BARBARA NADEL LA FIGLIA DI BELSHAZZAR (Belshazzar's Daughter, 1999) Per Malcolm e Alexis, con tutto il mio amore CAPITOL...
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BARBARA NADEL LA FIGLIA DI BELSHAZZAR (Belshazzar's Daughter, 1999) Per Malcolm e Alexis, con tutto il mio amore CAPITOLO I Una stanza. Quattro pareti spoglie, ingiallite dal catrame e dalla nicotina. Una finestra. Sudicia, unta e incrostata di polvere. Non che abbia importanza. Certe finestre non hanno vista. Certe finestre riflettono e basta, come specchi. Qualche sedia, un tavolo. Pezzi tagliati con l'accetta, come quelli che nelle zone rurali più povere arredano i tuguri dei contadini. Ma questa non è una casa di campagna. L'aria è spessa, quasi tangibile. Quella della città con il motore a combustione interna è una relazione soffocante. Nessun rumore, se non quello del traffico. Solo il silenzio rumoroso di un centro urbano. C'è anche un letto. Una branda piccola e stretta. La testata è fatta di tubi di ferro, duri e freddi. Funzionali, ricordano quelle delle corsie d'ospedale, delle prigioni, degli ospizi. Deve esserci stato un gran trambusto, non molto tempo fa; le lenzuola sono tutte stropicciate, come la pelle dei vecchi. A terra, un cuscino sudicio e sventrato sparpaglia le sue piccole piume grigie e bianche, arrotolate per sempre su se stesse. Tuttavia non c'è odore di sesso, quell'odore dolce e persistente che non viene via neanche facendo il bagno. Sulla parete di fronte, uno specchio riflette quanto c'è sul letto. A ogni movimento brusco, le mosche che vi stazionano sciamano via. Sangue dappertutto. Quello che il materasso non è riuscito ad assorbire cola lentamente giù per un braccio fino a un dito, per finire sul pavimento. Gli occhi fuori dalle orbite e rovesciati all'indietro riflettono la porta aperta. Un riflesso dentro un riflesso; il fascino dell'infinito. Una bottiglia vuota rotola sul tappeto consunto finendo sotto il tavolo, dove si ferma contro un pacchetto di sigarette vuoto. La porta cigola leggermente sui suoi cardini arrugginiti dal tempo e di colpo si viene assaliti dalla nausea. Troppo improvvisa perché si riesca a controllarla.
La porta si apre ancora un po' e dei passi leggeri, quasi silenziosi, si affrettano verso la strada. Con la porta rimasta aperta, le mosche rientrano in massa. Il rumore dei passi non si è ancora affievolito che gli insetti sono già tornati al loro pasto. Quella cosa sul letto ha sparso il suo contenuto ben oltre il suo involucro sventrato. Sulla parete, le mosche seguono avide la scia di quel liquido denso. Devono sbrigarsi. Tra poco il sole lo seccherà e dopo sarà inutilizzabile. Le mosche lo sanno e si affrettano a divorarlo. L'ultima lezione del pomeriggio, con otto ragazzi vivaci e viziati tra i quindici e i diciassette anni, era stata dura. Un'ora di pura grammatica. Forse non una buona idea per un caldo pomeriggio di agosto come quello, ma che alternativa aveva? A poco più di una settimana dagli esami, non uno degli studenti era preparato, neanche la pia brigata dei fazzoletti in testa, le ragazze di Bursa. E chi poteva biasimarli? Pochi di loro conoscevano sufficientemente l'inglese, e rinchiudersi per ore in un'aula soffocante nel mese più caldo dell'anno... Lui per primo non avrebbe voluto trovarsi lì! Ma non aveva avuto altra scelta. Non l'aveva mai avuta. Ora per fortuna stava tornando a casa. Il momento più bello della giornata era finalmente arrivato. Anche se il caldo era ancora insopportabile, nell'aria si respirava quella leggera sensazione di sollievo tipica del pomeriggio che cede lentamente il passo alla sera, quando la promessa della notte e il leggero calo di temperatura diventano realtà. Non era una brutta passeggiata, quella fino alla fermata dell'autobus. A meno che, ovviamente, non si abitasse in quel quartiere, squallido e privo di qualsiasi attrattiva commerciale. Balat. Benché percorresse le sue strade sporche e il suo tortuoso labirinto di vicoli sei giorni alla settimana, non si annoiava mai. Quel quartiere possedeva un fascino dickensiano. David Copperfield, Pip, Mr. Jingle, Fagin; nessuno di loro sarebbe stato fuori posto in quell'atmosfera di miseria, microcriminalità e pittoresca sporcizia, tipica di Balat. Soprattutto Fagin sarebbe stato nel suo ambiente naturale. Ebrei, vecchi ebrei, erano l'unica cosa che Balat potesse vantarsi di possedere in abbondanza. Non che si facessero notare, quei vecchi e timidi ebrei sempre vestiti con abiti invernali, che parlottavano a voce bassa in una lingua che tenevano segreta, come la loro vita. Se lui non avesse saputo da altri della loro esistenza, forse non se ne sarebbe mai accorto. Si confondevano nella massa. Diffidenti degli estranei e di un mondo esterno che percepivano come osti-
le, al suo passaggio si appiattivano contro il muro come a voler scomparire nei mattoni, nel cemento, nella pietra. Per secoli l'impero ottomano, l'attuale Repubblica turca, aveva rappresentato un porto sicuro per gli ebrei. Era famoso per la sua umanità nei loro confronti. Ma quel fare guardingo e sospettoso, appreso alla dura scuola dell'Europa occidentale, è difficile da eliminare. Non era una questione personale. Naturalmente alla base c'erano motivi economici. In altri quartieri "migliori" della città, migliaia di ebrei del ceto medioalto vivevano nello stesso identico modo della maggioranza turca. Ma a Balat era diverso. In mancanza di soldi e benessere, sono altri aspetti a prendere il sopravvento. Le tradizioni, i costumi, i tabù. Robert girò l'angolo per imboccare un tortuoso vicolo senza nome che sbucava sulla strada principale, dietro la fermata dell'autobus. L'afa era soffocante. Si faceva fatica persino a mettere un piede davanti all'altro. Si fermò e infilò una mano nel taschino della camicia per tirare fuori sigarette e accendino. Lui considerava un lusso il fatto che a Istanbul si potesse fumare in strada senza attirare occhiate di rimprovero. Tutta un'altra cosa rispetto a Londra, per molti aspetti. Si accese una sigaretta e aspirò soddisfatto una lunga e profonda boccata. Mentre fumava osservando in lontananza il traffico caotico che lo attendeva, una porta si aprì cigolando dietro di lui. Si girò a guardare. Non vide niente, a parte un anonimo condominio dall'aspetto decadente e chiuso. Proprio chiuso, fatta eccezione per una piccola porta di legno al pianoterra che si apriva cigolando sui cardini arrugginiti. Nessuno. Come una città fantasma di un vecchio film western, il tardo pomeriggio di Balat era silenzioso e deserto. Ma Robert sapeva che era solo un'illusione. Migliaia di persone vivevano a Balat. Non appena l'estraneo se ne fosse andato, centinaia di vecchi ebrei sarebbero usciti dai muri trasformandosi da pietra in carne, passando dal silenzio a un chiacchiericcio veloce e incomprensibile. Un metro e novanta, capelli argentati, Robert conosceva i loro pensieri. Sapeva che tipo di straniero pensavano che fosse. Nel girarsi di nuovo captò con la coda dell'occhio un movimento che attirò la sua attenzione. Si voltò di scatto e vide sull'uscio una specie di piccolo gnomo o elfo con la mano appoggiata sulla maniglia arrugginita. Una donna, minuta, vestita tutta di nero, lo fissava con paura e sospetto. Poi abbassò lo sguardo a terra e, arretrando lentamente, scomparve nell'ombra scura della casa che, al pari della sua timidezza, era la sua prigione. Provò una gran pietà mentre la guardava sparire. Non c'era modo di farle capire
che lui non era pericoloso, che non voleva farle del male. Pochi di loro parlavano turco e ancor meno l'inglese e, per quanto ne sapesse lui, poteva trattarsi di una di quegli sventurati con un numero tatuato sul polso, sul braccio o sulla natica. Subito dopo la guerra, alcuni ebrei provenienti dall'Europa occidentale e dalla Germania si erano stabiliti in Turchia, considerata relativamente sicura. I nomi di Belsen, Auschwitz e Ravensbrück risuonavano ancora nelle loro orecchie dopo quarantasette anni. La donna scomparve. Robert finì la sua sigaretta e schiacciò il mozzicone col piede facendolo penetrare nello spesso strato di polvere del manto stradale. La breve sosta gli aveva fatto bene e stava per riprendere la sua strada verso casa quando apparve un'altra figura, questa volta sull'uscio della casa di fronte a lui. Nonostante la sagoma avesse un che di familiare, in un primo momento la sua sorpresa fu tale che non se ne rese quasi conto. Ma il viso, anche se non i logori jeans neri e l'informe camicione fuori moda, era inconfondibile. Allungò il collo per guardare meglio. Possibile che fosse Natalia? A Balat? La figura si mosse. Diede un'occhiata alla strada e quando il suo sguardo si posò su di lui, si irrigidì. Accadde tutto molto in fretta. Lui sorrise e fece per alzare la mano in segno di saluto. Lei indietreggiò, abbassò lo sguardo, poi, come tutti i nativi del quartiere, girò le spalle come a cercare di confondersi col muro. Robert fece un passo avanti per iniziare a parlare ma lei, tremando visibilmente, fece uno scatto e cominciò a correre in direzione della strada principale. Senza un attimo di esitazione, Robert si lanciò al suo inseguimento. Cominciò a correre senza più badare a nulla. Davanti a lui, più veloce e a passi quasi silenziosi, correva Natalia, snella, i capelli corvini, splendida. Correva in preda alla paura. Di lui? Se lui avesse avuto il tempo di riflettere, ci sarebbe rimasto male, si sarebbe sentito addirittura offeso. Ma non ne aveva il tempo, lei era veloce, più veloce di quanto lui avesse immaginato. Poco prima di arrivare in fondo a quel tortuoso vicolo, Natalia svoltò di colpo a sinistra. Ora Robert le era quasi addosso. Per un breve istante, riuscì ad afferrarla mentre lei girava l'angolo. Le sue dita lunghe e forti le toccarono la spalla ossuta senza però riuscire ad afferrarla. Ritrasse il braccio come se si fosse scottato. La spalla sotto quello strato di leggero cotone da quattro soldi era scheletrica. Non rotonda, morbida e sexy come lui ricordava. Che si stesse sbagliando? Che fosse un'altra donna? Al suo tocco lei ansimò ancora più spaventata, e imprimendo maggiore spinta alle gambe aumentò la velocità. Robert si fermò.
Si trovava in un cortile pieno di finestre e piccoli portoni verdi. Come di consueto, non si vedeva anima viva. Davanti a lui, così stretta da sembrare più un tunnel che una strada, si snodava la via in cui era scomparsa Natalia. Col fiato corto e le mani appoggiate alle ginocchia per sostenersi, Robert osservò attentamente quello strano luogo che pareva più una conigliera che uno spazio abitato. Notò solo l'assenza di cose. Di luce, movimento, colore, della figura di Natalia che fugge... Restò in quella posizione per qualche istante, poi si raddrizzò. Lei se ne era andata. Neanche un sussurro a turbare l'inquinata aria pomeridiana. Sbalordito, uscì dal cortile e si fermò in strada. Guardò da una parte e dall'altra tre o quattro volte, ma inutilmente. La strada, come il cortile dal quale era appena emerso, era silenziosa, a parte il frastuono del traffico che proveniva da quella che in quel punto era l'estremità nord della strada principale. Procedette verso il confortante rumore di persone e macchine in movimento, la mente un buio meandro pieno di dubbi e sgradevole incredulità per quanto i suoi occhi e le sue mani gli avevano appena rivelato. Forse aveva preso troppo sole. Magari il caldo gli aveva offuscato i sensi. Tuttavia quel viso era il suo! Non poteva avere dubbi su un viso come quello! Così delicato ma anche così sensuale, così beneducato e tuttavia selvaggio. Cristo, doveva tornarsene a casa! Se ora avesse cominciato a pensare a lei e si fosse diretto verso quel negozio... Procedette faticosamente verso la fermata dell'autobus, a ogni passo il rumore della gente e dei veicoli aumentava sempre di più. Quell'esperienza pareva un sogno, eppure sapeva di essere sveglio. Il mondo della strada principale di Istanbul era troppo rumoroso e invadente per lasciargli dubbi. Fosse stato diciotto mesi prima, avrebbe dato la colpa ai farmaci. Ma... Si girò a guardare il punto da cui era appena sbucato. Da quella visuale, le case ai due lati di quello stradone sembravano abbarbicate l'una sull'altra, come a chiudersi su se stesse per proteggere le attività che si svolgevano al loro interno. La temperatura superava i trenta gradi, ma il sangue di Robert Cornelius era gelato. «Maledetto bastardo!» esclamò a voce alta portandosi una mano ricoperta di gioielli falsi al livido blu sull'occhio destro. Non riusciva a crederci. Un'altra volta! Era la seconda volta che la picchiavano per non pagarla. Cosa diavolo faceva credere agli uomini di avere il diritto di trattarla così? La sua era una prestazione come un'altra. Si sarebbero mai sognati di prendere il pane e poi picchiare il panettiere per non pagarlo? No di certo!
Ma una prostituta? Le prostitute, specie quelle non più giovanissime e molto sfruttate, erano un'altra faccenda. Lei conosceva i rischi, ne era sempre stata consapevole, ma questo non bastava a spiegare il perché di quel trattamento. Gli uomini volevano sesso, le prostitute fornivano sesso. Allora perché sventolarle in faccia una banconota da ventimila lire e poi farle un occhio nero? Perché non facevano quello che dovevano fare e basta? Sensi di colpa? L'improvvisa visione della moglie esaurita col ventre prolassato e una decina di figli a casa? Ricordi di gioventù, quando il sesso era libero e la vita meno misera? Ma la consapevolezza non serviva a migliorare le cose. Solo i soldi riuscivano a placare i morsi della fame nello stomaco e l'impellente desiderio di bere qualcosa di più forte di un tè. «Ventimila fottutissime lire!» annunciò alla mezzanotte silenziosa delle strade di Balat. Trentun anni sulla strada a soddisfare il più animalesco degli istinti maschili non erano passati senza lasciare traccia sul fisico di Leah Delmonte. La prostituzione non era una scelta facile. Non era fatta, come nei film, di comodi divani, long drink ghiacciati e professioniste d'alto bordo. Certo, da ragazza non era così dura come adesso. A quel tempo si faceva chiamare Dolores e il suo mestiere ufficiale era quello di ballerina. "Madame Lilli presenta con orgoglio, direttamente dalla Spagna, Dolores, l'appassionata e selvaggia ballerina di flamenco!" Il solo ricordo le faceva venire le lacrime agli occhi. E ci avevano creduto, tutti quei soldati, marinai, giovani ricchi in cerca di divertimento che erano passati per le sue mani. I suoi antenati provenivano da Siviglia, Toledo, qualche luogo dimenticato da Dio come quello, e la gente pensava che la lingua ladina che lei parlava fin dalla nascita fosse simile allo spagnolo. Per loro era quasi la stessa cosa. E lei era stata Dolores: era esotica, era bella, e a quel tempo sapeva senza dubbio ballare. Ma ora non più. Con i quarant'anni, per Dolores era suonata la campana a morto. Era stato cinque anni prima. Da cinque anni era tornata a essere Leah. La semplice Leah, buona solo per una sveltina contro il muro. Ed era rovinata. Lei e Lilli, Madame Lilli in gioventù, erano in arretrato di tre mesi con l'affitto del loro misero monolocale. Almeno Leah si dava da fare per lavorare, ma Lilli, di sei anni più vecchia di lei, grassa, piena di macchie sulla pelle e devastata da orrende vene varicose, non aveva più voglia di lavorare in strada. La sera se ne stava quasi sempre seduta a mangiare e fumare, ascoltando malinconiche canzoni arabe alla radio. Girato l'angolo, Leah si trovò di fronte all'ingresso del fatiscente stabile
in cui abitava. In che razza di posto era finita! Un lurido dormitorio a neanche cinque minuti dall'altro lurido dormitorio in cui era nata. Che fine avevano fatto i suoi sogni di bambina? Che fine avevano fatto le ambizioni di sua madre per la figlia? Amante del presidente della repubblica a vent'anni! Che schifo! Leah guardò verso la finestra della piccola stanza al pianoterra che divideva con la sua ex padrona. La luce era accesa e attraverso le sottili tende impregnate di nicotina intravide chiaramente Lilli. Già a casa. Ammesso che fosse mai uscita. Leah si sentì sprofondare. Non ce la faceva più a sopportare le continue lamentele di Lilli sui soldi, le scene che faceva tutte le volte che si guardava allo specchio. Aveva bisogno di bere qualcosa. Quello che le ci voleva era una vodka, o magari un raki. Ma dove diavolo trovava i soldi per l'alcol? Con gli occhi che le bruciavano per le lacrime represse, si costrinse a procedere verso quell'ingresso quasi senza luce. Era la noia ad angosciarla. La fame, la mancanza di cose belle, lo squallore, erano cose che riusciva ancora ad accettare. Ma la monotonia. Quella terribile noia senza fine... Poi ebbe un'idea. Si fermò. Ma certo! Il vecchio Meyer, il russo all'ultimo piano. Il Meyer "urlante". Solitario, asociale, pazzo, diceva la gente. Ma sempre ben rifornito di bevande alcoliche. Davvero strano. Perché mai uno con la possibilità economica non solo di pagare l'affitto, ma anche di fumare e comprare almeno una bottiglia di vodka al giorno, avesse deciso di vivere in una lurida topaia come Balat, era un mistero per lei. Ma Leah non era tipo da fare domande. Scacciati quei pensieri dalla mente, pregustò il delizioso sapore dell'alcol sulla sua lingua. A patto di starsene tranquilli, sopportare i suoi incomprensibili vaneggiamenti e tapparsi il naso all'odore della sua stanza, su Meyer si poteva contare. La sua sudicia bottiglia era sempre a disposizione dell'ospite, e c'erano un mucchio di sigarette sparse dappertutto, dal pavimento al letto. Darsi al bere era l'ultima spiaggia, ma Leah era disperata. Passò davanti alla porta del suo appartamento al pianoterra facendo attenzione a non far cigolare le assi del pavimento di legno, e salì le scale. Se lo avesse saputo, anche Lilli Ficcanaso avrebbe voluto partecipare alla festa, ma Leah aveva deciso che se ci fosse stato da bere, avrebbe bevuto da sola. Lei, almeno, si era data da fare per cercare lavoro. Lilli non meritava di bere. Per Leah, affrontare la topaia di Meyer sarebbe stata una festa. Continuò a salire leccandosi le labbra. Quelle scale fino al terzo e ultimo piano erano una fatica per il suo fisico
non allenato. Fu con enorme sollievo che arrivò all'ultimo ballatoio per uscire di nuovo all'esterno. Si fermò per alcuni istanti a riprendere fiato con le mani appoggiate sui fianchi. Erano tre le porte che davano sul ballatoio. Dietro quelle porte, c'erano dei tuguri grandi come celle. I primi due erano abitati dagli Abraham e dalla loro nidiata sempre più numerosa. L'ultimo, all'altra estremità, era quello di Meyer. Dopo che si fu ripresa un po', Leah si preoccupò del proprio aspetto. Il vecchio era completamente pazzo, ma questo non era un buon motivo per presentarsi in disordine. Era un vecchio, ma pur sempre un uomo. E lei era una donna, una professionista. Ancora con una certa dose di orgoglio. Un po' di cipria sul suo occhio gonfio e nero, un tocco di rossetto, una ritoccata all'ombretto... Si portò le mani alla parrucca colorata all'henné per accertarsi che fosse salda nella sua posizione. Un cimelio di tempi migliori e più grassi, quella parrucca. Non che ne avesse avuto realmente bisogno, quando l'aveva acquistata. Forse allora aveva avuto un presentimento degli anni a venire. Ripose il trucco nell'astuccio leopardato, si raddrizzò in tutta la sua altezza e procedette passando davanti alle porte incrostate di sporcizia degli alloggi degli Abraham. La porta di Meyer era aperta. Non era una cosa insolita; il vecchio raramente la chiudeva durante i mesi estivi. Quell'angusta cella era inondata dal sole per quasi tutto il giorno e una fonte di ventilazione era vitale sia per il suo benessere sia per la sua salute. La luce, però, era spenta. Il che non lasciava presagire niente di buono. Stava a indicare che probabilmente si era scolato tutto il liquore e che stava smaltendo la sbornia russando. Leah non sapeva cosa fare. Non vedeva l'ora di bere, e ora era delusa... Passò mentalmente in rassegna le possibilità che aveva. Avrebbe potuto svegliare il vecchio e chiedergli un drink, rischiando un suo giustificato scatto d'ira. Avrebbe potuto andarsene senza bere, avvilita. O... Oppure, se Meyer fosse stato ubriaco fradicio, avrebbe potuto accendere la luce, entrare e rovistare nella stanza in cerca di residui nelle bottiglie che lui aveva gettato via. Forse non avrebbe trovato un granché, ma anche una goccia le sarebbe bastata. A meno di non scuoterlo, non si sarebbe svegliato, e lei era disperata. Aveva socchiuso leggermente la porta col piede per far entrare quel tanto di luce che le serviva per distinguere i piedi del letto. Un odore acre di vomito - o di verdure marce - assalì le sue narici. No. Cibo bruciato... carne. Vecchio lurido bastardo! Dio, aveva bisogno di quel drink! Sapeva che
l'interruttore della luce si trovava accanto alla porta, ma non riusciva a vederlo. Tastò il muro con la mano raschiando con le unghie la parete di cartongesso fino a trovare la sporgenza che cercava. Girò l'interruttore e la stanza fu improvvisamente rischiarata dalla luce dell'unica lampadina, resa giallastra dalla sporcizia. Per qualche istante i suoi occhi non misero a fuoco ciò che avevano davanti. In un primo momento, nella confusione, le sembrò che qualcuno avesse gettato un mucchio di vecchi abiti e un grosso pezzo di carne sul letto. Poi vide gli occhi incrostati di sangue ma aperti, le pupille che la fissavano, dilatate dalla rigidità della morte. Dalla bocca in giù, fino alla punta dei piedi, Meyer era un ammasso di sangue e organi fuoriusciti dalle loro sedi naturali. Il suo corpo era talmente devastato che dal torace sbucavano alcune costole, ricoperte solo di un sottile strato di pelle rinsecchita. Mentre lei guardava inorridita, quello che rimaneva del fegato si staccò ricadendo appiccicosamente sulle lenzuola intorno al corpo, ormai completamente intrise di sangue. Leah sentì un conato di vomito risalirle in gola, ma non poté fare a meno di continuare a guardare. E l'odore! Leah si portò una mano alla bocca per non vomitare. Quel giorno non aveva mangiato niente e la bile calda, l'unica cosa che aveva nello stomaco, le bruciava la gola. Fece scorrere di nuovo lo sguardo su quel corpo, sulle sue viscere, i suoi occhi, il muro dietro al letto... il muro... Era lì. A quanto pareva, disegnata col sangue. Enorme, con i contorni gocciolanti di rosso: una svastica. Nel riconoscerla, il suo corpo di ebrea gridò fin nei meandri delle sue viscere. La schiuma gialla della bile oltrepassò le dita della mano che teneva premuta sulla bocca, e lei urlò. Non si mosse. Non si mosse neanche quando arrivò il signor Abraham dall'appartamento accanto per vedere cosa fosse accaduto. Urlava e basta. E venti minuti dopo, allorché sopraggiunse il primo poliziotto accompagnato da un medico, Leah, con le gambe bagnate di urina, urlava ancora. Conosceva bene il significato della svastica. «Ispettore Ikmen?» Il piccolo uomo mezzo sdraiato sul divano teneva la cornetta sull'orecchio sinistro con gli occhi chiusi. Era buio. Un'ora indecente della notte. Non certo l'ora di parlare al telefono o fare qualsiasi altra cosa che non fosse dormire. «Suleyman?» borbottò. «Cosa vuoi?»
La voce all'altro capo del filo inspirò profondamente, poi espirò. «C'è stato un incidente, signore. Una faccenda molto spiacevole. A Balat.» CAPITOLO II Il tono era greve e insolitamente agitato per Suleyman, abitualmente freddo. Pareva quasi che tremasse. Socchiudendo gli occhi, Çetin Ikmen notò con una certa irritazione che indossava ancora l'abito del giorno prima. Non era facile vivere con Fatma da quando era incinta. Relegato al divano per tre mesi di fila. Ikmen tirò fuori una sigaretta dal pacchetto che teneva nel taschino della giacca stropicciata e l'accese. «Allora, chi è il morto?» chiese rassegnato. «Un vecchio, signore. Un ebreo di Balat. Un suo vicino, il signor Abraham, dice che la vittima si chiamava Leonid Meyer. Almeno, per quanto ha potuto riconoscerlo...» «Dove e come è morto?» «Nel suo appartamento, signore.» Suleyman fece una pausa. Fu un silenzio carico di tensione. «Per quanto riguarda il modo in cui è morto, ispettore... credo sia meglio che venga a vedere con i suoi occhi. Il medico è già qui, ma... non ho mai visto niente di simile prima d'ora. Mai.» Ikmen cominciò a svegliarsi. Non riusciva a immaginare cosa potesse essere accaduto. Suleyman era agitato e stentava a riprendere il suo abituale controllo. Allora doveva proprio trattarsi di una brutta faccenda. Una faccenda sporca. Merda. «Va bene. Dove sei?» «In fondo a Fevzi Pasa, la trasversale verso il Kariye. Vedrà le automobili e gli uomini che ho messo di guardia davanti all'ingresso dello stabile. Pianoterra.» «Testimoni?» «La donna che ha scoperto il cadavere, un'altra vicina; ma è ancora sotto shock, signore.» «Va bene, arrivo.» «Mi dispiace averla svegliata, signore...» La voce di Suleyman si spezzò come rotta da un singhiozzo. «Credo che farà bene a portarsi...» «Non lavoro mai senza, Suleyman, lo sai.» «Certo, signore. Ci vediamo...» «Farò più in fretta che posso.» Dopo aver riappeso, Çetin spense la sigaretta in uno dei numerosi porta-
cenere che aveva intorno. Si stropicciò il viso con la mano, e alzandosi pesantemente in piedi attraversò la stanza a passi malfermi fino all'interruttore. Al tocco del suo dito la stanza fu rischiarata dalla tremolante luce bianca e fredda del neon. I suoi occhi erano arrossati per la stanchezza notturna, si sentiva come se gli avessero gettato della sabbia in faccia. Era in momenti come quelli che Çetin avrebbe desiderato fare un lavoro normale: impiegato di banca, tassista, albergatore... Tutto, tranne l'ispettore di polizia. Ma in fondo, a essere realistici, cos'altro avrebbe potuto fare? Dopo ventidue anni di servizio, il suo non era più un semplice lavoro. Come fumare o bere, era diventato un'abitudine, una droga, una parte essenziale di sé. Smettere avrebbe comportato dolorosi sintomi da astinenza. Andò in cucina stropicciandosi gli occhi. Passando davanti al lavello si vide riflesso nel piccolo specchio incrinato appeso sopra lo scolapiatti. Illuminata da dietro dall'impietoso neon del soggiorno, la sua faccia lo fissava mostrandogli le occhiaie, le rughe e le pieghe e, al posto delle guance, dei buchi da scheletro. Anche se il suo mestiere non si poteva certo definire noioso, non faceva bene all'aspetto fisico di una persona. Stress, orari disumani, lunghe riunioni in ambienti pieni di fumo, cadaveri... Aprì l'anta sotto il lavello e da una lunga fila di bottiglie identiche ne prese una ancora chiusa. Dai tempi delle sue lezioni di inglese al liceo ricordava che gli inglesi consideravano il cane il miglior amico dell'uomo. Ma Çetin non era della stessa idea. Il brandy, secondo lui, superava di gran lunga il cane. Lo aiutava a pensare, teneva impegnata l'ulcera, gli permetteva di far fronte all'aspetto meno umano del mestiere di poliziotto che si era scelto. L'assassinio. Come e perché ci era arrivato? Non si era mai abituato ai suoi sgradevoli annessi e connessi. Ma forse il motivo era proprio questo. Se ci si fosse abituato, avrebbe lasciato perdere. Posò la bottiglia sul tavolo della cucina e scrisse un appunto a Fatma sul retro di una busta. Non sarebbe stata contenta. Lei non si era mai abituata né al lavoro di suo marito né al fatto che bevesse. Pensò alle sue guance paffute, al suo viso arrabbiato, alla sua mano tozza che scaraventava il suo appunto a terra dopo averlo accartocciato. Non era giusto. Una pia moglie e madre musulmana legata per l'eternità a un poliziotto ubriacone perennemente assente. Ma non era tutto da buttare. Çetin riprese in mano la bottiglia di liquore e sorrise. C'erano otto piccoli Ikmen, almeno fino a quel momento, e un altro in arrivo di lì a qualche settimana. Differenze filosofi-
che a parte, era un buon matrimonio, caratterizzato da amore e passione. Dopo aver controllato che avesse in tasca sigarette, accendino e chiavi della macchina, si avviò verso la porta d'ingresso. Nel corridoio lungo e stretto si girò ad ascoltare i respiri lievi dei suoi figli che dormivano. Pensò con tristezza che sarebbe tornato a casa soltanto molte ore più tardi. Arrivato al terzo piano dello stabile trovò Suleyman ad aspettarlo in cima alle scale. Alto e magro, il suo viso appariva molto tirato alla fioca luce dell'unica lampadina che illuminava tutta la tromba delle scale. I suoi occhi sembravano ancora più grandi del solito, dilatati dallo shock e dalla stanchezza notturna. Accennò un sorriso quando Ikmen salì l'ultimo gradino raggiungendolo, ma lo sforzo ebbe come risultato solo un lieve movimento della bocca. «Qual è l'appartamento?» chiese ansimando. Cinquanta sigarette al giorno non lo aiutavano a salire agilmente le scale. Tolse la carta dalla bottiglia di brandy e la gettò per terra. «Quello in fondo, signore.» Suleyman indicò la terza porta in fondo al ballatoio. «Il dottor Sarkissian è ancora lì.» Ikmen stappò la bottiglia e trangugiò un lungo sorso a canna. Alla fine pulì l'estremità del collo con la manica e la offrì a Suleyman. Il suo vice scosse la testa. Ikmen sorrise. «Sei un bigotto!» Camminarono sul ballatoio in silenzio. I vicini, come quasi tutti gli altri inquilini dello stabile, erano svegli e attendevano con ansia nuovi sviluppi, raggruppati sulle porte, in pigiama. Quando raggiunsero il secondo appartamento, ne uscì un omino di mezz'età in veste da camera. Suleyman si girò verso il suo capo. «Ah, ispettore, questo è il signor Abraham, il vicino del morto.» Ikmen gli tese la mano. L'omino gliela strinse energicamente, chinandosi leggermente verso il suo braccio teso. «Signor Abraham,» continuò Suleyman, «le presento l'ispettore Ikmen. Forse è il caso che lei gli racconti ciò che ha raccontato a me.» «Certo.» Il piccolo ebreo sorrise mestamente. Guardando dentro casa di Abraham, Ikmen vide diverse paia di occhi che lo osservavano. Bambini, una miriade di bambini. Otto? Dieci? No, di più! Gli venne in mente casa sua, la comodità del suo divano, il nugolo di giocattoli nelle camere dei suoi figli. La stessa cosa, ma diversa. Negli occhi di questi bambini si leggeva squallore e fame, e dall'interno proveniva il tanfo dei troppi corpi sti-
pati in quello spazio angusto. «Era circa mezzanotte,» continuò il signor Abraham, con il forte accento tipico di chi non è abituato a fare lunghi discorsi in turco. «Dormivano tutti. Poi terribile urlo arrivato da appartamento di Meyer. Svegliato tutti. Rivka, mia moglie, terrorizzata. Detto me "va guardare" e io andato.» Fece una pausa, mentre il labbro inferiore cominciava a tremargli dalla paura, una grande paura che gli attraversò il viso fino a dilagare nei suoi occhi. Ikmen gli posò una mano sulla spalla. «Vada avanti, signor Abraham.» «La porta era aperta e per prima cosa io visto Leah Delmonte. Abita a pianoterra. Leah urlava, urlava come... come pazza! Vomitava anche. Io avvicinato e visto Leonid su letto, ispettore, ma no Leonid.» Il signor Abraham abbassò gli occhi a terra. «Come se qualcuno fatto lui a pezzi con coltello. Terribile. Sangue e anche puzza. Come carne. Leah urlava ma non guardava Leonid, cioè signor Meyer. Guardava muro. Perché su muro...» Preso da un tremito violento per l'orrore della sua recente esperienza, il signor Abraham scoppiò in lacrime. «Sul muro è disegnata una grande svastica, signore,» sussurrò Suleyman all'orecchio di Ikmen. «Sembra sia stata disegnata col sangue della vittima.» La notte era calda, ma Ikmen sentì improvvisamente un brivido di freddo lungo la schiena. Si girò di nuovo verso il piccolo ebreo in lacrime. «Grazie, signor Abraham. Dev'essere stato terribile.» Le sue parole suonavano banali in quella circostanza. «Lei ci è stato di grande aiuto.» I due poliziotti si allontanarono dal piccolo uomo in preda allo shock. Dal suo appartamento, una dozzina di colli si allungarono per vederli allontanarsi. «Lei lo prenderà, ispettore, vero?» Ikmen si girò. Abraham si era raddrizzato in tutta la sua altezza, ora, e il viso gli tremava dalla rabbia. «Farò tutto quello che posso, signor Abraham.» Con la sua mole, Avci sbarrava la porta dell'appartamento di Meyer, le braccia incrociate sul petto largo come una botte. Ikmen stentava a credere che quell'uomo gigantesco avesse solo ventun anni, meno del più giovane dei suoi figli. Anche se sveglio, Avci non pareva sfoggiare la sua abituale cordialità. «Salve, ispettore,» disse quando Ikmen e il suo vice gli furono vicino. I due uomini risposero con un cenno della testa e Avci si spostò leggermente
a sinistra per lasciarli passare. In quello stesso istante apparve dietro di lui un uomo basso e grasso con un paio di occhiali dalle lenti al quarzo. «Ciao, Çetin!» Il suo tono era vivace, quasi allegro. Abbassò lo sguardo sulla bottiglia che Ikmen teneva in mano rivolgendogli un largo sorriso. «Lieto di constatare che non hai cambiato le tue disgustose abitudini,» disse allungando una mano verso il brandy. «Posso?» Ikmen mise la bottiglia nel palmo sudato dell'uomo e si accese una sigaretta. «Ciao, dottore. Allora, cos'è successo?» Il dottor Arto Sarkissian stappò la bottiglia di Ikmen e bevve con soddisfazione un lungo sorso. «Meraviglioso!» Richiuse la bottiglia, si asciugò la bocca con la manica della camicia e restituì il brandy al legittimo proprietario. «È una faccenda terribile, Çetin,» continuò. «Terribile ma affascinante. In quindici anni non ho mai visto una cosa simile.» Si batté le mani grassocce sulle guance grassocce. «Vedrai tu stesso tra poco, ma giusto per fare il quadro...» Nell'aria c'era un odore terribile. Ikmen lo sentiva anche attraverso il fumo della sua sigaretta. Puzza di bruciato misto a sangue. «La vittima è stata colpita in testa, penso con un oggetto contundente. E con una tale forza da fracassargli ferocemente il cranio, facendo fuoriuscire pezzi di materia grigia. Dopo è stato usato l'acido.» «L'acido?» «Sì, solforico, direi. È stato versato prima sul corpo e poi, fatto interessante, nella gola della vittima. Forse era ancora vivo quando gli è stato fatto il lavoretto.» «Gliel'avevo detto che è una brutta faccenda, signore,» mormorò Suleyman mentre il dottore faceva la sua relazione. Avci si sventolò il viso paonazzo con la mano sinistra. Nel tentativo di scacciare quell'odore nauseante, pensò Ikmen. «E la svastica?» «Direi che sia stata tracciata col sangue della vittima.» Sarkissian incrociò le sue braccia robuste sul petto. «L'assassino ha usato un lenzuolo, uno straccio, qualcosa del genere. Dalle condizioni del corpo, dalla sua rigidità, direi che la morte risale alle quattro o alle cinque, forse anche le cinque e mezza di ieri pomeriggio. Vieni a vedere.» Suleyman esitò vistosamente all'invito. Guardò il dottore sorridendo debolmente. «Dottor Sarkissian, se non le dispiace...» Il medico scoppiò in una rumorosa risata e si picchiò il pugno chiuso nel palmo della mano. «No, non lei, Suleyman, lo so che lei l'ha già visto,»
disse. «Vieni, Çetin.» Si voltò e si affrettò di nuovo nell'appartamento. Dopo essersi scolato un ultimo sorso dalla sua bottiglia, Ikmen impartì gli ordini al suo vice. «Mentre io sono qui, tu occupati d'altro, Suleyman. Innanzitutto voglio un assoluto silenzio stampa per quanto riguarda acido e svastica, intesi? Non è il caso di scatenare il panico o far venire strane idee a questa stramba minoranza cittadina. Questo significa mettere a tacere i vicini e tutto il resto. Non fornire dettagli a nessuno, hai capito?» «Sì, signore.» «E a proposito dei vicini, di questo stabile e dall'altra parte della strada, voglio che i nostri uomini vadano a parlarci. Di ognuno di loro, voglio sapere dov'era e cosa stava facendo all'ora del delitto. Voglio sapere se hanno visto o sentito qualcosa, se hanno visto qualcuno di strano aggirarsi qui intorno. E voglio conoscere i precedenti. Qualsiasi cosa sappiano di Meyer.» «Sì, signore.» Suleyman si voltò e prese a scendere le scale. La svastica era più grande di quanto immaginasse. Davvero enorme. Dominava il minuscolo e sudicio appartamento facendolo assomigliare ancora di più a una cella o a una di quelle stanze delle baracche di quei terribili campi di concentramento che si vedevano nei vecchi documentari sulla Seconda guerra mondiale. «Terrificante, vero?» disse Sarkissian con voce stridula, sollevando un lenzuolo macchiato di sangue dal vecchio letto di ferro. «Ecco la vittima. Era a letto quando è stato aggredito.» Ikmen intuì che una volta doveva essere stato un essere umano. Aveva braccia, gambe, occhi, capelli. Ma dalla bocca all'inguine era come guardare la vetrina di una macelleria. Sangue, interiora, brandelli di carne, in alcuni punti addirittura ossa che sbucavano dalla carne maciullata. L'odore era insopportabile. E quegli occhi! Quanto orrore vi si leggeva! Era questo il motivo per cui Sarkissian aveva detto che probabilmente Meyer era ancora vivo quando gli avevano versato l'acido in gola? Non riuscendo a parlare, fece silenziosamente cenno al dottore di ricoprire il corpo. Aveva visto abbastanza. Mentre Sarkissian rimetteva il lenzuolo su Meyer, Ikmen cercò di riprendersi da quello spettacolo. Aveva la nausea. Non abbastanza da vomitare, ma stava male. Suleyman aveva ragione. Era impossibile descrivere a parole un'oscenità del genere. E la svastica... in un certo senso era una nota personale. Come a voler giustificare quell'atto.
«Il tuo uomo, quel Suleyman, è un vero professionista,» disse il dottore in tono leggero. «È arrivato qui con altri due. Giovani, più giovani di lui. Puoi immaginare la loro reazione. Persino il povero Suleyman ha ammesso di essersi sentito male. Ma ha resistito, li ha fatti uscire assegnando loro dei compiti all'esterno per cercare di distoglierli da quello spettacolo.» Ikmen ritrovò la voce. «Vorrei trovare anch'io qualcuno che mi distolga da questo spettacolo.» Si portò la bottiglia di brandy alle labbra con la mano che gli tremava. «Come dicevo,» continuò il dottore in tono improvvisamente greve, senza l'abituale leggerezza, «non ho mai visto niente di simile prima d'ora. È evidente che l'acido è stato usato come strumento di tortura. L'assassino non ne ha usato abbastanza da confondere o cancellare l'identità della vittima. Non oso immaginare l'agonia di questo povero vecchio prima di morire.» Ikmen ripulì l'imboccatura della bottiglia con la manica e la passò al dottore in silenzio. Ora doveva fare molta attenzione. Le apparenze, come gli aveva insegnato la sua lunga esperienza, potevano ingannare. Alzò di nuovo lo sguardo sulla svastica. Meyer era, o meglio, era stato, un ebreo. Un assassino razzista, almeno così sembrava. Finché non fosse stato in possesso di maggiori informazioni. Ma per il momento era l'unica traccia da seguire. Era terrificante! Così sfacciata! Difficile credere che persino loro - i nazisti, i seguaci di Hitler o altro - potessero essere così spietati. Sapeva che esistevano persone del genere. Ma adesso, a distanza di tanto tempo? A meno che non si fosse trattato di un folle, un malato di mente che agiva da solo uccidendo per il solo gusto di farlo. «Pensi che si tratti di antisemitismo, Arto?» «Così sembrerebbe. Visto come va oggi il mondo, non mi stupirei. L'odio fa parte della razza umana, pensavo lo sapessi.» «Qui?» «Perché no? Succede in tutta l'Europa, Çetin. In Germania, in Francia; in Italia hanno riesumato addirittura il mito di Mussolini. Il comunismo, il fascismo, sono ciclici; rossi per qualche anno, poi nazisti per qualche altro anno, poi di nuovo rossi. È per questo che nessuno di noi si dà alla politica.» «O alla religione.» «O alla religione. Siamo individualisti e gli individualisti non si uniscono. In questo modo non ci lasciamo risucchiare da ideologie che portano a cose come questa.» Con un cenno della testa indicò disgustato il corpo sul
letto. Ikmen sospirò. «Mi chiedo perché lui, perché proprio Meyer?» «Sta a te scoprirlo,» replicò il dottore restituendo la bottiglia al poliziotto, «a meno che tu non condivida il concetto che voi turchi chiamate kismet.» «Che fosse il suo destino? No, non lo credo. Non credo che una cosa così orribile potesse essere... prestabilita.» Fece una pausa. «Qual è il pensiero armeno a questo riguardo, Arto?» Il doppio mento del piccolo dottore tremolò alla sua risata. «Su cosa, sul kismet? Non mi risulta che abbiamo credenze del genere. Siamo armeni, considerati dei miscredenti, dei profani, non c'è mai stato tempo di fare filosofia. Troppa gente pronta a farci fuori, esattamente come gli ebrei. Si arraffano i gioielli della moglie sperando per il meglio e si scappa come inseguiti dal diavolo!» Dopo aver gettato un'altra occhiata ai resti di Leonid Meyer ricoperti dal lenzuolo, Ikmen posò delicatamente una mano sulla spalla del dottore. La leggerezza, anche del tipo che usava Arto con le sue migliori intenzioni, sarebbe stata fuori posto in quel momento. Sarebbe stato come mettersi a fischiettare in un cimitero. «Andiamo, Arto, usciamo di qui.» «Va bene.» Il dottore si tirò giù le maniche e prese la sua borsa dalla sedia sgangherata accanto al letto. «Sta arrivando il furgone con la cassa. Se dovesse farsi vivo qualche parente, digli che devo fare altri rilievi prima di consegnare loro il corpo. Sarà un lavoro lungo.» I due uomini si avviarono alla porta. «Che ne è della donna che ha scoperto il cadavere?» «Leah Delmonte? L'ho fatta ricoverare in ospedale. Era in stato di shock. Lascia passare almeno dodici ore prima di interrogarla, Çetin. E quando lo farai, vacci piano, okay? Quando vedi che non ce la fa più, fermati.» «D'accordo.» Sarkissian aveva quasi gli occhi lucidi. «Sai, è una vecchia prostituta. Ce ne sono un mucchio da queste parti. È questo uno degli aspetti della miseria, no? La degradazione del proprio io.» Ikmen si chiedeva spesso cosa ci fosse dietro lo sguardo allegro del suo vecchio amico d'infanzia in momenti come quello. Era sempre divertente, spensierato, irriverente. L'ispettore sapeva che era solo il modo di Sarkissian di affrontare la vita. Il suo brio non era che una corazza a protezione del cuore tenero che vi batteva dietro. «Andiamo, Arto,» disse. «Stai diventando sentimentale.» Uscì a grandi passi dalla stanza e si fermò sulla
porta per parlare brevemente con Avci. «Tutto bene, agente?» «Sì, signore.» «Bravo.» Gli diede un buffetto affettuoso sulla guancia. «Procediamo a rilevare le impronte, ora. Scendo e mando su il medico legale. Dà una mano ai ragazzi se hanno bisogno e cerca di tenere lontano i vicini, okay?» «Sì, signore.» Ikmen si girò verso Sarkissian. «Sei pronto, Arto?» Si avviarono lungo il ballatoio verso le scale. Gli Abraham si erano ritirati di nuovo dentro casa, ma si sentivano ancora. Il padre che piagnucolava, i bambini che frignavano senza riuscire ad addormentarsi, in cerca di uno spazio sul pavimento sul quale far riposare i loro corpicini malnutriti. Ikmen sospirò profondamente. Che speranza c'era per quella gente? I due uomini scesero le scale. «Ti farò avere il mio rapporto al più presto, Çetin.» «Bene.» Ikmen si accese una sigaretta. «Come sta Maryam?» Un'ombra impercettibile oscurò il viso dell'armeno. «Come al solito. E Fatma?» «Incredibilmente grossa.» Sarkissian sorrise. «E come sta Timür? Sempre a combattere Allah?» Ikmen si mise a ridere. La sua risata riecheggiò per la tetra tromba delle scale. «Oh sì. Alcune cose, e mio padre è una di queste, non cambiano mai.» «Alla sua morte o gli prenderà un colpo, oppure resterà incredibilmente soddisfatto di sé per l'eternità.» «Penso sia più probabile la seconda ipotesi, che dici?» Sarkissian emise un grugnito di approvazione. Arrivati in fondo alle scale uscirono in strada, nel rumore e nelle luci che sempre si trovavano intorno alle auto della polizia. Sarkissian tese la mano a Ikmen, sorridendogli. «Vado all'obitorio, adesso. Voglio che tutto sia pronto quando porteranno il cadavere.» Ikmen gliela strinse ricambiando il sorriso. «Ci vediamo più tardi, Arto.» Suleyman tornò mentre Sarkissian si allontanava. Sembrava soddisfatto di sé. Ikmen chiamò a voce alta un uomo grande e grosso dall'aria burbera appoggiato contro il muro dello stabile. «Demir!» L'uomo si raddrizzò subito sull'attenti. «Sì, signore.» «Tu e i tuoi uomini potete salire, ora. Il dottore e io abbiamo finito.»
«Va bene.» «Ah... Demir?» «Sì, signore?» «Il solito. Qualsiasi cosa di interessante, documenti, tutto, alla Centrale.» «Va bene, signore.» Suleyman, piantato davanti al suo capo, stava aspettando pazientemente il suo turno. Aveva delle novità. «Allora, Suleyman, che c'è di nuovo?» «Una donna dall'altra parte della strada, signore. Una certa signora...» Consultò la sua agendina. «Yahya. Ha detto di aver visto un uomo, uno straniero, gironzolare qui verso le quattro, quattro e mezzo di ieri pomeriggio.» «Ha fornito una descrizione?» Suleyman sorrise. «Sì, alquanto precisa, signore. Alto, circa come me, biondo, carnagione chiara. Potrebbe essere dell'Europa occidentale o scandinavo. Sembrava stesse fumando una sigaretta, fermo per la strada.» Ikmen gettò il suo mozzicone di sigaretta per terra e lo schiacciò con il piede. «Ottimo, Suleyman. Potrebbe non significare niente, in ogni modo verbalizza.» Alzò gli occhi e guardò dall'altra parte della strada verso la mole scura e silenziosa del museo bizantino di Kariye. Ripensò all'ultima volta che lo aveva visitato. Meravigliosi mosaici del tredicesimo secolo; la Nascita di Cristo, la Morte della Vergine Maria; pitture sacre che brillavano alla luce fioca di un autunno avanzato. Fuori, Fatma, troppo pia per entrare; i bambini che correvano da tutte le parti disturbando i turisti. Centinaia di turisti stranieri, ricordava, nonostante fosse ottobre. Suleyman non si era mosso. Stava guardando Ikmen. «So cosa sta pensando, signore, ma è da escludere.» «Cosa?» «Il Kariye era chiuso. È chiuso da settimane, signore. Per manutenzione straordinaria.» «Ikmen sospirò.» Hai idea del perché uno straniero dovrebbe venire qui se il museo è chiuso? Suleyman si guardò intorno con evidente disgusto. «Nessuna idea, signore.» Si voltò e si diresse nuovamente verso lo stabile di fronte. Ikmen ingoiò un lungo sorso dalla sua bottiglia e guardò i due robusti inservienti attraversare la strada con un grosso sacco blu e salire le scale. Cominciava a sentirsi stanco. Si appoggiò al fianco di un'auto di servizio e
chiuse gli occhi per qualche istante, ma gli tornò in mente la faccia ustionata e straziata di Meyer e li riaprì immediatamente. «Signore?» disse un tipo basso di carnagione scura con indosso un'uniforme blu che un tempo doveva essergli calzata a pennello ma che ora gli pendeva floscia sul corpo scarno. «Sì, Cohen, che c'è?» «Ho sentito senza volerlo la sua conversazione con il sergente Suleyman, signore...» «Dunque?» Cohen si strinse nelle spalle. «Volevo dirle che conosco questa zona. Sono nato qui e un mio zio ci abita ancora. Pensavo che potrebbe interessarle sapere che ci sono degli europei che lavorano qui, signore. In una strada vicina, ad Ayvansaray. La Scuola di lingue Londra. Insegnano inglese, francese, roba del genere. Da anni.» Ikmen si morse le labbra soprappensiero. «Mmm...» «È una possibilità, visto che il museo è chiuso. Non c'è altra ragione perché degli uomini alti e biondi debbano venire qui. Voglio dire, persino le prostitute sono un po'...» Ikmen sorrise. «Sì. Grazie, Cohen, mi hai dato un'informazione molto utile. Sai dove sia questa scuola?» «Sì, signore, posso accompagnarla, se vuole.» Ikmen mandò giù un altro sorso di brandy e si accese un'altra sigaretta. «Magari domani, se non ci sono novità più importanti. Vediamo cosa ricaverà il sergente Suleyman dalla sua Yahya, vediamo se qualcun altro ha visto quell'uomo. Potrebbe anche essere stato un turista che tornava indietro dal museo chiuso.» Ikmen fece segno all'agente di tornare alla sua attività. Robert Cornelius detestava cominciare le lezioni in tarda mattinata. La sua prima ora era alle undici, due ore più tardi del solito. Odiava i martedì: non c'era modo di riempire quelle due ore a inizio giornata. Tuttavia si rendeva conto di essere particolarmente irascibile, quel giorno. Gli eventi del pomeriggio precedente lo avevano messo in agitazione. Un'intera notte a interrogare i suoi sensi e la sua memoria non l'aveva portato ad alcuna convinzione. Chi aveva visto a Balat? Aveva visto Natalia. Aveva visto il suo viso. E questo era il problema. Se aveva visto il suo viso, allora perché lei non lo aveva riconosciuto? Come mai quel breve contatto l'aveva così spaventato? Perché era scappata? Oh, sapeva essere te-
starda, anche crudele, a volte. Ma era il suo modo di fare, il suo fascino, anche. Non gli piacevano le donne così? Ma certo! Sospirò profondamente, e dopo essersi accomodato su una delle sedie di plastica del balcone cominciò a sorseggiare il caffè. Continuare a scervellarsi e a interrogarsi non aveva senso. Doveva chiedere a Natalia cosa ci facesse a Balat, oppure decidere di non farlo. E sapeva già che avrebbe optato per la seconda soluzione. La tranquillità del non sapere. Solo che sarebbe stato tutt'altro che tranquillo; si sarebbe preoccupato, avrebbe lavorato di fantasia, l'avrebbe guardata con gli occhi della gelosia, del sospetto. Non è facile essere innamorati. All'inizio di ogni relazione c'è una grande incertezza, molta tensione. Starà pensando a me? Telefonerà? L'attrazione è reciproca o lei mi considera solo un passatempo? Purtroppo, man mano che la relazione procede, i problemi non spariscono. Assumono forme nuove e, se non si fa attenzione, ancora più distruttive. La confidenza genera spesso il sospetto. Robert frequentava Natalia da oltre un anno. Per sette anni sua allieva, straordinariamente bella con le sue labbra piene, lo aveva affascinato fin dal primo incontro. Lui stava comprando un bracciale per sua madre, al bazar dell'oro. Natalia era l'aiutante e l'interprete del commerciante. Oltre al turco parlava altre due lingue; intelligente, oltre che bella. Gli era stata molto utile in quell'occasione, dato che a quel tempo la sua conoscenza del turco lasciava ancora molto a desiderare. Lo aveva convinto ad acquistare un gioiello tanto bello quanto caro e poi si era infilata nel suo letto. Lui non aveva mai fatto sesso in quel modo. Era cotto. Con suo sommo stupore, la sensuale creatura volle continuare la loro relazione. Alle sue condizioni, ma a lui non importava. Era comunque una sorta di intimità. In un certo senso, era confortante. Col passare dei mesi, il piacere dei sensi si era trasformato in amore e, per dimostraglielo, lui la inondava di regali. Ma il suo amore non era un osservatore attento. Nell'arco di un anno aveva saputo poco di Natalia. La sua famiglia, la sua storia, persino dove abitasse, rimanevano misteri. Mentre lui parlava senza problemi dei suoi amici, dei suoi genitori, di suo fratello, le faccende personali di lei restavano un libro chiuso. Robert doveva accontentarsi di vaghi accenni. Alcuni suoi parenti erano russi, da lì il suo nome di battesimo, ma non era riuscito a cavarle altro. E non aveva insistito. Non aveva insistito nemmeno sulla frequenza dei loro incontri. Almeno erano regolari. Uno durante il fine settimana e un altro il giovedì pomeriggio, quando tutti e due lavoravano mezza giornata. Robert avrebbe voluto
di più, fin dall'inizio, ma Natalia no; durante la settimana, lei aveva sempre un mucchio di altre cose, non meglio definite, da fare. Per questo il suo tempo libero Robert lo passava quasi sempre da solo, in preda al nervosismo e al sospetto. E a peggiorare le cose, si aggiungeva il fatto che doveva subire in silenzio. Natalia aveva un temperamento dominante, impassibile, molto simile a quello della sua ex moglie. Lui sentiva che sarebbe stata capace di uscire dalla sua vita senza pensarci due volte, se si fosse sentita in qualche modo impedita. Non era un rapporto felice, ma quando mai erano stati felici i suoi rapporti? Qualche volta Robert aveva pensato di lasciarla, ma poi facevano sesso e capiva che non sarebbe più riuscito a vivere senza di lei. Posò la tazzina vuota per terra accanto alla sedia e si accese una sigaretta. Gli era balenato in mente che forse Natalia e la sua famiglia abitavano a Balat, anche se era assurdo. Era un quartiere di poveri ebrei, e Natalia non era né l'una né l'altra cosa. Si agghindava in un modo che lui trovava quasi volgare, vestendosi come la moglie di un arricchito, con uno o due crocifissi sempre appesi alle lunghe catene d'oro che portava al collo. A meno che non fosse sposata, naturalmente. Con uno sforzo sovrumano, Robert si impose di smetterla con quelle elucubrazioni. Il matrimonio non c'entrava. Non poteva essere il fatto di essere sposata la ragione del suo comportamento, se non altro perché lui rifiutava di crederlo. C'era un limite persino alla sua paranoia e alla sua irritazione, almeno apparentemente. Gettò un'occhiata all'orologio e decise che era ora di muoversi. Aveva da fare, ora; un lavoro ingrato e inutile, ma comunque remunerativo. Per il momento doveva accantonare il pensiero di Natalia. Avrebbe ricominciato a tormentarsi al termine delle lezioni, alle cinque e mezza, una volta libero dagli obblighi impostigli da studenti disinteressati, presidi ambiziosi e colleghi demoralizzati. In strada, Robert riprese la sua solita routine giornaliera. Mentre si recava alla fermata dell'autobus di Besiktas Iskele comprò il giornale dall'uomo davanti alla drogheria e diede un'occhiata alle prime due pagine. Era orgoglioso di come fosse riuscito, in due anni, a impadronirsi della lingua turca con i suoi infiniti suffissi e prefissi, per non parlare dell'incubo dell'armonia vocalica. Non era stato facile, ma Robert aveva perseverato. Gli dava fastidio sentirsi il più delle volte una specie di sordomuto. Certo, poiché non aveva amici da frequentare e vedeva Natalia solo due volte alla settimana, di tempo per studiare ne aveva avuto parecchio. Tuttavia lo con-
siderava lo stesso un successo. Un trafiletto in fondo alla pagina attirò la sua attenzione. Il pezzo era intitolato Balat, ed era ovvio che lo notasse, visti gli ultimi eventi. Ma non parlava di Natalia. Perché avrebbe dovuto? Un uomo era stato ucciso in uno dei condomini più squallidi del quartiere. Non diceva molto, se non che la polizia stava indagando. Richiuse il giornale, lo piegò a metà e riprese il cammino verso la fermata dell'autobus. L'aria era calda e polverosa. In bocca e sulle labbra il sapore acre dell'inquinamento. Arrivato alla Scuola di lingue Londra, Robert notò un certo subbuglio. Per prima cosa vide l'auto della polizia parcheggiata davanti all'ingresso. Sui sedili anteriori, due agenti dall'aspetto alquanto torvo fumavano senza curarsi di rispondere al continuo gracchiare della radio. Lui proseguì verso la sua aula sotto lo sguardo indifferente dei due. Tipico della polizia!, pensò, entrando nell'atrio. Fu allora che vide gli studenti. Sembravano centinaia. Appoggiati ai muri, sdraiati per terra, intenti a mangiare, fumare e a parlare ad alta voce. Perché diavolo non erano nelle loro aule? «Robert!» Una bella donna sui cinquant'anni gli corse incontro dalle toilette agitando la mano. «Rosemary, che succede?» Quando lo raggiunse aveva il fiato corto. Era più bassa di lui di trenta centimetri buoni. Allungò il collo per guardarsi meglio intorno e quando gli sorrise il viso le si fece rugoso, accentuando le borse che aveva agli occhi. «Abbiamo la polizia in casa, Robert.» «Sì, ho visto l'automobile. Come mai?» Lo prese per un braccio e lo condusse con fare cospiratorio lontano dagli studenti. «Stanno interrogando il corpo insegnante sui nostri movimenti di ieri. Non so se l'hai visto, ma sul giornale di oggi c'è un articolo su un delitto avvenuto a Balat. Ha a che fare con quello.» «E noi che c'entriamo?» Rosemary si strinse nelle spalle. «Non lo so. Vogliono interrogare solo il personale maschile. Si sono accampati nell'ufficio del preside. Hanno già interrogato Colin e credo che ora sia dentro Lindsay.» «Hanno intenzione di interrogare solo gli inglesi o tutti?» «Tutti, credo.» Rifletté per qualche istante. Rosemary era sempre vaga anche nella migliore delle sue condizioni, ma sotto stress... «Di sicuro
hanno già parlato con Dieter. Con i turchi, non lo so.» Fece un cenno e indicò gli studenti. «Non credi che qualcuno dovrebbe fargli lezione, Rosemary?» Sentì un paio di dita dargli un leggero colpetto sulla spalla sinistra. Robert sussultò al loro tocco. Si girò di scatto e si trovò davanti il viso grassoccio dall'aria compiaciuta del signor Edib, il preside della scuola. «Buongiorno, Robert!» esclamò cordialmente da dietro i suoi baffi. «Buongiorno, signor Edib!» replicò Robert. «Le ha detto, la signora Hillman,» disse indicando Rosemary con un gesto della sua mano curata, «che abbiamo ospiti?» «Sì, signor preside, so che c'è la polizia.» «Bene, Robert. Solo qualche domanda, tutto qui. L'ispettore è nel mio ufficio. Vuole vederla subito.» «Subito? Ma sono appena arrivato!» Il preside si strinse nelle spalle. «Lei è il prossimo sulla lista. Mi hanno mandato a chiamarla.» Sospirando, Robert si chinò a raccogliere la sua cartella e si avviò verso lo scalone che portava al piano superiore. Era il poliziotto più bizzarro che Robert avesse mai visto, almeno fisicamente. Scarmigliato, con gli occhi arrossati, puzzolente di alcol e fumo, sembrava uscito da un romanzo giallo, un profugo degli anni '50. Talmente magro da essere quasi emaciato, continuava ad agitarsi sulla sedia come se cercasse disperatamente la posizione più comoda. Tra un sorso e l'altro, che tracannava dal bottiglione di brandy che svettava sul tavolo, si massaggiava lo stomaco con la mano sinistra come per alleviare un dolore. Robert avrebbe scommesso che soffriva di un'ulcera grossa come un pompelmo. Quando Robert entrò il poliziotto gli sorrise, ma non si alzò. Con una mano dalle dita ingiallite dalla nicotina indicò all'inglese dove sedersi. Robert si sedette. Il poliziotto si accese una lunga sigaretta marrone e si schiarì la voce. Davanti a lui, sulla scrivania del preside, era spiegata una grande mappa del quartiere di Balat sulla quale troneggiava la bottiglia che, come notò Robert, era piena solo per metà. Il poliziotto diede un'occhiata al foglietto di carta stropicciato che teneva nella mano destra. «Il signor Robert Cornelius?» La sua voce era profonda, incredibilmente sobria e colta. Robert non poté fare a meno di chiedersi se quell'uomo fosse un ventriloquo. Incredibile
come una voce così, che poteva essere quella del presidente della Turchia, potesse appartenere a un essere che pareva più uno scaricatore di porto avvinazzato. «Sì, sono Robert Cornelius.» Il viso del poliziotto si allargò in un sorriso sorprendentemente luminoso. «Buongiorno,» disse. «Sono l'ispettore Ikmen del dipartimento di polizia di Istanbul. Le chiedo scusa per il tempo che le ruberò, ma ieri è stato commesso un orrendo delitto qui vicino e devo rivolgerle qualche domanda. Semplice routine, non si preoccupi.» Il suo inglese era perfetto. Al punto che dopo un po' Robert scoprì che la cosa lo irritava. Aveva la fastidiosa sensazione di sentirsi superato ed eclissato, come quella volta che il suo migliore amico e compagno di scuola aveva vinto il premio come migliore alunno dell'anno scolastico. Si era congratulato con lui, ma quello che avrebbe voluto fargli era qualcosa di molto più primitivo e violento. Il poliziotto si agitò sulla sedia e si diede un altro colpetto sullo stomaco. Bevve un altro lungo sorso dalla bottiglia e la ripose rumorosamente sulla mappa. «Ora,» disse rinfrancato dall'alcol, «le spiego alcune cose. Ieri è stato commesso un omicidio a Balat, il quartiere adiacente ad Ayvansaray. La vittima era un vecchio di nome Leonid Meyer. È stato un delitto efferato.» Si stropicciò gli occhi con le dita con una tale forza che sembrava volesse conficcarseli nella testa. «La vittima è stata ripetutamente colpita alla testa con un oggetto contundente. Dobbiamo catturare l'assassino al più presto possibile.» «Certo.» «Il medico legale ha stabilito l'ora del decesso tra le quattro e le cinque e mezza di ieri pomeriggio. Tra poco le mostrerò dove è accaduto. Intanto è mia intenzione spiegarle perché abbiamo fatto irruzione nella sua vita e in quella dei suoi colleghi.» Spense la sigaretta nel portacenere di vetro blu del preside e se ne accese subito un'altra. Con un sorriso cordiale porse il pacchetto a Robert per offrirgliene una, ma quest'ultimo rifiutò. Nonostante fosse come lui un accanito fumatore, Robert cominciava a trovare quel piccolo ufficio troppo fumoso per riuscire a respirare. Come tutti gli uffici amministrativi che gli era capitato di visitare. «Non abbiamo testimoni.» Una mano avvolta in una nuvola di fumo fece un ampio gesto in aria. «Ma una donna della casa di fronte ricorda di aver
visto verso le quattro e mezza un bell'uomo alto di carnagione chiara davanti alla casa della vittima, qui.» Si chinò sulla mappa indicando un incrocio tra due strade che Robert conosceva bene. Il ricordo della vista di Natalia gli tornò in mente turbandolo ancora di più. C'era solo un condominio in quell'angolo, ed era quello dal quale l'aveva vista uscire. Sentì il sangue defluirgli dal viso, e i capelli gli si raddrizzarono in testa. «Ora, il museo Kariye era chiuso, ieri. Perciò non c'era la solita fiumana di turisti. Come saprà, a parte il museo, il quartiere non ha molte altre attrattive turistiche. Poiché questa scuola è l'unica altra spiegazione al considerevole numero di stranieri in questa zona, è stata una conseguenza logica...» «Ero io.» Il suo tono era deciso, ma i suoi occhi continuavano a muoversi nervosamente. Era saltato fuori subito. La cosa l'aveva colto di sorpresa. «Prego?» Robert accennò un sorriso. Il piccolo uomo si protese verso di lui. «Ero io,» ripeté. «Ieri pomeriggio mi sono fermato a quell'angolo. Faccio quella strada quasi tutti i pomeriggi, per tornare a casa. Ricordo di essermi fermato lì alle quattro e un quarto, quattro e mezza. Faceva un gran caldo, per questo mi sono fermato, per riposarmi un attimo. Mi sono fumato una sigaretta.» Fatto. La sua voce aveva tremato leggermente mentre parlava, anche se senza motivo, ma aveva parlato. Perché non avrebbe dovuto? Non aveva fatto niente di male, non aveva niente da nascondere. L'ispettore prese un taccuino dalla tasca del suo impermeabile e cominciò a scrivere. «Quanto tempo è rimasto lì fermo, signore?» «Circa cinque minuti. Il tempo di riprendere fiato fumando una sigaretta.» Il piccolo uomo prendeva furiosamente appunti. «Ha visto o sentito qualcosa, mentre se ne stava lì fermo?» Robert rifletté. Cosa aveva visto? Una vecchietta davanti a un portone e poi... era un dilemma. Suonava ridicolo e stupidamente complicato persino per lui. C'erano troppi "forse". Forse era Natalia. Forse stava scappando da quella casa per qualche ragione. Forse aveva visto qualcosa, forse aveva fatto... forse? Il suo cuore sobbalzò. Forse no. Non aveva modo di saperlo. Non poteva giudicare. Non voleva sapere. Solo la verità! I valori di onestà e civiltà che gli avevano inculcato da ragazzo stavano per esplodergli dentro. Si rendeva conto che la pausa che stava facendo era un po' troppo lun-
ga, ma doveva prendere una decisione. Non sapeva cosa avrebbe comportato una dettagliata esposizione dei fatti, sapeva solo che gli avrebbe procurato ansia. «Allora, signor Cornelius?» Gli occhi annebbiati dall'alcol di Ikmen lo fissarono come due fari. Quando finalmente parlò, Robert si accorse di non faticare a mentire. «Ho solo visto una vecchia davanti a un portone.» Fece una risatina nervosa. «Se conosce Balat, ispettore, saprà che è abitato da gente timida e riservata.» «Ne è sicuro?» Gli occhi dell'ispettore scrutarono di nuovo i suoi. Robert ebbe un attimo di esitazione che gli si lesse in faccia, come lui stesso intuì. «Ne sono sicuro,» rispose con voce grave, abbandonando il tono leggero di poco prima. Il poliziotto sorrise. «Bene. Almeno un mistero è chiarito. Grazie per essere stato così franco e aperto, signor Cornelius.» Dopo aver sospinto verso Robert un taccuino e una penna mezza masticata bevve un altro lungo sorso di brandy. «Magari se me lo mette per iscritto, indicando il suo nome e indirizzo...» «A mo' di deposizione?» «Sì. Solo qualche riga per spiegare i fatti. Solo per i nostri atti, signor Cornelius. Non credo che avremo più bisogno di lei.» Sembrava una cosa abbastanza innocente mettere per iscritto una mezza verità. Robert prese la penna e cominciò a scrivere. Il poliziotto sbuffò nella sua direzione un'altra boccata di fumo dall'odore stantio e acre. Ma era meno amara della sensazione che provava Robert alla bocca dello stomaco nell'aver omesso su carta il suo incontro con Natalia. Firmò, scrisse la data in calce al suo nome e passò il foglio al poliziotto che, dopo averlo letto, ripose il taccuino sulla scrivania con un sorriso. «Lei scrive in turco, signor Cornelius!» osservò stupito. «Ci provo,» disse Robert, «anche se il mio turco non è certo alla stessa altezza del suo inglese.» L'ispettore gettò indietro la testa scoppiando in una sonora risata. Il risultato fu un suono da tubercolotico. «Quanto pagherei perché l'avesse sentita mio padre, signor Cornelius! Oh sì, si sarebbe divertito un mondo!» Robert non riuscì a trovare una risposta. Desiderava unicamente uscire al più presto da quella stanza. Solo dopo sarebbe riuscito a mettere una pietra sopra quello che aveva appena fatto. Robert si protese in avanti. «Posso andare, ispettore?»
«Oh, scusi.» Smise di ridere e si asciugò gli occhi con la manica del suo impermeabile. «Certo, vada pure. Mi scusi, signor Cornelius. Sono stato sveglio quasi tutta la notte per lavorare a questo caso.» Robert si alzò dalla sedia e si chinò leggermente sulla scrivania per tendere la mano al poliziotto. «Bene. Arrivederci, ispettore.» Si strinsero la mano. La piccola mano del turco, osservò Robert, era come il resto del suo corpo. Asciutta, calda e sporca. «Arrivederci, signor Cornelius, e grazie. Se dovessimo aver bisogno di lei, la chiameremo.» Robert ebbe un sussulto che non sfuggì al poliziotto. «Ma non credo.» L'espressione dell'inglese si rilassò mentre si dirigeva verso la porta. Era libero. Ora poteva dimenticare. Dopo che Robert ebbe richiuso la porta dietro di sé, il sorriso del poliziotto svanì mentre abbassava lo sguardo sulla deposizione scritta. La sua espressione non tradiva il suo pensiero su quel documento, ma c'era una certa inquietudine nell'aria densa di fumo intorno a lui. CAPITOLO III Il sergente Suleyman abbassò lo sguardo sulla misera raccolta di carte, libri e documenti sul tavolo e sospirò. Ogni pezzo era stato singolarmente riposto in una bustina di plastica ed etichettato a mano con cura. Non era molto per un'intera vita. Un passaporto, qualche fotografia, qualche fattura, libri di varie dimensioni. Ahmet Demir entrò in ufficio e piazzò un'altra bustina sul tavolo. «È tutto?» chiese Suleyman. «Più o meno, signore,» rispose Demir. «A parte dei pezzi di carta straccia, immondizia. Nient'altro.» «Bene.» «Quando torna l'ispettore?» «Non lo so. È alla scuola di lingue da stamattina, a interrogare il personale. Immagino che dipenda da come vanno le cose.» Suleyman si morse nervosamente il labbro inferiore. Era quasi mezzogiorno, e Ikmen lavorava senza sosta da parecchie ore. Doveva essere sicuramente stanco; stanco e nervoso. Alla scuola si stava dimostrando senza dubbio molto professionale. Ma quando fosse tornato in Centrale... «Com'è andata al museo, signore?» chiese Demir interrompendo i pensieri di Suleyman.
«Niente di particolare. Verso l'ora di pranzo, due donne sono dovute tornare indietro. Fuori c'è appeso da diverse settimane il cartello "Chiuso". Balat non ha alcun interesse turistico quando il museo è chiuso.» Demir si strinse nelle spalle. «Allora vado a finire, signore.» «Ah, Demir...» «Sì, signore?» «Qualcosa di interessante sulle impronte?» Demir sbadigliò e si stropicciò gli occhi. Era distrutto. «No, purtroppo, solo quelle della vittima. Non c'è traccia che la porta sia stata forzata. Come se l'assassino avesse semplicemente aperto la porta e fatto quello che ha fatto, e dopo se ne fosse andato. Non credo che possa aver toccato qualcosa.» Sorrise debolmente. «Il vecchio viveva peggio di un maiale, signore. Vicino alla porta c'era persino del vomito.» Suleyman fece una smorfia. Dentro di sé, Demir ghignò al fastidio manifestato dall'uomo. Non aveva troppa simpatia per il giovane sergente di Ikmen, così bello e schizzinoso. Continuò con finta cordialità. «Il dottor Sarkissian vuole dare un'occhiata...» «Va bene, Demir!» Suleyman lo congedò con un gesto della mano. Ne aveva sentite abbastanza. Uscendo, Demir si richiuse la porta alle spalle. Infilandosi a fatica tra il tavolo dei reperti, piantato lì per l'occasione, Suleyman raggiunse la sua scrivania e si sedette. Per mancanza di spazio, Ikmen e Suleyman erano costretti a stare nello stesso ufficio. Per degli uomini impegnati in un lavoro come il loro, era un vero insulto. La piccola stanza ingombra e dall'aria perennemente viziata era dominata dall'enorme scrivania in mogano di Ikmen. Lavorava nella confusione più totale; su quell'incredibile pezzo di arredamento si ergevano montagne di carta, pratiche e portacenere. La scrivania di Suleyman, al contrario, era piccola, sgombra e funzionale. Con la sua figura alta, dominava quell'enorme spreco di legno davanti a lui. Le scartoffie di Suleyman stavano dove Allah comandava, nei cassetti e sugli scaffali al di sopra della sua testa. Loro due formavano una squadra insolita. Suleyman, giovane, scapolo, ordinato e tranquillo, sembrava incompatibile con Ikmen. Eppure, a differenza degli altri sergenti con cui l'ispettore aveva lavorato in precedenza, Suleyman gli piaceva. Ikmen poteva fidarsi di lui. Quell'uomo non aveva niente di subdolo, non giocava a fare il furbo o a fargli concorrenza. Non
era il tipo che cercasse di far passare il capo da stupido, che pareva l'idea fissa di quasi tutti i giovani sergenti della Centrale. Suleyman, da parte sua, sapeva di essere apprezzato e la cosa gli faceva piacere. Il suo stipendio era basso e le condizioni di lavoro spesso disumane, ma lavorare per Ikmen lo ripagava dei suoi sacrifici. Ikmen gli insegnava la vita, "la materia prima dell'omicidio", come soleva definirla. Gli elementi erano i più disparati. Persino una cosa semplice come il sesso poteva essere un elemento scatenante. Lavorando con Ikmen, Suleyman aveva imparato che la vita era molto più complicata, a dir poco, di quanto avesse pensato in origine. La porta dell'ufficio si aprì andando a sbattere contro l'angolo della scrivania del sergente. L'ingresso del visitatore nella stanza fu preceduto da una mano scarna, stretta intorno a una bottiglia, e da un pungente odore di fumo stantio. «Salve, ispettore.» Suleyman si alzò. Ikmen andò dritto verso il tavolo infilato tra le due scrivanie e vi posò sopra la bottiglia. Toccò delicatamente le bustine di plastica, una a una, osservandone attentamente il contenuto con gli occhi rossi e umidi. «Le cose di Meyer, presumo.» «Sì, signore.» Fatto cenno a Suleyman di rimettersi a sedere, Ikmen afferrò una manciata di bustine e prese posto alla sua monumentale scrivania, nascosto alla vista del suo collaboratore dalla montagna di pratiche impilate. «Alla scuola ho visto il nostro testimone, quello straniero alto,» disse con una voce dal tono impersonale. «Un inglese, un certo Cornelius. Ieri verso le quattro e mezza si è fermato a riposarsi e a fumare una sigaretta in quell'angolo. Ha detto di non aver visto né sentito niente, ma non mi convince.» «Perché, signore?» «Sembrava incerto, aveva lo sguardo nervoso. C'è qualcosa che non quadra in questo signor Cornelius. Non chiedermi perché.» Fece una pausa. «Ha esitato parecchio prima di decidersi a dire che non aveva visto né sentito niente.» «Forse stava riflettendo, ripassando mentalmente tutto per assicurarsi di non omettere alcun particolare che potesse esserci utile.» «Sei troppo fiducioso.» Ikmen sospirò profondamente. «Vieni qui, Suleyman. Aiutami a dare un'occhiata a questa roba.» Suleyman si alzò e appiattendosi per passare intorno al tavolo dei reperti, si diresse verso la zona "operativa" della scrivania di Ikmen.
«Un passaporto turco.» Ikmen sollevò un libretto verde verso la luce. Strizzando gli occhi al bagliore caldo e chiaro proveniente dall'esterno, emise un grugnito di impazienza. «Suleyman, vuoi chiudere quella finestra, per favore? Mi sto riempiendo di polvere e questo non mi aiuta.» La polvere che d'estate si levava dalla strada inondando la stanza era effettivamente sgradevole. Tuttavia Suleyman la preferiva di gran lunga al fumo delle sigarette di Ikmen. La finestra e il suo grado di apertura era fonte di continui battibecchi tra i due. «Ma signore!» «Chiudila, per favore. Nel caso tu dovessi morire di fumo passivo ti prometto che provvederò ai tuoi anziani genitori.» Suleyman si allungò dietro la schiena di Ikmen e sospinse l'infisso marcio della finestra perché si chiudesse. La polvere e la fuliggine già penetrate nella stanza si depositarono dappertutto non appena la leggera brezza che le faceva volteggiare si fu placata. Il fumo della sigaretta di Ikmen lo colpì in pieno viso. Con una smorfia tentò di sventolarlo via con la mano. «E questo cos'è?» fece Ikmen sollevando un libricino con la copertina di plastica. «Un'agendina.» Tirò fuori l'oggetto dalla bustina e cominciò a sfogliarne attentamente le pagine ingiallite. Suleyman abbassò la testa fino a sfiorare le spalle di Ikmen per vedere meglio. A prima vista l'agendina sembrava vuota. Davanti agli occhi dei poliziotti si susseguì una pagina bianca dopo l'altra. «Non esattamente un tipo socievole, vero, signore?» Ikmen ignorava per principio qualsiasi tentativo di spirito da parte dei suoi sergenti, perciò proseguì metodicamente il suo lavoro fino alla fine del volumetto. Quando arrivò all'ultima pagina, i suoi sforzi furono premiati. Suleyman aggrottò la fronte quando vide i quattro blocchi di caratteri neri e filiformi. «Che tipo di scrittura è?» Ikmen si avvicinò la pagina al viso. Lo sforzo nel tentativo di decifrare quei caratteri gli fece strabuzzare gli occhi. «Cirillico,» disse dopo qualche istante. Si grattò il mento irsuto con la mano. «O almeno credo.» «Cirillico?» Ikmen ruotò su se stesso per guardare in faccia Suleyman con aria severa. Qualsiasi cosa insegnasse lo stato a scuola, non arrivava evidentemente a fornire loro informazioni sufficienti.
«Il cirillico,» spiegò pazientemente, «è la scrittura usata da chi appartiene al gruppo etnico slavo. Russi, ucraini, bulgari...» «Ah.» «In effetti è logico. Secondo i vicini Meyer era un immigrato russo, no?» Tornò ad abbassare lo sguardo su quegli strani caratteri. «A proposito, Suleyman, cos'è successo al museo?» «Niente. Nessuno che abbia visto o sentito niente.» «Come il mio Cornelius. Hai contattato l'ospedale?» Distolse lo sguardo dall'agendina e guardò dentro il pacchetto di sigarette. Sbiancò di colpo. Poi alzò bruscamente la testa. «Oh no, ho finito le sigarette!» Fu uno scatto violento, ma al tempo stesso disperato. Un grido di aiuto. Suleyman decise di ignorarlo. Una piccola vendetta per la chiusura della finestra. «La signorina Delmonte è ancora troppo sotto shock per poterla interrogare, signore. Può parlarne con il dottore, se vuole, ma...» Ikmen non lo stava ascoltando. Era in piena crisi. Profonda. Gettò per terra il pacchetto di sigarette vuoto e si prese la testa tra le mani. L'eccesso d'ira che Suleyman aveva temuto prima, era in arrivo. Ikmen era esausto e una notizia come la mancanza di sigarette era quello che ci voleva per mandarlo fuori di testa. Il giovane sapeva che doveva stare molto attento. «Non riesco a concentrarmi, così!» Ikmen sollevò di nuovo la testa. «Vai a chiedere a Cohen qualche sigaretta,» ordinò in tono perentorio. Suleyman si avviò alla porta. Non si poteva andare avanti con Ikmen in astinenza da nicotina. «Ah, e già che ci sei, chiedi se c'è qualcuno che sappia leggere il cirillico. Anche se è improbabile, visto che la metà di loro hanno problemi anche col turco, ma chiediglielo lo stesso.» «Sì, signore.» Suleyman uscì chiudendosi la porta alle spalle. Ikmen diede un'altra occhiata all'agendina. Se il dipartimento era pieno di semianalfabeti, come lui aveva sempre sospettato, non era poi una cosa così grave. Conosceva un uomo in grado di decifrare senza problemi quasi tutti gli alfabeti più strani ed esotici. La crisi da sigaretta, invece, era tutta un'altra faccenda. Se non si fosse trovata subito una soluzione ci sarebbe stato un eccesso d'ira di proporzioni catastrofiche. Era senza nicotina da oltre cinque minuti. La legge di Ikmen stabiliva che il tempo massimo tra una sigaretta e l'altra non doveva superare i tre minuti, salvo che in caso di sonno o morte. Le sue dita si torcevano spasmodicamente in cerca di qualcosa di cancerogeno
da stringere. Il telefono sulla scrivania squillò. Ikmen frugò furiosamente tra l'ammasso di carte nel tentativo di localizzarlo. Penne, fogli, cenere e polvere volarono dappertutto. Ci mancò poco che non si rovesciasse addosso un portacenere colmo di mozziconi. Poi, con un sonoro tonfo, una pila di scartoffie piombò rumorosamente sul pavimento di linoleum riportando alla luce l'inopportuno aggeggio. Ikmen sollevò la cornetta aggrottando le ciglia. Le dita della mano sinistra gli facevano male. Sperava che Suleyman non tardasse troppo. Rispose al telefono. «Ikmen.» E ora cosa c'era? si chiese cupo. Il loquace silenzio all'altro capo del filo non lasciò dubbi sull'identità del chiamante. C'era solo una persona capace di farlo sudare per ottenere una risposta. «Ciao, Fatma,» grugnì. La voce della moglie era profonda, dolce e stanca, più che arrabbiata. «Una domanda, Çetin. Come pensi che riesca a far da mangiare per tutti con duecento lire?» Ikmen chiuse gli occhi per un istante digrignando nervosamente i denti. Che stupido! Avrebbe dovuto lasciarle un po' di soldi sul tavolo della cucina, ma non l'aveva fatto. Si tastò la tasca della giacca per assicurarsi che ci fosse, come al solito, il portafoglio e grugnì di nuovo. «Oh, no! Mi dispiace, Fatma. Mi hanno chiamato nel cuore della notte e nella fretta...» Lei rimase insolitamente calma. «Va bene. A pranzo abbiamo mangiato pane. E...» La sua voce si spezzò. Fatma aveva perso la sua battaglia contro la rabbia. La sua compostezza svanì di colpo. «Non ti disturbare a tornare a casa!» «Senti...» «Nel frigorifero non c'è neanche una patata! Però col brandy che abbiamo potremmo dissetare tutte le forze della NATO.» Suleyman rientrò in ufficio in quel momento e lanciò un pacchetto di sigarette pieno sulla scrivania di Ikmen. L'ispettore ci si avventò come una iena affamata. Riuscì persino a fare un debole sorriso. «...Con otto figli tu ti comporti ancora come se fossi scapolo...» La voce di Fatma si era fatta ancora più stridula. Ma Ikmen stava tornando alla ragione. Si scusò con lei. «Un attimo, Fatma.» Posò una mano sul ricevitore e si accese una sigaretta. «Grazie, Suleyman. C'è qualcuno che parla russo, di là?»
«No, signore.» Tolse la mano dal ricevitore e riprese a parlare con la moglie. Stavolta era più deciso, meno timoroso, come se il catrame e la nicotina l'avessero riempito di coraggio. «Mi dispiace, Fatma. Senti, ti mando subito uno dei miei con i soldi. Timür è lì?» «Purtroppo sì.» «Me lo passi?» «Come vuoi. Però mandami i soldi!» Lasciò cadere il ricevitore e sentì i suoi passi lenti e pesanti lungo il corridoio. Guardò Suleyman. «Ho qualcosa da farti fare.» «Cosa, signore?» Tirò fuori dalla tasca della giacca un mazzo di chiavi. «Queste sono le chiavi della mia macchina. Vai a casa mia,» tirò fuori dal portafoglio un mazzetto di banconote e lo diede a Suleyman, «e dalle questo.» «La sua macchina, signore?» «Sì!» Suleyman fece per andare ma Ikmen alzò una mano per fermarlo. «Oltre a questo, già che ci sei carica in auto mio padre e portalo qui.» «Ho capito bene, signore?» «Mio padre sa il russo.» Indicò con un gesto l'agendina di Meyer che giaceva aperta sulla sua scrivania. «Lui sarà in grado di decifrare questa roba.» «Devo portarlo qui, signore?» «E dove, se no?» Il silenzio dall'altro capo del filo fu interrotto da una voce roca e lamentosa. «Çetin?» Suleyman si infilò le chiavi e i soldi nella tasca dei pantaloni e uscì dall'ufficio. «Ciao, Timür. Mi dispiace disturbarti, ma... Ho qui una cosa che non capisco e ho bisogno del tuo aiuto...» Robert Cornelius aveva fatto i conti senza la sua coscienza. Non gli piaceva mentire. Lo faceva star male. La prima volta che lo aveva fatto gli era andata bene, contrariamente alle sue aspettative. Ma stavolta era diverso, lo sentiva. Prima o poi la faccenda gli si sarebbe ritorta contro quando meno se lo fosse aspettato. Ne era convinto. Forse questo suo modo di ragionare era una conseguenza di quanto gli avevano inculcato alla scuola pub-
blica? Sette anni di martellamento continuo sul fatto che era inutile illudersi di potersela cavare in alcunché producono un effetto a lungo termine. Per giunta i suoi insegnanti avevano avuto ragione. Raramente Robert era riuscito a cavarsela in qualche cosa. Salvo quell'unica eccezione. O erano state due? Quelle esplosioni di violenza che avevano portato a tante bugie, a tanti sensi di colpa. A volte, o per meglio dire spesso, lo facevano sentire male. Da bambino come da uomo, aveva sempre pagato i suoi debiti, volente o nolente. Per questo era tanto gentile e accomodante. Il male si ritorce sempre su chi lo ha commesso. L'amabilità e l'onestà, per quanto insincere, erano soltanto strumenti, aiuti per lo spirito di conservazione. Buonsenso. Guardò i volti degli studenti seduti davanti a lui. Due di loro stavano lavorando diligentemente all'esercizio di pagina nove. Una piccola ma gratificante vittoria per la scuola. Il gruppo era formato da dieci allievi e la prassi era che prima lui assegnava un compito poi vedeva l'intera classe guardare fuori della finestra per la successiva mezz'ora. I due che stavano lavorando, che erano turchi, o dovevano essersi spaventati alla notizia degli imminenti esami o dovevano essere stati minacciati dai genitori. Non potevano esserci altre ragioni. Robert sapeva meglio di chiunque altro come funzionasse la mente di un adolescente. Otto anni di insegnamento in una scuola superiore nel centro di Londra gli avevano regalato un'acuta perspicacia. Rabbrividì. Nonostante fossero passati cinque anni, il solo pensiero di Rosebury Downs School gli gelava il sangue nelle vene e gli seccava la bocca. Vedeva ancora le loro facce: Billy Smith, i gemelli Norris, quel piccolo bastardo biondo che sedeva sempre vicino al termosifone. Robert distolse subito il pensiero da quei ricordi. Guardò l'orologio. Grazie al cielo, altri cinque minuti e poi ci sarebbe stato l'intervallo. Caffè, sigaretta, la relativa tranquillità della stanza riservata agli insegnanti. C'era altra gente con cui poter parlare. I colleghi, anche se vacui, petulanti, spesso decisamente noiosi, gli davano ciò di cui lui aveva disperatamente bisogno. Essere distratto dai suoi pensieri. Quel preoccupante e ossessivo desiderio di fare qualcosa di molto poco saggio. E senza senso. A cosa sarebbe servito interrogare Natalia? Il danno - l'omissione - ormai era fatto. Se fosse lei o meno a Balat era un fatto puramente accademico, ormai. Forse si era recata lì per qualcosa che aveva a che fare col suo lavoro. Era improbabile, ma in fondo tutto era possibile, no? Tuttavia la sua mente rifiutava di farlo riposare. Natalia aveva sempre tenuto a sottolineare che la loro relazione doveva essere basata sulla fidu-
cia reciproca. Che senso avrebbe avuto ora, dopo più di un anno di non facile pace, cominciare a farle il terzo grado? Conoscendo Natalia come la conosceva lui, avrebbe significato la fine della loro storia. Ma i dubbi rimanevano. Lui era certo che lei non avesse niente a che fare con l'omicidio. Ma cosa ci faceva lì? Quella passeggiata pomeridiana aveva un che di fantastico, a ripensarci ora. Forse per l'atmosfera arcaica di quel quartiere? Una parte della città che pareva essersi fermata nel suo viaggio verso il presente. Un luogo di fantasmi. E faceva anche molto, molto caldo. Il capo scoperto, il caldo soffocante, il capogiro, uno stomaco che gli dava problemi nonostante fosse in via di guarigione anche senza cure... Ma erano scuse che non stavano in piedi. Le indagini avrebbero rivelato senz'altro... cosa? Nomi e facce con l'andare del tempo si confondevano e si mescolavano nella sua mente come mazzi di carte. Doveva pensare al suo stomaco! Quello era un dato di fatto, tutto il resto... Gettò un'occhiata all'orologio che portava al polso. La lezione era finita, grazie al cielo. Il profondo sollievo che provò calmò le sue riflessioni. «Bene,» disse. «Ora potete mettere via i libri.» Si sentì il fastidioso stridio delle gambe delle sedie sul pavimento quando i dieci vivaci adolescenti balzarono in piedi precipitandosi verso la porta dell'aula con le facce sorridenti, vociando allegramente nel passargli davanti. A Robert venne in mente la storia della Bibbia, quando Gesù resuscitò Lazzaro. Non capiva. Lo studio non era forse un'esperienza che allargava piacevolmente la mente? «Terminate l'esercizio di pagina nove a casa!» gridò per farsi sentire nel chiacchiericcio multilingue. Poi aggiunse a bassa voce: «Se non avete di meglio da fare.» Gli studenti uscirono dalla classe. I più portati allo studio probabilmente sarebbero tornati per le lezioni del pomeriggio. Gli altri, Robert lo sapeva, si sarebbero tuffati in piazza Taksim ad abbuffarsi delle esotiche delizie di McDonald's. Lì potevano fare quello che sapevano fare meglio: spendere i soldi, imbeversi di americanate della peggior specie e mostrarsi a vicenda i loro tesori. Come i loro coetanei inglesi, a parte magari i coltelli a serramanico. Come i teenager di tutto il mondo. Robert raccolse le sue carte, penne e libri di testo, e li mise nella cartella. Non aveva avuto molto senso tirarli fuori, ma... Chiuse la cartella con la chiavetta di alluminio e si appoggiò pesantemente contro la sua cattedra. Anche se fosse andato a trovare Natalia, come diavolo faceva a tirare fuori
l'argomento di Balat? La cosa sembrava assurda anche a lui. Non erano fatti suoi. La decisione di mentire alla polizia sulla presenza di Natalia era stata sua e solo sua. Lei lo aveva visto. Doveva averlo visto. Se ci fosse stato qualcosa di losco, lei lo avrebbe contattato. Dopotutto era il suo amante, e gli amanti non condividono tutto, nel bene e nel male? Robert Cornelius prese la cartella, controllò che avesse in tasca le sigarette e si avviò verso la stanza degli insegnanti. Forse una mezz'oretta di innocenti chiacchiere sulle virtù dei maschi turchi avrebbe alleviato il suo subbuglio interiore. Timür Ikmen era più un bagaglio di esperienze che un essere umano. Se Mehmet Suleyman considerava Çetin Ikmen qualcosa di più di una semplice persona, il padre dell'ispettore avrebbe dovuto essere collocato tra gli immortali. Il viaggio di ritorno verso la Centrale fu interessante e non solo perché la vecchia Mercedes di Ikmen si comportava come una vecchia carretta. Come il figlio, Ikmen padre viveva nella sua nuvola di fumo personale. Magro, curvo e crudelmente deformato dall'artrite, Timür Ikmen ricordava a Suleyman il vecchio ulivo nel giardino dei suoi nonni. A differenza dell'albero, però, Ikmen padre parlava in continuazione. E non erano chiacchiere a vuoto. Molte delle cose che diceva erano decisamente offensive. I problemi cominciarono quando Fatma Ikmen lo aiutò a salire in macchina, cosa che lui fece stringendo i denti per il dolore. «Allora, cosa fai quando non sei in servizio, giovanotto?» Ai vecchi, in generale, piace sentire che i giovani si comportano bene. La risposta di Suleyman fu abbastanza veritiera. Leggeva, a volte andava all'opera, accompagnava suo padre e suo nonno alla moschea ogni volta che i turni di servizio glielo consentivano. Avrebbe dovuto immaginare che il vecchio non avrebbe reagito in maniera normale; dopotutto, era un Ikmen. Suleyman si pentì della sua fretta e della sua avventata sincerità. «Un bel ragazzo come te! Che spreco!» «Prego?» «È uno spreco! Un peccato! Quanti anni hai?» «Ventotto, signore.» «Vergine?» «Prego?» «Ho detto, sei vergine?» «Oh, beh....»
Il sesso non fu l'unico argomento sul quale il vecchio espresse la sua personalissima opinione durante il tragitto verso la stazione di polizia. Anche la religione ("non la capisco") e la politica interna ("aberrante") dovettero subire il suo giudizio. Al termine della corsa, Mehmet Suleyman non aveva più dubbi sul carattere e sulle opinioni del suo passeggero. Era ateo, anarchico, un intellettuale snob e libertino. Possedeva anche uno spirito straordinario a dispetto della sua "bastarda malattia". Aveva ancora voglia di fare: viaggiare, imparare cose nuove, frequentare donne. Non donne della sua età; solo donne giovani e carine. Suleyman pensò che Timür Ikmen non vivesse la vita come voleva far credere. Quando arrivarono alla stazione di polizia, trovarono Çetin Ikmen ad aspettarli sul marciapiede. Non appena l'auto si fermò aprì la portiera e guardò dentro. Il viso pallido di Suleyman parlava da solo dell'esperienza appena fatta. «Ah, vedo che deve aver parlato con te,» disse Ikmen sollevando il vecchio dal sedile. «Posso aiutarla, signore?» chiese Suleyman. Ikmen stava per rispondere in modo affermativo, ma il vecchio lo precedette. «Non sono un pacco!» Ikmen sospirò profondamente. «Lascia stare, Suleyman, me la sbrigo da solo.» Avvicinò la testa all'orecchio del sergente e abbassò la voce in un sussurro. «La cosa migliore che tu possa fare è accertarti che ci sia una tazza di tè pronta per il vecchio bastardo.» Il giovane poliziotto, che appariva sempre più confuso, gli fu grato per quell'ordine e si allontanò lasciando gli Ikmen ai loro battibecchi. Il vecchio osservò la scrittura incerta nell'agendina e aggrottò la fronte. Infilò lentamente una mano deformata nel taschino della giacca estraendone un vecchio paio di occhiali. Invece di inforcarli, li tenne all'altezza degli occhi e guardò. «Sei pronto, Çetin?» disse. Ikmen pescò una penna dalla confusione della sua scrivania e aprì il suo blocco per gli appunti. «Sì, vai.» «Allora, il primo è il rabbino Simon, 33, Draman Caddesi, Balat. Poi, mmm...» Osservò attentamente abbassando gli occhiali fino a toccare quasi la carta. «Maria Gulcu, 12, Karadeniz Sokak, Beyoglu. Mmm... Sara Blatsky, 25/6, Guersel Sokak, Balat, e infine Seker Textiles, Celaleddin Rumi Caddesi, Üsküdar.»
