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STEVE MARTINI IL GIUDICE (The Judge, 1995) In memoria di George Coleman PROLOGO È come una rosa: lunga e slanciata, la carnagione scura e vellutata, occhi e denti sfolgoranti, e un temperamento a volte pungente. Lenore Goya e io siamo amici sin dai tempi del mio breve incarico a termine come pubblico ministero straordinario nella contea di Davenport, tre anni fa. A parte un paio di brevi incontri in tribunale, non l'ho più vista dai giorni immediatamente successivi al funerale di Nikki. In parecchie occasioni ho pensato di chiamarla, ma ogni volta ho represso l'impulso. Non ci ho mai tenuto a fare la figura del vedovo in caccia, e così ho represso in silenzio tutti i miei desideri. Quando mi ha chiamato, però, sapevo che l'eccitazione nella mia voce non le sarebbe sfuggita. Questa sera ci dobbiamo incontrare da Angelo, sul fiume. Fa un po' fresco. Una leggera brezza fa oscillare le lanterne giapponesi appese sopra i tavoli lungo il molo, proprio vicino all'acqua. Le barche da diporto nel porticciolo turistico dondolano pigramente, trattenute dagli ormeggi. Indosso il mio miglior abbigliamento casual, un look che ha richiesto due ore di preparativi. Il tono della telefonata faceva pensare più a un incontro di lavoro che di piacere. Tant'è, un po' ci spero. Quando la vedo, è dall'altra parte del locale, sulla terrazza, un piano sopra quello dove mi trovo io. L'abbigliamento di Lenore è perfetto per l'occasione: una gonna plissettata a fiori che le arriva a metà polpaccio e un maglione con il collo arrotolato di un vivace color pastello. Lenore è vestita con i colori della primavera. Mi vede e mi fa un cenno con la mano. Rispondo al saluto con un gesto vivace e spigliato: due amici che s'incontrano, mi dico, anche se mi batte forte il cuore. Questa sera lei è lieve e spensierata, nell'aspetto e nell'umore. I suoi lineamenti fini sono come una pietra finemente cesellata: zigomi alti e un naso che, come tutto in lei, è dritto e sottile. Si fa strada fra i tavoli, per la maggior parte vuoti. I più hanno scelto i
tavoli all'interno, riparati dall'aria fredda della sera. Non è ancora del tutto estate, a Capital City. Mentre si avvicina, i pochi clienti si voltano a guardarla. Lenore è una di quelle donne che fanno colpo e diventano il centro dell'attenzione ovunque si trovino. Di discendenza ispanica, ha l'aspetto di un'indigena, un fascino che rasenta l'esotico: Eva nel paradiso terrestre prima del peccato originale. «Che posto fantastico», dice. Un bacetto sulla guancia, la stretta della sua mano sul mio braccio e sono un uomo morto. «Quanto tempo che non ci vediamo», dice lei. «Un bel po'», rispondo. Ogni mio movimento è studiato per dare l'impressione della disinvoltura. Le dico che è bellissima e l'aiuto a sedersi. Poi riesco a inciampare nella sua borsa mentre torno alla mia sedia. Lei ride, portandosi una mano davanti alla bocca. I nostri occhi s'incontrano e vedo che i suoi mandano scintille. Persino in questo suo ridere di me c'è qualcosa di affascinante. Ricorre spesso nei miei sogni, ma non nel modo che qualcuno potrebbe immaginare. Il mio sogno è ispirato dal ricordo: la figura massiccia di Adrian Chambers china su di me, il picchetto di metallo puntato contro il mio petto, e dietro di lui Lenore, vento e fiamme, scintille nell'aria: l'immagine di un'arcaica dea della guerra. Non ne parliamo mai, ma in ogni nostra conversazione c'è sempre il sottinteso ricordo di quel giorno terribile, e la consapevolezza che Lenore ha ucciso un uomo per salvarmi la vita. Scambiamo qualche convenevole, parliamo di comuni amici dei tempi passati, delle nostre figlie, che hanno più o meno la stessa età. Lenore ha due bambine poco più grandi di Sarah. «Dev'essere cresciuta», dice, parlando di mia figlia. «Assomiglia sempre più a Nikki ogni giorno che passa.» Tra le mille cose che avrei potuto dire, scelgo proprio la più sentimentale. Lei distoglie lo sguardo. Lenore prova pena all'idea di una bambina senza mamma. Ha un fortissimo senso materno. «Come ve la cavate?» La sua preoccupazione è per Sarah e per me. «Ci stiamo adattando», le dico. «Per Sarah è più difficile.» «Anche tu devi sentire la sua mancanza. Te lo si legge negli occhi quando pronunci il suo nome.» Non nego, ma porto la conversazione su un argomento diverso: il nuovo
lavoro di Lenore. Sembra, però, che abbia scelto l'argomento sbagliato. «Ha i suoi alti e bassi», dice. «Ma sono più i bassi.» Lenore ha saltato il fosso: è venuta di qua dal fiume circa un anno fa per assumere l'incarico di sostituto procuratore capo della contea di Capital. Forse è in parte questo il motivo per cui non ci siamo frequentati. Occupiamo i due angoli opposti dello stesso ring, dove rimbalziamo contro le corde come pugili suonati. Non abbiamo ancora combattuto l'uno contro l'altra in tribunale, e mi chiedo come questo potrebbe influire sulla nostra amicizia. Forse non lo saprò mai. Ho sentito dire che nel suo ufficio c'è maretta. Duane Nelson, quello che l'ha assunta, ha lasciato l'incarico per andare a fare il giudice ed è stato sostituito da un nuovo procuratore, più scorbutico e insicuro, Coleman Kline. Dicono sia lo schiavetto dei pezzi grossi della contea. Fatto sta che è impegnatissimo a imprimere il suo marchio su tutto l'ufficio. Circolano voci di un'epurazione. A sentire Lenore, ogni giorno che entra in ufficio guarda l'architrave della porta alla ricerca di sangue e si chiede se l'Angelo Sterminatore - una certa Wendy, incaricata di consegnare le lettere di licenziamento a quelli che sono stati trombati - passerà oltre. «Hanno licenziato tantissime persone», mi dice. Senza la tutela garantita agli impiegati statali, e con una posizione di spicco all'interno dell'ufficio, Lenore è un bersaglio perfetto. Ci sono decine di lacchè politici che hanno fatto i portatori d'acqua nelle ultime elezioni e che ora fanno a gara per soffiarle il posto, cercando di cacciarla fuori in tutti i modi. Arriva il cameriere e ordiniamo i cocktail e un antipasto. Quando si allontana, resto a osservarla per un attimo in silenzio mentre guarda uno yacht che risale il fiume, il fanale verde di via riflesso sull'acqua. Lenore si volta e mi coglie in flagrante. «Un penny per i tuoi pensieri.» Ho il sospetto che non siano le difficoltà all'interno del suo ufficio la vera ragione del nostro incontro. «Mi piacerebbe pensare che mi hai chiamato per il mio fascino», le dico. «Però pensi che ci sia anche un altro motivo.» Porta a termine lei il mio pensiero. Sorrido. «Sei molto affascinante.» Mentre dice questo le brillano gli occhi, come
l'acqua scura sotto di noi. Due fossette compaiono sulle sue guance. «Ma?...» «Ma ho bisogno del tuo aiuto», conclude. «Ho un amico», mi dice, «un agente di polizia, che si trova nei guai...» 1. «Ha due possibilità», mi dice. «O il suo uomo testimonia, oppure...» «Oppure cosa? Gli strappate le unghie?» Mi lancia un'occhiata come per dire: se vuoi metterla in questi termini... Armando Acosta sarebbe stato perfetto in un'altra epoca: mi passano per la mente immagini di una segreta avvolta nella penombra, con anelli di ferro fissati alle pareti di pietra. Lì, alla luce tremolante delle torce, nell'aria greve di odore di sugna, intravedo uomini dal torace possente e peloso, con un cappuccio in testa, che si danno da fare con vari strumenti di tortura, obbedendo ai suoi ordini. Sì, Armando «Nocedicocco» Acosta ha sbagliato secolo. Ha perso la sua occasione d'oro con la fine della Santa Inquisizione. Siamo seduti nel suo ufficio, situato sul retro alla Sezione 15, e respiriamo l'aria viziata dell'estate. Questo posto ha un odore particolare: ricorda l'interno di un armadietto nello spogliatoio di una palestra di liceo, chiuso da tempo e infestato da un sospensorio sporco. Sette milioni di dollari per l'aggiunta di una nuova ala al tribunale - un monumento di marmo e granito all'idiozia del governo -, e poi alla contea mancano i soldi per cambiare i filtri dell'aria condizionata. Acosta s'appoggia allo schienale di cuoio capitonné della sua poltrona, sfiorandosi il labbro superiore con le dita di una mano perfettamente curata. Sembra immerso in profonda meditazione. «Lo accuserò di oltraggio alla corte», dice. «E non lo metterò in isolamento. Nessun trattamento speciale.» Sembra che l'idea gli piaccia un mondo, a conferma del fatto che la magistratura è l'unico settore del nostro sistema in cui si possa impunemente abusare della propria autorità, specialmente qui, nell'isolamento di un ufficio privato. «Il carcere è sovraffollato», riflette poi, come se questa condizione offrisse prospettive ancora migliori. «E lei conosce i rischi che corre un poliziotto in un carcere comune. Cosa non potrebbero fargli...» Ho la sensazione che, se potesse, mi farebbe un disegnino, una variazione sul tema dell'impiccato appeso alla forca, ma con la figuretta stilizzata
messa a quattro zampe e il didietro sollevato per aria. Acosta sta parlando del mio cliente. Tony Arguillo è un bel ragazzo sui trentacinque anni, ed è entrato nella polizia della nostra città quattro anni or sono. Adesso è stato chiamato a testimoniare davanti al gran giurì. È parente alla lontana di Lenore, cugino di un cugino o qualcosa del genere. A quanto pare, tuttavia, sono più uniti di quanto faccia pensare la parentela. Tony e Lenore sono cresciuti insieme, a Los Angeles. Sembra che, per strada, lui fosse il braccio e lei la mente. Al momento, Arguillo è la pallina in gioco nella grande partita di pingpong tra l'Associazione della Polizia e gli amministratori della città, una vertenza sindacale degenerata in qualcosa di molto più grave. L'ultimo colpo, una volée di rovescio di Nocedicocco, sferrata per conto del sindaco e del consiglio comunale, ha spedito il mio cliente a gambe all'aria oltre la rete, nel campo del sindacato. L'amministrazione cittadina ha lanciato accuse di corruzione contro la polizia, accuse che verrebbero prontamente fatte cadere se il sindacato trovasse un veloce rimedio all'epidemia di «febbre blu», in seguito alla quale un numero incredibile di poliziotti si è dato malato. Acosta, da parte sua, sta cercando di ingraziarsi il favore dei potenti, di altri politici che, se lui riuscisse a spuntarla, sarebbero in grado di appoggiarlo in caso di elezioni, o che, se venisse sconfitto, potrebbero trovargli una comoda nomina per qualche incarico pubblico. Nocedicocco è deciso a distruggere il sindacato di polizia, che ha dato il proprio appoggio al suo avversario nelle prossime elezioni e sta convogliando su di lui grosse somme di denaro. Quello che dicono di molti giudici è vero. La principale qualifica richiesta per la nomina è essere avvocati e conoscere il governatore. E ora questo particolare giudice, l'uomo che odio, tiene il mio cliente per i coglioni. Sfortunatamente per Tony Arguillo, quelle che erano nate come accuse vaghe e infondate stanno improvvisamente prendendo consistenza. Sono spuntate prove secondo cui alcuni pezzi grossi del sindacato avrebbero fatto la cresta sulle quote degli associati e sui fondi pensione. La cosa è rapidamente degenerata fino a diventare di dominio pubblico, e a questo punto le autorità non potevano più far finta di niente. Contrattiamo un po' sulla sostanza di queste accuse. Io li definisco «pettegolezzi e congetture infondate», e dentro di me prego che il procuratore distrettuale non abbia ancora portato a termine una verifica ufficiale dei fondi. Acosta, da parte sua, abbozza un tentativo di indignazione, ma, vista
la sua limitata statura morale, è come cavar sangue da una rapa. «Roba da non credere», mi dice. «Gli agenti stanno distribuendo volantini all'aeroporto e dicono ai turisti che la città non è sicura. Che arroganza!» Queste parole vengono solo sussurrate a denti stretti, in modo che l'usciere di Acosta, che se ne sta fuori della porta intento a masticare semi di girasole e a sputare le bucce sulla moquette del corridoio, non possa sentire. «Come se ci fosse una corrispondenza diretta», prosegue. «Quasi che il tizio che ti ha scippato una settimana fa non avrebbe colpito se i poliziotti avessero avuto il loro otto per cento di aumento nella busta paga di quel venerdì. A sentirli, è come se vendessero protezione. Assolutamente poco professionale», dichiara. «Una fottutissima estorsione», conclude, come se il turpiloquio e le velate minacce di violenze fisiche contro il mio cliente da parte di un giudice fossero atti di sommo livello morale. Glielo faccio notare. «Io non ho minacciato nessuno. E mi offende...» «Lo dirò al mio cliente quando lo metterete nella stessa cella con King Kong.» «Ci si sta mettendo da solo, in quella cella.» La situazione sta degenerando. Cerco di farlo ragionare. «Il mio cliente è soltanto un contabile», gli dico. «Lui si limitava a tenere i libri del sindacato.» «È più facile che tenesse la borsa», ribatte Acosta. «Da quello che ho sentito dire, nel fondo del sindacato c'è un ammanco di circa mezzo milione di dollari.» Gli lancio un'occhiata come se la notizia mi giungesse nuova. «Forse dovrebbe chiedere ai veri responsabili. Tony non era neppure tesoriere. Lui si occupava soltanto dei registri, a tempo perso, per fare un favore agli amici.» «Su questo non ho dubbi. Probabilmente è l'unico del gruppo che riesce a contare fino a dieci senza doversi togliere le scarpe.» Acosta non ha una grande opinione dei poliziotti. Per lui, quelli competenti sono tizi cui far sparare addosso nei momenti di pericolo; quelli più inetti sono buoni solo per lucidargli con lo sputo gli stivali a punta da cowboy nei momenti di noia. Una volta ho visto coi miei occhi il suo usciere che lo faceva. Il mio cliente mi ha giurato in più occasioni di non aver assolutamente preso soldi. Ma ho il sospetto che Tony sappia dove sono state seppellite grosse quantità di denaro, come ossa spolpate, e chi, nella sua combriccola
di cani randagi, abbia scavato la buca. È questo che vuole Acosta, la prova di una collusione criminale e di una frode finanziaria all'interno del sindacato, un qualcosa che potrà barattare con i boss della città, una merce di scambio politica, come le pance di porco. Questo spezzerebbe la schiena al sindacato e rispedirebbe i poliziotti al lavoro con la coda tra le gambe. In breve, un'incriminazione stroncherebbe sul nascere lo sciopero che sembra sul punto di esplodere. «Se lei emette un mandato per oltraggio», gli dico, «io otterrò una sospensione. Mi rivolgerò alla corte d'appello.» «Ci vorranno due o tre giorni, se va bene.» Ma la faccia di Acosta parla chiaro: «Nel frattempo il tuo cliente avrà modo di scoprire nuove prospettive sulle pulsioni sessuali umane». È una violenza, e glielo dico, una potenziale condanna a morte per un poliziotto che ha avuto solo un ruolo marginale nella vicenda, e non è certo uno dei burattinai. C'è qualcosa di oscuro e insondabile nel sorriso di Acosta mentre mi fissa dall'altro lato della scrivania il cui ripiano è disseminato di carte e oggetti vari che solo persone culturalmente carenti potrebbero definire arte. C'è un Don Chisciotte in metallo che lotta con un mulino a vento, dono di un gruppo di cittadini ingenui che hanno scambiato l'avarizia e l'ambizione politica del giudice per una nobile lotta. L'unica cosa che Nocedicocco ha in comune con questa replica metallica del grande Don della letteratura è la durezza. «Allora siamo d'accordo?» dice Acosta, sfidandomi. «Vediamo se ho capito bene: lei vuole che il mio cliente rinunci ai suoi diritti, e magari si autoincrimini. Se rifiuto, lei lo sbatte in cella con qualche animale e lascia che la natura faccia il suo corso.» Mi guarda con un'espressione la cui traduzione libera non fa che confermare la mia interpretazione delle due opzioni disponibili. «Forse dovremmo chiamare la stenografa e farlo mettere a verbale», proseguo. Le sue labbra sottili si incurvano appena in un sorriso cupo, come per dire: «Sarà facile». «Il suo cliente sarà costretto a parlare o finirà dentro, oppure entrambe le cose. Ma parlerà. E lei dovrebbe prepararlo a questo finale.» «Da come lo dice la fa sembrare una questione personale.» «No. No. Non è personale.» «Allora è politica.»
«Ah, ora ha capito.» Acosta non prova il minimo imbarazzo ad ammetterlo. «C'è sempre un prezzo da pagare quando in una gara si scommette sul cavallo sbagliato.» Ci pensa su un momento e poi dice: «Com'è che si chiama... Johnston?» Se non altro è onesto. Si tratta di affari. Non riesce neppure a ricordare il nome dell'uomo che corre contro di lui. «È...» Ci pensa un momento, e poi trova la parola giusta: «... una questione di sopravvivenza», dice. «Sono su questo scanno da vent'anni. Li ho sempre trattati bene. Non ho mai maltrattato un uomo in uniforme sul banco dei testimoni. E loro mi fanno questo.» Non dice che per anni ha lasciato andare liberi magnaccia e prostitute. Con Acosta si trattava sempre o di un favore professionale o di un deposito sul suo fondo di investimento. Non si poteva mai dire. Comunque, ai poliziotti della buoncostume la cosa non andava giù. Questo ha causato un certo malumore tra i ragazzi e sicuramente ha giocato un ruolo decisivo nella loro decisione di puntare su un altro cavallo. «Sembra quasi che lei si trovi davanti a un conflitto d'interessi. Forse dovrebbe rinunciare a questo caso.» «Lei ci ha provato», dice. «Ma il suo cliente non ha dato del denaro al mio avversario. È stato il sindacato. E il sindacato non c'entra nella sua decisione di testimoniare o no.» Legalmente ha ragione, anche se in realtà è proprio la confraternita dei poliziotti, e il loro sindacato, il punto nodale di questa discussione. E Acosta lo sa bene. «Noi sappiamo perfettamente che il suo cliente ha sentito qualcosa», dice. «Chi sarebbe 'noi'? Non sapevo che l'esercizio della funzione di giudice fosse diventato un'attività collettiva», ribatto, inarcando un sopracciglio. Acosta si rende conto di aver superato i limiti. «Stavo solo cercando di rendermi utile», dice. «Proprio come il suo cliente, nel caso decidesse di testimoniare. Se non ha fatto niente di male, non ha niente da temere.» «Già, come se la sua corte marziale facesse queste sottili distinzioni.» «Il gran giurì della contea non è una corte marziale.» Come no. Niente avvocato difensore, niente che potrebbe lontanamente passare per un regolamento di presentazione delle prove, un pubblico ministero che ha in mano l'intero procedimento legale, méntre la mia unica risorsa in termini di mediazione giudiziale sta in questo equivalente suda-
mericano del Signore delle mosche. Potrei ribattere, ma a che pro? Il collegio di giudici che gestisce il sistema giudiziario della contea di Capital viene definito con termine spregiativo «la Curia» dagli avvocati che devono regolarmente fare i conti con i suoi arbitrari editti amministrativi. La più recente stravaganza è stata quella di piazzare Acosta a capo del gran giurì della contea. È come mettere un pedofilo a dirigere un asilo. E ora a tutti i nemici di Nocedicocco gli si stringe il culo. Per un attimo considero la possibilità di giocare la carta etnica. Dopotutto, Arguillo è un ispanico. Per lo meno, credo. Prendo in considerazione la cosa per un attimo... Nocedicocco potrebbe chiudere un occhio per uno della sua razza. Ma poi ci ripenso. Acosta si preoccupa dei legami etnici come un parassita si interessa del suo ospite. «E se il mio cliente ricorresse al Quinto Emendamento?» gli chiedo. «Non può, se il procuratore distrettuale gli garantisce l'immunità.» «Ma non l'ha fatto.» «Lo farà.» Il giudice, il cui ruolo in tutto questo dovrebbe essere puramente amministrativo, si è gettato nella mischia e ha già parlato con il procuratore. «Dovrebbe essere lei il procuratore. Avrebbe dovuto correre contro Kline.» Sorride a queste parole, come se avesse seriamente preso in considerazione questa possibilità. Coleman Kline, il nuovo procuratore distrettuale della contea, è l'ex lobbista di un gruppo di fanatici dell'ordine e della legge. Ha cavalcato ogni causa: guida in stato di ubriachezza, violenza domestica, diritti delle vittime, qualunque fosse l'argomento del giorno. Kline ha sfruttato tutto il possibile nella durissima corsa alla nomina a procuratore in una elezione straordinaria, quattro mesi fa. Con l'appoggio di alcuni gruppi per il diritto alla vita e di una coalizione per i valori famigliari convinta che tutta la società sia in declino dai tempi in cui Noè sbarcò dall'arca, è riuscito a battere di stretta misura il principale contendente al posto, uno dei sostituti procuratori più in vista dell'ufficio. Kline ha passato gli ultimi due mesi a consolidare il proprio potere, ricompensando i sostituti che lo avevano appoggiato e cacciando quelli che non lo avevano fatto. «Kline è nuovo», mi dice. «La corte ha ritenuto opportuno fargli una piccola cortesia.» «Ma vorrei evitare che il cliente rimanesse stritolato dagli ingranaggi della cortesia della corte.» «La discussione sta diventando noiosa. Dica al suo cliente che l'alterna-
tiva è semplice. O collabora o lo mettono sotto.» Il nostro incontro è terminato. «Gli parlerò.» «Non dovrebbero volerci più di due minuti.» Gli spiego che il mio cliente non è in tribunale. Una precauzione che ho preso. «Aspetto una risposta per domani. Alle due, qui nel mio ufficio, e porti Arguillo... con lo spazzolino da denti», dice. «Altrimenti farà meglio a portare il suo.» Quando torno nel mio ufficio, sembra che sia in corso una convention. Mancano solo i cappellini. Il mio socio, Harry Hinds, sta piluccando dolcetti da un vassoio posato sul bancone della segretaria, ciò che rimane degli avanzi di Natale che lui ricicla e fa girare da circa sei mesi. Secondo i dettami di qualche darwiniana legge dei dolci, questi sono improvvisamente diventati commestibili. Seduto con una sola natica sull'altro angolo della scrivania c'è Tony Arguillo, che aspetta notizie sulla propria sorte. È impegnato in un'animata conversazione con Lenore, che divide la propria attenzione tra Tony e alcuni documenti posati all'interno della valigetta che tiene aperta di fianco a sé, seduta a gambe accavallate sul divano. Quando richiudo la porta, lei alza lo sguardo. «Parli del lupo...» dice Harry. «Com'è andata?» È Lenore a chiederlo. Il suo volto è il ritratto della preoccupazione. Molta più di quanta ne vedo in Tony: un osservatore estraneo potrebbe pensare che sia lei quella che rischia di finire in galera. «Come prevedevo. Sua eminenza non intende fare sconti. Ha detto che o Tony parla, oppure...» Faccio una scrollatina di spalle. «Oppure cosa?» fa Tony. «Oppure ti sbatte dentro.» La cosa non sembra turbarlo. Lenore invece trabocca di teorie sulla difesa legale, tese a invalidare il mandato di comparizione, ad attaccare l'indagine della giuria in quanto viola le leggi sindacali. Dal mio silenzio Tony capisce che questi sono stratagemmi privi di ogni speranza. Quando Tony si è trovato in questo casino, non ho potuto rifiutare un favore a Lenore. Ma accettare questo caso è stato un errore. Non difendo molti poliziotti e, se non fosse stato per Lenore, non mi troverei a rappre-
sentare neppure lui. Alla fine Tony reagisce nella maniera più naturale per un poliziotto che si trova con le spalle al muro: si mette a fare lo spaccone. «Acosta può anche andare a pigliarselo in culo», dice. Si alza dalla scrivania e si mette a camminare su e giù per la stanza. «Sta perdendo il suo tempo se pensa che io faccia la spia agli amici. Quella sottospecie di giudice!» Tony rimugina e impreca sottovoce, come fanno gli uomini quando sono preoccupati o spaventati. «Ho sentito parlare delle attività extraprofessionali di Acosta», dice Arguillo. «Quell'uomo considera la buoncostume come la sua agenzia privata di selezione del personale. Ha la moralità di un mandrillo.» «È un'offesa per il mondo delle scimmie», dice Harry, che è tutto orecchie e aspetta di vedere se seguirà qualche particolare succulento. Sono anni che girano queste voci secondo le quali una delle condizioni dell'accordo per la libertà su cauzione - se la donna in questione è bella può essere un appuntamento galante con Nocedicocco. È la sua idea dei servizi socialmente utili. Ma non ne ho mai avuto le prove, e di conseguenza non vi ho dato peso. «Magari il procuratore lascerà perdere», dice Tony. Tipico atteggiamento da poliziotto. I giudici sono corrotti, ma il procuratore distrettuale no, lui siede sul suo sgabello da mungitore alla destra di Dio, e da lì riesce ad arrivare a tutte le mammelle e i capezzoli del sistema giudiziario. È il buono per eccellenza. È uno di loro. «Io non ci farei troppo affidamento», dice Harry. «Lenore mi ha raccontato quanto si sta divertendo in quel covo di vipere.» Harry sta parlando dell'ufficio del procuratore distrettuale. Senza dubbio, mentre non c'ero avrà tentato di convincere Lenore a passare dalla parte onesta della legge, l'industria in costante crescita basata sul crimine e sui suoi cultori. Lenore sembra irrequieta, come se desiderasse che Harry ci lasciasse soli così da poter parlare apertamente della situazione di Tony. Senza dubbio Harry sta aspettando proprio questo momento. Un poliziotto che rischia la galera è per lui l'idea stessa della giustizia sociale. Potrei invitarli a entrare nel mio ufficio ma, conoscendo Harry, so che ci seguirebbe. Inoltre, potrei aver bisogno di lui, per questo caso. «Pensavo fossi in ufficio», le dico. «Non c'era bisogno che venissi con lui. Tony è grande.» Ma è una testa calda. Glielo leggo negli occhi, anche se non lo dice.
«Volevo solo dargli un po' di sostegno morale.» Lenore è molto protettiva nei confronti di Tony. Credo che il loro rapporto sia finito proprio per questo motivo. Lei aveva bisogno di un uomo, ma per Tony Lenore era una mamma. Hanno più o meno la stessa età, ma lei è vent'anni più vecchia, se capite cosa intendo dire. «Inoltre», prosegue lei, «in questi giorni ogni scusa è buona per scappare da lì. Ho detto che sarei andata alla biblioteca di Giurisprudenza.» «Allora le cose non vanno tanto bene?» «Tengo duro.» Fa un gesto con le dita di entrambe le mani, piegate come se fossero artigli. Non è chiaro se vuol dire che tiene duro con le unghie o che ha graffiato il culo a Kline. Con Lenore non si può mai sapere. «Forse potresti parlare col tuo capo. Convincerlo a fare marcia indietro, a ritirare il mandato di comparizione», dice Tony. «E a lasciare Acosta con le braghe in mano.» «Sì, come se lui mi ascoltasse.» «Ma se non altro tu lo conosci», insiste Tony. «Come Mosè conosceva Dio. Non siamo esattamente in confidenza», dice lei. «Lui mi chiama 'signora Goya'. Io mi tolgo le scarpe prima di entrare nel suo ufficio. È suolo sacro», spiega. «Lui adora le formalità, il galateo del potere.» Se Kline sapesse che Lenore è qui, o che ha aiutato Arguillo a trovarsi un avvocato, la squarterebbe. Fino a questo momento è riuscita a restare fuori della sua vista. Fortunatamente per lei, era da troppo poco tempo nell'ufficio per potersi schierare in merito all'elezione. Kline è quasi calvo, ha trentotto anni ed è sposato con una donna piena di soldi, erede di una grossa fortuna che affonda le radici nella terra: mandorle e riso. Non stiamo parlando di un po' di soldi, ma di denaro sufficiente a lanciare una carriera politica nella stratosfera. Chiunque, inclusa la madre di Kline, sia convinto di sapere che cosa passi per quella mente calcolatrice a ogni ora del giorno si sbaglia di grosso. Sorride a comando, e solo quando parla davanti a gruppi di persone superiori alle cento unità. Dicono che da quando ha raggiunto l'età della ragione, ogni sua mossa sia stata attentamente calcolata in base al suo impatto politico. È un uomo con gli occhi puntati sul firmamento della politica. Lenore potrebbe trarre qualche vantaggio dal legare la propria stella al suo carro. Ma, per motivi che non conosco, sembra non fidarsi di lui. Potrebbe trattarsi di una differenza di stile, o del fatto che lei lo considera un fanatico religioso che la mette a disagio.
«Forse dovresti metterti in proprio», le dico. «La libera professione potrebbe rivelarsi ancora la meno rischiosa.» «Finirei per fare quello che fai tu.» Mi rivolge un sorriso imbarazzato. Si riferisce al caso di Tony, che al momento sto seguendo gratuitamente, senza alcun compenso, perché lui è al verde. Mantenimento del figlio e alimenti: Tony per ora sta investendo tutto quello che ha nella ex moglie. «Cosa facciamo?» Il machismo di Tony sta cominciando a dissolversi come il latte in polvere nel caffè bollente. Visioni della porta metallica di una cella che si chiude. «Non abbiamo molta scelta», gli dico. Esaminiamo l'autoincriminazione. Lenore e io discutiamo del diritto di Tony ad appellarsi al Quinto Emendamento. Ma la possibile offerta di immunità preclude immediatamente questa strada. Se Kline è interessato, gli basterà offrire l'immunità a Tony in cambio della sua testimonianza e lo costringerà a parlare. Acosta ha minacciato proprio questo. La questione si riduce a quanto Tony sa effettivamente, cosa che fino adesso non mi ha rivelato. Anche se le confidenze tra cliente e avvocato sono sacre, quando si tratta di tutori della legge e della loro vera lealtà, questo privilegio ha lo stesso effetto dell'acqua sulla pece. «Servire e proteggere» può anche essere il motto scritto sulle portiere di tutte le volanti di questo paese, ma all'interno, marchiato a fuoco sullo skai della tappezzeria, c'è il vero e più elevato credo dei tutori dell'ordine pubblico, la regola ultima per la sopravvivenza sulla strada: «Mai tradire un collega». Tony mi ha tenuto all'oscuro su quello che sa e su chi potrebbe incriminare con le sue rivelazioni. «Forse è venuto il momento di fare due chiacchiere», gli dico. «Sì, certo.» Alza gli occhi verso il soffitto, si torce le mani. Lancia un'occhiata in direzione di Lenore che, al momento, non può offrirgli altro che un sorriso di incoraggiamento. «Non esiste», dice lui. «Non intendo presentarmi davanti a nessun gran giurì e non intendo parlare. Acosta se la sta prendendo con la persona sbagliata. Non può costringermi a rivoltarmi contro poliziotti onesti. Per che cosa, poi? Perché quello stronzo possa farsi un nome, scavalcare qualche altro cadavere e magari arrivare alla corte d'appello?» Il brivido di Harry all'idea è chiaramente percepibile. «Ha parlato di carcere comune», gli dico. Probabilmente in questo momento Acosta è occupato a rintracciare qualche criminale che Tony ha arrestato per metterlo insieme a lui nella stessa cella. Ma Arguillo è lanciato. Non credo che abbia recepito. La minaccia non
pare frenarlo. «Non capisce la psicologia di noi poliziotti», dice. «Noi siamo uniti. Sappiamo come proteggere i nostri. Se cerca di fotterci, avrà bisogno del binocolo per capire fin dove la testa gli è stata infilata nel culo.» Man mano che va avanti diventa sempre più colorito, la sua anatomia sembra gonfiarsi man mano che si carica, l'adrenalina e il testosterone sono ai livelli massimi. Poi, altrettanto improvvisamente come ha cominciato, si interrompe e mi guarda. «Devo andare.» «Dove?» «Ho un bisogno.» Forse si è agitato tanto che ora si sente male. Ha il volto tutto rosso, le mani gli tremano. Tony esce in corridoio e si avvia verso la porta del bagno degli uomini. Per un attimo noi tre - Harry, Lenore e io - restiamo a guardarci in silenzio. «Non parlerà.» Lenore lo dice con tono categorico, come fosse l'enunciazione della legge di gravità. «Per lealtà? La dottrina di fede del poliziotto?» chiedo. «Per quella, ma anche per la sopravvivenza.» «Teme per il suo lavoro?» «Per la sua vita.» «Non essere così melodrammatica. Nessuno lo ha minacciato.» Tralascio i progetti di Nocedicocco sulla coabitazione nel carcere della contea. «Non ci vuole molto per mettere in pericolo la vita di un agente di pattuglia.» Lenore ragiona in maniera più sottile di me. «Una chiamata per violenza domestica senza una copertura adeguata... una rapina, e l'operatore radio dimentica di avvertirti che l'indiziato è armato. Ci sono mille modi per farti fuori, e tutti possono passare per incidenti.» «Perché dovrebbero farlo?» le chiedo. Mi domando se Tony le abbia detto qualcosa che a me non ha detto. «Cosa sai di questo Mendel?» mi chiede. «Solo quello che ho sentito dire», rispondo. «Non l'ho mai incontrato di persona, e da quanto ho sentito non mi perdo molto.» Phil Mendel è il capo dell'Associazione della Polizia. È un uomo con un ego spropositato e un'ambizione allo stadio terminale, come un cancro devastante. Da quando ha preso in mano le redini del sindacato, quattro anni fa, ha esteso i suoi striscianti tentacoli in ogni angolo della contea, come un tumore che ti cresce nel retto. Quando sono state mosse accuse di mal-
governo alla polizia, lui ha paralizzato intere agenzie governative. La struttura di comando del dipartimento è diventata un'attività di gruppo. Il capo non fa una sola mossa senza prima consultarsi con Mendel. Ha la reputazione di uno che sa come proteggere i suoi uomini, il concetto base della sopravvivenza, la strada per il potere sindacale. Se sei un poliziotto e vuoi presentare una domanda d'invalidità senza averne diritto, parla con Mendel. Ci sono tizi, poco più che trentenni, che si beccano il massimo della pensione e passano le loro giornate a fare i salti mortali all'indietro sugli sci d'acqua, e tutti devono la loro fortuna a Phil e ai suoi compari della Commissione dipendenti statali. Ma le buone azioni di Mendel non vengono tutte portate a termine mediante l'abile manipolazione delle leve della politica. Si dice che un giornalista che lo diffamava regolarmente dalle colonne della sua rubrica sia stato costretto a trasferirsi in un altro Stato per le minacce di morte ricevute. Phil Mendel ha affermato che non poteva essere ritenuto responsabile delle azioni avventate di qualche suo leale subordinato offeso dalle ripetute accuse. Questa è l'ombra oscura che Mendel getta sull'immagine dei tutori della legge in questa comunità. «Mi stai dicendo che Mendel ha minacciato il mio cliente?» «Se c'è qualcosa di vero in tutto questo, se davvero c'è un ammanco di denaro, Mendel vorrà proteggersi», dice Lenore. «Non è il tipo da cadere con eleganza. Non è nel suo stile.» «Sei convinta che arriverebbe a prendere provvedimenti seri per mettere a tacere Tony?» Mi guarda e fa una smorfia, come per dirmi che ho proprio indovinato. 2. Mia figlia è un tesoro, una coccolona, una di quelle bambine che, senza alcuna ragione particolare, vengono da te, silenziose e malinconiche, alla ricerca di un abbraccio, proprio come altre potrebbero venire a chiederti una caramella. Allora io le do un bacetto sulla fronte o sulla guancia, per rassicurarla che le voglio bene e che non la lascerò come ha fatto sua madre l'anno scorso quando è morta. Ora faccio da padre e da madre a nostra figlia, un compito non da poco. Nikki non era soltanto il riferimento educativo della nostra famiglia, ma anche la fatina dei denti. La settimana scorsa la mitica dispensatrice di monetine ha saltato una visita, dimenticando di lasciare il suo obolo sotto
il guanciale di mia figlia. La mattina seguente, Sarah è venuta da me in lacrime. Non solo sua madre se n'era andata, ma anche la fatina dei denti aveva dimenticato di fermarsi da lei. Sono sicuro che dentro di sé si è chiesta se presto anche Babbo Natale la cancellerà dalla sua lista. Mi ci è voluta tutta la sera seguente per comporre una lettera di scuse nel linguaggio delle fate, con una scrittura quasi illeggibile, a piccole lettere maiuscole, un'omelia a proposito di un'emergenza riguardante un'altra fatina malata che aveva bisogno della mia presenza. Una scusa che speravo tanto Sarah avrebbe compreso. Quando era piccola e sua madre la rimproverava per qualche marachella, spesso Sarah veniva da me, intravedendo in me un'indulgente corte d'appello. I bambini hanno un sesto senso. Riescono a sentire nell'aria l'odore della fermezza dei genitori. Sapeva che sarei stato io, l'idolo di pietra paterno, a pronunciare la sentenza finale. Ma presto imparammo entrambi quale furia poteva diventare Nikki quando la contraddicevo su questioni riguardanti l'educazione della bambina. Mia moglie era un'autorità che non si poteva sfidare: più severa che irascibile, era una ferma sostenitrice della teoria secondo cui ai bambini non dovrebbe mai essere concesso di manipolare i genitori, di dividerli per governare, e che la coerenza era la giusta via per arrivare al Santo Graal dell'educazione di nostra figlia. Sarah è una pacificatrice nata. Evita i conflitti a tutti i costi. Per lei era più doloroso assistere a una discussione tra Nikki e me su una decisione relativa alla sua educazione che non piegarsi e accettare il proprio fato. Compiuti cinque anni, non venne più da me a supplicarmi. E in quelle rare occasioni in cui, dopo aver sentito i rimproveri di sua madre, chiedevo a Sarah nella solitudine di un'altra stanza cosa ci fosse che non andava, lei mi guardava raggiante e con un sorriso mi rispondeva: «Niente». Ora ho imparato quanto sia difficile e ingrato il compito che ricade su chi ha la responsabilità della vita di un bambino. La parte più difficile della mia giornata è farmi forza e dire di no a mia figlia. Questa sera cerco di farla ragionare. «Ne abbiamo già parlato», le dico. «Che cosa ti ho detto?» «Ma papà-a-a-a!» In momenti come questi riesce a far durare questa parola cinque sillabe. «Ma papà niente. Ti ho detto che, se volevi andare a casa di Amber, prima dovevi mettere a posto la tua stanza. Questa è la regola. Te lo ricordi?» Temo che in questo momento dalla mia voce trapeli più supplica che
fermezza. «Non eravamo d'accordo che questa era la regola?» Cerco il suo consenso. «Ma papà, Amber non ha voluto mettere a posto ed è stata lei a mettere in disordine.» Tenta la via dell'equità, mentre Amber e sua madre aspettano all'ingresso, al piano di sotto. Sarah si sta rigirando una ciocca di capelli tra le dita, ferma ai piedi del letto a gambe larghe, e mi guarda con occhi imploranti. Da brava figlia di avvocato ha imparato a negoziare. «Amber non è figlia mia», le dico. Mi guarda come se in questo momento desiderasse proprio che la sua amichetta diventasse un surrogato di capro espiatorio. Sparpagliate sul pavimento della camera ci sono diverse bambole variamente svestite, alcune senza braccia o senza occhi, più che nella battaglia di Gettysburg. Per motivi di autoconservazione ho smesso di comperare a mia figlia giocattoli composti da parti minuscole. In parecchie occasioni mi è capitato di calpestarle a piedi nudi e ne porto ancora i segni. «E Amber? Sta aspettando», mi dice con aria imbronciata, dondolando avanti e indietro, tenendosi con una mano al montante del letto. «Metti in ordine. Adesso», le dico, calcando l'accento sull'ultima parola. Mi lancia un'occhiata di sofferta rassegnazione e inizia a gettare corpi martoriati nel cesto di plastica che costituisce la loro casa. Torno sulle scale e scendo lentamente. Raggiungo Becky Saunders, la madre di Amber, che se ne sta in piedi davanti alla porta. Mi scuso con lei per conto di Sarah. «Non credo che questa sera sia una buona idea», le dico. «Magari un'altra volta. Sarah ha alcune cose da fare.» Amber mi lancia un'occhiata come quella che i munchkins dovevano riservare alla Strega Cattiva. «Certo. Comprendiamo», dice sua madre. «I bambini...» Amber la sta tirando per una gamba dei pantaloni. «Ma mamma!» L'implorazione universale. «Un'altra volta.» E poi, rivolta a me: «Dev'essere dura senza Nikki». Sta guardando verso la cucina, in fondo al corridoio, che è un campo di battaglia, mentre la bambina continua a tirarla e a implorarla. Becky fa del suo meglio per ignorarla. Nikki e Becky si conoscevano. Insieme si dividevano il compito di accompagnare i bambini in macchina a varie attività sociali. «Ci sono volte in cui è molto difficile.» «Ha provato con i Genitori Single?»
Visioni di incontri combinati. Scuoto la testa. «Lei fa l'avvocato, non è vero?» La mia mente sospettosa mi dice che sta facendo qualche rapido calcolo mentale su quanto potrei valere sul mercato matrimoniale. «Le posso far avere il numero, se vuole. Ci sono un sacco di donne professioniste...» Lascia la frase in sospeso. Sto scuotendo la testa con una mano tesa in avanti. «No, no. Non è il caso. Lei ha da fare.» «Niente affatto», dice lei. «Dev'essere molto interessante fare l'avvocato.» Ora si è distratta, sta prendendo un appunto sul retro di un biglietto da visita che poi lascia cadere nella borsa. Vedo il mio nome e le iniziali GS. Ecco cosa vuol dire essere un single circondato da un mare di donne. Vogliono tutte prendersi cura di te. «È terribile.» Sta guardando con aria assente oltre la mia spalla, e per un attimo penso che stia parlando della morte di Nikki. «Uno pensa di potersi fidare di persone come quelle.» Nei mesi successivi alla morte di Nikki ho sofferto di attacchi di collera improvvisa, ma non ho mai pensato che fossero dovuti a una perdita di fiducia. «Come chi?» le chiedo. «Come quel giudice.» «Quale giudice?» «Quello che hanno arrestato stasera.» Sta indicando col dito il televisore alle mie spalle, il cui schermo tremola muto in soggiorno. Mi volto a guardare, ma sta già andando in onda la pubblicità. «Non ha sentito? Hanno arrestato un giudice questa sera. Prostituzione. Roba da non credere. Una persona di cui si dovrebbe avere la massima fiducia. Viene da chiedersi che cosa stia succedendo là fuori.» Dalla mia espressione capisce che ha tutta la mia attenzione. «Sì, è successo stasera sul presto, in un albergo del centro. È stato arrestato insieme a una ragazza Squillo. Terribile.» «Chi era?» «Hmm?» «Come si chiama il giudice?» «Ah, non lo so. Com'era il nome?» Fa schioccare le dita due o tre volte, guardando verso il soffitto. «Locata? Armada? Un cognome spagnolo.» «Acosta?» le chiedo. «Ecco!» Becky Saunders mi guarda e si domanda, ne sono certo, perché mai con una brutta notizia come questa il mio volto si sia illuminato di un sorriso
raggiante. Deve pensare che io sia pazzo, ma non mi importa. Va tutto bene. C'è davvero un Dio in cielo. 3. Sto leggendo uno stringato resoconto dei fatti sul quotidiano del mattino, che pubblica anche una foto di Nocedicocco, una foto d'archivio su una colonna, nel taglio basso. Sotto la foto, una didascalia: «Giudice arrestato durante un'operazione della buoncostume». Esattamente quello che consigliano tutti i dottori sotto le elezioni. Con il giornale in una mano e la valigetta nell'altra, emergo dall'ascensore al quarto piano della Procura, che ha sede in uno di quegli edifici moderni tutti metallo, vetro e niente fronzoli. Il palazzo si trova esattamente sull'angolo opposto rispetto al tribunale, ai confini di un quartiere degradato, recuperato solo in parte prima che il piano di rinnovamento della città arrivasse al collasso. La Procura divide l'edificio con l'ufficio del registro e qualche altro ente burocratico di passacarte che occupa il pianterreno. Al banco del ricevimento, un'addetta seduta dietro cinque centimetri di cristallo antiproiettile chiama Lenore e pochi secondi dopo aziona il pulsante che mi permette di entrare. Mi avvio per il corridoio, supero una decina di cubicoli, l'equivalente governativo degli uffici privati. Ci sono parecchi avvocati, alcuni al telefono, altri che lavorano in silenzio come monaci in un antico scriptorium, chini su scrivanie invase da montagne di documenti. In alcuni di questi uffici i fascicoli giacciono in pile alte fino a metà parete, tutti casi ancora aperti e da definire. Poiché anche lì vanno a finire i dollari delle nostre tasse, l'ufficio del procuratore distrettuale di qualsiasi grossa area metropolitana di questo Paese è probabilmente uno dei posti in cui si dovrebbe ricevere tanto per quanto si paga. Qui ci sono giovani avvocati sfiniti che ogni giorno sopportano il carico di lavoro medio settimanale della maggior parte delle persone. Alcuni, i Futuri Moralisti d'America, sono giovani in carriera intenzionati a spazzar via la corruzione e il marciume dai nostri tempi, zeloti della legge e dell'ordine che vedono ogni problema in modo monocromatico, o bianco o nero. Altri, più pragmatici, stanno semplicemente facendo la gavetta, un po' di esperienza in tribunale prima di vendersi a uno degli eleganti studi legali d'alto bordo in cui il crimine viene perpetrato con classe e raffinatezza, spesso nella sala da pranzo di un club privato. Lenore ha uno degli uffici più grandi, vicino all'angolo occupato da sua
eminenza Coleman Kline. Qui c'è anche una seconda area di ricevimento, dove un paio di segretarie vigilano gelosamente sull'ufficio di Kline. Sento la sua voce mentre parla al telefono dietro la porta chiusa. Le pareti interne di questo luogo hanno la consistenza di un kleenex. Se uno starnutisce, tutti gli altri lungo il corridoio gli fanno: «Gesundheit!» Busso sul pannello di vetro opaco di fianco alla sua porta. «Entra.» Tiene una mano sul microfono del telefono e con l'altra mi fa segno di entrare, indicandomi una sedia libera davanti alla sua scrivania. L'altra sedia è occupata da una giovane donna sui vent'anni, con capelli biondo miele che le arrivano fino alle spalle e incredibili occhi azzurri che si posano su di me. È uno di quei visi che fanno perdere la testa ai ragazzi dei college: carnagione chiara e zigomi morbidamente cesellati. Ha l'aspetto di una ragazza cresciuta sulla spiaggia di Santa Monica. Una minigonna le copre solo in parte le cosce abbronzate. È tonica quel tanto che basta per essere sexy, ed è difficile dire se sia più un tipo sportivo o un tipo sensuale. Mi domando se sia la segretaria di Lenore, anche se non ne ha l'aria, né il taccuino o la penna. «Solo un minuto», mi dice Lenore. «No. No. Non è questo l'accordo. Se lui si dichiara colpevole per il primo e il secondo capo d'imputazione, noi lasciamo perdere il resto. E si fa un minimo di un anno con la possibilità della condizionale. «Chi ha parlato di sospensione condizionale della pena?» Una pausa, mentre ascolta quello che dice l'interlocutore. «Non è quello che il signor Kline ha detto a me. «No, gli ho parlato.» Gesticola animatamente con la mano e cerca di trovare il momento giusto per interrompere l'interlocutore. «Senta, l'offerta è questa. Tutto il resto il suo cliente può scordarselo. No, c'è un solo sostituto che si occupa di questo caso, e quel sostituto sono io.» Ascolta. «Be', io non sono responsabile di quello che lei ha promesso al suo cliente. Questa è l'ultima offerta. Glielo dice una fonte sicura.» Un'altra pausa, «Se non le va bene, possiamo sempre riparlarne in sede di processo.» Ora sento la voce dell'interlocutore uscire dalla cornetta del telefono a due metri di distanza da me: la sento chiara e forte. E credo di averla riconosciuta. Se Lenore riesce a trattarlo in questo modo al telefono, non oso
pensare cosa potrebbe fargli in tribunale. «Bene. Gli parli pure. Io gli ho già parlato e lui ha approvato questa offerta. Ancora una parola e la ritiriamo.» Il ricatto dell'accusa. Dall'altro capo si sente urlare. Il tizio cerca di mercanteggiare, ma Lenore non cede. «Prendere o lasciare», dice, e riattacca; poi si lascia andare a qualche imprecazione sottovoce. «Non posso biasimarlo se cerca di ottenere il massimo dello sconto», dico. «Già, adesso proverà nel reparto saldi a prezzo di realizzo», dice, accennando con la testa alla sottile parete che divide il suo ufficio da quello di Kline. La donna seduta di fianco a me non dà segno di aver capito, o forse non sta ascoltando. Non saprei. Faccio per dire qualcosa a proposito dell'articolo apparso sul giornale di oggi, ma Lenore mi interrompe. «Paul Madriani, ti presento Brittany Hall. Paul è un amico. È passato a trovarmi per bere un caffè insieme», dice. Questa mi giunge nuova. Ma, evidentemente, qualsiasi cosa Lenore abbia da dirmi, non vuole dirla qui, nel suo ufficio. Sto al gioco. «Lavora qui?» Sto guardando la donna che si chiama Brittany, e cerco di non sbavare. «In un certo senso», dice Lenore, prima che l'altra possa aprir bocca. «Di quando in quando Brittany collabora con il dipartimento di polizia. Si sta specializzando in criminologia all'università, ed è un'agente ausiliaria.» «Sotto copertura», dice la ragazza. «Oh.» «Probabilmente avrai letto della sua ultima missione, sul giornale di oggi.» Lenore ha visto che lo tengo in mano. «Il giudice che è stato arrestato», aggiunge, e mi lancia un'occhiata piena di ammiccamenti, come per dirmi: «Sta' zitto». «Brittany è la chiave del nostro caso. Una testimone molto importante.» «Ah.» L'esca. La buoncostume di questa città è famosa per questo. Ogni tanto usano donne che gravitano intorno all'ambiente della polizia, ragazze che amano frequentare i poliziotti come altre adorano i giocatori di football. So che in passato hanno ingaggiato alcune concorrenti di concorsi di bellezza perché fingessero di essere prostitute. Una Miss Pomodoro e una o due Reginette di Primavera, ragazze sui vent'anni, con curve che riuscirebbero a fermare il traffico persino sul circuito del Grand Prix. Mettetele
in collant velati sotto una luce bassa e mi vengono in mente alcuni papi che potrebbero soffrire di un cedimento morale. Le lancio un'altra occhiata alle ginocchia ben tornite e al groviglio di gambe premute contro la parte anteriore della scrivania di Lenore: più efficaci di una rete a strascico per catturare un pesce di fondo come Nocedicocco. «Bel lavoro», le dico. Le mie parole hanno un tono inequivocabilmente entusiastico. Mi rivolge un sorriso smagliante, migliaia di dollari in cure dentistiche. «Oh, grazie.» Un attimo di riflessione e poi il giudizio finale. «Immagino che fosse proprio un cattivo soggetto.» Sta cercando di determinare la portata del proprio contributo. Presumo abbia frainteso le mie felicitazioni come un genuino interesse nella buona gestione della cosa pubblica. «Riprovevole», le dico. «Quell'uomo è un vero schifoso.» «Ed è un giudice», aggiunge. Lo dice come se solo i presidenti e i governatori occupassero un posto più elevato nella catena alimentare dell'etica. Può davvero aggiungere una tacca sul calcio della pistola. È tutta sorrisi, si sta rilassando. In fondo non sono un baccalà di qualche grosso studio che guarda con riprovazione alla sua attività perché ha messo in cattiva luce la legge e vittimizzato un fratello di toga. La mia opinione su Nocedicocco non è dissimile da quella che i partigiani avevano di Mussolini. Appenderlo per i piedi e sparargli potrebbe anche essere definito una prova di abilità sportiva. «Quell'uomo ha la statura morale di un serpente.» Sto lavorando alla mia immagine. Le chiederei volentieri fin dove si è spinto questo serpente, ma Lenore mi sta guardando come se volesse uccidermi. «L'ho già fatto altre volte. Però questa volta si trattava di un giudice. Io non lo sapevo. A me sembrava un uomo d'affari come tanti.» Sembra un ragazzino che si è appena reso conto di aver steso con un pugno il bullo del quartiere. «E oggi è su tutti i giornali», le dico. Questo sembra farla arrossire leggermente. Sollevo il giornale che tengo in mano. Le chiederei di autografarmelo, ma so che Lenore non approverebbe. «Il mio nome non c'era sul giornale.» La cosa sembra darle fastidio. «Gli dia tempo.» Mi sembra già di vedere la frenesia quando la stampa poserà gli occhi su di lei. Le daranno ampio spazio in prima pagina. «Il tuo nome non c'è per un valido motivo», interviene Lenore. «Perché
così vogliamo noi. Spero che tu capisca.» La ragazza annuisce con aria seria, ma mi rendo conto che l'idea di restare nell'anonimato non le va giù. «Stavamo finendo una piccola seduta», dice Lenore. «Non ti dispiace aspettarmi fuori?» Mi dispiaccia o no, sta già accompagnandomi alla porta per essere libera di raccogliere tutti i particolari sporchi di cui il suo staff ha bisogno per formulare l'accusa a carico di Acosta. Potrei avvicinare un orecchio al buco della serratura, ma non credo che le segretarie apprezzerebbero. Nel giro di dieci minuti le mie guance posteriori sono praticamente intorpidite dal contatto con la dura panca di legno su cui sono seduto. Mi cullo nella speranza che, una volta finito, Lenore decida di raccontarmi qualcosa, qualche particolare squallido e scabroso delle scorribande notturne di Nocedicocco. Dall'ufficio di Lenore sento provenire un mormorio di voci, ma niente di comprensibile. Per passare il tempo mi concentro sulla metà della conversazione telefonica che nonostante la porta chiusa mi giunge dall'ufficio di Kline. Anche se la parete mi impedisce di vederlo, capisco che ha un'espressione arcigna, una cosa normale per un uomo di legge in doppiopetto rigato. La sua parte di dialogo consiste in poche, secche domande. L'unica volta in cui ho avuto a che fare con lui, ha usato così poche parole da risultare quasi impacciato. «Sì. Come le ho già detto, m'informerò e le farò sapere. Hmm. Come si chiama il suo cliente?» Silenzio, come se stesse prendendo nota. «Qualche altro reato? Precedenti?» Una lunga pausa. Altre note. «Non le prometto niente, ma le parlerò. No, la signora Goya lavora per me. Sono io che prendo le decisioni finali.» Le segretarie mi guardano. Una delle due capisce che ho rizzato le antenne e sto ascoltando quella che dovrebbe essere una conversazione riservata. Aziona la fotocopiatrice e non sento più la voce di Kline. Probabilmente la donna sta sperperando un po' di denaro della contea, fotocopiando un certo numero di pagine bianche in nome della riservatezza. Pochi secondi dopo la porta che era oggetto del mio interesse si apre ed esce Coleman Kline, elegantissimo in un abito da mille dollari, camicia di lino e gemelli d'oro, il volto un po' segnato dal sole e dal vento. Mi hanno detto che durante i fine settimana va in barca a vela nella baia. Nonostante l'incipiente calvizie è un bell'uomo, un'immagine da copertina del Gentlemen's Quarterly.
In mano ha un post-it giallo con sopra un appunto scarabocchiato. La segretaria si alza e fa il giro del bancone, una mano tesa, in attesa degli ordini del padrone. Lui le porge il bigliettino. «Mi trovi questo fascicolo.» Lei parte alla velocità della luce. Con la coda dell'occhio lui si accorge che lo sto guardando e sussurra qualcosa all'addetta alla ricezione seduta dietro il bancone. Le chiede se sto aspettando lui. Lei gli assicura di no. Allora lui guarda verso la porta chiusa dell'ufficio di Lenore. «C'è qualcuno con la signora Goya?» «La signorina Hall.» Assume un atteggiamento imperioso. «Mi sembrava di aver dato precise istruzioni che la signorina Hall dovesse essere fatta accomodare nel mio ufficio non appena arrivava.» «Lei era al telefono e la signora Goya ha detto...» «Non mi interessa che cosa ha detto la signora Goya. Quando io do un ordine, mi aspetto che venga eseguito.» La segretaria assume un'espressione da cane bastonato. Resta lì seduta, lo sguardo basso, l'immagine vivente della contrizione, ma non prende alcuna iniziativa per riparare all'errore commesso. «Be', la chiami», dice lui. «La signora Goya?» «Sì, la signora Goya. E le dica di mandare la signorina Hall nel mio ufficio. Subito.» «Sì, signore.» Essendo rimasto fregato una volta, lui resta lì per accertarsi che ogni sua parola sia legge. Nel frattempo l'altra segretaria è tornata. «Il fascicolo che desiderava...» «Sì, dov'è?» «L'ha preso la signora Goya.» Kline ha un'espressione esasperata: apparentemente tutta colpa di Lenore. Sento il telefono interno che squilla nell'ufficio e la voce di lei che risponde. «Il signor Kline vuole vedere la signorina Hall nel suo ufficio.» Mi giungono parole soffocate dalla porta di Lenore. Non può sapere del dramma che si è svolto qua fuori. Chiede un po' di tempo. Ha quasi finito di raccogliere le informazioni che le servono per formulare l'accusa.
«La vuole subito.» Anche con Kline fermo lì davanti, le parole della segretaria non hanno un suono imperioso. «Me la passi.» Kline le strappa il ricevitore di mano. «Ho lasciato chiare istruzioni che quando la signorina Hall arrivava doveva essere fatta accomodare nel mio ufficio. Nessun altro doveva parlarle.» Un momento di esitazione, come se Lenore stesse cercando di ribattere qualcosa. «Non mi interessa un accidente. Ha capito?» Dall'ufficio di Lenore giunge un silenzio di tomba. Improvvisamente Kline si rende conto che non c'è alcun bisogno del telefono. Lancia il ricevitore alla segretaria e si dirige verso l'ufficio della Goya. Apre la porta e l'unica parola civile è diretta a Brittany Hall. Le chiede di aspettarla nel suo ufficio. Lei sguscia via tra Kline e lo stipite della porta come un gatto che sfugge a un cane ringhioso. E poi Kline chiude la porta. Odo parole concitate, per la maggior parte pronunciate da lui. E poi Lenore comincia a rispondere per le rime. «Lei non ha alcun diritto di usare questo tono. Io non sapevo che lei avesse lasciato istruzioni, né che fossero scolpite sulle tavole della legge.» Mi sembra di vederla, in piedi dietro la scrivania, le mani sui fianchi. Queste parole fanno partire un'altra bordata da parte di Kline, che l'accusa di mettere in dubbio la sua autorità, di sminuirlo di fronte al suo staff. «La stampa mi sta addosso e pretende risposte», dice lui. «È una faccenda molto delicata. Non è una cosa di cui possa occuparsi lei. Un pubblico ufficiale è accusato di un crimine. Io devo sapere che cosa sta succedendo.» Lenore ribatte, gli dice che le dichiarazioni pubbliche dovrebbero essere ridotte al minimo, che è una questione di sfumature, anche la più piccola delle quali può bastare ad alienarsi gli altri giudici che conoscono Acosta. Nessuno di loro potrebbe giudicarlo se finisse sotto processo, ma questo potrebbe creare enormi difficoltà in cento altri procedimenti se la magistratura locale vedesse l'ufficio del procuratore stroncare pubblicamente uno dei suoi su televisioni e giornali. Ma a Kline tutto questo entra da un orecchio ed esce dall'altro. «Lei non crede che io sia in grado di trattare coi giornalisti?» «Non ho detto questo. Se lei voleva essere aggiornato, sarei stata più che lieta di...» «Quello che voglio è parlare personalmente con la testimone. Sono io
quello che si occuperà del caso.» «Bene. Qui c'è il fascicolo.» La porta si apre ed ecco Kline, lì impalato, che tiene fra le mani una cartellina da cui sfuggono fogli e documenti vari raccolti disordinatamente. Quando mi vede arrossisce: si rende conto che un estraneo ha ascoltato tutto. Come per un ripensamento, un gesto con cui recuperare la faccia, si volta di scatto verso Lenore. «Ah, dimenticavo», dice. «Il caso Bagdonovich. Sospensione condizionale della pena. Niente carcere.» «Cosa?» «Mi ha sentito benissimo. Sospensione condizionale della pena.» «Ma ne abbiamo già parlato. Ne abbiamo discusso ieri e lei era d'accordo», dice Lenore. «Ho appena parlato con il suo avvocato.» «E questo cosa c'entra? È emerso qualche elemento di cui lei non era a conoscenza? Qualche fatto che non le avevo esposto?» «Lei sembra non capire chi comanda qua dentro. Non intendo discutere oltre. Faccia come le ho detto.» Kline le chiude la porta in faccia e si volta verso Brittany Hall che si è piazzata vicino al bancone delle segretarie. «Signorina Hall», dice. Si ricompone e assume un'aria soddisfatta, ora che ha dato l'ultima pugnalata a Lenore. Si raddrizza la cravatta e fa cenno alla Hall di entrare nel suo ufficio. «Posso chiamarla Brittany?» dice. Lei lo guarda con espressione raggiante. Credo avverta la presenza di un Aladino che potrebbe far uscire il genio con le telecamere e i riflettori se lei saprà sfregargli la lampada nella maniera giusta. È tutta moine e sorrisi mentre si dirige verso l'ufficio di Kline, come un'attricetta che è appena riuscita ad approdare sul divano di un pezzo grosso. «Che testa di cazzo!» Lenore non è famosa per le sue maniere miti quando viene provocata. «Non te la prendere. Era ora che questa contea avesse un procuratore distrettuale all'altezza dei suoi criminali. Come il sindaco di Washington. Credo rientri nel programma di assistenza alle vittime dei pregiudizi sociali.» Non ride. Stiamo bevendo un caffè nel piccolo bar a mezzo isolato dal
suo ufficio. Offro io, dal momento che la sommergo di domande. «Ho visto puttane da dieci dollari fare accordi più difficili», mi dice. «È convinto che questo sia applicare la legge. Gli piace che gli chiedano favori. Per lui una giornata è buona quando la gente fa la coda davanti alla sua porta. Al telefono ho detto all'avvocato di quel tizio di andare a farsi fottere. Mi hai sentito. E lui mi spiazza in questo modo.» «Parli di Bagdonovich?» Annuisce. «E ora vuole occuparsi di Acosta.» «È la sua occasione», le dico. «Già. È un caso da prima pagina, e Kline vuole cavalcare la stampa. Al diavolo la legge e la legalità. Qui si tratta di politica.» Arrivo al punto. «Raccontami dello scherzetto ad Acosta.» «Tu ne sai quanto noi.» Mi indica il giornale. «Sicuro.» «Immagino che ora Tony avrà un po' di tregua», dice, e ride. Il lato buono della faccenda. «Almeno per il momento. Sua altezza non tiene udienze, oggi. Ho chiamato il suo cancelliere e mi ha detto che tutti gli impegni sono stati disdetti.» La teoria di Harry è che, dopo essersi tanto eccitato la notte scorsa ed essere andato in bianco, probabilmente oggi Acosta è a casa a mangiare un po' della solita minestra. A consolarsi con un po' di buon vecchio sesso casalingo. «Sono sicuro che vi accuserà di avergli teso una trappola.» «Il grido di battaglia di tutti i puttanieri», dice lei. «Ma il suo avvocato avrà un problema. La ragazza aveva addosso un microfono. L'istigazione a commettere il crimine è scaturita in tutta la sua fulgida gloria direttamente dalla patta dell'imputato.» La guardo. «Ha fatto uscire Furia dalla scuderia per una cavalcata al chiaro di luna prima ancora di discutere il prezzo della monta. Almeno, questo è quanto dice la testimone.» «E tutto questo è stato registrato?» le chiedo. «I suoi stimoli primordiali?» «Cosa vuoi, anche le foto?» «No, volevo solo assicurarmi che fosse cibo per gatti.» Lei mi guarda. «Un'espressione infelice», mi scuso.
«A sentire la testimone, sì. Io il nastro non l'ho sentito. I tecnici ci stanno ancora lavorando. C'è qualche problema con la qualità dell'audio. Stanno cercando di ripulirlo.» «E la vostra testimone, è affidabile?» «Assolutamente. Nessun precedente. Niente che possa mettere in dubbio la sua credibilità. Una ragazza tutta casa, chiesa e famiglia. Brava studentessa. Vuole diventare poliziotto. Qualche impegno in politica, ha lavorato a qualche campagna elettorale. Lavoretti da poco, il più delle volte nel servizio d'ordine. Il tipo che trovi agghindata con paglietta e gonnellino corto. L'ultima uscita l'ha fatta per conto del dono della Provvidenza ai criminali stupidi.» Sta parlando della campagna di Kline. «È stato lui a coinvolgerla in questa faccenda?» Scuote la testa. «La buoncostume. Si sono occupati di tutto loro fin dall'inizio. Se fosse stato Kline, avrei trovato le impronte della ragazza sull'uccello di Acosta, e ora il suo avvocato cercherebbe di convincerci che è stata lei a offrirsi di pagare lui.» «Com'è che sono arrivati al giudice?» le chiedo. «È stata una scelta casuale?» Ha capito cosa le sto chiedendo. Ricordo l'ultimo commento che ha fatto Arguillo prima di lasciare il mio ufficio: i poliziotti sanno come difendere i propri simili. Mi chiedo se questa scampagnata sessuale sia stata ideata e messa in atto da Phil Mendel e dall'Associazione della Polizia. Sarebbe nello stile di Mendel, il suo modo di invalidare un mandato di comparizione. «Non riuscirai mai a provarlo», mi dice. «Ehi, ho forse l'aria del difensore civico? Per quanto mi riguarda, darei una medaglia d'onore a tutti quanti.» «Considera il soggetto», mi dice. «Le leggi della probabilità. Se pecchi un numero di volte sufficiente, sei destinato a finire all'inferno.» «Per me è stato un puro caso. Una scelta assolutamente casuale», affermo. È il mio contributo a quest'orgia di consenso. Pensi che il buon giudice chiederà un patteggiamento?» «Conoscendo la fermezza che regna nel nostro ufficio», dice lei, «probabilmente dirà che credeva che quella cosa dura fosse l'indicatore di direzione e tutto si ridurrà a una violazione del codice della strada.» Ignoro le sue parole. «Non c'è molto spazio per una riduzione.» Istigare alla prostituzione è
solo un reato minore, per il quale in questo Stato l'autore si becca una citazione in giudizio e non viene neppure arrestato. Viene emessa una citazione con un ordine di comparizione, l'equivalente per la buoncostume di una multa per eccesso di velocità. Un qualsiasi altro cittadino si beccherebbe una multa da mille dollari e una bella conferenza sulla mistica della protezione del lattice di gomma, dopo di che proseguirebbe per la sua strada. Ciò che fa paura in questo caso è che, reato minore o no, è pur sempre un crimine contro la morale. Non è la prima volta che un giudice di questo Stato viene accusato di simili crimini... e di solito la conclusione è la rimozione dall'incarico. 4. Phil Mendel è caustico e prepotente. In situazioni conflittuali lo si può vedere congratularsi mentalmente con se stesso dopo aver segnato un punto contro l'avversario. Un momento è volgare, il momento dopo è compito e ipocrita come solo gli uomini arroganti di mezza età sanno essere. In poche parole, sarebbe stato un perfetto penalista. Quando Harry e io veniamo finalmente ammessi nell'ufficio di Mendel sono quasi le cinque. Ci ha fatto aspettare in anticamera per quasi un'ora. È seduto dietro un'enorme scrivania ricavata da un tronco di sequoia, una distesa di legno rossastro e lucidissimo con una galassia di venature che vanno in tutte le direzioni, una carta celeste delle ambizioni personali di quest'uomo. In piedi, alle sue spalle, ci sono due tirapiedi, parte dell'esercito ombra di subordinati che lo segue come se fosse Mosè che attraversa il mar Rosso verso la terra promessa dei lavoratori. Questa è gente che viene dalla dura scuola delle battaglie per la contrattazione collettiva, tipi che vanno per le spicce, pronti a qualsiasi eccesso pur di raggiungere lo scopo. Recentemente vi sono state lamentele provenienti dalla base. Un gruppo autonominatosi «Esercito di Liberazione degli Agenti», senza dubbio una scheggia impazzita dell'esercito di Mendel, si è messo a pubblicare i numeri di telefono di casa e gli indirizzi di capitani e di altre persone facenti parte dei quadri amministrativi della polizia, con cartine che riportano la posizione delle loro case. Per Mendel e la sua cricca la prospettiva di un tour guidato di carcerati appena usciti da Folsom, in possesso del loro indirizzo e numero di telefono, è stata sufficiente a renderli più determinati durante i negoziati.
