Jeffery Deaver
LA FIGLIA SBAGLIATA
Traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini Rizzoli Proprietà letteraria riserva...
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Jeffery Deaver
LA FIGLIA SBAGLIATA
Traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini Rizzoli Proprietà letteraria riservata © 2003 by Jeffery Deaver Originally published in hardcover in 2003 by Simon & Schuster, Inc. ©2010 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-04370-0 Titolo originale dell'opera: SPEAKING IN TONGUES Prima edizione: ottobre 2010
L'autore Jeffery Deaver è nato a Chicago nel 1950. I suoi romanzi, bestseller internazionali tradotti in 25 lingue e pubblicati in 150 Paesi, hanno venduto nel mondo oltre 20 milioni di copie. Dal Collezionista di ossa, uno dei suoi più grandi successi, è stato tratto l'omonimo film con Denzel Washington. Tra i suoi ultimi libri, tutti editi da Rizzoli, Requiem per una pornostar (2010) e Il filo che brucia (2010). Il suo sito è www.jefferydeaver.com..
Questo libro è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell'immaginazione dell'Autore o sono usati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti reali, luoghi, o a persone, vive o morte, è puramente casuale. Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI).
La figlia sbagliata Capitolo 1 Megan la Svitata parcheggia l'automobile. Non ne ha nessuna voglia. Proprio no. Non scende, ascolta la pioggia... Dopo un breve ticchettio il motore tacque; lei si guardava i vestiti. Solito abbigliamento: jeans jnco; maglietta bianca senza maniche sotto una camicia da lavoro di denim scuro; scarponi militari. Metteva sempre le stesse cose. Ma oggi non ci si sentiva a suo agio, provava imbarazzo. Avrebbe dovuto indossare una gonna, almeno. I pantaloni erano troppo sformati. Le maniche della camicia penzolavano fino a sfiorare le unghie smaltate di nero e i calzini erano color minestra di carote. Ma tanto, che differenza faceva? L'ora sarebbe passata in fretta. Forse il tipo si sarebbe concentrato sui suoi pregi: i dolci occhi azzurri e i capelli biondi. Ah, e poi il suo fisico. Dopotutto, era un uomo. Comunque quei vestiti almeno coprivano i tre... e va bene, i cinque chili di troppo del suo corpo alto e robusto. Blocco. Megan la Svitata non ha nessunissima voglia di essere qui. Si passò la mano sul labbro superiore e guardò fuori dal finestrino schizzato di pioggia, verso gli alberi frondosi e i cespugli del quartiere residenziale. Quell'aprile nella Virginia del Nord faceva caldo come a luglio. Dall'asfalto saliva un ectoplasma di nebbia. Era un deserto. Non ci aveva mai fatto caso, prima. Megan la Svitata sussurra: Dì'solo no e vattene! Ma non poteva fare una cosa del genere. Era un bel casino. Si sfilò dal collo il ciondolo di legno con il simbolo della pace e lo lanciò sul sedile posteriore. Sì ravviò i capelli biondi con le dita, togliendoseli dalla faccia. Le nocche arrossate sembravano grosse come palline da golf. Un'occhiata alla faccia nello specchietto retrovisore. Si tolse il rossetto nero, legò la chioma bionda in una coda di cavallo con un elastico verde. Okay, andiamo. Diamoci un taglio, disse tra sé. Una corsa sotto la pioggia, uno squillo al citofono, e un attimo dopo la porta scattò con un ronzio. Megan McCall entrò nella sala d'attesa in cui aveva passato tutti i sabati mattina delle ultime sette settimane, cioè da quando era successo l'incidente. Continuava a sperare che quel posto le diventasse famigliare. Eppure non lo diventava mai. Odiava tutto questo. Odiava quelle sedute orribili, ma aspettare era devastante. Il dottor Hanson la faceva sempre aspettare. Anche se arrivava in orario, anche se non aveva davanti altri pazienti, la seduta iniziava in ritardo come minimo di cinque minuti. Lei andava fuori di matto, ma non si era mai lamentata. Oggi invece il dottore nuovo l'attendeva sulla soglia, un sopracciglio inarcato in segno di saluto. Puntualissimo. «Megan?» le si rivolse con un sorriso disinvolto. «Sono Bill Peters.» Aveva grossomodo l'età di suo padre. Mica male, bei capelli. Hanson era calvo e aveva l'aria dello strizzacervelli. Questo invece era un tipo... Un po' alla George Clooney, decide Megan la Svitata. La diffidenza si stempera. E non si fa chiamare “dottore”. Interessante. «Ciao.» «Accomodati.» Accompagnò la parola con il gesto. Lei entrò nello studio. «Cos'ha il dottor Hanson?» chiese sedendosi sulla sedia di fronte alla scrivania. «Qualche parente malato?» «Sua madre ha avuto un incidente. Hanno detto che si riprenderà. Ma è dovuto andare a Leesburg per tutta la settimana.» «Quindi tu sei una specie di supplente?» «Qualcosa del genere» rispose lui ridendo. «Non sapevo che gli striz... che i terapeuti si prendessero i pazienti degli altri.» «Non tutti lo fanno.» Il dottor Peters - BillPeters - aveva chiamato il giorno precedente dopo la scuola per avvertirla che il dottor Hanson gli aveva chiesto di sostituirlo con i pazienti. Perciò, se voleva poteva fare la seduta come al solito. Neanche per sogno, aveva sussurrato Megan la Svitata in un primo momento. Ma dopo aver parlato un po' con Peters aveva deciso di dargli una possibilità. C'era un che di rassicurante, nella sua voce. E poi Hanson il Calvo non stava facendo un accidente per lei. Le sedute si riducevano a qualche lagna da parte sua sulla scuola, sul fatto che era sola e su Amy, Josh e Brittany. Hanson annuiva e le ripeteva che prima di tutto doveva fare amicizia con se stessa. Chissà che cazzo significava. «Purtroppo ti toccherà ripetere un po' di cose» stava dicendo Peters, «ma se non ti dispiace dovremmo riepilogare qualche dato fondamentale.» «Certo.» «Ti chiami Megan Collier?» domandò. «No, Collier è il nome di mio padre. Io uso quello di mia madre. McCall.» Si dondolò sulla sedia dallo schienale rigido, accavallando le gambe. Spuntavano i calzini color carota. Rimise le gambe dritte, i piedi ben piantati per terra. «Non ti piace la terapia, vero?» le
chiese lui a un tratto. Anche questo era interessante. Hanson non gliel'aveva mai chiesto. Non faceva mai domande così dirette. E, a differenza di questo tipo, non la guardava negli occhi quando parlava. «No» gli rispose fissandolo a sua volta. Sembrava divertito. «Lo sai perché sei qui?» Come sempre fu Megan la Svitata a rispondere per prima mentalmente. Perché sono un casino. Sono disfunzionale. Dissociata. Psicopatica. Schizzata. Lo sa mezza scuola. E hai una vaga idea di cosa cazzo significa camminare per i corridoi con tutti che ti guardano e pensano che gli psichiatri fanno a pugni per potermi curare? Megan la Svitata parla anche di quello che Megan e basta non gli rivelerebbe nemmeno in mille anni: la foto falsa, elaborata al computer, di Megan in camicia di forza che due settimane prima aveva fatto il giro della Jefferson High. Megan e basta invece si limitò a recitare: «Perché se non seguo la terapia mi tocca il riformatorio». Camminando ubriaca sul bordo del serbatoio dell'acquedotto municipale, due mesi prima, aveva commesso un reato. Qualcuno aveva avvertito la polizia della contea, e forse lei aveva spintonato un agente, forse l'aveva menato. Alla fine erano stati tutti d'accordo che, se si faceva vedere da un terapeuta, il procuratore non avrebbe insistito per denunciarla. «Vero. Ma non è questa la risposta.» Lei aggrottò la fronte. «La risposta è che sei qui per sentirti meglio.» Oh, ma per favore!, comincia Megan la Svitata alzando al cielo gli occhi folli. E, okay, erano veramente stupide quelle parole. Ma... ma... c'era qualcosa nel modo in cui le aveva dette. Per un secondo solo, per meno di un secondo, le era sembrato che lui lo pensasse sul serio.Questo tipo era tutta un'altra storia, rispetto al dottor Fallito Toppe ai Gomiti Hanson. Peters aprì la valigetta e ne estrasse un blocco giallo per appunti. Sul tavolo cadde un dépliant. Lei gli diede un'occhiata. Sulla copertina c'era una foto di San Francisco. «Ah-, stai andando lì?» chiese. «Una conferenza» rispose lui sfogliando la brochure. Gliela passò. «Impressionante.» «Adoro questa città» proseguì lui. «Sono un ex hippy. Fan sfegatato dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane... insomma, tutto l'armamentario al completo. Certo, per te è preistoria.» «Invece no. Io vado pazza per Janis Joplin e Jimi Hendrix.» «Davvero? Mai stata nella Baia di Frisco?» «Ancora no. Ma prima o poi ci vado. Mia madre non lo sa. Ma ci vado.» La studiò con gli occhi socchiusi. «Ehi, lo sai che un po' le assomigli?... ajanis Joplin. Se non avessi i capelli tirati su saresti uguale.» Adesso Megan considerò che non farsi quella coda da collegiale era stata una pessima idea. «Tu sei più carina, naturalmente» riprese il dottore. «E più magra. Come te la cavi a cantare il blues?» «Cioè, mi piacerebbe...» «Però gli hippy non te li ricordi.» Fece una risatina. «Fermo là!» esclamò lei piena di entusiasmo. «Ho visto Woodstock, tipo... otto volte.» Rimpianse anche di non aver tenuto il simbolo della pace. «Allora, dimmi: davvero hai cercato di ucciderti? Mano sul cuore.» «Che possa morire!» scherzò Megan. Lui sorrise. «No» disse lei. «Cos'è successo?» «Oh, stavo solo bevendo un po' di Southern Comfort. Vabbe', ci avevo dato dentro di brutto.» «Il preferito della Joplin» commentò lui. «Per me è troppo smielato, cazzo.» Wow, parolacce! Fico. Quasi quasi cominciava a piacerle. Lui le guardò di nuovo i capelli, la frangetta davanti. Poi ancora gli occhi. Era come una delle carezze di Josh. Da qualche parte, dentro di lei, si insinuò un senso di rassicurazione e piacere. Megan proseguì con la sua storia. «E qualcuno ha detto: io manco morto ci salgo là sopra, e io ho ribattuto: invece io sì, e l'ho fatto. Tutto qui. Mi piace rischiare, e allora?» «Okay, quindi i poliziotti ti hanno incastrata per una stronzata.» «Più o meno.» «Non era mica il delitto del secolo.» «È quello che ho pensato anch'io. Ma loro erano così... Hai capito cosa intendo?» «Ho capito» confermò lui. «Adesso raccontami qualcosa di te. La tua storia segreta.» «Be', i miei sono divorziati. Io vivo con Bett. Ha la sua attività, no? In realtà fa la decoratrice, ma lei dice che è una progettista d'interni, perché suona meglio. Tate ha questa fattoria a Prince William. Prima era un avvocato famoso, ma adesso fa solo testamenti e vende case eccetera. Assume della gente che gli manda avanti la fattoria. Mezzadri. A dirlo così sembrano schiavi o roba del genere, in realtà è solo gente che lui assume.» «E i tuoi rapporti con loro, Riccioli d'Oro? Il porridge è troppo caldo, troppo freddo o giusto?» «Giusto.» Annuì e prese un breve appunto sul taccuino. O magari aveva solo fatto uno scarabocchio. Forse lei lo stava annoiando e lui stava scrivendo la lista della spesa. Le cose da comprare dopo l'appuntamento con Megan la Svitata. Lei gli parlò della sua infanzia, della morte dei genitori di sua madre e del nonno paterno. L'unico altro parente a cui volesse bene era la zia Susan, sorella gemella di sua madre. «È una signora carina. Poveretta, gliene sono capitate di tutti i colori. È sempre stata malata. E avrebbe tanto voluto avere
dei bambini, ma non poteva.» «Ah» fece lui. Niente di tutto questo le sembrava importante e immaginava che per lui lo fosse ancora meno. «E che mi dici degli amici?» Si contano sulle dita di una mano, dice Megan la Svitata. Sshhh. «Sono quasi sempre in giro con i goth» disse al dottore. «Sarebbero i dark?» «Mmmm. Solo che...» Poteva dirgli la verità, decise. «Il fatto è che sto... cioè, rimango un sacco di tempo da sola. Vedo gente, ma alla fine penso: chi me lo fa fare? Ci sono un sacco di falliti, là fuori.» «Ah, questo è vero!» rise lui. «È per questo che gli affari mi vanno così bene.» Lo guardò meravigliata. Poi sorrise anche lei. «Come stiamo a ragazzi?» «Ah, qui facciamo in fretta» replicò con una risata amara. «Uscivo con questo tipo, cioè, Joshua... E lui era, cioè, era a posto. Solo che era più grande. E nero. Voglio dire, non era mica uno sfigato. Suo padre è un soldato, tipo un ufficiale del Pentagono. E sua madre è una dirigente di qualche cosa, un pezzo grosso. A me la faccenda della razza mi faceva un baffo. Ma il dottor Hanson diceva che probabilmente mi ero messa con lui solo per far incazzare i miei genitori.» «Ed è vero?» «Boh! Lui un po' mi piaceva. No: mi piaceva proprio.» «Però avete rotto?» «Certo. Il dottor Hanson ha detto che facevo meglio a mollarlo.» «Ha detto così?» «Be', non proprio. Ma ho avuto questa impressione.» Megan la Svitata è convinta che lo Strizza Fico, lo stallone alla George Clooney, si immagina quello che le passa per la testa: Come fa una matta schizzata come me a mettersi con qualcuno? Se non mollavo Josh (e ci ho pianto per due settimane), se non lo lasciavo, a scuola gli saltavano addosso tutti. «Guarda, quello che sta con la fuori di testa!» E poi i suoi l'avrebbero scoperto. Sono le persone più carine dell'universo, innamoratissimi, e ci sarebbero rimasti malissimo... Be', certo che dovevo lasciarlo... «Nessun altro all'orizzonte?» chiese lui. «No.» Scosse la testa. «Okay, parliamo ancora un po' della tua famiglia. Tua madre.» «Bett e io andiamo alla grande.» Esitò. «Però fa un po' ridere... Ha la sua attività, ma crede anche in tutte queste stronzate New Age. Per me anche no, grazie tante. Tutte stronzate! Anche se, bisogna concederglielo, lei non è che mi da il tormento per questo. In realtà non mi da il tormento su niente. Tra noi va alla grande. Alla grande, sul serio. L'unico problema è che è fidanzata con uno sfigato.» «Parlate, voi due, tu e la mamma? Ti confidi con lei?» «Certo... Cioè, voglio dire, lei ha sempre un sacco di cose da fare. Ma tutti hanno da fare, no? Sì, dai, parliamo parecchio.» Sperò che non le chiedesse di che cosa. Avrebbe dovuto inventarselo. «E papà?» Si strinse nelle spalle. «È a posto. Mi porta ai concerti, a fare shopping. Andiamo alla grande.» «Alla grande?» (Megan la Svitata) la sgrida: È l'unica parola che sai, scema? Alla grande, grande, grande... sembri un pappagallo! «Mmmm», disse Megan. «Solo...» «Solo cosa?» «Be', è come se non avessimo molto da dire. Vorrebbe che andassi a fare windsurf con lui. Io una volta ci sono anche andata, ma per me è un modo proprio superficiale di passare il tempo. Preferisco leggere un libro o qualcosa del genere.» «Ti piace leggere?» «Mmmm. Leggo un sacco.» «Chi sono i tuoi autori preferiti?» «Ehm... boh!» Vuoto mentale. Megan la Svitata non è di grande aiuto. Ecco, così pensa che sei proprio un'idiota. Zitta!, ordinò Megan al suo alter ego. Si ricordò l'ultimo libro che aveva letto. «Conosci Màrquez? Sto leggendo L'autunno del patriarca.» Lui inarcò un sopracciglio. «Oh, a me è piaciuto moltissimo.» «No, sul serio. Io...» «L'amore al tempo del colera. La più bella storia che sia mai stata scritta» aggiunse il dottor Peters. «L'ho letto tre volte.» Si sentiva sempre più rassicurata. Guarda caso, era il libro che aveva sul comodino. «Anch'io. Be', io veramente l'ho letto una volta sola.» «Dimmi qualcosa di più su tuo padre» proseguì lui. «Ehm, è ancora piuttosto belloccio. Per uno sui quaranta, voglio dire. Ed è anche abbastanza in forma. Esce con un sacco di donne ma sembra che non riesca a stare con nessuna. Dice che vuole una famiglia.» «Ah, sì?» «Già. Allora perché esce con una di nome Bambi?... Sto scherzando! Ma sembrano tutte delle Bambi.» Risero tutti e due. «Parlami del divorzio.» «Loro due insieme non me li ricordo neanche. Si sono separati quando avevo tre anni.» «Perché?» «Si sono sposati troppo giovani. Così dice Bett. Tipo che hanno preso strade diverse. Mamma era proprio sulle nuvole, tutta presa da questa roba New Age di cui ti ho accennato. E papà era agli antipodi.» «Di chi è stata l'idea del divorzio?» «Di papà, credo.» Il dottore scribacchiò un altro appunto, poi alzò lo sguardo. «Insomma, da uno a dieci quanto ce l'hai con i tuoi?» «Non ce l'ho con loro.» «Davvero?» chiese. Sembrava assolutamente sorpreso. «Sicura che il porridge non è troppo caldo?» «Io voglio bene a loro e loro vogliono bene a me. Andiamo alla... d'accordo. Il porridge è giusto. Ma poi che cazzo è 'sta storia del porridge?» «Non ne ho idea» rispose Peters
sbrigativo. «Dimmi il primo ricordo che hai di tua madre.» «Cosa?» «Svelta! Subito! Dimmelo!» I suoi occhi mandarono lampi. Megan si sentì avvampare. «Io...» «Non fermarti a pensare» le sussurrò. «Di' quel che ti passa per la mente!» «Bett si sta preparando per un appuntamento» sbottò lei. «Si trucca, si guarda allo specchio, scruta una rughina come se, così facendo, potesse farla sparire. Lo fa sempre. Sembra che la cosa più importante del mondo per lei sia la sua faccia. Il suo aspetto, capisci?» «E tu cosa pensi mentre la guardi?» I suoi occhi scuri sembravano ardere. La mente le si bloccò di nuovo. «No, stai esitando. Dimmelo!» «Penso: puttana!» Lui annuì. «Ah, questo sì che è fantastico, Megan.» Lei sentì gonfiarsi d'orgoglio. Non sapeva perché. Ma era così. «Magnifico. Adesso un ricordo di tuo padre. Svelta!» «Orsi.» Sussultò, portandosi una mano alla bocca. «No... Aspetta. Fammi pensare.» Ma il dottore incalzava. «Orsi? Allo zoo?» «No; lascia stare.» «Dimmelo.» Lei scuoteva la testa. No. «Dimmelo, Megan» insistette. «Parlami degli orsi.» «Non è importante.» «Invece sì che è importante» la incalzò sporgendosi in avanti. «Ascolta. Tu sei con me, adesso, Megan. Dimenticati quello che ha fatto Hanson. Io non lavoro come fa lui, non brancolo nel buio. Io vado in profondità.» Lei lo guardò negli occhi e si paralizzò, come un cervo abbagliato dai fari di un'auto. «Non preoccuparti» mormorò lui. «Fidati di me. E cambierò la tua vita per sempre.» Capitolo 2 «Non erano orsi veri.» «Pupazzi?» «Orsi di un racconto.» «E cosa c'è di tanto brutto?» chiese il dottor Peters. «Non lo so.» Megan la Svitata si scatena un'altra volta con il suo sarcasmo. Complimenti, ottimo lavoro, fallita! Hai la bocca troppo larga. Perché hai dovuto dirgli del libro? Ma l'altra parte di lei pensava: Sette settimane di stronzate con il dottor Crapa Pelata Hanson e l'unica emozione era stata la noia. Dieci minuti con il dottor Peters e si sentiva attaccata al filo della corrente. È troppo dura, dice Megan la Svitata. Fa troppo male. Ma naturalmente Bill non poteva sentire M.S. «Continua» la incoraggiò. E lei continuò. «Avevo più o meno sei anni, okay? Ero da Tate per il weekend. Lui vive in una casa grandissima senza nessuno attorno per chilometri. È al centro dei campi di granturco e c'è tanto silenzio, ed è tutto molto, molto sinistro. Io avevo paura, tanta paura. Gli ho chiesto di leggermi una storia, ma lui mi ha risposto che non aveva libri per bambini. Ci ero rimasta proprio male. Ho cominciato a piangere. Tate si è agitato moltissimo ed è andato fuori, nel vecchio granaio, dove mi aveva detto che io non dovevo andare mai. Ed è tornato con un libro. Si intitolava Gli orsi mormorano. Solo che poi è saltato fuori che non era per niente una storia per bambini. In seguito ho scoperto che era un libro di folclore europeo.» «Te lo ricordi?» «Mmmm.» «Raccontamelo.» «È una cosa stupida.» «No» disse Peters, sporgendosi di nuovo verso di lei. «Ci scommetto che è tutto fuorché stupida. Racconta.» «C'era una cittadina sul limitare di una foresta. E tutti quelli che ci vivevano erano felici, okay? Cioè, come in tutte le favole prima che arrivi il cattivo. Gente che cammina per le strade, canta, va al mercato, cena in famiglia. Poi un giorno questi due grossi orsi escono dai boschi e si piazzano alle porte della città a testa bassa e sembra che mormorino qualcosa tra loro. «All'inizio nessuno ci bada, poi pian piano gli abitanti smettono di fare quello che stanno facendo per cercare di sentire cosa dicono gli orsi. Ma non ci riesce nessuno. Quella notte gli orsi tornano nella foresta. La popolazione si raduna e una donna dice che lei sa di cosa mormorano: prendono in giro la gente del paese. E poi tutti cominciano a notare che gli altri camminano in modo ridicolo o parlano in modo ridicolo o hanno l'aria stupida e finiscono per ridere gli uni degli altri, tutti vanno in bestia e in città si scatenano zuffe di ogni genere. «Okay, poi il giorno dopo gli orsi escono di nuovo dal bosco e ricominciano a mormorare, bla bla bla... Hai capito come. E la notte tornano nella foresta. Stavolta è un vecchio a sostenere che sa di cosa parlano: spettegolano sugli abitanti del paese. Così, temendo che tutti gli altri conoscano i loro segreti, se ne vanno a casa e chiudono tutte le finestre e le porte e hanno paura di uscire all'aperto, in pubblico. «Poi, il terzo giorno, gli orsi tornano un'altra volta. E di nuovo succede la stessa cosa, solo che stavolta il duca o il sindaco o qualcuno dice: “Io lo so cosa dicono! Stanno progettando di attaccare il villaggio”. E vanno a prendere le torce per spaventare gli orsi, ma per sbaglio appiccano il fuoco a una casa, il fuoco si diffonde e tutto il paese va in fiamme.» Megan
rabbrividì. Il suo sguardo scivolò sul piano della scrivania; non riusciva a guardare il dottor Peters. «Tate me l'ha letta una volta sola» proseguì, «ma mi ricordo ancora l'ultima riga. Diceva: E lo sai che cosa mormoravano veramente gli orsi? Ma niente, proprio niente. Non lo sai che gli orsi non parlano?» Ma che stronzata, la sgrida Megan la Svitata. Adesso cosa penserà di te? Ma il dottore le chiese, con calma: «E la storia ti sconvolse?». «Mmmm.» «Perché?» «Non lo so. Forse perché tutti si sono rovinati la vita senza ragione.» «Ma una ragione c'era.» Megan si strinse nelle spalle. «La città fu distrutta» spiegò «perché gli abitanti avevano proiettato la loro meschinità, l'invidia, l'aggressività su creature innocenti. Questa è la morale della storia. Come la gente si autodistrugge.» «Immagino di sì. Ma io pensavo solo che non era una storia per bambini. Probabilmente avrei preferito Il Re Leone o La carica dei 101.» Lei sorrise, ma Peters non ricambiò: la scrutò a lungo. «Cos'è successo quando tuo padre ha finito di leggere?» Perché me lo chiede?, si domandò lei con le mani sudaticce. Perché? Megan distolse lo sguardo, facendo di nuovo spallucce. «Non c'è altro. Bett è venuta a prendermi e sono andata a casa.» «Questa è dura, vero Megan?» Non ne hai idea. Zitta!, scattò Megan contro M.S. Guardò il dottor Peters. «Penso di sì.» «Credi che sarebbe più facile scrivere quello che senti? Un sacco di miei pazienti lo fa. Qui c'è la carta.» Megan prese i fogli che lui le indicava con un cenno e li posò sopra un libriccino che il dottore spinse verso di lei perché potesse scrivere. Riluttante, lei prese in mano la penna. Fissò il foglio. «Non so cosa dire.» «Di' quello che senti.» «Non lo so, quello che sento.» «Sì che lo sai.» Si sporse, vicinissimo. «Hai solo paura di ammetterlo.» «Be'...» «Di' tutto quel che ti passa per la mente. Qualsiasi cosa. Di' qualcosa a tua madre, prima. Scrivile. Forza!» Un'altra vampata bollente. Riflettori su Megan la Svitata. «Vai in profondità» sussurrò lui. «Non riesco a pensare!» «Scegli una cosa. Perché sei tanto arrabbiata con lei?» «Non è vero!» «Sì, invece!» Megan strinse i pugni. «Perché...» «Perché?» «Non lo so. Perché... esce con questi ragazzi. È come se pensasse di poterli stregare.» «E con questo?» la sfidò lui. «È libera di uscire con chi le pare. È single. Cos'è che ti fa veramente incazzare?» «Non lo so!» «Sì che lo sai!» la rimbeccò lui. «Be', è solo una donna che lavora e si è fidanzata con un secchione. Non è una principessa delle favole come crede lei. Non è mica una top model.» «E però ha un'immagine esotica, giusto? Perché lo fa?» «Per credersi felice, immagino. Vuole essere giovane e carina in eterno. È convinta che quel cretino di Brad la renderà felice. Ma non è vero.» «E egoista} E questo che vuoi dire?» «Sì!» gridò Megan ormai in lacrime. «Ecco! Di me non gliene frega niente. Sai, quella notte al serbatoio dell'acqua? Lei era da Brad e mi doveva chiamare. Invece non l'ha fatto.» «Chi è Brad? Il suo fidanzato?» «Sì. È andata fin là, a Baltimora, e non ha mai chiamato. Stavano scopando, ci scommetto, e si è dimenticata di me. Proprio come quando ero piccola. Mi lasciava sempre sola.» «Da sola?» «No, c'era qualcuno che mi guardava. Di solito mio zio.» «Quale zio?» «Il marito di zia Susan. La gemella della mamma. È sempre stata molto malata, te l'ho detto. Problemi di cuore. E Bett passava un sacco di tempo con lei all'ospedale, quand'ero piccola. Zio Harris mi faceva da babysitter. Era molto buono, ma...» «Ma sentivi la mancanza della mamma?» «Volevo che stesse con me. Lei diceva che era solo per un po', perché zia Susan stava male davvero. Diceva che lei e Susan erano molto, molto vicine. Nessuno le era più vicino di sua sorella.» Lui scosse la testa, apparentemente inorridito. «Ti ha detto questo? A te? A sua figlia?» Megan annuì. «Avresti dovuto essere tuia, persona più vicina al mondo.» Queste parole le fecero venire un nodo in gola. Si asciugò le lacrime. Faticava a respirare. Infine riprese: «Zia Susan ha fatto di tutto per avere dei figli, ma non poteva. Per via del cuore. E mamma invece era rimasta incinta di me e Susan ci era rimasta veramente male. Per questo passava un sacco di tempo con lei». «Non ci sono scuse per chi trascura i figli. Nessuna. Assolutamente nessuna.» Megan arraffò un Kleenex e si asciugò la faccia. «E tu non ti sei lasciata andare alla rabbia? Perché no?» «Perché mia madre stava facendo una cosa buona. Mia zia è una brava donna. Chiama sempre per chiedere di me e vuole che vada a trovarla. Solo che io non ci vado. Non ci vado perché...» «Perché sei arrabbiata con lei. È stata lei a portarti via la mamma.» Un brivido. «Penso di sì...» «Coraggio, Megan. Che altro c'è? Perché ti senti in colpa?» «Perché mia zia aveva bisogno di mia madre più di me, all'epoca. Quand'ero piccola. Vedi...» Megan la Svitata la interrompe. Oh, non puoi dirglielo! Sì che posso. Posso dirgli tutto!, replicò Megan e basta. «Vedi, zio Harris si è ammazzato.» «Davvero?» «Stava così male per la zia.» «Ma smettila!» scattò lui. Megan lo guardò allibita. «Tu
sei la figlia di Bett. Tu avresti dovuto essere il centro del suo universo. Quello che ha fatto è stato imperdonabile. Dillo. Dillo!» «Io...» «Dillo!» «E stato imperdonabile!» «Bene. Adesso scrivile tutto. Ogni briciola della rabbia che provi. Tirala fuori.» Dal grembo di Megan, la penna rotolò a terra. Lei si chinò a raccoglierla. Pesava un quintale. Le lacrime le scorrevano giù dal naso e dagli occhi sgocciolando sulla carta. «Diglielo» insistette il dottore. «Dille che è egoista. Che ha voltato la schiena a sua figlia per occuparsi invece di sua sorella.» «Ma...» riuscì a mormorare Megan, «... così divento io l'egoista.» «Certo che sei egoista. Eri una bambina, i bambini devono essere egoisti. I genitori esistono per rispondere ai tuoi bisogni. A questo servono. Dille quello che provi.» Le girava la testa: per la corrente elettrica che dagli occhi neri passava nei suoi, per il suo desiderio, per la paura. Per la rabbia... Dopo dieci secondi, le parve, aveva riempito tutto il foglio. Lo lasciò scivolare a terra. Galleggiò come una foglia morta. Il dottore lo ignorò. «Adesso. Tuo padre.» Megan si immobilizzò, scosse la testa. Guardò disperata l'orologio alla parete. «La prossima volta. Per favore.» «No. Adesso. Cos'è che ti fa incazzare?» I muscoli del suo stomaco si erano contratti. «Be', sono incazzata perché... Perché non vuole mai vedermi? Non ha neanche contestato l'accordo per la custodia. Lo vedo solo ogni due o tre mesi.» «Diglielo.» «Io...» «Diglielo!» Si mise a scrivere. Riversò sul foglio tutta la sua furia. Quando la pagina fu piena a metà, la penna rimase a mezz'aria. «Che altro c'è, Megan? Cos'è che non mi hai detto?» «Niente.» «Oh! Cosa mi tocca sentire!?» esclamò lui. «Troppo controllo. C'è qualcosa che non va. Ti stai tenendo dentro qualcosa.» Il dottor Peters aggrottò la fronte. «Gli orsi mormorano. In questa storia c'è qualcosa di importante. Cosa?» «Non lo so.» «Vai là dove fa più male. Andiamo in profondità, ricordatelo. È così che lavoro. Sono il dottor Super Strizza.» Megan la Svitata non ce la fa più. Vorrebbe solo arrotolarsi su se stessa come una piccola pallina di follia e scomparire. II dottore si avvicinò, tirando la sedia accanto a quella di lei. Le loro gambe si sfiorarono. «Forza. Che cos'è?» «No. Non lo so che cos'è...» «Tu vuoi dirmelo. Tu hai bisogno di dirmelo.» Cadde in ginocchio, l'afferrò per le spalle. «Tocca la zona che fa più male. Toccala! Tuo padre ti ha letto quel racconto. Arriva all'ultima riga. Gli orsi non parlano. Mette via il libro. Cosa succede dopo?» Megan si sedette sull'orlo della sedia, tremante, e fissò il pavimento. «Vado di sopra a fare i bagagli.» «Sta venendo a prenderti tua madre?» Gli occhi già ridotti a fessure si chiusero dolorosamente. «È già qui. Sento l'auto sul vialetto.» «Okay. Bett entra in casa. Tu sei di sopra e i tuoi genitori di sotto. Stanno parlando?» «Sì. Stanno dicendo cose che all'inizio non sento, poi mi avvicino. Scendo di soppiatto sul pianerottolo.» «Riesci a sentirli?» «Sì.» «Cosa dicono?» «Non lo so. Cose qualsiasi.» «Cosa dicono?» La voce del dottore riempì la stanza. «Dimmelo!» «Parlano di un funerale.» \ «Un funerale? Di chi?» «Non lo so. Ma c'è qualcosa di brutto. Qualcosa di bruttissimo.» «Ma c'è anche qualcos'altro, vero Megan? Dicono qualcos'altro.» «No!» esclamò disperata. «Solo il funerale.» «Dimmelo, Megan.» «Io...» «Avanti. Tocca dove fa male.» «Tate ha detto...» Megan si sentì svenire. Lottò per controllare le lacrime. «Mi ha chiamata... Parlavano di me. E papà ha detto...» Ingollò grandi boccate d'aria che si trasformarono in fuoco ardente nei polmoni e in gola. Il dottore batté le palpebre, sorpreso, quando lei urlò: «Papà ha gridato: “Sarebbe stato tutto diverso senza di lei, senza quella bambina inopportuna là sopra. Ha rovinato tutto, quella!”». Megan chinò il capo tra le ginocchia e pianse. Il dottore le cinse le spalle con un braccio. Sentì la sua mano accarezzarle la testa. «E cos'hai sentito quando lui le ha detto queste cose?» la incalzò asciugandole via il fiume di lacrime. «Non lo so... ho pianto.» «Avevi voglia di scappare?» «Credo di sì.» «Volevi fargliela vedere, vero? Se è questo che pensa di me, lo sistemo io. Me ne vado. È questo il ragionamento che hai fatto, eh?» Un cenno di assenso. «Volevi andare da qualche parte dove la gente non fosse egoista, dove ti volevano bene, dove avevano dei libri per bambini, per te, dove ti leggevano e ti parlavano.» Megan singhiozzò in un mucchietto di Kleenex. «Diglielo, Megan. Scrivilo. Tiralo fuori, in modo che tu possa guardarlo.» Scrisse finché le lacrime non scesero talmente fitte da impedirle di vedere il foglio. Poi crollò addosso al petto del dottore, singhiozzando. «Brava, Megan» annunciò. «Molto bene.» Lei gli si aggrappò più forte di quanto avesse mai stretto un ragazzo, premendogli la testa contro il collo. Per qualche istante nessuno dei due si mosse. Megan era come paralizzata, nel suo abbraccio disperato. Lui si irrigidì, e per un attimo lei credette che anche il dottore sentisse lo stesso dolore. Megan fece per ritrarsi un poco, per poter guardare il suo volto buono e i suoi occhi neri, ma lui
continuava a tenerla stretta, così stretta che il suo braccio fu percorso da una fitta improvvisa. Un allarmante fiotto di calore le si diffuse in tutto il corpo. Era quasi eccitante. Poi si staccarono. Il sorriso di lei svanì quando vide la strana espressione che si era dipinta sul viso dell'uomo. Gesù, cosa sta succedendo? Il suo sguardo era freddo, il sorriso crudele. A un tratto era un'altra persona. «Cosa c'è?» chiese lei. «Che c'è che non va?» Lui non disse niente. Stava per ripetere la domanda, ma le parole non volevano uscire. Nella bocca gonfia, la lingua si era fatta pesante. Le cascava tra i denti asciutti. Le si annebbiò la vista. Cercò ancora una volta di dire qualcosa, ma non ci riuscì. Lo guardò alzarsi e aprire una borsa di tela, appoggiata sul pavimento dietro la scrivania. Mise via una siringa ipodermica. Si stava infilando dei guanti di lattice. «Cosa stai...» cominciò, poi notò sul suo braccio, lì da dove si irradiava il dolore, un puntolino di sangue. «No!» Tentò di chiedergli cosa stesse facendo, ma le parole svanirono in un balbettio ridicolo. Cercò di urlare. Un sussurro. Lui si accovacciò al suo fianco, le prese la testa tra le mani guidandola verso la spalliera del divano. Megan la Svitata è più che pazza. Lo ama, è terrorizzata da lui, vuole ucciderlo. «Dormi, ora» disse lui con un tono più gentile di quello che aveva mai usato suo padre. «Dormi.» Finalmente, per la droga o per la paura, la stanza si fece buia e lei gli crollò tra le braccia. Capitolo 3 Centotrent'anni prima, per quegli stessi campi, si aggirava Dead Reb. Forse aveva vagato sul medesimo sentiero su cui adesso, sotto la tiepida pioggia d'aprile, si trovava quest'uomo alto e snello. Tate Collier si guardò alle spalle. Per un momento gli era parso di vedere il leggendario fantasma del Confederato che lo fissava da una macchia di arbusti a una cinquantina di metri di distanza. Poi rise tra sé. Si accovacciò tra gli steli e gli involucri delle pannocchie, gli scarti del raccolto dell'anno precedente, e attraversò il campo ispezionando le crepe sottilissime che si erano formate nel condotto di irrigazione; quell'aggeggio avrebbe dovuto distribuire molta più acqua di quella che aveva effettivamente rilasciato negli ultimi tempi. Entro la prossima settimana l'avrebbe fatto riparare, concluse. Si chiese quanto gli sarebbe venuto a costare. Fece un breve giro tutt'intorno, mezzo chinato. Indossava calzoni gessati Brooks Brothers infilati in un paio di galosce giallo fosforescente, perché era arrivato direttamente dal suo studio legale del centro commerciale di Fairfax, in Virginia, dove aveva trascorso un'ora a spiegare a Mattie Howe che querelare per calunnia il «Prince William Advocate», perché aveva riferito del suo arresto mentre guidava in stato di ubriachezza, sarebbe stata una causa persa. L'aveva accompagnata fuori facendo il simpatico e poi era tornato di corsa ai suoi duecento acri di terreno. Si ravviò i ribelli capelli neri che la pioggia gli aveva incollato sulla fronte e guardò l'orologio. Mancava mezz'ora all'arrivo di Bett e Megan. Di nuovo quella stretta allo stomaco al solo pensiero. Lanciò un'altra occhiata dietro di sé, dove aveva scorto l'ombra fugace del soldato fantasma che lo fissava dal mucchio di tralci, kudzu e pini americani. Tate tornò al condotto incrinato ricordando quello che gli aveva raccontato su Dead Reb il nonno, nato Charles William Collier ma noto in tutta la Virginia settentrionale come “il Giudice”. Un giovane soldato semplice, durante l'audace esperimento della Confederazione, si beccò una palla di moschetto tra gli occhi nella prima battaglia, quella di Bull Run. Secondo tutte le leggi della pietà e della fisiologia, essendo in prima linea sarebbe dovuto morire sul colpo; invece aveva semplicemente lasciato cadere il moschetto e si era avviato verso sudest, vagando fino a raggiungere le immense foreste che delimitavano la polverosa (cittadina di Manassas. Qui visse per sei mesi diventando scuro come uno schiavo, bevendo uova e depredando le culle (che si sia nutrito di corpi umani era solo una leggenda, aveva aggiunto il Giudice in una sorta di nota a pie di pagina orale). Dead Reb si rese personalmente responsabile, quell'autunno, della cessazione di ogni traffico a piedi dopo il tramonto all'interno dei boschi di Centreville, finché non fu trovato nudo e questa volta morto per davvero, seduto ben dritto al centro di quello che allora era noto come Jackson's Corner, e che adesso era parte integrante della fattoria di Tate Collier. Be', niente fantasmi, qui, adesso, rifletté Tate. Solo una trentina di metri di tubature da sostituire. Si rialzò e asciugò il vetro dell'orologio. Venti minuti e sarebbero arrivate. Su, datti una calmata, si disse. Rilassati. Attraverso la pioggerellina sottile Tate intrawedeva, a un chilometro e mezzo di distanza, la casa che si era
costruito diciotto anni prima. Una Tara in miniatura, con tanto di colonne doriche, candida come una nuvola. Era l'unica concessione che Tate si era fatto in tutta la vita: pagata in parte con un'eredità e per il resto con la speranza del denaro che sarebbe certamente piovuto addosso al giovane procuratore grazie al suo fascino e al suo spirito brillante, anche se tutti sanno che lo stipendio di un procuratore distrettuale è tutt'altro che da favola. La casa con le sue sei camere da letto ancora gemeva, gravata da un mutuo pesantissimo. Vent'anni prima, quando il Giudice aveva lasciato quella fertile terra pedemontana a Tate, saltando suo padre per ragioni mai spiegate benché note a tutti i membri della famiglia Collier, il giovane avvocato aveva subito deciso che su quella terra avrebbe costruito la sua casa (l'abitazione del Giudice non sorgeva sul terreno della fattoria bensì a Fairfax, a una dozzina di chilometri di distanza). Tate tenne a riposo per una stagione un fazzoletto di due acri su cui l'anno successivo cominciò a gettare le fondamenta. La casa sorgeva tra due granai - uno nuovo e quello originario - in mezzo a uno scosceso prato erboso con chiazze di margheritone selvatiche, trifoglio ed erbe della pampa, un boschetto di noci bianchi, una splendida betulla americana e alcuni pini bianchi. Un misterioso, piacevole vento gli scrollò l'impermeabile. Chiuse due bottoni e lo sguardo gli cadde sulla casa, dove vide spegnersi una luce al piano di sotto. Dunque, Megan era arrivata. Doveva per forza essere lei: Bett non aveva le chiavi. Nessuna speranza di annullare tutto, ormai. Be', quando uno vive a cinque chilometri da un campo di battaglia della Guerra civile impara ad apprezzare la persistenza del passato. Lanciò un'ultima occhiata alla tubatura incrinata e si avviò verso casa con i pesanti stivali che affondavano nei campi incolti. Come Dead Reb. No, rifletté: niente di tanto drammatico. Piuttosto, come il quarantaquattrenne introverso che era diventato. L'entimema è un tipo di argomentazione utilizzato nei dibattiti formali. È un sillogismo («Tutti i gatti vedono al buio. Midnight è un gatto. Dunque, Midnight vede al buio»), ma di tipo ellittico, in quanto tralascia una delle premesse logiche («Tutti i gatti vedono al buio. Dunque, Midnight vede al buio»). I retori esperti e gli avvocati come Tate Collier si basano spesso su questo accorgimento nelle loro argomentazioni e nelle arringhe in tribunale. L'entimema però funziona solo quando c'è un'intesa comune tra l'avvocato e il pubblico. Tutti devono capire che l'anuw in questione è un gatto. Devono cioè disporre dell'informazione mancante perché la logica tenga. Tate pensò che lui, la sua ex moglie e Megan in pratica non avessero nessuna intesa comune. I pensieri di Betty Susan McCall gli erano del tutto estranei, come i suoi lo erano a lei. Se si esclude la sconcertante riapparizione della sua ex moglie sette settimane prima, con la notizia che Megan ubriaca si era arrampicata sulla torre del serbatoio, erano quasi due anni che non la vedeva e le conversazioni al telefono si limitavano a faccende pratiche riguardanti la ragazza e a qualche residua questione economica rimasta in sospeso tra persone divorziate da quindici anni. Quanto a Megan... Chi mai può dire di conoscere una diciassettenne? La sua mente era un bersaglio mobile. L'unica cosa che diceva a proposito delle sedute psicologiche era: «La terapia è, capito, roba da falliti. Okay?», e poi si rimetteva le cuffie del walkman. Non si aspettava che quel giorno sarebbe stata più comunicativa o più eloquente. Avvicinandosi alla casa notò che tutte le luci all'interno erano state spente. Ma quando raggiunse la fine del campo si accorse che nel vialetto non c'erano né la macchina di Megan né quella di Bett. Aprì la porta chiusa a chiave, entrò in casa; percepì solo l'eco di un ambiente deserto. Vide le chiavi di Megan sul tavolino dell'ingresso e vi depose accanto le sue, mentre scrutava l'atrio nella penombra. L'unica illuminazione di quello spazio cavernoso proveniva dalle sue spalle, la luce biancastra dell'esterno che filtrava dalla soglia. E cos'era quel rumore? Un suono come di qualcosa di bagnato e viscoso arrivava da qualche parte al primo piano. Era ripetitivo e accompagnato da un lieve, famelico ansito. Un brivido di paura gli fece rizzare i peli sul collo. «Megan?» Il rumore si interruppe per un attimo. Poi, con una specie di rantolo gutturale, riprese come prima. C'era della disperazione, in quel rumore. Gli si contorse lo stomaco, il sudore gli pizzicava la pelle. E quell'odore... qualcosa di pungente e metallico. Sangue! «Megan!» chiamò di nuovo. Ormai spaventato, si addentrò nella casa. Il rumore cessò, ma l'odore divenne più forte, si fece quasi nauseante. La prima cosa che pensò fu come difendersi. Aveva una pistola, ma era chiusa a chiave nel granaio, non c'era tempo di andarla a prendere. Irruppe allora nello studio, afferrò un tagliacarte dalla scrivania, accese la luce. E si fece una grassa risata. La sua dalmata di due anni, stesa sul pavimento, gli dava la schiena ed era tutta intenta a masticare
qualcosa. Tate posò il tagliacarte sul mobile bar e si avvicinò alla dalmata. Il sorriso svanì. Che roba è? Strizzò gli occhi per esaminare meglio. A un tratto, con un ringhio selvaggio e rabbioso, la cagna si girò e scattò contro di lui come per aggredirlo. Scioccato, con un sussulto Tate fece un balzo indietro e andò a sbattere con il gomito contro lo spigolo di un tavolino. Con la stessa rapidità l'animale gli voltò di nuovo le spalle per tornare al suo trofeo. Le girò attorno, poi si fermò. Tra le zampe insanguinate l'animale teneva un osso con ancora attaccati dei filamenti di carne. Tate fece un passo avanti. Il muso della cagna oscillò con aria minacciosa, le pupille scintillarono di odio avido. Un ringhio feroce gorgogliò dalla gola e le labbra nere si ritrassero a rivelare i denti insanguinati. Gesù... Che roba è?, si chiese Tate a disagio. Forse il cane aveva catturato qualche animale che era entrato in casa? Era ridotto così male che non si capiva che cos'era stato. «No!» ordinò Tate. Ma la cagna continuò a difendere il suo bottino; un altro ringhio rasposo. «Qui!» L'animale abbassò la testa e riprese a masticare sogguardando il padrone con occhi malevoli. L'osso si ruppe con uno schianto sonoro. «Qui!» Nessuna reazione. Tate perse la pazienza e le girò attorno, prendendola per il collare. La bestia fece un balzo frenetico e lo aggredì scoprendo i denti. Tate si ritrasse appena in tempo per salvarsi le dita. Adesso riusciva a vedere l'oggetto insanguinato. Sembrava uno stinco di manzo. Il padrone dell'allevamento in cui aveva comprato la cagna gli aveva detto che gli ossi erano pericolosi, perciò lui non li comprava mai. Ipotizzò che Megan fosse andata a fare la spesa prima di arrivare e ne avesse preso uno. A volte le comprava qualche bastoncino da rosicchiare o dei giocattoli di gomma. Tate batté in ritirata strategica e uscì di soppiatto in corridoio. Avrebbe atteso che l'animale si addormentasse per buttar via quello schifo. Si diresse alle scale del seminterrato che portavano alla sala hobby. L'aveva voluta per le feste di famiglia e per i party con gli amici che intendeva ospitare, gente raggruppata attorno al tavolo da biliardo, amici che indugiavano al bar a bere Daiquiri e a mangiare pollo alla griglia. Niente di tutto questo finora, ma spesso, nei weekend che passava da lui, Megan spariva giù in quelle oscure catacombe. Scese le scale e fece il giro delle stanzette buie. Di Megan, nessuna traccia. Si fermò, tendendo l'orecchio. Da sopra arrivavano ancora i grugniti della bestia, frenetici e minacciosi. «Megan, sei tu?» La sua possente voce baritonale rimbombò nel vuoto. Adesso era arrabbiato. Megan e Bett erano già in ritardo di venti minuti. Lui si era preso il disturbo di invitarle, facendo il suo dovere di padre, e questa era la ricompensa... Tutt'a un tratto i grugniti si fermarono. Tate attese di sentire i passi al pianterreno, ma niente. Salì le scale e uscì di nuovo sotto la pioggerellina. Si diresse al vecchio granaio, entrò chiamando Megan. Nessuna risposta. Si guardò attorno in quell'ambiente spettrale. Frustrato, raddrizzò una pila di vecchie copie del «Wallaces' Farmer» che erano cadute e diede un'occhiata alla parete: una targa bisunta e incorniciata riproduceva un detto di Seaman Knapp, il funzionario che a cavallo dei due secoli aveva organizzato il programma di modernizzazione dell'agricoltura. Il nonno di Tate aveva copiato l'edificante epigramma nella stessa, elegante e meticolosa calligrafia con cui aveva compilato i registri della fattoria e scritto i memorandum legali per consegnarli alla segretaria che li batteva a macchina. L uomo può dubitare di quel che sente. A volte può dubitare di quel che vede. Ma su quello che fa non può avere dubbi. «Megan?» chiamò di nuovo uscendo all'aperto. Poi lo sguardo gli cadde sulla vecchia panca da picnic e gli tornò in mente il funerale. No, si disse. Non cominciare. Il funerale è stato secoli fa. È un ricordo più morto del Soldato Morto e, se lo tiri fuori, poi te ne pentirai. Ma naturalmente ci pensò lo stesso. Lo rivide, lo sentì, ne assaporò il ricordo. Il funerale. La panca da picnic, lanterne giapponesi, Bett, e Megan che aveva appena tre anni... Rivide il mucchio di dolcetti di Halloween sistemati sul prato, una calda giornata di novembre di molto tempo fa... Non ci pensava da anni, ma poi, due mesi prima, Bett si era presentata alla porta con la notizia di Megan e del serbatoio dell'acqua. Ma su quello che fa non può avere dubbi... La pioggia ricominciò a cadere sul serio. Tornò di corsa in casa, salì al secondo piano e guardò nella cameretta di sua figlia. Poi nelle altre. «Megan?» Non era neanche lì. Ridiscese. Andò al telefono. Ma non sollevò il ricevitore. Rimase seduto sul divano del salotto ad ascoltare il suono soffocato dei denti della cagna che nella stanza accanto rosicchiava il suo osso. Il dottor Peters «<• o meglio, il dottor Aaron Matthews -filò via dalla fattoria di Tate Collier sulla Ford Tempo di Megan. Gli tremavano le mani e aveva il fiatone. C'era mancato pochissimo. Non sapeva perché Collier fosse tornato a casa, quella mattina. Restava
sempre in ufficio, il sabato. O quantomeno l'aveva fatto tutti i sabati degli ultimi tre mesi. Dalle dieci alle quattro. Un orologio. Ma quel giorno no. Quando Matthews era arrivato alla fattoria - con Megan nel baule - il ritorno inatteso dell'avvocato l'aveva preso in contropiede. Per fortuna si era diretto verso i campi. Appena fuori dalla visuale aveva parcheggiato in un sentiero bloccato dai cespugli, parallelo al vialetto di Collier, a una ventina di metri dalla casa. Poi si era introdotto di soppiatto, usando le chiavi di Megan. Aveva gettato uno stinco di manzo alla dalmata per tenerla occupata mentre faceva quello per cui era venuto. Era riuscito a tornare di corsa alla Tempo proprio mentre Collier rientrava. E comunque la cosa lo irritava. Era un cattivo presagio. Uno psicoterapeuta, uscito da Harvard come lui, per formazione non poteva accettare l'esistenza della fortuna: eppure a volte, come in questo caso, bastava appena un'ombra di superstizione per gettarlo nel calderone del malumore. Matthews soffriva di sindrome bipolare, quella che un tempo veniva definita sindrome maniacodepressiva. Per portare a termine il rapimento aveva dovuto sospendere i farmaci; non poteva permettersi gli effetti sedativi delle dosi elevate di Prozac e di Wellbutrin che prendeva di solito. Per fortuna, una volta che il suo sangue si era ripulito dai medicinali, si era trovato nella fase maniacale ed era riuscito senza difficoltà a concentrarsi per diciotto ore al giorno nel pedinamento di Megan e nell'elaborazione del piano. Con il passare delle settimane però aveva cominciato a temere la fase di caduta. Sapeva per esperienza che bastava pochissimo a spingerlo oltre il confine, verso un letargico abisso di depressione. Ma adesso l'impatto dello scampato incontro con Collier stava svanendo, e lui tornò allegro e spensierato come un bimbo. Accelerò per immettersi nell'Interstatale 66, diretto verso est - verso Vienna Metro, Virginia. A soli venticinque chilometri a ovest di Washington, la gigantesca stazione era sempre piena di pendolari. Nonostante fosse sabato mattina, il parcheggio era pieno di macchine: la gente aveva preso il treno per andare in città a visitare monumenti, musei e gallerie. Matthews portò la macchina di Megan fino al punto in cui aveva lasciato la Mercedes grigia. Scese e si guardò attorno. Vide soltanto un'altra auto con qualcuno a bordo: una famigliare bianca, ferma diverse file più in là. Non riusciva a vedere l'autista con chiarezza, ma uomo o donna che fosse non sembrava rivolto nella sua direzione. Tirò fuori in fretta dal baule della Tempo il fagotto a cui era ridotta Megan per trasferirla in quello della Mercedes. Osservò la ragazza rannicchiata in posizione fetale, priva di sensi, legata con delle funi. Era pallidissima. Le premette una mano sul petto per accertarsi che il respiro fosse regolare. Era preoccupato per lei. In Virginia non era più autorizzato a esercitare la professione e non poteva prescrivere ricette: per tramortire la ragazza aveva fatto incetta di fenobarbiturici, chiedendoli a un veterinario. Gli aveva detto che uno dei suoi rottweiler aveva le convulsioni. Aveva miscelato il farmaco con acqua distillata, senza però essere certo della concentrazione. La ragazza dormiva profondamente, ma sembrava che la respirazione fosse normale, e quando le sentì il polso il ritmo era accettabile. Posò tra i sedili anteriori della Tempo l'orario ferroviario sgualcito che Megan aveva usato come base su cui scrivere le lettere ai genitori e che adesso recava le sue impronte (e solo le sue: lui si era premurato di infilarsi i guanti prima di maneggiarlo). Aveva cerchiato tutti i treni per New York che circolavano il sabato. Il suo approccio al rapimento era lo stesso che avrebbe adottato, un tempo, per il trattamento di un paziente gravemente disturbato: considerando in modo meticoloso ogni singolo dettaglio. Aveva rubato la carta da lettera dalla camera di Megan a casa di Bett McCall. Aveva trascorso molte ore nella sua camera, mentre sua madre era al lavoro e la ragazza a scuola. Era stato così che aveva raccolto elementi importanti sulla sua personalità: osservando i tre poster di Janis Joplin, la lampada fluorescente, il libro di Màrquez, i biglietti ricevuti dai compagni infarciti di «vaffanculo» e «sbronza» (Matthews aveva scritto un articolo epocale per la rivista dell'Associazione degli psichiatri americani su come gli adolescenti alzano o abbassano inconsciamente le loro barriere emotive rispetto ai terapeuti in base all'uso della grammatica e del linguaggio di questi ultimi). Nella seduta di quella mattina si era accorto che le imprecazioni che lui aveva usato avevano aperto la psiche della ragazza come un mazzo di chiavi. Era stato molto attento a non lasciare tracce della sua irruzione né nella casa di Bett McCall né in quella della madre del dottor Hanson, a Leesburg. Quello era stato il problema più grosso: togliersi Hanson dai piedi per tutta la settimana, ma senza fare qualcosa di troppo ovvio - per quanto allettante - come tirarlo sotto con la macchina. Facendo delle ricerche su di lui aveva scoperto che
aveva una fragile mamma che viveva nella cittadina a nordovest di Washington. Mercoledì sera Matthews aveva allentato il primo gradino che dal portico di casa sua portava al cortiletto sul retro. Poi aveva telefonato, fingendo di essere un vicino e le aveva chiesto di andare, appunto, nel cortile, perché c'era un cane ferito. Sulle prime lei era parsa sconcertata e riluttante a uscire con il buio, ma gli erano bastati pochi minuti per convincerla. Anzi, l'aveva quasi ridotta alle lacrime per quella povera bestiola. Era scivolata giù per le scale dritta fino al marciapiede. La caduta sembrava piuttosto grave e per un attimo Matthews si preoccupò: se fosse morta, Hanson avrebbe potuto fissare il funerale tra una seduta e l'altra. Ma all'arrivo dei paramedici capì che si trattava solo di un paio di fratture. Dopo che Hanson ebbe lasciato un messaggio per annullare l'appuntamento, il dottor Matthews aveva richiamato Megan per dirle che gli sarebbe subentrato con alcuni pazienti. Mise in moto la Mercedes e scambiò di posto le macchine: quella di Megan nello spazio che aveva occupato la sua. Infine, sfrecciò fuori dal parcheggio. Esaminò il suo stato d'animo e si trovò di ottimo umore. Nessuna traccia della paralisi, della rabbia e del dispiacere che potessero evocare le allucinazioni che lo avevano afflitto fin da giovanissimo. L'unico indizio di nevrosi era del tutto comprensibile: Matthews si scoprì a parlare in silenzio con Megan, a ripetere le cose che le aveva detto durante la seduta e quello che lei aveva detto a lui. Un po' ossessivo. Ma come ripeteva spesso ai suoi pazienti: E con questo? Infine con la Mercedes imboccò la rampa che immetteva nella 1-66, esattamente a centotrentacinque chilometri all'ora, diretto verso le montagne lontane. Verso la nuova casa di Megan. Capitolo 4 La donna entrò nella casa di cui era stata la padrona per tre anni e sostò nell'atrio a volta in stile gotico come se non avesse mai visto prima quel posto. «Bett» disse Tate. Si fece avanti con passo incerto, offrendo all'ex marito un sorriso formale. Si fermò nuovamente sulla soglia dello studio. La dalmata alzò gli occhi e ringhiò. «Ossignore, Tate...» «Megan le ha dato un osso. È un po' protettiva. Andiamo dentro.» Chiuse la porta dello studio ed entrambi si spostarono in salotto. «Le hai parlato?» chiese lui. «A Megan? No. Ma dov'è? Non ho visto la macchina.» «È stata qui. Ma se n'è andata. Non so perché.» «Ha lasciato un biglietto?» «No. Ma ci sono qui le sue chiavi.» «E allora?» Bett tacque. Tate incrociò le braccia e rimase qualche istante a dondolarsi sul tappeto. Poi andò alla finestra, a guardare il granaio attraverso la pioggia. Si girò di nuovo. «Caffè?» chiese. «No, grazie.» Bett sedette sul divano, accavallò le gambe snelle avvolte dai jeans neri aderentissimi. Indossava una camicetta di seta nera e un elaborato girocollo d'argento, con pietre viola e nere. Sedette in silenzio per alcuni secondi, poi si alzò per studiare l'elegante caminetto costruito da Tate parecchi anni addietro. Accarezzò la struttura in muratura e con un'unghia rosa pallido grattò un po' la pietra. Strizzò appena gli occhi per studiare meglio la mensola. «Bello» commentò. «La pietra grezza costa.» Tornò a sedersi. Dall'altra parte della stanza, Tate studiò lei. Con il suo lungo viso preraffaellita e la massa disordinata di capelli rossi, da strega, Betty Susan McCall aveva un'aria esotica. Qualcosa che raramente la Virginia poteva offrire: un'enigmatica bellezza celtica. Il Sud è pieno di tentatrici, di cowgirl lussuriose, ha matriarche in abbondanza ma pochissime fattucchiere. Bett adesso era una donna d'affari, ma Tate Collier era convinto che dietro quella facciata restasse la misteriosa giovane donna che aveva visto per la prima volta in un appartamento pieno di fumo, ventitré anni prima, alla periferia di Charlottesville mentre intonava una canzone folk. Si era esibita in un canto da cacciatori di balene, con la sua voce esile e ansimante. Ma erano trascorsi ormai secoli da quando una donna lo aveva intrappolato in quel modo e adesso stava molto in guardia. Gli tornarono in mente decine di ricordi del periodo del divorzio, momenti deprimenti e inquietanti. Si chiese come avrebbe potuto mantenere le distanze da lei finché non si fosse risolto questo pasticcio famigliare. Gli occhi di Bett avevano finito di esaminare il caminetto e i mobili della sala da pranzo e adesso stava passando in rassegna la carta da parati e gli stucchi. Lo sguardo di lui seguì quello di lei. Ne concluse che il posto le appariva poco accogliente e troppo severo. Ci volevano più tappezzerie, più cuscini, più fiori, tende nuove, colori più vivaci alle pareti. Si sentì in imbarazzo. Dopo alcuni minuti, Bett disse: «Be', se la macchina non c'è più, si vede che è uscita a prendere
qualcosa». «Probabile.» Due ore dopo, nessuno dei due aveva ricevuto messaggi sul telefono e Tate contattò la polizia. La prima cosa che Tate notò fu il modo in cui Konnie guardava Bett. Con approvazione. Come se pensasse che l'avvocato si fosse finalmente deciso a fare sul serio: basta, con le giovani bionde. Ed era anche ora, per la miseria! Questa era sui quaranta, molto carina. Pelle liscia. Occhi vivaci e aria intelligente. Dimitrij Konstantinatis, il detective della polizia della contea di Fairfax, una volta aveva osservato: «Tate, perché tutte le donne con cui esci hanno la metà dei tuoi anni e, fammi calcolare, un terzo della tua intelligenza? A dir tanto. Come inai, avvocato?». Konnie entrò a grandi passi nella stanza, la mano tesa verso di lei. La vigorosa stretta di mano stupì la donna, mentre Tate faceva le presentazioni. «Bett, la mia ex moglie. E questo è Konnie. Konnie è un vecchio amico, dai tempi in cui lavoravo per la pubblica accusa.» «Piacere.» Ops, diceva invece l'espressione delusa del poliziotto. Dunque, questa è la ex. Farsela scappare è stato un grosso errore, mister. Il detective lanciò un'occhiata a Tate. «Allora, avvocato. Tua figlia è in ritardo per il pranzo, giusto?» «Manca da più di due ore.» «Ti agiti troppo, Tate» osservò puntandogli contro l'indice. E poi, a Bett: «Lo vede questo tizio? Il procuratore più cacasotto di tutto lo Stato. La sera dovevamo accompagnarlo fino alla macchina». «Io almeno la macchina riuscivo a trovarla» ribatté Tate. Uno dei motivi per cui a Konnie piaceva Tate era che l'avvocato scherzava sul fatto che beveva. Adesso che stava smettendo - non toccava alcol da quattro anni - nessuno osava fare battute con lui sulla faccenda, a parte Tate Collier. Ma del resto nessun altro al mondo sapeva che cosa il poliziotto rispettava più di tutto: la gente con le palle. Bett fece un sorriso incerto. Quei due avevano lavorato spesso insieme, quando Tate era un dipendente statale. Per i primi sei mesi del loro rapporto professionale, il serissimo e taciturno detective aveva mantenuto le distanze senza mai fargli la minima confidenza personale. Poi un serial killer che avevano arrestato e portato insieme in tribunale era stato condannato alla «libertà vigilata orizzontale», come veniva chiamata in gergo la pena capitale. Quella sera, a mezzanotte, Konnie, completamente ubriaco, aveva abbracciato Tate dicendo che quel caso li aveva resi fratelli di sangue. «D'ora in poi siamo legati.» «Legati? E questa che razza di stronzata da frodo sdolcinato sarebbe?» aveva tuonato un Tate altrettanto sbronzo. Da allora erano stati amici fraterni. Si sentì bussare di nuovo alla porta principale. «Forse è lei» disse Bett in tono ansioso. Ma quando Tate aprì la porta a entrare fu un tipo dai capelli a spazzola, vestito con un completo grigio a buon mercato dal taglio non proprio impeccabile. Rimase impettito, guardando Tate negli occhi. «Signor Collier. Sono il detective Ted Beauridge. Polizia della contea di Fairfax. Sezione Minori.» Tate lo fece entrare e lo presentò a Bett, mentre Konnie stava armeggiando con il tasto della tv per cambiare canale. Sembrava affascinato dal televisore senza telecomando. Beauridge era cortese ed efficiente, ma era chiaro che non aveva nessuna voglia di essere lì. Konnie era l'unico motivo per cui la scomparsa di Megan richiamava una qualche attenzione. Quando Tate aveva telefonato, Konnie gli aveva spiegato che era troppo presto per sporgere denuncia. Dovevano passare almeno ventiquattr'ore, a meno che l'individuo in questione non avesse meno di quindici anni, avesse un handicap mentale o versasse in condizioni di pericolo. Ma Konnie aveva chissà come “dimenticato per sbaglio” di farsi dare il benestare del suo capo e aveva lanciato una ricerca per la macchina di Megan. Aveva fatto anche controllare tutti i ricoveri ospedalieri anonimi negli ospedali della zona. Tate guidò entrambi in salotto. «Gradite un po' di caffè o...» chiese Bett. La voce le si spense e fece una risatina imbarazzata guardando Tate. Sicuramente si era ricordata che quella non era casa sua da molto, moltissimo tempo. «Niente, grazie signora» rispose Beauridge a nome di entrambi. Nel tempo che Konnie ci aveva messo ad arrivare, Bett aveva contattato alcune amiche di Megan. La ragazza aveva passato la notte a casa di Amy Walker. Bett l'aveva chiamata per prima, ma non aveva risposto nessuno. Aveva lasciato un messaggio sulla segreteria dei Walker e poi aveva telefonato alle altre ragazze. Brittany, Kelly e Donna non avevano né visto né sentito Megan, quel giorno. Non sapevano se aveva dei progetti, se non forse passare più tardi al centro commerciale. «Così, cioè, tanto per fare qualcosa, tipo.» Konnie chiese a Tate e a Bett che abitudini avesse la ragazza il sabato. «Di solito ha una seduta di terapia, il sabato mattina» spiegò Bett. «Alle nove. Ma oggi il dottore l'ha dovuta annullare. Stava male sua madre, o qualcosa del genere.» «È possibile che si sia dimenticata del pranzo?» «Gliel'ho ricordato ieri, quando ci siamo parlate.» «Di solito è puntuale?» chiese Beauridge. Tate non avrebbe
saputo dirlo. Quando la portava a fare shopping o a cena al Ritz, a Tysons, era sempre arrivata in orario. Glielo disse. Bett precisò che rispettava gli appuntamenti, e comunque non avrebbe mai saltato quel pranzo. «Perché è tanto che non ci ritroviamo tutti e tre insieme e tutto il resto» aggiunse con un risolino strano. «E che mi dite dei ragazzi?» chiese Konnie. «Non aveva...» cominciò Tate. Si bloccò per l'occhiata di Bett. E si rese conto che non aveva idea se Megan avesse o meno un ragazzo. «Ce l'aveva, ma il mese scorso hanno rotto» rispose quindi Bett. «È stata lei a rompere?» «Sì.» «E secondo lei questo ragazzo è un problema?» domandò Konnie strofinandosi la mascella. «Non credo. Sembra molto carino. Un tipo tranquillo.» Come Ted Bundy, pensò Tate. «Come si chiama?» «Joshua LeFevre, uscito con lode dalla George Mason.» «Ha già finito il college?» si informò Tate. «Be', sì» rispose lei. «Bett, ha solo diciassette anni. Voglio dire...» «Tate» continuò lei, «è un ragazzo perbene. Sua madre è una dirigente dell'Electronic Data Systems, suo padre è di stanza al Pentagono. E Josh è un atleta di spicco. È anche capo dell'Associazione degli studenti neri.» «Di cosa?» «Tate!» «Be', sono solo stupito. Voglio dire, non che abbia importanza.» Bett si strinse nelle spalle in un gesto di esasperazione. «Davvero» si giustificò Tate sulla difensiva. «Ero solo...» «... stupito» ripeté Konnie con una certa ironia. «Ha parlato il campione delle libertà civili.» «Ha il suo numero?» Bett non ce l'aveva, ma se lo fece dettare dal servizio informazioni e lo chiamò. Rispose, a quanto pareva, uno dei suoi compagni di stanza. Joshua era fuori. Lasciò detto di contattarla appena rientrava. «Dunque. È stata qui e poi se n'è andata. Nessun segno di lotta?» Konnie si guardò attorno nell'ingresso in cerca di qualche traccia. «Nessuno.» «Gli allarmi?» «Li avevo staccati.» «C'è un tasto panico che avrebbe potuto premere se ci fosse stato qui dentro qualcuno che l'aspettava?» «Sì. E lei sa dov'è.» «Ha lasciato qui le chiavi di casa» li informò Bett. «Quelle della macchina invece le ha con sé.» «È possibile che le abbiano rubato la borsa, abbiano preso le chiavi e siano entrati con quelle?» Tate ci rifletté. «Forse. Ma sulla patente c'è l'indirizzo di Bett. Come faceva un ladro a sapere di dover venire qui? Magari aveva il mio indirizzo scritto da qualche parte, ma non saprei proprio dove. Tra l'altro a prima vista non manca niente.» «Non mi pare ci sia granché da rubare» commentò Konnie guardando il misero apparato per l'intrattenimento. «Lo sai, avvocato, che oggigiorno esistono televisori più grandi di una scatola di cereali?» Tate fece un grugnito. «Okay. Che ne direste di farmi vedere la sua camera?» domandò il detective. Mentre Tate li accompagnava di sopra, Beauridge cominciò con la sua voce morbida e strascicata: «Di sicuro non c'è motivo di preoccuparsi, signora Collier...». «Mi chiamo McCall.» Al primo piano Tate guidò Konnie nella camera di Megan, poi andò nella sua. Prima, quando aveva fatto il giro, non aveva notato una cosa: il cassetto del comò era aperto. Guardò dentro, aggrottò la fronte, poi osservò il corridoio mentre il detective controllava la stanza della ragazza. «C'è qualcosa di strano» lo avvertì. «Tienilo per dopo» rispose Konnie. Con movimenti sorprendentemente agili per un uomo così grosso, si inginocchiò per cercare in quelli che di solito si rivelavano i nascondigli tipici degli adolescenti: sotto i cassetti della scrivania, sotto i cassettoni, nel cestino della carta straccia, sotto i letti, tra le tende, tra i cuscini e in mezzo alle trapunte. «Ah, cosa abbiamo qui?» Konnie si rimise in piedi e studiò due fogli di carta. Indicò i cassetti aperti del comò e l'armadio spalancato. «Quei cassetti sono quasi vuoti. Non ci tiene i suoi vestiti?» Tate esitò, un'espressione preoccupata sul volto. «Sì, dovrebbero essere pieni.» «Sei in grado di stabilire se manca qualche valigia?» «Valigie? No... Aspetta. Manca il suo vecchio zaino.» Tate si fermò un attimo a ragionare. Perché avrebbe dovuto prenderlo?, si chiese. Guardando i fogli di carta, Tate chiese al detective: «Cos'hai trovato?». «Tranquillo, avvocato» disse Konnie ripiegandoli. «Andiamo di sotto.» Capitolo 5 Cosa farebbe Sidney Poitier? Joshua LeFevre sistemò il suo corpo muscoloso sull'inadeguato sedile della Toyota e premette con più forza sul pedale dell'acceleratore. Il piccolo motore si lamentò, mentre accorciava la distanza che lo separava dalla Mercedes. Andiamo, Megan. Che cazzo hai in mente? Strizzò gli occhi, sporgendosi in avanti come se avvicinarsi di dieci centimetri alla Benz gli permettesse di fare chiarezza nella confusione che aveva in testa. Dava per scontato che fosse