«Numeri di telefono?» Il vecchio abbassò di nuovo la testa sulla pagina. «Per il rabbino e la ditta tessile, sì. Guarda.» Ikmen guardò i numeri e li ricopiò sul dorso della mano. Poi sollevò la cornetta del telefono e se la sbatté forte sul lato della testa. «Chiamo subito questo Rabbi Simon,» disse. Poi, facendo un cenno in direzione dei suoi due compagni di stanza, aggiunse: «Intanto voi due divertitevi come vi pare.» Timür Ikmen sollevò un sopracciglio e disse qualcosa che Suleyman non captò, anche se sapeva che le probabilità che non si trattasse di una bestemmia erano minime. Per qualche istante, mentre il vecchio e il giovane poliziotto cercavano di decidere in quale argomento di conversazione lanciarsi, regnò il silenzio. Non appena Ikmen sentì rispondere all'altro capo del filo, si allontanò da loro per una maggior riservatezza. Un lungo dito ingiallito dalla nicotina picchiò sulla copertina dell'agendina risvegliando l'accaldato e assonnato Suleyman. «Curiosa, questa combinazione,» disse, «del nome di battesimo straniero, "Maria", e del cognome turco.» «Ha ragione.» Suleyman non ci aveva fatto caso fino a quel momento. «Ma oggi ci sono un mucchio di matrimoni misti. Potrebbe essere un parente della vittima. Pare fosse russo di nascita e considerato che finora non si è fatto vivo alcun parente...» «Quanti anni aveva quell'uomo?» chiese Timür. «Secondo i vicini era sui novanta.» Il vecchio sorrise mestamente. «Vecchio abbastanza da essere mio padre.» «Sì.» Era un pensiero curioso, se non sconcertante, dato l'aspetto decisamente non giovanile di Timür Ikmen. «Sì, penso di sì.» «Strano, vero?» Suleyman lo guardò con aria interrogativa. «Cosa, signore?» «Che qualcuno abbia voluto uccidere una persona così vecchia. Io ho quasi settantatre anni e sono conciato da buttar via. Ma uno dell'età di mio padre...» Si strinse eloquentemente nelle spalle, mentre suo figlio riattaccava il telefono con un grugnito di soddisfazione. «Rabbi Simon ci aspetta domani mattina alle nove e mezza, Suleyman.» «Bene.» Ikmen si girò a guardare suo padre e sorrise. «Grazie per essere venuto
ad aiutarci con quella traduzione, Timür. Mi hai risparmiato un mucchio di tempo e seccature.» Timür abbassò gli occhi sul pavimento sudicio sotto i suoi piedi, e sospirò. «Immagino che vuoi che me ne vada, ora, vero?» «Ho parecchie cose da fare. Devo controllare gli altri tre nomi, poi devo chiamare Arto...» Gettò un'occhiata all'orologio. «Non posso starmene seduto a girarmi i pollici, all'inizio di un'indagine. Gli indizi sono come le donne, bisogna afferrarli al volo prima che si raffreddino. Ti faccio riaccompagnare a casa da Suleyman...» «Come sta Arto Sarkissian?» Ikmen accese una sigaretta e la passò al padre. «Oh, come sempre. Grasso, stressato dal lavoro... il solito.» Timür sorrise. I suoi due figli erano cresciuti con i Sarkissian, Arto e Krikor. Per quindici anni, le due famiglie avevano passato le vacanze estive insieme. Vacanze meravigliose. C'erano stati anche altri vantaggi. I giovani Sarkissian erano sempre stati molto studiosi. La loro diligenza aveva contagiato il figlio maggiore di Timür, Halil, il commercialista. Çetin, invece... Timür si allungò da un lato e diede un colpetto sul gomito a Suleyman. «Conosci Arto Sarkissian?» «Sì, signore.» «Un bravo medico. Mio figlio è cresciuto con lui. Erano inseparabili, da bambini.» Si rattristò e non fece niente per nasconderlo. «Peccato che non abbia seguito il suo esempio quando ha dovuto decidere sugli studi!» «Timür!» Suleyman si schiarì la voce. Non sapeva cosa dire. Non si riusciva mai a capire se il vecchio scherzasse o parlasse sul serio. La forma di comunicazione tra padre e figlio sembrava a Suleyman un gioco crudele. Non riusciva a capire e aveva la sensazione che non lo capissero nemmeno loro. Ikmen interruppe i pensieri del sergente ridandogli le chiavi della macchina. «Tieni, riportalo a casa. Ti aiuto a portarlo giù per le scale, poi devo rimettermi al lavoro.» Mise delicatamente un braccio intorno alla vita del padre e lo sollevò lentamente in piedi. «Vieni, Timür, è ora di andare a casa.» «Oh, fantastico!» disse il vecchio in un tono che tradiva quasi rancore. «Dalla tua dolce mogliettina e dai tuoi splendidi figli!» «Gli vuoi bene, no?» Suleyman seguì gli Ikmen fuori dall'ufficio fino alle scale. Guardò i due
uomini scendere stretti come in un abbraccio, lanciandosi l'un l'altro improperi a tutta voce. Lui la vide, ma lei non vide lui. La vetrina, anche se illuminata da una luce fioca e insufficiente, rifletteva un bagliore giallo e luccicante all'interno del piccolo e accogliente negozio. Era ben assortito. Il signor Avedissian, il suo datore di lavoro, ci teneva. Non era merce qualsiasi. Tutti gli articoli, senza alcuna eccezione, erano d'oro, e la fattura era squisita, dal più piccolo degli anelli con sigillo alla più grande collana in stile egizio che troneggiava in vetrina. I clienti abituali di Avedissian erano perlopiù ricchi e potenti. Volevano solo il meglio. Non c'era da stupirsi che quel minuscolo negozio avesse attirato l'attenzione di Robert mesi prima, quando era in cerca di un gioiello per sua madre. Il negozio di Avedissian non era per turisti; non c'era la benché minima traccia di articoli di massa nelle splendenti vetrine di cristallo. Era proprio quello che cercava, e altrettanto poteva dire della commessa che lo aveva servito. Proprio quello che cercava e ancora desiderava. Guardò il suo profilo scuro e delicato, il suo mento liscio addolcito dal caldo bagliore riflesso dai preziosi oggetti intorno a lei. Una principessa nel suo regno, intenta a bagnare la propria bellezza nelle calde fiamme della ricchezza. Un ricciolo nero le ricadde sulla fronte alta. Una mano affusolata e perfettamente curata lo rimise al suo posto. Un movimento lento, sensuale. Tipico per lei. Stava sistemando degli anelli su un vassoio di velluto, il viso attento a ciò che stava facendo. Sembrava molto concentrata, ma Robert sapeva che almeno in parte, la sua mente si trovava altrove. Mantenere quel profilo perfetto, quei modi seducenti richiedeva concentrazione. Un grado molto elevato di egocentrismo, amore di sé. Quando aprì la porta, gli occhi di Robert furono assaliti da mille bagliori. Prima di scoprire il negozio di Avedissian, non sapeva che esistessero tante varietà di oro. Oro bianco, freddo e duro come l'argento; oro rosso, caldo, ardente, sensuale; il comune e familiare oro giallo, e infine il più misterioso di tutti, l'oro verde, innaturale alla vista, peccaminoso. L'oro verde era il preferito da Natalia. Quando Robert entrò, il suono rustico del campanello sopra la porta le fece sollevare gli occhi. Enormi, rotondi, scuri, contornati da kohl nero, protetti da ciglia talmente folte da sembrare piume. Aprì leggermente la bocca, ma non sorrise. Lui non si aspettava che lo facesse. Era un intruso arrivato a invadere il suo tempo e il suo spazio, lo spazio nel quale lei fa-
ceva "altre cose". La parte sconosciuta della sua vita senza di lui. «Ciao.» «Ciao,» replicò lei nel suo inglese fortemente accentato, duro, privo di emozioni. «Che fai tu qui, Robert?» «Sono venuto a trovarti.» La sua espressione non cambiò. Bella, austera, anche un po' nervosa, pensò Robert. Posò l'espositore degli anelli su un ripiano dietro il banco. «Mi chiedevo se hai voglia di bere qualcosa.» L'espositore si fissò al ripiano con uno scatto secco. Lei si girò a guardarlo di nuovo in faccia, allungando il collo con fare arrogante. «Oggi è martedì.» Come sempre, quando si trovava ad affrontare il malcontento di lei, Robert annaspò in cerca delle parole. Una cosa che la irritava, lui lo sapeva. Odiava il suo atteggiamento umile, da zerbino, ma d'altra parte cosa si aspettava? I suoi occhi erano di ghiaccio, non offrivano alcun aiuto né appiglio alla vittima che si dimenava. «Passavo di qui e... be'... mmm... fa caldo e pensavo... be', che...» «Sei venuto a spiarmi.» Diretta, più che crudele. Una constatazione di fatto tra amici più che tra amanti. Per questo lui si sentì profondamente ferito. «Ma... no, no!» Natalia si avvicinò alla vetrina e cominciò a spegnere le luci. Il bagliore caldo del prezioso metallo si affievolì, senza illuminazione. Lei non distolse gli occhi da lui nemmeno per un secondo. «Io molte cose da fare.» Robert rimase in silenzio sforzandosi di non mostrare il suo nervosismo, con la mente concentrata su quali potessero essere le "altre cose" alle quali lei aveva accennato. «Sono occupata. Ci vediamo giovedì.» Si girò e infilò la mano sottile sotto il bancone. Tra le sue mani risuonò il tintinnio impaziente delle chiavi. Le chiavi della porta del negozio, il segnale che lui doveva andarsene. Fino al momento prestabilito del loro incontro, lei non ne voleva sapere di lui. Robert sentì l'amarezza salirgli in gola, il sapore della gelosia e del sospetto. Emozioni che sapeva di poter esprimere solo a suo rischio e pericolo. «Ieri ti ho visto a Balat.» La voce di Robert era acuta. Ancora una volta, nella sua mente si insinuò l'immagine di quella figura che correva spaventata. Il viso era privo di espressione, altero, immobile. Si sentì improvvi-
samente uno stupido. L'alterco ebbe fine. Natalia strinse le chiavi nel pugno e gettò un'occhiata al Rolex che ornava il suo polso sottile e abbronzato. Robert non aveva mai visto quell'orologio prima. Non era uno dei suoi regali. Ma non lo era nemmeno quel solitario che portava al collo. Non sapeva da dove arrivassero. Altre cose! L'espressione sul volto di lei non si era spostata di un solo millimetro. «Ieri io qui tutto il giorno.» «Mmm...» Fu una risposta fiacca che tradì il suo malumore. E come si sentiva... svilito. «Tu non credi me?» «Non lo so. Mi pareva di averti visto...» «Ti pareva!» Le sue labbra scoprirono i denti in un ghigno maligno. Fu come se gli avesse dato uno schiaffo. Il problema non era più se credere o no; non per Robert. L'aveva fatta arrabbiare. La guardò in faccia. Ebbe un fremito, ma solo un attimo; il ghigno rimase statico. Conosceva quello sguardo, l'aveva già visto altre volte. Di solito Natalia l'aveva quando stava per dirgli di uscire dalla sua vita. Ogni tanto glielo diceva. Ora, per evitare il disastro, avrebbe dovuto ricorrere ai regali, tanti e tutti di un certo livello. Robert si chiese, e non per la prima volta, se il suo conto in banca fosse in grado di affrontarli. «Credi di avermi visto a Balat ieri?» «Pensavo...» La voce gli morì in gola. Cosa diavolo significava "pensava"? Che valore avevano i suoi pensieri? Ebbe la sensazione che il suo spirito gli morisse nel petto, gli voltasse le spalle, si arrendesse. Ma inaspettatamente lei gli rivolse un sorriso smagliante. L'improvviso cambiamento di espressione lo lasciò senza fiato. «Okay,» disse allegramente. «Beviamo qualcosa. Tu hai detto.» Robert tossì. «Giusto.» Lo disse nervosamente, con la voce rauca. Natalia spense le altre luci del negozio e chiuse a chiave le vetrine interne. Mentre uscivano, Robert le lanciò uno sguardo furtivo. Il suo bel viso era teso e dagli angoli della bocca le scendevano verso il mento delle profonde rughe. Il pub Sultan, un edificio in finto stile Tudor di fronte alla Moschea Blu, era un posto strano e ideale per parlare tranquillamente. I suoi clienti, quasi esclusivamente giovani di passaggio provenienti dall'Europa occidentale,
di solito non si trattenevano a lungo. Un paio di whisky locali capaci di mettere in subbuglio lo stomaco e poi via, era la prassi. La decorazione interna era in puro stile austriaco-hollywoodiano: corna di cervo, campanacci, corni alpini e fotografie di bellezze bionde con le trecce. Non mancavano immagini di freschi ruscelli di montagna e paesaggi innevati. L'insaziabile voglia di freddo degli europei del sud. Robert e Natalia si sedettero al tavolo davanti alla splendida vista della famosa moschea e qualche istante dopo arrivò il giovanissimo cameriere. Dopo aver ordinato da bere restarono in silenzio. Robert, almeno, non era ansioso di aprire la conversazione. I drink arrivarono in fretta e lui bevve un lungo sorso dal suo bicchiere. Natalia lasciò intatto il suo e continuò a guardare fisso fuori della finestra, gli occhi rivolti alla magnifica cupola della moschea. «Senti, non ti sto accusando di niente.» Lei non rispose; non ebbe alcuna reazione. Imbarazzato, Robert le prese una mano. Quando vide le loro mani congiungersi, il cameriere indaffarato dietro al bancone del bar fece un sorrisetto compiaciuto. «Sono solo un po' confuso. Ieri pomeriggio stavo tornando a casa, non mi sentivo molto bene, e improvvisamente ti ho visto. Stavo per dirti "ciao", per salutarti, e tu sei sparita.» «Non ero io.» Il suo tono era neutro, asettico. Il sorriso di prima era svanito da un pezzo. Lui cominciava a seccarsi. Certo che era lei! Chi altri poteva avere un viso come il suo? «Senti, so cosa ho visto, Natalia. Non ti sto chiedendo di darmi spiegazioni. Solo che non mi piacciono i misteri. Quello che stavi facendo lì è affar tuo, ma...» Fece una pausa. Era difficile dire quello che aveva da dire. Non poteva accusarla di mentire, ma stava cominciando a trovare il suo diniego difficile da conciliare con ciò che lui aveva visto. Di qualsiasi cosa si fosse trattato. «Senti, non ha importanza il perché tu fossi lì, voglio solo sapere se eri lì. Devo sapere se ho avuto le traveggole o no. È importante... per me.» Lei cominciò a sorseggiare il suo drink. La sua espressione era cupa, ma sempre impassibile; in maniera provocatoria, pensò lui. Robert tentò una tattica diversa. «Quando hai fatto finta di non riconoscermi, ho pensato che forse ti avevo fatto arrabbiare o ti avevo offeso in qualche modo.» Le strinse delicatamente la mano. «Lo sai cosa provo per te. Non sopporterei che ci fossero problemi tra noi per qualcosa di sbagliato che posso aver fatto.»
«Io no tua proprietà.» Il suo inglese artefatto lo irritò. Ebbe l'impulso di correggerla. Non era la prima volta. La sua "diversità" era spesso irritante. La usava come arma, come scusa per non capire o non farsi capire bene. Robert assunse un tono più duro. «È importante.» Fece una pausa. «Ascolta, non sto assolutamente dicendo che ne sei coinvolta, ma ieri a Balat è stato commesso un omicidio.» Lei posò pesantemente il bicchiere sul tavolo. «Dato che a quell'ora mi trovavo in quella zona, sono stato interrogato dalla polizia.» Cercò di scrutarla in faccia, ma lei abbassò gli occhi. «Polizia?» «Sì.» I suoi tratti ebbero un leggero tremito, intorno alla bocca le apparvero di nuovo delle sottili rughe, le stesse che le avevano segnato il viso quando erano usciti dal negozio. «Stamattina è venuta la polizia, a scuola. Ci hanno interrogati tutti. L'omicidio è avvenuto in una strada lì vicino. Nel momento in cui veniva commesso, io mi trovavo in zona. Ho fatto una deposizione scritta.» Lei sollevò le palpebre rivelando uno sguardo scrutatore. Gli parve di notare che il suo viso, già pallido, fosse impallidito ancora di più. «Cosa hai scritto in deposizione?» Robert si accese una sigaretta. «Che ieri alle quattro e mezza mi trovavo nella zona in cui è stato commesso il delitto e che non ho visto né sentito niente di strano. Ho visto una donna...» Natalia sobbalzò. «Quella che tu credi me?» Robert fece una pausa. Ora lei era spaventata. L'aveva vista solo un'altra volta così. A Balat. La stessa faccia. Rabbrividì. Ebbe la tentazione di tenerla sulla corda, lasciandole credere che l'avesse detto alla polizia, per vedere come avrebbe reagito. Ma sapeva che non era nel proprio stile fare una cosa simile. Era nello stile di lei. «No, non ho detto niente... di te.» Lei si rilassò impercettibilmente, ma abbastanza perché lui se ne accorgesse. «Non ero certo al cento per cento che fossi tu, perciò non ho voluto rischiare di crearti dei problemi inutili. La donna che ho detto di aver visto stava davanti a un portone, era vecchia, non mi pareva in grado di fare del male a qualcuno.» «Io no capace fare male a qualcuno!» Mise tutte e due le mani intorno alle sue e gliele strinse forte. «Io non lì, Robert!» Voleva che lui le credesse, ed era per questo che lui non le credeva. Eb-
be l'impulso di ritirare la mano dalle sue. Tirò bruscamente indietro il braccio facendo ricadere mollemente le mani di Natalia sul tavolo. Per la prima volta dall'inizio della loro relazione, sentì di avere il controllo su di lei. Sentiva la sua paura. Fu un'esperienza inebriante. «Vorrei crederti, Natalia, ma francamente è difficile. Non posso non credere ai miei occhi.» Fece una pausa. Aveva detto una cosa stupida, e doveva essersene accorta anche lei. Ma doveva continuare. «Anche se ci frequentiamo da diverso tempo, in realtà io non ti conosco. Non so neanche dove abiti, santo cielo!» Lei abbassò lo sguardo sul tavolo. Le sue mani, abbandonate sulla tovaglia di lino bianco, tremavano leggermente. Si era innervosita quando aveva sentito parlare di polizia: fino a quel momento era rimasta fredda e altera come sempre. Certo che era stata a Balat! L'aveva vista. I suoi continui dinieghi erano ridicoli! Era così terribile quello che stava facendo lì? Non riusciva a crederci. Se lo aveva tradito, l'avrebbe perdonata, probabilmente, e lei lo sapeva. Ma perché era tanto spaventata all'idea che la polizia stesse indagando su un crimine che non aveva niente a che vedere con loro due? O invece ce l'aveva? Robert guardò il viso triste e preoccupato di Natalia, la morbida rotondità delle sue spalle. Certo, santo cielo, quel tocco! Quell'osso scarno che gli era scivolato tra le dita come un'anguilla. Non quadrava. E perché mai una ragazza bella e giovane come Natalia avrebbe dovuto uccidere un vecchio alcolizzato senza un soldo? Robert si rimproverò silenziosamente. Ora stava davvero sguazzando nel regno della fantasia. Lei sollevò la testa e con sua sorpresa, la vide sorridere. «Senti, Robert, ti dico la verità su Balat, io non lì, ma...» Si strinse nelle spalle accompagnando il gesto con una risatina nervosa. «Ho capito che vuoi dire. Noi intimi, ma tu sai poco di mia vita. Forse ora di cambiare. Forse tu vieni casa mia per conoscere mia famiglia...» Le sue parole lo colsero di sorpresa. Un invito a casa sua era l'ultima cosa che si aspettava. Era un'evidente tattica per distoglierlo dal vero problema. Cristo, allora era proprio lei! E ora lo invitava a casa sua... Fu preso da quel sentimento egoistico, sconsiderato che fa fare agli innamorati cose che non farebbero in altre condizioni: il desiderio. Da quando si era reso conto di essere innamorato di Natalia, Robert covava per la loro relazione segrete ambizioni a lungo termine. Il fallimento del suo matrimonio gli aveva fatto perdere del tutto la fiducia nelle donne. In un certo senso, non lasciandolo, Natalia gli aveva ridato un po' di quella fiducia.
Nonostante fosse un uomo istruito, per quanto riguardava la sua vita privata Robert era alquanto ingenuo. Non voleva più stare da solo. E chi poteva essere la donna giusta se non Natalia? Nessun'altra! Conoscere la sua famiglia era sicuramente un passo importante. Perché a Balat era così fuori di sé? Probabilmente per una relazione di nessuna importanza, ma forse per lei eccitante, con qualche bullo locale. Doveva essere così! E lui doveva permettere che un'avventura di così poco conto rovinasse la loro relazione? E se la sua supposizione fosse stata esatta, perché lei aveva tanta paura della polizia? Osservò il suo viso perfetto e sorridente. Non riusciva a capirne il motivo. C'erano molte altre cose apparentemente illogiche che lui non capiva della Turchia e dei turchi. Forse quella era una di quelle cose? Forse...? Anche se ancora teso, ricambiò il suo sorriso. «Quando?» «Domani sera, a cena?» Non aveva senso rifiutare un'opportunità del genere. Per quale motivo avrebbe dovuto farlo? «Sì.» Si sentiva meglio. «A che ora?» Lei spiegò un tovagliolo di carta davanti a sé e prese una penna dal taschino della sua camicetta. «Verso le sette?» «D'accordo.» Natalia scrisse lentamente e con cura sul sottile foglio di carta. Quando ebbe finito glielo porse. «Il mio indirizzo.» Robert lesse le sue parole sulla carta. Dunque abitava a Beyoglu, il vecchio quartiere diplomatico, vicino a Istiklal Caddesi, l'Oxford Street dell'est. Al numero 12 di Karadeniz Sokak. Lei finì il suo drink e si alzò dalla sedia. Si guardò intorno nervosamente, almeno così parve a lui. «Ora devo andare, Robert. Ho cose da fare.» Lui provò un po' di delusione, forse anche di gelosia. Di nuovo "cose da fare"! Ma nascose il suo disappunto dietro a un sorriso. Nel passargli davanti lei gli sfiorò una guancia con le labbra. Dopo un anno, il tocco anche lieve di quella bocca morbida e carnosa lo eccitava ancora. Aveva esplorato ogni punto del suo corpo baciandolo, mordicchiandolo, succhiandolo. Lui sollevò un braccio e le accarezzò delicatamente il fianco con la mano. «Ci vediamo domani.» Sentì il battito dei suoi tacchi attutito dal modesto pavimento di linoleum, poi farsi più deciso quando uscì sul marciapiede. Si voltò per seguirla con lo sguardo, ma lei era già scomparsa in strada, tra la folla dell'ora di punta. Robert prese il suo drink e cominciò a sorseggiarlo soprappensiero.
Gli strani eventi del giorno prima si stavano inaspettatamente volgendo a suo favore. Sorrise. Balat e i suoi fantasmi, la polizia, la sua ansia; ora poteva accantonare queste cose. Natalia cominciava a diventare più sua, e questa era la cosa più importante. Pagò i drink e uscì. Sulla strada verso la fermata dell'autobus si fermò a comprare un giornale della sera. Notò con interesse che l'omicidio di Balat aveva conquistato la prima pagina. L'articolo parlava persino dello strano poliziotto che lo aveva interrogato, Ikmen, un mastino, dal tono dell'articolista. Dentro di sé, Robert rise di quella forzatura e continuò per la sua strada. Arrivato alla fermata dell'autobus, rilesse l'articolo più attentamente e solo allora fu colto di nuovo da un vago senso di disagio. Finché l'assassino non fosse stato arrestato, sarebbe stato difficile evitare l'argomento di Balat e gli eventi del pomeriggio precedente. Aveva la sensazione che nella sua vita ci fosse un bandolo sciolto che aspettasse solo di essere riavvolto alla matassa. CAPITOLO IV Il giorno dopo, la mattinata era chiara e luminosa e, per quanto riguardava Ikmen, molto più promettente della precedente. Uscì di casa per recarsi a Balat col sorriso sulle labbra, anche se ci pensò il traffico dell'ora di punta a toglierglielo. E quando si accorse che era impossibile trovare un parcheggio nel raggio di tre isolati dal luogo in cui era diretto, la sua abituale tetraggine riaffiorò in tutto il suo vigore. Incontrò Suleyman, di ritorno dalla Centrale dove aveva prelevato i messaggi, sull'angolo della strada in cui abitava il rabbino. «Pronto a incontrare il rappresentante del Creatore sulla terra, Suleyman?» Il giovane decise per questa volta di ignorare l'irriverenza religiosa di Ikmen. Anche perché c'erano cose molto più importanti a cui pensare. «Il medico legale ha trovato oltre tre milioni di lire nell'appartamento di Meyer, signore.» Ikmen aggrottò le ciglia. «Tre milioni di lire? Quando? Dove?» «Sotto il materasso, ha detto Demir.» Guardò l'orologio e gli fece cenno che era ora di avviarsi verso la casa del rabbino. Mentre camminava, Ikmen prese una sigaretta dalla tasca e l'accese. «Mi chiedo come sia possibile che uno come Meyer avesse tutti quei soldi. Di solito gli alcolizzati non hanno soldi.»
«Non so cosa dire, signore. Demir ha detto solo di aver trovato un mucchio di soldi che, almeno apparentemente, dovevano appartenere a Meyer.» Ikmen aspirò una lunga boccata e sospirò. «Il mistero si infittisce, eh, Suleyman?» «Sembra di sì, ispettore.» Il rabbino Yitzak Simon era "adottivo" di Balat. Era un fatto insolito che un religioso locale fosse straniero, ma la sua nomina rifletteva la recente, benché piccola, influenza che gli ebrei ashkenaziti esercitavano nella zona dall'inizio del secolo. Staccato da quella che per lui era l'oscura e misteriosa maggioranza sefardita e tuttavia inserito nella stessa, Simon era cresciuto tra quella gente timida, dai costumi orientali e di mentalità ristretta, che parlava una lingua strana e incomprensibile. La sua "diversità" lo aveva aiutato molto a capire quella gente. Solitario e impopolare da bambino, aveva osservato e ascoltato il flusso e riflusso, e individuato le tensioni. Tutto in modo molto oggettivo. Non essendo la sua gente, poteva osservare con occhi non annebbiati da rivalità dinastiche e vecchie questioni territoriali. Fino agli anni '50, quando entrò in contatto con altri bambini di origine europea, Simon era per tutti il "ragazzo polacco". Non era stata la definizione in sé a ferirlo, quanto la mancanza di compagni di gioco che spesso lo aveva depresso. Gli sembrava un'ingiustizia. Dopotutto, era nato in quel quartiere. Ma l'amarezza che aveva provato da bambino era svanita. Diventando rabbino, si era elevato agli occhi del suo piccolo gregge di stranieri, i quali avevano cominciato a nutrire segretamente un gran rispetto per lui, e lui per loro. Per quanto assurda e incomprensibile riuscisse a essere quella gente, Simon doveva ammettere che una comunità capace non solo di stringere ma anche di mantenere una relazione civile con la nazione ospitante per cinquecento anni, meritava ammirazione. Erano rispettati anche dai turchi, benché a malincuore. Aveva sempre sperato che la situazione non cambiasse. Tuttavia la recente morte di Leonid Meyer l'aveva scosso. Aveva messo sottosopra tutto il quartiere. Nessuno ne parlava, ma si sentiva che la gente aveva paura. Dopo il tramonto le strade si svuotavano e il fabbro non riusciva a star dietro alle richieste di lucchetti e serrature di sicurezza. L'unica consolazione era che la polizia era riuscita a minimizzare l'elemento razzista. Di conse-
guenza la stampa non aveva ancora dato rilievo a quell'aspetto. L'ultima cosa di cui aveva bisogno Balat erano bande di curiosi e simpatizzanti fascisti. Gli unici visitatori che il quartiere aveva attirato fino a quel momento erano i poliziotti e un'apparizione discreta del console israeliano. Guardò l'orologio. La polizia sarebbe arrivata da un momento all'altro. Tolse una pila di libri e carte da una delle sedie di fronte alla sua scrivania e li posò per terra. Il suo ufficio era terribilmente in disordine, ma se i suoi ospiti potevano sedersi comodamente, il colloquio non sarebbe stato troppo sgradevole. Il samovar d'argento in fondo alla stanza gorgogliava lentamente. Poteva anche offrire il tè. Simon era convinto che per quanto delicato potesse essere l'argomento di conversazione, con una tazza di tè in mano le civiltà non erano poi così distanti l'una dall'altra. Sentì bussare alla porta e qualcuno che si schiariva la voce. Simon andò in corridoio e tolse il catenaccio che proteggeva la sua casa. Si trovò davanti due uomini: uno basso, scuro di carnagione, più o meno della sua età; l'altro più giovane, alto e bello. Fu l'uomo più vecchio a parlare. «Rabbi Simon?» Era la stessa voce profonda e asciutta che gli aveva parlato al telefono il giorno prima. «Lei deve essere l'ispettore Ikmen.» Sorrise. «Sì.» Ikmen accennò con la testa in direzione del giovane. «Questo è il sergente Suleyman.» Simon salutò Suleyman con un cenno del capo e fece entrare i due uomini nell'ufficio. «Accomodatevi, prego,» disse dirigendosi verso il samovar. «Gradite un po' di tè?» Mentre si sedeva, Ikmen guardò il samovar d'argento finemente cesellato che spiccava in fondo alla stanza. Non poté fare a meno di sorridere. Quelli a carbone, come quello del rabbino, erano diventati rari nella Istanbul dell'era delle bustine del tè. «Splendido samovar!» Il rabbino si voltò a guardarlo. «Questo?» «Sì,» disse Ikmen. «Mi ricorda la mia infanzia. La nostra vita si svolgeva intorno a una cosa del genere. Mia madre era sempre presa a rabboccarlo d'acqua, ad aggiungergli nuovo carbone. Il fulcro della vita turca.» Si alzò per avvicinarsi a guardarlo meglio. Il samovar sibilava lievemente e il rabbino guardò il poliziotto sorridendo. «Ricorda questo suono, ispettore?» «Sì. Un suono molto piacevole.» Si sorrisero nel condividere quel momento di ricordi della loro infanzia.
A volte Ikmen faceva fatica a ricordarsi di essere stato giovane. Venticinque anni di pesanti responsabilità avevano lasciato il segno. E tuttavia non gli era sembrato un tempo così lungo. Spesso si chiedeva come avesse fatto a invecchiare così in fretta. Tornò a sedersi mentre il rabbino riempiva tre bicchierini di liquido dorato. Ogni volta che usava il samovar, anche Simon ripensava a sua madre. A come si rimboccava le maniche prima di versare il tè. Erano le uniche occasioni in cui scopriva il numero tatuato sul suo polso, 17564. Era morta, ma quel numero era ancora vivo, inciso nella sua memoria con la forza di una punta di diamante sul vetro. Un numero indimenticabile. Dopo aver servito il tè ai suoi ospiti, Simon si sedette dietro alla sua scrivania. Sospirò. «Allora, signori, a proposito di Leonid Meyer, come posso aiutarvi?» «Ci interessa soprattutto il suo passato,» disse Ikmen. «Sappiamo molto poco di lui. Finora non si è presentato nessuno che si sia dichiarato suo parente. Qualsiasi cosa ci potrà essere utile.» Il rabbino bevve un sorso dal bicchiere e lo posò sulla scrivania. «Come già sapete, Leonid era russo. È arrivato qui nel 1918, subito dopo la Rivoluzione. Come i miei genitori, ha fatto fatica a inserirsi nella comunità. Non è mai riuscito a impadronirsi della lingua né si è mai sposato, che io sappia, e nelle relazioni sociali tendeva a fare amicizia nell'ambito di altri circoli di immigrati. Io parlo russo, ed essendo l'unico rabbino ashkenazita del quartiere, era inevitabile che mi occupassi dei bisogni spirituali di Leonid.» «Era religioso?» Simon sorrise. «No, ispettore. A dire il vero ero più lo psichiatra che il rabbino di Leonid. Era vecchio, beveva parecchio, ogni tanto aveva bisogno di parlare con qualcuno. Mi cercava per la mia lingua, non per la mia fede.» «Capisco.» «Leonid Meyer non era un uomo felice. Per qualche strana ragione desiderava tornare nella sua patria di origine. Non si è mai inserito del tutto in questa comunità. Non sono mai riuscito a scoprire se avesse ancora parenti in Russia né se ne avesse qui. Tuttavia sembrava che ci fosse qualche faccenda in sospeso, ma francamente, ispettore, era sempre talmente ubriaco che spesso non riuscivo a capire cosa dicesse.» Suleyman estrasse dalla tasca un bloc notes e una penna e cominciò a
scrivere. «Che lei sappia, c'era qualcuno che lo detestasse in modo particolare?» chiese al rabbino. Simon rifletté in silenzio per qualche istante. «No, direi di no. Ogni tanto qualche suo vicino si lamentava col padrone di casa. Quando era ubriaco gridava, lanciava le cose in giro, bestemmiava. Singhiozzava, anche.» Ikmen tirò fuori accendino e sigaretta e li posò sulla scrivania del rabbino. «Le dispiace se fumo?» «No, faccia pure.» «Ha idea del perché lanciasse oggetti in giro e piangesse disperatamente?» chiese Suleyman. Il rabbino avvicinò un portacenere di vetro sporco a Ikmen. «Sì e no.» Fece una pausa. «Per quanto ne so, risale tutto a prima che arrivasse a Balat.» Ikmen offrì una sigaretta al rabbino. «Intende a quando viveva ancora in Russia?» Il rabbino prese la sigaretta e se la accese. «Credo di sì. C'era di mezzo una storia di violenza. Stranamente, considerato l'ambiente di povertà e di ebrei da cui proveniva Leonid, non era lui a subire atti di violenza ma lui a commetterli.» «Oh.» «Furono uccise delle persone. O meglio, Leonid e altri, non so chi, uccisero delle persone. Data la violenza che dilagava a quei tempi, credo che la cosa sia assolutamente probabile. Ma chi fossero le vittime di Leonid, come, quando e perché fosse accaduto tutto questo, non lo so proprio.» Ikmen corrugò la fronte con un leggero sospiro. «Immagino che non abbia mai detto se questi eventi fossero collegati ai disordini di quei tempi in Russia?» «Intende la Rivoluzione?» Il rabbino sorrise. «No, ispettore, non ne parlò mai. Probabilmente un nesso c'era, ma dato che Leonid era povero ed ebreo, potrebbe aver commesso quegli atti per motivi suoi, per necessità, per questioni di sopravvivenza.» Suleyman alzò gli occhi dal suo taccuino. «Sa se ci sia qualcuno al corrente del passato del signor Meyer?» «Forse, solo Sara Blatsky. Un'anziana russa amica di Leonid, anche se si trattava di un'amicizia a volte un po' difficile. Forse vale la pena che le parliate. Sono sicuro che sarà molto disponibile a darvi una mano.» «Sì,» replicò Ikmen. «Abbiamo in programma di parlare sia con la signora Blatsky sia con Maria Gulcu a Beyoglu e con una certa ditta Seker
Textiles. Questi nomi e indirizzi, così come il suo, li abbiamo trovati in un'agendina appartenuta al defunto.» «Capisco.» «Immagino che lei non conosca né Maria Gulcu né la Seker Textiles, vero?» Il rabbino spense la sigaretta nel portacenere e si appoggiò allo schienale della sedia. «Non conosco questa Maria Gulcu. Non ricordo che Leonid ne abbia mai parlato, anche se ciò non significa che non lo abbia mai fatto. La Seker Textiles invece la conosco.» «Oh?» Penna alla mano, Suleyman si preparò a prendere nota di ogni dettaglio che potesse avere una qualche rilevanza. «La Seker Textiles,» disse il rabbino, «era la ditta in cui lavorò Leonid da quando arrivò in questo Paese negli anni '40, più o meno.» «E sa per caso di che tipo di lavoro si trattasse?» Simon aggrottò la fronte nello sforzo di ricordare, ma solo per un attimo. «Era addetto all'imballo del cotone. Sa, preparava le balle e le metteva nei sacchi e nelle scatole. Non ce lo vedevo, conoscendo Leonid. Aveva le mani deformate, forse dall'artrite. Non lo so esattamente, non gliel'ho mai chiesto. Comunque sembrava che il lavoro gli piacesse, ma poi litigò con il titolare della ditta per qualcosa. Io credo per il fatto che bevesse. Anche se sapendo chi fosse, anzi chi sia, il titolare, il motivo avrebbe anche potuto essere un altro.» Ikmen guardò il rabbino con aria interrogativa. «Cosa intende?» «Il titolare della Seker Textiles è Reinhold Smits. Come si può intuire dal nome, suo padre era tedesco. Uno di quelli arrivati in questo Paese durante la guerra del 1915-18, credo. Comunque, si diceva che Reinhold Smits fosse un simpatizzante del regime nazista, negli anni '40. Ma tengo a precisare che erano solo voci.» Ikmen guardò Suleyman che stava prendendo nota di ogni dettaglio. «Davvero?» «Così si dice.» Rabbi Simon frugò nel cassetto della sua scrivania e tirò fuori un pacchetto di sigarette. «E se è vero, ciò spiega perché Leonid fu costretto ad andarsene. Non c'era spazio per un ebreo in una società gestita da una persona con quelle idee.» Aprì il pacchetto di sigarette e lo porse a Ikmen. «Sigaretta?» «Grazie.» Prima di accendersela, Ikmen batté delicatamente il cilindretto di tabacco sulla scrivania. «Ha detto che la Seker Textiles è ancora di pro-
prietà di Smits?» «A quanto mi risulta, sì. Anche se non credo che Leonid avesse mantenuto i contatti, da quando se n'è andato... non ne ha mai parlato.» «Tuttavia,» disse Ikmen, «a distanza di oltre cinquant'anni aveva ancora l'indirizzo di quella ditta nell'agenda.» Il rabbino si strinse nelle spalle. «Non ho la minima idea del perché. Il suo lavoro lì dentro, per quanto io ne sappia, era finito negli anni '40.» Fece un sorriso un po' imbarazzato e nervoso. «Intendo dire che non credo che il signor Smits abbia niente a che fare con la morte di Leonid. È molto improbabile.» Con un gesto del polso, Ikmen si portò la sigaretta alla bocca e l'accese. «Sì. Capisco cosa intende dire, Rabbi Simon. Mmm...» Seguì un momento di tensione che Suleyman non capì ma che pensò di dover interrompere. «Sa per caso cosa abbia fatto Meyer dopo aver lasciato la Seker Textiles?» chiese. «Per quanto ne sappia io,» rispose il rabbino, «Leonid non ha più lavorato.» Ikmen e Suleyman si scambiarono un'occhiata perplessa che non sfuggì a Rabbi Simon. «Il fatto che apparentemente Leonid non avesse problemi economici,» continuò, «è sempre stato un mistero per me. Credo che percepisse qualche pensione o vitalizio, ma non l'ho mai sentito parlare di queste cose.» «Che lei sappia, era in arretrato con l'affitto?» chiese Ikmen. «No, anzi, al contrario. Il signor Dilaver, il suo padrone di casa, non poteva lamentarsi, sotto questo aspetto. Leonid era spesso sottosopra e perennemente ubriaco e le sue urla costituivano un fondato motivo di lamentela da parte degli altri inquilini dello stabile. Inoltre, aveva l'abitudine di riempire la sua casa dei peggiori derelitti, compresa, devo dire, la povera Leah Delmonte. Ma dato che pagava puntualmente l'affitto, il signor Dilaver non aveva alcun motivo di sfrattarlo.» Sorrise. «Inoltre, da queste parti quelli che pagano l'affitto sono pochi, e dal punto di vista pecuniario il padrone di casa non avrebbe potuto desiderare un inquilino migliore.» «Pensa che le sue grida e i suoi pianti fossero perlopiù legati al suo violento passato?» Il rabbino sospirò. «Sì. Ne era ossessionato e credo che a volte, quando era molto ubriaco, fosse convinto di essere tornato indietro nel tempo, non so se mi spiego.»
«Perfettamente.» Il rabbino continuò rivolgendosi a tutti e due i poliziotti. «Qualsiasi idea uno possa avere sul castigo divino, non credo si possa essere felici togliendo la vita a un altro essere umano. Se Leonid si fosse sentito a posto, sarebbe rimasto in Russia, no? Subito dopo la Rivoluzione le cose cominciarono ad andare molto meglio per gli ebrei... per un certo periodo.» «Sì.» Ikmen lanciò una breve occhiata a Suleyman, poi si rivolse di nuovo al rabbino. «C'è altro che può dirci, Rabbi Simon?» «No. Leonid, a parte quell'episodio, non parlava mai di sé. Chiacchierava del più e del meno; i prezzi, il rumore che facevano i bambini dei vicini, i suoi dolori, cose del genere. Come ho detto, non parlava mai dei suoi soldi, perciò non sono in grado di dirvi da dove li prendesse.» Abbassò lo sguardo sulla scrivania e aggiunse in tono sommesso: «La gente è spaventata, ispettore.» «Posso immaginarlo.» «A rischio di offenderla, non credo che possa.» Sollevò una mano sul viso e si grattò la barba. «La maggior parte della gente di qui non ha mai sperimentato il vero antisemitismo. Va a onore della vostra gente che non l'abbiano mai sperimentato, ma...» «Grazie, Rabbi Simon.» «I miei genitori erano tutti e due a Dachau. Non ho idea di come abbiano fatto a sopravvivere. Ma grazie a loro e alle loro esperienze e a quelle che ho fatto qui con il mio piccolo e triste gregge di ashkenaziti, mi sono fatto un'idea di cosa sia l'antisemitismo. Molti dei poveri sefarditi di qui hanno paura ma non sono consci del pericolo. Io vedo quello che succede nel resto dell'Europa e, onestamente, non so proprio cosa fare. I tedeschi sono riusciti a farci quello che ci hanno fatto perché noi eravamo troppo fiduciosi, non eravamo preparati.» Guardò Ikmen dritto negli occhi. «Che lei sappia, ispettore, questo problema sta assumendo dimensioni pericolose, qui? Sia franco, la prego.» Ikmen si accese un'altra sigaretta e ne fece rotolare una verso il rabbino. «Mah.» Fece una pausa. «Cosa posso dire? Ci sono, e ci sono sempre stati, elementi di discriminazione senza buoni motivi. Non farei il mio dovere verso gli ebrei di Balat se le dicessi di non stare all'erta. Come probabilmente avrà notato, abbiamo aumentato la frequenza di pattugliamento della zona. Ma vuole sapere la mia opinione?» La sua espressione si fece greve. «Credo che sia stato un singolo individuo a uccidere Leonid Meyer. Una persona profondamente disturbata che aveva un suo assurdo motivo.»
«Ma la svastica...» «Sì, ammetto che chiunque sia stato, deve avercela a morte con gli ebrei, ma non credo che il nocciolo sia questo. Il modo in cui è stato ucciso è molto particolare, la vittima doveva essere proprio quella e doveva morire in quel modo. Personalmente, ritengo che ci fosse un motivo ben preciso. È stato un atto personale nei confronti del signor Meyer. Posso sbagliarmi, ma...» «Intende dire che non crede che ci sia qualche movimento o organizzazione dietro a tutto questo?» «Non posso dirlo con certezza, ma non credo. In ogni modo parlerò anche con questo signor Smits, a breve. Non ho informazioni che suggeriscano un improvviso aumento dell'antisemitismo in questa città. Tuttavia questa eventualità è presa in seria considerazione a livelli molto più alti del mio. I servizi segreti sono in allerta. Egoisticamente parlando, bisogna ricordare che Israele è uno dei nostri alleati in questa regione.» «Certo.» Ikmen si alzò. «Non le rubiamo altro tempo, Rabbi.» Simon fece altrettanto e tese la mano a Ikmen. «Nessun disturbo. È stato gentile a dedicare un po' del suo tempo a rassicurarmi.» I due uomini si strinsero la mano. Suleyman mise via la penna e il taccuino e fece come il suo capo. «Arrivederci, Rabbi Simon.» «Arrivederci, sergente.» Accompagnò i due poliziotti all'ingresso e aprì la porta. «La terrò informata,» disse Ikmen uscendo. «Grazie.» Non appena furono in strada, Suleyman tirò fuori dalla tasca gli occhiali per ripararsi dal sole. Il rabbino stava richiudendo la porta quando Ikmen lo fermò. «Rabbi Simon?» Aveva uno sguardo interrogativo ma anche un po' sconvolto, come se fosse stato assalito da un pensiero spaventoso. «Sì?» fece il rabbino in tono preoccupato. Sembrava quasi che il piccolo ispettore si sentisse male. Non era una domanda facile da farsi per Ikmen, ma la fece. «Come si sente quando vede una svastica?» Il rabbino impallidì e sospirò. «Oh.» Cercò di trovare le parole per descrivere le sue sensazioni in modo pacato, senza emozioni. Desiderava che l'ispettore capisse, ma non riuscì a parlare senza mettere passione nelle sue
parole. «Perseguitato, ispettore. E intrappolato. È come se fossi in gabbia con un fantasma sapendo di non potermi mai liberare.» I due uomini si guardarono e il rabbino si rese conto con stupore che l'ispettore lo aveva capito. Non sapeva come avesse fatto, ma era contento. Era sempre contento quando qualcuno che non fosse israelita capiva. Ogni volta che ciò accadeva, significava che quel numero 17564 faceva un altro passo indietro, nel passato. «Cosa pensi di cucinare stasera per il nostro ospite?» Anya Gulcu alzò gli occhi dal libro. L'uomo alto e barbuto entrato in salotto si diresse verso la chaise longue sulla quale lei era sdraiata. Nonostante l'età avanzata, camminava con passo deciso e busto eretto. Lei non poté fare a meno di pensare che in confronto a lui, gli anni non erano stati altrettanto generosi con lei. Smunta, sciupata, i capelli stopposi, radi e grigi, Anya aveva smesso da tempo di combattere con la sua decadenza fisica. Aggrottò la fronte quando lui si avvicinò e posò il libro sul tavolino che aveva sistemato apposta davanti a sé. «Cosa suggerisci, Nicholas?» disse seccamente. Lui si sedette su una sedia a dondolo sgangherata accanto alla chaise longue e incrociò le mani sul grembo. «È inglese, vero?» «Sì.» Si lisciò con la mano la gonna lunga e arricciata del suo abito di pizzo. In attesa che lui parlasse di nuovo, storse nervosamente la bocca. «Allora non dovrebbe essere troppo difficile. Hai chiesto alla mamma?» «Ehm... no,» rispose con voce tremula. «Non sarà presente, e date le... circostanze, credo sia meglio non disturbarla.» Nicholas sospirò. Sembrava improvvisamente stanco e rassegnato. «Ah sì, certo. A proposito, sai la lettera che ha ricevuto oggi? Non sai quale...» «No! No!» Anya posò bruscamente le gambe a terra e si appollaiò in un angolo della poltrona. Le sue piccole mani tremavano quando se le portò al viso. «Cosa facciamo, Nicky?» Lui si protese in avanti e la guardò severamente, ma con una certa gentilezza. Le prese ambedue le mani nelle sue e gliele allontanò delicatamente dal viso. Il nervosismo di Anya lo irritava, ma cercò di non darlo a vedere. L'amava. «Dobbiamo restare calmi, Anya. Dobbiamo mantenere la mente lucida e fare come abbiamo sempre fatto. Parlare di...» Si guardò la tunica ricamata di rosso e oro che indossava e aggrottò le ciglia. «Non credo che sia l'abito
adatto per stasera, vero?» «Perché no?» Nicholas si morse il labbro. Stavolta non fece nulla per nascondere la sua impazienza. Perché doveva sempre spiegarle tutto? «Ragiona, Anya, ragiona! Questo Robert, chiunque sia, è uno straniero. Non capirebbe. Non vogliamo allarmarlo, no? Quello che succede in questa casa quando non c'è lui non è affar suo, no?» Distolse gli occhi da lei per guardare verso la porta e le scale che portavano al piano superiore. «Non c'è motivo di preoccuparlo con dettagli insignificanti.» «Sì, certo, hai ragione. Scusami, Nicky.» Lui si alzò dalla sedia e si diresse verso la finestra. Guardò la strada, e il suo viso fu illuminato dalla luce chiara e calda del sole. Non riusciva a guardare in faccia Anya quando teneva quel contegno così umile e contrito. Quel suo modo di fare lo irritava da quando erano bambini. Lei lo adottava sempre quando era spaventata, quando voleva che qualcun altro si assumesse la responsabilità di pensare al posto suo. «Comprerò un po' di agnello, patate e riso,» disse in tono deciso. «Puoi preparare un arrosto, agli inglesi piacciono queste cose.» Si girò a guardarla. «Hai dell'insalata?» «Sì.» «Allora datti da fare.» Fece una pausa. Lei aveva l'aria abbattuta, infelice. «Sei capace di farlo, vero, Anya?» Non voleva essere scortese, ma si rese conto di esserlo stato. Dentro di sé, si rimproverò. «Sì.» Improvvisamene lei alzò gli occhi in preda al panico. «Nicky, francamente non so come farò!» Le labbra le tremavano; era sul punto di scoppiare in lacrime. Lui chiuse gli occhi e allargò le braccia desolato. «Devi farlo, Anya. Per Natalia, ricordi? Tua figlia?» Ma... L'impazienza ebbe la meglio. «Per l'amor di Dio, Anya! Sai quello che devi fare. Ne abbiamo già parlato fin troppo. Quell'uomo è un semplice ospite, nient'altro! Non c'è niente che possa andar storto.» Lei fece un lieve cenno di assenso con la testa, ma i suoi occhi erano umidi e le sue mani tormentavano nervosamente il corpetto del suo abito. Era mezzogiorno; fuori il sole era allo zenit, caldo, forte, soffocante. Ma dentro regnava il buio. Le pesanti tende color porpora alle finestre erano tirate con cura; la luce innaturale dell'unica lampada a petrolio rischiarava
appena la profonda oscurità. La camera era riccamente arredata nei colori porpora, oro e mogano. Mobili pesanti, logorati da lunghi anni d'uso. Il tutto era dominato dal letto in mezzo alla stanza. La sua base era lunga, affusolata e a forma di prua. Sui piedi e sulla testata del letto spiccava una lavorazione a intarsio a forma di piccole onde dipinte in oro. Alta quasi fino al soffitto, la testata fungeva da supporto per gli svariati metri di tendaggio lilla che pendevano rigidi e logorati dal tempo sul cuscino, ricadendo sul pavimento. Tanto largo quanto lungo, il letto era rivestito con un copriletto di broccato color porpora i cui bordi lerci e rosicchiati dai topi sfioravano il pavimento. Sopra il copriletto, adagiato su un fianco, riposava il corpo di una donna. Una camicia da notte lunga alla caviglia ricopriva il suo corpo scarno e una peluria spessa e grigia le nascondeva le spalle e parte del viso. Nonostante fosse a riposo, respirava con difficoltà. Ansimava e, nell'espirare, i polmoni emettevano un rantolo e un gorgoglio di muco. Le mani rugose e macchiate dall'età stringevano la coperta irrigidendosi e rilassandosi al ritmo del suo respiro. Fuori, nella città al di là delle tende color porpora, un migliaio di muezzin invitavano i fedeli alla preghiera di mezzogiorno. "Non c'è altro Dio all'infuori di Allah, e Maometto è il suo Profeta". La donna sul letto si agitò. Per un istante il suo respiro cessò, come imprigionato in gola. Il suo viso si tese nello sforzo di rievocare quella che doveva essere stata un'immagine. Dal profondo della gola le uscì un suono soffocato. Poi i suoi muscoli si rilassarono e il respiro riprese. Le mani strinsero la coperta ancora una volta, e lei aprì gli occhi. Attraverso la ragnatela dei capelli, Maria Gulcu osservò il proprio territorio. Credenza, tavolo, lavabo, quadri alle pareti; non era cambiato niente. Non era cambiato niente neanche negli angoli della stanza che non arrivava a vedere. Non aveva bisogno di vedere, sapeva già. Un paravento nell'angolo sinistro, due sedie ricoperte di broccato dorato vicino alla finestra, l'album delle fotografie sul tavolo da gioco vicino alla porta. Tutto al suo posto, come doveva essere. O meglio, quasi tutto. Cosa c'era che non andava? C'era qualcosa nella profondità della sua mente. Una sorta di ansia, di paura. Cos'era? Era recente, questo era il problema. Più lei si avvicinava a un evento, e più in fretta questo svaniva. Dieci anni prima, venti, settanta... ah, sì, settanta, o meglio settantaquattro, era facile. Lei li contava. Senza
fiato. Ogni secondo era registrato, annotato, memorizzato per sempre. Facce: alcune brutali, altre incomprensibilmente amate. E una ragazza. Una ragazza con profondi occhi azzurri e lunghi capelli castani, che si affacciava in punta di piedi alla sua femminilità. Come le altre, ma non come le altre. Lei poteva vedere la ragazza, poteva evocarla quando voleva. Avvicinarsi agli altri diventava più facile col passare degli anni. Maria sapeva il perché e ne era contenta. Il tempo scorreva veloce. Brutale. Tempo odiato. C'erano troppe cose. Ora che non ne aveva bisogno, c'erano troppe cose. Poi... E ieri? Si girò lentamente sulla schiena e guardò il soffitto. La sua vista era peggiorata parecchio negli ultimi anni. C'era un disegno sul soffitto, lo ricordava bene, ma ora vedeva solo un'immagine sfocata. Cacciò dalla mente l'indesiderato ricordo della tappezzeria del soffitto e si rigirò di nuovo sul fianco. Cos'era? E fu allora che vide la lettera. Un grafia spessa e appuntita su carta rosa profumata. Molto particolare. Ah, sì. Era qualcuno a essere fuori posto, non qualcosa. C'era un vuoto nell'elenco dei volti della sua vita. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Man mano che l'incubo si ripresentava, la sua mente, piano piano, collegava. Si scostò i capelli dal viso per prendere un fazzoletto dalla tasca della camicia da notte. Lacrime salate, trattenute dalle rughe e dalle pieghe del suo viso, le bagnarono la pelle. Come poteva aver dimenticato? Si portò il fazzoletto agli occhi e si asciugò le lacrime che le erano scese sulle guance flaccide. Si era girata un attimo e lui se n'era andato. I due uomini rimasero in silenzio mentre si avviavano verso le rispettive automobili. In parte a causa degli sguardi sospettosi e quasi ostili degli abitanti della zona, ma c'era anche un'altra ragione. Stranamente, fu Suleyman ad affrontare per primo l'argomento. «Stavo pensando,» disse, «che Rabbi Simon sembrava un po' nervoso mentre parlava di quello Smits.» Ikmen aspirò una profonda boccata di quella che doveva essere la quindicesima sigaretta della sua giornata. «Lo credo bene.» «Perché?» «È un ebreo!» «Già.» L'espressione assente del suo vice irritò Ikmen in modo esagerato. «Se riflettessi un attimo, capiresti, Suleyman.» Si fermò e si girò a guar-
darlo in faccia, lo sguardo assorto e, fu quasi tentato di pensare Suleyman, appassionato. «I genitori di quell'uomo hanno vissuto l'orrore dei campi di concentramento. Lui sa meglio di chiunque altro cosa abbia fatto e possa fare l'antisemitismo.» «Ma questo Paese non era coinvolto nella guerra, eravamo neutrali e...» «Proprio perché eravamo neutrali, Suleyman, gente come Reinhold Smits si permetteva di esprimere le proprie opinioni senza peli sulla lingua.» Sollevò la mano con la sigaretta verso il viso di Suleyman quasi infilando le sue dita ricurve negli occhi del giovane. «Anche se la convivenza con la popolazione ebrea del nostro Paese è sempre stata pacifica, nel momento in cui un ebreo lancia un'accusa contro un cittadino turco, anche se di origine tedesca, la faccenda si fa seria. Non perché l'ebreo venga necessariamente considerato un idiota, ma perché lui stesso si considera in una posizione di svantaggio. È questo che Rabbi Simon vuole evitare a tutti i costi ed è per questo che, quando andremo a interrogare Smits, non dovremo fare alcuna allusione ai sospetti del rabbino.» «Ma come...» «Dobbiamo limitarci a dire che abbiamo trovato l'indirizzo della Seker Textiles sull'agendina del vecchio e lasciare che sia Smits a spiegarci il suo ruolo. Come ho detto prima, senza voler mancare di rispetto verso i buoni sentimenti del rabbino, non credo che avremo molto da guadagnarci nel rivangare una faccenda di discriminazione razziale vecchia di cinquant'anni. A meno che non ci fosse sotto qualcos'altro...» «Per esempio?» Ikmen gettò a terra il suo mozzicone e riprese a camminare. «Per esempio, il perché Meyer conservasse ancora i dati del suo vecchio datore di lavoro a cinquant'anni di distanza.» Si strinse nelle spalle con l'aria assorta. «Forse negli ultimi dieci anni Meyer si è scopato la moglie di Smits... Chi lo sa!» Nonostante Ikmen fosse piccolo, Suleyman non trovava facile tenergli testa quando era teso e agitato come in quel momento. Doveva quasi correre per stargli dietro. «È questo che intendeva quando ha detto che secondo lei l'omicida aveva motivi personali?» gli chiese col fiato corto. «È possibile, è possibile.» «Ma...» Arrivati all'automobile di Ikmen, che per lo stato in cui era ridotta si distingueva persino in mezzo alla miriade di altre macchine scalcagnate, si fermarono di nuovo. Stavolta, cosa insolita per lui, Ikmen parlò con lo
sguardo rivolto verso il basso. Soltanto dopo, Suleyman avrebbe capito il perché. «Come ho detto prima, Suleyman, credo che chiunque sia stato a uccidere Leonid Meyer, l'abbia fatto per motivi personali. Se l'assassino avesse voluto uccidere qualche vecchio ebreo per il solo gusto di farlo, gli avrebbe semplicemente premuto un cuscino sulla faccia. La faccenda dell'acido, il fatto di averlo dovuto trasportare nell'appartamento, riportarselo via, con il rischio che il vecchio urlasse, e la pericolosità di tutta l'impresa, mi porta a credere che la chiave di tutto sia il metodo. Secondo me, nel momento in cui riusciremo a capire perché Meyer sia stato ucciso in questo modo e per quale ragione, saremo in grado di arrivare all'assassino con relativa facilità.» Sorrise. «Per questo voglio che appena arrivi in centrale, cominci a darti da fare per scoprire chi siano questi altri derelitti di cui ha parlato il rabbino. Se poi riesci anche a combinare l'appuntamento alla Seker Textiles, sarebbe fantastico.» «Mi metterò subito al lavoro.» «Bene.» Ikmen aprì la portiera della sua auto, che come al solito non aveva chiuso a chiave, e prese posto al volante. «Vado all'ospedale a cercare di parlare con quella Delmonte. Ci vediamo più tardi.» «D'accordo.» Mentre Ikmen si avviava nel traffico, Suleyman pensò che il motivo per cui il suo capo non era riuscito a guardarlo negli occhi era dovuto all'imbarazzo. Nonostante Ikmen avesse affermato il contrario, nel suo territorio, nella sua città, era avvenuto un fatto orrendo e, peggio ancora, di matrice razzista. Era imbarazzato e turbato. Suleyman pensò che il colloquio con il rabbino dovesse essere stato una dura prova per lui. CAPITOLO V Beyoglu è un quartiere pieno di contrasti. Ai tempi in cui la Turchia aveva ancora il suo impero, era il centro diplomatico e commerciale non solo di Istanbul, ma dell'intero mondo ottomano. Le grandi potenze dell'era vittoriana, la Russia zarista, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania costruirono nella zona imponenti ed eleganti ambasciate. Fiorirono alberghi, chiese, negozi e music hall; lusso e divertimento a beneficio di diplomatici e consiglieri lontani dalla cristiana e civilizzata Europa occidentale. La Turchia, "malata" di insolvenza, corteggiava l'intero continente ma da furba, e con grande rammarico delle potenze, rimase nubile. Nelle amba-
sciate e nelle caffetterie intorno a Istiklal Caddesi, luogo molto di moda nella capitale, venivano stipulati accordi, ceduti interi paesi e tramate congiure. I banchieri ebrei e armeni del sultano giravano di ambasciata in ambasciata facendo promesse per conto del governo ottomano, ottenendo in cambio elevati prestiti non garantiti che avevano come beneficiario il loro sultano. In questo modo, si crearono ampie alleanze nelle quali gli europei nutrirono molte speranze. Tuttavia, gli Ottomani non onorarono mai gli impegni presi; non ne avevano mai avuto l'intenzione. Erano interessati soltanto al denaro, che peraltro ottennero. La Turchia, e l'Oriente in generale, andavano di moda. Ogni giorno scendevano dall'Orient Express fiumane di ricchi e romantici europei, desiderosi solo di metter le mani sul sistema ferroviario ottomano, a quel tempo in forte espansione; di vendere armi; di continuare il loro viaggio verso l'Anatolia e i tesori dell'antica Troia. Mentre i prìncipi dell'Europa orientale in esilio attendevano indifferenti la morte, al Pera Palas Hotel, Mata Hari ordiva le sue trame. Ma negli anni '20, con la costituzione della Repubblica turca, fu fatta capitale Ankara e per Beyoglu fu l'iniziò di un lungo degrado. Gli eleganti condomini di un tempo furono occupati dal popolo e dappertutto cominciarono a spuntare come funghi piccoli negozi di generi alimentari poveri e bevande ancora più povere. Le strade cominciarono a popolarsi di prostitute che adescavano gli sventurati nei bar e nei cinema dove venivano proiettati film che poco lasciavano all'immaginazione. Tuttavia, negli anni '60, le cose cominciarono a cambiare di nuovo. Ci fu una ventata di rinnovata fiducia e la zona si ripopolò di negozi alla moda. Una nuova generazione, stavolta a maggioranza turca, scoprì le meraviglie di Istiklal Caddesi, i caratteristici bar di Çiçek Pasaj, e l'atmosfera incantata di una dozzina di chiese barocche e gotiche rischiarate solo dalla luce delle candele. Con l'arrivo dei turisti, gli occupanti delle vecchie ambasciate, retrocesse a consolati a seguito delle riforme di Atatürk, si ritrovarono di nuovo in piena attività. I grandi viali e le larghe strade di Beyoglu si ripopolarono, ma non esattamente come nel periodo imperiale. Le prostitute, i cinema di quarta categoria e i bar da due soldi rimasero al loro posto. Classe e mancanza di gusto andavano di pari passo: i locali a luci rosse e il grande liceo imperiale, la scuola per i figli dei ricchi e famosi; i poveri venditori di fiori agli angoli delle strade, il luccichio dell'oro e dell'argento delle vetrine dei negozi di antiquariato; tribù di gatti affamati in cerca di cibo nei bidoni della spazza-
tura davanti al liceo armeno ortodosso. Robert Cornelius amava Beyoglu, era la zona della città che preferiva. Trovava divertente il fatto che nello spazio di cinquanta metri si potesse comprare dalla Sachertorte agli pneumatici per la propria automobile, vedere un film pornografico e visitare il consolato russo. Scese dal tram alla fine di Istiklal Caddesi con una grande gioia nel cuore. Era contento che Natalia abitasse a Beyoglu, contento di conoscere finalmente la sua famiglia, contento che fosse estate. La strada era viva con il suo rumore, i suoi colori, le risate di coppie e famiglie felici dirette ai pittoreschi bar e ristoranti del luogo. La piacevole brezza che si era si levata dalle acque del Corno d'Oro gli scompigliava le maniche della camicia asciugandogli il velo di sudore sulla schiena. Le paure e le ansie degli ultimi due giorni gli sembravano ormai solo dei brutti sogni fatti in un'altra dimensione. Prese a camminare sui binari del tram dal quale era appena sceso. Karadeniz Sokak non era distante; secondo la cartina che aveva consultato, era la seconda a sinistra. La cartina. Aveva passato gran parte della giornata a studiarla furtivamente, con particolare attenzione alla zona denominata Beyoglu, mentre i suoi alunni, chi più chi meno, lavoravano ai loro esercizi. La giornata era volata, lui l'aveva passata bene, ma il bello doveva ancora cominciare. Robert era euforico, anche se nervoso. Poiché Natalia aveva sempre fatto la misteriosa sulla sua famiglia, lui non aveva idea di cosa aspettarsi. Si rese conto che non sapeva neanche in quanti fossero. Forse Natalia viveva da sola con un unico parente anziano? O avrebbe trovato una dozzina di nomi da ricordare: fratelli, sorelle, cugini, nonni? Si fermò davanti alla vetrina ipercalorica di una pasticceria a guardare i dolci esposti. Gli venne l'acquolina in bocca. Erano passate diverse ore dal pranzo e aveva fame. Cosa gli avevano preparato i Gulcu di buono? Di qualsiasi cosa si fosse trattato, sperava che fosse abbondante. La seconda a sinistra era subito dopo la pasticceria. Una lieve interruzione nella lunga fila di vetrine indicò a Robert il punto preciso. Sull'angolo sinistro c'era il chiosco buio e rumoroso di un calzolaio mentre su quello destro un negozio di biancheria intima femminile. Robert si fermò un istante. Karadeniz Sokak era una strada lunga e stretta. E antica: su ambedue i lati si ergevano fitti alti edifici vittoriani, alcuni dei quali provvisti di gallerie, protesi l'uno verso l'altro come a volersi toccare a metà altezza. Scen-
deva dalla strada principale verso Mesrutiyet Caddesi e l'agglomerato verde e bianco del Pera Palas Hotel. Proseguendo nel suo cammino, Robert poté vedere l'ingresso del famoso edificio, la volta art déco sospesa al di sopra delle porte girevoli dell'ingresso principale. Quelle costruzioni annerite dal tempo avevano un che di tetro. Alcune erano disabitate e dalle finestre rotte riecheggiavano i suoi passi che si allontanavano sempre di più dall'allegro chiasso della vita di Istiklal Caddesi. Il numero 12 di Karadeniz Sokak era a metà strada sulla destra. Il palazzo era alto, come gli altri di quella via; Robert contò quattro piani, oltre al pianoterra. A differenza degli edifici adiacenti, era privo di galleria e, fatto insolito per quella zona di edifici in mattoni e pietra, il numero 12 era tutto di legno. Il suo stato di conservazione era pessimo. Benché in alcuni punti ci fossero degli splendidi pannelli finemente scolpiti, la facciata, nell'insieme, aveva un aspetto decadente. Le travi erano visibilmente marce e i davanzali ricoperti di muschio, come i lati del portone nero dove in alcuni punti era cresciuta addirittura l'erba. Sia pure impercettibilmente, la parte inferiore della casa aveva un'angolazione diversa rispetto alla parte superiore, come se la struttura fosse ruotata di cinque gradi su sé stessa nella parte centrale. Nonostante la leggera brezza faceva ancora molto caldo, ma le finestre erano chiuse. Fuori, non si sentiva alcun rumore provenire dall'interno della casa. Robert sentì come un nodo allo stomaco. Era forse lo scenario di uno scherzo crudele, quel guscio dall'aria triste e abbandonata? Com'era possibile che lì dentro vivesse qualcuno? Salì i gradini verso il portone. Abbassando lo sguardo verso la grata sotto la quale si intravedeva il seminterrato pieno di spazzatura, vide due paia di occhi di roditore che lo fissavano. Batté due volte il pesante battente di ferro e attese. Per una trentina di secondi non accadde nulla. I topi continuavano a fissarlo; il silenzio si chiuse intorno a lui come una camicia di forza e Robert Cornelius fu preso da un'agitazione che un attimo dopo si trasformò in rabbia. Poi, improvvisamente, senza il preavviso dato dal rumore dei passi che si avvicinavano, la porta si spalancò. «Efendi?» L'uomo, che doveva aver superato da un pezzo la mezza età, era alto, eretto, con una folta barba. I suoi vivaci occhi azzurri, quasi sorridenti, sprigionavano una grande energia. Abbigliato con un tre pezzi di lana dall'aspetto molto pesante, sembrava più un inglese che un turco. «Ehm...» Robert si trovò momentaneamente a corto del suo vocabolario
turco. Con fare goffo si puntò le dita al petto dandosi un colpetto. «Sono Robert Cornelius.» L'uomo fece un sorriso cordiale e lo salutò tendendogli la mano. «Ah, bene, è arrivato. Sono Nicholas, lo zio di Natalia.» Robert strinse con forza la mano che gli veniva tesa. Si sentiva sollevato. Il suo viso si distese. «Salve. Molto lieto di conoscerla.» «Si accomodi, prego.» La voce dell'uomo era fortemente accentata, come quella di Natalia, ma il suo inglese era migliore, più fluente e naturale. «Natalia la sta aspettando.» Nicholas si fece da parte per fare entrare Robert nel grande ingresso sontuosamente arredato. Era tutto rosso. Carta da parati, paralumi, tappeto... Suleyman sospirò profondamente. La giornata era stata lunga e ora desiderava solo tornare a casa. Avevano fatto pochi progressi e si sentiva insoddisfatto. Certo, era riuscito a ottenere, senza troppe difficoltà, un appuntamento con Reinhold Smits, ma rintracciare i derelitti di Meyer era stata tutt'altra faccenda. Pensare che il signor Dilaver, il padrone di casa, potesse sapere chi fosse quella gente si era rivelato un errore, oltre che una perdita di tempo, anche perché aveva fatto arrabbiare Suleyman continuando a chiedergli quando avrebbero liberato l'appartamento del morto. Deluso dall'inutilità del colloquio con Dilaver, Suleyman era tornato a Balat, dove aveva interrogato senza alcun risultato due persone: prima l'amica di Meyer, la signora Blatsky, e successivamente un'anziana donna che pareva una pazza e che abitava al pianoterra. Tutte e due parlavano poco il turco ed era stato impossibile andare avanti. Poco prima di lasciare Balat, si era imbattuto in un potenziale aspirante al termine di "derelitto" steso davanti all'entrata della vicina hamam, ma l'uomo in questione, oltre a essere imbrattato di vomito, era talmente ubriaco da risultare incomprensibile in qualsiasi lingua. A quel punto Suleyman aveva deciso che sarebbe stato meglio delegare quel compito a Cohen. La mattina dopo, al rientro in servizio, l'agente ebreo avrebbe trovato sulla sua scrivania istruzioni in tal senso. Suleyman fece una smorfia. Cohen l'avrebbe sicuramente odiato per questo. Anche Ikmen aveva fatto la sua parte. Vista l'ora tarda, Suleyman pensò che il colloquio con Leah Delmonte dovesse aver dato buoni frutti, anche se lui non ne conosceva ancora l'esito. Perché il capo di Ikmen e Suleyman, il collerico commissario Ardiç, aveva convocato l'ispettore appena questi era tornato dall'ospedale. E secondo i calcoli di Suleyman, dovevano
essere passate ormai quasi quattro ore. Non era un buon segno, sia per la durata sia per le precedenti esperienze con Ardiç. Il turno di Suleyman era terminato già da un'ora, ma lui non se l'era sentita di tornarsene a casa senza sapere com'era andata. Nella migliore delle ipotesi, Ikmen avrebbe avuto bisogno di qualcuno su cui sfogarsi, dopo la tremenda prova cui doveva essere stato sottoposto. E nella peggiore? Suleyman non osava pensarci. Ardiç, come sapeva anche l'ultimo dei poliziotti, riusciva ad essere ottuso fino al limite della follia. La porta dell'ufficio si aprì lentamente e apparve Ikmen, la schiena curva, le braccia penzoloni sui fianchi. Il suo viso stanco tradiva una pazienza abusata oltre i limiti. «La mancanza di immaginazione di quell'uomo è quasi patologica.» Pronunciò le parole come un automa, come se fosse troppo stanco o annoiato per metterci un po' di emozione. «È andata male con il commissario, signore?» Ikmen fece il giro della sua scrivania e si sedette. «Sai che quel bastardo voleva toglierci il caso?» Si accese una sigaretta. «E perché?» «Perché presenta dei risvolti politici. A quanto pare, il console israeliano ci tiene molto a seguirne gli sviluppi. Ardiç, il console e il sindaco si sono fatti l'idea che rientri in un'operazione nazista su vasta scala. L'idea che possa trattarsi semplicemente di un pazzo che ha fatto tutto da solo sembra non sfiorarli nemmeno.» Suleyman si sentì avvilito. «Allora non potremo più occuparcene?» Ikmen liquidò la domanda con uno scarto improvviso del polso. «Oh, no. Ci è voluto un po', come avrai notato, Suleyman, ma alla fine sono riuscito a persuaderlo, quello stupido bastardo.» Si sporse in avanti sulla sedia e guardò Suleyman attraverso la pila di pratiche. «Stava per affidare il caso a Yalçin!» Suleyman si stupì. «Pensavo che l'ispettore Yalçin fosse un po' vecchio...» «Vecchio!» Ikmen si stava rumorosamente riprendendo. «Sì, lo è, ma non ce l'ho con lui per l'età. Quell'uomo è un cretino, ha un cervello di gallina! Ardiç ha detto per la sua "notevole esperienza in campo politico", non ha avuto il fegato di dire che in realtà è per il mio noto debole per il buon brandy.» «Tutti sanno che a lei piace bere, signore.» «Esatto. E tutti sanno che non mi ubriaco mai! Cosa pensava che facessi, quell'idiota? Che andassi dal console israeliano a vomitargli tutto addos-
so?» «Allora come è riuscito a convincerlo a lasciarle il caso, signore?» «Ikmen spense la sigaretta a metà e ne accese un'altra.» Gli ho detto la verità. Che Yalçin è un perfetto idiota e che non sa fare il suo lavoro. E che se avesse affidato a lui il caso Meyer, io avrei rassegnato le mie dimissioni e altrettanto avresti fatto tu. «Signore!» Ikmen si mise a ridere nel vedere l'espressione indignata del suo vice. «Mi dispiace, Suleyman, non avrei voluto coinvolgerti, ma mi sono fatto prendere dalla foga del momento. Comunque non ha importanza. Ha funzionato. Alla fine ha capito. In fondo sapeva che io ero l'unico adatto a questo caso.» Fece un sorriso sarcastico. «Credo che il sindaco gli abbia fatto qualche pressione. Grande sostenitore della rispettabilità, il nostro sindaco! Il tipo di persona che quelli della buoncostume beccano spesso e volentieri con adescatori minorenni di dubbio sesso. Comunque,» aggiunse picchiando il pugno sulla scrivania, «al lavoro! Cosa è successo o non è successo, qui dentro?» «Niente di nuovo, con i derelitti, ma ho deciso di passare l'incarico a Cohen.» Ikmen sorrise. «Non parlano molto bene turco, eh?» «No.» «E la Seker Textiles?» «Ho fissato un appuntamento con Reinhold Smits a casa sua a Bebek, per domattina alle dieci.» «Bravo ragazzo!» Fece una pausa, poi scrutò Suleyman negli occhi. «Immagino che vorrai andare a casa, ora.» «Se non c'è altro, signore...» Ikmen si sentì cattivo. Il giovane era un gran lavoratore ed erano già le sette e un quarto, ma c'era un'altra cosa, ed era importante. Come Suleyman, Ikmen non era soddisfatto di come stavano procedendo le indagini. Desiderava ottenere qualche risultato a tutti i costi, dimostrare a se stesso che la giornata non era stata solo uno spreco di tempo. «Che ne diresti di andare a trovare quella donna, Maria Gulcu, a Beyoglu?» «Adesso?» «Sì.» Si alzò. «Ho la netta sensazione che sia una parente. Se lo fosse, potremmo fare qualche passo avanti. Forza, diamoci da fare prima di fossilizzarci in casa davanti alla televisione. Dimostriamo ad Ardiç che siamo
bravi.» «Suleyman sospirò.» Sì, signore. «Si mise in tasca le chiavi della macchina e si alzò faticosamente in piedi.» Ah, a proposito, com'è andata stamattina all'ospedale? «Ah, già, Leah Delmonte.» Ikmen fece una risatina, ma i suoi occhi erano tristi. «Ha ballato per me.» Suleyman lo guardò con aria interrogativa. «Credo che volesse essere un flamenco. Un mucchio di gesti con le braccia e sguardi suggestivi. Pessima esibizione. Il suo medico era atterrito.» «Ma cosa ha detto di Meyer, signore?» Ikmen si strinse nelle spalle abbassando lo sguardo sulle sue scarpe consumate. «Niente, non ha detto niente. È un punto morto dell'indagine.» Alzò bruscamente lo sguardo e cambiò argomento. «Andiamo, Suleyman, andiamo a vedere cos'ha da dirci Maria Gulcu.» Robert trovò il cibo molto buono, anche se strano. Nel tentativo di soddisfare il suo palato inglese, i Gulcu avevano creato una gran confusione culinaria. Secondo le abitudini turche, le verdure erano state servite separatamente prima della carne. Avevano cominciato con zucchine fritte e patate arrosto seguite da cosciotto di agnello, anche questo arrosto, accompagnato dal riso e da un'insalata di barbabietole con abbondante aglio. Il dessert, il piatto più strano di tutti, consisteva in fichi freschi cosparsi di una crema molle. Robert aveva notato che quella zuppetta gialla non piaceva ai suoi ospiti, ma l'avevano mangiata tutti, forse per far piacere a lui, pensò. Era stata una loro attenzione nei suoi confronti, ma lui faceva fatica a mandare giù quella roba. Era disgustosa. Nel mettersi in bocca l'ultimo fico scuro e molle, Robert si guardò intorno. Natalia, sua madre e due zii. Tutti gentili, tutti sorridenti, salvo la madre, ma tutti alquanto strambi. Lo zio Nicholas sembrava uscito da un cartone animato. Pomposo e spavaldo, aveva tutta l'aria di essere lui il capofamiglia, per quanto Robert avesse potuto capire. Lui, Anya, la madre di Natalia, e Sergei, l'altro zio, erano fratelli. Nessuno aveva accennato all'assenza del padre di Natalia. La madre, rispetto a Nicholas, era invecchiata male oppure doveva essere molto più anziana di lui. Minuta e timida, parlava poco e in un inglese molto zoppicante. Per lo più se ne stava in silenzio, spizzicando nervosa-
mente il cibo nel piatto. Tuttavia i membri più strani e sconcertanti della famiglia erano Sergei e Natalia. Poco abituato ai disabili, Robert si sforzava di non guardare Sergei. O almeno di non farsi sorprendere nel guardarlo. Magro e raggrinzito, il fratello di Nicholas e Anya aveva gli arti deformati. Le sue braccia, dai polsi ai gomiti, erano orribilmente gonfie, con la pelle tesa e livida, e dall'aspetto dovevano essere anche molto dolorose. Sergei si portava le posate alla bocca lentamente e con difficoltà. Ma le sue braccia erano niente in confronto alle sue gambe inerti, inchiodate sulla sedia a rotelle. Era la prima cosa che Robert aveva notato quando Nicholas lo aveva fatto accomodare in soggiorno. Nel presentarsi, Sergei aveva sorriso; il suo inglese era migliore di quello del fratello. Ma Robert vide solo le gambe dell'uomo, le sue ginocchia orribilmente gonfie e storte, i suoi piedi deformati e flosci. Il suo perenne sorriso e i suoi modi cordiali sembrarono a Robert quasi arroganti. In una persona con il suo handicap, quella compostezza sembrava in qualche modo innaturale. Gli unici storpi che ricordava li aveva visti in ospedale. Gente sprofondata nel proprio silenzio, senza speranze e senza personalità. Ma era Natalia la più strana di tutti. Riservata, quasi timida, nonostante si trovasse nel suo contesto naturale. Come sua madre, parlava poco e sembrava persino un po' ansiosa. Da quando era arrivato, lei non lo aveva guardato negli occhi nemmeno una volta, limitandosi ad assentire a tutte le richieste dei suoi familiari con un solenne cenno della testa. A Robert sembrava strano essere con lei senza essere dominato da lei. Era come se lei si fosse temporaneamente ridimensionata. Forse si stava chiedendo cosa lui pensasse della sua famiglia. E loro, cosa pensavano loro di lui? Mentre Natalia raccoglieva le coppette del dessert e spariva con sua madre in cucina, Robert notò per la prima volta quanto fosse piccola. Il semplice abito bianco che aveva scelto per la serata non faceva per lei. Natalia aveva bisogno di colori; rosso, oro, nero, che esaltassero la sua bellezza esotica. Il bianco la rendeva quasi invisibile e in qualche modo impotente. Nicholas tirò fuori dalla tasca due grossi sigari e ne porse uno a Robert. «Fuma?» «Sì, grazie.» Gli venne teso un coltellino con il manico a forma di testa di drago. Robert tagliò l'estremità del sigaro con sorprendente abilità. Un caso, per un principiante. Nicholas rimise la mano in tasca e tirò fuori un braccialetto di oro rosso.
Lo diede a Robert, poi si guardò furtivamente intorno. «Le donne sono in cucina, glielo posso mostrare.» La lavorazione dei ghirigori a forma di onde era inconfondibile. Uno squisito manufatto del laboratorio di Avedissian. Era molto simile a quello che Robert aveva inviato a sua madre oltre un anno prima, il braccialetto che aveva fatto incontrare lui e Natalia per la prima volta. Il pigmento rosso dell'oro emanava una luce calda nel palmo della sua mano. «Bellissimo,» disse Robert rigirandosi il gioiello nella mano per vederne i riflessi dati dal candelabro d'argento sul tavolo. Nicholas gli si fece più vicino. «Natalia l'ha preso per sua madre, per il suo compleanno. L'ha preso lunedì sera, al termine del suo lavoro.» «Era molto stanca, quel giorno,» disse Sergei come a voler sottolineare il fatto. Guardò Robert. «Il Gold Bazaar è sempre pieno nella stagione turistica. Specialmente all'inizio della settimana. Povera Natalia, non ha quasi il tempo di respirare.» Notando lo sguardo eloquente che si scambiarono i due uomini, Robert sentì il sangue gelarglisi nelle vene. «Sì,» disse in un tono che sperava non tradisse il suo disappunto. Ma sapeva di non essere riuscito nel suo intento. Gli tornò in mente Balat e il suo problema, e fu assalito di nuovo dai dubbi. Non si trovava lì per una normale visita alla famiglia di Natalia! Se non ci fosse stato quel lunedì, non si sarebbe mai nemmeno avvicinato al numero 12 di Karadeniz Sokak. Si sentiva profondamente offeso. Per chi l'avevano preso? Pensavano davvero che ci sarebbe cascato? Ma conoscendo la risposta, si sentì sprofondare. Era venuto di sua spontanea volontà, sperando... sperando cosa? L'ansia gli rimescolò il cibo nello stomaco. Qualsiasi cosa stesse facendo Natalia a Balat lunedì, doveva essere più seria di quanto avesse pensato. Forse lui era stato troppo precipitoso nel ritenerla estranea a qualsiasi fatto oscuro? Dopotutto, non poteva dire di conoscerla bene. Continuando a tacere alla polizia, non stava forse aiutando quella estranea rendendosi suo complice? Gli zii guardavano e aspettavano. Lui sentiva la loro tensione. Avvelenava l'aria intorno a loro come una nube tossica. Robert fu preso dalla nausea e, scusandosi, si alzò dal tavolo. «Ehm... il bagno, per favore?» Nicholas sorrise. «Seconda porta a destra in fondo al corridoio.» «Grazie,» fece Robert allontanandosi. Nella stanza regnò il silenzio finché il rumore della chiave che girava nella serratura della porta del bagno non sostituì quello dei passi di Robert. Sergei si girò verso suo fratello. «Oh, Dio!» gemette.
Nicholas, con l'aria truce, alzò la testa in segno di assenso. «L'abbiamo gestita male, vero? Siamo stati alquanto impacciati.» La loro conversazione fu interrotta da due colpi che qualcuno batté alla porta. Nicholas posò il sigaro sul portacenere con l'aria accigliata. «Chi può essere?» La risposta di suo fratello fu dura, sgradevole. «Se vai a vedere, lo scoprirai, Nicky. Sei tu che hai le gambe che funzionano.» Dopo aver fulminato con lo sguardo il piccolo storpio, Nicholas si affrettò verso l'ingresso. Quando aprì la porta, Nicholas si trovò di fronte due uomini. Il più basso e anziano dei due sorrideva. «Buonasera, signore.» Dopo aver estratto dal taschino della giacca un tesserino di riconoscimento, si presentò. «Ispettore Çetin Ikmen del dipartimento di polizia di Istanbul.» «Polizia!» Quel poco di colore che il viso di Nicholas era riuscito a conservare, svanì di colpo. «Sì, signore.» Il sorriso di Ikmen si fece più largo. «Niente di cui preoccuparsi, signor Gulcu, stia tranquillo.» «Come fa a sapere il mio nome?» Ikmen ignorò la domanda e girò la testa verso il collega più giovane. «Questo è il sergente Suleyman.» Nicholas guardò il giovane senza sorridere, con lo sguardo duro. «Cosa vuole?» chiese tornando a guardare Ikmen. «Ci risulta che qui abiti una signora di nome Maria Gulcu, signore.» «Sì, mia madre. Cosa volete da lei? È molto vecchia. Non le piace essere disturbata da estranei.» «Non ruberò molto tempo a sua madre,» continuò Ikmen in tono cordiale. «Come avrà letto sui giornali, lunedì pomeriggio è stato ucciso a Balat un anziano signore. Tra i suoi oggetti personali è stata ritrovata un'agendina contenente il nome di sua madre e l'indirizzo di questa casa.» «Oh.» Fu più un sospiro che una parola. Nicholas rimase senza fiato e il suo viso impallidì. Restò per qualche istante in silenzio, esitando, indeciso sul da farsi. Ikmen ne approfittò subito. «Per questo è importante che parliamo con sua madre. Se conosceva quell'uomo, potrà darci delle informazioni sul suo conto. Come comprenderà, più cose sappiamo sulla vita della vittima, più possibilità abbiamo di prendere il suo assassino.»
«Capisco.» Nicholas posò lo sguardo sul pavimento deglutendo nervosamente. «Ha sentito di questo omicidio, signore?» «No, no... no, ispettore,» negò distrattamente. Si passò le dita tra i capelli guardando nel vuoto al di sopra delle teste dei poliziotti. «Se conosceva quell'uomo, Leonid Meyer...» gli occhi di Nicholas ebbero un guizzo e lui si rese conto che, per quanto lieve, non doveva essere sfuggito al poliziotto, «...si agiterà quando le dirò che è morto. Cercherò di essere il più delicato possibile, ma se lei o un altro membro della famiglia volesse essere presente, io...» «Certo.» «Credo di non sbagliare dicendo che sua madre non era una parente di...» Le parole di Ikmen furono bruscamente interrotte da una risata sgradevole e fuori luogo. «Oh, no, assolutamente no!» «Ah... bene.» Seguì un silenzio imbarazzato. Nicholas non sapeva cosa fare. Fissò i poliziotti, si girò a guardare dentro casa, poi tornò a guardare Ikmen. Si morse il labbro inferiore e si grattò la testa. Ikmen continuò a sorridere. «Perché non va ad avvisare sua madre, signor Gulcu?» Robert si sciacquò il viso e si guardò allo specchio con le gocce che gli colavano lungo il mento ricadendo nel lavandino. Sulla punta del naso gli si formò un piccolo globo trasparente. Aveva l'aspetto stanco; le sue palpebre inferiori erano appesantite da profonde occhiaie. Tracciò col dito le rughe che dal naso gli scendevano agli angoli della bocca. I primi segni della mezza età che avanzava. Afferrò un asciugamano e si asciugò il mento. Le mani gli tremavano e lui schioccò la lingua con impazienza. Era una cosa che detestava. Aprì la porta del bagno sospirando. Desiderava solo uscire da lì per tornarsene a casa sua a riflettere. La relazione con Natalia era sempre stata difficile. Non avrebbe mai dovuto lasciarsi coinvolgere da lei; era troppo complicata. Quell'ultimo evento era stato la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, e nonostante ciò... Mentre si richiudeva la porta alle spalle, la vide. Era in corridoio e gli dava le spalle, con i lunghi capelli scuri che le ricadevano sulla schiena. Robert gemette. Era facile essere forte quando lei non c'era. Ma non appe-
na la vedeva... Lo eccitava anche in quel semplice abitino bianco. In quella casa lei si comportava diversamente; sembrava più tranquilla, persino più casta. Più carina. E gli piaceva, così. Ma osservando l'altera inclinazione della sua testa e le sue dita nervose appoggiate sui fianchi, capì che la sua arroganza di fondo, che tanto lo affascinava, era tutt'altro che svanita. Allungò un braccio e la prese per la vita, premendo il suo corpo eccitato contro il suo fondoschiena sodo. Lei non si mosse. Stava guardando qualcosa. Robert seguì il suo sguardo. Nicholas stava parlando con qualcuno sulla porta. Fuori era buio e il suo corpo nascondeva l'interlocutore alla vista di Robert. Parlavano a voce talmente bassa che non si riusciva a sentire le loro parole. Robert guardò Natalia; il suo viso era tirato, immobile, fisso su quanto si stava svolgendo sulla porta d'ingresso. Lui provò la sgradevole sensazione che lei non si fosse neanche accorta della sua presenza. Il gesto affettuoso che lui aveva fatto nei suoi confronti, la risposta fisica del suo corpo, erano andati sprecati. «Natalia?» Robert alzò lo sguardo contemporaneamente a quello di Natalia, muovendo la testa insieme a lei. Nicholas era rientrato dentro casa seguito da due uomini. Uno era giovane, di bell'aspetto e dal viso sconosciuto. Mentre l'altro... «Natalia, sali dalla nonna a vedere se è in condizioni di ricevere.» Il viso di Nicholas era privo di colore. «Due uomini della polizia desiderano parlarle.» Ma certo! Era l'ispettore che lo aveva interrogato a scuola! Inconfondibile. Piccolo, arruffato, sembrava un letto disfatto. Lo stava guardando sorridendo. Natalia si liberò delicatamente dal braccio di Robert. «Sì, zio,» disse dirigendosi verso la scala. «Salve, signor Cornelius.» Natalia si sentì gelare. Guardò il piccolo uomo sporco in piedi accanto a suo zio. Nicholas stava sudando vistosamente. «Vai, Natalia.» Lei si avviò per le scale e nel passare davanti al suo amante, gli lanciò una rapida occhiata. Per una volta, gli occhi di Robert non erano posati su di lei, ma sul gruppetto di uomini vicino alla porta. «Salve, ispettore Ikmen,» replicò meccanicamente. Natalia si richiuse la porta alle spalle. Maria si alzò a sedere sul letto appoggiando la schiena sui cuscini. Guardò la figura silenziosa seduta sulla
sedia accanto alla finestra, con la testa inclinata da un lato. Dopo una lunga pausa, si decise a parlare. «Quando entrano i poliziotti, tu resta in silenzio.» Il suo tono era autoritario. Un ordine che non ammetteva repliche. «Come vuoi,» fu la laconica risposta. «Non è questione di cosa voglio io, è questione di cosa si deve fare.» Fece un lungo sospiro a occhi chiusi. Poi si sentì bussare alla porta. «Nonna?» Lei aprì gli occhi e infilò le mani sotto il copriletto per prendere sigarette e accendino. «Avanti.» Natalia Gulcu fece accomodare i poliziotti nella grande stanza dalla luce fioca in cima alla casa. Passarono alcuni istanti prima che i loro occhi si abituassero all'oscurità. Ikmen sentì le mani di Suleyman toccargli lievemente la schiena. Quando era nervoso, il giovane toccava e allungava sempre le mani. Era un comportamento strano per un tipo come Suleyman. Tuttavia, in quel momento, Ikmen capì perfettamente il bisogno di conforto del suo sergente. Man mano che i suoi occhi si abituavano alla debole luce dell'unica lampada a petrolio in mezzo alla stanza, lui metteva a fuoco i dettagli. Mobili scuri e pesanti, credenze, armadi e cassapanche si stagliarono contro i muri. Dozzine di fotografie pendevano in pesanti cornici nere da un'asta fissata quasi all'altezza del soffitto. Appena sfiorati dalla tenue illuminazione, i tendaggi, la carta da parati e il tappeto emanavano un bagliore purpureo. Al centro della stanza troneggiava un'imponente massa viola: un enorme letto dorato a forma di barca, con la testata che arrivava fino al soffitto. Il letto era avvolto da drappeggi di sottili reti che lo facevano sembrare come racchiuso in una nuvola viola pallido. La luce tremolante contribuiva a rendere la stanza ancora più lugubre agli occhi di Ikmen. Per qualche istante non si mosse niente. Si sentiva un vago profumo d'incenso, come in chiesa. Poi Natalia si avvicinò al letto e tirò il drappeggio di reti da un lato. Al diradarsi di quella coltre violacea, Ikmen fu investito da una zaffata di fumo e solo qualche attimo dopo si accorse della figura minuta che giaceva sulle coperte. Non era piccola, ma piuttosto lunga e sottile, con la testa ricoperta da un'intricata massa di capelli grigi. La ragazza disse qualcosa in una lingua che lui non capì e la figura rispose con una voce profonda, resa roca dal tempo. Le fotografie sul muro guardavano Ikmen senza allegria. Uomini e donne morti da tempo, in uni-
formi militari, crinoline e abiti da pomeriggio. Pareva di essere in una tomba o in una cripta rimasta chiusa per anni. C'era un'atmosfera di ridondanza e oltre a quello dell'incenso, un odore stantio. Natalia tornò verso di loro. «La nonna non parla molto bene il turco. Qualcuno di voi parla russo?» Era una creatura arrogante, pensò Ikmen. Non per le sue parole, ma per il suo sguardo. Quando guardava Ikmen, arricciava leggermente il labbro superiore, come se sentisse un cattivo odore sotto il naso. «No,» rispose lui secco. Poi si girò a guardare un'altra volta il grande letto dorato. Ikmen trovò molto strano che qualcuno avesse potuto vivere per tanto tempo nel suo Paese senza impararne la lingua. Ma dato l'isolamento di quella stanza... «Inglese?» chiese lei guardando al di sopra della sua testa e sorridendo con gli occhi languidi, parve a Ikmen, in direzione di Suleyman. «Sì, parliamo tutti e due inglese... signorina,» rispose in tono sarcastico. Ignorando la sua ironia, la ragazza si rivolse di nuovo a sua nonna, presumibilmente in russo. Alla risposta della nonna, Natalia si fece da parte per permettere ai poliziotti di passare. «La nonna è disposta a vedervi.» Mentre le passavano davanti, lei rivolse un altro sorriso malizioso a Suleyman. Le guance del giovane arrossirono fino a diventare paonazze. La ragazza uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. «Vieni, Mel Gibson!» lo canzonò Ikmen. I due uomini si diressero verso il barcone viola e oro. Robert bevve un lungo sorso di vino dal suo bicchiere e cercò di sorridere a Sergei. «Sta tremando,» osservò lo sciancato senza alcuna preoccupazione. «Ultimamente ho avuto... qualche problema allo stomaco.» «Non per quello che ha mangiato qui, spero.» «No.» Mandò giù un altro lungo sorso, poi prese la caraffa e si riempì di nuovo il bicchiere. Ikmen! Che diavolo ci faceva lì? Robert si sentì come schiacciato dagli eventi che si stavano verificando intorno a lui. C'era qualcosa di terribilmente sbagliato in casa Gulcu, lo aveva notato non appena ci aveva messo piede. All'esterno il degrado, all'interno l'opulenza, colori sgargianti, gente strana. Finché Nicholas e Sergei non l'avevano trattato da stupido, aveva fatto finta di niente. Ma ora che Ikmen l'aveva visto lì, non poteva più.
Doveva essere venuto per l'omicidio di Balat! Qualunque idea si fosse fatto Ikmen dei Gulcu in relazione al caso, Robert ne faceva ormai parte. Si sentiva in trappola, adescato in una rete con strani compagni di prigionia. Rientrando nella stanza, Natalia gli sorrise. Disse qualcosa a Sergei in una lingua straniera e lui le rispose annuendo. «Quando lo zio Nicky e la mamma finiscono in cucina, possiamo giocare a bazzica o tavla, se ti va.» Era calma e rilassata. «Ma la polizia...» cominciò Robert. «La mamma ha un'antica tavola da tavla, era di mio nonno. Ti va di vederla, Robert?» Lui restò a bocca aperta. Lei lo prese per un braccio e lo condusse verso una sedia accanto al camino. «Vado a prenderla.» Uscì di nuovo dalla stanza. Sergei rovesciò un po' di vino rosso dal suo bicchiere macchiando la tovaglia bianca. Strofinò la macchia con un dito, aggrottando le ciglia. Da vicino sembrava ancora più vecchia. La pelle chiara del suo viso era ricoperta di macchie scure tipiche della vecchiaia; i suoi occhi azzurri, grandi e luminosi ma cerchiati di rosso, li scrutarono freddamente da dietro le palpebre rugose. Un braccio secco come un grissino si portò una sigaretta scura alla bocca rivolgendo alla vista di Ikmen le nocche lucide. Nonostante fosse vecchia e scheletrica, le sue mascelle erano sorprendentemente sode; segno inconfutabile che conservava ancora parte dei suoi denti. Tuttavia era sgradevole. C'era qualcosa di grottesco nei lembi di pelle flaccida che le ricadevano dalle dita e dai gomiti. «Avvicinatevi, voi due, voglio vedervi in faccia.» Nonostante l'età l'avesse resa debole e roca, la voce era colta. Il suo accento era perfetto; i toni forbiti e autoritari degli inglesi dell'alta borghesia. Ikmen rimase per qualche istante in muta ammirazione. «Forza!» Batté impazientemente la sigaretta sul portacenere. Ikmen si chinò verso di lei. La donna allungò la mano e gli afferrò il mento. «Mmm...» Le sue mani erano secche, le sue unghie affilate. Ikmen si sentì improvvisamente vulnerabile, come se fosse entrato per sbaglio nudo nella stanza di un estraneo. I muri della casa scricchiolarono lievemente sotto le folate del vento che si era messo a soffiare più forte. Lei mollò la presa e Ikmen si ritrasse d'istinto. Si strofinò il mento con la
mano come per eliminare qualcosa di infetto. Suleyman avanzò nervosamente di qualche passo e la vecchia gli sorrise. Non lo afferrò, ma gli accarezzò delicatamente la guancia con il pollice come se sfiorasse della porcellana preziosa. «Mmm...» mormorò di nuovo, stavolta in tono più dolce. Suleyman si rizzò e si voltò verso Ikmen in preda all'imbarazzo. «Stai diventando il terzo incomodo!» sussurrò Ikmen con veemenza. «Non sgridi il ragazzo!» esclamò la vecchia spegnendo il mozzicone. «Non è colpa sua se è bello.» «Non sapevo che lei parlasse turco, signora,» osservò Ikmen. «Il grado della mia comprensione non interessa nessuno se non me. Ma turco o non turco, il suo tono era chiaro. Conosco l'invidia. Sono stata bella anch'io.» La sua voce si fece di nuovo fredda. «Comunque, come vi chiamate? Non posso chiamarvi semplicemente "agente", è degradante.» «Io sono l'ispettore Ikmen e questo è il sergente Suleyman.» La vecchia spostò i suoi arnesi da fumatrice verso il lato del letto e lisciò il copriletto con la mano. «Potete sedervi qui, se volete. Non mi dà fastidio.» Ikmen accolse l'invito ma Suleyman rimase in piedi. Ikmen si infilò una mano in tasca e tirò fuori carta e penna. «Mia nipote mi ha detto che siete venuti per avere informazioni sul povero Leonid Meyer.» Il suo viso era di pietra; non tradiva alcuna emozione. Un lampo di luce proveniente da un angolo della stanza catturò l'attenzione di Ikmen: la luce della lampada a petrolio faceva brillare i visi dorati dei santi ritratti su un'antica icona. Si girò a guardare di nuovo la donna. Ecco qualcuno, pensò Ikmen, a cui piace essere sempre un passo avanti agli altri. «Suo figlio non era sicuro che lei fosse al corrente della tragedia, signora.» Lei fece un gesto impaziente con la mano. «Nicholas non sa niente! Crede che io stia impazzendo. È uno stupido.» Ikmen era d'accordo con il giudizio che la signora Gulcu aveva dato di suo figlio. La mente della vecchia era acuta e affilata come la sua, forse di più. «Allora conosceva il signor Meyer, signora?» Dopo essersi accesa una sigaretta, porse il pacchetto a Ikmen. «Prenda.» Lui annuì in segno di ringraziamento e tirò fuori dal pacchetto una grossa sobranie scura. «Sì, lo conoscevo. Ci siamo conosciuti in Russia.»
Ikmen si accese la sigaretta e ne assaporò l'aroma. Una sigaretta da ricco. «Immagino che lei debba essere stata molto giovane, a quel tempo, signora.» «Eravamo tutti e due adolescenti.» Appoggiò di nuovo la testa sui cuscini e lo scrutò attentamente. Le sue risposte stringate diedero a Ikmen l'impressione che la donna non fosse disposta a fornire più informazioni di quanto non fosse strettamente necessario. «Come ha conosciuto il signor Meyer?» «Non credo sia importante...» Il suo modo quasi regale di evitare la risposta lo irritò. Ikmen sollevò la sigaretta in aria per farla tacere. «Se permette, signora, tutto è importante. Più cose sappiamo sulla vittima di un omicidio, più cose apprendiamo di riflesso sul suo assassino. Sono pochi quelli che vengono uccisi da perfetti estranei. Per lo più gli omicidi vengono commessi da parenti, amici e conoscenti. La biografia della vittima è di estrema importanza.» Lei si guardò gli anelli che portava alle dita muovendo le mani davanti al viso per cogliere la luce delle pietre. Sembrava del tutto indifferente allo scatto dell'ispettore. Ikmen guardò Suleyman, ma il giovane aveva lo sguardo rivolto verso le tende. Ikmen aguzzò la vista per capire cosa stesse osservando il suo collega. Sulla grande poltrona di broccato piazzata davanti alle tende c'era una figura ricurva, con le gambe penzoloni, come rannicchiata su se stessa. Non si capiva se fosse maschio o femmina, ma i suoi occhi brillavano nel buio come quelli di un gatto, fissi su Suleyman. «Leonid Meyer era di Perm.» Ikmen distolse lo sguardo dalla misteriosa figura nell'angolo per rivolgerlo di nuovo all'anziana donna. Il nome di quella città non gli era nuovo. «Perm? Negli Urali?» La sua risposta la sorprese. «Bravo, ispettore!» esclamò con un lieve sorriso. Molto lieve. «Dopo la Rivoluzione del 1918, la mia famiglia si trasferì a Perm. Fu lì che conobbi Leonid. Scappammo insieme.» Ikmen spense la sigaretta nel portacenere della donna. Era in momenti come quelli che benediva silenziosamente suo padre per le lezioni, a volte noiose, che gli aveva dato in passato sulla storia dell'Europa. Socchiuse gli occhi pensieroso. «Non avrei mai detto che Perm fosse un buon posto in cui vivere, nel 1918.» Lei parve colta alla sprovvista. «Perché?»