Uno dei due scagnozzi di Mendel sta fumando una sigaretta e fa cadere la cenere sulla spalla del suo capo come un'eruzione del Vesuvio. Gli porge alcuni documenti e gli sussurra qualcosa all'orecchio, mentre Harry e io ce ne stiamo seduti aspettando il momento opportuno per parlare con il guru dei lavoratori. Tutto questo si svolge a spese dei contribuenti, poiché questa gente continua a essere sul libro paga della città, poliziotti che hanno il permesso di assentarsi dal lavoro per condurre attività sindacali. Solo che loro lo fanno a tempo pieno. Pare che ai responsabili della gestione delle finanze cittadine manchi il coraggio di affrontare Mendel. «Dal modo in cui quelli del Consiglio comunale tirano sul prezzo, ti viene da pensare che si tratti dei loro stramaledetti soldi», dice Mendel. Non sta parlando a nessuno in particolare, salvo forse a Dio, il cui nome ha appena profanato. «Il due per cento sul costo della vita, dopo il congelamento dei salari l'anno scorso, e lo chiamano aumento generoso», prosegue. Si tira su la manica del golf di cachemire. I sindacalisti non possono farsi vedere in giacca e cravatta. Non sta bene. Scartabella vari fogli su cui sono scritti dei numeri. Dalla loro conversazione è evidente che queste sono le ultime cifre di una lunga maratona contrattuale che si è interrotta ieri sera, infrangendo le speranze del mediatore dello Stato. «Queste stronzate dovrebbero essere stampate su quadratini di carta arrotolati da tenere di fianco al cesso.» È il giudizio di Mendel sull'ultima offerta dell'amministrazione comunale per stipendi e indennità. Harry è con me perché non avrei mai osato avventurarmi qui da solo. Mi farà da testimone per quanto dirò: la sua parola contro quella dei due attendenti di Mendel. Non so se siano stati convocati davanti al gran giurì, né - in questo caso cosa possano aver detto. Ma non voglio che in seguito si possa dire che ho cercato di corrompere dei testimoni. Harry mi serve per dimostrare proprio questo. «Lei rappresenta l'agente Arguillo», dice Mendel. «Spero che Tony spenda bene i suoi soldi. Dunque, che cosa la porta qui?» «La scena del delitto», rispondo. Mi guarda a occhi spalancati. «Quale delitto?» «Pensavo potesse dirmelo lei. Tutti i problemi di Tony sembrano essere
cominciati con il suo impegno nel sindacato.» «Problemi? Chi ha problemi?» Si appoggia allo schienale e compie un lento giro con la sedia, la testa all'indietro, scambiando battute e risate con i due tirapiedi. Loro non hanno sentito parlare di alcun problema. «Non sono al corrente di alcun problema», mi dice. «Il gran giurì.» «Ah, quello», fa lui. «Quello può aspettare.» Lo dice come se tutto fosse stato Organizzato con la stessa difficoltà che c'è nel premere un pulsante sul suo telefono. Cosa che probabilmente è. Che ci sia lo zampino di Mendel dietro le ultime disavventure legali di Nocedicocco non è chiaro. Ma è chiarissimo che lui farà in modo che tutti lo pensino. Potenza dell'illusione. «Forse può aspettare, per il momento», gli faccio notare. «Già. Mentre scrostano i pezzettini di giudice dal muro», dice Mendel. Gli altri due bulli dietro di lui ridacchiano e saltellano, fingendo di scambiarsi qualche pugno come due universitari che hanno appena passato una palla buona per una schiacciata in canestro. «Indovinate un po' cosa porta sotto la toga?» dice uno dei due. Mendel abbassa lo sguardo sull'inguine. «Uau, si è ristretto!» Altre risate. Un po' di saliva sta colando sul mento di Mendel e lui tira fuori la lingua per recuperarla. Harry e io potremmo anche unirci a questa ilarità, ma forse sarebbe sconveniente. Per qualche motivo, avere un nemico in comune con Mendel mi fa sentire sporco. «Com'è che Tony è finito a tenere i libri del sindacato?» gli chiedo. «Non potevate permettervi un vero contabile?» «Perché pagare quando si può avere gratis?» risponde lui. «Noi ci fidiamo di Tony. Non è vero?» Alza lo sguardo e riceve un coro di consensi. «Non ne dubito», dico io. «E poi, in questo modo resta tutto in famiglia. Nessuno strascico seccante di revisioni dei conti, tutte le voci al posto giusto.» L'idea non gli dispiace. Fa una smorfia. «Se preferisce metterla in questi termini... Comunque Tony ha fatto un ottimo lavoro.» Così professionale che adesso i loro registri sono scritti con inchiostro simpatico sul retro dei tovagliolini di carta dei bar. Esattamente il tipo di registrazione contabile che Mendel preferisce. «Non credo che lei debba preoccuparsi», mi dice. «Il gran giurì sta girando a vuoto. Non hanno niente in mano su questa faccenda degli ammanchi nelle casse del sindacato.» Fa un gesto con la mano, col polso
morbido, sulla superficie della scrivania, come per spazzare via la questione. «Lei parla come se lo sapesse per certo», ribatto. «Ha parlato con il gran giurì nel loro sancta sanctorum?» Mi lancia un'occhiata come per dirmi: «E se anche fosse lo verrei a dire a te?» Si sporge in avanti, gli occhi socchiusi come due fessure. Il momento della verità si avvicina. «Mi dica, avvocato, che tipo di accordo stava cercando di concludere col giudice... a proposito della testimonianza di Tony?» È il mio momento della verità, non il suo. «Su che piatto intendeva servirci?» «Segreto dello chef», rispondo. «Segreto professionale.» Al quale Tony sembra aver già rinunciato confidandosi con Mendel. «A me sembra il piatto speciale del poliziotto», continua. «Colleghi in fricassea.» Alza gli occhi verso i suoi scagnozzi. «C'è andata bene che Tony ha un forte senso della lealtà.» «Già, vi è andata bene.» «Lei si sta avventurando in acque molto profonde», dice. «Molto più profonde di quanto creda.» «Per fortuna so nuotare.» «Nuotare controcorrente in un fiume di merda può risultare molto faticoso.» «Non me n'ero accorto.» «Quasi nessuno se ne accorge prima di annegare.» Morte per annegamento in materia fecale. Esattamente il genere di sublime allegoria che può piacere a un tipo come Mendel. «La cosa potrebbe preoccuparmi, ma sono sicuro che in questo suo scenario lei è l'ancora di salvataggio.» Uno dei due tizi in piedi dietro di lui si mette a ridere, ma si blocca immediatamente quando si accorge che il capo non sta affatto ridendo. «Ehi, perché tanta ostilità tra noi?» Improvvisamente è tutto gentilezza, il suo tono è cambiato, come uno squarcio di sereno tra le nuvole in una giornata burrascosa. Larghi sorrisi e ampi gesti con le mani, come se volesse convogliare i raggi del sole verso di me, se potesse. «Paul... posso chiamarla Paul?» dice. Non aspetta la mia risposta. «Senta, Paul. Perché non dichiariamo una tregua? Credo che, se lei fa-
cesse uno sforzo, scoprirebbe che abbiamo molto in comune.» Cerca di infondere nella propria voce la saggezza dell'età. Questo mi fa venir voglia di farmi una bella doccia. «Noi possiamo essere amici», prosegue. Lancia un'occhiata in direzione di Harry, vestito come se avesse recuperato gli abiti dall'esercito della salvezza. Deve aver calcolato che una tale proposta di amicizia non dovrebbe essere troppo costosa. «Noi potremmo aver bisogno di una buona consulenza», mi dice. «E ho sentito dire che lei è uno dei migliori.» Mendel è il tipo di persona in grado di mettere un vestito di seta a una bella bustarella e renderla rispettabile. «Chi sarebbe, noi?» chiede Harry. «Il sindacato. L'Associazione», risponde Mendel. «Questo vale anche per lei», aggiunge. È la giornata degli affari. Due amici al prezzo di uno. Portavoce della polizia. Il peggior incubo di Harry. «Che tipo di consulenza?» «Quella che offre lei. Consulenza legale. Che altro?» «Credevo foste ampiamente coperti. Ricorda? Il gran giurì che gira a vuoto.» Mi lancia un'occhiata costernata, come se gli stessi rendendo le cose più difficili del necessario. Perché non me ne sto zitto, prendo i soldi e faccio come mi dice? Lui me lo direbbe anche, esattamente con queste parole, ma anni di disonestà gli hanno insegnato a non fare errori nell'arte della corruzione. «Paul. Cerchiamo di essere ragionevoli. Non c'è nessuna ragione per tutta questa ostilità.» Ci offre qualcosa da bere e, prima ancora che io possa rifiutare, i suoi scagnozzi stanno già aprendo antine e cassetti. Bicchieri con dentro ghiaccio che tintinna. Tappi che saltano. Harry ha già allungato una mano, ma gli do un colpetto col ginocchio sulla coscia. Improvvisamente la sua mano tesa si alza a lisciare quei pochi capelli che gli rimangono. Scuote la testa di fronte al drink che gli stanno offrendo, con la stessa determinazione di un alcolista che ci ricasca dopo un periodo di astinenza. «Lei accetta clienti, no? Io voglio soltanto assumerla. Lei mi dice il suo onorario ed è fatta. Semplice.» Avrà anche fiducia in Tony Arguillo, ma non sa cosa mi ha raccontato. Sono una minaccia priva di consistenza oppure so davvero qualcosa? «Ammettiamo che io vi rappresenti.»
«Ammettiamo», ripete. «Che cosa vorreste che facessi?» Corruga la fronte, storce il naso. Un'espressione che nasce direttamente dal lato oscuro dell'animo. «Lei prende un anticipo e si tiene a disposizione», dice. «Tutto qui.» Esattamente quello che pensavo. Mi vedo mentre gli bacio l'anello e odo echi spettrali di una voce stridula che mi dice che un giorno tornerà da me a chiedermi che gli renda un qualche servigio. «Ci pensi prima di dire di no. Potremmo essere un grosso cliente. Coprire molte delle sue spese generali.» Adesso sta facendo il grande e comincia a sparare stronzate. L'atteggiamento che ci si aspetta da un venditore di macchine prima che sottoponga l'accordo al suo capo. «Noi siamo tutti una grande famiglia felice. Tony. L'Associazione. Io. Lei potrebbe rappresentarci tutti quanti. Come le ho già detto. Quanto vuole? Dica lei la cifra.» Potrei dirgli che voglio il suo primogenito e lui me lo darebbe. Avete sentito parlare dell'avvocato del diavolo, no? Quello che Mendel mi sta proponendo è la rappresentanza legale ad alto livello dell'intero inferno. «Phil... posso chiamarla Phil?» Un gran sorriso. «È il mio nome.» «Lei è così gentile, Phil, che mi dispiace tanto doverglielo dire. Ma non posso accettare.» «Perché no, diamine?» La cordialità cola dal suo volto come sego in una giornata torrida. «Conflitto d'interessi», gli dico. La vendita è sfumata. I tre mi lanciano occhiate arcigne. «Dunque lei continua a rappresentare Tony?» La mosca nella loro minestra. «Finché non mi licenzia.» Fa ruotare la poltrona. Un consulto. Bisbigli. I tirapiedi di Mendel sono molto discreti, si portano la mano davanti alla bocca mentre si chinano a parlargli nell'orecchio. Ogni tanto ci lanciano qualche occhiata e continuano a sussurrare. «Come cazzo si chiama?» Questo lo dice a voce alta. Uno dei due gli dice qualcosa all'orecchio e lui torna a voltarsi verso di me. «Questa donna», dice. «Questa Goya. Dell'ufficio del procuratore. Qual è il suo ruolo in questa faccenda?»
Ora sì che sono preoccupato. Tony è riuscito a compromettere Lenore. Se Mendel viene a sapere del suo coinvolgimento, del fatto che ha consigliato Tony, è un attimo arrivare fino all'ufficio del suo capo. Coleman Kline lo verrà a sapere subito. Mendel ha trovato il punto debole. «Chi?» Cerco di guadagnare tempo. «Smettiamola con le stronzate, Madriani.» Mendel sa tutto. «Ne deduco che non ci chiamiamo più per nome.» Temporeggio. Lui mi ignora. «Sappiamo che Tony le ha parlato», dice. «A chi?» «A questa Goya.» «Ah, a lei.» «Già, a lei.» Sta tamburellando con le dita sulla scrivania. Aspetta una risposta. «Sono solo amici.» «Già. E voi tre stavate prendendo il tè nel suo ufficio.» «Via, Phil, adesso mi offende. Stavate controllando il mio ufficio o soltanto seguendo Tony?» chiedo. Forse Tony non l'ha bruciata. «La gente passa. È una strada pubblica.» «Già. Prendi nota di ripulire l'ufficio», dico, rivolto a Harry. «Qualcosa avrebbe potuto strisciare dentro da sotto la porta mentre non stavamo guardando.» Harry sorride. Mendel no. Non mi stupirei se fosse a conoscenza di ogni conversazione privata che ho fatto al telefono nell'ultimo mese. «Non mi ha detto che cosa ci faceva nel suo ufficio.» Mi alzo dalla sedia per andarmene. Harry mi imita. «Ha ragione. Non gliel'ho detto.» Sono sulla porta, e lo lascio col dubbio peggiore, che forse Lenore si trovava nel mio ufficio come rappresentante ufficiale del procuratore per concludere un accordo in cambio della testimonianza di Tony. Meglio questo che la verità. Devo trovare Tony prima che lo trovi lui. «Dovremmo parlare ancora, qualche altra volta», dice. «Porterò lo stenografo del tribunale», gli rispondo, e me ne vado. Leo Kerns è un ometto calvo e sovrappeso che assomiglierebbe a uno gnomo se non fosse per l'espressione perennemente corrucciata del volto. Lo conosco da una decina d'anni, e ha sempre avuto questa espressione. Fa
parte del personaggio, gli viene dal suo lavoro come investigatore dell'ufficio del procuratore, il luogo dove anch'io ho lavorato, in un'altra vita, e dove siamo diventati amici. «Avresti dovuto telefonare prima. Mi sarei vestito», mi dice. Leo è fermo sulla porta del suo appartamento. Indossa una canottiera che lascia scoperte le ascelle da cui spuntano peli neri e ispidi come aculei di un porcospino. Ha una pancia da Buddha. L'alito gli puzza del suo ultimo pasto e di birra. «Quanto è passato... un anno?» mi chiede. «Almeno», gli dico. «Ma ti trovo bene.» «Già, divento sempre più giovane», dice. «Solo che adesso i capelli mi crescono all'ingiù, dalle orecchie e dal naso.» Non saprei dire se nell'appartamento c'è qualcuno. Forse è un momento inopportuno per una visita. Leo è single e non è un donnaiolo, ma ogni tanto se la fa con qualche entraîneuse. «Ti inviterei a entrare, ma la casa è un casino.» «L'immagine del suo occupante», gli dico. Scoppiamo a ridere e finalmente lui apre la porta. «Una birra?» propone. Dire di no a Leo sarebbe come rifiutare il calumet della pace. Stacca la lattina dall'involucro di plastica e la solleva, facendomi vedere l'etichetta. «Questa va bene?» «La mia preferita. Calda.» Con la sua lattina in mano si siede sul divano, dove il suo didietro viene accolto come un'enorme palla da baseball dall'incavo del guanto del ricevitore, una pozza nell'imbottitura esattamente di fronte al televisore, che è acceso e continua a trasmettere uno stupido gioco a premi. Lo sforzo di sedersi gli causa un forte affanno. Kerns è quello che le persone che fanno valutazioni per le compagnie di assicurazione definirebbero «un soggetto ad alto rischio». «Siediti.» Mi indica una poltrona in un angolo, la cui tappezzeria è così consunta che, se avesse vita propria, sarei portato ad attribuire il fenomeno alla stagione della muta. La televisione mi urla nell'orecchio. Lui dice qualcosa ma non capisco. Poi trova il telecomando e preme il pollice sul tasto del volume. «Lo guardi mai questo?» mi chiede. Guardo lo schermo. «Un evento culturale», gli dico.
«Già. E la conduttrice ha un bel paio di tette», conviene Leo. Abbassa il volume, ma non spegne l'apparecchio, e resta con gli occhi incollati allo schermo come se stesse aspettando l'apparizione delle sue due sommità preferite. «Immagino che tu non sia venuto per la birra e per scambiare quattro chiacchiere.» «Come puoi pensare una cosa simile?» Sorride e parliamo dell'ufficio del procuratore, dei cambiamenti avvenuti nella squadra investigativa dopo l'ascesa al trono di Kline. Leo mi dice che c'è molta incertezza: persone che fino a ieri erano i tuoi migliori amici ora sono pronti a piantarti un coltello nella schiena. Leo è uno che se ne intende, di coltelli. Ne ha un'intera collezione, tutti accuratamente affilati. «Non c'è più gusto ad alzarsi e andare a lavorare la mattina», mi dice. Come se questa fosse stata una delle maggiori fonti di piacere della sua vita. «Mi sembra un buon motivo per chiedere l'invalidità.» Lo commisero. «Se la pensione per motivi di salute prevedesse come evento il lavorare con degli stronzi, ora sarei a pescare», mi dice. «Kline e il suo entourage sono così male?» «Dover dare il buon giorno a quella testa di cazzo è sufficiente per farsi prescrivere il Valium.» Lo definisce un fanatico religioso. Nel lessico di Leo questa espressione si applica a chiunque abbia varcato la porta di una chiesa almeno una volta negli ultimi dieci anni. Si è lamentato di ogni procuratore distrettuale eletto nella contea nell'ultimo secolo, e nel frattempo ha sempre cercato la fessura tra le loro chiappe e increspato le labbra. Ha scavalcato le carcasse di colleghi morti nel corso di tre diversi regimi, pur di diventare supervisore. Se Stalin salisse al potere domani, il giorno dopo Leo si presenterebbe a lavorare vestito come Beria. «Ultimamente pare che passiamo le giornate a reinventare la ruota», si lamenta. A sentire Leo, Kline insiste nel dire che le migliori hanno quattro angoli. A questo fa seguire una serie di improperi accuratamente scelti, tutti dedicati al suo superiore. «Dovresti cercarti un altro lavoro», gli dico. «Sì, alla mia età.» Ciò che più offende Leo è l'ultima parola del mio commento, quella che inizia con la elle. Inoltre, dove potrebbe trovare così tanti intrighi? «Non appena riesci ad addestrarne uno bene», spiega, «gli elettori lo
cacciano fuori dell'ufficio.» Leo parla come se il procuratore eletto fosse un cane di Pavlov, e l'esercito di perenni burocrati fosse una specie di corpo cinofilo con collari rigidi e guinzagli da addestramento. Gli ricordo che Nelson ha lasciato l'ufficio per diventare giudice. «Appunto», dice. «Proprio ora che cominciavamo ad andare d'accordo con lui. Un buon procuratore.» Lo definisce così in evidente contrasto con i sostantivi e gli aggettivi che ha usato per descrivere lo stesso uomo due anni fa. «Questo qui è un culo stretto senza senso dell'humour... un fottutissimo salvatore d'anime.» Per Leo la religione è un crimine. «Già. Ho sentito dire che prega davanti al roveto ardente, in ufficio.» Interrompe la sua tirata e mi guarda, chiedendosi se per caso non stia parlando sul serio. «Lo ha davvero visto qualcuno?» A Leo farebbe piacere avere fotografie che documentassero questo, per farlo rinchiudere in manicomio. «No, hanno solo sentito l'odore di bruciato», gli dico. Gli ci vuole un attimo per capire che sto scherzando, poi sorride. «Magari finirà come con Nelson.» Lo guardo. «Finirà a fare il giudice.» Sta parlando di Kline. Leo sarebbe soddisfatto. Se c'è qualcuno le cui idee personali lo offendono, basta nominarlo giudice, così che la vita indolente di Leo possa essere resa più facile. «A proposito di giudici», mi dice. «Hai sentito di Acosta?» «L'ho letto sui giornali. Ho pianto tutta la notte.» I miei problemi con Nocedicocco sono ben noti tra le persone che lavorano nell'ufficio del procuratore. «Già. Mi immaginavo che stessi già vendendo i biglietti per l'ingresso alla veglia funebre», dice Leo. «È per questo che sei venuto da me questa sera?» È tornato all'argomento principe. Al motivo della mia visita. «In un certo senso. Ha a che fare con Acosta e col gran giurì», gli spiego. «Ho un cliente, un poliziotto... un buon poliziotto.» Questo mi pone dalla parte dei buoni. «Ma si è cacciato nei pasticci con...» «Tony Arguillo», dice lui. Prima ancora che possa finire il mio discorsetto, Leo ha già capito dove voglio arrivare. Se in questa contea succede qualcosa di poco chiaro, Leo lo sa. Faccio un gesto, come per dire: «Ecco che hai già capito». «E tu ti stai chiedendo come abbia fatto questo bravo poliziotto a trovar-
si in questo pasticcio...» Sto facendo un sacco di gesti, con la testa e con le mani, che tutti insieme significano: «Sì». «In giro si dice che è tutta colpa delle compagnie che frequenta.» «E cioè?» «Che si è messo con della brutta gente.» «Mendel e compagni?» Leo non dice nulla, ma dal suo silenzio capisco che intende dire proprio questo. «Ammetto che Mendel non è esattamente la persona che porterei a casa e presenterei alla famiglia», dico. «E sono al corrente delle accuse che gli hanno mosso, della cresta che avrebbe fatto sui fondi del sindacato. Ma mi sembra una reazione un po' eccessiva», proseguo. «Tirare fuori i rotoli della legge, chiamare a raccolta il gran giurì... a me pare un tentativo di affossare il sindacato.» «E non è tutto», aggiunge lui. Gli lancio un'occhiata. Leo è un ballista straordinario, ma ci sono momenti in cui capisci che è mortalmente serio. «Tamburi della giungla e segnali di fumo?» dice. Questo significa che quanto sta per dirmi proviene da radio ufficio, voci che non hanno alcuna conferma nel mondo dei vivi. «Guarda che rischio la pelle», mi avverte. «Devi promettermi che non uscirà di qui.» Sollevo tre dita da dietro la lattina di birra, un giuramento di sangue tra fratelli di bisboccia. Leo non vede l'ora di dirmelo, il che, conoscendolo, è un sintomo che quelle che sta per darmi sono cattive notizie. «È successo un fatto, circa sei mesi fa. Hanno sparato a un poliziotto di nome Wiley, durante un blitz antidroga dalle parti del parco, in un posto dove spacciavano crack.» «È stato ucciso, se non sbaglio», gli dico. «Ricordo di aver letto qualcosa. So che c'erano state polemiche.» «In quel momento era fuori servizio, il che ha creato qualche perplessità», prosegue Leo. «Faceva parte di una squadra di giustizieri. Teste calde che se ne vanno in giro con i randelli nel bagagliaio della macchina come la gente normale ci tiene le canne da pesca. La loro idea del divertimento era togliere le caccole dal naso di qualche spacciatore con la canna della Beretta. Conosci i tipi.» Per Leo questo è un peccato mortale, una violazione delle regole che go-
vernano la vita di un lavoratore dipendente. Lui non ha mai fatto un solo minuto di straordinario non pagato. «Dell'omicidio è stato accusato un ragazzo. Un sedicenne. Lo hanno processato come adulto.» «A me sembra solo giusto», commento. «Sì, se non fosse per un piccolo particolare», dice Leo. «Il ragazzo ha negato tutto. Ha detto che la pistola non era sua.» «Pensa un po'! Una linea di difesa originale.» «Già, molto originale. Quasi romanzesca. Per questo nessuno gli ha dato molto peso. Hanno controllato il numero di serie. E bada bene che non si trattava di una pistola da poco. Stiamo parlando di una Smith and Wesson calibro 38. E guarda guarda... il ferro risulta rubato. Durante un furto in una abitazione. E così tutti pensano che sia stato il ragazzo a rubarla. Giusto?» Gli rivolgo uno sguardo come se fosse tutto molto logico. «Solo che c'è una lunga storia dietro questa particolare pistola. Sembra che uno degli impiegati giù all'ufficio corpi di reato stesse facendo un piccolo inventario, cercando di vedere quanto il personale avesse perso nel corso dell'anno, tra macchine, aerei, alberghi, quel genere di cose, insomma, e indovina cosa ha trovato?» Mi stringo nelle spalle. «Che mancava una Smith and Wesson 38.» «Lascia che indovini. Il numero di serie.» «Tombola», fa Leo. «La teoria è che qualcuno, uno dei poliziotti, abbia mollato l'arma vicino al ragazzo sulla scena del delitto.» «Cos'è stato? Un incidente? Uno di loro si è fatto prendere dal panico?» «Sei troppo ingenuo», dice Leo, l'unico uomo al mondo più cinico di me. «E allora cosa?» «Ora viene il bello», mi fa. «Abbiamo sentito voci - nessun esposto ufficiale, bada bene, solo il tam-tam della strada - secondo le quali da più di un anno alcuni poliziotti si sono messi in affari in proprio e taglieggiano gli spacciatori prendendo soldi e, quando possono, anche droga. Niente di rilevante», prosegue Leo, «un po' qui, un po' là. Mille qui, un chilo là. Tutto fa. Capisci bene che le vittime non sono nella posizione di presentare una denuncia, quindi tutto questo è assolutamente ufficioso.» Leo si sta infervorando man mano che il racconto procede. «Del tipo: sa, agente, vede quel figlio di puttana laggiù? Si è preso il mio sacchetto di crack e la forni-
tura mensile di eroina. Sì, esatto, proprio quello là, quello che porta un'uniforme uguale alla sua.» «Immagino che questo potrebbe farti passare la voglia di sporgere denuncia», dico io. «E non è tutto. Senti quello che viene adesso. Tutti gli agenti che hanno partecipato al blitz insieme a Wiley quella notte facevano parte della cricca di Mendel. Due di loro erano rappresentanti sindacali. E facevano pure parte del Consiglio.» Leo sta venendo al dunque. «E cosa c'entra tutto questo con Tony Arguirlo? Non mi starai dicendo...» Comincia ad annuire. «Il tuo cliente, questo Tony», mi dice, «è l'agente che ha trovato la pistola addosso al ragazzo.» 5. È tutta la sera che provo a chiamare l'appartamento di Lenore senza successo. Sarah dorme nella sua stanza e io inganno il tempo rivedendo alcune pratiche che mi sono portato dall'ufficio. Passano dieci minuti e quando prendo in mano il telefono vivo una di quelle esperienze extrasensoriali che capitano una volta in mille anni. Faccio per comporre il numero e dall'altro capo mi giunge una voce. È Lenore. «Questa è telepatia», le dico. Guardo l'orologio. Sono le dieci passate. «Lavori fino a tardi», aggiungo. «Sto facendo un po' di pulizia nella mia vita», mi dice. La sua voce è nasale. Mi chiedo se abbia il raffreddore. «Ti chiamavo per chiederti se sai dove si trova Tony Arguillo. Sono due giorni che gli lascio messaggi sulla segreteria telefonica. Ma non mi ha ancora richiamato.» Non le dico del mio incontro con Phil Mendel, né delle pessime notizie che ho appreso da Leo Kerns, che sono poi la ragione per cui devo parlare con Tony. «Non ne ho idea», risponde. «Non l'ho più visto dal giorno del nostro incontro nel tuo ufficio.» Poi segue un silenzio imbarazzato, tipo quelli che normalmente accompagnano la notizia di una morte in famiglia. «Tocca a te», le dico. «Ho bisogno di parlare con qualcuno. Con una voce amica.»
«Perché? Cos'è successo?» «Sono stata licenziata.» Mezz'ora più tardi sento bussare piano alla porta. Quando apro, Lenore è ferma sotto il portico, i capelli scompigliati come immagino possano esserlo i suoi. Quando mi dice «ciao» avverto un leggero odore di alcol. Ha l'aspetto di un vulcano ancora fumante dopo l'eruzione: fumo psichico, anche se il fuoco è in gran parte ormai spento. La faccio entrare e le chiedo se vuole un caffè o qualcosa da bere. «Che cos'hai?» Nello stato in cui si trova, probabilmente l'acido cloridrico è troppo leggero. La conduco in cucina e apro uno sportello in modo che possa scegliere da sola. «Non sei rimasto sorpreso dalla notizia del mio licenziamento?» mi chiede. «Un po'», ammetto. «Ma sapevo che tu e Kline eravate diversi.» Ride. «Un modo elegante di definire le cose. Diplomatico come al solito.» «Ora non mi venire a dire che non te l'aspettavi.» «Sì», conviene. «Ma l'interessato è quello che rimane sempre più sorpreso nel leggere il proprio necrologio.» È il tipo di spavalderia che nasconde un dolore profondo. Si lascia andare a qualche parola dura nei confronti del suo ex superiore, ma il grosso della rabbia sembra passato, consumato sospetto - in qualche sfuriata precedente. Mi chiedo chi, nella cerchia dei suoi amici, abbia dovuto sopportarne la maggior parte, magari davanti a qualche bicchiere, dopo il lavoro. Afferra la bottiglia di Johnnie Walker e se ne versa una dose generosa in un bicchiere alto, continuando a parlare con me, come se fossi io a dover dire «basta». Non lo allunga né col ghiaccio né con l'acqua. Lenore non vuole ricordare niente di tutto questo, domani. «Raccontami cos'è successo. Un'altra discussione?» Scuote la testa e tira su col naso. «No. È troppo calcolatore per farlo. Ha voluto pensarci con calma e pianificarlo per bene. Assaporare il momento», dice. «Nel pomeriggio torno dal tribunale, verso le quattro e mezzo, e trovo la porta del mio ufficio aperta.» Beve una lunga sorsata e tossisce un po', come un ragazzino dopo la prima tirata di sigaretta. «È orribile.»
«L'hai scelto tu.» «Hai del vino?» Lenore non è una bevitrice seria. Sta cercando un analgesico, qualcosa con cui peggiorare lo stordimento che già sta provando. «Ci si ubriaca anche con quello.» «Ma col vino ci si mette di più, e la mia è una storia molto lacrimevole», mi dice. Frugo nella credenza e trovo due bottiglie. «Il Gewurtz», dice. «Ricordami di non sedurti mai con i superalcolici.» «Se non riesci a trovare il tempo per farlo bene, non dovresti farlo del tutto.» «Dunque, ritorni dal tribunale e la porta del tuo ufficio è aperta.» Riprendo da dove eravamo rimasti, e intanto cerco il cavatappi. «Sì, come ti stavo dicendo, la porta dell'ufficio è aperta, ma ricordo benissimo di averla chiusa prima di andarmene. C'è un agente parcheggiato su una sedia in corridoio: legge il giornale. Ho pensato che fosse un testimone di qualche caso in attesa di essere interrogato.» Annuisco. Conclusione logica. Estraggo il tappo e le verso un bicchiere di vino. «Poi, prima di arrivare alla porta, sento dei rumori provenire dal mio ufficio, come se qualcuno stesse rovistando tra le mie cose. Cosa diavolo sta succedendo? penso. E in quel momento lui mi blocca.» «Chi?» «L'agente. Allunga una mano e mi afferra per il braccio, come se volesse placcarmi nel caso cercassi di entrare nel mio ufficio. Mi ordina di qualificarmi. Allora gli mostro il tesserino, sai, quello piccolo, fatto a libretto.» Assomiglia a un passaporto, e ne fa la funzione per accedere alle scene dei delitti; è un documento emesso dall'ufficio del procuratore per ognuno dei suoi sostituti, con tanto di fotografia: un biglietto d'ingresso alla confraternita dei tutori della legge. «Lui lo guarda e poi se lo infila in tasca.» Convengo con lei che questo gesto è di per sé significativo. «Bene. Gli dico che lo rivoglio indietro. Lui mi ordina di sedermi. Gli chiedo cosa diavolo sta succedendo, ma lui non mi risponde. E durante tutto questo, la persona all'interno del mio ufficio continua a frugare nei cassetti della mia scrivania. Sento alcune voci, il fruscio di carte, e allora mi metto a discutere con l'agente in corridoio. Divento un po' aggressiva.» Mi immagino Lenore, con tutti i suoi cinquantacinque chili, che si mette
a fare la dura con un corpulento poliziotto. «Tre ipotesi», le dico, «e le prime due non contano. Dentro c'era Kline armato di torcia e ferri da scassinatore che cercava di forzare la serratura della tua scrivania?» Annuisce come per dire: «Hai proprio indovinato». «E insieme a lui c'è quella donna. Wendy, la dispensatrice di lettere di licenziamento: una che si è portato dietro da fuori. Prima che lui venisse eletto lavoravano insieme in quella Associazione.» Pronuncia la parola «Associazione» come se fosse qualcosa di sporco. «Comunque, lei è lì in piedi che prende appunti su un taccuino, evidentemente facendo l'inventario di tutto quello che c'è nel mio ufficio. Gli chiedo cosa diavolo sta succedendo.» Lenore sorseggia il vino. «È proprio buono.» «Aspetta che tiro fuori il formaggio, così facciamo una degustazione.» Mi lancia un'occhiata come se volesse dirmi che sono un rompiballe. «E lui vuol sapere dove sono tutti i miei appunti sul caso Acosta. Gli dico che era tutto nel fascicolo che gli ho dato.» Lenore mi dice che, per qualche motivo, lui non le ha creduto. «A quel punto ho cominciato davvero ad arrabbiarmi, e credo di aver detto qualcosa.» Beve un altro sorso, e sta alla mia immaginazione colmare i vuoti della narrazione, pensare a quale lato poco ufficiale della sua eloquenza abbia rovesciato su Kline a quel punto. Deglutisce e mi guarda. «E poi mi dice che sono licenziata.» L'espressione del suo viso mi dà solo in parte la misura dello shock che, mi spiega, ha provato nel sentire quella notizia. «Gli chiedo perché e lui mi dice che l'ufficio del Consiglio di contea gli ha suggerito di non rendere note le motivazioni, che riceverò una lettera, ma che comunque io non lavoro più lì a partire dalle cinque di oggi. Senza alcuna spiegazione», aggiunge. «Ci credi?» La cosa triste è che non faccio fatica a crederlo. È una regola di riservatezza nella moderna gestione del rapporto di lavoro. Discutiamo del possibile ricorso di Lenore, cosa che ci prende meno di un nanosecondo. Come dirigente, la posizione di Lenore è quel che viene definito un «incarico discrezionale», privo della tutela garantita ai funzionari pubblici. Assunta e licenziata a discrezione del procuratore distrettuale di turno. Kline non ha neppure bisogno di un valido motivo per licenziarla. Qualsiasi motivazione che non sia basata sulla discriminazione va bene. Mi dice che non ha nes-
suna intenzione di ricorrere e che, guardando la cosa in prospettiva, probabilmente è meglio così. «È venuto il momento di mettermi in proprio», conclude. Le chiedo che prospettive ha, in quanto a clienti o soldi. Nessuna. «Potrei passarti Tony come cliente», le dico. «Bravo. Proprio quello di cui ho bisogno.» Penso che parli così per colpa di quello che ha bevuto e che, quando si troverà a dover valutare la consistenza dei suoi obblighi finanziari in prossimità del giorno di paga, potrebbe anche ripensarci. «Hai capito che cosa cercava Kline nel fascicolo di Acosta? Cosa pensava che mancasse?» Ho il dubbio che possa aver a che fare con il licenziamento di Lenore. «Con uno come quello, lo sa solo Dio.» «Hai detto che voleva i tuoi appunti?» Mi rivolge un'espressione che è un punto interrogativo. Non ne ha idea. «E poi cos'è successo?» «Una tragedia», risponde. «Kline ha ordinato a Wendy di consegnarmi una scatola di cartone con dentro tutti gli effetti personali che hanno tolto dal mio ufficio, poi ha detto all'agente di accompagnarmi fuori dell'edificio. Come se avessi commesso qualche reato.» Lenore continua a camminare su e giù per la cucina, i capelli scompigliati, il bicchiere in mano; sembra quasi che il suo corpo fumi ancora di rabbia mentre lei rivive mentalmente la scena. «Non avrei mai pensato di finire a fare il tifo per uno schifoso come Acosta», conclude. «Il nemico del mio nemico», le faccio notare. «Esattamente. Due giorni fa non l'avrei neppure preso in considerazione, non avrei scommesso due centesimi sulle sue possibilità.» Sta parlando di Acosta. «E ora è un cavaliere con la lancia in resta.» «Non arriverei a definirlo così, ma credo che possa ancora dar fastidio a qualcuno. Se non lui, i suoi avvocati.» «Credi che Kline sia così schiappa in tribunale?» «Sì», mi dice, «e poi c'è il fatto che le prove si sono improvvisamente ridotte a un pugno di mosche.» «Di che cosa stai parlando?» «Subito dopo che Kline si è portato via il fascicolo di Acosta e ha annunciato al mondo che si sarebbe occupato lui del caso, hanno chiamato i
tecnici del suono. Il microfono, quello che portava addosso la Hall quella sera, non funzionava.» Questo le provoca l'unico sorriso che ha esibito da quando è arrivata a casa mia, ma è un sorriso sinistro, che non si addice al volto di Lenore. «Non sanno se si è trattato di un semplice guasto o se qualcuno l'ha spento.» «Spento?» Mi lancia un'occhiata che mi dice di rifletterci. «Acosta. Mendel e l'Associazione. Se tu volessi incastrare il giudice...» Lascia che sia io a finire il pensiero: e cioè, se la polizia avesse teso una trappola a Nocedicocco, non fornirebbe mai la registrazione che potrebbe scagionarlo. «Per loro sarebbe più facile con un'accusa di questo tipo. La parola della Hall contro quella di Acosta.» «Non c'era niente sul nastro?» chiedo. «Niente, a parte la voce rauca di Acosta e un 'ciao' piuttosto lascivo della Hall. Non esattamente incriminante», dice Lenore. «Dopo di che, è tutto un ronzio.» Mi sento mancare. Altri vent'anni di Nocedicocco sullo scanno. «Quindi è la parola di lui contro quella di lei?» Lenore annuisce. «Potrebbe bastare. Sembra una in grado di cavarsela bene sul banco dei testimoni.» Una mia pia illusione. Lenore fa un gesto con la mano, come per dire che potrebbe andare, in un modo come nell'altro. «Prima che mi accompagnassero fuori ho sentito parlare di un accordo.» «No, non mi dire!» «Un'accusa di reato minore purché desse le dimissioni.» Tiro un sospiro come un condannato a morte davanti al plotone d'esecuzione che ha appena sparato a salve. «Ma lui ha rifiutato l'offerta», prosegue. «Senza un attimo di esitazione. Sostiene di essere andato a far visita alla testimone per una questione di lavoro.» «Sarebbe questa la sua difesa?» chiedo. «E quale sarebbe la questione? Un'importante ispezione ai materassi? Mi sembra di sentirlo, sul banco degli imputati: ero disteso sopra la donna solo per appurare se saremmo riusciti a fare un buco nel materasso ortopedico.» Lenore non ride. «Devi ammettere che è piuttosto strano. Il giudice fa di tutto per ottenere testimonianze sulla corruzione nella polizia e viene incastrato durante un'operazione della buoncostume. Ma prima di arrivare al
processo le prove vengono a cadere.» «A cosa stai pensando? Un colpo a proravia? Un avvertimento?» «E chi lo sa? Sappiamo solo che ora tutto si è ridotto a una gara di credibilità. A chi riuscirà a convincere la giuria. E la posta in gioco è la rimozione dall'incarico.» Mi spiega che Kline ha ricevuto pressioni dalla Commissione per la difesa dell'arbitrato dei giudici, la risposta di Acosta alla chiamata in causa del Comitato etico del Congresso. Io non dico quello che fai sotto la tua toga se tu non dici quello che faccio io sotto la mia. «Vogliono togliere di mezzo Acosta», annuncia Lenore. Se esiste qualcosa di più santimoniale di una puttana pentita, quello è un avvocato diventato giudice. «Vogliono che il giudice faccia karakiri.» «Esatto. Non vogliono affrontare un'imbarazzante udienza pubblica davanti alla Corte suprema», mi spiega Lenore. «Come vedi, sarebbe molto meglio se si gettasse da solo sulla spada.» «Lo capisco.» Mentre parliamo, il cercapersone di Lenore si mette a suonare dentro la borsa. Posa il bicchiere e prende a frugare tra spazzole per capelli e fazzoletti finché non trova l'aggeggio infernale. «È l'unica cosa che non si sono ripresi», mi dice. È il suo modo per informarmi che quel cercapersone appartiene al governo. Guarda il numero comparso sul display a cristalli liquidi. «Il centro di tutti i tuoi pensieri», mi annuncia. La guardo con aria perplessa. «Il numero del cellulare di Tony.» «Digli che voglio parlargli.» Mentre le dico questo Lenore si avvia, leggermente malferma sulle gambe, verso l'apparecchio a parete posto di fianco alla porta della cucina. Le porto uno sgabello per sicurezza e lei compone il numero. Aspetta parecchi secondi e poi dice: «Sono io». Non dice altro. La voce all'altro capo del telefono comincia a parlare. Immagino sia Tony. È una conversazione unilaterale e, mentre la osservo, vedo che sul volto di Lenore passano innumerevoli espressioni diverse: dall'indifferenza più totale all'estremo interesse, come le fasi lunari. «Dove sei adesso?» chiede lei. «Digli che gli voglio parlare.» Cerco di attirare l'attenzione di Lenore, ma lei è totalmente concentrata su quanto le stanno dicendo all'altro capo
del telefono. Lenore mi ignora e prende un appunto su un blocco di carta appeso al muro. «Com'è successo?» «Chi altri c'è, lì?» Una breve pausa. «C'è qualcuno dell'ufficio del procuratore?» Spara domande a raffica, senza concedere molto tempo per la risposta, come se chiunque si trovi dall'altra parte non sappia molto. «Hai idea di come è successo?» Una pausa più lunga. L'espressione sul volto di Lenore è di genuino stupore. «Qualche testimone?» A questo punto c'è una lunga spiegazione, ma Lenore non prende appunti. «Sarò lì tra dieci minuti», dice, e riattacca. A questo punto non sta guardando tanto verso di me, quanto attraverso di me, verso un punto remoto che appartiene a un altro mondo. «Cos'è successo? Tony?» chiedo. Annuisce, ma non mi risponde. «Cosa c'è?» «Brittany Hall», dice Lenore. È come se fosse in stato di trance, fulminata da quanto ha appreso al telefono. Rivolge uno sguardo vuoto verso la parete e parla. «Hanno trovato il suo corpo un'ora fa in un cassonetto dei rifiuti. Dietro l'ufficio del procuratore.» Quando ci fermiamo di fianco al marciapiede ci sono almeno sei macchine della polizia parcheggiate nel solito modo, e cioè come gli gira di lasciarle, con le barre delle luci sfavillanti di rosso e di blu. Un gruppetto di barboni è fermo all'esterno del nastro giallo che blocca l'accesso al vicolo che dà sul retro di G Street. In qualsiasi altra zona della città tutta questa attività, l'accorrere di tanti poliziotti, avrebbe attirato frotte di persone. Ma qui, dall'altra parte del palazzo di giustizia, nel cuore della notte, le uniche persone interessate sono questi frequentatori delle mense dei poveri, una manciata di alcolizzati senzatetto che sono stati sfrattati dal vicolo e che ora se ne stanno lì, tremanti di freddo, avvolti nei loro poveri stracci recuperati alla missione e nelle coperte logore. Al di là del nastro c'è una piccola folla di uomini e donne in uniforme. Riconosco uno degli stronzi della squadra omicidi. Devono averlo tirato giù dal letto. Indossa i calzoni di una tuta da ginnastica e una felpa grigia
che sembra uscita da un film di Knute Rockne. «Sarà meglio che lasci parlare me», mi dice Lenore, accompagnando le parole con un sacco di gesti esagerati, tipici di chi diventa alticcio con un paio di bicchieri. Sono qui proprio per questo. Un attimo dopo la telefonata con Tony, ho preso le sue chiavi della macchina e ho chiamato una signora che abita vicino a me, una vicina e un'amica, perché venisse a schiacciare un pisolino sul divano mentre Sarah continuava a dormire nella sua camera. Non potevo permettere a Lenore di guidare. In questo momento Kline non potrebbe desiderare niente di meglio che vederla arrestata per guida in stato di ubriachezza. Vedo Tony Arguillo che cammina avanti e indietro a una trentina di metri da noi, nel vicolo. È piuttosto lontano dal nastro di plastica gialla e non può sentirci, a meno che non vogliamo farci notare da tutti. «Stammi vicino», dice Lenore. E, prima ancora di riuscire a fare il giro della macchina, sento il ticchettio dei suoi tacchi sull'asfalto mentre lei attraversa la strada. La seguo, cercando di raggiungerla prima che si faccia investire da qualche macchina. Poiché non ha più il tesserino di identificazione dell'ufficio del procuratore, Lenore conta sul fatto che i poliziotti non sappiano ancora che è stata licenziata. Forse ci vorrà un giorno prima che la notizia arrivi a quelli che lavorano sulla strada. Prima che io riesca a raggiungerla, si avvicina a un poliziotto in uniforme fermo dietro il nastro giallo. «Dov'è l'agente Arguillo?» chiede con voce sufficientemente imperiosa, date le circostanze, e neanche tanto impastata. Quello di Lenore è un volto familiare. Il tizio non la guarda con attenzione, né le si avvicina tanto da sentire l'odore del suo alito. Le rivolge, invece, la classica scrollata di spalle. Lenore la interpreta come un segnale di via libera e, prima che l'uomo possa dire una parola, si sta già infilando sotto il nastro teso. Per un attimo sembra che lui voglia fermarla, poi rinuncia. Chi ha voglia di mettersi a fare casino con i pezzi grossi? «Lui è con me», dice Lenore, e mi afferra per la manica della giacca. Un attimo dopo mi trovo a procedere incespicando verso la scena del delitto, dietro una donna che, se non proprio tecnicamente ubriaca, è quantomeno alticcia e si spaccia per ciò che non è. Nel vicolo, a dieci metri da noi, Tony sta conversando con un altro poliziotto. Quando ci vede smette di parlare e si allontana dal collega. Questa sera sembra un fascio di nervi: continua a voltarsi e a lanciare occhiate dietro le spalle, occhiate ansiose rivolte agli altri poliziotti presen-
ti nel vicolo, più vicini al contenitore della spazzatura, come se sapesse che se lo beccano a parlare con noi sono guai. Mi saluta e mi stringe la mano, ma sembra imbarazzato di vedermi lì: in fondo sono il suo avvocato. «Pensavo venissi da sola.» Lo dice rivolto a Lenore, a bassa voce, ma io sento lo stesso. «Ha voluto guidare Paul», aggiunge lei. Gli chiede chi è il responsabile delle indagini. Lui le dice un nome che non conosco, e accenna con la testa verso il vicolo, dove alcuni tizi in tuta da lavoro stanno frugando tra montagne di spazzatura. «Kline si è fatto vedere?» chiede Lenore. Istinto di conservazione. Le cose più importanti per prime. «Lo hanno avvisato. Normalmente non si sarebbero presi tanto disturbo», osserva Tony. «Ma visto che si tratta di una testimone di un caso... Lo hanno raggiunto per strada, stava andando a San Francisco per partecipare a un incontro, domani mattina. Hanno detto che sta tornando indietro.» «Allora non abbiamo molto tempo», commenta Lenore. «Cos'è successo?» «Forse dovremmo andare a parlare là», suggerisce Tony, indicando la zona oltre il nastro. «Non vogliamo vedere il cadavere», gli dice Lenore. «Dicci solo cosa è successo e ce ne andiamo. Chi ha scoperto il corpo?» «Un barbone, meno di un'ora fa. Ha fermato una volante di passaggio.» Tony ci racconta di non aver perso tempo a chiamare Lenore. È stata la prima telefonata che ha fatto dall'autopattuglia dopo aver captato il segnale computerizzato che diceva che era stato trovato il corpo. Ora le autopattuglie comunicano via computer per limitare la possibilità che informazioni delicate vengano intercettate da ascoltatori curiosi. Due poliziotti in tuta si sono accollati il compito più sgradevole. Dal cassonetto passano all'esterno i rifiuti, mentre altri frugano tra piccoli cumuli di spazzatura ammucchiati nel vicolo. Ogni tanto vedo il lampo di un flash dentro il cassonetto: qualcuno sta scattando fotografie, di quelle che potrebbero diventare prove. Due investigatori sono chini su qualcosa coperto da un telo bianco. Non ci sono tracce evidenti di sangue. «Ha visto qualcosa? Questo barbone?» chiede Lenore. «Intendi dire chi ha scaricato il corpo?» dice Tony, e scuote la testa. «Il nostro uomo era troppo occupato col suo sacchetto di carta e con la bottiglia che c'era dentro per notarlo. Le macchine entrano ed escono dal vicolo. Dice che non vi ha prestato attenzione.»
«Forse ha paura», gli fa notare Lenore. «Questo è troppo andato per aver paura.» «Come ha fatto a trovarla?» «Stai scherzando?» Tony le lancia un'occhiata di traverso. «Un cassone di metallo. Quattro pareti e un tetto sopra la testa. Questo è un dormitorio. Ogni notte ci dormono dentro almeno cinque o sei vagabondi. Se poi quel giorno è passato il camion a svuotarlo, è come se fosse consigliato dalla Guida Michelin.» «Solo che oggi non era vuoto, giusto?» dico. «No.» Tony mi guarda con sospetto. Forse Phil Mendel l'ha messo in guardia contro di me, e ora sono una persona non grata, di cui non ci si può più fidare. «Ha trovato il corpo lì dentro? Dev'essere stato un bello shock.» «Era fasciato.» Tony lo dice come se stesse parlando di un tramezzino al tonno trovato in un cestino della merenda. «Era avvolto in una coperta. Questa gente fruga nella spazzatura come topi.» Sta parlando dei senzatetto che hanno eletto a loro dimora questo particolare cassone di metallo. «Quando ha visto la coperta ha pensato di aver trovato chissà quale tesoro», dice Tony. «Siamo già fortunati che non abbia dormito con lei per un paio d'ore prima di chiamarci.» Tony non ha una grande opinione dei diseredati. «Com'è morta?» chiede Lenore. «Potrebbe trattarsi di strangolamento. C'è qualche segno sulla gola. Il medico legale non è ancora arrivato. Non si può dire che avesse addosso molti vestiti.» «Cosa intendi dire?» «Indossava un paio di mutandine e una canottiera di cotone. Aveva un asciugamano avvolto intorno alla testa come un turbante.» «Forse si era appena lavata i capelli», dice Lenore. «Magari stava per uscire oppure si stava preparando per andare a letto.» Arguillo solleva un sopracciglio e fa un piccolo movimento con la testa come per dire: «Interpretalo come vuoi». «Qualche segno di aggressione sessuale?» chiede Lenore. «Ne so quanto te. Una donna mezza nuda, gettata in un cassone della spazzatura, giovane, bella... non lo escluderei. Ma dobbiamo aspettare il medico legale.» Le fa segno di avvicinarsi, come se volesse dirle qualcosa in privato. «Se hai un minuto vorrei parlarti da sola», confida a Lenore. Le fa segno
di seguirlo in un punto isolato del vicolo, lontano da orecchie indiscrete, dove si parlano. La conversazione va avanti per un po', e non è un monologo di Tony. A un certo punto c'è una chiara dimostrazione di sorpresa da parte di Lenore, seguita dal gesticolare animato di Tony, e poi la conversazione prosegue a voce più alta, cosicché li posso quasi sentire, e poi entrambi si voltano a guardarmi. Alla fine Lenore sembra interromperla bruscamente, allontanandosi da Tony e lasciandolo lì impalato. Quando arriva da me, il suo volto è cereo. Immagino che Tony le abbia rivelato qualche altro macabro particolare della morte della ragazza, quei dettagli di un crimine che di solito non si fanno venire a galla nella piscina dell'informazione di massa. «Al momento non c'è nient'altro che possa dirci.» Per Lenore questa è una piccola bugia innocente. Mi sta dicendo che è arrivato il momento di andarcene. «Volevo metterti al corrente», dice Tony. «Giusto», risponde Lenore. «Pensavo che potessi essere tu a occuparti del caso», prosegue lui. «Ne dubito.» Lenore non gli ha ancora detto di essere stata licenziata. Un altro piccolo inganno. Tony si avvia verso il nastro giallo e la mia macchina. «Sapevo che ti sarebbe interessato», dice lui. «Hai lavorato con lei, nel caso Acosta. È un vero peccato. Era una brava ragazza.» Tony comincia a buttarla sul lacrimevole. «Chiunque sia stato, lo troveremo. Conosceva un sacco di ragazzi nella polizia. Saranno assetati di sangue, seguiranno ogni pista.» Sta diventando il mantra di Tony: un altro memento della polizia che sa come proteggere i suoi uomini. I dettagli del volto di Tony si perdono improvvisamente nella luce degli abbaglianti di una macchina che entra nel vicolo dalla parte opposta a noi, grossa e scura. «Ti terrò informata», promette, allontanandosi lungo il vicolo, tornando verso il gruppo. «Ehi, noi due dobbiamo parlare», gli dico. «Sì, più tardi.» «Ora dobbiamo proprio andare», dice Lenore. Mi tira di nuovo per la manica e retrocede verso il nastro, mentre vedo una sagoma snella e alta scendere dalla macchina, seguita da una scia di uomini in uniforme come la coda di una cometa: Coleman Kline.
«C'è una cosa che devo vedere», mi dice. «Svolta qui.» Sto tornando verso casa, ma Lenore vuol fare una deviazione. È tardi, e ho Sarah a casa che mi aspetta. Glielo dico, ma lei insiste e promette che ci vorrà solo un minuto. Seguo le sue indicazioni fino alla Quindicesima, lontano dal centro, verso la I-80. Le chiedo di che cosa hanno discusso lei e Tony. «Ora non te lo posso dire», mi risponde. «Dove stiamo andando?» «Vedrai. Al prossimo incrocio gira a sinistra.» Faccio come mi dice. Mentre guido lei controlla i numeri civici dipinti sulla costa del marciapiede, e pochi secondi dopo mi dice di fermarmi sotto un vecchio olmo, massiccio e incombente, dimora di un milione di corvi. Il loro bombardamento a tappeto fa assomigliare la strada al manto di un dalmata. È uno di quei vecchi quartieri di case fine secolo, la maggior parte delle quali ha visto tempi migliori, costruite sollevate da terra come difesa dalle inondazioni che un tempo sommergevano la città almeno una volta all'anno, con le palificazioni nascoste dietro uno schermo di graticcio marcio. In mezzo ci sono alcuni edifici e qualche villetta a due piani, tutti costruiti tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70, quando la città aveva fatto un breve tentativo di rinascita, prima che il crimine e l'esodo in massa dei bianchi dessero il colpo di grazia all'America urbana. Tre uomini o tre ragazzi, non saprei dirlo, sono fermi all'angolo, con i cappucci delle felpe tirati sulla testa, e stanno dando varie interpretazioni del ruolo di magnaccia mentre parlano con una persona ferma su una macchina, il motore che ronza e le luci di posizione accese: il business della notte. Prima che io possa dire una parola, Lenore apre la portiera. «Dove stai andando?» Per tutta risposta mi sbatte la portiera in faccia e attraversa la strada. Messo davanti al fatto compiuto, non posso fare altro che seguirla. Il tempo di chiudere a chiave la macchina e Lenore è già scomparsa dentro un ingresso scuro in fondo a un vicoletto, l'ingresso di una delle villette. Se non mi fossi voltato in tempo a guardare, l'avrei completamente persa di vista. Così attraverso la strada e la seguo. Nel buio, nascosti tra i cespugli di un giardinetto, non riesco a vederla ma capisco che sta frugando nella borsa e sento il tintinnio di un mazzo di chiavi.
«Cosa diavolo stai facendo?» «Ssst!» «Chi abita qui?» «Chiudi la bocca.» Poi, improvviso, appare un debole fascio di luce, come Campanellino in un pozzo d'inchiostro. Lenore ha trovato quello che cercava, una minuscola torcia elettrica attaccata al portachiavi. Mi avvicino lungo il vialetto. «Spero tanto che sia un buon amico», le dico. Guardo le lancette luminose dell'orologio. È quasi l'una. Lenore sta armeggiando con la maniglia della porta. Quando mi accorgo che la sua mano è avvolta in un fazzoletto, la mia apprensione diventa vera paura. La gravità di ciò che stiamo facendo mi cala addosso come fosforo incandescente e, non appena la serratura scatta, un'oscura intuizione mi fa capire chi abita in quell'appartamento. In un quartiere come questo, il fatto che qualcuno lasci la porta di casa non chiusa a chiave è un evento eccezionale. «Abbiamo avuto fortuna», dice. È un tipo di fortuna che ancora non conoscevo. Lenore scivola oltre la porta, trascinandomi dietro di lei. «Non dovremmo essere qui», le dico. Mi zittisce, portandosi un dito davanti alle labbra, e chiude la porta con il fazzoletto. Mi vedo già circondato dai lampeggianti della polizia e sento urlare le sirene. «Non ci metteranno molto a scoprirlo», borbotto. «Non ci staremo molto.» «Non dovremmo esserci proprio.» «E allora vai a sederti in macchina», conclude. Rimango lì al buio, mentre Lenore procede portando via con sé la debole luce della minitorcia. In un attimo la seguo e vado a sbatterle contro. «Tieni le mani a posto», mi minaccia. «Non ci stavo provando. Te lo giuro.» «Mi preoccupo delle impronte digitali.» «Ah, giusto.» Mi interrogo sulle nuove frontiere della scienza forense e mi domando se è possibile ricavare impronte del DNA da quelle lasciate dalle suole di cuoio delle scarpe. Anche se in questo posto non dovrei preoccuparmi. C'è così tanta roba sul pavimento che, se faccio attenzione a dove metto i piedi, posso anche evitare di calpestarlo.
È una delle immutabili leggi sull'altro sesso, appresa sin dai tempi della pubertà: più è carina la ragazza, più incasinato è il suo appartamento. Questo è uno di quei posti in cui si potrebbe mangiare per terra, nel senso che qui i piatti sono ancora più sporchi. Dalle finestre che danno sulla strada filtra un fascio di luce. Vedo carte sparpagliate sul pavimento della cucina e quelli che sembrano gli avanzi di un pasto, parte del contenuto di un vasetto di yogurt rovesciato su di essi, in attesa che si sviluppi una colonia di batteri. Il lavandino è pieno di piatti, pentole e padelle ammassati più disordinatamente che in un parco rottami. Una delle sedie è rovesciata a gambe all'aria in mezzo alla cucina e così noi scegliamo il percorso meno irto di ostacoli, lungo il corridoio, verso quello che presumo sia il soggiorno. Qui non regna la confusione, ma la distruzione. Per terra c'è un quadro incorniciato. Pare sia stato strappato dal muro, il vetro in frantumi, il gancio rotto e piegato. Entrando in soggiorno vedo terriccio proveniente da un vaso sulla moquette vicino a un tavolino di metallo e cristallo. La pianta giace per terra vicino a un'altra macchia, più scura, che è penetrata nella moquette come olio nella sabbia. Sto pensando che un conto è il disordine, ma questo rasenta l'assurdo, e poi mi viene in mente che quel che vedo non è la solita casuale confusione. Dietro tutto questo c'è qualche disperato disegno. Questa casa, la casa di Brittany Hall, è anche il luogo della sua morte. Ci vogliono parecchi secondi prima che Lenore possa muoversi. Poi, alla fine, si decide ad aggirare i detriti. Il raggio della torcia fa scaturire un bagliore metallico, si posa su qualcosa di dorato, parzialmente coperto dal terriccio sparso sul pavimento. Avvicina la torcia per vedere meglio. Alla luce vedo che la macchia sulla moquette è umida e luccicante, rossastra, e corrisponde a una strisciata della stessa sostanza che non si è ancora del tutto coagulata sull'angolo aguzzo del tavolino di metallo. Tra un'ora, forse meno, questo posto brulicherà di tecnici della scientifica, come locuste. Lo dico a Lenore. «Già», mi dice. «Avevo il sospetto che fosse successo qui.» «La chiaroveggenza è un dono meraviglioso, ma ora andiamo.» «Guarda se c'è qualcosa in corridoio», mi suggerisce. «Io credo che dovremmo andarcene.» «Va' solo a dare un'occhiata. Chiunque sia stato, ormai se n'è andato da un pezzo.» È più facile obbedire che mettersi a discutere con lei. È anche meno pro-
babile che attragga l'attenzione di qualche vicino. E così obbedisco. Il corridoio è buio, illuminato soltanto da una piccola luce notturna inserita in una presa vicino al pavimento. In fondo ci sono due porte aperte, una per parte, con in mezzo un bagno da cui filtra un po' di luce. Avanzo a passi veloci ma circospetti lungo il corridoio. A metà strada incontro una porta appena socchiusa. Sbircio dentro la fessura, quel tanto da illuminare un ripiano. È un ripostiglio, piccolo e scuro. Lo ignoro e proseguo. La prima stanza in cui guardo dà sulla strada. Sembra la camera da letto. Il letto è disfatto, ma, a parte i cuscini sparpagliati qua e là e la coperta che manca, qui tutto sembra in ordine. Nell'angolo c'è un guardaroba con l'anta chiusa. Passo a esaminare la stanza sull'altro lato del corridoio. Qui è un'altra faccenda. C'è un letto, più piccolo, e il disordine di un bambino. Vedo alcune bambole e pezzi di giocattoli di plastica, piccoli elementi a incastro che i bambini usano per le costruzioni, e un set di cubi di legno. Sul letto c'è un copriletto rosa. È la stanza di una bambina. Ma non c'è traccia di lei. Faccio il giro per controllare l'altro lato del letto. Nessuno. Torno in corridoio. Lenore sta ancora setacciando il soggiorno, attenta a dove mette i piedi per non calpestare le prove. «Non sapevo che avesse un figlio.» «Una bambina.» «Dov'è?» «Coi nonni.» «Come fai a saperlo?» «Ho visto un biglietto in cucina.» Ha curiosato in giro mentre io ero in corridoio. «Bene. Ora andiamocene di qui.» «Usciamo dalla stessa parte da cui siamo entrati», mi dice. «Accertati che non abbiamo toccato niente.» Mentre faccio per tornare indietro, improvvisamente mi trovo senza luce. Lenore è andata dall'altra parte, verso la sala da pranzo e la cucina. «Dove stai andando?» «Ci vediamo alla porta», mi dice. Litigare con Lenore è inutile. Qualsiasi cosa ci porti in fretta fuori di qui e alla macchina, a me va bene. Torno sui miei passi. Mi ci vogliono meno di tre secondi. Quando arrivo in cucina vedo Lenore che ha appena varcato la porta sull'altro lato. Sta studiando un grosso calendario appeso alla pare-
te subito oltre la porta, e mi dà la schiena. «Andiamo.» La mia voce la scuote da un sogno a occhi aperti. In un momento come questo, è tipico di Lenore interessarsi degli impegni sociali della vittima. Compie una danza leggiadra intorno allo yogurt, evitando il bombardamento di fogli, e posa la mano protetta dal fazzoletto sullo schienale della sedia rovesciata che blocca il passaggio. La fa scivolare piano di lato e poi la rimette a posto con la massima precisione possibile. Arrivo alla porta ed esco, con Lenore alle calcagna. Lei chiude la porta e arriviamo velocemente alla strada. Saliamo sulla macchina parcheggiata sull'altro lato. Una volta dentro, non perdo tempo e metto due isolati alle nostre spalle prima di proferire parola. «Se qualcuno dei vicini ci ha visto, spero tanto che abbiano un buon orologio», le dico. Due persone che si aggirano furtive nell'appartamento di una morta ammazzata mentre il suo cadavere giace in un vicolo, circondato da poliziotti. E finalmente sputo la domanda che mi sta tormentando. «Di che diavolo si trattava?» «Che cosa intendi dire?» «Intendo dire andare nel suo appartamento in questo modo.» «Tony sospettava che fosse stata uccisa dove viveva», mi spiega. «E allora avrebbe dovuto controllare Tony», ribatto io. «Quando mi ha chiamato con il cellulare stavano cercando di scoprire dove viveva. La motorizzazione civile aveva un indirizzo vecchio.» «Come facevi a sapere dove viveva?» «L'ho visto nel suo fascicolo il giorno in cui l'ho interrogata nel mio ufficio.» Una memoria di ferro. «E tu non gliel'hai detto?» «Non lavoro più per quella gente.» Così dicendo mi sorride, e scoppiamo entrambi a ridere: una piccola risata, uno sfogo liberatorio. Fa qualche congettura sulla causa della morte, sul fatto che c'erano tracce di una colluttazione, si chiede se la Hall sia morta in seguito alla caduta e all'urto contro il tavolino o per qualche altro trauma. «Perché spostare il corpo?» chiedo. «E chi lo sa?» Se è stata uccisa nel suo appartamento, e le prove che ne dimostrano la morte sono rimaste là, che scopo aveva spostarla? Sembrerebbero esserci più rischi che vantaggi.
«E perché la porta non era chiusa a chiave?» «Ci sono persone che hanno fiducia nel prossimo.» «Una donna che vive sola?» Mi rivolge un'occhiata piena di possibilità. «Io ti faccio una domanda ancora migliore», mi dice. «E cioè?» «Perché avrebbe dovuto incontrarsi con un uomo contro il quale stava per testimoniare in un procedimento penale?» La guardo con aria interrogativa. «Sul calendario c'era un appunto», mi spiega. «Aveva un appuntamento con Acosta alle quattro del pomeriggio di oggi.» 6. «Facile come bere un bicchiere d'acqua», dice. Questo pomeriggio, Tony Arguillo è pieno di fiducia in se stesso, quella che si prova quando tutto è finito, tutti i proiettili sono stati scansati e il destino ti ha lasciato con l'impressione di essere immortale. Questa mattina Arguillo si è presentato davanti al plotone d'esecuzione del gran giurì e, a sentir lui, tutti i fucili hanno fatto cilecca. Per quanto riguarda me, sono all'oscuro di tutto. Agli avvocati non è permesso accompagnare i loro assistiti dietro le porte chiuse della sala del gran giurì. Avevo chiesto di sapere se Tony fosse o no sotto inchiesta e mi era stato risposto che, fino a quel momento, secondo gli elementi in loro possesso, non lo era. Quella che ci è stata data è una specie di immunità condizionata: non possono usare la deposizione di Tony per incriminarlo, però possono usare tutto quello che apprendono da altri testimoni. Oggi Tony si è installato sul divano del mio ufficio, i piedi appoggiati sul tavolino, le mani intrecciate dietro la nuca. La posizione del vincitore rilassato. Mi dà l'idea di una di quelle persone che per tutta l'infanzia si sono sforzate di fare i duri, a volte anche troppo. Ha assunto un atteggiamento che ora lo fa apparire più simile a una donnola che a un lupo. Sono sicuro che lui si considera un tipo minaccioso, un cattivo come solo i bravi poliziotti sanno essere, uno che sputa fredde ingiurie in faccia al male: Tony lo Schifoso. «Se non c'è il reato, non c'è neanche il colpevole.» Sorride, mentre lo dice.
«Il nostro uomo non sapeva proprio da che parte girarsi», prosegue. Sta parlando di Coleman Kline, che lo ha interrogato. «È stata una passeggiata», afferma. «Un gioco da ragazzi.» Se ci fossero altre espressioni stereotipate che vengono alla mente senza sforzo per descrivere una vittoria, Tony le tirerebbe fuori. Questo da uno che per più di un mese ha sudato gocce grosse come brufoli, nel corso di tre rinvii consecutivi, grazie alla caduta in disgrazia di Acosta. Dice che non ha un'alta opinione dell'abilità di Coleman Kline davanti a una giuria. Aspetterò di sentire un parere più obiettivo. «È imbranato come un toro in un negozio di cristallerie», aggiunge, ma fa qualche confusione con le metafore. «Non c'è problema, purché tu abbia detto la verità», gli dico. Le prigioni di questo Paese sono piene di uomini, per la maggior parte bravi cristi, che l'ultima cosa che avevano in mente era compiere un reato grave e ora si stanno facendo anni di galera perché hanno intralciato la giustizia o testimoniato il falso per difendere un amico. Mi chiedo fino a che punto sarebbe capace di arrivare Tony pur di proteggere Mendel e i suoi. «Non è mai andato oltre le domande generali, non ha mai menzionato i registri», mi dice. Sta parlando dei registri contabili del sindacato, che ora sono misteriosamente scomparsi, come per magia. La risposta di Phil Mendel a qualsiasi problema. «Non ti possono incastrare se non ti fanno la domanda giusta», dichiara. Il fatto che questa affermazione contenga una seppur minima ammissione che il suo posteriore potrebbe in realtà correre seri rischi con le domande giuste non sembra turbarlo. Comincia a raccontarmi altri particolari del suo trionfo, ma lo interrompo. Voglio i fatti, voglio sapere esattamente che cosa gli hanno chiesto e attendo, seduto alla scrivania, con la penna in mano. «Dobbiamo aspettare a cantar vittoria, finché non arriva la trascrizione», gli spiego. «Se siamo fortunati, non arriverà.» Potrebbero volerci settimane, o mesi. Le trascrizioni del gran giurì di solito sono secretate, inaccessibili al pubblico e ai testimoni finché non vengono mosse le accuse. Se siamo fortunati lasceranno cadere la cosa, decideranno che non ci sono prove sufficienti a incriminare nessuna delle parti in causa e non verrà fornita alcuna trascrizione. «Certo.» Ho fatto piovere sulla sua parata e, improvvisamente, il suo entusiasmo si ammoscia. Comincia a fornirmi qualche scarno dettaglio. «Mi hanno fatto un sacco di domande irrilevanti», conclude.
Gli chiedo nuovamente se abbia detto la verità. «Lei si preoccupa troppo», si lamenta. La mia insistenza su questo punto sembra offenderlo. Non saprei dire se è perché sto mettendo in dubbio il suo onore o perché, semplicemente, Tony considera la verità uno scomodo inconveniente. «Parola di boy-scout», dice, e solleva due dita in un gesto un po' confuso. Mi viene da chiedermi se queste stesse dita fossero incrociate quando era seduto sul banco dei testimoni. È passata quasi una settimana dalla macabra scoperta del corpo della Hall e le autorità non hanno ancora parlato di indizi. Per giorni Lenore e io abbiamo passato al setaccio i giornali, tutti gli articoli di tutti i giornali, nel timore che potessero aver fiutato le tracce della nostra presenza nell'appartamento quella notte, magari un vicino che stava portando fuori il cane, un insonne che si era alzato a far pipì e aveva scorto i nostri visi dalla fessura delle tendine del bagno. Ma è proprio vero quello che dicono: Dio protegge gli incoscienti. La nostra bravata sembra essere passata inosservata. Si è parlato molto e si sono fatte molte congetture, nessuna delle quali mi sorprende. Da quando i giornali hanno collegato il caso di Acosta e la vittima, la stampa pullula di teorie, tutte incentrate su chi avrebbe avuto da guadagnare dalla morte della donna. Finora il candidato più ovvio è il giudice. La polizia ha cercato di interrogare Acosta il giorno dopo l'omicidio. Mi hanno riferito che si è rifiutato di parlare e non ha prodotto alcun alibi. Potrei soffiare sul fuoco del giornalismo e far divampare un bell'incendio, sé solo rivelassi l'esistenza dell'appunto sul calendario della ragazza. Eppure, per quanto quell'uomo mi sia antipatico, e nonostante l'informazione che mi viene da quel calendario, trovo difficile credere che Acosta possa aver commesso un omicidio. «Perché ha riferito a Phil Mendel la nostra conversazione?» Gli faccio la domanda a bruciapelo. Di solito la sorpresa è la miglior strada per giungere alla verità. La domanda lo coglie in contropiede: solleva le sopracciglia, ma non si scompone. «Che permaloso», dice, ma non nega. Fa finta di grattarsi la testa mentre riflette. «Sembra sia al corrente di molte delle cose che ci siamo detti.» «Magari ha una sfera di cristallo», azzarda. «Phil è un cultore dell'occulto. Magia nera, il diavolo, tutte quelle stronzate.» Ride all'idea.
Phil è il diavolo, solo che Tony non lo sa. «Mi faccia pensare», dice. Non è molto turbato da questa accusa: se ne sta sdraiato sul divano, i piedi appoggiati a un cuscino. «Non ricordo di avergli parlato.» Se questo è un esempio della verità che ha raccontato davanti al gran giurì, Tony dovrebbe già fare le prove con l'uniforme da carcerato. «Phil ha un sacco di ottime fonti», aggiunge. «E poi, che male c'è? Il gran giurì sta cercando nei posti sbagliati. Come ho detto, se non c'è il reato, non c'è nemmeno il colpevole.» Sta cominciando a ripetersi. «È una questione di fiducia», gli dico. «Fiducia mia in lei.» A queste parole mi lancia un'occhiata, un sorriso furbetto, come se considerasse ridicola la mia indignazione. «È difficile mantenere una buona relazione tra avvocato e cliente, se una delle due parti racconta al mondo intero tutto quello di cui si discute.» «Un conto è parlare con Phil, un conto è raccontarlo al mondo intero», ribatte. Tony ha molto da imparare sulle ammissioni involontarie. A quanto pare, ne ha appena fatta un'altra. «Dove sta il problema?» «Tanto per cominciare, può servire ad annullare qualsiasi privilegio nel nostro rapporto.» Per la prima volta mi rivolge uno sguardo ottuso, come se non capisse. Allora glielo spiego. «Tutte le nostre conversazioni sono tutelate dal segreto professionale. L'accusa non può costringermi a ripetere quello che ci siamo detti.» Un'occhiata soddisfatta. Per lui va bene. «A meno che lei non lo abbia già raccontato a qualcun altro», aggiungo. «Allora possono fare pressioni e costringermi a rivelare tutto quello che mi ha detto.» «Ah.» Ora mi guarda con espressione seria, ma resta immobile. «Già. Ah.» Tony capisce dove voglio arrivare. Alcune delle informazioni che mi ha rivelato, per la maggior parte piccole indiscrezioni, potrebbero non essere sufficienti a farlo incriminare, ma basterebbero a farlo licenziare. Anche se c'è un abisso tra reato e comportamento indegno sul lavoro, questo abisso è abbastanza profondo da inghiottire la carriera di un poliziotto. «Certo, esiste sempre la possibilità che Phil fosse già a conoscenza delle cose che lei mi ha rivelato.» Tanto per parlar chiaro. A questo punto Tony tira giù le gambe e si mette a sedere, i piedi ben piantati sul pavimento,
un'espressione malvagia negli occhi, come solo lui sa fare. «E cioè?» «Zack Wiley. Questo nome le dice niente?» Dall'espressione capisco che gli dice qualcosa. «L'anno scorso, come lei sicuramente ricorda, l'agente Wiley è rimasto ucciso durante un blitz in una casa dove si spacciava crack. Mi hanno detto che c'era anche lei e che è stato proprio lei a trovare la pistola con la quale, si è appurato, l'agente è stato ucciso. Mi hanno detto anche che c'è stato un problema con quell'arma, qualche sospetto che quella pistola fosse già stata sequestrata dalla polizia, in quanto usata in un crimine precedente.» Arguillo mi rivolge uno sguardo vuoto, il tipo di sguardo che lampeggia come un neon e dice: guai in vista. È come se avesse esclamato: «Oh, merda!» Ma non c'è bisogno che lo dica. Glielo leggo negli occhi. «C'è qualcosa che non mi ha detto a proposito dell'interrogatorio di questa mattina?» «No, niente. Cose irrilevanti», dice. Segue una lunga pausa, sembra quasi di sentire l'odore di gomma bruciata mentre il suo cervello rievoca la testimonianza e alcune domande della mattina. Coleman Kline è più subdolo di quanto Tony possa immaginare. «Mi ha fatto domande su una rapina avvenuta nell'East Side tre anni fa, e mi ha chiesto se sono stato io a recarmi sul posto. Non ha niente in mano.» «Le piacerebbe.» «Non ha niente», ripete. «Ha risposto lei? Alla chiamata?» chiedo. «No, che io ricordi. È difficile ricordare fatti avvenuti tanto tempo fa. Riceviamo decine di chiamate ogni giorno. Sette, otto rapine in un mese. Se nessuno resta ferito, dopo un po' ti si confondono nella mente.» «È da lì che proveniva la pistola?» chiedo. Mi guarda con un'espressione ambigua, a metà tra l'ammissione e un «non lo so». «Come fa a sapere di quella pistola?» «Mezza città sa di quella pistola.» «Cosa sta cercando di dirmi?» «Sto cercando di dirle che l'inchiesta del gran giurì potrebbe proseguire ben oltre lo scopo iniziale, e spostarsi su un terreno molto più insidioso.» Come pronuncio queste parole, la fredda baldanza di Tony si scioglie come neve al sole.
