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ROBERT HOLDSTOCK IL TEMPIO VERDE (The Hollowing, 1994) A Wendy, Brian, Alan, Mariya e Robert, compagni di viaggio nel regno... e a Hilary Rubinstein, con molta stima. Ringraziamenti Il mio grazie, per molteplici ragioni, a Chris Evans, Jane Johnson, Sarah Biggs, Malcolm Edwards, Andrew Stephenson (per le chiacchiere scientifiche), Dave Arthur (per le chiacchiere sui miti) e Garry e Annette Kilworth. E, naturalmente, all'ignoto autore di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, e al sognatore ormai dimenticato che ispirò il racconto. «Certamente, il luogo è deserto» disse Gawain. «È un orrendo oratorio, invaso dalla vegetazione, È di certo conviene all'innamorato abbigliato di verde Per distribuire le sue smancerie nello stile del Diavolo. Ora lo sento con i miei cinque sensi, è Satana stesso Ad avermi condotto con l'inganno a questo appuntamento, per distruggermi.» ANONIMO, Sir Gawain e il Cavaliere Verde Su di loro cadde un profondo silenzio, uno di quei silenzi che sembrano più naturali delle parole, un silenzio senza tempo, in cui al principio ci furono molti spiriti nell'abisso; e poi, forse, più alcuno spirito. W. GOLDING, The Inheritors PRIMA PARTE Dalla regione sconosciuta Il Tempio Verde - I
A ogni nuovo sorgere del giorno, da quando Agrifoglio era arrivata alla cattedrale portando con sé i suoi strani sogni, il ragazzo aveva iniziato a immaginare di risvegliarsi come dei petali che si dischiudono, o un germoglio che sboccia. A quest'ora la luce non era verde; diventava verde più tardi, ma troppo impaziente per rimandare il risveglio, allo stesso modo in cui i fiori si schiudevano al sole, e i petali si aprivano e dispiegavano, così egli si distese, così si aprì. Dapprima raggomitolato sul pavimento di marmo inciso, le braccia e le gambe raccolte per tenersi al caldo durante la notte, cominciò poi ad allungarsi, a distendersi, il viso rivolto verso il cielo aperto, dove una volta era stato il tetto, con la bocca spalancata, umida di rugiada. Teneva gli occhi chiusi, sapendo che la cattedrale non era ancora verde, ma tuttora immersa nella sua cruda luce e che il mondo non era ancora vivo. E come i pori delle foglie ancora chiusi, tratteneva l'acqua dentro di lui. Gli piaceva la sensazione dell'acqua, quella pressione dolorosa contro l'addome, e non la lasciò andare, aspettando la luce verde. Rotolò sul marmo duro e freddo, seguendo con le dita i solchi sulle lastre, i misteriosi nomi dei defunti incisi sul suolo che custodiva le loro ossa. Ascoltava la cattedrale destarsi, così come anche la foresta, più lontano; Agrifoglio, dal suo risveglio, non smetteva di agitarsi, come un uccello, nel suo nido di vegetazione sul fondo della navata, poggiato contro i portoni esterni della chiesa. Erano giorni, forse settimane che Agrifoglio era lì. Aveva trasformato i suoi sogni. Poteva sognare più estesamente, e spingere i suoi giri di ricognizione per lunghe distanze nella foresta, scrutando la volta celeste dalle radici, o sfiorando appena il suolo mentre fluiva tra i rami. Continuava a spaventarlo, ma da quando era arrivata non era stato in grado di vedere nient'altro. Grazie a lei, aveva capito fino a che punto fosse simile a una foglia, che si apre a ogni nuovo giorno. La notte precedente, però, la notte precedente... aveva fatto un sogno sorprendente. Non voleva lasciarlo svanire. Il sole si spostò oltre la fila d'alberi. I contorni irregolari del tetto crollato della cattedrale ne trattenevano il calore, la luce. Sul marmo freddo, il fulgido taglio di luce verde si diffuse muovendosi come un qualcosa in espansione, una pianta che si distendeva verso il ragazzo disteso. La sentì sfiorargli le gambe. Si svegliò completamente e lanciò un grido, quando la luce lo ricoprì e gli uccelli volarono dal nido dal quale Agrifo-
glio cinguettava. Sotto di lui, le ossa dei morti si mossero, spinti dalle radici che s'insinuavano tra esse. La cattedrale prese vita con un fremito, che la attraversò dalla navata al coro. Il legno marcio delle panche iniziò a fumare, ne sentiva l'odore, e le figure intagliate degli uomini danzanti furono risucchiate indietro, nei nodi e negli anelli dei vecchi alberi, la loro notte di libertà sfrenata temporaneamente interrotta. Allora lasciò andare l'urina, aggiungendo, mentre il suo addome si sgonfiava, la propria umidità a quella opprimente dell'alba. Scorrendo, il liquido odorava d'ortiche, mischiato a legno d'acetosa e anemone, nel crescente vapore nella cappella. Sollevato, senza più dolore, finalmente sentì che era tempo di aprirsi completamente. Di aprire gli occhi. Di lasciare che la luce verde lo plasmasse per la giornata. Agrifoglio aveva lasciato il suo nido. La vide arrampicarsi sulla parete coperta d'edera, verso l'alto arco di una finestra da cui tre rami si protendevano dentro le rovine della cattedrale; vide, là in alto, i volti di pietra che gli sorridevano. Agrifoglio esitò per un istante, si voltò indietro per lanciare un rapido sguardo al suo nido, e al ragazzo, e poi scomparve nella foresta. Voleva chiamarla, raccontarle del suo sogno, ma era troppo tardi. Rimase in piedi a guardare, tra i tronchi di quercia inclinati, le file di panche di legno marcio. Alcune erano in pezzi, altre sollevate dal pavimento dalla foresta che si ramificava di sotto a esse. Il luogo dell'altare era un boschetto riparato tra rovi dai fiori bianchi; la croce d'oro mandava riflessi attraverso le foglie. Ovunque crescevano arboscelli che spuntavano dalla cripta sottostante. Soltanto le lastre di marmo, con i nomi e le date dei defunti, resistevano alla foresta che spingeva per emergere all'interno della cattedrale, e mantenevano sgombra una via per l'altare maggiore. Da quando Agrifoglio era arrivata da lui, egli aveva cominciato a immaginare che nella cripta le radici e i rami, e le stesse ossa, fossero un solo intrico che spingeva da sotto il pavimento, un'enorme pressione sul punto di erompere al piano superiore. Che sogno aveva fatto! Il suo primo sogno reale da quando era arrivato nella foresta. Pronunciò le parole ad alta voce, nella chiesa in rovina. Sogno reale. A lungo i suoi sogni erano stati di neve incessante, e foresta sconfinata, di continua fuga, e infinite distese d'acqua, di un volo senza tregua attraverso terre immutabili. Tutto ciò si era spezzato con il primo sogno della foglia che si schiude. E ora, questo. Aveva cominciato a ricordare tante di quelle cose!
«Danzavano!» gridò, guardando il cielo che schiariva, tra l'intrico di rami degli alberi, nella luce verde. Come per risposta al suo grido, uno dei volti di legno intagliato su una panca si mosse leggermente, poi allungò il collo dal fondo dello scanno sporgendosi verso la navata laterale. Voltò il capo per scrutare il ragazzo che aveva gridato, e che gli restituiva lo sguardo attraverso la foschia luminescente che incombeva nel grande spazio. Assomigliava ad Agrifoglio, rami sporgenti dalla bocca, foglie intorno al volto. Velocemente, così come si era proteso per guardarlo, la testa si ritirò e ritornò immobile. Il ragazzo batté le palpebre più volte e scoppiò a ridere. Stava ancora sognando. La notte precedente la stessa sagoma e altre venti erano uscite completamente fuori dai banchi, sagome minute e nodose, dai sottili arti di salice. Avevano condotto una danza sfrenata scalando i muri di pietra fino a raggiungere i rami, tra le facce di pietra dei cornicioni più alti. Anch'esse a loro volta avevano riso, si erano voltate, sporgendosi dalle colonne e dai fregi della cattedrale, osservando incuriosite il movimento frenetico tutto intorno al loro punto d'osservazione sopraelevato. Nell'immobilità del nuovo giorno, il ragazzo andò verso il nido di Agrifoglio e guardò, dalla piccola apertura, la massa in putrefazione di legno, fogliame, felci e cadaveri di uccelli che la creatura aveva ammassato contro le alte porte della cattedrale. Al di sopra di quelle porte, investita dalla prima luce, la metà di una vetrata sbiadita iniziò a illuminarsi di porpora e di rosso. Gli piaceva la sagoma del cavaliere con la lancia e l'armatura argentata, ma ora «un'altra domanda!» Era così pieno di domande in quei giorni: ora si chiedeva contro cosa stesse combattendo quel cavaliere - vedeva solo gli arti inferiori della creatura - cosa fosse rappresentato nella parte mancante della vetrata distrutta. Allontanatosi dal nido, entrò nella penombra della sacrestia e si mise a osservare, nello specchio rotto, la sua frammentata immagine riflessa. Aveva i capelli lunghi, sporchi, una floscia massa nera che ricadeva attorno al suo pallido viso glabro. Gli arrivò in mente un nuovo pensiero, (per il quale sorrise compiaciuto), e cioè che somigliava a un giovane indiano apache di cui aveva visto una fotografia in un libro di scuola. Il giovane nella foto era vestito con pelli di animali. Il ragazzo allo specchio era nudo. L'immagine dell'Apache divenne confusa, cominciò a cambiare nella sua mente, poi progressivamente svanì. Egli aveva ancora i denti bianchi quando sorrise, dondolando la testa di fronte a una spaccatura deformante nel vetro. I profondi graffi sul torace e sul braccio destro erano guariti, ridotti a
nient'altro che leggere linee rosse. Non facevano più male. La pelle, intorno, era ancora gialla per i lividi. Riusciva a malapena a ricordare l'attacco, tanto si era svolto rapidamente, e alla luce del crepuscolo. La creatura non l'aveva nemmeno vista, aveva solo udito la sua spaventosa risata. Lo chiamò con il nome di Colui che ghigna. Era imbrattato di terra e ricordò che avrebbe dovuto lavarsi, il che gli fece venire in mente il pozzo; il pozzo però si trovava fuori, al limitare della radura, e in quella zona la foresta era pericolosa. Quando Colui che ghigna nel tentare di afferrarlo lo aveva ferito, gli aveva fatto molto male, e quando Agrifoglio aveva cercato di aiutarlo, la creatura le aveva strappato delle foglie, prima di ripiegare nel fitto della foresta. Forse non sarebbe andata in suo soccorso una seconda volta. L'attimo di paura svanì con la stessa velocità del ricordo del giovane indiano sul libro di scuola. Si precipitò sulla «scala» d'edera, issandosi dalle mura fino al tetto scoperto, da lì a una balconata vuota, e si fermò sopra un ampio davanzale inciso con complicati motivi di rose e foglie. Aggrappato al lungo collo di un mostruoso animale di pietra, si mise a osservare attentamente la navata centrale della chiesa, oscillando lievemente nel vuoto per lanciare qualche occhiata ai sedili di legno sotto di lui, che ora, però erano completamente inanimati. Approfittando di un doccione, riuscì a raggiungere un ramo, e da lì, alla luce del giorno, scivolò lungo il tronco contorto di un faggio, atterrando sopra il tetto d'ardesia del porticato. La radura si estendeva tutto intorno a lui, limitata dalla foresta. Alcune lapidi di marmo spuntavano dai loro tumuli, tra l'erba alta e le ortiche. Il pozzo di pietra era ancora per metà in ombra. L'incombente foresta era buia, opprimente, ed egli avvertì di nuovo un brivido di inquietudine. Colui che ghigna andava e veniva, solitamente al crepuscolo, ma niente gli assicurava che non fosse lì in quel momento, a osservarlo dall'oscurità del bosco. Nonostante questo, aveva bisogno di bere. Senza veramente riflettere, si ritrovò al pozzo, fece risalire il secchio, e si spruzzò l'acqua in bocca e sul corpo, godendo del freddo contatto sulle ferite. Un certo impulso, o un vago ricordo, gli fece strofinare dell'acqua tra le dita dei piedi. All'improvviso nella foresta buia si mosse qualcosa. Il ragazzo si spaventò e scappò correndo verso la porta aperta del porticato, gridando per il dolore delle punture d'ortiche che lì crescevano fitte. Ma in realtà si trattava semplicemente di Agrifoglio. Rimase un momento immobile nella penombra, poi passò velocemente di fianco al pozzo e andò ad accucciarsi
contro una lapide. Egli si aspettava che i suoi occhi gli avrebbero comunicato paura, invece non dissero nulla. Brillavano, profondamente immersi nelle foglie di agrifoglio che le incorniciavano il volto. I sottili ramoscelli che le uscivano ai lati della bocca circolare, erano bagnati. Quindi aveva mangiato. Da qualche giorno era più grassa, e il suo corpo spesso si muoveva come se le stessero dando dei colpi dall'interno. Aveva nelle mani un assortimento di funghi di diversi colori. Glieli offrì e lui si fece avanti per sceglierne qualcuno, con attenzione, sapendo che alcuni di essi gli avrebbero causato vertigini e nausea. Mangiò con gratitudine quelli che aveva scelto, e nel frattempo Agrifoglio esaminava rapidamente quelli che lui aveva scartato. Stava cercando di imparare. Agrifoglio cominciò ad agitarsi. La bocca si contrasse e dal suo interno salì un brusio di uccelli. Non smetteva di infilare le sue lunghe dita nel corpo di foglie, quasi con ansia. Egli avrebbe voluto tornare dentro il tempio, al riparo e al sicuro, lontano dalle creature e dagli esseri strani che scivolavano tanto spesso tra gli alberi. Ma sentì che Agrifoglio aveva bisogno di lui, così rimase nell'ombra, attento ai movimenti furtivi nel bosco e allo sbattere d'ali nel corpo della sua amica. D'un tratto si rese conto che lei lo stava invitando a sognare ancora, e gli si gonfiò il cuore. Aveva fatto un sogno la notte prima, nella cattedrale... mentre mangiava l'ultimo fungo si sforzò di rievocarne i dettagli. Una danza sfrenata. Nella chiesa gli uomini verdi nelle panche erano sgusciati via dal legno e si erano dimenati freneticamente. Lui era come una foglia che si schiudeva all'alba. Colui che ghigna era uscito dalla foresta per entrare nei suoi sogni, dove si nascondeva... Ma mentre cercava di memorizzare questi ricordi, essi svanivano, lasciando la sua mente di nuovo vacua, vuota e irrequieta, invasa da una sensazione di solitudine e isolamento. I dettagli erano svaniti. Gli veniva proposto un sogno più grande, adesso. Dalla maniera in cui Agrifoglio si era rannicchiata, tremante, e da come lo osservava cinguettando in quel suo buffo modo, egli seppe che aveva capito qualcosa. Grande Sogno o Piccolo Sogno? si chiese masticando. Quando fu sazio, lasciò il porticato e raggiunse Agrifoglio, sistemandosi comodamente tra le sue esili braccia. Il pungolo delle foglie di agrifoglio gli dava i brividi, ma dopo qualche istante la combinazione di sangue e linfa lo calmò, e nonostante l'interno del corpo di lei si muovesse e vibrasse incessantemente, si sentì scivolare dentro il bosco, galleggiare dolcemente,
espandersi, collegato alla foresta tramite le radici di Agrifoglio, impiantate nel cuore del cimitero e in comunicazione con quelle degli alberi più antichi. Lo mandò nel Piccolo Sogno, ed egli sentì di nuovo la voce di suo padre, per la seconda volta soltanto, da quando Agrifoglio era arrivata. Suo padre era nella foresta. Suo padre si avvicinava. Cercava suo figlio disperatamente. C'era qualcuno con lui, un uomo che sembrava un orso, dall'aspetto cupo e feroce. Percepì del movimento; c'era agitazione, paura. La foresta mutava intorno a loro, li ingannava, li ostacolava, li risucchiava nelle sue profondità. Colui che ghigna li osservava, ma loro non ne erano consapevoli. Allora entrò di nuovo in contatto con i sogni di suo padre, con i suoi ricordi, e gridò di dolore tanta fu l'angoscia e la tristezza che sentì. Agrifoglio lo strinse ancora più forte tra le sue braccia, per consolarlo, mormorando piano e coccolandolo con la sua voce. Sangue e linfa si compenetrarono ancora di più. Egli si abbandonò nel cespuglio di agrifoglio e cominciò a piangere. E sognò il sogno di suo padre per un po', se ne nutrì, portandosi di nuovo più vicino all'uomo di cui non conservava che un'immagine. Uscì dalla cattedrale e si inoltrò nella foresta, come uno spettro, ansioso di raggiungere l'uomo che lo cercava. Fuori dal buio Quella sarebbe stata una serata di pioggia, e di strani incontri. Avrebbero assistito a un ritorno dalla morte, e all'inizio dello spegnersi di un'esistenza. Richard Bradley affrettò il passo sulla strada verso casa, alla periferia di Shadoxhurst; a capo scoperto, era completamente bagnato da quel rovescio gelido e torrenziale di fine settembre. Sull'intera città era calato il buio. I pochi negozi erano illuminati, e questo, alle quattro del pomeriggio, dava una deprimente impressione d'inverno. Richard era vestito solo con l'abito da lavoro, il bavero della giacca stretto intorno al collo in un vano tentativo di impedire alla pioggia di corrergli per la schiena. Fradicio e sfinito, si mise a correre non appena fu nei pressi della sua villetta, ma rallentò bruscamente alla vista della donna che, dal cancello sul retro, scappava in direzione dei campi. Indossava uno strano abbigliamento. Notò che anche lei era completamente bagnata, i capelli neri incollati in testa. Non la vide in faccia, notò
solo i pantaloni militari infilati dentro stivali neri coperti di fango e un ampio e pesante giaccone verde che teneva stretto attorno al collo. Portava qualcosa a tracolla, e nonostante non potesse dirlo con certezza, Richard credette di riconoscere un piccolo arco e una fodera piena di frecce. Accelerò il passo, stupito dal fatto che quella donna sembrava essere uscita dalla porta sul retro della casa, ma per quando raggiunse il cancello, lei era già una massiccia sagoma lontana che correva sotto l'acquazzone, verso il torrente che conduceva a Ryhope Wood, nella proprietà. La pioggia, come sempre, dava alla foresta un aspetto ancora più sinistro. Aprì la porta sul retro, si sporse gettando un'occhiata all'interno, e notò le impronte bagnate che dalla cucina portavano fino al piccolo salotto. Le impronte erano minute e ne concluse che fossero per certo quelle della donna. Ma cosa era venuta a fare? Sembrava non avesse toccato niente. La cassetta dei contanti (in realtà conteneva soltanto spiccioli), chiaramente identificabile come tale, era lì nel suo scaffale. Richard seguì le impronte. Anche se quasi scomparse, salivano per le scale e mostravano evidentemente che l'intrusa aveva guardato in ogni stanza. La moquette aveva assorbito il bagnato degli stivali attenuando la pista che segnava il tragitto inverso, ma al piano inferiore, sullo scrittoio, trovò un biglietto, che lesse con stupore. Perché non è qui? Al Varco di Old Stone va tutto bene. Speravo davvero di trovarla. Mi manca. È passato così tanto tempo. IMPORTANTE: Lytton crede di sapere come localizzare il protogenomorfema del ragazzo, ma c'è bisogno che ci sia anche lei. Venga alla Stazione. Io ritornerò nella foresta per il vecchio torrente, prendendo il sentiero nella tenuta di Huxley. Mi segua non appena sarà tornato. Potrebbe essere la nostra unica opportunità di trovare la vera cattedrale! Venga! Sento la sua mancanza. Nessuna firma. Il foglio era ancora umido nel punto in cui lo aveva tenuto, la penna, una biro ordinaria, gettata sul mobile. Aveva appoggiato una mano sul legno lucido ed egli pose la propria sopra la traccia appena visibile, soffermandosi su quanto fosse piccola e sui dettagli delle impronte delle dita, tre delle quali attraversate da cicatrici. Si chiese all'improvviso se non avesse dovuto chiamare la polizia, ma qualcosa gli impedì di agire. Rimase lì, a guardare l'impronta della mano, e il biglietto, ponderando la sua stranezza e incomprensibilità, rievocando
inoltre l'immagine della donna, bagnata, i capelli neri, appesantita dal vestiario, ma comunque veloce, mentre correva sul sentiero sterrato, verso quella foresta che aveva tanto affascinato la giovane amica di Alexander, Tallis Keeton, prima che lei e suo padre sparissero così tragicamente e misteriosamente, poco più di un anno prima: Alex arrivò saltellando fino all'ingresso principale e suonò il campanello. Richard piegò il biglietto e lo infilò nella tasca dei pantaloni, poi aprì la porta. Tredici anni, completamente zuppo, eccitato, il ragazzo corse dritto in cucina e si versò un bicchiere di succo d'arancia, poi si precipitò al piano di sopra a prepararsi per la recita scolastica. D'impulso Richard seguì suo figlio nell'«isola del tesoro», come lui e Alice chiamavano la camera di Alex. «Vuoi del tè?» gli chiese sulla porta, guardando il ragazzo che stava studiando attentamente su dei fogli scritti a macchina. «No, grazie. Già mangiato, patatine e due barrette di Lion,» «Be', certo, questo mi sembra un pasto perfettamente equilibrato.» Alex non rispose. «Usciremo alle sei, se ti vogliono lì alle sei e mezzo, quindi non perdere troppo tempo a leggere.» «Non sto leggendo, sto memorizzando. Io e Mr Evans abbiamo scritto una nuova scena oggi.» «Mr Evans e io...» Alex borbottò qualcosa, annoiato. Richard si guardò intorno nella stanza e allungò una mano per far ondeggiare leggermente uno dei modellini d'aeroplani appesi al soffitto. Il costume di Alexander - che avrebbe interpretato Lord Bertolac dalla barba rossa, nel terzo anno di produzione di Sir Gawain e il Cavaliere Verde era drappeggiato sopra un manichino da sarto. La barba rossa e i capelli erano stati creati con due vecchissime parrucche ed erano davvero spassose indossate dal ragazzo. Il Cavaliere Verde (il quale, in effetti, era Lord Bertolac in sembianze ultraterrene), sarebbe stato interpretato da un altro allievo dato che un cambio di costume avrebbe creato troppi problemi. C'era qualcosa, nella tana di Alex, da cui Richard era affascinato e innervosito al tempo stesso. Era una sensazione delicata - si sentiva una tale ossessione lì, un tale carico di passione: dai quadri di cavalieri con stravaganti stemmi e cimieri, ai disegni di dinosauri, fino ai ripiani pieni di fossili e minerali disposti ordinatamente, raccolti da ogni parte della Gran Bretagna, tutti etichettati e impregnati di mistero. Dei frammenti di marcassite provenienti da cave di gesso erano interrogativamente contrassegnati come
«residui spaziali?». Gli intricati disegni dei fossili erano fatti risalire alle Creature dello Spazio, disperse nei mari di calcare in ere primordiali. Dei modellini in plastica e legno erano ovunque, e il ragazzo, per ciascuno di essi, poteva raccontare una storia. Aveva ereditato quell'immaginazione da suo nonno (insieme a una passione per i soldatini), e benché fosse un tratto di cui mancava completamente, Richard si sforzò di ricordare quale fosse stato il proprio sogno d'infanzia: si rivedeva camminare, oziare sotto il sole e nuotare nelle acque gelide al largo delle coste del Galles. Aveva avuto a disposizione ben poche cose per crescere. Si accorse che Alex lo stava guardando con una certa ansia. «Che c'è?» domandò. Alex rispose semplicemente: «Puoi entrare se vuoi. Fammi ripetere». Sentendosi imbarazzato, senza una ragione apparente, Richard si voltò per scendere al piano inferiore. «Ti interrogherò in macchina, che ne dici? Sarà meglio che vada a prepararmi un po' di tè.» Lasciando Alexander a mandare a memoria le poche righe finali della sua parte, una versione della commedia pesantemente riadattata, scese in cucina, tirò fuori il biglietto e lo lesse di nuovo. C'era nel linguaggio un'occasionale sfumatura straniera «Lytton crede di conoscere dove localizzare il protogenomorfema del ragazzo». Aveva un timbro americano. E cosa mai era un protogenomorfema? La pioggia batteva monotona. Riconobbe il rumore della macchina familiare, una vecchia Rover il cui motore si spense con un rumore di scoppio e un suono sordo. Alice uscì a fatica sul marciapiede, maledicendo il tempo. Prima che entrasse in casa per dare avvio alla sua inesorabile routine domestica e prepararsi per la serata fuori casa, Richard aveva nascosto il biglietto. Lei non aveva tempo per chiacchiere inutili. Richard preparò il tè e scrisse due lettere, tuttavia era distratto e turbato. In realtà, stava assaporando l'idea di una gradita avventura, ancorché immaginaria. Il biglietto era diretto a qualcun altro, di certo non a Richard Bradley. Eppure non riusciva ad abbandonare l'insolita, elettrizzante sensazione che gli procuravano quelle due frasi scritte a mano dalla donna. Speravo davvero di trovarla qui. Sento la sua mancanza. Alice era mezz'addormentata sul sedile passeggeri, con la testa che ciondolava lentamente, mentre l'automobile sobbalzava sulla strada sconnessa che li riportava a Shadoxhurst. I fanali ritagliavano una traiettoria illumi-
nata attraverso la pioggia. Le abitazioni apparivano grigie, le finestre mandavano deboli riflessi; gli alberi non erano altro che indistinte, fugaci sagome scure. La strada curvò attraverso la campagna; due volpi attraversarono di corsa la strada, abbagliati, esitando un istante all'avvicinarsi della vettura. Alle spalle di Richard, Alexander contemplava la campagna notturna, sveglio, vigile, eccitato. Indossava ancora il costume completo di Lord Bertolac, eccetto la folta barba. La sua interpretazione era stata caldamente applaudita. Effettivamente era stata una straordinaria rappresentazione, dall'inizio alla fine, dal folle inseguimento della testa mozzata del Cavaliere Verde attorno al palco, che aveva assunto un suo ruolo a parte, fino ai versi delle canzoni in stile Gilbert and Sullivan, completamente ideati dai ragazzi. Persino adesso Richard si sorprese a cantare La canzone dell'uomo selvaggio: Sono un Wodwo della montagna, Vivo di foglie e di uova di pesce... Nessuna sottigliezza, beninteso, niente di più di una semplice avventura, con mostri ed entità soprannaturali. La decapitazione del Cavaliere Verde, il suo prodigioso ritorno in vita e la conseguente sfida a Gawain, quella di incontrarsi, trascorso un anno, al Tempio Verde (un antico tumulo di sepoltura) per una rivincita, furono recitate in modo molto convincente; i tre tentativi di seduzione di Sir Gawain da parte della strega Morgana le Fay, sotto le spoglie di Lady Bertolac, furono strazianti, con il povero ragazzo che interpretava il ruolo incapace di mantenere costantemente alto il timbro della voce. L'innovazione introdotta da Alex nella storia era consistita nel fare del Cavaliere Verde un pagano, il guardiano di un leggendario talismano. Alla fine, Gawain, travestito da falco predatore, riusciva, con l'inganno, ad attirare il colossale cavaliere fuori del tempio, entrava nel sepolcro che conduceva all'altro mondo, e rubava il talismano. Alexander era anche stato chiamato sul palco per un applauso personale. Richard e Alice si erano sentiti molto fieri del ragazzino e si erano uniti con entusiasmo al bis, una ripresa della canzone finale «Un sanguinante scollo sul lato del collo, per il bene del Corsetto Verde della mia Dama». Le luci dei fanali fendevano il buio, scorrendo tra alberi, siepi e muri, illuminando fugacemente una campagna silenziosa, satura d'acqua, addor-
mentata. L'uomo che improvvisamente piombò di fronte all'automobile, barcollando, aveva addosso soltanto una vestaglia. Solo quando Richard sterzò per evitarlo, agitò debolmente entrambe le mani tra le quali stringeva qualcosa di simile a una bianca maschera rotonda. Per un attimo, alla luce dei fari, l'uomo era rimasto terrorizzato, come un animale selvatico, pietrificato in mezzo alla strada. Poi si era gettato di lato per evitare l'urto. Richard vide soltanto il suo corpo pallido, nudo, sotto la vestaglia aperta. Aveva un'ombra di barba, e tutto di lui riluceva come fosse imbevuto d'olio, per effetto della luce sulla pelle fradicia di pioggia. L'automobile si arrestò con violenza, e Alice si svegliò di soprassalto. «Che diavolo succede?» «Un uomo ha appena attraversato la strada correndo. Per poco non l'ho investito.» «Dovresti guidare più piano» disse Alice prevedibilmente. Richard era già fuori dalla macchina e scrutava nell'oscurità. Tese l'orecchio tra il rumore della pioggia, ma non vide né sentì nulla. «Guido io, d'accordo?» disse Alice. «Così magari arriveremo a casa senza pericolo.» «Alice, non l'ho investito. E veramente è piombato in mezzo alla strada...» Richard però era scosso dall'apparizione di quell'uomo. «Per un attimo ho pensato che...» Si rimise al volante e sedette in silenzio. Mano a mano che Alice si riprendeva completamente dallo stato di sonno, l'irritazione e lo spavento svanirono. «Andiamo a casa.» «Mi è sembrato di riconoscerlo. L'ho solo intravisto, ma...» «Probabilmente un bracciante ubriaco. Come hai detto anche tu, non l'hai investito, perciò non pensarci. Sento freddo.» «Aveva addosso una vestaglia. Completamente aperta. Tu lo hai visto, Alex?» Dietro di lui il ragazzo annuì debolmente. Aveva gli occhi spalancati e sembrava sconvolto. «Alex!» «Era Mr Keeton» disse lentamente il ragazzo. Tremava. Richard si sentì gelare, quando rivide chiaro in mente il viso dell'uomo. «Era il padre di Tallis» ripeté Alex. «Era Mr Keeton.» «Che assurdità» disse Alice, ma si accigliò quando vide l'espressione sul
volto del marito. «Jim Keeton e Tallis sono scomparsi più di un anno fa. Lo sai benissimo, Alex. Non può essere ritornato, proprio ora. Se quello era Jim, allora deve essere il suo fantasma.» Richard stava cercando di ricordare qualcosa di quei giorni dolorosi, in cui avevano perlustrato la campagna senza trovare alcuna traccia dei due Keeton. «Quando Jim è scomparso... era di mattina, giusto? Era uscito di corsa da casa, con addosso la vestaglia. Non ricordi cosa disse Margaret durante l'indagine?» Alice scrollò le spalle. «Non l'ho dimenticato. Ma sono scomparsi da oltre un anno. Non mi starai dicendo che dopo un anno ha ancora la sua vestaglia...» Richard si guardò attorno nel buio. Stretto sul sedile posteriore dell'auto, suo figlio, il Cavaliere Rosso, stava curvo, con le ginocchia al petto, gli occhi spalancati, fissi su suo padre. Piangeva silenziosamente. Cinque ore dopo, James Keeton arrivò a casa loro. La pioggia era quasi cessata, ma egli aveva un aspetto sudicio e pietoso, in piedi in fondo al giardino, mentre fissava la finestra buia da cui lo osservava Alex, stringendo la maschera al petto. Aprì il cancello e corse rapidamente verso la porta posteriore, dove cominciò a bussare sul vetro. Alex si sforzò di scorgere l'uomo dalla sua camera da letto, ma Keeton attraversando la pioggia era arrivato fino alla finestra della sala da pranzo. Come un uccello con il becco, Keeton prese a picchiettare con la punta delle dita, premendo il viso contro il vetro, con la mano sollevata, battendo ostinatamente continuando a scrutare l'oscurità all'interno della villa. Alexander stava in piedi sul pianerottolo, tremante. Gli si allentarono i pantaloni del pigiama e annaspò per legarseli più stretti. Tese l'orecchio al rumore del becco sul vetro che proveniva dal basso, e si ricordò della sua amica Tallis e delle sue storie d'uccelli, di creature alate, e di notti affollate d'ali. Scese lentamente le scale, e nella sala da pranzo si avvicinò alla faccia di mezzaluna all'esterno, finché non scorse la barba e i tratti emaciati dell'uomo mezzo nudo che picchiettava con quieta disperazione. Alex gli rispose battendo a sua volta, lievemente. Keeton teneva il naso premuto contro la finestra. Tra il suo sguardo e il vetro corse un rivolo di pioggia. Teneva in una mano lo strano pezzo di legno marcio, e Alex scoprì una grezza maschera, le fessure per gli occhi a forma di mezzaluna. La riconobbe come una delle maschere di Tallis. Sogno di Luna. Premette la sua mano contro il vetro, all'altezza della maschera, ricordando la sua amica
scomparsa. All'esterno, sul vetro, l'acqua della pioggia si confondeva con le lacrime di Mr Keeton. «Non se ne vada» lo pregò Alex. L'uomo chiuse gli occhi. Sembrò crollare contro la finestra, continuando a bussare con la maschera, come fosse Pulcinella che si serva di una marionetta per risvegliare l'attenzione dei bambini. Sogno di Luna continuò a battere sul vetro, mentre Keeton si accasciava lentamente su se stesso; la maschera e il viso dell'uomo scomparvero alla vista. Alex uscì fuori con il tappeto persiano dell'ingresso e avvolse il pesante tessuto attorno all'uomo gelato dal freddo. Mr Keeton stava in silenzio, stringendo la maschera. Con occhi gonfi di lacrime e terribilmente vuoti guardava nella notte umida e buia. Alex cercò di aiutarlo ad alzarsi, ma l'uomo rifiutò di muoversi. «Non scappi di nuovo. Promesso? Resti qui.» L'uomo emise un suono incomprensibile, poi si raggomitolò ancora di più nella fradicia vestaglia, sotto il pesante tappeto asciutto, stringendone le estremità annodate attorno al collo. Alex salì al piano di sopra e svegliò suo padre. «Mr Keeton è a casa. Ma è tanto triste. Tallis deve essere morta.» Sogno di Luna C'era qualcosa di molto singolare riguardo allo stato di James Keeton. Una volta lavato, sbarbato e pettinato, soltanto il disperato sguardo di terrore nei suoi occhi lo differenziava dall'uomo robusto e un po' sovrappeso che era scomparso, per sopravvivere nella natura (come si poteva supporre) un anno e quindici giorni prima. Margaret, sua moglie, era stremata: a malapena osava toccarlo, ma rimase a guardarlo con apprensione, quando il medico locale lo esaminò, tentò di parlarci e ne studiò i riflessi, senza suscitare in lui la minima reazione. Keeton presentava delle escoriazioni in vari punti del corpo, e delle gravi ferite ai due grossi alluci. Prima della rasatura, la barba era di quattro o cinque giorni. La vestaglia, nonostante le tasche strappate, una volta asciutta apparve come nuova - e non la veste lacerata che ci si sarebbe potuti aspettare dopo un anno nella foresta. Più strano di tutto, era il cerotto che copriva, sull'indice, un taglio quasi completamente cicatrizzato. La vigilia della sua sparizione, Keeton si era
tagliato affettando una spalla d'agnello per il pranzo di famiglia. Durante la sua assenza, si erano forse presi cura di lui da qualche parte, per poi liberarlo qualche giorno prima nella sua tenuta originale (a parte il pigiama!), lasciandolo vagare alla cieca per i sentieri di campagna intorno a Shadoxhurst? Soltanto James Keeton poteva rispondere a questa domanda, e Keeton non diceva una parola. Seduto sulla poltrona, dondolava impercettibilmente, dando l'impressione a volte, di guardare molto lontano. Piangeva in silenzio, le labbra si muovevano, ma non ne usciva alcun suono. Il medico, provvisoriamente, propose una diagnosi di shock, accompagnato da un temporaneo stato catatonico. Poteva uscirne in qualsiasi momento, o avrebbe potuto diventare pericoloso, se non per gli altri per se stesso. Consigliò di ricoverarlo in ospedale per altri esami più approfonditi. Per tutto il tempo, dalle due del mattino all'alba, Keeton non aveva smesso di tenersi saldamente aggrappato alla maschera primitiva, stringendola contro di sé come un bambino non appena Richard aveva fatto il tentativo di prenderla. «Tallis stava sempre a fabbricare quelle cose» mormorò Margaret, all'altro lato della stanza. Era pallida, svuotata, in preda alla confusione. «Qual è questa?» Alexander rispose: «Sogno di Luna. Mi aveva detto altre cose su di lei, ma le ho dimenticate». Al suono della voce del ragazzo, o forse all'accenno al nome della maschera, lo sguardo fisso e vacuo di Keeton si concentrò ed egli si sollevò a sedere diritto, e per un attimo le labbra si congiunsero con uno schiocco. Quando Alex gli passò un braccio attorno alla spalla, Keeton si raggomitolò contro il ragazzo, apparentemente rassicurato. Per sua stessa richiesta, Alex accompagnò i Keeton alla clinica, distante quindici miglia, in prossimità di un villaggio isolato al confine della contea. Richard e altri abitanti di Shadoxhurst passarono i tre giorni seguenti a perlustrare la campagna in cerca di una qualunque traccia di Tallis, ma anche questa volta non trovarono nulla. I proprietari della tenuta di Ryhope batterono il territorio al confine della foresta di Ryhope e l'area dello stagno adiacente al mulino, ma riferirono, anche loro, di non aver trovato tracce. Per due volte, Richard attraversò i campi per esplorare la strada vietata, e si trovò nel punto in cui l'antica via s'inoltrava nel folto sottobosco
per raggiungere le rovine di Oak Lodge, dove suo figlio, e altri bambini, erano stati molto spesso a giocare. Le alte staccionate di filo spinato e i divieti di transito agli intrusi, erano ostili segnali che rispecchiavano l'atteggiamento distaccato e poco amichevole nei confronti della comunità locale da parte degli attuali occupanti di Manor House: i due figli (ormai sulla trentina) che avevano ereditato la proprietà alla morte del padre. Durante le quattro settimane seguenti, Alex fece assiduamente visita a James Keeton, tanto che sia Richard che Alice cominciarono a preoccuparsi per quella che sembrava essere, da parte del ragazzo, un'insaziabile curiosità nei confronti di quell'uomo silenzioso. Keeton sedeva muto e immobile, fissando il vuoto, tenendo la maschera Sogno di Luna stretta al petto, oppure posata sulla cappa del caminetto della piccola camera privata che si affacciava sul bosco. Eppure, nonostante Richard avesse parlato con suo figlio, tentando di dissuaderlo da quelle visite ossessive, Alex non fu persuaso. Impiegava poco più di due ore in bicicletta per percorrere la ventina di chilometri che lo separavano dall'ospedale. I compiti scolastici ne risentivano. Era sempre contento se Richard lo accompagnava in macchina, e non sembrava disturbato dalla presenza di suo padre nella stanza. Ciò che Alex faceva era raccontare storie, sottovoce, all'uomo completamente immobile. Parlando gli accarezzava le mani, A volte reggeva la maschera al suo posto, e invariabilmente Keeton si piegava in avanti per guardare all'interno delle sue orbite vuote. Era il suo unico movimento volontario. Qualsiasi cosa facesse Alex sembrava confortarlo. Raccontava barzellette, inverosimili avventure, e parlava di Tallis. «Torni indietro, Mr Keeton. Torni a casa» lo sentì dire Richard una volta. «Lo so che sta ancora vagando, perduto. Ma adesso può tornare. Non c'è più pericolo.» In automobile, tornando a Shadoxhurst, Richard chiese a suo figlio che cosa avesse voluto dire. «È solo una sensazione» rispose il ragazzo. «Il suo corpo è qui, ma credo che il suo spirito stia ancora vagando, che stia ancora cercando Tallis.» «Si direbbe un racconto fantastico.» Alex scrollò le spalle. «A volte sussurra cose che mi fanno pensare che veda altri mondi.» «Come quello del Cavaliere Verde, eh?» osservò Richard, prima di venire improvvisamente colpito da ciò che Alex aveva detto indirettamente. «Sussurra cose? Ti parla?» «Non a me» disse il ragazzo, cambiando posizione sul sedile, guardando
fuori il paesaggio che imbruniva. «Ma parla... non moltissimo, e sempre a bassa voce. Dice cose che non hanno molto senso, ma io penso che stia girando senza meta, cercando con tutte le sue forze.» Un mese dopo il suo ricovero alla clinica, Keeton riprese coscienza in modo spettacolare. Per quando Richard e Alex arrivarono all'ospedale, si trovava in uno stato di forte agitazione. Non sembrò riconoscere Richard, ma prese a parlare per lo più incoerentemente con il ragazzo, senza cessare di guardare attraverso le fessure della maschera sul bordo della cappa. «Riesco a vederla, Alex. Alla fine ci sono riuscito! È dall'altro lato della maschera. Non sono certo che sappia che sono io, se riesce a sentirmi, ma è lì, tra grandi alberi, con diversi cavalieri. Sembra stia bene. Ma è così cresciuta.» Richard osservava e ascoltava mentre quell'uomo più anziano di lui riversava sul ragazzo tredicenne la sua immaginazione. «Ha il viso graffiato. Si è fatta altissima. Dev'essere una cacciatrice, o qualcosa del genere. Si trovano in una grande foresta, vicino a un fiume, tra rovine di pietra. C'è un uomo anziano con lei, che non smette di piangere. C'è qualcosa di molto strano tra gli alberi - una specie di creatura...» «Posso guardare?» domandò Alex. Keeton passò la maschera al ragazzo e Alex se la portò davanti al viso, guardando all'interno, attraverso le orbite vuote, ruotandola leggermente come per aggiustare il campo visivo. Dalla sua espressione fu evidente che non aveva visto niente altro che la stanza. Keeton riprese la maschera e la poggiò sulla cappa del camino, sfiorando gli sbiaditi tratti di luna, gli occhi rozzamente intagliati. La sua camicia bianca era completamente bagnata di sudore, i pantaloni grigi di flanella erano sgualciti e cascanti. Nell'ultimo mese i capelli gli erano diventati completamente bianchi; un mutamento avvenuto all'improvviso, come se lo avesse avvicinato un fantasma, ed egli fosse stato incapace di reagire. Si sedette e sospirò profondamente. «Alex?» «Sì?» «Era lei. Era la mia ragazzina diventata adulta. Non è così?» «Sì» mormorò Alex. «Oh, tesoro» sospirò l'uomo affondando leggermente. «Tesoro...» E con questo ammutolì. In pochi istanti era di nuovo scivolato nel suo stato catatonico. Ne riemerse due settimane dopo, delirante, furioso; cominciò a urlare, mentre guardava all'interno delle fessure della maschera. Dovettero som-
ministrargli dei sedativi. Da quell'episodio in poi, ogni tre o quattro giorni emergeva dal suo stato catatonico e si rivolgeva a un aspetto della realtà di cui faceva esperienza attraverso la maschera, infantile creazione di sua figlia. Richard accompagnava Alex a trovarlo il più spesso possibile, consapevole del fatto che i due condividevano un rapporto da cui tutti gli altri erano esclusi. Keeton descriveva immagini fantastiche di viaggi in regioni paludose, di tremende tempeste di neve, di schermaglie terribili, clamorose, combattute nel fango tinto di sangue, di fuochi sulle colline e danze sfrenate alla luce delle fiamme. E descrivendo quelle immagini sembrava in pace, come se sapesse che sua figlia sarebbe tornata da lui. Tuttavia i periodi di lucidità erano di breve durata; il più lungo fu di cinque ore soltanto. E più lunga era la fase cosciente, più a lungo restava muto, privo di sogni, privo di vita. Molto spesso, nei fine settimana, Alex supplicava di far visita all'ospedale, per poi rimanere deluso e rattristato da una giornata passata accanto a un uomo inerte. Nemmeno il contatto con la preziosa maschera riusciva a provocare una minima reazione da parte di James Keeton. Alex doveva aver udito i litigi dei suoi genitori, eppure non disse nulla, semplicemente si chiuse maggiormente in se stesso. Alice era sempre più arrabbiata e preoccupata per il tempo che Alex passava all'ospedale. Avrebbe voluto porre fine ai loro contatti. Richard le faceva osservare che esisteva una fiducia speciale tra i due, e che Alex poteva essere il canale che avrebbe permesso a James di ritornare a completa guarigione. «Ma che cos'è che lo attrae, accidenti? A malapena si conoscono...» «È vero. Non so che cosa sia. Forse Tallis, un collegamento con lei. Tutto quello che so è che Alex sembra confortarlo, e James non è mai tanto felice come quando parlano assieme e si confidano le loro visioni.» «Visioni!» La frustrazione di Alice le distorse i lineamenti; la rabbia e l'angoscia la facevano apparire più vecchia. «Dobbiamo fare in modo che questa storia finisca, Richard. Non è più lui. Non lo riconosco più.» «Dagli tempo, Alice. Se può essere d'aiuto a Jim...» Alice, esasperata, rifiutò la discussione. «Tu sei pazzo!» Alex, ovviamente, sentì tutto questo, e a volte cercava di rassicurare entrambi i genitori, ma sempre e solo attraverso il contatto, mai con le parole. Una notte, all'inizio della primavera, entrò a quattro zampe nella camera da letto dei suoi genitori, si allungò e tirò suo padre per la manica per sve-
gliarlo. Richard lo guardò di traverso dal letto e gli scappò un lamento. Alex lo zittì portandosi l'indice alle labbra e gli fece segno di scendere al piano di sotto. Stordito, Richard obbedì, mentre Alice continuava a dormire, inquieta, piena della propria inespressa, o forse inesprimibile, sofferenza. Dalla porta posteriore Alex indicò fuori, nella notte di marzo. «C'è un fuoco nella foresta, gente che danza. Hanno dei tamburi. È molto strano.» Ora che guardava attentamente, Richard in effetti scorse il lontano bagliore tremolante, in prossimità del Torrente del Cacciatore, sul limitare della foresta di Ryhope. Quando tastò il suo ragazzo con le dita si accorse che Alex era bagnato di pioggia, e gelato per l'aria notturna. Inoltre indossava jeans e giacca a vento. «Sei uscito?» «Vieni a vedere! Porta un bastone. Danzano tutti intorno al fuoco con dei bastoni.» «Sei uscito?» disse un'altra volta a bassa voce. «Alle tre del mattino?» Da lontano il suono dei tamburi giunse più intenso trasportato dalla brezza notturna. Era un ritmo irregolare, appena udibile, un mormorio fluttuante nel freddo della notte. «Vieni a ballare! Ti prego, papà. Trova un bastone. Fallo per Tallis.» Richard fissò lo sguardo sui pallidi lineamenti di suo figlio. «Per Tallis? Che vuoi dire, per Tallis?» «Stavo sognando di lei. E del fuoco. E poi mi sono svegliato. Potrebbe servire a Mr Keeton per ritrovarla.» Confuso, molto infreddolito, consapevole di prendere parte a un gioco che non capiva, Richard assentì. «Che tipo di bastone?» «Uno qualsiasi, di legno. Tallis è sempre stata attratta dal legno.» Richard tornò al piano superiore e si vestì con calma, poi andò a vedere nella stanza dei giochi, cercando dietro i cartoni, i bauli e l'attrezzatura da campeggio, finché trovò la sua vecchia mazza da cricket della scuola. «Una mazza» disse richiudendo la porta dietro le loro spalle, incamminandosi sul sentiero con Alex. «Andrà bene? È autografata da Fred Trueman.» Alex non aveva idea di cosa stesse parlando suo padre. Gli si rivolse con impazienza: «Andiamo!». Sei mesi prima, Richard aveva seguito con gli occhi una donna fradicia di pioggia, in tenuta militare, correre per quello stesso sentiero sterrato. Ora teneva in mano una grossa torcia, per illuminare il percorso fino al piccolo fuoco che ardeva vicino al Torrente del Cacciatore. L'aria vibrava drammaticamente al potente suono del tamburo.
Facendosi più vicino, riuscì a distinguere delle sagome scure che si dimenavano selvaggiamente davanti alle fiamme. Gli vennero in mente le danze indiane dei film western, ma queste non erano accompagnate né da preghiere né da canti: c'era solo la danza di otto o nove figure umane mascherate, lanciate in un veloce turbinio, avvolte in ampi mantelli che lasciavano intravedere soltanto, quando le fiamme li rischiaravano, i loro volti pallidi come la morte. Il terreno digradava leggermente fino a un ruscello melmoso, poi risaliva di nuovo. Alex si arrampicò sul pendio nel buio, impaziente, la sua sagoma colta in primo piano dal raggio di luce della torcia di Richard. Mentre Richard annaspava attraversando il ruscello gelato, trasalendo per l'acqua fredda che arrivava a bagnargli i piedi, si accorse dell'improvvisa interruzione del ritmo dei tamburi. Sulla cima dell'altura, dall'altro lato del ruscello, non trovò che il fuoco: i personaggi erano spariti, e salvo il mormorio del vento, la notte di marzo era immobile e silenziosa. Alex corse verso il fuoco, gridando e girando attorno alle fiamme agitando il suo bastone. Quando Richard illuminò attorno con la torcia, scoprì l'alto palo decorato di piume che era stato piantato nel terreno. Dalla sommità pendeva una strana bambola di ramoscelli, il cui corpo batté sul legno a un colpo di vento. Iniziò a cadere una pioggia leggera ma costante, che colpiva a raffiche improvvise Richard che, in piedi, continuava a guardare il fuoco. I tizzoni incandescenti sibilavano per il contatto con l'acqua. «Se ne sono andati!» gridò di nuovo Alex rivolto in direzione del bosco. «Torniamo a casa» disse Richard. Alex si voltò verso di lui. «Dovevamo danzare. Danzare attorno al fuoco.» Richard sollevò la mazza da cricket e osservò, al bagliore del fuoco, lo scarabocchio sbiadito che era oramai diventata la firma del suo eroe del cricket. La superficie era ammaccata e scolorita per tutti gli anni di scuola in cui era stata usata. All'altezza dell'impugnatura si apriva una profonda fessura, che ne rendeva pericoloso l'uso. «Alex...» «Papà! Danza con me! Li farà ritornare...» «Temo che mi sentirei piuttosto ridicolo.» «È quello che dici sempre! Ecco perché non fai mai niente!» Alex corse verso l'asta piumata e strappò via la bambolina, girandosela tra le mani, esaminandola minuziosamente. Tremava, e Richard si accorse che suo figlio stava piangendo.
Improvvisamente la pioggia prese a cadere più forte, il fuoco sibilò e crepitò, ardendo con maggiore intensità prima di affievolirsi. Deluso e stremato/eppure riluttante a prendere la mano di suo padre, Alex seguì i suoi passi, attraverso il buio asfalto della notte, per ritornare, per la pista fangosa, alla casa buia dove Alice dormiva. Richard con sollievo si infilò di nuovo nel letto, ma dormì male; tutti i suoi sogni erano incentrati su fuoco e danze. Non era un uomo portato per l'intuito o la premonizione, ciò nonostante percepiva l'inquietante sensazione che stesse per accadere qualcosa. Lo squillo del telefono lo svegliò alle sei del mattino. Arrivò barcollando al pianerottolo e strappò il ricevitore dalla forcella, chiedendo, ancora inebetito, chi fosse all'altro capo. Era Margaret Keeton. Suo marito si era svegliato e delirava. Continuava a chiedere di Alex. Il medico responsabile del suo caso riteneva potesse essere l'ultimo sprazzo di lucidità prima di un collasso definitivo; quindi amici e familiari potevano andare immediatamente? James Keeton era in piedi vicino al camino. Vestito da capo a piedi e leggermente chinato per guardare attraverso le fessure allungate della rozza maschera. Stava chiamando sua figlia con dolcezza. Non stava affatto delirando, ma ugualmente Alice gli rivolse appena un'occhiata e si voltò, allontanandosi risolutamente per il corridoio. «Vado a tenere compagnia a Margaret, all'ingresso. Ne ha avuto per tutta la notte. Deve essere esausta.» Alex si avvicinò all'uomo e gli sfiorò il braccio. Keeton si guardò attorno, riconobbe Richard e sorrise. «Dov'è Margaret?» «Di sotto. Devo andare a chiamarla?» Keeton scosse il capo. «Povera Margaret. È invecchiata... Devono essere stati giorni difficili.» Accarezzò delicatamente la maschera, poi sembrò mutare stato d'animo, e un bagliore gli illuminò gli occhi. «Credo che stia tornando a casa» disse rivolto a Richard, per poi ripetere le stesse parole ad Alex, stringendogli le spalle. «Tallis?» «Sì, Tallis. Torna a casa. Ma ho paura. Ho paura che abbia scelto la via più difficile.» Un attimo di buio, e poi di nuovo riprese con voce piena. «Se sapesse quale battaglia è stata combattuta, Richard. Corvi su tutto il campo, che si nutrono dei morti, e gente barbara che smembra i cadaveri e li trascina via. Attraverso questi occhi riesco a vederla, ma è così grande adesso! Che vita intensa ha vissuto! Vorrei poter esserle stato accanto. Non
so nemmeno se mi sente.» Guardò di nuovo la maschera e chiamò ancora una volta. «Tallis?» Aspettò qualche istante, e si mise a ripetere ancora e ancora il nome di sua figlia, finché non comprese, e accettò con un sorriso. «Non mi sente.» Accorgendosi di Alex, Keeton poggiò una mano sulla sua spalla, poi prese la maschera e la sollevò all'altezza degli occhi del ragazzo. «Cosa vedi? Vedi niente? Può darsi che con te parlerà.» «Non vedo nulla» confessò Alex. Di nuovo, Keeton appoggiò la maschera sulla cappa del camino, poi andò a sedersi pesantemente sulla poltrona, fece un lungo e lento sospiro, gli occhi socchiusi, come se gli costasse fatica. Guardò Richard per un momento, poi domandò: «Quanto tempo sono stato altrove?». «Altrove?» «Prima di essere portato qui.» «Un anno, Jim. Pensavamo fosse morto. Lo credemmo... un suicidio.» Keeton rise debolmente, scrollando il capo. «Perché no? La mia vita non ha più alcun senso. L'ho persa, Richard, esattamente come prima perdetti mio figlio. Non mi resta più niente adesso. Non le credevo quando mi raccontava le storie del bosco, di che luogo misterioso fosse - ma lei è scomparsa là dentro, scomparsa per sempre. Se ne è andata quattro giorni fa. Non tornerà. E io, io sono un uomo morto, o quasi. Ho visto cosa le è successo...» «È sparita da un anno e mezzo, Jim. Quando lei è riapparso era scomparsa da un anno.» Richard si sentì in difficoltà. «Lei stesso era via da un anno...» «Quattro giorni» ripeté James Keeton. «Un'eternità.» Ma all'improvviso si fermò, rivolgendosi a Richard in tono inquisitorio: «Un anno?». «Un anno. Non che lo si sarebbe detto dal suo aspetto. Sono sei mesi che è in ospedale.» «Un anno» disse Keeton, centellinando le parole, con gli occhi chiusi. «Buon Dio, se era misterioso, quel posto. Il torrente che entra nella foresta. La foresta di Ryhope. L'ho vista cavalcare. Con lei c'erano quattro uomini. Ho provato a stargli dietro, ma erano troppo veloci, e io avevo così tanto freddo... e a un tratto, quel luogo sconosciuto, quegli spiriti gentili... con una barca mi hanno fatto attraversare il mare fino a un'isola incantevole, ma ero talmente infelice che mi hanno portato indietro. Una ragazza dal volto di luna mi ha indicato la strada attraverso la foresta. E quando mi ha
lasciato, un'entità malvagia ha cominciato a ridere e a tormentarmi, e poi è arrivata la pioggia...» «Di quale luogo sconosciuto parla, saprebbe dirmelo, Jim? Se lo ricorda?» Keeton aprì gli occhi. Per un istante ebbe un'espressione smarrita, poi, con un lungo sospiro riprese: «Viene verso di me e mi afferra tenendomi in trappola. È come se tutto venisse risucchiato, tutta l'energia, tutti i pensieri, tutta la speranza, tutta la vita. Rimango svuotato, appeso a un filo. Resto consapevole della vostra presenza, non riesco a rispondere. Non ho nemmeno l'energia per urlare internamente». Richard comprese che il soggetto era cambiato. Keeton stava parlando della sua esistenza attuale, di ciò che viveva da quando era tornato. «Il tempo non ha alcun significato» continuò. «La voce di Alex mi dà sollievo, ma perfino quella non è altro che acqua, che mi scorre addosso. Nessun dolore, Richard, nessuna angoscia. E poi all'improvviso sento un flusso di energia e Tallis è qui di nuovo. Dall'altra parte della maschera, capisce? La maschera è lei stessa, e i miei occhi riescono a vederla. Se è vicina posso sentire ciò che dice, posso vederla, posso quasi toccarla. Non ho avuto che qualche breve immagine, l'ho vista diventare grande, combattere, amare. Ha partorito tre figli. Tre. Ma sono tutti morti. Ora sta per andarsene. Quando se ne andrà lei, anche io me ne andrò. Non mi è rimasto più nulla.» «Ci siamo noi» obiettò Alex. «Io, specialmente.» Keeton rise e abbracciò il ragazzo. «Non vogliamo che se ne vada, Jim» continuò Richard. «Vogliamo che torni a casa. Resti con noi. Si rimetta in forze.» «Lo farei, se potessi» rispose Keeton. «Ma non ho alcun potere sul flusso e riflusso della mia vita. Margaret ormai non è più niente per me, ne è consapevole, e io sento che per lei è lo stesso. Quando Tallis se ne è andata, con lei se ne è andata anche una parte di me. Prima Harry, poi lei... Qualunque cosa vi sia dietro quella maschera, ha il controllo della mia vita.» Assurdità, pensò Richard, guardando il pezzo di legno. Tuttavia non poté risolversi a pronunciare il commento sprezzante ad alta voce. Un infermiere entrò nella stanza, scambiò qualche parola con Keeton, poi con Richard, e uscì. Richard, stanco delle divagazioni emotive di Jim, cosciente che in realtà si rivolgeva prima di tutto ad Alex, si scusò per un momento e scese al piano terra da Alice e Margaret. Era di sotto da appena
qualche minuto che cominciò a sentirsi a disagio, perfino spaventato. Le due donne parlavano tranquillamente tra loro. «Torno di sopra» disse Richard, e si allontanò a grandi passi dall'accettazione, salì le scale tre gradini alla volta, e improvvisamente cominciò a correre sulla moquette grigia dell'asettico corridoio. Senza fiato, arrivò alla camera di Keeton, e lo vide ancora vicino alla maschera, chinato a guardare attraverso le fessure degli occhi. Dietro di lui, Alex era un'ombra curva, in lacrime. Occhi pieni di pianto si rivolsero a Richard, e il ragazzo scosse la testa, con le labbra tremanti. Cosa stava succedendo? Richard entrò nella stanza. Keeton chiamò «Tallis?» poi ancora più forte «Tallis!». Sul viso di Richard si disegnò un'espressione di sollievo. «Eravamo preoccupati per te» riprese Keeton guardando attraverso gli occhi della maschera. «Pensavamo di averti persa.» E un attimo dopo, sorridendo, rivolgendosi a nessuno in particolare, aggiunse: «Bene, sia lodato il Signore per questo». Si allontanò dalla maschera e si avvicinò alla finestra guardando i terreni dell'ospedale all'esterno. Poi con un accenno di risata e un sospiro, raggiunse la sua poltrona, sedette, chiuse gli occhi... Richard gli si avvicinò... «Jim?» «È morto» disse Alex. Richard subito gli prese il battito. «Non può essere morto.» «È tornata» disse il ragazzo con voce tremante, un'aria molto impaurita. «Questa è la fine. Mr Keeton ha trovato ciò che cercava. Tallis è tornata a casa.» Alex aveva attraversato la stanza e stava guardando nelle orbite della maschera. Richard verificò le pulsazioni di Keeton sul polso ancora caldo, non sentì nulla. Si avvicinò alla bocca per sentire il respiro, gli sollevò una delle palpebre, poi distese il corpo sul pavimento. «Chiama un'infermiera!» disse, ma Alex continuava a guardare attraverso la maschera. «Alex! Va' a chiamare aiuto. Non so come si fa. Alex!» Un colpo. Un pugno sul petto dell'uomo disteso, poi con attenzione posò una mano sullo sterno, e con l'altra diede un altro colpo, più controllato. Santo Dio, come si fa? Una pressione piano, poi più forte. Piano, così va bene... «Alex!» Fece pressione sul torace di Keeton, quattro volte, con tutte le sue forze,
poi gli aprì la mandibola e premette la sua bocca sulle labbra che stavano diventando fredde. Soffiò aria nei polmoni di Keeton, ma la sentì rifluire. «Non so cosa fare. Non ho mai imparato... Alex, per amor di Dio, va' a cercare qualcuno!» Nello stesso istante in cui gridò il nome di suo figlio, colto dalla disperazione, consapevole dei passi che si precipitavano nel corridoio e della cacofonia di urla e grida esplosa nelle altre stanze, nell'istante in cui si voltò a guardare Alex per supplicarlo di chiedere aiuto, in quell'istante il ragazzo gridò: «Mr Keeton!». E un attimo dopo venne letteralmente scaraventato da una parte all'altra della stanza. Immediatamente l'aria fu invasa da un odore di legno e terra bagnata, e per un attimo lo spazio tra la maschera e il ragazzo si contorse, si increspò, come un'immagine riflessa, distorta dall'acqua agitata. Ci fu un suono lontano, come una risata stridula, dopo di che tutta l'aria fu risucchiata fuori dalla stanza, le finestre tremarono, e la porta si chiuse sbattendo sui cardini. Paralizzato dallo shock, Richard guardò Alex colpire il muro e cadere pesantemente sul pavimento. L'istante prima di crollare aveva gli occhi spalancati, il viso una maschera di terrore. Poi il ragazzo ricadde in avanti e si raggomitolò su se stesso, accartocciandosi come una foglia. Richard in un attimo fu sopra di lui, cercando di distenderlo, stringendolo a sé. Risate... echi di risate... risate di scherno... «Alex! Alex!» Il ragazzo era ancora cosciente, ma tutto il suo corpo tremava senza controllo. Gli occhi umidi, vacui, rivolti su suo padre. La bocca si mosse, si leccò le labbra. «Alex... cosa è successo? Cosa è successo?» Alex lo fissava senza espressione, lo sguardo assente. Poi, come un bimbo, allungò le braccia e circondò il collo di Richard, si strinse a lui, si rannicchiò contro il suo corpo massiccio, vi si annidò. Un infermiere si stava occupando di James Keeton. «Cosa è successo? Che cos'è questo odore? Oh Cristo! Adrenalina! Mi serve adrenalina!» «È crollato all'improvviso» disse Richard mentre si sistemava a sedere, sorreggendo Alex tra le braccia. «È andato» disse l'uomo con angoscia, scuotendo il capo. «Era perfettamente sano. Non è possibile. Proverò ancora Dove diavolo è l'adrenalina?» Due infermiere entrarono di corsa nella stanza, una di loro andò a occu-
parsi di Alex. Richard si alzò in piedi e ricacciò indietro le lacrime, senza distogliere lo sguardo dagli occhi vuoti del ragazzo, dalle sue labbra umide che si muovevano silenziosamente. L'infermiera gli mormorò qualcosa all'orecchio, poi sollevò lo sguardo. «Farebbe bene a chiamare sua moglie. Sta passeggiando qui intorno con la signora Keeton.» Richard annuì meccanicamente. Ma invece di dirigersi al piano di sotto, sentì l'urgenza di avvicinarsi alla maschera, di prenderla in mano... (È morto. Non riesco a rianimarlo. Dannazione! Fa' salire il dottor Warren.) Era una sensazione strana, misteriosa, ma mentre, prima, tenere in mano la maschera gli aveva fatto venire la pelle d'oca dai brividi, ora vi vedeva soltanto un pezzo di corteccia, imbrattato in modo infantile. Un oggetto del tutto privo di vita, in putrefazione; nessuna visione, nessun significato. Più tardi, quando nella sua mente ripercorse gli avvenimenti di quella mattina, Richard non fu più così certo che Alex fosse stato scaraventato da una parte all'altra della stanza. In preda all'agitazione o al panico era indietreggiato di colpo andando a sbattere contro il muro; si era stordito da sé. Tutto si era svolto così velocemente, con una tale urgenza, che i movimenti del ragazzo avevano acquisito connotati irreali. Nondimeno qualcosa lo aveva sconvolto, qualcosa di talmente impressionante che per poco non aveva fatto sì che volasse all'indietro per lo spavento. Alex dormì. Quando si svegliò rimase inerte per le ore successive, senza la minima reazione alle premure dei genitori. Poi riprese a dormire, a lungo, senza riposo. Alla fine del secondo giorno, la preoccupazione di Richard aveva iniziato a trasformarsi in terrore. Alice, il viso contratto e senza espressione, non smetteva di parlare a suo figlio, ma Alex rispondeva solo con mormorii incomprensibili. Aveva gli occhi sbarrati, quasi vuoti. Lo sguardo si posava sulle cose senza davvero vederle, privo di pensiero. Sembrava impermeabile agli stimoli. Era chiuso in un suo mondo, un nuovo mondo. Le uniche parole usate, in quel periodo, erano «tempio» e «Colui che ghigna». Quando pronunciava «tempio» appariva turbato, confuso forse. Ma «Colui che ghigna» era un suono che pronunciava durante gli incubi; si svegliava gridando queste parole, o questo nome, che usciva stridulo dalle labbra screpolate, bagnate, con l'espressione terrorizzata dalle sue visioni.
Non leggeva più. Non era più interessato alla radio, né alla musica, né agli avvenimenti di Shadoxhurst. I suoi modellini avevano perso ogni attrattiva. Sedeva nella sua stanza, circondato dai tesori della sua immaginazione, a guardare, immobile, il nulla irreale davanti a lui. I Bradley non lo mandarono più a scuola, e quando arrivò l'ispettore scolastico per chiedere spiegazioni, non furono necessari più di cinque minuti perché si convincesse che Alex era gravemente malato. Forse fu questa visita umiliante, imbarazzante, a spezzare il muro di resistenza di Richard e Alice. All'indomani della visita dell'ispettore, fecero in modo di ricoverare Alex nello stesso ospedale in cui James Keeton aveva passato i suoi ultimi giorni. Il ragazzo tornava a casa ogni fine settimana. I tre andavano a fare passeggiate e cercavano di parlare. Alex era tranquillo, affabile, reagiva agli stimoli più semplici, ma senza alcun impiego di intelligenza o immaginazione. Era come se avesse di nuovo due anni. Non mostrava alcuno stupore, alcuna meraviglia, alcun interesse. La notte, soltanto nella notte, gridava. Ma durante le loro passeggiate nei boschi, quando la luce era dolce, Alex sembrava pensieroso e indicava un punto in lontananza. «Tempio...» Forse stava ricordando la recita scolastica, Gawain, il Cavaliere Verde, il tempio silvestre oltre le colline incantate. Richard non poteva saperlo, perché Alex non aveva parole per lui, e molto presto Richard finì per rinunciare. Più tardi, quell'estate, Alex scomparve. Le finestre della sua stanza erano sbarrate, ma la porta era stata lasciata aperta - era sembrato che non ci fossero ragioni per fare altrimenti - e probabilmente era uscito dall'ospedale a un'ora imprecisata della notte. Anche i vestiti erano scomparsi. Ovviamente non trovarono alcun biglietto. Una delle infermiere riferì a Richard che nei due o tre giorni precedenti Alex si era espresso più del solito. Era apparso impaurito, sussultava alla vista di un'ombra o di un movimento inatteso attorno a lui. Per due volte si era chiuso a chiave nel piccolo bagno alla fine del corridoio, per uscirne solo dopo esser stato convinto dalla sua infermiera preferita. A lei aveva detto la sua ultima parola prima di scomparire dall'ospedale, mormorando con malinconia «tempio». Era rimasto a guardare lontano, dalla finestra, oltre gli alberi, in direzione di Shadoxhurst. Forse stava pensando alla sua casa. Ritrovarono il suo corpo un anno dopo, in avanzato stato di decomposi-
zione, per metà sepolto dal fogliame marcio e dai rovi selvatici cresciuti in un tronco d'olmo marcito, al confine di una fattoria del posto. Disseppellito da un animale, forse una volpe, il cadavere era stato trovato dal cane dell'allevatore. Il cranio era stato talmente schiacciato, da due o tre colpi, che un preciso riconoscimento dentale risultò impossibile, ma dalla misura delle ossa, dalla conformazione maschile del bacino, da alcuni frammenti di tessuto rinvenuti nella stessa buca, e dal fatto che fu ritrovato a quella vicinanza da Shadoxhurst, l'esito dell'inchiesta fu che i resti appartenevano ad Alex Bradley, ingiustamente assassinato da persona o persone ignote. L'indagine della polizia andò avanti due mesi, e il caso rimase aperto finché la polizia locale sospese le ricerche. Alex venne tumulato nel cimitero della chiesa di Shadoxhurst nel maggio del 1961. La corona dei suoi genitori fu modellata sulla forma del modellino d'aeroplano preferito da Alex. Sogno di Luna, la maschera di Tallis Keeton, venne seppellita insieme alle sue spoglie. SECONDA PARTE Nella foresta primitiva Il Tempio Verde - II Stava piovendo da ore ed egli era andato a ripararsi in alto, sulla parete orientale, raggomitolato sotto il grande arco di pietra di una finestra senza vetri. Da lì poteva vedere l'interno della cattedrale, dove Agrifoglio si muoveva instancabilmente tra gli alberi carichi di pioggia. Era di nuovo in agitazione. Era facile da constatare dai suoni vibranti che emetteva, e dal modo in cui passava dal nido all'altare, tirando calci alle panche bagnate, farfugliando incomprensibilmente contro le facce intagliate nel legno e guardando il ragazzo da dietro foglie che brillavano per la pioggia. Il bosco della cattedrale era perennemente attivo, e di tanto in tanto, veniva scosso con violenza, quando nuova vita si faceva strada forzando i tronchi, quando il pavimento di marmo si deformava sotto l'effetto delle radici che si contorcevano nella cripta, tra le ossa, e ogni albero si ergeva quanto la statura di un ragazzo, nutrendosi della pioggia e della nuova linfa che scorreva nel terreno. Nell'immensa foresta, Colui che ghigna andava e veniva; il suo volto ap-
parve di sfuggita, per un solo istante, ma abbastanza a lungo perché il ragazzo sull'alta finestra ne scorgesse lo scintillio dello sguardo sul volto sinistro, le profonde occhiaie incavate, la bocca atteggiata in un riso maligno, i bianchi denti appuntiti sottili e letali. Altre creature fluttuavano allo stesso modo sul limitare della foresta. Durante quel lungo periodo di pioggia aveva visto lupi in posizione eretta sulle zampe posteriori, uomini con teste di cani che mostravano le zanne, un maiale di enormi dimensioni, e uomini-uccello di ogni specie. L'apparizione più spaventosa fu quella di una donna con una verde veste stracciata. I capelli erano una sontuosa massa fulva aggrovigliata che incorniciava un volto senza naso, vacuo e inespressivo come quello di un pesce, due occhi freddi, le cui palpebre non sbattevano mai, e una bocca aperta e bagnata. Lo aveva osservato per un'ora, immobile, poi lentamente era tornata a nascondersi. Un minuto più tardi Colui che ghigna le si era avventato addosso, platealmente, orribilmente, e si era preso tutto il tempo per divorarla, mentre i corvi volavano in cerchio al di sopra degli alberi, nella pioggia, eccitati dal fetore della carne. Si presentarono altri esseri umani, e scrutarono verso l'alta parete di pietra della cattedrale. Alcuni erano armati, altri non erano che spettri, nascosti da mantelli e cappucci. Uno di essi portava una mezza armatura, il volto nascosto dal ferro, con le sembianze di una volpe, il pesante mantello rosso attorno al bronzo verde della corazza. Stette a guardare il ragazzo per lungo tempo, poi gli rivolse un cenno con la mano e si ritrasse. Colui che ghigna tentò di catturarlo, ma fallì e batté in ritirata. Si appartò latrando per un po', fino a quando non si calmò, scostò le fronde degli alberi e indirizzò al ragazzo uno sguardo lascivo. Per quale ragione Agrifoglio era così agitata? Lo aveva preso tra le sue braccia e lo aveva fatto viaggiare nel Piccolo Sogno, e quando egli aveva pianto, lo aveva consolato con il suo canto di uccelli e le sue carezze di spine. Anche se spesso lo avvelenava involontariamente con le sue offerte raccolte nella foresta, era sempre delicata nel toccarlo, e non lo graffiava mai a sangue, a meno che non stesse sognando insieme a lui. Una volta passata la tristezza per i sogni su suo padre, lo aveva accolto nel suo nido, e avevano dormito per quasi più di una giornata. Quando poi il cielo si era fatto scuro ed era cominciato a piovere, entrambi erano tornati all'interno del boschetto del Santuario, e mentre lei esaminava la zona vicino all'altare, lui si era arrampicato fino alla finestra sulla parete orientale. Lo stava chiamando. Era un irto cespuglio, che lo invitava ad avvicinar-
si, in mezzo a un folto d'alberi pieni di bacche rosse, accanto alla cappella di Nostra Signora, luccicante per la pioggia che scivolava sulle foglie. Voleva che la raggiungesse, così egli discese cautamente, appigliandosi all'edera, sfiorando, mentre passava il muso di cane di pietra, per ammansirlo, ed entrò nuovamente nel suo abbraccio, lasciando che le sue spine gli perforassero la pelle; attraverso le sue radici scivolò nella cripta, sotto il marmo, nel reticolato esterno, lasciando dietro di sé Colui che ghigna e le altre creature al margine del bosco. Dove andiamo? Nel Grande Sogno! Sempre più in profondità, dentro la terra, dentro paludi e cavità, per tratti di fiume e alte sponde, attraverso faggi, olmi, tigli, salici sulla riva di laghi, e pioppi su dune di gesso; fluiva attraverso la foresta primitiva come il sangue attraverso il liquido organico, si espandeva, si assottigliava, eppure allo stesso tempo avvertiva il contatto con la pietra del Santuario e con il cespuglio di agrifoglio... Emerse in un luogo nebbioso, accanto a un fiume che scorreva tra alberi silenziosi; anche gli Uomini Verdi erano lì, i daurog, come li aveva sentiti nominare. Si trovava in un luogo più antico della pietra, in un'epoca anteriore alla parola e al linguaggio, tuttavia, percepiva nella foresta la presenza di uomini, di uomini che, per quanto dotati soltanto di occhi e di orecchie, erano privi di bocca e di lingua per articolare parole, senza alcun modo di segnalare il pericolo se non come gli uccelli o le creature primitive del bosco a cui davano la caccia. Esaminò questo antico paesaggio scrutando da un volto intagliato su un albero. Gli Uomini Verdi si stavano risvegliando dal loro aspetto invernale, la nuova vegetazione sui loro corpi vibrante e sensibile. Si disponevano nelle zone in luce, si strofinavano contro la corteccia degli alberi, conficcando le dita nella terra, o scrollando l'acqua che scorreva in rivoli dai rami ricurvi che spuntavano dalle loro bocche. Il ragazzo riusciva a distinguere le diverse specie delle creature: Quercia, grande e con una fitta chioma, Betulla, tremante, in perpetuo movimento, sagoma argentata vicino all'acqua. Salice e una quercia più piccola avevano ancora le radici interrate, ma le loro teste erano già voltate verso la luce, e le braccia frangiate di Salice si tendevano verso l'alto come se si stesse stirando dopo essersi svegliato da un lungo sonno. Ed effettivamente, in un certo senso era proprio quello che stava facendo questa famiglia, per quanto, soltanto le parti coscienti della loro mente appartenente alla foresta erano entrate in stato di sonno all'in-
terno dei corpi da predatori nel loro aspetto invernale. C'era un agrifoglio tra loro. Questo sempreverde era uscito dal suo nascondiglio, ora che nella sua famiglia era il tempo della nuova crescita, e li aveva raggiunti correndo, per occuparsi di loro. Si accorse di essere osservata da una della sua specie, e anche Agrifoglio, che teneva il ragazzo tra le braccia, cominciò a tremare incontrollabilmente alla vista della sua simile tanto più giovane. Gli Uomini Verdi si stavano dirigendo alla cattedrale. Avanzavano inesorabilmente attraverso le stagioni e la foresta, avvicinandosi al luogo di pietra, ma così come Agrifoglio, anche il ragazzo non riusciva a capirne il motivo. Tutto ciò che riusciva a cogliere, assorbendolo dal suo flebile flusso di pensiero, fintanto che condividevano il reticolato di radici, era che i daurog venivano per lui - e che sarebbe stato un grave pericolo se fossero arrivati in inverno. Il ragazzo tuttavia si trovava in un sogno a occhi aperti, metà della sua mente sempre con suo padre, l'altra metà con quelle spaventose creature che lo attendevano al di là del Santuario. Si sentiva ogni giorno più vivo, e aveva l'impressione di «vedere più lontano». I ricordi prendevano forma come immagini riflesse su uno specchio d'acqua che da increspata improvvisamente si calmasse. Era molto spaventato dagli Uomini Verdi, ma traeva conforto tra gli arti spinosi della sua accogliente amica. Sentiva anche la sua di paura, l'enorme paura dell'immobile e silenzioso periodo invernale, il periodo buio per gli alberi, sotto la spessa coltre bianca della neve che copriva il terreno. In quel periodo, per tutta la foresta primitiva si propagava un'orribile ondata di morte. Sul finire del giorno la sagoma scheletrica dello sciamano si avvicinò al volto scolpito nell'albero, emergendo dall'oscurità del bosco più fitto. Il suo nome era Spirito dell'Albero, era ridotto in uno stato pietoso. Dal suo corpo pendevano frammenti di corteccia, come lembi induriti di carne nera. Una parte del volto era squarciata, le due zanne distrutte (ma sarebbero ricresciute con la sua prima gemmazione). Quando sollevò gli arti superiori nella sua direzione, il ragazzo vide le dita piegate, alcune mancanti, le unghie spezzate. Attorno alla bocca e sul petto aveva delle incrostazioni color ruggine, gli ultimi residui di sangue dopo l'inverno di caccia. Ma ora, prima di riprendere vigore con gli elementi nutritivi e l'acqua del proprio elemento naturale, si avvicinò all'albero, per studiare il volto intagliato con quegli occhi inquietanti, il riflesso folgorante di una spada racchiuso tra rughe di quercia.
Dopo un attimo, con maggiore audacia, si fece più vicino e grattò con un'unghia sopra il volto di corteccia. Il legno tagliente penetrò nella spessa superficie dell'albero, creando una nuova ferita tra le altre cicatrici. Non ci sono abbastanza stagioni da impedirci di arrivare a te. Ti troveremo presto. Quel pensiero attraversò il reticolato di radici, suonando al principio come una minaccia spaventosa; eppure forse si trattava più di un'esortazione, di un fervido desiderio. Gli Uomini Verdi erano di natura mite, e, perduti in questo viaggio, emanavano la loro disperazione. Qualsiasi cosa volessero dal ragazzo nella cattedrale, non erano in grado di dirlo chiaramente. Ma stavano andando a prenderlo. Le stagioni non li avrebbero fermati. Il ragazzo e Agrifoglio viaggiarono all'indietro, allontanandosi dal volto scolpito nell'albero. La pioggia cadeva ininterrottamente, grondando da cornicioni e facce di pietra, battendo sugli alberi all'interno della cattedrale dove cespuglio e ragazzo stavano avvinghiati. Non lasciarmi andare. Stringimi. Non mi abbandonare - voglio vederlo ancora. Agrifoglio si richiuse su di lui; la pioggia filtrava dalle foglie che le contornavano la testa e cadeva in gocce sugli occhi chiusi del ragazzo. Egli confluì di nuovo nel Piccolo Sogno, attirato dai sentimenti di angoscia e sconfitta di suo padre. L'uomo era solo e impaurito. Stava nascosto in una radura, e lottava con delle ombre; l'uomo-orso se n'era andato, e suo padre si sentiva perduto. L'intensità della sua paura e della sua solitudine si attorcigliava come un viticcio ritorto per tutto il reticolato di radici; il ragazzo seguì il tracciato ed emerse al limitare della radura, con la mente piena della voce interiore del padre, dei vividi ricordi nella sua mente, dei recenti avvenimenti che per la gran parte avevano a che fare con suo figlio... Fuori dall'abisso Il viaggio in auto dal suo appartamento di Londra era stato lungo e noioso. Passata Oxford, il traffico aveva rallentato e dalla radio della sua nuova automobile Richard non era riuscito a sintonizzarsi sul canale del servizio nazionale. In alternativa, si era trovato costretto a riempire l'abitacolo con pezzi di rock'n'roll trasmessi da Light Programme e da Radio Luxembourg. Aveva ascoltato con piacere i Procol Harum (anche se il testo di A whiter shade of pale lo aveva reso pensieroso), i Pink Floyd e le melodie disim-
pegnate dei The Kinks di Waterloo Sunset; a quanto pareva, però, non riusciva a sfuggire da un brano ritmato di banalità dal titolo Puppet on a string e da un brano oltraggioso, spudoratamente commerciale, intitolato I'm a believer. Durante gli ultimi minuti di viaggio fino a Sadoxhurst la loro esecuzione era stata enfatizzata da sue esclamazioni del tipo: «In nome di Dio, questa non si può chiamare musica!». «Vecchio rimbambito» disse a se stesso in tono di rimprovero quando finalmente scese nell'aria frizzante della campagna e guardò in lontananza al di là del recinto spinato la piccola guglia della chiesa di Shadoxhurst. Era indolenzito dal viaggio. Era assetato, affamato, e tormentato. Era tornato per una breve pausa dal lavoro, era tornato a casa, tornato ai brutti sogni. Ciò nonostante, per Richard questo viaggio rappresentava anche un pellegrinaggio annuale, il quinto, che sentiva di dover fare. Il sentiero per Shadoxhurst era infestato dalle prime ortiche. Si fece strada calciando le erbacce, attraversò un campo non coltivato, e scavalcò il cancello chiuso del piccolo recinto della chiesa. Era piovuto la mattina presto, e tutto era fresco e umido. Gli scarponi erano già fradici quando si inginocchiò alla tomba di suo figlio, il cuore diviso in due, tra il dolore e la pace. Qualcuno aveva messo dei fiori freschi nel piccolo vaso di porcellana sulla ghiaia verde. Il nome sulla lapide di granito era imbrattato di escrementi di uccelli e Richard consacrò più di un minuto a togliere via la calce. Le sue dita, sfiorando le lettere del nome profondamente incise, non sentirono che la pietra. Non è qui sotto, non interamente - solo una parte di lui. Che cosa è successo? In nome di Dio, cosa è potuto succedere? La perdita era stata troppo grande, e il ritorno al villaggio un evento troppo carico di emozioni perché potesse resistere: fu sopraffatto dalla commozione; e restò a sedere per un po', senza curarsi del tappeto d'erba umido e molle che lo bagnava attraverso il tessuto dei jeans, e pianse, pianse l'assenza di Alex, e pensò anche ad Alice, da tanto tempo lontana. Il suono della campana della chiesa lo riportò bruscamente alla realtà. Erano le tre e un quarto. La campana batté una seconda volta, poi il silenzio. Un attimo dopo il portone laterale della chiesa si aprì, si richiuse, e venne chiuso a chiave rumorosamente. Richard tornò alla macchina e guidò fino a casa. Parcheggiò sulla strada e passò alcuni minuti a salutare i vicini. Era chiaro che la sua decisione di lasciare il villaggio, e la casa, era fonte di critiche. Ma dopo il ritrovamen-
to del corpo di Alex gli era stato impossibile restare, e per questo si era trasferito a Londra, dove ora lavorava in una banca. Nell'entrare in casa dalla porta di servizio, fu dapprima investito dall'odore di umidità. Durante l'inverno c'era stata una perdita dal soffitto del bagno, e la moquette era ricoperta di muffa. Ragni enormi correvano per tutta la superficie smaltata della vasca da bagno. Camminò pestando con cautela il pavimento, ma nonostante fosse imbevuto d'acqua, il legno era solido. Di sotto, il soffitto dell'ingresso si era incurvato parecchio, ed egli sospirò al pensiero di quella che da tranquilla vacanza si stava trasformando in una settimana di lavori di riparazione. Per il resto, tutto era come lo aveva lasciato. Si preparò il letto con lenzuola pulite e stappò una bottiglia di vino. Le mensole della libreria erano piene dei suoi vecchi libri preferiti. La televisione non c'era. Non ne avrebbe sentito la mancanza. All'ingresso, sul pavimento, c'era un mucchio di lettere sparse. Le raccolse e diede un'occhiata a ciò che si era accumulato in nove mesi di assenza. Tra tutte c'erano due appunti scarabocchiati su carta, piegati e lasciati senza busta; aprendo i fogli fu turbato dalla grafia di uno di essi. Ebbe l'impressione che fosse familiare. Il primo appunto, scritto con uno stile energico e verticale, diceva: Mr Bradley, ho alcune informazioni di immediato interesse per lei. In paese nessuno conosce il suo indirizzo postale, ma mi hanno detto che torna a Shadoxhurst regolarmente. Ho lasciato istruzioni al proprietario del Red Lion. Passerò da quelle parti poco prima di Natale e spero di trovarla allora. Firmato: Alexander Lytton. Il secondo appunto, con una scrittura inclinata ma chiara, diceva semplicemente: È un uomo difficile da scovare. Ma continueremo a provare. Mi creda, Mr B., sarà suo interesse parlare con noi. Non voglio essere più dettagliata in questa sede. Dobbiamo parlare. Se tornerà in questa casa nei prossimi mesi, potrebbe andare al torrente, nel punto in cui si incrocia con il sentiero sterrato, e legare un nastro verde al segnale stradale che troverà? E assicurasi che non sfug-
ga? Uno di noi lo vedrà e si fermerà da lei. Entriamo e usciamo continuamente. Mi perdoni per essere così misteriosa. Firmato: Helen Ciocca d'Argento. All'apertura del Red Lion, alle diciotto e trenta, Richard si sedette al bancone e ordinò una birra. Venne servito da qualcuno che non conosceva, ma Ben Morris arrivò poco più tardi e si avvicinò per salutarlo. «Ogni tanto si fa vivo, eh?» «Ora di tornare a casa, Ben. È tempo di una vacanza.» «Qualcuno la cercava, qualche mese fa.» «Sì, lo so. E hanno parlato con lei. Le hanno lasciato un messaggio, o qualcos'altro...?» «L'estate scorsa. Strana coppia di turisti, strani vestiti. Il tipo era basso, robusto, uno scozzese, molto nervoso. La donna era piuttosto notevole, cioè, lunghi capelli neri. Una di quelle che ti volti a guardarla. Era americana, nessun dubbio. Non una figlia dei fiori però. Neanche una studentessa. Sospetti tutti e due, però. Strani vestiti, strani tipi. La cercavano, ma non hanno detto il motivo.» «Cosa le hanno chiesto di dirmi?» Ben annuì e aggrottò la fronte. «Che se tornava a casa doveva legare un nastrino sul vecchio sentiero, verso il fiume. Nessuno sapeva dov'era, Richard. Non ha lasciato un indirizzo...» «Lo so. Volevo restarmene tranquillo. Hanno detto nient'altro? Si è fatto un'idea di dove lavorino?» Ben scosse la testa. «Lui era una specie di scienziato, lavora sui terreni demaniali. Li ho sentiti parlare della "Stazione". Questo è tutto. Come le ho detto, tipi sospetti.» Era una piacevole serata di maggio, molto quieta, l'aria tiepida, la luce quasi fosforescente. Richard percorse il sentiero sterrato verso il torrente, trovò il segnale stradale, e legò una striscia di stoffa verde, strappata da una vecchia camicia, attorno alla cima. Sulla collina apparvero due persone a cavallo, immaginò che venissero dalla tenuta di Ryhope. La foresta di Ryhope, proprietà dei Manor, risplendeva, una densa muraglia di verde e arancio, proprio dall'altro lato dei campi, oltre i segnali di divieto di transito. Alex era stato molto attratto da Ryhope, così come la sua amica Tallis, ma probabilmente per il solo motivo che passava per essere infestata.
Dopo aver lasciato il suo segnale, tornò a casa e dette il via al processo di rilassamento, con l'aiuto di fisti & chips, vino rosso e un classico, Cold Comfort Farm, uno dei suoi libri di scuola preferiti. Due giorni dopo, al suo ritorno da un giro di acquisti a Gloucester, lei lo aspettava. Aveva trovato il nastro verde ed era arrivata a Shadoxhurst quanto più velocemente le era stato possibile. Trovando la casa aperta era entrata e l'aveva cercato, ma non trovandolo era uscita fuori, e si era seduta sulle radici sporgenti dell'olmo in fondo al giardino. Appena egli oltrepassò il cancello lei si alzò da terra, facendolo spaventare. Indossava uno sbiadito giaccone marrone e larghi pantaloni, strettamente legati attorno a scarponi da lavoro color fango. I lunghi capelli erano neri, salvo che per una ciocca color argento su entrambe le tempie. Aveva la pelle abbronzata e gli occhi di un verde intenso. Per un attimo gli aveva dato l'impressione di far parte dell'albero e della sua struttura essenziale, ma l'illusione si era dissipata non appena si era alzata, e con un respiro profondo aveva teso la mano in modo amichevole. «Mi chiamo Helen Ciocca d'Argento.» Prese tra le dita la ciocca grigia e sorrise. «Mio nonno mi chiamò "Spaventata dalle volpi", ma ho sepolto questo nome un anno fa. Sono stata io a lasciarle il biglietto. Immagino che lei sia Richard Bradley.» «Sì, sono io.» Avvicinandosi di un passo per stringerle la mano percepì il suo odore, un misto di alito stantio e di sottobosco umido e ammuffito. Il suo sguardo era impressionante: scandagliava in brevi occhiate il volto di Richard in un modo penetrante e inquisitorio che lo rendeva leggermente nervoso. Quando le strinse la mano, sentì, sul dorso della sua, la pelle squamata e ruvida, e ne fu così sorpreso che, prevedibilmente, interruppe il cerimoniale prima del tempo. Lei gli sorrise, sfregandosi la parte - quasi completamente nera. Si era bruciata? Poi disse: «È tutto a posto. Non mi fa male». «Sembra grave.» «Indispensabile» rispose lei in modo enigmatico. Poi, come se fosse leggermente imbarazzata, sprofondò le mani dentro le tasche dello strano giaccone. Non era alta, e il suo accento americano non gli lasciava indovinare da quale zona degli Stati Uniti provenisse. Glielo chiese mentre stavano entrando in casa. «Dal Nebraska. Da una cittadina chiamata Watanka Lake. Sono della tribù Sioux Lakota. Non proprio purosangue, ma quasi. Ho vissuto in Bra-
sile per quattro anni, e qui in Inghilterra da più di un anno, tanto che casa sembra lontana secoli...» «Allora, mi permetta di darle il più caloroso benvenuto nella mia casa, nella mia umile e umida casa» disse Richard facendola accomodare all'interno. Lei confessò di essere già entrata una volta. «Mi ero scordata di dove fossi. Dalle mie parti la cosa sarebbe sembrata normale...» Richard non si formalizzò per quella intrusione, ma poi cominciò a ricordare la donna che aveva visto fuggire di corsa otto anni prima, l'intrusa che gli aveva lasciato un messaggio incomprensibile scarabocchiato sopra un pezzo di carta. Allora nella sua mente cominciarono a delinearsi delle associazioni, associazioni che lo tormentavano. Helen si sedette al tavolo della cucina, mordendosi le labbra e palesemente non del tutto a suo agio. Richard le propose del tè, del caffè e del vino rosso. «Niente vino» rispose. «Caffè, se è macinato.» «Mi dispiace, ho soltanto del caffè solubile. Ma è una sostanza liquida. Piuttosto densa e piuttosto forte.» Lei atteggiò una smorfia, mostrando i denti e appena la punta della lingua, ma allo stesso tempo sorrise. «Il tè andrà più che bene» disse. «Condivido.» Mentre versava l'acqua nel bollitore, lei chiese: «Non ha un apparecchio TV? Un giornale?». «Niente TV, mi spiace. E ho buttato via il giornale. Perché?» Lei alzò le spalle, abbassando la cerniera del giaccone. «Le sembrerà assurdo» disse. «Ma che giorno è oggi?» Richard dovette pensarci un attimo. «Oggi... mi pare che sia l'undici. Sì, l'undici maggio. Le è di qualche aiuto?» Con una risata, avvicinandosi alla finestra e guardando nella sera, rispose: «Mi aiuta a orientarmi». Richard si appoggiò al lavandino e osservò la sua bizzarra ospite. Notò un'ombra di sudore sulla sua fronte e, incerto se sentisse caldo e fosse solo nervosa - come il suo atteggiamento lasciava intendere - le suggerì di liberarsi della giacca. Senza rispondere lei si tolse il giaccone e lo lanciò a terra vicino alla porta di servizio, ritornando a sedersi al tavolo. I pantaloni sgualciti e sformati erano legati alla vita da una cintura dalla quale pendevano ogni sorta di attrezzi. La maglietta era un impressionante congegno di rete verde, un body elastico che aderiva alla sua figura sottile come una se-
conda pelle. Notando che l'uomo la stava osservando, soffermandosi sul suo corpo, sorrise in modo comprensivo. «Mi tiene al caldo, mi tiene al fresco. È fatta con un tessuto simile agli indumenti degli astronauti della missione Apollo.» «La stavo fissando» disse lui arrossendo. «Le chiedo scusa.» «Non me la prendo se mi guarda. Nessun problema.» «Dal suo aspetto e dal modo di parlare si direbbe che sia appena scesa dalla navetta spaziale Enterprise» rispose Richard con una risata. «Non è un telefilm eccezionale? Mi manca. Sento la mancanza di un sacco di programmi. Ha mai visto Ai confini della realtà?» «Lo guardava mio figlio. Mi è capitato di vederlo con lui qualche volta. Il programma che mi piaceva di più era Quatermass. Lo vedete in America? Quatermass and the Pit?» Lei scosse la testa. «In ogni caso ne ho sentito parlare. Alcuni tra i ragazzi inglesi alla Stazione ci sono cresciuti. Antichi Marziani, giusto?» «Antichi Marziani» assentì Richard. «La Stazione?» «È dove ho la mia base. La Stazione Varco di Old Stone.» L'acqua giunse a ebollizione e Richard preparò il tè. Il suo cuore aveva preso a battere molto velocemente. Helen lo osservava, ora più rilassata. Il sole della sera, dalla finestra, faceva risplendere i suoi capelli. L'insano odore di muffa dei suoi abiti stagnava nell'aria, ma per un momento il profumo del tè fu più intenso. Aveva la tendenza a fissare troppo la pelle grinzosa della mano destra della donna. Credeva che non potesse usarla ma ella la piegò agilmente, le squame scure si distesero come quelle di una lucertola. Ma più di tutto era attento ai suoi occhi. Gli sembrava così familiare. A dire il vero, la sentiva familiare. Pensò al biglietto. Pensò alla donna che correva. Il pensiero premeva per trovare espressione. «Da quanto tempo ha detto di essere in Inghilterra?» «Quasi da un anno. In Inghilterra.» «Quindi non avrebbe potuto trovarsi a Shadoxhurst nel 1959?» Lei sembrò stupita, aggrottò la fronte, poi rispose rapidamente: «Accidenti. No, non avrei potuto. Perché? Frequentavo ancora il college. Perché?». Turbato per averla spaventata, si voltò con sguardo fisso, poi prese la teiera e l'appoggiò sul tavolo. Gli girava la testa - se ne rese perfettamente conto mentre cercava di ordinare le idee - e si sforzò di visualizzare la scrittura del messaggio che la donna che aveva visto scappare aveva lasciato tutti quegli anni addietro. Nonostante avesse da tempo perduto il pezzo
di carta, era certo che la scrittura fosse simile a quella di Helen. L'altra donna era piccola di statura, aveva i capelli corti e abiti voluminosi. Cosa era scritto in quel biglietto? Faceva fatica a ricordare. Gli sovvenne qualcosa. «Premorfema... le dice niente?» «Premorfema?» Sembrava perplessa. Non era la parola giusta. «Proto gamma morfema?» suggerì con esitazione. «Proto gamma morfema? Ha visto troppo Star Trek. No. Non mi dice niente...» Ma per un secondo la sua espressione si rabbuiò, turbata da un pensiero improvviso prima di scuotere di nuovo la testa e confermare: «No. Niente di niente. Perché?». «Ho l'impressione di averla già conosciuta» disse Richard senza reticenze, e Helen si mise a ridere. «Bella, questa. L'ho sentita appena un centinaio di volte.» «Sento di averla già conosciuta» insistette seriamente, osservando attentamente il suo viso. Era turbata. Teneva lo sguardo fisso sul tavolo, coprendo con la mano sana le squame scure dell'altra. «La prego, no» disse con calma. «La prego no, cosa? Non ci sto mica provando. Sento di conoscerla da prima. Mi è molto familiare.» «Non lo faccia» ripeté lei. «Pensi solo a versare il tè. Non ne parli. Non ancora. Non sono pronta.» «Eppure sono certo che fosse lei...» Lei esplose con rabbia. «La smetta, Mr Bradley! Adesso! Non sa quello che sta facendo. Non ne parli mai più!» La sua furia appesantì stranamente l'aria della stanza. Le si erano spalancati gli occhi e l'insieme dell'espressione del viso aveva tolto a Richard il respiro. Non si era soltanto arrabbiata: era terrorizzata, e aveva nascosto la paura con un atteggiamento aggressivo così devastante che per un momento egli si ritrovò incapace di parlare. Infine fu lei a ricominciare e le sue furono parole di scusa. Poi aggiunse: «Sono qui per dirle una cosa». «Allora mi dica» rispose Richard freddamente. «È chiaro che è da un po' che mi sta dietro. Dica quello che deve dire.» «Non sia in collera con me. La prego! Non volevo sconvolgerla, Mr Bradley. Non posso ancora spiegarle, ma stava camminando su un terreno molto delicato per me.»