«A quel tempo i bolscevichi avevano molto potere in quella zona. Immagino che la sua famiglia non fosse molto al sicuro in un posto come quello.» «Cos'è che la porta a questa conclusione, ispettore?» «Lei, signora, non ha imparato l'inglese sui libri. Lei lo ha imparato da una persona di madrelingua inglese, una governante o una balia. Lo si capisce dall'eccezionale scioltezza con cui lo parla. Di conseguenza la sua famiglia deve essere stata agiata e quindi ad alto rischio negli Urali.» «Lei è un uomo intelligente, ispettore,» disse la donna sorridendo. «E lei dove ha imparato il suo eccellente inglese?» «Mio padre ha insegnato lingue europee per quasi tutta la sua vita. È stato lui a insegnarmi l'inglese. Purtroppo non mi ha tramandato anche la sua conoscenza del russo. Ma conosco un po' la storia russa. La nostra casa era piena di libri sugli argomenti più svariati.» Ikmen sorrise. Tirò fuori dalla giacca il suo pacchetto di sigarette e lo posò sul letto. «Perché è scappata con Meyer? Perché lui è scappato con lei? Lui era un povero ebreo, mentre lei...» «Eravamo innamorati.» «E non l'ha sposato?» «No.» La donna si mise a ridere. Fu un suono roco e profondo, come un colpo di tosse. «Come lei ha giustamente intuito, la relazione non poteva durare. Checché se ne dica, la classe sociale c'entra sempre in queste faccende. Leonid era un contadino. Immagini se avesse una figlia e si mettesse in testa di sposare il suo bel sergente.» Agitò una mano in direzione di Suleyman. «Si stancherebbe subito di lui. Lui è un contadino. La buona educazione, come dicono gli inglesi, che in materia sono degli esperti, si vede sempre, anche se si indossano degli stracci.» Ikmen sorrise e le offrì una sigaretta, che lei rifiutò con un gesto della mano. «Siete venuti a Istanbul insieme, lei e Meyer?» «Sì. Poi ci separammo e io conobbi mio marito, il signor Gulcu.» «Perché Istanbul?» «E perché no?» Improvvisamente i suoi occhi si offuscarono e lei fissò lo sguardo nell'oscurità oltre le spalle di Ikmen. La sua espressione era dolce, ora, quasi tenera. «Non ho parole per descriverle la situazione che si viveva in Russia. Erano tutti morti o moribondi. Sarei andata all'inferno pur di scappare da lì. C'erano morti dappertutto, accatastati l'uno sull'altro ai bordi delle strade. L'aria era irrespirabile per la puzza. Era tutto distrutto. Persino il vostro Paese, nonostante fosse in rovina, era un paradiso, a
confronto.» Ikmen ebbe la sensazione che lei non fosse più tanto presente. La sua mente era tornata a un passato d'orrore ancora molto attuale per lei. Lui abbassò istintivamente il tono della voce, quasi in un bisbiglio. «E le vostre famiglie, la sua e quella di Meyer?» Gli occhi le si riempirono di lacrime, mentre le pupille si muovevano come se stessero osservando una scena che si svolgeva sulla parete opposta. Mormorò qualcosa tra sé e sé in russo. Poi il suo sguardo tornò a posarsi lentamente su di lui. Osservandola, Ikmen capì quanto dovesse essere difficile per lei tornare al presente. «Morirono tutti, ispettore. Tutti.» Ikmen sentì Suleyman agitare i piedi sul tappeto. Non aveva più dato molto retta al giovane da quando la strana vecchia aveva cominciato a parlare. Si chiese cosa avesse provato il suo sergente a sentirsi definire un contadino. «Che lei sappia, signora, perché suppongo che lei sia rimasta in contatto con lui, c'è qualcuno che possa aver avuto dei motivi per uccidere il signor Meyer?» «Leonid e io non ci vedevamo spesso, specialmente dopo il mio matrimonio. Leonid beveva.» «Ha idea del perché?» «Probabilmente perché gli piaceva, ispettore. L'alcol è un vizio molto comune tra i miei connazionali.» Fece una pausa. Un lieve piagnucolio si levò dalla poltrona vicino alle tende, rompendo il silenzio della stanza. Suleyman si protese in avanti indicando con la mano la fonte di quel suono. «Signora, quella persona...» Le nuvole scomparvero con la stessa rapidità con cui erano comparse e la donna rise di nuovo. «Sei proprio un contadino, tesoro!» Si rivolse a Ikmen continuando a guardare Suleyman. «Deve insegnare al ragazzo a ignorare la servitù, ispettore. La gente penserà che non ha classe.» Ikmen si schiarì rumorosamente la voce. Non intendeva tornare sull'argomento delle classi sociali. «Va bene. Allora, signora?» La donna si strinse nelle spalle. «Non mi viene in mente nessuno. Tra la gente come lui, in quell'orribile posto in cui viveva, forse...» «Altri ebrei?» Non aveva mai pensato all'ipotesi che la donna pareva avergli suggerito. Un nemico all'interno della comunità? Lei lo guardò di nuovo negli occhi con quel suo sguardo fisso e penetrante, simile a quello di un serpente. «Ebrei o nemici di ebrei.»
Guardandola a sua volta negli occhi, Ikmen ebbe una strana sensazione. Come una muta comprensione, la conoscenza di un'esperienza condivisa. Ovviamente era assurdo, lui aveva appena conosciuto quella donna! Ma quella sensazione permaneva. Come una sorta di déjà vu. E lui sapeva che anche lei stava provando la stessa sensazione. Si spaventò e scosse lievemente la testa come a volersi togliere dalla mente qualcosa di ripugnante. «Il signor Meyer aveva una notevole quantità di denaro. Lo sapeva?» «No.» Tuttavia non sembrava sorpresa. «Forse il motivo sta proprio lì, ispettore.» «Il modo in cui è stato ucciso suggerirebbe di no, signora.» Lei sollevò un sopracciglio con aria interrogativa. «Oh?» Era difficile non lasciarsi trascinare da quel viso sciupato ma intelligente. Ikmen era sempre stato sensibile all'intelligenza. Il desiderio di condividere la sua conoscenza con qualcuno del suo stesso livello era forte. Forse se le avesse spiegato in dettaglio l'omicidio, Maria Gulcu avrebbe potuto fare un po' di luce sui lati più oscuri di quel caso. Era quasi certo che lei ne sarebbe stata in grado, anche se non avrebbe saputo dire perché. Avrebbe voluto dirle tutto anche se lei... lei sembrava sapere. Lo squallido appartamento di Balat pieno di sangue... Ma si trattenne. La donna avvolse le braccia una intorno all'altra, lentamente, come serpenti durante il corteggiamento. Nonostante l'età, il movimento aveva un che di sensuale, quasi suggestivo. Ikmen si sentì improvvisamente rifiutato. Si schiarì la voce e proseguì con un tono molto più professionale. «I particolari sono riservati, signora.» Lei alzò le spalle e si schiarì a sua volta la voce. «Come vuole.» Lo disse con indifferenza, come se l'argomento non le interessasse. E invece le interessava. Ikmen diede un'occhiata all'orologio. Si stava facendo tardi e la stanza e i suoi occupanti cominciavano a opprimerlo. Aveva bisogno di uscire. Solo allora sarebbe riuscito a pensare di nuovo a modo suo. Lì dentro era impossibile non lasciarsi sopraffare dalla presenza di quella donna. Tuttavia c'era ancora una domanda che desiderava farle. «Sa qualcosa dei rapporti del signor Meyer con una società denominata Seker Textiles, signora?» Lei girò la testa dall'altra parte, nel rispondere, ma Ikmen si accorse che stava sorridendo. «Sì, è andato a lavorare lì appena arrivato in questo Paese. Ci è rimasto finché non ha litigato col padrone.» «E sa per caso quale fosse stato il motivo del loro litigio?»
Lei si voltò a guardarlo. Sulle sue labbra rugose non c'era più traccia di sorriso. «Era il 1940 o giù di lì e il titolare della società, un certo Smits, era un tedesco molto patriottico. Vuole che le dica altro?» «No.» Ikmen sospirò. «No, quello che ha detto è già fin troppo chiaro.» Poi decise di tagliar corto, perché nonostante il suo interesse per quella storia, non vedeva l'ora di andarsene da lì. «C'è altro che può dirci del signor Meyer, signora?» Lei abbassò lo sguardo sulla coperta picchiettandola con le dita. «Beveva, viveva in povertà, non aveva niente e nessuno. Cosa posso dire?» «Ma una volta lo amava, no?» Il suo viso si rabbuiò. «Sì. A volte si ama qualcuno per ragioni che non hanno niente a che fare con l'intelletto né con il corpo. Ma non mi aspetto che lei capisca, ispettore.» «Potrei, se conoscessi le ragioni.» La donna rimise le sigarette e l'accendino sotto le coperte e chiuse gli occhi. «Sono stanca. La sua curiosità sta diventando indiscreta. Se ne vada, per favore.» Non lo disse in tono scortese, ma Ikmen capì che, almeno per il momento, sarebbe stato inutile farle altre domande. Aveva parlato, ed era già qualcosa. Ikmen si mise in tasca il pacchetto di sigarette e si alzò. «Va bene. Grazie per la sua collaborazione, signora.» Lei rise, ma senza allegria. «Buonanotte, signori.» I due poliziotti si avviarono alla porta. Quando Suleyman lo raggiunse, Ikmen sentì la mano del giovane toccargli la spalla. Çiçek Pasaj è un vialetto illuminato dal neon. Da Istiklal Caddesi, si estende a ovest terminando a Balak Pazar, il mercato del pesce. Ai suoi lati, una fila ininterrotta di bar e piccoli ristoranti chiamati lokantalar. Da sempre ritrovo sia della gente del popolo sia degli intellettuali della città, questa piccola e caratteristica zona dall'atmosfera trasgressiva è il tempio dei bevitori e degli eccentrici. Oggi gli avventori sono perlopiù turisti, fenomeno dovuto alla maggiore igiene del luogo. Completamente rifatta alla fine degli anni '80, prima di allora la si poteva tranquillamente definire un luogo di "perdizione". Çetin Ikmen ricordava bene quel periodo di lotta sfrenata, di prostitute brutte e insistenti, di pessimi liquori da due soldi. Rimpiangeva quei tempi passati. Non che in quel momento fosse perso nei suoi ricordi. Suleyman
era agitato e lui non lo aveva mai visto così. Sembrava quasi sotto shock. «Mi aspettavo di veder sbucare da un momento all'altro Dracula da sotto il letto!» Ikmen si riempì il bicchiere e si protese verso il collega. Il brusio dei bevitori di Çiçek Pasaj era notevole, ma non voleva rischiare che qualcuno sentisse la loro conversazione. «Abbassa la voce, Suleyman! Dovresti bere. Ti sentiresti sicuramente meglio!» «E quella persona nell'angolo!» «Lascia che ti dia un piccolo consiglio sul mondo e sul posto che occupi tu nel mondo, Suleyman.» Si accese una sigaretta. «Il mondo è infinitamente vario e in qualità di poliziotto, tu, più di chiunque altro, sarai esposto alle sue stranezze.» Guardò il fondo del suo bicchiere con aria greve. «In effetti la vecchia Gulcu fa paura. Ho avuto la strana sensazione...» «Almeno non ha provato a trascinarla in quell'orribile letto!» Distolto dai suoi pensieri, Ikmen fece una risatina. Era inutile tentare di spiegare cosa avesse provato in quella strana stanza. Neanche lui riusciva a capirlo. «È vero, tu invece hai avuto molto successo!» Suleyman si appoggiò pesantemente al tavolo sporgendosi verso di lui. «Mi sono sentito un oggetto, una cosa, davanti a quell'orrenda vecchia e alla sua degna nipote!» «La ragazza mi è sembrata attraente.» «Continuava a guardare il mio...» «Sì, la sindrome di Lady Chatterley.» «Cosa?» Ikmen si mise a ridere. «Niente.» Rimasero in silenzio. L'agitazione di Suleyman sembrava essersi temporaneamente assopita. Ikmen bevve un sorso dal suo bicchiere tenendosi in bocca il liquido prima di mandarlo giù. Nel bar di fronte, il vecchio fisarmonicista libanese attaccò La marsigliese. «Lasciando per un attimo da parte la casa, lo strano scenario, eccetera, ci sono un mucchio di altre cose che mi sono sembrate strane, di quel colloquio.» «Cosa?» «Quella storia della sua famiglia che si è trasferita negli Urali subito dopo la Rivoluzione. Non ha senso. Ricchi com'erano, li avrebbero fatti a pezzi. E come ha fatto, una ricca russa, a conoscere un povero ebreo come Meyer? Le classi non si mescolavano tanto neanche dopo la Rivoluzione, e a parte tutto, erano su fronti opposti durante la guerra civile che c'è stata dopo. E perché dovevano lasciare il Paese, specialmente lui?»
«Lei ha detto che la situazione era terribile. Avevano paura. Ed erano innamorati.» Ikmen fissò un punto indefinito nel vuoto. «Davvero?» Tornò a guardare Suleyman. «Non riesco a immaginare che quella donna sia capace di amare qualcuno. So che non è una bella cosa da dirsi su una persona, ma non riesco a immaginarla. Sono uscito da quella stanza esausto. Come se mi avessero succhiato il sangue.» «Cosa intende dire, signore?» «Niente,» rispose Ikmen con un sorriso gentile. «Niente.» Non poteva spiegargli come si sentiva. Era una sensazione profonda, quasi inaccessibile. In fondo i Gulcu non erano altro che una famiglia un po' eccentrica di emigrati russi, innervositi dalla presenza della polizia. Ma quella vecchia! Era rimasto paralizzato, quando gli aveva accennato ai nemici degli ebrei. Dette da un'altra persona, quelle parole non lo avrebbero meravigliato, ma dette da lei... il gusto con cui le aveva pronunciate, quello sguardo da serpente che gli aveva rivolto. Come se volesse mettergli la pulce nell'orecchio. E se fosse stato davvero così, perché? Cosa era stato a produrre quella sensazione di esperienza condivisa? Perché lui aveva avuto l'impressione che ciò che aveva visto in quel lurido appartamento di Balat non fosse un mistero per lei? Certo, non era una sensazione nuova, ma una di quelle che con gli anni aveva imparato ad ascoltare. Non aveva ancora finito con la signora Gulcu, o meglio, con Reinhold Smits, che ancora non aveva visto. «Che ne pensi della versione della vecchia sulla storia della Seker Textiles, Suleyman?» «Be'... mi pare abbia detto più o meno quello che ha detto il rabbino.» «Sì.» Ikmen fece un sorriso che aveva più l'aria di un ghigno, pensò Suleyman. «Sono curioso di conoscere Smits. Non capita tutti i giorni di incontrare qualcuno con le idee di Adolf Hitler.» «Non lo sappiamo per certo.» Ikmen alzò il bicchiere in cenno di assenso. «No, come hai detto tu, non lo sappiamo per certo.» Mandò giù un lungo sorso con l'aria soddisfatta e passò a un particolare che pensava il suo collega non avesse notato. «Hai visto quell'uomo in corridoio con la nipote, Suleyman?» «Sì. Gli ha parlato, no?» «Sì. Era Robert Cornelius, uno degli inglesi che ho interrogato ieri alla scuola. Quello che si trovava in zona all'ora in cui è stato commesso l'omicidio. Quello di cui ho qualche dubbio.»
«Crede che possa trattarsi di una coincidenza?» «Potrebbe.» Ikmen si versò dell'altro liquore nel bicchiere. «Comunque voglio controllarlo. Abbiamo tutti i suoi dati in ufficio. Mandali a Londra. Voglio sapere qualcosa di più sul conto del signor Cornelius.» «All'ispettore Lloyd?» Ikmen sorrise; lo faceva sempre quando qualcosa gli ricordava la sua breve visita alla sede londinese di Scotland Yard una quindicina di anni prima. John Lloyd e i suoi colleghi si erano dati da fare per far divertire il gruppetto di poliziotti turchi durante quei quindici giorni. Non che Ikmen e i suoi colleghi avessero imparato un granché sul loro mestiere, ma la birra era eccellente e nel corso degli anni, Lloyd si era dimostrato un prezioso collegamento con la polizia inglese. Tuttavia c'erano cose più immediate che richiedevano attenzione. Ikmen si schiarì la voce. «Sì. Vorrei anche sapere di più sul conto dei Gulcu. Dì a Cohen di pensarci lui. Questo, e l'interrogatorio dei vari derelitti, lo terranno lontano dall'alcol e dalle donne per un po'.» «Sì, signore.» Suleyman sorseggiò lentamente la sua limonata, ma la sua espressione era preoccupata. «Cosa c'è, Suleyman?» «Signore... Non crede che avremmo dovuto arrestare qualcuno con la fedina penale sporca? Meyer aveva soldi e quel quartiere pullula di ladri, spacciatori e ogni sorta di malviventi. Me ne vengono in mente almeno sei che abitano nel raggio di un chilometro da quella casa.» «Non credo si sia trattato di furto. Quale ladro gira armato di canestro pieno di acido solforico? Dopo l'omicidio, l'assassino si è portato via l'arma del delitto e l'acido. La stanza non era sottosopra come se qualcuno vi avesse rovistato in cerca di qualcosa. No, continuo a essere convinto che si sia trattato di una questione personale. Meyer doveva morire e doveva morire in quel particolare modo. Non dobbiamo cercare un disgraziato che ammazza per i soldi di una dose, dobbiamo cercare qualcuno che odia gli ebrei o che odiava Meyer. Più rifletto su questo caso, più mi convinco che chiunque abbia ucciso Meyer, debba aver avuto un motivo. Un motivo molto valido, forse addirittura giustificabile.» «Ma...» «Lo so che do l'idea di uno che pensa solo a bere, ma ho riflettuto molto su questa faccenda. In quell'appartamento non c'era alcuna traccia del nostro assassino se non l'atto in sé. Neanche un'impronta, finora. Neppure il cadavere, secondo Arto Sarkissian, ha fornito qualche informazione utile.
E il modo in cui è stato ucciso! Ci ho pensato tutto il giorno. La devastazione di quel corpo. Il terrore nei suoi occhi...» Si interruppe e guardò nel vuoto scuotendo la testa, come se non capisse o non riuscisse a crederci. Suleyman finì la sua bibita e posò il bicchiere sul tavolo di legno. Non era convinto, ma non poteva fare altro. «Mi fido di lei, signore.» Ikmen sorrise. Sapeva che Suleyman aveva le sue riserve, ma apprezzava la sua fiducia. «Bene. Suppongo che tu voglia andare a casa, ora.» «Sì.» Suleyman prese la giacca dalla spalliera della sedia e se la infilò. «A proposito, signore.» «Mmm?» «Cos'era quella storia dei contadini?» «Oh, hai sentito tutto, vero?» Suleyman si alzò. «Ho sentito alcune parole.» «La signora Gulcu è una terribile snob. Mette l'intelligenza e la classe sullo stesso piano. Pensava che solo perché sono istruito, io dovessi essere un aristocratico.» «E pensava che io fossi un contadino?» Ikmen sorrise di nuovo. «Come dicevo prima, ha il complesso di Lady Chatterley, il desiderio di esercitare il suo potere sui lavoratori giovani e belli. Una fantasia comune nei ceti alti, come la loro convinzione che i contadini siano stupidi per definizione. Idee, ragazzo mio, che hanno contribuito a mettere in ginocchio la Russia imperiale. Non farci caso.» Suleyman si strinse nelle spalle. «Non me la sono presa. Ha sbagliato lei. È stata lei a fare la figura della stupida.» «Oh?» fece Ikmen incuriosito. «Fino ad Atatürk, la mia famiglia era molto potente sulla costa del Mar Nero. Hanno governato le province per secoli.» «Non me l'hai mai detto,» replicò Ikmen meravigliato. L'espressione di Suleyman si fece un po' cupa. «A che pro?» Ma tornò subito di buon umore e si mise a ridere. «Comunque, può darsi che qualcuno dei miei antenati abbia condannato a morte qualcuno dei suoi, signore. Ne hanno fatti ammazzare parecchi. Imbarazzante, eh?» Ikmen sollevò il bicchiere verso di lui. «La storia ritorna con le sue ossessioni!» Ma mentre parlava, la sua voce si affievolì e cominciò a sentirsi di nuovo strano. «Buonanotte, Suleyman,» disse a bassa voce. «Buonanotte, signore. Domattina passo a prenderla alle nove, se per lei va bene.» «D'accordo.»
Il giovane se ne andò e Ikmen si trovò da solo, immerso nell'allegro chiasso della gente intenta a bere. Era il finale adatto a una serata intrisa di fantasmi. I ricchi, i privilegiati e i crudeli. Erano le dieci e mezza quando Robert arrivò a casa di Rosemary. Non ricordava come fosse arrivato lì. Né perché. Era stato preso da quello strano meccanismo che induce gli ubriachi a fare tutto automaticamente. Quello che fa tornare a casa senza sapere come. Robert era un po' brillo, ma non ubriaco. Più che altro era confuso. Da quando era uscito dalla casa di Natalia, circa un'ora prima, era passato attraverso diversi stati d'animo. Prima di tutto la paura, ovviamente, di aver commesso un grave errore. Che si fosse sbagliato sul conto di Natalia, che ora ne sapesse ancora meno di lei. Paura che lei non fosse solo strana, ma qualcosa di ben più terribile, lei e quei suoi strambi parenti. Lo aveva fatto sentire male, sporco, quasi; complice in qualcosa di poco chiaro che andava al di là della sua comprensione. L'arrivo di quel poliziotto non aveva fatto che aumentare il suo disagio. Si era sentito colto alla sprovvista, osservato e perseguitato. Si chiese cosa avesse raccontato loro l'invisibile nonna di Natalia. Si chiese che tipo fosse la donna e perché non si fosse unita al resto della famiglia per la cena. Tuttavia non era riuscito a dire niente né a Natalia né alla sua famiglia. Dopo che i poliziotti se ne erano andati, e a ripensarci bene, mentre loro erano ancora lì, tutto aveva continuato a svolgersi normalmente. Non avevano accennato né agli eventi del lunedì né alla polizia. Avevano giocato a carte chiacchierando del più e del meno; lui aveva guardato il corpo di Natalia, quasi, anche se non completamente, nascosto dal suo ampio abito bianco. Nonostante tutto, il desiderio non lo abbandonava. Forse Natalia possedeva qualcosa di magico, magari grazie all'aiuto di qualche potente afrodisiaco... Suonò il campanello della porta di Rosemary chiedendosi cosa dirle. Non sapeva bene neanche lui cosa volesse dalla sua collega. Fondamentalmente cercava un sostegno morale, pensò. Non aveva intenzione di raccontarle niente, desiderava solo una tazza di tè inglese con un po' di latte e due banali chiacchiere; non voleva restare da solo. La porta si aprì. «Ciao, Robert!» Aveva i bigodini in testa e indossava la camicia da notte. In sottofondo, la BBC emetteva il suo gracchio. «Ciao, Rosemary, posso entrare un minuto?»
Era stato solo un'altra volta a casa sua. In novembre, in occasione della festa per il cinquantesimo compleanno della donna. Faceva molto freddo, quella sera. Lei indossava un abito di velluto blu ed era accompagnata dal suo flirt del momento, un ragazzo curdo di venticinque anni. Dopo di allora c'erano stati due ragazzi turchi e un sudanese. Nella sua brama d'amore, Rosemary non faceva caso alla differenza d'età. Robert si augurò che lei non si facesse un'idea sbagliata su quella sua visita a casa sua a quell'ora tarda. Gli sorrise. «Certo, entra.» Il suo sorriso era allegro, ma Robert si accorse che era preoccupata. Gettandosi una rapida occhiata allo specchio appeso all'ingresso, capì il perché. Il suo viso era pallido, gli occhi cerchiati di scuro. Sembrava appena uscito da un incubo. Lei si scostò da un lato per lasciarlo passare e lo fece accomodare in un soggiorno dall'atmosfera molto accogliente e arredato con gusto. Mentre Rosemary spegneva la radio, Robert si sedette sull'angolo di un grande divano marrone. «Allora,» disse girandosi a guardarlo, sorridendogli di nuovo. «Cosa posso fare per te?» Per un brutto momento Robert pensò che i suoi timori stessero per essere confermati. Ma quando lei andò a sedersi sul bracciolo opposto, lui notò che il suo sorriso era materno e il suo modo di fare timido e riservato. «Oh, desideravo solo fare due chiacchiere.» Fece una risatina nervosa togliendosi un immaginario granello di polvere dai calzoni. Doveva trovare qualcosa di meglio da dire! Non era un motivo sufficiente per disturbare la tranquilla routine serale di un'attempata zitella. Ma non gli veniva in mente niente. Riuscì solo a fare una smorfia, furioso con sé stesso. Nella stanza calò un silenzio amichevole, ma teso. «Si sta alzando un forte vento,» disse Rosemary tanto per dire qualcosa, accennando con la testa verso la finestra. Era imbarazzata almeno quanto lui. La situazione si stava facendo ridicola. Lui doveva dire qualcosa. Doveva dire quello che gli stava capitando. Magari non proprio tutto, ma doveva parlare. Dopotutto, era venuto per quello. Se non avesse parlato di Natalia, sarebbe andato lì per niente. Rosemary era più anziana, aveva più esperienza; conosceva l'amore. «L'amore sta andando a catafascio,» sbottò alla fine. Lo disse con le labbra piegate in un sorriso amaro. «Non credo che capirò mai.» «Oh, mi dispiace.» Sembrava molto più vecchia con i bigodini in testa e le mani incrociate sul grembo. Non era rilassata nemmeno lei. Robert pen-
sò che forse temeva che lui volesse provarci; la stessa cosa che temeva lui da parte della donna. Dopotutto, lui non era il suo tipo. Non era stato solo per il clima che Rosemary aveva passato gran parte della sua vita lavorativa in Medio Oriente. «Vuoi una tazza di tè?» chiese dopo una pausa. «Hai del latte?» «Quanto ne vuoi. E zucchero. Lo vuoi?» Robert annuì. «Tanto zucchero, per favore.» «Ti tirerà su.» Gli diede un colpetto affettuoso sulla mano e andò in cucina. Alcuni minuti dopo tornò con due grandi tazze di tè fumante e una domanda piuttosto seria. Porse una tazza al suo ospite. «Senti, Robert, non per ficcare il naso nei tuoi affari, ma la tua ragazza è di qui?» «Sì.» «Ah.» Lo guardò con aria critica. «Mi pare di capire che fai sul serio.» Robert tirò fuori dalla tasca l'accendino e le sigarette e se ne accese una. «Sì. Le mie sono sempre relazioni serie. La scopata di una notte non è nel mio stile.» Il suo tono compiaciuto non piacque nemmeno a lui; si pentì subito di aver pronunciato quelle parole. «Non che io giudichi male le persone che lo fanno, intendiamoci...» «Va bene, Robert!» Ora Rosemary sorrideva di nuovo. «Alcuni vogliono sistemarsi, altri no. Ce n'è per tutti i gusti. Ma...» «Rosemary?» Fu colto dal desiderio improvviso di raccontarle delle cose. Non nei dettagli, ovviamente, ma a grandi linee. Si protese verso di lei bagnandosi nervosamente le labbra. «Dimmi, caro.» Posò la tazza sul tavolino con l'espressione seria e preoccupata. «Rosemary, che faresti se scoprissi che l'uomo di cui sei innamorata ha fatto qualcosa di terribile?» «Tipo?» «Furto, spaccio di droga, sfruttamento della prostituzione...» Evitò accuratamente di nominare il crimine che aveva in mente. «Non intendo nel passato, ma ora, mentre sta con te.» Lei rifletté per qualche istante, poi riprese la tazza sospirando profondamente. «Penso che dipenderebbe da quanto grande è il mio amore per lui. Se non lo amassi tanto, lo pianterei senza pensarci due volte. Ma se lo amassi tanto...»
«Lo diresti alla polizia?» Si era seduto di nuovo in punta al divano, con le dita che tremavano nervose, strette intorno alla sigaretta. Rosemary sospirò di nuovo. «Se fossi molto innamorata, non lo so. Mi piace pensare che farei la cosa giusta dal punto di vista morale, ma non ne sono sicura, Robert. A costo di sembrare crudele, dico che dipenderebbe dall'attrazione fisica. Avevo un amante, un turco, che mi faceva tremare le gambe ogni volta che mi si avvicinava. Mi sarebbe stato molto difficile consegnarlo alla polizia. Mi era già difficile riconsegnarlo alla moglie!» Fece una pausa. «Per farla breve, non lo so.» Robert bevve il suo tè in silenzio. Quando Rosemary parlò di nuovo, sembrava indifesa, quasi persa. «Lo sai che quella della differenza culturale tra noi e i levantini è un'idiozia. Spesso è quasi impossibile capire cosa stia realmente accadendo. È facile ritrovarsi invischiati in cose che non si capiscono. Da una parte, c'è il rischio di saltare a una conclusione sbagliata che può rovinare la relazione. Dall'altra, quello di ritrovarsi in un mare di guai.» Robert spense la sigaretta nel portacenere e finì di bere il suo tè. «Vorrei risposarmi, Rosemary. Lo so che corro dei rischi per colpa del mio desiderio di mettere su famiglia a tutti i costi ma, sinceramente, non so cosa farei se perdessi quella ragazza. La sento mia, in qualche modo, non so perché...» «Sesso,» disse Rosemary secca, con un mezzo sorriso. «È sempre per il sesso, mio caro. È dannatamente pericoloso. Se il partner è bravo, ne rimaniamo succubi.» Abbassò lo sguardo sul pavimento. «Specialmente se in passato abbiamo fatto delle brutte esperienze. Spesso confondiamo il piacere con l'amore. So di cosa parlo, credimi.» «Lei è tutto quello che ho.» Lo disse sottovoce, quasi parlando a sé stesso. «Anche adesso.» Rosemary si batté una mano sul mento con lo sguardo improvvisamente determinato. «Secondo me, e so che non ti piace sentirtelo dire, dovresti cominciare a stare di più tra la gente, far cambiare aria alla tua vita, mio caro. Sono certa che questa ragazza sia splendida, deve esserlo, altrimenti non saresti così... Smettila di fare il misterioso a scuola e comportati come tutti noi! Sei divorziato, desideri risposarti e sono certa che un giorno ti risposerai, ma non aver fretta, Robert. Meglio pensarci bene prima piuttosto che pentirsi dopo, ricordatelo.» Robert sorrise, si rimise in tasca il pacchetto di sigarette e si alzò. «Lo so, Rosemary. Ora però vado, ti ho già disturbato abbastanza con le mie
sciocchezze.» «Non preoccuparti.» Si alzò e infilò le mani nelle tasche della vestaglia. «Se ti va di parlare ancora, resta. Al momento sono senza uomo. È stato piacevole avere una compagnia maschile, tanto per cambiare, anche se di tipo platonico.» Si misero a ridere tutti e due. Anche per Robert era stato piacevole stare in compagnia di una donna che non voleva niente da lui. Uscendo, pensò che sarebbe tornato a trovarla, qualche volta. Ma non era il momento. Magari in futuro, quando fosse stato più tranquillo, quando lei, Natalia, fosse uscita definitivamente dalla sua vita o al contrario, vi fosse entrata... cucinando per lui, andando in vacanza con lui, dormendo nel suo letto. Per un attimo, Robert si rese conto di essere "triste". Un "uomo triste", tutto matrimonio e vita domestica. Ma per lui, quel tipo di vita aveva sempre rappresentato la sicurezza. Quando funzionava. Anche allora, anche con la confusione mentale dovuta ai farmaci, nonostante il divorzio, non aveva mai smesso di sognarla, una vita così. Di sperare in una vita così. «Buonanotte, Robert,» disse Rosemary quando furono sulla porta. Si alzò in punta di piedi e lo baciò lievemente sulla guancia. «Sono sicura che con un pizzico di buonsenso, andrà tutto bene.» Ma la sua espressione cambiò facendosi improvvisamente seria. Le era balenato per la mente un ultimo pensiero. Un pensiero orribile. «Se c'è di mezzo la polizia, lo sai che non vale la pena rischiare per lei, vero?» «Lo so,» replicò, uscendo bruscamente sul pianerottolo. «Buonanotte, Rosemary, e grazie.» Dopo essersi richiusa la porta alle spalle, Rosemary tornò in soggiorno. Da una scatolina sul davanzale prese un pizzico di marijuana e lo sbriciolò tra le dita. Si guardò intorno in cerca della canna, ma non riuscì a trovarla. Sospirò e si mise il narcotico frantumato in bocca. Era il solo modo per riuscire a dormire senza il conforto di un uomo nel letto. Capiva l'ospite appena andato via molto meglio di quanto lui immaginasse. CAPITOLO VI Fatma Ikmen era di cattivo umore mentre rimestava lentamente la "solita zuppa" per la colazione. Seduti al grande tavolo lindo in mezzo alla stanza, quattro bambini in tenera età bevevano rumorosamente dalle loro ciotole di metallo. Quattro in partenza, quattro in arrivo: la furia della colazione non era ancora finita.
Era arrabbiata. Fare alzare i più grandicelli durante le vacanze era un'impresa. Non era tanto il fatto che impigrissero a letto tutta la mattina ascoltando la radio, che le dava fastidio, quanto il fatto che, così facendo, l'orario di colazione si protraeva all'infinito. Per fortuna, i due uomini la mattina non mangiavano, altrimenti sarebbe stata una cosa insopportabile. Fatma si infilò una mano sotto il vestito e si grattò. Questa gravidanza le dava più problemi delle precedenti. Stavolta si sentiva più affaticata. Si guardò nel piccolo specchio appeso sopra il lavello. Il suo viso non era particolarmente segnato, ma era pur sempre il viso di una donna che aveva superato gli "anta" da un pezzo. Era un po' seccata. Era forse l'inizio della mezza età a metterla di cattivo umore per l'arrivo del bebè? A ripensarci, non era stata un'idea brillante, ma poteva prendersela solo con sé stessa. La solita vecchia storia. Non appena l'ultimo nato cominciava a muovere i primi passi, Fatma desiderava restare di nuovo incinta. I figli li aveva concepiti più che altro per la sua inclinazione alla gravidanza. Povero Çetin! A volte gli faceva un po' pena, anche se non glielo avrebbe confessato neanche sotto tortura. Ma lui era un buono. Bastava che lei gli facesse un cenno più o meno esplicito, e si ritrovava di nuovo incinta. Quando era in arrivo un figlio, non le faceva prediche sui soldi che non bastavano mai, non si lamentava della sua vita sessuale limitata dal bebè in viaggio. A volte lei si chiedeva se frequentasse qualche altra... Che stupida che sei! si rimproverava ogni volta. Con il suo sciagurato lavoro, Çetin non aveva quasi tempo nemmeno per la sua famiglia, figurarsi per un'amante! E poi era affettuoso sia con lei che con i bambini. Certo, non sempre ricordava tutti i nomi dei suoi piccoli e a volte le sue carezze erano un po' distratte... Lo sentì chiudersi la porta della camera da letto alle spalle e lo immaginò precipitarsi giù per le scale con la cartella in mano. Sentì anche un'altra porta aprirsi lentamente, un po' a tentoni... il padre di suo marito. Cosa insolita per lei, Fatma lo guardò accigliata. Non che ce l'avesse con il vecchio, tanto più che senza i soldi che versava loro il fratello maggiore di Çetin per il sostentamento di Timür, la vita per loro sarebbe stata dura, ma... Era inutile pensarci. Dopotutto, non erano più giovani amanti. Il gruppetto di bambini intorno al tavolo ne era la dimostrazione vivente. Per non parlare di quelli che stavano ancora in camera loro. Eppure... Il vecchio fece capolino dalla porta e chiamò suo figlio. «Çetin!» Il figlio si girò a guardarlo con una sigaretta spenta penzoloni tra le lab-
bra. Sembrava aver fretta e aveva l'aria agitata e seccata. «Sto andando al lavoro, Timür! Cosa c'è?» Il vecchio gli fece un cenno con la mano. «Sei rientrato tardi, ieri sera.» Voleva i particolari. Timür Ikmen non riusciva a non intromettersi nel lavoro di suo figlio. I casi di Çetin erano spesso appassionanti e al vecchio piacevano le emozioni forti. E poi lo aveva aiutato in quello di cui si stava occupando ora. Gli doveva qualcosa. Çetin guardò nervosamente l'orologio. «Suleyman viene a prendermi tra due minuti. Alle dieci ho appuntamento con un vecchio tedesco.» «Cos'hai scoperto?» Il figlio sbuffò. L'espressione di suo padre tradiva una grande curiosità per tutti i dettagli. D'altra parte, era uno dei pochi piaceri che gli erano rimasti. «Ho parlato col rabbino e con quella Maria Gulcu,» disse. «Il colloquio con quest'ultima è stato un'esperienza allucinante!» «Perché? Com'è?» Timür non stava nella pelle. «Stramba. Sembra più vecchia di Allah e vive in una specie di tempio dell'antica Russia.» Ritornando col pensiero agli eventi della sera precedente, cercò di non rabbrividire. «Ha detto di essere stata l'amante del morto quando erano giovani. Aveva un che di... maligno. È difficile da spiegare. Una delle mie.... Lo sai.» «Una vecchia russa maligna,» disse il vecchio con lo sguardo fisso nel vuoto. «Sì.» Çetin si chinò a prendere la cartella cercando di non pensare alla brutta immagine dipinta dalle parole di suo padre. «Ha pure fatto il filo al mio bel sergente.» Con orrore, si rese improvvisamente conto di aver usato le stesse parole che aveva utilizzato Maria Gulcu per descrivere il suo giovane collega. Nel corridoio risuonò la risata roca di Timür. «Non mi stupisce!» «Çetin!» Dalla cucina, la voce sonora e profonda di Fatma colpì dritta il bersaglio. Çetin strinse la mascella e si avviò a passi decisi verso la porta d'ingresso. «Sono uscito!» Dopo che il figlio si fu richiuso la porta alle spalle, il vecchio rientrò in camera sua. «Una vecchia russa maligna.» ripeté a se stesso. «Che stranezza!» La casa era molto più bella e meno sinistra di quanto pensasse. In macchina, con gli occhi socchiusi per non rimanere abbagliato dal chiarore del-
la strada, Suleyman aveva immaginato che Smits vivesse in un luogo buio, dall'atmosfera gotica. Ma ovviamente non c'era alcun motivo per cui dovesse essere così. Probabilmente anche i nazisti, ammesso che Smits lo fosse, amavano l'eleganza classica al pari degli altri. Il grande atrio di marmo e l'immacolato maggiordomo che fece loro gli onori di casa gli sembrarono un po' eccessivi. Una cosa è la ricchezza, altra cosa è la ricchezza ostentata, volgare, e quella di Smits era del secondo tipo. «Signori, accomodatevi, prego,» disse il maggiordomo. Ikmen e Suleyman lo seguirono attraverso l'atrio fino a una porta che il domestico tenne aperta per loro. Come l'atrio, la stanza in cui entrarono era enorme, ma a differenza dell'atrio, era buia. Migliaia di libri, alcuni neri, altri verde scuro, altri ancora vinaccia, tappezzavano le pareti. I loro dorsi sembravano assorbire la luce del sole fin dentro le loro pagine sicuramente ingiallite. Una vecchia biblioteca di tutto rispetto. Il rifugio di un accademico privo di senso pratico, tutto dedito allo studio. «L'ispettore Ikmen e il sergente Suleyman, signore.» Il maggiordomo sorrise a tutti e due, fece un inchino e se ne andò. L'uomo che i poliziotti si trovarono davanti si alzò con grande fatica dall'elegante poltrona e sorrise. «Vi prego di scusarmi, signori, alzarmi in piedi non mi è più facile come una volta.» Era una voce profonda, bella, quasi lirica. Con un gesto elegante della mano indicò alcune sedie di fronte alla sua. «Accomodatevi, prego.» Passando davanti al vecchio per andare a sedersi, Suleyman lo guardò. Reinhold Smits doveva essere stato un gran bell'uomo, una volta. I suoi capelli, anche se ormai bianchi, erano ancora folti e i lineamenti perfetti del viso avevano la tipica durezza tedesca. Era anche molto elegante. Nonostante dovesse avere almeno un'ottantina d'anni, Reinhold Smits indossava un abito molto attuale. Come un giovane uomo d'affari, come lo stesso Suleyman, e stava molto bene. La sua figura sottile era avvolta in un doppiopetto grigio con una camicia e una cravatta perfettamente abbinate. Rimettendosi a sedere, allungò le gambe lunghe e ossute come rami di betulla. Ikmen si sedette e Suleyman prese posto accanto a lui. «Allora,» fece Smits incrociando le mani sotto il mento. «Cosa posso fare per voi?» Ikmen gli rivolse un sorriso mesto, tipico di chi vuole dare, con tatto, una brutta notizia. «Siamo venuti qui per una faccenda che riguarda un suo ex dipendente, signor Smits.»
L'uomo ricambiò il sorriso, che fu paziente anziché triste. «Questo me lo aveva già detto la mia segretaria. Ho avuto molti dipendenti, nel corso degli anni. Posso chiedervi chi è la persona di cui volete informazioni?» «Uno che ha lavorato per lei tanti anni fa nel reparto imballaggio,» rispose Ikmen. «Un certo Leonid Meyer.» Sapendo quanto fosse importante la reazione di Smits a questa domanda, Suleyman non si meravigliò nel vedere Ikmen protendersi in avanti per osservare il vecchio più da vicino. Non ci fu nulla, nemmeno un battito di ciglia, a indicare che l'uomo ricordasse. «Mi dispiace,» disse Smits, «questo nome non mi dice niente, così su due piedi.» «Oh,» fece Ikmen, «mi sembra strano.» «Perché?» «Ci stiamo interessando a questo Meyer perché è stato trovato morto nel suo appartamento, a Balat. Ne hanno parlato i giornali, perciò pensavo che...» «Ah,» lo interruppe Smits alzando il suo indice lungo e scarno. «Sì, quello che hanno assassinato. Sì, sono al corrente. Ma se fosse o no un mio ex dipendente...» si strinse nelle spalle. «Intendo dire che non lo escludo, ma se, come dite, è stato molti anni fa...» «Sì,» disse Ikmen. «Mi dispiace, signor Smits. Capisco che sia difficile ricordare, con tutti i dipendenti che ha avuto.» «Certo.» Smits roteò elegantemente in aria un polso alla maniera dei prestigiatori e cambiò argomento. «I signori gradiscono una tazza di tè?» Il rapido cambio di argomento sembrò cogliere i poliziotti alla sprovvista. «Ehm... sì, grazie,» rispose Ikmen. «Molto gentile.» Smits si rivolse a Suleyman. «E lei, giovanotto?» «Oh, sì, grazie.» «Bene!» Smits suonò il campanello d'argento che aveva preso dal tavolino accanto a lui, poi si protese in avanti sollevando le sopracciglia come se stesse per svelare un segreto scandaloso. «Naturalmente il tè sarà al latte, alla maniera inglese. Purtroppo Wilkinson non sa farlo in nessun altro modo. Spero che vada bene.» Suleyman odiava il tè inglese, ma avendo già accettato, sarebbe stato maleducato a rifiutare, ora. «Va bene.» Naturalmente, Ikmen la pensava allo stesso modo. «Sì, sì,» disse. Ma Suleyman capì dalla sua faccia che neanche lui gradiva la prospettiva.
Il silenzio che seguì dopo questo scambio di parole fu rotto qualche minuto dopo dal maggiordomo, arrivato a prendere gli ordini di Smits. Suleyman notò che il tono usato da Smits con il domestico era molto diverso da quello che usava con loro. Era duro e senza la minima traccia di gentilezza. Forse, pensò, Smits era uno di quelli convinti che i "ceti inferiori" non meritassero la normale cortesia. Dopo che il maggiordomo se ne fu andato, Ikmen riprese la conversazione. «Tornando al signor Meyer...» «Sì?» «E considerando che è stato molto tempo fa...» «Dove vuole arrivare?» «Le informazioni che abbiamo ricevuto da due diverse fonti ci inducono a pensare che lei, all'inizio degli anni '40, abbia licenziato il signor Meyer.» «Davvero? Posso chiedervi quali sarebbero queste fonti?» «Temo di non poterle dare questa informazione.» «Certo. Che stupido!» Ikmen guardò Suleyman che annuì lievemente, ben sapendo che ora toccava a lui. «Possiamo solo aggiungere, signor Smits,» disse, «che al momento della sua morte, Leonid Meyer aveva ancora il nome e l'indirizzo del suo stabilimento di Üsküdar nella sua agenda.» «Ah sì?» fece con un'espressione quasi indecifrabile sul viso. «Davvero molto strano.» Suleyman notò che Ikmen, sprofondato silenziosamente nella sua sedia, stava osservando attentamente. «Ehm...» Smits fece una breve pausa come per rimettere ordine nei pensieri. «E le vostre fonti vi hanno per caso anche detto perché avrei licenziato quell'uomo?» «A dire la verità, no...» «A meno che,» lo interruppe Ikmen rianimandosi di colpo, «a meno che lei non consideri il puro idealismo una ragione.» «Potrei,» replicò Smits aggrottando la fronte. «Una delle fonti,» continuò Ikmen, «sostiene che lei lo avesse licenziato perché si ubriacava al lavoro.» «Ah sì?» «L'altra,» disse Ikmen con un sorrisetto un po' troppo allusivo, secondo Suleyman, «che lei avesse licenziato il signor Meyer perché era ebreo.» Il maggiordomo, rientrato in quel momento con il tè, si accorse che il
sano colorito di Smits stava assumendo una sfumatura grigiastra. Non fu la prima volta, che Suleyman si chiese se il suo capo non si fosse spinto un po' troppo oltre, troppo presto. Mentre posava il vassoio sul tavolino, il maggiordomo chiese al suo padrone se potesse versarlo nelle tazze, ricevendo una risposta affermativa. Mentre il domestico compiva il suo dovere, Smits gli ricordò di farlo au lait. «Come lo fai di solito, Wilkinson.» Come c'era da aspettarsi, la porcellana delle tazze era della migliore qualità. La tazza e il piattino che Suleyman prese dalle mani del maggiordomo erano di una finezza estrema, quasi trasparenti; il manico della tazzina era talmente piccolo che gli fu impossibile infilarvi il dito. Ma in fin dei conti non serviva a quello. Suleyman osservò Smits bere portandosi la tazza alla bocca con il mignolo sollevato. Un modo innaturale, affettato, e ovviamente sofisticato. Tentò con grande fatica di copiare la maniera di Smits, ma il sapore della bevanda non faceva che aumentare il suo disagio. Smits, che aveva attentamente osservato le manovre di Suleyman, fece un breve cenno di assenso al giovane. Ma non appena il maggiordomo si fu ritirato, l'atmosfera cambiò di colpo. Deciso a chiarire la sua posizione, Smits si rivolse a Ikmen senza più nemmeno l'ombra della precedente cordialità. «Non immagina quanto sia fastidioso sentirsi attaccati senza avere alcuna colpa. La vostra teoria secondo cui io avrei licenziato quel Meyer perché era ebreo può essere riconducibile solo al fatto che mio padre era tedesco; una conclusione, per così dire, logica, che mi offende profondamente.» «La teoria non è mia, signore,» obiettò Ikmen, «è...» «Pensare che i termini "tedesco" e "nazista" siano in qualche modo sinonimi è assolutamente inconcepibile! Non ricordo questo Meyer, né mi interessa, e credo che il fatto che fosse ebreo non importasse a nessuno se non a lui.» «Io...» «Non so chi vi abbia dato queste informazioni, ma vi suggerisco di far presente a chi di dovere che qualsiasi rapporto io abbia avuto con il morto, ammesso che l'abbia mai avuto, è stato certamente di natura benevola. Inoltre, qualora dovessero arrivare alle mie orecchie altre storie del genere, non esiterò a ricorrere all'assistenza dei miei legali che, come potete immaginare, non mi mancano, sia per tutelare la mia persona sia per mettere a tacere chi sparla di me!» Sfogata temporaneamente la rabbia, Smits tornò alla sua tazzina con le
mani che gli tremavano. Ikmen approfittò della pausa per bere il suo disgustoso caffè e riflettere. Suleyman si sorprese nel sentire Ikmen riprendere il discorso in tono gentile e conciliatorio. «Le chiedo scusa se le mie parole l'hanno offesa, signor Smits,» disse, «ma trattandosi di un'indagine su un omicidio, immagino che capirà che sono tenuto ad analizzare ogni possibile aspetto.» Smits non rispose, ma continuò a rimanere accigliato dietro la sua tazzina. «Non mi permetterei mai di accusarla di antisemitismo,» continuò Ikmen in tono cordiale. «So poco o nulla di lei e non prenderei mai per oro colato le parole di altri nei suoi confronti.» «Io...» «Tuttavia, le sarei grato se potesse controllare nei suoi vecchi registri se quell'uomo abbia mai lavorato per lei. Capisco che è passato molto tempo, ma...» «Lo farò,» disse Smits stringendosi nelle spalle, «anche se non sono sicuro di riuscire a trovare qualcosa. Come lei stesso ha detto, ispettore,» fece una breve pausa, con gli occhi che riflettevano il bordo dorato della tazzina, «è stato molto tempo fa.» Ikmen sorrise e posò sul tavolino la tazza di tè ancora quasi piena. «Bene, signor Smits, lascio fare a lei.» Guardò Suleyman, intento a mandare giù l'ultimo sorso di quell'intruglio. «Il sergente Suleyman e io abbiamo parecchie cose da sbrigare, come, sono sicuro, anche lei.» «Sì.» Smits fece per chiamare il maggiordomo con il campanello, ma Ikmen lo fermò. «Facciamo da soli, grazie, signore.» Si alzò, accennando lievemente un inchino. «Arrivederci, signor Smits.» «Arrivederci, ispettore.» Il suo viso, fino a quel momento serio e cupo, fu rischiarato di colpo da un sorriso radioso. «E arrivederci anche a lei, sergente.» «Arrivederci,» rispose Suleyman con un lieve inchino, quando fu sulla porta. Dopo che i due uomini furono usciti, il sorriso sul viso di Smits svanì di colpo. Quando sentì la porta d'ingresso richiudersi alle loro spalle, chiamò di nuovo il maggiordomo suonando il campanello. Nel minuto che Wilkinson impiegò a tornare, Smits ripiombò sulla sedia e si passò più volte il dorso della mano sulla fronte, come a cercare un sollievo che non trovava.
Quando Wilkinson entrò, dopo aver bussato alla porta, dal tono di Smits capì al volo l'umore del suo padrone. «Prendi la mia agenda e cerca il numero di Demidova.» «Sì, signore.» Fece per avvicinarsi al tavolino, ma fu bruscamente fermato dalla voce di Smits. «Adesso, Wilkinson!» «Sì, signore, ma il tè...» «Lascia perdere il tè e fa' quello che ti ho detto!» «Ehm... sì, signore...» Uscì dalla stanza molto più in fretta di quanto non vi fosse entrato. L'umore che il suo padrone esibiva in quel momento, anche se non frequente, non era una novità per il maggiordomo. Di nuovo solo, Smits si mise a guardare nel vuoto con un'espressione furiosa sul viso segnato dal tempo. Su ordine di Ikmen, Suleyman fermò la macchina appena fuori dal viale d'accesso di Reinhold Smits. Dopo che ebbe spento il motore, Ikmen cominciò a parlare. «Che te ne pare del signor Smits, Suleyman?» «Credo che le sue reazioni alle nostre domande fossero comprensibili. Qualunque sia stato il rapporto che lo ha legato a Meyer, è passato molto tempo, ormai. E la tesi secondo cui lui avrebbe licenziato Meyer perché era ebreo è saltata fuori un po' troppo in fretta, e...» «Vuoi dire che sono stato un inetto?» Lo disse con una strizzatina d'occhio che però sfuggì a Suleyman. «Oh, no, non credo che lei...» Ikmen si mise a ridere. «Va bene, Suleyman, puoi criticarmi, a patto,» disse aggrottando le ciglia in modo volutamente esagerato, «che tu non lo faccia troppo spesso.» Suleyman gli sorrise debolmente. «Credo che lei si sia lanciato in quello spinoso argomento un po' troppo precipitosamente. Non mi pareva il caso di sollecitare il suo antagonismo fino a quel punto.» «Oh, ma a me pareva, invece,» ribatté Ikmen alzando un dito per sottolineare le sue parole. «Mi sono detto che se Smits conosceva Meyer, nome che all'inizio, come avrai notato, non ha provocato alcuna reazione in lui, e se è vero che lo licenziò perché era ebreo, probabilmente ora sarà molto preoccupato.» «Ed è quello che vogliamo?» «Certo. Il modo in cui Smits si comporterà da questo momento in avanti e il fatto se "scoprirà" o meno se Meyer avesse davvero lavorato per lui a
suo tempo, ci daranno preziose informazioni sul suo presunto antisemitismo.» «Senza, naturalmente,» aggiunse Sauleyman, «darci alcuna indicazione sulla possibilità o meno che sia stato Smits a uccidere Meyer.» «No.» Ikmen sospirò rabbuiandosi in volto. «No, anche se Smits lo avesse licenziato per questo motivo, al momento non c'è niente che lo metta in relazione con l'omicidio. E anche nel caso in cui Smits fosse coinvolto, deve esserci sotto qualcosa di più di una semplice antipatia per gli ebrei. Voglio dire che, se avesse avuto intenzione di uccidere Meyer per qualche episodio accaduto negli anni '40, lo avrebbe fatto molto tempo fa, non ti pare?» «Sì.» «Inoltre,» fece una breve pausa per accendersi una sigaretta, «non credo che il signor Smits sia l'unico personaggio della storia.» «No?» «No. Non so perché, ma ho la sensazione che siano coinvolti anche i Gulcu. Può darsi che mi sia lasciato influenzare dalla presenza del signor Cornelius a casa loro, ma...» «Ah!» fece Suleyman ricordandosi improvvisamente di una cosa che doveva dire a Ikmen. «Ho telefonato a Londra per chiedere informazioni su di lui. L'ispettore Lloyd ha detto che ci richiamerà quando avrà notizie.» «Bene.» Ikmen non aveva prestato molto ascolto a quanto il suo vice gli aveva appena detto. Come gli era accaduto poco prima parlando dei Gulcu, la sua mente si era lasciata prendere dalla stranezza di quella famiglia. «Pensi che sono un po' irrazionale a proposito di quella gente, Suleyman?» «Bè...» Era un po' incerto sulla risposta. «Un po' sì e un po' no, credo... Sono molto strani e mi è parso ancora più strano che Cornelius si trovasse lì all'ora della nostra visita. Ma, stando alle parole della vecchia, doveva essere perlomeno affezionata a Meyer. Intendo dire che ucciderlo sarebbe stato... non avrebbe avuto senso. Non...» «Come per Smits ucciderlo dopo tutto questo tempo, suppongo. Sì, ho capito cosa vuoi dire, Suleyman.» Il giovane scrutò il suo capo con gli occhi socchiusi. «Però lei non ne è convinto, vero, signore?» Ikmen sorrise. «Non lo so, Suleyman. Comunque la si voglia mettere, è improbabile che sia stato qualcuno dei vecchi che abbiamo visto finora, a commettere il delitto.» «No,» concordò Suleyman, «avrebbero avuto bisogno di aiuto.»
«Certo. Di qualcuno giovane e forte. Forse, nel caso di Smits, anche di qualcuno tipicamente ariano...» Suleyman sorrise. «Qualcuno come Cornelius?» Ikmen replicò con una risatina sarcastica. «Forse. Anche se credo che sarebbe un miscuglio un po' troppo pesante per i miei gusti.» «Vale a dire?» «Vale a dire che è già piuttosto strano avere un inglese "coinvolto" con la bella Gulcu senza dover aggiungere nell'equazione anche lo sconcertante signor Smits. Non facciamoci sviare troppo, eh?» «No.» «Comunque,» aggiunse Ikmen ridendo e battendo una mano sul cruscotto, «torniamo alla Centrale. Devo trovare Cohen e poi andare a parlare con la Blatsky e alcuni di quei derelitti. Secondo me è arrivato il momento di dedicarci un po' a quella donna.» CAPITOLO VII Come sempre nella giornata in cui facevano tutti e due orario ridotto, si incontrarono alla fermata dell'autobus in piazza Taksim. Nonostante lui fosse uscito da scuola a mezzogiorno e lei dal suo negozio mezz'ora più tardi, avevano tutti e due un'aria molto stanca. Dall'ultima volta che si erano visti non era capitato niente di particolare a nessuno dei due, ma ognuno pareva assorto nei propri pensieri. Robert, in particolare, era pallido e teso, anche se la sua avvenente compagna sembrò non notarlo. Quando l'autobus arrivò, lei salì a bordo e si mise a sedere senza mostrare il biglietto al conducente e senza aprire bocca. Galante come sempre, fu Robert a pagare il biglietto anche per lei. Natalia non gli rivolse la parola per tutta la durata della corsa attraverso la città, accentuando l'isolamento in cui lui si era chiuso. Robert si mise a guardare fuori dal finestrino cercando di non pensare alla sua freddezza. Il tragitto verso casa sua li portò lungo i margini del Bosforo. Il grande canale brillava alla luce del sole; i battelli in navigazione tra l'Europa e l'Asia lasciavano dietro di sé, come dei grossi lumaconi, una scia luccicante di spuma bianca. Benché avesse vicino Natalia, Robert non era felice. Continuava a stringere nervosamente le mani nel disperato tentativo di trovare qualcosa da dire. Ma non trovò niente. Neanche le solite banalità nelle quali, a quanto si dice, gli inglesi sono tanto bravi. Le chiacchiere sul tempo, sugli intrighi dei politici, sui prezzi dei generi alimentari.
A guardarla si sentiva male. Gli veniva la tentazione di afferrarla, di sprofondare la testa nei suoi capelli e tra i suoi seni prorompenti. Ma se non la guardava, riusciva a pensare. Era una persona che amava ma non capiva, una donna di cui poteva solo intuire le capacità e le ragioni del suo modo di essere. Logicamente, il fatto di essere oggetto del desiderio di qualcuno non significava essere meno inclini ad atti ignobili di quanto non lo fossero gli altri comuni mortali. La logica non era mai stata il forte di Robert. Certe cose sfuggivano alla logica, eppure sembravano avere senso lo stesso. Come Billy Smith, la sua disgrazia, la sua bête noir, il bambino cattivo. Londra. Nella mente rivedeva quel bambino. Dodici anni, magro, capelli rossi e lentiggini. Aveva l'aspetto malvagio e borioso tipico dei bambini con i capelli rossi. Era stato uno stupido a provare antipatia solo a causa del suo aspetto. Purtroppo Robert non ne aveva mai fatto mistero. I suoi colleghi lo avevano criticato. Ma aveva visto giusto. Era Billy a estorcere i soldi ai bambini più piccoli, Billy a creare disordini in classe, Billy a chiamarlo spudoratamente "il biondino", ed era stato Billy insieme ai gemelli Norris a essere sorpreso con il gatto nel cortile della ricreazione. Povero gatto. Il suo pelo nero e segoso, ricoperto del suo stesso sangue. Il solo ricordo, anche a tremila chilometri di distanza, gli rivoltava lo stomaco. Piccoli bastardi! Cosa non gli avrebbe fatto! Tuttavia, nonostante la sofferenza del povero gatto, l'incidente gli aveva dato una certa soddisfazione. Aveva motivato le sue ragioni. Dopo, per un breve periodo, gli altri insegnanti erano stati solidali con lui. Ma solo per un breve periodo, fino a quando Billy e i gemelli non si erano rimessi a fare i bravi. Poi le cose erano cambiate. Robert si guardò le mani sospirando profondamente. Il caldo era insopportabile. Era la cosa peggiore di Istanbul, quel caldo umido e soffocante. Si girò di nuovo a guardare Natalia. Il suo viso era ancora freddo come quando si erano incontrati. Non aveva voluto stare in intimità con lui. Era il loro giovedì pomeriggio, il momento della settimana più atteso da Robert. Ma stavolta lei non lo aveva voluto. Forse pensava che lo spettacolo a cui aveva assistito a casa sua lo avesse scoraggiato? Che ora sarebbe sparito senza spiegazioni? Tutto questo se lei non avesse tenuto a lui, ma Robert sapeva che non era così. Se non avesse significato niente per lei, perché sarebbe dovuta rimanere tanto tempo con lui? Come avrebbe potuto amarlo con tanta passione? Oh, sì, ci teneva. C'era qualcosa che non andava, ma ci teneva. La mascella serrata e gli occhi spenti, Robert si sentì sprofondare mentre
veniva riassalito dai dubbi. Lei ora non lo voleva. Robert si era ripromesso di chiederle, non appena fossero arrivati a casa, cosa fosse accaduto la sera precedente. Non si aspettava una risposta soddisfacente, ma doveva almeno provarci. Finché non avesse avuto delle risposte, avrebbe continuato a stare in ansia. Si sforzò di non fare confronti, ma non era facile. Gli era già capitato di sentirsi così. Accalappiato. Sapeva quando. Non era difficile ricordare, ma non era saggio. Si era lasciato tutto alle spalle, in Inghilterra: le fatiche, le angosciose preoccupazioni, quello stato confusionale, la mancanza di controllo. Robert si portò una mano alla fronte e si asciugò il sudore che gli si era formato all'attaccatura dei capelli. Appena arrivata a casa di Robert, Natalia andò dritta in bagno a spogliarsi. Faceva caldo e la pesante cintura che portava sulla gonna le aveva irritato la pancia. E poi, non era quello che voleva Robert? Lui non voleva parlare. Glielo aveva fatto chiaramente capire restando in silenzio durante il tragitto. Robert voleva sempre fare sesso. Quale uomo non lo voleva? E forse in questo caso era meglio così, serviva a distrarre. Sì, a distrarre. I suoi "regalini" erano sempre belli, di solito costosi. Robert era talmente di manica larga che lei non poteva comportarsi con lui come con gli altri. Era sempre stato generoso. Perfetto. Si guardò alla specchio. Fianchi stretti, pancia piatta, seno florido e tonico che si abbassava solo impercettibilmente quando lo liberava dal reggiseno. Di solito il suo corpo offriva una piacevole vista, ma stavolta a vederlo si innervosì. Il suo bel corpo era come intrappolato. Si sentiva di nuovo oppressa dall'infelicità. Si era sentita così tutto il giorno; si era sentita così tutta la vita. Era stato solo un caso. Una possibilità su un milione. Ma quella possibilità aveva creato una catena che la stava strangolando. Robert era il primo anello. Che lei ora non riusciva a spezzare... non ancora. Era sicura che lui le avrebbe di nuovo fatto domande. La stava aspettando fuori della porta del bagno. Forse avrebbe dovuto rispondergli. Ma avrebbe capito? Sarebbe stato in grado? Pensò alla sua espressione sciocca, da cane bastonato, e si sentì male. Se solo lunedì non fosse accaduto quel che era accaduto! Chiuse gli occhi cercando di rilassarsi. Il sesso lo avrebbe tenuto buono per un po'. Lui era così ingenuo che sarebbe riuscita a farlo tacere del tutto... almeno per il momento. E comunque non aveva altra scelta. Per ora, finché il panico avesse inquinato l'aria intorno a lei, era vincolata a
quell'uomo, un uomo che tentava di scaricare da settimane, da mesi. Non era sempre stato così. C'era stato un periodo in cui l'inglese, che ora trovava tanto noioso, l'aveva emozionata. Ma era stato diverso tempo addietro, quando lei sperava ancora di riuscire a convincerlo a portarla a Londra. Fuga! Una grande metropoli tutta per lei, senza madri né nonne né zii al seguito... un mucchio di eccitanti uomini stranieri. Peccato che Robert non volesse sentir parlare di quell'argomento. Era un debole, lasciava che il passato influenzasse il suo presente. Rise da sola della sua ipocrisia, poi ammutolì; Londra era un sogno svanito, ormai. Sepolto, come tutti gli altri sogni. Presa dalla rabbia, batté impazientemente un piede per terra. Ah, com'era annoiata! Annoiata a morte! Aveva cercato di farglielo capire un mucchio di volte. Ma forse era meglio così. Forse come nemico, avendo visto quello che aveva visto, sarebbe stato peggio. Per il momento lei era al sicuro, doveva solo farlo felice. Non era difficile. Sgradevole, ma non difficile. Posò le mani sui seni e si pizzicò i capezzoli con le dita. Su chi avrebbe fantasticato, oggi? Doveva pensare a qualcuno. Non poteva concentrarsi solo su di lui. Era un tipo così poco eccitante! E probabilmente stavolta sarebbe stato peggio del solito! Quegli stupidi zii dalle mani lunghe l'avevano combinata grossa. Lo aveva capito da come Robert si era comportato con lei dopo. E poi era arrivata la polizia. Il che non aveva certo migliorato le cose. Natalia aveva il brutto presentimento che non avrebbe ricevuto il suo solito regalo, al termine del rapporto sessuale. Nessun gingillo di valore che avrebbe fatto andare meglio le cose. Era sicura che Robert l'amasse, ma aveva notato che cominciava a essere irrequieto. Purtroppo sapeva il perché. Sapeva anche che, al suo posto, si sarebbe sentita irrequieta anche lei. Aumentò la pressione sui capezzoli e chiuse gli occhi. Oggi doveva andare bene. Oggi ce l'avrebbe messa tutta per farlo divertire. Pensando a lui i capezzoli le si afflosciarono e la bocca prese una piega tutt'altro che sexy. Sentì che stava per avere una crisi di panico. Non se lo poteva permettere! Non in quel momento! Si impose di concentrarsi. Di solito, i primi pensieri che le venivano erano quelli di tipo marziale. Le guardie davanti a palazzo Dolmabahçe! Alte, robuste, belle, la potenza dei fucili mitragliatori a riposo tra i piedi, carichi, senza sicura inserita, pronti. I fucili! Ah, quelli sì! Duri, freddi, deliziosi in bocca, pesanti e dolorosi nella vagina. Estasi e dolore; agonia paradisiaca. Ricordava il marinaio e i suoi giochi. Il risveglio. Il giorno in cui improv-
visamente tutto ebbe un senso. Quanti anni aveva? Diciassette? Su e giù contro il corpo dell'uomo, lui che a occhi chiusi spingeva la pistola sempre più profondamente nella sua bocca. Lo scatto del grilletto, mentre una per una venivano eliminate le cartucce vuote. Una fellatio al freddo metallo, con il corpo che le fremeva, in attesa che dentro la sua testa detonasse ed esplodesse l'ultimo colpo. Quattro, cinque... Il metallo si liberava bruscamente dalle sue labbra e uno sparo echeggiava da qualche parte a fianco della sua testa. Moriva quasi di piacere, nel sentire il proprio urlo. Sentì i capezzoli indurirsi sotto le sue dita e il respiro diventarle affannoso. Il bronzo duro dei fucili! Come le sarebbe piaciuto che lui le... E poi ne erano seguiti altri. Il curdo; il ricco armeno con le sue catene d'oro e gli abiti di Armani; il poliziotto imbellettato di Üsküdar, e poi i ragazzi. Un mucchio di ragazzi. In uniforme, con il fucile, più o meno disposti a giocare. Ma ovviamente alla fine giocavano tutti. Ah sì. Avevano solo due alternative e così alla fine sceglievano "gioca". Gioca... Si fermò. Finalmente era pronta. Non era il caso di sciupare quel momento! Aprì la porta e lo vide sdraiato sul divano con le lunghe gambe spalancate. Finché avesse tenuto a mente il pensiero di quei giochi, sarebbe riuscita a nascondere la sua repulsione. Finora ci era sempre riuscita. Si piazzò davanti a lui con i capezzoli scuri, dolorosamente sensibili, congestionati di sangue. Lui alzò lo sguardo su di lei che si chinò per abbassargli la chiusura lampo dei pantaloni. La bocca le doleva per il desiderio del sapore amaro del metallo. Ma trovò solo la lingua morbida di lui. Strinse sensualmente le dita intorno al suo pene rigido. Almeno era grande. Era già qualcosa. Si abbassò su di lui pregando che le facesse male. Il telefono sulla sua scrivania squillò. Con un solo gesto, il sergente Suleyman riuscì ad alzare la cornetta e a rovesciare per terra uno dei tanti portacenere di Ikmen. «Accidenti!» Rispose all'apparecchio in tono un po' irritato, con i piedi cosparsi di cenere. «Salve, sergente Suleyman!» L'accento era inglese, cordiale e, grazie al cielo, familiare. «Oh, salve, ispettore Lloyd. Come sta?» Benché non conoscesse personalmente il poliziotto inglese, Suleyman provò un'istintiva simpatia per lui. «Oh, così.» Aveva il tono stanco. Il mestiere di poliziotto era uguale in tutto il mondo; turni lunghi, spesso noiosi, stipendio magro, sonno ancora più magro. E Londra, aveva sentito dire, era una città difficile: bombe, so-
vrappopolazione, tensioni etniche. «Ho notizie su quel Robert Cornelius.» «Oh.» Suleyman prese una penna e le tolse il cappuccio con i denti. I mozziconi di sigaretta per terra parvero quasi guardarlo divertiti. «Mi dica, ispettore Lloyd.» «Non ho i particolari, ma solo i crudi fatti, temo.» «Dica.» «Robert Cornelius fu arrestato nel giugno del 1987 in relazione all'aggressione a un legale, un certo Simon Sheldon, ripeto, SHELDON...» Suleyman prese rapidamente appunti. «Per legale intende avvocato, vero?» «Esatto. Cornelius ammise la colpa ma, per qualche motivo, l'avvocato Sheldon ritirò la denuncia e il vostro uomo fu rilasciato con una diffida. Accadde a Islington, nella zona nord di Londra. Cornelius viveva lì, a quel tempo.» «Grazie, signore, ci è stato molto utile.» Continuò a prendere appunti con il cappuccio della penna che gli pendeva da un lato della bocca, dandogli un'aria insolitamente sbarazzina. «Oh, non ho ancora finito,» disse la voce cordiale da Londra. «Prima della sua aggressione a Sheldon, nell'aprile del 1987, Cornelius fu accusato di aver picchiato un bambino alla scuola dove lavorava, Rosebury Downs, nel quartiere di Hackney, nella zona est di Londra.» Fece una risatina amara. «Hackney è uno dei quartieri più violenti della città. Una vera topaia. Comunque, la sua accusatrice fu una certa signora...» Si interruppe brevemente per consultare i suoi appunti. «Sì?» «Una certa Sandra Smith. Cornelius avrebbe preso a schiaffi suo figlio William. A scuola.» Suleyman cercò di annotarsi tutto. Il signor Cornelius aveva un passato alquanto movimentato per essere un tranquillo insegnante inglese, o almeno così pareva. Sperò di aver scritto tutto correttamente e che Hackney si scrivesse realmente HAKNI. «Cosa accadde col bambino, ispettore?» Sentì Lloyd fare una risatina dall'altro capo del filo. «Non ci crederà, ma il bastardo se la cavò anche quella volta! Insufficienza di prove.» Fece una breve pausa per consultare di nuovo i suoi appunti. «Poco tempo dopo rassegnò le sue dimissioni. Se lo fece perché si sentiva in colpa o perché il giovane William Smith e i suoi compagni gli resero la vita dura in classe, non lo so.» Sospirò profondamente. «Comunque, andò così.»
«Okay.» «Oh, tranne che...» Suleyman aggrottò le sopracciglia. Quella certa esitazione nella voce di Lloyd gli fece pensare che doveva trattarsi di qualcosa di importante. «Sì, ispettore?» «Forse non significa niente, sergente, ma la denuncia di aggressione fatta da Sheldon nei confronti di Cornelius comprendeva anche l'accusa di razzismo.» «Razzismo?» Nonostante il termine non gli fosse molto familiare, Suleyman si allarmò. Tuttavia Lloyd si dimostrò ben disposto a spiegarglielo. «Razzismo significa fare osservazioni o cose che offendono o denigrano la razza o la religione altrui. Simon Sheldon era ebreo, e a quanto pare il vostro Cornelius non gradiva molto la cosa.» «Oh.» Suleyman scriveva talmente in fretta che la mano gli tremava e dovette fermarla per impedirle di scrivere in modo illeggibile. «Oh, grazie! Grazie!» La voce cordiale dall'altro capo del filo emise un lieve grugnito. «Credo che questo sia un fatto di una certa rilevanza, sergente.» «Sì, ispettore. Credo che queste informazioni saranno molto utili all'ispettore Ikmen.» «Bene, sono contento.» Lloyd sospirò pesantemente. «Comunque, avete fatto progressi nelle vostre indagini?» «Pochi. L'ispettore Ikmen si sta indirizzando verso... ehm...» annaspò in cerca della parola giusta. «Una spiegazione psicologica, capisce cosa voglio dire?» Dall'altra parte della cornetta arrivò una fragorosa risata. «Oh! Çetin è fissato con le biografie delle vittime. Non lo so!» Fece una pausa. «Il guaio, lo riconosco, è che spesso ha dannatamente ragione!» «L'ispettore Ikmen è molto intelligente.» Lloyd rise di nuovo. «Lo so, lo conosco, il bastardo! Comunque, sergente, me lo saluti e se posso fare altro per aiutarvi, fatemelo sapere.» «Grazie, ispettore. Lei ci è stato utilissimo.» «Okay, ci sentiamo, sergente.» «Arrivederci, signore.» «Arrivederci.» Suleyman si appoggiò allo schienale della sedia e rilesse gli appunti che aveva appena preso. Sheldon. Un avvocato ebreo. Ikmen avrebbe esultato.
Altri fatti strani correlati. E il bambino. Picchiare un bambino! Suleyman si chiese cosa potessero avergli fatto, Sheldon e il piccolo Smith, a Cornelius, ammesso che gli avessero fatto qualcosa. Si chiese se Smith fosse un nome che usavano gli ebrei inglesi. Si chiese, più concretamente, come avrebbe fatto a raccogliere il contenuto del portacenere di Ikmen senza sporcarsi le mani. Aveva appena deciso che due pezzi di carta straccia avrebbero risolto il problema, quando squillò il telefono sulla scrivania di Ikmen. Andò alla sua scrivania e sollevò la cornetta. «Pronto, interno dell'ispettore Ikmen.» «Dov'è Ikmen?» Era la voce del commissario Ardiç e il tono era tutt'altro che amichevole. «Oh, commissario, mi dispiace, l'ispettore Ikmen non c'è in questo momento, è fuori con Cohen.» «Cosa sta facendo? Chi è Cohen?» «È andato a interrogare delle persone, signore. Un'anziana ebrea, amica della nostra vittima, e alcuni vecchi alcolizzati...» «A caccia della storia della loro vita, scommetto.» «Sì, signore, per ricostruirne la biografia. Posso fare qualcosa per lei...?» La voce gli morì in gola facendolo arrabbiare con se stesso. Perché diavolo riusciva sempre a sembrare così debole! Il commissario sospirò. «Tra un quarto d'ora ho un appuntamento con il console israeliano. L'ho saputo in questo istante. Lo sa come sono i diplomatici. Vuole un rapporto sugli sviluppi del caso Meyer.» «Oh.» Di nuovo debole! Dal suo tono, sembrava che il commissario cercasse di farsi forza. «Senta, Suleyman, se Ikmen non torna in tempo, dovrà farlo lei. Venga qui entro quindici minuti con tutti i documenti e le carte. Avete già il rapporto del laboratorio di Sarkissian?» «Sì.» «Bene. Porti anche quello. Se qualcuno capisce, è bravo, ma... Oh, Suleyman...» «Sì, signore?» Ci fu una lunga pausa seguita da un profondo sospiro. Evidentemente voleva dire qualcosa di molto importante che alla fine decise di non dire. Suleyman pensò con amarezza che probabilmente Ardiç non lo considerava abbastanza intelligente per capire. Sarebbe stato tipico del commissario. «Niente!»
La linea cadde e Suleyman riattaccò delicatamente. Una riunione con il console israeliano non capitava tutti i giorni. Si spostò sul lato della scrivania di Ikmen chiedendosi da dove cominciare a cercare il rapporto del dottor Sarkissian. Nella pila di pratiche, o forse in fondo a qualche cassetto. E il portacenere rovesciato per terra? Afferrò due buste usate e si chinò a rimediare il misfatto. Era appena riuscito a raccogliere i mozziconi puzzolenti sul lembo di una busta, improvvisamente quando si rese conto della portata di ciò che lo aspettava. Un diplomatico, il commissario, la totale mancanza di progressi! Sentì la mano tremargli ma fu solo quando vide quell'ammasso di porcherie puzzolenti cadere di nuovo in terra che diede libero sfogo alla sua tensione. «Oh, cazzo!» esclamò senza preoccuparsi di farsi sentire in tutto il piano. Nonostante lui e Cohen avessero passato in quel piccolo appartamento tinteggiato di verde cavolo più tempo di quanto avessero voluto, Ikmen era intenzionato a restare lì finché non avesse avuto una chiara visione della storia. L'anziana signora Blatsky si era dimostrata molto cordiale, anche se un po' troppo dedita al whisky e aveva risposto senza indugio alle domande che i poliziotti le avevano posto. Non era colpa sua se parlava molto in fretta, e Ikmen lo sapeva. Tuttavia fu una dura prova per la sua pazienza. Prima di parlare di nuovo, le sorrise. La signora Blatsky ricambiò il suo sorriso esibendo una lunga fila di denti rotti. «Allora, signora, andiamo subito al sodo. Lei ha detto che Leonid Meyer era un bolscevico, durante la rivoluzione. È esatto? Lo conferma?» Prima di rispondere, la donna si passò più volte le mani piccole e grassocce sul viso. Ikmen pensò che sembravano una coppia di grassi pappagallini. «Sì, Leonid stava dalla parte dei bolscevichi!» Sorrise. «Del resto, come tutti uomini a quel tempo.» «Capisco.» «Come certi giovani dello shtetl, Leonid stava con eserciti di commissari del popolo. Capisce?» Ikmen inarcò le sopracciglia e si rivolse a Cohen per delucidazioni. «Shtetl?» «È un insediamento di ebrei, signore. Una specie di ghetto.» «Ho capito.» Si girò di nuovo verso la piccola donna, sorridendole. «Lei
intende dire, signora Blatsky, che Leonid Meyer era in effetti un comunista che, se ho ben capito, combatté anche con i bolscevichi durante la Rivoluzione.» «Sì, esatto.» «Ho capito.» Fece una pausa di qualche secondo per raccogliere i pensieri. Era di estrema importanza, ora, che lei capisse bene quello che stava per dirle. «Va bene, signora Blatsky, ora la prego di riflettere molto bene su ciò che le dirò e di darmi possibilmente una risposta sincera.» «Lei annuì con entusiasmo, continuando a sorridere.» «Signora Blatsky, Leonid Meyer le ha detto qualcosa di come abbia ucciso la gente in Russia?» «Oh, sì!» Considerata la scabrosità dell'argomento, era alquanto strano che l'anziana donna si mostrasse così allegra. Ma in fondo, pensò Ikmen, lei stessa era strana. Ikmen fu gentile ma fermo nel cercare di cavarle altre informazioni. «Può dirci qualcosa a questo proposito, signora Blatsky?» «Oh, sì!» L'ispettore si protese leggermente in avanti e, anche se involontariamente, fece un gesto con la mano per invitarla a continuare. «Allora?» «Porci borghesi, lui detto. Leonid e gli altri ragazzi sparare, bang bang! Tanti soldi, porci borghesi, dire.» «Così ha ucciso della gente, gente con i soldi?» «Sì, come ho detto.» «E poi?» Per la prima volta, il viso della donna si fece serio e Ikmen si rese improvvisamente conto che la donna doveva essere molto anziana. «Leonid ha paura.» «Paura?» Ikmen sospirò e si appoggiò allo schienale della piccola sedia unta. «Di che cosa aveva paura, signora Blatsky? Mi pareva di aver capito che avesse fatto il suo dovere di buon bolscevico. Cosa intende dire?» La donna si strinse nelle spalle. «Forse questo, forse altro. Ma Leonid sempre paura da allora.» «Ma lei non sa perché, è esatto?» «Sì, ho detto. Leonid non parla bene quando lui ubriaco.» Pur rivolgendosi a Cohen, Ikmen parlò con la testa rivoltata all'indietro fissando il soffitto annerito dalla fuliggine. «Allora, ora abbiamo Meyer il bolscevico. Interessante. Meyer il bolscevico, che oltretutto ha fatto il suo
dovere e poi è scappato per andare a vivere in un Paese che ufficialmente era ancora in guerra con il suo.» «Intende la guerra del 1914-18, signore?» «Sì, Cohen. La guerra durante la quale cadde l'antico Impero ottomano e Leonid Meyer e Maria Gulcu lasciarono le loro rispettive famiglie slave per venire a vivere da noi. La guerra durante la quale il nostro amico Meyer sviluppò il suo gusto per i liquori forti, immagino.» «Oh, liquori, sì!» Ikmen si girò verso la vecchia. Lei aveva di nuovo il sorriso sulle labbra. «Dica, signora Blatsky, C'è altro?» «Oh, sì, liquore, sì!» «Sì, liquore, abbiamo già detto questa parola diverse volte, cosa intende dire?» «Fa dormire Leonid quando gli viene paura di altri.» Ikmen guardò Cohen che, stringendosi nelle spalle, ammise implicitamente di non aver capito. «Gli altri, signora?» «Quello che sa lui fatto bang! bang! a porci ricchi. Quello che visto lui.» Prima di arrivare alla conclusione allargò ulteriormente il suo sorriso. «Quello che abita ancora.» «Abita? Dove abita?» Continuando a sorridere, la vecchia indicò il pavimento sotto ai suoi piedi. Si staccò da lui e nonostante fosse nuda, si diresse verso le vetrate spalancate del balcone. Robert si meravigliò della sua assoluta mancanza di pudore per il proprio corpo. Tutto il quartiere di Besiktas avrebbe parlato dei suoi prosperosi seni. Non gliene importava niente che potessero vederla. Natalia si piaceva. Sapeva che la vista del suo corpo poteva scatenare solo due emozioni. Il desiderio o l'invidia. E tutte e due le cose le stavano bene. Robert raccolse la sua camicia e si rimise i pantaloni. Era esausto. Il sesso con Natalia era un gioco. Pareva che lei giocasse con la bambola. Lui non doveva far altro che giacere, stare seduto o in piedi, a seconda del caso, e provare piacere. In effetti lui non l'aveva mai "posseduta". Tuttavia ogni volta lei sembrava soddisfatta. E lo era! Solo che l'orgasmo aveva un effetto diverso su di lei. Sembrava rinvigorirla. Come se traesse dal momento culminante di lui una forza che poi riciclava nel proprio corpo. Era una cosa che lo distruggeva. Certo, gli piaceva, ma dopo si sentiva a
pezzi, come se avesse una brutta influenza e necessitasse di un ricostituente. Nonostante il caldo, Robert aveva freddo e si sentiva privo di forze. Lei lo aveva strapazzato per bene, portandolo, con le sue dita esperte, la sua bocca e i suoi genitali, quasi al massimo, ma fermandosi in tempo. Un'occhiata maliziosa, e passava a un'altra parte del suo corpo: un orecchio, la gola, un capezzolo. Poi si chinava sul suo pene, talmente sensibile da farlo gridare dal dolore. A lei piaceva il sesso parlato; parole, grida, la eccitavano. Quando lui si avvicinava all'orgasmo, lei gli gridava delle parole di incoraggiamento. «Godi, Robert! Godi!» Lui gridava in un misto di dolore e piacere finale, e un attimo dopo lei si alzava. Si alzava sempre subito. Dopo il coito, niente baci né carezze, ma solo una passerella per la stanza. Si specchiava nelle vetrate della finestra, negli specchi, nel cristallo del tavolino. Soddisfatta del proprio prorompente corpo. Lo faceva sentire a disagio, come se lui stesse lì a spiarla. Forse, se lei dopo gli avesse fatto un po' di coccole, lui non si sarebbe sentito così male, così spossato. Robert si accese una sigaretta. «Vuoi un po' di caffè, Natalia?» Sapeva di non doverle parlare d'amore subito dopo il sesso. Lei uscì sul piccolo balcone e guardò giù verso la strada trafficata, sorridendo. «No.» Robert si alzò dal divano e andò in cucina. Aveva le gambe molli e vedeva ancora le stelle; il calo di pressione dopo il rialzo di prima. Versò dalla caffettiera un caffè denso e scuro in una tazzina e bevve appoggiato al fianco del frigorifero. Le sue vene gelate reagirono bene al liquido caldo e mentre beveva sentì il corpo tornare lentamente alla vita. La osservò dalla porta aperta della cucina. Lei stava guardando in strada e rideva. Alcuni passanti l'avevano vista. Le piaceva stupire. Uno dei suoi divertimenti preferiti consisteva nel passeggiare per la strada con la camicetta slacciata quasi fino all'ombelico, esibendo in pubblico il suo florido seno. Lui avrebbe dovuto girare armato di fucile per proteggerla dai frasari, dagli sguardi lascivi e dai palpeggi che subiva ogni volta che veniva presa da quel particolare demone. Odiava quel lato della sua personalità. Quello della puttana. Ma Robert aveva altro da fare con Natalia, oltre al sesso. Lei era così sicura di sé! Pensava davvero che lui avesse dimenticato? Credeva, in tutta onestà, che il sesso potesse distoglierlo dagli eventi della sera prima? Doveva parlarle ora. Ora che erano soli. L'occasione perfetta.
Tornò in soggiorno e si lasciò cadere sul divano. Natalia rientrò dal balcone e si piazzò davanti a lui, statuaria, con le mani sui fianchi sottili, sorridendogli. «Ti è piaciuta la scopata, Robert?» Era arrogante. Non era una cosa da chiedersi. Lo sapeva che gli era piaciuta. Gli piaceva sempre. Ma per la prima volta, lui ignorò la sua pretenziosa domanda. Con voce calma ma fredda, andò dritto al nocciolo della questione. «Cos'è successo ieri sera, Natalia?» Con il viso appena rabbuiato avanzò di qualche passo come per uscire dalla stanza. Non accennò nemmeno a rispondere e quando gli passò davanti, lo guardò come se lui non fosse nessuno, senza più alcuna traccia di tenerezza negli occhi. Gli lasciò chiaramente intendere che uno come lui non meritava una risposta. Robert fu colto improvvisamente da una profonda rabbia. Amava quella donna. Si era dedicato completamente a lei, santo cielo, e lei non si degnava nemmeno di dare una risposta diretta a una sua domanda diretta! Guardò i suoi grandi seni turgidi dondolare con arroganza davanti al suo viso, aumentando la sua collera e la sua passione. Quando gli passò davanti lui la afferrò saldamente per un polso, Lei lanciò un grido di dolore con il viso paonazzo dalla rabbia. «Mi fai male!» Ma stavolta non riuscì a sfuggirgli. Non come a Balat. Lui ignorò il suo grido di dolore e aumentò la stretta. Abbassò la voce quasi a un sussurro. «Ti ho chiesto a che gioco avete giocato ieri sera, tu e la tua famiglia.» La guardò in faccia. «Quello interrotto dalla polizia.» Per un istante parve diventata di pietra. Non un muscolo che si muovesse, nemmeno la minima contrazione. Di colpo portò indietro la mano libera come per schiaffeggiarlo. Ma lui fu più rapido e la fermò a mezz'aria. Mentre lei protestava a tutta voce, lui l'attirò bruscamente accanto a sé sul divano. «Tutte quelle stupide chiacchiere dei tuoi zii sul fatto che lunedì eri al lavoro! Dev'essere stato seccante, per te, trovarti la polizia in casa. Nientemeno che la squadra omicidi.» Il tono della sua voce si era fatto sgradevolmente stridulo. La sua veemenza e violenza erano allarmanti. Ma ormai non poteva fermarsi. «Cosa volevano, Natalia? Te?» Lei si dimenò. «Robert!» «Cos'è successo, Natalia? Tu e qualche tuo amichetto avevate deciso di divertirvi con un vecchio pensionato mezzo morto? Cosa avete fatto? Lo avete derubato? Rispondi!»
Lei gridò e cercò di tirargli un calcio, ma Robert le deviò la gamba con il piede. Quella puttana non sarebbe riuscita a fargli male! Quella donnaccia, puttana, maledetta bastarda di Istanbul! Le parole che tirò fuori lo eccitarono. La rabbia glielo stava facendo diventare di nuovo duro. Le mise una gamba intorno alla vita e premette i genitali contro il pube di lei che si dimenò nel tentativo di liberarsi dalla sua morsa. Il tessuto ruvido dei suoi pantaloni le graffiò la pelle nuda facendola gridare. Non doveva accadere! Un uomo su di lei? No, sbagliato, era sbagliato! Lui le inchiodò le braccia contro il muro dietro di loro e la baciò rudemente sulle labbra. L'avrebbe presa! Per la prima volta, sarebbe stato lui a prenderla! L'idea della violenza che stava per farle lo eccitò. «Ti ho visto, Natalia! Ho mentito per te, puttana!» Lei gridò di nuovo in preda al terrore con gli occhi pieni di lacrime. Robert si sentiva potente. Le diede un morso sulla spalla e premette la sua erezione contro di lei sfregandole la pelle. Le tolse una mano di dosso per aprirsi la patta. Sentì che il pene era duro e caldo. Lo premette con forza contro di lei, assaporando il piacere di sentirla tremare. L'avrebbe scopata! Oh, sì, l'avrebbe fatto! «Non prendermi in giro, Natalia!» gridò scuotendola per i polsi. «Dimmi la verità!» Le aprì con forza le gambe per prepararsi a entrare dentro di lei. Per un attimo, lo sguardo che gli rivolse parve quasi sensuale, ma poi scoppiò in lacrime, singhiozzando come una bambina. Lasciò cadere la testa sul suo petto con il viso segnato da una ragnatela di piccole pieghe. Disse alcune parole in una lingua che Robert non capì, poi avvicinò il pube al suo. Arrendendosi. L'eccitazione non lo aveva abbandonato, ma guardandola, Robert capì che non poteva prenderla. Non la voleva così passiva. Non la voleva violentare. Non era quello che voleva. Robert allentò leggermente la presa sulle sue braccia e scostò il pube dal corpo di lei. Sentì il pene perdere un po' del suo turgore. «Allora?» Dalla gola le uscì un suono lamentoso. «Hai visto me, a Balat. Ero io!» Pervaso da una piacevole sensazione di sollievo, sentì il corpo rilassarsi e afflosciarsi. Non aveva avuto le traveggole, grazie al cielo. Le lasciò le mani e si scostò da lei. Natalia si prese il viso tra le mani lasciandosi andare, almeno apparentemente, al dolore. Le lacrime le scesero dalle dita fino alle cosce. Il respiro di Robert si fece più regolare. Si sentiva come appena svegliato. Ma se lei era stata a Balat... Si sentì male. Cosa si era svegliato a
fare? Si passò le dita tra i capelli folti e umidi di sudore, in attesa che lei finisse di piangere. CAPITOLO VIII «Ikmen!» Si girò e da dietro la porta vide sbucare la faccia arrabbiata del commissario. Gli andò incontro sorridendo, con una sigaretta spenta penzoloni tra le labbra. «Ho appena parlato con il console israeliano del caso Meyer.» Il tono di Ardiç era più accusatorio che informativo. «Dev'essere stato piacevole per lei, signore.» Le sue parole suonarono un po' impertinenti. Scuro in volto dalla rabbia, il commissario gli fece cenno di seguirlo nel suo ufficio. Non appena si fu seduto alla sua scrivania, si riaccese un grosso sigaro pescato dal portacenere. Poi si arricciò nervosamente i baffi. «È stato terribilmente imbarazzante! Ho dovuto scusarmi per lei.» Ikmen si sedette e spense il mozzicone di sigaretta per terra. Ardiç era troppo stupido per meritare le buone maniere. «Pensavo che il console fosse contento di sapermi al lavoro in un caso che gli sta tanto a cuore.» «Non è questo il punto!» tuonò Ardiç. «Il caso è stato affidato a lei, e tutti vogliono vedere lei: gli israeliani, quei bastardi di giornalisti...» «Sono sicuro che lei se la sia cavata a meraviglia, signore.» Il commissario si tolse gli occhiali e li gettò nervosamente sulla scrivania. «Senta, Ikmen, che le piaccia o no, lei gode di una certa... popolarità, per non dire fama. Non volevo che fosse lei a seguire questo caso, ma visto che è andata così, faccia la sua parte!» Alzò una mano in direzione del corridoio. «Le ho messo a disposizione degli uomini! Ha quel fighetto del suo sergente con il culo incollato alla sedia tutto il giorno. Lei deve stare qui, Ikmen. Faccia lavorare loro! È lei il loro dannato capo, o almeno dovrebbe esserlo!» Ikmen si accese una sigaretta e nel contempo lanciò un'occhiataccia al suo superiore. Visto che Ardiç c'era andato pesante, lui avrebbe fatto altrettanto! Ne aveva abbastanza di quel burocrate tutto grasso e boria. Che ne sapeva, lui, del suo lavoro? «Senta, signore, io lavoro così, e lei lo sa. I rapporti di seconda mano buttati giù dalle matricole possono andar bene per gente come Yalçin, ma io il mio stipendio me lo guadagno! Per quanto riguarda il caso in questione,» si alzò e cominciò a camminare avanti e in-
dietro davanti alla scrivania del commissario come un leone in gabbia, «ieri sera ho interrogato una conoscente dell'uomo assassinato. La donna ha detto cose di scarsa importanza. Se non avessi avuto una certa conoscenza della storia del suo Paese, le sue parole non mi avrebbero detto niente. Eppure, il tono in cui mi ha risposto, il suo stato d'animo, i movimenti del suo corpo, si sono rivelati...» si fermò in cerca della parola giusta, «...interessanti. Se non fossi stato lì di persona, mi sarei perso tutto! La faccenda mi ha in un certo senso allarmato. Non so ancora il perché, ma quanto ho appreso oggi da altre fonti non ha fatto che rafforzare le mie perplessità nei confronti di quella donna!» «Quali cose?» Ardiç sottolineò l'ultima parola usando un tono dispregiativo. «In Russia, Meyer era impegnato a ripulire il suo Paese dalla borghesia. Ha ammazzato della gente. I sensi di colpa lo hanno perseguitato tutta la vita. Colpa o paura, non so. Ora, la donna che ho interrogato ieri sera sostiene di essere stata la sua amante in Russia e che lei e Meyer, a un certo punto, hanno lasciato il Paese insieme.» «E allora?» «La gente che ha ucciso Meyer era del genere cui apparteneva la sua donna. Forse ha addirittura ucciso davanti a lei. E se lei lo sapeva, significa che doveva avere un notevole potere su di lui. Lei, o qualcun altro, deve aver avuto una certa influenza per persuadere Meyer a lasciare la Russia. I bolscevichi giovani e belli come lui avevano il mondo ai loro piedi. Era la gente come Maria Gulcu che a quel tempo era costretta a lasciare il Paese, non quelli come Meyer. Anche con l'attenuante dei sensi di colpa per ciò che aveva commesso, sarebbe stato un pazzo a lasciare il Paese. Voglio dire, i sensi di colpa sono una cosa, ma rinunciare a un promettente futuro in una Repubblica sovietica favorevole agli ebrei è un'altra cosa. Dal punto di vista storico, non ha senso. Era il 1918, l'inizio di una nuova era! Gli schiavi prima o poi si rivoltano e quando lo fanno...» «Oh, per l'amor di Allah, Ikmen, la smetta con le sue stupidaggini, o perderò la pazienza!» Ikmen si asciugò il sudore sulla fronte con la mano che gli tremava e si mise a sedere. Ardiç gli puntò addosso un indice accusatorio. «Ora ascolti, Ikmen, stando a quanto mi ha detto il suo bel sergente, non avete cavato un granché da quello Smits.» «Finora non abbiamo prove che sia...»
«Se Smits è o è stato un simpatizzante nazista voglio saperlo e vuole saperlo anche il console. E se lo è stato, lo voglio qui a darmi un preciso resoconto su di sé!» «Sì, concordo con lei, signore, ma ho bisogno di tempo per controllare i movimenti di Smits da questo momento in poi e...» «Con un ebreo massacrato sotto una maledetta svastica di due metri, non abbiamo tempo per nient'altro, Ikmen!» gridò il commissario. «Conosciamo tutti il suo famoso intuito, ma se lo dimentichi. Butti le sue astruse biografie nel bidone della spazzatura e metta questo Smits sotto pressione prima che si verifichi qualche altro fatto del genere. Non voglio vedere questa città invasa dagli agenti del Mossad. Voglio invece fare contento il console israeliano che, come saprà, a meno che lei non abbia vissuto su un altro pianeta ultimamente, è un uomo molto importante.» Ikmen restò in silenzio, con lo sguardo fisso sul pavimento. Il fatto di sapere che Ardiç era sotto pressione perché arrestasse al più presto qualcuno, non gli era di gran conforto. Ardiç emise un profondo sospiro, come per calmarsi. Ikmen, almeno per il momento, era stato ridotto all'obbedienza. «Ora,» continuò, «la stampa non conosce ancora i dettagli più importanti di questo caso e per noi è un bene, però i giornalisti vogliono vederla. Quell'uomo era un ebreo e questo fatto ha scatenato nel Paese il terrore del fondamentalismo islamico. Perciò voglio che lei si incontri domattina con i rappresentanti della stampa per rassicurarli. Si assicuri che quei bastardi non vadano a ficcare il naso a Balat. Gli dica che siamo sulla buona strada per arrestare qualcuno, che le indagini stanno facendo passi da gigante...» «Bugie.» Ardiç si scaldò di nuovo. «Sì, bugie! Vuole che i nostri ricchi ebrei di Yeniköy e Bebek raccattino tutti i loro soldi e se la filino in Israele?» Ikmen lo guardò dritto negli occhi. «E quelli poveri di Balat? Loro sanno, non se lo dimentichi.» «Ah, ma loro non parlano, vero, Ikmen?» «No, signore, hanno troppa paura. Le comunità chiuse sono così, signore. Vulnerabili.» Ardiç emise un grugnito. Non nutriva molto interesse per la gente del popolo con pochi soldi. Ikmen si alzò dalla sedia e si diresse alla porta. Non aveva nessuna intenzione di trattenersi oltre con quell'uomo. «È tutto, signore?»