l'uomo a guidare, non Megan, ma non ne era certo. Questa convinzione gli dava un briciolo di conforto. Per qualche motivo, il pensiero del tizio che lanciava a Megan le chiavi del suo macchinone da medico dicendole «Guida tu, tesoro» lo irritava oltre ogni dire. Lo faceva infuriare. Spinse l'auto un po' più veloce. Sidney Poitier... Tu cosa faresti? Joshua aveva dieci anni, quando aveva visto La calda notte dell'ispettore Tibbs. Alla tv, naturalmente: quando il film era uscito, negli anni Sessanta, il suo futuro padre faceva le flessioni a Fort Dix e la sua futura madre ascoltava Smokey Robinson e Diana Ross, mentre studiava per assicurarsi il massimo dei voti alla National Cathedral School. L'ispettore Tibbs, il personaggio interpretato da Poitier, finiva incastrato in una piccola cittadina del Sud a scontrarsi contro il bellimbusto del posto, lo sceriffo Rod Steiger. Doveva muoversi lentamente, con cautela, risolvere un delitto a piccoli passi... Senza lasciarsi innervosire, senza farsi sopraffare dalla rabbia di fronte alle carognate degli abitanti locali. Certo, il film rappresentava l'idea hollywoodiana dei rapporti razziali, non è che fosse davvero coraggioso. Era piuttosto all'acqua di rose, ma anche a dieci anni Joshua LeFevre capì che il fulcro del film non era sui bianchi e i neri. Ma sulla determinazione e la tenacia dei veri uomini. Quel film lo lasciava senza fiato, come fanno sempre i film davvero importanti, quelli che ci forniscono i modelli di ruolo, sia che li vediamo per la prima volta o per la centesima. Ah, certo, Joshua Nathan LeFevre laureato in letteratura inglese con tanto di lode alla George Mason University, un giovanotto alto, dal fisico perfetto, con il portamento marziale del padre e il cervello della madre -aveva un lato sentimentale grande come una casa (la settimana in cui gli studenti del seminario sul Diciannovesimo secolo si gettavano su Henry James come un branco di avvoltoi, LeFevre era andato a rintanarsi nel suo appartamento con un libro molto diverso, nascosto in un sacchetto di carta marrone. Aveva chiuso la porta a chiave e se l'era letto tutto d'un fiato, senza interrompersi, e aveva pianto senza vergogna, quand'era arrivato all'ultima pagina dei Ponti di Madison County). Un sentimentale, un romantico, ecco cos'era. E di conseguenza si identificava di più con Sidney Poitier che con tipi alla Samuel L.Jackson o Wesley Snipes. E allora, cosa farebbe adesso l'ispettore Tibbs? Okay, si disse, vediamo di analizzare il tutto. Un passo alla volta. Abbiamo una ragazza con una pessima situazione famigliare. Niente violenze da talkshow, no. Ma è un caso lampante del genere «A papà non gliene frega niente e a mamma nemmeno». Per cui beve più di quanto dovrebbe e va in giro con brutta gente. Finché non incontra LeFevre. E sembra che cominci a rimettere insieme i pezzi, anche se ogni tanto ci ricasca. Poi una sera si arrampica sulla torre del serbatoio dell'acqua (ma perché non mi ha chiamato, porca puttana, invece di tracannare una bottiglia di Comfort insieme a Donna e Brittany, le Sorelle Facili?). E una volta là sopra si mette a ballare sull'impalcatura finché non arrivano a tirarla giù i pompieri e la polizia. E comincia ad andare dallo strizzacervelli. Il quale le consiglia di rompere con lui. E lei lo fa. «Perché?» le aveva chiesto lui qualche settimana prima, nella macchina parcheggiata davanti alla casa di lei, durante quello che risultò poi essere il loro ultimo appuntamento. «Perché?» «Non erano le differenze...» Cioè l'età, cioè la razza. Era... che cazzo era? Si ripeté mentalmente il discorsetto di Megan. «È solo che non sono pronta per lo stesso genere di rapporto che vuoi tu.» E che genere sarebbe? Non ricordo di averti chiesto di sposarmi. E non abbiamo mai neanche parlato del nostro rapporto. Stavamo solo bene insieme. «Oh, Josh, tesoro, non piangere... ho bisogno di vedere cose, di fare cose. Mi sento... come dire?, tutta bloccata, sai... Vivere con Bett è come dividere la casa con una compagna. Cioè, il suo appuntamento del sabato sera è la cosa più importante del mondo. La preoccupa solo l'invecchiamento della pelle.» Invecchiamento della pelle? A me tua mamma piace. È carina, in gamba, fuori dagli schemi. Cosa c'entra la sua pelle con il fatto che noi dobbiamo lasciarci? Joshua era rimasto molto confuso, seduto nella sua utilitaria accanto alla ragazza che amava. «Oh, amore. Ho proprio bisogno di andarmene. Voglio viaggiare, vedere il mondo. Dai, hai capito come.» Viaggiare? E questo ora che significa? Io ho un fondo fiduciario, mamma e papà sono pieni di soldi. Ho vissuto ajeddah, Cipro, Londra, in Germania. Parlo tre lingue. Posso farti vedere più mondo io di tutta la British Airways. «Okay, il fatto è che questo terapeuta, sai, il dottor Hanson? Ecco, lui pensa che non sia una buona idea che io abbia un legame fisso con te, in questo momento.» «Allora facciamo qualche passo indietro. Vediamoci tipo... solo una volta alla settimana, una cosa così. Che ne dici?» «No, non capisci!» aveva replicato brutalmente Megan. Si era scostata da lui che cercava
di toglierle di mano la bottiglia di Southern Comfort. Ed era scesa dal sedile davanti per correre dentro casa. Adesso, a tutta velocità sulla 1-66, si sporse verso il poggiatesta del sedile accanto per annusare il più possibile la traccia del suo profumo. Non sentì niente e gli si spezzò il cuore. Premette l'acceleratore a tavoletta, portandosi a ridosso della Mercedes grigia. No, non capisci! Infatti non capiva. Garantito. Joshua LeFevre aveva passato tre settimane d'inferno ad aspettare, e poi, quella mattina, si era risvegliato in modalità pilota automatico. Non poteva accettare un minuto di più il silenzio della ragazza e il senso soffocante di frustrazione. Era arrivato allo studio di Hanson più o meno all'ora in cui l'appuntamento di Megan sarebbe dovuto finire. Aveva parcheggiato in fondo alla strada aspettando che venisse fuori. Josh riusciva a sollevare centodieci chili alla panca, era in grado di fare duecento chilometri al giorno in bicicletta. Ma non amava le intimidazioni. Poco ma sicuro. Con quel tizio sarebbe stato Poitier, non Snipes. Perché l'hai convinta a rompere con me, avrebbe chiesto al dottore? Non è contro la deontologia professionale? Mettiamoci intorno a un tavolo. Tutti e tre. Josh aveva una decina di argomenti già pronti. Era convinto che parlando avrebbe fatto breccia nel cuore di lei. No, non capisci! Ma adesso sì, che capiva. Dio, sono proprio un idiota! Lo strizzacervelli l'aveva convinta a lasciarlo perché voleva scoparsela. Qui non era questione di psicostronzate. Del bambino che è in noi. Nossignore. Lo psicostronzo si voleva fare un giro con la sua ragazza. Semplice come un pugno in faccia. Dal punto in cui aveva parcheggiato, vicino allo studio, non era riuscito a vedere bene. Ma a un tratto, prima della fine dell'ora, la Tempo di Megan era uscita dal parcheggio - con al volante, gli parve, proprio il dottore -, e si dirigeva verso nord. Aveva seguito l'auto fino a Manassas, alla fattoria del papà di Megan. Josh aveva aspettato circa venti minuti. Poi, proprio quando stava per imboccare il vialetto anche lui, la macchina era uscita di nuovo a tutta birra, e si erano ritrovati nel parcheggio di Vienna Metro. Avevano cambiato macchina, preso la psicomobile tedesca e imboccato la 1-66, direzione ovest. Cos'era questa storia? Era andata a prendersi qualche vestito a casa di suo padre? Intendeva star fuori per il weekend? Joshua era fuori di sé. Doveva fare qualcosa. Ma cos'avrebbe fatto Sidney Poitier adesso che la sceneggiatura era cambiata? Aspettare finché arrivavano a casa del dottore? O all'albergo a cui erano diretti? Affrontarli lì? No. Non gli sembrava la cosa giusta. Oh, cazzo, avrebbe fatto meglio a tornarsene a casa... Dimenticati di lei. Sii uomo. Il piede mollò un po' il pedale... Buona idea, prendi la prossima uscita. Smettila di comportarti come un fallito malato d'amore. È imbarazzante. Vattene a casa. Leggiti il tuo Melville. Lunedì prossimo devi presentare la relazione... La Mercedes schizzò in avanti. Poi dentro di lui esplose un nuovo pensiero: Cazzate. Come, te ne vai a ricostruire i motivi di fondo di qualche cazzo di storia su una balena culona mentre la tua ragazza è a letto con il suo terapeuta a sussurrargli paroline dolci all'orecchio? Schiacciò il pedale. Lo farebbe anche Poitier? Ci puoi giurare. E fu così che LeFevre continuò a tenere le mani sudate sul volante, ad accelerare, a sfrecciare alle spalle della donna che amava e da cui - un piccolo angolino del suo patetico cuore ne era convinto - era ancora riamato. «È scappata?» mormorò Bett. Erano tutti e quattro in salotto, come degli invitati a un party che non si conoscono, le ginocchia strette puntate le une contro le altre, seduti impalati nell'attesa di mettersi comodi. «Ma dovreste considerarla una buona notizia» considerò Konnie. «Secondo i profili statistici, la maggior parte dei ragazzi che scappano di casa tornano spontaneamente al massimo entro un mese.» Bett guardò fuori dalla finestra, verso la nebbia e il buio. «Un mese» ripeté come se stesse rispondendo alla domanda di un quiz. «No, no. Non se ne sarebbe mai andata così, senza dire niente.» Konnie lanciò uno sguardo a Beauridge. Tate intercettò l'occhiata. «Ho paura che qualcosa abbia detto.» Konnie consegnò a Bett e a Tate quel che aveva trovato di sopra. «Delle lettere, per tutti e due. Sotto il cuscino.» «Ma perché lì? Non ha senso» osservò Bett. «Così non le avreste trovate subito» spiegò Konnie. «Per avere un po' di vantaggio. L'ho visto fare altre volte.» «È la sua scrittura?» chiese Beauridge. «Ho un amico che esamina i documenti per l'fbi» propose Konnie. «Si chiama Parker Kincaid e abita a Fairfax. Potremmo fargli uno squillo.» Ma Bett disse che era sicuramente la scrittura di Megan. «Bett» cominciò a voce alta, ma subito alzò gli occhi dalla lettera. «Mi chiama Bett. Non mamma. Perché dovrebbe fare una cosa simile?» Ricominciò a leggere con una voce spettrale, ansimante. «Bett... Non m'interessa se ti fa male quello che dico... non m'interessa quanto male ti fa...» Guardò impotente il suo ex marito, poi lesse tra sé. Quand'ebbe finito, tornò a
sedersi sul divano e si rannicchiò, facendosi piccola piccola come una bambina. «Dice che mi odia. Odia tutto il tempo che ho passato con mia sorella. Io...» Interdetta, ferita, scosse la testa e tacque. Tate abbassò il capo sul suo messaggio. Era macchiato. Di lacrime? Di pioggia? Lesse: Tate: C'è un solo modo di dirlo: ti odio per quello che mi hai fatto! Tu non mi ascolti. Parli, parli, parli e Bett ti chiama l'avvocato del diavolo e infatti lo sei, ma non mi ascolti mai. Non ascolti quello che voglio. Quello che sono. Tu mi compri, mi paghi sperando che io me ne vada. Me ne dovevo andare quando avevo sei anni, come avrei voluto. E non tornare mai più. È quello che ho sempre voluto. E lo voglio ancora. Andarmene via da te. Tanto comunque è quello che vuoi, no?, sbarazzarti della tua bambina inopportuna? Tate rimase a bocca aperta, labbra e lingua asciutte gli pizzicavano per l'aria che entrava e usciva dai polmoni. Si rese conto che stava fissando Bett. «Tate? Ti senti bene?» chiese Konnie. «Potrei rivedere il biglietto, signora McCall?» intervenne Beauridge. Lei gli consegnò il foglio rigido. «E sicura che sia la sua carta da lettera?» Bett annuì. «Gliel'ho regalata io per Natale.» A bassa voce, Bett rispose a domande che nessuno le aveva fatto. «Mia sorella stava malissimo. Molto spesso affidavo Megan ad altre persone. Non sapevo che si fosse sentita così abbandonata... Non ha mai detto niente.» Tate notò la calligrafia disordinata di Megan. In diversi punti la penna aveva bucato il foglio. Per la rabbia, immaginò. Konnie domandò a Tate che cos'aveva trovato in camera sua. Era talmente scosso che gli ci volle qualche istante per concentrarsi sulla domanda. «Ha preso quattrocento dollari dal cassetto del mio comodino.» «Figuriamoci» sbottò Bett. «Non avrebbe mai preso...» «Non ci sono più» ribatté Tate. «E lei è l'unica che sia stata qui.» «Carte di credito?» continuò Konnie. «Ha la seconda carta delle mie Visa e Mastercard» spiegò Bett. «Dovrebbe averle con sé.» «Bene» la rassicurò Konnie. «È un sistema semplice per rintracciare i ragazzi che scappano. Organizzeremo un collegamento in tempo reale con le compagnie delle carte di credito. Nel giro di dieci minuti sapremo dove le ha usate.» «La inseriamo nel database delle persone scomparse» aggiunse Beauridge. «Se ha preso un qualsiasi mezzo pubblico sulla East Coast ce lo faranno sapere. Le dispiace darmi una sua fotografia?» Tate si rese conto che stavano guardando lui. «Certo» rispose in fretta e cominciò a frugare per la stanza. Cercò sugli scaffali dei libri, nei cassetti dei tavolini. Non riuscì a trovare nessuna foto. Beauridge gli lanciò un'occhiata perplessa; Tate immaginò che il portafogli e le pareti del giovane poliziotto traboccassero di fotografie dei suoi piccoli. Lo stesso Konnie, Tate se lo ricordava da parecchi anni fa, teneva nel portafogli la foto della sua ex moglie e dei bambini. L'avvocato rovistò ancora un po' in salotto e poi scomparve nello studio. Qualche istante dopo tornò con un'istantanea: lui e Megan a Virginia Beach, due anni prima. Lei guardava la macchina fotografica senza sorridere. L'unica immagine che era riuscito a trovare. «Bella ragazza» commentò Beauridge. «Tate» intervenne Konnie, «me ne occupo io. Ma non è che possiamo fare molto.» «Tutto quello che puoi, Konnie. Lo sai quanto ti sono grato.» «Arrivederci, signora Coli... McCall.» Ma Bett guardava fuori dalla finestra e non disse niente. Aaron Matthews notò che la Toyota bianca rimaneva incollata alla Mercedes. Si chiese se fosse la stessa macchina che aveva visto nel parcheggio di Vienna Metro quando aveva cambiato macchina. Avrebbe dovuto fare più attenzione. Alle coincidenze Matthews credeva ancora meno che alla fortuna e alla superstizione. Non c'erano incidenti né iella. Siamo noi gli assoluti responsabili delle nostre azioni e delle loro conseguenze, anche se non riusciamo a capire che cosa ci abbia spinti ad agire in un determinato modo piuttosto che in un altro. La vettura che li tallonava in quel momento non era una coincidenza. C'era un motivo, c'era un piano. Matthews ancora non riusciva a comprenderlo. Non sapeva se fosse il caso di preoccuparsi. Ma era preoccupato. Magari gli aveva tagliato la strada e quello era andato fuori di testa. L'Automobilista Furioso. O era qualcuno che lo aveva visto depositare un grosso fagotto nel baule della Mercedes e lo seguiva per curiosità. Oppure era la polizia. Rallentò a ottanta all'ora. L'auto bianca fece lo stesso. Tornò ad accelerare. La macchina gli restava incollata. Bisognava riflettere. Bisognava fare qualcosa. Matthews si spostò sulla corsia di destra e proseguì nella nebbia, in direzione ovest, verso le montagne. Si guardava alle spalle con la stessa frequenza con cui guardava avanti. Quello che ogni bravo terapeuta consiglia ai suoi pazienti. Capitolo 6
Aveva smesso di piovere, ma l'atmosfera era pesante come piombo. Con le scarpe alla moda dai tacchi alti e larghi, Bett McCall si avvicinò alla spalla di Tate. Nessuno dei due parlò. Rimasero lì, sotto il portico sul retro, a guardare il terreno tutt'intorno. Collier adottava un metodo molto più conservatore rispetto alla maggioranza delle fattorie pedemontane: cinque campi coltivati a rotazione, un anno soia, quello dopo mais e segale. Il classico sistema della Virginia del Nord. «Ascolta, Tate» diceva il Giudice. Il ragazzo ascoltava sempre il nonno. «Che cos'è un legume?» «Un pisello.» «Solo un pisello?» «Be', anche i fagioli, credo.» «Piselli, fagioli, trifoglio, erba medica, veccia... sono tutte leguminose. Aiutano il terreno. Se tutti gli anni pianti cereali, cosa succede?» «Non saprei.» «La tua terra va a rotoli in men che non si dica.» «E come mai, Giudice?» Il nonno gli aveva insegnato a non aver mai paura di fare domande. «Perché i legumi prendono l'azoto dall'aria. I cereali invece lo prendono dalla terra.» «Ah.» «Pianteremo crocus giallo e marrone per fare erba, e anche soia della Virginia. Wilson e soia Haberlandt vanno bene per la semina e per fare il fieno. Come si prepara la terra?» «Come quando pianti il mais» aveva risposto il ragazzino. «Si sparge il seme con una seminatrice da grano.» Tutt'a un tratto poteva capitare che il Giudice guardasse il nipote per chiedergli: «Dici parolacce, Tate?». «Nossignore.» «Ecco. Leggi qui.» Una volta gli mise in mano un vecchio notiziario tutto sbiadito del Dipartimento della Virginia per l'Agricoltura e l'Immigrazione. Un capitolo contrassegnato da un'orecchia lamentava la diffusione del turpiloquio tra i giovani coltivatori. Persino alcune delle nostre ragazze hanno preso questa deplorevole abitudine. «Lo terrò a mente, Giudice» aveva detto Tate, ricordando senza sensi di colpa come proprio il giovedì prima, a scuola, avesse imprecato pesantemente contro Junior Foote. Rivolgendo lo sguardo verso i suoi campi, il Giudice aveva ripreso: «Ma se proprio ritenessi necessario lasciarti andare, almeno assicurati che non ci siano femmine nei paraggi. È quasi ora di cena. Andiamo a casa». Tate passava nella casa dei nonni a Fairfax quasi altrettanto tempo che dai genitori. Il padre di Tate era un uomo buono e molto tranquillo. Più adatto, per esempio, alla vita di un cronista da tribunale (carriera che non aveva mai intrapreso per non correre il rischio di dover seguire uno dei processi di suo padre). Il Giudice era stato lacerato dal dubbio se lasciargli o meno la fattoria e aveva concluso che il suo unico figlio maschio semplicemente non aveva le palle per gestire una proprietà del genere. Perciò l'aveva passata a Tate, mentre gli altri parenti si dividevano i soldi. Paradossalmente - come Tate scoprì in uno dei rarissimi dialoghi schietti che ebbe con il padre -quest'ultimo paventava con terrore il giorno in cui il Giudice gli avrebbe affidato la fattoria. A quanto pareva, il motivo principale di tanta preoccupazione era che il fatto di gestirla rischiava di interferire con la sua vera passione: la collezione di trenini elettrici marca Lionel. La madre di Tate, timida e perennemente esausta, soddisfaceva il marito alla perfezione: Tate non riusciva a ricordare una sola parola di dissenso - e nemmeno di passione, se è per questo - tra i due. E pochissime conversazioni. Perciò, quand'era libero di seguire le sue inclinazioni, l'adolescente Tate faceva l'autostop o rimediava un passaggio fino a casa dei nonni, e stava con loro più che poteva. Dopo che il Giudice aveva reso grazie a capotavola dello scricchiolante tavolo di assi di legno, la nonna era capace di uscirsene, a bassa voce, con frasi come questa: «L'unico giorno buono per piantare i fagioli è il Venerdì Santo». «È una superstizione, nonna!» aveva replicato il giovane Tate. La nonna era così dolce che qualsiasi commento rivolto a lei, anche per contraddirla, lo prendeva come un complimento. «La soia si può piantare fino a giugno.» «No, signorino. Ora, stammi a sentire.» Aveva lanciato un'occhiata verso l'estremità del tavolo per accertarsi che il marito non stesse ascoltando. «Se ridi forte mentre pianti il mais, sono guai. Guai grossi, voglio dire. E patate e cipolle vanno piantate quando non c'è luna, mentre per legumi e mais è meglio che ci sia.» «Sono cose senza senso, nonna.» «Invece sì che ne hanno» aveva risposto lei. «Il raccolto che cresce sottoterra va piantato quando la luna non c'è. I cereali crescono sopra, quindi si piantano quando c'è luce.» Tate aveva ammesso che c'era una certa logica. Questa era una delle tre o quattro discussioni che si svolgevano simultaneamente attorno al tavolo con zie e zii e cugini, oltre all'inevitabile paio di ospiti che il Giudice invitava tra i colleghi del tribunale delle contee di Prince William e di Fairfax. Ricordava una domenica di sole, l'aria frizzante, e lui che sorseggiava tè freddo in compagnia di uno degli ospiti. L'uomo era arrivato presto e il Giudice era sulla via del ritorno dalla
fattoria. L'ospite, un tipo magro, parlava in tono sommesso, manifestando un grande interesse per il terrario di Tate col formicaio didattico. William Brennan, giudice di Corte Suprema, si era preso una pausa dalla stesura di un parere in merito a qualche pronunciamento - forse un caso destinato a diventare una pietra miliare della giurisprudenza - per venire dal giudice Collier a gustarsi arrosto, patate dolci, bieta e, naturalmente, mais fresco. «E poi» riprese la nonna, scrutando il tavolo per scongiurare il peccato di un piatto da portata vuoto, «porta male anche sgozzare i maiali quando non c'è la luna.» «Ai maiali porta male di sicuro» era stato il contributo di Tate. Il pranzo si protraeva fino alle quattro o le cinque del pomeriggio. Tate restava volentieri ad ascoltare storie di battaglie legali, progetti, lottizzazioni e pettegolezzi locali densi come il purè di patate della nonna. Adesso, accanto all'ex moglie, Tate era ben consapevole che quei tempi alla Norman Rockwell, che aveva sperato di replicare, nella sua vita non si erano mai materializzati. Le vestigia della tipica famiglia del Sud non erano durate per molto, una volta che Tate ebbe raggiunto l'età adulta. Lui, Bett e Megan non erano più una famiglia. Tra la caterva di donne carine, intelligenti e ben carrozzate con cui era uscito, non aveva trovato neanche un'occasione di mettere su famiglia. Perciò, per quanto fosse preoccupato per Megan, il ritorno di loro due nella sua vita era gravido di sofferenza. E portava con sé anche diversi problemi concreti. Si stava preparando per il caso più importante che gli fosse capitato da anni. Una grossa società chiedeva alla contea di Prince William il permesso di realizzare un parco divertimenti vicino al campo di battaglia di Bull Run. Il Liberty Park si sarebbe esteso fino al King's Dominion e a Six Flags. Lui rappresentava un gruppo di residenti che non volevano trovarsi un luna park nel cortile dietro casa, anche se la contea aveva già concesso un'approvazione di massima. La settimana prima, lui aveva ottenuto un'ingiunzione temporanea che bloccava i lavori per novanta giorni, ingiunzione immediatamente contestata dal costruttore. La settimana seguente, giovedì, la Corte Suprema di Richmond avrebbe ascoltato le argomentazioni e stabilito se l'ingiunzione doveva considerarsi valida o meno. In caso affermativo quel lasso di tempo poteva bastare a mettere fine al progetto. Da un giorno all'altro, Collier era diventato la persona più popolare - o impopolare - della contea, a seconda che uno si schierasse con gli avversari o con i fautori del progetto. Gli imprenditori e i finanziatori del parco naturalmente sarebbero stati felici di stritolarlo e dargli un calcio nel didietro. Ma centinaia di piccoli imprenditori locali, artigiani, fornitori e semplici cittadini avevano a loro volta qualcosa da guadagnare dall'approvazione del progetto e dalla conseguente affluenza di turisti. Un editoriale di sostegno al progetto aveva definito Tate “l'avvocato del diavolo”. Espressione che riecheggiava spesso in quel fervente avamposto del cristianesimo sudista. Il costruttore del Liberty Park, Jack Sharpe, era uno degli uomini più ricchi di tutta la Virginia del Nord. Veniva da una famiglia ricca e aristocratica: la loro presenza nella contea si poteva far risalire a prima della Guerra civile. Quando Tate aveva presentato la richiesta di ingiunzione, Sharpe aveva affidato la propria difesa a un notissimo studio legale della città. Tate, senza nessuna fatica, aveva fatto a pezzettini gli avvocati di Sharpe, e il costruttore li aveva esonerati. Per l'udienza di Richmond era andato direttamente a Washington e si era rivolto a uno studio in cui lavoravano due ex procuratori generali, un ex vicepresidente e, forse, un futuro presidente. Tate e Ruth, la sua segretariaassistenteparalegale, si erano preparati sulla motivazione e sui documenti della mozione per una settimana senza concedersi un attimo di tregua, e probabilmente avrebbero continuato così fino alla mezzanotte prima dell'udienza. Perciò la ricomparsa di Bett nella sua vita - e la concomitante scomparsa di Megan - rischiava di avere gravi ripercussioni professionali. A disagio, ripensò di nuovo al giorno, dieci o undici anni prima, in cui lui e Bett avevano litigato. Non aveva mai saputo che la bambina aveva sentito il suo scoppio di collera. Quella bambina inopportuna... Perché il destino le aveva riportate nella sua vita? E perché proprio adesso? Ma, per quanto riluttante fosse, erano tornate. E lui non poteva farci niente. «Pensi che dovremmo chiamare mia madre?» chiese infine Tate alla ex moglie. «No» rispose Bett. «Aspettiamo qualche giorno. Non vorrei sconvolgerla per niente.» «E tua sorella?» «Lei, decisamente no.» «Perché no?» domandò Tate a voce alta. Sapeva che Susan voleva molto bene a Megan. Più della maggior parte delle zie. Anzi, era sempre sembrata quasi gelosa del fatto che Bett avesse una figlia e lei no. «Perché non abbiamo ancora nessuna risposta» replicò Bett. Poi, dopo qualche secondo, sospirò. «Non è da lei.» Guardò la lettera che aveva tra le mani e la ficcò nella
borsetta. Tate studiò il viso di lei. Dal Giudice, Tate Collier aveva ereditato diversi doni. Il suo principale talento, ovviamente, era l'abilità con le parole. Un altro, molto più raro, era la capacità di leggere il futuro sul volto altrui. Adesso osservava i bellissimi occhi viola della sua ex moglie. Li vide stringersi, posarsi sui suoi e passare oltre, e capì con precisione che cosa le passava per la testa. Un dibattimento non è fatto soltanto di parole, è anche una questione di intuito. L'avvocato capace di prevedere dove sta andando a parare il suo avversario sarà sempre in vantaggio, quali che siano gli espedienti retorici che l'altro vanta nel suo repertorio. Quello che vide in quel momento non gli piacque. Bett scese con aria determinata dal portico, attraversò il cortile sul retro diretta verso il granaio a ovest, dove aveva parcheggiato l'auto. La seguì, sostando sul prato che aveva un gran bisogno di essere tosato. Fissò a lungo la sagoma bianca della vivacissima dalmata, che aveva finalmente abbandonato l'osso e scorrazzava tra l'erba veloce come un levriero. Lo sguardo di Tate passò sul vecchio granaio, estraneo e al tempo stesso tanto famigliare. Poi la sua attenzione fu attratta dalla panca da picnic che avevano comprato insieme, lui e Bett, in un negozio di mobili sulla Route 28. L'avevano usata una volta sola: per il rinfresco dopo il funerale, quattordici anni prima. Adesso si ricordava quei fatti come fosse ieri. Accorgendosi che anche Bett guardava la panca, si chiese cosa stesse pensando lei. Quel novembre faceva un caldo fuori stagione, tanto insolito quanto la calura opprimente di questo aprile. Rivide Bett in piedi sulla panca, intenta a sganciare una lanterna giapponese dalla magnolia dopo che l'ultimo dei parenti e degli amici se n'era andato a casa sua o a letto. In quel momento Tate si fermò accanto allo stesso albero, ora nel pieno di una rigogliosa fioritura rosa. «Hai molto da fare, con lo studio, in questo periodo?» chiese lei. «Tante cosette e solo un caso veramente grosso.» Accennò verso la casa, dove lo aspettava una pila raggelante di documenti sul Liberty Park. Quand'erano sposati, la casa era cosparsa di sentenze e memorie processuali dal dorso rosso, lunghe anche quaranta o cinquanta pagine. La Corte Suprema dello Stato della Virginia. Molte erano inerenti a casi che prevedevano la pena capitale, in cui Tate rappresentava la pubblica accusa. Anche se era stato il procuratore della contea di Fairfax, Tate spesso aveva sostenuto l'accusa a Richmond, su incarico di altre contee. «Fatti sentire e farai strada» scherzavano i colleghi. Si era specializzato nei casi di omicidio in circostanze particolari, la definizione ufficiale dei crimini che prevedevano la pena capitale. Questi incarichi e la sua disponibilità ad accettarli erano stati una fonte di attrito tra marito e moglie. Bett era contraria alla pena di morte. La morte, rifletté Tate, sembrava sempre in agguato dietro il loro rapporto. L'incessante battaglia di Susan con i suoi gravi disturbi cardiaci, il suicidio di suo marito Harris. Poi la morte dei genitori di Bett, del padre e del nonno di Tate, tutto nel lasso tragicamente breve di tre anni. Diede un calcio a un mucchio di cartocci di pannocchie. «Ho questa sensazione, Tate.» Bett alzò le mani, per lasciarle subito ricadere lungo i fianchi. «Capisci cosa intendo?» No. Non lo capiva. Tate era caparbio e intelligente, ma quanto alle sensazioni... No, grazie. Non gli ispiravano la minima fiducia. Troppi di quelli che aveva perseguito erano finiti nei guai, guai seri, a causa delle sensazioni. Quand'erano sposati, Bett viveva di sensazioni. Intuizioni, percezioni, impressioni. E a volte, sembrava, messaggi dalle stelle. Era una cosa che lo mandava fuori di testa. «Continua» la esortò. Lei si strinse nelle spalle. «Non ci credo.» Si batté la mano sulla borsa. Si riferiva alla lettera, immaginò lui. «Perché lo pensi?» «Mi sono ricordata una cosa.» «Cosa?» «A casa ho trovato una borsa sotto il suo letto. La settimana scorsa, mentre pulivo. Dentro c'era un piattino portasapone.» Notò le lacrime di lei. Avrebbe voluto avvicinarsi, stringerla tra le braccia. Cercò di ricordare l'ultima volta che aveva avuto un contatto fisico con lei, non solo per un bacetto sulla guancia, ma un abbraccio più avvolgente. Non ci riuscì. «Era una cosa su cui scherzavamo. Nel mio bagno non c'è mai stato il portasapone. La saponetta diventa tutta molliccia, dice Megan. Così ha comprato questo piattino vittoriano. Per il mio compleanno, la prossima settimana. C'era anche il biglietto. Cioè, non mi avrebbe comprato regalo e biglietto se avesse avuto intenzione di fare questa cosa.» Davvero?, si chiese Tate. Perché no? Quando la pressione monta fino a un certo punto, il vulcano esplode. E non sta a guardare che stagione è, o chi sta facendo un picnic sul suo pendio, se ci sono amanti ubriachi o gente tutta casa e chiesa. Qualsiasi avvocato che abbia lavorato nel campo dei rapporti famigliari potrebbe testimoniarlo. «Pensi che l'abbia costretta qualcuno? O che sia uno scherzo di cattivo gusto?» «Non lo so. Forse si è messa di nuovo a bere. Ho controllato le bottiglie,
a casa, e sono tutte piene, ma... non lo so» rispose Bett. «Non è un granché su cui basarsi» commentò il suo ex marito. A un tratto, lei si voltò verso di lui. «Non è che andiamo al massimo, io e Megan. I problemi ci sono. Ovvio, che ci sono» disse. «Ma il nostro rapporto merita qualcosa di più di questa maledetta lettera. Qualcosa di più di lei che scappa...» Incrociò le braccia, tornando a fissare i campi. «C'è qualcosa che non va» ripeté. «Ma cosa, esattamente? Tu che cosa pensi?» «Non lo so.» «Be', e che dovremmo fare?» «Voglio andare a cercarla» dichiarò Bett in tono determinato. «Voglio trovarla.» Ecco che cos'aveva visto Tate nei suoi occhi viola pochi istanti prima. Sapeva che sarebbero arrivati a quello. Eppure, adesso che ci pensava, era stupito. Non era affatto nello stile di Bett McCall. Bett la sognatrice, Bett la lettrice di tarocchi. Si era sempre lasciata trasportare dove tirava il vento. La piuma di Forrest Gump... Era difficile immaginare qualcuno meno adatto di lei al ruolo di madre. I bambini hanno bisogno di una guida, di una direzione, di modelli. Tutto quel che Bett McCall non era. Quando aveva saputo da Megan che a Natale Bett si era fidanzata, Tate si era meravigliato solo di una cosa: che le ci fosse voluto così tanto per accettare quella che doveva essere la decima proposta che riceveva dopo il divorzio. Quand'erano sposati, lei era affascinante, volubile e perennemente tra le nuvole. Per le fondamenta di cui aveva bisogno, contava su di lui. Aveva dato per scontato che dopo la separazione avrebbe trovato in quattro e quattr'otto qualcun altro che adempisse alla stessa funzione. Si chiese se la Betty Susan McCall che aveva davanti fosse un po' diversa da quella che aveva sposato e se anche lei facesse le stesse considerazioni su di lui. «Bett» disse per rassicurarla, «Megan sta bene. È una ragazza matura. Ha tirato fuori un po' di rabbia e se n'è andata per qualche giorno, tutto qui. L'ho fatto anch'io, più o meno alla sua età. Te lo ricordi?» Ne dubitava, ma lei lo sorprese: «Sei arrivato fino a Baltimora» replicò. «E poi ho chiamato il Giudice e lui è venuto a prendermi. Una fuga di due giorni. Senti, nostra figlia ha un sacco di problemi da affrontare. Penso che il portasapone sia la chiave.» «Il portasapone?» «Hai ragione: nessuno compra un regalo e un biglietto per poi non consegnarlo. Tornerà per il tuo compleanno. E vuoi sapere un'altra cosa?» «Cosa?» «C'è un lato positivo in tutta questa.faccenda. Ha tirato fuori delle cose di cui possiamo parlare. Di cui dovremmo parlare.» Accennò con la testa verso la casa, dove c'era la sua lettera, come un coltello insanguinato. Logico! Cosa poteva ribattere? Ma Bett non era convinta. «C'è un'altra cosa che devo dirti.» Si morse il sottile labbro inferiore. Lo faceva sempre, quando era nei guai, ricordò Tate. Si aggrappò alla balaustra del portico e chinò il capo. Tate Collier, campione intercollegiale di oratoria processuale, vincitore del campionato nazionale di processo simulato, esperto di arringa forense, riconobbe il linguaggio del corpo: una confessione imminente. «Ti ascolto» disse. «La notte del serbatoio dell'acqua... io ero... fuori.» «Fuori?» Sospirò. «Insomma, non sono tornata a casa. Ero da Brad, a Baltimora. Non l'ho fatto apposta. Solo che mi sono addormentata. Megan era fuori di sé perché non l'avevo chiamata.» «Le hai chiesto scusa?» «Ma certo.» «Be', niente di grave. Doveva capirlo.» Lei scosse la testa per contraddirlo. «Penso che forse è stato per questo che ha bevuto e poi si è arrampicata sulla torre. E poi Brad non le piace, il che non aiuta.» La ragazza aveva descritto il fidanzato di Bett come un nerd sfigato che si faceva la riga tra i capelli troppo precisa, pensava che i golf con le toppe di renna fossero elegantissimi e passava troppo tempo davanti alla tv. Tate decise di non comunicare a Bett queste osservazioni, in quel momento. «Ci vuole un po' ad abituarsi ai genitori acquisiti. È una cosa che vedo tutti i giorni, nel mio lavoro.» «Dopo l'incidente ho evitato di andare da lui per qualche tempo. Ma l'altra sera ci sono tornata. Le ho chiesto se le dava fastidio, e lei mi ha detto di no. L'ho lasciata da Amy mentre andavo a Baltimora.» «Ah, ecco, allora!» disse Tate con un sorriso, agganciando lo sguardo che lei gli rivolse. «Cosa?» Tate alzò le mani. «È solo una piccola ritorsione. Sarà a casa di qualcuno e ha tutta l'intenzione di farti sudare un po'.» Niente di preoccupante, quindi. Tu te ne vai per la tua strada, e io per la mia. «Può darsi» disse Bett. «Ma non potrei mai perdonarmelo, se mi facessi una bella scrollata di spalle e poi le succedesse qualcosa.» Il telefono di Tate si mise a squillare. Lui rispose. «Avvocato» latrò la voce impacciata di Konnie. «Konnie, che novità?» «Ho buone notizie.» «L'avete trovata?» La testa di Bett scattò. «Sta andando a New York» rispose il detective. «Come fai a dirlo?» chiese Tate. «Abbiamo segnalato la sua targa e un'auto di pattuglia ha trovato la macchina a Vienna Metro. Sul sedile davanti c'era un orario ferroviario. Ha cerchiato i treni del sabato per Penn Station. Manhattan.» La metropolitana
l'avrebbe portata in mezz'ora da Vienna fino alla Union Station di Washington. Da lì a New York ci volevano tre ore. Konnie stava ancora parlando: «Conoscete qualcuno là che potrebbe essere andata a trovare?». Tate spiegò tutto a Bett, che prese la notizia con cautela. Le chiese se aveva qualche amico a New York. Lei scosse la testa. «Non credo conosca nessuno in città.» Tate riferì a Konnie la risposta. «Be', almeno sapete dov'è diretta..Chiamo la polizia di New York, che mandino qualcuno ai treni e facciano qualche domanda intorno alla stazione. Gli invio anche la foto segnaletica.» «Okay. Grazie, Konnie.» Riattaccò. Guardò la ex moglie. «Bene» disse. «Ecco fatto.» Ma gli occhi viola non erano d'accordo. «Che c'è, Bett?» «Mi dispiace, Tate. Non la bevo.» «Cosa?» «Che è andata a New York.» «Ma perché} Non mi hai detto niente di preciso.» Bett cominciò a gesticolare. «Be', non ho niente di preciso. Tu vorresti degli indizi, delle prove concrete. Non ne ho.» Sospirò. «Io non sono come te.» «Come me?» «Non sono capace di convincerti» rispose con rabbia. «Non sono brava con le parole. Quindi non ci provo nemmeno.» Tate fece per aggiungere qualcosa, per controbattere, per mettere fine a questa imbarazzante riunione, per rimandare la ex moglie fuori dalla sua vita. Ma poi rimuginò su quel che lei aveva appena detto, ricordandosi delle parole del Giudice dopo che lui aveva concluso la sua arringa davanti alla Corte Suprema di Richmond. Si trattava di un caso che prevedeva la pena capitale e Tate alla fine aveva vinto. Suo nonno era stato tra il pubblico, orgogliosissimo che fosse il nipote a occuparsi di quel caso. In seguito, sorseggiando whisky nell'elegante Jefferson Hotel di Richmond, l'anziano signore aveva detto in tono solenne: «Tate, è stato magnifico, assolutamente magnifico. Accoglieranno la tua richiesta. Gliel'ho letto in faccia». Anch'io, aveva pensato, chiedendosi cos'altro avesse in mente il Giudice. Il suo sguardo era troppo cupo. «Ma vorrei che tu capissi una cosa.» «D'accordo» aveva replicato lui. «Hai le potenzialità per diventare l'uomo più persuasivo e manipolativo sulla faccia della terra.» «Cosa vuoi dire?» «Se tu fossi avido, potresti diventare un Rockefeller. Se fossi malvagio, potresti essere Hitler. Ecco cosa voglio dire. Con le parole puoi arrivare al cuore della gente, convincerla a fare tutto quello che vuoi. Giudici o giurati. Hai questa capacità. Parole, Tate. Parole. Non si vedono, ma sono l'arma più pericolosa del mondo. Ricordatelo. Sii prudente, figliolo.» «Certo, nonno» aveva ribattuto senza prestare attenzione al consiglio del vecchio, chiedendosi solo se la decisione della corte sarebbe stata unanime. Lo fu. Ma su quello che fa non può avere dubbi. Bett lo fissò. A bassa voce, con empatia, quasi commiserandolo, disse: «Tate, non preoccuparti di questo. Non è un problema tuo. Torna pure ai tuoi casi. Sono in grado di cavarmela da sola». Frugò nella borsa e ne estrasse le chiavi dell'auto. Lui la guardò mentre se ne andava, poi la richiamò: «Vieni dentro». Lei esitò. «Forza» insistette, dirigendosi all'interno del granaio, quello originale degli anni Venti. Bett lo seguì, riluttante. Era un posto lugubre, il granaio, pieno di roba da buttare e attrezzi da contadino. Da ragazzo Tate ci andava a giocare, quello era il regno dei suoi ricordi: le code dei cavalli mosse di scatto da muscoli possenti nei caldi pomeriggi estivi e le scintille che partivano dall'ascia o dalla vecchia macina maneggiate dal Giudice. Qui aveva fumato la sua prima sigaretta. Dalle pile dei «National Geographic» ammuffiti aveva imparato un sacco di cose sul mondo. E aveva visto per la prima volta delle donne nude sui «Playboy» accumulati lì dai mezzadri. Si tolse la giacca del vestito, che appese a un attaccapanni rosa imbottito. Che cosa ci faceva, lì?, si chiese. Doveva avercelo lasciato qualche ex fidanzata dopo un viaggio ai Caraibi. Bett gli stava vicino, appoggiata a una trave smangiata dai tarli e lo guardava in silenzio mentre rovistava dentro una scatola. Tate non riuscì a trovare quello che cercava, allora attaccò con un'altra. Alzò un attimo lo sguardo su di lei, poi riprese a frugare. Finalmente la trovò: una vecchia giacca di pelle tutta stazzonata. Se la infilò, si tolse la cravatta e sbottonò il colletto della camicia. Raddrizzò una vecchia panca da ciabattino, ci si lasciò cadere sopra e si tolse le Oxford di cuoio e i calzini. Cominciò a massaggiarsi i piedi. Lo sguardo gli cadde un'altra volta sulla panca da picnic, visibile appena oltre la porta. Ripensò di nuovo alla sera del funerale. Megan a letto. Bett che sganciava la lanterna giapponese, la sera novembrina ancora stranamente tiepida e profumata. Sua moglie sembrava fluttuare nella semioscurità sopra la panca, come un ectoplasma. Lui le si era avvicinato. L'aveva fatta sobbalzare perché le aveva sussurrato delle parole all'orecchio in un tono da far venire un colpo. Ho una cosa da dirti. Scacciò quel ricordo doloroso e si infilò i calzettoni bianchi da lavoro e gli scarponi comodi. Lei lo guardò confusa, scuotendo la testa. «Che stai facendo?» «Ce l'hai fatta, alla fine»
annunciò Tate con una risata sommessa. «Cosa?» «Mi hai convinto.» Si allacciò gli scarponi ben stretti. «Penso che tu abbia ragione. Le è successo qualcosa. E noi scopriremo cosa. Io e te.» Capitolo 7 Aveva ripreso a piovere. Erano al chiuso, adesso. Seduti al vecchio tavolo da pranzo di quercia nera tutta tarlata. Tate versò il vino e l'offrì a Bett. Lei prese il bicchiere e lo tenne con entrambe le mani, come faceva, si ricordò Tate, quando erano sposati. Nel primo anno di matrimonio, quando lui era un giovane e povero pubblico ministero e lei non aveva ancora avviato la sua attività, non potevano permettersi di uscire a cena molto spesso. Ma almeno una volta alla settimana cercavano di pranzare in qualche ristorante carino. Il vino lo ordinavano sempre. Bett sorseggiò dal bicchiere, lo posò sul tavolo e guardò la fitta cortina di pioggia sui campi marroni. «Che facciamo, Tate? Da dove cominciamo?» Sulle indagini criminali, i procuratori ne sanno quanto i poliziotti. Ma si trattava di meccanismi cui la mente di Tate non faceva ricorso da moltissimo tempo. Si strinse nelle spalle. «Partiamo dal terapeuta. Forse gli ha detto qualcosa su un'eventuale fuga, dove sarebbe andata. Com'è che si chiama?» Tate rimuginò sul fatto che se lo sarebbe dovuto ricordare. «Hanson» rispose Bett. «Oggi ha dovuto annullare la seduta... per una malattia, mi pare. Spero sia in città.» Cercò il numero sulla rubrica e chiamò. «C'è la segreteria» sussurrò a Tate. «Com'è il tuo numero di cellulare?» Lasciò sulla segreteria i loro recapiti, chiedendogli di richiamare. Era urgente, concluse. «Prova ancora con l'amica da cui ha passato la notte... Amy» suggerì Tate. Cercò di ricordarsi com'era Amy. L'aveva incontrata, una volta. Aveva contato nove orecchini all'orecchio sinistro, ma solo otto al destro. Si era chiesto se la differenza fosse intenzionale o se avesse semplicemente sbagliato a contare.. Turbato, ripensò di nuovo al ragazzo di Megan. Be', sua figlia aveva diciassette anni. Perché non avrebbe potuto uscire con qualcuno? Sì, ma con uno già laureato? Il procuratore che era in Tate cominciò a ripassare la legislazione vigente in Virginia sui rapporti sessuali con i minori. Bett cambiò posizione, portandosi il ricevitore più vicino all'orecchio. Evidentemente stavolta c'era qualcuno in casa. «Amy? Sono la mamma di Megan. Tesoro, stiamo cercando di trovarla. Non è venuta a pranzo. Sai dov'era diretta stamattina, dopo che è andata via da voi?» Bett annuì, in ascolto, poi chiese se Megan fosse nervosa per qualche cosa. La sua espressione si rabbuiò. Tate ascoltava distrattamente. Soprattutto, studiava Bett. La massa di capelli ramati, il volto così particolare, la curva del collo, la carnagione fresca che le faceva dimostrare dieci anni di meno. Cercò di ricordare l'ultima volta che l'aveva vista. Forse alla festa per i sedici anni di Megan. Che strana serata... per un rapido istante, mentre stava accanto alla figlia - e a sua madre - a festeggiare con tanta allegria, aveva percepito tutti loro come una famiglia. Lui e Bett si erano scambiati un fuggevole sorriso. Ma era svanito subito e, non appena usciti dalla luce dei riflettori, erano tornati alle loro esistenze separate. È meno carina, adesso, pensò, ma più bella. Più sicura di sé, più decisa. Gli occhi del colore del tramonto si concentravano di più, non vagavano di continuo, civettuoli ed eterei, come facevano sempre quindici anni prima. Quando l'aveva rivista dopo quella volta non avrebbe saputo dirlo. Forse è la maturità, rifletté Tate. E di nuovo si chiese che impressione lui facesse a lei. Bett mise la mano sul ricevitore per dirgli: «Amy afferma che Megan è uscita stamattina verso le nove e mezza senza dirle dove andava. Sembrava avesse qualcosa da nascondere. Ha lasciato da lei lo zaino con i libri di scuola. Ho pensato che dentro potrebbe esserci qualcosa, un indizio su dove sia andata. Ho detto che più tardi passiamo a prenderlo». «Bene.» Bett si rimise ad ascoltare Amy. Aggrottò la fronte con aria preoccupata. «Tate... Dice che Megan le ha confidato che qualcuno la seguiva.» «La seguiva? Chi?» «Non lo sa.» Okay. Prove concrete. Il pubblico ministero latente in Tate Collier si risvegliò. «Fammi parlare con lei.» Prese il telefono. «Amy? Sono il papà di Megan.» Pausa. Finalmente, la ragazza chiese: «Ehm, salve. Ma Megan, cioè, sta bene?». «Speriamo. Vogliamo solo capire dov'è. Cos'è questa storia di qualcuno che la seguiva?» «Era, cioè, parecchio agitata, tipo.» Adesso sì che mi hai chiarito le idee!, pensò, ma si limitò a dire: «Raccontami cos'è successo esattamente». «Cioè, eravamo lì sedute, io e lei, che guardavamo 'sto film, non so... mercoledì, mi pare. E parlava di uno che faceva stalking, e lei fa: “Non voglio vederlo”. E io le faccio, tipo: “Perché no?”. E lei: “C'è 'sta macchina con un tizio
vecchiotto e penso che mi stia seguendo un po' in giro”. E io le faccio: “Ma figurati”. Ma lei, cioè... insiste: “Guarda che è vero”.» «Dove?» chiese Tate. «Vicino a scuola, credo» rispose Amy. «Qualche descrizione?» «Del tizio?» «Oppure della macchina.» «Naa. Non mi ha detto niente. Ma io le ho fatto, tipo: “Be', qualcuno ti segue...”. E lei fa: “Non dico cazz... Non sto scherzando”. E poi mi fa: “C'era anche ieri. Vicino al campo”.» «Quale campo?» «Il campo sportivo dietro scuola» spiegò Amy. «Questo è stato martedì scorso?» «Mmmm, già.» «Tu le hai creduto?» «Be', sì. Sembrava un casino agitata. E dice che l'ha detto a qualcuno.» «A chi?» «Non lo so. Cioè, qualcuno. Non mi ha detto chi. Ah, e l'ha detto anche al professor Eckhard. Insegna inglese e allena la squadra di pallavolo, dopo la scuola e nei weekend. E lui ha detto che se vedeva la macchina gli andava a dire due parole, a quello là. E io le ho fatto, tipo: “Wow. Questo sì che è troppo cazz... troppo strano”.» «E si chiama Eckhard?» «Qualcosa così. Non so come si scrive. Ma se vuole, cioè... parlare con lui, di solito c'è l'allenamento di pallavolo il sabato pomeriggio. Solo che non so mica quando di preciso. La pallavolo è da sfigati, non so se mi spiego.» «Sì, ti spieghi» disse Tate. Era l'unico sport che aveva praticato al college. «Pensa che, cioè, le è successo qualcosa? Brutta storia!» «È solo che saremmo più tranquilli se sapessimo dov'è. Senti, Amy: passiamo da te per prendere lo zaino, nel giro di un paio d'ore. Se intanto la senti, facci uno squillo.» «Certo.» «Prometti?» chiese lui, deciso. «SI, prometto.» Appena ebbe riagganciato, il cellulare di Bett squillò di nuovo. Guardò la ex moglie, che gli fece cenno di rispondere. «Pronto?» «Ehm, parlo con il padre di Megan?» chiese una voce maschile. «Sono io.» «Signor McCall.» «In realtà mi chiamo Collier.» «Giusto, certo. Scusi. Sono il dottor Hanson.» «Dottore, grazie di aver chiamato... Le devo dire che... sembra che Megan sia scappata.» Pausa di silenzio. «Davvero!?» Tate cercò di leggere quel tono. Ci sentì preoccupazione e stupore. «Abbiamo trovato delle... be', dei messaggi alquanto rabbiosi da parte sua, a me e a sua madre. E poi è sparita. Possiamo incontrarci?» «Sono a Leesburg, in questo momento. Mia madre ha avuto un incidente.» «Mi dispiace molto. Ma se io e Bett venissimo lì, potrebbe concederci mezz'ora?» «Veramente...» «È importante, dottore. Siamo davvero preoccupati.» «Immagino. D'accordo» concluse, e spiegò loro come raggiungere l'ospedale. Tate controllò l'ora. Mezzogiorno. «Saremo lì entro un'ora, più o meno.» «In effetti» disse lentamente Hanson, «penso proprio che dovremmo parlare. Mi ha detto alcune cose che penso dovreste sapere.»«Cosa?» chiese Tate. «Voglio pensarci su ancora un po'. Ci sono questioni di riservatezza... ma è strano. Di tutto mi sarei aspettato da Megan. Ma scappare! No, mi sembra molto strano.» Tate lo ringraziò. Solo dopo aver chiuso avvertì una stretta inquietante allo stomaco. Qual era la “quantità di cose” di cui Megan era capace? Ed erano peggio che scappare? Il suo prezioso carico era nel bagagliaio. Ma Aaron Matthews avrebbe desiderato riflettere su Megan McCall e su quello che attendeva entrambi, mentre invece si stava facendo prendere dall'ansia. Quella cazzo di macchina bianca! Stava percorrendo la 1-66 a tutta velocità. Aveva progettato di fermarsi alla casa che aveva affittato l'anno prima nella contea di Prince William - quattro o cinque chilometri al massimo dalla fattoria di Tate Collier - per prendere un po' di cose che voleva portarsi in montagna. Ma non poteva rischiare di andare fin lì con quella macchina che non voleva saperne di levarsi di mezzo. Una pioggerellina fitta e uggiosa aveva ripreso a cadere. Tra la nebbia e la pioggia non riusciva a vedere bene la persona al volante, ma ormai era certo che fosse giovane e nero. E visto che lo seguiva senza la minima prudenza, in modo palese, di sicuro non era un poliziotto. Ma chi era, allora? Poi si ricordò: Megan aveva un ragazzo di colore. Josh o Joshua, vero? Il ragazzo che il dottor Hanson le aveva suggerito di lasciare... ammesso che Megan avesse detto la verità su quel consiglio. Sospettava di no. Cosa passava per la mente di quel tipo? Essendo uno scienziato, Matthews credeva nella logica. Le persone, psicotici compresi, si comportavano in modo illogico solo quando erano in preda a vere e proprie crisi di nervi. Forse non siamo in grado di percepire la logica in base a cui agiscono e le loro azioni possono apparire prive di senso agli occhi di osservatori razionali, ma solo perché non hanno empatia con chi agisce. Una volta che riusciamo a insinuarci nella mente dei nostri pazienti, aveva scritto nel suo saggio (che aveva ricevuto un'ottima accoglienza) sul comportamento allucinatorio dei pazienti bipolari, una volta che ne comprendiamo paure e desideri - il loro sistema di logica interiore - allora possiamo iniziare a comprendere i motivi, le ragioni che sottendono alle loro azioni e aiutarli a cambiare... Dunque, che cosa stava
pensando quel ragazzo? Forse Megan aveva in programma di incontrarlo sotto lo studio, dopo l'appuntamento. Oppure aveva semplicemente visto per caso la sua macchina, guidata da un uomo che non conosceva, e l'aveva seguita. O forse - e questo tornava con le percezioni di Matthews in merito alle dinamiche spaventosamente potenti dell'amore - aveva atteso fuori dallo studio per affrontare il dottore sulla loro rottura. Forse addirittura per aggredirlo. Grazie mille, dottor Hanson, pensò con amaro sarcasmo. Avrei dovuto rompere il tuo, di femore, non quello di mammina... La rabbia lo scosse per un attimo. Poi si calmò. Chissà se il ragazzo aveva un cellulare con sé? Poteva aver chiamato la polizia e dato il numero di targa della Mercedes? Era una targa rubata, ma il numero non corrispondeva a una Mercedes grigia e la discrepanza sarebbe stata motivo sufficiente perché i poliziotti lo facessero accostare per dare un'occhiata al bagagliaio. Ma no, di sicuro non aveva chiamato la polizia. Se l'avesse fatto gli sarebbero già stati alle calcagna. E se invece avesse telefonato ai genitori? Cosa sapeva Tate Collier?, rimuginò Matthews. A cosa stava pensando? Cos'aveva intenzione di fare? Matthews accelerò fino a una piazzola di servizio, poi sterzò bruscamente nel lungo vialetto, zigzagando tra i rimorchi dei trattori e le 4x4 piene di gente che andava in vacanza. Vide che la Toyota bianca aveva imboccato l'uscita in preda al panico ed entrava nella piazzola dietro di lui. Per fortuna la pioggia aveva ripreso con forza. Il che diede a Matthews la scusa di mettersi sulla testa un «Washington Post» che gli nascondeva la faccia mentre correva per trovare un riparo. Capitolo 8 Correvano sotto la pioggia diretti alla Lexus nera di Tate, quando squillò il cellulare di lui. «Pronto?» rispose non appena si furono lasciati cadere sui sedili anteriori. «Tate Collier, per favore.» Una voce maschile. «Sono io.» «Signor Collier, sono l'agente speciale William McComb, del Dipartimento Sfruttamento e Rapimento minori dell'FBi. Abbiamo appena ricevuto un avviso interno su sua figlia.» «Grazie per aver chiamato.» «Mi dispiace per la ragazza» riprese l'agente con quel tono ottuso e incolore che Tate conosceva bene, avendo lavorato con i federali. «Purtroppo, signore, devo dire che basandoci sui fatti che abbiamo non c'è molto che possiamo fare. Ma lei si è fatto un po' di amici, qui, quand'era pubblico ministero, perciò apriremo una pratica e metteremo il suo nome in rete. Questo significa che ci saranno molti più occhi a cercarla.» «Qualsiasi cosa possiate fare, ve ne saremo profondamente grati. Mia moglie e io siamo sconvolti.» «Immagino» disse l'agente infondendo nella sua voce un alito di emozione. «Potrebbe fornirmi qualche elemento fondamentale sulla ragazza e sulla sua sparizione?» Tate ripeté i particolari fisici, con qualche aiuto di Bett sui dettagli. Bionda, occhi azzurri, un metro e settanta, cinquantotto chili, diciassette anni. Poi raccontò a McComb delle lettere. «Ha saputo della macchina?» chiese Tate. «Ehm, nossignore.» «La polizia della contea di Fairfax l'ha trovata a Vienna Metro. Sembra che si sia diretta a Manhattan.» «Davvero? Non lo sapevo. Bene, lo riferiremo ai nostri a New York... ma mi dica se sbaglio: ho l'impressione che lei non sia convinto che sia scappata. Pensa sia solo una messinscena?» Tate fu costretto a sorridere. Non credeva di essere così trasparente, specie nelle parole. «In effetti, io e mia moglie abbiamo qualche dubbio.» «Interessante» osservò McComb con lo stesso tono rigido e immutabile. «E che cosa ve lo fa supporre, nello specifico?» «Un po' di cose. Io e la madre di Megan stiamo andando proprio adesso a Leesburg per parlare con il suo terapeuta.» «Il terapeuta è a Leesburg?» «Sua madre è al St. Mary's Hospital. Ha avuto un incidente.» «E pensate che sia in grado di fornirvi qualche informazione?» «Ha detto che voleva parlare con noi. Non so che cos'abbia in mente.» «Altre idee?» «Be', Megan ha detto alla sua amica che nelle ultime settimane c'era un'auto che la seguiva.» «Un'auto, eh? Abbiamo una descrizione?» «La sua amica non ne sa nulla. Ma pensiamo che possa averla un suo insegnante. Si chiama Eckhard. Dovrebbe essere alla scuola più tardi, allena la squadra di pallavolo. Ma immagino che ci sarà solo se smette di piovere.» «E come si chiama la sua amica?» Diede all'agente il nome di Amy Walker. «Andremo a parlare anche con lei e a prendere lo zaino con i libri che Megan ha lasciato là. Speriamo che dentro ci sia qualcosa che suggerisca dove potrebbe essere andata.» «Capisco. Megan ha sorelle o fratelli?» «No.» «C'è qualcun altro che è stato a stretto contatto con la ragazza?» «Be', il fidanzato
di mia moglie.» Un attimo di silenzio. «Ah, siete divorziati.» «Giusto. Ho dimenticato di dirglielo.» «Ha il suo nome e il telefono?» chiese McComb. Tate rivolse la stessa domanda a Bett, che gli passò l'informazione. Al cellulare, disse: «Si chiama Brad Markham. Vive a Baltimora», e poi gli diede anche il numero di telefono. «Crede che possa essere coinvolto, in qualsiasi modo?» domandò l'agente a Tate. «Non l'ho mai incontrato, ma no, sono sicuro dì no.» «Okay. Vi segue qualcuno in particolare, alla polizia di Fairfax?» «Konnie... Cioè, Dimitrij Konstantinatis.» «Che ufficio?» «Fair Oaks.» «Benissimo, signore... Sa, quasi tutti i ragazzi che scappano tornano da soli. E la maggior parte di quelli che non lo fanno vengono trovati e rispediti a casa. Qualche seduta in un consultorio, un po' di terapia famigliare, e di solito le cose si rimettono a posto.» «Grazie per la rassicurazione. Le siamo grati.» «Ah, un'altra cosa, signor Collier. Immagino che lei conosca bene la legge e sappia quanto potrebbe essere... diciamo così, pericoloso prendere iniziative personali in questa faccenda.» «Certo.» «Pericoloso per tutti.» «Chiaro.» «Okay. Allora non occorre aggiungere altro.» «La ringrazio, agente. Ho solo intenzione di fare qualche domanda.» «Buona fortuna a tutti e due.» Tate riattaccò e riferì a Bett quello che aveva detto l'agente. Lei assunse un'espressione preoccupata. «Cosa pensi?» Sentì l'impulso di aggiungere “tesoro”, ma lo scacciò subito. «Solo che se c'è di mezzo l'fbi sembra molto più grave.» La gente è così stupida, così ingenua! Gli basta credere di parlare con un amico per mollare ogni difesa! E vogliono convincersi a tutti i costi che tu sia davvero un amico... Se le bestie selvatiche tendessero a fidarsi come gli esseri umani si sarebbero tutte estinte da secoli. Aaron Matthews, non più nella personificazione dell'agente dell'FBi protettore dei minori dalla voce impassibile, chiuse la comunicazione dopo aver parlato con Tate Collier. Si sentiva quasi in colpa: era stato così facile tirar fuori le informazioni da quell'uomo! E che informazioni, poi! Oh, Matthews era davvero arrabbiato.Il suo umore vacillò pericolosamente. Tutti i suoi preparativi: tanta cura, tanta raffinatezza, ogni particolare concepito perché Collier e sua moglie fossero impietriti dal dolore, spediti a casa a meditare sulla figliola perduta... e loro cosa facevano? Si mettevano a fare gli investigatori dilettanti! Che parlassero con il dottor Hanson poteva rivelarsi un problema serio. Forse Megan gli aveva detto qualcosa su quanto amava i suoi genitori, che non si era mai neanche sognata di scappare di casa. O, ancora peggio, avrebbero potuto sospettare, intuire il suo piano e convincere la polizia a perquisire l'ufficio del terapeuta. Era stato molto attento, ma non aveva portato sempre i guanti. C'erano delle impronte, il chiavistello della finestra del bagno, da cui si era introdotto, era ancora rotto, e c'era Amy Walker, l'amica di Megan. Probabilmente nello zaino con i libri non c'era niente di compromettente, ma non era detto. Magari c'era un diario, o uno di quei bigliettini che le adolescenti si passano a scuola. E questo professor Eckhard, l'allenatore... cosa sapeva? Hanno riferito di una macchina che la seguiva... Gran parte delle ricognizioni di Matthews erano state effettuate attorno alla scuola. Se il professore si era davvero avvicinato alla sua auto, non gli sarebbe stato difficile prendere la targa della Mercedes. Matthews fino al giorno prima non l'aveva sostituita con quella rubata. E anche se Eckhard non pensava di aver visto granché, era probabile che ci fosse qualche fatterello inquietante nascosto nel subconscio dell'insegnante. Lui aveva lavorato molto con l'ipnosi e sapeva quanti ricordi e quante osservazioni venivano trattenuti dalle ragnatele dei recessi della mente. Perché cazzo Collier stava facendo tutto questo? Perché non si era fatto trarre in inganno dalle lettere? Era un avvocato, porca puttana! Si presumeva che fosse logico, che fosse freddo. Perché non credeva ai fatti nudi e crudi che aveva davanti? L'umore nero cominciò a calare su Matthews, che lottò per scrollarselo di dosso. No, non ho tempo per questo, adesso! Scaccialo, scaccialo, scaccialo... (Pensò a tutti i pazienti che avrebbe voluto afferrare per il bavero e scuotere gridando loro: Oh, ma piantala di piagnucolare, cazzo! Se non ti piace, mollala! Leiha. mollato tei Trovatene un'altra. Bevi troppo? Smetti di bere!) Strizzando forte gli occhi chiusi, stringendo i pugni fino a spezzarsi un'unghia, si sforzò di restare emotivamente a galla. Dopo qualche minuto riuscì a fatica ad allontanare il malumore. Riprese il telefono e chiamò tre Walker a Fairfax finché non trovò la famiglia di cui faceva parte un'adolescente di nome Amy. «Sì, Amy è mia figlia» disse una diffidente voce femminile. «Chi parla?» «Sono William McComb. Della contea. Ho avuto una chiamata dai servizi per la Tutela dei minori.» «Oddio, cos'è successo?» «Niente di cui preoccuparsi, signora Walker. Sua figlia non c'entra. Il caso su cui stiamo indagando riguarda Megan McCall.» «Oh, no! Megan sta bene? Ha
