Donatien Alphonse François de Sade (Marchese De Sade) IL GIUDICE BEFFATO LA BIBLIOTECA DI LIBERO Titolo originale: Le pr...
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Donatien Alphonse François de Sade (Marchese De Sade) IL GIUDICE BEFFATO LA BIBLIOTECA DI LIBERO Titolo originale: Le président mystifié A cura di Lucia Tozzi Edizione speciale per Euromeeting Italiana / Mediasat Group sulla base del testo pubblicato da Sellerio Editore - Palermo © 2002 Sellerio Editore - Palermo © 2003 per la presente edizione speciale: Euromeeting Italiana / Mediasat Group Editing ed impaginazione per questa edizione Euromeeting Italiana - Blustudio Milano - Roma Stampa e legatura Encuadernaciones Marsa. S.A. Barcellona Donatien-Alphonse-François de Sade SCANSIONE DI SERENELLA ********** "... Stanno impiegando contro di voi le stesse armi di cui voi vi siete servito con gli altri. Dopo avere esercitato l'ingiustizia per trentanni, non è ragionevole che ne diveniate la vittima, almeno per una volta nella vostra vita?.." ********** IL GIUDICE BEFFATO A cura di Lucia Tozzi INTRODUZIONE di Silvia Grilli Che cosa poteva fare nel 1787 Donatien-Alphonse-Francois de Sade in una cella della Bastiglia? Che cosa poteva inventarsi un libertino collerico, straripante in tutto, visceralmente ateo e con un notevole talento d'immaginazione? Non poteva vivere, perché gliel'avevano impedito con una detenzione a 27 anni, sproporzionata ai suoi peccati di laceratore di virtù. Ma poiché non potevano vietargli d'immaginare, ha scritto Justine e Il Giudice beffato, un tipo di scrittura con una funzione calmante. Gli avrebbe permesso di soddisfare i suoi bisogni divoranti: in Justine l'erotismo esasperato, nel Giudice beffato un sentimento di vendetta ossessivo verso chi lo aveva espulso dalla società. Questa novella non è in realtà la storia di una beffa, ma la caricatura
dell'idiozia di un magistrato. L'inganno non ha nessuna importanza perché non ha alcuna qualità. D'altronde non ce n'è bisogno. Il signor di Fontanis, il giudice, bersaglio accuratamente scelto da Sade per il fastidio che riesce a suscitare, è un tale babbeo da cascare in ogni tranello senza che serva il minimo sforzo per intrappolarlo. E' brutto, bilioso, dichiaratamente ipocrita, apertamente codardo, indubbiamente mentalmente disturbato. Ammette di aver bandito l'intelligenza dal suo lavoro e il suo massimo divertimento è una bella impiccagione. Nulla in lui ha bellezza o rettitudine. Niente può attirare l'indulgenza o almeno la compassione del lettore. Indegno di umanità, è solo un pupazzone, un orrido punching-ball elastico che ondeggia ad uso del marchese che lo colpisce con i tiri più disgustosi. Che conforto deve essere scegliere, negli infiniti giorni di galera, quale tormento infliggere, e in qual dose, al tuo peggior nemico: un magistrato invasato del tribunale di Aix-en-Provence che ti sta facendo scontare una pena che consideri eccessiva per il tuo libertinaggio. "Dimmi, presidente" gli chiede Sade nella novella "se tu ti fossi abbandonato a qualche fantasioso capriccio nel fondo della tua casa, troveresti equo che un branco di balordi venisse a stanarti, cavasse fuori qualche bizzarria del tutto scusabile a 30 anni e ne approfittasse per guastare il tuo nome, disonorare i tuoi figli e saccheggiare i tuoi averi?". No, Sade ha deciso che non è giusto e si prende il risarcimento: oggi lo frustra, domani lo devasta con le coliche, dopodomani gli fa dei salassi, lo purga, lo fa precipitare tra i maiali, lo manda a letto con un asino, infine lo costringe al più maligno contrappasso per un togato integralista: pentirsi per essersi eretto arbitro delle esistenze altrui. Confrontandola con la biografia di Sade, la novella ricorda anche le circostanze del suo matrimonio. Il marchese fu spinto dal padre, per sistemare le sue finanze impoverite, a sposare la facoltosa figlia di un alto magistrato. Un matrimonio che Sade giudicava degradante per un gentiluomo come lui, anche perché in quel periodo era innamorato di Laure-Victoire-Adeline de Lauris, discendente di nobile casata. Quando, nel Giudice beffato, descrive le nozze combinate tra l'incantevole signorina de Téroze e il presidente del Parlamento di Aix, rozzo rospo con la toga che gli è stato destinato, Sade si riferisce a se stesso. Poi, nella vita vera del marchese, accadde anche che la suocera, la presidentessa di Montreuil, diventasse una delle principali responsabili del suo marcire in galera. Per questo, nei giorni di prigione, Sade la chiamò "vecchia imbecille", "puttana", sognò appaganti torture come scorticarla viva e buttarla nell'aceto. Nel ribrezzo per il signor di Fontanis, il marchese trasferisce anche l'odio e il disprezzo per la sua persecutrice fondendo tutto, in un'ossessiva ricerca del peggiore contrappasso. "Ci tenete ai vostri principi? E io a ai miei" scrive in una lettera alla famiglia della moglie "con la differenza che i miei si poggiano sulla ragione e i vostri sulla mera imbecillità". Sade finì al carcere di Vincennes, poi alla Bastiglia, dopo una lunga serie di scandaloso clamore e denunce per orge con servette, flagellazioni, sequestri di prostitute e di domestiche, rapporti omosessuali, distribuzione massiccia di afrodisiaci alle ragazze. Nel 1772 il parlamento di Aix-en-Provence lo condannò a morte in contumacia per avvelenamento e sodomia. Ma in realtà Sade era già stato mandato in galera, ne era evaso, era scappato in Italia. Poi, tornato a Parigi per la morte della madre, venne arrestato e rinchiuso nel torrione di Vincennes in virtù di una "lettre de cachet", un ordine di arresto del re ottenuto dalla suocera contro di lui. Nel 1778 ci fu il processo di appello alla corte di Aix-en-Provence. Le accuse principali della condanna a morte furono cassate. Sade divenne virtualmente libero per legge, tuttavia restò in carcere per effetto
della "lettre de cachet" chiesta dalla presidentessa di Montreuil. Era stato questo un modo per proteggere la famiglia dallo scandalo, sottraendo il marchese alla giustizia ordinaria. Per far passare il clamore sotto silenzio, gli aveva causato un danno irreparabile, lo aveva sottratto anche alla sua riabilitazione. Sade fuggì di nuovo, ma poi venne riarrestato e allora, irrimediabilmente segregato, cominciò a scrivere. Sarebbe ingiusto nei suoi confronti ridurre il Giudice beffato a un violento attacco personale, a una fantasia di rivincita, a una banale legge del taglione. La novella è anche una denuncia del fanatismo e dell'ipocrisia della magistratura francese. Sade, che è stato educato dallo zio abate di Ebreuil, amico di Voltaire, ha letto il Trattato sulla tolleranza e ha fatto sue le idee sul fanatismo dei magistrati. Nel Giudice Beffato ricorda il massacro, avvenuto nel 1545, dei cittadini eretici di Mérindol e Cabrières, che avevano aderito alla Riforma di Lutero e furono uccisi su ordine dei giudici di Aix-en-Provence. Rammenta l'affare Calas, quando a Tolosa, nel 1761, il calvinista Jean Calas fu ingiustamente accusato e fatto morire sulla ruota per aver ucciso il figlio che voleva farsi cattolico. Poi Voltaire, che ottenne la revisione del processo, riabilitò Calas. Nella novella, Sade fa intravedere la guerra tra la classe togata e il re. Dice di come il potere fanatico dei giudici si basi sulla debolezza del monarca. Accenna all'ambizione dei magistrati di rovesciare la monarchia per instaurare la repubblica a cui aspirano da tempo. Riferisce il loro obiettivo di salire ai vertici del potere per avere in mano le catene con cui ridurre il popolo in schiavitù: il momento magico delle manette per cui è mille volte meglio sacrificare la vita di quindici innocenti che rischiare di sottrarre alla morte un solo colpevole. Non sfuggirà ai lettori che il marchese d'Olincourt del Giudice beffato, l'arguto ed elegante tessitore della beffa, è un alter ego di Sade stesso. Un uomo ben nato, orgoglioso della sua classe, del privilegio di un'educazione che lo distingue dagli oscuri natali di "quel bestione imparruccato" della corte di Arx. Sade era un convinto aristocratico di quegli anni, acceso sostenitore dei propri privilegi di nascita, assolutamente non sfiorato da dubbi sul sistema delle classi. E con parole che oggi suonano irritanti, dice all'orrido signor di Fontanis che un gentiluomo non dovrebbe subire il disonore di una legge decisa da individui di rango inferiore. Ma, alla fine, quello che più conta in questa operetta dell'immaginazione, è la difesa estrema del privilegio libertino di poter realizzare le proprie fantasie senza alcun limite: "Ponetemi pure davanti al patibolo, io non cambierò mai" scriveva in una lettera alla moglie. Nel 1787, alla Bastiglia, il marchese capisce che nessuno ha intenzione di levargli le catene e allora costruisce il monumento di sé che più piacerà nel Novecento a Guillaume Apollinnaire e ai surrealisti: Sade lo spirito più libero che sia mai esistito, il demone antisociale, il vendicatore dei fantasmi più segreti. "Io sono un libertino, lo confesso. Tutto ciò che è possibile concepire in un tal genere di cose, io l'ho concepito" scrisse. Un libertino così orgoglioso del proprio istinto libertario da contrapporlo al peccato originale dei giudici, alla loro differenza antropologica: quale persona normale, si domanda Sade, potrebbe infatti pretendere di giudicare un altro? SILVIA GRILLI
NOTA di Remo Ceserani
Ciò che rende interessante questo testo è la sua straordinaria qualità ossessiva. Essa sembra far parte integrante della scrittura, essere nata e cresciuta in una gara di aggressività e smodatezza con lo scorrere stesso della penna sui fogli (quasi a marcarli, a fustigarli, a lacerarli, a far loro violenza). L'odio che il marchese prova per i magistrati di Aix, per tutta la magistratura di Provenza e di Francia, per il sistema giudiziario nell'intera sua impalcatura è riversato non tanto nella storia che egli inventa e racconta - storia un po' banale e ripetitiva di una beffa ordita alle spalle di una vittima così insipiente che non costringe i beffatori a lavorare di ingegno, come nelle grandi beffe della novellistica rinascimentale - quanto piuttosto in tutte le circostanze e i particolari della vicenda, che vengono tutti, senza eccezione, ossessivamente, presi a prestito per esercitare l'arte della vendetta e dell'ingiuria, di una serie infinita di attacchi personali violentissimi, che sembrano sempre lì lì per passare dalle parole ai fatti, alla tortura e al tormento fisico. Anche là dove si sente che il marchese si appoggia a qualche trovata narrativa tradizionale (i letti che si sfasciano sotto il peso dell'innamorato impaziente, la caduta boccaccesca del signor di Fontanis nel brago dei porci, la farsa degli spiriti nel castello infestato e così via), si avverte che l'odio diviene ispirazione creativa e suggerisce una quantità straordinaria di invenzioni metaforiche e verbali, tutte a spese della povera vittima, che viene di volta in volta graffiato, frustato, spennacchiato, smerdato, o a spese della magistratura, della società o della storia di Provenza, che anche là dove quasi non c'entrano, si prendono la loro parte di critiche e legnate. Non si può nemmeno dire che ci sia, in questo testo, una denuncia, magari esasperata, e però a modo suo filata e coerente, degli errori e delle storture del sistema giudiziario europeo di fine Settecento, della corruzione dei magistrati, dei conflitti di interesse. Lo scrittore non ha vere critiche da muovere o proposte da fare, in uno spirito da philosophe. L'attacco è totale, martellante, feroce, travolgente: nulla si salva. E l'attacco si trasferisce nella scrittura, violentandola. Non c'è coerenza narrativa che tenga, non strategia retorica di discorso. Tutto è sottomesso alla forza deformante dello stile vituperoso e beffardo, ogni giro di frase è un pretesto per dire tutto il male possibile dei giudici di Aix, e quindi anche della città di Aix, della sua regione, della Francia intera. In questa ferocia, proprio per la dismisura a cui si abbandona, non v'è nulla, neppure un velo di ironia che la alleggerisca. Il tono dominante è atrabiliare, malinconico, disperato: riesce a riscattarsi soltanto attraverso l'energia martellante con cui si ripete, creando un effetto di accumulo che tocca il sublime. REMO CESERANI
LA VENDETTA DI SADE di Lucia Tozzi «Molti diranno che l'autore di questa pièce è uno che ha perso il suo processo e vuole vendicarsi. Ebbene, costoro si ingannano! Ma a che servono le mie proteste, tanto nessuno mi crederà...» lamentava Sade nella prefazione a Le Prévaricateur, una commedia satirica sulla magistratura corrotta. In effetti, come credergli? Sade ha scritto quell'opera nel 1782, dopo cinque anni di reclusione nel carcere di Vincennes e con la prospettiva
di rimanerci per il resto dei suoi giorni; l'odio che allora nutriva nei confronti dei magistrati era implacabile, profondissimo, ed è sotto la pressione di quell'odio che ha preso forma il personaggio di Philoquet, il giudice prevaricatore. Manifestare costantemente il suo disprezzo per coloro che l'avevano giudicato era per Sade una ragione di vita: «Anche se queste sciagurate catene dovessero, sì, dovessero condurmi alla tomba, mi vedreste sempre uguale. Ho la sfortuna di avere ricevuto un'anima salda, che non ha mai saputo piegarsi e che non si piegherà mai.» Il marchese non si stancava mai di gridarlo dalle sbarre della cella, di riempire le sue lettere di invettive, di ricostruire ossessivamente l'insieme di trappole giudiziarie che hanno contribuito a rovinarlo. Il prodotto più singolare di questa energia inesauribile è Le président mystifié, un racconto concepito nel 1787 alla Bastiglia. Pubblicato postumo nelle Historiettes, contes et fabliaux, questo racconto non è una satira di costume o un conte philosophique sull'iniquità della giustizia, ma una vendetta personale di Sade contro quei giudici che l'avevano processato e condannato a Aix-en-Provence. Meglio ancora, lo si potrebbe definire una fantasticheria, un sogno a occhi aperti in cui Sade immagina il trattamento che riserverebbe a un magistrato di Aix caduto in suo potere. E in effetti, la storia consiste in un crescendo di atroci beffe e crudeli recriminazioni cui d'Olincourt, il quale come Sade è marchese e colonnello dei dragoni, sottopone Fontanis, presidente del Parlamento di Aix. In altre parole, Sade si vendica del suo nemico facendone una specie di Justine da farsa (la stesura della prima versione di Justine risale allo stesso periodo del Président mystifié): entrambi i personaggi subiscono angherie e maltrattamenti reiterati all'inverosimile, ma se alla fanciulla toccano in sorte stupri, orge blasfeme, impiccagioni, raffinate macchine di tortura, a Fontanis vengono somministrati purghe, salassi, bastonate, burle e insulti di ogni tipo. Il marchese d'Olincourt non bada a spese, pur di farsi beffe del presidente - recluta un numero straordinario di attori, comparse, animali, fa persino costruire un pallone aerostatico - e soprattutto non lesina parole: ogni occasione è buona per assalirlo con delle arringhe interminabili, il cui oggetto privilegiato, come si può facilmente immaginare, è la critica radicale del sistema giudiziario; ma il marchese batte con altrettanta insistenza su un caso specifico, su di un'ingiusta condanna che ha portato un gentiluomo alla rovina. Caso che ha molti elementi in comune con la vicenda di Sade, o meglio con la personalissima interpretazione che egli ne offre: un affare di puttane e di ragazzini, di frustate e di coliche, trasformato «a forza di astuzie inquisitorie, furberie, delazioni vilmente comprate» in un'accusa di avvelenamento e assassinio; per fugare ogni dubbio residuo circa l'oggetto in questione, per evitare che qualche sprovveduto lettore manchi di cogliere il riferimento al proprio vissuto, Sade si premura di collocare gli avvenimenti nel 1772, ovvero al tempo della sua esecuzione in effigie a Aix-en-Provence. La scrittura di Sade è tutt'altro che allusiva e reticente, risponde alla necessità di dire tutto: in questo caso deve rendere perfettamente intelligibile la sua rabbia per essere stato condannato a causa di qualche partie de femmes: «Sono solo colpevole di puro e semplice libertinaggio, come quello che praticano tutti gli uomini, in ragione del temperamento o dell'inclinazione più o meno forti ricevuti dalla natura.» Perché insomma dovrebbe essere il solo a pagare, e in maniera così irragionevolmente dura, per delle pratiche allora diffuse?
