiarissimi nella mia mente. Perché non ricordavo più che cosa avevo detto a Maria? L'orologio sul comodino segnava le due e un quarto. E io ero sveglissimo. Ti prego, Signore, quei ricordi sono tutto ciò che mi resta. Non ho più altro. Non portarmi via anche quelli... Accesi la luce. Non potevo più restare a letto. Uscii nel corridoio, meditando se scendere a suonare
un po' il piano. Ma in cima alle scale mi fermai con la mano sulla balaustra. Il respiro regolare di Ali mi trattenne dov'ero. Andai nella sua camera a vederlo mentre dormiva. Era un mucchietto sotto le coperte, con un piedino che spuntava. Russava leggermente, come fanno i bambini. La lucina azzurra alla parete era appena sufficiente per indovinarne i lineamenti. Aveva le sopracciglia aggrottate, come se stesse meditando su chissà quale problema. Anch'io ho quell'espressione, a volte. Quando mi infilai sotto le coperte, mi venne vicino e mi mise una mano sul braccio. « Ciao, papà » mormorò, non del tutto sveglio. « Ciao, piccolo » sussurrai. « Dormi. » « Hai fatto un brutto sogno? » Sorrisi: era la domanda che di solito gli facevo io. Quelle parole adesso mi tornavano indietro, frammento di me che mi veniva restituito. Ali mi aveva donato le mie stesse parole. Io gli donai quelle di Maria. « Ti voglio bene, Ali. Nessuno ti vorrà mai bene come te ne voglio io. » Non si mosse: probabilmente si era già riaddormentato. Rimasi lì, con la mano sulla sua spalla, finché il suo respiro non tornò regolare come prima. E io tornai, non so come, con Maria. Il ricordo di suo padre era più vivo che mai, quando Michael Sullivan era con i suoi figli. La macelleria tutta bianca, la cella frigorifera, l'uomo che veniva una volta la settimana a ritirare ossa e carcasse, l'odore dei sanguinacci. « Vai, vai, vai! » senti dire Michael Sullivan, e tornò al presente, al campo di baseball vicino a casa sua, nel Maryland. Poi sentì: « Che schifo! Non sa battere! Fa vomitare! » Seamus e Jimmy sapevano solo criticare, quando gli altri giocavano a baseball. Michael Junior, invece, era concentratissimo. Glielo si leggeva negli occhi: voleva battere suo padre, una volta per tutte. Il ragazzino lanciò la palla, con grande forza ed effetto. Sullivan espirò e si preparò a colpirla, ma poi sentì il rumore della palla sul guantone di Jimmy alle sue spalle. Maledizione! Nel pacifico campetto in cui stavano giocando di colpo si levarono grida di giubilo. Jimmy, il ricevitore, corse tutto intorno a suo padre con la palla in mano. Solo Michael Junior rimase calmo, freddo. Si concesse un sorrisetto, ma non abbandonò la postazione, non si lasciò andare ai festeggiamenti con i fratelli. Si limitò a lanciare un'occhiataccia al padre, contro cui non aveva mai vinto.
Abbassò la testa, preparandosi a lanciare di nuovo... ma poi si fermò di scatto. « Cos'è? » domandò, guardando suo padre. Sullivan abbassò gli occhi e si vide muovere qualcosa sul petto. Un puntino rosso. Un mirino laser. Si buttò a terra, di scatto. La Louisville Slugger d'epoca che teneva in mano si spaccò in due prima ancora di toccare terra. Poi si sentì il tintinnio metallico del proiettile che rimbalzava sulla rete di protezione. Gli stavano sparando addosso! Chi erano? Gli scagnozzi di Maggione? « Presto, ragazzi, scappate! Nascondetevi sotto la panchina! Di corsa! » gridò. I ragazzi non se lo fecero dire due volte. Michael Junior prese per mano il fratello minore e corse a cercare riparo nella panchina a bordo campo. Furono velocissimi, tutti e tre. Il Macellaio corse più svelto che poteva dalla parte opposta, per proteggerli. Doveva solo arrivare alla macchina e prendere la pistola... La Humvee era parcheggiata a una sessantina di metri di distanza. Corse in quella direzione in linea retta. Un proiettile gli passò talmente vicino che si sentì sfiorare la guancia. A sparare era qualcuno nascosto fra gli alberi a sinistra del campo da baseball, dalla parte opposta rispetto alla strada, questo l'aveva capito. Non c'era bisogno di voltarsi a guardare. Non ancora. Arrivato alla Humvee, il Macellaio aprì la portiera dalla parte del passeggero e si tuffò dentro. Un istante dopo, si sentirono esplodere vetri dappertutto. Il Macellaio rimase disteso sul fondo della macchina, la faccia sul tappetino, e allungò la mano sotto il sedile davanti per prendere la Beretta. Aveva promesso a Caitlin di non tenere armi in macchina, ma poi ce l'aveva nascosta lo stesso. Armò il cane e alzò lo sguardo. Erano in due e stavano uscendo dal bosco. Erano sicuramente uomini di fiducia di Maggione, ed erano lì per farlo fuori. Lui e i suoi figli. Aprì la portiera dalla parte del guidatore e si lasciò cadere per terra. Diede un'occhiata sotto la macchina e vide le gambe di qualcuno che correva verso di lui. Non ebbe il tempo di pensare, di pianificare: sparò due colpi da sotto il telaio. L'uomo di Maggione lanciò un grido, quando sopra la caviglia gli sbocciò un fiore rosso. Cadde a terra e il Macellaio fece fuoco di nuovo, questa volta colpendolo al volto. Quel bastardo non avrebbe più sparato. E neanche parlato, o pensato. Ma questo era l'ultimo dei suoi problemi, in quel momento. « Papà! Papà! Aiuto! »
Era la voce di Mike. Veniva dal parco, ed era terrorizzata. Il Macellaio si rialzò di scatto e vide che l'altro killer stava correndo verso la panchina. Era a una settantina di metri da lui. Prese la mira, ma non sparò, perché anche i suoi figli erano da quella parte. Salì in macchina e mise in moto. Partì a tavoletta, come se la vita dei suoi figli dipendesse da quello. E probabilmente era così, perché Maggione era un codardo, di quelli che ti sterminano la famiglia. Puntò la Beretta fuori del finestrino sperando di riuscire a centrare il bersaglio al primo colpo. Era troppo pericoloso. Come sarebbe andata a finire? Nessuno poteva saperlo... Sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa... Il killer stava attraversando il diamante, rapidissimo, e Sullivan pensò che doveva essere stato un campione, da giovane. Non che fosse vecchio. Michael Junior osservava la scena dalla panchina. Aveva abbastanza sangue freddo, ma in quel momento poteva essere uno svantaggio. Sullivan gli gridò: « Abbassa la testa, Michael! Sta' giù! » Il killer sapeva di essere inseguito. A un certo punto si fermo, si voltò e gli sparò addosso. Errore. Potenzialmente fatale. Sullivan lo vide sgranare gli occhi un attimo prima di investirlo con la Humvee lanciata a quasi cento chilometri all'ora. Non rallentò e lo trascinò fino ad andare a sbattere contro la recinzione del campo. « State bene, ragazzi? » urlò poi, guardando il killer per accertarsi che fosse spiaccicato per bene contro la recinzione. « Sì, tutto bene » rispose Michael Junior, un po' scosso ma controllato. Sullivan scese e si avvicinò al killer che aveva appena investito, ancora in piedi solo perché non aveva abbastanza spazio per cadere. La testa gli penzolava da una parte, ma con l'occhio che non era completamente coperto di sangue pareva guardarsi in giro. Sullivan andò a prendere la sua Louisville Slugger spezzata. Lo colpì una volta, due, tre, e poi ancora. E, a ogni colpo, gridava. « Non-azzardatevi-più-a-mettere-in-mezzo-la-mia-famiglia!- Capito? » L'ultima volta, sbagliò mira e aprì un cratere nel cofano della Humvee. Ma questo lo riportò alla realtà dei fatti. Risalì in macchina e fece retromarcia. I suoi figli lo guardavano scioccati, ammutoliti. Salirono a bordo senza dire una parola, e senza una lacrima. « È tutto a posto, ora » disse loro. « È finita. Adesso ci penso io, ragazzi. Mi avete sentito? Vi prometto che sistemerò tutto. Ve lo giuro sulla testa della mia defunta
madre. » Avrebbe mantenuto la parola. Avevano osato mettere a repentaglio la vita dei suoi figli? Be', adesso lui avrebbe attentato alla loro. A quella di Maggione. E del suo clan. Kim Stafford tornò per un'altra seduta. Quando la vidi entrare, con gli occhiali scuri e l'aria di una donna in fuga, mi sentii mancare. Paradossalmente, in quella vicenda i miei due mondi professionali sembravano essersi incontrati. Adesso che sapevo chi era il fidanzato di Kim, mi riusciva più difficile rispettare il suo desiderio di tenerlo al di fuori di tutto. Avevo una gran voglia di affrontare quel pezzo di merda e dargli una bella lezione. A un certo punto della seduta le chiesi: « Kim, Sam tiene armi in casa? » Sam era il nome che avevamo deciso di usare nelle sedute. Era il nome del bulldog che aveva morsicato Kim da bambina. « Sì, una pistola. Nel comodino. » Cercai di non lasciarle capire quanto ero preoccupato. « Gliel'ha mai puntata contro, Kim? Ha mai minacciato di usarla?» « Una volta soltanto » rispose lei, giocherellando con l'orlo della gonna. « Parecchio tempo fa. Se avessi pensato che faceva sul serio, l'avrei lasciato. » « Kim, vorrei che adottasse delle misure di sicurezza. » « In che senso? » « Che prendesse delle precauzioni, come per esempio mettere da parte dei soldi, tenere una valigia pronta da qualche parte, individuare un luogo in cui rifugiarsi in caso di emergenza. » Non so per quale motivo, ma in quel momento Kim si tolse gli occhiali e lasciò che vedessi il suo occhio nero. « Non posso, dottor Cross » mi rispose. « Se comincio a pensare alla fuga, poi fuggo. E se fuggo lui mi ucciderà. Questo è certo. » Più tardi, alla fine dell'ultima seduta della giornata, controllai la segreteria telefonica. C'era un solo messaggio, ed era di Kayla. « Ciao, sono io. Sei seduto? Perché devo darti una notizia sensazionale: Nana mi lascia preparare la cena, stasera. Nella sua cucina! Se non me la stessi facendo sotto dalla paura, ti direi che non vedo l'ora. Adesso devo fare un paio di telefonate, poi vado a far la spesa. Se non mi suicido prima, ci vediamo alle sei a casa tua. » Ormai erano le sei passate. Cercavo di non pensare alla seduta con Kim Stafford, ma ero troppo in ansia per lei. Mi auguravo che se la cavasse, e non sapevo se fosse giusto interferire più di tanto nella sua vita.
Quando arrivai in Fifth Street ed entrai in casa, trovai Kayla in cucina, con il grembiule di Nana, che stava mettendo l'arrosto nel forno. Nana era seduta, con la schiena diritta e un bicchiere di vino bianco davanti. Sorrisi. Anche i ragazzi erano in cucina, probabilmente per controllare quanto tempo Nana sarebbe riuscita a resistere seduta senza fare niente. « Com'è andata la giornata, papà? » mi domandò Jannie. « Qual è la cosa più bella che ti è successa? » Scoppiammo a ridere tutti e due: era una domanda che di tanto in tanto ci facevamo a tavola, da anni. Pensai a Kim Stafford e alle donne violentate a Georgetown e alla reazione di Nana quando le avevo detto che avrei indagato sul caso. Il pensiero di Nana mi riportò al presente e risposi alla domanda di Jannie: « Finora questa: essere qui con voi ». L'atmosfera si stava surriscaldando. Il Macellaio detestava andare al mare: detestava la sabbia, l'odore di salmastro, il traffico. Insomma, per lui passare una giornata alla spiaggia era un tormento. Che Caitlin e i ragazzi andassero a Cape May tutte le volte che volevano. Lui ne faceva volentieri a meno, grazie. Se era sulla costa del South Jersey, perciò, era solo per motivi di lavoro. Per vendicarsi di John Maggione. Si odiavano da quando Maggione Senior lo aveva promosso suo killer di fiducia e gli aveva ordinato di eliminare uno degli amici di Junior, Rico Marinacci. Il Macellaio aveva portato a termine l'incarico con il solito entusiasmo: l'aveva fatto a pezzetti. Com'era prevedibile John Maggione adesso era sparito dalla circolazione. Quindi il Macellaio aveva modificato leggermente i suoi piani: se proprio non poteva cominciare dalla testa dell'organizzazione, avrebbe tagliato prima qualche appendice. Nel caso specifico, avrebbe cominciato con Dante Ricci, giovane braccio destro del boss, che lo considerava quasi come un figlio. Si diceva che gli scagnozzi del boss non osassero neppure andare al gabinetto, senza il permesso di Dante. Il Macellaio arrivò a Mantoloking, nel New Jersey, poco prima del tramonto. Quando attraversò il ponte sulla Barnegat Bay, l'oceano in lontananza sembrava quasi rosso. Un bel panorama, un po' da cartolina. Un tramonto da immortalare. Il Macellaio chiuse tutti i finestrini, per non sentire l'odore del mare. Non vedeva l'ora di concludere la faccenda e andarsene. La località balneare sorgeva su una striscia di terra larga meno di due chilometri, e costosissima. La casa di Ricci, in Ocean Avenue, non fu difficile da trovare. Sullivan ci passò davanti, andò a posteggiare un centinaio di metri più in là e tornò indietro a piedi. Ricci non doveva passarsela male: la villa era molto grande, tre piani, stile
coloniale, rivestita di legno grezzo marrone, in condizioni perfette, con vista mare. Garage quattro posti, dependance per gli ospiti, piscina con idromassaggio fra le dune. Valore minimo sei milioni. Tipico espediente per distrarre la moglie ed evitare di farle sapere che cosa si fa veramente di mestiere. Perché Dante Ricci era un killer, ed era anche piuttosto quotato. Un degno rivale, per il Macellaio. Dalla strada non si vedeva bene la casa, che si affacciava sul mare e sulla baia. La spiaggia non gli avrebbe offerto abbastanza copertura, tuttavia: avrebbe dovuto accontentarsi, eventualmente metterci più tempo. Non era un problema. Aveva tutto quello che gli serviva per portare a termine il proprio compito, pazienza compresa. Gli venne in mente una frase in gaelico, che usava dire suo nonno James: Coimhéad feargfhear ria foighde, o qualcosa del genere. Attenti alla collera di un nomo paziente. Era proprio vero, pensò Michael Sullivan, appostato nel buio. Proprio vero. Gli ci volle un po' per capire com'era strutturata la villa e orientarsi. Non c'era molto movimento, ma abbastanza da capire che la famiglia Ricci era in casa: Dante, due bambini e una bella bionda che, almeno da lontano, sembrava la giovane moglie italiana del boss. Niente ospiti, però, né guardie del corpo. Niente Famiglia con la F maiuscola, dunque: il che significava che la potenza di fuoco era limitata alle armi che Dante Ricci portava sempre con sé e che con ogni probabilità non avrebbero retto il confronto con la mitraglietta 9mm di Sullivan. Né con il suo bisturi. Nonostante l'aria fosse piuttosto fresca, il Macellaio era accaldato e aveva chiazze di sudore nella maglietta sotto cui nascondeva la pistola. La brezza che soffiava dal mare non serviva a rinfrescarlo. Solo la pazienza e la professionalità lo aiutavano a resistere. O almeno così gli piaceva pensare. Erano qualità che aveva preso dal padre, il primo Macellaio, l'originale. Quel bastardo non avrà avuto altre doti, ma di sicuro era paziente. Dopo un po' decise di avvicinarsi alla casa. Passò accanto alla Jaguar nera posteggiata fuori ed entrò in uno dei garage, dove c'era un'altra Jaguar, questa volta bianca. Non badiamo a spese, vero, Dante? Non impiegò molto a trovare quello che gli serviva. Prese una mazza con il manico corto da un bancone da lavoro in fondo, la sollevò e la soppesò: sì, andava bene. Molto bene, per la verità. Gli piacevano gli attrezzi, proprio come a suo padre. Avrebbe dovuto sferrare il colpo con la sinistra, per poter essere pronto anche a sparare, ma non era un problema perché il bersaglio era piuttosto grande. Grande quanto il parabrezza della Jaguar. Si mise in spalla la mazza, allargò le gambe e colpì il vetro con tutte le sue forze. Come sperava, l'allarme cominciò a suonare immediatamente. Uscì di corsa dal
garage e si precipitò verso la strada, andandosi a nascondere dietro una grande quercia rossa che sembrava fuori posto in quell'ambiente, proprio come lui. Aveva il dito sul grilletto, ma non voleva sparare. Non ancora. Meglio lasciare che Dante pensasse che uno stronzo qualsiasi aveva cercato di rubargli la macchina. E che arrivasse trafelato, e arrabbiato. Il portone della villa si spalancò nel giro di pochi secondi. E si accesero due grossi riflettori. Sullivan strizzò gli occhi e vide Dante sulla soglia, con la pistola in pugno. Era in costume da bagno, con le ciabattine di gomma. Muscoloso, in forma, però... Che pallone gonfiato! Errore. « Chi cazzo c'è? » urlò, rabbioso, nel buio. « Chiunque tu sia, ti conviene scappare più in fretta che puoi. Capito? » Sullivan sorrise. E questo era il braccio destro di Maggione Junior? Quello che chiamavano « l'erede del Macellaio »? Un ridicolo ometto in costume da bagno e ciabattine di plastica? « Sono Mike Sullivan! » Il Macellaio uscì in piena vista, fece uno dei suoi inchini e sparò una raffica verso Dante, cogliendolo totalmente di sorpresa. Come avrebbe potuto prevedere che qualcuno andasse a stuzzicarlo proprio lì, a casa sua? Chi mai sarebbe stato così folle da sfidare il braccio destro del boss? « E questo è solo un assaggio! » urlò Sullivan, mentre una mezza dozzina di proiettili colpivano Dante Ricci all'addome e al torace. Il mafioso cadde in ginocchio, lo sguardo rivolto verso il Macellaio, e poi si accasciò. Sullivan continuò a sparare. Crivellò di colpi le due Jaguar, quella nel garage e quella fuori, spaccando tutti i vetri, ammaccando la carrozzeria. Molto divertente. Quando smise di sparare, sentì le grida all'interno della casa. Erano urla di donne e di bambini. Sparò due raffiche contro i riflettori, prendendo con cura la mira. Poi si avviò verso la casa, con il bisturi in mano. Si accorse che Dante Ricci era morto appena gli si avvicinò: sembrava uno sgombro sulla spiaggia. Lo voltò sulla schiena e gli inferse una decina di tagli sul volto. « Nulla di personale, Dante. Ma tu non sei il mio 'erede'. » Poteva andarsene, adesso: Dante Ricci aveva ricevuto il messaggio. Molto presto, sarebbe arrivato anche a Maggione Junior. Poi sentì una voce di donna. « L'hai ammazzato, bastardo! Hai ammazzato il mio Dante! » Sullivan si voltò e vide la moglie di Ricci sulla porta, con una pistola in mano. Era una bella donna, bionda, minuta, alta circa un metro e cinquanta.
Sparò nel buio, alla cieca: non sapeva sparare, non sapeva nemmeno tenere in mano una pistola. Ma in fondo era una Maggione anche lei. « Torna in casa, Cecilia, o ti faccio saltare le cervella » le gridò. « L'hai ammazzato, bastardo, figlio di troia! » La donna uscì sul patio e avanzò verso il giardino. Piangeva, singhiozzava, ma non demordeva, l'idiota. « Ti faccio vedere io, adesso, pezzo di merda. Ti ammazzo. » E fece nuovamente fuoco, colpendo l'abbeveratoio per gli uccelli che si trovava a un metro da Sullivan. Le sue grida erano alte e stridule, ormai: sembrava più un animale ferito che un essere umano. A un certo punto le scattò qualcosa dentro e si mise a correre verso il vialetto. Sparò ancora una volta, poi anche Sullivan sparò e la colpì al petto. Due volte. La donna stramazzò a terra e vi rimase, tremando in maniera patetica. Il Macellaio usò il bisturi anche su di lei. Quando risalì in macchina, si sentiva meglio. Era soddisfatto di se stesso e non gli dispiaceva rimettersi in moto, nonostante lo aspettasse un lungo viaggio. Aprì i finestrini e alzò il volume del lettore CD, cantando a squarciagola insieme con Bono. Non so ancora bene perché, il giorno dopo mi presentai al Sesto Distretto, dove lavorava Jason Stemple, e cominciai a chiedere di lui. Non sapevo bene che cosa avrei fatto, se l'avessi trovato, ma ero troppo in ansia per Kim Stafford per rimanere tranquillo. Non avevo più né distintivo né tesserino, ma tanti miei ex colleghi sapevano chi ero. O chi sono. Il sergente all'ingresso, però, non mi conosceva. Mi fece aspettare nella sala riservata ai civili molto più di quanto gradissi. Non era la fine del mondo, d'accordo, però... Osservai i vari premi esposti nella sala finché il sergente non mi informò che il capitano aveva dato l'okay: potevo entrare. Trovai ad aspettarmi un altro agente in divisa. « Pulaski, accompagna nello spogliatoio il signor...» Il sergente controllò il modulo che aveva in mano. « Il signor Cross. Vuole parlare con Stemple. » Lo seguii lungo un corridoio piuttosto affollato, cogliendo brandelli di conversazioni. Poi Pulaski aprì la pesante porta dello spogliatoio, in cui aleggiava un odore a me fin troppo noto di sudore e disinfettante. « Stemple, hai visite! » Era sui trent'anni, alto più o meno quanto me, ma più grasso. Era solo davanti a una fila di vecchi stipetti color verde militare e si stava infilando una maglia dei
Washington Nationals. Nella stanza c'erano altri cinque o sei uomini che stavano smontando di servizio e parlottavano e ridevano del sistema giudiziario. Effettivamente, c'era da ridere. Mi avvicinai a Stemple, che si stava mettendo l'orologio al polso, ignorandomi. « Posso parlarle un momento? » gli chiesi. Volevo essere educato, ma mi era difficile, sapendo che quell'uomo picchiava la sua ragazza. « Di che? » mi chiese, degnandomi a malapena di uno sguardo. « Di Kim Stafford » risposi, abbassando la voce. Se fino a quel momento era stato scorbutico, di lì in poi fu decisamente ostile. Dondolando sui talloni, mi squadrò come se fossi stato un barbone che gli si era introdotto in casa. « Cosa ci fa lei qui? E' un poliziotto? » « Lo sono stato fino a poco tempo fa. Adesso faccio lo psicoterapeuta. Seguo Kim.» Stemple mi guardò furibondo. Stava cominciando a capire e il quadro che si stava facendo non gli piaceva affatto. Neanch'io mi sentivo molto a mio agio, comunque, di fronte a un uomo grande e grosso e con abitudini violente. « Ho capito. Senta, ho appena fatto due turni di seguito e sono un po' stanco. Stia alla larga da Kim, se vuole un consiglio da amico. Mi ha capito? » Adesso che l'avevo conosciuto, potevo esprimere il mio parere professionale a proposito di Jason Stemple: era un gran pezzo di merda. Prima che se ne andasse, gli dissi: « Lei la picchia, lo so. E l'ha anche bruciata con il sigaro ». Nello spogliatoio scese il silenzio, ma nessuno si precipitò a difendere Stemple. Rimasero tutti semplicemente a guardare e uno o due scrollarono la testa, come se sapessero già di Stemple e Kim. Stemple si voltò lentamente verso di me e gonfiò il torace. « Vuoi attaccar briga? Chi cazzo sei? Te la sei trombata? » « No. Come le ho detto, vorrei parlarle. Credo che le converrebbe. » Fu allora che passò alle mani. Mi sferrò un pugno, ma mi mancò. Per un pelo. Aveva davvero un brutto carattere. Ed era forzuto. Non avevo bisogno di altro. Anzi, forse era proprio quello che cercavo. Feci una finta a sinistra e gli risposi con un uppercut nello stomaco che lo lasciò senza fiato. Tuttavia, mi abbrancò con tutte e due le braccia sui fianchi e mi scaraventò contro gli stipetti. Vi andai a sbattere contro con fragore e sentii un gran male alla schiena. Sperai di non essermi rotto qualche costola. Non appena ritrovai l'equilibrio, lo caricai e riuscii a respingerlo e a farlo barcollare. Un attimo dopo, mi arrivò un pugno sulla mascella.