dormito qui, stanotte!» «Sì, così ci risulta. Sembra che sia scomparsa e stiamo verificando qualche sospetto sul padre.» Un istante di silenzio. «Tate Collier» le ricordò Matthews. «Ah, certo. Io non lo conosco. Pensate che lui sia coinvolto? Credete che abbia fatto qualcosa?» «Per adesso stiamo solo verificando qualche informazione. Ma le sarei grato se dicesse a sua figlia di evitare qualsiasi contatto con lui.» «E perché dovrebbe avere contatti con lui?» chiese con voce ormai isterica la donna. Farla piangere sarà facilissimo, previde Matthews. «Non pensiamo che abbia nessuna ragione per farle del male o per toccarla...» «Oddio. Non pensate?» «Vogliamo solo essere certi che Amy sia al sicuro finché non andiamo fino in fondo su quello che è successo a Megan.» «“Successo a Megan”? Oddio, la prego, mi dica cosa sta accadendo.» «Non posso aggiungere altro, in questa fase. Davvero. Mi dica, dov'è adesso sua figlia?» «Di sopra.» «Le dispiace farmi parlare con lei?» «No, certo che no.» Un attimo dopo udì la voce strascicata di una ragazzina: «Pronto?». «Ciao, Amy. Sono il signor McComb. Della contea. Come stai?» «Tutto a posto, direi. Cioè, Megan sta bene?» «Sono sicuro che sta benone. Dimmi, il padre di Megan ha parlato con te, ultimamente?» «Mmh» mugugnò la ragazza. «Rispondi» intervenne severa la madre, anche lei in linea su un altro telefono. «Sì, cioè, ha detto che è sparita e mi ha chiesto di lei. Dovrebbe passare a prendere lo zaino di Megan.» «Ah, quindi gli interessa quello che c'è nello zaino? Hai avuto l'impressione che fosse preoccupato per quello che poteva esserci dentro?» «Cioè, forse.» «Avevi intenzione di farlo entrare in casa? Senza dirmelo?» intervenne la madre. «Mamma» ribatté la ragazza, «senti, cioè, falla finita, okay? È il papà di Megan.» Matthews disse in tono severo: «Amy, non parlare con lui. E qualsiasi cosa succeda, non andare con lui da nessuna parte». «Io...» «Se ti propone di venir via, di salire sulla sua macchina, di andare nel granaio...» «Dio, il granaio?» sussultò la madre. Sì! Matthews già sentiva un piagnucolio sommesso. «Amy, se ti offre qualcosa da bere...» insistette. Un altro sussulto. Fantastico, c'era da scompisciarsi dalle risate! Matthews continuò in tono calmo: «... qualsiasi cosa ti chieda, digli di no. Se viene da voi, non rispondere alla porta. E controlla che sia chiusa a chiave». «Cioè, perché?» «Niente perché, signorina. Fai quello che ti dice il signore.» «Mamma, cioè, dai... E lo zaino?» «Tienilo tu finché non hai notizie da me o da qualche altro agente dei servizi per la Tutela dei minori. D'accordo?» «Vabbe'.» «Dobbiamo chiamare la polizia?» chiese la signora Walker. «No, non abbiamo ancora gli elementi per imputargli nessun crimine.» «Oddio!» fece la madre di Amy. Il bagaglio di esclamazioni della donna era alquanto limitato. E poi: «Amy, dimmi. Il padre di Megan ti ha mai toccata? Di' la verità». «Chi? Il padre di Megan? Mamma, sei fuori di testa? Non l'ho mai neanche visto.» «Signora Walker?» «Sì. Sono qui» belò la povera donna con voce rotta. «Davvero, non voglio che si preoccupi senza motivo.» «No, no. Le siamo grate di aver chiamato. Mi lascia il suo numero, signor McComb? «Sarò in giro per indagini per un bel po'. La chiamo dopo, quando torno in ufficio.» «D'accordo.» Matthews avvertì un piccolo spasimo di gioia quando la sentì piangere. Anche se il silenzio di Amy all'altro telefono era più assordante. Non riuscì a trattenersi. «Signora Walker?» «Sì?» «Ha un'arma?» Un singhiozzo soffocato. «Oddio, no. Non ce l'ho. Non ho mai... Non saprei neanche usarla. Immagino che potrei andare da Sports Authority. Voglio dire...» «Non c'è problema» la interruppe lui, rassicurante. «Sono sicuro che non arriveremo a niente del genere.» «E se chiama, tipo, la madre di Megan?» chiese la ragazza. «Già» le fece eco la signora Walker, «se chiama la madre?» Un silenzio preoccupato. «Io starei in guardia. Stiamo indagando anche su di lei... Era una famiglia alquanto disturbata, a quanto pare.» «Oddio» mormorò la signora Walker. Matthews riattaccò. Tutta la faccenda rischiava di diventare un bel casino. Il rapimento in teoria doveva essere così semplice! Ma nella pratica stava diventando estremamente complicato. Proprio come l'arte della psichiatria, rifletté. Be', c'erano altre cose da fare, per proteggersi. Ma prima le faccende più importanti. Doveva portare Megan nella sua nuova casa - insieme a suo figlio Peter - lassù tra le montagne. Matthews tornò alla Mercedes. Riprese l'autostrada, notando che la macchina bianca gli stava ancora alle calcagna. Capitolo 9 Amy non era a casa. Ossignore. Tate sospirò. Sbirciò dalla finestra, ma non vide niente. Tornò alla
porta d'ingresso. Suonò di nuovo il campanello. In piedi sul gradino di cemento della casa su due piani del sobborgo di Burke, il padre di Megan tenne premuto il dito sul campanello per un minuto intero, tuttavia né la ragazza né sua madre vennero ad aprire. Dov'era andata? Bett aveva detto che sarebbero passati di lì a poco. Perché Amy non era rimasta a casa o non aveva almeno messo lo zaino sui gradini davanti a casa? Non le importava niente di Megan? Era questa l'amicizia tra adolescenti, al giorno d'oggi? «Forse il campanello è rotto» gridò Bett dall'auto. Ma quando Tate picchiò sulla porta con la mano aperta non ci fu risposta. «Amy!» gridò. Niente. «Fai il giro sul retro» suggerì Bett. Passando in mezzo a due ispidi cespugli di agrifoglio, l'uomo andò a bussare alla porta di servizio. Di nuovo nessuna risposta. Decise di introdursi all'interno per cercare lo zaino. Un'adolescente scomparsa aveva la precedenza sull'accusa tecnica di violazione di domicilio (potrei sempre sostenere di aver avuto il permesso implicito di entrare in casa, pensò). Ma quando allungò la mano verso la maniglia ebbe l'impressione di sentire un click. E quando cercò di aprire capì che la porta era chiusa a chiave. Andò di nuovo alla finestra e gli parve di vedere qualche movimento, ma non poteva esserne certo. Poi tornò alla macchina. «Non c'è.» Sospirò. «Chiameremo dopo.» «Leesburg?» propose Bett.«Proviamo l'insegnante, prima. Eckhar.d.» In macchina, ci volevano solo cinque minuti per arrivare alla scuola. Aveva smesso di piovere e i ragazzi cominciavano a raggrupparsi nel cortile: i maschi per il baseball, le femmine per la pallavolo, entrambi i sessi per il calcio. Dappertutto palline di stoffa, frisbee, skateboard. Dopo aver parlato con parecchi genitori e studenti, appresero che Robert Eckhard, allenatore di pallavolo, sarebbe arrivato alle tre del pomeriggio. Mancava un quarto alle due. Tate risalì a bordo della Lexus e si stiracchiò sul sedile. «Questo lavoro di polizia... Non so come faccia Konnie.» Bett si sfilò le scarpe e si massaggiò i piedi. «Vorrei avere delle scarpe comode come le tue.» Poi si voltarono verso la scuola. «Guarda» disse. Quand'erano sposati, Bett dava per scontato che lui sapesse sempre esattamente quello che lei stava pensando e ciò di cui parlava. Spesso comunicava con qualche espressione criptica, un gesto con un dito, un sopracciglio inarcato, come una strega che fa un incantesimo. E Tate non aveva idea di cosa significasse. Oggi però girò la testa seguendo il suo sguardo e vide le due guardie della security in uniforme, in piedi sulla soglia dell'entrata sul retro. «Buona idea» rispose. E raggiunsero la porta in macchina. Quando ci arrivarono, le guardie erano rientrate. Bett e Tate parcheggiarono, poi entrarono nell'edificio. Nei corridoi aleggiava l'odore tipico di tutte le scuole superiori: sudore, gas dai laboratori di scienze, disinfettante, colla. Tate rise tra sé per l'istintivo disagio che provava in quel luogo. Da ragazzo studiare gli era facile, ma aveva profuso tempo e fatica nel Circolo di retorica, e gli insegnanti lo mandavano sempre fuori dalla classe, in punizione, per assenze ingiustificate o compiti non fatti. Che poi, uscendo dall'aula, sostasse sulla soglia per citare con voce stentorea da Cicerone non contribuì comunque ai suoi successi scolastici. Gli uffici della security della scuola di Megan erano dei cubicoli angusti, ricavati con dei divisori accanto alla palestra, con la moquette per terra. Una delle guardie, un ragazzone dai capelli a spazzola e le palpebre a mezz'asta, l'uniforme stirata alla perfezione, ascoltò senza manifestare alcuna emozione la storia di Tate. Diede una sistemata al suo manganello nero e lucidissimo. «Non conosco vostra figlia.» Si girò per chiamare qualcuno. «Henry, conosci una certa Megan McCall?» «No» rispose il suo compagno, che gli assomigliava in maniera impressionante. Entrò nella scuola vera e propria e sparì. «Quello che ci preoccupa è questa macchina. Pare che ci fosse un uomo che la seguiva.» «Un'automobile. Che la seguiva.» Il ragazzo sembrava piuttosto scettico. Bett decise di intervenire. «Nel cortile della scuola. La settimana scorsa.» Tate: «Ci chiedevamo se qualcuno potesse averlo fatto presente». Il volto dell'uomo si atteggiò a quell'espressione risentita che è la specialità delle guardie di sicurezza. Forse sono rancorosi perché non sono poliziotti a pieno titolo e non possono portare armi. E usarle. «C'è di mezzo la polizia?» chiese. «In un certo senso.» «Mmh.» Stava cercando di capire cosa significasse. «Cosa succede se qualcuno vede qualcosa di insolito? C'è una procedura?» «Il registro di Buster» disse la guardia. «II... che?» chiese Bett. «Buster. È un cane. Voglio dire, un cane dei fumetti. Ma è come “bust”, arrestare. Trattino, più er. Se i ragazzi vedono qualcosa di sospetto vengono a dircelo, e noi lo scriviamo nel registro di Buster e rimane agli atti per la polizia. Sa, casomai succedesse qualcosa.» Tate si ricordò quel che aveva detto Amy. «È stato martedì. Là nel parcheggio vicino al campo
sportivo. Potrebbe dare un'occhiata?» «Oh, non possiamo farglielo vedere» spiegò l'uomo della sicurezza. «Come dice?» «Sa, i genitori non hanno accesso. Solo l'amministrazione e la polizia. È la regola.» «Sarebbe quello?» Il ragazzo si girò e lanciò un'occhiata a un quadernone rilegato in blu con scritto buster sulla costola e l'effigie di un cane dei fumetti con il cappello da Sherlock Holmes. «Sissignore.» «Se non le spiace... Vede, nostra figlia è scomparsa. Come le dicevo. Non potrebbe guardare lei?» «Ci faccia chiamare dalla polizia.» «Be', ufficialmente non è ancora una persona scomparsa.» «Io non ho margini di manovra, signore. Capisce?» Il volto asciutto del ragazzo si riempì di pieghe. Gli occhi freddi scandagliarono Tate dall'alto in basso e la mano muscolosa carezzò lo sfollagente color ebano. Quel giovanotto riassumeva tutto quel che Tate odiava della Virginia del Nord. Infido e cupo, non avrebbe esitato a dare un pugno in faccia alla moglie o a far assaggiare la cinta ai suoi figli per mantenere l'ordine in famiglia. Era il padrone di casa: tutti eseguivano i suoi ordini. E guai a chiedergli la sua opinione su immigrati arabi e asiatici che si stabiliscono a Fairfax, perché non avrebbe risposto in modo equilibrato. Tate guardò Bett. Aveva le sopracciglia inarcate, come se si stesse domandando: Perché esiti? In fondo sei l'avvocato del diavolo. Puoi convincere chiunque a fare qualsiasi cosa. («Tesi: L'irruzione al Watergate era giustificabile in quanto mezzo di un fine legittimo.» Democratico da una vita, nipote di un democratico per una vita, Tate aveva colto al balzo l'occasione di schierarsi a favore, nel dibattito, e di argomentare in difesa di quella posizione irriverente per il gusto di andare contro ogni ragionevole previsione. Aveva vinto, cosa che aveva lasciato il Giudice sbalordito e infinitamente divertito.) «Agente» cominciò Tate passando in rassegna i trucchi retorici del suo arsenale: logica, capacità di persuasione, raziocinio. Quindi tacque, andò alla porta e fece segno alla guardia di seguirlo. L'uomo dalla corporatura snella si mosse con lentezza sufficiente a far capire a Tate che nessuno a questo mondo lo avrebbe convinto a fare qualcosa che lui non voleva. Sulla soglia, Tate guardò versoli cortile. «Cosa vede?» La guardia esitò, incerta. Che razza di domanda sarebbe?, si chiese. Vedo gli alberi, le macchine, le siepi e le nuvole. Tate attese quel tanto e poi disse: «Io vedo un sacco di ragazzi». «Mmh.» Be', che altro vorresti vedere nel cortile di una scuola? «E quei ragazzi contano su noi adulti, per tutto. Contano su di noi per avere da mangiare, un posto dove stare, una scuola da frequentare. E sa per cosa, ancora?» Videogames, scarpe da ginnastica, Lego? Cosa vuole questo buffone? «Contano su di noi per la loro sicurezza. È per questo che siete qui, no? È questa la ragione per cui hanno assunto un giovanotto grande e grosso come lei. Uno con le palle, che, nel caso, non avrebbe paura di menare le mani.» «Non saprei. Immagino di sì.» «Bene, mia figlia conta su di me per la sua sicurezza. Ha bisogno che io scopra dov'è. Forse è nei guai, forse no. Senta, facciamo un esempio: lei vede dei brutti ceffi che parlano con un ragazzino piccolo. Forse sono solo amici, stanno solo scherzando. O magari stanno cercando di vendergli un po' di erba, oppure di fregargli i soldi del pranzo. Lei va e controlla, giusto?» «Come no, sicuro!» «È quello che sto facendo io con mia figlia. Sto cercando di scoprire se sta bene. E sfogliare quel registro sarebbe di grande aiuto.» La guardia annuì. «Allora?» chiese Tate speranzoso. «Le regole sono regole. Non si può fare. Chieda a qualcuno della polizia di Stato o a un funzionario della contea di passare di qui. Sarò felice di essere d'aiuto.» Tate sospirò. Guardò Bett, che disse freddamente: «Andiamo, Tate. Qui non c'è altro da fare». Mentre si dirigevano all'auto, la guardia li chiamò: «Signore?». Tate si voltò. «Una bella prova, comunque. I ragazzi e la sicurezza e tutto il resto. C'ero quasi cascato.» Prese una rivista sui furgoni pickup personalizzati e si mise a sedere. Tate e Bett proseguirono fino alla macchina, entrarono e uscirono dal parcheggio. Nessuno dei due riuscì a trattenersi a lungo. Entrambi scoppiarono a ridere. Finalmente, ansante, Bett disse: «È stato il più colossale mucchio di stronzate che abbia mai sentito in vita mia. È questa la ragione per cui hanno assunto un giovanotto grande e grosso come lei. Sembrava che stessi cercando di abbordarlo». Asciugandosi le lacrime, Tate cercò di controllare il riso. «È stato un eccellente lavoro di squadra.» Bett si infilò la mano sotto la camicetta e tirò fuori i venti, trenta fogli di quaderno che aveva strappato dal registro di Buster, mentre Tate aveva distratto la guardia con la sua assurda arringa. «Ho pensato che fosse meglio lasciare il registro al suo posto. Il registro di Buster?» bofonchiò. «Il registro di Busterì Davvero c'è gente che prende questa roba sul serio?» Tate guidò per altri tre isolati, poi si accostò al marciapiede. «Okay» disse lei. «Martedì... martedì.» Sfogliò le pagine. «Se Mister Truppa d'assalto
laggiù è quello che tiene i registri, scrive come una checca. Okay, martedì...» Annuì, e poi lesse: «Due studenti riferiscono presenza di una macchina grigia, senza permesso parcheggio della scuola, ferma in Sideburn Road. Una sola persona, alla guida. Ripartita senza studenti a bordo». «Una macchina grigia. Non è granché come indizio. Nient'altro?» «Quel giorno no. Ma Amy ha detto che Megan pensava di essere seguita già da un po'.» Bett sfogliò le pagine a ritroso. Le sue sopracciglia perfette si sollevarono formando un arco delicato. «Senti qui. Una settimana fa. “M. McCall (Squadra Verde) -è la sua sezione, a scuola - riferisce di una macchina grigia che sembrava seguirla. Rapporto raccolto dalla guardia giurata Gibson, che non ha assistito personalmente all'episodio. A un controllo, non è stata avvistata nessuna macchina. Il soggetto non conosceva la targa né la marca del veicolo. "» Bett guardò l'ex marito. «Perché non me ne ha parlato, Tate? Perché?» L'uomo si strinse nelle spalle. «Nessuna descrizione di chi guidava?» chiese. «No, nessuna.» «Che tipo di macchina guidava il suo ragazzo?» «Bianca. Una Toyota, credo.» «Avrebbe potuto prenderne a prestito un'altra per seguirla» rifletté Tate. «Possibile, certo.» Più domande che risposte. Tate studiò i nuvoloni minacciosi. Il sole cercava di venir fuori, ma una spessa barriera grigia avanzava nel cielo. «Torneremo più tardi per parlare con Eckhard» decise. «Adesso andiamo a Leesburg.» Capitolo 10 Joshua LeFevre guardò il contachilometri. Dall'ultima volta che aveva controllato, aveva fatto una trentina di chilometri sulla 1-66, con la sua vecchia Toyota scassata. Il che significava un centinaio di chilometri da Fairfax. L'ispettore Tibbs, il suo imperturbabile detective interiore, aveva finalmente intuito dove stavano andando Megan e il suo amante psichiatra: nella casetta di montagna del dottore. Faceva molto chic, tra i professionisti, negli ultimi tempi, avere una casa tra le Blue Ridge o nel West Virginia, dove per due soldi ci si poteva comprare una montagna intera. Aveva smesso di piovere: aprì il tettuccio, ascoltando il vento sibilare attraverso il portabiciclette Yakima sul tetto. Era primo pomeriggio quando raggiunse il massiccio dello Shenandoah. Davanti a lui si ergevano le Blue Ridge avvolte dalla foschia. La catena montuosa quel giorno non aveva il suo caratteristico color canna di fucile, pensò il neolaureato in letteratura che era in lui. Erano piuttosto rivestite della glassa verdissima della primavera. Si ricordò che lui e Megan avevano parlato di fare un giro in bici, a primavera più avanzata, lungo la Skyline Drive che costeggiava le montagne. Adesso che non pioveva più, Josh poteva vedere con più chiarezza: si accorse che nella macchina c'era solo il dottore. Dov'era Megan? Faceva un sonnellino? Un momento... gli aveva forse posato la testa in grembo? Rimuginando furibondo su quest'ipotesi sconvolgente si distrasse e la Mercedes gli sfuggì. A Sidney Poitier non sarebbe mai successo. Maledizione... La Mercedes aveva cambiato corsia per superare un semiarticolato, e lui le aveva tenuto dietro. Ma il macchinone grigio, appena finito di sorpassare la cabina del camion, aveva sterzato bruscamente a destra, infilando la rampa d'uscita. Il camionista aveva strombazzato e frenato di colpo. La Toyota di Joshua era incastrata nella corsia di sinistra, e non riuscì a sterzare in tempo per prendere l'uscita. Girò di scatto la testa e vide il tetto della Mercedes scendere al di sotto del livello stradale, rallentando sulla rampa. Diede un pugno al volante. Gli scatti di collera non erano certo in stile Poitier, ma non poteva farci niente. Pensò di fare una manovra sporchissima, un'inversione a U cambiando carreggiata, ma lui era un ragazzo nero con i capelli rasta tutti arruffati che attraversava in macchina il cuore della Confederazione: meno leggi infrangeva, meglio era. L'uscita successiva era circa un chilometro e mezzo più avanti e, quand'ebbe finito di seguire la rampa per l'inversione di marcia e riuscì a riprendere l'uscita imboccata dalla Mercedes, del macchinone non c'era più traccia. Trovò soltanto un incrocio da cui partivano tre diverse strade rurali: quale delle tre? Anzi, a ben pensarci il dottore poteva benissimo essersi fermato a far benzina per poi tornare sull'Interstatale proseguendo verso ovest. Chiuse gli occhi, frustrato, e spinse forte il capo contro il poggiatesta. Sentì come uno schiocco metallico dentro di sé. Che cazzo ci faccio, qui?, si domandò. Una di quelle cose che si fanno per amore, si rispose. Lo odio, lo odio, lo odio. Il ragazzo entrò nella stazione di servizio, fece il pieno alla pompa di benzina, poi si avvicinò all'ossuto e imbronciato addetto. La lunga chioma spuntava da sotto un cappellino omaggio della Valvoline,
unto quanto le ciocche castane. «Come va?» chiese Sidney Poitier con la massima cortesia. «E tu? Tutto a posto?» bofonchiò quello. «Non c'è male. Non c'è male.» L'uomo fissò i capelli di LeFevre, non esattamente acconciati in stile Poitier, 1967 circa, ma molto più simili a quelli di un rapper. «Serve qualcosa?» Joshua LeFevre pensò che nemmeno l'ispettore Tibbs, in completo, cravatta e scarpe Oxford tirate a lucido sarebbe riuscito a ottenere una grossa collaborazione da un tipo come quello, se avesse chiesto da che parte era andata una macchina da settantamila dollari. Per lo meno, non senza qualche incentivo. LeFevre aprì il portafogli e ne estrasse cinque biglietti da venti. Li guardò. Il benzinaio fece lo stesso. «Sono contanti.» «Sì, in effetti.» «Hai già pagato la benzina con la carta. Ti ho visto io.» «Vero.» «Be', allora quelli a che servono?» La testa bisunta ondeggiò, mentre lui accennava al denaro. «Sono per te» disse LeFevre nel suo miglior inglese dall'accento ineccepibile. «Ahah. Ahah. E perché sarebbero per me?» L'altro parve accennare un sorriso sardonico. «Ho un problemino.» La faccia con una barba di tre giorni dell'uomo parve dire: E chi se ne frega? «Stavo percorrendo la 1-66, e una Mercedes mi ha tagliato la strada facendomi sbandare. A momenti mi ammazza.» (Era successo a Sidney Poitier nella Calda notte. Più o meno.) «L'ha fatto apposta. Quello che guidava, intendo.» «Ma davvero!?» Il tipo sbadigliò. «Ho il muso tutto rovinato, adesso. Lo vedi, che lavoro c'è da fare?» Grazie a Dio, pensò LeFevre, non aveva mai riparato il danno fatto il mese scorso strusciando contro una barriera, mentre accompagnava sua madre a fare shopping al Neiman Marcus di Tysons Corner. Il benzinaio guardò la macchina senza un briciolo di interesse. «Insomma, vuoi che dia un'occhiata al muso?» «No, voglio la targa della Mercedes. È passata di qui cinque, dieci minuti fa. Speravo che si fosse fermata a fare benzina.» Chiedere la targa gli era sembrato un buon modo di rompere il ghiaccio. Dava un'aria ufficiale alla faccenda. Come se avesse intenzione di chiamare la polizia. LeFevre pensava che fosse proprio il genere di trucchetto che avrebbe adottato Sidney Poitier. «E perché ti ha sbattuto fuori strada?» chiese a un tratto l'uomo. Il ragazzo ne fu raggelato. «Be', non ne ho idea.» Fece spallucce, poi domandò: «Hai capito di che macchina parlo?». Era sempre rispettoso, ma il tono era fermo. Aveva deciso di non essere esageratamente gentile. Sidney Poitier aveva fissato parecchie volte Rod Steiger dritto negli occhi con determinazione. «Può darsi.» «Quindi si è fermato a fare benzina.» «No.» Il tizio ossuto guardò i soldi. Poi scosse la testa. Il suo sorriso viscido permise a LeFevre di scorgere, per un breve e spiacevole istante, i denti marci. «'Fanculo. Perché mi prendi per il culo? Col cazzo che cerchi la targa, tu.» «Ehm, io...» «Quello che vuoi è scoprire dove vive quel figlio di puttana. Ho ragione?» «Be'...» «E adesso ti dico anche il perché.» «Perché?» «Perché quello guidava la sua bella, grossa Mercedes e ha pensato: Ah, guarda un po' 'sto nero - solo che ha pensato un'altra parola - che guida la sua giapponesina di merda e io gli posso tagliare la strada perché per me non vale un cazzo e lui di sicuro non ha le palle per lamentarsi con nessuno.» Risatina. «E tu non vuoi la targa per l'assicurazione o per la polizia. Tu vuoi trovarlo e fargli sputare fuori anche le budella.» Dunque, fine della storia. Vabbe', ci ho provato. LeFevre era sul punto di metter via i soldi e tornare alla macchina - prima che l'altro chiamasse qualche Rod Steiger in carne e ossa -, quando il benzinaio scosse la testa e aggiunse: «Dio ti benedica». «Come dici?» «Mi fa imbufalire, quello che ha fatto quello là. Ma sul serio.» «Come?» ripeté LeFevre. «Cioè, io ho degli amici che sono neri. Un paio. E ci divertiamo un sacco e la moglie di uno dei due cucina per me e per la mia ragazza quasi tutte le settimane.» «Ah, sì?» «Sì, cazzo.» A un tratto i biglietti da venti erano tra le dita macchiate del tizio. «Più potere per voi, dico io. Trovalo, fagli sputare tutto quel che vuoi. Lo conosco, quel figlio di puttana.» «L'uomo della Mercedes?» «Proprio così.» «Il dottor Hanson, vero?» «Non lo so come si chiama. Però lo vedo andare su e giù già da un pezzo. Va e viene. Qui non si ferma mai. Forse pensa che la mia benzina non è abbastanza buona. Però l'ho visto. Mi fanno troppo incazzare quelli come lui che sbattono giù tutti quanti dalla montagna.» «In che senso “sbattono giù tutti quanti dalla montagna”?» chiese in tono gentile Sidney Poitier, che adesso sorrideva lasciando al tipo tutto il tempo che gli serviva per pensare. «Sai, quando la gente ha cominciato a stabilirsi qui, è andata a vivere verso la cima del Ridge. Ovvio, e dove sennò? Quella è la zona migliore. Ma non sono riusciti a tenersi la loro terra, quasi nessuno ci è riuscito. Problemi di soldi, capisci? Tasse. Così hanno cominciato a vendere al governo, per il parco, oppure ai ricconi che volevano una casetta per il weekend, e le famiglie continuavano a scendere giù dalla montagna.
Adesso stanno quasi tutti a valle... la maggior parte della gente perbene, voglio dire. Tra poco sulle montagne ci resteranno solo gli stronzi pieni di soldi e il governo. È quello che dice mio padre. E mi sembra sensato.» «E lui dove sta?» Il ragazzo ossuto accennò con la testa a una stretta stradina. «Va in quella direzione, ma non so di preciso dove sia casa sua. L'unico posto che conosco lassù è l'ospedale. È in vendita da anni. Probabilmente se l'è comprato e pensa di farci un villone di lusso.» «Quale ospedale?» «Dei matti. Ha chiuso un po' di tempo fa.» «È lontano?» «Saranno otto chilometri, più o meno. Alla fine di Palmer Road, laggiù» indicò. «Adesso, mica avrai intenzione di ammazzarlo, vero? Perché su questo avrei qualche problema.» «No. Sul serio, voglio solo farci quattro chiacchiere.» «Ahah. Ahah.» Il tipo strinse un po' le palpebre, poi tirò fuori di nuovo quel suo sorriso con i denti marci. «Lo sai che mi ricordi quell'attore?» «Io?» «Proprio così. Uno bravo. Non è che sei proprio uguale, ma avete, come dire, lo stesso atteggiamento. Come si chiama? Come si chiama?...» LeFevre, sorridendo a sua volta, gli fornì la risposta. L'uomo lo fissò meravigliato e scosse la testa. «E chi cazzo sarebbe Sidney Poitier?» «Forse è roba troppo vecchia per te» concluse Joshua. «Com'è che si chiama quel tizio? Ce l'ho qui davanti agli occhi... ha preso 'sti ninja e gliel'ha fatta fare addosso, in quel film, che c'era anche Sean Connery. Aspetta! Snipes... Wesley Snipes. Quello sì che è un attore.» LeFevre si portò sul bordo della piazzola. L'odore della benzina si mischiava al profumo dei germogli di primavera e della terra argillosa. Palmer Road saliva serpeggiando verso la montagna per sparire nel buio di un boschetto di conifere. Il giovane benzinaio si infilò una ciocca lurida sotto il cappello. «Stai alla larga da quell'ospedale. Io non ci andrei per tutto l'oro del mondo. Circolano delle storie. Ogni tanto qualcuno viene aggredito. Cani selvatici o roba del genere.» Roba del genere? «Certe volte i bambini trovano degli ossi insanguinati. Probabilmente di cervo o di cinghiale, ma magari no.» La rabbia di LeFevre si andava tramutando in preoccupazione. Megan, in che cosa sei andata a cacciarti? «Devo solo seguire la strada?» «Esatto. Otto chilometri, direi. La strada resta in quota, e poi si riawolge su se stessa come una serpe.» «Una serpe» ripeté Joshua rivolgendo uno sguardo distratto alla foresta cupa. Pensò all'incipit della Divina Commedia di Dante: Nel mezzo del cammin di nostra vita Mi ritrovai per una selva oscura Che la diritta via era smarrita. Una visita guidata all'inferno. «Senti» disse il benzinaio facendolo sussultare. «Quando torni indietro ti fermi qui, d'accordo? Mi fai sapere com'è andata.» LeFevre annuì, stringendo la mano sporca d'olio di quel tipo. Salì in macchina e imboccò Palmer Road. In un attimo la civiltà svanì dietro le sue spalle, e il mondo divenne solo corteccia nera, ombre, braccia ondeggianti di rami contorti. Cosa non si fa per amore, osservò tra sé Josh. Cosa non si fa! Aaron Matthews portò la Mercedes sotto un folto gruppo di abeti accanto all'asfalto e scese, guardando giù per Palmer Road. Nessun segno della macchina bianca. Era sicuro di averlo fregato con la mossa del camion. Probabilmente il fidanzatino a quest'ora era nel West Virginia. E anche se fosse riuscito a capire a che altezza della 1-66 fossero usciti e fosse tornato indietro, non aveva modo di sapere quale stradina avesse imboccato Matthews in quel labirinto di sentieri di montagna. Nonostante fosse un anno ormai che andava e veniva dall'ospedale abbandonato, da quando cioè ci aveva portato suo figlio, era stato attento a non fermarsi mai a fare benzina o a comprare da mangiare alla stazione o al negozio vicino alla rampa di uscita dell'Interstatale. Era sicuro che quei cafoni del posto non sapessero nulla di lui. Risalì in macchina e proseguì fino al Blue Ridge Mental Health Facility. Subito dopo la biforcazione, dove la strada superava due ripide alture coperte di tralci, il paesaggio si apriva nella conca di una valle poco profonda. Attraverso una schiera di alberi dalla spessa corteccia rugosa si scorgeva una distesa di edifici bassi e decrepiti. Il brmhf era stata la destinazione finale dei malati mentali di tutta la Virginia: schizofrenici, bipolari incontrollabili, personalità borderline, gente che soffriva di allucinazioni, anime perse per sempre. La sicurezza era altissima: i pazienti (o meglio, i detenuti) di notte venivano rinchiusi in camere sicure (celle imbottite). La recinzione di ferro alta due metri e mezzo che circondava i dieci acri di terreno su cui sorgeva il complesso era “progettata per assicurare confini confortevoli per i pazienti così come per gli abitanti della zona” (grazie ai 500 volt di tensione). L'ospedale aveva assolto alla propria funzione Fino a due anni prima, quando lo Stato aveva deciso di chiuderlo trasferendo i pazienti in altre strutture e in case famiglia. In men che non si dica il brmhf era stato nascosto dalla vegetazione e dimenticato. Il dottor Aaron Matthews conosceva bene quel nosocomio. Qui i
pazienti avevano trovato in lui un confidente, un confessore, un giudice... un padre virtuale, per quasi quattro anni. Quando pensava a casa, prima gli veniva in mente l'ospedale, e solo dopo la villetta in stile coloniale di Arlington, in Virginia, dove aveva vissuto con Margaret e il loro figlio Peter. Matthews fermò la Mercedes ed esaminò il posto, in cerca di segni di intrusioni, anche se la cosa era altamente improbabile. La recinzione non era più elettrificata da un pezzo, ma la rete era intatta e il complesso era sorvegliato da cinque rottweiler dalla testa bitorzoluta, i più feroci e brutali tra i cani, dai denti taglienti come ossidiana. Andavano a caccia in branco, e un paio di volte alla settimana facevano fuori uno dei cervi che spesso, se trovavano il cancello aperto, si addentravano nella proprietà. Si mise di nuovo in ascolto: nessun rumore di auto in avvicinamento. Poi aprì i due lucchetti di acciaio temperato che chiudevano il cancello. Rimontato in macchina, entrò e andò a parcheggiare. Poi tirò fuori Megan dal baule e la portò dentro, spingendo una porta con la spalla per aprirla. Aveva invertito la chiusura delle porte: per entrare bastava spingere, ma per uscire serviva la chiave. I manicomi hanno un odore molto più viscerale dei normali ospedali, perché, anche se il loro campo è la mente, il sottoprodotto delle patologie mentali è piscio, merda, sudore, sangue. Anni dopo la sua chiusura, questo era ancora valido anche per il Blue Ridge Mental Health Facility: l'aria puzzava di funzioni corporali e disfacimento. Attraverso queste sale lugubri, Matthews portò tra le braccia il suo trofeo. Sentiva ogni chilo del suo peso. Però non era un peso oneroso: era il peso di un tesoro, di un manufatto d'oro o di platino, massiccio e perfetto. Arrivarono nella stanza che aveva scelto per lei. La depose sul letto e la spogliò. Prima la camicetta e il reggiseno. Poi i jeans, le mutandine e le calze. Fece scorrere lo sguardo su e giù per il suo corpo. Ma la toccò una volta sola, per accertarsi che il suo polso fosse regolare. Presi gli abiti, uscì dalla stanza chiudendo la porta con un pesante lucchetto. Pensò di fermarsi a vedere il figlio, ma il ragazzo stava in un'altra ala dell'ospedale e lui non aveva tempo, adesso, per una visita. Il pensiero di Tate Collier lo disturbava ancora. Lasciò l'edificio, salì in macchina e si avviò al cancello. Aveva fatto appena pochi metri, quando sentì il tumptumptump di una gomma a terra. Oh, no, non adesso! L'umore di Matthews si incupì all'improvviso. Lottò ancora una volta per tenere a bada le tenebre. Pensò a Megan. Si rallegrò appena quel tanto che bastava per continuare a ragionare. Scese e andò verso il retro dell'auto. Diede un'occhiata allo squarcio nella Michelin e corse allo sportello di guida per prendere la pistola nel cruscotto. Troppo tardi. «Non muoverti!» Il giovane aveva in mano il machete arrugginito, rimasto lì da quando aveva fatto i lavori di ristrutturazione in vista del trasferimento del figlio. Non sembrava per niente a suo agio, con in mano quel lungo coltello, ma la sua espressione di folle determinazione bastò a impietrire Matthews, facendogli alzare le mani. Il ragazzo era molto muscoloso. «Ti do il portafogli» sbottò. «E poi...» «Voglio sapere che cosa sta succedendo.» La voce del ragazzo era straordinaria. Parlava un magnifico patois. Carolina, Caraibi e un po' di inglese pastoso che temperava gli altri due elementi. Era uno che poteva farsi qualsiasi donna solo dicendole che era bellissima. «Non farmi del male!» implorò Matthews in tono disperato. Un lampo di incertezza illuminò gli occhi scuri. «Cosa ne ha fatto di Megan?» Matthews aggrottò la fronte. «Chi sei?» Ah, ragazzo mio, disse il terapeuta silenzioso che era in Matthews, non sei affatto un combattente, vero? Sei fuori dal tuo elemento, impugni quel falcetto come se fosse una racchetta da squash... E perché ti senti tanto in colpa? Perché quest'aria così insicura? La pistola era nel cruscotto, a pochi centimetri di distanza. Ma il suo aggressore viaggiava sul filo dei nervi. Con la sua forza, senza nessuna fatica, non gli ci voleva molto per ferire gravemente Matthews. E poi, per quanto fosse convinto che il ragazzo non fosse pericoloso, il dottore aveva imparato a non fidarsi delle diagnosi premature. Sorrise, abbassando le braccia. Annuì come chi la sa lunga. «Aspetta, aspetta. Tu non sei... Tu devi essere Joshua.» La faccia del ragazzo assunse un'espressione perplessa e interrogativa. «Mi conosce?» «Certo che ti conosco» fece Matthews in tono suadente. «Speravo proprio di incontrarti.» Capitolo 11 «Mi hai spaventato» disse la voce carezzevole di Aaron Matthews. «Non intendevo reagire così.» Poi lanciò uno sguardo alla gomma ridendo. «Ma dopotutto tu hai aggredito la mia Mercedes con
un machete.» Con voce tremante (adoro quella voce, l'adoro) il ragazzo replicò: «Pensavo che l'avesse portata qui perché avevate un appuntamento. Per mostrarle la proprietà, o qualcosa di simile. Poi ho visto che la portava dentro di peso. Cosa accidenti sta succedendo? Me lo dica!». «Aspetta. Chi ho portato dentro?» Matthews aggrottò la fronte. Mostrarle la proprietà? «Megan. Vi ho visti, tutti e due.» Dunque crede che io sia uno speculatore immobiliare. Matthews scosse la testa, guardando in direzione dell'ospedale. «Vuoi dire pochi minuti fa? Be', ho portato dentro qualche sacco di prodotti per la pulizia. E dei teli di plastica. Ho comprato questo posto per trasformarlo in un complesso residenziale.» Un minuscolo indebolirsi dei sospetti. Non credi neanche ai tuoi occhi, vero? Succede spesso. Anzi, sulla tua faccia leggo che hai il sospetto di aver commesso qualche stupido errore, in questa faccenda. Non te la cavi molto bene con l'imbarazzo, eh? Un dono della tua mamma, donna in carriera afroamericana, scommetto. Quella che ha preso lezioni di dizione e ha imparato a drappeggiarsi sulle spalle il foulard Chanel e ad assumere un'espressione sulla difensiva, non è forse così? Matthews notò comunque che il ragazzo continuava a stringere forte la lama arrugginita. «Dov'è lei? Cosa stava facendo con la sua macchina?» «Joshua» disse in tono paziente Matthews, «ho appena lasciato Megan giù alla mia seconda casa, in cima alla strada.» Indicò un punto nel bosco. «Tre o quattro chilometri da qui. Voleva portarsi avanti con la preparazione del pranzo.» «Perché avete cambiato macchina, a Vienna Metro?» «Megan ha un'amica. Amy.» Pausa. «La conosco» replicò Joshua. «Amy le ha chiesto in prestito la sua macchina. Gliel'abbiamo lasciata al parcheggio e abbiamo preso la Mercedes.» Il ragazzo appariva perplesso. «Non sapevo che Amy avesse la patente.» Matthews si mise a ridere. «Ah, non ce l'ha? A noi non l'ha detto. Mi ero chiesto, infatti, perché non ha voluto che le lasciassimo l'auto a casa sua.» Buono, pensò Matthews dando un bel voto alla propria performance. «Ma, aspetti un attimo... Stando dietro di voi non ho visto Megan sulla sua macchina.» «Ci stavi seguendo?» Pose la domanda senza aggrottare le sopracciglia per lo strano comportamento del ragazzo. «Sì, vi seguivo. Come crede che vi abbia trovati?» «Pensavo che Megan ti avesse parlato di me. Che ti avesse detto che ogni tanto veniamo quassù.» LeFevre batté le palpebre, sbalordito. Matthews studiò qualche istante il giovanotto, poi inclinò la testa da una parte e aggiunse, comprensivo: «Senti, Joshua, non farti questo». «Farmi cosa?» Oh, quant'era dolce la disperazione che scorgeva in quegli occhi neri come olive mature! Rabbrividì quasi, dal piacere. «Faresti meglio a dimenticarla» sussurrò. «Ma io la amo!» «Dimenticala. Per il tuo bene.» Matthews si rese conto di aver visto giusto. Il ragazzo probabilmente era arrivato allo studio di Hanson verso la fine della seduta con l'idea di affrontare Megan - e, si presume, anche il dottore - riguardo al consiglio di rompere la relazione. Siamo un pochino ossessivocompulsivi, per caso? O si tratta semplicemente di un po' troppo testosterone nel sangue? Del resto, se non ci fossero le storie d'amore noi poveri psichiatri non avremmo niente da fare. Come più o meno diceva Freud: l'amore è una puttana, no? «Lei l'ha convinta a rompere con me per poterla frequentare!» sbottò Joshua. «Te l'ha detto Megan?» ribatté Matthews. «Be', non è vero. Innanzitutto è contrario alla deontologia professionale e poi non lo farei mai.» Joshua sobbalzò alla veemenza nella voce di Matthews. Il terapeuta aveva dedotto che il ragazzo era una vittima di un'educazione ipernormativa. In questo caso grazie a Papino il soldatino. «Ha deciso di rompere con te di sua iniziativa, Joshua» proseguì il terapeuta. «E solo dopo abbiamo iniziato a uscire insieme.» «Non è quello che ha detto lei. Mi ha detto che è stato lei a consigliarle di lasciarmi.» «No, Joshua. Non è andata affatto così.» «Ma me l'ha detto Meganl» «Be', non possiamo dare la colpa a lei, se non è sempre del tutto onesta, ti pare?» «Dare la colpa a lei?» «Vedi, Megan ha qualche problema, quando si tratta di assumersi la responsabilità di certe cose. Non è insolito e non è un problema grave. Tutti ne soffriamo, in vario grado. Fatica a esprimere i suoi sentimenti più intimi. Ma visti i genitori... Tu conosci Tate e Bett?» Nel sentire i nomi e la famigliarità del tono di Matthews, le difese del ragazzo si incrinarono ancor di più. Ma era ancora pericoloso. Troppo confuso, troppo innamorato, si lascia guidare in modo eccessivo dalle emozioni. Matthews decise che non sarebbe mai riuscito a conquistare la sua fiducia. Doveva prendere un'altra direzione. «Ho conosciuto sua madre. Suo padre, no» rispose il ragazzo. «Be', credimi: Megan dovrebbe ringraziare loro, per i suoi problemi. Per il fatto che è bugiarda, per esempio. E per le volte in cui perde la pazienza. Si arrabbia di brutto, vero?» «Sì, è successo in un
paio di occasioni. Ma a chi non capita di irritarsi più del dovuto?» Quella domanda fece capire a Matthews che il ragazzo la stava bevendo. Si mise a ridere. «Joshua, metti giù quell'affare e vai a casa. Dimenticati di Megan. Finirà solo per spezzarti il cuore.» «Ma io la amol» Era quasi in lacrime. Ormai il dottore ce l'aveva in pugno, lo conosceva come le sue tasche. Un fallito terrorizzato dai genitori. Padre militare. Supermamma in carriera. Una bella coppia: per usare lo scontato aggettivo di Megan, due gran fighi. Perciò Joshua non si permetteva di essere arrabbiato con loro. Però la rabbia, dentro, ce l'aveva. Per forza. Ma dove, con esattezza? Vediamo di scoprirlo... «Joshua, tu non capisci. Tu...» «Allora me lo spieghi lei.» «Non è opportuno...» «Me lo spieghi! Cosa sta succedendo?» insistette Joshua. Matthews spalancò gli occhi, come se fosse sul punto di perdere la pazienza. «D'accordo. Sei sicuro di voler conoscere la verità?» «Sì!» Matthews fece per cominciare a parlare, poi scosse la testa come se stesse lottando per controllarsi. «No, no. Non è vero.» «Sì, invece!» Con aria minacciosa, il ragazzo fece un passo in avanti. Il dottore strinse le labbra. «Me l'ha detto la prima notte che siamo andati a letto.» Joshua sussultò. «Bugiardo.» «Non credi che siamo amanti?» chiese Matthews in tono maligno. Il tono di un uomo non più spaventato, ma arrabbiato. «No, non ci credo.» «Bene. Allora, come faccio a sapere della voglia che ha poco sotto il capezzolo sinistro?» Joshua non riuscì a sostenere lo sguardo gelido di Aaron. Abbassò gli occhi sul muschio che copriva un albero caduto. Gli tremavano le mani. «E che dire dei peli del pube? Un po' troppo radi, non trovi? E cosa le piace, a letto? Le piace che gli uomini ci diano dentro tutta la notte. E adora prenderlo da dietro.» Ma a quanto pare non da te, osservò Matthews notando l'espressione scioccata del giovane. «La smetta!» «Me lo ha chiesto alla prima seduta, come fare a sbarazzarsi di te.» «No.» «Sì!» esclamò Matthews sprezzante. «Lo sai come ti ha chiamato? Il negro bianco.» Gli occhi del ragazzo si velarono di dolore quando il bisturi di quelle parole gli incise il cuore. «Non direbbe mai una cosa simile.» «Tu eri il suo esperimento con le minoranze. Voleva un nero da scopare. Ma non troppo nero, naturalmente. Pensava che tu fossi un buon compromesso. Il più bianco possibile. Poi però decise che era incappata in uno sfigato. Doveva scolarsi mezza bottiglia di Southern Comfort solo per riuscire a baciarti, mi ha confidato.» «No!» «Lei e Amy stavano su tutta la notte a ridere di te. Megan ti imita alla perfezione. Ti ha capito benissimo.» «Va' all'inferno!» «Joshua, sei tu che l'hai voluto!» gridò Matthews. «E quindi adesso ascolterai la verità, che ti piaccia o no. Voleva che la tua patetica faccia sparisse dalla sua vita. Negro bianco. Eri il suo giocattolo. Me l'ha ripetuto anche stamattina... mentre scopavamo sulla scrivania del mio studio.» Lui esplose. E se qualcun altro sarebbe stato spinto dalle parole di Matthews ad agire in modo spietato ma efficiente, Josh invece perse il controllo e gli si avventò contro come un pazzo. Lasciò cadere il machete e gli si scagliò addosso agitando i pugni. «Non è vero che l'ha detto!» urlò. «Non l'ha mai detto non l'ha mai detto non l'ha mai detto...» Matthews cadde a terra, coprendosi il capo con il braccio sinistro. E un istante dopo, quando si alzò, aveva in mano il machete. Joshua rimase impietrito. Il dottore scrutò per un secondo il giovane, il quale si rese subito conto che le cose si mettevano molto male. Joshua abbassò le braccia. «Cos'ha intenzione di fare?» sussurrò pianissimo, in tono patetico. Matthews assaporò per l'ultima volta quella voce straordinaria, fece un passo avanti e calò un fendente sulla gola del ragazzo. Il ragazzo emise un grido gorgogliante, incespicò e si buttò in avanti. Aaron fece un balzo indietro, schivando il suo pugno e gli affondò la lama prima nel braccio, poi nella gamba. Joshua cadde in avanti, tenendosi con le mani lo squarcio alla gola. Poi Matthews gli affondò la lama arrugginita nell'addome. Ma con una forza straordinaria Joshua lo spinse via, si girò e si tirò su in ginocchio, tossendo e annaspando. Il sangue gli scorreva tra le dita che stringevano il collo lacerato, mentre si allontanava rapido, carponi come un animale, verso il cancello di accesso all'ospedale. Matthews non si disturbò a seguirlo. Il giovane fece due o tre metri sul prato che circondava l'ospedale prima di crollare su un cespuglio di pastinaca che subito si fece viola scuro per gli spruzzi di sangue. Matthews si avviò lentamente verso di lui e si fermò. Sentì avvicinarsi il ringhio di qualche animale. Si allontanò di corsa dal corpo scosso dalle convulsioni. I rottweiler comparvero da dietro l'edificio. Sostarono rigidi per un attimo, poi attaccarono, affamati. Il dottore uscì dal cancello e lo richiuse, mentre i cani si stringevano come un unico ammasso di muscoli sopra il corpo che pochi minuti prima sembrava tanto forte e invincibile e adesso non era che carne ridotta a brandelli. Aaron si
sporse tra le sbarre del cancello a guardare, affascinato, il ragazzo che moriva. Joshua si batté come un leone, cercò di alzarsi, tentò di colpire i cani... Ma fu inutile. Il grosso maschio chiuse le sue enormi mandibole sulla nuca di Joshua e cominciò a scrollarlo. Dopo un attimo, il corpo era esanime. Gli animali lo trascinarono in fondo a un dirupo per banchettare. Matthews si affrettò a cambiare la ruota della Mercedes e a risalire in macchina, accelerando sulla strada sconnessa. Avrebbe seppellito i resti più tardi. Adesso non aveva tempo. Troppe cose da fare. Stava pensando che era proprio come quando esercitava. Giornate piene, giornate piene. Gente da vedere, gente con cui parlare. Cambierò la tua vita per sempre. Chi è? Chi è? Megan McCall andava alla deriva su un oceano nero, nei suoi pensieri soltanto quell'unica domanda. Aprì gli occhi e si aggrappò al sottile materasso lurido su cui giaceva. La stanza ondeggiò. Si sentiva girare la testa, aveva la nausea. La bocca era secca, gli occhi semichiusi da tanto erano gonfi. Si voltò sulla schiena ed esaminò la camera. Le pareti erano rivestite da un'imbottitura che cadeva a pezzi. Le finestre avevano le sbarre. Una cella imbottita. Quel posto puzzava così tanto che le veniva da vomitare. Si tirò su a sedere per pochi secondi, sperando di trovare una luce. Niente. Avevano tolto il lampadario al soffitto e la stanza era al buio. Forse lei... A un tratto sentì nelle orecchie come un rombo fortissimo. Macchie nere le oscurarono la vista e crollò di nuovo sul letto, svenuta. Qualche tempo dopo, quando riaprì gli occhi, riuscì a sedersi. Lasciò passare il senso di vertigine e arrivò barcollando fino al minuscolo bagno. La droga che le aveva iniettato... era ancora in circolo. Doveva far piano. Sedette sulla tazza, aprì le gambe e raccolse finalmente il coraggio per esaminarsi. Nessun gonfiore né dolore. Forse le si era strofinato addosso, ma non l'aveva violentata. Sospirò di sollievo, poi urinò e si lavò mani e faccia nel lavabo. Bevve lunghe sorsate di acqua ghiacciata. Alzatasi in piedi - Attenta, piano, fai con calma - si vide riflessa nello specchio di metallo avvitato al muro. Ebbe un sussulto. Era pallida e devastata, i capelli biondi tutti aggrovigliati e sporchi. Gli occhi rossi e gonfi. Terrorizzata. Megan si sbrigò a togliersi dal campo dello specchio. Cercò i vestiti. Niente. Non riuscì a trovare nulla in cui potersi avvolgere. Né lenzuola né tende. La frustrazione le scatenò una crisi di pianto. Si raggomitolò tutta e singhiozzò. Si chiese per quanto tempo fosse rimasta priva di sensi. Una settimana? Un giorno? Non aveva fame, perciò doveva essere ancora sabato. Tutt'al più domenica. Qualcuno la stava cercando? Qualcuno sapeva che era scomparsa? I suoi genitori, di sicuro. Non si era presentata per pranzo. Non si sarebbe presentata comunque. Ma grazie a Dio non aveva chiamato sua madre per avvertirla che non ci sarebbe andata, come aveva avuto in mente di fare. Se l'avesse fatto, non si sarebbero ancora accorti della sua assenza. E Amy... Avrebbe fatto meglio a dirle dove andava. E invece no, Megan la Svitata non ne voleva sapere. M.S. si vergognava, non voleva far sapere a nessuno che andava dallo psichiatra. 'Fanculo. Era meglio se finiva al riformatorio. Dieci giorni dentro e non se ne parlava più. Ma Megan, lei doveva scegliere il dottore dei matti. Chi è?, gridò dentro di sé. Era lui quello sulla macchina che la seguiva vicino a scuola? E dire che aveva cominciato a pensare di esserselo soltanto immaginato. Mi sa che non te l'eri immaginato, bella, commenta Megan la Svitata senza la minima comprensione. In piedi accanto al letto Megan guardò fuori dalla finestra con le sbarre, verso un grandissimo campo coperto di erba alta e macchia da sottobosco. Pochi alberi, quasi tutti abbattuti e lasciati lì a marcire. Sobbalzò alla vista improvvisa di un cane enorme che trotterellò davanti alla finestra e si fermò a guardare in su, fissandola. Dalla bocca gli penzolava un brandello di carne insanguinata, rossa, come un pezzo di bistecca. I suoi occhi erano agghiaccianti: troppo umani. Sembrava che la riconoscesse. Poi a un tratto la belva si irrigidì, girò su se stessa e scomparve. Esaminò la finestra. Le sbarre di ferro erano spesse e lo spazio tra una e l'altra troppo stretto per poterci passare in mezzo. Frustrata, batté i palmi delle mani contro la parete. Chi è? Si precipitò alla porta, l'afferrò e tirò con tutte le forze. Com'era prevedibile, era ben chiusa. Le lacrime tornarono senza preavviso. Le scivolarono sui seni e i capezzoli si contrassero per i singulti e per il freddo umido di quella camera squallida. Chi è”? Perché l'avevano costretta ad andare dal dottore? Se non l'avessero fatto, tutto questo non sarebbe mai successo. Cos'ho fatto per meritarmi tutto questo? Niente! Non ho fatto niente! Se sua madre doveva proprio andare a scoparsi qualche sfigato a Baltimora, perché non mi ha chiamato, per la miseria? Bastava una telefonata di tre minuti. Scusa tesoro, faccio tardi. Fatti portare qualcosa da Domino e paga con la carta. Fai venire Amy... e va bene anche Brittany. Basta che non ci siano
ragazzi... Se suo padre voleva sprecare la vita dietro alle ragazzine, possibile che non riuscisse a trascorrere più di un weekend al mese con lei? Era tutta colpa loro! Dei suoi genitori! Quanto vi odio! Quanto vi odio, cazzo! Quanto... Un rumore. Cos'era? Un calpestio... Veniva dal soffitto. Alzando gli occhi, vide alcune chiazze scure, dove la parete incontrava il soffitto. Si avvicinò. Ragni! Due di quelli enormi, neri. E uno aveva appena partorito... centinaia e centinaia di puntolini neri correvano giù lungo la parete come gocce d'acqua nera. Megan rabbrividì, sopraffatta dal ribrezzo. Quella vista le diede la pelle d'oca. Corse alla porta, ci si avventò sopra con tutto il peso e crollò sul pavimento pieno di schegge. Si aggirò carponi, spingendo il battiscopa nella speranza di trovare un punto che cedesse. Niente. Dal rotolo della carta igienica strappò una striscia con cui schiacciò i ragni. Gettò nello scarico quella poltiglia schifosa e poi si raggomitolò sul pavimento freddo. Pianse altri cinque minuti. Cos'è stato?, chiede Megan la Svitata al suo alter ego. Smise di piangere. Squit, squit. Ancora quel rumore. Dentro al soffitto e alle pareti. Scoiattoli, decise. Si alzò, andò fino al muro che era di blocchi di cemento. Come facevano degli animali a penetrare nelle pareti, se erano di cemento? Poi diede un'occhiata nel bagno. Lo studiò. Quelle pareti erano di cartongesso. E montata sul muro, accanto alla tazza, c'era una placca rettangolare, trenta centimetri per cinquanta, più o meno. Dove portava? Entrò nel bagno, si accucciò e fece scorrere le dita lungo i bordi del metallo coperto di molti strati di pittura. Tastando gli angoli sentì la testa di una vite e tre buchi da cui le viti erano venute via. Se fosse riuscita a scalfire la vernice, forse avrebbe potuto sollevare la placca, piegarla fino a romperla. Ma lo smalto era spesso e denso come colla. Con le sue unghie cortissime non riusciva a far presa. Pensò alla sua amica Brittany, con quelle unghie assassine. Andava sempre a farsi la manicure dall'estetista vietnamita vicino a casa. Ecco quel che le ci voleva: artigli da troia. Guardò di nuovo nella stanza, ma non riuscì a trovare niente da usare come attrezzo. Sospirando, tornò in bagno, si distese a terra e picchiò forte sulla lastra di metallo. Suonava a vuoto, seducendola con la promessa di un passaggio aperto dall'altra parte. Ma non si mosse di un millimetro. Insisti, suggerisce Megan la Svitata. Colpì la placca con il pugno, in continuazione, finché le nocche non cominciarono a illividirsi e a gonfiarsi. Si voltò per prenderla a calci con il tallone. Il centro si incavò leggermente, una crepa sottilissima si formò attorno al bordo. Calciò più forte. Le parve che il piede fosse sul punto di frantumarsi. Vai così!, la incoraggia Megan la Svitata. Dacci dentro! Megan ruotò su se stessa, cercò di nuovo di afferrare il lato della lastra. Ma non aveva le unghie lunghe abbastanza per infilarle nella crepa. Con un gemito di frustrazione, si spinse in avanti, scoprì i denti accostando la faccia alla parete, cercando di infilare gli incisivi nella fessura. La pittura e l'intonaco le lacerarono le gengive. Un crampo fulminante le esplose nella mandibola. Sentì il sapore del sangue. Poi a un tratto, con uno schiocco, i denti davanti si infilarono nella fessura e scostarono la lastra dalla parete di una frazione di centimetro. Si premette le mani sul volto per lenire il dolore. Sputò il sangue, afferrò la placca e tirò con tale furia che quella venne via di colpo, strappando dal muro la vite rimasta. Megan cadde all'indietro. Gesù, esclamò Megan la Svitata piena di rispetto. Ottimo lavoro! Con un ansito di gioia si mise a sedere per sbirciare nel buco. Una debole luce. Infilò la testa nell'apertura, che dava su un'altra stanza. A quanto pareva, la lastra chiudeva una vecchia conduttura del riscaldamento. Sull'altro lato, a una trentina di centimetri, c'era una griglia sottile. Sdraiata sulla schiena, infilò la gamba nel condotto e scalciò. La griglia cadde al suolo con un rumore di ferraglia. Si pietrificò. Piano!, ricordò a se stessa. Il rapitore poteva essere nei dintorni. Poi cominciò a strisciare nell'apertura, a testa avanti. Aveva le spalle larghe, ma riuscì a infilarsi nella conduttura. Fu costretta a portare la mano sotto di sé, sforzando il braccio, per ripararsi il seno ed evitare che i capezzoli strusciassero sul bordo tagliente della conduttura. Un centimetro alla volta, si fece strada a forza nel pertugio. Quando fu passata con la testa cominciò a esaminare l'altra stanza. Anche qui c'erano le sbarre alle finestre. Ma la porta era aperta. Oltre la soglia si intrawedeva un corridoio buio. Altri venti, venticinque centimetri. E venti ancora. Fino alle anche. Che la bloccarono di colpo. Quei fianchi del cazzo, brontola Megan la Svitata. Li odio, li odio, li odio. Non potevi perdere quei maledetti cinque chili? E chiedere troppo, vero? Non ho bisogno delle tue stronzate, adesso, chiaro?, pensò Megan rivolta all'alter ego. L'apertura dall'altro lato del muro sembrava leggermente più stretta di quella nella sua stanza. Megan tentò di dimenarsi, di stringere i muscoli, di leccarsi le dita per inumidirsi i fianchi con la
saliva, ma continuava a restare bloccata a metà tra una stanza e l'altra, il sedere al centro preciso del muro. Non se ne parla, si disse. Non resterò intrappolata qui! Si sentì sconvolgere da un mostruoso accesso di claustrofobia. Lottò per controllarsi, si dimenò appena e avanzò di quattro o cinque centimetri prima di bloccarsi di nuovo. Poi sentì il rumore. Squit, squìt. Il ticchettio delle unghiette sulla parete soprastante. Accompagnato da uno squittio acuto. Oh mio Dio, no. Gli scoiattoli. Il cuore batteva all'impazzata. Squit, squit. Proprio sopra il punto in cui era bloccata. Sembravano due. Ma ne arrivarono altri, a radunarsi nel punto d'incontro tra parete e soffitto. Poi guardò nell'angolo della stanza: una tana. Ci fu una certa agitazione al suo interno, poi un animaletto si affacciò a fissarla con gli occhietti rossi. Oh, merda, sono topi!, sbotta Megan la Svitata. La ragazza prese a singhiozzare. Il rumore delle loro zampette cominciò a scendere lungo la parete. Soffocò un urlo quando qualcosa - un pezzetto di intonaco o di legno - le cadde sulla pelle. Squit. Squit, squit squit. Camminando lungo il soffitto, diversi topolini si raccolsero sopra di lei, incuriositi. Forse affamati. Centinaia di animali mostruosi che si dirigevano verso il suo corpo bloccato, cauti ma inarrestabili. Altri topi. Squit. Squittii e scalpiceli, sempre più vicini. Adesso sembravano una decina, una ventina. Immaginò i loro dentini gialli e affilati. Le linguette grigie. Sempre più vicini. Curiosi. Attirati dal suo odore. Le era appena finito il ciclo, il giorno prima. Avrebbero sentito l'odore. Avrebbero puntato subito lì. Gesù. Altri tramestìi. Oh... Chiuse gli occhi e singhiozzò terrorizzata. Le parve che l'intera parete prendesse vita da loro. Decine, centinaia di ratti che convergevano su di lei. Sempre più vicini. Squit squitsquitsquitsquitsquit... Diede una manata contro il muro e spinse con tutta l'energia che aveva, scalciando come una matta. Poi, con uno stridore simile al trapano di un dentista, un ratto atterrò direttamente su di lei. Megan sobbalzò, il cuore le si fermò per il terrore. Batté contro il muro dimenandosi furiosamente. L'animale, stupito, cadde giù. Ne sentì la coda serpentina scivolarle tra le gambe mentre risaliva lungo la parete. «Oh!» ansimò. «No...» Mentre lottava per liberarsi e agitava i piedi sul pavimento del bagno, un altro animale allungò con fare esplorativo una zampetta, poi scese sull'incavo del fondoschiena. Le zampette fecero presa, e cominciarono a muoversi. Un naso umido e baffuto le picchiettò sulla pelle, mentre la bestiola la annusava. Con le braccia doloranti, si diede una spinta forte. Il piede trovò il bordo della tazza, nel bagno che si era lasciata indietro, e poté avanzare di cinque o sei centimetri. Era sufficiente. Dimenandosi, riuscì a liberare i fianchi. Il ratto volò via e Megan si lanciò nella stanza adiacente. Strisciò con movimenti frenetici nell'angolo opposto, mentre quattro ratti sbucati dalla parete infilavano l'uscita, seguiti dai loro compagni. Tra i singhiozzi, ansimando senza fiato, si tastò dappertutto per accertarsi di non averne nessuno addosso. Le ci vollero cinque minuti per calmarsi. Con passo cauto tornò verso il condotto e si mise in ascolto. Squit, squit, squit. Altri passettini, altri squittii. Rimise la griglia contro l'imboccatura. Il resto dei topi sparì su per la parete. Dal varco giunse un sibilo irato. Dio... Trovò qualche pila di quotidiani, tolse la griglia, appallottolò i fogli e li infilò all'interno per intrappolare le bestie nell'intercapedine. Tornò ad accasciarsi sul pavimento, cercando di scacciare l'orrenda sensazione di zampette che la tastavano, luride e umidicce. Mentre scrutava nel corridoio male illuminato, freddo e giallastro, con le sbarre alle finestre, notò una targa alla parete. DISINFESTAZIONE PER I PAZIENTI: UNA VOLTA ALLA SETTIMANA Il cartello poche, semplici parole - la riportò alla disperazione. Non preoccuparti di quello, cerca di rassicurarla Megan la Svitata. Ma Megan non l'ascoltava. Rabbrividì per la paura e il disgusto e si rannicchiò stringendosi le ginocchia. Odiava quel posto. Odiava la sua vita, la sua vita senza senso... Le sue amiche stupide e superficiali. La sua morbosa ossessione per Janis Joplin, i Grateful Dead e tutto il resto di quel passato allegro ma bugiardo, falso come Giuda. Odiava l'uomo che le aveva fatto questo, chiunque fosse. Ma soprattutto odiava i suoi genitori. Li odiava più di quanto riuscisse a esprimere. Capitolo 12 Una corsa di quaranta minuti fino a Leesburg portò Tate e Bett a superare alcune ville, qualche bungalow in stile pellerossa, dei complessi di recente costruzione con nomi come Windstone e The Oaks. Macchine nei box, banchetti del mercato che in quella stagione offrivano vasetti di
marmellata e altre leccornie fatte in casa. Ma soprattutto campi coltivati. Guardando terreni appena seminati come quelli, molti vedono future villette o centri commerciali o condomini, qualcuno vede sacchi di denaro da raccogliere da terra quando è l'ora del raccolto. E alcuni forse passano semplicemente oltre senza immaginare altro che la destinazione del loro viaggio. Ma Tate Collier in quei campi vedeva quello che provava nella sua fattoria: una tranquilla salvezza. Qualcosa che faceva con le sue mani, eppure che non era fatto da lui; qualcosa che gli avrebbe permesso di sopravvivere agiatamente se non di arricchirsi: il silenzio delle cose che mettevano radici. E se a volte quel processo lo tradiva - per la grandine, la siccità, i capricci del mercato -, lui dormiva comunque tra due guanciali, sicuro com'era che non c'era malizia nel cuore della terra. E questo, pensava l'ex pubblico ministero, non era cosa da poco. Perciò, anche se Tate sosteneva, come avrebbe fatto qualsiasi avvocato degno di questo nome, che per lui non faceva differenza rappresentare la parte lesa o gli imputati, nel caso del Liberty Park il suo cuore batteva in realtà per chi voleva proteggere la terra dagli ottovolanti, dai chioschi in concessione e dal traffico. Ancora di più adesso, guardando le colline digradanti. E si sentiva in colpa e provava una fitta di impazienza all'idea di venir distratto dai preparativi per l'udienza. Ma uno sguardo al volto preoccupato di Bett bastò a fargli accantonare quel senso di fastìdio. Avrebbe avuto tutto il tempo di preparare l'arringa. Adesso c'erano altre priorità. Superarono la fattoria Oatlands proprio mentre sorgeva il sole, poi accelerarono verso Leesburg, nel cuore della vecchia Virginia. La Virginia dei Confederati. Non c'erano molte città così, in quella zona. La maggior parte degli abitanti di Richmond e di Charlottesville in realtà non consideravano il grosso della Virginia del Nord come parte integrante dello Stato. Tate e Bett attraversarono i confini della cittadina, procedendo ai cinquanta all'ora prescritti. Superarono i prati ben rasati, le casette intonacate di bianco, l'incongruo bar del ciclista in pieno centro, una quantità di chiese. Seguirono le indicazioni per arrivare all'ospedale dove il dottor Hanson assisteva la madre. «Può dirci abbastanza?» si chiese Bett. «Dal punto di vista legale, intendo.» Stava pensando, immaginò lui, al rapporto privilegiato che garantiva la riservatezza sulle conversazioni tra un paziente e il suo medico. Anni prima, quand'erano sposati, Tate le aveva spiegato questa e altre sfumature della legge. Ma a lei spesso quelle regole astruse facevano venire i nervi. «Vuoi dire che se non gli leggi i suoi diritti l'arresto non vale anche se è colpevole?» chiedeva perplessa. Oppure: «Scusa, sai, ma perché una madre dovrebbe finire in galera se ruba da mangiare per i figli che hanno fame? Non ci arrivo». Si aspettava la stessa indignazione adesso, mentre le spiegava che Hanson non era tenuto a dir loro proprio niente. Bett invece si limitò ad annuire, accettando le regole. «Allora immagino che dovrai essere più convincente del solito» si raccomandò con un sorriso birichino. Svoltato l'angolo, si parò davanti ai loro occhi la sagoma bianca dell'ospedale. «Ah, giornata piena» commentò Bett osservando la facciata dell'ospedale mentre faceva scattare verso l'alto lo specchietto di cortesia che aveva usato per ripassarsi il rossetto. Davanti all'ingresso principale erano parcheggiate tre auto della polizia. Sul tettuccio di una di esse il lampeggiatore rosso e bianco dava un senso di urgente frenesia. «Un incidente d'auto?» ipotizzò Bett. Sulla Route 15 che portava in città c'era il limite dei novanta all'ora, ma tutti andavano a centodieci, se non a centotrenta. Posteggiarono l'auto e si avviarono all'interno. Non quadrava, notò Tate. Era successo qualcosa di grave. Nell'atrio, un gran numero di infermieri e inservienti guardavano lungo un corridoio con aria preoccupata. Una receptionist si sporgeva dal bancone per scrutare nella stessa direzione. «Cos'è successo?» sussurrò Bett. «Non ne ho idea» rispose Tate. «Dio» mormorò qualcun altro. Due poliziotti accompagnavano un uomo alto e quasi calvo lungo il corridoio verso l'ingresso, i polsi ammanettati dietro la schiena. Aveva la faccia paonazza. Stava piangendo. Mentre passava davanti a loro, Tate gli sentì dire: «Non sono stato io. Non l'avrei mai fatto! Non ero neanche presente!». Molte infermiere lo stavano fissando con freddezza. «Non sono stato io!» gridò il prigioniero. Un attimo dopo erano sull'autopattuglia, che fece un'inversione a U sul vialetto e si allontanò sgommando. «Cos'è stato?» chiese Tate alla receptionist. La donna dai capelli bianchi scosse la testa, gli occhi sgranati, le guance pallide. «Abbiamo scampato per un soffio un suicidio assistito.» Appariva molto provata. «Non ci posso credere.» «Com'è successo?» «Abbiamo una paziente... una signora anziana con il femore rotto. E sembra che quello» accennò al punto in cui prima c'era la volante della polizia «sia entrato a parlare con lei per un po', e in men che