Fiumi di inchiostro sono stati versati sull'irregolarità dei processi di Sade, sulla sproporzione tra i fatti commessi e le pene, e sul perché non abbia goduto dell'impunità riservata alla sua classe sociale. «.e in realtà le dissolutezze compiute da Sade, i maltrattamenti feroci cui sottoponeva le sue vittime, non erano così comuni e ben tollerati come egli pretendeva che fossero, e le ragioni di una simile intransigenza si possono fare risalire in primo luogo alla noncurante ostentazione con cui egli ha agito: nei quattordici anni che vanno dall'affare Testard - il suo primo arresto per atti blasfemi fino al 1777, data dell'internamento a Vincennes, Sade è stato sempre sorvegliato, spiato dalla polizia. Pur consapevole di ciò, il marchese non ha ritenuto di dover fare il più piccolo sforzo per occultare le sue debosce: nel 1768, dopo un frenetico tourbillon di attrici e bordelli, viene arrestato per avere rapito, fustigato e minacciato di morte una mendicante (si tratta dell'affare di Arcueil, che gli costò la prima lettre de cachet, ovverosia un mandato di cattura emesso direttamente dalla corona, e cinque mesi di galera); nel 1772 scappa in Italia portando bellamente con sé la cognata, con una condanna a morte per avvelenamento e sodomia che gli pende sul capo: è il frutto di un'orgia organizzata nel centro di Marsiglia con il servo Latour e quattro o cinque ragazze, cui ha somministrato un afrodisiaco dall'effetto assai pernicioso, la cantaride. Dopo un ulteriore periodo di sette mesi in un carcere della Savoia e un secondo soggiorno in Italia, Sade si ferma nel suo castello di La Coste, in Provenza, ma neanche in questo frangente si dimostra capace di discrezione, e più di una volta i genitori di qualche giovanissima servetta lo denunciano per aver sedotto la loro figlia. A quel punto scatta l'arresto, ancora per effetto di una lettre de cachet: egli non uscirà dal carcere che a Rivoluzione avvenuta - a parte qualche giorno da evaso -nonostante abbia ottenuto sin dal 1778 la revisione del processo e la riabilitazione. E dunque il re in persona, sollecitato dalla famiglia, a segregarlo, in ottemperanza alla regola del mettere a tacere, del passare sotto silenzio: la lettre de cachet, sottraendo l'imputato al corso della giustizia ordinaria, proteggeva la famiglia e la società dallo scandalo provocato dalle sue intemperanze e dal clamore del processo. Ma perché, allora, tutta quella foga diretta esclusivamente contro la gens de robe, l'aristocrazia togata, quando è stato il re a bandirlo dalla società? La risposta è nel paradossale intreccio di eventi pubblici e privati legati ai primi scandali di Sade. La sua cattivissima stella ha voluto che il cancelliere Maupeou, primo presidente del Parlamento di Parigi, fosse acerrimo nemico di Claude Rene Cordier de Montreuil, presidente onorario della Cour des Aides e suocero di Sade, e che l'affare di Arcueil (1768) cadesse sotto la sua giurisdizione. Se in quelle circostanze il cancelliere non poté andare fino in fondo per via della lettre de cachet, quattro anni più tardi non si lasciò scappare un'occasione come l'affare di Marsiglia per infierire sul presidente Montreuil: sollecitando opportunamente i magistrati del tribunale di Aix, ottenne la condanna a morte in contumacia del marchese. Per colmo di sventura, alle ragioni personali si sommarono quelle di ordine politico: nel 1771 il cancelliere aveva sferrato in nome della monarchia un duro attacco ai Parlamenti (che all'epoca erano sostanzialmente delle corti di giustizia con alcuni margini di intervento in materia legislativa), conclusosi con l'esilio di molti magistrati ribelli e la creazione di tribunali ad hoc. Questo vero e proprio colpo di stato scatenò un putiferio: Malesherbes, presidente della Cour des Aides di Parigi, chiese la convocazione degli Stati Generali, molti dei philosophes - ma non Voltaire - appoggiarono la causa dei Parlamenti, vedendo in essi un indispensabile organismo di intermediazione tra il re e il suo popolo, e l'opinione pubblica divenne
sempre più ostile al governo. La punizione esemplare di un nobile libertino offriva a Maupeou un ritorno di popolarità, poteva essere propagandata come il frutto di una giustizia equa, al di sopra delle parti, insensibile ai privilegi. Dunque Sade non solo è caduto vittima di uno scontro di potere tra magistrati, ma per giunta vi si è trovato coinvolto grazie a una parentela che aveva sempre giudicato degradante per un aristocratico di antica famiglia (il matrimonio con Renée-Pélagie de Montreuil gli era stato imposto dal padre). I suoi sentimenti di rivalsa nei confronti dei robins - i togati - appaiono più che comprensibili, anche se gli argomenti che utilizza per attaccarli cozzano fragorosamente l'uno contro l'altro. Princìpi squisitamente garantisti, sull'arbitrarietà delle procedure, delle prove testimoniali, degli interrogatori, delle condanne, contro la prigione e la pena di morte, si accompagnano ad apologie del crimine e a considerazioni apertamente classiste. Nel Président mystifié assistiamo sulle prime alle giuste arringhe di d'Olincourt: «Sono forse concessi degli strumenti di difesa a un arrestato, e una delle vostre usanze più rispettabili non è forse quella di farlo marcire prima di ascoltarlo?»; e ancora: «Indipendentemente dal fatto che il vostro stolto rigore non ha mai fermato il crimine, è assurdo dire che un delitto possa compensarne un altro, e che la morte di un secondo uomo possa essere utile a quella del primo. Dovreste arrossire di simili sistemi, che provano molto meglio il vostro gusto per il dispotismo che la vostra integrità.» Ma poi, qualche pagina più in là, trionfa l'arroganza di classe: «E molto criticata la vostra composizione: non c'è un solo individuo, si dice, in tutto il Parlamento di Aix, che abbia un nome decente. Tutti mercanti di tonno, marinai, contrabbandieri, insomma una banda di spregevoli bricconi, con la quale la nobiltà non vuole avere nulla a che fare, e che affligge il popolo per compensare il discredito in cui versa.» Sade legge avidamente Voltaire, facendo man bassa di tutte le sue considerazioni sul corporativismo e sul fanatismo dei giudici, tuttavia come rimedio propugna la soppressione della magistratura e degli ordinamenti giudiziari, da sostituire «Con tre o quattro leggi semplici e chiare, deposte nel palazzo del sovrano, che gli anziani di ogni classe badino a far rispettare»; quanto ai magistrati, vale il suggerimento di d'Olincourt al presidente: «Non credete amico mio, che con le due eccellenti braccia che la natura vi ha dato sareste infinitamente più utile dietro a un aratro che in un'aula di tribunale?» Quindi, da una parte i giudici a zappare la terra con i contadini, e dall'altra gli aristocratici liberi finalmente di dare corso ai loro piaceri orrorifici, senza che nessuno li giudichi: un programma non troppo suggestivo, in apparenza una banale difesa del privilegio. In realtà il desiderio di Sade poggia su un'idea più articolata, che ricorre, con diverse sfumature, in tutte le opere successive, vale a dire l'incompatibilità tra la giustizia e l'universalità della legge: se è la natura a dotare gli uomini di temperamenti diversi, allora «è una spaventosa ingiustizia esigere che uomini di carattere ineguale si pieghino a leggi eguali: ciò che va bene a uno non lo va affatto a un altro.» Ne discende che anche i delitti più orrendi, essendo una semplice conseguenza delle passioni individuali ispirate dalla natura, sono legittimi e non vanno puniti. Tutti i grandi libertini di Sade, da Dolmancé a Juliette, non mancano mai, tra un orgasmo e l'altro, di insistere su questo punto: non sta a noi, miseri uomini, porre limiti alla natura, decidendo cosa è bene e cosa è male, e l'unica giustizia accettabile è la vendetta individuale. Un giudice è dunque più dannoso di un assassino: e non per il suo
rigorismo, per le sue brame di potere, o per la corruzione, la scorrettezza, l'estrazione sociale, ma proprio per il fatto che giudica. E' la libertà di non essere giudicato che Sade rivendica infine con un appello travolgente: «Tu, che credi ti sia permesso sterminare in nome delle tue leggi chi ha il solo torto di lasciarsi trascinare da quelle della natura, chi ha il solo torto di esser nato per il sacrosanto mantenimento dei propri diritti. Eh! Smettila con le tue folli sottigliezze! Godi, amico e non giudicare....» LUCIA TOZZI Nota al testo La traduzione di Le président mystifié è stata condotta sull'edizione curata da J. J. Pauvert delle (Euvres complète* du Marquis de Sade, Pauvert, Paris, 1986, vol. 2. Il racconto è stato pubblicato per la prima volta nel 1926, in una raccolta dal titolo Historiettes, contes et fabliaux, curata da Maurice Heine. Secondo il piano originale di Sade, Le président mystifié'era destinato a fare parte di una antologia di trenta novelle, i Contes et Fabliaux du XVIII siecle par un troubadour provensal. Il testo è stato ritrovato non nella sua versione definitiva, ma in una prima stesura la quale, sebbene riveduta e corretta dall'autore, presenta alcune negligenze e inesattezze di stile che nella traduzione si è scelto di non emendare.
IL GIUDICE BEFFATO
Oh!fiez-vous à moi, je veux les célébrer Si bien... que de vingt ans ils n'osent se montrer. Era con estrema amarezza che il marchese d'Olincourt, colonnello dei dragoni, uomo pieno di spirito, di grazia e di vivacità, vedeva sua cognata, la signorina de Téroze, finire nelle grinfie di uno degli esseri più spaventosi che fossero mai comparsi sulla faccia della terra. Questa incantevole ragazza di diciotto anni, fresca come Flora e modellata come le Grazie, legata da quattro anni al giovane conte d'Elbène, colonnello in seconda del reggimento di d'Olincourt, vedeva a sua volta con un fremito di terrore l'approssimarsi dell'istante fatale che l'avrebbe unita al rozzo sposo cui era destinata, separandola per sempre dall'unico uomo degno di lei. D'altronde, come opporsi? La signorina de Téroze aveva un padre vecchio, testardo, ipocondriaco e gottoso, un uomo che disgraziatamente credeva che a decidere i sentimenti di una ragazza per lo sposo non dovessero essere né le belle maniere né le qualità, ma solo la ragione, l'età matura e soprattutto la condizione, e che lo stato di un uomo di toga fosse il più incensato, il più prestigioso di tutti gli stati del regno, quello che d'altra parte egli preferiva in assoluto; soltanto con un magistrato la sua figlia minore sarebbe stata felice. A dire il vero l'anziano barone de Téroze aveva dato la figlia maggiore in sposa a un militare, e ciò che è peggio a un colonnello dei dragoni. Questa giovane, straordinariamente felice e fatta per esserlo sotto ogni riguardo, non aveva alcun motivo di pentirsi della scelta del padre. Ma tutto questo non aveva per lui alcuna importanza; se il primo matrimonio era riuscito, era per caso: di fatto, solo un magistrato poteva rendere completamente felice una fanciulla. Stabilito questo principio, si era dunque dovuto cercare un babbeo togato: ora, di tutti i possibili magistrati, il più amabile agli occhi del vecchio barone era un certo signore di Fontanis, presidente del Parlamento di Aix, che un tempo aveva conosciuto in Provenza. Ragion per cui, senza ulteriori riflessioni, Fontanis sarebbe diventato il marito
della signorina de Téroze. E' difficile riuscire a figurarsi un presidente del Parlamento di Aix: è una specie di animale di cui si è spesso parlato senza conoscerlo bene, rigorista di professione, cavilloso, credulone, testardo, vanitoso, poltrone, ciarlone e stupido per natura; è impettito come un'oca, tartaglia come Pulcinella, è di norma allampanato, logoro e ossuto e puzza come un cadavere... Si direbbe che tutta la bile e il rigore della magistratura del regno abbiano scelto la Temi provenzale per riversarsi poi di là, al bisogno, tutte le volte che una corte francese ha delle rimostranze da fare o dei cittadini da impiccare. Ma Fontanis offriva un quadro ancora più straordinario rispetto a questo rapido schizzo dei suoi confratelli. Al di sopra del corpo scarno e un po' curvo che abbiamo appena dipinto, si poteva vedere una testa stretta e lunga, ornata di una fronte giallastra magistralmente ricoperta da una parrucca buona a ogni occasione, di cui a Parigi non si era ancora visto il modello. Due gambe un po' storte sostenevano con una certa pompa questo campanile ambulante, dal cui petto esalava, non senza fastidio per i vicini, una voce stridula che declamava lunghi discorsi enfatici mezzo in francese mezzo in provenzale; della qual cosa non mancava mai di sorridere lui stesso, spalancando la bocca al punto da mostrare fino in fondo all'ugola una voragine nerastra, sdentata, escoriata in più punti e simile all'apertura di quel certo sedile che, vista la struttura della nostra misera umanità, diventa tanto spesso il trono del re quanto quello del contadino. A prescindere da queste attrattive fisiche, il signore di Fontanis affettava un bello spirito: dopo aver sognato, una notte, di essersi elevato al terzo cielo con San Paolo, si reputava il più grande astronomo di Francia; discuteva di legge come Farinacius e Cujas,1 e lo si sentiva spesso dire con questi grandi uomini, e con i suoi confratelli che non sono affatto grandi uomini, che la vita di un cittadino, il suo patrimonio, il suo onore, la sua famiglia, tutto quello che insomma la società considera sacro, non ha alcun valore di fronte alla scoperta di un delitto, e che è mille volte meglio sacrificare la vita di quindici innocenti che rischiare di sottrarre alla morte un colpevole. Il cielo infatti è sempre giusto, se i Parlamenti non lo sono, e la punizione di un innocente non ha altri inconvenienti che quello di mandare un'anima in paradiso, mentre risparmiare un colpevole rischia di moltiplicare i crimini sulla terra. Una sola classe di individui aveva dei diritti sulla coscienza indurita del signore di Fontanis, quella delle puttane. Non è che ne facesse grande uso, in generale: benché molto focoso, aveva scarso vigore, e i suoi desideri andavano sempre molto al di là delle sue possibilità. Fontanis mirava semplicemente alla gloria di trasmettere il suo illustre nome alla posterità:
Nota: Jacques Cujas (1522-1590), il più importante esponente francese dell'umanesimo giuridico, e Prospero Farinacci (1544-1618), il codificatore della giurisprudenza in materia di tortura [N.d.T.].
quello che spingeva questo celebre magistrato a usare indulgenza nei confronti delle sacerdotesse di Venere era il fatto che, a suo dire, poche cittadine erano più utili allo Stato, e che con la loro furberia, falsità e ciarlataneria, si arrivavano a scoprire una moltitudine di crimini segreti; e Fontanis aveva questo di buono, che era nemico giurato di quelle che i filosofi chiamano le umane debolezze. Questa
combinazione alquanto grottesca di fisico ostrogoto e morale giustiniana uscì per la prima volta dalla città di Aix nell'aprile del 1779, e, su invito del barone de Téroze, che conosceva da anni per ragioni poco importanti per il lettore, si stabilì all'albergo di Danimarca, non lontano dal palazzo del barone. Siccome si era allora nel periodo della fiera di Saint-Germain, tutti nell'albergo credettero che questo animale straordinario fosse venuto per esibirsi. Uno di quei personaggi solerti che offrono sempre i loro servigi negli alberghi gli propose persino di avvertire Nicolet, che lo avrebbe esposto con piacere in una delle sue gabbie, a meno che non preferisse debuttare da Audinot. Il presidente disse:1 «La mia governante mi aveva avvertito, quand'ero piccolo, che il popolo parigino, caustico e insolente, non avrebbe mai reso giustizia alle mie virtù, e tuttavia il mio barbiere garantiva che la mia parrucca avrebbe ispirato rispetto.
Nota: Si avverte il lettore che bisogna provenzalizzare e gutturalizzare le battute del presidente, anche se l'ortografia non lo indica [N.d.T.].
Il buon popolo scherza quando muore di fame, canta quando viene oppresso... Ah, io l'ho sempre sostenuto, per questa gente ci vorrebbe un'inquisizione come a Madrid o una forca sempre in piedi come a Aix.» Ciononostante il signore di Fontanis, dopo una svelta toilette che non mancò di mettere in rilievo lo splendore delle sue grazie sessagenarie, dopo alcune irrorazioni di acqua di rose e di lavanda che, come dice Orazio, non sono ornamenti ambiziosi, dopo queste e forse altre precauzioni di cui non siamo a conoscenza, andò dunque a presentarsi all'amico, il vecchio barone. I due battenti si aprono, il presidente viene annunciato ed entra. Disgraziatamente per lui, quando quell'originale figura fece la sua comparsa, le due sorelle e il conte1 d'Olincourt si stavano divertendo in un angolo del salone come dei ragazzini, e per quanti sforzi facessero, divenne loro impossibile reprimere un attacco di risate che mise in grande difficoltà l'austero contegno del magistrato provenzale. Questi aveva studiato a lungo davanti allo specchio la sua riverenza d'entrata, e la stava eseguendo in modo passabile, quando quel maledetto scoppio di risa scappato ai giovani bloccò il presidente in un inchino molto più lungo di quanto si fosse proposto. Nota: 1 Errore di Sade: si tratta evidentemente del marchese [N.d.T.]. Tuttavia si raddrizzò, una severa occhiata del barone riportò i tre giovani nei limiti della creanza, e la conversazione ebbe inizio. Il barone, che voleva andare dritto allo scopo e aveva già riflettuto abbastanza, prima che il colloquio fosse terminato dichiarò alla figlia che quello era lo sposo che le destinava, e che entro otto giorni al più tardi lei doveva concedergli la sua mano. La signorina de Téroze non disse nulla, il presidente si congedò, e il barone ripeté che voleva essere obbedito. La situazione era crudele: non solo questa bella ragazza adorava il signore d'Elbène, non solo ne era idolatrata, ma, debole quanto sensibile, aveva purtroppo già lasciato cogliere al suo incantevole amante quel fiore che, differentemente dalle rose cui viene spesso paragonato, non ha la facoltà di rinascere a ogni primavera. Ora, che avrebbe pensato il signore di Fontanis, un presidente del Parlamento di Aix, trovando il suo dovere già compiuto? Un magistrato provenzale può essere per molti aspetti ridicolo, il che è tipico della sua classe, ma di primizie ne capisce, e si aspetta di trovarle almeno per una volta nella vita in sua moglie.
Ecco cosa impensieriva la signorina de Téroze, la quale, pur se vivace e spigliata, non mancava di quella delicatezza necessaria a una donna in questi casi. Le era perfettamente chiaro che suo marito l'avrebbe stimata assai poco, se si fosse convinto che lei gli aveva mancato di rispetto prima ancora di conoscerlo. Giacché non c'è nulla di più fondato dei nostri pregiudizi su questo argomento: una povera ragazza non solo è costretta a sacrificare tutti i sentimenti del suo cuore al marito che i genitori le impongono, ma viene anche giudicata colpevole se, prima di conoscere il tiranno che la imprigionerà, ha avuto modo, dando ascolto a nient'altro che la natura, di abbandonarsi per un istante al suo richiamo. La signorina de Téroze confidò le sue pene alla sorella, la quale, decisamente più frivola che bigotta e più graziosa che devota, rise di cuore alla confidenza e ne rese subito partecipe il marito. Costui, preoccupato dallo stato di logoramento e di lacerazione delle cose, decise che bisognava guardarsi dall'offrirle ai sacerdoti di Temi, dal momento che quei signori non scherzavano affatto su argomenti di tale importanza, e che la sua povera cognata rischiava, non appena entrata nella città dalla forca sempre in piedi, di salirci come vittima immolata al pudore. Il marchese cominciò poi ad addurre colte argomentazioni - qualche volta, soprattutto dopo cena, dava prova di una certa erudizione dimostrando che i Provenzali erano una colonia egiziana, che gli egiziani sacrificavano spesso delle giovinette, e che di conseguenza un presidente del Parlamento di Aix, con le sue origini di colono egiziano, avrebbe potuto senza alcuna difficoltà tagliare a sua cognata il più delizioso collo del mondo... «Questi presidenti coloni sono dei tagliatori di teste» proseguì d'Olincourt «vi spezzano la nuca con la stessa facilità con cui una cornacchia abbatte le noci, senza stare a distinguere se sia giusto o meno. Il rigorismo, come Temi, ha una benda sugli occhi, ed è stata la stupidità a sistemarcela: nella città di Aix non arriva mai la filosofia a strapparla via....» Si risolse dunque di fissare un incontro: il conte, il marchese, la signora d'Olincourt e la sua affascinante sorella si ritrovarono a cena nel Bois de Boulogne, in una petite maison del marchese, e là il severo aeropago stabilì con uno stile alquanto enigmatico, somigliante alle risposte della Sibilla cumana o ai decreti del Parlamento di Aix (che per via dell'origine egiziana ha qualche diritto al geroglifico), che il presidente sì sarebbe sposato e non si sarebbe sposato punto. Dopo avere formulato la sentenza e istruito gli attori, tutti ritornano dal barone: la figlia non oppone al padre alcuna difficoltà, i d'Olincourt assicurano di essere entusiasti di queste nozze così ben assortite, vezzeggiano mirabilmente il presidente guardandosi dal ridere in sua presenza, insomma conquistano a tal punto la simpatia di genero e suocero da ottenere che il matrimonio venga celebrato al castello d'Olincourt, una splendida proprietà del marchese, situato presso Melun. Tutti sono d'accordo; solo il barone è desolato, a suo dire, di non poter partecipare a quella bella festa: ma se potrà, andrà a trovarli. Infine il grande giorno arriva, i due sposi sono uniti dal sacro vincolo a Saint-Sulpice, di primo mattino e senza pompa, e il giorno stesso tutti partono per d'Olincourt. Il conte d'Elbène, camuffato nei panni di La Brie, cameriere personale della marchesa, riceve la compagnia al suo arrivo, e dopo cena introduce gli sposi nella camera nuziale dove egli stesso ha predisposto l'arredo e i congegni per i giorni successivi.