7. Direi che ha da poco passato la cinquantina. Ha i capelli scuri e non è da buttar via, anche se il trucco è un po' sbavato in alcuni punti, segno, forse, che questa mattina si è preparata in fretta per venire qua. È ben vestita: tacchi alti, gonna scura e camicetta bianca sotto un blazer di seta, con un foulard in tinta attorno al collo. La fronte e le guance sono segnate da qualche ruga che, se dovessi fare una congettura, è il risultato di uno stress recente. Dalla sua presenza qui nel mio ufficio desumo che abbia qualche problema legale. Si chiama Lili. Il nome proprio è tutto quello che Lenore mi dice quando me la presenta. E, anche se nessuna delle due mi spiega il motivo della sua presenza, percepisco l'odore dell'affare: una cliente con tanti soldi, e un avvocato affamato di nome Goya. «Ho pensato che non ti sarebbe dispiaciuto se avessimo usato il tuo ufficio», dice Lenore. «Mi casa, su casa», le rispondo. Mi offro di andarmene, in modo che possano parlare in privato. Abbiamo discusso della possibilità di associarci, di utilizzare lo stesso ufficio, visto che Harry e io abbiamo una stanza vuota, anche se non arredata, in fondo al corridoio. Lenore vuole pensarci su prima di decidere. «Posso stare in biblioteca per un po'», le propongo. «Non è necessario», risponde Lenore. Sta bevendo caffè da un bicchiere di plastica, sul cui bordo ha lasciato l'impronta rosso rubino delle labbra. «Potresti darmi qualche consiglio.» Presumo si riferisca ad aspetti pratici che i procuratori non sono abituati a trattare, come onorari e costi. Ma sono comunque lusingato e faccio un gesto come per dire: «Io?» «Tutto quello che posso fare.» «Suo marito è qui?» Lenore si rivolge alla donna con tono professionale. «Sarà qui a momenti», risponde lei. «Doveva parcheggiare la macchina, ma non voleva arrivare in ritardo.» «Sono sicura che è un momento difficile per tutti e due», osserva Lenore. «Non può immaginare quanto», risponde la donna. «Mio marito è preoccupato per le ripercussioni che questa faccenda può avere sulla nostra famiglia, in special modo sulle nostre due figlie, nel caso venisse arrestato.»
«Minorenni?» chiede Lenore. «No, no. Sono sposate. Hanno già dei figli.» Fruga nella borsa e tira fuori il portafogli. Un attimo dopo ci mostra le fotografie di due bellezze dalla pelle e dagli occhi scuri, sui sei o sette anni, vestite con abitini della festa, con riccioli come nubi bitorzolute, che esibiscono un sorriso sdentato, tutto innocenza. «Questa è Gabriella», dice la donna di nome Lili, indicando con un dito dalla manicure perfetta. «È la pupilla del suo papà. Mio marito morirebbe se questa cosa la dovesse in qualche modo ferire... Tutte quelle orribili accuse e insinuazioni.» Parla in modo rapido e secco, le sillabe che rotolano con le consonanti marcate di una lingua romanza, il che mi fa pensare che l'inglese non sia la sua lingua madre. «Suo marito ha reso qualche dichiarazione alla polizia?» chiede Lenore. «No.» Scuote la testa. «Non ha detto niente a nessuno. Si rifiuta di parlarne persino con me. Ultimamente è molto depresso», spiega. «Sono molto preoccupata per lui.» «Pensa che potrebbe tentare qualche gesto disperato?» dice Lenore. Lili ci guarda come se la considerasse una cosa possibile. «Non gli direte che vi ho detto questo, vero?» dice. Lenore scuote la testa come per dire: «Noi? Mai». «Forse dovremmo cominciare dall'inizio.» Me ne sto lì, come il proverbiale uomo venuto da Marte, e mi chiedo se stiamo parlando di un assassinio a colpi di accetta o di un'accusa per atti di libidine su minorenni. La nobile professione del penalista. «Forse sarebbe meglio se aspettassimo il suo arrivo», dice Lenore. «Così non dovremo ripetere due volte le stesse cose.» Alzo le spalle. Il caso è suo. «Suo marito ha parlato con qualche altro avvocato?» chiede. «Non credo che abbia neppure preso in considerazione la cosa», dice Lili. «Quando ha scoperto che lei era disponibile, e che stava per associarsi con il signor Madriani, ha scelto immediatamente lei.» «Gentile da parte sua», commenta Lenore. Ora sono proprio curioso. Lili racconta che la polizia non ha detto niente, anche se è già andata due volte a casa loro alla ricerca di prove. «Avevano i mandati di perquisizione?» «Sì.» Lili annuisce. Su questo non ha dubbi. La donna sembra conoscere
la differenza tra un mandato di perquisizione e la lista della spesa. «La prima volta si sono portati via la sua auto. L'hanno fatta trainare da qualche parte», spiega, «e da allora non l'abbiamo più vista.» Sento movimenti in anticamera, la porta che si chiude, poi delle voci: quella della segretaria e un'altra, una voce baritonale, profonda e familiare. «Credo che mi stiano aspettando», dice l'uomo. È una voce che trasmette oscuri presentimenti, come un'onda di marea che avanza nel buio della notte. Un attimo prima che la porta del mio ufficio si apra, guardo Lenore con la coda dell'occhio. Mi sta osservando per vedere la mia reazione, un occhio nascosto dai capelli arruffati, l'altro colmo di timida apprensione, un'espressione come quella di Monna Lisa. La porta di mogano si spalanca e sulla soglia del mio ufficio compare Armando Acosta. È una situazione che ha dell'irreale, un incontro straordinario: neppure nei miei sogni più folli avrei mai immaginato che quest'uomo varcasse un giorno la mia soglia. I nostri occhi si incontrano per un brevissimo istante e poi lui distoglie lo sguardo. Lili fa gli onori di casa con Lenore e si occupa delle presentazioni mentre i due si stringono la mano. «Mio marito, il giudice Acosta. La signora Goya», dice. Tralascia il fatto che lui non siede più sullo scanno, essendo stato sospeso in attesa di disposizioni in merito all'accusa di istigazione alla prostituzione, ora complicata dalla morte dell'unica testimone dell'accusa. «Può chiamarmi Armando», le dice. Mi vengono in mente una decina di altri nomi, tutti irrispettosi ma decisamente più appropriati di quello scelto dai suoi genitori il giorno del battesimo. «Lenore», dice lei. Per un attimo penso che stia per baciarle la mano. Invece si limita a inchinarsi appena e a prendere la mano di lei, un gesto che risulta molto più galante di quanto immaginassi. Sono ancora inchiodato sulla mia poltrona dietro la scrivania, affascinato dalla scena, quando lui si rivolge a me. Temo che, se cercassi di alzarmi, le gambe mi cederebbero. «Avvocato.» Acosta è molto controllato. Mi rivolge un'espressione che non è esattamente un sorriso. È come se riuscisse a leggermi nella mente e sapesse che, al momento, in essa non c'è nulla che oserei pronunciare in presenza di testimoni.
Così me ne sto zitto e mi limito ad annuire. «Il signor Madriani e io ci conosciamo da molti anni», dice, rivolgendosi alla moglie. Potrei mostrarle le cicatrici che lo dimostrano. «È un piacere vederla», dice, mentendo, e mi porge la mano, che resta sospesa sopra la scrivania come un silenzioso e ripugnante turbine di vento. La lascia lì per parecchi secondi, cosicché, se sarà costretto a ritirarla, tutti gli occhi saranno puntati su di me. Segue un momento molto imbarazzante, come se fosse disposto ad aspettare fino al proverbiale momento in cui gli asini voleranno. Alla fine prendo la mano e la stringo. Devo aver fatto una faccia strana perché, quando sollevo lo sguardo, vedo Lenore che ride apertamente, tanto che Lili le chiede se per caso le è sfuggito qualcosa. A questo punto anche Acosta sta ridendo. «Il mio rapporto con il signor Madriani non è sempre stato... come dire... così cordiale», spiega. «Ti racconterò dopo.» Con un braccio le circonda le spalle e la conduce verso il piccolo divano che si trova nell'angolo opposto rispetto alla scrivania, dove si sistemano alle due estremità come fermalibri. Lenore sceglie una delle poltrone riservate ai clienti, esattamente di fronte a me. Restiamo a studiarci in silenzio per qualche momento. Non vedo Acosta da oltre un mese, ma nel frattempo sembra invecchiato di due anni. Dalla chiazza di calvizie in cima alla testa ora scende una cascata di bianco. Dagli angoli degli occhi si diramano rughe di preoccupazione come raggi da un sole che tramonta. La pelle gli penzola dalle guance come quella di un animale da preda che ha perso la capacità di cacciare. «Bene. Ora che ci siamo tutti», dice, «da dove cominciamo?» Guarda me e poi Lenore; infine si rende conto che stiamo aspettando lui. Nonostante l'aspetto smunto, non ha completamente perso il gusto per i gesti affettati. Ritira il braccio dalle spalle della moglie e giocherella con i gemelli di un polsino della camicia, poi si sfiora con le dita le tempie grigie per lisciare una ciocca di capelli fuori posto. Il solito narcisista. Lasciato solo in questo silenzio imbarazzante, Acosta si schiarisce la gola. «Molto bene», comincia. «Sono qui per assumere un legale. In merito alla morte di Brittany Hall.» Chiaramente, per lui non è facile trovarsi nei panni del supplice bisognoso. Mentre parla non guarda né me né Lenore, ma un punto a metà strada tra noi. «Normalmente non lo farei», gli dico, «ma forse dovremmo iniziare
chiedendole se ha commesso il fatto.» Mi rivolge uno sguardo perplesso: gli sembra strano che persino io possa essere così sgarbato o privo di tatto. «Ha ucciso lei Brittany Hall?» Spazzo via ogni dubbio. «Non risponda», suggerisce Lenore. Lili mi guarda come se volesse uccidermi. «Come può...» «È un po' brutale, non ti pare?» È una regola fondamentale: non chiedere mai. La risposta potrebbe non piacerti. C'è abbastanza tempo per la verità in seguito, dopo che Lenore avrà avuto modo di presentargli alcune linee di difesa e i fatti saranno meglio definiti dalla presentazione delle prove da parte dell'accusa. «Calmatevi», dice Acosta. Non sta guardando me, ma le due donne. Sembra essere l'unica persona che non si sia sentita offesa dalla mia domanda. Sua moglie, che a questo punto si è alzata dal divano con la borsa in mano, sembra sul punto di andarsene. «Non siamo venuti qui per essere insultati», esclama. Senza dubbio si sente ferita per aver mostrato le fotografie delle nipoti a un tipo come me. «Il signor Madriani ha il diritto di chiederlo», dice Acosta. Ma non dice se ho il diritto di sapere la verità. Ci vogliono qualche sforzo e parecchi secondi di persuasione per convincere Lili a sedersi nuovamente. Vuole andarsene. A quanto pare, qualsiasi avvocato che non creda ciecamente in suo marito non ha diritto alla sua fiducia. Potrebbe avere qualche difficoltà a trovare un altro legale. Lui riesce a convincerla a fare marcia indietro. «Lei ha una straordinaria vocazione per il caos, signor Madriani», dice Acosta. «A volte serve allo scopo», ribatto, e gli rivolgo uno sguardo gelido quanto quello che ricevo. «Ne sono sicuro.» Quando ci siamo tutti calmati, gli ricordo che non ho ancora ricevuto una risposta alla mia domanda. «E io ho consigliato al giudice di non rispondere», replica Lenore. «Non è né il momento, né il luogo.» «Questo consiglio presuppone che tra noi ci sia un rapporto», dice Acosta. «Avvocato-cliente?» chiede, inarcando un sopracciglio. Può anche essere depresso, giù di corda, ma non ha perso il suo acume di avvocato. «Non potete pretendere che risponda a una simile domanda, a meno
che...» «Si consideri rappresentato.» Prima che io possa dire una sola parola, Lenore abbocca in pieno. Questo provoca il lampo di un sorriso da parte di Nocedicocco: denti bianchissimi e regolari contro la carnagione scura, quel che potrebbe vedere un bagnante attaccato da uno squalo. Mi rovescia addosso questo sorriso come se volesse dirmi che anche lui spesso beneficia dei frutti del caos. Il mio calcolato attacco frontale ha prodotto il risultato sbagliato, e ha spinto Lenore a sbilanciarsi. «Dovresti prenderti un po' di tempo per rifletterci.» Cerco di tirarla indietro. «Ci sono molte cose che non sai.» «Mi fido del mio intuito.» Lenore mi lancia un'occhiata in cui c'è tutta la rabbia cui riesce a fare appello, concentrata in un unico sguardo letale, come per dire che se io ho il diritto di agire stupidamente, quel diritto ce l'ha pure lei. È un combattimento tra polli, e solo Nocedicocco può vincere. «Bene», dico. «E lei, avvocato?» Acosta rivolge tutta la sua attenzione su di me. «E tu?» ribadisce Lenore. «Quanto sei pagata?» le chiedo. «Vi faccio subito un assegno», si offre Acosta. «Volete un anticipo sull'onorario? Quanto?» In questo momento, chino con la penna in mano sul libretto degli assegni appoggiato all'angolo della mia scrivania, evoca in me, col suo aspetto tenebroso, tormentate immagini di Faust: il mio patto con il diavolo. «Un anticipo di settantacinquemila dollari», gli dico. «Come deposito. Saranno fatturati a duecentocinquanta l'ora, trecentocinquanta per le ore in tribunale. A testa», aggiungo. Lili trasale. Lenore spalanca gli occhi. Acosta non batte ciglio. «Affare fatto», dice. Ha più soldi di quanto potessi immaginare. Inizia a compilare l'assegno appoggiandosi sull'angolo della scrivania. Essendo stato io a spingere Lenore in questa faccenda, ora sono costretto a seguirla. «Con l'intesa che la signora Goya sia il dominus,» Le lancio un'occhiata come per dire: «Beccati questa». «E un'altra condizione», proseguo. Se riuscissi a pensare più in fretta, aggiungerei altri mille dollari. «Se scopro
che non ci viene detta la verità, noi abbandoniamo il caso», concludo. Lili si agita sul divano, ma Acosta la tiene saldamente per un braccio. «E ora risponda alla mia domanda», gli dico. L'espressione sul suo volto si fa improvvisamente fredda come il marmo. È come morto. Tutti i movimenti inutili cessano, è un momento della massima gravità. Si potrebbe perdere un intero continente nell'abisso dei suoi profondi occhi castani, uno sguardo penetrante come il puntamento di un missile sul bersaglio. «No, non l'ho uccisa io.» Come interpretazione di ciò che la giuria potrebbe vedere in tribunale, dovessimo mai arrivarci, non è male. Forse ci starebbe meglio un leggero tremolio della voce per guadagnarsi un po' di compassione, ma non manca di convinzione. «Ora che questo punto è chiarito», dice, «che cosa facciamo?» Di colpo capisco che davvero non ne ha idea. Un uomo che ha passato vent'anni nel mondo della legge, buona parte dei quali sullo scanno, non ha la minima idea di come impostare una difesa. Per prima cosa Lenore affronta la questione dell'alibi: c'è un cittadino onesto che possa testimoniare sui movimenti di Acosta all'ora del delitto? Questo è un problema, perché la polizia non ha ancora dato alcuna indicazione sull'ora presunta della morte della Hall. Acosta peggiora ulteriormente le cose affermando di aver passato la maggior parte del giorno e della sera da solo. Era depresso e così si è fermato con la macchina in una piazzola di servizio della superstrada lungo il fiume. Che cosa avesse in mente, non lo dice, ma l'espressione della moglie e lo sguardo che lancia a Lenore parlano chiaro. «Non l'ha vista nessuno?» chiede Lenore. «Non ha parlato con qualcuno?» «Non sarei stato una buona compagnia», risponde. «Volevo restare solo. Ero sconvolto.» Ci spiega che, dopo essere stato sospeso dall'attività per ordine della Corte suprema, la settimana precedente si era richiuso in se stesso. In un accesso di rabbia, quella mattina aveva licenziato l'avvocato che lo rappresentava nel procedimento per l'accusa di istigazione alla prostituzione. «Capisco», dice Lenore. «Però, durante tutto quel tempo, il giorno in cui è stata uccisa, e la sera, lei non ha parlato con nessuno, neppure per telefono? Non ha chiamato un amico? Non è andato in qualche posto in cui qualcuno potrebbe averla vista?»
Lui scuote la testa. «Ha acquistato qualcosa? Cibo, carburante? Forse c'è qualche negoziante che potrebbe ricordarsi di averla vista intorno all'ora della morte.» Un altro no con la testa. «A che ora è tornato a casa quella sera?» gli chiedo. «Non sono tornato. Sono rientrato a casa soltanto il pomeriggio seguente. Intorno alle due.» La moglie conferma questo triste fatto e ci spiega che era preoccupata da morire per la sua assenza. Interroghiamo Acosta sulle dichiarazioni che può aver fatto alla polizia dopo l'omicidio. Sfortunatamente non ci sa ripetere le parole esatte. Ci dice di aver fatto qualche commento ambiguo riguardo a un appunto sul calendario della Hall, in cui compare il suo nome. A queste parole, Lenore e io ci scambiamo un'occhiata. È l'appunto che ha visto lei quella notte. Secondo Acosta, a causa delle sue dichiarazioni confuse, ora la polizia sostiene che lui sapesse di questo appunto e che si trovasse là la sera dell'omicidio. È una regola della natura, ineluttabile come la legge di gravità: il desiderio di parlare quando ci si trova nei guai è sempre un errore. «È possibile che abbiano un altro indiziato?» È Lenore ad avanzare questa felice prospettiva. «Penso di no», risponde Acosta. «Come fa a esserne sicuro?» «Perché hanno convocato un gran giurì per raccogliere prove e io non sono stato chiamato a testimoniare.» Lenore lo guarda a bocca aperta. Non ci dice da dove provenga questa informazione, e noi non glielo chiediamo. Il palazzo di giustizia della contea di Capital fa più acqua di un branco di cani deboli di reni, e Acosta sa perfettamente dove ognuno di questi va ad alzare la zampa. «Un certo numero di miei conoscenti sono stati chiamati a testimoniare», ci spiega. «Però non so cosa gli sia stato chiesto, né cosa abbiano risposto sotto giuramento.» «Provi a immaginarlo», gli dico. Il gatto che gioca col topo. Solleva le spalle, china la testa di lato, come se tirasse a indovinare. «Se un procuratore dovesse fare la domanda giusta al testimone giusto...» Ora la sua faccia è simile a una prugna secca, tutta grinze intorno alla bocca, mentre si sforza di immaginare. «Uno di loro», dice, «potrebbe accennare a certe mie affermazioni avventate. Certi commenti intemperanti
fatti in un momento di rabbia.» Lascio che sia il mio silenzio ad affermare l'ovvio. «Ero sconvolto», dice. «E ho detto qualcosa.» «Tipo?» «Non ricordo le parole esatte. Posso... averla definita una bugiarda, forse qualcosa di peggio.» «Brittany Hall?» Annuisce. «Ero furibondo. Mi hanno incastrato.» «Chi?» «La polizia», risponde. La difesa di tutti i clienti beccati con una puttana: era una trappola. «Tutta la faccenda era una montatura», dice. «E lei era arrabbiato. L'ha definita una bugiarda. Che altro?» chiedo. Solleva gli occhi al cielo. La fermezza comincia a trasformarsi in ammissione. «Potrei aver detto qualcos'altro.» «Cosa?» È come cavargli un dente. «Forse... non so... potrei averle augurato di morire.» «Io penso che una cosa del genere dovrebbe ricordarsela», gli faccio notare. Acosta si stringe nelle spalle. «Ha detto a qualcuno che avrebbe voluto vederla morta?» «Potrei aver detto qualcosa del genere. Averla insultata e averle augurato di morire.» «Fantastico», dico io. «Riesce a ricordare le parole esatte?» «È così importante?» mi chiede. «Sì, se la polizia ha parlato con questo testimone.» Si avvicina due dita alla fronte, come il Grande Karnak che chiama a raccolta tutti i suoi poteri. «Credo di aver detto che la morte era troppo poco per quella puttana.» La traduzione libera di Nocedicocco per augurare la morte a qualcuno. «Magnifico. E questo augurio di morte, con chi l'avrebbe fatto?» «Lei deve capire», attacca. «Dopo l'arresto, nessuno di loro mi voleva più parlare. Mi passavano vicino come se fossi un fantasma. Persone con le quali avevo lavorato per vent'anni facevano finta di non conoscermi. La mattina seguente il mio cancelliere si è dato malato. Cose da non credere. Il mio cancelliere! E gli altri ridevano alle mie spalle...»
«Con chi ha fatto quelle affermazioni?» Deglutisce a fatica. Il pomo d'Adamo compie un mezzo salto mortale all'indietro dalla piattaforma dei dieci metri. «Oscar Nichols», dice alla fine. Nichols è il mio candidato numero uno al titolo di «Mister Simpatia». È il giudice preferito alla corte d'appello. Tutti gli avvocati lo adorano perché, come la prostituta del villaggio, accontenta tutti. È un afro-americano sui sessanta, calmo e pacato, prudente fino all'eccesso, che prende in considerazione ogni aspetto di ogni singola questione, così da risultare perennemente paralizzato dall'indecisione. Se fosse per lui, manipolerebbe ogni caso in modo che nessuno dovesse perdere. Non mi sorprende che sia stato Nichols a porgere ad Acosta la spalla su cui piangere in questo momento di difficoltà. Ma, anche stando così le cose, rimango senza fiato. Ho un cliente che conosce alla perfezione la legge e va a fare certe dichiarazioni a un giudice, dichiarazioni che ora possono essere interpretate come una minaccia di morte contro una testimone che è stata assassinata. «Era un mio amico», dice Acosta. L'enfasi è sul verbo al passato. «Non ha proprio nessun amico tra i criminali?» gli chiedo. Come finisco di pronunciare queste parole, me ne sono già pentito. L'espressione sul volto di Acosta in questo momento non è di rabbia o arroganza, è qualcosa che non ho mai visto prima. È lo sguardo smarrito dell'angoscia. È nella natura umana cercare di nascondere la nostra vulnerabilità a coloro che non ci piacciono o di cui non ci fidiamo, e tra me e il giudice c'è tutta una galassia di sospetti. In un mondo in cui la professione di una persona risulta intercambiabile con la sua identità, Acosta ora è considerato un lebbroso. Quest'uomo ha perso tutto, a parte la moglie e la libertà. La luce del mio interfono si mette a lampeggiare. Un attimo dopo squilla il telefono. Sollevo il ricevitore. «C'è un signore che vuole vederla.» «Chi è?» «Si chiama Leo Kerns. È un investigatore dell'ufficio del procuratore.» «Leo? E che cosa vuole?» «Dice che ha bisogno di parlarle.» «Vengo immediatamente.» Guardo Lenore. «Torno subito.» Poso la penna sul bloc-notes, vicino all'ultima annotazione sulla minaccia di morte di Nocedicocco. «Non per-
dermi il segno.» Mi alzo e lascio a Lenore il compito di continuare il colloquio. Forse porterà la conversazione su qualcosa di più leggero, per esempio la possibilità che Acosta venga radiato dall'albo. Nell'attimo in cui esco dall'ufficio, ho un oscuro presagio, una di quelle premonizioni che deve avere una lucertola prima di venir spiaccicata da una macchina in corsa. Leo mi ha teso una trappola. Fermi di fianco a lui, vicino al bancone dell'ingresso, ci sono altri due uomini vestiti in abiti civili, i capelli accuratamente tagliati e lisciati all'indietro, tutti azzimati, il tipo di gente che viene promossa alla squadra omicidi. Ne riconosco uno. «Paul.» Leo mi porge la mano e improvvisamente mi sento come un'anatra da richiamo. Uno dei due poliziotti fa un passo avanti. «Armando Acosta si trova nel suo ufficio? Mi hanno informato che si trova qui, in questo edificio», dice, senza neppure presentarsi. «Chi lo vuole sapere?» «Ho un mandato d'arresto per Armando Acosta.» Mi sbatte il foglio di carta in mano e mi passa davanti, diretto verso il corridoio. Quando arriva alla porta dell'ufficio non si ferma neppure per bussare: spalanca la porta ed entra. «Armando Acosta, lei è in arresto per l'omicidio di Brittany Hall. Ha il diritto di restare in silenzio. Tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei. Ha il diritto di richiedere un avvocato. Se non può permettersi un avvocato, gliene verrà nominato uno d'ufficio...» Quando finalmente ha terminato questa litania, il poliziotto sta già trascinando Acosta fuori della porta, le mani ammanettate dietro la schiena, tirandolo per un gomito. L'altro poliziotto lo raggiunge. Insieme lo trascinano giù per il corridoio, due forze opposte che non agiscono in sincronia. Lili sta piangendo, ferma sulla soglia del mio ufficio, con Lenore che la trattiene. Acosta mi guarda fisso con gli occhi spalancati, come se mi implorasse, non con le parole ma con lo sguardo che mi ricorda quello di un uomo che sta annegando. Vengono verso di me, lungo il corridoio, urtando contro le pareti. «Non dica nulla», lo ammonisco. «Parleremo in carcere.» Uno dei poliziotti mi spinge via, mandandomi a sbattere contro il muro. Il suo sguardo, mentre compie questo gesto, mi fa pensare che spintonare
un avvocato sia per lui non un lavoro, ma un piacere. Maltrattarmi mentre consiglio il mio assistito è un lavoro gradito. Passando davanti al bancone afferrano alcuni fogli e una fotografia e, come un tornado, si dirigono verso la porta. Acosta non sta opponendo resistenza, quanto cercando di mantenere l'equilibrio nel vortice creato dai due poliziotti. Leo resta lì, fermo, a guardarmi. Mi rivolge un sorriso mesto e una scrollata di spalle. Non capisco perché sia qui. Poi, all'improvviso, mi è chiaro. Leo lavora per il gran giurì, svolge incarichi per conto del suo capo, Coleman Kline, per la presentazione delle prove. Ho idea che il mandato di arresto per Acosta sia fresco di stampa. La firma è ancora umida. 8. La caratteristica più rilevante di Coleman Kline sono i penetranti occhi azzurri. Questa mattina mi perforano, come i raggi gemelli di un laser industriale. Sono seduto davanti a lui sulla poltroncina per i visitatori, all'altro capo della scrivania. Ci squadriamo, ci prendiamo le misure, separati da un chilometro quadrato di marmo. La superficie rosata della scrivania è fredda e sterile come quella delle lune di Giove. Non vi è posato un solo oggetto, a parte le mani intrecciate di Kline: un'immagine sinistra. Il suo ufficio ha un che di asettico: due pareti ad angolo occupate interamente da finestre senza tendaggi, le altre due di un bianco assoluto, decorate da un unico piccolo murale astratto che ricorda una macchia di Rorschach, ma a colori. «Lei è un amico di Lenore Goya», dice. Le sue parole non sono un'accusa, ma l'affermazione di un dato di fatto. «Lenore e io ci conosciamo da tempo», rispondo. «Dovrebbe stare attento a non lasciarsi tirare in un caso solo per ripicca», dice. «Specialmente per conto di qualcun altro.» Gli rivolgo uno sguardo interrogativo. «Non è un segreto che Lenore mi porta rancore. Forse è questo il motivo per cui ha deciso di difendere Acosta.» Alla fine della frase c'è una piccola inflessione per cui suona come una domanda. «Non lo sapevo.» L'ipocrisia diventa menzogna solo se l'altro viene ingannato. Sia Kline sia io sappiamo bene come stanno le cose. Sorride: un sorriso serio e tirato, un'espressione addolorata, come se avesse sperato che questo inizio potesse essere più genuino, basato sulla franchezza.
«Il rancore può portare fuori strada», insiste. «Accettare un caso per motivazioni sbagliate potrebbe essere un errore.» «Un po' come mescolare lavoro e piacere?» chiedo. Il pensiero non lo lascia indifferente, ma non accenna neppure un sorriso. Un contegno doc. «Lei compare ufficialmente in questo caso?» mi chiede. Alla chiamata in giudizio di Acosta si è presentata Lenore, che nell'occasione ha azzardato anche un tentativo di richiesta di libertà su cauzione, che è stata sommariamente negata. Glielo dico. «Quindi lei potrebbe anche riconsiderare il suo ruolo in questa vicenda.» «Che si tratti di me o di qualcun altro, il giudice avrà comunque una difesa molto agguerrita», gli dico. «È il caso tipico.» «Che tipo?» «Di grande visibilità», rispondo. Il baraccone dei media si sta già radunando. Qualcuno ha proposto di trasmettere il processo per televisione. Un giudice accusato di omicidio di primo grado non è cosa da tutti i giorni. Rimugina sulla definizione «di grande visibilità». Ha un'espressione grave. «Immagino sia così. Anche se è una vergogna.» «Cosa?» «Il genere di cose che attraggono l'opinione pubblica oggigiorno.» «Cosa? Uno scandalo a sfondo sessuale e un giudice caduto in disgrazia?» «Esattamente.» La vita tra i giornali scandalistici. È offeso. «È una storia vecchia». gli dico. Mi guarda. «Davide e Betsabea.» «Armando Acosta non è esattamente un uomo di proporzioni bibliche», ribatte. Finalmente un punto su cui siamo d'accordo. «Tutto questo è molto interessante», dice, «ma, visto che ha richiesto questo incontro, immagino abbia in mente qualcosa.» «La cauzione», rispondo. «Pensavo che forse avremmo potuto trovare un accordo ed evitare una polemica in tribunale.» Dalla sua espressione capisco che non è sorpreso, ma mi espone comunque tutte le sue obiezioni. «È un reato che prevede la pena capitale, avvocato. Ci sono le circostanze particolari, l'omicidio di una testimone di un altro episodio criminoso.» «Il tribunale ha una certa discrezionalità», gli dico.
«E ha scelto di non esercitarla.» «Si riferisce alla chiamata in giudizio?» Lui annuisce. «Un'esposizione sommaria. Non è stata presentata alcuna vera prova.» Fa ruotare la poltroncina e prende un libro da uno scaffale alle sue spalle, scegliendolo da un gruppo accuratamente allineato e tenuto a posto da due fermalibri. Dà un'occhiata veloce all'indice e fa scorrere le pagine tra le dita. «Cito testualmente», attacca poi. «Codice Penale. Sezione 1270, articolo 5: un imputato accusato di un crimine grave punibile con la pena di morte non può ottenere la libertà su cauzione se la prova della sua colpevolezza è evidente o se la presunzione della sua colpevolezza è grave.» Richiude il libro con un colpo secco. «Non lo è», ribatto. «Come fa a dirlo, se non ha visto le prove?» Mi ha fregato. Il frutto della nostra prima istanza di esibizione delle prove è arrivato solo questa mattina e giace sulla mia scrivania in attesa che io lo esamini. «A prescindere dall'opinione che lei ha del signor Acosta, è un uomo molto ben inserito nella comunità e non c'è pericolo che tenti la fuga, nonostante le voci incontrollate sulla stampa. Ha una famiglia, una reputazione...» «Sì, gliela raccomando, la reputazione», mi interrompe Kline. Touché. «Non penserà seriamente che abbia intenzione di fuggire?» «È già successo. Ma lasciamo per un attimo da parte le mie opinioni a proposito del suo cliente, e la possibilità che la corte possa prendere in considerazione la libertà su cauzione nel caso noi non ci opponessimo. Mettiamole da parte. Solo per un attimo.» C'è in arrivo qualcosa. Sinistre premonizioni. Kline mi osserva come se fossi un insetto esposto in una bacheca. «Un attimo fa», mi dice, «lei ha parlato di un accordo.» «Io?» «Sì. Ha detto che forse potevamo addivenire a un qualche accordo.» I suoi occhi si fanno rotondi e curiosi. «Era solo un modo di dire», gli spiego. «Ah. Quindi voi non intendete offrire niente in cambio?» Ci siamo arrivati. Il mercanteggiamento di Ali Babà, la casba della giustizia secondo Coleman Kline.
«Stavo solo controllando. Volevo essere sicuro di aver capito bene», puntualizza. «E che cosa potremmo offrire? Di sicuro il nostro cliente non si dichiarerà colpevole per avere una riduzione di pena.» Kline scuote la testa e fa un gesto con le mani aperte e quasi abbassate sulla scrivania, come per dire che questa era l'ultima cosa che gli passava per la mente. «Quantunque», dice, prima ancora che le sue mani si siano posate sul ripiano, «il suo cliente non sia stato molto collaborativo. Si è rifiutato di parlare, quando la polizia ha cercato di interrogarlo.» «Be', ci scusiamo per l'affronto», dico, «ma sono sicuro che i poliziotti non sono rimasti stupiti dal suo silenzio.» «Forse no. Ma normalmente un uomo innocente dovrebbe essere impaziente di discolparsi.» «Ah, dunque lei è convinto che possa essere prosciolto?» «Avrebbe anche potuto esserlo, se avesse parlato con noi. Come possiamo venire a conoscenza di tutti i fatti, se il suo cliente non collabora?» «Spero che vi siate presi la briga di spiegarlo per bene al gran giurì.» I suoi occhi diventano due fessure. «Non sono io quello che è venuto a chiedere la libertà su cauzione», dice. «Giusto», ammetto. «E quale sarebbe, esattamente, quell'informazione che la polizia voleva e che avrebbe potuto scagionare il mio cliente?» Si appoggia allo schienale della poltroncina, le mani congiunte sotto il mento. «Tanto per cominciare», dice, «sapere dove lui si trovava quando Brittany Hall è stata uccisa.» Vuole sapere se abbiamo un alibi. Dirgli che non lo abbiamo sarebbe come tagliarci le palle da soli. È proprio quello che non può ottenere con un'istanza di esibizione delle prove, in quanto si configura come prova testimoniale del nostro cliente. Kline ha più faccia tosta di quanto pensassi. «Per saperlo», rispondo, «dovremmo essere a conoscenza dell'ora esatta della morte.» «Ah», fa lui, sorridendo. «Qui sta il problema.» «Come mai?» «Per il momento siamo in grado di stabilirla solo con una certa approssimazione.» «Quanta?» «Tra le cinque e le sei ore.»
«Un'approssimazione cosmica», gli faccio notare. «Ci stiamo lavorando.» Ci credo. A meno che la Hall non sia stata vista ancora viva da un testimone o abbia parlato con qualcuno entro un lasso di tempo abbastanza breve precedente il ritrovamento del suo cadavere, l'ora della morte è basata solo su congetture, una gara di testimonianze giurate: la parola dei loro esperti contro quella dei nostri. «E comunque», prosegue, «suppongo che, se aveste un alibi di ferro, a quest'ora ce lo avreste già comunicato.» È una buona supposizione, ma lui preferirebbe che fosse una certezza. «Come suggerisce l'assonanza», gli dico, «talvolta le supposizioni hanno la brutta abitudine di trasformarsi in supposte.» In mancanza di un alibi, la tattica migliore è quella di continuare a tenere Kline nell'incertezza. Gli investigatori occupati a escludere la possibilità di un alibi non hanno tempo di fare altri danni. «Sembra proprio che non ci siano le basi per un accomodamento», dice. Non c'è astio nelle sue parole, solo l'affermazione della dura realtà. «Essendo un crimine per il quale è prevista anche la pena di morte, dobbiamo presumere che per il suo cliente esista un rischio di fuga. E che rappresenti sicuramente un pericolo per la società», conclude. «In tutta coscienza, non potrei appoggiare una domanda di libertà su cauzione.» Faccio per dire qualcosa, ma lui mi interrompe. «È stato un piacere», dice. È già in piedi, e mi sta accompagnando alla porta. «Lei dovrebbe seriamente riconsiderare la sua posizione in questo caso», mi dice ancora. «Se non altro accertarsi delle vere motivazioni della signora Goya.» All'improvviso mi trovo la sua mano dentro la mia, che mi saluta, più morbida di quanto avrei mai immaginato. La porta dell'ufficio si richiude colpendomi letteralmente sul sedere. Rimango con la convinzione che Coleman Kline non è quel sempliciotto che mi avevano fatto credere. «È arrabbiato perché il suo ego ha avuto la meglio sul suo cervello», dice Lenore. Liquida così l'affermazione di Kline che lei si voglia vendicare. È ferma sulla soglia della mia cucina, le mani sui fianchi. I capelli scuri e folti le sfiorano le spalle, il bianco degli occhi spicca sulla carnagione scura. Quando è arrabbiata, Lenore riesce a essere al tempo stesso minacciosa e seducente.
«Pensaci», dice. «Era disposto a occuparsi personalmente del caso Acosta quando c'era in ballo un'accusa meno grave, che comportava rischi minori in tribunale e faceva comunque scena. E ora, se non vuole perdere la faccia in ufficio, è costretto a sostenere l'accusa di omicidio.» Lenore mi racconta che almeno tre sostituti di Kline, persone che lavoravano già lì prima del cambio di regime, stanno pensando di correre contro di lui alle prossime elezioni. Si tratta di funzionari pubblici che, per tutelare il proprio posto di lavoro, devono andare in giro più bardati di un cavaliere medievale. Per Kline, fare marcia indietro sul caso di omicidio lasciando che se ne occupi un subordinato sarebbe come ammettere di non essere all'altezza del compito. Lenore entra un attimo in cucina per prendere la brocca del caffè dal bancone e torna in soggiorno a riempire le tazze. «Inoltre», aggiunge, «Kline direbbe qualsiasi cosa pur di sputtanarmi.» Ovviamente, niente di tutto questo risponde alle accuse che la sua decisione di rappresentare Acosta sia basata su motivazioni tutte sbagliate. Il caso di Acosta sta assumendo tutti i connotati di un duello medievale. Questa sera siamo radunati intorno al tavolo nel mio soggiorno - Lenore, Harry e io - per una cena di lavoro che si è appena conclusa. Stiamo assaggiando vari liquori con il caffè. Harry vuole sapere se verrà pagato, anche se domani non ricorderà più i particolari di quanto è stato detto. Ha lasciato perdere il caffè e ora alterna crema di menta e Kahlua, entrambi lisci. Sarah sta giocando con le due figlie di Lenore, undici e dieci anni, due bambine che lei idolatra. Ha raggiunto quell'età in cui tutto il lessico si riduce a una sola parola: «forte». Le bambine sono scomparse in camera di Sarah, al piano di sopra, come se fossero morte e volate in paradiso. Le uniche prove della loro esistenza sono il rumore di passi e le risate che ci giungono da sopra ogni tanto. Da quando mia moglie Nikki è morta di cancro, quasi due anni fa, ho cercato di passare più tempo possibile con Sarah, dividendo la mia vita tra lei e quell'amante tiranna che è la legge. Non è stato facile. Ci sono state crisi di pianto e scenate, da entrambe le parti. Come padre è stato sempre facile fare la parte del buono, dopo Nikki. Era lei che rappresentava la legge in casa nostra. Amava tantissimo nostra figlia. Ed era proprio per questo amore che si atteneva a standard ben precisi, mentre io cedevo sempre. Ora devo rivestire entrambi i ruoli del genitore arrendevole e di quello severo. Su quest'ultimo, l'opinione di Sarah è che sua madre sarebbe stata sempre e invariabilmente meno intransigente.
Ora ho molto più rispetto per i genitori single e per le pressioni cui vengono sottoposti. Davanti a noi, sul tavolo, ci sono pile di cartelline gialle, fascicoli legali con etichetta dai quali sfuggono fasci di fogli. Harry ha passato l'intero pomeriggio a organizzare e assimilare i primi elementi probatori del caso Acosta, per la maggior parte rapporti della polizia e appunti sulle indagini. La prima cosa che mi salta agli occhi è che alcuni di questi documenti sono firmati da un altro mio cliente, Tony Arguillo. «Ti preoccupa la possibilità di un conflitto d'interessi?» mi chiede Harry. È una regola fondamentale del diritto che un avvocato non può rappresentare due clienti i cui interessi siano in contrasto. Il timore, in questo caso, è che Tony - dovesse mai testimoniare contro Acosta - possa venir messo in difficoltà da me grazie a informazioni confidenziali acquisite in quanto suo legale, qualcosa che possa screditarlo sul banco dei testimoni, per esempio la mia conoscenza di un reato o di qualche irregolarità da lui commessi. È una delle ragioni per cui i penalisti, di solito, non rappresentano volentieri i poliziotti. «Tony ti ha detto qualcosa che possa comprometterlo?» chiede Lenore. «Se anche lo avesse fatto, non potrei dirtelo», le faccio notare. In realtà non l'ha fatto. Probabilmente sono l'unica persona con cui non si è confidato. Lenore intuisce che si tratta soltanto di un problema teorico. «Possiamo evitarlo trovando un altro avvocato per Tony. Un sostituto. Inoltre, la parte di inchiesta del gran giurì che riguarda lui è conclusa.» Il fatto che lei sappia che lui ha testimoniato è già di per sé una violazione del segreto. «Arguillo non paga. Acosta sì», sentenzia Harry, pragmatico come sempre. «È un fatto. Preparerò un atto di consenso per la sostituzione del rappresentante legale. Conosco un fesso che lo accetterà.» Quello che Harry intende dire è «un altro fesso». «Purché sia tutto regolare», faccio io. «E tu?» Sto guardando Lenore. «Io cosa?» risponde. «Io non rappresentavo Tony.» «No, ma hai parlato con la Hall.» «Ti riferisci al colloquio nel mio ufficio?» «Esatto.» «Non era una cliente.» «È vero, ma sei venuta a conoscenza di informazioni in possesso dell'accusa nel caso Acosta.»
«Si trattava di un'accusa di istigazione alla prostituzione. Ora stiamo parlando di omicidio. È un caso diverso.» «Non pensi che Kline cercherà di collegarli?» le dico. «L'accusa di istigazione alla prostituzione ha portato all'omicidio. Il procuratore lo userà come movente.» «Anche se fosse, con l'istanza di esibizione delle prove acquisiremo tutti gli elementi in loro possesso.» «Tutti tranne il frutto del lavoro svolto da un sostituto», le faccio notare. «I tuoi appunti.» «Non c'era niente di importante. Io non sono mai stata al corrente della strategia dell'accusa in questo caso. Credi davvero che Kline si sarebbe confidato con me?» «Sta' sicura che tirerà fuori la cosa.» «Sì, insieme alla Magna Charta e alla Dichiarazione d'Indipendenza. Ma questo non significa che sia rilevante.» «Io ti ho avvisato.» «Preoccupatene quando ci arriveremo», dice. Lenore non è il tipo che si fa venire l'ulcera crucciandosi per i problemi futuri. Non è come me. «Allora cosa abbiamo?» chiedo a Harry. Sta scartabellando tra i fogli, per lo più appunti suoi scarabocchiati su fogli gialli. «Due scene del delitto», dice. «Il vicolo in cui hanno trovato il corpo e l'appartamento della vittima. Pensano sia lì che l'omicidio è stato commesso. Hanno passato al setaccio tutto l'appartamento alla ricerca di impronte digitali. Senza risultato, per il momento. Speriamo che Nocedicocco abbia avuto il buon gusto di indossare un paio di guanti.» Lenore lo guarda male, esasperata. E non ha tutti i torti. Se abbiamo intenzione di prendere i suoi soldi, dovremmo almeno far finta di credere alla sua innocenza. «Scusate», dice Harry. Proseguiamo. «Peli e fibre. I peli sono ruvidi e rossicci. Secondo il rapporto non sono umani. Sono stati trovati nell'appartamento della ragazza e sulla coperta in cui era stata avvolta la vittima. Probabilmente Armando stava perdendo il pelo. C'è la luna piena», conclude Harry. «Merda!» esclama Lenore. «Ci sono dei bambini», l'ammonisce lui. «Lo so. Ce n'ho uno davanti.» Lenore fissa Harry con uno sguardo duro
e gli toglie la bottiglia di Kahlua da davanti. Per farlo è costretta ad allungarsi sopra la tavola. Becco Harry che allunga l'occhio fin dove può. La società Madriani, Hinds e Goya potrebbe avere una navigazione non del tutto serena. «Forse la Hall possedeva un cane o un gatto?» azzarda Lenore. «Secondo i vicini, no», risponde Harry. «Non hanno mai visto un animale in quell'appartamento.» «Era avvolta in una coperta?» chiedo. Torniamo alle cose importanti. «Ora ci arrivo», risponde Harry. «Sulla coperta sono state trovate anche fibre di moquette blu. Di origine sconosciuta.» «E di che colore era la moquette nel suo appartamento?» Spero che Lenore abbia sufficiente presenza di spirito da non rispondere. Harry non sa della nostra piccola spedizione a casa della Hall, quella sera. Abbiamo deciso di dirlo solo se fosse strettamente necessario. E non è affatto necessario che Harry lo sappia. «Bzzz», fa Harry. L'idea è quella dell'effetto sonoro del pulsante di un quiz televisivo. Sono questi i problemi che nascono quando si fanno le riunioni fuori ufficio, dopo una cena. «La risposta è: color malva», prosegue. «Non è ancora arrivato il rapporto del laboratorio, ma la mia ipotesi è che le fibre siano di un tipo di nylon poco costoso. Credo stiano pensando al rivestimento di un bagagliaio. Della macchina dell'esecutore.» «Sappiamo di che colore è la moquette della macchina di Acosta?» chiede Lenore. «Quella che hanno sequestrato?» Harry scuote la testa. «Fatti un appunto di chiederlo ad Acosta», gli dice Lenore. «E che cosa sono, una fottuta segretaria?» Lenore allunga un braccio e afferra la bottiglia. Harry lancia un'altra sbirciatina. Quest'uomo vuole proprio morire. Quello che vede gli deve piacere molto. Prende nota e passa al punto successivo. «Hanno trovato anche un paio di occhiali da lettura rotti, con la montatura piegata. Nell'appartamento della ragazza», dice. «Montatura in metallo. A lunetta. Una lente era rotta, come se qualcuno l'avesse calpestata.» «La Hall portava gli occhiali?» chiedo. È un'ipotesi geniale, che l'assassino abbia perso un paio di occhiali. «Non quando ha letto la dichiarazione nel mio ufficio quel pomeriggio», risponde Lenore. «Però poteva anche avere le lenti a contatto, e tenere gli occhiali nella borsa.»
«Il rapporto della polizia dice se sono da uomo o da donna?» «Aspetta che guardo.» Harry fruga in una pila di fogli, come un porcellino d'India intento a rosicchiare un vecchio numero del Tribune messo sul fondo della gabbietta. «Questo no. Questo neppure.» Un'altra pagina vola via. «Eccolo qui.» Per qualche secondo lo legge in silenzio. «No. Qui dice solo: 'Chieste fotografie e date istruzioni alla scientifica di raccogliere un paio di occhiali rotti trovati sul pavimento nel soggiorno dell'appartamento della vittima. Sembrano essere lenti graduate. Gli occhiali mostravano la montatura in metallo piegata e una lente rotta. Forse danneggiati durante la colluttazione con l'assalitore'.» Harry si stringe nelle spalle. «Tutto qui.» È un colpo basso, se ci fermiamo a riflettere sulle possibilità, e così evitiamo di fare congetture su quella che potrebbe rivelarsi la più dannosa. «Potrebbe anche non essere niente di importante», dice Lenore. Harry e io la guardiamo, ma è Harry che prende l'iniziativa. «Acosta porta gli occhiali.» C'è un momento di grave silenzio mentre consideriamo le varie implicazioni. «Non possiamo dare per scontato che il nostro cliente ci dica la verità», dice lui. «Una cosa è certa: la polizia controllerà la prescrizione di Acosta per vedere se collima con le lenti.» Gli occhiali sono una di quelle prove che i procuratori adorano. Se dovessero corrispondere a quelli di Acosta, i poliziotti sfrutteranno la cosa fino in fondo. In caso contrario, cercheranno di farla passare sotto silenzio, un oggetto di secondaria importanza lasciato nell'appartamento della donna da qualcuno e poi finirò a terra durante la colluttazione, mentre noi insisteremo con la giuria che sono una prova a discarico, lasciata lì dal vero assassino. «Tanto per essere sicuri», dico, «procuriamoci la prescrizione di Acosta.» «Forse sua moglie ce l'ha», propone Harry, «oppure può indicarci il suo ottico.» «Possiamo chiederlo a lui domani, se ha perso un paio di occhiali», obietta Lenore. «Visto che lo vediamo al carcere.» «Facciamo come ho detto io. Sua moglie dovrebbe conoscere il nome dell'ottico.» In queste cose, Harry non si fida dei clienti. È colpa della natura della sua professione e, in questo caso, forse anche dell'opinione che
Harry ha del nostro cliente. Per il momento lasciamo perdere. «Qualcos'altro dall'appartamento della ragazza?» chiedo. «La scientifica ha trovato una traccia, una quantità microscopica di metalli preziosi...» Mentre parla, Harry sfoglia le pagine per trovare l'appunto. «Eccolo qui. Piccole quantità di oro sull'angolo del tavolino di metallo», dice. «Tracce.» «Da dove pensano che provengano?» chiedo. «Nel rapporto si ipotizza che possano essere il risultato dello sfregamento di un gioiello indossato dall'assalitore. Un orologio, un braccialetto, qualcosa del genere», prosegue Harry. Si stringe nelle spalle. Lenore mi sta guardando e so che tutti e due pensiamo la stessa cosa. Non si fa menzione del piccolo oggetto d'oro che abbiamo intravisto quella sera, l'oggetto luccicante nascosto tra il terriccio sparso sul pavimento dell'appartamento della Hall. E così ora non ci resta che chiederci che cosa fosse, come sia arrivato lì, e, cosa ancora più importante, che fine abbia fatto. «A parte questo non c'è molto», prosegue Harry. «Appunti preliminari. È stato trovato del sangue, ma non è ancora stato tipizzato. Si pensa che l'arma del delitto sia un oggetto contundente, vista l'estensione della ferita alla testa. Non è stato rinvenuto sulla scena del delitto.» Lenore e io ci scambiamo un'occhiata d'intesa. Entrambi avevamo dato per scontato che la ragazza avesse battuto la testa contro lo spigolo di metallo del tavolino in seguito a una caduta. Ora ci troviamo davanti al sospetto che possa essersi trattato d'altro. «C'è qualcosa sulle condizioni del cadavere?» chiede Lenore. Harry riparte alla ricerca di altri appunti. Finalmente trova quello che stava cercando. «Il suo abbigliamento non lasciava molto all'immaginazione. Un paio di mutandine di nylon bianche e un top di cotone. E poi la coperta in cui l'assassino l'ha avvolta. Ah», aggiunge, «aveva anche un grosso asciugamano avvolto intorno alla testa.» Guardo Lenore. «Forse per impedire che il sangue sporcasse l'interno della macchina dell'assassino», dice lei. «Per quello c'era già la coperta», ribatto io. Lei mi guarda e si stringe nelle spalle. «Il rapporto parla di abrasioni sulla gola della vittima. Probabilmente il
risultato di una colluttazione molto violenta che ha portato alla morte, secondo la polizia.» «Hanno fatto il test per vedere se ha subito violenza?» chiede Lenore. Harry cerca il rapporto, lo trova, e lo sfoglia per arrivare al punto. «Sì. Eccolo qui. Secondo il rapporto, la scientifica l'ha fatto, ma non ha trovato nulla.» «Che cosa significa? Risultato negativo?» chiedo. «Non necessariamente. Le istruzioni standard del nostro ufficio», mi spiega Lenore, «sono di rivelare solo le informazioni essenziali che compaiono nei primi rapporti, ma niente di più. Quindi ti diranno che hanno fatto il test, ma non quello che hanno trovato.» «Supponevo che le indagini mirassero al vero e al giusto», dice Harry. «Sì, ma al giusto per noi», ribatte lei. In questo Stato c'è una lunga tradizione di esibizione obbligatoria delle prove: un tempo funzionava a senso unico, con l'accusa costretta a trasmettere tutte le informazioni in suo possesso alla difesa, ma ora il vento è girato e recenti disposizioni di legge impongono l'esibizione delle prove a entrambe le parti. I poliziotti sono bravissimi a nascondere la palla, mentre noi abbiamo ancora tanto da imparare. «Tracce di sperma nel corpo della vittima sarebbero una prova importante», dico. «Specialmente se l'assassino fosse un secretore.» Questo potrebbe portare a una tipizzazione del sangue, o, ancora meglio, a un confronto del DNA. Ma Harry continua a essere tormentato da un altro, ovvio interrogativo, di cui Lenore e io abbiamo discusso quella notte dopo esserci allontanati dall'appartamento di Lenore. «Perché l'assassino avrebbe spostato il corpo? Sembra un rischio eccessivo», dice. Non esiste una sola risposta razionale. D'altra parte, l'omicidio non è un gesto razionale. Il fatto che chi lo commette possa agire in maniera irrazionale è la regola, non l'eccezione. Per questo un così alto numero di assassini viene beccato. Ma Harry non è convinto. «Gli occhiali, li posso capire», dice. «La gente si fa prendere dal panico, lascia cadere le cose. È il biglietto da visita dell'assassino sulla scena del delitto. Ma prendere un cadavere e spostarlo... lo potrei capire se la casa fosse quella dell'assassino: spostare il corpo, ripulire il sangue... ma è l'appartamento della vittima. Non c'è alcuna prova che vivesse con qualcuno, a
parte la figlia. Per lo meno, nei rapporti non si parla di alcun convivente.» È una di quelle cose imponderabili. Lenore scuote la testa. «E se il corpo l'avesse spostato qualcun altro?» propongo. «È pazzesco», risponde lei. «Non ha senso. Perché mai qualcuno avrebbe fatto una cosa simile?» Arriccio il naso. Mi arrendo. Non ho una risposta migliore. Prendo mentalmente nota di controllare se possiamo riuscire a sfruttare a nostro vantaggio questo gesto pazzesco di spostare il corpo. «Parlami un po' della figlia», dico. «Una bambina piccola», dice Harry. «Cinque o sei anni.» Non ricorda esattamente, e così riprende a sfogliare la pila di carte. «Eccola qui. Cinque anni. Si chiama Kimberly.» «Dove si trovava quella sera?» chiedo. «Si trovava là», risponde Harry. Lo sguardo di Lenore incontra il mio come un metallo attratto da una calamita. È la prima volta che lo sentiamo dire. I giornali e la televisione non hanno fatto alcun accenno alla bambina. Evidentemente la polizia ha cercato di proteggerla. «Ha visto qualcosa?» A questo punto sto balbettando. «Il rapporto non è chiaro», dice Harry. «Dove si trovava esattamente, nell'appartamento?» A letto non c'era, quando ho guardato, ma questo non posso dirlo a Harry. «La polizia l'ha trovata in un ripostiglio nel corridoio. Nascosta sul fondo.» La porta che era socchiusa, quella dentro alla quale ho sbirciato. Lenore è una maschera di sudore ghiacciato. Il suo sguardo incrocia il mio e non lo molla. «Dobbiamo scoprire che cosa ha visto. Fatti dare un'ingiunzione specifica per questo», gli dico. «Dobbiamo appurarlo appena possibile.» «Testimoni?» chiede Lenore, «Qualcuno dei vicini ha visto o sentito qualcosa?» «C'è una dichiarazione della vicina del piano di sopra. Intorno alle sette e mezzo ha udito qualcosa che poteva essere un urlo.» «Questo potrebbe servire a stabilire l'ora della morte», gli faccio notare. «Vedi se ci viene comodo.» «Altro?» Lenore intende dire se ci sono altri testimoni. «Non quella sera.» «Cosa vorresti dire?» chiedo.
«Una vicina ha detto di aver sentito una violenta discussione provenire dall'appartamento della Hall un paio di settimane prima. Un sacco di rumore. Voci concitate, di cui una maschile», ci spiega Harry. «E il giorno dopo la Hall è uscita di casa con un occhio nero.» «Si sa di chi potesse essere quella voce maschile?» Harry scuote la testa. «Se la polizia lo sa, sul rapporto non l'ha scritto.» «Controlla con i vicini», gli dico. «E i tizi che hanno trovato il corpo? Quelli che stavano nel vicolo?» «Vagabondi. Tutti e tre. Abbiamo i nomi. Per quanto riguarda gli indirizzi...» Harry si stringe nelle spalle. «Grand Hotel del Cassonetto.» «Come facciamo a trovarli, se vogliamo interrogarli?» «Bella domanda», dice Harry. «E se provassimo a bussare sul coperchio?» «Qualche numero di patente?» «Stai scherzando?» «E va bene. Cosa dicono, nel rapporto?» Harry unisce pollice e indice a formare un grosso zero. «Nessuna dichiarazione?» «Nada. Solo i nomi e un'annotazione del primo agente arrivato sul posto, in cui si dice che hanno trovato il corpo in un cassonetto.» Harry mi guarda. Stiamo pensando la stessa cosa, e cioè che questo lascia un sacco di spazio a indagini creative. In mancanza di una dichiarazione precisa, questi testimoni sono aperti ai suggerimenti, alle sottili - e anche meno sottili - sfumature del ricordo. Se i testimoni hanno precedenti, potrebbero essere soggetti a pressioni da parte della polizia perché abbelliscano la loro testimonianza; potrebbero venir loro suggerite cose che in realtà non hanno visto, come, per esempio, il tipo di macchina da cui è stato scaricato il corpo o l'aspetto della persona che la guidava. «Abbiamo bisogno di un'istanza specifica da presentare domani mattina», dico a Harry, «in cui si chiedono tutte le dichiarazioni scritte fatte dai testimoni e, in particolare, quelle dei tre individui nominati qui. Dovrebbero averle.» «Probabilmente tengono i testimoni a portata di mano.» Intende dire in galera. «Come siete cinici», ci interrompe Lenore. «Cosa? Dalla signora del 'giusto per noi'?» ribatte Harry. «Sei pronta a scommettere che non li hanno messi dentro sulla base di qualche accusa inventata sul momento? Vagabondaggio, o magari qualche reato federale
del tipo 'defecare in un cestino della spazzatura'? La polizia sa benissimo che, se li lascia andare, questi saltano sul primo treno di carbone per Poughkeepsie.» «Scopri se li tengono sotto chiave. Se sì, voglio un colloquio in modo da poter raccogliere le loro dichiarazioni.» Harry prende nota. «Già che ci siamo, fatti dare la trascrizione di tutte le comunicazioni via computer partite dalle autopattuglie quella sera e tutte le copie delle trasmissioni via radio. E poi richiedi l'elenco delle telefonate fatte dalla vittima negli ultimi tre mesi. Vediamo un po' con chi parlava.» Le bambine cominciano a diventare irrequiete, si sentono passi rumorosi e un sacco di risate. Stiamo per perdere anche ogni parvenza di tranquillità. «Qualcos'altro nei loro appunti e rapporti?» chiedo. «Solo una cosa», dice Harry. «La polizia dà per scontato che la Hall conoscesse l'assassino.» «Come mai?» «Non c'è traccia di scasso», spiega Harry. «Secondo i loro rapporti, deve avergli aperto lei la porta. La polizia ha dovuto trovare il padrone di casa per poter entrare nell'appartamento.» Gli rivolgo un'occhiata ebete proprio mentre Sarah arriva da me, mi butta le braccia al collo e mi riempie di baci. Il tavolo da pranzo si trasforma istantaneamente in un centro di attrazione, come un albero di maggio in primavera, con tre ragazzine che vi girano intorno ballando e cantando. Lenore afferra una delle figlie per le mani e si unisce al coro: Giro girotondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra. Me ne resto lì seduto con un'aria da scemo. Anche se non posso vedermi, in questo momento la mia espressione dev'essere come quella di un ragazzino che ha appena ricevuto un pugno a tradimento nelle parti basse. Osservo Lenore che corre intorno al tavolo e mi domando perché la sera della nostra visita, dopo essere riusciti a entrare con tanta fortuna, lei si sia presa la briga di chiudere a chiave la porta dell'appartamento di Brittany Hall.
9. Mentre andiamo verso la prigione chiedo a Lenore come mai ha chiuso a chiave la porta dell'appartamento della Hall. «Non lo so. L'ho fatto senza pensarci. Un riflesso condizionato», risponde. «Non ricordo. E comunque, cosa possiamo farci, adesso?» La conclusione di Lenore è un ovvio dato di fatto: non possiamo farci niente. Però io sono preoccupato. Abbiamo alterato le prove in un caso di omicidio e, così facendo, abbiamo indotto la polizia a credere che la vittima conoscesse l'assassino, che questi sia una persona che lei stessa ha fatto entrare in casa, aprendogli la porta. Ora c'è un intero universo di possibili responsabili - ladri, maniaci sessuali, comunque estranei - che grazie a noi sono stati esclusi dalla cerchia dei potenziali indiziati. Con la nostra trovata abbiamo fatto convergere l'attenzione su chi aveva un movente plausibile, e cioè il nostro cliente. Armando Acosta. Dicono che i clienti bisogna prenderli come sono. Oggi troviamo Acosta, ridotto a un'ombra dell'uomo che era prima, che ci fissa da dietro il vetro spesso del cubicolo dei colloqui nel carcere della contea. Il volto è tirato, gli occhi si potrebbero definire solo tormentati, ma c'è ancora traccia di quell'atteggiamento di comando che era la sua caratteristica. Ora, al posto dell'abito di Armani da milleduecento dollari, indossa la tuta arancione del carcere con la scritta in nero un po' sbiadita, la parola PRIGIONIERO stampata sulla schiena. Dalla sua parte c'è un agente di sorveglianza fermo fuori del cubicolo. «Mi controllano a vista, ventiquattr'ore su ventiquattro. Hanno paura che mi suicidi», ci dice. L'idea che qualcuno possa considerarlo capace di togliersi la vita sembra deprimerlo più del fatto di trovarsi in prigione. Lenore gli dice che è la procedura normale in questi casi, quando cioè vengono arrestate persone importanti. È un modo per tenerlo lontano dai bracci comuni, dagli altri prigionieri. Qui dentro ci sono probabilmente almeno un centinaio di carcerati che, se ne avessero l'opportunità, gli taglierebbero la gola senza pensarci neppure un attimo, tutte persone che ha condannato nella sua precedente esistenza di giudice. Gli dice anche che dai rapporti dello psicologo della contea risulta che è depresso. «Non riesco a dormire la notte», ribatte il giudice. «Non con qualcuno che mi sorveglia. Sono stanco. È solo mancanza di sonno. Tutto lì.»
«Visto quello che è successo», obietta Lenore, «sarebbe normale che lei fosse depresso.» «Non mi tratti con condiscendenza, avvocato. Sì, posso anche ammettere la depressione. Ma le tendenze suicide, no.» La voce che esce dai piccoli altoparlanti inseriti nel pannello di vetro suona come se giungesse da un altro pianeta. Lenore gli dice che vedrà cosa può fare per la sorveglianza, ma che, nel frattempo, abbiamo molte altre cose di cui occuparci. «E la libertà su cauzione?» Lui segue la lista delle sue priorità. Una questione delicata. Lascio a Lenore l'onore. Sono sicuro che prenderà la notizia molto meglio da lei che da me. «Il giudice Bensen si è rifiutato di prendere in considerazione la faccenda.» Nel sentire queste parole il suo volto assume un'espressione disperata. «Insiste nel dire che bisogna passare attraverso le normali procedure», aggiunge Lenore. Jack Bensen è il giudice che presiede il tribunale dove il caso di Acosta è fermo in attesa dell'udienza preliminare. Secondo il nostro cliente, è un suo buon amico. Acosta era convinto che Bensen avrebbe preso in esame una richiesta di rilascio su cauzione prima di assegnare l'udienza preliminare a uno degli altri giudici. «Ha spiegato perché?» chiede Acosta. «Teme che possa apparire troppo sconveniente.» «Sconveniente! E cosa c'è di sconveniente in un rilascio su cauzione?» «È un caso di omicidio», gli spiego. «Non hanno alcuna prova», ribatte lui. «È proprio di questo che siamo venuti a parlare con lei», soggiungo. «Più che altro è una questione di procedure.» Lenore cerca di ammorbidire il colpo. «Il giudice temeva che, uscendo dalle normali procedure, si potesse dare un'impressione sbagliata. Inoltre», prosegue, «saranno costretti a far venire un giudice da un'altra contea per valutare la richiesta di libertà su cauzione e per l'udienza preliminare. Si sono tutti autoricusati.» «Tutti i componenti del tribunale? Ma se non ne conosco neppure la metà!» La cosa non mi stupisce. È la gerarchia sociale che prevale. Ci sono giudici del tribunale di seconda istanza che considerano sconveniente persino salutare in ascensore un membro di una corte inferiore. La mancanza di potere o di prestigio potrebbe essere contagiosa: è il sistema di caste del
tribunale. «Tutti i giudici del tribunale cittadino e di quello di seconda istanza», dice Lenore, «si sono autosospesi dal presiedere il procedimento contro di lei.» Se in Acosta ci fosse stata una minima scintilla di combattività, questo sembra spegnerla definitivamente. Il fatto che possa aver trascurato la possibilità di una ricusazione dà la misura della confusione che regna nella sua testa dopo il secondo arresto. «Il giudice Bensen dice che il Consiglio ha ritenuto legittima la ricusazione.» È il braccio amministrativo della legge. L'espressione negli occhi di Acosta parla prima che lui pronunci le parole. «Il club degli eletti.» Il clan al quale non è mai stato ammesso, il Gotha dei giudici. «Sono del colore sbagliato», dice. «Cognome spagnolo e accento straniero. Un bersaglio facile.» In quanto all'accento, ci ha lavorato sopra per un decennio. Ho parlato con persone che hanno fatto l'università con lui e non ricordano che avesse la minima traccia di accento, persone che non lo hanno mai sentito pronunciare una sola parola di spagnolo in quattro anni. Durante la valutazione della sua carriera per la nomina, in un periodo dominato dalla crescente attenzione verso le vittime di pregiudizi, ha sfoggiato questi simboli di diversità culturale con quello che alcuni definirebbero finto orgoglio. Alcuni colleghi lo avevano soprannominato a sua insaputa il «messicano professionista». Non dovrebbe sorprendere che anche adesso, in questo mare di guai, faccia ricorso alla zattera di salvataggio della diversità etnica. «Non credete che ce l'abbiano con me per colpa della mia razza?» Qui non si tratta di paranoia, ma di cercare a tutti i costi una possibile linea di difesa. Il lasciapassare per la libertà. Se c'è un editto che dovrebbe essere inciso sulle tavole del diritto penale, è che non sempre la verità convince la giuria. Acosta può anche aver subito discriminazioni, ma le persone che occupano una posizione di privilegio hanno difficoltà a giocare la carta della diversità etnica quando le cose si fanno difficili. Cerco di farglielo capire. «Potrebbe essere qualcos'altro che l'ha fregata», suggerisce Lenore. «Non è un mistero che lei non sia la star preferita della polizia», gli faccio notare. Si passa una mano tra i capelli radi e finalmente comincia a pensare che possa trattarsi di questo.
«Certo. Lei ha ragione. Ho passato troppi anni a proteggere i diritti degli imputati. Nella mia aula, ho sempre cercato la giustizia.» Manca solo che tiri fuori la calzamaglia blu e il mantello rosso di Superman. «Ho sempre sostenuto la Costituzione», dice. «Avrebbero tutte le ragioni per odiarmi.» «Come linea di difesa è un po' troppo generica.» Mi osserva con un'espressione studiata. «Lei è convinto che le libertà civili siano un po' come le differenze di razza.» Annuisco. «Come possibile difesa può offrirci qualche abbellimento, ma non può servire da centrotavola. Lei non è l'unico difensore delle opinioni libertarie sullo scanno», gli spiego. «Una giuria potrebbe avere qualche difficoltà a capire perché l'accusa ha scelto proprio lei.» «Ma io sono stato l'unico giudice a presiedere l'inchiesta di un gran giurì sull'Associazione della Polizia.» Tombola. Finalmente arriva dove volevo portarlo. «Tutto il resto è accessorio», dico. Ora è l'immagine della concentrazione. La cosa più ridicola, quando ti trovi nei guai, è che sei sempre l'ultimo a vedere tutte le implicazioni. Acosta ci ha già informati di aver dichiarato che la Hall lo aveva incastrato con l'accusa di istigazione alla prostituzione. Secondo il suo racconto, lei gli aveva telefonato dicendogli di essere in possesso di informazioni importanti per l'inchiesta sulla corruzione nella polizia, prove che avrebbe rivelato soltanto a lui. Che noi ci crediamo o no, o, cosa ancora più importante, che una giuria ci possa credere, solo il tempo potrà dirlo. Ma c'è materia per una possibile linea di difesa. Se qualcuno dell'Associazione era disposto a incastrare Acosta con l'accusa di un reato minore per smorzare il suo entusiasmo nella ricerca della corruzione, quanto avrebbe gradito scaricargli addosso un'incriminazione di omicidio quando la Hall era stata trovata morta? «Abbiamo alcune carte», dice Lenore, «cose che dobbiamo rivedere con lei.» Si alza per farle vedere alla guardia, la quale annuisce, segno che arriverà subito qualcuno a prenderle per portarle dall'altra parte del divisorio, ad Acosta. «Darò un'occhiata», risponde lui, «ma non so quanto servirà. Mi hanno portato via gli occhiali.» Lenore mi lancia un'occhiata.
«Quando li hanno presi?» chiede. «Hmm.» Ci pensa su. «Due giorni fa. Posso solo guardare la televisione. Nient'altro.» «Per caso, recentemente ne ha perso un paio?» chiede ancora Lenore. «No. Non che io ricordi.» «Quante paia ne possiede?» «Perché? Qual è il problema?» «Quante paia di occhiali possiede?» «Non lo so. Perché? È importante?» «Potrebbe esserlo», rispondo. «È difficile dirlo», mi dice. «Sa com'è. Qualche paio non lo trovi più. Con gli anni si tende ad accumularne altri, con nuove lenti.» Si stringe nelle spalle come per liquidare la cosa. «Forse quattro o cinque. Non lo so. Perché?» Se la polizia ha gli occhiali di Acosta, conoscerà già la sua prescrizione, quindi non ha senso nascondere la palla. «La polizia ha trovato un paio di occhiali da vista nell'appartamento della Hall», dice Lenore. «Pensiamo stiano seguendo l'ipotesi che appartengano all'assassino.» Non ribatte nulla, ma i suoi occhi non incontrano più i nostri. Guardano in basso, sul banco dalla sua parte del divisorio, come se stessero cercando senza scopo qualcosa che non c'è. Alla fine si riprende, e si rende conto che lo stiamo osservando. «Capisco», dice. «Non credo di aver perso alcun paio di occhiali.» «Dove li tiene?» chiedo. Mi fa una lista, cercando di ricordare. Due paia nella scrivania dello studio di casa. Sono più vecchi, ma li usa ancora. Un altro paio nel suo ufficio in tribunale, anche se ha qualche dubbio sulla loro esatta ubicazione. Subito dopo la sua sospensione dall'attività, aveva portato via un po' di cose dal tribunale e non è sicuro se gli occhiali fossero tra queste. «Con questi sarebbero quattro paia, contando quelli che le hanno requisito qui. Le hanno dato una ricevuta per il paio che hanno preso?» Mi guarda e scuote la testa. Lenore prende nota di farsi dare una ricevuta. «Dovremmo anche farci dare una fotografia del paio che le hanno preso», dice. «Tanto per andare sul sicuro.» Non gli sfugge che, se la polizia sta veramente costruendo un caso, basterà solo un po' di destrezza di mano.