non si dica la signora ha una siringa in mano e cerca di uccidersi. Ma ci pensa? Ma ci pensa?» «L'hanno salvata?» si informò subito Tate. «Il Signore vegliava su di lei.» «Come dice?» chiese Bett, stupita. «Un'infermiera che è entrata per caso» riprese la receptionist. «Santo cielo. Ma ci pensa?» Bett appariva estremamente turbata. Tate ricordò che sull'eutanasia aveva la stessa opinione che sulla pena di morte. Ripensò alla morte del cognato, Harris. Si era ammazzato con un fucile da caccia. Come Hemingway. Harris era stato un artista - pessimo, secondo Tate - e si era sparato nel suo studio. Il suo sangue scuro aveva ricoperto una tela a cui stava lavorando da mesi. «Quell'uomo» chiese distrattamente alla receptionist. «Chi è? Un tipo alla Kevorkian, il Dottor Morte?» «Chi?» sbottò la donna. «Ma pensi: era il figlio di quella poveretta!» Tate e Bett si guardarono sconvolti. «Oh, no! Non può essere» mormorò Bett. «La paziente...» chiese Tate alla donna «si chiamava per caso Hanson?» «Sì, proprio così.» La receptionist scosse di nuovo la testa. «Suo figlio ha cercato di convincerla a suicidarsi! E ho sentito dire che è uno psichiatra, per di più. Un dottore! Ma ci pensa?» Tate e Bett sedevano nel bar dell'ospedale; entrambi rimuginavano in silenzio. Avevano ordinato del caffè che nessuno dei due voleva. Stavano aspettando una telefonata da Konnie Konstantinatis, che Tate aveva contattato dieci minuti prima, anche se gli sembrava fosse passata un'eternità. Il cellulare di Tate ronzò. Rispose prima del secondo squillo. «Sì.» i «Okay, avvocato, ho fatto qualche telefonata. Ma è tutto ufficioso. Non esiste nessun caso, per ora. Ci sei? Capisci bene cosa significa?» «Capito, Konnie. Va' avanti.» Il detective Konstantinatis gli spiegò di aver chiamato la polizia di Leesburg e di aver parlato con uno degli investigatori. «I fatti sono questi. Una donna anziana, Greta Hanson, la settimana scorsa si è rotta il femore. È caduta dai gradini dell'entrata di servizio. Grave, ma non gravissima. Ha ottant'anni. Sai com'è.» «Chiaro.» «Bene: oggi, imbottita di analgesici, ma proprio fino alla punta dei capelli, sente suo figlio, il tuo dottor Hanson, il quale le dice che è arrivata al capolinea. Cancro. Le restano pochi mesi. Bla bla bla. Il dolore sarà terribile. È meglio, le dice, se la finisce qui. È meglio per tutti. È piuttosto convincente, a quanto pare. Le lascia una siringa di Nembutal. Lei decide che okay, lo farà. Comincia a bucarsi, ma l'infermiera la scopre appena in tempo. E comunque, anche se è parecchio stordita da tutti quei farmaci, racconta l'accaduto e il direttore dell'ospedale chiama la polizia. Trovano il figlio nello spaccio dell'ospedale che sta comprando una scatola di caramelle. Dovrebbero essere per lei. Lo arrestano. Lui nega tutto, naturalmente. D'altronde, cos'altro potrebbe dire? Ecco. Fine della storia.» «E tutto questo succede un quarto d'ora prima che io e Bett arriviamo per parlare di Megan con lui? Non può essere una coincidenza, Konnie. Andiamo.» Silenzio da Fairfax. «Konnie. Mi hai sentito?» «Io ti racconto i fatti, avvocato. Non faccio altri commenti.» «È sicura che sia stato il figlio a parlarle?» «Così ha detto.» «Ma era imbottita di farmaci. Quindi magari poteva essere qualcun altro.» «Forse. Però...» «Possiamo parlare con il dottor Hanson?» «Assolutamente no. Non prima dell'udienza di lunedì. E con ogni probabilità anche allora non sarà dell'umore giusto.» «Va bene. Rispondi a una domanda sola: puoi controllare che tipo di macchina guida?» «Chi, Hanson? Sì, resta in linea.» Mentre riferiva a Bett quello che aveva detto Konnie, lo sentì digitare qualcosa alla tastiera. «Oddio» fece lei coprendosi la bocca con la mano. Pochi secondi dopo il detective tornò in linea. «Due auto. Una Mazda noveduenove e una Ford Explorer. Modelli di quest'anno, tutt'e due.» «Colore?» «La Mazda è verde. L'Explorer nera.» «Era qualcun altro, Konnie. Qualcuno stava seguendo Megan.» «Tate, ha preso il treno per New York. Andrà a vedere la Statua della Libertà, farà un giretto per il Greenwich Village e tutto quel che fanno i ragazzini nella Grande Mela, e poi...» «Hai presente il registro di Buster?» «E cosa cavolo sarebbe?» brontolò il detective. «I ragazzi della Jefferson High ci scrivono sopra tutti quelliche li avvicinano per offrire loro droga, caramelle o per fargli vedere il pisello.» «Ah, quella stronzata. Sì, ho capito.» «Un'amica di Megan ci ha detto che c'era una macchina che la seguiva. In questo registro di Buster, alcuni ragazzi hanno riferito di una macchina grigia parcheggiata vicino alla scuola, di pomeriggio. E ne ha parlato anche Megan stessa la settimana scorsa.» «Macchina grigia?» «Esatto.» Sospiro. «Tate, permetti una domanda. Quanti ragazzi frequentano la sua scuola?» «Non sto dicendo che sia una buona pista, Konnie...» «E quanti genitori vanno a prenderli con una macchina grigia?» «... ma è una pista.» «Numero di targa? Marca, modello, anno?» Il padre di Megan sospirò. «Niente.» «Ascolta, avvocato, dammi almeno uno degli elementi che ti ho
appena chiesto e ne parliamo... Dunque, cos'è che pensi? Che l'abbia rapita qualcuno? Che l'orario ferroviario è una finta?» «Non lo so. Ma puzza di bruciato.» «Non c'è nessun caso, Tate. Questa è la parola d'ordine di oggi. Senti, adesso devo andare.» «Un'ultima domanda, Konnie. Ce l'ha davvero il cancro, la madre di Hanson?» Il detective esitò. «No. Per lo meno, non la stanno curando per quello.» «Quindi qualcuno l'ha convinta che sta morendo. L'ha indotta a cercare di suicidarsi.» «Già. E quel qualcuno era suo figlio. Poteva avere un centinaio di motivi. Devo andare, avvocato.» Click. Riferì a Bett il resto della conversazione con il detective Konstantinatis. «Megan andava da un terapeuta che ha cercato di ammazzare la madre? Mio Dio.» «Non saprei, Bett» commentò lui. «Tu l'hai visto in faccia. Ti pareva colpevole?» «Sembrava in trappola» rispose lei. Tate guardò l'orologio. Le due e mezza. «Torniamo a Fairfax e cerchiamo di trovare quel professore. Eckhard.» Megan la Svitata ha.finalmente l'occasione di parlare. Senti un pò ', ragazzina. Ascoltami bene. Ehi, stronzetta, mi ascolti? Bene. Hai bisogno di me. Qui non si scherza... non stai mica rubando sigarette nel parcheggio del centro commerciale di Fair Oaks. Non stai flirtando con una matricola del George Masonper convincerlo a offrirti una pinta di Comfort o di Turkey. Non sei in camera di Amy a tracannare vino, che tifa schifo ma devi dire che è buonissimo, mentre dici stronzate tipo: Certo, io vengo tutte le volte che io ejosh scopiamo... Lasciami in pace, ribatté Megan e basta. Ma M.S. non gliene lascia passare una. Tu odi il mondo intero, sbotta. Okay. Se è quello che vuoi... Quello che voglio è una famiglia, rispose Megan. Volevo solo quello. Oh. Bene. Questa si che è una rarità, commenta la sua metà pazza in tono sarcastico. E chi cazzo non la vuole? Vuoi che mammina e paparino agitino la bacchetta magica e ti tirino fuori di qui. Ahah. Ahah. Be', non succederà, bella. Quindi tira su quel culo grasso che hai ed esci fuori di qui. Non posso muovermi, pensò Megan. Ho paura, sono stanca. Alzati, ragazzina. Alzati. Senti, quello... E chi è quello? Megan la Svitata oggi è in forma smagliante. Che differenza faìEl'uomo nero, èjason, è Faccia di cuoio, èFreddy Krueger, è tuo padre... Va bene, smettila. Tu sei, cioè, così... pallosa! Ma M.S. ormai è lanciata. È tutto quello che tifa male, è tua madre che fa un pompino a Brad, è il granaio a casa di tuo padre, è una bambina inopportuna, è un orso che mormora... «Smettila, smettila, smettila!» gridò Megan ad alta voce. Ma una volta che Megan la Svitata ha iniziato, niente può fermarla. Non ha importanza chi è. Non lo capisci? Lui pensa che tu sia ben chiusa nella tua celletta imbottita. E invece no. Non sei lì dentro. E forse non hai tanto tempo. Quindi tira fuori le palle e vattene di qui, cazzo. Non ho i vestiti, le fece notare Megan. Ah, questa è la ragazza che piace a me. Oooh. Il suo sarcasmo è denso come schiuma da barba. Stai lì seduta a cercar scuse. Vediamo: sei incazzata perché la mamma è andata a Baltimora a scoparsi il signor Pinco Pallino; dici qualcosa al riguardo? No. Ti manda in bestia che papà ti mette in coda ai suoi appuntamenti con ragazzine dalle tette gonfiabili. Ma pianti casino? Lo chiami per parlargliene? No. Esci a ubriacarti. Un'altra sigaretta. Quali altre distrazioni possiamo inventarci? Smaltarsi le unghie, i cd, Victoria 's Secret Taco Bell il, centro commerciale, il multisala, un bel cazzo grosso, i pettegolezzi... Ti odio, pensò Megan. Davvero, guarda, ti odio. Vattene via, torna da dove sei venuta. Io sono nel posto da dove sono venuta, replica Megan la Svitata. Può darsi che tu possa permetterti di startene lì a perder tempo e può darsi di no. Ora, sei nuda come un verme e la cosa non ti piace. Bene, se questo è un problema vatti a cercare dei vestiti. Rassegnati, qui non c'è l'Outlet Grandi Firme. Ovvio, io personalmente direi fanculo i vestiti, trova una porta e fila come il vento. Ma sei tu che decidi. Megan si tirò in piedi. Uscì nel corridoio freddissimo. Dopo i calci al muro, i piedi le dolevano. Cominciò a camminare. Guardandosi attorno, vide che era un posto labirintico, su un solo piano. Fatto di blocchi di cemento. Tutte le finestre con grosse sbarre. Vista la cella imbottita, aveva pensato che fosse un ospedale psichiatrico, ma non riusciva a immaginare che in un posto simile si curassero dei pazienti. Era di un deprimente inimmaginabile. Nessuno poteva migliorare, lì dentro. Trovò una porta che dava sull'esterno e la spinse. Chiusa a chiave. Lo stesso con altre due. Guardò fuori in cerca di un'auto. Nel parcheggio non ce n'erano. Se non altro era sola. Il dottor Peters doveva essere andato via. Continua a camminare, insiste Megan la Svitata. Ma... Continuaacamminare. Obbedì. L'edificio era enorme, un'ala dopo l'altra, decine di corridoi, reparti squallidi, stanzette private, camere a due letti. Ma tutte le porte verso l'esterno erano chiuse a chiave e tutte le finestre erano sbarrate. Ogni singola finestra. Due grandi porte interne erano state malamente murate con mattoni di cemento e malta pronta,
magari perché portavano in reparti in cui le misure di sicurezza erano più blande. C'erano decine di mattoni dello stesso tipo sparsi sul pavimento. Megan pensò che fossero avanzati. Ne prese uno per scagliarlo contro le sbarre della finestra. Non le piegò di un millimetro. Fece il giro dell'ospedale per diverse ore, muovendosi in silenzio e con prudenza: nella luce fioca riusciva a distinguere delle impronte sul pavimento, a centinaia. Non sapeva se fossero state lasciate dal solo dottor Peters o se erano sue e di qualcun altro, ma era fin troppo consapevole del fatto che poteva non essere sola. Quando infine tornò alla sua cella, non aveva trovato una sola porta o finestra dall'aspetto promettente. Merda. Non c'era via d'uscita. Okay, conclude Megan la Svitata più pimpante che mai. Trova almeno qualcosa! E cosa? Un'arma, stupida. Megan ricordò di aver intravisto una cucina e tornò indietro. Cominciò a passare in rassegna cassetti e armadietti. Ma non c'era niente di utilizzabile. Né coltelli o forchette di metallo, neanche coltelli da mensa, solo centinaia di pacchetti di posate di plastica. Non c'erano bicchieri né tazze di ceramica. Tutta roba di carta o di polistirolo. Aprì una porta. Una credenza piena di generi alimentari. Fece per richiudere, poi ci ripensò e tornò a guardarci dentro. Ce n'era abbastanza per mantenere una famiglia intera per un anno. Cereali Cheerios, latte condensato, Diet Pepsi, salatini, patatine, tonno, merendine al cioccolato, minestre pronte CupaSoup, ravioli in scatola Chef Boyardee... Che c'è di strano? Gesù. È Megan la Svitata ad arrivarci per prima. Megan si portò la mano alla bocca: aveva capito anche lei. Cominciò a piangere. Gesù, ripete Megan la Svitata. Erano le marche preferite di Megan, quelle che riempivano la credenza di sua madre. E c'erano shampoo, balsamo e sapone del tipo che usava lei. Persino lo stesso modello di assorbenti. Era stato a casa sua. Sapeva quello che le piaceva. Aveva comprato tutta quella roba per lei! Non crollare, tesoro, non... Ma Megan ignorò la sua componente pazza e si sfogò nel pianto. Se può bastare per un anno a una famiglia di quattro persone, per quanto tempo potrebbe bastare a me sola? Mezz'ora dopo Megan si alzò da terra, si asciugò la faccia e riprese la ricerca. Non impiegò molto a trovare l'origine delle impronte. In una delle ali più lontane dell'ospedale c'erano due stanze che erano state “casizzate”, come diceva Bett quando arredava una casa asettica rendendola più calda e confortevole. Una era un ufficio pieno di migliaia di libri, di cartelline e documenti. Poltrona, lampada, scrivania. L'altra era una camera da letto. Puzzava di rancido da rivoltare lo stomaco. Guardò dentro. Il letto era sfatto., le lenzuola macchiate. Chiazze di bianco sporco. Gli uomini sono così disgustosi!, commenta Megan la Svitata. Megan era d'accordo. Chi potrebbe smentirlo? Significava che probabilmente lì ci viveva qualcun altro, una persona giovane (forse anche gli uomini maturi si masturbano, pensò, ma per quanto si sforzasse non riusciva a immaginare, tipo, suo padre che lo faceva). Ma che pensieri volgari! Firmato, Megan la Svitata. Poi notò l'armadio. Dio, ti prego. Incrociò mentalmente le dita mentre apriva l'anta. Sì! Pieno di vestiti. Si infilò un paio di jeans che le stavano stretti sui fianchi e troppo lunghi. Li risvoltò. Trovò una camicia da lavoro. Stretta anche quella, ma chi se ne frega. Si sentiva molto, molto meglio. Al cento per cento. Scarpe non ce n'erano, ma trovò un paio di spessi calzini neri. Chissà perché, ma coprirsi i piedi le diede molta più sicurezza. Frugò nell'armadio in cerca di un coltello o di una pistola, ma non trovò nulla. Tornò nell'altra stanza. Rovistò sulla scrivania. Niente che si potesse usare come arma, a parte una penna Bic. La prese comunque. Poi perquisì il resto dell'ufficio, concentrandosi per prima cosa sugli scaffali dei libri. C'erano testi di psichiatria, ma la maggior parte erano opere di narrativa e fantascienza. Alcune decisamente inquietanti. E pile di fumetti, anche. Quasi tutti giapponesi. Megan ne sfogliò parecchi. Proprio rivoltanti: ragazzine stuprate da mostri mitologici e alieni. Roba vietata ai minori. Rabbrividì disgustata. Il nome all'interno dei libri e sulla copertina dei fumetti era Pete Matthews. A volte aveva firmato Peter M., con molta cura ma a grosse maiuscole, come farebbe un bambino. Megan passò in rassegna i file, quasi tutti fitti di chiacchiere psicologiche in un gergo a lei incomprensibile. C'erano anche pile della rivista dell'Associazione degli psichiatri americani. Alcuni articoli erano contrassegnati con dei postit gialli. Notò che erano scritti da un dottore di nome Aaron Matthews. Il padre del ragazzo?, si chiese. Le note biografiche fornivano lunghi elenchi di credenziali. Decine di premi e cariche onorifiche. Un ritaglio lo definiva “l'Einstein degli psicoterapeuti” e spiegava: «È in grado di individuare e riconoscere una psicosi solo ascoltando le parole del paziente per tre o quattro minuti. Un genio della diagnostica». In mezzo tra due cartelline di archivio c'era un altro ritaglio. Megan si
spostò dove c'era più luce. Si vedeva il dottor Peters con un ragazzo sulla ventina. Ma, un attimo... il dottore non si chiamava Peters. La didascalia recitava: «Il dottor Aaron Matthews lascia la funzione funebre in onore della moglie. È accompagnato dal figlio Peter». Matthews... l'autore degli articoli. Dunque, doveva essere uno dei medici che lavoravano lì. Ecco come sapeva dell'ospedale e della possibilità di trasformarlo nella prigione perfetta. Megan studiò di nuovo la fotografia: le dava la pelle d'oca, la terrorizzava. Il figlio del dottore era... insomma, proprio agghiacciante. Era un ragazzo alto e magro, con le braccia lunghe e mani enormi. I capelli folti gli spiovevano sul viso come fossero sporchi. La fronte prominente faceva sembrare ancora più infossate le orbite scure. Aveva stampato in faccia un sorriso malato. Sorrideva al funerale della madre? Dunque, quella era la sua stanza: la stanza del figlio. Forse Peters - cioè, Matthews - teneva il ragazzo rinchiuso lì dentro, in carcere anche lui. Le cadde lo sguardo su un rapporto dall'aria ufficiale. Lesse la prima pagina. DIAGNOSI ALL'AMMISSIONE D'URGENZA Il paziente Peter T. Matthews presenta i sintomi tipici di una personalità antisociale e paranoide. Non è schizofrenico secondo i criteri del protocollo dmsiii, ma soffre - o dichiara di soffrire - di allucinazioni. È più probabile che si tratti semplicemente di fantasie che però nel suo caso sono così potenti che il paziente preferisce non riconoscere il confine tra la sua assunzione di un ruolo e la realtà. Queste fantasie sono di solito di natura sadoerotica, in cui lui interpreta un essere non umano che perseguita e stupra le donne. Nel corso delle nostre sedute, Peter a volte descrive questi esseri ricorrendo a manierismi inconsueti e con un linguaggio confuso. In questi giochi di ruolo è spesso “in carattere” e piuttosto coerente. Non ci sono però indizi di stati di fuga o di personalità multiple. Cambia personaggio come più gli fa comodo, per ottenere dalle sue fantasie fa massima stimolazione. Peter è estremamente pericoloso. Deve essere ospedalizzato in una struttura di sicurezza finché non sia possibile determinare un adeguato percorso terapeutico. Si raccomanda un immediato intervento psicofarmacologico. Perseguitare... stuprare. Megan rimise il referto sulla scrivania. Trovò un quadernetto per gli appunti, anche quello con il nome di Peter. Lo scorse in fretta. Con espressioni elaborate, Peter si descrive come un uomo proveniente dallo spazio, un alieno ossessionato dalle donne, che prende, lega e violenta. Lasciò cadere il taccuino. Altre lacrime. Poi un altro pensiero: la sua cella! Questo dottor Matthews, il suo rapitore, l'aveva rinchiusa non solo per non farla uscire, ma anche per evitare che suo figlio entrasse. Lui... Uno scricchiolio, un cigolio sommesso. Una porta chiusa pianissimo, in una zona remota dell'ospedale. Megan rabbrividì per il terrore. Muoviti, ragazzina!, grida Megan la Svitata. Nella sua voce silenziosa vibra lo stesso panico di Megan e basta. È lui. È il figlio. Afferrò un mucchio di cose da portare con sé: parecchie riviste, documenti relativi all'ospedale, lettere. Tutto quel che poteva aiutarla a scoprire chi era questo dottor Matthews. Perché l'aveva rapita. Come poteva fare a fuggire. Rumore di passi. Sta arrivando. Viene qui... muoviti! Subito! Tenendo sottobraccio documenti e appuntì, Megan schizzò fuori dalla porta. Corse lungo il corridoio, si smarrì, si fermò ad ascoltare i passi. Sembravano circondarla. Finalmente ritrovò la strada e corse nella camera adiacente alla sua, la “stanza dei ratti”. Aiutandosi con la grata, grattò il bordo del buco per allargarlo. Ci si infilò dentro e, gemendo, strusciò faticosamente dall'altra parte. Dieci centimetri, quindici, trenta, sessanta. Finalmente riuscì ad afferrare la tazza del gabinetto della sua stanza e a tirarsi fuori dal condotto. Rimise a posto la grata dell'altra parete e poi con una manata risistemò la placca nel bagno. Corse alla porta, schiacciandovi contro l'orecchio. I passi si avvicinavano sempre più. Ma Peter non si fermò davanti alla porta. Continuò a camminare. Forse non sapeva che lei era lì. Megan sedette sul pavimento gelato premendo furiosamente le mani contro la placca, finché non ebbe i crampi. Senti, comincia M.S., forse potresti... Chiudi il becco, pensò Megan furibonda. E, per una volta, Megan la Svitata obbedisce. Capitolo 13 Gli occhi. Gli occhi parlano. Durante il praticantato di psicoterapia, Aaron Matthews aveva imparato a leggere gli sguardi. Dicevano molto più delle parole. Le parole sono strumenti e armi, maschere e scudi. Ma gli occhi non mentono. Un'ora prima, a Leesburg, aveva guardato gli occhi
vitrei e imbambolati di una Greta Hanson piena di analgesici e aveva capito che era una donna senza più riserve di energia. Quindi si era sporto verso di lei, era diventato suo figlio, e le aveva raccontato una storia che l'avrebbe spedita - garantito - proprio da quegli angeli di cui andava blaterando. È una bella sfida, convincere qualcuno al suicidio. Si era proprio divertito. Dubitava che sarebbe morta, con la dose di Nembutal che le aveva dato; e dubitava anche che sarebbe riuscita a trovarsi la vena. E poi era importante che restasse in vita, per poter incolpare il figlio di quel gesto alla Kevorkian. Il povero dottor Hanson adesso o era in galera o era latitante. In nessun caso poteva aiutare Tate Collier con la sua testimonianza. Ora, mentre passeggiava lungo il marciapiede vicino alla Jefferson High School, Aaron Matthews guardava un altro paio d'occhi. Quelli di Robert Eckhard, il professore che aveva notato la sua macchina mentre pedinava Megan. Studiando lo sguardo dell'uomo, concluse che quel tipo poteva essere o meno un buon insegnante d'inglese, ma non aveva dubbi: era un allenatore di pallavolo femminile cazzutissimo. Piccoletto, anonimo, sedeva con in grembo la cartellina delle convocazioni appena fuori dal campo sportivo situato tra la scuola media e le superiori. Matthews, che indossava un cappellino da baseball e occhiali da lettura con la montatura grossa comprati da Safeway (non aveva tralasciato la possibilità che Eckhard l'avesse visto vicino alla scuola, sulla Mercedes), lo superò camminando piano. Studiò il soggetto con attenzione. Il professore era un uomo di mezza età, vestito con un paio di Dockers sportivi e una camicia beige piuttosto larga. Incamerò tutte queste osservazioni e le archiviò. Ma gli occhi furono decisivi: gli dissero tutto quello che gli serviva sapere sul suo conto. Procedendo lungo il marciapiede, Matthews entrò in un drugstore e fece diversi acquisti. Si infilò nel bagno del negozio e, cinque minuti dopo, tornò nel cortile della scuola. Sedette sulla panchina accanto a Eckhard e si posò in grembo il «Washington Post». Osservò le ragazze che improvvisavano una partitella a calcio o saltavano alla corda nel cortile. Eckhard gli lanciò un'occhiata, poi due. La seconda volta Matthews si girò come per caso e vide che il professore lo guardava con una punta di curiosità negli occhi rivelatori. La faccia di Matthews si impietrì, palesemente a disagio e in allarme. Aspettò qualche secondo e poi si alzò di scatto, superando l'insegnante. Ma nel farlo dal giornale ripiegato gli cadde la macchina fotografica usa e getta. Lo psichiatra batté le palpebre, stupito, poi fece un passo avanti per raccoglierla, urtando però con un piede la scatolina gialla e nera. La macchina scivolò lungo il marciapiede andando a fermarsi davanti al giornale di Eckhard. Matthews si bloccò. Il docente, gli occhi puntati su quelli di Matthews, sorrise di nuovo. Allungò un braccio, raccolse la macchina fotografica, la guardò. Se la rigirò tra le mani. «Io...» cominciò Matthews, inorridito'. «Tutto a posto» lo tranquillizzò Eckhard. «A posto?» La voce di Matthews esitò. Guardò lungo il marciapiede, da una parte e dall'altra. «La macchina, intendo. È a posto» disse Eckhard scuotendola. «Non sembra rotta.»Matthews cominciò a parlare, ansimante, dando troppe spiegazioni; come richiesto dalla sceneggiatura. «Vede, il fatto è che dovevo andare a Washington, più tardi. Allo zoo. A fare qualche scatto agli animali.» «Lo zoo.» Eckhard esaminò la macchinetta. Matthews guardò di nuovo da entrambi i lati del marciapiede. «Si interessa di fotografia?» chiese l'insegnante. Dopo un istante, Matthews rispose: «Sì, infatti. È il mio hobby». Un sorriso impacciato, come prima di arrossire. «Tutti dovrebbero avere un hobby. Lo diceva sempre mio padre.» Silenzio. «È il mio stesso hobby.» «Davvero?» «Da quindici anni» rispose Eckhard. «Anch'io. Cioè, da un po' meno tempo, in realtà.» «Abita da queste parti?» chiese il professore. «Fairfax.» «Da molto?» «Un paio d'anni.» Il silenzio tra loro si fece pesante. Eckhard aveva ancora in mano la macchinetta usa e getta. Matthews incrociò le braccia, dondolandosi sui piedi. Guardò verso il cortile. Infine domandò: «Sviluppa e stampa da solo?». «Certo» rispose Eckhard. Certo. Risposta prevista. Gli occhi di Matthews si strinsero. Parve rilassarsi. «A colori è più difficile» commentò. «Ma le usa e getta in bianco e nero non le fanno.» «Io ho deciso di prendermene una digitale» spiegò Eckhard. «Così mi basterà scaricare le foto sul computer di casa.» «Ne ho sentito parlare. Costano parecchio, vero?» «Vero... Ma sa com'è con gli hobby. Se per te sono importanti, sei disposto a spenderci.» «È anche la mia filosofia» ammise Matthews. Tornò a sedersi accanto a Eckhard. Guardarono verso il campo sportivo: un gruppo di ragazzine tra i dieci e gli undici anni. Eckhard si avvicinò al mirino. «Non c'è teleobiettivo.» «No» disse Matthews. Poi, dopo un attimo: «È carina. Quella brunetta laggiù». «Angela.» «La conosce?» «Insegno qui, alle superiori. Sono anche consulente alle medie.»
Gli occhi di Matthews mandarono lampi d'invidia. «Insegnante? Io lavoro alle statistiche per una compagnia di assicurazioni. Noioso. D'estate però faccio volontariato a Camp Henry. Nel Maryland. Fascia d'età, ottoquattordici. Ha presente?» Eckhard scosse la testa. «Sono anche l'allenatore delle squadre femminili.» «Anche quello è un bel lavoro.» Matthews fece schioccare la lingua. «Sicuro.» Eckhard si voltò verso il campo. «Conosco quasi tutte le ragazze.» «Fa anche ritratti?» «Qualcuno.» «L'ha mai fotografata? Quella lì vicino alla porta da calcio?» Eckhard però non rispose. «Dunque, viene a fare foto solo qui, da queste parti?» «Qui, in California» rispose Matthews, «qualche volta in Europa. Un po' di tempo fa sono stato ad Amsterdam.» «Amsterdam. Ci sono stato qualche anno fa. Non così interessante come una volta.» «Me ne sono accorto.» «Bangkok invece non è male» se ne uscì Eckhard. «Ho in programma di andarci l'anno prossimo» rivelò Matthews con un sussurro. «Ah, deve» lo incoraggiò Eckhard, rigirandosi tra le mani la scatolina gialla della macchina fotografica. «Un posto straordinario.» Matthews riusciva quasi a vedere le sinapsi lampeggiare frenetiche nella mente di Eckhard, nel febbrile tentativo di capire se Matthews fosse un poliziotto dei servizi per la Tutela dei minori della polizia di Fairfax o un agente dell'FBi. All'epoca in cui faceva lo psichiatra aveva avuto in cura parecchi pedofili. Riconobbe in Eckhard le caratteristiche tipiche. Era un uomo intelligente - un criminale organizzato - e sapeva tutto sulle leggi contro le molestie ai minori e la pedopornografìa. Probabilmente riusciva a tenere sotto controllo il testosterone quel tanto da evitare di molestare attivamente le bambine, ma fotografarle era un bisogno compulsivo. Matthews gli rivolse un altro sorriso complice, dopodiché guardò una ragazzina che si chinava per raccogliere una palla. Emise un lieve sospiro. Eckhard seguì il suo sguardo e annuì. La bambina si drizzò. «Nancy. Nove anni» spiegò il professor Eckhard. «Quinta elementare.» «Carina. Non ha per caso qualche sua foto?» «Sì.» Eckhard esitò un istante. «Con una bella gonnellina e la camicetta, se non ricordo male.» Matthews arricciò il naso. Si strinse nelle spalle. Si chiese se avrebbe abboccato. Zac. Eckhard bisbigliò: «Be', non in tutte c'è la camicetta». Lo psichiatra fece un profondo respiro. «Non è che per caso ne ha qualcuna qui?» «No. E delle sue, ne ha?» «Le tengo tutte nel computer» rispose Matthews. Uno dei suoi vecchi pazienti aveva diverse migliaia di foto pedopornografiche sul computer. Le scambiava con altri pedofili, mentre scontava una condanna per molestie. Le foto erano immagazzinate nel computer delle guardie, nel penitenziario statale di Hammond Falls, nel Maryland. Il detenuto aveva scritto un programma per criptare i dati e nascondere i file, ma l'fbi era riuscito ad aprirlo. Benché il condannato avesse accettato il programma di terapia, quell'ulteriore reato gli era costato altri dieci anni di detenzione. «Non ne ho moltissime, nella mia collezione. Quattromila circa.» Gli occhi di Eckhard si spostarono su Matthews con espressione incredula. Gli sfuggì un lungo e carico di invidia «Però!...». «Ho anche qualche video» rincarò Matthews. «Ma solo un centinaio.» «Un centinaio}» L'insegnante si agitò sulla panchina. Il dottore capì di averlo ormai in pugno. Probabilmente stava pensando: Nel peggiore dei casi è una trappola, ma posso cavarmela in tribunale. Alle brutte, posso cercare di difendermi. Male che vada, scappo e mi rifugio in Thailandia... Da psichiatra, Matthews restava continuamente allibito dalla facilità con cui la gente riusciva a convincersi con argomentazioni incongruenti. Ma per tirar su il pesce ci vuole la stessa attenzione che per farlo abboccare. «Lei mi sembra preoccupato...» cominciò Matthews. «E a dire la verità, anch'io non la conosco, e sono un pochino nervoso. Però lei mi ha fatto una buona impressione. Forse potremmo aiutarci a vicenda... Mi piacerebbe farle vedere qualche campione del mio materiale.» Un lampo di libidine negli occhi del professore. Gli occhi, sempre. «Andrebbe benissimo. Ottimo. Certo.» Eckhard si schiarì la voce, eccitato. Oh, piccolo essere patetico... «Potrei darle un dischetto da computer» suggerì allora Matthews. «Sarebbe fantastico.» «Abito ad appena tre isolati da qui. Faccio un salto a casa e recupero qualche scatto.» «Okay.» «Ah!» esclamò Matthews facendo una pausa. Aggrottò la fronte. «Io ho solo bambine.» «Sì, sì. Va benone» replicò Eckhard senza fiato. Gli angoli della bocca adesso erano sporchi di saliva. Disperato, chiese: «Potrebbe andarci subito?». «Sarò di ritorno fra due minuti.» Matthews si avviò su per la strada, poi si voltò per guardare; il professore, con uno stupido sorriso da un orecchio all'altro stampato sulla faccia, vagheggiava la soddisfazione del proprio squallido desiderio strofinando con il pollice la macchina usa e getta. Di nuovo al drugstore, Matthews si diresse al telefono pubblico e compose il 911. Quando rispose il
servizio d'emergenza, disse in tono allarmato: «Ah, dovete mandare subito qualcuno sulla Markus Avenue! Al campo sportivo dietro la Jefferson». Descrisse Eckhard: «Ha portato una ragazzina in un vialetto e ha tirato fuori il coso... capito?, il pene. Poi ha fatto delle foto. E l'ho sentito che le chiedeva di andare a casa sua. Ha detto che aveva un sacco di foto di ragazze come lei sul computer. Foto di bambine, capito... che facevano quello. Oh, è disgustoso. Sbrigatevi! Adesso torno là a tenerlo d'occhio prima che scappi». Riappese. Il centralinista non ebbe neanche il tempo di chiedergli i suoi dati. Matthews non sapeva se delle istantanee di bambine vestite di tutto punto in un cortile di scuola, insieme ad altri scatti del pene eretto di un uomo (il suo, ritratto nel bagno del drugstore venti minuti prima) costituissero un reato ma, una volta che i poliziotti avessero ottenuto un mandato di perquisizione, il professor Eckhard sarebbe stato fuori gioco - trasformandosi in un testimone del tutto inattendibile in tema di Mercedes grigie o di qualsiasi altra cosa - per molto, molto tempo. Appena tornato sulla strada, diretto verso la macchina, sentì le sirene. A quanto pareva, la contea di Fairfax prendeva molto sul serio la sicurezza dei suoi bambini. Tate e Bett arrivarono al cortile della scuola evitando accuratamente l'edificio principale, casomai al giovane fascista dai capelli a spazzola fosse venuto in mente di dare un'occhiata al registro di Buster dopo la loro partenza e avesse scoperto le venti pagine mancanti. Ma a quanto pareva l'allenamento di pallavolo era stato annullato, per quel giorno. Nessuno sapeva perché. In effetti il cortile era quasi deserto, malgrado il cielo fosse limpido. Trovarono due studentesse e chiesero loro se avevano visto Eckhard. No, risposero. Una di loro spiegò: «Eravamo venute per l'allenamento». «Di pallavolo?» «Esatto. E invece ci hanno detto che era stato annullato e che dovevamo tornarcene a casa. E stare alla larga da qui. Roba da matti.» «E il signor Eckhard, non l'avete visto?» «Qualcuno ha detto che doveva andare da qualche parte. Ma non hanno specificato dove. Non saprei. Prima c'era. Non capisco. Lui è sempre qui. Cioè, proprio sempre.» «Sai dove abita?» «Da qualche parte a Fairfax, credo.» «E come si chiama, di nome?» «Robert.» Tate chiamò il servizio informazioni, si fece dare il numero e telefonò. Nessuna risposta. Lasciò un messaggio. Si fermò con lo sguardo sul cortile e gli venne un'idea. Chiese a sua moglie: «Dove andava di solito, Megan?». «Di solito?» chiese Bett, distratta. La vide controllare la borsa, gli occhi sulla lettera contenente le parole laceranti di sua figlia. «Sì. Cosa faceva con le amiche dopo la scuola?» «Andava in giro. Sai com'è.» «In giro, dove? Dobbiamo andare anche noi dove andava lei e chiedere se qualcuno l'ha vista.» Dopo una lunga esitazione, Bett rispose: «Non lo so di preciso». «Non lo sai?» chiese stupito Tate. «Non sai dove va?» «No» rispose lei seccata. «Non sempre. Ha diciassette anni e la patente.» «Ah. Quindi non sai dove passa il pomeriggio.» «Non sempre, no.» Gli lanciò un'occhiata carica di rabbia. «Comunque non se ne va a zonzo nei quartieri malfamati di Washington, Tate.» «Volevo solo...» «Megan è una ragazza responsabile. Sa dove può andare e dove non può. Io mi fido di lei.» Tornarono in silenzio alla macchina. Bett riprese in mano il cellulare e la rubrica. Cominciò a fare telefonate; alle amiche di Megan, immaginava Tate. Se non altro i loro numeri li aveva, visto che non aveva quello del suo ragazzo. Ma comunque lo infastidiva moltissimo che la sua ex moglie ignorasse un sacco di informazioni di base - informazioni essenziali - su loro figlia. Arrivati alla macchina, Bett chiuse il cellulare. «Il suo posto preferito è il Coffee Shop. Vicino alla Route 50.» Aveva un tono vittorioso. «Tipo Starbucks. Va bene? Soddisfatto?» Cadde pesantemente sul sedile e incrociò le braccia. In silenzio, uscirono dal parcheggio. Capitolo 14 Procedendo a passo d'uomo, Tate entrò nel parcheggio affollato. Trovò uno spazio tra una HarleyDavidson modificata e un pickup con la bandiera confederata con le stelle dentro le sbarre. Fece manovra per infilare la Lexus scintillante nello spazio angusto. Osservò insieme a Bett le moto, gli uomini e le donne con l'aria da duri, tutti in jeans, gli sguardi di sfida, le bottiglie aperte in mano, i tatuaggi e gli anfibi. All'altro lato del parcheggio, un gruppetto completamente diverso: ragazzi con i capelli lunghi, ragazze con i capelli a spazzola, strati di indumenti larghi e sformati, piercing in quantità. Sguardi spenti. Benvenuti al Coffee Shop. «Qui?» chiese Bett. «È venuta qui?» Starbucks?, pensò Tate. Non direi proprio. Bett diede un'occhiata agli appunti che aveva buttato giù.
«A lato della 50a, vicino a Walney. È questo. Oh, mamma!» Tate guardò la ex moglie. La sua espressione inorridita non placò la sua collera. Come aveva potuto permettere che Megan frequentasse un posto del genere? Non controllava sua figlia, per la miseria? Tate spinse la portiera e fece per scendere. Bett sganciò la cintura, ma lui a un tratto disse: «Aspetta qui». Si avviò verso il gruppo più vicino, quello dei motociclisti; sembravano meno comatosi della banda di zombie dall'altra parte dello spiazzo. Ma nessuno di quelli a cui chiese aveva mai sentito parlare di Megan. Ne fu enormemente sollevato. Forse era stato solo un malinteso. Magari le sue amiche intendevano un altro bar. In fondo al parcheggio si fece largo tra un mare di indumenti grunge, camicie a quadri, scarpe Dr. Martens, jeans JNCO, Levi's sformati. Le ragazze portavano top ridotti e aderentissimi sui reggiseni a colori contrastanti, i capelli lunghi con la riga in mezzo come quelli di Megan, molti tinti; sui seni faceva bella mostra di sé il simbolo de'la pace. Le immagini ricordarono a Tate l'epoca della sua dolescenza, all'inizio degli anni Settanta. «Megan? Certo, cioè... la conosco» disse una ragazza magrolina che fumava pur essendo troppo giovane per comprare sigarette. «L'hai vista di recente?» «È qui quasi tutte le sere. Ma non nell'ultima settimana, tipo. Cioè, tu chi saresti?» «Suo padre. E sparita.» «Wow. Cazzo.» «Come faceva a entrare? Ha diciassette anni.» «Mmh... non saprei.» Tradotto: con un documento falso. «Sai se c'è stato qui qualcuno a chiedere di lei o che la seguiva?» le domandò. «Non lo so. Ma veramente io e lei non è che fossimo, tipo, molto intime. Senti, chiedi a Sammy. Ehi, Sammy!» E rivolta a Tate: «Hanno una mezza tresca». Un ragazzone si voltò verso di loro, guardò Tate con aria preoccupata. Nascose un bicchiere di carta dietro un cestino dell'immondizia e si avvicinò. Era più o meno della sua stessa statura, la faccia ricoperta di brufoli, un cappellino da baseball portato alla rovescia. Aveva un cercapersone e un cellulare. «Sto cercando Megan McCall. La conosci?» «Chiaro.» «L'hai vista di recente?» «La settimana scorsa.» «Viene qui spesso?» domandò Tate. «Sì, be', cioè, fa un salto ogni tanto. Lei; Donna e Amy. Roba così.» «E il suo ragazzo?» «Il nero, quello della Mason?» chiese Sammy. «Quello che ha mollato? Naa, non è il suo genere. Io li ho visti insieme una volta sola, mi pare.» «C'è stato qualcuno, un uomo su una macchina grigia, che ha chiesto di lei, che la seguiva?» Sammy fece una risatina. «Sì, c'è stato. La settimana scorsa. Io e Megan, no?, eravamo qui, e lei mi fa, tipo: “Ma cosa vuole, quello lì? E ancora lui”. E io le faccio: “Vuoi che lo mando affanculo?”. E lei: “Magari”. Allora sono andato verso la macchina, ma lo stronzo se n'è ripartito.» «Sei riuscito a vederlo?» «Non tanto da vicino. Era bianco. La sua età, forse un po' più vecchio.» «Hai preso la targa?» «No. Non ho visto neanche lo Stato. Ma era una Mercedes. Non so il modello. Cioè, tutti quei numeri del cazzo. Le macchine americane hanno un nome. Ma quelle tedesche solo numeri, porca puttana.» «E non hai idea di chi fosse?» «Be', sì, cioè, lo so chi era. Ma Megan non vuole che se ne parli. Quindi ho lasciato perdere.» Tate scosse la testa. «Che si parli di cosa?» «Lo sa...» «No, non lo so» precisò Tate. «Megan non vuole che si parli di cosa?» «Be', è solo...» Sammy alzò le mani. «Quello che faceva prima. Ho pensato che volesse un altro po' di azione e che l'avesse rintracciata qui.» «Azione? Non capisco. Cosa stai dicendo?» «Ho pensato che lui e Megan avessero... capito come? E che lui ne voleva un altro po'.» «Di cosa stai parlando?» insistette Tate. «Secondo lei di cosa sto parlando?» Il ragazzo era confuso. «Si è scopato Megan e gli è piaciuto.» «Stai dicendo che aveva un ragazzo sulla quarantina?» «Ragazzo?» Sammy si mise a ridere. «Nossignore. Sto dicendo che aveva un cliente.» «Cosa?» «Massì, lei...» Il ragazzo probabilmente aveva dieci o quindici chili di vantaggio su Tate, ma il lavoro nei campi mantiene in forma, e due secondi dopo Sammy era steso schiena a terra, completamente senza respiro, entrambe le mani levate a proteggersi la faccia dal pugno alzato di Tate. «Che cazzo stai dicendo?» sbraitò l'avvocato, rabbioso. «No, capo, no!» gridò Sammy di rimando. «Io non ho fatto niente. Ehi...» «Stai dicendo che faceva sesso per soldi?» «No. Non sto dicendo niente! Non sto dicendo un cazzo di niente!» La voce della ragazza era vicinissima al suo orecchio. Era la bionda con cui aveva parlato prima. «Cioè, dai, non è mica tutta 'sta cosa. È stato un paio d'anni fa.» «Un paio d'anni fa? Adesso ha appena diciassette anni, perdio!» Tate abbassò la mano. Si alzò e si spolverò via la terra. Guardò i ragazzi davanti al bar che lo fissavano. Il gigantesco buttafuori barbuto sembrava divertito. Bett si sporgeva con il busto dalla macchina e guardava preoccupatissima l'ex marito. Lui le fece segno di restare dov'era. Sammy sbottò: «Cazzo, capo, perché fai così? Mica me la sono fatta io. Ha smesso da un bel pezzo. Tu mi hai chiesto cosa
pensavo e io te l'ho detto. Credevo che al tipo fosse piaciuto e ne volesse ancora». «Scusi, signore. È che le piacevano gli uomini più grandi. E quelli erano disposti a pagare. Ma era okay, capito come?» intervenne la ragazza. «Okay?» ripeté Tate inebetito. «Certo. Usava sempre il guanto.» Tate la fissò qualche istante, poi tornò alla macchina. Sammy si rialzò, raccolse il cercapersone che nella colluttazione gli era caduto dalla cintura. «Vaffanculo, capo! Vaffanculo! E poi, chi cazzo sei?» Tate si voltò e ribatté, secco: «Suo padre». «Padre!?» esclamò il ragazzo aggrottando la fronte. «Sì. Suo padre.» Sammy guardò la ragazza, che fece spallucce. Il giovane disse: «Megan diceva che non ce l'aveva, un padre». Toccò a Tate aggrottare le sopracciglia e Sammy aggiunse: «Ha detto che lui era... tipo, un avvocato, ma che se n'era andato, che l'ha abbandonata quando aveva sei anni. E che poi non ha più saputo niente di lui». In macchina, Tate arrabbiatissimo le chiese: «Non sapevi che veniva qui?». «Te l'ho detto che non lo sapevo. Credi che l'avrei lasciata venire in un posto simile?» «Penso solo che potresti voler sapere dove passa il tempo. Ogni tanto, almeno.» «Tu “pensi solo”. Lo sai quand'è che la gente dice così?» «Cosa stai...?» cominciò lui. «In realtà significa: Avresti dovuto saperlo dov'era, stronza!» «Non volevo affatto dire questo» ribatté Tate. Mentre naturalmente era proprio quello che intendeva. Accelerò fino all'autostrada sgommando, facendo schizzare la ghiaia sotto gli pneumatici, per lasciarsi il Coffee Shop il più indietro possibile. «Insomma, cos'era tutto quel casino?» chiese alla fine Bett. Lui non rispose. «Tate? Perché hai fatto a botte con quel ragazzo?» «E meglio che tu non lo sappia» rispose cupo. «Dimmelo!» Esitò, ma alla fine cedette. «Ha detto che secondo lui il tipo sul'a macchina grigia poteva essere un cliente.» «Cliente?» «Di Megan.» «Cosa?... Oddio. Non vorrai dire...» «Invece è proprio quello che voglio dire. È quello che ha detto il ragazzo. E anche la ragazzina.» «Porco. Sei disgustoso.» «/o.?Ti ho solo riferito quello che ha detto lui.» Le lacrime le rigarono le guance. «Non lo farebbe mai! È impossibile.» «Quelli là non sembravano ritenerlo impossibile. Anzi, secondo loro lo faceva piuttosto spesso.» «Tate! Come puoi dire una cosa del genere?» «E ha detto che è successo un paio di anni fa. Quando ne aveva quindici.» «Sono sicura che non è vero.» Tate si sentì investire da un'ondata di furia. Le mani stringevano il volante con tale forza da fargli male. «Come fai a non saperlo? Come mai eri tanto occupata da non accorgerti dei preservativi nella borsa di tua figlia? Non controllavi chi la chiamava? Non vedevi a che ora tornava a casa? A mezzanotte, magari? All'una? Alle due?» «Smettila!» strillò Bett. «Non mi aggredire. Non è vero! Hanno capito male. Quando la troveremo ci spiegherà tutto.» «A quanto pare loro pensavano...» «È una bugia!» gridò lei. «Solo pettegolezzi. Ecco, non c'è altro. Pettegolezzi. Oppure parlavano di qualcun'altra. Non di Megan.» «Sì, invece, parlavano proprio di Megan. E tu avresti dovuto...» «Ah, stai dando la colpa a me? Non è colpa mia. Sai una cosa? Tu avresti potuto interessarti di più alla sua vita.» «Io?» sbottò Tate. «Okay, certo... la tua famigliola felice non è diventata come la sognavi. Be', molto spiacente. Ma anche tu avresti potuto darle un'occhiata, una volta ogni tanto.» «Lo facevo. Ho sempre pagato il mantenimento, tutti i mesi...» «Oh, per l'amor del cielo, non sto parlando di soldi. Lo sai quante volte mi ha chiesto perché il suo papà non le voleva bene? E io le rispondevo: Ma certo che te ne vuole, solo che ha tanto da fare con i suoi casi. E poi le spiegavo: È difficile essere padre, quando si è divorziati. E le dicevo...» «Ho passato la Pasqua con lei. E anche il Quattro luglio.» «Già, e avresti dovuto sentire i rapporti su quelle felici occasioni.» Bettfece una risata gelida. «Cosa vorresti dire? Non si è mai lamentata.» «Per lamentarti con qualcuno, lo devi conoscere.» «La portavo a fare shopping» riprese lui. «Le chiedevo sempre della scuola. Io...» «Tu avresti potuto fare di più. Avremmo potuto prendere accordi diversi. Essere un po' più famiglia.» «Col cazzo» sibilò lui. «Tanti ci sono riusciti. In situazioni persino peggiori.» «E cosa avrei dovuto fare, io? Levarti le castagne dal fuoco?» «Qui non si tratta di me» lo rimbeccò lei. «Be', a quanto pare sì. Sei tu la madre. Vuoi che qualcun altro aggiusti quel che hai fatto tu? O quello che non hai fatto?» «Ho fatto il meglio che potevo!» singhiozzò Bett. «Da sola.» «Ma non eri tu sola. Eravate tu e i tuoi fidanzati.» «Ah, allora dovevo restare casta e pura!» «No, ma avresti dovuto essere prima di tutto madre. Avresti dovuto accorgerti che tua figlia aveva dei problemi.» Tate non poté trattenersi dal pensare a Susan, la sorella di Bett. Aveva desiderato disperatamente dei figli, mentre a Bett l'idea era sempre stata indifferente. Dopo la morte del marito Harris, Susan era andata a vivere per brevissimo tempo con un uomo - un tipo violento e, da quel che sapeva Tate, mezzo matto. Ma era
single, divorziato o vedovo, non ricordava, e con un figlio. E Susan aveva sopportato un sacco di merda da lui solo per avere attorno il ragazzino. Aveva un desiderio spasmodico di qualcuno a cui fare da madre. Dopo la rottura l'amante era diventato pericoloso, l'aveva perseguitata, ma anche nei momenti peggiori Susan continuava a rimpiangere la perdita di quella specie di figlio. Tate adesso desiderò che Bett avesse manifestato un po' di quello stesso desiderio nei confronti di Megan. «Lo vedevo che era infelice» riprese Bett. «Ma chi non lo è? Che cos'avrei dovuto fare? Tirar fuori la bacchetta magica?» Tate sentiva montare la collera, una stretta mortale sul cuore. «Cazzo, questa è probabilmente proprio la tua idea della maternità. Certo, potevi dare un colpo di bacchetta magica. Oppure potevi fare un incantesimo, o cercare qualcosa sull'I Ching. Leggerle i tarocchi.» «Oh, ma piantala! Ho smesso con quella roba da anni... Ho tentato di essere una buona madre. Ci ho provato.» «Ma davvero?» si ritrovò a dire Tate sorprendendo prima di tutto se stesso. «Sei sicura che non eri in giro a cercare Re Artù, invece? Più facile che cambiare i pannolini o aiutarla a fare i compiti o controllare a che ora tornava dopo la scuola. Assicurarsi che non stesse scopando...» «Ci ho provato... ci ho provato...» Bett era scossa dai singhiozzi. Tate si rese conto che il tachimetro sfiorava i centotrenta chilometri all'ora. Rallentò. Un respiro profondo. Un altro. Un lungo, lunghissimo silenzio. Anche i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Senti, mi dispiace.» «Ci ho provato. Io volevo... volevo...» «Bett, ti prego. Mi dispiace.» «Anch'io volevo una famiglia, sai?» disse lei a voce sommessa mentre si asciugava la faccia con la manica della camicetta. «Vedevo il Giudice e sua moglie e te e tutti gli altri Collier. Non ne parlavo come facevi tu, ma anch'io volevo una famiglia. Ma poi sono successe delle cose... Lo sai.» «Ho perso le staffe. Io non... Hai ragione tu. Quei ragazzi, in quel posto... probabilmente è solo una cattiveria gratuita.» Ma le parole gli uscirono fiacche. E comunque ormai era troppo tardi. Il danno era fatto. Si chiese se loro due adesso avrebbero finito per non rivolgersi mai più la parola. Immaginava che sarebbe andata così, che fosse inevitabile. Si rese conto che, per strano che fosse, l'idea lo disturbava. Anzi, lo terrorizzava. Non sapeva spiegarsi il perché. Trascorse qualche lungo momento. Fu Bett a parlare per prima. Lo stupì sentirle dire, con voce calma e ragionevole: «Forse è vero, Tate... quello che hai sentito sul suo conto. Forse è così. E forse è in parte colpa mia. Ma le persone cambiano, sai? È possibile. È possibile, credimi». Proseguirono in silenzio. Bett chiuse gli occhi e appoggiò il capo al poggiatesta. L'uomo può dubitare di quel che sente. A volte può dubitare di quel che vede. «Bett... mi dispiace.» Ma su quello che fa... «Bett?» Ma lei non rispose. Capitolo 15 Decise che era più al sicuro lì, nella sua cella. Se il padre - Aaron Matthews - avesse voluto ucciderla, avrebbe potuto farlo senza problemi. Non c'era bisogno che la rinchiudesse lì dentro, né che comprasse tutte quelle scorte di cibo. No, no: aveva la strana sensazione che, benché l'avesse rapita, non intendesse farle del male. Ma il figlio... quello sì che era la minaccia. Era da lui che doveva proteggersi. Se ne sarebbe stata rinchiusa lì, nella cella imbottita di Megan la Svitata, finché non avesse escogitato la maniera di scappare. Aprì uno dei fascicoli presi dalla stanza di Peter. Fece scorrere le pagine alla luce fioca, nella speranza di trovare qualcosa che potesse esserle d'aiuto. Magari c'era una città vicino. Chissà se c'erano foto o dépliant dell'ospedale e dei dintorni, oppure una cartina. Se avesse acceso il fuoco qualcuno avrebbe potuto vedere il fumo? O ancora, forse avrebbe trovato condotti di ventilazione, uscite d'emergenza. Ricordava di aver visto una porta chiusa da un lucchetto, con il cartello seminterrato, in fondo a uno dei corridoi lì vicino. Se fosse riuscita a rompere il lucchetto può darsi che là sotto ci fossero altre uscite. Scartabellò i documenti in cerca di un'immagine, una foto dell'ospedale, sperando di scoprire finestre o porte da cui passare nel seminterrato. Evvai! Ci stai proprio dentro, commenta piena di ammirazione Megan la Svitata. Sshhh... Le cadde lo sguardo sulle carte in cima al mucchio. ... la paziente Victoria Skelling, 37 anni, schizofrenica paranoide, è stata trovata morta nella sua camera, alle ore 6:20 del 23 aprile. Causa del decesso: asfissia da inalazione delle fibre del materasso. Dalle indagini della polizia di contea (si veda rapporto allegato) è emerso trattarsi di suicidio. A quanto pare, la paziente Skelling ha lacerato a morsi il materasso, estraendone l'imbottitura. Ha inalato all'incirca 300 grammi di tale
materiale, che le si è incastrato in gola. La paziente era in terapia a base di Torazina e HaldoI; le allucinazioni erano trascurabili. Il giorno della morte, secondo il personale era stata «di buonumore» per gran parte della mattinata, ma dopo la giornata trascorsa nel parco insieme a un gruppo di pazienti manifestava uno stato crescente di depressione e agitazione. Dichiarava che stavano arrivando i topi ad aggredirla. Intendevano divorarle i seni (le precedenti allucinazioni e alcuni dei suoi sogni erano imperniati attorno a latte materno avvelenato e lattanti intossicati). Per l'ora di cena era di nuovo calma e ha trascorso la serata nel salottino della tv. Al momento di andare a letto era però di nuovo agitata, tanto che il personale aveva preso in considerazione la possibilità di limitarne i movimenti. Le è stata somministrata una dose extra di HaldoI ed è stata chiusa a chiave nella sua camera alle ore 22:00. Ha detto: «Bisogna sistemare i topi. Vincono loro, vincono loro». La mattina dopo è stata trovata morta... Che orrore, pensano insieme Megan e M.S. La ragazza fece scorrere altri fogli. ... il paziente Matthews (n. 97-4335), l'ultima persona a vederla viva, ha riferito che sembrava «in preda al terrore». Dunque il figlio di Aaron Matthews, Peter, era stato ricoverato lì. E dopo la chiusura dell'ospedale suo padre ce lo aveva riportato. Il perché non riusciva a spiegarselo. Forse in quel posto si sentiva a casa. Sfogliò un altro rapporto. Sembrava che qualcun altro si fosse suicidato. ... il corpo del paziente Garber (n. 78-7547) è stato trovato dietro l'edificio principale. La polizia e il medico legale hanno stabilito che aveva ingoiato il tubo dell'acqua per innaffiare il giardino e poi aveva aperto il rubinetto a tutta forza. La pressione dell'acqua ha provocato la rottura dello stomaco e di un lungo tratto dell'intestino. Il paziente è deceduto per emorragia interna e shock. Benché nelle vicinanze fossero presenti altri pazienti (Matthews, n. 97-4335, e Ketter, n. 91-3212), questi non sono stati in grado di fornire ulteriori informazioni. Il perito medico ha dichiarato trattarsi di suicidio. Megan scorse rapidamente diversi altri fascicoli. Si assomigliavano tutti: rapporti di suicidi di pazienti. Una delle vittime era stata trovata nella biblioteca. A quanto risultava, aveva trascorso diverse ore a fare a pezzi libri e riviste nel tentativo di trovare un foglio di carta sufficientemente robusto con cui recidersi la giugulare. Alla fine ci era riuscita. A quel pensiero fu scossa da un brivido. Un altro era saltato giù da un albero e si era rotto l'osso del collo. Non era morto, ma era rimasto paralizzato per sempre. Quando gli avevano chiesto perché l'avesse fatto, aveva risposto che «stava parlando con “alcuni pazienti” quando si era reso conto di come fosse insensata la vita e che non sarebbe mai migliorato. La morte almeno gli avrebbe portato un po' di pace». Un altro rapporto ancora dichiarava: «Il paziente Matthews è stato l'ultima persona a vedere la vittima ancora in vita». L'amministratore dell'ospedale aveva ipotizzato un suo coinvolgimento e aveva eseguito delle indagini, ma non erano state formulate accuse. Continuando a leggere, scoprì che non molto tempo dopo l'ultimo suicidio un giornalista del «Washington Times» aveva sentito parlare di quella serie di morti e aveva pubblicato un articolo d'inchiesta. L'intervento della commissione di controllo dello Stato aveva portato alla chiusura dell'ospedale. Poi Megan si rese conto che non poteva trattarsi di suicidi. Com'era possibile che non se ne fossero accorti? Peter Matthews aveva fatto fuori gli altri pazienti, riuscendo in qualche modo a far apparire quei decessi come suicidi. Sfogliò il resto dei documenti e dei ritagli. Non trovò niente di utile. Li nascose sotto al letto. Cosa posso fare? Ci deve pur essere... Poi sentì dei passi. Dapprima molto lontani. Oh, no!... Peter stava percorrendo il corridoio. Be', prima non si era accorto di lei. Più vicino, più vicino. Leggerissimi, adesso. Come se cercasse di non far rumore. Ma lo sentiva ansimare; si ricordò la foto di quel ragazzino dall'aspetto inquietante, con le labbra storte, la punta della lingua pallida all'angolo della bocca. Le tornarono in mente le lenzuola macchiate. Forse si aggirava e la cercava, masturbandosi... Megan fu scossa da un brivido violento. Scoppiò a piangere. Poi avvicinò l'orecchio alla porta, in ascolto. Dall'altro lato, nessun rumore. Forse... Una gran botta contro la porta. Il rinculo la fece cadere. Un'altra botta. Una voce sussurrò: «Megan...». Quella parola bisbigliata era carica di lascivia, disperazione e brama. «Megan...» Sa che sono qui... Sa chi sono! Peter sbatacchiava la serratura. Le diede un paio di colpi possenti, con un mattone o con una mazza da baseball. No, ti prego... Perché Matthews l'aveva lasciata sola con lui? Per quanto odiasse il dottore, pregò che tornasse. «Megannnnnn?» Adesso sembrava che ridesse. Un colpo improvviso sulla porta. Poi un secondo. E un altro ancora. A un tratto una verga di metallo arrugginito - simile
alle lance su quegli orribili fumetti che aveva lui - perforò il legno e fece capolino di qualche centimetro. Mentre Peter ritirava l'arnese, con un balzo Megan corse a chiudersi in bagno, appiattendosi contro la parete. Sentiva il suo ansito contro la porta e capì che stava sbirciando nel buco che aveva prodotto. Che la cercava. «Megan...» Ma da quell'angolatura non poteva vedere che c'era un bagno: era a lato della porta. Megan rimase per un'eternità ad ascoltare l'ansimare libidinoso. E finalmente Peter si allontanò. La ragazza fece per rientrare nella camera, ma poi si bloccò. Se ne sarà andato davvero?, si chiese. Decise che avrebbe atteso il buio. Forse Peter era là fuori e l'avrebbe vista. E se lei avesse tappato il buco, allora sarebbe stato sicuro che era lì dentro. Sedette sulla tazza, si prese la testa tra le mani e pianse. Forza, ragazzina. Alzati. Non posso. No, non posso. Ho paura. Certo che hai paura, la schernisce Megan la Svitata. E allora! Guarda lì. Guarda la finestra del bagno. No, è un'idea folle. Tu sai cosa devi fare. Non posso, pensò Megan. Non ce la faccio, e basta. Ah sì? Hai per caso altra scelta? Megan si alzò, dirigendosi alla finestrella. Allungò la mano tra le sbarre fino a toccare il vetro sporchissimo. Non posso. Sì che puoi! Megan strisciò dentro la stanza, pregando che Peter non fosse fuori dalla porta a sbirciare dal buco. Tastò sotto il letto, sicura di acchiappare una manciata di ratti. Invece no, trovò soltanto la cartellina che stava cercando. Tornò nel bagno e aprì la finestrella, poi premette la cartellina contro il vetro. Tirò indietro il pugno e colpì con forza, ma il vetro resistette. Lo colpì di nuovo, e stavolta una crepa si aprì per tutta la lunghezza della finestra. Un'ultima botta, e finalmente andò in frantumi. Fece appena in tempo a ritirare il pugno prima che i frammenti taglienti cadessero sul davanzale. Scelse una scheggia triangolare lunga una ventina di centimetri, stretta come un pugnale. Prendendo spunto dalla triste fine della paziente Victoria Skelling, Megan usò i denti per strappare una striscia del materiale di rivestimento dall'imbottitura della cella, dopodiché lo avvolse alla base della scheggia a mo' di manico. Brava, si congratula M.S., fiera della sua altra personalità. No, molto più che brava, rifletté Megan, grande. Dottor Matthews, vaffanculo. Sono grande! Si ricordò di come si era sentita mentre scriveva quelle lettere ai suoi nell'ufficio del dottor Hanson. Era stato spaventoso, doloroso, ma onesto fino in fondo. Grande. Allora, che si fa adesso?, si chiede Megan la Svitata. «Si fa secco il ragazzino a pugnalate» rispose Megan a voce alta. «Poi gli prendiamo le chiavi e ce la filiamo di corsa da questo postaccio.» Così mi piaci, commenta M.S. Ma che mi dici dei cani? Loro hanno gli artigli, ma ce li ho anch 'io. Megan alzò il pezzo di vetro con un gesto teatrale. Megan la Svitata è piena di ammirazione. «C'è un furgone.» «Un furgone?» chiese Bett. «Che ci segue» proseguì Tate mentre superavano lo Sky Chalet di Chantilly. Lei fece per voltarsi. «No, non ti girare» la redarguì lui. Lei si rimise dritta. Si guardò le mani, le unghie smaltate di lilla. «Sei sicuro?» «Abbastanza. Un furgone bianco.» Compì un lento cerchio nel centro commerciale, poi uscì sulla Route 50 e accelerò in direzione est. Uscì all'altezza del centro commerciale di Greenbriar, si fermò davanti a Starbucks e scese. Comprò due tè con schiuma di latte e tornò alla macchina. Rimasero un attimo fermi a bere e, quando un camioncino Ford Explorer rosso si frappose tra la Lexus e il furgone, Tate schiacciò l'acceleratore, sgommò davanti a una libreria, sterzò in Majestic Lane e superò il semaforo che lo riportava sulla Route 50 proprio mentre stava per diventare rosso. Questa volta però prese verso ovest. Quando si fu immesso nella normale corsia di marcia, vide che il furgone bianco era ancora lì. «Come ha fatto?» si chiese Tate ad alta voce. «C'è ancora?» «Già. È in gamba, cazzo.» Proseguirono verso est passando sotto la Route 28, la linea di demarcazione tra la civiltà e la zona rurale che alla fine portava alle montagne. «Che facciamo?» Ma Tate non rispose; anzi, non sentì quasi la domanda. Stava guardando un enorme cartello che diceva: futura SEDE DI LIBERTY PARK. Si fece una gran risata. Che strano, notare l'insegna proprio nel momento in cui il furgone li seguiva. Una straordinaria coincidenza, si direbbe. Bett - be', quantomeno la Bett di una volta l'avrebbe naturalmente attribuita agli astri o agli spiriti o a un'incarnazione precedente o a qualcosa di simile. Non faceva differenza. Lui aveva collegato le cose, ormai, e adesso aveva una pista solida. «Che succede?» strillò lei, allarmata dalla vietatissima inversione a U che li aveva portati a girarsi di centottanta gradi schiacciando l'erba dell'aiuola spartitraffico e dalla sonora risata di gola di Tate. «Mi è appena venuta un'idea. Andiamo un attimo a casa mia. Devo prendere una cosa.» «Eh? Cosa?» «Una pistola.» Bett voltò la testa verso di lui, poi tornò subito a guardare avanti. «Non dici mica sul serio, vero?» «Oh, sì, invece. Sono
serissimo.» Alcuni anni prima aveva seguito, da procuratore della contea, un improbabile caso di omicidio, un trafficante di droga giamaicano fatto fuori in un ristorante della catena Wendy's, nella periferia di Burke. Un giorno Konnie Konstantinatis aveva infilato la testa nel suo ufficio. «E ora che tifai il ferro.» «Da calza?» «Ti consiglio uno di quei revolver che basta puntare e sparare. Non sei il tipo da armeggiare con clip, sicure e roba del genere.» «Cosa sarebbe una clip?» Tate scherzava, ovviamente. Qualsiasi avvocato della Virginia conosceva a menadito i termini e il gergo delle armi da fuoco. Ma il fatto è che in realtà lui non aveva dimestichezza con le pistole. Il Giudice non ne aveva, non ne sentiva il bisogno ed era convinto che se non ci fossero state armi il paese sarebbe stato di certo un posto più sicuro. Ma Konnie non avrebbe accettato un no come risposta e, nel giro di una settimana, Tate si ritrovò in possesso di una Smith & Wesson.38 Special, molto poco alla moda, tamburo a sei colpi con solo cinque pallottole: lo spazio sotto il percussore doveva restare assolutamente vuoto, si raccomandò il detective. Da tre o quattro anni la pistola era rimasta nel baule, chiuso con un lucchetto attaccato a una catena, nel granaio. Ora Tate entrò nel vialetto e schizzò fuori, constatando che con la sua guida da folle aveva seminato il furgone senza neanche accorgersene. Corse nel granaio, trovò la chiave del lucchetto e, dopo aver armeggiato un bel po', riuscì ad aprire il baule. Il revolver, ancora tutto unto come lo aveva lasciato, era chiuso in una busta di plastica con la zip. Lo tirò fuori, lo ripulì e se lo infilò in tasca. «Ce l'hai?» chiese timidamente Bett in macchina, come una studentessa avrebbe chiesto al suo ragazzo se si era portato il preservativo. Tate annuì. «È carica?» «Non so. Vediamo.» Si era dimenticato di controllare. La tirò fuori e pasticciò finché non si ricordò come si apriva. I cinque occhi dei proiettili lo fissavano dal tamburo. «Sì.» Richiuse il pesante revolver con uno scatto e se lo rimise in tasca. «Non c'è pericolo che parta, vero? Da sola, intendo.» «No.» Vide che Bett lo fissava. «Che c'è?» chiese, avviando il motore della Lexus. «Sei... Hai un'aria spaventosa.» La sua risata fu fredda. «Mi sento spaventoso. Andiamo.» Descrizione di Manassas, Virginia: Camion dagli enormi pneumatici, adolescenti cupi e attaccabrighe (definizione valida per maschi e femmine), macchine sulle strade, macchine nei box, bandiera confederata, piccoli centri commerciali, laboratori nascosti in mezzo ai boschi dove si produce eroina sintetica, bungalow di cemento del dopoguerra, madri taciturne e padri magrissimi che faticano e lavorano come bestie per tirare avanti. Liti domestiche. Donne in lacrime ai concerti country di Garth e adolescenti che vomitano a quelli rock degli Aerosmith. E ricorda anche un pochino, ma pochissimo davvero, Grant Avenue, la strada nel quartiere cinese di San Francisco. La via dei Dottori e degli Avvocati. Delle piccole Tara, le magioni della Guerra civile con tanto di colonnati e le scuderie trasformate in garage, circondate da costosissimi giardini disegnati da architetti paesaggisti. E alla più grande di queste ville - bianca, immensa, stile coloniale, un ettaro e mezzo di terreno - si diresse Tate Collier. «Chi ci abita?» chiese Bett guardando intimidita la casa. «L'uomo che sa dov'è Megan.» «Chiama Konnie» disse lei. «Non c'è tempo» borbottò e si infilò nel vialetto superando due Mercedes (nessuna delle quali grigia, notò), per inchiodare stridendo a un metro e mezzo dalla porta d'ingresso. Mancò poco che buttasse giù dal piedistallo il leone di pietra che faceva la guardia al viale. «Tate!» Ma lui la ignorò e scese di corsa dall'auto. «Aspetta qui.» La collera gli montava dentro, stava arrivando al punto di ebollizione. Si ritrovò a picchiare furiosamente contro la porta con la sinistra, mentre con la destra stringeva il calcio della pistola. Venne ad aprire un gigante. Sulla trentina, molto muscoloso, calzoni antipiega e polo griffata. «Voglio vederlo» ringhiò Tate. «Lei chi è?» «Voglio vedere Sharpe. Subito.» Tirar fuori la pistola adesso o aspettare un momento più drammatico? «Il signor Sharpe in questo momento è oc...» Tate estrasse l'arma di tasca. La mise in mostra, più che impugnarla, in modo da farla vedere al segretario o guardia del corpo o quel che era. L'uomo alzò le mani indietreggiando, un'espressione spaventata sul volto. «Oggesù.» «Dov'è?» «Aspetti un momento, signore, io non so chi è lei o cosa ci fa qui ma...» «Jimmy! Che succede?» chiamò una voce in cima alle scale. «Abbiamo un problema, signor Sharpe.» «Tate Collier che viene a trovarmi» canterellò Jack Sharpe. Guardò il revolver come se Tate avesse in mano una reticella acchiappafarfalle. «Collier, che cos'hai lì?» Risata. Cauta, certo. Ma pur sempre una risata. «Era lui, sul furgone bianco?» chiese Tate indicando con la pistola l'uomo con i calzoni beige, che alzò di più le mani. «Attento, signore, per favore!» implorò. «È tutto a posto, Jimmy» lo tranquillizzò Sharpe. «Lascialo in pace. Adesso si calma.