«Caspita, piccola mia» disse l'innamorato provenzale non appena si trovò solo con la sposa «le vostre forme sono quelle di Venere! Non so davvero dove le abbiate prese, ma in tutta la Provenza non si troverebbe nulla del genere.» Poi, palpeggiando sotto le gonne la misera Téroze, che non sapeva se cedere al riso o allo spavento: «Ma senti un po' qua, e qua sotto, anche! Che io sia dannato e non giudichi mai delle puttane se queste non sono le fattezze dell'Amore sotto le splendenti gonnelle di sua madre.»
Nota: 1 Espressione provenzale [N.d.A.]. 38
In quel momento La Brie entra con due coppe d'oro, ne porge una alla giovane sposa, offre l'altra al presidente: «Bevete, casti sposi» dice «e possiate trovare entrambi in questa bevanda gli omaggi dell'amore e i doni dell'imeneo.» E aggiunge, vedendo il presidente chiedere spiegazioni: «E' un'usanza parigina che risale ai tempi del battesimo di Clodoveo: è nostra abitudine che gli sposi, prima di celebrare i misteri da cui presto sarete occupati, attingano le forze necessarie all'impresa da questo infuso purificato dalla benedizione del vescovo.» «Ah, perbacco, volentieri» risponde il magistrato «datemi qua, amico mio... ma attenzione, se date fuoco alle stoppie la vostra giovane padrona dovrà stare attenta: sono già fin troppo ardente, e se mi fate andare fuori di me, non so cosa potrebbe succedere.» Il presidente beve d'un fiato, la giovane sposa lo imita, i servitori si ritirano e gli sposi si mettono a letto; ma non appena vi entra, il presidente viene preso da dolori alle viscere così acuti, da una necessità così impellente di sgravare la sua debole natura dalla parte opposta a quella richiesta dalle circostanze, che senza fare caso al luogo e senza alcun riguardo per colei che divide il suo letto, lo inonda di un tale diluvio di bile che la sgomenta signorina de Téroze fa appena in tempo a saltare giù e chiamare aiuto. Il signore e la signora d'Olincourt, che si erano guardati bene dall'andare a dormire, si precipitano da lei: il presidente costernato si avvolge nelle lenzuola per non farsi vedere, senza badare al fatto che più si nasconde e più si insozza, e diventa infine un tale oggetto di orrore e ripugnanza che la sua giovane sposa e tutti i presenti si ritirano commiserandolo e assicurandogli che avviseranno il barone di mandare subito al castello il miglior medico della capitale. «Giusto cielo!» esclama il povero presidente costernato, appena viene lasciato solo «che avventura è mai questa! Per noi è legittimo debordare in questo modo nel nostro palazzo, seduti sui gigli,1 ma durante la prima notte di nozze, e nel letto della sposa, in verità, non è proprio ammissibile.» Delgatz, un luogotenente del reggimento di d'Olincourt che aveva seguito qualche corso di veterinaria per i cavalli dell'esercito, arrivò l'indomani con il titolo e gli attributi di uno dei più celebri figli di Esculapio. Al signore di Fontanis era stato consigliato di presentarsi in negligé, e la presidentessa de Fontanis, alla quale tuttavia non dovremmo ancora attribuire tale nome, non nascose a suo marito quanto lo trovasse interessante in questa foggia:
Nota: 1 «Sedere sui gigli» si diceva dei magistrati, in particolare dei membri di una corte superiore, con allusione alla tappezzeria disseminata di gigli - stemma del trono francese - che ricopriva le sedie [N.d.T.].
egli indossava una veste da camera di durante gialla a strisce rosse, aderente in vita, ornata di orli e risvolti, e sotto portava un farsetto di filo scuro, con delle brache alla marinara dello stesso colore, e un berretto di lana rossa; questa tenuta, messa in risalto dall'affascinante pallore cagionato dall'incidente della sera prima, ispirò un tale impeto d'amore alla signorina de Téroze che non volle lasciarlo un solo istante. «Caspita» diceva il presidente «quanto mi ama, questa è davvero la donna che il cielo ha destinato alla mia felicità; ieri sera mi sono condotto assai male, ma non si ha tutti i giorni la cacarella.» Nel frattempo il medico arriva, tasta il polso del malato e, impressionato dalla sua debolezza, gli dimostra con gli aforismi di Ippocrate e i commentari di Galeno che se non prenderà a rinforzarsi annaffiando la cena con una mezza dozzina di bottiglie di vino di Spagna o di Madeira, la deflorazione che ha in animo diventerà del tutto impossibile; riguardo all'indigestione del giorno prima, assicurò che non era nulla. «Il motivo, signore» gli disse «è che la bile non era filtrata bene nei condotti del fegato.» «Ma» disse il marchese «l'incidente non era pericoloso.» «Mi perdoni, signore» rispose gravemente il seguace del tempio di Epidauro «in medicina non esistono piccole cause che non possano generare conseguenze, se noi non ne sospendiamo gli effetti immediatamente. Questo leggero malore avrebbe potuto produrre un'alterazione sensibile dell'organismo del signore. La bile infiltrata, trasportata dall'arco dell'aorta nell'arteria succlavia, e condotta poi di là attraverso le carotidi nelle delicate membrane del cervello, alterando la circolazione degli spiriti animali, sospendendo la loro attività naturale, avrebbe potuto provocare la follia.» «Oh cielo» riprese piangendo la signorina de! Téroze «mio marito pazzo, sorella mia, mio marito pazzo!» «Rassicuratevi, signora, non è nulla. Grazie alla prontezza delle mie cure, oramai rispondo della salute del malato.» A queste parole si vide la gioia rinascere in tutti i cuori, il marchese d'Olincourt abbracciò teneramente suo cognato, gli dimostrò con le maniere più espansive e provinciali il grande affetto che provava per lui, e non si pensò più ad altro che al piacere. Il marchese ricevette quel giorno i suoi vicini; il presidente volle andarsi a vestire, ma glielo impedirono, trovando spassosissimo presentarlo in quella mise a tutta la società del circondario. «Il fatto è che è davvero seducente, vestito così» diceva a ogni momento la perfida marchesa «in verità, signor d'Olincourt, se prima di conoscervi avessi saputo che la magistratura di Aix contava tra i suoi membri delle persone affascinanti come il mio caro cognato, vi dico che non avrei mai scelto un marito che non appartenesse a questa rispettabile corte.» E il presidente ringraziava, si inchinava ridacchiando, qualche volta facendo smorfie davanti agli specchi, mormorando tra sé e sé: «Certo è che non sono niente male.» Infine giunse l'ora della cena, cui partecipò anche l'esecrabile medico, il quale, bevendo come uno Svizzero, non faticò molto per convincere il suo malato a imitarlo. Si era badato a mettere vicino a loro dei vini molto forti, che annebbiandogli rapidamente gli organi del cervello misero ben presto il presidente
nella condizione desiderata. Tutti si alzarono; il luogotenente, che aveva recitato perfettamente la sua parte, andò a letto, e l'indomani levò le tende. Quanto al nostro eroe, la mogliettina se ne impadronì e lo condusse fino al letto nuziale; tutti lo scortavano in trionfo e la marchesa, incantevole sempre, ma ancora di più se aveva bevuto champagne, gli assicurava che si era lasciato troppo andare, e ch'ella temeva che, infiammato dai fumi di Bacco, neppure quella notte l'Amore avrebbe potuto avvincerlo nelle sue catene. «Non c'è da preoccuparsi, signora marchesa» rispose il presidente «quando gli dei seduttori congiungono le loro forze diventano ancora più temibili; quanto alla ragione, dal momento che se ne può fare a meno, che importa se si perde nel vino o nelle fiamme della passione, cosa importa a quale delle due divinità si sacrifica? Noi magistrati sappiamo privarci dell'uso della ragione più che di qualunque altra cosa. Bandendola dai nostri tribunali e dalla nostra testa, ci divertiamo a calpestarla, ed è questo che fa dei nostri decreti dei veri capolavori: giacché, anche se sono del tutto privi di buon senso, vengono eseguiti altrettanto fermamente che se avessero un significato intelligibile. Così come mi vedete, signora marchesa» continuava il presidente inciampando e riacciuffando il suo berretto rosso che una momentanea instabilità aveva separato dal suo cranio pelato «sì, in verità proprio come mi vedete, sono una delle teste migliori della mia compagnia: I sono stato io, l'anno scorso, a convincere i miei brillanti confratelli che bisognava esiliare per dieci anni dalla provincia, rovinandolo per sempre, un gentiluomo che aveva sempre servito il re con onore, e tutto per un affare di donne: c'erano delle resistenze, io ho insistito e l'assemblea si è arresa... Diamine, io amo le buone abitudini, la temperanza e la sobrietà, e tutto ciò che oltraggia queste due virtù mi ripugna, e allora divento feroce. Bisogna essere severi, la severità è la figlia della giustizia... e la giustizia è la madre di... le porgo le mie scuse, signora, ci sono dei momenti in cui la memoria fa acqua....» «Sì, certo, vi capisco» rispose l'allegra marchesa uscendo dalla stanza e portando con sé tutti gli altri «ma fate attenzione a che stasera non vi facciano difetto altre cose, oltre alla memoria, perché in fin dei conti bisogna finirla con questa storia, e alla mia sorellina che vi adora non può eternamente andare a genio una tale astinenza.» «Non temete, signora, non temete» continuò il presidente, cercando di accompagnarla alla porta con passo sghembo «non abbiate paura, ve ne scongiuro: domani sarà la signora di Fontanis a tutti gli effetti, quanto è vero che sono un uomo d'onore. Non è vero, piccola mia?» continuò il magistrato avvicinandosi alla compagna. «Convenite che questa notte sarà cosa fatta... vedete anche voi come tutti lo desiderano. Non c'è un solo individuo nella vostra famiglia che non sia onorato di legarsi a me: nessuna alleanza è più lusinghiera per una casata che quella con un magistrato.» «E chi ne potrebbe dubitare, signore» rispose la giovane «vi assicuro che per conto mio non mi sono mai sentita tanto orgogliosa che da quando mi sento chiamare Signora presidentessa.» «Non stento a crederlo. Ma su, spogliatevi, mia stella, avverto una certa pesantezza e vorrei, se fosse possibile, portare a termine la nostra operazione prima che il sonno si impadronisca del tutto di me.» Ma la signorina de Téroze, secondo l'uso delle giovani spose, non la finiva mai di prepararsi: non trovava mai quello che le serviva, strapazzava le cameriere e non era mai pronta. Il presidente, sfinito, si decise a mettersi a letto, limitandosi a sbraitare per un quarto d'ora: «Ma venite dunque, maledizione, venite, non capisco che diavolo state facendo! Presto, o non sarà più tempo!»
Ma nulla si mosse, e poiché nello stato di ubriachezza in cui si trovava il nostro moderno Licurgo era davvero difficile posare la testa su un cuscino senza addormentarsi, egli cedette alla più pressante delle esigenze, e già russava come se avesse giudicato qualche puttana marsigliese prima ancora che la signorina de Téroze avesse cambiato camicia. «Eccolo sistemato» disse il conte d'Elbène entrando piano nella stanza «vieni, anima mia, vieni a donarmi quei felici istanti che quel rozzo animale vorrebbe rapirci.» Con queste parole trascinò via il toccante oggetto della sua idolatria; nell'appartamento nuziale si spengono le luci, il parquet viene coperto di materassi, e a un cenno la porzione di letto occupata dal nostro magistrato viene sospesa per mezzo di qualche puleggia a venti piedi da terra, il tutto senza che il presidente, immerso nel sonno profondo dell'ebbrezza, si accorga di nulla. Tuttavia verso le tre del mattino, risvegliato da una sensazione di gonfiore alla vescica, allunga la mano alla ricerca di un tavolino contenente un vaso adatto alla bisogna, che rammenta essere assai vicino al letto. Stupito dapprima di non trovare altro che vuoto, si sporge: ma il letto, tenuto da corde, si conforma al suo movimento, e oscilla fino a rovesciare in mezzo alla stanza il suo carico. Il presidente cade sui materassi preparati, e la sua sorpresa è così forte che si mette a urlare come un vitello allo scannatoio. «Eh, che diavolo accade, signora? Signora, siete là? Avete idea di come sono caduto? Ieri mi sono coricato su un letto alto quattro piedi, e poi per cercare il vaso da notte cado da più di venti d'altezza!» Ma siccome nessuno rispondeva a questi accorati lamenti, il presidente, che in fondo non si trovava male in quella posizione, rinuncia alle sue ricerche e termina lì la sua notte, come se stesse nel suo giaciglio provenzale. Si era avuto cura di rimettere il letto al suo posto dopo la caduta, facendolo aderire perfettamente all'altra metà, e verso le nove del mattino la signorina de Téroze era rientrata di soppiatto nella stanza; una volta dentro, apre all'improvviso tutte le finestre e chiama la servitù. «In verità, signore» dice «la vostra compagnia non è delle più piacevoli, bisogna convenirne. Mi lamenterò con la mia famiglia del vostro comportamento nei miei confronti.» «Che succede?» dice il presidente tornato in sé, stropicciandosi gli occhi e non riuscendo a capacitarsi di come si trovi sul pavimento. «Come sarebbe a dire, che succede?» esclama la giovane consorte simulando del suo meglio la collera. «Quando stanotte mi sono accostata a voi, guidata dai movimenti che mi dovevano fare vostra, per assicurarmi che ricambiaste i sentimenti che provo per voi, mi avete respinto tanto furiosamente da buttarmi a terra.» «Santo cielo, piccola mia! Ecco, ora comincio a capirci qualcosa, vi faccio mille scuse... Questa notte, spinto da un'impellenza, cercavo in tutti i modi di soddisfarla, e muovendomi qua e là devo avere gettato nello stesso tempo sia voi che me fuori del letto. A mia discolpa devo aggiungere che stavo certamente sognando, visto che ho creduto di cadere da più di venti piedi d'altezza. Via, non è nulla, non è nulla, angelo mio, basta rimandare l'affare alla prossima notte, e vi giuro che sarò attentissimo, berrò soltanto dell'acqua. Ma datemi un bacio almeno, cuoricino mio, facciamo la pace prima di comparire in pubblico, o vi crederò amareggiata, e non lo vorrei neanche per un impero.» La signorina de Téroze porge una delle sue gote di rosa, ancora accesa
dal fuoco della passione, ai laidi baci del vecchio fauno, gli altri entrano e gli sposi nascondono con cura la disgraziata catastrofe notturna. Il resto della giornata trascorre in piacevoli occupazioni, e soprattutto in passeggiate che hanno lo scopo di allontanare Fontanis dal castello, dando così il tempo a La Brie di fare dei nuovi preparativi. Il presidente, ben deciso a condurre la vicenda a buon fine, fu talmente morigerato durante i pasti che diventò impossibile servirsi di quei mezzi per confondergli i sensi. Ma fortunatamente le risorse a disposizione erano molte, e troppi i nemici congiurati di Fontanis, perché questi potesse sfuggire alle loro trappole. Tutti andarono a dormire. «Oh! Per questa notte, angelo mio» disse il presidente alla sua giovane metà «mi lusingo di credere che non ve la caverete.» Ma mentre dava mostra di coraggio, le armi che minacciava di usare erano ben lungi dall'essere pronte, e visto che voleva presentarsi all'assalto in piena regola, il povero Provenzale faceva incredibili sforzi nel suo canto: si allungava, si irrigidiva, contraeva tutti i nervi, si abbatteva pesantemente sul materasso, fino a che non si spezzarono le travi del solaio, precipitando l'infelice magistrato in un porcile posto esattamente sotto la camera. Si discusse poi a lungo al castello d'Olincourt su chi dovesse essere stato maggiormente sorpreso, se il presidente al ritrovarsi tra quegli animali così comuni nella sua patria oppure gli animali vedendo in mezzo a loro uno dei più celebri magistrati del Parlamento di Aix. Alcuni sostenevano che la soddisfazione doveva essere stata pari: in fin dei conti, il presidente avrebbe dovuto essere al settimo cielo ritrovandosi per così dire in compagnia, respirando per un istante l'aria di casa, e, da parte loro, gli animali impuri proibiti dal buon Mosè dovevano rendere grazie al Signore per il fatto di essere incappati in un legislatore del Parlamento di Aix. Questi, infatti, abituato sin dall'infanzia a giudicare cause relative all'elemento favorito da queste buone bestie, avrebbe potuto un giorno accomodare e mettere a punto tutte le discussioni tendenti a questo elemento così comune all'organizzazione degli uni e degli altri. In ogni caso, poiché là per là non legarono, e visto che la civiltà, madre dell'educazione, non è in nulla più avanzata tra i membri del Parlamento di Aix che tra gli animali disprezzati dagli israeliti, vi fu subito una sorta di scontro, durante il quale il presidente non ebbe a cogliere lauri: fu battuto, pestato, incalzato a colpi di grugno. Fece delle rimostranze, ma non fu ascoltato; promise di prendere nota, e niente; parlò di arresti senza suscitare maggiore emozione; minacciò l'esilio, e fu calpestato. Il povero Fontanis stava già lavorando a una sentenza, come minimo una condanna al rogo, quando finalmente arrivarono a soccorrerlo. Erano La Brie e il colonnello, armati di torce, che venivano a tirare fuori il magistrato dal fango in cui era immerso. Ma bisognava innanzitutto capire da che lato prenderlo, e siccome era completamente insudiciato dalla testa ai piedi, si trattava di un'operazione laboriosa e nauseabonda. La Brie andò a cercare un forcone, un palafreniere prontamente chiamato ne portò un altro, e si trasse così meglio che si poté il nostro uomo dall'infame cloaca in cui la caduta lo aveva sprofondato: ma a questo punto il dilemma, di non facile soluzione, era dove trasportarlo. Bisognava purgare la sentenza, lavare il colpevole: il colonnello propose delle lettere di abolizione, ma il palafreniere che non intendeva il senso di quei paroloni disse che bastava semplicemente depositarlo per un paio d'ore nell'abbeveratoio, e dopo questa lunga immersione si poteva tentare di renderlo presentabile
strofinandolo con della paglia. Il marchese però dichiarò che l'acqua fredda avrebbe potuto alterare la salute di suo cognato, e La Brie rammentò che nel lavatoio dello sguattero c'era ancora dell'acqua calda. Il presidente viene dunque trasportato in cucina e affidato a questo allievo di Comò, che in meno di mezz'ora lo fa luccicare come una scodella di maiolica. «Non vi propongo di tornare da vostra moglie» disse d'Olincourt quando vide il giudice ripulito «conosco la vostra delicatezza. La Brie vi condurrà in un piccolo appartamento da scapolo, dove passerete tranquillamente il resto della notte.» «Bene, bene, signor marchese» disse il presidente «approvo il vostro progetto... Ma, ne converrete, devo essere sotto l'effetto di un maleficio. E' incredibile che mi capitino delle avventure simili tutte le notti da quando sono in questo maledetto castello.» «Ci deve essere qualche causa di ordine fisico» disse il marchese «il medico torna qui domani, vi consiglio di consultarlo.» «Lo farò senz'altro» rispose il presidente mentre La Brie lo accompagnava nella sua stanzetta. «In verità, mio caro» disse a quest'ultimo mettendosi a letto «non ero mai stato così vicino alla meta.» «Ahimè, signore» gli rispose l'abile giovane ritirandosi «sarà il volere del fato, e vi compiango con tutto il cuore.» Dopo aver tastato il polso del presidente, Delgatz gli disse che la rottura delle travi proveniva da un ingorgo dei vasi linfatici, che raddoppiando la massa degli umori aveva aumentato in proporzione il volume animale; a causa di ciò, era necessaria una dieta austera, che purificando l'asprezza degli umori avrebbe necessariamente diminuito il peso fisico e dunque contribuito al successo dei propositi, e che d'altronde... «Ma signore» lo interruppe Fontanis «mi sono azzoppato e slogato un braccio in questa spaventosa caduta.» «Lo credo bene» rispose il dottore «ma non sono questi effetti secondari a preoccuparmi. Io risalgo sempre alle cause, bisogna lavorare sul sangue, signore. Diminuendo l'amarezza della linfa, liberiamo i vasi, e se facilitiamo la circolazione dei vasi, riduciamo necessariamente la massa fisica. Ne risulta che i solai non cederanno più al vostro peso, e voi potrete abbandonarvi nel vostro letto a tutti gli esercizi che vorrete senza correre altri pericoli.» «E il mio braccio, signore, e l'anca?» «Purghiamo, signore, purghiamo, e poi proviamo un paio di salassi locali e tutto si ristabilirà senza che ve ne accorgiate.» La dieta cominciò il giorno stesso. Delgatz, che non lasciò mai il malato per una settimana, gli diede solo brodo di pollo e lo purgò tre volte di seguito, proibendogli sopra ogni altra cosa di pensare a sua moglie. Benché il luogotenente Delgatz fosse completamente ignorante in materia, la dieta funzionò a meraviglia: come ebbe modo di comunicare agli altri, egli aveva riservato lo stesso trattamento, quando lavorava alla scuola veterinaria, a un asino che era caduto in una fossa molto profonda, e nel giro di un mese la bestia rimessa in salute portava gagliardamente dei sacchi di gesso, come aveva sempre fatto.