Ardiç si rimise in bocca il sigaro e si appoggiò allo schienale della sua sedia. «Solo una cosa.» «Sì?» Ikmen si girò. «C'era con me il suo sergente, quando ho parlato con il console. Anche se il ragazzo è un po' effeminato, è bravo a parlare.» Si stropicciò gli occhi. «Se fossi in lei, Ikmen, non gli lascerei troppa autonomia. Potrebbe riuscire a soffiarle il caso.» Fece una risatina infantile. Ikmen sbiancò in volto e uscì a passi decisi dall'ufficio sbattendosi la porta alle spalle. La risata di Ardiç lo seguì fino a metà scala. «Allora, a quanto pare tu e il console siete diventati grandi amici, vero, Mehmet?» Cohen si accese una sigaretta sorridendo. «Ah, ah, molto divertente,» fece Suleyman aggrottando le ciglia. «Però devi ammettere che è un punto a tuo favore.» Cohen si appollaiò sul bordo della scrivania di Suleyman incrociando le gambe. «Potrebbe essere l'inizio della tua scalata ai ranghi.» «Non credo.» Cohen si mise a ridere. «Oh, scusami! Bello, intelligente e bravo a parlare? Al posto tuo mi farei avanti senza tanti complimenti e guai a chi mi mettesse i bastoni tra le ruote. Pensa l'effetto che avrebbe un ispettore bello e non ancora trentenne sulle donne.» «Oh, smettila!» Ma ormai Cohen era partito in quarta. «Il potere eccita le donne.» La sua espressione si fece lasciva. «Una volta conoscevo una ragazza con la fissazione del potere e dei fucili...» «Credevo che fossi sposato,» lo interruppe Suleyman in tono sarcastico. «E allora?» Cohen si protese sulla scrivania avvicinando il viso a quello di Suleyman. «Questo non significa che ogni tanto non mi possa concedere un diversivo. Alle donne piacciono le uniformi.» Suleyman sbuffò. Cohen era un campione di frivolezza. «Sei sempre stato bene in divisa, Mehmet.» Fece un gesto eloquente con la mano. «Non mi dire che te la stiravi tutti i giorni solo per far bella figura in pubblico!» Suleyman si aggiustò nervosamente il nodo della cravatta. Cohen era riuscito ancora una volta a metterlo in imbarazzo. Una cosa che gli riusciva da quando erano matricole. Cohen era così... spudorato! Cambiò argomento. «Com'è andata con la signora Blatsky?» «Non troppo bene. Io, almeno, non ho fatto un granché. Non parla bene
turco. Ha parlato quasi sempre il Vecchio. Lei è anziana e si è persa un po' nelle sue parole.» Suleyman si tolse la giacca. «Non hai ascoltato, vero?» «Ho ascoltato, invece,» rispose Cohen con una punta di malizia. «Ha detto che Meyer ha ammazzato parecchia gente, in Russia.» «Questo lo sappiamo,» replicò Suleyman con lo stesso tono. Cohen si sporse di nuovo sulla scrivania agitando un dito davanti al viso di Suleyman. Come un ragazzino che volesse confidare una birichinata al suo migliore amico. «Ah, ma sapevi anche che a quel tempo era un comunista sfegatato?» «No.» «Oh sì. Ammazzava i ricchi nel nome di Marx. E c'è qualcuno che sa tutto.» Suleyman aggrottò le ciglia. «Qualcuno in Russia o...» «No, qui,» rispose Cohen. «In città.» Suleyman sentì il sangue gelarglisi nelle vene. Lui e Ikmen conoscevano il candidato a quel ruolo. Secondo quanto aveva detto Cohen, l'ispettore doveva essere con il commissario, in quel momento. Immaginò che l'uomo sarebbe stato impaziente di recarsi a casa dei Gulcu, invece di starsene lì. E quando gli avesse detto di Cornelius e della sua aggressione a un avvocato. Un avvocato ebreo... «Non che i compagni di bottiglia del vecchio ebreo fossero meglio.» Cohen aveva cambiato argomento. «Hanno tentato di spillarci dei quattrini. Anche se uno di loro ha detto di aver visto una grossa automobile nera dietro l'edificio, ma non ricordava se l'avesse vista la settimana scorsa o ieri.» «Mmm...» Suleyman non lo ascoltava. La sua mente era troppo impegnata a considerare le strade che questa nuova informazione aveva aperto. La porta si spalancò andando a sbattere come al solito sul lato della sua scrivania. Suleyman sobbalzò. Cohen si rimise lentamente in piedi e si piazzò davanti alla porta con le mani in tasca. «Salve, ispettore.» Ikmen entrò nella stanza, afferrò Cohen per un gomito e lo spinse bruscamente verso l'uscio. «Fuori dal mio ufficio, Cohen, razza di animale perverso!» Dopo che l'agente fu sparito nel corridoio, Ikmen si sbatté la porta alle spalle e restò in mezzo alla stanza in preda alla furia. «Cohen non stava facendo niente di male, signore!» disse Suleyman nel
tentativo di difendere il suo giovane collega. Ikmen lo fulminò con lo sguardo. «Lo so, ma sono arrabbiato e devo pur sfogarmi con qualcuno! Preferivi che me la prendessi con te?» Il sergente abbassò lo sguardo mormorando la sua risposta negativa. «Oh, non preoccuparti, sergente!» disse Ikmen stancamente. «Mi farò perdonare da Cohen un'altra volta. Quando mi sarà passata la voglia di uccidere tutti, me stesso, te e...» Suleyman rimase imperturbabile. «È stata dura con il commissario, signore?» I due uomini si guardarono. Il più giovane si stava segretamente divertendo e quello più anziano lo sapeva. Poteva sfogare il proprio malumore su Suleyman come voleva, perché i suoi scoppi d'ira avevano smesso di impressionare il giovane molti anni prima. Gli angoli della bocca gli si piegarono in un sorriso amaro e lui sospirò. «Oh, Suleyman, cosa facciamo?» «Signore?» Ikmen fece il giro della sua scrivania per andare a sedersi sulla sua sedia. «Ardiç vuole chiudere in fretta questo caso.» Fece un ghigno. «La politica! Si aspettano che a un loro cenno io tiri fuori qualche pazzo di nazista, magari Reinhold Smits, così a portata di mano. Scusa, si aspettano che tu tiri fuori qualche pazzo...» «Io?» «Sì,» rispose in tono risoluto. «Ardiç vuole che io stia qui a disposizione della stampa. Credo che abbia intenzione di trasformarmi in una sorta di personaggio pubblico. D'ora in avanti sarete tu e i ragazzi a mandare avanti il lavoro. Secondo lui, io dovrei restarmene seduto a impartire ordini. Ovviamente non lo farò. Se lo può scordare!» Si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano. «Ho sentito che hai fatto un buon lavoro con il nostro amico console.» «Glielo ha detto il commissario?» «Sì.» Suleyman si mise a ridere. «In pratica gli ho detto quello che voleva sentirsi dire. Ho semplicemente detto che stiamo seguendo diverse piste, compresa quella nazista, accennando a Reinhold Smits, cosa che forse non avrei dovuto fare.» «Tanto prima o poi lo avrebbe scoperto. Comunque, sono contento che tu te la sia cavata bene.» Era sincero. Il suo giovane pupillo stava imparando in fretta. Sicuramente più in fretta di quanto non avesse fatto lui.
«Naturalmente Ardiç si è attaccato alla faccenda di Smits come una sanguisuga, ma non è colpa tua. Tuttavia...» Il suo viso si fece serio e per un attimo sembrò triste. Era contento per Suleyman, ma sapeva che stava rischiando grosso con il proprio superiore. Sapeva che ci voleva poco a promuovere un sergente e a distruggere un ispettore. Suleyman si accorse del suo disagio e cambiò argomento. «Ha chiamato Londra per le informazioni su Robert Cornelius.» «Ah,» fece Ikmen sollevando lo sguardo. Tornare al caso. Era di questo che aveva bisogno. «Allora?» «Ha la sua scheda. Aggressione a un avvocato nel 1987. Un avvocato ebreo di nome Sheldon.» Ikmen annuì. «Interessante. C'entra la politica?» «Non ci sono particolari. A quanto pare Sheldon ritirò la denuncia.» Fece una pausa. «La scheda riporta anche una presunta aggressione a un bambino, nello stesso anno. Anche questa denuncia non ha avuto seguito. Insufficienza di prove. Sembra che il signor Cornelius abbia un passato alquanto movimentato. Vuole che lo faccia venire qui, signore?» Ikmen rifletté per qualche istante. Era un collegamento molto tenue, ma considerando la presenza di Cornelius sulla scena e la sua inaspettata apparizione in casa Gulcu, non era un'ipotesi tanto assurda. Se poi anche il bambino era ebreo... «Sì, sì,» disse lentamente. «Domattina, come prima cosa, manda qualcuno dei ragazzi a prenderlo.» «Va bene. Cohen mi ha detto che la signora Blatsky è stata molto utile.» Ikmen si illuminò. Se solo fosse stato capace di parlare così ad Ardiç. «Secondo la signora Blatsky, il nostro Leonid era un bolscevico. Attivo, sanguinario e impegnato.» «E quindi la gente che ha ammazzato era...?» «Oh, gente di qualità, Suleyman, di qualità. Porci borghesi, per usare le parole della donna.» Fece un ghigno. «La tipica mangiatoia di quei tempi.» «E la signora Blatsky ne è sicura, signore?» Ikmen sospirò. «Per quanto si riuscisse a capire i discorsi sconnessi di Leonid quando era ubriaco, sì. Tuttavia è stata piuttosto vaga sul testimone dei crimini commessi da Meyer. Presumo che sia stato il delizioso Cohen a illuminarti?» «Sì, signore.» «Qualcuno, "l'altro", come lei lo ha definito, che abita ancora in questa città, sapeva dei delitti di Meyer. La donna ha detto che Meyer non le ha mai detto chi fosse o almeno non ricorda che glielo abbia mai detto. Però
aveva notato che lui aveva paura di questo "altro", ha detto che solo il liquore lo faceva star bene, pensava che fosse l'unico modo per andare avanti. Questo "altro"...» Sospirò di nuovo, stavolta più profondamente di prima. «Puoi immaginare a chi ho pensato.» Suleyman rabbrividì pensando a lei. «Però questo non dimostra niente, no, signore? Voglio dire che ci sono ancora molte domande senza risposta. È un fatto accaduto davvero o Meyer quando era ubriaco si inventava delle storie? E se è accaduto davvero e Maria Gulcu ne è stata testimone, perché una donna come lei è rimasta lì a guardare e perché dopo ha lasciato il Paese con lui? A costo di frenare il suo entusiasmo, signore, non mi pare che tutto questo abbia un senso.» Ikmen sospirò per la terza volta. No, non aveva molto senso. Doveva ammetterlo. «Non lo so. Forse le persone che ha ammazzato Meyer erano in qualche modo collegate a lei.» Si strinse nelle spalle con l'aria un po' perplessa. Ma Suleyman era scioccato. «Intende la vendetta? Perché aspettare...» fece mentalmente il calcolo, «settantaquattro anni per vendicarsi? Perché starsene a guardare e poi lasciare il Paese con lui? È assurdo.» «Lo so!» sbottò Ikmen. «Ma la cosa continua a darmi da pensare. Nessuno mi toglie dalla testa che la morte di Meyer sia stata un'esecuzione. Personale, mirata.» Aprì il cassetto della sua scrivania e tirò fuori una grossa bottiglia di brandy ancora sigillata. «Se fossero stati dei folli antisemiti a dichiarare guerra agli ebrei, ci sarebbe stato un gran trambusto. Per anni non è mai successo niente a Balat, niente! E tuttavia devo ammettere che ho la sensazione che quello Smits sia in qualche modo coinvolto in questa faccenda e non si può neanche ignorare la questione di quell'enorme svastica sul muro della camera da letto.» «Ma non siamo sicuri che Smits fosse un nazista.» Ikmen stappò la bottiglia e gettò il tappo sulla scrivania. «No, non ne siamo sicuri.» Ingoiò due lunghi sorsi e ripulì il collo della bottiglia con la manica. «Per quanto ne sappiamo, negli ultimi settant'anni della sua vita Meyer non ha fatto che ubriacarsi. Come diavolo c'entrino Reinhold Smits, Maria Gulcu, Robert Cornelius e i soldi di Meyer in questa faccenda, Dio solo lo sa.» Offrì la bottiglia a Suleyman, che rifiutò. «E poi c'è il fatto che quello sventurato era russo, oltre che ebreo.» Ikmen si portò una mano alla testa in un gesto di disperazione. «Quella maledetta mania russa di far discutere anche dopo la morte.» Ci fu un colpo alla porta e un attimo dopo apparve Cohen. «Qualcuno di
voi gradisce un tè?» Ikmen alzò la testa. «Se ci prometti di non servirci anche i dettagli delle tue ultime imprese con culi e tette, sì, Cohen,» disse. «Va bene.» L'agente uscì dalla stanza. Suleyman scoppiò in una risata insolitamente allegra per lui. Era passata ormai quasi un'ora da quando Natalia se ne era andata, ma Robert non si era ancora mosso dal divano. Con gli occhi fissi sulla ragnatela di antenne televisive che svettavano sul tetto dell'edificio di fronte, osservava il sole tramontare lentamente dietro le case. Come un nastro che sventolava nel cielo blu, una striscia rossastra e un po' offuscata avanzava verso ovest. L'agonia della luce. Il caldo della giornata e la frenetica attività pomeridiana, fatta di sesso e violenza, lo avevano come svuotato di ogni energia. Ma non era una sensazione sgradevole e in un certo senso gli piaceva. Il suo corpo inerte, ormai privo di qualsiasi desiderio, non ci provava nemmeno a recuperare delle forze che in quel momento non aveva. Le poche calorie che gli erano rimaste gli servivano per pensare. Quello che gli aveva detto Natalia, anche se spiegava parecchie cose, lo aveva lasciato perplesso. Lui aveva ancora quell'ansia addosso. No, non aveva avuto le traveggole. Sì, era ancora perfettamente in sé, ma... Era chiaro che lei non avesse avuto alcuna intenzione di dirglielo. Erano anni che lui non ricorreva alla violenza. Ne era rimasto sconvolto. Aveva sperato di non essere più capace di atti del genere, ma evidentemente non era così. Era stata la mancanza di rispetto che lei aveva manifestato nei suoi confronti a mandarlo fuori dai gangheri, il fatto che lei avesse pensato di poter semplicemente ignorare la sua domanda e andarsene come se niente fosse. Esattamente quello che era accaduto in passato negli altri casi. Non si rendeva conto, quella gente, Natalia, quel terribile avvocato, quel bastardo di Billy Smith, che quando lui faceva una domanda, pretendeva una risposta? Ignorarlo come se non esistesse, equivaleva a un insulto. Era una cosa che lo umiliava, che lo faceva sentire perseguitato, quasi. La violenza era l'unica soluzione, quando gli altri decidevano che lui non esisteva come persona. O quando, nel profondo del suo io, sentiva di avere quel ruolo. Certo non era un buon motivo per riempire di lividi il bel corpo di Natalia, e Robert lo sapeva. Ripensò a quanto gli aveva detto. Il fatto che le avesse estorto quella storia con la forza, le dava una certa credibilità. Ma presentava tuttavia degli
aspetti... non gli venne in mente la parola giusta, grotteschi, forse. Aspetti ai quali era difficile credere. Secondo quanto gli aveva detto Natalia, Gulcu non era il vero nome della sua famiglia. Nel 1918, quando era arrivata in Turchia da esule russa, sua nonna aveva conosciuto un uomo di nome Gulcu con cui aveva fatto tre figli. Non lo aveva sposato né aveva mai chiesto la nazionalità turca. Come avesse fatto la famiglia a vivere illegalmente nel Paese, e perché, non glielo aveva spiegato. Così come era un mistero quel padre presumibilmente turco e già deceduto di Natalia. L'uomo assassinato a Balat era stato amico di sua nonna. Era russo come lei, fuggito come tanti altri dalla violenza che aveva diviso e distrutto la Russia degli zar. In passato si incontravano spesso per scambiarsi i ricordi della loro patria. In quelle occasioni, la nonna di Natalia si preoccupava sempre di dare da mangiare allo squattrinato Meyer. Lui era dedito ai superalcolici e spesso dimenticava di alimentarsi in modo adeguato. Ma con il passare degli anni, a causa dell'età, gli incontri tra Meyer e Maria, la nonna, si erano diradati. Tuttavia i Gulcu avevano continuato a rifornire di cibo il vecchio amico meno fortunato di loro. Tutte le settimane uno dei membri più giovani della famiglia attraversava il Corno d'Oro per recarsi a Balat a portare da mangiare al vecchio. Raramente era sobrio, ma dimostrava sempre la sua gratitudine. Maria era convinta che l'uomo sopravvivesse solo grazie ai pasti che gli mandava. Quel lunedì era stato il turno di Natalia. Aveva prolungato il suo intervallo di mezzogiorno ed era arrivata a casa di Meyer verso le tre e mezza. Dopo avergli dato il suo pacchetto si era fermata a parlare un po' con lui. Ma il tempo era volato e quando aveva guardato l'orologio, si era spaventata vedendo che erano già le quattro e mezzo. Doveva tornare al negozio. Aveva lasciato Meyer in piena salute e si era precipitata giù per le scale. Fuori, la sua strada e quella di Robert si erano incontrate. Per quanto questa prima parte della storia gli fosse sembrata strana, Robert non era però in grado di smentirla. La parte finale, invece, il resoconto di Natalia sul loro incontro, era stata alquanto diversa. Secondo Natalia, correva perché aveva fretta di tornare al lavoro. Non faceva caso a chi ci fosse per la strada e andava dritta verso Fevzi Pasa Caddesi, dove c'era la fermata dell'autobus. Aveva spiegato il motivo per cui non aveva riconosciuto Robert in due modi: a) era di fretta, b) essendo miope, non lo aveva visto. Al momento, lui si era tranquillizzato. Lei si era comportata come se a-
vesse voluto farsi perdonare ed era tornata a essere affettuosa. Come la prima volta che si erano visti: alla tenerezza e alla dolcezza aveva aggiunto la sua grande carica di sensualità. Robert si era sentito in colpa per averla trattata con tanta brutalità. Lei lo aveva baciato e gli aveva infilato una mano nei pantaloni per accarezzargli il pene. Voleva fargli capire che avere a che fare con la polizia poteva essere molto pericoloso per lei e la sua famiglia. Già era un guaio che le autorità sapessero che sua nonna era amica di Meyer, ma se avessero anche saputo che lei, Natalia, si trovava nei paraggi quando l'uomo era stato assassinato, le cose avrebbero potuto mettersi molto male. Quasi certamente i poliziotti avrebbero richiesto una deposizione, avrebbero fatto dei controlli e magari le avrebbero chiesto di testimoniare in tribunale. Il controllo avrebbe rivelato la sua reale situazione; la corte non avrebbe preso nella dovuta considerazione la testimonianza di una straniera che risiedeva illegalmente nel Paese. La sua famiglia avrebbe rischiato di essere rimpatriata in Russia, senza un soldo, destinata a far la fila per un pezzo di pane... Un'immagine orribile che tuttavia si era dissolta quando si era chinata su di lui con la bocca aperta, inducendolo a lasciarsi andare alla calda ondata di piacere che lo aveva pervaso. Solo quando aveva sollevato la testa da lui i piccoli buchi nella sua storia si erano aperti fino a diventare voragini. L'urlo che aveva emesso durante l'orgasmo si era affievolito in un sorriso quando lei lo aveva guardato negli occhi. Soddisfatto, Robert le aveva accarezzato il fondoschiena rotondo e sodo. Ma le sue dita si erano irrigidite nel sentire una morbidezza che non c'era tre giorni prima. Ricordava gli abiti che lei indossava quel giorno: quei jeans ruvidi e pesanti, quella camicia dozzinale e informe. Abiti che non le aveva mai visto prima, né dopo. Abiti che lei avrebbe considerato inadatti persino come stracci per le pulizie. Abiti da bruciare senza rimpianti. E forse era quello il loro destino. Dopo l'estasi sessuale, la sua mente aveva ripreso lentamente a funzionare. Dopo che se ne era andata, Robert aveva continuato a riflettere. In una strada piccola e stretta, per non vedere un uomo alto, di quelli che non passano inosservati, bisognava essere decisamente molto miopi. Anche senza occhiali o lenti a contatto, significava essere praticamente ciechi. Natalia non portava nessuna delle due cose. Robert avrebbe voluto che i sensi di colpa e il piacere non lo avessero ridotto al silenzio. Se ne era andata lasciandosi dietro una nebulosa scia di domande senza risposte dentro la quale si era perso. Ma cosa poteva fare? Prima di andarsene, lei gli aveva fatto giurare di non rivelare a nessuno
quanto gli aveva detto. Non gli aveva dato altra scelta; aveva voluto così e lui era stato debole. Altro che uomo violento. Aveva approfittato di un momento in cui lui era molto vulnerabile. Ma i turchi avrebbero davvero espulso la sua famiglia se avessero scoperto la verità? Una famiglia che non solo viveva nel loro Paese da oltre settant'anni, ma che aveva anche messo al mondo dei figli con uomini turchi? Inoltre, se Natalia avesse dovuto spiegare la sua situazione alle autorità, sarebbero stati davvero capaci di respingere la sua domanda di cittadinanza? Dopotutto, lei era turca a tutti gli effetti. Non aveva senso! Robert scosse la testa con impazienza. C'era sotto qualcos'altro; doveva esserci. Qualcosa che le sue minacce e i suoi schiaffi non erano riusciti a tirarle fuori. Forse qualcosa che aveva a che fare con quella spalla ossuta? Qualcosa che lei avrebbe confessato forse solo sotto tortura? Solo che lui non le avrebbe mai fatto una cosa simile. Non le avrebbe più fatto alcun male... mai più. Ma chi erano davvero lei e la sua famiglia? Una verità più oscura e profonda. Robert sapeva che da qualche parte esisteva. In fondo l'aveva sempre saputo. Il buco nero in mezzo al suo racconto. Ma era stanco di pensare. Avrebbe continuato dopo, quando si fosse sentito più in forze. Si alzò bruscamente dal divano per accendere il televisore. La visita che Çetin Ikmen fece ai Gulcu quella sera fu più un imprevisto che un impegno programmato. Fu sorpreso di trovarsi lì almeno quanto lo furono loro. Quando arrivò, Maria era seduta su una sedia in mezzo alla stanza. Benché avesse l'aria tranquilla, si accorse che era arrabbiata e che lì dentro lui era tutto tranne che benvenuto. «Solo?» gli chiese. Il suo tono era declamatorio, come di chi volesse sottolineare qualcosa di molto importante. «Dove ha lasciato il suo bell'amico?» Ikmen si fermò davanti alla sua sedia. «Il sergente Suleyman ha un'altra vita al di fuori di questo caso, signora.» Gli occhi da serpente gli rivolsero un sorriso sgradevole. Ikmen cambiò argomento. «Signora Gulcu, ho qualche altra domanda da farle su Leonid Meyer.» Lei si accese una delle sue Sobranie e sospirò. «A quanto pare, un argomento molto affascinante per lei, ispettore.» «Immagino che la morte di un suo caro e vecchio amico non lasci del tutto indifferente neanche lei, signora Gulcu.» Touché, pensò Ikmen soddi-
sfatto. Lei gli lanciò uno dei suoi sguardi viscidi. «Io tenevo a Leonid quando era in vita, ispettore. Il suo corpo vuoto non è affar mio.» Diede un colpetto sullo sgabello accanto a lei. «Si sieda.» Ikmen girò intorno alla sua sedia e prese posto accanto alla sua mano ingioiellata. Vicino alla finestra, qualcuno tossì. Maria Gulcu girò leggermente la testa e disse qualcosa in russo. Le rispose, sempre in russo, suppose Ikmen, la voce di un giovane. Nello stesso istante Ikmen vide le tende chiuse muoversi leggermente, e quando la sua vista si abituò alla luce, scorse un paio di occhi su un volto pallido che lo fissavano nel buio. Quando la voce parlò di nuovo, Ikmen notò che l'accento era perfetto, ma il tono incerto. Come quello di un bambino timido non abituato a stare in mezzo ai grandi. Tuttavia la voce apparteneva chiaramente a un uomo, come il corpo. Ikmen intravide i piedi e la testa. Magro, ma ben fatto. Dopo aver seguito il suo sguardo per qualche istante, la donna parlò. «La prego di scusare Misha,» disse accennando con la mano in direzione della finestra. «Il figlio di una domestica che avevamo una volta. Purtroppo è morta, ormai, ma io continuo a occuparmi del figlio. È un sempliciotto, ma utile per le faccende domestiche più mondane.» Fece una risata roca. «Le sue chiacchiere vuote a volte mi divertono. Quando sono particolarmente annoiata.» La sua manifesta crudeltà colse Ikmen alla sprovvista, ma solo per un attimo. Avrebbe dovuto aspettarselo. Tuttavia la scoperta di quel giovane rinchiuso, forse da anni, con la viscida signora Gulcu al solo scopo di farla divertire, lo colpì. Ripensando all'interesse che la donna aveva dimostrato nei confronti del suo giovane sergente, rabbrividì. «Vorrei farle una domanda su un fatto che si presume sia accaduto nel 1918, signora.» Ikmen prese le sigarette dalla tasca e se ne accese una. La vide irrigidirsi e muoversi sulla sedia. Girò leggermente la testa distogliendo lo sguardo da lui. «Meyer potrebbe essere stato coinvolto in atti di violenza a sfondo politico.» Lei si protese in avanti per spegnere la sigaretta nel portacenere. Lo sforzo del movimento o forse qualcos'altro, pensò Ikmen, le fece venire l'affanno. «Capisco.» «Secondo il suo rabbino, Meyer era diventato alcolizzato in seguito ai
sensi di colpa per i fatti che lo avevano visto coinvolto.» Ikmen fece una pausa ad effetto. «Mi chiedevo se lei ne fosse al corrente, signora Gulcu.» Lei girò bruscamente la testa e lo guardò da dietro il suo lungo naso. «Cosa vuole che ne sappia della violenza commessa da un misero bolscevico?» «Speravo che lei fosse in grado di dirmi qualcosa, signora.» «E invece non lo sono.» Ikmen sorrise. «Stento a crederlo, signora.» «Davvero?» «Sì.» Fece una breve pausa per cercare di capire, senza che lei se ne accorgesse, se si fosse resa conto di ciò che aveva appena detto. «Allora?» fece la donna con impazienza. «Visto che lei sapeva che il signor Meyer era un bolscevico senza che glielo abbia detto io, il fatto che lei dichiari di non sapere altro sull'argomento mi pare un po' incredibile. Spero che lei capisca il mio problema.» La donna emise un breve e sgradevole rumore, causato dall'aria risucchiata dai denti. «Credevo che il compito dei suoi uomini fosse quello di dare la caccia ai criminali, ispettore. Non sapevo che la polizia di Istanbul avesse arruolato degli storici di professione.» «Il passato non è che il presente in veste migliore, signora Gulcu.» Nonostante il belletto e la cipria, lui notò che il suo viso si era fatto pallido. Sapeva bene cosa lui intendesse dire. Aveva toccato un tasto dolente. «La Rivoluzione è un argomento molto doloroso per tutti gli esuli russi, ispettore Ikmen,» disse, scandendo il suo nome. «Lei è turco, non può capire. I comandanti che avete deposto, li avete spediti all'estero concedendo loro il lusso di un esilio dorato. Noi non abbiamo mai avuto questa scelta. Eravamo...» L'uomo nell'angolo gridò un'incomprensibile parola in russo che gli uscì dalla gola come un singhiozzo. Lei si girò verso le tende con una rabbia che sembrò pervadere la stanza. «Lo vede!» gridò. «Tutti noi, non solo io! Anche i nostri bambini. Tutti noi emigrati moriamo un po' quando ricordiamo...» La sua voce si spense e la vecchia cominciò a tremare fissando il vuoto, come se cercasse di bucare l'oscurità con gli occhi. Stava vedendo delle cose, le scene che si svolgevano nel misterioso fondo nero. Stava vivendo da qualche altra parte. Nel passato. Senza scomporsi di fronte alla pittoresca spiegazione della grande anima
russa, Ikmen continuò per la sua strada. «L'episodio di cui le ho parlato potrebbe essere determinante nello stabilire se il signor Meyer avesse dei nemici, signora. L'argomento, come lei stessa ha ammesso, suscita forti emozioni. Forse ancora oggi c'è gente pronta ad agire.» La risposta fu secca. «Non so niente delle attività di Leonid prima che ci conoscessimo. D'accordo, so che era, o comunque che a un certo punto era diventato, un bolscevico. Ma l'amore è cieco, ispettore Ikmen, e quando mi innamorai di Leonid e fuggimmo insieme dal nostro Paese, niente aveva più importanza. È tutto quello che posso dirle.» «Allora suppongo che lei non fosse presente agli atti di violenza cui partecipò Meyer.» «Presente? Intende dire se ero lì a guardare?» Sul suo viso devastato dal passare del tempo si lesse un'espressione sinceramente offesa. «Per chi diavolo mi ha presa? Che tipo di persona pensa che sia? Io...» Ikmen abbassò lo sguardo. Per un attimo, la reazione della donna lo fece vergognare delle sue parole. «Mi dispiace, signora, è che dalle informazioni in nostro possesso, ci risulta che qualcuno che ora vive in questa città sia al corrente dei dettagli della...» «Le assicuro che non sono io!» «Va bene, signora.» Ripreso coraggio, alzò la testa per guardarla di nuovo negli occhi che ancora divampavano di rabbia. «Mi dispiace, ma dovevo chiederglielo. Spero che lei capisca...» «Oh, certo che capisco, ispettore. Ma ciò non significa che la cosa debba farmi piacere.» «No, certo.» «No.» Seguì un momento di assoluto silenzio... un momento durante il quale nella mente di Ikmen si agitò una domanda. Se avesse risposto, la donna avrebbe premiato la sua audacia. «Lei amava veramente Leonid Meyer, signora Gulcu? Amava sinceramente e profondamente un povero ebreo come lui?» Lei sorrise. Inaspettatamente, considerato che Ikmen le stava dando della bugiarda. «Lei, ispettore, è un ometto intelligente. Credo che conosca la risposta a questa domanda.» «Allora non lo amava?» Lei si strinse nelle spalle. «Era una sistemazione provvisoria. Ero giovane, istruita, bella, e lui era un povero ebreo piccolo e brutto. Ma dovevo lasciare la Russia, ispettore. Il mio corpo in cambio della sua protezione era
un piccolo prezzo da pagare per evitare i pestaggi e gli stupri che avrei dovuto subire senza di lui. In compenso io gli ho offerto l'unica possibilità che aveva di possedere una...» Si interruppe come disturbata da un pensiero, ma si riprese subito. «Una cosa, signora?» Sembrò improvvisamente stanca e guardò il pavimento con gli occhi vitrei. «Una donna che non puzzava di fogna.» Ikmen era certo che non fosse questo, che la donna era stata sul punto di dire. Decise di cambiare tattica. «Allora, tanto per parlar chiaro, non c'era la sua famiglia tra le vittime di Meyer?» «La mia famiglia è stata uccisa dalla polizia segreta, la Cheka.» «Che erano bolscevichi.» La vecchia si fece in avanti avvicinando il suo viso a quello di Ikmen. Era talmente vicino che Ikmen poté notare, sotto il trucco, la lunga cicatrice che dall'occhio sinistro le scendeva fino al mento. «Lei si darebbe a una persona che le ha ammazzato la famiglia? Anche se solo per salvarsi la vita, ispettore?» «Penso che dipenderebbe da come vedo la morte, signora. Se fossi davvero convinto che sia la fine di tutto, allora credo che farei qualsiasi cosa per sopravvivere. Odierei, ma probabilmente andrei avanti. Forse proprio grazie all'odio.» Il viso rugoso della vecchia sfiorava quasi la guancia di Ikmen, che sentiva il suo fiato pesante nell'orecchio. «E come la vede, ispettore?» Lui rimase in silenzio per qualche istante. Non lo sapeva. Alcuni credevano in una vita nell'aldilà, altri no. Erano affari loro. L'argomento lo interessava, ma solo in quanto poteva aiutarlo a capire la psicologia e le motivazioni che spingevano taluni a compiere determinati atti. «La verità, signora, è che non so a cosa credo o non credo. Ma se qualcuno uccidesse la mia famiglia, mi ritroverei senza scopo nella vita. Anche se, forse, il pensiero della vendetta mi spingerebbe ad andare avanti. Intendo dire, che senso hanno il successo, i princìpi, la posizione sociale se nessuno ci ama?» «Dipende.» Socchiuse gli occhi accennando un sorriso agli angoli della bocca. «Dipende da chi si è, da quanto è preziosa la propria vita per sé stessi e per gli altri.» «E la sua vita era talmente "preziosa" per lei da indurla a consegnarsi agli assassini della sua famiglia?» Lei si mise a ridere. Fu una reazione inaspettata che colse Ikmen alla
sprovvista. «Sono cristiana ortodossa, ispettore. La morte, per noi, è solo l'inizio di una vita più piena e felice. Se Leonid avesse ucciso i miei genitori, perché non avrei dovuto seguirli?» Si strinse nelle spalle. «Ma a lei basti sapere che non sono stata io a uccidere Leonid, ispettore. Posso giurarlo con la mano sul cuore. La mia coscienza è pulita.» Ikmen sorrise. «Non ho mai pensato, signora, che...» «Secondo lei qualcuno della mia età sarebbe fisicamente in grado di compiere una cosa del genere?» Rise di nuovo. «No, ha ragione... nel mio caso...» Ikmen socchiuse gli occhi. «Cosa intende dire?» «Intendo dire, ispettore, che potrebbero anche esserci dei vecchi capaci di fare una cosa del genere.» Lui la guardò con aria interrogativa. «Ci sono un mucchio di vecchi da qualche parte, in Sudamerica, che ancora oggi, ogni tanto, danno filo da torcere a gente come Leonid.» «Intende vecchi nazisti?» chiese guardandola fisso negli occhi. «Un po' troppo lontani da qui, non le pare?» Lei sostenne il suo sguardo senza il minimo cedimento. «Alcuni sì, altri no.» Ikmen simulò alla perfezione un grande stupore. «Oh, intende qualcuno come il direttore della Seker Textiles, il signor Smits?» «Oh.» La vecchia sorrise di nuovo, stavolta scoprendo i denti rotti e ingialliti. «Ho detto così?» «No.» «No, non l'ho detto, non l'ho detto.» Ikmen sospirò profondamente, un po' seccato per essere stato superato in astuzia così facilmente. «Al momento non abbiamo alcun motivo di credere che il signor Smits avesse qualche interesse nella morte di Leonid Meyer, signora.» «No?» «No. Ma...» e qui fu Ikmen a sorridere, lentamente e con una certa soddisfazione, «...Ma se lo troveremo, le assicuro che glielo farò sapere.» CAPITOLO IX La vita a Istanbul offriva anche alcuni aspetti positivi. Il sole, la cordialità della gente, l'esotico caos del luogo, erano cose che Robert amava e alle quali non avrebbe rinunciato. La massiccia e spesso fastidiosa presenza
delle autorità era però un'altra questione. L'ultimo di una lunga serie di colpi di mano militari era avvenuto nel 1980. E aveva lasciato dei segni. Le strade della città pullulavano di pattuglie di poliziotti armati e soldati ancora più armati, i volti scuri, attenti ai minimi segni di sommossa e insurrezione e che, secondo Robert, fermavano la gente per interrogarla senza un valido motivo. Circolavano storie terribili su quello che accadeva alla gente che avesse avuto la sfortuna di essere portata al carcere giudiziario o militare: storie di torture medievali e interrogatori disumani. Appena arrivato nel Paese, Robert era andato al consolato britannico. Tra le raccomandazioni che distribuivano c'era quella di "stare alla larga" dalla polizia. La Turchia era una nazione amica e nel caso di "cattiva condotta" da parte di un cittadino britannico, veniva applicato il diritto turco, anche se con qualche riserva. In altre parole, il governo di Sua Maestà non interferiva, lasciando che ognuno se la cavasse da solo. Tuttavia, il contatto sia pure breve che aveva avuto con Ikmen, aveva portato Robert a credere di avere intravisto il lato umano della burocrazia turca. Non ne era del tutto convinto, però. Quel sorriso strano e quei modi indubbiamente accattivanti non significavano molto. Gli occhi scuri e penetranti si erano fatti duri quando Robert aveva risposto in modo un po' incerto alle sue domande, e l'inglese si era chiesto quali altri drastici metodi avrebbe usato l'ispettore qualora avesse cominciato a sospettare seriamente di lui. Non sapeva nemmeno lui perché avesse ricominciato a rimuginare su queste cose. Non aveva fatto niente di male! Ma... ma si era svegliato con questo pensiero e non c'era stato verso di cacciarlo dalla mente. Per un attimo fu sfiorato dal desiderio di trovarsi a Londra, invece che lì. Ripose i libri e le carte nella borsa sforzandosi di non pensare, a nulla. Poi sentì bussare alla porta. Robert posò la cartella per andare ad aprire. Doveva essere il vecchio Ali, il kapici, con l'acqua potabile. Di solito faceva il suo giro prima che Robert uscisse per andare al lavoro, per assicurarsi che nello stabile fosse tutto a posto, distribuendo acqua e saluti. Ma quando Robert aprì la porta e vide un giovane alto con indosso l'uniforme blu della polizia, si sentì venir meno. I pensieri di poco prima gli parvero dei brutti presagi. «Sì?» «Il signor Robert Cornelius?» «Sì.» Si accorse che la sua voce tremava, ma non poté farci niente. Guardò la grossa fondina appesa alla cintura dell'agente. Cuoio, di quello spesso, e metallo, freddo e duro.
Il giovane sorrise. Aveva dei bei denti, ma troppi per i gusti di Robert. Molti giovani turchi erano così. «La prego di seguirmi alla Centrale. L'ispettore Ikmen desidera parlarle.» «Natalia?» «Sì, nonna?» Si avvicinò al letto e scostò la rete viola. «Abbiamo un problema, a quanto pare. Dobbiamo parlare.» «Noi?» La ragazza allontanò il viso per evitare la carezza della nonna. Maria Gulcu si sollevò faticosamente sui cuscini e allungò una mano per prendere le sigarette. «Dobbiamo fare qualcosa, con quei poliziotti. Stanno diventando noiosi.» Oh, facile a dirsi, ma cosa? Natalia si lasciò cadere sulla sedia accanto al letto di Maria. «Cosa pensi di fare, nonna?» La sua voce era calma, ma con una punta di ansia. «Non lo so, Natalia.» Maria abbassò lo sguardo sulle mani abbandonate sul grembo. L'innocente. «Non esco da questa casa da prima che nascessi tu.» «Nonostante questo pretendi una soluzione.» La frase le uscì con la violenza di un proiettile. Anche se sapeva bene a chi sarebbe toccato fornire quella soluzione. Maria reagì al tono scortese. Guardò la giovane con gli occhi di ghiaccio. «Oh, sì!» «E cosa vuoi che faccia, nonna?» Natalia ricambiò lo sguardo della nonna con un colpetto di tosse. Da un po' di tempo, l'incenso nella stanza di Maria le faceva mancare il respiro. Cominciava a nausearla, come la vecchia. Visto che Maria non rispondeva, Natalia continuò. «Vuoi che corrompa l'ispettore? Che gli porti da mangiare? Che ci vada a letto?» «No.» Maria si accese una sigaretta e da vera esperta, espirò dei grossi anelli di fumo nell'aria. «No, pensavo di affrontare il problema da un altro punto di vista.» «Cosa intendi?» «Intendo che anche se l'ispettore è al corrente del fatto che lo zio Leonid aveva dei nemici in questa città, al momento non è in grado di verificarlo.» Natalia lanciò alla nonna uno sguardo furioso. «E io cosa dovrei fare?» «Anche se la polizia sa chi potrebbe essere stato a uccidere lo zio Leonid...» «Sì, sì, ma lui...»
«Anche se sanno, non hanno prove. Tuttavia, questo non significa che la situazione non possa cambiare in futuro.» «Ah.» Natalia aggrottò la fronte più per le parole della nonna che per la sorpresa. «E vuoi che io...» «No.» Maria fece un sorriso insolitamente dolce per lei. «No, Natalia. Voglio solo che tu mi ascolti un attimo... che ascolti la grave ingiustizia che lo zio Leonid ha subito molti anni fa da parte di un uomo malvagio. Quell'episodio ha fatto molto male anche a me. Quell'uomo terribile che mi perseguitava...» Ma Natalia conosceva bene sua nonna e nonostante il sorriso che le rivolse nel parlarle, si sentì sprofondare al pensiero di quello che le sarebbe toccato ascoltare. «No, nonna. Non voglio.» «E invece devi!» Maria allungò improvvisamente una mano e afferrò Natalia per il mento. Nel sentire il fiato pesante della vecchia a pochi centimetri dal viso, la giovane si ritrasse di scatto. «Non te lo sto chiedendo, Natalia!» La ragazza gemette. Non era la prima volta che si sentiva intrappolata negli artigli di Maria come un verme. A turno, era successo a tutti loro. Ma ultimamente era toccato sempre a Natalia. «Perché proprio io?» Poi aggiunse, in tono ancora più amaro, «di nuovo.» «Perché tu vivi nel mondo, tesoro.» Lo disse con disprezzo misto a invidia. «Tu hai scelto di essere libera. Eri anche contenta, e io te ne ero grata, di recarti dallo zio Leonid quando...» «No!» Natalia non piangeva facilmente, ma i suoi occhi si riempirono improvvisamente di lacrime. La nonna se ne accorse e anche se non fece niente per consolare la nipote, adottò un tono più morbido. «Senti, lo so che hai già sofferto molto, Natalia, e mi dispiace. Ma dobbiamo portare a termine ciò che abbiamo cominciato. C'è ancora molto da fare e...» «Sì, lo so, lo so.» «Perciò io, noi, abbiamo bisogno che tu faccia qualcos'altro per completare il lavoro. Capisci?» «Sì. Io...» «Allora: il tuo amico, il signor Cornelius...» L'improvviso cambiamento di argomento e la durezza che sua nonna aveva rimesso nel parlare, confusero Natalia. «Sì, allora, che dicevi di lui?» Era da quelle parti all'ora in cui secondo la polizia Leonid è stato ucciso.
«Sì, lui...» «Ed è stato interrogato, vero?» «Sì.» «Bene.» Maria spense la sigaretta nel portacenere sorridendo. «Per quanto strano possa sembrare, la cosa potrebbe tornare a nostro vantaggio, poiché credo che il signor Cornelius possa essere molto interessato alla questione della vecchia ingiustizia subita dallo zio Leonid. Tu stessa hai ammesso che è molto interessato all'intera faccenda. È preoccupato, cerca risposte...» «Oh, Dio, intendi...» Natalia si appoggiò pesantemente allo schienale della sedia con gli occhi fissi sulla parete di fronte. Il fumo che la vecchia le sbuffava in faccia le irritò gli occhi. Non c'era modo di cambiare aria. In camera di Maria non si potevano aprire le finestre. Il fumo, il suo profumo e l'odore dolciastro dell'incenso non avevano via di fuga. Lei ci sguazzava, in quel miscuglio di odori acri e dolciastri. «Intendo dire,» riprese Maria, «che credo che tu debba ascoltare la mia storia, poi potrai decidere cosa farne. Dopotutto, se il signor Cornelius è in cerca di risposte, e se è turbato dagli ultimi avvenimenti, come hai detto...» Natalia non aveva nessuna intenzione di restarsene lì ad ascoltarla, ma se voleva sfuggire alle oscure fantasticherie di Maria, doveva considerare almeno... Da bambina, Natalia si divertiva ad ascoltare le storie della nonna; la facevano sentire speciale, amata, superiore. Ed era ancora così, nonostante le difficoltà che erano arrivate con l'età adulta e l'equilibrio psicologico che sapeva di non aver mai raggiunto. E tutti, in famiglia, avevano parecchio da perdere: le cose materiali, la sicurezza, il dono del passato... Si arrese prima ancora di parlare, prima ancora di riuscire a raccogliere i suoi pensieri. «Va bene,» disse con un sospiro, «racconta, se proprio devi.» Suleyman fece appello a tutte le sue nozioni di inglese e cominciò. «Grazie per essere venuto, signor Cornelius.» «Non mi pare di aver avuto altra scelta.» Suleyman lanciò un'occhiata allarmata a Ikmen, il quale gli fece cenno di continuare. Suleyman si schiarì la voce. «La prego di scusarci, signore, ma c'è una cosa che dobbiamo chiederle.» Gli mise davanti un foglio facendolo scivolare sul piano della scrivania. «Si tratta di due episodi accaduti nel 1987.» Cornelius fece una risatina sarcastica. «Ma ero a Londra, a quel tempo!»
«Sì.» Suleyman diede un'occhiata alle sue carte. «Si tratta di un certo signor Simon Sheldon, signore, e...» «Cosa?» Cornelius si agitò sulla sedia lanciando un'occhiataccia a Ikmen. Era furioso. «Ha chiesto informazioni sul mio conto?» «Routine, signore. Prendiamo informazioni su tutti, in casi del genere. Fa parte delle indagini. Lei non è l'unico su cui stiamo indagando.» «Routine! Cosa c'entra il mio passato con...» «Per favore, ascolti il sergente Suleyman, signore.» Ikmen era stanco. Non aveva né il tempo né la voglia di arrabbiarsi. Non aveva ancora bevuto niente. Cornelius tacque in preda alla furia e si girò di nuovo verso il giovane che lo stava interrogando. Quel giovane poliziotto dalle mani belle e dai lineamenti perfetti non gli piaceva per niente. Suleyman si schiarì di nuovo la voce. «Nel 1987 lei aggredì il signor Sheldon a Islington, un quartiere alla periferia nord di Londra. Il signor Sheldon non sporse denuncia.» «Davvero?» Lo disse con una certa arroganza, tuttavia Cornelius incrociò le braccia sul petto e ritrasse le gambe. «Può dirci qualcosa a questo proposito, signore?» «Perché?» Suleyman deglutì nervosamente. «Dobbiamo sapere, signore, perché...» Il suo inglese gli venne improvvisamente meno. Non bastava che avesse le idee chiare su quello che voleva dire. Il problema era come dirlo. Aprì la bocca, ma gli uscì solo qualche suono inarticolato. Cornelius lo guardò come se fosse stato un idiota. La momentanea difficoltà di Suleyman sembrò divertirlo. «Allora?» Intervenne Ikmen con la sua solita abilità. «L'omicidio del nostro signor Meyer potrebbe, e sottolineo che si tratta solo di un'ipotesi, signore, essere di matrice razzista o più precisamente antisemita. Il signor Meyer, come la maggior parte di quelli che risiedono nel quartiere di Balat, era un ebreo.» Cornelius rimase in silenzio per qualche istante, riflettendo sulle parole di Ikmen. Sentì che impallidiva e dovette inumidirsi le labbra che improvvisamente gli erano diventate secche. Quando finalmente parlò, la sua voce era roca, come se avesse qualcosa in gola. «E voi pensate che per il solo fatto di aver litigato con Sheldon nel 1987, io sia un persecutore di ebrei...» «Non pensiamo niente del genere, signor Cornelius.» Ikmen tolse i piedi dal cestino della carta e si accese una sigaretta. Nel parlare, cercò di usare
un tono cordiale. «Stiamo solo indagando. Dobbiamo farlo. La sua aggressione al signor Sheldon potrebbe essere giustificabile, come potrebbe essere invece solo un brutto episodio a sfondo politico. Non lo saprò, finché non me lo dirà lei.» Per un attimo Cornelius sembrò placarsi, ma fu solo una breve tregua. «Perché io? Perché state indagando su di me?» «Stiamo indagando su chiunque si trovasse nella zona in cui è stato commesso il delitto, signore. Come le ho detto, si tratta di semplice routine. Lei sta semplicemente dando una mano...» «A voi e alle vostre indagini!» sbraitò Cornelius. «Sì, signore.» Ikmen gli rivolse un sorriso molto cordiale. Era importante non agitarsi, in momenti come quelli. La calma di solito dava i suoi frutti. Cornelius si passò le dita tra i capelli, poi infilò una mano in tasca per prendere le sigarette. «Nel mio Paese, ispettore, "dare una mano alla polizia nelle sue indagini" significa di solito essere sospettati.» «Le assicuro che...» «E se uno non confessa, lo sbattono in cella e gliele danno di santa ragione.» Nell'ufficio cadde il silenzio. Ikmen guardò Suleyman, poi di nuovo Cornelius, il quale nel frattempo si era fatto livido. Sospirò. Era sempre difficile trattare con gli stranieri. Gli seccava, ma doveva arrivare al dunque. «Desidera che sia presente un rappresentante del suo consolato, signore?» Ma invece di distendere l'atmosfera, il suggerimento di Ikmen sembrò allarmare l'inglese ancora di più. Ebbe una reazione che non aveva previsto. «No, no, non voglio. No!» La sigaretta spenta che aveva tra le dita tremò visibilmente. Molto strano. Tuttavia Ikmen restò calmo. «Bene, signore.» Fece una pausa. «Forse vuole dirci qualcosa del signor Sheldon.» Mentre Cornelius si accendeva la sigaretta, Ikmen notò che l'uomo faceva fatica a controllare il tremore delle mani. «L'avvocato Simon Sheldon era l'amante della mia ex moglie. Ho sorpreso quel bastardo a letto con mia moglie e gli ho rotto la mascella. Io non odio gli ebrei, solo Sheldon. Credo che lei possa capire il perché.» Ikmen si appoggiò allo schienale della sedia osservando la testa china che aveva davanti. L'uomo pareva vergognarsi, ma non del gesto che ave-
va compiuto, secondo l'impressione che ebbe Ikmen. No, Cornelius si vergognava del fatto che sua moglie avesse un amante. Alto, biondo e attraente com'era, doveva essere stato un brutto colpo per la sua virilità, pensò Ikmen. «Mi dispiace, signor Cornelius,» disse incrociando le braccia sul petto. L'inglese alzò la testa. «Davvero?» «Sì. Ma credo che lei abbia capito perché io abbia dovuto farle questa domanda.» Cornelius non rispose. Ikmen guardò i suoi appunti inspirando profondamente. «E il bambino, William Smith, signor Cornelius? La scuola Rosebury Downs di Hackney?» «Oh, per l'amor del cielo!» «Mi dispiace, signore.» Il tono di Ikmen si fece più duro. «Ma devo chiarire queste faccende.» «Billy Smith era un piccolo bastardo!» disse Cornelius sospirando. «Il bambino mentì. Come fanno spesso i bambini. Sostenne di essere stato picchiato dal "professore" per metterlo nei guai. È stato un inganno, santo cielo! Non ho mai toccato quel piccolo porco! Dio, l'avrei fatto volentieri, ma non lo feci e la corte riconobbe la mia innocenza.» Alzò gli occhi su Ikmen con un ghigno. «Oh, e prima che me lo chieda lei, Billy Smith non era ebreo. Dubito addirittura che fosse umano.» «Capisco.» Cornelius fece una risatina amara. «No, non capisce! A meno che non sia stato insegnante anche lei. Le scuole di Londra sono un inferno, ispettore Ikmen. Dei ricoveri per bestie. Come lei saprà, poco tempo dopo quell'episodio mi sono dimesso. Ma non a causa di quello. Mi sono dimesso perché ne avevo abbastanza di bambini, perché mia moglie mi stava lasciando e perché la vita mi stava crollando addosso. Non è piacevole, ispettore, sentirsi distrutti...» Si fermò, con lo sguardo fisso nel vuoto. Aveva gli occhi lucidi, ma deglutì e respirò profondamente per impedire alle lacrime di scendergli sulle guance. Ikmen si morse il labbro. Non era stato piacevole interrogare quell'uomo. Se aveva detto la verità, il 1987 doveva essere stato un anno infernale per lui. Ma c'era ancora una cosa che doveva chiedergli prima di lasciarlo andare. Cornelius sembrava talmente sconvolto che lui esitò. Dopo averci riflettuto qualche istante, alla fine decise che era meglio affrontare subito l'argomento. Forse avrebbe ottenuto qualche risultato. Infierire su una per-
sona già abbattuta non era una bella cosa, ma lui doveva fare il suo dovere. «Cosa sa della famiglia Gulcu, signor Cornelius?» Ikmen non riuscì a vedere la sua espressione perché aveva la testa girata dall'altra parte, ma ci riuscì Suleyman. Il viso di Cornelius si fece paonazzo. «Perché?» Il suo tono era misurato, ma tradiva una certa tensione. «L'ho vista a casa loro, mercoledì sera. Mi chiedevo se li conoscesse bene.» «Sospettate anche di loro?» Continuava a non guardare in faccia Ikmen. Cercava di non guardare nemmeno Suleyman, ma il giovane sergente era riuscito a catturare il suo sguardo e non lo mollava. «No,» rispose Ikmen pacatamente. «Mi chiedevo solo in che rapporti foste.» «Natalia Gulcu è... una mia amica.» Esitò leggermente sull'ultima parola. «Un'amica.» Fu un'affermazione, non una domanda, ma Cornelius reagì violentemente. «Sì, una dannata amica!» Alzò la testa e guardò Ikmen con aria di sfida. «Che diavolo sta succedendo?» Ikmen si stava chiedendo la stessa cosa. Da quel poco che aveva potuto capire di Cornelius e della signorina Gulcu, gli era sembrato che fossero qualcosa di più di semplici amici. Qualunque fossero le sue origini, la ragazza era turca e a Ikmen pareva strano che una ragazza della media borghesia turca si concedesse una certa intimità fisica con un semplice amico. L'uomo si era strofinato contro di lei, l'aveva palpata ben bene. Si chiese se per caso non fosse di mentalità troppo ristretta, ma poi decise che non gli sembrava di esserlo. Non che quei gesti spiegassero il motivo del comportamento di Cornelius in quel momento. Era chiaro che lui provasse una forte attrazione per quella ragazza. Lei, dal canto suo, si era comportata come se fosse abituata alle sue carezze. Ikmen guardò Cornelius dritto negli occhi per qualche istante. L'espressione di sfida dell'uomo gli fece capire che difficilmente avrebbe saputo di più su quella relazione. Ma c'erano altri modi per scoprirlo. Ikmen fece un largo sorriso e si alzò. «Grazie, signor Cornelius, può andare, ora.» Ci fu una pausa. «Intende dire che è tutto?» «Sì.» Per un attimo, Robert sembrò confuso. Provava un misto di sollievo e
confusione. Raccolse la sua cartella da sotto la sedia e si alzò. «Avrà... ancora bisogno di me, ispettore?» Il suo tono fu tutt'altro che gentile. Ikmen gli tese la mano. «No, a meno che lei non abbia da raccontarci altro su lunedì pomeriggio, signore.» Cornelius incassò. Ignorò la mano tesa e si avviò alla porta. Qualcosa lo aveva fatto arrabbiare di nuovo. Forse il riferimento a lunedì pomeriggio. «Se dovessi scoprire che mio padre era Heinrich Himmler, glielo farò sapere, ispettore.» Ikmen rimase imperterrito ma approfittò del riferimento al tedesco per fare un'ultima domanda. «Oh, a proposito, per caso conosce un certo Reinhold Smits, signor Cornelius?» Il viso dell'inglese sbiancò di colpo restando privo di espressione. «No, perché?» Ikmen sorrise. «Oh, così. Grazie.» Cornelius stava per aprire la porta quando si fermò come assalito da un improvviso pensiero. Senza girarsi, parlò in un tono inaspettatamente calmo. «Posso farle una domanda io, ispettore Ikmen?» «Dica.» «Quando prenderete l'assassino, che ne sarà di lui?» Ikmen si strinse nelle spalle e si accese una sigaretta. «Ci sarà un processo e se sarà giudicato colpevole sarà condannato.» «A cosa? Condannato a cosa?» Ikmen osservò Cornelius da vicino e mentre parlava notò le rughe intorno alla bocca dell'inglese farsi più profonde. Era come vedere incresparsi un tessuto. «Spesso al carcere. Venti, trent'anni. Tuttavia, per certi reati, la Repubblica prevede la pena di morte, signor Cornelius. Un omicidio come questo, considerata la spietata crudeltà con cui è stato commesso, rientrerebbe in questa seconda ipotesi.» «Capisco.» Cornelius giocherellò qualche istante con la maniglia della porta, poi aggiunse: «Vale per tutti? La pena di morte, voglio dire.» «Tutti?» «Sì. Intendo tutte le categorie e tutti i tipi di persone?» Poiché la domanda non suscitò in Ikmen alcuna reazione visibile, Cornelius insistette. «Senza eccezioni per la situazione di una persona, o...» «Forse. Per i malati terminali, per esempio, o certe donne, o i ritardati mentali...» «Oh.» Il suo sollievo fu appena percettibile. «Bene. Grazie.» Ikmen chinò leggermente la testa sorridendo. «Prego, signore.»
Tuttavia, prima che Cornelius se ne andasse, lo sguardo del poliziotto incrociò il suo e per un attimo i due uomini rimasero a fissarsi. Poi, con un colpetto di tosse, Cornelius si voltò e uscì. Dopo che l'inglese si fu richiuso la porta alle spalle, Ikmen e Suleyman rimasero per qualche istante ad ascoltare i suoi passi che si allontanavano nel corridoio. Poi Ikmen si girò verso il giovane sorridendo. «Hai colto tutto, Suleyman?» «Quasi tutto, signore. Mi dispiace di essermi impappinato con le domande...» «Non fa niente.» Si avvicinò alla finestra e guardò in strada. Rimase lì per qualche istante, in attesa di veder passare Cornelius. Ma non vedendolo, rientrò nella stanza. «Cosa ne pensi, Suleyman?» «Di Cornelius? Mi è parso che avesse paura, signore.» Restò un attimo soprappensiero. «Ma anche la più innocente delle persone si comporterebbe in modo irrazionale entrando qui dentro.» Ikmen annuì. «È vero. Anche se mi è sembrato terrorizzato solo verso la fine dell'interrogatorio.» «Cosa intende, signore?» Ikmen fece un ghigno truce. «Trovo morboso tanto interesse nei dettagli tecnici della pena di morte, non trovi anche tu?» «Oh,» fece Suleyman. «Oh davvero,» disse Ikmen scandendo le sillabe. Ahmet Demir si lasciò cadere sulla sedia di Cohen, allungando le lunghe gambe sotto la scrivania. «Alzati dalla mia sedia,» borbottò Cohen con la sigaretta in bocca, continuando a rovistare nell'ultimo cassetto dell'armadio che fungeva da archivio. Le sue parole caddero nel vuoto. Demir si accomodò meglio sulla sedia. «Che fai stasera, dopo il lavoro, Cohen?» «Ti interessa?» «Se ci sono di mezzo delle svedesi, sì.» Cohen distolse la testa dall'archivio e si girò a lanciargli un'occhiataccia. A volte odiava la fama di cui godeva. Non c'era uomo fissato sul sesso, in tutto il dipartimento, che non si fosse rivolto a lui per un consiglio o per chiedergli di accompagnarlo in uno dei suoi giri a caccia di donne. Demir, con il suo corpo lungo e smilzo e la faccia da caprone, lo irritava in modo particolare. Per qualche inspiegabile motivo, l'uomo si credeva attraente, o
almeno si comportava come se si credesse tale. Ma forse il mestiere di poliziotto acuiva la tendenza all'autoinganno. Dopotutto, per sopravvivere, quegli uomini dovevano far finta che le brutture del loro lavoro non esistessero. Ma polizia a parte, i fan di Cohen erano orrendi. A lui sarebbe anche stato bene, se almeno ce ne fosse stato uno giovane e carino, perché a quarant'anni cominciava a fare fatica a conquistare una donna e charme e tecnica amatoria funzionavano soltanto se agiva da solo o insieme a un uomo più giovane e attraente di lui. Ma Demir, in effetti, non era mai stato attraente a nessuna età. «Allora, Cohen?» La porta dell'ufficio si spalancò facendo entrare Suleyman. Sorrise a tutti e due e Cohen ricambiò il sorriso. Ah, il suo preferito, l'ideale per andare a rimorchiare... se solo fosse stato disponibile. Cohen guardò giù verso Demir. Il caprone aveva lo sguardo torvo. Lo sapeva! Dentro di sé, Cohen rise. Geloso! Quando spuntava Suleyman all'orizzonte, Demir non faceva che rendersi ridicolo agli occhi di tutti i colleghi della Centrale! «Cosa posso fare per lei, sergente?» Andò alla sua scrivania per scacciare Demir dalla sua sedia. «Fai sedere il sergente!» Suleyman sembrò un po' imbarazzato per la preferenza manifestata da Cohen, e cominciò a protestare. «No, Demir, resta pure...» Ma Demir si alzò e si sistemò la camicia nei pantaloni. Quando arrivava Mehmet Suleyman, per lui arrivava il momento di andarsene. «Non si preoccupi, signore,» disse lanciando un'occhiataccia a Cohen. «Stavo giusto andando.» Si diresse a passi pesanti verso la porta e uscì senza fare ai suoi colleghi la cortesia di richiuderla. «Brutto bastardo,» borbottò Cohen tra i denti. «Allora...» disse Suleyman, sedendosi sulla sedia appena lasciata libera per lui. «Che mi dici delle informazioni che l'ispettore ti ha chiesto di prendere sulla famiglia Gulcu?» Cohen prese un cestino della carta, lo capovolse e ci si sedette sopra, di fronte al suo collega. Il suo viso appariva stanco, annoiato e deluso. Suleyman conosceva quei sintomi. Cohen non riusciva a nascondere il suo stato d'animo. Sul suo piccolo viso mobile, un po' buffo, si leggeva sempre quello che provava, quando provava qualcosa. «Stiamo facendo pochi progressi, vero Cohen?» «Puoi ben dirlo.» «Oh, no!» gemette Suleyman. «L'ispettore darà i numeri. Lo sapevi
quanto fosse importante. Cosa hai fatto?» Cohen accese una sigaretta e l'agitò davanti a Suleyman tra due dita ingiallite e sudicie. «Oh, mi sono dato da fare, Mehmet, te lo assicuro! Solo che non sono riuscito a trovare molto. Anzi, niente. Davvero.» «Niente?» Suleyman socchiuse gli occhi. «Cosa intendi dire?» Cohen prese un taccuino da sotto il telefono, lo posò sulla scrivania e lo aprì. «Ecco, cosa intendo. La casa al numero 12 di Karadeniz Sokak è intestata a nome del signor Mehmet Gulcu. Anche tutte le utenze, a eccezione di una di cui ti dirò tra un attimo, sono intestate a lui. Da quanto risulta, è lui a pagare le bollette.» Fece una pausa, come a voler dare maggior effetto alle sue parole. «E allora?» «Si dà il caso che Mehmet Gulcu, celibe, sia morto nel settembre del 1935. Pare non avesse figli e si sia lasciato dietro solo un irrefrenabile desiderio di continuare a pagare le bollette e le tasse anche da morto.» Suleyman si grattò il mento con fare pensieroso. Mehmet doveva essere stato quella specie di marito della vecchia. «E che hai saputo di Maria, Natalia e Nicholas Gulcu?» Cohen gli rivolse un sorriso stanco. «Se esistono, non lavorano, non abitano da nessuna parte, non hanno passaporti e non hanno mai pagato le tasse. Ho cercato dappertutto.» Conosceva Cohen, sapeva quanto riuscisse a essere pedante, a volte. «Sei sicuro?» Cohen alzò gli occhi al cielo. «Non sono registrati da nessuna parte, in Turchia, Mehmet, te l'ho detto.» Suleyman aggrottò la fronte. «E poi c'è la faccenda del telefono,» disse Cohen. «Che c'è con il telefono?» «Il loro numero è intestato a una certa signora Demidova. E indovina un po'?» Non ci voleva molto. «Non esiste nessuna signora Demidova.» «Esatto.» Cohen sorrise. «Stavo controllando il tutto per la terza volta, come piace a Ikmen, quando sei arrivato.» Suleyman sospirò. «Riassumiamo un attimo. Abbiamo una famiglia che non esiste a capo della quale c'è un uomo deceduto che possiede un telefono intestato a un'altra persona inesistente.» Cohen batté le mani. «L'ispettore non sarà contento.» Suleyman si morse nervosamente il lab-
bro. Ikmen avrebbe pensato che lui era pazzo non appena gli avesse raccontato queste cose. La prospettiva non gli piacque per niente. «Come fanno a non esistere, Cohen? Non è possibile! Tutti devono avere dei documenti, un passaporto, un medico, un lavoro...» «Non c'è bisogno di documenti per lavorare in questa città,» osservò Cohen. «Dovresti saperlo anche tu che il lavoro nero non è solo un problema dei bazar. Intendo dire che se arrestassimo tutti i dettaglianti sprovvisti di documenti, non riusciremmo a comprare niente. Tu hai ragione, Mehmet, ma il discorso del lavoro è un'altra cosa.» «È vero. Ma tutto il resto... i conti correnti bancari, il servizio militare, le normali faccende della vita quotidiana? È molto strano, ma allora...» sospirò. «Allora suppongo che se una volta, da nubile, il suo nome era Demidova e lei è entrata nel Paese con il nome di Demidova, potrebbe avere avuto dei documenti che magari col tempo sono andati smarriti. Può darsi che se aveva dei figli, fossero registrati anche loro col nome di Demidova. Ma non esiste niente neanche su questo, vero? Io...» Cohen tirò su con il naso. «Secondo me hanno vissuto con i soldi del vecchio Mehmet.» «Potrebbe essere, ma come fanno a pagare le bollette e tutto il resto? A meno che non paghino in contanti...» Cohen scoppiò a ridere. «Forse ci pensa Mehmet Gulcu!» Suleyman gli lanciò uno sguardo tutt'altro che amichevole. «È una cosa seria, Cohen! Questa è una faccenda a dir poco... strana!» Si portò le mani al viso e parlò piano, come tra sé e sé. «Chi sono?» Cohen si strinse nelle spalle. «Immigrati. Lo sai come sono!» «Sì, Maria Gulcu lo è stata, o lo è. Ma gli altri?» Restituì il taccuino a Cohen facendolo scivolare sulla scrivania. «Com'è morto Mehmet Gulcu, lo sai?» «No, ma dovrei riuscire a scoprirlo.» «Va bene, allora fallo, per favore. Ora è meglio che vada a informare subito l'ispettore.» «D'accordo.» Cohen fece per tornare al suo archivio, ma a metà strada si fermò e si girò di nuovo verso Suleyman. «Ah, Mehmet?» «Sì?» «Se ti va, stasera potremmo andare a donne. Ci facciamo una birra, quattro risate e magari se siamo fortunati cucchiamo pure... be', tu, forse.» Suleyman lo guardò con l'aria esasperata. «Penso di no,» disse uscendo dall'ufficio. Cohen frugò in mezzo a una pila di carte nell'armadio e ne tirò
fuori alcune che sistemò in cima. Era un peccato che Mehmet non avesse voglia di uscire con lui, ma del resto non usciva mai con nessuno. Era un uomo un po' misterioso. Si chiese se per caso non preferisse gli uomini. Non per giudicarlo, perché a Cohen non gliene importava niente. Donne, uomini, pezzi di arredamento... erano la stessa cosa. Potevano uscire lo stesso insieme, lui in cerca di donne e Suleyman di uomini. Il fisico del giovane sarebbe servito da esca, ma non ci sarebbe stata alcuna competizione tra loro. Perfetto. Glielo avrebbe proposto, magari più avanti. CAPITOLO X Quella sera, Robert Cornelius si sentì sollevato scendendo dall'autobus. Mentre percorreva la salita che lo portava al suo appartamento, lesse sui volti della gente il suo stesso sollievo per l'aria diventata più fresca con l'avvicinarsi della sera. L'atmosfera, al termine di quella lunga giornata calda e umida, era quasi festosa. Seduti in strada e sui balconi, uomini e donne si sventolavano con qualunque cosa capitasse loro sottomano, bevendo da lunghi bicchieri ghiacciati, mentre sui marciapiedi, davanti ai negozi, i bambini giocavano facendo il consueto gran chiasso. Tutti in attesa di accendere la luce e di farsi la doccia prima di ritirarsi nelle stanze da letto. Lì dentro, boccheggiando come pesci fuor d'acqua, si sarebbero spogliati e buttati sul letto, in attesa di prendere sonno. Robert li capiva, ma lui non avrebbe aspettato tanto. Nel comodino accanto al letto c'era una bottiglia di gin ancora piena e lui aveva intenzione di scolarsela tutta. Non avrebbe più pensato a niente, per qualche ora. Quanto era accaduto prima era niente, se paragonato a quello che era accaduto durante il suo colloquio con la polizia. Il fatto che Ikmen lo avesse interrogato non solo sul suo passato, ma anche su Natalia e la sua famiglia, poteva significare unicamente che, in qualche modo, tutti loro erano o potevano essere "coinvolti". E ora cominciava a chiedersi se quelle che aveva dato al poliziotto fossero state le risposte "giuste". Se solo avesse ricordato i dettagli di quel colloquio! Se solo fosse stato certo di non aver detto niente che potesse svelare i propri dubbi su Natalia. Mentre svoltava nella stradina che portava alla sua casa, si passò una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore. Naturalmente, avrebbe dovuto parlare a Natalia di quel colloquio con la polizia. Forse, per certi versi, era meglio così; rendendosi conto di quanto fosse delicata la situazione, si sarebbe decisa a dirgli la verità che tutti e due conoscevano. Ebbe una rea-
zione spropositata. Pensò che avrebbero dovuto lasciare il Paese. Gli dispiaceva, ma sarebbe stato inevitabile, a quel punto, e pazienza per il lavoro, tanto lo annoiava comunque. Sì, se ne sarebbero andati e lui si sarebbe preso cura di lei. Era... Tornò di colpo con i piedi per terra. Ma perché lei aveva fatto una cosa del genere? Doveva avere avuto un motivo, ma se si fosse rifiutata di dirglielo? E se non ci fosse stato un motivo? Cosa sarebbe accaduto se... cosa? Esisteva un motivo che potesse giustificare un omicidio? Su molti reati ci si poteva passare sopra, ma non su una cosa del genere. Si trattava della vita! Non era giusto privare qualcuno della propria vita! Era sempre e comunque una cosa sbagliata, senza alcuna eccezione! Poi la vide. In piedi sui gradini che portavano all'ingresso del suo stabile. Ebbe un tuffo al cuore. Appariva pallida, stanca, e una perla di sudore le scendeva sul collo, finendo nell'incavo tra i seni. Non gli sorrise, quando lo vide arrivare. Non appena le fu vicino, la guardò dritto negli occhi. Nello sguardo che lei gli rivolse c'era freddezza ma nello stesso tempo una vulnerabilità che lui non le aveva mai visto prima. Gli piaceva. Lo eccitava. L'attirò bruscamente a sé e la baciò con violenza, quasi mordendola. Dopo aver posato la cartella sullo scolatoio di metallo, Arto Sarkissian si infilò un paio di guanti da chirurgo. Il rapporto del laboratorio era scarno, sintetico e alquanto confuso. Un paio di giorni prima aveva notato degli strani segni sulla mano e sull'avambraccio destro del cadavere e aveva deciso di dargli un'altra occhiata. Che i tecnici di laboratorio avessero mentito su una cosa del genere era impossibile, ma Arto voleva esserne sicuro. Non che a occhio nudo potesse vedere molto, ma aveva bisogno di una conferma dei fatti, delle sue osservazioni e dei dati relativi ai campioni di tessuto inviati al laboratorio. Guardò le tetre tavole di marmo e cromo della piccola stanza senza finestra e si avvicinò a uno dei tre piani al centro. Su quello più grande c'era una piccola protuberanza coperta con un lenzuolo bianco, da cui usciva distrattamente e pateticamente un piede. Era tutto pronto, salvo forse Arto stesso. Avrebbe voluto stropicciarsi il viso con le mani per far riaffiorare un po' di sangue al suo cervello stanco, ma i guanti da chirurgo glielo impedivano. Era tardi e lui era stanco. Arto Sarkissian faceva il medico legale da quindici anni, durante i quali aveva visto un mucchio di morti. Donne, uomini, bambini, neonati. Dalle sue mani delicate erano passati corpi in tutti i possibili stadi della decom-
posizione umana. Ogni volta che sollevava un lenzuolo, scoprendo ciò che rimaneva di un altro essere umano, cercava di operare con la massima dignità consentitagli dal suo lavoro. Puntualmente non ci riusciva, e lo sapeva. La morte era brutta, nuda, non aveva alcun controllo sulle funzioni corporali e puzzava. Puzzava anche lui. Continuava a sentirsi quell'odore addosso anche dopo la doccia... il loro odore su di lui. Sollevò il lenzuolo, ripiegandolo sul petto del cadavere. Voleva vedere le braccia. Non voleva vedere di nuovo il petto e la testa. Sapeva già cosa avrebbe trovato; il sangue, il devastante acido solforico... l'acido delle batterie per automobili. Gli si rivoltò lo stomaco al pensiero, ma le analisi di laboratorio non potevano aver sbagliato. Qualcuno si era preso la briga di svuotare la batteria di un'automobile. Ci voleva tempo, fatica, una mente deviata e perfida. Si sentì ribollire di rabbia e, per una volta, fu contento di trovarsi da solo con il suo "soggetto". Tirò fuori da sotto il lenzuolo il braccio destro e lo avvicinò alla luce con le nocche rivolte all'insù. Eccolo, il pezzo di pelle con la cicatrice del campione numero uno. Dal lato destro dell'avambraccio si estendeva fino alla mano e si fermava poco prima delle nocche. Poteva vedere il punto che aveva inciso per prelevare il campione di tessuto da inviare al laboratorio. Rivoltò il braccio per esaminare il palmo della mano. Campione di pelle con cicatrice numero due, il palmo della mano, che si estendeva dalla punta delle dita al pollice. Gli sembrò strano, ora, che al suo primo esame non si fosse accorto di quei segni così evidenti. La grossa cicatrice gli balzò agli occhi in tutto il suo rilievo. Forse le orrende ferite dovute all'acido solforico lo avevano distratto, o forse lui non era più tanto bravo. Si concesse una risatina e sollevò il freddo e pesante braccio all'altezza dei suoi occhi. "Gravi ustioni, probabilmente dovute alla manipolazione o all'uso di polvere da sparo", le aveva descritte il laboratorio. Erano anche vecchie, la vittima doveva averle subite da giovane, sessanta, settant'anni prima. Arto osservò il profondo scolorimento, tracciandone i contorni con il dito. Nei punti in cui il tessuto danneggiato si univa a quello sano, si erano formati dei rilievi duri e callosi, come piccole creste montuose. Era evidente che non era mai stato fatto alcun tentativo di riparare il danno con un trattamento adeguato. Probabilmente Meyer si era limitato a fasciarsi le zone colpite sperando che l'infezione non attecchisse, un metodo non insolito di curare le ferite, all'inizio del secolo. Arto si chiese come avesse fatto il suo soggetto a sopportare il dolore nelle settimane o addirittura nei mesi che dovevano esserci voluti perché le ustioni guarissero. Vide chiaramente la
pelle raggrinzita, segno della dolorosa saldatura dei lembi di tessuto bruciato. Il palmo era talmente devastato che dubitò fosse stato possibile l'uso della mano. Arto ripose il braccio e si appoggiò con la schiena alla tavola accanto. Sarebbe stato interessante sapere in che modo l'uomo avesse riportato quelle ferite. Naturalmente non c'entrava molto con le indagini in corso, ma dopotutto Arto non era direttamente coinvolto. Trovare l'assassino di Leonid Meyer era compito di Çetin Ikmen e Arto non lo invidiava di certo. Girava la voce che le autorità ci tenessero a chiudere il caso il prima possibile. Immaginava le pressioni ed era contento di essere un accademico anziché un uomo d'azione. Tornò al lavandino, si tolse i guanti da chirurgo e li gettò in uno dei bidoni dei rifiuti. Appoggiato allo sgocciolatoio, diede un'altra occhiata al rapporto sulle analisi di laboratorio. In fondo alla seconda pagina, il dottor Belge, l'autore del documento, suggeriva che qualora Arto avesse voluto sapere come si fossero prodotte quelle ferite, sarebbe stato utile un consulto con Faud Ismail, esperto in balistica. E lui voleva sapere, si era incuriosito ed era certo che lo sarebbe stato anche Çetin. Arto si tolse il camice da laboratorio e lo gettò nel cesto della biancheria da lavare. Guardò l'orologio e vide che erano quasi le otto. Si strinse nelle spalle. La sua giornata non era ancora finita, ma non aveva importanza. Sua moglie, che Dio la fulminasse, non se lo sarebbe lasciato sfuggire. Aggrottò le ciglia e si mise a pensare ad altre cose più professionali. Doveva telefonare a Çetin Ikmen per parlargli delle sue ultime scoperte e dirgli le novità, alquanto sorprendenti, sul cibo vomitato che era stato trovato vicino all'ingresso dell'appartamento di Meyer. Non era quello del vecchio, ed era costituito da cose alquanto insolite, e tuttavia risaliva al giorno della morte di Meyer. Fino a prova contraria, era probabile che appartenesse all'assassino. Un fatto strano che creava un'immagine curiosa. Un torturatore con lo stomaco debole, qualcuno non tagliato per il delitto. Un assassino freddo, brutale, ma dilettante. Rientrato nel suo piccolo ufficio adiacente, Arto si diresse subito al telefono. «Sei andato alla polizia!» La sua voce era stridula, sgradevole. «Non avevo altra scelta, Natalia! Sono venuti a prendermi!» Lei si picchiò il palmo della mano sulla fronte mormorando un'imprecazione in turco. «Non mi hanno chiesto niente di te!» Robert mentì. Non aveva senso, in
quel momento, metterle ancora più paura di quella che già aveva. «Volevano sapere di me, di alcuni episodi del mio passato a Londra, tanti anni fa.» Lei saltellò nervosamente, prendendo quasi a calci il pavimento, ma lui notò che nonostante fosse agitata, i suoi occhi conservavano quell'espressione maliziosa e sensuale che lo eccitava sempre. Sentì la sua carne irrigidirsi. Fuori luogo, visto lo stato d'animo di Natalia, ma non poteva farci niente. Senza pensarci, allungò una mano per infilargliela nella camicetta. «No!» Si girò e gli tolse la mano. Poi con gli occhi in fiamme gli sferrò un violento pugno per allontanarlo da sé. Nonostante la tensione del momento, Robert non si aspettava una reazione del genere. Boccheggiò e barcollò leggermente, ma riuscì a mantenere l'equilibrio, se non la sua dignità. Sapeva di essersi comportato male, di aver pensato al sesso in un momento sbagliato, ma la desiderava ancora. Rimasero tutti e due immobili per qualche istante, come due gladiatori nell'arena, il salotto di Robert, tutti e due senza fiato, anche se per motivi diversi. Pur non riuscendo a pensare con chiarezza, Robert si rese conto, suo malgrado, che da quando era avvenuto il delitto e aveva cominciato a sospettare della sua amante, la desiderava ancora di più. Non era la prima volta che si soffermava su questo pensiero. Anche ora, l'uno di fronte all'altra, mentre lei lo guardava furiosa, desiderava entrare nel suo corpo, possederla. Robert sapeva che se avesse voluto, avrebbe potuto violentarla. Con l'umore che aveva, lei avrebbe combattuto, ma l'idea non gli fece passare la voglia di farlo. Era più, glielo aveva dimostrato poco prima. Si mosse di una frazione di millimetro verso di lei, ma poi si fermò. Stava cedendo al suo lato bestiale, il lato che sperava non esistesse più, ma che invece esisteva ancora. Se solo gli si fosse concessa spontaneamente! Se solo lo avesse amato come lui amava lei! Ma ora aveva capito che lei non lo amava. In fondo lo aveva sempre saputo. Tuttavia questo fatto gliel'aveva fatta desiderare ancora di più, se possibile. Non poteva, non osava toccarla. La sua erezione gli doleva e si lasciò cadere sul divano con un gemito. «Per l'amor di Dio, Natalia!» «Cosa?» Lo guardò con disgusto, le labbra increspate; sapeva cosa lui volesse. Teneva la testa alta e l'espressione dei suoi occhi era gelida. Crudele. «Cosa vuoi, Robert?» Lui grugnì e si protese in avanti come a proteggere i genitali che gli dolevano. «Voglio te!»
«Tu vuoi scoparmi!» gridò lei. Lo fece a voce talmente alta che Robert le mise un dito sulle labbra facendo, «Ssss!» Non voleva che i vicini, o peggio ancora il vecchio Ali, il kapici, sentissero il suo linguaggio. Ma lei lo ignorò. «Tu vuoi mettere tuo coso schifoso dentro mio bel corpo!» I suoi occhi si riempirono di lacrime bollenti che le inondarono il viso come uno scroscio di pioggia. Lo spettacolo era talmente assurdo che, per alcuni istanti, Robert fu incapace di pensare e di muoversi. Preso da quella scena, l'unica sensazione che percepì fu quella, sgradevole, del pene che gli diventava molle. Lei gridò di nuovo. «Cosa fare io, Robert! Tu maledetto, andato da polizia!» Si portò le belle mani affusolate al viso, conficcandosi le unghie lunghe e rosse nelle guance. Robert sobbalzò. Cristo, si caverà gli occhi! Balzò in piedi e in un attimo fu su di lei. Le afferrò i polsi prima che lei si facesse uscire sangue. Quando la toccò, gridò come se fosse stata pugnalata, ma lui continuò a tenerla. Con delicatezza e fermezza al tempo stesso, la scosse, come per farla tornare in sé. Lei aprì la bocca, ma non le uscì alcun suono. Poi chiuse gli occhi e le labbra si incresparono ripiegandosi all'indietro come se fosse in agonia. Robert aumentò la stretta e le accarezzò dolcemente il viso con un dito. Natalia si arrese. Gli si avvicinò barcollando e lasciò cadere la testa sulla sua spalla inzuppandogli la camicia di lacrime. Pianse disperatamente per alcuni minuti. I suoi singhiozzi erano lunghi e strazianti, come quelli di un bambino disperato. Naturalmente Robert sapeva perché si fosse agitata tanto per il colloquio che lui aveva avuto con la polizia e sapeva che avrebbe dovuto odiarla, forse addirittura temerla, ma non ci riusciva. Era troppo tardi. La cullò guardando fisso davanti a sé. Nonostante il corpo di lei contro il suo, si sentiva molto solo. Aveva imboccato il lungo tunnel dell'amore e ora non riusciva più a uscirne. Quando fu sicuro che non si sarebbe più fatta del male, Robert le lasciò le mani e le mise le braccia intorno alle spalle. La forza della sua oscura passione, quel desiderio incontrollabile, erano svaniti e la mano che la guidò al divano e la aiutò ad asciugarsi le lacrime con un fazzoletto era fraterna più che quella di un amante. Cristo, pensava veramente che lui l'avesse tradita! Come poteva pensare una cosa simile? Aveva così paura, si sentiva così in colpa? Aveva così poca fiducia in lui? Davvero non capiva che non gliene importava niente di quello che lei faceva o aveva fatto? Quando il respiro di Natalia tornò regolare, Robert andò in camera da
letto e ne uscì qualche istante dopo con una bottiglia di gin e due bicchieri. Comunque lei si sentisse, lui aveva bisogno di bere. Si sedette accanto a lei e riempì generosamente i bicchieri. Natalia bevve senza dirgli una parola di ringraziamento, senza dargli occasione di scusarsi per la mancanza di ghiaccio. Robert, un veterano di solitarie sessioni di gin, ingoiò il suo tutto d'un fiato e se ne versò subito un altro. Aveva bisogno di qualcosa di forte per trovare il coraggio di dire quello che stava per dire. Negli ultimi giorni gli era balenata in mente la verità senza che se ne fosse reso conto e nonostante avesse cercato di combatterla, doveva farle una confessione e doveva fargliela prima di perdere il coraggio. Sperava che dopo, le cose potessero cambiare. Forse, dopo, lei lo avrebbe addirittura amato, amato veramente. Inspirò profondamente. «Natalia, anche se fossi stata tu a uccidere quell'uomo, i miei sentimenti per te non cambierebbero. Io ti amo.» La sentì ingoiare l'ultimo sorso di gin. Natalia restò per qualche istante a fissare il suo bicchiere, ormai vuoto, poi si versò un'altra abbondante dose di alcol. Per un attimo Robert si chiese se avesse sentito quello che le aveva detto. Ma lo aveva sentito. Capì che lei non sapeva cosa dire. Non sapeva neanche lui cosa volesse da lei. Un'ammissione di colpa? Forse... anche se il solo pensiero lo fece rabbrividire. Ripeté quello che le aveva appena detto. «Io ti amo e farò qualsiasi cosa per aiutarti e proteggerti. Io...» Era una confessione terribile e la voce gli morì in gola prima di svelare ulteriormente la profondità dei suoi sentimenti. Si diede un colpetto sulle labbra con il bicchiere, poi appoggiò la testa contro la parete dietro di lui. Restò a fissare il soffitto, chiedendosi che razza di uomo stesse diventando. Non lo sapeva nemmeno lui. In amore diventava incomprensibile persino a se stesso. Con gli eventi che c'erano stati, alcune cose, forse anche una parte di lui, si erano rotte o erano andate perse... o almeno così sembrava. Era sempre stato così. Anche prima di Betty, anche con le avventure occasionali che gli erano capitate con ragazze conosciute nei pub o nelle discoteche; era sempre stata la stessa cosa. Le portava a casa, le possedeva, metteva loro il grembiule e non le lasciava più andare. La donna era conforto, calore, una muraglia fatta di seni e ventre che lo proteggeva dal buio che c'era "fuori", dalla fredda e inevitabile solitudine della sua vita. A volte soffriva o faceva soffrire le sue amanti... era inevitabile, specialmente considerando che nella sua vita c'era sempre spazio anche per altre, oltre all'amore del momento. Le avventure alle quali ogni tanto cedeva provan-
do disgusto per se stesso, erano una cosa, ma la donna del momento rimaneva sempre la più importante. In fondo contava solo lei, chiunque fosse di turno in quel momento. E Natalia era la più grande di tutte. Se ne era reso conto molto tempo prima, nonostante tutte le difficoltà. Era bella, esattamente il suo tipo; lui si perdeva nella sua carne, nel suo ventre e nei suoi seni. Sentì delle dita sfiorargli la gamba e abbassò lo sguardo. «Io non ammazzato nessuno, Robert.» Parlò lentamente, con voce deliberatamente calma. «Non stata io.» La sua espressione era talmente innocente e tenera, che fu tentato di crederle. Ma Robert sapeva che razza di piccoli serpenti fossero... le donne. Anche sua moglie aveva mentito spudoratamente. Una debolezza femminile per la quale non c'era niente da fare. «Signor Meyer era uomo molto buono.» Le sue parole interruppero i pensieri di Robert, che la guardò con aria interrogativa. Stava facendo finta di essere stata affezionata all'uomo assassinato? Se era così, ci stava riuscendo molto bene. «Signor Meyer, uomo morto, aiutato mia nonna a uscire da Russia.» «Oh?» «Sì. Dopo Rivoluzione, arrivati insieme in Turchia. Per un po', stati amanti.» Robert si riempì di nuovo il bicchiere e si accomodò meglio sul divano. «Continua.» «Leonid Meyer poi andato lavorare in cotonificio. Lavorava per uomo tedesco di nome Smits. Non era buono, questo signor Smits.» Robert ebbe la netta sensazione che stesse per dire qualcosa di molto importante. Ma non sapeva se l'importanza di quelle parole derivasse dalla verità o da qualche altro fatto oscuro. Inoltre, era quasi certo di aver già sentito il nome di Smits. «Allora?» disse. «Questo Smits un giorno visto mia nonna e detto a Leonid Meyer che la voleva per sé.» Nel parlare, i suoi occhi si erano illuminati, ridandole vita e rendendola ancora più bella. «Leonid Meyer litigato con Smits per questo e Smits messo lui a fare lavoro molto brutto in fabbrica.» «E poi cosa è accaduto?» «Quando in Europa scoppiata guerra, molta gente qui era dalla parte dei tedeschi. Così signor Smits cacciato Leonid Meyer da suo lavoro dicendo "Vattene, sporco ebreo," e...» «Oh!» Ma certo! Ora ricordava. Ikmen aveva accennato a un certo Smits
come per caso, ma... Natalia lo guardò con l'aria interrogativa. «Che c'è, Robert?» «Te lo dico tra un istante. Vai avanti.» Lei si strinse nelle spalle. «Non c'è molto altro. Da quel giorno Smits odiato Leonid Meyer. Fatto in modo che lui non trovare più lavoro. Leonid Meyer sempre molto infelice.» Lo guardò negli occhi. «Cosa c'è che non va, Robert?» «La polizia mi ha chiesto di questo Smits, ne sono sicuro. Se lo conoscevo... Ho risposto di no. Ne ha solo accennato brevemente, ma suppongo che questo significhi che stanno seriamente considerando il suo ruolo nel...» «Nonna,» intervenne lei, come se l'anziana donna fosse la sola autorità in materia, «crede che non stanno considerando seriamente Smits.» Nonostante la guardasse sempre con amore, ora Robert guardò Natalia con una certa prudenza. «Oh?» «Anche possibile,» continuò, «che questo uomo ha ruolo in questo problema che loro ancora non sanno.» Robert si irrigidì, sapendo cosa potessero significare le sue parole. Ma Natalia, come faceva spesso, lo precedette. «Come ti ho detto, noi non possiamo parlare più con polizia, per nostri problemi di immigrazione. Chi può dire cosa succederebbe se sapessero che io da Leonid Meyer quel giorno? Ma se altra persona dice a loro di quell'uomo...» «Intendi me?» «Sì.» Robert si alzò e si passò una mano tra i capelli. Gli strani cambiamenti di umore di Natalia e le sue sconcertanti parole, insieme alla calura estiva, gli stavano facendo fumare il cervello. «Ma non posso dire niente di questo Smits alla polizia,» disse. «Ho detto di non conoscerlo. Vorranno sapere da chi ho avuto queste informazioni. Senza considerare il fatto che quest'uomo potrebbe essere del tutto innocente.» Si girò a guardarla. «Cosa vuoi che faccia?» «Non lo so,» rispose lei semplicemente, «ma se ti viene in mente qualcosa che aiuta noi in questa situazione, io te grata. E questo Smits... Nonna detto che lui era nazista, perciò...» «Lo sai per certo?» Desiderava tanto fare come lei gli aveva chiesto, in modo che gli fosse grata. Lei sorrise. «Oh sì. Smits era nazista, questo è sicuro. Le prese le mani nelle sue.» Posso solo dirti che ci proverò, Natalia e...
«Tu sei uomo intelligente, tu farai.» Per impedirgli di protestare o farsi venire altri dubbi, lo baciò. E mentre l'abbraccio sortiva il suo effetto, inducendolo a infilarle una mano nella camicetta per sentire il suo seno, Robert si arrese completamente ai suoi sentimenti. Se Natalia aveva detto di essere estranea al delitto, perché non crederle? E se qualcuno che era o era stato nazista poteva essere implicato nel delitto, perché non spingere le cose in quella direzione? Come, ancora non lo sapeva, ma... Ma se lei fosse... Sentì una mano di lei infilarsi nei pantaloni. E per il resto del tempo che passarono insieme, lui smise di torturarsi. CAPITOLO XI Çetin Ikmen si girò sulla schiena e guardò l'orologio strizzando gli occhi. Le sei meno dieci. Troppo tardi per cercare di riaddormentarsi e troppo presto per cominciare a girare per casa. Imprecò sferrando un pugno sullo schienale del divano con furia omicida. Un'altra notte così e sarebbe impazzito. Non ce l'aveva con Fatma per averlo relegato sul divano. Non avrebbe nemmeno voluto dormire con lei, nella condizione in cui era. Quando era incinta, diventava grossa e irrequieta e, per essere onesto, avrebbe ammesso che dormire con lei sarebbe stato come stare dove se ne stava ora. Se solo avesse trovato un sistema per non soffocare contro lo schienale di quel coso ogni volta che si girava, poteva anche resistere. Aveva provato tutte le posizioni e le tecniche possibili immaginabili, ma senza successo. Il divano, che Allah lo stramaledicesse, era di gran lunga troppo furbo per farsi imbrogliare da un semplice poliziotto. Voleva farlo finire a dormire su quel pavimento puzzolente e se lui non ce la metteva tutta per avere la meglio, prima o poi ci sarebbe finito. Imprecò di nuovo, pronunciando la parola "bastardo!" a voce bassa, per paura di svegliare la famiglia. Dopodiché si alzò a sedere e invece di darsi al consueto ripasso degli orrori di un'altra notte insonne, più produttivamente rivolse i suoi pensieri al caso di cui si stava occupando. Prima che lui e il sonno ingaggiassero la loro quotidiana battaglia notturna per la supremazia, Ikmen aveva buttato giù alcuni appunti sulle possibili piste attraverso il labirinto di indizi raccolti fino a quel momento sul caso Meyer. Con un gesto lento ma abile raccolse una sigaretta da terra, se la mise in bocca e l'accese. Sentendosi meglio, si alzò e andò barcollando verso l'in-
terruttore, lo girò e la stanza fu rischiarata dalla luce tremolante del neon. Mentre si trascinava di nuovo al divano stropicciandosi gli occhi, prese il taccuino dal posto in cui lo aveva messo diverse ore d'agonia prima... in cima a un mucchio di biancheria da lavare. Poi, immerso nella nuvola di fumo della sua sigaretta, si sedette a riguardare il lavoro che aveva fatto. Era suddiviso in tre gruppi principali di informazioni. Il primo descriveva i fatti. Leonid Meyer, un anziano ebreo, era stato colpito prima con un oggetto contundente e poi torturato con l'acido solforico usato per le batterie delle automobili. La sua agonia era stata lunga e dopo avervi assistito, l'assassino aveva disegnato sulla parete, sopra il corpo, una grande svastica col sangue del morto. A un certo punto, prima, durante o dopo il delitto, qualcuno, probabilmente l'assassino, aveva vomitato vicino alla porta d'ingresso. Dalle analisi disposte dalla polizia era risultato che la materia era composta principalmente da barbabietole. L'inglese Robert Cornelius, per sua stessa ammissione, all'ora del delitto si trovava nei pressi della casa di Meyer così come c'era, presumibilmente, una grossa automobile nera... anche se quest'ultima dichiarazione, per la precisione, era stata fatta da un vecchio alcolizzato che non ricordava neanche il proprio nome. Inoltre, le ulteriori indagini effettuate da Arto Sarkissian sul cadavere avevano rivelato alcune vecchie e profonde cicatrici da ustione sulla mano e sul braccio di Meyer; cicatrici causate presumibilmente da polvere da sparo. Guardando il suo guazzabuglio di indizi, Ikmen sospirò profondamente, spense la sigaretta e ne accese subito un'altra. Intorno a questi strani fatti ruotavano, secondo lui, gli altri due gruppi di informazioni, che aveva intitolato "Due piste verso la soluzione", da quanto aveva potuto ricostruire fino a quel momento. La prima riguardava la spiegazione che pareva più ovvia e immediata, quella dell'antisemitismo. A sostegno di questa pista c'era naturalmente la svastica, oltre alle testimonianze del rabbino Simon e di Maria Gulcu. Tutti e due accennato al fatto che in passato Meyer era stato vittima dell'antisemitismo. Contro questa tesi c'era il fatto che non esisteva alcun indizio, a parte un indirizzo sull'agendina di Meyer, che suggerisse che l'uomo indicato come il persecutore antisemita di Meyer avesse mai conosciuto la vittima o avesse mai avuto idee così poco edificanti. In ogni caso, il loro presunto legame risaliva a molto tempo prima ed era quindi irrilevante. Inoltre, non c'era motivo di credere che in città stesse dilagando un movimento antisemita, né tra i giovani né tra gli anziani come Smits. L'unico atto di violenza contro gli ebrei emerso fino a quel momento era quello compiuto
da Robert Cornelius. Ed era accaduto in Inghilterra per motivi, stando a quanto aveva detto Cornelius, personali e non imputabili all'antisemitismo. La seconda pista, e forse quella più esoterica, riguardava le questioni sul passato di Meyer. Una delle fonti aveva sostenuto che da giovane, in Russia, Meyer avesse militato nel partito bolscevico e la reazione di Maria Gulcu pareva confermarlo. Naturalmente, dati i tempi che correvano, Meyer doveva aver commesso diversi delitti nel compimento dei suoi doveri. Insolitamente, però, aveva poi barattato la sua nuova gloria di lavoratore con una vita di povertà in un Paese straniero, da una parte con una donna che lo sopportava a malapena e dall'altra con il suo unico vero amore... la bottiglia. Angosciato dai sensi di colpa e forse dalla paura che qualche testimone, tuttora sconosciuto, potesse farsi avanti e rivelare gli orrori degli atti da lui compiuti in passato, Leonid Meyer era morto senza gli onori che il governo sovietico gli avrebbe senza dubbio conferito se fosse rimasto dov'era. Tra quelli che lo rimpiangevano c'era la vedova Blatsky e la famiglia Gulcu, la quale, come aveva scoperto da poco, risiedeva illegalmente in Turchia. Un gruppo di fantasmi a capo dei quali c'era lo spettro più vecchio, Maria Gulcu, la donna che non riusciva ad amare o a essere amata, a differenza di sua nipote. E qui ricompariva Robert Cornelius, insegnante di inglese, amante di Natalia Gulcu, flagellatore di ebrei, l'unica persona nel posto giusto al momento giusto. Tuttavia, benché Cornelius sembrasse spuntare in ognuna delle piste verso la soluzione contemplata fino a quel momento, che motivo avrebbe mai avuto di uccidere Meyer? D'accordo, conosceva la famiglia Gulcu e una volta aveva picchiato un avvocato ebreo, ma in fondo, erano cose da poco. Il fatto poi che avesse ammesso di trovarsi vicino al luogo del delitto e che fosse stato riconosciuto, non significava che fosse coinvolto nell'omicidio. Anche se l'interesse più che casuale dimostrato per i meccanismi della pena di morte, o per meglio dire, su quale fosse la categoria di persone che avrebbero evitato il processo, sembrava strano a Ikmen. A meno che Cornelius non stesse pensando a qualcuno in particolare, nel fare quella domanda, il suo interesse era piuttosto incomprensibile. Il fatto che Cornelius fosse vicino all'appartamento di Meyer al momento della sua morte e che frequentasse una famiglia che conosceva il morto e forse anche il suo passato, sembrava più di una semplice coincidenza. Tuttavia, ciò portava a chiedersi perché l'inglese avesse ammesso subito spontaneamente di trovarsi a Balat quel famigerato pomeriggio. Se avesse saputo ciò che stava accadendo, non avrebbe almeno tentato di allontanarsi
da lì? Ikmen si alzò e andò alla finestra a tirare le tende per aprirle. Mancavano ancora diverse ore al caldo torrido del giorno, ma i negozianti erano già intenti a versare l'acqua sui pavimenti. A mezzogiorno sarebbero stati tutti immersi nel calore, nella polvere e negli immancabili sciami di mosche. A quel punto, lo sapeva, sarebbe stato quasi impossibile pensare. A quel punto, lui, come tutti gli altri, si sarebbe semplicemente trascinato. Spense la luce e tornò a sedersi sul divano. Il suo capo, il commissario Ardiç, voleva naturalmente una soluzione rapida e pulita. Aveva persino comunicato alla stampa che le indagini erano a una svolta importante. Ikmen non aveva partecipato, ovviamente. Si era tenuto alla larga da quella conferenza stampa. Ardiç era andato su tutte le furie. Lui voleva non solo Smits, ma anche il sostegno di Ikmen sulla teoria della pista nazista. E per la verità, Ikmen concordava sul fatto che, se si fosse riuscito a dimostrare le simpatie naziste passate o presenti di Smits, come pure un legame più recente con Meyer, probabilmente era quella la direzione più giusta in cui muoversi. Tra tutte le persone che Ikmen aveva interrogato fino a quel momento, il rabbino Simon era sembrato il più attendibile ed era stato dell'opinione che Smits potesse essere in qualche modo coinvolto. La grossa automobile nera di cui aveva parlato l'alcolizzato era un tenue indizio, ma Ikmen aveva visto macchine del genere nel suo vialetto d'accesso. Quello che sconcertava maggiormente Ikmen, però, non era qualcosa di cruciale per il caso, o che sembrasse tale. Era come e perché la famiglia Gulcu vivesse, a quanto pareva, illegalmente nel Paese. Doveva esserci una ragione, anche se non riusciva a capire come fosse possibile. Ma che questo fosse in qualche modo collegato a Meyer ne era assolutamente, anche se irrazionalmente, convinto. Stava pensando come fare, ora che era venuto in possesso di queste informazioni, a nasconderle dalle mani lunghe dell'ufficio immigrazione finché non avesse concluso le indagini, quando la porta del soggiorno si spalancò per lasciare entrare suo padre. «Buongiorno, figliolo,» disse Timür avanzando faticosamente verso il divano. «Una sigaretta?» «Sì, grazie.» Il vecchio si sedette sul bordo del divano accanto al figlio e sbirciò nel taccuino che questi aveva in mano. «Allora facciamocela!» Ti va? «Cosa?» «Una sigaretta!»