Quale furgone, Collier?» «Lo sai, quale furgone» replicò Tate rivolgendosi di nuovo verso Sharpe. «Era questo stronzo a guidare?» «Perché non metti via quell'arnese, così nessuno si fa male? E poi parliamo... No, Jimmy, davvero. È tutto a posto.» «Se vuole posso sparargli, signor Sharpe.» Tate si girò e si trovò a guardare nella canna di una pistola enorme, tutta cromata, saldamente impugnata da Jimmy. Era un'automatica, notò: con clip e sicure e tutto il resto. «No, no. Non farlo» ribadì Sharpe. «Non farà del male a nessuno. Collier, mettila via. È meglio per tutti.» L'arma di Jimmy era sempre puntata alla testa di Tate, il quale rimise in tasca la sua con mano tremante. «Vieni di sopra.» «Salgo anch'io, signor Sharpe?» «No, non credo che avremo bisogno di te, Jimmy. Vero, Collier?» «Non credo» ripeté Tate. «No.» «Sali.» Senza fiato dopo quella botta di adrenalina, Tate seguì Jack Sharpe in uno studio inondato di sole. Si voltò e vide chejimmy aveva ancora la pistola scintillante puntata nella sua direzione. Sharpe, in tuta blu di poliestere e maglietta rossa da golf, adesso esibiva un'aria professionale. Non faceva più l'amicone. «Che cazzo significa questa storia, Collier?» «Dov'è mia figlia?» «Tua figlia? E io che ne so?» «Chi è che guida il furgone bianco?» «Mi stai dicendo, ne deduco, che qualcuno ti segue.» «Già, qualcuno mi segue.» Quando aveva visto il cartello del Liberty Park, Tate si era ricordato delle lamentele del alcuni clienti: la settimana precedente erano stati pedinati da detective privati. Tate aveva detto loro di non preoccuparsi, era una procedura standard nei casi importanti come quello (anche se, aveva aggiunto, era meglio se non facevano niente che non avrebbero voluto veder finire registrato su nastro). «Proprio come qualcuno sta seguendo i miei clienti. E probabilmente mia moglie...» «Pensavo fossi divorziato» commentò Sharpe. «Come fai a saperlo?» «Così mi sembrava di ricordare.» «Quindi, se ci stavi seguendo...?» «Io?» fece Sharpe tentando la carta dell'innocenza. Non attaccò. «... avrai seguito anche mia figlia. Che guarda caso è scomparsa proprio oggi.» Sharpe sfilò lentamente un putter da una sacca di mazze da golf che stava in un angolo dello studio. Prese di mira una pallina - sul pavimento ce n'erano sparse una decina - e la tirò dall'altra parte della stanza. Mancò il recipiente. «Io assoldo avvocati perché si battano per mio conto. Come tu ben sai, avendo decorato di recente le pareti del tribunale con le loro corna. Non assoldo altri.» «Niente consulenti per la sicurezza?» chiese Tate. «Ah! Consulenti per la sicurezza. Questa è buona. Sì, proprio buona. Comunque, no, Collier. Niente investigatori privati né consuZm^ per la sicurezza, sul mio libro paga. Ora, cos'è questa faccenda di tua figlia?» «È scomparsa e penso che dietro ci sia tu.» «Io? E perché? Oh, aspetta, ci sono. Per toglierti dai piedi in vista dell'udienza di giovedì prossimo a Richmond. Giusto?» «A me sembra plausibile.» «Be', ameno. Non ho bisogno di ricorrere a simili mezzi, per batterti. Lo sai che ho licenziato quelle mezze seghe che hai distrutto al processo. Adesso ho coinvolto dei pezzi grossi. Lambert, Stone e Burns. Ti faranno pelo e contropelo, quelli. Perciò, non tirartela troppo. Ti raderanno al suolo come Atlanta durante la Guerra di secessione.» «Liberty Park, Sharpe. Dimmi. Quanto perderesti, se non si potesse fare?» «Se non si fa il parco? Non ci rimetto un centesimo.» Sorrise. «Ma il mancato guadagno viaggerebbe intorno ai diciotto milioni. Senti, non è una violazione della deontologia, che tu venga qui senza avvertire il mio avvocato?» «Dov'è? Dimmelo!» «Non so di cosa parli.» «Andiamo, Jack. Credi che non abbia mai sentito parlare di imputati che cercano di intimidire clienti e avvocati perché ritirino le denunce?» Sharpe si ravviò con la mano i capelli bianchi. Si mise a sedere, proprio sotto una foto che lo ritraeva sulla diciottesima buca del Bull Run Country Club: un posto che si vantava di non contare un solo socio non bianco e non protestante. E per soli uomini, non c'era neanche bisogno di precisarlo. «Collier, io non rapisco la gente.» «E che mi dici di quegli scagnozzi che lavorano per te? Ce ne sono due o tre che eviterei volentieri di incontrare. Quel tuo direttore di progetto... Wilkins, si chiama? Si è fatto diciotto mesi a Lorton.» «Per aver emesso assegni a vuoto, Collier, non per aver rapito ragazzine.» «Ma loro chissà chi potrebbero aver assoldato! Magari qualche sociopatico che invece fa proprio quello. E che gli piace pure.» «Nessuno ha assoldato nessuno» disse Sharpe, anche se Tate gli lesse negli occhi che stava prendendo in esame la possibilità che uno dei suoi gorilla avesse rapito Megan. Ma cinque secondi sulla difensiva erano già troppi, per Jack Sharpe. «Senti, Collier, la mia pazienza è giunta al limite. E per quel che ne so... Oh, io sono solo un ragazzotto di campagna, ma se non sbaglio, cose tipo quelle che stai sputacchiando qui non si chiamano calunnia o diffamazione o roba del genere?» «Bene, fammi pure causa, Jack. Ma dimmi dov'è mia figlia!»
«Stai abbaiando sotto l'albero sbagliato, Collier. Ti conviene andare a cercare da qualche altra parte. Non sei lucido. Tu conosci Prince William come le tue tasche, come tuo nonno prima di te. Se fai un contratto come quello del Liberty Park, giochi duro. È così che si fanno gli affari, da queste parti. Ma per l'amor di Dio, non siamo mica dei delinquenti! Non ho nessuna intenzione di fare del male a una ragazzina di diciassette anni. Adesso è meglio se te ne vai. Ho da lavorare.» Fece finire la pallina nel recipiente, che subito gliela risputò. Tate, con il mento che tremava dalla rabbia, fissò il volto molto più tranquillo del suo avversario. «Vuole che lo aiuti a uscire?» chiese con calma Jimmy dalla soglia. «Naa» disse Sharpe. «Accompagnalo solo alla porta. Ehi, arrivederci, avvocato. Ci vediamo giovedì prossimo a Richmond. Spero di trovarti riposato e tranquillo. Quelli ti scorticheranno vivo. Sarà uno spettacolo molto divertente.» Capitolo 16 «La retorica» scriveva Platone, «è l'arte universale di conquistare la mente con la forza dell'argomentazione.» A undici anni, ascoltando il Giudice recitare quella definizione mentre sfregava un fiammifero per accendersi la pipa aromatica, Tate Collier decise che un giorno avrebbe “fatto retorica”. Qualsiasi cosa significasse. Aveva dovuto aspettare tre anni per averne la possibilità, ma finalmente, da liceale del primo anno, ottenne con la forza dell'argomentazione (con che cos'altro, sennò?) l'ammissione al Circolo di retorica, benché fosse riservato agli studenti delle classi più avanzate. I tornei di retorica erano cominciati, nell'America coloniale, con lo Spy Club di Harvard, nei primi decenni del Settecento. Circa un secolo dopo furono aperti anche alle donne, con la Young Ladies Association di Oberlin. Ma in tutta l'epoca coloniale conobbero una vasta popolarità centinaia di istituzioni meno formali: associazioni, centri culturali e circoli letterari. Quando Tate arrivò alle superiori i dibattiti retorici erano ormai un'istituzione consolidata. Partecipò a centinaia di tornei di retorica sia nella forma classica del National Debate Tournament sia in quella del contraddittorio adottata nei tornei della Cross Examination Debate Association. Era membro delle confraternite onorarie forensi (Delta Sigma Rho, Phi Rho Pi e Pi Kappa Delta) e adesso partecipava attivamente alla American Forensic Association come, da procuratore, faceva con la American Bar Association. Al college, quando andava di moda essere antimilitaristi, anticonfraternite, antiservizio militare, Tate snobbava i jeans sformati e le magliette psichedeliche, preferendo i completi con cravatte strette e le camicie bianche. Lì affinò tecnica, logica, ragionamento. Se... allora... Premessa maggiore, premessa minore, conclusione. Abbatteva falsi ragionamenti, logica circolare e tattiche adpersonam adottate dai suoi avversari. Aveva combattuto contro retori delle università di Georgetown e George Washington, Duke, North Carolina, Penn e Johns Hopkins, e li aveva sconfitti tutti. Con il suo talento (e naturalmente con un nonno come il Giudice) gli studi di giurisprudenza erano inevitabili. Da studente all'ultimo anno dell'Università della Virginia, aveva vinto il campionato di dibattimento processuale simulato del Federal Bar Moot Court Open. Adesso teneva spesso lezioni agli affollatissimi corsi di formazione permanente per l'avvocatura di Corte d'appello, e il suo video realizzato per l'American Trial Law °rs Association era uno dei best seller dell'ABA. L'ultimo anno all'università, quando Ti:e era campione in carica del campus, il Giudice era venuto fino a Charlottesville per vedere la sua esibizione. Come prevedibile, aveva vinto (si trattava della tristemente famosa sfida sul Watergate). Il Giudice gli aveva riferito un commento colto tra il pubblico: «Come fa questo Collier? A vederlo, sembra un campagnolo, ma quando comincia a parlare si trasforma. È come se avesse il dono delle lingue». No, non c'era nessuno al mondo che Tate Collier non si sentisse in grado di affrontare con l'eloquio. Eppure l'incidente con Sharpe lo aveva scoraggiato. Aveva permesso alle emozioni di dettargli le parole. Che cosa gli succedeva? Stava perdendo il tocco magico dell'oratore. «Ho fatto fiasco» si lamentò. E raccontò a Bett l'accaduto. «C'entrava qualcosa?» «Sì, io credo d; sì. E stato abile, troppo abile. Mi stava aspettando. Ma ja. anche sorpreso.» «Perché?» «Dev'essere successo qualcosa che lui non aveva programmato. È vero, nemmeno io credo che i suoi ragazzi avrebbero rapito Megan di loro iniziativa. Ma penso che abbiano assoldato qualcuno che l'ha fatto. Ah, e sapeva che siamo divorziati e che Megan ha diciassette anni. Come faceva a conoscere questi
dettagli? Deve aver indagato sulla nostra vita.» «Hai intenzione di riferirlo a Konnie?» «Oh, di sicuro. Ma quelli come Sharpe sono in gamba. Non trascurano i dettagli. Segui le loro tracce e poi, a un tratto, svaniscono.» Bett prese in mano la pistola che lui aveva posato sul cruscotto. La infilò con aria disgustata nello scompartimento. «Che coppia siamo, eh, Tate? Pistole, investigatori privati....» «Mi dispiace, per prima» si scusò lui. Bett scosse la testa. «No» disse con fermezza. «C'era del vero, in quello che hai detto.» Procedettero in silenzio per diversi minuti. Lei sospirò poi gli chiese, con aria riflessiva: «Ti piace la tua vita?». Tate la guardò. «Certo» rispose. «Solo “certo”?» «Che cosa può esserci più di “certo”?» «Sai essere più convincente, quando vuoi» replicò lei. «Cos'è la vita» replicò Tate, «se non una serie di alti e bassi?» «Ti senti mai solo?» Ah, questa sì che era una bella domanda... Certe donne restavano tutta la notte, altre se ne andavano. A volte decidevano di tornare dai mariti o dagli amanti o lo lasciavano per altri uomini; parlavano di divorziare o erano single, senza altri affetti, in attesa di un anello. Qualcuna presentava Tate ai genitori o ai figli, che lo scrutavano con sguardo diffidente. E, se non ne avevano, parlavano di quanto li avrebbero desiderati. Prima un maschietto, dicevano tutte, poi una bambina. Poi scomparivano dalla sua esistenza... e sì, la maggior parte delle notti si sentiva solo. «Mi tengo parecchio impegnato» rispose. «E tu?» «Sono impegnata anch'io. Tutti hanno bisogno di un progettista d'interni» si giustificò in fretta Bett. «Immagino» commentò lui. «Con Brad, tutto bene?» «Oh, Brad è un tesoro. Un vero gentiluomo. Non se ne trovano più molti così, oggi. Tu eri uno dei pochi. Cioè, lo sei ancora.» Rise. «Lo sai che mi aspetto sempre di vederti sul canale dei processi, alla Court tv?» aggiunse. «A chiedere la condanna di serial killer o terroristi o gente così. Channel Nine ti adorava. Rilasciavi interviste eccezionali.» «Quelli sì che erano bei tempi.» «Perché hai smesso?» Tate mantenne le mani sul volante, sull dieci e dieci, gli occhi fissi sulla strada. Dopo un attimo di silenzio sentenziò: «La pubblica accusa è roba da giovani». Riteneva di essere stato abbastanza credibile. Invece, Bett ribatté: «È una risposta. Ma non è la risposta». «Non ho smesso.» «Hai capito benissimo. Eri il migliore dello Stato. Tutti dicevano che saresti arrivato molto in alto.» Procuratore generale, l'avvocato che rappresentava il governo nei casi dibattuti davanti alla Corte Suprema: l'oratore forense più importante del paese. Il nonno di Tate aveva sempre sperato che suo nipote potesse arrivare a quel posto. E Tate stesso, per anni, aveva lavorato in vista di quel traguardo. «Volevo passare più tempo alla fattoria.» «Cazzate.» Oh, questa era proprio una Bett McCall inedita. L'angelo etei.o era sceso sulla terra e si era infangato le ali. «Perché non vuoi dirmelo?» «Okay. Ho perso il gusto per il sangue» spiegò. «Ho sostenuto un caso da pena capitale. Ho vinto. E ho desiderato di aver perso.» Bett si era vergognata profondamente per il fatto che, durante il loro matrimonio, Tate aveva spedito sei uomini nel braccio della morte dijarratt, in Virginia. Il suo orrore per quei risultati gli era sempre sembrato paradossale: lei credeva nell'immortalità dell'anima, e Tate no. «Era innocente?» chiese. «No, no. E stato più complicato di così. Aveva ucciso lui la vittima. Su questo non c'erano dubbi. Ma probabilmente era colpevole solo di omicidio colposo, al massimo. Omicidio per negligenza criminale, al massimo. La difesa aveva chiesto un patteggiamento: libertà vigilata con obbligo di counseling. Io l'ho respinto, ho chiesto la pena di morte. La giuria ha optato per l'ergastolo. La prima settimana di carcere è stato ucciso dagli altri detenuti. A dire il vero» gli si incrinò la voce, «è stato torturato. È morto a causa delle torture.» «Dio, Tate.» L'uomo può dubitare di quel che sente... «Io l'ho mandato a morte con le parole, Bett. Io ho convinto i giurati. Dalla mia avevo il talento, non la legge. È morto, e non doveva morire. Se non fosse andato dentro, se avesse avuto un aiuto, oggi sarebbe vivo e magari sarebbe un'ottima persona.» Ma su quello che fa non può avere dubbi. Attese la sua reazione di disgusto o collera. Invece lei si limitò a dire: «Mi dispiace». Lui la guardò: non vide pietà né rimorso, ma solo dispiacere per il suo dolore. «Ti hanno licenziato dall'ufficio del procuratore della contea?» «Oh, no. Me ne sono andato io.» «Non ne sapevo niente.» «Un caso da poco. Non ha fatto notizia. La storia è finita sulla pagina della cronaca metropolitana.» Con lo sguardo fisso sulla strada, Tate completò la confessione. «Vuoi sapere una cosa?» Sentì che Bett si girava verso di lui. «Volevo dirtelo, quel che era successo» proseguì Tate. «Quando mi hanno comunicato che era morto, ho preso il telefono per chiamare te... prima di chiunque altro. Anche prima di Konnie. Non ti vedevo da un anno. Forse due. Ma eri tu quella a cui volevo dirlo.» «Vorrei che l'avessi fatto.» Tate fece una risatina. «Ma tu
mi odiavi quando assumevo dei casi che prevedevano la pena di morte.» Ci fu un lungo silenzio, poi lei rispose: «Mi sembra che tu abbia scontato abbondantemente la pena. “Praticamente tutti ottengono la libertà vigilata, no?”». Quando Tate azionò la freccia per uscire dall'autostrada all'altezza della casa di Bett, lei chiese: «Potremmo andare in giro ancora un po'? Non ho voglia di tornare a casa». La mano di lui rimase sospesa sulla freccia. Poi la spense. Capitolo 17 Tate portò la Lexus di nuovo a CentreviUe, che i razzisti più gretti di quelle parti chiamavano con disprezzo New Calcutta e New Seul per via degli immigranti che vi si erano stabiliti. Fece un lungo giro attorno alla Route 29 e svoltò in una strada di campagna praticamente deserta. Il sole era basso ormai, ma faceva più caldo di prima. Nell'aria aleggiava l'aroma acre e nauseabondo delle foglie lasciate a marcire dall'autunno precedente. «Tate» disse Bett scandendo lentamente le parole, «e se non fosse successo niente?» «Come, se non fosse successo niente?» «Se nessuno l'avesse rapita? Se fosse davvero scappata perché ci odia?» Lui la guardò. «Se la troviamo...» riprese lei. «Quandola troviamo» la corresse lui. «Che cosa facciamo se è così incazzata con noi da non voler tornare a casa?» «Vuol dire che convinceremo pure lei.» «Secondo te, ci riusciresti? A convincerla a tornare a casa?» Ci riuscirei?, si chiese lui. In un contraddittorio c'è un momento di trascendenza, quando il tuo avversario ha dalla sua il peso schiacciante della logica e dei fatti eppure tu puoi ancora vincere. Spingendolo in certe direzioni, puoi indurlo a costruire la sua intera argomentazione su quello che sembra un fondamento irrefutabile, dalla logica ineccepibile. Ma che tu puoi comunque distruggere proprio mentre accetti la perfezione del suo ragionamento. È un momento, spiega Tate ai suoi studenti, identico a quello che accade nella scherma quando il bersaglio rosso che indica il cuore viene appena sfiorato dal bottone del fioretto e l'attenzione dell'altro schermidore è altrove. Niente fendenti, affondi o colpi scomposti, ma una stoccata semplice e mortale che l'avversario non vede neanche arrivare. Tutti i gatti vedono al buio. Midnight è un gatto. Dunque, Midnight vede al buio. Inconfutabile. La logica più pura. A meno che... Midnight non sia cieco. Ma a che genere di argomentazione sarebbe potuto ricorrere per convincere Megan a tornare a casa? Pensò alle due lettere che aveva lasciato, ma non gli venne nessuna idea. L'unica cosa chiara era la rabbia assoluta della ragazza. «La riporteremo a casa» disse Tate. «Ci penso io. Non ti preoccupare.» Bett abbassò lo specchietto di cortesia del parasole per mettersi il rossetto. Lui all'improvviso si sentì trasportato indietro, alla sera in cui si erano conosciuti, a quella festa di Charlottesville. Alla fine del ricevimento l'aveva accompagnata a casa, e aveva passato una mezz'ora di passione sul sedile anteriore della macchina a far sparire ogni traccia del Revlon rosa. Cinque settimane più tardi le aveva chiesto di andare a vivere insieme. Due anni d'amore nel campus. Lui aveva concluso la specializzazione in legge nello stesso anno in cui si era laureata Bett. Avevano lasciato l'idilliaca Charlottesville per il District of Columbia, dove lui aveva iniziato il praticantato presso il tribunale distrettuale federale. Bett era stata assunta per dirigere un negozio New Age. Facevano la vita insipida e tranquilla che Washington poteva offrire a una giovane coppia agli inizi. La consolazione di Tate era il suo lavoro, quella di Bett di essere finalmente vicina alla sorella gemella, che viveva a Baltimora ed era troppo malata per andare a trovarla a Charlottesville. Si sposarono a maggio. La primavera successiva raccolse i primi prodotti della sua piantagione prebellica in stile coloniale. Megan nacque due anni dopo. E tre anni più tardi lui e Bett erano divorziati. Quando ripensava al loro rapporto, la sua memoria perfetta faceva cilecca. Gli pareva di ricordare soltanto i picchi più sporgenti di un'isola, che a sua volta non era che la punta di una gigantesca catena montuosa sottomarina. La donna esile, eterea, conosciuta alla festa, dove aveva cantato una malinconica canzone d'addio da marinai. Passeggiate in campagna. Corse in macchina lungo le Blue Ridge verso la Massanutten Mountain. Fare l'amore in una foresta vicino alle Luray Caverns. A lui era sempre piaciuto stare all'aperto: i campi di mais, la spiaggia, i barbecue nel giardino sul retro. Ma l'interesse di Bett per la natura si risvegliava soltanto dopo il tramonto. «Quando è più sottile il confine tra i mondi» gli aveva spiegato una volta, mentre sedevano sotto il pergolato di una locanda in mezzo agli Appalachi. «Quali mondi?» «Sshhh, ascolta» aveva detto lei. E sebbene sapesse che era
un'illusione, lui ne era rimasto incantato. Prova incontestabile, presumeva Tate, della sua capacità di fare incantesimi. Betty Sue McCall, devotissima alla sorella con cui condivideva un qualche legame mistico che irritava persino il razionalista Tate, cantante di stridule ballate folk, collezionista dell'inspiegabile, dell'arcano, dell'invisibile... Tate non aveva mai capito se la sua mistica sublime ingigantisse il loro amore o lo oscurasse o se invece costituisse l'autentica essenza di tale amore. Magia... Alla fine non aveva fatto alcuna differenza: si erano allontanati emotivamente l'uno dall'altra. Lei ridiventò per lui quello che era stata quando era rimasto sedotto per la prima volta: la donna tenebrosa della sua fantasia. Adesso si stava tormentando la faccia allo specchio e con la punta delle dita cercava di cancellare qualche invisibile difetto. Gliel'aveva visto fare migliaia di volte. Era sempre stata incredibilmente vanitosa. Richiuse lo specchietto. «Accosta, Tate.» La guardò. No, non era un'imperfezione quella che stava esaminando. Stava piangendo di nuovo. «Cosa c'è?» «Accosta e basta.» Tate fermò la macchina nel parcheggio antistante il campo di battaglia di Bull Run. Lei scese dalla macchina e si avviò su per il leggero pendio. Tate la seguì; quando furono in piano si fermarono e alzarono contemporaneamente lo sguardo verso le nuvole sopra le loro teste, che promettevano tempesta. «Cosa c'è, Bett?» La guardò fissare il cielo notturno. «Stai cercando un angelo che ti aiuti a prendere una decisione?» Poi subito temette che si sarebbe offesa per questo implicito riferimento al suo lato mistico, benché lui non avesse inteso fare dell'ironia. Invece Bett sorrise distogliendo lo sguardo dal cielo. «Non mi ha mai interessato questa faccenda degli angeli. È troppo banale, non so se mi spiego. Comunque, contattare qualche spirito non mi dispiacerebbe.» «Bene» disse lui, «questo sarebbe il posto giusto. Il generale Jackson ha fatto suonare la carica proprio da quegli alberi laggiù, bloccando sul più bello i ragazzi dell'Unione. È stato qui che si è guadagnato il soprannome di Stonewall, Muro di pietra.» Il sole ormai bassissimo illuminava ancora in lontananza fusti neri dei cannoni dell'Unione. Bett si voltò, gli prese le mani e lo attirò a sé. «Stringimi, Tate. Ti prego.» Lui la circondò con le braccia, per la prima volta dopo anni. Rimasero così a lungo. Poi trovarono una panchina e si sedettero. Tate continuò a tenerla abbracciata. Lei gli prese anche l'altra mano. E lui provò il desiderio improvviso, doloroso, che Megan fosse lì con loro. Tutti e tre insieme, i brutti avvenimenti del passato morti e sepolti come i poveri corpi dei soldati rimasti uccisi, mutilati e insanguinati proprio in quel punto. Vento tra gli alberi, nuvole cariche di pioggia sopra di loro. A un tratto, gli sfrecciò davanti un lampo giallo. «Oh, che cos'è?» chiese Bett. «Guarda.» Tate guardò l'uccellino che era atterrato lì accanto. «Dovrebbe essere, vediamo... un'allodola golagialla. Nidifica a terra e trova il cibo tra il fogliame degli alberi.» La risata di Bett lo fece volar via. «Tu sai tutte queste cose. Dove vai a pescarle?» Aveva avuto un'amichetta, ventitré anni, appassionata di birdwatching. «Leggo molto» rispose Tate. Ancora silenzio. «A cosa stai pensando?» chiese lei dopo un po'. Domanda che le donne fanno spesso quando sono vicine a un uomo e tra loro cala il silenzio. «Forse a una storia incompiuta» ipotizzò lui. «La nostra.» Lei ci rifletté un po' su. «Una volta credevo che tra noi fosse tutto finito. Ma poi ho cominciato a considerarlo come quando si fa testamento prima di salire in aereo.» «E cioè?» «Se precipiti, be', magari tutto quello che era irrisolto si risolve, però ti piacerebbe lo stesso restare in circolazione ancora un po'.» «Ma guarda che razza di metafora!» commentò lui con una risata. Lei rimase ancora un po' a studiare il cielo. «Quando ti sei occupato di quella causa davanti alla Corte Suprema, cinque o sei anni fa... Quel grosso caso sui diritti civili. E il “Post” ha scritto quell'articolo su di te. Ho detto a tutti che eri il mio ex marito. Ero molto orgogliosa.» «Davvero!?» esclamò Tate, molto sorpreso. «Lo sai cosa mi veniva in mente, quando leggevo qualcosa che ti riguardava? Rimuginavo sul fatto che quando eravamo sposati tu eri la mia voce. Io non avevo una voce mia.» «Non parlavi, questo è vero» concordò lui. «È questo, quel che ci è successo, credo. Almeno in parte. Dovevo trovare la mia voce.» «E quando sei andata a cercarla... tanti saluti. Per te, niente mezze misure. Niente compromessi. Niente trattative.» A quelle parole la Bett di un tempo si sarebbe arrabbiata oppure sarebbe sprofondata in uno dei suoi enigmatici silenzi. Invece si limitò ad annuire in segno di assenso. «Ero così, è vero. Ero talmente rigida! Avevo tutte le risposte giuste. Se qualcosa non era perfetto, via. Lavoro, scuola... marito. Oh, Tate, non ne vado fiera. Ma mi sentivo tanto giovane. Quando hai un figlio, le cose cambiano. Si diventa più...» «Pazienti?» «Proprio così. Tu trovi
sempre la parola giusta.» «All'epoca, Bett, non avevo mai idea di quello a cui pensavi.» I suoi pensieri potevano vertere su cosa preparare per cena. O su Re Artù. O su una nota a pie di pagina di una tesina. Oppure poteva pensare ai tarocchi che le avevano letto poco prima. O, addirittura, poteva pensare a lui. «Avevo sempre paura di parlare, quand'eri in circolazione, Tate. Mi sentivo sempre la lingua legata. Come se non avessi potuto dire niente in grado di interessarti.» «Io non ti amo per le tue capacità oratorie.» Fece una pausa, notando il tempo del verbo. «Voglio dire, non è stato quello ad attirarmi verso di te.» E poi rifletté: Dio, come ha ragione. Quel che ha detto prima... Noi esseri umani abbiamo questa terribile maledizione: siamo l'unico animale che crede nella possibilità del cambiamento, nostro e di quelli che amiamo. È una cosa che può uccidere, o forse, ma solo forse, salvare i nostri cuori fatalmente condannati al peggio. Il problema è che non sappiamo mai quali saranno le conseguenze finché non è troppo tardi. «Lo sai quand'è che ho sentito di più la tua mancanza?» riprese lei dopo un po'. «Non in vacanza, o durante un picnic. Ma quand'ero nel Belize...» «Cosa!?» saltò su Tate. Bett mosse pigramente una mano per scacciare una vespa. «Ti ricordi? Parlavamo sempre di andarci.» Avevano letto un libro sulla lingua dei Maya e sulle ricerche sul campo condotte dai linguisti, nella giungla del Belize o dello Yucatàn, per esaminare le rovine e decifrare i codici degli indios. Era un settore che affascinava entrambi, e avevano programmato un viaggio, che però non avevano mai compiuto. All'inizio perché non potevano permetterselo: Tate aveva appena concluso la specializzazione, aveva iniziato il praticantato da un giudice e guadagnava meno di un buon segretario. Poi erano arrivati gli orari impossibili dell'incarico di pubblico ministero. Dopodiché, quando avevano risparmiato abbastanza, la sorella di Bett aveva avuto una grave ricaduta e aveva rischiato di morire. Bett non poteva allontanarsi. Poi era arrivata Megan. «Quando ci sei andata?» le chiese. «Tre anni fa, in gennaio. Megan non te l'ha detto?» «No.» «Ci sono andata con Bill. Il lobbista , sai?» Tate scosse la testa. Non se lo ricordava. «Ti sei divertita?» «Oh, certo» rispose esitante. «Molto bello. Ma più caldo che all'inferno. Caldissimo, davvero.» «Ma a te il caldo piace» ricordò. «Hai visto le rovine?» «Be', non è che a Bill le rovine piacessero granché. Ne abbiamo visitata una. Un'escursione in giornata. Io... Be', quel che volevo dire è che... avrei voluto che ci fossi tu.» «Due anni fa, a febbraio...» disse Tate. «Sì?» lo incalzò lei. «Ci sono stato anch'io.» «No! Sul serio?» rise lei. «E tu con chi ci sei andato?» L'espressione di lei assunse una sfumatura sarcastica, vedendo che gli occorreva un po' per ricordare il nome della sua compagna. «Cathy.» O almeno credeva fosse lei. «E tu ci sei andato, alle rovine?» «Be', non proprio. Era più un viaggio per mare, a vela. Non posso crederci... Che te ne pare? Ci siamo andati, alla fine. Abbiamo parlato di quella vacanza per anni.» «Il nostro pellegrinaggio.» «Gran posto» commentò lui, chiedendosi quanto trasparisse il dubbio nella sua voce. «Il ristorante del nostro albergo era favoloso.» «È stato molto divertente» aggiunse lei entusiasta. «Un posto carino.» «Sì, molto carino» confermò Tate. In realtà, quella vacanza era stata di una noia mortale. Il volto di Bett era rivolto verso un lontano filare di alberi. Probabilmente adesso pensava a Megan e lo Yucatàn era scivolato fuori dai suoi pensieri. «Ti riaccompagno a casa» propose lui. «Non c'è altro che possiamo fare, per stasera. È meglio che riposiamo un po'. Dopo chiamo Konnie per raccontargli di Sharpe.» Lei annuì. Arrivati a casa di Bett a Fairfax, Tate accostò. Lei non si mosse per alcuni secondi. «Vuoi entrare?» gli chiese a un tratto. La sua risposta era in bilico su una punta di spillo. Per un lungo istante lui stesso non aveva idea da che parte sarebbe scesa la bilancia. L'attirò a sé, l'abbracciò, sentì nei suoi capelli l'aroma di Opium. «Meglio di no.» Capitolo 18 Megan la Svitata rivela la sua vera identità. Non è affatto svitata, non lo è mai stata. M.S. è soltanto incazzata nera. Ti sta alle costole, brontola. Quello stronzo di Peter ti sta alle costole di brutto. Anche Megan McCall era arrabbiata, ma era molto meno ottimista della sua controparte, mentre strisciava con cautela lungo i corridoi dell'ospedale tenendo ben strette sotto un braccio tre scatole di posate di plastica e il coltello improvvisato nell'altra mano. Almeno si sentiva meglio dal punto di vista fisico: si era infatti fatta fuori mezza confezione dei suoi cereali preferiti all'uvetta - Raisin
Bran - e due Pepsi. Ascolta. Ecco! Sentì un fruscio, qualche passo strascicato di Peter. Forse qualche parola sottovoce. Un altro fruscio. Una voce. Stava sussurrando il suo nome? Sì? No? Non riusciva a capire. Potrebbe essere il momento! Lo tieni ben stretto, il coltello? Zitta!, ribatté Megan. Rabbrividì, la paura le scatenò un attacco di nausea. Desiderò di non aver mangiato tanto in fretta. Se vomito e mi sente, è finita. Inspirò lentamente. Un tonfo metallico vicino. Altri passi. Molto vicini, stavolta. Megan trattenne il fiato e chiuse gli occhi, acquattandosi dietro una sedia arancione di fibra di vetro. Si appiattì contro la parete, ripassando con la mente, verso perverso, l'album dei Greatest Hits di Janisjoplin. Pianse in silenzio per tutta la durata di Me andBobby McGee, poi tornò spavalda cantando tra sé Down on Me. Peter Matthews si allontanò in direzione della sua camera, allora lei riprese ad avanzare. Dieci infiniti minuti più tardi era arrivata in fondo al corridoio che aveva scelto. Era lì che intendeva mettere la trappola. Le serviva un passaggio cieco: doveva essere certa della parte da cui sarebbe arrivato. Megan la Svitata sottolinea, comunque, che questo significa anche nessuna via di fuga se la trappola non funziona. Chi è la cacasotto, adesso?, la rimbeccò Megan. Cioè, scusami tanto, ribatte piccata M.S. Volevo solo informarti. Passò la mano sulla parete. Cartongesso. Si ricordò di una volta, a casa di suo padre. Qualche anno prima. Lui in quel periodo usciva con una che aveva tre figli. Come al solito pensava di sposarla - lo faceva sempre: pazzesco! -, ed era arrivato al punto di chiamare un'impresa per dividere la camera da letto al pianterreno in due stanze più piccole, per i gemelli della donna. Nel bel mezzo della ristrutturazione, però, si erano lasciati. I lavori non erano stati terminati. Megan in quell'occasione aveva osservato gli operai che tagliavano senza fatica il cartongesso con dei seghetti. Si trattava di un materiale inconsistente come il cartoncino. Tirò fuori dalla scatola un coltellino di plastica. Sembrava un giocattolo. E per un attimo fu sopraffatta dalla disperazione di quel piano. Ma poi cominciò a tagliare. Sì! In cinque minuti aveva fatto un bel buco nella parete. La lama di plastica era più tagliente di quanto credesse. Per circa un quarto d'ora l'operazione di taglio procedette benone. Poi, quasi di colpo, il bordo seghettato del coltello si fece liscio e smussato. Lo gettò via e ne prese uno nuovo. Continuò a segare. Abbassò la testa verso la parete, inalandone l'odore umido di gesso che le riportò alla mente il ricordo di Joshua. Lo aveva aiutato a traslocare nel suo appartamentino vicino alla George Mason University. Gli operai stavano stuccando i buchi nelle pareti. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Che cazzo fai?, la rimbrotta spazientita Megan la Svitata. Mi manca, rispose in silenzio Megan. Piantala e procedi. Ci sarà tempo dopo, per queste cose. Tagliare, tagliare... Sulla mano destra cominciarono a formarsi le vesciche. Le ignorò e proseguì in quel movimento ipnotico. La fronte appoggiata alla parete, l'odore dello stucco e del gesso umido. Mani che vanno avanti e indietro da sole. Pensieri che si affastellano... Pensò ai suoi genitori. Pensò agli orsi... No, gli orsi non parlano. Ma questo non significa che non ci sia qualcosa da imparare da loro. Pensò alla storia degli orsi che mormorano, all'illustrazione del libro con i due grossi animali che guardano la città in preda alle fiamme. Pensò alla morale della storia. La sua versione le piaceva più di quella del dottor Matthews. La sua morale era: la gente incasina tutto. Ma non doveva per forza andare così. Qualcuno nel villaggio avrebbe potuto dire apertamente: «Gli orsi non parlano. Lasciateli perdere». E la storia sarebbe finita con «E vissero per sempre felici e contenti». Adesso lavorava con la sinistra, che si stava rapidamente ricoprendo di vesciche. Aveva le ginocchia in fiamme, e anche la fronte perché la schiacciava contro la parete per imprimere più forza. La schiena era tutta dolorante. Ma Megan si sentiva stranamente piena di energia. Per il cibo e la caffeina che aveva in corpo, per la semplice soddisfazione di affettare una parete, perché stava facendo qualcosa per uscire da quella topaia. Cos'avrebbe fatto se fosse riuscita a fuggire? Il dottor Matthews l'aveva fregata, facendole scrivere quelle lettere. Ma il peggio era che quello che aveva scritto era vero. Dio, se era incazzata con i suoi genitori! E quei sentimenti negativi erano intrappolati dentro di lei da sempre, le sembrava. Ma adesso erano usciti. Non che se ne fossero andati, no. Ma le turbinavano attorno alla testa, facendosi sempre più piccoli, come un palloncino lasciato andare. E pensò: La rabbia svanisce; l'amore no, se è amore vero. E poi che forse - forse con Tate e Bett l'amore era vero. O quantomeno che avrebbe potuto portare allo scoperto un pezzettino di amore vero, e una volta capito questo sarebbe stata in grado di far emergere ricordi diversi. Pensò alla volta che era andata con suo padre a Pentagon City per un'improvvisata
spedizione di shopping, e al ritorno lui le aveva lasciato guidare la Lexus dicendo soltanto: «Il tachimetro arriva a duecentoventi. Se prendi una multa, la paghi tu». Avevano aperto il tettuccio e riso per tutta la strada. O quella volta che lei e sua madre erano andate a una qualche noiosissima conferenza New Age. Dopo un quarto d'ora Bett aveva bisbigliato: «Basta con questa rottura di palle». Erano uscite di soppiatto dalla porta sul retro della scuola, avevano trovato nello spiazzo dei giochi un piatto di plastica da neve e ci si erano rannicchiate sopra, urlando e gridando per tutto il tragitto fino a valle. Poi si erano rincorse a vicenda fino allo Starbucks, dove si erano prese cioccolata calda e biscotti. E pensò anche alla festa per i suoi sedici anni, l'unica volta nel giro di, quanto?, cinque o sei anni in cui aveva visto i suoi genitori insieme. Per un momento le erano rimasti tutti e due vicini, al tavolo del buffet, mentre suo padre faceva un discorso meraviglioso su di lei. Aveva pianto come una scema all'udire quelle parole. Per qualche minuto erano sembrati una famiglia normale. Se torno a casa, pensò... No, quando torno a casa, ci parlo. Ci mettiamo a parlare a tavolino. Oh, gli farò vedere i sorci verdi, però ci parlo. Farò quello che avrei dovuto fare da un sacco di tempo. La rabbia svanisce; l'amore no... Le si aprì una vescica. Ohi, che male. Oh, Gesù. Chiuse gli occhi e si infilò la mano sotto l'ascella, stringendo forte. Il bruciore si attenuò e riprese a tagliare. Dopo mezz'ora Megan aveva tagliato un rettangolo di un metro per uno e ottanta. Lo estrasse, lo mise per terra e si appoggiò qualche minuto al muro a riprendere fiato. Era madida di sudore. Il buco era molto irregolare e il pavimento ricoperto di polvere di gesso. Temeva che Peter, vedendola, potesse immaginare che gli era stato teso un trabocchetto. Ma la finestra, su quel lato del corridoio, era piccola e ricoperta di unto e polvere; filtrava pochissima luce. Contava sul fatto che il ragazzo non avrebbe visto la trappola finché non fosse stato troppo tardi. Tornò a nascondersi dove il padre di Peter - o chi per lui - aveva murato l'ingresso all'ala amministrativa dell'ospedale. Senza far rumore cominciò a trasportare fino alla trappola i mattoni di cemento, vacillando sotto il loro peso. Quando ne ebbe accumulati otto, cominciò a infilarli nel buco impilandoli uno sull'altro, ma facendone sporgere un po' i bordi. Servendosi del coltello di vetro, tagliò poi delle strisce di stoffa dalla camicia che indossava e le annodò a formare una corda di circa tre metri. Legò un capo a uno dei mattoni della pila. Infine, incastrò nell'apertura il pezzo di cartongesso ritagliato ed esaminò il suo lavoro. Avrebbe attirato Peter fin lì e, quando lui si fosse trovato davanti alla trappola, lei avrebbe tirato la corda. Cinquanta chili di cemento gli sarebbero piovuti addosso. Lei gli sarebbe balzata sopra con il coltello e l'avrebbe pugnalato (non avrebbe potuto ucciderlo, decise: gli avrebbe solo tagliuzzato mani e piedi) per essere sicura che lui non l'aggredisse né la inseguisse. Poi si sarebbe fatta dare le chiavi e sarebbe filata via come il vento. Prudente, tornò al corridoio principale e si voltò a guardare. Non si vedeva niente, a parte la corda. Adesso le serviva un'esca. «Immagino che saremo noi, vero?» chiese pronunciando effettivamente le parole, seppure a voce bassissima. E chi, sennò?, risponde Megan la Svitata. Bett McCall si versò un bicchiere di Chardonnay e si sfilò le scarpe. Era talmente abituata al tonfo cupo di bassi e tamburi che filtrava dal pavimento proveniente dalla camera di Megan, al piano di sopra, che l'assenza del suono prodotto da Santana o dagli Stone Tempie Pilots la ridusse in lacrime. È così frustrante, pensò. Due persone possono affrontare quasi qualsiasi cosa, se riescono a parlare. Si litiga. Si fa pace. E si convive più o meno bene per il resto della vita. Oppure si scoprono differenze inconciliabili, e ci si separa, un poco alla volta, vivendo in mondi diversi. Oppure ci si scopre anime gemelle. Ma se la persona che ami ti viene fisicamente a mancare - se non ci si può parlare-, allora si resta con meno di niente. È il dolore peggiore. In casa si sentiva come una vibrazione e un tamburellare smorzato. Da qualche parte un motore ticchettava, il computer nella stanza accanto ronzava con una tonalità appena più acuta di quella del frigorifero. I rumori della solitudine. Magari un bagno caldo le avrebbe giovato, pensò Bett. No, le avrebbe ricordato il portasapone che le voleva regalare Megan. Magari... Squillò il telefono. Con il cuore a mille, corse a rispondere. Pregando che fosse sua figlia. Ti prego... Ti prego... Fa' che sia lei. Dio, come vorrei sentire la sua voce! O almeno che sia Tate. Nessuno dei due. Ne fu dapprima delusa, poi ascoltò la persona all'altro capo del filo con crescente interesse. «Va bene» disse infine. «Certo... No, mezz'ora andrà benissimo... Grazie. Grazie davvero.» Dopo aver riattaccato, si accasciò sul divano a sorseggiare il suo vino. Meraviglioso, pensò provando un senso di sollievo, nonostante la loro conversazione non fosse durata più di tre minuti. Era l'altro terapeuta di Megan, un collega del
dottor Hanson; Bill Peters, si chiamava. Stava venendo lì. Non aveva notizie specifiche riguardo a Megan. Ma voleva parlare con lei della sua scomparsa. Le era sembrato tanto rassicurante, tanto capace di confortarla. Solo una cosa la incuriosiva, di quel che aveva detto il dottore al telefono. Perché voleva vederla da sola, senza Tate? Parte Terza L'avvocato del diavolo Capitolo 19 «Quando ha chiamato» confessò Bett McCall, «ero un po' confusa.» «Naturale» disse l'uomo entrando nella stanza. Il dottor Bill Peters sembrava sicuro di sé e perfettamente a proprio agio. Era piuttosto attraente. I suoi occhi incrociarono quelli di Bett, irradiando comprensione. «Che momento terribile per lei, davvero terribile.» «Un incubo.» «Mi dispiace, sul serio.» Era alto, ma camminava un po' curvo, le braccia ciondoloni, un sorriso benevolo sul volto. Bett McCall, bassina e minuta, era consapevole del potere derivante da statura e postura. Anche se era di una trentina di centimetri più bassa e molto più leggera, sentiva che quell'uomo che si muoveva come ripiegato su se stesso era una delle persone meno minacciose che avesse mai incontrato. Lui si guardò attorno con aria di approvazione. «Megan mi ha detto che lei è una decoratrice d'interni molto dotata. Non sapevo quanto dotata., però.» Bett avvertì una doppia fitta di piacere. Perché lui apprezzava i suoi faticosi tentativi di abbellire la casa, ma soprattutto, cosa ben più importante ai suoi occhi, che Megan avesse parlato di lei in termini lusinghieri con un estraneo. Poi le tornò alla mente la lettera e l'umore peggiorò di colpo. «Ha saputo del dottor Hanson?» chiese. «Quella cosa spaventosa con sua madre?» Il volto del dottor Peters si rannuvolò. «Dev'essere un equivoco. Lo conosco da anni.» Notò sulla libreria una palla di cristallo. «E un fautore del suicidio assistito, e penso che abbia davvero parlato della questione con sua madre.» «Non mi dica!» «Ma lei deve aver frainteso. Non so se è al corrente, ma un'infermiera ha dichiarato che la signora ha rubato la siringa ipodermica da un carrello delle medicine.» Bett ci rifletté sopra. Forse Tate sbagliava a pensare che qualcuno avesse incastrato il dottor Hanson per mandarlo in galera così da impedirgli di parlare con loro. «Dottore...» «Oh, mi chiami Bill e mi dia del tu, la prego.» «Il dottor Hanson è un bravo terapeuta?» Il medico esaminò un arazzo francese incorniciato sopra il divano. Perché esitava a rispondere? «È molto bravo, sì» disse dopo un istante il dottor Peters. «In certi campi. A lei che impressione ha fatto?» «Be', non l'ho mai conosciuto» rispose Bett. «Ah no?» Sembrava sorpreso. «Non avete mai parlato di Megan?» «No. Avrebbe dovuto?» «Be', forse pervia dell'incidente di sua madre... aveva altro a cui pensare.» «Ma è successo solo questa settimana» sottolineò Bett. «Megan ci va da quasi due mesi.» Vide dalla sua espressione che non riusciva a difendere l'amico. «Be', francamente penso che avrebbe dovuto, io l'avrei fatto. Ma abbiamo stili molto diversi, io e lui. Signora McCall...» «Chiamami Bett.» «Betty?» «Betty Sue.» Sorrise e poi arrossì. Sperò che lui non se ne accorgesse e fu grata alla luce che scemava. «Okay, confesserò l'oscuro segreto: il nome completo è Beatrice Susan McCall. Mia sorella...» «Gemella, mi ha detto Megan.» «Esatto. Lei è Susan Beatrice. Geniale, no? Non so dirti per quanti anni abbiamo tramato vendetta contro mamma e papà per questo scherzetto.» Lui scoppiò a ridere. «Senti, potrei chiederti un bicchiere d'acqua?» «Ma certo.» Bett notò che lui la stava studiando rapidamente: ijeans neri aderenti e la camicetta in tinta. Gli orecchini stravaganti tintinnavano: mezzelune e stelle cadenti. Si avviò verso la cucina. «Vieni pure. Preferisci una bibita o del vino?» «No, grazie... Oh, ma guarda.» Lui prese una bottiglia di Merlot Mietz, comprata con Brad la settimana precedente, ma che ancora non avevano avuto occasione di aprire. Osservò l'etichetta del prezzo: diciotto dollari. «Buffo, ne ho appena comprata una cassa. Un vino eccellente. Diciotto è un ottimo prezzo: io l'ho pagato ventuno la bottiglia, e doveva essere un prezzo scontatissimo.» «Conosci il produttore? Brad dice che è molto difficile da trovare.» «Verissimo.» «Apriamolo» propose lei. «Sei sicura?» «Sì.» Bett era felice di far colpo. Stappò il vino e lo versò. Fecero un piccolo brindisi. «Vivi da queste parti?» chiese lei. «AFairfax. Vicino al tribunale. Un bel posto. Solo... ci sono un sacco di uffici legali, in zona, con un mucchio di avvocati che vanno e vengono a tutte le ore. Certe volte mi fa impazzire.» Lei scoppiò a ridere. Lo psichiatra inarcò un sopracciglio. Bett pensava a tutte le serate che Tate aveva passato proprio in quel quartiere a colloquio con i detenuti e la polizia, tornando a casa alle dieci o alle undici. «Tate...» «Il tuo ex.»
«Esatto. Temo che sia uno di loro. Di quelli che lavorano fino a tardi, intendo.» «Ah, giusto. Me l'ha detto, Megan, che fa l'avvocato. Ma non abita a Fairfax, vero? Se non ricordo male dovrebbe avere una fattoria da qualche parte.» «A Prince William. Ma l'ufficio è qui.» Il dottor Peters sorrise ed esaminò la collezione di magneti sul frigorifero, messa insieme da lei e Megan. A guardarli le si spezzava il cuore. Dovette voltarsi da un'altra parte prima che le scendessero le lacrime. Le fece qualche domanda sull'attività di decorazione di interni in Virginia. Saltò fuori che sua madre faceva lo stesso lavoro. «Dove?» chiese Bett. «A Boston.» «Vuoi scherzare. I McCall vengono da lì.» Indicò alcune foto della sua famiglia, davanti alla vecchia fregata Old Ironsides e nel giardino di casa, con il palazzo delle assicurazioni Prudential che si stagliava all'orizzonte. «Sicuro» fece lui. «Mi sembrava di aver colto un leggero accento. Oh, ma pvopvio leggevissimo....» Lei rise. «Nostalgia?» domandò Peters. «No. Ci siamo trasferiti qui quando avevo dieci anni. Il Sud mi si addice sicuramente più del New England.» «Nella misura in cui questo è sud» suggerì lui. «Giusto.» Lui le prese il bicchiere per riempirlo di nuovo. Dopo averglielo porto, si appoggiò al bancone per studiare i costosi utensili di acciaio. «Adoro cucinare» disse. «È uno dei miei hobby.» «Anch'io. È rilassante aprire una bottiglia di vino, venire in cucina a tagliare, ad affettare e fare dadolate.» Il dottore prese un pesante coltello da macellaio marca Sabatier e con il pollice ne saggiò con cautela la lama. Annuì. «I coltelli affilati sono...» «... meno pericolosi di quelli da affilare» concluse Bett. «Mel'ha insegnato mia madre.» «Anche la mia» confermò lui, soppesando per qualche istante il coltello nella mano mentre ne osservava la lama. Poi lo posò sul tavolo. «Vogliamo tornare di là?» «Certo.» Il dottore indicò la porta con un cenno della testa. Bett lo precedette in salotto e andò a sedersi sul divano mentre lui si dirigeva alla libreria. Passò in rassegna la collezione dei cristalli e diverse scatole di tarocchi. «Non lo sai che i tarocchi andrebbero tenuti avvolti in un panno di seta?» la rimproverò scherzosamente. «Sai anche questo?» Bett si mise a ridere. «Naturale.» «Molto tempo fa ero davvero presa dall'occulto.» Sorrise, rendendosi conto che si stava rilassando per la prima volta in tutta la giornata. «Da giovane ero un po' svitata.» «Mi sembri in imbarazzo. Fai male. Io penso che il nostro lato spirituale sia importante tanto quanto quello fisico e psichico. Nelle mie terapie, io adotto un approccio olistico. Mi capita molto spesso di prescrivere erbe: hanno effetti sia organici sia psicosomatici.» «Cerco di usarle ogni volta che posso» confermò Bett. «Se i miei pazienti hanno bisogno di qualcosa, preferisco prescrivere l'iperico piuttosto che il Prozac.» Un dottore che la pensava così? Quante volte si era trovata a spiegare queste cose ai medici, agli amici, a Tate, solo per vedersi lanciare occhiate di educata diffidenza, quando andava bene. «Secondo me è molto ragionevole» proseguì il dottor Peters. «Prendi i tarocchi, per esempio... possono predire il futuro? Be', in un certo senso sì. Ci fanno vedere quello che siamo, in che modo ci inseriamo nella coscienza suprema della Superanima.» «Oh, conosci Emerson?» chiese lei indicando una raccolta delle sue opere. Peters andò a prendere il volume dallo scaffale. Lo sfogliò, poi alzò il libro aperto a mostrare il titolo di un saggio: L'anima suprema. «Ho cominciato a studiarlo al college... Penso che leggere il futuro serva a osservare come ci inseriamo nella forza vitale, che tipo di rapporti abbiamo con gli altri, ci fa interrogare su dove stiamo andando. E questo influisce necessariamente sul nostro avvenire.» «È vero» concordò lei, provando una sensazione di calore e conforto. Sorseggiò ancora un po' di vino. «Sono perfettamente d'accordo, ma la maggior parte della gente non lo capisce. Si limitano a sbeffeggiare le varie Madame Zostra che leggono la sorte. Non è giusto. Il mio ex...» Tuttavia decise di lasciare che quel pensiero morisse così. E il dottor Peters non la esortò a concluderlo. Stava studiando la libreria con la testa inclinata da un lato. Indicò alcuni volumi. «Ah, Joseph Campbell. Ottimo. Certo, certo... Conosci Jung?» «Qualcosa, non bene.» «Il suo pensiero sugli archetipi? Ci sono alcuni miti persistenti che vediamo affiorare nella vita delle persone. La leggenda arturiana... la conosci?» Se la conosco?, pensò ridendo dentro di sé. L'ho vissuta. «T.H. White, Camelot, tutto quanto» rispose Bett indicandogli una vecchia copia di Re in eterno. «Che libro straordinario!» commentò lui. «Oh, e Le nebbie di Avalon» aggiunse, indicando il libro. «Il migliore» commentò lei con entusiasmo, ricordando come Tate non avesse mai tempo per queste cose. L'antica collera e i vecchi risentimenti le chiusero di nuovo lo stomaco. Il mondo New Age, poi, che delusione! Ecco qui un uomo che la capiva davvero. Com'era rinfrancante... Lo psicologo sfiorò con il bicchiere quello di lei, poi bevvero. Il calice di Bett era quasi vuoto. Eppure non si
sentiva brilla; piuttosto, euforica. Lui le si sedette accanto. «Ehm, Bett... non so che cosa ti abbia raccontato Megan sul mio conto.»"A dire il vero niente. Ma non le piace parlare delle sedute. È quello che avremmo dovuto fare oggi, io e Tate. Vederci a pranzo insieme a lei per capire come stava andando.» Lui annuì. Era davvero un uomo piuttosto attraente e ben fatto. Le proporzioni sono tutto, pensò la progettista d'interni Bett McCall. «Il dottor Hanson la vedeva più spesso di me. Ma stasera sono voluto venire per parlare un po' di lei con te. Per cercare di rassicurarti.» Oh, mi berrò qualunque cosa. Qualsiasi cosa tu intenda fornire nel reparto rassicurazioni sono pronta a bermela. «Si è fatta viva in qualche modo?» chiese lui. «Neanche una parola. Ma stanno succedendo un po' di cose strane.» «Che genere di cose?» «Temiamo che qualcuno la seguisse. Mio marito... il mio ex marito crede che potrebbe avere a che fare con un caso a cui sta lavorando. È convinto che l'uomo che ha querelato stia cercando di distrarlo, una cosa così. Non saprei.» «Nessuna... come direbbero nei telefilm?... nessuna pista concreta?» «Niente di serio. Ma Tate è in contatto con un suo amico della polizia.» «Ah, quel detective che mi ha telefonato? Mi ha fatto qualche domanda su Megan. Ehm, com'è che si chiama?» «Konstantinatis.» «Ecco. Bene» proseguì Peters versandosi dell'altro vino. «Penso che dovresti sapere cosa gli ho detto.» «E cioè?» «Che ritengo non corra alcun pericolo.» «Ah, ti ha detto qualcosa sulla sua intenzione di scappare?» lo incalzò subito Bett. «Me lo diresti, vero?» «Di norma sarebbe confidenziale. Ma... si, te lo direi. Comunque non ha detto niente di specifico al riguardo; a parte che parlava spesso di volersi trasferire in una grande città come San Francisco o New York.» «Sulla sua macchina hanno trovato un orario ferroviario. Aveva segnato i treni per New York.» Lui annuì, come se fosse stato risolto un mistero. «Immagino che possa essere andata così. No, direi che sono certo che è andata così. Non credo proprio che sia stata rapita da un molestatore, dall'uomo nero.» «Come fai a esserne così certo?» Invece di risponderle, osservò: «Penso che ci occorra dell'altro vino. Vado a prenderlo. Okay?». «Fa' pure.» Il dottor Peters sparì in cucina. Tornò poco dopo, si sedette e versò da bere. Dopo un istante, le chiese: «Cosa prova tuo marito per sua figlia?». «Tate è...» Bett non trovava le parole. Gliene suggerì una lui. «Indifferente?» «Sì. Non è mai stato molto preso da Megan.» «Questo l'avevo capito. Ma perché?» Bett spostò lo sguardo sulla palla di cristallo. Aveva catturato la luce arancione di un'applique. Fissando il trapezio distorto e luminoso, disse: «Tate voleva essere come suo nonno, che era un celebre avvocato e giudice di queste parti. Aveva una grande famiglia, uno stile di vita molto tradizionale. Ecco, lui voleva la stessa cosa e... e una brava mogliettina campagnola, una su cui fare affidamento». Alzò le mani e si diede una manata sulle cosce. «Invece gli sono capitata io. Grossa fregatura.» «No, quella non sei tu» disse con un sorriso ironico. «È evidente. È stato molto ingiusto da parte sua aspettarsi che lo fossi.» «Nei miei confronti?» chiese Bett. «Ingiusto?» «Ma certo» confermò il dottore come se fosse ovvio. «Tuo marito aveva un livello di aspettative distorto, basato su una visione infantile del passato, che ha cercato di proiettare su di te. Scommetto che lavorava moltissimo e passava un sacco di tempo fuori casa.» «Sì, è vero. Ma anch'io ero molto occupata. Mia sorella era malata...» «Cardiopatica.» Dio, avrebbe potuto parlare ore e ore, con quell'uomo! Era passata soltanto mezz'ora e lui già la conosceva. La conosceva meglio di Tate, anche dopo tanti anni di matrimonio. «Esatto.» «Ma perché te ne assumi la colpa? Sei una donna bella, intelligente, con una personalità spiccata. Perché ti devi sentire in colpa, se volevi una vita indipendente? A me sembra che sia lui da condannare per tutto questo. Lui ha voluto il matrimonio sapendo chi eri, pensando di cambiarti, probabilmente in qualche modo non del tutto onesto.» «Non del tutto onesto?» «Ci scommetto che dava l'impressione di appoggiarti. Che diceva: “Tesoro, fai tutto quello che vuoi. Io sarò sempre al tuo fianco”.» Era sbalordita. Sembrava quasi che il dottor Peters stesse scrutando direttamente nei suoi ricordi. «Sì, diceva proprio così.» «Ma in realtà faceva l'esatto contrario. Piccoli commenti, linguaggio del corpo, tutto inteso a scoraggiarti. Ti voleva inerme e incinta, voleva che tu rinunciassi alla tua vita, che gli preparassi la cena tutte le sere, gli regalassi una nidiata di bambini, ignorassi tua sorella anche se era malata. Lui sarebbe diventato un procuratore famoso e chi se ne frega di tutti gli altri.» I suoi occhi ebbero un lampo di sofferenza: la sofferenza di lei. «Quello che ti ha fatto è stato orribile. Imperdonabile. Ma presumo sia comprensibile. Questione di carattere, capisci.» «Carattere.» «Sai come si dice: Il carattere di un uomo è il suo destino. Adesso raccoglie quel che ha seminato. Con Megan che scappa di casa,
intendo.» Vorrei poterci credere, pensò Bett. Ti prego... Oh, ecco le lacrime. Portate dal vino, dalla straordinaria sensazione di conforto che provava, da anni e anni di dolore, confusione e solitudine che le venivano tolti dalle spalle. «Io...» Trattenne il fiato. «Lui si metteva lì, ripeteva di amarmi, mi chiedeva se poteva fare qualcosa per me...» «Trucchetti» intervenne subito Peters. «Tutti espedienti.» «Con lui non si poteva discutere. Aveva una risposta per tutto.» «È in gamba, vero? Un oratore molto scaltro. Me l'ha detto, Megan.» «Ah, puoi dirlo forte. Non riuscivo mai a vincere con Tate, a parole. Mai. E dopo mi sentivo sempre, come dire?... violata, ecco.» «Bett, la maggior parte delle donne lo avrebbero sopportato. Sarebbero rimaste a dispetto di tutto, fino a distruggere se stesse e i loro figli. Invece tu hai avuto il coraggio di fare qualcosa. Di cavartela da sola.» «Ma Megan... ne ha sofferto.» «Sofferto?» rise lui. «A causa sua, sì. Ma non per colpa tua. Tu hai fatto miracoli con lei. Alla tua salute» concluse facendo tintinnare i calici. Bevvero. La stanza ondeggiava. Si rese conto che lui le era vicinissimo e la cosa non le dispiaceva affatto. «Miracoli?» Bett scosse la testa, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime. «Mah, non credo proprio.» «Per la miseria!» esclamò con fermezza lui. «Se tutte le madri si occupassero dei loro figli come hai fatto tu con Megan, io non avrei più pazienti.» «Lo pensi davvero?» chiese lei con voce rotta. Le lacrime ora scorrevano libere, eppure, davanti a quell'uomo, non era per niente imbarazzata. A lui poteva confidare tutto, con lui poteva fare tutto, perché avrebbe capito, perdonato, consolato. «Peccato che Megan non la pensi così. » si sfogò lei.» , ma certo che lo pensa» disse lui un po' confuso. «No, no... c'è una lettera...» Lanciò un'occhiata alla borsa che conteneva, come una pozza di sangue rappreso, il tremendo messaggio. «Me ne ha parlato il detective. È il motivo principale per cui volevo vederti. Da sola, senza tuo marito.» Le tolse il bicchiere e lo posò sul tavolo. Poi si sporse in avanti e le prese le mani tra le sue. La guardò finché lei non lo fissò negli occhi neri, quasi ipnotizzata. «Ascoltami. Ascoltami attentamente. Lei non pensava quello che ti ha scritto.» «Lei...» «Leinonlopensava. Mi senti?» Bett era scossa da singhiozzi convulsi. «Ma quella lettera era così terribile...» «No» disse lui piano, ma in tono fermo. «No.» Adesso era totalmente concentrato su di lei. Bett pensò agli altri uomini della sua vita con cui aveva tentato di affrontare discorsi seri. Tate spesso era altrove, pensava ai suoi casi o cercava il pelo nell'uovo in quel che lei diceva. Brad la guardava con uno sguardo adorante nel tentativo di placarla. Ma il dottor Peters la vedeva come una persona. «Devi capire bene questo. La lettera che ti ha scritto tua figlia non significa niente.» Oh, ti prego, lo supplicò tra sé Bett; ti prego, spiegami com'è successo. Spiegami perché non sono una strega, spiegami perché Megan mi vuole ancora bene. Pensò a una frase che aveva sentito una volta, e che era convinta fosse vera: Una donna può uccidere per il suo compagno, ma morirebbe per suo figlio. Be', io lo farei. Se solo Megan l'avesse capito! Lui le strinse le mani. «Tua figlia odia tuo marito. Non ne conosco la genesi, ma è un sentimento profondamente radicato.» Bett avvertì l'impossibilità di comprimere diciassette anni in pochi minuti. Lo sguardo si posò sul gioco del Monopoli che prendeva polvere su uno scaffale. «C'erano così tante cose che voleva da Tate... Megan voleva che giocassimo insieme, io, lei e Tate. Ma lui non lo faceva mai. E poi...» «Non ha importanza», la interruppe il dottore. «Il fatto è che lei era la bambina e lui il genitore, e l'ha delusa. Megan lo sa e lo odia. È stupefacente, la rabbia che cova in lei. Ma è diretta soltanto contro di lui, questo te lo garantisco. A te vuole un bene dell'anima.» Bett era scossa dal pianto. «Ma la lettera...» «Conosci il complesso di Edipo ed Elettra? L'attrazione tra madre e figlio maschio e padre e figlia femmina?» «Ne so qualcosina.» «Nel subconscio di Megan, la sua rabbia contro il tuo ex marito la fa sentire tremendamente in colpa. E rivolgerla soltanto verso di lui le è intollerabile. Pervia dell'attrazione naturale tra padre e figlia avrebbe dovuto o evitare del tutto di scrivere o scrivere a entrambi. A livello psicologico era incapace di dirigere la sua collera unicamente verso la sua autentica origine.» «Oh, se solo potessi crederci!» «Nelle nostre sedute, non faceva che ripetermi quanto fosse fiera di te. Mi parlava di quanto volesse diventare come te, delle situazioni difficili che hai affrontato nella tua vita. Te lo assicuro, senza ombra di dubbio: si è pentita di averti lasciato quella lettera. Non pensava davvero quello che ha scritto. Darebbe qualsiasi cosa per rimangiarsi tutto.» Bett chinò il capo e si nascose il volto tra le mani. Perché la stanza vorticava così? Lui le circondò le spalle con un braccio. «Tutto okay?» Annuì. «Tornerà?» gli chiese poi. «Ne sono certo. Potrebbe metterci un po'... Tuo marito ha fatto dei danni seri. Ma niente è irreparabile. Megan sa
che non potrebbe desiderare al mondo una madre migliore. Sei stata eccezionale. Lei ti vuole bene, le manchi...» Bett si accasciò contro il suo petto, percepì i muscoli delle braccia di lui contrarsi mentre la stringevano. Oh, da quanto non si sentiva così bene, così a suo agio, così compresa? Anni... Avvertiva il calore del suo respiro sopra la sua testa. Le giunse una vaga fragranza di dopobarba. «La mia testa è così leggera.» Lo aveva detto davvero o solo pensato? Piangeva e rideva. La mano del dottore si posò sulla sua fronte. «Sei bollente...» Lui la strinse ancora di più e la sua mano scivolò più in basso. Le circondò il collo con le dita. Bett fu percorsa da una scossa elettrica, e a un tratto le sue braccia lo avvinghiarono, stringendolo più forte e attirandolo verso di sé. Alzò la testa e premette la guancia contro quella di lui. No, no, pensò. Non sto facendo questo... Ma erano parole che pescava da un luogo molto diverso, da un angolo remotissimo della mente. E le riusciva impossibile allentare la stretta sull'uomo che aveva lenito la sua anima ferita. Lui pensa che io sia una buona madre, lui pensa che io sia una buona madre, lui pensa... Il dottore si chinò su di lei, a baciare le sue lacrime. Il tocco leggero delle sue labbra la faceva sentire così bene... Si sentiva euforica, tanto felice... Si allungò per mettersi comoda... la stanza era calda, la stanza era meravigliosa... E questo cos'era?, si chiese come una liceale eccitata. La stava baciando sulla bocca. O sono io che bacio lui? Bett non lo sapeva. Sapeva soltanto che voleva stargli vicino. Vicino all'uomo che aveva scovato il suo più grande terrore, colpendolo a morte. «No» protestò lui. Ma la sua voce era un sussurro. E lei non intendeva lasciarlo andare. Sapeva che avrebbe dovuto smetterla, ma non poteva. Lo attirò a sé sul divano, rifiutandosi di mollare la presa, le braccia avviluppate attorno al collo di lui. La stanza si riempì di calore e prese a vorticare, luci arancio, luci gialle... I baci divennero più intensi. Mani sul suo ventre, sui seni... Guardò in basso e non si stupì nel vedere che la camicetta era sbottonata, il reggiseno sollevato. Sembrava perfettamente naturale. Uno schiocco soffocato, i suoi jeans che si aprivano. Era stato lui oppure lei? Non importava. Importava solo stargli vicino, sentirgli mormorare qualsiasi cosa all'orecchio mentre si stendeva su di lei. Questo era quello che voleva: sentirlo parlare. Il sesso non era importante, ma glielo avrebbe concesso volentieri purché lui continuasse a rassicurarla, a parlare... Aprì la bocca e lo baciò con violenza. E poi fu la fine del mondo. La porta d'ingresso si spalancò. Una voce famigliare che gridava: «Bett... Ah, Betti». Sussultò e si rimise seduta. Il dottor Peters si ritrasse con un'espressione scioccata. Brad Markham era sulla soglia, il volto ridotto a una maschera di orrore. Le chiavi di casa gli caddero di mano con un frastuono metallico. «Cosa...?» ansimò senza fiato. «Cosa...?» «Brad, pensavo che...» «Che fossi a Baltimora?» finì per lei la frase in tono sprezzante. Scosse la testa. «C'ero. Mi ha chiamato un poliziotto, mi ha detto di Megan. Sono venuto di corsa per starti vicino... Tua figlia scompare e tu cosa fai? Vai a letto con un altro!» «No» protestò Bett sentendosi debole e in preda alla nausea causata dal vino e dallo shock. Lacrime, un'altra volta. Lacrime di orrore. «Tu non capisci. Non volevo. Non sapevo quel che stavo facendo.» «Mi dispiace.» Il dottor Peters appariva inorridito. «Non sapevo che avessi una storia. Non mi hai mai detto niente.» «Una storia?» sbottò Brad. «Siamo fidanzati.» «Siete cosa?» Il dottore squadrò Brad. «Sono davvero spiacente. Non mi aveva detto niente.» «Come hai potuto!» esclamò Brad disgustato, avventandosi su di lei. «Dopo tutto quello che ho fatto per te e per Megan? Come hai potuto?!» «Non sapevo cosa stava succedendo...» Brad uscì a grandi passi, lasciando la porta aperta. «No!» gridò Bett singhiozzando, rimettendosi a posto il reggiseno e abbottonando la camicetta mentre correva barcollando verso la porta. «Aspetta.» Vide attraverso le lacrime l'auto di Brad che si allontanava sgommando lungo la strada. Si appoggiò allo stipite, e piangendo si accasciò lentamente a terra. Voleva morire... «No, no, no...» In un attimo il dottore le si accostò, accovacciato sui talloni. Le avvicinò la bocca all'orecchio. Quando parlò, la sua voce era completamente diversa dal ronzio appagante di dieci minuti prima. Era di pietra, era di ghiaccio. «Sai, quando ti ho detto cosa diceva di te Megan... Non era vero. Era solo per farti sentire meglio. L'unica cosa che mi ha detto tua figlia è che sei una troia egoista. Non le avevo creduto. Ma immagino che avesse ragione.» Bevve l'ultimo sorso di vino. «Che madre squallida e patetica sei!» Ciò detto si alzò, posò il bicchiere sul tavolo e la scavalcò per uscire. A Bett, per quanto accecata dalle lacrime, parve che sorridesse, anche se non poteva esserne certa. Tate Collier mise giù il telefono. Sospirò. «Nossignore, Josh non è ancora tornato. Non so dove sia. È già, vediamo... almeno la terza volta che mi chiama. Che ne dice di darsi una calmata?»