Effettivamente il presidente, bilioso per natura, diventò fresco e colorito, le contusioni sparirono, e non rimase altro che rifocillarlo per fargli recuperare le forze utili ad affrontare l'impresa che ancora doveva compiere. Al dodicesimo giorno di cura, Delgatz prese il suo malato per mano e lo condusse da sua moglie: «Eccolo qua, signora» le disse «eccovi quest'uomo I ribelle alle leggi di Ippocrate, ve lo riporto sano e salvo, e se si abbandonerà senza freni alle forze che gli ho reso, tra sei mesi avremo il piacere di vedere» continuò Delgatz posando leggermente la mano sul grembo della signorina de Téroze «sissignora, avremo la soddisfazione di vedere questa bella pancia arrotondata dalle cure dell'imeneo.» «Che il Signore possa ascoltarvi, dottore» rispose la maliziosa fanciulla «converrete che è ben duro essere moglie da quindici giorni senza avere mai smesso di essere signorina.» «E' impossibile», disse il presidente «non capita tutte le notti di avere un'indigestione, né tantomeno che uno sposo, spinto dal bisogno di urinare, venga catapultato giù dal letto, né tutte le volte che si crede di cadere tra le braccia di una bella donna si precipita in un porcile.» «Vedremo», disse la giovane con un profondo sospiro «lo vedremo, signore, ma in verità se voi mi amaste come io vi amo tutti questi incidenti non avrebbero avuto luogo.» La cena fu assai allegra, la marchesa fu amabile e crudele, scommise contro suo marito in favore del successo del cognato, e tutti andarono a letto. La signorina de Téroze si prepara in fretta, e per pudore supplica suo marito di spegnere tutte le luci nella stanza. Costui, troppo a malpartito per rifiutare alcunché, cede a tutte le richieste, e finalmente vanno a letto. Questa volta nessun ostacolo, l'intrepido presidente trionfa, coglie o crede di cogliere infine quel fiore prezioso al quale viene attribuito assurdamente così tanto valore. Per cinque volte di seguito è coronato dall'amore, finché al mattino le finestre aperte lasciano penetrare un raggio di luce nella stanza, e agli occhi del vincitore si offre la vista della vittima che ha immolato... Giusto cielo, che scena, quando scorge una vecchia negra in luogo di sua moglie, quando vede un volto nero e orrendo rimpiazzare le grazie delicate che aveva creduto di possedere! Fontanis si butta all'indietro, strilla di essere vittima di un incantesimo, quando sua moglie arriva, sorprendendolo con quella divinità del Tanaro, e gli domanda rabbiosamente che cosa ha dunque fatto per meritarsi di essere tradita così crudelmente. «Ma signora, non era con voi che ieri sera....» «Io, signore, negletta, umiliata, non ho certo da rimproverarmi di avere mancato di sottomissione nei vostri confronti. Avete visto questa donna accanto a me, mi avete respinto brutalmente per raggiungerla, le avete fatto occupare il mio posto nel letto che mi era destinato e io mi sono ritirata in preda alla confusione, senza altro sollievo che le mie lacrime.» «E ditemi, angelo mio, siete sicura di tutti i fatti che riportate?» «Che mostro, vuole ancora insultarmi dopo avermi oltraggiata in quel modo, e per ricompensa non ottengo altro che sarcasmi, invece che conforto... Vieni, vieni, sorella mia, che tutta la famiglia possa
vedere a quale essere indegno vengo sacrificata. Ecco, guardatela, questa odiosa rivale» esclamò la giovane sposa defraudata dei suoi diritti, spandendo un torrente di lacrime «anche davanti ai miei occhi lui resta tra le sue braccia. Amici miei» continuò la signorina de Téroze ormai alla disperazione, riunendo intorno a sé tutti i familiari «soccorretemi, fornitemi delle armi contro questo spergiuro. Era forse questo che dovevo attendermi, in cambio di tutto il mio amore?» Nulla di più ridicolo della faccia di Fontanis di fronte a queste sorprendenti accuse: ora gettava uno sguardo smarrito sulla negra, ora lo riportava sulla sua giovane sposa, osservandola con una sorta di attenzione ottusa che avrebbe potuto destare delle serie inquietudini per il suo stato cerebrale. Per un caso singolare, da quando il presidente si trovava a d'Olincourt, La Brie, il rivale mascherato che avrebbe dovuto temere più di chiunque altro, era diventato il suo confidente. Lo chiamò da parte e gli disse: «Amico mio, voi che mi siete sempre sembrato una persona ragionevole, volete farmi il piacere di dirmi se davvero avete notato in me qualche alterazione mentale?» «In fede mia, signor presidente» rispose La Brie con un'aria triste e confusa «non avrei mai osato dirvelo, ma poiché mi fate l'onore di chiedere il mio parere, non vi nasconderò che dopo la caduta nel porcile le idee non escono mai allo stato puro dalle membrane del vostro cervelletto. Ma non vi preoccupate, signore, il medico che vi ha già curato è uno dei più grandi uomini che abbiamo mai avuto da queste parti... Pensate, il giudice delle terre del marchese era impazzito a tal punto che non c'era un solo giovane libertino della zona che si potesse divertire con una ragazza, senza che quell'imbecille gli facesse un processo criminale, con arresto, sentenza ed esilio e tutte quelle insulsaggini che i buffoni di quel genere hanno sempre in bocca. Ebbene, signore, il nostro dottore, quell'uomo universale che ha già avuto l'onore di sottoporvi a diciotto salassi e trentadue purghe, lo ha fatto ritornare in uno stato di perfetta salute mentale, come se non avesse mai giudicato in vita sua. Ma ecco» continuò La Brie voltandosi verso il rumore che aveva sentito «si parla del diavolo, e spuntano le corna... sta arrivando il medico in persona.» «Ah, buongiorno, caro dottore» disse la marchesa, vedendo arrivare Delgatz «in verità credo che non abbiamo mai avuto tanto bisogno del vostro ministero; ieri sera il nostro caro amico, in stato di confusione mentale, e malgrado l'intervento di tutti noi, si è congiunto con questa negra invece che con sua moglie.» «Malgrado tutti voi?» disse il presidente. «Perché, davvero qualcuno si è opposto?» «Io per primo e con tutte le mie forze» rispose La Brie «ma il signore era talmente deciso e vigoroso che ho preferito lasciare perdere piuttosto che espormi a essere malmenato da voi.» A quel punto il presidente, grattandosi la testa, cominciava a sentirsi in serie difficoltà, quando il medico si avvicinò e gli tastò il polso: «Questo incidente è più grave dell'ultimo» disse Delgatz abbassando gli occhi «è un residuo ignorato della vostra ultima malattia, è un fuoco coperto che passa inosservato all'occhio intelligente dell'artista, e che scoppia nel momento più inaspettato. C'è una sicura ostruzione del diaframma e un eretismo prodigioso nell'organismo.» «Un eretismo» proruppe il presidente furioso «che vuole dire quel buffone con questa parola? Sappi, gaglioffo, che non sono mai stato eretico! Si vede, pezzo di cretino, che nella tua completa ignoranza
della storia francese ti sfugge che siamo noi a bruciare gli eretici: vai a visitare la nostra patria, bastardo rinnegato di un salernitano,1 vai, amico mio, vai a visitare Mérindol e Cabrière2 che fumano ancora degli incendi che vi portammo, passeggia sui fiumi di sangue che grazie ai rispettabili membri dei nostri tribunali hanno inondato la provincia, ascolta ancora i gemiti degli infelici che abbiamo immolato alla nostra rabbia, i singhiozzi delle donne che abbiamo strappato alle braccia dei loro mariti, le grida dei bambini che abbiamo assassinato in seno alle madri, esamina dunque tutti i santi orrori che abbiamo commesso e vedrai se dopo una condotta così assennata un farabutto come te si può permettere di trattarci da eretici.» Il presidente, che si trovava sempre nel letto al fianco della negra, le aveva affibbiato nel furore della narrazione un pugno sul naso così forte che la poveretta era scappata urlando come una cagna che si vede strappare i cuccioli. «Ebbene, che furore, amico mio!» disse d'Olincourt avvicinandosi al malato. «Presidente, è forse così che ci si comporta?
Nota: 1 Allusione alla scuola salernitana di medicina [N.d.T.]. 2 Gli abitanti di Mérindol e di Cabrière avevano aderito alla Riforma, e nel 1545 furono massacrati per ordine del Parlamento di Aix [N.d.T.].
Vedete bene che la vostra salute si sta alterando e che è necessario curarvi.» «Alla buon'ora! Finché mi si parla così, io ascolto: ma sentirmi trattare da eretico da questo spazzino di San Cosma è insopportabile, sarete d'accordo.» «Il pensiero non ha nemmeno sfiorato la sua mente» disse frivola la marchesa «eretismo è un sinonimo di infiammazione, e non di eresia.» «Ah! Mi perdoni, signora marchesa, mi perdoni, è che alle volte sono un po' duro d'orecchio. Andiamo, che questo grave discepolo di Averroè parli, io lo ascolterò... Anzi, farò di più, eseguirò tutto quello che dirà di fare.» Delgatz, che durante la sfuriata del presidente si era tenuto in disparte, per timore di essere trattato come la negra, si riaccostò al bordo del letto. «Vi ripeto, signore» disse il novello Galeno, riprendendo il polso del suo malato «c'è un grande eretismo nell'organismo.» «Ere....» «Eretismo, signore» disse precipitosamente il dottore incurvando le spalle perché paventava un pugno «per cui propendo per una flebotomizzazione immediata alla giugulare, cui faremo seguire dei bagni in acqua ghiacciata.» «Non sono granché d'accordo sul salasso» disse d'Olincourt «il presidente non ha più l'età per sostenere questa specie di interventi se non in caso di assoluta necessità. Io non condivido d'altronde la mania sanguinaria dei figli di Temi e di Esculapio: secondo la mia opinione ci sono pochissime malattie per cui valga la pena fare colare sangue, e ancora meno crimini per cui valga la pena versarlo. Presidente, spero che anche voi siate d'accordo, visto che si tratta di risparmiare il
vostro, ma forse non sarei così certo del vostro parere se non foste direttamente coinvolto.» «Signore» rispose il presidente «approvo la prima parte del vostro discorso, ma se permettete biasimo la seconda: è con il sangue che si cancella il crimine, solo con esso si può epurarlo e prevenirlo. Paragonate, signore, tutti i mali che il crimine può produrre sulla terra con il male più esiguo dell'esecuzione di una dozzina di disgraziati a titolo preventivo.» «Il vostro paradosso non ha senso, amico mio» disse d'Olincourt «è dettato dal rigorismo e dalla stupidità, è un vizio del vostro stato e della vostra terra che dovrebbe essere abiurato una volta per tutte. Indipendentemente dal fatto che il vostro stolto rigore non ha mai fermato il crimine, è assurdo dire che un delitto possa compensarne un altro e che la morte di un secondo uomo possa essere utile a quella del primo. Dovreste arrossire, voi e gli altri, di simili sistemi, che provano molto meglio il vostro gusto per il dispotismo che la vostra integrità; fanno bene a chiamarvi i boia della specie umana: distruggete più uomini voi da soli che tutti i flagelli della natura insieme.» «Signori» disse la marchesa «mi sembra che non sia né il caso né il momento di fare una discussione del genere: invece di calmare mio cognato, signore» continuò, rivolgendosi al marito «finirete per infiammare il suo sangue e rendere incurabile il suo male.» «La signora marchesa ha ragione» disse il dottore «permettete, signore, che ordini a La Brie di far mettere quaranta libbre di ghiaccio nella vasca e di riempirla di acqua di pozzo, e nel frattempo io farò alzare il malato.» Tutti quanti si allontanarono; il presidente si alza, cerca di contrattare ancora su questo bagno ghiacciato che, diceva, lo avrebbe reso impotente per sei settimane, ma non riesce in nessun modo a sottrarvisi; è costretto a scendere, e lì viene immerso nella vasca per dieci o dodici minuti, sotto gli occhi di tutti gli ospiti nascosti in ogni angolo dei paraggi per godersi la scena. Una volta asciugato, il malato si veste e compare in mezzo agli altri come se niente fosse. Dopo cena la marchesa propone una passeggiata: «Un po' di distrazione farà bene al presidente, vero, dottore?» chiese a Delgatz. «Certamente» rispose questi «la signora dovrebbe ricordarsi che in ogni ospedale c'è un cortile per fare prendere aria ai pazzi.» «Ma spero bene» disse il presidente «che non consideriate ancora il mio caso come irrimediabile.» «E' ben lontano dall'esserlo, signore» riprese Delgatz «si tratta solo di un leggero disordine, che preso in tempo non avrà alcun seguito, ma avete bisogno di ristorarvi, signor presidente, il riposo è essenziale.» «Come, signore, credete che stasera non potrò prendere la mia rivincita?» «Questa sera! Signore, la sola idea mi fa fremere. Se usassi nei vostri confronti lo stesso rigore che voi usate con gli altri, vi proibirei le donne per tre o quattro mesi.» «Tre o quattro mesi, santo cielo» e, rivolgendosi alla sua sposa «tre o quattro mesi, piccola mia! Resisterete, angelo mio, resisterete?»