«Controlleremo con sua moglie e le chiederemo di radunare tutte le paia di occhiali extra. Per averne traccia», gli dico. «Sarebbe una bella cosa», conviene lui. «Penso che la lasceranno entrare nel mio studio in tribunale.» «Potremmo anche aver bisogno dell'indirizzo del suo oculista. Per controllare la sua cartella, farci dare le sue prescrizioni e accertarci di aver radunato tutti gli occhiali.» Acosta ci dà il nome di un negozio di ottica nel centro commerciale cittadino. «Lili troverà il numero sulla mia agenda. E anche il nome del dottore.» Se sta mentendo a proposito degli occhiali, non lo dà a vedere. Discutiamo di alcune altre prove. Muoio dalla voglia di fargli una domanda - come mai il suo nome era scritto sul calendario della vittima -, ma non posso. La polizia non ci ha ancora comunicato questo fatto come parte delle prove a carico, anche se sono sicuro che non tarderà molto a farlo. Chiedere spiegazioni ad Acosta significherebbe far nascere la curiosità su come siamo entrati in possesso di questa informazione, sul piccolo blitz con Lenore nell'appartamento della vittima, la sera dell'omicidio. Sono cose che fai ma che non vuoi si vengano a sapere in un processo. Invece parliamo dei peli e delle fibre trovati nell'appartamento della ragazza. Acosta non riesce a ricordare di che colore è la moquette che riveste il bagagliaio della sua auto di servizio. «Un colore scuro», dice. «Che tipo di macchina è?» «Una Buick Skylark. Blu metallizzato.» Esattamente quello che ci si aspetta che la contea acquisti, un parco macchine composto in maggioranza da auto General Motors, sulle quali poter ottenere uno sconto per grossi ordini da un rivenditore locale. «Ricorda l'anno?» Un lento cenno di diniego col capo. «Mi è stata assegnata due anni fa, ma non so se sono stato il primo a usarla.» Secondo Acosta potrebbe trattarsi di una macchina di seconda mano proveniente da qualcuno più in alto nella catena alimentare politica, un membro del Consiglio dei supervisori della contea o un qualche altro pezzo grosso. «Si trova ancora nel deposito delle auto sequestrate dalla polizia», dice Lenore. «Possiamo farla esaminare dal nostro investigatore. Possiamo far prelevare qualche campione di fibre.» Prende un appunto. «E dei peli cosa mi dice?» chiedo. «Ispidi, corti e bruno-rossicci.» Se-
condo il risultato di un esame preliminare di laboratorio che la polizia ha rilasciato, non si tratta di capelli umani, ma di peli animali. «Lei possiede qualche animale?» chiedo. «No. Sono allergico al pelo. Niente gatti né cani.» «Le sue nipoti hanno mai portato animali in casa sua?» «Non glielo permettiamo.» Può anche essere un elemento poco importante, ma è un elemento a nostro favore. La guardia arriva dalla sua parte del vetro per consegnargli i documenti. «In gran parte si tratta di rapporti stilati sulla scena del delitto, appunti della polizia, materiale consegnatoci dall'accusa», gli spiega Lenore. «Noi li abbiamo già letti, ma vogliamo che lei li esamini e ci dica se vi trova qualcosa di significativo. Qualcosa di cui dovremmo essere informati.» Ci assicura che farà del suo meglio. Forse potremmo procurargli una lente d'ingrandimento. Lenore gli dice che faremo in modo che sua moglie gli porti un altro paio di occhiali il più presto possibile. «Dobbiamo prepararci per l'udienza preliminare», gli dico. «Vogliamo presentare un'istanza prima della fine della settimana.» «Non dovreste preoccuparvi di questo.» «Perché?» «Perché non ci sarà alcuna udienza preliminare.» «Che cosa sta dicendo?» «Ho intenzione di rinunciarvi», dice lui. C'è un attimo di silenzio attonito, in cui restiamo a bocca aperta; poi, all'improvviso, una gran confusione di parole. Lenore cerca di farlo ragionare, di convincerlo che rinunciare all'udienza preliminare potrebbe rivelarsi un gravissimo errore. Concordo sul fatto che sarebbe una sciocchezza. Un'udienza preliminare in cui saggiare la consistenza delle prove dell'accusa e in cui costringerla a esibire alcuni testimoni chiave, in una prima fase, prima che tutte le prove possano essere verificate, è un grosso vantaggio per la difesa. «Questo li costringerebbe a puntare su una sola linea d'accusa, forse prima di essere pronti», gli spiego. «La testimonianza di ogni teste che viene interrogato rimarrebbe scolpita nella pietra.» «Sì», mi dice, «lo so: testimonianze non contestate sulla presunta accusa di istigazione alla prostituzione e qualsiasi altra prova in loro possesso che
mi colleghi all'assassinio. Mi corregga se sbaglio, avvocato.» Acosta sta guardando me. «Mentre noi non offriremmo alcuna prova in cambio. Giusto?» La mia espressione conferma le sue parole. «È vero», gli dico. «Sarebbe stupido da parte della difesa scoprire le proprie carte, se proprio non vi è costretta. Per noi è un'occasione per dare un'occhiata alla loro strategia senza dover rivelare la nostra. E per attaccare, se possiamo.» «Quindi lei non penserebbe di ottenere un proscioglimento all'udienza preliminare?» «Non posso saperlo finché non vedo tutte le prove», rispondo. Ma devo ammettere che un proscioglimento a questo punto è sempre improbabile. Come lui sa bene, l'accusa ha una responsabilità minore, non deve provare la sua tesi al di là di ogni ragionevole dubbio. «Quindi verrei comunque condannato dalla stampa senza avere la possibilità di difendermi. La mia immagine pubblica sarebbe distrutta.» «Ma noi riusciremo a preparare un buon caso per il processo», interviene Lenore. «Una difesa convincente.» «Sì, magari fra cinque o sei mesi. Allora la mia reputazione in seno alla comunità sarà già distrutta. Un bombardamento a tappeto di congetture e insinuazioni», dice lui, «tutte scatenate da un'udienza a senso unico. No, non voglio. Non ci sarà alcuna udienza preliminare.» Faccio per ribattere, ma lui mi interrompe. «E non intendo perdere tempo», dice. «Chiederemo di andare al processo entro sessanta giorni.» «Abbiamo bisogno di tempo per prepararci», obietta Lenore. «Come ho detto prima, mi corregga se sbaglio, avvocato.» Ci guarda entrambi negli occhi con espressione severa. «La rinuncia all'udienza preliminare e la richiesta di un processo veloce non sono questioni su cui il cliente ha l'assoluto controllo? Questioni sulle quali potete consigliarmi, ma su cui l'ultima parola spetta a me per legge?» Lenore e io restiamo in silenzio. Acosta conosce già la risposta. Chiaramente ci ha già riflettuto a lungo. «Allora ho deciso. Il processo si farà fra sessanta giorni.» Si alza dallo sgabello. «Ah. Un'altra cosa. Dovreste richiedere alla corte un'ordinanza di secretazione. Non intendo permettere a Kline o a nessun altro di farmi il processo sui media. È chiaro?» Come per una qualche strana forma di metamorfosi, improvvisamente ha
ritrovato il tono imperioso del vecchio Acosta, e gli occhi che spesso ho considerato demoniaci ci scrutano fissi attraverso la spessa paratia di vetro. È implacabile. Mentre pronuncia l'ultima parola, si volta e fa un cenno alla guardia per indicare che il colloquio è terminato. Lenore e io restiamo seduti sulle ceneri, scioccati, a riflettere sul nostro dilemma, sui problemi che gli avvocati hanno con i clienti giudici. Da come è vestito capisco che oggi è la sua giornata libera. Non ci devono essere impegni sindacali cui adempiere, anche se trovo difficile immaginare Phil Mendel occupato in qualcosa che possa essere legittimamente definito impegno. Lo vedo dall'altra parte dell'atrio, mentre Lenore e io stiamo uscendo dal carcere della contea: è scortato da una delle sue inseparabili guardie del corpo, un tizio il cui taglio di capelli ricorda la buccia di un kiwi. Mendel indossa una chiassosa camicia hawaiana e calzoni di tela bianchi. Il tutto completato da un paio di scarpe di tela da barca senza calze. Sta stringendo la mano e dando pacche sulle spalle a un paio di guardie, probabilmente membri del sindacato. Lui ci prova, ma non riesce a dare l'immagine elegante di un pirata debosciato che ha appena finito di razziare la Love Boat. Ha una bella pancia sporgente e due maniglie dell'amore come accenni di pinna sui fianchi di un giovane delfino. Quando finalmente mi vede, lo sguardo di Mendel non è diretto tanto verso di me, quanto attraverso me. Cerco di squagliarmela sul lato opposto e do un colpetto a Lenore perché mi segua, ma Mendel non è tipo da lasciarsi scappare l'occasione di un incontro imbarazzante. Viene verso di noi a passi lenti e ci blocca la strada. «Avvocato! Che combinazione incontrarla qui.» «Lavoro», gli dico. «Mi lasci indovinare. Il giudice.» In questo posto non succede nulla di cui lui non venga a conoscenza, grazie a legioni di guardie senili che gli portano messaggi come scribi al faraone. Nel silenzio che segue, Mendel è tutto preso a occhieggiare Lenore. Quando vede che non gliela presento, prende lui l'iniziativa. «Phil Mendel.» Le porge la mano con un sorriso maligno che vorrebbe essere lascivo, ma che fa accapponare la pelle. Lei esita finché è possibile ma, visto che la mano di lui è sempre lì, si
decide a stringergliela. «Lenore Goya.» «Ah, la scellerata signora Goya! Mi chiedevo quanto sarebbe passato prima che finalmente ci incontrassimo. Ho sentito molto parlare di lei.» «In bene, spero.» «Non bene a sufficienza per quello che vedo», le dice. «È un complimento o sta solo facendo il cascamorto?» «È un complimento, è un complimento», si affretta a rispondere lui. «Non mi fraintenda. Anche se vedo che adesso se la fa con il nemico.» Ora Mendel sta guardando me. Lenore non sa come interpretare le sue parole. Credo che Mendel ne percepisca il grugnito mentale, i capelli che le si rizzano in testa. «Ha abbandonato la verità e la giustizia per rifarsi una vita nel campo della difesa.» «Uno deve pur guadagnarsi da vivere.» Vedo che il tirapiedi di Mendel ha la saliva che gli cola sul mento. Lo giuro. L'uomo sembra totalmente estraniato dalla nostra conversazione, come se la comunicazione umana sia qualcosa che va al di là della sua comprensione. Al momento lo invidio persino. «Allora, come va la battaglia?» chiede Mendel. «La difesa del giudice?» Come se io glielo dicessi. «Un errore d'identità», rispondo. «Un caso basato tutto su prove indiziarie.» Scoppia a ridere, come se ne sapesse più di noi. «Già. È difficile credere che proprio un giudice possa fare una cosa simile. Uccidere una puttanella per impedirle di testimoniare.» Lenore, la cui mente aveva cominciato a estraniarsi, improvvisamente punta di nuovo l'attenzione su di lui, come una mitragliatrice Gatling su un missile in arrivo. «È vero», dice. «È sempre più facile comprendere l'omicidio quando la vittima è un maschio arrogante e stronzo.» Lui la studia, chiedendosi se ci sia un qualche messaggio particolare diretto a lui. «Dovete scusarmi. Appartengo alla vecchia scuola. Intendevo dire una testimone femmina», puntualizza Mendel, come se «puttanella» fosse una definizione tecnica legale. «Io invece intendevo proprio un maschio arrogante e stronzo», ribatte Lenore. Se lui glielo chiedesse, sarebbe disposta a spiegargli anche come si scrive.
«Su, andiamo, non faccia così! È una dura.» Dà un pugno sul braccio alla belva. Cerca di buttarla sul ridere. «Ricordami di non trovarmi mai davanti a lei in un'aula di tribunale.» Poi si volta verso di me. Ne ha abbastanza di chiacchierare con le ragazze. «Fin tanto che mi sta davanti non mi preoccupo», assicura Lenore. Lui comincia a saltellare su un piede solo, come se si fosse scottato. «Ehi, è una vera tigre», mi dice. «Forse farebbe meglio a contarsi i graffi sulle chiappe», gli rispondo. L'arte di ammaestrare le tigri, di Claude Balls. Cerca di incassare meglio che può, e fa un'altra risata come per schernirsi. «Sembra proprio che al momento l'unica persona che si trova in guai più grossi dei miei sia il vostro cliente. D'altra parte, quando si nuota nella fogna è inevitabile sporcarsi.» «Sarebbe a dire?» chiedo. «Sarebbe a dire che non è un segreto che Acosta passava un sacco di tempo a fraternizzare con persone più in basso di lui.» «Sono sicura che lei è pratico di queste cose», dice Lenore. A questo punto Mendel ha deciso che la miglior difesa è ignorarla. «Se non fosse stato portato per quelle cose, non si sarebbe mai trovato per strada quella notte.» Sta parlando della notte in cui hanno arrestato Nocedicocco con l'accusa di istigazione alla prostituzione. «Lei parla come se sapesse qualcosa», replico io. «No, no, avvocato. Non ho proprio alcun bisogno che mi infilino un mandato di comparizione sotto la porta dell'ufficio. Io non so niente sui particolari dell'arresto. Ma ho sentito dire qualcosa. Sulla mia scrivania passano un sacco di rapporti. Niente di ufficiale, ovviamente, ma da quello che ho sentito il vostro uomo aveva una doppia vita davvero deprecabile.» Come se non lo sapessi. «Se si arriva in tribunale, con la televisione e tutto il resto, questo marciume colerà dai teleschermi fin nel soggiorno degli spettatori.» «Be', non ci resta che sperare che il procuratore avverta i censori delle emittenti prima che lo mandino in onda», ribatto. «Già. Ma, se non altro, questa volta stanno indagando davvero sul cattivo, invece che...» «Questo è da vedersi», interviene Lenore. «Invece che?» chiedo. Mendel le lancia un'occhiataccia e poi finisce la frase. «Invece che su
quei bravi ragazzi», dice. «I ragazzi in uniforme.» «Credo che il procuratore distrettuale abbia tempo a sufficienza per entrambi», osservo. D'un tratto mi guarda con un'espressione sorpresa e divertita. Capisco subito che ha colto l'occasione per darmi una cattiva notizia. «Non lo ha saputo?» Scuoto la testa. «Il procuratore ha sciolto il gran giurì. Il caso è chiuso.» «Che cosa sta dicendo?» «L'Associazione ha il certificato sanitario in regola. La caccia alle streghe di Acosta è morta con lui.» Quello che sta dicendo è che, con la caduta di Acosta, e per il modo in cui è caduto, la struttura del potere legale ha fatto quadrato, con la coda tra le gambe. «È la sua giornata fortunata. Se la goda, finché dura.» Mi guarda e mi rivolge un sorriso che si può definire solo rabbioso. La conversazione è terminata e Mendel si allontana. La belva rischia di travolgerlo quando lui si ferma di botto e si volta a guardarci un'ultima volta. «Ah, a proposito», aggiunge. «Quasi mi dimenticavo di dirglielo.» «Cosa?» «Le fibre di moquette. Quelle trovate sul corpo della ragazza. Pare siano identiche a quelle del bagagliaio della macchina di Acosta.» I canali informativi di Mendel sono infiniti, arrivano persino alla sacralità del laboratorio della scientifica della contea. «Pensavo vi avrebbe fatto piacere saperlo», aggiunge e saluta, agitando le dita. Penso che questo gesto sia rivolto più a Lenore che a me. «Addio.» 10. Con lo scalpo di Acosta appeso alla cintura, Mendel ha dalla sua un fattore di dissuasione quantificabile soltanto in termini di tremolio delle ginocchia sulla scala Richter. Date le circostanze, è improbabile che funzionari con carica elettiva aprano un'altra inchiesta del gran giurì per scavare negli affari della sua Associazione. Avevo sperato di poter approfittare dell'indagine ufficiale per ottenere qualche rivelazione utile a costruire una linea di difesa per Acosta: un giu-
dice impegnato in una crociata incastrato da poliziotti corrotti. Comunque sarà sicuramente questo il fulcro della nostra difesa. Ma ora abbiamo un problema. L'accusa potrà ribattere che, se anche a suo tempo c'è stata un'indagine, non è stata trovata alcuna prova di corruzione. Se non c'erano panni sporchi da lavare, nessuno scheletro da scoprire, perché mai la polizia si sarebbe data tanto da fare per mettere a tacere un giudice lanciato in una nobile crociata? L'altra metà dei nostri sforzi punta a dare un volto al vero assassino. Per quanto Acosta mi sia antipatico, non credo sia un assassino. Lenore e io siamo ancora impegnati a fare mentalmente i provini per assegnare questo ruolo. Se in questo momento dovessi azzardare un'ipotesi, direi che la morte di Brittany Hall è da collegarsi non tanto al giudice, quanto a un innamorato geloso, a un furto andato storto, oppure a un crimine a sfondo sessuale. Il problema, relativamente alle due ultime possibilità, è che l'attuale teoria della polizia sostiene che lei conoscesse l'assassino e sia stata lei a farlo entrare. È venerdì notte, è tardi, e sto ancora lavorando in ufficio. Abbiamo passato il pomeriggio tutti e tre - Harry, Lenore e io - a studiare la documentazione dell'accusa, compresi alcuni videotape girati dagli investigatori nel vicolo in cui è stato ritrovato il corpo, e altre riprese effettuate più tardi fuori dell'appartamento di Brittany Hall. Alcune sono state fatte dai fotografi della polizia, altre sono state richieste dalla corte a due stazioni televisive locali. Ho gli occhi stanchi. Lenore se n'è andata via presto perché aveva un impegno. Harry ha gettato la spugna un'ora fa e se l'è svignata. Sono quasi le dieci quando sento una chiave girare nella toppa della porta all'esterno dell'ufficio. La serratura scatta e poi la porta si richiude. Alzo gli occhi e vedo Lenore ferma sulla porta, in un lucente abito da sera nero, stretto sui fianchi, che le arriva a metà coscia e le lascia scoperte le spalle. Appeso a due dita di una mano tiene un paio di scarpe di vernice nera con almeno dieci centimetri di tacco. «Hai qualcosa per le vesciche?» Lenore è stata a una festa, un impegno che aveva preso mesi fa, molto prima di lasciare l'ufficio del procuratore distrettuale, una festa in onore di qualche ex collega. Mi mostra un buco nelle calze, in corrispondenza di un tallone. «Ho camminato per quasi un chilometro.»
«Allora, com'era il tuo accompagnatore?» «Non chiedermelo.» Mi sento già meglio. Lì, in piedi sulla porta, un'anca snella appoggiata contro lo stipite, un paio di orecchini d'oro molto fini, labbra rese ancora più sexy dal rossetto, Lenore è una donna straordinariamente bella. Questa sera si è tirata su i capelli, e questo le conferisce un'aria misteriosa. «Mi pare di capire che non hai legato molto con Herb.» Cerco di non mostrarmi troppo soddisfatto. Herb Conners è uno dei capi dell'ufficio del procuratore, un arrampicatore di professione, terribilmente contegnoso. Lenore e io abbiamo fatto una scommessa. Lei ha scommesso che Conners avrebbe trovato qualche scusa per annullare il loro appuntamento. Era convinta di essere «merce danneggiata», un pericolo per qualsiasi arrivista ambizioso dell'ufficio, dopo che Kline l'aveva licenziata. Io le ho detto che in qualsiasi conflitto tra carriera e lussuria, la libido ha sempre la meglio. A quanto pare avevo ragione. Immagino che Lenore abbia tenuto fede all'appuntamento solo perché si rifiutava di farsi intimidire da Kline, che sarebbe stato sicuramente presente alla festa. «Mentre tornavamo a casa in macchina, a Conners sono cresciute mani su ogni appendice del corpo.» «Quel libertino arrapato!» «Non più.» Lenore mi rivolge un sorriso malizioso, e mi chiedo che cosa lei gli abbia fatto. «Sono scesa a quattro isolati da qui, ho cercato di fermare un taxi, ma non ci sono riuscita. E allora sono venuta a piedi. Ho visto la luce accesa.» Considerato l'aspetto della donna ferma sulla mia porta, senza dubbio in questo momento Conners si sta facendo una doccia fredda. Pesco nel cassetto alla ricerca di un cerotto. Lo trovo e glielo porgo. Molla le scarpe su un angolo della scrivania e la fragranza del suo profumo mi avviluppa come una nuvola di iprite su un soldato di fanteria in trincea. Lenore è una di quelle donne che riescono ad accendere e spegnere la propria sensualità come fosse una lampadina. Un momento è tutta business, con l'occhio grifagno dell'avvocato e pronta a mordere, il momento dopo è una vamp, come stasera. Sfortunatamente, proprio ora che sono impantanato nei dettagli del lavoro, Lenore non ha acceso l'interruttore del business. «È terribilmente tardi», dice. «Dovresti andare a casa.»
«Qualcuno deve pur lavorare.» «Stai ancora cercando di rimettere insieme i pezzi della teoria sulla corruzione della polizia?» Si riferisce all'inchiesta ormai archiviata del gran giurì. «Esattamente.» «Qualche idea?» Mentre mi parla, si massaggia il polpaccio di una gamba; ha appoggiato il piede sul sedile di una poltroncina sistemata davanti alla scrivania e l'orlo del vestito le sale fin quasi all'attaccatura della coscia. Mi vengono in testa un sacco di idee, e nessuna riguarda il nostro caso. Faccio uno sforzo. «Possiamo tentare di chiedere un'ordinanza di esibizione della documentazione del gran giurì, le trascrizioni e tutti i fascicoli relativi all'indagine.» «Buona fortuna», dice. Ha ragione. Le indagini del gran giurì, particolarmente quelle che si concludono senza un'incriminazione, sono riservate quanto il codice di accesso di una base sotterranea di missili nucleari. Ci vorrebbe l'ordinanza di un giudice arteriosclerotico per avervi accesso. «Possiamo assumere un investigatore e vedere cosa riusciamo a trovare per conto nostro», le dico. «Anche se ci vorrà un sacco di lavoro di gambe.» La sto fissando. «E magari prima della prossima glaciazione», termina lei, «potremmo riuscire a trovare qualcosa.» «Oppure», insisto, «stasera potresti andare da Herb Conners e fargli un bel massaggio alla schiena. Entro domani mattina arriverebbe con la macchina davanti al nostro portone e ci scaricherebbe nell'atrio tutti i fascicoli della Procura.» «Faglielo tu il massaggio alla schiena.» «Ci vorrebbe un po' più di tempo.» Scivola dietro la porta aperta dell'ufficio come se stesse giocando agli indiani con il mio cowboy. Mi chiedo cosa stia facendo là dietro. «Tanto perché tu lo sappia», mi dice, «non hanno completamente archiviato l'indagine del gran giurì.» «Cosa vuoi dire?» È ancora dietro la porta. «L'indagine sul blitz antidroga, i dubbi sull'uccisione di quel poliziotto un paio di anni fa. Quella parte resta ancora aperta.» «Stai scherzando?» «No.»
Ne abbiamo già discusso, Lenore e io, ed è un argomento delicato per via del coinvolgimento di Tony. Lei non crede che lui possa aver avuto qualche responsabilità nell'uccisione di un altro agente. È convinta che le indagini non porteranno a nulla, anche se non ha una teoria su come la pistola che ha ucciso il poliziotto sia finita dall'archivio dei corpi di reato alla scena del delitto. Quando si tratta di Tony, Lenore dimostra la fiducia cieca di un bambino. «Come hai scoperto che le indagini vanno ancora avanti?» le chiedo. «È utile andare a certe cene. Resteresti sorpreso dalle cose che girano per la sala oltre ai cracker col formaggio. Specialmente se mandati giù col vino.» «È stato Conners? È lui che te l'ha detto?» «Ho l'aria di una che si è prestata a tanto?» Lenore non ha intenzione di rivelarmi la sua fonte. Avevo sperato in un'investigazione a più ampio raggio, ma è sempre meglio che niente. Se ci lavoriamo sopra, potremmo anche riuscire a usarla per il nostro caso. «Questa fonte sarebbe disposta a dirti altro?» Quando emerge da dietro la porta è a gambe nude, e lancia i collant nel cestino della carta. «Non lo ha detto a me», puntualizza. «Io ho ascoltato perché ero nascosta dietro il mio accompagnatore.» «Se non altro Herb è servito a qualcosa.» «Alto. Spalle larghe. Un'ottima postazione d'ascolto», mi dice sorridendo. Si sta togliendo della lanugine dell'abito da una coscia abbronzata, liscia e vellutata. Si siede sulla poltroncina di fronte a me con la grazia di una ninfa dei boschi, stuzzicandomi senza scoprirsi, e accavalla le gambe. Eseguendo contorsioni di cui solo le donne sono capaci, si applica il cerotto al tallone, ignara del mio sguardo. A questo punto sto sudando. Continuo a parlare di lavoro, ma penso ad altro. Un momento di debolezza. «Qualche idea su chi potrebbe essere l'investigatore?» Dopo essersi occupata del pronto soccorso, se ne sta con i gomiti appoggiati sulla scrivania, vicino alle scarpe, il mento puntato sui palmi delle mani. La Hepburn al meglio di sé. Immagino sia persa in pensieri tutti suoi. Ignora la mia domanda. Il suo profumo mi giunge attraverso la scrivania.
«Dov'è Sarah stasera?» «A casa di un'amica. Dorme là.» «Le mie bambine sono dalla nonna», dice. «Passano la notte là.» Sulle labbra generose e lucide si spande un sorriso. C'è un imbarazzante momento di silenzio, di telepatia, mentre consideriamo le varie possibilità. Per un mutuo accordo abbiamo accuratamente ignorato la corrente di passione presente nel nostro rapporto. Le complicazioni di lavorare insieme a un caso difficile, i lati negativi di una relazione nell'ambiente di lavoro, le bambine... Ci sono mille ragioni per cui non dovremmo farlo. Ma al momento non me ne viene in mente neppure una. «Allora, cosa intendi fare? Lavorare tutta la notte?» Mi guarda con occhi ammaliatori, mentre la luce gioca con un orecchino d'oro: i lineamenti finemente cesellati del viso, la carnagione scura quasi eterea, un fotogramma di pellicola girata con il diffusore. Assaporo questa immagine come un tossico che brama un buco. «Dovrei dichiarare chiuse le ostilità e andare a casa», le dico. Mi guarda come se fosse in trance. Improvvisamente mi trovo in piedi, sulla porta, la giacca gettata sulle spalle, senza sapere come ci sono arrivato, la mano di Lenore nella mia. «Sì», conviene, «dovremmo andare a casa e dichiarare chiuse le ostilità.» 11. Possiamo ringraziare il cielo per i piccoli favori. Abbiamo controllato la documentazione dell'ottico di Acosta e crediamo di aver identificato tutti gli occhiali che gli sono stati prescritti. Lili Acosta li ha rintracciati tutti, tranne il paio che gli agenti hanno confiscato a suo marito in carcere. Questi ultimi ora sono in mano alla polizia e sono stati accuratamente contrassegnati con un cartellino di identificazione, in modo che non ci sia possibilità di errore o di scambio. Dal momento che possiamo esibire tutti gli occhiali prescritti al nostro cliente, con tanto di data della prescrizione e dell'acquisto, la polizia non può dimostrare che quelli rinvenuti sulla scena del delitto appartengono a lui. Questa mattina siamo in un'aula del tribunale di seconda istanza, dove cercheremo di scansare un altro proiettile; è il secondo giorno di discussione sulla richiesta di sospensione che abbiamo presentato nel tentativo di sottrarci a Kline, l'uomo cui Lenore ha dato dell'idiota. Ma fino a questo
momento lui ha dimostrato un'agilità superiore a quella di un ghepardo in calore. Acosta è seduto di fianco a me al tavolo della difesa, con una guardia alle spalle e altre due piazzate a metà aula come difensori di seconda linea, nel caso Nocedicocco cercasse di fuggire. Lili è seduta due file dietro di lui. Sono separati dalla balaustra e la guardia impedisce loro di toccarsi. Sono presenti solo pochi giornalisti. Due settimane fa, senza alcun preavviso, Kline ha stabilito la data del processo per un'accusa di cui tutti ci eravamo dimenticati: il capo d'imputazione originario di istigazione alla prostituzione. Il suo scopo non è quello di ottenere un verdetto: Kline vuole processare Acosta non in quest'aula, ma davanti al tribunale dell'opinione pubblica, contaminando una vasta platea con le accuse di immoralità. I potenziali giurati che sentono tutto questo potrebbero trovarsi già indirizzati verso un verdetto per il processo di omicidio prima ancora di essere stati iscritti nella lista dei giurati del processo stesso. E se, strada facendo, riesce a costringerci a esporre una linea di difesa per l'accusa di istigazione alla prostituzione, potrà pure dare una sbirciatina alle nostre carte. Persino Lenore è costretta ad ammettere che questi tentativi indicano una certa ingegnosità, più di quanta sia disposta ad attribuirne a Kline. Sono convinto che sottovalutarlo sia un errore. Supplisce a quanto gli manca in fatto di stile con l'ostinazione e la perseveranza. È aggressivo, bellicoso, un ottimo oratore. Non ha mai un attimo di esitazione. Quanto al temperamento, l'unica volta in cui l'ho visto perdere la calma è stato quel giorno nell'ufficio di Lenore, durante il loro battibecco sul caso Acosta e su chi dovesse interrogare la testimone. Credo sia un problema di pelle, tra lui e Lenore. E questo mi dà da pensare per il prossimo processo. È seduto al tavolo dell'accusa in compagnia di uno dei suoi subalterni, quando improvvisamente interrompe la conversazione sussurrata e attraversa l'emiciclo. Con la coda dell'occhio vedo che è inamidato dal polsino al gomito e indossa un paio di gemelli d'oro così grossi che mi accecano. «Signor Madriani.» Mi volto verso di lui. «Non abbiamo più avuto modo di parlare da quel giorno nel mio ufficio», dice. «Le augurerei buona fortuna, ma, date le circostanze...» Termina la frase con un'occhiata eloquente. «Spero comunque che si possa iniziare e concludere da avversari corretti e cortesi. Da veri professionisti.»
Conclude con un gran sorriso, che mi fa dubitare della sua sincerità. È questo il problema, con Kline. Non si può mai sapere. Gli stringo la mano. «Avvocato.» Mi passa di fianco e procede, sempre con la mano tesa. Lenore lo guarda, ma non dice nulla. E non gli stringe la mano. «Be'», dice Kline. «Io ci ho provato.» Mi rivolge un ultimo sorriso e si ritira nella sua postazione. Acosta sta osservando Lenore. Qualsiasi speranza che, in quanto ex sostituto, lei possa avere ancora una qualche influenza sull'accusa va ad aggiungersi alle favole sulla fatina dei denti e sul coniglio pasquale. «Ottima mossa!» le sussurro a bocca stretta. «Affonda ancora un po' di più il coltello. Vediamo se riusciamo realmente a motivarlo.» Prima che possa rispondermi si sente un tramestio nel corridoio dietro lo scanno; ne emerge il giudice Radovich, annunciato dall'usciere. Harland Radovich viene da una delle contee di montagna nel nord, una zona dominata da un vulcano inattivo e da un tribunale con tre giudici, dove l'allevamento del bestiame e le sconfinate distese verdi sono ancora lo stile di vita. Radovich ha preso la pagliuzza più corta tra i candidati dell'assemblea dei giudici non appartenenti a questa contea, e adesso gli tocca il caso Acosta, comprese tutte le insidie preprocessuali. È un uomo senza età ma, se proprio dovessi tirare a indovinare, gli darei cinquantacinque anni. Sfoggia stivali da cowboy e l'aspetto florido di chi è abituato a vivere all'aria aperta, con tanto di pettinatura in puro stile Oklahoma e un ciuffo ribelle sulla fronte che assomiglia alla barbetta di una pannocchia di granturco. Non si dà arie di grande studioso della legge, ma sembra intriso di quell'innato buon senso che, per qualche motivo, siamo normalmente portati ad associare alla vita in campagna. È difficile dire cosa ne pensi Acosta. Lui e Radovich sono esseri che provengono da pianeti diversi. «Buon giorno», dice il giudice. Presentiamo il caso per la corte, Kline per l'accusa, Lenore per noi. Dopotutto, il caso è suo. Cerco di tenere un basso profilo. Se potrò sostituirla più avanti, lo farò. Ieri è stata la giornata degli avvocati. Ci siamo lanciati sulle questioni legali più calde. C'era in ballo la questione dell'unione dei due procedimenti. Bisognava stabilire se tra i due reati, l'istigazione alla prostituzione e l'omicidio, esistesse un nesso teleologico sufficiente - essendo presumibilmente il primo il movente del secondo - a richiedere che venissero trat-
tati nello stesso procedimento. Evitare un processo separato per il reato minore era compito di Lenore. In ultima analisi l'accusa ha chiesto di considerare l'omicidio di una testimone come un'aggravante, gettando le basi per la richiesta della pena di morte nel caso Acosta venisse riconosciuto colpevole. Radovich ha passato gran parte della giornata a grattarsi la testa. Quanti angeli possono danzare sulla capocchia di uno spillo? Se avesse avuto a portata di mano un filo di fieno, se lo sarebbe messo tra i denti. Non è portato al ragionamento ad alto livello. Kline l'ha scoperto subito, e per tutto il giorno se l'è rigirato come ha voluto. Ha affermato che il nostro tentativo di evitare un processo separato era una limitazione alla discrezionalità dell'accusa e al sacro diritto dello Stato di assicurare alla giustizia coloro che hanno violato la legge. Ha ricordato a Radovich che la corte non poteva sostituirsi allo Stato nel decidere quando muovere un'accusa. Dalle rughe sulla fronte del giudice ho capito che era molto sensibile su questo punto. Dopotutto, lui è solo di passaggio in questa contea e non si troverà mai a dover affrontare il nostro elettorato. In tutto questo, il lato politico delle argomentazioni di Kline ha avuto maggior peso di quello giuridico. Si era fatto un'idea di Radovich, un'idea giusta. Ha capito che aveva di fronte un giudice riluttante a estendere il proprio campo d'azione, un cowboy conservatore della vecchia scuola. È bastato dire al giudice che le argomentazioni dell'avversario avrebbero offeso un altro ramo delle istituzioni e lui ha fatto marcia indietro. Abbiamo avuto la peggio nella discussione sull'unificazione dei procedimenti e questa mattina ci giochiamo l'ultima chance di evitare un miniprocesso alle iniquità di Nocedicocco che potrebbe rivelarsi disastroso. Magari non sarà un evento decisivo - un uomo e una donna che cavillano sul concetto di vizio -, ma, se il seme si deposita nella mente dei giurati, può bastare a Kline per giustiziare in anticipo il nostro cliente. Questa mattina ci diamo battaglia sulla questione delle prove, e cioè se l'accusa ha elementi sufficienti per portare realmente avanti la denuncia di istigazione alla prostituzione nei confronti di Nocedicocco. Con Brittany Hall morta e il microfono che non ha funzionato, la nostra tesi è che non ci sono prove. Ma, ancora una volta, Kline si è dimostrato un uomo pieno di risorse. Afferma di avere un testimone e di poterlo produrre. «Allora procediamo», dice Radovich.
Qualche attimo dopo il cancelliere fa entrare un uomo sulla trentina, vestito con abiti sportivi, e lo accompagna al banco dei testimoni. L'uomo presta giuramento e sale sulla pedana per andare a sedersi. Kline attacca con il suo testimone mentre Lenore, seduta di fianco a me, ribolle di rabbia. «Dica il suo nome perché venga messo a verbale.» «Harold Frost.» Harold è conosciuto tra i colleghi anche con il soprannome di «Jack» per via del suo temperamento. È un uomo di ghiaccio, uno che in caso di necessità sarebbe capace di spararti quattro volte e dimostrare tanto rimorso quanto una pietra. È uno spilungone completamente calvo, tranne che per una frangetta di peli castani proprio sopra le orecchie; ha gli occhi ravvicinati e il naso adunco come il becco di un falco, tratto che, secondo alcuni, rispecchia i suoi scrupoli. Se dovessi cercare nella polizia qualcuno in grado di mettere alla prova la resistenza alla forza della verità sul banco dei testimoni, quel qualcuno sarebbe Jack Frost. «Vuole dirci che lavoro fa?» «Sono sergente nel dipartimento di polizia di Capital City.» «E da quanto tempo ricopre questo incarico?» «Tredici anni.» «In che squadra lavora attualmente?» «Nella buoncostume.» Kline non perde tempo in finezze. Punta dritto alla giugulare, richiamando l'attenzione del teste sulla notte in cui Acosta venne arrestato nella camera d'albergo in compagnia della Hall. Frost spiega che era in missione speciale con la buoncostume, parte di una squadra - tre uomini e una donna - assegnata al Fairmore Hotel il cui compito consisteva nello scoprire l'attività di ragazze squillo d'alto bordo negli hotel di lusso della città. «Stavamo cercando di incastrare i clienti per scoraggiare il commercio.» Così lo definisce lui. «E quella sera ha avuto occasione di effettuare un arresto?» «Sì.» «Ricorda chi avete arrestato e con quale accusa?» «Lui.» Frost punta l'indice in direzione del nostro cliente. «È stato arrestato e accusato sulla base dell'articolo 647 B.» «Chiedo venga messo a verbale che il teste ha identificato l'imputato, Armando Acosta.» Radovich annuisce.
«È un articolo del Codice Penale?» chiede Kline. «Esatto.» «E che cosa riguarda l'articolo 647 B del Codice Penale, sergente?» «Istigazione a commettere un atto di prostituzione. È un reato minore.» «Ma è un reato che implica corruzione morale, giusto?» «Obiezione. Si chiede un giudizio legale», interviene Lenore. «Accolta.» Kline vorrebbe tanto far passare questo concetto. Darebbe forza alla questione del movente: un giudice minacciato di rimozione dall'incarico, e che rischia la carriera, avrebbe tutti i motivi per tappare la bocca a una testimone. «È lei che ha effettuato l'arresto quella notte?» «Io insieme a un collega.» «Chi era il suo collega?» «Il mio compagno, Jerry Smathers.» «Ci dica, sergente, è la prassi normale arrestare fisicamente un sospettato in un caso come questo?» «Di solito viene denunciato e subito rilasciato.» «Ci spieghi meglio la procedura.» «Obiezione», dice Lenore dal tavolo. «Irrilevante. La questione, qui, non è se il nostro cliente sia stato arrestato o denunciato, ma se l'accusa abbia al momento prove sufficienti a sostenere una detenzione o un processo.» «Respinta», dice il giudice. Kline fa cenno al testimone di rispondere. «Nella maggior parte dei casi», dice Frost, «la persona viene identificata, di solito grazie alla patente di guida, dalla quale si ricava anche l'indirizzo; poi all'indiziato viene chiesto di firmare un documento col quale si impegna a presentarsi in tribunale.» «Come per le infrazioni al codice della strada?» chiede Kline. «Esatto.» «E perché ih questo caso non è andata così?» «Perché l'imputato si è rifiutato di firmare la citazione.» «Si è rifiutato?» Kline si volta verso i giornalisti per fare un po' di scena. «Sì.» «Ha spiegato il perché?» «Non esattamente.» «Cosa ha detto?» «Ha detto che erano tutte stronzate.»
«Sono state queste le sue testuali parole?» «Ha detto che tutta la faccenda era una stronzata. E che noi eravamo dei magnaccia.» Kline si prende un attimo di tempo per guardare verso i giornalisti. Le penne volano. Si sente un rumore, come se una gallina stesse razzolando sulla carta. «L'imputato non ha dato altra spiegazione al suo rifiuto di firmare la citazione?» chiede Kline. «Ci ha chiesto se sapevamo chi fosse.» Grande sfoggio di mimica facciale da parte di Kline, che si dimostra sorpreso. È molto bravo in questo. «E lei cosa ha risposto?» «Ho risposto che non mi interessava chi fosse. E che se non firmava la citazione lo avremmo arrestato.» «E lui cosa ha detto?» «Mi ha detto che potevo infilarmela nel culo.» Acosta mi si avvicina e mi sussurra all'orecchio: «È tutto vero. Ho perso la calma. Però è anche vero che lui è un magnaccia», aggiunge. «Sapeva che il sospettato era un giudice di tribunale?» chiede Kline. «Sapevo chi era.» «E questo l'ha influenzata?» Per i tipi come Jack Frost, sapere una cosa simile equivale a dipingere un bersaglio sulla fronte dell'indiziato. «No, non mi ha influenzato.» «E a quel punto lo ha arrestato?» «Abbiamo cercato di farlo ragionare.» Controllerei volentieri la torcia di Frost per vedere se è ammaccata. Li conosco bene i suoi metodi di persuasione. «Gli ho detto che, se avesse firmato, non saremmo stati costretti ad arrestarlo e che avrebbe potuto andarsene a casa.» «Non è vero», mi dice Acosta. E aggiunge altre rivelazioni. «Mi hanno ammanettato immediatamente. Non hanno neppure accennato alla citazione. E mi hanno portato là con l'inganno.» «Ma lui ha continuato a rifiutarsi di firmare?» «Esatto. È diventato veramente offensivo», dice Frost. «Ha usato ancora un linguaggio osceno?» chiede Kline. «Obiezione. Si suggerisce al teste.» «Accolta. Lasci che sia il teste a formulare le risposte», ordina Rado-
vich. «Certo, vostro onore», dice Kline con un sorriso. Come può la corte pensare che qui venga detto qualcosa che non sia l'assoluta verità? «Proceda», dice Radovich. «E allora cos'avete fatto, sergente?» «Siamo stati costretti ad arrestarlo.» Segue una pausa. Kline si avvicina al podio, si volta e vi si appoggia. «Vorrei chiederle di ripensare con attenzione ai momenti immediatamente precedenti l'arresto dell'imputato, prima che voi entraste in quella stanza d'albergo, e di spiegare alla corte chi era presente in quella stanza del Fairmore Hotel in quel momento.» «Prima che io entrassi?» «Sì.» «Dovevano esserci la donna che faceva da esca, Brittany Hall, e l'imputato.» «Soltanto loro due. Soli. Nessun altro agente, nessun testimone?» «Esatto.» «E lei dove si trovava in quel momento?» «Ero fuori della porta.» «E che cosa ci faceva là, fuori della porta?» «Cercavo di ascoltare.» «Perché?» «Per sicurezza», risponde il poliziotto. «Ci avevano avvertito che il microfono addosso all'esca funzionava male.» «Vi avevano avvertiti?» «Esatto.» «E così stavate fuori della porta nel caso l'esca avesse avuto bisogno d'aiuto?» «Sì.» «E ascoltavate?» «Esatto.» «L'esca era una donna poliziotto?» «No. Era un'agente di riserva, una studentessa di criminologia che si era offerta volontaria per quel particolare incarico.» «E aveva già avuto incarichi simili, prima di allora?» «Quattro o cinque volte, che io sappia.» «E mentre si trovava fuori della porta della camera del Fairmore Hotel, quella notte, ha avuto modo di ascoltare qualche parte della conversazione
tra l'imputato e la signora Hall?» «Sì.» «E cosa ha sentito?» «Ho sentito l'imputato offrire del denaro all'esca in cambio di una prestazione.» Lenore alza gli occhi al cielo. «Non è vero!» esclama Acosta. Radovich dà un colpo col martelletto e Acosta si morde la lingua. «Quanti soldi ha offerto l'imputato alla signora Hall in cambio di una prestazione sessuale?» «Duecento dollari», dice Frost. «E, esattamente, in che termini si è riferito all'atto sessuale? È entrato nei dettagli?» «Mezzo e mezzo», dice Frost. Sguardo interrogativo da parte di Kline. «Rapporto orale seguito da quello sessuale», precisa Frost. Le penne scorrono frenetiche nelle file della stampa dietro di me. «È stato lui a suggerire questo, oppure l'esca?» «No, no. È stato l'imputato.» «È per questo motivo che non volevo un'udienza preliminare», mi sussurra Acosta. «Vede cosa stanno cercando di fare? Sono tutte menzogne.» Si volta verso Lili e scuote la testa. Anche se non può negarlo pubblicamente, se non altro può farlo in privato, con l'unica persona che potrebbe restarne più ferita. Le dice, muovendo le labbra: «Non è vero». «Vostro onore!» Kline si è accorto che Acosta si è voltato indietro. I giornalisti riescono a leggergli le labbra. «Signor Acosta.» Con una mano Radovich gli fa segno di voltarsi e di guardare avanti, poi guarda me come se fossi venuto meno al mio compito di baby sitter. «Prosegua, avvocato.» Pare che Radovich non si stia affatto divertendo. «Dunque lei ha chiaramente sentito l'imputato offrire del denaro in cambio di sesso.» «Sì.» «E può testimoniarlo in sede di processo, in un'aula di tribunale, sotto giuramento?» «Certo.» Per il momento Kline ha quello che vuole, l'offerta di denaro, il primo elemento del reato, il motivo. Fa ancora qualche domanda futile, del tipo:
«È stato lui a suggerire l'atto sessuale?» oppure: «Chi ha portato la conversazione sull'argomento sesso?» Tutto questo mira a dimostrare che Acosta non è stato incastrato, e che il reato è originato dalla sua mente. «L'imputato ha fatto qualcosa, dopo?» «Obiezione», dice Lenore. «Domanda senza fondamento. Il teste non ha mai detto che poteva vedere quello che stavano facendo.» «Poteva vederli?» chiede il giudice. «No.» «Accolta. Passiamo a un'altra domanda.» Kline sta cercando l'altro elemento, l'atto manifesto, che potrebbe essere dimostrato in parecchi modi: denaro pagato, pantaloni calati. Il problema è che spogliarsi o consegnare denaro non richiede parole, a meno che l'esca non stia contando il resto o consegnando una ricevuta. Davanti al banco dei testimoni Kline raduna le idee e per un attimo studia il poliziotto. «Sergente Frost. Ha sentito qualcos'altro fuori di quella porta, quella sera?» «Che cosa? Tipo fruscio di vestiti o di banconote? Ma smettiamola!» sbotta Lenore. «Sta avanzando un'obiezione o no?» chiede Radovich. «Sta suggerendo la risposta», dice Lenore. «Respinta.» «Ha sentito qualcos'altro fuori della stanza, quella sera?» insiste Kline. «Ehm, io... io ho sentito la signora Hall dire...» «Obiezione. Testimonianza indiretta.» «Accolta.» «Lasci che le faccia un'altra domanda», dice Kline. «Come ha fatto ad accedere alla stanza in cui si trovavano l'imputato e la signora Hall?» «Avevo una tessera magnetica. Un passe-partout.» «Bene, sergente. E lei lo ha usato per entrare nella stanza?» «Sì.» «E che cosa ha visto quando è entrato in quella stanza?» Frost ci pensa su un momento. Non capisce. «L'imputato e la signora Hall.» Kline annuisce per incoraggiarlo. Frost continua a non capire. Alla fine Kline cede e formula la domanda. «Sergente, cosa stava facendo esattamente l'imputato quando lei è entra-
to nella stanza quella notte?» «Ah», dice. «Aveva messo le mani addosso alla signora Hall e la stava spingendo verso il letto.» «È una menzogna!» Prima che io riesca a trattenerlo Acosta schizza in piedi. Un agente gli si avvicina immediatamente alle spalle. «Signor Acosta, stia zitto. Avrà la possibilità di parlare in seguito», dice Radovich. È peggio di quanto mi potessi aspettare. Altro che atto manifesto, qui si implica pure l'uso della forza. Considerato il fatto che la ragazza è stata in un secondo tempo assassinata, questo elemento è altamente pregiudizievole. «Il teste mente», dice Acosta. «Lasci che sia il suo avvocato a occuparsi di questo», ribatte il giudice, facendo cenno a Kline di proseguire. «Ha detto che l'imputato stava spingendo la signora Hall verso il letto. Ne è sicuro?» «Questo è ciò che ho visto.» «E che conclusioni ne ha tratto?» «Obiezione. Si richiede di formulare un'ipotesi.» «Accolta.» «Lei lo ha visto spingere la donna verso il letto?» Frost ha un attimo di esitazione, un attimo fuggente di verità. Kline sa che deve ottenere la risposta giusta oppure rischia grosso. «Sì», dice Frost. Il rilassamento delle spalle, l'espressione di sollievo sul volto di Kline sono quasi palpabili. «Grazie, sergente. Il teste è suo», conclude. In quanto a prova lascia aperti molti interrogativi. Sfortunatamente, però, sono tutti interrogativi che riguardano i fatti e che sta alla giuria sciogliere, cosa che noi non vogliamo. Lenore si avvicina al podio con tutta la determinazione di un bull terrier che dà la caccia a un topo. «Buon giorno.» Il saluto è rivolto a Frost, il cui sorriso tirato fa venire in mente due elastici. «Sergente Frost, lei ha detto di essere stato avvertito che il microfono indossato dalla signora Hall quella sera non funzionava a dovere. È corretto?» «Sì.»
«E quando gliel'hanno detto?» «Non lo so. Qualche minuto prima di salire.» «Quindi lei non è stato fuori della porta per tutto il tempo?» «No.» «E quanto c'è stato?» «Non lo so. Non ho guardato l'orologio.» Sta evitando i dettagli. «Più di un minuto?» «Sì.» «Più di cinque minuti?» «Non so.» «Più di due minuti?» «Gliel'ho già detto, non lo so.» «Quindi potrebbero essere stati più di due minuti?» «Probabilmente sì.» «E lei stava in piedi oppure era inginocchiato?» «In piedi, credo.» «Non se lo ricorda?» «Non con esattezza», dice Frost. «Era forse sdraiato sul pavimento?» Lui la guarda come se questa domanda fosse destinata a fargli fare la figura dello stupido. «No.» «Dunque, lei è stato da due a cinque minuti, in piedi o in ginocchio, e a un certo punto, prima di salire, ma lei non sa esattamente quando, l'hanno avvertita che il microfono dell'esca aveva smesso di funzionare?» Frost le rivolge uno sguardo che potrebbe uccidere, ma non offre altra risposta. «Chi le ha detto che il microfono aveva smesso di funzionare?» Ci pensa un momento. «Non ricordo. Uno degli altri agenti.» «Bene, cerchiamo di precisare meglio. Lei ha detto che eravate solo in quattro assegnati alla squadra quella sera. Giusto?» «Sì.» «E non poteva trattarsi della signora Hall. Lei era impegnata nella stanza?» «Esatto.» «Quindi doveva trattarsi del suo compagno, Smathers, oppure dell'altra persona. Chi era l'altra persona assegnata alla squadra quella sera?» «È stato Smathers», dice Frost. All'improvviso gli è tornata la memoria. «Ricordo che era lui l'addetto al microfono.»
Lenore non si lascia distrarre. «Chi era la quarta persona della squadra, quella notte?» «Un pezzo grosso», dice Frost. Sta scuotendo la testa, incerto. «Uno che non conoscevo. Un tenente assegnato dalla centrale. Credo che fosse lì per controllare le operazioni.» «Era lì per controllarla e lei non ha chiesto il suo nome?» «Me l'hanno detto, ma non me lo ricordo.» «Però lei ricorda tutti i particolari della conversazione tra l'imputato e la signora Hall.» «Ero concentrato su quello», dice lui. «Ci credo.» «Possiamo fare a meno dei commenti», dice Radovich. «Sì, vostro onore. Era una cosa normale, sergente? Che una persona venisse assegnata dalla centrale?» «A volte succede», dice Frost. «Volevano vedere come ce la cavavamo. Nel caso ci fossero stati reclami.» «Lei è stato oggetto di molti reclami, sergente?» «No.» «E non ricorda il nome del tenente?» Ci pensa su un attimo. «No. Ma dovrebbe essere scritto sul rapporto.» E invece non c'è. Prima, quando Frost ha dichiarato che quella sera la squadra era composta da quattro persone, ho lanciato un'occhiata a Lenore. Il rapporto dell'arresto parla solo di tre: Hall, Frost e Smathers. L'uomo misterioso non rientra nell'equazione. «Da allora ha più visto questo poliziotto?» «Hmm...» Si spreme. «No.» «Parliamo un po' del microfono», dice Lenore. «Vi era mai accaduto prima? Di avere problemi con l'attrezzatura elettronica?» «Qualche volta.» «Sa da cosa sono causati?» Frost fa un'espressione che indica che ci possono essere un milione di motivi. «Sono apparecchi delicati. A volte si bagnano.» «E quella sera pioveva, nella camera, sergente?» Sorrisi dalle file della stampa. Frost la guarda. È l'immagine del sarcasmo. «No.» «L'esca stava facendo una doccia?» «No, ma può essere che abbia sudato.» «Stava sudando?»
«Come faccio a saperlo? Non ero dentro il suo reggiseno.» «Lei non poteva vederla, vero?» «No.» «Non c'era un buco della serratura nella porta, vero?» «No.» «Che tipo di serratura era?» «Elettronica», risponde lui. «Si infila un tessera nella fessura, la si tira fuori e la serratura scatta. Si spinge e la porta si apre.» «Quanto era spessa la porta, sergente Frost?» «Non lo so. Non ci ho fatto caso.» «Tre centimetri? Cinque?» «Come ho già detto, non ci ho fatto caso.» «Era pesante, era dura da spingere, quando lei l'ha aperta?» «Era una porta d'albergo», risponde. «Non l'ho abbattuta. L'ho solo aperta.» «Sa se era di legno o di metallo?» «Non l'ho fatta analizzare. Non saprei dirlo.» «Sergente Frost, la sorprenderebbe se le dicessi che quella porta era spessa quattro centimetri, con la cornice e il pannello esterno di metallo, riempita di isolante in modo da essere non solo antincendio, ma praticamente insonorizzata?» Fa una smorfia. Si stringe nelle spalle. «Forse c'erano le pareti sottili», dice. «Qual era il tono di voce usato dalla signora Hall e dall'imputato, quella sera?» «Cosa intende dire?» «Voglio dire, stavano urlando, sussurrando, oppure parlando in tono normale?» «Non lo so.» «Un attimo fa ci ha detto di averli uditi.» «È vero», conferma lui. «Dunque che tono di voce stavano usando?» «Normale. Un tono normale.» Lenore gli volta le spalle, ma resta vicino al banco dei testimoni. Abbassa il tono di voce di un'ottava. «Sergente, quando è stata l'ultima volta che si è fatto controllare l'udito?» «Cosa?» «Obiezione. Vostro onore, è un trucco di bassa lega», scatta Kline. «Mi
sarei aspettato qualcosa di più da un avvocato serio.» «Spiacente di deluderla, ma lei è riuscito a sentirmi.» Lenore ha trasformato Kline in un suo testimone. «Lei stava parlando verso di me, dava le spalle al teste», protesta lui. «Per ammissione del teste stesso, c'era una porta tra lui e le due persone nella stanza, quella sera, quattro centimetri di acciaio e isolante acustico, e lui ci ha appena detto che stavano parlando con un tono di voce normale. Se non è riuscito a sentire me, non poteva sentire loro.» «Dunque adesso è un'esperta in acustica», dice Kline. «Lei non ha idea di ciò che lui ha sentito quella sera.» «Non ce l'ha neppure lui», ribatte Lenore, puntando il dito verso Frost. «La prossima cosa che ci dirà è che ha la vista a raggi X. E sono sicura che, prima che abbiamo concluso, indosserà mantello e calzamaglia e si metterà a volare nell'aula.» «Avvocato!» A Radovich questo non piace. «Se ha qualche obiezione da fare, la faccia e si rivolga alla corte.» «Vorrei che questa... questa...» - Kline sta cercando un termine abbastanza spregiativo per descrivere la sceneggiata di Lenore - «...questa esibizione» - non riesce a trovare niente di meglio - «venisse cancellata dal verbale.» «Respinta», dice Radovich. Il 'Cosa?' del teste rimarrà a verbale.» «Gradirei avere una risposta alla mia domanda», dice Lenore. «Quando è stata l'ultima volta che si è fatto controllare l'udito?» Aggiunge l'insulto al danno. «Faccio un check-up completo ogni anno.» «E questo check-up comprende un controllo dell'udito, oppure si limitano a guardarle dentro le orecchie?» «Guardano le orecchie.» «E ci hanno trovato dentro qualcosa?» «Obiezione!» Kline è di nuovo in piedi. «Accolta. Signora Goya, lei sta mettendo a dura prova la pazienza di questa corte.» «Chiedo scusa, vostro onore.» «Prosegua.» Kline si risiede. Lenore studia i pannelli del soffitto dell'aula per un momento, radunando le idee. «Sergente», dice, «quella sera la signora Hall aveva ricevuto qualche i-
struzione che garantisse la sua sicurezza personale?» «Tipo?» «Be', avevate una giovane donna che stava per sparire dietro una porta chiusa in compagnia di estranei. Non avevate idea se i potenziali indiziati potessero essere armati. Devono essere state prese precauzioni. Era armata?» «No.» «C'era qualche segnale che lei poteva darvi se si fosse trovata in difficoltà?» «Tipo?» «Tipo una parola chiave. Un modo per avvertirvi che aveva bisogno di aiuto.» «Avevamo un segnale.» «Quindi se l'esca dava questo segnale, voi lo avreste ricevuto attraverso il microfono e avreste capito che lei era nei guai. E sareste accorsi.» «Esatto.» «Il rapporto della polizia parla di un sistema di sicurezza di riserva usato quella sera.» «C'era un pulsante antipanico», dice lui. «Potrebbe spiegare alla corte che cos'è un pulsante antipanico?» «È scritto nel rapporto.» «Bene. Ce lo spieghi lo stesso.» «È un trasmettitore regolato su una frequenza diversa rispetto al microfono. A volte è attaccato agli abiti dell'esca. Di solito sta nella borsetta.» «Una specie di SOS?» «Diciamo di sì.» «Questo trasmettitore è una cosa che usate sempre?» «No, solo in certi casi.» «E perché è stato usato in questo caso?» «Non lo so.» «Potrebbe essere perché qualcuno aveva previsto in anticipo che il microfono non avrebbe funzionato?» «No. Non è per questo», dice lui. «È solo che in certi casi lo usavamo e in altri no.» Quello che vogliamo dimostrare è chiaro, e cioè che se la polizia voleva incastrare Acosta facendogli incontrare la Hall con un pretesto, non avrebbe voluto che la conversazione venisse registrata. Se lui fosse andato su di giri, una parola in codice sarebbe stata inutile senza un microfono che fun-
zionasse. Il pulsante era l'unica àncora di salvezza per la donna. «Quali istruzioni avete dato alla signora Hall? Come le era stato detto di usare il segnale in codice e il pulsante antipanico?» «Prima il segnale. Poi il pulsante, solo se il primo non avesse funzionato.» «E perché non il pulsante per primo?» «È sempre rischioso usarlo. Il cliente potrebbe accorgersene e diventare violento.» «La signora Hall era piuttosto sveglia? Aveva i nervi saldi?» «Sì.» «Sapeva quello che faceva?» «Lo può ben dire.» «Dunque avrebbe seguito le istruzioni a dovere?» Frost assume un'espressione abbastanza convinta e annuisce. «Devo interpretarlo come un sì?» «Sì.» «Che lei sappia, la Hall aveva mai usato prima queste procedure di sicurezza?» «Il segnale in codice, sì. Ne aveva avuto bisogno un paio di volte con altri clienti. Il pulsante non lo aveva mai visto. Abbiamo dovuto spiegarle come usarlo.» «Qual era il segnale in codice quella sera?» «Una frase. Ma non me la ricordo. Le cambiamo ogni volta.» «'È una notte calda'?» chiede Lenore. Questo nel rapporto della polizia non c'era. Kline guarda Lenore, i suoi occhi sono due piccole fessure. Sa che c'è un solo modo con cui lei può avere raccolto questa informazione: il colloquio con Brittany Hall, quel giorno, nel suo ufficio. Vedo che prende un appunto sulla copertina di un fascicolo. «Qual era il segnale in codice per indicare che c'erano guai, quella sera?» insiste Lenore. «'È una notte calda'?» «Potrebbe essere stato quello», risponde lui. «Mi pare di sì.» «Ha sentito l'esca pronunciare queste parole quella notte? L'ha sentita dire: 'E una notte calda'?» «No.» «Però lei stava ascoltando dietro la porta, giusto?» «Giusto.» «E ha sentito la conversazione tra l'imputato e la signora Hall? Le loro
voci che parlavano in tono normale ed enunciavano tutti i termini della transazione?» «Esatto.» «Ma non ha sentito l'esca pronunciare le parole 'È una notte calda'?» «No.» «Non è forse vero, sergente, che l'esca ha pronunciato quella frase non una, ma tre volte, in tre momenti diversi, e voi non l'avete sentita, perché attraverso quella porta non potevate sentire niente?» «No, non è vero.» Lenore può aver appreso queste informazioni soltanto dalla Hall, e Kline lo sa. «E allora come spiega il fatto che avete risposto all'SOS, il segnale elettronico emesso dal pulsante antipanico che alla Hall era stato ordinato di non usare a meno che il segnale in codice non avesse funzionato?» Questo c'è, sui rapporti della polizia. È una verità innegabile. Frost è entrato nella stanza solo dopo essere stato informato che era partito il segnale d'emergenza. «Forse si è fatta prendere dal panico», dice. «Sarà stato un errore.» «Già.» È questo il problema con le piccole discrepanze: tendono a moltiplicarsi come mosche. «Sergente Frost, lei ha detto di aver udito la conversazione tra l'imputato e la signora Hall dalla sua posizione fuori della porta. Che cosa ha sentito, esattamente?» «Ho sentito l'imputato offrire del denaro alla signora Hall in cambio di sesso.» «Sì, Abbiamo già sentito che ha testimoniato in tal senso. Ma quali sono state le parole dell'imputato? Esattamente?» «Non me le sono scritte.» «Dunque non riesce a ricordarle?» Questo potrebbe risultare fatale per la tesi di Kline. «Non ho detto questo.» «Allora cosa ha detto l'imputato?» «Ha negoziato con lei», risponde Frost. «Voleva lo sconto?» Il teste fa una faccia come per dire che a volte succede. Ci pensa su per un attimo. «'Cosa ne dici di duecento... due centoni'... qualcosa del genere.»
«Non può essere un po' più preciso?» Frost fa una smorfia, riflette. «Ha detto...» Ha un momento di esitazione. «Ha detto: 'Ti darò duecento dollari per fare del sesso'.» Ci manca poco che Lenore scoppi a ridere per il tentativo di tono colloquiale. Come se il cliente stesse comprando del latte. «Quelle sono state le sue parole precise? 'Ti darò duecento dollari per fare del sesso'?» «Esatto.» «Un momento fa lei ha detto 'mezzo e mezzo'.» «Che differenza fa?» mi sussurra Acosta all'orecchio. «Sono tutte menzogne.» «Allora dovremmo estirparle come un cancro», gli rispondo, sempre sussurrando. Quando i nostri sguardi si incontrano avviene, per la prima volta, un incontro di menti. C'è, nella sua espressione, qualcosa che mi porta a credergli. Non che io pensi che Nocedicocco sia incapace di commettere simili azioni. Probabilmente le avrà fatte, qualche altra volta. Ma non questa. «Forse ha detto: 'Ti darò duecento dollari per un mezzo e mezzo'», ammette Frost. «Allora, quale delle due?» «Mezzo e mezzo. Ha detto 'mezzo e mezzo'.» Ha un'espressione soddisfatta. È una bugia con la quale può convivere. Quanto dev'essere grossa una menzogna per stare in nove parole? «E lei è sicuro per quanto riguarda i duecento dollari?» «Assolutamente.» Frost annuisce con giudizio. Di fianco a me, Acosta freme. «È una menzogna del cazzo.» Se non altro, il termine è adeguato. «Voglio testimoniare», mi dice. Disastro incombente. Gli dico di stare calmo. Per un attimo Lenore volta le spalle al testimone e consulta alcuni fogli. Ne prende uno e lo sbatte sul tavolo davanti al naso di Kline. Lui lo prende e inizia a leggere. Prima che sia arrivato in fondo, Lenore chiede al giudice il permesso di avvicinarsi al testimone. Radovich annuisce e Lenore, strada facendo, consegna un foglio anche al giudice. «Sergente, ora le mostrerò un documento e le chiederò se può identificarlo.» Consegna il terzo foglio al testimone. Lui lo guarda. «Sa che cos'è?»
«Un inventario», risponde lui. «E da dove viene? Chi lo ha emesso?» «Il carcere della contea.» «Quale è lo scopo di questo particolare modulo?» «Dar conto degli effetti personali di un sospettato nel momento in cui viene arrestato.» «Ha già visto questi moduli prima d'ora? Magari non questo in particolare, ma altri simili?» «Certo.» Frost lascia cadere il foglio sulla balaustra del banco dei testimoni e distoglie lo sguardo da esso. «E questo particolare modulo ha un nome scritto sopra?» «Sì», risponde lui senza guardare. «Il nome di chi?» «Dell'imputato. Armando Acosta.» «E l'accusa?» «647 B.» «Quello è l'inventario degli effetti personali emesso la notte in questione?» «Così pare.» «Su quel modulo, sergente, c'è una casella intitolata 'contanti'?» Lo sguardo di Frost si fa improvvisamente vuoto, come lo sguardo di un uomo che si è rivoltato verso l'interno, alla ricerca di un'anima che non c'è. «Sergente, le vorrei chiedere di guardare nella casella intitolata 'contanti' e dirmi che cosa vede.» Frost prende in mano il foglio e lo guarda. Improvvisamente capisce. Rimane di sasso e non risponde. «Mi dica, sergente: la vostra esca accettava carte di credito? O forse era abituata a ricevere assegni personali dai clienti? Che cosa c'è scritto in quella casella, sergente?» Frost guarda Kline, che non può aiutarlo. «Ci dica, sergente, com'è possibile che l'imputato possa aver offerto alla vostra esca un compenso di duecento dollari per i suoi servizi, quando quella sera aveva in tasca solo quarantadue dollari e ventisette centesimi? Forse la signora Hall aveva distribuito in precedenza buoni sconto? Mi risponda, sergente.» «Non lo so», dice Frost. «Io so solo quello che ho sentito.» «Non è una prassi comune, in questo tipo di arresti, aspettare fino a che l'indiziato non tira fuori i soldi, e solo dopo effettuare l'arresto?» Questo è
un problema, per l'accusa, perché il rapporto di polizia dice chiaramente che la Hall non ha ricevuto denaro. A questo punto il volto di Frost è tutto ammissioni. «In alcuni casi», conviene. «Non è quello che vi dicono di fare praticamente in tutti i casi? Di aspettare finché non vedete i soldi? Non è proprio questo, il passaggio di denaro, l'atto manifesto di solito richiesto per effettuare un arresto?» «Talvolta.» «Non talvolta, sergente. Non è questo che vi dicono? Non è la procedura standard in arresti di questo tipo?» «Obiezione. L'avvocato sta discutendo col teste», esclama Kline. «A me sembra che stia argomentando», risponde Radovich. «Respinta.» Il giudice sta aspettando la risposta. «Ci dica, sergente, perché quella sera lei è entrato nella stanza prima che l'imputato avesse pagato la vostra esca?» «Non lo so», dice lui. «Il microfono non funzionava. Immagino di essermi fatto prendere dal panico.» «Però lei sentiva quello che stava succedendo. È quanto ci ha detto. Esatto?» «Sì.» «Non è vero, sergente, che non è stata pagata alcuna somma di denaro perché l'imputato quella notte non ha mai offerto del denaro? E che la loro conversazione non aveva niente a che fare con la prostituzione?» In sottofondo si sente il rumore di matite che grattano sulla carta. Dalle file della stampa giungono occhiate stupite. I giornalisti si domandano di cosa possano aver parlato i due. «Non è vero.» «E allora come spiega un'offerta di duecento dollari quando l'imputato non aveva con sé duecento dollari?» «Forse sperava che lei gli facesse credito», risponde Frost. «Chiedo che questa frase venga cancellata dal verbale. Il teste non ha risposto alla domanda.» «Accolta», dice il giudice. «Risponda alla domanda», ordina. «Non posso», ribatte Frost. «Non lo so.» È questo il problema, con le bugie. 12.
«Hai capito cosa intendevo dire a proposito di Radovich», mi dice Harry. «Potrà anche non conoscere la legge, ma ha un sesto senso per ciò che è giusto.» A Harry questo giudice campagnolo piace. «Ci scommetto che è pure democratico», prosegue. Harry sarebbe felicissimo di avere sempre di fronte un giudice dal cuore tenero. Quando osservo i suoi clienti capisco perché. Questa mattina, direi che per tutti noi, Lenore e me compresi, Radovich si è guadagnato un posto in cima alle nostre classifiche, subito sotto l'Onnipotente. Ha accettato la nostra istanza di sospensione. Non ci sarà un processo separato per l'accusa di istigazione alla prostituzione. «Ero convinta che le mie argomentazioni sull'unificazione dei processi gli fossero passate sopra la testa», dice Lenore. «Probabilmente è così», risponde Harry, «ma aveva bisogno di un appiglio filosofico cui attaccarsi.» Harry sta leggendo il dispositivo della corte, il documento di una sola pagina che annuncia la decisione di Radovich. Poi me lo porge. L'idea che si è fatto Harry è che il giudice non voleva permettere a Frost di influenzare negativamente una giuria con menzogne così evidenti. Ma, poiché la questione della credibilità è di pertinenza della giuria, Radovich ha risolto la faccenda decidendo per l'unificazione dei due procedimenti. Anche se ha vinto, Lenore sembra comunque irritata. Definisce il giudice uno che mira soltanto al risultato. «Ha preso la decisione giusta per i motivi sbagliati», dichiara. «Piantala», dice Harry. «Abbiamo vinto.» «Vincere non è tutto», ribatte lei. «No. Ma è l'unica cosa che conta.» «Lascia perdere. Tanto non capiresti.» Penso che lei volesse sì battere Kline, ma a modo suo: una vittoria dettata dalla ragione, non dalla convenienza. Il fatto che al giudice siano sfuggite le sfumature legali delle sue argomentazioni sminuisce la vittoria. Mentre loro due continuano a beccarsi, io mi leggo l'ordinanza del tribunale. Il documento informa Kline che, se vuole trattare congiuntamente i due casi - l'arresto di Acosta per istigazione alla prostituzione e il successivo omicidio -, il tribunale esaminerà un'istanza a tempo debito. Kline è stato visto uscire come una furia dal tribunale, farfugliando qualcosa a proposito della mancanza di etica professionale di Lenore. Questo non è l'inizio di un processo: è solo la prima schermaglia di una faida che cova da tempo.
Questa mattina siamo riuniti nel mio ufficio per discutere delle più recenti rivelazioni, un torrente continuo di materiale probatorio esibito dall'accusa. «Ti pare che stiano presentando tutto?» chiedo a Harry. Voglio sapere se l'accusa sta nascondendo la palla o se ha messo sul tavolo tutte le prove. Harry è diventato il custode della documentazione e ora nuota in un mare di carte impilate fino a metà parete nel suo ufficio. È esattamente questo che fanno gli avvocati: nascondono gli alberi nella foresta. È seduto su una delle poltroncine all'angolo della mia scrivania, e ha davanti pile di moduli e rapporti. Lenore vaga per l'ufficio, uno spirito libero che cammina avanti e indietro alle sue spalle: un braccio appoggiato orizzontalmente alla vita dà appoggio al gomito dell'altro braccio, che sorregge il mento. La classica posa di Lenore quando medita. «E chi lo sa?» risponde Harry. «Tutti cerchiamo di fare i furbi.» In questo, Harry è maestro. Il fattore confusione. «Che cosa sarebbe un processo senza sorprese!» Se Harry potesse fare a modo suo, ogni testimone verrebbe consegnato al banco dentro un pacco, come quelle scatole a sorpresa da cui esce il pupazzo a molla. Comincia a raccontarci quello che ha. «L'esame delle impronte digitali a casa della ragazza ha dato esito negativo: pare che abbiano avuto difficoltà persino a trovare quelle della vittima. O aveva una donna delle pulizie veramente scrupolosa, oppure l'appartamento è stato ripulito dall'assassino... a parte l'impronta confusa di un pollice rinvenuta sulla porta d'ingresso.» Lenore e io ci guardiamo con occhi spalancati. Lei si stringe nelle spalle alzando i palmi delle mani, come per dire che non può essere la sua. Tutto questo alle spalle di Harry, che non si accorge di nulla. «Sono riusciti a risalire a qualcuno?» chiedo. «Escludono che sia della ragazza. A parte questo, il rapporto è vago», dice Harry. «Ma al dipartimento di giustizia riescono a fare miracoli con quella bestia di computer.» Questo mi provoca un brivido gelido lungo la schiena. «Devo mandargli qualcosina, tanto per tenerli buoni?» chiede Harry. Vuole sapere se dobbiamo informarli di qualche elemento emerso dalle nostre indagini, per la legge del reciproco scambio del materiale probatorio. Gli rivolgo uno sguardo vuoto. In questo momento la mia mente è impegnata in altre cose, i microscopici solchi e volute lasciati sulla porta d'ingresso della casa della vittima.
«Cosa vuoi fare?» insiste. «Gli abbiamo nascosto le informazioni ricevute dall'ottico. Devo continuare così o passarle a Kline?» «Non lo so.» Chiedo a Lenore che cosa ne pensa. «Come? Scusa, non stavo ascoltando.» In questo momento le nostre menti stanno seguendo percorsi paralleli, quelli del panico. Faccio un veloce inventario del materiale che dovremmo consegnare. «Procedi pure», gli dico, alla fine. Lenore è d'accordo. «Dagli le informazioni, ma non rivelare l'elenco dei nostri testimoni. Non ha senso essere generosi.» Harry annuisce. Probabilmente sta ancora aggiungendo nomi pescati a caso dall'elenco telefonico alla nostra lista dei testimoni per non scoprirci con il procuratore e per far perdere tempo alla polizia che li deve controllare tutti, anche se quelli più importanti verranno a galla alla prima occhiata, non appena presenteremo l'elenco. Harry mi informa che l'accusa non ha ancora presentato la lista dei suoi testimoni. Questa è per noi una grossa fonte di preoccupazione, non solo per via degli esperti che potrebbero essere convocati, ma anche perché così non sappiamo ancora se Oscar Nichols, il giudice con cui Acosta si è confidato lasciandosi andare a minacce di morte nei confronti della Hall, abbia parlato di questo con la polizia. «Potremmo andare a parlargli e chiederglielo», dice Harry. Lenore si lascia cadere sulla poltroncina di fianco a lui e finalmente si scuote dal suo fantasticare sull'impronta del pollice. «Sarebbe un errore», dice lei. «È rischioso. Magari Nichols non ha dato alcun peso ai commenti di Acosta. Una confidenza fatta da un amico, che nella sua mente non significa nulla. Se andiamo a fare tante domande finiamo col dare troppa importanza alla cosa. Potrebbe sentirsi obbligato a farsi avanti e raccontarlo alla polizia.» È una tesi valida. «È meglio che lasciamo le cose come stanno e aspettiamo gli eventi», dico a Harry. Lui mi lancia un'occhiata come per dire: «Stai di nuovo dalla sua parte». Gli chiedo di passare alla prova seguente. «Prima una brutta notizia: peli e fibre», annuncia Harry. «Ricordi il pelo di origine animale?» Annuisco. «Ispido, marrone rossiccio?» «Il nostro cliente ci ha detto che non possiede animali», gli ricordo. «È allergico.»