Gli restituii il favore e, dopo averlo beccato sul mento, lo centrai anche sul sopracciglio. Un pugno da parte mia e uno da parte di Kim Stafford. A quel punto gli mollai un destro sullo zigomo. Stemple barcollò e finì lungo disteso per terra. Gli si stava gonfiando l'occhio destro. Mi pulsavano le braccia. Avrei voluto dargliene ancora, a quel vigliacco. Non avremmo dovuto cominciare ma, ormai che c'eravamo, ero deluso che non si rialzasse. « E' così che fai con Kim? Tutte le volte che ti fa arrabbiare la prendi a pugni? » Stemple gemette, ma non rispose. Insistetti: « Stammi bene a sentire: se vuoi che mi tenga per me quello che so e non vada a riferirlo ai tuoi superiori, fa' in modo che non succeda mai più. Hai capito? Mai più. Devi piantarla di metterle le mani addosso e di bruciarla con i tuoi sigari del cavolo. È chiaro? » Jason Stemple rimase dov'era e io capii. Prima di uscire dallo spogliatoio, incrociai lo sguardo di uno dei suoi colleghi. « Bravo! » mi disse. Se Nana avesse fatto parte della nostra squadra, con il suo stile inimitabile avrebbe detto che il caso di Georgetown stava « cuocendo a fuoco lento ». Sampson e io avevamo messo a rosolare alcuni ingredienti interessanti e poi proseguito la cottura. Adesso era arrivato il momento di controllare i risultati. Guardai il mio amico, seduto dall'altra parte del tavolo pieno di rapporti e documenti. « Non ho mai visto tanti dati portare a così poco » dissi, immusonito. « Mi capisci, adesso? » ribatté lui, stringendo una pallina antistress nel pugno. Doveva essere parecchio robusta, se non si era ancora sbriciolata. « Abbiamo a che fare con un sadico che sa il fatto suo e sta molto attento a non farsi prendere. Uno che usa i propri souvenir per convincere le vittime a tenere la bocca chiusa. La butta sul personale. Te lo dico nel caso tu non ci fossi ancora arrivato » dichiarai. In realtà, stavo riflettendo a voce alta. Spesso mi era d'aiuto. Ultimamente avevo preso anche l'abitudine di passeggiare avanti e indietro. Dovevo essermi fatto una decina di chilometri di moquette, nelle ultime quattordici ore, senza mai uscire da quella saletta del Secondo Distretto, e mi facevano male i piedi, ma almeno la mia testa continuava a funzionare. Grazie anche alle Altoids alla mela verde. Quella mattina ci eravamo messi a controllare gli ultimi quattro anni di statistiche sulla criminalità dell'FBI alla ricerca di casi che potessero essere correlati a quello su cui stavamo indagando, nella speranza di mettere insieme un quadro più completo della situazione. Date le informazioni che avevamo sullo stupratore,
avevamo cercato violenze, assassini con mutilazioni e scomparse di giovani donne, prima nella zona di Georgetown e poi in tutta Washington e dintorni. Per mantenere alto l'umore, avevamo ascoltato Elliot in the Morning alla radio, ma neppure Elliot e Diane erano riusciti a non farci sprofondare nello sconforto. Per non lasciare nulla di intentato, controllammo anche tutti gli omicidi rimasti irrisolti. Ma l'elenco era lunghissimo e molto poco promettente. Una cosa buona era successa, però. Filomena Sunderland aveva acconsentito a vederci di nuovo, per dirci ancora qualcosa a proposito del suo aggressore. Ci svelò che era bianco, sulla quarantina. Benché tacesse fatica ad ammetterlo in maniera esplicita, intuimmo che era anche un bell'uomo. « Genere Kevin Costner un po' stagionato » ci disse. « Uno che invecchia bene. » Erano dettagli di enorme importanza, per noi. Gli stupratori di bell'aspetto sono sempre i più pericolosi. La mia speranza era che, con un po' di tempo e la promessa di una protezione efficace, Filomena Sunderland continuasse a svelarci sempre nuovi particolari. Per il momento non avevamo abbastanza dati per costruire un identikit: un viso talmente anonimo da assomigliare a dodicimila persone serviva a poco o nulla. Sampson dondolò sulla sedia e allungò le gambe. « Cosa ne dici se adesso ce ne andiamo a dormire e riprendiamo domani mattina? Io sono cotto. » In quel momento arrivò Betsey Hall, con l'aria molto più sveglia della nostra. Lavorava nell'Investigativa da poco tempo, ma era una di quelle rare persone che sanno rendersi utili senza starti sempre fra i piedi. « Avete controllato solo gli omicidi in cui la vittima era di sesso femminile, vero? » « Perché ce lo chiedi? » domandò Sampson. « Avete mai sentito parlare di Benny Fontana? » Né io né Sampson l'avevamo mai sentito nominare. « Mafioso di medio calibro, ucciso due settimane fa in un appartamento di Kalorama Park » disse Betsey. « Per la precisione, la stessa sera in cui Lisa Brandt è stata violentata a Georgetown. » « E allora? » chiese Sampson, con l'impazienza che viene dall'essere troppo stanchi. « E allora guardate. » Aprì un fascicolo e sparse sui tavolo cinque o sei fotografie in bianco e nero. Raffiguravano un uomo bianco, sui cinquant'anni, supino per terra in una stanza che sembrava un salotto. Morto stecchito. E con i piedi amputati di fresco. Mi sentii improvvisamente meno stanco. Ero carico di adrenalina. « Gesù! » esclamò Sampson. Eravamo scattati in piedi e guardavamo e riguardavamo le foto, una dopo l'altra,
sbigottiti. « Secondo il medico legale, glieli ha amputati mentre era ancora vivo » aggiunse Betsey. « Presumibilmente servendosi di un bisturi e un seghetto chirurgico.» Aveva un'espressione speranzosa, e un po' ingenua. « Pensate che possa essere la stessa persona? » Risposi io: « Dovremmo approfondire, per esserne sicuri. Possiamo avere le chiavi di quell'appartamento? » Betsey frugò in una tasca e le tirò fuori: « Immaginavo che me le avreste chieste ». « Merda, Alex. Stupro, omicidio, adesso ci mettiamo pure associazione a delinquere di stampo mafioso...» Sampson batté il pugno sul tetto della macchina. « Non possono essere tutte coincidenze. Non è possibile! » « Potrebbe essere risolutivo... sempre che si tratti della stessa persona » gli ricordai. « Vediamo che cosa succede. Cerchiamo di restare con i piedi per terra. » Non che John Sampson non avesse i piedi per terra. La persona che stavamo cercando si stava rivelando un sadico mostro con un'abitudine molto particolare. Non è che lo avessimo cercato nel posto sbagliato: non lo avevamo cercato in abbastanza posti. « Se viene fuori che è lui, però, niente telefonate ai tuoi ex colleghi » mi raccomandò Sampson. « Dammi un po' di tempo, prima di chiamare i federali.» L'FBl doveva essere già al corrente dell'omicidio di Fontana, se davvero si trattava di un'esecuzione di stampo mafioso. Ma gli stupri erano di competenza del dipartimento di polizia di Washington. « Non è detto che vogliano intromettersi » gli feci notare. « Sì, invece.» Sampson fece schioccare le dita e mi puntò contro l'indice. « Mi ero scordato. Ti hanno fatto il lavaggio del cervello prima di lasciarti andare, vero? Come in Men in Black. Be', te lo dico io: si intrometterebbero immediatamente. Questi casi a loro piacciono da matti. Noi facciamo tutto il lavoro e loro si prendono tutto il merito. E' il loro pane. » Gli lanciai un'occhiataccia. « Quando lavoravo nell'FBI, ti dispiaceva se collaboravo a un caso con il dipartimento? Facevo anch'io come dici tu? » « Non ti preoccupare: se anche è successo, è acqua passata. » disse. « Se la cosa mi avesse darò troppo fastidio, te l'avrei detto. Non mi pare che tu mi abbia mai portato via un caso dalle mani.» Accostai davanti a un palazzo di fronte a Kalorama Park. Era una bella zona. Ero sicuro che l'omicidio Fontana avesse scosso la gente del palazzo, e forse anche del
quartiere. Ed era a non più di tre chilometri dal luogo in cui era stata aggredita Lisa Brandt, poche ore dopo che Benny Fontana era morto. Passammo un'oretta dentro l'appartamento, controllammo le foto scattate dai tecnici della Scientifica e osservammo le macchie di sangue sulla moquette, cercando di ricostruire la dinamica dei fatti. Non avevamo la certezza che quell'omicidio fosse legato agli stupri su cui stavamo indagando, ma ne valeva comunque la pena. Quando uscimmo, ci dirigemmo in direzione sud-ovest verso Georgetown, prendendo la strada più logica per arrivare alla casa di Lisa Brandt. Era più o meno mezzanotte. Nessuno dei due aveva voglia di fermarsi, però, e quindi facemmo una sorta di giro turistico, recandoci in ognuno dei posti in cui erano stati compiuti gli stupri. Erano tutti abbastanza vicini. Alle due e mezzo eravamo seduti in un bar aperto tutta la notte, con dossier e fascicoli aperti sul tavolo, a leggere documenti e verbali. Eravamo troppo agitati e tesi per fermarci e troppo stanchi per tornare a casa. Era la prima volta che avevo occasione di leggere tutto il dossier su Benny Fontana. Avevo letto più volte i verbali e il referto del medico legale, ma non l'elenco degli oggetti sequestrati durante il sopralluogo. Vi trovai un elemento interessante: un angolo strappato da una busta bianca, foderata di carta argentata. Era stato ritrovato sotto il divano, a pochi centimetri dal cadavere di Fontana. Mi tirai su a sedere, improvvisamente speranzoso. « Dobbiamo andare in un posto. » « Sì, a casa » fece Sampson. Chiamai la cameriera, che era mezza addormentata alla cassa. « Sa se c'è un drugstore aperto ventiquattrore su ventiquattro, da queste parti? E' molto importante. » Sampson era troppo stanco per mettersi a discutere e mi seguì fuori del bar e lungo la strada verso un Walgreens con l'insegna verde accesa. Trovai quello che cercavo dopo una breve ricerca fra gli scaffali. « Filomena Sunderland ha detto che le foto che l'aggressore le aveva mostrato erano Polaroid. » Aprii una confezione di pellicole. « Le deve pagare, prima » mi sgridò un commesso. Lo ignorai. Sampson scuoteva la testa. « Mi spieghi cosa diavolo stai facendo, Alex?» « L'inventario delle prove raccolte durante il sopralluogo sulla scena del crimine Fontana » dissi. « C'era l'angolo di una busta bianca, foderata di carta argentata. » Presi una delle buste dalla confezione e ne strappai un angolo. « Uguale a questo. » Sampson sorrise.
« Ha fatto una foto ricordo anche a Benny Fontana, dopo averlo mutilato. E' il nostro uomo. » Lavorai come un matto tutto il giorno dopo, ma la sera mi ritrovai a un punto morto. Nana aveva la sua lezione al centro di accoglienza della chiesa battista di Fourth Street, nel quale insegnava inglese una volta alla settimana, e così io rimasi a casa con i ragazzi. Mi piace moltissimo stare con loro: il problema è che non ci riesco quasi mai. Decisi di darmi all'alta cucina e preparai uno dei nostri piatti preferiti: minestra di fagioli bianchi. La gustammo insieme a un'insalata e a un pane squisito, impastato con il formaggio, che avevo comprato vicino al mio studio. La minestra era buona quasi quanto quella di Nana. La mia impressione è che mia nonna abbia due versioni di ogni ricetta: quella tutta sua, che non rivela a nessuno, e quella che condivide con me, cui manca un ingrediente segreto. Nana è fatta a modo suo e non cambierà mai. Dopo cena, andammo a prendere a pugni il sacco che tenevo nel seminterrato. Jannie e Damon fecero a turno a dare di boxe, mentre Ali giocava con le sue macchinine, sostenendo che il pavimento era la 1-95. Dopo un po', salimmo di sopra a dargli lezioni di nuoto. Sì, di nuoto. Era stata un'idea di Jannie, per superare la riluttanza di Ali a entrare nella vasca da bagno. Ali non vuole mai fare il bagno, ma una volta che è nell'acqua, non vuole più uscire. La volta dopo però se ne dimentica e fa di nuovo un sacco di storie: sembra allergico all'igiene. Io ero molto scettico, quando Jannie mi espose la sua idea. Poi mi accorsi che funzionava. Jannie stava da una parte della vasca e gli diceva quando respirare, mentre Damon gli teneva le mani sotto la pancia. Ali stava con la faccia a pelo dell'acqua, schizzando da tutte le parti e facendo le bolle. Era buffissimo, ma non osavo mettermi a ridere e me ne restavo a distanza di sicurezza, vicino al water, a osservare in silenzio. « Tiralo un attimo su » disse Jannie. Damon aiutò il fratellino a mettersi in piedi. Ali sbatté le palpebre e sputacchiò, contento come una pasqua. « So nuotare! » dichiarò. « Non ancora » puntualizzò Jannie, molto professionale. « Ma sei sulla buona strada.» Lei e Damon erano fradici quasi quanto Ali e anche il pavimento era bagnato, ma nessuno sembrava farci caso. Damon mi lanciò un'occhiata da cospiratore: Non sono tutti matti? Quando suonò il telefono, si alzarono di scatto tutti e due: « Vado io! » gridarono all'unisono.
« No, vado io » dichiarai, passando avanti. « Siete fradici. E niente lezioni di nuoto finché non torno. Okay? » « Dai, Ali, adesso ti lavo la testa» sentii che diceva Jannie, mentre uscivo dal bagno. Una ragazzina dalle mille risorse, non c'è che dire. Corsi a sollevare la cornetta prima che scattasse la segreteria e, a voce alta in modo che i figli mi sentissero, risposi: « Piscina della famiglia Cross. Desidera? » « Parlo con il dottor Alex Cross? » « Sì. » Era una voce di donna, che lì per lì non riconobbi. « Sono Annie Falk. » « Annie! » esclamai, un po' imbarazzato. « Come va la vita? » La conoscevo abbastanza bene, ma non l'avrei definita una mia amica. Suo figlio frequentava la stessa scuola di Damon, un anno o due avanti a lui, e lei lavorava al Pronto Soccorso del St. Anthony. « Ti telefono dall'ospedale...» Feci subito due più due e mi sentii morire. « Nana... » « No, non si tratta di Nana » mi interruppe. « Kayla Coles. E' appena arrivata al Pronto Soccorso. Non sapevo chi chiamare... » « Kayla? » chiesi, stupefatto. « Cosa le è successo? Come sta? » « Non te lo so dire, Alex. Non abbiamo ancora abbastanza elementi. Ma è in condizioni abbastanza gravi. » Non era la risposta che mi aspettavo. O che volevo sentirmi dire. « Ma cosa le è successo, Annie? Almeno questo me lo puoi dire? » « Con esattezza no. So solo che è stata aggredita. » « Chi è stato? » urlai nel telefono, sentendomi malissimo. Mi pareva di sapere già la risposta. Damon si affacciò nel corridoio e mi guardò, preoccupato. Gli avevo già visto quell'espressione troppe volte. « Sappiamo solo che è stata accoltellata, Alex. Due volte. Ma è viva. » Accoltellata? Avrei voluto urlare, ma mi trattenni. E' viva... « Senti, non dovrei parlare di queste cose al telefono. Puoi venire all'ospedale al più presto? Subito? » « Sì, certo, arrivo. »
Nana non aveva ancora finito la sua lezione al centro di accoglienza e quindi andai a chiedere a una vicina, Naomi Harris, se per favore poteva stare un momento con i ragazzi. Poi saltai in macchina e corsi al St. Anthony. Rimpiangevo di non avere la sirena. L'unica cosa che ricordo è che andai velocissimo e che pensai tutto il tempo a Kayla. Quando entrai nel parcheggio del Pronto Soccorso, vidi la sua macchina accanto all'ingresso, con la portiera aperta. Quando ci passai vicino, vidi che il sedile era tutto sporco di sangue. Perdio, era andata all'ospedale da sola! Come aveva fatto a sfuggire al suo aggressore? La sala d'attesa era affollatissima, come sempre, e davanti al bancone c'era una lunga fila di persone meste e preoccupate. Era in quell'ospedale che era stata dichiarata morta mia moglie Maria. « Scusi, signore, è vietato... » Ma io ero già oltre la porta. Vidi che il personale del Pronto Soccorso quella sera aveva parecchio da fare: c'erano barelle dappertutto e medici e infermieri correvano da una sala visite all'altra senza mai prendere fiato. Vidi un ragazzo su una barella con un brutto taglio sulla testa e la fronte tutta insanguinata. « Sto per morire? » chiedeva a tutti quelli che passavano. « No, te la caverai » gli risposi io, visto che nessun altro lo degnava di uno sguardo. « Andrà tutto bene, vedrai. » Ma dov'era Kayla? Nella confusione, non riuscivo a trovare nessuno cui chiedere di lei. Poi, a un certo punto, mi sentii chiamare. « Alex? Vieni, da questa parte. » Annie si stava sbracciando, in fondo al corridoio. Quando la raggiunsi, mi prese sottobraccio e mi portò in una stanza con due letti separati da un paravento verde. Intorno a uno dei letti c'erano diverse persone, disposte a ferro di cavallo. Lavoravano affannosamente, con i guanti sporchi di sangue. Altri sanitari andavano e venivano, in un viavai continuo di gente che mi passava vicino senza nemmeno notarmi. Dedussi che Kayla era ancora viva e che stessero cercando di stabilizzarla, perché potesse poi essere operata. Allungai il collo e la vidi. Aveva la maschera sul viso e qualcuno le stava togliendo una garza zuppa di sangue dalla pancia. Il medico, una donna sui trent'anni, disse: « Ferita da coltello all'addome, possibile lesione alla milza ». Sentii altre voci e cercai di capire quanto fosse grave Kayla, ma ero troppo confuso. « Pressione settanta, polso centoventi, frequenza respiratoria trentaquattro. »
« Aspirazione! » « Come sta? » chiesi. Mi sembrava di vivere un incubo, in cui nessuno sentiva la mia voce. « Alex... » Annie mi posò una mano sulla spalla. « E' meglio se ti fai da parte e li lasci lavorare. Non sappiamo ancora niente di preciso. Appena lo sapremo, ti avvertiremo. » Mi resi conto che mi ero avvicinato troppo al letto, a Kayla. Mi resi conto di volerle molto bene. Mio Dio, quanto la amavo. Mi mancava il fiato. « Avvertite il settimo piano: siamo pronti » dichiarò la donna che sembrava al comando della squadra. « Addome chirurgico. » « Significa che la pancia è dura e il transito intestinale è bloccato » mi sussurrò Annie nell'orecchio. « Andiamo. Presto! » Qualcuno mi diede uno spintone. « Si sposti, per favore. La paziente è in condizioni critiche. E' in pericolo di vita. Non c'è tempo da perdere. » Mi feci da parte, lasciando che spingessero il lettino in corridoio. Kayla aveva gli occhi chiusi. Sapeva che ero accorso al suo capezzale? Aveva riconosciuto il suo aggressore? La seguii finché potei nel corridoio e rimasi a guardare mentre la caricavano sull'ascensore. Poi le porte si chiusero. Annie era vicino a me. Mi indicò un altro ascensore. « Ti accompagno di sopra, nella sala d'attesa. Credimi, faranno il possibile. Sanno che Kayla è un medico. E sanno anche che è una santa. » È in condizioni critiche... E' in pericolo di vita... Sanno anche che è una santa... Passai tre ore nella sala d'attesa, solo, senza notizie di Kayla. Quell'ospedale era pieno di ricordi per me: lì erano nati due dei miei figli, lì era morta Maria e adesso lì Kayla stava lottando fra la vita e la morte... Tutto a un tratto vidi che era arrivata Annie Falk e si era chinata davanti a me per parlarmi con quel tono sommesso e pacato che in certe circostanze fa una paura terribile. « Vieni con me, Alex. Presto. Ti porto un istante da lei. È uscita dalla sala operatoria.» Pensavo di trovarla ancora addormentata. Invece, appena mi avvicinai, Kayla si mosse. Aprì gli occhi, mi vide e un istante dopo mi riconobbe. « Alex? » mormorò, con un filo di voce.
« Ciao » le dissi, prendendole una mano con dolcezza. Sembrava confusa, spersa. Poi richiuse gli occhi e cominciò a piangere. Stavo per mettermi a piangere anch'io, ma mi trattenni per non spaventarla ulteriormente. « È tutto a posto » cercai di consolarla. « Sei al sicuro, adesso. » « Ho avuto... ho avuto tanta paura... » disse, e mi sembrò tornata bambina. Era una parte di lei che non avevo mai visto prima. « Lo credo » replicai. Avvicinai una sedia, senza lasciarle andare la mano. « Sei venuta al Pronto Soccorso da sola? » Sorrise, anche se con lo sguardo un po' vacuo. « So quanto ci mettono ad arrivare le ambulanze, da queste parti. » « Chi è stato? » le domandai. « Lo sai, Kayla? » Per tutta risposta, lei chiuse di nuovo gli occhi. Strinsi la mano libera a pugno, rabbioso: Kayla sapeva chi era stato ad accoltellarla, ma non voleva dirmelo per paura? Il suo aggressore l'aveva minacciata? Restammo in silenzio qualche minuto, finché non si decise a parlare di nuovo. Non avevo nessuna intenzione di insistere con lei come avevo insistito con la povera Filomena Sunderland. « Stavo facendo una visita domiciliare » disse, sempre tenendo gli occhi chiusi. « Mi aveva chiamato la sorella del paziente, un tossico che sta cercando di disintossicarsi a casa. Quando sono arrivata io, era completamente fuori. Delirava e deve avermi scambiato per qualcun altro, perché ha preso un coltello e mi ha... » Non finì la frase. Le accarezzai i capelli e poi la guancia. So quanto è facile perdere la vita, ma so anche che alla morte non ci si abitua mai, specie se a lasciarci è una persona cara. « Resti con me, Alex, per favore? Finché non mi addormento? Ti prego, non te ne andare. » Di nuovo con quel tono da bambina. Non mi era mai sembrata così vulnerabile come lì, in quella stanza d'ospedale. Mi si gonfiava il cuore al pensiero che avesse rischiato di morire facendo del bene. « Ma certo » la rassicurai. « Resto qui con te. Dove vuoi che vada? » « È un po' che sono depresso. Tu lo sai. » « Sì, Alex, lo so. Sono più di dieci anni. Parecchio. » Ero seduto di fronte alla mia strizzacervelli preferita, la dottoressa Adele Finaly. Adele mi aiuta e, all'occorrenza, mi fa da mentore. E' stata lei a incoraggiarmi a riprendere l'attività di psicologo e mi ha persino passato due o tre pazienti. Le « Cavie », come li chiama lei.