«Oh, il signor Delgatz si addolcirà» rispose la giovane Téroze con aria candida «avrà pietà per me, almeno, se non vorrà averne per voi.» La passeggiata prese avvio. Bisognava montare su un traghetto per andare a trovare un vicino, il quale era stato messo al corrente di tutto e aspettava la compagnia per la merenda. Appena saliti in barca, i giovani cominciano a fare delle buffonate, e Fontanis, per piacere a sua moglie, subito li imita. «Presidente» disse il marchese «scommetto che non riuscireste ad appendervi come faccio io alla cima del traghetto e a restarci appeso per qualche minuto.» «Nulla di più semplice» disse il presidente fiutando un'ultima presa di tabacco e alzandosi in punta di piedi per afferrare meglio la cima. «Bene, bene, molto meglio di voi, caro cognato» disse la piccola Téroze vedendo il marito aggrappato. Ma mentre il presidente così sospeso fa mostra delle sue grazie e della sua abilità, i barcaioli, complici, raddoppiano la spinta sui remi, e la barca, scivolando rapidamente, lascia il disgraziato penzolante tra cielo e acqua. Fontanis grida, chiede soccorso, è solo a metà della traversata, gli mancano più di quindici tese per raggiungere la riva. «Arrangiatevi come potete» gli gridano «trasportatevi verso la riva con le mani. Vedete bene che per noi è impossibile raggiungervi, il vento ci trascina via.» E il presidente scivolando, dimenandosi, scalciando, faceva tutto quel che poteva per riacciuffare la barca che filava via a forza di remi. La vista di uno dei più severi magistrati del Parlamento di Aix, imparruccato e vestito di nero, appeso a quel modo, doveva essere davvero un bel quadretto. «Presidente» gli gridò il marchese scoppiando a ridere «in verità questa è una licenza della provvidenza, è la legge del taglione, amico mio, è proprio il taglione, la legge preferita dei vostri tribunali. Perché vi lamentate di stare appeso così, non avete forse condannato spesso al medesimo supplizio gente che non lo meritava più di voi?» Ma il presidente non era più in grado di ascoltarlo: terribilmente stanco del duro esercizio cui era sottoposto, gli erano mancate le mani, ed era caduto a peso morto in acqua. All'istante due uomini, che si erano tenuti pronti, volarono in suo soccorso e lo riportarono a bordo, fradicio come un barboncino e imprecante come un carrettiere. Fontanis prende a lamentarsi di uno scherzo così inopportuno, e tutti giurano allora che non era affatto uno scherzo, che è stato un colpo di vento ad allontanare la barca. Lo portano nella capannuccia del barcaiolo a scaldarsi, lo fanno cambiare, lo vezzeggiano, la sua mogliettina fa di tutto perché dimentichi quell'incidente da nulla, e Fontanis, innamorato e arrendevole, si mette ben presto a ridere insieme agli altri dello spettacolo che ha appena dato. Giungono infine dal vicino: il gentiluomo li accoglie magnificamente e fa servire una straordinaria merenda, avendo cura di offrire al presidente una crema di pistacchi che, appena lambiti gli intestini, lo costringe a chiedere del gabinetto. Lo conducono in un camerino molto scuro, Fontanis si siede di corsa, si libera in fretta, ma, finita l'operazione, non riesce più a sollevarsi. «Che altro succede, ancora!» esclama, dimenando le reni. Ma non c'è nulla da fare, è impossibile distaccarsene senza lasciarci un pezzo. Tuttavia la sua assenza viene notata, ci si chiede dove potrebbe essere,
fino a che le sue grida attirano l'intera compagnia di fronte al fatale gabinetto. «Che diavolo fate là dentro, tutto questo tempo, amico mio» gli disse d'Olincourt «siete dunque afflitto da una colica?» «Eh, per Dio!» disse il povero diavolo raddoppiando le manovre per sollevarsi «non vedete forse che sono rimasto attaccato?» Ma per offrire uno spettacolo ancora più divertente alla compagnia e aumentare gli sforzi del presidente per alzarsi da quella maledetta sedia, gli passarono intorno al sedere una fiammella di spirito che gli bruciacchiava i peli, e qualche volta scottandolo gli faceva fare dei balzi eccezionali e delle smorfie orribili. Più ridevano di lui, più il presidente schiumava di rabbia, insultava le donne e minacciava gli uomini; più s'irritava, più la sua faccia paonazza diventava irresistibilmente comica. I movimenti convulsi avevano separato la parrucca dal cranio, e quella nuca scoperta rispondeva in modo ancora più ridicolo alle contorsioni dei muscoli della faccia. Infine il gentiluomo accorre, fa mille scuse al presidente per non averlo avvertito dello stato di quel gabinetto, poi, insieme ai servitori riesce a staccarlo alla men peggio, non senza fargli perdere un pezzo di pelle che, per quanto si faccia, resta attaccato al fondo circolare della sedia. Dei pittori l'avevano infatti intrisa di colla forte per fare meglio aderire la tinta prescelta per la decorazione. «In verità» disse Fontanis spavaldo «siete ben contenti di avermi tra voi, giacché vi procuro un grande spasso.» «Ingiusto amico» riprese d'Olincourt «perché ve la prendete sempre con noi per gli incidenti che vi manda la sorte? Credevo che bastasse essere aggiogati al carro di Temi per essere naturalmente equi, ma vedo bene che mi sbagliavo.» «Il fatto è che non avete le idee chiare su ciò che viene comunemente chiamato equità» disse il presidente «noi distinguiamo in tribunale diverse specie di equità: esiste l'equità relativa, l'equità personale....» «Piano» disse il marchese «non ho mai visto che si praticasse una virtù dopo averla analizzata in questo modo. Quella che io chiamo equità, amico mio, corrisponde semplicemente alla legge della natura. seguendola si resta sempre nel giusto, e solo allontanandosene si diventa ingiusti. Dimmi, presidente, se tu ti fossi abbandonato a un qualche fantasioso capriccio nel fondo della tua casa, troveresti forse equo che un branco di balordi venisse a stanarti in seno alla famiglia, e a forza di astuzie inquisitorie, furberie, delazioni vilmente comprate, cavasse fuori qualche bizzarria del tutto scusabile a trentanni, e approfittasse di queste atrocità per perderti, per bandirti, per guastare il tuo nome, disonorare i tuoi figli e saccheggiare i tuoi averi? Dimmi, amico mio, che ne pensi, forse giudicheresti equi quei furfanti? Se davvero ammetti l'esistenza di un Essere supremo, potresti mai adorare questo modello di giustizia se egli lo esercitasse in tal modo verso gli uomini, e non fremeresti all'idea di essergli sottomesso?» «Ma che state dicendo, fatemi il piacere! Ma come, ci vorreste biasimare perché ricerchiamo il crimine... Quello è il nostro dovere!» «Ciò che dite è falso, il vostro dovere consiste solo nel punire il crimine se viene scoperto. Lasciate alle sciocche e feroci massime dell'inquisizione il compito barbaro e insulso di ricercarlo come vili spie o delatori infami. Quale cittadino sarà tranquillo quando,
circondato da servi prezzolati da voi, il suo onore e la sua vita saranno a ogni momento nelle mani di persone inasprite per la catena che portano, le quali crederanno di potersene disfare o di alleggerirla vendendovi colui che gliela impone? Avrete allora moltiplicato il numero dei malfattori nello stato, avrete creato delle donne perfide, dei servi calunniatori, dei figli ingrati, avrete raddoppiato la quantità dei vizi, senza far nascere una sola virtù.» «Non si tratta di far nascere delle virtù, ma solo di distruggere il crimine.» «Però i vostri mezzi lo moltiplicano.» «Ma insomma, questa è la legge, noi dobbiamo applicarla: noi non siamo dei legislatori, caro marchese, noialtri siamo degli operatori.» «Ditelo meglio, presidente, ditelo più chiaramente,» replicò d'Olincourt che cominciava ad accalorarsi «dite che voi siete degli esecutori, degli insigni boia, per natura nemici dello Stato, e non avete altri piaceri che opporvi alla sua prosperità, ostacolare il suo benessere, fare avvizzire la sua gloria e fare colare senza ragione il sangue prezioso dei suoi sudditi.» Malgrado i due bagni d'acqua fredda cui Fontanis si era sottoposto durante la giornata, la bile è una sostanza talmente difficile da eliminare in un magistrato che il povero presidente fremeva di rabbia nel sentire denigrare a tal punto un mestiere che credeva tanto rispettabile. Egli non immaginava neppure che si potesse attaccare in tal guisa la magistratura, ed era quasi sul punto di rispondere nei toni di un marinaio marsigliese, quando le signore si avvicinarono e proposero di ritornare. La marchesa gli domandò se qualche nuova necessità non lo richiamasse al gabinetto. «No, no, signora» disse il marchese «questo rispettabile magistrato non ha sempre la colica! Bisogna perdonargli se ha considerato un po' troppo seriamente l'attacco: il benché minimo moto di viscere è una malattia molto grave a Marsiglia e a Aix, e dopo che abbiamo visto un branco di malfattori, confratelli di quel tipo là, giudicare come avvelenate delle puttane con la colica, non c'è da stupirsi se una colica sia un affare serio per un magistrato provenzale.» Fontanis, uno dei giudici più accaniti in questa storia che aveva per sempre coperto di ignominia i magistrati della Provenza, era in uno stato difficile da dipingere, balbettava, schiumava, somigliava ai cani nei combattimenti di tori quando non arrivano a mordere gli avversari, al che d'Olincourt, afferrando al volo l'occasione: «Guardatelo, guardatelo, signore, e ditemi, ve ne prego, se vi sembra dolce la sorte di un povero gentiluomo il quale, riposando sulla propria innocenza e buona fede, vedesse abbaiare quindici mastini come questo a un passo dai suoi calzoni.» Il presidente era sul punto di perdere ogni controllo, ma il marchese, che per il momento non desiderava punto una chiassata, guadagnò prudentemente la sua carrozza, lasciando alla cognata il compito di lenire le piaghe che aveva inflitto. La signorina de Téroze dovette penare molto per riuscirvi, ma alla fine la spuntò, il traghetto rifece la traversata senza che il presidente fosse preso dal desiderio di volteggiare sotto la corda, e il rientro al castello si svolse placidamente. Fu servita la cena, e il dottore ebbe cura di ricordare a Fontanis la necessità di osservare l'astinenza. «Credetemi, la raccomandazione è del
tutto inutile» disse il presidente «come volete che un uomo che ha passato la notte con una negra, che è stato trattato da eretico appena sveglio, che è stato costretto a fare un bagno ghiacciato a mezzogiorno e poco dopo è caduto nel fiume, che nell'atto di cacare si è trovato incollato alla latrina come un passero nella pania, a cui è stato ustionato il didietro, e a cui hanno osato dire in faccia che dei giudici che ricercavano il crimine non erano altro che dei miserabili furfanti e che delle puttane con la colica non erano delle puttane avvelenate, come volete, dico, che un uomo del genere pensi ancora a sverginare una fanciulla?» «Mi fa assai piacere vedervi così assennato» disse Delgatz accompagnando Fontanis nella stanzetta da ragazzo che occupava quando non aveva progetti sulla moglie «vi esorto a continuare, e vi accorgerete ben presto del bene che ne conseguirà.» L'indomani ricominciarono i bagni ghiacciati: per tutto il tempo della cura, non ci fu bisogno di insistere col presidente sulla necessità dell'astinenza, e durante questo intervallo l'adorabile Téroze poté almeno godere in pace di tutti i piaceri dell'amore tra le braccia dell'avvenente d'Elbène. Ma dopo una quindicina di giorni Fontanis, fresco e riposato, cominciò nuovamente a fare il galante con la moglie. «Oh! Veramente, signore» gli disse la giovanetta quando capì che non poteva più tirarsi indietro «ora ho ben altri affari in testa, altro che l'amore. Leggete quanto mi scrivono, signore, sono rovinata.» Nel contempo presenta una lettera al marito nella quale si legge che il castello di Téroze, lontano quattro leghe da quello del marchese, e situato in un punto assai poco frequentato della foresta di Fontainebleau, castello il cui reddito costituisce la dote della sua consorte, da sei mesi è infestato da spiriti che fanno un baccano spaventoso, danno noia al fattore, rovinano la terra, e soprattutto impediscono al presidente e a sua moglie, se non vi pongono rimedio, di ricavare il più piccolo profitto da quella proprietà. «Che notizia atroce!» disse il magistrato restituendole la lettera «ma non si potrebbe dire a vostro padre di darci qualcos'altro, al posto di quell'orribile castello?» «E che cosa volete che ci dia, signore? Osservate che io sono la figlia minore, e che mio padre ha già dato molto a mia sorella. Sarebbe scorretto da parte mia pretendere altre cose, bisogna accontentarsi di questo e cercare di mettervi ordine.» «Ma vostro padre era a conoscenza di questo inconveniente, quando vi ha dato marito.» «Ne convengo, ma non credeva certo che la situazione fosse a questo punto. D'altra parte tutto ciò non sminuisce certo il valore del dono, ne ritarda solamente gli effetti.» «E il marchese è al corrente?» «Sì, ma non osa parlarvene.» «Ha torto, è meglio che ne discutiamo insieme.» D'Olincourt viene chiamato, non può che riconoscere la gravità dei fatti, e si giunge alla conclusione che la cosa più semplice è andare ad abitare il castello per due o tre giorni, qualunque pericolo questo possa comportare, per mettere fine ai disordini e stabilire quale partito prendere riguardo alla rendita.
«Avete un po' di coraggio, presidente?» domanda il marchese. «Beh, dipende» risponde il presidente «il coraggio è una virtù poco richiesta nel nostro ministero.» «Lo so bene» dice il marchese «per voi è sufficiente la ferocia. Per il coraggio accade pressappoco come per tutte le altre virtù: voi avete l'arte di immiserirle in tal modo, che ne prendete solo la parte che le guasta.» «Basta, eccovi ancora coi vostri sarcasmi, marchese. Vi scongiuro, discutiamo con calma, e lasciamo perdere questi rancori.» «Ebbene, dobbiamo assolutamente partire, stabilirci a Téroze, annientare gli spiriti, mettere ordine nella vostra amministrazione; poi potrete finalmente ritornare nel letto di vostra moglie.» «Aspettate, signore, un momento, ve ne prego, non saltiamo subito alle conclusioni. Ci pensate ai pericoli che si corrono a trattare con certa gente? Un buon processo seguito da una sentenza sarebbe una soluzione migliore.» «Ecco, come al solito processi e sentenze... Perché non vi mettete anche a scomunicare, come fanno i preti? Armi feroci della tirannia e della stupidità! Quando dunque questi ipocriti togati, questi pedanti intabarrati, tutti i seguaci di Temi e di Maria smetteranno di credere che le loro chiacchiere spocchiose e le loro ottuse carte possano sortire un qualche effetto sul mondo? Sappi, fratello, che non è con questi fronzoli che si colgono in fallo dei furfanti del genere, ma con le sciabole, la polvere e i pallettoni; risolviti dunque a morire di fame o a trovare il coraggio di combatterli in questa maniera.» «Signor marchese, voi ragionate così in qualità di colonnello dei dragoni. Permettete che io mi ponga nell'ottica dell'uomo di legge, la cui persona, sacra e del massimo interesse per lo Stato, non può mai essere esposta al pericolo così alla leggera.» «La tua persona del massimo interesse per lo Stato? Presidente, era tanto che non ridevo, ma vedo bene che desideri a ogni costo provocarmi questa convulsione. E come diavolo ti è venuto in mente, dimmi, che un uomo di oscuri natali, un individuo che agisce sempre in senso contrario al desiderio del sovrano, che non lo serve mai né con la sua borsa né colle sue braccia, che si oppone costantemente a tutti i suoi migliori propositi, il cui unico mestiere consiste nel fomentare la discordia tra i privati, nell'alimentare quella del reame e nel vessare i cittadini... te lo chiedo, come puoi immaginare che un tale essere possa mai costituire un bene prezioso per lo Stato?» «Non rispondo più, quando ci si mette di mezzo la villania.» «Va bene, veniamo al sodo, amico mio, d'accordo: in sostanza, anche se tu riflettessi per un mese su questa avventura, anche se la facessi soppesare risibilmente da quei buffoni dei tuoi confratelli, ti dirò sempre che l'unica soluzione a questo problema è andare noi stessi ad alloggiare lì dove si trovano coloro che ci vogliono intimidire.» Il presidente mercanteggiò ancora, si difese con mille paradossi uno più assurdo e presuntuoso dell'altro, e da ultimo finì per concludere con il marchese che sarebbero partiti insieme l'indomani, accompagnati da due servi della casa. Il presidente chiese per sé La Brie, il quale, l'abbiamo detto, gli ispirava grande fiducia non si sa bene perché; d'Olincourt, che era al corrente degli affari importanti che
trattenevano La Brie al castello durante questa assenza, rispose che era impossibile portarselo dietro. L'indomani all'alba si prepararono alla partenza: le dame, che si erano alzate apposta, rivestirono il presidente con una vecchia armatura che avevano trovato nel castello, la sua giovane sposa gli calzò l'elmo sulla testa augurandogli ogni sorta di bene, e gli raccomandò di ritornare prestissimo, per ricevere dalle sue mani l'alloro della vittoria. Egli la baciò teneramente, montò a cavallo e seguì il marchese. Nonostante il circondario fosse stato avvertito della mascherata, lo smilzo presidente col suo equipaggiamento militare aveva un aspetto talmente ridicolo che fu seguito da un castello all'altro da un ininterrotto scoppio di risa e da schiamazzi. Per tutta consolazione, il colonnello, che non deponeva mai la sua aria severa, si avvicinava ogni tanto a lui e gli diceva: «Vedete, amico, questo mondo non è che una farsa: ora pubblico, ora attori, giudichiamo la scena o vi compariamo.» «Sarà, ma qui siamo fischiati» rispondeva il presidente. «Credete?» rispondeva flemmaticamente il marchese. «Non c'è da dubitarne» replicava Fontanis «e converrete che è duro.» «E che» diceva d'Olincourt «non siete forse abituato a questi piccoli insuccessi, e non vi rendete conto che a ogni sciocchezza che fate sui vostri banchi tappezzati di gigli il pubblico vi fischia allo stesso modo? Costituzionalmente fatti per essere sbeffeggiati nel vostro mestiere, abbigliati in un modo grottesco che suscita il riso a prima vista, come potete pensare che con tali e tanti difetti vi si possano perdonare delle bestialità?» «Voi detestate le toghe, signore.» «Non ve lo nascondo, presidente, mi piacciono solamente le classi utili: tutti quegli individui che non hanno talento che per creare dei o per ammazzare uomini, mi sembrano degni del pubblico disprezzo, e bisognerebbe destinarli alla gogna o ai lavori forzati. Non credete, amico mio, che con le due eccellenti braccia che vi ha dato la natura sareste infinitamente più utile dietro a un aratro che in un'aula di tribunale? Onorereste così i doni che avete ricevuto dal cielo, mentre nel vostro stato riuscite solamente ad avvilirli.» «Ma è indispensabile che vi siano dei giudici.» «Sarebbe meglio che esistessero soltanto delle virtù: e senza giudici si moltiplicherebbero, mentre ora vengono calpestate.» «E allora come pensate che si debba governare uno Stato?» «Con tre o quattro leggi semplici e chiare, deposte nel palazzo del sovrano, che gli anziani di ogni classe badino a far rispettare. In questo modo ogni rango avrebbe i suoi pari, e un gentiluomo non dovrebbe subire il tremendo disonore di essere condannato da un mascalzone come te, così prodigiosamente lontano dal valerlo.» «Oh! Qui si viene trascinati in certe discussioni....» «Che finiranno presto» disse il marchese «perché siamo arrivati a Téroze.» Effettivamente stavano entrando nel castello: il fattore si presenta e prende i cavalli dei signori. Passano poi in una sala dove si mettono a discutere con lui dei dolorosi fatti della dimora.
Ogni sera si sentiva un fracasso spaventoso in tutte le stanze della casa, senza che si riuscisse a individuarne la causa. Molti si erano appostati per delle notti intere, alcuni contadini ingaggiati dal fattore si diceva fossero stati malmenati, e nessuno voleva più esporsi al rischio. Ma a che cosa si pensasse di preciso, era impossibile dirlo: correva voce che lo spirito che appariva era quello di un vecchio fattore della casa che aveva avuto la disgrazia di morire ingiustamente sul patibolo, e che aveva giurato di tornare tutte le notti in questa casa a fare un baccano infernale fino a che non avesse avuto la soddisfazione di torcere il collo a un uomo di legge. «Mio caro marchese» disse il presidente dirigendosi verso la porta «mi pare che la mia presenza qui sia del tutto inutile. Noi non siamo abituati a questa sorta di vendette, e come i medici vogliamo ammazzare indifferentemente chi pare a noi, senza che il defunto abbia poi qualcosa da ridire.» «Un momento, fratello, un momento» disse d'Olincourt bloccando il presidente a un passo dalla fuga «cerchiamo di capire bene le dichiarazioni di quest'uomo.» Poi, rivolgendosi al fattore: «E tutto qua, mastro Pierre? Non avete nessun altro dettaglio da comunicarci a proposito di questo fatto particolare? Questo spirito ce l'ha con tutti gli uomini di legge in generale?» «No, signore» rispose Pierre «l'altro giorno ha lasciato un messaggio scritto su una tavola in cui diceva che ce l'aveva solo con i prevaricatori; i giudici integri non hanno nulla da temere da lui, ma non risparmierà quelli che, facendosi guidare dal dispotismo, dalla stupidità o dalla sete di vendetta, hanno sacrificato i loro simili alle loro sordide passioni.» «Ebbene, vedete che è necessario che io me ne vada di qui» disse il presidente costernato «non c'è la minima sicurezza per me in questa casa.» «Ah, scellerato!» disse il marchese. «Ecco dunque i tuoi crimini che cominciano a farti fremere... Marchi d'infamia, dieci anni d'esilio per un affare di donne, ignobili connivenze con certe famiglie, denaro intascato per rovinare un gentiluomo, e molti altri disgraziati sacrificati alla tua rabbia o alla tua inettitudine, sono questi i fantasmi che accorrono a turbare la tua fantasia, non è vero? Quanto daresti ora per essere stato sempre onesto? Possa un giorno questa situazione penosa servirti a qualcosa, possa tu sentire fin d'ora quale sia l'enorme peso dei rimorsi, e capire che nessuna felicità mondana, quale che sia il prezzo che le abbiamo assegnato, vale la tranquillità dell'anima e le gioie della virtù.» «Mio caro marchese, vi domando perdono» disse il presidente con le lacrime agli occhi «sono un uomo perduto. Non lasciatemi trucidare, vi scongiuro, e lasciatemi ritornare dalla vostra cara cognata, che soffre della mia assenza e non vi perdonerà mai i tormenti cui volete abbandonarmi.» «Vigliacco, non a torto si dice che la pusillanimità va a braccetto con la falsità e l'inganno... No, non uscirai affatto, non puoi più tirarti indietro, mia cognata non ha altra dote che questo castello. Se vuoi goderne, devi ripulirlo di questi farabutti che lo infestano. Vittoria o morte, non c'è via di mezzo. Vile poltrone, è dunque così che ami mia cognata, preferisci vederla languire nella miseria piuttosto che combattere per liberare il suo castello... Vuoi forse che le dica al nostro ritorno che questi sono i sentimenti di cui fai sfoggio?»