Il suo candore lo ammorbidì e si rammaricò per l'aspro tono che avevano assunto le sue parole. «La prego, si senta libera di chiamarmi Richard.» «Richard,» fece eco lei «le porto una notizia che sarà fonte di immensa gioia, ma anche di enormi difficoltà. Più grandi di quanto non avessi realizzato, visto che evidentemente è implicato molto più in profondità di quanto immagini. Anche io sono stata in profondità per un anno...» «Non sto capendo niente, Helen. Qual è questa grande notizia?» «Abbiamo trovato suo figlio» disse tutto d'un fiato, piegandosi verso di lui, cercando di infondergli fiducia. A Richard si fermò il cuore. Sbatté la tazza sul piattino, il volto diventò paonazzo, le parole di lei di nuovo facevano montare la sua rabbia. «Alex? Alex è morto molto tempo fa. Che cosa vuole dire? Dove vuole arrivare?» «Per favore!» esclamò Helen con urgenza. «Mi ascolti. Alex non è morto. Lo abbiamo localizzato. Sta comunicando con noi dalla fine dell'estate scorsa. È ancora vivo, Richard.» Confuso, con la volontà di arrabbiarsi, ma cosciente allo stesso tempo che la sicurezza con cui parlava la donna, la sua certezza, non facevano che riportare in superficie le sue, di incertezze, sull'identificazione dei resti pietosi rinvenuti al tempo nel bosco. Inspirò profondamente e chiuse gli occhi. Santo Dio, pensò, ecco che comincio di nuovo a coltivare speranza. Ma poi la collera lo sommerse. Alex era morto. Qualsiasi cosa stesse dicendo questa donna, chiunque avessero trovato, non si trattava di suo figlio. «Chi è, noi? Dice, l'abbiamo trovato...» «Siamo ricercatori. Ci arriverò tra poco.» «Com'è? Alex? Com'è fatto?» A questa domanda Helen parve confusa, scosse la testa, arrabbiata con se stessa. «Non sto facendo un gran bel lavoro qui. Avrebbe dovuto essere Lytton a parlare con lei. Richard, non è semplice come forse lo sto facendo apparire. Mi dispiace. È difficile capire come affrontarlo...» «Affrontare cosa?» «Ci siamo messi in contatto con suo figlio. Ma non l'abbiamo esattamente trovato. Non ancora, almeno.» «Vi ha telefonato?» «No. Niente di simile. L'abbiamo sentito. Avremo bisogno del suo aiuto per riportarlo a casa...» Le lacrime bruciavano gli occhi di Richard Bradley. Si alzò in piedi, guardando verso il giardino dal vetro appannato della finestra, le mani in
tasca. Erano passati sei anni da quando il corpo di Alex era stato ritrovato. Sei lunghi anni, sei anni vuoti. Ricordava ancora il cattivo odore del bosco, mentre arrancava con la polizia in mezzo al felceto bagnato fradicio. Il cielo era nuvoloso, cadeva una pioggia monotona, deprimente. Sotto gli alberi l'umidità era asfissiante. I loro passi, che nel cammino schiacciavano il sottobosco, erano l'unico suono al mondo. Un solenne gruppo di uomini stava in piedi attorno alla zona recintata in cui erano state spazzate le erbacce e scoperto il torso deformato, il cranio vuoto rivolto in alto, il volto non più riconoscibile di un mucchio di foglie autunnali frantumate. «Ho perso la speranza» disse dalla finestra. «Non posso crederle. Mio figlio se ne è andato. Non tornerà mai più. È troppo doloroso darmi ancora questa speranza. Non sarebbe dovuta venire.» Non ci fu alcuna risposta da parte della donna, tranne che il delicato tintinnio della tazza appoggiata sul piattino. Egli continuò: «Le ossa erano molto compromesse. Per la maggior parte decomposte. Erano più corte di quattro o cinque centimetri. Oppure no? Chi poteva dire quali mutazioni aveva subito uno scheletro così deteriorato? I test legali furono condotti in fretta. Tutti erano certi che fosse Alex. Era più semplice seppellirlo e finire di tormentarsi. Se avevo dubbi sulla sua morte, essi hanno smesso di torturarmi. Così, suppongo di averla accettata». «Ha accettato che non tornerà mai più, non che sia morto. Ho parlato con il barista del Red Lion. Mi ha detto dei suoi dubbi. Mi perdoni, ecco perché sono stata tanto schietta. Ho pensato che la notizia le avrebbe fatto piacere.» «Quale notizia? Non mi ha portato nessuna notizia. Non può darmi alcuna prova che Alex sia vivo. Non fa che disorientarmi.» Aveva voltato le spalle alla finestra e ora guardava con rabbia la donna quietamente seduta al tavolo. Lei si piegò in avanti. «Ha detto che le ossa erano decomposte, esattamente come vennero descritte nell'inchiesta?» «Come legnose.» «Non erano ossa» disse Helen perentoriamente, lo sguardo vibrante per la sicurezza. «Non era Alex. Noi abbiamo una parola per chiamare ciò che era. Era un mitago. Una simulazione. E il ragazzo che abbiamo localizzato è Alex. Mi creda.» Si oscurò in viso. «L'unico problema è che... non sappiamo dove si trovi esattamente.»
D'un tratto sospettoso, Richard tornò al tavolo e si chinò su di esso. «Il ragazzo? Quanti anni ha il ragazzo che ha parlato con voi?» «Intorno ai tredici anni.» Richard scoppiò a ridere amaramente, e si allontanò dal tavolo. «Ma a che gioco sta giocando?» Eppure non riuscì a guardarla mentre la contestava. «Se Alex è vivo, deve avere diciannove, venti anni adesso. È un uomo.» Perché stava piangendo? Per delusione? Rabbia? Non voleva arrabbiarsi con Helen Ciocca d'Argento. Non voleva che se ne andasse. Forse per un momento si era affacciata la speranza, ma poi le sue parole l'avevano di nuovo sommersa. «È rimasto un ragazzo, Richard» riprese lei. Forse era ritardato... forse dava l'impressione di essere ancora un ragazzo, anche se ora magari aveva la barba, la voce più profonda... No! Helen continuò: «Abbiamo imparato molte cose da lui, incluso dove viveva, questa casa, e lo abbiamo percepito molto intensamente. È un ragazzo, e non è completo. La sua mente non è completa. Ma possiede forza, e sta attirando il suo mondo verso di sé. Può volerci molto tempo, ed è pericoloso. Si trova in grave pericolo. Il dottor Lytton non sa se poi saremo in grado di aiutarlo, ma non possiamo fare alcunché finché non lo abbiamo tra le mani. Ecco perché abbiamo bisogno di lei. Vogliamo aiutare lei, e anche Alex. Però deve venire coinvolto, e questo implica uno strano viaggio.» Dopo qualche momento, Richard si mise a sedere, cercò di prendere la tazza, ma la stoviglia batté così violentemente sul piattino che rinunciò all'azione, per quanto semplice. «Ha colpito dove fa male» disse con un debole sorriso. «E credo che abbia anche qualcos'altro da dirmi. Lo sento. C'è qualcosa di grave che non va. Dov'è che pensate si trovi Alex?» «Si è costruito un luogo di difesa in una cattedrale in rovina. La cattedrale si trova nel cuore della foresta di Ryhope.» «Ryhope? Ne dubito. Fa parte della tenuta. Una zona di foresta ostile e pericolosa. E allo stesso tempo è troppo piccola perché possano aver costruito una cattedrale al suo interno.» Helen Ciocca d'Argento rise di cuore, e scosse la testa guardando l'uomo. «Sarebbe sorpreso da cosa vi si trova. Ma non sono la persona adatta per mostrarglielo. C'è più di una chiesa in rovina, Richard. E anche Alex è lì dentro. Possiamo riportarlo indietro, con il suo aiuto. Ma è un lungo percorso. Forse tre mesi...» disse con tono incerto, osservandolo.
«Tre mesi?» «Forse tre mesi per arrivare a lui. Difficile da prevedere. Potrebbe esserci una scorciatoia.» «Tre mesi? Dentro Ryhope?» Richard stava ridendo per l'assurdità di ciò che aveva sentito. Helen fece finta di nulla, concludendo, «E non sappiamo cosa ci sia in mezzo, tra il confine della foresta e la zona protetta che ha costruito. C'è un'anomalia, un'anormalità, qualcosa che possiamo attraversare, ma a cui non riusciamo ad accedere». «Perduto» disse Richard sentitamente. «Completamente perduto.» «Chi?» «Io.» Helen si alzò in piedi e andò a riprendere il giaccone accanto alla porta di servizio, indossandolo sulle spalle e allacciando la zip per metà. «È tardi. Devo tornare, e lei hai bisogno di riposo.» Sembrava indecisa e delusa. Richard giocherellava con la tazza, sollevando e abbassando lo sguardo sulla donna, desiderando ardentemente che restasse, malgrado il dolore che provava. Non poteva aver ragione. Scosse la testa. Alex avrebbe avuto vent'anni! Avevano trovato il ragazzo sbagliato. Non poteva avere ragione. «Bisogna che vada» disse lei. «Se cambiasse idea, lasci un altro segnale. E prepari degli scarponi resistenti per camminare, impermeabili, un buon libro, tutti i medicinali che possono servirle, qualcosa da mangiare, un buon brandy, due cambi, e uno zaino, uno grande. Tenga tutto pronto.» «Ho un lavoro a Londra. Devo tornarci tra due settimane.» «Non le servirà tutto quel tempo.» «Ha parlato di tre mesi. Tre mesi per trovarlo. Non capisco.» «Lo so. Lo so che non capisce. Mi spiace. Ma è difficile anche per me al momento. Verrà alla Stazione? Non è lontana. Sei o sette ore a piedi. Domani?» Egli scosse la testa. «Non lo so. C'è un ragazzo all'altro capo di una specie di rete di comunicazione e ha tredici anni. E il mio ragazzo ne ha venti. E a meno che la sua voce non sia mutata, non può trattarsi dello stesso ragazzo. È possibile che sia più grande di quanto vi sia sembrato?» «Può darsi» rispose stringendosi nelle spalle. «Ma ne dubito. Crediamo si trovi in un flusso di tempo rallentato.» «Un'altra cosa che non capisco.» «Mi dispiace.» Si voltò per andare, aprì la porta sull'imminente crepuscolo.
«Helen?» Gettando un'occhiata indietro, esitò e sorrise. Richard si alzò e andò verso di lei. «Grazie» disse. «Sono certo che le sue intenzioni siano del tutto sincere.» «Tornerò» disse in tono di sfida, sorridendo. «Non ne dubiti!» Mentre camminava giù per il sentiero lui la richiamò. «La prossima volta che comunicate con lui, chiedetegli con quale bastone ho ballato attorno al fuoco. Era una cosa che sapevamo soltanto noi due.» «Questa è una buona idea» rispose lei prendendosi gioco di lui. La chiamò di nuovo. «Sono sincero. Non sono certo di credere che abbiate trovato ciò che dite di aver trovato. Ma saprò che è lui quando sentirò la sua voce. Lo riconoscerò. Fate in modo che succeda se potete.» Helen aveva completamente richiuso il suo giaccone e stava correndo per il sentiero sterrato, in direzione del Torrente del Cacciatore. Richard riconobbe l'andatura, e la sua confusione raddoppiò. Helen Ciocca d'Argento era già stata lì, nonostante ciò che aveva detto. Oak Lodge All'alba, una sinistra bruma grigia incombeva sulla campagna, una marea calma e soffocante in cui le sagome più scure erano quelle dei grandi alberi sul bordo dei campi o nel bosco. Richard era in piedi nella sua stanza, completamente vestito, le mani in tasca, lo sguardo fisso sul paesaggio così avvolto, pensando malinconicamente alla donna, a ciò che gli aveva riferito, al suo entusiasmo, alla sua singolarità. Dei corvi volarono in cerchio vicino alla casa, e scomparvero tra le fronde dei rami con un grande sbattere d'ali. Uno di loro si staccò dal gruppo e scese in picchiata sul giardino, planando lentamente sopra il cancello e risalendo verso la finestra della camera da letto con un solo colpo d'ali. Richard sentiva il raspare degli uccellini nel camino in disuso e si aspettava che il grande uccello proseguisse la traiettoria curva, verso il tetto; invece la creatura continuò diritto e andò sorprendentemente a sbattere contro la finestra. Tutta la finestra tremò con violenza. Lo schianto del becco sul vetro fu assordante. Quando Richard aprì i battenti per controllare non vide alcuna traccia dell'uccello, ma il suo scontro surreale e drammatico lo aveva turbato ugualmente; scese al piano di sotto. Alle nove chiamò Alice a Londra. Era appena arrivata al lavoro ed era stanca e di cattivo umore. Quando le disse, nel modo più semplice possibi-
le, ciò che Helen Ciocca d'Argento gli aveva lasciato intendere, diventò praticamente isterica, ma quando sentì che il ragazzo aveva ancora tredici anni scoppiò in una risata sprezzante, e cominciò ad arrabbiarsi. Volle sapere il reale motivo della telefonata. «Unicamente per questo motivo» rispose. «Ho pensato di doverti tenere informata.» «Tu hai qualcosa in mente. Di cosa si tratta, Richard? Perché non mi dici la verità?» «Ti ho chiamata per dirti quello che ho detto» rispose in tono affaticato. «Arrivederci, Alice.» Ripose la cornetta, si chiese se lei avrebbe richiamato; il telefono restò muto e lui tornò al piano superiore a preparare il suo equipaggiamento impermeabile. A mezzogiorno la grigia penombra aveva lasciato il posto a un cielo luminoso e gonfio di nuvole, e un energico vento riportava in vita la campagna. Con gli scarponi ai piedi, Richard si incamminò con passo pesante per il sentiero sterrato in direzione del Torrente del Cacciatore. Non aveva portato lo zaino. Aveva l'intenzione di dare solo un'occhiata un po' più da vicino alla zona di bosco in cui, a sentire Helen, si trovava la Stazione dove operava la sua equipe. Il corso d'acqua era in piena e vide sulla sponda la traccia di un daino, probabilmente del parco dei Manor. Un'alta parete circondava la tenuta quasi per tutta l'ampiezza, ma un segnale di libero accesso comprendeva diversi campi, e qui il confine era segnato da steccati e da un piccolo cancello. La foresta di Ryhope si innalzava come una compatta e massiccia parete di alberi sulla sua destra mentre attraversò il campo in direzione dell'antico sentiero. Lo percorse fin dentro il bosco e rimase leggermente sorpreso nel constatare che si interrompeva bruscamente, cancellato da fitti cespugli e da una boscaglia di sambuco. Un segnale di VIETATO L'ACCESSO era stato recentemente fissato al filo spinato. Continuò a camminare intorno al bosco, consapevole di trovarsi all'interno di una proprietà privata. La villa padronale era nascosta dagli alberi, a ottocento metri di distanza; l'unico segno di vita fu il passaggio, al galoppo, di cinque cavallerizzi che stavano tenendo in esercizio i cavalli delle scuderie. Attraversarono l'aperta campagna, passando con un rumore di zoccoli non lontano da Richard, senza notarlo, poi girarono e tornarono indietro, scomparendo in direzione del ponte in cui, in tempi molto lontani, era stata eretta una fortificazione.
Era questo il luogo in cui Alex andava a giocare con i suoi amici, con Tallis e gli altri? Tallis era sempre stata così silenziosa; una ragazzina enigmatica, che viveva in un mondo immaginario popolato di racconti e di fantasie. Alex aveva sempre preferito fare giochi più movimentati quando era all'aria aperta, ed esplorare il bosco era uno di questi. Ma non aveva mai raccontato di Ryhope nei particolari, ne parlava vagamente come del luogo in cui «Tallis parla con le statue». Che cosa voleva dire? Dopo anni dalla morte del ragazzo, Richard cominciò a sentirne di nuovo la mancanza; aveva perso l'occasione di conoscere meglio suo figlio, di condividere il suo mondo interiore. Ad Alex erano sempre piaciuti i fumetti, ed era successo che avessero letto insieme in tranquillità, o guardato la televisione, ma troppo di rado avevano parlato o scambiato delle idee. Alice era sempre stata troppo occupata a fare questo e quello, a organizzare gite, picnic, viaggi a Londra, a comprare libri di scuola e vestiti. Aveva conosciuto i punti di forza di Alex e le sue mancanze e lo aveva orientato nelle aree d'intelletto e di interesse in cui avrebbe potuto fare bene nella scuola, come gli esercizi di scrittura e la biologia. Malgrado ciò, ignorava completamente l'aspetto interiore del ragazzo, l'avventuriero nascosto. Sì sentì dispiaciuto per se stesso, a testa bassa, a rievocare gli anni passati. Si lasciò andare al pianto, e il vento, che si stava alzando e soffiava a raffiche, rendeva le sue riflessioni ancora più malinconiche. Tuttavia, aveva sepolto Alex da troppo tempo. Il dolore se ne era andato molti anni fa. Le lacrime e la tristezza non restarono a lungo, e davanti agli occhi rivide Helen Ciocca d'Argento, misteriosa e attraente. Una intensa curiosità cominciò ad allontanare il dolore. Il perimetro della foresta, irto di spine e invaso dalla vegetazione, era troppo compatto, troppo buio. Sembrava non fosse mai stato intaccato dal passaggio né di uomini né di animali. Un raggio di sole colpì il cartello dall'altro lato della strada e l'interesse di Richard salì al culmine. Passò con cautela tra il filo spinato ed entrò nell'oscurità del sottobosco, urtando rami ed edera mentre con attenzione procedeva d'istinto sull'aspro terreno che, sotto i suoi passi, rivelava ciò che restava del sentiero. L'apparizione improvvisa del muro di una casa proprio di fronte a lui lo fece trasalire. Toccò i mattoni e si fece strada nel soffocante viluppo di rampicanti e tralci spinosi, seguendo il muro fino a raggiungere il retro della casa. La luce del sole ombreggiava su di lui, e nel viavai dei raggi tra gli alberi, vide la sagoma slanciata di un totem di legno annerito e per la maggior parte
marcito. Era pesantemente appoggiato contro la casa. Se mai vi erano state figure intagliate, erano state da molto cancellate dalla pioggia e dal tempo, tuttavia gli sembrò di discernere vagamente una bocca spalancata e il contorno di un grande occhio vuoto. Abbassandosi, passò a fatica sotto la statua, continuando a seguire il muro di mattoni con le mani, per sbucare improvvisamente in uno spazio aperto, coperto d'erba e pieno di fiori e ortiche, che si allargava da quelle che una volta erano state finestre alla francese. Notò, inoltre, che qualcuno era passato di lì di recente. Entrò nella casa. Nella stanza la vegetazione era stata tagliata e l'odore di linfa recente era ancora forte. Attraverso le ortiche e l'edera che li ricoprivano scorse i resti della mobilia. Un albero, una solida quercia, si ergeva al centro della stanza, e Richard, incuriosito, si chiese, vista la sua apparente vecchiaia, se i proprietari non avessero forse costruito la casa attorno alla quercia. Venne scosso da alcuni uccelli che si agitarono al di sopra della sua testa, nel punto in cui il soffitto era crollato e vi si intrecciavano dei rami. Tornò fuori. Uno stretto sentiero battuto conduceva dalla radura a quello che una volta era stato il giardino. Anche qui era stato ripulito uno spazio più ampio, delimitato da una fitta siepe di giovani arbusti, ma sufficientemente luminoso. Qui resisteva ancora in piedi una capanna fatiscente, e a una quarantina di metri vide i resti di un recinto e di un cancello, là dove la vegetazione cresceva di nuovo compatta e buia. L'area del giardino si estendeva a partire dall'arco coperto dai rampicanti a cui era ormai ridotta la porta posteriore, attraverso cui passò. Al di là trovò la cucina, un pesante tavolo da lavoro di marmo, e i resti di un fuoco e cibo per terra. Si accorse, inoltre, di un lampo di luce che proveniva da quello che gli sembrò un intreccio di cavi, e decise di esaminarlo più da vicino. In tutto contò cinque cavi, ognuno dei quali dello spessore di un fusibile. Erano stati disposti in modo che corressero da vari punti e da altrettante direzioni, e seguissero, all'esterno, il perimetro del giardino scoperto. Non avevano alcuna carica elettrica. Erano sospesi appena più in alto della sua testa, e non sembravano progettati per intrappolare alcunché. Nel punto in cui si connettevano alla casa erano collegati a piccoli morsetti, e attorno a ogni morsetto era stata impressa, sui mattoni, una spirale dorata. Soffiò un'improvvisa raffica di vento e il bosco ondeggiò e tremò, poi subito ritrovò la sua quiete. Nel silenzio, tornato bruscamente come era
stato interrotto, Richard sentì un ronzio elettrico proveniente dal centro della casa, e seguì il brusio fino alla sua origine. In una scatola, in mezzo a quello che poteva essere stato un salotto - si vedevano ancora tracce di carta da parati e un'ammuffita poltrona intrisa d'acqua e seminascosta dall'edera - trovò una piccola macchina, una specie di radio in miniatura. Aveva due quadranti, in uno dei quali oscillava un ago. Da essa partivano quattro cavi d'oro e di rame per andare a connettersi ad altrettante prese al suolo poste tutt'intorno, mentre un quinto cavo proseguiva verticalmente fino alle lamiere del soffitto messe a nudo dalla caduta dell'intonaco. L'apparecchio emetteva un odore di ozono molto flebile. Appena se ne allontanò, l'ago nel quadrante attivo registrò un importante cambiamento, per poi ritornare alla posizione di partenza. Si avvicinò di nuovo: l'ago oscillò rimanendo però essenzialmente immobile, per poi reagire con uno slancio improvviso fino alla massima apertura, nonostante Richard non avesse fatto alcun movimento né alcun respiro. Quindi non era alla sua presenza che stava reagendo. Nel medesimo istante, all'esterno, degli uccelli scapparono attraverso il fogliame e dalla casa si udì uno schianto, seguito da un suono che avrebbe potuto essere un grido, o forse una risata. In allarme, e improvvisamente colto da claustrofobia, Richard si aprì una via, scalciando, attraverso i cespugli aggrovigliati, emerse dalla penombra opprimente della foresta di Ryhope, e riguadagnò i campi. Aveva mal di testa e la sua vista era distorta. Si strofinò gli occhi ma continuava a lacrimare e la visione periferica era sfocata. Aveva l'impressione che stesse per arrivargli un'emicrania, cosa che accadeva regolarmente quando era sottoposto a intensa pressione. Stranamente, in quella circostanza si sentiva completamente rilassato, appena un po' sconcertato. Si distese sul suolo umido a guardare sopra di lui il turbinio di nuvole grigie e minacciose. Poco a poco la sua vista ritornò normale. Le lacrime, gelate dalla brezza, gli pungevano gli occhi. Il rumore di galoppo ritornò. Sentì l'incalzante calpestio degli zoccoli, le grida di soddisfazione e di incoraggiamento dei cinque cavalieri che allungavano al massimo le falcate, fino a raggiungere il fianco della collina, a un centinaio di metri da dove lui era disteso. Al loro passaggio, Richard stava ancora guardando il cielo, ma si accorse che uno dei cavalieri aveva frenato il cavallo e ora si stava dirigendo verso di lui. Si sollevò a sedere e guardò il ragazzo dal volto cupo che al
piccolo trotto gli girò attorno, fissandolo con l'indolenza e l'arroganza tipica dei nuovi proprietari della casa padronale. Si trattava del più grande dei figli, un uomo di una trentina d'anni. Con il suo parka verde e il capo rigido, avrebbe potuto benissimo essere arrivato direttamente da Windsor. «Questa è una proprietà privata. Che diavolo sta facendo qui?» «Passeggio» rispose Richard. «O meglio, stavo passeggiando. Per il momento mi riposo. Buongiorno.» Aveva cercato di assumere un tono distaccato, ma il cavaliere spronò il cavallo in avanti e si portò pericolosamente vicino. Il cavallo guardò Richard con i suoi grandi occhi annoiati. Dal manto essudava vapore. Era un magnifico esemplare, alto almeno centosettanta centimetri, di un nero lucido, la criniera perfettamente acconciata. Osservava l'uomo ai suoi piedi come se provasse pena per lui. «Il divieto di accesso si trova a ottocento metri da qui. Vi ritorni immediatamente.» «La strada che entra nel bosco... immagino che una volta il divieto di accesso valesse anche lì. Dove conduceva esattamente? C'è una casa in rovina nella foresta...» L'uomo a cavallo si fece più vicino e si piegò, agitando minacciosamente il frustino in faccia a Richard. Non appena fece per alzarsi da terra, il ragazzo puntò il corto staffile in direzione del sentiero sterrato. «Di là! Il divieto di accesso è da quella parte! Se dovessi scoprirla di nuovo nei paraggi, dovrò farla arrestare.» Detto questo si voltò di mezzo giro e ripartì al galoppo verso la casa padronale. Esasperato e in collera, Richard tornò lentamente a casa, colpì con un calcio il tavolo della cucina e si versò un bicchiere colmo di vino rosso. Soltanto un'ora più tardi si accorse del messaggio affisso sulla lavagna in cucina: Una mazza da cricket? È con una mazza da cricket che ha danzato attorno al fuoco? Quella sera scrisse una breve lettera ai suoi genitori, e un altro messaggio, pressoché identico, per il luogo di lavoro. Se per qualche tempo non avrete mie notizie, vi prego di non spaventarvi. Mi sto unendo a un gruppo di persone per una spedizione verso un luogo alquanto remoto, mi hanno detto, e mi è dif-
ficile dire se sarò di ritorno per l'autunno. Non posso darvi alcun dettaglio a riguardo, eccetto che si tratta di qualcosa che devo assolutamente fare, e di cui mi sono reso conto solo ora: vi dirò tutto al mio ritorno. Un'ultima cosa: se dovesse contattarvi qualcuno da un posto chiamato Varco di Old Stone, prendete molto seriamente ciò che vi dirà, anche se vi sembreranno concetti un po' insoliti. Portò la lettera con sé al Red Lion per imbucarla, ne approfittò per una birra, poi tornò a casa e dormì profondamente per qualche ora, risultato dello stato di tensione e turbamento della notte precedente, e che lo aveva tenuto sveglio. Ciò nonostante si svegliò alle tre della mattina. Si vestì velocemente, preparò lo zaino sistemandovi brandy, mele, panini, una bussola, un romanzo di avventura e degli abiti di ricambio; un'ora più tardi avanzava nella stessa nebbia opprimente che avvolgeva la campagna il mattino precedente. Questa volta, camminava con un intento, e alle prime luci, quando raggiunse il segnale stradale vicino al Torrente del Cacciatore, distese un telo incerato per terra, e si sedette stringendo le ginocchia al petto per tenersi al caldo. Si sentiva stranamente rilassato. Il freddo sulle guance gli riportò alla mente l'epoca della scuola, del tempo in cui andava in campeggio sulle pianure o a Wye Valley. Era certo, senza sapere come, che qualcuno sarebbe arrivato a cercarlo. La foresta primitiva Lo scossero gentilmente. Aprì gli occhi umidi e intravide una figura enorme e scura chinata sopra di lui, tanto che per un attimo credette di essere attaccato da un animale selvatico. Terrorizzato, lanciò un urlo e si allontanò rotolando su se stesso, cercando con gli occhi una pietra o un pezzo di legno con cui potersi difendere. Ma poi, non sentendosi immediatamente minacciato, si voltò per osservare il nuovo arrivato. L'uomo indossava una pesante pelle d'orso dalla pelliccia marrone scuro e nera imbrattata di fango. Aveva i capelli lunghi, di un nero lucente, così come la barba. Legata con lo spago, una piuma rossa e verde pendeva da un singolo riccio della tempia destra. Sotto folte sopracciglia, brillavano intensi occhi scuri pieni di spirito. I suoi stivali, di pelle color grigio opaco, sudici, erano decorati sul bordo con piccole corone di zanne animali ingial-
lite che tintinnavano a ogni suo movimento. Stava seduto sui talloni, e dalla bocca emanava un forte odore di formaggio e cipolla selvatica. Guardava Richard, sorridente. «Mi avete cercato, signore?» ruggì questa immensa creatura, con un riso soffocato in gola, simile a quello di un fumatore, pensò Richard mentre si asciugava il sudore del viso. L'uomo aveva un accento francese. Porse una mano dalle dita piuttosto sottili e fredde, non la zampa bruna che ci si sarebbe potuti aspettare, e Richard la strinse. «Lei è proprio Richard Bradley?» «Ciò che ne resta. Con lo spavento che mi ha fatto prendere mi ha tolto qualche anno di vita.» «Io sono Arnauld Lacan, e sono del tutto inoffensivo. Buongiorno! È da un po' che controllo le zone al limite del bosco e ho visto la sua chiamata sul segnale stradale. Bravo ragazzo! Helen sarà contenta del suo arrivo.» Con un'occhiata all'orologio Richard si accorse di aver dormito per tre ore: erano le sette del mattino. «Helen dov'è?» «Oltre Hergest Ridge, a caccia di un Briccone. È molto lontano dalla Stazione. È partita ieri, e potrebbe averne per parecchi giorni. Noi pensiamo comunque che tutto andrà per il meglio.» Richard raccolse il suo zaino, accorgendosi sia del potente odore di sudore animale che proveniva dal gigante buono davanti a lui, che, allo stesso tempo, del senso delle sue parole. «Perché non dovrebbe andare tutto per il meglio?» «È troppo in profondità per star sicuri» rispose Lacan aggrottando la fronte preoccupato. «Andare là ci rende sempre nervosi. Ma lei è già stata oltre Hergest Ridge, ed è sempre tornata sana e salva. Sa a cosa deve stare attenta. Si è pietrificato?» Richard gli porse la mano e l'altro lo aiutò a sollevarsi in piedi. Da quella posizione si rese conto di quanto fosse alto il francese. Almeno un metro e novantacinque. Senza che gli venisse richiesto, Lacan con un brusco movimento fece voltare Richard e si mise a massaggiargli vigorosamente le spalle; le sue dita forti stiravano e stimolavano tutte le giunture della muscolatura delle spalle e della schiena. «Va meglio?» «Ça va mieux» mormorò Richard appena si affievolì l'impressione che gli avesse schiacciato le ossa. Lacan scoppiò in una fragorosa risata. «Qualcuno che parla la mia stessa lingua!» disse. «Credo che lei mi piacerà!»
Si mise a rovistare dentro il suo zaino, un ammasso informe di pelli cucite insieme, e finalmente ne tirò fuori un pezzo di carne con l'osso lunga e scura, che a Richard fece venire in mente la zampa carbonizzata di un tacchino. «Che ne dice di una piccola colazione prima di metterci in cammino?» «Che cos'è?» chiese Richard che sentiva rivoltarsi lo stomaco. «Orso. Molto energetico, molto secco, molto buono.» Richard contemplò i brandelli di carne e di tendini che gli venivano agitati sotto il naso. «Posso chiedere di quale parte dell'orso?» Con un grugnito, Lacan annusò il suo regalo. «Questa sì che è una buona domanda. Difficile da dire, dopo tutto questo tempo. Ma cosa importa?» «Credo che mi atterrò alle mele e al formaggio» si precipitò a rispondere Richard. Lacan scrollò le spalle. Sorrise in modo ambiguo. Ripose il trancio essiccato d'orso nello zaino poi puntò con il dito lo zaino di Richard. «Ispezione d'ordine. Le dispiace? È quello che voi inglesi chiamereste una "formalità".» Dopo soltanto un attimo di esitazione, Richard passò il suo zaino a Lacan, il quale slacciò le fibbie e vi infilò le mani. «Aha!» esclamò, tirando fuori la bottiglia di brandy. Ma il suo sorriso svanì non appena lesse, incredulo, l'etichetta. Senza guardare Richard bofonchiò: «E questo suppongo sia quello che voi inglesi chiamereste "medicinale"». «È il meglio che sono riuscito a trovare. Mi dispiace.» «Sì, anche a me» fece Lacan con un sospiro desolato. Rimise la bottiglia al suo posto e restituì lo zaino. Poi, in tono più serio disse: «Bene, andiamo. Dobbiamo farla entrare nella foresta. Imparare ad andare in profondità richiede un lento processo. Lytton non vede l'ora di poter parlare con lei, una volta che si sarà acclimatato. Ci vorranno probabilmente alcuni giorni, e lei deve essere pronto. Per prima cosa, devo controllare parte della strumentazione a Oak Lodge. Ma non si preoccupi, prima che sia notte sarà comodamente sistemato». «Non sono preoccupato. Sono incuriosito, piuttosto. Chi è riuscito a sapere della storia della mazza da cricket?» «La mazza da cricket? Cos'è, una specie di ridicolo animale inglese? Che nome assurdo!» «Helen crede che mio figlio, Alex, sia ancora vivo.» «Tutti noi pensiamo che Alex sia ancora vivo! Uno dei nostri ha parlato con lui. Ma non sono stato io. Ora andiamo. Conservi i suoi dubbi per do-
po.» Richard caricò lo zaino sulle spalle e seguì il titano lungo lo sterrato. Lacan camminava veloce, i capelli e lo zaino rimbalzavano a ogni passo. Si fermava frequentemente per annusare l'aria, e usava le mani come le antenne di un insetto, agitando le esili dita come per avvertire il minimo cambiamento della brezza. Attraversarono la proprietà privata dei Manor di Ryhope e lasciarono il sentiero tracciato per raggiungere la foresta di Ryhope dai campi non coltivati. Come Richard aveva cominciato a sospettare, dopo aver scavalcato il filo spinato, Lacan lo condusse alle rovine della casa nel bosco prendendo uno stretto sentiero che prima non aveva notato, e che sbucava direttamente sul piccolo giardino. Nel salotto, Lacan aprì il retro del piccolo strumento che somigliava a una radio e ne tirò fuori un rullo di carta in cui era impresso un grafico segnato con l'inchiostro. Lo srotolò di una decina di centimetri per decifrarne la registrazione. «Si direbbe uno di quei tracciati che si fanno in ospedale» notò Richard. «Un ECG, vero?» «Molto simile» rispose Lacan distrattamente. Sembrava confuso. «Si è generato qualcosa. Qualcuno è stato qui. C'è stata dell'attività.» Dopo un attimo Richard rispose: «Io sono stato qui ieri mattina. Sono venuto in esplorazione. Ho notato che uno degli aghi si era messo a oscillare. Ma non sembrava che reagisse ai miei movimenti...». Lacan si grattò la barba con aria perplessa, guardò Richard, rifletté, dopo di che scosse il capo e riavvolse il rotolo di carta. «È venuto qui? Allora forse era lei. Ha già prodotto un effetto. Davvero straordinario!» «Che cos'è questo posto?» Lacan infilò in tasca la registrazione e guardò attorno le rovine della stanza. «Questo posto? Qui è dove tutto è cominciato. Dove è cominciato in questo secolo, almeno. Qui viveva un uomo di nome Huxley, con la sua famiglia, sua moglie e due ragazzi. Non erano i proprietari della casa, l'avevano in affitto. Il padre di Huxley era stato intimo amico dell'allora Lord Ryhope. Ma qualcosa che era rimasto assopito per quattrocento anni si risvegliò quando George Huxley cominciò i suoi studi qui, non in questa stanza, in un'altra zona dell'edificio. Noi stiamo cercando di scoprire che cosa fosse quel qualcosa. La casa si chiamava Oak Lodge. La foresta, qui intorno, è molto antica, davvero molto antica. Questo attrezzo improvvisato» proseguì mentre disponeva un secondo rotolo dal retro della macchina «questo piccolo oggetto è la mia versione personale del "registratore di
flusso" di Huxley. È un monitor. Molto semplice in realtà. Intercetta la vita, la nuova vita, la vita degli eroi, eroi fantasma, che noi chiamiamo mitago.» Questa strana parola suonò familiare all'orecchio di Richard. Ma certo: l'aveva usata Helen, appena uno o due giorni prima. Ripeté la parola ad alta voce, in tono interrogativo. «Ci sono alcune cose che dovrebbe sapere» continuò Lacan conducendolo di nuovo all'esterno «e dovrà cominciare a comprendere presto, se vorrà aiutarci a portar via Alex dalla foresta, e ci vorrà comunque un po' di tempo. Si sieda. Può darsi che un goccio di brandy le possa essere d'aiuto...» George Huxley e la sua famiglia avevano occupato Oak Lodge per venticinque anni, fino al 1946, l'anno della sua morte. Lasciò due figli, Steven e Christian, ma entrambi scomparvero dalla regione nel 1948, e da allora non se ne sono avute più notizie. La moglie di Huxley, Jennifer, era morta in circostanze tragiche alcuni anni prima. Di formazione scientifica, Huxley aveva iniziato nel campo della psicologia (allievo di Carl Gustav Jung, con il quale aveva studiato per qualche anno), ma più avanti aveva allargato i suoi orizzonti di indagine alla datazione di resti archeologici e alla variabilità del tempo. Era un uomo affascinato, persino ossessionato dal mito, e dalle presenze spirituali della foresta. Questo scienziato onnisciente aveva avuto per molti anni, come collega e collaboratore, Edward Wynne-Jones. I due uomini, in particolare durante gli anni Trenta, avevano esplorato la foresta e studiato la sua strana natura, oltre quella dei suoi impressionanti abitanti. Avevano raccolto informazioni sul suo regno interno nella misura in cui era possibile con i mezzi di cui disponevano all'epoca, e lasciato una mappa approssimativa, un diario frammentario e molte domande insolute. Da un breve passaggio sibillino nel diario di lavoro di Huxley, attualmente in possesso del Varco di Old Stone, risultava chiaramente che aveva tenuto un altro diario, segreto, in cui aveva annotato certi aspetti della sua ricerca, osservazioni e scoperte che non voleva far conoscere al mondo, o che forse lo mettevano a disagio. Non sono ancora state trovate tracce di questo secondo diario. La foresta di Ryhope era una foresta primitiva, rimasta intatta, essenzialmente intoccata per quasi ottomila anni. Huxley credeva che questa minuscola porzione di foresta primordiale fosse sopravvissuta difendendo se stessa dagli avvenimenti distruttivi, come gli incendi e gli abbattimenti
del periodo neolitico, della popolazione umana che si installava nella zona circostante. Nel corso dei millenni, la concentrazione di tempo e di spirito aveva trasformato questo bosco in qualcosa di più che semplici alberi e felceti, arbusti e rovi. Si era trasformata in un'entità, priva di coscienza, priva di capacità di osservazione, ma in qualche modo senziente, e con uno stupefacente grado di atemporalità. Non comunicava tramite i canali abituali delle piante e della vita animale, ovvero la traspirazione, i ferormoni, l'equilibrio ecologico mantenuto dai suoi predatori, dalle prede e dai mangiatori di carogne, ma attraverso gli occhi, le orecchie e le bocche dei mitago, ed erano proprio queste forme energetiche, solide e materiali, che, per quanto destinate a vita breve, davano tempo, prospettiva e fascino alla foresta primitiva. La parola mitago, che Lacan pronunciò con un accento sulla a, era stata coniata da Huxley, e derivava dalle parole mito e imago, ovvero immagine di un mito. Dall'istante in cui apparve la coscienza umana, credeva Huxley, il bisogno di eroi, di gesta eroiche, e la credenza negli attributi mitologici della natura, avevano rappresentato la forza propulsiva fonte dello sviluppo psicologico dell'uomo. Gli archetipi comuni a tutta l'umanità del globo erano sorti spontaneamente nell'inconscio collettivo, e ogni cultura aveva dato loro vita con le caratteristiche umane o animali adatte al loro ambiente e alle loro condizioni sociali. Queste figure mitiche, spesso ispirate a personaggi storici, e ancora più spesso a esseri fittizi, ma indispensabili, erano divenute parte integrante della mente umana, esistenti proprio oltre il misterioso confine tra la piena coscienza delle cose e quello stato mentale che rileva il processo subconscio al lavoro - sogni, rituali, visioni - e che può essere chiamato intuizione e immediata comprensione delle cose. Nell'ascoltare il discorso di Lacan, Richard non trovò difficoltà nell'accettare l'esistenza della foresta primordiale, o la continuità di una memoria arcaica. Ma rimase un po' più scettico all'ulteriore spiegazione di Lacan sul fatto che la combinazione dei due stati primitivi, alimentati dalla doppia tensione tra emisfero destro e sinistro della mente umana, e l'aura che esiste all'interno delle strutture organiche intatte, di cui Ryope Wood era un esempio, potesse produrre le forme solide di questi mitago. Si materializzavano a partire dal nulla, divenivano reali, coscienti, possedevano una lingua, uno scopo, vivevano brevi esistenze in condizioni innaturali prima di morire risucchiati nei vortici della foresta. I mitago erano tutti formati in virtù dello stato d'animo e dei bisogni del loro creatore. Un Ercole troppo gentile avrebbe avuto vita breve. Una versione dalla violenza ossessiva a-
vrebbe dimenticato il codice d'onore dei greci di Micene, trasformandosi in una macchina per uccidere. Era un processo creativo complesso che esigeva prudenza, ma dal quale era possibile imparare molto sull'esistenza di un regno «silvestre» di un dato periodo, così come permetteva di trovare risposta a numerose domande sulla natura della mente umana nel passato. Ai suoi occhi, la foresta sembrava agitata. Richard divenne cosciente dei movimenti occasionali che interrompevano la sua silenziosa contemplazione. Lacan era rientrato nella casa. Richard lo trovò nella stanza dietro le vecchie finestre francesi, occupato a verificare la disposizione dei cavi elettrici, e a ripulire gli obiettivi nascosti degli apparecchi fotografici disposti lungo le pareti. «Questo era lo studio di Huxley» disse Lacan. Batté una mano sul tronco scuro dell'albero che spuntava dal suolo, poi allungò una mano tra i tralci d'edera per prendere un vecchio libro, sul quale non si poteva nemmeno distinguere il titolo. Lo lanciò da una parte e riprese: «È una stanza che viene visitata spesso, ma da uno spirito che non riusciamo mai a fotografare. Come può immaginare, questa casa è un punto focale di attività. Le emanazioni della famiglia che ha vissuto qui persistono ancora in tutta la foresta, e ritornano per toccare il posto prima di morire. Riusciamo a intravederle, occasionalmente». Gli occhi di Lacan brillavano mentre si guardava intorno, in equilibrio precario su una trave sconnessa del pavimento. «In questa stanza, Richard, se lei sapesse tutta la magia che ha preso vita da qui! È stata l'ossessione di Lytton in tutti questi anni. Quanto a me...» Trattenne le parole, e sulla difensiva, lanciò uno sguardo a Richard. «Be', quanto a me non ha importanza. Abbiamo tutti i nostri sogni.» Accompagnò di nuovo Richard all'esterno. «Abbiamo fatto degli scavi, come vede. Abbiamo scoperchiato questo luogo come un sito archeologico.» Ora che gli era stato spiegato, Richard vedeva come gli spazi ripuliti attorno alla casa formassero un disegno. Lacan e il suo gruppo avevano aperto delle «trincee» attraverso il bosco. Il francese gli indicò uno stretto sentiero. «Per di là, c'è un ruscello. Huxley ne parla nel suo diario. Era la sua via d'accesso a Ryhope. Ai suoi tempi il ruscello correva al limitare del bosco, ed era separato dalla casa da un campo. Dal suo studio, vedeva i grandi alberi di quella zona e ha osservato numerose creature e entità mitiche di ogni genere. Poi a un certo punto, nel corso degli ultimi vent'anni tutto il bosco cominciò a espandersi. A una velocità sorprendente! Ha assorbito
ogni cosa nelle immediate vicinanze, compresa Oak Lodge. Come se avesse bisogno di racchiudere Huxley al suo interno, di divorarlo.» «Ai proprietari della tenuta questo non è sembrato strano?» Lacan grugnì gettandosi sulle spalle il sacco di pelle. «Ecco una buona domanda. Un'ottima domanda. I Ryhope sanno più di quanto non fingano di sapere, ma non dicono nulla, non fanno trapelare nulla. È una cosa molto singolare.» Discese sull'ampio sentiero che si allontanava da Oak Lodge ed entrò nel bosco propriamente detto. Richard lo seguì mantenendo una certa distanza. Appena Lacan fu risucchiato dalle ombre, disse ad alta voce: «Forza! Andiamo al mio accampamento. Non è lontano, nei pressi di un antico santuario di pietra. Lei ha bisogno di riposarsi, di acclimatarsi». «Sto bene» rispose Richard. «Non sono affatto stanco.» «Ha bisogno di riposare. E di adattarsi. Soprattutto i suoi occhi...» «I miei occhi?» chiese Richard. Si avvicinò a grandi falcate verso il compagno, nel buio, improvvisamente nervoso. «Adattarmi a cosa?» Per un attimo vi fu silenzio e Richard si fermò, guardando una sorgente di luce che indicava una radura tra gli alberi. Lacan io osservava da là, un'alta sagoma in controluce. Ritornò verso Richard, scostando il fogliame. I suoi occhi scuri brillavano intensamente, il respiro regolare, e sorrise. «A vedere ciò che non hanno mai visto prima. A una luce che illumina dall'interno.» Aggiungendo soltanto: «Sia paziente. Scriva quello che le accade. È catartico!». Poi riprese ad attraversare la radura. L'accampamento di Lacan consisteva in una minuscola zona aperta all'interno di un boschetto di faggi, al centro del quale si ergeva un monolite grigio, su cui era profondamente scolpito il profilo di un cavallo. La pietra era ancora ornata da pezze di pellame, legate attorno a frammenti di ossa ingiallite e consumate dal tempo. Era questo, dunque, il Santuario del Cavallo. La luce era di un verde molto intenso. Il rifugio di Lacan, a forma di A, era costruito con delle aste che si appoggiavano ai rami bassi di un grande albero, creando una perfetta trave portante. Le aste erano legate insieme con stralci di rampicante, gli interstizi riempiti con del muschio e alla fine ricoperte con delle strisce nere di tessuto impermeabile. All'interno, questa ristretta capanna conteneva due sacchi a pelo, pelli, ossa, fragili utensili in legno, cibo in scatola, bottiglie di vino vuote, un gran confusione di piccoli pezzi meccanici e un piccolo fornello da campo.
«Non è granché, vero? Ma è estremamente confortevole, quando l'unica cosa da fare è dormire. E questo, amico mio, è il posto in cui dormirà. La lascerò solo per un po'. Ma non si preoccupi. Ora sappiamo che è qui. La terremo d'occhio.» Lacan sparì per qualche istante e tornò con un grasso e immobile piccione di bosco. L'espressione era trionfante. «Qui intorno è pieno di trappole» disse. «Gliele mostrerò prima di partire. Questa meraviglia mi stava quasi aspettando. Che ne dice, Richard?» Sollevò il piccione all'altezza del torace, liberando le ali che presero ad agitarsi. «Dovremmo rendere omaggio a questa meraviglia lasciandola libera? Oppure dovremmo mangiarcela?» disse osservando Richard con trepidazione. «La scelta è sua. Lei è ospite nella mia casa, per quello che è.» Richard guardò l'uccello, tornato calmo nelle grandi mani del francese. «La lasci andare. Ho cibo secco in abbondanza. Posso restare senza dover uccidere niente.» Il francese scosse il capo, tirò un sospiro di finto dispiacere, poi scoppiò a ridere e si voltò. «Lei è il genere di ospite che solitamente non sopporto... quello che dà le risposte sbagliate!» poi con un brusco movimento di torsione della mano destra: «Ma per questa volta la perdono!». Con un gran sorriso, gettò la testa sanguinante del piccione nella boscaglia e cominciò a spennarlo. «Ora lei accenderà un fuoco. È molto meglio il sapore del legno affumicato piuttosto che quello del butano. Lo sa come si accende un fuoco, vero, amico mio? Si prendono due legnetti e li si strofina insieme...» «Lo so come si accende un fuoco» rispose Richard indeciso se sorridere o sentirsi offeso per la scenetta del francese. Dopo aver mangiato, Lacan condusse Richard nel fitto del bosco per mostrargli i punti in cui aveva sistemato le trappole, re in tutto, progettate per prendere conigli e uccelli di piccole dimensioni. «Nella foresta di Ryhope diventiamo tutti un po' uomini preistorici» disse. «Di certo non...» «E la carne fresca è talmente migliore delle nostre provviste. Se le capita di vedere degli apparecchi installati, non li tocchi, sono molto delicati.» «Me ne guarderò bene.» «Dovrà restare qui per due giorni. Due giorni interi. Per acclimatarsi. La lascerò all'alba di domani e sarò di ritorno dopodomani al tramonto.» Tornati alla radura, Lacan prese il telo impermeabile di Richard per im-
provvisare un secondo rifugio, abbastanza lungo da coprire il suo corpo, tranne i piedi. Il confort di quell'altro a forma di A era riservato a Richard che scivolò sotto il tetto di muschio. Sentì l'umidità che saliva dal terreno, sentì il freddo, si sentì solo ed esposto alla notte. Il fuoco ardeva vigorosamente e Lacan lo alimentava pigramente con la legna che lanciava con il piede sinistro prendendola da un piccolo mucchio, mentre intanto continuava a rilassarsi sotto il tetto impermeabile. «Potrebbe fare sogni poco ordinari. Di solito è così che comincia.» «Molte grazie.» Rimase sveglio per un'ora, dopodiché cominciò ad assopirsi, sempre in posizione accovacciata. Un po' più tardi dei movimenti nella foresta risvegliarono la sua inquietudine e così scivolò fuori dal riparo e si mise in piedi, accanto ai tizzoni ancora ardenti, a guardare, nell'oscurità nera come la pece, il barlume delle stelle che si riuscivano a scorgere tra il fogliame e le nuvole. Qualunque cosa vi fosse nella foresta, avanzava con molta cautela. Chiamò Lacan sottovoce e il francese si svegliò brontolando qualcosa nella sua lingua. «Vada a dormire.» «C'è qualcosa tra gli alberi.» «Certo che c'è qualcosa. Vada a dormire.» «Abbiamo compagnia.» «Allora si metta giù, oppure rischia che la aiuti io, con una frecciata.» Richard si accovacciò, per niente rassicurato da quelle parole, ma si mise immediatamente in allarme non appena percepì il movimento improvviso di una figura ai limiti della radura. I suoi occhi, che si stavano sensibilmente adattando all'oscurità, riuscivano a distinguere la sagoma completa dell'osservatore. Degli occhi brillarono fugacemente, poi l'essere si nascose silenziosamente e furtivamente si allontanò dalla radura. Richard raccolse altra legna e la sistemò sul fuoco morente. Le fiamme ripresero ad ardere con crepitio e fumo, e Lacan si lamentò, scalciando senza forza come per attutire il rumore e la luce con della polvere che i suoi stivali non riuscivano a trovare. «Vada a dormire!» Dopo tutto questo, Richard non sognò affatto. Quando si svegliò, all'alba, trovò Lacan che preparava il caffè e tagliava a fette spesse un tozzo di pane raffermo. «Ma non si preoccupi» disse Lacan come se volesse scusarsi. «Ho qualcosa di molto speciale come companatico...» Si trattava di un pezzo di formaggio brie più che stagionato. «Di certi
confort non si può assolutamente fare a meno. Purtroppo però le mie provviste cominciano a scarseggiare. Per fortuna alcuni formaggi inglesi riescono a essere piuttosto buoni.» Così fecero colazione, e Lacan gli diede dell'acqua per lavarsi e della carta igienica. Poi in tono quasi malinconico disse: «È troppo tempo che sono qui. Mi sta dando alla testa. Andrò nella zona boschiva. Dovrò andarmene per un po', a far conoscenza con la vostra eccitante vita notturna inglese.» «Non di certo a Shadoxhurst...» Il francese ripeté le istruzioni di rimanere entro i confini della radura. «Sarà molto noioso. Cerchi di prenderla come una prova per testare la sua forza d'animo.» «Ho portato un libro. Me lo ha consigliato Helen.» «Bene. Glielo ripeto, è pericoloso mettersi a gironzolare fuori della radura. Si perderebbe.» «Perdermi nella foresta di Ryhope? Difficile...» «Sì! Proprio nella foresta di Ryhope! Osservi le nostre regole, Richard, altrimenti dovrò riportarla a casa. Non sto scherzando.» «Non ho intenzione di scherzare. Resterò qui. E noi ci rivedremo... domani sera?» «Porterò del vino» aggiunse Lacan battendo amichevolmente sulla spalla di Richard. «Ne avevo già portato un po', per brindare nel caso avesse preso la giusta decisione, ma qualcuno deve averlo bevuto mentre dormivo.» Detto questo, caricò sulle spalle lo zaino, raccolse le sue cose, e si inoltrò nel fitto della foresta di Ryhope brontolando un «arrivederci». Il rumore dei suoi movimenti nella foresta rimasero udibili per alcuni minuti, poi cessarono di colpo. Spettri Rimasto solo nel Santuario del Cavallo, seduto al centro di una zona in luce vicino all'enorme monolite scolpito in forma equina, Richard cominciò a rendersi conto di quale errore fosse il trovarsi lì. Eccetto il suono della brezza e degli uccelli, non sentiva nient'altro. Attorno a lui regnava un'oscurità claustrofobica, attraversata da sottili raggi di sole che permettevano di distinguere delle cose, soltanto la forma e il colore, lasciandole prive di prospettiva e di definizione. Si sentiva in trappola. Arrivato al tardo pomeriggio era stato colto dal panico e inciampando si era incamminato sul sen-
tiero che, ne era certo, lui e Lacan avevano percorso il giorno prima. Camminò per oltre un'ora. Non era possibile! Aveva l'impressione che gli alberi gli si stringessero attorno, l'atmosfera era diventata opprimente e carica di odore di resina. Perse il sentiero tracciato e si impigliò tra rovi di spine acuminate. Stava soffocando, aveva la nausea, cresceva via via l'impressione di venire intrappolato, cresceva il terrore. Gridò, poi urlò forte, e tutta la foresta fu scossa da un improvviso volo di uccelli prima di ripiombare in un silenzio totale. Gridò il nome di Lacan, poi si mise a correre a zig zag, sbandando a ogni passo, sforzandosi di procedere in linea retta, cercando disperatamente di trovare le rovine di Oak Lodge, oltre che la via d'uscita da quella prigione di foresta. Invece sbucò a tutta velocità in mezzo alla radura del Santuario del Cavallo, credendo che fosse il giardino della casa. Quando vide il monolite scolpito, il rifugio e i resti fumanti del fuoco, si fermò bruscamente, costernato. Con la coda dell'occhio vide qualcuno, o qualcosa, muoversi rapidamente nel sottobosco. Sorpreso, impaurito, si voltò di colpo, ma la foresta era completamente immobile. Non si udiva alcun suono. Allora accadde di nuovo: un brusio di attività sulla sua destra, che svanì non appena vi rivolse lo sguardo. «Chi c'è?» gridò nervosamente. Non c'era altro che silenzio e chiazze di luce. Questo fu l'inizio del suo sogno a occhi aperti. Ravvivò il fuoco e si scaldò un tegame di stufato preso dalle provviste di Lacan. Per la prima volta si rammaricò che Lacan avesse tracannato tutta la riserva di vino. In mancanza di quello, si preparò del tè. Cominciò a sentirsi febbricitante, la sua vista divenne sfuocata, la testa iniziò a ronzare. Chiudendo gli occhi le cose andavano meglio, ma non appena guardava in una qualunque direzione, il suo occhio mentale veniva invaso da un turbinio di attività e correnti colorate. Non c'era niente di terrificante o spaventoso, ma era comunque un'esperienza estremamente allarmante. Anche se non aveva mai fatto uso di LSD, si era fatto un'idea sull'effetto degli allucinogeni, e immaginò che ciò che stava sperimentando dovesse essere molto simile. Aveva forse inavvertitamente ingerito un fungo magico? Gli tornò alla mente il piccione di bosco che aveva mangiato l'ultima sera. Per caso Lacan, con il suo imprevedibile stile culinario francese, lo aveva farcito con funghi allucinogeni da lui raccolti? Colto da nausea solo a pensar-
ci, Richard dovette ricordarsi che le droghe allucinogene hanno effetto immediato, e non a distanza di ventiquattro ore. Non riusciva a mettere a fuoco le immagini. Era come se, da una sottile lente distorta, posta nella coda dell'occhio, vedesse svolgersi l'attività di persone e creature. Più si concentrava, più si rendeva conto che quelle erano davvero figure umane che si agitavano confusamente, come in mezzo alla foschia dovuta alla calura. In certi momenti si facevano più vicine e davano l'impressione di scrutarlo attraverso il vetro. In altri si muovevano troppo velocemente. In un attimo gli attraversarono la coscienza: un uomo barbuto che teneva per le redini due cavalli enormi, là un giovane in pantaloni corti sul tono del blu che cantava a squarciagola; poi una donna avvolta in un cappotto, di cui incrociò brevemente lo sguardo, curioso, e pieno di sensualità, colto nell'istante di esitazione prima che si affrettasse a svanire. Nella radura stava crescendo una nuova vibrazione, una specie di tensione in ogni foglia, un mormorio proveniente da ogni ramo. Sapeva di essere osservato, e sentì un brivido dietro la nuca mentre cresceva il livello di adrenalina. Era in ansia, e pronto a reagire istintivamente a una minaccia invisibile. Strisciò sotto il riparo e si accovacciò, rivolto verso la radura, la bocca asciutta nell'attesa di ciò che stava per succedere. Non appena chiuse gli occhi la visione si calmò, l'agitazione delle figure e la sensazione del movimento continuo si affievolì. Divenne intrusivo, al loro posto, il canto degli uccelli, e ascoltandolo si rese conto che nelle grida e negli strilli che provenivano dall'alto c'era qualcosa di falso, che lo schernivano, che si prendevano gioco di lui. Il fragore e le grida improvvise che arrivarono dalla profondità del bosco lo fecero sussultare e lo spaventarono molto. Nella penombra del crepuscolo, tirò via una delle solide assi che costituivano un fianco del suo rifugio e con un coltello ne ricavò la punta. Caricò di legna il fuoco. Delle scintille salirono verso il cielo, ed ebbe l'impressione che illuminassero le creature primitive che lo guardavano sospese nell'aria, appena fuori dalla sua visuale. Cominciò a udire suoni incomprensibili, distinse le voci, mormorii in diverse lingue, risate e urla straniere, ma le parole erano incoerenti, si riducevano a un brusio il cui flusso aumentava e diminuiva, come il vocio indistinto in una spiaggia straniera. Cosa stava succedendo? Lacan gli aveva parlato di approfondimento della vista. Ma cosa aveva detto esattamente? Di imparare a vedere la luce... Che cosa erano questi sogni vividi, queste visioni mentali? In che cosa
l'aveva lanciato Lacan? A cosa lo stava preparando? Al tramonto, un lupo lo osservava con occhi torvi da oltre il confine della radura. Richard restò a guardarlo immobile, nonostante sentisse crescere il panico. Impugnò saldamente la sua lancia improvvisata e pregò che il fuoco tenesse lontano la bestia. Dopo venti minuti di osservazione silenziosa, il lupo si sollevò sulle zampe posteriori, una imponente figura grigia. Adoperò le zampe anteriori per spezzare un piccolo ramo esaminandolo attentamente, soppesandolo e passando la zampa sulla parte appuntita. Con grande stupore di Richard, avanzò lungo il bordo della radura, in posizione verticale e leggermente piegato in avanti, mormorando e ringhiando prima di sparire improvvisamente dalla visuale. Sembrò che avesse pronunciato il nome di Richard. Non ebbe difficoltà a rimanere sveglio e all'erta per il resto della notte, anche se il mattino seguente era gelato dal freddo e gli dolevano le spalle. Comprese di entrare e uscire da uno stato di continuo dormiveglia durante il quale era perseguitato da un assurdo, inquietante sogno, in cui Alex scappava per un sentiero nella foresta seguito da una pianta di agrifoglio. Il ragazzo, nel sogno, era comparso proprio al limitare della radura, e lo aveva guardato pieno di eccitazione, prima che la pianta di agrifoglio lo assorbisse e lo trascinasse nel sottobosco. In questo stato semicosciente aveva pianto, e ora aveva le guance fredde per le lacrime. Alle prime luci del giorno sentì una tristezza e una disperazione che non provava più da molti anni. Una solitudine annichilente lo soffocava. Pensò ad Alice, ai loro primi anni insieme, e cominciò a rimpiangere di aver lasciato che la loro relazione si rovinasse fino a quel punto. Pensò al suo piccolo appartamento nella zona nord di Londra, alle pile di quotidiani e riviste mai messe in ordine, alla televisione perennemente accesa, al telefono che squillava così di rado. E ancora, si rese conto del silenzio che regnava nelle due grandi stanze, mai utilizzate per invitare i suoi conoscenti. Che cosa gli era accaduto? Comprese di essere scappato, e non era la prima volta. Si era isolato. Aveva smesso di seguire una direzione, di prendere iniziative. Come un orso durante il lungo periodo invernale, anche lui negli ultimi sei anni era caduto in letargo, nutrendosi delle sue risorse, che andavano via via diminuendo, di grasso psicologico e di vecchi ricordi. Con un improvviso grido di rabbia si scrollò di dosso quello stato di autocommiserazione e di autoaccusa, uscì dal riparo e si mise a colpire il fuoco con un pezzo di legno. La cenere grigia salì in vortici nella nuova
luce del mattino. Un brusco movimento, nell'occhio della mente, lo fece sobbalzare. Si voltò, ma ovviamente, non c'era nulla. Eppure, nella figura umana che si era diretta verso di lui prima di guizzare via aveva percepito qualcosa di misteriosamente familiare. Qualcosa nel modo di muoversi... Non riusciva a richiamare indietro l'immagine, e la distorsione era stata troppo forte per poter mettere chiaramente a fuoco la persona, eppure, sentiva di essere stato ancora osservato da Alex. «Comincio ad averne abbastanza» mormorò. La foresta era agitata, Richard aveva i nervi al limite. Con determinazione, cominciò a tornare sui suoi passi, con lo zaino in spalla, e impugnando saldamente l'arma rudimentale. Questa volta non si sarebbe ritrovato in quello stesso posto, non si sarebbe lasciato disorientare. Ne aveva avuto abbastanza. Se Lacan, o Helen avessero avuto qualcos'altro da dirgli, avrebbero dovuto raggiungerlo a Shadoxhurst. «Quando è troppo è troppo!» dichiarò prima di piegarsi nel passare sotto i rami bassi, facendo attenzione a non uscire dallo stretto sentiero battuto. Oak Lodge si trovava proprio davanti a lui. Ne vedeva la radura, inondata di luce intensa. Sbucò al Santuario del Cavallo, e di fronte alla pietra grigia urlò la sua frustrazione. «Come? Perché? Dov'è che ho deviato?» Dalla tenda balzò fuori una figura, presa dal panico, e il movimento spaventò Richard a morte. Era un ragazzo, con la pelle coperta di tatuaggi di punti e spirali blu, il viso completamente nero tranne il profilo della bocca, il cui labbro inferiore era sottolineato da una riga rossa. Indossava un corto gonnellino scozzese, in pelle, scarpe di cuoio, e sul suo torace ricoperto di disegni si incrociavano delle strisce di tessuto verde. Dalla tempia destra scendeva una lunga coda di capelli neri, nella quale brillavano frammenti di bronzo. Afferrò un involto e un lungo coltello prima di girare due volte sul posto emettendo forti grida di minaccia e poi sparire nella boscaglia. Qualcuno gli soffiò nell'orecchio. Richard si voltò preso dal panico brandendo la lancia affilata. Davanti a lui c'era Lacan, sorridente, con una coppia di lepri rosse appese a una spalla, e una treccia d'aglio selvatico sull'altra. «Abbiamo fatto una passeggiatina?» «Mi porti a casa» disse Richard scosso dalle palpitazioni. Lacan lo ignorò e gli mostrò le lepri. «Guardi qui. Non sono magnifiche? Osservi la decisa eleganza dei loro tratti gentili, la forma raffinata,
perfetta, delle zampe anteriori, la splendida sfumatura della pelliccia. Lepri di montagna, amico mio, del miglior ceppo. Il che, va da sé, fa di loro lepri francesi. Ne farò un piatto degno di Vercingetorige in persona!» «Lacan, mi faccia uscire da qui! Per l'amor di Dio, mi riporti a casa.» «E perché? Solo perché un principe tatuato uscito dal suo Wessex di cinquemila anni fa l'ha chiamata con il nome del fantasma pukk katha 'nja» disse ridendo. «Condannandola, detto per inciso, a vomitare demoni sotto forma di rocce ogniqualvolta desidererà parlare? Perfetto, per i postumi di una sbornia! Gli restituisca le maledizioni, amico mio, non abbia paura. Fa bene all'anima.» «Non ho la minima idea di ciò che sta dicendo. So soltanto di essere spaventato. E soffro di claustrofobia. Lacan... voglio andare via da questo posto! Sto avendo delle allucinazioni. Non riesco a dormire. Ho bisogno di un bicchiere.» «Un bicchiere! Questo sì che è parlare. Anch'io ho bisogno di un bicchiere. Niente paura, so dove trovarne uno.» Furioso, Richard strattonò il francese. «Lacan. Mi porti a casa! Non capisco niente di quello che mi sta succedendo!» Lacan aggrottò le sopracciglia, ma gli diede una rassicurante pacca sulla spalla. «È che è accaduto tutto molto in fretta. Più in fretta del solito. Questo forse perché nella foresta c'è Alex. Lytton ha detto che sarebbe dovuto restare qui due giorni, per acclimatarsi, invece io credo che sia meglio portarla subito più in profondità. Se teniamo un passo svelto, se non incontriamo niente di più sinistro di quel primitivo giovane fantasma cantante, potremmo arrivare al Varco di Old Stone in quattro o cinque ore.» «Voglio tornare a casa» ripeté Richard, che a malapena trovava il fiato per parlare, sentendo che la disperazione gli stava facendo salire le lacrime agli occhi. Lacan lo scosse gentilmente, poi gli strinse con le dita il lobo dell'orecchio sinistro. «Lo so che cosa vuole, amico mio. Ma questa sera, con la pancia piena, del buon vino, e circondato da una piacevole compagnia, vedrà le cose da una diversa prospettiva. E se così non dovesse essere, allora la riporterò a casa personalmente. È una promessa. Ma per il momento abbia fiducia in me, Richard. Non c'è niente di cui aver paura. Davvero. Presto si sarà abituato a ciò che succede. Vuole concedermi la sua fiducia?» Ormai senza forze, Richard annuì, ripetendo automaticamente: «Le concedo la mia fiducia». Lacan scoppiò in una delle sue risate esageratamente rumorose dirigen-
dosi verso la tenda, seguito da Richard. «È proprio un pazzo, allora! Ma comunque, non posso farci niente, lei mi piace. Dobbiamo inoltrarci nella zona boschiva. Su, andiamo, dobbiamo sbrigarci, altrimenti quella banda di ubriaconi si scolerà tutto il vino rosso.» Il Tempio Verde - III Agrifoglio aveva il ventre pieno di uccelli - corvi, dal rumore che facevano muovendosi dentro di lei. Aveva ampliato di molto il suo nido, che ora era un'imponente struttura di legno marcio, erbe gialle e fitti rovi, e copriva completamente le doppie porte sotto la vetrata distrutta nella quale il cavaliere affrontava il mostro per metà visibile. Ora il suo cinguettio era mutato in un suono più acuto e stridulo, e tutta la sua attività era indirizzata unicamente a espandere l'enorme sfera del suo nido. Alex la osservava con curiosità, solitamente appollaiato sull'alta finestra dove una grondaia sporgente, sopra il cimitero, gli forniva un punto d'appoggio da cui appendersi. Tutte le volte che lei sollevava gli occhi verso di lui e gli rivolgeva un sorriso tra i suoi rametti di spine, egli le ricordava il proprio nome. «Alex! Mi è tornato in mente! Alex, il mio nome! Me lo ricordo! Io sono Alex!» Cinguettio-pigolio-battere d'ali. (È un bel nome. Ha portato con sé dei bei sogni?) «Sì. Ho sognato che giocavo nei campi. Correvo tra l'erba alta, piena di cardi. Facevo volare degli aquiloni. Pescavo nello stagno, vicino a dei grandi massi caduti. Vivevo in una casetta, che era molto buia, ma dentro c'era un grande fuoco. Mia mamma era sempre occupata a scrivere lettere. Mio padre camminava sempre avanti e indietro e guardava il cricket. Sembrava tanto triste. Io costruivo delle cose di legno. Io sono Alex, e sto tornando a casa.» Cinguettio-pigolio-battere d'ali-fruscio di foglie. (Tuo padre ti sta cercando. È in pericolo. I daurog sono calmi per il momento, ma le stagioni hanno ripreso a susseguirsi rapidamente. Chiamalo per avvisarlo di essere prudente.) «Non può sentirmi. Ma io sto tornando a casa. Sta venendo a prendermi. E io sono Alex. Alex è tornato a casa. Colui che ghigna adesso non potrà più afferrarmi.» Con una capriola si calò giù per la scala d'edera, corse verso Agrifoglio, enorme, tirandole per gioco le foglie al suo passaggio, e si fermò incantato
a guardare la figura nella vetrata. Aveva un nome sulla punta della lingua, come un qualcosa che riconosceva. Si stava svegliando da un lungo sonno. Sentì i suoi occhi aprirsi e la sua testa espandersi. Al principio fu una strana sensazione, ma presto cominciò a sentire che stava recuperando una qualche forma di memoria. Gli era stato restituito il suo nome, luminoso uccello che aveva attraversato l'antica foresta ed era entrato in lui, come un amico conosciuto da sempre. In quel momento riconobbe il cavaliere nella vetrata, e la creatura che stava uccidendo, anche se il nome ancora gli sfuggiva, proprio ora che si rendeva conto di cercarlo. I volti al margine del bosco erano anch'essi familiari, tutti tranne quello di Colui che ghigna, che mutava così di frequente da non potersi mai dire con certezza se fosse lì o meno. Gli altri abitanti ora stimolavano la sua immaginazione, gli suggerivano delle storie. Portavano immagini di viaggi per mare e mostruose creature, battaglie di spade e armature d'argento, selvagge cavalcate nella notte accompagnate dall'abbaiare dei cani, e imponenti castelli nascosti in mezzo a prugnoli e cespugli di rosa spina. Cominciò a dare alle cose il loro nome, sentendo le parole e le identità giungere dall'alto e scendere su di lui come pioggia fine; goccioline che penetravano in lui dai capelli, dagli occhi, dalle orecchie, fin dentro la sua mente. Ogni nuovo nome che ricordava era accompagnato da piccole grida di gioia: «Doccione! Crocifisso! Lapide!». E poi, rivedendo le immagini dei personaggi tra gli alberi del bosco: «Robin Hood... Lancillotto... Giasone...». Alcuni di quei nomi lo spaventavano perché le loro apparizioni lo avevano terrorizzato: aveva visto teste mozzate, o teste di lupo su corpi di uomini, e anche se i nomi avrebbero dovuto essere rassicuranti, questi personaggi non lo erano affatto. Malgrado tutto, mentre nella sua mente sorgeva lentamente l'alba, fece spaventare Agrifoglio quando la vide scorrazzare tra gli alberi del Santuario, e buttare a terra una delle panche sollevate che era sorretta soltanto da sottili rami. La testa scolpita che la ornava andò in pezzi. Il danzatore... L'intero sedile era marcito. Alex raccolse i pezzi di legno del volto. Erano morbidi, come funghi, e si sfaldavano al contatto con le dita. Li riunì insieme e li sistemò in un posto sicuro a lato della navata di legno. Pensò di portare i resti del danzatore tra le ossa e le volte di pietra, sotto terra, ma aveva sentito muoversi qualcosa proprio là sotto, qualcosa che di tanto in
tanto batteva contro i lastroni di marmo come se cercasse di passare attraverso per prenderlo, come gli alberi, e lasciò la pesante porta chiusa, sbarrata con un ramo. Agrifoglio all'improvviso cominciò a emettere acuti lamenti. Egli si voltò immediatamente e la guardò dall'altare, accanto alla croce dorata che brillava protetta dal folto di spine. Sembrava profondamente radicata al suolo. Sollevava le braccia sopra il suo corpo di foglie e sbatteva le zanne di rami. Gli restituì uno sguardo grave, ma un attimo dopo si voltò e si affrettò goffamente per raggiungere il suo nido, dal quale si sentì a lungo provenire il suono del suo cinguettio, un suono che esprimeva sofferenza. Impotente, Alex la lasciò nel suo nido. Si allontanò dal Santuario e aggrappandosi al falco di pietra della finestra piombò nell'erba bagnata del cimitero. Tutto era tranquillo. Andò al pozzo, prese dell'acqua, e ne bevve senza staccare gli occhi dal bosco qualche metro più in là. C'era qualcuno nascosto, che respirava appena. Sentì lo sguardo posato su di lui, il rumore pressoché impercettibile del fiato trattenuto, il battito del cuore che ne tradiva la presenza. Spostandosi di poco, mentre beveva dalle mani a coppa, riuscì a intravedere del tessuto grigio, scolorito, uno scialle, un lungo abito, e capelli rossi arruffati. Infine il luccichio degli occhi che lo osservavano si distinse dal brillio degli altri punti di luce delle foglie bagnate. Occhi feroci, in cui un'ombra di esitazione ne suggeriva la paura. Gli venne alla mente un nome, che emanava dalla figura e trovava un appiglio tra i suoi ricordi. Ginevra... D'un tratto, come se il nome, fuggendo da lei, l'avesse liberata da un incantesimo, l'apparizione gridò e scappò via. E immediatamente, tutta la foresta attorno fu scossa da una folle agitazione. Alex batté in ritirata verso la cattedrale e Colui che ghigna fece irruzione tra i cespugli, una gigantesca sagoma ingobbita il cui fetido odore si espanse dal sottobosco e la cui voce si levò trasformandosi da un ringhio basso alla stridula, sguaiata risata che tormentava i sogni a occhi aperti di Alex. La donna apparve nella radura per un istante e Alex storse la bocca alla vista del viso sotto la chioma fluente: i tratti deformati, la bocca nauseante. Non aveva nulla della bellezza che immaginava nelle sue storie. I suoi abiti altro non erano che lenzuola funebri ridotte a brandelli. Sembrò guardarlo con pietà, o forse con espressione incerta, ma un istante dopo era di nuovo svanita nella foresta e a lungo, i rumori inconfondibili della caccia gli dicevano della sua fuga e della determinazione di Colui che ghigna.
Alex indietreggiò verso il porticato, sotto la via d'accesso che conduceva al suo Santuario. Ci fu qualche altro rovescio di pioggia, e altri movimenti furtivi: un ragazzo, seguito da un uomo in uniforme rossa, e infine un uomo incappucciato. Tutti lanciarono un'occhiata dal bosco, ritraendosi subito dopo. Non prima però che Alex gli assegnasse il loro nome, con un sospiro, felice per un istante di averli riconosciuti. Improvvisamente Colui che ghigna gli sorrise, il pallido volto e i denti macchiati di sangue fresco, un'apparizione così veloce che Alex ebbe a malapena il tempo di coglierla. Sogghignò, e scomparve con gran rumore verso destra. Qualcosa gli sfiorò i capelli e Alex sussultò per lo spavento. Agrifoglio si era calata per la scala d'edera con tale attenzione, a causa del suo peso, che non l'aveva sentita avvicinarsi. Si accovacciò sotto il porticato, tremando come un pioppo battuto dal vento. Gli sembrò avesse un'aura di gravità. Da quello che riusciva a dedurre dalla bizzarra forma dei suoi occhi, incavati nel legno torto del suo cranio, era apprensione quella che percepiva. Desiderava mostrargli qualcosa. Camminò davanti a lui verso il campo e si mise a cercare tra l'erba finché non ebbe trovato il punto giusto del terreno in cui potersi radicare. Alex prese il suo posto dentro di lei, e con lei si lasciò trasportare nel Grande Sogno... Era piena estate e i daurog avanzavano nella calura soffocante del bosco come ombre tra la vegetazione. Il calore era palpabile. La dove gli alberi si diradavano, essi passavano dentro alle ampie macchie di luce, alzando il volto al cielo cosicché il sole colpisse le loro lucide zanne, che stavano appena spuntando dal fitto e spesso fogliame di cui erano ricoperti i loro corpi massicci. Quercia e Frassino guidavano la lenta processione nel viaggio verso la cattedrale. Nocciolo e Agrifoglio si tenevano sempre ai margini delle radure. Faggio, Betulla e Salice camminavano lentamente, mantenendo il contatto con il terreno con l'aiuto di lunghi bastoni. Alle loro spalle, spostandosi con prudenza, con lo sguardo sempre attento, le orecchie tese, tutti i sensi allertati a percepire gli occhi e le orecchie che gli si avvicinavano attraverso il reticolato di radici, si stagliava la sinistra presenza dello sciamano, mai completamente visibile, il quale si fermava per mettere radici così di frequente che restava indietro rispetto alla famiglia e doveva raggiungerli al chiaro di luna, quando tutti si riunivano a formare un boschetto per riposare. Lo sciamano aveva scolpito, sul grosso bastone, un volto umano. A vol-
te, quando spingeva il nodoso ramo dentro il terreno, Alex veniva risucchiato fino a quel volto e lo sciamano lo osservava da vicino, in silenzio, grattando i lineamenti di legno con le sue unghie spinose, per poi battere le zanne e riprendere il cammino. Era estate e non correvano alcun rischio. Erano più vicini che mai, e cercavano il luogo di pietra, cercavano Alex. Ma c'era qualcosa che non andava, un senso di vuoto che non poteva essere espresso, ma soltanto sperimentato. Erano alla ricerca di qualcos'altro oltre ad Alex, e la loro sofferenza era grande. Ora Alex tentò di mettersi di nuovo in comunicazione, viaggiando nel Piccolo Sogno, alla ricerca di suo padre. Lo sfiorò, e trovò un sentimento di gioia nuova dove invece si aspettava di percepire tristezza. Si trovava vicino, ed era insieme a una donna, che non era sua madre. Stavano ballando attorno a un fuoco. C'era un'atmosfera di eccitazione e contentezza. Il ragazzo si avvicinò, si avvicinò e poi rifluì nel terreno, riversandosi verso l'uomo che danzava, espandendosi tra le enormi radici, arrotolandosi attorno alle rocce interrate, alle tombe vuote, alle ossa di cui era disseminata l'immensa foresta, alle ossa che erano in via di putrefazione, e a quelle che si preparavano alla vita. Quando sentì i canti e le cornamuse, e il passo pesante dei danzatori sul terreno, uscì dalle radici e chiamò il nome dell'uomo che amava... Il Varco di Old Stone L'Ossario Cinque ore più tardi, Lacan e Richard passarono dall'intrico della buia foresta primitiva a una zona meno densa e più illuminata. Tra gli alberi si ergevano alte colonne di pietra, coperte d'edera, battute dalle intemperie; in alcune di esse erano scolpiti bassorilievi raffiguranti uomini in armatura, altre presentavano iscrizioni di simboli e incisioni che ricordavano quelle ritrovate tra le vestigia minoiche del mare Egeo. Più avanti, passarono sotto quattro pilastri di bronzo arrugginito, tutti decorati con teste di leone, uno dei quali caduto di lato, giaceva addossato a una quercia. Lacan apriva il cammino con prudenza, seguendo un percorso tortuoso in mezzo a quelle maestose rovine. Un imponente edificio in legno, dal tetto spiovente di paglia, era crollato di fianco come se si fosse ripiegato su se stesso. Dei giovani olmi, crescendo, avevano cominciato a spaccarne il tetto. Il suolo,
all'entrata, era cosparso di totem grossolanamente ricavati da ceppi di legno e blocchi di pietra, e Lacan, abbassandosi sotto l'architrave di quercia incrinato, si affacciò per scattare un'istantanea dell'interno. Era conosciuto come il Santuario. Un insieme di reliquiari e templi, e a sentire Lacan, era un luogo pericoloso. «Da qui, partono almeno due varchi, ma da dove non lo sappiamo con esattezza. Conosciamo un sentiero sicuro e ci atteniamo a quello. Ma è qui che Dan Jacobi è scomparso, più di un anno fa. Ecco là il suo segnale...» Richard vide un'effigie grigia, sciupata dal tempo, appesa a un ramo d'edera che circondava un'alta colonna. «A quest'ora dev'essere morto» proseguì Lacan. «Ho un sesto senso per queste cose. È tutto quello che possiamo fare per impedire a sua moglie di continuare a cercarlo. Non vuole accettare che sia scomparso per sempre. Buon per lei! L'amore è cieco alla ragione, il che forse spiega come mai certe persone siano così forti.» «Un varco? Che cos'è esattamente, tanto per sapere?» domandò Richard. Lacan sembrava impaziente di proseguire il cammino. Scostò il fogliame e avanzò a ridosso di un'immensa parete di marmo, dalla quale delle teste scolpite, grottesche in modo spettacolare, sorvegliavano la foresta. «Un varco è una via per spingersi più in profondità» disse senza sperare di venire compreso. «Noi ci stiamo addentrando in questa foresta, ma esiste un altro sentiero sotto il nostro. Intendiamoci, non nello spazio fisico. Appena sotto, una via che conduce ad altri piani di realtà, altre terre, altri altrove. È pericoloso entrare in un varco. L'intera foresta ne è intessuta, come una trama. Si tratta di un diverso sistema spazio-temporale. Gli unici privi di pericolo, di quelli che conosciamo, si trovano nei pressi della Stazione. Sappiamo dove conducono. Ma ce ne sono moltissimi altri. Helen glieli indicherà, più tardi.» Il suono della sua voce andava affievolendosi mano a mano che si inoltrava a grandi passi scostando i rami a colpi di bastone. Richard faticava a stargli dietro, spaventato dalla folle attività che continuava nell'occhio della sua mente e turbato dall'impressione di essere osservato dall'interno. Improvvisamente si ritrovò davanti la schiena possente di Lacan, dalle spalle talmente ampie da oscurare la luce. Il francese gli fece cenno di fare silenzio. A Richard arrivò, da lontano, un rumore di rapide. La foresta di faggi in cui si trovavano digradava in un leggero pendio, rischiarata in alcuni punti da una luce cangiante. Due sagome si muovevano in quella luce, avanzando verso il fiume. Avvicinandosi, Richard vide che si trattava di due bambini, avvolti in un vecchio mantello, i capelli biondo cenere, en-
trambi tenevano in mano un bastone dipinto. I loro movimenti sembravano avere qualcosa di talmente calcolato che gli ci volle un attimo prima di rendersi conto che quella che guidava le loro azioni non era prudenza, bensì un'atonia generale. «Non è una bella scena, questa» disse Lacan in un sospiro. «Tutt'altro che piacevole. Impari a indurire il suo cuore, e non dimentichi che esistono anche in altri luoghi. Sono vivi, e allo stesso tempo non lo sono. Vanno verso la morte.» «Verso la morte? Perché?» «Perché questo è un luogo di morte» rispose freddamente Lacan. «Lo abbiamo concepito così al tempo in cui costruimmo la Stazione. Quando installammo il campo di protezione che ci tiene separati dal resto della foresta. Questi mitago, queste creature condannate, sono attirate qui, noi le attiriamo qui. E più si avvicinano, più la loro vita viene prosciugata. Non dimentichi questo: non sono che sogni. E come i sogni, per un attimo sembrano reali, poi però svaniscono, e presto vengono dimenticati. Cerchi di non lasciarsi prendere dall'emozione, finché non avrà compreso fino in fondo.» Riprese il cammino, aggirando le due effimere, tremanti creature. Quando passò Richard, a una quarantina di metri, una delle due si voltò lentamente. Un viso dai lineamenti dolci, pieno di stupore e sofferenza, incontrò il suo sguardo. Il ragazzino scosse piano la testa, chiuse gli occhi e piano si accasciò in ginocchio, prima di ripiegarsi su se stesso e restare così, completamente immobile. La sua compagna si teneva dentro un sottile raggio di intensa luce, il viso rivolto al cielo. Come al rallentatore, abbandonò le braccia lungo i fianchi e rimase irrigidita, così, senza più respirare. «Ma chi sono?» chiese Richard. Lacan scrollò le spalle infastidito. «E chi lo sa. Se crede di essere tanto interessato possiamo improntare un programma di studio. Da queste parti è quello che ci riesce meglio. Trattenga il respiro: stiamo per arrivare all'ossario.» Erano nei pressi del fiume. Il suono fragoroso del suo scorrere, fresco e limpido, diede a Richard una gradita sensazione mentre si guardava attorno. Da destra a sinistra il bosco era pieno di quei personaggi in decomposizione che Lacan aveva chiamato mitago. Paralizzato dall'orrore guardava le ossa di legno che gli ricordavano delle sculture. Volti, crani, figure dagli arti spezzati, fissi in quelle posizioni innaturali, come se fossero morti stri-
sciando per raggiungere il fiume, le teste rovesciate all'indietro nello sforzo di prendere un ultimo respiro. Sembrava che avessero dissotterrato un intero cimitero e sparso sul terreno i resti dei morti. Da alcune mandibole spalancate germogliavano delle piante. Quella che appariva come una catasta di legna era invece un ammasso di cadaveri, figure in agonia, i cui nervi tornavano alla terra. Dei lembi di stoffa colorata, e qualche debole riflesso di ornamenti di metallo, era tutto ciò che restava del vestiario di questi patetici cadaveri. Richard notò che tutti erano rivolti verso il Varco di Old Stone. «Siamo noi ad attirarli» ripeté Lacan a mezza voce. «È la funzione di queste creature. Avvertono la necessità di trovare il loro creatore, di stabilire un contatto con colui da cui sono nati, chiunque sia. Siamo stati costretti a adottare potenti misure di difesa. Ma ogniqualvolta una di queste cose muore, anche qualcuno della Stazione muore un po'. Esiste una correlazione che ancora non comprendiamo.» Alle loro spalle la bambina, rivolgendosi alla luce, intonò un canto con una voce sottile, molto debole, come fosse l'ultimo. Lacan stette un attimo a guardarla, poi si voltò di scatto, con un'espressione triste e severa. «Andiamo. Non c'è niente che possiamo fare per lei. Per di più, ho fame.» Sogni di ombre «C'è qualcosa che non va» mormorò Lacan quando furono in vista del grezzo recinto che circondava il Varco di Old Stone. «Sento che qualcosa non quadra.» «Cos'è che non quadra?» «C'è troppa calma. Dovrebbe esserci qualcuno ad accoglierci.» Si trovavano sul pendio boscoso che declinava verso il turbolento corso d'acqua. Il portale del recinto era aperto e lasciava intravedere un'area estesa, diverse tende, e l'estremità di un edificio comune con il tetto di torba, da cui saliva del fumo. Ma in quel momento, tutta l'attenzione di Richard venne attratta dalle due strane figure che si ergevano ai due lati del portale: stilizzate strutture costruite con dei pali, raffiguranti due uomini crocefissi, inclinati in avanti. Le teste erano grottesche protuberanze poggiate all'ossatura di uno scheletro, coperte di pelli, stracci e carcasse nere di uccelli in putrefazione. Senza dubbio, comprese Richard all'istante, quegli orrendi spaventapasseri avevano la funzione di scoraggiare gli intrusi. Inoltre, dalla sua posizione vicino agli alberi che circondavano l'area, poteva vedere
maschere, scudi e armi che pendevano dai rami, e le ombre dei totem che si allungavano dietro le tende. La porta dell'edificio comune era incorniciata dall'effigie deformata, di un blu livido, di un cinghiale armato di zanne. Il sistema di protezione del Varco di Old Stone, quindi, non si limitava all'invisibile barriera dei dispositivi elettronici e a infrarossi di cui si intravedeva l'intreccio di fili luminosi tesi tra gli alberi e i bassi arbusti. Al lato estremo dell'area trascurata cresceva una fitta boscaglia, fiorita del bianco del sambuco, in cui spiccavano, legati ai rami, colorati stendardi. Questa zona separava la radura da un'impressionante parete di roccia verticale, scavata da numerose grotte, che si ergeva contro il luminoso orizzonte e proiettava un'ombra scura sulla Stazione, il che rendeva il Varco di Old Stone un luogo inquietante, poco accogliente. Mentre studiavano il campo, dietro di loro, qualcosa, o qualcuno, si avvicinò lentamente alle loro spalle, poi si fermò, ma un sasso continuò a rotolare giù per il pendio. «Lytton?» chiamò Lacan, l'espressione improvvisamente inquieta. «McCarthy?» Non ci fu alcuna risposta. Ma con una folata di vento, subito dopo, furono raggiunti dal profumo di stufato di manzo. Qualcuno, da qualche parte, stava cucinando. Attraversarono il ponte, e Lacan avvisò Richard della natura pericolosa del fiume, che spesso rappresentava una «scorciatoia» per «Viaggiatori Selvaggi», poi entrarono nel campo. «Mi aspetti qui. Resti di guardia alla passerella» disse, prima di dirigersi rapidamente verso la piccola tenda verde che fungeva da mensa, dalla quale proveniva il profumo dello stufato. Ne uscì un attimo dopo, masticando qualcosa, scosse la testa e andò a controllare nelle altre tende e nell'edificio principale. «Deserto!» Come ultimo tentativo si fece strada nel sottobosco alle pendici della parete rocciosa, e l'eco dei suoi richiami dallo strapiombo rimase limpido nell'aria per qualche istante. Nel frattempo, Richard ispezionò con prudenza il resto della Stazione. Sul retro dell'edificio comune trovò armi accatastate, armature, elmi, i resti di un carro e la carena spaccata di una stretta imbarcazione. Un vero «cimitero del ciarpame antico», affascinante e repellente allo stesso tempo. Un elmo etrusco contenente ancora il cranio mummificato del suo possessore, gli intricati motivi dipinti su un lungo osso bruciato, che esaminati da vicino, si rivelavano essere una serie di complicate rappresentazioni di canoe in un fiume, in cui a ogni fase dell'azione corrispondeva l'effigie di un
animale, di una grossa bestia, o di figure semi umane impossibili da identificare. L'edificio comune stesso disponeva di un fuoco nel mezzo, e Richard piegandosi sulla soglia di ingresso entrò nell'ambiente fumoso. La luce inondava l'interno filtrando dalle aperture nel tetto di torba e dalle fessure delle finestre ricavate nelle pareti di intonaco e cannicciata. C'erano dei tavoli, delle cartine dentro grezze cornici, e sedie sparse un po' ovunque. Avevano attrezzato a parte una camera oscura e il materiale fotografico era poggiato in disordine. Dunque doveva essere questo il centro di ricerca. Richard si sentì chiamare e uscì dalla costruzione. Lacan riemerse dalla boscaglia, grattandosi la barba e scrollando la testa. Sembrava preoccupato. «McCarty è qui, ne sono certo. Ne ho visto le tracce. Temo che stia per scivolare altrove. Avrà bisogno di aiuto.» «Scivolare altrove?» domandò Richard, ma subito dopo realizzò che stava parlando del «viaggio nella zona boschiva» Lacan fu raggiunto da un'improvvisa intuizione. «Ma certo, il lago! Deve essere lì. È logico.» Richard posò a terra lo zaino e lo seguì lungo la riva del fiume che diventava più stretto e più profondo nei tratti in cui scorreva tra insenature, sassi ricoperti di muschio e piccoli arbusti. Reggendosi l'uno all'altro e aggrappandosi a radici e rocce sporgenti, entrarono a fatica nell'acqua gelata e costeggiarono la gola alla fine della quale inaspettatamente il fiume sfociava in un vasto lago di un blu color ghiaccio. Qui era più freddo, e dall'altra sponda dell'acqua luccicante, il bosco era nella morsa dell'inverno. Richard vide la neve sugli alberi scuri, una torre di pietra che si innalzava oltre i rami e relitti di imbarcazioni accatastati disordinatamente per tutta la lunghezza della riva rocciosa. Dal centro del lago saliva una specie di nebbia, e la foresta, al di là, si vedeva come da dietro una lastra di vetro ghiacciato. Richard non lo sapeva allora, ma Helen gli disse in seguito che quel posto era chiamato il Varco delle Grandi Acque, e che si credeva collegasse tra loro tutte le distese d'acqua, gli stagni, i corsi d'acqua e i laghi dell'antico passato, da Tuonela all'Egeo di Ulisse, dalle acque magiche di Manannan al lago di Excalibur, fino al fiume Reno di Lorelei. Di tutta l'equipe della Stazione, comunque, nessuno si era ancora arrischiato a intraprendere un viaggio negli universi acquatici di queste antiche leggende, e la gran parte di ciò che ne sapevano era frutto di deduzioni, basate sui mitago che erano passati dal loro mondo a quello del Varco di Old Stone.