«Volevo parlarti di un paio di cose che mi turbano non poco, Adele. Ci vorrà un po'.» « Nessun problema. » Si strinse nelle spalle. Adele ha i capelli castano chiari e ha superato i quaranta, ma da quando la conosco mi sembra che sia rimasta sempre uguale. In questo periodo è single e a volte penso a come staremmo insieme, io e lei. Poi, però, scaccio quel pensiero dalla mente. Sarebbe assurdo. Una follia. « Basta che tu mi faccia un bel riassunto che non superi i cinquanta minuti della seduta » spiegò lei con il tono giusto per me. « Ci provo. » Adele annuì. « Cominciamo, altrimenti non ce la facciamo. » Cominciai da Kayla e da quello che le era successo, per passare poi a descriverle i sentimenti che mi aveva suscitato il fatto che fosse stata aggredita e che avesse deciso di andare a trascorrere la convalescenza dai suoi, nel North Carolina. « Non penso sia colpa mia. Non mi sento colpevole per quello che le è capitato... Non direttamente, perlomeno. » Adele, nonostante la professionalità, non riuscì a non inarcare le sopracciglia in maniera molto eloquente. « E indirettamente? » mi chiese. Feci di sì con la testa. « Provo un senso di colpa generalizzato. Come se avessi potuto fare qualcosa per prevenire l'aggressione. » « Tipo? » Sorrisi. Anche Adele sorrise. « Per esempio, liberare dal crimine Washington e dintorni » risposi. « Ti stai nascondendo dietro una battuta spiritosa » mi fece notare lei. « Sì, lo so. Ed è proprio questo il problema. Per quanto cerchi di razionalizzare, non riesco a non sentirmi colpevole di non aver protetto adeguatamente Kayla. So benissimo che è assurdo pensarlo e soprattutto dirlo. Ma è così. » « Approfondiamo questo punto. Cosa significa 'proteggere adeguatamente' Kayla Coles? E' importante che tu me lo spieghi, Alex. » « Non mettere il dito sulla piaga, per cortesia. Non mi pare di aver parlato di protezione, peraltro. » « Invece sì, hai usato proprio il verbo 'proteggere'. Ma non importa: parlamene comunque. Hai detto che volevi dirmi tutto e questo è probabilmente il punto principale. »
« Non avrei potuto fare un accidente, per impedire che le succedesse. Sei contenta, adesso? » « Abbastanza. » E aspettò che andassi avanti. « Non posso non ricondurre tutto all'aggressione di Maria, ovviamente. Quella sera io c'ero. Maria morì fra le mie braccia. Non riuscii a fare niente per salvarla. Non ho fitto niente di niente, nemmeno dopo. Non sono riuscito a prendere quel bastardo che me l'ha ammazzata. » Adele rimase zitta. « Ma sai qual è la cosa peggiore? Non mi sono mai tolto il dubbio che quel proiettile fosse per me. Maria si era voltata verso di me, un attimo prima di essere colpita. » Restammo in silenzio per un po'. Abbastanza a lungo, anche per due persone abituate a reggere i silenzi. Non avevo mai espresso quel dubbio a nessuno. Nemmeno a lei. « Adele, voglio cambiare vita. » Non disse nulla nemmeno a quel punto. Era intelligente, e diretta, come secondo me devono essere i terapeuti e come aspiro a essere io. « Non mi credi? » le domandai. Adele non mi rispose subito. « Ti voglio credere, Alex. Naturalmente. » Poi aggiunse: « E tu? Ci credi? Pensi che possiamo veramente cambiare?Ti ritieni in grado di farlo? » « Sì » le risposi. « Credo che si possa cambiare. Ma mi sbaglio spesso. » Scoppiammo a ridere tutti e due. « Non capisco perché ti pago per queste stronzate » dissi dopo un po'. « Neanch'io » replicò Adele. « Ma adesso la seduta è finita. » Nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno mi ritrovai nella chiesa di St. Anthony, che chiamavo St. Tony da quando ero bambino e vivevo nella casa di Nana, poco lontano. La chiesa è abbastanza vicina all'ospedale che porta lo stesso nome. Dopo essermi rivolto alla psichiatria, mi stavo rivolgendo al Creatore in cerca di una risposta. Chissà se l'avrei avuta, alla fine. Mi inginocchiai davanti all'altare e mi lasciai cullare dal profumo d'incenso e dalle immagini della natività e della crocifissione. La cosa che mi colpisce di più delle chiese è che la loro bellezza deriva dal fatto che chi le ha costruite era ispirato da principi più alti e importanti. Anch'io cerco di ispirarmi a essi, e di andare oltre me stesso. Guardai l'altare e mi sfuggì un sospiro. Io credo in Dio. E' semplice, lo è sempre stato. Mi sembra un po' strano, e presuntuoso, immaginare che Dio ragioni come noi, o che abbia sembianze umane
e sia bianco, nero, giallo, olivastro o verde a pallini blu, o che ascolti le nostre preghiere giorno e notte, o chissà quando. Tuttavia, pregai per Kayla nel primo banco della chiesa di St. Tony e chiesi a Dio non soltanto di farla sopravvivere, ma di guarirla anche da altre ferite. Gli esseri umani reagiscono in maniera molto diversa ai traumi, sia loro personali che dei loro cari. Lo so per esperienza. Adesso, purtroppo, lo sapeva anche Kayla. Già che ero in vena di pregare, pregai anche per Maria, che era nei miei pensieri giorno e notte, in quegli ultimi tempi. A volte le parlavo persino. Non so che cosa voglia dire. Speravo che fosse d'accordo sul modo in cui stavo crescendo i nostri figli, di cui parlavamo spesso. Poi dissi una preghiera per Nana Mama e la sua salute sempre più cagionevole, per i ragazzi e persino per la gatta Rosie, che aveva buscato un brutto raffreddore che speravo non degenerasse in polmonite. Signore, fa' che la nostra gatta non muoia. Non ora. E' una brava gatta. Il Macellaio era andato a Georgetown per sfogarsi un po'. Temeva che altrimenti non sarebbe riuscito a tornare a casa come se niente fosse, rivedere Caitlin e i ragazzi, riprendere la sua vita rispettabile. Aveva scoperto che gli piaceva molto avere una doppia vita. E a chi non sarebbe piaciuto? Stava meditando se cercare qualcuno con cui giocare a Rosso e Verde. Forse gli sarebbe servito: la guerra con Maggione Junior lo stava stressando parecchio. Q Street, che stava percorrendo di buon passo, era bella, alberata, costeggiata da case eleganti e ville signorili. Un quartiere residenziale abitato da ricchi, e lo si vedeva anche dalle auto che vi erano parcheggiate: Mercedes, Range Rover, una BMW, una Aston Martin e anche una o due Bentley, lucidissime. Non c'erano praticamente pedoni, tranne qualcuno che entrava o usciva di casa. Ottimo. Aveva le cuffie e stava ascoltando una band scozzese che gli piaceva molto, i Franz Ferdinand. Dopo un po', però, spense la musica e si fece serio. Nella palazzina di mattoni rossi all'angolo con Thirty-first Street c'era una certa animazione: forse era in programma una cena importante. Fermo davanti all'ingresso c'era un furgone con la scritta « Georgetown Valet », da cui veniva scaricato ogni ben di Dio, e i giardinieri stavano provando le luci nel giardino, che sembravano funzionare alla perfezione. Stella stellina, la notte si avvicina... Poi il Macellaio udì un ticchettio di tacchi a spillo. Era un suono invitante, inebriante, che arrivava dal marciapiede davanti a lui: un marciapiede di mattoni anziché di asfalto, che si snodava fra le ville del quartiere come una collana di perle posata su un tavolo. Dopo un po', la vide: era una bella donna, ben fatta, con i capelli scuri lunghi fino a metà schiena. Che fosse irlandese anche lei? Sarebbe stato bellissimo... Ma non poteva esserne certo, finché non la vedeva in faccia. Cominciò a seguirla, deciso a scoprire qualcosa di più sul suo conto. Gli pareva di averla già in pugno, quasi fosse stato il destino a farli incontrare e lei fosse fatta per lui, fosse il suo alter ego
o forse il suo vero sé. Era sempre più vicino e studiava i vicoli tra una casa e l'altra, i gruppi di alberi, i giardini, alla ricerca di un posto adatto. Poi vide il negozio. Era il primo che incontrava, da parecchi isolati. E sembrava quasi fuori posto. SARAH'S MARKET,
diceva l'insegna.
La bella mora entrò nel negozio. « Dannazione, mi hai fregato! » mormorò il Macellaio e sorrise, immaginando di essere in un film. Adorava quel gioco, pericoloso, provocatorio, una caccia al topo in cui era lui a dettare le regole. Ma il sorriso gli si spense sul volto non appena vide quel che c'era davanti al Sarah's Market. Una cosa che non gli piacque per niente. Un espositore di giornali con varie copie del Washington Post. Ecco! Di colpo gli sovvenne che Bob Woodward abitava in quel quartiere. Ma non era questo il problema. Quel che lo preoccupava era vedere la propria Faccia, un identikit abbozzato ma abbastanza somigliante sulla prima pagina di tutti i giornali. Davvero sconveniente. Mio Dio, sono diventato famoso! Non c'era niente da ridere, tuttavia. Michael Sullivan tornò velocemente alla macchina, che aveva lasciato in Q Street. A ben pensarci, era una cosa molto grave, lo sviluppo peggiore che potesse immaginare. Possibile che gli andassero tutte storte, ultimamente? Si sedette nella Cadillac e meditò sulla situazione. Pensò a chi poteva essere stato a denunciarlo. Qualche donna doveva aver parlato di lui, averlo descritto alla polizia. L'idea di avere contro sia le forze dell'ordine che la mafia lo preoccupava non poco. Che cosa poteva fare? Quando gli venne in mente una soluzione, seppure parziale, si sentì subito meglio. Un altro gioco, altrettanto eccitante e divertente, un altro giro di dadi. La polizia di Washington pensava di sapere che faccia aveva e com'era fatto e questo sarebbe potuto essere un problema, ma anche un vantaggio: adesso gli sbirri sarebbero stati più sicuri di sé, e quindi più approssimativi. Errore. Specie se lui avesse fatto prontamente una contromossa, come era sua intenzione fare. Ma come si sarebbe potuto difendere? Si recò in Wisconsin Avenue, vicino a Blues Alley, dove gli sembrava di ricordare ci fosse un barbiere che si chiamava Rudy. Non c'erano altri clienti e Sullivan si accomodò per farsi fare subito barba e capelli. Fu un'esperienza rilassante e quasi piacevole. Che aspetto avrebbe avuto, dopo quel trattamento? Chissà se si sarebbe piaciuto...
Un quarto d'ora dopo, era tutto finito. Togliamo le bende, dottor Frankenstein. Il barbiere, basso e rotondetto, sembrava soddisfatto del risultato. Se hai fatto un pasticcio, ti ammazzo. Non sto scherzando, Rudy, pensò il Macellaio. Ti taglio a striscioline con il tuo bel rasoio affilato. E vediamo che cosa scriverà il Washington Post! Ma no, in fondo non era malaccio. « Sì, mi piace. Non assomiglio un po' a Bono? » « Quello di Sonny e Cher, dice? » chiese Rudy, che non capiva un accidente. « Non saprei, signore. Però mi sembra più bello di Sonny Bono, buonanima. Perché è morto, lo sapeva? » « Vabbe', vabbe' » tagliò corto Sullivan. Pagò il conto, lasciandogli una bella mancia, e si dileguò. Prese la macchina e andò verso il Campidoglio. Gli era sempre piaciuto, quel quartiere. In genere quando si parla di Capitol Hill la gente pensa alla scalinata della facciata ovest. Sul lato est, invece, dietro il Campidoglio e la Corte Suprema e la Biblioteca del Congresso, c'era una zona che lui conosceva abbastanza bene. Sono giù stato qui. Attraversò a piedi Lincoln Park, che aveva una vista eccezionale sulla cupola del Campidoglio, ora che gli alberi erano spogli. Fumò una sigaretta e ripassò il proprio piano davanti al bizzarro Emancipation Memorial, che raffigurava uno schiavo che spezzava le catene mentre Lincoln leggeva il proclama dell'emancipazione. Brav'uomo, Lincoln. Al contrario di me, pensò il Macellaio. Come mai? Pochi minuti dopo si introdusse in una casa di C Street. Sapeva che era stata quella troietta a denunciarlo, se lo sentiva nelle ossa. Presto ne avrebbe avuto la certezza. Trovò Filomena Sunderland nella sua graziosa cucina, in jeans, maglietta bianca e ciabatte. Si stava preparando un piatto di pasta e beveva un bicchiere di vino rosso. Molto carina, pensò. « Ti sono mancato, Filomena? Perché tu sì, mi sei mancata. Sai una cosa, però? Sei ancora più bella di quanto mi ricordassi. » La prossima volta mi resterai più impressa, tesoro. Perché intendo farti qualche foto. Entrerai nella mia preziosa collezione, dopo tutto. Sì, cara, sì! E cominciò il suo lavoro di bisturi. Ero ancora in chiesa, quando mi squillò il cellulare. C'era stato un omicidio dalle parti di Capitol Hill. Recitai un'ultima preghiera per la vittima e un'altra perché prendessimo l'assassino al più presto. Poi uscii di corsa. Sampson e io raggiungemmo la zona in tutta fretta a bordo della sua automobile, con i lampeggianti accesi e a sirene spiegate. Quando arrivammo, la scena del
crimine era già stata delimitata con l'apposito nastro giallo. Io e Sampson salimmo le scale che portavano all'ingresso della casa, nel cuore del quartiere del governo, in mezzo a edifici pubblici importanti. Era un'ambientazione davvero di grande effetto. Che l'assassino volesse fare un po' di scena? Aveva scelto apposta quella parte della città o era solo una coincidenza? Sentii l'antifurto di un'automobile e mi voltai a guardare. Era uno spettacolo surreale: la strada era piena di polizia, giornalisti e curiosi. Molti avevano la faccia spaventata e per un attimo quel tableau vivant mi parve esemplificativo del clima di paura che regnava nel nostro Paese, o forse in tutto il mondo. Purtroppo, dentro la casa lo spettacolo era ancora più sinistro. I tecnici della Scientifica erano già al lavoro, ma Sampson ottenne comunque il permesso di entrare e convinse un sergente a far passare anche me. Entrammo in cucina. Una scena indescrivibile. L'assassino era un vero bastardo. Filomena Sunderland era riversa sul pavimento di cotto, gli occhi sbarrati rivolti verso l'alto. Non furono la prima cosa che notai, però. L'assassino le aveva conficcato un coltello nella gola, come un paletto nel cuore di un vampiro. E le aveva sfigurato il volto, strappato la maglietta e tirato giù i jeans fino alle caviglie. La vittima aveva ancora una ciabatta azzurra. L'altra era in un lago di sangue. Sampson mi guardò. « Che cosa ne pensi, Alex? » « Non lo so. La prima cosa che mi viene da dire è che non l'ha violentata. » « Perché, però? Le ha tirato giù i calzoni. » Mi chinai sul cadavere. « Queste ferite, il sangue, il fitto che l'ha sfigurata: era arrabbiato con lei. Le aveva ordinato di non parlare e lei gli ha disubbidito. L'ha ammazzata per questo, penso. Ho paura che sia colpa nostra, John. » Sampson reagì con rabbia. « Le avevamo raccomandato di non tornare qui. Le avevamo offerto protezione. Cos'altro potevamo fare? » Scossi la testa. « Potevamo lasciarla in pace. Oppure catturare l'assassino prima che tornasse da lei. Non lo so, John, ma qualcosa potevamo fare. »
Così adesso stavamo indagando anche sull'omicidio di Filomena Sunderland. Per onorare la sua memoria, mi dicevo. Ma era un modo per razionalizzare. Stavo lavorando per Maria Cross, Filomena Sunderland e tutte le altre. Nei tre giorni successivi lavorai fianco a fianco con Sampson a ritmo serrato. Il nostro «turno di notte» consisteva in un giro città che durava dalle dieci fino alle due, più o meno. Pattugliavamo Georgetown e Foggy Bottom, le zone in cui lo stupratore assassino aveva colpito fino a quel momento. Facevamo parte di una task force, composta di uomini che morivano dalla voglia di beccare quel criminale. Io più di tutti. Ma cercavo di mantenere il controllo, il senso delle proporzioni. Cenavo quasi tutte le sere con Nana e i ragazzi e telefonavo regolarmente a Kayla Coles nel North Carolina. Mi pareva stesse un po' meglio. Continuai anche le sedute con i miei pazienti, compresa Kim Stafford, che veniva da me due volte la settimana e stava cominciando a lare progressi. Il suo fidanzato non aveva mai fatto cenno al nostro « incontro/scontro ». I miei riti mattutini comprendevano un caffè allo Starbucks vicino al mio studio o alla pasticceria Au Bon Pain all'angolo fra Indiana e Sixth. Il problema di Au Bon Pain era che mi piacevano troppo le loro brioche: era meglio che lo frequentassi poco. Kim era la mia paziente preferita. I terapeuti hanno i loro pazienti preferiti, benché si ostinino a negarlo. «Si ricorda quando dicevo che Jason non era un cattivo ragazzo? » mi disse una mattina, un quarto d'ora dopo essere arrivata. Me lo ricordavo, così come ricordavo di aver fatto a botte con lui nel posto di polizia in cui lavorava. « Be', invece è cattivissimo. Pessimo. Me ne sto rendendo conto ogni giorno di più, dottor Cross. Ci ho messo troppo ad accorgermene, ma adesso finalmente lo so. » Annuii e aspettai che continuasse. Sapevo che cosa volevo che mi dicesse. « L'ho lasciato. Ho aspettato che uscisse per andare a lavorare e me ne sono andata. Devo dirle la verità? Ho una paura tremenda. Ma sono contenta di averlo fatto. » Si alzò e si avvicinò alla finestra, che dava su Judiciary Square. Si vedeva anche il tribunale. « Da quanto tempo è sposato lei, dottore? » mi domandò, guardando la fede che continuavo a portare. « Non sono più sposato » le risposi. E le raccontai brevemente di Maria e di quello che era successo ormai più di dieci anni prima. In versione ridotta, senza le emozioni. « Mi dispiace » mi disse, quando ebbi finito. Aveva le lacrime agli occhi, che era l'ultima cosa che avrei voluto al mondo. Quella mattina facemmo progressi importanti, poi successe una cosa strana: « Lei è una brava persona, dottor Cross » mi disse Kim e mi strinse la mano.
«Addio. » Forse avevo perso la mia prima paziente, pensai. Nel caso, sarebbe stato perché avevo fatto un buon lavoro. Ciò che successe quella sera mi mandò nella confusione più rotale. Andò tutto storto, anche quello che fino a quel momento era andato bene. Avevo deciso di trattare bene Nana e i ragazzi portandoli a cena da Kinkead's, vicino alla Casa Bianca, in Pennsylvania Avenue, che è il nostro ristorante di Washington preferito. Il grande jazzista Milton Fenton era venuto al nostro tavolo e ci aveva raccontato una storia buffa a proposito dell'attore Morgan Freeman. Poi eravamo tornati a casa e io ero salito nel mio studio nella mansarda, maledicendo i gradini a uno a uno. Avevo messo su un CD di Sam Cooke, cominciando con la famosissima You Send Me, e mi ero messo a spulciare vecchie pratiche del dipartimento dei giorni precedenti la morte di Maria. Erano centinaia e centinaia di pagine. Stavo cercando i casi di stupro avvenuti nel Southeast e dintorni e mai risolti. Lavorai intensamente, ascoltando la musica in sottofondo, e a un certo punto guardai l'orologio e mi accorsi che erano le tre e dieci. Avevo scoperto alcune cose interessanti. Ricordavo che nelle settimane immediatamente precedenti l'omicidio di Maria c'era stata una serie di stupri che poi si era improvvisamente interrotta. Forse lo stupratore era a Washington in trasferta e aveva concluso in quel periodo il suo soggiorno nella capitale... Ma l'interessante era che nessuna delle vittime aveva fornito una descrizione dello stupratore. Avevano ricevuto cure mediche, ma si erano rifiutate di denunciarlo. Mi parve un dettaglio molto interessante e perciò continuai a sfogliare i dossier. Lessi un altro po' di verbali e riscontrai che nessuna delle vittime voleva descrivere il suo aggressore. Possibile che fosse solo una coincidenza? Ne dubitavo. Continuai a leggere. E, a un certo punto, rimasi di sasso. In una delle pratiche si faceva un nome. Maria Cross Assistente sociale al centro di Potomac Gardens. Un certo ispettore Alvin Hightower, che ricordavo di aver conosciuto vagamente all'epoca e che mi sembrava fosse morto nel frattempo, aveva scritto un rapporto a proposito di una studentessa della George Washington University, che era stata violentata in un bar di M Street. Mentre leggevo, mi resi conto di avere l'affanno. Mi stava tornando in mente una conversazione che avevo avuto con Maria pochi giorni prima che morisse, a proposito di una ragazza che si era rivolta a lei dopo aver subito violenza. Dal rapporto di Hightower emergeva che la ragazza aveva fornito una descrizione dell'uomo che le aveva usato violenza all'assistente sociale Maria Cross. Era un uomo bianco, alto più di uno e ottanta, probabilmente newyorkese, che dopo averla violentata le aveva fatto un piccolo inchino.
Con le mani che tremavano, voltai pagina e controllai la data del rapporto: era stato stilato il giorno prima dell'omicidio di Maria. Chi era lo stupratore? Il Macellaio, il killer mafioso cui davamo la caccia... Ricordai il suo inchino, la sua inspiegabile visita a casa mia... Il Macellaio... Ero sicuro: era stato lui.
Parte Quarta Dragonslayer, ovvero l'Ammazzadraghi Fu Nana a rispondere al telefono, in cucina, dove ci eravamo radunati per preparare la cena. Ognuno aveva i suoi compiti, da pelare le patate a condire l'insalata e apparecchiare la tavola con le posate d'argento. Tutte le volte che squillava il telefono, però, trasalivo: che Sampson avesse scoperto qualcosa a proposito del Macellaio? Nana disse: « Oh, cara, come va? Si sente meglio? Bene, bene. Mi fa proprio piacere. Glielo chiamo. Sì, sì: è qui che taglia le verdure con il piglio dello chef. Oh, sì, sta bene. Starà ancora meglio appena sentirà la sua voce, dottoressa ». Capii che era Kayla e andai a rispondere in salotto, chiedendomi come avevamo fatto a diventare una di quelle famiglie con un telefono per stanza, più i cellulari. « Come stai, tesoro? » le dissi, imitando Nana. « Grazie, ci sono: potete mettere giù in cucina » aggiunsi, sapendo benissimo che erano tutti lì a sentire e a ridacchiare. « Ciao, Kayla! » le dissero, più o meno in coro. « A presto, Kayla » disse Nana. « Le vogliamo tutti bene. Cerchi di rimettersi presto.» Dopo il clic che aspettavamo entrambi, Kayla mi disse: « Sto abbastanza bene. La prognosi è buona. Sono quasi guarita e pronta a ripartire alla carica ». Sorrisi. Mi faceva piacere sentire la sua voce, anche soltanto al telefono. « Ti sento bella agguerrita. E' una gioia. » « Anche per me è una gioia sentirti, Alex. E Nana, e i ragazzi. Mi spiace non aver chiamato, la settimana scorsa, ma mio padre è stato poco bene. Adesso si è rimesso, per fortuna... E poi ho fatto un po' di volontariato per il quartiere. Tu mi conosci, Alex: sai che detesto essere pagata. » Restammo un momento in silenzio, poi le chiesi dei suoi genitori e della vita nel North Carolina, dove eravamo nati entrambi. A quel punto mi ero calmato ed ero tornato me stesso.
« Dimmi come stai veramente, Kayla. Davvero ti sei ripresa quasi del tutto? » « Davvero. Certe cose mi sono più chiare adesso che prima. Ho avuto il tempo di elaborare e riflettere. Per esempio: pensavo che... Non so se tornerò a Washington, Alex. Volevo parlarne con te prima che con chiunque altro. » Mi sentii mancare. Quella notizia non mi coglieva del tutto impreparato, ma era comunque un brutto colpo. Kayla continuò: « Qui c'è tanto da fare... C'è molta gente che ha bisogno e poi... Non so, mi ero scordata di quanto si stesse bene da queste parti: è così tranquillo! Mi dispiace, mi rendo conto che non mi sto spiegando bene...» Replicai con una battuta: « Voi scienziati verbalizzate poco ». Kayla sospirò. « Alex, secondo te sto facendo uno sbaglio? Capisci cosa voglio dire? Sì, certo che capisci. » Avrei voluto dirle che sì, era uno sbaglio, che doveva tornare a Washington, e anche di corsa, ma non ci riuscii. Perché? « C'è solo una cosa che mi viene da dirti, Kayla, e cioè che devi decidere tu che cosa è meglio per te. Non voglio influenzarti, né ora né mai. Non ci riuscirei, nemmeno se volessi. Non so se mi sono spiegato. » « Sì, penso di sì. Ti ringrazio della sincerità.» Dopo un attimo, aggiunse: « Insomma, devo prendere una decisione da sola. E' giusto così, no? Sia per me che per te ». Continuammo a parlare per un po' e solo quando ebbi riattaccato mi resi veramente conto di che cosa era appena successo: l'avevo persa. Ma perché? Perché non le avevo detto che avevo bisogno di lei? Perché non le avevo chiesto di tornare? Perché non le avevo detto che la amavo? Dopo mangiato, salii nella mansarda, nel mio piccolo rifugio privato, e cercai di immergermi nei dossier e nei verbali del periodo in cui era morta Maria per non pensare a Kayla. Mi concentrai sul lavoro, su mia moglie, sentii la sua mancanza come non mai e mi chiesi come sarebbe stata la mia vita se lei non fosse morta. Verso l'una, scesi finalmente di sotto, in punta di piedi. Entrai in camera di Ali e, senza fare rumore, mi coricai accanto a lui, gli presi la manina e gli chiesi in silenzio: Aiutami tu, figlio mio. Stava succedendo tutto molto in fretta, nel bene e nel male. Michael Sullivan non era mai stato tanto teso e agitato. La cosa non gli dispiaceva, dopo tutto: si sentiva vivo, vitale, di nuovo in azione. La rabbia lo manteneva concentrato, ma aveva bisogno di qualcosa da fare. Doveva agire: non poteva restare un momento di più chiuso in un motel a guardare vecchi episodi di Law & Order o a giocare a calcio e a baseball con i suoi figli. Aveva bisogno di muoversi, di andare a caccia, di procurarsi una bella scarica di
adrenalina. Errore. In preda a questa smania di agire, si ritrovò a Washington, l'ultimo posto in cui sarebbe dovuto andare, nonostante il taglio di capelli e la felpa grigia e azzurra della Georgetown University con il cappuccio, che lo faceva sembrare uno stupido yuppie smidollato da prendere a pugni in faccia e calci nel sedere. Il problema era che gli piacevano le donne di Georgetown, maledizione a loro. Donne in carriera, intelligenti, arroganti: le migliori. Aveva appena finito di leggere Villaggi di John Updike e si chiedeva se lo scrittore fosse un vecchio assatanato come i suoi personaggi. Non aveva scritto anche Coppie? A più di settant'anni era capace di scrivere storie di sesso che sarebbero andate bene per un ragazzino della Pennsylvania, pronto a trombarsi qualsiasi cosa avesse due, tre o quattro zampe. Forse non aveva colto il significato più profondo di quel romanzo, certo. O forse invece Updike era un maniaco. Era possibile scrivere di cose che non si erano mai sperimentate? Come facevano gli scrittori a non accorgersi di quanto rivelavano di sé? Il punto, comunque, era che gli piacevano le donne di Georgetown. Avevano un buon profumo, erano belle e parlavano bene. Qualcuno avrebbe dovuto scriverci su un libro: Le donne di Georgetown. Magari proprio Updike. Si stava divertendo. Durante il viaggio in macchina dal Maryland aveva ascoltato gli U2, con Bono che anelava a entrare nella testa della sua amante e si era chiesto, romanticismo irlandese a parte, se era davvero la testa la parte più interessante. Forse Caitlin avrebbe voluto entrare nella sua testa? Non credeva proprio. E lui in quella di Caitlin? Non ne aveva bisogno: gli spazi vuoti non gli interessavano. Dov'era, adesso? Ah, già: Thirty-fìrst Street. Non lontano da Blues Alley, che a quell'ora era praticamente deserta. Si animava solo di notte, quando aprivano i club e la gente affluiva in questa parte di Washington. Stava ascoltando James McMurtry e gli Heartless Bastards. Quel CD gli piaceva abbastanza da decidere di rimanere in macchina altri cinque minuti per sentirlo sino alla fine. Poi scese, si sgranchì le gambe e prese una boccata d'aria, moderatamente inquinata. Eccomi qua! Decise di tagliare verso Wisconsin Avenue e controllare com'erano le donne da quelle parti. Se ne avesse trovata una decente, avrebbe sempre potuto trascinarla fin lì. E a quel punto? Be', avrebbe deciso sul momento cosa farle. Era Michael Sullivan, il Macellaio di Sligo, un folle come ce n'erano pochi al mondo. Pensò a una frase che aveva sentito e che gli piaceva: Tre voci su quattro nella mia testa mi dicevano di fare così... In Thirty-first Street brillavano le luci del Ristorante Piccolo, la cui specialità erano gli spaghetti, all'angolo della traversa su cui si aprivano le porte di servizio di vari locali trendy di M Street.