«Santo cielo, in che situazione mi trovo!» «Su, andiamo, fatti ritornare un po' di coraggio e preparati a sfidare il pericolo.» La cena fu servita, e il marchese costrinse il presidente a mangiare armato di tutto punto. Mastro Pierre cenò insieme a loro, e disse che fino alle undici non c'era nulla da temere, ma dopo quell'ora fino all'alba non era luogo da potervi durare. «Ma noi resisteremo nonostante tutto» disse il marchese «ed ecco un valido compagno sul quale conto come su me stesso. Sono ben sicuro che non mi lascerà solo.» «Non garantisco nulla» disse Fontanis «confesso che sono un po' come Cesare, il mio coraggio va a giorni.» Mentre aspettavano che venisse l'ora, si misero a esplorare i dintorni, a passeggiare, a fare i conti col fattore; quando scese la notte il marchese, il presidente e i due domestici si divisero il castello. Al presidente toccò in sorte una grande sala affiancata da due torri maledette la cui sola vista lo faceva tremare in anticipo: era sicuramente da lì, si diceva, che lo spirito cominciava il suo giro, e dunque l'avrebbe incontrato per primo. Un temerario si sarebbe rallegrato di questa prospettiva lusinghiera, ma il presidente, che come tutti i presidenti, e in particolare i presidenti provenzali, era tutt'altro che coraggioso, si lasciò andare a un tale accesso di debolezza che bisognò cambiarlo dalla testa ai piedi; mai medicamento ebbe un effetto più immediato. Tuttavia lo rivestirono, lo riarmarono, disposero due pistole su un tavolo nella sua stanza, gli dettero una lancia di quindici piedi, e dopo avere acceso tre o quattro candele lo lasciarono alle sue riflessioni. «Povero Fontanis» esclamò appena si vide solo «quale demonio ti ha condotto in questa galera, non potevi trovare nella tua provincia una fanciulla migliore di questa, ed evitare tutti questi guai? L'hai voluto tu, povero presidente, te la sei cercata, amico mio, questa è la verità: sei stato tentato da un matrimonio parigino, ed ecco il risultato... Maledizione, forse stai per morire come un cane senza neanche poterti accostare ai sacramenti, o rendere l'anima nelle mani di un prete... Quei maledetti increduli, con la loro equità, la loro legge di natura e la loro carità! Sembra che le porte del paradiso si debbano spalancare appena pronunciate queste tre parole... Basta con questa natura, basta con l'equità, con la carità: sentenziamo, esiliamo, bruciamo, mandiamo alla ruota e andiamo a messa, che è meglio. D'Olincourt è fissato con il processo di quel gentiluomo che abbiamo giudicato l'anno scorso, evidentemente ci deve essere qualche parentela di cui non ero a conoscenza... Ma come si può dire che non fosse una faccenda scandalosa? Quel servo tredicenne che abbiamo subornato non è forse venuto a dirci, secondo le nostre indicazioni, che il gentiluomo ammazzava delle puttane nel suo castello, e non ci ha riferito una storia alla Barbablù, che le balie non oserebbero raccontare ai bambini? Trattandosi di un crimine grave come l'assassinio di una b..., di un delitto provato con un'autentica deposizione comprata di un bambino, a cui per giunta abbiamo fatto dare cento colpi di frusta perché non voleva dichiarare quello che volevamo, non mi sembra proprio che abbiamo agito con rigore eccessivo, infierendo in quel modo. Dovremmo avere allora cento testimoni per essere certi della fondatezza di un crimine? Dunque una delazione non basta? I nostri dotti confratelli di Tolosa non sono certo andati tanto per il sottile quando hanno condannato Calas alla ruota.1 Se punissimo solo i crimini comprovati, ci potremmo concedere il piacere di trascinare al patibolo i nostri simili quattro volte al secolo, ed è
l'unico mezzo che abbiamo per farci rispettare.
Nota: 1 Si tratta del notissimo caso di Jean Calas, il negoziante protestante ingiustamente accusato di avere ucciso il figlio per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. Fu giustiziato nel 1762. Voltaire pubblicò nel 1763 il Tratte de la tolérance, in cui denunciava il caso come risultato emblematico di una magistratura corrotta e influenzata dall'intolleranza religiosa, ottenendo la revisione del processo e la riabilitazione postuma di Calas [N.d.T.]
Vorrei sapere che cosa diventerebbe un parlamento se avesse la borsa sempre aperta alle necessità dello Stato, non facesse mai rimostranze, registrasse tutti gli editti e non ammazzasse nessuno: sarebbe un'assemblea di balordi cui nessuno farebbe caso... Coraggio, presidente, coraggio, hai fatto solamente il tuo dovere, amico mio: lascia pure sbraitare i nemici della magistratura, non riusciranno mai a distruggerla. Il nostro potere, fondato sulla debolezza dei re, durerà quanto la monarchia, e Dio voglia per i sovrani che non finisca per rovesciarli. Ancora qualche incidente come quelli che capitarono durante il regno di Carlo VII, e la monarchia distrutta darà finalmente luogo alla forma repubblicana cui aspiriamo da tanto tempo, dove saremo ai vertici del potere come a Venezia, e avremo in mano le catene con le quali bramiamo ridurre il popolo in schiavitù.» Così rifletteva il presidente, quando un rumore terribile si fece udire in tutte le stanze e i corridoi del castello. Un tremore si impossessa totalmente di lui, si aggrappa alla sedia, non si azzarda quasi ad alzare gli occhi da terra. «Insensato che sono!» esclama «spetta forse a me, un membro del Parlamento di Aix, battermi contro gli spiriti? O spiriti, che cosa c'è mai stato in comune tra il Parlamento di Aix e voi?» Ma il fracasso raddoppia, le porte delle due torri si sfondano, degli orrendi figuri entrano nella stanza: Fontanis si inginocchia, implora la grazia, chiede salva la vita. «Scellerato» gli dice uno dei fantasmi con voce terribile «il tuo cuore ha mai conosciuto la pietà mentre condannavi ingiustamente tanti disgraziati, la loro dura sorte ti ha mai commosso? La tua vanità, il tuo orgoglio, la gola, la crapula, ti venivano forse meno, quando i tuoi arresti ingiusti precipitavano nella miseria o nella tomba le vittime del tuo rigore ottuso? E da dove ti veniva questa pericolosa impunità, dal tuo potere effimero, da quella forza illusoria creata in un momento dall'opinione pubblica, che la filosofia distrugge nell'attimo successivo? Bada che ora noi agiremo secondo gli stessi principi: ti conviene sottometterti, visto che sei il più debole.» A queste parole quattro spiriti afferrano con forza Fontanis e in un lampo lo spogliano nudo come un verme, strappandogli alte grida e lamenti, e facendolo inzuppare dalla testa ai piedi di un sudore fetido. «Cosa ne facciamo ora?» domandò uno. «Aspetta» rispose quello che aveva l'aria di essere il capo «c'è qui la lista dei quattro delitti principali che ha commesso nell'esercizio delle sue funzioni giuridiche. Leggiamogliela. «Nel 1750 condannò alla ruota un disgraziato che non aveva altra colpa se non quella di avergli rifiutato la figlia di cui l'infame voleva abusare.
«Nel 1754 propose ad un uomo di fargli salva la vita in cambio di duemila scudi. Costui non aveva la possibilità di pagarglieli, e lo fece impiccare. «Nel 1760, essendo venuto a conoscenza di qualche insinuazione sul suo conto da parte di un signore della sua città, lo condannò al rogo come sodomita, benché l'infelice avesse una moglie e una moltitudine di figli a smentire l'accusa. «Nel 1772 un giovane appartenente alla nobiltà del luogo aveva strigliato ben bene una cortigiana, per vendicarsi allegramente del brutto servizio che questa gli aveva fatto: quello zotico indegno trasformò la burla in un affare criminoso, considerò la faccenda come un delitto, un avvelenamento, indusse tutti i suoi colleghi ad accreditare questa idea ridicola, rovinò il gentiluomo e lo fece condannare a morte in contumacia, non essendo riuscito a mettergli le mani addosso. «Ecco i suoi delitti principali. Prendete una decisione, amici miei.» Subito si levò una voce: «Il taglione, signori, il taglione: ha condannato ingiustamente alla ruota, che subisca allora lo stesso supplizio.» «Scelgo l'impiccagione, e per lo stesso motivo del mio confratello.» «Sarà bruciato» disse il terzo «sia per avere ingiustamente emesso questa condanna, sia per averla meritata spesso.» «Diamogli l'esempio della clemenza e della moderazione, compagni» disse il capo «e facciamo riferimento alla quarta avventura del testo. Frustare una puttana è un delitto che merita la morte, agli occhi di questo pezzo d'imbecille: ebbene, frustiamolo!» Raggiunsero quindi il povero presidente, lo coricarono a pancia sotto su un piccolo banco e lo legarono dalla testa ai piedi. I quattro spiritelli afferrarono poi ciascuno una correggia di cuoio lunga cinque piedi e presero a scagliarla con ritmo cadenzato, e con tutta la forza delle loro braccia, sulle parti scoperte del misero Fontanis. Il suo corpo, lacerato per tre quarti d'ora di seguito dalle mani vigorose intente alla sua educazione, diventò ben presto una piaga uniforme, da cui scaturivano copiose quantità di sangue. «Ne ha abbastanza» disse il capo «ve l'ho detto, offriamogli un esempio di clemenza e carità. Se fossimo nelle sue mani, ci squarterebbe; ora invece che siamo padroni del suo destino, lasciamo che se la cavi con questo ammonimento fraterno, e che impari alla nostra scuola che non è assassinando gli uomini che si riesce a renderli migliori. Ha avuto solo cinquecento colpi di frusta, e scommetto con chiunque che si è affrancato dall'ingiustizia, e che sarà in futuro uno dei magistrati più onesti della sua compagnia. Slegatelo e continuiamo il giro.» «Oh» esclamò il presidente quando vide uscire i suoi carnefici «vedo bene che se cerchiamo di fare luce sui fatti degli altri, e tentiamo di rimaneggiarli per il gusto di infliggere una qualche pena, subito ci rendono pan per focaccia. Ma chi ha potuto rivelare a quella gente tutto quello che ho fatto, com'è che sono così ben istruiti sulla mia condotta?» In ogni modo, Fontanis si rassettò alla men peggio, ma si era appena infilato i vestiti quando sentì delle grida acutissime provenire dal lato dal quale i fantasmi erano usciti. Tendendo l'orecchio, riconobbe
la voce del marchese che gli chiedeva soccorso urlando a squarciagola. «Il diavolo mi porti se mi muovo di qui» disse il presidente sfinito «quei farabutti lo striglino pure come hanno fatto con me, se vogliono, io non mi immischio di certo, ognuno ha già abbastanza guai per conto suo, senza che si aggiungano quelli degli altri.» Ma il frastuono andava aumentando, finché d'Olincourt non entrò nella camera di Fontanis, seguito dai suoi due servi: tutti e tre gridavano come se li stessero sgozzando, e all'apparenza sanguinavano. Uno aveva il braccio appeso al collo, un altro una benda sulla fronte, e si sarebbe giurato, a vederli così pallidi, arruffati, sporchi di sangue, che si erano appena battuti contro una legione di diavoli usciti dall'inferno. «Amico mio, che assalto» esclama d'Olincourt «credevo che saremmo morti strangolati tutti e tre.» «Non credo che siate stati malmenati più di me» disse il presidente mostrando le reni straziate «guardate come mi hanno ridotto.» «Oh, in verità, caro amico» disse il colonnello «eccovi l'occasione per una bella querela: certamente non ignorate l'interesse morboso che in tutti i tempi i vostri confratelli hanno riservato ai culi fustigati. Fate riunire le camere, amico mio, trovate qualche celebre avvocato che eserciti la sua eloquenza in favore delle vostre chiappe molestate: utilizzando l'ingegnoso artificio di quell'antico oratore, che commosse l'areopago scoprendo agli occhi della corte lo splendido seno della bella donna che difendeva, il vostro Demostene potrebbe scoprire le vostre interessanti natiche nell'istante più patetico dell'arringa, perché inteneriscano l'auditorio. Soprattutto ricordate ai giudici di Parigi, davanti ai quali dovrete comparire, quel caso eclatante del 1769, dove il loro cuore, assai più toccato dal sedere flagellato di una prostituta che dalla sorte del popolo, di cui si dichiarano protettori e che invece lasciano morire di fame, li spinse a mettere sotto processo un giovane militare. Il bel risultato fu che questi, dopo aver sacrificato i più begli anni della sua vita al servizio del sovrano, non colse altri allori al suo ritorno che l'umiliazione messa a punto dai più temibili nemici della patria che aveva fino allora difeso... Andiamo, caro compagno di sventura, spicciamoci, partiamo di qui, non siamo al sicuro in questo maledetto castello, corriamo a vendicarci, voliamo a implorare l'equità dei protettori dell'ordine pubblico, dei difensori degli oppressi e delle colonne dello Stato.» «Non mi reggo in piedi» disse il presidente «e a rischio di farmi pelare di nuovo da quei ribaldi, vi prego di darmi un letto e di lasciarmici tranquillo per ventiquattro ore almeno.» «Non ci pensate neanche, amico mio, vi strangolerebbero.» «E sia, in fondo sarebbe solo un regolamento di conti, e i rimorsi si risvegliano oramai con tanta forza nel mio cuore, che accoglierei come ordine del cielo qualunque sventura Egli vorrà mandarmi.» Finita la baraonda, d'Olincourt si era accorto che il povero Provenzale aveva realmente bisogno di riposo, per cui fece chiamare mastro Pierre e gli domandò se c'era da temere che quei farabutti tornassero la notte successiva. «No, signore» rispose il fattore «ora se ne staranno tranquilli per otto o dieci giorni, potete riposarvi con la massima serenità.» Il presidente, tutto sciancato, fu condotto in una stanza dove si coricò
e riposò come meglio poté per una dozzina di ore; all'improvviso, mentre dormiva, sentì il letto inzuppato: apre gli occhi, vede che il soffitto è forato in mille punti, da ciascuno dei quali zampilla un getto che rischia di sommergerlo, se non se la dà a gambe. Immediatamente si precipita nudo nelle stanze dabbasso, dove trova il colonnello e mastro Pierre intenti a dimenticare i dispiaceri davanti a un pàté e a una sfilza di bottiglie di Borgogna. La prima reazione provocata dall'incursione di Fontanis in una tenuta così sconveniente fu una grassa risata: il poveretto fece il racconto delle sue nuove disavventure, e l'obbligarono a sedersi a tavola senza dargli il tempo di infilarsi le braghe, che egli stringeva sotto il braccio al modo dei popoli del Pegu.1 Il presidente si mise a bere e trovò la consolazione ai suoi mali in fondo alla terza bottiglia di vino. Poiché gli restavano un paio d'ore per tornare a d'Olincourt, fecero preparare i cavalli e partirono. «Mi avete impartito davvero una bella lezione, marchese» disse il Provenzale appena fu in sella. «Non sarà certo l'ultima, amico mio» rispose d'Olincourt «l'uomo è nato per imparare, e soprattutto gli uomini di legge: l'ottusità ha eretto il suo tempio sotto l'ermellino, e respira a pieni polmoni solo nelle vostre aule di tribunale.
Nota: 1 Regione della Birmania [N.d.T.].
Ma checché voi ne diciate, non si poteva certo lasciare questo castello senza capire cosa capitasse al suo interno.» «E ora che l'abbiamo saputo, quali sono i nostri vantaggi?» «Ora possiamo sporgere querela con cognizione di causa.» «Querele? Che il diavolo mi porti se ne farò. Io terrò per me quello che so, e quanto a voi, vi sarei infinitamente obbligato se non ne parlaste con nessuno.» «Amico mio, non siete affatto coerente! Se è ridicolo sporgere querela quando si ricevono dei maltrattamenti, perché allora voi ne mendicate, ne fomentate di continuo? Ma come! Voi, che siete uno dei più grandi nemici del crimine, volete lasciarlo impunito quando è così conclamato? Uno dei più sublimi assiomi della giurisprudenza non consiste nel fatto che anche ove la parte lesa ritiri la denuncia, la giustizia ha comunque diritto alla soddisfazione? E la giustizia non è dunque stata visibilmente violata da ciò che vi è capitato? E proprio voi vorreste rifiutarle il risarcimento che merita?» «Sarà come dite voi, ma io non farò motto.» «E la dote di vostra moglie?» «Mi affiderò all'equità del barone, e lascerò a lui l'incarico di risolvere questa faccenda.» «Ma lui si guarderà bene dall'immischiarsene.» «Ebbene, allora mangeremo croste di pane.» «E bravo! Così vi farete maledire da vostra moglie. Volete che passi la vita a pentirsi di avere legato la sua sorte a quella di un vigliacco della vostra specie?»