A poca distanza dalla riva su cui Richard e Lacan erano seduti, una piccola imbarcazione oscillava al ritmo delle onde alzate dalla brezza. Due canne da pesca erano state affondate nella sabbia sulla riva del lago, la lenza di una delle due, in tensione, faceva pensare che qualcosa avesse abboccato. Lacan andò a ritirare la lenza e la riavvolse fino all'amo. Guardò la preda, un piccolo, deprimente pesce persico lungo meno di venti centimetri, e con silenzioso disappunto lo rigettò in acqua. «Non ho tempo da perdere con questi bocconcini!» Qualche minuto dopo trovarono McCarthy. Era accovacciato tra le rocce, completamente nudo, delle piante tra i capelli, e il corpo striato da segni neri e blu che al primo sguardo potevano sembrare dei lividi. Aveva lo sguardo vuoto, fisso oltre il lago. Tremava. «È questo che significa "andare nella zona boschiva"?» mormorò Richard. «Sono le prime avvisaglie» confermò Lacan in tono calmo, giocherellando con la collana di denti d'orso che pendeva sul suo ampio torace, prima di aggiungere: «È molto triste, Richard. Molto inquietante. Retrocederà gradualmente a uno stadio sempre più primitivo, si coprirà con pellicce di animale, indosserà amuleti, il suo olfatto diventerà acuto in modo impressionante e il suo aspetto estremamente selvaggio. È una trasformazione molto spiacevole. Dobbiamo resistergli a ogni costo». Richard lanciò un'occhiata al francese, non riuscendo a credere a ciò che sentiva, certo che gli stesse facendo uno scherzo. Lacan rimase impassibile, con un'espressione impossibile da decifrare. «Vede? Sta lì, seduto, a sognare, ad ascoltare la foresta. E non c'è alcunché da ascoltare, non qui, almeno» aggiunse indicando l'orecchio destro. «Ma altrove, più in profondità, c'è un'infinità di cose da ascoltare. McCarthy è uno sciamach molto dotato. Spesso sono quelli che partono per primi.» «Sciamach?» «Sognatore d'ombre. Si serve della foresta, la esplora, in una specie di viaggio...» Lacan uscì allo scoperto, si liberò di una delle sue pesanti pellicce e la lanciò addosso al sognatore. «Copriti.» Quella parola pronunciata in tono brusco e rabbioso parve scuotere McCarthy dalla sua trance. Guardò verso l'alto con acquosi occhi azzurri e sorrise. «Arnauld! Che succede?»
«Mettiti quella pelliccia. Svelto, o morirai dal freddo.» McCarthy a fatica si tirò in piedi. Richard notò la profonda cicatrice che attraversava il lato sinistro del busto (Lacan gli spiegò sottovoce che era stato attaccato da un cinghiale), e che aveva l'aspetto molto deperito: gli si contavano le costole, le ossa del bacino erano sporgenti e le ginocchia sproporzionate. Con la nera pelliccia avvolta sulle spalle aveva un'aria commovente. Continuava a tremare. Allungò una mano da sotto la pelle d'orso per stringere quella di Richard. Il viso era segnato da profonde rughe, emaciato, e i suoi denti, come quelli dei moribondi, sembravano troppo grandi per la sua bocca, e anche gli occhi erano infossati nelle orbite. E diede l'impressione di essere persino sereno e grato di venire guidato: diligentemente seguì Lacan verso la Stazione, senza affatto lamentarsi quando dovette guadare le acque ghiacciate del fiume. La specialità di McCarthy erano i sogni, anche se dal breve riassunto che fece dei suoi studi, Richard concluse che non era uno psicologo di formazione. Mentre beveva il suo tè, e faceva quasi letteralmente ritorno sulla terra, parlò di «sogni lucidi», «viaggi onirici» e «corrispondenze oniriche». «Fantasmi, sogni e creature immaginate» disse riacquistando il suo entusiasmo «la foresta di Ryhope risuona di tutto questo e lo condensa. Se riuscirò a scoprire la chiave della mitago-genesi, potrò arrivare a svelare i segreti del Grande Sogno, il Primo Sogno.» «Le auguro buona fortuna» disse Richard in tono incoraggiante, benché continuasse a non capire una sola parola. Lacan scoppiò a ridere. «Nemmeno io ci capisco granché» disse poi ad alta voce, il che fece nascere un sorriso sul volto spigoloso di McCarthy. «Parla troppo. Ma gli voglio bene! Forse non saprà mai come svelare i segreti del Grande Sogno, ma conosce perfettamente quelli di un'ottima casseruola!» Al momento della creazione della Stazione al Varco di Old Stone, tre anni prima (rispettando il calendario del mondo al di fuori della foresta di Ryhope), il progetto contava la presenza di venti tra scienziati e antropologi, riuniti da Alexander Lytton, ognuno specializzato nel proprio campo, e tutti messi al corrente dei segreti e delle stranezze che regnavano in quella primitiva foresta. Erano stati suddivisi in dieci gruppi da due, ma di queste coppie, soltanto cinque esistevano ancora. Tre erano scomparse da più di due anni e si supponeva che i componenti fossero morti. Helen aveva perso suo marito, Dan, in circostanze non del tutto chiare. McCarthy non era
riuscito a salvare la sua compagna da un colpo di lancia, inflittole durante l'esplorazione di uno dei castelli medioevali in cui ci si poteva imbattere nei profondi recessi della foresta. Alexander Lytton e Arnauld Lacan erano risultati tra loro talmente incompatibili, per diversità di temperamento, da separarsi volontariamente, e con gioia, e da allora erano gli unici due membri dell'equipe a partire in missioni solitarie. Helen al momento si trovava al di là di una zona chiamata Hergest Ridge, accompagnata da Elisabeth Haylock, specializzata nell'Europa del primo millennio, e da Alan Wakeman, paleolinguista ed esperto in scritture cuneiformi. Nei giorni a venire era previsto il ritorno di due finlandesi. La squadra di Helen aveva già un ritardo di parecchie ore, ma McCarthy, prima della sua temporanea caduta nella zona boschiva (la prima, ma non l'ultima) aveva percepito che i tre stavano tornando, che erano vicini, e che non correvano alcun pericolo. Erano delle ombre pulsanti nel bosco, con cui McCarthy poteva comunicare, in un modo che, per il momento, Richard trovava del tutto oscuro. Esausto per la camminata, assonnato per il vino e il sostanzioso stufato di selvaggina preparato da McCarthy, a metà del pomeriggio Richard si addormentò. Lo svegliò il suono di voci lontane che si annunciavano e uscì dalla Stazione in tempo per vedere Helen che attraversava con prudenza il ponte di corda del campo. Haylock e Wakeman stavano già entrando nell'area recintata. Helen era in uno stato pietoso, i vestiti inzaccherati di fango, il viso striato dai graffi di spine, ma per fortuna non aveva niente di serio né di preoccupante. Aveva appena la forza di salutarlo, ma riuscì ad accennare un vago sorriso divertito quando gli si rivolse dicendo: «Come sta l'uomo che balla con le mazze da cricket?». Richard notò che sul dorso annerito della sua mano destra stava crescendo del muschio. Consapevole dello sguardo che Richard non era riuscito a trattenere, Helen si coprì la bruciatura, e prese a grattarla per l'imbarazzo. «Ho assolutamente bisogno di lavarmi e di riposare» mormorò. «Sono due settimane che sto in mezzo alla natura e...» Richard ne fu stupito. Due settimane? Se l'aveva vista appena due giorni prima! «Ne parleremo più tardi. Mi fa davvero piacere che abbia deciso di venire.» «Anche a me fa piacere vederla» rispose Richard. «Ho molto da impara-
re. E ci sono molte cose di cui vorrei parlare.» «E molte da vedere» aggiunse lei raggiungendo con passo stanco una delle tende dormitorio. «Senza contare tutti i viaggi da fare.» Wakeman e Haylock avevano svuotato i loro zaini sopra un tavolo su due cavalletti, e vi avevano disposto i reperti, alcuni dei quali piuttosto macabri. Spogliati degli abiti e con addosso soltanto la tuta verde di maglina formavano una strana accoppiata mentre stiracchiavano gambe e braccia dopo essersi liberati dal peso del loro equipaggiamento. Elisabeth Haylock era una donna alta, di corporatura robusta, il viso spigoloso e occhi in perpetuo movimento. Aveva capelli neri legati in una treccia che le ricadeva sulla spalla destra mentre parlava con Lacan. Sembrava intimidita dalla presenza di Richard, o forse le formalità sociali, per quanto minime, la mettevano a disagio: quando gli venne presentata e lui le chiese in quale campo fosse specializzata, rispose in tono brusco ed ebbe un moto di impazienza quando Richard ammise di non aver capito bene. Forse era semplicemente stanca. Comunque sia, Richard capì che era anche un'esperta del tardo pleistocene, un'epoca dell'Alto Paleolitico caratterizzato dall'intensa attività nomade di clan di cacciatori-coltivatori e dall'instaurazione di due separate correnti mitologiche, di cui si potevano trovare echi tardivi nelle grotte magdaleniane dei Pirenei, riccamente decorate. Il suo vocabolario poco comprensibile e l'apparente ostilità diminuirono, tra loro, sia le possibilità di una conversazione che quelle di un'amicizia. La donna si allontanò dopo qualche istante e riemerse da una delle tende con addosso un asciugamano e in mano spugna e sapone. Raggiunse Helen al fiume che Lacan poco prima aveva dichiarato pericoloso, e si lasciò andare pigramente tra i flutti agitati, apparentemente affatto preoccupata dalla prospettiva del passaggio dei «viaggiatori selvaggi». Anche Wakeman era ugualmente distratto ed esausto. Sulla cinquantina, abbronzato, i capelli grigi legati in una coda di cavallo, ed entrambe le braccia completamente tatuate con simboli celtici. Pieno di muscoli, a Richard ricordava uno di quei lottatori di wrestling che si vedevano in televisione nei sabato pomeriggio. Wakeman era trionfante per il ritrovamento di un reperto relativo alla sua specialità, le culture del Wessex e dell'Umfeld dell'Età del Bronzo, termine, questo, che odiava. La maschera di bronzo era molto macchiata e seriamente deformata, ma nonostante questo il volto che rappresentava era intriso di una terribile malignità, e a suo avviso si trattava senza dubbio di quella di un particolare stregone del terzo millennio a.C., uno spettro terrificante che si serviva dei corsi d'acqua di tutta
Europa per commerciare i sortilegi di quel tempo. Secondo Wakeman, il suo nome sarebbe stato Mabathagus. Quindi trovarsi in possesso della maschera era pericoloso, e Lacan non fu affatto contento che fosse stata portata alla Stazione. Andò ad aumentare al massimo la potenza del generatore e fece un giro d'ispezione del Varco di Old Stone, per verificare lo stato dei cavi, delle giunture e dei talismani del sistema di protezione. Il Baratro degli Spiriti Un'ora più tardi Lacan condusse Richard tra i pali dai colori sgargianti, posti ai lati dell'uscita, alle spalle della Stazione. Il sentiero zigzagava tortuoso nella macchia di nodosi noccioli, nel bianco del sambuco in piena fioritura, inoltrandosi all'ombra dell'alta parete rocciosa che sovrastava la zona. Sotto la muraglia il freddo arrivò improvvisamente, e il profumo di terra, di umidità e di vegetazione divenne inebriante. Richard sentiva il suono di acqua corrente, da qualche parte, ma per il resto la boscaglia era completamente silenziosa, misteriosamente deserta. Il rumore dei loro spostamenti sembrò amplificarsi. Lacan gli indicò delle iscrizioni sulle rocce, e Richard, la cui vista si stava lentamente abituando all'oscurità, vide per la prima volta i motivi dipinti. L'attività del suo occhio mentale si intensificò, con un vortice di colore, la sensazione di due figure in corsa verso di lui, e un movimento spettrale che gli fece rizzare i capelli e lanciare veloci occhiate a destra e a sinistra. Lacan lo guardò incuriosito. «Ha mai visto disegni di questo genere?» Linee tracciate in parallelo, complesse spirali, file di cerchi di un blu acceso, croci, volti e figure umane stilizzate. La volta rocciosa era un arazzo surrealista di disegni primitivi. Tutto sembrava fluire verso la terra, come se vi precipitasse, dietro il fitto della foresta, dove il suono dell'acqua era un distante, perpetuo sottofondo. «Alcuni mi ricordano delle incisioni rupestri» commentò Richard. «Come su quelle antiche tombe, sui megaliti...» Lacan annuì con fare soddisfatto. «Infatti alcuni sono esattamente come quelli. In Bretagna, da dove vengo, la tradizione è ancora più antica che in questo paese. Ma qui si trovano anche disegni molto simili a quelli dei boscimani. Nel deserto del Kalahari vi sono grotte e pareti rocciose con lo stesso genere di raffigurazioni. È come se due culture si fossero fuse insieme. Lei è mai stato nel Kalahari?»
Richard non c'era mai stato, ma aveva familiarizzato con le pitture rupestri durante i suoi studi. Lacan gli fece cenno di proseguire, e i due avanzarono tra i cespugli fino all'entrata vera e propria della grotta. «E questo è solo l'inizio» fece Lacan. «All'interno c'è molto di più. Faccia attenzione.» La volta si abbassò e le pareti andarono stringendosi subito dopo l'entrata. Si ritrovarono in un passaggio strettissimo, con delle svolte che discendevano in modo allarmante verso il centro della terra. Dovettero accucciarsi e strisciare sotto il peso opprimente della roccia. Richard avvertì un lontano, impetuoso rumore d'acqua che saliva dalle profondità. L'odore umido e soffocante di pietra bagnata e d'aria stagnante, che gli era familiare per una breve esperienza come speleologo nella valle dello Yorkshire, d'un tratto acquistarono un che di confortante e minaccioso al tempo stesso. «Questo sentiero porta a un varco molto pericoloso» disse Lacan. «Qui abbiamo perduto tre ottimi soggetti, proprio all'inizio della spedizione. Risalgono più mitago da qui che da qualsiasi altro posto. Guardi là...» Lacan aveva bruscamente puntato la torcia su tre effigi, infilate in una crepa nella roccia. Il passaggio si era relativamente allargato e due stretti tunnel si perdevano nel buio, uno sopra l'altro. Una delle sagome di legno rappresentava chiaramente una donna: lo scultore aveva sagomato dei seni sul pesante ramo che costituiva il corpo. Tutti e tre avevano delle trecce di tessuto verde attorno alla vita, legate a mo' di tasche, per contenere le reliquie che trasmettevano i loro poteri a queste guide spirituali. «Stiamo per entrare nella sala principale. È molto scivolosa.» Appena detto, la volta rocciosa si allargò, e Richard poté raddrizzarsi nella caverna, risonante come l'interno di una cattedrale: il Varco di Old Stone. Lacan accese la lampada (avevano disposto un allaccio anche qui), e subito si diffuse una fioca luce gialla sulla profusione di forme sulle pareti di roccia e sulle stalattiti che scendevano dalla volta, delineando profonde zone d'ombra. Sul lato destro, da una fessura sulla parete, sgorgava dell'acqua che precipitava in piccole gocce di vapore fin dentro un baratro immenso. Il suolo era cosparso di frammenti di roccia crollati dalla volta. Un po' ovunque si aprivano dei tunnel più piccoli. Per quanto impressionante, Richard abbracciò tutto quello spettacolo con un solo colpo d'occhio. Perché da ogni parte era circondato da movimenti e colori da togliere il fiato, tale era la loro potenza e qualità espressiva. Aveva visto i dipinti preistorici nelle grotte di Eysies e Niaux, e ovviamente conosceva quelli di Lascaux e di Altamara, ma queste sorprendenti
rappresentazioni di animali, dalle forme allungate, deformate, eppure splendidamente eseguite e dipinte con colori che lasciavano stupefatti, non avevano nulla a che vedere con quegli antichi santuari. Mentre le guardava, incantato, aveva l'impressione che si muovessero, che si trasformassero e si allungassero, come trascinate verso la zona più profonda della caverna, come se, anche qui, venissero risucchiate dalla cavità della terra stessa, a meno che non fossero loro a precipitarsi al suo interno. Dei disegni bizzarri, inquietanti, che davano le vertigini quando si cercava di metterli a fuoco, sembravano intrecciarsi a quelli degli animali-spirito. Sembravano guizzare tra le zampe scalpitanti, trapassare i corpi eterei e allungati di bisonti, cervi, cavalli e lupi. E altre forme, in mezzo a queste creature lanciate in corsa, a Richard ricordavano degli uomini, cacciatori con indosso strani abiti, che non avevano niente a che vedere con le figure filiformi nelle caverne dei boscimani, con le loro armi stilizzate. Queste sembravano piuttosto ispirarsi sia al mondo degli alberi che a quello degli esseri umani. E tuttavia era evidente che anche queste, nella fuga della caccia, erano dirette verso il Santuario, quasi in gara verso la cavità che turbinava nel punto più profondo della grotta. Richard scivolò sul fondo umido e dovette aggrapparsi ad alcuni massi caduti per andare a guardare, con molta cautela dentro al baratro. Al masso era stata assicurata una corda che precipitava nel buio. Fu solo allora che si accorse delle pallide forme umane incise proprio su quella roccia. Vi puntò la torcia per esaminarne più distintamente i dettagli e si accorse che si trattava di effigi, oramai indurite, pietrificate per effetto dell'acqua ricca di calcio che aveva continuato a gocciare costantemente su di esse. «Da dove vengono?» «Da un'altra era» rispose Lacan, che continuando a spostare il fascio di luce intorno al baratro illuminava altre sagome di pietra, circa una ventina in tutto. «Sono molto antiche, a giudicare dallo spessore della pietra dovrebbero risalire a più di un secolo fa. È da qui che abbiamo imparato a utilizzare questi spiriti guida. Coloro che si calavano in questa voragine alla scoperta di terre sconosciute sapevano di dover lasciare un segnale nel punto d'inizio del loro viaggio in modo da assicurarsi di tornare indietro sani e salvi.» Allungò una mano e fece scorrere le dita sulla superficie levigata di una delle figure pietrificate sotto di lui. «È chiaro che queste non hanno assolto al loro compito. I loro creatori sono ancora intrappolati da qualche parte.» A Richard venne in mente un pensiero, un dettaglio che riguardava mol-
te delle effigi e che lo lasciava perplesso. Si trovavano all'interno del baratro, e il loro sguardo sembrava fronteggiare il buio claustrofobico. Potevano forse aver fatto da guida a qualcuno che stava invece risalendo? Si domandò a voce alta. A qualcuno entrato nel varco dall'altro senso, verso il mondo di Lacan, e che percorreva la via del ritorno? «Infatti» convenne Lacan rivolgendogli uno sguardo di approvazione. «È quello che crede Lytton, quando non attribuisce tutto questo a George Huxley. Per alcuni dei mitago è il nostro, il mondo spirituale. Emergono per entrare in contatto con il loro creatore, con la mente da cui sono attratti.» Nella caverna c'era un freddo glaciale e perfino Lacan, nonostante le pellicce, stava tremando. Ripresero la strada del ritorno, il francese in testa, passando di nuovo per lo stretto corridoio finché giunsero con sollievo all'aria dell'apertura della grotta, sotto la miriade di simboli dipinti. «Come ha potuto vedere, Richard, questo è un luogo pericoloso. Lo eviti, ed eviti di seguire chiunque o qualsiasi cosa si trovi al suo interno. Ma in compenso, dovrà segnalare immediatamente ogni fenomeno di cui potrà essere testimone in questo luogo. Siamo a corto di tre esploratori.» Lytton Sulla Stazione, al Varco di Old Stone, si distese la luce di uno splendido tramonto, il cielo era in fiamme e la volta celeste striata dai radiosi colori del crepuscolo. I simboli e le figure dipinte sulla volta rocciosa, dove Helen aveva condotto Richard, con questa luce acquistavano toni di colore più vividi: gli ocra diventavano più corposi, e si accendevano di rosso sui corpi di quegli animali raggiunti dagli ultimi raggi di luce. Tornarono all'accampamento e sedettero a un tavolo da campo, quieti e rilassati, anche se Richard avvertiva insistentemente l'attività nell'occhio della mente, il che gli dava l'impressione di percepire, tutto attorno a lui, nella foresta vampiro, brevi squarci del mondo che si stava formando proprio a partire dalla sua mente. Qualche minuto dopo su tutto il campo prese a soffiare una strana brezza, folate di vento intessute di gelo e correnti. Le maschere e gli altri manufatti appesi schioccavano battendo contro i pali. Da qualche parte, nel campo, qualcuno avvertì: «Gli elementali...» Helen si alzò in piedi di colpo. «È Lytton» disse. «Attrae gli spiriti elementali come qualcun altro attrae le mosche. Dobbiamo stare in guardia.»
Lacan era già all'opera per analizzare l'aria del crepuscolo, girando lentamente su se stesso con uno dei suoi congegni appoggiato al torace. «Sta arrivando da nord» esclamò improvvisamente, e fu seguito da un'agitazione generale nella direzione degli alberi ai piedi della grande parete a strapiombo. La brezza divenne più violenta, e dal folto dei rami, degli occhi si misero a osservare l'accampamento, volti enigmatici che apparivano per pochi istanti e poi svanivano dalla vista. Lytton, scoprì Richard, stava ritornando per un varco che si apriva tra un grosso masso staccato dalla parete e il tronco di un olmo, colpito da un fulmine, poggiato su di esso. Un passaggio stretto, che conduceva a una radura ben illuminata che il sole del tramonto tingeva d'arancione. Era abbastanza facile osservare che il vento, insieme a un flusso di sagome vaghe e non definite, soffiava da quella zona. Richard sentì qualcosa pizzicargli la guancia e si colpì il viso con la mano, voltandosi appena in tempo per scorgere un volto appuntito e due occhi beffardi. Poi si sentì tirare e scompigliare i capelli da un soffio inaspettato. Cercò di seguire l'ombra, ma era svanita. Vide Helen gesticolare nervosamente nell'aria davanti a sé, poi voltarsi a guardare il fiume improvvisamente agitato, come se un pesce ne stesse colpendo la superficie con la coda, o qualcosa di invisibile stesse giocando nell'acqua fresca. «Eccolo che arriva...» annunciò Haylock con voce calma. Lacan esclamò: «Qualcosa lo segue; e sta arrivando in velocità!». Dal generatore giunse un lamento e Richard capì che avevano di nuovo aumentato la potenza nel circuito di fili e cavi elettrici che circondava il Varco di Old Stone. Tra il masso e l'olmo, l'aria si mise a vibrare, la visuale si restrinse e si espanse subito dopo, diventò più bianca, come se si guardasse nella neve, e poi si colorò di un rosso intenso. Lì al centro, si stagliò il profilo di un uomo pietrificato, un braccio teso in avanti come se venisse spinto. Rimase sospeso nell'inquadratura, un'ombra contro lo sfondo rosso, immobile. Dietro di lui cominciò a crescere un'ombra ancora più indistinta, che si sollevò tra gli alberi, e poi piegò verso l'immagine dell'uomo congelato nell'atto di correre. Il quadro si ruppe un attimo dopo. Come spinta da dietro, una figura alta e sottile cadde sul suolo della Stazione, lanciando un grido così violento che lo spazio attorno a sé si contrasse vertiginosamente, fin quasi a ingoiarlo, perdendo ogni colore, per poi tornare di nuovo radura, masso, al-
bero bruciato. La terra tremò. Lytton si voltò a guardare con ansia l'entrata del varco, e con un sorriso beffardo gridò: «Ci sei andato vicino, ma vicino non è abbastanza!». Si tranquillizzò rapidamente, si passò le dita tra i capelli striati di bianco e lasciò cadere lo zaino leggero a terra. Indossava una camicia di pelli d'animale tenute insieme da spilloni di bronzo, pantaloni e scarponi militari identici a quelli di Helen. Avanzò all'interno del campo, salutò con un gesto della mano dietro di sé, senza voltarsi, poi si diede un piccolo schiaffo sulla guancia. Richard avvertì il suono di risate e un brusio incuriosito provenire dai cespugli vicini, e degli spostamenti fluidi, impercettibili, molto simili a quelli che aveva osservato nelle pitture della caverna, evidenti, eppure dissimulati. Lacan guardò il suo congegno e dichiarò: «È andato». Poi con una pacca sulla spalla del nuovo arrivato domandò, «Questa volta che cosa si è tirato dietro, eh, Alexander?» «Dio solo lo sa» rispose Lytton con un sorriso tirato. Il suo stile nel parlare era molto calcolato, con un marcato accento scozzese. «Uno degli incubi di Huxley, credo. In compenso, ho qualche buona fotografia.» Passò a Lacan un piccolo apparecchio fotografico, il quale lo osservò come se non ne avesse mai visto uno prima. «Ho bisogno di cambiarmi,» proseguì sfilando gli spilloni che chiudevano la camicia di pelle e dirigendosi verso Richard. «Mr Bradley, dico bene? Ma certo» disse stringendogli la mano. Lo sguardo dei suoi occhi grigio chiaro era glaciale e Richard non riuscì a sostenerlo. Ebbe l'impressione di affondarci dentro. Lytton sembrava vecchio, il viso scarno era solcato da rughe profonde. Il sorriso, sebbene seduttivo, mostrava denti gialli e guasti. Eppure quegli occhi, quello sguardo senza fondo, aveva qualcosa che disorientava. Era più basso di Richard ed emanava un odore stantio. Il suo torace, con le costole in evidenza, era coperto di graffi, ma molto abbronzato. Sprigionava intensità e sicurezza di sé. Si mostrò molto incuriosito del nuovo arrivato e leggermente sulla difensiva. «Non dovrei metterci molto.» Proseguì. «Ho perduto la mia camicia e ho dovuto sottrarre a un cadavere questa scomoda pelle di coniglio. Nessun senso dello stile, questi Juti. Non nell'800 a.C., in ogni caso. Vado a rinfrescarmi un po'. In seguito, c'è una cosa che vorrei mostrarle. Lei non ha particolarmente fretta, sbaglio, Mr Bradley?» «Non sbaglia.» «Ovviamente no!» Sorrise di nuovo, colpendo Richard con una leggera pacca sul braccio,
una manifestazione di benvenuto un po' maldestra, poi si sbarazzò della camicia e della pesante bardatura militare e, molto disinvoltamente, si incamminò nudo verso il fiume, dove si abbandonò nella fredda corrente tra mormorii di piacere intervallati soltanto dai moniti irritati rivolti agli spiriti elementali che lo pungolavano o gli si avvicinavano troppo. «Come certamente le avranno già spiegato» cominciò Lytton più tardi, pronunciando le parole lentamente, in un tono calante in chiusura delle frasi, come non facesse che affermazioni, e non ponesse mai domande «sono perseguitato dai maledetti spiriti elementali di Huxley. Devono amare il mio sangue!» Stava camminando in testa nel sottobosco che fiancheggiava la parete rocciosa. Il sentiero cominciava a inerpicarsi rapidamente subito dopo l'entrata della grotta e i due si arrampicarono a fatica tra i robusti alberi, inciampando sui massi muscosi che spuntavano dal terreno come denti spaccati. Il brusio del campo era alle spalle, al di sotto di dove si trovavano, ma nella foresta regnava un certo fermento: gli uccelli, o forse gli inseparabili parassiti di Lytton, si agitavano freneticamente attorno a loro. Il crepuscolo giocava con la loro percezione. Il sole, sul punto di tramontare, era molto acceso, ma allo stesso tempo l'immagine della sfera era quasi soffusa, come quella delle nuvole che riflettevano la sua intensa luce arancione. Lontano, estendendosi sulla destra di Richard che si arrampicava, la volta celeste era un mare nebbioso d'ombra e silenzio, da cui emergeva qualche grande albero lanciato verso il cielo, dai rami ossuti, raggiunti dalle intemperie, tesi al di sopra del resto della foresta. Vestito con un paio di Levi's scoloriti e una maglia da rugby, Lytton sbuffò per lo sforzo quando raggiunse la cima dell'irta salita. Fermandosi per prendere fiato, sorrise e batté una mano sopra un grande libro in pelle che teneva sotto braccio. La rilegatura era nuova, ma all'interno le pagine erano invecchiate e increspate dal tempo. «Ha avuto il tempo di leggere il diario di Huxley? Lacan l'ha istruita?» «Un po'.» «L'aspetta una grossa sorpresa, Richard. Davvero, Huxley era un uomo geniale...» si interruppe bruscamente indicando un punto tra gli alberi. «Guardi! Guardi là!» Un improvviso battito d'ali richiamò l'attenzione sul volo di un immenso airone, nella luce del crepuscolo, che si sollevava dal nido posto sui rami più alti di un olmo immenso che dominava la foresta. Le piume del collo
erano rosso sangue, la schiena striata di grigio e nero. Sorvolò il Varco di Old Stone scomparendo nella vampa del sole. «Magnifico!» esclamò Lytton incantato. «Ha idea di che genere di uccello ha appena visto, Richard?» «Un airone. Un airone incredibilmente grande.» «Un airone incredibilmente estinto! È stato cacciato fino alla sua estinzione dalle tribù stanziate in quello che ora è il bacino Atlantico, a ovest di Francia e Spagna. In altri termini, durante l'ultimo periodo interglaciale, quindicimila anni fa. Riesce a immaginarlo, Richard? Quindicimila anni. E oggi, in questa foresta, qualcuno, o qualche cosa, ha portato con sé questo uccello. Una leggenda perduta, un eroe dimenticato, una creatura associata a quell'eroe, ed ecco, con il suo volo superbo, bellissimo, senza tempo, un fuggevole frammento di qualcosa che il nostro mondo ha perduto.» Era ancora senza fiato, ma il piacere tratto da quell'airone gigante, irradiava dall'ampio sorriso dipinto sul suo volto mentre l'osservava sparire lontano. Richard lo interruppe. «Lacan si leccherebbe le labbra e si chiederebbe che sapore potrebbe avere.» Lytton scoppiò a ridere e riprese la scalata. «Non ha affatto torto. Quell'uomo è un vero barbaro.» Poi schioccò le mani nel vuoto davanti a sé. Richard avvertì un odore di marcio e una folata di brezza gelida. «Dannati elementali!» gridò lo scozzese infuriato, aggrappandosi a un alberello per issarsi. «Coglie di cosa si tratta, Richard? Sa cosa intendiamo con elementali?» «Qualcosa di simile alle fate?» tentò Richard. Cominciavano a dolergli le gambe, ma attraverso il fogliame riusciva a scorgere la cresta dello strapiombo. L'arrampicata era quasi alla fine. Lytton si batté con un gesto nervoso sulla spalle sinistra dove, nonostante la poca luce, Richard riuscì appena in tempo a intravedere la minuta sagoma accucciata di una creatura dal viso di elfo, e i lisci capelli fluttuanti nell'aria. Galleggiava di fronte a lui e lo guardava con un largo sorriso. Lytton era stato molto divertito da quella risposta. «Simili alle fate! Indubbiamente! Ma cos'è esattamente una fata? Si è mai posto questa domanda, Richard? Un piccolo essere con le ali partorito da una fantasia vittoriana, forse? Affatto! Allora forse il minuscolo custode verde di pentole colme d'oro? Questo va bene per gli irlandesi, irriducibili ottimisti! Eppure no, uno gnomo non è una fata. Una fata è un essere corrotto, Richard. Un essere arido e degenerato. Così vecchio che la sostanza del mito è avvizzita
attorno alle sue ossa e la stessa ossatura si è ridotta a uno sterile midollo.» Pronunciò tutto lentamente, con un tono di voce quasi impercettibile. «Così come la terribile creatura che li governa, gli elementali arrivano dai tempi dei tempi, i tempi peggiori, delle prime foreste, dei primi fuochi, del primo linguaggio che contenesse qualcosa di più che soli gesti. Afferra dove voglio arrivare? Erano i tempi del primo discernimento delle cose, delle prime paure irrazionali. Degli incubi primordiali, se vuole. Lacan li chiama «forme-ricordo dei tempi più antichi della coscienza umana. È tutto ciò che ci resta della savana, delle grandi culture lacustri dell'Olduvai, dei lunghi spostamenti umani fuori dall'Africa. Ma proprio essendo tanto antichi, sono altrettanto tenaci, buon Dio. Si sono innestati nelle nostre menti, irremovibili come l'ombra dalle cose in un giorno di sole. E qui, in questa foresta primitiva, si condensano e si presentano con la stessa facilità di un temporale in Inghilterra.» Lytton si staccò dalla fila di alberi e si incamminarono su per un pendio erboso che conduceva alla cima della parete. Stava calando la sera e i due contemplavano la sua maschera che diventava rossa all'orizzonte. Erano entrambi esausti per aver parlato camminando, ma Lytton inspirò profondamente, chiuse gli occhi, e sollevò la testa verso il cielo sorridendo. Richard era stato sul punto di rispondere alla mini lezione sugli elementali con una domanda a proposito della funzione dei funghi allucinogeni, ma pensò fosse più prudente tacere. «Andiamo» disse Lytton all'improvviso prendendo il libro tra le mani. Di nuovo fece il gesto di cacciare qualcosa da sopra la sua spalla, innervosito. «Lì ce n'è uno?» «C'è.» «Accidenti! A ogni modo, sediamoci, parliamo un po', diamo uno sguardo all'universo che ha creato George Huxley.» E mentre si approssimava alla cima, accese una sigaretta, e tossì aspirando la prima boccata. «Sta cominciando a comprenderci, Richard?» domandò Lytton con una flemmatica cadenza scozzese. «Lacan è stato un buon pedagogo?» Seduto sul bordo dello strapiombo, Richard si sentì ancora una volta sopraffatto dalla distesa d'alberi sotto di lui. A forza di scrutare l'orizzonte, cominciò a distinguere delle sagome regolari tra le chiome ondeggianti degli alberi. Vide la merlatura di un castello medievale, la guglia spezzata di una torre, le imponenti colonne dei totem intagliati nei tronchi che si in-
nalzavano quasi quanto gli olmi ad alto fusto. A grande distanza, la foresta dava l'impressione di essere in fiamme, e oltre a quella tremolante illusione ottica d'incendio, si delineavano delle montagne. In risposta alla domanda di Lytton non poté che rispondere: «Capisco le parole, ma non il senso di ciò che dice. Riesco a malapena a cogliere le linee generali... tutte queste cose in una foresta così piccola...». Richard aveva accettato la vastità della foresta di Ryhope come se si trattasse di un sogno, ma a ogni istante la sua incomprensibilità lo incantava di nuovo con una potenza crescente, che toglieva il fiato. Un'impressione che gli dava le vertigini, che lo faceva star male. Egli era una presenza reale all'interno di un mondo irreale, gli venivano fatti discorsi su guide spirituali e variabili spazio-temporali, sugli elementali e su un ragazzo defunto, ora tornato in vita, che per tutta la durata di quei sette anni non era affatto cresciuto. Stava vivendo un sogno lucido, espressione di una necessità, visto che quel ragazzo era suo figlio, un figlio di cui sentiva la mancanza e che avrebbe fatto di tutto per riabbracciare, ma era intrappolato in questo sogno, pienamente cosciente, tra la veglia e il sonno. Si accorse all'improvviso che Lytton lo stava fissando con curiosa intensità. Lo scozzese sollevò le sopracciglia, e chiese: «Un oscuro crepuscolo dell'anima, non è vero, Richard? A cosa sta pensando? Racconti». «Mio figlio è veramente in vita? Alex è vivo? È possibile? Ho visto il suo corpo...» Lytton annuì, sotterrò la sigaretta con quel po' di terriccio a disposizione, e sollevò lo sguardo sulla distesa selvaggia. «Alex è vivo, questo è assolutamente certo, e se potessi indicarle dove è nascosto lo farei, e con gioia. Posso mostrarle qualche piccola cosa di lui, quel castello, la fortezza. Siamo abbastanza certi che sia scaturita dalla mente di Alex, e non da quella di Huxley. Era appassionato di cavalieri, di tornei?» Richard pensò ai modellini, al castello di mattoncini, le pile di libri sulla saga di Artù, ai dipinti del Cavaliere Verde e del Cavaliere Rosso, ce n'era anche uno con un vestito dorato, e un altro chiamato il Cavaliere Fantasma che Alex aveva ideato per uno spettacolo di Natale all'età di otto anni, una piccola assurda rappresentazione, per la quale i fieri genitori si erano divertiti in modo formidabile. «Sì» rispose Richard con un sorriso. «Non mi stupisce. Il castello è uguale al Castello Bianco nelle Welsh Marches, vicino a Ludlow. Lo conosce? Fu il sito di una fortezza per migliaia d'anni, menzionata nel Mabinogion, il ciclo gallese di avventure celtiche. Similmente al fantasma del padre di Amleto, Alex è la presenza che
infesta quel castello. McCarthy l'ha intravisto nei corridoi. E credo anche Lacan. È un posto da cui alle volte ci osserva, ed è lì che ci siamo messi in contatto con lui la prima volta, che lo abbiamo sentito parlare, se così si può dire.» «Sciamachia...» «Esattamente. Il contatto con le ombre. Ci vogliono due settimane di cammino per arrivare al castello, anche se non si direbbe, e ci andrà con Helen. Quanto al posto esatto in cui si trova... tutto ciò che posso dirle, Richard, è che è qui da qualche parte, che si nasconde, che si difende da noi come dalle creature che non chiederebbero di meglio che ridurlo in pezzi di carne e ossa marce. È in grave pericolo. Ma di questo è già a conoscenza. Helen non avrà saputo nasconderglielo.» «No, non l'ha fatto...» «Non può vederlo, ma abbiamo un'idea sul modo di avvicinarlo. Quello che vide qualche anno fa, i resti del ragazzo, erano probabilmente, sì, probabilmente, una forma di Alex. Ma non erano Alex. Lui è qui, intorno a noi, e sta distruggendo quello che Huxley ha creato.» Quelle parole colsero Richard di sorpresa. Lytton indicò l'orizzonte. «Non ci è ancora arrivato? Ogni cosa che vede è Huxley. Sì, i primi semi della foresta sono cresciuti alla fine della glaciazione, ovviamente. Passarono i popoli e vi seminarono i prodotti dei loro miti. Sì. Certo. Ma si dovette attendere l'arrivo di Huxley perché prendesse forma. Qualsiasi cosa egli fece, andò a toccare il cuore di questa foresta. Anche se è morto, continua a vivere attorno a noi. Anzi, noi viviamo dentro di lui, nella mente stessa di Huxley. E da qualche parte là dentro, al centro della foresta, si trova la chiave e l'origine di ciò che ha compiuto ormai trenta anni fa. Ma Alex...» «Quando Alex arrivò, cominciò a sconvolgere ogni cosa. È come un tumore al cuore di questo mondo, che consuma e distrugge tutta la finezza e la bellezza della creazione di Huxley. La sua mente, vagabondando senza freni, è come un incendio che brucia e rende tutto carbonizzato. È diabolico. Questo è il motivo per cui voglio così fortemente che esca da qui, Richard. E in fretta, anche! Ecco perché abbiamo bisogno di lei. Lui verrà da lei... Ne sono convinto. E in quel momento...» Lytton fu improvvisamente colto dalla rabbia. Le sue parole avevano acquisito un tono minaccioso. Richard ne fu turbato e molto esplicitamente chiese: «In quel momento, cosa? Cosa farà? Che cosa intendeva dire?». Per un attimo ancora nelle fessure che erano diventati gli occhi di Lytton
continuò ad ardere il fuoco. Dopodiché alzò un sopracciglio e scrollò le spalle. «La prego di scusarmi. Huxley sta soffrendo, e questo mi addolora. Ma anche lei rischia di avere un grosso dolore.» Sollevò lo sguardo e continuò, in tono più sommesso: «Vede, c'è una cosa che devo dirle, qualcos'altro che riguarda Alex. Non sarà una buona notizia per lei...». «Prosegua.» «C'è qualcosa che non va nel ragazzo. La sua mente...» Lytton batté l'indice sulla tempia e rivolgendo a Richard uno sguardo obliquo continuò mormorando: «Gli manca qualcosa, o meglio, c'è qualcosa di distorto. Non possiamo averne la certezza, Richard. Quello che il ragazzo sta creando, quello che genera nella foresta attorno alla cattedrale, è come deformato. Non va. Finora è riuscito a difendersi da quelle creature, ma quelle difese finiranno per crollare. È solo questione di tempo. È un luogo già abbastanza pericoloso così com'è, senza seminare d'aggiunta i frutti crudeli e alienati della più sinistra immaginazione di un bambino». Immaginazione. La parola chiave. Richard pensò a suo figlio, al suo viso vuoto e triste che fissava lui e Alice durante l'interminabile, ultimo anno della sua vita. Visse di nuovo la stessa sofferenza, i tentativi di tirar fuori qualcosa, una qualsiasi risposta creativa, da un ragazzino che sembrava essersi spogliato di ogni emozione, sentimento, capacità di divertirsi, come un serpente si sbarazza della sua pelle. Lytton si avvicinò e prese il braccio di Richard in una stretta di conforto. «Mi spiace che questo le faccia male. Ma è meglio che lo sappia.» «Lo sapevo già» rispose Richard. «Più o meno un anno prima della sua morte... o scomparsa, ad Alex accadde qualcosa. Guardava attraverso una maschera, cercando di vedere la foresta di Ryhope. Pensai che fosse un gioco. Un gioco insensato. Ma venne colpito da qualcosa. Sono riuscito a malapena ad accorgermene...» Lytton, colto dall'eccitazione, lo ascoltava attentamente con sguardo di nuovo intenso. «Devo sapere tutto» lo interruppe. «Ogni dettaglio. Una maschera, ha detto? Devo sapere di cosa si trattava. Deve dirmi tutto, Richard. Più cose riusciamo a capire del ragazzo e più velocemente potremo farlo uscire dal suo nido e riportarlo a casa. Andiamo, andiamo!» Si alzò in piedi, ripulì i jeans con il dorso della mano, impaziente di rimettersi in marcia. Richard contemplava le mura del castello, oramai soltanto un'ombra tra le altre. Pensò al ritorno di Alex. Cercò di immaginare come sarebbe stato averlo di nuovo a casa, come se non se ne fosse mai andato: la stessa età,
lo stesso bambino dal sorriso aperto, lo stesso entusiasmo, lo stesso ragazzino, sempre in attesa di qualcuno che lo aiutasse con i suoi modellini. Era troppo per lui, troppo emozionante, e Lytton tornò a sedersi al suo fianco, lo sguardo irrequieto sulla foresta, ma in attesa, finché quel momento di tristezza non fosse passato. Echi Nel calore dell'edificio comune, con l'odore della terra fresca e il dolce profumo di legna bruciata che saliva dal fuoco centrale, Richard si rilassò. Lytton dispiegò una mappa di Ryhope. «Questo è il perimetro. È la parte più semplice da delimitare, ciò nonostante non lo troverete segnalato in nessuna delle cartine topografiche catastali.» La foresta di Ryhope si estendeva in modo più o meno circolare, ed era solcata da un sentiero che partiva da sudest fino a congiungersi con uno stagno nei pressi di un mulino. Nel bosco si inoltravano due corsi d'acqua, ma ne usciva soltanto uno dei due. All'interno del perimetro erano segnati dei settori, con nomi come Zona Quercia-Frassino, Sentiero dell'Olmo, Zona di Genesi Primaria, Gola della Stagione Rapida e Grotte del Lupo. Lytton batté una mano sulla cartina. «Conosciamo quattro vie di accesso per Ryhope. La prima passa per lo stagno. È un'entrata difficile che attraversa un boschetto di querce molto fitte. È il posto in cui, negli anni Trenta, i figli di Huxley hanno visto numerose apparizioni. Era la via d'accesso dello stesso Huxley.» Puntò il dito su un ruscello indicato con il nome di «Sticklebrook». «Si era accorto di potersi addentrare piuttosto lontano nella foresta seguendo il corso d'acqua per un po'. Alla fine, ovviamente, la foresta lo circondò, disorientandolo, ma egli riuscì ugualmente e tracciare una mappa delle zone limitrofe a Oak Lodge, e scoprì anche il Santuario del Cavallo, un luogo pieno di potere. Le altre due vie d'accesso sono due varchi che sfociano su dei piani di spazio e tempo differenti, se non si presta attenzione. Uno di questi è quello in cui pensiamo si sia persa Tallis, la ragazzina amica di suo figlio. Dopo quello che lei mi ha detto, probabilmente è passata dal Torrente del Cacciatore. La quarta entrata si trova in una miniera di stagno d'epoca romana, proprio qui.» Indicò l'impenetrabile margine della foresta, sul lato di fronte al villaggio di Grimley. «I lavori vennero abbandonati intorno al 200 a.D., probabilmente a causa di ciò che stava accadendo ai minatori... i canali sono profondi, ma sono stati chiusi
in quell'epoca.» Lytton srotolò una seconda cartina, sorridendo alla vista dell'espressione completamente stupefatta sul volto di Richard. «I livelli sotto la superficie» spiegò. «Altri mondi che crediamo accessibili attraverso i varchi.» La mappa mostrava cinque perimetri differenti della foresta di Ryhope, uno vicino all'altro e disegnati in modo incerto, collegati da sottili tubi che si intrecciavano tra loro, alcuni per connettere piani adiacenti, altri che invece tracciavano un lungo percorso per poi interrompersi, per la maggior parte, con un punto interrogativo. La Stazione del Varco di Old Stone era indicata sul primo livello e come per alcuni antichi luoghi mistici da cui si irradiavano multiple vie d'accesso, sembrava trovarsi all'origine di numerosi varchi. «Noi siamo al piano più in superficie, Bosco Uno. La foresta di Ryhope che conosceva Huxley. Esattamente qui, vicino alla grotta. Due dei varchi che si aprono da qui sono corti, e sono stati esplorati con successo. Uno di essi porta a una terra buia, cosparsa di laghi, nel Bosco Tre, probabilmente originata da alcune leggende della Slavonia. Quanto a questo... questo dove porta?» Girò leggermente la mappa. «Ah, certo. A una vallata cosparsa di pietre tombali, nel Bosco Due, nel tardo Neolitico europeo. Ma il varco che parte dalla caverna deve andare molto in profondità, come quello delle Grandi Acque. Finora abbiamo rilevato cinque livelli di sottomondi. Non basterebbe una vita per esplorarli tutti, Richard, e al massimo possiamo sperare di stabilire degli itinerari sicuri che ci consentano di andare e tornare, cosicché gli esploratori che ci succederanno potranno avere qualcosa più di una effigie come guida.» Richard stette per un po' a osservare l'intreccio confuso di linee, tunnel e canali, poi riavvolse con attenzione la cartina che copriva la semplice planimetria della foresta di Ryhope. In precedenza aveva notato una segnalazione, quella di una piccola guglia e la indicò con il dito. «Pensate che Alex si trovi nel Bosco Uno?» Lytton inclinò la testa di lato e sollevò le sopracciglia. «È difficile dirlo. Sembra essere lì. Ma la stessa cattedrale potrebbe esistere su più di un livello. La domanda da porsi è questa: in quale Bosco si nasconde Alex? Se è in profondità, allora dovremo trovare un varco. Se invece è nel Bosco Uno, dovremmo riuscire ad arrivare a lui direttamente. Il problema è che non possiamo. C'è qualcosa che ce lo impedisce, Richard, una barriera, a circa cinque giorni di marcia dalla Stazione. Se è Alex stesso a innalzare
quell'ostacolo, allora forse, dico forse, lascerà passare lei. Si sente disposto a tentare?» Quella domanda lo sorprese. «Ma certo. Tenterei qualsiasi cosa, ora che sono qui. Poco importa che a malapena comprenda qualche parola, che la mia vista sia affollata di esseri che danzano, che i miei sogni somiglino a una sorta di commedia dell'arte preistorica, caotica, colorata, che mi disorienta e mi spaventa, anche. Se Alex è vivo, lo ritroverò. Mi dica semplicemente che cosa devo fare.» «Farà l'abitudine a questi sogni» rispose Lytton gentilmente. «E anche il caos che percepisce nell'occhio mentale con il tempo si attenuerà. Fa semplicemente parte del processo di generazione.» Disse con un largo sorriso. «Anche se non ne è consapevole, lei sta creando della vita, Mr Bradley. La foresta là fuori l'ascolta, si nutre di lei e grazie a lei rende fertile se stessa e tutti gli altri sottomondi. Si serve dei suoi sogni, dei suoi ricordi, delle sue paure.» Batté il dorso della mano sul torace di Richard e continuò: «dà loro corpo, e al tempo stesso le nobilita, infondendogli potere, dando loro la forma dell'Eroe!». Fece una breve risata. «Apprezzo la sua metafora della commedia. È più appropriata di quanto non creda. Aspetti finché non sarà l'attore e allo stesso tempo il pubblico del suo stesso spettacolo! Può rivelarsi un'esperienza piuttosto affascinante.» Con il calare della notte, venne avviato un secondo generatore per l'illuminazione del perimetro del campo, e dalla caverna cominciò a soffiare uno strano vento musicale, che portava con se un brusio di voci lontane. Subito Lacan iniziò a registrare. Helen si precipitò all'apertura della grotta per osservare e ascoltare. Richard, che per il momento aveva terminato con Alexander Lytton, sedeva di fronte a Elizabeth Haylock, la cartina della foresta aperta sul tavolo da campo tra loro e tremava all'ascolto delle voci sovrannaturali che scendevano e salivano di tono. «Si direbbe che soffrano» disse. «Potrebbe essere semplicemente una distorsione...» «Riesce a riconoscerle?» Scosse la testa. In quel momento una voce, più grave, cominciò a bisbigliare. Le parole fluivano e rifluivano, prive di senso. Poi ci fu un grido di angoscia, acuto, che andò man mano diminuendo d'intensità per acquisire un tono più basso. Infine, i gemiti provenienti dalla caverna cessarono del tutto, e Helen ritornò al campo. Si avvicinò al tavolo dove erano seduti e si rivolse a Eli-
zabeth con sguardo addolorato. «Una delle voci sembrava quella di Ben Darby.» «Oh mio Dio...» «Hai sempre detto di voler sapere se... in ogni caso posso essermi sbagliata.» «Sì che voglio sapere. Grazie.» «Bisogno di parlare?» «Non è necessario. Grazie lo stesso.» Helen entrò nell'edificio comune. Elizabeth Haylock rimase per qualche istante a fissare in direzione dello strapiombo finché non si alzò incamminandosi risoluta verso il fiume. Si distese sulla riva, ventre a terra, e immerse una mano nell'acqua fredda. Poco dopo si alzò di nuovo in piedi, camminò lungo la sponda del fiume, come se cercasse qualcosa, un lungo bastone esattamente, e attraversò il ponte con quella semplice arma, spazzando via la vegetazione con colpi pieni di rabbia, mentre veniva ingoiata nelle tenebre della foresta. Richard seguì Helen dentro la casa. Stava mangiando un panino, annotando degli appunti su uno spesso quaderno. Accanto a lei, si stava raffreddando una tazza di tè. «Elizabeth ha appena attraversato il ponte. Sembrava davvero sconvolta.» Helen annuì con uno sguardo, ingoiò il boccone e fece segno a Richard di sedere. «Starà bene. Ben ed Helizabeth stavano insieme. È morto da molto tempo, e lei lo sa. Abbiamo ritrovato il corpo un anno fa. Ma il suo fantasma la perseguita in molti modi. Lui e il suo compagno devono essere entrati in una zona in cui il tempo scorre più lentamente, per cui nella foresta è ancora in vita per un certo periodo. A volte succede che arrivino le voci.» «È quello che è successo a Dan?» Helen lo guardò, socchiudendo gli occhi. «Gliel'ha detto Lytton, non è vero?» Richard annuì. Affondò i denti nel panino, lo sguardo vacuo, poi scarabocchiò sul quaderno qualche parola. «Conosceva i rischi» mormorò alla fine. «Il solo fatto di vivere qui rappresenta un rischio. Ma Dan è ancora vivo. Lo riporterò indietro. Lacan ha torto. E anche McCarthy. Dicono che non c'è ombra di lui nella foresta, ma non credo sia vero. Dan conosceva tutti i pericoli, avrà preso le sue precauzioni. Non parliamone più. La prego.»
«Mi dispiace. Non era mia intenzione angosciarla.» Helen scoppiò in una risata. «Tipicamente inglese. Non c'è alcun motivo per essere dispiaciuto. Le racconterò di Dan un'altra volta, solo che non voglio pensare a lui in questo momento, d'accordo?» «D'accordo.» «Bene. Ha preparato le sue effigi? Dovrà farne quattro o cinque. Troverà del legno dietro l'edificio comune. Avrà bisogno di capelli, sangue e...» sorrise imbarazzata «di sperma, se ne ha in più. È un buon allaccio per lo spirito.» «Stregoneria» mormorò Richard. Lei alzò le sopracciglia e annuì con entusiasmo. «Ma funziona!» Richard esitò nel sottolineare che le tre effigi all'ingresso della grotta sembrava non fossero state efficaci, e che il tempo stava ricoprendo di muffa quella di Dan, alle rovine del Santuario, ma Helen comprese le sue riserve e intuì i suoi dubbi. «Funzionano più spesso del contrario. E, qualche volta, occorre del tempo per richiamare indietro il viaggiatore. Ci serviamo delle effigi per segnare il nostro passaggio nel varco, per sapere chi è partito. In questo mondo, Richard, il tempo è strano, e il concetto di pazienza acquista un significato nuovo.» Richard andò a prendere rami e spago dalla piccola catasta sul retro del centro di ricerca e costruì cinque piccoli simulacri, pronti per venire dotati più tardi dei suoi «residui corporali». «Ha bisogno d'aiuto?» chiese Helen in tono malizioso. «Posso farcela da solo, grazie.» «Non avevo dubbi.» Dopo aver completato i suoi appunti, Helen stappò una birra, immediatamente imitata da Richard, e più rilassata prese a raccontare della sua escursione a Hergest Ridge. Poco dopo si sentì prendere dalla stanchezza e andò alla riva del fiume. Si spruzzò dell'acqua sul viso e cominciò a cantare dolcemente all'oscurità della notte, oltre la corrente. Richard, incantato dalla sua voce, la raggiunse sedendosi poco distante. C'era un che di inquietante nella canzone, e i versi erano in lingua lakota. Appena ebbe finito di cantare, chiese a Richard di voltarsi e velocemente urinò nel fiume. Mentre ritornavano alle tende Richard domandò: «Era un canto tradizionale?». «No, un incantesimo» rispose lei con un sorriso. «Un trucco. È il solo modo per prendere in trappola un Briccone. E ci riuscirò, mi creda!»
Con quelle ultime parole, si infilò nella tenda dove teneva le sue cose, e andò a dormire. Genesi Le lepri erano rimaste appese un giorno e due notti. Al suo risveglio, Lacan, con addosso soltanto degli stracciati pantaloni corti di denim e la sua magica collana di denti, iniziò a preparare il banchetto per la serata. Scuoiava le bestiole senza smettere di parlarci, esaltando sonoramente la loro eleganza, mentre agli altri, mano a mano che si svegliavano e uscivano dalle tende per andare a lavarsi, distribuiva istruzioni su quello che avrebbero potuto fare per lui. «Questo piatto si chiama lièvre à la royale e solamente un francese con un'antica discendenza celtica può rendergli giustizia. Ah, Helen, buongiorno, quando avrai terminato con le tue abluzioni femminili, ti incaricherai di fare un ricco sugo con il sangue congelato, un po' di brandy aiuterà a diluirlo...» «Se mi darai quel compito, è con il tuo, di sangue, che farò un bel sugo...» Contrariato, Lacan mozzò la testa a una delle lepri. «Allora procedi al sacrificio di qualche carota e qualche spicchio d'aglio che taglierai finemente, molto, molto finemente.» «Molto meglio.» «Li vorrei sotto forma praticamente molecolare!» «Nessun problema.» A Richard fu chiesto di preparare un fuoco nella buca dove si arrostiva la carne. McCarthy accettò il compito di allungare il sangue cotto. Lytton e Haylock raccolsero erbe selvatiche e funghi commestibili prima di mettersi a studiare su certi manufatti e di avere un'ulteriore conversazione di un'ora con Richard riguardo gli ultimi anni di suo figlio a Shadoxhurst. Lacan protestava, cantava, urlava e non smetteva di criticare, ma la mattinata si concluse e la «prima operazione» fu dichiarata un successo: le lepri stavano lentamente rosolando. Richard non commise che un solo piccolo errore. Osservando Lacan dall'altra parte del nastro blu che aveva sistemato per separare la zona cucina dalla parte «non civilizzata» della Stazione (un piccolo scherzo di Lacan) disse: «Ovviamente, i veri celti non avrebbero mai mangiato lepre. Sarebbe stato un sacrilegio. Non lo sapeva?».
Lacan alzò di colpo la testa, gli occhi spalancati per lo stupore, poi divenne scuro in volto. Saltò il nastro blu, afferrò Richard per il collo della camicia e lo fissò con sguardo truce. «Chi è lo scriteriato che le ha detto questo?» «È un fatto risaputo» rispose Richard con un tono pacato, sforzandosi di non sorridere. «La lepre era considerata un animale sacro... dai veri celti. La adoravano.» Lacan respirò lentamente, senza abbassare lo sguardo, poi liberò Richard dalla stretta e gli sistemò la camicia. «Be', ma certo!» gridò «certo che l'adoriamo! La adoriamo viva, e la adoriamo morta. Ma più di tutto, la adoriamo ben cotta!» Tornò nella zona cucina scuotendo il capo come fosse disperato e mormorando «Che idiota... cosa vuole saperne di adorazione... sarà che si sta inoltrando nella zona boschiva... succede... forse dovrei ignorarlo... magari se ne andrà...» Richard si era addormentato tardi, e i suoi sogni erano stati turbati dal pensiero di Alex. Dopo che ebbe parlato di nuovo con Lytton, andò a cercare Helen e la trovò al lago, che nuotava. «È gelata!» gridò. «Ma è meravigliosa. Venga!» Richard si spogliò completamente e si immerse, tremante, nell'acqua fredda; alla fine decise di tuffarsi per superare definitivamente lo shock. Il lago era limpido come cristallo. Helen galleggiava sul posto, le sue membra di una pallida sfumatura innaturale, ma snelle e armoniose mentre pedalava lentamente. Quando riemerse di fronte a lei, la trovò sorridente. «Deve perdere qualche chilo.» «In un'acqua così fredda sono grato del mio grasso in eccesso.» «Nuoti con me...» Lei fece una capriola sott'acqua con un colpo di gambe per scendere più in profondità, riemerse qualche metro più avanti e poi prese a nuotare con energia verso il varco delle Grandi Acque e i cartelli di segnalazione di pericolo. Lo stile migliore di Richard era il crawl e cominciò a nuotare nella sua scia, presto riscaldato abbastanza per trarre piacere dal freddo dell'acqua. Quando si fermarono, galleggiando in verticale nella profondità del lago, Helen guardò verso il fondo. «C'è un castello là sotto, lo vede?» Richard si immerse, scendendo il più possibile, finché la pressione nelle orecchie non divenne insopportabile. Vide, molto lontano sul fondo, le mura e la struttura di un edificio di pietra ricoperto di alghe. Una massa in sinuoso movimento si trasformò in un attimo in un banco di anguille. Gli
sembrò di intravedere due sagome dall'aspetto vagamente umano in posizione raccolta sopra uno dei due bastioni. La nitidezza con cui riusciva a vedere le rovine lo sconvolse, così come il fatto che fossero raggiunte da così tanta luce. Purtroppo erano troppo lontane per poter esplorarle senza un equipaggiamento appropriato. Senza fiato, emerse di nuovo in superficie e vide Helen che, a dorso, ritornava senza fretta verso riva. Dopo essersi asciugati, rimasero a sedere vicino all'acqua a lanciare sassi che rimbalzavano sulla superficie scintillante del lago, fino alla foschia che indicava l'entrata del varco. Richard chiese: «Che cosa ne è uscito, da quando siete qui?». Helen alzò le spalle. «Per lo più barche. Un selkie, un serpente, ma soprattutto barche. Solitamente finiscono il loro corso sull'altra riva, immagino che questa non debba piacergli troppo. La più spettacolare fu un lungo Drakkar vichingo, con una splendida vela e una bizzarra creatura scolpita sulla prua. Per equipaggio c'erano due uomini soltanto, uno vestito di bianche pelli, la testa coperta da un elmo d'oro, mentre l'altro teneva in mano le estremità della vela e guidava il vascello. Non abbiamo individuato la leggenda, e i mitago svanirono nel folto della foresta non appena approdati.» Indicò un punto sulla riva. «Il vascello è lì, da qualche parte. Lytton se ne serve per fare i suoi giri del lago chiamando Huxley, cosa che gli capita di frequente.» Guardò Richard con sguardo curioso negli occhi verde giada. «Che idea si è fatto di Lytton?» «Scozzese, ossessivo, alito pesante, romantico, probabilmente geniale...» Ripensò al suo disagio durante la conversazione della sera prima sul Varco di Old Stone. «È arrabbiato con Alex. Sembra considerarlo come un tumore maligno che distrugge le strutture invisibili e impercettibili della foresta. Sono certo che non dice sul serio.» La risata di Helen fu amara. Afferrò la giacca che portava sulle spalle e vi si strinse dentro, guardando Richard con occhi severi. «Sì che dice sul serio. È spaventato da quello che sta facendo Alex. Non se lo dimentichi mai. Non si fidi. Lo ascolti, sì. Conosce la foresta di Ryhope meglio di tutti noi. È lui che ci ha radunato qui per la prima volta. Sa tutto quello che c'è da sapere su Huxley e sui mitago. D'accordo. Però, Richard, stia in guardia da lui. Lo osservi.» «Vuole far uscire Alex dalla foresta. Vuole aiutarlo.» «Vuole far uscire Alex da Huxley, e sarebbe disposto a qualsiasi cosa per riuscirci.»
Richard fissò lo sguardo sull'azzurro del lago. Era tutto così calmo, così pacifico, così remoto. Era stato appena attraversato da questi pensieri, che sentì ruggire in lontananza la voce di Arnauld Lacan, senza dubbio un'altra richiesta, un altro malumore durante la preparazione delle sue lepri. Helen tese l'orecchio, aggrottando le sopracciglia. «Qualcosa tipo "c'è da completare la prima eliminazione del grasso?".» Lei e Richard sorrisero complici. «Grazie al cielo ho dovuto soltanto tagliare la verdura.» «È un uomo in gamba, quel Lacan.» «Sì, lo è. E un buon amico.» Si fece improvvisamente pensierosa. «Non troverà mai ciò che sta cercando. Ci sono momenti in cui mi sento molto triste per lui.» «Cos'è che sta cercando?» Helen abbassò lo sguardo, scosse il capo. «Se non gliene ha parlato lui, non posso neanche io. Mi dispiace. È una specie di regola, qui. Una parte del rituale.» «Per me va bene. E lei invece? Cosa sta cercando?» «Io? Il Briccone. Come le ho detto l'altra notte. Il Vecchio Coyote. La vecchia sacra volpe in carne e ossa. Il predatore della coscienza. Il primo dei bugiardi. L'amico sorridente, il nemico maligno. Il Briccone. È qui. E lo troverò. E quando accadrà, io...» Sorrise, interrompendo il flusso di parole, e si prese tra le dita la ciocca argentata che le scendeva dalla tempia. «Lo troverò» ripeté. «Io e lui abbiamo qualcosa da dirci.» «Tutti cercano, tutti sentono la mancanza di qualcosa, tutti sognano.» «Ecco perché siamo qui. Anche lei. A parte il fatto che il suo obiettivo non è un mitago.» «Già, è così. Sono rimasto sconvolto per la velocità con cui è venuta a sapere della mazza da cricket.» Helen rise di nuovo. «Ci abbiamo impiegato una settimana! McCarthy ha incontrato l'ombra di Alex in uno dei castelli.» Richard ricordò che Lytton gliene aveva parlato e suggerì: «Sciamachia?». «Qualcosa di simile. Alex si trova in difficoltà, ma può spostarsi attraverso il reticolato di radici. È aiutato. Qualcuno lo sta aiutando. Quando appare, è letteralmente un'ombra, ma qualcuno come McCarthy, e qualche volta io, riesce a comunicare con lui. Poniamo una domanda e otteniamo la risposta sotto forma onirica. Come parlare con qualcuno che si trova in sogno lucido? Quando McCarthy le ha domandato della danza attorno al fuoco, l'ombra ha liberato una tempesta di emozioni. Moltissimi ricordi, un
carico quasi eccessivo. Quella è stata una notte importante per suo figlio. Più importante di quanto forse non si renda conto.» «Non l'ho accontentato. Non ho voluto ballare. Mi sentivo imbarazzato. E lui ci teneva disperatamente.» «Non ha ballato? Perché, vecchio ottuso conformista?» disse sorridendo. «Aveva un significato più ampio. Quello è stato il momento in cui creò un contatto con il cuore della foresta. Succede a tutti, tutti ci facciamo catturare. Se c'è un senso in quella serata, allora ha a che vedere con i personaggi che danzavano, con il fuoco, e non con la sua mazza da cricket! Alla fine salterà fuori. Per il momento, c'è solo una cosa che conta.» Richard le lanciò un'occhiata, poi intensificò lo sguardo, annegò nel suo, nei suoi occhi, nel calore e nella forza che gli stava offrendo. Sulle ciocche intrecciate dei suoi capelli neri e argento erano rimaste delle perle d'acqua di lago. Respirava lentamente, restituendogli lo sguardo, poi disse: «Crede al fatto che Alex sia qui? Lo sente nel suo cuore? Ha fiducia in noi? Non lo troveremo, se non è così.» «Lo desidero così tanto. La mazza da cricket... in che altro modo avreste potuto saperlo? A meno che non mi leggiate nel pensiero.» «Non sappiamo farlo. Parlare con i fantasmi, questo sì, ma non leggere nel pensiero.» «Voglio talmente tanto credere che sia vivo. Ho rinunciato a lui con troppa leggerezza dopo l'incidente, con così tanta leggerezza... Ma poi l'ho visto morto, e l'ho seppellito. Qualcosa è venuto a prenderselo, è entrato in lui attraverso la maschera, ce l'ha portato via. Quando finalmente morì - oh mio Dio, l'ho detto, l'ho detto... - quando morì fu un sollievo. Fu una tale liberazione. Come fosse svanita una depressione. Mi sentivo di nuovo libero. Avevo l'impressione che avrei ritrovato qualcosa per cui valesse la pena vivere. Ma non è mai successo.» «Alice si è allontanata...» «E io lo stesso. Ho smesso di vivere. E ho semplicemente cominciato a invecchiare.» Helen gli sfiorò delicatamente la spalla, poi si accostò e, con sua sorpresa, lo circondò con un braccio. «Va bene così? O le da fastidio?» «No, no. Affatto.» Lei lo strinse più forte, sorridendo per il suo imbarazzo, la sua timidezza, scrutando il suo profilo con un'espressione maliziosa. «Allora come mai è così duro?» «È capace di accorgersene? Senza guardare? Incredibile.»
«Come mai è così teso?» si corresse ridendo. «Non si fa da voi in Inghilterra? Avvicinarsi agli amici quando li si vede tristi?» «Può darsi che stessi pensando a qualcosa di più che una semplice amicizia.» Pronunciando queste parole si sentì andare il viso in fiamme, e si chiese, in nome del cielo, dove avesse trovato la faccia tosta per spiattellare una verità tanto ovvia. Helen esitò e voltò lo sguardo da una parte, per un attimo pensierosa, senza ritirare il braccio con cui lo teneva stretto a sé. «E va bene» esclamò all'improvviso. «Perché no? Anche io sono attratta da lei. Sono stata attratta da lei fin dalla prima volta che ci siamo incontrati, ormai parecchie settimane fa.» «Tre giorni fa, se non le dispiace.» «Tre giorni... cinque settimane sono stata in profondità. Ho avuto più tempo per pensare a lei di quanto ne abbia avuto lei per pensare a me. Non ci si libera facilmente di un uomo come lei, Richard Bradley. Compare nei miei sogni, e questo mi piace. E sono certa che lei piacerà anche a Dan. E non c'è problema, prima che cominci a diventare nervoso. Non è un tipo macho, possessivo.» «Non un tipo alla Jack Daniels o un cowboy della Marlboro, allora?» «Assolutamente no» rispose ridendo. «Un Southern Comfort e limonata, di tanto in tanto, magari. Marijuana, certo, ma del resto chi non la fuma? E lei? So che Alice l'ha lasciata. È ancora solo?» «Un autentico scapolo. Cliff cantava quella canzone solo per me.» «Cliff Richard? È troppo grazioso. Parliamo di Mike Jagger piuttosto...» «Degli Stones? Quando vuole. L'unica musica che ballerei, al giorno d'oggi. Ma ho ancora un debole per gli Shadows...» Helen scoppiò in una squillante risata. «Allora, Mr Bradley, è venuto proprio nel posto giusto!» Uno squillo di corno fece sì che tutti, oltrepassando i cancelli del campo, accorressero in riva al fiume. Si sollevarono grida di gioia all'apparizione di due massicce figure tra gli alberi sulla cima della parete di roccia. Discesero attraversando l'ossario, e di nuovo l'uomo si portò il corno d'osso alle labbra per emettere il richiamo basso e risonante, scoppiando poi a ridere quando Lacan gli intimò a gran voce di smetterla. Attraversarono il ponte e lanciarono i loro zaini agli altri componenti del gruppo, poi si spogliarono restando con addosso solo le maglie attillate, macchiate di sudore. Si trattava dei due finlandesi specializzati in mitolo-
gia, sulla via del ritorno da qualche settimana, e che McCarthy aveva rintracciato. Il loro arrivo improvviso e inaspettato fu una gioia soprattutto per Lacan, le cui lièvre à la royale erano sontuosamente pronte per essere mangiate. La donna del nuovo team, Pirkko Sinisalo, aveva un taglio da freccia sul polso destro e Helen la accompagnò alla tenda dell'infermeria. Alcuni minuti più tardi i due finlandesi andarono a fare conoscenza di Richard. Pirkko trasudava antisettico, e il suo compagno, Ilmari Heikonen, aveva in mano una bottiglia quasi finita di grappa di patate ghiacciata e fragrante, che Richard fu felice di assaggiare. Erano andati alla ricerca di Tuonela e dell'eroe Vainamoinen, ma si erano ritrovati nella tundra di un ciclo di miti siberiani primitivi, e avevano dovuto combattere strenuamente contro dei cacciatori di mammut. All'avvicinarsi del crepuscolo, da un vecchio grammofono cominciò a suonare della musica, una chiassosa canzone country, con un vivace ritmo in levare, resa anche più singolare dalle voci di Lacan e Helen, che aggiungevano un accompagnamento tutto loro. Le lepri furono servite. Erano così tenere che la carne si staccava dalle ossa quasi sciogliendosi, così gustose che tutti perdonarono Lacan per il suo carattere irascibile e i suoi accessi di collera, oltreché per le mansioni che aveva assegnato loro. Dopo la lepre, i complimenti e l'accettazione prolissa e loquace di Lacan del suo genio culinario, si aprirono le danze con delle gighe e dei valzer a cui provvidero Ilmari al violino, e Lacan con un'antica cornamusa d'osso che suonò con vitalità fenomenale, marcando il tempo con il piede. Richard ebbe la segreta soddisfazione di venir subito invitato a ballare da Helen, che lo trascinò nei passi country di musiche che conosceva, ma nelle quali non si era mai provato. Era stata gettata della legna secca sulle braci per creare un falò al centro della radura, e gli abitanti del Varco di Old Stone volteggiavano e saltellavano intorno alle fiamme, sovrapponendo le loro grida senza controllo alle voci e agli accordi dei vecchi dischi rigati. «Cosa? Senza mazza da cricket?» commentò Helen mentre ballava un valzer con Lytton, il quale continuava a sbraitare i testi delle canzoni con un accento scozzese così marcato da farli suonare come urla di guerra. I capelli neri di Haylock fluttuavano attorno al suo viso come un velo, mentre volteggiava con Wakeman, il quale si teneva dritto e rigido, come un robot animato da movimenti improvvisi e convulsi. Richard e Pirkko, che per il calore del fuoco erano vestiti della sola calzamaglia di rete, improvvisarono una specie di passo in stile regency, più pacato, su dei ritmi bre-
toni più tranquilli. Pirkko sudava, non smetteva di dire a Richard cose che lui non riusciva a sentire, gli si stringeva contro e rideva con familiarità. Egli allora si concentrò su Lacan e McCarthy, che cercavano maldestramente di ballare, spingendosi l'un l'altro, con il minuto irlandese che cercava di guidare nelle piroette il colosso francese. Si tenevano per le braccia, si lanciavano sguardi minacciosi, insultandosi, inciampando e ridendo. La danza fu improvvisamente interrotta, in modo quasi traumatizzante. Ilmari Heikonen urlava che facessero silenzio. Si trovava al portale della palizzata, pallido e spaventato, alla luce dal fuoco. «Spegnete la musica!» gridò. Le melodie celtiche cessarono immediatamente, lasciando un inquietante silenzio spezzato soltanto dal crepitare della legna tra le fiamme e dalle parole di Heikonen. «C'è qualcosa che viene verso di noi. Dal Santuario. Sta arrivando velocemente, attraverso le radici...» Richard non aveva mai visto una tale frenetica attività. Nello spazio di pochi istanti ognuno si era rivestito, apparecchi fotografici e monitor in spalle e raggiungeva di corsa il fiume. Helen lanciò a Richard il suo pesante giaccone che egli infilò goffamente, seguendo, disorientato, gli altri compagni oltre il ponte. Si inerpicò sul buio pendio in cima al quale si trovava il Santuario, inciampando lungo il cammino, guidato dalla luce della torcia che lo precedeva. D'un tratto, nella foresta calò un pesante silenzio. I fasci di luce tracciavano un ampio arco nell'oscurità. Helen, appoggiata a un albero, respirava in affanno. «È qui!» gridò all'improvviso. Due sagome si gettarono di colpo contro gli alberi, mani in avanti, raschiando la corteccia. Richard si accorse che Helen sfregava la pelle scura e callosa sul dorso della sua mano. Percepì l'odore del sangue. «Sta crescendo. Si concentra» giunse la voce di McCarthy. «È il ragazzo. È riluttante. Sa che siamo qui...» aggiunse quella di Helen. «È suo figlio» continuò sottovoce un attimo dopo. «Sente la sua presenza. La cerca. Presto... forse c'è una possibilità di vederlo.» Disse trascinando Richard con sé. Lacan, con la sua voce rombante: «Si è spostato... a destra di quaranta gradi... È nel Santuario!». Helen cambiò direzione, prese a correre tra le pietre grigie e le colonne scolpite, guidata dai bagliori vacillanti delle torce davanti a lei. La luce era attraversata da pesanti figure che si allungavano verso l'alto o scomparivano camminando carponi, ognuna delle quali cercava di individuare una po-
sizione, di sentire il flusso di energia, quale che fosse, che Alex stava proiettando. Le loro voci si amalgamavano in una sola. «Qui!» Un improvviso volo di uccelli, un violento rumore di rami spezzati nel sottobosco. «Aumenta ancora!» «Ma dove? Dove?» «È vicino! Chi ha la sua ombra? McCarthy?» «Sono con lui. È al massimo della tensione, sta cercando con tutte le sue energie. Riesco a vedere la sua scia... è terrorizzato.» Richard sentiva del movimento tra gli alberi e le rovine tutto intorno a lui, poi, improvvisamente, un gran freddo, si sentì isolato, appoggiato con la schiena al tronco di una quercia, di fronte alle oscure ombre di una foresta il cui profilo si stagliava, in alto sopra di lui, contro il chiarore della mezza luna. E in quel momento, qualcuno lo chiamò: «Papà». La voce era parsa arrivare dai confini di un altro mondo. Lo aveva sconvolto. Era la voce di un ragazzo, soltanto un sussurro, irriconoscibile, eppure intensa. Una sola parola, una parola che sognava. Si sentì svenire e per sorreggersi si abbandonò pesantemente contro l'albero, gli occhi spalancati nel buio. Iniziò a cadere una pioggia tiepida e vischiosa. L'albero contro cui era appoggiato cominciò a trasudare liquido ed egli si spinse via, impressionato dalla spiacevole sensazione. L'intera radura fu percorsa da un brusio seguito da un tremito, mentre le foglie stillavano la loro linfa. L'atmosfera si fece inebriante, densa, soffocante, e la pressione dell'aria salì a tal punto che cominciò a sentire male alle orecchie. Con la coda dell'occhio vide lo scatto del flash di un apparecchio fotografico, il bagliore di un istante. L'aria venne aspirata via dai suoi polmoni lasciandolo senza fiato. Dall'oscurità del suolo sorse un immenso volto spettrale, luminescenza grigia nella notte, un'immagine appena visibile di occhi, naso, e capelli spioventi, labbra che si muovevano senza suono: le gigantesche fattezze di un ragazzo, imponenti, al centro della radura. Più cresceva e più si dissipava, frammentandosi ai bordi per ricomporsi man mano che si avvicinava a Richard, il quale indietreggiò tornando verso l'albero che piangeva. Gli occhi del fantasma erano immensi, e nella grigia sagoma luminescente gli sembrò di vedere delle lacrime. Il volto continuò a crescere, e quando si
sollevò apparvero le spalle e le braccia. Una mano si allungò verso di lui, dita inconsistenti cercarono di sfiorarlo. A quel punto la sagoma continuò ad allargarsi, si assottigliò tra gli alberi, si espanse in modo abnorme, finché poi esplose, senza un suono, come un bianco stormo di uccelli disperso per un allarme improvviso. La pressione della radura si attenuò e l'aria, satura dell'odore di linfa, rinfrescò. Helen si avvicinò a Richard e lo prese per un braccio. «Che cosa ha visto?» «Ho visto Alex. Il suo spirito. Il suo volto.» «È sicuro che fosse proprio Alex?» «Mi ha chiamato» rispose Richard. «Credo mi abbia riconosciuto. E aveva un'aria veramente spaventata.» Prima che potesse dire di più, prima che potesse lasciar crescere ed esprimersi l'improvvisa tristezza, Lytton ordinò a gran voce: «Via da qui. Avrà di certo seminato la radura, ed è una zona di genesi primaria. Nessuno ha visto da dove è uscito?». «Dall'arco. Dev'essere un varco» rispose Lacan. «Eccellente! Se è così non può sfuggirci!» Helen scosse Richard con insistenza. «Non resti lì.» «Seminato?» chiese Richard seguendola. «Una genesi» mormorò lei con riluttanza. «Alex è comparso per vederla, ma genera dei mitago, e a noi non piace quello a cui dà vita. Però è proprio grazie a questo che possiamo seguirlo... McCarthy probabilmente ha visto delle ombre del tratto di terra tra noi e la cattedrale. Dovremmo essere in grado di seguire Alex fino al suo rifugio...» Il gruppo prese la via del ritorno, nel buio. Richard continuò a tendere l'orecchio verso la radura che stavano abbandonando, senza percepire alcun suono. Durante la notte, tuttavia, il silenzio fu spezzato da un grido di dolore e frustrazione quasi umano, in lontananza, che rimase sospeso solo pochi istanti. Il Tempio Verde - IV Agrifoglio soffriva. Era certamente molto vicina alla morte. Tornata al suo nido, si era distesa, emettendo suoni che addoloravano Alex, il quale non smetteva di ripetere, in un sussurro: «Non morire. Non ancora. Non morire...».
Stava facendo buio, il cielo era carico di nuvole che preannunciavano il temporale, un vento freddo soffiava dall'alto nel Santuario scoperto, l'enorme cattedrale. Alex camminava avanti e indietro sotto gli alberi, aspettando la pioggia. Sorvegliava la buia apertura del nido, chiamando la sua amica, ma non poteva più fare altro per lei. Non riusciva a capire pienamente quello che stava succedendo. Lei gli aveva spiegato che faceva solo parte del suo processo di vita e di morte, nonostante fosse fuggita dal gruppo cui apparteneva, e non avesse avuto contatti con un maschio da numerose stagioni. Alex sapeva soltanto che gli uccelli che si nutrono di carogne non avrebbero tardato ad arrivare. Non gli avrebbero fatto del male, sarebbero semplicemente arrivati a occupare i nidi degli alberi più alti della foresta. Ma Agrifoglio era così debole che temeva per la sua linfa. Era già talmente avvizzita da essere sul punto di spezzarsi. Alex era molto confuso. Aveva bruscamente abbandonato il Piccolo Sogno, enormemente scosso dall'incontro con suo padre, che gli era sembrato così vecchio, così diverso dall'uomo dei suoi ultimi sogni. Era emerso in un luogo seminato di trappole; aveva percepito una vibrazione ostile, come quella di una ferita aperta, una feroce minaccia indirizzata a lui da qualcuno tra gli uomini che lo circondavano. La rabbia non proveniva da suo padre. Da lui emanava soltanto disperazione e nostalgia di rivedere suo figlio. Aveva chiamato il suo nome, e Alex aveva risposto, gridando il suo desiderio di ritornare, di ritornare alla casa con i suoi coni d'ombra e i suoi profumi di cibo appena cotto, i quadri e i modellini sulle pareti e sugli scaffali. Vedeva la casa, con l'occhio della mente, non ancora abbastanza chiaramente, ma era accogliente, un vecchio amico che si fa strada a fatica tra i ricordi. Egli apparteneva a quel luogo. Ma gli era accaduto qualcosa di terribile. Suo padre ne era stato testimone, e durante uno dei suoi viaggi verso il Piccolo Sogno, Alex aveva visto per qualche istante il terrore nei suoi occhi: un ragazzino lanciato da una parte all'altra di una stanza, un ragazzo morto, un ragazzo assente, un ragazzo sepolto sotto la pioggia. Era stato raggiunto da qualcosa di orrendo, e quel qualcosa era nella foresta, che lo aspettava. Colui che ghigna aveva colpito una volta e poteva colpire di nuovo, se solo fosse riuscito a sfondare le difese del Santuario. Colui che ghigna lo aveva seguito attraverso il bosco anche questa volta. Si era calato dietro di lui nell'attimo in cui Alex era salito in superficie per vedere suo padre, ed era diventato una furia, seminando il panico tra le
donne e gli uomini che avevano disposto le trappole. Aveva urlato e riso a squarciagola, poi strisciando per le radici, era tornato alla cattedrale, dove attendeva, sospeso tra il fogliame, il momento più propizio. O forse, aspettava soltanto... Agrifoglio non emetteva più alcun suono. Alex salì sul nido, colpito dal potente odore di marcio e decomposizione che proveniva dall'entrata circolare. Agrifoglio rimestava nel buio. Alex udiva, in lontananza, il gracchiare attutito e doloroso dei corvi. Lei respirava a fatica e le zanne battevano l'una contro l'altra. Al di sopra del nido, un raggio di sole uscito dal cielo in tempesta andò a colpire il cavaliere distrutto... «Gawain...» Nello stesso istante in cui il nome gli tornò alla mente, si udì il rombo di un tuono e la cattedrale fu attraversata da un'improvvisa, gelida folata di vento. Sul vetro colorato la luce cambiò posizione. Le zampe verdi del mostro furono illuminate per un istante. Dietro ai personaggi senza testa, il tempio verde lo chiamava a sé, il suo ingresso buio nel terrapieno verde, rigoglioso, sembrava un passaggio verso la pace. Alex sorrise. «Il Cavaliere Verde» disse. «Mi ricordo...» La vetrata fu scossa da un secondo, violento tuono che risuonò nell'aria seguito da un bagliore e da un altro rombo fragoroso. Agrifoglio emise un grido acuto. Dal nido eruppero degli uccelli, almeno un centinaio, una nuvola scura che sgorgava dal pergolato. Becco bianco, ali nere, si lanciarono verso l'entrata, affollando l'aria. Gli sfiorarono la schiena mentre si riunivano in un chiassoso vortice di strilli, in volo circolare sopra di lui per celebrare la loro nascita e la loro libertà. Quando il nido tornò silenzioso, Alex si calò nel suo soffice interno, tendendo le mani nel buio per trovare l'amica. Era ancora viva. Si sentì sfiorare dalle estremità delle sue dita spinose e la sentì frusciare. Alex avrebbe voluto portarle qualcosa, qualsiasi cosa avesse potuto aiutarla a guarire. «Acqua? Vado a prenderti dell'acqua?» Lei emise una flebile vibrazione, così egli uscì dal Santuario, per correre al pozzo, sfidando la tempesta. L'oscurità venne squarciata da un fulmine ed egli, mentre sollevava il secchio, lanciò ansiose occhiate verso il bosco, poi tornò indietro con un mestolo d'acqua fredda in un recipiente di foglie. Trovò Agrifoglio che camminava carponi sul pavimento di marmo, parzialmente intrecciata con una radice di quercia. Aveva l'aspetto di un piccolo cespuglio, ma sollevò la testa e aprì le braccia per stringere a sé il ragazzo, che si raggomitolò nello spazio vuoto del suo ventre, contro le ossa
nodose della schiena, tra le piume nere sparse tra le sue foglie che stavano diventando scure. Bevve l'acqua convulsamente. Era molto debole. Quando sognò il Grande Sogno con lei, le immagini erano vaghe, una visione nebbiosa degli Uomini Verdi che si addentravano nel mezzo della vasta foresta, e del passare delle stagioni. Erano guidati dallo sciamano. La sua vegetazione estiva si scuriva con il rapido approssimarsi dell'inverno, e i fiori e le erbe che decoravano il suo corpo appassivano, perdendo il loro colore. Stava immobile, in una piccola valle spazzata dalla pioggia, a osservare il suo osservatore, mentre intorno a lui, Quercia e Frassino, Nocciolo e Salice, avanzavano attraverso il folto degli alberi, procedendo lentamente in direzione della cattedrale. C'era agitazione tra loro. Presto avrebbero cominciato a perdere le foglie, a trasformarsi in esseri mostruosi. I lupi d'inverno. A che distanza erano dalla cattedrale? Alex non aveva alcun modo per capirlo. Ma si sentì toccare nell'anima quando lo sciamano, grattando il volto scolpito sul suo bastone, percepì una nuova direzione, un nuovo percorso attraverso la foresta. Cosa vogliono da me? Vogliono raggiungerti. Entrare nel Santuario. Passare attraverso il tempio. Perché? Perché sono incompleti. Sono alla ricerca della completezza. Vengono attratti dalla fonte della loro creazione. Che si trova là, proprio nel cuore di essa. Le sue parole bisbigliate, sibilanti, suonavano così dolci nella sua mente, che Alex riusciva a sopportarle a fatica. Sapeva, però, che la sua amica aveva bisogno di riposare e di rimettersi in forze. Era un sempreverde, e questo significava che non sarebbe andata incontro alla perdita e al recupero di forze come gli altri della sua specie. Ma non c'era di che nutrirsi nelle lastre di marmo che coprivano la cripta. Alex si alzò e abbracciò il daurog per aiutarla a sollevarsi, ma era troppo frondosa e le foglie lo pungevano facendolo sanguinare, in qualsiasi modo provasse a sorreggerla. Allora prese dell'edera per costruire una carrucola con la quale la sollevò fino alla finestra, la fece scendere sopra il porticato e da lì sul terreno. Agrifoglio trovò una zona di terra soffice, diètro un masso inclinato, e piantò le sue radici in profondità, ripiegandosi su se stessa, per qualche istante scossa da tremiti violenti, prima di rimanere immobile.
Alex osservava il cielo minaccioso e sentiva il vento freddo, ma le si sedette accanto, per sorvegliare la foresta, e proteggere lei mentre lottava per restare in vita. A un certo punto della notte, Agrifoglio allungò un braccio e quando lo sfiorò delicatamente con le dita, egli udì la voce di suo padre, un suono di corsa, e di cavalli. «Presto saremo al sicuro» disse. «Mio padre è vicino, sempre più vicino. Presto saremo al sicuro...» Jack Molto presto, la mattina seguente, Richard fu svegliato da Lacan che lo scuoteva energicamente. Era buio nella tenda umida e fredda e la barba appena accennata di Richard era bagnata di rugiada. «Sono venuto per dirle au revoir» dichiarò il francese. «Devo partire presto.» Colto alla sprovvista, Richard riuscì a malapena a ripetere «Au revoir». Il gigante era una sagoma pesante e informe piegata sopra di lui. «Lei partirà per l'interno tra un'ora o due con Helen e Lytton, forse anche McCarthy. Quanto a me, mi piace cogliere l'Altrove di sorpresa.» Frastornato dalla stanchezza, turbato da ciò che Lacan gli aveva appena detto, Richard si raddrizzò sostenendosi sui gomiti. «Non capisco. Pensavo sarebbe venuto con noi...» «Ahimè, no. C'è qualcos'altro che mi chiama.» Richard scosse decisamente il capo. «Mi spiace, ma questo proprio non è possibile. Assolutamente fuori questione! Si ritenga in arresto, Lacan.» «Ahimè...» «Ce l'ha con me per non aver mangiato carne di orso a colazione...» «Vuole un po' d'orso? Ne ho in abbondanza...» Mentre Richard abituava gli occhi al risveglio, vide che Lacan era completamente vestito, lo zaino in spalla, gli amuleti portafortuna che pendevano dal collo e il bavero della giacca abbottonato sotto il pesante mantello di pelliccia d'orso. Aveva legato i capelli in una coda e segnato l'ampia fronte con delle righe mimetiche verdi e marroni. «È ancora stanco, eh?» chiese Lacan. «Le visioni continuano?» disse indicando il lato dell'occhio. «Sono esausto. Mi sveglio più affaticato di quando vado a dormire.» «Brutti sogni?» «Indescrivibili.» Fece penzolare le gambe dalla brandina improvvisata,
si strofinò energicamente gli occhi, poi guardò il gigante negli occhi. «Dove è diretto? Mi dispiace vederla andare.» «Un viaggio importante» sussurrò Lacan. «È da parecchio tempo che lo preparo. Starò via forse sei mesi, forse meno. Mi inoltrerò per la caverna. Andrà tutto bene. Ho un naso infallibile per ritornare dove si trova ottimo vino francese!» Forse Lacan si accorse dell'ansia improvvisa che colse Richard non appena si rese conto che il suo amico stava per entrare nel più pericoloso dei varchi della foresta di Ryhope. La sua mano strinse con forza e calore la spalla dell'amico esausto. «Sarà una grande avventura! Ci sono talmente tanti altri mondi ai quali può condurre il Varco di Old Stone. Mi considero molto fortunato. La prego, non si preoccupi per me. Questo genere di spedizioni, amico mio, è la ragione d'essere di Ryhope.» Prese Richard tra le braccia e lo strinse, lo baciò per tre volte sulle guance, continuando a sorridere per tutto il tempo. «I sogni diventeranno più leggeri. Li annoti. È un'ottima catarsi! E quando troverà suo figlio, tutto sarà ancora più semplice. Per tutti noi. Si fidi di Helen. È una vera esperta del cuore della foresta. E ha anche un debole per lei. Mi creda! E McCarthy ha rilevato buona parte delle tracce che ha lasciato Alex la notte scorsa quando è venuto a farci visita.» Si raddrizzò e si voltò per andarsene, ma Richard si sporse in avanti afferrandolo per la manica. «Arnauld?» Come se intuisse cosa stava per dire, il francese rimase completamente immobile, silenzioso, lo sguardo fisso sul giorno nascente. «Cosa c'è?» chiese finalmente. La voce di Richard era appena un sussurro. «Cosa cerca? Può dirmelo?» Lacan si voltò verso di lui con un'occhiata, l'espressione scura dietro i capelli arruffati, la barba fluente e il pesante cappuccio di pelliccia. Gli brillavano gli occhi, ma non per l'eccitazione. Il respiro era lento quando disse, molto semplicemente, sommessamente: «L'ora della mia morte». Imbarazzato, a disagio con se stesso sia per ciò che di invadente aveva potuto avere la sua curiosità, sia per la singolarità della risposta che aveva provocato, Richard rispose: «Non capisco, ma le auguro di trovarlo...». «Grazie. Me lo auguro anch'io. Sarà bello poter rinascere.» Con un passo uscì dalla tenda ed entrò nel chiarore dell'alba. Un attimo dopo, alle sue spalle, Richard esclamò: «Se mai avrà bisogno d'aiuto, basterà fare un fischio! Mi sente? È capace di fischiare, non è vero, Lacan?».