«Magari è vero», dice Harry, «ma la polizia ha trovato peli di consistenza e colore simili su parecchi mobili e tappeti della casa del giudice.» Poi mi guarda come per dire: «Te lo avevo detto». «E guarda che ne hanno trovati molti», prosegue. «Ma d'altra parte non c'è bisogno che gli trovino una palla di pelo in gola, no?» «Da dove viene?» «Cavalli», dice Harry. «Pare che madame vada a cavallo.» «Lili?» chiede Lenore. «Esatto. Un maneggio in campagna. Noleggia un cavallo e prende lezioni. Secondo quanto c'è scritto sul rapporto, ha cominciato otto mesi fa. La loro teoria» - Harry sta parlando della polizia - «è che sia stata lei a portare il pelo in casa e che il giudice ne abbia raccolto un po' con gli abiti. Dalle sedie, per esempio. E che in qualche modo il pelo sia arrivato sulla coperta nella quale è stato avvolto il corpo della ragazza.» Lancio un'occhiata a Lenore. Era con me alla prigione quel giorno in cui abbiamo interrogato Acosta e ha sentito i suoi categorici dinieghi. «È un po' difficile dimenticarsi di una cosa simile», faccio notare. «Un cavallo», continua Harry. «Dovrebbe ricordarselo, un cavallo.» «Tu gli hai chiesto se aveva animali domestici», puntualizza Lenore. «E lui non ne ha.» «Spero che, se arriverà sul banco dei testimoni, si dimostri più disponibile.» «Chissà!» fa Harry. Lenore scrolla le spalle. «I peli non sono una prova decisiva», dice. «Possono solo testimoniare che sono simili. C'è un sacco di gente che va a cavallo. Potremmo fare un giro dei maneggi della zona e prendere alcuni campioni. Se chiediamo ai nostri esperti, probabilmente scopriremo una decina di cavalli in stalle diverse che hanno il pelo simile.» «Sì, se avessero solo questo», dice Harry. «Ma ci sono anche le fibre. Quelle piccole fibre blu trovate sul corpo e sulla coperta. Ricordi?» Harry ci spiega che il rapporto dell'accusa conferma anche le cattive notizie che Mendel ci aveva già preannunciato quel giorno al carcere. Queste fibre di nylon blu corrispondono a quelle della moquette della macchina che Acosta ha ricevuto in uso dalla contea. «Ci sono un milione di veicoli simili con lo stesso tipo di tappezzeria», dice Lenore. «Ci scommetto che solo il Comune ne possiede una ventina. Se non di più.» Harry sta insistendo per avere un altro incontro con il nostro cliente,
qualcosa del tipo «Accostatevi al Signore, peccatori!» con tanto di lavaggio purificatore del cervello. «C'è qualcosa dal laboratorio di sierologia, la tipizzazione del sangue trovato nell'appartamento della ragazza?» chiedo. Potrebbe essere l'elemento che taglia la testa al toro, se l'assassino fosse rimasto ferito nella colluttazione. Se hanno trovato il gruppo sanguigno di Acosta, sono pronto a presentarmi alla prigione con un manganello insieme a Harry. «Tipo A», risponde. «Lo stesso della ragazza. Nient'altro. Lo stesso rinvenuto sulla coperta.» «Hanno trovato tracce di sangue sulla macchina del giudice?» chiedo. «Nel bagagliaio?» «Se anche fosse, non lo vengono a dire a noi.» Potrebbero anche tenercelo nascosto per farci una sorpresa, ma è un rischio. Radovich potrebbe fargliela pagare cara, punendoli addirittura con l'esclusione della prova. «Mancano ancora quattro giorni alla scadenza del termine per l'esibizione di tutte le prove», dice Harry. «Potrebbero comunicarcelo in qualsiasi momento.» «Perché aspettare tanto?» chiede Lenore. «Se hanno trovato del sangue sulla sua macchina, quattro giorni in più o in meno non fanno alcuna differenza. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo per controllare. Sarà il DNA a dire sì o no.» Penso che Lenore abbia ragione. Penso che abbiano cercato, ma senza trovare nulla. Quindi per loro è meglio non metterlo nel rapporto, anche se possono stare certi che al processo noi chiederemo spiegazioni sull'assenza di tracce di sangue all'interno del veicolo. Harry ci dice dell'appunto sul calendario della Hall, quello che indicava un appuntamento tra la ragazza e Acosta il pomeriggio in cui è stata uccisa. Harry è convinto che il nostro cliente ci stia mentendo. Discutiamo per un po' su che cosa potrebbe significare quell'annotazione, ma ci ritroviamo sempre al punto di partenza. Non abbiamo una risposta, ma se non altro è un sollievo che sia venuto fuori, e io non debba più preoccuparmi che mi scappi detto in un momento di disattenzione di fronte a Harry. «Arma del delitto?» chiede Lenore. «Niente», risponde Harry. «Neanche una parola. Potrebbero ripiegare sulla teoria che abbia battuto la testa cadendo. Sulla scena del delitto c'erano mobili massicci. Dovreste andare a dare un'occhiata all'appartamento.» «Giusto», dico. «Prendi nota, Lenore.»
Lei mi lancia un'occhiata assassina. Ci sono altri dettagli di minore importanza, e Harry li liquida in fretta. «Il libriccino nero della ragazza», dice. «Numeri di telefono e roba simile.» Inarco un sopracciglio. «Niente di eccessivamente interessante. I numeri di telefono di alcuni agenti di polizia. Non c'è da stupirsi», dice Harry. Mi porge le fotocopie delle pagine dell'agendina, tenute insieme da un punto metallico all'angolo superiore destro. «Era prevedibile che avesse il numero di telefono di qualche poliziotto», prosegue Harry. «Era una fanatica della polizia. Una emulatrice. Stava prendendo la specializzazione in criminologia. Ci sono anche altri numeri.» «Bene.» Sfoglio velocemente le pagine, che sono circa una trentina. Nessun elemento importante, anche se ne mancano alcune. Chiedo spiegazioni a Harry. «Sì, le pagine corrispondenti alle lettere A, I, K e M», dice lui. «La polizia asserisce che sono state strappate dall'agenda. Neanche loro le hanno, e non hanno idea del perché siano state tolte.» «Ha il numero della buoncostume», gli faccio notare. «Ci lavorava», dice Harry stringendosi nelle spalle. «È arrivato il rapporto dell'autopsia.» Harry sta già passando ad altro, mentre leggo. Ci fa un resoconto veloce. «Dagli esami non è risultato alcun trauma di origine sessuale. Cito le parole dell'anatomo-patologo: 'Nella zona genitale della vittima non sono state trovate tracce di traumi, né di materiale estraneo'. E cioè peli pubici, per i non iniziati. 'Non è stato trovato sperma nella volta vaginale.' A quanto pare l'assalitore non aveva in mente il sesso», conclude Harry. «Punto seguente: ferite da costrizione, anzi, veramente sono contusioni. Trovate sul collo della vittima, davanti e dietro.» Harry lascia cadere il rapporto sull'angolo della scrivania e si alza dalla sedia, andando a mettersi dietro Lenore. «Ehi!» esclama lei. «In questo modo», dice Harry. Ha messo le mani intorno al collo di Lenore, da dietro, con gli indici che si incontrano al centro della gola e le schiacciano il pomo di Adamo come fosse un foruncolo. «Dacci un taglio, Harry», sbotta lei. «No, nessun coltello», prosegue Harry, sempre tenendo le mani intorno
al collo di Lenore. Sta rischiando grosso. «Hanno trovato l'impronta di quattro dita sulle parti laterali anteriori della gola, con contusioni corrispondenti sulla nuca.» Molla la presa dalla gola di Lenore appena in tempo. La mano di Lenore ha già afferrato la cucitrice posata sulla scrivania. «Non è chiaro se dopo sia caduta, sia stata scaraventata a terra oppure colpita con un oggetto pesante e contundente.» Secondo Harry il rapporto autoptico lascia aperte tutt'e tre le possibilità. A questo punto la polizia si lascia tutte le strade aperte. Parliamo del materiale rinvenuto sotto le unghie della donna. «Un po' di sporco e di lanugine. Interessante», dice Harry, «ma nessun tessuto estraneo.» Se ne deduce che la vittima ha avuto pochissimo tempo per reagire prima di essere uccisa, o comunque prima di perdere conoscenza. «La reazione normale quando qualcuno ti afferra da dietro per il collo», ci spiega, «è di alzare le mani con le dita allargate.» Ha senso. Harry torna a sedersi sulla sua poltroncina. «Causa della morte?» chiedo. «Frattura del cranio, emorragia cerebrale estesa. E ora chiedetemi se penso che sia stato lui.» Harry si riferisce ad Acosta. Lo guardiamo perplessi. «E va bene», dichiara. «Infilate pure la testa nella sabbia. Ma considerate per un attimo che ci sono tutti gli elementi perché si tratti di un delitto passionale, dettato dall'impulso del momento, non qualcosa di pianificato o calcolato. Convengo anch'io che il giudice non è un buon candidato per un assassinio a sangue freddo.» «Hai una sorprendente fiducia nel nostro cliente», gli fa notare Lenore. «Potremmo anche rendergli un cattivo servizio facendo quadrato intorno a lui», dice Harry. «Noi lo difendiamo dall'accusa di omicidio, ma se viene dichiarato colpevole rischia la pena di morte. In questo modo puntiamo tutto su una carta sola.» «E allora cosa proponi?» gli chiede Lenore. «Omicidio preterintenzionale, per esempio. Un incidente. Una discussione che è degenerata.» «Scordatelo. Acosta dice che non è stato lui.» «Già», fa Harry. «Bastano un paio di peli e qualche fibra e tu ti dai per vinto?» «E un movente per uccidere, un possibile testimone che lo ha sentito
pronunciare minacce di morte, niente alibi, un appunto sul calendario di lei con il suo nome, e magari l'impronta del suo pollice sulla porta d'ingresso, e Dio ci aiuti se trovano pure un testimone che afferma di averlo visto nei paraggi quella sera», elenca Harry. «Cos'altro vuoi?» «Sono solo un sacco di supposizioni», insiste Lenore. «Certo. È di questo che sono fatte le accuse di omicidio: di supposizioni.» «Forse ti occupi di reati minori da troppo tempo», gli dice Lenore. «Hai perso la grinta.» «Non ho voglia di stare a sentire queste stronzate», taglia corto Harry, alzandosi dalla poltroncina. «Chiamami quando avete finito», aggiunge, rivolto a me, e va verso la porta. L'ultima cosa che sento è il pannello di vetro che vibra contro la cornice quando lui sbatte la porta. Lenore alza gli occhi al soffitto. «Mi dispiace», dice. «Ho esagerato. Lo sento che non gli vado a genio.» «Devi essere un po' più morbida con Harry», le dico. «Dagli un'altra occasione. Non è abituato a lavorare con le donne.» «Me ne sono accorta.» «Devi solo imparare a conoscerlo. È un brav'uomo. Un buon avvocato e un mio amico.» «Anch'io sono tua amica.» Lo dice come se fosse sulla difensiva e ha un'espressione leggermente ferita. Senza riflettere mi ritrovo in piedi, le braccia intorno alle spalle di Lenore. «Lo so. Non l'ho mai messo in dubbio.» Si volta verso di me e per un attimo i nostri occhi si incontrano, e anche le nostre menti, e in questo attimo è chiaro ciò che non è mai stato detto: ora Lenore è molto più di un'amica. Mi sto barcamenando tra Harry e Lenore. Le dico che gli parlerò e cercherò di appianare ogni cosa. «Ma non farlo per me», mi avverte. «Non riesce a vedere una linea di difesa. Non ci può essere utile, se non è convinto.» «Cercheremo di convincerlo», le dico. Quello che non le dico è che la mia posizione non è poi così distante da quella di Harry. Sono preoccupato per quello che è stata un'evidente menzogna da parte di Acosta: il fatto che ci abbia nascosto che la moglie va a cavallo. «Allora, tu come imposteresti la difesa?» le chiedo. «Come te.» Lenore è sveglia. «Abbiamo un giudice che stava conducendo un'indagine molto importante sulla corruzione nella polizia. Io credo
che non si sia reso conto di quanto si stesse avvicinando al marcio.» «Ti riferisci ai fondi dirottati dal sindacato di polizia?» Lenore aggrotta la fronte. «Questo e altre cose.» «Vuoi dire la morte di quel poliziotto? Durante il blitz antidroga?» «Non lo so.» È una questione delicata per Lenore. Potrebbe coinvolgere Tony, e lei lo sa bene. «Diciamo che non è insolito che in una città ci siano poliziotti corrotti coinvolti in quella che potrebbe essere definita una 'impresa privata': ricatti agli spacciatori, qualche operazione non ufficiale durante la quale sono spariti soldi e droga e nessuno ha presentato denuncia. È quello che il tuo amico...» Non riesce a ricordare il nome. «Leo Kerns», suggerisco. «Sì, Leo Kerns. È quello che ti ha detto il tuo amico, vero?» «Quindi sei convinta che lo abbiano incastrato con l'accusa di istigazione alla prostituzione?» «È una seria possibilità.» «E l'omicidio?» «È venuto comodo», dice lei. «Chi può sapere perché la ragazza è stata uccisa, o chi è stato? Ma nessuno può negare che il giudice avesse un serio movente e si trovasse in una posizione difficile, quando è accaduto.» «E un sacco di prove indiziarie puntano nella sua direzione», concludo. «Pensi che qualcuno dei ragazzi in divisa possa aver dato una mano a rendere più credibili le accuse?» «Prove fabbricate?» mi chiede. Annuisco. «Non mi piace pensarlo», ammette. Ecco che esce fuori il suo passato dalla parte delle forze dell'ordine. «Quando si è in ballo, bisogna ballare. Se hanno ucciso uno dei loro, probabilmente è stato un errore, ma anche se così fosse, falsificare qualche prova è un reato minore, almeno per loro.» «Stai cercando di dirmi qualcosa?» Lenore mi guarda con aria strana. «Stavo solo facendo qualche ipotesi.» Si alza e va verso la porta, segno che secondo lei non c'è più molto di cui discutere. «Come ho già detto, ci sono un sacco di macchine in cui trovare quelle stesse fibre, e il crine di cavallo non è una prova determinante. Non dovremmo saltare a conclusioni affrettate», afferma Lenore. «E ovviamente, a prescindere da quello che possiamo pensare noi, la polizia non ha ucciso la ragazza.»
Mentre Lenore parla, continuo a sfogliare le fotocopie dell'agendina di Brittany Hall, il libriccino da cui sono state strappate alcune pagine. Mi colpisce che fossero così in confidenza da usare solo il nome di battesimo. Qualcuno si è dato un gran da fare per eliminare dall'agenda la pagina corrispondente alla lettera M, ma gli è sfuggita l'annotazione sotto la lettera P: un numero di telefono e un nome tra parentesi. Quello di Phil Mendel. 13. Leo Kerns è basso e grasso, e in vita sua non è mai riuscito a passare inosservato, anche se oggi cerca di mimetizzarsi dietro i pilastri di cemento del parcheggio e lancia occhiate furtive in direzione del Plaza Park sull'altro lato della piazza, dove il parco confina con il McGowen Center, la centrale di polizia. Siamo qui per fare un patto col diavolo: scambiarci informazioni. Leo deve indicarmi un tizio del dipartimento di polizia. «Non s'è ancora visto», dice Leo. «Ma viene qui per pranzare ogni giorno, puntuale come un orologio svizzero. È un tipo abitudinario.» Leo sta mangiando un hot dog e, mentre parla, gli cola della senape sul mento. Gliel'ho offerto io da uno di quei venditori ambulanti che hanno il carrettino all'angolo della strada, un hot dog e una Coca, che ora è appoggiata sopra il cestino della spazzatura di fianco a lui. L'ho trascinato qui nella pausa di mezzogiorno e lui ha messo subito in chiaro che non sarebbe venuto senza mangiare. «Sai che mi dovrai essere enormemente debitore per questo», dice, con la bocca piena. «Cosa c'è? Vuoi un altro hot dog, Leo?» «'Fanculo», mi dice. «Ho detto 'enormemente'. Mi gioco il culo se scoprono che ti ho aiutato. Persino se ci vedono parlare.» Vorrebbe farmi credere che ora gli sono debitore della vita. Per Leo Kerns far aumentare il senso di colpa negli altri è un'impresa commerciale, come per la Chiesa coniare nuovi peccati e vendere indulgenze ai peccatori. «Potresti almeno dirmi cosa sta succedendo», dice. «Perché vuoi vedere questo tizio?» «Sono affari miei, Leo.» «Giusto. E io faccio sempre la parte dello champignon», ribatte lui. «Tutti mi tengono all'oscuro e mi ricoprono di merda di cavallo», prosegue con voce lamentosa. «In fondo, non chiedo mica informazioni riservate.»
Si sta montando la testa. «Non mi dicono più niente. Come se non esistessi», dice. Parecchi mesi fa l'ego di Leo ha subito una brutta batosta. Sta scoprendo che riguadagnare terreno, dopo l'elezione di Kline, è più difficile di quanto pensasse. «Quell'uomo non vuole neppure che mi avvicini», prosegue. «Io vorrei rendermi utile, ma lui non vuole.» Leo porta ormai i segni di una deturpazione permanente dovuta al continuo increspare le labbra per baciare il culo al suo capo. Ultimamente lo hanno relegato agl'incidenti per guida in stato di ubriachezza nei quali qualcuno è rimasto ferito. Lo mandano a ricostruire la scena del delitto. È più di un anno che non vede un omicidio. Quello che preoccupa Leo sono i giovani quadri rampanti, un pugno di investigatori trentenni, parecchi dei quali stanno facendo carriera con Kline. Kerns si immagina le cose, vede gente impegnata in fitte conversazioni bisbigliate che si volta a guardarlo da sopra la spalla, mentre tutti gli occhi sono puntati su di lui. È il genere di situazione che tende a far germogliare un seme di verità nell'orticello della paranoia. Sono tre mesi che Kline permette a un altro vice dell'ufficio di fare il prepotente con Leo. Carl Smidt è conosciuto col soprannome di «il killer». È la scorciatoia usata dai vertici per convincere qualcuno ad andare in pensione anticipata. Leo ha definito Smidt «culo stretto» - dietro le spalle, ovviamente -, uno strumento di potere nelle mani di Kline. In giro si dice che Leo è stato destinato all'oblio. È considerato un disgustoso fossile di un'era precedente: quella del Paleopolitico Corretto. Lancia un'altra occhiata furtiva verso il parco e, mentre guarda di là, gli butto un osso. «Smidt non può essere completamente puro», gli dico. «Dopotutto è oggetto di un formale reclamo per molestie.» Per voltarsi verso di me rischia di farsi cadere di mano il pranzo. «Molestie sessuali», aggiungo. «Dove l'hai sentito?» «Ho visto il reclamo.» Le molestie sessuali sono l'argomento del giorno nei salotti del potere: sono quello che alcuni potrebbero definire un reato minore di grave portata morale. È il tipo di accusa che ti fa castrare il cane e getta nella polvere i pubblici ufficiali. «Dici sul serio?» mi chiede Leo. Quello che mi rivolge è un sorriso
normalmente riservato alla seconda discesa in Terra di Cristo. «Conosco l'avvocato della signora», gli dico. Questa è un'amicizia che a Leo piacerebbe coltivare. «Raccontami. Dimmi chi è», mi implora. «Si tratta di semplici parole o anche di fatti?» Leo vuole sapere i particolari. «Primo capo d'imputazione: palpatina di terzo grado alla segretaria dietro la macchina fotocopiatrice.» «Oh, Dio!» Sembra quasi che Leo stia avendo un orgasmo. «Sua santità sarebbe costretto a sacrificare quello schifoso per una cosa simile. Ha violato i fondamenti stessi della legge.» Sta già pensando al modo di trascinare il corpo di Smidt sull'altare del procuratore distrettuale e di mettere la lama di ossidiana tra le mani di Kline. Il gran sacerdote del dipartimento. «Secondo capo d'imputazione: urti e sfregamenti ingiustificati quando incrociava la stessa segretaria nei vani delle porte.» Dall'espressione di Leo capisco che sta già mentalmente affilando la lama. «Di questo reclamo», mi dice, «posso avere una copia?» Scuoto la testa. «Non è ancora stato presentato. E potrebbe non esserlo mai», gli spiego. Nel sentire questo, comincia a dar fuori di matto. Viene colto da un parossismo di movimento disegnando piroette e svolazzi sul cemento come un derviscio danzante. Quando finalmente si calma, la sua camicia è picchettata di gialla senape come un dipinto di Jackson Pollock. «Perché no, cazzo? Queste sono cose serie. Lo sai che i tribunali federali ci sguazzano, in queste cose.» Lo guardo con espressione interrogativa. «Certo», prosegue. «È come rapinare una banca. Esistono alcune leggi federali che tutelano il buon nome delle puttanelle.» Improvvisamente Leo vuole salire agli onori della NOW, la National Organization for Women, vuole impostare una piattaforma per difendere l'onore delle donne. «Il legale della donna è titubante», gli dico. «Vorrebbe altre conferme.» «Cosa vuole, anche le foto? La prossima volta dite alla vittima di appoggiare le chiappe sulla fotocopiatrice.» Leo sente che l'occasione sta per sfuggirgli e cammina nervosamente davanti al pilastro. «La mia solita fortuna», si lamenta «Lo sapevo. Maledetti avvocati, devono sempre mettere tutti i puntini sulle i. Perché non si fanno da parte e
non lasciano che la giustizia segua il suo corso?» Come se fosse una cosa automatica. Quello che Leo vorrebbe è vedere Smidt appeso per i piedi alla traversa della porta dell'ufficio di Kline, così da potergli lanciare le freccette contro la fronte. «Non c'è niente che un piccolo genocidio di avvocati non possa risolvere», continua. «Si mettono sempre in mezzo. Di' al tuo amico avvocato di farsi crescere un paio di palle, se non le ha.» «Il mio amico avvocato è una donna», gli dico. Questa rivelazione lo frena solo per un istante. «E allora dovrebbe farsele prestare da qualcun altro», conclude. «Dovrebbe essere indignata. Smidt è un affronto per le donne.» Leo è esperto di queste cose. «Dille di presentare il reclamo, e in fretta, e di fargli il culo.» Leo intende dire prima che Smidt lo faccia a lui. «Sai», aggiunge, «potresti darmi un indizio sulla fonte da cui questo reclamo proviene e io potrei spingere un po' le cose.» Immagino Leo che punta una pistola alla tempia della mia amica. «Ci sono altre informazioni, ma non risultano sul reclamo perché l'avvocato non è riuscito ad averne conferma dai testimoni», gli spiego. «Per esempio?» «Per esempio il fatto che Smidt ha cercato di portarsi a letto altre dipendenti, e nel tentativo non ha usato molta grazia.» Mi pare quasi di sentirlo gemere per la delusione. «Dammi i nomi che le interrogo io», propone Leo. «Ci penso io a mettere insieme il caso.» Un lavoro gradito. «Non posso.» «L'altra vittima, quella della fotocopiatrice», insiste lui, «non dirmi il nome, dimmi solo se la conosco.» Vorrebbe giocare agli indovinelli. «Non te lo posso dire.» «Neppure le iniziali?» Gli lancio un'occhiata di rimprovero. «Informazione riservata?» «Buon gusto.» «Mi dai questa informazione di merda, e io cosa dovrei farci?» Per Leo i pettegolezzi che non possono essere usati contro qualcuno sono come una barzelletta senza finale. «Un modo ci sarebbe», dico io.
«Quale?» Se potesse mi mangerebbe con gli occhi. «Se qualcuno facesse arrivare la voce giusta all'orecchio della stampa, con particolari sufficienti a dar credito alla cosa, e questi particolari dovessero finire sui giornali, Smidt sarebbe costretto a uscire allo scoperto per negare tutto.» «E allora? Non servirebbe a provare nulla.» «Sì, ma mi hanno detto che, di fronte a una menzogna, le altre vittime potrebbero farsi avanti.» C'è un momento di profonda gravità, mentre Leo afferra la natura sinistra di questa proposta. «Ahhh!» L'esclamazione ricorda il mugghiare del vento. Il bagliore dell'occasione gli accende lo sguardo. È esattamente il tipo di bara burocratica che Kerns sa come confezionare su misura per il nemico, con tanto di viti per il coperchio. «Ovviamente questo dovrebbe essere fatto da un giornalista che lavora senza documentarsi, disposto a scrivere senza verificare con un'altra fonte.» Questo lo frena, ma solo per un nanosecondo. «Non c'è problema», dice, come se avesse a portata di mano decine di giornalisti prezzolati. «La mia amica avvocato e la sua cliente sono disposte a confermare», gli dico. «Magari non solo loro.» «E la contea si libererà di uno stronzo», conclude Leo. Faccio una smorfia. «Uno di quei rari casi in cui si guadagna in due dalla stessa cosa.» «Giusto.» «Ora tocca a te», dico. «Cos'hai saputo a proposito di Brittany Hall?» Leo è stato in missione. Ha riscosso tutti i crediti che aveva per ottenere informazioni sulla vittima. Poiché la ragazza faceva parte del gregge delle forze dell'ordine, rivolgermi a lui è stata una scelta naturale. «Sarebbe utile se mi rivelassi quello che sai tu», dice. «Ho raccolto qualcosa, ma non so cosa significa.» «Non c'è bisogno che tu lo sappia, Leo.» «Su, dammela vinta», insiste. Leo ha quello che vuole. Potrebbe lanciarsi verso la porta col suo hot dog e lasciarmi qui in un lago di senape secca. «Sono solo piccolezze.» Annuisce. Qualsiasi cosa, anche il più piccolo dettaglio, per lui va bene. «Hanno trovato l'agendina della ragazza. Numeri di telefono a bizzeffe,
di cui almeno una decina sono di poliziotti. Numeri di casa.» Leo sa che questi numeri non compaiono sull'elenco. «Qualcuno che conosco?» «Quasi tutti dello stesso reparto», gli dico. «Buoncostume.» «Questo non vuol dire. Lavorava lì.» Allora passo a qualcosa per innescarlo. «In quell'agenda c'erano in tutto sette numeri di telefono di poliziotti. Alcune pagine mancano. Un nome è stato cancellato.» Mi guarda. È sporco di senape proprio sotto il naso. Smette di masticare per un momento, in attesa del resto. «Zack Wiley.» Mi guarda con espressione stralunata. «Oh, merda! Conosceva Wiley?» Wiley è il poliziotto ucciso nel blitz antidroga finito in tragedia. «E tre degli altri che erano con lui il giorno in cui è morto.» Emette un debole fischio. Quello che non gli dico è che non ho trovato anche il quarto che era presente quel giorno, Tony Arguillo. Ho il sospetto che questo dipenda dal fatto che è stata strappata la pagina della lettera A. «Allora è vero che era una che ci stava con tutti!» Leo è fatto così. Perché il cervello funzioni, deve mettere in moto anche la bocca. «Cosa intendi dire?» «Oh, niente.» «Dimmelo, Leo.» «E tu cosa mi dai in cambio?» mi chiede ridendo. «Le tue palle tutte intere.» «Va bene. Va bene. Stavo scherzando.» «Che cosa sai di lei, Leo?» «Solo che si faceva sbattere regolarmente.» Sa che mi sto chiedendo da dove viene questa informazione. «Pettegolezzi da ufficio.» Per questi Leo ha un naso come un maiale da tartufi. È la ragione della sua vita. «Quando l'ho sentito dire», mi spiega, «ho pensato che si trattasse di qualche poliziotto addetto al traffico che se la filava nel mezzogiorno. Sai, il gruppo dei motociclisti, quelli che riescono a farlo in sella alla moto senza togliere il piede dal pedale del cambio.» Se non sapessi che non è così, potrei pensare che Leo parli per esperien-
za. «E invece hai scoperto dell'altro?» «Sì», conferma. «Ho controllato con le mie fonti. Gente bene informata. Tutti molto fidati.» A sentir lui, si direbbe che stia parlando di docenti universitari. «Sono persone che non mi prenderebbero mai per il culo», prosegue. «Dicono che si trattava o di vero amore o di vera ambizione. Se la faceva con un tizio, uno importante. Un pezzo grosso.» «Chi?» «Cosa credi, che sia un oracolo? Se lo sapessi non mi troverei qui in un vicolo schifoso con te. Scambierei il nome con una promozione. Mi renderei indispensabile.» «L'accusa sta controllando questo elemento? Le sue avventure amorose?» «Mi dispiace, ma hanno già trovato il loro uomo.» Si riferisce al giudice. «Ma qualcun altro può aver avuto un movente.» «Non devi convincere me. Il problema è che tutte le prove puntano in direzione del tuo cliente.» Leo ha ragione. «C'era un altro nome con numero personale in quell'agenda», gli dico. «Phil Mendel.» Leo fa un'espressione come se stesse finalmente mettendo insieme tutti i pezzi. «Se andava a letto con Mendel», dice Leo, «punterei sulla vera ambizione.» Invece che sul vero amore, intende dire. «Esattamente quello che pensavo anch'io.» L'accusa ha sicuramente esaminato l'agenda telefonica della Hall. Devono aver visto il numero di Mendel. Non ci vuole una mente eletta per collegare le informazioni raccolte da Leo a questo numero telefonico e cominciare a porsi delle domande. Eppure, la maggior parte dei procuratori scelgono la strada della minor resistenza, che al momento passa sopra il mio cliente. «Il fatto che il nome di Mendel è sulla sua agenda», dice Leo, «risolverebbe un'altra questione.» «Quale?» «Il suo interesse personale per lei la sera in cui Acosta è stato arrestato. Immagino stesse tutelando i suoi diritti carnali.» Gli rivolgo uno sguardo stupito. Non so di che cosa stia parlando.
«Si trovava là. Non lo sapevi? La notte in cui hanno beccato Acosta, Mendel era là.» L'uomo misterioso. Il cosiddetto tenente di cui Frost non poteva fare il nome sul banco dei testimoni. Non c'è da meravigliarsi se la memoria gli ha fatto cilecca su questo particolare. Avrebbe suscitato non poche perplessità. Perché il capo del sindacato era presente all'arresto di Acosta, a meno che non fosse programmato? «Eccolo», dice Leo. Ritira la testa di scatto dietro l'altro lato del pilastro, la schiena appoggiata contro la colonna, mentre l'uomo scende la scalinata del McGowen Center, a un isolato di distanza da noi, sull'altro lato del parcheggio. «Quello alto? Calzoni beige e camicia bianca?» chiedo. «Sì.» Leo si rifiuta di dare un'altra occhiata. «Rilassati. È a un isolato da qui», gli dico. «Sei in ombra, qui nel garage. Non può vederti.» «Lo dici tu. Probabilmente indossa occhiali da vista notturna sotto gli occhiali da sole.» Ho paura che stia per farsela addosso dalla paura. «Dov'è?» mi chiede. «Sta venendo da questa parte. Nel parcheggio», rispondo. «Oh, Dio, sta correndo verso di noi, Leo. Credo che ti abbia visto.» «Oh, merda! E adesso dove vado?» Sta saltellando dietro la colonna, come uno cui scappa la pipì. «Cazzo! Perché mi sono lasciato coinvolgere in questa cosa?» «Perché sei una persona onesta. Interessata alla verità e alla giustizia.» «Devo andarmene da qui.» «Rilassati.» A questo punto sto ridendo come un matto. Mi fa male lo stomaco. «Il tuo amico è seduto su una panchina all'altro lato del parcheggio.» «Che stronzo!» mi dice. «Mi hai tolto cinque anni di vita. Vaffanculo.» Si mette a pestare i piedi, ma poi si ferma, all'improvviso, per paura che il tizio possa sentire il rumore. Poi si avvia con piccoli passi agili e svelti, allontanandosi dal pilastro, mantenendosi al coperto rispetto al parco e voltandosi a guardare dietro le spalle per mantenere la rotta. «Ci vediamo», gli dico. «No, se ti vedo prima io», risponde lui. Si trova nell'ombra del garage, e tre secondi più tardi sento solo il ticchettio dei suoi passi sul cemento men-
tre scompare dietro l'angolo. Esco nella luce abbagliante del sole e attraverso l'incrocio al semaforo, continuando a tenere d'occhio l'uomo in calzoni beige e camicia bianca. È magro, molto alto, e ha i capelli castano scuro. È seduto su una panchina sotto un grande olmo a una trentina di metri dalla fontana posta al centro del parco. Mentre mi avvicino, la luce del sole fa scintillare qualcosa di metallico che tiene tra le mani. Ha un vasetto di yogurt, una mela e un cucchiaio di metallo. È sorprendente che Leo lo abbia definito un pranzo. «Jim Cousins?» Uso un tono di voce normale e sono a tre metri dalla panchina quando pronuncio queste parole. Lui alza lo sguardo, socchiudendo gli occhi per difendersi dalla luce del sole. Gli occhiali scuri gli pendono dal taschino. «Ci conosciamo?» «Mi chiamo Madriani», gli dico e mi avvicino. «Un comune conoscente mi ha fatto il suo nome.» «Chi?» «Un amico.» Il sorriso iniziale scompare dal suo volto. «Che cosa vuole?» «Parlare.» Vedo che si irrigidisce. Esattamente quello che farei io se lavorassi per la polizia e un estraneo mi si avvicinasse pronunciando il mio nome. «È la mia pausa per il pranzo. Se si tratta di lavoro dovrà aspettare.» Mi guarda con maggiore attenzione, questa volta da dietro gli occhiali da sole. «Lei non mi è nuovo», dice. «Ci siamo già incontrati?» «Non credo. Sono un avvocato», rispondo, e gli porgo il mio biglietto da visita. «Lei è uno degli avvocati che rappresenta il giudice.» «Esatto.» «L'ho vista in televisione.» Il lasciapassare per la celebrità. La sua apprensione sembra svanire. In fondo distribuisco biglietti da visita, non pallottole. «Le dispiace se mi siedo?» «Faccia pure.» «Mi hanno detto che lei potrebbe sapere qualcosa su un caso di un paio d'anni fa.»
«Credo che lei mi confonda con qualcun altro», risponde. «Io non sono un poliziotto.» «Esatto. Il suo nome è James Cousins. E lavora all'archivio dei corpi di reato.» «Lei sa un sacco di cose sul mio conto. Come le ho già detto, se vuole parlare di lavoro, delle procedure di custodia per droga o simili, deve venire in ufficio.» Tira fuori un libro in brossura da dentro la camicia, lo apre e si mette a leggere. «Voglio parlarle dell'omicidio di Zack Wiley», gli dico. A queste parole alza lo sguardo e scuote la testa. «Che cosa succede? All'improvviso tutti vogliono parlare di Zack Wiley. Ho l'aria di un ufficio informazioni?» «Qualcun altro ha cercato di parlare con lei?» «Senta, io non intendo parlarle. O lei se ne va, oppure me ne vado io.» «È stato il gran giurì?» chiedo. Mi guarda, ma non dice una parola. Non riesco a decifrare la sua espressione dietro gli occhiali scuri. Il suo volto è di pietra. Prende il cucchiaio e lo yogurt, si mette la mela in tasca, si alza e fa per allontanarsi. «Possiamo parlare qui, oppure posso farle arrivare un mandato di comparizione e parlare in tribunale.» «Bene. Parliamone in tribunale.» «Davanti alla stampa, dove tutte le persone con cui lavora verranno a sapere quello che lei ha da dire... o per lo meno le domande che devo porle.» Questo lo blocca. Si volta e mi guarda. «Questo fa presupporre che lei conosca le domande giuste», dice. Si toglie gli occhiali e mi rivolge un sorriso compiaciuto. «Oh, io credo di conoscerle. La pistola era una cosa combinata fin dall'inizio. Che cosa hanno fatto? L'hanno conservata nel caso avessero bisogno di metterla in mano a qualche indiziato?» Queste parole ottengono solo un'espressione pensosa. «Quando è arrivata da voi non avete falsificato il numero di serie, sarebbe stato troppo ovvio», dico. «Dev'essere stato qualcos'altro.» Se in questo momento potesse portarmi fuori strada con i suoi occhi lo farebbe, e mi porterebbe dove fa freddo, molto freddo. «Che cosa è stato?» gli chiedo. Mi gratto il mento, mi giro appena verso il sole, tutti gesti studiati. Poi, di colpo, faccio schioccare le dita e mi volto a guardarlo. «Il numero del modello!»
La mascella gli scende letteralmente di un millimetro. «Certo. Così sarebbe stato possibile.» Deglutisce appena. «Devono aver avuto bisogno di un piccolo aiuto dall'interno dell'archivio. Un cartellino di identificazione che riportava il numero di serie giusto, la marca e il calibro giusti, ma sul quale mancava il numero del modello. La Smith and Wesson quanti modelli fa, in quel calibro, una decina?» Sta quasi per rispondermi, ma all'ultimo momento si trattiene. «La casa produttrice usa gli stessi numeri di serie per diversi modelli, quindi non ci sarebbe modo di identificare un'arma particolare, a meno di non avere sia il numero di serie sia il numero del modello. Intelligente.» Vorrebbe parlare, ma non osa. «Dove hanno fatto casino?» gli chiedo. «Che cosa ha fatto capire al gran giurì che questa pistola era già passata per l'archivio dei corpi di reato prima di essere usata per uccidere Wiley?» «Senta. Io non posso parlare», dice. «Non qui. Non adesso.» «Loro non sanno che lei ha testimoniato, vero? I suoi amici?» Improvvisamente capisco. Sto parlando con il superteste del gran giurì e, chiunque abbia ucciso Wiley, lui non lo sa. «Dove può trovarla il mio ufficiale giudiziario?» gli domando. «Nel suo ufficio?» «Mi lasci in pace. Io non sapevo quello che stava succedendo finché non è stato troppo tardi.» «Certo. Lei si è limitato a guardare dall'altra parte.» «Sono soddisfatti. Non vogliono me.» «Le hanno garantito l'immunità, vero?» Non mi risponde. Non ce n'è bisogno. Sta scritto nelle pupille spiritate dei suoi occhi. «Come ha fatto il gran giurì ad arrivare a loro? Come hanno fatto a trovare lei? Attraverso le impronte digitali? Le ha lasciate sulla pistola quando era nell'archivio?» «Quando è stata l'ultima volta che ha visto rilevare le impronte da una pistola?» mi chiede ridendo. «Lo fanno solo nei film. Nella vita reale trovano solo sbavature. Tutti afferrano la pistola con troppa forza. L'olio, il rinculo. Non restano altro che sbavature. Potrà trovare un'impronta chiara solo se ispeziona mille pistole.» «Ma lei non ha sparato», gli faccio notare. «Non sono state le impronte digitali.»
«Cosa, allora?» Cousins è alle strette, e lo sa. «Se glielo dico, lei lascia perdere il mandato?» «Forse sì, forse no.» «Allora perché dovrei dirglielo?» «Valuti un forse contro una certezza, e avrà la risposta.» Continua a deglutire. Il suo pomo d'Adamo va su e giù, a tempo con il ritmo ossessionante di una radio portatile che un ragazzino si sta caricando su una spalla vicino alla fontana. «Come hanno fatto a scoprire che la pistola era già passata per l'archivio?» «Un graffio sul tamburo», dice. «E un'incisione sotto la guancetta.» «Un cosa?» «Ogni volta che un revolver arriva da noi, viene scaricato, di solito al poligono. Per sicurezza. Ogni proiettile o cartuccia vuota viene estratto e messo in una busta separata, poi sul tamburo viene fatto un segno, un graffio sul metallo, che indica quale camera è stata allineata con la canna quando la pistola è stata presa in custodia. Lo segnano anche all'interno, in qualche punto in cui è difficile vederlo. È la procedura», mi spiega. «Quando la scientifica ha raccolto la pistola dopo l'uccisione di Wiley, hanno fatto tutto questo. Ma non si sono accorti che sulla pistola c'era già un segno, dalla prima volta che era stata presa in custodia. Ma se n'è accorto uno degli Affari Interni, uno che lavorava al reparto balistica.» Questo è uno dei motivi per cui non bisognerebbe mai commettere un crimine. Ci sono milioni di cose che non si sanno, cose insignificanti, che possono trarre in inganno anche la mente più astuta. «Chi l'ha ucciso?» «Ehi. Io non le dirò un'altra parola. Se vuole citarmi, faccia pure.» La mia domanda dà per scontato che lui conosca la risposta, cosa di cui dubito. «Allora mi dica chi ha portato la pistola fuori dell'archivio.» «Non lo so.» «È questo che ha detto al gran giurì?» «È la verità», risponde lui. «Mi hanno chiesto solo di guardare dall'altra parte. Di lasciare la porta socchiusa per qualche minuto mentre andavo a bere un caffè. Non so neppure che cosa abbiano preso.» «Chi le ha chiesto di guardare dall'altra parte?» Mi rivolge un'espressione severa, come se si fosse già spinto troppo ol-
tre, più oltre di quanto sia andato con il giurì. «Non intendo dire un'altra parola», ripete. Improvvisamente il suo sguardo si mette a vagare in direzione del garage, come se seguisse un oggetto che vola. Mi domando se per caso Leo non sia tornato a dare un'altra occhiata, per vedere quanto restiamo a parlare. «Devo andare», dice. «Mi ha fottuto tutta l'ora del pranzo.» «Be', a Zack Wiley hanno fottuto tutta la vita», ribatto. «Non sono stato io. E, se vuole un consiglio, non mi segua.» Lo osservo mentre si allontana a grandi passi, girando intorno alla fontana, diretto verso il semaforo all'angolo. Mentre parlavamo il parco si è riempito di gente. Sono le dodici e mezzo, e gli impiegati sono usciti dal municipio. Donne con scarpe col tacco e sacchetti di carta marrone in mano si concedono un momento all'aria aperta nella giornata intensa. Vedo due giudici che sul marciapiede opposto affrontano a passo lento la loro passeggiatina quotidiana dal tribunale al ristorante a qualche isolato di distanza. «Avvocato!» La voce proviene da dietro le mie spalle, dalla direzione del garage. Mi volto. È Tony Arguillo, che mi guarda con un sorriso alla Jack Nicholson. Sfoggia occhiali da aviatore rotondi sopra denti bianco perla, e un'abbronzatura come se fosse appena arrivato da una spiaggia dei Caraibi. «È sempre in giro, lei.» «Tony! Come sta?» «Oh, io sto bene», risponde. «Benissimo. Molto più di quanto si possa dire di certa gente che conosco.» Per un attimo volge lo sguardo in un'altra direzione, e lo intercetto. Cousins sta salendo i gradini dell'edificio per tornare al lavoro. Tony torna a guardare verso di me. Nel frattempo si allontana, retrocedendo, in direzione della centrale di polizia. «Relazioni pericolose», dice. «Dovrebbe stare più attento.» Con queste parole gira sui tacchi come fosse un passo di ballo dalla coreografia accurata, fa schioccare le dita di entrambe le mani, abbassate sui fianchi, e se ne va. 14. Ci siamo scambiati le liste dei testimoni, e sulla loro il nome di Oscar
Nichols non compare. Harry ammette che Lenore ha avuto ragione a non voler stuzzicare il can che dorme. Almeno per il momento, lui e Lenore sembrano aver messo da parte le loro divergenze. Nella corsa agli ultimi preparativi per il processo, sono tutti e due troppo stanchi e indaffarati per litigare. Sono passati dieci giorni dallo sgradevole incontro con Tony nel parco. Arguillo è il tipico bambinone che gioca a fare il poliziotto, esattamente quello che ci si aspetterebbe distribuendo pistole e distintivi ai ragazzini di quinta elementare. Forse un giorno crescerà ma, trattandosi di lui, non credo che accadrà in questa vita. «Allora, siamo tutti d'accordo?» sussurra Lenore, sporgendosi in avanti sopra il tavolo della difesa. «Che cosa facciamo con la signora Ramirez? La teniamo sì o no? Oppure preferite esaminare altri giurati?» È metà mattinata e siamo impantanati in quel campo minato giuridico che è il procedimento contro Nocedicocco. Siamo accampati tutti e quattro - Harry, Lenore, Acosta e io - intorno al tavolo della difesa nell'aula di Radovich, e stiamo scartabellando tra una pila di profili di giurati. La scorsa settimana abbiamo parato alcune stoccate legali, presentando alcune istanze di non accoglimento delle prove, con la motivazione che la polizia è andata oltre lo scopo dei mandati, quando ha prelevato le fibre dalla macchina di Acosta e campioni di pelo animale da casa sua. Radovich vi ha girato alla larga. Con questo giudice, se vinceremo il processo, non sarà sulla base delle sfumature del diritto costituzionale. Ha sottoposto la nostra istanza al vecchio test dell'annusata, e senza tanti giri di parole ha dichiarato che i mandati erano sufficientemente dettagliati. I peli di cavallo e le fibre sono stati ammessi, anche se sta all'accusa dimostrare la rilevanza e la fondatezza delle prove. Kline si sente soddisfatto. È la prima vera ferita che è riuscito a infliggerci. Sull'onda del successo, ha detto al giudice che voleva l'unione dei procedimenti per l'accusa di istigazione alla prostituzione e quella di omicidio. Non potevamo certo opporci, essendo stati proprio noi a chiederlo per primi, e così adesso le due accuse verranno prese in esame nel corso dello stesso processo. Abbiamo l'impressione che con questa decisione Kline punti a qualcosa di specifico, ma non riusciamo a capire cosa. Ha anche detto al giudice che avrebbe un'altra questione da discutere oggi nel suo ufficio, quando avremo finito. «Il giudice sta aspettando», dice Lenore. «La signora Ramirez», ci ricor-
da. «O sì o no. Ci bruciamo una ricusazione diretta oppure la accettiamo?» «Magari sarà l'accusa a rifiutarla», dice Harry. «Sapore mediterraneo. Non saranno troppo felici.» «Cosa vorrebbe dire con questo?» domanda Acosta. Harry si becca un'occhiataccia. «Senza offesa», risponde Harry, «ma se la difesa toccasse a me, io farei di tutto per avere una giuria composta solo dalla vostra gente. L'ultima volta che hanno dichiarato colpevole qualcuno è stato ai tempi dell'Inquisizione.» «Io non direi», dice Acosta. «È vero che esiste un fattore etnico a nostro favore, ma c'è qualcosa in quella donna che non mi piace.» È questo il problema quando si sceglie una giuria. Esistono tante teorie quanti sono gli avvocati. Normalmente non mi aspetterei che l'imputato prendesse parte attiva alla selezione dei giurati. Ma il fatto che Acosta sia uomo di legge e sia in gioco la sua vita rende necessaria la sua partecipazione. Mi domando se, così facendo, non ci stiamo semplicemente dividendo la responsabilità di una possibile sconfitta. «Potremmo avere ancora un momento, vostro onore?» chiede Lenore. «Fate con comodo», dice Radovich. «Voglio che siate soddisfatti di questa giuria.» Se fosse davvero così, fuori in corridoio ci sono centinaia di parenti di Acosta che sarebbero felicissimi di entrare a far parte della giuria. «Su, gente, ho bisogno di una decisione», ci esorta Lenore. «Guarda, guarda», sussurra Harry, muovendo appena le labbra. «Ha un passato di droga.» Lo dice come un venditore di macchine che sta facendo notare al cliente che un certo modello ha l'aria condizionata. Ad Acosta questo particolare del profilo era sfuggito, sono informazioni che di solito un giurato non fornisce. Harry glielo indica. «Non è mai stata condannata, ma a sentire il suo analista soffre di disturbi cognitivi; insomma, è una che può dar da mangiare al suo strizzacervelli per tutta la vita.» «Forse l'ho giudicata male», dice Acosta. Questo è l'unico posto al mondo in cui l'ombra di un passato vagamente criminoso è una referenza positiva. Leggo il profilo più attentamente. La Ramirez è diventata schiava della cocaina poco prima dei trent'anni. La acquistava da una compagna di lavoro. Quando ha capito che l'avrebbero licenziata, ha fregato il datore di la-
voro con una richiesta di pensione per invalidità. Ora ha trentasette anni, e da undici riceve una somma integrativa dall'assistenza sociale, in base alla menzogna sociale che la tossicodipendenza autoindotta sia una malattia a livello del morbo di Parkinson. Vive in una comunità gestita da un terapista che evidentemente le dice che non guarirà mai, se non altro finché la munificenza del governo non si esaurirà. L'anno scorso, grazie agli appoggi politici del suo terapista e alla benevolenza delle organizzazioni per il recupero dei tossicodipendenti, la Ramirez è stata nominata membro di una commissione della contea, e ora funge da «zarina della droga» della contea di Capital, dove porta avanti le richieste politiche per conto degli altri tossicodipendenti. Per questo riceve dalla contea una macchina e un modesto stipendio che integra la pensione d'invalidità. Come far carriera grazie ai sussidi pubblici. «È una giurata perfetta», dice Harry. «In apparenza», dico io. «Mi preoccupa il motivo per cui una persona dovrebbe fornire questo genere di informazioni compromettenti sul proprio conto, a meno che non ne sia costretta.» «Perché non lo chiedi a lei?» ribatte Lenore. Sono dibattuto. Si andrebbe a scavare in un argomento delicato davanti agli altri giurati. Ma non possiamo ignorare una cosa simile. Lenore mi fa un gesto con la mano come per dire: «Fai pure», e si siede. La signora Ramirez è seduta quasi al centro del box riservato alla giuria, nella seconda fila. L'aula è gremita di persone, per la maggior parte possibili testimoni che aspettano il proprio turno mentre noi scartiamo quelli prima di loro. La fila di panche destinate alla stampa è quasi completamente vuota. La selezione della giuria non attira molti giornalisti. Nell'ultima fila, tutta sola, siede Lili Acosta. Sull'altro lato dell'aula siedono un uomo e una donna anziani, accompagnati da un uomo più giovane. Sono il padre, la madre e il fratello di Brittany Hall, venuti ad accertarsi che giustizia sia fatta. Radovich conduce la selezione della giuria a modo suo, come tutte le altre fasi, del resto. Per questo processo, vista l'enorme risonanza che ha avuto sui media, ha convocato cinquecento possibili giurati. Il primo incontro si è tenuto in un auditorium, dove Radovich ha posto alcune domande preliminari su ciò che questa gente aveva visto e credeva di sapere. Ha epurato quasi duecento persone, compresa una donna il cui marito è stato denunciato per istigazione alla prostituzione nel corso di una retata. Non era chiaro se avrebbe dato addosso alla polizia per il suo impegno o
ad Acosta per essere stato così stupido. Comunque fosse, a Radovich non interessava. «Come sta, signora Ramirez?» le chiedo. «Bene», risponde e mi rivolge un sorriso, non cordiale ma pratico. È vicina alla quarantina, ma sembra più vecchia. È alta e snella, una fata sudamericana con i capelli scuri e ondulati tirati indietro con un pettinino. «Lei è stata molto aperta nel questionario che le è stato dato», dico. «Ha volontariamente indicato molti particolari del suo passato. E per questo desidero ringraziarla.» «Volevo essere sincera», chiarisce lei. «Sono una ex tossicodipendente. Mi hanno insegnato che la presa di coscienza e l'accettazione sono il primo passo in qualsiasi cura. Io non nego il mio passato.» Andrebbe avanti per venti minuti su questo tono - l'ammissione della colpa fa bene all'anima, la Chiesa dei Fanatici Riformati, eccetera -, ma io la interrompo. «Un atteggiamento molto positivo», le dico. Nella mia mente sventolano bandiere rosse che segnalano pericolo. Da uno che ostenta queste opinioni, Nocedicocco potrebbe essere visto come in uno stato di negazione, e l'unica cura potrebbe essere un'ulteriore perdita dello stato di grazia. È vestita in maniera impeccabile, con un abito di seta stampata e tacchi alti, orecchini di buon gusto. Un insieme studiato per far colpo. Cos'è che mi fa pensare che questa donna voglia a tutti i costi far parte di questa giuria? «Visto che lei è stata così onesta con noi, penso che anche noi abbiamo l'obbligo di essere sinceri con lei, e con il resto della giuria. La sua fedina penale è assolutamente pulita, esatto?» «Esatto.» «E non è mai stata arrestata per uso di droga, giusto?» A lei va il massimo punteggio del giorno: autostima 101. «Giusto.» A questo punto è cresciuta di almeno tre centimetri. Ai suoi tempi può anche essere stata una farmacia ambulante, ma la polizia non l'ha mai beccata. «E non ha mai fatto commercio di droghe? Non le ha mai date a qualcuno in cambio di denaro?» Mi trovo su un terreno insidioso, quindi cerco di formulare la domanda nella maniera più accurata possibile. Trattengo il respiro finché lei non risponde. Fa un'espressione come se stesse soppesando la risposta: magari le avrà
date anche ad altri, ma non in cambio di denaro. Alla fine risponde. «No.» L'espressione di sollievo sul volto di Radovich dice chiaramente: «Grazie». A quanto pare, i confortevoli rigori della terapia, la presa di coscienza e l'accettazione non includono ammissioni che potrebbero comportare un periodo di galera. Forse c'è ancora speranza per questa donna. La donna più anziana seduta di fianco alla Ramirez, una bianca dai capelli grigi, si allontana impercettibilmente da lei, lo sguardo abbassato sulla borsa dell'altra. Ho il sospetto che si stia chiedendo cosa c'è lì dentro in questo momento, e immagini piccole sigarette arrotolate a mano, seguite da terrificanti visioni di siringhe e boccettine di pillole. Lancio uno sguardo in direzione di Acosta. Sta sorridendo alla Ramirez. Sono sicuro che nella sua testa danzano immagini di spinelli fatti passare durante le lunghe ore in camera di consiglio, seguiti, ovviamente, da un verdetto morbido. Conduco la donna attraverso l'argomento in esame: il peso della prova in un caso che comporta la pena di morte, della prova al di là di ogni ragionevole dubbio. Questo lo capisce. Capisce che è l'accusa a doversi accollare questo onere e che l'imputato non ha alcun obbligo di dimostrare nulla. Lo capisce. Le chiedo se ha qualche difficoltà a presumere che il mio cliente sia innocente in assenza di prove contrarie. Risponde di no. «Vedo che lei ricopre una posizione di responsabilità in una commissione della contea», le dico. «Ci riuniamo due volte al mese», dice lei, «per smistare i sussidi federali ed esaminare i programmi di finanziamento.» «Immagino che lei avrà una notevole autorità su questi argomenti.» «Sono la vicepresidente. L'anno prossimo, a meno che non si presenti qualcun altro, diventerò presidente.» Mi congratulo con lei. Poi le faccio la domanda. «Si aspetta qualche opposizione?» «Oh, no. Due anni fa, però, c'è stata una contestazione», risponde la Ramirez. «Ma la situazione era diversa, c'erano divergenze personali. Io vado d'accordo con tutti.» «Dunque è una carica elettiva?» «Sì.» «E diventare presidente è considerato un riconoscimento?» «Comparirebbe sul mio curriculum.» «Dunque lei è a conoscenza delle responsabilità del pubblico ufficio?»
Mi guarda con un'espressione come per dire: «Ovvio». Insisto perché mi dia una risposta da mettere a verbale e lei dice: «Sì». «Che cosa pensa di un uomo sospettato di aver commesso le azioni di cui è accusato il signor Acosta? Un ex giudice?» «Se è vero, è molto grave», risponde lei. «Ovviamente io non ho visto alcuna prova», aggiunge. «Ovviamente.» Ho un brutto presentimento: questa è una donna ansiosa di lasciarsi alle spalle un passato tormentato e che vuole disperatamente fare strada. «Come giudicherebbe la testimonianza di un agente della polizia, signora Ramirez?» «Cosa intende dire?» «Be', sarebbe portata a credergli? Oppure tenderebbe a non fidarsi?» «Nessuna delle due cose», risponde la donna. «L'ascolterei attentamente. Poi la valuterei, come tutte le altre testimonianze.» Molto bene, penso. «Ha mai avuto a che fare con il dipartimento di polizia?» «Non sono mai stata arrestata.» La vuole proprio, quella medaglia d'onore. «Non intendevo dire questo. Ha mai lavorato con la polizia?» «Ah.» Questo rimette a posto le cose. «Non con il dipartimento.» «Con qualche agente di polizia?» «In sede di commissione?» «E qual è il suo rapporto con gli agenti di polizia in sede di commissione?» «Talvolta partecipano alle riunioni e ci danno consigli sui finanziamenti dei vari programmi.» «Tutto qui?» Ci riflette un secondo. «Ah, e due membri della commissione, per legge, devono appartenere alle forze dell'ordine», aggiunge. «Uno della città, uno della contea.» Era quello che volevo sentirle dire. «E da quanti membri è composta la commissione?» «Cinque.» «Dunque ce ne vorrebbero tre per eleggerla presidente?» Dall'espressione dei suoi occhi sento che ha capito dove voglio arrivare. Radovich si è sporto oltre la balaustra dello scanno per vedere meglio. Il
suo naso campagnolo ha fiutato l'odore di pregiudizi. La donna non risponde alla mia domanda. La esorto a farlo e, finalmente, risponde: «Sì». «Signora Ramirez, cosa succederebbe se una delle due persone della commissione che non fanno parte delle forze dell'ordine decidesse di candidarsi alla carica di presidente? Se questa persona dovesse chiedere l'appoggio dei due tutori dell'ordine lei dovrebbe essere in ottimi rapporti con loro, giusto?» Fa un'espressione come per ammettere la cosa. «Non è una cosa probabile.» «Ma se lo fosse?» Non sono più disposto a bruciarmi una delle nostre limitate ricusazioni dirette. La Ramirez deve essere esclusa. «Farei quello che è giusto.» «Anche se significasse perdere la carica di presidente della commissione? Non potrebbe più metterlo sul suo curriculum. È un prezzo molto alto da pagare per far parte della giuria di un processo per omicidio.» «È un caso importante», dice lei. Come finisce di pronunciare le parole, si rende conto di aver detto la cosa sbagliata. «Importante per chi?» «Importante e basta. Un caso grosso.» Quello che intende dire è «l'evento dell'anno». «Potrebbe essere importante per le persone che fanno parte della commissione insieme a lei?» «Non lo so.» «È corretto presumere che non sarebbero contente se lei votasse per l'assoluzione, in questo caso?» «Sono persone giuste.» «Ma preferirebbero che lei votasse per una condanna?» «Non lo so. Non ne ho discusso con loro.» «Lei comprende che, in un modo o nell'altro, se si arriva a un verdetto, loro sapranno come lei ha votato, perché per giungere a un verdetto ci deve essere l'unanimità.» Se prima non aveva problemi, ora ce li ha. La forza della suggestione e il peso della responsabilità. «Molto bene, signor Madriani. Non è necessario che lei vada oltre», dice Radovich. «Signora Ramirez?» La donna alza lo sguardo verso di lui. «Desidero ringraziarla per essere venuta qui oggi e per averci dedicato
tanto del suo tempo.» Non capisce. «Lei è dispensata», spiega il giudice. «Saprei essere giusta.» «Lo capisco», risponde lui, «ma lei è comunque dispensata.» Radovich si sporge un poco oltre la balaustra, un gran sorriso dipinto sul volto da contadino, e mi sussurra, senza che possa giungere alle orecchie dei giurati, né quelli già scelti, né quelli ancora da esaminare: «Mi ricordi di non permetterle di avvicinarsi al mio pozzo con quel veleno». Il sorriso che mi rivolge è benevolo anche se un po' sospettoso. Torno a sedermi. La Ramirez lascia il suo posto e mi lancia uno sguardo feroce. È quasi mezzogiorno e Radovich aggiorna la seduta. Interpella gli avvocati, i quali convengono che dovremmo concludere la selezione della giuria entro domani. «Sono pronto a ricevere gli avvocati nel mio studio», dice. «Signor Kline, lei voleva discutere di qualcosa?» Mentre entriamo nello studio privato del giudice, Kline mi dà una pacca sul sedere con un fascicolo di carte. «Complimenti», mi dice. «La signora Ramirez era in cima alla nostra lista.» «Ci scommetto», rispondo. «Lasci che indovini. Era il vostro asso nella manica contro il proscioglimento?» Non lo ammette, ma sono convinto che puntassero sulla Ramirez per bloccare la giuria nel caso la sorte ci fosse stata favorevole in camera di consiglio. «Ha fatto un ottimo lavoro», prosegue. Kline è l'immagine del vero sportivo. Vorrebbe farmi credere che portare rancore va contro la sua religione, un credo al quale Lenore non aderisce. «Ci avrebbe fatto piacere tenerla nella giuria, o se non altro costringervi a sprecare una ricusazione diretta.» «Sono gli alti e bassi della guerra.» «Oh! Non della guerra!» Cerca per un attimo la parola giusta. «Diciamo piuttosto di un amichevole combattimento forense.» E poi c'è un luccichio nel suo sguardo, mentre un altro pensiero gli attraversa la mente. «Anche se ho il sospetto che la sua collega non abbia intenzione di fare prigionieri.» Sta parlando di Lenore. Potrei dirgli che è più facile che Lenore scelga la mutilazione sul campo
di combattimento, ma credo che l'abbia già capito da solo. «L'indomita signora Goya», dice. «Bene, vediamo che cosa ci riserva il futuro.» Mi lancia un'occhiata come per avvertirmi che c'è qualcosa di profetico nelle sue parole, poi si volta e si siede proprio di fronte a Radovich. Il giudice si è tolto la toga e se ne sta seduto con i piedi appoggiati al ripiano della scrivania. Per terra, vicino alla poltrona, ci sono alcune scatole di cartone contenenti libri, la biblioteca viaggiante di Radovich. Per quel che gli servono, potremmo anche dargli fuoco. Vedo che l'unica copia del Codice Penale che Radovich porta con sé è superata di due anni. Senza dubbio il giudice opera nella convinzione che, come il vino buono, le nuove sentenze dell'assemblea legislativa debbano invecchiare un po' prima di poter essere gustate. Lenore, Harry e io sediamo rigidi sul divano. Kline e uno dei suoi sostituti occupano le due poltroncine destinate ai visitatori. «Spero tanto che sia una cosa veloce», dice Radovich. «Ho un appuntamento per pranzo con il presidente del tribunale.» Kline gli dice che faremo in fretta, ma che quella che intende sottoporre all'attenzione della corte è una faccenda molto seria. «Mi dispiace molto dover sollevare la questione», attacca con tono sinistro. «Di che cosa si tratta?» chiede il giudice. «Conflitto d'interessi», dice Kline. «Che riguarda la signora Goya.» «Oh, merda! Non ci posso credere!» Lenore è schizzata in piedi, e per un attimo temo voglia affondare le unghie nella nuca di Kline. Radovich la guarda come se non avesse mai sentito prima d'ora pronunciare la parola «merda» da una donna. «Di che cosa sta parlando?» «Sto parlando del fatto che nella fase iniziale del procedimento, quando si trattava ancora di istigazione alla prostituzione, lei rappresentava il nostro ufficio. Lei ha avuto un colloquio con la signora Hall nel suo ufficio. Sto parlando del fatto che ha avuto accesso a documenti e fascicoli confidenziali riguardanti l'accusa di induzione contestata all'imputato. Sto parlando di un grave conflitto d'interessi.» «Ma finiamola!» esclama Lenore, alzando gli occhi al soffitto. Lo tratta con la stessa deferenza che si potrebbe dimostrare verso un bambino che fa i capricci. Lenore la definisce una montatura, un'invenzione, e si lamenta perché Kline ha atteso la vigilia del processo per sottoporre la questione alla corte.
«Non c'è proprio niente di inventato», ribatte Kline. «Credo che dovreste calmarvi, tutti e due», interviene Radovich. «Andiamo con ordine. Credo che, prima di procedere oltre, dovremmo mandare a chiamare la stenografa.» Dà ordine al cancelliere perché proceda. «Suggerirei anche di convocare l'imputato», dice Kline, «visto che la questione riguarda la sua rappresentanza legale.» Radovich concorda e ordina che sia fatto entrare Acosta. Durante tutto questo, Harry e io ce ne stiamo immobili, affascinati da quanto sta succedendo. Non è che non avessimo considerato il problema. Avevamo discusso la possibilità di un conflitto d'interessi nel corso del primo incontro nello studio. Ma, quando Kline non aveva sollevato la questione nelle mozioni preliminari, avevamo pensato che avrebbe lasciato perdere. Viene fatta entrare la stenografa. Mentre sistema la sua macchinetta, qualcuno porta una poltroncina con le rotelle. Poi arriva Acosta, accompagnato da due guardie carcerarie. È mezzo svestito: indossa una maglietta bianca sopra i calzoni dell'abito, con le bretelle che gli pendono dietro. È chiaramente a disagio nel farsi vedere in pubblico così conciato; Radovich si scusa e ordina a una delle guardie di andare a prendergli una giacca. L'altra guardia porta una sedia per il prigioniero, quindi tutt'e due si piazzano davanti alla porta. Mentre si infila la giacca, Acosta lancia un'occhiata verso di noi. «Cosa sta succedendo?» ci chiede con un sussurro. Lenore è troppo agitata per rispondere e si sta avvicinando verso la scrivania di Radovich per prendere posizione. «L'accusa ha sollevato un'eccezione di conflitto d'interessi nei confronti della signora Goya», gli spiego. «Oh.» Non dice altro, ma l'espressione seria del suo volto mi indica che sta già valutando le conseguenze che questo potrà avere sul suo destino. La dattilografa inserisce un rotolino di carta tutta pieghettata nella sua macchinetta e siamo pronti. «Dunque», fa Radovich. È il segnale che Kline può cominciare. «L'accusa presenta formale richiesta che la signora Goya venga inabilitata dal partecipare alla difesa di questo caso, richiesta motivata con un conflitto d'interessi», attacca Kline. «È molto semplice. Noi affermiamo che lei ha rappresentato interessi avversi in questo stesso caso, il che ha compromesso la sua posizione. La legge parla chiaro», conclude. Porge al giudice una serie di documenti e testimonianze che riportano i
fatti del presunto conflitto e le sentenze di riferimento, le carte che mi ha sbattuto sul sedere tre minuti fa. Lenore non riesce più a trattenersi. «Che modi sono questi? Non siamo stati avvertiti, né ci viene data l'opportunità di replicare?» Mi alzo in piedi e la raggiungo alla scrivania. Una dimostrazione di unità. «Vostro onore, se lei permette... noi non abbiamo visto questi documenti.» «Giusto», dice Radovich. «Avete delle copie per la parte avversa?» Chiaramente a Radovich questa tattica non piace: è un'imboscata. Kline è mortificato per la dimenticanza. Rimprovera il suo subordinato per l'errore e dà a lui la colpa di questa violazione di etichetta legale. Il capro espiatorio di Kline fruga nella valigetta e tira fuori altre due copie. Sono una dozzina di pagine, battute a spaziatura doppia e tenute insieme con un punto metallico, i passaggi salienti sottolineati. La questione è molto chiara. In questo Stato le regole dell'etica professionale impediscono a un avvocato di rappresentare due parti con interessi avversi nella stessa azione legale, civile o penale che sia. Nonostante ci siano sottili sfumature nell'applicazione di queste regole, la soluzione per un conflitto d'interessi è sempre la rimozione dell'avvocato dal caso. «Nessuno mette in dubbio ciò che dice la legge», dico a Radovich, «ma qui ci troviamo di fronte a una posizione di rinuncia. Perché l'accusa ha atteso fino alla vigilia dei processo per sollevare la questione?» «Buona domanda», dice il giudice. «Per colpa sua c'è il rischio di un ritardo, signor Kline.» «Non vedo alcun motivo di ritardo», risponde Kline. «L'imputato è debitamente rappresentato, e da più di un avvocato.» Allude a Harry e me. «Non da me», dice Harry. «Io non ho mai convenuto di collaborare fino a questo punto.» «Be', però è qui», obietta Kline. «La pagano, no?» «Non abbastanza», risponde Harry. Acosta gli lancia un'occhiataccia, un'espressione di arrogante sarcasmo. «Desidero mettere in chiaro una cosa», dice Acosta. «Non intendo perdere tempo.» Sta dicendo che desidera comunque un processo veloce. Kline cerca di coinvolgere il nostro cliente in una discussione e io intervengo per stroncare la cosa sul nascere. Avendo fallito nel suo intento, Kline ci assicura che non è in discussione il processo veloce, visto che tale processo è già iniziato con la selezione della giuria.