«Oh.» Ikmen ne tirò fuori una dal suo pacchetto, la mise in bocca al padre e l'accese. Non appena ebbe finito di tossire, Timür Ikmen puntò un dito sul taccuino. «Era un pezzo che non lo vedevo!» esclamò. Ikmen aggrottò la fronte; non riusciva a capire a cosa si riferisse suo padre. «Cosa?» «Il nome di Reinhold Smits.» «Lo conosci?» «Indirettamente,» rispose il vecchio. «Come mai ti interessa, Çetin?» «È il titolare della Seker Textiles, la società per cui ha lavorato un tempo la vittima del nostro assassino.» «Oh, è di Smits?» «Sì, credo che sia sempre stata sua. Te l'ho detto l'altro giorno, quando...» Il vecchio fece un gesto con la mano come per fargli capire che ora ricordava. «Ah, mi era passato dalla mente, sai com'è. E poi, con tutte le società che ha Smits, sarebbe difficile ricordarsi i nomi di tutte.» «Vuoi dire che non ha solo la Seker Textiles?» chiese Ikmen. Suo padre gli lanciò un'occhiata perplessa. «Sei proprio un fantastico detective! Smits è proprietario di campi di cotone, cotonifici, miniere di carbone e fabbriche di biancheria... dì una cosa, e lui ce l'ha. Come molti tedeschi, ci sa fare con i soldi.» «E... come fai a saperlo, Timür?» Prima di rispondere, il vecchio aspirò con gusto una boccata dalla sua sigaretta. «Quando ero un giovane assistente all'università, una volta mi trovai coinvolto in una dimostrazione davanti a una delle sue aziende. I suoi operai scioperarono e noi andammo a dare loro manforte.» «Scioperarono? Perché?» «Perché Smits aveva licenziato senza giusta causa alcuni suoi operai. A quei tempi ero molto politicizzato e...» «Licenziati senza giusta causa? Come?» Ikmen cominciava ad avere una brutta sensazione. «Era l'inizio della seconda guerra mondiale e Smits si sbarazzò di loro perché erano ebrei. Era un seguace di Adolf Hitler, un simpatizzante nazista, come suo padre. Era l'inizio dell'autunno, mi pare, e...» Ma Ikmen non lo ascoltava più. Con la mente, era molto lontano. Con un altro vecchio che non riusciva, o meglio, sembrava non volesse pensare al proprio passato.
Robert Cornelius era arrabbiato con se stesso. La sua ultima lezione era stata un disastro. Un conto era non avere molto interesse per i propri studenti, un altro era dimostrarlo apertamente. Se non fosse stato attento, avrebbe perso il lavoro e perdendo il lavoro, avrebbe perso anche la casa. Se solo fosse riuscito a concentrarsi anche su altre cose, oltre che su Natalia. Ma provarci sarebbe stata solo una perdita di tempo. La sera prima, lei gli aveva mostrato qualcosa, qualcosa che non le aveva mai visto prima: la tenerezza. Le sue mani gli avevano alleviato il dolore. Come un bambino che si prende cura di un uccellino ferito, lo aveva riportato con dolcezza alla vita. Poi, prima che se ne andasse, le aveva raccontato tutto di Betty. Della sofferenza. Ma ora toccava a lui aiutarla. Voleva aiutarla; ormai lei era sua, aveva detto così. Promesso. Se solo fosse riuscito a pensare a qualcosa! Aveva analizzato il problema una dozzina di volte, senza trovare una soluzione. In qualche modo, doveva dire alla polizia che quel vecchio nazista, ammesso che fosse stato tale, in passato aveva avuto motivi di risentimento verso Leonid Meyer... se li aveva avuti. Questa supposizione si basava su alcune voci provenienti da una fonte quantomeno, doveva ammettere, dubbia. A complicare le cose, c'era il fatto di come dirlo alla polizia, ammesso che si fosse deciso a dirlo. Non riteneva opportuno che fosse lui a dirlo. Se l'avesse fatto, probabilmente gli avrebbero chiesto il perché. Gli avrebbero certamente domandato da chi avesse avuto quelle informazioni, dato che non conosceva personalmente Smits. Inoltre c'era un'altra questione che lo turbava ancora più profondamente: perché Natalia gli aveva chiesto di fare una cosa simile? Se, come aveva detto, si fosse trattato solo di proteggere la famiglia Gulcu da ulteriori indagini sul fatto che risiedessero illegalmente nel Paese, sarebbe stata una cosa ancora accettabile. Se solo non fosse stata da Meyer il giorno dell'omicidio! Se solo lui non l'avesse vista! Se solo fosse riuscito a credere che non fosse coinvolta nella morte di quell'uomo! Ma non riusciva a crederci, nonostante fosse la cosa che più desiderava al mondo. Nonostante lei lo stesse mettendo in una brutta situazione; molto brutta, per lui. Nella sua mente angosciata provò disgusto per sé stesso. Quale persona al mondo si sarebbe sognata di dare informazioni false alla polizia? Anche se questo Smits fosse stato un nazista, non significava che dovesse essere un assassino! Idee politiche a parte, poteva essere un uomo buono con ni-
potini, con interessi filantropici e ogni sorta di sentimenti positivi. Non conoscendolo, Robert non poteva dire come fosse! Ma questo, come lui stesso sapeva, era purtroppo il lato razionale e più leggero della faccenda. Quello irrazionale, ma per Robert molto più pesante e importante, riguardava Natalia e ciò che lei voleva. E poiché lui voleva lei, quello che voleva lei aveva la precedenza. Che uomo stupido, debole, sgradevole, era! Cedere alle pretese di una ragazza cattiva che lo manipolava a suo piacimento! Gli venne da ridere, non perché fosse felice, ma perché non c'era altro da fare di fronte a una cosa così disgustosa. Tutti gli errori che aveva commesso, li aveva commessi per una donna, o meglio per il desiderio di possedere quella donna. Ma a meno che non desiderasse cambiare ora, che senso aveva continuare a rimuginare su quelle cose? E poi non voleva cambiare. No. Voleva Natalia e per averla doveva fare quello che lei gli aveva chiesto, in un modo o nell'altro. Se solo il suo cervello avesse funzionato! Se solo fosse riuscito a pensare senza sentirsi male! Pensare! Pensare! CAPITOLO XII «Neanche ti avessi chiesto di ammazzare qualcuno! Suleyman si infilò le chiavi della macchina in tasca, sospirando.» «Mamma...» «Mi pare di essere fin troppo disponibile. Se mi dici un'ora, io mi regolerò su quella e...» «Ma, mamma, te l'ho detto e te lo ripeto, non lo so a che ora tornerò a casa stasera, perché non so neanch'io quello che mi aspetta.» Nur Suleyman fece il muso lungo; un'espressione poco adatta sia alla sua età sia al ruolo che aveva nella vita. «Ma se non puoi dirmi un'ora, non posso preparare la cena per stasera. Dovrò dire alla zia e a Zuli di non venire...» «Ma se tu me lo avessi detto, prima di invitarle, tutto questo non sarebbe successo!» «Volevo farti una sorpresa!» «E ci sei riuscita!» Per un attimo fu come se fosse stata schiaffeggiata. Suleyman si appog-
giò alla portiera della macchina, portandosi una mano alla testa, pentito delle parole che gli erano sfuggite. Non appena si fu ripresa, Nur Suleyman andò su tutte le furie. «Cosa intendi dire?» «Non intendo dire niente. Scusami, mamma...» «Vuoi restare scapolo e solo per il resto della tua vita?» «No. Senti...» «Ti stai comportando come se lo volessi, invece. Non ti capisco. Tua cugina sarebbe una splendida moglie.» «Mamma!» Tirò di nuovo fuori dalla tasca le chiavi della macchina e gliele agitò davanti agli occhi. «Non ora. Devo andare!» «Va bene, se il tuo lavoro è più importante...» Nur girò i tacchi e si avviò a passi decisi dentro casa. Suleyman sospirò, poi fece il giro della macchina per andare a sedersi al posto di guida. «Vorrei conferire con il signor Smits, per favore.» «Chi parla?» «Sono l'ispettore Ikmen.» Il maggiordomo fece una breve pausa, prima di rispondere: «Mi dispiace, ma il signor Smits è già uscito, signore.» «Oh.» «Vuole lasciare un messaggio o...» «No, no, non importa. Richiamerò più tardi. Grazie.» «Prego, signore.» Dopo aver riappeso, Wilkinson si girò verso il suo padrone. «Era l'ispettore Ikmen, signore. Spero di aver...» «Sì, sì,» replicò Smits, «hai fatto benissimo.» Giocherellò per qualche istante con un paio di guanti di vitello, prima di infilarseli con fare deciso. «E ora esco davvero, Wilkinson,» disse. «Posso essere uscito davvero, una volta tanto.» Mentre si avviava all'ingresso, il maggiordomo notò che il suo viso si era fatto pallido. Suleyman guidava nel traffico della strada costiera senza badare agli altri automobilisti, attirando furiosi colpi di clacson. Tuttavia, in quella circostanza, non se la prese. Era troppo indaffarato a rimuginare sull'alterco che aveva avuto poco prima con sua madre, per arrabbiarsi per il traffico.
Quando si trattava del proprio matrimonio, per giunta combinato, gli altri aspetti della vita passavano in secondo piano. Certo, Mehmet Suleyman poteva prendersela solo con se stesso per la sua situazione. L'incontro con Zuleika, cugina di primo grado, era stato suggerito e organizzato da sua madre e sua zia. Almeno in teoria, lui avrebbe potuto dire "no" in qualsiasi momento, e considerato il fatto che la sola idea della cugina lo terrorizzava, sarebbe stato nel suo interesse rispondere così. Ma in pratica, come molte cose, non era così semplice. Quando Nur Suleyman voleva una cosa, di solito la otteneva. Suleyman e suo padre l'avevano sempre lasciata fare. L'unica eccezione era Murad, suo fratello maggiore, che nonostante le proteste di Nur, aveva sposato una greca. Il fatto che lui non contasse niente all'interno della famiglia era alquanto frustrante, avrebbe richiesto quel tipo di ribellione che Mehmet Suleyman sapeva di non possedere. Poiché apparteneva a quella che una volta veniva definita la classe dirigente, pur non avendo né soldi né una posizione sociale, Suleyman si rendeva conto di avere dei doveri e uno di questi era fare un buon matrimonio. Rifiutare o evitare di compiere un dovere era contrario ai princìpi con cui era stato allevato. L'infelicità che gli dava la sua situazione era un prezzo che aveva sempre saputo di dover pagare, un giorno. Preso dai suoi pensieri, guidava nel traffico senza far caso a quanto avveniva intorno a lui. Almeno finché non fu costretto a fermarsi, per consentire a una grossa berlina di uscire da un'alta cancellata di ferro. Il posto non gli era familiare - lungo quel tratto di strada c'erano molti viali d'accesso che portavano ad antiche dimore - ma il piccolo viso contratto di Smits sul sedile posteriore della berlina era inconfondibile. Era un'idea terrificante. Si era insinuata nella mente di Robert verso la fine dell'ultima lezione. Prima lentamente, poi sempre più rapidamente. Per un po' era riuscito a contrastarla, ed era stata una lotta coraggiosa. Ma quell'idea aveva degli alleati: la fretta, la paura, i suoi bisogni fisici. Si rese conto che avrebbe dovuto metterla a tacere prima. Non riuscendo a togliersela dalla mente, Robert annullò la lezione successiva fingendo un mal di testa. Era sicuro che agli studenti non sarebbe dispiaciuto. Non esultarono, quando annunciò l'annullamento, ma li vide sollevati all'idea di potersi abbuffare di hamburger blaterando sulla loro indesiderata verginità. In altre circostanze, lo avrebbe considerato un insulto. Nonostante avesse detto di non sentirsi bene, non andò a casa. L'idea del
silenzio del suo appartamento vuoto lo spaventava. Si mise a fumare seduto in un angolo della stanza riservata agli insegnanti. Lì almeno c'era una parvenza di realtà; gente che entrava e usciva, il brusio di chiacchiere vuote e noiose. Non servì a distoglierlo da quell'idea, ma gli impedì di soccombere del tutto. La solita storia. Le cose andavano più o meno sempre allo stesso modo. Con gli altri intorno, perlomeno si sarebbe limitato a borbottare invece di urlare. Da solo, sarebbe stato in balìa di se stesso. Robert non voleva restare da solo, perché sapeva che non avrebbe resistito alla tentazione di urlare. Sarebbe stata un'occasione troppo buona. Spense la sigaretta e ne accese subito un'altra. In realtà gli veniva la nausea a fumarne una dietro l'altra, ma doveva pur fare qualcosa. Se non avesse fatto proprio niente, gli altri si sarebbero preoccupati. Ma non era una soluzione nemmeno chiudere gli occhi e far finta di dormire... ci aveva provato. Non appena aveva chiuso le palpebre, aveva sentito quell'idea stringergli i testicoli in una morsa gelida. Robert non voleva farlo. Andava bene, ma non voleva farlo. L'idea continuava a prospettargli i vantaggi, ma gli svantaggi erano immensi. Superavano di gran lunga i vantaggi ma solo, purtroppo, sul piano razionale. Nei meandri delle sue emozioni, la vera dimora di Robert, dove la logica è inutile e la razionalità una barzelletta, non si poteva far altro che seguire il lungo percorso di quell'idea. Nonostante le piacevoli immagini che vedeva sfumate lungo il sentiero del suo cuore, sapeva esattamente dove lo avrebbe portato quel sentiero. Il breve attimo di dolcezza svanì per lasciare spazio al niente. Una stanza senza porta con dentro solo un'eco, che aspettava di essere riempita. «Vuoi un'aspirina?» Non si era accorto di Rosemary, venuta a sedersi sulla sedia accanto a lui. Per quanto ne sapesse, poteva essere lì da ore. Guardarsi dentro con tanta intensità rende ciechi. Le rispose rendendosi pienamente conto di apparire intontito. «Cosa?» «Un'aspirina. Elena ha detto che avevi mal di testa...» «Oh.» La guardò negli occhi e si stupì di vederla tanto preoccupata. Aveva un aspetto davvero così orribile? Robert si sforzò di sorridere. «No, no, grazie.» Lei avvicinò il viso incipriato al suo. «Tutto a posto, caro?» Robert cominciò a spaventarsi. Anche se un po' frivola, Rosemary non era una stupida. Si interrogò di nuovo sul proprio aspetto. Si portò la mano al mento raspandosi rumorosamente la barba lunga. Sollevò la mano; sentì
di avere le guance congestionate dal gin della sera precedente. Non aveva bisogno dello specchio per sapere quanto dovesse apparire orribile. Forse per questo Rosemary aveva insistito. Non era da lui. Robert era sempre pulito e in ordine, o almeno lo era stato fino... Quando era stato, che tutto aveva avuto inizio? Quanti terribili giorni erano passati? «Robert...» disse Rosemary con la fronte aggrottata. «Non credi che faresti meglio ad andartene a casa?» «Oh, no. No! Va tutto bene... davvero.» Ma Rosemary non sembrava affatto convinta. Gli sfiorò le ginocchia con un dito. Robert rabbrividì. «Se quella ragazza è capace di ridurti in questo stato, fossi in te, me ne sbarazzerei al più presto.» Nel girarsi a guardarla, Robert sentì un dolore ai muscoli del collo. Dall'espressione che le lesse sul viso, capì di averle risposto con un'occhiata fulminante. Rosemary abbassò la testa, sospirando desolata. «Era solo un consiglio, Robert.» Lui si vergognò. Povera Rosemary, non aveva meritato quello sguardo torvo, aveva solo cercato di essere gentile con lui. Ma era troppo tardi. Si alzò e con una mano si lisciò la gonna fino al ginocchio. Robert non la seguì con lo sguardo. Era riuscita momentaneamente ad allontanare quell'idea da lui e forse non era stata una buona cosa. Forse avrebbe fatto meglio a non parlarle. Non sempre parlare era un bene. Aveva più volte parlato al preside dei gemelli Norris e di Billy, ma non era mai servito a niente. Come per Betty. Era meglio starsene in silenzio, come faceva a scuola da bambino. L'idea andava bene in quanto indicava una via, una direzione. Come la scuola... il vecchio buon ospedale di Gesù. Altrimenti la libertà sarebbe stata troppa, ci sarebbero state troppe strade davanti. Alcune potevano essere quelle giuste, ma lui sapeva che avrebbe scelto quella sbagliata, lo sapeva! E allora si sarebbe ritrovato di nuovo da solo, senza di lei. La gente come Rosemary non poteva capire. Seccata, Rosemary si allontanò da lui per unirsi al gruppetto di persone intorno alla macchinetta del caffè. Gli lanciò un ultimo sguardo prima di tuffarsi nei piaceri della pausa. Robert si chiese per un attimo se stessero parlando di lui, ma poi decise di no. Ridevano, perciò non parlavano di lui. Parlavano di sesso, delle loro ultime conquiste. Provò pena per le loro squallide avventure di una notte con giovani che potevano essere i loro figli o le loro figlie. Il disperato tentativo di esorcizzare la mezza età.
L'idea riaffiorò. Perché funzionasse, doveva recarsi al cotonificio di Smits che si trovava a Üsküdar, come lei aveva detto. L'ubicazione era importante e in effetti farlo lì avrebbe dato a tutta la faccenda quella credibilità che secondo lui era necessaria. Inoltre, avrebbe dovuto calarsi nel ruolo di spietato razzista che gli aveva attribuito la polizia. Non era facile, perché un personaggio così terrificante era molto diverso da come lui era nella realtà. Ma per realizzare l'idea, che sarebbe stata lo strumento della sua continuità con Natalia, doveva mettere da parte quelle cose. Si concentrò per immaginare quali parole e idee avrebbe espresso qualcuno del genere di Smits. Per prima cosa gli venne in mente la parola "ebreo". La stranezza del suono lo spaventò. Forse la parola lo faceva sentire strano per la razza antica cui si riferiva o forse perché l'odio nei loro confronti, a causa della "morte" di Cristo, era così radicato nell'animo europeo? Nonostante il caldo, Robert rabbrividì. Se solo il pensiero di quella parola in un particolare contesto riusciva a suscitare delle reazioni di disgusto così profonde e violente, che cosa si doveva provare nel pronunciare a voce alta o scrivere quella parola? Pensò a tutte quelle persone che sono denutrite fino a morire di fame. Il solo pensiero lo atterriva, eppure... eppure doveva farlo, perché lei lo voleva e aveva bisogno che lui lo facesse e se il vecchio fosse stato colpevole e... e... «Ebreo.» Stavolta lo disse. Non a voce troppo alta, ma quel tanto che bastò a far voltare diverse teste a guardarlo. Per qualche strano motivo, gli venne da ridere, ma la sua risata durò poco perché ora i suoi colleghi lo guardavano con l'aria sbigottita e preoccupata. In altre circostanze, la loro preoccupazione gli avrebbe fatto piacere. Ma non ora. Loro non erano niente e nessuno, per lui. Ora nella sua mente c'era solo lei e preso dalla sua ossessione di fissarsi bene a mente quell'idea, ripeté la parola. «Ebreo.» Ora lo guardavano tutti; lo guardavano chiedendosi cosa gli fosse preso, non sapendo quello che sapeva lui. Robert sorrise. Quel segreto apparteneva solo a lui e a lei... quel terribile, disgustoso atto di sfida alla morte. Quando finalmente si alzò dalla sedia, lo fece molto lentamente e senza dire una parola. Lo faccio adesso, disse tra sé e sé, subito. Furono molti gli sguardi che lo seguirono mentre si dirigeva verso il suo piccolo ufficio chiudendosi la porta alle spalle.
Nonostante la circostanza fosse seria e tutt'altro che piacevole, Reinhold Smits sorrise quando la vide. Non poté farne a meno. Anche se molto invecchiata rispetto a qualche anno prima, era rimasta la stessa. Sempre arrogante, senza l'ombra di un sorriso, sempre meravigliosamente regale. «Ciao, Maria,» disse. Lei gli tese la mano dalle dita inanellate. «Reinhold.» Lui gliela strinse chinandosi a sfiorarle la pelle raggrinzita con le labbra. «Non c'è bisogno che ti dica perché sono venuto, Maria.» «No,» replicò lei. «Siediti.» Lui prese la sedia accanto al letto e si sedette tirandosi leggermente su i pantaloni. «Qualsiasi cosa pensi,» disse, «non sono stato io a uccidere Leonid.» «Avresti avuto dei validi motivi per farlo.» Lui annuì. «Sì, ma anche lui aveva dei validi motivi per volermi morto.» La risatina che fece le uscì dalla gola come un colpo di tosse. «Non credo! Tu gli hai tolto il lavoro, che non era un motivo sufficiente. Per quanto riguarda me e la mia relazione con Leonid...» «Sì?» «Non mi hai mai avuto, Reinhold, né sentimentalmente né politicamente. Leonid non aveva motivo di desiderare la tua morte.» Lui fece un lieve sorriso di assenso. «Sì, capisco.» Solo Smits sapeva se fosse vero o meno, ma cambiò argomento. «Allora, come stai, Maria? Come va ciò che resta della tua vita?» «Sono rimasta quella di sempre, Reinhold, e in questo senso, sono, come allora, alla tua mercé. Ma per te, essere schiavo di Leonid deve essere stato molto seccante.» Lui sospirò. «All'inizio. Ma col passare degli anni...» «Devi avergli dato una fortuna in tutto questo tempo. Gran parte se l'è scolata in gola.» Sollevò gli occhi per guardarlo in faccia. «Ne è valsa la pena?» «All'inizio, sì.» «E dopo?» Non riuscendo o non volendo sostenere oltre il suo sguardo, Reinhold Smits abbassò gli occhi sul pavimento. «Da quanto mi risulta, tutti quelli che potevano o avrebbero voluto confermare le storie di Leonid o sono scomparsi o sono morti molti anni fa.» «Ma tu hai continuato a pagare?» Lui si strinse nelle spalle. «Cos'altro potevo fare? Conservava ancora le
fotografie e inoltre non poteva più lavorare dopo che lo avevo licenziato. Non gli avevo fornito le referenze e il fatto che si ubriacasse gli impediva anche di lavorare in nero. In un certo senso, eravamo schiavi l'uno dell'altro, una situazione che ci andava bene, e comunque, senza quello che gli passavo attingendo dai miei cospicui fondi, sarebbe morto di fame.» «Generoso, da parte tua.» Lui la guardò, ma stavolta con un'espressione di disgusto. «Qualcuno doveva pur farlo. E anche se non ero stato io a metterlo in quella situazione per primo e anche se lui mi ha fatto del male e spaventato oltre...» «Devi prendertela solo con te stesso.» Gli piantò un indice accusatorio pericolosamente vicino agli occhi. «Se tu non fossi stato così mostruosamente perverso, Leonid non ti avrebbe fatto quello che ti ha fatto!» «Per proteggere te!» «Sì.» Nonostante fosse seduta, allungò il collo più che poté con le sopracciglia aggrottate, per guardarlo dall'alto in basso. «A quel tempo c'era in gioco la mia vita, Reinhold. La mia vita! Quello che volevi fare tu mi avrebbe esposto a ogni sorta di pericolo, non in un solo campo, ma in diversi. È triste che l'uso che ho fatto di Leonid per impedirti di fare quello che volevi fare abbia causato a voi due tanta sofferenza, ma temo che, dal mio punto di vista, sia valsa la pena fare quello che ho fatto.» Al suo scatto d'ira seguì un lungo silenzio. Un momento durante il quale tutti e due rifletterono sulle proprie ragioni, sulle cose che erano state, cose tutt'altro che edificanti. Ma quando ripresero a parlare, l'argomento fu un altro. «Ti trovo in forma,» gli disse. Lui sorrise. «La chemioterapia è un ottimo conservante.» «Oh.» Per la prima volta da quando avevano cominciato a parlare, lei sembrò confusa e in netto svantaggio. «Mi dispiace... sul serio.» «Non è necessario,» ribatté lui. «Ho fatto tutto ciò che ho desiderato, e anche di più. Non mi lamento di niente... salvo di una cosa, naturalmente.» «Quale?» Lui la guardò, ma stavolta senza sorridere. «Vorrei che la polizia mi lasciasse in pace. Vorrei morire lasciando intatta la mia reputazione.» «Capisco.» Allungò un braccio sul comodino, prese una sigaretta da uno dei suoi pacchetti e l'accese. «In parte, credo che sia stata veramente colpa mia. Se non ti avessi scritto per farti le mie condoglianze per la morte di Leonid, ti saresti scordata di me...»
«Non credo.» «Ma fare il mio nome alla polizia, è stato un atto un po' cattivo anche per una come te, cara Maria, non credi?» «Se, come hai detto, Reinhold, non c'entri niente con la morte di Leonid, qualsiasi informazione io possa aver dato o non dato alla polizia, sarebbe irrilevante.» Era una sua caratteristica quella di rivoltare l'argomento contro di lui. Era, ed era sempre stata, tremendamente furba. Gli anni l'avevano cambiata poco. Improvvisamente, Reinhold Smits mise da parte ogni gentilezza e si fece insolitamente animato per un uomo della sua età. «Credo di averti già detto al telefono che non tollererò la tua ingiustificata cattiveria, a parer mio, da squilibrata.» Lei gli rise in faccia. «Senti chi parla. Un nazista! Davvero, Reinhold, io...» «Le mie idee non hanno niente a che fare con tutto questo. Ci...» «Ascolta, Reinhold, la polizia sapeva già che Leonid aveva lavorato per te in passato. E a dire la verità, si sapeva, a quel tempo, quali fossero le tue idee. Inoltre...» Fece una pausa. Aspirò una lunga boccata dalla sua sigaretta guardandolo dritto negli occhi. «Inoltre, cosa?» fece lui con gli occhi che brillavano di una rabbia repressa per troppo tempo. «Inoltre, che sia stato tu o no a uccidere Leonid, tu sei stato a casa sua il giorno in cui è morto, vero?» «No, io...» A parole lo negò, ma il suo viso, che si era fatto grigio, diceva un'altra cosa. Maria Gulcu sorrise. «Ricordi la telefonata che mi hai fatto subito dopo che la polizia era stata da te?» «Sì, fu...» «Ricordi quello che ci siamo detti? La conversazione che abbiamo fatto su quando e come è morto Leonid?» Qualcosa, forse il suo povero e vecchio cuore stanco, gli opprimeva il petto. «Sì?» «Ricordi che ci siamo chiesti come si potesse colpire così selvaggiamente un vecchio e che tu hai detto che, nonostante le tue idee, era una cosa inconcepibile che l'assassino avesse disegnato quella gigantesca svastica con il sangue di Leonid proprio al di sopra della sua testa?» «Sì, ricordo. Dove vuoi arrivare?» «Il fatto è, Reinhold,» sorrise di nuovo, stavolta scoprendo tutti i suoi
denti ingialliti, «che per quanto abbia cercato, non ho trovato alcun riferimento a questo particolare in nessuno degli articoli che ho letto sui giornali.» Smits distolse lo sguardo da lei senza muovere la testa. «Credo... Mi pare che la polizia me l'abbia detto...» «Oh, non credo, Reinhold.» Ora il suo tono era dolce, quasi seducente. «A me non hanno certo detto niente. E dal punto di vista logico, ha un senso.» «Quale?» «Se tu fossi un poliziotto alle prese con uno strano delitto di matrice presumibilmente razzista, vorresti che una cosa del genere diventasse di dominio pubblico? Si sa che esistono gli emuli. Non sto dicendo che stai mentendo, Reinhold, ma credo che la probabilità che l'ispettore Ikmen ti abbia dato un'informazione del genere sia minima.» L'uomo si strinse il corpo scarno con le braccia come a proteggersi e abbassò la testa. «Ma deve averlo fatto! Lo ha fatto! Come potrebbe non averlo fatto?» «Non lo so,» ribatté lei e spegnendo la sigaretta nel portacenere, gli pose una domanda. «Dimmelo tu, Reinhold. Me lo dici tu?» «A che ora, più o meno, hai visto il vecchio Smits?» «Dovevano essere circa le nove.» «Ne sei sicuro?» Suleyman si strinse nelle spalle. «Abbastanza.» Ikmen sorrise, uno dei suoi sorrisi della serie "io-so-qualcosa-che-tunon-sai". «Il suo maggiordomo mi ha detto che era già uscito quando ho chiamato, alle otto e un quarto.» Si sedette appoggiando i piedi sulla scrivania. «Ho l'impressione che il signor Smits non voglia più parlare con noi. Immagino che tu non abbia visto dov'è andato?» «Ha svoltato a Dolmabahçe, verso Taksim.» «Mmm...» Ikmen si concesse il tempo necessario per accendersi una sigaretta, poi si guardò, senza preoccuparsene più di tanto, lo strato di sporcizia sotto le unghie. «Oggi devo fare una piccola ricerca storica sul conto di Smits, Suleyman.» Il giovane fece per andare verso la finestra perennemente chiusa, ma si fermò un po' imbarazzato nel vedere l'espressione del suo superiore. Più diplomaticamente del solito, Ikmen fece finta di niente e continuò il discorso. «Stamattina mio padre mi ha detto di ricordarsi di Smits e di ri-
cordare anche che era noto come simpatizzante nazista.» Suleyman si sedette. «Interessante.» «Sì, l'ho pensato anch'io, anche se affrontare Smits con le informazioni ricevute dal mio vecchio non è molto professionale, nonostante io creda a ogni parola che mi ha detto.» «Allora cosa intende fare?» chiese Suleyman. Ikmen tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un taccuino e lo sfogliò fino alla pagina che cercava. «Parlerò con un certo professor Mazmoulian, un esperto di storia moderna all'università. Timür mi ha detto che ha una conoscenza enciclopedica della storia sociale di questa città. È un appassionato.» «E quando lo incontrerà, signore?» «Il professore ha detto che può ricevermi a mezzogiorno. Se la sfortuna mi assisterà, può darsi che mi inviti a pranzare con lui alla mensa che, se la memoria non mi inganna, sta al buon cibo come l'impotenza sta al buon sesso.» Suleyman sorrise. «Capisco.» «Ma, in fondo, se il professore ha delle informazioni sul vecchio Smits, ne sarà valsa la pena, suppongo.» «Sì.» Desideroso di darsi da fare, Suleyman armeggiò con le poche cose che aveva sulla scrivania. «Devo venire con lei o...» «No. No, voglio che tu faccia un'altra cosa, oggi, Suleyman.» Ikmen sollevò la testa e prima di parlare gli sorrise. Aveva sempre pensato che fosse importante dare le brutte notizie con la faccia allegra. «Voglio che tu oggi ti dedichi alla sorveglianza.» «Oh.» Suleyman fece la faccia scura, anche se non avrebbe voluto dimostrare così apertamente il suo disappunto. La sorveglianza era notoriamente stressante, noiosa e uno spreco di tempo. Ma Ikmen decise di ignorare la sua faccia. «Sì, Robert Cornelius, l'inglese. Voglio che tu lo segua, ovviamente a debita distanza, per vedere dove va, cosa fa, con chi parla.» «Va bene, ma...» «Ma cosa?» «Non credevo che lui ci interessasse a tal punto e...» «Infatti,» disse Ikmen. «Ma il fatto che compaia praticamente in tutte le scene che abbiamo ricostruito fino a questo momento, mi pare alquanto significativo.» «Davvero?»
Ikmen lo guardò con l'aria interrogativa, poi, accortosi, della propria mancanza, si scusò. «Oh, certo, non ti ho aggiornato sulle mie ultime riflessioni. Senti, Suleyman, visto che oggi sarò preso fin sopra i capelli, che ne dici di trovarci domani a casa mia per una riunione sul caso? Lo so che è il nostro giorno libero e...» «Non è un problema, signore.» «Bene. Spero che per allora riusciremo a dare un'altra occhiata alle ultime scoperte del dottor Sarkissian.» Suleyman si alzò, prese le chiavi della macchina dalla sua scrivania e se le mise in tasca. «Pensavo che il dottor Sarkissian avesse terminato il suo lavoro su questo caso.» «Aveva, ma poi ha trovato qualcosa che... Senti, te lo dirò domani. Ora vai alla Scuola di lingue Londra e osserva tutto quello che puoi. Prendi nota di tutto quello che fa Cornelius durante il giorno, senza farti vedere. Sappi che se dovesse decidere di andare in qualche pub o da qualche altra parte, dovrai fare le ore piccole...» «Non c'è problema, signore.» A Ikmen sembrò strano che Suleyman si dimostrasse quasi contento all'idea di stare fuori tutta la notte. Ma se era quello che voleva... «Va bene, Suleyman, allora ci vediamo domani... a meno che, naturalmente, non succeda qualcosa di particolare.» «A domani, signore.» Dopo che Suleyman se ne fu andato, Ikmen chiuse gli occhi per qualche istante, cercando di immaginare cosa stesse pensando Smits in quel preciso istante. Le immagini che gli apparvero erano alquanto strane. CAPITOLO XIII Un uomo alto e magro entrò nella reception e sorrise cordialmente al suo visitatore. «Ciao, Arto, come stai?» «Faud!» Arto si alzò e strinse calorosamente la mano dell'uomo. «Spero di non...» «No. Stavo giusto facendo una pausa.» Faud Ismail sorrise. Per certi versi, il suo viso era bello. Diede ad Arto un colpetto affettuoso sulla schiena. «Cosa posso fare per te?» Arto prese la sua cartella. «Vorrei che dessi un'occhiata a queste fotografie, Faud. Vorrei il tuo parere professionale. È la vittima dell'assassino di
Balat di cui si sta occupando Çetin Ikmen.» Ismail si portò una mano alla testa con l'espressione perplessa. «Non sapevo che in questo caso ci fosse di mezzo un problema di balistica.» «Infatti non c'è, almeno non per quanto riguarda il delitto in sé.» Arto schioccò la lingua con impazienza. Non era una cosa facile da spiegare. «Senti, Faud, possiamo andare nel tuo ufficio?» «Certo.» Ismail si girò per fargli strada in un lungo corridoio disseminato di mozziconi di sigaretta. Arrivati in fondo, aprì la porta di fronte a loro ed entrò nel suo ufficio. Era un posto strano, per i gusti di Arto. Le pareti erano tappezzate di grandi poster a colori che raffiguravano ogni sorta di pistole, alcune per intero, altre in sezione, con i particolari delle parti interne e dei meccanismi. La scrivania era piena di manuali sulle armi, delle stesse dimensioni dei manuali di istruzione dei computer, appoggiati in cima a una pila di giornali probabilmente non letti. Girava la voce che il lavoro e un'anziana madre molto esigente non lasciassero a Faud molto tempo per le cose di ordinaria routine. Mentre si sedeva, Arto notò che sulla parete dietro di lui era appoggiato un fucile. Era da diverso tempo che non si recava alla sezione balistica. Aveva dimenticato quanto potesse essere sconvolgente. Vedendolo fissare l'arma, Ismail rise. «Non preoccuparti, oggi non ho ancora caricato il mio Kalashnikov.» Si sedette. «Allora, tira fuori le tue orribili fotografie.» Arto estrasse dalla sua cartella due grandi immagini a colori. Erano un primo piano del braccio destro e della mano destra di Meyer. Le posò sulla scrivania e Ismail si chinò a osservarle da vicino. «Terribile,» osservò secco. «Secondo il laboratorio di patologia, si tratta probabilmente di ustioni provocate da polvere da sparo. Vecchie di sessanta o settant'anni. Molto gravi; devono essere state molto dolorose, a suo tempo.» Indicò una delle foto. «Come puoi vedere, guarendo, hanno formato questi segni. Si direbbe che le ferite non siano state adeguatamente curate, ma soltanto fasciate, avvolte in qualche fazzoletto o roba del genere.» «Mmm...» Ismail si mise gli occhiali e avvicinò una delle foto alla luce. «Ora, Faud, sappiamo cos'è stato a provocare queste ferite. Tuttavia, ci occorre sapere in che modo. Com'è possibile procurarsi delle ustioni da polvere da sparo come queste, e in quali circostanze?» «Be'...» Ismail posò le foto sul tavolo, poi si appoggiò allo schienale del-
la sedia incrociando le mani sotto il mento, senza distogliere gli occhi dalle fotografie che aveva davanti. Rifletté in silenzio per alcuni istanti. «Avete motivo di pensare che quest'uomo possa aver lavorato in una fabbrica di armi?» «Che io sappia, no.» «Mmm...» Tornò a riflettere succhiandosi il labbro superiore. «Soldato?» «Sì. Era russo. Pensiamo che abbia combattuto dalla parte dei Rossi nella Rivoluzione del 1917... almeno, lo pensa Çetin. Sta cercando di ricostruire il suo passato. Potrebbe starci, visti i suoi trascorsi militari.» «Esatto.» Ismail prese una matita dal cassetto della sua scrivania e la puntò sull'impressionante immagine della mano destra di Leonid Meyer. «Ora, questa...» Fece una pausa per riflettere. «1917, hai detto? Russia?» «La ferita dovrebbe risalire al 1918.» «Okay.» Inspirò profondamente. «Questo segno sulla mano potrebbe essere la conseguenza di un'arma difettosa. Gente come... oh, i rivoluzionari russi...» «Bolscevichi.» «Sì. Quelli non erano sempre soldati professionisti. Per loro andava bene qualsiasi arma, anche decrepita, bastava che funzionasse. Le vecchie armi prive di manutenzione possono provocare delle ferite terribili. Non basta impugnare un'arma e mettersi a sparare, se si tiene alla propria pelle, almeno.» «Perciò credi che possa essere stata un'arma vecchia, magari difettosa, a procurare quelle ferite?» «Può darsi, può darsi.» Si strofinò il mento con le mani, incavando ancora di più le guance già scarne. «Potrebbe anche aver avuto un incidente... oh, fuochi artificiali? Un processo industriale? Dal 1918 al 1992 è un lungo periodo. In... quanti, settant'anni? possono accadere un mucchio di cose.» «Sì. E il braccio?» «Oooh.» Guardò le fotografie e sospirò. «Posso di nuovo fare solo un'ipotesi. Escludendo i fuochi artificiali e i processi industriali, che presumo che sia quello che mi stai chiedendo...» «Sì... almeno, credo.» Fissò il soffitto per qualche istante, riordinando le idee. Le sue mani si muovevano lentamente, come a seguire le sue riflessioni. «Forse si trovava nei pressi di un vecchio cannone. Improbabile, ma...» Si strinse nelle spal-
le. «Qualcuno che si trovava molto vicino a lui potrebbe aver sparato una serie di raffiche una dietro l'altra. Probabilmente si trovava in un luogo chiuso dove non c'era lo spazio sufficiente per allontanarsi. Quando si può, si fa di tutto per evitare di ustionarsi.» «Causate quindi dall'arma da fuoco di un'altra persona?» «Sì. È possibile. Potrebbe essere stata una persona mancina che si trovava alla sua destra, leggermente dietro di lui... Se la vittima di Çetin gli era abbastanza vicino, e soprattutto se ha usato ambedue le mani per tenere l'arma, potrebbe essere stata la traiettoria dei proiettili sparati a provocare questo sfacelo. È...» Il telefono di Ismail squillò. «Scusami, Arto.» Sollevò la cornetta e parlò nel ricevitore. «Ismail.» Arto riguardò le fotografie. Ismail gli aveva suggerito l'idea, non improbabile, che potesse trattarsi di un plotone d'esecuzione. Due o più persone, l'una accanto all'altra, che spararono una raffica di colpi contro qualcuno. Con qualche differenza, però. Solitamente un plotone d'esecuzione era composto da due file; la prima se ne stava in ginocchio o accovacciata, mentre quella dietro sparava, in piedi, al di sopra delle teste della prima fila. E quelle esecuzioni, di solito, avvenivano all'aperto, in un cortile o qualcosa del genere. Doveva essere così, perché gli spazi ristretti aumentavano il rischio di rimbalzo dei proiettili. Naturalmente non era un problema suo, ma da quando Arto aveva notato le ustioni sul braccio di Meyer, aveva avuto la netta sensazione che fossero importanti. Non sapeva il perché, ma Çetin non aveva l'abitudine di lavorare per niente. Se Faud Ismail aveva ragione, era molto probabile che l'uomo assassinato fosse stato a sua volta un assassino. E in questo caso, da quello di ebreo perseguitato, il ruolo di Meyer avrebbe assunto degli aspetti molto più sinistri. Era piacevole trovarsi all'aperto. Natalia si passò le dita tra i capelli assaporando il piacere della brezza serale che le attraversava le ciocche fino a massaggiarle la testa. Mancava un'ora alla chiusura del parco, perciò doveva sbrigarsi. Doveva essere fortunata e rapida. Ma la fortuna non aiuta quelli troppo pignoli. E Natalia non lo era. Cominciò la salita verso il Palazzo con il corpo in tensione e gli occhi che vagavano da una parte all'altra. Da qualche parte, doveva esserci ciò che cercava. L'aveva sempre trovato; dietro un albero, ai bordi del sentiero, su uno dei ponti che sovrastavano i laghetti artificiali...
Aveva atteso tutto il giorno quel momento. Chiusa in quel minuscolo negozio, con il vecchio Avedissian come unica compagnia. A chiacchierare di cose senza importanza, solo per calmare l'ansia. Aveva bisogno di sentirsi libera, di qualche momento in cui tornare a essere se stessa, la libera e trasgressiva Natalia. C'era una sola cosa che riusciva a farla sentire così. E l'avrebbe trovata. Doveva! Aveva disdetto un appuntamento per questo suo disperato bisogno, un appuntamento con un argentiere. Una giovane coppia sottobraccio, diretta verso l'uscita, le passò accanto ridendo di qualche fatto tra loro. Qualsiasi cosa fossero venuti a fare al parco Yildiz, l'avevano fatta. Lui era un gran bel giovane e Natalia provò una fitta di invidia. Avrebbe fatto al caso suo. Quasi al caso suo. Perché gli mancava una cosa, una cosa importante. Continuò a salire. Ancora niente, ma Natalia non perse le speranze. Mentre scrutava attentamente tra gli alberi, si slacciò altri due bottoni della camicetta e quando vide spuntare il solco tra i seni, sorrise. Era senza fiato, un po' per la salita e un po' per l'eccitazione che cominciava a pervaderla. Sperava solo di trovarne uno giovane, disposto a fare esattamente quello che voleva lei. Lui ci sarebbe stato, perché in cambio lei gli avrebbe fatto qualsiasi cosa. Almeno, così gli avrebbe detto. Natalia si sventolò il viso accaldato con la mano. Tra gli alberi c'era gente che si muoveva, rideva e correva, ma erano tutte coppie. L'ansia cominciò a stringerle lo stomaco, ma lei cercò di dominarla. Era il parco Yildiz di sabato sera! Il parco Yildiz, antica dimora del sultano, luogo di ritrovo per gli amanti e gli adulteri di Istanbul. Si fermò un istante a riprendere fiato, e intanto scrutò attentamente l'orizzonte. Era appoggiato a un albero, le lunghe gambe in posizione rilassata e le braccia incrociate sul petto. L'uniforme verde scuro un po' stretta permetteva a Natalia di intravedere i suoi muscoli. A lei piacevano i muscoli. E lui aveva anche... sì. Andava bene. Natalia si scostò i capelli dal viso e si diresse verso di lui. Quando gli fu vicino, lui girò la testa dall'altra parte, come a evitare il suo sguardo, ma lei sapeva che l'aveva vista. Era giovane. Diciannove? Venti? Probabilmente desiderava la stessa cosa che desiderava lei, ma forse a causa dell'età, era timido. Non era la prima volta che le capitava una situazione del genere. In questi casi, doveva usare un approccio più dolce, meno aggressivo. All'inizio. Quando lo raggiunse, gli sorrise, anche se lui non la stava guardando. «Il tuo comandante ti ha dato la libera uscita, stasera?»
Lui girò la testa. Il suo viso giovane era rosato, e lunghe ciglia scure gli incorniciavano gli occhi tipicamente anatolici. «Salve... signorina.» Natalia si mise a ridere e alzando lo sguardo su di lei, le lunghe ciglia del giovane scoprirono due occhi dolci e scuri. Sembrava un orsacchiotto spaventato, sperduto in una foresta sconosciuta. Natalia lo scrutò attentamente da vicino. Voleva assicurarsi che fosse la scelta giusta. Sul sentiero che aveva appena lasciato c'erano sicuramente molti altri soldati. Doveva convincersi che quel ragazzo fosse il meglio che potesse trovare. Gli sorrise. Era bello, doveva ammetterlo. Scuro, muscoloso, giovane. Le sue mani grandi promettevano bene e dal suo fianco pendeva una pistola. Dentro la fondina, la canna brillava agli ultimi raggi di sole. Un pezzo di grande bellezza e squisita fattura. Nel guardare l'arma, Natalia sentì i battiti del cuore accelerare. Era eccitata all'inverosimile. Aprì la bocca e con la lingua si leccò ogni millimetro delle labbra. In un primo momento lui la guardò con l'aria interrogativa; evidentemente non aveva esperienza, o ne aveva poca. Ma quando lei si slacciò gli ultimi bottoni della sua camicetta, sollevò gli angoli della bocca in un sorriso. Piantò gli occhi in quelli di Natalia e senza guardarle altro, le slacciò il reggiseno. Natalia sentì il seno schizzarle in avanti, con la piacevole sensazione dell'aria fresca sulla pelle. Il ragazzo spalancò gli occhi e le si avvicinò. Natalia gli piantò un capezzolo tra le dita e lui emise un lieve gemito, nel sentire in mano quel pezzo di carne. «Vieni,» gli disse con voce roca e sensuale. «Allontaniamoci ancora un po' dal sentiero.» Liberò il seno dalle dita del ragazzo e lo prese per mano. Non c'era bisogno di allontanarsi troppo. Venti metri più avanti, la boscaglia diventava fitta e quasi impenetrabile. Tuttavia dovevano trovare il posto giusto: un albero con un tappeto di corteccia soffice e un posto senza rovi. In piedi o sdraiati, per lei non faceva differenza, a patto di non sciuparsi la pelle. Il dolore andava bene, il dolore le piaceva, ma non voleva segni sul corpo. «Ehm... signorina...» Lei si voltò. «Sta' zitto!» Sperava che lui non parlasse. «Eh?» Con la mano che gli tremava le porse due banconote stropicciate da ventimila lire.
Natalia respinse la sua mano con una smorfia. «Non voglio i tuoi dannati soldi! Fa' solo quello che ti dico, okay?» Dall'espressione che fece, era evidente che il giovane non riusciva quasi a credere alla sua fortuna. «Oh, il...» «Zitto!» Spostò delle erbacce con i piedi e si guardò. «Qui va bene.» Mentre si sdraiava per terra, Natalia si tolse gli ultimi indumenti. Il soldato restò in piedi a guardarla, come imbambolato. Se era preoccupato o offeso per i modi bruschi della ragazza, non lo diede a vedere. Si limitò a guardarla con gli occhi spalancati e le labbra umide. Natalia ammucchiò i vestiti per terra accanto a sé. Poi sollevò una gamba lunga e abbronzata e con il piede lo afferrò per i pantaloni. Sollevò la testa e guardò il viso contrito e sudato del ragazzo. Il petto gli andava su e giù per l'affanno. Per qualche istante rimasero a guardarsi. Natalia si fece impaziente; cominciava ad annoiarsi. Non aveva nessuna voglia di assaporare quei momenti; non gliene importava niente di quel ragazzo! Poi, lentamente e con le dita che gli tremavano, lui si tirò giù la chiusura lampo scoprendo un pene scuro, eretto e doloroso. Natalia fremette. Il ragazzo ce l'aveva grosso, le avrebbe fatto male. Era da un po' che non provava dolore. E voleva provarlo. «Se adesso fai quello che ti dico io, dopo ti farò quello che vuoi,» disse freddamente. Spalancò le gambe strofinandosi i capezzoli con le dita. «Oh.» Ma lui non si mosse. Rimase fermo, con l'aria istupidita e il pene di fuori, come un grosso serpente morto. Natalia stava per perdere la pazienza. Con ogni probabilità, un idiota arrivato dalla campagna. Doveva prendere in mano la situazione. Del resto, era quello che sapeva fare meglio. «Siediti per terra e togliti la pistola.» «Pistola?» «Senti, vuoi scoparmi o no?» tagliò corto lei. Per un attimo il giovane sembrò confuso, ma poi si slacciò la cintura ed estrasse la pistola dalla fondina. Natalia fremette in tutto il corpo mentre gliela porgeva. Il ragazzo si stese per terra con le gambe allungate davanti a sé. Natalia gli prese il pene tra le dita. Era molto caldo e sentì il sangue pulsargli nelle vene. «Ora,» gli disse come se stesse dando ordini a un umile inserviente, «quando mi metterò sopra di te, voglio che mi metti la pistola in bocca.»
Lui guardò Natalia, poi la pistola, poi di nuovo Natalia. Sembrava non aver capito. Con un grugnito di rabbia, lei lo spinse sul dorso e gli si mise a cavallo. Doveva sollevare il corpo di un bel po' per farci entrare quell'affare. «Così,» disse. Si abbassò su di lui facendogli emettere un lungo gemito. Mentre faceva su e giù sul corpo del ragazzo, gli prese la pistola dalle mani e se la mise in bocca, dalla parte della canna. Dapprima lui cercò di togliergliela, ma lei gli allontanò la mano con un gesto brusco. Il metallo duro era buono, amaro e acidulo e aumentò al massimo l'eccitazione di Natalia, procurandole la piacevole sensazione di aver perso il controllo di sé. Ma lei voleva di più. Gli afferrò le mani e se le piantò sui seni ansanti. Nonostante per lui fosse la prima volta, sapeva bene cosa fare. Le strinse forte i capezzoli. Lei gridò di piacere. Ora il giovane aveva il viso contratto; non sarebbe durato a lungo. Troppo giovane. Lei chiuse gli occhi per non vedere il suo stupido viso beato e accelerò il ritmo. La stava lacerando, e lei provava un gran piacere. Lui la afferrò forte con le braccia e lei si infilò la pistola in gola. Era questo che pensava della loro storia. È questo che avrebbe fatto se quegli uomini spietati le avessero puntato addosso le loro armi! Le venne da piangere; le faceva sempre questo effetto. Se solo fosse stata lì... sarebbe stato tutto diverso. Sarebbero stati a casa, nel posto giusto, invece di starsene per terra con qualche schifoso estraneo. A scoparsi dei turchi grossi e schifosi per terra, in mezzo alla sporcizia! L'uomo sotto di lei muggiva e sbuffava come un toro. Natalia aprì gli occhi, si tolse la pistola di bocca e la puntò verso di lui, piantandogli la canna sul naso. Il ragazzo si fermò di colpo con gli occhi paralizzati dalla paura. Il petto gli doleva, nel tentativo di arrestare l'affanno del dopo-coito. Lei, invece, era calmissima. Natalia tolse la sicura sorridendo. Dentro di sé, sentì il pene ritirarsi. Il viso del giovane era grigio come la cenere. Grigio e contratto. «Mmm...» Lei rise al suo tentativo di parlare e gli premette la canna contro il naso con una tale forza che lui gridò di dolore. Il gioco del terrore era divertente. Era l'unico che la divertisse davvero. Naturalmente poteva farlo solo con gentaglia tipo quel ragazzo, ma in fondo a lei piaceva anche la gentaglia. Gli tolse l'orologio da quattro soldi che portava al polso e lo gettò sul mucchietto dei suoi abiti. Il terrore era in
grado di soddisfare tutti i suoi bisogni. Ora lui sudava come un animale e lei sapeva che di lì a poco l'avrebbe implorata di risparmiargli la vita. Era sempre una cosa divertente. Guardò il corpo tremante del giovane e abbassò i fianchi sul suo pube. Con un dito solleticò con cattiveria la base del suo pene. Natalia parlò lentamente, in modo che quello stupido non potesse non capire. «Se non risollevi questo affare per rimettermelo dentro, ti faccio saltare la testa.» Robert Cornelius era esausto, quando arrivò a Celaleddin Rumi Caddesi. Naturalmente avrebbe dovuto chiedere a Natalia il nome della società, prima di lanciarsi nella sua impresa. Ma era talmente ansioso di arrivare sul posto per fare quello che doveva fare che, al momento, le questioni pratiche gli erano sfuggite. Di conseguenza aveva vagato per ore per la strada, facendo domande magari inopportune ai residenti della zona, finché finalmente non era arrivato dove si trovava ora: un luogo che da alcuni era stato descritto come l'unica, da altri come una delle tante fabbriche tessili presenti nel quartiere di Usktidar. Non che trovarsi nel luogo esatto in cui si trovava la fabbrica di Smits avesse grande importanza. All'inizio aveva pensato che ne avesse, ma poi, riflettendoci, aveva deciso che bastava che si trovasse a Üsküdar. Se qualcuno legato in qualche modo al vecchio nazista avesse voluto compiere qualche brutta azione, l'avrebbe compiuta proprio sulla soglia di casa sua? No. Avrebbe agito in modo più intelligente. Ma ora, lui, Robert Cornelius, si trovava dove doveva trovarsi e solo a quel punto la portata dell'atto che stava per compiere, lo colpì con tutta la sua forza. Dopo essersi accuratamente avvolto le dita in un fazzoletto, tirò fuori la lettera dalla tasca e la guardò. Doveva essere pazzo! Ricordò, con un sorriso mesto ma di chi sa il fatto suo, che nel suo brutto passato in Inghilterra la gente gli aveva dato per mesi del pazzo. Non avevano idea di quello che sarebbe riuscito a fare dopo. Nemmeno il più pessimista dei medici avrebbe immaginato fino a che punto sarebbe sprofondato; l'infame pazzia che stava per compiere ora. Inganno, ostacolo al corso della giustizia, sostituzione di persona, diffamazione. Guardando l'indirizzo scritto a macchina sulla busta, immaginò come dovessero sembrare assurde, diffamatorie, piene di odio, le parole scritte all'interno. Nella sua mente erano traboccanti di una cattiveria che il mondo moderno sperava dimenticata. Ma se servivano a salvaguardare lui, il gioco non valeva forse la candela? Se servivano a salvaguardare Natalia,
anche se a scapito della vita di un vecchio nazista, significava che erano una cosa giusta. Ma cercare e trovare giustificazioni per qualcosa non era come approvare un'azione ingiusta nel profondo della propria coscienza. Turbato da questi pensieri, Robert si concentrò sugli aspetti più pratici dell'operazione. Ora gli serviva una cassetta della posta in cui imbucare la lettera. Robert sapeva che, a differenza di quanto accadeva in Inghilterra, trovare una buca delle lettere in Turchia era un'impresa. Nelle zone più turistiche della città era facile, perché molti alberghi erano disposti a ritirare le cartoline e le lettere degli stranieri. Ma lì... lì doveva trovare un ufficio postale e, fino a quel momento, non ne aveva visti. Ricominciò a camminare fermandosi ogni pochi metri per sbirciare nei portoni alla ricerca di quello che potesse svelare un ufficio postale nascosto alla vista. Per un po' questo compito gli tenne occupata la mente, riuscendo anche a divertirlo. Gli ricordava le commedie surrealiste che gli piacevano tanto da ragazzino: spettacoli dove assurdi personaggi andavano a caccia di guazzetto di frattaglie o lavoravano in miniere dove si estraevano abiti. Era bello trovarsi di nuovo in quella vecchia commedia dell'infanzia... Si sentiva al sicuro, liberato dalle sue sembianze di adulto, quale era ora. Per un breve istante, sorrise; un sorriso largo, pieno, come faceva da piccolo. Improvvisamente si trovò davanti a un portone con numerose cabine telefoniche intorno e, nel muro, anche una grande cassetta delle lettere. Avendo trovato ciò che cercava, Robert tornò a rivolgere la sua attenzione alla lettera che aveva in mano. Una volta imbucata, lui sarebbe stato coinvolto. Se scoperto, avrebbe sperimentato in prima persona tutta la forza della legge. Al momento era innocente e, benché Ikmen sospettasse di lui, non c'era niente che lo collegasse all'omicidio del vecchio ebreo. Ma se avesse imbucato quella lettera... Se avesse imbucato quella lettera e fosse stato scoperto, alcuni, compreso Ikmen, lo avrebbero considerato il gesto di un uomo che avesse qualcosa da nascondere. L'aspetto fraudolento della faccenda sarebbe stato niente in confronto a quello che la polizia avrebbe pensato fosse il motivo di quel gesto. Se quello Smits aveva davvero avuto un ruolo nell'assassinio di Meyer, avrebbe potuto giustificarlo, ma... Ma se stava per fare quello che voleva Natalia, significava che ci credeva, no? Inoltre, chi avrebbe potuto dire che non era vero? Senza volerlo, gli riapparve, grande come una casa, l'immagine di Natalia che scappava
da lui per le strade di Balat. La mano che teneva la lettera gli tremò violentemente facendogli capire che se non avesse fatto subito qualcosa, non sarebbe più riuscito a fare niente. Per costringersi a procedere in quello che sapeva da tempo di dover fare, mormorò a sé stesso il suo credo... il suo personale catechismo. "È stato Smits! È stato Smits a uccidere Meyer! È stato Smits a uccidere Meyer!". Ripeté queste frasi come se fossero una sorta di mantra, con gli occhi chiusi, rendendosi a malapena conto di quanto stava facendo, finché... Il movimento di qualcuno dietro di lui o forse il rumore di un motore di automobile lo fece smettere di mormorare tra sé e sé. Non aveva più in mano la lettera e per qualche istante si guardò intorno allarmato per vedere se per caso gli fosse caduta per terra. Ma, improvvisamente, si rese conto che non gli era caduta per terra. La cassetta delle lettere aveva un'aria molto soddisfatta, sulla sua faccia dalla bocca spalancata. Era fatta. L'aveva fatto. Tuttavia, mentre si allontanava dal luogo del crimine, ebbe improvvisamente la sensazione di essere spiato. Ne era certo. Se quel tipo di paranoia non fosse stata una sua vecchia "amica", si sarebbe allertato. Ma, per una volta, non diede peso alla sua sensazione e proseguì in direzione del Bosforo, per tornare a casa. CAPITOLO XIV La giornata, dopo una notte insonne, sembra interminabile. La logica suggerirebbe di cercare di restare svegli fino alla sera seguente, per non alterare il ritmo sonno-veglia. Tuttavia, in pratica è difficile. Anche se si fanno delle cose interessanti, le ore sembrano non passare mai. È come avere i postumi di una sbornia senza avere avuto il piacere dell'evento. Il corpo rivendica il suo legittimo riposo e protesta facendoci stare male, se non glielo concediamo. Robert Cornelius si sentiva a pezzi. Dopo aver trovato il coraggio, la sera prima, di imbucare quella lettera, pensava di sentirsi meglio. E invece no. La tensione che aveva accumulato prima di compiere quell'atto, dopo gli aveva lasciato addosso una grande ansia. Aveva passato quasi tutta la notte seduto sul letto a fumare, rimuginando su quello che aveva fatto e sulle possibili conseguenze. Nessuna di queste, però, poggiava su basi concrete. Tuttavia, dopo un po' aveva cominciato a non esserne più tanto sicuro. Rabbrividì. L'ultima volta, era accaduto dopo il divorzio. Naturalmente
sapeva perché, ma non gli era ancora chiaro come fosse arrivato a quel punto. Ci aveva messo settimane o mesi? Il grande incidente: la scoperta di quell'uomo a letto con Betty, l'aggressione... erano fatti chiari. Ma il resto? Amici e parenti, che ne sapevano più di lui, gli avevano spiegato le cose. I suoi pezzi erano stati rimessi insieme nei soggiorni di pino degli istituti psichiatrici di Stoke Newington e Finsbury Park. Da qualche parte, nella sua testa, c'era una grande scatola nera contenente quelle porcherie, chiusa a chiave. A Robert stava bene così. Era arrivato in Turchia lasciandosi la chiave alle spalle. L'aveva lasciata al suo posto; a Islington, dove c'era la sua casa. Neanche adesso, nonostante l'ansia, aveva voglia di aprire quella scatola. Ma aveva una brutta sensazione. Sapeva che non proveniva dall'esterno, la conosceva troppo bene. Per quanto si sforzasse, non riusciva a esprimerla a parole. A volte ci si avvicinava, ma non riusciva a darle un senso. Era come una zona oscura. Niente di lui era chiaro, neanche alla luce del giorno; le cose avevano i contorni sfumati, confusi e indefiniti. Osservava il mondo attraverso una cortina impregnata di polvere e tabacco che gli permetteva di vedere forme, pezzi di carne, cemento e metallo, ma nessun dettaglio. Anche se non lo avrebbe mai ammesso neanche a se stesso, Robert sapeva che l'incontro con Natalia lo aveva spinto oltre un limite che lui non conosceva. La conseguenza, invece, la conosceva già. Una donna; l'allontanamento dagli amici; la stravaganza; l'accettazione dell'inaccettabile. Da oltre un anno, non faceva che scendere la china. Ma era proprio così? L'uomo, l'avvocato che aveva trovato nel letto di Betty, il suo letto, tanti anni prima, era stato certamente solo il culmine e la conferma di ciò che sapeva da tempo. Betty lo aveva usato fin dal primo giorno. Era andato avanti per cinque anni. Ma lo aveva fatto volentieri! Le aveva dato tutto ciò che lei aveva desiderato, chiudendo non uno, ma tutti e due gli occhi, nonostante il terribile dolore che provava. Era diventato uno zerbino, qualcosa su cui lei si puliva le scarpe. Stava rifacendo la stessa cosa. Ma stavolta stava aiutando qualcuno rendendosi suo complice... No, nemmeno ora poteva esserne certo. Non aveva alcuna prova. Ciò che aveva visto con i suoi occhi non significava niente. Doveva cercare di ricordare. Quel giorno, a Balat, era tutto strano, non solo il clima. A ripensarci ora, era come se quel giorno fosse calata l'oscurità su Balat. Naturalmente non era stato così, lo sapeva, ma gli piaceva pensare che fosse così. Durante la notte aveva preso forma nella sua mente una nuova scatola nera, e si ricordò di buttarci dentro anche questi pensieri.
Natalia era in difficoltà, e solo questo contava. Era l'unico fatto importante. Robert posò la mano sul telefono, ma non sollevò il ricevitore. Sapeva bene che, da quando era spuntata l'alba, era l'ottava volta che faceva quel gesto. Non aveva mai fatto il numero di telefono di Natalia prima d'ora, ma adesso desiderava farlo. Sapeva che sarebbe stata contenta di quello che aveva fatto per lei, doveva esserlo; tutto sarebbe andato a posto. Più che a posto. Non gli sarebbe più sfuggita, dopo quello che aveva fatto per lei. Lo avrebbe seguito dappertutto, perché lui era a conoscenza dei fatti. Non sarebbe mai riuscito a pronunciare le parole che l'avrebbero condannata, ma le conosceva. Robert sollevò il ricevitore e compose il numero di Natalia. Non aveva bisogno di fare riferimento a niente; aveva relegato tutto in fondo alla sua mente. «Mancanza di prudenza.» Nicholas alzò gli occhi dal giornale e guardò attraverso il buio che avvolgeva il grande letto dorato. «Cosa?» «Non sono stata prudente, nel parlare. A volte pensiamo, sbagliando, che la gente sopporti la verità quando invece non ne è capace.» Lui ripiegò il giornale e se lo mise in grembo. «Per essere sincero, non ci siamo mai sognati che le tue storie potessero avere questo effetto.» La vecchia gli rivolse uno sguardo severo. «Tu inietti nella parola "storia" un elemento di dubbio, mi pare.» Lui sospirò. «Ho sempre avuto dubbi, mamma, lo sai.» «Allora pensi che tua madre sia una bugiarda?» «No.» Fece una breve pausa. «No, non lo credo. Credo però che lo zio Leonid abbia mentito o comunque rielaborato...» «Lo credi davvero?» La sua espressione, ora, era più di supplica che di rabbia. Lo sguardo di chi vorrebbe una risposta diversa da quella che si aspetta. Nicholas abbassò lo sguardo sul pavimento. «Sì, lo credo davvero, mamma, e alla luce di quanto è accaduto di recente, credo che tu debba almeno cercare di accettare le cose. Per il nostro bene e per la tua tranquillità.» «E come credi che possa riuscirci?» ribatté lei sarcasticamente. «Credo che dovremmo andare alla polizia a raccontare tutto quello che sappiamo.» Inaspettatamente, lei si mise a ridere, ma senza allegria. «Con l'odioso
Reinhold Smits a casa di Leonid il giorno del delitto? Sei pazzo, Nicky?» Lui si protese in avanti per vederla meglio, sperando di convincerla. «Ah, ma sappiamo che non è stato il signor Smits a uccidere lo zio Leonid, no?» «Non lo sappiamo!» «Invece sì!» Stava perdendo la pazienza, una cosa sbagliata e poco saggia, con Maria, ma non riuscì a controllarsi. «Menti, mamma, sostenendo che il signor Smits si trovasse in quella casa...!» «Non voglio più sentirti parlare così, Nicky!» «Ma...» Lei alzò una mano per farlo tacere. «Cosa sia successo, chi abbia commesso e perché, quel delitto, è assolutamente irrilevante. Dobbiamo, a tutti i costi, proteggere chi ha il nostro stesso sangue. Questo, come sai...» «È più importante di qualsiasi altra cosa?» «Sì! Sì!» Gli occhi le brillavano non solo di rabbia, ma anche di qualcos'altro... qualcosa di incontrollabile e pericoloso. Non era la prima volta che Nicholas assisteva a scene del genere, ma dato che ormai si era sfogato, ricambiò il suo sguardo scuotendo semplicemente la testa. «No, mamma, ti sbagli. Il nostro sangue è uguale a quello di chiunque altro.» «Allora perché, caro figliolo, sei vissuto con questa bugia per tutto questo tempo?» «Perché,» rispose lui, «quando ero piccolo, non sapevo niente e da adulto era diventata ormai un'abitudine che non riuscivo a spezzare. Non volevo fare soffrire né te né altri, mamma. A volte, quando si ha vissuto tutta la vita in un'illusione, è meglio restare dove si è. Ma capitano anche delle occasioni, come ora, in cui non conviene, ed è per questo che adesso ne sto parlando con te.» Fece per prenderle la mano, ma lei la ritrasse bruscamente. «Quando torneremo a casa...» «Non torneremo "a casa", mamma! E più preparativi fai fare alla povera Anya per il "grande giorno", peggio la fai stare! Inoltre, noi tutti, qui, siamo a casa. Anche se la polizia dovesse sbatterci in galera fino alla fine dei nostri giorni, noi siamo e siamo sempre stati a casa!» «Hai vissuto da russo tutta la vita!» Il suo tono era sdegnoso, sprezzante. «Dei turchi ne sai quanto ne sai dei marziani. Ti vesti come un russo, parli come un russo, pensi come un russo.» «Mio padre era turco.»
Maria aggrottò le sopracciglia e sul suo viso apparve un ghigno. «Fu un infelice espediente. Se avessi potuto, l'avrei evitato...» «Oh, sì,» ribatté lui in tono amaro, «so tutto di quella faccenda, mamma. Nei tuoi sforzi per rimediare c'ero dentro anch'io, ricordi? I risultati portarono dritti dove siamo ora!» «No, no, fu una decisione giusta. Ne sono tuttora convinta. Come ho detto prima, consideravo la condizione di... sono stata troppo avventata parlando di un allarmante e malvagio...» La porta della stanza si aprì di colpo sbattendo contro il muro. Maria e Nicholas guardarono in quella direzione. Nella luce del corridoio si stagliava una figura alta ed esile. Nella mano sinistra teneva qualcosa di lungo e sottile che cigolava. Tre piani più sotto, in soggiorno, il telefono si mise a squillare. Nicholas si mise la testa tra le mani e parlò con grande pazienza e cautela. «Cosa hai in mano?» Per qualche istante ci fu silenzio. Come se le parole di Nicholas non fossero state udite o si fossero perse nel nulla. Maria guardò la figura sforzando la vista per riuscire a vederla nel buio. «È una catena?» Guardò Nicholas. Aveva il viso privo d'espressione. «Non chiederlo a me, io...» «Una catena di bicicletta.» La voce era piatta, monotona. La voce di un uomo, ma senza alcun vigore. Il tono era profondo e pieno, ma il contenuto vuoto e secco come un osso. Nicholas mormorò qualcosa che sentì solo lui. Il telefono aveva smesso di squillare. Guardando sua madre con l'aria accusatoria, si rivolse alla figura sulla porta. «Riportala in cantina.» «Non vuoi...» La voce piatta si era trasformata in un lamento. «La vedrò più tardi!» La forza con cui Nicholas pronunciò queste parole gli fecero tremare la testa sul collo, come quella di un bambolotto. Distolse gli occhi dal viso di sua madre e li puntò nel buio. La figura sulla porta si voltò e, muovendosi, fece sferragliare la catena. Lontano, al piano di sotto, una donna rideva. La sua voce era calda, come se fosse contenta, addirittura felice. Nicholas e Maria la ascoltarono incuriositi. Era una cosa insolita, specialmente ora. Dei passi pesanti scesero rumorosamente le scale. Anche se a malapena, si sentiva il rumore della catena che sbatteva, cigolando, contro la ringhie-
ra. Continuando così, avrebbe scheggiato la vernice. Ma Maria e Nicholas non si mossero né dissero niente per avvisare l'ospite appena uscito di fare attenzione. Sapevano tutti e due che sarebbe stata una perdita di tempo. Su alcune cose, anche se spiacevoli, era meglio sorvolare. Questa era una di quelle cose, come la loro conversazione di poco prima. Nicholas sospirò. «Sergei non si alza oggi, mamma, non si sente molto bene.» Intrecciò le dita sotto il mento e si schiarì la voce. «Incidente?» «No, no. Credo...» Sentì dei passi salire di corsa le scale. Si portò una mano alla fronte con fare esasperato. «Cristo! Di nuovo!» «Cosa?» Per un istante lei non sentì niente, ma non appena percepì il rumore, annuì sospirando profondamente. «Oh.» Suo figlio la guardò attraverso le dita che ancora teneva sul viso, parlando in tono amaro. «Sì, proprio "oh", mamma! Puoi ben dirlo!» Incassò la testa nelle spalle e aspettò. Sua madre gli guardò il collo con odio. I passi si fecero più vicini. Salivano i gradini di corsa, come se fossero ansiosi di arrivare da qualche parte per dire qualcosa a qualcuno. «Cosa pensi, Nicky? Un altro gioiello dalla cantina? Qualcos'altro di inutile e banale?» Il tono di Nicholas si fece sarcastico. «Non tutto è così inutile, mamma.» Sapeva che lo aveva sentito, ma lei decise di ignorarlo. Lo faceva spesso. Più spesso di quanto lui non ritenesse opportuno. I passi raggiunsero la stanza e loro si trovarono davanti Natalia, senza fiato ma eccitata, con la leggera gonna di cotone che le ballava intorno alle gambe. La vecchia e suo figlio si rilassarono un po'. La ragazza aveva l'aria felice. Maria infilò una mano sotto le coperte per prendere le sigarette. «Allora?» «Oh, nonna, zio Nicky, è...» Andò a sedersi sul letto. Non riusciva quasi a respirare, ma non vedeva l'ora di raccontare qualcosa. «È ...» «Vai avanti!» «Per l'amor di Dio, mamma,» intervenne Nicholas, «falle riprendere fiato!» «È ... si tratta di Robert...» Nicholas aggrottò la fronte. «Robert?» «Il ragazzo inglese di Natalia... lo sai. Quello che...» «Ha sistemato la polizia!» Lo disse tutto d'un fiato, «Ha spedito... una
lettera... è... Senti, è tutto a posto, ora. Credono che...» Nella testa di Nicholas si accese una spia d'allarme. «Lettera?» Natalia si posò una mano sul petto e fece un profondo respiro per calmarsi. «Sì.» «Che lettera?» La ragazza gli sorrise, ma lo zio non la ricambiò. «Robert ha mandato una lettera anonima alla polizia, sostenendo di essere un nazista che conosce e approva Reinhold Smits. Trabocca di idee naziste e dice esattamente come è Smits, spiegando perché ha licenziato lo zio Leonid e suggerendo il motivo per cui potrebbe averlo ucciso. Sono stata io a dargli le informazioni che gli servivano per scriverla e...» «È pazzo!» Nicholas sentì come una morsa oscura stringersi intorno a lui e la cosa non gli piacque. Come sarebbe andata a finire? Natalia si mise a ridere. «No, è innamorato. Farebbe qualsiasi cosa per me. Qualsiasi cosa!» «Esiste qualcuno, sia pure lontanamente imparentato con questa famiglia, che abbia mai detto la verità?» Nicholas si alzò bruscamente dalla sedia rovesciandola per terra. «Esiste?» Sua madre usò un tono duro, di rimprovero. «Nicky!» Lui guardò le due donne, prima l'una, poi l'altra. La testa gli martellava e gli occhi gli si riempirono di lacrime di rabbia. «Vi state scavando la fossa con le vostre mani. Se non vi fermate, vi ci ritroverete tutti dentro. Ma non ve ne rendete conto?» Puntò un dito tremante contro Maria. «Tu! Sei tu che puoi fermare tutto questo, mamma! Se la chiamiamo, la polizia arriverebbe qui nel giro di cinque minuti...» «Per togliermi l'ultima speranza? Quello che...» Lui si mise a urlare. «Tu speri di tornare "a casa", mamma, e invece ti sbatteranno in una stanza imbottita e butteranno la chiave, se sei fortunata!» Si rivolse alla ragazza. «Natalia, ti ordino di...» Per essere una vecchia, Maria ci mise una gran forza nel lanciargli in faccia il portasigarette di legno. Non solo lo colpì in pieno, ma gli procurò un brutto taglio sotto un occhio. Lungo la guancia gli colò un rivolo di sangue. Nicholas si portò una mano al viso per toccarsi la ferita. Il sangue gli macchiò la punta delle dita, coagulandosi sotto le sue unghie. Quando tornò a guardarle, le due donne gli sembrarono delle streghe; sorridevano divertite, nel vedere la sua debolezza. Il matriarcato. La sua era sempre stata una famiglia matriarcale, nonostante tutto. Anche le vecchie storie del passato non facevano che riferirsi a quello che aveva fatto la
moglie, la madre. La pia e venerata madre. Lui si era chiesto spesso perché non castrassero i loro uomini, dopo aver avuto un numero sufficiente di figli. Il potere che tradizionalmente veniva attribuito ai maschi, in realtà, lo avevano loro. La sigaretta si accese riflettendo un bagliore giallastro negli occhi di Maria. «Puoi andare, ora, Nicky. Voglio parlare con Natalia, da sola.» Nessuna scusa, nemmeno il minimo accenno di dispiacere per avergli quasi cavato un occhio. Ma in fondo non c'era da meravigliarsi. Erano sempre state le ragazze, le donne a... «Vai, Nicky!» Con pochi, lunghi passi, fu fuori dalla stanza. Non tentò nemmeno di fermare il sangue che gli usciva dalla ferita. Mentre passava davanti a quelle megere, sentì il sangue colargli sul colletto della tunica rossa. Ne fu contento, perché sapeva che sarebbe toccato a una di loro lavarla. Anya o Natalia, non importava chi. Mentre scendeva le scale, sentì la risata delle due donne. Natalia e Maria, avevano tutte e due una risata sguaiata. Nonostante pretendessero di essere delle signore, ridevano come delle donnacce. Ma in effetti, una di loro era una donnaccia. Pensò al signor Robert, o come si chiamava, e alla sua lettera. Provò per lui quasi la stessa pena che provava per se stesso. La cucina non era esattamente linda, ma essendo l'unico locale della casa non infestato di bambini, almeno per il momento, era il luogo ideale, secondo Ikmen, per ricevere Suleyman. Non gliene importava niente che Fatma non avesse avuto il tempo di riordinare. Terminati i preliminari, che consistettero nell'offrire all'ospite una tazza di tè, nel chiedergli della sua salute e nel metterlo a suo agio, Ikmen attaccò. «Allora, Suleyman,» disse, «dopo aver seguito il signor Cornelius fino a Üsküdar e averlo guardato imbucare la lettera, cos'hai fatto?» Suleyman bevve un sorso dal suo bicchiere e lo posò nuovamente sul tavolo. «Dovevo decidere se seguirlo per vedere dove andasse o aspettare che arrivasse il postino.» «E cosa hai fatto?» «Tutte e due le cose. O meglio, ho incaricato un agente di zona di aspettare il postino e di comunicarmi poi via radio l'esito. Dopodiché ho seguito Robert Cornelius, che è tornato a casa per la notte.» Ikmen sorrise. Aveva allevato bene il suo profumato ragazzo borghese.
«E cos'ha scoperto il poliziotto?» Stavolta, Suleyman sorrise. «La cassetta conteneva cinque corrispondenze, tra cui due cartoline illustrate. Due delle tre lettere recavano un indirizzo dell'est e la terza,» fece una pausa, secondo Ikmen, a effetto, «la terza busta era scritta a macchina ed era indirizzata a lei, presso la Centrale.» «A me?» chiese Ikmen aggrottando la fronte. «Perché a me?» «Non ho idea, ma penso che quando arriverà, lo capiremo.» Ikmen sospirò. «Hai detto che ha passato un mucchio di tempo davanti alla Seker Textiles?» «Sì, dopo averla trovata. Pareva non conoscerne il nome. Ho parlato con diverse persone alle quali ha chiesto informazioni su dove si trovasse una non meglio identificata industria tessile.» Ikmen scosse la testa come se volesse scuotere qualcosa che c'era al suo interno. «È molto strano. Non riesco ancora a stabilire un nesso tra Cornelius e Smits, ma se è rimasto per tanto tempo davanti al suo stabilimento... Non credo, però, che sia andato lì per vedere Smits... o forse sì e poi... Ma poi quella lettera, indirizzata a me e imbucata a Üsküdar...» «Ne sapremo di più domani,» disse Suleyman, «quando arriverà la lettera.» Ikmen aggrottò le sopracciglia. «È un peccato che quell'agente non sia riuscito a intercettarla subito.» «Sa bene quanto me, signore,» replicò Suleyman con un sorrisetto, «che non era autorizzato a farlo.» Ikmen gli lanciò un'occhiataccia. La mania di Suleyman di attenersi scrupolosamente alle procedure, a volte lo irritava profondamente. Suleyman notò l'espressione del suo capo e, cogliendone al volo il significato, si affrettò a cambiare discorso. «Com'è andata all'università, signore?» Ikmen si accese una sigaretta e dopo averne aspirato una lunga boccata, si lanciò nella sua esposizione. «Il professor Mazmoulian sapeva bene dell'esistenza di Smits. Negli anni '60 lo aveva intervistato.» «Oh?» «Sì, per il suo libro del 1968, Turchia e Germania: un matrimonio difficile. Benché trattasse prevalentemente della nostra alleanza con i tedeschi nella guerra del 1914-18, alla fine c'era un capitolo dedicato all'attività dei nazisti in Turchia durante il conflitto 1939-45. Conteneva alcune dichiarazioni di Smits e di altri del suo stampo. Sembrava orgoglioso di aver licenziato tutti i suoi dipendenti ebrei. E, almeno nel 1968, non espresse alcun
rimorso per quel fatto.» «Quindi ci ha mentito, quando lo abbiamo interrogato?» «Oh, sì.» Ikmen si schiarì la gola dal denso catarro mattutino. «E, personalmente, non vedo altro motivo se non quello di nascondere il suo legame con Meyer. Tu ne vedi altri?» «No. Anche se...» «Sì?» «La questione antisemita, signore, non regge molto, se lui e Meyer non avevano più contatti dal 1940.» «Ah, ma erano rimasti in contatto. Meyer, avendo pochi amici, non aveva bisogno di tenere nell'agendina una lunga serie di vecchi dettagli.» Suleyman fece un cenno di assenso con la testa. «Sì, ma non posso fare a meno di pensare che se Smits fosse coinvolto, il motivo non può essere solo una vecchia questione di razzismo antisemita. Meyer deve aver avuto qualcosa con Smits più di recente e...» «Oh, sì. È molto verosimile e ciò spiegherebbe anche tutti i soldi che aveva Meyer.» «Sì.» I due uomini rimasero in silenzio per alcuni istanti, ognuno assorto nelle proprie riflessioni e valutazioni di quanto si erano appena detti. Alla luce dei fatti, sembrava che Smits si stesse scavando con le sue mani una fossa profonda e pericolosa... sia in relazione alla polizia sia, incomprensibilmente, a Robert Cornelius. Quando Ikmen parlò di nuovo, aveva già deciso come procedere. «Credo che dovremo fare un'altra visita a Smits, domani... o meglio, tu.» «Io?» «Sì.» «Perché?» «Perché credo che dobbiamo affrontare Smits alla luce di questi fatti. Perché penso che tu debba fare un po' di pratica e perché» Ikmen si accese un'altra sigaretta col mozzicone che aveva in mano, «io ho già un appuntamento all'università, domani all'ora di pranzo.» «Di nuovo con il professore?» «No.» Sorrise. «No, accompagno il dottor Ikmen alla sezione Storia Europea della biblioteca.» «Il dottor Ikmen è...» «Mio padre, sì. Se mi sentisse chiamarlo dottore, si infurierebbe. Timür dice che solo le persone insicure fanno uso del loro titolo. Ecco perché lo
chiamo Timür e non "papà", nel caso ti interessasse saperlo.» Suleyman sorrise. Nonostante conoscesse poco il vecchio, era una cosa che gli si addiceva. «Posso chiederle perché andate in biblioteca?» «Vado a cercare un nome, o dei nomi, se ci riesco. Con l'aiuto di Timür vedrò di ricavare qualcosa dai moderni libri di testo russi sulla Rivoluzione.» «In relazione al passato di Meyer, immagino?» «Esatto. E da quanto mi ha detto il dottor Sarkissian, pare che gli omicidi commessi dai bolscevichi, in cui sarebbe stato coinvolto Meyer, abbiano goduto di un'approvazione ufficiale.» «Cosa intende dire?» «Il dottor Sarkissian ha scoperto alcune ferite, o meglio, cicatrici, sulla mano e sul braccio di Meyer, che secondo il dottor Ismail della sezione Balistica indicano che l'uomo faceva probabilmente parte di un plotone di esecuzione.» «Oh?» «Ora,» continuò Ikmen, «non so come sia arrivato a questa conclusione, ma credo che sia una pista che valga la pena seguire. I bolscevichi tennero traccia di tutto fin dall'inizio, perciò, se riusciamo a scoprire chi ha ucciso, forse riusciremo a scoprire qualcosa della sua morte.» Suleyman sembrava dubbioso. «È ancora convinto che quel suo vecchio crimine abbia una qualche rilevanza?» «Sì. Il modo in cui è morto è talmente illogico e strano, che posso solo pensare a qualcuno che abbia voluto sistemare la faccenda una volta per tutte. Vecchio com'era, sarebbe bastato dargli una pugnalata o soffocarlo, per finirlo in un attimo. Quindi, perché l'acido e perché la svastica disegnata col suo sangue?» «Oh, ma la svastica indica sicuramente...» Ikmen alzò un indice ammonitore. «Non necessariamente, Suleyman. Certi simboli, come la svastica, sono molto più antichi di quanto pensi. Non so niente delle sue origini, ma forse quella svastica non intendeva dire "guardami, sono nazista". E se consideriamo quel simbolo in questo contesto, il come e il perché Meyer sia stato ucciso, potrebbero assumere un significato molto diverso.» «Sì, forse, ma...» «Ma dove porta tutto questo, ti starai chiedendo, in relazione a Smits e a Cornelius?» Suleyman sospirò «Bisogna ammettere che qualcosa che lega i due a
Meyer, anche se in modo differente, c'è.» Ikmen sorrise. «E anche a Maria Gulcu, ricordi? Non dimentichiamo che lo ha conosciuto durante la Rivoluzione e che, nonostante l'abbia negato, potrebbe aver assistito a qualcuno dei crimini commessi da Meyer. Se riuscissi a scoprire di che crimine si trattasse, potrei affrontarla di nuovo. Il nome al quale i nostri Gulcu hanno fatto intestare l'utenza telefonica potrebbe essere quello della vecchia da ragazza, e questo potrebbe essere un fatto di una certa rilevanza.» «Ma non significa che sia stata lei a uccidere Meyer, vero, signore?» «No, certo. Come il fatto che Smits sia un nazista e che Cornelius si trovasse nei pressi di quella casa al momento del delitto e che conosca Natalia Gulcu, non significa che gli assassini siano loro.» Suleyman guardò il suo capo con la testa inclinata da un lato, poi la raddrizzò e sospirò profondamente. «Nonostante tutti questi particolari, non mi pare che stiamo facendo molti progressi.» «Oh, sì, invece,» disse Ikmen con convinzione. «Prova a pensare a questo caso come a uno specchio rotto, e capirai cosa voglio dire.» «Uno specchio rotto?» «Sì. Quando Meyer è morto, lo specchio si è rotto e i frammenti sono schizzati da tutte le parti. Noi abbiamo raccolto i vari frammenti. Sono convinto che li abbiamo raccolti tutti, ormai, o quasi tutti. Resta da rimettere insieme i pezzi per ricomporre lo specchio, senza però sapere che dimensione o forma avesse.» «Oh.» Ikmen si alzò e, passando dietro a Suleyman per andare al fornello, o meglio, alla teiera che si trovava sul fornello, diede una pacca sulla schiena al giovane. «Considerala una sfida, Suleyman. C'è gente che sarebbe disposta ad ammazzare per avere un lavoro stimolante.» CAPITOLO XV Decidere cosa mettersi quando era allegra era più difficile che prendere una decisione quando era triste. Quando era depressa, sceglieva sempre il nero. Non il nero assoluto, ma solo qualche pezzo. Nei giorni normali, sceglieva una cosa qualsiasi; erano gli estremi che la inducevano a rischiare. Ma quella mattina era di buonumore e quindi aveva bisogno di qualcosa di rosso. Il completo gonna e camicetta nera che aveva indossato sabato sera al parco Yildiz era lì a guardarla, ma lei lo ignorò. Di solito, Natalia
non dormiva sugli allori, anche se quel breve interludio era stato eccitante. Sorrise. Almeno per un po', un giovane soldato avrebbe avuto qualcosa da raccontare. Quant'era stupido l'orgoglio maschile! Si chiese come avrebbe rigirato la storia nel raccontarla ai suoi amici. Si chiese in che misura gli avesse fatto del male, almeno psicologicamente, e sperò di avergliene fatto tanto. Certo, era stato un peccato disdire l'appuntamento con l'argentiere, ma quello che era successo al parco Yildiz l'aveva ricompensata. Per quanto piacevole potesse essere stato l'argentiere, di sicuro non sarebbe stato all'altezza di quell'anonimo soldatino. Cosa le avrebbe messo in bocca, un braccialetto? Avrebbe recuperato lui e i suoi preziosi gingilli un'altra volta, quando si fosse sentita meno sensuale e più desiderosa di beni materiali. Tirò fuori dall'armadio un miniabito di lycra rosso e se lo appoggiò sul corpo nudo. Vistoso com'era, avrebbe sicuramente attirato molti sguardi. Era quello che ci voleva. Dopo essersi messa un paio di calze di seta bianche, si infilò l'abito dalla testa. L'elettricità le fece crepitare i capelli. A ripensarci ora, aveva fatto bene a tenere Robert sulla corda per tutti quegli orribili mesi. Un ragazzo fisso, se innamorato, poteva essere un gran vantaggio. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per tenerla legata a sé. La sua stupida devozione, anche se tremendamente irritante, era molto utile. Si stava dando un gran daffare, ora, per proteggerla. Fantastico. Avrebbe funzionato. La polizia aveva già il sospetto che l'omicidio del vecchio Leonid fosse di matrice razzista. Lo avevano detto a Robert. E anche se collegavano la lettera a lui, lei sarebbe rimasta al di fuori di tutto. Certo, per Robert le cose si sarebbero messe male. Ma questo non aveva molta importanza. Natalia si sedette alla toilette e si spalmò il fondotinta sul viso. Fu soddisfatta dell'immagine che vide nello specchio, anche senza il trucco che tanto le piaceva. Non era un viso simpatico. Era voglioso, sensuale. Ma tanto non le importava niente di essere simpatica! Sua madre e lo zio Nicky erano simpatici. Suo zio disapprovava "l'uso" che lei faceva di Robert Cornelius. Era pericoloso, diceva, e sua madre lo definiva addirittura "crudele". Sua madre continuava a dirle che Robert era innamorato di lei, come se questo potesse cambiare qualcosa. Anya stava diventando nervosa. Voleva che tutto andasse bene, in modo che se ne potessero andare al più presto possibile, senza lasciarsi strascichi dietro. Natalia pensò a sua madre, che quando stava male si sedeva davanti allo specchio parlando da sola. Sua nonna aveva capito, naturalmente; non poteva far altro. In passato, aveva fatto anche lei delle cose non troppo orto-
dosse per togliersi da certe situazioni. La nonna sapeva che tutti e tutto avevano un prezzo. Niente era tanto prezioso da non poter essere comprato, in un modo o nell'altro. Natalia si passò il kohl nero intorno agli occhi. Gli occhi grandi, spalancati, dall'aria innocente, eccitavano gli uomini. La nonna diceva sempre che erano stati i suoi grandi occhi blu a salvarla. Lui ne era rimasto incantato, ma ancora più spalancati dal terrore, dovevano essere stati il massimo della seduzione. Ancora la stupida vulnerabilità degli uomini. Anche di quelli con la pistola... specialmente di quelli con la pistola. Si passò un po' di mascara nero sulle ciglia già folte e si dipinse le labbra con un rossetto rosso. La sua grande bocca carnosa. Natalia sorrise tra sé e sé. Si sentiva felice. Quel giorno, il lavoro sarebbe andato bene; alla polizia ci stava pensando il povero, dolce Robert, così tra non molto avrebbe potuto liberarsene. La vita era bella. «Allora,» Ikmen si sedette e attraverso la pila di scartoffie, guardò Suleyman con l'aria molto seria. «Cosa dirai al vecchio Smits?» «Gli dirò che esistono prove inconfutabili che lui sia stato un nazista nonché responsabile del licenziamento dei suoi dipendenti ebrei.» Ikmen frugò nella pila di carte sulla sua scrivania, prese la busta in cima al mucchio, la guardò e la buttò nel cestino della carta straccia. «Stai attento, però,» disse. «Se ci vai troppo pesante, rischi di fargli venire un infarto.» «Agirò con i miei consueti modi educati e civili,» ribatté Suleyman in tono serio. «Bene.» Dopo averne letto il contenuto, Ikmen buttò nel cestino la seconda busta. La terza lettera, però, era diversa. «Non si può certo dire che le poste turche non siano una macchina efficiente e bene organizzata,» disse. Suleyman lo guardò. «Prego?» «Credo di avere appena ricevuto una letterina da Robert Cornelius.» «Oh.» Senza usare la discrezione dovuta nei riguardi della corrispondenza altrui, Suleyman si alzò e con un balzo fu dietro la scrivania di Ikmen. «La apra!» Ikmen gli lanciò un'occhiata. «Per favore, eh?» Ikmen infilò un dito sotto il lembo incollato e, dopo averlo strappato, tirò fuori un foglio che i due lessero contemporaneamente. Al termine della
lettura si scambiarono uno sguardo perplesso. «Ho la sensazione, Suleyman,» disse dopo aver assimilato il contenuto della lettera, «che il nostro Cornelius abbia perso la testa.» «Già.» In quel momento la porta si spalancò, introducendo nella stanza un commissario Ardiç in preda all'agitazione. Come al solito, si lanciò nell'argomento senza alcun preliminare. «Ikmen, come procede il caso Meyer?» Colti di sorpresa dall'improvvisa apparizione del loro superiore, dopo essersi scambiati un'occhiata, Ikmen e Suleyman rivolsero lo sguardo sulla lettera che Ikmen teneva in mano. «Ah...» Ardiç seguì il loro sguardo e agitò il suo grosso sigaro Havana in direzione della lettera. «Cos'è quella roba?» «Ah...» Infuriato per la mancanza di risposta da parte di tutti e due, Ardiç si avventò su di loro e strappò la lettera dalle dita di Ikmen. «Cos'è?» «È una lettera di qualcuno che a quanto pare non è del tutto in sé,» rispose Ikmen. Ardiç lo ignorò e lesse lentamente la lettera, articolando silenziosamente le parole con le labbra. Alla fine, Ikmen sussurrò a Suleyman: «Ho una brutta sensazione.» Quando ebbe finito di leggere, Ardiç sollevò la testa con un'espressione insolitamente sorridente sul viso. «Qui ci sono delle informazioni molto interessanti sul nostro Smits! Lui e Leonid Meyer che litigano per una donna e Smits che licenzia Meyer e...» «Con tutto rispetto, signore...» cominciò Ikmen. «Sì?» Ardiç agitò la lettera verso di lui come fosse un'arma. «Cosa c'è, Ikmen? Qual è il problema?» «Scusi, signore, sappiamo chi ha scritto quella lettera e non è qualcuno che abbia avuto a che fare con Smits.» «No?» Lanciò un altro sguardo alla lettera e si strinse nelle spalle. «Chi è stato, allora?» «L'autore di questa lettera è un inglese, tale... l'inglese che si trovava sulla scena del delitto quel...» «Interessante, vada avanti, Ikmen!» «Per quanto ne sappiamo, signore, quest'uomo non ha alcun legame con Smits, anche se è chiaro che deve aver saputo qualcosa da qualcuno. Intendo dire, ora sappiamo che è vero che Smits licenziò i suoi dipendenti
ebrei...» «Sì.» Ardiç si fece di nuovo scuro in viso. «Le avevo già detto tempo fa di occuparsi di questa faccenda!» Ikmen abbassò lo sguardo sul pavimento. «Sì. Però dobbiamo procedere con molta cautela. Che Meyer e Smits avessero litigato per una donna è possibile, ma...» «Sì?» «Senta, signore,» continuò Ikmen, «da qualche tempo stiamo indagando su altri possibili legami tra Smits e Meyer, diversi da quelli che intercorrono tra un datore di lavoro e un dipendente e il fatto che ora sia saltata fuori questa faccenda che...» Ardiç sbottò alla tipica maniera sua. «Se fossi in lei, Ikmen, ringrazierei il cielo che la cosa sia comunque saltata fuori, invece di arrovellarsi il cervello chiedendosi chi sia stato e perché.» «Sì, ma...» Ardiç perse improvvisamente la pazienza. «Non me ne frega un accidente di tutto questo! Voglio Smits qui, oggi, ha capito?» «Sì, signore. Suleyman stava giusto andando a...» «Qui, Ikmen, oggi! Mi sono spiegato?» «Sì, signore, perfettamente.» Ardiç gli buttò il foglio sulla scrivania. «E anche l'inglese!» «Sì, signore.» «Non ci provi più,» disse agitando di nuovo il sigaro, stavolta davanti al viso di Ikmen, «a nascondermi qualcosa! Fuori di qui, può divertirsi a fare tutte le illazioni che vuole, ma quando è qui dentro, lei fa quello che dico io, chiaro?» «Sì, signore.» «Bene.» Poi girò i tacchi con una grande agilità per la sua stazza, e uscì nel corridoio a passi pesanti. Quando il pavimento smise di tremare, Ikmen si voltò a guardare Suleyman. «Credo che Cornelius abbia scritto questa lettera al solo scopo di proteggere se stesso.» Per un attimo Suleyman rimase perplesso; Ikmen si stava comportando come se Ardiç non fosse mai entrato in quella stanza. «Eh?» «Anche se mi chiedo chi gli abbia dato quelle informazioni, ammesso che siano vere...» «Forse la ragazza, Natalia Gulcu. La sua famiglia conosce Smits.» «Vero. E Maria Gulcu è stata molto furba a indirizzarci sulla pista di
Smits. Però farlo attraverso Cornelius, in un modo così strano, disgustoso... Non riesco a capire perché uno che sta dalla parte di Smits, ce lo "consegni" in questo modo. Posso solo pensare che quando ha scritto questa lettera, Cornelius non fosse molto in sé, forse a causa dei farmaci o di qualcos'altro.» Fece un lieve sospiro di delusione. «Oh, non lo so. Credo sia meglio che tu vada a prendere Smits e lo porti qui.» «Sì,» fece Suleyman tornando alla sua scrivania. «E Cornelius?» Ikmen si accese una sigaretta, poi si massaggiò lentamente il mento. «Per ora voglio solo tenerlo d'occhio. Ardiç può andare a farsi fottere se pensa che io lo faccia venire qui adesso. Lasciamolo tranquillo per un po' a chiedersi quale sia stato l'esito della sua lettera. Vedrai che nello stato d'animo in cui è, sarà lui stesso a dirci quello che vogliamo sapere.» «Lei crede?» «A quest'ora si starà mordendo le dita. Io, al suo posto, lo farei. Ora,» aggiunse frugandosi la tasca per trovare le chiavi della macchina, «vai da Smits a portargli l'invito e tienilo impegnato per qualche ora. Io intanto vado alla biblioteca universitaria.» «Oh, ci va lo stesso? Pensavo...» Ikmen si mostrò seccato per il fatto che Suleyman non avesse capito niente. «Io faccio sempre il cinquanta per cento di quello che dice Ardiç, Suleyman. Lo sai! Posso dare disposizioni perché qualcuno sorvegli Cornelius da questa scrivania e poi uscirmene da qui... che è quello che ti conviene fare, se non vuoi ritrovarti nei guai anche tu.» I festeggiamenti erano appena cominciati quando Robert entrò nella sala insegnanti. Quell'improvvisa confusione gli diede fastidio. Bottiglie di vino e bicchieri al posto delle tazze di caffè, striscioni rossi e oro che pendevano dal soffitto, risate, allegria sfrenata. Che diavolo stava succedendo? Di qualsiasi cosa si fosse trattato, nessuno si era preso la briga di avvisarlo. Rosemary gli andò incontro con un bicchiere e una bottiglia di pessimo vino in mano. Indossava un abito a fiori pastello dalla gonna lunga. Era carino, ma nonostante la depressione gli offuscasse la mente, Robert pensò che sarebbe stato più adatto a una donna di vent'anni più giovane di lei. «Vuoi bagnare anche tu il bambino, Bob?» «Cosa?» Sembrava meravigliata. «Dieter e Hande. Hanno avuto un maschietto, Bürgüz.» «Eh?»