La rauca risata del francese provocò il panico tra gli uccelli sugli alberi. Partirono un'ora più tardi, Lytton in testa, seguito da Helen e Richard. Attraversarono il ponte e s'inerpicarono sulla china alberata diretti al Santuario. McCarthy trasognato e distratto, marcava il passo dietro di loro. Arrivati al Santuario, fecero una rapida valutazione del danno provocato dal mitago «seminato» da Alex: quattro profondi squarci sul tronco di un frassino, rami di quercia spezzati da una furia selvaggia, uno dei quali mostrava l'inconfondibile segno di un morso di grande apertura, con denti lunghi e aguzzi. «Cominciamo a ricostruire il giardino d'infanzia di suo figlio» disse Lytton con un sorriso. «La sua immaginazione è senza freni. Incide su tutto ciò che crea. Questo doveva essere una qualche specie di rettile.» Lanciò a Richard uno sguardo preoccupato. «Forse Alex aveva una passione per i dinosauri?» «Mi trovi un ragazzino che non l'abbia mai avuta.» «Effettivamente...» ammise Lytton annuendo con convinzione. «Questo comunque era piccolo. Ha lasciato delle tracce. Vede?» Richard osservò i rami più alti della quercia danneggiata e vide alcune ciocche di capelli verdognoli. C'era anche un frammento di tessuto strappato, di lino pesante, verde anch'esso. «Due creature diverse?» «Non credo. Alex crea delle chimere, una combinazione di mito e passione. Quale ha detto che era la sua storia arturiana preferita?» «Arturiana? Intende di Re Artù? Tutte quante. Ha attraversato una fase in cui avrebbe voluto essere Sir Lancillotto. C'era una serie, in TV. Quella e Robin Hood erano le sue fonti d'ispirazione preferite.» «Ma quelle serie erano molto superficiali. Senza dubbio deve aver letto altro sull'argomento.» «Come le ho detto, era sempre stato affascinato da Gawain e il Cavaliere Verde. Aveva interpretato uno dei personaggi, la sera stessa che trovammo Jim Keeton che correva sulla strada.» Guardò ancora la ciocca di capelli verdi sull'albero. Improvvisamente l'idea dell'essere mostruoso che aveva devastato quella radura si trasformò in qualcosa di quasi comico. Allo stesso tempo, la sua potenza era evidente. «Metà rettile e metà gigante dalla barba verde?» «Perché no?» replicò Lytton. «Dentro Ryhope esistono cose anche più assurde di questa.»
Qualche minuto dopo, e con una cerimoniosità un po' impacciata, Richard posò la prima delle sue effigi, il suo primo cippo, alla base dell'arco greco sotto il quale si apriva il varco, aggiungendo alle altre tre anche la sua sagoma rudimentale. «Ora non perdiamo tempo» disse Lytton. «Ci aspetta un lungo cammino da fare. Andiamo...» Con un passo oltrepassò le colonne di pietra, sembrò in qualche modo fondersi con lo sfondo, e poi svanì. Nell'attimo in cui la sua immagine aveva cominciato a confondersi, passò anche McCarthy, seguito da Helen. Richard esitò, osservando come lo spazio sembrava ingoiare la sua voluminosa figura. Per alcuni secondi, con il battito del cuore accelerato, rimase immobile sotto un cimelio dell'antica Micene, sotto personaggi danzanti di marmo e rigogliose piante rampicanti, poi, radunando tutto il suo coraggio, anche lui avanzò di qualche passo. La luce si trasformò. Si trovò sempre in mezzo alla foresta, ma in piena estate, la luminosità era splendente, accecante, il calore soffocante. Sulla sinistra si ergeva un alto cumulo di terra, e da qualche parte davanti a lui, in una cascata tra le rocce, scorreva un fiume. Non c'era alcuna traccia degli altri e Richard li chiamò, sentendosi improvvisamente inquieto. Un attimo dopo il suo secondo richiamo, Helen entrò nella luce, nuda, giungendo dalla zona del fiume in piena. L'acqua riluceva sul suo corpo e sui capelli completamente bagnati; l'espressione del viso era un chiaro segnale della sua irritazione. In silenzio si protese per prendere la sua camicia, accatastata con gli altri indumenti contro le radici di una quercia. «Sono lieta che alla fine si sia deciso a venire!» esclamò con rabbia, strizzando il lunghi capelli, voltata verso di lui nel chiarore abbagliante della radura. Stupito, Richard non poté che protestare: «Ma ho tardato soltanto pochi secondi!» «Non lo faccia!» rispose duramente, infilandosi i pantaloni. «Non ha sentito cosa ha detto Lytton? Non lo faccia mai più! Mi ha capito? L'ho aspettata per un giorno e mezzo. Gli altri sono andati avanti. McCarthy ha visto tre colossi che potrebbero contrassegnare i confini della zona protetta di Alex. Lytton pensa che possano arrivare solo fino a quel punto senza il suo aiuto.» «Un giorno e mezzo...» ripeté Richard. Helen sospirò, passandosi le dita tra i capelli umidi. «Non immaginavo sarebbe successo. Alcuni varchi rispettano lo scorrere abituale del tempo più di altri. Richard, non faccia supposizioni su questo posto. La prego.
Voglio proseguire. Voglio rimettermi in marcia. Non potevamo sapere se in preda al panico si fosse ritirato, o stesse semplicemente prendendo coraggio. Capisce?» Richard effettivamente capiva, e porse le sue scuse. Ma aggiunse: «Se era preoccupata, perché non è tornata indietro?». Lei lo guardò con un'espressione severa, mentre sistemava il suo zaino sulla schiena. «Ho provato.» «E non ha funzionato?» «Non ha funzionato. È un senso unico. E questa è una brutta notizia.» «Ma Lacan...» Richard era perplesso. Lacan gli aveva insegnato che i varchi erano delle porte in entrambi i sensi. Perché con questo non doveva valere la stessa regola? Helen si incamminò per prima, in direzione del fiume. «Questa è una terra fragile, provvisoria. In uno stato di continuo mutamento. E si trasforma costantemente in virtù delle menti intorno a essa. Le regole sono flessibili, non possiamo impedirlo. Non so cosa diavolo sia successo qui. Ma questo varco è differente e non c'è alcun modo per ritornare al Santuario. E questa è un'altra cattiva notizia. Sono preoccupata! E anche Lytton lo è. A parte questo, e il suo abissale temporeggiamento...» lanciò un'occhiata alle sue spalle e sorrise «fino a ora sta andando tutto bene.» Richard l'aveva di nuovo persa di vista, e si agitava avanti e indietro nel freddo e nell'oscurità, infastidito dall'umidità che si raccoglieva costantemente sulla sua barba, con le gambe doloranti per lo sforzo a cui erano sottoposti i muscoli nel continuo tenersi in equilibrio sul terreno sconnesso e scivoloso della foresta. Si era seduto sul tronco molle di un albero morto, caduto a terra e reso scivoloso dal muschio, approfittando di una chiazza di luce in quella che altrimenti era un'opprimente penombra, quando lo raggiunse il lontano richiamo di Helen, appena udibile nel totale silenzio. «Dov'è? Richard! Venga qui! Da questa parte!» La trovò accovacciata ai piedi di uno strapiombo di roccia grigia. Sotto i licheni che decoravano come coccarde la sovrastante parete del monolite, si intravvedevano dei motivi a spirale. Sotto la pietra, giacevano, schiacciati, i resti di un uomo di alta statura. Helen si girava tra le mani la testa raggrinzita, osservandola senza emozione. «È uno Hood» disse, e subito aggiunse «Robin della Foresta? Noi li chiamiamo Hoods. Questo in particolare ha dei tratti molto evidenti, quasi
certamente è di un bambino. Probabilmente di Alex. Però, interessante, questo arco.» Spostò il lungo arco con la punta del piede. Richard notò soltanto la freccia scura e macchiata, il tessuto rosso legato attorno alle estremità, le piccole piume bianche disposte a raggio nel mezzo. «Alex conosceva bene il tiro con l'arco?» domandò Helen. «No, non che io ricordi.» Il cadavere era alto più di un metro e ottantacinque e aveva una corporatura atletica. Ciò che restava dei suoi indumenti consisteva in alcune pezze di pellame marrone e di cotone tinto, con una predominanza di colore rosso. Attorno al collo portava una sottile catena di argento grezzo su cui era infilata una testa di cervo in ambra, non più grande di una monetina, squisitamente cesellata. Le cause della morte erano anche troppo chiare - era stato sventrato. Il suo cadavere aveva già cominciato a decomporsi, le membra a staccarsi (così come la testa), della muffa stava invadendo la carne avvizzita, e l'edera, dal terreno, cercava lentamente di trascinare i resti di nuovo dentro la terra soffice. «Assassinato?» chiese Richard. Helen scrollò le spalle, poi si chinò per separare i lembi degli abiti ed esaminare la piaga aperta. «Un animale con le zanne, credo.» Richard era sbalordito. «Un elefante?» «Un cinghiale!» rispose con una risata, ma immediatamente tornò seria. «Che potrebbe ancora essere nei paraggi. Non è una grande idea mettersi a discutere con questi maiali giganti. Quando si condensano, ovvero quando diventano reali» aggiunse lanciandogli un'occhiata «hanno la tendenza ad assumere un particolare attributo mitico: una stazza gigantesca!» Lanciò a Richard il teschio e si infilò di nuovo lo zaino sulle spalle. La testa era leggera, come legno di balsa. Ma l'impressione di toccarlo glielo fece cadere dalle mani, e l'osso essiccato si ruppe colpendo il suo piede, spargendo a terra i residui grigiastri e polverosi del cervello del mitago. «Non è molto interessante» continuò Helen. «Un fenomeno molto naturale a Ryhope. Ce ne sono centinaia nella foresta, di questi Robin Hood stereotipati. Sono una combinazione di memoria di razza e immaginazione sottoposta a un processo di abbellimento. Ognuno di noi ha pressappoco la stessa immagine di uno Hood. Errol Flynn dovrebbe rispondere di questo! A ogni modo, quell'arco mi affascina. Tutto il resto suggerisce che è stata la mente di un bambino a generare questo personaggio. I bambini hanno un immenso potere in questo luogo. Quell'arco però... Non è conforme...»
Un'ora più tardi la natura della foresta cambiò completamente. Gli uccelli, sui rami alti degli alberi minacciosi, la riempirono con i loro crescenti strilli e schiamazzi. La temperatura, nell'umido, brumoso sottobosco scese bruscamente, diventando glaciale. Helen era turbata. Camminava intorno alle pozzanghere di luce in modo da rimanere nella penombra, gettando continue occhiate al fogliame che ondeggiava sui rami alti, poi si rivolse a Richard con un gesto della mano che diceva chiaramente: resti immobile. «Cosa c'è?» domandò Richard. La condensa del suo respiro gelato si allargò davanti a lui verso un boschetto di faggio e ginepro in mezza luce. Da quel luogo sinistro l'impronta di un animale si allontanava in direzione della foresta più fitta, e Helen fece segno a Richard di starle dietro, nella brumosa luminosità. Ma appena Richard si mosse per seguirla, sentì un movimento provenire dal boschetto, poi un rapido suono, acuto, umano, un lamento di dolore. Lasciò cadere lo zaino, guardò la direzione presa da Helen in modo da non perderla di nuovo, e poi passando tra due alberi entrò in una conca erbosa e fiorita. Le grida di agitazione degli uccelli si moltiplicarono, e quando si alzarono in volo il loro battito d'ali divenne un rumore assordante. Una collinetta, su un lato della conca, si rivelò essere la sagoma di un uomo, che con la schiena arcuata spuntava dal terreno che lo tratteneva, le braccia aperte sui fianchi. Richard pensò fosse morto e quando si chinò per osservarlo da più vicino, vide che la terra stessa aveva creato un'apertura attorno al tronco, avviluppato da liane, viticci di rampicanti e germogli che tiravano il cadavere perché venisse assorbito di nuovo nel corpo della foresta. Il volto aveva i segni della formazione di funghi, e i capelli, biondi e lunghi, sembravano radicarsi tra le felci. Al suo collo brillò debolmente un riflesso di metallo e, tra le piante che ricoprivano il torace, un motivo a scacchi rosso e giallo rivelava i resti di una camicia. L'uomo aveva la bocca aperta e Richard intravide, all'interno della cavità, il movimento furtivo di qualcosa. Aveva gli occhi serrati, un'espressione di grande sofferenza. Non si vedevano ferite. Alle sue spalle, un improvviso rumore di passi lo fece sussultare per la paura. Helen lo afferrò per le spalle. «Andiamocene via da qui. Ora.» «È morto. Un altro Hood, immagino.» «Un altro Hood affatto. Presto, Richard. Fuggiamo da qui.» Dietro di lui, il morto, o moribondo, emise un lungo gemito acuto e si assestò leggermente nella terra che lo risucchiava. Helen era già tornata sul sentiero. «L'ha vista?»
«No. Gli occhi erano chiusi. Sta morendo.» «Sta nascendo! Andiamo, dobbiamo distanziarlo. Se ci vedesse, si fisserebbe su di noi. Si tratta di un Jack, e i suoi colori non mi piacciono affatto. Ci porterebbe solo problemi.» Sta nascendo? Richard si allontanò incespicando dalla conca, rimaneggiando nella sua mente l'immagine del cadavere. Non stava dunque venendo risucchiato dalla terra, al contrario, ne veniva spinto fuori, e la pelle stava assorbendo la crescita fungale grigioverde, non viceversa. «Un Jack? Come Jack e il Fagiolo Magico?» «Come Jack e L'Ammazza Giganti» rispose Helen in tono pungente. «Lytton non le ha mostrato i diari di Huxley?» Ma prima che Richard potesse velocemente recuperare la memoria di ciò che aveva scritto il loro predecessore nella foresta, venne assalito da un pensiero più urgente: la sua roba! Fece marcia indietro e arrivò di corsa nel posto in cui aveva abbandonato l'ingombrante zaino. Lo raccolse in fretta per tornare sulle tracce di Helen, nella foresta meno fitta, lontano da quelle viscere glaciali. Ma raddrizzandosi, vide di sfuggita una sagoma della grandezza di un uomo, con la schiena curva, che lo osservava dal folto del boschetto, immobile tra le ombre. Stava appoggiato con una mano al tronco di un albero, e ansimava. Un lampo di luce rivelò i suoi occhi, contratti, sinistri, e immobili. Richard seppe con certezza di essere stato visto. Huxley aveva scritto: 13 marzo 1928. Un Jack è arrivato fino al margine della foresta ed è rimasto a osservare la casa. I ragazzi sono a scuola, e Jennifer è in città. All'inizio sembrava indeciso poi, come tutti i mitago, è venuto verso di me, fermandosi all'altezza del cancello. Avrei potuto sperare di vedere un'oca sotto il suo braccio, lo scintillio di un uovo d'oro, ma questa particolare eco del mito folcloristico era affamato, sanguinario e armato fino ai denti di tutto ciò che aveva potuto trovare nel bosco: cioè a dire delle grezze lance, una grossa clava, e due coltelli infilati nella cintura. Il suo abbigliamento ricordava quello degli anglo-romani nordici, specialmente la tunica di pelle e i pantaloni corti, anche se per tenersi al caldo indossava sulle spalle una pesante pelliccia di pecora. C'era un che di Ercole
nel Jack in questa forma. La lunga chioma e lo sguardo selvaggio lo rendevano all'apparenza meno intelligente rispetto all'astuto compare che mi sarei aspettato. E più tardi, nell'estate del 1930: Jack, sii svelto; Jack, sii astuto... Jack che cambia forma! Nella zona Quercia-Frassino ho incontrato un bardo celtico, una gentile creatura che suonava un complicato insieme di pipe d'osso, zufoli curvi dalla forma molto primitiva, ed effettivamente, la sua storia era legata alla loro invenzione e al loro uso nella magia. Mi ha raccontato quattro storie, una delle quali è questa: Finalmente una storia su un Jack, che ho intitolato Jack Suo Padre - credo sia molto vicina al "nucleo leggendario". Jack ha il dono della metamorfosi. Il suo nome nella storia è Cungetorix, figlio del capo clan Mananborus, che fu realmente un personaggio storico. Questa antica leggenda contiene soltanto uno o due ingredienti della più tardiva leggenda popolare trasformata dalla tradizione orale nel Fagiolo Magico. Tutto questo Helen lo raccontò sottovoce a Richard mentre si riposavano, ben nascosti, per riprendere fiato dopo un'ora di corsa a zigzag nella foresta per allontanarsi dal luogo da cui stava avendo origine il Jack. «Jack Suo Padre è una delle pochissime storie che George Huxley fu in grado di interpretare a partire dai suoi incontri in Ryhope. Perlopiù vedeva i mitago per fugaci apparizioni o per brevi e incomprensibili incontri. Jack Suo Padre, però, è un racconto sul Briccone britannico, e per questo mi interessa e vuol dire che con il nostro inseguitore è meglio non avere a che fare...» «Può riassumermi la storia? Immagino mi sarebbe utile sapere cosa ci siamo messi contro.» Helen bevve un lungo sorso dalla sua bottiglia d'acqua, per un attimo ascoltò attentamente la foresta, e poi si piegò in avanti, circondandosi le ginocchia con le braccia. «Molto brevemente: è una storia che parla di inganno reciproco e della vendetta di Jack. Mentre è fuori a seminare il grano nei campi, un gruppo di predoni aggredisce e uccide brutalmente suo padre e i suoi tre fratelli,
trafugando le loro teste. Jack ne è all'oscuro, ma quando vede arrivare i predoni, capisce di essere in pericolo. In cambio della sua vita, offre tre semi, attribuendogli qualità magiche: uno di essi si trasformerà in una casa in cui ci sarà sempre un banchetto in tavola, il secondo si trasformerà in una nave in grado di navigare su qualsiasi lago incantato, e il terzo, è il seme di un albero che crescerà talmente tanto che un uomo coraggioso, dalla sua cima, potrà vedere la leggendaria Isola delle Donne. Il capo dei predoni gli crede e gli offre in cambio il migliore di tutti i maiali che ha catturato nella razzia, la voce da cantante più melodiosa che Jack possa mai sognarsi di ascoltare, e offre, inoltre, di fare di Jack un uomo migliore di suo padre. Jack accetta. I semi si rivelano essere nient'altro che semplice grano, e il capo dei predoni monta su tutte le furie. A quel punto a Jack viene data la testa di suo padre: era suo padre il miglior maiale catturato nella razzia, dolce cantava la sua voce mentre pregava per aver salva la vita, e, dato che suo padre è morto, adesso è Jack l'uomo migliore. «Ma Jack, che esige vendetta, invoca la Dea dei Corvi, e lei lo trasforma nella testa insanguinata di suo padre. Un'oca dalle forti ali trasporta la testa fino all'accampamento del capo dei predoni, dove prima si trasforma nella casa dei banchetti, poi nella intrepida barca, e infine nel gigantesco albero. Il capo, bramoso dell'Isola delle Donne, si arrampica fino alla cima, ma Jack dell'Albero non smette di crescere, si rompe alla base e il capo dei predoni cade, sfracellandosi sulle rocce dell'isola che aveva desiderato così ardentemente.» Richard elaborò la storia. «Quindi dobbiamo stare in guardia da che cosa? Una casa, una barca e un albero gigante?» «Da un esperto in metamorfosi» rispose Helen. «Quasi certamente Ben Darby è morto così. Da questo momento in poi, Richard, si ricordi che niente, per quanto semplice, è come appare.» Dentro la pelle Inquieta per l'incidente nel boschetto di ginepro, Helen attraversava la foresta di faggi come un cervo, senza apparentemente preoccuparsi del baccano che faceva calpestando il sottobosco soffocante. Era una sagoma che appariva e scompariva in lontananza, mezzo illuminata, indefinita, non più visibile del tremolio di un'ombra, ma a Richard questo bastava per seguirla. Dopo un'ora si fermarono per riposare a una cascata d'acqua protetta al
fresco delle rocce, racchiusa nell'ombra umida. Il suono della cascata rendeva difficile sentire se il Jack li stesse seguendo o meno, così Richard andò ad appostarsi sulla cima dello strapiombo, dove l'aria era più tiepida. La foresta era completamente immobile e per quanto tendesse l'orecchio, l'unico movimento che udì fu un semplice fruscio alla comparsa di un uomo minuscolo, che lo guardò, esitò un momento, e poi fuggì emettendo un verso simile a quello di un uccello. Helen non diede importanza al piccolo uomo, quando Richard le riferì il fatto, ma si preoccupò del silenzio che li seguiva. «Non è possibile. Non può...» «Non può cosa?» «Averci sorpassato. Non così presto...» «Il Jack?» Helen, reggendosi in piedi al di sopra della cascata si ravvivava i lunghi capelli con apprensione guardando in lontananza. «È veloce. Avrei dovuto ricordarmene. Jack lo svelto. Ci starà aspettando, più avanti, da qualche parte. Stiamo attenti.» Quella notte si accamparono in una struttura cadente di legno, un tempo usata come reliquiario. Si ergeva in una radura, e aveva cominciato a crollare su se stessa, la copertura di paglia annerita del tetto stava iniziando a marcire. Delle travi intagliate reggevano un sottile architrave di pietra sul quale si distinguevano ancora le tracce di alcune rune dipinte. All'interno, c'erano teste e arti in pietra, e sparsi al suolo cocci di urne decorate. Era un posto perfetto per barricarsi e proteggersi dalle creature selvatiche che giravano per la foresta, e una porta bassa, sul fondo, poteva servire da uscita di emergenza, nel caso qualcuno avesse cercato di entrare. Richard aveva giudicato imprudente mettersi a dormire in un luogo così poco nascosto, ma Helen, non appena si fu accertata che quella struttura non era una manifestazione del Jack, aveva categoricamente rifiutato le sue riserve. «Sta per piovere.» E così fu, per gran parte della notte; l'aria si saturò di umidità, ma il tetto di paglia era ancora sufficientemente intatto per tenerli all'asciutto. Richard si svegliò presto, spaventato dal volto grigio e cadaverico, che lo fissava con occhi vuoti e la bocca spalancata. Lanciò un urlo e rotolò sul terreno, il che lo fece risvegliare completamente. Helen, in calzamaglia, stava esaminando attentamente le urne di creta. Sorrise divertita quando Richard, finalmente calmo, si voltò a guardarla.
Era stata lei a piazzargli davanti la testa votiva, per fargli un dispetto, confessò. «Mi ha quasi fatto venire un infarto!» protestò Richard. «Semplice vendetta. Lei russa piuttosto forte, sa, Mr Bradley?» «Stavo russando? Non è da me.» «Sì, e più forte di un animale a zanne lunghe. Non un pachiderma, ma di certo un cinghiale» disse rivolgendogli un'occhiata divertita. «Queste sono Urnfield. Incantevole modello, eccellente lavorazione. Sono piene di sassi con degli occhi dipinti sopra» disse mostrandogliene una manciata «e frammenti di cristallo specchiato, incluse alcune splendide pietre di ametista e opale. Si tratta senz'altro del tempio che cercava il cacciatorebambino Vishenengra, al fine di rendere la vista alla sua famiglia, accecata durante un assalto dei Kurgan. È un'avventura sul genere di quelle sugli argonauti sparse per tutta l'Europa e l'Ovest asiatico, ma risalente a cinquemila anni fa.» La sua sicurezza e la sua conoscenza erano piuttosto impressionanti. Come poteva dedurre tutto questo da un luogo così distrutto e devastato? Helen gli rammentò che tutto, dentro Ryhope, aveva a che fare con la leggenda, quindi non soltanto gli eroi, che fossero cacciatori del paleolitico o valorosi cavalieri, ma anche le costruzioni e gli scenari erano connessi con quei miti perduti. Per un certo periodo, in passato, quel rozzo Santuario non aveva avuto esistenza reale, bensì mitica. Un luogo a cui aspirare nei sogni, un luogo irraggiungibile, inaccessibile se non attraverso una storia. Aveva riconosciuto che gli occhi di pietra appartenevano a una leggenda cui Huxley aveva accennato brevemente intorno al 1940. «È posto magico, ma non riesco a ricordare in che modo. Il guardiano si nasconde ai visitatori, osservandoli attraverso gli occhi dei Defunti...» All'unisono si voltarono a guardare le teste di pietra, e Richard sentì un inatteso brivido di inquietudine. D'un tratto lo scherzo di Helen gli parve di gran lunga meno divertente. «Propongo di andarcene di qui» disse Richard. Helen annuì. Raccolsero in fretta i loro zaini e Richard passò per primo, abbassandosi sotto l'architrave inclinato, per uscire nella radura umida, ma luminosa. Quasi urlò per lo spavento quando si trovò davanti un enorme cavallo, che gli soffiò sul viso scuotendo poi la testa con un gran rumore di catene. L'animale incombeva sopra di lui, nero come il carbone, bardato con mezze lune di bronzo, ossa lucide e coccarde colorate, scalpitando nervosamente sul terreno trattenuto dal suo cavaliere. La punta della lancia dell'uomo a
cavallo era una larga pietra seghettata, la pesante impugnatura saldamente legata con della corda e premeva dolorosamente contro la gola di Richard. Il guerriero, che Richard riuscì a vedere stagliato contro la luce implacabile del cielo, indossava una mezza armatura. Aveva i capelli tagliati corti, sul lato destro portava delle ciocche appuntite con un impasto di gesso, sul lato sinistro invece tre lunghe trecce decorate con delle piume. Degli altri movimenti ai margini dello spiazzo annunciarono il cauto arrivo di altri due possenti uomini a cavallo, che dirigevano la loro cavalcatura fuori dalla macchia. La punta della lancia incalzò Richard nuovamente, indicandogli di spostarsi di lato, ed egli rapidamente obbedì. Helen, ancora all'interno del Santuario, non emetteva suono, ma Richard era inerme di fronte a quel gigante. Sperò che fosse pronta per attaccare, o che fosse già riuscita a scappare per la piccola porta sul retro della costruzione. I due compagni del cavaliere si misero in posizione raccolta, poggiando le lance sulle ginocchia. Entrambi a braccia nude, il torace protetto da corsaletti di pelle di tenui colori. Portavano stivali e pesanti pantaloni. Piume ed erbe, legate in fasci, li decoravano con delle trecce legate alla cintura. Il primo cavaliere discese dalla coperta che fungeva da sella, non ce n'era una vera e propria, né staffe nei finimenti, e si chinò per entrare nel Santuario. Improvvisamente spaventato, Richard fece un passo in avanti, con l'intenzione di gridare qualcosa per distrarre l'attenzione del cavaliere da Helen. Una lancia fendette l'aria passando davanti ai suoi occhi, e andò a infilzarsi con forza tremenda su una delle travi della porta, dove continuò a vibrare per qualche istante. Gli altri due uomini si erano entrambi alzati in piedi, ed estrassero una seconda lancia, pronta per essere scagliata. I due cavalli, indifferenti, pascolavano l'alta erba bagnata. Richard alzò le mani in un gesto di supplica augurandosi che così venisse interpretato, ma chiamò ugualmente Helen, pieno d'angoscia. Dall'interno del Santuario giunse il mormorio della voce dell'uomo. Richard lo sentì pronunciare ripetutamente la parola Kyrdu. Continuando a parlare, il cavaliere disponeva a terra gli occhi di pietra, osservandoli minuziosamente, facendo sbattere tra loro i frammenti di ceramica delle urne. Helen dov'era? Richard si guardò attorno, scrutando il margine del bosco aspettandosi di vedere un qualche movimento che potesse indicargli la sua presenza nascosta, appostata, ma non vide nulla, soltanto quei selvaggi, che ora erano si tenevano di nuovo in posizione raccolta, guardando in direzione dei loro cavalli che pascolavano dall'altro lato della radura.
All'improvviso il primo cavaliere emerse dal Santuario, curvo, poi si raddrizzò per esaminare alla luce le pietre e i cristalli che teneva in una mano. Non c'era dubbio che fosse alla ricerca di un tesoro. Sotto il braccio teneva una delle teste di pietra. Helen avanzò dietro di lui nella radura. Si rivolse a Richard con uno sguardo e gli fece segno di stare tranquillo. Il guerriero mise gli occhi di pietra in un sacchetto che si legò alla cintura. Lanciò la testa a uno dei suoi uomini, che colto completamente alla sprovvista, nel momento dell'impatto rotolò all'indietro, con enorme divertimento del suo compagno. Avvolsero poi la testa in un tessuto e la imbracarono su uno dei cavalli che, sentendo sul dorso quel peso inaspettato, si impennò lanciando un nitrito. «Siamo nei guai?» chiese Richard a Helen. Come se reagisse alla sua voce, in un attimo il gigante gli si avvicinò e lo spinse indietro, fulminandolo con lo sguardo. Poi estrasse la lancia dalla trave della porta, e con aria soddisfatta ne esaminò la punta con le dita. Il suo respiro odorava di frutta, mentre il corpo emanava un odore di sudore stantio. «No» rispose Helen. «Noi non siamo nei guai, ma loro sì. Il nostro amico, qui, ha appena preso la testa del dio Mabathagus. Si ricorda della maschera riportata al campo da Wakeman? Una specie di stregone. Avrei dovuto riconoscerlo già ieri notte. Questi tre pagheranno a caro prezzo per la loro azione. Ma con un po' di fortuna, non prima di averci aiutato ad attraversare il burrone e a raggiungere i colossi.» Erano tre dei Figli di Kyrdu, parte di un ciclo di avventure ampiamente diffuso nelle foreste e nelle regioni artiche dell'Europa settentrionale, che si erano spinte a est fino ai monti Aitai, e a ovest fino alle coste rocciose dell'Irlanda. Questi uomini erano Kurgan, non nella forma primitiva della leggenda che incarnavano, ma in quella che, per prima, aveva cominciato a raccogliere influssi di altre culture. Come i Normanni, che divennero più tardi i loro successori sul piano dei costumi e della morale, i Kurgan, coltivatori e predoni, erano una singolare mescolanza di contadini, guerrieri, e conquistatori dediti al massimo grado alla superstizione. Una prima versione della loro storia era giunta in America del Nord, probabilmente con i cacciatori di Clovis Point, e venne preservata al meglio nella mitologia irochese, per quanto fosse stata rapidamente inglobata nel semplice racconto della razzia sulla terra totemica di un'altra tribù, elementi, questi, raccolti da Longfellow nel suo rapporto sugli Hiawatha.
Un ciclo ricco di elementi di ricerca, vendetta e sfrenata superbia. I cinque figli - questi tre erano tutto ciò che restava, in questo stadio già tardivo della storia, ovvero la razzia nel Santuario - stavano cercando con determinazione la via d'accesso al mondo sotterraneo, per trafugare i tesori che erano certi vi si nascondessero. Nel tragitto, avevano accumulato ogni sorta di talismani, ma il furto di Mabathagus e lo Scoiamento del Tamburo, qualsiasi cosa si fosse rivelata, era una della azioni che avrebbero contribuito al compiersi del loro terribile destino. Si diceva che la testa aveva il potere di indurre la preveggenza e la trasmissione del pensiero, un aspetto del «lontano passato, lontano futuro», che i figli di Kyrdu volevano possedere per il giorno in cui avrebbero attraversato il lago del Luccio Nero. Mabathagus, sorgendo dalla terra, avrebbe avuto qualcosa da ridire su quell'atto vandalico. Ma il destino doveva restare ancora nel futuro. Dal breve e prudente scambio avvenuto proprio in quel Santuario, Helen aveva concluso che quei cavalieri erano a conoscenza del burrone e dei colossi di legno che con ogni probabilità rappresentavano l'entrata alla zona in cui Alex aveva eretto le sue difese più potenti. Helen li avrebbe accompagnati fin lì, e in cambio i Kurgan li avrebbero difesi dal Jack, che, ne era certa, stava seguendo le tracce di Richard. Ma per il momento, si fermarono in quella radura umida e silenziosa. I Figli di Kyrdu avevano steso a terra delle coperte e, seduti, si erano indaffarati in diverse attività: uno lavorava con un punteruolo su una lunga striscia di pellame, mentre l'altro aggiustava la punta di pietra della lancia che aveva scagliato verso Richard per scoraggiarne ogni iniziativa. Questi due erano Herkos e Kyrki. Il primo cavaliere, Etherion, passò al setaccio il contenuto dello zaino di Helen, ma scartò ogni cosa trovandola inutile. Richard la sentì imprecare, poi la vide rivolgergli un'occhiata inquieta. «Potrebbe mostrargli il suo zaino? Non vorrei si facesse strane idee su di me...» «Ma certo. Può prendere tutto ciò che vuole.» Ma appena vide che Richard si preparava a offrirgli di prendere in esame il suo zaino, l'uomo scosse la testa. Tirò fuori un piccolo coltello di pietra e tagliò una delle lunghe ciocche argentate di Helen, intrecciandola con abilità nelle sue grandi mani, per poi legarla, con uno spago sottile, a una delle sue. Dopodiché rivolse alla donna un largo sorriso e annuì soddisfatto. «Rappresenta un po' del mio spirito, per proteggerlo dall'ombra che arriva dall'ombra. Mi ha appena fatto un enorme complimento. E sa una cosa,
Richard? Mi sento davvero lusingata.» «Molto bene. Adesso andiamo però.» «Sfortunatamente...» La loro permanenza al Santuario non era ancora conclusa. Nell'aria c'era un senso di allerta. Gli uccelli intorno allo spiazzo cominciarono mano a mano a farsi silenziosi. Il punteruolo si fermò, la lancia fu accantonata. I tre uomini scuri si misero a osservare i giochi di luce tra gli alberi e il cielo, le orecchie tese, attente. Helen sedeva in silenzio, all'ingresso del tempio, aspettando lo scorrere delle ore, aspettando l'assassino. Cominciò a rullare il tamburo. All'inizio un suono lontano, poi sempre più vicino. Risuonava alto, come un bohdrain irlandese, un solo scampolo di pelle sopra un cerchio di legno, battuto da un osso. Il suono del tamburo accerchiò la radura. I cavalli scalpitarono nelle cavezze, Kyrki andò a lisciar loro il muso per calmarli, e intanto osservava la foresta, attento a ogni movimento. Gli altri due, in piedi, brandivano le loro corte, acuminate spade di bronzo. L'uomo che fece improvvisamente irruzione nella radura era contratto, piegato in due, avvolto in bende di stracci marroni, un cappuccio di pelliccia stretto attorno al volto martoriato. Colpiva freneticamente il largo tamburo lanciando grida rivolte ai tre uomini, torcendosi su se stesso, e brandiva il tamburo come un'arma avvicinandosi a turno a ognuno di loro, come se il suo rullo potesse immobilizzarli. I Figli di Kyrdu accerchiarono il folle, con cautela, i volti immobili. Sembravano autenticamente spaventati, ma determinati nel loro intento. «È il momento di andare» disse Helen uscendo dal tempio. Richard la seguì allontanandosi dal luogo della disputa. Helen si fermò sul bordo della radura e osservò la danza. «Non voglio aver niente a che fare con quello che succederà.» Il suo viso era pieno di dolore. «Non sarà affatto piacevole...» Richard si voltò verso i guerrieri. Kyrki aveva strappato il tamburo dalle mani del suo possessore e lo stava facendo a pezzi, strappando la pelle dal suo supporto. Gli altri due stavano spogliando l'uomo, come in un gioco assurdo. Questi si contorceva e gridava a ogni benda strappata, finché non fu svelato tutto il suo corpo, grigio, nudo e ricoperto di tatuaggi di simboli deformati e strani volti. Improvvisamente si immobilizzò, le mani poggiate sulle cosce scheletriche, il capo piegato sul torace incavato. Kyrki fece un passo verso di lui, con un coltello in mano. Richard seguì Helen nel fitto del sottobosco, grato di trovarsi nell'oscuri-
tà. Le grida del vecchio li seguirono per qualche tempo, e poi, improvviso, cadde il silenzio. Helen si voltò e senza una parola abbracciò Richard, stringendolo a sé con forza. Stava tremando. Richard si sentì male, e mentre i lamenti ululanti dell'uomo morente sembravano echeggiare tutt'intorno a loro, egli chiese: «Uccideranno anche noi?». «No. Certo che no. Stia tranquillo, Richard. Mi stringa forte.» Richard si accorse che Helen stava piangendo. Sembrava molto piccola tra le sue braccia. Rimasero in silenzio, appoggiati contro il tronco inclinato di una quercia, soffiava una leggera brezza che trasportava i fragranti, rassicuranti profumi del bosco. Era tutto calmo, tutto molto sereno. Lentamente l'angoscia di Helen si dissolse. «È una delle cose che trovo difficili, molto difficili» disse con un filo di voce, con il viso ancora appoggiato al torace di Richard. «La violenza. Il mito, la leggenda, tutto questo si svolge per la maggior parte attorno ad atti di eroismo, di coraggio, di vendetta, e di guerra... e alla fine, conducono tutti a uno stesso risultato: la morte. Morte violenta. I duelli tra eroi. I roghi dei santi. Lo scoiamento dei vecchi. Anche Dan l'odiava. In questo luogo persino un bravo e valoroso cavaliere può trasformarsi in un assassino. Non si trova il Jack innocente, il ragazzo del Fagiolo Magico, con i suoi simpatici trucchi... qui abbiamo a che fare con un Jack che uccide, un Jack che inganna, che trucida per trarne un guadagno.» Ebbe un tremito improvviso e Richard le posò una mano attorno al collo, contento dell'imprevisto contatto più intimo che lei aveva iniziato. «Dio, se mi manca» sussurrò. «Così tanto, così tanto. Mi manca così tanto...» Se per un attimo Richard aveva pensato si riferisse al Jack, immediatamente afferrò di chi stava parlando. «Tornerà» disse senza crederlo. «Come mi ha detto Lacan, il tempo gioca strani scherzi. Probabilmente è sulla via del ritorno anche adesso.» Ma lei scosse la testa. «Ho continuato a illudermi. È morto. Lo ha preso il Briccone. Ci sono cose che si sentono nel cuore, Richard. E nel mio cuore ho sempre saputo che Dan non c'è più.» Si allontanò da Richard e si mise a sedere sopra una radice sporgente della quercia, piegandosi su se stessa, stringendosi la testa tra le braccia, colta da piccoli singhiozzi soffocati. In lontananza, veniva colpito un tamburo e una voce profonda urlò qualcosa che divenne presto il nome di Helen. I Figli di Kyrdu la stavano richiamando indietro.
Kyrki accolse Richard nella radura al suono del nuovo tamburo, dalla pelle sottile e tesa, piena di colori e percorsa da simboli raffiguranti luna, renne, e cigni, su cui batteva gentilmente l'impugnatura del suo coltello per scoiare. Il suono era ottuso, come se la pelle fosse stanca, o distante, e cantasse il suo dolore da un altro regno. Gli altri avevano teso alcune strisce della pelle tatuata sui loro scudi rotondi. Una carcassa sanguinante giaceva scomposta sulla soglia del tempio di Mabathagus. I cavalli, agitati dall'intenso odore di carne cruda, erano quasi fuori controllo, e si dibattevano tra impennate e nitriti mentre Herkos cercava di trattenerli per le cavezze. «Andiamo! È ora di partire!» gridò Etherion con un sorriso. Non in una lingua conosciuta, ma con dei gesti e un'intonazione che resero chiaro il senso. Helen avanzò nello spiazzo, raccolse in silenzio il suo zaino, e con espressione tetra, seguì i cavalieri dall'altra parte della foresta. Richard fu lieto di abbandonare quel luogo. E ancora più lieto della presenza di Helen. Il suo quieto comportamento nei confronti di quei mercenari Kurgan dell'età del bronzo era molto rassicurante per uno come lui, che avrebbe preferito di gran lunga scappare nella direzione opposta. E quando si trattava di correre, questi uomini erano anche più esigenti della stessa Helen. Si muovevano con passi veloci su sentieri appena visibili, i loro cavalli tenuti a briglia corta che sbuffavano al trotto appena dietro di loro. Non c'erano punti in cui la foresta si diradasse. Gli zaini erano legati sugli animali, il che rendeva la corsa più agevole, ma troppo spesso i Kurgan correvano tanto avanti che Helen e Richard li perdevano di vista senza sentire più neanche i loro rumori. Etherion, forse per onorare la sua promessa di aiutare la donna, si dimostrava impaziente con i due estranei, ma aspettava sempre che li raggiungessero. Richard notò quanto lasciasse indugiare il suo sguardo su Helen, e quanto allo stesso tempo sembrasse esserne spaventato, scambiando con lei sguardi e sorrisi, senza però mai neanche sfiorarla. Ciò che Helen pensava di lui non gli era chiaro. Richard immaginò che si comportasse in modo da compiacerlo. Sapeva, e non era difficile da capire, che quello di Dan era l'unico viso che poteva guardare con amore. Etherion, con un colpo di fionda abbatté una coppia di scoiattoli rossi ben nutriti e li fece sfrigolare al fuoco per il pasto della sera, dopo aver deciso di fare una pausa dalla loro sfrenata corsa nella foresta, con grande sollievo di Richard e Helen. I Kurgan misero la pelliccia degli animali a tendersi su improvvisate montature di legno, pulirono le interiora e ne fe-
cero una cinghia, che misero anch'essa ad asciugare, poi fecero riscaldare la carne sul fuoco di legna. Kyrki tirò fuori dal suo involto delle prugne secche e alcune focacce di grano macinato, forse frumento selvatico, e in ogni caso senza lievito, molto secche e amare. La carne di scoiattolo aveva un sapore forte ed era difficile da masticare. I Kurgan staccarono con attenzione i crani scorticati dalle carcasse e li misero in un involto con della terra. Richard suppose che l'idea fosse quella di farne una collana, ma Helen disse che più probabilmente se ne sarebbero serviti come moneta di scambio in quelle comunità in cui erano venerati totem di animali. Etherion voleva raggiungere un certo luogo, che chiamò le Paludi Silenziose, il giorno dopo, prima di sera, per questo lasciarono il piccolo accampamento letteralmente alle prime luci, e ripresero la corsa. I Figli di Kyrdu annusavano l'aria, e ascoltavano le brezze che percorrevano la foresta, osservavano il volo degli uccelli e dibattevano sulle ombre delle radure, servendosi dei coltelli per sottolineare il proprio punto di vista. Avevano cercato il tempio di Mabathagus in lungo e in largo, ma ora che l'avevano trovato, sembravano sapere esattamente dove stavano andando. Una qualche voce interiore, una specie di intuizione, la capacità di interpretare le viscere del bosco, aveva indicato loro il cammino all'interno di quella foresta carica di leggenda. Il gruppo avanzava con cautela verso il burrone, ma Etherion continuava a prestare attenzione ai cambiamenti dell'ambiente, del paesaggio circostante, degli elementi del mito il cui costante flusso decideva la forma della sua ricerca, e di quella dei suoi spietati fratelli. Raggiunsero il burrone a metà del pomeriggio, dopo essersi fermati per riposare in un boschetto di giovani noccioli. Per quanto riguardava Richard, fu una gradita tregua, ma la voce di Kyrki, andato in avanscoperta, giunse da lontano incitandoli a rimettersi in marcia. In un attimo gli altri due Kurgan sellarono i cavalli e li condussero fuori dal boschetto di noccioli al trotto veloce. Helen e Richard li seguirono, sempre più eccitati man mano che dinnanzi a loro si apriva la foresta. Kyrki si trovava su una pronunciata sporgenza rocciosa: una sagoma alta e scura il cui sguardo era immerso nell'incredibile strapiombo boscoso e nei riflessi scintillanti del fiume che scorreva ai suoi piedi. La parete opposta del burrone era vicina, una foresta verticale di querce, olmi, e alti noccioli. L'eco della sua voce risuonò nello stretto spazio quando chiamò i suoi fratelli vicino a sé.
Nel corso delle ore seguenti, i cavalieri esplorarono scrupolosamente la zona che costeggiava la gola. Etherion cercava il sentiero per ritornare nella foresta, ed Helen perlustrava il pendio alla ricerca di un passaggio per raggiungere il fiume e le colossali statue di legno che McCarthy aveva chiaramente visto nel suo sogno. «Da quella parte!» esclamò Helen finalmente, indicando un punto sotto di lei nell'oscurità degli alberi. Per un istante, nel contrasto della luce con il buio, fu arduo distinguerne le forme. Ma lentamente le tre sagome presero corpo, anche se, da quella distanza, Helen riusciva a vederne soltanto la parte superiore. Erano immobili, in mezzo al fiume, e in quel momento sembravano minute figure. Quando i Figli di Kyrdu giunsero quasi all'altezza delle statue, cambiarono bruscamente direzione allontanandosi dal ciglio del burrone, e senza sorridere, ma con grida di esortazione, che Richard interpretò come auguri di buona fortuna, spinsero i loro scalpitanti cavalli indietro, nella densità della foresta, alla ricerca della regione sconfinata che li avrebbe condotti alle Paludi Silenziose. Kyrki fece suonare le catene del suo cavallo, Herkon lanciò un grido, ed Etherion si volse a Helen con un sorriso, la quale sollevò una mano in segno di addio. Richard, in ogni caso, si sentì sollevato. Non era affatto dispiaciuto di vederli andar via. Discesero il ripido pendio del burrone, lasciandosi scivolare da un albero all'altro, tenendosi l'uno con l'altro, passandosi i loro sacchi, e scivolando spesso, rischiando un pericoloso tuffo nel fiume. La misura reale di quelle costruzioni di legno diventava evidente man mano che vi si avvicinavano. Colossale era l'aggettivo giusto. Quando Richard si trovò alla stessa altezza delle loro teste cieche, fu un momento magico, in particolare per il fatto che la terza, leggermente piegata di lato, sembrava tendere l'orecchio verso di lui. Il legno di cui erano fatti era scuro, spaccato, e stavano già iniziando a spuntarvi dei germogli. Le figure erano nude, la prima leggermente inclinata in avanti, come se sorvegliasse il burrone. La figura in mezzo guardava il cielo con occhi vuoti, la bocca un taglio appena accennato. Avrebbero potuto essere tre giganti nudi che in fila risalivano il fiume, con le gambe piantate nell'acqua. Quando Richard raggiunse la riva, poté vedere che i piedi dei colossi sembravano crescere dal terreno, per congiungersi all'altezza del ventre. Dunque si trattava di alberi, intagliati e scolpiti in modo da creare quei personaggi giganteschi. Si ergevano più di trenta metri, e a guardarli dal basso, contro l'orizzonte, davano l'impressione di oscillare e scricchiolare, come se stessero cercando con tutte le loro forze di sollevare
le gambe dal terreno roccioso. Quasi immediatamente Richard sentì una certa familiarità con esse, qualcosa in loro gli ricordava un dipinto che forse aveva già visto, ma non riuscì a chiarirsi quell'immagine. Alle spalle dei tre personaggi, il burrone si restringeva immediatamente per formare una specie di caverna senza tetto, buia e profonda: la fonte dell'acqua gelata che scorreva tra le gambe dei giganti. Dunque era questa, la via d'accesso al dominio di Alex. Non un varco, ma la monumentale entrata in un luogo intriso dell'antica passione del ragazzo, luogo contorto e invalicabile, una barriera per il normale passaggio di viaggiatori umani. E a un tratto, mentre Richard era immerso in queste riflessioni, gli venne in mente il motivo per cui quei colossi avevano un'aria tanto familiare. «Erano i suoi soldati!» «I suoi soldati?» chiese Helen guardando in alto anche lei. «I suoi soldatini. Ma certo! Gli comprai un set di "Topi del Deserto" della Seconda guerra mondiale con cui giocare. Erano la sua fissazione. Mio padre gli regalò cannoni e carri armati che sparavano fiammiferi. Per un paio d'anni furono la sua passione, incoraggiata dai nonni! E trattandosi di Alex, con del calore ammorbidì la plastica dei soldatini. Erano alti solo otto, dieci centimetri, ovviamente, ma Alex li allungò e gli fece assumere le pose più disparate... chi marciava, chi esplorava in terra, chi moriva, chi si teneva nascosto... Si creò una vera e propria armata, appostata in un bosco di legno, che circondava un castello di mattoncini. Riconosco queste figure, il loro atteggiamento... sono i suoi uomini. Senza armi, senza indumenti, ma le posture sono quelle. Perché sono nudi? Questo sembra strano...» «Non è affatto strano» disse Helen. «Quando Alex ha creato queste mostruosità, ha messo in gioco diverse parti del suo inconscio: la sua personale immaginazione ha fornito solo lo schema; il lontano folclore, la forma effettiva. Questi giganti sono parte di un mito più antico.» «Quale?» «Vorrei saperlo anch'io» rispose con una rapida occhiata. «Ma una cosa la so. Spero che restino ben piantati a terra!» Sopra le loro teste, ci fu un furtivo movimento tra gli alberi. Alcuni massi rotolarono verso il fiume. Richard osservò la loro caduta fino alla fine, e nell'improvviso silenzio, circa un centinaio di metri di distanza, uno stormo di uccelli si sollevò rumorosamente in volo. Un albero, nel burrone, scricchiolò sotto il peso di qualcosa che vi si appoggiava, e poi rimase immobile, come se la creatura si fosse accorta di esser stata vista.
«È il Jack» disse Helen, interrompendo bruscamente il suo momento di riposo. Afferrò lo zaino ed entrò nel fiume, avanzando faticosamente verso il gigante di legno, fino alla spaccatura sotto le sue gambe di quercia. Richard la seguì in fretta, incespicando nel freddo corso d'acqua, accorgendosi che la terra stava tremando impercettibilmente e angosciato per i frammenti di muschio e di legno marcio che precipitavano dalle crepe e dalle fenditure delle enormi figure sopra di lui. Fu lieto di entrare nella stretta gola del burrone, con le sue felci bagnate e il suolo scivoloso, e si tuffò con sollievo nel tunnel nella roccia avanzando carponi verso la luce gialla e splendente che proveniva dall'altra estremità, dove Helen stava già emergendo in una nuova terra. La preda Dal diario di Richard: Lacan aveva ragione. Scrivere degli avvenimenti di cui non solo sono stato testimone, ma che letteralmente mi hanno travolto, è una forma di catarsi. Ho cercato di prendere appunti al Varco di Old Stone, ma ero talmente affascinato e confuso dal sovrannaturale (non trovo una parola più adatta) che la mia documentazione di quel periodo consiste soltanto in qualche pensiero sconnesso e descrizioni frammentarie. Dopo aver seguito Helen attraverso la gola, lasciandomi i Colossi alle spalle, ho avuto anche meno opportunità per riflettere, dato che passammo lunghe ore correndo per i sentieri della foresta nella speranza di raggiungere Lytton e il castello dove il fantasma di Alex era stato avvistato una volta. Ma ora sono consapevole, come lo ero allora, del fatto che nella mia anima si è lentamente insinuata una nuova energia. Dall'istante in cui sono emerso dalla stretta gola e dal fiume gelato, ho saputo che Alex era vicino. Potevo quasi toccarlo, anche se allo stesso tempo non c'era nulla di tangibile. Potevo parlare con lui, eppure non c'era nessun ragazzino con cui parlare. Potevo abbracciarlo - e avere l'impressione che lui stesse abbracciando me - ma tutt'intorno c'era solo il paesaggio, gli strani personaggi di cui era disseminato, e l'ombra del mio ragazzo perduto, che tendeva la mano verso di me. Helen era seduta sulla riva, tra i rami piegati di un giallo luminoso di un salice che formavano una specie di pergolato sotto cui si riposa-
va, quasi completamente svestita, per strizzare l'acqua dai suoi indumenti. Per quanto fosse incantevole questa visione, era impossibile ignorare i due immensi simulacri che si ergevano ai due lati del fiume, rivolti verso la gola, come posti a guardia di questa anticamera al mondo di Alex. Queste due figure erano di paglia, ognuna alta quanto un albero, ma a causa delle intemperie entrambe stavano cominciando a marcire, e a decomporsi per la pioggia. Una di esse rappresentava il martirio del Cristo; delle braccia, ormai perdute, non restavano che due moncherini. Sotto l'ascella del braccio sinistro, di fianco alla testa chinata, in rovina, avevano fatto il loro nido dei corvi. Sulla sponda opposta del fiume c'era la sagoma di un altro martire, le braccia dietro la schiena, il corpo piegato. Dei ramoscelli di spine, che fuoriuscivano dalla paglia, simboleggiavano lance e frecce. Anche se la testa era andata distrutta, l'identità era comunque evidente. Eravamo di fronte a san Sebastiano, colpito a morte dalle frecce. Lasciatici questi due simboli di agonia alle spalle, abbiamo seguito il corso del fiume fin dentro la foresta più profonda. La terra si innalzava in direzione delle colline che avevamo intravisto da lontano e Helen mi aveva fatto notare i fuochi che bruciavano all'orizzonte. Abbiamo trovato alcune tracce di Lytton, appena visibili, finché non siamo giunti a un fuoco, non lontano dal fiume, sotto uno strapiombo roccioso, e a ciò che restava di un riparo fatto di corteccia e rami. Il fuoco era stato preparato tra alcune pietre, e sopra una di esse, un mucchietto di tabacco da pipa parzialmente consumato, attestava il passaggio di Lytton. C'era stato un combattimento. Helen aveva rilevato alcuni tagli nel tronco di uno degli alberi, e mi aveva fatto notare dei solchi sul terreno umido vicino al fiume, dove qualcuno era scivolato o era stato trascinato. Ed esplorando la zona circostante alla roccia, ho trovato una fossa poco profonda, sormontata da una croce rudimentale. Senza dire una parola, Helen ha spazzato via la terra asciutta, e ha portato alla luce il volto contorto di un uomo, la cui pelle stava già diventando verde, e i cui denti stavano scurendosi e non tenevano più molto bene. Era stato ucciso da un, colpo di pistola sul lato sinistro della fronte. Scoprendo parte del suo torace, abbiamo trovato una targhetta di identità di metallo arrugginito, e una camicia di lino colorato. La creatura aveva l'aspetto proprio di uno dei soldati di Cromwell, gli
Ironsides, una formazione della Guerra civile in Inghilterra. Ho ricoperto il cadavere e mi sono ricordato della scatola di soldatini che avevo regalato ad Alex un Natale, quaranta Royalists e quaranta Roundheads. Avevamo fatto rivivere la battaglia di Edgehill sopra il tavolo da pranzo. In qualche modo, come accade di solito, un'esigua pattuglia di GI americani di plastica era riuscita a penetrare nelle file dei Parliamentarians, e Alex aveva vinto la battaglia. Un gran numero di leggende e di eroi sono nati dai dolorosi anni della Guerra civile del XVII secolo. Erano sorti tanti eroi dall'esercito di Cromwell, così come dai più romantici Royalists, ma Alex era sempre stato affascinato più dal rigore delle armate popolari che dalla fama di spacconi degli uomini del re. Qualsiasi cosa questo sventurato soldato avesse fatto, Lytton se ne era freddamente sbarazzato. Alex era dappertutto, nelle alte colline, con i loro terrapieni, su cui abbiamo arrancato durante tutta la prima giornata di viaggio, era nelle fortezze in rovina che si intravedevano, grigie, attraverso l'intrico delle fronde del bosco, nelle cascate d'acqua con i loro immensi guardiani di pietra, nelle carrozze che sferragliavano al loro passaggio e nei cavalli accaldati, nei variopinti cavalieri armati, avvolti in lunghi mantelli, che irrompevano improvvisamente sul nostro cammino, lanciati al galoppo sulle loro strade, troppo occupati a inseguire l'avventura per fermarsi a salutare viaggiatori di un altro tempo come noi. In tutte queste cose, ho riconosciuto un riflesso della terra attorno a Shadoxhurst, dei castelli sognati da Alex, creati mescolando le favole con le gite della nostra famiglia, durante le vacanze, alle meravigliose fortezze normanne lungo il confine tra il Galles e l'Inghilterra. Alex aveva sempre visto dei volti nella struttura delle rocce, oppure corpi, nella conformazione delle colline - era uno dei suoi giochi preferiti dare un nome alle forme che vedeva, lì un gigante addormentato, là, in una roccia di calcare, una strega pietrificata. Dall'altro lato della gola, tutto il luogo palpitava di quegli esseri. Ogni collina nascondeva un gigante, il cui movimento era espresso dall'ombra delle nuvole. Ogni bosco era affollato di creature che si agitavano nei tronchi cavi degli alberi, abitanti di un mondo invisibile dietro la corteccia. Tutte le rocce ci osservavano da occhi nascosti dietro le spaccature e i buchi plasmati dal gelo, dalla pioggia e dall'acqua. Per Helen fu un'esperienza terribile. Era costantemente sulla difensiva,
nervosa, quando non completamente terrorizzata. Quanto a me, io provavo uno strano sollievo. Se non altro, dalla terra stessa c'era poco da temere: era Alex. È difficile da descrivere, ma ho sentito, almeno per un po', che Alex mi stava guidando. Ha cominciato a comparire in tutti i miei sogni, ma questo avrei dovuto aspettarmelo. Era di nuovo una presenza forte nella mia vita, forse potrei dire nel mio cuore. Avevo l'impressione di annusarlo - l'odore stantio di calzini e di attrezzatura da ginnastica, onnipresente nella sua stanza - così come di sentirne i rumori, il chiasso che faceva correndo da una stanza vuota all'altra con i suoi nuovi modellini d'aeroplano, con i suoi cavalieri di plastica, cantando con tutta la voce che aveva. Tutto ciò in una foresta claustrofobica, dove gli unici suoni reali, non effimeri, erano quelli dell'acqua, il linguaggio degli uccelli, e i differenti versi, mormorii, i richiami del daino, della volpe e della donnola. Durante i pochi giorni passati al Varco di Old Stone, Alex non era stato che il ricordo di una perdita dolorosa, di cui parlavo con dei folli, in un mondo folle, nel quale ero entrato a far parte di mia spontanea volontà, ma che tenevo a distanza, come sempre si fa con tutto ciò che non si riesce a comprendere. Neanche l'incontro al Santuario era riuscito a convincermi completamente, anche se la sensazione di essere chiamato da Alex era stato un momento del sogno davvero straziante. In quel periodo ero affascinato da Helen, e confesso, qui, che mi manca molto, più di quanto riesca a esprimere. Come Alex, anche lei continua ad abitare i miei sogni, ma suppongo che ora sia troppo tardi. Al Varco di Old Stone mi è accaduto qualcosa di fulminante, qualcosa che non avevo mai sperimentato prima. Non potrei usare la parola amore. Ho cominciato ad amare Alice dopo il nostro matrimonio, motivato dalla paura di chiudere una relazione che aveva resistito tanto a lungo. Poi sono arrivato a smettere di amarla. Probabilmente non ho mai provato più di un sentimento di affetto per lei. Davvero non lo so. Ma quando quella notte, a Shadoxhurst, Helen è venuta da me, e quando riemerse dalla foresta, nuda, selvaggia, nuotando infuriata, mio Dio, che emozioni ho provato! Attrazione sessuale, certo, ma anche qualcosa di più: in sua presenza mi sentivo forte, mi sentivo pieno di vita con lei. E lei stessa, non aveva esitato nel confessare il suo interesse per me.
Buon Dio, come devo esserle sembrato timido e maldestro... Dopo l'abbandono di Alice, avevo avuto due terribili e precarie relazioni sentimentali soltanto. Devo proprio esser stato un uomo pieno d'amarezza, distaccato da tutto, non certo un amante con cui una donna abbia voglia di restare. Quegli anni trascorsi a Londra li ricordo come una specie di brutto sogno. Una sorta di limbo. E poi all'improvviso è arrivata Helen, un'indiana d'America (non purosangue, credo abbia detto) che mi ricordava Cher, la cantante del duetto pop Sonny & Cher. Una donna attraente, la cui presenza mi infiammava - che bella sensazione! - che inizialmente aveva un fare aggressivo quando ci trovavamo soli, ma che in realtà aveva una passione per me, che mi lasciò sentire. Ero certo che Alex fosse morto. Non credevo nella vita dopo la morte. Avevo bisogno di Helen più di quanto ne avessi di Alex, persino in quel regno innaturale dove avrei dovuto sapere che sarebbe potuto succedere l'impossibile, e che il ragazzo potesse realmente essere vivo. Poi siamo passati attraverso il burrone, e fu come trovarsi a vivere sotto la pelle di Alex. Come se mi trovassi nel mio studio, cosciente della presenza di mio figlio dietro di me, che osservava ogni mio movimento, attento a ogni mio respiro, a ogni parola, e che stringendomi una spalla mi esortava ad andare avanti. La presenza di Alex era talmente potente che mi invase di nuovo. Cominciai ad agitarmi, a piangere, tanto era diventato impellente il desiderio di rivedere mio figlio. Ed Helen, durante quei primi giorni del nostro viaggio, mi fu di enorme conforto. Sembrava comprendere quello che stava accadendo. «Mio Dio» disse lei «stiamo per trovarlo» e per la prima volta non era più un sogno quello che stavo inseguendo, non si trattava più solo di una fotografia di Alex, ma del ragazzo in carne e ossa. Era lì, era vivo. Ed era vicino. Helen mi riferì che nelle precedenti esplorazioni di quella sezione del paesaggio mentale del giovane Alex Bradley erano stati confusi, avevano finito per girare intorno, ritornando involontariamente alla base. Questa volta però, Helen e io, nel seguire Lytton e McCarthy ci eravamo addentrati più di chiunque altro, a parte lo sciamach McCarthy, il cui spirito si era lasciato trasportare dalle nuvole e dalle bestie selvatiche riuscendo a raggiungere, se non proprio la cattedrale dove Alex si nascondeva, il castello vicino. Cominciavo a sperare così tanto... eppure, nonostante mi sentissi a mio agio in quel luogo pieno di ricordi familiari, anche i prodotti più
oscuri dell'immaginazione di Alex popolavano quel confuso e labirintico paesaggio, e durante la seconda notte di viaggio ci imbattemmo in due dei più spaventosi mitago del ragazzo. Lytton e McCarthy avevano segnalato il loro percorso molto chiaramente, e non soltanto con la cenere del tabacco; avevano tracciato delle frecce con il gesso e anche una breve annotazione, che Richard scoprì arrotolata in un tubo di corteccia e indicata, nel punto in cui l'avevano nascosta, da una croce. Essendo stata scritta con molta fretta era difficile da leggere, ma alla luce della fiamma Helen riuscì a decifrarla. State entrando in una parte di Alex che ha subito l'influenza di Conan Doyle. Si tratta del suo Mondo Perduto, anche se non è situato sulla sommità di un altopiano. La scorsa notte eravamo accampati qui, siamo stati attaccati da quattro piccoli rettili, grandi quanto un bambino, ma feroci e con micidiali denti affilati. Crediamo che si tratti di velociraptor, una versione in miniatura del tirannosauro. Fortunatamente il fuoco li ha tenuti lontani. Visto che nell'inconscio umano non è dato che vi sia memoria di simili creature, esse sono frutto di ciò che Alex ha imparato. Non lontano da qui c'è la tana di un orso di immense proporzioni, una varietà di orso delle caverne. Attaccherà se provocato. Non sottovalutate la sua velocità. McCarthy l'ha fatto, ed è riuscito a scappare appena in tempo. Corre più veloce di un segugio, ma per fortuna è riluttante ad arrampicarsi sugli alberi. Sono affascinato da questa mitago-genesi. Sfida la spiegazione e il resoconto di Huxley su questo processo, ovvero che un mitago non può che essere il ricordo di un eroe, un personaggio che incarna speranza, oppure un luogo che si anela raggiungere, come un castello, o una cattedrale... a meno che, ovviamente, questi esseri non siano parte delle speranze segrete di Alex, ma in questo caso, il meccanismo resta un mistero. Siate prudenti, e raggiungeteci in fretta. Il castello di Alex è vicino. Una volta arrivati, posso lasciarvi ancora due giorni per trovarci, prima dell'assalto finale alla cattedrale. In tutto questo, c'è qualcosa che si muove tra le nostre due squadre, un essere capace di cambiare aspetto. McCarthy ne percepisce la presenza tra le ombre. Siamo inseguiti. Fate molta attenzione.
«Inseguiti? Forse si riferisce al Jack?» domandò Richard appena Helen terminò di leggere il biglietto. «Ma certo!» rispose analizzando ancora le parole illeggibili. «Ci ha superato. Accidenti!» Divenne agitata e irritabile, così Richard tenne per sé sia la curiosità sia la preoccupazione riguardo la gigantesca creatura orsina. Si trovavano in una zona di alberi immensi, tra cui si aprivano sterminati spazi liberi, un accampamento difficile da difendere. Lytton aveva costruito, a ridosso di un lungo ramo sporgente, un paravento di legna secca. Il fiume scorreva sul lato opposto di un argine naturale. All'inizio della sera, la creatura uscì dalla sua tana, avanzò con passo pesante tra le rocce sulla collinetta alle spalle del bivacco per poi discendere verso il fiume. Con il fiato sospeso, Richard lo osservava dal suo riparo, sperando che Helen, sulla riva per lavarsi, lo sentisse arrivare. La bestia, a parte la stazza, era in tutto simile a un orso, con il suo lungo muso segnato da carnose pieghe, e i canini sporgenti, premuti sulla parte inferiore delle fauci. Sulle spalle aveva una zona di peli neri e acuminati, mentre il resto del corpo era di un colore grigio molto scuro. Non lontano da dove Richard era accucciato in totale silenzio, aspettando il momento giusto per avvertire Helen, l'orso si drizzò sulle zampe posteriori e si mise a masticare il fogliame a sei metri dal suolo, con un forte brontolio dello stomaco, emettendo dalle narici una serie di brevi e soffocati grugniti. Quando ricadde su tutte e quattro le zampe, ebbe un istante di esitazione, le zampe anteriori distese, gli artigli sguainati, in posizione arcuata, come in ascolto di qualcosa. Quando poi si avviò verso il fiume, Richard lo seguì, stringendo saldamente la sua lancia. In quel momento avrebbe sinceramente desiderato avere la pistola di Lytton. Sulla riva non c'era traccia di Helen. L'orso delle caverne si avvicinò al fiume, tra i rami degli alberi, e si mise a bere. Ci fu un furtivo movimento dietro di lui, ed esso si raddrizzò in tutta la sua altezza, sollevando le zampe davanti. Improvvisamente la foresta fu invasa dalle grida degli uccelli, e tre creature dalle forme slanciate simili a lucertole piombarono sull'enorme bestia saltando dai rami sporgenti. L'orso lanciò un urlo stranamente umano e si rigirò per disfarsi dei rettili. Una delle lucertole, con gli occhi fuori dalle orbite, aveva i denti conficcati nel collo dell'orso. Un'altra era appesa con le piccole zampe sulla zona nera del suo dorso, cercando di raggiungere gli occhi con gli artigli posteriori
affilati come coltelli. La terza faceva lo stesso sul suo ventre rigonfio e prominente con l'intento di squarciare la pelle della bestia con le sue lame scintillanti. Tutta l'azione esercitava un certo fascino su Richard, probabilmente al pensiero che coinvolti nel combattimento ci fossero proprio dei dinosauri viventi: si calò lentamente sulla riva e si accovacciò al riparo per osservare la caccia. Concentrato sulla cruenta scena di violenza che si svolgeva davanti ai suoi occhi, non si accorse della testa affilata e ghignante che lo osservava, fino a quando il rettile, con dei versi improvvisi, non si lanciò verso di lui, le micidiali mascelle spalancate. Lanciò un grido, e con un veloce movimento, riuscì a evitare gli artigli che passarono, sferzando l'aria, a qualche centimetro dai suoi occhi, mancandolo di pochissimo. La coda del rettile, come una frusta, lo colpì al volto. Un secondo dopo, una punta di metallo insanguinata squarciò le fauci spalancate della creatura che cominciò a contorcersi tra versi terrificanti finché il dinosauro non cadde stremato al suolo. Alle sue spalle c'era Helen, che muoveva l'asta della sua lancia avanti e indietro per estrarne la punta dal cranio del dinosauro. «Dovrebbe stare più attento!» esclamò con rabbia. «Questo feroce piccolo bastardo è rimasto a osservarla per più di un minuto.» Richard guardò gli artigli posteriori, distesi negli spasimi della morte, quindici centimetri di corno ricurvo e affilato come un rasoio. «Grazie. Fuori uno. Ne rimangono altri tre!» Accanto al fiume, l'orso aveva spezzato la schiena di uno di quei rapaci rettili e si serviva del cadavere per colpire gli altri. Fu in quel momento che inaspettatamente apparve un quinto rettile, correndo veloce come un uccello lungo l'argine del fiume, nervoso, con movimenti spasmodici, la sua lunga coda tesa orizzontalmente fino a che, quando il dinosauro si fermò, non cominciò a oscillare in modo continuo. Lanciò un colpo d'occhio ai due umani ed emise un verso come di scherno, poi raggiunse velocemente il suo branco. Stranamente, i due dinosauri si erano staccati dalla pelliccia sanguinante dell'enorme mammifero, permettendogli di trascinarsi più lontano, emettendo ancora ringhi di dolore. Gli altri soffiavano e puntavano la coda in direzione del nuovo arrivato. Richard percepì il loro panico, mentre giravano in cerchio osservando un animale identico a loro, ma che non riconoscevano del tutto. L'orso apparve di colpo vicino a Richard, ma fuggì pesantemente tra gli alberi, verso la sua tana, scuotendo l'immensa testa per alleviare il dolore, schizzando sangue a destra e a sinistra.
Al fiume, il quinto rettile, rapidamente crebbe in altezza e cambiò aspetto, e mentre i due killer si voltavano per scappare, quello li colpì gettandoli a terra con tale velocità che i suoi movimenti furono indistinti. Li morse al collo staccandogli la testa, poi sollevandosi sulle zampe posteriori, i cadaveri stretti tra le zampe anteriori, prese a strappare e masticare muscoli e tessuti dai loro colli sanguinanti. Misurava tre metri di altezza. C'era qualcosa di umano sia nella testa che negli arti, mentre la coda, in posizione quasi completamente verticale, fremeva e si fletteva sulla punta. Aveva il ventre color rosso livido, la testa e la schiena giallo chiaro e verde, i colori del Jack che era nato nella radura di carpini bianchi. Seguitando a mangiare, lanciò un verso di sfida in direzione della foresta, certamente indirizzato ai due osservatori umani. Richard indietreggiò cercando di fare meno rumore possibile, seguendo Helen che aveva lasciato la postazione già da qualche minuto. Un ultimo sguardo verso il fiume gli permise di scorgere la visione di un uomo, dai capelli lunghi e ispidi, vestito di stracci colorati, in piedi vicino all'acqua con lo sguardo alla foresta, e le carcasse dei due dinosauri in mano. «Perché non ci ha preso? Il Jack, dico, perché ci sta provocando?» Helen aveva arrotolato il necessario per dormire e lo aveva infilato nello zaino, poi si sedette a gambe incrociate dietro di esso, con a fianco il suo arco, caricato di una freccia, e la sua lancia dalla punta di ferro a portata di mano. «Non lo so. Potremmo ipotizzare che faccia parte della sua natura. Non possiamo muoverci prima dell'alba. Nel frattempo, cerchiamo di difenderci il meglio possibile.» Quella notte passò rapidamente, e soltanto gli strepiti e i lamenti dell'orso ferito, dall'alto delle rocce, disturbarono a turno chi tra i due non era di guardia, durante quel po' di sonno che riuscirono a prendersi. Alle prime luci si rimisero sulle tracce di Lytton, circospetti, all'erta, ma non ebbero alcuna sorpresa, nonostante Richard non riuscisse a sbarazzarsi della sensazione che qualcuno stesse silenziosamente seguendo i loro passi. Disse a se stesso che si trattava di un'ansia comprensibile. L'inquietudine di Helen non si alleggerì. La terza sera udirono un suono di piffero e tamburo arrivare da una radura nella foresta, ed ella la aggirò tenendosi a grande distanza, per evitare ogni pericolo. Richard invece si avvicinò senza far rumore al piccolo falò e vide i tre soldati in divisa, se-
duti alla luce delle fiamme. Uno di loro si stava esercitando con un sottile flauto, un altro faceva suonare allegramente il suo tamburo e il terzo fumava una lunga pipa di terracotta. Erano soldati britannici del XVIII secolo, Giubbe Rosse, che nella mente di Alex erano probabilmente associati, prendendo spunto dalle favole dei fratelli Grimm, a cani giganteschi i cui occhi erano grandi come dei piattini da caffè. Ed effettivamente un po' più tardi udirono l'abbaiare dei cani impegnati in una caccia, ma quando accadde si erano già rifugiati dentro le mura di un'antica taverna, raggomitolati in una tenda di tela per ripararsi dall'umidità formata nella notte. Alcuni barili di quercia vuoti, accatastati contro una parete, stuzzicavano il desiderio di Richard per una o due pinte di birra forte. Per tenersi al caldo, dormirono avvolti nelle stesse coperte. Erano giunti a quella sistemazione senza averlo premeditato. La situazione, per quanto intima, a suo modo, era allo stesso tempo troppo pratica perché uno dei due si imbarazzasse o tentasse di approfittarne. Al mattino, Helen aveva le braccia attorno a Richard, gli respirava piano vicino all'orecchio, e la massa di capelli argentati gli solleticava il naso. Quando Richard si svegliò, irrigidito e inumidito di rugiada, lei mormorò qualcosa dolcemente, e lo attirò verso di sé. «Si sta troppo bene» disse «... ancora qualche minuto.» Questo sonno così gradito fu brutalmente interrotto qualche attimo dopo da un violento rumore di rami spezzati fuori della taverna, seguito dall'apparizione di un'alta sagoma che sbucò da sopra il muro, spaventandoli. Contro il cielo che stava schiarendo era difficile distinguerla con precisione, ma si trattava di un uomo alto, un uomo magro e di smisurate dimensioni, con in mano due bastoni. Rimase a guardare la tenda per qualche secondo con espressione interrogativa, e poi, con voce gutturale, pronunciò alcune parole la cui intonazione lasciava intendere che stesse ponendo una domanda. La ripeté di nuovo, e di fronte al silenzio di Richard aggrottò le sopracciglia. E alla fine, pronunciò una sola parola: «Helpen!». «Non abbiamo bisogno di aiuto. Ma grazie per la sua offerta» replicò Richard a questo personaggio delle favole. Il gigante rise con voce roca, poi tese un braccio da sopra la parete e con una mano grande come una poltrona sollevò uno dei barili, lo scosse per poi lasciarlo ricadere con un sospiro di delusione. Un attimo dopo era sparito. Richard, sulla porta, lo osservò allontanarsi tra gli alberi con passo malfermo, con il suo cappotto di stracci striminzito, i pantaloni corti legati, come nella tradizione sassone, con delle fibbie di pelle, il volto nascosto da
un'incolta barba grigia. «E quello, che diavolo è? Chiese Helen sottovoce.» «Un Long Man» rispose Richard. Non c'era molto altro da aggiungere. Era evidente che il visitatore fosse un Long Man: era la trasposizione vivente di quei personaggi di gesso che si trovano nel sud dell'Inghilterra, e le cui origini, identità e funzioni restano un mistero. Appena prima di sparire all'orizzonte, il Long Man si voltò, e rinnovò la sua offerta, scostando il fogliame con uno dei due bastoni, piegando senza difficoltà i rami più alti. Quando Richard scosse il capo egli scrollò le spalle, si voltò di nuovo e distese le braccia stringendo nelle mani i due bastoni, esatta immagine del Long Man di Wilmington, nel Sussex. Un passo ancora e sparì, portando con sé i due bastoni nell'oscurità. Dietro Richard, Helen ebbe un sussulto che si trasformò in una risata. «Porta con sé le sue effigi personali!» disse. «Avremmo dovuto fare amicizia con lui... avrebbe potuto farci risparmiare molto tempo!» Un rombo lontano e una brezza rinfrescante li avvisarono che si preparava un temporale. Avevano abbandonato le rovine, ansiosi di arrivare all'appuntamento con Lytton, ma non avevano percorso più di un chilometro che i tuoni della tempesta si avvicinarono e il cielo si oscurò al punto da fargli perdere le tracce del sentiero nella penombra incombente, in mezzo alla vegetazione del sottobosco sferzata da un vento costante. Quando la prima pioggia cominciò a stillare attraverso il fogliame, Helen riprese velocemente il sentiero in direzione della taverna. Rimontarono la tenda e si sedettero mestamente al riparo, si aprirono le cataratte del cielo e l'acquazzone cominciò. Per alcuni minuti non udirono alcun suono tranne quello martellante della pioggia, ma poi il latrato del cane che avevano sentito in lontananza si fece più vicino. All'inizio un abbaiare malinconico, poi sempre più rabbioso e minaccioso, rivolto presumibilmente a una preda. Helen si era raggomitolata su se stessa, le braccia attorno alla testa come per impedire a quel suono di raggiungerla, ma dopo un po' sollevò lo sguardo, con occhi stanchi e lucidi, e un'espressione lugubre sul viso. Richard allarmato le chiese come mai fosse così spaventata, e lei, molto candidamente rispose: «È il Briccone». Non avrebbe detto una parola di più, non per il momento. Richard ipotizzò che sì, Helen dava la caccia al Briccone, ma non poteva essere sicura, proprio per questo, di non aver provocato lei stessa la sua nascita dal cuore della foresta. Il Jack che avevano alle calcagna, questa memoria di mutante
risalente al mito preceltico che li seguiva come l'ombra di una menzogna, era probabilmente una creazione di Alex, intriso dei suoi aspetti più oscuri, nella sua maniera violenta di proteggersi contro le creazioni della sua stessa immaginazione. Helen non poteva però esserne certa. Si era aspettata di incontrare un Briccone nella forma indioamericana, invece questo Jack era in tutto e per tutto europeo. Ma poteva trattarsi dell'ultimo tiro che le stava giocando il Coyote, il quale, nascosto sotto false spoglie per disorientarla, aspettava il momento propizio per distruggerla, così come aveva distrutto... Con quella riflessione abbandonò il capo sul petto, poi guardò Richard dritto negli occhi, allungando una mano per prendere arco e frecce. «È una strana storia, e posso spiegarla solo in termini molto semplici» disse. «Benissimo. In questo modo la capirò anch'io.» «Cinquecento anni fa, il Briccone distrusse la mia famiglia; ma le cose non si fermarono lì. Ha continuato la sua distruzione su tutto il mio lignaggio fino ai nostri giorni. Sto andando a fermarlo. Oppure morirò nel tentativo. E questa è la mia storia.» Respinse ogni ulteriore domanda di Richard, la sua inquietudine, la sua offerta di andare con lei. Pesantemente vestita con giaccone e gambali impermeabili, il capo protetto da un cappuccio, tese l'arco per provarne la resistenza, scelse sei frecce, e uscì sotto la pioggia, diretta a passo veloce verso gli orribili latrati del gigantesco cane. Se davvero si trattava del Coyote, l'attendeva di certo una battaglia. Dopo due ore, quando i versi del cane erano stati ingoiati dalla distanza, o forse dalla morte, Richard andò a cercare Helen nel bosco, chiamandola a gran voce. Arrivato in una zona sgombra dagli alberi, dove l'alta erba selvatica era stata devastata dalla forza della pioggia, la vide tornare, in lontananza, e dirigersi verso il rifugio di pietra. Un raggio di luce diretta, squarciando le nuvole, andò a illuminare il suo impermeabile lucente di pioggia. Con la testa bassa, camminava ad andatura normale. Quando fu più vicina, Richard poté assicurarsi che non fosse ferita. Tornati al rifugio, Helen mangiò qualcosa e cercò di asciugarsi i capelli fradici. «Coyote?» domandò Richard. Lei scosse la testa. «L'ho lasciato andare. Era uno di quelli che Lytton chiama molossi selvatici, una forma primordiale di cane. Se ne vedono spesso. Sono animali solitari, più inclini a essere d'aiuto che d'ostacolo. In cambio di cibo, ovviamente» sorrise distrattamente «la storia della caduta
del cane, in qualche modo.» Dopo qualche momento cominciò a rilassarsi. In sua assenza, Richard aveva scavato un canale di scolo tutto attorno al loro misero riparo, cosicché il suolo restò asciutto e il piccolo fuoco che bruciava al suo centro poté scaldare l'ambiente. Richard le domandò cosa fosse successo di preciso cinquecento anni prima, e cosa le facesse credere di poter mettere fine alla maledizione nel presente, nel 1967. «Perché la maledizione è dentro di me» rispose. «Come è stato per tutto il resto della mia famiglia. Il Briccone è qui» disse indicando la sua testa. «In ciascun membro della mia famiglia c'è un po' del suo spirito, ma egli è un unico essere, e se solo riuscissi ad attirarlo fuori... se solo potessi farlo uscire dalle ombre...» Era caduta in uno stato sognante, gli occhi chiusi, il corpo oscillava leggermente. Per qualche secondo cantò una canzone, ma a voce così bassa che Richard dovette sforzarsi di capire le parole, per dedurne che si trattava di una lingua più antica della sua. Finito il canto, iniziò a parlare con un ritmo cadenzato, con gli occhi aperti, ma persi in un tempo remoto. La storia era ipnotica, cantata come una nenia, sotto il rumore delle raffiche di pioggia incessante. Richard più tardi ipotizzò che si fosse trattato di qualcosa di più di una semplice storia familiare, tramandata di generazione in generazione: era, letteralmente, un sogno familiare, il sogno di una famiglia che aveva regolarmente subito gli attacchi, gli abusi e la distruzione del Coyote. Quando tentò di scrivere la storia, non gli riuscì di ritrovare il senso del tempo e della terra che Helen aveva suscitato nella sua mente, il ritmo di una terra perduta, riflesso nel ritmo delle sue parole. Il primo sogno è ancora con me, anche se sono anni ormai che non lo sogno più. Da bambini, il passato è più vicino. Passa più facilmente nei paesaggi del nostro spirito. Giovane Nonno, chiamato Tre Corvi Volanti, era un eccellente cacciatore, e più tardi divenne capace di volare con le aquile, ovvero diventò ciò che chiameremmo uno sciamano. Era nato nel tempo precedente l'arrivo dei cavalli, quando nelle grandi praterie l'erba cresceva rigogliosa, e i migliori cacciatori erano i corridori più veloci, o i più abili nel nascondere le reti o nella preparazione di trappole di legno a fondo cieco con cui catturare un bufalo soli-
tario. Nei giorni più caldi dell'estate, l'erba era molto alta. Quando i bufali scendevano nei territori della tribù, entravano nell'erba come un uomo si immerge nell'acqua, con lentezza, tastando il terreno con le zampe. A quel tempo le mandrie si separavano di rado. Il vitello e la femmina seguivano il maschio, ma le famiglie si distanziavano parecchio l'una dall'altra, lasciando nell'erba ampie scie del loro passaggio, ed erano le piste che seguivano i cacciatori. Nessun cacciatore avrebbe mai seguito una traccia che fosse in direzione del tramonto o dell'alba. Quelli erano bufali con uno spirito speciale. I cacciatori danzavano nell'immensa pianura, dove si era raccolta la mandria ed era stata calpestata l'erba, e con canti, danze e a volte tirando a sorte, sceglievano la pista da seguire in mezzo all'erba alta. Si lanciavano nel tunnel della vegetazione correndo a quattro zampe, senza mai potersi alzare, perché altrimenti sarebbero stati più alti dell'erba, e ciò li avrebbe resi vulnerabili allo spirito scuro che sorvegliava le mandrie dalle rocce lontane. Giovane Nonno divenne un eccellente cacciatore. Se un bufalo tornava indietro sulla sua pista, era considerato giusto che il cacciatore si stendesse a terra e si lasciasse calpestare dalla bestia. Era un atto doloroso e umiliante. Ma quando accadde a Giovane Nonno, con sua sorpresa, sul lato della pista nell'erba comparve Coyote, sotto le spoglie di un ratto muschiato. «Il Prossimo-PastoBisonte sta tornando verso di te. Potresti cacciarlo subito. Non ti calpesterà. Ho fatto in modo che sia così. Ed è il mio dono per te. Ma non dimenticarti che sei in debito con me di un nome.» «Quale nome? Gridò Giovane Nonno.» Coyote si rivelò per ciò che era. «Il nome che mi è stato rubato alla tua nascita. Se ancora non lo sai, non tarderai a scoprirlo.» A volte i cacciatori, armati dei loro bastoni, delle frecce, delle loro lance piumate e pietre spaccacrani, correvano attraverso le colline per la loro danza di guerra. In una di queste occasioni, Giovane Nonno inciampò nella tana di un serpente, e il suo nemico, urlando sopra di lui, stava quasi per spaccargli la testa. Coyote morse il nemico e la pietra nera volò via sibilando come un tiro di fionda, a un millimetro dagli occhi di Giovane Nonno. Egli allora,
con il suo masso di granito spaccò le ginocchia all'avversario, poi lo colpì alla mandibola, e infine gli aprì la testa per darla in pasto ai corvi. Dopo di che Coyote fuggì via con lui, camuffato da cane grigio. «Ti ho salvato la testa, e questo è il mio dono per te. Ma non dimenticare il mio nome. Devi ricordarti che sei in debito con me di un nome.» Arrivò il tempo in cui Giovane Nonno invecchiò. Non così tanto da non poter disturbare sua moglie sotto le pelli, ma abbastanza perché la pittura si infilasse nelle molte rughe profonde del suo viso. Desiderava volare con le aquile, così andò alla Roccia del Coyote, per ricordare la propria nascita. Quando era nato, suo padre Aquila Bianca era uscito dalla capanna ed era rimasto a contemplare l'immensa pianura. Tre corvi volavano in direzione di un'alta roccia, in un bosco in cui giaceva la carcassa di un coyote, colpito al ventre da un bufalo. Portò il neonato fino alla roccia. Ma il coyote, non ancora morto, mentre i corvi si posarono per cominciare il banchetto, osservava l'uomo e il suo bambino. Allora Coyote disse: «Sono lieto che tu sia venuto con il tuo nuovo figlio, per dargli il mio nome, il nome della prima cosa che hanno visto i tuoi occhi quando è nato». «Ho visto tre corvi, in volo verso il loro pasto» rispose Aquila Bianca. «Il ragazzo porterà il loro nome.» Coyote si infuriò e i corvi si alzarono in volo per sfuggire ai suoi artigli. «Deve portare il mio nome, altrimenti il mio spirito non avrà riposo. Ti ho visto uscire dalla tenda. Ti ho visto alzare lo sguardo verso di me. Mi hai osservato trascinarmi in questo posto per morire. I corvi erano ancora nel vento del nord. Hai visto me per primo. Il bambino deve portare il mio nome.» «Mai!» rispose Aquila Bianca, e così Giovane Nonno prese il suo nome dai corvi. Il coyote morì, e quando le sue ossa diventarono bianche il suo spirito entrò nella foresta. E da lì, nel corso degli anni, quando gli umani passavano per di là per andare a caccia, veniva a vedere il bambino, e poi l'uomo, che non aveva preso il suo nome, ma che gli era legato dal suo primo sguardo. Ora, a distanza di anni, lo spirito del coyote uscì per andare a
sedersi con Giovane Nonno, con i suoi nuovi colori sul volto anziano, nella sua nuova età, l'età in cui cercava le aquile. Coyote disse: «Ho corso con te tra l'erba alta, quando eri un bambino che desiderava diventare uomo». «Mi ricordo di te. Mi salvasti dall'essere calpestato da un bisonte.» «E io mi ricordo di te quando ti infilasti per la prima volta sotto le pelli della tua prima moglie... Eri proprio maldestro.» «Io non mi ricordo di te. E non ho avuto lamentele.» «Dal tuo aspetto, vedo che il tempo della caccia tra l'erba alta è finito, e il tempo di agitarsi sotto le pelli è finito; e anche quello di spaccare crani.» Giovane Nonno scosse la testa pensando alle sue mogli. «Il tempo di agitarsi sotto le pelli, no. Ma gli altri sì. Tutto finito. Vorrei volare con le aquile, e con i corvi, per vedere la tribù e le piste di caccia attraverso altri occhi. Vorrei vedere il futuro lontano attraverso gli occhi di altri sognatori. Ma qualcosa me lo impedisce.» Coyote sogghignò. «Hai il nome dei corvi, e non quello del coyote. Hai il nome sbagliato. Tuo padre era in errore, e io l'ho ucciso.» «Mio padre arrivò correndo su delle alte rocce, e cadde.» «Io lo spinsi. Ti dette il nome sbagliato. Ma non è troppo tardi. Io sono qui.» Giovane Nonno stava aspettando proprio questo momento. Sapeva da suo padre, e da suo nonno, che portare il nome del Coyote voleva dire consegnarsi nelle sue mani, e Coyote era ingannevole. A volte le sue visioni sarebbero state reali. Altre sarebbero state menzognere. Era la stessa cosa per le giovani donne così come per gli uomini anziani. Era una cosa pericolosa prendere il nome del Coyote, e a dispetto di quanto sembrasse sincero, seduto lì sulla roccia dello spirito, con il sole al tramonto e le piume tra i suoi peli grigi ondeggianti al vento: di Coyote non ci si poteva fidare. Giovane Nonno scavò nella terra sopra la roccia e trovò il teschio del coyote morto. «Devi rientrare negli occhi, nelle orecchie, nella bocca di questo scheletro» disse allo spirito «in modo che io possa renderti onore, e prendere il tuo nome.» Coyote esitò. Era forse un inganno? No, il vecchio era troppo
desideroso di volare con le aquile. La pianura sottostante era disseminata di tende, e da ogni tepee si innalzava del fumo. I bambini stavano giocando, le loro risate risuonavano leggere nell'aria della tarda sera. Coyote tirò un sospiro ed entrò nel teschio. Giovane Nonno portò le ossa al villaggio con deferenza. Quella notte furono suonati molti tamburi, fu acceso un grande fuoco, e furono posati sul terreno un lungo palo di frassino su cui erano scolpiti gli spiriti e lo scheletro del coyote. Quando i tamburi cessarono di suonare, Giovane Nonno infilò un corno di bufalo nel teschio, poi seppellì le ossa nella terra di un luogo in cui un corso d'acqua si biforcava, formando un'isola. «Possa il tuo fantasma dimorare qui per l'eternità» disse Giovane Nonno in tono di scherno. «Mai prenderò il tuo nome. Ora, finalmente, posso volare con le aquile.» Coyote era furioso. L'osso del bufalo, conficcato nel cranio, lo aveva fatto impazzire. Cominciò a dimenarsi, a urlare, ma era in trappola. Venne però il tempo in cui la figlia più piccola di Giovane Nonno, una notte, giunse all'isola per partorire. Nel buio aveva perduto la strada, e Coyote si era messo a cantare dolcemente, aveva soffiato sulle foglie dei rami per farle credere che quello fosse un buon riparo per il suo travaglio, cosicché lei aveva attraversato l'acqua. Appena si accovacciò e sentì il peso del bambino, Coyote le suggerì sussurrando di estrarre il corno di bufalo dal terreno e di appoggiarsi a esso. Ella obbedì, e Coyote fu liberato dalla sua bara. Coyote la aiutò durante il parto, continuando a cantare sottovoce, ma appena il bimbo mise la testa nel mondo egli gli pizzicò le guance in modo che aprisse gli occhi. Saltò dentro gli occhi del neonato e penetrò nelle sue ossa. Quando la madre depose il bambino sulle soffici pelli della sua culla, Coyote rise soddisfatto. «Finalmente ho il mio nome» sussurrò. La madre fu terrorizzata nel sentir parlare il bimbo appena nato, ma dopo un momento pensò di essere vittima del dolore alle reni e che il fresco del vento l'avesse fatta sognare, poiché subito il bimbo cominciò a piangere, come ogni bambino. Ma Coyote da quel momento era nel sangue della famiglia, e stava già pianificando la sua vendetta per l'inganno di Giovane Nonno.