E procede nella perorazione della sua causa. «Noi siamo convinti che la signora Goya sia in possesso di determinate informazioni coperte dal segreto istruttorio», dice, «che non potrebbe avere acquisito se non fosse per il suo precedente impiego nel mio ufficio. Questo pone l'accusa in una posizione di svantaggio.» «L'unico svantaggio che ha l'accusa è l'incompetenza del suo rappresentante», ribatte Lenore. «Sì? Be', è lei quella accusata di conflitto d'interessi», ribatte Kline. «Forse dovrebbe approfondire lo studio dell'etica legale.» «Smettetela.» Radovich afferra la prima cosa che gli capita sottomano, un pesante fermacarte di metallo, e lo batte sulla scrivania, facendo una scalfittura nel legno. La guarda ed esclama a sua volta: «Merda! Charlie mi ucciderà», dice. Per questo processo ha preso a prestito l'aula di Charlie Johnson, e ora ha lasciato un segno indelebile sulla sua scrivania. «Perché non ne discutiamo pubblicamente in aula?» chiede Lenore. «Perché non chiudete il becco, tutti e due?» sbotta Radovich. «E qualcuno mi trovi del lucido per mobili. E uno straccio.» Congeda il cancelliere con gesti frenetici e l'uomo scompare nell'altra stanza. Rabbrividisco all'idea di quali potrebbero essere le conclusioni di una corte d'appello da questo verbale. È chiaro perché Kline abbia scelto di lavare questi panni sporchi nella privacy dello studio del giudice. Una discussione in aula solleverebbe dubbi sulla sua gestione dell'ufficio, sulle circostanze dell'allontanamento di Lenore e forse sull'insoddisfazione di alcuni sostituti, tutti argomenti che Kline preferirebbe evitare in pubblico. «Perché ha aspettato tanto per parlare di questo?» chiede Radovich. Sfrega il pollice sull'ammaccatura della scrivania, poi ci sputa sopra e ci riprova. «Solo l'altro giorno, quando la signora Goya ha interrogato il sergente Frost, mi è stato chiaro fino a che punto la nostra situazione fosse compromessa», risponde Kline. Lo dice senza mezzi termini, ma con compostezza, così che neppure io mi sento di mettere in dubbio la sincerità della sua affermazione. Sospetto che sia la verità. «Lei ha presentato una falsa testimonianza», dice Lenore, «e io l'ho smascherata per quello che era.» «Questa è la sua opinione», ribatte Kline. «Mia, e di qualsiasi persona onesta presente in aula quel giorno.» «Su questo potremmo discutere all'infinito», dice lui, «e sono sicuro che
non troveremmo mai un accordo. Ma una cosa è chiara. Nel controinterrogatorio di quel testimone lei ha utilizzato informazioni confidenziali ricevute dalla signora Hall, informazioni raccolte grazie alla sua posizione all'interno del mio ufficio.» Sta dicendo che Lenore può anche aver vinto la battaglia con Frost, ma solo per perdere la guerra qui. Il cancelliere rientra nella stanza con una bottiglia e uno straccio e li porge al giudice. «Non volevo dell'olio per mobili», dice Radovich. «Non avete niente di colorato?» Il poliziotto alza le mani con i palmi aperti e si stringe nelle spalle come per dire che non ne ha idea, poi viene colto da una folgorazione. Esce dalla stanza e, prima ancora che possiamo riprendere a parlare, è già di ritorno, con una scatoletta di lucido da scarpe marrone. «Ecco!» esclama Radovich. «Vostro onore, potremmo...?» dico. «Procedete pure», risponde, ma la sua mente è altrove. «Lei ha una concezione molto ampia del concetto di conflitto d'interessi», dico. Poi faccio riferimento a un caso citato nella memoria presentata da Kline. «Un tribunale dovrebbe essere sempre restio a sollevare dall'incarico un avvocato.» «A meno che la condotta dell'avvocato 'tenda a inquinare il processo in questione'.» Kline termina la citazione. «Noi sosteniamo che la condotta della signora Goya sia appunto un elemento di inquinamento. Ha interrogato il teste dell'accusa.» Ricordo alla corte che tutte queste sono informazioni riportate, che la teste è morta, e quindi non può testimoniare, e che le sue parole non potranno mai essere presentate come prove. «Comunque sia, la signora Goya non può liberare la sua mente da ciò che già sa», afferma Kline. «E il diritto dell'imputato di scegliersi un avvocato di suo gradimento?» ribatto. «Giusto», dice Radovich. Sta col naso sulla scrivania, e lavora di sputo, olio per mobili e lucido da scarpe. «Dovete ammettere che danneggerei considerevolmente l'imputato se ora gli dicessi che non può avere l'avvocato che si è scelto.» Radovich, l'indice marrone di lucido da scarpe, alza lo sguardo in direzione di Acosta. «Cosa ne dice?» Per un attimo penso che stia chiedendo
un consiglio al nostro cliente su cosa fare con la scrivania danneggiata, magari un segreto, una pozione miracolosa nota solo ai giudici. «Riguardo al suo avvocato, voglio dire», precisa. «Cosa dovrei fare?» «Vostro onore, io obietto. Queste sono questioni private tra cliente e avvocato», dico. «Non m'importa», dice Acosta. Pare gonfiarsi d'orgoglio, non è più l'imputato di un processo per omicidio, ma un giudice che sta dando un consiglio a un altro giudice. Avverto una sinistra premonizione. «Non conosco tutti i particolari...» comincia. Non sia mai che Nocedicocco prenda una decisione prima di conoscere a fondo tutti i dettagli. «È una questione delicata», prosegue. «Io, come cliente, ho fiducia nella signora Goya...» «Ecco, vostro onore, vede?» lo interrompe Lenore. «...ma immagino che sarei ugualmente ben rappresentato dal signor Madriani e dal signor Hinds, se necessario. Sono avvocati validi, in grado di garantirmi una difesa competente.» «Bene», dice Kline. «Dunque non ci sono problemi.» Potrei ringraziare Acosta per la testimonianza di fiducia. Invece mi giro verso di lui e gli rivolgo uno sguardo che, se lanciasse chiodi, lo immobilizzerebbe contro la sedia. «Il giudice Radovich mi ha fatto una domanda», dice, «e io gli ho detto la verità.» Mi volto nuovamente verso Radovich e cambio strategia. «In termini di preparazione del processo, la rimozione della signora Goya a questo punto creerebbe un grosso danno al nostro caso», gli dico. «La nostra difesa è basata molto sul lavoro di squadra. Ognuno di noi si è ritagliato un'area di competenza specifica.» «Lasci che indovini», dice Kline. «La specialità della signora Goya è la violazione del segreto d'ufficio.» Lenore sta per scagliarsi contro di lui quando Radovich interviene e rende la cosa non più necessaria. «Signor Kline, ancora un'osservazione di questo genere e la pagherà cara.» Radovich gli punta contro l'indice macchiato di marrone. Se Kline non la smette, le sanzioni potrebbero includere due giorni passati a levigare con la punta del naso la superficie danneggiata della scrivania. Il giudice gli strappa una frase di scuse. «È decisamente troppo tardi per sollevare questo tipo di questioni, spe-
cialmente quando l'accusa conosceva fin dall'inizio il suo ruolo nel caso precedente», dico a Radovich. «Stanno cercando di metterci i bastoni tra le ruote», interviene Lenore. «Se qualcuno ha messo i bastoni tra le ruote», dice Kline, «quella è stata lei.» E poi, rivolto al giudice: «Vostro onore, stiamo ancora indagando per scoprire se si sia portata via dei fascicoli quando ha lasciato l'ufficio». Chiaramente questa è un'esca per Lenore, e ottiene l'effetto desiderato. «Vostro onore, io mi sento offesa da queste illazioni», dice Lenore, cominciando a balbettare. «Come... come è possibile? Voglio dire, come avrei potuto prendere dei fascicoli di documenti quando lei...» - si volta da Kline a Radovich, rendendosi conto che si sta rivolgendo alla persona sbagliata - «quando lui e la sua compare hanno saccheggiato il mio ufficio nel cuore della notte e mi hanno fatto scortare fuori dell'edificio da un agente? È incredibile!» Lenore è tutta rossa in viso, la collera le è montata fino alle orecchie. «Non è il caso di arrivare alle invettive personali», dice Radovich. «Dovreste calmarvi, tutti e due.» Sta sfregando freneticamente col dito, e ora è riuscito a far diventare una zona di cinque centimetri per cinque due toni più scura del resto del ripiano. Alza lo sguardo e si accorge che lo stiamo osservando. Allora mette via lo straccio e sposta il tampone della carta assorbente dieci centimetri più in là, a coprire il segno. Quando ce ne andremo, partirà alla ricerca di carta vetrata. «Vostro onore, mi hanno consegnato una scatola con i miei effetti personali e mi hanno cacciata fuori dell'ufficio», dice Lenore. «Ci sono cose di mia proprietà che sono addirittura rimaste là.» Lenore ha raccolto la sfida e ora sembra che sia lei quella sotto processo. «Sono sicuro che è stata un'umiliazione», dice Radovich. «Ma non è questo il motivo per cui ci troviamo qui.» Acosta inarca un sopracciglio. Il suo tentativo di assumere come legale un ex sostituto procuratore per sfruttare la sua possibile influenza su quell'ufficio si è ritorto contro di lui. Lenore è bruciata, e lui si starà chiedendo quali conseguenze questo avrà sul suo caso. Durante tutto questo tempo, Kline è rimasto seduto tranquillo sulla sua poltroncina. Finalmente Lenore si rende conto di essere l'unica persona agitata della stanza, si ricompone e ritorna alla questione iniziale. «Lei non ha spiegato adeguatamente», riprende, «perché ha atteso così a lungo per sollevare questa...» - fa un gesto con il dorso della mano, alla ri-
cerca di un termine sufficientemente dispregiativo - «...questa falsa accusa.» «Pensavo fosse chiaro», risponde Kline. «Abbiamo unito soltanto pochi giorni fa il procedimento per l'accusa di istigazione alla prostituzione con quello per l'accusa di omicidio. E vorrei ricordarle che l'abbiamo fatto su sua insistenza. Prima di allora, prima di questo accorpamento, non c'era alcun conflitto.» La risposta di Kline ha l'effetto di un uppercut al plesso solare. Ho quasi l'impressione di sentire Lenore che boccheggia. Questo è il motivo per cui non bisogna mai fare una domanda se non si ha già un'idea della risposta. «Su questo ha ragione lui», dice Radovich. Lenore è senza parole. Mi intrometto: un po' di gioco di squadra. «È comunque un grave elemento di disgregazione all'interno della difesa», dico. «Si può avanzare un serio dubbio se in questo modo all'imputato non venga negato un processo giusto.» «Questo è il nocciolo della questione», dice Radovich. «Sono preoccupato per le conseguenze della sua istanza, signor Kline, caso mai dovessi accettarla. Specialmente ora, a procedimento così avanzato.» Vedo un giudice che vacilla e che sta per cadere dalla nostra parte. «Vostro onore, la legge parla chiaro...» «È vero», dice Radovich, «ma io devo anche tutelare il diritto dell'imputato ad avere un processo equo e un'adeguata rappresentanza legale.» Capisci di aver vinto quando il giudice comincia a perorare la tua causa al posto tuo. «Vostro onore, potrebbe sospendere la sua decisione per un attimo, mentre conferiamo?» «Va bene, ma faccia presto.» Radovich guarda l'orologio, mentre Kline e il suo sostituto si allontanano verso il fondo della stanza e si mettono a parlare sottovoce, la mano davanti alla bocca, tra un sibilare di sussurri e intrighi. Il sostituto tira fuori un altro foglio dalla valigetta e i due lo esaminano insieme. Guardo Lenore. Fa una scrollata di spalle. Non ha la minima idea di che cosa stiano discutendo. Finalmente arrivano a una decisione e vengono avanti. «Speravo di non essere costretto a farlo», dice Kline, «ma c'è un altro aspetto di questa vicenda. Questo è arrivato nel nostro ufficio nel tardo pomeriggio di ieri.» Porge il documento a Radovich.
«È un rapporto della scientifica», prosegue il procuratore, «più esattamente della sezione informazioni e identificazioni criminali.» «E cosa c'entra con la questione del conflitto?» chiedo. «È un rapporto su un'impronta digitale parziale rilevata sulla porta d'ingresso dell'appartamento della vittima il giorno seguente a quello della scoperta del cadavere», dice Kline. Mi si gela il sangue nelle vene. Improvvisamente Kline rivolge tutta la propria attenzione verso Lenore, come il raggio impietoso di un riflettore. «Desidereremmo sapere, signora Goya, che cosa ci faceva nell'appartamento della Hall la sera in cui questa è stata uccisa.» Lenore comincia a balbettare. «Non rispondere», le ordino. Se non altro Lenore ha la presenza di spirito di non ammettere niente. Invece si limita a definirlo un trucco meschino, un tentativo dell'accusa di gettare altro fango su di lei. «Come fate a sapere che l'impronta è stata lasciata quella sera?» chiedo. Kline sorride. «Be', questa è la cosa strana di tutta la faccenda, avvocato. Non abbiamo trovato praticamente nessuna impronta su tutte le altre superfici libere all'interno o all'esterno dell'appartamento. Lei non lo definirebbe strano?» Mi rivolge uno sguardo perplesso. Non rispondo. «Non definirebbe un po' strano che non ci siano neppure le impronte della vittima? Sulla porta d'ingresso? Sulla maniglia? Nel bagno? In cucina?» Ci lascia un momento perché afferriamo a fondo il significato. «Sembra proprio che qualcuno si sia dato un gran da fare a ripulire il posto.» «Ma, anche ammesso che l'impronta sia della signora Goya, io non sono d'accordo che...» «Oh, lo è, eccome», dice Kline. «Comunque lei non può provare che sia stata lasciata quella sera.» «Questa è una cosa che spetterà alla giuria decidere», dice Kline, che poi si rivolge a Radovich. «È probabile, è verosimile, che qualcuno abbia cancellato tutte le impronte dalla porta e ne abbia lasciata solo una? L'impronta del pollice della signora Goya? È probabile?» Kline ha ragione. È qualcosa che può dare in pasto alla giuria, e il loro verdetto sulla questione non avrà alcun peso. Lenore è compromessa fino a un punto che non avremmo mai immaginato. «E può stare sicura che le faremo esattamente la stessa domanda quando
la chiameremo sul banco dei testimoni», dice Kline a Lenore. Lenore è senza parole. Le sue mani sembrano incollate al bordo della scrivania di Radovich, come se questa fosse diventata il confine del suo universo. «Vostro onore», prosegue Kline, «la questione del conflitto d'interessi può anche essere controversa. Ma la legge è inoppugnabile, quando si tratta di testimoni. Un testimone non può, in nessun caso, rappresentare legalmente una delle parti in un processo in cui esso stesso debba testimoniare. È la legge. Senza eccezioni.» Si volta verso Lenore e la guarda diritto negli occhi. «Signora Goya, le notifico ufficialmente che l'accusa intende chiamarla a testimoniare nel procedimento contro Armando Acosta.» 15. Quando torniamo in ufficio, la stampa si è già buttata a pesce sulla notizia che Lenore è stata rimossa dall'incarico. Le spie luminose del telefono sono tutte accese, tutte le linee occupate, e la segretaria è costretta a tenere la gente in attesa. «Quel bastardo non vedeva l'ora di rendere pubblica la notizia», dice Lenore. Sta parlando di Kline, il quale avrà senza dubbio tenuto una conferenza stampa davanti alle telecamere sui gradini del tribunale. «Farebbe qualsiasi cosa pur di tagliarmi la gola.» Entra decisa nel mio ufficio, seguita da Harry e da me. «Sembra che tu te la sia tagliata da sola», le fa notare Harry. «Vai a farti fottere.» «A quello ci hai già pensato tu», risponde lui. «Me, Paul e il tuo cliente.» «Lasciami in pace.» Faccio cenno a Harry di piantarla. «Non credi che stia già abbastanza male?» «Oh, mio Dio!» esclama Harry. «Perché non facciamo una seduta di terapia di gruppo per vedere chi sta peggio? Lo prendi tu il divano?» Le indica il sofà con un gesto ironico, come per invitarla a sdraiarsi. «E tu come ti senti, Paul? Ti senti come se ti avessero fottuto?» Harry è al massimo del sarcasmo. «Oh, Dio! Come posso essere così insensibile?» dice. «Lascia che lo dica in un altro modo. Credi di essere stato fottuto, oggi, in tribunale?»
Harry non riesce a controllarsi. «Cosa diavolo sta succedendo?» dice. «Tu lo sapevi che era andata nell'appartamento della Hall?» Harry mi guarda. Sta aspettando una risposta. È arrabbiato. Si sente ingannato. Credo che sospetti - anche se non gliel'ho detto - che quella sera io fossi con Lenore nell'appartamento della vittima. Se glielo dicessi, schizzerebbe fuori dell'ufficio in preda a una crisi di nervi. Prima che io possa dire qualcosa, allunga una mano. «Non rispondere», mi ordina. Temo che riesca a leggermi nella mente. È abbastanza navigato da capire che ci sono cose che è meglio non sapere, o per lo meno che è meglio non sentirsi dire. «Non so proprio cosa dire», afferma Lenore. «Siamo in due», ribatte Harry. Lenore lo ignora. Con Harry, è la cosa migliore. «Vi chiedo scusa per avervi coinvolto in questa faccenda», prosegue lei. «Ora non so come tirarvene fuori.» Per il momento ha già abbastanza problemi di suo. Kline è stato chiaro: ha intenzione di chiamarla a testimoniare. Ha tentato di far assegnare a due investigatori il compito di interrogarla questo pomeriggio alla stazione di polizia, ma sono riuscito a convincere Radovich a intervenire. Per la polizia sarebbe stata un'occasione d'oro per sondare la nostra difesa. Non ci vogliono dire se intendono accusare Lenore di effrazione e di intralcio alla giustizia, nel caso riescano a dimostrare che ha manomesso le prove sulla scena del delitto. «Avete qualche idea su cosa dovrei fare?» ci chiede. «Certo. Digli che hai perso la ragione», suggerisce Harry. «Ti crederanno.» In questo momento Harry la mette giù così dura non tanto per ciò che Lenore ha fatto, ma perché sospetta un segreto tra noi due, qualcosa di cui non l'abbiamo reso partecipe. Se l'avessimo invitato a venire con noi quella sera, avrebbe subito preso in simpatia Lenore. Era esattamente il suo genere di cose. Come tutti noi, Harry è un ipocrita inveterato. «Quasi me lo dimenticavo», dice. «Per quello che può servire.» Harry mi porge un fascicolo di moduli stampati con un'intestazione familiare. «Fino a questo pomeriggio pensavo fosse un colpo di fortuna per noi», dice. «È la lista delle telefonate della vittima per il periodo che ci interessa.»
Su una pagina è applicato con una graffetta un foglietto con un appunto scritto da Harry. «Quella è del giorno in cui è stata uccisa», mi spiega. «Certo, è possibile che tu fossi là quando ha fatto quella telefonata.» Guarda Lenore. «In questo caso ci potrai dire che cosa avevano da dirsi quei due.» «Di che cosa stai parlando?» gli chiedo. Mi indica col dito la telefonata in questione. «Phil Mendel e la Hall. Lei lo ha chiamato al numero segnato sull'agendina, neppure due ore prima di essere uccisa. Se l'ipotesi dell'accusa sull'ora della morte è corretta, questa è stata l'ultima telefonata che ha fatto. Per quello che ci serve, a questo punto.» Secondo Harry, siamo così compromessi dalla condotta di Lenore che niente può più servire. Gli dico che avrei bisogno di restare un momento solo con Lenore nel mio ufficio. «Certo. Tanto, cosa me ne frega? Io ne sono fuori. Dio solo sa perché mi sono fatto convincere a entrarci.» Harry si allontana e si chiude la porta alle spalle, borbottando qualche imprecazione e qualche parolaccia. «È possibile che ti sia costata un amico», dice Lenore. «A Harry piace arrabbiarsi», la tranquillizzo. «Si diverte. È questo che lo fa andare avanti.» Ed è vero. L'ira sembra essere l'unica forza vitale rimasta nella sua esistenza. Domani troverà qualcos'altro per cui incavolarsi, e il giorno dopo se lo sarà già dimenticato. «È la prima volta che mi vedo come un tonico per la salute», dice. La guardo come per dirle che nelle sue parole c'è più verità di quanto lei pensi. «Hai qualche suggerimento su come dovrei comportarmi?» mi chiede. «Se mi interrogano?» «Dovranno passare sul corpo di Radovich. Non credo che lui lo permetterà. Il rischio di mettere in pericolo le confidenze del cliente è troppo grande.» «Potrei dire che sono arrivata fino alla porta, che l'ho toccata dall'esterno, ma che non sono entrata.» «Questo presupporrebbe che abbiano trovato l'impronta all'esterno», le dico. Kline non ci ha ancora consegnato una copia del rapporto, quindi non sappiamo dove l'abbiano trovata. Lenore è un avvocato. In una situazione più tranquilla si renderebbe conto che mentire è un errore.
«Ci sono mille modi in cui possono incastrarti», le dico. «E solleverebbe più interrogativi di quanti ne risolva. 'Come mai, signora Goya, è arrivata fino all'appartamento di una donna uccisa, semplicemente per toccare la porta d'ingresso?'» Lenore mi rivolge un'occhiata imbarazzata. «Di sicuro mi chiederanno se ero sola.» Ora tocca a me decidere se mentire o no. «Vorranno sapere che cosa hai visto, se hai toccato qualcosa. Ma la prima domanda sarà sicuramente perché sei andata là. E poi arriveranno anche a questo. Se c'era qualcuno con te.» «Non possono onestamente pensare che l'abbia uccisa io. Che movente avrei potuto avere? Inoltre, mi hanno vista nel vicolo che parlavo con Tony, dopo che la polizia ha trovato il suo corpo. Possono fare due più due e capire che sono andata all'appartamento della Hall dopo l'omicidio. Questo non fa di me un'assassina.» «No, solo una che inquina le prove. E resta comunque la domanda.» Quella che finora le ho fatto con molta delicatezza, e che lei continua a evitare. «Che cosa ci facevi là?» Mi rivolge un'espressione contrita. «Ci crederesti se ti dicessi che era per soddisfare una semplice curiosità?» «In una sola parola: no.» Le sue azioni, quella sera, erano dettate da qualcosa di più di una semplice curiosità. Aveva un motivo per andare là. Se dovessi formulare un'ipotesi, direi che doveva trattarsi di qualcosa nella cucina. Sono stato con lei tutto il tempo, tranne per quei pochi attimi in cui lei è scomparsa in cucina. «Mi metti in una posizione difficile», dice lei. «Un altro conflitto?» «In un certo senso.» «Ti aiuterebbe se tirassi a indovinare?» Mi guarda come se volesse farmi capire che potrebbe dirmelo in un orecchio. O forse no. «Aveva a che fare con Tony, vero?» Rimane impassibile, ma un guizzo negli occhi la tradisce. «Usciva con lei?» Non è un'ipotesi azzardata, visto che, una volta messi gli occhi sulla Hall, molto probabilmente Tony sarà andato in calore come un chihuahua superdotato. Harry ha fatto amicizia con la vicina della Hall, quella che l'ha vista con
l'occhio nero. La donna, però, non ha mai visto chi gliel'ha fatto, quell'occhio nero. Ma Tony Arguillo sta rapidamente diventando un candidato, una persona che in un accesso di machismo avrebbe potuto prendere a pugni la ragazza. «Lascia che indovini. Ha dimenticato qualcosa a casa della Hall?» Lenore non risponde. «Mi avverti se ci vado vicino?» Mi porto una mano alla testa come il Grande Karnak e azzardo un'ipotesi. «Un preservativo usato in cui Tony il Magnifico ha lasciato il meglio di sé?» Scoppia a ridere e arriccia il naso all'idea. «Ci riprovo.» Rifletto brevemente. «Un enorme sospensorio ricoperto di paillettes con una cerniera d'oro per racchiudere lo scettro di famiglia?» Comincia a ridacchiare; l'umorismo da caserma agisce da anestetico in una situazione altrimenti insopportabile. «Prova ancora, oh, grande indovino!» «Un attrezzo da ginnastica isometrica per l'alter ego di Tony, Willard il moscio?» chiedo. «Chi diavolo è Willard?» «Il terribile mostro con un occhio solo e la maglia a collo alto.» Questa volta si lascia andare a una risata fragorosa. «Niente di così scandaloso», confessa. «E allora cosa?» Il Grande Karnak si è fatto improvvisamente serio. Lenore fa un sospiro profondo. Le battute e le risate sono finite. È venuto il momento di confessare, e lei lo sa. «Quella sera avevano un appuntamento», mi dice. «Tony e la Hall. Ovviamente lei è stata uccisa e il suo cadavere ritrovato prima che lui la incontrasse.» «Questo è quanto ha detto a te.» «Senti, Paul, non l'ha uccisa lui.» «Cos'è, un atto di fede?» «Lo conosco. Non può aver fatto una cosa simile.» «Questo è ciò che pensavo. Allora, cos'è che aveva lasciato da lei?» «Non aveva lasciato nulla.» «Eppure una ragione deve esserci, perché tu sia andata là.» «Devi promettermi che non lo userai.» Intende dire nella difesa di Acosta.
«Questo non posso promettertelo, e tu lo sai benissimo.» «Senti», dice, «io gli credo. Non ha niente a che fare con l'omicidio.» «Prova a convincere anche me.» Lenore mi guarda esasperata. «Quella sera», dice, «quando eravamo con lui nel vicolo in cui è stato ritrovato il corpo, Tony e io siamo rimasti un momento soli.» «Me lo ricordo.» È successo in quel breve istante in cui lei si è allontanata da me per andare verso Arguillo. Hanno parlato per un attimo e io non sono riuscito a sentire cosa si dicevano. «Mi ha detto del loro appuntamento. Ha detto che Brittany doveva aver scritto un appunto da qualche parte. A quanto pare aveva la mania degli appunti. Non si fidava della sua memoria.» «Però non aveva avuto problemi a ricordare ogni minimo particolare della conversazione avuta con Nocedicocco in quella camera d'albergo.» «Aveva anche una fervida immaginazione», dice Lenore. «Quando ho sentito la sua storia, non ho creduto a una sola parola. Credo sia questo il problema di Kline. Sa che la sua storia fa acqua. Se avessero processato Acosta solo sulla base della testimonianza della Hall, e se lui avesse avuto una difesa competente, il giudice gliel'avrebbe fatto mangiare. Il caso era nullo.» «Ma avrebbero comunque processato Acosta?» Fa una smorfia come per dire che non ne è sicura. Mi spiega che all'ufficio della Procura non tutti erano d'accordo, e gli unici che premevano per un processo erano Kline e la stessa Hall, che vedeva messa in discussione la propria credibilità. «Era convinta che se il procuratore distrettuale non le avesse dato fiducia in un caso così importante, questo avrebbe diminuito le sue probabilità di ottenere un posto nella polizia una volta finita l'università. Era risentita perché veniva messa in discussione la sua onestà.» «Forse ne avevano motivo», dico. «Frequentava una compagnia di persone la maggior parte delle quali non ha molta dimestichezza con la verità. E questo può essere contagioso.» «Credi che l'abbiano usata per incastrare Acosta? Stai pensando a Mendel?» La mia espressione le fa capire che è una possibilità. «Scommetto che è così», dice Lenore. «E comunque tu sei andata nell'appartamento. Che cosa stavi cercando?» «Un piccolo post-it giallo. Tony mi ha spiegato che la Hall aveva l'abi-
tudine di appiccicarli sul calendario per non dimenticare le cose.» «E l'hai trovato?» Annuisce. «Con sopra il nome e il numero di telefono di Tony, e anche l'ora: le sette di sera. Era attaccato al calendario sul giorno dell'omicidio. È allora che ho visto l'appunto per l'incontro con Acosta scritto sul calendario. Il post-it c'era attaccato sopra.» «Ripeti un po'.» «Ho trovato il biglietto per l'appuntamento con Tony.» «No, non quello. Dove l'hai trovato?» «Appiccicato sopra gli appunti scritti sul calendario.» Ancora non ci arriva. «L'incontro con Acosta», dico. Allora capisce. «Oh, merda!» esclama. «Potrebbe voler dire che l'appuntamento con Acosta era stato annullato?» «Non credo», dice. Lenore spera di non aver distrutto questa prova. «Da come era attaccato, no. Era più un'aggiunta, come se lo spazio sul calendario non fosse sufficiente.» «Però non ne sei sicura.» Lenore afferra il significato di questo. Se avesse lasciato l'appunto e la polizia l'avesse trovato, avremmo potuto sostenere questa tesi. Ma, senza volere, col suo gesto ha alterato le prove a danno del nostro cliente. «Non c'era niente di male. Solo che Tony non voleva che gli altri poliziotti vedessero il biglietto. Si vergognava.» «Già, me l'immagino, specialmente se lui non aveva un alibi.» «Non intendi usarlo in tribunale?» Non mi sbilancio. «Avevi detto...» «Io non avevo detto niente. Avevo detto che entrambi ci siamo presi l'impegno di difendere un cliente accusato di omicidio.» «Se necessario, testimonierò di aver preso l'appunto dal calendario. E che era appiccicato proprio sopra l'appunto col nome di Acosta. E che era chiaro che l'incontro era stato annullato. Ma non farò il nome di Tony. Non è stato lui.» «Cos'ha di così speciale?» «Semplicemente non credo che lui sia coinvolto.» «Non ha importanza», dico. «Sai bene quanto me che, se ti faccio testimoniare, nessuno ti crederà in ogni caso. La considereranno una storia in-
ventata. Kline la farà passare come una falsa testimonianza. Un ultimo disperato tentativo di salvare un cliente colpevole.» «Ne sarebbe ben felice», dice lei. «E comunque ho buttato via il foglietto.» Faccio una smorfia come se questo tagliasse la testa al toro. «Chi ha strappato le pagine dall'agendina della Hall? Quella coi numeri di telefono...» chiedo. «Alla lettera A c'era il numero di Tony?» «Non ne ho la minima idea», dice. «Io so soltanto quello che Tony mi ha detto, e quello che c'era sul biglietto.» Poi aggiunge, senza prendere flato: «Come facciamo? Cosa devo fare?» È un bel problema. «Per il momento mantieni un profilo basso.» «Devo scomparire?» «Niente di così drastico. Solo, per un po', non farti vedere troppo in giro.» «E lascio te a raccogliere i cocci.» «Non ci si può fare niente. Parlerò con Acosta. Se vuole un rinvio, credo che Radovich glielo concederà.» «E se Kline mi chiama a testimoniare?» «Ci opporremo.» «E se non ci riusciamo?» «L'effrazione è pur sempre un crimine», le dico. «Ti appelli al Quinto Emendamento. Non gli dici niente... su consiglio del tuo legale.» Le faccio l'occhiolino. A queste parole sorride. «Fammi indovinare...» dice, e poi punta un dito verso di me. «Io non potrei difenderti. Sarebbe un conflitto d'interessi. Troverò qualcuno che ti sappia dare questo stesso consiglio.» Harry vuole abbandonare il caso. Mi dice che farei meglio a tirare il cavo di spiegamento e fare come lui. Difendere Acosta non corrisponde all'idea che Harry ha della vera giustizia. Però continua a lavorare freneticamente al caso. A questo punto il suo compito principale, diventato ormai un piacere, è richiedere l'ordine di esibizione di vari atti, compresi i libri contabili del sindacato di Mendel, e curiosare nell'archivio dei corpi di reato della polizia alla ricerca di informazioni sulla pistola usata per uccidere Zack Wiley. Harry è maestro nel far man bassa di documenti riservati usando metodi
legali. A sentire lui, una volta che Mendel avrà ricevuto la citazione, dovremmo poter udire i suoi ululati fin nel nostro ufficio senza bisogno del telefono. Con questi passi abbiamo cominciato a scoprirci su quale corso prenderà la nostra difesa. Questa mattina vado da solo al carcere della contea per parlare con Acosta. Quando arrivo, trovo Lili che sta parlando con il marito. Sembra mi stessero aspettando. Con la sospensione di Lenore dal caso ci troviamo davanti a un bivio. Acosta ha l'aria stanca. La monotonia delle prime fasi di un processo è come un narcotico, anche quando la conclusione può essere la morte. Ha il volto tirato, gli occhi infossati. Dal giorno dell'arresto ha perso almeno sei chili, anche se afferma che si mantiene in forma facendo ginnastica in palestra nei giorni in cui usciamo presto dal tribunale. Dice che non è poi così dura. Dopotutto, è solo una questione di abitudine. Per quanto riguarda Lili, la sua vita sembra distrutta. Ostenta un'espressione coraggiosa dall'altra parte del vetro, una roccia al fianco del marito, almeno fisicamente. Ma si capisce che quando è sola vive l'angoscia dell'incertezza, immaginando cosa farà della propria vita se dovesse perderlo. Per quanto mi risulti difficile concepirlo, Armando Acosta è il sole intorno al quale lei orbita. Dopo vent'anni di ostilità professionale, nelle ultime settimane ho cominciato a vederlo sotto una luce diversa... un uomo domato: fino a questo punto l'umiliazione ha potuto nobilitarlo ai miei occhi. «Spero che non le dispiaccia che io sia qui», dice Lili. «Non abbiamo più molto tempo per parlare.» Questa mattina l'aula di Radovich è chiusa. Si è preso la giornata libera, credo per darci l'opportunità di riorganizzarci dopo il colpo inferto a Lenore. Ieri, dopo che la giuria si è insediata, l'ultimo argomento in agenda è stato un contenzioso sui media. Radovich non permetterà alle telecamere delle reti televisive di filmare il processo. Ha visto quali sono gli effetti in termini di perdita di tempo. «L'amor proprio dell'uomo», ha detto ai giornalisti, «tende a gonfiarsi come un pallone in quota ogniqualvolta si trova davanti a un obiettivo.» E, per aggiungere l'ingiuria al danno, ha imposto agli avvocati e ai loro collaboratori, agli investigatori e alla polizia, come pure a tutti i testimoni che compaiono sulle nostre liste, l'obbligo di non divulgare notizie relative al processo. Questa mossa ha inferto un colpo mortale a un'industria in ra-
pida ascesa. Quando gli avvocati dei media si sono affollati intorno al suo scanno armati del Primo Emendamento, Radovich ha detto loro che non gli risultava parlasse del notiziario delle cinque o, peggio ancora, di riprese in diretta. Li ha invitati a fare la punta alle matite, promettendo che avrebbe trovato a tutti un posto in prima fila. Benché io non abbia preferenze per quanto riguarda la presenza o no delle telecamere, c'è un meccanismo che tende a favorire la difesa, specialmente quando il procuratore è stato eletto, come Kline. È probabile che alla luce dei riflettori il nostro uomo getti al vento il manuale dell'accusa ordinata e composta. Come risultato, la pubblica accusa ha un numero altissimo di insuccessi in casi ad alta visibilità, casi vinti in partenza che sono stati persi, o giurie che non sono riuscite a raggiungere un verdetto perché il procuratore distrettuale non riusciva a rimanere concentrato oppure cominciava a essere sensibile ai picchi di audience raggiunti dalla difesa. Ci sono testimoni che si inventerebbero qualsiasi cosa o farebbero la fila per testimoniare il falso pur di avere i loro quindici minuti di celebrità. E ci sono giudici che lo permettono. Sono gli albori dell'era della stupidità. «Come l'ha presa la signora Goya?» chiede Acosta. «Il suo allontanamento?» «È molto arrabbiata. Principalmente con se stessa», dico. «È stata una cosa stupida.» «Non ho capito bene la tempistica», dice, «ma immagino che non lavorasse più con l'ufficio del procuratore quando ha fatto questa piccola gita.» Si riferisce al blitz nell'appartamento della Hall la sera dell'omicidio. «È successo subito dopo aver lasciato l'ufficio.» «Quindi potrebbero nascere questioni su un abuso di autorità? O per essersi spacciata per ciò che non era?» «Non suggeriamo idee a Kline», gli dico. «Assolutamente no. Ma, mi dica, perché è andata là?» Ha il diritto di saperlo, ma gli rispondo che è una cosa che dobbiamo discutere a quattr'occhi, quando Lili se ne sarà andata. Parliamo della nostra situazione, delle conseguenze dell'allontanamento di Lenore. Acosta non sembra molto preoccupato. «Poteva andare peggio», dice. «Sarebbe potuto accadere dopo che la giuria si fosse insediata e lei avesse già legato con loro. A quel punto poteva essere una perdita fatale.» Quando stava sullo scanno amministrava la legge a colpi di mannaia, ma
certo dimostra di avere un'acuta percezione del procedimento penale. «Ora, invece, lei ha ancora la possibilità di prendere il suo posto prima che siano stati fatti danni.» «Questo solleva la prima domanda. Cosa facciamo?» «Procediamo.» «Se lei desidera trovarsi un altro avvocato, Radovich le concederà un rinvio.» «Vuole lasciarci?» chiede Lili. «Cosa succede?» dice Acosta. «Tutti i topi abbandonano la nave che affonda? Non si sente in grado di sostenere la difesa?» mi chiede. «Lenore era la titolare della difesa. Il caso era suo.» «Ma lei ha fatto il prezzo.» Mi sta ricordando la mia bramosia di contanti, gli onorari eccessivi che ho sparato nel nostro primo incontro. «Abbiamo ipotecato la casa», dichiara Lili. «Rifiuterò qualsiasi tentativo da parte sua di abbandonare il caso», dice Acosta. «Ci conosciamo da tanto tempo», osservo, «e i nostri rapporti non sono stati sempre piacevoli. Pensavo potesse trovarsi più a suo agio con un altro legale.» «Non dobbiamo sposarci», ribatte «Dobbiamo respingere un'accusa di omicidio. Quella che si potrebbe definire una zuffa tra cani. Ma è vero che abbiamo avuto le nostre divergenze.» Mi osserva con un'espressione ambigua, tra il saggio e il machiavellico. «Immagino non sia stato sempre facile andare d'accordo con me», dice. Acosta è un maestro dell'understatement. «E se proprio vuole sapere la verità», aggiunge, «per parecchi anni l'ho considerata un gran figlio di puttana.» «Armando!» Lili si è portata una mano alla bocca, con espressione inorridita. «Anzi, per essere del tutto sincero, la definirei il peggior figlio di puttana del nostro tribunale. Ma è molto furbo, ed è questo che serve quando si è impegnati in una zuffa tra cani. E, al momento, la cosa più importante è che lei è il mio figlio di puttana. Io l'ho comprata e, se non le dispiace, vorrei tenerla.» Rifletto un momento. So che potrebbe rendermi le cose difficili se cercassi di tirarmi indietro. Radovich potrebbe prendere le parti di un imputato che lotta per avere un avvocato alla vigilia del processo. Ma non è questo il motivo per cui rimango. C'è un universo di ragioni per le quali potrei
condannare quest'uomo: la sua irascibilità, i suoi pregiudizi - che ormai sono leggendari -, la sua ipocrisia verso le persone che si sono trovate dove ora è lui. Sono tutti validissimi motivi per i quali potrei facilmente e senza problema mandare al rogo questo demonio, ma non per un peccato che non ha commesso. «Allora, cos'ha deciso?» mi chiede. «Se mi vuole, rimango.» «E il signor Hinds? So che lavorate bene, insieme.» «Non posso parlare per lui. Ma credo che lo farà.» «Bene.» Risolto questo, Lili ci lascia soli, e io gli spiego che cosa ci faceva Lenore nell'appartamento della Hall quella sera. Ascolta attentamente, cercando di cogliere ogni sfumatura. «Conosce bene Tony Arguillo?» Quello che Acosta vuole sapere è se lo conosce in senso carnale. «Sono amici. Niente di più. Amici dall'infanzia», aggiungo. Annuisce soddisfatto. Credo fosse preoccupato per quel che Lenore poteva sussurrargli nell'orecchio, di notte. «Crede che con la Hall ci fosse qualcosa di più dell'avventura di una notte, come la chiamano?» «Non saprei.» «Potrebbe chiederlo alla signora Goya.» «Lei non crede che Tony abbia avuto qualcosa a che fare con l'omicidio.» «Bene. Non crede che sia stato io. Non crede che sia stato lui. Chi crede che sia stato?» Acosta mi sta dicendo che il tempo stringe e che la faccia di Tony verrebbe bene per dare un volto al killer. Specialmente se non siamo costretti a dimostrarlo. «Una piccola prova, un vago suggerimento alla giuria potrebbero essere molto utili.» «Non ci crederebbero, se venissero da Lenore», obietto. «È troppo facile per il procuratore attaccarla.» «Giusto.» Capisce subito il problema. Gli comunico che il biglietto attaccato al calendario è stato distrutto. «Peccato. Avremmo potuto chiamare a testimoniare Arguillo e chiedergli del biglietto.» «Avremmo dovuto comunque preparare le basi», gli dico. «Stabilire do-
ve è stato trovato il biglietto.» E questo ci riporta a Lenore. Acosta scuote la testa. Lenore non ci può essere di aiuto. Però è incuriosito dal fatto che Tony abbia mandato lei a recuperare il biglietto. «È sicuro che lei le abbia detto tutto?» «Perché dovrebbe mentire?» «Per proteggere Arguillo.» «Era il suo avvocato. Non era costretta ad accettare il caso.» «Esattamente.» «Lei è convinto che Lenore potesse avere un secondo scopo per assumere la sua difesa?» «È una possibilità.» «No. Non ci credo. Sono convinto che ci abbia detto tutto quello che sa.» «Forse», dice Acosta. Ma dalla sua espressione capisco che considera la mia difesa di Lenore niente più di un atto di fede. «C'è altro?» chiede. «Un'ultima cosa.» «Cosa?» «Un calendario trovato nell'appartamento della vittima. Su di esso, in corrispondenza del giorno dell'omicidio, c'è un appunto scritto dalla ragazza, che riporta il suo nome e indica che voi due avevate un appuntamento per quel pomeriggio.» Se lo sapeva già, questo non trapela dalla sua espressione. Si fa serio in volto, mentre riflette su questa notizia. «Non capisco. Non so cosa dire. Non ho idea di come possa essere finito là. A parte quell'incontro nella camera d'albergo, quando mi hanno incastrato», dice, «non ho mai più parlato con quella donna, né l'ho più incontrata. Non l'ho mai vista, né prima né dopo.» È sinceramente perplesso. «Perché avrei dovuto incontrarla di nuovo, dopo che mi aveva ingannato la prima volta?» «Sono sicuro che è esattamente quello che l'accusa vorrà sapere.» «Sarebbe stata una cosa stupida. Che cosa avrei potuto sperare di ottenere?» Non lo dico, ma sono sicuro che Kline ha già una risposta pronta a questa domanda. «Quindi lei non ha idea di come l'appunto sia finito sul calendario? Col suo nome e l'ora?»
«No.» Scuote la testa, poi mi guarda in faccia, aggrottando la fronte. «Il problema è: come facciamo a spiegarlo alla giuria se non ne abbiamo idea neanche noi?» È esattamente questo il punto. 16. Radovich ha riflettuto sulla questione della piccola Kimberly Hall per quasi due settimane. Il punto in discussione è il diritto a un pubblico processo nel caso di un reato penale. Kline vuole portare la figlia della Hall sul banco dei testimoni, ma solo davanti a giudice, giuria e avvocati, senza cioè la presenza del pubblico e della stampa. Sostiene che la bambina ha già sofferto abbastanza e che, diversamente, resterebbe traumatizzata. Noi ci siamo opposti a questa mozione e abbiamo chiesto di poter interrogare Kimberly senza la presenza della giuria, prima dell'inizio del processo. Non è una procedura insolita nel caso di bambini piccoli. È importante capire se Kimberly comprende la differenza tra verità e fantasia e, in questo caso, determinare se quella sera abbia visto qualcosa che possa fare di lei una teste attendibile. Sappiamo solo che la sera dell'omicidio la polizia ha trovato Kimberly rannicchiata in uno sgabuzzino a pochi metri dal soggiorno, abbracciata a un orsacchiotto macchiato del sangue di sua madre. Ciò che Kimberly può aver visto quella sera rimane un mistero. Stamattina siamo tutti riuniti nell'aula: il giudice, gli avvocati, Acosta e una psicologa del Servizio Protezione Infanzia. Quello che appureremo oggi deciderà se Kimberly testimonierà al processo o no. Kline ha delegato a un sostituto del suo ufficio, una donna, il compito di occuparsi della bambina, anche se è probabile che oggi l'accusa non le porrà molte domande, come del resto noi. Kline è dell'opinione che una donna può riuscire meglio di lui a ottenere qualcosa dalla bambina. Certamente noi avremmo affidato questo compito a Lenore, se non fosse stata sollevata dall'incarico. Il pensiero mi colpisce all'improvviso come un pugnale gelido: Kimberly era in quel ripostiglio quando Lenore e io siamo entrati nell'appartamento, quella sera. Mi vengono i sudori freddi al pensiero che, oltre al fatto che può averci visto, senza saperlo l'abbiamo lasciata lì. Scaccio dalla mente la prima
considerazione. Non può aver visto niente. La porta del ripostiglio era chiusa. Almeno, credo. Le uniche persone nella parte riservata al pubblico sono la madre e il patrigno di Brittany Hall, che in questo momento stanno facendo ciao alla nipotina, appollaiata su due elenchi del telefono posati sulla sedia dei testimoni. «Stai bene seduta lì?» Radovich si sporge di lato verso il banco degli imputati e le rivolge un caldo sorriso paterno. «Noi due siamo molto speciali», le dice. «Ci lasciano sedere quassù, così possiamo vedere tutti gli altri.» La bimba lo guarda ma non dice nulla. Non sembra né divertita né confortata dalle sue parole. Radovich si è tolto la toga e siede in maniche di camicia, senza cravatta, una concessione all'inquietudine della bambina. «Vorresti che venissi a mettermi lì, vicino a te?» le chiede. Lei fa cenno di no con la testa. «Lo facciamo insieme, d'accordo?» Lei lo guarda in silenzio e senza dubbio sta pensando che preferirebbe che lui facesse da solo. «Cominciamo a mettere a verbale», dice Radovich. La donna comincia a battere sui tasti. «Non hai paura, vero?» chiede Radovich. Lei scuote coraggiosamente la testa. «Sia messo a verbale che ha risposto 'no'.» La bambina è troppo terrorizzata per parlare. Radovich si alza dallo scanno e scende nell'emiciclo; viene a mettersi davanti al banco dei testimoni, dove può guardare la bambina quasi negli occhi. «Kimberly, sai perché sei qui?» chiede il giudice. Un altro diniego con la testa, che il giudice interpreta per il verbale. «Puoi dirci come ti chiami?» La bimba scuote la testa. «Non sai il tuo nome?» Ancora un no con la testa. «Lo conosci?» Lei annuisce. «Lo conosci, però non me lo vuoi dire?» La bimba annuisce di nuovo.
«Magnifico», dice Radovich. «Con lei parla?» chiede il giudice rivolto alla psicologa. La donna si alza e attraversa l'aula. Si avvicina alla bambina e le dice qualche parolina che non riesco a sentire. Da questa conversazione emerge una vocina tremula. «Kimberly», dice la voce. «E il cognome?» chiede la donna. «Hall.» «Bene.» Radovich fa segno alla psicologa di non spingersi troppo oltre. «Kimberly, noi abbiamo bisogno che tu ci dica se hai visto qualcosa la sera in cui la tua mamma si è fatta male, e che cosa hai visto. Pensi di poterlo fare?» La bimba cerca incoraggiamento guardando verso i nonni. La nonna annuisce con energia, finché il giudice non interviene. «Signora, lo scopo di questo incontro è appurare se la bambina conosce qualcosa. Non le dia imbeccate», le dice. La donna posa le mani in grembo. Muta come un pesce. «Ricordi quella sera, Kimberly? La sera in cui la tua mamma si è fatta male?» Radovich vuole fare più che può da solo per evitare di traumatizzare la bambina. La piccola annuisce. «Io ci scommetto che te lo ricordi», sussurra Radovich, tirandosi in piedi e asciugandosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto. «Lasci perdere l'ultimo commento», dice poi, rivolto alla stenografa. Qualche colpetto sui tasti e la frase scompare. «Kimberly, puoi dirmi dov'eri quella sera?» La prima domanda per la quale non è sufficiente un cenno del capo. Lei alza lo sguardo su di lui, muove le labbra in silenzio e poi risponde: «Ero nel ripostiglio». «Da sola?» Lei scuote la testa. A questo punto la stenografa si è presa la licenza di riportare i silenziosi sì e no senza aspettare le istruzioni del giudice. «C'era qualcuno con te?» Lei annuisce. «Chi?» «Binky.» «Chi è Binky?»
«Il mio orso.» «Ah! L'ho visto Binky», dichiara Radovich, «proprio un bell'orso.» «Dov'è?» chiede Kimberly. «Perché non posso averlo?» Radovich si volta dall'altra parte e alza gli occhi al cielo. È riuscito a cacciarsi nella merda. «Il poliziotto non ti ha dato un orso?» «Non era Binky», ribatte lei. «Be', vedrò di parlargli io. D'accordo?» Un severo cenno del capo che sembra uscito da un film di Shirley Tempie, come se si aspettasse che il giudice onori questa promessa. «C'era buio nel ripostiglio, quella sera?» chiede Radovich. Un altro sì con la testa. «E riuscivi a vedere qualcosa?» La bambina scuote la testa. Radovich si volta verso di noi come per dire: «Forse siamo in un vicolo cieco». «Fuori dal verbale», dice alla stenografa e si avvicina all'altro lato dello scanno, seguito dalla psicologa. Il sostituto di Kline e io ci avviciniamo per sentire quello che si dicono. «È una questione delicata», sta dicendo Radovich. «Come faccio a chiederle come ha fatto il sangue di sua madre a finire sull'orsacchiotto?» «Con molto tatto», risponde la psicologa. «Potrebbe anche non sapere che si tratta di sangue. Potrebbe chiederle come si è sporcato.» Radovich le rivolge un'occhiata di approvazione. «Buona idea.» Ci aggiorniamo e lui torna al banco dei testimoni. «Kimberly, potresti dirci come mai Binky si è sporcato?» «La mamma ci ha sanguinato sopra», dice lei. Alla faccia della domanda discreta. «Lo hai visto tu?» chiede Radovich. «Oh, sì. Binky era tutto pieno di sangue. Forse si è fatto male anche lui.» «Io credo che starà bene presto», dice il giudice. «Ora è in ospedale e sta guarendo.» «Anche la mamma?» Radovich si volta in modo che solo gli avvocati e i genitori della Hall lo possano vedere. L'espressione del suo viso mi dice che tutto il denaro del mondo non sarebbe sufficiente a compensarlo per questo lavoro ingrato. Si volta verso Kimberly. «Solo un secondo, tesoro. Torno subito.» Radovich convoca un'altra consultazione. Ci ritroviamo nello stesso posto.
«Qualcuno le ha detto che la madre è morta?» chiede. «Le hanno detto che è andata in paradiso», risponde la psicologa. «Lei dice che ha capito, però continua a chiedere quando tornerà.» Pare che alla tenera età di cinque anni l'andare in paradiso sia un concetto definitivo quanto un viaggio a Disneyland. Nella sua giovane mente, la mamma dovrebbe tornare da un giorno all'altro con in testa le orecchie di Topolino. «Le dica che sua madre non è in ospedale», dice Radovich. Non intende essere lui a farlo. Dalla sua espressione, è chiaro che preferirebbe prendere una bella scarica di botte da un criminale. La psicologa si avvicina alla bambina e comunica il messaggio. Ci vogliono parecchi secondi e, quando torniamo ai nostri tavoli, Radovich è già al suo posto. Si allontana velocemente dall'argomento della morte e le chiede dove ha trovato Binky quella sera. La bambina ci riflette. Continua a deglutire saliva, le immagini si susseguono nel suo minuscolo cervello, rivivendo le conseguenze della violenza. «Ricordi dove lo hai raccolto?» Kimberly annuisce. «Dove?» «Sul pavimento. Binky stava sul pavimento.» «Dove, sul pavimento?» «Vicino alla mamma.» «E come ha fatto a sporcarsi?» «Ho sentito la mamma in salotto. Stavano gridando.» «Chi stava gridando?» Radovich sta prendendo il ritmo, come se pensasse che forse ora si arriverà a qualcosa. «La mamma.» «E chi c'era con la mamma?» Scuote la testa e fa spallucce; c'è molta espressività per un corpicino così. «Non lo sai?» Scuote di nuovo la testa. «Non hai visto chi c'era con la mamma?» Altra scrollata di capo. «Venga messo a verbale che non ha visto chi si trovava con la madre quella sera», dice Radovich. Primo punto importante.
Percepisco il sospiro di sollievo di Acosta, il corpo che si rilassa sulla sedia. Radovich la interroga per dieci minuti e non ottiene niente di tangibile. È un compito duro. Sta sudando copiosamente. La camicia bianca gli si è incollata alla schiena ed è zuppa in più punti. «Vuole provare lei?», dice, rivolto verso di me. «Se la sta cavando benissimo», gli dico. «Bene.» Parlare con questa bambina adesso è come giocare col fuoco. Fino a questo momento non ci ha danneggiato, ma se dovesse dire qualcosa di compromettente per noi, non avrei altra scelta se non controinterrogarla. Radovich torna dalla bimba e le offre un bicchiere d'acqua. Lei lo prende e chiede una cannuccia. Il giudice manda la sua impiegata a prenderne una nel suo studio e quando lei torna indietro a mani vuote la spedisce alla caffetteria. «Preferiresti una Coca-Cola?» le chiede. Kimberly si illumina in viso e annuisce. Radovich tira fuori una banconota da cinque dollari dalla tasca e la porge al cancelliere. «Magari anche un po' di gelato», aggiunge. Mentre aspettiamo, Radovich prosegue con le domande e chiede a Kimberly di raccontargli di quella sera. «Erano proprio arrabbiati», dice lei. «Chi?» «La mamma...» La piccola assume un'espressione desolata. Non riesce a riempire quel vuoto, l'altra voce che può aver sentito quella sera. «Sai se l'altra voce era di una signora, come quella della mamma, oppure di un uomo?» «Io ho sentito la mamma», dice lei. «Stava urlando.» «Sì. Ma hai sentito l'altra voce?» Kimberly scuote la testa. Una bambina di cinque anni, rannicchiata in un ripostiglio, che ascolta la voce della violenza. Non c'è da meravigliarsi che abbia udito solo la voce della madre che urlava. «La tua mamma ha detto qualcosa?» «Ha detto: 'No!' Era proprio tanto arrabbiata.» «Hai sentito la voce di un uomo?» Questa domanda è allusiva e potrei obiettare, ma questo mi metterebbe contro Radovich, visto che è lui a porla. «Credo di sì.»
Trasalisco. «Vostro onore, sono costretto a obiettare. È un suggerimento troppo forte per una bambina così piccola», gli dico. «Potrà chiedere che venga tolta, in seguito.» «Potremmo eliminarla subito», ribatto, «ed evitare il problema dopo.» «Per il momento resta a verbale.» Arriva la Coca-Cola dalla caffetteria e Kimberly la sorseggia con la cannuccia. Il gelato viene posato sullo scanno del giudice e resta lì a sciogliersi per un po'. Radovich continua a porle domande sul suo orsacchiotto e su come mai si sia sporcato di sangue. «Binky era fuori con la mamma», dice. «Si sono fatti male tutti e due.» È chiaro che Kimberly ha razionalizzato il sangue sull'orsacchiotto, che quindi è diventato di Binky. «Binky deve essere un vero amico, eh?» chiede Radovich. «Binky tiene tutti i miei tesori», dice lei. «Quando avevo la tua età, anch'io avevo un piccolo amico peloso», dice il giudice. «Eravamo veri amici. Io gli raccontavo tutto.» Radovich beve un sorso di caffè. «Dimmi, Kimberly, hai visto come la mamma si è fatta male quella sera?» Lei lo guarda per un attimo con un'espressione molto seria, poi scuote la testa. La stenografa prende nota. Un altro paletto nel cuore dell'accusa. «E il tuo orso era in soggiorno con la tua mamma, quando lei si è fatta male?» Kimberly annuisce solenne. «E tu eri nel nascondiglio?» «Prima ero nel mio letto.» «E sei andata dal letto al ripostiglio?» «Uh uh.» Annuisce. «Sei andata là quando hai sentito gridare?» Un altro cenno del capo. Le sta suggerendo le risposte in modo spudorato, ma è probabile che nel caso di un bambino permetterebbe anche agli avvocati di fare lo stesso. È l'unico modo per convincerla a raccontare. «Dunque tu hai sentito gridare quando eri nella tua stanza, e allora sei andata nel ripostiglio. Perché sei andata nel ripostiglio?» «Avevo paura.» Questo le ha probabilmente salvato la vita, e Radovich lo sa. È il tipo di elemento che non sfugge a una giuria, il tipo di cosa che potrebbe infiam-
mare i giurati contro un imputato se non c'è nessun altro contro cui sfogare la loro collera. «Dunque, se ti ha spaventato così tanto, doveva essere una discussione molto forte,» Annuisce con gravità. «Hai sentito cosa dicevano, la tua mamma e quest'altra persona?» «Un sacco di parole brutte.» «Parole brutte?» Radovich prende tempo e si sfrega la barba sul mento. «Uh, uh. La mamma ha detto un sacco di brutte parole.» A sentire la bambina, Brittany Hall è morta pronunciando un diluvio di oscenità, anche se non si conosce il contenuto della conversazione che potrebbe far capire chi si trovasse con lei quella sera. «Ancora un paio di domande», dice Radovich, «e poi abbiamo finito. Kimberly, ora voglio che tu rifletta bene. Hai visto qualcuno con la tua mamma, quella sera? La sera in cui si è fatta male?» Lei lo guarda, ma non fa alcun gesto. «C'è qualcuno in questa sala che tu hai visto quella sera?» Sento che Acosta si irrigidisce sulla sedia di fianco alla mia. Kimberly comincia dalla destra dell'aula, la zona vicina alla balaustra, e osserva i volti dei presenti: prima il sostituto procuratore, poi Radovich, la stenografa e il cancelliere. Prosegue verso sinistra, oltrepassa la stenografa e la psicologa e arriva al nostro tavolo, prima me, poi Acosta, osservando tutti a lungo e intensamente. L'espressione del volto è tesa, e poi punta un dito verso il nostro tavolo... non verso Acosta, verso di me. Io faccio una risatina debole. Tutto il sangue del mio corpo si dirige a sud del mio stomaco, come piombo. Comincio a sudare freddo. Radovich mi sta guardando. E così pure Acosta. «Transfert», dice la psicologa. Questo distoglie per un attimo la loro attenzione da me. «Quell'uomo ha obiettato a una delle sue domande», spiega, poi fa un cenno a Radovich e si mettono a parlare fuori della portata della testimone. Il sostituto procuratore e io ci uniamo a loro, anche se in questo momento mi sento le ginocchia così deboli che riesco a malapena a camminare. La psicologa sta parlando sottovoce. «Ha capito che qualcuno dei presenti è una persona cattiva. Sa che non si tratta della signora all'altro tavolo.» Si riferisce al sostituto procuratore. «Né l'agente che le ha portato da bere. Immagina debba essere uno degli uomini seduti all'altro tavolo. È semplice. Lei è quello che ha parlato prima», dice, guardando verso di me.
«Quindi ha scelto lei. Ha tirato a indovinare.» Le meraviglie della moderna psicoanalisi. «Venga messo a verbale che la testimone ha indicato l'avvocato della difesa», dice Radovich. «Altro?» Nell'aula si sente qualche risata soffocata, proveniente dal cancelliere e dall'impiegata. La nonna di Kimberly mi guarda con diffidenza e sussurra qualcosa all'orecchio del marito. Sono felice che Kline non sia qui a vedere questa scena. Senza dubbio vi darebbe più importanza di quanta non ne abbia data il giudice. Avrebbe fatto due più due: l'impronta di Lenore sulla porta d'ingresso e il fatto che la bambina mi abbia identificato. Prima di sera mi troverei con la luce delle lampade puntata negli occhi, cercando disperatamente un modo per non farmi radiare dall'albo. 17. Oggi l'aula è gremita, ogni posto a sedere è occupato, e una doppia fila di persone staziona fuori, incanalata da un cordone per tenere il centro corridoio libero per il viavai di ogni giorno. Anche considerando il clamore suscitato da questo caso, non è probabile che una tale folla si ripresenti fino al giorno del verdetto. Sui gradini all'esterno ci sono picchetti di persone che esibiscono vari cartelli - DONNE CONTRO LA VIOLENZA, MADRI CONTRO IL CRIMINE -, franchising esclusivi di virtù dai quali gli uomini sono banditi. Dal giorno della presentazione delle prove del caso Acosta, l'etere è infuocato di retorica antimaschio, indirizzata principalmente verso i politici. La sera, su qualsiasi emittente ci si sintonizzi, si sentono voci di donne che urlano interminabili racconti su uomini rapaci e molesti. Le più esagitate reclamano a gran voce un programma federale di castrazione obbligatoria per i maschi della nostra specie, presumibilmente - ma non è del tutto chiaro - per domare i violenti che sono tra noi. «La soluzione definitiva di Susan B. Anthony», commenta Harry. In altri ambienti, invece, si discute se il comportamento privato dei giudici sia sufficientemente controllato. Il caso di Acosta è il catalizzatore della riforma giudiziaria tra i partigiani della causa del giorno della legislatura statale. Sono quei politici che, al pomeriggio, guardano la televisione per vedere quali proposte di legge devono presentare l'indomani.
Stanno spuntando campagne per la protezione dei testimoni e per la limitazione della durata in carica dei giudici. È persino stata presentata una proposta per limitare il numero di parole che un avvocato può pronunciare durante un processo, un po' come le ricusazioni dirette dei giurati, con l'unica differenza che, quando non hai più parole, il tuo cliente è fregato. In definitiva, il caso di Acosta è diventato una via di mezzo tra un parco di divertimenti e un'impiccagione pubblica, con gli ambulanti che cercano di venderti olio di serpente dal televisore. In questo vortice di isteria politica stiamo cercando di ottenere un processo giusto. Coleman Kline lavora nell'ombra con abilità per montare il caso. Compare su ogni mezzo di comunicazione. Anche se sta ben attento a non discutere dei particolari di questo processo, riesce comunque a esprimere il proprio punto di vista su ogni questione politica e sociale a esso connessa, srotolando così un tappeto rosso di riprovazione fino alla porta della cella di Acosta. Stamattina Acosta siede di fianco a me, vestito con un abito scuro che Lili ha pescato dal suo guardaroba. Gli sta appeso addosso come su un sopravvissuto da Auschwitz, tanti sono i chili che ha perso da quando è iniziata questa vicenda. La nostra prima mossa è puramente tattica. Chiedo alla corte di far uscire tutti i testimoni dall'aula, in modo che non possano ascoltare le nostre dichiarazioni preliminari e quindi conformare la loro testimonianza di conseguenza. Radovich si spinge ancora più oltre e ordina loro di non ascoltare né leggere resoconti delle sedute di questo processo, anche se è un ordine impossibile da far rispettare. «Signor Kline, è pronto a cominciare?» chiede Radovich. «Sì, vostro onore», risponde lui, e si alza dalla sedia. Tira i polsini chiusi da gemelli della camicia di lino perché sporgano di almeno due centimetri e mezzo dalle maniche della giacca: un guerriero che si accinge al combattimento. Oggi è vestito con il suo abito migliore, un completo blu scuro di lana pettinata, che mette in risalto la cravatta regimental a righe rosse e blu. Mentre lui si avvicina al box della giuria la giacca si apre, rivelando la fodera di raso bordò. Kline lancia una rapida occhiata all'orologio. Poi, nel silenzio rapito dell'aula, inizia lentamente a esporre i concetti e i temi principali dell'accusa. Fermo a circa un metro dalla balaustra che lo separa dalla giuria, senza
aver bisogno di un pulpito o di appunti, affronta con toni fermi e chiari una dissertazione sulle circostanze della morte della vittima: come sia stato ritrovato il corpo, gettato senza tante cerimonie in un cassonetto per i rifiuti, come nel suo appartamento sia stata trovata una notevole quantità di sangue, e una descrizione dettagliata della sua uccisione, preludio all'anatomopatologo che presto verrà a testimoniare. «Signore e signori, l'accusa dimostrerà che questo omicidio è stato commesso dall'imputato, un uomo che godeva della fiducia della nostra società, un funzionario pubblico che ha giurato di difendere la legge e che ha tradito quel giuramento.» Durante questo pistolotto tiene un braccio teso in direzione di Acosta, ma puntato più genericamente verso il nostro tavolo, cosicché le sue parole sono un attacco diretto contro chiunque sieda di fianco all'imputato. Questo è un concetto importante perché, se Acosta testimonia, sicuramente Kline tornerà sull'implicita violazione di questo sacro giuramento per minare la sua credibilità. In tutto questo, l'elemento dell'inganno, del tradimento della fiducia, sta al primo posto tra i peccati non formalmente contestati al mio cliente, le ragioni indirette e non dichiarate per cui la giuria dovrebbe condannarlo a morte. «Dimostreremo che questo omicidio è stato commesso per ostacolare il fine stesso della giustizia che l'imputato, Armando Acosta, aveva giurato di proteggere.» Con questo, Kline svela il Leitmotiv del giudice indegno al quale farà ricorso più e più volte. Dice alla giuria che l'accusa produrrà un testimone che confermerà, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l'imputato ha tentato di ottenere rapporti sessuali illeciti e illegali dalla vittima, un'ausiliaria della polizia che lavorava sotto copertura, che Acosta è stato arrestato durante un'operazione della buoncostume e che è «un giudice corrotto e criminale». Li conduce attraverso la cronologia degli eventi del caso iniziale, dal mancato funzionamento del microfono di Brittany Hall la notte della retata alla sua deposizione presso la Procura, sul cui contenuto evita accuratamente di entrare per evitare l'obiezione della testimonianza indiretta. Ma lo scopo è raggiunto: Acosta aveva un movente chiaro e indiscutibile per uccidere. Le diciotto anime - i dodici giurati più le sei riserve - siedono immobili dietro la balaustra, inchiodate dallo svolgersi della vicenda. Kline affronta abilmente uno per uno i piccoli, spinosi dettagli, le circo-
stanze incriminanti, mettendoli uno sull'altro; e intanto si carica, fino al punto in cui sfonda la superficie, eruttando fuoco e zolfo, incapace di trattenere un giudizio morale. Un Vesuvio di parole. «Dimostreremo che questo imputato aveva fama di mantenere relazioni illecite con altre donne, e che questa sua abitudine alla fine ha portato all'istigazione alla prostituzione e all'omicidio.» Radovich spalanca gli occhi. Uno sguardo al lato brutto della vita, la vita dei giudici nella grande città. Sento il frenetico graffiare delle matite sulla carta. I giornalisti seduti nella prima fila dietro di noi si fanno venire i crampi a furia di scrivere, cercando di non farsi scappare niente del fango che viene gettato addosso ad Acosta. Acosta mi sta tirando per la manica. «Dovrebbe avanzare un'obiezione», mi dice. Mentre pronuncia queste parole, sono già quasi in piedi. «Vostro onore, questo è irregolare.» «Signor Kline», dice Radovich, «lei è al corrente delle regole che limitano la presentazione del carattere dell'imputato.» «Sì, vostro onore.» «Allora, la giuria non tenga conto dell'ultima affermazione.» La questione è se all'accusa sarà permesso di scavare nel carattere di Acosta, andando oltre fatti che non sono collegati al crimine in questione. Questo è un tabù, a meno che non siamo noi stessi ad affrontare la questione, presentando alla giuria prove del buon carattere del nostro cliente. Ma trattandosi di Nocedicocco sarebbe come cercare l'erba nel Sahara. «Prosegua», dice Radovich. Kline fa un leggero inchino col capo, un'appropriata dimostrazione di rispetto che, se compiuta da chiunque altro, potrebbe essere interpretata come un segno di sottomissione. Ma non da lui. Riprende da dov'era rimasto, senza perdere un colpo. «L'accusa dimostrerà al di là di ogni ragionevole dubbio che l'imputato, Armando Acosta, ha assassinato brutalmente e a sangue freddo Brittany Hall, una teste, allo scopo di metterla a tacere e salvare la propria carriera di giudice che era in pericolo.» È solo un assaggio di quanto ci aspetta nel corso del processo. Poi, per quasi due ore di ininterrotto monologo, Kline si mette in posa per fare più effetto, passeggia su e giù davanti alla giuria, e intanto presenta una tesi dopo l'altra, usando tutte le principali prove del caso, il pelo e le
fibre - che testimonianze di esperti collegheranno all'imputato -, l'annotazione della vittima che indicava un appuntamento con l'imputato il giorno dell'omicidio, la mancanza di un alibi per l'imputato, il paio di occhiali rotti trovati sul luogo del delitto, che Kline assicura collegherà inequivocabilmente al nostro cliente. Lancio un'occhiata in direzione di Acosta, che risponde con uno sguardo scoraggiato. Se hanno prove a questo riguardo, non ce le hanno comunicate. Harry fa per alzarsi dalla sedia, ma gli faccio cenno di lasciar perdere. C'è tempo per questo senza la presenza della giuria. Perché parlare di questo particolare adesso e inciderlo indelebilmente nelle loro menti? Vedo che Harry prende un appunto. Kline ha qualche difficoltà su un punto che non riesce bene a spiegare, ma non può passarci sopra senza fare commenti. Perché, se Acosta è veramente l'assassino, avrebbe dovuto spostare il corpo dopo l'omicidio, per andare a depositarlo in un bidone della spazzatura a un miglio di distanza dall'appartamento della donna? Kline ammette che questo comportava rischi che nessuna persona razionale avrebbe preso alla leggera. Ma poi aggiunge che in quel momento l'imputato non poteva agire razionalmente. La sua sbrigativa spiegazione è che, dopo aver commesso l'omicidio, l'uomo si sia fatto prendere dal panico. «Obiezione, vostro onore. Conclusioni basate su congetture», dico a Radovich. «L'accusa intende produrre prove su questo punto?» Kline mi guarda come se fosse improbabile. Come può entrare nella mente dell'imputato? «Allora non dovrebbe parlarne in questa sede», dice Radovich. «La giuria non tenga conto di quest'ultimo commento, sono supposizioni del procuratore.» Acosta mi dà un colpetto sul braccio con la mano chiusa a pugno. Un punto per noi. È una preoccupante smagliatura che Kline non riesce bene a ricucire. Rimane il fatto che lui non ha alcuna spiegazione sul perché l'assassino avrebbe perso tempo prezioso e rischiato per spostare il corpo. È uno di quei punti spinosi che si prestano ad altre teorie, suggeriscono un diverso tipo di killer, uno che avesse un vero motivo per spostare il corpo della Hall. Il primo che viene in mente è un convivente. Ma nell'appartamento non è stata trovata alcuna traccia di coabitazione, né indumenti maschili
nell'armadio o nei cassetti, e nessuno ha mai visto uomini entrare o uscire dalla casa. Non è stato fatto alcun tentativo per nascondere il fatto che la morte è avvenuta nell'appartamento. Per il momento, il misterioso spostamento del cadavere risulta più utile a noi, visto che non abbiamo il dovere di provare nulla. Kline ha tenuto l'argomento più forte e pregnante per ultimo. «Come conseguenza di questo crimine brutale», dice, «ora c'è una bambina rimasta senza madre.» Kimberly Hall, un'infelice piccolina di cinque anni. «La piccola Kimmy», come la chiama lui, sta aspettando fuori per raccontarci quanto è accaduto. Fino a questo punto non era stato chiaro se l'avrebbe chiamata a testimoniare. Anche se il nome della bambina continuava a restare sulla sua lista, avevo pensato che fosse soprattutto per premere psicologicamente su di noi, per farci innervosire. Visto il comportamento della bambina traumatizzata fuori dell'aula, il suo silenzio ostinato e la confusione davanti alle telecamere, avevamo dato per scontato che non sarebbe comparsa in aula. Non aveva offerto nessuna prova concreta, per lo meno non verbalmente. Ora Kline sembra affermare il contrario. «Questa bambina era presente durante l'alterco e il violento scontro che ha portato alla morte della madre», dice, rivolto alla giuria. «Al momento non siamo certi che la piccola sia in grado di identificare l'assassino, ma può testimoniare della coraggiosa resistenza che la madre ha opposto nel tentativo di salvarsi la vita, e della violenza che l'ha uccisa.» Ciò che sta facendo è chiaro. Anche se la bambina non è in grado di identificare l'assassino, può, se non altro, con la sua presenza in aula, attestare la tragica perdita che ha subito. Sono combattuto se sollevare un'obiezione o no. Radovich mi guarda. Ha visionato il video e sa che è privo di qualsiasi elemento probatorio. Davanti a una mozione propriamente esposta, potrebbe escludere la testimonianza della bambina, cancellare le baldanzose affermazioni di Kline e risparmiare a Kimberly una nuova apparizione in aula. Il problema è che sollevare un'obiezione su un punto così delicato davanti alla giuria potrebbe essere più dannoso che utile. Malgrado la tenera età, Kimberly è l'unica testimone che fosse presente la notte dell'omicidio. Un'obiezione potrebbe dare l'impressione che abbiamo qualcosa da na-
scondere. Nonostante le animate proteste che Acosta mi sussurra all'orecchio, me ne resto in silenzio e subisco le argomentazioni di Kline. Parlando della bambina si mantiene in equilibrio precario, cammina sul filo dell'ipotesi. Per un attimo si lascia sopraffare dall'emozione del momento, la voce si incrina e poi cede. Parla della vittima vivente di questo crimine, Kimberly Hall. La giuria si rende conto che questi pensieri sembrano prosciugarlo emotivamente. Parecchie donne della giuria gli rivolgono uno sguardo addolorato, quasi volessero togliergli questo peso dalle spalle. Io siedo sul bordo della sedia, pronto ad alzarmi e sollevare un'obiezione. Poi, come stupefatto, Kline si riprende, si direbbe grazie a una forza interiore che non sapeva di possedere. «Sentirete la piccola Kimberly Hall in quest'aula», dice Kline. Ma non dice cosa sentiranno. Promettere in una dichiarazione preliminare più di quanto si possa poi mantenere nel corso del processo è come mettere il piede su una mina antiuomo. «E dopo che avrete sentito questa bambina...» - la voce gli si incrina nuovamente, ma poi lui si riprende - «...dopo che avrete ascoltato Kimberly», prosegue, «starà a voi decidere chi ha ucciso sua madre.» Pronunciando queste parole si volta e guarda verso Acosta. «E quale punizione dovrebbe essere inflitta per un crimine così terribile.» Con questa conclusione, Kline si allontana dalla giuria e, mentre si volta per tornare nel santuario del tavolo dell'accusa, sulla sua guancia compare una lacrima solitaria. La sua è stata, in tutti i sensi, un'interpretazione superba. Siamo nella pausa del pranzo e sto rivedendo i miei appunti nella caffetteria del palazzo di giustizia insieme a Harry, per prepararmi alla mia relazione introduttiva, quando l'usciere di un'altra sezione si avvicina a noi. «Signor Madriani, c'è una chiamata per lei», mi dice. «A uno dei telefoni pubblici là fuori.» Guardo Harry come per chiedergli: «Chissà chi è?» «Sarà l'ufficio», dice lui. Mi alzo, attraverso la sala passando tra i tavoli e arrivo alla fila di telefoni pubblici sulla parete fuori della caffetteria. Il ricevitore di uno di essi penzola vicino al pavimento, appeso al cavo. Lo prendo. «Pronto.»
«Sono io.» È la voce di Lenore. «Immaginavo che stessi pranzando e ho provato.» Intende dire lì, nella caffetteria del palazzo di giustizia. Lenore è stata ben attenta a non farsi vedere vicino al tribunale dopo il suo allontanamento dal caso. Per lavorare, si appoggia all'ufficio di un amico, nella parte opposta della città, per lo meno finché il processo non sarà concluso: una specie di muraglia cinese mobile per evitare di danneggiare la nostra collaborazione con la faccenda del conflitto. Nonostante questo, però, continua a lavorare nell'ombra e a fornirci informazioni. «Come sta andando?» chiede. «Oggi pomeriggio tocca a me», le dico. «La relazione introduttiva.» «Qualche sorpresa da parte di Kline?» Le racconto degli occhiali da vista, e che l'accusa ha promesso alla giuria che li collegherà ad Acosta. «Forse è solo una pia illusione», dice. «Forse Kline sta sollevando un polverone nella speranza che qualche granello resti attaccato.» Al momento sembra più la descrizione della nostra linea di difesa. «Perché mi hai chiamato?» Dal suo tono concitato intuisco che c'è qualcosa di più che una semplice curiosità. «Ho sentito alcune voci secondo le quali Mendel sarebbe sul sentiero di guerra», mi dice. «Qualcuno gli ha portato via le caramelle?» «Non c'è niente da ridere. Guarda che è il tuo nome quello che sta pronunciando invano. Ha ricevuto ieri pomeriggio la citazione che gli hai mandato.» Lenore si riferisce al documento che Harry ha passato una settimana a preparare, una citazione con tante di quelle clausole scritte piccole da far venire male agli occhi pure a Mendel. Harry sta frugando nei documenti privati dell'Associazione per ricostruire il percorso di operazioni finanziarie dell'organizzazione come un cane che va a far pipì sul prato di un altro. Ha chiesto rendiconti bancari ed elenchi di telefonate, in particolare della linea privata nell'ufficio di Mendel. Sono informazioni fornite da terzi, quindi Mendel non può né distruggerle né alterarle. «Pare che abbia dato in escandescenze nel suo ufficio e abbia chiesto il tuo scalpo.» «Quand'è la prossima rappresentazione? Sono sicuro che Harry vorrebbe comperare qualche biglietto.» «Mendel può anche risultare comico, ma non è uno da prendere alla leggera.»