Passò davanti a quella di una steakhouse, di un bistrò e poi di un fast food, da cui usciva un fumo unto e spesso. Notò che un'altra persona era entrata in quel vicolo. Anzi, erano due, e gli stavano andando incontro. Cosa cazzo volevano? Cosa stava succedendo? Dentro di sé lo sapeva: era arrivato al capolinea. Dopo una vita a essere sempre un passo avanti agli altri, stava succedendo l'inverso. I due uomini nel vicolo avevano giacconi di pelle nera, erano grandi e grossi, con le spalle larghe. Non erano studentelli di Georgetown che avevano preso la scorciatoia per andarsi a mangiare un hamburger. Si voltò indietro, verso Thirty-first Street. E ne vide altri due. Errore. Madornale. Aveva sottovalutato John Maggione. « Ci manda Mister Maggione » disse uno dei tipacci, andandogli incontro con fare aggressivo e arrogante. Michael Sullivan era circondato. Niente misteri, niente loschi intrighi: alcuni degli scagnozzi di Maggione avevano già tirato fuori la pistola. Il Macellaio non era nemmeno armato, a parte il bisturi nascosto nello stivaletto. Impossibile ammazzarli tutti con un bisturi. Probabilmente non ce l'avrebbe fatta nemmeno con una pistola. Cosa poteva fare, dunque? Scattargli una foto con la sua Polaroid? « Forse hai capito male, Macellaio. Mister Maggione non vuole vederti: ti vuole morto » disse uno degli scagnozzi. « Prima possibile. Per esempio, stasera. Tu lo sai, Macellaio: ogni desiderio di Mister Maggione è un ordine. Perciò prima faremo sparire te, e poi andremo da tua moglie e dai tuoi tre figli e faremo sparire anche loro.» Michael Sullivan stava valutando tutte le possibilità che aveva. Avrebbe potuto ammazzarne uno, magari quello che parlava. Così, tanto per zittirlo e prendersi una piccola rivincita. Farlo a pezzi per benino. E gli altri tre? Nella migliore delle ipotesi, sarebbe riuscito a metterne fuori combattimento due. Sempre che fosse riuscito a farli avvicinare abbastanza da potergli conficcare il bisturi da qualche parte, cosa comunque non facile visto che, per quanto stupidi, non potevano essere proprio così stupidi. Cosa poteva fare, allora? Non voleva morire senza aver almeno provato a difendersi. « Non sei abbastanza uomo da venire a uccidermi da solo, eh? » disse al portavoce del gruppo.
« Mezzasega! » Voleva irritarlo. Qualsiasi cosa, pur di prendere tempo: stava per morire, e non era pronto. Il killer fece un ghigno malvagio. « Tranquillo, ti potevo far fuori anche io da solo. Sai chi è la mezzasega, qui? Ti do un piccolo aiuto: gli hai pulito il culo stamattina. » Il Macellaio infilò la mano nella tasca della felpa e ce la tenne. L'uomo che aveva parlato reagì alzando la mano libera e i suoi compari si fermarono. Avevano tutti le armi puntate su di lui, ma non osavano muovere un altro passo verso il famigerato Macellaio. L'uomo che aveva parlato fece segno a quelli dietro a Sullivan di spostarsi sulla destra e, insieme con il quarto, avanzò verso sinistra, in maniera che Sullivan fosse sotto il tiro di tutti e quattro. Bella mossa. « Stupido irlandese, stavolta hai fatto un passo falso, eh? Ti farò una domanda: pensavi di finire così? » Sullivan scoppiò a ridere. « Sai una cosa? Non pensavo di finire, punto e basta. Non ci avevo mai pensato. E continuo a non pensarci. » « Sbagli, perché invece ce l'hai in quel posto. Il film è terminato, le luci si stanno spegnendo... » Era vero. Non c'erano dubbi in proposito. Però, proprio in quel momento, il Macellaio udì qualcosa alle proprie spalle. Stentava a crederci e dovette voltarsi a guardare se era reale o era uno scherzo crudele. Qualcuno stava gridando dal fondo del vicolo. Oddio, doveva essere successo un miracolo! O forse quello era il giorno più fortunato di tutta la sua vita. O forse tutt'e due. Era arrivata la cavalleria! E gli stava salvando la vita. « Polizia! Gettate a terra le armi. Polizia! Ripeto: gettate a terra le armi. » Sullivan li vide: erano due neri, in borghese. Dovevano essere ispettori. Si stavano avvicinando, alle spalle degli scagnozzi di Maggione, che erano confusi e non sapevano cosa cavolo fare. Neanche il Macellaio sapeva cosa cavolo fare. I due sbirri facevano paura, però, e si chiese se non fossero della task force che girava per Georgetown alla ricerca dello stupratore. Erano lì per lui? Probabilmente sì, ci avrebbe scommesso. Ma per il momento era l'unico ad averlo capito, in quel vicolo.
Uno dei due poliziotti stava chiamando rinforzi. Un attimo dopo i due mafiosi dalla parte di Wisconsin Avenuesi voltarono e... se ne andarono. Gli ispettori avevano le armi spianate, ma cosa potevano fare? Realisticamente, che chance avevano? Sullivan stava quasi per mettersi a ridere. Si voltò anche lui e si incamminò verso Wisconsin Avenue. Subito dopo si mise a correre verso la strada affollata, ridendo come un pazzo. Aveva deciso di tentare il tutto per tutto e darsela a gambe. Come ai vecchi tempi, a Brooklyn, quando era ragazzo e si stava facendo le ossa. Corri, Mikey, corri più forte che puoi! Dai che ce la fai! Che cosa potevano fare i due sbirri? Sparargli nella schiena? E perché? Mettersi a correre pure loro? Inseguire la vittima di un agguato mafioso? Urlavano, minacciavano di sparare, ma alla fine lo guardarono correre via senza fare nulla. Era la cosa più buffa che gli fosse mai capitata in vita sua. La più assurda! Era arrivata la cavalleria a salvarlo. Errore. Errore enorme. Da parte loro. C'erano cinque o sei agenti in divisa che entravano e uscivano dal posto di polizia di Wisconsin Avenue quando arrivammo io e Sampson, quel pomeriggio. Un ispettore chiamato Michael Wright aveva finalmente fatto il collegamento: lui e il suo compagno di squadra si erano lasciati sfuggire per un pelo lo stupratore di Georgetown, e con lui il colpo più importante della loro carriera. In compenso, avevano catturato due uomini che forse erano al corrente di quello che stava succedendo. Bisognava sondarli per benino. Sampson e io superammo un divisorio antiproiettile alto circa tre metri per andare nella saletta riservata agli interrogatori, che si trovava in fondo all'open-space dove lavoravano gli ispettori. Era un luogo abbastanza familiare: scrivanie malconce e piene di scartoffie, vecchi computer e telefoni di un'altra generazione, scaffali stracolmi. Prima che entrassimo nella saletta, Wright ci avvertì che nessuno dei due arrestati aveva detto una sola parola fino a quel momento. Erano armati di Beretta e, a parer suo, erano killer prezzolati. « Divertitevi » ci disse. Io e John entrammo. Sampson parlò per primo. « Sono il detective John Sampson e lui è il dottor Cross, psicologo forense. Stiamo indagando su una serie di stupri avvenuti nella zona di Georgetown. » Nessuno dei due uomini disse una parola. Dimostravano poco più di trent'anni ed erano grandi e grossi, palestrati, con un ghigno perenne sul volto.
Sampson rivolse loro un paio di domande. Poi rimanemmo in silenzio dall'altra parte del tavolo, a fissarli. Dopo un po' un'impiegata bussò alla porta ed entrò a consegnare a Sampson due fax ancora caldi. Sampson li lesse e poi me li porse. « Non credevo che la mafia fosse attiva nella zona di Washington» disse. « Evidentemente mi sbagliavo, visto che ne fate parte tutti e due. Avete qualcosa da dire a proposito di quel che è successo nel vicolo? » Non avevano niente da dire e continuarono a starsene lì in silenzio con aria strafottente, ignorandoci nella maniera più totale. « Dottor Cross, possiamo ricostruire l'accaduto anche senza il loro aiuto, dico bene?» mi fece Sampson. « Penso di sì. Qui dice che John Antonelli, detto 'lo Scavatore', e Joseph Lanugello, detto 'Lama', fanno parte del clan di John Maggione, che opera a New York. John Maggione dev'essere il figlio di Maggione Senior, per cui lavorava Michael Sullivan, meglio noto come il Macellaio, autore di un colpo sanguinoso qui a Washington diversi anni fa. Se lo ricorda ?» « Sì, certo. Uccise un trafficante di droga cinese. Sua moglie Maria morì proprio in quel periodo, vero, dottore? E il signor Sullivan adesso è indagato per questo. » « Anche per violenza carnale e omicidio. Sembra sia l'autore di una serie di stupri commessi a Georgetown e di almeno un omicidio legato a tali stupri. Era lui che avevate accerchiato in Blues Alley? » chiesi ai due mafiosi. Nessuno rispose. Stavano zitti, da veri uomini d'onore. Sampson dopo un po' si alzò e si grattò il mento. « Va bene. Penso che né lo Scavatore né Lama ci servano più. Cosa ne facciamo, secondo lei? Aspetti: mi è venuta un'idea. Le piacerà, dottor Cross. » E scoppiò a ridere. Fece cenno ai due malavitosi di alzarsi. « Abbiamo concluso. Seguitemi, per cortesia. » « Dove? » fece Lanugello, rompendo il silenzio. « Non siamo imputati di niente. » « Andiamo. Ho una piccola sorpresa per voi.» Sampson si incamminò davanti ai due scagnozzi e io chiusi la fila. La cosa pareva seccarli: non gradivano avere qualcuno alle spalle. Forse temevano che perdere la moglie mi avesse reso più cattivo. E forse era proprio così. Sampson fece segno alla guardia in fondo al corridoio di aprire una cella, dove si trovavano già diversi prigionieri in attesa del rinvio a giudizio, tutti neri tranne uno. John fece strada ai due mafiosi.
« Ecco, starete qui. Se cambiate idea e decidete di collaborare, dateci un grido » disse Sampson. «Il dottor Cross e io restiamo qui ancora per un po'. Altrimenti ci vediamo domattina. Passate una buona nottata. » Sampson batté il distintivo contro le sbarre. « Questi due uomini sono indagati per una serie di stupri» annunciò agli altri detenuti. « Ai danni di alcune donne nere del Southeast. State attenti, sono dei duri. Vengono da New York. » Ce ne andammo e la guardia sbatté la porta alle nostre spalle. Erano le quattro del mattino, faceva freddo, pioveva e i due figli più piccoli, seduti sul sedile posteriore della macchina, piangevano. Anche Caitlin piangeva. Era tutta colpa di Maggione e di Cosa Nostra. Sullivan gliel'avrebbe fatta pagare, in un modo o nell'altro: non vedeva l'ora. Aveva il suo bisturi, e anche la sega. Alle due e mezzo aveva fatto salire in macchina i suoi familiari ed era scappato di soppiatto da una casa fuori Wheeling, nel West Virginia. Era il secondo spostamento in due settimane, ma non c'era altra scelta. Aveva promesso ai figli che un giorno sarebbero tornati nel Maryland, ma sapeva che non era vero. Aveva già messo in vendita la casa: aveva bisogno di liquidi, per attuare il suo piano di fuga. E così stavano scappando, cercando di salvarsi la vita. Mentre lasciavano la casa nel West Virginia, fu assalito da un terribile presentimento: gli uomini del clan di Maggione li avrebbero trovati di nuovo. Chissà, forse erano già lì, in agguato, dietro la curva. La superò, e superò quella successiva e tutte le altre fino a uscire dalla città sano e salvo. Così si misero a cantare canzoni dei Rolling Stones e degli ZZ Top, compresa una versione di Legs che durava venti minuti. Poi sua moglie si lamentò di tutto quel fracasso maschile e chiese un po' di silenzio. Si fermarono da Denny's a fare colazione, da Micky D's per andare di nuovo nel bagno e, verso le tre del pomeriggio, raggiunsero un posto dove non erano mai stati prima. Sullivan sperava di non aver lasciato tracce, briciole di pane tipo Hansel e Gretel, e che gli scagnozzi di Maggione non riuscissero a raggiungerli. La cosa bella era che né lui né i suoi erano mai stati in quella zona, che era un territorio vergine per loro, dove non avevano radici né legami. Imboccò il viale di una villetta in stile vittoriano con il tetto spiovente, due torrette laterali e una finestra con i vetri a piombo. « Bella, eh? » disse con un gran sorriso, pieno di falso entusiasmo. « Benvenuti in Florida, ragazzi! » « Non fare lo spiritoso, papà » sentenziò Mike Junior da dietro, in mezzo ai fratellini che avevano l'aria altrettanto cupa e depressa. Erano a Florida, una cittadina del Massachusetts, e Caitlin e i ragazzi erano stanchi degli scherzi insulsi di Michael. Era un piccolo centro, con meno di mille abitanti,
sui monti Berkshire. La vista era bella, ma a parte questo, non c'era nient'altro. Nemmeno killer mafiosi in agguato dietro la casa, però, e in fondo l'importante era questo. « E' perfetta! Cos'altro possiamo desiderare? » continuava a dire ai ragazzi, mentre disfacevano le valigie. Perché Caitlin piangeva, quando le mostrò il soggiorno con vista sul monte Greylock e il fiume Hoosic? Perché lui le mentiva, dicendole che sarebbe andato tutto bene e chiamandola « mia regina, luce dei miei occhi »? Forse perché sapevano entrambi che non era vero e che prima o poi sarebbero stati ammazzati tutti quanti. Magari proprio in quella casa lì. A meno che lui non facesse qualcosa di veramente risolutivo. E in fretta. Ma cosa? Come poteva fermare gli uomini di Maggione? Come si fa a neutralizzare Cosa Nostra? Due sere dopo, il Macellaio era di nuovo in viaggio. Questa volta da solo. Aveva un piano. Stava andando verso sud, verso New York. Era teso, nervoso, ma cantava insieme con Bruce Springsteen, Dylan, i Pink Floyd. Per un viaggio di quattro ore verso sud, non c'era niente di meglio dei classici del rock. Non era stato contento di lasciare Caitlin e i ragazzi nel Massachusetts, ma probabilmente era la decisione migliore, la più prudente. Voleva fare del proprio meglio per proteggerli. Non come suo padre, che non aveva mai fatto nulla per lui, per sua madre e per i suoi fratelli. Intorno a mezzanotte prese la West Side Highway e andò dritto verso i Morningside Apartments di West 107th Street. C'era già stato e sapeva che era un luogo abbastanza appartato per i suoi scopi. Comodo, peraltro, con quattro linee della metropolitana nelle due stazioni più vicine. Se ben ricordava, nelle stanze non c'era l'aria condizionata, ma essendo novembre poco importava. Dormì come un bambino al sicuro nel ventre materno. Quando si svegliò, alle sette, era coperto di sudore e nella testa aveva un unico pensiero: vendetta, tremenda vendetta contro Maggione Junior. Che, volendo, poteva anche tradursi in: sopravvive soltanto il più forte. Verso le nove, prese la metropolitana per andare a fare un sopralluogo e scegliere i posti in cui intendeva commettere i suoi prossimi omicidi. Aveva un elenco di possibili bersagli: chissà se le sue vittime - vari uomini e due donne - sapevano di avere i giorni contati. Probabilmente non avevano idea che il loro destino fosse nelle sue mani, che gli restasse da decidere soltanto quando e dove colpire. Verso le nove di sera andò a Brooklyn, nei luoghi della sua giovinezza, nella zona controllata da Maggione, Carroll Gardens. Pensò al suo vecchio amico Jimmy Fedora, che gli mancava un po'. Probabilmente lo aveva fatto fuori Maggione Senior. Se non lui, qualcun altro che aveva fatto scomparire il cadavere. Sullivan era abbastanza sicuro che fosse stato Maggione
Senior. Era un altro conto da regolare. La rabbia gli stava montando sempre più furiosa e omicida. Chissà, forse era cominciato tutto con suo padre, il primo Macellaio di Sligo, stronzo bastardo che aveva rovinato la vita di suo figlio prima ancora che compisse dieci anni. Imboccò la via dove abitava Maggione e sorrise fra sé. Il boss viveva ancora come un modesto idraulico, in una villetta bifamiliare di mattoni gialli. E, cosa ancor più sorprendente, non c'erano guardie: o Maggione lo sottovalutava pericolosamente, oppure i suoi scagnozzi erano bravissimi a rendersi invisibili. Oppure proprio in quel preciso momento un cecchino appostato su un tetto gli stava puntando il mirino in fronte? Chissà, forse gli restavano soltanto pochi secondi di vita. La tensione era insopportabile: doveva assolutamente scoprire come stavano le cose. Suonò il clacson una, due, tre volte. Ma non successe niente. Nessuno gli sparò alla testa. Per la prima volta Sullivan si concesse di sperare di potercela ancora fare, di poter ancora vincere. Poi scoprì la soluzione del primo mistero: Maggione Junior aveva cambiato casa. Era in fuga pure lui. Il corso dei suoi pensieri si interruppe all'improvviso. Errore. Non poteva permettersi di sbagliare. Non gli era concessa la minima imprecisione, finché non fosse tutto finito. Al primo passo falso, sarebbe morto. Non c'era da scherzare. Era tardi e decisi di andare a fare un giro sulla mia R350. Adoravo quell'auto. Anche ai ragazzi piaceva moltissimo e persino Nana non trovava nulla da ridire, grazie al Cielo. Mi ritrovai a pensare di nuovo a Maria, alle lunghe indagini che avevo condotto e al fitto che non avevano portato a nulla. Mi sforzavo di ricordare il suo viso, il suono della sua voce. Quando tornai a casa, non riuscii a prender sonno. Dopo averci provato per un po', scesi di sotto a guardare per l'ennesima volta Diary of a Mad Black Woman e mi ritrovai a sorridere come un idiota davanti al televisore. Quel film di Tyler Perry si adattava perfettamente al mio stato d'animo. La mattina dopo, verso le nove, chiamai Tony Woods. Misi da parte il mio orgoglio e gli chiesi di darmi una mano a catturare lo stupratore omicida. Avevo bisogno di sapere se l'FBI aveva informazioni riservate riguardo al killer che si faceva chiamare il Macellaio. Qualsiasi cosa poteva essere importante per me e Sampson. « Aspettavo la sua chiamata, Alex. Burns non vede l'ora di riprendere a lavorare con lei. E disponibile a fornirci qualche consulenza? Roba leggera. Decida lei come e quando. So che ha ripreso a fare indagini, che lavora come consulente. » « Chi gliel'ha detto? Questo è un caso eccezionale » replicai. « Ho il sospetto che il Macellaio abbia ammazzato mia moglie. Non voglio lasciarmelo sfuggire. »
« Capisco, capisco. Davvero. Cercheremo di aiutarla per quanto possibile. Le farò avere quello che le serve. » Mi autorizzò a usare l'ufficio di un agente in trasferta e a contattare la ricercatrice e analista Monnie Donnelley. « Le ho già parlato » dissi a Tony Woods. « Lo sappiamo: Monnie ce l'ha detto. Ma adesso lei è autorizzato a parlarle e Monnie è autorizzata a risponderle. Ufficialmente. » Passai i due o tre giorni successivi chiuso negli uffici dell'FBI e scoprii che il Bureau aveva raccolto parecchie informazioni su Michael Sullivan, il Macellaio. Il suo dossier era corredato da decine di fotografie. Peccato che risalissero tutte a sei o sette anni prima. Sembrava che non fossero stati acquisiti nuovi dati su Sullivan negli ultimi tempi. Dov'era sparito? Scoprii che era cresciuto in una zona di Brooklyn chiamata The Flatlands e che suo padre aveva una macelleria. Risalii persino ai nomi di diversi amici e conoscenti di Sullivan a New York. Alcune delle notizie che appresi erano piuttosto curiose: Sullivan aveva frequentato la scuola parrocchiale per dieci anni ed era stato uno studente brillante, benché si impegnasse poco. Poi aveva smesso di studiare e si era legato alla mafia. Era uno dei pochi non italiani a lavorare per Cosa Nostra. Era anche piuttosto ben pagato. A poco più di vent'anni guadagnava già cifre da capogiro come killer di fiducia di Dominic Maggione. Suo figlio, l'attuale capoclan, non l'aveva mai visto di buon occhio. A un certo punto erano cominciate a succedere cose strane: alcuni rapporti riferivano che Michael Sullivan mutilava e torturava le sue vittime. Pareva avesse ucciso un prete e un laico accusati di abusi nei confronti di alunni della scuola che aveva frequentato lui stesso, che avesse fatto parte di ronde e avesse addirittura ucciso il suo stesso padre, scomparso una sera dopo il lavoro e mai più ritrovato. Poi di Sullivan si perdeva ogni traccia. Monnie Donnelley concordava con me che probabilmente era diventato informatore di qualcuno all'interno dell'FBI. Possibile che il Federai Bureau of Investigations o la polizia di New York lo proteggessero? Possibile che Sullivan godesse dei privilegi riservati ai testimoni? Era questo che era successo all'assassino di mia moglie Maria? Il Macellaio era un informatore, una spia? Protetto dall'FBI? John Maggione era un uomo orgoglioso, che a volte si metteva troppo in mostra e ostentava troppa sicurezza, ma non era uno stupido e, in genere, era piuttosto prudente. Si rendeva conto della gravità della situazione e della pericolosità del folle killer di cui si era avvalso suo padre in passato, il Macellaio. Irlandese, per giunta. Anche suo padre aveva cercato di eliminarlo, quando si era reso conto di quanto fosse imprevedibile e psicopatico. Adesso occorreva portare a termine il compito. Al più presto.