Okay, ma dove cazzo era il ragazzo di Megan? Anche Konnie non era ancora rientrato in ufficio. E non lo aveva neanche richiamato dopo che gli aveva lasciato il messaggio sul cercapersone, il che lo mandava in bestia. Dopo aver dato da mangiare alla dalmata si mise a fare su e giù sotto il portico, guardando il cielo limpido della sera e la spolverata dei germogli di aprile sui campi. A un tratto ebbe la sensazione che ci fosse qualcuno, ma non c'era nessun Dead Reb in vista. Si soffermò di nuovo a guardare la panca da picnic tutta rovinata nel cortile. Ricordò Bett che staccava la lanterna giapponese, risentì l'insolito caldo di quell'autunno di tanti anni fa, riprovò la stessa sensazione di sfinimento lasciata dal funerale. Tutto sudato, a novembre: il vento caldo che spingeva le foglie secche e arricciate sull'erba inaridita. Ricordò. Bett lo guardava. «Che c'è?» gli aveva chiesto. Era preoccupata dall'espressione del suo volto. Che c'è, che c'è, che c'è?... Domanda semplicissima. Ma le parole semplici non riescono a comunicare la risposta: c'è che due persone che prima si amavano ora non si amano più. Aveva chiuso gli occhi. Non voglio più essere sposato con te, aveva sentenziato. Addio... Adesso Tate, seduto sul dondolo della veranda, distolse lo sguardo dalla panchina per fissare impaziente il cordless. Perché non... Squillò. Trasalì, e lo staccò dalla base. «Pronto?» Un momento di silenzio. Poi: «Tate?». «Sono qui, Bett. Cos'è successo?» Al suono della voce di lei gli si fermò il cuore. «Vado a Baltimora.» «Adesso? Perché?» Un altro silenzio. «Brad mi ha lasciato.» «Cosa? In un momento simile?» «Non è colpa sua. Ho fatto una cosa stupida. Non lo so... Non voglio pensarci adesso. È che... Oh, Gesù, che gran casino.» «Bett, hai una voce spaventosa. Stai piangendo?» «Non posso parlarne adesso...» «Quando torni? E Megan?» «Non mi interessa.» Sentì nella voce di lei la disfatta completa. «Che vuoi dire?» «Oh, Tate! Abbiamo rovinato tutto. Non possiamo farci niente, ormai. Abbiamo rovinato la sua vita, e lei ha rovinato la nostra. Forse tornerà, forse no. Lasciamola andare e speriamo per il meglio. Non m'interessa più.» «Non è da te.» «Be', invece è proprio da me, va bene? È stato stupido cercarla, è stato stupido stare insieme così, io e te. Avremmo dovuto mantenere le nostre vite separate, ai due estremi dell'universo, Tate. Che cosa ne abbiamo ricavato? Solo sofferenza.» «Noi la troveremo.» «Lei non vuole essere trovata. Possibile che non ci arrivi? Lasciala stare, e non preoccuparti più. Appartiene al passato, Tate. Lasciala andare. Sta per cadere la linea, sto entrando in una galleria. Addio, Tate... Addio...» Capitolo 20 E l'esca? Sissignore, eccomi. Sono io l'esca. Ti è già addosso, dice Megan la Svitata. Muoviti, muoviti, muoviti. Svoltò a destra e Peter Matthews svoltò a destra. Sinistra e sinistra, dritto e dritto. Sempre più vicino. «Megan... Megan... Megan...» sussurra. E altre parole, anche. Non era certa, ma le parve che mormorasse: «Ti voglio scopare, ti voglio scopare». O forse «accoppare». Megan adesso era parte integrante della sua fantasia. Interpretava il ruolo della vittima di quei suoi fumetti disgustosi. I tentacoli, i mostri, i membri violacei, le chele e le pinze... Non era altro che un “game" per il “boy”, se si può definire “boy” uno alto un metro e ottanta per cento chili... Mentre correva su e giù per i corridoi stringendo l'impugnatura del pugnale di vetro nella destra, la mano piena di vesciche che bruciavano in maniera atroce, le passarono per la mente pensieri spaventosi di ogni genere: perché il padre del ragazzo l'aveva portata lì, per esempio. Come sposa per suo figlio? Gesù... Forse Aaron Matthews voleva dei nipotini. Forse Peter aveva frequentato la Jefferson High avevano una classe differenziale - e si era fissato su di lei. Poteva darsi. E allora il padre l'aveva rapita per regalarla al figlio. Correva lungo il corridoio, verso la cucina. Passi soffocati, mugugni, ma nessuno in vista. Adesso si trovava nel corridoio che passava davanti alla porta del seminterrato. Il lucchetto sembrava fragile, ma non così fragile. Per spaccarlo avrebbe dovuto fare un sacco di rumore. E poi, cosa c'era là sotto? No, le dice Megan la Svitata. Attieniti al piano. Devi stenderlo. Be', uno dei due sarà comunque steso, pensò la componente meno ottimista della coppia. Continua a muoverti, continua a cercarlo. Su e giù per questi spazi in penombra. Non sembrava così tardi, ma l'ospedale si trovava in una valle e il sole era calato dietro una montagna. Tutta la zona era immersa in una fredda luce azzurrina, e lei faticava a vederci. Si fermò. I passi del ragazzo erano ancora più vicini. Ci siamo, dice Megan la Svitata. Piantagli una coltellata nella schiena e facciamola finita.
Ma Megan le ricordò che non poteva farlo. Per quanto lo odiasse, non sarebbe riuscita ad ammazzarlo. Lui ti vuole scopare. Vuole far finta di essere uno di quei mostri a forma di insetto e scoparti a sangue. Devi... Zitta! Sto facendo del mio meglio. Più vicini. Passi sempre più vicini. Il rumore arrivava da dietro l'angolo. Non aveva tempo di infilarsi nel corridoio principale: lui era lì intorno. Si acquattò in un angoletto. In trappola. Peter si avvicinò, poi si fermò. Forse l'aveva sentita. Forse percepiva il suo odore. Aveva smesso di bisbigliare il suo nome, e la cosa la spaventò ancora di più perché significava che aveva capito di essere vicino alla preda e stava attento a non far rumore. Voleva arrivarle addosso di soppiatto..Giocava a fare il mostro invisibile: lei aveva dato una scorsa a una storia simile su uno dei suoi giornaletti. Una creatura invisibile si infilava nello spogliatoio femminile e stuprava le ragazzine che si attardavano dopo l'ora ''di ginnastica. Il giornalino era logoro, come se lui lo avesse sfogliato mille volte. Peter fece qualche altro cauto passo in avanti. La mano di Megan cominciò a tremare. Doveva balzar fuori in corridoio e mettersi a correre come una pazza? Ma lui doveva essere appena a due o tre metri di distanza. E nella foto le era sembrato così grosso! Due passi e le si sarebbe avventato contro come un serpente, afferrandola per la gola. A un tratto da una vescica le arrivò una fitta violenta alla mano destra e il pugnale le scivolò di mano. Ebbe un sussulto involontario. A Megan si fermò il cuore, guardando la sua arma che precipitava al suolo. Non può rompersi! No! Una frazione di secondo prima che il vetro toccasse terra ci infilò sotto un piede, aspettandosi il dolore della punta che le si conficcava tra le dita. Tump. Il pugnale le colpì il piede destro e rotolò intatto sul pavimento. Grazie, grazie... Si chinò a raccoglierlo. Altri due passi, più vicino, più vicino. Non aveva scelta. Doveva correre. Era sì e no a un metro da lei. Megan inspirò profondamente, e poi ancora: Adesso salta fuori, mena un fendente e corri come il vento verso la trappola. Adesso! Balzò su, girò a destra. Si bloccò, agghiacciata. Sobbalzò. Le sue orecchie l'avevano ingannata. Non c'era nessuno. Quando abbassò lo sguardo vide il ratto: enorme, grosso come un gatto, si reggeva sulle zampe posteriori annusando l'aria, la guardò stupito e si rannicchiò in un angolo. Poi, indignato, si voltò per andarsene, quasi offeso per essere stato disturbato. Megan si accasciò appoggiandosi al muro. Le lacrime presero a sgorgare man mano che si dissipava la paura. Ma non aveva tempo per riprendersi. All'altro capo del corridoio si materializzò un'ombra: la sagoma di Peter Matthews che avanzava a lunghe falcate, un po' ingobbito e lento nei movimenti. Non vedendola, scomparve alla vista. Megan rimase ferma solo per qualche secondo, prima di riprendere la caccia. Tra le valli dello Shenandoah e delle Blue Ridge, l'aria nel nordovest della Virginia in primavera è sempre limpida come l'acqua e al tramonto il sole è un disco di fuoco, brillante come un riflettore arancione. I notiziari del traffico riferivano rallentamenti causati dal riverbero in diversi punti dell'autostrada. La luce alle spalle di Tate illuminava ogni minimo particolare degli alberi, degli edifici e delle macchine che sopraggiungevano, mentre percorreva la 1-66 a centrotrenta all'ora. Sterzò verso nord sul viale alberato, poi a est; si immise nella Route 50. Entrò nel parcheggio della stazione di polizia della contea e scese dall'auto, andando praticamente a sbattere contro Dimitrij Konstantinatis che sopraggiungeva a sua volta con due voluminosi sacchetti di Kentucky Fried Chicken. «Ohoh!» esclamò il detective. «Ohoh cosa?» «L'espressione della tua faccia.» «Non ho nessuna espressione» protestò Tate. «È la stessa che avevi quando, da pubblico ministero, ti catapultavi nel mio ufficio in cerca di un'altra piccola prova; il che per me significava niente weekend. Capito perché dico“ohoh”?» Entrarono nel piccolo ufficio di Konnie. Non mi hai richiamato» lo rimproverò Tate. «Sì, invece. Dieci minuti fa. Si vede che.eri già uscito. Cos'è?» Tate posò sulla scrivania la lettera che gli aveva scritto Megan e l'osso che aveva trovato in casa sua quella mattina. Entrambi gli oggetti erano chiusi in buste di plastica trasparenti, da tribunale. «Impronte» constatò Tate. «Ecco, lo sapevo. Sono un vero genio. Quindi, cosa succede?» «Voglio che consegni la lettera di Megan alla Scientifica. C'è sotto qualcosa. Bett si sta comportando in modo troppo strano.» «Te ne lamentavi anche quand'eri sposato» gli fece notare Konnie. «Cristalli, abracadabra, telefonate dall'oltretomba.» «Quello era strano ma simpatico. Questo è strano e agghiacciante. I testimoni spariscono senza richiamare e le coincidenze sono un po' troppe. Comunque, credo di sapere chi c'è dietro.» Gli raccontò dello scontro con Jack Sharpe. «Oooh, questa sì che è una furbata, avvocato. E ti sei portato pure la pistola?» Tate si strinse nelle spalle. «È stata tua l'idea di procurarmene una.»
«Ma non è stata mia l'idea di usarla per minacciare un illustre membro della mafia di Prince William. Almeno questo me lo concederai.» «Sono la sua bestia nera da quando ho sbaragliato i suoi legali all'udienza della scorsa settimana.» «Che c'è di male, in un bel parco a tema da queste parti, Tate? Preferisci Manassas com'è adesso? Un sentiero sconnesso pieno di enormi camion che entrano ed escono da una pozza di fango. Io voterei per Disneyland, con tanto di montagne russe e dolciumi al colorante e tutte le altre trovate da clown.» «Voglio solo dire che Jack Sharpe sarebbe ben felice di vedermi fuori gioco per quell'udienza davanti alla Corte Suprema di Richmond, la prossima settimana. E credo che mi abbia fatto seguire da qualcuno su un furgone. Mi dispiace, niente targa né modello.» Konnie annuì lentamente, poi aggiunse: «Ma per una cosa del genere assolderebbe qualcuno. E quel qualcuno potrebbe assoldare qualcun altro. Non ci sarebbe modo di risalire fino a lui. Credi forse che quel qualcuno farebbe la spia contro Jack Sharpe?». «Non sono più un pubblico ministero, Konnie. Non voglio istituire un processo. Voglio trovare Megan. Punto e basta.» «E incastrare lo stronzo che ha fatto questo.» Tate spinse di nuovo verso Konnie le buste con la lettera e l'osso. «Per favore.» Un altro sguardo malinconico alla cena che si raffreddava. «Torno subito.» «Aspetta.» Tate gli consegnò un'altra bustina. «Campioni delle impronte di Megan sulle chiavi, e delle mie sul bicchiere. E ricordati che quella lettera l'hai maneggiata anche tu.» Konnie annuì. «Il procuratore che è in te, a quanto vedo, si era solo addormentato.» Il detective prese le buste e si avviò verso il laboratorio della Scientifica. Tornò poco dopo. «Non ci vorrà molto. Stavo per cenare, io.» Tate ignorò il sacchetto con il logo bianco e rosso del pollo fritto e riprese: «Seconda cosa: c'era una Mercedes grigia che la seguiva. Puoi controllare?». «Controllare cosa?» «I proprietari di Mercedes grigie.» «Te l'ho già chiesto prima: anno, modello, targa.» «Ancora.niente.» Konnie si mise a ridere. Batté qualcosa al computer con mano pesante. «Ne vale la pena solo per vedere la tua espressione.» Mentre aspettava i risultati, Konnie sbirciò nel sacchetto più grosso, strofinandosi distrattamente l'ampio ventre. «Lo sai qual è la cosa peggiore? La cosa peggiore è quando si raffredda il purè. Il pollo freddo è passabile. E anche i fagioli. Ma quando si raffredda il purè, ti tocca buttarlo. Cosa già brutta di suo, ma quando poi ci pensi tutta la notte... a quanto doveva essere buono. Questo intendo, per la cosa peggiore.» Un frullo sullo schermo. Konnie si sporse in avanti. «Ecco cosa abbiamo. Ho chiesto Fairfax, Arlington, Alexandria, Prince William e Loudoun. Mercedes, tutti i modelli, tutti gli anni, grigia.» Tate si allungò verso lo schermo e lesse: «La vostra richiesta ha prodotto 2603 risultati». «Duemila» mormorò Tate. «Cazzo.» «Duemila e seicento.» Dagli anni trascorsi a rappresentare l'accusa, Tate sapeva che troppi indizi erano inutili come troppo pochi. «Se proprio non vuoi bere la storia della fuga da casa» sospirò Konnie, «ci toccherà spremerci un po' di più le meningi. Va bene, tu pensi che Sharpe sia una possibilità, e io non credo che si tirerebbe indietro davanti al rapimento di una ragazzina. Ma se fosse qualcun altro? Pensaci bene, Tate. Qualcuno che la molestava?» «Di recente?» «Perché, i maniaci dell'anno scorso non contano?» sbottò Konnie. «In qualsiasi periodo!» «Non che io sappia. Devo dire che c'è stata una voce... era solo una voce... è possibile che uscisse... Be', che facesse sesso con uomini più vecchi. E può darsi che circolassero dei soldi. Insomma, voglio dire che la pagavano.» Se Konnie ne rimase turbato non lo diede a vedere. «Hai qualche idea di chi fosse? Dove?» «Certi ragazzi in quel bar, si chiama Coffee...» «... Shop. È un anno che cercano di chiuderlo, quel postaccio. Be', posso dare un'occhiata. Fare qualche domanda. Poi: era invischiata in qualche setta o roba del genere?» «No, non credo.» «E tu o Bett?» «Io?» «Va bene: tua moglie, allora.» «Ex» lo corresse Tate. «Come ti pare. Lei faceva cose del genere?» «La sua era roba assolutamente innocua. Niente suicidi di massa alla Heaven's Gate o Jonestown. Bett non appendeva neanche certi poster indiani perché c'erano delle svastiche rovesciate. Non voleva avere niente a che fare con i nazisti. Secondo lei è karma negativo.» «Karma!» sbuffò Konnie in tono schifato. «Nessun tuo conoscente ha dato in escandescenze sul serio negli ultimi tempi?» «Io...» «Prima di rispondere, pensa bene a tutte le ventunenni a cui hai promesso l'anello di brillanti prima di darti alla macchia.» «Non ho mai fatto proposte, neanche una.» «Non avrai fatto proposte di matrimonio, forse.» «Dopo tre appuntamenti di solito non ti procuri grane da Attrazione fatale. E non sono mai andato oltre.» «Triste, Tate. Triste. E che mi dici di Bett?» «Non lo so. Però non credo.» «Un parente che ha perso qualche rotella e a cui possa essere passato per la testa di prendere la ragazzina e filarsela?» «L'unica
parente nei dintorni è la sorella di Bett, Susan. Abita vicino a Baltimora. Ma non le farebbe mai del male. Figurati, non faceva che dire, scherzando, ovviamente, che voleva adottarla.» Questo attirò l'attenzione di Konnie. «Adottarla? E sei sicuro che non sia coinvolta? Magari ha saltato il fosso e ha deciso di avere una figlia sua.» «Hai presente Bett? Ecco, uguale ma con sette, otto chili di meno. Non riuscirebbe a rapire un uccellino.» «Ma avrebbe potuto pagare qualcuno perché lo facesse. O potrebbe avere un amichetto un po' suonato.» «Scusami, Konnie, ma proprio non ce la vedo.» «Lasciami il nome, comunque.» Tate glielo scrisse. «Okay. Veniamo ai rapporti d'affari di tutti e due. Clienti? Oppure i cattivi? Sharpe a parte.» «Bett ha un'attività di arredamento d'interni. Non credo che i suoi clienti siano i tipi che fanno cose del genere. E io mi occupo solo di testamenti, fidi e passaggi di proprietà, a parte il caso del Liberty Park.» Konnie fece un grugnito. Poi ricevette una telefonata. Afferrò il telefono, annuì e sbatté giù. «Interessante... Era il laboratorio. Sull'osso, solo le sue impronte e le tue. Le mie, le tue e le sue sulla lettera. Ma... sull'osso c'erano dei segni indistinti, forse lasciati da guanti di lattice. Non possono giurarlo. Ma la cosa mi da da pensare. Direi che è ora di chiedere un articolo 3.» «Intercettazioni?» «Del telefono tuo e di quello di tua moglie.» «Ex.» «Non fai che ripeterlo. Disco rotto. Giusto in caso che riceviate una richiesta di riscatto.» «Credevo non esistesse nessun caso.» «Lo sta diventando. Ripetimi di nuovo cos'è successo stamattina a casa tua. E sii preciso.» Tate si ricordò questo aspetto di Konnie: quando si trattava di dare la caccia agli indizi o di inchiodare sospetti e testimoni era peggio di un mastino. Doveva proprio arrivare allo sfinimento, per rallentare, e anche in quel caso comunque non si fermava. Tate gli fornì di nuovo un riepilogo dei fatti. «Quindi in realtà a casa tua non l'hai mai vista?» «No» rispose. «Sono rientrato intorno alle dieci dall'ufficio, mi sono infilato i vestiti da lavoro e sono andato a controllare una tubatura rotta.» «C'erano i contadini?» «No. Il sabato non vengono. Non ho visto assolutamente nessuno. Solo le luci che si spegnevano, verso le dieci e venti.» «Tutte?» «Sì.» «E non ti è sembrato strano?» «No. Megan non ama le luci forti. Le piace il lume di candela, la luce soffusa.» Questo gli diede una fitta di piacere: poter dimostrare a Konnie che dopotutto c'era qualcosa che sapeva, sul conto di sua figlia. «Stamattina era buio pesto» rimuginò il detective. «Con tutta quella pioggia, verrebbe da pensare che la maggior parte della gente avrebbe gradito un po' di luce. A meno di non voler evitare di essere visti da fuori.» «Giusto.» «E... Merda, Tate, aspetta un attimo. Perché è venuta da te?» «Per lasciare le lettere e prendere lo zaino.» «Perché, non aveva qualche borsa o sacca per i libri, a casa di tua moglie? Scusa, della tua ex. Della tua signora divorziata.» «Sì, certo. Hai ragione. Anzi, sono quasi tutte lì, a essere precisi. Il suo zaino poi l'ha lasciato a casa della sua amica Amy. E ha molti più vestiti e trucchi da Bett che a casa mia.» «Tu e Megan» riprese il poliziotto, «non vi vedete quasi mai.» «Vero anche questo.» «Quindi non vai spesso in camera sua, eh?» «Sì e no una volta al mese.» «Allora perché ha lasciato le lettere lì invece che da sua madre?» Avrebbe avuto più senso, doveva ammetterlo. «E porca puttana» riprese il detective, «perché piazzare le lettere a casa tua proprio stamattina, più o meno all'ora in cui dovevate vedervi? Sai che ti dico? Se io volessi lasciare una lettera di insulti ai miei per poi scappare, la metterei in un posto dove loro non sono. Non ti pare?» «Quindi gliele ha fatte scrivere e poi ce le ha portate lui. Chiunque sia.» «È quello che penso anch'io, avvocato... E adesso ti dico cosa intendo fare. Ordinare alla Scientifica di mettersi al lavoro e scambiare due chiacchiere con il capitano. Sappilo: questo è appena diventato un caso. E un caso grosso.» Konnie tirò fuori una coscia di pollo dal sacchetto e si avviò a passo di carica lungo il corridoio. Tate tornò a casa. Nessun messaggio, nessuna chiamata. Dodici ore prima avrebbe voluto che Megan e Bett uscissero di nuovo dalla sua vita. Il suo desiderio era stato esaudito, però la cosa non gli piaceva neanche un po'. E così, Brad aveva lasciato Bett. Non riusciva a capire. Perché? E perché proprio in quel momento? Qualcosa gli suggeriva che chiunque ci fosse dietro la scomparsa di Megan fosse dietro anche a quella faccenda. Poi i suoi pensieri volarono nel Belize, al viaggio che lui e Bett avevano avuto in programma di fare. Una seconda luna di miele. Be', tecnicamente la prima, visto che non l'avevano fatta dopo il matrimonio. Tate guardò fuori, contemplò il cielo buio cosparso di stelle. Rise tra sé. Che colpo, se si fossero incontrati! Si chiese come avrebbe reagito Bett vedendo Karen... no, Cathy. Non bene, probabilmente. Più per disapprovazione che per questioni di gelosia. Non aveva mai approvato i suoi gusti in fatto di donne. Be', se è per questo, ora che ripensava alle
sue amanti degli ultimi dieci anni, non piacevano poi così tanto nemmeno a lui. Il Belize... Poteva davvero esserci ancora la possibilità di fare quel viaggio insieme, lui e Bett, dopo aver trovato Megan? Qualsiasi cosa fosse successa con Brad, la presenza di un fidanzato non gli sembrava insormontabile quanto l'idea in sé di Tate e Bett che facevano un viaggio insieme. C'era stato un periodo in cui i loro nomi erano sempre accostati, gli amici li prendevano in giro per questo. Ma era avvenuto molto, moltissimo tempo prima. Eppure... quella sensazione, di nuovo. Non era certo logica cartesiana. Ma in qualche modo era convinto che sarebbero potuti andare perfettamente d'accordo. La lite di quel giorno era stata brutta quanto quelle di quindici anni prima. Però avevano fatto pace, e questo lo sconvolgeva. In passato non sarebbe mai successo. Sospirò, sorseggiò il vino, guardò la dalmata che annusava qualcosa tra l'erba alta. Ora pensava a Megan. Ma anche se loro due fossero tornati insieme di nuovo, che cos'avrebbe trovato Megan tornando a casa? E, soprattutto, chi era la persona che tornava a casa? L'incidente della sbornia e del serbatoio idrico rappresentava qualcosa di più della bravata di una notte? Era quella, la vera Megan McCall, una ragazza amareggiata che andava a letto con gli uomini per soldi? Oppure dentro di lei c'era un'altra persona? Una persona che Tate non conosceva bene... che forse non aveva ancora conosciuto? Tate Collier avvertì all'improvviso il desiderio disperato di conoscere sua figlia. Di sapere chi era. Che cosa la faceva divertire, cosa odiava, cosa temeva. Quali erano i suoi piatti preferiti. Che vestiti avrebbe scelto e quali avrebbe scartato. Quale programma della tv spazzatura le piaceva guardare. Cosa la faceva ridere e cosa piangere. Un pensiero spaventoso lo colpì come un fulmine: che se Megan fosse morta quella mattina, vittima di un folle assassino o di un incidente, lui si sarebbe disperato, certo, sarebbe stato terribilmente triste. Ma se fosse successo qualcosa del genere adesso o - nella più terrificante delle ipotesi - se fosse semplicemente scomparsa per sempre, ne sarebbe stato distrutto. Una di quelle tragedie che ti devastano, che ti rovinano l'esistenza. Si ricordò di una cosa che aveva raccontato a Bett quand'erano sposati. Un caso a cui aveva lavorato come pubblico ministero, un omicidio in conseguenza di un incendio doloso. La vittima era entrata in un edificio in fiamme per salvare il figlio, che era sopravvissuto. La madre invece era morta. Dopo averle letto i fatti, aveva guardato Bett e le aveva detto: «Si può uccidere per il coniuge, ma si da la vita per un figlio...». Nella retorica gli avvocati ricorrono spesso allo stratagemma della personificazione, che consiste nello scegliere parole che rendono il cliente più umano, un essere che può attirare simpatia, facendo il contrario con l'avversario. Per esempio, “MaryJones” anziché “la testimone” o “la vittima”. Alle giurie infatti risulta più facile accanirsi contro figure astratte come “l'imputato” o “la persona seduta a quel tavolo”. Un trucco molto efficace. E molto pericoloso. Ed è proprio così che ho trattato Megan in questi anni, pensò Tate. Si alzò, entrò nello studio e cercò a lungo un'altra foto di lei. Rimase estremamente deluso non trovandone. L'unica in suo possesso l'aveva data quel pomeriggio a Konnie e a Beauridge. Sprofondò in poltrona, chiuse gli occhi e cercò di evocare qualche immagine di sua figlia. Sorridente, perplessa, esasperata... Qualcuna gli affiorò alla mente. Ci provò ancora. E ancora. Ecco perché non sentì l'uomo che gli si accostava alle spalle. Il dito gelido di una pistola gli sfiorò la tempia. «Non si muova, signor Collier. No, no. Dico sul serio. Per il suo bene. Non si muova.» Capitolo 21 Jimmy, ricordò Tate. Si chiamava Jimmy. Era l'uomo che era stato molto più entusiasta di lui all'idea di giocare a guardie e ladri nell'atrio immacolato di Jack Sharpe. Il suo sguardo corse al telefono. Jimmy scosse la testa. «No.» «Cosa vuoi?» «Mi ha mandato il signor Sharpe.» Questo s'era capito. La pistola era veramente molto grossa. Il dito dell'uomo non era sul grilletto, il che comunque non bastò a rassicurare Tate. «Ho una cosa da farle guardare.» «Guardare?» «Io gliela do e lei la guarda. Poi me la riprendo. E né io né il signor Sharpe ammetteremo mai di saperne niente, semmai dovesse farne parola a qualcuno. Capito?» In realtà Tate non aveva capito niente, tuttavia rispose: «Certo. Di' un po', è carica quella?». Jimmy rimase zitto. Dalla tasca del giubbetto di pelle estrasse una videocassetta. La mise sul tavolo. Indietreggiò. Fece segno con la testa. Tate si avvicinò e la prese.
«Devo guardarla?» Jimmy fece una smorfia spazientita. Tate mise la cassetta nel videoregistratore e armeggiò con i comandi finché il nastro non si avviò. La scena in tv mostrava un edificio, dei cespugli. Data e ora digitali rivelavano che era stata girata quella mattina, alle 09:42. Non riconobbe il posto. Il nastro avanzò di colpo di quattro minuti; chiunque fosse a girare, adesso stava guidando: seguiva un'altra macchina lungo una strada periferica. Tate riconobbe la macchina pedinata. Era la Tempo di Megan. Pioveva, perciò non riusciva a distinguere la persona al volante. «Dove l'hai preso?» chiese Tate. «Guardare e non parlare» ribadì Jimmy, tenendo la pistola puntata sulla schiena di Tate. Un altro salto del nastro. 09:50. Tate riconobbe la stazione Vienna Metro. L'uomo che filmava - uno degli investigatori privati assoldati da Sharpe, naturalmente, malgrado avesse affermato il contrario - doveva aver temuto di avvicinarsi troppo al suo obiettivo. Si teneva a una cinquantina di metri e filmava attraverso la nebbia e la pioggia. La macchina di Megan si fermò davanti a una fila di auto. Una pausa, poi un movimento. Dopo qualche istante Tate colse per un attimo un'altra persona. Un uomo - bianco, gli parve - con una giacca scura, ma non poteva esserne certo. Altro movimento. Finalmente una Mercedes grigia uscì da un parcheggio, e un attimo dopo la macchina di Megan prese il suo posto. Alle 10:01 la Mercedes uscì dal parcheggio. Il nastro si riempì di nebbiolina grigia. Poi diventò nero. Tate rimase a fissare con il cuore in gola. Ripensò al movimento indistinto che aveva visto, pixel luminosi sullo schermo, già distorti di loro e ancora più distorti dalla pioggia e dalla nebbia. Ma era convinto che potesse essere un uomo che estraeva un oggetto pesante dal baule della macchina di Megan per trasferirlo nella Mercedes. Un oggetto delle dimensioni, grossomodo, di un corpo umano. , «È tutto» disse Jimmy. «Le dispiace tirarlo fuori?» Tate eseguì. «Ha visto nient'altro?» «Chi?» chiese Jimmy. «Lo sai chi. Il detective privato. Potrei parlare con lui? Per favore?» Jimmy accennò al tavolo. «Per favore, metta giù il nastro e si tiri indietro.» Tate obbedì. Sapeva che non avrebbe ottenuto altro. Questo era il massimo a cui Sharpe era disposto ad arrivare. Ma gli fece ugualmente un'altra domanda. «Perché Sharpe me l'ha fatto vedere? Non era tenuto.» Jimmy intascò la cassetta, sempre con la pistola saldamente puntata su Tate. Indietreggiò fino alla porta. «Lui mi ha chiesto solo di ricordarle il vecchio adagio, che una mano lava l'altra. Spera che lo terrà presente giovedì prossimo, all'udienza giù a Richmond.» «Senti...» «Sapeva che lei non sarebbe stato d'accordo. Mi ha solo chiesto di riferirglielo.» Jimmy era arrivato alla porta scorrevole da cui era evidentemente passato per entrare. Si fermò. «Quanto alla risposta alla sua domanda... io penso che sia perché anche lui ha due figlie. Buonanotte.» Dopo che se ne fu andato, Tate prosciugò il bicchiere di vino con mano tremante, prese il telefono e compose un numero. «Una pista» disse quando Konnie rispose. «È una domanda o un'affermazione?» «Affermazione.» «Spara.» «È una storia lunga. Sai quella faccenda con Sharpe?» «Okay.» «Non faceva pedinare solo me dai suoi scagnozzi privati» proseguì Tate. «Ha fatto seguire anche Megan.» «Perché? Per scovare roba compromettente?» «Immagino. La figlia dell'avvocato si droga. Si infila nel letto di chi capita. Cose così. Comunque, uno dei suoi amici mi ha appena mostrato un nastro.» Tate glielo descrisse. «Cazzo. Portalo subito qui....» «Scordatelo. Si è volatilizzato. Ma quello che quel delinquente ha spostato da un baule all'altro temo fosse Megan. Probabilmente drogata.» Tate pregò che la ragazza fosse solo svenuta. «Targa?» «No. Mi spiace.» «Porca puttana, Tate. Cosa credi che li mettano a fare, quei bei numeretti sulle macchine?» Dopo una pausa, aggiunse: «Okay. Allora... Secondo te, non è stato Sharpe?». «Non ci ha guadagnato un cazzo di niente. Non ha neanche contrattato... insomma, non sul serio. Sai, tipo: lascia perdere il caso e ti dico che cos'ha visto il detective privato. Avrebbe potuto.» «E tu avresti accettato.» Tate non ebbe un attimo di incertezza. «Sì.» «Okay. Dunque non è Sharpe. Fammi ragionare. C'è uno che la pedina. Controlla le sue abitudini. La segue dappertutto. Quando va a scuola, quando va a esercitarsi con le ragazze pompon.» Tate cercò di immaginarsi Megan cheerleader. «Tipo.» «Sa dove doveva andare stamattina. La prende, la droga, la porta alla stazione Vienna dove ha lasciato la macchina. Deve cambiare auto. Prendere la Mercedes.» «Esatto.» «E lascia quella di lei con l'orario dei treni. Per far credere che sia partita... E la porta nel posto in cui intende tenerla, dovunque sia. Sai che cosa significa, avvocato?» Tate non riusciva a pensare. Vedendo che non diceva niente, Konnie scoppiò in una sonora risata. «Cazzo, mi ero dimenticato di come ti dovevo tenere la manina, quando mettevamo tutti quei delinquenti dietro le sbarre. Cosa c'è proprio sotto la
macchina di Megan, in questo momento?» «I segni delle gomme! Le tracce della Mercedes.» «Allora c'è speranza anche per te, ragazzo mio, se ti applichi e ti impegni sul serio. Okay, avvocato, ci vorrà un po'. Adesso ascoltami: tu te ne stai seduto lì e ti fai fuori un po' di buon purè caldo. E pensa a me mentre te lo sbafi.» La prima lezione da poliziotto Konnie Konstantinatis l'aveva avuta da suo padre, uno che fregava quelli del fisco come i procioni fregano i cani da caccia. Il vecchio immigrato greco era piccolo, subdolo e pericoloso. Era nato bugiardo e conosceva per istinto la natura umana. Aveva installato alambicchi per distillare l'alcol, camuffati da pollai, vicino agli affumicatoi e alle fabbriche e a bordo delle barche. Aveva nascosto i suoi guadagni disperdendoli in cento minuscole attività. Una volta aveva intontito a forza di chiacchiere un funzionario della finanza fino a convincerlo ad arrestare il suo innocentissimo cognato al posto suo, e al processo aveva rilasciato sotto giuramento una dichiarazione falsa che era costata al poveretto esterrefatto due anni di vita. Così, fin da quando aveva cinque o sei anni, Konnie, osservando suo padre, aveva appreso l'arte dell'evasione fiscale e dell'inganno. E, di conseguenza, l'arte di riconoscere gli imbrogli. Era un'abilità che andava esercitata lentamente, con estrema pazienza. Ed era così che intendeva trovare l'uomo che aveva rapito la figlia di Tate Collier. Ordinò di far venire una piccola gru per sollevare la macchina di Megan, anziché tirarla fuori guidando con il rischio di cancellare le tracce della Mercedes. Poi aveva trascorso le due ore successive a prendere immagini elettrostatiche dei dodici segni di pneumatici che era riuscito a isolare e distinguere: tutti quelli che non provenivano dalla macchina di Megan. A quel punto aveva abbinato le corrispondenze tra i copertoni di destra e di sinistra, e aveva misurato la distanza tra le ruote e la lunghezza delle macchine che le avevano lasciate. Si appuntò tutto, con la sua scrittura a caratteri grandi, su un taccuino di pelle tutto consunto. Infine aveva rastrellato in lungo e in largo il parcheggio con un bidone aspiratutto e poi, curvo sul sedile anteriore della sua macchina, aveva passato in rassegna tutte le tracce raccolte nel filtro. Per lo più non era altro che terra e roba insignificante in assenza di un'analisi di laboratorio. Ma Konnie trovò un indizio evidente: una fibra isolata lasciata da una fune da poco prezzo. La riconobbe perché in uno dei tre casi di rapimento a cui aveva lavorato negli ultimi dieci anni le mani della vittima erano state legate con una corda che perdeva fibre proprio come quella. Tornato di corsa in ufficio, il detective si era messo al computer, facendo scorrere il database delle specifiche dei veicoli a motore per cercare una corrispondenza con le dimensioni delle ruote. Una delle serie di numeri corrispondeva esattamente a quella di una Mercedes berlina. Esaminò attentamente le stampe elettrostatiche. Sfogliando il catalogo degli pneumatici ne concluse che i copertoni erano un modello Michelin piuttosto raro, e poiché non mostravano alcun segno di logoramento immaginò che non avessero più di tre o quattro mesi. Incoraggiante, da una parte, perché erano pneumatici poco comuni e sarebbe stato più facile risalire al proprietario. Ma anche problematico. Perché erano costosi, così come il modello dell'auto guidata dall'uomo. Era quindi probabile che il colpevole fosse intelligente, il che a sua volta suggeriva che fosse un tipo organizzato: il più difficile da scovare. Il genere di criminale che presentava rischi maggiori. Konnie cominciò a fare ricerche. Essendo sabato sera, la maggior parte dei concessionari Mercedes era ancora aperta. I direttori di certo erano già andati a casa, ma un ostacolo tanto banale non avrebbe fermato Konnie. Fece il bullo e lo spaccone finché non ebbe i nomi e i numeri di casa dei responsabili della gestione e archiviazione dati di tutti i negozi ancora aperti di notte. Fece trentotto telefonate e, prima ancora di aver concluso quella all'ultimo dirigente dell'ufficio ricambi, alla stazione di polizia iniziavano già ad accumularsi i fax con i documenti di vendita. Ma le informazioni non si rivelarono utili quanto aveva sperato. La maggioranza delle ricevute registravano la marca e la targa della macchina del cliente. Qualcuna aveva anche il modello, ma praticamente nessuna riportava il colore. L'elenco continuava a crescere. Un'ora dopo aveva le copie di centoquarantadue ricevute per quel modello di Michelin, rilasciate negli ultimi dodici mesi a proprietari di Mercedes. Studiò l'elenco dei nomi, di una lunghezza deprimente. La procedura standard prevedeva di verificare tutti i nomi per cercare corrispondenze nel database dei mandati e degli arresti per i reati più gravi. Ma una rete di quel genere non sembrava promettere la cattura del criminale in questione. Non pensava fosse un rapitore seriale, o un assassino con una lunga fedina penale. Tuttavia, Konnie era uno di quei poliziotti che amano mettere i puntini sulle i, e consegnò
l'elenco a Genie. «Tu sai come si fa, tesoro.» «Sono le otto meno un quarto di sabato sera, capo» gli fece notare la segretaria. «Se non altro, tu hai cenato.» «Un consiglio, Konnie» disse il donnone accennando con la testa ai sacchetti del pollo fritto. «Buttali via. Incominciano a emanare uno strano odore.» Il detective obbedì. Quando tornò alla scrivania, il suo telefono stava squillando. Rispose subito. «Sì?» «Il detective Konstantinatis, per favore?» «Sono io.» «Sono 1 agente speciale McComb, dell'FBi, Dipartimento Sfruttamento e Rapimento di minori.» «Ah, certo. Salve.» Konnie ogni tanto lavorava con quelli del dipartimento. Erano instancabili, devoti al loro compito e investigatori di prim'ordine. «Sto facendo un favore al mio capo, a Quantico. Mi ha chiesto di dare un'occhiata al caso di Megan McCall. Te ne stai occupando tu, giusto?» «Sì.» «Non è un caso aperto, per noi, ma tu conosci Tate McCall, il padre della ragazza, vero?» «Lo conosco.» «Be', quando era pubblico ministero ha fatto un buon lavoro, per il nostro dipartimento, più di una volta. Così ho detto che avrei dato un'occhiata alla faccenda della scomparsa. A titolo di favore personale.» «Più o meno quello che sto facendo io. Ma stasera intendo presentarlo al mio capitano come caso aperto.» «Davvero?» «Abbiamo qualche reperto interessante, dalla Scientifica.» Konnie stava pensando: Be', se potessi girare i dati sulle gomme ai federali... L'fbi ha tutto uno staff di gente specializzata negli pneumatici. «Buono a sapersi. Dovremmo coordinare gli approcci. Fare un po' di pensiero proattivo.» «Come no.» Saranno anche i migliori poliziotti del mondo, si disse Konnie, ma 'sti federali parlano proprio da stronzi. «Sono da Ernie's» stava dicendo l'agente, «vicino al viale. Lo conosci?» «Certo. Meno di un chilometro da dove mi trovo.» «Stavo proprio per ordinare la cena e, mentre leggevo il rapporto, ho visto il tuo nome. Magari potrei passare di lì tra un'oretta, più o meno. O magari, se ti stuzzica l'idea, potresti venire tu da me? Lo mettiamo sul conto dello Zio Sam.» Il detective ci pensò su un momento. «Perché no? Sono lì tra dieci minuti.» «Bene. Porta tutto quello che hai in mano.» «Sicuro.» Riattaccarono. Konnie infilò la testa nell'ufficio di Genie, che stava scorrendo i risultati della richiesta su mandati di cattura e arresti. «Tutto negativo, Konnie.» «Non ti preoccupare. Adesso abbiamo anche i federali, sul caso.» «Caspita.» Prese il mucchio delle ricevute faxate dalla scrivania della donna, l'infilò nella valigetta e si diresse alla porta. Gli era tornato di colpo il buon umore: da Ernie's facevano un purè eccezionale. Capitolo 22 Aaron Matthews sedeva a un tavolo separato, di quelli con le panche dagli schienali imbottiti, in un angolo in penombra del ristorante. Osservava, dalla finestra, un gruppo di macchinari pesanti il cui giallo squillante risaltava nel crepuscolo, fermi su un monticello di terra lì vicino. Cinque anni prima quella era ancora una zona agricola, ma adesso straripava di villette, condomini e centri commerciali. Starbucks, Chesapeake Bagels, Linens 'n' Things. Ernie's, un franchising di prestigio, vi si inseriva alla perfezione. In superficie era chic, ma l'aspetto attraente copriva solo formule standard. Matthews si stava stiracchiando, quando la sagoma dall'andatura ciondolante del detective Konstantinatis entrò nel ristorante e cominciò ad aggirarsi tra i tavoli. Osservò gli occhi dell'uomo furtivi, colpevoli - per vedere dove si dirigevano. Gli occhi, sempre. Matthews fece segno con la mano e Konstantinatis annuì, virando verso di lui. Matthews non aveva idea di che aspetto avesse un distintivo ufficiale dell'fbi, e comunque non avrebbe saputo come falsificarne uno, ma si era messo un completo con la camicia bianca - il suo abbigliamento standard quando lavorava con i pazienti - e si era portato alcune cartelline piene di orecchie e di fermagli su cui aveva stampato fbi - riservato confidenziale, usando stencil realizzati con materiale da ufficio comprato da Staples. Li teneva in bella vista davanti a sé. Sperò per il meglio. Ma dopo aver lanciato un occhiata ai dossier il detective si limitò a» installarsi nel sedile di fronte a Matthews e a stringergli la mano. Chiacchierarono del più e del meno per qualche minuto, con Matthews che sciorinava la sua migliore parlata governativa. Rigida e.formale. Se anche le cartelline false non fossero bastate a ingannare il poliziotto, il linguaggio burocratico non poteva mancare di fregarlo. Quando arrivò la cameriera ordinarono entrambi. Lo psichiatra non si meravigliò sentendo il detective che insieme alla cena ordinava il latte. Lui invece scelse una birra. «Ho paura che non abbiamo molte piste»
esordì. «Ma da quello che mi hai accennato al telefono deduco che secondo te si tratta di rapimento...» «In un primo tempo ho pqnsato che fosse scappata. Ma a quanto pare c'è un nastro che mostra qualcuno che scambia la macchina della ragazza con una Mercedes grigia, più o meno all'ora in cui è sparita. E forse l'ha anche trasportata nel baule priva di conoscenza.» «Capisco» disse Aaron Matthews, sentendosi sulla graticola. La sua corazzata grigia, modello 560, era parcheggiata a una quindicina di metri da loro. Nello splendore delle sue targhe rubate. Un nastro? Chi l'aveva girato? Per un momento si sentì montare su tutte le furie, ma la collera era un lusso che non poteva permettersi. «Ce l'hai, questo nastro?» «Svanito nell'aria. Una storia lunga.» «Ah.» «Non invidio il tuo lavoro» disse Konnie. «Passare tutta la giornata a cercare bambini scomparsi. Dev'essere dura.» Quell'omaccione rivelava un lato sentimentale che Matthews non si sarebbe aspettato. Addolcendo la voce, replicò: «È che lì ho l'impressione di poter fare davvero la differenza». Arrivarono le bevande. Fecero tintinnare i bicchieri. Matthews rovesciò sul tavolo un po' di birra, che asciugò maldestramente con un tovagliolo di carta. «Detective...» «Chiamami Konnie. Lo fanno tutti.» «Okay, Konnie. Detesto fare questo tipo di domande, ma non conosco questo Collier e non posso evitarlo. Pensi che ci sia qualcosa tra lui e la ragazzina?» «Naa. Non Tate. Semmai è il contrario.» «Cosa vuoi dire?» «Cazzo, figurati che ho scoperto che aveva una figlia un bel pezzo dopo che abbiamo iniziato a lavorare insieme. No, non è questo. Credo davvero che l'abbia rapita qualcuno. Ancora non ho un movente, anche se potrebbe trattarsi di un caso che ha per le mani Tate. Secondo lui il colpevole non è questo tipo nelle costruzioni. Io però non ne sarei troppo sicuro. Mi è venuta anche qualche idea riguardo alla zia della ragazza: a quanto sembra è stata parecchio invidiosa della sorella perché ha avuto un figlio.» La sorella di Bett... Come faceva Konnie a sapere di lei? «Ho trovato qualche traccia di pneumatici e ho un elenco di centocinquanta persone, più o meno, che hanno comprato quella marca nell'ultimo anno. Potrei passarti le ricevute» - un colpetto sulla borsa portadocumenti -«così le controllate voi.» «Molto volentieri. Ci hai già lavorato su?» «Ho solo controllato mandati e arresti per i crimini più gravi. Non è venuto fuori niente.» Durante la fase di programmazione del rapimento, due mesi prima, Matthews aveva comprato le gomme nuove per l'auto. Non poteva permettersi un intoppo stupido come una ruota a terra. Se non altro, quando aveva portato l'auto da General Tire, aveva dato un nome falso e pagato in contanti. «Ma poi ho cominciato a pensare» proseguì Konnie, «mentre venivo qui, a cosa avrei dovuto fare: avrei dovuto guardare le ricevute e controllare chi aveva pagato in contanti. Chiunque fosse, immagino che avrà dato un nome falso. Voglio dire, quelle sono gomme che costano un sacco di soldi. Nessuno paga in contanti cifre del genere. Perciò quello che potreste fare voi è controllare le targhe e vedere se i nomi corrispondono, su tutte le ricevute con pagamento in contanti. Se qualche nome non torna, quello è il nostro primo sospetto.» Oh, Cristo! Matthews non aveva cambiato la targa, quando aveva portato la macchina a far montare i copertoni nuovi. E questa sbadataggine avrebbe rivelato il suo vero nome e l'indirizzo della casa che aveva affittato nella contea di Prince William, che peraltro non corrispondeva all'informazione falsa che aveva dato al gommista. «Ottima idea. Un'idea proattiva» disse Matthews con un tono disinvolto anche se avrebbe voluto mettersi a urlare. Si sentì sommergere da un umore tetro. Arrivate le ordinazioni, Konnie cominciò a mangiare, famelico, piegato sopra il piatto. Matthews spiluccava. Doveva agire in fretta. Chiamò la cameriera e ordinò un'altra birra. «Vorresti darmi quelle ricevute?» chiese accennando alla valigetta. «Certo, però poi passiamo in sede. È proprio in fondo alla strada. Così puoi faxarle al tuo ufficio.» «Okay.» Arrivò la seconda birra. Konnie la guardò per un istante, poi tornò al suo piatto. «Questo Tate Collier» riprese lentamente Matthews assaporando la sua birra. «Si direbbe un brav'uomo.» «Un'ottima persona. Il miglior avvocato dello Stato, porca puttana. Ne ho piene le palle, di questi criminali merdosi che escono per dei cavilli. Quando Collier rappresentava l'accusa, andavano dentro e ci restavano.» Matthews alzò il bicchiere della birra. «Alla tua teoria delle gomme!» brindò. » Il detective Konstantinatis esitò, poi brindò anche lui. Lo psichiatra bevve mezza birra, fece un sospiro di soddisfazione e posò il bicchiere. «Caldo, per essere aprile. Non ti pare?» «Già» annuì il detective. «Sei di servizio?» chiese Matthews. «Naa, ho finito tre ore fa.» «E allora, dai, butta via quel latte e fatti offrire da bere sul serio.» Un colpetto alla birra. «No, grazie.» «Andiamo, non c'è niente di meglio di una bella birra in una giornata calda.» «Il fatto è che ho
smesso di bere già da qualche anno.» Matthews parve mortificato. «Oh, mi dispiace.» «Non c'è motivo.» «Non ci ho pensato. Un uomo che beve latte... Non avrei dovuto ordinarla. Mi dispiace sul serio.» Il poliziotto alzò una mano, tranquillo. «Nessun problema. Non pretendo certo che gli altri cambino il loro stile di vita a causa mia.» Matthews alzò il suo bicchiere. «Vuoi che me ne sbarazzi, che la butti?» Mentre guardava la birra, gli occhi del detective mandarono un lampo: lo stesso di quando aveva attraversato il bar, con uno sguardo carico di desiderio alla fila di bottiglie allineate come prostitute all'angolo di una strada. «Ma no» rispose Konnie. «Non ti puoi mica nascondere.» Mangiò un altro po' di purè e poi domandò: «Dove vanno a finire la maggior parte dei ragazzi che scappano?». Matthews si godeva ogni singolo goccio di birra. Il detective lo guardava ogni tre o quattro sorsi. L'aroma del liquido che aveva rovesciato - apposta - riempiva il séparé con quel suo profumo maltato e amarognolo. «Sempre nella grande città. Non sai che attrattiva è New York. Pensano di trovare lavoro, di diventare Madonna o quel che vogliono essere oggi le ragazzine. I maschi credono di rimediarne una tutte le sere.» Matthews sorseggiò di nuovo la birra e guardò fuori. «Porco mondo, che caldo! Immagina quella battaglia.» «Bull Run?» «Già, be', io la chiamo Manassas, ma è perché vengo dalla Pennsylvania.» Matthews assaporò un altro goccio. «Sei sposato?» Oppure la moglie ha mollato l'ubriacone? «Lo ero. Sono divorziato.» «Figli?» Oppure hanno piantato papino dopo essersi stancati di vederlo crollare come morto guardando Jeopardy! nei fine settimana o quando vomitava l'anima la domenica mattina? «Due. Stanno con mia moglie. Li vedo qualche volta, alle feste.» Matthews buttò giù un'altra sorsata. «Dev'essere dura.» «A volte.» Il grasso poliziotto cercò scampo nelle patate. Dopo qualche minuto, Matthews gli chiese: «Dunque, ti sei già laureato?». «In che senso?» «I dodici passi.» «Degli Alcolisti Anonimi? Certo.» Konnie si guardò le mani grassocce. «Sono quattro anni e quattro mesi.» «Io da otto.» Un altro lampo nello sguardo. Il poliziotto guardò la birra. Matthews si mise a ridere. «Tu sei dove sei, Konnie. E io sono dove sono. Mi scolavo tre quarti di whisky davvero schifoso, tutti i giorni. Cazzo, come minimo. A volte tiravo il collo alla seconda bottiglia subito dopo cena.» Konnie non notò che il linguaggio da fbi si era trasformato in chiacchiere da amicone, con sintassi e vocabolario simili ai suoi”. «“Tirare il collo”» rise Konnie. «Lo diceva anche mio padre.» E anche alcuni dei pazienti di Matthews. «Una bottiglia e mezza? Ci andavi giù pesante.» «Ah, puoi dirlo forte. Sissignore. Sapevo che mi avrebbe ammazzato. Così ho smesso. E per te? È stato difficile?» Il poliziotto si strinse nelle spalle e si infilò in bocca una palettata di piselli e purè. «Ha danneggiato parecchio il mio matrimonio» concesse. Poi, con riluttanza, aggiunse: «Anzi, direi che l'ha proprio ammazzato». «Mi dispiace molto» lo compatì Matthews, eccitato dalla sofferenza nello sguardo dell'altro. «E probabilmente prima o poi avrebbe ammazzato anche me.» «Cosa bevevi?» chiese Matthews. «Birra e scotch.» «Ah! Anch'io. Bud e Dewar's.» Konnie lo guardò perplesso. «Allora tu... come hai fatto?» Il poliziotto annuì verso la bottiglia dal collo lungo. «Cos'è successo? Hai smesso, eh?» Il volto di Matthews si atteggiò a un'espressione reverenziale. «Ti dirò la sacrosanta verità, Konnie.» Ingollò una deliziosa sorsata di birra. «Io credo nell'affrontare le proprie debolezze a testa bassa. Non bisogna scappare.» Il detective emise un grugnito di conferma. «Vedi, mi sembrava troppo facile rinunciare completamente al bere. Mi capisci?» «Non del tutto.» «Era la strada del codardo. Un sacco di gente smette completamente. Ma secondo me è solo un altro fallimento... Scusa, non prenderla come un'offesa personale.» «No, no. Continua. Mi interessa.» «Mi pare lo stesso fallimento di chi beve in continuazione.» «Immagino che in un certo senso tu abbia ragione» accondiscese Konnie. Matthews fece roteare il liquido dorato nel bicchiere. Seducente. «Prendi uno che abbia una dipendenza dal sesso. Lo sai che c'è chi ha questo problema?» «Ne ho sentito parlare. Ci sono dodici passi anche per quello, lo sapevi?» «Esatto. Però non è che uno possa rinunciare completamente al sesso, ti pare? Non sarebbe naturale.» Konnie annuì. Ah, ce l'ho in pugno, pensò Matthews. Cazzo, questo sì è come il sesso, farsi strada nell'anima di una persona a forza di parole. Era eccitatissimo. «Quindi» proseguì, «sono solo tornato indietro, al punto in cui potevo controllarlo.» «E ha funzionato?» chiese Konnie. Quel senzapalle sembrava impressionato, intimidito. «Ci puoi giurare. Ho smesso di netto per due anni. Proprio come mi ero ripromesso di fare. Tutto programmato. Certe volte era proprio un inferno. Non voglio indorarti la pillola. Ma Dio mi ha dato una mano. Non appena ripreso il controllo, due anni esatti dopo aver smesso, mi sono
fatto il primo drink. Un bicchierino di Dewar's. L'ho mandato giù come fosse una medicina.» «Cos'è successo?» «Niente. Era buono. Me lo sono goduto. Non ne ho preso un altro. Non ho bevuto nient'altro per una settimana. Dopo un po' mi sono fatto un altro bicchierino, con una Bud. E ho lasciato passare un mese.» «Un mese?» mormorò Konnie. «Esatto. Poi mi sono versato un bicchiere di scotch. L'ho posato sul tavolo, davanti a me. L'ho guardato, annusato, e l'ho buttato giù per lo scarico. E ho fatto passare un altro mese.» Il poliziotto scosse la testa, meravigliato. «Mi sembri uno di quei masochisti, o come diavolo si chiamano.» Ma nella sua risata si sentiva la disperazione. «A volte bisogna capire qual è la cosa più difficile per noi, voltarsi e guardarla dritta in faccia. Andare fino in fondo. Il più in fondo possibile. Questo è il coraggio. È questo che fa di noi degli uomini veri.» «Nulla da eccepire.» «Negli ultimi anni ho sempre bevuto in modo saltuario. Non mi sono ubriacato neanche una volta.» Si sporse in avanti e posò la mano sul grosso avambraccio del poliziotto. «Ti ricordi la sensazione delle prime bevute?» «Credo...» «Ricordi come ti sentivi rilassato, in pace, felice? Come tiravi fuori il tuo lato migliore? Per me adesso è così.» Matthews si appoggiò allo schienale della sedia. «Sono fiero di me stesso.» «Alla tua.» Il poliziotto deglutì e toccò con il suo latte il bicchiere di birra. Gli occhi sostarono sulla sua superficie dorata. Oh, povero scemo, pensò Aaron Matthews. Non hai nessuno al mondo con cui parlare, vero? «A volte» riprese meditabondo, «quando ho un vero problema, qualcosa che mi rode, che mi fa sentire talmente in colpa che è come avere un fuoco dentro... Ecco, allora mi faccio un bicchiere. Attenua il dolore. Mi aiuta ad andare avanti.» «Non è che mi prendi in giro?» La forchetta saggiò il mucchio del purè ormai molto ridotto. Andare fino in fondo. Toccare dove fa più male... «Se mi trovavo in una situazione, tipo che c'era una persona che amavo e che si stava allontanando da me per via di quello che ero diventato... Be', volevo essere in grado di affrontare ciò che l'aveva fatta andar via, qualsiasi cosa fosse. Volevo dimostrarle che avevo ripreso il controllo di me stesso. E allora, chissà?, forse sarebbe tornata.» Il poliziotto era paonazzo. Sembrava avesse la gola così gonfia da essere completamente serrata. Matthews sorseggiò altra birra, guardò fuori dalla finestra verso il cielo che si andava scurendo. «Sissignore, detestavo vivere da solo. Svegliarmi quelle domeniche mattina... quelle domeniche mattina di marzo, il cielo grigio... le vacanze da solo... Dio, quanto le odiavo! Mia moglie che non c'era... L'unica persona al mondo di cui avevo bisogno. L'unica per cui sarei stato disposto a fare qualsiasi cosa...» Konnie era paralizzato. Adesso, pensò Matthews. Adesso! «Ti faccio vedere una cosa.» Matthews si sporse in avanti e gli fece l'occhiolino. «Sta' a guardare.» Chiamò la cameriera. «Un bicchierino di Dewar's.» «Uno solo?» chiese lei. «Uno solo, sì.» Ormai inebetito, il detective Konstantinatis osservò arrivare il superalcolico. Matthews allungò ostentatamente il braccio e prese il bicchierino pieno fino all'orlo. Si sporse in avanti, annusò il liquido e ne bevve un piccolissimo goccio. Posò di nuovo il bicchiere sul tavolo e infine alzò le mani, mostrando i palmi. «Ecco fatto. L'unico superalcolico che mi berrò per due o tre settimane.» «Puoi fare una cosa del genere?» Il poliziotto era visibilmente allibito. «La cosa più facile del mondo. Senza il minimo problema.» Tornò alla sua birra, e chiamò di nuovo la cameriera. «Scusami, tesoro. Te lo pago lo stesso, ma ho cambiato idea. Preferisco restare lucido, stasera. Puoi portarlo via.» «Ma certo, signore.» La mano del poliziotto ci arrivò per prima. La ragazza rimase sorpresa dalla veemenza del gesto. «Oh, allora preferisce che lo lasci?» Konnie guardò Matthews, poi il suo sguardo bovino tornò a posarsi sulla cameriera. «Sì. E porti un'altra birra al mio amico, qui.» Un istante di silenzio. I loro sguardi si incontrarono. «Facciamo due» aggiunse Matthews. «Certo, signori. Lo metto sul conto?» «Ah, no» insistette Matthews. «Offro io.» Indossati i guanti sterili, Matthews portò la macchina di Konnie fuori dal parcheggio del centro commerciale e verso l'Interstatale. Il poliziotto era seduto davanti, aggrappato alla bottiglia di scotch che aveva tra le gambe come fosse la cloche di un biplano. La testa ciondolava contro il finestrino della Taurus. Lungo il mento gli colava saliva mista a liquore. Matthews si fermò in una stradina laterale non lontano da Ernie's, gli tolse di mano la bottiglia e versò un po' del superalcolico sul cruscotto e sul sedile. Poi gliela restituì. Konnie non se ne accorse neanche. «Come va?» gli chiese Matthews. L'omone guardava fisso e imbronciato il collo aperto della bottiglia, e non disse nulla. Nel centro commerciale dove avevano comprato il whisky, il dottore aveva buttato nella spazzatura un sacchetto con dentro le ricevute dei gommisti e tutti gli appunti delle indagini su Megan McCall.
Adesso, sceso dall'auto, spinse Konnie al posto di guida. L'altro ingollò due sorsate di scotch. Poi si asciugò la faccia sudata e impiastricciata. «Dove vado?» «Vai a casa, Konnie.» «Bene.» «Te ne vai dritto a casa.» «Bene. Vado a casa. C'è Carol a casa?» «Tua moglie? Sì, Konnie, è a casa. Sta aspettando che torni. Meglio che ti sbrighi.» «Mi manca proprio tanto.» «La sai la strada, vero?» chiese Matthews. «Credo...» Gli occhi annebbiati si guardarono attorno. «Non lo so.» «Quella strada lì davanti a te. La vedi?» «Certo. Vado lì?» «Proprio lì» disse Matthews. «Prendi quella: ti porta dritto a casa. Quella ti porta dritto a casa, da Carol.» «Okay.» «Ciao ciao, Konnie.» «Ciao ciao. Quella strada lì?» «Proprio quella. Senti, Konnie?» Matthews guardò gli occhi lucidi e arrossati, le labbra umide. «Me la saluti, Carol, vero?» Il poliziotto annuì. Matthews innestò la marcia e si tirò indietro, mentre Konnie accelerava. Guidava praticamente al centro esatto della carreggiata. Matthews stava tornando da Ernie's a riprendere la Mercedes, quando sentì lo stridio improvviso dei freni e lo scatenarsi di una decina di clacson. Segnalavano a Konnie che la sua Taurus blu scuro aveva imboccato la rampa di uscita, non d'ingresso, della 1-66, e che stava guidando contromano in autostrada. Non più di trenta secondi dopo sentì un fragore di lamiere: un frontale, probabilmente. E forse, ma poteva essere solo frutto della sua immaginazione, un urlo lontano. Capitolo 23 Ormai era notte. I corridoi del manicomio erano al buio, illuminati solo da due lampade di sicurezza esterne la cui luce filtrava a fatica dalle finestre sporche. La rudimentale spada di vetro in mano, Megan McCall si muoveva silenziosa nell'ala principale. Non riusciva a togliersi dalla mente i fumetti, i tentacoli che abbrancavano donne urlanti stuprate da esseri mostruosi. Era diretta alla camera del ragazzo. Vicina, più vicina. Entrò nel grande atrio principale. Le ombre, nella luce fioca, riempivano tutto lo spazio. Era convinta che lui fosse tornato in camera sua, ma in realtà poteva essere ovunque. Megan avvertì come un fiato sul collo e si voltò di scatto, sentendo la sbarra di ferro che ruotava sibilando verso la sua testa. Sobbalzò. Niente, se non una brezza leggera. Era là dentro a dormire? A leggere? A masturbarsi? A fantasticare su di lei? Su quello che le avrebbe fatto? I corridoi dell'ospedale erano un labirinto. Si era persa, non sapeva più con sicurezza dove fossero le stanze di Peter. Fece diverse svolte sbagliate, trovandosi di nuovo al punto di partenza. Cominciava a sentirsi disperata. Aveva paura che il ragazzo trovasse la trappola, il suo unico vantaggio su di lui. Allungò il passo, con l'orecchio teso. Nessun respiro osceno, nessun sussurro libidinoso del suo nome. Il silenzio, in un certo senso, era più terrificante dei mormorii perché non le forniva alcuna indicazione di dove fosse. Poi, girato un angolo, trovò la camera. Una lama di luce dalla porta aperta tagliava in due il corridoio. Lampeggiò, si spense per un attimo. Era dentro. Megan, che suda. Megan, che ha paura. Paura di morire, paura del mostro che abita l'edificio, paura degli orsi che mormorano. Be', era quello che volevi. Che aspetti, adesso? Vai a prenderlo, la incoraggia Megan la svitata. Megan stava per dirle di piantarla, ma a un tratto si bloccò. Un pensiero la colpì, con la forza dei mattoni di cemento impilati nella trappola: Megan la Svitata non solo non è pazza, ma è perfettamente lucida. E ancora: di noi due, M.S. è l'unica reale. Megan la Svitata è la Megan autentica, la Megan che ballava sul cornicione del serbatoio idrico per sfida, solo perché Bett o Tate o chiunque si accorgesse di lei. La Megan che sognava segretamente di andare a stare un anno a San Francisco dopo il liceo, e poi di andare all'università a Parigi. La Megan che faceva l'amore in modo appassionato con un ragazzo nero e sexy che... 'fanculo, dottor Hanson: io lo amo, punto e basta! La Megan che voleva piantare le unghie sulla faccia del padre e gridargli: «La bambina inopportuna è tornata, ed è tua, che ti piaccia o no!». Oh sì, Megan la Svitata è quella sana di mente. E l'altra è solo una sfigata. «Okay» disse a voce alta. «Okay, testa di cazzo, vieni a prendermi.» L'ombra di Peter Matthews sulla parete si immobilizzò di colpo. La luce si spense, riempiendo l'andito di tenebra. «Andiamo, coglione!» gridò. Rumore metallico: doveva aver preso la sbarra. Non riusciva a vedere con chiarezza, ma poteva distinguere la sagoma che avanzava lentamente dalla soglia. Guardò su e giù per il corridoio, poi si voltò verso di lei. «Megan...» Dio, se è grosso. «Megan!» la chiamò con voce rauca. Si avviò verso di lei. Si muoveva molto più in fretta
di quanto si fosse immaginata qualche ora prima sentendo il suo passo strascicato. Le venne meno il coraggio. Che idea del cazzo! Non funzionerà, porca puttana. Certo che no. Mi prenderà. «No!» urlò in preda al panico. Muoviti!, grida Megan la Svitata. Corri! Indietreggiò rapidamente. Sapeva che avrebbe fatto meglio a guardare dove andava, ma aveva paura di perderlo di vista anche un solo istante. Sentì il muro alle sue spalle. Mancò poco che inciampasse in un tavolo. Si girò e lo scostò di lato, E quando tornò a voltarsi lui non c'era più. Siamo fottute, sussurra disperata Megan la Svitata. Adesso potrebbe essere dovunque! Potrebbe arrivarle addosso da destra o da sinistra. E inoltre lui aveva senz'altro le chiavi di tutto, lì dentro. Poteva nascondersi in una delle stanze chiuse e aspettare che lei passasse. E poi... spostarsi da una stanza all'altra e arrivarle da dietro. Non poteva farci niente. Solo tornare al tratto di corridoio cieco dove aveva piazzato la trappola. Arrivarci il più in fretta possibile e aspettare. Ma, nel panico, aveva perso l'orientamento. Era là, da quella parte? Oppure in fondo a quel corridoio? Guardò da una parte all'altra di due anditi. Quale dei due? E lui dove diavolo si era nascosto? L'oscurità era tale che non vedeva quasi niente. Ecco, pensò. Dev'essere quello. Sono sicura. Quasi sicura. Scattò. Andò a sbattere contro una sedia in fibra di vetro, facendola volare lontano. Riuscì a non cadere, ma la seggiola fece un gran fracasso andando a sbattere contro la parete. La ragazza si immobilizzò. Aveva sentito? Aveva...? A un tratto, una sagoma enorme sbucò dal corridoio, a mezzo metro da lei. «Megan...» Megan urlò. Non riuscì a tirar fuori il pugnale in tempo. Chiuse gli occhi, facendo scattare un pugno nella direzione della faccia di Peter. L'impatto fu notevole. Doveva avergli rotto il naso, perché lui mugolò di dolore e indietreggiò, girando l'angolo. Megan si mise a correre. Svoltò un angolo e si fermò, proprio all'imbocco del corridoio che portava alla trappola. Lui la seguì, dritto verso di lei. Megan si assicurò che la vedesse bene, che vedesse che direzione prendeva. Poi si avviò verso la trappola. E si fermò. Aspetta! Era questo, il corridoio? No, quello dopo. Aspetta. È questo? Cercò di scrutare nell'ombra fitta, ma non riusciva a vedere niente. Peter si avvicinava. Qual è il corridoio, cazzo”?, urla Megan la Svitata. Non lo so, non lo so, sono tutti uguali... Era a cinque o sei metri da lei. Forza, sbotta M.S. Non perdere la testa. Non aveva scelta. Sarà meglio che sia questo. Megan corse fino in fondo all'andito. Sì! Ecco la trappola. Si accucciò, tenendo stretto il capo della fune. All'altro capo, Peter si fermò guardando verso di lei. Altri mormorii. Come un animale. Ripensò alla foto sul giornale: la bocca strana, la lingua sporgente, gli occhi da folle. Il sorriso, al funerale di sua madre. Porca puttana che paura... Adesso lo freghi, dice Megan la Svitata. Al buio, non sembrava neanche che camminasse. Le si avvicinò fluttuando, la sua silhouette sempre più grande, fino a riempire il corridoio. Si fermò esattamente davanti alla trappola. Lei non riusciva a vedergli gli occhi o la faccia, nell'ombra, ma sapeva che ghignava, rivolto a lei. Altri mormorii. Le si avvicinò. Ora! Tirò la corda. La stoffa di denim si lacerò esattamente al centro. I mattoni di cemento oscillarono appena, ma rimasero al loro posto. Oh, no. Oh, Cristo, no! Ecco fatto, si dispera Megan la Svitata. Adesso è finita. Lui avanzò di altri due passi. Megan estrasse il pugnale dalla tasca, tenendo d'occhio la sua ombra. Sto per morire. Ecco. Sono morta. Mi spezzerà il braccio, mi toglierà il pugnale e mi scoperà fino alla morte... Megan è sola, adesso. Megan la Svitata non c'è più. Megan la Svitata è già morta. Lui avanzò di un altro passo. La fievole luce dall'esterno cadde sul suo volto. No... Aveva le allucinazioni. Megan sussultò. «Josh!» «Megan» mormorò lui di nuovo. La faccia e il collo di Joshua LeFevre erano una poltiglia insanguinata, come le mani, le braccia e le gambe. Dagli arti gli mancavano ampie zone di pelle. Cadde in ginocchio. Proprio mentre i mattoni cominciavano a rovesciarsi verso di lui. Guardò senza speranza chili e chili di cemento, senza nemmeno cercare di spostarsi. «No!» urlò Megan. Fece un balzo in avanti e lo spinse via. I mattoni li mancarono di un soffio, rovesciandosi a terra e scagliando schegge di cemento dappertutto. «Megan» invocò ancora lui, il nome che usciva a fatica dalla gola lacerata. Quando parlò, il sangue le sprizzò in faccia. Poi Josh svenne. La Lexus di Tate Collier inchiodò davanti alla cabina telefonica sulla Route 29. ' Balzò fuori, guardandosi attorno come un disperato. Nessuno. «Ehi?» chiamò con un sussurro convulso. «Ehi!» Diede un'occhiata alla vecchia tavola calda - o quel che ne restava dopo l'incendio doloso di qualche anno prima - e ai cumuli di rifiuti. Deserto. Poi udì un gemito, seguito da violenti conati. Tate corse tra i cespugli. Konnie era lì seduto, tutto insanguinato e intriso di sudore, il mento sporco di vomito, lo sguardo vitreo. Piangeva. «Gesù. Cos'è successo?»