«È nato all'ospedale tedesco, alle otto di ieri sera.» Lo guardò profondamente negli occhi con la testa reclinata da un lato. «Non vuoi essere dei nostri, Bob?» «Accennò con la mano verso il corridoio.» Avevo una lezione di conversazione e... «Lo vuoi un bicchiere di vino o no?» La sua indecisione la irritò. Il mondo, con i suoi bambini, le sue feste e i suoi dolori andavano avanti, ma lui no. Pareva impigliato in una rete da pesca, col risultato di non essere né libero né imprigionato. Persa del tutto la pazienza davanti a quel viso privo di espressione, Rosemary si allontanò per dedicarsi al nuovo arrivato. Yusuf, alto, scuro, venticinquenne e turco. Robert notò che quando furono vicini, Rosemary cominciò a fare la civetta. Yusuf era esattamente il suo tipo. Robert si rintanò in fondo alla stanza, vicino al televisore, e si accese una sigaretta. Il fumo gli rese la bocca ancora più amara. Sapeva di avere il fiato puzzolente. Aveva bisogno di mangiare qualcosa, una cosa qualunque. Se solo il suo stomaco non gli desse tanto filo da torcere! Natalia era stata contenta quando le aveva detto quello che aveva fatto. Una volta passata l'ansia, quel morso allo stomaco, quella sensazione di nausea, si sarebbero allentati. Ma sapeva che non sarebbe andata così. Oltre a Natalia, c'erano altre questioni. Cercò di ricordare se avesse toccato il foglio con le dita in qualche punto, ma non ci riuscì. Si frugò in tasca per cercare il fazzoletto. Lo aveva lasciato a casa. Non c'era da meravigliarsi. Dopo la notte insonne di sabato, la domenica aveva dormito; un sonno agitato, in cui erano sfilate nella sua mente le immagini di orribili carceri con minuscole celle dai pavimenti luridi. Si era visto con i piedi legati, a torso nudo, appeso a testa in giù, mentre un giovane in divisa da poliziotto lo frustava. "Dare una mano alla polizia nelle sue indagini". Ma lui non stava dando una mano alla polizia! Robert abbassò lo sguardo sui suoi piedi sforzandosi di non vergognarsi. Chiunque, nella sua situazione, avrebbe fatto la stessa cosa! Lo aveva fatto per amore, solo per quello! Guardò i visi sorridenti intorno a lui. Gente normale, ragionevolmente felice. Gente che lavorava e cercava di godersi le cose buone della vita senza preoccuparsi troppo del futuro. Gente che si ubriacava in compagnia, non da sola. Dieter aveva proprio l'aria rimbambita. Ne aveva diritto, sua moglie a-
veva appena avuto un bambino. Robert ricordava Hande, la moglie turca di Dieter. Era carina, gentile; lei e Dieter vivevano senza complicarsi troppo la vita. Forse era lui, Robert, a essere sbagliato. Poteva essere il fatto che fosse inglese la causa delle loro difficoltà? Tra loro due, era forse Natalia la più ragionevole? Rosemary gli si avvicinò con il suo sdolcinato Yusuf, quello che passava per impiegato amministrativo. Un gigolo a tempo pieno, altro che impiegato! «Magari riesci a scioglierlo un po', facendogli bere un bicchiere di vino,» disse accennando con la testa in direzione di Robert. «Ne ha bisogno, non trovi?» Yusuf sorrise, scoprendo un numero di denti degno di un reggimento. Robert si fece piccolo piccolo. «Bob! Perché non ti unisci anche tu ai festeggiamenti?» Robert si strinse nelle spalle, accennando un sorriso. «Ho un po' di mal di stomaco, in questo momento.» «Oh.» Il sorriso sul viso di Yusuf svanì. Robert pensò che fosse un peccato. Sperava che al giovane cadesse la testa, a furia di sorridere. «Ma il vino turco fa bene allo stomaco, Robert!» Rosemary infilò una mano sotto al braccio peloso dell'uomo. «Trovo che tutte le cose turche facciano bene.» Si scambiarono un'occhiata complice. Robert non riusciva più a contenere il suo disgusto. Per l'amor di Dio, Rosemary era abbastanza vecchia da poter essere sua madre! E il giovane non era altro che un puttaniere! «Oh, per favore,» disse. «Per favore!» Rosemary si fece improvvisamente seria. «Che ti succede? Cosa ti prende?» Era come lavorare a una sceneggiatura. Non voleva fare una scenata, ma sapeva di doverla fare. Le parole gli frullavano per la mente già da un po'. «Cristo, Rosemary, potresti essere sua madre! Dio, che diavolo stai facendo?» «Cosa?» La sua voce era bassa e calma; si stava sforzando di non gridare. Ma il suo tono era pericoloso e lo sguardo furioso. «Rosemary, sei al limite della prostituzione! Gli dai da mangiare, lo porti fuori, gli lavi i calzini puzzolenti per qualche mese e in cambio lui ti scopa! E magari a casa l'aspetta qualche stangona danese di diciott'anni! Mi dispiace, ma...» «Cosa sta dicendo, Rosemary?»
«Sto dicendo...» «Credo che tu abbia già detto fin troppo!» Ora la donna aveva alzato la voce. Non le importava che la sentissero gli altri. Il suo viso si era fatto paonazzo. «Come osi? Solo perché la tua vita sta andando a catafascio! E magari solo per colpa tua! Come osi criticare la mia vita?» Non capiva, e non voleva capire. «Soffrirai di nuovo, Rosemary, lo sai!» Si rese conto che stava gridando anche lui, ora. La gente cominciò a girarsi. Quelli che si stavano versando da bere rimasero con la bottiglia a mezz'aria. Erano degli insegnanti di lingue annoiati, un po' di movimento era quello che ci voleva. «Non ti credo!» Rosemary scosse la testa facendo finire i suoi riccioli biondi sulla spalla di Yusuf. «Non so cosa ti stia succedendo, ma ultimamente sei... sei...» «Rosemary, io...» si toccò il viso con le mani che gli tremavano. Cominciava a sentirsi male. Aveva detto una cosa terribilmente crudele. «Guardati! Stai cadendo a pezzi!» gridò lei con la faccia disgustata. «Sei sempre stato strano, ma... Non parli, hai l'aria di uno che non dorme da giorni, l'altra mattina non ti sei nemmeno rasato. Ho cercato di aiutarti, ma onestamente, credo che tu sia fuori di testa.» Guardò il viso maturo di Rosemary e si chiese: perché? Perché le aveva detto una cosa simile? Non avrebbe dovuto! Come tutta quella faccenda della lettera, era solo una questione di scelta. Robert pensò che, probabilmente, in tutti e due i casi aveva fatto la scelta sbagliata. Nel fare del bene a qualcuno, a volte... «Io faccio quello che voglio quando voglio!» Scosse la testa in preda alla furia. «Non osare dirmi come devo vivere, Robert! E non osare rimettere piede in casa mia per raccontarmi le tue stupide fantasie matrimoniali! È patetico! Tu sei patetico!» Si voltò e tornò verso il centro della stanza, tirandosi dietro uno Yusuf quanto mai confuso. Dopo qualche attimo di imbarazzo, la festa si ravvivò e Robert si ritrovò da solo. Okay, l'aveva fatto, e ora cosa sarebbe accaduto? Il brusio intorno a lui aumentò e non c'era verso che potesse starsene in pace. Stava male. Si era reso ridicolo. Avrebbero pensato tutti che era geloso di Rosemary, ma era poi tanto male, quello che aveva fatto? Aveva detto quelle parole con uno scopo preciso? Certo! La sua vita stava cambiando e non poteva tornare indietro. Sorrise, ma non di gioia. Certo! Doveva offendere Rosemary.
Era importante tenerla lontana. Doveva fare così con le persone a cui voleva bene. Nella sua mente, apparve l'immagine di Natalia. Aggrottò la fronte. Reinhold Smits si guardò intorno disgustato. In effetti, c'era poco da ammirare nella piccola stanza surriscaldata in cui si trovava. Dipinta in una tonalità spenta di verde e marrone tipica di tanti uffici pubblici, la stanza degli interrogatori numero cinque non poteva essere certo definita un luogo ameno e tranquillo. Smits notò anche dei piccoli particolari cui di solito gli abituali frequentatori di quel luogo non facevano caso: come il fatto che la vecchia lattina che fungeva da portacenere non era stata svuotata dopo che l'ultimo "sospetto" era uscito; come il fatto che il giovane agente di guardia sulla porta era affetto da un orribile accesso di acne. Dopo aver brevemente armeggiato con il piccolo quanto inutile ventilatore sul tavolo, il giovane sergente Suleyman si sedette di fronte a lui sorridendo. Poi, dopo aver premuto il pulsante del vecchio registratore che aveva accanto, pronunciò alcune parole incomprensibili nel microfono e finalmente si rivolse a lui. «Per favore, dica nel registratore il suo nome, cognome, età e occupazione.» Smits annuì e procedette. «Mi chiamo Reinhold Smits, ho novant'anni e sono titolare di diverse importanti industrie tessili, cotonifici e miniere di carbone nero e bianco.» Suleyman annuì. «Grazie, signore. Ora, prima di farle altre domande, devo informarla che siamo in possesso di elementi che confermano le sue passate idee naziste e gli atti che lei ha compiuto in conseguenza di quelle idee, tra cui il licenziamento di numerosi dipendenti ebrei nei primi anni '40. Capisce quello che le sto dicendo?» Doveva immaginarselo. Inconsciamente, aveva sempre saputo che questa storia, prima o poi, sarebbe saltata fuori. Per questo non si mostrò sorpreso. «Sì,» rispose, «capisco.» «Bene.» Suleyman fece una breve pausa, probabilmente, pensò Smits, per raccogliere le idee; era rimasto colpito dalla mancanza di shock e orrore nelle parole del vecchio. «Sulla base di quanto le ho appena detto, signor Smits, perché nel corso del primo interrogatorio ha negato questi fatti?» «Perché mi avete chiesto di ricordare un periodo del mio passato che preferirei dimenticare. Perché avreste potuto stabilire un nesso sbagliato tra me e gli eventi che si sono verificati.»
«Tuttavia, credo di non sbagliare dicendo che lei conosceva un certo Leonid Meyer e che lo licenziò?» Smits inspirò profondamente e nel breve intervallo tra l'inspirazione e l'espirazione, prese una decisione, sperando fosse quella giusta. «Esatto, sergente.» Negli occhi leggermente spalancati del giovane si lesse una leggera nota di trionfo. Improvvisamente, Smits si sentì male. «Posso avere un bicchiere d'acqua?» disse, portandosi una mano alla gola scarna. Il sergente fece un breve cenno alla guardia che andò al distributore nel corridoio e tornò con una tazza crepata piena di un liquido denso e grigio. Smits ringraziò con un cenno della testa. Il sergente dettò nel registratore quanto si era svolto fino a quel momento e procedette solo quando vide che Smits era pronto a ricominciare. «Allora,» continuò, «di che natura era il suo rapporto con Leonid Meyer?» «Era un mio dipendente,» rispose Smits. «Tutto qui?» «Sì.» «Non aveva altri rapporti con il signor Meyer, al di fuori del lavoro?» «No.» Sarebbe finita lì e in seguito Smits si sarebbe rimproverato per non aver lasciato cadere l'argomento. Ma l'ansia lo indusse a chiedere: «Perché?» «Perché qualcuno ci ha suggerito che lei e Meyer litigaste a causa di una donna.» Allora era questo? Era questo il gioco che la vecchia strega aveva deciso di giocare con lui? Smits si fece livido dalla rabbia, una reazione che non sfuggì al poliziotto che lo stava interrogando. «Ho l'impressione, signore,» disse Suleyman, «che questa informazione non le sia nuova.» «No, ha ragione.» «Allora?» lo incitò. Se la vecchia aveva deciso di giocare sporco, lo avrebbe fatto anche lui! Prima di rispondere, Smits si schiarì la voce, per assicurarsi di pronunciare in modo chiaro le parole. «I miei rapporti con questa donna, sergente, non sono mai andati al di là della semplice conoscenza. Le suggerisco di rivolgersi alla signora, se vuole saperne di più sulle faccende tra lei e il signor Meyer.»
«Chi è questa donna?» Smits sospirò. «Maria Gulcu,» rispose, «o meglio, Maria Demidova, come si chiamava allora.» Gli parve di vedere un guizzo negli occhi del giovane sergente. «Conobbi Leonid nel 1919, quando venne a lavorare per mio padre, e tramite lui conobbi Maria.» «Capisco.» Suleyman fece di nuovo una pausa, raccogliendo i pensieri per la domanda successiva. «E lei, signor Smits, invidiava Leonid Meyer per le attenzioni che gli rivolgeva Maria?» «Sì, anche se non nel senso che pensa lei.» «Oh, e in che senso, allora?» «La trovavo interessante, non sessualmente attraente e...» «Non licenziò Meyer a causa sua?» Smits abbassò la testa. «No,» mormorò. «Allora perché licenziò Leonid Meyer, signor Smits?» Smits continuò a tenere lo sguardo sul pavimento. Era meglio darsi un'aria contrita, adesso. «Negli anni '30 ci furono dei grandi cambiamenti, in Germania. Con Adolf Hitler la gente riacquistò fiducia, compresi noi che risiedevamo all'estero. Non c'era più spazio per quelli di razza inferiore, nell'ambito della nostra sfera di influenza.» «Così licenziò un uomo che era suo amico solo perché ebreo?» «Sì. Ma lei deve capire che erano tempi molto diversi. Avevamo...» «E lei la pensa ancora così?» Alzando lo sguardo, Smits si trovò addosso due occhi senza alcuna traccia di compassione né pietà. «No.» Anche se l'attacco lo aveva ferito profondamente, tentò di recuperare un po' della sua dignità. «No, ho cambiato idea molti anni fa, sergente. E se avessi potuto rimediare con Leonid, l'avrei fatto, ma...» «Lei non rimase in contatto con Meyer dopo il suo licenziamento?» Dire la verità non era forse una cosa troppo saggia, ma nemmeno mentire, dato che il suo nome appariva sull'agendina di Leonid. «Ogni tanto lo andavo a trovare,» disse. «Mi dispiaceva per come si era ridotto negli ultimi anni.» «Crede che fosse diventato un alcolizzato per colpa sua?» «In parte.» Il giovane aggrottò la fronte. «Solo in parte?» Quello che Smits disse dopo, fu frutto di una decisione consapevole; una decisione presa per la rabbia che provava nel trovarsi in quella situazione:
la situazione in cui lo aveva messo Maria. «Leonid Meyer aveva un passato, sergente. Non so quale, ma so che prima di arrivare in Turchia, era già un uomo distrutto.» «E sa il perché?» «No, non lo so.» «Sa come si siano conosciuti, Leonid Meyer e Maria Gulcu?» Era una domanda che, stupidamente, lui non aveva previsto. Smits sentì il cuore palpitargli, o almeno così gli sembrò, e per un attimo si portò una mano al petto. «No, non lo so,» disse, «non ne ho idea.» Il sergente lo guardò con gli occhi socchiusi. «Ne è sicuro?» «Sì.» La voce di Smits si era fatta un sussurro incerto e triste, ora, come quello di un vecchio, quale sapeva di essere, che desiderava tanto non esserlo. Poi, improvviso, arrivò un pesante attacco. «È stato lei a uccidere Leonid Meyer, signor Smits?» «No! Che motivo avrei avuto...» «Non lo so che motivo avrebbe avuto, signor Smits, lo chiedo a lei.» «Ma...» «Ho l'impressione che lei menta dicendo di non avere più le idee di una volta, così come mente sulle altre cose che ci ha detto.» Solo ora Smits sembrò avere davvero paura. Solo ora la libertà di cui godeva ancora quel poco che restava della sua vita, sembrò davvero in pericolo. Fu una sensazione che indusse Smits a seguire con maggior fermezza la via della cattiveria. «Se vuole sapere la verità, sergente, dovrebbe parlare con chi la conosce.» «Cosa intende dire?» «Intendo dire che dovrebbe parlare con la signora Maria Gulcu al più presto, interrogandola senza pietà come ha fatto con me!» «E perché dovrei, signor Smits?» «Perché lei aveva qualcosa con lui...» «Cosa? Cosa aveva?...» «Io...» «Dove si trovava il giorno in cui Leonid Meyer è morto, signor Smits?» «Ero... Ero a casa mia...» Ora il sergente si era proteso in avanti per guardarlo dritto negli occhi. «Nei pressi della casa è stata vista una grossa automobile nera come la sua. Era la sua, signor Smits?» «No!»
«Sta mentendo. Ora, cosa dovrebbe aver avuto la signora Gulcu con Leonid Meyer? Dov'era lei, il giorno dell'omicidio di Meyer?» «Io...» «Avanti, signor Smits, non posso restare qui tutto il giorno! Di cosa sta parlando? Si spieghi meglio!» Gli parve di vedere una scena al rallentatore, quando il giovane alzò un pugno facendolo ricadere pesantemente sul tavolo. Fu un colpo violento e mentre gli rintronava nella testa, Smits sentì che la situazione gli stava inesorabilmente sfuggendo di mano, come l'acqua che scorre giù da una grondaia. Poi, improvvisamente, ci fu il niente... solo il buio. Come una specie di morte. Il vecchio fece scorrere lentamente il dito sull'elenco leggendo i nomi: "Simonoff, Bagratid, Popov, Irimishvili". Con un gesto stanco, Ikmen si portò una mano sul viso. «Chi li ha uccisi...?» «È importante che non ci sia il nome del tuo uomo?» «Non molto.» Poi, notando il viso stanco di suo padre mentre si girava per prendere un altro tomo, ammorbidì il tono. «Mi dispiace, Timür, devi essere stanco anche tu.» Il vecchio aggrottò le ciglia. «Sì, be'...» Prese un altro libro dalla scrivania e lo porse al figlio. «Questo è in inglese, dacci un'occhiata tu, mentre io vado avanti con gli altri.» «Va bene,» disse Ikmen sospirando. Il libro, intitolato La fine della dinastia degli zar, era, secondo lui, troppo piccolo per la vastità dell'argomento trattato. Per prima cosa guardò l'indice e constatato, come prevedeva, che non c'era traccia del nome di Meyer, lo sfogliò rapidamente finché non arrivò a un capitolo dal titolo che gli parve alquanto crudele: Esecuzioni. Come gli altri che aveva guardato prima suo padre, questo libro conteneva l'elenco degli omicidi di vari personaggi importanti, oltre ai nomi dei responsabili della loro morte. Il caso documentato più in dettaglio era quello, naturalmente, dell'ultimo zar Nicola II dei Romanov e della sua famiglia; nel consultare quei libri, i due uomini si erano imbattuti più volte nei nomi dei loro assassini. Se in quell'episodio fosse stato coinvolto anche Meyer, si sarebbero ritrovati tra le mani qualcosa di molto interessante. Ma quell'evento, come i nomi di tutti quelli che vi furono coinvolti, era stato documentato con tale dovizia di particolari, che la partecipazione di Meyer
era assolutamente da escludere. Inoltre, come aveva detto Timür tempo addietro, molti degli omicidi di allora riguardavano ufficiali dello zar ed erano stati commessi da milizie. Un povero ebreo non istruito e politicamente ingenuo come Meyer, con ogni probabilità aveva fatto parte di una di quelle. Ikmen girò pagina in cerca di qualche nome che gli dicesse qualcosa. Di colpo ne sbucò uno, come emerso da qualche meandro della sua mente che, proprio per questo, rese la scoperta ancora più sconcertante. Perché, improvvisamente, si trovò davanti un collegamento reale; un collegamento tra il presente e il passato talmente drammatico da fargli quasi mancare il fiato, impedendogli di riflettere sul suo significato. Anche in questo libro compariva il nome di Demidova, la cameriera personale della zarina Alessandra, la donna morta sotto una crudele raffica di colpi insieme alla sua padrona imperiale. Era lo stesso nome? Non era possibile! Ma continuando a leggere i dettagli dell'uccisione degli ultimi imperatori russi da parte di un plotone d'esecuzione, Ikmen non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine di Leonid Meyer il bolscevico. Poteva essere...? Il libro indicava però i nomi delle persone coinvolte in queste azioni, e, come negli altri, il nome di Meyer non figurava. E comunque l'ipotesi non poteva reggere solo sul fatto che quella cameriera e Maria Gulcu avessero lo stesso cognome... Avrebbe chiesto di nuovo al padre. Ormai si era incuriosito, e, di conseguenza... «Mi scusi, è lei il figlio del dottor Ikmen?» chiese un uomo piccolo dagli occhiali spessi come fondi di bottiglia, comparso improvvisamente accanto a lui. «Sì, sono io.» «C'è una telefonata per lei,» continuò a bassa voce, «in ufficio.» Seccato per essere stato interrotto nei suoi ragionamenti, Ikmen ribatté poco gentilmente: «Chi è? Cosa vogliono?» «È un certo Suleyman. Ha detto che è urgente.» «Accidenti!» Si voltò e diede un colpetto sulla spalla di suo padre. «Timür, tienimi questi libri, per favore. Torno subito, questione di un istante.» «Va bene.» Ikmen si alzò e seguì quell'uomo piccolo e buffo attraverso la sala della biblioteca. CAPITOLO XVI
Nonostante il sole fosse appena sorto, quando arrivarono in Karadeniz Sokak, erano tutti e due più che mai svegli e Ikmen, in particolare, aveva un'aria cupa. Quando entrarono nella sua stanza, Maria Gulcu li salutò con un cenno della mano e, sorridendo, aggiunse: «Eccola di nuovo, ispettore. Con il suo bel sergente.» «Forse perché desideravo rivedere le sue splendide icone, signora Gulcu,» replicò Ikmen. La donna si sollevò faticosamente a sedere appoggiando la schiena alla testata del letto. «Mi scusi, se mi faccio trovare sempre a letto, ma l'età è così... limitante. Serge?» Fece un cenno a un omino tutto storto seduto sulla sedia accanto al suo letto. Ikmen pensò che dovesse avere una sessantina d'anni, anche se non era facile indovinare. Il suo corpo era orribilmente deformato e se ne stava talmente rannicchiato su sé stesso, che era quasi impossibile vederlo in faccia. Prese la mano della vecchia nelle sue e la baciò. «Sì, mamma?» «Serge, questi due uomini sono della polizia. Parleremo inglese, finché saranno qui, e tu sarai gentile.» Gli rivolse uno sguardo severo, poi si girò verso Ikmen. «Signori, vi presento Sergei, il più giovane dei miei figli.» «Signor Gulcu,» disse Ikmen facendo un cenno con la testa. Lui mormorò qualcosa in risposta che Ikmen non sentì. La donna si accese una sigaretta. «Prego, accomodatevi, signori.» Ikmen sorrise e si sedette sul bordo del suo letto. Come al solito, Suleyman rimase in piedi. Preferiva tenere d'occhio la porta. Si sentiva più sicuro. «Allora, ispettore, cosa posso fare per lei, stavolta? Lei e io siamo vecchi amici, ormai.» La porta si aprì e nella stanza entrò sua nipote Natalia che andò a sedersi su una delle sedie vicino alla tenda. Niente domestici, oggi. Agitò per qualche istante le sue lunghe gambe, finché non ebbe trovato la posizione più comoda. Poi le accavallò con un movimento che poteva essere definito solo pornografico. Una volta accomodata, restò in silenzio. Ikmen intrecciò le dita sotto il mento e si girò verso la vecchia. «Solo un paio di domande, signora Gulcu, niente di doloroso.» Lei sorrise e si leccò le labbra secche. «Bene. Quello che è indolore, va bene. Non mi piace il dolore, ispettore, sono troppo vecchia.» «Non piace particolarmente neanche a me, signora.»
Si mise a ridere. «Lei mi garba,» disse. «Lei è piccolo, veste male ed è brutto, ma mi garba.» «Un complimento raro per un poliziotto. Grazie, signora.» Sergei, il piccolo storpio, si agitò sulla sedia come se fosse in preda ai dolori. I piedi gli pendevano dalla sedia rivolti all'interno e all'indietro, a mo' di elica. Ikmen notò che Suleyman non riusciva a togliere gli occhi dalle gambe dell'uomo. Si schiarì la voce. «Signora Gulcu, devo farle qualche domanda sulle sue origini.» Lei socchiuse gli occhi. «Perché?» «Dopo che avrà risposto alle mie domande, le spiegherò il motivo.» La donna tirò su col naso. «Se proprio devo.» «Bene. Allora,» Ikmen si portò le mani alle guance e sporse le labbra. «So, signora Gulcu, che lei usa anche il nome Demidova, è esatto?» «Sì, è il mio nome da ragazza.» Pur senza mostrare disagio, l'omino accanto al suo letto si girò dall'altra parte. «Come lo ha scoperto, ispettore?» «Ne riparliamo dopo, signora Gulcu. Ora vorrei sapere da dove deriva il nome Demidova.» «Mio padre...» «No, lasci che mi spieghi meglio, signora. Sto cercando una Demidova in particolare, legata a un fatto che ho scoperto ieri su un libro molto interessante sulla storia del vostro Paese. Da quello che ho letto, doveva essere una cameriera al servizio della zarina Alessandra.» «Oh.» Per un attimo, nella stanza regnò un silenzio assoluto. Un silenzio durante il quale Ikmen sentì gli occhi di tutti puntati addosso. Prima di rispondere, la vecchia si schiarì la voce. «No, ispettore, si tratta di un'altra famiglia, glielo assicuro.» «Può dimostrarlo?» La donna socchiuse gli occhi e Ikmen capì che stava per rispondere, quando il piccolo storpio si mise improvvisamente a ridere. «Ispettore, non può pretendere che mia madre...» «Serge!» Aveva alzato la voce usando un tono fermo, come se si stesse rivolgendo a un bambino capriccioso. Puntò gli occhi in faccia a Ikmen, ma questi evitò il suo sguardo accendendosi una sigaretta. «Posso aver omesso qualcosa a questo proposito, ispettore, ma che importanza ha tutto questo ai fini delle vostre indagini?» «È importante, invece, almeno credo, signora,» rispose. «È in grado di
dimostrare se fosse o meno imparentata con quella donna?» «No, non lo sono,» rispose. Poi aggiunse in tono di sfida: «Ma può credermi sulla parola, se le dico che la famiglia di quella donna e la mia non erano la stessa.» Ikmen aspirò una profonda boccata dalla sua sigaretta. «Perché dovrei?» La donna si agitò leggermente nel letto, poi allungò il collo più che poté. «Perché io le do la mia parola e perché la donna di cui sta parlando, Anna Demidova, non aveva parenti, quando morì.» «A quanto pare conosce bene l'argomento, signora.» «Come quasi tutti i vecchi russi, ispettore. Ma se non crede a ciò che le ho detto di Anna Demidova, se la sbrighi da solo. Mi pare che non le manchino le fonti d'informazione.» «Oh, certo che no,» replicò Ikmen sorridendo, «e, mi creda, lo scoprirò, signora Gulcu. Sarà la prima cosa che farò uscito di qui. Grazie.» «E spero che quando scoprirà che è vero che quella Anna Demidova e io non eravamo parenti,» disse la vecchia in tono aspro, «mi spiegherà il motivo delle sue domande, ispettore.» «Glielo spiego subito, signora.» Spense la sigaretta a metà nel portacenere della donna e se ne accese subito un'altra. «Non ne sono del tutto certo, ma pare ci sia un nesso tra quello che fece Leonid Meyer in Russia e quello che è accaduto qui di recente.» «Oh?» «Sì. Per sua stessa ammissione, signora, lui era un bolscevico, e quelli che furono perseguitati da quella gente immagino ricaverebbero una certa soddisfazione dalla morte di uno di loro.» La donna si mise a ridere. «A tanto tempo di distanza, ispettore, sicuramente...» «Senza offesa, signora Gulcu, se parlassi della mia gente, direi di no. Ma è noto che i russi hanno la memoria di un elefante e...» «E lei pensava che essendo parente di Anna Demidova, me la sarei legata al dito.» Fece una pausa, facendogli chiaramente capire che considerava ridicola quella sua insinuazione. «Ma Leonid era un amico, ispettore Ikmen, un amico che per di più mi aiutò a uscire dagli orrori di quel tempo.» «Uscendo a sua volta dalla sua situazione di criminale.» La vecchia si agitò impazientemente nel letto, come se si sentisse prigioniera. «Non so niente di questo, ispettore! Gliel'ho già detto. E dato che Leonid è morto, credo che le sue speranze di scoprire la verità siano al-
quanto remote.» «Può darsi, può darsi. Ma stando ai medici legali, è probabile che Meyer facesse parte di un plotone d'esecuzione. Magari come quello che uccise il vostro ultimo zar, signora?» «Oh, davvero.» Aveva gli occhi spenti, ora, e Ikmen pensò che fosse un atteggiamento studiato. «Sì, e se non troverò prove a sostegno della tesi secondo cui Anna Demidova era davvero sola al mondo, tornerò per riprendere il discorso.» Lei si strinse nelle spalle. «Come vuole. Se ha voglia di sprecare il suo tempo a inseguire teorie storiche per la gloria della sua carriera, liberissimo di farlo.» «Bene.» Prima di continuare lanciò un'occhiata a Suleyman e si accorse che aveva il viso molto teso. Ikmen immaginava come dovesse sentirsi; la situazione era tutt'altro che facile e gradevole. Riprese a parlare cambiando argomento. «Allora, signora Gulcu, cosa mi dice del fatto che lei e la sua famiglia risiedete illegalmente in questo Paese?» «Illegalmente?» «Sì. Abbiamo scoperto il nome Demidova in relazione al suo numero di telefono, indagando sui vari membri della famiglia Gulcu. A eccezione di suo marito, non abbiamo trovato niente. Può darmi qualche spiegazione, per favore?» La donna lasciò passare qualche istante prima di rispondere e, quando parlò, disse delle cose talmente logiche da indurre a credere, se Ikmen non avesse saputo il fatto suo, che quanto stava dicendo non facesse una grinza. «Quando arrivai in questo Paese,» disse, «nessuno si preoccupava di avere dei "documenti". Dopo la guerra era così. Il caro vecchio Mehmet Gulcu si prese cura di me e io, in cambio, gli diedi i figli che tanto desiderava. Ma non formalizzammo mai la nostra unione; a quel tempo non ci si sposava tra cristiani e musulmani, era troppo complicato. E quando Mehmet morì non ci furono problemi, lui non aveva famiglia e così i suoi soldi e le sue proprietà passarono a me. Allora era così e mi stava bene e...» «Ma, i suoi figli? E sua nipote? Loro hanno diritto alla cittadinanza turca per via del signor Gulcu. Perché non si sono regolarizzati?» Lei sospirò. «Per capire, lei dovrebbe essere russo, ispettore, perciò quanto sto per dirle le sembrerà ridicolo. Ma,» si interruppe per accendersi una sigaretta e solo dopo aver aspirato una boccata continuò, «quando nelle vene scorre il sacro sangue di Madre Russia, si è portati a vedere il
mondo con occhi diversi. Io sono nata russa e ho sempre desiderato morire da russa. La mia famiglia?» Sorrise. «Fanno come me. Per quanto possibile, viviamo alla maniera russa prima del cataclisma del 1918. Mehmet capì e sopportò tutto e quando morì, mi lasciò abbastanza soldi da permettermi di sovvenzionare le mie stranezze.» Suleyman, che fino a quel momento era rimasto a osservare in silenzio, sentì di colpo il bisogno di parlare. «Ma... ma, voglio dire, a tutti voi piace vivere così?» Maria Gulcu aggrottò le ciglia e si girò verso il figlio. «Serge?» «Abbiamo sempre vissuto in questo modo,» disse lui semplicemente. «Solo Natalia non lo fa. Lavora per un vecchio amico di mio padre, ma è una sua scelta.» La vecchia si rivolse a Suleyman con l'aria soddisfatta. «Non sono un'aguzzina, ragazzo. Ognuno di loro è libero di seguire la propria strada. Natalia lavora e mio figlio Nicholas può uscire di casa quando vuole, cosa che infatti fa.» Ikmen si schiarì la voce per richiamare l'attenzione di Maria Gulcu su di sé. «Magari siamo strani e senza dubbio io ho infranto le vostre leggi, ma non siamo gente cattiva. Come le ho detto prima, ispettore,» disse, «esiste altra gente al mondo che aveva motivo di volere Leonid morto.» L'attenzione che aveva messo nel non fare alcun nome lo fece sorridere. «Oh sì, il suo vecchio corteggiatore Reinhold Smits.» «Corteggiatore?» «Sì,» disse Ikmen. «Siamo in possesso di alcune informazioni secondo le quali Meyer e Smits avrebbero litigato per i suoi favori, signora.» «Ah sì?» «Sì.» Lei sorrise. «E ha chiesto a Reinhold...» «Oh, il signor Smits ha convalidato questa teoria, sì. Anche se ci ha raccontato altre cose interessanti, prima di cedere alla pressione dell'interrogatorio.» A questo punto la donna cambiò faccia e Ikmen pensò che era la prima volta, o almeno così gli parve, che negli occhi della donna leggeva davvero paura. «Ma per il momento,» continuò Ikmen, non possiamo interrogare il signor Smits perché è indisposto. Lei annuì automaticamente e disse a bassa voce: «Ha il cancro.»
«Sì,» replicò Ikmen, «anche se purtroppo non lo sapevamo ancora, quando lo abbiamo interrogato la prima volta. Se avessi saputo che lei era al corrente degli ultimi avvenimenti della vita del signor Smits, mi sarei consultato prima con lei.» A Ikmen parve che la donna fosse sbiancata di colpo, anche se a causa del pesante trucco che aveva in faccia non poteva esserne certo. «Tuttavia, prima che si ammalasse, il signor Smits disse al qui presente sergente Suleyman che lei aveva, per usare le sue parole, "qualcosa" con il signor Meyer e che lei è la sola che può dirci la "verità" su di lui.» «Lo ha detto Reinhold Smits?» «Sì.» La vecchia si schiarì la voce eliminando, oltre al catarro, anche l'incertezza e la paura che aveva dimostrato poco prima. «Allora,» affermò «Reinhold Smits mente.» «Mentre vi accusate a vicenda per "cose", devo dire, alquanto vaghe, c'è modo per me di capire chi di voi due stia mentendo?» «No, non...» «No, signora Gulcu, non c'è modo. Inoltre, ho la netta sensazione che quello che tutti e due desideravate era che io arrivassi al punto morto in cui mi trovo ora.» La vecchia si mise a ridere. «Oh, ispettore!» Ma Ikmen non era affatto divertito. Era solo furioso ed esasperato. Ciononostante, riuscì a controllarsi. Spense la sigaretta nel portacenere, poi si protese verso di lei per guardarla dritto negli occhi. «Vuole sapere cosa penso, signora? Penso che tutti e tre avevate "qualcosa" l'uno nei confronti dell'altro. Meyer aveva troppi soldi per essere un vecchio derelitto e credo che sia lei sia Smits sappiate esattamente cosa sia accaduto in quella puzzolente stanza di Balat, e perché. Credo anche che, nel corso degli anni, lei abbia alimentato i suoi sensi di colpa per il vecchio "crimine" da lui commesso in Russia. In fondo, deve essere stato gratificante per lei, avere in mano un vecchio bolscevico frustrato, tanto più che Leonid era di Perm, che dista pochi chilometri da Ekaterinburg, il luogo in cui fu assassinato il vostro zar.» Per quasi due minuti, il solo rumore nella stanza fu quello dei respiri. Anche se tutti i presenti fecero come se nessuno avesse detto niente, la pesantezza che c'era nell'aria parlava da sola. Persino Ikmen non osò quasi respirare finché, alla fine, Maria Gulcu ruppe il silenzio. «Quello che mi ha raccontato non mi dice niente, ispettore Ikmen. Perciò
posso solo concludere che, non sapendo niente, non posso più esserle molto utile.» Ikmen annuì come a indicare che aveva sentito le sue parole, poi abbassò lo sguardo. «Bene, signora, per il momento la lascerò stare...» «Perché lei non ha niente.» Ora aveva di nuovo un sorrisetto freddo e trionfante sulle labbra. «E lo sa.» Lui allargò le braccia come se fosse desolato. «Come vuole. Ma tornerò, signora, così come tornerò dal signor Smits. E le assicuro che accadrà molto presto.» Lei non rispose ma fece un gesto in direzione della nipote e, parlando in russo, le ordinò di accompagnare i signori alla porta. Ikmen si alzò e insieme al collega, si avviò alla porta. «Au revoir, signora Gulcu,» disse. Poi, rivolgendosi allo storpio, «Signor Gulcu.» «Arrivederci ispettore Ikmen,» disse la donna. Per un attimo, il tono della sua voce lo lasciò interdetto. Era il tono di chi sapeva che quelle sarebbero state le sue ultime parole. Per una frazione di secondo, Ikmen immaginò la terribile voragine che si sarebbe aperta nelle indagini se lei se ne fosse andata. Anche se avrebbe fatto meglio ad andarsene molto tempo prima, quel mostruoso cadavere. Quella mente sottile intrappolata in un orribile corpo di carta e cera. L'inferno. «Allora arrivederci,» disse Ikmen. Poi afferrò Suleyman per il gomito e lo condusse alla porta. Come una statua di Venere, dopo avergliela tenuta aperta, Natalia Gulcu li seguì giù per le scale. Niente sul suo viso, a parte le guance leggermente arrossate, lasciava trasparire il suo stato d'animo. Ricordava a Ikmen quelle statue di cera della Vergine Maria nell'antica chiesa di Sant'Antonio da Padova, in Italia. E, proprio in quel momento, si sentirono suonare le campane di qualche chiesa vicina. Mentre scendevano le scale, i tre tornarono a parlare turco. Natalia Gulcu, dietro a Ikmen, fu la prima ad aprire bocca. «Allora riceveremo presto la visita di quelli dell'ufficio immigrazione?» chiese. «Sì. Nel vostro caso, sarà solo una formalità, credo,» rispose Ikmen. Poi si girò verso la ragazza e disse: «A lei interessa solo questo, vero?» Natalia alzò le spalle, e nel compiere quel gesto si sollevarono anche i suoi prosperosi seni. «Non so niente di quell'altra faccenda.» Ikmen si voltò di nuovo e continuò a scendere dietro a Suleyman. Ma quando furono sulla porta d'ingresso, Ikmen si girò di nuovo a guardare il
viso freddo e impassibile della ragazza. «Mi chiedo che parte abbia il suo amico in tutta questa faccenda, signorina Gulcu. Si trovava a Balat, al momento del delitto, no?» Stavolta la ragazza si fece paonazza. «Quell'uomo non è niente per me e non so perché fosse a Balat!» «Stento a crederlo.» Improvvisamente sembrò confusa. «Cosa?» «Considerato il fatto,» disse Ikmen, «che lei gli ha dato delle informazioni da usare per distogliere l'attenzione da lui.» «Cosa?» Ikmen sorrise. «Il signor Smits e sua nonna? Come diavolo crede che potevamo saperlo, se non ce lo diceva qualcuno?» Lei si appoggiò le mani ai fianchi e lo guardò con aria di sfida. «Non lo avete certo saputo da me!» «Vero, ma se non si sbriga a chiudere questa porta, potrei farle dire qualcosa di cui dopo potrebbe pentirsi.» Il viso di Natalia Gulcu si fece scuro. Poi, senza dire una parola, sbatté la porta alle loro spalle con una tale violenza da staccare dagli infissi dei pezzi di vernice che andarono a finire sulla giacca di Ikmen. CAPITOLO XVII Si sedette in una delle navate laterali di fronte a un grande candelabro rotondo. Erano poche le candele accese. Due le aveva messe lui senza particolare motivo. Le altre le avevano accese i fedeli entrati lì dentro nel corso della mattinata. Li conosceva tutti, naturalmente, ma solo di vista. E loro conoscevano lui... oh, eccome se lo conoscevano! Lo guardavano sempre in modo strano. Arricciò il naso a quel pensiero sgradevole. Non andava spesso in chiesa; non ci era mai andato spesso. La mamma diceva che non era opportuno, dato che erano tutti di sangue misto. Nicholas fece un sorrisetto compiaciuto. La mamma invece non aveva quel problema! Anche se il sangue era solo una scusa, e lui lo sapeva. Difatti né lei né gli altri, per quel motivo, avevano mai avuto un posto nella casa del Signore. Nicholas scosse tristemente la testa. Le bugie! Si chiedeva spesso se qualcuno, da qualche parte, sapesse la verità su qualcosa. Ma si chiedeva soprattutto se la sapesse sua madre. Si chiese chi fosse. Ci pensava spesso, ci aveva sempre pensato. Con un dito si sfiorò il taglio vicino all'occhio.
La vecchia aveva protetto se stessa e la ragnatela in cui aveva rinchiuso il suo mondo con tutte le sue forze; usando il potere, naturalmente. Guardò di nuovo le candele e cercò di pensare. Fare la cosa giusta e fare la cosa migliore, spesso erano due cose molto diverse. Nonostante tutto, non voleva farli soffrire. In gruppo erano tremendi, lui compreso. Ma erano tremendi solo perché la consideravano immortale? Cosa sarebbero stati, senza di lei? Serge avrebbe dovuto farsi ricoverare in ospedale. Ma non ci sarebbe andato neanche se fosse morta. Serge apparteneva completamente a lei, come gli altri. E Anya? Lui non osava nemmeno pensarci. Non per la prima volta, si disse che sarebbe stato meglio se fossero morti tutti. Almeno sarebbe finita e nessuno avrebbe mai saputo niente. Un altro fedele gli passò accanto voltandosi a guardarlo. Nicholas lo ignorò. Non trovava pace nemmeno in chiesa, nessun sollievo spirituale. Il pensiero di essersi perso questo aspetto dell'esistenza lo rattristava. Per loro, lei era sempre stata una dea. Dio, quello vero, non osava interferire. Lasciava che li manipolasse... o almeno così sembrava. Lasciava che stravolgesse la natura per i suoi fini, lasciava che scrivesse, dicesse e cambiasse le cose a suo piacimento. Le cose vere se ne erano andate, compreso suo padre, l'uomo che lui avrebbe voluto conoscere meglio, al quale avrebbe voluto fare delle domande. Negli ultimi mesi aveva cominciato a fantasticare che sua madre avesse ucciso suo padre, il suo amante. Da una parte sperava che fosse vero, per poterla odiare di più. La grande porta doppia alla fine del nartece si aprì ed entrò un piccolo sacerdote nella sua tonaca nera svolazzante. Nicholas alzò lo sguardo. Aveva già visto quell'uomo, ma non sapeva come si chiamasse. Ricordava che c'erano due sacerdoti addetti a quella chiesa; uno giovane, alto, di carnagione scura e dallo sguardo fiero e fanatico e questo, piccolo, anziano e con una lunga barba bianca. Nonostante non avesse mai parlato con lui, Nicholas preferiva il più anziano; aveva un viso cordiale e allegro, come fosse un bambino vecchio. Nicholas lo osservò mentre si dirigeva dalla parte opposta, verso l'icona della Vergine con il Bambino. Il vecchio sacerdote camminava canticchiava un motivetto. Lo osservò inginocchiarsi davanti alla sacra immagine e toccare terra con la fronte. Un atto di devozione e di resa. Stranamente, quel semplice atto scatenò l'invidia di Nicholas. Il sacerdote faceva parte di qualcosa di buono. In chiesa, tutti i fedeli trovavano qualcosa di buono: conforto, forza. O almeno, così pensava Nicholas. Bianco e nero. La chiesa era vita, amore, salvezza; fuori c'era il buio, il luogo dal quale veniva e nel quale sarebbe tornato di lì a poco. Si sen-
tì falso e si vergognò. Il sacerdote si alzò sulle ginocchia e, sorridendo, guardò la scura immagine bizantina che aveva davanti. La donna dagli occhi tristi e il bambino dal naso aquilino erano suoi amici. Parlò loro dolcemente, non in preghiera, ma normalmente, come se parlasse a una persona per la strada. Poiché l'uomo teneva la voce molto bassa, Nicholas non riuscì a cogliere le parole, ma la scena gli fu sufficiente. Ebbe l'impulso irrefrenabile di allungare una mano per toccare l'uomo che riusciva a parlare al Signore con tanta naturalezza. Si alzò e aprì le braccia. Tremavano, mentre le teneva aperte, e pensò che se il sacerdote si fosse girato e, vedendolo, si fosse accorto del suo dolore, gli sarebbe andato vicino. Ebbe il desiderio di sentire le braccia del vecchio sul suo corpo; la sua bocca si mosse per pronunciare le prime, scarne sillabe della sua confessione. Il cuore gli batteva forte. Che sollievo! Il sacerdote avrebbe ascoltato, il sacerdote avrebbe sistemato tutto. «Mi aiuti, Padre!» Ma il sacerdote non lo sentì, perché lui non pronunciò le parole che aveva dentro. Solo, in silenzio e indegnamente, si sedette di nuovo dietro alle candele guardando la divinità attraverso un velo di fuoco. Ikmen mise bruscamente giù il suo libro. «Sali in macchina, prima che qualcuno ti veda!» sibilò dal finestrino. Suleyman allungò un braccio dietro al suo sedile e aprì la portiera a un individuo dall'aspetto ripugnante che salì sul sedile posteriore della Mercedes. «Allora, cos'è successo, Ferhat?» chiese Ikmen esaminandosi attentamente le mani strette intorno al volante. «Non molto,» rispose l'uomo dietro di lui. «Va a scuola, torna a casa e ritorna a scuola. Potrebbe essere un eunuco, per l'eccitazione che c'è nella sua vita.» «Non è stato dalle parti di Karadeniz Sokak, allora?» «Non ci si è neanche avvicinato.» Suleyman si portò una mano al viso e arricciò il naso. «Ma lo sai che puzzi davvero, Ferhat?» Ikmen si mise a ridere. «A Ferhat piace calarsi nel personaggio, vero?» Dallo specchietto retrovisore gettò un'occhiata a quel mucchietto di stracci ripugnante. «Ottimo attore, non c'è che dire!» Ferhat tirò su col naso. «Ho fatto il mio lavoro.» «Allora,» continuò Ikmen, «niente di strano o di particolare...» «Oh, parla spesso da solo. Ma è sempre da solo, perciò penso che si pos-
sa dire che l'unica compagnia che ha è se stesso. Non so se mi spiego.» «Niente amici? Niente chiacchiere con i colleghi mentre vanno a prendere l'autobus?» «No.» «Dev'essere triste, vero, signore?» commentò Suleyman. «Intendo, trovarsi da soli in un Paese straniero e...» «Bene,» lo interruppe Ikmen, «tienilo d'occhio, Ferhat. Sai cosa fare, nel caso succedesse qualcosa.» «Okay.» Ferhat sgusciò fuori dalla macchina con la stessa rapidità con cui ci era entrato e un attimo dopo scomparve tra la folla di quel primo pomeriggio caldo e annoiato. Con grande sollievo di Suleyman, se ne andò anche la puzza. Ikmen tirò fuori un fazzoletto e si asciugò il sudore dalla fronte. Osservandolo, Suleyman disse: «Vorrei che piovesse.» «Oggi fai un mucchio di osservazioni inutili, Suleyman!» ribatté il suo superiore. «Prima, quell'omelia a proposito di Cornelius e ora la preghiera per quella bastarda di una pioggia!» Punto sul vivo, Suleyman reagì prontamente. «Mi dispiace, signore, ma sono un po' agitato per Smits che mi è quasi morto addosso. Voglio dire...» «Temo che dovrai farci l'abitudine, Suleyman.» Ikmen si rimise il fazzoletto in tasca e girò la chiave nel cruscotto. «Comunque non è morto, no?» Tolse il freno a mano e l'automobile partì. «No, ma...» «Allora piantala!» Entrando nel cancello della scuola di lingue Londra, Ikmen lanciò una rapida occhiata all'edificio, mentre sul suo viso appariva un lieve ghigno. «Comunque abbiamo problemi più urgenti della salute di Smits, in questo momento. Le prove che abbiamo raccolto finora sono puramente indiziarie. È inutile anche la lettera che ha scritto Cornelius... non ci sono impronte.» «Possiamo sempre cercare di rintracciare la macchina per scrivere che ha usato.» «Oh, certo,» concordò Ikmen, «possiamo farlo, ma anche se rintracciamo la macchina per scrivere sul suo posto di lavoro, come facciamo a dimostrare che sia stato lui a usarla, con tutta la gente che c'è lì? Anche il più scalcinato degli avvocati obietterebbe che si tratta di una prova indiziaria. No, a meno che non salti fuori qualcuno che ha assistito a qualcosa o non raccogliamo qualche prova in base alle analisi dei medici legali, onesta-
mente non so cosa faremo. Se la signora Gulcu e il signor Smits insistono nel volersi portare i loro segreti nelle rispettive tombe, non so davvero come faremo ad andare avanti. E questo è poco ma sicuro.» Mentre l'automobile costeggiava il Gran Bazaar, i due uomini scrutavano attentamente le strade affollate; un'abitudine che tutti e due avevano preso ai tempi in cui erano semplici poliziotti e si mescolavano tra la folla, pronti a cogliere in flagrante borseggiatori e altre categorie di ladri tipiche di quella zona. «Crede davvero che la signora Gulcu sia imparentata con quella Demidova, signore?» Anche se la domanda era seria e lui era concentrato sull'argomento, Suleyman seguiva con gli occhi anche quello che avveniva per la strada. In quella zona della città circolavano un mucchio di facce note. «Dopo quello che ho letto, no,» rispose Ikmen. «Anna Demidova, come ha detto Maria Gulcu, non aveva parenti. Anche se...» «Anche se?» «Anche se c'è un altro strano legame tra l'assassino dell'ultimo zar e quello di Leonid Meyer.» «Eh?» Ikmen tolse una mano dal volante per prendere le sigarette dalla tasca. «Sia il corpo dello zar sia quelli dei suoi familiari, come pure quello di Leonid Meyer, furono sfigurati con l'acido solforico.» In previsione della nuvola di fumo che avrebbe invaso l'abitacolo, Suleyman tirò giù il finestrino. «Un po' debole, come legame, non le pare, signore?» Ikmen si accese la sigaretta e aspirò la prima boccata. «Meyer era un bolscevico, aveva partecipato alle esecuzioni.» «Ma sono solo voci. E comunque non ci sono prove che fosse coinvolto in quegli omicidi. Come ha detto prima, il suo nome non risulta da nessuna parte e...» «A meno che non avesse cambiato nome...» Ikmen abbassò un attimo la testa, un gesto che a Suleyman parve quasi di sconfitta. «No, hai ragione, come avrebbe potuto? Le persone coinvolte in quei fatti sono tutte morte molti anni fa, i libri lo confermano. Non abbiamo assolutamente niente, a parte qualche... non direi coincidenza, ma sincronia. Stupide, inutili sincronie senza alcun fondamento.» Suleyman guardò di nuovo la variegata folla oltre il finestrino della macchina e sospirò. «Abbiamo davvero esaurito ogni altra possibilità? Al-
tri suoi ex compagni, vicini...» Ikmen si girò brevemente a guardarlo, poi rivolse di nuovo gli occhi alla strada. «Chiunque sia stato in quell'appartamento, ha fatto quello che ha fatto in un momento in cui non c'era in giro nessuno. È stato visto solo l'inglese, Cornelius, che era appena uscito dal lavoro e non aveva in mano niente, secondo il nostro testimone, tanto meno una tanica di acido solforico. Inoltre, se fosse stato lui, perché mai avrebbe ammesso spontaneamente di trovarsi lì? No, la sua presenza sulla scena è l'unica cosa, in questo guazzabuglio, che mi pare una pura coincidenza. Forse, per la sua relazione con Natalia, si è trovato coinvolto in qualcosa che credo non capisca nemmeno.» Suleyman appoggiò la testa alla cintura di sicurezza. Il caldo, e le infinite domande che tutti e due si stavano ponendo, gli stavano facendo venire una botta di sonno. «Come il significato della svastica?» «Sì,» fece Ikmen, «come il significato della svastica.» Per il resto del tragitto verso la centrale rimasero in silenzio, consci tutti e due del fatto che al punto in cui erano le cose, parlare non serviva a niente. Finalmente era arrivata la sera e con essa una stanchezza mortale. Çetin si buttò sul divano tirandosi il lenzuolo fino al collo. Era meglio coprirsi, nel caso qualcuno dei bambini passasse di lì per andare in bagno. Faceva troppo caldo per mettersi il pigiama. Si appoggiò sul gomito e prese l'ultima bottiglia di brandy. Nuova, fantastico! Piena, intatta, un elisir di potenziale oblio... «Çetin?» Posò la bottiglia e alzò gli occhi. Era sulla porta; la camicia da notte abbottonata fino al collo, sudata, con la pancia che si muoveva per i calci del piccolo. Era sorpreso di rivederla. Era andata a letto molte ore prima. «Sì, Fatma?» Attraversò la stanza come un elefante in agonia e si accasciò sul bracciolo vicino ai piedi del marito. Lui si affrettò a ritirarli. «Cosa c'è?» Vedendo il suo viso arrossato, gli si fermò il cuore in gola. Oh, no! Non ora! Non con il caso Meyer ancora aperto! «Fatma, non...!» Lei sorrise. «Oh, no.» Si appoggiò al muro e si diede un lieve colpetto sulla pancia. «Per un po', se ne starà ancora qui dentro. Dovrai aspettare altre tre o quattro settimane...» «Meno male...»
«Oh, Çetin, sei contento, vero?» Il sollievo che lui aveva espresso con tanta enfasi l'aveva ferita. Ikmen si mise a sedere lasciando cadere il lenzuolo fino alla vita. Prese una delle manine grassocce della moglie nella sua. «Certo che sono contento! Non intendevo...» Fece un gesto vago con l'altra mano. «È questo caso! Lo sai com'è! Mi sta tirando matto!» Si batté le dita sulla fronte. «È tutto qui dentro! Io...» «Vieni a letto, Çetin?» Lui le lasciò la mano e le si avvicinò guardandola con le sopracciglia aggrottate. «Cosa?» Lei abbassò lo sguardo sul pavimento, imbarazzata per le parole che aveva detto. «Vieni a letto? Con me?» «Vuoi dire...» «Sì.» Continuando a coprirsi con il lenzuolo, Çetin posò i piedi per terra e si alzò a sedere. Guardò il suo viso dolce e rosato. «Ma, Fatma, tesoro, dici sempre che occupo troppo spazio e che ti faccio caldo, quando sei incinta.» «Allora non vuoi?» Sembrava triste. «Sì, ma...» Çetin si spostò da un lato per farle posto e con un colpetto sul divano le fece cenno di sedersi accanto a lui. «Vieni qui.» Da brava moglie, si mise a sedere accanto a lui tenendo gli occhi bassi. Çetin si preoccupò. Non era da Fatma comportarsi così! Posò un braccio intorno alle sue spalle rotonde e l'altra mano sul suo ginocchio. «Cosa c'è, tesoro?» Ora che l'aveva vicina, si accorse che stava piangendo sommessamente. «Cosa ti è successo?» Il labbro inferiore le tremò quando si voltò a guardarlo e le parole, più che pronunciarle, le sputò. «Oh, Çetin, mi ami, vero?» «Cosa?» Non riusciva a crederci! Fatma? Non era sicura di lui? La baciò sulle labbra che le tremavano accarezzandole i capelli umidi con le dita. «Tesoro, lo sai che ti amo! Ti ho amata dal primo giorno che ti ho vista!» Ma lei era ancora disperata. «Non pensi che una ragazza più giovane e attraente...» «Fatma!» Continuò a tenerla stretta a sé, ma quel pensiero lo fece irrigidire. «Più giovane? Stai parlando sul serio?» Si diede una sonora pacca sul ginocchio scuotendo la testa. «Le donne, più giovani, più vecchie o altro, non mi interessano. Ho te. Sei mia moglie e la mia amante, la madre dei miei figli e...» le mise un dito sul mento costringendola a guardarlo negli
occhi, «sei la cosa più bella che abbia mai visto!» «Allora mi...» «Ma certo, sciocchina! Altrimenti non te lo direi, no?» Non intendeva gridare, ma era veramente arrabbiato. Come poteva dubitare di lui? «Come ti è venuta in mente una cosa simile, Fatma? Non è da te!» Lei abbassò di nuovo gli occhi. «Oh...» Ma poi capì. Mancanza di attenzioni... tutto lì. A volte, quando lavorava a qualche caso particolarmente complicato, tornava a casa solo per dormire. Era quello che stava accadendo ora, ma nella condizione in cui era, quella situazione, per altro normale, l'aveva innervosita. «Senti, mi dispiace, non sono stato molto a casa ultimamente, ma lo sai com'è. Io ti amo. Ma a volte amo anche il mio maledetto lavoro...» «Çetin, non ti senti vecchio, a volte?» «Fatma, sono stato vecchio tutta la vita! Mio fratello e io abbiamo mandato avanti la casa, dopo la morte della mamma. Avevo dieci anni! L'unica cosa che conosco è la responsabilità. Se vi abbandonassi per una ragazzina, morirei dal rimorso.» Fatma gli posò una mano sulla spalla. «Allora mi ami ancora? È così?» «Oh!» Buttò violentemente la sigaretta nel portacenere e la baciò sulle labbra con passione. Nonostante il fiato pesante e i baffi che sapevano di tè, lei aprì la bocca. Voleva fargli sentire la sua passione. Anche se era incinta, provava ancora desiderio per il suo stanco e affumicato maritino. Lui la strinse ancora di più e lei sentì le sue mani accarezzarle delicatamente il collo. Qualche istante dopo lui la allontanò da sé e le sorrise. «È sufficiente come risposta?» Per un attimo lei si sforzò di non sorridere, ma poi scoppiò a ridere. «Sì, penso di sì.» Lui increspò le labbra e le diede un colpetto delicato sul naso. «Bene.» Poi, con lo sguardo malizioso: «Sei una ragazza molto sexy.» «Oh, Çetin!» Si chinò su di lei e le appoggiò la testa sul ventre. «Sì, lo sei. Sei un'amante calda e...» «Çetin Ikmen!» Rideva, ma era impressionata. Agitando la testa, lui aveva provocato dei rumorosi movimenti nel suo pancione e dovette alzarsi. «Volevi farmi diventare sordo, Fatma?» Si mise a ridere anche lui e lei allungò una mano per accarezzargli il viso. Poi smise di ridere e si fece improvvisamente seria.
«Ti amo tanto, Çetin!» «Be', qualcuno deve pur farlo!» A volte riusciva a essere incredibilmente volubile, ma Fatma ci era abituata. Çetin, il suo caro marito, era fatto così. Era stato il suo senso dell'umorismo e il suo sorriso malizioso ad attrarla fin dal primo momento. A quel tempo c'erano un mucchio di ragazzi molto più attraenti di lui, a Üsküdar; ragazzi con più soldi e prospettive migliori. Ma nessuno di loro era intelligente e divertente come Çetin. Lui sapeva un mucchio di cose, viveva in una casa piena di libri, conosceva le lingue straniere. L'aveva sfidata a un audace e pericoloso giro al luna park. Çetin aveva capito che le faceva piacere che lui la corteggiasse. E quando l'aveva baciata... La madre di Fatma aveva conosciuto Ayse Ikmen prima che morisse e come molte donne del quartiere, credeva che la statuaria albanese fosse una specie di strega. La prima volta che Çetin l'aveva baciata, Fatma aveva pensato di sapere il perché. Lui l'aveva eccitata tanto! Eppure il giovane Çetin era magro, scuro di carnagione e non era bello nemmeno allora. «È questo che ti turbava, Fatma?» La sua voce interruppe i suoi dolci ricordi, e le vecchie scene a lei tanto care si dissolsero. «Ehm...» Lui si mise a ridere. «Dov'eri? Su Marte?» Fatma sorrise «No. Indietro di qualche anno, quando le cose erano un po' più semplici.» Lui strofinò affettuosamente il suo lungo naso sulla guancia della moglie. «Ricordi quando andavamo in quella vecchia casa abbandonata, vicino alla caserma Selimiye?» «Quando mi hai sedotto, vuoi dire!» «Solo un po'.» Si mise a ridere. «Solo all'inizio.» Fatma sapeva che lui stava dicendo la verità, ma atteggiò le labbra a broncio come per negare. Ricordava bene il giorno di cui stava parlando suo marito. Lo desiderava tanto, ma piuttosto che ammetterlo, si sarebbe fatta ammazzare. Erano andati in quella casa appositamente per fare l'amore. Dato che era la sua prima volta, aveva sentito un po' di dolore, ma Çetin era stato molto delicato. E dopo il dolore era arrivato un grande piacere. Aveva concepito Sinan quel giorno, la sua prima volta. Lei e Çetin erano a un mese dalle nozze. Fatma fece la faccia imbronciata, cercando di fare la dura. «Figlio di una strega! Mi hai fatto un incantesimo!» Lui la guardò negli occhi, poi con una mano le accarezzò il seno. «È stato bello, eh?» «Çetin!»
Lui posò la bocca sulla sua e le leccò le labbra chiuse con la lingua. Fatma sentì nel petto un palpito che conosceva molto bene e le venne la pelle d'oca. Sapeva che se non fosse stata incinta, gli avrebbe ceduto. Lui staccò la bocca dalla sua e le baciò il collo. Fatma chiuse gli occhi mormorando il suo nome. Nessuno dei due sentì la porta che si apriva. Il coprifuoco al calare della sera non faceva per i vecchi e Timür non riusciva a dormire. Quando vide quello che suo figlio e sua nuora stavano facendo, non riuscì a reprimere una risata. Che arrivò all'orecchio di Çetin con la delicatezza di un tuono. Si staccò bruscamente da Fatma come se si fosse scottato. «Timür! Brutto vecchio...» «Mi dispiace, figliolo, ero venuto a prendere le sigarette.» «Non c'è privacy, in questa casa!» Si tirò il lenzuolo fino all'inguine e guardò Fatma. «Mi dispiace, tesoro.» «Non fa niente, Çetin.» Stava sorridendo. Forse era meglio così. Si erano lasciati andare un po' troppo; Fatma sapeva che forse il sesso non era una buona idea, nel suo stato. Le dispiaceva più che altro per Çetin. Sapeva che quando era incinta, si sentiva un po' trascurato. Appoggiò la testa contro la sua spalla e gli baciò il collo. «Ora è meglio che me ne torni a letto, altrimenti domattina non riuscirò a combinare niente.» Çetin respirò profondamente per qualche istante nel tentativo di calmarsi. Le prese il mento tra le dita e la baciò delicatamente sulle labbra. «Va bene. Forse è meglio così.» Il vecchio tossì. «Oh, sì. Quando tua madre era incinta di Halil di otto mesi e mezzo...» «Taci, Timür!» Fatma si alzò lentamente dal divano e si massaggiò il fondo della schiena, ormai perennemente indolenzito. Se non fosse stato nudo, Çetin l'avrebbe aiutata, ma non aveva nessuna intenzione di mostrare il suo corpo al padre. Gli lanciò uno sguardo truce sperando di farlo vergognare. Fatma si diresse stancamente verso la porta. Mentre si scambiavano le coccole, la camicia da notte le si era leggermente sollevata dietro e guardandola uscire dalla stanza, Çetin notò il lieve rigonfiamento delle vene varicose che segnavano la pelle altrimenti liscia delle sue gambe. Non capiva il perché, ma sapeva che amava anche quei brutti segni. Non c'era niente che non amasse di Fatma. Per lui era sempre la ragazza carina e paffutella di cui si era perdutamente innamorato in quella vecchia casa abbandonata di Üsküdar. La ragazza che non aveva saputo attendere la prima
notte di nozze. La ragazza per la quale aveva dovuto farsi un taglio sulla mano per macchiare di sangue il lenzuolo nuziale. Dopo che si fu richiusa la porta alle spalle, lui ascoltò i suoi passi allontanarsi nel corridoio verso la loro camera da letto. Non appena fu sicuro che lei non potesse udirlo, Çetin scattò. «Complimenti, Timür. Grazie!» Il vecchio tossì forte e si accese una sigaretta. «Non c'è di che, figliolo. Quando vuoi che ti rovini la tua vita sessuale, non hai che da...» «Piantala, Timür!» Çetin si sdraiò sulla schiena e guardò il soffitto. Gli capitava raramente di arrabbiarsi tanto con il vecchio, ma stavolta era una cosa diversa. Aveva quasi quarantasei anni e ancora non aveva la sua privacy! Sarebbero mai riusciti ad avere una vita loro, lui e la sua Fatma? Sarebbero mai cresciuti i loro figli, e il vecchio, sarebbe mai morto? Era un pensiero orrendo e Çetin si sentì in colpa per averlo fatto, ma non poteva farci niente. Forse aveva bisogno di una vacanza o forse di una notte folle senza i suoi "ragazzi". Pensò che sarebbe stato difficile, ma continuò a fissare la nube di nicotina sul soffitto in cerca di ispirazione. Non venendogli in mente niente, si arrabbiò ancora di più. Timür era tranquillo, i bambini avevano tutto, anche se con grande fatica. Quando sarebbe arrivato, il suo turno? CAPITOLO XVIII Nur Suleyman leccò un lembo del fazzoletto e lo strofinò con forza sul viso di suo figlio. Un'invisibile particella di sporco deturpava i suoi bei lineamenti e Nur gliela doveva togliere. Colpì il giovane senza che lui se l'aspettasse, provocando una brusca sterzata che rischiò di far uscire di strada la sua nuova Renault. «Mamma!» Non era la sua parola preferita e la disse a denti stretti. L'automobile dietro di loro fece una sonora strombazzata in segno di rimprovero. «Se ti lavassi la faccia come si deve, non avrei bisogno di farti queste cose!» ribatté lei con voce lamentosa. Era un tono che lui detestava e che lo fece sbuffare. Mehmet Suleyman non era felice. La notte prima aveva dormito poco, un po' per il caldo torrido e un po' perché cominciava a temere che lui e Ikmen non sarebbero mai riusciti a risolvere il caso Meyer. Avevano vagato per giorni per le strade più oscure, parlando con vecchi e con ogni sorta
di individui, nel tentativo di far luce sul passato del vecchio ebreo assassinato. E ancora non avevano in mano niente. Solo un mucchio di elementi contraddittori, e capire quali fossero quelli falsi e quali quelli veri era facile come azzeccare una puntata al casinò. Di notte, la situazione gli era sembrata senza via d'uscita. Alla luce del giorno le cose non gli erano sembrate migliori. La lotta che aveva ingaggiato con il rasoio elettrico che non funzionava a dovere gli aveva fatto pesare ancora di più il pensiero di dover accompagnare Nur allo scalo di Eminönü. Avrebbe preferito andare subito in ufficio, ma sua madre voleva prendere il traghetto per andare a trovare sua sorella, e Mehmet aveva imparato già molti anni prima che era inutile opporsi ai suoi desideri. Avrebbe dovuto immaginare che la coda per attraversare il Corno d'Oro sarebbe stata interminabile. Di educazione stradale neanche l'ombra e lui procedeva augurandosi solo di non rimanere coinvolto in qualche incidente. Mehmet pensava spesso che gli sarebbe piaciuto vivere in un Paese più civile, come l'Olanda, dove la gente imparava a guidare come si deve prima di lanciarsi nel traffico. L'Olanda aveva anche il vantaggio di non essere famosa per i matrimoni combinati. Anche se era riuscito a evitare la cena con la zia e la promessa sposa, quegli stupidi progetti matrimoniali procedevano inesorabili. E per assicurarsi che tutti fossero "felici", Nur si stava recando dalla "zia" a controllare la situazione per il suo "caro" Mehmet. Alla fine del ponte di Galata girò bruscamente a sinistra, pensando alle cose pratiche che lo aspettavano quel giorno. «Ti lascio di fronte alla Yeni Cami, mamma,» disse. «Da lì mi è più facile proseguire per la Centrale e tu devi solo attraversare la strada.» «Se è più semplice per te, tesoro.» Lui interpretò il suo lamento come delusione per il fatto che avesse dato più importanza al suo lavoro che a lei. Decise però di non cedere. «Bene.» Le lanciò una rapida occhiata e pur accorgendosi che era offesa, continuò a rimanere concentrato nella guida, cercando di non preoccuparsi troppo. Conoscendo sua madre, sapeva che non gli restava più molto tempo per le sue fantasie di bionde alte e prosperose. Avrebbe dovuto darsi da fare prima, uscire la sera, innamorarsi di qualcuna e presentarla a casa. Pensò con tristezza che se gli fosse mai capitato di incontrare la donna dei suoi sogni, sarebbe stata una prostituta o qualche turista straniera di passaggio. Fermò la macchina a lato della grande piazza della Yeni Cami. Tra tutte le magnifiche moschee della città vecchia, era quella che gli piaceva di
meno. Tutta grigia, ogni volta che la vedeva aveva l'impressione che incombesse minacciosa su di lui. L'interno non era molto meglio. Non c'era atmosfera. Forse perché era stata costruita dalla madre di un sultano? Guardò sua madre e pensò che quell'associazione di idee era perfettamente inutile. Nur baciò suo figlio sulla guancia passando un'ultima volta le dita tra i suoi bei capelli scuri. «Ti voglio bene, Mehmet,» disse scendendo dalla macchina. «Saluterò zia Edibe e Zuleika da parte tua.» Le rispose con un mezzo sorriso e non appena fu sparita, affondò il piede sull'acceleratore. Ma subito dopo si fermò. Sulla scalinata che portava alla moschea, qualcosa attirò la sua attenzione. Un agente in divisa stava parlando con quello che aveva tutta l'aria di essere un mucchietto di stracci per terra. Probabilmente non stava facendo molti progressi, perché Mehmet ebbe l'impressione che il mucchietto di stracci si stesse infuriando. Avrebbe potuto tirare dritto e dimenticarsene, ma l'uomo in divisa era molto giovane e i piccoli occhi del mucchietto di stracci erano cattivi. Con un sospiro, Mehmet inserì il lampeggiante e scese dalla macchina. Il calore lo investì con la violenza di un pugno nello stomaco e mentre si dirigeva verso la scalinata, si mise gli occhiali da sole e tirò fuori dalla tasca il tesserino di riconoscimento. Incrociò un gruppo di turiste inglesi o americane tra le quali spiccava una bella bionda. Era sui quarant'anni e quando gli passò davanti, lo guardò. Proprio l'età giusta, pensò con tristezza. Ma non si fermò, sentendo quello che stava dicendo l'agente. Era in difficoltà. «Senti, Metin, non l'ha uccisa nessuno, è morta da sola!» Il mucchietto di stracci, che come constatò Suleyman, era senza gambe, non pareva convinto. «Era una strega, e le streghe non muoiono. Guardala!» Puntò un dito sudicio verso un altro mucchietto di stracci messo peggio di lui, accasciato contro il muro di fronte. «Qualcuno l'ha uccisa!» Suleyman diede un colpetto col gomito all'agente e gli mostrò il tesserino. «Che succede?» domandò. L'esagitato mucchietto di stracci emise un lamento pietoso e si grattò quel che restava delle sue gambe. «L'amica di quest'uomo è morta. Stanotte. Da quel che ho potuto constatare, non c'è niente di sospetto. Tutti i giorni, qui, muore qualche...» «Oh, Sevin!» Non era anziano, come la maggior parte di loro, ma vecchio. Suleyman si inginocchiò di fronte a lui per guardarlo in faccia. Aveva il viso bagnato di lacrime e i suoi occhi furiosi erano rossi come se avesse bevuto.
«Sevin, era una tua amica?» Il vecchio mendicante fece una lunga pausa, prima di rispondere. Suleyman lanciò un'occhiata all'altra mendicante accasciata di traverso tra il muro e il gradino. Se non avesse sentito che il morto era una donna, non se ne sarebbe mai accorto. Gli occhi erano chiusi e le mascelle pronunciate stavano cominciando a cedere. Aveva dei folti capelli grigi e i baffi. Mentre Suleyman si alzava nauseato, il mendicante cominciò a parlare. «Ieri sera, sul tardi, è arrivato qualcuno...» Suleyman si chinò di nuovo verso di lui. «Uomo o donna?» «Non era un umano.» La sua voce si era fatta un sussurro. «Azrael! È stato lui a ucciderla!» Suleyman si girò a guardare il giovane agente. «L'Angelo della Morte?» Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Come molti di loro, signore, ce l'ha con quel dannato spirito! Posso cavarmela io, se vuole andare, signore.» Suleyman guardò l'agente. Era un bel ragazzo, giovane e agli inizi della carriera. Provò un'improvvisa punta di invidia e si sentì vecchio, ma cercò di non darlo a vedere. «Va bene, agente, si occupi lei di... ehm...» «Metin, signore. Va bene.» Suleyman accennò un saluto all'agente e tornò sui suoi passi. Gente triste, molto triste. Ma Suleyman non si soffermò più di tanto a rimuginare su Metin e sulla sua amica morta. Vide una zingara grassa di mezz'età procedere verso di lui con un fagotto di panni bianchi sulla testa. Il suo viso marcato aveva un'espressione arrogante. Si fermò a guardarla con le mani appoggiate sui fianchi. Lei non deviò di un millimetro ma quando gli passò accanto, la sua sudicia gonna lunga gli sfiorò la gamba. La donna se ne accorse e si girò un istante a guardarlo; poi, con una risata profonda che le salì dalla gola, continuò per la sua strada. Era stata una cosa inaspettata, e non riusciva a togliersela dalla mente. Aveva un vago senso di nausea. Cominciare la giornata in quel modo... Sembrava un presagio. Un pesante sacco blu per cadaveri e il furgone dell'obitorio che aveva bloccato il traffico sul ponte di Galata. Nell'autobus, tutti avevano guardato fuori dal finestrino, tranne lui. Alcuni di loro si erano anche messi a ridere quando il giovane poliziotto aveva fatto cadere nel sacco quelle che probabilmente erano le gambe di quel "coso". Ma non Robert. Faceva caldo e sapeva che anche se ben sigillato nel sacco di plastica, il corpo doveva già essere infestato di mosche e larve. La morte era così.
Come facessero i vittoriani a considerarla affascinante, non l'aveva mai capito. La morte, secondo Rossetti, era dignitosa, erotica e profumava di muschio e rose estive. Bugie. Pensò a Natalia e alla sua morte. Si guardò intorno nella classe mezza vuota cercando di immaginare come si sarebbe afflosciato il suo viso non appena fosse scomparso il rigor mortis. Come l'orribile fotografia di Marilyn Monroe nella camera ardente che aveva visto una volta. Ma perché avrebbe dovuto morire? A meno che non avesse un incidente o qualcuno la uccidesse, era un pensiero assurdo! A meno che, naturalmente, lei non avesse ucciso qualcuno e... Prese un foglio dalla scrivania e lo alzò per mostrarlo agli studenti. Era una fotografia del Big Ben e delle Houses of Parliament. Il cielo, dietro il famoso monumento, era insolitamente azzurro. «Chi di voi sa dirmi cos'è?» La voce suonò tetra come i suoi pensieri. La risposta alla sua domanda fu una serie di bocche aperte e di facce assenti. Se i quattro ragazzi siriani e la ragazza egiziana che formavano la sua classe del mattino lo sapevano, non lo diedero a vedere. Magari poi sarebbero stati capaci di superare brillantemente gli esami, anche se Robert non la riteneva una cosa molto probabile. I ragazzi, i quattro maschi, si concedevano troppe distrazioni nella peccaminosa città vecchia di Istanbul. «Allora?» chiese di nuovo. «Qualcuno lo sa? Avete idea di quale sia la città dove si trova questo monumento?» I cinque ragazzi si guardarono intorno in cerca di ispirazione e, non trovandola, guardarono Robert. «Sono le Houses of Parliament e si trovano a Londra,» disse articolando lentamente le parole, come se stesse parlando ai bambini dell'asilo. Posò quella fotografia per prenderne un'altra. Poi, improvvisamente, si chiese cosa stesse facendo Ikmen. Prese la foto in bianco e nero di Buckingham Palace con il cuore che gli batteva forte. Natalia gli aveva telefonato per dirgli che l'ispettore era tornato da loro a curiosare, che aveva parlato di lui e di quello che pensavano stesse facendo di nascosto. La poverina era talmente spaventata che in un primo momento aveva cercato di rompere la loro relazione. Robert era riuscito a convincerla a non farlo, almeno per il momento, ma se Ikmen fosse tornato da loro... O magari era stata la sua ultima visita e ora sarebbe venuto da lui? Forse era già in strada e stava arrivando lì, a scuola? Robert rabbrividì e alzò la seconda fotografia per mostrarla alla classe. Nascose la testa dietro la foto e aggrottò le ciglia. Ancora una volta, non si era fatto la barba e la sua camicia puzzava di sudore stantio. Incrociandolo nel corridoio, Rosemary l'aveva ignorato.
E non era stata la sola. «Che edificio è questo?» Dalla classe si sollevò di nuovo un silenzio violento e grigio come un'ondata del mare del Nord. I cervelli dei suoi studenti erano morti come il corpo che la polizia aveva portato via dalla moschea di Yeni. Cose inutili, buone solo per essere sezionate all'obitorio senza alcuna dignità. Immaginò qualche orribile chirurgo sul genere del dottor Mengele toccarle i seni morti con le dita ricoperte di gomma. Non poteva accadere. La voce che gli ronzava in testa non era forte, ma insistente. Non poteva accadere niente del genere. Sarebbe andato tutto bene, lei sarebbe stata bene, sarebbero rimasti insieme per sempre. Lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Arrivò addirittura ad alzare gli occhi al soffitto promettendo a un Dio in cui non credeva, che avrebbe fatto qualsiasi cosa. Quei mezzi pensieri e quelle mezze idee cominciarono a confondergli la mente. Conosceva quella sensazione. Continuò a stringere nella mano la fotografia di Buckingham Palace, ma si sentiva male ed era sudato fradicio. Si ricordò di non aver mangiato niente, ma il fatto di saperlo non lo aiutò. Si sentiva male, aveva caldo, sentiva le mosche e l'odore acre della morte. Cercò di resistere. «Che edificio è questo?» Gli girava la testa. Da dietro la fotografia fece appena in tempo a intravedere le facce bianche e spaventate dei suoi alunni, prima che il mento cominciasse a scendergli lentamente sulla scrivania. La paura si trasformò in curiosità. Poi ci fu il vuoto e il silenzio. «Senti, se non vuoi sposare quella ragazza, diglielo chiaro e tondo.» Era una cosa inconcepibile per Ikmen. La madre di Suleyman voleva fargli sposare sua cugina. Suleyman non era per niente entusiasta dell'idea. Bastava che si impuntasse con sua madre. Fine della storia. «Non è così semplice.» Il tono del giovane era lamentoso, di autocommiserazione e a Ikmen venne istintivo rimproverarlo. «Lo è, invece! Di' a tua madre di "no", con fermezza ed educazione, e la faccenda è risolta.» Fece un gesto con la mano in direzione della finestra. «Ti trovi una bella bionda da scoparti e ti godi un po' di felicità.» «Signore...» «Fallo, Suleyman! Come molti aristocratici, la tua famiglia non ha un kurus, perciò cos'hai da perderci?» «Io...» «Tua madre non la sopporti, tuo padre, bistrattato com'è dalla moglie,
non riesci a rispettarlo, tuo fratello è riuscito a rompere il circolo vizioso sposando una greca... Segui il suo esempio!» «Ma...» «No!» Aveva già perso troppo tempo con il ridicolo problema di Suleyman. Ikmen non riusciva a capire come si potesse essere tanto stupidi e meschini, a volte. I matrimoni combinati erano comodi... Il suo non lo era! Inoltre, era di pessimo umore; non ne poteva più del caso Meyer. E non ne poteva più soprattutto della mancanza di nuovi sviluppi nelle indagini. Cambiò argomento. «Ho deciso di interrogare di nuovo Robert Cornelius,» disse. «Ne ho abbastanza di aspettare per vedere cosa succederà.» Alzò una mano come a prevenire un'eventuale obiezione. «Prima che tu dica qualcosa, Suleyman, lo so che l'idea di non dar troppo peso all'inglese è stata mia e che il commissario non era d'accordo. Però, a differenza del commissario, io so riconoscere i miei errori.» Suleyman non poté trattenere un sorriso, per quanto mesto, che non sfuggì a Ikmen. «Qualsiasi cosa pensi, Suleyman,» continuò, «ora farò quello che vuole il mio disgustoso superiore; diventerò anch'io un bastardo. E dopo tutti i giochetti ai quali abbiamo assistito negli ultimi giorni, nessuno dei giocatori coinvolti in questa farsa potrà dire di non avere avuto quel che si meritava.» Accantonati temporaneamente i suoi problemi personali, Suleyman sollevò il mento in cenno di assenso. «Allora cosa facciamo?» Ikmen si sedette, si mise in bocca una penna e cominciò a "fumarla". «Voglio che tu vada alla Scuola di lingue Londra per dare a Cornelius la possibilità di liberarsi la coscienza di sua spontanea volontà.» «E se rifiuta?» «Se rifiuta gli dici che controlleremo tutte le macchine da scrivere della scuola finché non scopriremo quella con cui ha scritto la lettera su Reinhold Smits. Credo che gli sia utile sapere quanto sia infallibile questo metodo.» Suleyman sorrise. «Sì, signore.» «Ah, Suleyman, porta con te Cohen. Credo che una piccola dimostrazione di forza, anche se alquanto scalcagnata, non guasti.» Suleyman raccolse le cose che avrebbero potuto servirgli: chiavi, blocco notes, penne, tesserino di riconoscimento... «E Ferhat?» domandò. Ikmen si tolse la penna di bocca e la sostituì con una sigaretta vera. «Me
ne occuperò io, a meno che tu non lo veda. Se lo vedi, digli di chiamarmi.» «Okay.» Mentre il giovane si apprestava a uscire, Ikmen si alzò. «Buona fortuna, Suleyman,» disse. «Se riusciamo a far dire a Cornelius chi è stato a dargli le informazioni su Smits, forse siamo ancora in tempo a fare qualche passo avanti.» «E se non ci dice niente?» Ikmen rifletté qualche istante, prima di rispondere. «Be',» fece sospirando, «se non basterà la faccenda della macchina per scrivere a convincerlo, penso che il passo successivo sia quello di controllare il suo permesso di soggiorno. Voglio dire, se non è perfettamente in regola, dovrà per forza venire qui.» Suleyman alzò gli occhi al cielo con un ghigno. «Capisco.» «Ora vai,» disse Ikmen e mentre si sedeva, si accese una sigaretta. L'ultima persona che Robert desiderava vedere era il preside della scuola. Purtroppo per lui, il signor Edib aveva urgente bisogno di parlargli. Giravano delle voci, c'era stata qualche lamentela, e ora lo svenimento in classe. Edib non sarebbe stato scortese, non era nel suo stile. No, solo una chiacchierata amichevole nel suo ufficio. Dopo aver ricevuto Robert sulla porta, si sedettero tutti e due. Edib si diede subito un'aria professionale. «Si sente meglio, ora?» chiese in tono alquanto preoccupato. Robert bofonchiò. «Stamattina non ho mangiato. Problemi allo stomaco, da un po'. Sa com'è.» Edib non lo sapeva, ma annuì con un grugnito di comprensione, figa Un brutto episodio, ma mi pare non sia stato il primo, nelle ultime due settimane. «Sì,» fece Robert sospirando profondamente. «Una discussione davanti a tutti con un collega sulla questione del suo aspetto. Anch'io mi sono accorto che in classe lei non è molto...» «Sì, lo so. Mi dispiace, signor Edib.» Robert alzò la testa e guardò il suo datore di lavoro. Sentì di avere gli occhi rossi e umidi. «Non ho scuse...» «Forse.» Edib incrociò le mani sotto il doppio mento. «Ma è mio dovere chiederle se c'è qualcosa che non va, Robert. Se ha dei problemi, forse posso aiutarla. Non stiamo ancora parlando di provvedimenti disciplinari, non abbia paura.» Ma Robert ne aveva, anche se non per le ragioni che pensava Edib.
«Penso di essere un po' esaurito...» «La maledizione dei divulgatori di conoscenza!» Edib fece un sorriso gradevole, per quanto il suo viso sgradevole glielo consentisse. «E gli studenti non sono sempre facili, lo so.» Si mise a ridere, come avrebbe fatto un ragazzo. «Ma dobbiamo andare avanti, Robert! Questi giovani hanno riposto la loro fiducia nelle nostre mani!» «E i soldi dei genitori nelle tue tasche! pensò Robert malignamente.» Sì, lo so, «disse.» Cercherò di... «Bene!» Edib fece un altro sorriso orribile. «Ero certo che non fosse niente di grave. Però queste cose non devono più accadere. Ha capito?» «Sì.» Non c'era molto da capire. Ripulirsi, smetterla di attaccar briga, leccare i piedi a quegli orrendi ragazzi e ricordarsi di mangiare, ogni tanto. Non era un impegno troppo gravoso e Robert sapeva che doveva rispettarlo, se ci teneva al posto di lavoro. Se ci teneva. Certo, la miglior cosa, per lui e Natalia, sarebbe stata far fagotto e andarsene in Inghilterra. Ma... «Sa,» continuò Edib, «tutti noi abbiamo problemi. Io ho un mucchio di difficoltà.» Prese una sigaretta dal taschino della camicia e l'accese. «Da quando è stato qui l'ispettore Ikmen con i suoi scagnozzi, i genitori continuano a farmi domande. Perché è arrivata la polizia? Cosa voleva? E così via.» Alzò le braccia e si strinse nelle spalle. «Cosa ho fatto di male?» Nel sentire la parola "Ikmen", Robert non prestò più attenzione alle parole di Edib. Ripensò a quella stupidissima lettera. Quella che non ricordava se avesse toccato o meno con le dita. L'aveva scritta proprio lì, usando le informazioni che gli aveva dato lei. L'aveva programmata. «È di nuovo verdastro, amico.» Edib si era alzato e aveva fatto il giro della scrivania per andare a posargli una mano sulla spalla. Strano, che Robert non lo avesse sentito muoversi. «Si prenda una mezza giornata di permesso. Mangi qualcosa, prenda un po' d'aria.» «Ehm...» «Sono convinto che le farà bene, davvero. E domani sarà più fresco, eh?» Domani. Sì, se ci sarebbe stato, un domani. Robert si leccò le labbra secche e annuì. Andare a casa. Pensare. Ma forse no, no. Forse era meglio uscire a svagarsi un po'. Possibilmente, o meglio, sicuramente, con l'aiuto dell'alcol. Era una domanda alla quale era impossibile rispondere e anche se i pazienti gliela ponevano spesso, le risposte necessariamente vaghe del dottor
Imad non rendevano le cose più facili o spedite. «La verità,» disse rimettendo la mano del vecchio sulla coperta, «è che non posso dirle con esattezza quanto tempo.» Reinhold Smits sollevò gli occhi arrossati sul viso del medico, con l'espressione disperata di chi vuole sapere. «Capisco la sua difficoltà, dottore,» disse, «ma mi dica almeno se si tratta di mesi, anni o...» «Se continua con la chemioterapia e conduce una vita tranquilla, nulla le impedisce di avere una buona qualità della vita per diverso tempo ancora. Finora, lei ha risposto bene alle terapie di contenimento.» «Ma quando arriverà, la fine sarà dolorosa e senza dignità!» Il dottor Imad si sedette sulla sedia accanto al letto del paziente e gli prese di nuovo una mano. «Senta, Reinhold, oggi esistono molti farmaci contro il dolore e sono quasi certo che non soffrirà. Lei ha abbastanza soldi per potersi permettere i farmaci più potenti e sofisticati. Inoltre, anche se lo ritengo un po' improbabile, il male potrebbe anche regredire.» Il vecchio si mise a ridere. «Le piacerebbe, eh?» «Farla ricoverare? Certo.» «Già.» Reinhold Smits abbassò lo sguardo su ciò che restava del suo corpo sotto le coperte. «Perché i morti non possono firmare assegni, vero, dottore?» Il medico non reagì alla provocazione. Era abituato a battute di quel genere. «Non è molto gentile da parte sua, Reinhold.» «Lo so.» Ora sembrava triste, quasi dispiaciuto. Ma era quello il suo modo di essere, ormai. «È difficile essere delicati quando ci si trova sulla soglia della casa del Signore.» «Allah, se non altro, è misericordioso, Reinhold.» Smits rise di nuovo. Era uno di quei giorni tristemente divertenti. «Non mi interessa come sia o non sia Allah. Nel caso lei l'abbia dimenticato, dottore, io sono calvinista come mio padre e, mi creda, Dio avrà poca misericordia per una persona come me.» Il dottor Suleyman Imad era medico personale di Smits da quasi quarant'anni; ormai aveva capito che non c'era risposta a quest'ultima dichiarazione. Si tolse lo stetoscopio dal collo e lo ripose nella valigetta. Smits era in buone condizioni per quello che aveva avuto e non aveva più senso trattenersi oltre. Vedendo i suoi preparativi per andarsene, Smits gli diede la sua approvazione. «È meglio che vada, ora.» «Sì.» Imad prese la giacca dallo schienale della sedia e se la infilò.
«Vorrei che lei riflettesse su quello che le ho detto a proposito della polizia, Reinhold.» «Ci penserò,» replicò il vecchio stringendosi nelle spalle. «Anche se non so a cosa mi possa servire.» «Non hanno alcun diritto di tormentare un uomo anziano come lei; il risultato è che lei ora si trova in queste condizioni. Nel caso decida di agire, parlerò volentieri col suo avvocato.» Smits chiuse gli occhi e appoggiò la testa sui cuscini. «Vedremo,» disse. «Uscendo, le dispiace dire a Wilkinson di venire da me?» «Certo.» Imad prese la valigetta e sorrise al viso impenetrabile che aveva davanti. «Ripasserò domani.» «Come vuole.» «Ci vediamo.» Non appena sentì il dottore richiudersi la porta della camera da letto alle spalle, Reinhold Smits riaprì gli occhi. Dio, era così stanco di tutta quella storia. Era stanco ancora prima che cominciasse la faccenda di Meyer, ma aggiunta allo spettro della morte, la situazione si era fatta insopportabile. Soprattutto perché l'aspetto più terribile di tutta la faccenda era una cosa che non poteva condividere con nessuno. Il corpo e la faccia di Leonid morto erano le cose più spaventose che avesse mai visto... quelle e la puzza, le mosche, il terrore disegnato col suo sangue che incombeva su di lui da quella lurida parete. Così orribile, barbaro, eppure così terribilmente sacro. Se solo non avesse parlato della svastica a quella vecchia strega. Se solo non fosse stato, e non fosse tuttora, così terribilmente vulnerabile. Adesso gli sembrava inutile aver vissuto un'intera vita nella più assoluta riservatezza. E a causa di quella piccola sbadataggine da parte sua, Maria Gulcu avrebbe potuto distruggerlo, volendo. E lui sapeva che l'avrebbe fatto. Gli venne da ridere a ripensarci. Leonid sarebbe morto dal ridere. Un lieve colpo alla porta precedette l'entrata discreta del maggiordomo. Come sempre davanti al personale, Smits si diede un contegno. «Ah, Wilkinson,» disse in tono di nuovo autoritario, «voglio che tu vada a prendermi alcune cose in biblioteca e me le porti qui.» «Sì, signore.» Smits cominciò a elencarle contandole sulle dita. «Voglio tutti i miei album delle fotografie, un libro intitolato La morte della Russia di Simon Danilov... è in inglese e si trova nella sezione "Storia", più la mia carta da
lettere, buste e penna.» Alzò un dito in segno di ammonimento. «Non una penna a sfera, una penna vera. Hai capito?» «Sì, signore.» Licenziò il domestico con un gesto della mano. «Vai.» Non appena il maggiordomo ebbe richiuso la porta, Smits si tolse la maschera di uomo sicuro di sé. Un conto era sapere quale fosse la cosa giusta, altro era agire secondo quella consapevolezza, e anche se Reinhold Smits aveva preso la sua decisione, gli rimaneva ancora qualche dubbio. Una volta fatto quello che aveva deciso di fare, Madame Maria avrebbe potuto darne l'interpretazione che voleva. In fondo, anche quei gelidi poliziotti avrebbero pensato che l'avesse fatto per i sensi di colpa o per ripicca o per tutte e due le cose. Ma che importanza aveva? Nessuna. Quello che importava, ora, era distruggere tutto, o quasi, il contenuto di quegli album. Dopodiché sarebbe stato come se non fosse mai accaduto niente e, a maggior ragione, ora che Leonid non c'era più, poteva anche essersi trattato di un sogno. Ma, oh, quanto si era divertito. Smits sorrise di nuovo e stavolta il sorriso restò più a lungo sul suo viso. Il primo pensiero di Robert Cornelius dopo essersi accomiatato dal viscido signor Edib era stato di allontanarsi il più possibile dalla scuola. Non per necessità, ma più che altro per una sfida con se stesso, avrebbe ripercorso le strade di Balat. Se all'inizio si sentiva abbastanza sicuro, quando arrivò a quell'edificio all'angolo, la realtà gli riapparve in tutto il suo orrore con una violenza quasi da infarto. Il fatto di ritrovarsi poi a correre non fece che peggiorare la sensazione di vivere un incubo dal quale non riusciva a uscire. A un certo punto gli parve persino di vedere Natalia correre davanti a lui, con il viso contratto dalla paura e il corpo un po' troppo magro. Ma nonostante tutto e nonostante il cuore gli stesse quasi scoppiando, continuò a correre finché non si fu allontanato di un bel pezzo da Balat. Quando finalmente si fermò per riprendere fiato, si guardò intorno e con sua sorpresa si accorse di essere finito in una zona della città che non conosceva. Era come se avesse proceduto alla cieca. Poiché, come sempre, era passato davanti a quel vecchio edificio, pensò che molto probabilmente si trovava più vicino al Mare di Marmara che al Corno d'Oro, anche se non ne era certo. Ma nella situazione in cui si trovava, che importanza aveva? Si guardò prima a sinistra e poi a destra. Era una tipica strada di Istanbul: una manciata di negozi, una pavimentazione stradale con le lastre di
pietra rotte, una sfilza di cani e gatti dagli occhi spiritati. Prese a destra per il solo motivo che gli sembrò una buona idea. Nelle vicinanze doveva pur esserci un bar o un albergo, in fondo era lì per quello. Bevendo, sarebbe riuscito a dimenticare e, per il momento, non desiderava altro. Al diavolo lettere, donne, poliziotti e vecchi ebrei morti. Voleva tornare a essere sé stesso per un po', prima che tutto ricominciasse per andare a finire Dio solo sapeva come. Improvvisamente, si trovò davanti un'enorme distesa blu: un grande mare con le sue barche, petroliere e imbarcazioni da diporto battenti la familiare bandiera turca con la mezzaluna e la stella. E poi c'erano bar, musica, drink e allegria. Per rilassarsi, la gente andava al mare a bere qualcosa. Un'abitudine piacevole e molto normale. Robert Cornelius, con la barba lunga, l'aria sofferente e ogni sorta di malessere, si diresse verso il cuore del divertimento. CAPITOLO XIX Leonid. Era strano, ma quando ripensava al passato, le pareva di pensare a due persone diverse. Leonid prima e dopo la mezza età. Era stato giovane per tanto tempo! A quarant'anni sembrava ancora un ragazzino, quando la andava a trovare con il sorriso sulle labbra e il passo leggero, le tasche sempre piene dei soldi di Reinhold Smits. Riusciva a farla sentire vecchia... a quel tempo. Lei ci rimaneva male. Ricordava bene quella sensazione. Ma alla fine aveva pagato. Era come se la vita si fosse presa la sua rivalsa in un colpo solo. Un giorno era giovane, mentre il giorno dopo... Forse, l'enormità di tutto quanto, alla fine, gli era apparsa come in un sogno; forse, come Lady Macbeth, alla fine si era reso conto che niente di quello che aveva fatto o avrebbe potuto fare, avrebbe cancellato ciò che era stato. Ma a un certo punto avevano rotto la loro amicizia e per un certo periodo lei si era sentita triste. Il nuovo Leonid era un dovere, soltanto una bocca da riempire di alcol e avanzi di cibo. L'ultima volta che era andata a trovarlo nella sua lurida topaia di Balat, venti, o forse trent'anni prima, era rimasta inorridita nel vederlo senza più un dente. Aveva cercato di baciarla, ma lei non aveva voluto. Le erano bastate le rudi carezze che aveva dovuto sopportare nel corso del lungo viaggio che dai monti dell'Armenia li aveva portati all'altopiano dell'Anatolia Centrale. Anche se sapeva che "sopportare" non era la parola giusta. La sopportazione implicava mancanza di com-
plicità. Maria prese una sigaretta dalla scatola accanto al letto, l'accese e si appoggiò pesantemente ai cuscini. Leonid era doppiamente eccitato durante il viaggio che li aveva portati lontano dalla loro Russia. Eccitato da lei, ma anche dalla situazione. Era stato un grande evento per un ragazzo di diciassette anni. Per diversi giorni, nonostante la toccasse, era stato impossibile parlarle. Come se le mani e la lingua avessero voluto compensare la sua incapacità di parlarle. Ma a quel tempo, lei non era stata in grado di fare un'analisi. Conosceva solo il sangue. Di tre tipi: quello che le era uscito dalla ferita sul viso, quello che le era dolorosamente colato giù per le gambe quando lui l'aveva posseduta per la prima volta e quello che aveva visto imbrattare il muro prima che partissero. Quello con cui si era sporcato Leonid nel mettersi in spalla il corpo senza vita della donna. Ricordava ancora lo sguardo di orrore sul suo viso quando, attraverso il fumo che la obbligava a tenere gli occhi semichiusi, lo aveva visto guardare in faccia la morta. Si era chiesta, in quel momento, cosa ci facesse lì uno come lui. Non che lo avesse amato. Provava gratitudine per lui e per un certo periodo, dopo essersi stabiliti in Turchia, li aveva uniti anche una grande passione, per lei dovuta più al sollievo che all'amore. Leonid era un ebreo, un animale, qualcosa di "diverso" e sgradevole... un killer di Cristo. Guardò Nicholas, appoggiato al muro dal lato opposto della stanza, strizzando gli occhi per vedere meglio. La prima persona ad averle fatto visita dopo la sua nascita era stato Leonid. Prima ancora di Mehmet. Ubriaco già allora, dopo aver dato un buffetto affettuoso sulla guancia del bambino, Leonid si era seduto sul suo letto cercando di convincerla a fare qualcosa con lui. Ma, come sempre, lei aveva opposto un secco rifiuto. Oltre a dolore e delusione, non gli aveva mai dato molto altro. Forse, mentre moriva con lo sguardo sul soffitto annerito dal fumo, con lo stomaco e la gola in fiamme, aveva pensato che quel dolore fosse un suo regalo. Forse, alla fine, l'aveva maledetta. Lei si sentiva maledetta. Quando aveva saputo che era morto, anche se quasi paralizzata dall'orrore, si era sentita maledetta. A ciò si aggiungeva il fatto che la morte di Leonid aveva scatenato la rabbia di suo figlio nei suoi confronti e ora non c'era verso di fermarlo. Leonid la teneva per la gola anche dall'oltretomba. Nicky la guardò disgustato e lei abbassò lo sguardo sulla fotografia della ragazza paffutella dai capelli castani che aveva sul grembo. Sulle guance rotondette non c'era traccia di cicatrici e i suoi occhi erano chiari. Si chiedeva dove fosse finito l'originale, quando e dove fosse sparito, ma non riusciva a ri-
cordare. C'erano tante fotografie, una volta. «Allora, mamma?» Lei sospirò profondamente e spense la sigaretta in un piccolo portacenere di terracotta. Quando lo guardò in faccia, fu colpita dalla sua espressione arrogante. Era una cosa insolita, per lui. Ma Nicky aveva riflettuto a lungo e le sue conclusioni gli avevano aperto una strada nuova ed eccitante. Nicky non aveva nulla da temere, lo attendeva il mondo con le sue meraviglie tutte da scoprire... attendeva che quell'uomo alto e barbuto uscisse dall'ombra. Maria si schiarì la voce. «Non lo so, Nicky. Non lo so.» «La decisione sta a te, mamma, ma se non ci decidiamo a fare qualcosa, dubito che le cose miglioreranno. Natalia, con la tua benedizione, devo dire, ha già coinvolto un poveraccio che non c'entra niente. Capisco il tuo punto di vista, ma...» «E io il tuo,» disse lei lanciandogli un'occhiataccia, «adesso. Ma non ti ho mai mentito, Nicky, comunque tu la pensi. Il fatto che tu abbia cambiato idea, che gli eventi ti abbiano portato a chiederti...» «Eventi?» Si avvicinò al letto e si sedette accanto a lei. «Stiamo parlando di omicidio, mamma! Il giorno in cui è morto lo zio Leonid, due membri della nostra famiglia sono stati a casa sua. E» alzò un dito per farla tacere, «prima che tu nomini di nuovo Reinhold Smits, ti ricordo che noi, tra l'altro, abbiamo un'ammissione. Se Smits dice di essere stato lì...» «E ci è stato!» «Sì, l'ha ammesso. Ma rimane il fatto, mamma, che Natalia ci ha descritto lo zio Leonid da morto prima che Smits ti contattasse confermando, senza volerlo, altri dettagli... come l'esistenza della svastica, per esempio. E nel momento in cui da questa casa dovesse uscire non solo un'ammissione ma anche una descrizione dettagliata di quanto è accaduto al povero zio Leonid, credo che le possibilità di coinvolgere Smits in tutto questo siano minime.» «Ma Natalia potrebbe essersi sbagliata, Nicky. Potrebbe essere arrivata lì dopo Smits...» Nicholas si stropicciò gli occhi, prima di rispondere. «Dimentichi, mamma, in che mani Natalia...» «Potrebbe aver mentito! Lo sai quanto sa essere cattiva!» «Ma non mente su questo, mamma. Per quale motivo dovrebbe farlo? Non ne ha nessun motivo! Lo sappiamo bene tutti e due.» Sapeva che quanto stava per dirle non le sarebbe piaciuto, ma non riuscì a trovare un altro modo per affrontare il problema. «Per questo genere di cose, ci vuole
la polizia. Dobbiamo dare loro tutte le informazioni che abbiamo e lasciare che siano loro a prendere una decisione. La faccenda si è già spinta troppo oltre!» Maria abbassò gli occhi e Nicholas ebbe l'impressione che stesse per tirare fuori quello che per lei era il vero nocciolo della questione. «E che ne sarà della famiglia?» «Che ne sarà?» Lei alzò la testa di scatto e lo guardò con aria furibonda. «Dici che ne sarà della famiglia? Lo dici dopo che per tutta la vita hai creduto nella famiglia e nelle sue tradizioni? Sapendo quali siano le nostre speranze e le nostre aspirazioni per il futuro?» Nicholas sospirò. Di nuovo quel circolo vizioso della famiglia... quel concetto noioso, e per lui ormai del tutto irrilevante, della famiglia. Quando parlò, lo fece lentamente, scandendo le parole come se dovesse rivolgersi a un bambino. «Quando la polizia e quelli dell'ufficio immigrazione avranno finito con noi, potremo ritenerci fortunati se riusciremo a trovare una stanza in affitto, mamma.» «No, no, no! Non voglio e non posso rinunciare a quella che sono, a quello che penso. Non si può pretendere una cosa simile da me!» Nicholas guardò sua madre negli occhi e vi lesse le cose, o piuttosto la mancanza di cose, che sapeva esserci da sempre. «È per questo, vero, mamma? Non vuoi fare ciò che andrebbe fatto non perché siano coinvolti dei membri della tua amata famiglia. Non vuoi farlo per te, per le tue delusioni del passato e il tuo strano, assurdo mondo. È per questo che ci hai fatto diventare i pietosi mostri che siamo.» Si alzò. «Guardami, mamma! Sono vecchio, eppure porto l'uniforme di un reggimento di soldati morti molto tempo prima che io nascessi. Sono un fenomeno da baraccone! E quel che è peggio, il tuo fenomeno da baraccone! Guardami, mamma!» Lei non disse più niente e non parlò neanche lui, finché non fu sulla porta. A quel punto si girò e guardandola in faccia, disse: «Ti do tempo fino a domani mattina, mamma, poi sarò io a fare quello che si deve fare. Ma se hai un minimo di dignità, fallo tu. Servirebbe a farmi recuperare un po' di rispetto per te.» Accennò un inchino e uscì. Sola, amareggiata e delusa, quando cercò di stracciare le lenzuola, Maria Gulcu scoprì di non avere più forze. Il bar Parigi non era il genere di locale dove si andava semplicemente per bere qualcosa. A meno che non si avesse intenzione di ubriacarsi, era un posto da cui tenersi alla larga. I clienti abituali erano rumorosi, spesso
si trattava di delinquenti non estranei a fatti di violenza. Ikmen ci andava di rado, ma quelle poche volte, si godeva l'esperienza. Tenne aperta la porta sudicia per far passare Suleyman ed entrando, il giovane vide uno stuolo di prostitute dagli occhi pesantemente truccati, puntati nella loro direzione. Il locale puzzava di sudore e di vomito. Suleyman non fece niente per nascondere il suo disgusto. «Proprio qui?» «Sì,» rispose Ikmen con la stessa aria innocente di una guida a spasso con i turisti per le bellezze della città. «In un postaccio del genere!» Ikmen si strinse nelle spalle. «Si spende poco.» Lasciò andare la porta e si addentrò nell'oscurità densa di fumo. Nel vedere la porta richiudersi alle sue spalle, Suleyman sospirò. Non aveva molte alternative. O raggiungeva Ikmen nell'inferno alcolico del bar Parigi rischiando la vita per mano di qualcuno di quei loschi personaggi, oppure se ne tornava a casa da sua madre. Con uno scatto si diresse verso il bar offuscato da una fitta nube di fumo. Individuò subito Ikmen, seduto su uno sgabello davanti al banco, che sollevava un bicchiere gridando al cameriere qualcosa che lui non poté sentire. Ikmen riusciva a distinguersi per la sua trasandatezza e sciatteria persino in mezzo alla strana fauna del bar Parigi. Mentre stava per raggiungere Ikmen, Suleyman si vide superare da una donna molto alta con un abito tempestato di lustrini che andò a occupare lo sgabello verso il quale stava puntando lui. Non appena si fu seduta, la donna buttò le braccia intorno al collo di Ikmen e lo baciò affettuosamente sulla guancia. Con grande sorpresa di Suleyman, invece di respingere quell'inaspettato approccio, Ikmen, devoto marito e padre di famiglia, ricambiò il bacio della donna... sulle labbra. Dire che rimase scioccato, sarebbe stato un eufemismo. Restò per qualche istante a fissarlo a bocca aperta. Ikmen si mise a ridere. «Vieni, Suleyman. Vieni a conoscere Samsun.» Guardò la donna dal naso aquilino e i denti sporchi sforzandosi di sorridere. Dopo avergli messo in mano un bicchiere di qualcosa che puzzava pericolosamente di benzina, Ikmen fece le presentazioni. «Samsun, questo è Suleyman, il mio sergente. Suleyman, questa è Samsun, una divina signora di dubbio mestiere che si dà il caso sia mia cugina.» Prese tra le dita un ginocchio ricoperto di lustrini e lo strinse. La donna si mise a ridere come una ragazzina, con il pomo d'Adamo che faceva
su e giù contro la collana di perle rosse e blu. «Çetin, tu sì che ci sai fare, con le donne!» La voce era profonda, con un impercettibile accento straniero, inconfondibilmente maschile. La creatura posò una mano sul banco e Suleyman notò i grossi peli sulle nocche, appena sotto le unghie laccate di rosso. Suleyman cercò di darsi un'aria disinvolta. «Salve,» disse prima di buttare giù in tutta fretta un sorso del suo drink. Se avesse dovuto descrivere l'effetto che gli fece l'alcol, avrebbe dovuto paragonarlo a una randellata in testa. Accortasi del suo disagio, Samsun gli posò una mano sulla schiena e lo guardò con l'aria preoccupata. «Il brandy di questo posto è un po' troppo forte, se non ci si è abituati.» «Ma vale la pena goderselo, se non altro perché costa poco,» disse Ikmen togliendo la grossa zampa di sua cugina dalla schiena di Suleyman. «Vietato toccare, Samsun!» aggiunse facendole l'occhiolino. «Un poliziotto? Ma figurati!» Ikmen si strinse nelle spalle. «Sei albanese.» «Questo non significa che io sia matta!» Samsun atteggiò le labbra al broncio. «Comunque, preferisco i mercanti d'oro, sono molto generosi e gli piace giocare a fare la femme a letto.» Pronunciò l'ultima parola con malizia, rivolto a Suleyman. Il giovane si sforzò di ingurgitare il suo drink. L'unica consolazione era che aveva capito che Ikmen si era accorto del suo disagio. Non avrebbe resistito ancora per molto. Samsun posò una mano sulla spalla di Ikmen e gli accarezzò il collo. «Allora, cosa ci fai in questo postaccio, ispettore?» «Quello che ci fai tu, penso, tranne il sesso.» «Intendi farti fare a pezzi o ubriacarti?» Ikmen guardò nel suo bicchiere grattandosi il mento. «Non lo so ancora, non ho ancora deciso.» Samsun si mise a ridere e tirò fuori dalla borsa un portasigarette d'oro. «Io preferisco sempre ubriacarmi, in mancanza di sesso, e tu non sei ubriaco, perciò...» Ikmen si protese in avanti e guardò Samsun negli occhi. «Ti trattieni qui ancora per un po', bellezza?» «Perché?» fece Samsun socchiudendo gli occhi. «Vuoi che ti faccia una previsione?» «Forse,» rispose Ikmen con un sorrisetto.