Sullivan continuava a imperversare, Maggione lo sapeva. Per sicurezza, aveva fatto trasferire i suoi familiari dalla casa di Brooklyn: adesso stavano a Mineola, a Long Island. In quel momento, era con loro in una villa di mattoni in stile coloniale, sul mare, in una strada senza uscita su un canale, con molo privato e un motoscafo che si chiamava Cecilia Theresa, come la sua primogenita. Era risaputo che avesse quella casa, ma la sicurezza era ottima: la proprietà era cintata e Maggione aveva raddoppiato il numero delle guardie del corpo. Era abbastanza tranquillo, per quanto riguardava la sicurezza della sua famiglia. In fondo il Macellaio era un uomo solo: realisticamente, quanti danni avrebbe potuto provocare, più di quelli che aveva già causato? Aveva intenzione di andare a lavorare, nella tarda mattinata, e poi di fare un salto al club di Brooklyn. Era importante per lui mantenere le apparenze. E poi era convinto che la situazione fosse sotto controllo. I suoi glielo avevano assicurato: Sullivan e la sua famiglia avevano i giorni contati. Alle undici del mattino, Maggione nuotava tranquillo e beato nella piscina coperta della sua villa. Aveva già fatto trenta tasche e contava di farne altre cinquanta. Gli squillò il cellulare, che aveva lasciato sulla sedia a sdraio. Siccome in giro non c'era nessun altro, uscì dall'acqua e rispose: « Sì? Cosa c'è? » « Maggione » disse una voce maschile. « Chi parla? » domandò. In realtà, sapeva già chi era. « Michael Sullivan, per servirla. Che faccia tosta, eh? » Maggione non riusciva a credere che quel pazzo lo avesse chiamato di nuovo. « Conviene che ci parliamo » propose al killer. « Stiamo già parlando » precisò quello. « Com'è che mi hai sguinzagliato contro i tuoi scagnozzi? Prima in Italia, poi nel Maryland, dove hanno sparato anche ai miei figli, e da ultimo a Washington. Come mai? Sono da eliminare, secondo te? Sei tu che vai eliminato, Junior. Sei tu quello che deve sparire dalla circolazione! » « Ascolta, Sullivan...» « No, ascoltami tu, brutto bastardo. Stammi bene a sentire: sta per arrivare un pacco nella tua bella fortezza superprotetta. Controlla, se non ci credi. Sto venendo da te! Non mi fermerai. Niente e nessuno mi può fermare. Sono matto, ricordatelo. Sono lo stronzo più matto che tu abbia mai conosciuto, o di cui tu abbia mai sentito parlare. Ci incontreremo di nuovo, Junior. » E chiuse la comunicazione. Maggione Junior si mise un accappatoio e andò verso l'ingresso della casa. Non poteva crederci: un fattorino della Federal Express stava effettivamente consegnando un pacco! Questo significava che quel matto di Michael Sullivan stava tenendo d'occhio la sua casa. Com'era possibile? Davvero stava succedendo quello che gli aveva predetto?
« Vincent! Mario! Venite qui subito! » Le guardie del corpo arrivarono immediatamente dalla cucina, con un panino in mano. Maggione chiese a uno di loro di aprire il pacco, nella dependance dov'era la piscina. Dopo qualche momento di tensione, l'uomo lo informò: « Sono foto, Mister Maggione. Non molto belle, devo dire ». « Forse lo abbiamo trovato, Sugar. » Avevo appena finito una seduta con Emily Corro, un'insegnante che ora stava tornando al suo lavoro con un'immagine di sé lievemente migliore, o così almeno speravo. Stavo parlando con Sampson al cellulare. Siccome non è un tipo che si entusiasma facilmente, intuii che doveva esserci stato uno sviluppo davvero importante. E infatti così era. Quel pomeriggio andammo a Brooklyn, e più precisamente nella zona di Flatlands, in una taverna che si chiamava Tommy McGoey's. Era un locale ordinato e pulito e, quando ci entrammo noi, praticamente deserto. C'erano solo il barista, un irlandese con l'aria da duro, e un avventore piccoletto ma muscoloso, fra i quaranta e i cinquant'anni, seduto in fondo al bancone. Si chiamava Anthony Mullino ed era un grafico di Manhattan che un tempo era stato il migliore amico di Michael Sullivan. Ci sedemmo accanto a lui, uno di qua e l'altro di là. « Tranquilli » disse Mullino con un sorriso. « Non intendo fuggire. Sono venuto qui di mia spontanea volontà. Cercate di non dimenticarlo. Ho due zii nella polizia, qui a Brooklyn. Se non ci credete, controllate pure. » « Già fatto » replicò Sampson. « Uno è in pensione e abita a Myrtle Beach; l'altro è stato sospeso dal servizio. » « Bravi, non male. Restate nella Big League. » Sampson e io ci presentammo e Mullino disse che aveva l'impressione di aver già conosciuto John da qualche parte. Non ricordava dove, però. Disse che aveva seguito il caso del Lupo, il boss della mafia russa, a cui avevo partecipato anch'io quando lavoravo nell'FBI. « Ho letto un articolo su di lei su una rivista » disse poi. « Ma quale? » « Io non l'ho letto » risposi. « Ma era su Esquire. » Mullino scoppiò in una risata che suonava come un accesso di tosse. « Allora: come avete fatto a scoprire che ero amico di Sullivan? E' passato un bel po' di tempo da allora. E' storia antica. » Sampson gli spiegò parte delle cose che sapevamo, per esempio che l'FBI aveva installato delle cimici in un club frequentato da John Maggione e che quindi avevamo appreso che Maggione aveva ordinato che Sullivan venisse eliminato,
probabilmente a causa dei suoi metodi poco ortodossi, e che il Macellaio si era vendicato. « Hanno indagato nella zona di Bay Parkway ed è saltato fuori il suo nome. » Mullino non aspettò neppure che Sampson avesse finito il discorso. Notai che, mentre parlava, gesticolava continuamente. «Ah, il club di Bensonhurst. Ci siete stati? Vecchio quartiere italiano, palazzine di due piani, piccoli negozi... Ha visto tempi migliori, ma è ancora abbastanza bello. Io e Sullivan siamo cresciuti lì vicino. Cosa volete da me, di preciso? E' questo che mi sfugge. Sono anni che non vedo Mike. » « Dossier FBI » dissi io. « Lei è suo amico, no? » Mullino scosse la testa. « No. Eravamo amici da piccoli. Ma è passato un sacco di tempo da allora. » « Eravate amici anche a vent'anni. E lui ha mantenuto i contatti » precisai. « A quanto ci risulta.» « Se parlate di auguri a Natale, okay » fece Mullino, e rise. « Che stranezza... Sullivan è davvero un tipo complicato, totalmente imprevedibile. Ogni tanto mi manda gli auguri. Cos'altro c'è? Non venitemi a dire che sono nei guai per questo... » « Sappiamo che lei non è legato alla mafia, signor Mullino » lo rassicurò Sampson. « Mi fa piacere. No, non ho mai avuto niente a che fare con quella gente. Ma mi dà fastidio che si parli sempre male degli italiani. Ci fanno pure il verso. Non discuto, gente che parla con quell'accento ridicolo ce n'è, ma solo perché lo fanno in TV.» « Ci parli di Michael Sullivan » dissi. « Ci serve sapere tutto quello che sa di lui. Anche di quando eravate ragazzi. » Anthony Mullino ordinò un altro drink - una minerale gasata - a Tommy McGoey in persona, poi si mise a parlare, con una certa facilità. « Vi racconto un episodio divertente. A scuola io ero il 'protettore' di Sullivan. La scuola si chiamava Immacolata Concezione, non dico altro. Frati cattolici irlandesi. Nel quartiere bisognava avere un bel senso dell'umorismo, se si voleva evitare la rissa un giorno sì e un giorno no. Ma Michael Sullivan era completamente privo di senso dell'umorismo, almeno allora. E aveva una paura terribile che gli spaccassero gli incisivi, manco dovesse diventare un divo del cinema o chissà che. Giuro, è la verità. I suoi genitori avevano tutti e due la dentiera... » Mullino ci raccontò che alle superiori Sullivan era cambiato. « Divenne cattivo, un vero e proprio duro. E acquistò un notevole senso dell'umorismo. Per essere un irlandese, s'intende. » Si protese in avanti e abbassò la voce.
« Uccise un uomo, un certo Nick Fratello. Questo Nick lavorava in un'edicola e lo prendeva in giro continuamente, rompendogli le palle senza motivo. A un certo punto Sullivan si stufò e lo uccise con una taglierina. E così attirò l'attenzione dei mafiosi, soprattutto di Dominic Maggione. Maggione Senior, intendo. In quel periodo Sullivan cominciò a frequentare il club di Bensonhurst. Nessuno sapeva che cosa facesse di preciso, neanche io. Però tutto a un tratto cominciò ad avere sempre soldi in tasca. Si comprò una Pontiac Grand Am, che all'epoca era il non plus ultra. Maggione Junior lo odia da sempre, perché si guadagnò la stima di suo padre. » Mullino guardò prima Sampson e poi me e fece un gesto come a dire che non sapeva cos'altro raccontarci. « Quand'è stata l'ultima volta che vi siete visti? » gli domandò Sampson. Mullino fece una smorfia, cercando di ricordare. Poi riprese a gesticolare. « Direi che l'ultima volta che l'ho visto è stato al matrimonio di Kate Gargan, a Bay Ridge. Sei, sette anni fa. Mi pare, perlomeno. Ma voi avrete tutta la mia vita registrata audio e video, o sbaglio? » « Non glielo so dire, signor Mullino. Ci dica: dov'è Michael Sullivan, adesso? Da dove le spedisce gli auguri di Natale? » Mullino fece spallucce e alzò le braccia al cielo, spazientito. « Me li ha mandati solo un paio di volte. Mi pare che il timbro postale fosse di New York. Manhattan. Senza l'indirizzo del mittente. Ditemelo voi: dov'è adesso? » « Qui a Brooklyn » risposi. « E lei l'ha visto due sere fa al Chesterfìeld Lounge di Flatbush Avenue. » Gli mostrai una foto, in cui Mullino appariva insieme con Michael Sullivan. Mullino sorrise, con un'alzata di spalle. Non era un problema, se l'avevamo beccato a mentire. « Eravamo amici, da ragazzi. Mi ha chiamato, voleva parlare. Cosa volevate che facessi? La spia? Non sarebbe stata una bella idea, credo. Perché non l'avete arrestato, invece di fotografarlo e basta?» « Ci è andata male » spiegai. « Gli agenti sul posto non sapevano che ha cambiato look, che si è fatto un taglio punk, anni Settanta. Perciò glielo chiedo di nuovo: dov'è Michael Sullivan, adesso? » Michael Sullivan stava infrangendo tradizioni antiche e regole non scritte della Famiglia. Ne era consapevole e sapeva anche quali sarebbero state le conseguenze. Però erano stati loro a cominciare, no? Avevano cercato di ammazzarlo davanti ai suoi figli! Intendeva portare a termine l'opera, o comunque provarci, a costo di morire. In ogni caso, era stata un'esperienza entusiasmante, un vero sballo. Erano le dieci e mezzo di un sabato mattina e Sullivan era a bordo di un furgone
dell'UPS che aveva rubato meno di venti minuti prima. Prima ne aveva preso uno della FedEx, adesso uno UPS: così erano pari. Il fattorino era dietro, con la gola tagliata ma ancora vivo. Sul cruscotto teneva la foto di sua moglie, o della sua ragazza, che era brutta quasi quanto lui. Sullivan non provava compassione per quel poveraccio che stava lottando fra la vita e la morte. A dire il vero, non gli importava di nessuno, spesso nemmeno dei suoi familiari. « Come va? » domandò a voce alta, perché il furgone faceva un gran fracasso. Nessuna risposta. « Lo sospettavo, sai? Ma non ti preoccupare: consegnerò io tutto quanto. Con la pioggia o con il sole, la posta va consegnata. » Accostò davanti a una casa di medie dimensioni, a Roslyn, e prese due scatoloni abbastanza voluminosi dalla rastrelliera metallica dietro il sedile del conducente. Poi si diresse alla porta a passo svelto, con l'andatura dei fattorini della pubblicità, fischiettando allegramente. Suonò il campanello e aspettò un momento. Sempre fischiettando, recitando la parte alla perfezione. Risposero al citofono: « Chi è? Cosa c'è? » « UPS. C'è un pacco per lei. » « Lasci pure davanti alla porta. » « Deve firmare, signore. » « Le ho detto di lasciare tutto lì. La firma non è un problema. Grazie. Buongiorno.» « Mi spiace, ma non posso. Mi scusi, davvero, ma devo fare il mio lavoro. » Il citofono taceva. Passarono trenta secondi, quarantacinque. Forse si sarebbe reso necessario il piano B. Ma dopo un po' venne ad aprire la porta un uomo grande e grosso con una tuta nera della Nike. Era davvero un gigante. Del resto, aveva giocato a football prima nei New York Jets e poi nei Miami Dolphins. « È sordo? » domandò. « Le ho detto di lasciare tutto davanti alla porta. Capisce quando parlo? » « Mi spiace, signore, ma non capisco. Sono di origini irlandesi, sa com'è. Non posso lasciare i colli senza che il destinatario mi firmi la ricevuta. » Il Macellaio gli porse il dispositivo elettronico e l'ex giocatore di football, rabbioso, fece uno scarabocchio. Il Macellaio controllò la firma: Paul Mosconi. Era il cognato di John Maggione, avendo sposato la sorella minore del boss. Era contro ogni regola, lo sapeva, ma... quali regole restavano? Nella mafia, nel governo, nella religione, nella società, ormai, non c'erano più regole. « Non ce l'ho con lei personalmente » dichiarò. E gli sparò una, due, tre volte.
« Sei morto, Paul Mosconi. E questo farà incazzare oltre misura il boss. A proposito, io tifavo per i Jets, un tempo, ma adesso tengo per il New England. » Si chinò e gli passò ripetutamente il bisturi sul volto. Poi gli tagliò la gola, tracciando una sorta di croce con il centro sul pomo d'Adamo. Dalla porta del salotto fece capolino una donna con i bigodini in testa e cacciò un urlo. « Pauli! Pauli! Oh, mio Dio! Oh, Pauli, Pauli! No, no, no! » Il Macellaio fece un bell'inchino alla vedova sconsolata. « Mi saluti suo fratello, signora. È tutta colpa sua, sa? È stato lui a uccidere suo marito, non io. » Fece per voltarsi, ma ci ripensò. « Condoglianze vivissime. » E fece un altro inchino. Forse eravamo arrivati alla fine. Le indagini sull'omicidio di Maria stavano dando i primi risultati. Sampson e io prendemmo la Long Island Expressway, diretti verso la punta di Long Island. Seguimmo la Route 27 e finalmente arrivammo a Montauk, paese di cui fino a quel momento avevo sentito solo parlare ogni tanto. Era lì che si nascondevano Michael Sullivan e famiglia, secondo Anthony Mullino. Dovevano essersi trasferiti proprio quel giorno. Dopo aver girato venti minuti per strade sconosciute, trovammo l'indirizzo che ci era stato fornito. Davanti alla casa c'erano due bambini che giocavano a pallone. Biondi, con l'aria da irlandesi. Giocavano bene, specie il piccolino. La presenza di quei bambini ci rendeva le cose più difficili. « Pensi che sia qui? » mi chiese Sampson, spegnendo il motore. Eravamo a un centinaio di metri di distanza, abbastanza ben nascosti: occorreva la massima prudenza. « Mullino dice che si sposta molto spesso, ma che adesso è sicuramente qui. L'età dei figli corrisponde. Manca il maggiore, Michael Junior. » Strizzai gli occhi. « La macchina parcheggiata sul prato ha la targa del Maryland. » « Non credo sia una coincidenza: Sullivan viveva nel Maryland, prima dell'ultima fuga. Ed è ragionevole anche che stesse vicino a Washington, tenuto conto che è lì che sono avvenuti gli stupri. Comincia a quadrare tutto. » « I ragazzini non ci hanno ancora visto. Speriamo che neanche Sullivan abbia fatto caso a noi. Stiamo attenti, John. » Sampson mise in moto e andò a parcheggiare un po' più distante. Prendemmo le armi dal bagagliaio e ci inoltrammo nel bosco dietro una fila di villette a schiera
piuttosto modeste, per quanto con vista mare. Le finestre della villa dei Sullivan erano buie e fino a quel momento non avevamo visto né Caitlin né lui. Se erano in casa, evidentemente stavano attenti a non passare troppo vicino alle finestre. Giusta precauzione. Sapevo che Sullivan aveva un'ottima mira. Mi sedetti con la schiena appoggiata a un albero e il fucile in grembo e cominciai a pensare a come fare per prenderlo senza ferire nessuno dei suoi familiari. Dopo un po', mi ritrovai a pensare a Maria. Davvero stavo per prendere il suo assassino? Non ne ero certo, ma speravo tanto di sì. Tirai fuori dal portafoglio la vecchia foto che vi conservavo. Quanto mi mancava Maria... Sarebbe rimasta per sempre trentenne, per me. Che vita breve aveva avuto! Era stata lei a portarmi fin lì, pensai. Io e Sampson non saremmo mai andati da soli a cercare di prendere il Macellaio, altrimenti. Lo avevamo fatto soltanto perché non volevamo che nessuno sapesse quali erano le nostre intenzioni. Il Macellaio vedeva rosso e questo era molto pericoloso. La sua collera cresceva di minuto in minuto. Anzi, di secondo in secondo. Odiava John Maggione con tutto se stesso. Le distrazioni un po' lo aiutavano. Il quartiere non era come lo ricordava. Non gli era mai piaciuto, e adesso meno che mai. In preda a un senso di dejà-vu, percorse Avenue P e poi svoltò in Bay Parkway. A quanto sapeva, quella era ancora la zona commerciale di Bensonhurst: palazzine tutte uguali di mattoni rossi con negozi e botteghe al piano strada, ristorantini, panetterie, rosticcerie, tutti gestiti dagli italiani. Certe cose non cambiavano mai. Gli tornò in mente la macelleria di suo padre, le pareti bianche, la cella frigorifera con la porta bianca smaltata e dentro i ganci con appesi quarti di bue. E poi le lampadine sul soffitto, i coltellacci, le mannaie, seghe e seghetti... e suo padre, con le mani sotto il grembiule, che aspettava il figlio per farselo succhiare. Svoltò a destra in Eighty-first Street. Ecco, era lì. Non la vecchia macelleria, no: meglio ancora. La vendetta è un piatto che si serve caldo e fumante, pensò. Vide la Lincoln di Maggione parcheggiata sul retro del club. Controllò la targa: ACF3069. Era abbastanza sicuro che fosse la macchina di Maggione Junior. Errore? E di chi? Se lo chiedeva, percorrendo Eighty-first Street. Possibile che il giovane boss fosse così arrogante da andare e venire come gli pareva, che non avesse nemmeno un po' di paura del Macellaio? Non lo rispettava, non lo stimava proprio per niente? Neanche adesso? O gli aveva teso una trappola? Forse c'era una parte di verità in tutte e due le ipotesi. Un po' Maggione era
arrogante e un po' stava cercando di farlo fesso. Così va il mondo, no? Si fermò al Dunkin' Donuts all'incrocio fra New Utrecht e Eighty-sixth Street e ordinò un caffè nero e un bagel con i semi di sesamo, che trovò un po' crudo e insapore. Quella era roba che poteva piacere alla gente che stava nel Midwest, non a Brooklyn. Si sedette a un tavolo e guardò passare le macchine per un po', pensando che gli sarebbe piaciuto un sacco entrare nel club di Eighty-first Street e fare una strage. Ma quello non era il suo piano, era solo una bella fantasia cui lasciarsi andare per un po'. Poi si concentrò sul suo piano. Maggione Junior era un uomo morto. E non solo. Sullivan sorrise a quel pensiero, poi si accertò che nessuno lo stesse guardando. Non voleva passare per un matto che ride da solo. Anche se, in fondo, un po' matto lo era e questo non gli dispiaceva. Bevve un altro sorso di caffè. Alla fin fine, non era poi male. Era il bagel che faceva schifo. Venti minuti dopo, era in posizione. La cosa buffa era che aveva condotto un raid molto simile, da ragazzino. Lui, Jimmy Fedoni e Tony Mullino erano saliti su per una scala antincendio in Seventy-eighth Street e avevano raggiunto il club passando per i tetti. Alla luce del sole. Impavidi. Volevano fare una « visita a sorpresa » a una ragazza che abitava nella casa adiacente al club, che si chiamava Annette Bucci ed era amica di Tony. Era carinissima e molto disponibile: si diceva che avesse cominciato a darla in giro molto presto. Andavano da lei, guardavano Happy Days e Lavernc &Shirley, fumavano sigarette e marijuana, bevevano la vodka dei genitori e scopavano come ricci. Non dovevano manco usare il preservativo, perché Annette sosteneva di non poter avere figli. Insomma, quell'estate era stata proprio una pacchia. La bravata che si apprestava a fare questa volta era molto più facile. Non era lì per scoparsi Annette Bucci, ma per regolare i conti con Maggione Junior, conti che risalivano ai tempi in cui suo padre aveva fatto fuori Jimmy Fedora. Perché quale altra fine poteva aver fatto il suo vecchio amico? Insomma, il Macellaio era lì per vendicarsi, per gustare il dolce sapore della vendetta, per veder morire Maggione Junior. Ne avrebbero parlato per anni, nel quartiere, se fosse andato tutto come sperava. E, naturalmente, il suo album delle fotografie si sarebbe arricchito di alcune immagini interessanti. Con l'adrenalina a mille, corse da un tetto all'altro sperando che nessuno lo sentisse o lo vedesse e soprattutto che nessuno avvertisse la polizia. E, finalmente, arrivò sul tetto della casa adiacente al club. Nessuno sapeva che era lì. Si appiattì sul tetto e riprese fiato, aspettando che il battito gli tornasse normale. Ma la collera continuava ad ardere dentro di lui, contro Maggione, o contro suo padre, o contro tutti e due, poco importava.