La pioggia si era fermata, scossero l'acqua dalla tenda e si prepararono a partire. Mentre lavoravano, Helen continuò: «Diventammo la famiglia più disgraziata. Eravamo conosciuti come Gente del Cane Folle, perché niente ci andava mai per il verso giusto, e ci furono anche degli omicidi tra noi, nella furia della disperazione. «Coyote prese i migliori tra i nostri cacciatori, li fece impazzire con il whisky di patate. Durante la battaglia danzava intorno ai nostri migliori guerrieri, e faceva in modo che si uccidessero tra loro. Alcuni dei nostri bambini nacquero con teste di cane; le donne più belle cominciarono a mutilarsi, oppure, appena dopo il matrimonio, iniziavano a ululare come lupi. Coyote ci condusse alla fame, nonostante ci fosse cacciagione e pesce in abbondanza, distruggendo le reti, tagliando le lenze, avvertendo gli animali. Faceva in modo che i padri e i loro figli guerrieri si distraessero durante gli attacchi alle altre tribù, lasciandoli con i crani sfondati e gli occhi in pasto ai corvi. Portò malattia e cancro. Rese muti i nostri bambini, e cieche le madri. Le prosciugò del loro latte. Provocò incendi nei tepee, anche durante i giorni di pioggia. Appariva in forma di uno scheletro di cane disincarnato, digrignando i denti, e allora eravamo certi che Coyote era venuto a reclamare un altro riscatto. Per generazioni la mia famiglia è stata terrorizzata dal mondo dei sogni, da dove questo spirito malvagio ci tende i suoi agguati. E non sappiamo mai esattamente quando colpirà. «Nessuno sapeva cosa fare. Gli antichi rituali erano andati perduti ormai da molto tempo, e la precisa natura della magia che Giovane Nonno aveva utilizzato per torturare Coyote, in quel tempo prima dei cavalli, era morta con lui. «Poi accadde che Alexander Lytton andasse in visita all'università in cui insegnavano Helen e Dan, e lei venne a conoscenza della sua ossessione per una strana foresta in Inghilterra. Lytton stava cercando un esperto nelle società di cacciatori e raccoglitori del Paleolitico. Trovò una donna e suo marito, specialisti in quel campo, due persone che stavano vivendo un incubo. Li aveva accolti nel gruppo. «E questo è tutto ciò che c'è da sapere» mormorò Helen facendo strada verso una zona aperta del bosco, in cui, in lontananza,
occhieggiavano le bianche mura di un castello. «Se riuscirò a far uscire il Briccone nella foresta, in modo che diventi corporeo, allora potrò ucciderlo. Dan ci ha provato. Credo abbia fallito. Piangerò la sua assenza quando sarà il momento. Nell'attesa, non riesco a pensare a nient'altro che a distruggere quest'ombra.» Il castello bianco Dalle immagini delle remote pianure del Nordamerica, Richard si ritrovò di colpo nel primo Medioevo, nell'avvicinarsi al castello, quando della foresta non restavano che delle piccole zone boscose. Impressionato dall'altezza delle mura, si accorse d'un tratto che la purezza del loro colore non era dovuta alla pittura, bensì alle bacche bianche di un biancospino infestante, che aveva completamente ricoperto il castello. Il ponte levatoio era marcito da tempo. Per attraversare le acque stagnanti e schiumose del fossato in cui galleggiavano molti pezzi di legno in putrefazione, era stato gettato un tronco d'albero così da farne un ponte di fortuna. All'interno, al riparo nella guardiola, Lytton e McCarthy si stringevano attorno a un fuoco. Il secondo era affaccendato a infilare del cibo in spiedini di legno, il primo fumava la sua pipa nera scrivendo appunti sul suo diario. Quando sollevò lo sguardo e li vide arrivare, il suo viso si allargò in un ampio sorriso. Li salutò con le ricche sonorità del suo accento scozzese. «Felice di vedervi! Avete fatto buon viaggio?» «Un viaggio bagnato!» rispose Helen seccata. «Vi credo! Abbiamo visto il temporale da lontano. Ha del cibo con lei, Helen? Come può vedere, a noi sono rimasti gli ultimi due ghiri... abbastanza saporiti, ma potrei uccidere per un buon roast-beef con tutto il suo contorno.» «Per quello non so come aiutarla, ma sarò lieta di andare a cacciare qualcosa.» «Che Dio la benedica» esclamò Lytton mostrando i denti gialli con un altro sorriso. «Le intonerei una canzone per augurarle buona fortuna, ma ho talmente tanta fame che non ne ho la forza. Ho visto dei maiali selvatici nel bosco, da quella parte.» Mentre Helen preparava il suo arco e si intratteneva a voce bassa con McCarthy, Lytton si rivolse a Richard. «Nell'aspetto esteriore sembra nello stesso disordine in cui io mi trovo interiormente. Vorrei poterle dire che suo figlio è qui, ma non è così. Il luogo è deserto. Lo ha abbandonato. E la
natura, come ha visto dalle mura, se ne sta riappropriando, pietra dopo pietra, corridoio dopo corridoio, salone dopo salone. L'abbiamo esplorato in ogni anfratto, ma è un luogo fantasma. Ora si sieda, e cominci con il dirmi quanto si sente vicino ad Alex. Perché senza dubbio gli siamo vicini. McCarthy sente la sua ombra, ma il ragazzo sa troppo bene come tenersi nascosto. Richard riferì a Lytton della sua esperienza con la "presenza" di Alex, mentre lo scozzese, ascoltandolo, rifletteva e meditava, continuando a fumare la sua vecchia pipa. «C'è qualcosa che non quadra» disse. «Manca qualcosa. Ero certo di avere una chiara immagine di suo figlio, ma dev'essere accaduto qualcosa nel frattempo. Se se la sente di accontentarmi, senza che ciò le procuri troppo dolore, mi racconti ancora una volta della sua morte, e dell'arrivo di Keeton. È apparso improvvisamente nel mezzo di una strada, vicino casa, un anno dopo la sua scomparsa... ed era invecchiato soltanto di pochi giorni... Racconti ancora...» Richard riepilogò gli avvenimenti di quella lontana notte di autunno con quanti più dettagli riuscì a ricordare, dalle canzoni della rappresentazione di Gawain adattata da suo figlio, allo stato di James Keeton, letteralmente precipitato dall'altro mondo, mezzo nudo e morto di paura. Keeton era stato in un luogo fuori dal tempo, osservò Lytton dopo una riflessione. Con molta probabilità non si era trattato di un mondo fatato, poiché in quel caso l'essere rimasto giovane avrebbe voluto dire che il tempo lo stava inseguendo. E sarebbe immediatamente invecchiato di un anno. Keeton era rimasto sospeso nel tempo, esattamente come Alex, o almeno, come quell'Alex che riusciva a percepire McCarthy nelle sue rilevazioni delle ombre silvestri, o lo stesso Richard, attraverso i suoi sogni. «Ma dannazione!» continuò Lytton, appoggiandosi contro la parete della guardiola. «Continua a sfuggirmi qualcosa.» «Anche il tempo potrebbe giocare degli scherzi» suggerì Richard, e per la prima volta gli raccontò della sosia di Helen, che aveva visto uscire da casa sua il pomeriggio stesso del ritorno di Keeton, e che aveva lasciato un messaggio per lui incomprensibile. Sotto le domande incalzanti di Lytton accettò la possibilità di essersi sbagliato. «Quando però l'ho accennato a Helen, il giorno in cui è venuta a farmi visita, sembrava metterla a disagio.» «Ah sì?» «Non sono certo che fosse lei. Non credo di esserlo mai stato. Ma se davvero era Helen, vuol dire che è venuta da me addirittura sette anni pri-
ma che arrivasse in Inghilterra...» «Sì» lo interruppe Lytton «e lo stesso giorno in cui Keeton tornò dall'altro mondo. Come fosse Halloween, la sera in cui per un certo tempo si aprono certi passaggi...» disse scrivendo freneticamente sul suo taccuino. «Il tempo scorre sempre in avanti nella foresta di Ryhope. Non necessariamente allo stesso ritmo in luoghi diversi, ma sempre in avanti. Tuttavia, qui ci troviamo di fronte a una bizzarra coincidenza...» McCarthy osservava l'interno delle mura del castello in uno stato sognante, cantando dolcemente tra sé e sé. Richard si accorse che Lytton si stava rivolgendo a lui e gli ripeté una domanda. «Questa pseudo-Helen... cosa aveva scritto nel biglietto?» Richard confessò di non ricordarselo. «Si trattava di qualcosa che avevate trovato. Qualcosa a cui dovevo prestare attenzione. Strani termini. Quando persi il biglietto, persi completamente anche il senso del suo contenuto. Mi spiace.» Lytton aveva bisogno di pensare. McCarthy perso nei suoi vestiti troppo larghi, pallido ed esangue, ma sempre pronto al sorriso, rosicchiava la magra carne della loro ultima preda fissando intensamente, attraverso l'entrata della garitta, i terreni paludosi e la foresta lontana, dove si vedeva Helen aggirarsi furtiva sul margine del bosco, attenta ai rumori della selvaggina. Richard percorse i corridoi in rovina del castello, nel silenzio gelato della pietra umida, con la sensazione di trovarsi in un luogo abbandonato in mezzo a ombre ormai indistinte. Non riusciva nemmeno a immaginare il suono delle voci, delle risate, del ringhiare dei grandi cani da caccia che un tempo senza dubbio sonnecchiavano davanti al fuoco degli immensi camini, in attesa di venir lanciati nella foresta all'inseguimento della cacciagione. Qui non c'era niente per lui, così decise di ritornare alla guardiola. Un attimo dopo un'ombra attraversò velocemente il salone ed egli sentì una strana sensazione di calore, come un soffio sul collo. Si rese improvvisamente conto di essersi perso. Passò dal salone su un freddo corridoio, scese alcuni gradini consumati e poi attraversò una serie di ampie stanze, in cui si vedevano ancora le tracce dei tramezzi di legno. Gridò il nome di Lytton, ma la sua voce veniva attutita dalle pareti di pietra. Di colpo si ritrovò di nuovo nel salone principale, un ampio spazio in cui risuonava l'eco del suo passo sempre più veloce. Sentì intorno un profumo di legna bruciata e vide i ceppi che si consumavano sul focolare di ferro battuto. Sulla parete che li sovrastava riconobbe sulla pietra l'incisione di un cavaliere e di un gigante, a spade incrociate sopra la testa frondosa di un Uomo
Verde, che con dei rami che gli spuntavano dalla bocca e il volto incorniciato da frutti e bacche, osservava la scena con sguardo malevolo. D'un tratto, nel salone principale l'atmosfera divenne soffocante. Richard sussultò per un improvviso movimento nell'aria, solo vagamente consapevole della presenza dei cani da caccia, dei mantelli e delle gonne che turbinavano attorno a lui, e del vapore aromatico che saliva dal cibo nei recipienti di terracotta. Non vide nulla di tutto questo tranne il fumo del fuoco e l'incisione malridotta di pietra grigia. Fu in quel momento che dalle ombre gli arrivò in un sussurro la voce di un bambino, che lo incalzava: «Indietro!». «Alex? Alex?» Da qualche parte un suonatore di tamburo cominciò a percuotere le pelli tese con un cadenzato ritmo militare. L'incisione sulla pietra prese a ondeggiare, a muoversi, e quando Richard per la terza volta pronunciò il nome di suo figlio, il volto di foglie si staccò dal muro proiettandosi in avanti e lo guardò negli occhi. «Indietro!» sibilò. Richard arrivò con un salto fino alla soglia della sala. La testa si voltò verso di lui sul suo lungo collo di marmo, gli occhi, infossati nella pietra grigia mandavano bagliori, e le sue scosse facevano precipitare rumorosamente le foglie sul pavimento. «Indietro dove?» gridò Richard. «Alex? Sei tu? Dove vuoi che vada?» La testa tornò al suo posto, e sulla sala calò un freddo improvviso. Il suono del tamburo era svanito, la bocca del camino era vuota. Soltanto Richard si sentiva bruciare, ancora sconvolto dall'incontro. Si precipitò attraverso i corridoi e si trovò rapidamente fuori, alla luce, dove dal cielo cadeva ancora una pioggia leggera. Lytton era appena fuori dall'entrata del castello, con gli occhi fissi sulla foresta in lontananza. «Richard!» esclamò senza voltarsi. «Venga qui, presto. Sta succedendo qualcosa!» «Alex era là!» gridò Richard affrettandosi per il cortile pieno di fango per raggiungere il riparo all'entrata. Si fermò a prendere fiato quando vide Helen correre verso il castello, urlando e indicando qualcosa alla sua destra. All'arrivo, dopo aver faticosamente attraversato lo stretto pontile, guardò Richard negli occhi, eccitata e senza respiro: «La cattedrale... la cattedrale di Alex! È là... l'ho vista!». «Così vicina?» disse Lytton stupefatto. «Così presto?» McCarthy si alzò in piedi, corse sotto la pioggia fine e si mise a scrutare in lontananza con gli occhi socchiusi. Si avvicinò rapidamente al biancospino che addobbava le mura, si accovacciò in terra, e cominciò a far scor-
rere le mani lungo il legno contorto e spinoso dei suoi rami più bassi. Stava rintracciando le ombre, ripiegato su se stesso, distaccato, aprendosi una via nel cuore della terra, verso il luogo interdetto. «Non riesco a mettermi in contatto con la sua ombra!» esclamò. «Deve aver eretto un'altra barriera!» «È laggiù» gridò Helen di risposta. «L'ho vista quando mi sono arrampicata sopra un albero per prendere le uova di una beccaccia. È laggiù!» «Allora andiamo a tirarlo fuori» disse Lytton. «E facciamolo presto. È pronto, Richard? È preparato ad affrontare il suo passato?» Sorrise freddamente, si gettò il piccolo zaino sulle spalle e seguì Helen sul sentiero. Richard non disse nulla, ma incrociò per un istante lo sguardo di McCarthy, uno sguardo incerto e carico di apprensione. C'era come un avvertimento nell'espressione del gracile irlandese. «Lytton è ancora armato?» domandò Richard sottovoce. McCarthy sollevò una mano con quattro dita distese, per indicare il numero dei colpi in canna. «È solo una pistola. Ma Lytton ha una maledetta mira.» «Indietro!» aveva detto la faccia verde, e Richard si domandò se non fosse stato spinto ad allontanarsi dal castello poiché, visto che Helen aveva trovato la via per la cattedrale, il castello stesso stava cominciando a diventare pericoloso per il ritorno delle ombre nei loro involucri senza vita. Lytton non aveva sentito il tamburo. Era stato un suono destinato solo alle orecchie di Richard, memoria delle leggende di giovani tamburini, e proprio per questo, un segnale da parte di Alex, per indicargli che era di nuovo vicino a suo padre. Eppure, quell'avvertimento: «Indietro!»... Quelle parole sussurrate continuavano a disturbarlo anche entrando nel bosco, seguendo Helen che si spingeva tra la lussureggiante vegetazione estiva di nuovo verso la luce. C'era troppa immobilità nella foresta, troppo silenzio. Era soltanto suggestionato dall'aspettativa, che gli faceva temere il momento del contatto con il ragazzo, con il suo passato? Lo stomaco si rivoltava violentemente, gli tremavano le gambe, si fermò un attimo, ascoltando le voci degli altri davanti a lui. Si sentì le lacrime agli occhi e la pulsazione del sangue alle tempie. Un istante dopo gli venne da vomitare. Si ripulì la bocca con delle foglie bagnate, e poi sobbalzò indietro per il tocco gentile di una mano sulla sua spalla. «Che succede?» domandò Helen ritraendosi leggermente dal suo respiro, ma sfiorandogli la guancia con le dita, guardandolo dritto negli occhi. «Immagino sia una domanda idiota. So quanto potrà essere difficile rive-
derlo. Se crede di non essere ancora pronto ad affrontarlo... se ha bisogno di ancora un po' di tempo... vuole restare a guardare da lontano per un po'?» «Non lo so» ammise Richard imbarazzato, ancora tremante. «Mi ha mormorato qualcosa. Al castello... mi ha sussurrato "indietro". Avrà voluto dire via da qui? Ricordo che nella sua recita scolastica le parole venivano usate come avvertimenti.» «Contro che cosa?» «Contro il Cavaliere Verde, credo. Qualcuno stava cercando di impedire a Gawain di entrare nel Tempio Verde per scoprire i suoi segreti.» «Ma Alex vuole che lei lo trovi. Questo lei lo ha percepito intensamente. Alex vuole essere aiutato a uscire fuori...» Da lontano, si alzò il richiamo di Lytton che invitava Richard a raggiungerlo. Helen gli diede un veloce bacio sulla guancia, sussurrandogli «Coraggio!» e gli fece strada verso il margine del bosco. La cattedrale si ergeva alta e fatiscente, grigia, attraverso la fitta nebbia che sommergeva la campagna umida. Richard andò a sedersi in terra di fianco a Lytton che gli indicò con un dito una delle vetrate ad arco, sotto la linea frastagliata del muro da cui il tetto era stato divelto. Dal davanzale di pietra li osservava il volto di un ragazzino. Dopo un secondo la testa svanì, per ricomparire più in basso, da un'apertura circolare che una volta doveva contenere una vetrata. «Non riesco a raggiungerlo» stava dicendo McCarthy «non permette alcun contatto.» «Lo chiami» disse Lytton spingendo Richard in avanti. Richard gridò due volte il nome di suo figlio, e un attimo dopo in risposta arrivò un lamento, non una parola, qualcosa di simile a un singhiozzo, un suono acuto carico di struggimento, di sollievo, e di paura. «Mio Dio... è in pericolo!» esclamò Richard abbandonando la postazione nel sottobosco, precipitandosi verso l'entrata spalancata del porticato laterale. Lytton lo seguì, camminando ricurvo. Appena furono all'interno della tetra, deserta cattedrale, la bruma li avvolse nelle sue spirali. Lytton corse al centro dello spazio, Richard sfiorò una delle colonne spezzate che delimitavano la navata laterale. Helen oltrepassò la soglia, si guardò rapidamente attorno, poi sollevò lo sguardo nel punto in cui era stato appena intravisto il ragazzo. «Qualcosa non va» disse.
«Uscite di lì!» gridò McCarthy dall'esterno. «Papà! Indietro!» Richard ebbe un sussulto nell'udire il suono della voce di suo figlio. A tutta prima non riuscì a individuare da dove arrivassero le parole, ma poi una minuta figura, come una statua grigia, si fece avanti dalla zona dell'altare. Sembrava essersi staccata dalla dura superficie della pietra, e teneva le braccia sollevate sui fianchi. Aveva gli occhi lucidi, la bocca spalancata, atteggiata né in un sorriso né in una smorfia: era piuttosto una mimica stranamente priva di espressione. Eppure si trattava di Alex, i lunghi capelli, nudo, innegabilmente Alex, un ragazzo minuto, fragile, che guardava suo padre con uno sguardo che improvvisamente si riempì di angoscia. «Alex! Vieni ragazzo mio. Andiamocene di qui!» La cattedrale fu percorsa da un brivido, le mura si inclinarono verso l'interno, il pavimento si abbassò e sembrò che le colonne si piegassero. Helen lanciò un urlo e si aggrappò a Richard. Sull'altare il ragazzo cominciò a gridare forte, Richard fece per allontanarsi da Helen ma un suo piede lo colpì alle gambe facendolo cadere in avanti. Lytton stava correndo verso l'altare. Alex gridò di nuovo e si rannicchiò per difendersi. «Non tocchi mio figlio!» urlò Richard tentando di rialzarsi da terra. Il primo colpo di Lytton lo stordì. Il secondo lo fece gridare di dolore. Le pallottole perforarono il cranio di Alex, e la densa materia cervicale schizzò sull'altare. Il ragazzo era ancora in piedi. La cattedrale sembrò crollare su se stessa, Helen cercava di scuotere Richard, il quale non riusciva a cogliere il senso delle sue parole, nonostante sapesse che gli stava gridando di scappare. Lytton scaricò le ultime due pallottole nel cranio del ragazzo, finì di spaccarlo a colpi di bastone, e poi con una spinta, gettò il gracile corpo in terra da una parte. Attorno a lui le mura cominciarono a crollare, incurvandosi, la pietra grigia si fuse in una sostanza organica che iniziò a salire, a circondare lo scozzese che gridava mentre veniva raggiunto e avvolto da tentacoli di roccia liquida. Il corpo del ragazzo fu assorbito dal terreno dal quale spuntò una nuova sagoma umana che si innalzò fino a sovrastare Alexander Lytton, che continuava a dibattersi. Due occhi sinistri e perforanti sotto una massa di capelli verdi, su un corpo rivestito di stracci colorati, percorsero con brevi occhiate tutta la cattedrale deliquescente. «Il Jack...» disse Richard in un sibilo.
Tentacoli di pietra cercarono di raggiungerlo ed egli si servì del suo bastone per liberarsene. L'intero edificio veniva risucchiato dal Jack, trappola gigantesca che si richiuse sulla sua preda umana. La porta sul porticato si stava richiudendo, ma Richard sentì un ultimo strattone sulla sua spalla e questa volta si voltò seguendo Helen sotto la pioggia, dove, al margine del bosco, li aspettava McCarthy in stato di shock. Gridò: «Alex è vicino! Sta urlando il suo nome! Quello là dentro non è Alex!». Un attimo dopo la terra stessa si innalzò tutt'intorno a lui, circondandolo. McCarthy lanciò un solo grido, si dibatté: «Cristo!» e sparì, risucchiato sotto l'erba gialla. Richard si lanciò in una corsa disperata. Si guardò indietro una sola volta e vide che la cattedrale ora aveva la forma di un volto distorto in un ghigno, che lo osservava sotto una chioma di capelli fluttuanti. Dall'enorme bocca spalancata spuntarono strisciando due rami che si lanciarono verso di lui. Nell'inseguimento le ramificazioni si moltiplicavano, si trasformavano in grandi alberi completamente ricoperti di foglie, formavano un tunnel di vegetazione man mano che i tentacoli continuavano la loro corsa. Senza sapere come, nonostante il ruggito della terra e il fragore della foresta impazzita, sentiva i lamenti acuti e disperati dell'agonia di Lytton. Dov'era Helen? L'avvistò in lontananza che saltava come un gatto sulle ondulazioni del terreno, cercando di sfuggire agli stessi lacci che il Jack stava inviando per afferrarla. Ebbe un istante di esitazione, scorse Richard e gli rivolse frenetici gesti con le braccia: via da qui! E un attimo dopo era sparita. Nella nebbia si profilò un'immensa sagoma umana, fece un passo in avanti, le braccia tese, impugnando due bastoni smisurati. Richard scoppiò a piangere per la spossatezza e la paura, mentre il Long Man gli sbarrava la strada. Ma a quel punto il personaggio gli fece un cenno, gridò qualcosa che avrebbe potuto essere: «Da questa parte», si voltò di schiena e allargò le gambe piantando i due bastoni ai fianchi del corpo. Cosciente del fatto che alle sue spalle tutto si era improvvisamente fermato, che era tutto estremamente silenzioso, che la testa di pietra del Jack era scomparsa sotto un intrico di quercia e rovi di biancospino, raggiunse di corsa il Long Man e gli si gettò sulle spalle. Fu così che il Long Man e l'uomo, terrorizzato, avanzarono insieme, mentre il mondo si richiudeva su di loro. Un attimo dopo si ritrovarono a inciampare su un muro di mattoni rossi,
seminando il panico tra i piccioni sugli alberi e spaventando un gatto selvatico che gli soffiò contro, fece per attaccarli, ma poi si diede alla fuga scomparendo nel fitto sottobosco. Il Long Man osservò la radura perplesso. Ma Richard riconobbe immediatamente dove si trovavano. «Oak Lodge» sospirò. «Mi hai portato al punto di partenza.» Il Long Man si strofinò gli occhi guardando nervosamente la casa in rovina e la statua di legno marcio poggiata contro il muro esterno. Forse sentiva il sistema di protezione di Lacan. In ogni caso, quel posto non gli piaceva. La sua espressione era palese. Raccolse i suoi bastoni e si allontanò dall'edificio. «Grazie» Richard lo raggiunse con la voce. «Grazie di avermi riportato a casa...» Alex, oh mio Dio, Alex. Eri tu? Oppure era il Jack? Cosa è successo? Helen... ti ho persa. Helen! Cos'è accaduto? Non può essere successo! Il Long Man scosse mestamente il capo, e i suoi lunghi capelli ricaddero in avanti ondeggiando. Con gesti e parole lo invitò a tornare indietro insieme a lui, ma Richard scosse la testa, troppo turbato dagli avvenimenti per considerare di ritornare nell'incubo. Il Long Man sorrise, si portò un dito all'occhio destro, si voltò e si incamminò tra i suoi due bastoni. Un leggero scoppio di aria compressa sollevò una folata di vento tutto intorno alla radura che una volta era stata un giardino, e in quell'attimo il gigante svanì. Piangendo sommessamente, la stanchezza gli crollò improvvisamente addosso. Richard abbandonò la foresta e vacillando riguadagnò il sentiero sterrato che conduceva a Shadoxhurst, a casa, al silenzio della tomba. Il Tempio Verde - V «Se ne è andato!» urlò Alex, liberandosi dal pungente abbraccio di Agrifoglio. Si issò sulle piante rampicanti raggiungendo la finestra più alta e guardò in direzione della foresta. «Non andare!» disse piangendo. «Papà! Non andare!» Nessun movimento. Tutto era immobile. Suo padre era stato vicino. Alex aveva gridato per avvertirlo che Colui che ghigna stava tendendo loro una trappola, e suo padre era riuscito a sfuggire al tranello. Ma se ne era andato - completamente svanito dal Piccolo Sogno. Aveva corso tanto. Aveva incontrato il grande viandante. E l'ombra di suo padre era scomparsa dalla foresta, a pochi metri dal luogo in cui Alex si proteg-
geva dietro le sue mura di difesa. Era arrivato così vicino... Da sotto, Agrifoglio lo chiamò con un sibilo. Alex tornò da lei e pianse tra le sue braccia. Lei era molto debole. Batteva i denti ed emetteva flebili cinguettii. L'inverno è alle porte. Andiamo incontro al pericolo. Dobbiamo arretrare più lontano, per metterci al riparo. Alex chiuse gli occhi. Il legno del tempio tremò, poi sembrò pietrificarsi. La luce andò a colpire i frammenti di vetro colorato sopra le porte, per un ultimo sguardo al cavaliere, al mostro, prima che le tenebre si richiudessero su di lui. La finestra era diventata più grande, il vetro si era ricostituito, i colori erano più vividi. Ora vedeva la scena della battaglia quasi interamente. Ma c'era qualcosa di sbagliato. Il cavaliere, Gawain, non andava. Agrifoglio tremò. Dormirono per lungo tempo. TERZA PARTE Passato perduto, avvenire lontano La roccia dello Spirito Due mesi dopo C'è un fuoco al Torrente del Cacciatore. Stanno ballandovi intorno. «Papà, svegliati, c'è un fuoco.» «Stanno ballando.» «Papà!» Richard si svegliò di soprassalto, gridando, nella chiara luce dell'alba. La stanza era fredda e umida, ricoperta di rugiada. Dalla finestra spalancata vedeva addensarsi le nuvole, cariche di pioggia. Erano le quattro del mattino. I corvi si agitavano gracchiando dai loro rami e Richard si sentiva pulsare la testa, mentre l'immagine di Alex, che allungava il braccio perché si svegliasse, iniziò a disperdersi. Aveva dormito completamente vestito su due coperte buttate sul pavimento. La camera da letto era in un disordine indescrivibile. Al piano inferiore, dal salotto alla cucina, era anche peggio. Un caos. Nel mese seguente
le sue dimissioni e il suo ritorno in pianta stabile a Shadoxhurst, nello stato confusionale in cui si trovava, si era lasciato andare. Percorreva ogni giorno il perimetro della foresta di Ryhope, e consumava le sue serate nel pub locale, a redigere il resoconto della sua esperienza al Varco di Old Stone e dintorni, ubriacandosi pesantemente. Più scriveva, e più aumentavano i giorni di lontananza dalla foresta, più gli eventi assumevano l'aspetto di un sogno. Cominciò ad avere l'impressione di essere stato lo spettatore di un film. I personaggi erano realistici, ma erano tutti attori. Arnauld Lacan, McCarthy, Alexander Lytton - un ottimo cast, senza dubbio, che ora però recitava altri ruoli, in altri film. La foresta di Ryhope era un piccolo, pericoloso bosco disseminato di paludi, molto più esteso di quanto potesse sembrare a prima vista, ma nient'altro che una foresta, con le sue trappole e i suoi labirinti, ma addomesticata, a suo modo, come qualsiasi altra cosa, in Inghilterra. Non vi si nascondeva suo figlio. Suo figlio era morto. Le sue ossa erano sotto terra. Perfino Helen si era trasformata nel ricordo artefatto di un amore nascente. Abitava i suoi sogni a occhi aperti, e occupava ossessivamente i suoi pensieri: erano diventati talmente intimi nel corso di quei pochi giorni nella foresta... ma ora anche lei si stava scomponendo in una serie di immagini, una voce, una risata, e gradualmente si distaccava da lui. Ma quel sogno era stato così reale, era stato il suo primo sogno reale da quando era tornato a casa. In piedi, rigido, strofinandosi il fondo della schiena, indolenzito per il contatto con il pavimento, arrivò zoppicando alla finestra per salutare l'alba velata. Vide, d'un tratto, la colonna di fumo che si innalzava dal Torrente del Cacciatore per poi venir dispersa dal vento. Era una persona, quella in piedi contro l'orizzonte grigio? Socchiuse gli occhi nello sforzo di distinguere i particolari, ma un attimo dopo la sagoma era svanita. «Mio Dio! Oh, mio Dio, Helen!» Si infilò di corsa le scarpe e la giacca a vento, si precipitò giù per le scale, stordito, e cercò di svegliarsi con degli spruzzi d'acqua fredda. Era trasandato, con la barba incolta, ma questo non lo preoccupava, non più delle formiche che si arrampicavano sul lavandino dove una catasta di stoviglie sporche aspettava di essere lavata. Una volta fuori si appoggiò all'olmo in fondo al giardino per prendere fiato e poi si incamminò rapidamente lungo il sentiero sterrato. Non tardò a scorgere il tremolio arancio della fiamma sotto il vortice di fumo, e quando arrivò sulla sommità della leggera salita che dominava il ruscello e gli alberi attorno vide dei personaggi seduti in
terra, coperti da mantelli neri, incappucciati. Uno era accovacciato davanti al piccolo fuoco, gli altri due sotto gli alberi, quasi completamente in ombra. L'uomo più vicino portava i baffi su di un viso molto abbronzato. Due occhi dal taglio leggermente orientale osservavano Richard da sotto il cappuccio. Da qualche parte tra gli alberi immersi nella nebbia, qualcosa si mosse e Richard si distrasse per un momento. Quando tornò a guardare il falò crepitante, l'uomo incappucciato era in piedi e tendeva verso di lui un oggetto di legno. Richard si avvicinò con cautela. Era una mazza da cricket in miniatura, lunga quindici centimetri. Richard era sbalordito. Accettò il dono, e si accorse immediatamente che l'altro uomo ne fu compiaciuto. I suoi compagni si alzarono in piedi e indietreggiarono tra gli ontani sulla riva del torrente, avvolgendo le cappe attorno ai loro corpi slanciati. L'uomo incappucciato, con un cenno, invitò Richard a raggiungerlo vicino al fiume, incamminandosi lungo il margine asciutto. Una sagoma umana, coperta di foglie, giaceva su di un fianco sopra una lettiga improvvisata, fatta di assi e di liane intrecciate. Non si muoveva. Uno dei personaggi mascherati scostò le foglie che nascondevano il viso, rivelando la sua pelle mortalmente pallida, incorniciata da capelli brizzolati. Spostando altre foglie, svelò un braccio immobilizzato da una stecca, e la curva dei fianchi, inconfondibilmente femminili. Guardando più da vicino, Richard riconobbe il corpo di Elizabeth Haylock. Sull'altra sponda del fiume, tra gli alberi, comparvero altri due personaggi, che immediatamente scapparono in direzione della foresta di Ryhope. L'uomo con i baffi batté le mani e pronunciò qualche parola in tono deciso. Sia il linguaggio che i gesti davano a intendere chiaramente: «Ora è nelle tue mani». Poi seguì i suoi compagni e, per la salita erbosa che si allontanava dal torrente, raggiunse un altro gruppo di personaggi incappucciati che stavano uscendo dall'ombra, e insieme partirono con passo rapido e leggero verso la foresta. In tutto erano nove. Prima di sparire dalla vista, il capo si voltò, controluce nell'orizzonte che schiariva. Sollevò verticalmente entrambe le mani, lanciando un grido acuto, commosso. Cosa è successo? Richard si infilò in tasca la minuscola mazza e si chinò sul corpo della donna, turbato all'idea di toccarlo. Alcune foglie rimaste sul suo viso si spostarono, come per un soffio. Un attimo dopo emise un gemito e aprì
appena gli occhi, aggrottò penosamente le sopracciglia, cercando di mettere a fuoco il torrente. Richard le scostò i capelli dal viso e lei si voltò per guardarlo. Nel vederlo, un breve, debole sorriso le si disegnò sulle labbra. «Richard, sono fuori?» chiese con un filo di voce. «Dalla foresta? Sì.» «Grazie a Dio, oh, grazie a Dio...» uno spasmo le fece contorcere il volto dal dolore. «Sono in pessime condizioni. Cos'è successo ai Pathanan?» Richard guardò di sfuggita verso Ryhope, pensando agli slanciati personaggi. «Sono partiti. Con il mio aiuto crede di farcela a camminare?» «Mi dispiace, ho entrambe le caviglie slogate. Cristo, sono congelata. La prego, mi porti al caldo. La prego...» Cadde nuovamente in stato di incoscienza, e fortunatamente vi rimase per tutto il tempo in cui Richard trascinò la lettiga lungo lo sterrato: non aveva voluto lasciarla da sola per andare a cercare aiuto. Ci volle quasi un'ora prima di poter far rotolare la ferita sopra una coperta e trasportarla fino al conforto relativo del suo salotto. Dopodiché chiamò il dottore e preparò del tè. Elizabeth riprese conoscenza e lasciò che le togliessero gli indumenti per esaminarla. Le furono fasciate le caviglie e le sistemarono il braccio rotto su un sostegno appropriato. Sarebbe andata all'ospedale il giorno seguente per farsi fare il gesso. Dopo aver preso degli analgesici, degli antibiotici, e del tè forte, iniziò a sentirsi di nuovo umana. Per quanto incuriosito dal suo abbigliamento e dalle condizioni generali, il medico non fece a Richard nessuna domanda troppo diretta. E appena se ne fu andato, Elizabeth sembrò rilassarsi. Richard l'aiutò a entrare nella vasca da bagno, in cui restò per un'ora, affatto imbarazzata dalla sua presenza mentre, seduto sul sedile della toilette, la aiutava a lavarsi la schiena, aspettando il suo racconto. Era molto magra - Richard se la ricordava invece piuttosto robusta - aveva il viso segnato, e i seni coperti di lividi. Sulle gambe aveva dei tagli superficiali, ma molto lunghi, e Richard dovette ripetere la medicazione di tintura di iodio lavata via dall'acqua. In aggiunta al deterioramento fisico, sembrava essere anche psichicamente esausta, distaccata, depressa, e parlava lentamente, con un filo di voce. «Che cosa le è successo?» le domandò Richard dopo un po'. «Il tipo di eroe sbagliato.» Fu tutto quello che disse. «Non ha importanza. Non mi chieda di più. I Pathanan mi hanno trovata e aiutata, grazie al cielo. Cercavo semplicemente di andarmene, di uscire. Ne avevo abbastanza.» Appoggiò la schiena indietro, e con una mano sfiorava delicatamente
il graffio più profondo sul torace, con gli occhi chiusi. «Erano accampati a Oak Lodge, vicino al limitare della radura» esitando, aggiunse «credo che cercassero lei. Avevano con loro una piccola mazza da cricket. Era un dono, da parte di Heleno di Alex...» «Mi hanno consegnato la mazza. Nient'altro. Solamente la mazza, e lei. Nessun messaggio, nessun accenno a niente altro.» Elizabeth sospirò. «Qualcuno vorrebbe che lei tornasse nella foresta. Ma ora là non c'è più niente, niente a cui ritornare.» Per la seconda volta Richard le chiese che cosa fosse accaduto, e la donna, controvoglia, rispose: «È andato tutto storto. Abbiamo perso troppi uomini, abbiamo perso troppo. Forse, se lei fosse venuto quando glielo avevamo chiesto, non si sarebbe manifestato ancora. Ci ha sopraffatto.» Aprì leggermente gli occhi, pensierosa. «Non voleva essere un'accusa. Mi dispiace. Posso capire perché non sia voluto tornare. Visto quello che sto passando...» Si strofinò il viso con le mani. «Se anche lei ha provato lo stesso, non mi stupisce che abbia voluto nascondersi.» Confuso, Richard si piegò in avanti, scrutando il volto di Elizabeth che respirava dolcemente lasciando che il bagno, poco a poco, lavasse via i suoi dolori. Le parole le erano uscite in modo disordinato. Richard non riuscì a capire espressioni come «non si sarebbe manifestato» o «quando glielo avevamo chiesto». Stava delirando? «Quand'è che mi avete chiesto di tornare? Ho lasciato la foresta da due mesi. Sono tornato a Londra, ma non sono stato in grado di sostenere il lavoro; così sono tornato a vivere qui. Sono due mesi che non ho più notizie dalla Stazione, né da nessuno di voi.» Elizabeth Haylock aggrottò le sopracciglia, gli occhi socchiusi. «Non ha avuto il biglietto di Helen?» «Il biglietto di Helen? No.» «Accidenti. Ha detto di averglielo lasciato qui. E che lei non c'era.» Non aveva ancora finito di parlare, che gli balzò alla mente un ricordo datato 1959, il ricordo di un precedente incontro con Helen in un giorno di pioggia, la donna che correva via dalla casa, lasciando dietro di sé una nota scarabocchiata, ora perduta.» «Quando è stato?» chiese Richard. «Circa un anno fa, secondo il calendario della Stazione. Probabilmente le causerà uno shock, ma lei è partito dal Varco di Old Stone da più di tre anni...» Più che sconvolto, si sentì inquieto. Tre anni contro i suoi due mesi - do-
vevano essere accadute molte cose mentre era rimasto a soffocare nel suo isolamento. Il biglietto: poteva essere lo stesso? Chiese a Elizabeth se conosceva il contenuto del messaggio di Helen, e la sua mente cominciò a galoppare quando lei rispose: «Era a proposito di qualcosa che Lytton aveva messo a punto - il modo di trovare il protogenomorfema. Quello di Alex, evidentemente. Con tutta probabilità reagisce alla sua presenza, così sarebbe stata una buona cosa averla nella foresta. Inoltre - perdoni il pettegolezzo - Helen sentiva molto la sua mancanza. Ha fatto colpo». Si accorse allora che Richard era diventato molto pallido, letteralmente sconvolto, e si tirò a sedere nella vasca, servendosi del suo braccio sano per afferrare un asciugamano e avvolgerselo intorno alle spalle e sul seno, prendendo coscienza, forse per la prima volta, della sua nudità. «Si sente bene?» gli chiese. «Sì. Anzi, no! Non so cosa dire. Lytton è vivo? L'ho visto uccidere dal Jack sotto i miei occhi.» «Ne ho sentito parlare. Lo ha sputato fuori. Ha fatto un buon lavoro. Helen era venuta per dirglielo...» Confuso, quasi stordito, Richard si prese la testa tra le mani e disse: «Credo di averlo trovato, il biglietto. Sembra essere lo stesso. Solo che l'ho trovato otto anni fa! Secondo il mio calendario. Nel 1959, per la precisione. Helen aveva i capelli corti, giusto?» «Nel 1959? Non ne ho idea.» «Intendevo quando mi ha portato il biglietto, un anno fa...» «Sì, è così. Se li era rasati dopo aver avuto un'invasione di zecche.» Era troppo, tutto troppo veloce... Lytton vivo! Una rabbia cieca montò nel cuore di Richard. Aveva passato settimane cercando di cancellare quel momento, il momento meraviglioso in cui aveva visto quello che credeva fosse suo figlio. E lo stesso doloroso ricordo era legato alla visione della furia assassina di Lytton, che aveva iniziato a sparare ad Alex prima di rendersi conto che era una trappola. Aveva voluto che Alex sparisse dalla foresta con una tale intensità che non aveva mai avuto intenzione di salvarlo. Ma quando confidò a Elizabeth questi pensieri, lei, semplicemente scrollò le spalle. «Non è quello che mi ha raccontato Helen. Lytton stava uccidendo il Jack, non Alex.» Helen aveva impiegato molto tempo per raggiungere la Stazione, e McCarthy e Lytton erano arrivati poco dopo di lei. Anche se erano stati in-
gannati dal Jack, erano davvero giunti molto vicino al luogo in cui Alex si nascondeva. Fu quando McCarthy venne sommerso nel mondo fantasma della foresta, privo di conoscenza e quasi divorato dal bosco, che viaggiando nel flusso della memoria-deposito, completamente in trance, aveva visto l'ombra interiore di Alex, l'ombra primordiale che Lytton chiamava protogenomorfema - la prima forma della mente sognante del ragazzo, o qualcosa del genere. Un collegamento al primo stato della coscienza. McCarthy la vide giocare vicino all'Albero delle Maschere, il suo epicentro, secondo Lytton. Crede che si stacchi da Alex per andare in esplorazione e poi ritorni a lui, sempre da lì. È, letteralmente, lo «spirito libero» del ragazzo, e se si riesce a trovarlo, e a seguirlo, si arriverà ad Alex. «Mi aiuti ad alzarmi, la prego.» Richard passò un braccio attorno alle spalle di Elizabeth aiutandola a uscire dalla vasca da bagno. Mentre avvolgeva il suo corpo martoriato con il suo accappatoio, esclamò: «Otto anni! Cristo! Ci disse di avere l'impressione che ci fosse qualcosa di storto... Deve essere entrata in un dannato varco, ma in questo caso, come diavolo... come è riuscita a tornare indietro? Questa storia non sta in piedi». «Da ciò che mi ricordo, fu tutto strano in quella serata. Dall'inizio alla fine. Un assurdo messaggio portato da una donna con i capelli rasati. Un'assurda recita scolastica. E fu la stessa notte in cui risorse James Keeton.» «Per me è abbastanza» disse Elizabeth Haylock, con voce quasi disperata. «Ho bisogno di dormire. Devo rimettermi in forze. E poi dovrò andarmene. Per me non è rimasto più nulla nella foresta. Ho visto uccidere tutto quello che un tempo ho amato...» lanciò a Richard un'occhiata. «Per lei non è lo stessa cosa. Forse lei dovrebbe tornare.» «Le ho preparato il letto.» Richard la sorresse durante il faticoso tragitto fino al salotto dove sprofondò pesantemente sul divano. Stava morendo dalla curiosità. «Helen dove si trova adesso? Che ne è della Stazione?» «Non so dove sia Helen. È svanita. Wakeman è morto. E anche McCarthy. Lytton è stato preso, probabilmente è morto anche lui. Nessuno ha più visto Lacan da quando è partito dalla caverna, quando lei era con noi. Heikonen è annegato nel tentativo, così crediamo, di recuperare un talismano finlandese dal lago; Sinisalo uscita di senno, è andata a fondo anche lei. Tutto è andato distrutto. Qualcosa è emerso dal Varco di Old Stone e ha colpito tutti. Tutto distrutto. Credo di essere la sola a esserne uscita.»
Si addormentò. Richard, seduto su una poltrona, ascoltava il suo respiro, attento alle parole che mormorava nel sonno, e ai suoi gemiti sofferenti, causati non dalle ferite del corpo, bensì da quelle inflitte dai ricordi. A mezzanotte abbandonò la veglia e andò anche lui a dormire. Rimase sveglio per ore, a fissare la luna, pensando a Helen e a suo figlio, e al gigante francese dal nobile spirito. Tre anni! Lacan aveva previsto un viaggio di sei mesi; doveva essere tornato già da molto tempo. L'idea di averlo perso gli fece venire le lacrime agli occhi. Avrebbe dovuto restare con loro? Avrebbe dovuto aspettare il ritorno di Alex? Se fosse rimasto, Alex sarebbe riapparso? Forse avrebbe dovuto avere più fede in suo figlio. Eppure, a suo modo, l'aveva avuta. Come avrebbe potuto riconoscere che si trattava dell'inganno del Jack, che, entrato nella sua mente, aveva identificato i suoi bisogni, rendendoli reali...? Avrebbe dovuto avere fede in suo figlio. Nella voce che lo aveva avvertito. Non tutto era stato un'illusione. Sprofondò nel sonno. L'ultimo pensiero fu che avrebbe invitato Elizabeth Haylock a rimanere da lui per qualche giorno, dopo averla accompagnata all'ospedale. Con lei avrebbe ricostruito gli avvenimenti. Fu svegliato, che era ancora buio, da un rumore di cavalli e voci che bisbigliavano. Dal giardino arrivava il bagliore di una luce. Arrivò alla finestra, e vide, guardando in basso, un cavaliere avvolto in un mantello, su una cavalcatura grigia, che teneva in mano una fiaccola. L'uomo si accorse di lui e gridò un avvertimento. Ci fu un improvviso rumore di concitazione sotto le scale e Richard si precipitò al piano inferiore della casa, dove Elizabeth Haylok stava dormendo. Il divano era vuoto. Dalla porta sul retro, guardò, impotente, tutto il gruppo di cavalieri allontanarsi al galoppo in direzione del Torrente del Cacciatore, la fiamma della fiaccola che lasciava la sua scia dietro il condottiero, Elizabeth tenuta in braccio da uno dei cavalieri, svenuta o stretta contro di lui, addormentata o forse in stato di incoscienza - contenta forse? - non lo avrebbe mai saputo. Era stata rapita, da lui e dal proprio mondo, e questa volta non sarebbe tornata. Corse freneticamente lungo il sentiero sterrato, urlando dietro ai cavalieri, senza pensare alle possibili conseguenze di quel gesto, ma quando giunse al margine del bosco la fiaccola era da tempo scomparsa nell'oscurità. Gli crollò addosso il silenzio. Mosse qualche passo tra i cespugli, spettro notturno tra due mondi, ancora con la speranza di sentire rumore di cavalli,
o delle voci, ma sentì solo il suono della brezza. Alle prime luci tornò a casa e pianse, in parte per la donna, il cui terribile viaggio verso la libertà era stato interrotto così bruscamente, e in parte per se stesso, per aver perso contatto sia con Alex che con Helen, di cui, se ne rendeva conto solo in quel momento, aveva un bisogno disperato. Dal diario di Richard: ... Numerosi segnali di attività alle rovine di Oak Lodge. Una larga fossa, piena di ossa e legna bruciata - intagli di ascia e coltello sugli alberi, escrementi disseccati (umani e animali) e vecchi indumenti abbandonati - tutto indica che il luogo è stato regolarmente usato di recente. Nessuna traccia degli apparecchi di Lacan, anche se è rimasto qualche cavo utilizzato per delimitare il confine. Solita sensazione di essere osservato, impressione che si tratti di una ragazza... ma non si fa vedere. ... Ancora girato in tondo, per ritrovarmi alla fine al Santuario del Cavallo. Il monolite era ricoperto di edera fin da terra, edera che ho strappato per liberare la figura scolpita del cavallo. Trovata una freccia piumata, e due scatolette arrugginite, resti dell'accampamento di Lacan. Da qui posso almeno cominciare a seguire il sentiero giusto per il Varco di Old Stone. ... Di nuovo al Santuario, questa volta mi sono arrampicato su un albero e ho visto in lontananza un alto dirupo, e ho speranza che si tratti della Stazione. Ho fatto amicizia con un legionario romano che trasporta un tesoro e ci siamo spartiti il suo cibo. È un uomo con una splendida abbronzatura, capelli neri tagliati corti, viso temprato e pieno di buon umore. Ha perduto il suo elmo, ma porta con sé una lancia con la lama di bronzo su cui sono incise figure di animali che corrono, e una spada corta usata e scalfita, oltre a un fagotto di attrezzatura in cui sono compresi un barattolo e un arnese da cucina in rame. Il suo tesoro è lo stendardo dell'Aquila della Ventesima Legione. Egli stesso è catalano, di nascita reale, mandato in esilio dal padre. È entrato a far parte della legione in un paese chiamato Burdigala, che credo sia Bordeaux, e ha dovuto separarsi dalla sua truppa dopo un terribile combatti-
mento. Porta lo stendardo come simbolo per la riorganizzazione degli uomini dispersi della sua armata. ... Ha condiviso con me del pane duro, reso delizioso da alcune gocce di olio d'oliva, dei lunghi pezzi di carne secca molto saporita e una salsiccia piccante, e con delle foglie che ha tirato fuori dal suo fagotto e dell'acqua del torrente ha preparato una bibita dal gusto intenso che somigliava straordinariamente al vino speziato. Per tutto il tempo in cui abbiamo mangiato non ha mai smesso di parlare e gesticolare, di disegnare cartine nell'aria, di prendermi in giro e ridere. Questo è quel poco che sono riuscito a sapere di lui, ma non il suo nome. Non ha voluto rivelarlo. ... Il Romano mi ha scortato lungo il fiume, e certamente è stato un bene. Un uomo con un'armatura di ossa, completamente dipinto, piante selvatiche attaccate alle braccia, le spalle e le gambe come ammassi di aculei, è piombato su di noi saltando dal grosso ramo di un vecchio salice con il chiaro intento di uccidere. Il catalano lo ha eliminato con immensa ferocia e determinazione, un tremendo colpo con la lancia, e poi una serie di stoccate punitive, che hanno demolito l'ascia di pietra dell'avversario e spaccato in due il corsaletto d'osso con la stessa facilità di un macellaio che squarci il torace di un pollo. Alla fine, è rimasta appesa all'albero una testa ornata d'erba, che girava mossa dal vento. Il catalano con un frammento dell'osso di protezione del nostro assalitore ha costruito un amuleto, credevo per se stesso, ma invece lo ha offerto a me: un tarsale di animale, su cui aveva inciso il simbolo di Marte. ... Di nuovo il dirupo, avvistato dall'alto di una sponda tra alti faggi, ora più vicina. Con mia grande sorpresa, il catalano conosce il posto e ne ha paura. Lo chiama «Roccia dello Spirito», o «Roccia del Fantasma», descrivendolo come lo scenario di un terribile massacro, forse riferendosi ai resti dei mitago lungo il suo perimetro. Quando ho tentato di interrogarlo più dettagliatamente è diventato inquieto, poi molto irritato mi ha sussurrato (aiutandosi con piccoli gesti) che credeva agli dei ma aveva sempre considerato i maghi nient'altro che ciarlatani da mercato. Ma molti maghi avevano vissuto ai piedi di quella roccia, ed erano stati distrut-
ti dai loro stessi diabolici incantesimi. E i fantasmi di quella magia erano ancora là, come una trappola di miele per gli orsi. Mi ha sconsigliato di recarmici, ma poi ha sorriso con un atteggiamento filosofico quando io ho scosso la testa. «In parte anche tu sei un mago» mi ha detto puntandomi un dito sul petto. «Fa' un talismano per me!» ... Il catalano mi ha indicato il sentiero per la roccia dello Spirito e alla fine sono riuscito a vincere le difese circolari di questa foresta che osserva, e che pensa. Ho scritto il mio numero di telefono in una pagina di questo taccuino, ho arrotolato il foglio e l'ho infilato nella sezione di una canna. Il legionario sembrava contento. Gli sarà utile quanto lo sarà a me la sua immagine del dio Marte. ... Mi addentro. Claustrofobia è la mia fedele compagna, dal sottobosco emergono volti, molti dei quali sembrano familiari. Chiamo Helen e Alex, e in risposta ricevo strilli, battiti d'ali, oppure silenzio. Zanzare e altri insetti sono un tormento atroce e costante. Il Romano era una buona compagnia. Vorrei che non se ne fosse andato. Dov'è Lacan? Spero che non sia troppo in profondità. Nei punti in cui mi hanno morso le cimici, si vede la carne viva. Provo ogni tipo di foglia e di muschio per lenire le ferite. ... Tre anni e ho sognato solo qualche giorno... Dov'è Helen? Mi sento disorientato. Con questo caldo umido il ronzio e le punture sono esasperanti. Sono osservato dall'interno dei miei sogni. Fame. Sono sei giorni che non mangio. Molto stanco, volti dappertutto. Qualcuno mi chiama, dietro i miei occhi. Le gambe e le mani sono deboli. ... Scrivere qualcosa. Il freddo. Lacan ha la lepre, pelle intorno alle orecchie, e fuoco, ed eleganti zampe anteriori. Il fuoco danza. I pipistrelli. Un elementale, evidentemente, e in stato avanzato di decomposizione, come midollo osseo, e Alexander come cavaliere. Arriva il freddo. Aumenta e diminuisce. È lui? Il luogo moren-
te, la polvere, il freddo, e il lago, e in fondo, che nuota. Verso il castello dove i lucci regnano sul lago. C'è un fuoco al Torrente del Cacciatore. Stanno ballandovi intorno... Con un grido, con il corpo che si contorceva per alleviare il crampo al muscolo della coscia, Richard si svegliò da un sogno febbrile, madido di sudore e congelato. Dormiva sotto un riparo improvvisato, nudo dalla cintola in giù. Di colpo realizzò che era rimasto in quel posto per tre giorni, sempre più delirante. Il taccuino giaceva aperto e bagnato di umidità, e vi lesse i suoi ultimi vaneggiamenti con doloroso imbarazzo. Aveva una chiara memoria del suo scrivere, e del fatto che le sue annotazioni avessero un senso. Ma la febbre, forse causata dalle punture d'insetto di cui era ricoperto, lo aveva in qualche modo fatto impazzire. Stava morendo di fame e di sete. Tra gli alberi, vide le imponenti statue, e improvvisamente le riconobbe, come forse le aveva riconosciute giorni prima, ma attraverso la barriera offuscante del delirio. Si trovava nel Santuario. Più avanti, scorreva il fiume; e sulla sponda più lontana di quel fiume, lo attendeva il Varco di Old Stone. Radunò il suo equipaggiamento e si alzò in piedi, con ancora i brividi dei giorni di febbre, e molto debole. Sentiva in bocca un sapore nauseante e sulle guance lo pungeva la barba incolta. Entrò nel Santuario, facendo molta attenzione, cercando delle effigi senza trovarne, concentrato nel ricordare dove si trovasse la zona pericolosa, il varco a senso unico. Il cimitero era una lunga striscia di terra molle, coperta di muschio, piena di corpi in decomposizione dai tratti irriconoscibili, salvo qualche mandibola, o qualche cranio dalle orbite vuote facilmente confondibile con la corteccia marcescente di un albero caduto. Camminare sopra i cadaveri non era differente dal farlo sopra l'alto e soffice humus di un bosco di faggi. Si lasciò scivolare lungo la pendenza fino al fiume, con le lacrime agli occhi. Guadò l'acqua profonda, poi raggiunse faticosamente la palizzata distrutta, aspettando disperatamente di udire il suono di qualche voce. E più che con un presagio, fu con un sentimento di intenso lutto che entrò in ciò che restava del Varco di Old Stone, dirigendosi prima alle rovine distrutte dell'edificio comune, e poi alla tenda della cambusa, ridotta in brandelli, dove i frammenti di vetro sparsi sul tessuto dilaniato erano i soli residui del vino di Lacan. Alla fine, si mise a sedere all'entrata della grotta,
sotto la corrente di animali dipinti, e diede sfogo al dolore e allo sconforto, lasciando che scorressero tutte le lacrime, e che le sue urla di angoscia e singhiozzi di rabbia si liberassero spaventando gli uccelli. Più tardi, lo stesso giorno, dopo essersi calmato, scrisse nel suo diario: Stima dei danni: la palizzata di legno esterna è stata abbattuta, i pali disseminati in giro, ma è possibile ricostruirla. I guardiani sono stati bruciati. Tracce di cavi, e c'è ancora l'apparecchiatura laser e a infrarossi. Il generatore sembra funzionante, salvo che non ho idea di come farlo funzionare, né questo né i dispositivi che controllano le difese. Carburante in abbondanza. L'edificio comune è stato demolito dall'interno con apparente accanimento e pochissima discriminazione. Il tetto divelto e i pezzi sparpagliati, i muri abbattuti a colpi di una grossa mazza, forse una trave di legno. Lo spazio è completamente disseminato di frammenti di mappe, sedie e tavoli. Possibile rimetterla in piedi, almeno in parte. Posso ricostruire il tetto con la vecchia torba. Le tende di stoffa sono state tutte ridotte a brandelli, tranne quella del generatore, che si può ricucire e rendere utilizzabile. Ci sono varie scatolette di cibo, cataste di legna e una buona quantità di cherosene, e anche degli oggetti di metallo, come uno scudo, spade arrugginite e medaglie. Tutta l'area è stata invasa dall'erba e dalle piante di cardi, che lascerò, falciando per me solo un sentiero contorto, come sistema supplementare di difesa. Dovrò ispezionare la zona per cercare altri oggetti rimasti dall'attacco e forse riuscirò anche a trovare un indizio su quello che è accaduto qui. La buona notizia è che nell'orto sono cresciuti pomodori e piante di zucca, ci sono mele sugli alberi e lamponi e mirtilli nei cespugli sparsi nel giardino. C'è un piccolo ulivo, una pianta di rosmarino, aglio selvatico, cipolle, e patate ovunque. Il lago: riesco a vedere il varco. Lo scafo della nave vichinga di Lytton è in acqua, di fianco alla zona a rischio, apparentemente senza ormeggi, ma immobile. La vela è arrotolata, ma credo sia intatta. Programma: 1. utilizzare i pezzi della palizzata per costruire un muro di pro-
tezione dalla gola del fiume fino alle rocce che danno sul lago, e di traverso al sentiero che sale sulla cima della parete rocciosa; 2. ricostruire il retro dell'edificio comune. Recuperare l'imbarcazione e metterla al riparo; 3. imparare il funzionamento dei generatori tramite prove ed errori; 4. recuperare e accomodare tutto quello che è rimasto delle difese elettroniche nei dintorni del varco; 5. costruire una nuova figura di guardiano sul fiume, grottesco come i precedenti, se non di più; 6. preparare dei cippi in caso di viaggio urgente; 7. assemblare del materiale per la pesca, con la speranza che dia buoni risultati; 8. aspettare che accada qualcosa, che qualcuno mi contatti, e provare a contattare Alex o Helen con l'energia onirica, la fede, e gridando forte il loro nome! Pezzi recuperati: 2 barattoli di legumi Heinz; 2 bottiglie di vetro di aringhe marinate; 3 prosciutti di Old Oak (uno danneggiato da un colpo di lancia); 1 sugo Gentleman's; 1 barattolo di carne in scatola Meacham's (ha un aspetto disgustoso); 7 scatolette senza etichetta; 2 bottiglie di Roussillon Rouge del 1962 (alla tua, Arnauld!); 2 litri di olio d'oliva; 2 tubetti di dentifricio Colgate; 1 spazzola per capelli di plastica; 1 accendino d'argento funzionante (quello di Lytton?); 1 calzatura in cuoio, piede sinistro, numero 40, con ossa; 1 pezzo di specchio 15 x 12 cm; 1 effigie in salice di un danzatore. Quando ebbe terminato questo giornale di bordo, tornò in riva al lago e vi rimase a lungo, lasciando vagare i propri pensieri tra i riflessi dell'acqua azzurra. Degli aironi perlustravano la riva vicina e restò a osservarli fino a
che, improvvisamente, non spalancarono le grandi ali frangiate di nero e si levarono in volo con un gran trambusto per raggiungere i loro nidi elevati, dalla parte opposta del lago. Al crepuscolo, andò all'entrata del varco nella caverna, sfiorò le fredde pareti di roccia, i colori sbiaditi delle creature in fuga. Fu allora che trovò l'effigie. Era stata piantata nella zona più profonda della grotta, dove segnava il passaggio del suo creatore verso l'interno. Gli erano state spezzate le gambe, il tronco portava leggeri segni di morsicature, forse di una volpe o di un gatto selvatico, ma la ciocca di capelli neri e argento era ancora legata accanto al viso approssimativamente disegnato alla sommità del tronco di salice sagomato che costituiva il corpo. Vecchio uomo, vecchio lago Aveva quasi finito di ricostruire l'ultima parte del tetto dell'edificio comune quando il palo centrale all'improvviso si spezzò. L'intera struttura di assi di legno e torba crollò sotto il suo peso. Con un grido, più di frustrazione che di dolore, Richard precipitò in quel caos di terra ed erba, sputò il terriccio dalla bocca, si rialzò a sedere e strillò il nome del ragazzo. «Taaj!» Sopra di lui, il grigio del cielo annunciava l'inverno. La caviglia pulsava, e cercò a tastoni il suo bastone, servendosene per rialzarsi prima di incamminarsi zoppicando verso lo spiazzo. Il dolore era quasi passato, ma ogni volta che urtava il piede su qualche cosa, il male era smisurato. Richard aveva l'impressione che nei sei mesi trascorsi dal suo ritorno al Varco, non fosse passato giorno senza che qualcosa lo mordesse, lo attaccasse o lo facesse cadere. Ma dov'era quel ragazzo? Non aveva sentito l'urlo? Suonò violentemente le campane. I barattoli di latta vuoti, riempiti di sassi, sbatterono l'uno contro l'altro producendo un suono secco e ottuso. Un sistema di carrucole di corda era collegato a un gruppo di barattoli installato alla sommità del promontorio, e a un altro a margine del lago. Fece suonare a lungo la campana del lago, sperando che Taaj sentisse, ma non ricevette alcun urlo di risposta. Era stata una mattina particolarmente lunga. Aveva preparato le zolle di torba e i paletti per i fori che aveva così laboriosamente praticato sulle assi di salice. Aveva rinforzato le pareti e verificato la posizione di ciascuno dei pali di sostegno. Il tetto avrebbe dovuto prolungarsi fin sopra quella
che una volta era stata l'area collettiva della Stazione a una delle estremità dell'edificio comune. Semplice come inserire un tassello in un puzzle che si conosce. Ma il palo centrale non aveva potuto sopportare il carico - ora vedeva le macchie nere della muffa - e si era spezzato sotto il peso della terra e dello stesso Richard. Ancora una volta fece sferragliare la campana e ruggì il nome del ragazzo. Si ricordò allora che Taaj era andato a pesca sul lago. In mattinata aveva avvistato un banco di pesci ed era tornato alla Stazione eccitato e affamato. Qualcosa li aveva spinti fino al lago - attraverso il varco, forse? - ed erano saliti in superficie agitando l'acqua, il ventre bianco e carnoso, le pinne guizzanti nella luce grigia. Avevano il dorso viola scuro, color prugna e delle striature rosso sangue all'altezza delle branchie. Erano lunghi metà dell'altezza di un uomo adulto, e una sola pesca, una volta salata e affumicata, sarebbe bastata per due settimane. «Prendi il più grosso» aveva detto quando il ragazzo gli era corso incontro, gridando per l'entusiasmo. «Io nel frattempo...» «Devi aiutarmi Rishar! Vieni ad aiutarmi!» Taaj saltellava su e giù, gli occhi scuri che brillavano di gioia. Stringeva la vecchia scala su cui Richard si teneva precariamente in equilibrio e con i suoi salti faceva pericolosamente vacillare l'intera struttura. «Piano, piano! Perché hai bisogno proprio di me per andare a pescare?» disse Richard guardando in basso. «Posso prendere il più grosso, Rishar... ma non voglio prendere anche lo spirito che li guida! Non puoi venire sul lago con me?» «Di quale spirito stai parlando?» domandò Richard. Taaj si calmò, guardando con apprensione la gola che portava al lago. «Reggi la scala mentre scendo» disse Richard. Per qualche secondo fece finta di fare a pugni col ragazzo, scompigliando i suoi lunghi capelli, allungando la mano come per prendergli dai lobi i suoi orecchini di piume. Taaj schivò i colpi, ridendo, e poi seguì il suo amico nell'edificio comune. Qui presero le canne e gli ami, e Richard scelse il meglio che riuscì a trovare. «Ecco qua. Con queste pescherai una balena.» Per la seconda volta si accorse dell'espressione impaurita sul viso di Taaj mentre con un filo di voce gli diceva: «Non voglio essere mangiato dallo spirito. Ho paura, Rishar. Sento di non avere dentro di me la forza per una giornata di battaglia». «Sciocchezze» dichiarò Richard, di nuovo arruffando i capelli del ragaz-
zino. «Quale spirito potrebbe mai avere la meglio su di te?» Non riusciva a pensare ad altro che all'edificio comune. Aveva bisogno di quel tetto. Nei sei mesi di permanenza, aveva di nuovo reso il Varco di Old Stone un luogo magico, con una muraglia di protezione di legno, ricostruita utilizzando la vecchia palizzata, i suoi totem, i talismani, un generatore funzionante, una latrina, una buca per il fuoco e un edificio comune di cui poter essere orgoglioso. Lo aveva rimesso in piedi per gradi, e quel giorno avrebbe ultimato la copertura del tetto dell'ultima stanza, un andito in cui appendere le pelli, i pesci e la cacciagione. Non aveva tempo per andare a pesca. E poi, il ragazzo era stato sul lago già centinaia di volte: era un provetto pescatore. «Ascolta. Tu prendi il pesce, e io lo pulirò, d'accordo? So quanto detesti fare quel lavoro.» Taaj era uscito, con l'aria di sentirsi un po' abbandonato, aveva pensato Richard. Aveva raggiunto il fiume e si era tolto i vestiti, e Richard lo aveva seguito con lo sguardo osservandolo immergersi nell'acqua fino alle ginocchia. Per un po' aveva ripreso il lavoro sul tetto, ma un'ora più tardi era andato a cercare al fiume il suo amico mitago, presso le nuove chiuse. Taaj era inginocchiato nell'acqua, con una ghirlanda di fiori che galleggiava all'altezza della vita, faceva girare tra le dita di ciascuna mano un pezzetto di legno scuro mentre cantava una lenta melodia ripetuta. Richard si era seduto vicino al corso d'acqua per osservare il rituale di caccia. Era molto difficile poter dire da quale epoca venisse il ragazzino, ma Richard credeva che appartenesse a una società mesolitica di cacciatori-pescatori lacustri. Stava meditando su questa questione quando Taaj «annegò» i fiori, e poi si rialzò a fatica dall'acqua. Era tornato sulla riva, si era rivestito con calma, e aveva sistemato le lenze, gli ami e le esche. Aveva rivolto a Richard un sorriso, e poi silenziosamente aveva attraversato di corsa il canale per il lago. Questo succedeva alla stessa ora, ma di ieri! Quando Richard si rese conto di quanto tempo era passato da quando Taaj si era allontanato, quasi gli mancò il respiro. Tutto il pomeriggio del giorno precedente, Richard aveva preparato le zolle di terra, poi aveva bevuto dell'alcol di patate per accompagnare la carne essiccata, consapevole del fatto che il ragazzo non era rientrato, ma non si era affatto preoccupato,
perché succedeva spesso che Taaj scomparisse per uno o due giorni consecutivi. Ubriaco, con la pancia piena, sfinito dal lavoro, aveva dormito profondamente, a lungo, e nell'umidità della mattina si era rimesso al lavoro di ultimazione del tetto. Fu soltanto quando accadde l'incidente che cominciò a sentire il bisogno di Taaj. Solo in quel momento si rese conto del fatto che le parole del ragazzo erano sembrate strane, che era di umore insolito: per la prima volta nella loro breve amicizia il ragazzo gli aveva chiesto qualcosa, e Richard l'aveva rifiutato. Colto da un terribile presentimento zoppicò fino al fiume, chiamando a gran voce il suo giovane amico. La caviglia gli doleva, ma il bastone gli era più che altro di intralcio e se ne servì quasi come di un remo mentre procedeva nell'acqua, abbassandosi per evitare i rami e trattenendo il fiato per passare attraverso la parte più stretta del canale, oltre lo «sbarramento di scogli», come l'aveva chiamato. Hai preso un bel pesce? Sei lì seduto, a pulirlo? Per farmi una sorpresa, perché ti scompigli i capelli per la contentezza? Oh Dio, fa' che non succeda un'altra volta... Avanzò con passo malfermo in mezzo ai rami spezzati e ai massi per raggiungere la riva e il canneto, sforzandosi di ingoiare un gemito di dolore. Si immobilizzò, sconvolto, nauseato, guardando verso il varco, verso l'enorme creatura del lago, e il ragazzo che stava morendo. Lentamente si avvicinò a uno scoglio bagnato e vi si appoggiò, gli occhi socchiusi per difendersi dalla luce riflessa sul lago, il cui calmo splendore, poco prima, doveva essere stato agitato dal tumulto, quando si era scatenata la battaglia. Immaginò come i due cacciatori si erano dibattuti nell'acqua, come i loro movimenti convulsi avevano alzato delle onde che si erano infrante sugli scogli, tanto che tutto era bagnato, lucido, e alghe e cannicce spezzate decoravano le querce e i salici caduti, e l'aspra arenaria della riva. «Taaj...» lo chiamò, ma la sua voce era ridotta a un sussurro. Forse, anche se stava pensando a come aiutare il suo amico, Richard sapeva già che il suo tradimento gli sarebbe costato la vita. «Taaj! Non mollare! Sto venendo ad aiutarti. Resisti. Mangeremo una bella fetta del tuo amico per cena!» Niente lasciava capire se il ragazzo avesse sentito o meno, perché non si mosse, né un movimento della testa dai capelli neri, né un movimento dei muscoli, tesi nello sforzo, in evidenza sulla corporatura asciutta, mentre tratteneva il serpente per la mandibola. Sembrava, sul fondo blu di una te-
la, una scena dell'antica battaglia tra un giovane David e un Golia del mare, una creatura metà pesce e metà rettile, le fauci spalancate piene di denti acuminati, con le palpebre che si abbassano, le spine e gli aculei che si muovono a onda attorno al collo e alle branchie, lentamente, come i remi di una galea. Chiazze rosse e verdi, striature blu violaceo, palpitavano negli anelli del collo teso sotto la testa, e nella piccola barca, appoggiato su un ginocchio, Taaj teneva la punta di pietra del lungo arpione infilzata nella gola del serpente. La coda della bestia si arrotolava per due giri attorno alla piccola barca a remi e uno intorno al ragazzo. Soltanto la sua punta acuminata si muoveva, flettendosi violentemente, con furia trattenuta, ma incessante. Richard, sulla riva, intuì che per qualche ragione la battaglia si era trasformata in una prova di forza. Situazione di stallo! L'arma del ragazzo era vicina a un punto vulnerabile del mostro. Ma la bestia non avrebbe allentato la stretta. Ho paura, Rishar. Sento di non avere dentro di me la forza per una giornata di battaglia... Richard con un forte lamento colpì la roccia a mani nude, si tirò la barba crespa e i capelli, si strappò i logori indumenti sul petto. Era come se Taaj avesse conosciuto il proprio destino. L'aveva presentito! Se lo sentiva che il pesce era arrivato da un altro mondo, portato da una creatura che apparteneva al regno dei mostri. Sapeva che la sua sorte dipendeva da un inesorabile scontro mortale, questo o un altro magari, e aveva sentito di non essere all'altezza dell'impresa. Aveva chiesto al suo amico, il vecchio della Roccia dello Spirito, Rishar, Rishar l'urlatore, il sognatore, il pazzo, di andare con lui, in caso di pericolo. Sull'acqua, il mostro schiumava sangue, il lago cambiò aspetto, la barca oscillò e Taaj spinse l'arpione ancora più in fondo, sentì la coda della bestia serrarsi su di lui, immobilizzandolo. Il varco si distingueva appena per una bruma bianca e grigia, in cui si agitavano delle figure, invisibili, come un'interferenza dell'immagine sullo scuro sfondo alberato della riva opposta. Sento di non avere dentro di me la forza per una giornata di battaglia... Una giornata, dunque. Quella giornata. Un giorno intero per sconfiggere il serpente, secondo la storia che voleva Taaj «partorito» da una matrice dimenticata della mente umana, e che ormai il ragazzo aveva consumato quasi fino alla fine. Erano rimasti ancora pochi minuti. Richard non aveva che una speranza di salvarlo, e ciò significava servirsi della barca di Lytton, il vecchio drakkar, e degli arpioni che vi si trovavano: le aste erano
ancora resistenti, e le punte affilate. Il vascello, con la sua prua decorata con un teschio, era attraccato non lontano, la vela ammainata. C'era un buon vento. La barca poteva descrivere un cerchio e attaccare il serpente alle spalle. Con i soli pantaloni addosso, abbandonata ogni riflessione dolorosa, Richard salì a bordo del drakkar e tirò la sartia che tratteneva la vela bianca; mentre ricadeva ne acciuffò le estremità e la tenne distesa con le braccia spalancate, appoggiato alla ringhiera di quercia contro cui inarcava il corpo, sotto la sollecitazione del vento che riempiva la tela, gonfiandola, e sospingendo il nero scafo nell'acqua. Si alzò un'onda che colpì la barca di Taaj, e di nuovo dalle fauci del serpente uscì una schiuma di sangue, si agitò con tutta la forza che aveva, ma poi si irrigidì. Il legno della barca scricchiolò sotto la tensione dei muscoli di Taaj nelle spire che lo stritolavano, con le scaglie che gli graffiavano la pelle, ma egli mantenne fermamente la presa sul suo arpione, lo spinse ancora più dentro, e portò la creatura vicino alla morte entrando con la punta nelle ossa e nei muscoli a pochi millimetri dal suo centro vitale, il cervello stesso. Non posso permettermi di perdere il ragazzo. Anche lui. È un pescatore troppo bravo. Avrei dovuto conoscere la sua storia. Avrei dovuto essere disposto ad ascoltare, allora sarei stato preparato per questo momento. Il drakkar scivolò sulle acque ghiacciate, Richard era inclinato all'indietro, con i muscoli sotto tensione per tenere le estremità della vela spiegata, che strattonava da una parte e dall'altra per guidare la bassa carena; vedeva la costa passare davanti alla prua elevata e scorrere via dal suo campo visivo nel silenzioso sciabordio del lago che, insieme ai gemiti della bestia a cui si approssimava, lo rendeva consapevole del movimento della barca, e del suo scopo. «Resisti ragazzo mio - a questi vichinghi interessava la velocità, non i dettagli.» Non posso perderlo. Non conosco nemmeno la sua cultura. È un pescatore così bravo. E che cacciatore! Canta con una voce talmente roca che mi ricorda Lacan. So che ha dimestichezza con la pietra, ma sembra non avere familiarità con il metallo, sa scagliare un piccolo sasso come se fosse una lancia, ha paura della luna piena, parla in tono affettuoso di sua sorella, dà l'impressione di comprendermi. Parlo con lui, ma le sue parole sembrano non avere alcun senso. Lui parla con me, ma tutto ciò che so fare è urlare. La carcassa di un pesce passò oltre la barca, con il ventre all'aria sul la-
go, fissando Richard con occhi vuoti; le ferite causate dall'arpione sanguinavano ancora. Dai fianchi alla grande pinna caudale era percorso da strisce viola chiaro - le pinne dorsali erano invece punteggiate di nero. Era carnoso e senza dubbio il ragazzo poteva rivendicare di averlo ucciso, ma questa creatura del mare era stata attirata qui da un serpente uscito dall'inferno, e ci sarebbe voluto del tempo prima che questa pesca fosse stata messa ad asciugare al sole... Aveva aggirato il varco, e approfittando di un colpo di vento più forte aveva cambiato posizione in modo da riacquistare velocità, e ora si avvicinava di bordo, la prua che solcava le acque... Clop... frshh, clop... frshh, clop... La voce del lago lo incoraggiava, le acque si aprivano, si fendevano, e il pennone cricchiava per lo sforzo. Quando allentò la tensione, la tela si afflosciò su se stessa per gonfiarsi di nuovo riempita dal vento, che strattonò Richard in avanti, facendogli quasi perdere l'equilibrio; ma egli raccolse tutte le sue forze e la barca si sollevò sotto di lui, piegando di lato sull'acqua, per poi raddrizzarsi mentre si avvicinava al pescatore e al suo avversario sempre più indebolito... Un'altra voce lo chiamò, una voce venuta da un altro tempo. «Sto andando a pesca, papà. Non vuoi venire con me? Di', non vieni?» Aveva talmente tante altre cose da fare nella sua incessante attività senza scopo. «Buona pesca. Una trota a testa, grazie. Io ti aiuterò a pulirle. Altrimenti tua madre chi la sente...» «Vado a pescare pesce persico. Non è che proprio sia buono da mangiare. In realtà lo faccio solo per guardarli. È divertente...» C'era una partita di cricket che voleva vedere. Aveva salutato i ragazzi con la mano, Alex, Simon, e un terzo ragazzino dai capelli rossi. Tornarono con una pesca spettacolare. Alex aveva preso un luccio. L'impresa più ardua non era stata recuperarlo - chi avrebbe mai voluto mangiare un luccio? - ma la liberazione di quella bestia di sessanta centimetri, che, con quei suoi occhi da pesce aveva lanciato ai ragazzi uno sguardo che avrebbe perseguitato Alex per mesi. «Com'era arrabbiato! Era come te, quando non sai cosa dire, perché tutto è già stato detto, e dici che faremmo meglio a stare attenti. Molto freddo.» «Non ho uno sguardo freddo con te! O sì?» «Qualche volta...» «Come quello di un luccio? Davvero?» «Non così... da pesce... non del tutto, insomma.»
Aveva afferrato il ragazzo, ridendo, e avevano lottato per gioco, ma restava il fatto che Richard aveva soltanto sentito raccontare della spedizione, dell'avventura, e del fatto che il luccio era lungo così, e che uno dei persici di Simon aveva due teste, lo giuro! L'acqua era agitata, il drakkar oscillava. Richard mollò una delle estremità della vela che si mise a ondeggiare e a sbattere, inutilmente, ma lo slancio sospinse il vascello proprio dietro il serpente che continuava a dimenarsi. Taaj si permise di gettare una rapida occhiata al vecchio uomo che si spingeva verso di lui. «Non avvicinarti troppo!» «Vengo ad aiutarti! Resisti!» «Lasciami affondare. Era nel sogno. Non avvicinarti!» Nel sogno? Taaj gli aveva raccontato del sogno? In questo caso, lo aveva dimenticato... Ora Richard sentiva l'odore del serpente, un disgustoso fetore di alghe. L'enorme corpo si muoveva ondulando sotto le scaglie, dalle pinne a ventaglio uscivano sbuffi d'aria. Aveva l'aspetto di una salamandra, ma la sola testa aveva la dimensione di un vitello. Gli occhi sporgenti rotearono posandosi furiosi sull'uomo che arrivava, la piccola barca oscillò e fece allentare la spirale attorno al ragazzo che con un potente grido dato dallo sforzo conficcò la punta di pietra ancora più dentro nelle carni del mostro. Il drakkar portò Richard vicino al collo della bestia ed egli lanciò il suo arpione. L'arma trovò l'occhio acquoso del mostro, che arretrò, mentre, quando la punta gli trapassò il cranio, un liquido zampillò dalla sua orbita. Il quadro si dissolse, la bestia si accasciò, la coda fece a pezzi la barca e Taaj venne scagliato nel lago, tenendo stretta la lancia strappata con forza dal mostro. Il vascello si inclinò su un fianco e Richard dovette aggrapparsi al bordo di murata, chiedendosi cosa avesse fatto. Nell'acqua intorno a lui stava crescendo una schiuma bianca e rossa, l'aria risuonava dei versi lancinanti di spasimo e di furore del serpente. La coda ad anelli ripiombò sull'acqua, rompendone la superficie e cominciò ad affondare. Richard, attaccato alla ringhiera, percorreva con lo sguardo il lago, improvvisamente tornato tranquillo, gridando il nome del ragazzo. Il volto di Taaj era voltato verso di lui sotto lo specchio d'acqua cristallina. Aveva ancora in mano la lancia. Aveva le braccia aperte, i grandi occhi aperti, e affondava lentamente verso la sagoma del castello sul fondo. «Non ci pensare neanche. Non mi sfuggirai così facilmente!»
Che aveva la nausea per il terrore, questo, Richard non lo ammise a se stesso, quando dopo essersi svestito si tuffò dal vascello, notando che la sua ombra scura si allontanava da lui prendendo la direzione della costa. L'acqua era ghiacciata. Si immerse, dimenandosi come un pesce, si voltò per cercare dove fosse il ragazzo e lo vide discendere, come una statua, con le braccia in fuori, il capelli fluttuanti, una maschera di terrore sul viso. Richard nuotò verso di lui, e gli occhi scuri che lo guardavano sembravano supplicarlo» Aiutami... Sto arrivando. Per amor del cielo, perché non nuoti? Alex! Prendi la mia mano. Nuota! È troppo distante... le mie energie... L'aria gli scappò dai polmoni. Perché non nuota? Le orecchie gli facevano male. Improvvisamente preso dal panico, si rigirò nell'acqua e risalì verso la luce del giorno. Poi di nuovo giù, nuotando vigorosamente, direttamente verso il viso congelato, bianco, dall'espressione ingenua del ragazzo. Di nuovo gli arrivò vicino, lottando contro l'acqua con la forza di un pesce preso all'amo, obbligandosi a scendere ancora, rifiutando di lasciarsi riportare in superficie dal lago, tendendo la mano verso i capelli fluttuanti del ragazzo, cercando di afferrarli, per tirarlo verso l'alto. Taaj sorrise, i grandi occhi pieni di speranza, eppure le sue braccia restavano rigide e nel pugno destro continuava a stringere l'asta dell'arpione. Continua a lottare, accidenti a te. Alex! Nuota! Non mollare adesso. Lascia la lancia. Non ti serve. Nuota per avere salva la vita. Perché mi guardi così? Sto facendo del mio meglio. Aiutati anche tu! Non posso fare più di così! Afferrò il ragazzo per i capelli. Ti ho preso. Cominciò a nuotare in senso inverso, trascinando l'adolescente, e sentì il piccolo corpo robusto salire con lui. Un'ombra passò sul viso dell'innocenza. Il serpente dal corpo immenso sfiorò Richard e si inabissò lontano, verso la fine. Sentì che i suoi polmoni erano sul punto di scoppiare. Gli uscirono dalla bocca delle bolle d'aria, e colto dalla paura, si mise a lottare per la propria vita e abbandonò la presa dei capelli del ragazzo, si allungò nell'acqua, verso la luce, finché non riemerse con violenza in superficie boccheggiando per respirare. Si immerse per la terza volta per andare a recuperare il suo amico. Ora il ragazzo era sospeso nella penombra che sovrastava le rovine del
castello, molto più a fondo del punto che Richard era riuscito a raggiungere quel giorno in cui aveva nuotato insieme a Helen. Si guardò intorno, in cerca del serpente, ma vide solo il fluttuare di alghe e di anguille e, qua e là, l'intenso riflesso della luce sulle scaglie argentate dei pesci. Il ragazzo non aveva lasciato uscire l'aria dai polmoni. C'era ancora una possibilità. Nuotò energicamente, scendendo in verticale, spingendo l'acqua dietro a sé fino a incontrare lo sguardo morente del ragazzo. Gli occhi di Taaj lo guardarono con immensa tristezza. Com'era familiare quell'espressione! I volti erano identici. Lo aveva sempre saputo, l'aveva sempre notato, dall'istante in cui il ragazzo era apparso al cancello. Vi leggeva una tale disperazione adesso, e una specie di malinconico sorriso che avrebbe potuto essere un addio. Sforzando i polmoni, Richard lottò, si dibatté contro l'acqua e il freddo, ed esultò quando sentì i capelli sfiorargli le dita: aprì la mano, li afferrò, tirò con forza, verso l'alto, aggiustò la presa ed ebbe saldamente il ragazzo con lui. Taaj sorrise e lasciò andare l'arpione. (Alex tese la mano verso di lui.) Stiamo andando a casa. Adesso sei con me. Richard si rigirò nell'acqua e si diede una spinta con le gambe, tirando il ragazzo per i capelli, sentendolo risalire con lui. Poi un vortice d'acqua lo fece capovolgere. Guardò giù, vide l'occhio enorme, la bocca spalancata, sentì la trazione dell'acqua, i capelli che gli sfuggivano, si allontanavano. Il viso di Taaj si era contorto in una maschera di dolore e spavento. Il serpente era risalito dall'oscurità del castello e lo aveva afferrato per la vita. Ora di nuovo discendeva verso il fondo, lo sguardo malvagio, freddo, senza emozione. Il ragazzo, con il tronco libero, allungò le braccia ed entrò con le mani nella bocca del mostro finché questo, preso alla sprovvista non inghiottì, rilasciando Taaj. Ora si vedevano solo le fauci serrate nel loro ghigno terribile che affondavano tra i bastioni prima di scomparire in mezzo alle alghe. Soltanto un riflesso di luce brillava da un'orbita argentea che continuava a guardarli. Il ragazzo era rimasto senza aria. Richard nuotò tra le bolle, le seguì, vorticò tra esse, le scostò con le mani per dissiparle, sentendo il sapore del respiro acerbo, l'ultimo fiato del suo amico. L'uomo e il ragazzo arrivarono in superficie insieme, e il grido che si propagò sull'acqua era tanto di dolore per l'annegato, liberato solo alla fine, quanto di disperazione per colui che era rimasto in vita, il quale a quel punto prese a nuotare con rabbia verso la riva e l'accampamento deserto del Varco di Old Stone.