«Mi ha minacciato di morte?» «Mendel è più sottile. Inoltre non sono informata su chi incontri e sulla feccia che frequenta il suo ufficio.» Secondo Lenore, tra gli uomini di Mendel in questo momento c'è qualcuno che sta piantando spilloni nella mia effigie. «Sapevi che avremmo dovuto compiere questo passo», le dico. «Faceva parte della nostra linea difensiva fin dall'inizio.» «È vero, ma io pensavo che sarei stata al tuo fianco.» Ecco che è uscito fuori. C'è un momento di doloroso silenzio: il senso di colpa che sta divorando Lenore. «E non pensavo che ti ci saresti messo con tanto entusiasmo», aggiunge. «Cosa vuoi che ti dica, Harry si lascia trasportare.» «Allora dovresti lasciare che sia lui a girare la chiavetta della tua auto, al mattino.» «La fai sembrare una cosa molto sinistra.» «Tu sta' attento a coprirti il tuo bel culo», mi dice. «Non voglio che gli succeda niente.» Questa è una conversazione che mi piacerebbe proseguire in un altro momento. «Restiamo sempre d'accordo per stasera?» le chiedo. «Sei sicuro che non sarai troppo stanco?» «Il vino lo prendo io.» «Così potremo affogarci i nostri dispiaceri?» «Quello e altre cose.» Scoppia in una risata che riesce a essere quasi seducente. «Ci vediamo a casa tua alle otto.» Sento il clic della comunicazione che viene interrotta e poi il vuoto, e nella mia mente risuona ancora l'eco della voce musicale di Lenore. La presunzione di innocenza è un esercizio intellettuale non condiviso dall'uomo comune. Per questo motivo, dopo la relazione introduttiva di Kline che ha fatto terra bruciata, è un percorso tutto in salita quello che mi aspetta per riportare la giuria su un terreno neutro. Comincio con una cosa che non sempre è ovvia in una situazione così formale: le presentazioni. È un tentativo di instaurare quel rapporto che tutti i buoni avvocati conoscono. «Il mio nome è Madriani», dico ai giurati. «Paul Madriani.» Rivolgo loro un gran sorriso che, amabilmente, la maggioranza contraccambia.
«Questo è il mio cliente», proseguo, indicando il nostro tavolo. «Il giudice Acosta.» «Obiezione.» Kline è schizzato in piedi. «Cosa c'è? Vorrebbe negare anche le più normali convenienze sociali quali una presentazione?» In realtà l'ho provocato, sapendo che avrebbe fatto obiezione. «Mi oppongo all'uso del titolo di giudice», dice. Fa per proseguire, ma Radovich lo interrompe. «Avvicinatevi», dice. Quando arrivo davanti al giudice, Kline sta già sputando veleno. «L'imputato è stato sospeso dalla carica», dice a Radovich. «Per ordine del tribunale di seconda istanza. In attesa dell'esito di questo processo. Non dovrebbe riferirsi a lui col titolo di giudice.» «È una questione insignificante», ribatto. «Non c'è niente di legale nel titolo. Mi indichi una legge in cui sta scritto che qualcuno non può chiamarsi giudice.» «È ingannevole», dice Kline. «Confonde la giuria.» «Allora possiamo spiegarglielo. Diremo loro che c'è un'ordinanza temporanea che verrà cancellata quando il mio cliente sarà assolto.» «Sì, sarà facile», ribatte Kline, lanciandomi un'occhiata che significa: «Vai a farti fottere». Radovich convince Kline ad accettare l'uso del titolo, dopo aver dato una spiegazione alla giuria. «Credo che questo elimini ogni possibile confusione», conclude. È più di quanto mi aspettassi. «Assolutamente», dico. «Possiamo metterci d'accordo sul linguaggio da usare.» Il processo è appena cominciato e ho già infilato uno spiedino bollente nel culo di Kline. «No, vostro onore, non è giusto. Il fatto è che lui è stato rimosso dall'incarico», dice Kline. «C'è un solo giudice in quest'aula.» Sempre ruffiano con il potere. È una questione che avrà un certo peso sulla giuria e Kline vuole risolverla fin dall'inizio. Radovich arriccia il naso. Kline sente il terreno mancargli sotto i piedi. «Forse potremmo riferirci all'imputato come 'ex giudice'», propone Kline. «Ex giudice sarebbe perfettamente accettabile», dice il maestro del compromesso.
«Noi preferiremmo giudice, con un'adeguata spiegazione alla giuria», dico. «Ci credo», dice Kline. «Preferirei andare avanti col processo», dice Radovich. «Ex giudice e non se ne parli più. E ora torniamo al lavoro.» È un'etichetta non precisa, una definizione elusiva, come il termine ex marito, con in più tutte le connotazioni negative. Dal punto di vista dell'accusa è inafferente. Senza dubbio Kline continuerà a chiamarlo «l'imputato» ogniqualvolta non potrà chiamarlo «assassino». Mentre mi volto per tornare verso la balaustra della giuria, Acosta mi fa segno con una mano di avvicinarmi. «Cos'è successo?» chiede. «Per il momento lei è il 'signor Acosta'.» Mi afferra per la manica della giacca e mi dice che è meschino e ingiusto. «Ne parleremo più tardi.» Dalla sua espressione, capisco che non è soddisfatto, ma che per il momento lo accetta. Per Nocedicocco l'apparenza è tutto. Fuori di quest'aula indossa la tuta della prigione, ma nella sua mente veste ancora la toga. Torno a mettermi davanti alla giuria, dove mi scuso per l'interruzione di Kline. Questo provoca un'altra obiezione da parte sua. Radovich gli dice di sedersi e mi ordina di procedere. «Signore e signori, vorrei presentarvi il mio cliente, Armando Acosta.» Lui si solleva impercettibilmente dalla sedia, con la guardia che non lo perde d'occhio. Acosta rivolge alla giuria un gesto che si potrebbe definire cortese, un mezzo inchino fatto con un braccio davanti alla vita, come se la sua mano reggesse un cappello di velluto con una piuma. Acosta si è esercitato in cella per giorni. È un po' più di quello che gli avevo chiesto, e risulta un tantino eccentrico. Sarebbe perfetto se la nostra linea di difesa fosse basata sull'infermità mentale. Prima che possa fare altri inchini o esibirsi in un minuetto, tossisco per distogliere da lui l'attenzione della giuria. «Signore e signori, il procuratore vi ha abilmente illustrato le prove in suo possesso. Ma nella sua presentazione manca qualcosa, qualcosa di molto importante. Ciò che non ha detto è quello che non ha.» Scorro velocemente le parti più deboli del nostro caso, il fatto che Acosta non ha un alibi per la sera dell'omicidio, e che alcune tra le prove trova-
te sulla vittima, peli e fibre, possono a prima vista apparire simili ad altri peli e fibre trovati in casa di Acosta. Ma dico ai giurati di aspettare a farsi delle opinioni. Sentiranno testimonianze che spiegheranno come «simile» non significa «identico». Sarebbe stupido passare sopra questi punti come se non esistessero: sarebbe come se cercassimo di nascondere la verità. Non parlo di Oscar Nichols e delle minacce pronunciate da Acosta nei confronti della Hall quel giorno, a pranzo. Fino a questo momento Nichols non compare sulla lista dei testimoni dell'accusa, quindi punto sul fatto che non lo verranno a sapere. «Il procuratore vi ha detto ciò che ha, ma non è stato del tutto sincero.» A queste parole mi giungono occhiate severe da dietro la balaustra. «Non vi ha parlato delle prove che mancano al suo caso.» Una signora anziana mi guarda, la matita posata sulla carta e pronta a scrivere, come se stessi per accusare Kline di aver manomesso le prove. «Ci sono così tante cose che non vi ha detto», proseguo, «che non so neppure da dove cominciare.» Radovich, un gomito appoggiato al bancone e il mento posato sulla mano, mi guarda come per dirmi che sarà meglio che mi decida, e al più presto. «Il procuratore, il signor Kline, non ha testimoni oculari dell'omicidio. Anzi, non ha neppure un testimone che possa dire di aver visto il mio cliente vicino all'appartamento di Brittany Hall, quella sera. Non ha un solo testimone, ma lui, questo, non ve l'ha detto.» Mi allontano dal box della giuria di un passo, mi fermo e torno a voltarmi verso di loro. «Il procuratore non ha un'arma del delitto. Fino a oggi, ha solo una teoria su come la vittima possa aver subito il cosiddetto trauma da corpo contundente che l'ha uccisa. Non ha un'arma, non ha un oggetto utilizzabile come arma che possa far risalire al mio cliente. Ma lui, questo, non ve l'ha detto.» Il mio discorso assume il ritmo di una filastrocca per bambini. «Il procuratore non ha impronte digitali che colleghino il mio cliente al luogo del delitto, né al luogo in cui è stato ritrovato il corpo della vittima. Ma lui, questo, non ve l'ha detto. E non ha neppure trovato sangue appartenente al mio cliente, sulla scena del delitto, né nel vicolo dove è stato rinvenuto il cadavere della vittima. Ma lui, questo, non ve l'ha detto. «Non ha documenti, né ricevute di acquisti fatti dal mio cliente la sera
dell'omicidio che lo possano collocare nelle vicinanze del luogo del delitto. Ma lui, questo, non ve l'ha detto. «Non ha trovato ecchimosi sul corpo del mio cliente, né graffi sul suo volto che possano indicare un confronto fisico o una colluttazione violenta nel periodo immediatamente precedente la morte della vittima. Ma lui, questo, non ve l'ha detto.» Le teste dei giurati stanno cominciando a ballonzolare e ondeggiare al ritmo del ritornello. Seguono la palla. A un certo punto arrivo a usare la penna come se stessi dirigendo un coro, e due di loro sorridono. Finirebbero la frase per me se mi interrompessi: Ma lui, questo, non ve l'ha detto. Potrei accendere un falò e farli cantare tutti con me, se Radovich me lo permettesse. La mia litania va avanti per un bel po', finché non ho messo in evidenza tutti gli elementi classici dell'incriminazione, tutti elementi che mancano all'accusa. Kline mi ha dato una possibilità, un errore iniziale che non possiamo aspettarci si ripeta. Siede immobile e impettito sulla sua sedia e giocherella con la penna, fingendo che non sia niente, mentre lo maltratto di fronte alla giuria al ritmo di «Ma lui, questo, non ve l'ha detto». Benvenuti nel mondo dei processi per omicidio. Acosta è quasi stordito dalla mia esibizione e sembra avere una gran voglia di unirsi a me. Ma, alla fine, concludo e spezzo il ritmo. «Ci sono molte cose che il procuratore non vi ha detto su quella sera. E su questo caso. Molte di queste cose non le saprete finché la difesa non avrà la possibilità di esporre la propria tesi. Dovete accettare di mantenere una mente aperta. Posso chiedervi, signore e signori, una promessa solenne? Di aspettare a farvi un'opinione fino a quando noi non avremo avuto la possibilità di presentare il nostro caso?» È una domanda retorica, ma quasi tutti i giurati stanno annuendo. Una donna arriva addirittura a rispondermi «sì». In questo momento in aula si è venuta a creare un'atmosfera quasi da risveglio religioso. I giurati hanno visto la luce. È arrivato il momento della conversione, dell'immersione nelle verità del nostro caso. «Prima di venire arrestato, il mio cliente, il signor Acosta, era un agguerrito giudice del tribunale di seconda istanza di questo Paese. Un membro rispettato della magistratura.»
Baro un po' sul carattere ma, non trattandosi di prove, non posso essere incriminato. «Egli ha portato avanti l'attività di giudice in maniera molto energica, troppo energica per alcuni che si sono trovati sotto lo scrutinio del gran giurì della contea. «Questo caso riguarda l'applicazione della legge. Riguarda la polizia. E, come in tutte le professioni, ci sono molti buoni poliziotti e alcuni - speriamo molto pochi - cattivi poliziotti.» Li conduco attraverso l'inchiesta del gran giurì, informazioni che Acosta mi ha rivelato sulle indagini, nonostante il fatto che sia tenuto per giuramento al segreto professionale. Nelle mozioni precedenti il processo abbiamo discusso a lungo il limite sin cui posso spingermi sull'argomento, e ora sto arrivando a quel limite. «Al momento della morte di Brittany Hall, davanti a un gruppo di giurati non molto diversi da voi, era in corso un'importante indagine del gran giurì, un'indagine sulla corruzione della polizia di questa città. Una parte di questa indagine è ancora in corso e, anche se non posso divulgare dettagli su questo argomento, vi basti sapere che riguarda gravi accuse di comportamento illegale mosse a un certo numero di agenti di polizia ora sotto inchiesta.» Nelle file della stampa le matite volano. C'è stato sentore di questa indagine per mesi, voci incontrollate sulla stampa, ma questa è la prima conferma ufficiale. È ciò che accade quando il diritto a un processo giusto va a scontrarsi con i segreti del governo. Non mi è permesso parlare dell'assassinio dell'agente Wiley, né del sospetto che egli possa essere stato ucciso da colleghi che volevano tappargli la bocca perché sapeva troppo. Ma i giurati mi stanno guardando con occhi spalancati, a bocca aperta. «Il mio cliente, Armando Acosta, era il giudice incaricato di guidare quel gran giurì. E stava mandando avanti l'inchiesta con molta determinazione quando è stato arrestato per istigazione alla prostituzione.» Ecco un semplice resoconto dei fatti. «Noi dimostreremo che il suo arresto è frutto di una macchinazione architettata da quegli stessi agenti che erano oggetto dell'inchiesta del gran giurì, e che l'arresto di Armando Acosta aveva un solo e unico scopo: quello di fermare le indagini e di intimidire gli agenti onesti che stavano tentando di estirpare la corruzione dalle forze di polizia di questa città.» Sguardi ancora più allibiti da pane dei giurati, alcuni dei quali hanno
cominciato a prendere appunti. «Noi proveremo che la vittima, Brittany Hall, era strettamente legata ad alcuni membri delle forze di polizia, avendo lavorato come ausiliaria civile in missioni speciali della buoncostume. «Noi siamo convinti che ci siano ragioni - che vi saranno chiare nella continuazione di questo procedimento - per cui Brittany Hall è stata uccisa, ma non da Armando Acosta. Le prove dimostreranno, signore e signori, che Brittany Hall è stata uccisa da altri perché sapeva troppo.» Con questo ho passato il Rubicone. Dovrò restare fedele alla teoria su cui è basato il nostro caso e, anche se non ho l'onere di presentare prove materiali, la giuria non dimenticherà ciò che ho promesso di dimostrare. Ritorno sull'implicita promessa, che ho estorto a ognuno di loro, di astenersi dall'emettere un giudizio finché non avremo presentato il nostro caso. Quindi mi avvio verso la conclusione, dove so che la corte mi darà maggiore libertà d'azione, ed entro nel vivo del dibattito. Kline si agita nervosamente sulla sedia, ma è titubante a sollevare obiezioni, sapendo che è facile che qui Radovich mi dia via libera. «Questi sono tempi cinici, signore e signori. Tempi in cui la presunzione di innocenza, che la legge garantisce a ognuno di noi, è stata troppo spesso trasformata in una presunzione di colpa. Un tale cinismo può acuirsi quando l'accusato è un pubblico ufficiale, specialmente se occupa una posizione di fiducia, come un giudice.» A questo punto mi volto verso Kline. «Dovete lottare contro la tendenza a ragionare in questi termini. Non dovete ascoltare i mercanti di cinismo.» Mentre pronuncio queste parole, fisso Kline. Si sta alzando, è quasi in piedi. «Dovete, invece, valutare le prove e fidarvi del vostro buon senso. Sono certo che, se farete così, deciderete che Armando Acosta è innocente.» Fuori, sui gradini del palazzo di giustizia, mi piazzano una selva di microfoni davanti alla faccia. Harry e io siamo bloccati da una falange di uomini e donne, con telecamere sulle spalle, che ci sparano riflettori negli occhi. Un banchetto mobile per i giornalisti. «Signor Madriani, può dirci cosa sa dell'inchiesta del gran giurì sull'Associazione della Polizia?» «Non posso dire niente.» «Stanno per partire incriminazioni?» «Dovrete chiederlo al procuratore distrettuale.»
«Lei ha rivolto accuse piuttosto serie nella sua relazione introduttiva. Vorremmo sapere quali prove esistono a sostegno di ciò che ha detto.» «Venite ad assistere al processo come tutti gli altri», rispondo io. Harry trova un varco nel cordone di telecamere, infila una spalla, e io lo seguo. Qualcuno gli fa una domanda che non riesco a sentire. «No comment», risponde lui. Harry urta contro una delle piccole telecamere e rischierebbe di farla cadere dalle spalle dell'operatore, se non fosse assicurata da una tracolla al braccio dell'uomo. Una donna con un microfono mi si avvicina di lato. «Ha discusso con il signor Mendel o la sua Associazione di queste accuse?» La ignoro. «Ha intenzione di chiamare il signor Mendel sul banco dei testimoni?» Ora mi sta dietro e io allungo il passo, per aumentare la distanza tra noi, continuando a ignorare il fiume di domande. «Signor Madriani, sta affermando che Philip Mendel o qualcuno dei suoi sostenitori ha qualcosa a che fare con l'omicidio di Brittany Hall?» Quest'ultima domanda viene urlata sopra il clamore degli altri giornalisti, cosicché non c'è nessuno nel raggio di quindici metri cui possa sfuggire. «Questa sembra essere la conclusione della sua relazione introduttiva», dice la giornalista. Ecco il nuovo giornalismo: se non riesci a ottenere una risposta, fai un'affermazione. La sua voce verrà riportata dal notiziario delle sei, con l'immagine della mia nuca, e il mio silenzio interpretato come pubblica ammissione. «Perché non risponde alle loro domande?» Alzo gli occhi e mi trovo davanti la faccia di Tony Arguillo. È spuntato dal nulla in mezzo alla folla ed è riuscito a mettersi tra me e Harry, e ora mi blocca la strada. «Allora?» dice. «Le mancano le parole?» «Il giudice ha ordinato il silenzio stampa», rispondo. «E, se è furbo, terrà la bocca chiusa anche lei.» «Il silenzio stampa. Ah, già. In aiuto alla professione», dice, facendola sembrare una cosa sporca. «Giusto. Non deve interessare a nessuno che quello che un succhiacazzo di avvocato dice in aula sia tutelato dal segreto professionale, certo che no. Il fatto che le menzogne pronunciate in tribunale siano immuni dalle leggi sulla diffamazione... siano solo una banale maldicenza?»
Lo urto con una spalla e per un secondo si irrigidisce. Penso stia per aggredirmi, qui, davanti alle telecamere. I suoi occhietti tondi sono fissi su di me come il raggio di puntamento di un missile. Ma poi distoglie lo sguardo e si volta verso una coppia di giornalisti. «Tutto quello che ha detto in quell'aula sono palle», dice. «Ve lo dico io, sono solo palle.» È Tony nella versione del vero credente. Sembra sinceramente offeso dalla fuga di notizie sull'inchiesta del gran giurì, questo nonostante il fatto che siano notizie vecchie, ruminate dalla stampa ormai da mesi. Gli passo davanti e proseguo. «Chi è lei?» chiede uno dei giornalisti a Tony. «Può dirci il suo nome?» Arguillo li ignora. «Perché non parla qui fuori, dove la gente le può fare il culo e querelarla?» Tony continua a provocarmi, questa volta a distanza. «Sì, come la gente comune. Voi fottuti avvocati siete tutti uguali.» Dovranno ricorrere a un sacco di bip nel notiziario, questa sera. Il sangue mi ribolle come piombo fuso e mi arriva alle orecchie. Resisto alla tentazione di voltarmi e mollargliene uno. Lo ignoro, la mano stretta a pugno lungo il fianco, e mi allontano per la mia strada. Harry è riuscito ad arrivare al marciapiede, dove ha chiamato un taxi. Il tassista frena e apre la portiera. La folla di giornalisti ci circonda come un branco di piranha che ribolle sulla superficie di un lago. Lancio un'occhiata oltre il tetto dell'auto e vedo una persona che mi fissa dall'altro lato della strada. È Phil Mendel. Non cerca neppure di nascondere che sono io l'oggetto della sua attenzione. Mi domando se fosse in aula per ascoltare la relazione introduttiva, magari insieme a Tony, o se abbia sentito le domande che mi hanno fatto sulla scalinata. Qualsiasi fosse l'idea di Mendel sul nostro caso fino a questo momento, di sicuro ora avrà una prospettiva tutta nuova. 18. È sabato mattina e Sarah sta sistemando la sua stanza. Mia figlia è maestra nel perdere tempo: a otto anni, riesce a metterci un'ora per rifare il letto e un'altra ora per lavarsi i denti. Riesce a sognare a occhi aperti una decina di cose diverse contemporaneamente, condurre una conversazione senza senso con esseri invisibili e recitare poesie senza metro né rima.
Mettetela sotto una doccia con una saponetta in mano e potrebbe anche prosciugare il bacino idrico. La mamma di Sarah, Nikki, morta due anni fa, possedeva un notevole talento artistico, che Sarah sembra aver ereditato. È in grado di disegnare forme umane, uomini e donne che mi fanno vergognare dei miei scarabocchi elementari. Ma ha qualche problema con i numeri e un sistema tutto suo di scrivere, con il quale sostituisce a piacere le consonanti di ogni parola. Ho parlato con i suoi insegnanti, che mi dicono di essere paziente. Ogni bambino progredisce secondo la sua propria velocità. Sarah, tolte le attività che le piacciono, sembra assente. «Cosa sta facendo, lassù?» mi chiede Lenore, ridendo, divertita dal rumore di passi che giunge dal piano superiore. Quando Lenore è arrivata ieri sera, Sarah l'ha catturata e siamo finiti tutti e tre a giocare a Monopoli finché Sarah non è andata a letto. Allora, Lenore e io siamo passati al vino e alla musica soft. «Dovrebbe fare pulizia. Vuoi salire a controllare?» «Credo che passerò.» Questa settimana, le due figlie di Lenore sono via con il padre, che vive nella parte meridionale dello Stato e viene solo di rado a trovarle. Per parecchie settimane Sarah mi ha chiesto il permesso di invitare un'amichetta della scuola a casa nostra per giocare. Le ho detto di aspettare, ma senza spiegarle il motivo. Per un padre single con una bambina, questi sono tempi difficili. La vita di un mio amico, un procuratore di successo, è stata sconvolta dall'accusa di aver molestato una bambina che era venuta a passare la notte con sua figlia. Nonostante la sua accusatrice abbia in seguito ritrattato tutto ed egli sia stato assolto dopo un processo durato tre mesi, ora è ridotto sul lastrico e si porta addosso il marchio dell'infamia. È per questo motivo che Lenore ha accettato di passare la giornata da me. È il mio alibi contro la paranoia, la mia e quella degli altri. Ce ne stiamo seduti in cucina a parlare mentre Sarah, si suppone, mette in ordine la sua stanza. Squilla il campanello della porta e guardo l'orologio. «L'amichetta è in anticipo», dico a Lenore. «Forse la mamma non vede l'ora di affibbiarla a qualcuno.» Mi scuso e mi dirigo verso la porta. Sento i passi di Sarah sulle scale. «Vado io», le dico. Lei fa uno sprint verso la porta d'ingresso e ovviamente vi arriva prima
di me, ma si fa piccola piccola quando vede la sagoma di un uomo, dietro la zanzariera, che riempie tutta la luce della porta non appena Sarah la apre. «È a casa tuo papà?» «Ti avevo detto che sarei andato io», dico, rivolto a Sarah. A questo punto si stringe contro le mie gambe, arretrando come fanno i bambini quando si trovano davanti un adulto estraneo. L'uomo indossa un'uniforme da lavoro color kaki, con il nome - MIKE ricamato sul taschino sinistro. «Signor Madriani?» «Sì?» «Sono della Capital Cable», mi dice. Lo guardo senza capire. Questo non mi dice niente. «Il servizio di televisione via cavo. Dobbiamo fare qualche riparazione al suo sistema.» «Non ho chiamato nessuno.» «Il nostro ufficio avrebbe dovuto chiamarla. Non l'ha fatto?» «No.» «Maledizione», dice l'uomo. «Qualcuno ha fatto casino. Dobbiamo installare un amplificatore dove il cavo si congiunge con l'apparecchio. Abbiamo ricevuto un sacco di reclami per il segnale debole, in questa zona. Non ci vorranno più di dieci minuti. E non c'è alcuna spesa.» Dalla mia espressione capisce che non sono molto felice per l'interruzione. «Ovviamente, se la disturbo posso tornare un'altra volta.» «Sarebbe meglio», gli dico. «Aspetto visite da un momento all'altro.» Il fatto è che Lenore e io avevamo deciso di portare le bambine al parco per un picnic. «Vediamo quando possiamo fare...» Consulta un foglio agganciato a una tavoletta, sempre tenendo in mano un cavo coassiale ancora avvolto nell'involucro di plastica trasparente. «Devo avvisarla che probabilmente perderà il servizio senza l'amplificatore. Una volta modificati tutti gli apparecchi della zona, modificheremo anche il segnale. Senza l'amplificatore per un po' vedrà solo neve.» Studia la tavoletta per un paio di secondi. «Non mi sembra messa bene. Dubito che riusciremo a tornare prima di una settimana, forse addirittura dieci giorni.» Gli rivolgo un'occhiata non esattamente gentile.
«Mi dispiace», dice lui. «Quanto ci vorrà, se lo fa oggi?» «Dieci minuti e sono fuori», dice. «È una cosa molto veloce.» «Allora lo faccia.» Apro la zanzariera e lo faccio entrare. Viene dentro e si toglie il cappello, proprio mentre Lenore viene verso di noi lungo il corridoio. «Scusi per l'interruzione», dice l'uomo. «Manutenzione della TV via cavo», le spiego. «Di che cosa ha bisogno?» chiedo al tizio. «Solo del suo televisore.» «È là.» Gli indico lo scaffale contro la parete in fondo al soggiorno. Mi offro di aiutarlo a scostarlo dal muro. Mi dice che ce la fa anche da solo, ma che prima ha bisogno della cassetta degli attrezzi. «Bene. Noi siamo in cucina, se ha bisogno di qualcosa.» Mi sorride, si rimette il cappello ed esce, lasciando scostata la porta di qualche centimetro, in modo che non si richiuda. Sarah torna indietro per il corridoio, delusa. «Credevo fosse Mindy.» «Come sta venendo la tua stanza?» le chiedo. Per tutta risposta si struscia contro Lenore, come per cercare rifugio. «Bene», risponde. «Vuoi che venga su a dare un'occhiata?» «No. Voglio lei.» «Un tribunale di istanza più alta», dico, rivolto a Lenore. «Cos'ha che non va il nostro televisore?» chiede Sarah. Per mia figlia, il pensiero di un televisore guasto è una tragedia comparabile a quella di una malattia terminale. Niente più Disney. «Qualsiasi cosa abbia, quell'uomo l'aggiusterà. Non che questo cambi nulla. Prima devi comunque finire di mettere in ordine la tua stanza. Su, vai.» Mi risponde con un gemito e un linguaggio corporale molto evasivo. Sbatte le palpebre in direzione di Lenore, sperando che intervenga in suo favore. Ma, visto che non funziona, torna all'attacco con me. «Devo proprio, papà?» «Sì, devi proprio. E ora va'.» Si avvia su per le scale a spalle basse e passi pesanti. «Ho un sacco di autorità con i cani e i bambini», dico a Lenore. «Aspetta che cresca ancora un po' e vedrai.» «Vuoi dire che non migliorerà?»
Lenore si limita a ridere. Torniamo in cucina. Riscaldo il caffè. Parliamo un po' del caso Acosta. Lenore vuole essere messa al corrente degli sviluppi, ma io sto attento a quello che le dico. Ora che Lenore è fuori da questo caso, sono informazioni riservate. Qualsiasi cosa Acosta mi abbia detto è coperto dal segreto professionale cliente-avvocato. Dovessi raccontarlo a Lenore, però, ora che non è più l'avvocato incaricato di questo caso, l'accusa potrebbe costringerla a rivelarlo sul banco dei testimoni. Le parlo del mio scontro con Tony per strada davanti al palazzo di giustizia. «Lui l'ha presa come un'offesa personale», concludo. «Devi scusarmi. Non avrei mai dovuto mandarlo da te.» Lo definisce un conflitto di personalità e mi spiega che Arguillo ha un cuore caldo e una testa ancora più calda. Cuore tenero, testa dura? Ho qualche difficoltà a razionalizzare il fatto che Lenore abbia staccato quell'appunto dal calendario della Hall, e lei lo sa. Si scusa ancora e mi dice che a volte per gli amici si fanno cose stupide. «Non pensavo molto chiaramente», ammette. «Ero stata licenziata e avevo bevuto.» Se avesse pensato con maggiore lucidità, dice, non avrebbe mai fatto una cosa simile. «La polizia ti ha interrogato su questo?» «Ho fatto come mi hai suggerito. Non gli ho detto nulla e mi sono appellata al Quinto Emendamento.» «Kline minaccia ancora di chiamarti a testimoniare?» È convinta che lui sia già soddisfatto che lei sia stata allontanata dal caso. «Mi piacerebbe tanto vederti prenderlo a calci nel sedere», conclude. È chiaro che non ha ancora sotterrato l'ascia di guerra. «Dovrò trovare un altro modo per arrivare a Tony», le dico. Lenore mi dice che è un vicolo cieco. «Pensi ancora che lui non ne sia capace?» «Dimentica quello che penso io. Gli investigatori non l'avrebbero mai preso seriamente, anche se avessero visto l'appunto che ho preso io.» Non riesco a capire fino a che punto stia cercando di dare una spiegazione razionale al fatto che ha alterato le prove. Mi dice che Tony aveva una spiegazione perfettamente plausibile. «Ci sono due persone, della stessa età, che lavorano insieme, hanno molti interessi in comune e sono entrambe molto attraenti. Perché non dovrebbero uscire insieme? Solo che l'appuntamento per quella sera era stato an-
nullato. Non c'è niente di strano.» «Va benissimo, purché Tony abbia un alibi», rispondo. «Ce l'ha?» «Non gliel'ho chiesto.» «Forse dovresti farlo.» «Non starai pensando di chiamarlo a testimoniare?» «Perché no?» «Non otterrai nulla.» «Capisco. Il suo cuore tenero non gli impedisce di mentire.» Dalla sua espressione capisco che proprio non le va giù l'idea che, per giungere al contenuto del biglietto, io debba aprire una strada, anzi un'autostrada probatoria che passi in pieno sul suo cadavere. «Speriamo non sia necessario.» Per un attimo ho il dubbio che ci sia una leggera minaccia nelle sue parole. Poi decido di no. Passiamo ad argomenti più piacevoli. Mi racconta come trascorre le sue giornate. La scorsa settimana ha preso due nuovi clienti, mandati da amici. Poi, all'improvviso, mi dice che restituirà quanto ha già ricevuto in pagamento per il caso Acosta, il piccolo anticipo preso all'inizio. «Non ti preoccupare. Te lo sei guadagnato.» «Non mi preoccupo, però lo voglio restituire. Non appena sistemo le cose, ti farò un assegno.» Sembra una questione di orgoglio, e quindi non discuto. «Come vuoi tu.» Sento alcuni passi in corridoio, dietro di me, e mi volto. È l'uomo della televisione. «Posso usare il bagno?» «Certo. È a metà corridoio. A sinistra.» Porta una cintura rinforzata con una borsa per gli attrezzi sul fianco. Non mi alzo, ma lui trova lo stesso la strada, entra in bagno e chiude la porta. «Cosa sta facendo?» chiede Lenore. «Probabilmente un bisognino piccolo, o un bisognino grande. Quando esce glielo chiedo.» Lenore mi guarda con aria esasperata. «Tu me l'hai chiesto...» dico, ridendo. «Volevo dire col tuo televisore.» «Proprio non ho capito. Qualcosa per migliorare il segnale.» Nel giro di tre secondi sentiamo correre lo sciacquone. «Un bisognino piccolo», dico.
«Fa' conto che non te l'abbia chiesto.» E in quel momento sento un pesante tintinnare: è il rumore, inconfondibile per chiunque lo abbia mai sollevato, del coperchio di pesante porcellana della vaschetta dello sciacquone. Guardo Lenore con aria perplessa. «Cosa succede?» «Non lo so.» Il tizio esce dal bagno e, senza guardare verso di noi, si dirige verso il soggiorno. «Dove sta andando?» chiede Lenore. «Un secondo.» Mi avvio lungo il corridoio, entro in bagno e mi guardo intorno. È tutto a posto. Esco dal bagno e vado verso il soggiorno, dicendo: «Non sapevo che il vostro cavo passasse attraverso il gabinetto». Come giro l'angolo mi accorgo che sto parlando da solo. Il tizio è scomparso. Il rotolo di cavo nuovo è posato sopra il televisore, ancora nell'involucro intatto, e il cavo è staccato dall'apparecchio. Forse è andato a prendere qualche altro pezzo. Vado alla porta e mi accorgo che è chiusa, con la chiave. Forse non ci ha pensato e si è chiuso fuori. Apro la porta, poi la zanzariera. L'uomo non c'è. Esco e faccio il giro sul davanti della casa. È sparito. Non c'è neppure la macchina. A questo punto Lenore è curiosa. Mi raggiunge sul prato davanti alla casa. «Cosa sta succedendo?» «Non capisco.» Rientro in casa e torno in bagno, con Lenore alle calcagna. Sollevo il coperchio della vaschetta e lo vedo. Avvolto in un sacchetto ermetico di plastica trasparente c'è un pacchetto grande quanto un mattone. La sostanza all'interno è inconfondibile per chiunque abbia mai visto il video di un'irruzione della polizia o l'abbia maneggiata come prova in tribunale. Ho davanti a me almeno duecentomila dollari, mezzo chilo di cocaina. L'espressione di Lenore mi dice che non ha bisogno di alcuna spiegazione. «Faccio uscire Sarah dalla porta sul retro», dice. Mentre lei corre su per le scale, sento lo stridio di pneumatici di una macchina che si ferma davanti a casa. Poso il coperchio della vaschetta sul pavimento e corro verso la porta d'ingresso. La blocco, poi mi rendo conto
della futilità del gesto. Quattro mesi fa ho acquistato uno di quegli aggeggi di ottone che si infilano in un bicchierino di metallo alla base della porta, fatti in modo che la porta si apra solo di qualche centimetro per assorbire la forza di un colpo, ma senza cedere. Nel panico più totale, mi guardo intorno per vedere dov'è. Poi lo vedo, dietro una tenda, vicino alla finestra. Lo infilo nel buco e mi lancio verso il bagno. Sento il rumore di passi che corrono lungo il vialetto sull'altro lato della casa e voci concitate che urlano: «Presto, presto, muovetevi!» Poi il cigolio della zanzariera che si apre. Un attimo dopo sento il primo colpo dell'ariete di metallo che colpisce la porta d'ingresso. Il piccolo pannello di vetro colorato, la finestrella che Sarah e io abbiamo fatto insieme l'anno scorso in un corso d'arte alla scuola, va in mille pezzi che volano fin nel corridoio oltre la porta del bagno. Sento le voci imprecare davanti alla porta. Il catenaccio di sicurezza in ottone si è guadagnato il pane. Un altro colpo d'ariete e sento il rumore di legno che cede. Chiudo a chiave la porta del bagno. «Papà!» Sento Sarah sulle scale insieme a Lenore. Per un attimo penso di aprire la porta e farle entrare. Ma stanno meglio là fuori, lontano da ciò che tengo in mano, il sacchetto di mortale polvere bianca, l'equivalente di vent'anni di carcere duro se mi beccano. Per un attimo penso di gettarla nel gabinetto, ma poi mi rendo conto che non ho tempo. Ci vorrebbero parecchie tirate di sciacquone e, anche se ci riuscissi, resterebbero comunque tracce nel sacchetto a incastrarmi. Guardo la finestrella sulla parete di fianco a me. Faccio scorrere il piccolo pannello di vetro opaco. Dà sulla staccionata, che quasi arrivo a toccare con la mano. Un metro più in là c'è la gronda del tetto del vicino. Prendo un asciugamano e lo passo con cautela sulla plastica. Se trovano il pacco, se non altro non ci saranno sopra le mie impronte. Poi, tenendo il sacchetto con l'asciugamano, metto il braccio fuori della finestra, accostato al muro, come se stessi per lanciare un ferro di cavallo. Non è una posizione eroica in cui farsi beccare. Quando l'ariete colpisce la porta del bagno, sono seduto sul gabinetto con i pantaloni abbassati intorno alle caviglie, l'asciugamano al suo posto e la finestra chiusa. Vengo investito da una pioggia di schegge di legno, perché la porta del bagno non cede di schianto. Due poliziotti grandi e grossi, uno con un ber-
retto da baseball calzato alla rovescia, l'altro con il volto coperto da un cappuccio, cercano di entrare contemporaneamente attraverso l'apertura della porta, dove si trovava il sottile pannello centrale che ha ceduto. Uno dei due infila dentro una mano e gira la maniglia dall'interno. Così facendo intrappola l'altro nel varco della porta mentre questa si apre, e quando arrivano da me, sono entrambi carichi di adrenalina e incazzati neri. Mi afferrano per le braccia e mi sbattono contro la finestra. Mi stupisco che non si rompa il vetro. Batto la fronte contro lo stipite più alto e sento un dolore lancinante e poi un rivoletto di sangue che mi scende dalla testa, mentre il metallo gelido della canna di una pistola mi preme contro la nuca. Mi costringono a scostare i piedi in modo che, se non ci fosse il muro, cadrei a faccia in giù. Ho le mani dietro la schiena e il viso premuto contro la parete. «Ha una pistola?» chiede una delle voci dietro di me. Dove potrei tenerla, visto che ho i pantaloni calati e la camicia praticamente a pezzi, è un mistero. «Niente. È pulito.» Sento che mi mettono le manette intorno ai polsi, così strette che quasi mi fermano la circolazione. Uno dei due mi tira su i pantaloni in modo che possa tenerli su da dietro, ma me li lascia aperti sul davanti. Sento Sarah che grida, isterica, vicino alla cucina. Sta urlando il mio nome. «Va tutto bene, Sarah.» «Porta la donna in soggiorno e la bambina fuori di qui. Portala alla centrale e affidala allo SPI», dice uno dei due. Si riferisce al Servizio Protezione Infanzia. «Se toccate mia figlia vi ammazzo», dico. Con questo mi guadagno una ginocchiata in pieno nelle reni, un dolore che mi acceca. «Avvocato fottuto. Te l'avevo detto che avresti visto un sacco di neve. Dov'è? Eh? Dimmelo.» Mi sussurra queste parole nell'orecchio e mi preme la pistola contro la nuca sempre più forte. Sto scivolando contro la parete, in preda al dolore. Uno dei due mi afferra per i capelli e mi solleva letteralmente di peso per le poche ciocche che mi rimangono. Mi trascinano verso il soggiorno. Vengo scaraventato sul divano, dal quale sono stati tolti tutti i cuscini. Uno dei poliziotti li sta facendo a fette con un coltello affilato, poi tira fuo-
ri l'imbottitura, che getta sul pavimento. Non è una perquisizione ma una distruzione intenzionale. Sanno che non ho avuto il tempo materiale di aprire la cerniera e infilarci dentro la cocaina. Su un piccolo vassoio posato sul tavolino ci sono le tazzine e i piattini di porcellana che Nikki ha lasciato a Sarah. Vengono fatti a pezzi dove si trovano e i resti spazzati per terra con una mazza dal cretino con il berretto da baseball. Getta per terra l'unico pezzo che non si è rotto e lo calpesta fino a ridurlo quasi in polvere. «Papà!» Sento le urla di Sarah mentre la trascinano via lungo il vialetto che fiancheggia la casa. Per un attimo la intravedo attraverso una finestra del soggiorno. Uno di questi animali la sta portando via di peso, tenendola sotto il braccio. «Lasciate stare mia figlia.» All'improvviso mi lancio oltre il tavolino con tutta la forza che le mie cosce riescono a trovare. Vado a cozzare con la testa nella pancia del poliziotto col berretto da baseball, togliendogli il respiro. In un attimo altri due mi atterrano sulla schiena e pago il prezzo della mia bravata. I manganelli mi colpiscono con tutta la forza sulla testa e sulle spalle, e quello che sembra il ponticello di una pistola mi lacera la nuca, mentre la pistola spara vicino al mio orecchio, rendendomi quasi sordo. «Figlio di puttana», dice uno dei due tutto agitato. «Metti la sicura, brutto stupido!» Il dolore dei colpi ricevuti sulle spalle mi intorpidisce la colonna vertebrale come una specie di anestesia finché non sento più le gambe. E continuano a picchiarmi. «Piantala. Lo ucciderai.» La voce mi giunge come attraverso la nebbia. «Un fottuto avvocato in meno. Chi vuoi che senta la sua mancanza?» Chiunque stia parlando, mi tiene un ginocchio premuto contro la schiena, impedendomi di respirare. Questi sono maestri del dolore. Resto sul pavimento per parecchio mentre discutono cosa fare di me: continuare a pestarmi o sbattermi sul divano. A intervalli regolari, uno di loro mi si avvicina e mi colpisce con tutta la forza nelle costole con uno scarpone da lavoro. Lo fa almeno due o tre volte, tanto per distrarsi durante il dibattito. Riconosco i pantaloni color kaki e lo scarpone, anche se quando alzo gli occhi vedo cha ha il viso coperto dal cappuccio. È l'uomo della televisione. Mi tirano su di peso e mi gettano sul divano. Questa volta resto su un fianco, consapevole solo di una cosa: non sento più le urla terrorizzate di
Sarah. Sento uno scalpiccio di passi nel corridoio. «Portala dentro.» Trascinano Lenore dentro la stanza. Riesco a vederla dalla mia posizione parzialmente prona: ha le mani ammanettate dietro la schiena, il volto coperto di graffi e altri segni su una guancia, dove devono averla colpita con qualcosa. Uno dei bulli la tiene per la nuca con una mano così grande che potrebbe stritolarle la gola senza fatica. «Ho cercato di portare fuori Sarah.» È tutto quello che riesce a dire prima che il tizio stringa. «Sta' zitta.» Quello col cappuccio la spinge oltre il tavolino. Lenore atterra sul divano, cade su un fianco e ha difficoltà a raddrizzarsi. Nei suoi occhi c'è più rabbia di quanta ne abbia vista in tutta la vita. «Dov'è Sarah?» le chiedo. «Non lo so.» Uno dei poliziotti si avvicina e, con la forza di un rovescio a tennis, mi colpisce col manganello sullo stinco della gamba destra. Il dolore è lancinante e urlo. Un'ondata di nausea mi scuote il corpo. Con il cervello che mi turbina, mi chiedo se mi abbia fratturato l'osso. «Chiudi quella bocca fottuta. Hai capito? Parlerai quando lo vorremo noi.» Sento il rumore della porcellana del water che va in frantumi, il sibilo dell'acqua dello sciacquone che allaga il pavimento del bagno. «Qui non c'è.» Uno degli uomini mette la testa fuori del bagno per dare la notizia agli altri. «Devo andare a prendere i cani?» «Deve esserci. Guarda meglio.» Sento il rumore di armadietti che vengono aperti, le ante staccate dai cardini, i cassetti strappati dalle guide e il contenuto rovesciato per terra. I due che sono nella stanza con noi stanno parlando tra loro a bassa voce. Un brivido gelido mi corre lungo la schiena. Continuano a parlare sottovoce, valutando le possibili alternative. Fino a questo momento ho contato quattro poliziotti. Sento pentole e padelle gettate per terra in cucina. Deve essercene un altro, se non altri due, per un totale di cinque o sei. «Ha avuto solo sessanta secondi.» È l'uomo della televisione che sta parlando. Una faccia che non dimenticherò tanto presto. «Forse dovremmo chiamare Phil», dice quello col berretto alla rovescia. «Sta' zitto.» Le parole, chiarissime, vengono dall'uomo della televisione. Le giacche nere che indossano, quelle che ho visto, hanno tutte la stessa sigla stampata sulla schiena: la parola POLIZIA a lettere bianche alte dieci
centimetri. Non vedo niente che dica DEA, FBI o che li identifichi come agenti del dipartimento del Tesoro o della polizia doganale. A meno che non mi sbagli, questa è una squadra del posto. Improvvisamente c'è un sacco di confusione e di agitazione tra i poliziotti nella stanza. «Chi sono?» Stanno guardando fuori della finestra alle mie spalle. Mi sollevo su un gomito e sbircio oltre lo schienale del divano. Da un'autopattuglia sono scesi due poliziotti in divisa che ora stanno attraversando il prato diretti verso la casa. «Va' a prendere il cane», dice l'uomo della televisione. «Dobbiamo trovarla. Sbrigati!» Uno dei due esce dalla porta principale, quasi travolgendo uno dei due poliziotti in divisa, che dice qualcosa all'uomo che si allontana di corsa, ma non riesco a sentire le parole. L'uomo sembra ignorarlo, e il poliziotto in divisa prosegue verso l'ingresso. È ben piantato, alto più di un metro e ottanta, gli occhi nascosti da occhiali scuri, un'uniforme blu immacolata e un distintivo che, alla luce del sole, potrebbe anche abbagliare, tanto è lucido. «Cosa sta succedendo?» domanda. Non si toglie gli occhiali, e quindi non si capisce da che parte stia guardando. Nessuno gli risponde. «Gesù!» Con una rapida occhiata fa una valutazione dei danni in corridoio. Il diluvio universale. «Vi siete portati il piede di porco da casa, ragazzi?» Si toglie lentamente gli occhiali scuri, dà un'occhiata a me e poi a Lenore. Quindi s'infila in tasca gli occhiali. «Lasciate che indovini. Resistenza all'arresto?» dice. «Oppure la signora vi ha picchiati?» Solo l'altro poliziotto in divisa ride. Porta i gradi di sergente. «Cosa ci fai qui, Hazzard?» È la voce dell'uomo della televisione. «È la mia zona di pattuglia», risponde il sergente. «Potrei fare la stessa domanda a te.» «Abbiamo avuto una soffiata che c'era della droga.» Finalmente l'uomo della televisione si toglie il cappuccio. Ha il volto tutto rosso e coperto di sudore. Con una mano si rassetta i capelli scompigliati. Il nome MIRE ora è coperto dalla giacca. Capisco che la camicia da lavoro non è sua quando il sergente in divisa lo chiama Howie. «Perché non avete chiamato per avere rinforzi?» chiede il sergente.
«Nessuno ha avvertito le autopattuglie di quello che stava succedendo.» «Non c'era tempo», dice Howie. «Ci avevano detto che stavano per spostare la roba.» «Glielo dico io quello che è successo», dico. «Chiudi quella bocca fottuta.» Howie mi punta il manganello contro il viso. «I suoi compagni stanno cercando d'incastrare un avvocato impegnato in un processo per omicidio, piazzando in casa mia prove artefatte», dico al sergente. «Guardi il nome che c'è scritto sotto la giacca. C'è scritto MIKE. Ha finto di essere un tecnico delle riparazioni per piazzarmi un po' di roba nel bagno.» Sul volto di Howie è comparso un ghigno che non saprei se definire divertito o di rabbia. Gli chiedo se prima di andarsene mi aggiusterà il televisore come mi aveva promesso. Alza il manganello, ma non mi colpisce. Il poliziotto in divisa lo guarda con espressione seria. «Howie! Mi vergogno di te.» Howie ride, come se quello avesse fatto una battuta. Come può credere a uno spacciatore? L'espressione del sergente è enigmatica. Uno degli altri poliziotti entra con i cani, pastori tedeschi tenuti al guinzaglio rigido, che si dirigono sparati giù per il corridoio. «Forse ti farà piacere restare.» Howie sta parlando al sergente. Si allontanano insieme lungo il corridoio. Sento i cani dare in escandescenze nel bagno e mettersi ad abbaiare e graffiare le pareti. Howie dice al sergente che la droga dev'essere lì da qualche parte. «Spero per il tuo bene che la troviate», risponde il sergente, e insieme tornano in soggiorno da noi. «Perché il comandante di turno sta venendo qui.» «Chi diavolo l'ha chiamato?» «Io.» Howie si mette a camminare su e giù per il soggiorno. «E che cazzo l'hai chiamato a fare?» «È la mia zona», risponde il sergente. «Tu non vieni nella mia zona senza dirmelo, Howie. Io credo che tu abbia qualche spiegazione da dare.» Arrivano i nostri. Howie smette di andare su e giù per guardare in corridoio. «Kennedy. L'hai trovata?»
«No.» «Merda.» Howie va in bagno a dare una mano. Restiamo in soggiorno con Berretto da Baseball, un incappucciato e i due in divisa. «Io sono il sergente Lincoln. Lei chi è?» Si sta rivolgendo a me. «Non credo che Howie voglia che gli parli», dice il tizio col berretto. Il sergente gli rivolge un'occhiata che, se sotto il berretto ci fosse un cervello, lo ucciderebbe sul posto. «Knelly, ho davvero l'aria di uno che gliene frega un cazzo di quello che vuole Howie?» Visto che il tizio non risponde, il sergente gli si avvicina fino a trovarsi a pochi centimetri dalla faccia. «Allora, rispondi.» Il tizio di nome Knelly impallidisce, mantiene le posizioni per un istante, poi si volta. «Perché non vai ad annusare in giro se trovi la droga?» gli dice il sergente. Knelly esce dalla stanza, il manganello che gli pende dalla mano come un cazzo moscio. «E tu», prosegue il sergente, rivolto all'incappucciato, «Douglas. Togliti quel maledetto affare dalla testa, che sei ridicolo. Vai, che te li guardiamo noi i prigionieri.» Il tizio va a raggiungere i compatrioti. Il sergente torna a rivolgersi a me. «Allora, un'altra volta: chi sei?» «Mi chiamo Paul Madriani.» «Ho sentito parlare di te», dice. «E tu?» Lenore ha la faccia tutta gonfia e le sta venendo un occhio nero. La palpebra destra sta cominciando a chiudersi. «Lasciate che faccia io le presentazioni», dico. «Questa è Lenore Goya, ex sostituto procuratore.» Lenore emette un sospiro di sollievo. Credo che per un attimo abbia pensato che ci avrebbero davvero ucciso. 19. Questa mattina Radovich conduce la sua inchiesta privata nel suo ufficio. Ha chiamato a rapporto il capo della polizia e Kline perché gli dessero spiegazioni sull'irruzione in casa mia. Anche se non ha preso alcuna posizione ufficiale e ha accuratamente svicolato davanti alle domande dei giornalisti, è chiaramente preoccupato che le notizie diffuse dai media possano
influenzare il processo. «Perché non sono stato avvertito? Chi diavolo dirige il suo ufficio?» Radovich esige da Kline risposte precise. Harry e io ce ne stiamo seduti in silenzio sul divano appoggiato contro la parete. Ho un cerotto sulla fronte, dove mi hanno dato quattro punti, e parecchi lividi ben visibili sul collo. Acosta occupa una poltroncina di fianco a me, con un usciere piazzato alle sue spalle e una guardia fuori della porta. Ho insistito perché fosse presente anche lui, visto che ha letto il resoconto dell'irruzione sui giornali. È preoccupato per come questo potrà influire sul suo processo. Al comandante di turno ci sono voluti meno di dieci minuti per cacciare fuori da casa mia l'uomo della televisione e il suo gruppo. Hanno frugato dappertutto, tranne che sotto le assi del pavimento del bagno, ma non hanno trovato nulla. Invece, per recuperare Sarah c'è voluto un po' di più. Quelli del Servizio Protezione Infanzia prima mi hanno fatto mille domande, poi volevano tenerla una notte. Dopo una minaccia di querela e una telefonata al consulente legale della contea, sono scesi a più miti consigli. Con tutto questo, non ho ricevuto una sola parola di scuse da parte dei vertici. Stanno trattenendo il fiato nel timore che Lenore e io gli facciamo causa. Dopo essere impazziti nel bagno, pare che i cani abbiano seguito la traccia fino al muro sotto la finestra. Tutto considerato, avrebbero anche potuto trovarla, se non fosse stato per l'arrivo dei pezzi grossi, nelle persone del comandante di turno e del suo tenente. Quelli che comandano hanno un modo tutto loro per rimediare agli abusi commessi dalla truppa. Nel mio caso, la loro punizione è stata quella di essere allontanati dalla scena prima di riuscire a portare a termine la perquisizione. Questa mattina Kline è un campionario di scuse, tutte riconducibili a una sola: che lui non era stato messo al corrente del raid. «Vostro onore», dice, in piedi davanti alla scrivania di Radovich, «voglio che lei si renda conto che personalmente non ho avuto alcun ruolo in tutto questo.» Sembra sinceramente perplesso e insiste nel dire che lui era all'oscuro di tutto. «Se lo avessi saputo, mi sarei consultato con la corte.» «Qualcuno deve pur aver emesso un mandato di perquisizione», ribatte Radovich. «Uno fresco di nomina», risponde Kline. «Un magistrato di turno. È stato firmato, sabato mattina presto, da uno dei sostituti più giovani del mio
ufficio.» Secondo la versione di Kline, i poliziotti hanno detto al sostituto, un ragazzo laureatosi sette mesi fa, che si trattava di una situazione d'emergenza e che non c'era tempo da perdere. Secondo la polizia, la droga stava per essere spostata quella mattina. «Il mio sostituto non ha messo a fuoco il nome del signor Madriani scritto sul mandato. Se l'avesse fatto, sono certo che mi avrebbe avvertito.» Kline si volta e aggiunge questa frase a mio beneficio. È la cosa più vicina a una scusa che abbia sentito da lui. «A me pare che qualcuno del suo dipartimento stesse cercando di fare il furbo», dice Radovich, rivolgendo tutta la sua attenzione a Wallace Hansen, il capo della polizia. «Un magistrato nuovo, un sostituto procuratore alle prime armi...» «Stiamo indagando», risponde Hansen. «E cosa mi dice delle informazioni riportate sulla denuncia?» Radovich sta parlando della dichiarazione giurata e firmata dalla polizia, necessaria a giustificare la fondatezza della richiesta di un mandato di perquisizione. «Da dove provenivano?» «Da un informatore», risponde il capo della polizia. «Una fonte attendibile.» Hansen ha la carnagione di un albino, capelli biondo-rossicci e un volto che sembra esprimere una perenne ostilità. «Così attendibile che siete rimasti con un pugno di mosche in mano», gli fa notare il giudice. «E, mi creda, ce l'hanno messa proprio tutta», dico a Radovich. «Il perito dell'assicurazione non ha ancora finito la valutazione dei danni fatti alla mia casa.» Hansen mi chiede se intendo fare causa al Comune. «Lo saprete quando presenterà la denuncia», gli risponde Harry. In separata sede, ho raccontato a Radovich che la polizia ha messo la droga in casa mia, ed è una cosa che chiaramente lui avrebbe preferito non sentirsi dire. Mi ha consigliato di non ripetere questa accusa qui, davanti a testimoni, per paura che la conferma della presenza di droga possa risultare un elemento incriminatorio. Sicuramente Hansen vorrebbe sapere dov'era. È il tipo di poliziotto disposto a fare da capro espiatorio per i suoi uomini, anche se sospettasse qualcosa di poco pulito in una faccenda. I panni sporchi lui li lava in casa. Insiste nel dire che, se i suoi uomini hanno effettuato una perquisizione,
dovevano avere un valido motivo per farlo. «Avevano un buon motivo anche per pestare a sangue il signor Madriani?» «Ho saputo che ha opposto resistenza», risponde Hansen. «Anche la signora Goya ha opposto resistenza?» Hansen non risponde. «Ho visto la sua faccia», prosegue Radovich. «Ha dovuto mettersi una bistecca su un occhio.» Hansen subisce, impassibile. È un professionista nell'incassare. «Questa cosa non mi piace. Non mi piace per niente», dice Radovich. Ha saputo in via confidenziale che gli uomini coinvolti sono stati sospesi dal servizio in attesa di un'inchiesta degli Affari Interni, e me l'ha riferito. L'ufficio che fornisce consulenza legale alla città, per motivi di responsabilità civile, ha consigliato al dipartimento di polizia di non parlare di alcuna azione disciplinare. E così continuiamo con il balletto dell'avvocato, niente scuse da parte loro, niente clemenza da parte nostra. «Signor Kline, sono molto preoccupato», dice Radovich. «I giornalisti si sono buttati a pesce su questa vicenda. Se la cosa giunge alle orecchie della giuria, c'è il rischio di un annullamento del processo.» «Ma lei può sicuramente ordinare loro di non prestarvi attenzione.» I giurati non sono in isolamento. Anche se è stato loro ordinato di non leggere articoli riguardanti il processo, né di ascoltare commenti alla radio o alla televisione, tutti sanno che questi ordini vengono regolarmente ignorati. «Ecco cosa faremo», conclude Radovich. «Voglio la vostra fonte attendibile nel mio ufficio domani mattina alle otto e mezzo. Voglio sapere da dove è venuta questa informazione. Voglio sapere se c'è stato un tentativo da parte dell'accusa di influenzare la giuria screditando il legale della difesa.» «Non so se potremo esibire il testimone», ribatte Hansen. «Perché no?» «Mi dicono che l'informazione è stata data in cambio dell'assoluta confidenzialità.» «Devo emettere un ordine di comparizione?» chiede Radovich. Kline non offre neppure un minimo supporto morale al capo della polizia. Per quanto riguarda lui, Hansen è abbandonato a se stesso. Il capo della polizia solleva un'obiezione sulla giurisdizione del tribunale, che sicuramente gli è stata suggerita dai consulenti legali del Comune.
L'irruzione in casa mia non rientra nella competenza di Radovich. Come Hansen imbocca questa strada, Kline si prepara al peggio. Radovich dà fuori di matto. Si alza dalla poltrona e si sporge verso il centro della scrivania, per avvicinarsi meglio alla faccia di Hansen. I due si trovano naso a naso. «Sta cercando di provocarmi?» «No», risponde il capo della polizia. «E allora faccia in modo che il vostro uomo si trovi qui domattina. Discuteremo dei limiti della mia giurisdizione un'altra volta.» Quindi si rivolge a Kline. «Questi sono suoi uomini. Esigo alcune garanzie da lei.» Il procuratore dice qualcosa all'orecchio del capo della polizia, i due si consultano e finalmente Kline garantisce che l'informatore sarà presente. «Voglio anche la sua parola che non ci saranno altri episodi come questo.» Stavolta non è necessaria una consultazione. «Non da parte nostra», dice Hansen. «Neanch'io voglio giocare alla guerra», dice il giudice. «Questo significa che lei non si rivolgerà a un altro corpo di polizia governativa perché si mettano a fare i predatori di mezzanotte con un altro mandato. Sono stato chiaro?» I due uomini annuiscono all'unisono come reclute. «Bene», conclude Radovich. «E ora andiamo in aula a celebrare questo processo.» Siamo quasi in fondo al corridoio che porta dall'ufficio del giudice all'aula, quando Acosta, trattenuto per un braccio dalla guardia, mi si avvicina sussurrandomi all'orecchio: «Non tutto il male vien per nuocere. Anzi, credo che alla fine potrebbe venire tutto a nostro beneficio». Acosta non sente il dolore che provo io, in questo momento, in ogni singola parte del corpo. È stata una notte agitata: solo quattro ore di sonno. Ho messo a letto Sarah poco prima delle nove, ho fatto la doccia, esaminato qualche documento per prepararmi alla seduta di domani, e sono andato a letto alle undici. Ho regolato la radiosveglia perché suonasse a basso volume alle tre del mattino, ma ero già sveglio prima che suonasse. Mi alzo e indosso un vecchio paio di jeans, una felpa e un paio di scarpe da ginnastica con spesse suole di gomma. Pioviggina da più di un'ora e mi
infilo una giacca a vento di nylon nera col cappuccio. Prima di scendere vado a dare un'occhiata a Sarah. Sta dormendo, le coperte ammucchiate in fondo al letto. Ha una piccola trapunta della bambola gettata sulla parte superiore del corpo, che le lascia scoperte le gambe, tutte pelle d'oca. La copro e lei si muove appena prima di ripiombare in un sonno profondo, accompagnato da un leggero russare che sembra un miagolio. Scendo le scale, percorro il corridoio e arrivo in cucina, dove sono ancora evidenti i segni dell'incursione di tre giorni fa. Mancano i cassetti distrutti e un'anta che è stata strappata dai cardini. I ripiani nel vano dell'armadietto sono vuoti perché tutti i piatti sono stati scaraventati sul bancone. Quei pochi che non si sono rotti sono stati gettati a terra e calpestati. C'è una grossa scalfittura nello smalto del frigo, nel punto in cui, ho saputo, un poliziotto si è accanito con una pentola di ferro. Dopo aver fotografato i danni, ho ripulito tutto con l'aiuto di alcuni amici, tra cui Lenore, che ha sofferto per tutto il tempo ma si è rifiutata di andare via. È sicura che dietro tutto questo ci sia la mano di Kline. La sua ostilità verso quell'uomo la induce a pensare a senso unico. I miei sospetti, invece, puntano altrove, e ne ho avuto qualche conferma nelle ultime due notti. Lenore ha visto la polvere bianca e mi ha chiesto più volte cosa ne ho fatto. Non gliel'ho detto. Esco in giardino passando dalla porta sul retro e giro intorno alla casa, seguendo lo stretto passaggio che finisce contro la staccionata che delimita il prato sul davanti. È buio, ma non uso la torcia elettrica. La luce potrebbe attrarre un vicino curioso, o peggio. Il sentiero in terra battuta che corre lungo il lato della casa è libero: c'è solo qualche tralcio d'edera che cresce sulla staccionata che divide il mio giardino da quello del vicino. Sopra la mia testa corre la gronda di casa mia. Se sto ben attaccato alla parete sono al riparo dalla pioggerellina. Circa a metà del sentiero vedo la finestrella del bagno. Ora uno dei pannelli di vetro è rotto, tappato con un foglio di plastica nera appiccicato col nastro adesivo dall'interno. Cerco di visualizzare la disposizione della casa del vicino. È una casa a un piano, con le falde del tetto appena inclinate. Sull'altro lato della staccionata, a poco più di un metro da me, vedo la gronda del garage. Mi isso sulla staccionata più silenziosamente che posso, poi mi alzo lentamente in piedi. Per un attimo cerco di riguadagnare l'equilibrio come un
equilibrista sulla corda e poi mi chino, tenendomi con le mani al bordo del tetto. Mi sporgo in avanti, poggiando tutto il peso sulle braccia, e tiro su una gamba. Dondolando sposto il corpo finché non mi trovo a pancia in giù sul bordo del tetto. Struscio un piede contro la grondaia, facendo un rumore come di gomma dura sfregata contro un'asse da bucato. Le tegole a spacco sono rese scivolose dalla pioggia. La parte inferiore del mio corpo è già fradicia. I jeans sono zuppi, e pesano un chilo e mezzo più di quando li ho indossati. Resto immobile per qualche secondo per vedere se sotto di me, nella casa del vicino, si accende qualche luce. La pioggia risuona nelle grondaie e nei pluviali di lamiera con cadenza metallica. Sembra che questo abbia coperto il rumore prodotto dal mio piede. Strisciando sulla pancia avanzo verso la parte posteriore del tetto. È un tetto a padiglione, con tre falde che salgono per convergere in un picco al centro. Da lì parte il colmo del tetto del garage, che va a congiungersi alla parte centrale della casa, con impluvi e angoli nelle due direzioni, davanti e dietro. Gli impluvi sono tutti fasciati da grembialine di lamiera. Questa sera sembrano fiumi in piena. È questo il motivo per cui non potevo più aspettare. Non ero sicuro che con questa pioggia incessante il sacchetto tenesse. Presto un vicino curioso avrebbe cominciato a domandarsi il perché di quel colaticcio bianco, come una striscia di guano di pipistrello, che correva giù per il pluviale e da lì nel prato di casa: il concime miracoloso di qualsiasi giardiniere. Si sarebbero chiesti la causa di quel desiderio di andare a mettersi sempre nello stesso posto e rastrellare quella polvere per tutto il giorno. Arrivato sul retro del tetto, mi sollevo a quattro zampe e salgo verso il colmo, da dove riesco a vedere oltre il giardino. La strada sotto di me è illuminata dalla luce gialla di un lampione ai vapori di mercurio qualche casa più in giù. Nella direzione opposta, sotto i rami di un giovane olmo, vedo lo strano furgone comparso per la prima volta due notti fa. Ha due finestrini a bolla rotondi, vestigia degli anni 70, uno per parte. Lo trovo lì parcheggiato, sempre nello stesso posto, quando arrivo a casa la sera, ed è ancora lì quando vado a lavorare la mattina. Non vanno tanto per il sottile. Non sono riusciti a incastrarmi per spaccio, ma ora rivogliono indietro la droga. È questa la ragione per cui sospetto che Kline non c'entri. Vista la lavata di testa che si è preso da Radovich, non sarebbe mai così audace da far sorvegliare casa mia. Comunque, questo dà la misura della mancanza di
controllo che le autorità - sia lui sia il capo della polizia - hanno su questa scheggia impazzita della forza pubblica. Ho preso il numero di targa del furgone e ho chiesto a Harry di controllare presso l'ufficio della motorizzazione. Ho anche scattato qualche foto del veicolo con un teleobiettivo, da lontano, in fondo alla strada. La mattina, quando vado a lavorare, metto un leggero strato di borotalco sul pavimento all'interno di ogni porta, sul davanti e sul retro, come pure in altri punti strategici del corridoio, nel caso passassero dalla finestra. Fino a questo momento, se non mi sono sbagliato, non sono entrati. Devono essere giunti alla conclusione che la droga non si trova all'interno della casa. Faccio in modo che Sarah non sia mai in casa quando non sono presente. O viene con me, o sta in casa di amici. In tutta questa faccenda, le mie maggiori preoccupazioni sono per lei. Non si vede nessun movimento dal furgone. Rimango sdraiato contro il tetto, tenendomi sul retro della casa. Mi sposto di lato, parallelamente al prato del vicino, poi risalgo un impluvio. Comincio a pensare che non posso averla gettata così lontano, ma poi la vedo, trattenuta da un bordo di metallo che corre intorno a un lucernario. Il luccichio della plastica e lo splendore bianco della polvere all'interno fanno brillare l'involucro come fosse una nuvola rimasta impigliata nel tetto. Il sacchetto sembra sigillato, intatto, e per un attimo penso che forse è più al sicuro lì che in casa mia. Sto per ridiscendere verso il cortile laterale quando sento il rumore di una portiera che viene non sbattuta, ma richiusa con cautela. Ritorno sul colmo e guardo di sotto. Due uomini stanno attraversando la strada, diretti verso la casa. Da questa distanza, al tenue chiarore del lampione, non riesco a distinguere alcun tratto delle due figure. Mi ritraggo dietro la cresta del tetto e resto immobile, a pancia in giù. Mi guardo intorno alla ricerca di una via di fuga. È un salto di tre metri, forse più, sul patio di cemento del vicino. Una parte è coperta da una tettoia di alluminio che, se proprio dovessi azzardare un'ipotesi, non sembra in grado di reggere il mio peso. Anche se riuscissi a saltare, sicuramente mi sentirebbero quando toccassi terra. «Ti dico che ho visto qualcosa.» Le parole sono solo un sussurro, ma nel silenzio della notte si sentono comunque. Vengono dal davanti di casa mia, dove Sarah sta dormendo. «Lassù non c'è nessuno.» «Non la casa dell'avvocato», dice l'altra voce. «Quella vicina. Là.» Continuano a sussurrare e le voci si avvicinano.