«Ah, in fatto di rimorsi ne avremo ciascuno la sua parte, credo. Ma perché poi volete farmi sporgere querela, se prima eravate così avverso all'idea?» «Non sapevo quali erano i termini della questione: fintanto che ho creduto di potere vincere senza il soccorso di nessuno, ho scelto questo partito come il più onesto; ora che invece mi pare indispensabile invocare il sostegno della legge, ve lo propongo. Che c'è di contraddittorio nella mia condotta?» «Assolutamente niente, va benissimo» disse Fontanis scendendo da cavallo, perché erano ormai a d'Olincourt «ma non diciamo nulla, vi scongiuro, è la sola grazia che vi chiedo.» Benché la loro assenza fosse durata solo due giorni, c'erano delle grosse novità dalla marchesa: la signorina de Téroze era malata; un'indisposizione che si voleva cagionata dall'inquietudine, dal tormento di sapere suo marito esposto al pericolo la costringeva a letto da ventiquattro ore. Una vestaglia incantevole, venti braccia di garza intorno alla testa e al collo, un pallore toccante, che la rendevano ancora più bella, rianimarono la passione del presidente, cui la fustigazione passiva della notte passata aveva grandemente infiammato i sensi. Delgatz, vicino al letto della malata, sussurrò a Fontanis di non fare la minima mostra del suo desiderio, nella situazione penosa in cui si trovava sua moglie; il momento critico era arrivato durante le mestruazioni, provocando una perdita. «Maledizione» disse il presidente «sono veramente scalognato: sono andato a prendermi delle legnate per questa donna, mi sono buscato una batosta davvero magistrale, e vengo anche privato del piacere della ricompensa.» Nel frattempo la compagnia del castello si era arricchita di tre personaggi di cui è indispensabile rendere conto. Il signore e la signora de Totteville, dei benestanti appartenenti al vicinato, avevano portato con sé la signorina Lucile de Totteville, loro figlia, una brunetta assai sveglia di diciotto anni che non aveva nulla da invidiare alle languide attrattive della signorina de Téroze. Per non affaticare il lettore, gli riveliamo subito che erano tre personaggi che si era ritenuto opportuno introdurre sulla scena per ritardarne lo scioglimento o per dirigerlo con maggiore sicurezza verso il finale prestabilito. Totteville era uno di quei cavalieri di San Luigi rovinati che, trascinando il loro ordine nel fango, accettano indifferentemente di recitare qualsiasi parte gli venga assegnata in cambio di una cena o di qualche scudo. La sua presunta moglie era una vecchia avventuriera di altro genere, la quale, non avendo più l'età adatta a fare commercio delle proprie grazie, rimediava trafficando quelle altrui. Quanto alla bella principessa che passava per figlia loro, considerando il resto della famiglia si immagina facilmente a quale classe dovesse appartenere: adepta di Pafo fin dall'infanzia, aveva già rovinato tre o quattro finanzieri, ed era proprio in virtù della sua arte e delle sue grazie che era stata scelta. Tutti e tre, in ogni caso, selezionati tra ciò che la loro classe offriva di meglio, impeccabili, perfettamente istruiti sul da farsi, e dotati di quella che si può definire una parvenza di buone maniere, sostenevano egregiamente la loro parte, e sarebbe stato difficile, vedendoli mescolati a uomini e donne della buona società, pensare che non vi appartenessero. Appena il presidente fece il suo ingresso, la marchesa e sua sorella gli
domandarono notizie della sua avventura. «Non è nulla» disse il marchese assecondando il volere di suo cognato «è una banda di bricconi che presto o tardi metteremo in fuga. Sarà sufficiente conoscere le intenzioni del presidente in proposito, e saremo tutti felici di appoggiarlo.» E siccome d'Olincourt aveva furtivamente informato gli altri tanto del successo dell'impresa quanto del desiderio del presidente di passarlo sotto silenzio, la conversazione cambiò e non si parlò più dei fantasmi di Téroze. Il presidente espresse alla moglie la sua viva apprensione, e ancor più il profondo dispiacere che gli procurava questa maledetta indisposizione, che ritardava ancora il momento della sua felicità. Poi, visto che l'ora era tarda, fu servita la cena e tutti andarono a dormire senza che accadesse nulla di straordinario. Il signor di Fontanis, che da buon magistrato annoverava tra le sue qualità una fortissima inclinazione per le donne, osservò con un certo interesse l'ingresso della giovane Lucile nel circolo della marchesa d'Olincourt. Cominciò coll'interrogare La Brie, suo confidente, circa la posizione della giovinetta, e questi gli rispose in modo da alimentare la passione che vedeva nascere nel cuore del magistrato, persuadendolo a spingersi più in là. «E' una ragazza d'alto lignaggio» rispose il perfido confidente «ma questo non la mette al riparo dalle profferte d'amore di un uomo del vostro pari. Signor presidente» continuò lo scaltro giovane «voi siete l'incubo dei padri e il terrore dei mariti, e qualunque progetto di onestà abbia potuto formulare una persona di sesso femminile, è molto difficile che riesca a tenervi fede, con voi. Lasciando da parte l'avvenenza, se non vi poteste fregiare d'altro che della vostra posizione, quale donna potrebbe resistere alle attrattive di un uomo di legge? La lunga veste nera, il tocco, credete che non seducano?» «Beh, certo che è difficile difendersi da noi. Abbiamo qualcuno ai nostri ordini che è da sempre il terrore delle virtù... dunque tu credi, La Brie, che ad una mia parola....» «La ragazza cederebbe, non abbiate dubbi.» «Ma bisogna stare zitti, capisci che nella situazione in cui mi trovo con mia moglie è importante non esordire con un'infedeltà.» «Oh no, signore, la ridurreste alla disperazione, ella vi ama così teneramente....» «Davvero, credi che mi ami almeno un po'?» «Vi adora, signore, e sarebbe un delitto tradirla.» «Comunque credi che su quell'altro fronte?...» «Le vostre faccende progrediranno infallibilmente, se voi lo vorrete. Si tratta solo di agire.» «Oh, mio caro La Brie, mi riempi di gioia, che piacere condurre due trame in parallelo e ingannare due donne in una volta! Tradire, amico mio, frodare, che voluttà per un magistrato!» In seguito a tali incoraggiamenti, Fontanis si prepara, si sistema, dimentica i colpi di frusta che l'hanno straziato, e, pur vezzeggiando
la moglie che sta sempre a letto, punta le sue batterie verso l'astuta Lucile; costei sulle prime fa mostra di ascoltarlo con riluttanza, per poi cedere insensibilmente ogni giorno di più. Questo sottile maneggio durava da circa quattro giorni, senza che nessuno avesse l'aria di accorgersene, quando furono recapitati al castello dei gazzettini, che invitavano tutti gli astronomi a osservare la notte successiva il passaggio di Venere sotto il segno del Capricorno. «Perbacco, è un evento assai singolare» disse il presidente con aria da intenditore, appena letta la notizia «non mi sarei mai aspettato un fenomeno del genere. Come ben sapete, signore mie, ho una qualche infarinatura di questa scienza: ho persino scritto un'opera in sei volumi sui satelliti di Marte.» «Sui satelliti di Marte» disse la marchesa sorridendo «eppure non vi sono tanto favorevoli, presidente, sono stupita che abbiate scelto questo argomento.» «Siete sempre maliziosa, incantevole marchesa, vedo bene che il mio segreto non è stato mantenuto. In ogni caso sono molto curioso dell'evento annunciato... C'è un posto qui, marchese, da dove possiamo osservare la traiettoria di questo pianeta?» «Ma certo» rispose il marchese «sopra alla colombaia ho un osservatorio molto attrezzato: potrete trovarvi cannocchiali di eccellente qualità, quadranti, compassi, insomma tutti gli strumenti indispensabili allo studio di un astronomo.» «Ma allora siete un po' del mestiere!» «Per nulla, ma ho occhi buoni come chiunque altro, e quando passa di qui qualcuno che se ne intende sono ben contento di essere istruito.» «Ebbene, sarà un vero piacere per me darvi qualche lezione, in sei settimane vi insegnerò a conoscere la terra meglio di Cartesio e di Copernico.» Nel frattempo arriva il momento di trasferirsi all'osservatorio: il presidente era desolato dell'indisposizione della moglie, che lo privava del piacere di mostrarle la sua competenza, senza sapere, il povero diavolo, che lei avrebbe avuto il ruolo di protagonista in quella singolare commedia. Benché i palloni aerostatici non fossero ancora stati brevettati, erano già noti nel 1779, e l'abile fisico che doveva costruire quello di cui parleremo, più bravo di quelli che lo seguirono, ebbe il buon gusto di mostrarsi ammirato e di non dire una parola, quando degli intrusi vennero ad appropriarsi della sua scoperta. All'ora prescritta, su un aerostato perfettamente congegnato, la signorina de Téroze doveva prendere il volo tra le braccia del conte d'Elbène, e questa scena, vista da molto lontano e illuminata solo da una debole luce artificiale, era rappresentata abbastanza abilmente da darla a bere a un imbecille come il presidente, il quale in vita sua non aveva sfogliato neppure un'opera che riguardasse la scienza che pretendeva di conoscere. Tutta la compagnia arriva dunque in cima alla torre, si approntano i cannocchiali e il pallone parte. «Riuscite a vedere?» si dicono l'un l'altro. «Non ancora.»
«Ma sì, lo vedo.» «No, non è quello.» «Scusate, signori, è a sinistra, a sinistra, puntate lo sguardo a oriente.» «Ah! Eccolo, lo vedo» esclama il presidente entusiasta «lo vedo, amici, seguite la mia direzione: un po' più in alto di Mercurio, non lontano da Marte, molto al di sotto dell'ellisse di Saturno. Là, là, Dio mio, che bello!» «Lo vedo anch'io, presidente» dice il marchese «è davvero qualcosa di superbo, riuscite a distinguere la congiunzione?» «Ce l'ho sulla punta del cannocchiale.» E, mentre il pallone passa al di sopra della torre: «Ebbene, non sbagliavano davvero gli annunci, ecco Venere sopra il Capricorno.» «E proprio così» dice il presidente «è lo spettacolo più bello cui abbia mai assistito.» «Chissà» dice il marchese «se sarete sempre obbligato a salire così in alto per osservarlo comodamente.» «Ah, marchese, i vostri sarcasmi sono fuori luogo in un così bel momento....» Dopo che il pallone fu inghiottito dall'oscurità, tutti ridiscesero dalla torre, entusiasti del fenomeno allegorico che l'arte aveva imprestato alla natura. «In verità, sono desolato che non abbiate potuto dividere con noi il piacere che questo evento ci ha procurato» disse il signore di Fontanis a sua moglie, trovandola a letto al suo rientro «non c'è niente di più bello al mondo.» «Lo credo» rispose la giovane «ma mi hanno detto che era uno spettacolo talmente pieno di scene dissolute, che in fondo sono contenta di non avervi assistito.» «Dissolute!» disse il presidente sghignazzando con molta grazia «ma no, affatto, si trattava di una congiunzione, cosa c'è di più naturale? E' quello che vorrei accadesse infine tra di noi, e che si farà quando voi lo vorrete. A questo proposito, ditemi in tutta coscienza, sovrana direttrice di tutti i miei pensieri, non ne avete abbastanza di fare languire il vostro sposo, non vorreste accordargli al più presto una ricompensa per le sue pene?» «Ahimè, angelo mio» gli rispose amorevolmente la giovane consorte «vogliate credere che ne ho almeno altrettanto desiderio che voi, ma vedete bene qual è il mio stato... e per di più lo vedete senza provarne compassione, crudele, benché sia assolutamente opera vostra: se mi fossi tormentata meno per la vostra sorte, ora starei molto meglio.» Al sentirsi vezzeggiato in questo modo, il presidente saliva al settimo cielo: si pavoneggiava, si ringalluzziva al punto che mai un magistrato, neppure dopo una bella impiccagione, aveva avuto collo più ritto. Ma siccome in tutto questo dalla parte della signorina de Téroze vedeva gli ostacoli moltiplicarsi, mentre da parte di Lucile riceveva i più grandi incoraggiamenti, Fontanis non esitò a preferire il mirto fiorito
dell'amore alle rose tardive dell'imeneo. Una di esse non può sfuggirmi, ragionava tra sé e sé, l'avrò sempre a disposizione, ma l'altra forse è qui solo per qualche giorno, è necessario sbrigarsi per trarne partito. In conformità a questo principio, Fontanis non perdeva occasione di far progredire i suoi affari. «Ahimè, signore» gli diceva un giorno con finto candore la fanciulla «non diventerei forse la più disgraziata delle creature se vi accordassi ciò che esigete da me? Con i vostri legami, potreste forse riparare l'offesa alla mia reputazione?» «Che significa riparare? Non c'è nulla da riparare in una circostanza come questa, né da parte mia, né da parte vostra: è come un buco nell'acqua. Non bisogna temere nulla con un uomo sposato, perché è lui il più interessato a mantenere il segreto, e quindi non vi impedirà di trovare un marito.» «E la religione, e l'onore....» «Che sciocchezze, cuore mio, vedo bene che siete un'Agnese e che avete bisogno di passare un po' di tempo alla mia scuola. Ah, come farei sparire tutti questi pregiudizi infantili!» «Ma credevo che la vostra posizione vi impegnasse a rispettarli.» «E vero, ma solo in apparenza. Per noi è indispensabile l'aspetto esteriore, perché serve a incutere soggezione, ma una volta spogliati di questo falso contegno che ci impone tante precauzioni, siamo del tutto simili al resto dei mortali. Come potreste ritenerci al riparo dai loro vizi? Le nostre passioni, ancora più infiammate dal perpetuo racconto o dalla descrizione di quelle altrui, non pongono alcuna differenza tra noi e loro, se non per gli eccessi che loro sconfessano e che invece fanno ogni giorno le nostre delizie. Siamo quasi sempre protetti dalle leggi con cui facciamo tremare gli altri, e l'impunità ci infiamma, spingendoci a nuove scelleratezze.» Lucile ascoltava questo cumulo di baggianate, e, per quanto grande fosse la ripugnanza che il fisico e la mente di quell'abominevole personaggio le ispiravano, continuava a mostrarsi disponibile, perché la ricompensa le era stata promessa a queste condizioni. Più gli amori facevano progressi, più il presidente diventava insostenibile. Nulla al mondo è più ridicolo di un magistrato innamorato: è l'immagine perfetta della goffaggine, dell'impertinenza e dell'inettitudine. Se al lettore è mai capitato di vedere un tacchino pronto a moltiplicare la specie, allora egli possiede un'idea compiuta dello schizzo che vorremmo offrirgli. Nonostante le sue manovre di dissimulazione, l'eccessiva insolenza lo smascherava di continuo, e un giorno il marchese volle metterlo in imbarazzo e umiliarlo a tavola, davanti alla sua dea. «Presidente» gli disse «mi sono appena arrivate delle notizie terribili per voi.» «Che notizie?» «Dicono che sopprimeranno il Parlamento di Aix. Il pubblico si lamenta che è inutile, Aix ha meno bisogno di un parlamento rispetto a Lione, e sarà proprio quella città, troppo lontana da Parigi per poterne dipendere, a inglobare tutta la Provenza: del resto è in posizione dominante, perfetta per dare ricetto ai giudici di una provincia così importante.» «E una soluzione che non ha il minimo senso.»
«E una saggia decisione, invece. Aix è in capo al mondo, e un Provenzale, dovunque abiti, preferirà sempre andare a Lione per le sue faccende, piuttosto che raggiungere quel pantano di Aix. Le strade sono bruttissime, e non c'è neppure un ponte sulla Durance, che come le vostre teste si scompagina per nove mesi all'anno. In più, non ve lo nascondo, esistono altre questioni particolari; prima di tutto è molto criticata la vostra composizione: non c'è un solo individuo, si dice, in tutto il Parlamento di Aix, che abbia un nome decente. Tutti mercanti di tonno, marinai, contrabbandieri, insomma una banda di spregevoli bricconi, con la quale la nobiltà non vuole avere nulla a che fare, e che affligge il popolo per compensare il discredito in cui versa. Dei cretini, degli imbecilli - scusatemi, presidente, sto solo riferendo ciò che mi hanno scritto, vi farò leggere la lettera dopo cena - in una parola dei mascalzoni che spingono il fanatismo e l'immoralità fino a lasciare una forca sempre in piedi in mezzo alla città come prova della loro integrità, e che invece rappresenta un monumento al loro piatto rigore. Il popolo dovrebbe staccarne le pietre per lapidare quegli illustri carnefici che con tale arroganza ostentano i ceppi: ci si stupisce che non l'abbia ancora fatto, e pare che non passerà molto tempo... «Uno stuolo di arresti ingiusti, un'affettazione di severità il cui scopo è di passare sotto silenzio tutti i crimini legislativi che commettono, e altre cose ancora più gravi... Nemici dichiarati dello Stato, in ogni tempo... - osano dire apertamente nella lettera.
Nota: 1 Cfr. nota n. 2 a pag. 59 [N.d.T.]. Il pubblico orrore suscitato dalle vostre turpitudini di Mérindol1 non è ancora estinto nei cuori. Non offriste forse in quell'occasione lo spettacolo più orrendo che sia dato immaginare? Ci si può figurare senza fremere i depositari dell'ordine, della pace e dell'equità, con la fiaccola in una mano e il coltello nell'altra, che bruciano, uccidono, stuprano, massacrano tutto ciò che incontrano, come un branco di tigri inferocite scappate da una foresta? E forse giusto che dei magistrati si comportino in questo modo? Vengono ricordate anche parecchie circostanze in cui rifiutaste ostinatamente di soccorrere il re nelle sue necessità: foste più volte pronti a fomentare la rivolta nella provincia pur di non essere iscritti sul registro delle tasse. «Credete che abbiamo dimenticato quell'infausto giorno in cui, senza che nessun pericolo vi pendesse sul capo, vi metteste alla testa dei cittadini per portare le chiavi al connestabile di Borbone1 che tradiva il re? E quella volta che, fremendo per il semplice avvicinarsi di Carlo V, vi affrettaste a rendergli omaggio e ad invitarlo a entrare nella cinta delle mura? Non è forse noto che fu in seno al Parlamento di Aix che nacquero i primi fermenti della Lega2 e che insomma non siete mai stati altro che dei faziosi o dei ribelli, dei traditori o degli assassini?
Nota: 1 Carlo III, 8° duca di Borbone (1490-1527). Si distinse nelle battaglie di Agnadello (1509) e Marignano (1515), ma passò poi con Carlo V, contribuendo alla disfatta francese di Pavia (1525) [N.d.T.]. 2 La Lega (o Santa Lega) era l'organizzazione dei signori cattolici che condusse la guerra civile contro gli ugonotti in Francia [N.d.T.]. «Voi lo sapete meglio di chiunque altro, signori magistrati provenzali, quando si ha voglia di perdere qualcuno, si ricerca tutto quello che ha potuto fare nell'arco della sua vita, vengono ricostruite con cura tutte le sue antiche colpe per aggravare le nuove: non vi meravigliate, dunque, se ci si comporta con voi come voi avete fatto, con i disgraziati che vi è piaciuto immolare alla vostra capziosità. Imparate, mio caro presidente, che non è concesso a una corporazione più che a un privato di oltraggiare un cittadino onesto e tranquillo. E se questa
corporazione si rende conto di una simile incongruità, non si stupisca di vedere un coro di voci levarsi contro di sé, e reclamare i diritti dei deboli e della virtù contro il dispotismo e l'iniquità.» Il presidente, che non poteva tollerare quelle accuse ma neppure contestarle, si alzò da tavola furioso, giurando che sarebbe partito. Dopo lo spettacolo di un magistrato in amore, il più irresistibilmente comico è quello di un magistrato in collera: i muscoli del viso, naturalmente predisposti all'ipocrisia, quando sono costretti a passare rapidamente alle contorsioni della rabbia, vi riescono solo per gradi successivi, producendo delle smorfie grottesche. La stizza di Fontanis suscitò dunque una grande ilarità generale, dopo di che, visto che non era ancora pronta la scena che doveva, secondo i calcoli, mandarlo via una volta per tutte, cercarono di calmarlo, gli corsero appresso, lo ricondussero al castello; infine egli dimenticò tranquillamente la sera tutti i tormenti della mattina, riprese la sua solita aria e tutto si sistemò. La signorina de Téroze migliorava, anche se appariva ancora debole, ma comunque scendeva durante i pasti e passeggiava per un po' insieme agli altri. Il presidente, meno sollecito perché si occupava soltanto di Lucile, si rese tuttavia conto che presto si sarebbe dovuto occupare solo di sua moglie. Di conseguenza si decise a imprimere un'accelerazione all'altra faccenda, che era giunta al momento cruciale: la signorina de Totteville non opponeva più alcuna resistenza, si trattava solo di trovare un luogo sicuro. Il presidente propose il suo appartamento da scapolo, e Lucile, che non dormiva con i suoi genitori, accettò volentieri l'appuntamento per la notte seguente, e andò subito a riferirlo al marchese: questi le spiegò la parte che avrebbe dovuto sostenere, e il resto della giornata trascorse placidamente. Verso le undici Lucile, che doveva avviarsi per prima nella stanza del presidente grazie a una chiave che questi le aveva dato, affettò un mal di testa e uscì. Un quarto d'ora più tardi, l'impaziente Fontanis la segue, ma la marchesa pretende che, per fargli onore, quella sera vuole accompagnarlo fin dentro la sua stanza: la compagnia intera coglie lo scherzo, la signorina de Téroze lo trova divertente, e senza fare caso al presidente - che è sulle spine, e che vorrebbe sottrarsi a quella ridicola premura o per lo meno avvertire la fanciulla per evitare che la sorprendano - formano un piccolo corteo: afferrate le candele, gli uomini passano per primi e le donne circondano Fontanis, prendendolo per mano, e così arrivano alla porta della sua stanza. Il nostro sfortunato galante era sul punto di soffocare. «Non garantisco nulla» diceva balbettando «pensate all'imprudenza che state commettendo, può darsi che l'oggetto del mio amore mi stia aspettando in questo istante nel mio letto, e se così fosse, considerate l'effetto che può avere la vostra mossa avventata.» «Che accada ciò che deve accadere!» disse la marchesa spalancando la porta all'improvviso. «Su, coraggio, bellezza che, a quanto si dice, aspettate il presidente a letto, fate la vostra comparsa senza timore!» Ma quale non fu la sorpresa generale, quando le luci di fronte al letto illuminarono un asino mostruoso mollemente disteso tra le lenzuola, il quale, per una comica fatalità, sicuramente soddisfatto della parte che recitava, si era pacificamente addormentato sul magistrale giaciglio, e russava voluttuosamente. «Ah! Perbacco, presidente» esclamò d'Olincourt tenendosi la pancia dalle risate «considerata un po' la flemma beata di questo animale, non si
direbbe uno dei tuoi colleghi in udienza?» Nondimeno il presidente era felice di cavarsela con questa burla, che gettava un velo sull'altra vicenda, e immaginava che Lucile se ne fosse accorta per prima e avesse avuto la prudenza di non fare sospettare il loro intrigo: e quindi, rinfrancatosi, si mise a ridere con gli altri. Il somaro, molto seccato di questa interruzione del suo riposo, fu sloggiato, le lenzuola cambiate, e Fontanis rimpiazzò degnamente il più bell'asino che si fosse trovato in paese. «In verità non cambia molto» disse la marchesa dopo averlo visto a letto «non avrei mai creduto che ci potesse essere una rassomiglianza così completa tra un asino e un presidente del Parlamento di Aix.» «Eravate dunque all'oscuro di tutto» riprese il marchese «non sapete allora che è proprio tra questa specie di dottori che quella corte ha sempre eletto i suoi membri? Scommetterei che quello che avete appena visto uscire è stato il primo presidente.» L'indomani, la prima cura del presidente fu di chiedere a Lucile come si fosse cavata d'impaccio: e quella, ben istruita, rispose che si era ritirata non appena si era resa conto della beffa, ma con il sospetto di essere stata tradita, per cui aveva passato una notte orribile bramando ardentemente il momento buono per una spiegazione. Il presidente la rassicurò, e ottenne la rivincita per il giorno seguente; la casta Lucile si fece alquanto pregare, Fontanis, stuzzicato, si fece ancora più impaziente, e tutto infine si dispose secondo i suoi desideri. Ma se il primo appuntamento era stato turbato da una scena comica, una circostanza ben più fatale intervenne a buttare all'aria il secondo! L'appuntamento era organizzato come la volta precedente: Lucile si ritira per prima, il presidente la segue poco dopo senza che nessuno faccia difficoltà, la trova nel luogo convenuto, e prendendola tra le braccia si appresta a darle le prove inequivocabili della sua passione... all'improvviso le porte si aprono, e compaiono il signore e la signora de Totteville, la marchesa, e la signorina de Téroze in persona. «Mostro» esclama costei, gettandosi come una furia sul marito «è dunque così che ti fai gioco della mia ingenuità e del mio affetto!» «Figlia degenere» dice il signore de Totteville a Lucile che si è gettata ai piedi del padre «ecco come abusi dell'onesta libertà che ti concediamo!» Dal canto loro, la marchesa e la signora de Totteville gettano delle occhiate severe sui due colpevoli, ma la signora d'Olincourt viene distolta da questo primo moto per raccogliere la sorella che sviene tra le sue braccia. E' difficile dipingere l'espressione di Fontanis in mezzo a questa scena: la sorpresa, la vergogna, il terrore, l'inquietudine, tutte queste diverse sensazioni lo agitano e lo fanno restare di sasso. Nel frattempo arriva il marchese, s'informa, e indignato viene a sapere dell'accaduto. «Signore» gli dice con fermezza il padre di Lucile «non mi sarei mai aspettato che in casa vostra una ragazza onorata potesse subire degli affronti di tale specie. Immagino che comprendiate che questo fatto per me è intollerabile, e che mia moglie, mia figlia ed io partiamo immediatamente per domandare giustizia a coloro che hanno il dovere di assicurarcela.»