La sponda dimenticata Nave di dolori Richard passò tutta la notte sulla riva del lago, raggomitolato tra i suoi vestiti, a contemplare il chiaro di luna sull'acqua e la foschia del Varco delle Grandi Acque, pensando al ragazzo defunto, e ad Alex, a dire il vero, a tutto ciò che era andato perduto, come una vita, come una storia. Cominciò a ricordare le parole di Lacan, molte settimane addietro: indurisca il suo cuore. Queste creature vanno verso la morte, ma si ricordi - altrove, nella foresta continuano a vivere. Dunque Taaj era ancora vivo in qualche altro luogo, forse amico di un vecchio che questa volta non avrebbe rifiutato la sua preghiera di accompagnarlo a una partita di pesca. E il serpente sarebbe stato battuto e portato trionfalmente a casa. Ma quest'altro Taaj non apparteneva a lui. Non avrebbe avuto lo stesso viso, il viso di Alex. Non l'avrebbe guardato con occhi tristi, non avrebbe avuto bisogno di lui allo stesso modo, come Alex. Aveva visto annegare un mitago, ed era stato a guardare un aspetto del proprio figlio, divorato da una creatura sorta da un inferno di ghiaccio di profondità leggendaria, divorato a metà, inghiottito in due morsi, una breve esistenza ferocemente interrotta. Era consapevole dell'ironia della situazione. Durante l'interminabile notte aveva pensato intensamente ad Alex, ancora vivo, forse, nella foresta, in attesa. Era stato Alex a mandare Taaj per mettere alla prova suo padre? Oppure Taaj era nato dal senso di colpa del Vecchio, di una coscienza in cerca di un detonatore, che creasse un'eco di quel periodo di agonia durante il quale Alex gli era stato portato via e lui aveva fatto tanto poco per opporsi? Erano anni che non si sentiva tanto solo. Quando Alice lo aveva lasciato, aveva passato alcuni mesi durante i quali aveva creduto di essere sul punto d'impazzire per la solitudine: gli mancava suo figlio, e gli mancava lei, nonostante la loro relazione distaccata. Questa angoscia era passata, naturalmente; si era adattato alla sua vita solitaria e si era trasferito a Londra. In quel momento, tuttavia, sentiva quella stessa claustrofobia - si trovava in un mondo immenso, ma senza voce. Avrebbe potuto ugualmente trovarsi a marcire in una prigione sotterranea, lontana dalla luce e dai suoni. Gli uccelli della notte cantavano in coro, l'acqua lambiva la riva, incessante, e da qualche parte, appena fuori portata d'orecchio, Arnauld Lacan ruggiva an-
cora come un orso, Helen Ciocca d'Argento intonava i suoi incantesimi contro il Briccone, e Alexander Lytton mormorava le sue esortazioni alla sola entità nascosta nella foresta che avesse importanza: George Huxley. Richard riviveva intensamente il ricordo dei suoi amici perduti. Qualcosa si mosse nel lago e la sua attenzione venne catapultata dai sogni alla realtà della Stazione del Varco di Old Stone. Strinse gli occhi, concentrandosi sul varco, e vide di nuovo, muoversi nella foschia, quella sagoma grigia. Restò completamente immobile per più di un minuto ed egli pensò a una vela, poi si dissolse, e in quel momento il lago cominciò a ingrossarsi, e le onde arrivarono a raggiungere lo scoglio emerso su cui Richard stava rannicchiato. C'era una presenza al di là del varco, ne era certo, qualcosa che stava avvicinando il lago. All'alba, dal varco si alzarono dei colpi di tamburo, regolari, due battute al secondo, un ritmo deciso, che avrebbe potuto provenire da una galera da guerra. Come se subissero l'effetto di un cambiamento di vento, i colpi di tamburo si affievolirono per qualche istante, e poi tornarono, sovrapposti, a tratti, da un ritmo più lento e più grave, forse di una seconda barca. La sagoma nel varco si scurì fino a risolversi in un quadrato irregolare, senza dubbio la forma di una vela, e il lago reagì a ciò che si trovava dall'altra parte con dei grandi cavalloni che inondarono la sponda. Per un po' andò a rifugiarsi nell'edificio comune, ma quando a metà giornata ritornò sul posto trovò che il lago letteralmente risuonava del riverbero dei due tamburi di guerra. Nel varco si profilavano delle figure, in un gioco d'ombre indecifrabili, che suggeriva una battaglia. E in effetti, a una certa ora del pomeriggio dal lago arrivò l'odore di un incendio, in parte profumato di legno di cedro in fiamme, in parte dell'acre e asfissiante esalazione di catrame. Come filtrate da una finestra, che si apre e si chiude, le rullate dei tamburi aumentavano e diminuivano, accompagnate da stridori regolari, come dei gabbiani che venissero torturati. Poi sul lago calò il silenzio, ma al crepuscolo, nella prima sera, la vela scura apparve di nuovo. Richard, sulla riva del lago, masticava pesce essiccato, in attesa che il tamburo riprendesse a suonare. Ci fu un improvviso stridore, come di metallo lacerato... e le urla di un uomo in agonia. Un rombo di tamburi, e poi dal varco si gonfiò un'onda bianca, portando con sé il penetrante profumo dell'oceano... Sbalordito, Richard indietreggiò rapidamente mentre l'acqua arrivò a
lambirgli i piedi. L'immagine della vela nera divenne più netta, delineandosi di maggiori contrasti, mentre il ritmo forsennato del tamburo cresceva di volume. Procedeva verso di lui, saliva, chiudendo il varco, ma senza davvero muoversi, stranamente pietrificata. Quando la galera fece irruzione sul lago, Richard ne fu talmente sorpreso che cadde all'indietro. L'imbarcazione arrivò a una velocità formidabile, i remi balenavano nella luce del crepuscolo nel loro movimento fuori e dentro l'acqua, il tamburo era assordante. La vela, ancora tesa per l'ultima folata di vento dell'oceano, si afflosciò rapidamente. Prora alta e scafo profondo, classico modello dell'Antica Grecia, la galera volò sull'acqua in direzione esatta dell'uomo perfettamente immobile sulla riva. Richard sentì delle grida, la vela venne ammainata, i remi furono portati a pelo d'acqua per rallentare il precipitoso avvicinamento, ma troppo tardi: l'immenso vascello colpì la sponda e con uno schianto di assi e travi, scavalcò gli scogli e andò a piantarsi tra gli alberi, sollevandosi dal terreno, spezzando i remi e distruggendo l'albero in un caos di tele e sartie. L'imbarcazione si immobilizzò bruscamente, poi si inclinò sul fianco destro. Alcuni uomini con addosso una mezza armatura e dall'espressione feroce, saltarono dal ponte lanciando delle urla; nel lago, un marinaio arrancava per raggiungere a nuoto la riva; da sotto coperta giungevano versi di animali terrorizzati. Lo scafo di legno cominciò a gemere e cigolare, con dei colpi e degli schianti di assestamento. Poi ebbe un movimento scivolato in avanti, dopo il quale calò un improvviso e innaturale silenzio. Lungo la riva bagnata correva una figura che risalì la gola. Richard si scoprì a fissare una creatura che neanche nei suoi sogni più arditi avrebbe mai pensato di incontrare: un busto d'uomo coperto di cicatrici sopra la groppa nera di una bestia, una sorprendente forma animale che urinò copiosamente dalla paura prima di guardarsi attorno, presa dal panico, per poi lanciarsi verso le rocce e sparire tra gli alberi. Richard si precipitò al riparo proprio quando un uomo robusto, con addosso una lucente corazza pettorale, le gambiere e una tunica di pelle, con il volto per metà nascosto dietro una maschera bianca dagli occhi piangenti, gli passò di fianco come un fulmine, brandendo una lancia sottile e affilata. L'uomo lanciò un urlo rabbioso, ispezionò le rocce dietro le quali era svanita la bestia, poi si voltò furiosamente verso la spiaggia, scagliando il giavellotto che andò a conficcarsi nello scafo dell'imbarcazione dove continuò a vibrare per lunghi secondi. Dall'imbarcazione naufragata uscirono frotte di altri uomini, in un lam-
peggiare di riflessi sugli elementi delle armature greche e sulle maschere colorate e grottesche che indossavano. Si sbarazzarono di quelle protezioni metalliche sotto le quali alcuni erano nudi, altri portavano sudice bende di stoffa legate attorno ai fianchi; Richard si accorse in quel momento che erano tutti uomini anziani. Avevano un fisico vigoroso, ma segnato da rughe profonde, il ventre prominente e flaccido; sulle spalle e sul torace erano ricoperti da una folta peluria scura. Un cavallo nitrì, e subito dopo si calmò. Poi una donna lanciò delle grida, degli acuti singhiozzi, in risposta a un ordine imposto con tono brutale. Una dolce voce maschile cantò per pochi istanti, un breve lamento, e da qualche parte, sotto coperta ci fu un trambusto di agitazione e di gemiti di angoscia che degli ordini abbaiati e il rumore di una frustata soffocarono rapidamente. Una mano afferrò la spalla di Richard. Egli lanciò un grido, spaventato, si alzò e si girò su se stesso con i pugni alzati. L'uomo-bestia era lì davanti a lui, terrorizzato. Era un centauro, indubbiamente, ma che non aveva niente a che vedere con le rappresentazioni che Richard conosceva. Gli elementi umani ed equini si confondevano su tutto il corpo. Richard sentì di comprendere la paura di quell'essere - questi nuovi arrivati sembravano pericolosi, egli stesso ne era spaventato e diffidente. Gli fece strada dal lago fino alla stretta gola che portava alla Stazione. Il centauro lo seguì, piangendo in una strana maniera. Dalle labbra nere gli colava della saliva sulla ispida barba. Arrivati ai cancelli della Stazione, cominciò a tremare, guardando ansiosamente verso gli alberi che sprofondavano sempre più nel buio, verso l'apparato di difesa elettronico, e in particolare verso il grottesco totem che sorvegliava l'entrata del recinto. «Sarà al sicuro» disse Richard nonostante sapesse che i mitago non sopravvivevano alle difese elettroniche. «Quanto meno, non deve temere da parte mia.» Inaspettatamente il centauro partì al galoppo, oltrepassò il recinto e si inoltrò tra l'erba alta, seguì il sentiero fino all'edificio comune e abbassò il capo per osservare all'interno. Lasciò dello sterco all'ingresso e poi, come imbarazzato, indietreggiò, si chinò per raccogliere i tre escrementi duri, li lanciò verso gli alberi e poi si ripulì le mani strofinandole insieme. Si aggirò intorno alla casa e poi si accosciò all'entrata. Finse di addormentarsi, ma quando Richard lo guardò, gli occhi gli si aprirono appena, come quelli di un bambino che ha bisogno di dormire, ma è tenuto sveglio dalla curiosità. Chi erano questi nuovi arrivati? Gli giunsero all'orecchio grida e rumori di colpi violenti, il suono di un tamburo, e un attimo dopo l'aria venne tra-
fitta dalle note stridule di un corno, che suonò dieci volte di seguito, con un tono man mano più acuto, mentre echeggiava il tamburo. Il centauro ebbe un fremito, si raggomitolò su un fianco, circondandosi la testa barbuta con le braccia quasi umane. Richard tornò furtivamente al lago, mentre attorno a lui calava la notte. Dappertutto ardevano delle fiaccole, e regnava un grande fermento. Sentiva movimenti nascosti tutto intorno a lui e restò in fondo alla gola, pronto a parare qualsiasi attacco improvviso. Nell'oscurità, tutto ciò che riuscì vedere fu che era stata montata una tenda di tela, legata da un lato alla parte superiore della barca e dall'altro alle radici aeree di un salice. Era stato messo a bollire un calderone pieno d'acqua e dalla zona in cui si concentrava l'attività giungevano delle voci di donna. Due uomini stavano nuotando nelle acque scure, chiamandosi l'un l'altro, mentre altri andavano ad appendere le sartie ai rami degli alberi. L'immensa vela era stata disarmata e ripiegata. Tre personaggi, con muscoli possenti e lunghi capelli, stavano scaricando dalla nave incagliata un'enorme statua di legno. Richard riuscì a intravedere un viso e dei seni di donna, scolpita con colori accesi, in un'espressione selvaggia. La statua venne innalzata sul bordo dell'acqua, rivolta verso la foresta, e ai lati vennero posti due bracieri in piena attività. Un po' più lontano sulla riva, delle fiamme più luminose di un fuoco da campo lasciavano intendere che era stata installata una fucina rudimentale. Qui, un uomo molto robusto si affaccendava tra le alte rocce; fu quest'ultimo a scoprire Richard, come se fosse dotato di una vista eccezionale, e si incamminò di soppiatto nella sua direzione. Quando il gigante si stagliò sopra di lui, Richard si accorse che aveva un occhio solo. La barba che contornava il suo largo volto era rossastra con delle striature grigie. Sulle braccia enormi, si avvolgevano due serpenti tatuati. Tra i peli grigi del torace c'era un marchio di fuoco raffigurante una croce inserita in una ruota, con delle ali su ogni lato. Trasudava un effluvio maleodorante di miele misto a sudore, e respirava pesantemente mentre avanzava sempre più vicino all'uomo rannicchiato, trascinando dietro di sé una gamba storpia. Era già abbastanza vicino quando Richard gli si rivolse con tono deciso: «Ancora un passo e le farò saltare la gamba buona, mi capisce?». Al quel suono il gigante esitò. Venne chiamato a gran voce dalla riva e rispose allo stesso modo. Il timbro era gutturale, le parole assolutamente incomprensibili, nonostante dovesse senza dubbio trattarsi di una forma di greco antico. Trascinò la gamba malata un passo di più verso Richard, il quale si frugò tra gli abiti in cerca dell'accendino di Lytton, che sollevò e
accese tenendo la fiamma il più in alto possibile. Agli occhi dell'altro uomo, doveva essere sembrato che la fiamma provenisse direttamente dal pugno di Richard e con sua soddisfazione reagì indietreggiando. Richard accese e spense la fiamma ancora per due volte e poi, indicando il fuoco tra le rocce, esclamò in tono minaccioso: «Ritorni alla sua fucina!». Il fabbro lanciò un'occhiata oltre le sue spalle, aggrottò le sopracciglia e fece per allontanarsi. Sulla sponda del lago, un uomo anziano con indosso un lungo mantello nero e una lunga lancia in mano, che osservava quello che stava succedendo, lanciò un nuovo richiamo. Il bagliore di fuoco negli occhi di questo alto personaggio, ricordò a Richard la luce nello sguardo del serpente nel momento in cui aveva divorato Taaj, uno sguardo che rivelava una curiosità senz'anima e una determinazione selvaggia. Alla vista dell'uomo presso l'acqua Richard rabbrividì. Il fabbro parlò di nuovo con questo personaggio, e questa volta Richard credette di distinguere un nome: Yar sun. Il nome gli era familiare. Il suono gli rigirava in mente. Era un nome decisamente familiare, e quando il fabbro lo ripeté il suono divenne chiaro, Richard sentì un brivido di eccitazione nel realizzare chi fosse l'uomo con cui aveva a che fare sulla spiaggia. Giasone! Gli argonauti avevano lavorato tutta la notte e all'alba la Argo era solida e raddrizzata, ancora immobilizzata tra gli scogli, ma ormai pronta per essere sottoposta alle prime riparazioni. Sulla riva del lago si ergeva la statua di Hera, sinistra rappresentazione della natura manipolativa della dea. Aveva il volto contratto, grandi occhi pieni di collera, e nonostante non mancasse di una certa bellezza, produceva un effetto paralizzante. Difficile iniziare alla leggera una relazione con una donna che mostrava così chiaramente il suo bisogno di gratificazione. Alta più di tre metri, avvolta nelle spire di fumo scuro che salivano dai bracieri, la statua posava il suo sguardo sulla sagoma inginocchiata di un uomo che indossava un mantello di lana nera: Giasone in persona, un eroe che oramai aveva da lungo tempo concluso la ricerca che gli era valsa la fama. Di tanto in tanto parlava e annuiva, come fosse in intima comunione con l'idolo. Nell'alzarsi da terra sentì un movimento improvviso e si voltò bruscamente per posare lo sguardo direttamente su Richard, nascosto tra le rocce. Richard trasalì per lo spavento quando il volto scuro dell'uomo si
aprì in un ghigno crudele e una mano abbronzata con un dito proteso si sollevò indicando nella sua direzione. L'idolo aveva attirato l'attenzione su di lui. Era un uomo molto anziano. Sotto lo scuro cappuccio di pelliccia, i capelli e la barba di Giasone erano grigi, la pelle cascante sul torace nudo, il ventre proteso al di sopra di un grande cinturone, simile a un busto, le cosce ancora potenti, ma la carne flaccida. Sembrava avere più di settant'anni, e i suoi compagni avevano più o meno la sua stessa età, così come le donne; insieme formavano un bell'equipaggio di avventurieri sdentati, i capelli radi e grigi, le ossa deformi, ma con braccia vigorose, ancora temibili. Il fabbro batteva violentemente sugli anelli dell'attrezzatura e sui bulloni, facendo volare scintille. Il suono ottuso del bronzo lavorato con il martello risuonava sulla riva del lago. Richard ritornò al Varco di Old Stone in tempo per vedere il centauro allontanarsi furtivamente verso il lago. Sentendo il suo movimento, si voltò indietro e sollevò un braccio in segno di ringraziamento prima di inoltrarsi trottando tra le ombre. Un'ora dopo il primo argonauta avanzò con cautela costeggiando la gola e avvicinandosi alla gigantesca effigie che Richard aveva costruito all'ingresso dell'accampamento. L'uomo non aveva barba, solo dei folti baffi. I suoi capelli grigi erano lisci, trattenuti semplicemente da una fascia viola. Aveva con sé un arco, una faretra di frecce, e teneva a portata di mano una spada a larga lama che lanciava riflessi verdi. A parte i sandali e una cintura con frange di pelle, sotto il pesante mantello di pelli ricucite che indossava, aperto sul davanti, era nudo. Erano passati dal caldo clima dell'Egeo, al fresco, se non ghiacciato, mondo autunnale. L'uomo si fermò sulla sponda opposta del fiume e si mise a osservare il Varco di Old Stone, la parete rocciosa, l'edificio comune, l'altezza della palizzata, il guardiano di legno. Era nervoso, curioso; poteva semplicemente trattarsi di un'avanguardia. Nascosto nell'erba alta, Richard percorse con lo sguardo la sommità della parete e gli altri sentieri, ma non vide nulla. Appena l'argonauta fece il primo passo nel fiume, per attraversarlo ed entrare nell'area del campo, Richard si lanciò velocemente verso la tenda che proteggeva il generatore e aumentò la potenza di corrente nei cavi delle tracce interrate e dei canali laser che circondavano la Stazione. Il risultato fu sorprendente. L'uomo si fermò all'improvviso, estremamente confuso, poi cominciò a urlare, barcollando verso l'acqua, dove cadde, per poi trascinarsi di nuovo sulla riva. Attorno a lui, il paesaggio si
dilatò, gli alberi tremarono. Si divincolò con uno strattone dalla stretta improvvisa di alcuni viticci spuntati dalla vegetazione che lo avevano avviluppato. Gridò di nuovo, questa volta di terrore, mentre la sua voce acquistava una strana sfumatura, più profonda, finché non ebbe più nulla di umano. Si reggeva ancora in piedi, ma era diventato grigio. Gradualmente la sua spina dorsale si inarcò ed egli cadde all'indietro. Tutto intorno ci fu un fermento di attività e l'edera terrestre strisciò sopra di lui ricoprendolo interamente. Al di sotto di questo inverosimile sudario, egli continuò a dimenarsi e ad ansimare per alcuni minuti, lanciando di quando in quando un grido di intenso dolore, e chiamando invano il nome di Giasone. Nel momento in cui era caduto, c'era stata una breve agitazione anche all'entrata della gola. Richard velocemente aveva lanciato un'occhiata al di là della palizzata, in tempo per vedere Giasone e altri due compagni ritornare in fretta e furia, di certo confusi, in direzione della Argo, al loro accampamento sulla riva. Più tardi, quello stesso giorno, una delle donne e un altro argonauta si arrischiarono a incamminarsi nella gola. Lanciarono ripetute grida per avvertire della loro presenza, e si avvicinarono descrivendo un ampio arco sul pendio, al di sopra del fiume, prima di discendere con cautela sulla riva dell'acqua, dove deposero, tra sorrisi e segni di assenso con il capo, un recipiente lucente e una pelliccia arrotolata. Erano disarmati e subito batterono in ritirata. Richard li guardò andar via, poi andò a raccogliere le offerte e le portò all'interno del perimetro della Stazione, compiaciuto all'idea di essere evidentemente considerato come una qualche terribile creatura che occorreva accattivarsi. Ma si ricordò della Gorgone, ed era consapevole che per questi esperti avventurieri un gesto di conciliazione poteva ben rappresentare un primo stratagemma per un eventuale raggiro e la conseguente distruzione della misteriosa, magica forma di vita in cui si erano imbattuti. Come lo consideravano Giasone e il suo equipaggio? Avevano affrontato ciclopi e titani, gorgoni e sirene, guardiani di piccoli boschi incantati e serpenti. Ma qui, si trovavano arenati sulle rive gelide di un lago magico, dopo aver subito, forse, l'attacco di una strana tempesta, o essere passati attraverso una stretta scogliera, sull'Egeo assolato. Ora si trovavano in una terra misteriosa, minacciati da una specie di selvaggio, un mago capace di piegare al suo volere la terra stessa e di fargli inghiottire uno dei loro uomini semplicemente toccando un bizzarro mostro metallico che mormorava una sola nota, e gemeva per attirare a sé altre prede.
Il recipiente era in oro battuto. Conteneva un vino aspro, profumato di lavanda, che lo rese immediatamente sospettoso, e non si arrischiò ad assaggiarne che una goccia con la punta del dito. Il vaso era di squisita fattura, decorata con figure di eroi, e con i lineamenti paffuti del dio di tutte le indulgenze dal volto ornato di foglie. Con suo dispiacere, il rotolo di pelliccia non era d'oro, ma meravigliosamente soffice, bianco con sottili striature grigie, e tagliato con precisione per farne una piccola cappa, la cui allacciatura sul davanti era costituita dalle minute corna incrostate, appartenute probabilmente alla creatura che una volta aveva indossato il vello più naturalmente. Le corna non avevano la forma pronunciata di quelle di una capra, e nemmeno di quelle di un montone, ma evocavano piuttosto la forma di quelle di Pan, pensò Richard. Il chiasso dei lavori di riparazione era assordante. Richard sentì che gli argonauti abbattevano gli alberi e tagliavano i tronchi in pezzi per poi lavorarli. La fucina era in perpetua attività e spesso la brezza trasportava fino a lui il profumo di cibi cotti sui quali sospirava al ricordo degli ottimi, saporiti ragù, e dei succulenti arrosti di agnello e maiale della domenica. Forse la stessa brezza li mise al corrente della sua fame. Nel tardo pomeriggio, Giasone e un altro uomo corpulento, entrambi disarmati, vestiti di pelle di pecora, andarono a deporre sulla riva del fiume un piccolo calderone di rame, da cui proveniva un appetitoso aroma di pesce ed erbe del Mediterraneo. Il compagno di Giasone si ritirò, nervoso, ma il comandante degli argonauti rimase. Estrasse un cucchiaio di legno e sorseggiò tre cucchiaiate di zuppa di pesce, poi indietreggiò in modo che Richard attraversasse il fiume e si avvicinasse per prendere il recipiente. Giasone gesticolava e sorrideva per incoraggiarlo, mostrando i denti anneriti. «Grazie» disse Richard, e poi aggiunse «Daksi». Giasone scosse il capo pensierosamente, si sedette sui talloni, tutti i sensi in allerta per cogliere il minimo bisbiglio nella foresta. Richard portò il calderone nell'area del campo e poi tornò nuovamente sulla riva del fiume, assumendo la stessa posizione tesa del suo visitatore. Era consapevole di essere attentamente esaminato, in ogni minimo dettaglio, dalle scarpe da tennis ai pantaloni corti di jeans, dagli strati di coperte che indossava sulle spalle per tenersi al caldo ai capelli legati in una treccia e i frammenti di ossa e di piume di airone, decorazioni di cui il ragazzo lo aveva insignito in tempi più felici. Giasone, con un gesto indicò il cumulo di terra sotto il quale giaceva il suo compagno e pronunciò alcune parole. Richard gli mostrò le mani aper-
te e scosse la testa, per poi ritornare alla stessa posizione. «Non sapevo che sarebbe successo. Il Varco di Old Stone è circondato da un sistema di protezione» e fece un largo gesto della mano indicando lo spazio alle sue spalle e ripeté lentamente «Varco. Old. Stone». Giasone annuì e ripeté «Varco». Richard continuò: «Il campo uccide in diversi modi. Non ha fatto alcun male al centauro, e anche lei sembra non subire danni. Lei è un mitago. Tutti voi lo siete. E tutti siete vulnerabili in maniere differenti. Questo è un luogo di morte, per i mitago. Per voi è pericoloso rimanere qui». «Varco» ripeté Giasone. «Mitaaga». «Mitago, esatto.» Giasone scosse il capo guardando oltre Richard, per poi scrutare la cresta ombrosa della parete rocciosa. Si alzò in piedi e si stirò, strofinandosi le gambe muscolose e abbronzate per riattivare la circolazione. Ossa e articolazioni scricchiolarono mentre si rialzava, come la Argo sulla spiaggia, ed egli fece un largo sorriso, consapevole dei suoi anni. Indicò poi il cibo con un gesto e disse qualcosa per incoraggiarlo a mangiare, quindi sollevò una mano in segno di congedo. Mentre si allontanava si voltò due volte, e sul suo viso, come su un libro aperto, l'espressione di chi sta meditando un piano. Che cosa poteva significare Richard per loro? Avevano paura di lui? Rappresentava forse un qualche traguardo nella loro avventura? Lo credevano in possesso di poteri magici che li avrebbero aiutati nella loro lunga ricerca? La Argo, disincagliata dalle rocce, ora era appesa a delle corde. La poppa era immersa nell'acqua, mentre la prua e la zona danneggiata dello scafo erano in una posizione accessibile per i fabbri e i carpentieri, e Richard, che osservava appostato sopra la gola, notò che le assi erano state tagliate in modo che una volta posizionate si potesse vedere il grande albero che formava la chiglia. Gli tornò alla mente un particolare della leggenda di Giasone: la Argo era costruita intorno a una quercia sacra. Aveva sempre supposto che la chiglia fosse stata scavata nell'albero, e non che l'albero stesso fosse stato incorporato nel vascello. Eppure era così, i suoi rami come vene che attraversavano in tutte le direzioni l'angusta area sotto il ponte, attorcigliandosi su se stessi come radici, una vera gabbia di rami intrisa di potere e magia, all'interno della forma levigata, opera dell'uomo, della barca stessa.
Due degli argonauti erano occupati a riparare numerosi rami spezzati, applicandovi sopra un unguento. All'interno dell'albero erano stati posti degli incensieri fumanti, il cui vapore si diffondeva su tutto il lago. Guardando attentamente, Richard scorse dei movimenti all'interno della gabbia di quercia, gesti propiziatori, forse, oppure riparazioni fatte direttamente sul tronco principale. Fu mentre osservava il trambusto di attività che udì il pianto angosciato di una ragazza. Una sgradevole voce maschile abbaiò un ordine. La maggior parte degli argonauti interruppe il loro lavoro per un momento e si sentì un fracasso provenire da qualche parte sotto i ponti, un rumore di zoccoli, e poi un trambusto metallico seguito di nuovo da un grido acuto della ragazza. Uno degli argonauti scoppiò a ridere. Si sganciò una lunga corda, che si srotolò precipitando verso l'acqua, ma venne afferrata da un uomo che si trovava più sotto. Il nuovo pennone era pronto, dritto, la vela issata sulla barra di traverso. L'incidente ruppe l'atmosfera che si era creata, e le attività ripresero. Cinque minuti dopo, una delle assi, nella parte posteriore della barca, cominciò a spostarsi. Spinto dalla curiosità, Richard si avvicinò avanzando tra gli scogli e gli alberi. Il pannello si era allentato per la violenza dell'arenamento. Si era creata una fessura lunga un metro, e da lì, un volto scuro, impaurito, sbucò per osservare la spiaggia. La luce del sole andò a illuminare due occhi grandi, e il secondo viso, dai tratti più animali che umani, lanciò fuori una rapida occhiata prima di tirarsi indietro. L'asse ritornò a posto con un rumore secco, che però non fu notato dagli uomini affaccendati nelle vicinanze. Nella serata Richard accese un fuoco proprio all'entrata dei cancelli della Stazione e spinse al massimo il generatore. Sulla riva opposta del fiume, là dove era morto l'argonauta, era spuntato uno strano albero. Tremava nonostante l'assenza di vento, e vi erano appesi quattro piccoli frutti gialli, rotondi e lucidi. Richard resistette alla tentazione di attraversare il fiume per osservarli da vicino. Del movimento proveniente dall'interno della gola lo mise in allerta e immediatamente prese il suo arco e mise in cocca una freccia. Erano ormai diverse settimane che aveva trovato quest'arma e aveva imparato a usarla, anche se le punte e le aste cominciavano a essere in cattivo stato e non era riuscito a costruirsene di più efficaci da solo.
Tra l'erba alta vedeva il riflesso della luce del sistema di protezione, e in alcuni punti le scintille dei sottili cavi in cui passava la corrente. Sentì un rumore nell'acqua, una voce di uomo che abbaiava, le proteste di una voce femminile. Richard tornò ad acquattarsi fra l'erba, e subito dopo Giasone e altri tre uomini apparvero sull'altra riva. Giasone teneva al suo fianco una ragazza minuta dalla pelle scura, con una catena attorno al collo, il viso scoperto e spaventato. Aveva addosso un velo leggero che le copriva a malapena le gambe scheletriche. Giasone lo chiamò e Richard uscì allo scoperto. «Cosa volete?» La ragazza immediatamente chiuse gli occhi, con un'aria estremamente concentrata. Giasone sorrise appena guardando Richard. I suoi compagni si muovevano sul posto, a disagio, stringendosi nelle pelli che portavano sulle spalle. Uno di loro teneva d'occhio il grande arco che Richard teneva puntato, con la freccia solo leggermente inclinata di lato; sentiva che il braccio gli tremava nello sforzo di tenere l'arma, ma l'atmosfera minacciosa non gli lasciava altra possibilità. Giasone parlò di nuovo. Si batté sul petto, sulla bocca e poi indicò Richard. Aveva intenzione di attraversare l'acqua e andare a parlare. Voleva portare la ragazza. Gli era permesso? «E sia, solo voi due. Non i vostri amici. Loro devono tornare alla Argo.» «Argo?» ripeté Giasone. Richard puntò dell'arco sugli altri tre uomini e poi verso la spiaggia. Giasone afferrò il messaggio. I suoi amici si ritirarono. Poi, trascinando con sé la ragazza, che protestava, guadarono insieme le acque profonde del fiume da cui uscirono tremando dal freddo. Fu con piacere che si sedettero vicino al fuoco del portale, sotto lo sguardo minaccioso del totem di Richard. Da vicino, quando Richard incontrò lo sguardo della prigioniera di Giasone, vide, intorno ai suoi occhi luminosi e ai lati della bocca le rughe scavate dall'esperienza e dallo spirito, dal dolore e dalla sfida, e si rese conto che era stata soltanto la sua magrezza a fargli pensare che fosse una ragazza, invece della giovane donna sottomessa ma ancora ribelle che era in realtà. Giasone srotolò una striscia di stoffa e ne estrasse un succulento coscio di montone ben cotto. Emanava un aroma di rosmarino e aglio e se Giasone si accorse dello sguardo affamato negli occhi di Richard, quest'ultimo si accorse dello stesso sguardo in quelli della donna. Stava morendo di fame. Giasone staccò un pezzo di carne e la mangiò, poi ne tagliò un altro per Richard, che lo prese e lo divorò con gusto. La donna ne accettò una picco-
la fetta, comportandosi come se fosse sorpresa di ricevere un tale trattamento. C'era anche del vino, in un'anfora di terracotta che ne conteneva circa un litro. Giasone ne bevve una lunga sorsata, poi la passò a Richard il quale questa volta apprezzò la bevanda, con il suo retrogusto di miele e la sensazione di calore che produsse nel suo stomaco. «Grazie» disse, e la donna ripeté «Grazie». «A cosa devo il piacere di questa visita?» continuò Richard, e aggrottò le sopracciglia quando la donna ripeté, imitandolo alla perfezione: «A cosa devo il piacere di questa visita?». Giasone la guardò, la tirò per il gomito, ma lei scosse la testa e si fece cupa, agitando la corta catena con cui egli la teneva. Guardò affamata i resti dell'agnello e Giasone ne staccò un altro pezzo per lei e uno per Richard. Lei lo masticò con gratitudine, con lo sguardo lucido. La sfumatura della sua pelle faceva pensare che venisse dal medio oriente. I capelli neri come il carbone erano tagliati corti. I lobi delle sue orecchie pendevano, allungati in modo grottesco da dei fori in cui una volta dovevano essere stati appesi pesanti anelli, e le narici avevano la stessa deformazione. Una fine peluria nera le ricopriva le gambe dalle caviglie alle ginocchia e spuntava a cespuglio sotto le ascelle. Aveva la struttura fisica di un ragazzo, e il suo viso sembrava più vecchio del suo corpo senza seno. La stoffa color porpora che la copriva era dipinta con delle grosse teste di leone, draghi alati, e aquile dal becco affilato. «Perché ripeti tutto quello che dico?» domandò Richard. «Perché ripeti tutto quello che dico?» «Stai cercando di capirmi?» «Stai cercando di capirmi?» «Mi chiamo Richard. E tu?» «Mi chiamo Richard...» esitò, guardando in basso. Giasone si piegò, in attesa, osservandola. Poi disse qualcosa e lei annuì. «Ora so chi è» mormorò la donna sollevando lo sguardo, le sopracciglia nere, il capo inclinato. «È una strana lingua. Però ti conosco, so come parli. Molte lingue mescolate. Come si chiama? Il tuo linguaggio...» «Inglese. Sembra che tu lo abbia imparato molto velocemente.» «Lo conoscevo già, dovevo solo trovarlo. È una lingua di un futuro lontano. Fluiscono in me come sogni. Sono talmente tanti! I linguaggi del lontano passato sono semplici. Ma ora ti capisco. Possiedo la tua lingua. Tu sei Richard.» «Sì. E tu?»
«Sarinpushtam. I miei sfortunati compagni, sotto il ponte, mi chiamano Sarin. Questo è Giasone.» «Sì. Lo so.» «Non fidarti di lui.» «Cercherò di non farlo.» «Ho fame. Ti prego di fargli segno tu che dovrebbe darmi ancora della carne, altrimenti me la negherà. È un uomo molto crudele.» Rendendosi conto che il contatto era stato stabilito, Giasone tirò la catena attorno al collo di Sarin, e le ringhiò qualcosa. Lei rispose nella sua lingua ed egli gettò uno sguardo verso Richard, annuì, e poi gli rivolse un sorriso sinistro. Lasciò libera la ragazza, che massaggiandosi dolcemente il collo, cominciò a porre delle domande. Giasone si aspettava che Sarin traducesse, ma la ragazza si limitò a osservare Richard, con occhi spiritati. Richard indicò l'agnello e poi la ragazza, e l'espressione di Giasone si rabbuiò, ma afferrò il messaggio, prese una spessa porzione di carne e la passò a Sarin. Mentre mangiava la osservava con impazienza: lei sembrava masticare più a lungo di quanto fosse necessario, leccandosi le labbra in modo plateale, a occhi chiusi, estasiata, oppure guardava Giasone con aria di sfida dissimulata. Quando ebbe finito si ripulì le dita sul terreno, guardò Giasone dritto negli occhi e agitò la lingua tra le labbra in una smorfia. Gli rivolse un ammiccante sorriso quando egli le porse l'anfora di vino dalla quale bevve così a lungo che Richard rimase sorpreso di sentire lo sciabordio del liquido rimasto quando glielo rese. «Così va meglio» disse. «Attenuerà il dolore, dopo, quando mi punirà.» «Perché dovrebbe punirti?» «Soprattutto perché non mi piace, e lo sa, e perché gli rendo la vita difficile. In parte perché sono una donna, o ciò che ne rimane, e da quando Medea ha ucciso la sua adorata amante e i suoi ragazzi, non ama troppo il sesso femminile, benché non gli preferisca i suoi robusti compagni. Dispone di una scelta molto limitata: ragazzi, ragazze mascoline, e...» si succhiò esageratamente le dita «be', spero non ti dispiaccia mangiare la carne di una carcassa che Giasone ha violentato.» Accompagnò le sue parole con un sorriso diabolico. Giasone la colpì improvvisamente di traverso con la mano, un colpo violento che le fece uscire del sangue all'angolo della bocca. Le disse qualcosa in tono furioso ed ella tradusse all'istante. La riunione d'affari era cominciata. «Di quale magia ti sei servito per uccidere Peleo? E per fare scomparire
Tisamenus...» Richard si chiese quale dei due fosse Tisamenus, ma quello rispose: «Di una magia che affiora dai sogni. Il sogno è proprio del cervello di certi uomini, e anche nella terra. Con questa magia si può avere il controllo della luce del sole e del terrore della folgore: posso farli danzare ai miei ordini.» Questa tirata fu abbastanza incomprensibile da confonderli, e Richard si sentì orgoglioso della sua invenzione. Quando Sarin comunicò questa informazione, l'espressione avida di Giasone non era più dovuta soltanto alla fame. «Che cosa vuoi in cambio di questo sapere?» domandò prevedibilmente. «Nulla» rispose Richard. «Soltanto io sono a conoscenza di questa magia. In questo luogo, la terra stessa sottosta al mio comando.» Giasone aveva assistito a uno spettacolo che non poteva che confermare questa menzogna. «Nessun altro può possedere questa conoscenza.» Passarono alcuni istanti prima che Giasone replicasse, durante i quali continuò a tenere il suo sguardo fiammeggiante puntato su Richard. Quando finalmente si decise, pronunciò le parole in un sussurro, e Sarin dovette tendere l'orecchio prima di poter dar voce ai pensieri del vecchio. «In questo caso, verrai con me? Navigherai con me sulla Argo, in qualità di mio onorato compagno, e userai i tuoi poteri per me? Se credi questo, sei un pazzo.» A Richard furono necessari alcuni secondi per separare il commento di Sarin dalla traduzione. Le lanciò un'occhiata e lei alzò le sopracciglia in modo espressivo. «No, ti ringrazio, ma è la dea Hera a dirigere il tuo destino. È a lei che devi chiedere tutti i poteri magici di cui hai bisogno.» Giasone voltò la testa e sputò in terra con rabbia. Il suo viso divenne letteralmente buio, mentre di nuovo andò a incontrare lo sguardo di Richard. «Hera? Mi si dà con parsimonia. In qualche modo non sono nulla di più che la sua ombra, e lei mi fa avanzare conducendo le danze a suo capriccio.» Si grattò la barba grigia sul mento con una parvenza di sorriso. «Però mi piace la forma della tua magia. Mi piace il suo effetto. Ci sono luoghi che vorrei raggiungere, tesori da conquistare, imprese che sarebbero più facili con un mago come te. Ti offrirò una reggia. Le celle della Argo contengono un tesoro con cui potrei comprarne due della stessa maestosità. Le darò a te.» Sul volto gli si allargò un sorriso. «E con piacere! Basta solo che tu stia con me per un anno. Non di più. Un anno. Andiamo... cosa mi rispondi?»
Senza staccare gli occhi da Giasone, consapevole dell'espressione che Sarin stava sfoderando, Richard rispose: «No. Questa è la mia casa. I miei dei vegliano su di me dai boschi. Io e la foresta siamo una cosa sola. Cerco qualcosa che soltanto io posso trovare. La mia personale avventura mi condurrà nelle profondità del bosco, non nella vastità del mare». Giasone era molto teso, con le dita della mano destra scavava nel terreno. Disse: «Allora ti aiuterò a trovare quello che cerchi. Io e i miei amici. Resteremo al tuo servizio per... due anni. Se accetterai di passare soltanto un anno con me». «No. Devo trovare da solo quello che cerco. Esiste un dio chiamato coscienza, che deve essere placato.» Era una parola difficile per Giasone (Richard notò che lo era anche per Sarin). L'argonauta veniva da un'era in cui la nozione di coscienza era ancora in gestazione, un'idea confusa, che mescolava la volontà degli dei con le azioni predestinate. Richard continuò: «Ma la cosa più importante è che c'è una vita chiamata Alex, una vita che si trova nel limbo. Come Orfeo...». «Orfeo? Posso presentartelo...» «Come Orfeo, devo entrare nell'inferno per tirarlo fuori. Posso farlo soltanto da solo.» Giasone era arrabbiato, ma cercò di nascondere la sua furia. Si alzò in piedi, spinse con un calcio la carne di agnello verso Richard, poi diede uno strattone a Sarin per farla alzare da terra e trascinarla al fiume. «Dovresti darmi l'opportunità di aiutarti!» «Lascia la donna qui per un po'!» esclamò Richard. Si sentì la traduzione di Sarin, alla quale Giasone ringhiò negativamente per poi spingere la fragile creatura nell'acqua davanti a lui, prima di immergersi a sua volta in direzione del canalone. Quando furono spariti dalla sua vista, Giasone gridò, e la voce di Sarin fece eco alle sue parole: «Forse la tua magia non è così potente come credi!». Danzando con le ombre In qualche modo la ragazza riuscì a sgusciare via dalle catene e con il buio ritornò all'accampamento, si accovacciò vicino ai tizzoni ardenti e chiamò Richard con un filo di voce. Egli si precipitò sul sentiero tra l'erba, scrutando al di sopra delle erbacce per vedere chi fosse, poi la raggiunse, raccolse uno dei bastoni ancora accesi e prendendola per mano la condusse
all'edificio comune. Tremava, il suo corpo era scosso da spasmi di dolore, e Richard si chiese se non potesse essere l'effetto delle difese; abbassò la potenza del generatore e in quel modo i crampi diminuirono. Era rimasto rannicchiato nell'edificio comune, senza un fuoco, ma accese una catasta di legna attorno cui si sedettero, ascoltando la corteccia secca che si spaccava, osservando le volute di fumo uscire dall'apertura sul tetto. Era avanzato del cibo, e come si aspettava Sarin vi si avventò come un cane. Si sedette a gambe incrociate, l'abito le scoprì le gambe sottili, e quando la luce del fuoco aumentò Richard vide i lividi che aveva sulle cosce. Angosciato e turbato per lei, le tirò l'orlo della veste per nascondere le piaghe. Sul collo, dove l'avevano stretta le catene, c'erano segni neri e blu. «Dorme. Mi ha fatto scendere nella cella, senza la catena, ma c'è una tavola che si muove e io sono abbastanza sottile da passare attraverso la fessura. Non deve sapere che sono uscita. Sarebbe troppo terribile per gli altri.» Quindi lei non era la sola prigioniera. Eppure Richard esitò nel chiederle chi altro fosse imprigionato sotto il ponte della Argo. Voleva invece saperne di più su Sarin stessa. Come aveva fatto a imparare così in fretta la sua lingua? Qual era il suo mito? Alla luce del fuoco, distesa, al caldo, finalmente in compagnia di una presenza amica, gli raccontò della sua vita. Per lei, ovviamente, era una vita naturale, interrotta bruscamente dopo essere stata rapita da Giasone. Era cresciuta in un paese chiamato Eshmun, vicino a una città e a un luogo sacro in cui i sacerdoti avevano ordinato la costruzione di una grandiosa torre, al fine di raggiungere i cancelli del cielo. Questo posto si chiamava Babele. Da bambina, aveva visto suo nonno distrutto dal lavoro, spedito a casa soltanto per morire, con le ossa spezzate e i muscoli ridotti in brandelli. Allora avevano reclutato suo padre. Quando anch'egli fu stroncato da una caduta, subito prima di morire disse che dalla cima della torre aveva visto un luogo dove il sole splendeva da tutti i punti dell'orizzonte. Sarin, sua madre e le sue sorelle erano rimaste sole e senza sostentamento. Sarin aveva sei anni. Un giorno, una donna le aveva prese e trasferite ai piedi della torre stessa, che era così ampia, così immensa, così alta, che occultava la luce del sole che proveniva da ovest. Vissero nelle tende. Sarin per qualche tempo aveva aiutato a preparare il cibo per i costruttori, i carpentieri e i tagliatori di pietra. Ma presto fu grande abbastanza per seguire le sue sorelle all'interno della torre, e salire una delle venti rampe della sca-
linata elicoidale. Questa conduceva alle sale ornamentali dove i leoni di giada vegliavano su bacini d'acque poco profonde, in cui questi uomini che avevano la visione della torre andavano a lavarsi, a distendersi e a concedersi i loro vari piaceri. E Sarin, per quasi più di un anno, fu uno di questi. A causa della natura del suo lavoro, vista la necessità di conversare con uomini provenienti da ogni parte del mondo, in cui correvano costumi e linguaggi segreti differenti, apprese la Lingua dell'Erba Alta. La Lingua dell'Erba Alta era stata il primo linguaggio, parlato nei tempi lontani dai primi avventurieri. Passando di generazione in generazione, era diventata ricca e complessa, parlata da tutti gli uomini del mondo conosciuto; nonostante questo, una piccola parte se ne era distaccata per diventare segreta; ogni uomo e ogni donna disponevano di una lingua privata con cui si rivolgevano a se stessi, alla luna, alle forze occulte, o a Dio. Una volta che Sarin ebbe imparato l'antica Lingua dell'Erba Alta, poté guardare più profondamente nella saggezza degli uomini della Visione, più profondamente nei loro cuori, nei loro spiriti, nelle loro paure. Divenne allora una delle Voci del Conforto, donne la cui conversazione e comprensione sortivano magici effetti. La sua mente era piena di linguaggi, e questi linguaggi erano come altrettante finestre aperte sui mondi del lontano passato. Alle volte si aprivano anche sui mondi lontani a venire, che si rivelavano nei sogni. Questa era la natura della Lingua dell'Erba Alta: tanto semplice da essere la chiave d'accesso a tutto quello che gli esseri umani pensavano nei loro universi segreti. Le donne tenevano questi segreti gelosamente racchiusi nel profondo del loro cuore. Un giorno, Sarin commise un errore, il suo unico errore prima di fallire nell'uccisione di un uomo chiamato Giasone, arrivato per rapirla; l'errore di rivelare le sue visioni del lontano futuro. Uno dei Costruttori della Torre, che aspirava a diventare sacerdote, era invidioso dei suoi sogni. Le chiese di rivelargli i nomi che avrebbe avuto Dio negli universi del futuro avvenire. Sarin rifiutò. Lui la picchiò, la trascinò sopra un precipizio, un'apertura nel muro attraverso cui i blasfemi venivano lanciati a morire sulle rocce, in una caduta che durava un'ora. Il Costruttore teneva Sarin sospesa per i capelli e la faceva oscillare nel vuoto. Da quella posizione Sarin vide il sole i cui raggi splendevano da tutto l'orizzonte, si ricordò delle ultime parole di suo padre, e questo la fece pensare a suo nonno, e a sua madre e alle sue sorelle, ora disperse nell'immensa struttura al servizio dei Costruttori. Nonostante il dolore si sentiva in pace e rimase appesa lì, conversando
con la memoria di suo padre, finché il braccio del costruttore non si stancò. Egli chiedeva di conoscere i nomi di Dio nel futuro a venire. Lei gli domandò per quale motivo lo volesse sapere. Lui rispose che nei nomi risiedeva un enorme potere, e che quando la torre avesse raggiunto il paradiso stesso, quegli uomini in possesso dei nomi di Dio non ancora conosciuti, sarebbero stati come dei re in quel luogo immenso. Fu allora che la torre si spezzò. Sarin si rifiutò di svelargli il suo sapere segreto. La torre ebbe un'altra scossa, e questa volta ella sentì scuotersi il mondo intero; riuscì ad aggrapparsi al Costruttore proprio nel momento in cui egli aveva lasciato la presa dei suoi capelli. Si aggrappò al suo braccio, poi trovò un punto d'appoggio sul bordo dell'apertura nella pietra. La torre tremò di nuovo e il Costruttore fu sbalzato fuori nel vuoto, precipitò a lungo, le vesti gonfiate dal vento, e il suo grido rimase sospeso nell'aria fin oltre la sua morte. Appena la torre cominciò a crollare, Sarin si precipitò all'interno della mole in rovina e discese di corsa la spirale della scalinata, evitando le rocce e i mattoni, le travi di cedro, le statue d'oro e di giada che le piovevano addosso. Alla fine, colpita da un pezzo di muro, perse conoscenza, ma fece un sogno, in cui, insieme ad altre migliaia, precipitava dalle rovine verso la morte. Fu tra quelle rovine che si risvegliò. Sua madre le stava lavando il viso. Il caos era generale. Il mondo era pieno di suoni, suoni discordanti, stonati, gridati, ma appena Sarin riprese pienamente conoscenza, si rese conto di riuscire a comprendere quei suoni. I linguaggi segreti di ogni uomo, donna e bambino erano ora gli unici linguaggi - la maggior parte della Lingua dell'Erba Alta era stata spazzata via! - e ogni linguaggio era diverso dall'altro. Ella riusciva a capire sua madre, ma sua madre non riusciva a capire nessuna delle sue sorelle a parte Sarin. Sarin divenne così la Signora dell'Erba Alta, e venne raffigurata su molti dipinti, superfici scolpite, vasi e pietre sacre. Conosceva tutte le lingue. Per aver rifiutato di accettare l'oscena richiesta del Costruttore, era stata la sola a essere risparmiata dalla forza vendicativa e fatale che aveva distrutto il linguaggio del mondo, la torre, e il suo intento blasfemo. Sarin dimorava in un tempio, e spesso veniva interpellata perché facesse da interprete tra nuovi popoli, nuovi clan e nuove tribù. Le sue visioni continuarono. La sua fama si diffuse... E fu allora che, almeno per questa Sarin, accadde una cosa strana... Dal futuro lontano arrivò un vascello come non ne aveva mai visti, con
uomini come non ne aveva mai visti, armati di lance e di spade dalle lame terrificanti, che si esprimevano in un linguaggio che riconosceva, ma con il quale parlavano della sua vita come se appartenesse al lontano passato, un passato remoto. Erano collezionisti, ed erano venuti per aggiungere lei alla loro collezione. L'avrebbero venduta a caro prezzo a un re la cui brama di potere rendesse necessario l'uso di questa Strega delle Lingue. La prelevarono, abusarono di lei, la picchiarono e la incatenarono nella cella della Argo. Sarinpushtam. Colei che conosce la Lingua dell'Erba Alta. Una donna con il dono del linguaggio. Uno dei tesori di cui Giasone si serviva come moneta di scambio. «Ci sono due segrete» disse dopo aver finito quello che restava del vino aspro alla lavanda. Non avendo provocato alcun male a Sarinpushtam, anche Richard aveva ecceduto con la giara d'oro, e ora si sentiva la testa leggera e pieno di aggressività nei confronti di Giasone. «Per raggiungere la segreta dove sono tenute in catene le creature viventi, bisogna passare per quella dei tesori passati, piena fino all'orlo. Ci si può muovere a malapena in mezzo a velli, teschi, statue e pezzi di armature.» «Velli? Ce n'è anche uno d'oro?» «Sono tutti d'oro» rispose Sarin con una risatina. «Li colleziona compulsivamente. Non so perché... sembra che non interessino nessun altro.» «E le guardie?» «Sono tutti degli ubriaconi. Sono vigili durante la giornata, ma mangiano e dormono come dei leoni e bevono come delle spugne. Scivolano velocemente nel sonno, ma non sono degli stupidi, Richard. Anche se si addormentano di colpo, a causa della loro età, il loro sonno è leggero, e si svegliano altrettanto rapidamente, sono più forti di quanto non sembri, e non hanno affatto perso la loro destrezza. Questi vegliardi hanno un caratteraccio feroce.» «Starò attento. Almeno Ercole non è tornato.» «Tra loro vi sono quattro dei suoi figli illegittimi e una delle donne è sua figlia. Ci sono anche i figli dei Dioscuri, e anche lo spettro di Enea, da cui dovrai guardarti in particolar modo.» «Gli eroi misconosciuti della tarda epopea di Giasone» disse Richard riflettendo a voce alta. Era sul punto di dire qualcos'altro, di chiederle chi altri ci fosse tra gli argonauti, quando si accorse che il viso di Sarin era imperlato di sudore. Sembrava stesse male, e quasi immediatamente inarcò la
schiena e si mise a urlare. Richard balzò in piedi e la sollevò tra le braccia, sorpreso per il fatto di sentire a malapena il suo peso. Respirava con difficoltà, e i suoi occhi, spalancati, erano invasi dal terrore. «Mi sta succedendo qualche cosa...» Le difese! Maledizione! «Reggiti a me. Devo portarti all'esterno della Stazione.» Lei cominciò a piangere, trattenendo i lamenti, mordendosi le labbra per lottare contro l'angoscia del dolore arrivato così improvvisamente. Richard tagliò dritto attraverso l'erba alta, non curandosi del sentiero tortuoso. Si guardò a malapena attorno quando oltrepassò i cancelli ed entrò nell'acqua. Se Giasone era lì a osservarlo, allora era in pericolo. La stretta di Sarin al suo collo si intensificò, per poi allentarsi subito dopo. Richard, sconvolto, la adagiò sul terreno, le schiaffeggiò le guance, le voltò il viso da una parte all'altra per vedere se le restava ancora un soffio di vita. Respirava debolmente. Le sue labbra erano inerti e bagnate. La prese di nuovo tra le braccia, salì vacillando sulla sponda, e si diresse correndo verso il Santuario per portarla lontano dal ronzio delle difese, dai totem, dai talismani, dalle forze della terra che potevano togliere la vita a un mitago così inaspettatamente. Si lasciò cadere al suolo, le gambe paralizzate dallo sforzo. Coprì Sarin con il suo corpo, la strinse, la bocca a contatto con il suo collo, non per piacere, ma in modo da sentire con le labbra le sue pulsazioni. Lei emise un lamento, vomitò ed egli si allontanò senza lasciarle la mano, massaggiando le sue dita sottili, in attesa che si riprendesse. «Cos'è successo?» domandò lei poco dopo con un filo di voce. «Ho avuto l'impressione che la mia vita venisse risucchiata in un'immensa apertura. C'erano creature che correvano, anche uomini, tutti risucchiati da un enorme apertura nel terreno...» Era chiaro a cosa si riferisse. Aveva fatto esperienza del Varco di Old Stone stesso. Questo cosa significava? Che erano state le difese dell'accampamento a colpirla così bruscamente, oppure che qualcosa, dall'interno della caverna, aveva cercato di prenderla? In ogni caso, per lei tornare alla Stazione sarebbe stato un pericolo. «Come ti senti?» «Troppo vino» disse pulendosi la bocca con il dorso della mano. «Sono agitata. Non voglio essere picchiata di nuovo. Tornerò indietro. Da quello che ho sentito dire da Giasone agli altri, la Argo non sarà pronta per il mare ancora per quattro giorni, forse cinque. Quindi non agire affrettatamen-
te. Se davvero vuoi essere d'aiuto, allora dobbiamo aspettare il momento propizio.» Lo stava guardando intensamente. Era uno sguardo strano e Richard non riuscì a interpretarlo. All'improvviso lei gli lanciò le braccia al collo e scoppiò a piangere sulla sua spalla. Senza sapere cosa fare le batté una mano sulla schiena, e percepì con inquietudine le costole sporgenti. «Ti aiuterò, promesso» disse. «Al meglio delle mie possibilità. Ma tu non devi assolutamente ritornare all'accampamento. È troppo pericoloso per te.» «Lui mi trascinerà con sé. Ha bisogno di controllarti. Vuole la tua testa. Giasone è convinto che la fonte di ogni potere magico sia la gelatina di cui è pieno il nostro cranio.» Tipo intelligente... «Richard...?» «Che c'è?» Lei si scostò dal suo petto, lo scrutò sotto la fonte corrucciata, e si passò la lingua sulle labbra il cui gusto le fece fare una smorfia. «Se tu non dovessi farcela... se dovesse sembrare che Giasone abbia la meglio...» i suoi occhi brillavano di passione e disperazione. «Allora, Richard, preferirei morire piuttosto che sopravvivere con Giasone. Capisci che cosa ti sto chiedendo?» «Sì, lo capisco.» «È da poco tempo che questa consapevolezza è divenuta importante per me. Non posso più sopportare questa situazione. Io non ho niente a che vedere con lui. Niente a che vedere con questo posto. Sogno del lontano passato e del lontano futuro, ma i miei sogni sono menzogneri. È come se non fossi nel mondo giusto. Riesci a spiegartelo?» Richard avrebbe potuto passare un'ora a spiegarglielo, certo, ma Sarin scosse il capo. Si alzò rapidamente in piedi, si sbarazzò della stoffa colorata che l'avvolgeva e si immerse nelle ombre della notte, una sagoma pateticamente sottile, che scivolava lungo la riva verso la gola, muovendosi come la più dolce delle brezze per raggiungere la sua prigione sulla Argo. «Riii...chaaard! Buon...giooorno. Co...lazioone, Riii...chaaard!» Le grida di Giasone che lo invitavano a raggiungerlo sulla riva svegliarono Richard da un sonno molto profondo. Si svegliò nell'edificio comune, madido di un sudore ghiacciato. La voce di Giasone, il suo accento pronunciato, e la sua risata che indicava chiaramente quanto fosse divertito da quelle strane parole (senza dubbio insegnategli da Sarin), lo raggiunsero
come un incubo. «Riii...chaaard!» Si vestì e raggiunse di corsa la sua postazione tra l'erba agitata dal vento. Oltre il cancello, intravide la sagoma dell'eroe, avvolta in un mantello, accovacciata sulla riva opposta. Anche Sarin era là, ma non incatenata. Infilati in uno spiedo, Giasone aveva due grossi pesci arrostiti. Pesce a colazione. Perché no? La sua emicrania, in ogni caso, gli ricordava che sarebbe stato meglio non accettare alcol. Pensò per un attimo di aumentare la potenza del generatore, ma il ricordo della notte precedente, e la possibilità che Sarin non sarebbe sopravvissuta al distruttivo campo di protezione, lo fecero rinunciare a questa precauzione. Giasone era come sempre disarmato, ma Richard armò il suo arco prima di avanzare strisciando, per poi raddrizzarsi quando si trovò sotto i cancelli aperti. «Perché quell'arco?» domandò Giasone servendosi dell'interprete. «Perché sono attratto dall'idea di vivere a lungo quanto te.» Giasone rise e annuì. «Ma è una precauzione inutile, Richard. Gli uomini come te si preoccupano eccessivamente di quello che accade alle loro spalle. Sono arrivato alla vecchiaia perché a me non importa. Io confido in Hera, ecco tutto. Abbiamo concluso un accordo, anni fa. Ho chiesto una lunga vita. "Allora accontentami", mi ha detto. "Come posso farlo", le ho chiesto io. "Mi piace vederti ritrovare le cose", mi ha risposto. "Il mondo è pieno di tesori nascosti. E come per un uomo che trova i luoghi segreti di una donna per la prima volta, così anche per gli dei c'è una gratificazione nel vedere gli uomini scoprire i luoghi segreti della terra." Hera è il mio amore, la mia vita, e, direbbe qualcuno, anche il mio tormento. Ma quale tormento? Conduco la più piena delle esistenze, e sono insaziabile. Ho il vigore dell'adolescenza e l'esperienza dell'età. Posso bere come Bacco, e prendere precauzioni contro il mal di testa il giorno dopo; e un mormorio della mia voce è sufficiente a convincere un eroe a fare vela con me, o un re ad affidarmi qualche compito. Certo che mi piace essere vecchio. La memoria - l'esperienza - ecco le vere fonti del potere. Firma anche tu il tuo patto, Richard, e in questo modo non dovrai più guardarti alle spalle. Ma per il momento, quello che voglio è fare colazione, e avere una conversazione con te, una negoziazione, non una lite, quindi posa a terra quell'arco.» Mangiarono il pesce, e Richard notò che Sarin ricevette un'uguale porzione. Giasone quel giorno la stava trattando con molto più rispetto. Il
giorno precedente la sua indole irascibile di uomo anziano aveva avuto la meglio, ma era chiaro che, alla cruda luce di un esame retrospettivo, aveva deciso che un modo per conquistarsi la fiducia di Richard consisteva nel mostrare considerazione per la donna. Il sorriso di Sarin mentre mangiava guardando il suo amico era cinico, segnale che era consapevole della situazione. «Che cosa hai in programma per oggi?» domandò Richard alla fine, e come se lo capisse, Giasone scoppiò a ridere, batté una mano sulla schiena della donna per invitarla a parlare. «In primo luogo, io sono a tua disposizione finché non finiranno i lavori di riparazione sulla Argo.» «Accetto. Mi fa piacere avere qualche conversazione intelligente.» Sarin scosse il capo, con aria severa. «Non è quello che intende Giasone...» «E allora?» rispose Richard con un sorriso. «Che importa di quello che intende Giasone? Quanto a me, quello che mi interessa è avere la tua compagnia. Accetto la sua offerta. Troverò il modo di farti entrare nei livelli più profondi della foresta, lontano da lui. Ho bisogno di compagnia, chiacchiere, e senso dell'umorismo, e tu soddisfi tutte e tre le esigenze. Sì, grazie, avrò la tua compagnia per tutta la durata dei lavori. Se sei d'accordo, questo è...» «Sono d'accordo! Ma per quanto riguarda il cercare di nascondermi, non pensarci neanche. Se lo tradissi, ucciderebbe il suo migliore amico, che in questo caso è anche il mio. Mi dispiace, ma quest'uomo sa quello che fa, e ci sono altri amici sotto coperta...» Richard lanciò un'occhiata all'uomo che sorrideva con aria compiaciuta. Giasone aveva forse seguito il senso della conversazione nella loro lingua? Era difficile da dire. Sarin riprese la parola. «Il fatto principale è che tu sei invitato a visitare oggi la nave Argo, per vedere i suoi beni e i suoi tesori, le creature che trasporta, la magia che ha rubato dalla terra. Vuole convincerti che unirti a lui sulla Argo andrebbe a tuo favore. Ovviamente, il suo scopo è quello di rapirti e sottometterti in seguito. Ha già dedotto che il tuo potere è attivo soltanto in questo luogo magico, in questo varco. Ha indiscutibilmente paura della tua magia, ma ha giustamente indovinato che le tue capacità sono limitate. Nonostante questo vuole servirsene. Quindi se sali sulla Argo, non aspettarti di tornare indietro. Questo, in ogni caso, è il mio consiglio.» «Grazie. Credo che lo ascolterò.» Richard guardò Giasone e scosse e-
nergicamente il capo. «Digli che se rilascerà tutti gli esseri viventi che si trovano sulla Argo, e aspetterà una giornata intera, allora parlerò di nuovo con lui e considererò la sua offerta. Digli che non viaggio insieme a dei prigionieri.» Nell'udire le sue parole, Giasone sollevò le braccia mostrandogli il palmo delle mani, poi se le portò all'inguine, indicando chiaramente che Richard poteva riprendersi la sua richiesta, intesa chiaramente come una menzogna, e rispedirla per posta direttamente a Shadoxhurst. Un'espressione nello sguardo di Giasone spaventò Richard e lo mise in allerta. Un impercettibile sguardo in avanti, un leggerissimo movimento della testa. Richard si voltò velocemente, sempre in posizione accovacciata, ed ebbe giusto il tempo di percepire l'ombra di un uomo che si nascondeva sulla sommità dello strapiombo sopra il Varco di Old Stone. Dannazione! Avevano trovato una via per arrivare là in alto. Forse per tutto il tempo in cui Richard era rimasto a parlare era stata puntata una freccia sulla sua schiena esposta. L'accampamento era completamente vulnerabile a un attacco dall'alto. Per un momento Giasone continuò a stuzzicarsi i denti inferiori con il pollice e l'indice, esaminando, prima di risucchiarli in bocca, i frammenti di pesce che estraeva dai suoi molari nerastri. Poi finalmente disse qualche cosa a Sarin, la quale annunciò: «È dispiaciuto che tu non veda dove sia il tuo interesse, ma pensa che effettivamente la tua magia è meno potente di quanto avesse creduto. Non ti annoierà oltre. Deve andare a caccia di un centauro, un fuggitivo. È dispiaciuto, ma ha deciso di non concedermi a te. La Argo sarà riparata in un giorno - non posso credere che sia vero - e se ne andranno. Se puoi aiutarmi, ti prego, fallo presto. La morte o la libertà, quale delle due non importa. Quell'arco sembra quello di un gigante, ma se sai come usarlo, usalo». «Non dubitare» e mentre le dava questa risposta, si rese conto, non senza provare uno shock, che davvero l'avrebbe uccisa. «Sono certo che è quello che vuoi.» «Cerca di salire a bordo della Argo stanotte, vieni a parlare con il nostro oracolo. Potrebbe aiutarti a pianificare una strategia. Ti aspetterò.» Brutalmente, Giasone tirò Sarin in piedi. Di nuovo, come la notte precedente, spinse con il piede gli avanzi del cibo allo straccione del Varco di Old Stone, gli sorrise e lo salutò con la mano. Il chiasso delle riparazioni continuò per tutto il giorno. Quando calò la notte, e vennero accese le fiaccole, Richard si armò di spada e coltello e
impiegò circa un'ora per avvicinarsi alla riva, prendendo le più grandi precauzioni, gli occhi talmente abituati all'oscurità che nemmeno una mosca avrebbe potuto muoversi senza che la vedesse. Hera, tra i due bracieri, lo osservava; l'acqua del lago lambiva calma la riva; una leggera brezza faceva scricchiolare la Argo nel suo ormeggio di fortuna, e le sue corde sbattevano contro il legno. Su tutto regnava la quiete più profonda, gli argonauti dormivano sotto le loro tende di pelle, un uomo era di guardia, ma teneva lo sguardo fisso sui riflessi luminosi del Varco delle Grandi Acque. Richard si arrampicò furtivamente a bordo della barca, passò di fianco alla grossa sagoma addormentata del fabbro e si lasciò scivolare dentro il boccaporto del ponte, dove Sarin con le sue mani minuscole lo afferrò per le gambe per aiutarlo a scendere. «Hai il piccolo fuoco?» gli chiese in un sussurro. Richard estrasse l'accendino di Lytton, e accese una torcia compatta che illuminò la stiva ingombra dall'accumulo di oggetti trafugati di ogni tipo. I rotoli di pelliccia erano accatastati contro una parete. Richard avanzò con attenzione verso una cassa d'armi che conteneva soprattutto degli elmi decorati con motivi che sembravano animati di vita propria. In un'altra cassa trovò dei dischi d'argilla e dei rotoli di papiro, su cui erano scritte le lingue perdute di re caduti nell'oblio. C'erano corni d'osso, vasi di vetro, anfore d'oro, collane e braccialetti tempestati di gemme, arazzi dai disegni complicati e misteriosi, insieme a oggetti molto semplici come mazzi di canne e giunco, due flauti come quelli di Pan, tamburi con le pelli decorate (reminiscenza orribile del tamburo dello sciamano che avevano fatto a pezzi i figli di Kyrdu), e lontano, in un angolo, gettato come un oggetto senza interesse, un altro strumento a fiato con attaccata una sacca di pelle che Richard riconobbe immediatamente, con orribile sorpresa. La cornamusa di Lacan! Vide gli anelli neri sulla pipa più bassa, riconobbe la particolarità della sua forma e gli venne la nausea per la paura e l'apprensione. Il bene più prezioso di Lacan, nelle mani del macellaio dell'Egeo. «Cosa ne sai di questo oggetto?» mormorò, con un tono d'urgenza nella voce che fece sussultare Sarin. Osservò meglio la cornamusa, poi scrollò le spalle. «È arrivato a bordo con Tisamenus, soltanto due giorni fa. L'ha preso da un cadavere. Giasone crede che possa convocare gli dei, ma non sa quali, e neanche quali siano i suoni giusti. Lo tiene, nel caso qualcuno un giorno riconosca la sua fun-
zione.» A quelle parole Richard si sentì sprofondare il cuore. Gli si riempirono gli occhi di lacrime, e la bocca gli divenne secca all'idea che il gigante, con il suo immenso senso dell'umorismo, avesse perso la vita. «Un cadavere? Ne sei sicura?» chiese con voce atona. «Un cadavere, sì. Peleo ha assistito al combattimento da lontano. Io mi trovavo nella cella quando l'ho sentito parlare con Giasone. Chiunque fosse, ha dato del filo da torcere a Tisamenus, gli ha rotto la mascella, una o due costole, e due dita. Mi dispiace... vedo che era un amico.» «Un amico molto caro. Il migliore...» Posando in terra la cornamusa di Lacan, uscì un po' dell'aria rimasta nella sacca e lo strumento emise un breve gemito, un ultimo lamento che fece sussultare Sarin e pietrificò Richard dal terrore. Tesero le orecchie, attenti al minimo movimento da sopra il ponte, ma tutto rimase tranquillo. «Fa' attenzione» gli disse Sarin precedendolo verso lo scompartimento posteriore. Nella mezza luce, dei lugubri personaggi si agitarono; un centauro tentò di alzarsi, ma non gli riuscì, e guardò Richard con occhi simili a quelli della creatura che era scappata due giorni prima. Ma questa era una femmina. Una donna con piccole corna si teneva raggomitolata in un angolo; due uomini, vestiti di pelle e di verzura, probabilmente due briganti della foresta, sedevano contro lo scafo respirando debolmente, lo sguardo senza vita. Erano tutti incatenati, ma la catena più pesante era sopportata da un uomo muscoloso con i capelli e le braccia argentati, legato per le braccia e le gambe al pavimento; i riflessi metallici sul suo braccio destro, lo scintillio d'argento sulle sue labbra, la rabbia nei suoi occhi, e il suo silenzio, tutto confermava che si trattava di Silver Arm, un mito irlandese, e Giasone era stato fortunato nell'essere riuscito a sottometterlo. C'erano altre figure, fragili, distrutte, alcune vestite, altre nude, di cui Richard non riusciva a riconoscere la natura mitologica o leggendaria, perché svuotate di tutta la loro storia; non avevano più nulla di magico, come Lytton poteva bene avere immaginato, ma erano morte, corrotte nel modo più umano, quello in cui è stata tolta tutta la speranza, e la vita non ha più alcun senso. Si levò una voce, dolce e soave, e alla debole luce della torcia Richard guardò verso la parete opposta. Vide cinque teste appese per i capelli, due delle quali palesemente in decomposizione, altre due, con una rossa barba, vive ma silenziose, che lo guardarono con occhi furiosi; la quinta era quella di un giovane con il viso incorniciato di boccoli biondi, imberbe, sorri-
dente, con gli occhi che brillavano mentre cantava. Ma appena Richard si avvicinò, quelli che erano sembrati segni di gioventù scomparvero e comprese che stava guardando un teschio sul quale la pelle era talmente tesa da sembrare levigato; eppure c'era ancora del vigore nei suoi occhi, lo stesso che era nella cascata dei folti capelli dall'odore soave. La bocca si muoveva, le labbra sottili si corrugavano, leccate da una lingua giallastra. Nessun soffio avrebbe potuto far vibrare le corde vocali, visto che il collo era ridotto a brandelli anneriti di sangue. E nientemeno, la testa cantava, con voce dolce, parole senza senso, finché all'improvviso non cantò, lentamente, scandendo le parole: «Un sanguinante scollo... sul lato del collo... tutto questo per... la cintura verde... della sua dama...». La canzone di Alex della recita scolastica! Gli occhi della testa mozzata si riempirono di tristezza, seguendo i movimenti di Richard che, accasciandosi, si voltò verso quella mostruosità e chiese: «Chi sei?». Lo sguardo triste ruotò verso Sarin, che rispose per lui: «È Orfeo. Il mio migliore amico. Un tempo era anche amico di Giasone, ma ora non più. Giasone dice di amarlo ancora, ma ha fatto delle ricerche di un anno per trovare le rocce in cui era fissata questa testa, dopo essere stata strappata da alcune donne selvagge alle porte dell'Ade; egli l'ha rubata, e la venderà. Orfeo sa vedere il destino, e se tu lo aiuti, lui aiuterà te. Sa leggere nel cuore degli uomini». «Lo so. È appena successo...» Dietro di lui uno dei cacciatori verdi cambiò posizione reagendo al suono delle voci. Parlò debolmente, esprimendosi con fluidità, ma per un istante, in modo poco comprensibile: «Può tu aiutare? Può tu aiutare?» poi il dialetto si trasformò nella richiesta di aiuto disperato che era. Sarin lo fece tacere, poi si rivolse di nuovo a Orfeo di cui accarezzò il cranio attraverso la pelle tesa. «Canta per il nostro amico. Egli può aiutarci.» Orfeo parlò nel suo linguaggio e Sarin rispose all'eroe martirizzato con uno sguardo lugubre. Poi si voltò verso Richard al quale spiegò: «Gli ho detto che prenderemo anche lui. Che troveremo uno stregone che costruirà per lui un corpo meccanico. La tua magia può arrivare fin qui?». «Ho paura di no. Mi dispiace. E il mio sistema di credenze sta subendo un duro colpo solo nel vedere quello che vedo.» Orfeo cantò di nuovo, una nenia ipnotica, chiuse gli occhi per un momento, poi li spalancò e li fissò su di lui. La voce cambiò, i versi erano nel-
la lingua di Richard, e riprese parlando così: «È con le teste di pietra, in un luogo di pietra. È con l'albero che corre e che parla. Veglia e aspetta suo padre vicino al sudario di quercia dove crepitano gli uccelli. È imprigionato dai propri fantasmi». «Alex? Riesci a vedere mio figlio?» Richard si avvicinò alla testa, impaziente, svanito ogni pensiero sull'impossibilità di quella situazione di fronte a questa nuova allusione ad Alex. «Di' ancora, ti prego! Come posso raggiungerlo?» Ma Orfeo stava di nuovo cantando sottovoce, nella sua lingua, e dagli occhi vuoti scorrevano lacrime. Una testa mozzata, vivente. Nessun respiro soffiava dai polmoni per far vibrare le corde vocali, e malgrado tutto la testa cantava e parlava, pronunciava oracoli, e aveva visto Alex. Era un sogno? Giasone aveva messo nel vino una droga talmente sottile che ora Richard esisteva in due stati di coscienza, quello reale e quello falsamente lucido? Fuggì, si precipitò nella gola e raggiunse il Varco di Old Stone. Una testa parlante! Orfeo in persona, straziato dalle unghie delle femmine di Tracia che egli aveva in qualche modo offeso. Era stato perché si era voltato per guardare l'Ade dopo aver abbandonato Euridice? Richard non riusciva a ricordare la leggenda. La testa era stata scagliata nel fiume Ebro, si era incagliata tra due rocce e aveva continuato a cantare per anni. Giasone, nella sua nuova professione di collezionista di assurdità, era partito alla ricerca dell'oracolo, suo vecchio amico, e lo avrebbe venduto al miglior offerente. Richard, a modo suo, doveva trafugare la testa, possederla, tenerla, usarla per ritrovare Alex. Ma come riuscire, da solo, a impadronirsi della Argo, abbattere gli argonauti e liberare le creature oppresse nella prigione nascosta? La sola maniera era certamente quella di attirarne l'equipaggio all'interno del campo difensivo che circondava la Stazione. Ma sarebbero stati diffidenti, ora, dopo aver visto Peleo ingerito dalla terra stessa. All'alba, gli aironi annidati sugli alberi dietro l'accampamento lo svegliarono con il rumore secco dei loro becchi che sbattevano insieme. Un vento forte soffiava sull'erba alta, e dalla gola sotto lo strapiombo, dal varco stesso, lo raggiungevano delle voci distorte, che lo invitavano a seguirle. Aveva passato la notte sognando di Alex e Helen; in quei sogni, si era sentito capace di salvarli. Ora, in quell'alba malinconica e ventosa, sentiva la foresta attirarlo a sé, percepiva degli odori e notava dei movimenti impercetti-
bili tra gli alberi che gli facevano pensare di essere più in armonia con essa. Nel suo occhio mentale tornò a vedere dell'agitazione, e aveva difficoltà a respirare. Distendere le mani aperte sulla terra fredda lo rendeva più felice, come se ne traesse energia. Si sarebbe detto che godesse nel leccare la rugiada tra l'erba alta in mezzo alla quale si aggirava a quattro zampe; si ritrovò sopra una collinetta che non riconobbe, dove si lasciò infradiciare dall'umidità del mattino, che lo rinfrescò e gli restituì il suo vigore... Si rialzò bruscamente, schiaffeggiandosi le guance. Cosa diavolo sto facendo? Non posso permettermi di andare nella zona boschiva. Il baccano prodotto dai becchi si interruppe. Il vento continuò a infastidirlo mentre camminando tra l'erba raggiunse i cancelli per aprirli. Allora, vide sulla riva opposta un oggetto avvolto in un tessuto, forse un nuovo dono degli irritabili argonauti. Erano venuti durante la notte, oppure all'alba? Aveva dormito così profondamente... Cominciarono a chiarirglisi le idee, e la collinetta apparsa all'interno della Stazione si trasformò in quello che era: una nuova presenza innaturale. Vi si era arrampicato, qualche istante prima, mentre succhiava la rugiada. Vi ritornò, camminando sul sentiero tortuoso in mezzo all'erba alta, cercando le tracce del suo passaggio a quattro zampe; all'improvviso, vide il corpo dell'uomo, ricoperto di vegetazione. Le ventose dell'edera e della vite erano penetrate nella carne che si sfaldava. L'uomo giaceva su un fianco, un braccio dietro la schiena, e con ancora in mano una spada di bronzo. Il collo era ripiegato all'indietro, e dalla bocca aperta spuntava della marcorella selvatica. Sul cranio in decomposizione erano ancora visibili i capelli grigi, e la fascia viola intorno alla testa identificava l'uomo come uno degli argonauti. Dunque, mi ha portato un regalo, e poi ha attraversato il fiume per uccidermi... Raccolse la spada e tolse la fascia dal teschio che si trasformò in polvere appena lo urtò con il dorso della mano. Avvolse la fascia intorno all'impugnatura della spada e attraversò il fiume per esaminare attentamente l'offerta: era un lungo osso dalla decorazione elaborata, con le incisioni solcate d'oro, la cui epifisi tondeggiante, nel punto in cui si congiungeva all'anca, era stata intagliata in un volto sorridente. Richard coprì il grottesco oggetto, domandandosi se fosse rivolto a spaventarlo o fosse stato offerto come regalo in cambio di alcuni dei suoi poteri magici. Lontano, risuonò un corno da caccia, che non aveva il suono metallico,
acuto degli strumenti del XX secolo, ma le sonorità più sorde, più vibranti, non perfettamente accordate prodotte dal soffio umano dentro il corno cavo di un animale. Il suono proveniva dal Santuario. L'udito di Richard era diventato acuto, forse in seguito all'isolamento nel quale aveva vissuto nel corso degli ultimi mesi. Sentì che cinque uomini correvano. Davanti a loro scappava una creatura a quattro zampe. Si aprirono un sentiero nel sottobosco attraverso la vegetazione, trotterellando in una zona di terreno più aperta e per alcuni minuti Richard, alla base del pendio, seguì tutta l'azione con lo sguardo. Giasone era ben determinato a riprendersi il suo centauro. Sulla spiaggia, ora la Argo aveva la parte posteriore dentro l'acqua del lago. L'albero era drizzato, la barra trasversale legata, la vela armata e ammainata. La statua di Hera era stata riportata a bordo e dal ponte, ingombro di rifornimenti pronti per essere stivati, guardava con occhi furenti la terraferma. La tenda era ancora assicurata con i suoi paletti alla riva, e numerosi argonauti si affaccendavano in diversi lavori domestici, mentre quattro guardie accovacciate in cerchio, armi alla mano, sorvegliavano attentamente quello che accadeva nel bosco. Uno di loro si era certamente accorto della presenza di Richard, che osservava la scena dalla sua postazione abituale, ma non fece alcun movimento verso di lui. Il fabbro si trovava con un altro uomo a bordo di una piccola imbarcazione, e scrutava il fondo del lago a un centinaio di metri dalla riva. Il corno da caccia risuonò di nuovo, una nota che arrivò fluttuando con la brezza mutevole, che andava aumentando. In quel momento, il vento soffiò energicamente increspando le acque del lago. Sulla riva, il fumo dei fuochi si propagò in raffiche di vortici. Richard riprese ad avanzare lentamente lungo la gola, accorgendosi, mentre si avvicinava alla Stazione, dei sospiri e dei rumori di rami spezzati che salivano dalla foresta attorno a lui. Il vento aveva qualcosa di quasi sinistro. L'erba alta dell'accampamento ondeggiò, e il gigantesco totem che si ergeva di fianco al portale oscillò sul suo piedistallo, gli stracci appesi agitati dal vento. I portali della Stazione sbatterono violentemente sui cardini. Nel momento in cui Richard raggiunse il suo alloggio, apparve di colpo il centauro. Era rimasto nascosto dietro la palizzata. Aveva gli occhi enormi, dei rivoli di saliva gli colavano dalla bocca e lasciava escrementi in modo incontrollabile, come terrorizzato. «Non ti hanno ancora preso, eh? E stai cercando il Santuario, giusto?» «Nascondimi...» sussurrò la patetica creatura, ripetendo per tre volte la
sua richiesta. Richard afferrò la creatura per la criniera, cercando di evitare il suo alito. «Certo che lo farò. Giasone non può farti alcun male all'interno del Varco di Old Stone. Qui c'è un sistema di protezione, che...» Il centauro sembrò tranquillizzarsi, nonostante non potesse aver capito le parole: quasi certamente era stata Sarin a insegnargli la preghiera «Nascondimi». Sbuffò nervosamente, agitando la coda, e il suo torace umano si tese al punto da mostrare, sotto il manto nero, le costole, i tendini, e i muscoli. Voltò le spalle a Richard e si allontanò da lui, per tornare all'interno dell'accampamento, con una strana espressione implorante negli occhi. «Il sistema di protezione» ripeté Richard, e gli aironi ripresero a battere i loro becchi, facendolo distrarre; una averla produsse il suo verso, e le cornacchie gracchiarono dall'alto dei loro nidi sull'olmo, mentre il vento portò un intenso odore di sudore e sesso, che rese Richard nervoso. Eppure guardandosi attorno non vide nient'altro che l'uomo bestia dalla pelle nera che si allontanava da lui. Il sistema di protezione... Si rese conto, e lo shock fu terribile, che il ronzio del generatore non era più parte dei suoni della foresta. Con un'occhiata veloce alla sua destra, verificò che la luce rossa, spia di infrarossi, era sparita. Il generatore non era attivo! Rientrò in fretta dentro la Stazione. Il centauro emise un verso a metà tra la paura e la risata, poi galoppò dietro di lui. Richard si voltò per guardare la creatura, che stava raspando nervosamente il terreno all'altezza dei portali, e gli rendeva il suo sguardo. Un rivolo di saliva gli colava dal labbro inferiore, le palpebre sbattevano velocemente e le narici fremevano. «Una trappola» disse Richard senza agitarsi. Si voltò verso l'interno del campo. Sentì uno strano rumore, una specie di sibilo, seguito da un secondo, identico, e poi da un terzo. Non vide nulla né tra l'erba increspata né tra gli alberi che oscillavano, sotto i quali spariva il sentiero del Varco. Ma quando di nuovo si voltò verso il centauro, vide una freccia trapassargli la bocca. Gli occhi, sul volto umano della creatura, si spalancarono per lo stupore, mentre si accasciava sulle zampe anteriori. Una seconda freccia gli trapassò il petto, una terza gli rimase appesa sulla spalla, superficialmente conficcata sulla sua pelle scarna. E a quel punto arrivò il lamento della cornamusa di Lacan, una specie di sospiro beffardo, che si trasformò in una risata ritmica di scherno.
La quarta freccia, scoccata in quell'attimo, tagliò l'aria proprio quando Richard si voltò verso la caverna. La vide arrivare, ma era troppo veloce. Lo colpì superficialmente, ma ugualmente trapassandogli il braccio sinistro. Il dolore fu stranamente remoto ed egli sollevò l'avambraccio come niente fosse, poi premette la mano contro la ferita per fermare il fiotto di sangue, e in quel mentre la zona di foresta illuminata attorno alla caverna si oscurò per il passaggio di nove uomini avvolti in mantelli e incappucciati, tutti mascherati tranne uno, che uscirono allo scoperto e avanzarono lentamente verso la loro vittima tra l'erba spazzata dal vento. Fu un momento di silenzio, stranamente pacifico, nessun altro suono tranne il mormorio del vento, il sussurrare dell'erba, e il rumore delle pelli sferzate dalla brezza, mentre i nove personaggi si disponevano in semicerchio intorno a Richard. Giasone, davanti a tutti, teneva in una mano una lancia e nell'altra la cornamusa, e i suoi occhi brillavano dal divertimento mentre lo osservava da sotto il cappuccio. «La tua magia è finita» disse parlando stentatamente la lingua di Richard e indicando con un gesto la tenda del generatore. «Non esserne tanto certo» rispose Richard, la cui ferita sul braccio cominciava a farsi sentire. Giasone scrollò le spalle. Sarin poteva avergli insegnato le parole da dire, ma egli era incapace di capire la risposta. Si limitò a ripetere: «La tua magia è finita. Richard. Varco. Magia finita». Poi scoppiò a ridere, con un passò gli arrivò davanti e lo colpì violentemente al volto. Richard cadde e vomitò. Giasone strizzò il sacco di pelle della cornamusa dalla quale uscì una serie di lamenti esagerati, come una giga senza melodia, che provocarono l'ilarità degli argonauti. Richard stava per alzarsi quando vide uno di loro che estraeva le frecce dal cadavere del centauro. Dopo averle recuperate, l'uomo, a colpi di piede, spinse il corpo della creatura nel fiume. Povera bestia ingannata. Forse gli avevano promesso una libertà se li avesse aiutati ad attirare Richard all'interno del recinto, dove Giasone lo aspettava. Divenuto inutile, il suo valore di mercato forse limitato, Giasone aveva deciso di alleggerire il carico della Argo. Ora aveva un nuovo oggetto da vendere. Ma se Richard si immaginava di essere entrato a far parte degli oggetti di qualche interesse per le cittadelle dell'Egeo, era in errore. Nonostante fosse stato portato alla Argo, passando per la gola, a bordo gli prestarono scarsa attenzione. La sua ferita venne curata e fasciata, e dalle parole mormorate da Giasone, Richard afferrò che la freccia non era affatto stata
destinata a lui. Era più preoccupato dal fatto che ora la barca era in mare. Le riparazioni allo scafo erano terminate, e i carpentieri stavano lavorando alla parte emersa dall'interno dell'imbarcazione, tenendosi in equilibrio tra i rami della quercia sacra. Il vento portò la pioggia, con una densa scura nube che si riversò sopra il lago, rendendo quella mattina simile alla notte. Gli argonauti rimontarono rapidamente la tenda sulla spiaggia, e accesero due piccoli fuochi. Richard rannicchiato in un angolo, fu ignorato da Giasone per parecchio tempo. Era libero di scappare se avesse voluto, ma sentiva una strana riluttanza ad approfittarne. Quando finalmente Giasone tornò sotto la tenda gonfiata dal vento, aveva Sarin con sé, la quale, trattenuta per il collo con un laccio di cuoio dichiarò con espressione torva, sotto i colpi incessanti della pioggia: «Gli dei devono averlo aiutato con la Argo. Solo ieri non c'era possibilità che potesse prendere il mare: ora è così ben riparata che ha intenzione di fare vela attraverso il canale della tempesta». «Il canale della tempesta?» «Il passaggio, là, dove la tempesta infuria tra due scogli, e troppo stretto per navi così grandi. È grazie a quello che è riuscito a sfuggire alle galere del titano Polimno che era sul punto di speronarci e farci affondare. Il passaggio è sul lago, e lui lo sa. Ma ha paura. Pensa che debba esserci una trappola, e crede che tu possa aiutarlo a comprendere la natura di quello che è accaduto. Salpando sul lago, tornerà indietro al suo mondo? E dall'altra parte, troverà Polimno ad attenderlo? Oppure si ritroverà in un'altra gabbia degli dei, come questa? Sono giorni che Hera non parla con lui. Crede che lo stia mettendo alla prova, ma non sa a che scopo.» Giasone per tutto il tempo non smise di osservare Richard, il volto completamente inespressivo, in attesa che desse la sua risposta. A Richard d'un tratto venne in mente che poteva esserci un modo di separare Giasone dal suo equipaggio. Cercò di non rivelare la sua inquietudine. Sarebbe stato difficile trovare il sistema. «Ci sono molti mondi dall'altra parte del lago» rispose. Giasone, quando Sarin ne fornì la traduzione, lo guardò accigliato. Richard descrisse il lago nero di Tuonela, i mari ghiacciati e burrascosi della costa irlandese, i fiumi senza fine che attraversano la foresta impenetrabile, le paludi d'acqua salmastra abitate dagli uomini-aironi; gli descrisse un quadro che non aveva nulla di rassicurante. Per tornare ai mari caldi dai quali proveniva, Giasone
sarebbe dovuto andare a offrire dei sacrifici in un tempio. Il tempio si trovava sulla collina, sopra il Varco di Old Stone. Un Santuario di pietra, in cui gli eroi dotati di chiaroveggenza potevano beneficiare del privilegio di intravedere la destinazione che li attendeva. Giasone rifletté a lungo, concentrato, scrutando Richard con uno sguardo quasi corrosivo, masticando parole tra sé e sé, senza cessare di rigirarsi tra le dita scure il laccio di pelle con il quale Sarin era legata. Richard cominciò a sentirsi tremare le ginocchia in quella posizione accovacciata, assalito com'era dall'umidità e dal freddo, sotto il riparo di fortuna che gocciolava, incurvato sotto il peso dell'acqua. Giasone non era convinto. «Digli» riprese Richard «che vivo in questo luogo da molti anni. Ho già visto passare degli eroi, alcuni mi temevano, altri hanno cercato la mia amicizia. Lui ha distrutto la fonte della mia magia, ma non i miei poteri visionari.» Sarin traduceva di pari passo. «Digli anche che Ercole è rimasto accampato per cinque giorni nel Santuario e che mi ha poi raccontato in dettaglio della ricerca del Vello d'oro, e che aveva assistito allo smembramento di Medea, che era stata appesa in pezzi, ancora viva, a un immenso albero di cedro, dove i corvi dalla testa d'argento andavano a banchettare...» Giasone si alzò da terra, bloccandosi a metà, gli occhi spalancati. «Dove? Dov'è che Ercole l'ha visto?» «L'ha visto grazie al Santuario. C'è un luogo di visione sulla collina. Medea non è vissuta a lungo dopo il massacro dei tuoi figli e della seconda sposa. Un simulacro ha preso il suo posto.» Questo, era evidente, divergeva dalla versione che ne aveva Giasone, ma ne era incuriosito. «Un simulacro? Medea morta?» Aveva la saliva agli angoli della bocca, e il volto, sotto l'ispida barba, era in fiamme. Le rughe comparse sulla sua fronte smentivano la calma che mostrava: era arrabbiato, furente, voleva la stessa visione per sé. «Medea morta!» ripeté guardando in lontananza. «Medea tra i morti viventi, senza il minimo potere, ridicolizzata da tutti gli eroi che passano.» E Giasone sorrise! Si alzò, tirò brutalmente Sarin in piedi, poi lasciò un po' la stretta, passando il suo grosso pollice sopra il segno rosso intorno al collo della giovane donna. Poi, rivolgendo a Richard uno sguardo fulminante, disse: «Allora, portami a vedere questo posto». Ruggì qualche ordine. I figli dei Dioscuri si coprirono con pesanti mantelli e presero delle corte spade da un mucchio di armi, avanzando sotto la
pioggia battente per raggiungere Giasone. Anche Enea si unì alla partita; la pioggia colava dal suo elmo di metallo giallo e lucido che gli nascondeva il viso fino alla bocca aperta, dove, tra le labbra grigie, brillavano i denti spezzati. Queste tre guardie seguirono Giasone attraverso la gola, e Richard li guidò al Santuario, alle rovine di pietra. Dov'era il varco? Erano passati solo pochi mesi, ma la foresta era cambiata, era diventata più fitta... Tastò il terreno tra l'erba con il bastone, urtò le colonne scolpite, si abbassò per passare sotto le rovine invase dalla vegetazione che bisognava obbligatoriamente aggirare. I suoi occhi erano in allerta per scoprire qualsiasi elemento familiare, e sapeva anche che da lì partiva un varco che non bisognava assolutamente oltrepassare. Un bagliore rosso colpì la sua attenzione: scostò l'edera avvolta alla base di una pietra e trovò una piccola effigie, una bambola completamente marcia, ma il cui corpo era ancora fasciato in una stoffa rossa. Raccolse l'effigie e la brandì trionfalmente verso Giasone che indietreggiò puntandogli contro la spada. Adesso Richard era in grado di orientarsi. Il masso faceva parte dell'arco originale, la cui sommità era crollata. Era sempre l'entrata per cui erano passati lui e Helen, quella volta? Cominciò a esplorare la radura, osservato con sospetto dai Dioscuri e da Enea che lo fissava attraverso le inquietanti fessure del suo elmetto. Sarin sorrideva mordicchiandosi un dito, vagamente cosciente del fatto che Richard stava cercando di intrappolare il suo padrone. Richard aggirò l'arco, poi si mise di fronte a Giasone, spalancò le braccia e gettò la testa all'indietro. «È qui!» esclamò. Sarin tradusse le sue parole a bassa voce. «Non vedo nulla» disse Giasone. «Allora vieni qui, e guarda tra le colonne» lo sollecitò Richard, arretrando di qualche passo e invitandolo ad avvicinarsi. Per un istante pensò che Giasone avrebbe obbligato la donna a seguirlo, ma l'argonauta lasciò cadere il laccio a cui era legata. Si voltò verso i Dioscuri e mormorò loro qualche cosa. Poi, con la lancia puntata, ben stretto nel suo mantello nero per proteggersi dalla pioggia leggera, fece qualche passo verso Richard... Per un momento sembrò avere un'esitazione. Richard ebbe l'impressione che avesse cominciato a muoversi al rallentatore. Attorno a lui la luce cambiò e i Dioscuri gridarono, indietreggiando per lo spavento. Sarin, con
un sussulto che le fece mancare il fiato, si abbassò assumendo la posizione di un animale che si prepara a fuggire. Giasone, con lo sguardo fisso su Richard, pronunciò in fretta qualche parola, dopodiché si fece scuro in volto e si trasformò lentamente in una maschera di furore; la pelle si scurì, gli occhi sembrarono venire risucchiati, con un'espressione tanto minacciosa quanto ormai inutile, un'espressione che si tramutò improvvisamente nel ghigno sul volto di un morto. Camminava ancora. Era stato intrappolato dal varco, e in poco più di un secondo svanì completamente dalla vista. Richard ebbe la sensazione di essere stato colpito da qualcosa, ma avrebbe potuto trattarsi di una foglia trasportata dal vento umido. I Dioscuri erano fuggiti. Enea per un istante rimase immobile, continuando a fissare la scena da dietro la maschera del suo elmo, poi anche lui si voltò e ridiscese rapidamente la collina. «Dov'è andato?» domandò Sarin nell'improvviso silenzio. «Ho sentito la statua della dea che gridava.» «Lontano. Molto lontano. In un posto dove Hera non ha più controllo su di lui. E non c'è alcun modo di ritornare. Non canterà nessuno, di questa nuova avventura di Giasone.» Richard esitò, osservando la donna fradicia di pioggia. «Che cosa ha detto? Quali sono state le ultime parole?» «Ha gridato: "Non ho visto la trappola". Bel lavoro! Ma ne uscirò. Adesso dovrai davvero cominciare a guardarti le spalle!» Sarin tremava, le braccia strette attorno al corpo, lo sguardo incantato sulle pietre immobili che avevano inghiottito il suo torturatore. «Lo hai scacciato. Credevo che la tua magia fosse morta. Giasone ha ucciso la roccia mormorante, la sorgente del tuo potere. Pensavo fossi finito.» «Avrebbe dovuto seguire la sua intuizione: la vera magia è qui, nella gelatina» disse Richard battendosi un dito sulla tempia. Intorno a lui turbinavano suoni e profumi. Era ebbro per il trionfo, e il bosco con lui. La pioggia aveva odori diversi, diverse consistenze. Gli scorreva sulla pelle, tra i capelli, attraverso i vestiti, e sembrava comunicare con lui. La piccola mano di Sarin lo scosse per un braccio. «Mi stai lasciando?» Lui la guardò aggrottando le sopracciglia. «Lasciando?» «Uno spirito si è impadronito di te. Hai lo sguardo assente. Mi stai lasciando?» «Sto cercando di non farlo...» Lo precedette a passo veloce verso il fiume, ripercorrendo la gola. Ave-
vano sentito delle grida sulla riva, delle grida di spavento. La Argo era stata varata ed era già sul lago, si dirigeva lentamente verso il varco, con la vela ammainata, i remi immobili, pronti a fendere l'acqua. Gli argonauti stavano scappando. Sulla spiaggia, un gruppo eterogeneo di creature era raggomitolato sotto la pioggia. Enea, o chi per lui aveva preso il comando, aveva deciso di vuotare la stiva delle creature, forse turbato all'idea dei poteri magici che possedevano. I due cacciatori della foresta si stavano già aggirando sulla sponda del lago, ed esaminavano il bosco per trovarvi un passaggio. Il centauro femmina si stava abbeverando sulla riva. La donna dotata di corna, che ora era avvolta in un manto di pecora, teneva tra le braccia la testa di Orfeo dalla bocca aperta. Già all'uscita della gola, Richard si rese conto che il poeta era morto, e che non avrebbe cantato mai più. Improvvisamente il centauro femmina scappò e scomparve tra le rocce, lanciando un richiamo acuto prima di entrare nella foresta. La Argo prese a oscillare e le acque cominciarono ad agitarsi. Sarin lanciò un grido e si coprì gli occhi per non vedere la coda serpeggiante della creatura del lago che all'improvviso si avvolse sinuosamente attorno allo scafo danneggiato del vascello, facendo cadere gli uomini e le donne dal ponte e spezzando i remi come fossero stecchini. Poi emerse la testa della creatura, e gli argonauti cominciarono a urlare. La barca si accartocciò, si spaccò in due, il pennone della vela andò in pezzi. Mentre uomini e donne si gettavano nell'acqua alla ricerca della relativa sicurezza del lago, la creatura si rivoltò su se stessa, trascinando la Argo con lei, per svanire completamente in mezzo a un'esplosione e una pioggia di acqua azzurra. Poi, uno a uno, coloro che si dirigevano a nuoto verso le sponde del lago scomparvero, lanciando delle grida; l'ultimo a essere preso fu lo spettro di Enea, che era riuscito a guadagnare la riva e stava in piedi sulla terraferma quando la bestia, con le fauci spalancate, si lanciò improvvisamente sulla secca, e lo afferrò trascinandolo con sé. Altri avevano nuotato per arrivare al varco. Richard li osservò raggiungere le acque grigie e svanire lentamente, per emergere di certo nel mezzo di un mare in tempesta, dove li avrebbe attesi un terribile naufragio. I cacciatori erano scomparsi, amalgamandosi furtivamente con la foresta. La donna con le corna risalì la gola per donare a Sarin la testa di Orfeo. Poi la abbracciò, e dopo aver sfiorato la barba di Richard con una mano dalla pelle rugosa, si immerse nell'acqua e si inoltrò nell'oscurità del burrone.