Si domandò se dietro quella sua impresa non ci fosse un desiderio di morte. Era convinto che chi fumava, beveva, andava forte in macchina o girava su moto di grossa cilindrata sotto sotto volesse morire. Sicuramente anche chi uccideva il proprio padre e lo dava in pasto ai pesci nella Sheepshead Bay qualche istinto suicida doveva averlo, no? Come John Maggione, pagliaccio imbecille che non era altro. Aveva voluto prendersela con il Macellaio? Be', adesso l'avrebbe pagata. Sempre che il suo piano andasse a buon fine. Aspettavamo, con le orecchie tese, senza distrarci un attimo. Come ai vecchi tempi. Ma questa volta non mi annoiavo. Sampson e io eravamo a meno di cento metri dalla casa di Montauk, sul promontorio di South Fork, e io non vedevo l'ora di prendere il Macellaio. Mi rendevo conto che ero sempre più euforico al pensiero di essere in procinto di catturarlo, ma avevo la sensazione che ci fosse qualcosa che non quadrava. Forse sapevo anche che cos'era: quel delinquente non si era mai fatto beccare. Nessuno era mai riuscito a incastrarlo. Perché ci saremmo dovuti riuscire proprio noi? Perché io ero l'Ammazzadraghi e avevo catturato delinquenti anche più pericolosi di lui? Perché la giustizia finisce sempre per trionfare e i cattivi pagano per le loro malefatte, quindi figuriamoci se riesce a farla franca proprio l'assassino di mia moglie? No, sapevo benissimo che non era così. La vita è tutt'altro che giusta e io l'avevo capito nel momento in cui Maria mi era morta fra le braccia. « Pensi che non tornerà più qui? » mi chiese Sampson. « E' a questo che stai pensando, Sugar? Pensi che si sia dato di nuovo alla fuga? » « No, non stavo pensando a questo. Non posso esserne sicuro, ma credo che tornerà. Non saprei dire esattamente che cosa mi turba, John. Ho... ho la sensazione che siamo finiti in una trappola. » Sampson fece una faccia stupita. « Una trappola? E chi ce l'avrebbe tesa, secondo te? » « Non ne ho la più pallida idea, purtroppo. » Aveva un brutto presentimento. Era solo una sensazione, però... In fondo io ero famoso per il mio istinto, che non sbagliava mai. O quasi mai. Mentre il sole calava e l'aria rinfrescava, due appassionati di surfcasting si ostinavano a gettare la lenza in acqua. Dietro gli alberi, vedevamo un pezzetto di mare. I pescatori, con mute di neoprene e tutte le attrezzature necessarie, si avventuravano in mare, probabilmente sperando di prendere qualche bella spigola. Uno di essi aveva addirittura una lampada da minatore su un berretto dei Red Sox. Tirava un forte vento e avevo sentito dire che più forte è il vento, meglio si pesca. Forse io e Sampson eravamo come quei pescatori, in attesa che la nostra preda si avvicinasse per catturarla con mossa repentina. Mentre osservavo, vidi uno dei due
pescatori perdere l'equilibrio al passaggio di un'onda e tirarsi su subito per non fare brutta figura. Pensai che l'acqua doveva essere gelida. Speravo che a me e Sampson non capitasse nulla di simile, che nessuno dei due facesse un passo falso. Non saremmo dovuti essere lì. E invece c'eravamo. Eravamo allo scoperto. Alle prese con un assassino professionista, forse il più in gamba con cui avessimo mai avuto a che fare. Il Macellaio. Gli ingredienti di un omicidio commesso da un professionista sono sempre molto semplici. In quel caso si trattava di benzina ad alto numero di ottani, propano e un candelotto di dinamite per l'accensione. Niente di difficile, ma... avrebbe funzionato? Era questa, come sempre, la domanda da un milione di dollari. Per certi versi sembrava quasi uno scherzo, una bravata dei tempi in cui Sullivan, Tony Mullino e Jimmy Fedora erano ragazzini e imperversavano nel quartiere. Come quella volta che avevano confezionato e lanciato una bomba contro un deficiente e quello ci aveva rimesso un occhio. Quante ne avevano combinate... D'altronde, Sullivan doveva vendicarsi delle sofferenze che aveva subito. Come con suo padre, per esempio. L'aveva fatto fuori, quel pervertito. Non gli piaceva pensare a certe cose, cercava di non riaprire quel capitolo del suo passato. Ma era vero che una sera, tanto tempo prima, aveva fatto a pezzi il primo Macellaio di Sligo, Kevin Sullivan, e l'aveva dato in pasto ai pesci nella baia. Le voci che giravano erano veritiere. Su quella barca c'erano Jimmy Fedora e Tony Mullino, a dargli una mano. Le uniche due persone di cui si fidava. Quella sera non era poi così diverso, in fondo: era lì per vendicarsi. Erano vent'anni che detestava Maggione Junior. Scese per la scala antincendio del palazzo adiacente al club e, una volta in strada, sentì le voci degli uomini dentro la sala, i loro commenti sulla partita di football americano. New York Jets contro Pittsburgh Steelers, trasmessa da ESPN. Dovevano essere tutti presi dal gioco, in quella domenica sera fredda e cupa. Bollinger arretra! Bollinger in buca! Anche lui stava giocando di rimessa: doveva proteggere il gioco, darsi il tempo necessario per portarlo a termine. Detestava quei bastardi dentro il club. Li aveva sempre detestati: non l'avevano mai ammesso veramente nella loro piccola cerchia, l'avevano sempre emarginato. Piazzò l'ordigno vicino a un muro nel vicoletto adiacente il club. Da lì vedeva i due uomini che Maggione aveva lasciato di guardia, appoggiati al cofano di una Escalade nera. Lui li vedeva, ma loro non potevano vedere lui, nel vicolo buio. Arretrò ulteriormente e si riparò dietro un cassonetto che puzzava di pesce marcio.
Passò rombando un jet dell'American Airlines, diretto all'aeroporto di LaGuardia. Lì per lì, gli sembrò tuonasse. Tempismo perfetto, pensò poi. Il rombo del jet non fu nulla in confronto all'esplosione assordante che abbatté la parete posteriore della sala del club. Poi arrivano le grida e le imprecazioni. E il fuoco! Le fiamme divamparono subito altissime dappertutto, come in una danza. La porta di servizio si spalancò e i due bodyguard di Maggione portarono fuori il boss manco fossero la scorta del presidente degli Stati Uniti. Perdevano sangue e tossivano per via del fumo, ma correvano con il loro protetto verso la sua Lincoln, cercando di togliersi la fuliggine dagli occhi con la manica della giacca. Sullivan uscì da dietro il cassonetto e urlò: « Ehi, coglioni! Mi fate schifo, lo sapete? » E sparò quattro colpi. I due bodyguard caddero a terra l'uno a fianco all'altro, privi di vita. La giacca scozzese di uno dei due era ancora in fiamme. Sullivan corse verso Maggione, che aveva la faccia ustionata e piena di graffi. Gli puntò la pistola su una guancia. « Mi ricordo di quando eri piccolo, sai? Eri un moccioso viziato. E lo sei ancora. Sali in macchina, o ti sparo qui in questo vicolo buio. Ti sparo in mezzo agli occhi e poi te li cavo e te li infilo nelle orecchie. Forza! Sali in macchina, ho detto! » Fu a quel punto che mostrò a Maggione il suo bisturi. « Altrimenti uso questo. » Sullivan guidava la macchina del boss lungo le strade familiari di Brooklyn - New Utrecht Avenue, Eighty-sixth Street - godendosi ogni istante. « Facciamo un piccolo viaggio nel passato » disse a Maggione. « Chi dice che non tornerai più a casa tua? L'ha detto qualcuno, Junior? È scritto da qualche parte? Hai mai letto un libro? Avresti dovuto: adesso è troppo tardi. » Accostò davanti al Dunkin' Donuts di Eighty-sixth Street e trasferì Maggione sulla Ford Taurus che aveva noleggiato, che era una macchina schifosa, ma perlomeno passava inosservata. Poi gli mise le manette. Manette della polizia, ben strette. « Cosa cazzo ti credi di fare? » disse Maggione rabbioso. Sullivan non era sicuro che avesse capito che cosa stava per fargli, se avesse colto il significato di quel cambio di auto e della bomba incendiaria. Intuiva che cosa sarebbe successo adesso? « Hai cercato di farmi fuori, te lo ricordi? Sei stato tu a cominciare. Ma l'ultima parola spetta a me. Avrei dovuto farlo prima, quando eravamo ancora ragazzi. » Il boss era paonazzo e sembrava sul punto di avere un ictus. « Tu sei pazzo! Pazzo furioso! » urlò, mentre Sullivan usciva dal posteggio. Sullivan ebbe l'istinto di fermarsi lì in mezzo alla strada: come osava quel deficiente urlargli addosso come se fosse stato uno dei suoi scagnozzi?
« Senti, non ho nessuna voglia di discutere con te della mia salute mentale. Visto che di mestiere faccio il killer, un po' matto lo sono di sicuro. È normale, credo. Tieni conto che ho ucciso cinquantotto persone, fino a oggi. » « Le fai a pezzetti » disse Maggione. « E questo normale non è. Hai pure ammazzato un mio amico, te lo ricordi? » « Porto a termine gli incarichi che mi vengono affidati con puntualità e precisione. Forse sono un po' troppo preciso, per i gusti di qualcuno. Ma hai detto bene, faccio a pezzetti le mie vittime. » « Senti, Sullivan, sei pazzo, ma non così pazzo. Nessuno è pazzo fino a questo punto.» Era molto interessante vedere come ragionava Maggione. Anzi, come non ragionava. Ma non bisognava abbassare la guardia: Maggione era uno spietato assassino. Con lui, non si poteva sbagliare. « Ho le idee molto chiare » disse Sullivan. « Ora ti porto su un molo che conosco bene, sul fiume Hudson. E, una volta là, ti farò qualche foto da mostrare ai tuoi amici. Tanto perché capiscano che devono lasciarmi in pace. Me e la mia famiglia.» Si portò un dito sulle labbra. « Zitto, ora » ordinò a Maggione. « Comincio quasi a provare pena per te. E non voglio. » « Cosa me ne frega se... » Maggione lasciò la frase in sospeso, perché Sullivan gli piantò un coltello a serramanico nella pancia. Lo infilò fino al manico e poi lo estrasse lentamente. « Questo è solo l'inizio » sussurrò. « Mi devo scaldare... » Fece un piccolo inchino. « Sì, sono pazzo fino a questo punto. » Sampson e io eravamo ancora in macchina ad aspettare che il Macellaio tornasse a casa, a Montatile. Ormai contavamo i minuti: doveva rientrare, prima o poi. Peccato, però, che non lo avesse ancora fatto. Eravamo stanchi, affamati e, francamente, un tantino delusi. Alle sette e mezzo arrivò un ragazzo a portare delle pizze Papa John's. Di Sullivan, però, neanche l'ombra. E le pizze non erano per noi. « Chiacchieriamo un po' » propose Sampson. « Per distrarci dai morsi della fame. E dal freddo. » « Mentre sono qui a gelarmi le chiappe, non faccio altro che pensare a Maria » ammisi, guardando il ragazzo delle pizze che se ne andava. Mi era venuto in mente che poteva essere un espediente con cui Sullivan stava mandando un messaggio alla moglie. E se così fosse stato? Be', noi non avremmo potuto farci niente... Davvero Sullivan aveva escogitato quel trucco per avvertire la
moglie? « Non mi sorprende » rispose Sampson. « Le cose che sono successe in questi ultimi mesi mi hanno fatto rivivere il passato. Ma è ora che superi questa cosa. Mi sembra di aver pianto abbastanza. O forse no. Secondo la mia strizzacervelli non ho ancora elaborato il lutto.» « Avevi due bambini piccoli di cui occuparti: non hai avuto il tempo di piangere la morte di tua moglie. Mi ricordo che, fra la famiglia e il lavoro, non dormivi mai. Ti ricordi che ti venne persino una paresi facciale? » « Me n'ero scordato... » Dopo che Maria era morta, mi era venuta una brutta contrattura facciale e un neurologo della John Hopkins mi aveva detto che poteva guarire subito come durarmi degli anni. Mi passò nel giro di una quindicina di giorni soltanto e mi fu di grande aiuto sul lavoro: spaventava a morte gli indagati che dovevo interrogare. « Volevi prendere l'assassino a tutti i costi, te lo ricordi? Eri ossessionato. Forse è stato lì che sei diventato un detective così bravo. Non lo so, è un'idea che mi è venuta. Hai trovato la concentrazione giusta, sei diventato l'Ammazzadraghi. » Mi sembrava di essere in un confessionale, con John Sampson a fare da sacerdote. Succedeva spesso. « Dovevo buttarmi su qualcosa, se non volevo pensare continuamente a lei. E così mi occupavo dei bambini e mi concentravo sul lavoro. » « E non ti sei lasciato l'agio di piangere Maria a sufficienza. Adesso sì, però. Pensi davvero di aver pianto abbastanza? Di essere pronto a lasciarti il passato alle spalle e guardare avanti? » « Non lo so, John. Sto cercando di capirlo. » « Supponiamo che Sullivan ci sfugga. Che non riusciamo a prenderlo. » « Immagino che adesso mi sentirò meno in colpa nei confronti di Maria. È passato tanto tempo.» Mi interruppi, presi fiato. « Non penso che sia stata colpa mia. Non avrei potuto fare niente di diverso, quando le spararono. » « Ah » disse Sampson. « Ah » gli feci il verso. « Ma non ne sei ancora completamente sicuro, vero? Non sei del tutto convinto. » « Non al cento per cento. » Scoppiai a ridere. « Forse, se stasera lo prendessimo... Forse, se gli sparassi nella testa... Almeno saremmo pari. »
« È per questo che siamo venuti, Sugar? Per sparargli nella testa? » Sentimmo bussare sul finestrino. Portai subito la mano alla pistola. « Cosa cazzo...? » esclamò Sampson. Vicino alla macchina c'era nientepopodimeno che Tony Mullino. Dalla mia parte. Che cosa ci faceva li a Montauk? Abbassai lentamente il finestrino, sperando di scoprirlo, di avere una risposta e magari anche più di una. « Avrei potuto essere Sullivan » disse, con la testa piegata da una parte. « A quest'ora sareste morti tutti e due, lo sapete? » « No, sarebbe morto lei. » Sampson gli sorrise e gli mostrò la Clock. « L'ho vista uscire da là dietro due minuti fa. Anche Alex. » Non era vero che l'avevo visto, ma mi faceva piacere che Sampson mi difendesse. Anche perché stavo perdendo la concentrazione e in una situazione del genere è molto pericoloso. Rischi di farti sparare, o peggio. Mullino si fregava le mani. « Fa un freddo cane » dichiarò. Dopo un momento, ribadì: « Si gela, Cristo santo! » « Salga » lo invitai. « Se ci promette di non spararci alle spalle » replicò Sampson. Mullino alzò tutte e due le mani con la faccia stupita, o forse allarmata. Era un tipo abbastanza impenetrabile. « Non sono armato. Mai girato con una pistola in vita mia.» « Male, con gli amici che ha » rispose Sampson. « Attenzione, fratello. » « Non mancherò, fratello » replicò Mullino, con una risatina che mi insospettì. Chi era veramente quell'uomo? Aprì la portiera e si sedette sul sedile posteriore. Perché era lì? Che cosa voleva? « Non tornerà, vero?» domandai, una volta che ebbe chiuso la portiera. « No, non tornerà » disse Mullino. « L'ha avvertito lei? » chiesi, tenendolo d'occhio nello specchietto retrovisore. Mullino strinse gli occhi: era nervoso, a disagio. C'era qualcosa che non andava. « Non c'è stato bisogno. Michael sa badare a se stesso. » Parlava piano, quasi in un sussurro. « Lo sappiamo » dissi. « Cos'è successo, Anthony? » gli domandò Sampson. « Dov'è Sullivan adesso? Perché lei è venuto qui? »
Mullino parlava pianissimo. Facevo fatica a capire cosa diceva. Anche Sampson, perché disse: « Parli più forte, per cortesia. Se sussurra così, nessuno sente niente ». « Ha ucciso John Maggione, stasera » dichiarò Mullino. « L'ha preso, l'ha portato via e l'ha fatto a pezzi. Era nell'aria. » Silenzio totale. Non credo che Mullino potesse sorprendermi di più. Dunque avevo avuto ragione a pensare che potessimo essere finiti in una trappola! « Come fa lei a saperlo? » gli domandai. « Vivo lì. Brooklyn è peggio dei paesi, per certe cose. Sempre stato. E poi mi ha chiamato lui, una volta finito. Voleva condividere con me la sua esperienza. » Sampson si voltò e lo guardò negli occhi. « Quindi non tornerà. Non ha paura che succeda qualcosa ai suoi familiari? » Guardando Mullino nello specchietto, pensai che conoscevo già la risposta. « Questa non è la sua famiglia » disse Mullino. «S ullivan manco li conosce. » « Chi sono, allora? » « Non lo so. Non sono stato io a fare il casting. Sono una famiglia che può passare per quella di Michael. » « Lei lavora per lui, Anthony? » chiesi. « No, ma è un amico. Ero io che avevo paura che mi spaccassero la faccia, ai tempi della scuola. Non lui. Lui mi proteggeva, anzi. E così ho cercato di aiutarlo anch'io. Lo rifarei, sapete. Gli ho dato una mano ad ammazzare quel pazzo di suo padre. » « Perché è venuto qui? » « Mi ci ha mandato lui » rispose Mullino. « Perché? » domandai. « Questo dovete chiederlo a lui. Forse perché gli piace fare un inchino, dopo aver messo a segno un colpo. Lo fa davvero, sapete? Fa l'inchino. Dovreste vederlo. » « L'ho visto » replicai. Mullino aprì la portiera, ci salutò con un cenno del capo e sparì nel buio. Anche il Macellaio doveva essere lì, nascosto nel buio. Qualcuno ha detto che la vita e quel che ti accade mentre sei intento a fare altri progetti. Quella sera tornai a Washington perché avevo voglia di vedere i ragazzi e anche per Nana Mama e per i pazienti che avevano appuntamento il giorno dopo e contavano su di me. Nana mi ha sempre rimproverato perché mi preoccupo troppo per gli altri. Dice che a certi livelli l'altruismo è un difetto. Probabilmente ha ragione. Mi sembrava di rivedere la faccia di Michael Sullivan, il suo inchino, e il pensiero
che fosse a piede libero mi riempiva di rabbia. Secondo l'FBI, la mafia aveva promesso un milione di dollari a chi avesse tolto di mezzo Sullivan e un altro milione a chi gli avesse sterminato la famiglia, lo continuavo a sospettare che Sullivan facesse l'informatore per l'FBI o per la polizia e che quindi godesse di una certa protezione. Non lo sapevo con certezza, tuttavia, e probabilmente non l'avrei mai appurato. Dopo qualche giorno, una sera, mi sedetti in veranda a suonare qualche brano di rock and roll per Jannie e Damon. Suonai fin verso le dieci, poi cominciai a parlare della loro madre. Era venuto il momento di farlo. Non so per quale motivo sentissi il bisogno di parlare ai ragazzi di Maria, ma volevo che sapessero qualcosa di più su di lei. Forse desideravo che superassero la perdita come io non riuscivo a fare. Non avevo mai detto cose false sul suo conto, ma ero stato quanto meno reticente. Né Damon né Jannie sapevano che ero con lei quando le avevano sparato. Avevo raccontato loro che ero arrivato al St. Anthony prima che spirasse, e che ero riuscito a parlarle. Il motivo era che non volevo raccontare ai miei figli le cose che io non riuscivo a togliermi dalla mente: il rumore degli spari, il suo gemito, il modo in cui si era accasciata a terra, il sangue che scorreva a fiotti, l'attimo in cui avevo capito che sarebbe morta. Era un incubo che ricordavo benissimo anche dopo dieci anni. « Ho pensato molto a vostra madre, ultimamente » esordii, quella sera nella veranda. « Forse ve ne sarete accorti. » Damon e Jannie mi vennero vicino, intuendo che non sarebbe stata una conversazione come tutte le altre. « Era una persona speciale. Davvero, sapete? Aveva uno sguardo franco e pieno di vita e sapeva ascoltare: è una dote rara, che hanno solo le brave persone. Sorrideva sempre e faceva sorridere chi le stava intorno. Diceva: 'Hai una tazza piena di tristezza e una tazza piena di gioia: quale scegli?' Lei sceglieva quasi sempre la tazza piena di gioia. » « Quasi sempre? » domandò Jannie. « Quasi sempre. Pensaci, Janelle. Sei una ragazza intelligente. Tua madre scelse di sposare me, no? Con tutti i ragazzi più belli che avrebbe potuto pigliarsi, si prese me.» Janelle e Damon sorrisero. Poi Damon disse: « Pensi a lei perché il suo assassino è di nuovo in giro? È per questo che ci parli della mamma? » « In parte, sì. Ma è anche che ultimamente mi sono reso conto di dovermi riconciliare con lei. E con voi... E' per questo che ne parliamo, no? » Damon e Janelle mi ascoltarono in silenzio e io parlai a lungo. Alla fine dovetti fermarmi, perché mi veniva da piangere. Penso che fosse la prima volta che i miei figli mi vedevano piangere per la loro madre. « La amavo tantissimo, era come se facesse parte di me. La amo ancora, credo.
Anzi, ne sono sicuro. » « Perché ci siamo noi? » domandò Damon. « E' colpa nostra, vero? » « Cosa vuoi dire? Non capisco » dissi. «Te la ricordiamo, no? Siamo i suoi figli. Ogni giorno tu vedi noi e pensi che lei non c'è più. Non è così? » Scossi la testa. « C'è un briciolo di verità in quello che dici. Ma è bello che voi me la ricordiate. Credimi. E' molto bello. » Aspettarono che continuassi, guardandomi fisso come se avessero paura che scappassi da un momento all'altro. « Stanno succedendo tante cose nella nostra vita » dissi. « Adesso c'è anche Ali. Nana sta invecchiando. Io ho ripreso a fare lo psicologo. » « Sei contento? » mi chiese Damon. « Di aver riaperto Io studio, voglio dire. » « Sì. Per ora sì. » « Per ora... Sei sempre il solito, papà » disse Jannie. Feci una risatina, ma non avevo voglia di approfondire il concetto. Sapevo che Jannie lo intendeva come un complimento e mi faceva piacere, ma non era il momento. Quando avevo letto l'autobiografia di Bill Clinton, non ero riuscito a fare a meno di pensare che, nel confessare di aver fatto soffrire sua moglie e sua figlia, in realtà cercava anche il perdono del lettore, la sua benevolenza. Era più forte di lui: aveva troppo bisogno di riconoscimenti. E forse proprio da quel bisogno nascevano la sua empatia e la sua compassione. Alla fine affrontai l'ostacolo più difficile e raccontai a Damon e Jannie che cosa era veramente successo a Maria. Raccontai loro la verità, la mia verità. Entrai nei particolari dell'omicidio, ammisi di essere stato presente, di averla sentita esalare l'ultimo respiro, di aver ascoltato le sue ultime parole. Alla fine, quando tacqui, Jannie sussurrò: « Guarda il fiume che scorre. Il fiume è la verità ». Era stato il mio mantra, quando loro erano piccoli e Maria non c'era più. Li portavo all'Anacostia River, oppure sulla riva del Pontiac, e li esortavo a guardare l'acqua. « Guardate il fiume che scorre. Il fiume è la verità. » Nella misura in cui l'uomo può arrivare a conoscere la verità. In quel periodo mi sentivo stranamente vulnerabile e in preda all'emotività. E anche stranamente vivo. Non era una brutta sensazione, ma neanche bella. Facevo colazione con Nana Mama verso le cinque e mezzo tutte le mattine, poi facevo jogging fino allo studio, mi cambiavo e cominciavo la prima seduta alle sei e mezzo.
Il lunedì e il giovedì la prima paziente della giornata era Kim Stafford. Non mi era facile mantenere il distacco durante le sedute, forse ero un po' fuori allenamento. D'altra parte, molti miei colleghi mi sembravano troppo clinici, freddi e distanti. Non penso sia bello per un paziente, come per qualsiasi essere umano, ritrovarsi di fronte una persona che non reagisce mai a nulla. No, non sono un ghiacciolo, sono un terapeuta. A me piaceva fare lo psicologo a modo mio, a volte con calore, sentimento e compassione, e non soltanto con empatia; mi piaceva infrangere le regole, essere a volte poco ortodosso. Come per esempio andare a parlare con Jason Stemple sul posto di lavoro e fare a botte con lui. Secondo me, ero stato molto professionale. Siccome avevo una pausa fino a mezzogiorno, decisi di chiamare Monnie Donnelley a Quantico. Stava facendo delle ricerche per verificare se c'erano elementi a conferma di una mia personale teoria a proposito del Macellaio. L'avevo appena salutata che subito mi disse: « Ho trovato una cosa, Alex. Penso che sia importante. Conferma le tue idee, le tue teorie ». Mi spiegò che, usando i miei appunti, aveva ottenuto informazioni riguardo alla moglie di Sullivan attraverso un mafioso pentito, che si era avvalso del programma di protezione dei testimoni e abitava a Myrtle Beach, nel South Carolina. « Ho seguito la pista che mi hai indicato e che si è rivelata giusta. E sono arrivata a un tipo che era alle nozze di Sullivan, celebrate in forma abbastanza privata, come puoi immaginare. Anche l'uomo di cui mi hai parlato, Anthony Mullino, era presente. Pare che Sullivan sia molto riservato e frequenti solo pochi intimi. Non invitò nemmeno sua madre. E il padre era già morto, come tu ben sai. » « Sì, infatti: ucciso dal suo stesso figlio con l'aiuto di due complici. Che cosa hai scoperto a proposito della moglie di Sullivan? » « Una cosa interessante, e abbastanza inaspettata. È originaria di Colts Neck, New Jersey, e prima di incontrare Sullivan faceva la maestra elementare. Cosa ne pensi? Salvatore Pistelli, il pentito, sostiene che era una ragazza molto dolce e che Sullivan cercava una donna con cui fare dei figli. Commovente, no? Anche i killer più incalliti hanno il cuore tenero, alla fine. Si chiama Caitlin Haney e i suoi abitano ancora a Colts Neck. » Quello stesso giorno, mettemmo sotto controllo il telefono a loro, alla sorella di Caitlin, che viveva aToms River, New Jersey, e a un fratello che faceva il dentista a Ridgewood. Ero di nuovo speranzoso: forse saremmo riusciti a chiudere finalmente il caso e ad assicurare il Macellaio alla giustizia. Se l'avessi rivisto, questa volta gli avrei fatto io l'inchino. Michael Sullivan si faceva chiamare Michael Morrissey, da quando abitava nel Massachusetts. Morrissey era stato una delle sue prime vittime. Un buffone, che aveva fatto a pezzi. Anche Caitlin e i ragazzi avevano mantenuto il nome e cambiato il cognome. La versione che avevano imparato a memoria era che si erano
trasferiti negli Stati Uniti da Dublino, dove il padre faceva consulenze per alcune società irlandesi con interessi oltreoceano. Adesso continuava a fare il « consulente », ma a Boston. Quest'ultima parte era vera, dal momento che il Macellaio aveva appena ottenuto un lavoro tramite un vecchio contatto di South Boston. Un lavoro da killer, naturalmente. Uscì dalla casa sul fiume Hoosic alle nove, quella mattina, e si diresse verso la Massachusetts Turnpike a bordo della sua Lexus nuova. Nel bagagliaio aveva tutti gli attrezzi del mestiere: pistole, un fucile a chiodi e un seghetto da macellaio. Non mise musica, nella prima parte del viaggio, preferendo ripensare al passato. Negli ultimi tempi gli piaceva tornare sui primi omicidi che aveva commesso: suo padre, ovviamente, un paio di persone per conto di Dominic Maggione e un prete cattolico che si chiamava Francis X. Conley, che molestava i ragazzini della parrocchia. Le voci sul suo conto giravano da anni, corredate da dettagli spesso inquietanti, e Sullivan non riusciva a credere che i genitori dei bambini sapessero ma non facessero assolutamente nulla. A diciannove anni, quando già lavorava per Maggione, un pomeriggio aveva sorpreso Conley al molo, dove teneva un piccolo fuoribordo con cui andava a pescare. A volte ci portava i chierichetti, per premio. Era la sua piccola ricompensa. Quel giorno di primavera, il sacerdote era andato a preparare la barca per la bella stagione. Mentre revisionava il motore, Sullivan e Jimmy Fedora erano saliti a bordo. « Padre Frankie » aveva detto Jimmy, sorridendo. « Ci porta a fare un giretto? Andiamo a pescare tutti insieme? » Il prete si era spaventato, nel vedere i due giovani con il cappuccio della felpa calato sul volto, e ancor più quando li aveva riconosciuti. « Mi spiace, ma la barca non è ancora pronta. » Jimmy si era messo a ridere. « E' la barca che non è pronta? » A quel punto Sullivan si era avvicinato. « Ma sì che è pronta, padre. Forza, andiamo a fare un giretto. Ci divertiremo, vedrà.» E così erano usciti dal porticciolo e padre Frank non era mai più tornato a terra. « Pace all'anima sua » aveva detto Jimmy ridendo, sulla via del ritorno. Quella mattina, mentre andava a lavorare, Sullivan ricordò quanto era stato patetico il prete, che in un primo tempo li aveva supplicati di non ucciderlo e dopo li aveva supplicati di ucciderlo, appena prima che lui lo facesse a pezzi per darlo in pasto ai pescecani. Riflettendo su quell'episodio, si chiese se non avesse fatto una buona azione a togliere di mezzo padre Frank.