«Allora è per questo che sei venuto.» Samsun si accese una sigaretta e gli sbuffò il fumo in faccia. «Vuoi che te la faccia adesso?» «No.» Ikmen inclinò la testa verso Suleyman. «Dopo che avrai fatto qualcuno dei tuoi giochi di prestigio.» «Come quello di travestirmi da ragazza con i soldi nella borsetta?» «Credo che la gente mi trovi simpatico per la grande capacità che ho di pagarmi da bere.» Ikmen finì di scolarsi il liquore e fece cenno al cameriere di riempirgli di nuovo il bicchiere. Samsun scoppiò di nuovo in una sonora risata e Suleyman si chiese se i seni traballanti fossero frutto di una cura ormonale o piuttosto di una protesi. «Allora,» Ikmen si diede una pacca sul ginocchio e si alzò. Poi guardò Suleyman. «Il sergente e io dobbiamo discutere di alcune cose, perciò ci appartiamo a un tavolo lontano da orecchie indiscrete.» Samsun sporse le labbra. «Non allungare le mani sotto il tavolo, Çetin, a meno che non mi lasci guardare.» Ikmen alzò una mano come per giurare. «Promesso.» Poi prese Suleyman per il gomito. Samsun se ne accorse e disse con indignazione: «Sei un uomo sposato, Çetin, ricordatelo!» Ikmen si allungò verso Samsun e la baciò sulla guancia. «Ho otto figli che me lo ricordano ogni istante!» Si sorrisero e Samsun diede a Ikmen un pizzicotto sulla guancia. «Ci vediamo più tardi, cuginetto.» «D'accordo.» Ikmen condusse Suleyman a un tavolo sporco di birra nell'angolo più buio del bar. La confusione maggiore era intorno al banco e vicino alla porta. In quell'angolo, invece, non c'era nessuno. «Perfetto,» disse Ikmen sedendosi su uno sgabello pieno di briciole di biscotto. «Scusami, per tutto questo, Suleyman.» Guardò in direzione di Samsun, seduta al banco del bar con l'aria languida. «Questioni di famiglia.» «Ehm... sì.» Suleyman si sedette di fronte a lui rigirandosi nervosamente il bicchiere in mano. «Samsun è un nome, ehm...» «Il suo vero nome è Mustafa, ma non va molto insieme alla borsetta.» Ikmen si protese sul tavolo e sussurrò: «Si dice che abbia scelto il nome Samsun perché ha un debole per gli uomini di quella città.» Poiché non c'era risposta a un'affermazione del genere, Suleyman si li-
mitò a sorridere. Ikmen cambiò argomento. «Comunque, tornando al lavoro, è stata una giornata nera, immagino tu sia d'accordo.» «Sì.» Suleyman abbassò la testa e guardò fisso nel suo bicchiere. L'orrido intruglio sembrò quasi ricambiare il suo sguardo. «Certo,» continuò Ikmen stancamente, «se non avessi detto a Ferhat di sospendere la sorveglianza, ora non saremmo in questa situazione.» «Non poteva sapere che Cornelius si sarebbe sentito male.» Ikmen sospirò. «No, ma se quel maiale fosse almeno tornato a casa sua. Che ci sta a fare, in giro, se sta male?» «Non lo so.» Rimasero in silenzio per alcuni istanti, chiedendosi tutti e due cosa sarebbe potuto accadere se il destino non gli avesse messo un altro bastone tra le ruote. Fu Suleyman a rompere per primo l'opprimente silenzio. «Perlomeno,» disse, «adesso sappiamo che Cornelius e Natalia Gulcu sono qualcosa di più di semplici amici.» Ikmen si mise a ridere. «L'abbiamo sempre saputo... io, almeno.» «Sì, ma il kapici è stato molto esplicito: i litigi, il sesso rumoroso,» arricciò leggermente il naso «la spudoratezza di quella ragazza.» «Già...» Ikmen si interruppe per accendersi una sigaretta. «Immagino tu sia andato a casa dei Gulcu a vedere.» «Sì, ma non era lì. Mi ha aperto l'uomo con la barba e devo dire che è stato molto fermo sull'argomento.» «Mmm...» Ikmen socchiuse gli occhi, come colto da un improvviso sospetto. «Cos'altro potevo fare?» continuò Suleyman. «Come lei stesso ha detto, non abbiamo prove sufficienti per arrestare Cornelius e io non ero autorizzato a perquisire la proprietà dei Gulcu.» «Probabilmente sarà questo, il prossimo passo,» disse Ikmen. «Intende perquisire subito la casa per cercare Cornelius?» «No, no. Sono sicuro che non sia lì, ma...» Suleyman approfittò della breve pausa per allontanare da sé la disgustosa bevanda spostandola da un lato. «Ma cosa, signore?» «La tanica, o quello che sia, che conteneva l'acido deve pur essere da qualche parte, non ti pare?» «Sì.» «E se è stato uno dei Gulcu a uccidere Meyer, è probabile che si trovi
ancora a casa loro.» Suleyman sembrò dubbioso. «Sì, ma dovrebbero essere pazzi a tenersela lì!» Ikmen sorrise. «Ah, ma loro sono pazzi, Suleyman. Hai visto come si vestono, come vivono. I Gulcu non appartengono a questo mondo e credo che non capiscano nemmeno le regole che seguiamo tutti.» «D'accordo, ma...» «Ma cosa?» Suleyman si strinse nelle spalle. «Nonostante tutto, non capisco che motivo avrebbero avuto di uccidere Meyer.» Ikmen ingoiò l'ultimo sorso del suo drink e posò pesantemente il bicchiere sul tavolo. «Non sei l'unico a non capire. E finché la signora Gulcu, il signor Smits o tutti e due non si decideranno a svelare qualcuno dei loro segreti, temo che non possiamo far altro che congetture. Però sono convinto che la presunta partecipazione di Meyer a quelle esecuzioni di tanti anni fa abbia qualcosa a che fare con tutto questo. Intendo dire che quando si fa fuori qualcuno, dopo tanto tempo, come nel nostro caso, il ricordo e il dolore si affievoliscono. Ma non è stato così per Meyer. Nemmeno l'alcol è riuscito a tenere a bada i suoi sensi di colpa. È rimasto sempre tutto molto vivo nella sua memoria. E come ho detto prima, sono convinto che ci sia qualcun altro che ricorda molto bene tutto quanto.» «Sì, ma perché? Specialmente per quanto riguarda Smits, perché far sentire in colpa Meyer per tutto questo tempo, a che scopo?» «Suppongo,» disse Ikmen, «per motivi che non capiamo. Credo che abbia tutto a che fare con le "cose" che i tre avevano l'uno nei confronti dell'altro.» «Per esempio?» Ikmen si strinse nelle spalle. «Non lo so. I vecchi crimini di Meyer, il passato nazista di Smits. La signora Gulcu? Mah...» «Il fatto che risieda illegalmente in questo Paese?» suggerì Suleyman. Ikmen bevve un altro sorso dal suo bicchiere. «No, non credo sia questo,» dichiarò. «Abbiamo visto tutti e due che quando ne abbiamo parlato, non si è dimostrata molto preoccupata. Qualunque cosa sia, la signora Gulcu non è certo una persona rispettosa della burocrazia.» «Ma...» Suleyman si accorse che Ikmen stava guardando il suo bicchiere vuoto e pensò di lasciargli il tempo di farselo riempire di nuovo. Ma Ikmen aveva altri pensieri per la testa. «Ma cosa, Suleyman?» lo sollecitò.
«Ma... perché Smits o la signora Gulcu avrebbero dovuto uccidere Meyer, adesso? Voglio dire, che nesso c'è tra tutte queste cose?» Ikmen buttò il mozzicone di sigaretta per terra e lo schiacciò con il piede. «Non lo so,» ammise in tono stanco. «Ma se non salta fuori qualcosa di concreto da parte dei medici legali, temo che non riusciremo a risolvere questo caso.» Suleyman emise un profondo sospiro di esasperazione. «È un incubo. E anch'io, come lei, sto cominciando a chiedermi se riusciremo mai a scoprire cosa sia accaduto, chi stia dicendo la verità...» «Visto che me ne sto occupando io, lo scopriremo,» disse Ikmen facendo improvvisamente un sorriso smagliante. Era una sua caratteristica, quella di passare dalla disperazione più nera a una grande sicurezza di sé nell'arco di una frazione di secondo. Con un gesto verso il bicchiere quasi pieno di Suleyman, domandò: «Vuoi che ti faccia portare qualcos'altro? Qualcosa che non ti faccia vomitare?» Mentre osservava l'ultimo glorioso, serafico volto arrotolarsi tra le fiamme prima di trasformarsi in cenere, Reinhold Smits si asciugò una lacrima all'angolo dell'occhio. Era passato tanto tempo dall'ultima volta che aveva sentito la pelle di una bambina contro la sua, eppure, se gli avessero chiesto i nomi di quelle bambine, sarebbe stato in grado di dirli tutti. Ma era stato meglio fare così e con la sparizione di tutte quelle esistenze finite ormai nella tomba, che Leonid gli aveva agitato davanti per tutti quegli anni, la storia si era finalmente conclusa. Adesso era come in realtà era sempre stato: completamente solo... senza più appoggi, senza poter più ingannare neanche sé stesso. Un colpo deciso sulla porta annunciò l'arrivo di Wilkinson. Smits si alzò lentamente dalla poltrona davanti al fuoco e si diresse verso il letto. «Avanti,» disse attraversando faticosamente la stanza. Quando il maggiordomo entrò, Smits si accorse che era più pallido del solito. Ma la giornata era stata lunga. Tuttavia, come faceva sempre con i suoi dipendenti, non accennò a niente di personale. «Puoi riportare il libro in biblioteca,» ordinò indicando il volume sulla sua scrivania. «Sì, signore.» Il maggiordomo si avvicinò con passi felpati alla scrivania e prese delicatamente il libro con le dita inguantate. «Ah, prendi anche la lettera che c'è lì e spediscila.» Il maggiordomo prese la busta rosa profumata gettando un'occhiata
all'indirizzo. «Vuole che lo faccia subito o domattina, signore?» «Subito, per favore.» Smits si sistemò faticosamente nel letto. «Di' a Muhammed di accompagnarti in macchina.» «Va bene, signore.» Fece per uscire, ma Smits lo fermò. «Oh, Wilkinson...» «Signore?» «Un'ultima cosa.» Sistemò i cuscini per mettersi più comodo. «Ti sei mai chiesto, in tutti questi anni che hai lavorato per me, come ci si senta a essere ricchi come me?» Per un attimo il maggiordomo sembrò colto alla sprovvista, ma poi, riacquistato il suo abituale savoir faire, rispose: «Sì, qualche volta me lo sono chiesto, signore.» Smits sorrise. «E?» «Penso che sotto certi aspetti, debba essere molto piacevole, signore.» Smits annuì. «Sì, lo pensavo anch'io. Il maggiordomo si mise il libro sotto il braccio e infilò la lettera nella tasca della sua divisa.» Se è tutto, signore... «È tutto, Wilkinson, grazie.» Prima di uscire, fece un inchino. «A domattina, signore.» «Buonanotte, Wilkinson.» «Buonanotte, signore.» Smits non si mosse finché non sentì la sua automobile uscire dal viale d'accesso. Poi, con un movimento insolitamente agile, aprì il cassetto del comodino e prese quello che lo attendeva fin dalla mattina. Sapeva di dover agire in fretta, altrimenti non ce l'avrebbe fatta. CAPITOLO XX Si dice che l'assassino torni sempre sul luogo del delitto. È un detto che fa ridere quelli troppo sofisticati per lavorare in ambito poliziesco. Ma non fece lo stesso effetto su Robert Cornelius. Mentre osservava la luna sorgere dietro l'imponente mole del museo Kariye, era tutto tranne che allegro. Era tornato a Balat quasi senza rendersene conto. Tutto aveva avuto inizio nel pomeriggio, con l'innocente desiderio di ubriacarsi. Un drink nel primo bar lo aveva portato ad altri drink in altri bar, e solo al settimo o ottavo gin tonic si era accorto dove lo avesse portato il suo vagabondare apparentemente senza meta. La vista del tetro condominio di Meyer lo aveva sconvolto. Come e quando ci era arrivato? Si voltò a guardare il Kariye e
poi di nuovo quell'edificio, e a quel punto si rese conto di essere proprio lì. Non sapeva perché, forse per effetto dell'alcol. Alla luce chiara della luna piena gli parve di vederla di nuovo, appiattita contro il muro, pronta a fuggire. Ma strizzando gli occhi vide che non era lei bensì un poliziotto dall'aria annoiata, con tanto di mitra, appoggiato al portone che portava alla scala. Ne aveva visti parecchi da quando era entrato in quel quartiere, ma nessuno che conoscesse, tanto meno Ikmen. Quella presenza, tuttavia, lo indusse a pensare che forse non era una buona idea girovagare di notte per le strade di Balat. Se Ikmen lo avesse saputo, sarebbe giunto a delle conclusioni pericolose per Robert, anche se logiche per l'ispettore. Dietro l'angolo c'era un altro bar che aveva visto una volta tornando da scuola, e Robert aveva disperatamente bisogno di un altro drink. Il poliziotto di guardia davanti alla casa di Meyer sembrò guardare nella sua direzione e si schiarì la voce come per prepararsi a parlare. Robert proseguì a passi incerti in direzione del bar. Il poliziotto fece un passo indietro e, con grande sollievo, Robert lo vide scomparire nell'ombra proiettata da uno dei balconi del primo piano. Forse anche lui provava quella strana sensazione che aveva avuto Robert pochi minuti prima, quando, guardandosi intorno, aveva capito dove si trovasse. Il quartiere era tranquillo, come lo era sempre; a differenza dei turchi, gli ebrei non avevano l'abitudine di tenere la radio e la televisione a tutto volume. Ma non era forse qualcos'altro, a creare quella strana atmosfera? Girò nella stradina dove ricordava di aver visto un bar e proseguì a testa bassa. Gli edifici da ambedue i lati della strada erano alti e impedivano ai raggi della luna di illuminare la via e la zona in cui sporgevano i balconi. Non si vedeva nemmeno il cielo. L'oscurità era paragonabile a quella di un treno fermo in galleria a luci spente. Robert si sentiva a disagio, ma se voleva bere, doveva procedere nel buio. O andava avanti, o tornava indietro per uscire da quel quartiere, ma non voleva farlo. Non ancora. Mentre camminava, sentì un rigurgito di bile bruciargli la gola ed ebbe un conato di vomito. Aveva bevuto troppo... come se la cosa avesse qualche importanza. Niente aveva più molta importanza, ormai. Era un cattivo insegnante; non era mai stato molto tagliato per quel mestiere, non gli era mai piaciuto molto. Ci si era trovato dentro, com'era accaduto per molte delle cose che aveva fatto, tranne le sue relazioni. Era una sensazione molto sgradevole. Consciamente o inconsciamente, aveva sempre fatto finire male tutto. Forse dipendeva dalla mancanza di autostima, forse la convinzione che tutto dovesse sempre andargli storto, influiva sugli eventi.
Di fronte a lui si aprì una porta e una mano lanciò nel buio afoso della strada un gatto che miagolò disperatamente. Il breve sprazzo di luce illuminò la pila di sacchi della spazzatura accatastati per terra. La porta si richiuse e Robert capì di essere solo con il gatto, dovunque fosse andato a finire. Sentì la musica quando fu a metà di quell'inaccessibile stradina senza nome. All'inizio gli sembrò una canzone turca, ma non appena le sue orecchie si furono abituate al suono, capì che la donna stava cantando in una lingua che lui non conosceva. Di qualunque cosa si fosse trattato, era una musica orientale. Nonostante vivesse nel Paese da tempo, quei mezzi toni suonavano sgradevoli alle sue orecchie europee. Comunque era contento, perché se c'era musica, significava che era sulla strada giusta per il bar. Lo sperava, perché stava facendo dei brutti pensieri e non aveva più voglia di stare da solo. Non era da lui, quella rabbia irrazionale nei confronti di un povero e vecchio ebreo morto che non aveva mai conosciuto personalmente. Sapeva bene che non era con Leonid Meyer che doveva prendersela, ma la rabbia era più forte di lui. Gli era sembrato che tutto andasse bene, finché non aveva visto Natalia allontanarsi di corsa dalla casa di Meyer. Le cose con lei non erano mai state facili, ma... Un altro poliziotto uscì improvvisamente da un portone, passandogli accanto senza badare a lui. Robert si girò e lo vide puntare deciso verso il Kariye. Per un attimo si chiese come mai l'agente non lo avesse fermato; di notte lo facevano spesso, ma poi ricordò che gli ubriachi erano invisibili. La gente si teneva alla larga da loro, a volte anche i poliziotti. Era più semplice lasciarli dov'erano che portarli dentro. Si risparmiava spazio in cella e nove volte su dieci preferivano fare così. Voltandosi di nuovo, Robert vide una fila di luci natalizie rosse e verdi appese sopra un portone alla sua sinistra. La musica proveniva da lì e mentre si avvicinava, sentì l'aroma aspro e untuoso del raki di pessima qualità. Era una strana cosa, un bar di ebrei. Anni prima, quando era ancora all'università, Robert era stato a un matrimonio ebreo in un luogo chiamato Forte Hall, a nord di Londra. Era stata una cerimonia particolare, quasi interamente dedicata ad abbuffarsi. Naturalmente c'erano liquori a volontà, ma nessuno li aveva presi molto in considerazione. Raggiunta la porta scura e sudicia, come poté notare alla fioca illuminazione delle luci natalizie, la spinse delicatamente con un piede. Evidentemente non doveva essere chiusa a chiave dall'interno, perché si aprì facilmente. Una luce del colore del viso rosato si stagliò sulla strada e sulle scarpe di Robert, seguita subito
dopo da una fitta nebbia verdastra. All'interno, la donna che cantava e il brusio di voci maschili, che conversavano in una lingua dal suono duro e catarroso, creavano un gran baccano. Preso dal suo bisogno di alcol, Robert spalancò la porta. Venti o trenta facce di carnagione scura e dalla barba lunga alzarono gli occhi dai loro bicchieri per guardarlo. Un naso a forma di falce, sormontato da un cappello di feltro a falda larga, tirò su rumorosamente in segno di disprezzo. La cantante, l'unica donna del locale, grassa e tempestata d'oro, continuò la sua triste cantilena, anche lei con gli occhi puntati su Robert. Nessuno di loro mostrò la minima cordialità; gli sguardi che incontrò erano tutti apertamente ostili. L'inglese non era abituato a situazioni del genere e per qualche istante fu incapace di muoversi. Gli venne in mente quella volta che era entrato inavvertitamente in un caffè curdo nella zona orientale, vicino a Mardin, trovandosi di fronte all'aperta e pericolosa ostilità della gente, con la sgradevole sensazione che se avesse superato quella soglia, se ne sarebbe pentito. Ma questi erano soltanto degli ebrei! Gente come Marion e Martin di Hornsey, la famiglia della porta accanto di quando andava alle elementari! Nessuno di quegli occhi batté ciglio. Guardandoli, Robert capì che era inutile chiedersi cosa stessero pensando, anche perché non gliene importava niente. Non aveva intenzione di far loro del male, voleva solo bere qualcosa che era disposto a pagare. Era furioso per quei gelidi occhi scuri. Avvicinandosi al bar, notò che era sporco e poco fornito. Fu a quel punto che la donna smise di cantare. Samsun respirò profondamente e guardò nella bacinella piena d'acqua sul tavolo. A parte lei, Çetin e qualche avventore ubriaco, il bar Parigi era vuoto, ormai. Naturalmente il personale avrebbe ancora servito da bere a chiunque fosse stato in grado di pagarsi un drink, ma col passare dei minuti quell'eventualità si faceva sempre più remota. Samsun chiuse gli occhi per qualche istante, cercando di estraniarsi da quanto aveva intorno. Ascoltò il rumore del suo respiro bronchitico e mentalmente lavò i meandri della sua mente con acqua pura e cristallina. Çetin era venuto apposta per farsi fare una previsione e ricorreva a lei solo quando si trattava di qualcosa di importante. La "veggenza" di Samsun, anche se quasi sempre sorprendentemente esatta, non era un dono facile da gestire. A volte poteva essere deludente, a volte spaventosa. Raramente Samsun vedeva qualcosa di buono nella sua bacinella, il che induceva molti a cre-
dere che fosse posseduta da una sorta di demonio o genietto. A volte se lo chiedeva lei stessa, pensando a quella che era stata la sua vita fino a quel momento. Continuando a respirare profondamente, aprì gli occhi e guardò attraverso la sottile lente che copriva la superficie dell'acqua. Ora non c'era più niente: il bar, Çetin seduto dall'altra parte, i suoni inarticolati emessi dagli ubriachi. C'era solo acqua, dove si trovava Samsun, immobile come l'obiettivo di una macchina fotografica che la introduceva in un mondo di immagini apparentemente strane e confuse. Come fossero stampati su tela, i contorni erano sbiaditi e indistinti. Le immagini scorrevano una dopo l'altra senza apparente movimento, fondendosi l'una con l'altra come morbida creta fino a creare delle forme distinte. Per un attimo vide il volto di Çetin, con gli occhi chiusi, le sopracciglia aggrottate come in preda a una grande angoscia o a un grande dolore. Ma poi scomparve, e al suo posto comparì un gruppetto di bambini che correvano per la strada che da Santa Sofia portava allo scalo di Eminönü. Tra loro, Samsun vide il proprio viso di vivace dodicenne dalla lingua tagliente. In alto. Non sapeva dove, ma sui tetti della città, il sole le bruciava il collo come una torcia e sotto i suoi piedi... faceva molto caldo anche sotto i suoi piedi. Le facevano male, come quando, da piccola, camminava scalza. L'immagine non svaniva e nonostante si sforzasse di non farlo, Samsun guardò giù. Sotto c'era una strada, stretta e tortuosa come una vena sul dorso della mano di un vecchio. C'erano della gente e un'automobile. Tutti guardavano in su, ma lei non riusciva a vedere chiaramente i loro volti. Alcuni erano fermi, ma altri, tra i quali uno che indossava un elegante abito grigio, le facevano dei gesti con le mani e gridavano. Nonostante i suoi sforzi, non riuscì a capire cosa stessero gridando, ma erano spaventati. Poi non fu più sola, lassù. Voltandosi da un lato, vide un giovane. Di carnagione scura, il suo viso senza barba era di una bellezza quasi femminile. Fu colta da un'orribile sensazione. Qualcosa di rosso spruzzò dai suoi piedi andando a colpire le gambe del giovane, che le sorrise. La sua bocca era una porta attraverso la quale lei vide l'immagine di una donna che cadeva da un muro, con il sangue che, coagulandosi, macchiava per sempre l'intonaco dietro di lei. Poi, con un balzo, il giovane volò in aria come un razzo e dopo aver volteggiato per qualche istante, cominciò a scendere. Fu una visione molto bella. Il giovane volteggiava con grazia, trasportato dalle correnti d'aria
che soffiavano tra un edificio e l'altro. Per un istante Samsun rimase incantata da quella visione, finché non vide quel corpo afflosciarsi improvvisamente e cominciare a precipitare. Sotto, a terra, un altro uomo, vestito di grigio, dal viso familiare, corse in avanti, verso la traiettoria di caduta dell'altro. Samsun avrebbe voluto chiamarlo per avvisarlo, ma sapeva che non l'avrebbe sentita. Non era una cosa reale. Era una cosa in attesa... in attesa di diventare reale. Samsun aprì gli occhi e si leccò le labbra. «Sarà domani.» La mano di Çetin tremava mentre tirava fuori una sigaretta dal pacchetto e se la metteva tra le labbra secche e screpolate. Distolse gli occhi dal viso di Samsun. «E?» «Andrà tutto bene, cuginetto.» Çetin tornò a guardarla e lei lo fissò dritto negli occhi. «Ma soltanto se sarai solo. Non devi assolutamente portarti dietro il tuo giovane sergente. Hai capito?» Non che a Rabbi Isak non piacessero quelle occasioni d'incontro con altri membri del clero locale, ma c'era sempre qualche problema. I sacerdoti, sia quelli cattolici che quelli ortodossi, amavano accompagnare i loro impegni con qualche conviviale bicchiere di vino. Naturalmente il vino non era kasher, cioè puro secondo la legge religiosa ebraica, il che significava che lui e i suoi colleghi dovevano portarsi il loro, se volevano concedersi un'indulgenza. Gli imam, però, non gradivano la cosa e lui aveva sempre avuto la sensazione che ciò creasse una barriera tra loro e il resto del convivio. Rabbi Simon, nonostante ce la mettesse tutta, non capiva il Medio Oriente, così come non capiva la vecchiaia. Accompagnarlo per la strada! Per chi lo aveva preso, quel giovanotto insolente! Quelle erano le sue strade, non si sarebbe perso neanche se fosse stato cieco, ma quell'uomo era polacco e quindi non poteva capire. Rabbi Isak conosceva bene la strada di casa sua e se fosse stato aggredito, beh, voleva dire che era la volontà divina. Gli europei non lo capivano; se era scritto era scritto e non c'era niente che lui o l'intera armata turca potesse fare per cambiare le cose. Ma l'incontro era andato bene. Come al solito, i musulmani erano stati i meno cordiali e i cristiani quelli più cordiali, ma era la vita. L'Islam, al pari dell'ebraismo ortodosso, non amava i cambiamenti, soprattutto perché in fondo non ne aveva bisogno. Le sinagoghe e le moschee erano sempre piene, a differenza delle chiese. Perciò pensava che i sacerdoti dovessero fare qualcosa: costruire più orfanotrofi, cercare di persuadere il papa a tor-
nare a far loro visita. La Turchia era una sorta di avamposto del mondo cristiano, e spesso aveva pensato che non dovesse essere una situazione facile da gestire. Ma esisteva qualcuno per cui qualcosa fosse facile? Da un po' di tempo si vedevano per la strada strani uomini barbuti dallo sguardo fiero. Molti di loro venivano dall'Est e la dottrina che predicavano aveva poco a che fare con la tradizionale tolleranza che i nativi di Balat si sarebbero aspettati. Sembrava che in tutto il mondo, la gente stesse tornando ad abbracciare ideologie estremiste. La guerra in Iugoslavia, la violenza fondamentalista in Egitto, la rinascita del fascismo in Germania. Segni di questa tendenza c'erano stati persino a casa loro. Quel vecchio russo torturato, con il muro imbrattato da una svastica, a pochi minuti da casa sua! Simon era molto preoccupato, d'altra parte i suoi genitori erano stati nei campi di concentramento. Non capiva il giudaismo turco e temeva che la morte del vecchio Meyer fosse solo l'inizio. Isak sorrise e girò lentamente nel vialetto che correva dietro le case della strada in cui abitava. Simon, secondo lui, aveva fatto di un episodio isolato, per quanto triste, una montagna. Certo, era stato un atto vile che però, secondo Isak, non aveva un gran significato, se non quello che in città girava un pazzo. Cose del genere erano sempre accadute e sarebbero continuate ad accadere, dove la gente viveva accalcata gli uni sugli altri. I problemi veri non erano i vecchi alcolizzati che venivano ammazzati nelle loro misere topaie, erano i governi e la manipolazione del fervore nazionalista o religioso da parte dei governi. In Turchia non accadevano queste cose, almeno alla luce del sole, a parte i problemi con i curdi, naturalmente. E comunque, giusto o sbagliato, erano affari loro e finché la situazione, che per loro stessa ammissione era triste, piuttosto triste, non turbava la sua comunità, Rabbi Isak era disposto a dimenticarsi dei curdi, povere anime! Ma... ma molti altri paesi dovevano vedersela con situazioni del genere. Passando dietro il giardino del signor Zarifi gettò una rapida occhiata ai lunghi rami del suo limone. Ce ne era voluto per farlo crescere nel terreno arido e inquinato della città, ma Zarifi ce l'aveva fatta. Isak sentì il canto mentre raccoglieva una foglia del limone di Zarifi. Anche se capì subito che si trattava del lamento di un ubriaco, non avrebbe saputo dire che canzone fosse e nemmeno la lingua in cui era cantata. Era impossibile anche dire con certezza che fosse una canzone, perché ogni tanto la voce si fermava e prima di ricominciare mormorava qualche imprecazione. L'unica cosa di cui era certo era che proveniva dalla parte del viale di fronte a lui, il tratto che gli mancava per arrivare a casa.
A Isak non piacevano gli ubriachi ma non li detestava nemmeno. Nel corso della sua lunga vita aveva visto troppa povertà e sofferenza per non capire il dolce oblio e persino la pace che riusciva a dare una bottiglia di raki. A volte ci era ricorso anche lui, anche se non si era mai ubriacato. L'ebbrezza era uno stato terribile. Gli ubriachi erano una seccatura, urinavano sui marciapiedi e vomitavano negli autobus. Povere creature. Isak sospirò e si avviò verso casa. Ora il canto si era fatto più forte e aguzzando la vista nel buio, gli parve di vedere una figura dai lunghi arti che pendevano quasi fino a terra come quelli di una scimmia, passare barcollando accanto alla rimessa in fondo al cortile di Cohen. Ma non ne era certo. Forse c'era lui solo in quel vialetto, o forse no. In realtà faceva poca differenza, doveva andare a casa e se per farlo era obbligato a passare accanto a qualche ubriaco puzzolente, l'avrebbe fatto. Da come cantava, di chiunque si fosse trattato, era quasi certamente troppo ubriaco per fargli del male. Rabbi Isak tirò fuori le chiavi dalla tasca e si mise a fischiettare un motivetto. Quando era solo, le vecchie canzoni della sua gioventù gli facevano sempre compagnia. Improvvisamente, però, la situazione cambiò. Una mano flaccida, sbucata da chissà dove, gli toccò leggermente il petto. Isak trasalì, ma più per la sorpresa che per la paura. Era stata una cosa talmente improvvisa che il cuore si era messo a galoppare lasciandolo quasi senza fiato. La mano gli scivolò lungo la giacca e quando si piegò a guardare, sentì chiaramente l'acre odore di un fiato saturo di raki. Anche se non riusciva a vederlo, Rabbi Isak sapeva che il suo cantante ubriaco era steso per terra davanti a lui come un tappeto umano. Un brutto stato per chi ci si trovava e per lui, un ecclesiastico, una situazione che richiedeva il suo intervento. Piegò faticosamente la sua vecchia schiena e mentre si abbassava, vide due piccoli ma brillanti occhi che lo fissavano sconcertati. Rabbi Isak tese la mano verso la creatura e parlò in un sussurro. «Oh, poverino. Lascia che ti aiuti.» «Che diavolo ci fai ancora in piedi?» Come sempre, quando era in quello stato, era più arrabbiato con se stesso che con lei. Çetin Ikmen beveva, ma raramente si ubriacava. Quando lo faceva, significava che era molto depresso o preoccupato per qualcosa, anche se quelle scuse funzionavano poco con Fatma. Erano le due del mattino passate e lui era ubriaco. Lei ribatté glaciale. «Sono in piedi, Çetin, perché pensavo che lo spettacolo "cerco le chiavi" davanti alla porta fosse troppo divertente per perdermelo.»
La guardò attraverso gli occhi semichiusi agitando un dito in aria nella sua direzione. «Molto bene, Fatma, una risposta degna di un Ikmen.» Lei girò la testa dall'altra parte e borbottò: «Se hai intenzione di insultarmi...» «Non ho intenzione di fare niente, Fatma! L'ho fatto perché» si tolse la giacca e la lanciò sullo schienale della sedia più vicina, «perché è un brutto periodo, per me. Prima questo caso, poi quel bastardo di Suleyman...» «Mehmet?» Si girò a guardarlo di nuovo con le sopracciglia aggrottate. «Cos'ha fatto?» «Non ha fatto niente.» Fece un gesto con la mano come a sottolineare le parole. «Sono andato a trovare Samsun per farmi fare una... lo sai, e ha detto...» «Non ci posso credere!» Fatma gli si avvicinò con le mani appoggiate sui fianchi e l'aria furiosa. «Samsun! Una grande autorità, non c'è che dire! Per la verità, Çetin, credevo tu l'avessi smessa con quell'idiozia dell'occulto. Se i nostri amici sapessero...» «Lo so, lo so!» Si prese la testa tra le mani e si stropicciò vigorosamente la fronte con le dita. «È che ultimamente è stato tutto così difficile.» «E tu credi di trovare la soluzione guardando nelle bacinelle d'acqua o mescolando le carte? Samsun, poi! Quell'uomo è fuori di testa, Çetin, oltre che amorale!» «Oh, io...» «E Samsun, per giunta, vuol dire il bar Parigi! Fantastico! Mio marito se la fa con prostitute e magnaccia! Mio marito, nientemeno che l'ispettore di polizia!» Ikmen si tolse la mano dal viso e la guardò. In qualche modo, doveva farle capire la situazione. Era tardi e lui era ubriaco, ma ciò che gli aveva detto Samsun non aveva perso la sua forza durante la sua lunga e faticosa camminata verso casa. «Sta per succedere qualcosa e non posso portare Suleyman con me. È troppo pericoloso e...» «Idiozie!» Lo sguardo furibondo e il tono autoritario lo fecero sentire piccolo piccolo. «Qualche tuo ridicolo parente dice che succederà qualcosa, e tu ci credi! Francamente, Çetin, anche se sei istruito, a volte riesci a essere veramente stupido! Ma come fai a credere a quello che ti dice quella gente? Pazzi, squilibrati e stregoni.» «Ho risolto diversi casi con l'aiuto di...» «Già, è quello che credi tu!» Si morse il labbro e lo guardò in silenzio con l'aria disgustata.
Il telefono cominciò a suonare. Quello squillo quasi spettrale fece gemere Ikmen di fastidio. A quell'ora della notte poteva significare una sola cosa e a giudicare dalla sua espressione esasperata, lo sapeva anche Fatma. Allungò una mano sul tavolino e sollevò quel seccante arnese. «Ikmen.» Il tono era talmente esasperato, che per qualche istante il suo interlocutore non disse niente. Evidentemente si stava chiedendo che razza di disastro avesse interrotto con la sua chiamata. «Ispettore?» La voce profonda e flemmatica di Cohen non fece saltare Ikmen di gioia, anche se non lo sorprese. «Cosa c'è, Cohen? Cosa vuoi?» «C'è stato un altro omicidio a Balat, signore. Dietro la casa di mio zio Zav, un...» «Oh, no.» A Çetin pareva già di sentire i rimproveri di Ardiç, la sua voce furiosa da fumatore di sigaro sbraitare nel suo ufficio. «Ebreo?» Gli parve di vedere Cohen stringersi nelle spalle nel tipico modo ebreo. «A Balat...» «Sai chi è la vittima?» «Il rabbino dello zio Zavi, signore. Rabbi Isak, settantotto anni, nativo di Balat.» Un altro vecchio! Più giovane del precedente e un tipo di ebreo diverso da Meyer... come se la cosa avesse qualche importanza. Çetin guardò morbosamente la cornetta chiedendosi se ci fosse un nesso tra l'omicidio di Rabbi Isak e le sue arcane e contorte teorie su Meyer, Smits, la famiglia Gulcu e i vecchi crimini. Non lo sapeva e per il momento non riusciva nemmeno a pensarci. Ora doveva pensare solo a farsi passare in fretta la sbornia e recarsi sul luogo del delitto. «Va bene, Cohen,» disse. «Mandami a prendere e ti raggiungo.» «Non ha la sua...» «Cohen, dannazione a te: sono stato fuori quasi tutta la notte, non ho ancora dormito e sono ubriaco! Mandami una macchina con autista...» Cohen ridacchiò. Ikmen sapeva che tutti lo prendevano segretamente in giro per il suo debole per la bottiglia, ma sentirlo così apertamente lo fece arrabbiare. «Mandami una macchina, animale!» Dopo aver ascoltato un "sissignore" dal tono ancora divertito, sbatté giù la cornetta. Sentiva di avere muscoli della faccia contratti e per qualche istante non riuscì a parlare né a muoversi. Nonostante avesse la mente annebbiata dall'alcol, cercò di pensare. Probabilmente questo omicidio non era collegato a quello di Meyer, anche se temeva che lo fosse. La vittima
era un rabbino! Non poteva sapere come fosse morto l'uomo finché non si fosse trovato sul luogo, ma aveva un brutto presentimento. Come la prima volta, era notte. C'erano delle differenze, però; stavolta lui era ubriaco e non era stato Suleyman ad avvisarlo, bensì Cohen. Almeno di questo, era contento. Se fosse stato Suleyman, si sarebbe preoccupato. Ma Suleyman era al sicuro, pensava, a letto a casa sua e se Çetin non fosse stato coinvolto in quest'altra faccenda, sarebbe stato a letto anche lui. Avrebbe fatto meglio a mandare a casa Suleyman al termine del suo orario, ma sapeva che il sergente non sarebbe stato contento. Suleyman, come Fatma, non credeva a quelle cose. Tutti e due si sforzavano di essere "moderni", tutti e due avevano un credo religioso che non ammetteva la possibilità di altre forze nell'universo. Avevano il paraocchi. Non era un pensiero carino nei confronti di due persone alle quali voleva bene, ma era così. Soprattutto Fatma. Nessuna prova, per quanto evidente, era mai sufficiente per lei. Si alzò e prese la giacca dallo schienale della sedia. «Devo uscire, Fatma, mi...» «Sì, lo so.» Aveva l'aria stanca, rassegnata e terribilmente incinta. «Mi sforzo di capire, Çetin.» «Hai problemi, se ti lascio?» «Non ne ho mai avuti, finora.» Si infilò la mano in tasca per assicurarsi di averci messo le chiavi, stavolta. Le sue dita le trovarono subito. Se era ubriaco, evidentemente non lo era poi tanto. Gli capitava talmente di rado di ubriacarsi senza motivo, che non ne aveva memoria. Tese una mano a Fatma per aiutarla ad alzarsi. «Dovresti tornare a letto, tesoro.» Lei rifiutò la sua mano, ma con un gesto delicato, senza rabbia. «No, resto qui, Çetin. Ormai, letto o sedia, non fa differenza. Sento dolore in qualsiasi posizione. Stavolta il bambino ce l'ho sulla schiena ed è come avere perennemente l'ernia al disco.» Lo guardò sforzandosi di sorridere. Era così patetico nel suo abito sporco e sgualcito, il viso magro e spaventosamente pallido per la stanchezza. «Hai bisogno di un po' di riposo, Çetin. Ultimamente sembri più vecchio di tuo padre.» Con una risatina che gli uscì dal profondo della gola, Çetin le prese una mano. «Timür ci seppellirà tutti, specialmente me. Ma ho capito cosa vuoi dire. Prima o poi chiuderò questo caso e allora mi riposerò. Per un bel pezzo.» «Davvero?» Lo guardò con una tenerezza infinita e lui si chinò a baciar-
la sulla testa. «Promesso. Andrà tutto bene, vedrai. Tra poco risolverò il caso e nascerà il bambino. E magari ti porterò fuori.» Lei si mise a ridere tra le lacrime. «Staremo a vedere!» Dopo averle stretto affettuosamente la mano, si avviò alla porta. «Aspetterò giù. Se qualcuno dei miei uomini sale, sveglia tutto il palazzo.» «Va bene.» Alzò una mano gonfia e gli fece un gesto stanco. «Ti amo.» Sentì gli occhi riempirglisi di lacrime e girò la testa dall'altra parte. Vecchio, stupido sentimentale! «Ti amo anch'io, Fatma,» mormorò avviandosi verso il corridoio. «Vorrei solo potertelo dimostrare un po' più spesso.» CAPITOLO XXI Anche se il corpo non era troppo orribile, Cohen evitò il più possibile di guardarlo. Secondo il dottor Sarkissian, la morte doveva era stata provocata da un colpo sulla testa. Non presentava la devastazione del corpo di Meyer, ma non era comunque uno spettacolo piacevole. Dalla ferita usciva ancora un sangue molto fluido, tipico della vecchiaia, e il dottor Sarkissian, dopo averlo toccato, aveva detto che era ancora caldo. Cohen si allontanò dal cadavere e respirò profondamente. Chi poteva aver colpito un vecchio rabbino indifeso e perché? Non pensava mai al fatto che fosse ebreo. Cohen si riteneva sullo stesso piano dei suoi colleghi. Ma non stavolta. Mentre gli altri ragazzi chiacchieravano e fumavano come se niente fosse intorno al dottore intento al suo macabro lavoro, Cohen non ci riuscì. Impegnato a interrogare i vicini, per sua fortuna non aveva visto il corpo di Meyer. Ma il caso di Rabbi Isak era diverso; era suo, lo aveva trovato lui. Era accaduto per caso. Non avrebbe dovuto trovarsi in quella strada, ma aveva sete e desiderava un bicchiere di tè, una birra, una cosa qualsiasi. Lo zio Zavi, come molti vecchi, dormiva poco e, inoltre, aveva voglia di parlare con qualcuno. Gli tornò in mente il tonfo sordo del suo piede contro quel corpo, l'orribile momento in cui aveva illuminato con la torcia un viso più sorpreso che spaventato. All'inizio, non si era nemmeno accorto che fosse morto e gli aveva detto di alzarsi, di farsi passare la sbornia e tornarsene a casa. Finché non aveva visto il sangue uscire da dietro la testa. Forse aveva fatto male a non tentare di rianimarlo, anche se probabilmente non sarebbe servito a molto. Lo avrebbe fatto sentire meglio. A ripensarci ora, prestare soccorso a un rabbino piuttosto che a una persona qualsiasi, non avrebbe
fatto alcuna differenza. Tuttavia Cohen non era riuscito a toccarlo; gli era sembrato fuori luogo, una sorta di sacrilegio. Ora gli dispiaceva, come gli dispiaceva aver raccontato allo zio Zavi quello che aveva trovato. Il povero vecchio era quasi morto di paura quando aveva sentito il suo racconto e in casa non c'era nemmeno una goccia di brandy che potesse aiutarlo a riprendersi dallo shock. Non erano cose adatte agli anziani dell'età di Zavi. «Tutto bene, Cohen?» Si ritrovò davanti Ikmen con un'aria che gli sembrò stranamente preoccupata. Cohen si sforzò di ridere. Era quello che ci si aspettava da lui: il Cohen spiritoso e leggero che non prendeva mai niente sul serio. Ma non ci riuscì. «Oh, ispettore, è...» Gli mancò la voce e si ritrovò a fissare Ikmen con l'aria imbambolata. Ikmen gli posò una mano sulla spalla e lo guardò attentamente. «Sei sconvolto, ragazzo, siediti.» Cohen sapeva di esserlo e, cosa insolita per lui, obbedì senza protestare. Ikmen si fece largo tra un gruppetto di agenti dall'aria assonnata che si fecero da parte per lasciarlo passare e finalmente vide il corpo. Era steso di traverso sul vialetto e anche da vicino, pareva un mucchietto di stracci. Ma c'era un viso, in mezzo, un viso vecchio e coriaceo, con gli occhi aperti, come lo erano stati quelli di Meyer. L'espressione, però, era diversa. Non c'era orrore né paura in questi occhi, ma solo sorpresa. L'espressione di piacevole attesa dei bambini che hanno appena ricevuto il regalo di compleanno ma non l'hanno ancora aperto. Dietro la testa, intento a fare qualcosa che Ikmen preferiva non sapere, c'era Arto, con il viso grassoccio illuminato dalla torcia di un poliziotto di turno. «Ah, bene, ispettore.» «Buongiorno, Arto.» Ikmen tirò fuori sigarette e accendino e cominciò a lavorare. La testa gli si stava schiarendo rapidamente; stava entrando nella fase di vigile nervosismo che segue spesso l'ebbrezza e la mancanza di sonno. «Cosa abbiamo?» Terminato di fare quello che stava facendo, Arto si alzò. «Abbiamo un colpo molto violento, uno solo, direi, inflitto con questo pezzo di metallo.» Indicò qualcosa di lucente dalla forma strana vicino ai suoi piedi. «Gli ha fracassato il cranio causando un'emorragia che lo ha ucciso. Deve essere morto quasi sul colpo.» Ikmen si accese la sigaretta e aspirò una profonda boccata. «Quando?» «Un'ora fa, forse due. Alcuni agenti stanno già interrogando la gente casa per casa.»
Ikmen si inginocchiò per osservare il corpo da vicino. Le piccole mani erano piegate su sé stesse come le zampe di un gatto. C'era qualcosa di talmente innocente e toccante in quella scena, che per un attimo Ikmen si sentì sopraffatto dalla commozione. «Era un rabbino, vero?» Arto si tolse i guanti di gomma e si asciugò le mani sudate con un asciugamano. «Sì. Rabbi Isak. Secondo Cohen, che abita qui vicino, lo conoscevano tutti da queste parti.» «E ora è morto.» Ikmen si rialzò e guardò le misere catapecchie che in quel quartiere venivano definite case. «Dov'è la scientifica?» «Sta arrivando, come il furgone dell'obitorio.» «Bene.» Ikmen sospirò profondamente. Non poté fare a meno di pensare che avrebbe potuto fare di più. Ma questo caso era diverso. L'assassino di Meyer aveva programmato tutto nei dettagli. Quello del rabbino aveva agito diversamente. Guardò l'enorme quantità di pietre, pezzi di legno e metallo sparsi per il vialetto, tutte potenziali armi, per l'omicida. Il pezzo di ferro sporco di sangue ai piedi di Arto era stato scelto a caso. Un gesto impulsivo e folle che aveva causato una morte istantanea. «Il corpo ha subito qualche mutilazione?» Doveva accertarsene. «No, per quanto si possa vedere qui. Ma lo ritengo improbabile. All'aperto, anche se in un posto tranquillo come questo, il rischio di essere scoperti scoraggia dal compiere certi scempi.» Ikmen sollevò il mento in cenno di assenso. «Signore! Ispettore Ikmen!» Era una voce giovane che ricordava di aver già sentito, anche se non avrebbe saputo dire a chi appartenesse. Ikmen si girò e dietro di lui vide il giovane volto di Avci. Era con un uomo molto basso dalla barba folta, con gli occhi spalancati dalla paura infestati di venuzze rosse. Ikmen inarcò un sopracciglio. «Sì?» «Signore.» Avci era senza fiato per l'agitazione; aveva trovato qualcosa. Ikmen ricordava di essere stato anche lui così, una volta. «Quest'uomo, il signor... ehm...» L'uomo agitò una mano sporca davanti al viso di Avci facendo un ghigno. Pareva una sorta di spirito demoniaco uscito dal Medioevo. Ikmen non aveva bisogno di sentire il fiato puzzolente di whisky per capire che era ubriaco. «Niente signore,» disse, «solo Nat. Mi chiamano tutti Nat.» «Va bene,» disse Ikmen. «Signor... Nat, ha...» Avci non riuscì a trattenersi. «Stasera il signor Nat ha notato uno straniero nel suo bar, che si trova qui vicino.» «Gridava, ha dato in escandescenze.» Nat barcollò leggermente con un
sorriso sciocco stampato sulle labbra. «Rosa l'ha buttato fuori, era troppo ubriaco.» Avrebbe voluto chiedergli come mai Rosa, chiunque fosse, non avesse buttato fuori anche lui, ma poi decise che era meglio di no. «Che aspetto aveva, quell'uomo?» «Oh!» Nat barcollò di nuovo, stavolta vistosamente, e fece un sonoro singhiozzo. «Molto alto, con i capelli chiari, sa, come gli americani o i tedeschi, non lo so. Aveva bevuto troppo e ha cominciato a gridare, a fare un mucchio di baccano.» Era agosto e la città pullulava di turisti provenienti da ogni parte del mondo, ma a Ikmen sembrò lo stesso una cosa strana. Uno straniero alto, nel posto giusto al momento sbagliato? «Quando è stato?» «Un paio d'ore fa.» «Non ha visto dove si è diretto, dopo che è uscito?» Nat si strinse nelle spalle. «Sa, ero impegnato.» Non era difficile immaginare in che cosa fosse impegnato. Questo omicidio era diverso da quello di Meyer, perché stavolta avevano degli indizi. Sull'arma del delitto, specialmente se l'aggressore era ubriaco, dovevano esserci delle impronte. Sarebbe stata utile anche l'analisi degli abiti della vittima. Era stato un lavoretto frettoloso compiuto in uno spazio aperto senza badare troppo ai dettagli. La zona circostante poteva rivelare dei particolari preziosi. E se il signor Nat aveva visto uno straniero alto e biondo, dovevano averlo visto anche altre persone. Magari persone sobrie in grado di fornire una descrizione più precisa e affidabile. Ikmen ne era convinto e con un gesto licenziò Avci e l'ubriaco. «Posso far rimuovere il cadavere, quando arrivano quelli della scientifica e il furgone dell'obitorio, Çetin?» Si era quasi dimenticato di Arto. «Ikmen si girò verso di lui mordendosi il labbro con fare pensieroso.» Sì, penso di sì, anche se voglio far perlustrare la zona centimetro per centimetro. E voglio fare la stessa cosa con il cadavere e i vestiti. Voglio sapere tutto, anche di che tessuto sono gli abiti e cosa ha mangiato a cena. Ho sentito che era nativo di Balat. «Sì.» «Mmm...» Una vittima era nativa di Balat, l'altra, invece, un ebreo di qualche altra parte. Potevano anche esserci dei collegamenti tra i due, anche se al momento sembrava alquanto improbabile. Per giunta, Ikmen non era nemmeno certo che potesse essere un elemento utile alla sua teoria. Forse, in un certo senso, gli era più utile che non ci fosse alcun collega-
mento. Ma prima di mettersi a riflettere, aveva bisogno di una pausa. «Arto, voglio che ti metti all'opera al più presto possibile segnalandomi subito qualsiasi cosa ti sembri strana.» «Okay.» In fondo al vialetto si fermò un furgone dal quale scesero due uomini dall'aria funebre. «Ah,» disse Ikmen sorridendo. «Credo che siano arrivati i tuoi becchini, dottore.» «Sì.» Sarkissian guardò il cadavere e si mise le mani in tasca. «È ora di andare.» Ikmen si spostò e andò ad appoggiarsi con la schiena a una delle staccionate di legno ai bordi del viale. Ora non poteva far altro che aspettare. Aspettare testimoni, aspettare altre informazioni sull'uomo biondo nel bar del signor Nat, aspettare che Arto e la scientifica lo contattassero. Doveva avere l'assoluta certezza, anche se in fondo sapeva già. Respirò profondamente come per rigenerarsi. Com'era stanco! Ma doveva andare avanti. Ormai si stava avvicinando alla conclusione. Due delitti diversi, legati però da un filo. Le radici, se non i rami, erano comuni. Ora era essenziale agire con rapidità. Prima però c'era un'altra cosa che doveva fare, anche se il pensiero gli metteva tristezza. Ma doveva farla, perché a volte quella che appare come una crudeltà è l'unica via d'uscita. Sperava solo che con il tempo sarebbe stato perdonato. Fu svegliato da un raggio di sole sul naso e sotto gli occhi. Non gli dava fastidio, perché era presto e il sole non era ancora molto caldo. Ma fu sufficiente a innervosirlo e prima ancora di aprire gli occhi, capì di essere nei guai. Aveva la bocca e la gola secca e cominciò a sentire un vago senso di nausea. Girandosi su un fianco nella speranza che il malessere passasse, si accorse con orrore di non avere il materasso sotto di sé. Muovendosi, le sue gambe lunghe urtarono qualcosa di molto più duro. Aprì un occhio e vide una distesa di ghiaia e una delle tipiche pietre tombali turche alte e strette. Dentro la sua testa, come i mattoncini dei bambini dentro la scatola, cominciarono ad agitarsi alla rinfusa vari blocchetti di informazioni. Evidentemente, non essendo stato in grado di tornare a casa, si era lasciato cadere nel primo spazio libero che aveva trovato, su quella pietra tombale. Non osava muovere la testa. L'istinto gli disse che se l'avesse fatto, avrebbe scoperto di avere anche un mal di testa insensibile all'aspirina.
Robert elencò mentalmente i termini più adatti a descrivere l'orribile stato in cui si era trovato quella notte. A pezzi, rintronato, rimbambito, rincoglionito... Aggettivi divertenti, se ci si dimenticava delle spiacevoli conseguenze che sempre li seguivano. Ma cosa aveva fatto e dove era stato? Aprì completamente gli occhi e anche se la luce gli diede fastidio, si controllò il corpo per vedere se avesse qualche ferita. Alla vista del sangue coagulato sulle maniche della camicia fu colto da un malore che lo sconquassò dalla testa ai piedi. Scorrendo la seconda pagina della lettera profumata di rosa scritta da Reinhold Smits, notò che la sua reazione non fu quella che aveva immaginato. Invece di rabbia, provò solo tristezza... tristezza per un'altra vita che se ne era andata, indipendentemente da chi fosse il proprietario di quella vita. Un altro individuo unico e irripetibile scomparso tragicamente dalla faccia della terra. Di fronte a un'enormità del genere, i suoi problemi per il caso Leonid Meyer, apparentemente senza soluzione, gli sembravano di nessuna importanza. Mentre sollevava la cornetta per dare disposizioni, Ikmen vide il giovane Avci nel corridoio, davanti al suo ufficio, e lo chiamò. Nelle terribili condizioni in cui era, aveva bisogno di un autista. Quando entrò nella stanza, Avci gli rivolse uno dei suoi larghi e sciocchi sorrisi. «Sì, ispettore?» «Ho bisogno che qualcuno mi accompagni a Bebek,» disse Ikmen. «Lo fai tu?» «Sì.» «Oh, beata gioventù!» «Beata che?» Ikmen si concesse il lusso di appoggiarsi di nuovo allo schienale della sedia. «Niente. Vai a prendere la macchina.» «Sì, signore.» Dopo che Avci fu uscito, Ikmen alzò di nuovo la cornetta del telefono e con un profondo sospiro, cominciò a comporre il numero. Mehmet Suleyman spruzzò un po' di eau de toilette Monsieur Dior sul pettine e se la passò lentamente tra i capelli. Si sentiva bene, ma dubitava che Ikmen stesse altrettanto bene. Era ubriaco fradicio quando lo aveva lasciato e dopo aver terminato i suoi giochi di prestigio, che per la verità erano durati molto poco, il suo strano cugino aveva ordinato un altro giro di
drink. Avrebbe dovuto trascinare via Ikmen prima o almeno restare con lui finché non avesse finito e non lo avesse visto tornare a casa. Ma il bar Parigi non era il suo genere di locale e non aveva resistito oltre. Quei continui battibecchi tra prostitute di sesso incerto non avevano fatto che rendergli ancora più insopportabile la situazione. Gli sembrava strano che un marito e padre di famiglia come Ikmen si sentisse a suo agio in un postaccio come quello. Ma Ikmen era tutto strano. Non si adeguava ai valori e alla mentalità degli altri. Non scendeva a compromessi; o faceva le cose a modo suo, o non le faceva affatto. Era un miracolo che avesse ancora un lavoro. Al piano di sotto squillò il telefono e qualcuno andò a rispondere. Mehmet passò una spazzola di peli di cammello sul suo nuovo abito grigio, poi si controllò per qualche istante i denti, che sapeva essere perfettamente puliti. Non aveva molta voglia di scendere, sapendo che lo aspettavano una colazione che non voleva e le chiacchiere vuote di sua madre. Non era cattiva, sua madre, ma come il suo capo, il mondo doveva adeguarsi a lei, altrimenti non le interessava. Comunque non aveva scelta e lasciati i denti al loro destino, scese le scale e uscì in terrazza. Come al solito, la tavola traboccava del cibo che sua madre aveva preparato per la colazione: pane, formaggio, olive, pomodori, marmellata fatta in casa, la caffettiera d'argento dalla ridicola lavorazione. Lo spettacolo era bello, ma lui non aveva voglia di niente. Ikmen gli aveva insegnato molte cose nei cinque anni che aveva lavorato con lui, e una di queste era saltare la colazione per concedersi dei pasticcini al cioccolato all'ora di pranzo. Avrebbe voluto farla diventare un'abitudine, ma non era facile con sua madre. Si sedette accanto al giornale aperto dietro il quale si nascondeva suo padre e si versò il caffè. Il fruscio della gonna linda contro le gambe sottili e il ticchettio dei tacchi alti sul pavimento annunciarono l'arrivo di sua madre. Mehmet alzò lo sguardo e sorrise. Suo padre non si mosse. Sua madre sorrise radiosamente. «Ho appena parlato al telefono con il tuo capo, Mehmet, ha detto di prenderti una giornata di permesso, oggi. Non è stato carino?» «Una giornata di permesso? Ma è assurdo! Così su due piedi? Senza un motivo? Sei sicura, mamma?» «Be', sì, ha detto proprio così, Mehmet.» Ma perché si offendeva sempre per niente? Suo padre abbassò il giornale con lo sguardo confuso. «Cosa?»
Sua madre diede segni di impazienza. La perenne incertezza di suo padre la irritava sempre. «Hanno detto a Mehmet di restarsene a casa, oggi, Muhammed!» Gridava sempre, con lui, come se fosse sordo. Non lo era, ma a lui non era mai venuto in mente di dirglielo... troppa fatica. «Oh.» Si portò di nuovo il giornale davanti alla faccia e si immerse nelle pagine sportive. Nur Suleyman tolse il piatto pulito davanti a suo figlio e lo sostituì con uno ancora più pulito. Mehmet fremette. La sua maestria nel fare cose assolutamente inutili lo irritava profondamente. Posò una mano sulla spalla del figlio e gliela strinse affettuosamente. «Possiamo andare a fare la spesa, se ti va.» La possibilità che avesse una scelta era quasi inesistente. Non ne poteva più. «Penso che andrò comunque a dare un'occhiata in ufficio.» Alzandosi, la mano di sua madre gli scivolò dalla schiena e lei si dimostrò molto dispiaciuta. «Oh, Mehmet, ma...» «Va bene, mamma.» Non avrebbe voluto, ma si chinò ugualmente a darle un bacio sulla guancia. «Ti credo, ma devo controllare alcune cose.» «Oh.» Fu una piccola esclamazione distratta, il genere di suono che si emette quando ci si sente dire qualcosa di assolutamente inconcepibile. Era abituato a quelle reazioni esagerate. Tornò dentro casa, ma prima ancora di arrivare al telefono prese una decisione. Checché ne dicesse Ikmen, lui sarebbe andato a lavorare. Quella mattina, prima di uscire di casa, Natalia Gulcu salì all'ultimo piano per dare un'occhiata a sua nonna. Come aveva sperato, entrando nella sua stanza vide che dormiva ancora. Natalia rimase a guardarla distrattamente per qualche istante, come si guarda di solito qualcosa di poco interessante in un museo. Aveva causato un mucchio di problemi a tutti, quella vecchia. A causa sua, Natalia aveva visto e fatto le cose più orribili e impensabili. Tuttavia, la amava come non aveva mai amato nessuno. Il perché era chiaro. Senza di lei e ciò che lei rappresentava, cosa sarebbero stati Natalia e gli altri membri della famiglia? Se non fosse stato per lei, sarebbero state delle persone anonime, banali, noiose... e lei non avrebbe mai voluto essere così, le aveva insegnato a non esserlo. Natalia gettò un'occhiata al suo orologio e dopo aver mandato un bacio con la mano alla nonna, si richiuse la porta alle spalle. Durante quella giornata avrebbe cercato, per quanto possibile, di non pensare agli ultimi avvenimenti. Era l'assistente di un mercante d'oro, perciò sapeva bene co-
me convincere, incantare e allettare la gente affinché acquistasse gli splendidi gioielli di Avedissian. E comunque, chissà chi avrebbe incontrato mentre era al lavoro. Spesso le capitava di conoscere uomini interessanti ed eccitanti e di portarseli a letto. Magari, visto che quel giorno il signor Avedissian sarebbe rimasto a casa e lei sarebbe stata sola in negozio, avrebbe potuto adescare qualche riccone desideroso di sfogare le sue voglie. A meno che non fosse arrivato Robert Cornelius. Aggrottò le sopracciglia. Era stato un errore accettare la sua richiesta di continuare la loro relazione. Sperava solo di non doversene pentire, prima o poi. «Si è sparato in bocca con una pistola.» Il dottore non aveva ancora smesso di scuotere la testa incredulo da quando Ikmen era entrato nella stanza. «Aveva abbastanza farmaci da far fuori l'intero quartiere, eppure Reinhold ha scelto di spararsi in bocca.» Fece un ampio gesto di impotenza con le braccia. «Perché?» chiese. Ikmen sospirò. «Mi dispiace, non lo so, dottor Imad. Nella lettera che mi ha scritto ha parlato solo della sua intenzione di suicidarsi, oltre che di qualche dettaglio sul caso che stiamo, o stavamo, seguendo con la sua collaborazione.» Imad si fece scuro in viso e gli rivolse uno sguardo accusatorio. «Sì, il suo caso,» disse, «e i suoi uomini, a parer mio, hanno una grossa responsabilità in relazione all'accaduto.» Fuori di sé per il caldo, la mancanza di sonno e i postumi della sbornia, Ikmen reagì con più violenza di quanto non avesse voluto. «Se ha qualche lamentela da fare, dottore, sa a chi rivolgersi.» Il medico si alzò e lisciandosi la giacca senza una grinza, disse: «Stia certo che lo farò, ispettore!» Opportunamente nascosto dalla goffa figura di Avci, Ikmen fece al medico un gesto con la mano, come a cacciarlo via. «Vada, allora!» «Certo che me ne vado!» Con un fare che a Ikmen non parve molto professionale, il dottor Imad si richiuse violentemente la porta della biblioteca alle spalle facendo cadere alcuni libri dagli scaffali vicino all'ingresso. Imprecando tra sé e sé, Ikmen tornò alla scrivania di Smits per passare ancora una volta in rassegna il materiale collocato sopra. Come Smits aveva scritto nella sua lettera, c'erano tre cose: due fotografie e un libro, La morte della Russia, aperto alla pagina 325. A metà della pagina, che come il resto del libro era scritta in inglese, c'era una frase sottolineata in rosso
che recitava: "Questa notte Balthazar è stato assassinato dai suoi schiavi" ed era stata trovata, a quanto pareva, incisa sul muro della casa dove la sfortunata famiglia Romanov era morta nel 1918. Un riferimento, sembrava, alla meritata fine di un despota... un concetto che non corrispondeva a quanto Ikmen sapeva di Nicola II, un uomo debole, succube degli altri. Non che Ikmen fosse molto interessato a questo aspetto. La sua attenzione fu attirata dal fatto che la frase, secondo l'autore, era stata scritta da uno di quelli che avevano arrestato la famiglia Romanov. C'erano anche i nomi di tutte le guardie, che lui aveva già visto diverse volte, in precedenza. Salvo che non erano loro. Continuando a leggere, scoprì qualcosa che non sapeva: poco prima delle esecuzioni, quelle guardie erano state sostituite con un gruppo di altre guardie sconosciute che molto probabilmente, ormai, sarebbero rimaste tali. Ikmen si portò una mano alla fronte, che ora stava grondando di sudore. Aveva un brutto presentimento. Spostò la sua attenzione sulla fotografia in bianco e nero accanto al libro che ritraeva tre persone nei tipici abiti degli anni '20. La donna, che rideva, portava una larga cloche calata sulla fronte che lasciava però intravedere i suoi lineamenti. Ikmen notò che nonostante la sua allegria, erano duri come la versione più vecchia che aveva visto in casa Gulcu. Maria da giovane. Era molto bella... come se fosse dovuta rimanere tale per sempre. Nella fotografia aveva le braccia intorno alle spalle di due giovani. Tutti e due indossavano abiti dai grandi risvolti, tipici di quell'epoca, e quello che senza dubbio doveva essere Reinhold Smits fumava un sigaro lungo e sottile. A Ikmen parve che l'altro uomo, molto più basso e scuro di pelle di Smits e con gli occhi socchiusi, fosse Leonid Meyer. Era l'immaginazione di Ikmen, o Meyer appariva preoccupato già allora? Passò delicatamente un dito sulla vecchia fotografia prima di passare alla seconda. Incollata su un cartoncino marrone probabilmente, pensò Ikmen, perché non si sciupasse, la fotografia mostrava una bambina... una bambina di molto tempo prima, verso la fine del secolo. I capelli lunghi e folti le ricadevano in riccioli sulle spalle coperte da uno scialle stampato. Sembrava che nonostante i suoi sforzi per restare seria, al momento dello scatto le fosse scappato un sorriso. A Ikmen parve quasi di vederla scoppiare a ridere appena terminato di stare in posa per la fotografia. Giovanissima e felice, a quel tempo. Sospirò. Ma quello che c'era scritto sotto il viso non era tanto allegro. In inglese, diceva: "La figlia di Belshazzar" che, insieme alla frase del libro, significava probabilmente che quella bella bambina era una delle figlie dell'ultimo zar che erano state condannate a morte. O forse no.
Belshazzar, Balthazar... Guardò di nuovo il libro. La frase, come spiegava il libro, era una citazione - di Heine - dal tedesco, quindi forse il modo di scriverlo era diverso, o... Diede un'occhiata alla lettera di Smits che lo aveva enigmaticamente esortato, "vada a fondo, ispettore". Poi, mentre osservava gli oggetti sulla scrivania, i vari pezzi del mosaico che aveva raccolto nel corso delle settimane cominciarono a trovare la loro giusta collocazione. Il crimine di Meyer; il nome Demidova; la misteriosa "cosa" che, pensava, "avessero" Smits e Meyer con Maria; quegli strani pensieri che aveva fatto... quelli che aveva accantonato ma che ora non poteva più ignorare. Non poteva! Non ora che aveva scoperto che il viso di quella bella donna degli anni '20 e quello della bambina con lo scialle appartenevano alla stessa persona. Per motivi che nemmeno lui sapeva, quando uscì dalla zona del Vecchio Cimitero Imperiale di Divan Yolu, Robert percorse le strade secondarie. Benché non avesse una meta, in mancanza di un'idea migliore si diresse verso lo scalo di Eminönü e il ponte di Galata. In fondo era la strada che portava a casa sua, dove sarebbe potuto tornare, volendo. Non che lì si sarebbe sentito più al sicuro. Sporco di sangue e dolorante dalla testa ai piedi, si sentiva a pezzi come se avesse subito un'aggressione a scopo di rapina. Ed era quello che aveva pensato, finché non si era accertato di avere ancora in tasca portafoglio e carte di credito. Ma forse, anzi, quasi certamente, lo avevano picchiato. A volte capitava, agli ubriachi e a quelli un po' strani, di venire picchiati. Lo ricordava dai tempi in cui era stato in ospedale. Le umiliazioni che subivano i malati, senza che nessuno alzasse un dito. Si era salvato solo grazie alla sua ferrea volontà di non apparire completamente pazzo come in realtà era. Passando davanti a un garage, si accorse che i meccanici lo guardavano in modo strano. Cercò di sorridere con disinvoltura, ma rinunciò quando si rese conto di quello che dovevano pensare vedendolo sporco di sangue. Se solo avesse ricordato qualcosa, qualsiasi cosa, avrebbe potuto dare un senso a tutto quanto! Ma per quanto si sforzasse, non ci riuscì. Ricordava solo di essere andato sul Mar di Marmara e di essersi svegliato al cimitero. Certo, era andato da qualche parte sul Mar di Marmara per cercare di esorcizzare i demoni che lo stavano ossessionando, ma... Mentre saliva su una delle tante, famose colline di Istanbul, guardò giù verso i due grandi corsi d'acqua che dividevano in due la città: il Corno d'Oro e il luccicante Bosforo. Davanti a lui, dall'altra parte del Corno d'O-
ro, tra i palazzi delle banche e altri edifici commerciali, vide la Torre di Galata, quella strana costruzione a forma di siluro in cui lui e Natalia avevano mangiato una volta, molto tempo prima. Il solo pensiero gli faceva venir voglia di piangere. Era da parecchio tempo che non la vedeva e dovette ammettere che pieno d'alcol com'era, non ricordava esattamente il suo viso. Il sole picchiava forte, ma lui si sedette ugualmente per terra con la testa tra le mani. Nonostante tutto quello che aveva fatto per lei, nonostante avesse cercato di convincerla a non mollarlo, in quel momento capì di averla perduta. Non poteva essere diversamente. Era un pazzo ubriacone che aveva accoppato un povero vecchio. Poi cominciò a capire. Con il cuore che gli batteva all'impazzata, Robert capì improvvisamente l'enormità di quell'orrore. Il vecchio, il pezzo di pietra e quello che era accaduto, il terrore che tutto questo gli aveva suscitato... il fatto di trovarsi di nuovo a Balat. Il sangue che non era il suo. Il sangue che apparteneva a un ebreo! Quasi accecato dalle lacrime, Robert alzò la testa e si guardò intorno, o almeno cercò di farlo. Di fronte a sé si stagliarono delle grandi forme mobili e colorate che gli parvero incombere pericolosamente su di lui. Erano persone o demoni generati dalla sua stessa mente? Non sapeva nulla, se non che erano minacciose, che continuavano a ripetergli all'infinito, "assassino di ebrei! Assassino di ebrei!" Con una rapidità e un'agilità che non sapeva di possedere, Robert Cornelius balzò in piedi e gridando la sua innocenza al vento, si precipitò giù per la collina, in direzione del Corno d'Oro. CAPITOLO XXII Dopo aver preso posto al volante, Avci si girò a guardare Ikmen. «Dove andiamo?» chiese a quello che sembrava più uno straccio che un essere umano. Ikmen alzò la testa e con un cenno esausto della mano disse: «Beyoglu, Karadeniz Sokak.» Avci mise in moto e mentre l'automobile partiva, domandò: «Cosa ci andiamo a fare, signore?» «Credo,» rispose Ikmen lentamente, l'unica velocità alla quale riusciva a lavorare in quel momento il suo cervello, «a scoprire qualcosa di sensazionale.»
Squillò il telefono. Posò la mano sul ricevitore e chiuse gli occhi. Per favore, fa' che sia Ikmen! Quell'attesa, quell'essere all'oscuro di tutto, lo stava facendo impazzire. Sollevò la cornetta. «Suleyman.» «Sei tu, Mehmet?» Era una voce femminile che lui conosceva, ma non ricordava a chi appartenesse. «Sì, sono Mehmet,» rispose prima di aggiungere timidamente, «Chi parla, per favore?» «Sono Fatma Ikmen.» Ma certo! «La centralinista mi ha detto che mio marito non c'è, perciò ho chiesto di te. Non sai dove sia?» Suleyman sospirò. «Vorrei saperlo anch'io. So che è stato tutta la notte a Balat, ma non so dove sia ora. Uno degli uomini ha detto di averlo visto salire su un'auto di servizio, ma non so altro.» Tacque. Aveva parlato come se Ikmen fosse disperso e probabilmente sua moglie si era spaventata a morte. Non era stato molto professionale. «Sono sicuro che sia tutto a posto, signora Ikmen,» aggiunse con un po' di esitazione. «Oh, lo sono anch'io, è che...» Si interruppe come se qualcuno o qualcosa l'avesse afferrata all'improvviso. «Signora Ikmen?» «Credo che tra non molto nascerà il bambino.» «Oh.» Per quel che ricordava Suleyman, mancava ancora un mese alla nascita del figlio di Ikmen, ma non poteva fare una domanda simile alla signora Ikmen. «Uno dei miei figli ha chiamato il medico. Ma io voglio mio marito.» «Lo immagino.» Tuttavia non capiva il perché, dato che non lo avrebbe visto comunque. Ikmen se ne sarebbe stato in cucina a fumare con gli altri uomini: suo padre, i suoi figli e i fratelli della moglie. «Se lo vedi o lo senti, diglielo, per favore.» «Certo, glielo dirò.» «Grazie.» Sembrava stanca. Si chiese da quanto tempo fosse iniziato il travaglio. «Ciao, Mehmet.» Riattaccò. Suleyman si stropicciò il viso con la mano e mentre posava il ricevitore si domandò come diavolo avesse fatto a dimostrarsi così sicuro. Non aveva la più pallida idea di dove fosse Ikmen. Nessuno lo sapeva. Sapeva solo quello che aveva sentito dalla centralinista: che la notte precedente c'era stato un altro omicidio a Balat e che Ikmen era uscito con Avci. Ma dove era andato? Ripensando alle loro conversazioni, poteva essere andato a casa di Cornelius, a Besiktas, anche se non sapendo se quest'ultimo omicidio potesse essere in qualche modo collegato al precedente... Il dottor Sarkis-
sian avrebbe dovuto saperlo, ma... La porta si spalancò andando a sbattere sul fianco della sua scrivania. Per un attimo ci sperò, ma l'uomo che entrò, anche se basso e di carnagione scura, era in divisa. Si sentì sprofondare. «Oh, sei tu, Cohen.» Cohen fu sorpreso di vederlo. «Mehmet? Che ci fai qui?» «Ci lavoro, non ricordi?» «Sì, lo so, ma il Vecchio non ti aveva dato una giornata di permesso?» Suleyman aprì il cassetto della scrivania e tirò fuori un foglio dove cercò il nome di Sarkissian e il suo numero di telefono. «Sì, ma sono venuto lo stesso. Non capisco cosa stia accadendo, oggi, Cohen. Sai qualcosa di quest'ultimo omicidio di Balat?» Cohen si appoggiò alla scrivania di Ikmen e si accese una sigaretta. «Sì, perché sono stato io a scoprire il cadavere.» Suleyman lo guardò meravigliato. «Tu?» «Sì, io. La vittima è un vecchio rabbino. Il rabbino di mio zio Zavi, per l'esattezza. Gli hanno fracassato il cranio con una barra di ferro. È stato terribile, credimi, inciampare in quel corpo mentre camminavo. Ho chiamato la Centrale, ho chiamato Ikmen. Era tardi, non ricordo l'ora, ed ero anche un po' agitato. Ma ho capito subito che il Vecchio era ubriaco.» Suleyman aggrottò le sopracciglia. «Perché non mi ha chiamato?» Cohen si strinse nelle spalle. «Non lo so. Non mi ha detto niente fino a stamattina, quando mi ha informato di averti dato un giorno di permesso. Era eccitato, mi ha detto di essere vicino alla conclusione.» «Si avvicina alla conclusione e mi lascia fuori!» Suleyman si arrabbiava di rado, ma quando lo faceva, non conosceva mezze misure. Batté violentemente il pugno sulla scrivania digrignando furiosamente i denti. «Che bastardo, non ci posso credere! Non vuole dividere la sua gloria con nessuno, è questa la verità. Dopo tutto il lavoro che ho fatto per lui!» Cohen andò a sedersi dietro la scrivania di Ikmen. Ormai sapeva che quando si arrabbiava, Mehmet aveva bisogno di spazio. «Non sai se sia proprio così, Mehmet.» «Hai qualche altra idea, tu?» Era più una sfida che una domanda. «Al momento no...» «Esatto!» Suleyman si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro nella stanza come un leone in gabbia. «È un egoista, lo dicono tutti, e io, idiota, che l'ho sempre difeso!» Il telefono di Ikmen si mise a suonare e Suleyman si allungò sulla sua scrivania per rispondere. «Suleyman.»
«Salve, Suleyman, sono il dottor Sarkissian. Mi passa il capo, per favore?» «Mi dispiace, non c'è, dottore. Posso fare qualcosa per lei?» «Sì, certo. Dica all'ispettore che sul colletto del rabbino morto ho trovato un capello. Non appartiene alla vittima perché è biondo e sottile. Direi che è di un europeo. Gli dica anche che il laboratorio ha trovato delle impronte molto evidenti sull'arma del delitto. Non sarà un problema confrontarle con quelle dell'inglese, se vuole.» Il cervello di Suleyman scattò immediatamente sull'attenti. Ma certo! La sua presenza in zona durante il primo delitto, amico e amante dei Gulcus, un capello biondo di un europeo... Perché diavolo Ikmen non lo aveva arrestato subito dopo il primo omicidio? Era sempre stato a portata di mano. Certo, c'era di che rimproverare anche lui, Suleyman, ma... «È ancora lì, sergente?» «Ehm... sì, dottor Sarkissian, grazie per l'informazione.» Suleyman era molto più calmo, adesso. Riattaccò e guardò Cohen sorridendo. «Credo di sapere dove si trovi Ikmen in questo momento. Non so come se la stia cavando, ma so dov'è. Preparati, Cohen, vieni con me.» Quando arrivò in fondo al ponte di Galata, Robert Cornelius guardò prima la ripida collina che si ergeva davanti a lui, poi, più in basso, la grande strada costiera. Ambedue le vie presentavano vantaggi e svantaggi. Se sceglieva la strada costiera poteva tornare a casa a ripulirsi. E poi? Magari per poi farsi arrestare all'aeroporto, ammesso che fosse riuscito a procurarsi un biglietto per uscire dal caldo infernale di questo maledetto Paese. E se invece fosse salito sulla collina? La camminata sarebbe stata faticosa, con tutta la gente che viveva lì e andando a lavorare, lo avrebbero visto di sicuro. Ma lei, Natalia, era lassù, nel cielo sopra di lui, così perfetta, così libera... così malvagia, perversa e criminale! E se non avesse - sì, ora poteva dirlo, non ad alta voce, ma a se stesso - se non avesse ucciso il vecchio Meyer, tutto questo non sarebbe accaduto o non starebbe accadendo. Se solo fosse stato vero... Se solo non fosse diventato anche lui un assassino, di propria spontanea volontà. Avrebbe dovuto andare alla polizia, ora. Qualsiasi altra cosa, non sarebbe stata da lui. Si fermò alcuni istanti a riflettere, sforzandosi di essere obiettivo. Si sentì più calmo. Era strano; un mite insegnante, ex allievo di scuola pubbli-
ca... Tra i suoi ex compagni di scuola c'erano attori, scrittori, direttori d'azienda. Lui se l'era sempre cavata bene ma senza eccellere in niente. Non era mai stato capitano della squadra di rugby né aveva mai preso il massimo dei voti, ma presto tutti avrebbero saputo chi era. Robert Cornelius, il sadico assassino di ebrei, l'uomo per la cui salvezza il Ministero degli esteri non avrebbe alzato un dito. Ma la gente avrebbe parlato per anni di lui. Hanratty, Edith Thompson, Timothy Evans... su Ruth Ellis avevano persino fatto un film. Morendo con un cappio al collo, ci si assicurava l'immortalità. Forse era questo che aveva sempre desiderato. Che terribile idea! Si mise a ridere. Era divertente. Lui era divertente. Il poveraccio al quale andava sempre tutto storto, il ragazzo che desiderava cavalcare ma non riusciva a sconfiggere la paura non tanto della velocità dell'animale, quanto della sua imprevedibilità. Forse, con le donne, avrebbe dovuto mettere in pratica quello che aveva imparato grazie a quelle sue prime esperienze. Una sorta di eco in ritardo. Alzò di nuovo gli occhi verso la collina di Galata e sorrise. Una volta in più non avrebbe fatto differenza. Certo, non sarebbe riuscito ad averla, ma la cosa non lo turbava. Sarebbe stato interessante vedere cosa sarebbe rimasto togliendo il sesso. Sarebbe stato già tanto se non fosse rimasto niente e la cosa fantastica era che lui sapeva bene che sarebbe stato così. Lei non lo amava, ma nonostante questo lui non l'avrebbe consegnata alla polizia per la sua parte in tutta la faccenda. Se volevano, potevano anche torturarlo... e lo avrebbero fatto. Bisognava preservare la perfezione della futilità. Se la sua vita aveva un significato, era quello. Un giorno, qualche autore avrebbe scritto un libro commovente, dando la colpa alla solitudine e all'inadeguatezza che aveva sperimentato a scuola. Era straordinario. Quanti altri ragazzi si erano feriti le braccia per un esame andato male? Ricordava ancora la faccia della direttrice mentre, senza alcuna delicatezza, lo spalmava di tintura di iodio. Era disgustata non dalla ferita, ma dallo stato d'animo che l'aveva provocata. Era sempre stato così. Lui non aveva mai fatto niente di male, fino a quel momento; era la disperazione che c'era dietro quei gesti a disgustare la gente. Le questioni sentimentali andavano bene quando non pretendeva di diventare il preferito della beneamata. Anche insegnare era bello finché non diventava un surrogato di qualcosa di meglio, di una grande carriera degna di lui e del suo intelletto. Ma forse avrebbe fallito, se avesse fatto ciò che desiderava. Di qualunque cosa si fosse trattato. Sì, sarebbe andato a trovarla un'ultima volta. Gli aveva detto di non sen-
tirsi bene e quindi sarebbe stata contenta di vederlo. Un giorno, forse, ritrovandosi da sola, avrebbe riso. Finché, e a meno che, non avesse scoperto che il suo insuccesso era legato all'assoluta perfezione, quella che lui era convinto esistesse. Forse, leggendo la sua storia, lei lo avrebbe capito, anche se sarebbe stato meglio di no, perché in questo caso la perfezione non sarebbe più stata tale. La mancanza di scopo, nutrita e alimentata alla perfezione. Forse era abominevole anche l'idea che le generazioni future conoscessero il suo nome? Lentamente, perché era stanco, adesso, si avviò verso la collina di Galata e il numero civico 12 di Karadeniz Sokak. Suleyman si sedette pesantemente sul letto e sospirò. Prese di nuovo la piccola fotografia a colori per osservarla da vicino. Era molto nitida, presa evidentemente con una buona macchina fotografica. Un ritratto con la testa e le spalle nude. Si chiese, stupidamente, se sotto fosse stata nuda. Era probabile, conoscendola. Strano, però, che il suo viso fosse così cupo. Ma in fondo, le modelle di certe riviste osé non avevano forse tutte quello sguardo? Quella luce disperatamente triste negli occhi? Qualsiasi cosa Cornelius provasse per lei, Natalia Gulcu era un essere cui non mancava davvero niente. «Allora, Mehmet?» Si era quasi dimenticato di Cohen. Suleyman si alzò dal letto e si guardò intorno nella stanza. A parte la fotografia, era terribilmente anonima. L'esperienza gli aveva insegnato che di solito gli stranieri residenti nel Paese erano molto sentimentali. Ma Cornelius? Non una lettera, non una cartolina, nemmeno qualche vecchia istantanea di lui bambino sulle ginocchia della mamma. Niente e nessuno che gli ricordasse l'Inghilterra. Forse aveva fatto piazza pulita della sua vita per fare spazio a lei? Un pensiero curioso. Quello che a Cohen sembrò un capriccio, per Suleyman fu una decisione molto ponderata: «Credo che dovremmo andare a Beyoglu, adesso.» «È li che pensi si trovi il Vecchio, vero, Mehmet?» «Se Cornelius è lì, il che è molto probabile, forse c'è anche Ikmen. È lì che abita la ragazza della fotografia.» Passò la foto di Natalia Gulcu al suo aiutante. Il viso di Cohen si illuminò. Per un attimo, la fotografia sembrò eccitarlo. Poi, apparentemente senza motivo, il suo viso si fece serio. «Mehmet, questa ragazza, credo di...»
Ma Suleyman, preso da tutto quello che c'era da fare, non lo ascoltava più. «Andiamo,» disse facendogli strada dalla camera da letto fino all'ingresso tutto bianco di Cornelius. Gli parve strano che un posto così luminoso potesse essere tanto deprimente, ma anche questo dipendeva dal fatto che non c'era niente di personale in quell'appartamento. Gli ricordava una stanza d'albergo, un posto per qualcuno di passaggio. Poi Suleyman si fermò e appoggiò le mani sui fianchi con l'aria pensierosa. «Okay. Non voglio ancora chiamare rinforzi via radio, ma voglio la tua pistola, agente, se non ti dispiace.» Tese la mano per farsi consegnare l'arma. Cohen, ancora un po' frastornato dalla vista di quella fotografia, lo guardò incerto. «La mia pistola?» Suleyman non aveva voglia di dare spiegazioni. Non voleva dire che non si fidava abbastanza di Cohen e degli altri giovani agenti da lasciare che si avvicinassero armati a uno straniero residente nel Paese. Anche se dagli anni '70 non erano stati commessi crimini di qualche rilievo da parte di stranieri residenti, Suleyman sapeva che vespaio avrebbe suscitato a livello internazionale la morte o il ferimento di uno straniero residente. Sapeva di non fidarsi del tutto, nemmeno di se stesso, ma poiché in quel caso era lui il superiore, era suo dovere controllare e proteggere quelli ai suoi ordini. «Dammela, Cohen, okay?» L'agente estrasse l'arma dalla fondina e la posò nella mano tesa di Suleyman. Dopo essersi accertato che la sicura fosse inserita, Suleyman infilò la pistola nella fondina vuota che aveva sotto l'ascella. «Allora sei armato, Mehmet?» Suleyman si sforzò di sorridere. «Ora sì, Cohen.» «Oh.» CAPITOLO XXIII Robert aveva visto scene di quel genere solo nei film. Quei film spaventosi dove i malvagi facevano una fine orribile. Non riusciva a vedere bene, perché i suoi occhi non si erano ancora abituati alla luce fioca della lampada a petrolio e all'aroma pungente dell'incenso. Ma c'erano tutti... o meglio, quasi tutti. Mancava Natalia, a meno che la persona seduta sulla sedia vicino alla finestra, lontana dagli altri, non fosse lei. Ma non riusciva a distinguerla, perché aveva la testa girata dall'altra parte. Tipico di Natalia,
non volerlo guardare in faccia. Gli altri si stavano sistemando intorno al grande letto lilla e oro in mezzo alla stanza, quando Robert sentì la mano di Nicholas toccargli la spalla. «La mamma vorrebbe che si sedesse sul suo letto, signor Cornelius.» Sergei, lo storpio, si fece da parte per consentire a Robert di avvicinarsi alla grande prua. Era rivolta verso di lui come una gigantesca onda dorata. Osservandola da vicino, pensò che alla luce doveva apparire per quello che era; un pezzo di nessun valore e di pessimo gusto. Non aveva più paura, gli era passata già da un po', ma desiderava vedere Natalia. Non gli piacevano le sceneggiate e quell'odore dolciastro gli metteva la nausea. Distolse lo sguardo dalla prua facendolo scorrere sull'insieme del letto. Quando incontrò il suo viso, si fermò a guardarlo. Ciò che rimaneva delle sue labbra dipinte di rosso si piegò in un sorriso. Il respiro di Robert cessò per un instante, come ogni altro rumore nella stanza. «Allora, lei sarebbe Robert Cornelius?» Il suo inglese era perfetto sia nella forma sia nel contenuto. Robert respirò profondamente per calmarsi e fece un cenno di assenso con la testa. «Santo cielo, ma è sporco di sangue.» Lui non rispose. Gli occhi dei Gulcu e delle fotografie che tappezzavano le pareti della stanza erano fissi su di lui. La bocca rossa si aprì di nuovo. «Credo che le dobbiamo una spiegazione, signor Cornelius, a proposito della morte del signor Meyer.» «È stata lei?» L'aveva detto. Anche se sapeva che una persona nelle sue condizioni non poteva aver fatto una cosa del genere, lo disse. La donna sorrise e diede un colpetto con la mano sulla coperta. «Indirettamente. Si sieda.» Robert fece un passo avanti e si sedette lentamente sul letto infestato dalle tarme. La vecchia incrociò le lunghe braccia sottili sul petto nel gesto simbolico di tenerlo stretto a sé, come un ragno con la preda finita nella sua ragnatela. «Le piacciono le storie, signor Cornelius?» La guardò incantato mentre con le dita dalle lunghe unghie smaltate di rosso si massaggiava le spalle. Non le rispose. Dal profondo della gola le uscì una risatina. «Lo so che le piacciono.» Robert fu sorpreso dal blu profondo dei suoi occhi. Di solito i vecchi avevano gli occhi di un colore sbiadito. «Questa è una storia diversa dalle altre, perché si basa su una premessa alla quale solo alcuni dei presenti in questa stanza credono.» Una donna, la madre di Natalia, cominciò a piangere sommessamente.