«Ora sono al sicuro?» Le parole di Sarin vibrarono nel vento. Ma ecco che Richard venne invaso da un profumo, trasportato dalla pioggia. Si acquattò e si strofinò l'acqua sul naso, annusandola e gustandone il sapore. La donna lo sfiorò e le sue dita scivolarono sulla pelle irta di peli di Richard. L'odore della femmina era forte, e dalla testa di Orfeo proveniva un mormorio appena udibile, come se gli ultimi canti risuonassero nella gelatina della sua testa, mentre dalla bocca non usciva alcun suono. Ci fu un giro di vento, la brezza prese a soffiare in folate e vortici, la pioggia cambiò direzione; Richard fu avvolto dagli aromi e dalle carezze della natura, e improvvisamente, la pista di odore forte gli toccò il cuore. Si rialzò e lanciò un grido. Era lei! Inspirò con forza, poi respirò lentamente e profondamente, agitando le mani sotto la pioggia, sfiorando la trama degli aromi. Gli stava mandando dei segnali. Già una volta gli era arrivata al cuore, e ora lo stava chiamando. La pista odorosa salì dal suo basso ventre alla gola ed egli gridò il suo nome. Helen! Intimorita, la donna dalla pelle scura si allontanò da lui di corsa, e si precipitò attraverso l'erba intrisa di pioggia per rifugiarsi nell'edificio comune. Richard la seguì, una parte di lui voleva assicurarsi che fosse al sicuro. Poi chiuse i portali, lanciò un alto gemito di piacere, e seguì il profumo fino alla sporgenza rocciosa della parete, dove restò raggomitolato fino al calare della notte, fino a che la pioggia diminuì, il vento calò e l'odore divenne man mano più intenso, giungendo a vampate dalla voragine nel terreno, al di sotto delle creature che si allontanavano correndo... Nella zona boschiva Gli animali dipinti erano un flusso che scorreva sulla roccia; non erano affatto semplici animali dipinti. Erano vivi, pieni di potere, mandrie fantasma che correvano in un'impressionante massa fumante su tutta la parete rocciosa, sulla superficie del mondo, facendo tuonare le praterie al suo passaggio. Si alzò in piedi, con le enormi ombre che scalpitavano e si accavallavano tutto intorno a lui, si voltò, e prese a correre insieme a esse seguendo il terreno sconnesso, con il volto bagnato dall'abbondante saliva che colava dalle loro bocche contratte nello sforzo della corsa, con le lingue penzolanti. Trasse nuova forza dalla potenza delle grandi bestie e si aggrappò ai peli folti e resistenti che fluttuavano dai loro manti scuri. Seguì il movimento
del sole nel riflesso sulle loro corna ricurve e venne trasportato dall'energia del branco. Nel gruppo correvano anche altre creature più piccole: dorsi bianchi, fianchi grigi, alte corna, zampe sottili. Procedette saltando insieme a loro sul suolo rombante, poi si unì a dei lupi grigi che con lunghe falcate attraversarono la prateria. Tutti diretti alla grande caverna. L'universo vibrava, la terra era una pelle di tamburo profonda e sonora, l'aria era satura dell'odore di sterco e saliva, il cielo oscurato dalle gigantesche schiene. Corse insieme a loro, la pista odorosa persisteva nelle sue narici nonostante gli effluvi di letame e sudore e l'alito animale delle mandrie al galoppo. Quando nel varco la terra si richiuse, fredda, su di lui, il rumore delle mandrie si affievolì. Si immerse nelle tenebre, lungo i cunicoli tortuosi del mondo sotterraneo, obbligato a contorcersi, a strisciare, per passare attraverso i punti più stretti; ogni dito sensibile alla roccia liscia e umida, alla pietra scivolosa, il suo corpo simile a quello di un serpente che si addentra sempre più in profondità nel buio. Attorno a lui la terra continuava a tuonare e scuotersi per lo scalpitio delle mandrie di bisonti e gazzelle che si facevano strada in quello strano mondo, un mondo né onirico né reale, ma un luogo che si trovava a metà tra i due. L'acqua di una cascata scorreva impetuosa e fredda da un'alta sporgenza, all'interno di una grande caverna buia, fino a un secondo sistema di passaggi nel quale Richard si lasciò scivolare, portato dalla corrente; passando sfiorò rapidamente delle statue di uomini di marmo, intravide i loro volti di pietra; le sue narici fremevano come in risposta ai profumi del bosco che si apriva all'estremità della struttura sotterranea, e alla donna che lo aspettava e dolcemente gli faceva cenno d'avvicinarsi. Era trasportato dall'acqua fredda. Essa penetrava in lui, lo bagnava, lo lavava. Richard scivolava, slittava, si chinava strisciando dove il passaggio si restringeva, correva alla cieca nei punti in cui si allargava, sbarazzandosi di tutto ciò che di falso era in lui, lasciando una scia di indumenti come pelli morte, lasciando che l'aria consumata della caverna e gli effluvi della roccia avvolgessero con i loro miasmi la sua carne tesa e ipersensibile. Era consapevole del passare del tempo, ma nell'oscurità assoluta misurava il suo scorrere grazie alla marea di sogni e di voci che fluiva e rifluiva su di lui, sfiorando i suoi occhi, il cuore, e la sua risata. Alla fine, camminando a quattro zampe, emerse dalla terra in mezzo all'humus e alle rocce, aggrappandosi alla radice sporgente di un albero enorme. Aveva seguito quella radice per numerosi sogni, attraverso tenebre sotterranee, stringendosi alla trama più morbida, là dove sorgeva dalla
pietra glaciale e nella quale era intrappolata. Il tronco dell'albero si innalzava sopra di lui, riempiendo completamente il suo campo visivo mentre si rimetteva in piedi, nudo e imbrattato. I colori delle maschere che lo ricoprivano erano brillanti, nonostante la massa oscura e compatta della volta celeste. Inciampò e attraversò saltellando la distesa di radici aeree, poi corse agile e veloce verso i cespugli che delimitavano la radura dell'Albero delle Maschere. Si voltò per guardare i volti che vi erano scolpiti, volti antichi, scoloriti dalle intemperie, sui quali si erano sovrapposti nuovi tratti più nitidi. Più osservava, più riusciva a distinguere chiaramente, tra le teste cornute, occhi spalancati, bocche aperte in modo bizzarro, sorrisi - un migliaio di maschere intagliate, scavate nel tronco nero della quercia, ognuna delle quali lo guardava dalla propria era dimenticata dal tempo. L'albero lo colpiva moltissimo. Da qualche parte, in quel labirinto di teste, un volto più dolce lo osservava, quello di un ragazzo dall'espressione grave, di cui non riusciva a vedere gli occhi, ma solo a percepire la presenza; si raggomitolò a terra tra le foglie morte, si strofinò la pelle di terriccio e di erba spezzata, annusò il terreno e lasciò che il miasma diventasse più intenso. Dopo qualche momento, il vago sentimento di angoscia e smarrimento che si era impossessato di lui nella radura lo lasciò, ed egli cominciò a muoversi a proprio agio nella foresta selvaggia, attraversando le chiazze di luce, raccogliendo il profumo della rosa e dell'anemone di bosco, del germoglio e della linfa, amalgamandoli tutti all'effluvio che l'accompagnava. La pista odorosa che continuava a seguire era forte, ed era certo che la donna fosse vicina. Quando il suolo digradò verso una conca umida di rugiada, piena di cespugli di nocciolo e biancospino, seppe di averla trovata. Era un posto caldo e brumoso, il terreno molle attorno al quale, nella luce cangiante, si affollavano grandi alberi mossi da una brezza che non sentiva. In fondo alla conca scorreva un corso d'acqua che la divideva in due rive sulle quali crescevano densi cespugli di spine e cardi; e mentre passava con lo sguardo da una riva all'altra, vide il suo riparo ombroso, nel punto in cui la macchia di biancospino e nocciolo cresceva più fitta, dove vegetazione e rami secchi erano stati intrecciati in modo da creare un muro protettivo e un riparo più caldo. Si avvicinò al corso d'acqua seguito dal miasma che fluttuava attorno a lui attraendo ulteriori profumi. La luce che proveniva dall'alto creava l'impressione che la nebbia sottile nella conca scintillasse. Attraverso quel velo
luminoso, dolcemente ondeggiante, osservava il suo riparo, e concentrandosi, riuscì a vederla muoversi. Anche lei lo guardò, ma non appena i loro occhi si incontrarono, si ritrasse sul fondo del rifugio. Non riusciva a decidere se avvicinarsi o meno, e si accovacciò nei pressi del ruscello, giocando con l'acqua, lasciandosi avvolgere dalla pesante immobilità che regnava nell'avvallamento, imparando a distinguere, dai brusii impercettibili che ne provenivano, la posizione dei nidi sopra di lui, dei cunicoli e passaggi nel terreno e nei tronchi vuoti che lo circondavano. Finalmente attraversò il corso d'acqua, trascinando con sé il miasma come un mantello, si arrampicò sulla riva e passò attraverso i tralci di spine che lei aveva disposto in file e mucchi nelle zone di terreno più scoperto. Il riparo di biancospino venne scosso da un suo improvviso movimento e una spina penetrò dolorosamente nella sua carne, seguita da una seconda; le sottili punte di legno bianco si macchiarono di blu. Fece marcia indietro per mettersi fuori pericolo. In un boschetto si costruì un riparo caldo e asciutto, si fece un letto di felci che ricoprì d'erba, un tetto di fortuna con legna secca e grandi foglie di sicomoro. Da lì, ogni alba, osservava il riparo di biancospino. Alle prime luci, la donna coperta d'erba oltrepassava le sue difese e si portava al fiume, dove si sedeva a cantare e bere, il corpo teso, la testa sempre inclinata, occhi e orecchie costantemente in allerta. I suoi capelli neri erano striati da più ciocche argentate di quelle che ricordasse la sua memoria onirica. Ricadevano sciolte attorno al suo viso, nel quale guizzavano i suoi luminosi occhi neri, e quando beveva o cantava si socchiudeva una bocca morbida e sensuale. La sua pelle era sempre bagnata, e la luce si rifletteva sul suo corpo. Era esperta nel prendere piccoli pesci: dopo averli riportati a riva, li stordiva con un colpo, per poi conservarli in una piccola borsa fatta di foglie. Portava sempre con sé la sottile cerbottana con i suoi aculei velenosi, e al minimo movimento di Richard la sollevava in sua direzione con fare minaccioso. Sul braccio e sul collo, dove erano penetrate le tossine fungali, sentiva un prurito esasperante. A ogni alba, dopo che lei aveva finito ed era tornata di nuovo nella bruma, nel pesante effluvio di calore e di profumi, era il suo turno. Lei lo guardava dal suo riparo, e a volte cantava con la sua voce flautata. Al fiume andavano ad abbeverarsi degli animali, ed egli imparò a stanare le lepri, a catturare di tanto in tanto qualche volatile imprudente, qualche airone, e una volta, anche un piccolo maiale. Senza un fuoco, la carne ri-
maneva dura da masticare; quella della lepre aveva un forte sapore di sangue, ma era squisitamente corroborante. I giorni erano lunghi nella valle, e il calore umido a volte soffocante. Vi regnavano una calma e un silenzio particolari, interrotti soltanto dal mormorio del ruscello e da quello incessante degli uccelli. Le nidiate degli aironi lo svegliavano ogni alba con il rumore dei loro becchi. Non lontano gracchiavano gli enormi corvi di una colonia, e da qualche parte, nelle vicinanze, c'era un boschetto abitato da alcuni daini. Sentiva il maschio bramire e la femmina tossire. Ma non li vide mai, anche se il loro respiro arrivava fino alla conca e si mescolava con gli effluvi e gli odori che si formavano ogni mattino sopra il ruscello. Ogni sera, all'imbrunire, ritornava all'Albero delle Maschere e sedeva in mezzo al groviglio di radici, per contemplare quegli antichi volti. Erano molti i dettagli che rievocavano in lui vaghi ricordi, ricordi familiari, ma non gli veniva in mente alcuna parola, alcun nome, solo immagini di uomini strani, strane creature, accenni di storie, e di tanto in tanto, il pensiero di un ragazzo che correva radioso tra l'erba alta, tenendo alto sopra la testa un oggetto di legno che all'improvviso gli scappava di mano e si librava nel cielo come un uccello, senza battere le ali. A volte si sentiva triste, ma la tristezza si alleggeriva non appena le ombre della notte rendevano invisibili le teste scolpite nell'albero e si trovava davanti soltanto lo straordinario tronco nero. Allora vi si appoggiava contro, con il corpo quasi completamente incastrato in uno dei profondi solchi della spessa corteccia. Se ascoltava con attenzione, riuscendo a escludere dalla sua mente il chiasso dei caprimulgi, i fruscii di topi di campagna e delle donnole, i movimenti furtivi di gatti e maiali, il battito d'ali delle nidiate, riusciva a udire i canti dell'albero, anche se le parole per lui non avevano alcun significato. Quando egli stesso si metteva a cantare, lo faceva con parole che creavano la melodia, e che gli suscitavano emozioni nel petto e nello stomaco, senza che la mente comprendesse nulla - aveva orecchie e occhi e pensieri soltanto per la donna che viveva nella tana di biancospino. Un mattino si accorse che gli effluvi intorno a lui erano cambiati. Era un profumo che lo scuoteva dal profondo. Era diventato agrodolce, eccitante, e si mise a correre nel ruscello, schizzando acqua con furia, camminando in cerchio nel sottobosco, prima di attraversare il fiume e mettersi a sorvegliare il riparo, pieno di speranza. Un movimento tra le foglie, due occhi che lo osservavano. Il nuovo pro-
fumo discese lungo la riva e lo avvolse. Il suo corpo reagì dal piacere, ed egli tenne gli occhi chiusi per un lungo momento. Ma il rifugio rimase serrato. Ululò, gridò, cantò, poi ritornò al suo riparo. Una volta lì, il rifugio si aprì e lei discese per bere. Lui la guardò in silenzio, avidamente. C'era in lei qualcosa di diverso. Si era legata i capelli in un'unica coda, dietro la testa. Si lavava con attenzione i seni nudi. Le gambe e il ventre erano ancora ricoperti di erba, ma quando si voltò per risalire la riva correndo, egli vide che anche le natiche erano nude e non più coperte dal fango che di solito le nascondeva. Quando lei si chinò per entrare nel rifugio, lui trattenne il respiro per evitare di rivelare la sua presenza. Improvvisamente tutta la pelle del suo corpo si imperlò di sudore. Mentre osservava gli uccelli che camminavano impettiti sulle sponde del ruscello, e più tardi due lepri che, dritte sulle zampe posteriori lottavano rotolandosi tra l'erba, gli si affacciò alla mente il ricordo di un sogno, uomini che danzavano alla luce di alte fiamme ardenti, il cui riflesso faceva brillare i colori dei mantelli, l'oro delle maschere e degli elmi. Appena il sogno si dissolse, andò a cercare delle foglie e delle piume per fabbricarsi gli ornamenti rituali, spinto da un bisogno primitivo di decorare se stesso. Impiegò tutta la giornata per congegnare la sua decorazione. Con delle sottili schegge di un'erba rigida si cucì delle foglie di betulla lungo le braccia, foglie di quercia sul torace, e lucide foglie di faggio, di un verde smeraldo, sulla parte anteriore delle gambe. Fece attenzione nel perforare la pelle solo in superficie così da non versare sangue, che avrebbe aggiunto al miasma un profumo inadeguato. Per il mento scelse delle lunghe piume di airone, intrecciandole con i lunghi peli ispidi della sua barba scura in modo che pendessero come una frangia bianca. Delle piume della coda di corvi neri formavano una seconda frangia sopra il basso ventre. Si imbrattò le zone di pelle libera con del gesso e un po' d'argilla, poi, con l'aiuto del succo rosso del prugno selvatico e della belladonna, disegnò degli occhi sul bianco della creta asciutta. L'istinto gli disse che questo avrebbe fatto una buona impressione. Infine, con una mistura di resina, saliva e creta, acconciò i suoi lunghi capelli in una cresta che gli attraversava la testa da un orecchio all'altro. Gli ci volle molto tempo, e prima che fosse pronto, era quasi il crepuscolo. Quando finalmente si avventurò verso il ruscello, cominciava a calare la notte. Un chiaro di luna si rifletteva sull'acqua, facendo brillare le foglie sul suo corpo, rendendo la sua pelle sbiancata quasi luminescente. Proprio
mentre avanzava per raggiungere il ruscello, sempre osservando il rifugio di biancospino, sentì un fruscio di foglie e le vide aprirsi. Si portò lentamente in posizione eretta, distese le braccia, divaricò le gambe. Vedendo che l'apertura del rifugio rimaneva aperta egli sorrise, dimenò le anche, poi con una lenta giravolta, diede inizio alla sua prima danza. Alla fine della danza intonò il primo canto di richiamo. La sua voce risuonava nell'aria immobile della notte e gli aironi battevano i loro becchi sulle sue note, disturbando la sua concentrazione mentre cercava di rievocare parole dimenticate e melodie che appartenevano alla sua vecchia esistenza. Ma quando terminò la canzone, l'apertura del rifugio si richiuse. Si accigliò, si concentrò a riflettere, poi girò due volte su se stesso e si lanciò nella sua seconda danza, attirando attorno a lui il miasma, sentendo l'umidità del bosco condensarsi, con i suoi olezzi e i suoi profumi. L'apertura del rifugio si aprì di nuovo. Egli vi gettava rapide occhiate mentre volteggiava fischiettando, e quando gli diede le spalle si lasciò sfuggire un sorriso. Il cuore gli batteva forte per l'aspettativa. Eppure, quando la luna sparì, lei era ancora dietro la sua parete di biancospino. Deluso ed esausto ritornò al suo riparo, e appena si chinò per entrare all'asciutto, lei uscì e sulla cresta dell'argine si mise a cantare lentamente, con voce dolce, un breve richiamo di ringraziamento. Elettrizzato, rispose con un fischio. Non riusciva a dormire. La terra tremava sotto di lui, il che gli faceva uno strano effetto. Gli alberi che circondavano la conca, il ruscello e i loro rifugi, tremavano e ondeggiavano come se stesse arrivando una tempesta. A un certo punto, nella completa oscurità, passò un cavallo al galoppo, ansimando, cavalcato dalla sagoma di un uomo che nella corsa andava a colpire contro i rami più bassi. Poco dopo, quattro volpi si avvicinarono per bere, guairono e si dettero alla fuga non appena sentirono agitarsi qualcosa in un boschetto di noccioli. Egli osservò con apprensione la sagoma scura, il debole riflesso sulle sue zanne. Aveva percepito la sua presenza, ma non il fatto che fosse così grande, e si chiese se lo stesse osservando in attesa di gettarsi su di lui. Fu sollevato quando, dopo qualche ora, lo sentì allontanarsi. All'alba, danzò di nuovo, prima di abbeverarsi con l'acqua fredda del ruscello. Poi ritornò all'Albero delle Maschere e si appoggiò con la schiena alle figure intagliate e dipinte nella corteccia di cui sentiva le rientranze, e
si lasciò invadere dall'aria e dagli aromi, osservando le ombre del giorno che si spostavano insieme al sole, i riflessi di luce sulle foglie, i movimenti degli alberi e delle felci, lo scorrere incessante delle nuvole lontane, ai limiti dell'immensa volta celeste. Poi, al tramonto, danzò di nuovo per il rifugio di biancospino, con energia rinnovata. Attraversò il ruscello e, una volta raggiunta la riva alta si avventurò tra i tralci spinosi, si voltò e lanciò un richiamo, poi intonò un canto affiorato dalla sua anima come un sogno, mentre si trovava a contatto con l'Albero delle Maschere. Dopodiché indietreggiò fino al torrente e attese l'arrivo del buio della notte. Quando la luna arrivò a inondare la valle con il suo chiarore, egli riprese la sua danza, immerso nel proprio miasma, cantando con vigore; questa volta la donna uscì dal rifugio, si avvicinò lentamente al ruscello ed entrò nella cappa di aromi che lo avvolgeva: il suo corpo ornato di erbe, i capelli sciolti decorati di riflessi argentati. A sua volta anche lei improvvisò una breve danza, poi rise nel vederlo reagire vigorosamente e lo incoraggiò prima di guizzare all'indietro e sparire nella notte, dietro un'ansa del ruscello, lasciando la valle per la buia foresta. Egli balzò in aria e corse dietro di lei, trascinando il miasma con lui. Per tutta la notte lei lo spinse a una caccia selvaggia e sensuale attraverso le profondità del bosco. Egli l'aveva conosciuta in un altro sogno. Si ricordò di ciò che le piaceva e cantarono l'uno per l'altra: dalla quercia, dal frassino, dalla radura, dagli argini di terra. Presto - nell'ora fatale prima dell'alba - arrivarono alla sommità di una roccia, una parete perpendicolare di pietra grigia, ricoperta d'edera, su cui erano scolpiti dei volti inquietanti. Ella diede le spalle a queste rovine e lo trascinò verso una zona di terra asciutta, tra piccoli arbusti senza spine né aculei, e lì, danzò e cantò per qualche istante prima di fargli cenno di avvicinarsi. Lui si inoltrò rapidamente tra gli alberi, la afferrò e, insieme, caddero al suolo. Lei frantumò le foglie sulle sue braccia e sul torace, gli strappò dalla vita le piume di corvo e lo serrò tra le sue braccia. Lui, addentando le piante annodate la denudò, immerse le dita tra i suoi capelli, premette il suo corpo contro quello di lei. La sua bocca era morbida e dolce, il suo sapore familiare, squisito, il contatto con la sua pelle commovente, mentre si rotolavano abbracciati sul terreno asciutto. Piccoli insetti gli torturavano la schiena mordendolo ferocemente; una zanzara ronzava debolmente vicino al suo orecchio; un lombrico gli stri-
sciò tra le dita mentre teneva la mano appoggiata al suolo per sollevarsi; ma era con lei, e l'odore di terra e sudore, di sangue e della sua bocca colmavano i sensi di entrambi; si agitarono freneticamente, poi dolcemente, poi di nuovo con energia, ma sempre insieme; la sua bocca si chiuse su quella della femmina non appena cominciò a gridare, ed egli si abbeverò dei suoi gemiti e del suo piacere, aspirando ogni suo grido, ogni suo fremito, ogni spinta del corpo contro il suo, finché, dopo un lungo momento, lei si lasciò cadere, senza fiato, aggrappata alla sua pelle, alla sua carne umida, spingendolo fuori per poi attirarlo ancora dentro, in profondità, tra piccole risate e amorose provocazioni. Quando ebbe finito di baciarlo rimase sotto di lui, quieta, respirando dolcemente, lo sguardo perso nel cielo, nella luce fredda e tremula delle stelle, senza smettere di ascoltare i movimenti furtivi che provenivano dall'interno della pietra fredda, ingannevole, delle rovine vicine. Il miasma passò su di loro mentre la notte si trasformava, e l'alba immortale arrivò scivolando attraverso l'erba, tra le sottili radici degli alberi, nei pori delle foglie. All'improvviso tutto divenne molto freddo e bagnato. Tra i due amanti improvvisamente ci fu una nuova vibrazione, la terra li avvolse con i suoi tentacoli, assorbì gli umori chimici della loro pelle per poi ritirarsi. E mentre la luce del mattino arrivava a prendere il posto del buio, Richard, con un giro su se stesso si allontanò dalla donna raggomitolata accanto a lui ed entrò in uno stato di sogno lucido durante il quale mormorò ripetutamente i loro due nomi, e cominciò a ricordare chi fosse, e quali erano stati gli avvenimenti al Varco di Old Stone. Aveva freddo; si raggomitolò su se stesso e, stanco, cadde in un sonno leggero, senza perdere coscienza dei movimenti e dei mormorii tutto intorno a loro. Pelle di pietra A un certo momento, mentre i loro corpi si risvegliavano e le loro menti riprendevano conoscenza, Helen si era alzata e aveva lasciato la radura. Di nuovo pienamente in se stesso, Richard la seguì tra gli alberi e la trovò vicino all'alta parete di pietra, una grigia sagoma nuda, immersa nella bruma del mattino, i lunghi capelli gettati all'indietro mentre esaminava i volti di pietra che la sovrastavano. Richard le si avvicinò, lei si voltò ed ebbe sulle prime uno sguardo torvo, poi sorrise e tese le braccia verso di lui. Rimase-
ro abbracciati a lungo, tremando leggermente, strofinandosi la schiena l'un l'altro per riscaldarsi. «Ho avuto l'impressione che fossi contento di rivedermi» disse sarcasticamente. «Mi ricordi qualcuno che conoscevo. Una certa Helen Silverlock...» Si strinsero più forte, percorsi da un lungo brivido. «Speravo che tu mi trovassi» disse lei. «È stata un'attesa terribilmente lunga. Ho sepolto Dan molto tempo fa, ai tempi della Stazione. Mi sei mancato.» Le sue parole gli ricordavano il biglietto che gli aveva lasciato in un altro periodo, un periodo sbagliato. Doveva parlarne? Decise di no e disse semplicemente: «Quando Lacan mi descrisse il processo del viaggio nella zona boschiva, lo presentò come uno stato simile al sogno, silenzioso, in cui ci si immergeva in una completa comunione con il fruscio delle foglie e con il suono delle acque del lago. Non è stato affatto così. Per prima cosa mi sono ritrovato in una folle corsa con delle mandrie di bisonti e gazzelle, e poi con una muta di lupi; dopodiché ho seguito la scia del tuo odore, ho improvvisato una sorta di rituale di accoppiamento, ti ho dato la caccia per tutta la foresta, e infine, ho perso completamente ogni controllo». «Proprio come me» rispose immediatamente, forse presentendo le scuse che stava per farle, zittendole con un sorriso e uno sguardo diretto. «Ti desideravo moltissimo.» «Anche io.» «E non è stato meraviglioso?» «Mi sento indiscutibilmente molto meglio. Grazie.» Lei lo strinse molto forte, unendosi al suo sorriso. «Ho la bocca piena di fango e di pezzetti di foglie» continuò Richard. «Sono graffiato e morso dappertutto... e credo di averti conficcato una piuma di corvo su una natica... in uno dei momenti più appassionati, vero...?» «Vero. Ti perdono. La prossima volta cerca di controllarti.» «Mi sono ricoperto di creta e di piume. Ho saltellato ai bordi del fiume come un vero idiota, cantando per te. Dio solo sa con quali parole...» Helen scoppiò improvvisamente a ridere, gli occhi grandi per la gioia, poi lo baciò sulla bocca. «Ma sei stato meraviglioso! Avevo coscienza solo a metà delle parole delle canzoni perché mi erano familiari in questa vita, e metà di me vi reagiva come un uccello reagisce a un richiamo d'accoppiamento. Feromoni sonori! Ma tu, davvero mi hai eccitato - hai eccitato la natura primitiva che è in me - a dispetto delle cose buffe che cantavi. È questo che mi ha fatto uscire dal rifugio, completamente trascinata dai miei
istinti.» «Per l'amor di Dio, che cosa ho cantato?» Lei improvvisò un breve passo di danza con le braccia leggermente aperte, le ginocchia piegate, i capelli neri e argento che le ricadevano sul seno, ammiccando maliziosamente mentre cantava Love, love me, do. «Una canzone dei Beatles?» esclamò Richard. «Ho cantato una canzone dei Beatles? Stai scherzando!» In quel momento ricordò: un ricordo terribile, imbarazzante. «Cristo. L'ho fatto. Anche Presley: There's a place for us.» «Già...» «E poi all'improvviso hai cantato anche tu. I can't get no satisfaction.» «In effetti, non avrei dovuto, in quel momento... Ma sembrava che ricordassi quanto mi piacessero i Rolling Stones. Mi hai inseguito per tutta la foresta cantando Jumping Jack Flash!» «È vero... adesso ricordo. O mio Dio...» Helen scoppiò a ridere. «A me sei sembrato sensazionale. Ma la prima sera hai quasi rischiato di mandare tutto all'aria cantando i pezzi dei Beach Boys, e qualcosa tipo I am the very model of a modern Major General.» Richard emise un grugnito. «Gilbert e Sullivan? Vestito di foglie e di piume, nel mezzo della notte, nel mezzo della foresta, ho cercato di sedurti con The Pirates of Penzance? Oddio, questo sarà difficile da spiegare ai nostri bambini.» «A questo proposito...» si allontanò da lui dirigendosi verso la parete rocciosa. «Riconosci questo posto?» «Sì, ma dà l'impressione di essere morto.» Era una sensazione difficile da tradurre in parole. Non aveva soltanto a che vedere con il fatto che era in rovina: non c'era vita, sotto alcuna forma. Gli alberi che lo avevano invaso, l'edera che ne ricopriva le mura, lo spazio tra i suoi contrafforti di pietra e la foresta vicina, tutto questo era silenzioso. C'era una totale mancanza di spirito. Era un posto abbandonato. «Morto, esatto» disse Helen. «Ma non del tutto. C'è qualcuno all'interno che ci osserva. Credo di sapere di chi si tratta...» Con un fremito sia di eccitazione che di apprensione, Richard mormorò «Alex!». «No. Non Alex. Qualcuno arrivato nelle rovine più di recente.» Durante il periodo di tempo che aveva passato nel rifugio, nel periodo passato in quel mistico stato di natura che la Stazione chiamava la «zona
boschiva», Helen era diventata esperta nel creare caldi indumenti di protezione con quello che offriva la natura. L'edera, sottile o spessa, poteva essere usata come struttura sulla quale si intrecciavano fili d'erba o gambi di piante resistenti, per poi riempire gli spazi vuoti di soffici frammenti vegetali o di grandi foglie. Li vestì entrambi in pochi minuti, e anche se questi abiti prudevano e graffiavano, il gran freddo che cominciava a diventare penetrante si limitava alle mani e ai piedi. Mentre lavorava, ascoltò incantata il racconto dettagliato di Richard del suo incontro con Giasone e la Argo. Poi gli domandò degli ultimi tre anni della sua vita, dopo che Long Man lo aveva preso e condotto a Oak Lodge. «Fu come se sapesse dove volessi andare.» Lei annuì sapendo ciò che intendeva. «È quello che alla fine sono arrivata a capire. Sono passata da lui due volte, per cercare di ritrovare il sentiero della Stazione, ma non mi ha visto. Nonostante tutti i miei sforzi, non riuscivo a uscire da questa terra. Ci sono rimasta almeno sei, sette mesi. Alla fine ho fronteggiato direttamente Long Man e ho risposto sì, quando mi ha domandato "Helpen?". Così mi ha riportato alla Stazione. Questa è la sua leggendaria funzione: riportarti a casa. Ma non conosco tutta la sua storia.» «McCarthy ha ritrovato il sentiero da solo, seguendo le ombre, ovviamente, ma è morto poco dopo. Non è mai stato molto forte. E poi un giorno è spuntato Lytton. Credevo fosse stato ucciso dal Jack nel tempio, ma invece no: lo ha risputato fuori...» «È ciò che mi ha detto Elizabeth.» «Hai visto Elizabeth?» «Solo per poco.» Richard le raccontò dell'incontro che l'aveva spinto a ritornare nella foresta di Ryhope. Quando le descrisse il rapimento di Elizabeth, Helen chiuse gli occhi e scosse la testa. «Povera donna. Gli ultimi mesi erano stati già così pesanti per lei...» Quando Helen era finalmente tornata al Varco di Old Stone, aveva avuto delle novità su Dan. «Per questo motivo non sono venuta a cercarti. Sentivo moltissimo la tua mancanza» disse con un sorriso quasi di desiderio. «Avevo l'impressione di conoscerti da molto tempo. Ma sono partita alla ricerca di Dan, e quel viaggio è durato un anno. L'ho trovato, effettivamente. Almeno quello che restava di lui. L'ho sepolto. A quel punto Lytton aveva di nuovo studiato le carte di Huxley, e formulato una nuova ipotesi sul perché l'ombra di Alex potesse vagare libera nella foresta. Mi ha mandato a prenderti... tu non c'eri... ancora non capisco che cosa è andato stor-
to. Ma comunque, ho lasciato il messaggio, sono tornata indietro, e il Briccone è piombato su di noi, dalla caverna. Non era nient'altro che un'ombra distruttrice, tutta zanne e artigli. Ha cercato di mangiare Lytton. Ha ucciso Wakeman, e inseguito me per giorni. Ero incapace di tenergli testa. Non ero nemmeno certa che si trattasse del mio Coyote. Poi sono partita per la zona boschiva, venni qui, vicino all'albero scolpito di maschere, e qui costruii il mio rifugio. Solo Dio sa per quanto tempo ho vissuto in quella conca. Ma qualcosa in me si è agitato, mi ha risvegliato, quando tu sei arrivato. Con le tue canzoncine...» rise di nuovo, scosse la testa, poi guardò in alto la parete di roccia grigia. «Credo sia venuto il momento di dare un'occhiata all'interno... E stanare il nostro vecchio amico.» Entrarono nelle rovine della cattedrale passando per un arco a volta dove un tempo grandi porte di quercia si aprivano sul Santuario. Richard percorse con uno sguardo le immense rovine silenziose e cominciò a riconoscerle, nonostante il nome non gli venisse ancora in mente. In ogni caso era già stato lì, e anche Alex, in un altro mondo, molto tempo prima, quando suo figlio era un bambino piccolissimo, ammutolito e meravigliato, con gli occhi rivolti al soffitto a volta, rapito dalla luce che attraversava le vetrate colorate. Aveva lanciato un grido nella pesante immobilità, ed era rimasto ad ascoltare il suono della sua voce risuonare nei vasti spazi, eco vivente che lo aveva incantato tanto quanto le teste dalle espressioni distorte che aveva visto scolpite nella pietra, e le sirene che aveva visto muoversi sulla vetrata. «Conosco questo posto, ci sono già stato, ma non riesco a ricordare il suo nome... ma mi ricordo del nostro ultimo viaggio qui! I personaggi in agonia... Vedi?» Avanzò tra la prima coppia di colonne, ciascuna ornata dalla statua di un uomo morente, da una parte san Sebastiano, con il viso di pietra in via di disfacimento, gli spezzoni delle frecce ancora visibili, e dall'altra un Cristo contorto sulla croce, i tratti smussati, come dissolti nell'acido, ma con la muscolatura ancora ben definita, tanto che il marmo senza vita traduceva con intensa efficacia la sofferenza delle sue membra martoriate, di un dolore ancora più profondo. Il tetto della cattedrale era crollato da molto tempo. Le vetrate ad arco, in pezzi, delineavano il profilo frastagliato delle alte mura sovrastanti. Le colonne scolpite, un tempo riccamente colorate e ora grigie, si ergevano come delle guglie spezzate, fatiscenti, possenti strutture che evocavano le
maestose rovine della Grecia. I corvi volavano rumorosamente nel cielo aperto. Una pietra si spezzò e cadde con un gran rumore sul pavimento già pieno di detriti: l'intero edificio si disfaceva sotto gli occhi di Richard. Avanzò lungo la navata, tra le colonne, in mezzo ai grigi tronchi pietrificati degli alberi, dicendo tra sé: una volta qui cresceva una foresta! ma se i nodosi rami si erano fatti strada verso l'alto spaccando le lastre del pavimento, ora sembravano scorrere all'interno della pietra della stessa cattedrale, svuotati di tutta la linfa, pallidi, spettrali forme organiche d'architettura, una distesa di radici, rami appiattiti contro il calcare, e a ogni passo, foglie che cadevano come fiocchi di creta. Non c'era brina, né ghiaccio, eppure faceva un freddo mortale e il suo respiro si trasformava in vapore condensato. Dall'altare osservò l'insieme dell'edificio, i residui di pittura che mostravano dove un tempo degli affreschi raccontavano storie, i doccioni negli angoli più alti, alcuni con le teste intatte ma i corpi danneggiati, altri ancora ridotti a meri tronconi di pietra. E poi le statue: lì, la lunga tunica di una donna dal volto impassibile, le mani cesellate con precisione; e vicino, gli occhi e la bocca di un viso che sormontava il corpo di un santo che sembrava fondersi con il marmo bianco. In ogni direzione, ombre di rami senza vita intrecciate davanti al cielo. E ovunque, pietra che si sbriciolava come legno marcio. Helen era una sagoma scura che lo osservava dall'entrata, all'estremità della chiesa, immobile, a parte la bruma gelata che formava un alone attorno alla sua testa. All'improvviso fece un passo in avanti, tra le due statue dei martiri, e in tono deciso chiamò: «Alexander?». Ci fu qualche istante di silenzio, dopo di che Richard rispose a sua volta: «Pensavo fosse morto».» Helen avanzò nel Santuario gelido, procedendo con attenzione tra le colonne e gli alberi pietrificati. «Invece è proprio qui. L'ho visto dal mio rifugio, che ci osservava. Lytton! Adesso non faccia il timido.» Ci fu un improvviso movimento tra le pietre cadute. Da un cumulo di macerie furono scostati alcuni rami, dai quali rotolarono piccoli frammenti di marmo e roccia, e cominciò a emergere una massa informe di polvere e detriti che si rivelò essere un uomo grigio che usciva dal suo nascondiglio, intabarrato, con un lungo bastone in mano. Dietro i capelli lisci che gli ricadevano sul viso, studiava Richard con occhi penetranti, torcendo la bocca in un ghigno immobile. La testa ricadde in avanti quando la figura tossì violentemente, schizzando gocce di sangue sul suo torace bianco di polvere, prima che l'uomo avesse il tempo di mettersi una mano davanti alla
bocca e di soffocare i gemiti di dolore. Passato l'attacco, Lytton sollevò lo sguardo, scoppiò a ridere e fece qualche passo in avanti più allo scoperto. «Sono qui da quattro giorni» disse con voce rauca. «Che io sia dannato se so qual è la prossima mossa da fare. Suo figlio ha avuto l'ultima parola, Richard. Ma ritornerà all'albero. Dovrà farlo. Ritornerà. E in quel momento...» Helen si era avvicinata senza fare rumore, e Lytton sentì la sua presenza. Si voltò rapidamente facendo volteggiare i pesanti mantelli che lo avvolgevano, portando il bastone in orizzontale, sulla difensiva. Quando la vide esitare, indietreggiò e si voltò di nuovo verso Richard. «Ha l'espressione di qualcuno che ha appena visto un fantasma. E forse è così. Certo, questi sono proprio abiti di qualità superiore...» Parlando scoppiò a ridere, ma fu preso da un nuovo, violento accesso di tosse. Senza staccare gli occhi da Richard, si ripulì gli schizzi di sangue dalla barba e dalle labbra. Poi abbassò lo sguardo su ciò che aveva raccolto sulle dita. «Ho vissuto troppi anni nelle regioni selvagge. Le cose mi sfuggono, ormai. Ma Huxley sopravvivrà, si ricordi bene quello che dico. Huxley sopravvivrà. Dannazione!» Alzò nuovamente la testa puntando lo sguardo duro su Richard e picchiò con violenza il bastone sul marmo rotto del pavimento. «Deve assolutamente tirarlo fuori di qui. Lei, o uno di noi. In qualsiasi modo. Ci fa ballare come marionette, Richard. Perché non è tornato indietro quando siamo venuti a chiamarla?» Richard era confuso, aveva freddo, e il suo cuore batteva all'impazzata. L'ultima volta che l'aveva visto, Lytton aveva massacrato suo figlio, senza accorgersi della trappola, ed era stato inghiottito dal Jack. Oltre a questo, Haylock gli aveva detto che era stato ucciso al Varco di Old Stone. In effetti aveva detto bene: Richard aveva la netta impressione di trovarsi di fronte a un fantasma. «Era qui? Alex era qui?» Lytton colpì una delle due colonne; il marmo andò in frantumi ed egli rimase a guardare la polvere e i frammenti che cadevano. Il rumore sordo riverberò nello spazio. «Così come un serpente cambia la sua pelle, Alex ha cambiato questo posto. Riesce soltanto a immaginarlo, Richard? Come il Jack che ha cercato di inghiottirci, anche questa era una parte di suo figlio, vita infusa nella pietra, un'armatura vivente. Certo che era qui. Ma se n'è andato da molto tempo. Questa cattedrale è stata abbandonata, come un sogno che muore. Come il castello bianco, se ne ricorda? Si è spostato in
un altro luogo, lo stesso, ma sotto una forma vivente. Ed è vicino. Nascosto alla vista. Come mai ha lasciato questo nido particolare, questo non so dirglielo. Forse a causa mia. Forse perché aveva paura di me, o di qualcos'altro che sentiva avvicinarsi. Probabilmente fa parte del suo sistema di difesa. Ha la capacità di creare, distruggere, creare ancora. Può camuffarsi all'interno del mondo della foresta. Quindi sì, Richard. Suo figlio era qui, un anno fa, mille anni fa, difficile dirlo. Questo luogo è un mitago, così come lo sono tutti gli uomini incappucciati, i Jack, gli Intagliatori d'Ossa che possiamo incontrare. Una volta che venga privato del flusso vitale, collassa su se stesso, si decompone fino a diventare la cosa morta che è in realtà. Quello che a noi resta da fare, adesso, è cercare un'imprecisione della foresta, un dettaglio, un indizio del luogo dove si nasconde. Helen avanzò in mezzo alla nube di polvere, restando a una buona distanza da Lytton, tenendo d'occhio il pesante, enorme bastone che teneva ancora in modo così teso e minaccioso. Mentre lui la osservava, un filo di saliva rosa gli colava dal labbro inferiore. «Ha bisogno di cure» disse Helen. «Non c'è tempo.» «Almeno lasci che l'aiuti.» «Con una freccia avvelenata, per conto di Mr Bradley, qui presente? Tante grazie, ma no. Se riuscirò a trovare Huxley, a portarlo in questo mondo, se riuscirò a vederlo, a parlare con lui, allora che differenza fa quanto sono malato? Mi indicherà lui la via per la pace. Mi mostrerà la direzione. Sono certo che ha sempre saputo dov'è.» Richard ascoltava le sue parole, la sua ossessione, comprendendo solo vagamente da che cosa era spinto Lytton. La respirazione dell'uomo era un rantolo nei suoi polmoni. Era al corrente delle frecce avvelenate di Helen: aveva assistito a quello che era successo nella conca? Helen, aggrottando le sopracciglia davanti all'atteggiamento difensivo di Lytton, disse: «Non ho alcuna intenzione di farle del male. Dovrebbe saperlo. Richard crede che lei abbia cercato di uccidere Alex. E forse è stato così. Ma se lei ci aiuterà. Se ci aiuterà a tirare fuori Alex, allora non avrà più bisogno di ucciderlo. Dovremmo collaborare». Lytton scoppiò in una risata di scherno, voltandole le spalle sempre senza abbandonare la guardia. Si passò la lingua all'interno delle labbra, accentuando il suo volto scavato e il teschio affiorante. Nonostante questo, i suoi occhi si illuminarono quando si avvicinò a Richard per dirgli: «Sapevo che si trattava del Jack. Ma non posso negare che il mio primo impulso
fu di farla finita lì, di sbarazzarmi del cancro. Ma questo accadeva anni fa e le cose sono cambiate da allora, eppure il ragazzo verrà ugualmente all'albero. Ne sono certo». «L'Albero delle Maschere?» «L'ha visto. Sono i volti di Alex, quelli dei suoi eroi personali, dei suoi prodigiosi amici. Non ha visto Artù? Il Cavaliere Verde? E Guiwenneth del Verde? E Giasone?» «Giasone l'ho visto anche troppo, negli ultimi tempi» mormorò Richard. Lytton, perplesso, fece una pausa di riflessione prima di proseguire: «Quindi ha visto con che cosa si diverte. Ma c'è, anche, tutto ciò che c'è di più antico, di più primitivo, tutti gli incubi, tutte le forme primordiali che hanno tormentato Alex, facendolo scalciare per il terrore, quando si trovava nell'utero. Li ha visti? Ce ne sono centinaia. E lui dovrà affrontarli. Non ha scelta». «Il protogenomorfema?» domandò Richard lanciando un'occhiata verso Helen. Lytton si raddrizzò, impressionato. «Esatto. Il protogenomorfema. Il guardiano che è in Alex, la parte di lui che l'ha aspettata, quella che ha portato avanti la battaglia...» «Quale battaglia?» «Quella contro tutto ciò che da lui si è liberato quando i suoi sogni e la sua immaginazione sono stati risucchiati attraverso la maschera.» Lytton corrugò la fronte sotto la frangia di capelli unti e appiccicosi. «Si direbbe che non sia stato messo completamente al corrente.» «Ha ricevuto il mio messaggio» intervenne Helen «ma in circostanze difficili. Ci siamo rincontrati solo da poco... nella conca, come ha certamente visto.» Lytton strinse le labbra, il suo sguardo si rabbuiò, rimanendo fisso su Richard. «Sta pensando di uccidermi, Richard? Se le volto le spalle, mi farà saltare le cervella per aver cercato di uccidere suo figlio come crede?» «Certo che no. A meno che non lo attacchi ancora.» «In questo caso non corro pericolo. Non posso sorvegliarvi entrambi. Sono stanco e malato. Ho bisogno di cibo e di riposo. Eppure...» Lasciò cadere il bastone, si liberò del sudicio mantello con un colpo di spalle mostrando un secondo strato di pelli cucite, con un collo di lana incrostato di sporco. Si tolse anche questo e lo lanciò a Helen che, pur sottolineando con una smorfia il cattivo odore che emanava, se lo avvolse con riconoscenza attorno alle spalle. Al di sotto di questo secondo mantello,
Lytton indossava degli sporchi pantaloncini di cotone e una maglietta da tennis lacerata. Si rimise il secondo mantello e scrollò le spalle come per dire: Desolato, ma non ho abbastanza stracci per tutti. Con la sua lenta cadenza, respirando faticosamente, disse: «C'è un tragico quadro, dipinto da Manet: L'esecuzione dell'imperatore Massimiliano... l'ha mai visto?» «Sì, certo» rispose Richard aggrottando le sopracciglia. «Quattro tentativi, Richard. Quattro tentativi per dipingere l'attimo in cui un uomo muore, a sessanta centimetri dal plotone di esecuzione. Un anno e mezzo della vita dell'artista, della sua mente, del suo sudore, della sua follia. Tutto quel tempo per afferrare un solo istante. Un istante tragico, violento.» «È un dipinto straordinario...» Lytton annuì, pensieroso. «Un anno e mezzo d'inferno, per Manet. Completato il quadro, si chiese, in una lettera a un amico, se un momento di tale violenza, forse diabolico anche, una volta sottoposto a una tale concentrazione, a un tale bisogno di essere espresso, non potesse letteralmente fuoriuscire dal tempo...» Il tema della conversazione di Lytton e la sua serietà resero Richard perplesso: che cosa ci facevano, nell'involucro di pietra abbandonato di uno dei mitago di suo figlio, a parlare di storia dell'arte? Lytton sogghignò raucamente, si asciugò la bocca, lo sguardo perduto sul volto di pietra corroso e incrinato di un uomo verde, i cui occhi penetranti osservavano dietro una maschera di foglie d'acanto. L'inquietante personaggio sbucava da sotto le gambe di marmo di un cavallo il cui corpo e cavaliere erano crollati ormai da molto tempo. «Perché, a meno che non mi sbagli completamente» disse «ci aspetta proprio un momento di questo tipo; e in un certo modo, è già tutto intorno a noi; e vi facciamo parte da anni. Alex l'ha attesa molti anni del suo calendario, solo poche settimane per lui. Egli esiste al di là del tempo. È spaventato. Sta in osservazione. Lei lo ha sentito e McCarthy l'ha toccato in numerose occasioni. Ha costruito dei mondi intorno a sé, mondi attraverso i quali lei e io, tutti noi, non avanziamo se non inciampando, errore dopo errore. E nel cuore di questo mondo, si prepara un istante. Quell'istante! Lo ha custodito gelosamente, lui o una parte di lui. L'istante della sua morte, o della sua trasformazione, secondo il modo di concepire le cose della foresta! Quando questo accadrà, dovremo assolutamente essere presenti. Poiché una parte primordiale di Alex - quella che Huxley chiamò protogenomorfema - ci cercherà per con-
durci al suo nascondiglio. Il protogenomorfema non sarà che uno spettro, un'ombra. Ma è l'ombra dietro la prima ombra che rappresenta il pericolo. Seguite lo spettro più piccolo, il guardiano, e troverete Alex. Anch'io lo seguirò. E dalla grande ombra che dobbiamo guardarci.» «E l'ombra più grande che cos'è, esattamente? O forse non lo sa?» «Sono certo che si tratti del Briccone» rispose Lytton semplicemente, con un breve colpo d'occhio verso Helen. «Il Briccone che è in Alex. La manifestazione manipolativa del primo stadio della nostra coscienza, la prima consapevolezza della nostra capacità di ingannare. Esiste in tutti noi, frenata, per quello che può, dalla piccola ombra.» «Coscienza?» «Sì, ma si tratta più di controllo. La parte di noi stessi che riconosce sempre il pericolo insito nel dare credito ai nostri bisogni, nel credere che le nostre bugie possano non venire mai scoperte. È una caratteristica primaria, vi sono molte leggende e figure eroiche associate alla sua esistenza. È il guardiano della soglia tra stati di coscienza, tra modalità di comportamento, ed è sepolto molto in profondità. Come luce e buio, Briccone e controllo non possono esistere indipendentemente l'uno dall'altro. Sfortunatamente, questi aspetti di suo figlio sono in libertà nella foresta e si combattono. Liberato, il Briccone primitivo non ha alcuna voglia di ritornare in catene, ma come tutti i mitago è attirato verso il suo creatore, Alex. Lei, come protettore di Alex, per lui rappresenta una minaccia; per questo l'ha attaccata, in particolare sotto la forma del Jack, nella cappella.» Aveva parlato così tanto da indebolire i suoi polmoni già danneggiati; crollò all'improvviso in ginocchio, costretto a piegarsi in avanti sotto lo sforzo di dolorosi conati di sangue, sul pietrisco. Helen gli si inginocchiò accanto circondando le sue larghe spalle con il braccio. «Lei sta morendo, Alexander. Dobbiamo assolutamente cercare di curarla.» «Sono malato, non moribondo. Sono molto vicino a Huxley. Lui e io siamo destinati a incontrarci, ne sono convinto. È per qualcosa tra le righe del suo diario. Una volta che l'avrò trovato, la mia salute migliorerà.» «La riporterò alla Stazione. Non abbiamo niente da fare qui. Torniamo per un po' dietro le linee e facciamo il punto su quello che ci è accaduto in questo posto. Recupererà le forze.» Incantesimo
Ripercorsero a ritroso i passi della loro folle danza fino alla penombra dello spiazzo creato al di sotto dei rami del gigantesco Albero delle Maschere. Richard rimase a osservare il groviglio di forme, alcune così antiche che la sua coscienza le riconosceva poco più che come delle ombre, altre distinte, recenti, palesemente appartenenti ad Alex. Raccontò a Lytton della sua esperienza con l'albero, durante il viaggio nella zona boschiva, dell'impressione di aver sentito suo figlio cantare. «Lei ha avuto una visione più profonda della nostra» ipotizzò Lytton. «Le maschere sono lì, tutte quante. Alex è ancorato nel cuore dell'albero e sta salendo lentamente in superficie. Al momento giusto, tutte le maschere emergeranno. Che cosa accadrà allora, mi chiedo?» Si piegò in due preso da un attacco di tosse, Helen cercò di portarlo più lontano ma egli la respinse quasi con rabbia. «Non dobbiamo andare via da qui» protestò con forza. Per un momento rimase ai piedi del tronco incredibilmente alto, con le mani appoggiate contro i colori sbiaditi che davano corpo alle incisioni e alle scanalature nella corteccia. «È qui che tutto ha avuto inizio» disse sottovoce, dando dei colpi ai volti come se, per il semplice effetto della sua forza brutale, potesse togliere via i colori più accesi e svelare gli ocra primari, e con questi le più antiche di tutte le maschere, i percorsi più profondi dello spirito di cui le maschere dell'albero erano il riflesso e la memoria. «Questo è suo figlio» disse dolcemente a Richard. «Lo guardi! Rappresentazioni della mente superiore. Questo è il passato di cui siamo fatti noi tutti. Alex è questo. Senza di esso, egli non è che l'involucro di un essere umano. Non possiamo allontanarci dall'albero. Rischieremmo di non trovarlo mai più.» Helen con uno strattone allontanò Lytton dall'albero e lo accompagnò sul sentiero. «Ha un vero talento per il melodramma, Alexander. Bisogna rientrare; dobbiamo trovarci nuovi abiti, e io devo trovare il vecchio coyote. L'albero non se ne andrà. Torneremo tra pochi giorni.» «L' albero non se ne andrà» ripeté Lytton mormorando, sconfitto. «Ma potremmo mancare l'istante...» Per raggiungere l'Albero delle Maschere Lytton non aveva preso il Varco di Old Stone. Aveva scoperto il posto poco più di un anno prima, dopo aver cercato in lungo e in largo, meticolosamente, affidandosi ai suoi istinti e alla mappa dei diversi livelli della foresta che aveva trascritto alla Stazione. Aveva trovato la cattedrale, ma non Alex, e per un anno aveva ossessivamente scandagliato la zona nei dintorni dell'Albero, ammalandosi,
procurandosi un indebolimento generale della salute, attaccato dalle bestie selvatiche, congelato dall'inverno. Solo una volta era tornato alla Stazione, tracciando un percorso di quattro estenuanti giorni attraverso gelide foreste di betulle, tagliando per torrenti e profonde vallate inseguito dalle ombre, tra querce e olmi i cui rami si chiudevano sopra di lui al punto da farlo soffocare dal calore, quasi troppo terrorizzato per proseguire. Quando finalmente aveva raggiunto l'accampamento, lo aveva trovato deserto, preda delle bestie che si cibano di carogne, ed era tornato sui suoi passi. Era su quello stesso sentiero che adesso conduceva Richard e Helen; durante il tragitto, da un ossario saccheggiarono degli abiti, dei cappelli, e dei coltelli di bronzo anneriti. E fu in quegli abiti e con quegli ornamenti dei morti, con il tessuto ruvido che gli scavava la carne, che Richard arrivò sulla sponda del lago, la mattina del quinto giorno. Riconobbe il Varco delle Grandi Acque e il vascello vichingo che aveva usato per affrontare il serpente. A qualche centinaio di metri, lungo la riva, si apriva la faglia rocciosa con la gola che conduceva al Varco di Old Stone. Ripensò a Sarin, che aveva abbandonato così bruscamente, subito dopo l'inganno teso a Giasone. L'avrebbe trovata ancora alla Stazione, ad aspettarlo, sana e salva? Fu colto dall'apprensione. Nel corso degli ultimi giorni era stato continuamente assalito dal pensiero degli argonauti annegati e da una strana ansia che gli suggeriva che alcuni di loro potevano essere sopravvissuti. E infatti, forse si trattava effettivamente di premonizione, poiché quando s'inoltrò nella gola, si rese conto che c'era davvero qualcuno nell'accampamento. Sentì la paura stringergli il cuore nell'udire i lamenti scordati della cornamusa risuonare da qualche parte all'interno della Stazione. L'immagine di un uomo con un sorriso di scherno, avvolto in pellicce nere, che spreme la sacca di pelle perché il pianto dei moribondi arrivi alle sue orecchie... «Giasone» mormorò. «Oh mio Dio, no...» La cornamusa gemette di nuovo, un lungo ululato di dolore, un richiamo beffardo indirizzato a Richard prima di abbandonare lo strumento: la sfida era lanciata. Notando l'improvvisa agitazione di Richard, Helen condusse Lytton sull'argine, per metterlo al riparo tra le rocce, per poi ritornare verso la palizzata di legno. «Problemi?» «Un vecchio con un grosso conto da regolare. Deve aver trovato il modo per tornare indietro.»
«Parli di Giasone...» Richard pensò a Sarin, alla brutalità dell'eroe e chiuse gli occhi. Ma forse era proprio Sarin, che cercava di tirar fuori della musica dall'antico strumento. Richard scartò l'idea: era stata troppo impaurita dalla cornamusa, convinta com'era che fosse un richiamo per il mondo delle ombre. E per confermare la sua ansia vide, mentre camminava nell'erba alta, un mantello nero, lavato, ancora umido, appeso ad asciugare al ramo di un albero. Sulla porta dell'edificio comune era agganciata una maschera mortuaria. Su un lato erano deposte due lance e uno scudo circolare di pelle. Un colpo di vento agitò con un fruscio l'erba, i rami e il mantello bagnato. Nessun altro suono nella Stazione. Dall'edificio comune salivano sottili volute di fumo, fievoli, senza vita. Richard fece segno a Helen di abbassarsi e, curvo, raggiunse velocemente l'entrata della casa. Raccolse la lancia più corta e lo scudo, che aveva il dorso spaccato, di legno pesante, ed entrò. Avanzò con cautela nella prima sala. Era stato recentemente acceso un fuoco. Nella luce della piccola finestra si vedevano ancora turbinare la cenere e un filo di fumo. La cornamusa giaceva abbandonata lì vicino, insieme a due rotoli di pelliccia di pecora e a una tunica di pelle decorata con motivi regolari. Certo che il battito accelerato del suo cuore non potesse essere sentito, Richard puntò con la lancia la tenda grossolana che divideva l'entrata della seconda stanza. Quando la scostò con la punta dell'arma, vide che il posto era deserto, in penombra, appena rischiarato dai raggi di luce che filtravano dalle fessure sul tetto. Fece un passo in avanti e una mano si abbatté sulla sua spalla facendolo girare su se stesso. «Abbia pietà! Pietà!» ruggì Lacan, in mezzo a grasse risate, bloccando Richard che stava per colpirlo. «Sono solo io! Mi risparmi la vita!» «Arnauld!» Richard lanciò le braccia attorno al collo del francese. «Il mio inglese preferito! Lei puzza, amico mio!» «Ho pensato che fosse morto. Oh Dio, credevo fosse morto.» «Dovrei esserlo. Ho dovuto accettare una difficile transazione! Santa Vergine, che cos'è questo odore?» «Mi avevano detto che era stato ucciso sulla Argo!» «Sarebbe stato meglio. L'abbraccio con piacere, più che con gioia, ma la nausea mi soffoca! Che cosa ha mangiato?» «Rifiuti e foglie morte, essenzialmente.» Lacan non ne poteva più dal ridere, e dava vigorose pacche sulle spalle di Richard. «Da un inglese non avrei potuto aspettarmi nient'altro! Dei
pessimi cuochi, pessime tradizioni culinarie. Ma', ognuno ha i suoi gusti!» «Potrei divorare un intero stufato di lepre, qui sul momento. Mio Dio è così incredibile... così meraviglioso... vederla intendo... credevo fosse morto!» Lacan si distaccò dalla seconda stretta di Richard. «Queste eccessive dimostrazioni di amicizia maschile sono sufficienti. Ci sono dei limiti, persino per un francese. È qui da solo?» Alle sue spalle, Helen mormorò: «Non è avanzato un po' di sangue di lepre?» e dicendo questo spinse leggermente la punta dell'altra lancia contro il posteriore del gigante. «Helen!» ruggì Lacan partendo con il suo secondo slancio di pura gioia, e da capo cominciò il rituale di abbracci e asfissia. Dopo aver servito a Lytton del cibo, dopo averlo lavato e messo a dormire al caldo, si sistemarono a sedere attorno al fuoco dell'edificio comune, godendo del conforto del calore, dello stomaco saziato da uno stufato di piccione e da un tè alle ortiche. Agli occhi di Richard, le cose sembravano tornate di nuovo alla normalità, e dovette fare uno spiacevole sforzo di volontà per farsi un'idea del mondo al di fuori della foresta, dove il tempo scorre un'ora dopo l'altra, e le stagioni obbediscono alla rotazione della terra su se stessa. «Ha fatto allusione a una difficile transazione... che cosa intendeva?» Lacan si stava pulendo i denti ingialliti. Delle conchiglie, legate di recente tra le ciocche nere dei suoi capelli sbatterono tra loro producendo un rumore sordo. «Uno degli operai di Giasone, un certo Tisamenus, mi dava la caccia per avere la mia cornamusa. Si era proposto di tagliarmi la testa. E io gli ho tagliato un braccio, poi gli ho spaccato il cranio, non senza difficoltà, in due metà disuguali. Una transazione molto dura.» Guardò Helen che aveva un'espressione molto solenne, e lo osservava accigliata. Lacan annuì. «Mai, prima di questa spedizione. Non avevo mai ucciso nessuno. Quest'uomo, questo Tisamenus, è stato il terzo durante gli anni in cui sono stato disperso. Raramente ho conosciuto la paura, ma nelle ore che seguono un omicidio, la paura diventa una sorta di malattia. Paura di cosa, esattamente, non saprei. Ho paura, paura, solo questo, e mi sento molto malato. E molto solo...» Helen allungò una mano e strinse un piede di Lacan attraverso i suoi pesanti scarponi. Tra loro scorreva una sorta di conversazione silenziosa, un'allusione a un periodo in cui Richard non li conosceva ancora, forse, ed
egli osservò un silenzio rispettoso. «Come è arrivato qui?» domandò Helen. «A bordo della Argo» rispose Lacan. «Sotto le spoglie di Tisamenus. Il vascello è passato attraverso il Varco delle Grandi Acque, ma mi ci è voluto un certo tempo per rendermene conto.» Lacan si era ritrovato sulle spiagge di un mare caldo, dopo aver deviato per un altro varco, due anni dopo aver lasciato la Stazione. Aveva vissuto delle avventure simili a quelle di Ercole, aveva amato, vissuto, peccato, si era crogiolato al sole e divorato la fauna selvatica locale con un gusto che persino lui, adesso, stentava a credere possibile. Quando la Argo era andata ad arenarsi su quella spiaggia, e una spedizione di argonauti aveva cominciato a esplorarla, l'avventuriero chiamato Tisamenus era diventato invidioso della cornamusa, che aveva sentito suonare dalle grotte che sovrastavano la riva. La Argo era inseguita da due galee da guerra dalle intenzioni minacciose. Alla loro apparizione all'orizzonte, Tisamenus era risalito a bordo, aveva indossato una maschera e aveva attaccato l'uomo dalla barba nera per impadronirsi del suo misterioso bottino. Fu lì che Lacan concluse lo scambio mortale. Mascherato da Tisamenus, era salito sulla Argo. «Ero perduto. Non avevo niente di meglio da fare...» e durante il combattimento che era seguito, aveva conservato la sua falsa identità sotto la maschera. «Mi ero accorto che c'erano degli esseri viventi sotto il ponte. Questo Giasone, Richard, è il peggiore degli uomini. Un vero mostro. Se non ci fosse stata la battaglia, mi avrebbe smascherato, massacrato... eppure avrei venduto la mia vita a caro prezzo! Sono certo che entrambi comprendiate.» «Un prezzo terribile» convenne Richard. «Paurosamente terribile» concordò Helen. «Eccome! Ma la Argo finì dentro una grotta marina che era in realtà un varco. Dall'altra parte faceva freddo. Sono saltato per raggiungere la riva. È stato solo dopo qualche giorno che mi sono reso conto che si trattava del nostro lago, di questo posto, della mia vecchia casa. Qualcuno vi era passato di recente, ma non c'era più. Capisco adesso che eravate voi due! Ero assolutamente certo che ci fosse stata una donna qui...» aggiunse con un sorriso per Helen. «No, non ero io» disse. «Io ho mangiato lombrichi, per una stagione e passa.» Lacan aggrottò le sopracciglia. «E chi allora?» le sue parole ricordarono a Richard che Sarin poteva essere da quelle parti.
«Una donna minuta, molto magra, molto vivace» disse. «Si chiama Sarinpushtam. Era con lei sulla Argo, ma sotto coperta, e troppo spesso ha dovuto subire le violenze di Giasone.» Lacan scosse la testa. «Non ho visto nessuno dei prigionieri, soltanto i cuochi. Ma qualche volta ho sentito gemere una giovane donna, e non di piacere. Sono lieto di essere rimasto a bordo soltanto per poche ore. Mi sarei trovato costretto a uccidere quell'uomo.» Richard rifiutò l'offerta di Lacan di aiutarlo a ritrovare Sarin, supponendo che si nascondesse ancora nelle vicinanze, e partì dall'edificio comune per cercarla. Era nascosta al di là del Santuario, riparata sotto un arco formato da due colonne poggiate l'una contro l'altra. Terrorizzata, congelata, era sul punto di andare a gettarsi nel lago, ma era stata raggiunta dal richiamo di Richard e la sua determinazione aveva vacillato. Quando qualche ora prima Lacan, camuffato da Tisamenus, era arrivato al Varco di Old Stone, era scappata ricordandosi della crudeltà di quel particolare argonauta, decisa a non ripetere l'esperienza. Quando Richard le spiegò che Lacan era un eccellente amico di cui si poteva fidare, Sarin pianse, ma smise immediatamente quando Richard aggiunse che era anche un cuoco senza pari. «Da quando sei partito non ho mangiato altro che funghi, pesce essiccato, e qualcosa che ho preso dalla tua casa. Era in un vasetto di cristallo, ho dovuto romperlo.» Al ricordo chiuse gli occhi e accennò un sorriso. «Sembrava cibo degli dei. Mi ha fatto impazzire di piacere. Ma ce n'era troppo poco.» La carne in scatola Meacham's! Buon Dio. Quell'orrore tipicamente inglese aveva entusiasmato un appetito dell'Età del Bronzo. «Se ne trova in gran quantità in certi posti» disse Richard. «Interi negozi. Merce invenduta, che non vuole nessuno.» Sarin sembrava deliziata al solo pensiero, e seguì Richard indietro fino al fiume. Stava per calare il crepuscolo. Helen aveva rimediato degli abiti servendosi dei mantelli degli argonauti naufragati, e Lacan era andato al lago per scrutare nelle sue profondità. Ora era ossessionato dall'idea di dragare il vascello dalle rovine del castello e di rimetterlo in acqua. Essendo un uomo ragionevole, teneva conto del serpente del lago, ma per la maggior parte del pomeriggio, gli riferì Helen, era rimasto seduto nella crescente oscurità a meditare sulle possibilità di viaggiare su un'imbarcazione così celebre.
Sarin si lavò, mangiò di buon cuore e diede un calcio alla cornamusa come per rassicurarsi che non fosse, come temeva, la causa di una chiamata a raccolta di ombre malvagie (che lei chiamava «servi della notte»). Ma c'era un'altra ombra da dissipare, e Helen rievocò insieme a Richard e ad Alexander Lytton il giorno in cui aveva intrapreso il viaggio fino ai limiti della foresta e lasciato il messaggio in casa di Richard. «Sono uscita passando per la vecchia Oak Lodge. Mi ha fatto una strana impressione quel posto, sentivo dei movimenti, come di fantasmi. Ho supposto che si trattasse solamente di mitago. Ma non ne ero del tutto convinta. Le trappole e le sonde di Lacan erano dappertutto, poteva darsi che funzionassero effettivamente. Diceva sempre che Oak Lodge aveva la sua buona parte di fantasmi. «Sono rimasta nello spiazzo a riposare per un po', ed è apparsa una ragazzina. Ho pensato che si trattasse di un mitago, anche se il mio primo pensiero fu che si trattasse di un abitante del posto. Non ha detto nulla. Era molto alta e sottile, con un viso lunare, argentato, e ha fatto un cenno verso di me. L'ho seguita nel bosco, e sono arrivata in un campo sopra Shadoxhurst. La ragazzina era sparita, ma mentre stavo per tornare indietro l'ho vista tra gli alberi al limitare della foresta, e quando ho cercato di seguirla è svanita di nuovo. Come dicevo, un qualche tipo di mitago. «La casa di Richard? Ho notato che vi viveva una donna, e la cosa mi ha dato fastidio.» Lanciò un'occhiata verso Richard, «Sono stata tentata di lasciare un biglietto più tenero, ma ho desistito» si inclinò verso di lui. «Ma è vero che mi mancavi...» e dopo una pausa aggiunse «e questo è più o meno tutto. È stata una visita lampo attraverso la zona fantasma.» Lytton, che nel frattempo aveva preso appunti come un pazzo, era concentrato a riflettere. «La ragazza dal volto di luna stava in silenzio. Intende dire che non parlò?» domandò senza sollevare lo sguardo. «Non una parola.» «E quando si muoveva? Sentiva qualche cosa?» Con un brivido Helen scosse la testa. «No. No, ora che ci penso non la sentivo. Era piuttosto inquietante. Seguivo la sua luce. Non che fosse propriamente luminosa, questo no, ma irradiava qualcosa. Qualcosa di etereo. Secondo lei, che cos'era?» «Uno spirito primitivo» rispose Lytton pacifico. «Lei e i suoi spiriti primitivi!» replicò Helen divertita, rivolgendosi a Richard con lo sguardo. Lytton ignorò la battuta e proseguì: «Quello che non capisco è come ha
fatto ad arrivare lì. Oltre a James Keeton, che è risorto dalla foresta passando per Oak Lodge, più vecchio di qualche ora, ma dopo un'assenza di parecchi mesi. Lei è proprio sicuro che abbia detto di essere uscito da Oak Lodge, Richard?». «Certamente. Come Helen, dichiarò di aver sentito la presenza di fantasmi, di numerose persone. Di cose soprannaturali.» All'esterno, un rumore proveniente dalla recinzione interruppe di netto la conversazione. Richard si alzò e uscì per scrutare nel buio della sera. «È Arnauld. Finalmente.» Lacan era tornato e stava ufficialmente chiudendo i cancelli, osservando con occhio critico le rozze cerniere che Richard aveva ideato durante la sua ristrutturazione. Il francese entrò nell'edificio principale e gettò il mantello in un angolo. «Dobbiamo dragare la Argo» disse. «È un'occasione che non possiamo permetterci di perdere. Che cosa si sta cucinando? E chi sta cucinando?» aggiunse, lanciando un'occhiata nervosa verso Richard. Fu allora che vide Sarin. Per un secondo rimase completamente pietrificato. Richard cominciò a fare le presentazioni in piena regola, non senza aver notato l'espressione di stupore sul viso di Sarin. Rimase sorpreso anche lui quando Lacan masticando le parole disse: «Scusatemi. La natura chiama». Quasi con rabbia, il francese raccolse da terra il suo mantello e uscì bruscamente dalla casa, lasciando Richard perplesso e Sarin turbata. Rimase a lungo a fissare in vuoto che aveva lasciato il gigante, senza rispondere alle parole che Richard le rivolgeva. Era in uno stato sognante, stordita, preoccupata e inquieta, e il suo viso solitamente così sottile e grazioso ora era tutto corrucciato. Richard le sfiorò una spalla e lei sussultò, poi scosse la testa e andò a raggomitolarsi sulle sue pellicce sul pavimento, per riflettere. Quando, dopo più di un'ora, Lacan non era ancora tornato, Richard uscì a cercarlo, ma senza successo. A notte fonda, con il fuoco spento, Helen si avvinghiò a lui, sotto le pellicce prese nella Argo, e con Lytton che gemeva nel sonno pieno di incubi e Sarin che, agitandosi sotto le coperte pigolava come un uccellino, fecero l'amore stretti l'uno all'altra, molto dolcemente, praticamente senza emettere un suono. «Lei comincia seriamente a piacermi, Mr Bradley.» «Allora perché continuare a chiamarmi "appetibile quarto di bufalo"?» A un certo punto, nel corso della lunga notte, Richard fu disturbato da
un sospiro della cornamusa. Helen dormiva sul suo petto, le sue mani lo stringevano intimamente. Si staccò da lei senza svegliarla e seguì la pista che Lacan aveva lasciato passando tra l'erba alta. L'ombra notturna del gigante era una scia veloce che si dirigeva sotto il chiaro di luna verso i cancelli aperti della Stazione. «Arnauld!» chiamò Richard sottovoce. «Arnauld! Dove va? Che cosa le è preso?» «Mi lasci solo!» sussurrò con foga il francese, gli occhi fiammeggianti alla luce della luna. E con quella risposta brutale era sparito di nuovo. Richard non riuscì a dormire, e gli parve di aver passato sveglio tutta la notte a fissare il buio della stanza, a inalare gli ultimi aromi del fumo del fuoco spento. Eppure alle prime luci, quando cominciò a destarsi sotto le pelli, si accorse che Sarin non era più nel suo angolo. Uscì nella rugiada del mattino. Soffiava una brezza leggera e l'aria era fresca sulla sua pelle. Il cielo senza nuvole stava schiarendo, ancora tinto di viola sopra la foresta a est. Il portale del campo era rimasto aperto, ma fu verso la parete sopra la gola che si diresse Richard, poiché aveva creduto di distinguere un movimento furtivo provenire dall'alto sopra di lui, nel punto in cui la roccia, formando una duna, usciva dalla visuale. Si arrampicò sul ripido sentiero e arrivò sulla cima della parete rocciosa, per un attimo rapito dalla ricchezza dei colori fiammeggianti del sole che albeggiava sopra Ryhope. Poi, vide la sagoma rannicchiata della ragazza a qualche metro di distanza, talmente scura, contro un albero, che quasi non era riuscita a vederla. Osservava Lacan, che si teneva accovacciato più sotto, appoggiato a un grosso bastone, con i lunghi capelli ricciuti flosci sulla testa piegata in avanti. Appena le fu vicino, Richard vide che Sarin aveva le lacrime agli occhi e del sangue sul labbro inferiore. Le passò un braccio attorno alle spalle per confortarla e la sentì tremare sotto la stoffa leggera del suo abito. «Da quanto sei qui?» «Da quando mi ha chiamato. Da prima che sorgesse la luce.» «Lui ti ha chiamato?» Richard si voltò verso la sagoma immobile sulla cima della roccia. Non fosse stato per il rumore che facevano le conchiglie all'estremità delle sue ciocche battendo una contro l'altra, Lacan avrebbe potuto sembrare una statua. «Ho sentito la sua voce in sogno. Avevo talmente paura di lui, quando è arrivato all'accampamento. Portava ancora quella maschera. Ma appena ho visto il suo viso, ho saputo di averlo conosciuto. Non so dove. Solo che mi
fa sentire ferita...» Ferita? Richard osservò l'angoscia sul volto magro di Sarinpushtam, sulle pieghe della sua fronte spaziosa, nelle lacrime che sgorgavano nei suoi intensi occhi scuri. Era un mitago di Lacan. La risposta doveva essere quella. Ma c'era qualcosa di più, e Richard ne era profondamente turbato. «Hai cercato di avvicinarlo?» «L'ho chiamato. Ma continua a borbottare e a chiudersi in se stesso.» «Perché non torni alla casa? Cercherò di parlare io al nostro amico orso. Di qualsiasi cosa si tratti, non può durare per sempre.» Sarin esitò, dopodiché si alzò e tornò di corsa, quasi con rabbia, sul sentiero scosceso, aggirando i tronchi, sbandando, scivolando dietro gli alberi, colpendoli di tanto in tanto con il palmo delle mani rimpiangendo, con un grido, i suoi accessi di cattivo umore. Il chiasso che fece nell'allontanarsi disturbò Lacan, il quale voltò appena la testa, e nel vedere che Richard si stava avvicinando, girò lo sguardo dall'altra parte. «Arnauld? Mi chiami pure un rompiscatole, mi butti giù dallo strapiombo, mi dica di occuparmi degli affari miei. Ma mi dica cosa c'è che non va, se può. Fa male a tutti noi vederla soffrire così.» «Ancora due ore» grugnì Lacan scuotendo la testa. Dietro di lui il cielo era abbagliante. Si appoggiò al suo bastone e un colpo di vento fece ondeggiare i suoi capelli. Il sole rese i suoi occhi fiammeggianti. «Due ore?» «Per pensare. Per stare solo. Non preoccupatevi per me. Vi prego, non statemi intorno, solo questo. Tra due ore scenderò. Fate in modo che non si affligga.» «Sarin?» «La prego. La sorvegli. Ha addosso l'odore del sangue, Richard. Si assicuri che non faccia pazzie.» «Stava solo mordendosi il labbro. È disorientata. Ovviamente, le appartiene. È un suo mitago...» «Ovviamente. Se ne vada, Richard. Ho bisogno di rimanere solo ancora un po'.» Una cerva si era avventurata sul bordo del lago, ma era scappata non appena Richard aveva reagito con un urlo alla sua presenza. La caccia insieme a Helen era durata molte ore e fu grazie alla sua precisione nel tiro con l'arco che si concluse con un successo. Aveva sventrato la bestia fumante
con una sicurezza che aveva lasciato Richard stupefatto, e lei lo aveva rimproverato, credendo la stesse prendendo in giro. «Carne fresca, Richard!» «Bisognerà lasciarla appesa per un po'.» «Non il fegato, uomo della mia vita. Quello lo mangeremo stasera.» «Stai cominciando a parlare come Lacan...» Mentre facevano il giro del lago per riportare la carcassa al Varco di Old Stone, videro più lontano Lacan camminare tra le rocce, con il cappuccio calato in testa per ripararsi dalla pioviggine. Richard lo chiamò, ma lui continuò a camminare, gettando di tanto in tanto uno sguardo sul vasto specchio d'acqua, con espressione cupa. Appesero la bestia e prepararono una pentola di stufato con il fegato e delle verdure selvatiche. Lytton stava scrivendo con foga sul suo taccuino. «È di estrema importanza prendere nota di tutto. Tutto. Quando scrivo, le idee arrivano. È così che ho scoperto la funzione del protogenomorfema, dopo che McCarthy aveva riscontrato il fenomeno. Le spiegazioni più tardi, Richard. E vorrei anche ascoltare la descrizione di quello che è accaduto a lei. Alex è dappertutto. Lo sente? Continua a osservarci. Sceglierà il momento, verrà da noi, e dobbiamo essere pronti, non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Dov'è Lacan?» «Sta ancora meditando. È ancora sconvolto.» «Sconvolto? Per che cosa?» «Non lo so con certezza.» Dall'altra stanza, dove Helen era occupata a cucire delle pelli, arrivò la sua voce: «Matilde!». Lytton annuì. «Capisco. Dov'è?» «Da qualche parte, nei paraggi, che lo aspetta.» Senza ulteriori spiegazioni, lasciando Richard confuso ed esasperato, Lytton ritornò al suo taccuino. Richard passò oltre la tenda e guardò Helen al lavoro. «Matilde? È un altro nome per Sarin?» Helen alzò la testa. Teneva un lungo filo grezzo tra i denti e adoperava con abilità un ago d'osso. Con i suoi occhi scuri sostenne per un attimo lo sguardo di Richard, pensierosa, forse prendendo una decisione. Poi annuì. «Credo di sì.» «Sua figlia?» «Sua moglie. Quando sarà pronto, ne parlerà.» Lytton li raggiunse, tenendo in mano il taccuino chiuso. Si grattò una
guancia osservando Helen lavorare, poi si sedette a gambe incrociate sul pavimento indicando a Richard di fare lo stesso. «Comincia a profilarsi un senso, per quanto possa mai avere senso quello che succede nella foresta primordiale di Huxley...» «Il modo in cui Keeton descrive il suo soggiorno nella foresta di Ryhope mi ricorda il paese delle fate. Contrariamente a Ryhope, nel mondo delle fate si invecchia meno rispetto al mondo esterno, ed è questo che è successo a Keeton, e anche quello che è successo ad Alex. Alex ha creato un suo personale scorrere del tempo, e per farlo utilizza l'elementale che è in lui, il più antico di tutti i miti, la parte più antica della coscienza, nella quale viene definita la nozione stessa di tempo, sia in termini per noi comprensibili, sia in termini mistici, con il tempo degli dei e delle fate che noi oggi chiameremmo irreale. «Quando nel 1957 Keeton perse sua figlia, la sua angoscia, la sua disperazione entrarono nella foresta come entità separate da lui, cristallizzandosi, o condensandosi, come avrebbe detto Elizabeth Haylock, nella complessa matrice di energia e tempo che costituisce il fondamento di questo luogo. «È possibile che Keeton fosse protetto da una forma di incantesimo? Trattenuto fuori dal tempo da un involucro protettivo di magia sovrannaturale? Quando lasciò la foresta, l'incantesimo rimase, come un'eco. Ha preso la forma di sua figlia, e ha continuato a esistere per anni... è ancora qui! Quando lei l'ha incontrata, Helen, l'ha seguita fino al limite del bosco, ci è passata attraverso, poiché quello era un'altra specie di varco, l'unico passaggio collegato con un'epoca di otto anni precedente. La ragazza dal volto di luna ha aspettato il suo ritorno e una volta lasciato il messaggio, lei ha cercato di ritrovarla, ed è così che è ritornata nel presente.» Helen era china sul suo lavoro, la testa fu scossa da un tremito impercettibile, e le ciocche argentate delle sue tempie brillarono alla luce della candela. Con molta semplicità disse: «Se questo è vero, c'è di che aver paura. Troppe cose nella mia vita hanno subito l'interferenza del tempo. Ho sciupato troppo tempo. Il tempo ha sciupato me. La mia famiglia. Con la paura, ci ha estromesso dalle nostre vite. Se il Coyote è il tempo, allora devo farla finita subito». Sollevò lo sguardo verso Richard. Le lacrime nei suoi occhi non erano di tristezza, ma di rabbia. Allungò una mano per toccare la sua, e senza neanche sapere perché, Richard la strinse fra le braccia e baciò la riga umida che le separava i capelli. «Non lasciarmi andare» disse Helen. «Ogni ora,
ogni giorno, è nostro, non del Briccone. Non perdermi. Non permetterglielo.» Mentre Lytton osservava il loro bacio mantenendo un'espressione accigliata, impossibilitato a continuare a causa di quell'improvvisa passione e urgenza, Richard abbracciava Helen con tutto il suo cuore. Quando le loro labbra si separarono, e si sorrisero continuando a guardarsi, gli occhi negli occhi, Richard ebbe un'immagine di Alex che sorrideva e batteva le mani per la gioia. «Mio figlio ti adorerà» disse. Alex non sa di Alice. Non sa che sua madre se n'è andata... «Sono contenta che tu finalmente creda in lui.» Si voltò verso Alexander Lytton. «Così questa "eco" creata da Keeton era come quel "tempo fuori del tempo" di cui ci ha parlato, come il dipinto di Manet. Talmente tanto dolore da creare un centro...» «... che chiama a sé tutto ciò che si trova in relazione con quel dolore prendendo le sembianze della figlia, ma attirando chiunque e qualsiasi cosa collegata a Tallis.» Richard cercò di assorbire le immagini e le idee che l'analisi quasi distratta di Lytton evocavano. Quest'ultimo stava in realtà pensando ad alta voce: aveva lo sguardo perso nel vuoto, ma si concentrò non appena Richard gli chiese: «E Alex, in tutto questo?». «Era il sostituto di Tallis. Quando ha guardato attraverso la maschera Sogno di Luna - non dimentichiamo che quella maschera è un varco - ne è stato risucchiato, spogliato di tutto tranne che della carne e delle ossa, e trascinato dentro la maschera. «La sofferenza di Keeton, la sua necessità di ritrovare un figlio - da lui raggiunto nel fondo del bosco attraverso la maschera nel momento della sua morte in tempo reale, e aggrappato ai ricordi di Tallis - tutto questo è presente dentro suo figlio. «Un riflesso della mente di Alex, nella foresta, si trova tra i volti dell'Albero delle Maschere. È là che verrà il ragazzo. E là avverrà il momento del passaggio, momento che ci condurrà alla cattedrale, dove il vero Alex si nasconde.» Al crepuscolo, dal fiume Lacan chiamò Richard e questi si incamminò tra l'erba alta per raggiungerlo. Sapeva che Sarin li osservava di nascosto, tra i cespugli di sambuco che mascheravano l'entrata della caverna. Avvolto in un mantello scuro, gli occhi che luccicavano per il freddo, Lacan
guardava lontano, verso la gola, appoggiato a un grosso albero. Salutò Richard, poi si allontanò per il ripido pendio in direzione del Santuario, attraversando la zona in cui tempo prima si vedevano i cadaveri in decomposizione dei mitago fondersi con il terreno. Arrivato al varco, alle colonne di marmo dove Richard aveva ingannato Giasone, si voltò e piantò il suo bastone in terra. «Sono ormai perduto» disse quietamente. «Deve aiutarmi.» Richard fece per tendere la mano per confortarlo, ma la ritirò non appena vide lo sguardo adirato di Lacan. Allora disse semplicemente: «Le offro la mia amicizia. Helen e Lytton sono molto discreti. So che Sarin le ricorda sua moglie. Ho una vaga idea che lei sia andato a cercarla... che sia morta, e che lei sia andato a cercarla...». Lacan parve affondare leggermente, annuì, come sollevato e confortato dalla semplice intuizione di Richard. «Ricordo di averle detto, Richard, molti anni fa, ormai, ma ricordo di averle detto, in risposta a una sua domanda, che cercavo il momento della mia morte. Richard... se lei avesse conosciuto Matilde... se avesse potuto vederla, sentirla parlare, essere sfiorato dal suo incanto... era eterea. Ora lo so. L'ho sempre saputo. L'amavo così tanto. Quando la foresta la uccise, avrebbe dovuto strangolare anche me, con i suoi rampicanti. Invece mi risparmiò, perché restassi a piangerla; mi lasciò a morire e rinascere, come è stato, e poi a inseguirla con una forza vitale che è tutto ciò che mi protegge dal paese delle ombre.» Richard era sul punto di fare un commento, di interrompere ingenuamente, per chiedere come mai, se Lacan ora aveva trovato la sua adorata Matilde, trovasse così difficile parlarle. Il francese lo zittì rabbiosamente, poi si scusò e si incamminò a passo veloce al di là del boschetto, da dove era visibile la cresta dell'alta parete rocciosa. Riprese con voce più dolce: «Non mi aspettavo di trovarla in queste condizioni. Ho impiegato così tanto tempo a cercarla, ho così tanto bisogno di lei... e improvvisamente mi rendo conto che sta morendo. È priva di vita, ha soltanto l'illusione di un'esistenza nel nostro mondo, per qualche giorno, poche settimane. Come tutte le altre cose che attiriamo, non è niente di più di un'ombra, forte sotto il sole, condannata a una bellezza crepuscolare e poi all'annientamento. L'ho sempre saputo. Certo, lo so da sempre. Ma non ho mai accettato la verità, il fatto che quando l'avessi trovata non sarebbe stata altro che bosco e terra, un essere transitorio. Oh Dio del cielo, non posso sopportare l'idea di perderla ancora una volta, non lo posso sopportare...». Cominciò a tremare e Richard gli strinse le spalle, impo-
tente e addolorato di fronte all'affiorante emozione dell'amico. «È forte» sussurrò. «Ho imparato a conoscerla. È forte.» «Non abbastanza. La guardi. È fatta di niente, non ha carne neanche per i corvi. Ma è lei. Dopo tanto tempo... è emersa dalla foresta. E sono certo, sono assolutamente certo che non succederà mai più...» «Allora vada e resti con lei quanto può. Che altro c'è da fare?» «Che altro? Salvarla dallo stesso destino di Matilde, ovviamente. Non sarei capace di sopportarlo. Mi sento perduto. Ho l'impressione che mi dovrei perdere ancora una volta.» Davanti ai due uomini qualcosa si spostò velocemente ed entrambi reagirono chinandosi leggermente per poi scrutare tra gli alberi e le rovine. Richard incoccò una freccia al suo arco. Lacan guardava le ombre con fare minaccioso, accarezzando il suo bastone di prugno selvatico. Si volse bruscamente verso Richard. La sua tristezza era immensa, ma ora nei suoi tratti era dipinta una specie di rabbia. «Lei è nato vicino a questa foresta?» «No, più lontano. Mi trasferii a Shadoxhurst dopo il matrimonio con Alice.» «Allora c'è una differenza tra noi, poiché io invece sono nato vicino a un bosco come questo. In Bretagna. Un'immensa foresta attraverso cui ci si poteva arrischiare solamente per certi sentieri, per certe piste, proprio come succede nella foresta di Ryhope. Era un luogo meraviglioso. Circondato da immensi massi, nascosti dal margine del bosco: era una foresta cresciuta all'interno di un cerchio di pietra e che, per occultarlo, aveva esteso i suoi limiti. Era un posto pieno di stagni e di laghi, di valloni profondi e umidi. Era un posto pieno di magia. «Vivevo in una piccola casa ai piedi di una collina. Certe notti, in particolare d'inverno, dal bosco veniva della gente e seguiva un sentiero dimenticato accanto al mio giardino. Si arrampicavano sulla collina e giunti dalla parte opposta, svanivano. Li ho seguiti qualche volta, senza mai riuscire a vedere dove andassero. Può darsi che non avessi fede, che non credessi in loro, o forse, semplicemente, non guardavo nel modo giusto. «Da bambino esploravo i laghi, mi nascondevo tra i cespugli e osservavo le sagome grigie, come delle creature di nebbia, che venivano sul bordo dell'acqua e restavano a scrutarne le profondità. Erano fantasmi. Molti di loro, prima di ritornare nella foresta, piangevano silenziosamente. Sembravano essere tutti alla ricerca di qualcosa. Di cosa, non avevo idea. «Quando scoppiò la guerra, mio padre andò al fronte, e tornò ferito. Io
ero troppo giovane, ma impaziente di combattere. Nel 1943 lasciai la Bretagna con un peschereccio diretto in Inghilterra, per unirmi a un comando franco-canadese. Avevo sedici anni. Prima di partire, ritornai al lago. Era il crepuscolo. Dalle ombre, uscì una donna, una donna grigia, che mi sfiorò gli occhi e le labbra. Era apparsa così velocemente e scomparsa altrettanto velocemente, che rimasi troppo scioccato per poter pensare. Ricordo solo di esser stato baciato su entrambi gli occhi, entrambe le guance, entrambe le labbra. «Comunque, dopo soltanto due settimane dal mio arrivo in Inghilterra, la guerra terminò. Tornai a casa, e rimasi completamente sconcertato quando mi accorsi che erano passati due anni. «La casa era chiusa, i miei genitori se n'erano andati. I vicini mi dissero che un inverno avevano seguito nel bosco una donna che rideva, e che quella era l'ultima volta che li avevano visti. Io ero stato tenuto al sicuro da una qualche specie di incantesimo. O no? Erano passati due anni e io avevo memoria solamente di due settimane. «Poi, sul limitare della foresta, incontrai Matilde. Pensai che venisse da un villaggio della regione. Era possibile. Assomigliava molto alla donna che mi aveva incantato con il suo sortilegio, ma Matilde aveva soltanto sedici anni. Era deliziosa sotto ogni aspetto, sensuale sotto ogni aspetto. Il suo sorriso una gioia. «Vivemmo insieme nella piccola casa. Smisi di soffrire per i miei genitori. Ero folle d'amore per lei, lei con il suo odore, la sua voce, i suoi scherzi. Poi nacque nostro figlio, ma il parto non andò bene. In pochi mesi ci rendemmo conto che era cieco. E nonostante strillasse come gli altri bambini, nell'età in cui gli altri cominciano a balbettare, lui non parlò. Non aveva linguaggio. Quando compì quattro anni... fu terribile. Non so dirle quanto fu terribile, Richard. Matilde era in uno stato... be', c'è soltanto una parola: era distrutta. Il bambino cominciò gradualmente a riguadagnare la vista, inizialmente cominciò a vedere i colori, poi le forme, poi tutto quello che lo circondava, tranne le ombre. Iniziò a parlare, parole semplici al principio, poi descrizioni deliranti, racconti ossessivi di quello che vedeva l'occhio della sua mente. Nello stesso tempo Matilde iniziò a deperire. «Nei sogni gridava, lottando con delle creature fantasma. Si barricava in casa in modo ossessivo. Gradualmente perse la vista, finché arrivò a vedere solo ombre. Perse l'uso della parola. Più il ragazzo imparava parole, più queste abbandonavano lei. Presto il suo vocabolario si ridusse a due parole distinte, una delle quali era il mio nome, e un'altra, che non ho mai capito.
Era una cosa devastante. Del mondo non vedeva che ombre, e queste ombre erano vive, in modo strano. Cercò di farmelo comprendere. Era perseguitata dagli spiriti degli alberi. Gli spiriti delle volpi, nelle notti senza luna, la circondavano. Fu come se fosse stata punita per avere un figlio nato male. Di lui dicevo che era un fantasma nato, ma mentre Matilde deperiva, lui diventava più forte. «Quando lui dormiva, la mia passione per Matilde si risvegliava, e lei rispondeva con una tale urgenza, con un tale desiderio, con un coinvolgimento fisico così disperato, aggrappandosi a me senza tregua, che cominciai a rendermi conto che questi momenti di intimità erano per lei l'unico modo di esprimere l'amore che provava per me quando si sentiva al sicuro. E nonostante questo non apriva mai gli occhi, non emetteva suono, tranne quello del mio nome. «Avevo il cuore spezzato. Morivo. Era una continua battaglia con lei per impedirle di chiudere completamente la casa, con assi di legno, con lamiere, pelli d'animale, fogli di plastica, con tutto quello che riusciva a trovare. «Poi, un giorno sparì, e sparì anche mio figlio. Li cercai disperatamente. Li trovai nel lago. Quando li riportai sulla riva, quando scoprii i loro volti sotto i capelli bagnati, quando baciai la loro pelle bianca, i loro occhi, le guance, le labbra, non riuscii a distinguere l'uno dall'altra. Cancellai dalla memoria il nome di mio figlio, poiché in quel momento credetti che non fosse mai esistito. Fu il momento della mia stessa morte, entrai nel lago, e caddi in un sonno senza dolore. «Mi risvegliai in casa, sul divano, coperto da un lenzuolo. Uno degli abitanti del villaggio mi aveva trovato mentre vagavo senza meta; non ero annegato. L'uomo non sapeva nulla di Matilde. E neanche di mio figlio. Sapeva che ero un eremita, che sprangava continuamente porte e finestre della casa, e mi disse che di me aveva una paura folle. Effettivamente, avevo un aspetto spaventoso. «Il resto lo conosce. Entrava continuamente nei miei sogni, e io cominciai a prendere in trappola i fantasmi della mia foresta, nella speranza di trovarla. Diventai famoso per questo e la notizia si diffuse. Un giorno, Alexander Lytton mi trovò. Appresi dell'esistenza dei mitago. Mi aggrappai alla sua proposta di venire nella foresta di Ryhope perché era l'ultima possibilità di far rinascere Matilde. Forse Lytton esagerava. Sapeva quello che voleva per rinforzare la sua squadra, e in me vide certe possibilità. Fui grato di venire, Richard. A quel tempo la vita era, ed è ancora, priva di senso senza quella donna adorabile.»