Possibile che fosse in grado anche lui di fare una buona azione? O tutto ciò che faceva era male? Finalmente giunse a Stockbridge, vicino al confine fra lo Stato di New York e il Massachusetts, e accese il GPS per trovare l'indirizzo giusto. Era pronto a fare quel che doveva, a tornare nei panni del Macellaio e a guadagnarsi il compenso pattuito. Che andassero a farsi benedire le buone azioni e i buoni propositi di qualsiasi genere. Trovò la casa, che era molto country e molto di buon gusto, vicino a un laghetto in un bosco di aceri, olmi e conifere. Davanti alla casa era posteggiata una Porsche Targa nera, che pareva una scultura contemporanea. Gli avevano detto che lì avrebbe trovato una donna di quarantun anni, tal Melinda Steiner, che però aveva una Mercedes decappottabile rossa. Di chi era la Porsche, allora? Sullivan parcheggiò lungo la strada, al riparo di alcuni pini, e rimase a guardare la casa per una ventina di minuti. Una delle cose che notò fu che la porta del garage era chiusa. Forse la Mercedes rossa decappottabile era lì dentro. Ma di chi era la Porsche nera? Stando ben attento a restare nascosto dietro gli alberi, controllò con il binocolo una per una le finestre sulla facciata est e sud della casa. In cucina non sembrava esserci nessuno: le finestre erano buie e non c'era alcun movimento. Anche il salotto pareva deserto e buio. Ma in casa c'era qualcuno, no? Li trovò dopo un momento, in una camera da letto del primo piano, probabilmente la più grande e la più bella della casa, con finestre sui due lati. Melinda Steiner, detta Mel, era lì. In compagnia di un uomo biondo, sulla quarantina. Presumibilmente il proprietario della Porsche. Troppi errori... pensò il Macellaio. Una miriade di errori. Ma la tariffa che aveva concordato, settantacinquemila dollari, sarebbe raddoppiata: Michael Sullivan non era il tipo da offrire due al prezzo di uno. Si incamminò verso la casa con la pistola in una mano e la cassetta degli attrezzi nell'altra. Si sentiva bene, era ottimista. Era contento di quella giornata, e della sua vita in generale. Non c'era niente di meglio nella vita della sensazione di sicurezza che derivava dal saper fare bene il proprio lavoro. A questo pensava Michael Sullivan avvicinandosi al bersaglio. Intorno alla casa, bianca, in stile coloniale, c'era una vasta distesa di campi e boschi. Sul retro c'era un campo da tennis di terra verde, il materiale preferito dagli
appassionati del Maryland. Era concentrato sul lavoro che doveva svolgere e su come farlo al meglio. Doveva ammazzare Melinda Steiner, e quel rompiscatole del suo amante. E doveva cercare di non farsi ammazzare. Di non commettere errori. Aprì lentamente la porta di legno della casa, che non era chiusa a chiave. La gente aveva l'abitudine di lasciare tutto aperto, in campagna. Errore. Sullivan era quasi certo che i due al piano di sopra non avrebbero opposto granché resistenza. Non si sa mai, però. Sta' attento e non dare niente per scontato. Non fare il furbo, Mikey. Gli venne in mente Venezia e il pasticcio che aveva combinato. Aveva rischiato grosso, quella volta. E da allora aveva Cosa Nostra alle calcagna. Prima o poi, l'avrebbero beccato. Magari proprio quel giorno. Proprio lì. Perché no? Il contatto che gli aveva procurato il lavoro era un vecchio amico, ma non era escluso che la mafia lo avesse costretto a tendergli una trappola. Non era escluso, ma era improbabile. Altamente improbabile. La porta sarebbe stata chiusa a chiave, se fosse stata una trappola e avessero voluto farla sembrare credibile. E poi la coppia che aveva visto in camera da letto gli era sembrata spontanea, naturale, tutta presa da quel che stava facendo. Nessuno sarebbe stato così intelligente da tendere una trappola così sofisticata. Tranne lui stesso, forse. I due al piano di sopra ci stavano dando dentro. Poteva andare sul sicuro. Salì le scale e sentì i gemiti e gli ansimi dei due amanti, il materasso che cigolava, la testiera che batteva ritmicamente contro il muro. Certo, poteva essere una registrazione. Ma il Macellaio ne dubitava. Il suo istinto gli diceva che non era così, e difficilmente il suo istinto sbagliava. Era grazie al suo istinto che lui era ancora vivo mentre tanti altri ci avevano lasciato la pelle. Era quasi in cima alle scale e aveva il batticuore. Gemiti e ansimi erano più forti, adesso. Non poté fare a meno di sorridere. Che strani scherzi fa la mente umana... Gli era venuta in mente una scena di un film, In viaggio con Jack, che all'epoca gli era piaciuto moltissimo. Uno dei due protagonisti, che alla fin dei conti era un ubriacone, doveva andare a prendere il portafoglio del suo amico e per far questo era costretto a entrare in una camera da letto in cui due ciccioni ci stavano dando dentro come matti. Era una bella scena, molto comica e totalmente inaspettata. Come quella che stava per arrivare. Almeno
per lui. Si avvicinò alla porta della camera da letto e sbirciò dentro. Sorpresa! Siete morti, tutti e due. Erano abbastanza belli, sia lei che lui, in forma, tonici, con dei bei culi muscolosi. Sexy, nell'insieme. Sorridevano. Sembravano piacersi parecchio. Buon per loro. Magari si amavano anche. Di sicuro provavano una reciproca attrazione. Il Macellaio era contento per loro. Il biondino stantuffava e Melinda pareva gradire parecchio. Eccitante, non c'è che dire. Melinda aveva un paio di calze autoreggenti bianche, che a Sullivan piacevano moltissimo. Che le avesse indossate per lui? Non si può mai sapere... Li osservò un minuto o due, poi si schiarì la voce. Ehm ehm. Scusate il disturbo... I due si staccarono immediatamente, nonostante fossero avvinghiati in una posizione da cui non era facile districarsi. « Wow! » fece il Macellaio, sorridendo garbato, come se fosse lì per un sondaggio sulle relazioni extraconiugali. « Complimenti per la prestazione. » Quei due gli piacevano davvero, soprattutto Mel. Per avere l'età che aveva, non era niente male. Bel corpo, bel viso. Espressione dolce. Gli piacque anche il fatto che non si coprì subito con il lenzuolo, ma lo guardò sfacciata. Cosa cazzo ci fai tu qui? Questa è casa mia, questo è il mio amante. Non sono affari tuoi, chiunque tu sia. Vattene! « Melinda Steiner? » chiese il Macellaio, puntandole contro la pistola, ma in maniera non troppo minacciosa. Che motivo c'era di farle ancor più paura di così? Non ne avevano già abbastanza? Lui non aveva nulla contro quei due. Non erano mafiosi, non gli avevano mai fatto niente di male. « Sì, sono io. E lei chi è? Che cosa vuole? » Era decisamente sicura di sé, ma non troppo arrogante. In fondo non aveva tutti i torti: quella era davvero casa sua e aveva tutti i diritti di sapere cosa ci faceva lui nella sua camera da letto. Entrò nella stanza e... Bang! Bang! Sparò al biondino nella gola e in fronte. L'uomo cadde dal letto sul tappeto indiano. Peccato per lui: con la fatica che doveva aver fatto per tenersi in forma per vivere più a lungo... Melinda si coprì la bocca con le mani ed emise un gemito. « Oddio! » Non si mise a urlare, però, dal che Sullivan dedusse che il biondo era solo un
amante con cui fare sesso e non era innamorata di lui. A ben guardare, l'impressione era che del biondino le importasse poco o niente. « Fai la brava, Melinda. Ti assicuro che non ha sentito dolore. Non se n'è manco accorto. » « Era il mio architetto » disse lei. Poi aggiunse: « Non so nemmeno perché glielo sto dicendo ». « Perché sei agitata, ma è normale. A questo punto avrai realizzato che sono venuto qui per ammazzare te, non il tuo amante. » Era a un metro da lei e le puntava la pistola al cuore. Melinda sembrava piuttosto controllata: Sullivan era fortemente impressionato. Proprio il suo tipo. Ci sarebbe dovuta essere lei a comandare il clan. Si ripromise di segnalarla a chi di dovere. Sì, Melinda Steiner gli piaceva molto. Gli venne in mente che invece il marito no, non gli piaceva per niente. Si sedette sul letto, con la pistola in mano, e gliela puntò sul seno sinistro. « Senti, ti devo dire una cosa. Mi manda tuo marito, sai? E' lui che vuole che ti uccida. Mi ha dato settantacinquemila dollari per venire ad ammazzarti. Ma, ora che ci penso, tu hai accesso al tuo denaro? Magari potremmo fare un patto, io e te. Cosa ne dici? » « Sì » rispose la donna. E non disse altro. Si accordarono pochi minuti dopo e Sullivan ottenne quattro volte la cifra offertagli dal marito di Melinda. Il mondo era pieno di pazzi: non c'era da stupirsi che Desperate Housewives avesse così tanto successo... Sampson e io non andavamo nel Massachusetts da diversi anni. L'ultima volta che ci eravamo stati era per dare la caccia a un assassino psicopatico che si chiamava Mister Smith, in un caso che in codice chiamavamo « Gatto e Topo ». Mister Smith era forse il più astuto fra tutti i malati di mente che avevamo catturato fino ad allora e mi aveva quasi ammazzato. Non fu con nostalgia, pertanto, che ci dirigemmo verso i monti Berkshire. Lungo la strada ci fermammo a cena nel ristorante di mio cugino Jimmy Parker, il Red Hat di Irvington, New York. Mangiammo divinamente. Per il resto, fu una trasferta di lavoro e basta. Andammo soli, senza rinforzi. Non ero sicuro di cosa avrei fatto, se avessi messo le mani sul Macellaio. Sempre che lo trovassimo. Sempre che non fosse già scappato. Ascoltammo qualche vecchio brano di Lauryn Hill e Erykah Badu e non parlammo quasi di Michael Sullivan, finché non varcammo il confine del Massachusetts. « Cosa facciamo qui, John? » dissi, rompendo il ghiaccio. « Diamo la caccia ai cattivi, come sempre » mi rispose lui. « Non è cambiato niente, no? Quest'uomo è un assassino, uno stupratore, tu sei l'Ammazzadraghi e io ti tengo compagnia. »
« Io e te da soli, eh? Non allertiamo la polizia del posto? Neanche l'FBI? Ti segnalo che abbiamo appena superato il confine. » Sampson annuì. « Questa volta è una cosa più personale, rispetto alle altre. O sbaglio? E poi quel delinquente merita di morire. Se capita, capita. E probabilmente capiterà. » « Sì, è una faccenda personale. Non sono mai stato coinvolto in un caso a livello così personale. Mi rode dentro da un sacco, devo metterci la parola fine. Però...» « Niente però, Alex. Mettiamo 'sta parola fine. » Per un po' rimanemmo zitti tutti e due. Ma io avevo bisogno di parlarne ancora. Dovevamo stabilire delle regole, metterci d'accordo su come procedere. « Non voglio ammazzarlo così, su due piedi. Sempre che lo becchiamo. Non sono un cowboy. » « Lo so » disse Sampson. « Ti conosco, Alex. Ti conosco bene. Vediamo cosa succede, okay? Magari non è manco qui. » Arrivammo nella cittadina di Florida, Massachusetts, verso le due del pomeriggio successivo e andammo a cercare la casa in cui speravamo di trovare Michael Sullivan una volta per tutte. Ero teso come una corda di violino. Impiegammo mezz'ora per trovare la villetta, arroccata sulle pendici di un monte, sopra un fiume. La guardammo per un po': sembrava deserta. Che Sullivan avesse ricevuto un'altra soffiata? Chi era stato ad avvertirlo, però? L'FBI? Era davvero protetto in quanto informatore? Possibile che l'FBI tenesse così tanto a lui? Possibile che fossero stati i federali ad avvisarlo del nostro arrivo? Andammo nel centro della cittadina e pranzammo da Denny's. Non parlammo quasi, a tavola, e ci limitammo a mangiare uova e patate. Non era usuale, per noi. « Tutto bene? » mi chiese Sampson alla fine, mentre bevevamo il caffè. « Se lo prendiamo, starò meglio. Questa storia deve finire, hai ragione. » « Andiamo. » Tornammo alla casa e poco dopo le cinque vedemmo una station wagon imboccare il vialetto e parcheggiare davanti al portone. Era Sullivan? Avevamo finalmente trovato il Macellaio? Dal sedile posteriore scesero tre bambini e dal posto di guida smontò una donna mora, piuttosto graziosa. Capimmo subito che fra madre e figli c'era una splendida intesa. Fecero una corsa nel prato, scherzando tra loro, ed entrarono in casa. Avevo una foto di Caitlin Sullivan con me, ma non ebbi neppure bisogno di controllare. « E' lei » dissi a Sampson. « Stavolta siamo nel posto giusto. Quelli sono la moglie e i figli del Macellaio. »
« Se restiamo qui, rischiamo che ci veda » disse Sampson. « Non siamo a Cops e lui non è l'ultimo deficiente che si fa beccare per disattenzione. » « Sì, lo so. » Michael Sullivan non era per niente vicino alla sua casa nel Massachusetts occidentale. Alle sette e mezzo, quella sera, entrò in una villa con dieci camere da letto a Wellesley, un ricco sobborgo di Boston. Camminava dietro Melinda Steiner, ammirando le sue gambe lunghe e il suo bel sedere. Melinda era consapevole della propria bellezza e, senza esagerare, sapeva essere molto provocante. In una delle stanze cui si accedeva dall'ampio corridoio, dal cui soffitto pendevano tre lampadari di cristallo l'uno in fila all'altro, scelti senza dubbio da Melinda o dal suo architetto, c'era la luce accesa. « Sono tornata, tesoro! » disse Melinda, posando rumorosamente la valigia sul pavimento perfettamente tirato a lucido. Lo disse con un tono assolutamente credibile, senza il minimo allarme o la minima preoccupazione: il tono della mogliettina contenta di essere di nuovo a casa. Ma che brava... pensò Sullivan. Fortuna che non è mia moglie... Nessuna risposta: nella stanza con la luce accesa c'era solo il televisore acceso. « Amore? » riprovò la donna. « Sei in casa? Amore, sono tornata dalla campagna! Jerry? » Come poteva il bastardo non rimanere sorpreso? Amore, sono tornata! Sono ancora viva! Sulla porta apparve un uomo dall'aria esausta, con una camicia a righe tutta sgualcita, boxer e pantofole di un blu elettrico. Bravo attore anche lui, decisamente. Si comporta come se fosse tutto normale. Ma tutto cambiò quando dietro l'amata mogliettina vide il Macellaio, l'uomo che aveva pagato affinché la uccidesse nella villa di campagna. « Ciao, Mel. Chi è lui? Cosa succede? » chiese Jerry, indicando Sullivan nel corridoio. Ma il Macellaio aveva già la pistola in pugno. La puntò prima verso i boxer dell'uomo, poi verso il cuore, sempre che quello stronzo ne avesse uno. Perché devi proprio essere stronzo per pagare un killer che ti faccia fuori la moglie, no? « Cambio di programma » disse Sullivan. « Cosa vuole che le dica, a volte succede.» Jerry alzò le mani, anche se nessuno glielo aveva chiesto. Si stava svegliando, e stava cominciando a capire. « Cosa sta dicendo? Mel, cosa succede? Perché quest'uomo è in casa nostra? Chi è?»
Battuta classica. E pronunciata con grande aplomb. Melinda gli rispose per le rime. A voce altissima. « E' il killer che hai assoldato per uccidermi, pezzo di merda che non sei altro! E sei pure vigliacco, Jerry. Però io gli ho offerto il quadruplo per far fuori te, stronzo. Sì, tesoro, proprio così. È un mercenario. » E scoppiò a ridere. Fu l'unica, perché sia Jerry che Sullivan rimasero serissimi. Non che la battuta di Melinda non fosse divertente: era la situazione che non faceva per niente ridere. O forse Melinda aveva sbagliato il tono. O magari aveva colpito troppo nel segno. Jerry tornò nella stanza dove stava guardando la televisione e cercò di barricarvisi dentro. Non ci riuscì. Il Macellaio lo precedette, rapidissimo, e infilò il piede fra lo stipite e la porta, poi con una spallata la spalancò ed entrò nella stanza anche lui. Jerry era un dirigente di un certo calibro, alto, con un po' di pancetta e i capelli radi. Nella stanza aleggiavano il suo odore e una discreta puzza di fumo: nel posacenere vicino al divano c'era un sigaro ancora acceso. Sul tappeto c'erano un putter e due palline da golf. Per la miseria! Quell'uomo aveva pagato un killer per far ammazzare la moglie e si allenava al golf... « Le posso offrire ancora di più » fece. « Anzi, le offro il doppio di quello che le ha offerto lei. Affare fatto? Ecco, i soldi sono qui. » Wow! Di bene in meglio! pensò Sullivan. Era come essere all'asta... « Sei uno stronzo! » urlò Melinda al marito dalla porta. Poi corse dentro e gli diede un pugno. Sullivan pensò che anche lei, per quanto algida e controllata, ogni tanto perdeva la pazienza. Guardò Jerry, poi guardò Melinda: una coppia interessante. « Per quanto sostanzialmente d'accordo con Melinda, non posso non considerare la sua proposta, Jerry » disse. « Vogliamo giocare al rialzo? Smettiamola con le botte e con gli insulti e parliamone da adulti. » Due ore dopo l'asta era conclusa e Michael Sullivan era in macchina sulla Massachusetts Turnpike. La Lexus andava abbastanza bene e il viaggio era tranquillo e piacevole. C'erano alcuni piccoli particolari ancora da mettere a punto, ma nel complesso il lavoro era compiuto. Grazie al gioco al rialzo aveva tirato su trecentocinquantamila dollari, che gli erano stati versati tramite bonifico nel suo conto in Svizzera. Una somma non da poco, ma purtroppo il contatto di Boston a questo punto era bruciato. E forse avrebbe dovuto far trasferire di nuovo la famiglia. Meditò se andarsene per conto suo, lasciandoli dov'erano: non era la prima volta che ci pensava. Comunque ne era valsa la pena: trecentocinquantamila dollari per una giornata di
lavoro. Ad aggiudicarsi i suoi servigi alla fine era stato Jerry Steiner, ma il Macellaio aveva preferito togliere di mezzo anche lui. Melinda... be', quello era un altro discorso. Gli era simpatica e gli era rincresciuto farla fuori. Che alternative aveva, però? Poteva lasciarla incolume, con il rischio che andasse a spifferare tutto quanto? E così l'aveva ammazzata, ma senza farla soffrire: un colpo alla nuca, fatale..E poi le aveva scattato un po' di foto, per immortalare la sua bellezza. Stava cantando Wild Horses, uno dei brani degli Stones che gli piacevano di più, quando svoltò una curva e vide la casa. C'era qualcosa che non andava. Errore? Suo o di chi? Spense i fari e accostò, poi si immise in una stradina senza uscita da cui vedeva meglio sia la casa che il terreno circostante. Santo Cielo, mai un attimo di riposo! Per quanto provasse a scrollarselo di dosso, il passato lo perseguitava. Li vide subito. Erano a bordo di un'automobile blu, forse una Dodge, puntata verso la casa. Ed erano in due. Lo stavano aspettando, senza dubbio. Errore. Errore loro! Chi erano? Adesso gli sarebbe toccato fare fuori anche quei due... Chissenefrega di chi erano. Erano uomini morti. E perché? Perché non sapevano fare il loro mestiere. Perché erano venuti lì a spiare, a cercare di ucciderlo e di sterminargli la famiglia. Nel bagagliaio della Lexus aveva un Winchester, che teneva sempre oliato, pulito e funzionante. Aprì il portellone e lo prese, per poi caricarlo con proiettili a punta cava. Non era proprio un tiratore scelto, ma per un lavoretto così la sua mira sarebbe bastata. Si acquattò nel bosco, dietro due grandi sempreverdi che lo coprivano alla perfezione, e osservò a lungo dal mirino, che era tondo, invece che a croce. Li preferiva così. Era stato Jmmy Fedora a insegnargli a tirare. Aveva fatto l'addestramento a Fort Bragg, nel North Carolina, prima di venire radiato dall'Esercito. Mirò alla testa dell'uomo al volante e sfiorò il grilletto. Sarebbe stato un gioco da ragazzi. Poi mirò all'uomo sul sedile accanto. Chiunque fossero, quei due avevano i minuti contati. Li avrebbe fatti fuori facilmente e poi avrebbe preso i suoi e si sarebbe dato alla
fuga. Avrebbe tagliato compitamente con il passato. Era quello l'errore, no? Essere rimasto in contatto con gente che apparteneva al suo passato. I genitori di Caitlin, per esempio. Probabilmente il loro telefono era stato messo sotto controllo. Sì, più ci pensava, più si convinceva che era andata così. Errore, errore, errore. Caitlin avrebbe continuato a commetterne, ne era certo. Doveva liberarsi di lei. Gli dispiaceva, ma non poteva rischiare ulteriormente. A meno che non si fosse dato alla fuga da solo. Quante decisioni doveva prendere! E in così poco tempo... Posizionò di nuovo il mirino centrandolo sulla testa dell'uomo al volante. Era pronto. Due colpi, e i due uomini ignari sull'auto blu sarebbero morti. Espirò lentamente, cercando di rilassarsi e di concentrarsi. Il cuore gli batteva lento, ritmato, sicuro. Lento, ritmato, sicuro. Premette il grilletto e nell'aria risuonò, secca, la detonazione. Un istante dopo, premette di nuovo il grilletto. Poi fece fuoco anche una terza e una quarta volta. Ecco, così dovrebbe bastare. Aveva fatto quel che doveva fare. Adesso doveva darsi alla fuga. Con o senza Caitlin e i bambini. Prima, però, voleva capire chi erano quei due che aveva appena fatto fuori e magari scattare un paio di fotografie. Sampson e io vedemmo il Macellaio avvicinarsi alla macchina. Era abile, certamente, ma meno di quanto credesse. Si avvicinò senza far rumore, quasi piegato in due, pronto a difendersi se ce ne fosse stato bisogno. Stava per accorgersi di aver sparato a due mucchietti di vestiti e cuscini acquistati al locale Wal-Mart. Io e Sampson lo osservavamo dal nostro nascondiglio fra gli alberi, a meno di trenta metri dalla macchina. Chi era più bravo, allora? Il Macellaio o noi due? « Tocca a te, Alex. Facciamo come vuoi tu » bisbigliò Sampson. « Non ucciderlo, John » dissi e gli posai la mano sul braccio. « A meno che non sia assolutamente necessario. » « Facciamo come vuoi tu » ripeté Sampson. A quel punto successe una cosa davvero stranissima. Il Macellaio si voltò di scatto. Non nella nostra direzione, però: in quella opposta. Che intenzioni aveva? Che cosa stava succedendo? Era rivolto verso il fitto bosco a est, non verso il nostro nascondiglio. Non prestava la minima attenzione a noi.