«In verità, signore» disse allora seccamente il marchese al presidente «converrete che non avrei mai dovuto attendermi uno spettacolo del genere. Dunque vi siete voluto imparentare con noi solo per disonorare mia cognata e la mia famiglia?» Poi, rivolgendosi a Totteville: «Nulla è più legittimo della riparazione che esigete, ma mi permetto di scongiurarvi all'istante di evitare lo scandalo. Non è per quel buffone che ve lo chiedo, giacché merita solo il disprezzo e la condanna, ma per me, signore, per la mia famiglia, per il mio disgraziato suocero, che, avendo riposto tutta la sua fiducia in questo paio di braghe, morrebbe di dispiacere per il suo errore.» «Mi piacerebbe farvi cosa gradita, signore» disse fieramente il signor de Totteville traendo a sé moglie e figlia «ma mi permetterete di porre il mio onore al di sopra di queste considerazioni. Voi non sarete assolutamente compromesso, signore, denuncerò solo questo mascalzone... E ora concedetemi di non ascoltare più nulla e di andare subito dove la vendetta mi chiama.» A queste parole, i tre personaggi se ne vanno senza che nessuno sforzo umano possa fermarli, e volano, a sentir loro, a Parigi, per presentare un'istanza al Parlamento contro gli oltraggi ricevuti dal presidente Fontanis. Nel frattempo in quello sventurato castello regnano lo scompiglio e la disperazione; la signorina de Téroze, che si è appena ristabilita, si rimette a letto con una febbre che si ha cura di definire pericolosa; il signore e la signora d'Olincourt tuonano contro il presidente, il quale, non avendo altra protezione che quella casa nelle circostanze gravissime che lo minacciano, non osa ribellarsi alle giuste reprimende che gli vengono indirizzate. Questo stato di cose regna per tre giorni, finché delle comunicazioni riservate rendono noto al marchese che il caso sta prendendo una piega molto seria, che verrà trattato dalla giustizia criminale, e che sarà emesso un ordine di cattura nei confronti di Fontanis. «Ma come, senza neanche interrogarmi!» dice il presidente spaventato. «Non è forse la regola» gli risponde d'Olincourt «sono forse concessi degli strumenti di difesa a un arrestato, e una delle vostre usanze più rispettabili non è forse quella di farlo marcire prima di ascoltarlo? Stanno impiegando contro di voi le stesse armi di cui voi vi siete servito con gli altri. Dopo avere esercitato l'ingiustizia per trent'anni, non è ragionevole che ne diveniate la vittima, almeno per una volta nella vostra vita?» «Ma che dite, per un affare di donne?» «Come sarebbe a dire per un affare di donne, dunque non sapete che sono i più pericolosi? Quel maledetto caso, la cui memoria vi è costata cinquecento colpi di frusta nel castello dei fantasmi, non era forse un affare di donne? E non eravate convinto un tempo che per un affare di donne vi era lecito rovinare un gentiluomo? Il taglione, presidente, il taglione è la vostra bussola, sottomettetevi dunque con coraggio alla sua legge.» «Giusto cielo» disse Fontanis «in nome di Dio, fratello, non mi abbandonate.» «Credete che vi soccorreremo» rispose l'Olincourt «nonostante il disonore di cui ci avete coperto, e con tutte le rimostranze che abbiamo da farvi? Ma i rimedi sono dolorosi... e del resto li conoscete.» «Ovvero?»
«L'indulgenza del re, una lettre de cachet, non vedo altra soluzione.» «Ma è terribile!» «Ne convengo, ma trovatene voi una migliore. Volete lasciare la Francia e perdervi per sempre, mentre qualche anno di prigione con ogni probabilità vi riscatterebbe? D'altra parte, questo mezzo che vi fa tanto orrore, non l'avete impiegato voi stesso, qualche volta? Non fu proprio consigliandolo brutalmente a quel gentiluomo che gli spiriti hanno così ben vendicato, che finiste di rovinarlo? Non osaste addirittura costringere quell'infelice militare a scegliere tra la prigione e l'infamia, con un atto di prevaricazione allo stesso tempo rischioso e perseguibile, senza sospendere le vostre ignobili folgori finché non avete avuto la certezza che egli sarebbe stato investito da quelle del re? E quindi non c'è niente di strano, amico mio, in quello che vi propongo. Non solo conoscete bene questa strada, ma oramai dovreste desiderarla.» «O ricordi tremendi!» disse il presidente in lacrime «chi detto, che la vendetta del cielo si sarebbe abbattuta sul nell'istante stesso in cui si consumavano i miei crimini! che ho fatto mi viene reso. Sopportiamo, bisogna soltanto tacere.»
l'avrebbe mai mio capo Tutto il male sopportare e
Nel frattempo, poiché si faceva urgente la necessità di cercare aiuto, la marchesa consigliò vivamente a suo marito di partire per Fontainebleau, dove si trovava allora la corte. La signorina de Téroze non prese parte a quelle decisioni, perché la vergogna e il dispiacere dall'esterno, e il conte d'Elbène dall'interno, la trattenevano sempre nella sua stanza, la cui porta era rigorosamente chiusa per il presidente. Egli vi aveva battuto parecchie volte, aveva cercato di farsi aprire a forza di lacrime e rimorsi, ma sempre infruttuosamente. Il marchese dunque partì. Il tragitto era breve, e fece ritorno dopo un paio di giorni, scortato da due ufficiali di polizia e munito di un presunto ordine la cui sola vista fece tremare il presidente in ogni suo membro. «Non potevate giungere più a proposito» disse la marchesa fingendo di avere ricevuto notizie da Parigi mentre il marito era a corte «il processo sarà giudicato in sede criminale, e i miei amici mi scrivono di fare evadere il presidente al più presto. Mio padre è stato avvertito, è disperato, si raccomanda di servire bene il suo amico e di dipingergli il dolore che lo affligge per questa vicenda... la sua salute gli permette di soccorrerlo solo con dei voti, che sarebbero più sinceri se egli fosse stato più saggio... ecco la lettera.» Il marchese lesse alla svelta, e dopo aver apostrofato Fontanis, che faceva molta fatica a risolversi alla prigione, lo consegnò alle due guardie, che erano in realtà due sergenti maggiori del suo reggimento, e lo esortò a farsi animo, tanto più che non l'avrebbe perso di vista: «Ho ottenuto con molte difficoltà» gli disse «una fortezza situata a quattro o cinque leghe di qui. Lì sarete agli ordini di un mio vecchio amico, che vi accoglierà come se si trattasse di me; ora gli invio per mezzo delle vostre guardie delle raccomandazioni ancora più vive, restate dunque tranquillo.» Il presidente pianse come un bambino, niente è così amaro come i rimorsi del criminale che vede ritorcersi contro di sé tutta la violenza di cui si è servito... Non per questo fu meno necessario staccarsi di lì; prima di partire, chiese con insistenza il permesso di abbracciare sua moglie.
«Vostra moglie!» gli rispose bruscamente la marchesa. «Non lo è ancora a tutti gli effetti, ed è la sola consolazione che ci resta in mezzo a tante disgrazie.» «E sia» disse il presidente «avrò la forza di sostenere anche questa afflizione» e montò sulla carrozza con gli ufficiali. Il castello dove condussero quel disgraziato si trovava in un terreno che faceva parte della dote della signora d'Olincourt, e tutto era preparato per riceverlo: un capitano del reggimento di d'Olincourt, un uomo aspro e arcigno, doveva impersonare la parte del governatore. Fece entrare Fontanis, congedò le guardie, e disse duramente al suo prigioniero, confinandolo in una stanza orrenda, che aveva degli ordini ulteriori a suo riguardo, di una severità assoluta, cui non poteva fare eccezione. Il presidente fu lasciato in questa situazione crudele per un mese circa; non vedeva nessuno, gli venivano serviti solo zuppa, pane e acqua, dormiva sulla paglia, in una stanza spaventosamente umida, nella quale, come alla Bastiglia ovvero al giardino zoologico, entravano solo per portare il cibo. Il povero magistrato fece delle riflessioni assai amare durante quel fatale soggiorno, senza che nessuno venisse a interromperle. Infine comparve il falso governatore, e dopo averlo blandamente consolato gli parlò in questi termini: «Non dubitate, signore, che il primo dei vostri torti sia stato quello di volervi imparentare con una famiglia tanto superiore a voi sotto tutti gli aspetti. Il barone de Téroze e il marchese d'Olincourt sono due esponenti della più alta nobiltà di Francia, e voi non siete altro che un misero magistrato provenzale, senza nome e senza credito, privo di rango e di considerazione. Un esame di coscienza avrebbe dunque dovuto condurvi a dichiarare al barone de Téroze, che era abbagliato da voi, che non eravate fatto per sua figlia. D'altronde come avete potuto pensare, anche solo per un momento, che quella fanciulla bella come l'amore potesse diventare la moglie di un vecchio scimmione volgare quale siete? Si può sbagliare, ma non fino a questo punto. Le riflessioni che avete sicuramente fatto durante il vostro soggiorno in questo posto, signore, devono avervi convinto che nei quattro mesi che avete abitato nella casa del marchese d'Olincourt, ne siete stato il trastullo e lo zimbello: la gente del vostro stato e del vostro aspetto, della vostra professione e della vostra ottusità, della vostra meschinità e della vostra grettezza, non deve aspettarsi un diverso trattamento. Con mille beffe una più divertente dell'altra, vi hanno impedito di godere della donna cui aspiravate, vi hanno impartito cinquecento colpi di staffile in un castello di spiriti, vi hanno mostrato vostra moglie tra le braccia di colui che adora - e voi avete insulsamente scambiato questo spettacolo per un fenomeno naturale - vi hanno messo alle prese con una puttana pagata per burlarsi di voi, infine vi hanno rinchiuso in questo castello dove dipende solo dalla volontà del marchese d'Olincourt, mio colonnello, di tenervi rinchiuso fino alla fine dei vostri giorni, il che accadrà senza fallo se rifiutate di firmare questo foglio. «Osservate prima di leggerlo, signore» continuò il falso governatore «che voi apparite agli occhi del mondo come il promesso sposo della signorina de Téroze, e non come suo marito. Il vostro matrimonio è stato celebrato in gran segreto, i pochi testimoni hanno consentito a ritirarsi, il curato ha restituito l'atto - eccolo qua - il notaio ha reso il contratto, che potete vedere coi vostri occhi, e per di più non siete mai stato a letto con vostra moglie. Il vostro matrimonio è dunque
nullo, e si può considerare rotto, tacitamente e di buon grado, da tutte e due le parti, e questo dà alla sua rottura altrettanta forza che se fosse opera delle leggi civili e religiose. Inoltre ho qui le rinunce del barone de Téroze e di sua figlia, manca soltanto la vostra; ecco qua, signore: scegliete tra la firma in via amichevole di questa carta, oppure la certezza di terminare qui i vostri giorni... Potete rispondere, ho finito.» Il presidente, dopo aver riflettuto un po', prese il foglio e lesse queste parole: «Attesto a chiunque legga questo foglio che non sono mai stato il marito della signorina de Téroze, le restituisco con questo scritto tutti i diritti che un giorno si ritenne di cedermi sulla sua persona, e affermo che non li reclamerò mai finché vivo. Inoltre non posso che magnificare il comportamento che ella e la sua famiglia hanno tenuto nei miei confronti durante l'estate che ho passato nella loro casa. E' di comune accordo, di spontanea volontà di entrambi, che rinunciamo mutuamente ai progetti di unione che si erano formati su di noi, che ci rendiamo reciprocamente la libertà di disporre delle nostre persone, come se non avessimo mai avuto intenzione di congiungerci. Ed è in piena libertà di corpo e di spirito che firmo questo documento al castello di Valnord, di proprietà della signora marchesa d'Olincourt.» «Mi avete parlato, signore» riprese il presidente dopo la lettura di queste righe «della sorte che mi attenderebbe se non firmassi, ma non mi avete detto cosa mi capiterebbe se acconsentissi a tutto.» «La ricompensa sarà la vostra libertà immediata, signore» rispose il governatore fasullo «la preghiera di accettare questo piccolo presente di duecento luigi da parte della signora marchesa d'Olincourt, e la certezza di trovare alle porte del castello un servo con due cavalli eccellenti che vi aspettano per riportarvi a Aix.» «Firmo e parto, signore, mi preme troppo liberarmi da quelle persone per esitare un solo istante.» «Molto bene, presidente» disse il capitano ricevendo lo scritto firmato e consegnandogli il dono «ma fate attenzione a come vi condurrete: una volta fuori, se il desiderio di trarre vendetta si impadronisse qualche volta di voi, riflettete prima di metterlo in atto che avrete a che fare con un avversario molto forte, che questa potente famiglia che offendereste tutta intera con le vostre manovre vi farebbe immediatamente passare per folle, e che l'ospizio dove quei miserabili vengono rinchiusi diventerebbe la vostra dimora definitiva.» «Non avete nulla da temere, signore» disse il presidente «sono il primo interessato a non avere più nulla a che fare con quella gente, e vi assicuro che saprò evitarlo.» «Ve lo consiglio, presidente» gli disse il capitano aprendogli finalmente la porta della prigione, «andatevene in pace e non fatevi rivedere mai più da queste parti.» «Potete contare sulla mia parola» disse il magistrato montando a cavallo «questa avventura mi ha guarito da ogni vizio. Dovessi vivere mille anni, non verrei a cercar moglie a Parigi; avevo inteso il dolore di essere cornuto, ma non avrei mai concepito la possibilità di diventarlo prima del matrimonio. Uguale prudenza e discrezione per quanto riguarda gli arresti: non mi ergerò mai più ad arbitro tra donne di malaffare e persone che valgono più di me; a prendere la parte di quelle signorine si paga un prezzo assai caro, e non voglio più avere a che fare con della gente che ha degli spiriti pronti a vendicarla.» Il presidente scomparve, e, divenuto onesto a sue spese, non si sentì
più parlare di lui. Le puttane ebbero molto a lamentarsi, in Provenza non c'era più nessuno che le sostenesse e i costumi se ne avvantaggiarono, perché le fanciulle, vedendosi private di quell'appoggio indecente, preferirono il cammino della virtù ai pericoli che con ogni probabilità le attendevano sulla strada del vizio, una volta che i magistrati fossero divenuti abbastanza saggi da comprendere quanto fosse terribilmente sconveniente sostenerle con la loro protezione. Durante gli arresti del presidente, com'è facile supporre, il marchese d'Olincourt, dopo avere convinto il barone de Téroze ad abbandonare il bel concetto che aveva di Fontanis, aveva fatto in modo che tutte le disposizioni che abbiamo visto fossero eseguite correttamente; grazie alla sua abilità e al suo credito vi riuscì talmente bene, che dopo tre mesi la signorina de Téroze sposò pubblicamente il conte d'Elbène, col quale visse perfettamente felice. «Qualche volta provo un certo rimorso per avere trattato tanto male quell'uomo ributtante» diceva un giorno il marchese alla sua deliziosa cognata «ma se da un lato guardo alla felicità che i miei stratagemmi hanno prodotto, e dall'altro mi convinco che colui che ho tormentato non è altro che una canaglia inutile alla società, fondamentalmente nemico dello Stato, disturbatore della pubblica quiete, carnefice di una famiglia onesta e rispettabile, noto diffamatore di un gentiluomo che stimo e di cui ho l'onore di essere parente, allora mi consolo ed esclamo con il filosofo: "O sovrana Provvidenza, perché mai i mezzi dell'uomo sono tanto limitati che non si può giungere al bene se non attraverso un po' di male?".» Finito di scrivere il 16 luglio 1787 alle dieci di sera. INDICE Introduzione di Silvia Grilli Nota di Remo Ceserani La vendetta di Sade di Lucia Tozzi IL GIUDICE BEFFATO 27