«Allora vada da lei.» Lacan si infuriò. «Ma non capisce? Dopo tutto quello che ho detto? Non è mai esistita! Fui sfiorato da qualcosa, da una specie di incantesimo... la mia vita fu un incantesimo, e Matilde fu parte di questo. Era soltanto un mio sogno, reso reale. Ho provato a renderla di nuovo reale, ma è sempre e soltanto questo, un sogno, una chimera. Non c'è mai stata una Matilde. Non ho mai avuto un figlio. E ora c'è una donna che rappresenta tutto ciò che il mio cuore desidera, ma che esiste solamente per la mia necessità di soddisfare gli egoistici bisogni in una vita. È finita da tanto tempo! Ho creato l'illusione di un'illusione. Questa Sarin è anche meno di un mitago. Non è che l'impossibile oggetto del desiderio di un francese che si avvia alla senilità. Se la sfiorassi, morirebbe, lo so. Morirebbe.» Richard gridò la sua frustrazione di fronte all'atteggiamento del gigante: «Ma non deve essere per forza così! E anche se avesse pochi giorni da passare con lei, se li prenda, Arnauld. Sarin è profondamente attratta da lei. Prova dei sentimenti molto forti. Le ripeta ciò che ha detto a me. Forse tutti e due, insieme, troverete la forza di sopravvivere. Come fa a saperlo, finché non prova?». Lacan lo guardò, accigliato, gli occhi gonfi di tristezza. «C'è di più» riprese in un sussurro, distogliendo lo sguardo. «Cose che forse sarebbe meglio dimenticare. La foresta di Ryhope e quella in Francia sono la stessa foresta: hanno in comune lo stesso tempo, lo stesso spazio, una dimensione che non possiamo realmente vedere, le stesse ombre, gli stessi sogni. Non abbiamo alcun modo di definire che cosa sia questo tempo immaginario, questo tempo silvestre. È al di là delle possibilità del nostro linguaggio.» Fu di nuovo invaso dalla disperazione e sospirò profondamente. «Cosa devo fare? Non potrei sopportare di vederla morire, nel dolore, nella paura, come Matilde...» Ricordandosi del loro incontro di qualche giorno prima, Richard disse: «Sarin è quasi morta quando ho attivato le difese, ma è sopravvissuta. È resistente, Arnauld. Perfino uno degli argonauti di Giasone ha resistito appena qualche secondo. Non la sottovaluti. Ami l'illusione finché è possibile...». E all'improvviso, forse perché era rimasta ad ascoltarli, comparve Sarin, a poca distanza da loro, il suo corpo magro strettamente avvolto in uno spesso mantello di lana, l'espressione rabbuiata per l'ansia e la curiosità, e forse, anche da una punta di nostalgia. Il suo sguardo era immobile su Lacan. Il francese la guardò, poi sorrise e distese le braccia verso di lei, le
grandi mani aperte. Appena Richard si eclissò, la ragazza si avvicinò alla colonna di marmo e affondò nel profondo abbraccio di Lacan. Curioso, per non dire indiscreto, Richard li osservò nascosto tra gli alberi. Entrambi piansero per un momento, e poi scoppiarono a ridere. Lacan cominciò a parlare e lasciarono il Santuario per inoltrarsi nella foresta. Il loro passaggio agitò qualche uccello, poi di nuovo tutto tornò silenzioso. Un'ora dopo, un volo di corvi riempì il cielo, a meno di un chilometro di distanza. Il sole stava per tramontare. Gli aironi cominciarono a fare chiasso con i loro becchi, come in segno di protesta per l'attività che si svolgeva sotto il loro nido. All'alba, Richard fu svegliato di soprassalto della melodia stridente della cornamusa che suonava una giga, appena fuori dalla recinzione, dove due persone stavano facendo il bagno nell'acqua cristallina del fiume. Con Helen andarono a raggiungere la coppia nell'allegria ghiacciata, e fu in quel momento che si accorsero dei primi segni del mondo che stava morendo attorno a loro. Il trionfo del tempo L'inverno, come una bianca cicatrice che si ramifica, aveva cominciato a screziare il bosco verde e rigoglioso; macchie e strisce di gelo ricoprivano lentamente la vegetazione, il ghiaccio distruggeva il fogliame estivo e il duro legno dei tronchi, e trasformava la pietra nella stessa materia friabile e molle che aveva invaso la cattedrale abbandonata. Sarin uscì in fretta dall'acqua, nuda, e afferrò il suo mantello. Lacan, robusto e peloso, la seguì, piegato goffamente in due, coprendosi il pube con una mano per l'imbarazzo. Intorno a loro le foglie cadevano come cenere. L'aria era quella gelida dell'inverno, e il loro respiro si condensava in nuvolette. Lytton, fuori dall'edificio comune, gridò tutto eccitato: «Questa è opera di Alex! Ci sta chiamando!». Helen con espressione seria guardava attorno a sé il moltiplicarsi dei segni dell'inverno, poi si rivolse a Richard sottovoce: «Come diavolo fa a esserne così sicuro?». «Non lo so. Ma non ho intenzione di discutere con lui. Tu sì?» «A che pro? Lytton sa quello che sa; il fantasma di Huxley gli sussurra nell'orecchio...» Si voltò e raggiunse di corsa l'edificio comune per recuperare degli abiti
caldi e qualche provvista di cibo. Richard si domandò cosa stesse accadendo al Varco di Old Stone e la curiosità lo spinse a inoltrarsi nel boschetto di sambuco. Sotto lo strapiombo, i dipinti erano scomparsi dalla volta rocciosa che si stava sgretolando portando con sé colori e forme. Il corso d'acqua era in secca. La caverna era diventato un luogo deserto e spoglio. Lytton entrò a sua volta e si guardò attorno, si appoggiò di peso al suo bastone, i capelli grigi resi iridescenti dal gelo. «È proprio come sospettavo: questo posto è frutto dell'immaginazione di Alex, e come tutto il resto, ora lo sta uccidendo. Che altro dire? Distruggerà tutto quello che ha creato.» Preoccupato, Richard pensò a Sarin, ma la donna, che aveva acquistato volume sotto i nuovi abiti di pelliccia, stava seguendo Lacan verso il Varco. Aveva un aspetto vivace, pieno di vita. «Che succede?» domandò il francese. «Dobbiamo tornare all'Albero delle Maschere» mormorò Lytton rivolto al cielo, annusando l'aria invernale. «Alex è di nuovo vicino. Lo sento. Ci sta chiamando. Viene verso di noi.» «Sta venendo qui?» chiese Richard. Venne fulminato da due occhi come due fessure, incassati in un viso mortalmente pallido. «No. Non qui. È chiuso in trappola nella cattedrale. Ma credo che stia per spezzare ciò che lo mantiene in questo stato di tempo congelato... Verrà all'Albero delle Maschere. Ne sono certo!» «Dovremmo rischiare di passare per il varco» disse Helen. «Attraverso la caverna.» «Troppo pericoloso. E poi, soltanto Richard lo ha attraversato, ma era già nella zona boschiva, e ha potuto essere guidato da suo figlio. Forse Alex fece lo stesso con lei, quando passò per il condotto. Ma non possiamo permetterci di rischiare la caverna in questo momento. Ci sono troppe uscite secondarie...» «Ma sono quattro giorni di marcia, per il sentiero normale» replicò Richard, atterrito al pensiero di percorrere a piedi il tragitto di ritorno all'Albero delle Maschere. Lytton gli sorrise, accennando una smorfia di caustico divertimento. «Allora non perdiamo tempo. Se lo manchiamo, Alex potrebbe non avere altra scelta che rimanere nascosto per sempre. E quello che ha sparso per la foresta resterà in eterno nella foresta, e non posso assolutamente permettere che avvenga.» Mentre gli altri erano impegnati in veloci preparativi, Richard andò in
perlustrazione nei dintorni della Stazione. Il Santuario era intatto, ma non lontano giacevano i corpi congelati e raggomitolati di un uomo e di una donna. Nel bosco estivo, al di là, scoprì il cadavere congelato di un cinghiale, con ancora piantato nel fianco il troncone della lancia con la quale aveva corso per buona parte della sua vita. Sulla sponda del lago, dove si era arenato Giasone, osservò l'imbarcazione vichinga sommersa dal gelo che cominciava lentamente a spaccarsi. Soffiò un tiepido vento d'estate, seguito da una raffica gelida di pieno inverno. Le nuvole, l'acqua, tutto sembrava diviso tra le due stagioni, e Richard rimase meravigliato dal modo in cui suo figlio stava risucchiando indietro la sua creazione, i boschi, i paesaggi e le creature magiche della sua infanzia, richiamandole a sé, verso la cattedrale, e verso il gigantesco olmo con i suoi volti scolpiti in superficie: il luogo, secondo Lytton, da dove Alex era entrato per la prima volta nella foresta di Ryhope. L'ultima cosa che vide prima che Helen arrivasse da dietro (passandogli le braccia attorno al petto gli sussurrò: «Smettila di rimuginare. È arrivato il momento di partire e trovare tuo figlio»), fu il cadavere congelato del grande serpente: apparve all'improvviso, come un iceberg avvolto a spirale, il capo sollevato, lo sguardo ipnotico, vitreo e senza vita. La creatura galleggiava sulla superficie del lago, dove cominciò lentamente a fondersi e a disintegrarsi. Poi a un certo punto il cadavere si voltò come per guardare verso la riva, e cominciò ad affondare, portando con sé l'ultimo ricordo di un terribile incontro, l'ultima immagine di Taaj che colava a picco verso il castello sul fondo al lago. Era una sensazione molto strana: capire che Alex aveva creato entrambi, sia il coraggioso ragazzino, efficace proiezione di se stesso, sia il mostro che lo aveva distrutto. I pensieri di Richard tornarono brevemente alla Argo, nel letto del lago: se anche quel vascello era stata una creazione di Alex, ora ingoiata dal gelo, avrebbe mantenuto il suo segreto per sempre, chiuso negli abissi. «Adesso andiamo» disse Helen, incoraggiandolo. Aveva in mano lo zaino di Richard, il suo nuovo mantello di pelli cucite, e un cappuccio per la pioggia. Lui la seguì; raggiunsero gli altri che erano già lungo la riva del lago, sul sentiero che conduceva alla valle tra le alte rupi che si andavano sbriciolando, e da lì al vallone in cui si ergeva l'Albero delle Maschere. Per evitare di congelarsi seguirono, per quanto possibile, le insenature e
le zone in cui era primavera o estate. Ci furono inevitabilmente delle occasioni, che duravano ore, in cui si trovarono costretti ad attraversare dei boschi invernali, coperti da una spessa coltre di neve, silenziosi, o presi nella morsa del ghiaccio e pericolosi. Tra questi paesaggi, aveva cominciato a generarsi nuova vita, al posto delle grandi creature che ora giacevano sul terreno o in piedi come statue di ghiaccio: mastodonti, orsi delle caverne, alci, bisonti a pelo lungo e lupi con le fauci aperte. Ora comparivano delle creature più sinistre, più vitali di quelle bestie congelate: linci, che seguivano le loro tracce con intenzioni molto chiare e senza troppo badare alla strategia. Lytton dichiarò perentoriamente che questi nuovi esseri erano delle «materializzazioni delle nostre menti, appropriate al paesaggio circostante». Come sempre, sembrava trovarsi nel suo elemento, e avanzava strenuamente tra le raffiche di neve, leggero, il mantello al vento, poggiandosi al suo bastone, la testa bianca sempre girata verso il punto più distante dell'orizzonte, mentre assorbiva i dati del paesaggio intorno a sé, simile a uno stregone che guidi i suoi dubbiosi seguaci. Nella foresta estiva dovettero usare la forza contro le linci che li attaccarono in gruppi di tre, agendo senza precauzione, e riuscirono a respingerle facilmente. Helen abbatté degli uccelli, ma dovendo viaggiare veloci e senza pesi, evitarono prede più grosse. Si permisero tuttavia di avere degli scambi cauti e prudenti con i mitago che emergevano, solitamente all'alba o al tramonto, condividendo con essi il fuoco e il cibo e comunicando in strane lingue. Di solito, Sarin aveva il tempo di comprendere i linguaggi dei loro ospiti; le volte in cui non riuscì, dette prova di essere un'esperta, così come Richard, nell'interpretare il senso dai suoni e dai gesti. Il loro incontro più interessante fu con un cavaliere errante, un ragazzo a piedi, un guerriero biondo dagli occhi azzurri dell'epoca della cavalleria che affascinò Helen con il suo sorriso e con la descrizione di ciò che cercava: l'imbarcazione fluviale dove, all'interno del cane nero Cunhaval, albergava il cuore della sua dama. Il cane dormiva sul ponte di poppa. Al timone della chiatta, diretta verso un mitico castello, c'era un fantasma. Il cavaliere si chiamava Culloch. Nato a Durham, aveva prestato servizio alla corte di Caer Navon, prima di fare giuramento e imbarcarsi per andare a combattere per la liberazione della Città Santa nelle Crociate. «Quanto è grande questo cane?» chiese Helen. Il cavaliere finì di leccarsi le dita dopo il pasto e indicò la sommità degli alberi. «Grande come la Croce, signora. Ha divorato un'ira di Dio d'oro,
nei forzieri del nostro nuovo ministro, e inghiottito il cuore più puro che abbia mai pulsato alla corte della torre estiva di Caer Navon. Con la spada mi aprirò un varco nel corpo del cane nero e libererò questo cuore. La croce sarà la mia forza. «La cosa sembra un po' truculenta» mormorò Helen causticamente. «Ma buona fortuna. Che Dio vi assista.» Culloch abbassò lo sguardo. «Voi mi infondete coraggio, con il vostro sorriso e la vostra fede nella Croce. Che Dio assista anche voi.» Helen lo guardò andarsene, sagoma lucente in cotta di maglia, presto inghiottita dalle tenebre. «Nella sua situazione, credo avrei scelto un bel boccone di carne avvelenata.» Sarin cominciava a risentire del freddo: perdeva la sua esuberanza, la sua energia diminuiva, e Richard e Lacan facevano a turno nel portarla sulla schiena attraverso le distese più ghiacciate e deserte del tragitto. La sua perdita di resistenza alla morsa dell'inverno rendeva Lacan turbato e depresso. Mostrava un aspetto del suo carattere che Richard trovava difficile da accettare: una rassegnazione troppo immediata, un fatalismo che forse lo proteggeva dal dolore che gli avrebbe provocato la morte della ragazza. Ogni volta che se ne presentava l'occasione, Richard rimproverava il francese, per obbligarlo ad assumere un atteggiamento più positivo e ottimista, per lo meno di fronte alla stessa Sarin. E sempre Lacan esclamava con un abbraccio: «Buon Dio, ha ragione!», ma continuava a tenere lo stesso comportamento malinconico. Helen gli aveva mormorato: «È stanco. Nel profondo, è esausto. Esausto nell'anima. Sono troppi anni che vive da solo, troppi anni passati a sperare. Dagli tempo». «Certo» aveva risposto Richard, irritato. «Capisco molto bene Lacan, ma è per Sarin che mi preoccupo. Se ha bisogno della sua forza per vivere più a lungo, ora come ora sta morendo più velocemente del necessario.» Nelle foreste estive, Sarin ritrovava la sua vitalità, nuovo spirito, nuova energia. E in queste occasioni era lei a tormentare il gigante e, con il passare dei giorni, Richard vedeva la relazione tra i due intensificarsi e approfondirsi. Dopo quattro giorni di viaggio verso l'interno, passarono, da un acquazzone nella foresta satura d'acqua, alla pesante nebbia bassa di uno spiazzo che si apriva sotto il cielo immenso. Le radici robuste e aggrovigliate che
si ramificavano su tutto il terreno erano il segno che quello era il luogo dell'Albero delle Maschere. Davanti a loro, si ergeva il gigantesco tronco scuro in cui era intrappolata l'immaginazione di Alex. Richard aveva già notato il dettaglio che stava turbando Lytton: non c'era più alcun segno, né una maschera, né un volto, intagliati nel tronco. Non c'era più niente, tranne i solchi della corteccia in decomposizione punteggiata di licheni bianchi, infestata da muffa nera o arancione. Lytton gridò per la delusione. «Sapevo che saremmo dovuti restare!» ma un attimo dopo, nell'avvicinarsi all'albero, cambiò tono. «No! Qui c'è ancora qualcosa!» Cominciò a seguire con il dito una graffiatura poco profonda, di forma ovale, gettò il suo bastone e abbracciò il tronco. «Sì! C'è qualcosa... Richard... Presto! Venga qui...» Aveva trovato un'unica immagine: Sogno di Luna. Richard la riconobbe immediatamente, grazie alla maschera di corteccia alla quale James Keeton si teneva aggrappato di ritorno dall'altro mondo, ormai molti anni prima: una mezza luna, due occhi penetranti, l'accenno di un sorriso, lo stesso profilo. Era la maschera della figlia di Keeton, la sua unica reliquia della figlia perduta. Richard studiò quel volto grossolanamente intagliato, passò le dita sugli occhi, sulla bocca. Questa non ha niente a che vedere con Alex. Si domandò ad alta voce che cosa fosse successo agli altri volti e alle altre maschere. Erano state riassorbite, nello stesso modo in cui Alex richiamava a sé tutte le sue creazioni nel bosco? Ma allora perché era sopravvissuta questa raffigurazione in particolare? Lytton colpì leggermente la corteccia con il palmo della mano, per un attimo perplesso, poi si illuminò, e confermò l'intuizione di Richard. «Questa incisione non è di suo figlio.» La studiò di nuovo, posò le mani sulle linee poco profonde. «Ma se non è di Alex, allora di chi? Chi può aver intagliato questo volto? Si vede che non è recente, ma non è nemmeno antico.» La risposta non era proprio così immediata come prospettata dalla memoria. Se Richard ricordava correttamente il resoconto di suo figlio, Sogno di Luna era stata la maschera preferita da Tallis Keeton. Ed era Sogno di Luna che aveva lasciato cadere perché suo padre la trovasse al confine della foresta di Ryhope, nel punto in cui il varco del Torrente del Cacciatore si inoltra nella foresta. Dunque era stata la stessa Tallis a intagliare il volto
che ora appariva sulla corteccia del gigantesco albero? Qualche ora più tardi, quando la pioggia diminuì, Sarin, arrivò di corsa nella penombra che regnava sotto le fitte fronde dei rami. Lacan stava facendo un gran chiasso nello spezzare della legna per costruire un riparo temporaneo sullo stile di quello di Helen. Sentì Sarin gridare: «Arriva qualcuno!». E si precipitò al riparo nel sottobosco seguito da Richard e Lytton. Il terreno era scivoloso, e obbligati a strisciare pancia a terra, trovarono la morsa crudele dei rovi e del biancospino. Sarin indicò loro il punto in cui qualcosa si muoveva tra i cespugli, e d'un tratto apparve un uomo che si dirigeva all'Albero delle Maschere. Sembrava stordito: aveva i capelli arruffati, il volto rigato di fango e di sangue. Indossava una vestaglia rossa, annodata sul davanti, ed era a piedi nudi. «Mio Dio» disse Richard con un filo di voce. «È James Keeton. Esattamente come l'ho trovato anni fa. Quando è comparso davanti alla mia auto. James Keeton...» L'uomo avanzò con passo incerto, nello spazio aperto sotto l'immensa volta celeste. Stringeva un pezzo di legno nelle mani, tenendolo premuto contro lo stomaco. Arrivato sotto al tronco dell'albero, restò a lungo a scrutare il volto, in silenzio, tremando dal freddo; di tanto in tanto accarezzava la corteccia con la mano destra. E all'improvviso pronunciò il nome di Tallis. Ripeté il richiamo, e il nome si trasformò in un grido di dolore, in un lamento disperato. Continuò senza pace a chiamare sua figlia, lasciò cadere a terra la maschera, si appoggiò al tronco cominciando a sbattere la fronte contro il legno. Sarin, alla vista di quel tormento, cominciò a piangere, e Lacan, accovacciato accanto a lei, la strinse a sé sotto il suo mantello. Anche Richard si sentì commosso fino alle lacrime. Avrebbe voluto raggiungere l'uomo, avanzò di un passo, e per poco non colpì Lytton, quando lo scozzese, con la sua tetra espressione, lo costrinse a rinunciare. «Non interferisca. Non è il suo momento. È quello di Alex. Se vuole recuperare suo figlio, deve lasciarlo venire. So che verrà...» Lytton percorse rapidamente la foresta all'intorno con lo sguardo, tendendo l'orecchio per captare un eventuale secondo avvicinamento. Helen si teneva la testa tra le mani, senza osare guardare l'uomo che piangeva e singhiozzava accanto all'albero; quando i gemiti diventavano più forti trasaliva, scuotendo la testa, impotente. Quando Richard le posò una mano sulla spalla, si appoggiò a lui, sempre cercando di tapparsi le orecchie per non
essere raggiunta dalla terribile tristezza di Keeton. La terra tremò. Vicino all'albero, James Keeton, che aveva smesso di piangere, indietreggiò di un passo, turbato, poi si chinò velocemente per raccogliere la maschera Sogno di Luna, e si allontanò dall'olmo stringendosela al petto. Nello stesso istante l'aria diventò fresca e asciutta e attorno a loro, i rumori della foresta si affievolirono, come se l'atmosfera si fosse improvvisamente rarefatta. L'albero si illuminò di un bagliore diffuso. Il volto di Sogno di Luna si distaccò dalla corteccia nera, come un sottile strato di luce argentata. Non appena cominciarono a tracciarsi i lineamenti, tanto chiaramente da permettere a Richard di distinguere i dettagli degli occhi e della bocca, furono sommersi da altre linee e tagli che sembravano il risultato di una combustione spontanea del legno: i volti apparvero uno dopo l'altro, in una rapida moltiplicazione di tratti, lineamenti ricorrenti, spaventosi, maschili, femminili, animali, alcuni appartenenti di certo al mondo onirico. Progressivamente tutte le maschere finirono per ricoprire completamente il tronco dell'albero. La luce argentata saliva verso il cielo come gocce di vapore, e scendeva sulla vasta distesa di radici in mezzo alle quali si trovava ancora James Keeton, mezzo accovacciato, sotto shock, stupefatto, mentre sul suo pallido viso si riflettevano i colori accesi dei volti che si stavano formando. Improvvisamente, Keeton gridò di nuovo il nome di sua figlia, un grido primitivo, talmente carico di nostalgia e di angoscia, che per qualche istante l'intera foresta parve zittirsi per lo stupore. E fu allora che, senza un rumore, il tronco dell'albero esplose, avvolgendo Keeton con forme primordiali. Dal tronco nero, immenso ed etereo, uscirono a fiotti ogni sorta di personaggi, alcuni correndo, altri a cavallo, alcuni vestiti di lucenti armature; altri ancora avanzarono in un turbinio di mantelli, di pellicce, e colori sgargianti. Queste forme elementali attraversarono il corpo di Keeton che giaceva scomposto a terra, e nell'istante in cui raggiunsero il limite della radura, entrando nella foresta, acquistarono densità. Intorno a Richard, il bosco si animò all'improvviso di un grande fermento. Lytton sibilò: «Dio del cielo, non l'avrei mai immaginato: sta arrivando dall'inferno!». Un guerriero con il corpo dipinto di viola corse verso Richard: uno scudo rotondo in una mano e una spada corta dell'altra, capelli al vento, le labbra tirate sui denti di un bianco abbagliante. Con un salto scavalcò
l'uomo che si teneva accovacciato, irruppe nel sottobosco e con un ululato di trionfo sparì nell'oscurità, tra gli alberi, lasciando a Richard l'immagine dei volti, delle spirali e delle volute di cui il suo corpo era decorato dalla testa ai piedi. «A che cosa stiamo assistendo?» gridò. «A che cosa?» ripeté Lytton. «Alla morte di Alex! Al momento in cui la sua storia gli è stata risucchiata via. Lei era presente nella stanza, quel giorno. Se ne ricorda? Guardi! È un'enciclopedia di ciò che tutti noi abbiamo ereditato. Qui c'è tutto! Ma mai potrei ricordarmi di tutto. È troppo! È il ragazzo che dobbiamo cercare! Cerchiamo di cogliere la sua ombra.» Si rivolse a Lacan e Helen ripetendo le istruzioni. «Un'ombra piccola, non più grande dell'ombra di un bambino. Appena la vedrete, seguitela. Non la perdete!» La processione di quegli eroi dimenticati proseguì per alcuni secondi ancora e Richard riconobbe quelle che Helen aveva chiamato le forme degli Hood e dei Jack; vide anche un vichingo che maneggiava la sua ascia e una donna i cui capelli si agitavano come fiamme, vestita con dei pantaloni e un corpetto di pelle a quadri, che teneva al guinzaglio due mastini grigi. Probabilmente si trattava della regina Boudicca, una di quelle che Alex amava particolarmente. Seguì con lo sguardo un carro trainato da due cavalli e condotto da due personaggi curvi e incappucciati. Poi dall'albero uscirono dei guerrieri, alcuni greci, altri romani, alcuni con i volti dipinti, altri che indossavano sul viso degli elmi dalle espressioni spaventose. E ancora sgorgarono delle ragazze in verde, delle matrone avvolte in mantelli, donne che avevano qualcosa di magico, e che sembravano pronte a tutto per la loro libertà. Alexander Lytton, con il viso ravvivato di colore dalla felicità, al passaggio dei cacciatori, guerrieri, crociati, stregoni o selvaggi, sgranava il catalogo dei personaggi che identificava: «Peredur... Tom Hickathrift. E quello è Hereward il Risvegliato! Fergus della banda di Cooley. Ma dov'è Cu Chullain? Morgana! Jack l'Ammazza Molossi, qui? Ginevra! E Kei, della corte di re Artù. Quello è Henge Builder di Avebury! Un cacciatore di gru... Dick Turpin! La Signora della Nebbia... Llewelyn!» Agli occhi di Richard, non era che una truppa di fantasmi, lanciati alla cieca in una folle corsa, che sgorgavano in silenzio dall'albero per poi svanire con un rumore assordante nella foresta. Questa esplosione di vita cessò bruscamente, così come era cominciata. A un certo momento, durante la processione, James Keeton si era voltato
e si erano allontanato. Richard se ne era reso vagamente conto, ma nessuno di loro lo aveva seguito. Se ne era andato, per finire nell'oblio della memoria, nel ricordo di un incontro che aveva avuto luogo ormai molti anni prima, nel passato di Richard. Ancora sotto shock per quello che aveva visto, Richard osservò che l'Albero delle Maschere stava diventando più scuro; le incisioni dei volti erano sparite un'altra volta. Suppose che non sarebbero riapparse. Quale che fosse stata la loro funzione, oramai era stata compiuta. Ma non era finita: nell'oscurità un rumore di agitazione tradì lo svolgersi di un combattimento. Un attimo dopo una piccola ombra fece irruzione nella radura deserta e fuggì verso destra. Fu così fugace, così poco definita, che per un momento lo stesso Lytton esitò, lo sguardo catturato dalla grande creatura che si spingeva fuori dal tronco, liberandosi a fatica dalla stretta dell'albero. Poi Lytton si alzò in piedi e si lanciò all'inseguimento dell'ombra. Richard ritardò un solo istante, sbalordito alla vista dell'uomo-albero, che aveva il volto e il corpo ricoperto da un ammasso di foglie, e dalla cui bocca aperta spuntavano come zanne dei rami lucenti come spade. Dietro di lui anche altre braccia e gambe di rami sottili cercavano di raggiungere l'aria fredda della radura. Cominciarono a emettere dei suoni acuti e secchi. Richard corse dietro a Lytton, seguendone il rumore tra gli alberi. Alla sua destra sentiva Lacan e Sarin che avevano preso un sentiero diverso. Fu solo dopo qualche secondo che si rese conto che Helen era rimasta all'Albero delle Maschere, per vedere l'emersione finale delle ultime incarnazioni della mente devastata di Alex. La chiamò, ma lei non rispose, e quando Lytton gridò con rabbia «Richard! Si muova!» continuò a seguire l'inafferrabile protogenomorfema all'interno della foresta. Avanzarono a fatica nell'oscurità che si addensava, inciampando sulle radici, obbligati a forzare il sentiero in mezzo a cespugli così fitti da essere quasi soffocanti. Quando all'improvviso emersero in aperta campagna, si ritrovarono in mezzo a un cimitero invaso dalla vegetazione, dove le pietre tombali grigie e macchiate sormontavano dei tumuli ricoperti di piante di cardi. Il muro della cattedrale si ergeva davanti a loro, bianco, rivestito di ghiaccio, dal quale lo strato superficiale di pietra cominciava a staccarsi. Il grido di trionfo di Richard si trasformò in un ululato di delusione e rabbia. «Un'altra conchiglia vuota! Ci ha ingannato di nuovo.» «Non credo sia così» rispose Lytton con voce calma. «Guardi!» e indicò il portico coperto di edera. Lì, la sottile ombra del ragazzo si mosse; sem-
brò penetrare nella pietra, venirne assorbita. «Il posto è quello giusto. Ma come facciamo a entrare?» Alla loro sinistra, Lacan arrivò precipitandosi dalla foresta, i capelli arruffati, pieno di tralci spinosi che gli erano attaccati come un bizzarro velo da prima comunione. Sarin uscì dai cespugli a quattro zampe, in mezzo alla condensa del suo respiro, nel freddo intenso. Ma Helen dov'era? Inquieto, Lacan gridò: «Questo posto è morto. Ci siamo lasciati portare fuori strada...». «Questo è esattamente il posto che cercavamo!» gridò Lytton di rimando. Percorreva le alte finestre con lo sguardo, il profilo frastagliato delle mura, i contrafforti, il porticato, le rovine di quello che un tempo era stato un campanile. E fu seguendo lo sguardo dello scozzese che Richard vide il falco. Sporgeva dal muro, sotto l'alto arco di una finestra; con il becco aperto che fungeva da grondaia, l'uccello lo osservava con uno sguardo quasi di sfida. L'uccello che sputa... «L'uccello sotto la finestra...» mormorò. «Nella cappella, camuffato da falco... È così che agisce Gawain nella rappresentazione di Alex...» Lytton era galvanizzato. «Se questo è il Tempio Verde, forse potremmo trovare un passaggio per l'altro mondo, ovvero il nostro.» «Siamo stati seguiti!» gridò Lacan. «Daurog, credo, ma si stanno trasformando. Dobbiamo metterci al sicuro.» «Helen è con lei?» domandò Richard. Come risposta, Lacan sollevò semplicemente le spalle. Richard aprì la strada; si arrampicò sul tetto del portico, discese lungo un contrafforte, per accedere a una nicchia che ospitava una statua marcita ormai da tempo. A partire da lì, l'arrampicata diventò pericolosa: dovette sostenersi con le dita alle scanalature superficiali nella pietra, per arrivare al collo allungato del falco, all'ampio davanzale, su cui erano incise foglie di quercia e ghiande, dal quale si sporgeva. Dietro di lui, Lacan emetteva dei grugniti nel sollevare il suo peso, tendendo una mano a Lytton, le cui braccia non avevano più abbastanza forza per sostenere quell'arrampicata. Dalla finestra, Richard percorse con lo sguardo la buia foresta sotto di lui, e vide che l'inverno arrivava strisciando verso di loro, un cristallo d'argento che continuava a ramificarsi. Non riuscì a vedere Helen, e sentì un'inquietudine tale che cominciò a tremare.
Si mise a nevicare, il cielo coperto assunse una sfumatura di un grigio sinistro, e i fiocchi scendevano vorticando attorno alla chiesa. Dal davanzale, Richard vide il boschetto che aveva riempito il centro della cattedrale. Da quella zona, in cui il clima era estivo, salì un'ondata di calore e umidità, nonostante i primi fiocchi di neve stessero già cominciando a bagnare il fogliame più alto. Chiamò Alex, e riuscì soltanto a creare agitazione tra un gruppo di corvi neri a lato delle porte chiuse, dove un groviglio di vegetazione suggeriva la presenza di un enorme nido a forma sferica. Non appena Lacan li raggiunse ci fu immediatamente molto meno spazio sul davanzale di pietra e Richard per poco non perse l'equilibrio. Lo afferrò Lacan, gli indicò i tralci delle piante rampicanti che ricoprivano il muro interno, e Richard con prudenza si calò nel boschetto della cappella. Lacan fece altrettanto, poi Sarin, e poi Lytton, che appena toccato il suolo si lanciò verso l'imponente costruzione. Richard lo seguì, e subito si accorse del terribile odore che proveniva dal cumulo d'erba e legna morta. Lo scozzese era entrato nel nido. Ne emerse ripulendosi il viso da piume nere e si guardò intorno. «Vuoto» dichiarò. «Un luogo per il parto dei daurog. La femmina ha partorito, probabilmente è morta.» Ma ai piedi della statua del Cristo crocifisso vide qualcosa. «Là!» Agrifoglio era stata adagiata sopra un catafalco di fortuna. Aveva le braccia distese, ma nell'istante supremo della morte si erano tese verso l'alto, tanto che le dita delle sue mani spinose sembravano voler aggrapparsi al cielo e afferrare la neve che cadeva dolcemente posandosi sul suo corpo. La bocca era orrendamente spalancata; le zanne di rami erano prosciugate e ammuffite. Il fogliame, sulla sua testa, aveva preso una sfumatura tra il giallo e il marrone. Il suo corpo era inarcato come se stesse ancora soffrendo. Il cadavere di un piccolo corvo era intrappolato tra le sue costole disseccate. Qualcuno aveva posto, accanto alla sua testa, la piccola effigie in paglia di un uccello. Dal boschetto, Lacan esclamò con un filo voce: «Qualcuno sopra di noi!». Richard invece sentì scuotere da sotto il pavimento di marmo. La scossa fu breve e si chiese se non potesse essere Alex: chiamò di nuovo il ragazzo e, dalla parte opposta delle rovine, si levò una voce: «Papà?». Con il ricordo del Jack dalle mille forme tornato vivido per la paura, Richard scostò il fogliame e si diresse verso l'altare. Vide dei riflessi d'oro, e
dopo qualche istante riconobbe un crocifisso, della grandezza di un uomo, che si ergeva al di sopra dei rami di agrifoglio che stavano marcendo. «Alex? Dove sei?» Improvvisamente il ragazzo emerse dalla vegetazione. Era nudo, malandato, una fragile creatura, con la pelle bianca come la neve che gli turbinava intorno, due occhi feroci in un volto da selvaggio, e i capelli alle spalle. Tremava come un animale in gabbia. Richard cominciò a piangere. Alex era così giovane e così vecchio nello stesso momento! A parte i capelli lunghi, era esattamente come il ricordo che Richard aveva conservato negli anni: lo stesso Alex di quegli ultimi terribili mesi del lontano passato, quando si rivolgeva al cielo con occhi vuoti, quando rimaneva sdraiato sull'erba indifferente e soddisfatto, e reagiva solamente con atti riflessi. Però, negli occhi terrorizzati di questo Alex, c'era una luce che esprimeva intelligenza, coscienza del futuro, e cosa più importante: riconoscimento. «Papà!» gridò all'improvviso, lanciandosi verso l'uomo in lacrime, verso Richard, che si lasciò cadere in ginocchio per accogliere suo figlio tra le braccia. «Siamo in pericolo!» esclamò Alex. «Gawain sta arrivando!» Il Cavaliere Verde Giochi di luce verde sul soffitto e sulle pareti bianche della stanza d'ospedale. Alex, disteso sul lettino, per un po' restò a osservare i vortici di colore, poi si alzò e raggiunse la finestra. Senza meraviglia, né paura, restò a guardare il cavaliere che, uscito dalla foresta, attraversava al galoppo il prato umido di rugiada. Era gigantesco, sopra un enorme cavallo bianco con la bardatura verde al vento. I capelli e la barba erano verdi come la sua armatura coperta di incrostazioni e il mantello che ondeggiava dietro di lui al ritmo della corsa; al suo passaggio, lasciava dietro di sé una scia di luce verde che andava a disperdersi nel fitto del bosco. Giunto vicino all'ospedale, tirò le briglie, impennò il cavallo facendogli compiere due giri su se stesso, e sorrise verso il ragazzo che lo osservava dalla finestra. Gli fece un cenno. Alla sella erano legati con delle cinghie cinque giavellotti e alla sua cintura era appesa un'ascia la cui lama curva era protetta da una custodia di pelle. La sua armatura era decorata con disegni di teste di cinghiali, e piuttosto che di metallo sembrava essere fatta d'osso. Alex si sentì attratto dal cavaliere senza comprendere del tutto la spinta a seguirlo. Alla vista del colore e delle decorazioni del cavaliere,
non provò né paura, né piacere, né curiosità. Eppure, costretto da quell'invito, lasciò la stanza e uscì nell'aria del primo mattino. Una volta fuori, sentì il lezzo di sudore del cavallo, udì il suo pesante respiro. Il terreno vibrò quando la bestia cambiò direzione, e cominciò a tremare violentemente quando, dopo essersi impennato, ricadde sulle zampe posteriori tra il chiasso metallico della bardatura. L'immenso cavaliere sì piegò e gli tese una mano infilata in un guanto verde. Il suo alito aveva l'odore della terra. Alex accettò la stretta di mano e venne sollevato e messo sulla sella, dietro l'uomo verde. Non avevano scambiato nemmeno una parola. Alex per tenersi afferrò il pesante mantello. La sella troppo grande lo obbligava a tenere le gambe spalancate. Il dorso dell'armatura era decorato da teste di cadavere, con dei rami che spuntavano dalle bocche aperte che lo guardavano. Quando ne sfiorò una, questa chiuse gli occhi e batté i denti con un ghigno. A quella vista Alex sussultò, mentre il cavallo, in quel momento, si lanciò verso la foresta da dove era venuto. Si immerse senza esitare tra gli alberi; il cavaliere abbassò la schiena e scoppiò a ridere quando dei rami s'impigliarono tra i suoi capelli sciolti. Alex si voltò indietro e lanciò una breve occhiata all'edificio grigio e silenzioso alle sue spalle. Poi l'oscurità si richiuse su di lui e sentì le sue mani graffiate dalle spine. Era una corsa sfrenata. Senza rompere il silenzio, il cavaliere attraversò al galoppo i limiti della foresta, talvolta servendosi di una lama grande come una falce per aprirsi il sentiero. Attraversò campi e strade, incitando a gran voce il suo destriero e lanciando dei versi acuti ogni qualvolta vedeva della selvaggina, che fossero uccelli o lepri, avventandosi su di essi a una velocità che aveva qualcosa di magico e riuscendo a catturarli più spesso di quanto fallisse. Il cavallo galoppava con la sua andatura pesante sulle strade di campagna, la schiuma alla bocca, protestando vivamente quando doveva cambiare direzione per tuffarsi nelle zone paludose della foresta, o guadare ruscelli poco profondi. A un certo punto, Alex passò davanti alla sua casa di Shadoxhurst. La guardò, senza propriamente rendersi conto di ciò che vedeva. C'era qualcuno che stava scavando nel giardino. Lanciò una sola occhiata, senza dolore né rimpianto: semplicemente aveva riconosciuto che posto era. L'uomo nel giardino sollevò lo sguardo, si guardò intorno, avendo forse sentito, in lontananza, il cavallo al galoppo. Ma il cavaliere era già sullo sterrato che conduceva al Torrente del Cacciatore, e la sua aura verde si disperdeva nella nebbia che riempiva quella terra depressa e palustre.
Presto si trovarono nella foresta di Ryhope. Il cavaliere vi si inoltrò con prudenza, raggiungendo Oak Lodge di lato. Una volta nella radura, di fianco alle rovine della casa, smontò da cavallo per raccogliere erba e legna, stracci e mucchi di foglie. Mentre Alex, ancora in sella, stava a osservarlo, egli dispose sul terreno gli oggetti e diede forma all'effigie di un ragazzo. I tratti erano quelli di Alex. Lo sollevò e fece segno ad Alex di sputare nella bocca del pupazzo di legno. Il falso Alex si alzò da terra e corse fino al margine della radura, poi attraverso i campi farfugliando dei suoni senza senso. Alex lo guardò allontanarsi senza pensare a nulla, senza domandarsi nulla. Quando ripresero a cavalcare nella foresta, appoggiò il capo contro la larga schiena del cavaliere, proteggendosi il viso dalle scaglie d'osso dell'armatura viva con lo spesso tessuto del mantello nel quale si avvolse per tenersi al caldo. Le nocche della mani erano bianche tant'era lo sforzo con cui stava aggrappato al cavaliere. Aveva le reni e le cosce indolenzite, dopo tutte quelle ore di cavalcata. Ma continuò senza un lamento, stringendo colui che l'aveva salvato. Il bosco si apriva su vaste colline, per poi richiudersi in valli rocciose. Avanzarono con difficoltà tra la neve alta, scivolarono sul ghiaccio invernale, furono inondati da una pioggia che li seguì per giorni. Un giorno, al tramonto, arrivarono sulla sponda di un grande lago. Non lontano era ancorato un barcone nero, con la vela ammainata. Sulla riva, in mezzo ai cespugli, tre donne li osservavano avvicinarsi. Il cavaliere speronò il cavallo perché aumentasse il passo, poi, una volta alla loro altezza, si fermò e si girò indietro per far scendere Alex sul suolo morbido. La più giovane delle donne, una ragazzina della sua età, si fece avanti e avvolse Alex con il proprio mantello rosso. Egli la guardò per un istante negli occhi e lei sorrise. Un'altra donna, che somigliava a sua madre, vestita di marrone, si voltò verso il barcone e prese la cima dell'ormeggio. La terza, vestita di nero, era una donna anziana. Salì sopra l'imbarcazione e slegò la vela, poi si sedette, con il viso rivolto verso la riva. Il Cavaliere Verde si chinò su Alex e gli scompigliò affettuosamente i capelli. L'alito fece la condensa quando prese la parola con uno strano accento: «Ho sentito la tua preghiera. Sono il primo a essere venuto verso di te. Ora devo trovare l'altro cavaliere per riportarlo indietro. «Hai bisogno di tempo per guarire. Queste donne ti condurranno nel luogo in cui questa guarigione può realizzarsi. Ti cureranno con Coraggio,» indicò la ragazzina «con Amore» indicò la donna con l'abito marro-
ne, e con un cenno delle sopracciglia verso la donna in nero, concluse «e con Magia». «Ma è soprattutto grazie a Coraggio che guarirai. Invierò un piccolo spirito che sarà i miei occhi e le mie orecchie durante la tua convalescenza. E non fare nulla che possa nuocere ai lupi d'inverno! Ogni ferita sulla loro carne è una piaga nella mia.» E con queste parole, si voltò e partì al galoppo, l'ascia che batteva sul fianco e il mantello al vento. La ragazzina gli tese la mano e Alex salì con lei a bordo dell'imbarcazione. La donna in marrone allontanò la barca dal canneto, le gambe immerse nell'acqua fino al ginocchio, e poi si issò a sua volta a bordo. Si mise ai remi e portò la barca al largo del lago silenzioso, fino a che un vento leggero non arrivò a gonfiare la vela; allora la più anziana delle donne si piegò in avanti per prendere in mano le cime. Dopo un momento, come fosse un sogno, si ritrovarono in un banco di nebbia da cui riemersero immediatamente, al ritmo lento dei remi, in vista di una costa scoscesa e alberi altissimi. La ragazzina scese a terra con un agile salto, corse tra le rocce coperte di muschio, scomparve per un attimo e ritornò, facendo segno ad Alex di raggiungerla. Sotto lo sguardo delle altre due donne rimaste a bordo, Alex prese la mano della ragazzina e si lasciò guidare. Quando uscirono dal bosco, si ritrovarono ai piedi di una chiesa di un'altezza straordinaria, ma in rovina. «Questo è il tuo posto» sussurrò la ragazzina guardandosi intorno con ansia. «Va' dentro, presto. Da questa parte della vetrata non sei al sicuro.» Gli diede un bacio, prima sulla guancia e poi sul mento, per poi ripartire di corsa verso il lago e le sue compagne attraversando di nuovo il sottobosco. «Va' dentro!» gli gridò un ultima volta. Alex si voltò verso l'alta parete grigia. Sentiva provenire dall'interno dell'edificio un rumore di uccelli... Si erano radunati tutti su una delle finestre. Le porte erano tutte sprangate. Si arrampicò sul muro ed entrò. Il luogo era caldo, ma completamente vuoto. Però, appena dopo il suo arrivo, a partire dalla cripta sottostante, la vegetazione cominciò a crescere: dapprima un boschetto di piccoli alberi, che si trasformò rapidamente in un bosco pieno di vita. Niente aveva senso. Esplorò le rovine senza interesse, cercando istintivamente le zone più calde e più riparate. Si sentiva osservato dai volti sulle panche di legno scuro, dalle creature scolpite nella pietra delle pareti.
La luce colpiva i colori sfumati delle vetrate. Cercò ovunque del cibo e dovette uscire dalle mura per poter andare a calmare la sua sete con l'acqua del pozzo. A un certo momento, nel susseguirsi dei giorni e delle notti, sentì muoversi qualcosa tra il folto degli alberi, nel punto in cui la ragazzina lo aveva lasciato. Era arrivata una creatura sinistra, una creatura che cambiava forma, a volte assumendo quella di un lupo, a volte quella di un essere con le zanne, che sogghignava da dietro gli alberi, altre volte quella di un cavaliere sorridente che lo chiamava con delle grida umane di scherno. La creatura era intenzionata a fargli del male e lo attaccava ogni volta che si avvicinava troppo, e Alex cominciò a temere di uscire dalle mura di pietra del Santuario. Poi arrivò Agrifoglio, entrando con un frusciare chiassoso dalla finestra da cui una piumata testa di pietra sputava acqua tutte le volte che pioveva. E fu poco dopo il suo arrivo che egli ricominciò a sognare. I primi sogni che fece furono incubi distorti. Ma i sogni, uno dopo l'altro, riuscirono a superare lo sbarramento di Colui che ghigna, che si nascondeva nel bosco, filtrando sotto le porte e le finestre del Santuario. Più sognava, più le cose riacquistavano il loro nome, e dalle panche di legno uscirono delle minute creature per danzare, e le vetrate colorate dove viveva Agrifoglio cominciarono a ricomporsi, rivelando il cavaliere e l'uomo verde, oltre che una grande collina d'erba verde, che racchiudeva la promessa di una terra luminosa e libera. Le cose avevano ritrovato la loro realtà, quasi del tutto. Sognò di suo padre. Alex era raggomitolato tra le braccia di suo padre. Richard gli accarezzava i capelli, gli sfiorava le guance, lo teneva stretto nel suo abbraccio. Quasi non riusciva a credere che Alex fosse lì. Continuando a coccolarlo, non smetteva di guardarlo. Doveva ricordare a se stesso che quello era Alex come era sempre stato: un ragazzino arruffato, sognante, un adorabile ragazzino che adesso cercava la stretta di suo padre come un gattino, nervoso e determinato. Quali erano i suoi pensieri? Che cosa provava? Quando aveva raccontato la sua storia, il suo sogno, si era espresso in modo stentato, come se facesse fatica a trovare i termini che potessero tradurre le meraviglie e gli orrori dell'esistenza che aveva vissuto. Era come un bambino che si svegliasse da un lungo sonno, ancora non completamente coerente, stranamente reale, senza essere ancora familiare.
Il ragazzino non era completo. Ma era Alex Bradley, senza alcun dubbio, e suo padre lo stringeva con tutta l'energia di un uomo che non può permettersi di perdere il suo sogno, che non riesce quasi a credere che si sia realizzato, che vorrebbe continuare ad avere la sensazione fisica di questo sogno, e non svegliarsi mai. Richard mormorò: «Ho sentito così tanto la tua mancanza... eri così lontano. Dev'essere stato terribile passare tutto quello che hai passato». Alex sfiorò il viso di suo padre e sorrise. «Agrifoglio mi è stata inviata dal Cavaliere Verde. Lei era mia amica. Mi aiutava a sognare. Era una piccola parte di lui, un piccolo spirito. All'inizio pensavo che il cavaliere fosse Gawain. C'è una finestra dove si trova il nido. Si è riformata sotto i miei occhi. Tutti i colori sono tornati: il rosso, il verde, l'oro. Quando la finestra è guarita, mi sono ricordato del cavaliere. Pensavo che fosse Gawain che uccide il mostro verde. Invece è il Cavaliere Verde a essere nostro amico. Gawain è furbo. È lui Colui che ghigna. Lui mi ha imprigionato qui. Non vuole tornare. Non vuole che tu mi porti via. A lui piace stare fuori.» Richard distolse lo sguardo da suo figlio e alzò gli occhi verso la finestra e sui vetri colorati, illuminati da un sole che, su tutti, faceva risaltare il verde. Sulla vetrata era dipinto un classico scontro tra un valoroso cavaliere e un mostro mangiatore di uomini dalla forma umana, un'imponente creatura selvaggia avvolta in una cappa verde, che impedisce l'accesso a una foresta in fioritura estiva, appena visibile dalla fessura di una porta aperta su una collina, che si erge più alta degli alberi. Ma invece del cavaliere che trapassa il selvaggio, qui si vedeva il selvaggio togliere la vita al cavaliere. Avrebbe potuto essere la rappresentazione di un martirio. Ma Richard comprese che dipingeva il trionfo della natura sul predatore. Alexander Lytton era rimasto ad ascoltare incantato mentre Alex raccontava i suoi ricordi quasi onirici di quando era stato «liberato» dal Cavaliere Verde. Anche lui sollevò la testa, si guardò intorno e mormorò: «I suoi sogni lo raggiungono da tutte le porte e le finestre del Santuario...». Alex, esausto, aveva cominciato ad addormentarsi tra le braccia di suo padre. Richard continuava a stringerlo, a dondolarlo, ma era il viso emaciato dello scozzese che osservava. «Dove ci troviamo, Alexander? Dove diavolo siamo? Nella foresta, questo lo so. Siamo nella copia esatta di rovine che Alex visitò una volta, una cattedrale, un Santuario, un luogo sacro. Un rifugio. So anche questo. Si tratta del Tempio Verde, in un certo senso, dove i Cavalieri Verdi vanno e vengono, un luogo attraversato dai sogni...»
«Esattamente» mormorò Lytton. «È un luogo di passaggio. Proprio così. I vecchi sogni ne escono, quelli nuovi vi entrano. Nell'antico poema, il Tempio Verde è il luogo in cui si affrontano le prove. Nel mondo medievale erano prove d'onore, di lealtà, di coraggio. Nel mondo pagano è la Croce contro le streghe del mondo degli dei e delle tradizioni dimenticate. Proprio il Tempio Verde veniva descritto come un sepolcro, un accesso all'altro mondo, al mondo fatato. Suo figlio ha capito da molto tempo che la storia cristiana non è che un'adattazione ai tempi. Ricordo che proprio lei mi raccontò di come Alex, nel testo della recita, avesse invertito la storia, in modo che non fosse più una prova d'onore portata a termine grazie a un innocuo stratagemma, ma un vero e proprio tradimento dello stesso Gawain, al fine di avere accesso a una terra antica e ad antichi tesori. E quali tesori! «Il tempio è una frontiera tra istinto e coscienza, il luogo dove i sogni sono messi alla prova, e nel fare questo, nel controllare la fiducia che una mente accorda al proprio stato onirico, si esamina la mente stessa. Nei sogni risiede un potere magico che ai giorni nostri non riusciamo ad apprezzare. I sogni esprimono una sintesi dell'esperienza. Hanno la capacità di far sorgere la visione. Se la visione è chiara, se è lucida, se si è in grado di controllarla, se si è in grado di comprendere i simboli che vi si presentano, essa ci concede potere su qualcosa che diamo per scontata. L'intuizione! Ma questa capacità si ottiene a patto di prevalere su pulsioni più primitive.» Lytton lanciò un'occhiata a Richard e sorrise. «Pensi a questo luogo come alla versione di suo figlio, come al passaggio tra mente superiore e mente primordiale, tra conscio e inconscio. Senza dubbio è quello che rappresenta il Tempio Verde. È il posto naturale in cui rifugiarsi quando si viene privati dei propri sogni, e c'è bisogno di guarire. Come mi piacerebbe conoscere la storia del Tempio Verde nel tempo del sogno. Quale comprensione non potrebbe raggiungerci, sotto forma di intuizione! Suo figlio, come noi, ne ha intravisto solo brevissimi accenni. Ma a causa dell'appetito della sua immaginazione, che assorbe ogni tipo di immagine, anche inutile e dannosa, succede che dobbiamo accontentarci di vedere Jack l'Ammazza Giganti, Gawain, e vigorosi cavalieri e regine a bordo di certe zattere che sembrano uscite dai poemi di Tennyson (detto per inciso, un interessante aspetto della nozione mentale di autoguarigione). Agrifoglio invece è primitiva. Lei sì, si avvicina a qualcosa di molto antico...» Dalla finestra dalla quale erano entrati nella cattedrale, Lacan esclamò
verso di loro: «C'è qualcosa che arriva dall'interno del bosco! Non riesco a distinguere niente per ora, ma di qualsiasi cosa si tratti, ce n'è un sacco. Non sono creature... In ogni caso non...» Richard, allarmato, gridò «Mio Dio, Helen! Dobbiamo aiutare Helen!». Lytton lo afferrò per un braccio. «Helen è rimasta indietro nella radura per una ragione. È una donna in gamba. Se ha sentito la presenza del Coyote, dovrebbe lasciarla...» «Ma è in pericolo. Non posso perderla, adesso meno che mai.» «Bisogna che affronti Coyote da sola. Non può aiutarla.» «Non è Coyote che sta affrontando, è Gawain... Se quello che Alex ha detto...» «Gli Uomini Verdi» sussurrò Alex. «Solo che è inverno. E in inverno non ci si può fidare del Cavaliere Verde. Me l'ha detto Agrifoglio. Finché non arriverà la primavera cercherà di ucciderci, proprio come Gawain...» Serrando la presa sul braccio di Richard, Lytton disse in tono risoluto: «Gawain e il Cavaliere Verde sono due aspetti della stessa creatura. Ma appartengono ad Alex. Non il Coyote. Helen non sarebbe rimasta indietro a meno che non avesse avuto la certezza che per lei il momento della verità era arrivato». L'inverno avanzava, manifestandosi con una tormenta. La neve imperversava contro la cattedrale, soffiando in vortici di gelo fin dentro il boschetto al centro delle mura. Richard raggiunse Lacan sul davanzale del falco e scrutò nel buio; vide dei movimenti, degli spostamenti all'interno della foresta scura. Simili alle luci e alle sagome emerse dall'Albero delle Maschere, delle forze elementali rifluivano verso il Santuario sotto forma di strisce e spirali di colore nella bufera di neve, volti e forme che esistevano negli occhi della mente. Richard tornò al riparo nella Cappella della Vergine. Quando spiegò a Lytton che l'attacco sembrava imminente, lo scozzese pronunciò un'imprecazione, alzando gli occhi verso le mura in rovina. Qualche momento dopo, gli elementali si infiltrarono all'interno della cattedrale. Lacan lanciò un grido improvviso dal davanzale della finestra e per poco non precipitò sul pavimento coperto di neve, sfuggendo alla caduta solo grazie all'edera rampicante, resistente ma scivolosa, alla quale si aggrappò. Sopra di lui, dalla pietra, si distaccarono dei volti, si sporsero delle statue, e gli esseri scolpiti negli scanni si staccarono dal legno e corsero in mezzo al boschetto spazzato da un tremito.
Durante tutto il tempo, la luce batteva sulla vetrata dipinta, in modo che le figure di Gawain e del Cavaliere Verde sembravano contorcersi. Invece rimasero al loro posto; diversamente, le creature di pietra che li circondavano, uccelli, grifoni e monaci sorridenti si animarono, esplodendo in un vociare privo di senso, attutito dalla neve incessante. Tutta questa agitazione fece scoppiare Alex a ridere, e i suoi occhi brillavano, nonostante il freddo. «È come nel primo sogno. Danzavano per me! Danzavano!» Richard prese suo figlio tra le braccia, senza comprendere il suo entusiasmo e la sua eccitazione. La cattedrale era piena di tutta quell'agitazione, che la faceva apparire come fluttuante. Ogni cespuglio di biancospino, ogni nocciolo, le nodose querce e le esili betulle che formavano il boschetto della navata davano l'impressione di ondeggiare, di muoversi leggermente per unirsi agli altri esseri che danzavano. «Ritornano da Alex» disse Lytton che si teneva piegato in una nicchia, un tempo dimora di una statua. Ma nel momento in cui parlò, l'effetto in questione sembrò cessare. Le creature si immobilizzarono, la sensazione di una compatta intrusione degli elementali nella cattedrale evaporò. Lytton spalancò gli occhi. Lanciò un'occhiata al ragazzo, poi mormorò: «Non si tratta affatto di Alex! Qualcuno ci sta osservando, dall'esterno!». Saltò dalla nicchia e camminando sulla neve si avvicinò al muro coperto d'edera, si arrampicò sui solidi rami fino al davanzale ghiacciato. Richard lo seguì. Lacan e Sarin erano abbracciati per tenersi al caldo; Alex era avvolto nel mantello del gigante. Dalla finestra dalla quale sporgeva il falco si intravedeva, ora che la bufera di neve si stava calmando, la sagoma di una persona in piedi ai margini della foresta. Richard era certo che non fosse Helen, e nemmeno un cavaliere, in una forma o in un'altra. Era un uomo, con addosso un lungo cappotto nero, a testa scoperta, i capelli bianchi, la barba che gli nascondeva il viso. Aveva in mano un bastone e portava uno zaino sulla spalla sinistra. Teneva lo sguardo fisso sulla cattedrale. L'aria si schiarì, giunse una quiete inaspettata. L'uomo fece un passo avanti, scuotendosi la neve dalla testa, e con questo gesto rivelò capelli neri e un viso più giovane. «Mio Dio» esclamò Lytton trattenendo il respiro. «È Huxley. È George Huxley!» L'uomo si voltò. Lytton lo chiamò per nome. Huxley ebbe un attimo di
esitazione, si guardò indietro sollevando le sopracciglia, ma poi si voltò di nuovo per proseguire il suo cammino tra gli alberi. «Huxley!» gridò Lytton disperatamente in direzione della foresta d'inverno. «George Huxley! Aspetti!» Saltò giù, atterrò sul pavimento del tempio, afferrò il suo zaino e raccolse il bastone di quercia. Si avvolse il mantello attorno al torace e alzò il cappuccio sulla testa. «Non posso perderlo adesso... Ho passato troppo tempo a cercarlo.» «Lei è pazzo!» esclamò Richard.» Non lo troverà mai con questa tormenta. E come fa a essere sicuro che fosse proprio lui, e non un mitago?» Lytton rise senza gioia, come se riconoscesse l'ironia della situazione. «Come faccio? Perché non sa nemmeno lui dell'esistenza di tutte le foto che ho visto e che lo ritraggono. Sono riuscito a procurarmele. Ho scrutato nei suoi occhi, nella sua anima, con l'aiuto di una lente d'ingrandimento, con la mia immaginazione... Ho passato più tempo a studiare quel viso di quanto abbia mai fatto con il mio, Richard. Potrebbe mostrarmi i peli rasati dalle sue guance e io saprei riconoscere che sono i suoi. Non dubiti di me, ragazzo mio. Lo riconoscerei ovunque. Per Huxley, siamo negli anni Trenta. È nel pieno del suo viaggio più in profondità, della sua assenza più lunga. Non mi aspettavo di trovarlo. Ma è lui che ha trovato me... il nostro incontro è descritto sul suo diario; il mio nome non è citato, e per questo non posso avere la certezza, ma tutto coincide con quello che scrisse al suo ritorno a Oak Lodge nel settembre del 1937. «Lo troverò di certo, Richard; non può andare troppo lontano con questa neve. Osavo a malapena credere che sarebbe successo. Eppure è successo. E per me è arrivato il momento di lasciarvi.» Abbracciò Lacan con forza, fece un inchino davanti a Sarin e con una mano arruffò i capelli di Alex, prima di tendere finalmente la mano a Richard. «Sono lieto che entrambi abbiamo realizzato i nostri desideri. Ho imparato una terribile lezione su me stesso, quel giorno in cui il Jack...» «Passato e dimenticato» si affrettò a interromperlo Richard. «Come Huxley, se non si sbriga.» Lytton lanciò un'occhiata ad Alex. «Fa in modo che tuo padre non faccia pazzie. La sua amica, Helen, sa come badare a se stessa. Ha la capacità di affrontare qualunque Briccone. Aiutarla» disse questa volta rivolgendosi a Richard «potrebbe voler dire vanificare il suo, di desiderio.» «Ci sono i lupi nel bosco» disse Alex preoccupato. Lytton aggrottò le sopracciglia.
«Scarag. Lo so. Gli Uomini Verdi nel loro aspetto invernale.» «Cerchi di non far loro del male. Quando arriverà la primavera, saranno nostri amici.» Lytton sorrise debolmente per rassicurare il ragazzo. «Ragazzo, sappi che non ho alcuna intenzione di mettermi contro uno scarag. Ho visto quello che hanno fatto a uno dei miei amici.» Scalò nuovamente il muro, scavalcò il davanzale accanto alla grondaia a forma di falco e si lasciò scivolare atterrando pesantemente al suolo. Richard lo seguì dalla finestra, si sporse dal davanzale e osservò allontanarsi la sagoma dello scozzese, che si dileguava con il suo mantello al vento, gettandosi di nuovo nel mezzo della bufera di neve; presto svanì nel bosco, prima che il suo ultimo grido per Huxley venisse inghiottito dal mondo invernale. Durante la notte, i brusii e le vibrazioni che salivano dalla cripta ricordavano in modo vago ma costante che la cattedrale non era un vero e proprio Santuario. La neve aveva smesso di cadere. All'alba Lacan prese la sua lancia, si arrampicò fino alla finestra e si mise di guardia. Sarin e Richard esplorarono l'ingresso della cripta, ma solo per scoprire una parete murata, coperta di radici e iscrizioni quasi completamente cancellate. Alex si rifiutò di scendere un solo gradino. «Stanno tornando da me. Me l'ha detto la mia amica. Ma mi fanno paura...» «Chi?» «I lupi d'inverno. Cercano un modo per prendermi...» Richard incordò il suo arco e verificò la punta di una delle frecce. «Ci difenderemo con tutto ciò che abbiamo. Che non è molto, bisogna ammetterlo, ma lo useremo!» «Sono nostri amici in primavera. Non facciamogli del male...» «Si direbbe che tu li conosca bene, Alex. Non come noi. Sembri avere paura di loro e per loro, allo stesso tempo. Cosa devo fare, se attaccano?» «Non far loro del male» disse il ragazzo in un sussurro. Ma nel dare questa riposta fu scosso dai brividi e guardò nervosamente oltre gli alberi carichi di neve, percependo l'improvvisa vibrazione di una grossa creatura sotto l'altare. «Che cos'è?» fece Sarin a bassa voce, impaurita. «Sta succedendo qualcosa?» «Non lo so.» Richard indietreggiò dall'altare. L'intera foresta fu percorsa da un fremito, la neve cominciò a crollare dai rami invernali. «Arnauld!» gridò, ma
non poté aggiungere altro. Davanti a lui, il pavimento si accartocciò sotto la distesa di radici e il tronco argenteo di una betulla si inclinò di colpo. Alla seconda scossa, l'albero si schiantò. Da sotto, si sollevò verticalmente una lastra di marmo nero, la neve scivolò ai lati, scoprendo le tenebre della cripta. La testa che ne emerse, bianca come osso, era enorme, con quattro zanne ricurve che uscivano dalle fauci spalancate. Sotto una fronte corrugata e delle arcate sopraccigliari d'osso, brillavano due occhi neri; la creatura si guardò rapidamente intorno prima di issare il suo corpo flessibile e vigoroso fuori dalla tomba. I suoi tratti erano quelli di un lupo, a parte le protuberanze che le spuntavano dalla bocca. La sua vasta cassa toracica sporgeva in maniera orribile, in contrasto con lo stomaco incavato e teso, sul quale si vedevano addirittura i muscoli tirati sotto la pelle. La sua altezza era quella di due uomini uno sull'altro. Teneva le braccia lungo i fianchi, le dita aperte e pronte; si voltò verso Lacan, ancora sulla finestra, e gli rivolse un ululato. Lacan scagliò la sua lancia. Lo scarag non arretrò di un passo. Afferrò l'arma solo all'ultimo momento, e la punta gli procurò appena un taglio superficiale sul torace. Ululò di nuovo e fece suonare le sue zanne sbattendole una contro l'altra. Gettò la lancia in mezzo alla cattedrale, in direzione dell'altare da cui Richard osservava la scena raccapricciante. Appena l'arma piombò al suolo Richard si allungò per recuperarla. Lo scarag si allontanò dalla cripta. Immediatamente dal buco apparve una seconda testa, più grande, più piatta, con una delle zanne rotta. L'essere storpiato che si trascinò sul pavimento era ugualmente grigio e ossuto, più alto del primo, nonostante si tenesse curvo. Osservò Lacan con curiosità, brontolò qualcosa e poi gli voltò le spalle per andare in cerca di viveri nel boschetto della cappella. Dall'apertura nel pavimento emersero altri due lupi d'inverno; entrambi si guardarono intorno, esitanti, osservando prima Lacan, poi Richard, per poi inoltrarsi silenziosamente tra gli alberi. Il quinto scarag, più piccolo ma non meno minaccioso, rimase accovacciato vicino all'apertura nel pavimento di marmo, emettendo una sorta di lungo, grave ringhio. Teneva la testa immobile, ma i suoi occhi si muovevano incessantemente, dividendo il suo sguardo indagatore tra il gigante francese e il trio di esseri umani accovacciati sotto la croce d'oro che sovrastava l'altare. Sembrava fare la guardia all'entrata al mondo sotterraneo. Il primo scarag non tardò a trovare il corpo di Agrifoglio. Raccolse i re-
sti dell'avvizzito sempreverde tra le sue braccia e se la strinse al petto. Uno degli altri raccolse l'uccello che ormai sembrava di paglia e lo depose sul cadavere vuoto. Il bosco si riempì di gemiti di cordoglio e le bestie d'inverno si diressero furtivamente verso la grande porta del tempio e lì, entrarono nel nido in decomposizione. L'ultimo a raggiungerli fu il guardiano, lo sciamano del gruppo. Con il suo bastone scolpito indicò tre volte l'apertura verso la cripta, fissando Richard con occhi feroci. Poi si raddrizzò e con passo regolare, in mezzo alla neve, avanzò verso l'entrata cavernosa del nido. Una volta là, con una serie di grida quasi umane, si voltò e strisciò al suo interno. Tre giorni più tardi, a metà della giornata, mentre Richard tornava da una spedizione infruttuosa alla ricerca di Helen, dal nido appoggiato alle alte porte cominciò a diffondersi un cinguettio di piccoli uccelli. Immediatamente Alex corse verso la struttura cadente e si fermò in piedi, nella cascata di luce verde che cominciò a fluire dalla sua apertura circolare. C'era molta agitazione all'interno del nido, e lo stesso sole che aveva trasformato il mondo invernale in primavera ora brillava, abbagliante, attraverso la vetrata cristallina al di sopra delle porte. Alex iniziò ad avanzare verso quella luce, ma Sarin lo trattenne per le spalle cercando Arnauld con gli occhi, indirizzando un cenno verso Richard non appena vide il francese scavalcare il davanzale della finestra. «Sta per succedere qualcosa» gridò con urgenza. Alex si divincolò dalla stretta e si voltò con gli occhi spalancati, i capelli lisci che fluttuavano intorno al suo viso sorridente. «Sono tornati. Arrivano!» Prima che Richard potesse fare alcunché per impedirglielo, Alex era già saltato all'interno dell'apertura, nell'ammasso di legno ed erba, e si era chiuso al suo interno. La luce soprannaturale vacillò. Ci fu del movimento e un improvviso colpo di vento, come un soffio. L'entrata del nido si chiuse! Sembrò serrarsi con uno scatto, e Richard si precipitò attraverso la cattedrale per raggiungere Sarin che aveva indietreggiato di un passo, atterrita, tappandosi la bocca con le mani. «L'ha mangiato» disse con un filo di voce. Richard la strinse a sé: tremava di paura. «No, non credo. Credo che con questo siamo arrivati alla fine.» Buon Dio, ti prego, fa' che sia così. Il nido si contrasse. Legna e rovi si fusero insieme, trasformandosi in
capelli, occhi, un naso e una bocca sorridente che si aprì ed emise una breve risata soffocata. Gli occhi avevano uno sguardo glaciale, i capelli si agitavano come onde sollevate da un forte vento. Richard fu preso dal panico. «Arnauld! Presto!» Il francese si precipitò a raggiungerlo. Richard cercò di conficcare la punta della lancia in uno degli occhi del Jack, ma fu letteralmente respinto da un soffio del suo alito fetido, accompagnato da una cupa risata. Non fargli del male... sembrava dirgli suo figlio. Un attimo dopo il volto sembrò calmarsi. Si dissolse, trasformandosi in un'espressione più mite, un viso dall'espressione malinconica che Richard si ricordò di aver visto sulla Argo. Immenso, a suo modo grottesco, Orfeo osservò brevemente l'uomo che tremava ai suoi piedi e cantò qualche parola in un sussurro. Un sanguinante scollo... sul collo... tutto per la sua dama... per l'amore della sua dama... Poi anche Orfeo scomparve, il legno e le felci sì sgretolarono in polvere, l'intero nido scrollò, si dissolse, per disperdersi in una miriade di nuovi germogli verdi che cominciarono a spuntare sulle porte e nelle fessure tra le fredde lastre del pavimento. Non rimase che una forma umana ripiegata su se stessa, coperta d'edera e sambuco i cui rami, avviluppati al corpo nudo del ragazzo, cominciarono a ritirarsi, portando via il marciume nero, le muffe arancioni, i diversi frammenti della decomposizione, verso il reticolo di radici sotterraneo. Raggomitolato sul pavimento, Alex aprì gli occhi. Si dispiegò come una foglia all'alba, stirò le braccia, fletté le gambe e inarcò la schiena. Salutò il sole alto nel cielo, le ombre grigio verdi, e sorrise. Si lasciò scappare dell'acqua e si mise a sedere, osservando, leggermente imbarazzato, il vapore che saliva tra le sue gambe. Poi si voltò verso Richard, che immobile lo guardava, sconvolto e con le lacrime agli occhi. Allora si alzò in piedi, spazzolandosi con le mani le cosce umide, impacciato, cercando di nascondersi allo sguardo del padre. Uno strano fuoco bruciava nei suoi occhi. La sua pelle sembrava immersa in una luce verde. «Ho bisogno di vestiti.» Immediatamente, come spinto da qualcosa, Richard corse verso il ragazzo e gli circondò le spalle con il suo mantello. Riuscì a malapena a parlare. «Buon Dio, mi hai fatto prendere una bella paura!» disse soffocando il pianto. Il nido aveva assorbito tutto quello che non aveva più vita, incluse le
punte dei capelli e le pellicine delle unghie. Ma il ragazzo aveva ritrovato la sua completezza: ora il Briccone e la coscienza coabitavano. I due aspetti del Cavaliere Verde erano tornati al loro posto. Alex osservava suo padre con aria perplessa. «I capelli ti sono diventati grigi. Molto grigi.» Richard baciò il ragazzo sulla fronte, poi gli passò un braccio sulle spalle e stringendolo a sé lo riportò all'altare. «Sto invecchiando. Troppe avventure.» «Ho sognato, non è vero? Era un sogno così buffo. Possiamo tornare a casa, adesso?» «Certo che possiamo tornare a casa» sussurrò Richard. Poi abbassò lo sguardo. «Troverai le cose un po' cambiate, Alex. Hai dormito molto a lungo. Hai fatto un sogno molto, molto lungo.» «Ho visto Mr Keeton. Era molto triste. Tallis sta bene?» Scuotendo il capo, Richard rispose: «Tallis è partita. Mr Keeton era molto malato, ed è morto». Non riuscì a trattenere le lacrime. Strinse suo figlio al petto. Alex si divincolò dall'abbraccio per prendere respiro. «Va bene» disse. «Sono abbastanza grande per sapere che Mr Keeton era molto malato.» «Anche la mamma se ne è andata. Ma potrai andare a trovarla. Sarebbe molto importante sia per lei che per te.» Alex si rabbuiò. «Stavate sempre a litigare. Vi sentivo, dalla mia stanza.» «Sì, litigavamo sempre» convenne Richard in tono sereno. «Non eravamo felici.» «Litigherai anche con quella nuova? La pellerossa?» «L'indiana d'America! Non si dice più pellerossa! E no, non ho alcuna intenzione di litigare con lei. Adesso so quali canzoni cantare...» «È una vera indiana?» Richard scoppiò a ridere. «Certo! Helen Ciocca d'Argento è una Lakota quasi purosangue. O mi ha detto Dakota... o Minnesota? Comunque sia, è Sioux. Almeno credo. Forse Cherokee.» Accidenti, non lo ricordava più! Alex sembrava disorientato.«Che significa "purosangue"?» «Aveva un nonno forte. E lei è molto coraggiosa.» «E che cosa sono, Lakota e Dakota? Richard sospirò. «Non so. Prove della mia ignoranza riguardo qualsiasi altra storia che non sia la nostra. Ma che importa? Io amo "quella nuova", come la chiami tu, perché scriviamo la nostra storia insieme. I capelli ar-
gentati sulle tempie, le piume sul naso, i Rolling Stones e tutto il resto.» Alex lo guardò senza capire, e Richard rifletté con rammarico sul fatto che suo figlio se ne era andato, rapito dal Cavaliere Verde, prima che i Rolling Stones e i Beatles avessero inciso i loro più grandi successi. Se mai fossero riusciti a uscire da quel bosco, si sarebbero ritrovati nel 1967... forse 1968, otto anni dall'inizio della guarigione di Alex. E anche nel mondo al di là della foresta di Ryhope c'era un clima di guarigione, uno stato d'animo di pace; le nazioni protestavano contro la guerra in Vietnam; si profilavano gli anni Settanta, e le cose stavano per diventare talmente più interessanti! Alex stava per entrare in un mondo nuovo, un mondo in piena fioritura, come una foglia che si dispieghi per lasciare la sua impronta sull'albero, per assorbire il sole, per aggiungere la propria voce e i propri sogni alla voce e ai sogni di quelli che ce la mettevano tutta perché il loro coraggio e la loro visione venissero riconosciuti. Richard sussultò per il tocco delle dita del ragazzo sulle sue palpebre. «Stai piangendo» disse il ragazzo. «Davvero? Ah, sì. Pensavo solo a quanto devi aver aspettato questo momento. Pensavo solo al ritorno a casa.» «Anche io. Credo che il Cavaliere Verde ci abbia indicato la strada.» Alex si allontanò dall'abbraccio con una contorsione e si strinse il mantello attorno al corpo magro e slanciato da adolescente. Strappò un tralcio di rampicante per legarsi in vita l'indumento troppo grande per la sua taglia, ne prese le estremità che toccavano per terra e le fermò infilandole sotto la cintura improvvisata. Passando tra gli alberi, ritornò all'apertura sul pavimento e guardò all'interno della cripta. Arnauld Lacan si accovacciò di fianco a lui, la lancia saldamente stretta tra le ginocchia. «Quando sognavo» disse Alex «passavo per strani corridoi, attraverso le radici del mondo sottoterra. In questo modo sognavo voi. Vi vedevo» lanciò un'occhiata a Lacan. «Sognavo anche gli Uomini Verdi. Qualche volta sognavo il mondo all'esterno, e penso sia questa la strada per tornare a casa. Bisogna passare in mezzo ai morti, ma i morti mi hanno spaventato, credo, solo perché stavano tornando. Sono tornati tutti adesso. Non c'è niente di cui avere paura.» sollevò lo sguardo verso Richard. «Vorrei andare a casa.» «Lo so, lo so» bisbigliò Richard con uno sguardo disperato verso l'alta finestra del falco. Helen era ancora là fuori! Non poteva andarsene finché non fosse tornata. Ma non poteva abbandonare Alex di nuovo, non adesso, non dopo averlo ritrovato. Era un tesoro troppo prezioso per perderlo una
seconda volta. Riusciva a malapena a tenere il filo dei pensieri. Desiderava che suo figlio fosse a casa, al sicuro, e voleva che Helen fosse al sicuro e andasse con loro. Ancor prima di poter dire una parola, Alex lo guardò intensamente e gli domandò allarmato: «E la tua amica? Potrebbe essere in pericolo! L'aiuterai?». «Sì» rispose Richard dolcemente. «Cercherò di trovarla. Non mi ci vorrà molto. Per mangiare caccerò, il pozzo è pieno d'acqua...» «È un lupo che sta cercando di prendere?» «Un coyote.» «A me sembra un lupo. L'ho sentito ululare. Si trova là adesso, da qualche parte nel bosco. Lo senti?» Richard fece silenzio ed effettivamente sentì, tendendo l'orecchio oltre gli alberi e la pietra, uno strano latrato, un ululato trionfante e spaventoso. Era in atto una battaglia. Allungò una mano per prendere il suo arco, ma Sarin fece un passo avanti e lo fermò. I suoi occhi scuri brillavano. «Lasciala fare. Lasciala fare da sola. Se la perdi, sarà perché la morte te l'avrà portata via. Ma se la trovi, sarà perché avrà vinto. Lascia che torni nel solo modo che possa liberarla dal suo incubo. Conosce la via per uscire dalla foresta. E tu hai già dimostrato chi sei. Non dimenticherò mai come hai sconfitto Giasone! Ora resta seduto tra i mondi, sii paziente, prega, vedi quello che accade. Per ora prenditi cura di Alex. Portalo a casa...» Lacan apparve alle spalle della Signora dell'Erba Alta. «Sono appena stato giù, nell'ossario. C'è di certo un varco là sotto. Lo sento. Ma se Colui che ghigna se n'è andato, forse faremmo meglio a viaggiare via terra.» Si rese conto di essere stato accolto da un silenzio imbarazzato. «Che succede?» «Credo che Richard resterà» rispose Sarin in tono grave. «Per aiutare Helen.» Lacan fece un largo sorriso. «Ma certo che resta! E anche noi! Quattro sono meglio di uno! D'altronde, c'è alternativa?» «Potreste riportare Alex a casa, a Shadoxhurst» suggerì Richard «e aspettarci lì...» «Casa sua?» disse Lacan indignato. «Dove con tutta probabilità da bere non c'è nient'altro che tè e medicinali?» «Potrebbe esserci del vino rosso in soggiorno.» «In soggiorno» ironizzò Lacan sospirando, e scuotendo la testa con aria
disperata. «Esposto alla luce, scommetto. Vicino al caminetto, bene al caldo. Così, perché si mantenga. Un ottimo aceto, senza alcun dubbio, ma se dovessi aver voglia di bere dell'aceto, non avrei che da andare in un tipico ristorantino inglese! Richard, lei è senza speranza! Ritorni immediatamente nella zona boschiva! Risparmierò a suo figlio l'umiliazione di avere un padre come lei. Andiamo, vieni, Alex!» disse prendendo il ragazzo scherzosamente per l'orecchio. «Andiamo. Ci aspetta un lungo viaggio. E prima di lasciare la foresta dobbiamo cacciare qualcosa. Per mangiare, capisci bene! E dobbiamo tenerci pronti per casa tua... a tutti gli orrori che senza dubbio contiene, voglio dire.» Alex per tutto il tempo non aveva mai staccato gli occhi da suo padre. «Io rimango.» A Lacan scappò una piccola risata. «Ma certo, tu rimani.» Il ragazzo si avvicinò e prese la mano di Richard. Richard gli sorrise, gli sistemò il mantello accostandoglielo al petto, osservando quale vivacità di spirito, quale inaspettata consapevolezza e maturità si leggevano nei dettagli dell'espressione di quell'adolescente che lo guardava negli occhi. «Forse dovresti veramente tornare a casa. Arnauld scherza quando dice quelle cose.» «Ma lo so!» esclamò Alex. «Non sono uno sciocco. Ma Sarin mi ha detto di non poter vivere fuori dalla foresta troppo a lungo e Arnauld vuole restare con lei, e così non resterebbero con me per molto. Quindi faremmo tutti meglio a restare.» Dall'esterno della cattedrale si sentì il guaito di un lupo; un lungo gemito malinconico e sinistro per il quale a Richard si accapponò la pelle. «Ho paura per te!» esclamò alzandosi in piedi. «Non devi.» Più tardi, Richard si arrampicò alla finestra, si sedette di guardia in attesa, attento ai guaiti e alle risate beffarde della creatura a cui forse Helen stava dando la caccia. Calò la notte. Un fuoco bruciava in lontananza, un unico punto luminoso che Richard guardava con una fascinazione quasi ipnotica. Era difficile da dire da quella distanza, ma gli sembrò che di tanto in tanto, di fronte alle fiamme, passasse qualcuno. Nel bosco un lupo abbaiò, poi lo sentì ridere di scherno e chiacchierare. Non un lupo, quindi. Un volo di cornacchie irruppe rumorosamente nella fredda notte, dei
cervi bramirono, degli uccelli acquatici agitarono le loro grandi ali illuminate d'argento dal chiaro di luna, mentre volavano in cerchio sopra i loro nidi. La foresta era come una distesa di tenebra immobile, e allo stesso tempo brulicante di una segreta agitazione; lontano, nei pressi della sua ultima frontiera, il fuoco continuava ad ardere, la sagoma andava e veniva, il cielo rosseggiava, Coyote si aggirava per ghermire la sua preda. Sul suo più prossimo limitare, sulla soglia che divideva due mondi, Richard Bradley giaceva su un fianco, raggomitolato come un bimbo che dorme, pensando al figlio che aveva ritrovato e alla donna che amava. Sorpreso da un rumore alle sue spalle afferrò il coltello. Aveva sentito qualcosa arrampicarsi sino alla finestra del falco, aggrappandosi all'edera. Mezzo stordito, si voltò preparandosi a difendersi dall'intruso. «Sono io» disse Alex. Il ragazzo scalò gli ultimi metri e andò a sistemarsi nello spazio che restava sull'ampio davanzale di pietra, tremando leggermente; guardò il fuoco in lontananza, vicino al luogo nella foresta in cui cresceva il suo Albero delle Maschere. «Arnauld e Sarin sono scesi nella cripta. Credo stiano dormendo. Mi piacerebbe rimanere quassù con te, mentre aspetti Helen. Se per te va bene...» Sembrava inquieto. Dal bosco l'urlo di trionfo di un lupo lacerò la notte. Un attimo dopo lo stesso urlo fu bruscamente interrotto. C'era qualcosa di spaventoso, qualcosa di definitivo in quell'improvviso silenzio. «Va bene?» insistette Alex. Richard sorrise e gli prese il mento fra le dita. Diede un'ultima occhiata in direzione del fuoco, che stava cominciando a spegnersi. «Certo che va bene» rispose. Appendice Nota George Huxley raccolse numerosi racconti popolari, miti e leggende, perlopiù sconosciute, che sentì raccontare o che tradusse egli stesso nel corso dei suoi viaggi di ricerca nella foresta di Ryhope tra il 1928 e il 1946. Fa risalire al 600 a.C Jack Suo Padre, una primitiva versione celtica di una Storia di Kurgan molto più antica. R.H. Jack Suo Padre
Jack seminava l'ultimo grano dell'estate, quando l'odore di fumo lo informò della razzia al suo villaggio. Sua sorella, che aveva l'udito più sottile di quello di un cane da caccia, gridò «Dei cavalieri!» e corse a rifugiarsi tra gli alberi. Dal limitare del bosco gridò a Jack di fare altrettanto. Il ragazzo la seguì arrivando soltanto al primo albero, contro il quale si appoggiò spavaldo pronto ad affrontare l'assalto imminente. Da lontano, vedeva salire il fumo dal recinto in cui stava bruciando la casa di suo padre. «Ho ancora un padre, una madre, una sorella e tre fratelli» dichiarò disperato agli uccelli che volavano sopra il campo. I corvi si alzarono rumorosamente in volo, tra versi di scherno. Allora arrivarono le oche per mangiare il grano dell'estate, e Jack si sentì sprofondare. Per primi arrivarono i briganti armati, alla ricerca di foraggio e di bestiame. Si impadronirono di tre vitelli e due cavalli che li seguirono trottando in silenzio tanto le loro mascelle erano state serrate. Questi uomini erano giovani. I predoni e il carro del signore della guerra arrivarono dopo, sbucando all'improvviso tra gli alberi, tra lo scalpitio degli zoccoli e il cigolio delle ruote del carro. Due dei briganti videro Jack e gli si avvicinarono al galoppo. Jack senza vacillare, teneva stretta nel pugno l'ultima manciata di grano. Vide i sacchi sul dorso dei cavalli e subito pensò ai maiali e ai polli che lui e sua sorella avevano allevato con tanta cura. «Non dir loro che sono qui!» bisbigliò sua sorella dal suo nascondiglio. «Visto che hai fatto la sciocchezza di non nasconderti, perderai la testa. Ma non fare che mi scoprano.» «Sei tu che ti farai scoprire, se non taci.» L'uomo sul carro si chiamava Bran, fulgido nella sua armatura di cuoio nero e nel suo mantello rosso. Indossava un elmo da guerra crestato, e sul suo corsaletto era ricamata una mezza luna d'argento. Aveva capelli neri, mani grandi, il viso glabro. I colori blu e nero, simboli del suo clan, l'Aquila e il Cinghiale, erano abbondantemente spalmati sulle guance e sul mento. Si accovacciò di fronte a Jack, divertito dall'atteggiamento del ragazzo e in vena di mercanteggiare. «Vedo che porti delle buone scarpe» dice. Pelle di vacca, giusto? Ottima fattura, direi.» Ma Jack sbuffa, con disprezzo. «Che tu me le tolga o me le lasci, per me non fa differenza. Se ci farai del male, ti seguirò più veloce dell'ombra delle nuvole.» Il cavaliere scoppia a ridere, ma non così l'uomo con l'elmo crestato.
«È un superbo talismano, quel cinghiale d'osso intagliato, appeso al laccio che porti al collo.» Ma Jack sbuffa, con disprezzo. «Che tu me lo tolga o me lo lasci, per me non fa differenza. Se ci farai del male, nascosto in un cespuglio di biancospino, mi avventerò su di te più veloce del vento.» Questa volta il cavaliere comincia a mostrare segni di nervosismo tra lo sferragliare delle catene alle quali erano appesi i sacchi del bottino; l'aria inizia a rinfrescare. L'uomo sul carro sguaina un piccolo pugnale di bronzo e affronta il suo sguardo di sfida. «È una lingua coraggiosa quella lì appesa, se non teme di parlarmi con tanta boria.» Ma Jack di nuovo sbuffa con disprezzo. «Che tu me la tagli o la lasci dov'è, per me non fa differenza. Se ci farai del male, canterò nelle tue orecchie quando i corvi banchetteranno con i tuoi occhi.» Il pugnale è puntato in direzione della mano destra di Jack. «Allora prenderò quello che c'è qui. Prenderò ciò che serri in quella mano, o te la taglierò.» «Allora tagliamela. È l'unico modo in cui l'avrai, e quello che qui stringo svanirà.» «Che cosa nasconde quel pugno?» «Semi» risponde il ragazzo. «Che tipo di semi?» «Il seme di un albero che cresce in un giorno e diventa una casa in cui c'è sempre un maiale ad arrostire sul fuoco.» «Di certo l'avrò» esclama avidamente Bran. «E anche di più. Che altro?» «Il seme di un albero che cresce in un giorno e diventa una barca capace di attraversare qualsiasi lago infestato.» «Avrò anche questo, e di più. Che altro?» «Il seme di un albero che cresce più veloce di un pelo sul mento di un uomo, e può offrire riparo e frutta a un esercito di uomini. E dalla sua cima si può vedere l'Isola delle Donne.» «Questo l'avrò, e due volte tanto!» esclama Bran, lo sguardo acceso e una mano sui genitali. «O morirò nel cercare di averlo.» Allora Jack dice: «E che cosa mi darai in cambio?». Gli giunge alle orecchie il pianto di una donna. Un vento freddo trasporta l'odore del fumo e del massacro al di là dei campi su cui le oche divorano i nuovi semi e i corvi gettano la loro ombra nera. E Bran risponde: «Ti darò la più bella voce che si possa mai sognare di
udire cantare». Jack scoppia a ridere. «Questo lo accetterò di certo. E altro ancora.» «Ti pagherò il miglior maiale preso in questa razzia.» «Questo lo accetterò di certo» dice di Jack avidamente. «E avrò ancora di più.» «Se è così, ti renderò tuo padre» gli propone l'uomo con l'elmo, questo Bran, con uno sguardo minaccioso, dandosi una pacca sulle ginocchia lasciando intendere che la contrattazione è terminata. «E prometto di renderti un uomo migliore di lui. Quindi, adesso è fatta, la partita è terminata. Questo è tutto.» Jack accetta e porge i semi al capobanda, il quale li prende in mano e guardandoli va su tutte le furie. «Ma questo è grano!» «Non tutto è come sembra» risponde Jack con una risata. «In effetti, niente di più giusto. Questa è la pura verità.» Scuotendo la testa, lo sguardo accigliato, raggiunge il carro per prendere un sacco, che poi lancia al ragazzo. Quando Jack lo apre, vi scopre la testa insanguinata di suo padre, che con le palpebre semiaperte gli sorride da quella fredda tomba. Bran e il predone, con una risata, gli voltano le spalle partendo al galoppo lungo il fiume. Dal suo carro di legno, il capitano gli grida: «Proprio così, Jack, avevi ragione su quello che hai detto, ragazzo. Non tutto è come sembra. Ma io mantengo fede alla mia parte dell'accordo, l'accordo che abbiamo appena concluso e nel quale tu mi hai ingannato! Di tutto il tuo clan, tuo padre era il maiale selvaggio che apprezzavo di più, e per aver salva la vita ha cantato più soavemente dei tuoi tre fratelli che porto con me in questi sacchi, in cui tu credevi ci fossero dei maiali. E dato che tuo padre è morto, non c'è bisogno di alcuna magia per fare di te un uomo migliore di lui». Quando scompaiono all'orizzonte, Jack bacia il viso di suo padre e consola sua sorella. Poi attraversa il campo dove le grasse oche hanno divorato quasi tutto il grano. «Avete rubato i miei ultimi semi!» grida alle oche. «Ora dovete pagare. Non ci sarà mai un uomo migliore di mio padre, quindi adesso fate di me mio padre, e portatemi a quel carro, da quell'uomo con la corazza che l'ha ucciso, perché io lo perseguiti.» Così dicendo afferra un'oca per le zampe e la tiene a testa in giù, mentre i corvi volando in cerchio schiamazzano divertiti per l'astuzia di Jack. L'oca si pente per la sua ingordigia, per aver mangiato il grano mentre Jack
lottava per la vita. Improvvisamente l'aria si riempie di piume, e del Grido del gufo che era stato invocato, e grazie alla sua magia, Jack assume le sembianze di un corvo, e si nutre delle occhi tristi di suo padre. Poi da corvo, si trasforma nella sua testa. Soltanto un'oca può essere abbastanza forte da trasportare la testa dentro il sacco, e quest'oca si alza in volo sopra i solchi del terreno, e poi verso ovest, sulle tracce del carro. La sorella di Jack porta suo padre a casa, al villaggio incendiato. Quando l'oca si trova sul carro di Bran, lascia cadere il sacco. Bran lo apre, e Jack-Suo Padre spalanca gli occhi. E dice con la voce di suo padre «Rendimi i miei figli». «Mai!» risponde il capo dei briganti, ma richiude bene il sacco appoggiandoci sopra un piede mentre continua a cavalcare, spaventato dall'accaduto. La prima notte dopo la razzia si accamparono in aperta campagna. Bran piantò uno dei semi, più per scherzo che per la speranza di vederlo crescere, e vi urinò sopra. In quel mentre Jack-Suo Padre senza essere visto rotolò fuori dal carro, e di nuovo cambiò forma. Cantava mentre cresceva: una testa che diventò un albero, una possente quercia, e si diramò fino a sovrastare l'accampamento, piantando le estremità dei suoi rami al suolo e usando le foglie come tetto. Dopo aver rinchiuso in sé i cavalieri e i loro cavalli, appiccò il fuoco, e il legno scoppiettò e sfrigolò, come ripieno del grasso di un maiale allo spiedo. Fece scorrere linfa come birra al miele e guardò gli uomini ai suoi piedi piombare in un gradito torpore. I corvi appollaiati sui rami di Jack discesero in picchiata per riportargli la testa tagliata di suo fratello maggiore. «Trattatela bene» si raccomandò Jack. Il suono della sua voce svegliò Bran, ma troppo tardi per impedire agli uccelli di volare via, lontano da quella regione sconosciuta. La seconda notte, Jack-Suo Padre provocò Bran. «Uno dei miei figli è sano e salvo e di ritorno a casa. Restituiscimi gli altri.» «Neanche se mi si staccasse la carne dalle ossa e per questo morissi di freddo.» Erano nei pressi di un lago. Jack attese finché Bran non piantò un secondo seme, lo innaffiò di urina, esclamando: «Visitare l'Isola delle Donne, quella sì sarebbe un'eccellente razzia!». Poi, quando il brigante, dopo una sarcastica risata si ritirò per dormire, egli rotolò fuori dal sacco e diventò un grosso salice. Si estese fin dove l'acqua era più profonda, e diede forma alla prua, allo scafo, e mutò i suoi rami in remi. Si trasformò in una galera
slanciata e bassa sull'acqua; i predoni la trovarono la mattina dopo e supposero che fosse giunta alla deriva durante la notte. Salirono a bordo e vogarono fino al centro del lago, per raggiungere sulla riva opposta il sentiero che conduceva alla loro terra. Ma a metà strada, Jack aprì i rami che formavano lo scafo e la galera affondò. Uomini e bestie nuotarono verso la riva, ma un grosso luccio prese la testa del secondo fratello di Jack e con essa risalì il fiume, via da quella regione sconosciuta, verso la terra in cui era nato. Jack-Suo Padre fu preso e, per poterlo trasportare, fu appeso in un sacco al collo di un cavallo. Aveva voglia di cantare, ma rimase in silenzio. Arrivò la terza notte, e Bran appoggiò Jack-Suo Padre sul terreno e depose nella sua bocca l'ultimo seme di grano del loro affare. «Se diventi un albero capace di proteggere e di nutrire i miei compagni, e dal quale io possa arrivare all'Isola delle Donne, allora potrai avere indietro il terzo dei tuoi figli.» Jack germogliò e crebbe. Divenne la più vecchia delle querce, immensa e forte, il tronco rivestito di piante rampicanti, e grande abbastanza per poter sostenere una casa sulle giunture di ogni ramo. L'armata di Bran si accampò sotto la smisurata distesa dei rami più bassi. Qui vivevano daini fulvi, grasse oche e succulenti maialini. La caccia era ottima. Sui rami centrali crescevano succose mele. Su quelli più alti, a un tiro di freccia, avevano il loro nido polposi uccelli. Da sotto l'intrico di edera spuntava il grano selvatico, con cui si faceva un pane eccellente. Era un posto meraviglioso per vivere, sotto quella quercia solitaria, e vi rimasero per la maggior parte della stagione, diventando sempre più grassi, credendo di trovarsi nel paese della cuccagna. Ogni giorno Bran si arrampicava un po' più in alto, ma tornava indietro prima di raggiungere la cima, impaurito, poiché non gli piaceva il modo in cui cantavano gli uccelli. Però tutte le volte pensava a quello che il ragazzo temerario gli aveva detto: che da là in alto, avrebbe potuto raggiungere l'Isola delle Donne, un luogo che Bran desiderava ardentemente. Conoscere la sua posizione gli avrebbe dato un grande potere su tutto il paese. Non sarebbe più stato ingannato dagli spiriti dei sentieri che disorientavano i mortali, se avesse saputo quale direzione prendere. Jack-nell'Albero aspettava. Una sera che il cielo era chiaro e l'aria calma e tiepida, Bran si arrampicò fino alla cima dell'albero. Da lì vedeva i confini del mondo. Vide le Isole dei Potenti, la Terra dei Giovani, l'Isola delle Donne, e quando ebbe im-
parato come raggiungere tutte quante, cominciò a discendere. Ma più velocemente discendeva, più Jack-nell'Albero cresceva, finché la quercia non divenne così pesante che cominciò a piegarsi e a oscillare nel vento. Ben presto si schiantò alla radice, e crollò pesantemente sugli scogli che costeggiavano l'Isola delle Donne, dove andò a sfracellarsi il corpo di Bran. Jack ritornò se stesso, il ragazzo temerario dalla lingua lunga e raccolse la testa del suo fratello più giovane. Mai avrebbe potuto correre veloce come un cane da caccia, così prese le sembianze di un cane da caccia e fuggì da quella terra sconosciuta, tornò al lago, ritornò alla campagna, al campo lavorato, e correndo attraverso la collina boscosa arrivò nel luogo dove un tempo si ergeva la casa di suo padre. I suoi fratelli erano là, ma sua sorella era scomparsa l'estate precedente, e non l'avrebbe trovata ancora per molti anni. Sputò dalla bocca gli ultimi semi, li piantò, e poi ricostruì la casa. Ora in quel luogo fiorisce un borgo, ed è ancora la zona migliore dell'isola per coltivare il grano. Una bianca figura, scolpita sulla collina, indica il punto in cui Jack lanciò la sua sfida d'orgoglio contro i predoni. Dall'altezza della sua testa, rivolta verso il sole morente, a volte si riesce a intravedere, all'ora del crepuscolo, la strana tomba di sua sorella. FINE