Fece fuoco due volte. Un istante dopo sentii un gemito. Spuntò un uomo vestito di nero, che si accasciò subito a terra. Chi era? Poi dal bosco uscirono di corsa altri cinque uomini, che si diressero verso nord. Imbracciavano fucili bullpup, una mitraglietta Uzi e pistole varie. Chi diavolo erano? Ebbi una risposta quando uno di loro urlò: « FBI! Getta il fucile, Sullivan. FBI! » Non ci potevo credere! « Secondo me è la mafia » sussurrai a Sampson. « Dici? » « Sì. » A quel punto scoppiò il finimondo: sparavano tutti, come se invece che in mezzo alla natura nel Massachusetts fossimo stati in una strada di Baghdad. I mafiosi - sempre che fossero davvero mafiosi - spararono anche a noi. Io e Sampson rispondemmo al fuoco. E cosi fece anche il Macellaio. Beccai uno con il cappotto di pelle, quello che imbracciava la mitraglietta Uzi, il mio primo bersaglio. Fece una piccola giravolta e cadde a terra, ma un istante dopo sollevò di nuovo la mitraglietta per sparare. Non ci riuscì, perché fu colpito in pieno petto e ricadde a terra. Non ero stato io a finirlo, però. Che fosse stato Sampson? Il buio rendeva la situazione ancora più pericolosa. Volavano proiettili da tutte le parti, alcuni si piantavano nei tronchi degli alberi o rimbalzavano sulle pietre. Insomma, la confusione era totale. Roba da far accapponare la pelle. I mafiosi si stavano allargando, allontanandosi l'uno dall'altro per renderci le cose più difficili. Sullivan era corso verso la sua sinistra e si era nascosto fra gli alberi. Io e Sampson cercavamo di ripararci meglio che potevamo fra i sempreverdi. Pensai che sarei potuto morire lì, quella sera: la sparatoria era furibonda e in un'area piuttosto limitata. Sembrava di essere in una zona di guerra, davanti a un plotone di esecuzione, anche se eravamo armati. Uno dei mafiosi svuotò il caricatore del suo bullpup contro il Macellaio, che però parve rimanere incolume. Ne ebbi la certezza un istante dopo, quando lo vidi balzare su di scatto e sparargli, mentre l'altro cercava di nuovo riparo fra gli alberi. L'uomo lanciò un grido, poi si zittì. Secondo i miei calcoli, fino a quel momento le vittime erano tre, tutte della mafia. Io e Sampson eravamo incolumi, ma non eravamo noi i bersagli principali dell'operazione. Cosa potevamo fare a quel punto? Chi avrebbe fatto la prossima mossa? Sullivan? John? Io?
In quel momento successe qualcosa di molto bizzarro: una voce di bimbo cominciò a chiedere: « Papà? Papà? Dove sei, papà? » Allungai il collo verso la casa in cima alla salita, per capire, e vidi due bambini scendere di corsa le scale. Erano in pigiama e a piedi scalzi. « Tornate dentro! » gridò loro Sullivan. «Subito in casa! Forza! » Poi usci anche Caitlin, avvolta in un accappatoio. Cercava di fermare il figlio più piccolo e a un certo punto lo prese in braccio. Intanto urlava con tutto il fiato che aveva in corpo ai due più grandi di rientrare. Volavano proiettili da tutte le parti e gli spari risuonavano tonanti nella notte, mentre lampi di luce illuminavano alberi, pietre e cadaveri stesi nell'erba. Sullivan continuava a urlare ai figli di rientrare e a sua moglie di portarli dentro. Ma i bambini non gli diedero retta e continuarono a corrergli incontro. Un uomo si voltò verso di loro, imbracciando il fucile, e io lo colpii alla nuca. L'uomo barcollò, cadde e rimase a terra. Pensai: Ho appena salvato la vita ai figli di Sullivan. Che cosa voleva dire? Che glielo dovevo per quella volta che si era introdotto in casa mia e non aveva fatto una strage? Avrei ucciso sua moglie, adesso, per pareggiare veramente i conti? Mi resi conto che in quella confusione mortale nulla aveva più senso. Vidi un uomo ritirarsi zigzagando e scomparire fra gli alberi. A quel punto ne era rimasto uno solo allo scoperto. Lui e Sullivan erano l'uno di fronte all'altro. Spararono. Il mafioso cadde a terra, il volto trasformato in una maschera di sangue. Sullivan rimase in piedi. E si voltò verso Sampson e me. Stallo, almeno per il momento. Due o tre secondi? E poi? Mi resi conto che l'automobile di Sampson non mi faceva più da scudo contro Sullivan. I bambini si erano fermati. Caitlin Sullivan ne teneva due in braccio e aveva il maggiore a fianco. Vidi che assomigliava molto a suo padre e che aveva un atteggiamento protettivo. Mi augurai che rimanesse al di fuori di tutto. « Sono Alex Cross » dissi a Sullivan. « Sei venuto a casa mia una volta, tanti anni fa. E poi hai ammazzato mia moglie. Nel '93. A Washington. » « So chi sei » replicò Sullivan. « Non ho ucciso tua moglie. So chi ho ucciso e chi no. » Corse verso gli alberi e io mirai alla schiena, ma non riuscii a premere il grilletto. Non volevo sparargli alla schiena, davanti a sua moglie e ai suoi figli. Non volevo, stop. « Papà! » urlò uno dei bambini, vedendo che io e Sampson gli correvamo dietro. « Corri, papà! Corri! » « E' un killer professionista, Alex » mi ricordò Sampson mentre correvamo sul
terreno accidentato, fra erba alta, radici e massi. « Dobbiamo ammazzarlo, lo sai. La misericordia per il diavolo è sprecata. » Non c'era bisogno che me Io ricordasse: non avevo nessuna intenzione di correre rischi inutili. Era vero, però, che non avevo premuto il grilletto, quando invece ne avrei avuto la possibilità. Non avevo ammazzato Michael Sullivan. Il buio era impenetrabile, nel bosco, ma il riflesso della luna ogni tanto ci consentiva di intravedere qualcosa. Sullivan, per esempio. Ma anche Sullivan avrebbe potuto vedere noi. Stallo. Quella sera, comunque, qualcuno ci avrebbe lasciato la pelle, Lo sapevo. E speravo con tutto il cuore di non essere io. Ma era indispensabile portare a termine quella faccenda che si trascinava da troppo tempo. Mi chiesi dove stesse correndo Sullivan, se avesse un piano di fuga o volesse tenderci un agguato. Non l'avevamo più visto, da quando era entrato nel bosco. Forse correva fortissimo, oppure aveva preso un'altra direzione. Quanto bene conosceva quel bosco? Che fosse lì appostato ad aspettarci? Pronto a sparare o a saltare fuori da dietro un albero? A un certo punto vidi muovere qualcosa: qualcuno stava correndo davanti a me. Non poteva che essere Sullivan! O invece era il mafioso che era riuscito a scappare? Chiunque fosse, non potevo sparargli: c'erano troppi alberi e troppi rami di mezzo. Avevo il fiatone, respiravo a fatica. Siccome ero abbastanza allenato, pensai che fosse a causa dello stress: stavo inseguendo Il bastardo che aveva ucciso Maria, che rincorrevo e detestavo da più di dieci anni. Era il momento tanto aspettato, che non vedevo l'ora di poter vivere. Eppure, quando ne avevo avuto l'occasione, non avevo premuto il grilletto. « Dov'è? » mi chiese Sampson, raggiungendomi. Non lo vedevamo, nessuno dei due. E non lo sentivamo nemmeno. Tutt'a un tratto il rombo di un motore ruppe il silenzio. In mezzo a un bosco? Che razza di motore era? Una luce improvvisa ci abbagliò. Anzi, due luci, puntate diritte verso di noi. Stava arrivando una macchina! Sullivan o chi per lui, chino sul volante, ci stava venendo addosso lungo una strada che conosceva molto bene. « Sparagli, Alex! » mi urlò Sampson. « Sparagli! » Sullivan aveva una macchina nascosta nel bosco per ogni evenienza. Mi misi in
posizione e sparai al parabrezza, dalla parte del guidatore, una, due, tre volte. Ma la macchina non si fermò. Era una berlina di colore scuro. Di colpo, rallentò. L'avevo colpito? Mi misi a correre, inciampai su una pietra e imprecai. Non stavo pensando a cosa fare o non fare: l'unica cosa che avevo ben chiara nella testa era che quella storia doveva finire. Vidi Sullivan dentro la macchina e lui vide me. Mi parve di notare un ghigno sul suo volto, quando sollevò l'arma per fare fuoco. Schivai il colpo, accucciandomi, e lui sparò di nuovo, mancandomi solo per un pelo. La macchina riprese ad avanzare, il motore su di giri. Quando mi passò accanto, mi buttai sul bagagliaio aggrappandomi alle fiancate, la faccia premuta contro il metallo gelido. « Alex! Scendi giù di lì! » Sentii che Sampson mi chiamava, ma restai dov'ero. Sullivan accelerò ancora, ma c'erano troppi alberi è massi per poter andare forte. A un certo punto prese un sasso e l'auto ebbe un forte scossone e si sollevò con le due ruote davanti a mezz'aria. Non so come feci a non cadere per terra. Poi inchiodò e io alzai lo sguardo. Si era girato verso di me. Per una frazione di secondo ci guardammo negli occhi, a poco più di un metro di distanza. Vidi che aveva il viso sporco di sangue: era rimasto ferito. Forse, quando avevo sparato contro il parabrezza, l'avevo colpito. Sollevò la pistola e sparò. Io balzai giù dalla macchina e, una volta a terra, rotolai di lato. Poi mi tirai su in ginocchio e presi la mira. Feci fuoco due volte, contro il finestrino, urlando a Sullivan, al Macellaio, o chiunque egli fosse. Lo volevo morto. Volevo ucciderlo io. Questa storia deve finire. Qui e ora. Mors tua vita mea. Sparai di nuovo contro il mostro che aveva ammazzato mia moglie e chissà quante altre persone, spesso in modi raccapriccianti, con coltelli, seghe e mazzuoli da macellaio. Michael Sullivan, detto il Macellaio, devi morire. Muori, bastardo. Meriti di morire più di chiunque altro su questa terra. Stava scendendo dalla macchina. Che cosa stava succedendo? Che intenzioni aveva? Cominciò a correre zoppicando verso la casa, verso sua moglie e i suoi figli. Aveva la camicia insanguinata e il sangue gli colava anche sui calzoni e sulle scarpe.
Appena arrivò dai suoi familiari, cadde in ginocchio e li abbracciò. Sampson e io lo seguimmo, stupefatti e incerti sul da farsi. Vedevo che i bambini avevano il pigiama sporco di sangue. Anche Caitlin Sullivan aveva addosso il sangue di suo marito, il Macellaio. Quando mi avvicinai vidi la sua faccia sgomenta, lo sguardo vacuo come se stesse per perdere i sensi o morire. Mi disse: « E' una brava donna. Non sapeva niente. Non sa niente. Sono bravi ragazzi. Portali via di qui. Proteggili dalla mafia ». Avevo ancora voglia di ammazzarlo e temevo non fosse ferito mortalmente, ma abbassai la pistola. Non volevo puntarla contro quella donna e quei bambini. Sullivan scoppiò a ridere e puntò la pistola alla testa di sua moglie. La costrinse ad alzarsi e disse: « Butta la pistola o la ammazzo, Cross. Non ci penserò su un secondo. Ucciderò lei e anche i bambini. Non è un problema, per me. Sono fatto cosi ». Sul viso di Caitlin Sullivan non c'erano sorpresa o shock, ma soltanto un'enorme tristezza e delusione. Probabilmente aveva amato quell'uomo e forse lo amava ancora. Il bambino più piccolo urlò a suo padre, con una vocina che mi fece venire i brividi: « No, papà, no! Non fare male alla mamma! Per favore, papà! » « Butta quella pistola » gridò di nuovo Sullivan. Che cosa potevo fare? Non avevo scelta. Per come ero fatto io, almeno, per i valori in cui credevo. Lasciai cadere a terra la Glock. Sullivan fece un inchino. E dal suo fucile partì un colpo. Fui colpito al petto, mi sentii mancare la terra sotto i piedi. Per una frazione di secondo rimasi in punta di piedi. Danzavo? Levitavo? Stavo per morire? Poi udii un secondo sparo, e a quel punto non vidi più niente. Sapevo che stavo per morire, che non avrei mai più visto la mia famiglia, e che non potevo dare la colpa a nessuno, se non a me stesso. Ero stato avvertito, e più di una volta. Ma l'Ammazzadraghi aveva fatto finta di non sentire. Mi sbagliavo: quella sera davanti alla casa del Macellaio non morii. Riportai però Ferite piuttosto gravi e mi toccò passare un mese al Massachusetts General Hospital di Boston. Michael Sullivan fece il suo inchino, ma subito dopo Sampson lo freddò con due colpi nel torace. Morì lì, davanti a casa sua. Non sono pentito. Non ho rimpianti. Non provo pena per il Macellaio. E questo probabilmente vuol dire che non sono cambiato, e continuo a essere l'Ammazzadraghi. In questi giorni quasi tutte le mattine, dopo le mie sedute, vado da Adele Finaly, che mi aiuta come può. Un giorno le ho raccontato della sparatoria davanti alla casa di
Sullivan e della mia sete di vendetta, del mio desiderio di giustizia, e di come non li ho soddisfatti. Adele mi ha detto che capisce, ma che non si sente vicina né a me né a Sullivan. Sia lei che io ci rendiamo conto dei collegamenti che esistono fra me e Sullivan: uno dei due muore davanti agli occhi dei suoi parenti. « Mi ha detto che non era stato lui a uccidere Maria » le ho spiegato, durante la seduta. « E con questo? Sappiamo che era un bugiardo matricolato, uno psicopatico, un killer. Un sadico. Un pezzo di merda. » « Sì, era tutto questo e anche di più. Ma gli credo. Solo che non capisco. E' un altro mistero che devo risolvere. » In un'altra seduta abbiamo parlato del mio viaggio a Wake Forest, nel North Carolina, appena a nord di Raleigh. Ci sono andato con la mia nuova R350, l'auto di famiglia, per vedere Kayla Coles, per parlare un po' con lei, guardarla negli occhi. L'ho trovata in ottima forma, e non solo dal punto di vista fisico. Mi ha detto che la vita laggiù le piace ancor più di quanto si aspettasse. Mi ha detto che rimarrà a Raleigh. « C'è tanta gente che ha bisogno, qui nel North Carolina » mi ha spiegato. « E' la qualità della vita per me è migliore che a Washington. Se rimani un po', te ne accorgerai anche tu. » « Pensi che ti stesse invitando a raggiungerla? » mi ha chiesto Adele dopo un attimo. « Possibile. Ma sapeva che non avrei accettato. » « Perché? » « Perché? Perché sono Alex Cross. » « E non cambierai mai, vero? Te lo sto chiedendo da amica, Alex, non da terapeuta.» « Non lo so. Voglio solo cambiare alcune cose della mia vita. È per questo che vengo da te, a parte il fatto che mi piace parlare con te. Insomma, tutto considerato la risposta è no, non penso che cambierò mai, sostanzialmente. » « Perché sei Alex Cross. » « Sì. » « Bene » ha decretato Adele. « E' un inizio. E, Alex... » « Dimmi. » « Anche a me piace parlare con te. Sei unico nel tuo genere. » Un altro mistero da risolvere. Una sera di primavera io e Sampson camminavamo lungo Fifth Street chiacchierando amabilmente, come sempre quando siamo insieme, bevendo
qualche birretta. Sampson aveva un paio di occhiali da sole Wayfarer e un vecchio Kangol che non gli vedevo sulla testa da anni. Passavamo davanti alle case che vedevamo sin da quando eravamo piccoli e ci sembravano sempre uguali, nonostante gran parte di Washington nel frattempo fosse cambiata tantissimo, nel bene e nel male. « Ero preoccupato, quando eri in ospedale » mi disse. « Anch'io: mi stava venendo l'accento del Massachusetts, con tutte le 'a' larghe. E stavo diventando politicamente corretto. » « C'è una cosa che ti voglio dire. Ci penso spesso. » « Ti ascolto. È la serata giusta per i discorsi importanti. » « Non so da che parte cominciare. È un po' difficile. Successe due o tre mesi dopo la morte di Maria » iniziò. « Ti ricordi quel tipo che viveva nel nostro quartiere, Clyde Wills?» « Me lo ricordo benissimo. Spacciava, ma aveva ambizioni più alte. Però finì cadavere in un cassonetto dietro al Popeyes Chicken, se ben ricordo. » « Esattamente. Wills faceva l'informatore per Rakeem Powell, quando era ispettore nel 103.» « Non mi sorprende che Wills facesse il doppio gioco. Vieni al punto. » « Ci sto arrivando, Sugar. Dammi il tempo. Clyde Wills aveva scoperto un po' di cose sul conto di Maria. Per esempio, chi poteva averla uccisa. » Non dissi nulla, ma mi vennero i brividi. Continuai a camminare, ma con il passo leggermente malfermo. « Non fu Michael Sullivan, dunque? » chiesi a Sampson. « L'aveva detto... » « Sullivan lavorava in coppia con uno » mi riferì Sampson. « Un tipo tosto, anche lui di Brooklyn, tal James 'Fedora' Galati. Fu Galati ad ammazzare Maria. Sullivan non c'era, quella sera. Potrebbe averglielo ordinato lui, non lo sappiamo. Oppure Galati voleva sparare a te. » Rimasi zitto. Per la verità, non sarei stato in grado di parlare nemmeno se avessi voluto. Speravo che Sampson finisse il suo racconto. Guardava davanti a sé, camminando. Evitava il mio sguardo. « Rakeem e io svolgemmo indagini per settimane, Alex. Ci impegnammo anima e corpo. Andammo persino a Brooklyn, ma non trovammo uno straccio di prova contro Galati. Sapevamo che era stato lui, però, perché lo aveva detto a dei suoi amici di New York. Era stato a Fort Bragg, aveva seguito un corso per tiratori scelti. » « Incontrasti anche Anthony Mullino, vero? Per questo si ricordava di te. » Sampson annuì.
« Ecco, me lo tenevo dentro da allora. Adesso te lo voglio dire, anche se mi costa non poco. Lo togliemmo di mezzo noi, Alex. Rakeem e io. Uccidemmo Galati una sera a Brooklyn. Non te lo potevo dire, prima. Ci provai, all'inizio. Avrei voluto dirtelo anche quando abbiamo cominciato a dare la caccia a Sullivan, ma non ce l'ho fatta. » « Sullivan era un killer. Era pericoloso » dissi. « Era giusto fermarlo. » Sampson non disse altro e io nemmeno. Passeggiammo ancora un po', poi lui mi salutò e se ne tornò a casa per le strade in cui eravamo cresciuti insieme. Aveva ammazzato l'assassino di Maria. L'aveva fatto per me. Pensava che fosse giusto, ma sapeva che gli sarebbe pesato per sempre sulla coscienza e così non me l'aveva mai detto, nemmeno quando davamo la caccia a Sullivan. Non capivo perché, ma non sempre si può capire tutto. Forse, un giorno, gli avrei chiesto spiegazioni. Quella sera non riuscii ad addormentarmi, e nemmeno a pensare. Dopo un po' andai a sdraiarmi vicino ad Ali. Dormiva come un angioletto, senza un pensiero al mondo. Rimasi li, vicino a mio figlio, e riflettei su quello che Sampson mi aveva detto e su quanto gli ero legato, nonostante tutto. Poi pensai a Maria e a quanto l'avevo amata. Mi hai aiutato tanto, sussurrai al ricordo che avevo di lei. Mi hai aiutato a cancellare il risentimento e a credere nell'amore, a credere che esiste anche quando è difficile. Aiutami anche adesso, per favore. Vorrei liberarmi dall'angoscia, dimenticare il passato e guardare avanti. Sai cosa intendo, Maria. Voglio lasciare indietro te per potermi rifare una vita. Sentii una voce nel buio e feci un salto nel letto, perché ero completamente perso nei miei pensieri. « Tutto bene, papà? » Abbracciai Ali, stringendomelo al petto. « Adesso sì, tesoro. Grazie di avermelo chiesto. Ti voglio bene. » « Anch'io, papà. Sono il tuo ometto, vero? » mi chiese. Sì, era il mio ometto.
EPILOGO Festa di compleanno Ecco come inizia la mia nuova vita, o come continua da una storia all'altra. Oggi va tutto bene, perché è il compleanno di Nana, che si rifiuta di dire quanti anni compie. Non vuole ammettere neppure la decina. Si potrebbe pensare che a quell'età uno vada fiero della propria longevità, ma Nana
è un tipo tutto particolare. Comunque, stasera è la sua sera. Anzi, secondo lei, per tutta la settimana del suo compleanno è autorizzata a fare quello che vuole. Come se non lo facesse sempre. Ha espresso il desiderio che a preparare la cena fossero i ragazzi e cosi io, Damon e Ali prendiamo la macchina e riempiamo lo spazioso bagagliaio di borse della spesa. Poi passiamo il pomeriggio a preparare due tipi diversi di pollo fritto, pannocchie e fagioli bolliti e pomodori ripieni. Impastiamo persino la focaccia. La cena è servita alle sette. Stappiamo una bottiglia di Bordeaux e anche i bambini lo assaggiano. «T anti auguri, centenaria! » dico io, alzando il bicchiere. « Anch'io vorrei proporre un brindisi » dichiara Nana, alzandosi in piedi. « Guardo le persone sedute a questo tavolo e penso che voglio bene a tutti quanti più che mai e mi sento fiera e fortunata a fare parte di questa famiglia. Alla mia età, poi! Che, voglio far notare, non è cent'anni. » « Udite! Udite! » diciamo in coro. Battiamo le mani. « Ad Ali, che legge i primi libretti da solo e sa allacciarsi le scarpe come un vero campione» continua Nana. « Ad Ali! Ad Ali! » intono. « E alle stringhe delle sue scarpe! » « Damon ha tante belle opportunità da perseguire nella sua vita. Canta come un usignolo e va splendidamente a scuola, se si applica. Ti voglio bene, Damon. » « Anch'io, Nana. Ti sei scordata l'NBA. » « Non mi sono affatto scordata la National Basket Association » replica Nana. « Il problema è che sei debole di sinistro. Se vuoi passare di categoria, ci devi lavorare. » Nana prosegue: « Alla mia bambina, Janelle, che è una brillante studentessa e non studia né per me né per suo padre ma per se stessa. Sono molto fiera del fatto che Janelle stia a sentire solo Janelle». Poi si siede e rimaniamo tutti un po' sorpresi che non abbia proposto un brindisi anche per me. Soprattutto io, che non mi ero mai reso conto di essere l'ultima ruota del carro. Ma poi Nana si rialza con un sorrisetto. « Ah, mi stavo dimenticando qualcuno. Alex ha fatto più cambiamenti di chiunque altro di noi, quest'anno, e noi sappiamo quanto è difficile per lui cambiare. Ha riaperto lo studio e si dedica agli altri. Fa persino volontariato alla chiesa di St. Anthony, dove spignatta tutto contento. Mentre qui a casa in cucina non mette mai piede. » « Chi ha cucinato stasera? » « Ammetto che siete stati bravi, ragazzi. Sono fiera della nostra famiglia, scusate se
mi ripeto. Alex, sono fiera di te. Non ti capisco, ma ti voglio tanto bene. E mi hai sempre dato tanta gioia. Che Dio benedica la famiglia Cross. » Stasera ho messo a dormire Ali come al solito e sono rimasto nel suo letto per un po'. Siccome di giorno è scatenato, la sera appena tocca il cuscino si addormenta. Lo squillo del telefono mi sembra una sveglia. Salto su e corro in corridoio a rispondere. Sollevo la cornetta. « Casa della famiglia Cross » rispondo, dato il clima della serata. « C'è stato un omicidio » mi dice la voce. Mi si chiude lo stomaco. Rimango un istante senza parole, poi domando: « Perché sta chiamando me? » « Perché lei è il dottor Cross e io sono l'assassino. »