Si chinò e gli mise un braccio attorno alle spalle. Quando lo aveva chiamato, venti minuti prima, l'amico gli aveva detto solo di raggiungerlo il più presto possibile. Tate aveva capito che era ubriaco e quasi completamente stordito, ma non aveva altri indizi sull'accaduto. «Sono finito, Tate. Ho incasinato tutto. Oh, Cristo...» Prima Bett... adesso Konnie... Che razza di giornata, pensò Tate. Che razza di giornata. «Sei ferito.» «Sto bene. Ma potrei aver ammazzato qualcuno, Tate. C'è stato un incidente. E me ne sono andato.» Ansimò violentemente e fu scosso dai conati per un minuto buono. «Mi stanno cercando. I miei uomini, Tate, stanno cercando me.» Tossì forte. «Chiamo un'ambulanza.» «No, mi “costituisco subito. Ma...» Si girò su un fianco a vomitare per qualche minuto. Poi riprese fiato e tornò a sedersi. Una volante con i lampeggianti accesi passò lentamente davanti a loro. I riflettori passarono sopra le loro teste, ma non colpirono i cespugli dietro cui Tate era accovacciato accanto al detective. «Ascolta» disse Konnie. «Devi andare al mio ufficio. Devi guardare le ricevute.» «Le ricevute.» «Delle gomme. Vai al mio ufficio. Genie dovrebbe aver fatto una copia. Preghiamo che l'abbia fatta. Chiedile a lei. Ma sbrigati, perché sequestreranno la mia scrivania.» «Genie? È la tua segretaria.» «Sì, dai, te la ricordi. L'elenco con le ricevute, capito?» «Capito.» «Guarda chi ha pagato le gomme in contanti.» «Gomme in contanti. Capito.» «Lei ha controllato i precedenti, ma non è... non dovevamo guardare quello. Tate, mi ascolti?» «Ti ascolto.» «Bene. Cerca le ricevute dove i clienti hanno pagato in contanti. Poi controlla i numeri di targa. Se il proprietario non corrisponde al nome sulla ricevuta, quello è il nostro uomo. Quello che ha preso tua figlia. Io l'ho...» Prese fiato. «Io l'ho visto.» «L'hai visto?» «Altroché. Quello stronzo mi ha raggirato alla grande. È bianco, sui quaranta, capelli scuri. Uno e ottanta. Un'ottantina di chili. Ha detto che... Ha finto di essere un federale. Mi ha fregato come fregava tutti mio padre. Merda. Dio come sto male.» «Okay. Konnie, lo faccio. Ma prima ti porto in ospedale.» «Non se ne parla. Non devi sprecare neanche un altro minuto, cazzo. Adesso fai quello che ti dico io. E sarai presente alla mia udienza. Non posso credere di averlo fatto. Non ci posso credere.» La sua voce scomparve in una cascata di vomito. A casa, Tate trovò il vecchio distintivo di quand'era procuratore dello Stato. Tornò di corsa alla macchina appendendosi la catenella al collo. Portava la data di quattro anni prima, ma era scritta in piccolo. Sperava che non se ne accorgesse nessuno. Nel giro di venti minuti entrava nella stazione di polizia. Nessuno gli prestò la minima attenzione. Firmò il registro dei visitatori ed entrò nell'ufficio di Konnie. Un donnone robusto con gli occhi rossi, in lacrime, alzò lo sguardo. «Oh, signor Collier. Ha sentito?» «Andrà tutto bene, Genie.» «È così terribile» disse asciugandosi la faccia. «Così terribile. Non posso credere che sia tornato a bere. Non so perché. Non capisco cosa sia successo.» «Lo aiuterò. Ma prima devo fare una cosa. È molto importante.» «Quando ha chiamato, mi ha detto che dovevo aiutarla. Dio, al telefono sembrava così ubriaco. Mi ricordo quando chiamava e mi diceva oggi non vengo in ufficio perché ho l'influenza. Ma non era l'influenza. Ed era uguale a stasera. Completamente sbronzo.» Tate posò la mano sull'ampia spalla della donna. «Andrà tutto a posto. Lo aiuteremo tutti. Hai fatto una copia delle ricevute?» «Sì, l'ho fatta. Me lo dice sempre: “Fai una copia di tutto quello che ti consegno. Fai sempre, sempre, sempre una copia”.» «Il nostro Konnie.» «Eccole qui.» Prese il fascio di ricevute, con i proprietari delle Mercedes che avevano comprato le Michelin nuove. Su quattro ricevute era marcato il quadrettino relativo al pagamento in contanti. Non riconobbe nessuno dei nomi. «Puoi controllare i numeri di targa alla motorizzazione e darmi nomi e indirizzi dei proprietari?» «Certo.» Tirando su col naso, Genie andò alla scrivania; si mise pesantemente a sedere, poi prese a digitare come una furia. Un attimo dopo gli fece cenno di avvicinarsi. I primi tre nomi corrispondevano a quelli sulle ricevute. Il quarto no. «Oh, mio Dio» mormorò Tate. «Che c'è, signor Collier?» Non rispose. Rimase lì, inebetito, a fissare il nome di Aaron Matthews, Sully Field Drive, Manassas. Le lettere gialle risaltavano nette sullo schermo nero.
Capitolo 24
LA corte: La pubblica accusa può fare la sua arringa. Signor Collier? collier: Cari amici... La giuria ha un compito difficile e ingrato. Siete chiamati a passare al vaglio un pagliaio pieno di prove, in cerca dell'unico ago della verità. In molti casi, quell'ago è sfuggente. Praticamente impossibile da trovare. Ma nel caso che avete di fronte, Lo Stato della Virginia contro Peter Matthews, quell'ago è lì in vista, dove tutti lo possono vedere. Non ci sono dubbi che l'imputato abbia ucciso Joan Keller. È stato visto camminare con la vittima, una ragazza di sedici anni, vicino a Bull Run Marina. È stato visto portarla verso il bosco. È stato visto, più tardi, allontanarsi di corsa dal parco cinque minuti prima che venisse ritrovato il corpo di Joan, uccisa per strangolamento. Il fango su cui giaceva il cadavere corrisponde a quello trovato sulle ginocchia dei jeans indossati dall'imputato. Quando è stato arrestato, come avete sentito dalle testimonianze, ha detto ai poliziotti: «Doveva morire». Nel camper in cui abita, la polizia ha trovato centinaia di fumetti e romanzi dell'orrore raffiguranti uomini grandi e grossi che commettono atti indicibili sulle loro vittime inermi: ragazze esattamente uguali a Joan Keller. Quelli della difesa vedono luccicare l'ago della verità con la stessa chiarezza con cui lo vediamo voi e io. Nemmeno nella loro mente sussiste alcun dubbio che l'imputato abbia ucciso la povera ragazza. E allora cosa fanno? Cercano di distrarci. Sollevano dubbi sul carattere dijoan. Insinuano dubbi sulla sua moralità. Accennano a rapporti sessuali con i ragazzi del posto... a volte in cambio di soldi. O di alcol e sigarette. Una ragazzina di sedici anni! Questi non sono altro che sporchi tentativi di distrarvi dalla ricerca dell'ago. Oh, parlano anche di morte accidentale. «Solo un gioco pericoloso» affermano. L'assassino era un giovane disturbato, dicono, ma innocuo. Be', direi che i fatti di questo caso dimostrano che non era affatto innocuo, non credete? Gli uomini innocui non strangolano ragazze innocenti che pesano trentacinque chili meno di loro. Gli uomini innocui non mettono in scena le loro fantasie malate e contorte su giovani inermi come Joan Sue Keller. Signore e signori, non lasciate che la difesa vi nasconda l'ago della verità. Non lasciate che lo occultino. Questo è un caso semplice, di una semplicità estrema. L'imputato, con premeditazione, con calcolo, con intenzione consapevole, ha soppresso una vita. La vita di una ragazza. Amica di qualcuno... sorella di qualcuno... figlia di qualcuno. Non c'è crimine peggiore di questo. E lui deve esserne riconosciuto pienamente responsabile. Il sommo Dante dice che «la dimanda onesta si dee seguir con l'opera tacendo», ovvero le richieste più giuste trovano risposta nel silenzio delle opere. Io non chiedo parole vuote, signore e signori. No, io vi chiedo un gesto di coraggio: giudicare questo pericoloso assassino sano di mente, giudicarlo colpevole, e raccomandare alla corte che paghi per la vita della povera Joan Keller con la sua. Grazie. L'oratore Tate Collier aveva fatto tutto per bene, nell arringa conclusiva. Era stato conciso, colloquiale, pieno di immagini concrete. Aveva chiamato Peter Matthews “l'imputato” e la ragazza “Joan”, per spersonalizzare il criminale e umanizzare la vittima. Il riferimento all'“ago” - che abituava la giuria al pensiero dell'ago utilizzato nelle iniezioni letali - era stato un tocco particolarmente azzeccato. Aveva anche aggiunto la richiesta della condanna a morte, perché era un qualcosa che avrebbero potuto negoziare pensandoci su: la vita del ragazzo in cambio del giudizio di sanità mentale con una pesante pena detentiva. Esattamente ciò che era successo. Aveva vinto, il ragazzo era stato giudicato sano di mente e colpevole. E condannato all'ergastolo, senza possibilità di libertà vigilata. L'obiettivo di Tate fin dall'inizio. Ma una settimana più tardi il giovane che aveva evitato la pena capitale era stato giustiziato da uno strumento molto più informale di un'iniezione letale: una decina di compagni di carcere, la cui identità era rimasta ignota, avevano usato manici di scopa e cucchiai affilati per eseguire la sentenza. Ci avevano messo tre ore. Giustizia? Quando aveva saputo della morte di Peter, Tate era rimasto seduto a lungo alla sua scrivania, chiedendosi perché la notizia lo avesse così turbato. Poi era andato nell'archivio della procura per rivedere un'altra volta la documentazione del caso. Erano gli stessi documenti e le stesse testimonianze che aveva letto prima del processo, naturalmente. Ma adesso li esaminò senza l'appassionata urgenza di condannare il giovane. Osservò con più attenzione la foto del ragazzo: non “l'imputato”, ma Peter Thomas Matthews, diciassette anni, residente a Fairfax, Virginia. Sì, Peter aveva una raccolta di fumetti raccapriccianti e di cassette di anime giapponesi. Ma molti di questi, come aveva appreso Tate preparando il processo, in Giappone erano best seller, erano considerati dei “cult” con pretese artistiche, ricevevano serissime recensioni ed erano spesso oggetto di collezione da parte di giovani
e adulti. E soprattutto il ragazzo aveva anche una raccolta di scrittori di fantascienza e di fantasy di alto livello, come Ray Bradbury, Isaac Asimov, William Gibson, C.S. Lewis, J.R.R. Tolkien, Jules Verne, Edgar Rice Burroughs. Peter aveva trascorso molte ore a copiare da quei libri lunghi passi poetici, e aveva tentato di realizzare delle illustrazioni. Aveva anche scritto dei racconti, sia di fantascienza sia di argomento fantasy, che per un ragazzo della sua età non erano niente male. Sì, alcune perizie psichiatriche lo definivano pericoloso. Ma secondo altri aveva semplicemente una personalità paranoide, e tendeva a farsi prendere dal panico nelle situazioni di stress. Non aveva precedenti di violenza. Mentre preparava il caso, Tate aveva anche appreso qualcosa sul conto di Joan Keller, la vittima. La ragazza era sessualmente attiva fin dall'età di dodici anni. Aveva sperimentato diverse “stranezze”, forse anche l'asfissia erotica. In diverse occasioni aveva sedotto uomini più grandi di lei, e avrebbe dovuto testimoniare come parte lesa in almeno un caso di rapporto sessuale con minori. Ma si era rifiutata di collaborare. Era stata in cura in quanto personalità borderline, ed era stata sospesa da scuola due volte per aggressione contro compagni, femmine e maschi, una volta anche con un coltello. Quand'era stato arrestato, Peter presentava abrasioni sulla faccia e sul collo. Aveva dichiarato che Joan lo aveva colpito con un sasso quando si era stancata del suo armeggiare impacciato, dopo che lei gli aveva preso la mano infilandosela nelle mutandine. E la dichiarazione fatta dal ragazzo - sul fatto che Joan “doveva morire” - era stata messa in dubbio da un pescatore del posto che si trovava nei pressi al momento dell'arresto. Secondo luì il ragazzo poteva aver detto: «Non doveva morire... non doveva colpirmi». Ma Tate Collier, l'avvocato del diavolo, era riuscito a tenere fuori dal processo tutte queste attestazioni pericolose e a evitare di minare la credibilità dei testimoni che le presentavano. Vostro Onore, noi non processeremo la vittima in questo caso Vostro Onore un racconto ben scritto non ha alcun valore di prova in questo caso Vostro Onore il fatto non è pertinente e non deve essere messo a verbale La prego di istruire la giuria... Gli avvocati della difesa avevano proposto un patteggiamento: una condanna per omicidio preterintenzionale, sospensione della condanna, tre anni di libertà vigilata condizionale e due anni di terapia obbligatoria. Ma no. Peter Matthews aveva stretto le mani attorno al collo di una ragazzina di sedici anni e aveva stretto, stretto, stretto fino a toglierle la vita. Quindi niente patteggiamenti. la corte: L'imputato si alzi. Ha sentito il verdetto della giuria: lei è stato giudicato colpevole di omicidio di primo grado. La giuria non ha raccomandato la pena di morte e dì conseguenza la condanno al carcere a vita... Era stato quindi arrestato, e l'ultima cosa che gli avevano sentito dire, dalla deposizione di un secondino, era che sarebbe andato a giocare con i suoi nuovi amici: «Che figata!» aveva commentato Peter. «Giocheremo a palla, facciamo una squadra. Vogliono che giochi a palla. Incredibile.» Poi era sparito nel locale lavanderia dov'era stato trovato, in parecchi pezzi, cinque ore dopo. Perché, si era chiesto Tate allora, seduto da solo nell'archivio polveroso, si era tanto accanito a perseguire quel ragazzo? Perché1? Domanda che si era fatto spesso, negli ultimi anni. Domanda che si fece adesso. Cosa ci sarebbe stato di tanto grave se l'imputato... se Peter fosse stato rilasciato in libertà vigilata e ricoverato in ospedale per essere curato? Non sarebbe stato ragionevole? Sì, certo. Ma allora non lo era; non lo era per Tate Collier, il ragazzo prodigio della procura di Stato, l'uomo con il dono delle lingue, il nipote del Giudice. Perché”? Perché il pensiero di un assassino che toglieva un figlio ai genitori gli riusciva insopportabile. Quella era la risposta. Quello era ciò che aveva pensato. Qualcuno aveva ucciso una ragazza come Megan. E meritava di morire. E vaffanculo alla giustizia. Tate non aveva mai visto il padre di Peter, Aaron Matthews, al processo. E se c'era non gli aveva badato. Era un terapeuta, questo Tate lo ricordava da quando aveva letto la storia e le valutazioni dell'imputato. Viveva da solo. Sua moglie - anche lei una terapeuta, e a quanto pareva più brava del marito - era morta suicida alcuni anni prima. Aaron Matthews. Be', adesso poteva dare alla polizia un nome e un indirizzo. Lo avrebbero trovato loro. Pregò solo che Megan fosse ancora viva. Adesso, nell'ufficio di Konnie, chiamò Bett a casa. Il messaggio della segreteria telefonica dava il suo numero di cellulare. Lo chiamò, ma lei non rispose. Lasciò un messaggio riferendole ciò che aveva scoperto, e che si trovava alla stazione della polizia di contea. Si avviò lungo il corridoio con lo stesso passo sicuro di quando era procuratore dello Stato, di quando entrava in quegli uffici come se fossero i suoi e giocava all'inquisitore con i funzionari più giovani. Spinse la porta della sezione
Omicidi, e si stupì nel vedere i detective allibiti che si bloccavano a metà di una frase. Sorrise con aria colpevole, ricordandosi solo in quel momento che aveva sconfinato. Uno dei poliziotti guardò un collega con espressione attonita. «Scusate se ho fatto irruzione in questo modo» cominciò Tate. «Sono Tate Collier. Si tratta di mia figlia. Non so se l'avete saputo, ma è scomparsa e...» In meno di venti secondi era faccia a terra su una scrivania lì vicino, le manette ai polsi serrate con efficienza metallica, i diritti dell'imputato sopra di lui da una voce burbera che fluttuava parecchi centimetri sopra la sua testa. «Ma che cazzo succede?» sbraitò. «Lei è in arresto, signor Collier. Ha capito i suoi diritti così come glieli ho letti?» «Per cosa? Perché mi state arrestando?» «Ha capito i suoi diritti?» «Sì, ho capito i miei diritti del cazzo. Per cosa?» «Per omicidio, signor Collier. Per l'omicidio di Amy Walker. Se vuole seguirmi, per favore.» Capitolo 25 Lei lo cullava tra i singhiozzi. Aveva trascinato Joshua alla luce fioca della lampada esterna. Era ferito in modo ancora più grave di quanto avesse creduto all'inizio. Spaventosamente massacrato, tutto crivellato di tagli e di segni di morsi, le ferite incrostate di terra e sangue secco. Un occhio era così gonfio da non riuscire ad aprirlo. Le treccine rasta erano state quasi tutte strappate via e il cuoio capelluto era coperto di fango e di croste. Riusciva a parlare solo tra gemiti spettrali e spezzettati. No, non era la voce libidinosa di Peter Matthews, quella che aveva sentito: era quella dijosh. Aveva la gola squarciata e, a quanto pareva, le corde vocali recise. Quando respirava l'aria passava sibilando sia dalla bocca sia dalla ferita. Non sanguinava più, le sembrava, ma gli avvolse lo stesso la pezza di jeans attorno alla gola. Non riusciva a trovare nient'altro che potesse aiutarlo. «Ho pensato che fossi tu» ansimò. «Non riuscivo a vedere. I miei occhi, i miei occhi. Ho pensato che fossi tu. Ma tu non rispondevi.» Megan gli posò la testa sul petto. «Temevo che fossi suo figlio, che avessi intenzione di ammazzarmi. Oh, Josh, cosa ti è successo? Sono stati i cani? Quelli là fuori?» Lui annuì, rabbrividì: per il dolore, immaginò lei, oltre che per il freddo. «Quell'uomo, ti ha ra... rapita?» riuscì faticosamente a chiedere. Lei annuì. «Hai chiamato la polizia?» «No» soffiò. «Non sapevo che cosa stesse succedendo. Ho cercato di fermarlo, ma lui mi ha fregato...» Tossì. «Ho pensato che tu... ho pensato che tu stessi con lui.» «Cos'è successo?» domandò lei tra le lacrime. Con gran fatica, le spiegò: li aveva seguiti, lei e Matthews, fin lì, poi il dottore l'aveva aggredito e lo aveva dato in pasto ai cani. Ma prima che quelli lo finissero era passata una giovane cerva, così avevano lasciato Josh per inseguire la nuova preda. La sua bellissima voce, pensò Megan piangendo. Andata. Fu costretta a distogliere lo sguardo dalla sua faccia. Aveva trovato una sbarra di metallo da usare per appoggiarsi, proseguì lui. Era entrato nell'ospedale sperando di trovare un telefono. Ma non ce n'erano. Poi si era accorto che le porte non si aprivano dall'interno, che quel posto era una galera. Lei sfiorò delicatamente una delle spaventose ferite sul suo volto. Si chiese se, anche se fosse riuscita a portarlo al più presto in ospedale, sarebbe sopravvissuto. Aveva perso così tanto sangue! «Tu eri... non eri la sua amante, vero?» «Cosa?» sbottò lei. «Lui ha detto di sì. Ha detto... Ha detto che volevi sbarazzarti di me.» «Oh, Josh, no. Era... Qualsiasi cosa abbia detto, era una bugia.» «Chi è?» domandò con voce rasposa LeFevre. «Non c'è tempo, adesso. Riesci a camminare?» «No.» Respirò con affanno, e fece una smorfia di dolore. «Non riesco a far niente. Direi proprio che sono arrivato.» Lei lo sospinse all'interno della camera, nascondendolo alla vista. «Aspettami qui.» «Dove... vai?» «Sdraiati lì, Josh. Fermo e zitto. Vado a prendere qualcosa per fare delle bende.» «Ma potrebbe esserci lui.» Gli mostrò il pugnale di vetro. «Lo spero.» «Vi dirò tutto quel che volete sapere. Ma per l'amor di Dio, mandate qualcuno a cercare mia figlia.» «Ricominciamo da capo, per favore, signore.» Tate era ancora stordito dalla notizia che Amy era stata trovata nuda e accoltellata a morte nella sua fattoria. «C'è un uomo, si chiama Aaron Matthews. Guida una Mercedes grigia. Vive a Sully Field, ai margini della Route 29, vicino a Manassas. Ha seguito Megan, nelle ultime due settimane. O forse mesi, non so. E...» «Abbiamo già le nostre priorità, Collier» lo interruppe scorbutico il giovane detective della Omicidi - un sosia della guardia di sicurezza del liceo - che aveva ormai perso la pazienza. «Se non le dispiace, abbiamo parecchie cose da chiarire.» «C'è Ted Beauridge?» «No. Ancora una volta, signore. Da
capo.» Si trovava in una saletta da interrogatori, appollaiato su una sedia di metallo scomodissima. Se non altro gli avevano tolto le manette. «Matthews ha ucciso Amy. Megan le aveva detto che qualcuno la seguiva. Deve aver pensato che lei avesse qualche informazione... o forse l'ha ammazzata solo per mettermi fuori gioco.» E sono stato io a dirgli il suo nome, pensò Tate. Adesso era certo che il tizio dell'FBi che gli aveva telefonato – l'agente speciale McComb - fosse Aaron Matthews a caccia di informazioni per bloccare le loro ricerche di Megan. Aveva costretto o convinto sua figlia a scrivere quelle lettere, e quando avevano continuato a cercarla comunque si era rivoltato contro di loro. «Come avete scoperto il corpo?» chiese Tate. «Una telefonata anonima, vero?» I detective si scambiarono un'occhiata. Erano magri e in perfetta forma. Scarpe lustre, pistole accuratamente nascoste. Automi delle forze dell'ordine. «È stato Matthews a. telefonare. Non capite?» «Sua madre ha dichiarato che lei molestava Amy e che quelli dei servizi per la Tutela dei minori stavano indagando sul suo conto.» «Cosa? Questa è una stronzata. Chiamateli.» «Di sabato sera, signore? Li chiameremo lunedì.» «Non abbiamo tempo fino a lunedì.» Impassibile, il poliziotto riprese: «La signora Walker ha detto anche che oggi lei ha cercato di introdursi in casa sua». «Amy doveva consegnarci lo zaino di Megan. Ho bussato alla porta e quando nessuno ha risposto ho provato ad aprire.» «Ahah.» «Non c'è nessuna indagine dei servizi per la Tutela dei minori sul mio conto. È lui! È Matthews. Sta cercando di impedirmi di trovare Megan. Non lo capite?» «Non del tutto, signore. No.» «Okay. Quand'è arrivata questa telefonata anonima? Nell'ultima mezz'ora? Credetemi, è stato Matthews a uccidere Amy e a gettare il suo corpo nella mia proprietà. Stamattina ho notato qualcuno che teneva d'occhio casa mia.» «Ha sporto denuncia?» «Be', no, non l'ho fatto.» «Perché no?» Tate ricordò di aver pensato quella mattina, sul campo battuto dalla pioggia: Ehi, quello sembra Dead Reb. Ma non lo era. Era Aaron Matthews che aspettava che io me ne andassi di casa per lanciare un osso al cane, lasciare le lettere di Megan e andarsene di corsa. «Perché no. Sentite, lui sa che gli sono addosso. Konnie stava controllando le Mercedes. È saltato fuori che si tratta della sua. Questa non è una coincidenza.» «Come spiega il fatto che la ragazza è stata uccisa con un coltello da cucina con le sue impronte sopra?» «Perché probabilmente viene dalla mia cucina. Parlate con Konnie, a proposito di stamattina. Lui...» «Il detective Konstantinatis si trova in stato di fermo e comunque non è in condizioni di parlare con nessuno. Come lei di certo sa.» «Allora Beauridge. Sono venuti a casa mia. Matthews si è introdotto in casa, ha lasciato due lettere false che sembrava avesse scritto Megan e in quel momento deve aver rubato anche il coltello. Oppure l'ha preso stasera. Non è difficile entrare in casa mia.» «La causa della morte è shock dovuto a perdita di sangue, conseguenza della ferita alla gola e delle trentadue coltellate al petto e all'addome. La ragazza ha anche subito delle mutilazioni.» «Che cazzo di maniera di ammazzare qualcuno!» aggiunse l'altro detective. Tate si sentì ribollire. Gli occhi terrorizzati di Megan erano l'immagine che più spiccava nei suoi pensieri. «Abbiamo controllato a casa sua, e abbiamo visto che ha messo via quasi tutta la roba di sua figlia. Un magazzino ha più personalità della sua camera.» «Vive con la madre.» «Non ci sono foto sue, niente vestiti, niente di personale. Abbiamo avuto l'impressione che avesse intenzione già da un po' di sbarazzarsi di Megan. Il che ci ha fatto riflettere su tutta questa storia del rapimento.» «Ci sono dei testimoni. Un professore... Robert Eckhard. Lui ha visto...» Ma si interruppe notando l'espressione delle loro facce. «Lei è amico di Eckhard?» «Mai incontrato» rispose Tate prudente. «Ho solo saputo che aveva visto la macchina che seguiva Megan.» «Ha mai parlato con lui?» «No. Ve l'ho appena detto... Perché?» «Robert Eckhard è stato arrestato oggi per possesso di abbondante materiale pedopornografico.» «Cosa!?» «Potrebbe descriverci in che rapporti è con lui?» «Con Eckhard? Nessun rapporto... Oh, santo cielo! Non lo conosco! Vi prego! Vi scongiuro, mandate qualcuno a controllare questo Matthews!» Un buon oratore non supplica mai. Il suo dono lo stava abbandonando. Sii più furbo, si rimproverò. Poteva uscirne, con le parole. Lo sapeva. Doveva esserci un modo. Cosa avrebbe fatto suo nonno, il Giudice? Tutti i gatti vedono al buio... Midnight è un gatto... «Ispettore» riprese Tate in tono pacato, sorridendo disinvolto. «Non avete niente da perdere. Assolutamente niente. Tanto io non vado da nessuna parte. Se date una controllata, se mandate un paio di agenti a casa sua, io poi vi dirò tutto quello che volete sapere. Tutto. Senza far storie. Vogliamo fare un patto?» Uno dei detective sospirò. Si strinse nelle spalle e uscì dalla stanza.
Dunque, Midnight vede al buio. Tate ebbe la visione di Megan legata e imbavagliata, tenuta in un sotterraneo da qualche parte. Con Matthews che torreggiava sopra di lei. Che la spogliava. Era un'immagine terribile e, una volta evocata, si rifiutava di andarsene. «Ha mai avuto rapporti sessuali con Amy Walker?» Represse la collera. «Non l'ho mai neanche vista» rispose. «Ha mandato sua figlia da qualche parte perché aveva scoperto la sua ossessione per Amy Walker costruendo un'accusa di rapimento?» «No, non ho fatto niente del genere.» Adesso lottava per restare calmo, per collaborare. Lottava con tutte le forze. Guardò la porta da cui era sparito l'altro agente. Stavano organizzando una squadra speciale da mandare a casa di Matthews, o solo degli agenti di pattuglia? Matthews era capace di fregarli. Di tranquillizzarli, di rerìderli compiacenti... Ah, sì. Anche lui possedeva quel dono. Adesso lo capiva. Non si può trattare con uno come Matthews. Bisogna agire. E subito. Il silenzio delle opere. «Ha ucciso lei Amy Walker?» «No.» «Quand'è stata l'ultima volta che ha guidato la macchina di sua figlia?» «Un mese fa, più o meno. Se non sbaglio.» «È stato allora che ha lasciato le sue impronte sulla maniglia della portiera?» «Evidentemente sì.» «Possiamo riepilogare ancora una volta gli avvenimenti precedenti alla sua scomparsa?» «Precedenti?» «Diciamo nella settimana prima.» Tate guardò verso la porta: strizzò gli occhi. Guardò di nuovo. Il secondo detective entrò nella cella. «Avete mandato una squadra a casa sua?» chiese Tate. «Avrei dovuto dirvi di mandare una squadra speciale. Non dei normali agenti. E non ascoltate quello che vi dice. Qualsiasi cosa dica, Megan è lì, a casa sua. Dite a chiunque stia andando da lui di non ascoltarlo.» «Non era a casa.» «Come?» chiese Tate. Non capiva. Gli agenti non potevano essere già arrivati fin là. «Ho telefonato. Non era a casa.» «Gli ha telefonato}» Il cuore di Tate perse un colpo. «Si rilassi, signore, non gli ho detto niente. Gli ho solo chiesto di chiamarci per delle multe per divieto di sosta.» Il giovane e zelante agente sembrava fiero della sua astuzia. «Oh, Cristo, non doveva dirgli niente. Ma è impazzito?» «Signore, noi non siamo tenuti a prestare la minima attenzione alla sua storia. Lo sa. Le stiamo facendo un favore.» Un attimo dopo, tornò a guardare gli agenti. Chiuse gli occhi e sospirò: «Avete vinto. Okay, avete vinto». «Che significa, signore?» «Rinuncio ai miei diritti e vi dico tutto quello che mi viene in mente. Non una confessione, ma una dichiarazione completa su mia figlia e Amy Walker. Però voglio del caffè e ho bisogno del bagno.» Si guardarono l'un l'altro, annuendo. «Vengo con lei» borbottò il primo detective. Tate si mise a ridere. «Sono stato per dieci anni procuratore dello Stato. Non ho intenzione di evadere.» «Vengo con lei» insistette l'altro. Tate emise un sospiro disgustato e uscì, ritrovandosi negli ambienti tutti graffiati e scorticati che gli ricordarono una scuola superiore di periferia. Si diresse al bagno maschile e spinse la porta. L'agente lo seguiva da vicino. Rimase in piedi davanti all'orinale per un tempo smodatamente lungo. Quand'ebbe finito e si fu lavato le mani, uscì spingendo la porta e urtò la donna che portava tre grossi codici e diversi pacchi di fogli protocollo, che rovinarono a terra. «Mi spiace» si scusò Tate raccogliendo i libri. Bett McCall lo guardò e replicò: «Non c'è problema». E fece scivolare la pistola dalla sua borsa nelle mani di Tate. Lui non si fermò neanche un attimo a pensare. Si voltò di scatto, premette la Smith & Wesson nella pancia dello stupefatto detective e lo risospinse dentro il bagno degli uomini, mentre Bett con calma raccoglieva i libri. Nell'arco di un minuto Tate aveva imbavagliato e ammanettato il poliziotto furente, sottraendogli la pistola, che gettò nel cestino della carta. «Le manette sono troppo strette?» chiese. L'agente lo fissò infuriato. «Troppo strette?» L'altro annuì. «Bene» replicò Tate, poi uscì dal corridoio mentre dal gabinetto proveniva un rombo sordo come di un terremoto di lieve intensità. Il detective stava tentando di abbattere il divisorio. Quando aveva guardato fuori dalla cella degli interrogatori Tate quasi non riusciva a credere di vedersela lì davanti che gli faceva segno con la testa di uscire in corridoio. «Come hai fatto a entrare?» le chiese mentre si dirigevano a passo rapido verso l'uscita. «Ho detto che ero un avvocato.» «Hai citato qualche caso?» «Avrei potuto.» Sorrise. «Ho memorizzato i nomi di un paio di cartelle sulla tua scrivania. Avevo intenzione di dire al sergente all'ingresso che dovevo vedere il mio cliente perché mi erano appena stati consegnati questi nuovi casi.» «Si dice “assegnati”» la corresse Tate. «Oh. Meno male che non me l'ha chiesto.» «Non so se possiamo uscire di qui. Sono entrato liberamente, ma può darsi che l'agente alla reception sappia che sono in arresto.» Guardò in fondo al corridoio. «Abbiamo cinque minuti al massimo, prima che comincino a cercarci.» Risistemò i libri che portava, in modo da mettere in
mostra la copertina. Un manuale classico, il codice Williston on Contracts. Lui si mise a ridere. «Questo sì li dovrebbe fregare.» E poi le chiese: «Hai ricevuto il mio messaggio?». Lei annuì. «Ho chiamato Konnie e la sua segretaria mi ha detto che ti avevano arrestato. Non riuscivo a decidere se portarmi un avvocato o la pistola. Ho pensato che non c'era tempo di aspettare i difensori d'ufficio. Ho la macchina qui fuori.» La vecchia Bett McCall avrebbe impiegato giorni a meditare, sperando in un'illuminazione. Quella nuova si era presentata con una Smith & Wesson. Si fermarono appena prima di svoltare l'angolo dietro cui si trovava l'agente di guardia. Lui fece un gran respiro. «Pronta?» «Immagino di sì.» «Andiamo.» Tate si mosse per primo, con Bett al suo fianco. La guardia li scrutò, ma loro proseguirono senza esitare, firmando scrupolosamente il registro sotto orario di uscita; un falso procuratore e un falso avvocato difensore, entrambi ormai fuorilegge. Aaron Matthews andava a centoventi, centotrenta chilometri all'ora. La rabbia aveva lasciato il posto al dolore. Lo stesso lacerante senso di vuoto provato nei mesi successivi alla morte in carcere di Peter. Dolore per i piani andati storti, terribilmente storti. Matthews era stato alla casa che aveva preso in affitto, vicino alla Route 29, per vedere se era riuscito a bloccare una volta per tutte Tate Collier. Era convinto di sì. Aveva rinunciato a ogni sottigliezza, rinunciato alle parole, rinunciato all'arte deliziosa della persuasione. Indurito dalla collera, aveva trascinato la ragazzina urlante, quella Walker, tirandola fuori dal baule della macchina. Non le aveva detto niente, non l'aveva convinta di niente: aveva solo pugnalato, e pugnalato, e pugnalato... Tutta quella rabbia che fluiva da lui calda e improvvisa come i fiotti di sangue dal corpo di lei. Aveva chiamato da una cabina pubblica per riferire di aver visto un cadavere, poi era corso a casa. Il suo telefono aveva squillato. Non aveva risposto, ma aveva ascoltato il messaggio lasciato dall'agente. Qualche stronzata sulle multe. «Ci faccia uno squillo, quando rientra. Grazie.» Naturalmente significava che sapevano di lui. O almeno lo sospettavano. Come avevano fatto? Perché non si erano limitati a sbattere in cella Collier dimenticandosi di lui? Possibile che li avesse davvero convinti che era innocente e che lui aveva rapito sua figlia? Quello stronzo di un avvocato del diavolo! Un umore furente, un dolore lacerante esplose come napalm dentro di lui. Era solo questione di tempo, ormai, prima che scovassero il Blue Ridge Mental Health Facility. Dal nome sarebbero senz'altro risaliti all'istituto e avrebbero trovato Megan. Guardò qualche istante fuori dalla finestra. Poi chiuse gli occhi. In un mondo perfetto i cambiamenti d'umore non ardono come torce. Le giurie amministrano la giustizia pura. La vendetta ricade sui peccatori in misura esattamente proporzionale ai loro crimini. In un mondo perfetto Matthews avrebbe tenuto Megan McCall come una figlia, per sempre, in sostituzione di Peter. E Tate Collier avrebbe vissuto nell'eterna disperazione senza mai sapere dove si trovava, sapendo solo che era scappata da lui spinta da un odio implacabile. Ma ormai non c'erano possibilità di attuare quella simmetria. Le sue speranze erano tutte crollate. Gli era rimasta una sola risposta. Uccidere la ragazza e andarsene. Scappare nella West Coast, nel New England, forse addirittura all'estero. Lui aveva perso suo figlio, Tate Collier avrebbe perso sua figlia. Una specie di catarsi, una specie di giustizia, una specie di vendetta... Trascorse alcuni minuti in casa, intento in alcuni preparativi. Poi corse alla macchina. Filò dritto verso l'autostrada, diretto alla catena montuosa i cui contrafforti dalla sensuale linea scura si vedevano in lontananza. La volta celeste si stava riempiendo di luci; perfino i frammenti di stelle scintillavano e la luna mostrava il sottile cipiglio della sua falce bianca. La cosa più difficile era ripulire le ferite profonde. Nella camera da letto aveva trovato un set da cucito da quattro soldi e un flacone di alcol per frizioni nell'armadietto dei medicinali. Josh aveva sopportato coraggiosamente i punti (anche se lei aveva sussultato ogni volta che l'ago gli aveva bucato la pelle). Ma quando Megan aveva versato un tappino di alcol sulle ferite, il dolore gli aveva inferto una scossa violenta. «Oh, mi dispiace.» «No, no» fece la voce soffocata. «Continua, Miss Beautiful...» Nell'udire il nomignolo che lui aveva usato la sera in cui si erano conosciuti, di colpo le si riempirono gli occhi di lacrime. «Anche se riuscissi a uscire, non potresti mai superare quelli. I cani. Ne ha quattro o cinque, di quei grossi figli di puttana.» «Sei sicuro di non poter camminare?» «Penso di no» rispose Josh con un rantolo. «No.» «Okay, allora rimani qui. Ho visto una porta che scende al seminterrato. Credo di farcela, ad aprirla. Vado a vedere se là sotto c'è una porta, una finestra che porta fuori.» Lui annuì e trasse un lungo respiro. «Ti amo...» e svenne. Lei gli accumulò tutt'attorno i blocchi di cemento, in modo che
se Matthews avesse guardato da quella parte non lo avrebbe visto. Rimase un attimo in ascolto del respiro fioco e irregolare. Poi, con il pugnale in mano, si avviò lungo il corridoio. Era quasi arrivata all'intersezione quando sentì il cigolio di una porta che si apriva. E che poi sbatté. Aaron Matthews era tornato. Capitolo 26 Guidarono in silenzio lungo le zone più degradate della contea di Prince William. Superarono i campi coltivati dove le ti liei del granturco affondavano in silenzio nella terra rossastra. Granai abbandonati da tempo. File di casette dalle pareti di lamiera e minuscoli cubi di materia plastica dov'era sfiorito in un attimo il sogno del dopoguerra. Baracche e macchine senza ruote poggiate sui mattoni. Attraversarono Manassas, dove si era udito per la prima volta il grido di battaglia della Guerra civile, poi oltrepassarono le fattorie circostanti e il cimitero dei Confederati. «Era lui, Tate» disse Bett interrompendo il lungo silenzio. «Chi?» «L'uomo che è venuto a trovarmi. Ha detto che era il suo terapeuta, ma non era vero.» «Era Matthews?» «Si faceva chiamare Peters.» «Suo figlio si chiamava Peter» rifletté Tate. «Dev'essere per questo che lo ha scelto.» La guardò. «Cos'è successo?» Lei scosse la testa. «Mi ha sedotta. Non è successo niente, in fondo, ma è bastato... Oh, Tate, mi ha guardato dritto dentro all'anima. Sapeva che cosa volevo sentirmi dire. Ha detto esattamente le cose giuste.» Con le parole puoi arrivare al cuore della gente, convincerla a fare tutto quello che vuoi. Giudici o giurati. Hai questa capacità. Parole, Tate. Parole. Non si vedono, ma sono l'arma più pericolosa del mondo. Ricordatelo. Sii prudente, figliolo. «Aveva chiamato Brad» proseguì lei. «Dev'essersi finto poliziotto e avergli detto di venire a casa mia. Eravamo insieme sul divano... Io ero ubriaca... Oh, Tate!» Lui le posò una mano sul ginocchio e la strinse appena. «Non potevi farci niente, Bett. E troppo bravo. Non so come, ma in qualche modo è riuscito a fare tutto questo. Il dottor Hanson, Konnie... probabilmente anche quel professore, Eckhard. Solo per fare i conti con me.» Proseguirono in silenzio per un tratto. Poi a Tate venne in mente una cosa. «Sei arrivata troppo presto.» «Come?» «Non potevi essere a Baltimora, quando hai avuto il mio messaggio.» «No, sono arrivata solo a Takoma Park, poi sono tornata indietro.» «Perché?» «Perché avevo deciso che era ora di farla finita.» Con un gesto istintivo abbassò lo specchietto e si studiò la faccia. Si accarezzò un paio di rughette. «Stavo correndo dietro a Brad quando avrei dovuto cercare Megan» riprese. «Mi sono resa conto di una cosa, Tate. Di quanto ero furiosa con lei.» «Con Megan? Per via di quello che abbiamo sentito al Coffee Shop?» «Oh Signore, no. Quella è colpa mia, non sua.» Fece un respiro profondo e rimise a posto lo specchietto. «No, Tate. Sono stata incazzata con lei per anni. E non avrei dovuto. Non era colpa sua. È nata al momento sbagliato, nel posto sbagliato.» «Ah, questo è poco ma sicuro.» «L'ho trascurata, non ho fatto quello che avrei dovuto... Uscivo, lasciandola sola. Certo, le cose fondamentali non le sono mancate. Ma i bambini capiscono. Lo sanno dov'è il tuo cuore. E io ero lì che correvo dietro a Joe o a Dave o a Brad, lasciando sola mia figlia. È ora di farla finita. Prego solo che non sia troppo tardi.» «La troveremo.» Le strade erano deserte e l'aria aveva il profumo dei fuochi di legna accesi per cucinare, come facevano spesso i più poveri, da quelle parti. La Volvo inchiodò stridendo a uno stop. Tate sterzò in una traversa e si infilò in una strada sconnessa. «Siamo nei guai, vero?» chiese lei. «Senz'altro. Non trasmettono più le chiamate di allarme generale in tutti i punti. Ma se lo facessero, noi saremmo l'attrattiva principale.» «Però non conoscono la mia macchina» gli fece notare Bett. Lui si mise a ridere: «Oh, se è per questo bastano trenta secondi. Guarda, ci siamo: è casa sua». Dietro un piccolo folto d'alberi si scorgeva, a breve distanza, il villino di Matthews. Nel cortile di fianco alla casa c'era un bidone arrugginito di olio combustibile, qualche ciuffo d'erba alta punteggiava il fangoso terreno rossiccio. Quel posto si trovava a poco più di tre chilometri dalla fattoria di Tate. Ottimo rifugio intermedio per irruzione e rapimento, pensò. «Cosa facciamo adesso?» domandò Bett. «Andiamo a prendere nostra figlia» rispose risoluto, estraendo la pistola. Trenta metri, venti, quindici. Tate si fermò, in ascolto. Dalla casa di Matthews, solo silenzio. Sentì l'aroma del fumo di legna, e immaginò il rapitore seduto accanto al camino con Megan legata e imbavagliata ai suoi piedi. La casa diroccata gli spezzò il cuore. Aveva visto fin troppo spesso posti come quello. Quand'era
procuratore, a differenza della maggior parte dei pubblici ministeri nelle grandi città, andava sempre a vedere le scene del crimine. Questo era quello che i poliziotti definivano un villino sezione sessanta, riferendosi alla sezione del codice penale della Virginia dedicato all'omicidio. Assassini con armi da fuoco, omicidi in ambito domestico, storie d'amore che si trasformano in vicende prima di crudeltà e poi di violenza... Tutte quelle case avevano degli elementi in comune: erano piccole, sporche, silenziose, traboccanti di odio represso. La Mercedes non era nel vialetto, quindi c'era la possibilità che Matthews non avesse sentito il messaggio della polizia. Forse Megan era lì dentro, adesso, sdraiata in camera da letto o nello scantinato. Forse erano arrivati alla fine. Ma lui si mosse il più silenziosamente possibile per non correre rischi. Sbirciò dentro dalla finestra. Il salotto era vuoto, illuminato soltanto dalle braci del camino. Rimase a lungo in ascolto. Niente. Le finestre erano chiuse, ma provando la maniglia della porta vide che era aperta. Spinse il battente e all'improvviso si domandò: Perché accendere il fuoco in una serata così calda? Oh, no! Allungò la mano verso la maniglia, ma era troppo tardi; la grossa latta di benzina si era già rovesciata. «Dio!» Per istinto, Tate afferrò il secchio mentre la marea rosata della benzina si disperdeva sul pavimento fino a raggiungere il camino. «Cosa?» fece Bett. Con uno sbuffo cupo e sibilante il carburante si incendiò, e un'enorme palla di fuoco esplose nel soggiorno. «Megan!» urlò Tate girando le spalle alle fiamme e buttandosi a terra sotto il portico. Gli aveva preso fuoco una manica. La spense con una manata. «È la dentro? È là dentro?» gridò Bett presa dal panico, correndo verso la finestra. Allontanandosi dalla benzina che continuava a uscire, Tate afferrò la ex moglie e la tirò indietro. Si coprì la faccia con la mano, sentendo il calore insopportabile bruciargli i capelli tra le dita. «Megan!» urlò Bett. Con il gomito ruppe la finestra. Sbirciò all'interno per un attimo, ma fu sbalzata indietro da una lingua di fuoco che la investì uscendo dal vetro rotto. Se non si fosse ritratta la vampata le avrebbe investito la faccia e i capelli. Tate corse sul retro del villino e ruppe la finestra di una delle camere da letto, già piena di fumo denso. Della ragazza, nessuna traccia. Corse all'altra camera - ce n'erano solo due - e vide che non era neanche lì. Le fiamme avevano già attaccato la porta, che esplose verso l'interno con uno scoppio improvviso. Alla luce del fuoco Tate vide che non si trattava di una camera da letto, ma di uno studio. C'erano pile di ritagli di giornale, riviste, libri, faldoni. Mappe, cartine, grafici. Un suono di sirene in lontananza. Bett sopraggiunse alle sue spalle. Aveva una scottatura su un braccio, ma per il resto era a posto. «Tate, non riesco a trovarla!» gridò. «Non credo sia qui. Non è in nessuna delle camere, e non ci sono scantinati.» «Allora dov'è?» «La risposta è là dentro» urlò lui di rimando. «Ha messo la trappola perché nessuno potesse trovare indizi su dove l'ha portata.» Raccolse un po' di mattoni per far saltare la struttura di vetro e legno della finestra. «Oh, mio Dio» mormorò. Poi si introdusse all'interno. Sentì una fitta lacerante quando una scheggia di vetro gli tagliò il palmo. Il calore era insostenibile. Fumo e tizzoni e fogli di carta in fiamme gli turbinavano tutt'intorno. Si rese conto che il problema peggiore non erano le fiamme, piuttosto l'aria surriscaldata e la mancanza di ossigeno rischiavano di metterlo ko in pochi minuti. Corse alla scrivania e afferrò più carte e taccuini che poté. Li lanciò fuori, urlando a Bett: «Portali lontano dalla casa!». Tornò a prenderne degli altri. Riuscì a raccoglierne altre due bracciate prima che il calore aumentasse a dismisura. Uscì dalla finestra, rotolando pesantemente a terra proprio mentre il tetto crollava e le finestre eruttavano un turbine di fuoco. Giacque a terra esausto, ansante. Gli girava la testa. Dolori dappertutto. Si chiese perché mai Bett stesse facendo un buffo balletto attorno al suo braccio. Poi comprese. Il faldone che stringeva aveva preso fuoco, e lei cercava di calpestare le fiamme. Le sirene si avvicinavano. «Perfetto» sbottò. «Adesso aggiungeranno ai capi d'accusa anche l'incendio doloso.» Bett lo aiutò a rialzarsi. Insieme recuperarono tutti i taccuini e gli schedari che Tate aveva buttato nel cortile. Corsero alla macchina. Tate mise in moto e uscì sgommando dal vialetto, incrociando la prima delle camionette verde fluorescente dei pompieri. Presero verso nord e guidarono per una decina di minuti, finché Tate non fu ragionevolmente sicuro che non potevano essere individuati. Parcheggiò a Manassas, vicino a una cava. Un posto cupo e spettrale, lo scenario ideale per i delitti di un serial killer, per quanto a Tate non risultasse che vi si commettessero crimini peggiori che fumare un po' d'erba e bere in pubblico birra e gin alla prugna. Tate e Bett scartabellarono i dossier e i documenti bruciacchiati, in cerca di un indizio su dove Matthews avesse potuto portare Megan. Si trattava di articoli, referti di
diagnosi psichiatriche, pareri medici. Trovarono anche le foto del pedinamento della ragazza. A decine. E poi della casa di Tate e di quella di Bett. Matthews stava programmando tutto da mesi. Alcuni scatti risalivano all'inverno precedente. In uno dei blocnotes erano descritte, in modo ossessivamente particolareggiato, le abitudini di Megan. Altri appunti su pazienti. Altri articoli. Altri diari. Con mani tremanti Tate e Bett li scorsero dal primo all'ultimo, ma non trovarono riferimenti a edifici, appartamenti o case in cui avrebbe potuto nascondere la ragazza. «Non c'è niente!» esclamò Bett frustrata e in preda ai singulti. «Abbiamo guardato tutto.» Tate fissò il caos di carte e documenti bruciacchiati che aveva tra le mani. L'occhio gli cadde su una diagnosi, su un'altra... Le sfogliò tutte freneticamente. Poi lesse il nome e l'indirizzo dell'ospedale in cui erano stati esaminati i pazienti. Prese il cellulare e tenendo gli occhi fissi su uno dei rapporti chiamò il servizio abbonati di Calvert, Virginia. Chiese il numero del Blue Ridge Mental Health Facility. «Ti prego, fa' che sia fuori uso» mormorò. «E perché mai?» chiese Bett. «Ti prego...» «Ci dispiace» riferì la voce elettronica, «il nome richiesto non è presente in elenco. Vuole fare un'altra richiesta?» Interruppe la comunicazione. «Ecco dov'è. Un vecchio manicomio nella valle dello Shenandoah.» Batté la mano sui referti. «Matthews era uno psichiatra. Immagino che abbia fatto parte del personale, fino a qualche anno fa. Probabilmente il posto ha chiuso e lui l'ha portata là.» «Sicuro?» «No. Ma è l'unica traccia che abbiamo.» «Allora andiamo.» Tate si immise sulla strada a scorrimento veloce, sterzando verso l'Interstatale, con la preoccupazione anche di dover rispettare i limiti. Non potevano certo permettersi di farsi arrestare proprio adesso. Tenendo il pugnale di vetro davanti a sé, Megan percorreva un corridoio dopo l'altro. Silenzio, poi uno scalpiccio. Di nuovo silenzio. È peggio il silenzio. In questo sono dalla tua, concorda Megan la Svitata. Poi ancora i passi, ma stavolta da un altro punto, come se l'intruso fosse un fantasma in grado di materializzarsi dovunque a piacimento. Trascorsero cinque minuti. Un altro rumore lì vicino. Arrivava da dietro. Una brusca inspirazione. Megan sussultò, girandosi di scatto. Aaron Matthews era a cinque o sei metri da lei. Gli occhi dell'uomo si spalancarono per la sorpresa. Lei incespicò, andò a sbattere contro un tavolo e cadde malamente a terra. Un gemito di dolore per lo spigolo che le si era conficcato nel rene. Malgrado il male balzò subito in piedi, tenendo il pugnale sollevato con aria minacciosa. Pensava che l'avrebbe aggredita. Invece no. Si limitò ad aggrottare la fronte e a dire: «Oh, mio Dio, Megan. Ti senti bene?». Lei si accucciò, gli occhi che mandavano lampi, il respiro pesante, la stretta convulsa sull'impugnatura di stoffa del pugnale improvvisato. Fissò gli occhi scuri, le spalle larghe, le braccia lunghe. Perché non le piombava addosso? Si guardò alle spalle. «Aspetta» disse lo psichiatra. Nella sua voce, una supplica da spezzare il cuore. «Per favore, non scappare. Tiprego.» Lei esitò. «Oh, lo so che sei arrabbiata, Megan, tesoro» riprese Matthews con un sospiro. «So che sei spaventata... Mi odi e ne hai tutto il diritto. Ma ti prego. Ti chiedo solo di ascoltarmi.» Alzò le mani. «Non ho coltelli né pistole né niente. Ti prego, mi vuoi ascoltare?» Quegli occhi erano tanto sinceri, irradiavano una tale compassione! La sua voce era così suadente... «Ti prego.» Megan continuava a stringere forte il pugnale. Ma si rimise in piedi, rivolta verso di lui. «Vai avanti» sussurrò. «Ti ascolto.» «Bene» fece lui con un sorriso. Capitolo 27 «Non sapevo che fossi uscita dalla camera» disse Aaron Matthews. «Cella» lo corresse lei, brusca. «Cella» concesse lo psichiatra guardandola attentamente negli occhi. «Ma avrei dovuto immaginarlo.» Rise. «Hai un grande spirito di indipendenza. Nessuno può rinchiuderti impunemente. È una delle cose che amo di te.» Matthews notò che lei lo fissava negli occhi. Vide le sue ciglia chiare trasalire alla parola “amo”. Come aveva fatto?, si chiese. Aveva perlustrato la cella da cima a fondo... La serratura era ancora al suo posto. Era passata dal soffitto? Dalla parete? E aveva addosso i suoi vestiti. Quindi aveva trovato l'ala in cui viveva lui. Che altro sapeva? Comunque avesse fatto, Matthews era sorpreso: la piccola viziatella capricciosa aveva più fegato del previsto. «Stai bene? Dimmi solo questo» domandò scrutandola. Nessuna risposta. «Mi dispiace per i tuoi vestiti» riprese. «Quando sei svenuta, dopo aver preso la medicina che ti ho dato... be', diciamo che hai avuto un incidente. Mi dispiace. Non pensavo che sarebbe successo. Ho lavato i
tuoi abiti nel locale lavanderia. Si stanno asciugando. Saranno pronti tra poco. Non ti ho toccata. Lo giuro.» Guardò il pugnale che la ragazza teneva in mano. Una lunga scheggia di vetro. All'inizio pensò che a turbarlo così tanto fosse qualcosa nel vetro in sé. L'orlo affilato e verdastro del triangolo. Ma poi decise che no, era la sua faccia a spaventarlo. Era pronta... anzi no, era impaziente di usare l'arma. E aveva un tale controllo di sé... sarebbe stata dura farla crollare. Più difficile adesso che nello studio del dottor Hanson, quando aveva le difese abbassate e l'indicatore della sua autostima segnava quasi zero. Si mosse appena in avanti, con disinvoltura. «Oh, Megan, mi dispiace così tanto!» La punta del pugnale vibrò verso di lui. Matthews si immobilizzò. Nel suo miglior tono da terapeuta disse: «Non volevo che le cose andassero in questo modo». Poi tacque. E lei, per riempire quel vuoto intollerabile, chiese: «In quale modo?». «Questo...» e alzò le braccia verso il soffitto. «Se avessi potuto fare diversamente, l'avrei fatto. Te lo assicuro.» «Cosa vorresti dire?» Matthews si appoggiò alla parete, chiuse gli occhi. «Tu non mi conosci davvero. Ma io conosco te. Ti conosco da molto tempo.» Megan scosse la testa, aggrottò la fronte confusa. La punta del pugnale si abbassò in maniera impercettibile. «Io mi chiamo Aaron Matthews...» Doveva già sapere il suo nome. Ovvio che avesse guardato sulla scrivania, nelle sue stanze. Ma dire la verità a qualcuno, per quanto gli si abbia già mentito in passato, lo fa avvicinare leggermente, anche solo di pochissimo. Continuò a parlare: doveva lanciare un incantesimo, e gli incantesimi funzionano al meglio quando sono messi in atto in fretta. «L'anno scorso ho lavorato a un caso insieme a tuo padre. Mi aveva chiamato come esperto forense per una perizia su un sospetto. Prima del processo abbiamo parlato. Così, tanto per fare conversazione. Gli ho chiesto dei figli, se ne aveva, e lui ha detto...» Matthews fece una pausa, l'espressione si incupì. Poi riprese: «Mi dispiace, tesoro, ma ha detto di no, che non ne aveva». I bellissimi occhi chiari di Megan si spalancarono. Un attimo di shock. Poi si riempirono di una tristezza profonda, come nello studio di Hanson. Una bambina tradita, una bambina sola. Cosa ti mormorano gli orsi? «Ma siccome avevo sentito qualcuno che parlava di sua figlia, gli ho chiesto di te. Imbarazzato, ha risposto che... be', sì, in effetti aveva una figlia. Ma viveva con sua madre. Ha detto che eri sua figlia solo tecnicamente, e basta. Io gli ho raccontato di mio figlio Peter. Vedi, ha avuto dei problemi alla nascita. Un serio problema mentale.» Un altro battere di ciglia. Sapeva anche di lui, quindi. Abbassando gli occhi riprese: «Ma ho sempre sentito che, malgrado tutto, io amavo il mio ragazzo e lo volevo con me. Ne ho accennato a tuo padre. Ma lui non ha reagito. Gli ho chiesto ogni quanto ti vedeva... Praticamente mai, mi ha detto. Gli ho fatto delle domande su di te, e sembrava che non sapesse quasi niente. E poi...» Matthews si bloccò di colpo, come un uomo che scopre di trovarsi su un campo minato. «Cosa?» «Niente.» «No, dimmelo» implorò la ragazza con una punta di disperazione nella voce. «Ha detto certe cose su di te.» «Per favore.» Il coltello ora puntava decisamente verso il basso. L'espressione non era più inferocita. «Voglio sapere.» «Ha detto che occuparsi di più di te sarebbe stato... imbarazzante.» «No, non è vero» sussurrò lei. «Non ha usato queste parole!» «Non sono sicuro...» balbettò Matthews, un'espressione vulnerabile sul volto. «Ha detto» mormorò lei, «che occuparsi di più di un figlio sarebbe stato inopportuno. Giusto?» «Sì» concesse Matthews con un sospiro. «Mi dispiace tanto, Megan. Ma è proprio quel che ha detto. E quando l'ho sentito, ho sperato che avessi un buon rapporto con tua madre. Speravo che a qualcuno importasse. Mi sentivo così avvilito per te.» Una risatina, poi la faccia di Megan si fece seria. «Mia madre. Sì. Come no.» Lui inclinò la testa da un lato, scoccandole un'altra occhiata comprensiva. «Insomma, sono andato a conoscerla» riprese. «Un giorno che tu eri a scuola.» «Davvero?» Matthews si avvicinò di qualche altro centimetro. Decise che con Megan la collera non funzionava. Non era come il suo ragazzo, Josh. Più si infuriava, più diventava pericolosa. No, per superarne le difese bisognava battere sulle sue sofferenze, sulla sua solitudine. «Ho mentito, Megan. Lo ammetto. Ho detto a Bett che ero un consulente psichiatrico della scuola e che volevo sapere come andavi. Sono rimasto scioccato, quando ho capito che neanche lei aveva molto tempo per te. Mi ha detto che era fidanzata, che stava cercando di far funzionare quel rapporto, che era totalmente presa da Brad e non aveva molto tempo per... be', per fare la babysitter, sono state le sue parole.» «Ha detto così» sussultò Megan. «Per essere giusti, ha detto che eri molto matura e che non c'era bisogno che ti tenesse ancora la manina.» «E lei cosa ne sa?» brontolò la ragazza. Matthews si mosse per andarle incontro, ma gli occhi di Megan tornarono
freddi mentre chiedeva: «Ma perché cazzo mi hai rapita?». «Perché volevo offrirti una seconda occasione.» «Sequestrandomi? Che razza di occasione sarebbe?» Lui abbassò lo sguardo, oscillando avanti e indietro. Riuscì a portarsi più avanti di una quindicina di centimetri. «Oh... sì, è vero, ti ho rapita. Ma non ti ho mai fatto del male. Era l'ultimo dei miei pensieri.» Se aveva visto la stanza, probabilmente aveva visto anche la cucina. «Te lo posso dimostrare. Ti faccio vedere la cucina. E piena dei cibi che ti piacciono. Ho scoperto cosa ti piaceva, e ne ho comprato in quantità.» Lei annuì. Le sue difese si abbassarono un altro po'. «Eri tu quello che mi seguiva in queste ultime settimane.» «Esatto. Ti ho seguita. E ho anche parlato di te con molte persone. Insegnanti, studenti. E più cose venivo a sapere sul tuo conto, e meno riuscivo a capire i tuoi genitori. Sei creativa, simpatica, carina, hai senso dell'umorismo, talento artistico... Sei tutto quel che dovrebbe essere un'adolescente. Perché non ti volevano? I tuoi genitori, intendo.» Iniziò a tremarle un labbro e si asciugò le lacrime. «Era così ingiusto» sussurrò. «Volevo offrirti l'amore che non ti hanno dato loro. Amore filiale. Di questo sto parlando. Spero tu sappia che... Io penso che tu sia bellissima, ma non ti desidero fisicamente.» Accennò con il capo alla cella imbottita. «Avrei potuto farlo mentre eri priva di conoscenza, se avessi voluto.» Gli occhi di Megan gli dissero che lo sapeva. Che si era controllata il corpo in cerca di gonfiori, di tracce umide. Ma poi quegli occhi si incupirono di nuovo. «Ma c'è dell'altro, vero?» chiese la ragazza. «C'è un altro aspetto.» Lui sorrise. «Ah, sei in gamba, Megan. Sei molto in gamba. Sì, c'è un altro aspetto. Anch'io volevo una seconda occasione. Ti ho detto di mio figlio. Sai, i problemi di cui ti ho parlato? Erano piuttosto gravi. Mia moglie... beveva, e mentre era incinta era dipendente dal Valium. Ho cercato di farla smettere, ma lei niente. Il bambino è nato con un danno cerebrale permanente... Dio, io volevo un figlio normale. Uno con cui poter passare del tempo. Divertirci insieme. Qualcuno da viziare.» Si ricordò una cosa che gli aveva detto Bett proprio poco prima, quella sera stessa. «Volevo qualcuno con cui giocare, con cui passare Natale, Pasqua e il Giorno del Ringraziamento. Per cui preparare biscotti e frittelle. Con cui andare a spasso la domenica in tuta e scarpe da ginnastica, con cui leggere il giornale e raccogliere le foglie secche.» Riuscì a richiamare, da qualche parte, una lacrima. «Volevi che fossi tua figlia» mormorò Megan. «Sì! Ma non c'era pericolo che tu, spontaneamente, potessi accettare. E nemmeno ascoltarmi. Avresti pensato che ero una specie di maniaco e avresti chiamato la polizia. E allora ho fatto quel che dovevo. Ho aspettato finché non si è presentata l'occasione, la madre di Hanson che stava male, e mi sono messo d'accordo con lui per vederti.» «Quella parte era vera?» «Oh, sì. Certo che è vero. Siamo amici, io e Hanson.» Fece un sorriso indulgente. «Anche se credo di essere più bravo di lui, come terapeuta. Io vado dritto al nocciolo del problema.» «Ah, questo è certo.» Gli elargì a sua volta un debole sorriso. «Lo so, non ti sono piaciute quelle lettere. Ma ti dovevo dimostrare quanta rabbia covavi nei confronti dei tuoi genitori. Dovevo farti vedere la verità.» «Per questo me le hai fatte scrivere?" «Sì.» «E cosa ne hai fatto? Le hai spedite?» Aggrottò la fronte. «Le lettere? No, le ho buttate via. Dovevi scriverle per te stessa, Megan. Ho pensato che forse così saremmo arrivati a conoscerci meglio per un po'. Ho sperato che saresti rimasta qualche settimana, un mese. Se funzionava, bene. Saremmo andati a vivere a San Francisco. Potevi iniziare il college lì, quest'autunno.» Era avanzato di qualche altra decina di centimetri. Gli occhi tristi inchiodati a terra, appariva distrutto, rimpicciolito. Aveva già deciso come doveva morire: l'avrebbe strangolata. Lei avrebbe spalancato quegli occhi che lui avrebbe fissato, a cui si sarebbe abbeverato mentre la vita la abbandonava. Le avrebbe sfilato di mano il pugnale di vetro e l'avrebbe afferrata per il collo. Avrebbe stretto finché la punta sporgente della lingua non avesse smesso di tremare. E poi avrebbe stretto ancora. Era così che Peter aveva ammazzato la puttanella che aveva tentato di sedurlo. Forse era così che era morto lui stesso. Il corpo era talmente mutilato che il medico del carcere non era stato in grado di accertare la causa del decesso. Le lacrime riempivano gli occhi della bambina inopportuna. «Oh, Megan, mi dispiace. Mi dispiace così tanto! Ho solo pensato che meritavi molto di più di quello che avevi.» Era scossa dai singhiozzi. «Un padre che voleva sbarazzarsi di te. Terribile... Voleva che tu uscissi dalla sua vita per tornare a quelle ridicole sciacquette a cui andava dietro. E tua madre... una cara donna, ma anche lei non cresciuta, in realtà. Ho pensato a ogni genere di cose: a come avrei potuto adottarti, trovarti una famiglia affidataria...» «Davvero?» chiese la ragazza asciugandosi le lacrime. La sua attenzione si stava allontanando dalla lama di vetro. La
mano era caduta lungo il fianco, nell'ombra. Il corridoio era buio, e lui non avrebbe saputo dire se la punta era rivolta verso il basso o verso di lui. «Sì, ma certo. Ho parlato con un avvocato esperto in adozioni. Ha detto che non avevo nessuna possibilità, visto che c'erano in circolazione i genitori naturali, per quanto ti trascurassero.» La sua voce morbida, sommessa, la cullava. «Volevo solo essere amata.» «E loro non ti amavano, vero? Non ti hanno mai dato amore.» «No.» «Oh, io avrei fatto tutto diversamente... ecco perché ho corso questo rischio. Sto rischiando una condanna a vita solo per vedere se in qualche modo potrebbe funzionare, tra noi. Volevo solo che tu avessi una casa.» Anche lui piangeva, adesso. «Volevo solo una famiglia!» Megan singhiozzava in modo incontrollabile, ora, la mano davanti alla faccia. «Sì! È così. Una casa. Non ho mai avuto una casa. Avrei tanto voluto avere un padre...» Matthews si avvicinò, allungò una mano esitante, le sfiorò la guancia, le asciugò una lacrima. Pregustava già l'attimo in cui avrebbe tentato di divincolarsi dalla sua presa, per poi esalare l'ultimo respiro. Avrebbe lasciato il suo corpo fuori, in pasto ai cani. Così Tate Collier avrebbe passato la vita con l'atroce ricordo di quel che mostravano le foto sulla scena del delitto. «Vorrei che fosse andato tutto in modo diverso» disse. «Cioè, questo posto è così disgustoso, Megan. Ma non avevo altra scelta. Per amore di entrambi.» «Io volevo solo...» Allungò l'altra mano, le mise un braccio attorno alla spalla. Le accarezzò la schiena. «Io volevo solo una famiglia... solo una famiglia.» Megan respirava a fatica. «Lo so, questo.» La sua destra scese dalla faccia al collo. La sinistra scivolò sotto il braccio di lei, finché non sentì il pugnale di vetro che stringeva. Glielo sfilò dolcemente di mano. Presa!, pensò Matthews. Ma poi, guardando in basso, aggrottò le sopracciglia. Non era affatto un pugnale. Aveva in mano una penna Bic di plastica. Eppure aveva visto la lama... La guardò in faccia. Vide un sorriso malizioso. «Bella prova di recitazione» sussurrò Megan. E con la sinistra gli conficcò nel fianco, in profondità, la lama di vetro. Una volta e poi ancora. E ancora. Una fitta terribile lo scosse tutto. Matthews urlò. Si scansò da lei e la lama urtò contro una costola, spezzandosi e lasciandogli dentro una lunga scheggia. Adesso era Megan a gridare - un grido da folle -, e mentre il dottore si stringeva la ferita lei lo colpì con forza a mano aperta. Si sentì uno schiocco, e dal naso che si rompeva sprizzò un fiotto di sangue. Lui cadde in ginocchio. Lei gli diede un calcio vicino alla ferita. La vista gli si annebbiò per il dolore atroce. Megan si fece avanti di nuovo, ma Matthews aveva subito recuperato la lucidità, e adesso fu il suo pugno a colpirle con forza la mascella mandandola a sbattere contro la parete. Ma prima che riuscisse ad alzarsi lei era già sparita in fondo al corridoio buio. Si toccò la ferita. Faceva un gran male. Ma non era niente rispetto alla sensazione di shock che infuriava dentro di lui. È stata lei a fregare me! Mi ha fatto abbassare le difese. Dio mio, tutto quel tempo a pensare che l'avevo in pugno, e invece era lei a guidarmi dritto nella sua trappola... Degna figlia di degno padre, pensò Matthews pieno di rabbia e di disgusto. In ginocchio sul pavimento cominciò a estrarre i frammenti di vetro dalla ferita, assaporando la sofferenza. Voleva ricordarsene. Voleva sentire quello che avrebbe provato Megan tra poco. Capitolo 28 Il seminterrato... Megan si lanciò lungo i corridoi bui dell'ospedale in cerca della porta che aveva visto prima, quella che conduceva al seminterrato. Le faceva male la mandibola, e anche la nuca, che aveva sbattuto contro la parete quando lui l'aveva colpita. Per un attimo solo pensò di tornare e aggredirlo di nuovo: voleva vederlo steso a terra col sangue che gli riempiva la camicia e gli colava dal naso. Le era sembrato mezzo morto, ma non era sicura di averlo ferito tanto gravemente come sembrava. Forse fingeva. Se sapeva mentire a parole, avrebbe mentito anche nei gesti. Perciò corse alla ricerca della porta del seminterrato. Sentì le urla ultraterrene di Matthews - sembravano scuotere le pareti - e poi i passi. Muovendosi in lenti circoli lungo i corridoi, Megan trovò infine la porta che cercava. Afferrò un mattone di cemento e lo abbatté sull'occhiello di metallo e sul lucchetto, che si spezzò senza problemi. Spalancò la porta e sbirciò dentro quell'antro che puzzava di stantio. Rimase paralizzata per un momento. Non hai scelta, ragazzina, le grida Megan la Svitata da brava guida turistica. Muoviti, muoviti, muoviti. Ma non posso lasciare Josh!, protestò dentro di sé. Ehi, guarda che se muori tu muore pure lui. Vai! Scese esitante le scale e si trovò in un labirinto