«Per iniziare, devo tornare indietro al 1918, signor Cornelius. Come avrà capito dalla mia età, è un anno che posso ricordare molto bene.» Con una persona normale, avrebbe obiettato qualcosa, ma con quella donna nessuna regola aveva senso, nemmeno quella dell'educazione. «Non credo sia il caso di dilungarmi sulla mia nazionalità. Nel 1918, signor Cornelius, vivevo nella città di Ekaterinburg, negli Urali. Prima dei bolscevichi, la mia famiglia era al potere e...» sospirò. «Alcuni, me compresa, sono stati fucilati.» Guardò suo figlio Nicholas, seduto accanto a Robert. «Ricordo poco o niente della mia vita prima che ci fucilassero, signor Cornelius.» Chinò la testa e rimase per qualche istante in silenzio. Sergei mormorò qualcosa in tono amaro che Robert non capì. Nicholas fece un colpetto di tosse per attirare l'attenzione su di sé. «Vai avanti, mamma.» Lei gli sorrise, ma senza amore. Una mamma ragno senza cuore. «Il primo ricordo che ho è il pavimento sporco e ricoperto di sangue sul quale giacevo. Non ero diversa, credo, da come siete voi ora. Non ricordavo il bacio di un padre affettuoso o di una sorella. Per terra c'erano anche altre persone, tutte morte. Alcuni uomini in uniforme, che sapevo essere bolscevichi, si aggiravano tra i corpi finendoli con baionette e pistole. La stanza era satura di polvere da sparo, ne sentivo persino il sapore in bocca. A volte lo sento ancora.» Il suo sguardo si posò su Robert. «Ho l'impressione che lei conosca già questo episodio, signor Cornelius.» «No.» Ma non ne era certo. «Non importa. Comunque, pensavano che fossi morta. Ci caricarono su un camion e mi buttarono sopra gli altri. Mi ritrovai tra il corpo di un ragazzo e una gamba quasi troncata dai proiettili. Quando il camion partì, l'arto mi cadde sulla bocca e sentii il sapore del sangue. Se avevo un nome, non lo ricordavo. Riesce a capire?» Robert si sentiva quasi paralizzato e continuò a fissare quella terribile faccia senza muoversi. «Dopo un po' di tempo, non so quanto, il camion si fermò. Trattenni il fiato perché sapevo che se mi avessero sentito, mi avrebbero ammazzato. Il ragazzo accanto a me cominciò a gemere. Era ancora vivo, ma rappresentava un pericolo per me. Sentii delle voci. Misi le mani intorno al collo del ragazzo e strinsi. Non avevo scelta, mi creda. Chiusi gli occhi ma lui farfugliò qualcosa e con un braccio tentò di difendersi. Dalla bocca gli uscì un fiotto di sangue che mi sporcò la faccia. E loro lo sentirono. Un giovane dai lineamenti marcati saltò sui corpi e mi guardò negli occhi. Arrivarono
altri due uomini e io tolsi le mani dalla gola del ragazzo.» La madre di Natalia disse qualcosa e la vecchia sorrise. «Se vuoi sapere la verità, Anya, non lo so. Strinsi la gola al ragazzo con l'intenzione di ucciderlo perché era pericoloso per me, ma non so se fossi riuscita nel mio intento. Dissi a Leonid e agli altri due che era ancora vivo.» Distolse lo sguardo da sua figlia per posarlo su Robert. «L'uomo dai lineamenti marcati era Leonid Meyer, signor Cornelius. Lui e altre due guardie scaricarono me e il ragazzo dal camion e ci nascosero nel bosco. Lui mi salvò la vita. Purtroppo non sono mai riuscita a sdebitarmi con lui, come sa.» Si schiarì la voce. «Mi spiego meglio: il ragazzo e io fummo scaricati dal camion mentre i comandanti bolscevichi erano andati avanti in ricognizione. Quando tornarono, il camion ripartì. I cadaveri furono distrutti col fuoco e l'acido solforico in una vecchia miniera a qualche chilometro di distanza. Se può esserle utile saperlo, signor Cornelius, lo fecero per rendere irriconoscibili i corpi delle vittime.» Certo che gli era utile saperlo, ma tutto questo non aveva senso. La storia era arcinota, ridicolmente nota. «Sta parlando dell'assassinio dell'ultimo zar, signora?» Gli offrì una sigaretta corta e scura che lui rifiutò. «Forse.» Lanciò a suo figlio Nicholas uno sguardo come per dirgli di non fare obiezioni. «Comunque, il ragazzo, quello che avevo tentato di strangolare, poco dopo morì. Non lo seppellii e rimasi per terra in attesa che accadesse qualcosa. Che dopo un po' accadde. Leonid tornò. Mi diede un po' di pane e mentre cospargeva di benzina il cadavere del ragazzo per dargli fuoco, mi raccontò alcune cose.» Fece una pausa per dare più effetto alle sue parole. Robert cominciava a perdere un po' la pazienza davanti a quegli occhi blu. «Quali cose?» la incitò. «Quando Leonid mi disse chi fosse il ragazzo, rimasi sconvolta.» Abbassò lo sguardo sulle mani e parlò a voce più bassa. «Era mio fratello. Si chiamava Alexei.» Robert perse del tutto la pazienza. Non gli era mai capitato di trovarsi in una situazione tanto assurda; quella strega stava tirando fuori una favola vecchia di cent'anni. E dov'era Natalia? «Allora lei è la principessa Anastasia di Russia?» chiese in tono ironico. La donna alzò la testa di scatto e lo zittì con gli occhi. «Leonid mi disse che il mio nome era Maria Nicolaeva Romanova, la terza figlia dello zar e l'unica sopravvissuta. A quel tempo, non me ne importava molto, signor
Cornelius; a quel tempo l'unico mio pensiero era che avevo perso tutta la famiglia. Ero rimasta completamente sola.» «Che succederà se...» disse Cohen con la sua solita, pessima abitudine di togliere gli occhi dalla strada per guardare il suo interlocutore. Suleyman afferrò il volante e gli gridò: «Vuoi guardare la strada, o...» «Okay, okay.» Tornato a concentrarsi sul caotico traffico mattutino, Cohen riprese l'argomento. «Ma che succederà se questo Cornelius è a Karadeniz Sokak e il vecchio Ikmen no?» «Arresteremo il signor Cornelius,» rispose Suleyman deciso. «E sarà il nostro ultimo atto, per così dire?» «Sì,» disse Suleyman con una certa soddisfazione. «Proprio così.» Cohen si mise a ridere. «Gliela faremo vedere!» «Sì,» disse il giovane a denti stretti. «Gliela faremo vedere.» Era difficile seguire la sua storia, non perché fosse complicata, ma perché lei stessa, ogni tanto, sembrava incerta. Leonid Meyer l'aveva condotta fuori dal Paese passando per l'Armenia. Prima di arrivare a Costantinopoli, considerata relativamente sicura, lavorarono tutti e due in un circo. Maria raccoglieva i soldi all'ingresso. Questo ricordo la divertiva molto. A quel tempo non era ancora del tutto convinta di essere quella che Leonid le aveva detto di essere. All'inizio non si fidava molto di quell'uomo. Aveva solo ricordi molto vaghi degli eventi che avevano preceduto l'esecuzione. Eventi che potevano essere accaduti a tante altre ragazze aristocratiche della sua età. La cicatrice lasciatale sul viso da un proiettile non bastava a convincerla e spesso pensava che la sua giusta collocazione fosse dietro quel lurido tendone che nascondeva l'uomo a tre gambe, la donna barbuta e i gemelli siamesi alla vista del pubblico non pagante. Ma Meyer insisteva sulla sua identità. Sembrava eccitarlo sessualmente e durante il loro lungo e faticoso viaggio la possedette spesso senza la minima tenerezza. «Poi, poco prima di arrivare a Costantinopoli, accadde qualcosa.» Lo guardò dritto negli occhi senza battere ciglio. Robert era certo che fossero tutte frottole, ma era affascinato. «Un giorno mi svegliai con la certezza non di avere riacquistato la memoria, ma che Leonid avesse ragione. Per tutto il viaggio attraverso l'Anatolia aveva continuato a ripetermi che ero l'unica sopravvissuta della famiglia ed erede di una grossa fortuna. Mi disse che una volta qualcuno gli aveva detto che lo zar era riuscito a trasferire
gran parte delle sue fortune all'estero prima che scoppiasse la Rivoluzione. Progettava di arrivare in Europa occidentale perché io potessi entrare in possesso della mia eredità. All'inizio accettai, cos'altro potevo fare? Ma poi ebbi paura. Ero l'unica figlia sopravvissuta dello zar, una persona che i nuovi governanti russi odiavano al punto da voler eliminare. Al tempo dello zar, l'Okrana, i vecchi sevizi segreti imperiali, aveva agenti in tutto il mondo, lo sapevo persino io. Era probabile che i bolscevichi si fossero organizzati nella stessa maniera. E come sa, la storia, in questo caso, mi diede ragione. Cominciai a temere per la mia vita.» Nicholas si accostò al letto e le prese una mano. Era da molto tempo che parlava e cominciava a essere stanca. Ma anche Robert era stanco; di lei e della sua stupida storia, dell'assurdità di tutto ciò che aveva raccontato, del fatto che ancora non aveva visto Natalia. Gli stava passando anche la voglia di raccontare tutto alla polizia. Forse a causa di tutte quelle lugubri storie di morte. «Non capisco cosa c'entri tutto questo con l'assassinio di Meyer.» «Tra poco capirà.» Strinse la mano di suo figlio e gli sorrise. «In ogni modo, non ne volli sapere del progetto di Leonid e a Üsküdar lo lasciai. Lui si infuriò e minacciò di rivelare la mia identità, ma sapevo che non lo avrebbe fatto. Era implicato anche lui. Era stato Leonid a sparare a mio fratello, che a quel tempo era poco più di un bambino. Già allora era ossessionato dai sensi di colpa. Così mi ritrovai da sola. Ma non per molto. Conobbi un uomo anziano, Mehmet Gulcu. Tempo dopo incontrai di nuovo Leonid e gli dissi di Mehmet. Mehmet era ricco e Leonid approvò. Non ci sposammo, ma gli diedi tre figli. Il secondo, Sergei» rivolse allo storpio uno sguardo che a Robert parve di disgusto, «mi convinse della mia identità. Serge è così perché è affetto da emofilia, come mio fratello, lo zarevic Alexei.» Fissò la parete dietro la testa di Robert. «Strano che il suo sangue fosse così denso.» Si concesse un'altra pausa. Fu Nicholas a proseguire il racconto. «Quando mio padre morì, a mia madre non rimase molto a cui pensare, se non al suo passato. Lesse molto. Dipinse questa stanza di viola, come il boudoir della zarina Alessandra. Cominciò a collezionare fotografie sue e di altri. A volte le pare di ricordare qualcosa... Stando chiusa in questa casa, con la paura, il sangue è diventato di estrema importanza per lei. Il sangue dei Romanov, così dice. A vent'anni volevo sposarmi, ma la mamma disse di no. Il sangue...» Anya gridò. Robert si girò a guardarla. Vide un fantasma che tremava,
con le labbra orribilmente contorte. Stranamente, Nicholas sorrise. «Signor Cornelius, mia sorella Anya è anche la madre dei miei due figli. La mamma è stata molto ferma nella sua volontà di preservare la stirpe dei Romanov.» Per la prima volta nella sua vita, Robert ebbe letteralmente la pelle d'oca. Non per ciò che erano Natalia e il suo germano, suo fratello, sua sorella o quello che fosse. Non era colpa loro, ma la mentalità che c'era dietro tutto questo... Si sentì una giovane voce maschile. Proveniva dalla zona della finestra. La persona che Robert sperava fosse Natalia, ma che non lo era. La vecchia le disse dolcemente qualcosa in un russo incomprensibile dalle consonanti liquide. Robert ricordò che molte "Anastasie" non erano in grado di parlare la "propria" lingua. «Crudele, vero?» Maria Gulcu rivolse nuovamente l'attenzione su di lui. «Ma è stato necessario e Leonid, che cominciò a bere in quel periodo, approvò.» Sorrise. «Tutta la mia famiglia amava Leonid; lui mi ha salvato. Se lo zio Leonid diceva una cosa, erano sicuri che fosse quella giusta. I nipoti, soprattutto, lo adoravano... finché alcuni di noi adulti, tra cui io stessa, non cominciammo a stare meno attenti nel parlare. Poi, un giorno, poco prima di quel suo fatale lunedì, signor Cornelius, mi è venuta la nausea per quel coro di elogi che sentivo ogni volta che si parlava del mio povero, vecchio amico ebreo. Perciò, in preda all'invidia, ho raccontato a una giovane e cara persona una verità che ha frantumato l'illusione che Meyer fosse un eroe.» Guardò la sua famiglia quasi al completo con il viso impassibile. Robert seguì il suo sguardo notando che non si fermava su nessuno in particolare. «Vede, signor Cornelius, quando vengono a galla certi segreti, si fa fatica ad accettarli.» Disse qualcosa in russo rivolta alla sedia vicino alla finestra. Due mani pallide si aggrapparono ai braccioli della sedia rivelando un viso familiare. «Ha idea di cosa succederebbe se un mozzicone di sigaretta o una scintilla andasse a finire sulla parte posteriore del suo autotreno?» L'autista dagli occhi bovini incrociò le braccia sul finestrino semiaperto della cabina e annuì con forza. «Cosa?» Naturalmente poteva essere semplicemente stupido, ma Ikmen, nello stato d'animo in cui era, preferì pensare che fosse un incosciente. Dopotutto, il suo maledetto camion aveva distrutto il suo paraurti posteriore. «Con questa mina vagante piena di benzina, vuole pure che le dica cosa
succederebbe se ci finisse sopra una scintilla?» gridò. L'autista rimase un attimo in silenzio prima di sputare la sua risposta. «Sì.» «Ovviamente prenderebbe fuoco, razza di idiota! Cosa pensa che farebbe? Che corra dal medico a farsi mettere un cerotto?» Tirò fuori dalla tasca penna e taccuino. «Mi dia la targa e il nome della ditta per cui lavora.» L'autista sbuffò indignato e incrociò le braccia. «Lei non è un vigile urbano. Non ho...» «Non mi rompa le scatole, razza di idiota! Ancora una parola e si ritrova in una minuscola stanza a dividere il bagno con uno stupratore omosessuale per il resto della settimana.» Un centinaio di clacson suonarono all'unisono dalla coda che si era formata dietro l'incidente. L'autista piegò gli angoli della bocca all'ingiù e mormorò: «34 KV7 99 e lavoro per mio fratello.» Ikmen scrisse. «Come si chiama suo fratello?» «Adnan Kemal.» Avci diede un altro colpetto sulla spalla a Ikmen. «Signore, sta arrivando un vigile dal chiosco delle sigarette.» «Bene,» replicò Ikmen in tono brusco rivolto all'autista del camion. «E dove abita il signor Kemal?» «A Iskender.» Il vigile raggiunse l'agitato gruppetto di Ikmen che strappò il foglietto dal suo taccuino e glielo mise in mano. «Ecco. C'è il numero di targa e il nome dell'uomo per cui lavora. Ho da fare, ho già perso abbastanza tempo con questo bastardo, se la sbrighi lei!» Era in servizio da soli dieci minuti e faceva il vigile da soli sei mesi. «Oh,» disse sconsolato. Non era Natalia. Ma a pensarci bene, doveva essere al lavoro. Robert aguzzò la vista per vedere attraverso l'oscurità satura di fumo e si sentì mancare il respiro. Era un ragazzo e stava piangendo. Parlò nella loro lingua con voce rotta. La supplicava, con le mani tese che gli tremavano, ma il viso della vecchia rimase di pietra. Come la sua anima, pensò Robert. La supplica continuò come una dolce nenia. Lei coprì la voce del ragazzo usando un registro basso e melodioso. «Questo è Misha, signor Cornelius, il gemello di Natalia. Di solito non lo mostriamo alla gente perché non è molto a posto. A volte lo scambiano
per sua sorella, il che è un vantaggio. Quelle rare volte che esce di casa, vedendolo, la gente che ci conosce pensa che sia Natalia. Così non fanno caso al suo strano comportamento. Credo sia un errore che ha fatto anche lei, una volta.» Ma lui lo aveva già capito da solo. Il corpo di Misha era molto sottile. «Cos'ha che non va?» Robert continuò a fissare quella che sembrava una maschera di carnevale del viso della sua amante. La vecchia sospirò. «È nato da un'unione tra consanguinei. Cosa posso dire? Questi soggetti possono essere più stupidi di tutti noi messi insieme, signor Cornelius, e Misha è molto stupido.» Robert odiava il suo tono malvagio. Se Misha era stupido, non era colpa sua. «Lo ha creato lei.» «Sì, che Dio mi perdoni.» Fece una pausa e si accese un'altra sigaretta. «Però, per quanto stupido possa essere, dopo aver detto quello che dovevo dire, il mio povero nipote ha capito molto bene ciò che lo zio Leonid ha fatto al suo bisnonno, lo zar e alla sua famiglia, e ha deciso che il vecchio ebreo doveva pagare.» «Allora è stato Misha a uccidere Leonid Meyer?» «Sì. Credo che lei abbia visto il ragazzo mentre tornava a casa da scuola.» Robert guardò quel viso triste dalle mascelle cadenti che gli era tanto familiare. Ora tutto aveva un senso, o almeno, una parte. La spalla sottile, gli abiti fuori moda... «Ma se sapeva...» «Oh, ma non pensavo minimamente che avrebbe reagito in quel modo,» replicò la donna. «Stupidamente, lo consideravo troppo idiota e passivo per fare una cosa del genere. Ma quel lunedì dopo pranzo, quando è sparito, mi sono allarmata. Esce raramente e mai da solo e quando Nicholas si è accorto che una certa parte dell'automobile del signor Gulcu era stata manomessa...» «Automobile?» fece Robert aggrottando le ciglia. La vecchia sorrise. «Alla sua morte, Mehmet ha lasciato tra le altre cose una macchina in cantina, che è anche garage, nel seminterrato. Poiché nessuno di noi poteva o voleva guidare, abbiamo lasciato che Misha ci giocasse. E come Nicky ha spiegato al ragazzo, non ci sarebbe stato alcun pericolo a patto che non toccasse la batteria, che contiene un acido molto corrosivo. Ha evitato di toccare la batteria fino a quel lunedì, quando la prelevò dall'automobile proprio per il suo elevato potere distruttivo.»
«Acido?» Robert aveva la testa che gli scoppiava per la miriade di informazioni che arrivavano troppo in fretta e troppo tardi. Lei sorrise, molto inopportunamente, pensò Robert. «Se mi avesse ascoltato con attenzione, signor Cornelius, saprebbe che dopo aver ucciso i Romanov, i bolscevichi tentarono di distruggere i loro corpi con l'acido solforico. Il nostro piccolo Misha ha respirato questa storia da quando è nato, così quando si è trattato di scegliere un'arma con cui uccidere Leonid, un odioso assassino bolscevico, l'acido solforico della batteria gli è sembrato il tipo di giustizia poetica che ci voleva.» Robert rifletté prima di parlare. Il fatto dell'acido solforico come arma del delitto non gli quadrava. La polizia non aveva detto che Meyer era stato colpito a morte con un oggetto contundente? «Cosa intende dire, signora Gulcu...» «Intendo dire, signor Cornelius, che quel pomeriggio Misha è andato a casa di Leonid, lo ha colpito in testa con la batteria o qualcos'altro, non lo so, e poi gli ha versato l'acido in gola e sul corpo.» «Ma la polizia...» «La polizia non ha reso pubblici i dettagli più crudi del delitto, signor Cornelius, temendo, come sempre, che qualche pazzo potesse emulare il gesto. Lo so solo perché me lo hanno detto Misha e Natalia.» «Natalia?» Trasalì vistosamente. «Che ruolo ha Natalia in tutto questo?» «Quando Nicky mi ha detto che Misha era uscito portandosi dietro qualcosa di altamente corrosivo, ho chiamato Natalia al lavoro e le ho detto di andare a casa di Leonid. Ero agitatissima e pentita di ciò che avevo detto al ragazzo. Quando Nicky mi ha detto della batteria, ho capito subito che intenzioni avesse Misha. Mi è sembrato ovvio, dato che oltre alla storia dei Romanov, non sa molto altro. Ma quando Natalia è arrivata lì, l'atto era già stato compiuto e Misha se ne era già andato. Rimasta sola con l'orrore del corpo di Leonid, che l'ha fatta stare molto male, povera ragazza, ha dovuto decidere in fretta cosa fare. Temendo che la polizia, al suo arrivo, potesse trovare le impronte di suo fratello sulla vecchia batteria, se l'è portata via abbandonandola poi in qualche discarica mentre tornava a casa. È stata lì subito dopo suo fratello e forse lei l'ha vista, mentre rincorreva Misha per la strada. Comunque non l'avrebbe riconosciuta, perché quando andava a trovare suo zio a Balat, si copriva sempre la testa e la faccia con uno scialle... non le piaceva il modo in cui la guardavano gli ebrei. Strano, vero, dato il suo esibizionismo? Lo scialle le è servito anche per nascondere la batteria e così...»
«Così,» intervenne Nicholas Gulcu, «ora abbiamo deciso di andare alla polizia a raccontare ciò che abbiamo raccontato a lei.» Robert Cornelius aggrottò la fronte e spalancò gli occhi. «Avete intenzione di dare la vostra carne e il vostro sangue, per quando spaventosi, in pasto alla polizia?» «Non abbiamo scelta,» rispose la vecchia. «Come ho sempre fatto, devo tenere alta la reputazione mia e della mia famiglia.» «Ma...» «Ho fatto quello che potevo, attraverso lei, purtroppo, ma quando ho visto che non ha funzionato...» Si strinse nelle spalle. Robert Cornelius era allibito. «Ha fatto quello che poteva tramite me?» «Sì, ho detto a Natalia di fare in modo che lei coinvolgesse l'odioso Reinhold Smits, cosa che lei ha fatto perché era innamorato pazzo. Siamo stati fortunati con la svastica...» «Cosa? Cosa?» Sollevò le mani per fermarla. Stava di nuovo correndo troppo e lui era sempre più confuso. «Cos'è questa faccenda della svastica? Me lo spieghi, per favore?» Nicholas Gulcu sussurrò qualcosa all'orecchio di sua madre e lei annuì. «Dopo aver ammazzato Leonid, Misha ha tracciato una grande svastica sulla parete al di sopra della sua testa. È stata una sorta di biglietto da visita. L'imperatrice Alessandra amava la svastica. Nel 1918, non possedeva il vile significato che ha oggi. Ne ha disegnata una in tutte le case di proprietà della famiglia. Faceva parte di lei come il colore lilla. Le ho anch'io le svastiche, in questa stanza, disegnate a matita sotto la carta da parati lilla. La polizia però non ha fatto questa associazione di idee. Sono arrivati alla conclusione più scontata e con il mio aiuto e il suo, signor Cornelius, sono arrivati a Reinhold Smits.» «Che era nazista, mi pare di capire...» «Reinhold Smits, o meglio suo padre, è stato il datore di lavoro di Leonid appena arrivò in questo Paese. Col passare del tempo e nonostante la differenza sociale, Leonid e Meyer diventarono amici grazie ai rivoltanti gusti sessuali che avevano in comune: la passione per le ragazzine molto giovani. A difesa di Leonid devo dire che non ha mai compiuto nulla di illegale, mentre Reinhold era tutt'altra cosa. Man mano che invecchiava, si sceglieva amanti sempre più giovani... un fatto di cui si vantava apertamente con il suo "povero piccolo ebreo" Leonid.» Fece un sospiro che a Robert Cornelius parve triste. «E fu in quel periodo, negli anni '20, che ripresi contatto con Leonid. Stavo già con Mehmet e quindi mi sentivo al si-
curo. Così, ogni tanto, mi incontravo con Leonid alla sua uscita dal lavoro per un caffè, una chiacchierata e... Fu in una di quelle occasioni che mi presentò Reinhold Smits che mi parve fin troppo contento di conoscere me, una straniera.» «Perché?» «Per due motivi. In primo luogo, e questa era la cosa meno importante, essendo "anziana" mi trovava attraente e, in secondo luogo, Leonid gli aveva detto chi ero.» «E così rimase colpito dal fatto che lei appartenesse a una famiglia reale?» La donna sorrise per il modo in cui l'inglese espresse i suoi dubbi su di lei nel porle la domanda. «No, signor Cornelius, Reinhold era interessato a me perché aveva dei progetti che coinvolgevano il personaggio che io rappresentavo. Nel 1920, il germe del fascismo aveva già attecchito nel suolo tedesco. Inoltre, odiavano il nuovo governo bolscevico in Russia. Il giovane Adolf Hitler e i suoi amici lo consideravano l'incarnazione del diavolo. E così, quando mi conobbe, Reinhold Smits cominciò a sognare una sorta di crociata cristiana contro l'Unione Sovietica... con la principessina russa e l'oro dello zar come prestanome. Leonid, ingenuo com'era, la considerò una grande opportunità ma, come sempre, avevo paura di scoprirmi e temevo per la mia vita, così non ne volli sapere. Non appena Reinhold se ne fu andato, mi infuriai con Leonid. Gli dissi di fermare i piani di quel tedesco ricco, potente e arrogante, e lui lo fece.» «Come? In che modo lo fece?» «A quel tempo, Smits era un pedofilo incallito. Gli mostrava le fotografie delle sue conquiste e gliele regalava pure, tanto era orgoglioso di quello che faceva e sicuro di sé, grazie al suo denaro.» Il suo viso si rattristò. «Alcune delle bambine avevano sei anni. Credo non sia necessario che le spieghi come fece Leonid a dissuadere Reinhold dal mettere in atto i progetti che mi coinvolgevano.» Robert rabbrividì di disgusto. «Ricatto?» «Sì. E anche se dopo Reinhold lo odiò, perché tra l'altro aveva diffuso le voci del suo antisemitismo, continuò a pagare Leonid per tutta la vita. Infatti, il giorno in cui Leonid è morto, si trovava casualmente a casa sua per effettuare uno dei suoi pagamenti.» Robert scosse la testa incredulo. «Cosa?» «È arrivato dopo che era già stato ucciso ed è rimasto sconvolto. Lo so, a causa di un grave errore che fece quando mi telefonò per consolarmi. An-
che se sapevo che non poteva essere stato lui a uccidere Leonid - se non altro perché un uomo così ricco non ne avrebbe avuto motivo - non l'ho mai detto a Reinhold. Ho lasciato che sudasse e si preoccupasse e ho aiutato la polizia a trovarlo.» Sospirò. «Che peccato che non si siano dimostrati tanto interessati.» «Oh, sì, che peccato!» Per un attimo, Maria Gulcu chinò fisicamente la testa davanti alla rabbia di Robert. «Posso capire...» «No, non può capire!» Robert si portò una mano al viso livido e sembrò quasi che stesse per piangere. Ma si riprese subito. «Credo di aver fatto qualcosa di veramente orribile e, e... indirettamente, credo di averlo fatto per questa... questa faccenda. Sono stato ammalato, alcuni anni fa, mentalmente ammalato, e anche adesso, quando mi agito, sento che potrei perdere il controllo. E,» abbassò lo sguardo sul pavimento, «ero molto preoccupato per Natalia. Perché, perché credo di aver sempre saputo non la faccenda del sangue russo, ma che si trovava a casa di Meyer e anche se lei, signora Gulcu, ha detto che non ha ucciso nessuno, potrebbe averlo fatto. Nascondere le tracce di suo fratello e portarmi...» La guardò con gli occhi che gli brillavano. «Ma l'amavo.» La vecchia annuì. «Lo so. Come mi amava il signor Gulcu. Era buono e se fossi stata diversa da quello che sono, anche se lui ha sempre rispettato il mio modo di essere, avrei potuto essere felice con lui. Ma scelsi di continuare ad accompagnarmi con gente come Leonid. Scelsi di essere diversa e di tenere le distanze dal mondo del povero Mehmet. E quando morì, lasciandomi i suoi soldi e le sue proprietà, decisi di far crescere i miei figli alla maniera russa, facendo indossare loro gli abiti di quelli morti molto tempo prima, per cercare, attraverso loro, di ricostituire quella linea di sangue che avevo contaminato unendomi a Mehmet.» A denti stretti per la rabbia, Robert disse: «Lei è una donna molto cattiva, signora Gulcu, principessa o non principessa.» Lei si strinse nelle spalle. «Avrei dovuto stare più attenta nel parlare con Misha. Mi sono lasciata trasportare dal desiderio di essere al primo posto nei loro affetti. E anche nel loro disprezzo, naturalmente. Sapendo come fosse in realtà Leonid e sentendo le continue lodi del ragazzo nei suoi confronti, a un certo punto mi è parso troppo. Ma come può vedere lei stesso, il ragazzo sembra non avere niente nella testa. Se solo avessi ascoltato Leonid tanto tempo fa, sarei stata più prudente.» «Cosa intende?»
«Intendo, signor Cornelius, che Leonid si è ubriacato per quasi tutta la vita perché non si fidava di me. Nonostante mi abbia salvato, ha ucciso la mia famiglia, la mia famiglia molto speciale, divina, e pensava che prima o poi gliel'avrei fatta pagare. Io non lo credevo e infatti ridevo quando mi parlava di queste cose. Ma quando uno dei miei cari ha ucciso Leonid, in un certo senso è stata la mia mano a farlo. Indirettamente, se vuole, sono stata io a uccidere Leonid. Mi sono anche chiesta, negli ultimi giorni, se non abbia detto a Misha quello che gli ho detto per ottenere proprio questo risultato.» Fatta eccezione per i singhiozzi della madre di Natalia, sulle persone presenti nella stanza calò il silenzio... un vuoto che aspettava di essere riempito. Come al solito, fu Maria Gulcu a parlare per prima. «Perciò ora dobbiamo andare alla polizia,» disse. «Preferirei di no, ma...» Fu interrotta da sua figlia che, continuando a singhiozzare, si lanciò sul letto di sua madre gridando delle parole che Robert Cornelius non capì. La vecchia le accarezzò i capelli nel tentativo di calmarla anche se, con evidente disgusto di Robert, il suo viso rimase di pietra. «Mia figlia è arrabbiata, signor Cornelius,» spiegò, «perché il nostro progetto è sempre stato quello di poter un giorno tornare in Russia trionfanti. Con il crollo della vecchia Unione Sovietica, che sembrava molto probabile. Solo Dio sa cosa ci accadrà adesso.» Tornando improvvisamente al motivo per cui si trovava lì, Robert Cornelius scosse la testa e disse: «E Natalia? Suppongo sia al lavoro.» «Sì,» rispose la vecchia. «È lì che la troverà la polizia, dopo che ci avrò parlato.» Misha parlò di nuovo. La risposta di Maria fu dura. «In inglese, per favore, Misha! Altrimenti il signor Cornelius non capisce!» Robert si impose di guardarlo. I lineamenti del ragazzo lo fecero sussultare. Aveva fatto cose che non si sarebbe mai sognato di fare per un viso identico a quello. In un inglese stentato, Misha gridò: «No volere andare in prigione, nonna! Polizia mi uccide per quello che io fatto!» «Ah, Misha!» Sospirò profondamente e guardò Robert. «Cosa posso dire? Come vede, sa cosa gli accadrà e io non posso negarlo. Confesserà a loro così come ha confessato a me. Lo so. Ma cosa posso farci?» Misha gridò. Fu un suono alto, penetrante e femminile. «Sono un Romanov, non puoi!»
Si girarono tutti a guardarlo. In preda all'agitazione saltellava da un piede all'altro, le braccia strette intorno al corpo come a proteggersi. Robert ebbe la brutta sensazione che il ragazzo stesse per perdere il controllo. Gli era già capitato di vedere gente come lui - psicotici in preda al panico che riuscivano a calmarsi soltanto con un'iniezione o la camicia di forza. Le vecchie paure riaffiorarono in tutta la loro violenza. Il ragazzo lo stava fissando con gli occhi socchiusi e Robert sapeva bene cosa stesse pensando. Era colpa sua, era stato quello straniero a creare quel putiferio, e Robert sapeva che era solo questione di tempo, e lo avrebbe aggredito. Doveva restare calmo, anche se cominciava ad avere una grande paura. Doveva fare qualche gesto che il ragazzo potesse capire. Nessuno, nella stanza, percepì il pericolo. Maria si appoggiò ai cuscini limitandosi a fare: «Sss!» Sapeva che Misha non era cattivo, non avrebbe fatto del male a nessuno. «Misha...» Robert tese al ragazzo la mano aperta nel classico gesto di chi offre la propria amicizia. Ma il ragazzo balzò all'indietro come se si fosse scottato. Nel movimento, il suo lungo braccio urtò la protezione di vetro della lampada a petrolio che si trovava sul tavolino accanto a lui. Cadde a terra con un tonfo e le fiamme, all'inizio piccole e tenui, lambirono il bordo inferiore delle tende. CAPITOLO XXIV «No, non spinga, signora Ikmen, respiri, invece!» Fatma fece una smorfia e dalla sua bocca uscirono dei gemiti di dolore. La maggiore delle sue figlie, una ventenne dai grandi occhi scuri di nome Çiçek, era terrorizzata. «Ma la mamma vuole spingere,» disse alla dottoressa. «Ha dei dolori terribili!» «Non è ancora il momento!» Era giovane, non le piaceva avere gente intorno mentre assisteva una partoriente e soprattutto non le piaceva discutere con chi non capiva niente di anatomia. «La cervice di tua madre non si è ancora dilatata a sufficienza e se spinge adesso, si lacera; credo che nessuno di noi lo voglia, no?» «No!» Ma sua madre aveva dei dolori terribili! Il viso era paonazzo e fradicio di sudore e le gambe, allargate sul telo di plastica sotto di lei, tremavano. Çiçek guardò la chiazza di acqua e sangue ai piedi di Fatma e si chiese se fosse il caso di pulirla. La dottoressa prese il polso di Fatma con due dita e contò i battiti. Non
commentò. «Sta bene?» «Tua madre se la sta cavando molto bene,» rispose la dottoressa, «per una donna della sua età.» Fatma aprì gli occhi e guardò sua figlia. «Dov'è tuo padre? Dov'è Çetin?» «Sta arrivando, mamma.» Fatma aggrottò le ciglia. «Non è necessario che mi racconti frottole!» «Davvero!» Ma Çiçek non lo disse con molta convinzione. La dottoressa si sporse sul letto. «L'intervallo delle contrazioni è di tre minuti, adesso, signora Ikmen. Non è ancora del tutto dilatata, ma posso darle un antidolorifico. Lo vuole?» «Sì!» Andò alla sua valigetta e tirò fuori una siringa. La posò un attimo accanto al letto e tamponò il braccio di Fatma con un batuffolo di cotone imbevuto di una sostanza molto fredda. Poi prese di nuovo la siringa e dopo aver aspirato il liquido nell'ago, lo iniettò nel braccio di Fatma. «Per un po' dovrebbe andare meglio.» Con tutto il dolore che sentiva, non si accorse dell'ago che le entrava nella vena. Giaceva boccheggiando come un grosso pesce, in attesa della contrazione successiva. «Dottoressa Koç, le dispiace telefonare a mio marito? Voglio che venga qui.» La dottoressa sembrò perplessa. «Ma...» «Mio marito è un poliziotto, dottoressa! Bisogna alzare la voce per farlo tornare a casa!» Alla contrazione successiva, il suo viso divenne una maschera di dolore. Il campanello della porta suonò e Çiçek si lanciò verso la porta della camera da letto. «Deve essere papà!» Perché nessuno, nemmeno lei, si mosse per spegnere le fiamme, Robert non l'avrebbe mai saputo. Forse la velocità con cui si propagarono sulle tende li lasciò interdetti. Se solo qualcuno avesse avuto la presenza di spirito di tirarle giù e buttarci sopra una coperta... Sul letto c'erano un mucchio di coperte. Invece rimasero tutti a guardare. Era una cosa insolita vedere tanta luce in quella stanza. Rischiarò il viso della vecchia e per la prima volta Robert vide la lunga cicatrice che le sfregiava un lato del viso. Se l'era fatta in quell'angusta cella di Ekaterinburg? Era stato forse quel vecchio ebreo,
morto per mano di tutti i membri di quella terribile, spaventosa famiglia, a infliggerle quella ferita? E perché l'aveva salvata? Un forte crepitio avvisò Robert che il rivestimento di legno della parete aveva preso fuoco. «Qualcuno vada a prendere dell'acqua, per l'amor di Dio!» Ma continuarono a non muoversi. Una strana calma sembrava essersi impossessata di loro, compreso Misha. Guardavano il fuoco come se stessero guardando la televisione. Era un'immagine irreale in cui sembravano fuori tempo e fuori luogo. A quel punto Robert fu preso dall'istinto di sopravvivenza. Quando girò nello stretto viale del Pera Palas Hotel, Cohen fu colpito da un forte odore. Un odore acre che gli penetrò fastidiosamente nelle narici. Guardò Suleyman con una smorfia. «Che diavolo è, Mehmet?» A giudicare dalla sua faccia disgustata, lo aveva sentito anche Suleyman. Inspirò profondamente e si sentì quasi soffocare al contenuto di quell'aria. «Non lo so! Mi pare quasi puzza di bruciato, anche se...» Mise la testa fuori dal finestrino della macchina e guardò il cielo. «Non vedo niente...» Cohen fece una smorfia e fermò la macchina all'inizio del viale prima di procedere per Mesrutiyet Caddesi. Vide il portiere dell'albergo attraversare la strada di corsa diretto alla stradina di fronte. «È andato verso Karadeniz, quell'uomo?» «Sì.» Altri uomini e donne, tutti vestiti di nero, seguirono il portiere correndo. Per qualche ragione alzò di nuovo gli occhi al cielo e vide una nuvola di fumo nero sollevarsi sui tetri edifici verso Istiklal Caddesi. «Fermati!» ordinò a Cohen. Con un balzo scese dalla macchina e attraversò Mesrutiyet Caddesi in direzione di Karadeniz Sokak. La stradina era piena di gente con la testa all'insù intenta a guardare una casa a metà della via. Per un attimo, Suleyman si guardò intorno per vedere se c'erano tracce della presenza di Ikmen e quando non ne vide, guardò in alto anche lui. L'ultimo piano del numero 12 di Karadeniz Sokak era in fiamme. Respirando affannosamente per la corsa fatta per uscire dalla stanza della vecchia, Robert alzò lo sguardo verso la fitta nube di fumo che proveniva dalla scala dalla quale era appena sceso. Loro, la famiglia, ora si stavano muovendo, sentiva i loro passi correre sopra di lui, le loro voci. La sua
corsa verso la porta li aveva svegliati. Nicholas lo aveva seguito fino al bagno, dove aveva riempito d'acqua un secchio. Robert guardò il telefono sul tavolino dell'ingresso e si chiese se fosse il caso di usarlo. Ma fuori c'era molta gente, adesso, e qualcuno di loro doveva aver già chiamato i vigili del fuoco. Guardò di nuovo la scala. Si vide arrivare addosso una valanga di fumo e sentì il legno crepitare per la dilatazione dovuta al calore. Tornare di sopra sarebbe stato da pazzi, ma nessuno di loro era sceso e se il gruppo non fosse arrivato subito, sarebbero morti bruciati o soffocati dal fumo. Certo, non avrebbero capito il suo gesto. Perciò perché doveva preoccuparsi... Ma si preoccupò. Al di là di ciò che sostenevano di essere, i Gulcu erano senza dubbio degli esseri umani. Forse stavano cercando di spegnere le fiamme con quel poco d'acqua che avevano senza pensare di scendere le scale per uscire in strada. Probabilmente, stavano facendo così perché a causa della sua età, sarebbe stato difficile spostare la vecchia. E loro non l'avrebbero lasciata sola. Non aveva senso lasciarla, perché senza di lei non avevano niente. Le prove della loro esistenza le aveva solo lei. O sarebbero usciti di lì tutti, o nessuno. Robert posò un piede sul primo gradino e respirò profondamente. Non lo faceva per loro. Non conosceva bene i Gulcu e in base a quel poco che aveva saputo, si era fatto una pessima opinione di loro. No, erano i sensi di colpa che lo inducevano ad agire. I sensi di colpa di un uomo che sapeva di aver commesso qualcosa di imperdonabile e il conseguente, patetico tentativo di rimediare in qualche modo che a volte prende anche le persone più razionali. Quel vecchio ebreo che aveva colpito ormai era morto, ma se fosse riuscito a salvare anche una sola delle persone lassù... Ora il fumo si era fatto più denso e cominciava a bruciargli gli occhi. Se non fosse andato subito, non ci sarebbe più riuscito. Avrebbe perso la sua occasione e sarebbe stato solo uno dei tanti violenti al mondo. Crudele e indifferente... non come quello che in realtà sapeva di essere sempre stato. Dopo aver fatto un altro profondo respiro, Robert si mise la mano sulla bocca e corse verso l'ammasso di fumo denso e nero. La casa, intorno a lui, sembrò sospirare. La dottoressa Koç strinse la mano sudata di Fatma e sorrise. «Va bene, signora Ikmen, adesso può spingere.» «Non mi lacererò?» Aveva le guance rigate di lacrime. Se le asciugò delicatamente col dorso della mano.
«No, non si lacererà. È stata molto coraggiosa, andrà tutto bene, vedrà.» Fatma le strinse forte la mano e per un attimo la dottoressa Koç pensò che stesse per arrivare un'altra contrazione, ma poi capì che voleva solo attirare la sua attenzione. «Era mio marito quello che ha suonato il campanello poco fa?» Come faceva a dirglielo nel pieno del travaglio? Ma ormai la sua espressione era senza speranza. «No, mi dispiace. Era suo suocero.» Avrebbe voluto sfogare la sua rabbia ma il dolore al basso ventre glielo impedì e lei respirò profondamente. La dottoressa Koç le lasciò la mano e disse a Çiçek, che era seduta accanto a sua madre, di afferrarla forte per le spalle. Si avvicinò al letto e guardò tra le gambe aperte di Fatma. Fatma espirò con un urlo spingendo con tutte le sue forze. Dentro di lei ci fu un movimento seguito dalla sensazione di sollievo che provò quando la testa del bambino superò il canale cervicale. Mentre sfrecciava, la vecchia Mercedes vide procedere in direzione opposta due autopompe dei pompieri con le sirene che gemevano come muezzin in agonia. Avci picchiò il pugno sul clacson e ce lo lasciò. Con tutta quella gente per la strada era impossibile guidare. Ikmen guardò fuori dal finestrino disgustato. Detestava i curiosi, quelli che non si perdevano mai lo spettacolo di un incidente o di un disastro naturale o innaturale. Aveva notato il fumo quando erano arrivati a Taksim. E aveva capito. Alzò gi occhi sul tetto che bruciava del numero 12 di Karadeniz Sokak, con l'ultimo piano e metà di quello inferiore in fiamme. Naturale. Era il problema delle vecchie case di legno, specialmente d'estate. Bastava una scintilla. Avci fermò la macchina davanti a una piccola drogheria. Le due autopompe si misero in posizione e gli uomini cominciarono a srotolare i tubi. Ikmen scese dalla macchina e scosse la testa incredulo. Un uomo piccolo e anziano si allontanò dalla folla venendogli incontro con un'andatura incerta. Ikmen lo chiamò. «Ehi, nonno!» «Che c'è?» Zoppicava e sul cardigan verde pieno di buchi c'erano appuntate le medaglie della guerra d'Indipendenza. Guardò Ikmen con l'aria interrogativa. «Cosa vuoi, ragazzo?» «La casa che brucia... Sa se dentro c'è qualcuno?» «Oh sì. Qualche minuto fa qualcuno ha rotto una finestra. Ci sono diverse persone lì dentro, che gridano. Se Allah lo vorrà, i pompieri li faranno
uscire. E se non...» Si strinse nelle spalle. Ikmen guardò tornò a guardare l'incendio e il vecchio si allontanò zoppicando. Se i Gulcu fossero morti, non sarebbe mai riuscito a farle quella domanda, affrontandola con la vecchia fotografia di Smits. Di questo era certo. Ma non c'era niente che potesse fare, a parte quello che facevano tutti... lasciare che i pompieri facessero il loro lavoro. La sua unica consolazione era che Suleyman non fosse lì. Infilò una mano in tasca e tirò fuori le sigarette. La gente, compreso Avci, lo guardò come se fosse pazzo. I pompieri allinearono i tubi e aprirono l'acqua. Riempiendosi, i tubi si gonfiarono e si mossero come se si stessero dimenando. La gente cercò di spostarsi, ma una donna non fece in tempo e, colpita a un fianco, cadde. Avci si precipitò subito ad aiutarla. Perché era giovane e carina, come notò anche Ikmen. Mentre la gente si spostava, qualcuno gli toccò la schiena. Ma non ci fece caso e gridò ad Avci di dire ai pompieri che c'era la polizia. Una mano lunga e sottile si posò sulla sua spalla. «Signore?» Fu come andare a dormire sapendo che il brutto incubo sarebbe tornato. Si girò e sollevò la testa con le lacrime agli occhi. «Suleyman.» Ora che anche il pianoterra era in fiamme, la loro unica speranza erano i pompieri in strada. Se fossero riusciti ad agganciare la scala alla finestra che lui aveva rotto, sarebbero potuti usciti da lì. Tranne lei, forse. Non si era ancora mossa dal letto e ora la figlia l'aveva raggiunta. Robert le vedeva attraverso le fiamme. La figlia stava gridando. Aveva i capelli in fiamme, sembrava una santa in agonia, con un'aureola rossa e oro intorno alla testa. La vecchia, al contrario, era calma. L'agonia non era ancora cominciata per lei. Robert aveva la sgradevole sensazione che quando fosse toccato a lei, dalla sua bocca non sarebbe uscito neanche un lamento. Con la mente, lei era già da un'altra parte. A Ekaterinburg, forse? Probabilmente, era accaduto mentre lui tentava di fuggire dalle scale. Mentre Nicholas cercava disperatamente di spegnere le fiamme con un secchio d'acqua. Era stata una cosa inutile. Per qualche ragione, Robert ripensò al vecchio ebreo, al modo gentile e preoccupato in cui lo aveva guardato e la violenza con cui lui, Robert, aveva reagito. Nonostante Balat gli evocasse sensazioni sgradevoli, era straordinario quello che aveva fatto. La mancanza di fiducia negli altri, l'istintiva idiosincrasia nei confronti di chi è diverso, i pregiudizi vecchi di quasi duemila anni. E com'era stato facile! Com'era semplice guardare un viso acuto e penetrante e vederci, vederci gli occhi di un demone. Guardò per
terra e vide il corpo deformato di Sergei allungato davanti a sé come un manichino rotto. Sapeva che se lo avesse toccato, avrebbe scoperto che era senza vita. Era andato a raggiungere il vecchio ebreo e Meyer e tutti gli altri morti le cui vite avevano sfiorato quella di Maria. Il fumo era talmente denso, ora, che non riusciva quasi più a vedere niente e i polmoni cominciavano a fargli male. Alla finestra c'era solo Misha e se Robert avesse pensato a sé, avrebbe raggiunto il ragazzo. Robert si mosse lentamente nel fumo. C'era odore di carne bruciata e si abbassò per non sentirlo. L'ossigeno si concentrava sempre a livello del pavimento e se voleva sopravvivere, doveva respirarne un po'. Si abbassò del tutto e attraversò di corsa il tappeto non ancora divorato dalle fiamme per raggiungere la finestra. Correndo, gli parve di passare accanto a un altro corpo che si muoveva in direzione opposta, per tornare nella stanza, ma non ne fu certo. Il fumo offuscava la vista. Le forme erano vaghe e indistinte come nella nebbia. Quando raggiunse la finestra vide che Misha era ancora lì e tremava. Si guardarono senza dire niente. Il giovane era privo di espressione; il viso attraente di Natalia senza passione né sensibilità. Era un travestimento osceno. Pareva farsi beffe di Robert. Da una parte desiderava baciare ancora una volta le sue labbra rosa e carnose, ma dall'altra parte... Dal centro della stanza arrivò un frastuono come di un barcone che si sfascia. I due uomini vicino alla finestra si girarono, ma non c'era niente da vedere. Tutto quello che c'era stato in quella stanza, il grande letto, le icone dorate, i tristi mobili finto Stile Impero, le persone... tutto era ricoperto di rosso e giallo e di uno strano verde che stava a indicare la presenza di gas. Un verde cattivo, il tipo di oro preferito da Natalia. Una ventata d'aria, forte come un vento, entrò dalla finestra aperta. Risucchiata dalla casa. Le fiamme ravvivavano e prolungavano la festa dei corpi. Era come assistere a una sorta di danza tribale. Vive, perché al fuoco piaceva così, e grandi, perché più grandi erano, più belle erano. Natalia era stata una fiamma. Le illusioni vivono nel fuoco. Nei paesi freddi come la Gran Bretagna, d'inverno la gente si raccoglie intorno ai camini cercando di scorgere delle immagini nelle lunghe dita tremolanti di colori in continuo cambiamento. Millie, la nonna di Robert, una volta aveva visto il Diavolo, o almeno così aveva detto. Aveva un mento blu sottile e aguzzo a mo' di stiletto. Anche Robert era sempre stato bravo a scorgere delle immagini. La sua famiglia lo aveva sempre preso in giro per questo. Ma quando vide i muri della casa
afflosciarsi come le guance secche di un vecchio, si chiese, come aveva fatto quel giorno a Balat vedendo Misha, se la sua mente non stesse ingannando i suoi occhi. Quello che suonò come il fragore di un tuono sotto i suoi piedi si estese a tutta la stanza. Il tuono colpì ciò che rimaneva del soffitto e per una frazione di secondo tutto sembrò immobile. Quando le fiamme si placarono, vide tre teste che bruciavano. Le espressioni, se una volta c'erano state, scivolarono via dai visi dando a quelle forme statiche l'aspetto di maschere di cera. Tristi maschere di cera di defunti. Anche Misha vide le teste e con un grido si arrampicò fuori dalla finestra raggiungendo il tetto. Ma Robert non lo seguì. Il ragazzo aveva fatto una cosa inutile. Non si poteva far altro che aspettare. Sotto il peso del letto della vecchia e di tutti gli orpelli che aveva accumulato nel tentativo di ingannare se stessa, il pavimento cedette. Aggrappandosi agli infissi della finestra in fiamme, Robert sentì la terribile sensazione del grasso e del sangue bollire nelle sue mani. Le tre maschere di cera precipitarono nell'abisso incandescente e furono sostituite da una grossa lingua di fuoco rossa. Sembrò guardarlo e Robert capì che tutto questo aveva un senso. Mentre tentava di tenersi in equilibrio su quell'angolo di pavimento che ancora resisteva, i suoi piedi scivolarono all'indietro. La grande fiamma ballava sensualmente avvicinandosi sempre di più a lui. Lo baciò, con la bocca aperta, sulla guancia e sulla punta del naso. Una mano di Robert si alzò per scacciare la fiamma ma si sbilanciò e piombò nell'abisso con le maschere di cera, trascinandosi dietro il resto del suo corpo silenzioso. Altre fiamme lo presero e lo consumarono. CAPITOLO XXV Una gran folla guardò l'uomo uscire dalla finestra e arrampicarsi sul tetto. Intorno a lui stava bruciando tutto e se qualcuno dei pompieri non andava su al più presto, avrebbe fatto un'orribile fine davanti a tutti. Gli addetti alle maniche antincendio gridarono agli addetti alle pompe di chiudere l'acqua. Avevano appena cominciato, ma era troppo rischioso continuare a gettare acqua sull'edificio, con un uomo precariamente aggrappato al tetto. Se uno di quei potenti getti lo avesse colpito anche solo di striscio, avrebbe perso l'equilibrio precipitando in strada. Un pompiere saltò agilmente sulla scala idraulica facendo cenno agli altri di sollevarlo. Puntò verso l'uomo sul tetto e i compagni di squadra manovrarono la scala in modo da poterla allungare al momento opportuno.
Ikmen posò pesantemente una mano sulla spalla di Suleyman. Non sarebbe durata molto. L'uomo era già sul tetto e ben presto si sarebbe accorto che la cosa migliore che potesse fare era di saltare. Gli sarebbe venuto istintivo, data l'innata paura dell'Homo Sapiens per il fuoco. Ikmen si chiese solo quanto tempo sarebbe durata la caduta. Pensò di dire a Suleyman di fare indietreggiare la folla, ma era già troppo tardi. «Sta per saltare!» Gridavano tutti, quegli stupidi bastardi! Quasi come a incoraggiarlo. Il pompiere in cima alla scala fece cenno ai compagni di metterlo in posizione. Intorno all'autopompa ci fu un'attività frenetica. Ikmen stava per voltarsi a guardare la scena, ma fu interrotto. Suleyman si mise a correre verso la casa. «Resta dove sei! Non ti muovere!» Ikmen reagì immediatamente, ma per quanto veloce corresse non riuscì a star dietro alle lunghe gambe atletiche del giovane. Cazzo! pensò tra sé e sé. Ho fatto tanto, e guarda che casino! Gli venne da piangere e si asciugò una lacrima con il dorso della mano. «Sta per saltare!» E insistevano! Il povero pompiere in cima alla scala gridò alla folla di smetterla, ma la sua voce si perse nel chiasso delle urla di paura della gente. Erano tutti in preda al terrore, ma stavano tutti lì a guardare. L'uomo sul tetto allargò le braccia sui fianchi come per prepararsi a volare come un uccello. Suleyman si era fermato e gli stava facendo dei gesti con le mani gridandogli qualcosa. Se solo Ikmen fosse riuscito a raggiungerlo in tempo per farlo indietreggiare! Continuò a correre nonostante fosse senza fiato. Suleyman era proprio sotto l'uomo, ora. Oh, era lunga la strada fino a terra! La gente sembrava come certi giocattoli che aveva da piccolo, pupazzetti di legno con le teste e le braccia che si muovevano premendo forte un determinato punto. Finivano sempre per prendere delle posizioni assurde, quei pupazzi, anche quando avrebbe voluto che fossero tranquilli e rilassati. Una delle figure a terra era più vicina delle altre e sembrava gridargli qualcosa, ma lui non riuscì a sentire una parola. Forse stava cercando di dirgli che sarebbe stato perdonato e che tutto sarebbe andato bene. Ma non poteva essere così. Se si ammazza qualcuno, anche se malvagio come lo zio Leonid, niente può più essere come prima. Lo zio Nicky aveva detto così e quindi doveva essere vero.
Il tetto era bollente, adesso. Sotto i suoi piedi, le cose che normalmente erano solide si erano liquefatte. Dopo di lui, nessun altro era salito sul tetto. Gli sarebbe piaciuto pensare che fossero riusciti a scendere dalle scale, ma sapeva che non era così. Erano morti tutti, ed era ciò che avrebbero sempre dovuto essere. Se la nonna fosse morta a Ekaterinburg, tutto questo non sarebbe accaduto. Lui non sarebbe mai nato... la dinastia sarebbe finita quando era destino che finisse. Forse era vero che c'era un tempo per tutte le cose. Forse, nel tenere in vita i Romanov a tutti i costi, la nonna aveva commesso un peccato. Che lo zio Nicky fosse suo padre gli era sembrato strano, ma se fosse o no una cosa sbagliata, non stava a lui giudicare. Un altro uomo stava correndo verso quello che continuava a gridargli qualcosa. Questo doveva essere particolare, perché se il secondo uomo avesse voluto far smettere il primo di gridare, bastava che glielo dicesse. I turchi erano strani, lui li aveva osservati bene. Non erano persone logiche, ed era per questo che non gli piacevano tanto. I russi erano meglio, la nonna lo diceva sempre. Provò un po' di tristezza nel pensare alla Russia. Aveva desiderato tanto tornare "a casa", ma adesso era troppo tardi. Qualcuno in cima a una scala stava salendo verso il tetto, ma lui non si agitò. Non sarebbe riuscito a raggiungerlo e anche se ci fosse riuscito, non avrebbe avuto importanza. Aveva i suoi piani. Guardò di nuovo giù. Sarebbe stato un bel salto, da quell'altezza, ed era sicuro che si sarebbe fatto male. La famiglia non aveva mai creduto che lui potesse provare sensazioni del genere, ma lui aveva sempre saputo di possedere questa qualità. Era in grado di pensare e ragionare come tutti loro. Forse in un modo diverso dal loro, ma ne era sempre stato capace. Dovere, era di questo che si trattava. E Misha capiva molto bene il dovere, era una cosa molto importante. La nonna raccontava spesso che la gente criticava lo zar per il suo eccessivo senso del dovere nei confronti della dinastia, che era morto per questo. Perciò doveva essere per forza una cosa buona. Ma nemmeno questo aveva più importanza, ormai. I piedi gli bruciavano e anche senza guardare, sapeva che le sue scarpe stavano andando in fumo. Sentiva male dappertutto. Stranamente, però, non aveva caldo. Si sentiva come se lo avessero pugnalato su tutto il corpo. Ma questa sensazione non sarebbe durata molto. Era all'aperto, il fumo non poteva travolgerlo come aveva fatto con lo zio Serge. Ma questo non aveva nessuna importanza, adesso. L'importante era abbandonare il tetto in fiamme. Se ci fosse riuscito, avrebbe conservato un po' di dignità. Gli altri non ci erano riusciti, e ora toccava a lui provaci. Era la cosa giusta da farsi? Pensava di aver fatto la
cosa giusta prima... Meglio farlo senza pensarci troppo! Misha allargò le braccia e chiuse gli occhi. Finché non avesse toccato terra sarebbe stato piacevole, come volare. Piegò le ginocchia e si lanciò. Ikmen aveva la sensazione che i polmoni dovessero scoppiargli da un momento all'altro, mentre si precipitava ad afferrare Suleyman con ambedue le mani per tirarlo indietro. Il tonfo del corpo che si sfracellava al suolo davanti a loro morendo sul colpo, fu il suono più orribile che tutti e due avessero mai sentito. Fu un rumore sordo e umido, come quello di un pescivendolo quando sbatte i calamari nella cassetta di legno. Per un attimo, i due uomini restarono ammutoliti. Ikmen premette forte l'orecchio contro la schiena di Suleyman e provò una grande gioia quando sentì il suo respiro pesante e affannato. Qualunque fosse l'orrore che avevano davanti, almeno lui era vivo e per questo Ikmen ringraziò un Dio nel quale non credeva. Non c'era un altro essere che potesse ringraziare, certamente non se stesso. Era stata una cosa troppo grande. Ikmen si levò da sotto il corpo di Suleyman e si guardò intorno. Vide due pompieri correre verso di loro con l'aria terrorizzata. Suleyman cadde all'indietro e Ikmen si curvò su di lui. Suleyman era ricoperto di sangue. Si guardò le mani sporche di sangue coagulato cercando di non toccarsi altre parti del corpo. Ikmen lo prese delicatamente per le spalle cercando di farlo mettere a sedere. Il sangue era sgradevole al tatto perché era ancora caldo, ma Ikmen doveva tentare. Suleyman stava cominciando a piangere e se fosse rimasto steso, sarebbe soffocato con le sue stesse lacrime. Ma non era facile. Suleyman non voleva muoversi. Girò la testa da un lato e sprofondò le spalle nel terreno per mantenere il corpo dov'era. Ikmen guardò i piedi di Suleyman e capì perché. L'uomo era atterrato sullo stomaco che nell'impatto si era squarciato spargendo dappertutto sangue e budella, anche se era stato Suleyman a prendersi il peggio di tutto quanto. Gli era schizzato addosso di tutto; il sangue in faccia e negli occhi, cose ancora più sgradevoli e per fortuna indefinibili gli si erano appiccicate sulle gambe e sui piedi. Il viso del ragazzo non era nuovo a Ikmen e non era stata la prima volta che aveva provato pena per lui. Ikmen si rese conto che probabilmente non avrebbe mai saputo quale fosse stato il suo ruolo nel particolare dramma vissuto dai Gulcu. In effetti, tutto ciò che era accaduto dal momento della morte di
Leonid Meyer gli sembrò improvvisamente quanto mai misterioso. La casa dei Gulcu stava bruciando, non c'era ancora traccia di Cornelius e ora questo ragazzo, questo ragazzo morto. «Tutto bene?» Ikmen si guardò intorno e vide due pompieri chinarsi sul corpo devastato di Suleyman. Sapeva che avrebbe dovuto rispondere, era sempre importante accertarsi se ci fossero dei feriti. Ma non riusciva a parlare. Per il momento gli bastava sapere che Suleyman era vivo, perché sapeva che le cose sarebbero potute andare molto peggio. Ikmen toccò il viso del suo sergente e sentì la bocca muoversi sotto la sua mano. Era un miracolo. Un paio di braccia robuste lo allontanarono da Suleyman e lo aiutarono a rimettersi in piedi. Ikmen prese di nuovo coscienza della folla che aveva intorno. Le grida e i pianti superarono di nuovo la barriera temporanea che la sua mente aveva eretto nelle sue orecchie. Erano venuti ad assistere a un dramma e si erano trovati in mezzo all'orrore. Stavano vedendo solo i contorni del buio in cui si era dibattuta la sua anima dall'inizio del caso Meyer: il passato che precipita sanguinosamente nel presente. Il secondo pompiere aiutò Suleyman ad alzarsi e lo allontanò dalla scena conducendolo da Ikmen. Dietro di loro, la casa continuava a bruciare nonostante le migliaia di litri d'acqua gettati dalle maniche in quell'inferno. Ognuna delle sostanze presenti faceva la sua parte: il legno, il gas, il petrolio, la complicata biochimica del corpo umano. Parcheggiata dietro l'autopompa più grande c'era un'ambulanza in attesa. Quando si aprì il portellone posteriore, oltre agli infermieri, apparve un agente Cohen alquanto agitato. Gli infermieri presero Suleyman dalle braccia del pompiere e lo caricarono sul veicolo in silenzio. Non guardò Cohen né sembrò essersi accorto della sua presenza. Shock. Se Suleyman era in stato di shock, sarebbe stato privo di emozioni per qualche ora e almeno non si sarebbe angosciato, pensò Ikmen con amarezza. E lui? Anche se sapeva che avrebbe fatto meglio ad andare anche lui all'ospedale a farsi fare una visita di controllo, aveva già deciso di non andarci. Spento l'incendio, ci sarebbe stato tempo anche per questo. Il fatto che fosse sconvolto anche lui come tutti, non era una scusa sufficiente. Era stato lui a scoprire i Gulcu, e non poteva abbandonarli proprio ora. Ikmen si congedò dal suo pompiere e si avvicinò a Cohen. Aprì la bocca per parlare ma gli venne fuori un'unica parola. «Cosa...?» Cohen si passò una mano sugli occhi e sospirò. Replicò a sua volta, «Cosa?»
Ikmen respirava affannosamente come se fosse nel panico. «Cosa ci facevate qui?» Cohen guardò Ikmen un po' di traverso. Non si fidava molto delle persone sotto shock. «Siamo venuti a cercare lei, signore. E a vedere se quell'inglese...» «Ma avevo detto a Suleyman di prendersi un giorno di permesso! Gliel'ho detto perché...» Gli faceva male la testa e ci posò delicatamente una mano sopra. Doveva averla sbattuta per terra quando era caduto, ma non se ne ricordava. Cohen lo prese per un braccio e lo condusse lontano dall'ambulanza. Anche lui sapeva che Ikmen sarebbe dovuto andare in ospedale, ma sapeva anche che il Vecchio si sarebbe rifiutato, se si fosse insistito. «Nessuno le ha detto ancora niente, signore?» «Detto cosa?» L'aria era piena di fumo e gli venne da tossire, ma si accese lo stesso una sigaretta. Cohen lo fece sedere su un piastrino spartitraffico. «Stamattina sua moglie è entrata nella fase di travaglio.» «Oh.» Era una risposta piatta e priva di interesse che non pareva quella di un uomo appena diventato padre. Ma si trovavano tutti e due nel bel mezzo di una scena degna dell'Inferno di Dante. Il fumo era talmente denso che persino gli spettatori avevano la faccia annerita dalla fuliggine. Nell'aria si sentiva anche odore di carne bruciata, adesso. Cohen sapeva cosa fosse, ma non lo disse a Ikmen. Ikmen sospirò. «Fatma mi ucciderà.» «Posso accompagnarla a casa, signore, se...» «Dov'è Avci?» «Oh, ehm, non lo so.» Cohen lo cercò con lo sguardo ma non lo vide. «Cercalo, Cohen, per favore.» Lo chiese in tono spaventato. Ikmen aveva bisogno di sapere che tutti erano sani e salvi, ora. Era importante. «Va bene, sì...» «Digli di andare a casa mia a chiedere come sta mia moglie.» «Non vuole andarci personalmente?» Ikmen aggrottò le ciglia. «Fa' come ti ho detto.» Con un po' di riluttanza, Cohen lasciò il suo capo per andare a cercare Avci. Data la situazione raccapricciante, si aspettava di trovarlo nascosto da qualche parte. L'ambulanza che trasportava Suleyman partì e fu immediatamente sostituita da un'altra vuota. A bordo c'erano tre infermieri, tutti con lo sguardo torvo. Uno di loro, un uomo basso e tarchiato che dall'aspetto doveva esse-
re armeno, aprì il portellone posteriore dell'ambulanza e tirò fuori un sacco blu ripiegato. Guardando all'interno del veicolo, Ikmen notò che nessuna delle lettighe aveva cuscini o coperte. L'armeno aprì il grosso sacco blu. Non era un veicolo destinato al trasporto dei vivi. Ikmen guardò davanti a sé verso la parte posteriore di una delle autopompe. Con la coda dell'occhio vide che finalmente gli uomini della squadra antincendio stavano cominciando a domare le fiamme. Strano davvero che il legno desse loro tanti problemi. Ikmen avrebbe quasi detto che la casa avesse deciso di bruciare. Rise tristemente tra sé e sé.. le profezie erano una cosa, ma arrivare ad attribuire intelligenza al fuoco... A volte si sentiva davvero il vecchio pazzo che Fatma gli diceva sempre di essere. Ora poteva solo sperare che almeno qualcuno di loro fosse sopravvissuto a quell'inferno, anche se era una speranza molto remota. E con loro se ne erano andate tutte le risposte alle domande per le quali si era recato lì. Domande su Cornelius e la lettera che aveva inviato alla polizia, domande su chi fossero i Gulcu e perché avessero ucciso Leonid Meyer, perché ora sapeva che erano stati loro. Lo avevano ucciso per quel vecchio crimine, quello a Ekaterinburg tante vite fa, quello la cui premessa si trovava in quelle due vecchie fotografie appartenute a Smits, quelle che ora aveva in tasca lui. Tutto questo lo sapeva. Ma ciò che avrebbe voluto davvero sapere era andato irrimediabilmente perduto, ormai. Chi era davvero Maria Gulcu, perché nonostante tutto, lui non voleva ancora credere a quelle fotografie. Non poteva. E perché aveva aspettato settantaquattro anni per vendicarsi? Il fatto che non avrebbe mai saputo gli fece venire improvvisamente voglia di piangere. «L'ispettore Ikmen?» Alzò lo sguardo e vide un uomo alto e magro più o meno della sua età in divisa da pompiere. Era sporco e ricoperto di fuliggine e aveva l'aria esausta. Ikmen sapeva come doveva sentirsi. Erano passate ore da quando erano riusciti a domare l'incendio e persino la gente se n'era andata, ormai, ma lui era ancora lì. «Sì, sono io. Cosa c'è?» Il pompiere si tolse l'elmetto e si asciugò la fronte con il dorso della mano. «Uno dei suoi uomini mi ha detto di informarla quando avessimo cominciato a tirare fuori i corpi.» Era arrivato il momento. Ikmen si accese un'altra sigaretta. «Sì, grazie. Quanti cadaveri avete trovato?» Gli tornò in mente l'ultimo "arrivederci" di
Maria Gulcu. Era suonato definitivo. Forse sapeva già? Il pompiere tirò fuori un sigaro dalla tasca della sua tuta e si unì a Ikmen nella fumata. «Tre, fino a questo momento. Ha idea di quante persone potevano esserci in quella casa?» Ikmen contò mentalmente i visi. Maria Gulcu (forse una volta era stata davvero bella, con quei suoi magnetici occhi blu), Nicholas, Sergei, Sergei lo storpio, Natalia e... il povero Robert Cornelius. Si trovava lì? In quale altro posto avrebbe potuto essere? Ikmen sentì come una pugnalata allo stomaco. «Cinque, credo,» disse. Poi ricordò. «Oh no, sei. C'era anche un domestico. Ma credo che fosse quello che si è buttato dal tetto.» Il pompiere sorrise. «Ah sì. Quello che ha quasi ammazzato il suo collega. È stato lei a tirarlo indietro, vero?» «Sì.» Ikmen si girò. Non aveva più voglia di discutere di quella faccenda. Non voleva passare per eroe. Non si sentiva per niente coraggioso. Evidentemente il pompiere capì, perché se ne andò. Ikmen si alzò e lo seguì verso ciò che era rimasto della casa dei Gulcu. Non c'era molto. I piani superiori erano crollati. L'unica cosa rimasta in piedi era il grande portone nero e il suo telaio. Continuava ad aprirsi e chiudersi cigolando nel vento secco e caldo che soffiava dal Corno d'Oro. Dietro di esso, solo cumuli di macerie dai quali usciva ancora il fumo. Quelli che una volta erano stati telai di finestre, travetti e beccatelli sporgevano da quei resti come arti disperati. Il pompiere con cui aveva appena parlato prelevò da un piccolo cumulo di macerie quello che sembrava un albero carbonizzato. Una cosa colpita da un fulmine. Ikmen sentì lo stomaco rivoltarglisi e si girò dall'altra parte. Troppo stanco per cadaveri come quello. «Signore?» Davanti a lui c'era Cohen e non se ne era neanche accorto. Aveva guardato attraverso l'uomo come fosse stato una finestra. Ma Cohen era sempre stato vuoto. Ridacchiò scioccamente alla propria battuta. «Cosa c'è Cohen?» «Ho appena parlato con Avci via radio.» Sorrise. Non era facile, perché Ikmen pareva essere da tutt'altra parte con la mente. «Sua moglie sta bene, e lei ha avuto un maschietto, signore. Sta bene anche lui.» «Oh.» Cohen continuò a sorridere per quell'aria svagata di Ikmen. Non poteva fare molto altro. «Il dottor Sarkissian è già all'obitorio, in attesa che arrivi-
no i cadaveri.» Bambini e cadaveri. Ikmen guardò Cohen nei suoi occhi grandi e sensuali. «Hanno trovato tre cadaveri, quattro, contando anche quello che si è buttato.» «Sì, lo so. L'incendio è scoppiato all'ultimo piano.» Con la coda dell'occhio Cohen vide delle cose che sembravano delle statue di legno trasportate sulle lettighe. Si schiarì la voce e cambiò argomento. «Il commissario Ardiç vuole vederla, appena rientra in Centrale, signore.» «Peccato che io invece non abbia nessuna voglia di vederlo. Una vera disdetta.» Era il suo solito stile cinico che in un certo senso fece tirare a Cohen un sospiro di sollievo, ma senza l'abituale tocco di leggerezza. Cohen sospirò. Non aveva mai ben capito questo caso. «E ora che si fa, signore?» Ikmen lanciò un'occhiata ai pompieri, poi tornò a guardare Cohen. Persino la sua brutta faccia era meglio di quello che stavano tirando fuori dalle macerie. «Più tardi vedrò Ardiç, suppongo. Chiudiamo questa faccenda.» «Intende tutta la faccenda di Balat?» «Sì, penso di sì, Cohen.» Fece un gesto con la mano indicando i resti della casa. «Un giorno ti spiegherò tutto, se ci capirò qualcosa. Su questo caso cala il sipario.» Abbassò la voce in un sussurro. «Peccato cali prima del finale.»
CAPITOLO XXVI Fatma abbassò lo sguardo sul bambino che aveva in braccio e gli accarezzò il visino con un dito. Lui aprì la bocca e strinse forte gli occhi. «Non urlare,» disse, «se no svegli il tuo orribile papà.» Ma scherzava. Fatma sapeva che ci sarebbe voluto ben altro che le urla di un bambino per svegliare suo marito, in quel momento. Comunque era contenta che gli altri suoi figli fossero quasi tutti fuori. Erano state le nuvole a spingerli ad andare a giocare in strada, la promessa della pioggia. L'aspettava anche Fatma. Guardando fuori dalla finestra, il cielo si stava facendo scuro, e la donna provò un gran sollievo. Erano quasi due mesi che in città non cadeva una goccia. Se avesse piovuto un giorno prima, forse quella gente non sarebbe morta in quel terribile incendio. E Ikmen avrebbe trovato le risposte alle domande che lo assillavano. Era mezzanotte quando finalmente era riuscito ad andare a letto; quasi quarantotto ore senza dor-
mire. Non aveva quasi guardato il suo nuovo nato, tanto era stanco. Fatma sperava e pregava che il caso fosse chiuso, adesso. Così lui avrebbe potuto prendersi qualche giorno di ferie, ne aveva parecchi da recuperare. Ma con Çetin non si poteva mai sapere. Quando gli altri rinunciavano per passare ad altro, Çetin andava avanti finché non era soddisfatto, il che era spesso un'impresa molto ardua. Il suo desiderio di sviscerare la verità a tutti i costi non era una delle sue qualità che lei apprezzava di più. Anche sua madre voleva sempre andare a fondo nelle cose. Quella strega albanese aveva passato la sua breve vita a occuparsi di cose che avrebbe fatto meglio a lasciare perdere. Senza i bambini, la casa era silenziosa, ma a Fatma non dispiaceva. Çetin e Timür stavano dormendo, il più giovane nel suo letto, il più anziano russava leggermente nella poltrona davanti a lei. Çiçek era in giro da qualche parte, ma era tranquilla anche lei. Da quando era nato il bambino, si era fatta pensierosa. Fatma si chiese se non fosse stato l'arrivo del neonato a farla riflettere sulla propria vita. Su alcune persone, la nascita faceva questo effetto. Ricordava come fosse rimasta impressionata la prima volta che aveva assistito alla nascita di un essere umano. Fatma sorrise al ricordo. Era rimasta disgustata. Il fatto che la sua amata zia Mihri potesse avere a che fare con una cosa così schifosa e poco dignitosa, l'aveva sconvolta. L'undicenne Fatma era arrivata alla conclusione che lei non avrebbe mai fatto una "cosa" simile. Ora, dopo aver partorito nove figli, la pensava un po' diversamente. Il campanello della porta svegliò Timür dal suo pisolino. A Fatma non piaceva l'idea di dover aprire la porta con le braccia occupate da un bambino, almeno al momento, tranquillo e soddisfatto. Il vecchio si alzò e nel passarle accanto, solleticò delicatamente il mento del bambino con un dito. A volte, Timür la faceva diventare matta, specialmente quando era irriverente nei confronti della religione, ma non poteva dire niente per quanto riguardava quello che faceva per lei quando i bambini erano piccoli. Andava a prenderli, li riportava, li portava a spasso... a volte preparava addirittura da mangiare. Solo spaghetti con le zucchine, ma era comunque un pasto. A volte Fatma si chiedeva quante volte avesse preparato quel piatto a Çetin e Halil dopo che la loro mamma era morta. Il rumore della porta d'ingresso che si apriva fu seguito dal suono di alcune profonde voci maschili. Poco dopo, entrò in soggiorno Arto Sarkissian seguito dal collaboratore di suo marito. Fu sorpresa di vedere Suleyman, dato che Ikmen le aveva detto che era in ospedale.
Arto si chinò sul bambino e lo osservò attentamente. «Perfetto.» Fatma sorrise. Timür tornò nella stanza e fece accomodare i due uomini. Fatma notò che Suleyman aveva il viso pallido e tirato. «Non mi aspettavo di vederti, Mehmet. Çetin mi ha detto che eri in ospedale.» «Sono stato dimesso stamattina, signora Ikmen.» Sorrise debolmente. «Evidentemente avevano bisogno del letto per qualcuno ammalato davvero.» «A me non sembri tanto sano!» osservò Timür. Ce l'aveva con il servizio sanitario pubblico e si lamentava sempre di come trattasse i cittadini. Arto sorrise. «Ho incontrato il sergente mentre stavo per uscire per venire qui. Voleva vedere anche lui Çetin e gli altri, naturalmente.» Fatma si sistemò il bambino addormentato in braccio per mettersi un po' più comoda. «Credo che Çetin stia ancora dormendo, ma...» Prima che potesse finire, entrò nella stanza un individuo tutto scarmigliato con gli occhi assonnati. «Ciao a tutti,» disse Çetin. «A qualcuno interessa una conferenza sul caso?» I tre uomini aspettarono che Fatma e il vecchio uscissero dalla stanza prima di lanciarsi nei loro discorsi. Dopo aver versato una generosa dose di brandy per sé e Arto nei bicchieri, Çetin andò in cucina a prendere una coca per Suleyman. Fu Arto il primo a parlare. «Su uno di quei corpi ho trovato i resti di un passaporto inglese. Non è leggibile, ma si riconoscono; copertina rigida, lettere in oro.» Çetin sospirò. «Immagino tu abbia scoperto che apparteneva a un uomo di nome Robert Cornelius.» «Informerò il consolato.» «E gli altri corpi?» domandò Suleyman guardando nel fondo della sua lattina. «Due donne e tre uomini.» Çetin fece un sorriso triste. «Maria, Natalia, Sergei, Nicholas e il domestico. Mi chiedo chi sia stato di loro a uccidere Leonid Meyer. Perché è stato uno di loro. Se volete, vi racconto la storia come la vedo io. L'ho raccontata ieri ad Ardiç.» «E quale è stata la sua reazione, signore?» «Non mi ha creduto, Suleyman, ma del resto me lo aspettavo. Il fatto che in questo modo il caso risulterebbe chiuso gli è piaciuto, ma secondo lui
devo "rivedere" i motivi per cui ho puntato il mio indice accusatorio sui Gulcu. Mentre me lo diceva, ho immaginato la scena di lui che mente a tutti quei testoni; il console israeliano, il sindaco, eccetera. E ho pensato a quanto si sarebbe divertito. Ardiç è bravo a mentire, così bravo che potrei scoprire che ho arrestato un Reinhold Smits comunista mentre accoppava un povero rabbino centenario e che il motivo del suo suicidio è stato quello.» «Allora qual è la verità, Çetin?» Arto si spostò in avanti sulla sedia e guardò il suo amico con interesse. Çetin si accese una sigaretta. «È una cosa pazzesca, Arto, e tutto ruota intorno a queste due donne,» mise le due fotografie che aveva trovato sulla scrivania di Smits davanti ai suoi colleghi, «che potrebbero essere o non essere la stessa persona.» «Chi sono, signore?» domandò Suleyman. «La donna insieme ai due uomini è Maria Gulcu. Per inciso, questo è Reinhold Smits e quello scuro è Leonid Meyer.» Suleyman osservò la faccia di Meyer più da vicino. Sembrava meravigliato, forse perché l'ultima che il giovane aveva visto Meyer era stato in circostanze allucinanti. Poi indicò l'altra fotografia. «E questa?» Çetin sorrise. «Ah, questa. Sì. Questa, come ho scoperto dopo, è la fotografia della terzogenita dello zar Nicola II, la granduchessa Maria. Le parole sotto riportano una scritta scoperta su una delle pareti di Palazzo Ipatiev, dove è morta la famiglia. Furono scritte da Smits. Se confrontate la fotografia di Maria Gulcu con questa, noterete la rassomiglianza.» Suleyman spalancò gli occhi. «Non starà dicendo per caso...» «Un momento,» intervenne il dottore prendendo le fotografie per guardarle da vicino, «sappiamo tutti quanto sia facile vedere delle rassomiglianze dove non ci sono.» Çetin fece un ghigno. «Per esempio,» continuò il dottore, «una cosa assolutamente inconfondibile è la larghezza del viso. Se guardate bene, vedrete che la struttura ossea della Gulcu è sottile mentre questa è larga. Se fossi chiamato a dare un giudizio, direi che i lineamenti della bella granduchessa sono molto più tipicamente russi. Ammetto che gli occhi si assomigliano, ma i nasi sono molto diversi.» Alzò la testa per osservare le reazioni. «Potrei sbagliarmi, anche perché non sono un esperto di fotografia...» «No, non credo che ti sbagli, Arto.» Çetin sorrise di nuovo, anche se con un po' di tristezza. «Condivido la tua opinione, anche se devo dire che
all'inizio non la pensavo così. Purtroppo Reinhold Smits, che ha lasciato queste fotografie sulla sua scrivania perché io le trovassi dopo la sua morte, credeva che fossero la stessa persona.» «Cosa significa, signore?» Çetin sospirò profondamente. «Significa che in assenza dei protagonisti di questa storia posso solo fare delle ipotesi.» «Falle,» disse Arto riempiendo di nuovo il proprio bicchiere e quello di Çetin. «Va bene.» Çetin respirò profondamente e incurante della grande stanchezza, si lanciò nella sua storia. «Il 16 luglio 1918, giorno più giorno meno, Leonid Meyer, un giovane soldato bolscevico fu assegnato, in mancanza di meglio, al servizio di guardia a Palazzo Ipatiev, a Ekaterinburg, dove a quel tempo era rinchiusa la sfortunata famiglia Romanov. Al comando di un altro ebreo, Yacob Yurovsky, questo incarico era pericoloso da una parte - per le massicce forze bielorusse che stavano avanzando nella zona - e prestigioso dall'altra, perché avrebbe ucciso lo zar. Che è quello che fecero il 17 luglio 1918 Leonid Meyer e i suoi compagni. Fucilarono i Romanov, fecero a pezzi i loro cadaveri e li distrussero con l'acido solforico. Poetico, eh? Sentendosi molto soddisfatti di loro stessi. Con una sola eccezione.» «Meyer?» «Sì, Arto, Meyer. Perché, in caso contrario, ne sarebbe rimasto ossessionato per settant'anni e perché avrebbe rubato questa fotografia, che a giudicare dal suo stato, deve essere autentica?» «Potrebbe averla conservata come "trofeo di guerra",» osservò il dottore. «C'è gente che fa queste cose.» «D'accordo,» replicò Çetin, «aspetta, però. Ora, non so se Meyer abbia conosciuto la ragazza che sarebbe diventata Maria Gulcu prima o dopo gli eventi di Palazzo Ipatiev, sta di fatto che in qualche modo l'ha conosciuta e ha convinto se stesso e lei che fosse la granduchessa Maria.» Suleyman, che era rimasto in silenzio per riflettere sulle sconcertanti parole del suo superiore, decise di intervenire. «Un momento, signore. Credevo che lei avesse archiviato da un pezzo la questione dei Romanov.» Ikmen sorrise. «Infatti. Quando ho scoperto che non potevano esserci dei legami tra la signorina Anna Demidova e la signora Gulcu, ho cominciato a pensare a un possibile nesso tra i Romanov, il vecchio crimine di Meyer, le ferite da polvere da sparo. Ma alla luce della storia che Smits mi ha lasciato scritto di leggere e di queste fotografie, calzava tutto un po' troppo a pennello.»
«Storia? Quale storia?» «Mi ha lasciato un libro aperto alla pagina dove c'era quella riga su Belshazzar. A quanto pareva, giusto perché capiate, era stata scritta su una delle pareti di Palazzo Ipatiev da una delle guardie... stranamente, in tedesco, la lingua originale. Tuttavia, su quella pagina lessi anche che poco prima dell'esecuzione alcune guardie furono sostituite e che oggi nessuno sa chi fossero. Erano indicati solo i personaggi principali, come Yurovsky, il comandante. Un particolare omesso dalla maggior parte degli autori perché, in effetti, è un dettaglio di poco conto. E a chi gliene sarebbe importato qualcosa di un essere anonimo come Meyer?» Suleyman appariva ancora perplesso. «Ma come e perché Meyer avrebbe cercato di convincere una sconosciuta di essere quella granduchessa?» «Forse per alleviare i suoi sensi di colpa. Se quella bella ragazza fosse stata ancora viva, lui si sarebbe convinto di non aver mai preso parte a quelle esecuzioni... quadrerebbe con quello che sappiamo di lui. Forse era lui l'unico responsabile della sua morte, e questo spiegherebbe la sua ossessione nei suoi confronti. O forse la considerava come qualcuno da cui un giorno avrebbe potuto ricavare dei soldi. Chi lo sa? Per quanto riguarda il come, forse anche Maria Gulcu aveva subito qualche trauma, in quel periodo. È molto probabile; come sappiamo, proveniva da una famiglia ricca e anche lei aveva il viso segnato da una grossa cicatrice. Se davvero la sua famiglia era stata uccisa, come ha sempre affermato, sarà stata traumatizzata al punto di accettare quasi tutto quello che lui le diceva.» Si interruppe per accendersi un'altra sigaretta. «Comunque, a un certo punto, dopo questi eventi, Meyer decise di lasciare il Paese con questa ragazza, che potrebbe essere stata la sua amante.» «Sì, ma se stava avanzando l'armata bielorussa...» «Se avessero scoperto quello che aveva fatto, lo avrebbero ucciso. Inoltre, avrebbero scoperto che la "sua" granduchessa Maria era un'impostora, distruggendo le sue illusioni.» Guardò uno per uno i suoi colleghi e sorrise. «Perché credo proprio che sia qui che ci troviamo, signori, nel mondo delle illusioni. Infatti, tutto ciò che accadde da quel momento in poi nella vita di Maria e di Leonid fu circoscritto e permeato da quella illusione. Era una faccenda molto intricata. Aveva un nesso persino il suo nome di "copertura", Demidova, lo stesso nome della cameriera della zarina.» «Intende dire,» disse Suleyman, che stava cercando di districarsi negli aspetti psicologici, «che tutti e due cominciarono a credere davvero che...» «Oh, sì. Credo che per capire perché Meyer sia morto dobbiamo accetta-
re l'ipotesi che tutti e due ne fossero convinti. Sì, ci credevano, e quando Meyer arrivò in questo Paese e cominciò a lavorare per Smits, con il quale divennero amici, lo credeva anche Smits. Infatti, a quanto pare, il povero Smits fu innamorato di Maria Gulcu per qualche tempo. Se sia stato Meyer o Maria o tutti e due a dargli quella vecchia fotografia della granduchessa Maria e per quale ragione, non lo so. Ma sono convinto che Smits sapesse e fosse affascinato da questo segreto che accomunava il piccolo ebreo e la giovane aristocratica.» «Perché licenziò Meyer, se era, come ha appena detto, così affascinato da quella coppia?» Ikmen sospirò. «Non so nemmeno questo, a meno che le cose non stessero come sosteneva Smits: che essendo diventato nazista non c'era più posto per un ebreo nel suo ambiente. Dopotutto, a quel tempo Maria si era sistemata e aveva dei figli e forse non era più in contatto con Smits. Chi lo sa? Credo comunque che più tardi Meyer avesse ricattato Smits per il suo passato nazista. È l'unica spiegazione che vedo del suo ininterrotto rapporto con il tedesco e l'ingente somma di danaro trovata a casa sua. Le simpatie di quel genere non sono state molto popolari per un certo periodo, un fatto che Meyer può aver preso come pretesto per una sorta di rivincita economica nei confronti di Smits.» «Allora chi ha ucciso Meyer e perché?» «È stata Maria Gulcu, o meglio qualche altro membro della famiglia più capace di lei, a uccidere Meyer.» «Ma perché?» L'espressione di Çetin si fece greve. «Hai visto come viveva quella famiglia, Suleyman. Fino a che punto pensi di dover credere in un'illusione del genere per arrivare alla conclusione che l'assassino di tuo "padre" deve morire?» «Ma perché adesso?» «Non lo so.» «E perché non potrebbe essere stato Smits?» Çetin sospirò. «Perché la svastica, come difatti è stato, ci avrebbe condotti dritti a lui e un uomo con i giorni contati che motivo ha di tirarsi addosso una cosa del genere? Non dimenticare che si è suicidato a causa di tutto questo. Lui sapeva tutto.» «Perché» intervenne Arto, «non ti ha raccontato tutto per togliersi dai guai?» «Posso solo pensare,» rispose Ikmen, «che fino alla fine non ha voluto
rinunciare alla bella Maria. Seguendo la linea dell'illusione fino alla sua conclusione logica, se Maria Gulcu fosse stata davvero la granduchessa Maria deve essere stata in pericolo tutta la vita. Se fosse stata la vera granduchessa, il vecchio governo sovietico l'avrebbe voluta morta.» «Ma ora sono tutti morti,» disse Suleyman, «perciò qual è il punto?» «Il punto è, Suleyman, che i vecchi, uomini e donne, non cambiano. Smits aveva covato questo segreto per quasi tutta la vita e non era disposto a rivelarlo. Forse, in fondo, temeva che fosse anche questa un'illusione che forse non era in grado di affrontare.» «Allora,» osservò Arto, «la svastica è stata piazzata lì per coinvolgere Smits?» «Credo di sì,» rispose Çetin, «anche se, come mi pare di aver già detto, ha altri significati più antichi.» «Strano,» continuò Arto, «che continuasse a mantenere il segreto di Maria quando lei, a quanto pare, non ha avuto riguardi per lui.» «La desiderava, una volta. Lui e Meyer avevano litigato per lei. Le infatuazioni di quel genere, specie quando c'è di mezzo una principessa, sono dure a morire. Anche se credo che fosse sul punto di rivelare qualcosa prima di morire. Ci disse che Maria aveva "qualcosa" con Meyer. Non era ancora del tutto pronto.» «E questo Robert Cornelius che parte ha?» «Robert Cornelius era del tutto all'oscuro degli eventi che vi ho spiegato. Ha avuto la doppia sfortuna di essere innamorato di Natalia Gulcu e di trovarsi nel posto sbagliato, cioè Balat, al momento sbagliato. Detto questo, credo però che avesse qualche idea su chi potesse o non potesse aver ucciso Meyer. La mia opinione personale è che fossero amanti.» Suleyman aggrottò le ciglia. «Come mai?» «Ricordi quando ci ha chiesto delle sentenze e delle pene durante l'ultimo colloquio che abbiamo avuto con lui?» «Sì.» «Ricordi che insistette sulla pena di morte chiedendo quali persone verrebbero risparmiate?» «Dunque?» «Se non avesse avuto in mente nessuno in particolare, perché lo avrebbe chiesto? Credo che avesse almeno una vaga idea di chi potesse essere coinvolto in questo delitto. Forse pensava che, nel caso in cui il delitto fosse stato commesso da un membro anziano della famiglia, l'età avrebbe potuto precludergli la pena di morte.»
«Sì, ma...» «Ma anche questa, è solo un'ipotesi. Come per tutto ciò che ha a che fare con questo caso, compresa l'identità dell'assassino di Rabbi Isak, possiamo solo teorizzare.» «Anche se sappiamo,» obiettò Suleyman, «che doveva essere Robert Cornelius.» «Anche se crediamo di sapere, sì. Con il cadavere in quelle condizioni, non so proprio da che parte comincerà la scientifica.» Çetin sorrise. «E perché, poveraccio, abbia fatto una cosa simile, non riesco a immaginarlo.» I tre uomini rimasero in silenzio per un po' e finché Suleyman non tornò indirettamente sull'argomento, sembrava non ci fosse più niente da dire. «Perché,» cominciò Suleyman, «ieri mi ha dato un giorno di permesso, signore?» Çetin e Arto si scambiarono una breve occhiata d'intesa. Il buon dottore conosceva tutto della famiglia di Çetin e delle loro piccole stranezze. Perciò, molto galantemente, come pensò più tardi Çetin fu lui a rispondere per il suo vecchio amico. «Il motivo per cui Çetin l'ha fatto è legato a certi suoi presagi su quanto stava per accadere. Temeva per la tua vita.» Suleyman, pur non conoscendo il suo superiore e nemmeno il dottore, capì però che si riferiva al fatto che Ikmen, cosa alquanto strana, credesse nella chiaroveggenza. Poiché non condivideva le sue vedute, replicò in tono acido: «Capisco.» Non riuscì a evitarlo. Arto, che aveva previsto una reazione del genere, continuò. «E come ti sarai dolorosamente reso conto, Suleyman, le intuizioni del mio vecchio amico sono state in gran parte confermate, non credi?» «Sì.» Lo pronunciò con l'aria un po' imbronciata ma in modo abbastanza convincente perché i presenti capissero che l'argomento era chiuso. «È stato affascinante,» disse Arto alzandosi dalla sedia un po' indolenzito, «ma ora devo andare. Mi dispiace, Çetin. Quei tuoi cadaveri non potranno effettuare il riconoscimento di se stessi, ovviamente, quindi dopo tutta la confusione e i problemi che ci sono stati in merito a questo caso, voglio accertarmi che ognuno sia quello che crediamo che sia.» «Sì, per favore. Non sopporto altri misteri su questa faccenda.» I due uomini si scambiarono un abbraccio caloroso. Dopo che il dottore se ne fu andato e Çetin fu rimasto solo con Suleyman, i suoi modi allegri di poco prima scomparvero. «Sai,» disse andando in cucina a prendere un'altra bevanda analcolica per il giovane collega,
«questo caso è stato il più disgustoso che mi sia mai capitato.» «Perché?» «Perché non c'era assolutamente niente di piacevole in nessuna delle persone coinvolte. Per un motivo o per l'altro, erano tutti estremamente egoisti.» Suleyman si strinse nelle spalle. «Sì, lo erano,» concluse Ikmen, «anche nella sfera più folle delle loro illusioni.» Era tardi e tutti i bambini erano a letto. Dormiva anche Fatma. Per fortuna, il bambino si era addormentato profondamente con la bocca aperta. In soggiorno c'erano solo Çetin e Timür che bevevano guardando la meravigliosa pioggia lavare i vetri della finestra. Ora l'aria sembrava molto più trasparente, come se una grande e pesante coperta fosse stata sollevata dalla città e buttata in mare. «Allora, perché hai cercato di sbarazzarti di quel ragazzo, ieri?» «Chi, Suleyman?» «Sì, Suleyman. Allora?» Çetin fece la faccia seccata e abbassò gli occhi nel suo bicchiere. Odiava spiegare queste cose a Timür. «Samsun mi ha fatto una previsione. Ha visto. Il ragazzo che cadeva dalla finestra, il fuoco. Suleyman sulla traiettoria di caduta del corpo. Tutto.» Il vecchio grugnì. «Una coincidenza. Comunque, che ci faceva Samsun in città, pensavo che Ahmet e la sua terribile tribù si fossero trasferiti.» Çetin si strinse nelle spalle. «Lo zio Ahmet si è trasferito a Izmir, ma Samsun è rimasta qui. Istanbul è meglio per le persone come lei.» «Lui.» Timür sputò la parola con disgusto. «La famiglia di tua madre è stramba. Dovresti stare alla larga da loro, Çetin.» «Sei stato tu a sposarla e io sono come lei.» «Sì, sei come lei, maledetto stregone!» Timür si interruppe un attimo, pentito delle parole che aveva appena pronunciato, ma ormai era troppo tardi. «Ma assomigli anche a me, Çetin. Tua madre non era intelligente. Era furba, ma non intelligente.» Çetin. Si accese una sigaretta e guardò il riflesso della punta incandescente nel vetro della finestra. «Lo so. Ma loro sono la mia famiglia e sono le uniche persone con le quali posso parlare di...» Cambiò argomento. «Comunque, Suleyman sta bene, ed è questo che conta. Come, non ha importanza. Ora sua madre gli farà sposare quella sua noiosa cugina e assiste-
rà desolata alle sue avventure, esattamente come Cohen.» «Cohen?» «Uno dei miei agenti. Ebreo. Il suo hobby è andare a caccia di turiste svedesi. Ormai dispero.» Il vecchio prese una sigaretta dal pacchetto di suo figlio e l'accese. «Non ho mai fatto niente del genere a voi due.» «Te ne sono grato, okay?» Era ancora un po' offeso per essere stato chiamato stregone. Solo Fatma poteva farlo sapendo di farla franca. Timür sosteneva di capire il "dono" di Çetin, ma in realtà non ci riusciva. Il vecchio capì che era arrivato il momento di cambiare discorso. «Sai, ho sentito tutta la tua spiegazione del delitto Meyer. Ho ascoltato fuori dalla porta, prima di entrare.» «Immaginavo che fossi lì.» Oh, come si conoscevano bene! Timür si mise a ridere. «È stata interessante, Çetin, ma c'era una possibilità che non hai considerato.» Çetin sollevò un sopracciglio stanco. «E quale sarebbe?» «Ricordi che hai detto di non sapere cosa ci facesse Maria Gulcu a Ekaterinburg?» «Sì.» «Non hai pensato che forse si trovava lì perché era lì che doveva trovarsi?» Era tardi per parlare a enigmi. Çetin si stropicciò gli occhi sbadigliando. «Cosa intendi dire?» Gli occhi del vecchio brillavano maliziosamente. «Che era una dei prigionieri! Che anche lei è stata fucilata e che in qualche modo Meyer è riuscito a salvarla.» Çetin grugnì. «E il suo vero nome era Anastasia, giusto?» «No, Maria, come hai detto, come nella fotografia.» Si protese in avanti e appoggiò una spalla sul fianco di suo figlio. «Non è tanto assurdo, Çetin. Proprio poco tempo fa leggevo il giornale inglese The Times e un articolo diceva che nonostante siano stati trovati quasi tutti i resti della famiglia reale in un bosco vicino a Ekaterinburg, mancano ancora due corpi. Quello dello zarevic e quello di una delle ragazze.» «Ma Maria Gulcu e la granduchessa non si assomigliavano per niente. Lo avevamo già chiarito, mi pare.» «Secondo la tua opinione e quella di Arto, sì. Ma non ti pare il caso di sentire un esperto?» Çetin era troppo stanco per queste cose. «Non lo so.»
«Non varrebbe la pena provarci?» «Senti, sono morti tutti, Timür. È stata solo un'illusione, un'illusione pericolosa, ma pur sempre un'illusione e...» «E se invece non lo fosse stata?» Gli occhi del vecchio brillavano quando prese dal tavolo la fotografia della granduchessa Maria. «E se questa Gulcu fosse la figlia di Belshazzar?» Çetin sorrise. In certe circostanze, doveva farlo. «Sei anche un po' segretamente monarchico oltre che repubblicano, Timür?» «No, no.» Ma quando abbassò lo sguardo sulla fotografia, la sua espressione accigliata cambiò «Ma sono di quell'epoca, Çetin, e persino io devo ammettere che erano tempi migliori. Quando nacqui, il sultano Vahideddin regnava ancora su ciò che restava dell'Impero.» Sospirò. «Eravamo ottomani allora, come lo eravamo stati per secoli. Cosa siamo oggi?» «Siamo turchi,» rispose suo figlio sbadigliando, «e proprio per questo siamo molto meglio.» Il vecchio sorrise. «Sì. Sì, hai ragione. Niente più donne col velo, niente più guerre combattute per il capriccio di un uomo.» «Giusto.» Çetin si alzò e si stiracchiò ma, improvvisamente, si sentì afferrare da dietro. «E se avessi ragione sulla figlia di Belshazzar, se...» Delicatamente, ma con fermezza, Çetin si tolse la mano di suo padre dalla vita e sorrise. «Devo andare a letto. Sono distrutto.» «Oh, Çetin, ma se fosse vero? Se Maria Gulcu fosse la figlia dello zar? Pensa, che miracolo!» «In ogni caso ora sarebbe morta, papà.» Non capitava spesso che Çetin chiamasse Timür "papà", ma quello gli sembrò il momento adatto. Il vecchio insistette. «Ma se lo fosse, avresti fatto la storia, figliolo. Hai toccato un grande mistero, lo sai?» Çetin assecondò il vecchio, certe volte doveva farlo. «Sì, lo so, papà. Non fare troppo tardi. Buonanotte.» Il vecchio non rispose finché non sentì il figlio entrare nella sua stanza. Poi, guardando le due fotografie che aveva di nuovo affiancate, disse: «Buonanotte, figliolo. Mia povera anima cieca.» EPILOGO 30 settembre 1992, Side, Mediterraneo meridionale Faceva caldo, anche se la stagione era quasi finita. La spiaggia era anco-
ra abbastanza affollata, per lo più da residenti. Gli stranieri se n'erano andati e in un certo senso era meglio così, perché molti di loro erano buzzurri fastidiosi. Masticò pensierosamente il pezzo di verdura assaporandone la dolcezza, poi prese di nuovo il giornale. Le sembrava incredibile, nonostante l'avesse letto tre volte. Che l'ultimo milionario turco, l'ex maggiordomo inglese John Wilkinson, potesse aver fatto una cosa simile era sorprendente e davvero molto spregevole. Raccontare al mondo le depravazioni di un uomo che gli aveva lasciato in eredità tanti soldi sapeva di ingratitudine tipica del ceto basso. Certo, non che lei non avesse altre preoccupazioni più personali. Bevve un lungo sorso dalla bottiglia dell'acqua di colore blu e scrutò la spiaggia in cerca di Anwar. Aveva detto che non avrebbe tardato. Era andato in garage per assicurarsi che la macchina fosse pronta. Sperava di tutto cuore che lo fosse; in questo modo sarebbero potuti partire subito, se lei avesse voluto. E lei voleva. Si sistemò i capelli dietro le orecchie e si mise gli occhiali da sole. I suoi capelli non erano piacevoli al tatto, perché la tinta glieli aveva resi secchi e stopposi. Ad Anwar piaceva quel colore, ma a volte lei si chiedeva se non gli desse fastidio sentirli così, specialmente quando facevano l'amore. Gli piaceva tenerla per i capelli quando le stava sopra, li usava come un manubrio per spingersi dentro di lei. Anwar era rude, e questo andava molto bene, specialmente in vista del fatto che sarebbe rimasta con lui per un po' di tempo. Posò il giornale evitando accuratamente di leggere l'ottima descrizione di sé a pagina cinque. Qualcuno si era preso la briga di identificare accuratamente quei poveri corpi. Qualcuno, pensava che non le piaceva molto «La macchina è pronta.» Era arrivato da dietro e quindi non lo aveva visto. Il suo turco era a dir poco eccellente, d'altra parte molte delle grandi famiglie egiziane erano di origine turca. La vecchia classe di burocrati ottomani. Le ricordava il modo perfetto in cui sua nonna parlava inglese. Ma questa era per un'altra ragione. Si sedette dietro di lei, allargando le gambe intorno al suo corpo, premendo il suo membro contro le natiche sode. «Possiamo andare quando vuoi, Maria,» disse, stringendole le braccia intorno al busto e toccandole i seni con le dita. Lei sorrise. Era così abituata a quel nome da sembrarle ormai quasi suo. Era contenta di essersi abituata così in fretta. Significava che qualcosa con-
tinuava a vivere, anche se lei era l'unica che avrebbe potuto apprezzarlo. «Vorrei partire oggi.» Non si voltò a guardarlo. Sapeva che era lì e sapeva che era bello. Non però che il suo aspetto fosse determinante. La Rolls Royce, il domestico sudanese e la suite dell'albergo più esclusivo della città l'avevano convinta a dargli tutto la prima volta che erano usciti insieme. I tempi erano duri e una ragazza doveva pur vivere. Se l'uomo era bello, tanto meglio, ma non era un fattore essenziale. «Allora prepariamo i bagagli,» replicò lui. Sì, pensò, metterò nei bagagli tutte le cose che mi hai comprato. Non ho molto altro. Gli posò una mano sul braccio. «Vai avanti tu. Vorrei restare qui ancora qualche minuto.» Si girò a guardarlo in viso, quel suo viso giovane e innocente. «Ti raggiungo subito... solo un istante ancora.» Lui la baciò. «Promesso?» «Promesso.» Oh, ci teneva molto a lei. Le ricordava tanto quell'altro uomo. Ma Anwar sarebbe riuscito a tenersela. Si sarebbero sposati a dicembre, dopo la sua conversione all'Islam. Sapeva che i genitori di lui non erano contenti, ma che ci potevano fare? Anwar si staccò e risalì la spiaggia verso l'albergo. Ventiquattro anni e in perfetta forma fisica. Ripensò ai suoi capelli e si chiese se fosse il caso di sottoporli a un impacco di olio di oliva prima di iniziare il viaggio. Non che facesse molta differenza. I suoi capelli non avrebbero dovuto avere il colore della sabbia, e si stavano ribellando. Guardò la spiaggia, verso un gruppo di ragazzi turchi che giocavano a pallone sul bagnasciuga. Per un attimo fu assalita da un antico pensiero malvagio. Sapeva che non era possibile, adesso. Cosa non si doveva fare, per sopravvivere. Ma non era questo il nocciolo? Non era questa la ragione per cui aveva disprezzato tanto quei poveri morti? Nessuna donna doveva morire per mano di un uomo. Mai. Piuttosto il contrario. E un giorno, magari quando Anwar non fosse più stato tanto giovane e lei si fosse stancata di fare la moglie di un "nuovo ricco", lui avrebbe capito cosa significava il contrario. Natalia si mise in bocca un altro pezzo di barbabietola e sorrise. Quando la propria famiglia è stata padrona di mezzo mondo, si può fare quello che si vuole.
FINE