di corridoi in penombra. Passando con passo cauto da un ambiente all'altro evitò accuratamente l'acqua ristagnante, per non lasciare impronte che Matthews potesse seguire. Ti prego, una porta, una finestra... Oh, ti prego! Sentì rumore di passi sopra la testa, sul soffitto: l'uomo stava arrivando all'entrata che lei aveva appena scassinato. Trovò una porta che dava sull'esterno. Chiusa a chiave. E anche le finestre erano sigillate. Un'altra porta. Inchiodata. Maledetto!, sbotta M.S. Perché hamesso il lucchetto a quella cazzo di porta di sopra se di qui non si esce? Megan non si disturbò a rispondere. Non lo capiva neanche lei. Tornò a una delle stanze vicino alla tromba delle scale e studiò di nuovo la finestra. Le sbarre lì erano più larghe di quelle al piano terra, ma non ce l'avrebbe fatta a passare. Quei fianchi del cazzo! Non cominciare!, brontolò silenziosamente Megan, e fece per allontanarsi. Poi si fermò, tornò a voltarsi. Okay, magari non riuscirò a passare dalle sbarre. Ma posso fargli credere di averlo fatto. Spaccò il vetro e ci spinse sotto un secchio rovesciato per dare l'impressione di essersi arrampicata. Poi corse di nuovo nel labirinto dei magazzini bui per trovare un posto in cui nascondersi. Le scatole di cartone impilate nelle stanze erano troppo piccole per potercisi infilare dentro. E non aveva la forza di arrampicarsi fino alle tubature che correvano lungo il soffitto. I passi si avvicinavano alla porta di sopra. Poi Matthews cominciò a scendere. Megan si rifugiò in uno dei magazzini ingombri di roba, quello più lontano dalle scale. Era pieno di cartoni, piccoli come gli altri. Ma su un lato in ombra c'era una lunga cassa di metallo. Fin troppo ovvio, come nascondiglio, ma in quella stanza, lontanissima dalla finestra in cui aveva inscenato la falsa fuga, era buio pesto, e probabilmente non l'avrebbe neanche vista, la cassa. Sarebbe riuscita ad aprirla? E poi, era vuota? Megan smise di farsi domande: Matthews era già nel seminterrato. Passi trascinati, gemiti per la ferita al fianco, parole borbottate tra sé. Adesso!, la sprona Megan la Svitata. Vai, ragazzina. Megan aprì il baule. Dovette fare appello a tutte le sue energie per sollevare il pesante coperchio e a tutta la sua forza di volontà per non urlare, quando guardando dentro vide la carne bluastra, i capelli appiccicati, gli occhi chiusi, un pene scuro e raggrinzito, le lunghe unghie gialle... Una serie di tagli e di squarci coprivano tutto il torso del giovane, che era ulteriormente mutilato da una grossa incisione a Y, lascito dell'autopsia. Un orecchio e un braccio gli erano stati riattaccati con cuciture grossolane. Era il figlio di Matthews, Peter. Riconobbe la faccia lugubre dal ritaglio di giornale. Oh, Dio... Mio Dio... Tate, Bett... Qualcuno mi aiuti! I passi adesso erano più vicini. Sembravano ad appena dieci, dodici metri da lei. Forza, la esorta Megan la Svitata. Fallo. Non posso, pensò Megan. Non posso, cazzo! Entra dentro, tenta di convincerla M.S. Devi farlo. O lo affronti a mani nude oppure ti nascondi lì dentro. Non hai altra scelta, si disse. Un attimo di pausa. Il dottore adesso era proprio dietro la porta, le parve. Megan chiuse gli occhi - come se questo bastasse a lenire l'orrore - e si infilò nella cassa; si sdraiò sul cadavere di schiena, tremando come una foglia. Abbassò il coperchio. L'aria puzzava di formaldeide stantia; riconobbe l'odore perché è quello che si sente nei laboratori di biologia. Odiava andare a scuola, ma pregò di poter essere trasportata, in qualsiasi modo, in quel rassicurante intervallo spaziotemporale. Sotto di lei, un gelo terrificante. Niente è più freddo di un cadavere. Poi sentì, appena udibile, un gemito vicinissimo. Aaron Matthews era nella stanza. Mentre superava un valico, Tate guardò fuori dal finestrino dell'auto di Bett verso le baracche buie e le fattorie diroccate, i granai abbandonati, i pozzi che si aprivano su una rete di caverne che perforavano il terreno alla base dello Shenandoah e delle Blue Ridge. Passarono in mezzo a pareti di foreste minacciose: grossi pini, querce dalla ruvida corteccia, repressi, giovani rampicanti selvatici come la pueraria le óata e la vite canadese. Tate immaginò decine di occhi che li scrutavano, e ancora una volta gli venne in mente Dead Reb. Dieci minuti più tardi, ormai nel mezzo delle Blue Ridge, fermò la Volvo di Bett in una stazione di servizio aperta tutta la notte. Quando chiese dell'ospedale psichiatrico, l'anziano benzinaio li guardò con sospetto. «Quel postaccio? Brrr!» L'uomo lanciò un'occhiata cupa verso ovest. «Dove si trova?» «Dovete riprendere l'autostrada e uscire alla prossima...» «Preferiremmo tenerci sulle strade secondarie, se possibile.» Voleva evitare i posti di blocco; fatto che Tate preferì non comunicare. L'uomo inclinò il capo, poi si strinse nelle spalle. «Be', prendete quella strada. La 117. Direzione est per quindici, venti chilometri, finché trovate un distributore BuyRite. Da lì girate a sinistra, verso Palmer e proseguite dritto.» «Lo vedremo, l'ospedale?» «Oh, lo vedrete di sicuro. Non potete mancarlo. Però io aspetterei fino al sorgere del sole: non mi piacerebbe trovarmi da quelle parti di
notte, nossignore. Ma lei mi ha chiesto indicazioni, non opinioni.» Tate gli allungò venti dollari e si avviò lungo la strada. Avevano già fatto parecchi chilometri, quando una sirena esplose improvvisa circa mezzo chilometro dietro di loro. Un agente della contea. La barra lampeggiante abbagliò Tate nello specchietto retrovisore. «Credi che sappia che siamo noi?» chiese Bett. «Se non lo sa adesso, lo saprà quando riferirà alla centrale il numero di targa.» Il piede di Tate esitò sul pedale. «Cosa faccio?» «Fila più che puoi» mormorò Bett. «Cerca di seminarlo.» Lui obbedì. Per tre o quattro chilometri sembrò che potessero riuscirci. Gli svedesi fabbricano ottime automobili, ma quella non reggeva il confronto con il motore potenziato della Plymouth che li inseguiva. «Non ce la faccio» le disse. Diede un po' meno gas. «Provo a parlarci. Forse manderanno almeno una macchina all'ospedale.» «No» disse Bett. «Accosta.» «Cosa?» chiese Tate, mentre la frenata faceva slittare l'auto fino al ciglio ghiaioso. Bett aprì la borsetta e ci frugò dentro. Si fermò un attimo, fece un lungo respiro, poi si sedette diritta e si guardò nello specchietto, toccandosi la guancia come Tate le aveva visto fare molte volte. Che diavolo avrà in mente? «Bett!» urlò, mentre lei alzava la limetta per le unghie portandosela alla faccia, e lacerandosi brutalmente la pelle. Dal taglio profondo nella guancia sprizzò il sangue. «Ahi» gemette Bett, «che male.» Tate fissò il sangue nerastro che le scorreva lungo il collo andando a formare un delicato disegno sul petto. «Scendete dall'auto!» tuonò la voce metallica dalla bocca rettangolare dell'altoparlante posto sopra la macchina di pattuglia. Il giovane agente era in piedi accanto alla portiera aperta della volante. La pistola neroblu, che nelle sue mani enormi sembrava minuscola, era puntata dritta alla testa di Tate. «Scendete dall'auto e tenete le mani in alto.» Per un istante nessuno si mosse. , Poi lo sportello di Bett si spalancò così di colpo che Tate pensò che un altro agente, non visto, li avesse aggirati e l'avesse tirata fuori a forza. Invece no, si era mossa di sua spontanea volontà. Lanciò un urlo acutissimo e rotolò sul ciglio della strada. Aveva la tracolla della borsetta avvolta attorno ai polsi, come se fosse legata. Non potendo usare le mani, cadde con violenza. Il volto era coperto di terra mischiata a sangue. «Aiuto!» urlò. «Mi ha rapita!» «Non si muova. Nessuno si muova!» gridò l'agente facendo ondeggiare la bocca dell'arma verso Bett. Tate rimase perfettamente immobile, le mani sul volante. Bett si diresse a passo malfermo verso il poliziotto. «Ha un coltello!» gridò. «Mi aiuti, la prego. Mi ha ferita. Sanguino. Aiuto!» Mise nella voce il lamento straziante di una bimbetta spaventata, mentre avanzava incespicando. «Voleva violentarmi! Mi porti via da lui! Oh, la prego... Ah...» L'agente cedette all'istinto. «Da questa parte, signorina. Andrà tutto bene. È quel tipo di Prince William, vero? Quello che ha ammazzato la ragazzina? Dove ha il coltello?» «Alla cintura. Mi ha tirata su a una piazzola di servizio» spiegò piangendo. «Mi ha rapita!» «Mani in alto!» strillò l'agente nel microfono. «Subito!» Tate eseguì. «Cos'è successo?» chiese il poliziotto a Bett, che si avvicinava barcollando. «Mi ha ferita... ho bisogno di un medico...» singhiozzò. «Tu, nella macchina, tieni in alto la destra, e metti la sinistra fuori dal finestrino. Apri lo sportello da fuori. Non abbassare la destra.» Tate non si mosse. «Non ho intenzione di ripeterlo! Ho una...» «Mettila giù!» fu l'urlo selvaggio di Bett, a pochi centimetri dietro la sua testa. La pistola di Tate era appoggiata alla gola del poliziotto. «Oh, merda!» «Svelto!» «Ce l'ho sotto tiro, signora. Tu mi tocchi e lui è morto. Gli sparo. Giuro...» Ma lo diceva per la vergogna, non perché fosse deciso. E quando Bett gridò: «Stiamo cercando mia figlia e sono pronta ad ammazzarla subito, se necessario», il grugnito schifato del poliziotto fu seguito dal rumore della grossa pistola che cadeva a terra. Bett si allontanò dall'uomo che la sovrastava. Ma quello, quando vide la ferocia sul volto della donna, si ammosciò e si accasciò vicino alla macchina, forse rendendosi conto di essere andato molto vicino alla morte. «Bene» proseguì Bett. «Stenditi a terra. Così. Sulla pancia.» Tate, sceso dall'auto, accorreva verso di loro. «Stanno arrivando altri agenti. Saranno qui a minuti.» «Motivo in più per sbrigarti» Si sdraiò. Bett passò a Tate la pistola del poliziotto. «Ammanettalo e filiamocela.» Ma Tate le mise una mano sulla spalla. «No. Tu resti qui.» «No, Tate» disse lei portandosi un mucchietto di Kleenex al mento insanguinato. «Voglio venire.» Cosa poteva dirle? Che non c'era niente che potesse fare, e che lui aveva bisogno di concentrarsi su come salvare Megan... ammesso che potesse essere salvata? Che era importante che lei restasse lì e dicesse alla polizia esattamente quello che era successo, che conducesse gli agenti all'ospedale? Erano tutti argomenti convincenti. Ma Tate rispose col cuore, e le disse la verità. Semplicemente. «Non voglio rischiare di perderti.» Lei guardò il sangue scuro sul
Kleenex e poi rialzò gli occhi su Tate. Annuì. «Adesso ascoltami» disse serio. «Quando arrivano, metti giù la pistola e alza le mani. Saranno nervosi e non vedranno l'ora di sparare. Fai quello che ti dicono per filo e per segno. Mi hai sentito?» Bett fece un cenno di intesa. Lui le sfiorò la guancia, le tolse un po' di sangue. «Una donna sexy, con una cicatrice... Non c'è uomo in tutta la contea che ti metterebbe le mani addosso.» «La troverai, vero Tate?» «La troverò.» La baciò sulla fronte e corse alla macchina. Spinse sull'acceleratore, schizzando la volante della polizia di ghiaia e terra. Mentre superava un dosso della strada, la lancetta del tachimetro che si avvicinava alla fascia rossa del pericolo, colse nello specchietto un'ultima immagine di Bett accovacciata accanto all'agente. Senz'altro si stava scusando di cuore. Ma la pistola che teneva con entrambe le mani era ancora fermamente puntata sulla sua faccia. Non ce la faceva più. Megan la Svitata era andata, morta, finita in pasto ai pesci. L'aria viziata la stava soffocando. Gli odori - il lezzo della decomposizione e l'aroma dolciastro della pelle imbalsamata - l'afferravano alla gola e stringevano. Il che era già abbastanza brutto. Ma poi il panico si impadronì del suo corpo come una scossa elettrica. Claustrofobia. «No, no, no» disse, o forse pensò soltanto. «No, no... fammi uscire, fammi uscire, fammi uscire...» A un tratto non era più preoccupata che Matthews fosse fuori dalla bara, in attesa. Non gliene fregava niente. Non poteva restare lì dentro un istante di più. Spinseil coperchio della cassa. Non si mosse. Provò di nuovo, con tutte le sue forze. Niente. «Ah» ansimò. «Oh, ti prego, Dio, no...» L'aveva chiusa dentro! Batté contro il coperchio e sentì una risata selvaggia all'esterno. Parole che non riuscì a distinguere. Altre risate. Ancora parole, più chiare: «... due che si divertono insieme... gli piaci... a Peter, gli piaci...». «Fammi uscire, fammi uscire!» La sua voce divenne un urlo stridulo, tutto il suo corpo sussultò scosso da spasmi violenti. «Sei un bastardo! Tirami fuoriii!» Con entrambi i pugni Megan batteva contro il coperchio fino a farli sanguinare, sentendo con orrore la faccia fredda di Peter sul collo, il pene gelido sulle sue cosce. Dall'esterno, anche Aaron Matthews batteva sul coperchio, rispondendo ai suoi colpi. Poi rise ancora. E infine batté di nuovo, come un batterista, a tempo perfetto con il ritmo delle urla selvagge di lei. Senza sottigliezze, senza sfumature... Tate Collier arrivò in fondo a Palmer Road e vide davanti a sé l'ospedale psichiatrico. Puntò la macchina di Bett direttamente contro il cancello, accelerò fino a sessanta all'ora superando tronchi e buche di quella strada abbandonata. Vide la famigerata Mercedes grigia parcheggiata nella zona riservata al personale. Da una delle finestre filtrava un po' di luce. Non aveva altro piano se non quello più ovvio. Mentre aggirava un pino caduto e si preparava all'assalto finale contro la cancellata premette più forte sull'acceleratore, suggellando la sua decisione. Strinse fortissimo il volante, inchiodandosi al sedile. La macchina sbatté contro l'inferriata e la squarciò. L'airbag esplose con un botto incredibilmente forte. Se n'era dimenticato, e non aveva chiuso gli occhi. Rimase accecato un istante e perse il controllo dell'auto. Quando tornò a vedere si accorse che il veicolo aveva sbandato, mancando di pochissimo la Mercedes. La Volvo andò a sbattere contro i piloni di cemento, stordendolo. Tate balzò fuori dall'auto e corse alla prima porta che vide. Stringendo forte la pistola, vi si scagliò con tutto il suo peso. Si aspettava che fosse chiusa a chiave. Invece i due battenti si spalancarono praticamente senza opporre resistenza, e lui piombò in un grande atrio semibuio. Vide delle ombre: sagome di mobili, angoli di pareti, lampade spente, granelli di polvere che turbinavano nell'aria. Vide i deboli raggi della luce azzurrina che precede l'alba penetrare attraverso la finestra. Ma non vide la mazza da baseball o il cric o quel che era sibilare nell'aria dietro di lui e colpirlo appena sopra l'orecchio con un colpo di striscio. Parte Quarta Il silenzio delle opere
Capitolo 29
Una mano gli accarezzò i capelli. Giacendo sul fianco sul pavimento freddo, Tate aprì lentamente gli occhi che bruciavano per via del suo stesso sudore. Cercò di mettere a fuoco il volto che aveva davanti. Per un attimo credette che fosse Bett. La prima persona a cui aveva pensato quando aveva ripreso conoscenza. Invece gli occhi azzurri che fissava erano quelli di Megan. «Ehi, tesoro» mormorò pianissimo. «Papà.» Era pallidissima, i capelli sporchi incollati alla testa, le mani insanguinate. Si trovavano nell'atrio dell'ospedale abbandonato. Le sue, di mani, erano legate dietro la schiena con una corda ruvida. Vedeva tutto offuscato. Si alzò e rischiò di svenire per il dolore lancinante alla tempia. Aaron Matthews era seduto su una sedia lì vicino e li guardava, da quegli inermi prigionieri che erano. Tate si soffermò su quegli occhi neri, penetranti come laser scuri. Si concentrano su di te come se fossi l'unica persona dell'universo. Ah, di sicuro i pazienti gli rivelano tutto, qualsiasi cosa. Capiva perché Bett fosse stata impotente a resistergli, quella notte, quand'era andato da lei. E così Konnie. E Megan. Poi si accorse che Matthews era ferito. Una grossa macchia di sangue si allargava sul fianco della camicia. Sudava. Anche il naso era insanguinato. Tate lanciò un'occhiata a Megan. Lei gli fece un debole sorriso e annuì, rispondendo alla sua tacita domanda: sì, era stata lei. Abbassò lo sguardo alla spalla della figlia. Un attimo dopo lo rialzò a guardarla. «Hai perso quei tre chili che volevi» le disse. «Erano cinque» scherzò lei. «Bene» intervenne infine Matthews. «Bene, Tate Collier...» Che voce suadente, da baritono, rifletté Tate. Senza note false, non untuosa/Così naturale, così consolante. Ecco perché i pazienti si aggrappavano a ogni singola parola pronunciata da quell'uomo. «Facevo solo il mio lavoro» gli disse infine Tate. «Al processo di Peter, intendo. C'erano le prove. La giuria ci ha creduto.» Megan aggrottò la fronte e Tate le spiegò del processo e del ragazzo assassinato in carcere. La ragazza si adombrò e, rivolgendosi a Matthews, disse: «Lo sapevo che non avevi mai lavorato con lui e che mi stavi mentendo per l'ennesima volta». Matthews non si accorse neanche di lei. Incrociò le braccia. «Probabilmente non lo sai, Collier, ma io venivo a vederti in tribunale. Dopo la morte di Peter presenziavo ai tuoi processi. Mi sedevo in fondo alla galleria per ore e ore. Lo sai che cosa mi colpiva? Che mi ricordavi me stesso durante le sedute di terapia. Quando parlavo ai pazienti. Quando li portavo dove loro non volevano andare. Tu facevi esattamente lo stesso con testimoni e giurie.» Tate non replicò nulla. Matthews fece un rapido sorriso. «E ho imparato un po' di cose sulla legge. Mens rea. La condizione mentale di un assassino: per essere colpevole di omicidio volontario deve esserci l'intenzione di dare la morte. Be', quello eri tu, in pieno, al processo di Peter. Tu lo hai assassinato. Era tua intenzione che morisse.» «Il mio lavoro era portare avanti l'accusa nel migliore dei modi.» «Allora perché hai smesso di fare il pubblico ministero? Perché te ne sei andato con la coda tra le gambe?» saltò su Matthews. «Perché ero dispiaciuto per quello che era successo a tuo figlio» rispose Tate. Matthews abbassò il volto sudato e martoriato. «Hai guardato il mio ragazzo e hai pronunciato la sua sentenza di morte. Ti sei alzato in piedi, davanti alla corte, e ti sei sentito investito di potere. E ti piaceva.» Tate passò in rassegna la stanza. «Tu hai fatto tutto questo? E hai perseguitato anche gli altri: Konnie, Hanson, Eckhard... Bett.» «Mamma?!» sussurrò Megan. «No, sta bene» la rassicurò Tate. «Ti dovevo fermare» disse Matthews. «Continuavi ad avvicinarti. Non sentivi ragioni. Non facevi quello che avresti dovuto.» «È qui che sei stato rinchiuso, vero?» «Lui?» chiese Megan. «Io pensavo che ci lavorasse.» «Lo pensavo anch'io» replicò Tate. «Ma poi mi sono ricordato di una testimonianza al processo di Peter. Lui era uno psichiatra, sì, ma era lui quello che era stato rinchiuso qui.» Un cenno del capo verso Matthews. «Non Peter.» Tate ripensò al processo. bogan: Ora, dottor Rothstein, vuole dirci la sua opinione circa l'origine e la natura delle difficoltà di Peter? rothstein: Sissignore. Peter evidenzia problemi di socializzazione. È più a suo agio con le creazioni inanimate - racconti, libri, fumetti e simili - che con gli esseri umani. Soffre anche di quello che io chiamo deficit affettivo. Rivedendo le sue cartelle cliniche, direi che la causa risale al fatto che suo padre lo rinchiudeva in camera sua per lunghi periodi - settimane intere, addirittura mesi - e l'unico contatto che il ragazzo aveva con le persone era con suo padre Aaron. Non permetteva neanche alla madre di vederlo. Peter si è ritirato nei suoi libri e nella televisione. A quanto pare, gli unici periodi che il ragazzo passava con la madre e altre persone erano quelli che suo padre trascorreva in un ospedale psichiatrico per curare una depressione bipolare con disturbi allucinatori. «Sono stato qui, vediamo...» intervenne Matthews, «per sei cicli. In totale devono
essere stati quattro anni. Ero come un avvocato in un carcere, Collier. Non appena i pazienti scoprivano che ero uno psichiatra, venivano da me.» «Quindi eri tu il “paziente Matthews”» disse Megan sgranando gli occhi. «Nei rapporti sui decessi che ci sono stati qui.» «E brava bambina» commentò lui. Rivolta al padre, Megan spiegò: «Hanno chiuso questo posto per via di una serie di suicidi. Avevo pensato che fosse stato Peter a ucciderli”. «Invece eri tu» constatò Tate rivolto a Matthews. «La diagnosi da manuale dsmiii mi dichiarava sociopatico. Be', oggi si preferisce la definizione “personalità criminale antisociale”. Che delicatezza! Sapevo che i responsabili sanitari a Richmond cercavano una scusa per chiudere posti come questo. Io gli ho soltanto dato una mano. Il personale qui dentro era insufficiente e incompetente, non riusciva a impedire che i pazienti si suicidassero. E quindi l'hanno chiuso.» «Ma per te era solo un gioco, vero?» intervenne Megan schifata. «Per vedere quanti pazienti riuscivi a convincere, portandoli al suicidio.» Matthews si strinse nelle spalle e proseguì: «Sono stato trasferito in un centro di riabilitazione. Una bella mattina di maggio sono uscito tranquillamente dalla porta principale. Mi sono trasferito nella contea di Prince William, proprio dietro la tua fattoria. E ho cominciato a studiare il modo di distruggerti.» Matthews fece una smorfia, premendosi il fianco. La ferita non sembrava particolarmente grave. A Tate venne in mente un particolare del processo. «E tua moglie?» L'uomo non aprì bocca, ma risposero isuoi occhi. E Tate capì: «È stata lei la tua prima vittima, vero? L'hai convinta a uccidersi? O magari le hai semplicemente messo qualcosa nel vino, durante la cena?». «Era vulnerabile» rispose Matthews, «Insicura. Come gran parte dei terapeuti.» «Che cosa cercava di fare?» insistette Tate. «Portarti via Peter?» «Sì, infatti. Voleva rinchiuderlo in un ospedale. Non doveva immischiarsi. Solo io ero in grado di capire Peter. E nessun altro.» «Ma sei stato tu a fare di Peter quello che era» sbottò Megan. «Tu l'hai tagliato fuori dal mondo.» Aveva ragione. Tate ripensò alla testimonianza del perito della difesa, il dottor Rothstein: se si blocca lo sviluppo di un bambino isolandolo prima degli otto anni, le capacità sociali e di comunicazione non riescono a svilupparsi. In pratica distruggi tuo figlio per sempre. Tate ricordò come aveva affrontato la testimonianza del perito, al processo di Peter Matthews. la corte: Lo Stato può controinterrogare. collier: Dottor Rothstein, la ringrazio per questo viaggio nella memoria con cui ha ricostruito la triste storia dell'imputato. Ma mi permetta di chiederle: dal punto di vista psicologico, l'imputato è in grado di commettere un omicidio con premeditazione? rothstein: Peter Matthews è un ragazzo disturbato... collier: Vostro Onore? la corte: Per favore, signore, risponda alla domanda. rothstein: Io... collier: L'imputato è in grado di commettere un omicidio premeditato? rothstein: Sì, ma... collier: Non ho altre domande. «Aveva solo bisogno di me!» esplose Matthews furioso. «Non gli serviva nessun altro. Trascorrevamo ore insieme, quando mia moglie non tentava di farlo uscire di soppiatto dalla porta.» «Così tanto, lo amavi?» lo incalzò Tate. «Tu non ne hai idea, vero? Be', lo sai cosa facevamo, io e Peter? Parlavamo. Di tutto. Di serpenti, di stelle, di inondazioni, di esploratori, di aerei, della mente umana...» Vaneggiamenti e allucinazioni, immaginò Tate. Senza dubbio il povero Peter, solo e sconcertato, non poteva fare altro che ascoltare. Eppure... con una fitta di sofferenza interiore, nel profondo di sé, Tate si rese conto che quella era una cosa che lui e Megan non facevano. Non parlavano mai. Non lo avevano mai fatto. E adesso non potremo farlo più, si rese conto. Abbiamo perso quell'occasione per sempre. Il loro carceriere rimase in silenzio. Guardava verso un angolo dell'atrio dell'ospedale, perso nei ricordi o nei pensieri o in qualche confusa fantasia allucinatoria. Alla fine Tate disse: «Allora, Aaron. Dimmi che cosa vuoi». Chiuse gli occhi cercando di contrastare il dolore spaventoso alla testa. Matthews rispose dopo qualche istante. «Voglio giustizia. Pura e semplice. Ucciderò tua figlia e tu starai a guardare. E vivrai con quell'immagine per il resto dei tuoi giorni.» Dunque siamo a questo... Tate sospirò, e pensò, come gli era capitato tante volte mentre si dirigeva verso lo scranno della giuria o il podio, in una disputa retorica: Okay, mettiamoci al lavoro. «Non so come tu possa avere giustizia, Aaron» cominciò Tate. «Proprio non capisco. In tutti gli anni che ho esercitato la legge...» La faccia di Matthews si contrasse per il disgusto. «Oh, ma piantala!» «Cosa?» chiese Tate con aria innocente. «L'ho sentita» disse lo psichiatra. «La lingua svelta, le parole suadenti. Tu hai il dono dell'oratoria... certo. Lo sappiamo. Ma ce l'ho anch'io. Sono immune.» «Non ho intenzione di convincerti di niente, a parole, Aaron. Non mi sembri il tipo...»
«Con me non funzionano i tuoi trucchetti da avvocato! Sono uguali ai trucchi del terapeuta. “Personalizzare il discorso.” “Aaron” qui e “Aaron” lì. Cerchi di indurmi a pensare a te come a un essere umano in particolare: Tate. Ma non funziona, Tate. Vedi, è proprio l'essere umano Tate Collier che io odio.» Imperterrito, Tate proseguì: «Peter era il tuo unico figlio?». «Ma perché perdi tempo a provarci?» replicò Matthews alzando gli occhi al cielo. «L'unica cosa che voglio è uscire di qui e salvarci la vita. Ti sorprende?» «Esempio perfetto di domanda retorica. Be', no, non mi sorprende. Ma niente di quello che dirai potrà cambiare le cose.» «Sto cercando di salvare anche la tua, di vita, Aaron. La polizia sa di te. Hai sentito, immagino, il messaggio del detective, sulla segreteria telefonica...» «Alla fine ci arriveranno, ma visto che sei qui da solo, da evaso, presumo di avere un po' di tempo.» «Che significa?» intervenne Megan. «Evaso!?» Non poteva dirle, in quel momento, che la sua amica Amy era morta. Scosse la testa e riprese: «Pensaci, Aaron. Io sono un uomo ricco. Tu dovrai lasciare il paese. Se ci lasci andare ti darò parecchi soldi». «Partire dall'argomentazione più debole. Non significa forse che hai appena perso la disputa? È quello che dici tu, nella cassetta dell'Associazione degli avvocati americani.» Il sorriso appena accennato non abbandonò la faccia di Tate neanche per un attimo. «Hai visto casa mia, la mia terra» proseguì. «Lo sai che ho parecchie risorse.» Un lampo di disprezzo negli occhi di Matthews. «Quanto vuoi?» «Ti stai servendo di una falsa argomentazione. Fare appello a un falso bisogno come diversivo.» Matthews sorrise. «Io lo faccio di continuo. Per ammorbidire i pazienti, abbassare le loro difese. E poi, bang!, un calcio alla testa. Andiamo, mica l'ho fatto per il riscatto. Questo è ovvio.» «Qualunque fosse il tuo motivo, Aaron, le circostanze sono cambiate. Adesso sanno di te. Ma tu hai la possibilità di fuggire. Ti posso procurare mezzo milione in contanti. Così, su due piedi. E anche di più. se ipoteco la casa.» Matthews non rispose nulla a quell'offerta, ma cominciò a fare lentamente avanti e indietro fissando Megan, che resse il suo sguardo con aria di sfida. Tate naturalmente sapeva benissimo che il problema non erano affatto i soldi; e nemmeno aiutare Matthews a superare i confini di Stato. Il suo scopo immediato era soltanto quello di suscitare in lui un'indecisione, logorarne la resistenza. Aveva ragione Matthews: era un diversivo. Ma, anche se l'altro lo sapeva, Tate era convinto che la tecnica potesse funzionare. «Non posso fare di te un uomo ricco, ma potrai vivere agiatamente.» «È inutile» ribatté Matthews scuotendo la testa con fare deluso. «Aaron, non puoi cambiare i fatti» proseguì Tate. «Non puoi far tornare le cose come stavano prima. Non puoi riportare in vita Peter. Allora, sei disposto a lasciarci andare?» «Richieste specifiche, che l'avversario ha il potere di concedere» recitò Matthews. «Che richiedono soltanto una risposta affermativa o negativa. La tua abilità non è stata per niente intaccata, Collier. La mia risposta, comunque, è negativa.» «Tu hai detto che vuoi giustizia» continuò Tate stringendosi nelle spalle. «Ma io mi chiedo invece se non si tratti di qualcos'altro.» Un lampo nello sguardo del dottore. «Hai pensato seriamente al vero motivo per cui stai facendo tutto questo?» chiese Tate. «Certo.» «Perché?» «Io...» «È per togliere il dolore, vero?» lo incalzò Tate. Le labbra di Matthews si mossero. Stava conversando con se stesso, o con la moglie morta, o con il figlio morto. O forse con nessuno. L'uomo può dubitare di quel che sente. Può dubitare di quel che vede... Tate si sporse verso di lui, insistente, ignorando le fìtte alla testa, e gli sussurrò: «Pensaci bene, Aaron. Pensaci. È di estrema importanza. E se ti fossi sbagliato? E se uccidere Megan rendesse il dolore più intenso}». «Bel tentativo!» strillò Matthews. «Classico espediente retorico...» «E se invece non sortisse nessun effetto? Se questa, la tua unica possibilità di attenuare il dolore, non funzionasse? Hai mai considerato questa eventualità?» «Stai solo cercando di distrarmi!» «Tu hai perso una persona che amavi. Rimani lì sdraiato per ore, paralizzato dal dolore. Ti svegli alle due del mattino e ti sembra di impazzire, vero?» Matthews rimase in silenzio. Tate capì di aver toccato un nervo scoperto. «Io le so, tutte queste cose. È successo anche a me.» Tate si spinse in avanti e senza simulare confrontò la sofferenza che vide sul volto di Matthews con la propria. «Ci sono passato anch'io. Anch'ioho perso qualcuno che amavo più della mia stessa vita. Ho perso mia moglie. Te lo leggo in faccia. Non sono trucchi, Aaron. Io so di cosa sto parlando. E l'unica cosa che vuoi è che il dolore passi. Tu non uccidi per il gusto di farlo, Aaron. Non uccidi per cavartela. Non sei un sicario di professione. Tu uccidi solo quando c'è una ragione. E questa ragione è sconfiggere il dolore!» E con stupore di Tate, sentì una voce di donna accanto a sé. Un caldo tono di contralto. Megan che guardava Matthews
negli occhi e diceva: «Anche quei pazienti che hai ucciso qui dentro, Aaron... tu non volevi ucciderli. Mi sono sbagliata. Non era affatto un gioco. Volevi solo aiutarli a smettere di soffrire». Bravissima, pensò Tate, orgoglioso di lei. «Il dolore» riprese l'avvocato. «Sempre a questo si torna. Vuoi solo che passi.» Lo sguardo di Matthews appariva incerto, ora, addirittura disperato. Quanto odiamo ciò che ci confonde, l'ignoto! E come accorriamo in massa da coloro che ci offrono risposte semplici come il disegno di un bambino. «Ti dirò una cosa, Aaron. Ho vissuto con la morte di tuo figlio ogni giorno, da quando mi hanno chiamato dal carcere per riferirmi dell'accaduto. Anch'io ho provato quel dolore. So che cosa stai passando. Io...» A un tratto Matthews balzò in piedi, afferrò Tate per la camicia, lo sbatté a terra e prese a scuoterlo come un pazzo. Megan urlò, fece per andare verso di loro, ma il folle la spintonò facendola cadere. «Tu lo sai?» urlò in faccia a Tate. «Tu lo sai, vero? Invece non ne hai la più pallida idea! Tutti quei giorni, settimane e settimane, in cui non riuscivo a fare altro che starmene lì sdraiato a guardare il soffitto, a pensare al processo. Lo sai che cosa vedo? Non vedo la faccia di Peter. Vedo la tua schiena. Tu, in piedi in tribunale, con la schiena verso mio figlio. Lo hai mandato a morire, e non l'hai neanche guardato! La giuria, quelle erano le sole persone in quell'aula, vero?» No, pensò Tate. Erano le sole persone nell'universo. «Mi dispiace» disse a Matthews. «Non voglio la tua pietà del cazzo.» Un'altra ondata di furia gli attraversò il volto. Sollevò Tate con le mani possenti e lo atterrò un'altra volta, facendolo rotolare sulla schiena. Estrasse di tasca un coltello, lo aprì con uno scatto e si chinò sopra Tate. «No!» gridò Megan. Matthews fece scivolare la lama oltre le labbra di Tate, dentro la bocca. Tate sentì il sapore del metallo, la punta affilata e fredda contro la lingua. Non mosse un muscolo. Poi negli occhi di Matthews passò un lampo di quello che parve divertimento. Mosse le labbra, come se parlasse tra sé. Ritirò la lama. «No, Collier, no. Non te. Non è te che voglio.» «Ma perché no?» sussurrò svelto Tate. «Perché no? Dimmelo.» «Perché tu devi vivere senza tua figlia. Proprio come io devo vivere senza mio figlio.» «E questo ti toglierà il dolore?» «Sì!» L'avvocato annuì. «Allora devi lasciarla andare.» Lottò per trattenere il tono di trionfo nella voce, come faceva sempre in tribunale e sul podio. «Allora devi lasciarla andare e uccidere me. È l'unica risposta che puoi avere.» «Papà!» gridò Megan piangendo. Era la prima volta in dieci anni che Tate le sentiva usare quella parola. «L'unica risposta?» chiese Matthews, incerto. Tate lo aveva sempre saputo, che prima o poi si sarebbe arrivati a questo. Ma che razza di momento e di luogo! Tutti i gatti vedono al buio. Dunque, Midnight vede al buio. Accostò la testa alla guancia della ragazza. «Oh, tesoro...» «Cosa c'è? Cosa?» chiese Megan. A meno che Midnight non sia cieco. Tate cominciò a parlare. Gli si ruppe la voce. Provò di nuovo. «Aaron, quello che vuoi è perfettamente ragionevole. Solo che...» erano gli occhi di Megan, quelli che fissava, non del loro aguzzino. «Solo che io non sono suo padre.» Capitolo 30 Gli parve che Matthews abbassasse gli occhi verso i suoi prigionieri, ma la luce dell'alba che entrava dalla finestra lo illuminava da dietro, e Tate non riusciva a leggere la direzione del suo sguardo. Nella stessa luce obliqua Megan, pallidissima, si portò le mani al volto ferito. Sulle guance e sulle mani luccicava un rivolo rosa di sangue. Aveva la fronte aggrottata. Matthews scoppiò in una risata, ma Tate capì che la sua mente pronta stava esaminando i fatti, traendone le possibili conclusioni. «Mi deludi, Collier. Questo è uno stratagemma ovvio e ingenuo. Stai mentendo.» «Quando pedinavi me e Megan, quante volte ci hai visti insieme?» chiese Tate. «Questo non significa niente.» «Per quanto tempo ci hai seguiti?» Una scheggia di dubbio, come una nuvoletta che oscura il sole per pochi secondi. Tate l'aveva vista negli occhi di mille testimoni. «Sei mesi» fu la risposta. «Quanti fine settimana ha passato con me?» «Questo non...» «Quanti?» «Due, credo.» «Ti sei introdotto in casa mia per mettere quelle lettere. Quante foto sue hai visto?» «Pa...» «Quante?» incalzò Tate ignorando la ragazza. Alla fine Matthews rispose: «Nessuna». «Com'era la sua camera?» Un'altra esitazione. Poi: «Un ripostiglio». «Quanto affetto hai mai visto tra noi? Ti sembro un padre? E io ho i capelli ricci e neri, come gli occhi. Bett è castano ramata. E Megan è bionda, santo cielo! Ti sembra che mi assomigli in qualcosa? Guarda i suoi occhi. Guardali!» Lo fece e poi replicò, esitante: «Continuo a non crederti». «No, papà! No!» «Sei andato a conoscere
mia moglie» proseguì Tate rivolto a Matthews, strizzando la gamba di Megan per farla tacere. Il dottore annuì. «Be', sei uno psichiatra. Che cos'hai visto sul volto di Bett, mentre le parlavi? Cosa c'era, quando lei ti parlava di noi due e di Megan?» Matthews rifletté. «Ho visto... senso di colpa.» «Esatto» disse Tate. «Colpa.» Matthews guardò i suoi prigionieri, prima uno poi l'altra. «Diciassette anni fa» cominciò Tate con calma, rivolto a Megan, rivelandole finalmente quella verità che le avevano tenuto nascosta tutti quegli anni «ero agli inizi della carriera di procuratore, cercavo di farmi un nome. Il “Washington Post” mi aveva definito il procuratore emergente più in vista di tutto lo Stato. Mi prendevo tutti i casi che passavano dall'ufficio. Lavoravo ottanta ore alla settimana. Andavo a casa, da tua madre, al massimo nei weekend. Stavo via per tre o quattro giorni di seguito e facevo a malapena una telefonata. Cercavo di diventare come mio nonno. Giudicecontadinopatriarca. Sarei diventato una celebrità locale. Avremmo avuto una famiglia numerosa, una vecchia magione avita. Cene domenicali, riunioni di famiglia, vacanze... di tutto e di più.» Trasse un profondo respiro. «E stato il periodo in cui tua zia Susan ha avuto il suo primo attacco di cuore serio. È rimasta in ospedale per un mese, e anche dopo stava quasi sempre a letto.» «Cosa stai dicendo?» mormorò Megan. «Susan era sposata. Suo marito, te lo ricordi.» «Zio Harris.» «Nella tua lettera, Megan, avevi ragione. Tua madre passava davvero molto tempo ad assistere sua sorella. La assistevano insieme, lei e il marito.» «No» lo interruppe Megan. «Non ci credo.» «Andavano insieme all'ospedale, Harris e Bett. E a pranzo, e a cena. E a fare compere. A volte Bett cucinava per lui, nel suo studio. Lo aiutava a pulire. Tua zia era sollevata, sapendo che c'era qualcuno che si prendeva cura di lui. E per me andava benone. Ero più libero di occuparmi dei miei casi.» «Te l'ha detto lei?» chiese Megan. «La mamma?» Il suo volto era una maschera senza espressione mentre rispondeva piano: «No. È stato Harris. Il giorno del funerale di Susan». Tate era al piano di sopra, in quella serata di novembre. Un caldo fuori stagione, tanti anni fa. Il rinfresco dopo il rito funebre, nella fattoria dei Collier, era appena finito. In piedi davanti alla finestra della camera da letto, Tate aveva guardato fuori, verso il giardino. Sentiva l'aria calda, piena della polvere delle foglie. Il cassettone odorava di legno di cedro. Aveva appena controllato la piccola Megan, tre anni, che dormiva in camera sua, ed era venuto ad aprire le finestre per arieggiare le camere al piano di sopra; alcuni parenti si fermavano a dormire, quella notte. Aveva guardato in basso, nel cortile sul retro. Bett indossava un lungo abito nero. Sollevandone l'orlo, si era arrampicata sul tavolo da picnic nuovo per sganciare la lanterna giapponese. Tate aveva cercato di aprire la finestra ma era bloccata. Si era tolto la giacca per muoversi meglio e aveva sentito in tasca il fruscio della carta. Durante il funerale, uno degli avvocati di Harris gli aveva consegnato una busta, indirizzata a lui, scritta a mano dal cognato, con la dicitura personale. A quanto sembrava, l'aveva scritta poco prima di spararsi. Se n'era dimenticato. Aveva aperto la busta e letto il breve messaggio che conteneva. Tate aveva annuito tra sé, aveva lentamente ripiegato il biglietto ed era sceso di sotto. Poi era uscito. Ricordava di aver sentito una canzone di Loretta Lynn provenire dalla radio. Ricordava di aver sentito il fruscio del vento caldo che agitava l'erba ingiallita e i rampicanti, che scompigliava i tralci delle zucche e la pula lasciata dal raccolto del mais. Ricordava di essersi soffermato sull'arco formato dal braccio sottile di Bett che si allungava per prendere una lanterna arancione. Lei aveva guardato in giù, verso di lui. «Devo dirti una cosa» aveva detto Tate. «Cosa?» aveva chiesto lei in un sussurro. Poi, vedendo l'espressione dei suoi occhi, aveva insistito disperata: «Che c'è? Che c'è?». Era scesa dalla panca. Tate le si era avvicinato e invece di mettere un braccio attorno alle spalle di sua moglie, come poteva fare un marito a notte fonda in una casa visitata dalla morte, le aveva consegnato la lettera. Lei l'aveva letta. «Oh, Dio!» Bett non aveva negato nulla di quanto scritto nel biglietto. La dichiarazione di Harris, che l'amava intensamente, la relazione, che Megan fosse sua figlia, che Bett si era rifiutata di sposarlo e che aveva minacciato di portargli via la bambina per sempre se avesse raccontato la sua infedeltà alla sorella di Bett. Alla fine le parole degeneravano in un vaneggiamento folle, e nel riconoscimento lucido e agghiacciante che il dolore, semplicemente, era troppo. Quella notte, mentre Tate faceva la valigia e se ne andava, nessuno dei due aveva pianto. Non avevano mai più trascorso una notte sotto lo stesso tetto. Malgrado fosse adesso in presenza di un pazzo armato di coltello che li sovrastava a pochi centimetri da loro, Tate era concentrato solo sulla ragazza. Con sua meraviglia, sulla sua faccia non erano dipinti orrore o
shock o rabbia, ma solo comprensione. Gli sfiorò la gamba. «E sei tu quello che è stato così ferito. Mi dispiace, papà. Mi dispiace.» Tate guardò Matthews. «Dunque» disse, «ecco perché il tuo argomento non funziona, Aaron. Portarmela via non ti darà quello che volevi.» Matthews non parlò. Gli occhi fissi sulla finestra, guardava l'alba azzurra. «Lo sai, Aaron, quali sono i motivi classici che si adducono per punire i crimini?» proseguì Tate. «Rieducare verso comportamenti non negativi: non funziona. Deterrenza: inutile. Riabilitazione: vogliamo scherzare? Proteggere la società? Be', solo se giustiziamo i colpevoli o li teniamo dentro per sempre. No, la sai la vera ragione per cui puniamo? Ci vergogniamo ad ammetterlo. Ma, ah, quanto ci piace. La buona, vecchia vendetta biblica. La vendetta del sangue, il solo motivo onesto della punizione. Perché? Perché il suo scopo è quello di attenuare il dolore della vittima. «Questo è ciò che vuoi, Aaron, ma c'è un solo modo per averlo. Uccidere me. Non è perfetto, ma ti dovrai accontentare.» Megan singhiozzava. Il sole era ormai sorto e mandava lampi di luce. Strisce di nuvole rossastre correvano veloci verso est. Matthews appoggiò la fronte contro la finestra. Sembrava rimpicciolito, cambiato. Come se fosse al di là di ogni possibile delusione o sofferenza. «Lasciala andare» mormorò Tate. «Non ha senso neanche ucciderla perché è una testimone. Sanno già tutto di te lo stesso.» Matthews si accovacciò accanto a Megan. Le sfiorò la guancia con il dorso della.mano, poi se lo osservò, guardò le striature lucide lasciate sulla sua pelle dalle lacrime di lei. Le baciò i capelli. «Va bene. Accetto.» Megan fece per protestare. Ma Tate sapeva di aver vinto. A questo punto, niente di quel che lei poteva dire o fare avrebbe cambiato la sua decisione. «Vado a chiudere i cani nel recinto. Sarò di ritorno tra cinque minuti.» Capitolo 31 «È vero?» chiese Megan con le lacrime che le rigavano le guance. «Oh, sì, tesoro. È tutto vero.» «Non hai mai detto niente.» «Tua madre e io avevamo deciso di non farlo. Non finché non fosse morta Susan. Sai quanto Bett sia vicina a tua zia. Non voleva che venisse mai a sapere di quel tradimento: sarebbe stato troppo duro per lei. I dottori le davano al massimo uno o due anni di vita. Prima di dirtelo volevamo aspettare che morisse.» «Ma...» sussurrò Megan. Un sorriso tirato. «Hai ragione. È ancora viva.» «Perché non me l'hai confessato l'anno scorso, due anni fa? Ero grande abbastanza da non dire niente a zia Susan.» Tate esaminò le ferite sui palmi della ragazza. Premette le mani contro le sue. All'inizio non riusciva a parlare. Ma alla fine disse: «Il momento era passato». «Tutti questi anni» mormorò «a pensare di essere stata io, io che avevo fatto qualcosa di male.» Chinò il capo fino alla spalla di lui. «Che cosa terribile devo essere stata per te. Che promemoria!» «Tesoro, vorrei poterti dire che non è così. Ma non posso. Tu eri per metà la persona che amavo di più al mondo, e per metà quella che odiavo di più.» «Una volta ho detto una cosa alla mamma» riprese lei piangendo piano. «Avevo passato il weekend da te e la mamma mi ha chiesto com'era andata. Le ho detto che era stato okay, ma d'altra parte cosa ci si poteva aspettare di più? Eri solo un padre adeguato. Ho pensato che mi avrebbe ammazzata di botte. È andata completamente fuori di testa. Ha detto che eri l'uomo migliore che avesse mai conosciuto e che mai più, mai più avrei dovuto dire una cosa del genere.» Tate sorrise. «Un padre.adeguato per una bambina inopportuna.» «Perché non ci avete più provato, voi due?» «Il momento era passato» ripeté lui di nuovo. «Quanto devi averla amata!» Lui fece una risata amara per l'ironia della situazione. La bambina che aveva allontanato il marito dalla moglie, adesso li aveva riuniti, sia pur solo per un giorno. Com'è raro, l'amore, pensò. Com'è difficile che tutto si incastri: impegno, rassicurazione, bisogno, circostanze, il famelico desiderio di condividere qualche istante con qualcun altro. È un miracolo, quando funziona davvero. Guardò in fondo al proprio cuore e decise che loro due, la sua ex moglie e sua figlia, se la sarebbero cavata bene, adesso che non c'era più una menzogna a dividerle. Ce n'era voluto, ma meglio tardi che mai. Oh, sì, se la sarebbero cavata benissimo. Sentirono avvicinarsi dei passi sulla ghiaia. «Adesso ascoltami» le disse con urgenza. «Quando ti lascia andare, trova un telefono e chiama Ted Beauridge alla polizia di contea di Fairfax. Digli che probabilmente tua madre è in cella a Luray o a Front Royal...» «Cosa!?» «Non ho tempo di spiegarti. Ma è così. Digli di mandare quassù degli agenti. Lei ha detto loro che ti trovavi qui, ma potrebbero non averle
creduto.» Gli occhi della ragazza che lo guardavano gli ricordarono quelli di Bett. Non avevano la sfumatura violetta, naturalmente - quella era una caratteristica di Bett e solo di Bett -, ma possedevano la stessa, esclusiva miscela di etereo e terreno. Matthews comparve sulla soglia. Si voltò a osservare l'uomo sofferente in piedi davanti a loro, la mano muscolosa premuta contro il ventre insanguinato. «Okay, va'» la incalzò Tate. «E corri senza fermarti!» «Va'» ripeté Matthews, allungando una mano per prenderla per il braccio. Lei si ritrasse e abbracciò Tate con tutte le sue forze. Lui sentì le sue braccia attorno alla schiena. La sua faccia contro l'orecchio, sentì che gli parlava, un torrente di parole appassionate provenienti da una fonte che non era il cuore né la mente di una studentessa diciassettenne. «Megan...» cominciò lui. Ma lei gli prese la faccia tra le mani e gli disse: «Sshh, papà. Ricordati, gli orsi non parlano». Matthews l'afferrò di nuovo e la guidò fino alla porta. Sbloccò l'uscita e la spintonò fuori. La porta si richiuse alle sue spalle con uno scatto. Attraverso la finestra sporca e ostruita dalle sbarre, Tate la vide correre giù per il viale e scomparire dietro al cancello. «Ci siamo» disse Collier alzando lo sguardo su Matthews. «Ci siamo» gli fece eco l'altro. «Fuori?» chiese l'avvocato guardandosi attorno in quel posto lugubre. «Andrebbe bene? Io preferirei.» Matthews ebbe un attimo di esitazione. Ma poi si disse: Perché no? «Sì. Va bene.» Sbloccò di nuovo la porta e uscirono nel parcheggio, addentrandosi poi nel terreno che si stendeva dietro l'ospedale psichiatrico. Passarono davanti ai rottweiler nel recinto. Il dottore ripensò ai periodi che aveva passato rinchiuso lì dentro. Com'erano belli, allora, quei prati e quei giardini! Be', e perché non dovevano esserlo? Dai a cinquecento matti un pezzo di terra da coltivare e vedrai se non ne fanno un giardino da concorso. Lui restava seduto ore e ore a parlare con gli altri pazienti e, nella sua immaginazione, con il suo povero Peter. A volte il ragazzo rispondeva, a volte no. Il sole dell'alba era ancora al di sotto della linea dell'orizzonte, ma il cielo era già luminoso. Camminarono fianco a fianco tra l'erba alta, la solidago altissima e le asclepiadi, mentre le libellule sfrecciavano sibilando per allontanarsi dalla loro avanzata. Le cavallette saltellavano tra le loro gambe e lasciavano puntolini di sputo marrone sui vestiti. Dietro di loro i cani erano come impazziti, annusavano il terreno e si lanciavano contro la recinzione metallica cercando di evadere per inseguire l'intruso che camminava accanto al padrone. «Guarda che posto» osservò Matthews conversando come niente fosse. L'abbracciò con un gesto della mano. «Me lo ricordo come fosse ieri. Mi vengono in mente le cose strane che dicevano i pazienti. Quelli che soffrivano di allucinazioni, i paranoidi, i depressi. Quelli che erano semplicemente fuori... Lo sai, Collier, la mente non è una scienza esatta, checché ne dica il Manuale diagnostico e statistico. Alcuni sono proprio semplicemente pazzi, e di loro non sappiamo dire altro. Ma io li ho sempre ascoltati. Capirai, la gente si offre come campioni gratuiti in un negozio di alimentari. Ti si offre su un vassoio d'argento. E sai cosa usano? Le parole. Non trovi che le parole siano la cosa più stupefacente del mondo?» «Ci puoi scommettere» convenne Collier. Non c'era molto tempo, rifletté Matthews. Immaginava di avere un'ora o due prima dell'arrivo della polizia. Megan ci avrebbe impiegato al massimo due ore, per arrivare al telefono più vicino. Tempo a sufficienza per concludere questa faccenda, seppellire Peter, e prendere il primo volo per Los Angeles a Dulles. O forse gli conveniva guidare verso ovest. Nascondersi tra le montagne del West Virginia. Fece un profondo respiro e disse: «Fermiamoci qui». Si trovavano accanto a un fossato poco profondo. Sarebbe stata un'ottima tomba per Collier. Aveva deciso che avrebbe ucciso l'avvocato con un solo colpo alla testa. Niente dolore, niente tormenti. E non avrebbe dato il corpo in pasto ai cani. Rispetto per un degno avversario. Poi l'avvocato lo lasciò di sasso. Chiuse gli occhi e mormorò: «Padre nostro, che sei nei cieli...». Lentamente, completò la preghiera. Matthews si mise a ridere, poi chiese: «Credi in Dio?». Collier annuì. «Perché, ti stupisce?» «Be', a vederti in tribunale avrei detto che i tuoi soli dèi fossero i giudici e i giurati.» «No, no, io credo nell'esistenza di un Dio misericordioso, e giusto.» «Giusto?» fece scettico Matthews. «Be', è Lui la ragione per cui non mando più nessuno nel braccio della morte... E tu ci credi, in Dio?» «Non sono sicuro» rispose Matthews. «Lo sai, ho sempre desiderato avere l'occasione di dimostrare l'esistenza di Dio in una disputa.» «E come faresti?» chiese l'altro con sincera curiosità. «Tesi: Dio esiste. Non è così che iniziano le dispute?» Collier guardò in alto, verso il cielo viola. «Conosci Voltaire?» «Non bene. No.» «Riprenderei la sua tesi. Lui diceva che deve esserci un Dio, perché non si poteva immaginare
un orologio senza l'orologiaio.» Matthews annuì. «Sì. Lo capisco. È buona. Convincente.» «Ma poi, naturalmente, si va a sbattere contro tutti gli argomenti opposti. I contro.» «Tipo?» «Sette religiose incompatibili, interpretazioni delle sacre scritture dimostratesi sbagliate in seguito, nessuna prova empirica di miracoli, le crociate, gli egoismi etici e secolari, il terrorismo... È una battaglia ardua, non c'è dubbio.» «Non hai risposte?» «Oh, certo. Ce l'ho, una risposta.» Adesso Matthews era affascinato. Dopo la morte di Peter aveva pregato tutte le notti per sei mesi. Aveva creduto che il ragazzo avesse risposto ad alcune delle sue comunicazioni. Aveva indizi, ma non prove, che l'anima di Peter fluttuasse vicino a lui. «E qual è?» chiese famelico. «Che un orologio» rispose lentamente Collier, «per quanto ben realizzato, non potrà mai comprendere l'orologiaio. Quando pretendiamo di capire Dio, tutto frana. Se Dio esiste, è per definizione inconoscibile, e l'anima, la tua, la mia, quella di Megan, quella di Peter, esula dalla nostra comprensione. Quando creiamo delle istituzioni umane perché rappresentino Dio, esse sono intrinsecamente sbagliate. Dunque Egli deve esistere al di là delle immagini imperfette che abbiamo di Lui.» «Sì, ha un senso. Com'è semplice, com'è... perfetto.» «Ti sei posto anche tu domande come queste, vero? Per via di Peter?» «Sì.» Gli occhi fissi su Matthews, Collier gli chiese: «Ti manca tanto, vero?». «Sì, mi manca.» Matthews abbassò gli occhi a terra. Per quanto ne sapeva poteva essere stato proprio in quel punto, due o tre anni prima, a studiare lumache o scarabei o formiche, un'ora dopo l'altra. A domandarsi come facevano, nel loro mondo senza parole, a comunicare passioni e paure. «Puoi farti aiutare, Aaron. Non è troppo tardi. Anche in carcere potrai trovare la pace. Ci sarà un medico in grado di aiutarti, qualcuno bravo com'eri bravo tu una volta.» «Oh, non credo. E troppo tardi per questo. Una cosa l'ho imparata: non puoi cambiare la natura umana a forza di chiacchiere.» «Il carattere eil destino» commentò Collier. «Eraclito» rìse Matthews. Aveva imparato quell'aforisma da una delle arringhe conclusive di Collier. Alzò la pistola e la puntò sull'avvocato. Gli occhi di Tate mandarono un brevissimo lampo: «Non vuoi costituirti, dunque?». «No.» «Mi dispiace tanto» fece l'avvocato. Matthews corrugò la fronte. «Cosa vuoi dire?» «Mi dispiace così tanto.» Uno schiocco tra i cespugli alle sue spalle. Matthews si voltò. Davanti a lui c'era Megan: reggeva la pistola che si era portato Collier. Matthews l'aveva lasciata nell'atrio dell'ospedale, dimenticandosene. La ragazza era a circa tre metri di distanza e gli puntava la canna nera contro il petto. L'uomo rise tra sé. Oh, sì... Adesso capiva. Si ricordò i suoi bisbigli a Tate, prima di lasciare l'ospedale. Avevano programmato tutto insieme. Collier gli avrebbe fatto perdere tempo con i suoi discorsi teologici e Megan avrebbe finto di scappare per poi tornare a prendere l'arma. Si ricordò che Collier aveva protestato, mentre si abbracciavano. Ma la ragazza l'aveva avuta vinta. Non avranno avuto legami di sangue, ma in quel momento Megan era proprio la figlia di suo padre. La guardò negli occhi. «Metti giù la pistola» ordinò lei. Lui non obbedì. Sarebbe andata fino in fondo, si chiese? Aveva solo diciassette anni. Sì, certo, aveva la rabbia nel cuore: sufficiente ad aggredirlo con un pugnale, ma non abbastanza da uccidere, ne era convinto. Il carattere è destino... Negli occhi di lei lesse compassione, paura e debolezza. Poteva fermarla, decise. Poteva convincerla ad abbassare la pistola quel tanto che gli bastava per spararle. «Megan, ascoltami» cominciò con tono melenso fissando i suoi occhi azzurri, così diversi da quelli di Collier. «Lo so cosa stai pensando. So quello che hai passato. Ma...» Il primo proiettile si conficcò all'altezza del fianco, vicino alla ferita del pugnale. Sentì schiantarsi una costola. Stava puntando la pistola su di lei quando un altro sparo lo colpì alla spalla e al braccio. Collier cadde in ginocchio, togliendosi dalla linea del fuoco. Megan si avvicinò. «Peter...» mormorò Matthews, cercando con tutte le forze di reggere in mano la pistola. Lei avanzò tra l'erba finché non fu a pochi centimetri di distanza. Matthews strinse il calcio della pistola. Poi alzò gli occhi verso quelli di Megan. Gli occhi, sempre... La pistola fece di nuovo fuoco. E per un attimo gli occhi gli si riempirono di migliaia di soli. Nelle orecchie gli risuonava un coro di rumori... di voci. Quella di Peter, forse. E poi fu buio e silenzio.
Capitolo 32
La spiaggia di San Cristo del Sol, nel Belize, è una delle più belle di tutta l'America Latina. Anche adesso, in maggio, l'aria è torrida ma la continua brezza allevia il caldo alle orde di turisti nei loro infiniti spostamenti dai bar con aria condizionata e dai ristoranti che servono frutti di mare fino alle piscine e alla spiaggia, e poi di nuovo al ristorante. Appassionati di windsurf e kitesurf, dilettanti impegnati in gare di sci d'acqua e jet ski agitano in continuazione le acque turchesi. All'interno della baia, centinaia di sub e patiti dello snorkeling si lanciano nei loro balletti anfibi, bizzarri ed eleganti. La città è anche un celebre punto di partenza per quanti desiderano visitare le rovine maya. Nel raggio di cinque chilometri dalla strada principale di San Cristo ci sono ben due città magnificamente conservate. Di tutti gli alberghi della città, il Caribe Inn è il più lussuoso. Una hacienda coloniale spagnola, quattro stelle sulla guida Mobil e riconoscimenti da ogni genere di altre fonti, tutti in bella mostra dietro il banco della reception davanti a cui si trovava in quel momento Tate Collier, il quale sperava che il portiere parlasse inglese. Lo parlava, risultò poi. Tate gli spiegò che aveva prenotato: presentò i passaporti e la carta American Express. «Un gruppo di...» chiese l'impiegato. «Un gruppo di due persone.» «Ah» fece il portiere. Tate riempì i moduli di registrazione con una grafia disordinata. «Ah, venite dalla Virginia» commentò l'addetto. «Vicino a Washington?» «Sì» rispose in spagnolo senza quasi accorgersene Tate, già pronto a litigare per difendere la sua pronuncia, se non a insultare il portiere. «Ci sono stato diverse volte. Mi piace soprattutto lo Smithsonian.» «Si» provò di nuovo Tate, dimenticando persino le parole che servivano solo a qualche forma di cortesia, parole in cui si era esercitato durante il volo. Per essere uno che si era fatto strada nel mondo con le parole, la sua conoscenza delle lingue straniere era vergognosa. Osservò il receptionist che studiava il modulo della prenotazione con una punta di perplessità sul bel volto scuro. Tate ne conosceva il motivo. L'impiegato aveva scrutato da capo a piedi la bella donna che era entrata poco prima nell'albergo al braccio di Tate. E per quanto avesse visto praticamente di tutto nel suo mestiere, non riusciva proprio a immaginare per quale motivo quei due volessero camere separate. Un uomo è un uomo, dopotutto... e una differenza di vent'anni... be', è niente. Megan uscì dalla cabina telefonica nella lobby e raggiunse il bancone proprio mentre l'impiegato mostrava a Tate un grafico con le camere disponibili. Tate ne indicò due: prima una più piccola, interna, poi una suite d'angolo con vista sulla spiaggia. «Io prendo questa. Mia figlia prende quella d'angolo.» «No, pa', prendi tu quella più bella.» «Ah, questa è sua figlia?» chiese l'impiegato. La sua curiosità era stata soddisfatta. «Ma certo, avrei dovuto capirlo.» «Come dice?» fece Tate. «Cioè, dalla somiglianza. La signorina le assomiglia molto.» I sospetti dell'uomo si riacutizzarono quando vide gli ospiti scambiarsi un rapido sguardo e faticare a reprimere una risata. Tate pensò di tirar fuori le patenti a prova del loro legame, ma alla fine decise che non erano affari suoi. E poi il mistero ha un fascino che i fatti documentati non potranno mai avere. Fissarono le camere e, una volta concluse le pratiche di registrazione, seguirono il fattorino verso la veranda. «Josh dice che il nuovo Fisioterapista è bravissimo» raccontò Megan. «Sono proprio contento.» «Ma a dire il vero lui ha detto “bravissima”. Spero sia vecchia e grassa!» «Torniamo tra sei giorni. Potrai scoprirlo da sola. Mi ripeti quand'è che si dice de nada?» «Quando qualcuno ti ringrazia. Significa “di niente”.» «Loro dicono gracias e io rispondo de nada.» «Poi ho chiamato Bett» riprese Megan. «È contenta che abbiamo fatto un buon viaggio. Si è raccomandata di fare un sacco di foto.» «Più tardi la chiamo anch'io.» «Mi ha detto... ehm, che stasera andava da Brad. Ma l'ha detto in un modo strano. Come se ci fosse qualcosa sotto. C'è qualcosa sotto?» «Non ne ho idea.» Megan si strinse nelle spalle. «Ha detto che ha sentito Konnie: martedì alle nove viene da te allo studio, per discutere del caso.» La settimana precedente Tate aveva messo piede in un tribunale penale per la prima volta dopo quasi cinque anni. L'udienza di Konnie. Aveva risposto alla semplice domanda del giudice con parole ancora più semplici: «Il mio cliente si dichiara non colpevole, Vostro Onore». Aveva pianificato una nuova linea di difesa: l'intossicazione indotta”. E, anche se aveva promesso a Megan che avrebbero trascorso l'intera settimana a non fare altro che visitare monumenti e festeggiare, aveva nascosto in valigia tre testi di giurisprudenza, e sospettava che per l'ultimo giorno di viaggio avrebbe avuto almeno una bozza dell'arringa introduttiva. Era sicuro che, appena Megan avesse incontrato un windsurfer giovane e bello - probabilmente quella sera stessa, al cocktail party -, lui avrebbe avuto qualche ora libera.quasi tutte le sere. Erano arrivati alle stanze. «Gracias de
nada» disse Tate, elargendo al confuso fattorino una mancia esageratamente generosa. Una mezz'oretta più tardi, fatta la doccia, erano tutti e due in pantaloncini beige, Tshirt e cappelli di paglia. L'incarnazione dei los turistas. Ridiscesero alla lobby, e chiesero come si arrivava in bicicletta alle rovine maya più vicine. L'impiegato organizzò il noleggio dei mezzi e fornì loro tutte le indicazioni. Era appena finita la siesta pomeridiana e buona parte degli ospiti erano diretti alla spiaggia di sabbia bianca. Ma Tate e Megan presero due biciclette male in arnese dalla rastrelliera davanti all'albergo e uscirono dalla città. «Da che parte?» chiese lei. Lui indicò e montò in sella. Malgrado il traffico dei pedoni e il caldo disumano, pedalavano in fretta lungo il sentiero asfaltato che era tutto una crepa, diretti verso la fitta giungla piena di profumi. In piedi sui pedali, vacillavano e ridevano, inseguendosi a vicenda, come se ogni istante fosse prezioso, come se avessero tante, troppe ore di esplorazioni mancate da recuperare.
Finito di stampare nel mese di ottobre 2010 presso Grafica Veneta S.p.A. - Via Malcanton, 2 Trebaseleghe (PD) Printed in Italy