Salgo un po' più su, strisciando sulla pancia. Ora piove più forte. Arrivato al lucernario, il cui lato quasi coincide con la cresta del tetto, sbircio giù. Uno dei due uomini ha uno strano aggeggio intorno alla fronte, con due grosse protuberanze che spuntano in avanti, simili ad antenne lunghe parecchi centimetri. «Sono sicuro di aver visto qualcosa.» «Sarà stato un gatto.» «No. Era troppo grosso.» Si mette a posto l'affare sulla testa e lo abbassa, finché le protuberanze non vengono a trovarsi sugli occhi e improvvisamente capisco: il tizio indossa un visore notturno. Abbasso la testa così velocemente da rischiare un colpo di frusta. Il movimento mi fa scivolare di qualche centimetro sulle tegole bagnate. «Cosa è stato?» «Io non ho sentito niente.» «Ssst!» Mi domando se l'aggeggio possa rilevare anche le onde di calore che si levano dal mio corpo come uno spettro verde contro il tetto freddo e bagnato. «Io non vedo nulla.» È la voce dell'altro tizio. «Su, torniamo in macchina. Ci bagniamo tutti.» «Te l'avevo detto che avremmo dovuto cercare lassù, l'altro giorno.» «Non abbiamo avuto tempo. Io torno nel furgone. Sono tutto bagnato. Vieni?» «Tra un minuto.» «Come vuoi. Se qualche rompicoglioni di cittadino chiama per avvertire che ha sentito rumori sospetti, sono tutti cazzi tuoi.» «Perché non vai a controllare che stia dormendo nel suo letto?» «Chi?» «L'avvocato. Guarda se vedi qualcosa dalla finestra della camera.» «Guardaci tu. Io me ne torno nel furgone.» Sento alcuni passi pesanti nel fango sul prato del vicino. È uno dei due che si allontana. Passano parecchi secondi e comincio a chiedermi se non se ne siano andati entrambi. Poi sento sbattere una portiera. Solo una. All'improvviso colgo un movimento tra i rami più alti degli arbusti vicino al punto della staccionata in cui il mio prato si congiunge con quello del vicino. Sento il rumore di piedi che scalano la staccionata e poi silenzio. Un attimo dopo avverto dei passi sul terreno. Qualcuno ha scavalcato la
staccionata e ora sta camminando lungo il sentiero che corre intorno a casa mia, vicino alla finestra rotta. Sono sdraiato sul tetto, senza alcuna facile via di fuga. Dietro di me, alla destra del tetto del patio, c'è un camino di mattoni. Potrebbe servirmi come riparo verso il giardino sul retro, se l'intruso andasse in quella direzione. Ma da un angolo retto, se alzasse gli occhi verso il tetto, vedrebbe benissimo l'involucro e il suo contenuto bianco. Mi sollevo sulle ginocchia e, senza fare rumore, giro intorno al lucernario, poi mi accuccio nella V che questo forma congiungendosi con la cresta del tetto che sale verso il davanti della casa. Resto lì nell'ombra, sapendo bene che è tutto inutile se l'uomo sotto di me indossa il visore notturno. Stretti in mano tengo vent'anni di carcere duro. Neppure Radovich potrebbe salvarmi. È stata una mossa stupida. Avrei dovuto lasciarla dov'era, ma sapevo di non poterlo fare. Prima o poi, qualcuno l'avrebbe scoperta e avrebbe ricordato l'infruttuosa perquisizione nella casa di fianco. Ora lo sento muoversi vicino al retro di casa mia. Per avere le mani libere infilo l'involucro nell'incavo formato dall'incontro del camino con la cresta del tetto, in cima alla grembialina. Non riesco a vedere niente nel mio giardino. È buio pesto. Lì la luce del lampione, bloccata dagli alberi della strada e dai tetti, non arriva. Mi chiedo se in questo momento lui mi stia guardando, attraverso il suo visore, da un qualche punto nascosto del mio giardino. Poi sento rumore di passi e il cigolio di cardini. Sta entrando in casa mia dalla porta sul retro. La mia mente è occupata da un solo pensiero: Sarah che dorme nel suo letto. Riesco a scendere calandomi giù per uno dei supporti di ferro battuto del patio, sempre col sacchetto di cocaina in mano, e mi dirigo velocemente verso la staccionata. Guardo con attenzione e vedo che l'uomo è sparito, ma la porta è semiaperta. Quando sono uscito, l'avevo lasciata chiusa. Scavalco la staccionata il più silenziosamente possibile. Resto agganciato a un chiodo, mi strappo la giacca a vento e mi ferisco a un braccio, ma sono così carico di adrenalina che non sento niente. Mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa. Di fianco al garage teniamo una piccola catasta di legna, soprattutto legnetti per accendere il fuoco e qualche ceppo per le fredde serate d'inverno. Cerco tastoni con la mano finché non trovo un pezzo di quercia ben stagionato, lungo poco più di
mezzo metro, del diametro di una mazza da baseball. Quindi infilo il sacchetto di cocaina sotto la legna. Armato, mi dirigo verso la porta. Mi infilo dentro senza toccarla. Lui ha gli occhiali notturni, ma io conosco la mia casa. Vedo che nel locale della lavanderia non c'è nessuno, e così striscio lungo il muro fino alla porta che dà sulla cucina e lancio un'occhiata veloce. Nessuno neppure lì. Poi lo sento: il rumore di una scarpa che sfrega sulla moquette. È in corridoio, oltre la porta della cucina. Valuto le varie possibilità. Potrei urlare, nella speranza che il rumore lo spaventi e lo spinga a uscire dalla porta principale. Ma sono preoccupato di quello che potrebbe succedere se si fa prendere dal panico. È sicuramente armato. Con Sarah che dorme al piano di sopra non voglio proiettili in grado di trapassare pareti o soffitti. Accorcio la distanza che ci separa attraversando la cucina senza far rumore, finché non mi trovo contro la parete accanto al frigo. Guardo in corridoio e vedo un'ombra che si muove, giù in fondo. Si sta avvicinando ai piedi delle scale. Dalla sagoma, dalla forma della testa, capisco che indossa il visore. Mette un piede sul primo gradino e capisco che non posso permettergli di salire, non con Sarah lassù da sola. Allungo una mano verso l'interruttore e accendo la luce. Urlando come uno spirito di morte, mi lancio lungo il corridoio. Il bagliore della luce attraverso il visore dev'essere accecante, perché l'uomo fa un lungo passo all'indietro e cade dal primo gradino. Mentre si volta cerca di togliersi il visore, ma ci riesce solo in parte. Con una mano sta già estraendo la pistola dalla fondina di nylon nascosta sotto la giacca. Il pezzo di quercia cala sull'osso della fronte. È un colpo piazzato con un ottimo tempismo e ha tutta la forza di una mazza che colpisce una palla veloce. Gli cedono le gambe e crolla a terra come un sacco di sabbia. C'è del sangue sulla moquette, e anche sulla parete dietro di lui. Per un attimo resto a fissare il corpo immobile, e mi chiedo se l'ho ucciso. Poi l'uomo emette un lamento e, ancora frastornato, cerca la pistola. Gliela prendo. Abbandonato sul mio pavimento c'è l'uomo della televisione, gli occhi aperti ma vitrei, le pupille che ruotano un po' in un verso, un po' nell'altro. Lo afferro per il colletto della camicia e lo trascino in soggiorno, e lì lo giro sulla pancia, come una balena in secca. Posato sul televisore c'è il pezzo di cavo coassiale che ha lasciato lì tre giorni fa, ancora avvolto nell'involucro. Lo prendo e lo uso per legarlo come un maiale, mani e caviglie, ben teso finché non si incurva come un ar-
co. Durante l'operazione l'uomo si lamenta. «Come hai detto tu», gli sussurro nell'orecchio, «per un po' tutto quello che vedrai sarà solo neve.» 20. Siamo al quarto giorno di esposizione del caso da parte dell'accusa. La presentazione di Kline, se non proprio elettrizzante, è metodica. Non lascia nulla di intentato e non perde occasione per mettere a segno dei punti, anche se pochi. Fuori del tribunale, è riuscito a deviare la prevedibile collera di Radovich per la seconda intrusione della polizia a casa mia. Il capo della polizia Hansen è stato spinto in prima linea come uomo di paglia destinato a prendersele sui denti in prima persona. Ora ha sospeso tutti gli agenti coinvolti nella prima irruzione. Ho saputo che l'uomo della televisione è un poliziotto di nome Howard Hoag, in forza alla buoncostume. Era uno degli agenti presenti quando è stato ucciso Zack Wiley. Dopo averlo steso in corridoio, ho chiamato il 911. Hoag è stato arrestato con parecchi capi d'imputazione per reati minori, compresa la violazione di proprietà privata. La mattina seguente è stato rilasciato sulla parola. Il suo socio a bordo del furgone non ha aspettato di vedere cosa succedeva e se n'è andato non appena è arrivata la prima autopattuglia con i lampeggianti accesi. Kline si è gettato alle spalle l'intera vicenda e ha deciso di procedere con il dibattimento come se niente fosse successo. È una buona mossa, ma lui sa bene che la condotta di Hoag e dei suoi compagni conferma il punto centrale della nostra difesa, e cioè che in questa città esiste un gruppo di poliziotti corrotti sfuggiti a ogni controllo. Kline ha passato tre giorni e mezzo con i due investigatori incaricati del caso sul banco dei testimoni. Hanno deposto a proposito del vicolo in cui è stato trovato il corpo e delle prove rinvenute nell'appartamento della Hall. Hanno raccontato di aver visto peli e fibre sulla coperta nella quale era avvolto il corpo e di aver detto alla scientifica di raccoglierli. Uno dei due ha raccontato di aver trovato elementi simili, i peli, in casa di Acosta, e di aver prelevato fibre di moquette dal bagagliaio della sua auto. È tutto prevedibile e chiaro. Sembrano incerti per quanto riguarda l'arma del delitto, ma concordano nell'ipotizzare che la vittima abbia battuto il capo contro lo spigolo vivo di metallo del tavolino, anche se hanno cercato di infiorare la testimonianza
affermando che la vittima è stata più volte sbattuta contro di esso. Radovich ha accettato le mie obiezioni su questo punto, obiezioni basate sul fatto che la testimonianza esulava dalle specifiche competenze dei testimoni. Nessuno dei due ha qualifiche mediche, né una preparazione specifica riguardante il rilevamento delle macchie ematiche, l'elemento che più conta a questo punto nella ricostruzione del delitto. Con gli investigatori Kline ha chiuso su un punto forte, forse la prova più incriminante: l'annotazione sul calendario della Hall, scritto di suo pugno, che indica - almeno a livello deduttivo - come Acosta si sia incontrato con la vittima il pomeriggio dell'omicidio. Io avevo sollevato un'obiezione su quest'annotazione, in quanto testimonianza indiretta. È una delle assurdità della legge che la vittima che più ha sofferto, quella che nel caso di omicidio ha perso tutto, non possa testimoniare. Acosta, purtroppo - questo è il problema -, quando gli è stato contestato l'appunto sul calendario, prima di essere arrestato, non ha negato di essersi incontrato con la vittima. Anzi, ha rinunciato a ogni suo diritto e, secondo la polizia, ha fatto certi gesti e certi commenti che li ha indotti a credere che tale incontro sia effettivamente avvenuto. Ora lui nega, ma ha convenuto che è stato sciocco comportarsi così con la polizia. Per Kline era più che sufficiente far passare l'appunto come ammissione implicita, una delle eccezioni alla regola del sentito dire. Ho scambiato qualche parola con il mio cliente a proposito di come un giudice possa essere così stupido. E stamattina comincio a rimediare, almeno in parte, al danno fatto. L'investigatore John Stobel, vicino alla cinquantina, ha la carnagione chiara e una bella pelata. È un veterano della squadra omicidi - vent'anni di servizio -, ma a vederlo per strada potrebbe passare per un contabile o un professore universitario. I suoi modi sono pacati e professionali. Ogni parola che pronuncia è una semplice affermazione di fatto, con pochi fronzoli. Non offre alcun appiglio e, in questo senso, è il testimone più pericoloso, perché risulta estremamente credibile. Questa mattina scambiamo qualche convenevole. Mi rivolge uno sguardo diretto che non definirei amabile ma, piuttosto, neutro. Mi sopporta, in quanto parte necessaria del processo, e riesce a comunicare questo suo atteggiamento alla giuria, grazie alla sua aria professionale. «Detective, vorrei richiamare la sua attenzione sul calendario della vittima.» Il calendario è già sistemato su un cavalletto davanti alla giuria. È stato
presentato da Kline come prova due giorni fa. Riproduce immagini di luoghi lontani stampati sullo sfondo di ogni mese, in modo che, quando si gira la pagina per il mese seguente, si presenta un mondo diverso. Abbiamo davanti la foto di un vecchio ponte coperto immerso nella fioritura primaverile in qualche punto del New England. Stobel annuisce, indicando che riesce benissimo a vedere il calendario dal punto in cui è seduto. «Chi ha visto per primo l'annotazione con il nome del mio cliente? È stato lei o il suo collega?» Ci pensa su un attimo. «Credo di essere stato io.» «E allora ha richiamato l'attenzione del detective Jamison sull'appunto. Esatto?» «Esatto.» «Quindi entrambi avete letto l'annotazione?» «Sì.» «E lei l'ha segnato sul taccuino? Tra gli altri appunti relativi all'indagine?» «Sì.» «Perché pensava che fosse significativa?» «Obiezione. Si chiede al teste di esprimere un'opinione», dice Kline. «Respinta.» Stobel fa una smorfia. «Sì, pensavo fosse significativa.» «Ha preso nota di altri appunti segnati sul calendario?» Conosco già la risposta perché ho esaminato il suo taccuino. «No.» «Quindi, a suo giudizio, nessuna delle altre annotazioni che la vittima aveva fatto sul calendario era significativa per le vostre indagini?» «A mio giudizio, no.» «Ha letto tutte le annotazioni sul calendario relative a ogni mese?» «Le ho guardate.» «E, a suo parere, nessuna era significativa?» «Io non ci ho visto niente d'importante.» «Però l'appunto col nome del mio cliente lei l'ha considerato immediatamente significativo.» «Non so se è stato immediatamente», ribatte. «Be', ne ha preso nota mentre si trovava là, durante le indagini iniziali.» «Perché era uno degli appunti relativi al giorno dell'omicidio.» «Ah, dunque è solo perché il nome del mio cliente compare sul calenda-
rio sotto la data in questione che lei l'ha ritenuto significativo?» Con ciò il campo delle implicazioni si restringe. È un'ammissione che preferirebbe non fare, e così la riformula con parole sue. «Perché sulla base di questo appunto c'è la possibilità che l'imputato sia stato l'ultima persona a vederla», dice. «Ma questa è una congettura, no? In realtà lei non sa se il mio cliente sia stato nell'appartamento della vittima quel giorno, giusto?» «No.» «In realtà, le parole testuali dell'annotazione, scritte dalla vittima sul calendario, non dicono che lei aveva un appuntamento con il mio cliente, giusto?» «È un'interpretazione come un'altra», ammette. «Chiedo non venga messo a verbale perché non risponde alla domanda», dico. «La risposta del teste verrà cancellata. La giuria non ne tenga conto.» «In quell'annotazione non c'è la parola 'appuntamento', vero, detective Stobel?» «No.» «E cosa c'è scritto, esattamente? Legga lei per la giuria.» Questo è già stato fatto parecchie altre volte, ma voglio enfatizzarlo per dimostrare meglio il mio punto. «Acosta, quattro e trenta», dice. «Tutto lì? Non dice altro? Il nome Acosta e i numeri quattro e trenta?» «Sì.» «E l'altra annotazione relativa al giorno in questione?» gli chiedo. «Mi riferisco all'appunto che Kimberly doveva andare dalla nonna dopo la scuola. Quello non ha niente a che fare con il mio cliente, vero?» Anche se tecnicamente è una testimonianza indiretta, per qualche ragione Kline non solleva obiezione. «No.» «Ha pensato che quell'annotazione fosse significativa?» «Non esattamente.» «Perché no?» «Non c'era niente di insolito.» Mi volto verso di lui, spalancando gli occhi. «Lei non trova insolito che la vittima abbia segnato che la bambina doveva andare a casa della nonna il giorno dell'omicidio?» Mi guarda, non capisce dove voglio arrivare. «Non esattamente.»
«Nelle prime ore del mattino seguente l'omicidio, dove avete trovato Kimberly Hall, detective?» «Oh!» Adesso capisce. «L'abbiamo trovata in un ripostiglio dell'appartamento. Si era nascosta.» «E come mai non era a casa della nonna, come indicato dall'appunto?» Non ne è sicuro. «Forse la vittima è stata uccisa prima di poter accompagnare la bambina.» Come finisce di pronunciare queste parole, si rende conto di aver messo il piede in una fossa di serpenti. «A che ora è uscita da scuola la bambina?» Consulta i suoi appunti. «Alle due e quarantacinque.» «Quindi voi pensate che la vittima sia stata uccisa nel primo pomeriggio, intorno all'ora in cui chiudono le scuole?» «Non ho detto questo.» Sarebbe un'ora e quarantacinque minuti prima del presunto appuntamento con Acosta. Kline ha già i suoi problemi con l'ora della morte. Pare che una vicina abbia detto alla polizia di aver udito un solo urlo, tra le sette e mezzo e le otto di quella sera, provenire dall'appartamento della Hall. La donna testimonierà. Niente di tutto questo combina con un appuntamento alle quattro e mezzo con Acosta. «Perché la bambina non è stata accompagnata dalla nonna, come scritto sul calendario?» «Non lo so.» «Ma non l'ha trovato significativo?» «No.» La giuria ha afferrato il concetto. Un altro interrogativo cui l'accusa non sa dare risposta. «E la nonna non è venuta a controllare quando ha visto che la bambina non arrivava?» «La madre della vittima ci ha detto che non sapeva di dover tenere la bambina quella sera.» È un'altra testimonianza indiretta, ma Kline non solleva obiezioni. «Quindi lei ha supposto che la vittima non glielo abbia detto?» «Mi sembra una supposizione ragionevole.» «Parliamo un po' dell'appunto che riguarda Acosta, detective. Quando ha visto quell'annotazione sul calendario, lei sapeva che la vittima era una potenziale testimone dell'accusa in un altro procedimento a carico del mio cliente?» «Sì.» «Non è un po' insolito che un testimone a carico si incontri con la perso-
na contro la quale sta per testimoniare?» «Non saprei.» «Be', lei, in qualità di agente di polizia, incoraggia i testimoni di procedimenti penali a incontrarsi in privato con gli indiziati contro i quali testimonieranno?» «No.» «Però, quando ha visto l'annotazione sul calendario della vittima, ha immediatamente concluso che le parole 'Acosta, quattro e trenta' potessero significare una sola cosa, e cioè che la vittima e il mio cliente avessero un appuntamento.» «È quel che ho pensato.» «Non è possibile che l'annotazione si riferisca a qualcos'altro, a parte un appuntamento tra il signor Acosta e la signorina Hall?» «Obiezione. Si chiede un'opinione», dice Kline. «A me pare siano tutte opinioni», dico, rivolto alla corte. «Anche quando ha pensato che il mio cliente e la vittima si siano incontrati il giorno dell'omicidio.» «Respinta», dice Radovich. «Ha capito la domanda?» chiedo a Stobel. «No.» «Voglio dire, questa annotazione sul calendario non potrebbe riferirsi a un altro appuntamento, non necessariamente tra l'imputato e la vittima, ma piuttosto in relazione alla sua testimonianza contro l'imputato nell'altro procedimento?» «Non lo so.» «Ma lei non è in grado di affermare, oggi, che l'annotazione su quel calendario, una sola enigmatica parola, 'Acosta', seguita da quella che sembra un'ora, 'quattro e trenta', non significhi proprio questo.» «Obiezione. Si chiede un'opinione.» «Respinta.»» «Non è possibile che Brittany Hall avesse un appuntamento con qualcun altro, magari qualcuno del dipartimento di polizia, o dell'ufficio del procuratore, o con un avvocato che aveva assunto privatamente prima di testimoniare, per discutere appunto delle sue future dichiarazioni?» Mi guarda perplesso, ma non risponde. «Obiezione.» Kline ci riprova. «Respinta.» Stobel non vuole rispondere a questa domanda.
«Oggi, lei non è in grado di affermare con sicurezza che non è questo il significato di quell'appunto, giusto?» «No.» «Anzi, secondo la testimonianza che ci ha reso precedentemente, per cui lei non consiglierebbe a un testimone di incontrarsi in privato con un indiziato, non sarebbe più probabile che sia proprio questo il significato di quella frase, e cioè un appuntamento con una terza persona per discutere della deposizione, piuttosto che un incontro con l'imputato stesso?» «Obiezione. Sono tutte congetture», dice Kline. «Accolta per quanto riguarda le probabilità.» Radovich è disposto a concedermi un po' di spazio, ma non troppo. Ma il seme è stato gettato. Porto Stobel sull'abisso della mancanza di altre prove che colleghino Acosta al luogo del delitto. Ammette che non hanno trovato impronte digitali, né di Acosta, né di altri. Per lui la conclusione è che l'omicida abbia meticolosamente ripulito l'appartamento. «Per quanto riguarda invece le indagini nell'area circostante l'appartamento della vittima, avete trovato qualche testimone che affermi di aver visto il mio cliente all'interno o vicino all'appartamento, quel pomeriggio o quella sera?» «No.» «Dunque non avete né impronte digitali, né testimonianze di altri?» «No.» Questi sono i punti che avevo promesso di dimostrare nella mia dichiarazione preliminare. Evito di parlare dei testimoni nel vicolo in cui hanno trovato il corpo della Hall. Anche se Kline non ha concluso niente di concreto con la testimonianza del barbone che l'ha trovata nel cassonetto dei rifiuti, insistere su questo punto potrebbe portare a una di quelle domande che per il momento è meglio evitare. «Detective Stobel, tra gli oggetti che avete requisito, mi pare che abbiate trovato un'agendina telefonica appartenente alla vittima.» «Esatto.» «Ha esaminato quell'agendina?» «L'ho guardata.» Kline non l'ha fatta identificare, quindi chiedo al cancelliere di portarla in aula e di identificarla come «reperto della difesa numero uno». La porgo a Stobel. È un libriccino bordò come mille altri, che è possibile acquistare in una qualsiasi cartoleria. «È questa l'agendina che avete trovato nell'appartamento di Brittany
Hall?» La sfoglia e risponde: «Mi sembra di sì». «Ha esaminato la grafia che compare sull'agenda?» «Sì.» «E risultava essere quella della vittima?» Mi becco un'obiezione, visto che Stobel non è un esperto del ramo. Radovich la accoglie. Gli chiedo se le annotazioni sull'agendina sembrano, a suo giudizio, scritte con la stessa grafia dell'appunto sul calendario. Un'altra obiezione, ma questa volta Radovich conclude che un'osservazione, un confronto per valutare se due esemplari di qualcosa appaiono simili rientrano nell'ambito dell'intento proprio di un profano che non sia esperto nell'analisi della grafia. «Sembravano simili», dice Stobel. «Quindi, secondo lei, questa è l'agendina telefonica della vittima, con annotazioni scritte di suo pugno?» «Direi di sì.» «Ha notato qualcosa di particolare in questa agendina?» «Non capisco a cosa si riferisce.» «Mancavano delle pagine?» «Oh, sì, parecchie pagine.» «Ricorda quali?» Allora aveva preso un appunto e ora deve consultarlo per rinfrescarsi la memoria. Poi guarda nuovamente l'agendina, sfoglia alcune pagine e guarda la costa. «Mancavano le pagine corrispondenti a quattro lettere.» «Quattro pagine?» «Forse cinque», risponde. «Mancano le pagine per le lettere A, I, K e M. Ma pare che potessero esserci due pagine per la lettera M.» «Come sono state tolte?» «Sono state strappate. Sembrano essere venute via bene, proprio vicino alla rilegatura.» «Ha esaminato qualcuno dei numeri di telefono che compaiono sull'agendina?» «Li ho guardati.» «Ha considerato alcune tra le persone che compaiono sull'agenda come possibili indiziati?» «Obiezione. La domanda è generica riguardo al 'quando'.»
«Accolta.» «Detective Stobel, in un qualche momento delle sue indagini sull'omicidio di Brittany Hall ha considerato alcune delle persone il cui nome compare sull'agenda come possibili indiziati dell'omicidio?» «Non saprei.» «Be', è lei che si è occupato delle indagini, vero?» «Sì.» «Ha chiamato qualcuna delle persone che comparivano su quell'agenda in rapporto all'omicidio?» «Hmm.» Ci riflette per qualche secondo. «No.» «È andato a far visita a qualcuna di loro per interrogarla?» «No.» Ma poi rettifica. «Non credo. Abbiamo parlato con un sacco di persone, ed è possibile che sia successo.» «Ma non ha parlato con queste persone perché il loro nome compariva sull'agenda?» «No.» Di questo è sicuro. «Può dirmi, detective Stobel, quanti agenti di polizia compaiono su quell'agenda?» «Non lo so.» «Però lei ha riconosciuto i nomi di parecchi agenti, giusto?» «Sì.» «E conosce queste persone?» «Sì.» «Posso vederla per un momento?» Mi porge il libriccino. Sfoglio qualche pagina. «Chi è Carl Jenson?» «Un agente di polizia.» «Che reparto?» «Buoncostume.» Sfoglio qualche altra pagina. «Chi è Alex Turner?» «Un altro agente.» «Anche lui è assegnato alla buoncostume?» «L'ultima volta che l'ho visto, sì.» «Chi è Norman Jefferies?» «Un agente della buoncostume.» «E Howard Hoag?» Ho tenuto il migliore per ultimo. «Idem.» «Sa se questi agenti siano attualmente in servizio attivo presso il dipar-
timento di polizia di Capital City?» A questa domanda Kline lancia un ululato e si alza dalla sedia. «Obiezione. Chiedo il permesso di avvicinarmi», dice. Radovich ci fa un cenno con la mano. «Vostro onore, sta cercando di influenzare la giuria», dice Kline. «Sa benissimo che sono stati sospesi.» «Forse dovrebbe saperlo anche la giuria», ribatto. «Che attinenza ha col nostro caso?» chiede Kline. «Dimostra che il mio cliente è stato incastrato e che gli stessi agenti hanno tentato di nascondere prove artefatte nella casa del suo avvocato», rispondo. «Non c'è alcuna prova di questo», obietta Kline. «Sono stati sospesi dal servizio.» «In attesa di indagini», ribatte lui. «Parlate con me, non tra di voi», dice Radovich. «Sono io che prendo le decisioni, qui.» Kline cerca di convincerlo che la prova della sospensione è irrilevante, e che può mettere fuori strada la giuria. Ribatto che il comportamento indegno della polizia è proprio al centro del nostro caso. Salomonicamente, Radovich taglia il bambino a metà. «Può fare domande sulla sospensione, ma non sulle cause.» Ci allontaniamo dal bancone, ognuno con la propria metà. «Detective Stobel, può dire alla giuria se questi agenti - i cui nomi compaiono sull'agendina della vittima - sono attualmente in servizio attivo nel dipartimento di polizia?» «Sono stati sospesi in attesa di indagini.» Osservo le facce dei giurati. Questo ha un certo effetto su di loro: se non altro, ha suscitato la loro curiosità. Dal tavolo dell'accusa si leva un profondo sospiro. «E i nomi di tutti questi agenti compaiono sull'agendina telefonica della vittima, annotati con quella che sembra essere la sua scrittura?» «Pare di sì.» «Può dirmi chi è Zack Wiley?» chiedo. «Era un agente. È morto», risponde Stobel. «Era assegnato alla buoncostume?» «Sì.» «E come è morto?»
«Gli hanno sparato durante un blitz antidroga.» «E a quanto pare la vittima, Brittany Hall, conosceva pure lui.» «Obiezione. Si richiede un'opinione. Solo perché il suo nome compare sull'agendina.» «Accolta. Formuli diversamente la domanda», ordina Radovich. «Il nome di Zack Wiley, l'agente morto, compare sull'agenda telefonica della vittima, scritto di suo pugno, non è così?» «Sì.» «Quindi tutti questi agenti dovevano conoscersi tra loro, se lavoravano alla buoncostume?» «Immagino di sì.» «E la vittima, Brittany Hall, doveva conoscerli pure lei, visto che ogni tanto lavorava con la buoncostume come ausiliaria sotto copertura?» «Sì.» «Sa se ha mai frequentato qualcuno di questi agenti?» «Non lo so.» «Lei non l'ha mai chiesto durante le indagini?» «No.» «Perché no? Non sarebbe stata un'informazione pertinente?» «Non necessariamente.» «È possibile che Brittany Hall sia stata uccisa da un amante geloso?» «Non ci sono prove.» «Come fa a saperlo, se non l'avete chiesto?» «Non l'abbiamo chiesto perché sembrava inutile.» «Ma lei non sa se la vittima frequentasse qualcuno degli uomini il cui nome compare sull'agenda?» «No.» «Se la donna ne avesse frequentato qualcuno, lei avrebbe trovato la cosa rilevante?» «Obiezione. Si danno per scontati fatti non provati», dice Kline. Vuol mettere fine a questo interrogatorio il più presto possibile. «Accolta», dice Radovich. «Lei sa se sia in corso un'indagine sulla morte dell'agente Wiley, l'agente il cui nome compare sull'agenda?» «Desidero obiettare», tuona Kline. «Irrilevante.» «Non lo è se Brittany Hall sapeva qualcosa sulla morte di Wiley di cui altri non volevano che le autorità venissero a conoscenza.» Radovich solleva una mano per farmi smettere di parlare, e mi rivolge
uno sguardo severo. Poi ci fa segno di avvicinarci. Quando arrivo là, mi sta aspettando al varco, «Signor Madriani, gradirei che lei aspettasse a ribattere finché non avrò deciso se accogliere o respingere l'obiezione.» Il problema è che, a quel punto, potrei non essere più in grado di ribattere. «Chiedo scusa, vostro onore.» «Non lo faccia più.» «Voglio che dia istruzioni alla giuria di non tenere conto di questo», dice Kline. «Non c'è alcuna prova che lei sapesse qualcosa sull'accaduto.» Radovich mi guarda. «È in grado di provarlo?» «Conosceva alcuni tra gli agenti presenti quando Wiley è stato ucciso. I loro nomi compaiono sull'agendina.» «E con questo?» sbotta Kline. «Non c'è alcuna prova che lei sapesse qualcosa.» Radovich mi guarda aggrottando la fronte, in attesa di qualcos'altro. Visto che non arriva, accoglie l'obiezione. «Non voglio più sentire una parola sull'uccisione di Wiley, a meno che non ci siano prove che la colleghino al nostro caso», dice. «Sono stato chiaro?» Annuisco con aria afflitta e lui ci fa segno che possiamo andare. «La giuria non tenga conto dell'ultimo commento dell'avvocato della difesa», dice Radovich. «Ha qualche altra domanda per questo teste, avvocato?» Mi consulto brevemente con Harry e poi annuncio: «Penso di aver terminato». «Forse dovremmo fare una pausa», dice Radovich. Poi mi viene in mente. «Un'ultima domanda, vostro onore, se mi è concesso.» «Una sola», dice lui. «Detective Stobel, sa perché l'omicida di Brittany Hall ha spostato il corpo della signorina Hall dal suo appartamento al cassonetto di rifiuti nel vicolo?» «Pensiamo che si sia fatto prendere dal panico.» «Panico?» ripeto. «La gente che si fa prendere dal panico fa cose molto strane.» «Sì. Scappa, lascia in giro prove, talvolta si confida con un amico. Ma di solito non si porta via il cadavere, a meno che non ci sia un motivo.»
«È una domanda?» dice Radovich. «È così?» chiedo. La faccia di Stobel in questo momento riflette mille risposte, nessuna sufficientemente plausibile per essere tradotta in parole. «Non lo so», dice alla fine. «Grazie.» Proprio come pensavo. Nella loro tesi c'è un grosso buco, qualcosa cui non sanno dare una risposta. Se è stato Acosta a ucciderla, perché ha spostato il corpo? 21. «Ci sono due cose che mi preoccupano», gli dico. Due elementi imponderabili che fluttuano attorno al nostro caso come mine vaganti. Oggi Acosta e io pranziamo insieme, alla bell'e meglio, in una delle piccole camere di sicurezza nelle viscere del palazzo di giustizia. Sento la pioggia che batte sulle finestre, oltre la rete metallica e le sbarre di ferro. La porta che dà sulla stanza dei colloqui è ancora aperta. Ci stiamo sedendo. Armando è euforico, caricato dall'idea che, dopo mesi di preparativi, abbiamo finalmente cominciato a smantellare il loro castello accusatorio. Alza gli occhi dal sandwich - carne di manzo su pane di segale - che la mia segretaria ha preso per noi da un piccolo chiosco in strada, insieme a un contenitore di insalata di patate. «Dovrebbe provarla», mi dice. «È davvero ottima.» Indica l'insalata di patate, che ha già assaggiato col dito visto che nel sacchetto non c'è cucchiaio. «Credevo che le cose stessero andando bene», prosegue. «Qual è il problema?» Prima che possa rispondere, mi interrompe e dà un ordine a una delle guardie carcerarie, un uomo che conosce per nome. «Jerry, mi porterebbe una forchetta di plastica? Ah, anche una tazza di caffè.» Acosta tratta l'uomo come se fosse un cameriere in livrea bianca, chino sul nostro tavolo con un tovagliolo bianco piegato sul braccio. «E lei? Caffè?» mi chiede. «Sto bene così, grazie.» «Allora solo uno», dice alla guardia. Acosta ha passato la maggior parte della sua vita lavorativa in queste conigliere nascoste dietro le aule di tribunale. È cortese, ma tratta le guar-
die come tratterebbe i suoi uscieri. Li fa correre di qua e di là, a prendere questo e quello, li chiama per nome e sorride ogni volta. Stranamente, loro sembrano accettare questo atteggiamento. Non saprei dire se sia dettato dalla forza dell'abitudine o se derivi dall'istinto di sopravvivenza del dipendente statale, il dubbio che Nocedicocco se la possa cavare e torni in mezzo a loro in tutta la sua gloria. In ogni caso, Jerry ricompare con una forchetta e un caffè, poi si chiude la porta alle spalle e ci lascia soli. «Allora, qual è il problema?» chiede Acosta. «Non sono ancora riuscito a capire perché il killer abbia spostato il corpo», gli spiego. «Non ha alcun senso. Se fosse stata uccisa a casa di qualcun altro, lo capirei. Ma perché portarla via dal suo appartamento?» Scrolla la testa, ruminando in parte il sandwich, in parte l'enigma che gli ho appena sottoposto. Alla fine è costretto a convenire con me che non ha alcun senso. «Tanto più che l'assassino non ha fatto alcuno sforzo per ripulire le prove, a parte le impronte digitali», dice, «e il luogo del delitto non sembra particolarmente significativo. Comunque, è un problema loro, non nostro.» La mia paura è che possano trovare una risposta che danneggi il nostro caso, anche se non riesco a immaginare quale potrebbe essere. Glielo dico. «Amico mio, lei si preoccupa troppo», dice. «Quando è stata l'ultima volta che ha visto un atto di violenza che avesse un senso?» Acosta sembra optare per la versione della polizia, secondo la quale probabilmente l'assassino si è fatto prendere dal panico. «Io non porterei via il corpo con me», dico. «Forse saranno costretti a trovare una spiegazione migliore per la giuria. Comunque, non dipende né da me né da lei», conclude e prosegue a mangiare come se la cosa non lo riguardasse. «Ha detto che c'erano due cose. Qual è l'altro problema? È proprio sicuro di non volerne un po'?» Sta per attaccare l'insalata di patate. Scuoto la testa. «L'appunto con il suo nome sul calendario della Hall.» Scarto il mio sandwich e lo poso sul tavolo, appoggiandolo sopra la carta. «Hmm!» Continua a masticare e un po' di senape gli cola giù per il mento. La intercetta con un tovagliolino prima che raggiunga la cravatta. «Devo dire che la sua trattazione è stata magistrale», dice. Si pulisce ancora un po'. «L'interpretazione che lei si sia incontrata con altri riguardo al mio processo. Sicuramente è andata proprio così.» «Ho solo fornito alla giuria una teoria alternativa, ma non sono del tutto sicuro che sia la migliore.»
La mia illazione resta sospesa sul tavolo, più pungente dell'odore del cetriolo sottaceto infilato nel sandwich di Acosta. Smette di masticare e mi guarda con aria perplessa. «Pensa che non sia stato sincero?» chiede. «Che le stia nascondendo qualcosa?» «Semplicemente non voglio sorprese.» Solleva una mano col palmo in avanti. «Glielo giuro: non sono andato in quell'appartamento quel pomeriggio, né quella sera, né in nessun'altra occasione. Non sono mai stato là in vita mia», dice. «Glielo giuro sulla tomba di mia madre.» Così dicendo si posa una mano sul cuore. «E allora cosa pensa di quell'annotazione?» gli chiedo. «La stessa cosa che pensa lei. Probabilmente è un promemoria che la ragazza si era fatta per incontrarsi con qualcun altro. Non mi sembra così strano», dice. «In un caso simile è normale che il procuratore volesse parlare con lei. Io ero un pubblico ufficiale famoso. Certo, si trattava di un reato minore, ma era pur sempre un caso importante. La polizia doveva parlare con lei per accertarsi che fosse in grado di raccontare bene la sua storia. Specialmente considerando quello che è successo.» Batte sul tavolo per dare maggiore enfasi alle sue parole. Visto che non afferro subito quello che vuole dire, posa il sandwich. «Non dimentichi che io sono stato incastrato», mi dice. «Avranno avuto paura che si confondesse sul banco dei testimoni, che dicesse qualcosa di sbagliato. Una dichiarazione contraddittoria che sgonfiasse il caso avrebbe potuto risultare molto imbarazzante. Avrebbe potuto significare un'incriminazione per loro.» «Ma perché scrivere solo il suo nome?» «Forse era sua abitudine scrivere appunti sibillini sul calendario. Chi lo sa?» In realtà ho controllato il calendario della Hall, al giorno del suo incontro con Lenore nell'ufficio del procuratore, l'unica data in cui so per certo che aveva un appuntamento riguardante il caso. Aveva scritto un appunto, ma non diceva «Acosta»; riportava il nome di battesimo di Kline e indicava anche l'ora stabilita per l'incontro. C'erano parecchie altre annotazioni simili, tutte molto precise, comprese due con poliziotti della buoncostume. Sono molto felice che Kline non le abbia trovate e non se ne sia servito per smontare le mie argomentazioni davanti alla giuria. Ma resta comunque la domanda: perché, il giorno in cui è stata uccisa, ha usato il nome di Acosta?
Nel linguaggio corrente lo si definisce rantolo della morte. È uno di quei termini che con l'uso sono passati nel regno della fantasia, per cui molti non credono più che si tratti di un reale fenomeno biologico. Invece lo è. Gli esperti di medicina legale ci dicono che è il risultato di contrazioni involontarie della cavità faringea causate dall'aumento di acidità del sangue in seguito alla morte. Il rumore viene descritto come un forte latrato o come un urlo stridulo emesso dalla vittima qualche tempo dopo la morte. È proprio questo l'argomento di cui discutiamo oggi: l'ora del rantolo della morte di Brittany Hall. Sul banco dei testimoni siede il dottor Simon Angelo, il coroner della contea di Capital. È un uomo sui quarantacinque, piccoletto e calvo, con una frangetta di capelli grigiastri che gli circonda la testa come un anello di nuvole cui sia stata tosata la cima. Ha un volto stretto e spigoloso, lineamenti appuntiti, una fossetta sul mento e occhi scuri e infossati. Per tutti gli avvocati difensori della città, egli è il dottore del diavolo. Ora ci presenta, scolpita nella roccia, la spiegazione dell'accusa sul perché una teste, la vicina del piano superiore di Brittany Hall, abbia sentito la vittima urlare tra le sette e mezzo e le otto la sera in cui quest'ultima è stata uccisa. Per Kline era un problema. Aveva bisogno di ridurre il lasso di tempo tra il presunto appuntamento alle quattro e mezzo con Acosta e l'urlo udito dopo le sette e mezzo. Angelo è stato molto compiacente nell'aiutare l'accusa a evitare ogni lampante contraddizione a questo riguardo. La sua risposta è semplice: l'urlo udito a quell'ora era il rantolo della morte emesso da Brittany Hall. «Quindi, dottor Angelo, secondo la sua esperienza di medicina legale», dice Kline, «è plausibile che ci voglia un certo periodo di tempo perché il livello di acidità nel sangue aumenti a tal punto da produrre questo rumore, questo rantolo della morte, come lei lo definisce?» «È possibile», dice Angelo. «Anche se varia da caso a caso.» «Ma potrebbero volerci anche tre ore?» «Io direi due.» «Quindi, se l'assassino è arrivato nell'appartamento della vittima, diciamo, alle quattro e mezzo del pomeriggio, e i due hanno parlato, magari discusso, e, diciamo, intorno alle cinque e mezzo c'è stata una colluttazione in seguito alla quale la vittima ha subito un colpo mortale, è plausibile che il rantolo della morte possa non essere stato prodotto, diciamo, fino a dopo le sette e mezzo?»
«È possibile.» Kline rivolge la sua attenzione all'ora della morte, che secondo il dottor Angelo può essere fissata solo entro ampi limiti di tempo. «Ampi quanto?» chiede Kline. «Secondo la mia stima, la morte è avvenuta dopo le tre e mezzo del pomeriggio ma prima delle nove e mezzo.» «Non può essere più preciso?» «No. Sfortunatamente, durante questo intervallo di tempo non c'è stato alcun contatto a noi noto tra la vittima e qualche altra persona a parte l'assassino, quindi diventa molto difficile fare una stima più precisa.» Evidentemente per la piccola Kimberly il tempo è un concetto senza significato. Il fatto che la bambina non sia stata in grado di aiutarli a tale riguardo è emblematico di quanto poco siano riusciti a ottenere da lei. Parlano di metodi scientifici: umor vitreo, sondaggi al fegato per determinare la temperatura, esame del contenuto dello stomaco: tutte cose utili, ma non determinanti, a stabilire l'ora della morte. «Il fatto che il corpo sia stato trovato all'esterno, esposto agli agenti atmosferici e sia rimasto là per diverse ore durante le indagini preliminari, rende la stima ancora più difficile», dice il dottore. A questo punto Kline passa al pezzo forte di questa testimonianza, le fotografie scattate sul luogo del delitto e durante l'autopsia. Il loro numero è stato ridotto da oltre settanta a ventitré, la maggior parte delle quali si possono definire mortali anche solo per l'impatto che avranno sulla giuria. Abbiamo litigato per due giorni in privato su quali foto la giuria potesse vedere, e le uniche vittorie che ho ottenuto sono state quando sono riuscito a far escludere alcune immagini con la motivazione che erano ridondanti, prove aggiuntive che la corte non ha ammesso. «Dottor Angelo, desidero mostrarle una fotografia e chiederle se può identificarla.» Kline le ha numerate e ne ha dato una copia a noi e una al giudice. Un altro set è allineato su tre colonne su un cavalletto sistemato davanti al box della giuria; ogni foto è coperta da un foglio di carta che viene sollevato quando la singola foto viene presentata come prova. Angelo prende la foto dalle mani di Kline e la osserva per un attimo. «Sì, è la foto scattata su mia richiesta nel cassonetto dei rifiuti, per documentare l'ubicazione e la posizione in cui è stato trovato il corpo.» Quando è stato gettato nel cassonetto, il corpo senza vita della Hall si è scomposto in una posizione orribile. Si è piegato in due come una bambola di pezza, cosicché il volto e il sedere ora risultano rivolti verso la macchina
fotografica. Un'anca è sollevata da un mucchio di sacchetti di spazzatura. Tra le pieghe della coperta in cui è stata avvolta si intravede la sua figura parzialmente nuda. Kline passa alla foto seguente. Questa volta la coperta è stata tolta e si vede tutto il corpo tranne una porzione di testa, che è coperta da un asciugamano. Seguendo la stessa procedura, Kline chiede al dottore di identificare la fotografia, e va avanti così, con questo processo noioso, per più di due ore. In due occasioni il giudice è costretto a ordinare una breve pausa perché alcuni giurati non si sentono bene. Nel vedere la foto del cranio aperto in due, scattata durante l'autopsia, uno di loro quasi vomita oltre la balaustra come un turista colto dal mal di mare. Quando finalmente Kline conclude, quei pochi giurati che non si sentono male lanciano occhiate truci verso il nostro tavolo. Acosta non è più euforico com'era a mezzogiorno: sono gli alti e bassi di un processo. «Ha esaminato le ferite sulla testa della vittima, dottore?» «Sì.» «E ne ha tratto qualche conclusione riguardo alla causa della morte?» Per questo Angelo si affida a una serie di grandi fogli trasparenti sovrapponibili che mostrano un'immagine del cranio e che, sfogliati, rivelano la sottostante struttura del cervello. «A mio parere, la morte è stata causata da ripetuti colpi infetti da un corpo contundente sull'osso frontale del cranio, che hanno causato una grave frattura in questo punto.» Indica la parte del cranio che normalmente viene chiamata fronte, proprio sopra l'occhio sinistro. «Questo ha provocato una frattura introflessa delle dimensioni di circa sessantacinque millimetri che va dall'orbita oculare sinistra a un punto vicino alla linea mediana del cranio sopra l'attaccatura dei capelli.» Indica un punto nella parte alta della fronte. «Frammenti di osso, alcuni molto appuntiti, provenienti dalla frattura sono stati spinti nel lobo frontale del cervello, e i colpi successivi hanno causato gravi lacerazioni al tessuto cerebrale di quella zona. C'è stata una grave perdita di sangue e di notevoli quantità di liquido cerebrale. Questo dovrebbe aver portato a un edema generale del cervello e quindi alla morte.» «Dunque la morte non sarebbe stata istantanea.» «A mio parere, no, anche se la vittima ha perso conoscenza nell'attimo in cui ha ricevuto il colpo che le ha fratturato il cranio.» «Come può affermare che la morte non è stata istantanea, dottore?»
«Ho asportato dei campioni di tessuto cerebrale della vittima. Campioni della meninge, la protezione esterna del cervello, vicino alla ferita. Esaminandoli al microscopio, ho potuto rilevare la presenza di contusioni emorragiche nei tessuti. Questo indicherebbe che si è verificata un'emorragia nei tessuti dopo che sono state inferte le ferite iniziali.» «E da questo lei può affermare che la vittima era viva, almeno per un breve periodo, dopo aver subito le ferite iniziali?» «Esatto. Se la pressione sanguigna fosse scesa a zero con il colpo iniziale, perché il cuore aveva smesso di pompare, ci sarebbe stato un flusso sanguigno negativo e nessuna traccia di emorragia nei tessuti.» «Dottore, ha avuto occasione di visitare l'appartamento della vittima?» «Sì.» «E si è fatto un'idea dello strumento o degli strumenti che possono aver causato le ferite mortali?» «Dopo aver esaminato la scena del delitto non ho dubbi. Le ferite mortali sono state causate da ripetuti colpi inferti spingendo la testa della vittima contro lo spigolo aguzzo in metallo di un tavolino della stanza.» Kline fa portare in aula da due uscieri il tavolino dell'appartamento della Hall, e il dottor Angelo lo identifica. Il tavolino è in ferro battuto, patinato di verde lucido, con bordi in rilievo scolpiti a forma di foglie agli angoli come punte di lancia affilate. Per trasportarlo meglio hanno tolto il pesante ripiano di cristallo, che viene aggiunto in un secondo tempo. Kline chiede al dottore di mostrare alla giuria come sono stati inferti i colpi. A questo scopo Kline ha portato con sé una delle segretarie dell'ufficio, una donna che, per corporatura e colore di capelli, presenta un'incredibile somiglianza con la Hall. Evidentemente hanno già fatto alcune prove, poiché la donna sa esattamente dove piazzarsi in relazione al tavolo e le mosse appaiono ben coreografate. «L'aggressore dev'essere arrivato alle spalle della vittima, così», dice il dottor Angelo. «Ha messo le mani intorno al collo della vittima in questo modo.» Il dottore spinge i pollici contro la nuca della donna, afferrandola per la gola finché le punte delle dita non s'incontrano sul davanti vicino al pomo d'Adamo. «Abbiamo visto che le ferite da compressione sul collo della vittima corrispondono ai segni che sarebbero stati lasciati se qualcuno l'avesse afferrata con forza in questo modo», aggiunge. «Prima di procedere, dottore», lo interrompe Kline, «ha osservato un'a-
brasione sul lato sinistro del collo della vittima, nella zona dei segni da compressione?» «Sì.» «Ha un'idea di cosa possa aver causato questa abrasione?» «Dalla sua posizione sul collo, e dalla contusione nei tessuti, è chiaro che è stata causata prima della morte, e rientra nelle ferite provocate dall'aggressore quando ha afferrato la donna per la gola da dietro. A mio parere è stata probabilmente causata da un anello che questi portava all'anulare. Qui», dice Angelo, mostrando l'anulare della mano sinistra. La conclusione dell'accusa è chiara: l'assassino era un uomo sposato. Con la coda dell'occhio vedo qualcosa che mi fa rabbrividire. Senza pensare, Acosta fa scivolare la mano sinistra dal piano del tavolo e se la porta in grembo. È un gesto innocente, una reazione involontaria come uno sbadiglio. Ma, quando sollevo lo sguardo, almeno cinque membri della giuria - quelli rimasti a bocca aperta - hanno notato il gesto. In un processo sono questi dettagli che possono risultare più influenti delle prove materiali. «Può proseguire con la sua dimostrazione», dice Kline. Angelo dice alla ragazza di mettersi in ginocchio, la testa a meno di trenta centimetri dall'angolo del tavolino. Gli occhi dei giurati sono tutti puntati su di lei. «Dopo essere stata gettata a terra da dietro, pensiamo che la vittima sia caduta vicino al bordo del tavolino, più o meno in questa posizione», dice Angelo. «La testa si è trovata vicino allo spigolo appuntito. Così.» «Dovrebbe poi essere stata trascinata per quei pochi centimetri che la separavano dal tavolo. Abbiamo trovato alcune abrasioni da sfregamento sulle ginocchia che indicherebbero che è stata trascinata sulla moquette. Poi l'aggressore ha spinto la testa della vittima contro lo spigolo del tavolo.» Mima il gesto, ma si arresta prima di ogni colpo. La scena è simile a immagini che ho visto dei mari del Sud: isolani che sbucciano le noci di cocco contro un pezzo di bambù acuminato infilato nella sabbia. Tutto questo ha un effetto imbarazzante sui giurati, alcuni dei quali prendono appunti. «Grazie», dice Kline, chiedendo ad Angelo di tornare al banco. «Dottore, sulla base della sua esperienza professionale, si è fatto un'idea di quante volte la testa della vittima sia stata sbattuta contro il tavolo nel modo da lei mostrato qui in aula?» «Secondo l'esame del corpo, e anche dallo studio degli schizzi di sangue trovati, direi tra le otto e le dieci volte.»
«Potrebbe spiegare che cosa intende con studio degli schizzi di sangue?» «Spesso c'è una traccia creata dal sangue schizzato. Di solito è una scia a forma di arco, lanciata su un oggetto, tipo una parete o un soffitto. In genere è il risultato del sangue raccolto su un corpo contundente, per esempio un pezzo di tubo o un bastone. Come questo viene sollevato in preparazione di un altro colpo, il sangue sull'arma viene lanciato, diciamo, sul soffitto. Esaminando l'angolo dell'arco e il numero di archi, è possibile determinare il numero di colpi inferti, la probabile forza dei colpi stessi e la posizione dell'assalitore quando ogni singolo colpo è stato inferto.» «E lei può determinare tutto questo dal sangue trovato sul luogo del delitto a casa di Brittany Hall?» «Sì. C'era un arco ben definito di sangue spruzzato, in questo caso proveniente non da un corpo contundente, ma dalla testa della vittima mentre veniva sbattuta contro il tavolino. Abbiamo trovato anche tracce di schizzi successivi sulla parete del soggiorno e sulla moquette.» «Dunque, secondo lei, la vittima non ha battuto il capo durante una caduta accidentale?» «Assolutamente no.» Angelo si spinge oltre e afferma che l'assassino era destrorso, poiché i colpi sembravano provenire con maggiore forza dal lato destro dell'assalitore. «Ha un'idea, dottore, di quanto tempo possa essere stato necessario per infliggere queste particolari ferite alla vittima, dal primo colpo all'ultimo?» «È stata una questione di secondi. Meno di un minuto.» «Quindi, a suo parere, dev'essersi trattato di una cosa molto rapida?» «Sì.» «E le modalità della morte, così come lei ce le ha descritte qui, sarebbero compatibili col fatto che la vittima è stata colta di sorpresa?» «Sì.» «E sarebbero compatibili con l'ipotesi di un assalitore che aggredisce una vittima più piccola di lui?» «A mio parere sì.» Non c'è disaccordo su come la Hall sia morta. I nostri periti concordano con lo scenario ipotizzato da Angelo. Gli esperti della scientifica hanno trovato tracce di liquido cerebrale sul ripiano di cristallo. Il fatto che la Hall sia stata aggredita da dietro porta a due ipotesi: la prima, che sia stata colta di sorpresa da un assassino che lei non aspettava; la seconda, più probabile, che lei possa aver detto all'assassino qualcosa che lo ha fatto in-
furiare, forse un commento offensivo, mentre gli dava la schiena. Uno psicologo chiamato dall'accusa a testimoniare in precedenza ha dichiarato che le modalità del crimine dimostrano una notevole rabbia da parte dell'assassino. Ovviamente questo concorda con la loro teoria che Acosta abbia aggredito la Hall quando lei si è rifiutata di ritrattare l'accusa di istigazione alla prostituzione. L'accusa si sbarazza in fretta di qualsiasi dubbio di aggressione sessuale. Secondo Kline, non è stata trovata traccia di liquido seminale nel corpo della vittima o sulle sue mutandine, né tracce di trauma nella zona genitale. Quindi Kline passa all'ultimo punto in programma per Angelo. «Dottore», dice, «esaminando il corpo della vittima ha trovato qualche altra ferita che, a suo parere, fosse insolita o significativa?» «C'era una cosa», risponde il dottore. «Una piccola scheggia di vetro rimossa dalla pianta del piede della vittima.» «Era a piedi nudi quando si è ferita?» chiede Kline. «Sembrerebbe di sì.» «Lei è stato in grado di scoprire qualcosa su questo vetro?» «Sì. È vetro ottico, proveniente da un paio di occhiali da uomo trovati sul luogo del delitto. Il frammento combina perfettamente con un pezzo mancante della lente.» «E lei ha un'idea di come questo frammento si sia conficcato nel piede della vittima?» «Direi che la vittima ha calpestato gli occhiali durante la lotta con l'aggressore, rompendo la montatura e una lente; di conseguenza, il pezzo di vetro le si è conficcato nel piede.» «Per il momento abbiamo finito con questo teste», conclude Kline. Il primo argomento su cui Angelo e io ci accapigliamo sono gli occhiali da vista rotti trovati sulla scena del delitto. Harry e Acosta sono impegnati in una conversazione fatta di sussurri. Esiste il dubbio che l'accusa non ci abbia consegnato tutte le prove relative agli occhiali. Riprendo da dove Kline ha lasciato, contestando al dottor Angelo la sua ricostruzione degli eventi, lo scenario creato con l'aiuto della segretaria di Kline. Gli chiedo com'è possibile che gli occhiali dell'aggressore siano finiti sotto il piede nudo della Hall se lei è stata aggredita da dietro e spinta in avanti. Non sa dare una risposta a questa domanda e la evita dicendo che lui non ha affermato che gli occhiali appartenevano all'aggressore, anche se è chia-
ro che Kline voleva che la giuria arrivasse proprio a questa conclusione. Lascio perdere e proseguo. «È vero che non tutti, quando muoiono, emettono il rantolo della morte?» «È vero», risponde Angelo. «Esiste un test che si può condurre sul deceduto per determinare se a un certo punto, dopo la morte, ha emesso questo suono involontario dalla cavità faringea?» «No.» «Quindi lei non può affermare con sicurezza che Brittany Hall abbia in effetti emesso un rantolo della morte dopo le sette e mezzo o in qualche altro momento?» «Non con sicurezza.» «Non lo sa, giusto?» «No», ammette Angelo a denti stretti. «Non è possibile che il rumore che la vicina ha sentito quella sera provenire dall'appartamento, intorno alle sette e mezzo, fosse in effetti la vittima, Brittany Hall, che chiamava aiuto dopo essere stata aggredita?» «Obiezione, si chiede al teste di esprimere un'opinione.» «Accolta.» «Ma lei non può dire con sicurezza che fosse un rantolo della morte?» «Non con sicurezza.» «Ora, lei ha parlato delle ferite subite dalla vittima, e particolarmente di quel primo colpo alla testa, che, se non sbaglio, lei ha dichiarato avrebbe fatto perdere i sensi alla vittima. È corretto?» «Sì.» «Non è possibile, dottore, che se la vittima fosse stata colta di sorpresa dal primo colpo, e avesse perso i sensi, il suo assalitore non dovesse necessariamente essere molto più forte di lei?» Mi guarda perplesso, come se non mi seguisse. «Non è possibile che, dato il fattore sorpresa, l'aggressore in questo caso possa essere stato una donna?» Mentre pronuncio queste parole, non guardo il teste, ma Acosta, che improvvisamente solleva lo sguardo verso di me. È la prima volta che affronto l'argomento e sembra che abbia colto Nocedicocco di sorpresa. «È possibile», dice Angelo. Proseguo. «A suo parere, è possibile che la vittima abbia ripreso conoscenza dopo
il primo colpo?» «No, secondo me, no.» «E perché?» «I danni estesi al cranio, il cedimento totale dell'osso frontale e il conseguente trauma al lobo frontale del cervello sono tutti elementi che portano a una grave commozione cerebrale e a una immediata perdita di coscienza.» Faccio per proseguire, ma lui non ha ancora terminato. Visto che ho affrontato l'argomento, intende mettermi in riga. «Inoltre la perdita di liquido cerebrale e il sanguinamento dalla testa avrebbero causato uno shock ipovolemico e una notevole ipotensione. No, non può aver ripreso conoscenza, non senza un tempestivo e congruo intervento medico e, anche in questo caso, non sono sicuro che sarebbe stato possibile. Avrebbero potuto esserci gravi danni cerebrali permanenti.» «Ha finito?» Mi sorride, come per dire sì, a meno che non riesca a trovare qualcosa di più dannoso nei prossimi due secondi. «Quindi mi sembra di capire che, a suo parere, non è possibile che la vittima abbia potuto emettere volontariamente qualsiasi tipo di urlo dopo il primo colpo alla testa.» «Esatto, a parte il rantolo della morte», dice. «Cosa che, ci ha appena detto, lei non può dimostrare.» Il dottore accetta l'affermazione a denti stretti. «Non è possibile, dottore, che la vittima abbia lanciato un breve urlo nell'attimo in cui è stata assalita da dietro, poco prima di battere la testa?» «Obiezione. Si richiede un'opinione.» «Vostro onore, non sto chiedendo se la vittima abbia effettivamente urlato, sto chiedendo se, in base all'esperienza medica del teste, c'era qualcosa che le impedisse di farlo.» «Respinta», dice Radovich. «Può rispondere alla domanda», dico ad Angelo. Lui preferirebbe non farlo. «L'aggressore le teneva le mani intorno alla gola.» «Ha trovato danni alla laringe della vittima?» Conosco già la risposta dal rapporto autoptico. «No.» «C'erano danni alla cavità faringea che potessero impedirle di urlare un attimo prima che le venisse inflitta la ferita alla testa?»
«No.» «Quindi, dal punto di vista medico, è possibile che il rumore che la vicina ha udito intorno alle sette e mezzo fosse un urlo lanciato dalla vittima nel momento in cui veniva aggredita, giusto?» Angelo guarda Kline per un istante. «È possibile.» È questo il problema delle prove indiziarie: quasi sempre portano in più di una direzione. «Lei prima ha dichiarato che in seguito alle ferite della vittima c'è stata una notevole perdita di sangue. Esatto?» «Sì.» Angelo è passato alle risposte monosillabiche. «Lei ha visto l'appartamento della vittima, vero?» «Sì.» «E c'era molto sangue sulla moquette?» «Sì.» «E anche sulle pareti, gli schizzi di sangue di cui ci ha parlato prima?» «Sì.» «In un caso in cui c'è la presenza di così tanto sangue, se il corpo venisse spostato, diciamo, per mezzo di un veicolo, non ci si dovrebbe aspettare di trovare sangue, o per lo meno tracce di sangue, su quel veicolo?» «Non necessariamente», dice Angelo. «Se il cuore ha smesso di pompare, il flusso del sangue si arresta. Inoltre, se il corpo era avvolto, in questo caso in una coperta, si potrebbe anche non trovare sangue nel veicolo.» Mi sorride. La cosa non mi aiuta, e lui lo sa. I poliziotti non hanno trovato tracce di sangue sulla macchina di Acosta. «Però sulla coperta c'era sangue, giusto?» «Un po'.» «Lei ha esaminato la coperta, vero, dottore?» «Sì.» «E mi dica, non ha trovato sangue su entrambi i lati della coperta?» Per rispondere ha bisogno di controllare gli appunti. Mentre legge, trovo una delle foto che ritrae entrambi i lati della coperta. «Dottore, reperto 31 dell'accusa, già ammesso come prova», dico e indico la foto. «Non risulta evidente dalla fotografia che c'è sangue su entrambi i lati della coperta, quello a contatto col corpo di Brittany Hall e quello esterno?» Osserva la foto da lontano, aggiustandosi gli occhiali. «Sembra di sì.»
«E questo non proverebbe che c'era tanto sangue da filtrare oltre la coperta?» «Non necessariamente», risponde. «È possibile che il sangue sul lato esterno della coperta vi sia stato trasferito dalla moquette a contatto con il corpo, nel punto in cui l'assassino deve aver avvolto la vittima.» «Sta dicendo che si tratta esattamente di questo?» «Dal mio esame della coperta, credo sia andata proprio così. La coperta non era impregnata di sangue. Inoltre le tracce di sangue sulla parte esterna rivelano segni di trascinamento, come piccole pennellate», dice. «Credo siano state causate dalle fibre della moquette zuppe di sangue quando la coperta è stata trascinata su di esse nell'atto di avvolgere il corpo.» «Comunque, se c'era sangue sul lato esterno della coperta, non ci si dovrebbe aspettare di trovare tracce di quel sangue trasferite all'interno del veicolo, se la coperta con il corpo è stata caricata su quel veicolo?» «Ripeto, non necessariamente», dice Angelo. È come un cane che sta rosicchiando un osso e non intende mollarlo. Sa che la polizia non sarà mai in grado di spiegare l'assenza di sangue nella macchina di Acosta dopo aver visto le foto del vero e proprio lago di sangue nell'appartamento della Hall. «È possibile che il sangue sul lato esterno della coperta si sia asciugato prima che il corpo venisse caricato sul veicolo. Specialmente trattandosi di sangue trasferito dalla moquette, quindi solo un leggero strato sull'esterno del tessuto. Si sarebbe asciugato in fretta», conclude. «Quanto in fretta?» «Ci sono molte variabili. Una grossa pozza di sangue si dovrebbe asciugare in ventiquattr'ore. Ma una cosa del genere, una leggera patina di sangue trasferito, potrebbe asciugare nel giro di pochi minuti. Dipende dall'ambiente.» Si appoggia allo schienale della poltrona, soddisfatto di essere riuscito a schivare il colpo. «Ma la pozza di sangue, quella sulla moquette, quella dovrebbe metterci di più?» «Sì.» «Allora, dottore, forse lei potrebbe spiegarmi come sarebbe stato possibile per l'assassino avvolgere il corpo della vittima, trascinare la coperta su una pozza di sangue come lei ci ha descritto e al tempo stesso evitare di calpestare il sangue?» Dalla sua espressione capisco che ha afferrato il problema. Se Acosta ha avvolto il corpo e ha calpestato il sangue, perché non l'ha portato con le
scarpe a bordo della macchina? «Come ho già detto», dice, «il sangue potrebbe essersi coagulato.» «Quindi, dottore, secondo lei, l'assassino ha aspettato nell'appartamento finché la coperta e le sue scarpe non si sono asciugate?» «È una spiegazione.» Ma capisco dalla sua faccia che non è la sua preferita. «E può spiegare alla giuria perché, secondo lei, il corpo è stato spostato?» Angelo mi osserva, impietrito, come se non si fosse aspettato questa domanda. È la prima volta che lo vedo sorpreso. «Qual è la sua teoria su questo, dottore?» Kline cerca di venirgli in aiuto con un'obiezione, affermando che questo esula dalle conoscenze specifiche del teste. Radovich la respinge in quanto il teste si è già spinto troppo oltre nelle sue spiegazioni su come il corpo è stato spostato. «Può rispondere alla domanda, dottore», gli dico. «Secondo lei, perché il corpo è stato spostato?» «Non lo so con certezza.» «Non ha assolutamente nessuna spiegazione?» Il tono della mia voce la fa suonare come una cosa scandalosa. Angelo mi rivolge uno sguardo d'odio dal banco dei testimoni. «Non ha niente da suggerire?» insisto. Di fronte alla scelta tra non dare alcuna spiegazione e darne una che non ha senso, Angelo sceglie la strada sbagliata. «L'assassino può essersi fatto prendere dal panico.» La linea ufficiale dell'accusa. Come la parola «panico» gli esce dalle labbra, capisco che darebbe qualsiasi cosa pur di ritrattarla. Due giurati sopprimono un sorriso. L'immagine che richiama è tanto chiara quanto ridicola: un assassino in preda al panico, sul punto di spostare un corpo per motivi che nessuno riesce a spiegare plausibilmente, che se ne resta sul luogo del delitto, in mezzo a quella carneficina, ad aspettare tranquillamente che il sangue sulla coperta si asciughi. 22. Entriamo accompagnati da un quartetto di violini che dalla balconata sopra di noi suona un brano della Sinfonia dal Nuovo Mondo, il biglietto da
visita di Dvorak. Lenore è elegantissima nell'abito da sera nero attillato e senza maniche; ha scarpe di vernice con dieci centimetri di tacco. Con una mano tiene una borsetta di paillettes nera e con l'altra stringe forte la mia. Questa sera si è tirata su i capelli neri e setosi, che luccicano come le ali di un corvo e formano un magnifico contrasto con gli orecchini e il filo di perle splendenti come il bianco dei suoi occhi e del suo sorriso. Sopra il grande salone è sospeso un lampadario scintillante, sicuramente arrivato qui dal vecchio continente negli anni successivi alla corsa all'oro. Siamo qui, nella vecchia residenza del governatore ora trasformata in museo, con altri duecento invitati. Lo scopo è quello di farci pelare in nome della causa del giorno, che passa per una buona azione politica. Il governatore vuole diventare presidente. La sala è piena di politicanti, burattinai e lobbisti che trasudano untuosa amabilità. Ci sono più politici qui questa sera di quanti se ne possano contare nell'aula del Congresso in una normale seduta di lavori, tutti che cercano di arrampicarsi lungo il gambo della pianta di fagioli della politica per cenare con il gigante. I biglietti per questa cena di autofinanziamento organizzata dai repubblicani li ho avuti da un giudice, un amico che mira a un posto nella corte d'appello che gli può arrivare solo dal governatore. Ha comperato un tavolo e devo fare atto di presenza, anche se Lenore e io siamo qui sotto mentite spoglie. Lei è democratica e io sono un agnostico politico convinto. «Non ho mai visto così tanti repubblicani in un posto solo», dice Lenore. Osserva la scena con l'entusiasmo di un contadino davanti a un campo di grano invaso dalle erbacce. «È il colore del mese», le rispondo. In questa città è possibile organizzare una diversa raccolta di fondi ogni sera, e ogni volta mettere insieme il combustibile necessario ad alimentare il fuoco dell'ambizione di un personaggio politico diverso. «Sono a posto?» mi chiede. «Come se fossi a casa tua», le dico. È solo una piccolissima esagerazione. Non ammetterei mai con nessuno la scarica di adrenalina che il mio ego ha ricevuto mentre salivo la scalinata con questa donna al mio braccio. Almeno una decina di teste, uomini e donne, si sono voltate a guardare. Lenore attira quasi sempre gli sguardi, ma quando è in tiro come questa sera potrebbe anche fermare il traffico. «Pezzi grossi alla tua destra», mi sussurra a denti stretti. Lenore fa un
lieve cenno con la testa, e vedo il governatore e il suo entourage. Non è che sia colpita. Il suo interesse è più simile a quello che si potrebbe manifestare davanti al passaggio delle balene, il che mi fa pensare a cosa potrebbe fare se avesse in mano un arpione. Lenore sorride e fa un piccolo cenno col capo mentre passiamo davanti a un gruppo di persone. Forse è convinta che io le conosca. Quello di cui non si rende conto è che stanno tutti guardando lei. Poi stringe la mano a una donna avvocato di sua conoscenza. Lancio un'occhiata in direzione del governatore e del gruppetto che lo ha circondato. Con tanta gente che aspira a baciargli il culo, da un momento all'altro dovrebbe instaurarsi un'area di bassa pressione sulla città. In mezzo a tutte queste persone che gli sussurrano in entrambe le orecchie contemporaneamente, il governatore se ne sta con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, come un minatore che stia cercando una pepita finita in fondo alla tasca. «È una cosa che fanno tutti i repubblicani?» mi chiede. «Cosa?» «Toccarsi?» «Vorresti che te lo presentassi?» le chiedo. Lei scoppia a ridere. «Lo conosci?» «No.» «Cosa ci faccio qui con te?» «Sono l'unico dei tuoi amici che aveva un invito.» «È una cosa cui si può rimediare facilmente», mi dice, e molla la mia mano. Io lo chiamo prostituirsi. Lei lo chiama fare conoscenze. Girovaghiamo tra la folla radunata intorno a un lungo tavolo in sala da pranzo. C'è un'immensa scultura di ghiaccio contornata da antipasti, poi gamberi su un grande vassoio d'argento, e c'è un tizio che serve champagne di almeno dodici marche diverse. Sicuramente tutto questo è stato offerto per la causa dalla lobby dei produttori di vino e alcolici, un gesto per addolcire la disponibilità dei politici. Ci sono membri del senato dello Stato e dell'assemblea, e deputati che ho visto solo in televisione. Mentre gli passo vicino, sento un tizio che parla del capo dello staff presidenziale come se vivesse con lui. Vengono lasciate cadere più presunte conoscenze illustri qui che paracadutisti durante il D-Day, e viene sparsa tanta merda da concimare i Kew Gardens per die-
ci anni. Sbircio il tavolo attraverso un varco tra i corpi. «Caviale.» Faccio l'occhiolino a Lenore. «Te l'avevo detto che ne valeva la pena.» Lei arriccia il naso e poi dice qualcosa sul fatto di mangiare i non nati di altre specie. «Spero che tu sia munito di tasche di plastica.» «Sacchetti», le dico. «Sono più facili da organizzare.» Mentre cerco di insinuare una spalla nell'apertura per arrivare al vassoio dei cracker, vedo una massa di corpi che viene verso di noi, come polvere dietro un branco di cavalli. Può significare una cosa sola. Quando riemergo col mio cracker, con un po' di caviale che cola da un angolo, la faccia allegra del governatore sta lentamente venendo verso di me. Ha ancora le mani infilate in tasca e Lenore lo guarda con un sorriso ebete. Da qualche parte è riuscita a recuperare un bicchiere di champagne. L'afferro per il braccio e faccio per guidarla in un'altra direzione. «Non sapevo che foste sostenitori.» È una voce che ossessiona i miei sogni da una settimana, e pronuncia sempre lo stesso mantra: «obiezione». Mi volto e mi trovo di fronte Coleman Kline. «Ha riservato un tavolo?» Sta sondando il mio impegno per la causa. «Sono qui con amici», rispondo. «Questo lo vedo. Salve, Lenore.» Lei lo ignora. Sarebbe sgarbato, quasi un insulto, non stringere la mano che Kline mi porge. Lenore, invece, per la seconda volta in due settimane, si rifiuta di farlo. È diritto di una signora, e lei stringe la borsetta nera con entrambe le mani. «È una muraglia cinese molto interessante quella che avete eretto.» Kline è tutto sorrisi. «Dico a tutti e due.» Sento Lenore trasalire a queste parole. Senza dubbio Kline sospetta che tutte le informazioni che Lenore ha raccolto nel suo ufficio ora le stia passando a me nell'alcova. Kline tiene sottobraccio una donna, appena più vecchia di lui. «È un bene che Radovich abbia preso precauzioni per evitare qualsiasi indiscrezione», dice. «Vorrebbe forse passarmi un aspiratore nel cervello?» chiede Lenore. «Non sarebbe una brutta idea.» «Perché non ci presenta a sua madre?» chiede Lenore. Queste parole gli tolgono il sorriso dalle labbra.
«Questa è mia moglie Sandra», dice, lanciando a Lenore un'occhiata per niente cortese, anche se la signora Kline non sembra essere particolarmente risentita. Ho visto molte loro foto sulle rubriche mondane dei giornali. Per Sandra Kline questo è il secondo matrimonio. Rimasta vedova, ha ereditato una fortuna in piantagioni di mandorli e risaie a nord della città, lungo il fiume. Ora finanzia le ambizioni di Kline, e in questo non lesina. Si dice in giro che lui stia seriamente considerando l'ipotesi di presentarsi come candidato alla carica di procuratore generale dello Stato, l'anno prossimo. «Deve scusarmi», dice Lenore. «Alcune persone hanno difficoltà a ricordare i nomi, io non riesco a indovinare l'età.» Sandra Kline rivolge al marito uno sguardo implorante, come un civile inerme preso tra il fuoco di due eserciti nemici. La folla sta cominciando a stringersi intorno a noi, attirata dall'odore del sangue. «Questa è Lenore Goya», dice Kline. «Oh.» Da come Sandra Kline lo dice, è chiaro che hanno parlato di lei, e non in bene. «Da quanto tempo siete sposati?» chiede Lenore a Kline. «Due anni», risponde lui. «E le è piaciuto?» chiede Lenore, questa volta rivolta a Sandra. «Immensamente», risponde la donna. «E quanti anni è stata sposata con il suo precedente marito?» Lenore sta cercando di capire quanti anni ha, ma io le do un pizzicotto sul braccio. «Ahi! Mi hai fatto male.» «Scusa.» Un tizio si avvicina a Sandra Kline e le sussurra qualcosa all'orecchio. Sembra che sia in vista un'udienza con il governatore. «Vuole ringraziare il comitato organizzatore», dice l'uomo. «Se ha un momento...» «Perché non andiamo a prendere qualcosa da bere?» chiedo a Lenore. È una scusa per allontanarci prima che le cose si mettano veramente male. «Vorresti essere così gentile da prendere tu qualcosa per me e portarmelo?» ribatte lei. «Vorrei parlare con la signora Kline. Abbiamo così tante cose da dirci. E poi, sta per arrivare il governatore.» «Giusto. Allora stiamo qui», rispondo. «E lei chi è?» chiede Sandra. «Paul Madriani», rispondo. Kline si scusa per non avermi presentato.
«Signor Madriani, mio marito mi ha parlato molto di lei.» «Me lo posso immaginare.» Mi rassicura dicendomi che gliene ha parlato solo in bene, il che fa venire da chiedersi che cosa Kline abbia detto alla moglie a proposito di Lenore. «La considera un ottimo avvocato.» «Non è esattamente quello che ha detto al giudice ieri, in aula», si intromette Lenore. Sandra Kline fa una risata nervosa, incerta su cosa potrebbe uscire dalla bocca di Lenore la prossima volta. «Forse Paul dovrebbe chiamarla a testimoniare sul suo carattere», le dice Lenore. «Coleman ha detto che è un ottimo legale, e se non lo sa lui...» «Perché? Sta prendendo lezioni?» dice Lenore, e poi scoppia in una risata quasi isterica. Kline è di un verde che non vedevo più dal giorno in cui ho vomitato anche l'anima a bordo della barca di un amico. Ora circonda le spalle della moglie con un braccio. «È la mia più grande sostenitrice», dice. «Se solo potessi clonarla per farne dei giurati!» «Sarebbe proprio un bel colpo», fa Lenore. «E mi dica, cosa pensa suo marito di me?» chiede a Sandra, e le rivolge un sorriso svampito da dietro il bicchiere di champagne. Poi, mentre aspetta la risposta, allunga una mano, afferra un grosso gambero dal piatto e lo intinge nella ciotola di salsa cocktail. Sandra se la cava meglio di quanto ci si potrebbe aspettare, dimostrando tutti i suoi soldi e la sua classe. «Mi dispiace, ma ora devo proprio andare. Il governatore sta aspettando.» «Oh, lo porti qui», dice Lenore. «Mi farebbe tanto piacere conoscerlo.» Ci manca solo che faccia un mezzo inchino prima di allontanarsi. Se anche Kline non ce la farà in politica, lei ha un futuro nella diplomazia. Si allontana, accompagnata da percepibili sospiri di delusione, e sembra portare con sé metà della folla. «Dunque questa sera gli sta dando suggerimenti su come battermi?» Kline lo chiede a Lenore, ma sta guardando me. «Si sta perdendo un'occasione d'oro», gli dice Lenore. «Oppure spera di arrivare al culo del governatore sporgendo le labbra da qua?» Penso che i presenti, quelli che amano assistere alle risse, si siano allontanati troppo presto.
«Non è il luogo adatto», sibila Kline. Sono d'accordo con lui e cerco di portare Lenore verso la porta. «Speravo che ci fossimo lasciati tutto questo alle spalle quando lei è stata allontanata dal caso», le dice. «Davvero?» «Sì, ma è chiaro che lei non è in grado di condurre una discussione razionale.» «Non è né il luogo, né il momento adatto», dico, rivolto a tutti e due. «Capisco. Mi considera un'isterica», dice Lenore. «Se vuole.» «No, non voglio», dice lei e, tenendolo per la coda, agita il gambero come fosse una frusta contro lo sparato dello smoking di Kline, che improvvisamente si copre di salsa cocktail dalla fascia di seta al collo, come se qualcuno lo avesse cosparso di cacca di uccello. «Maledizione!» fa lui. «Desidera qualcosa per lavarlo via?» chiede lei. Arretra il braccio, come fosse una catapulta caricata a Dom Pérignon, ma io l'afferro per il polso. Lei mi rivolge uno sguardo implorante, come per dire: «Ancora una volta». Io scuoto la testa e finalmente lei cede. Kline è furioso e si sta pulendo lo sparato della camicia con un tovagliolo. «È una testa calda», dice. «Ora ricordo perché l'ho licenziata.» Uno dei suoi amici lo aiuta a togliere una macchia dai pantaloni. Kline continua a parlare. «Spero che questo comportamento non contagi anche noi», mi dice. «È importante che lei e io manteniamo un rapporto professionale, almeno sino alla fine del processo.» «Crede che qualcuno se ne accorgerebbe?» «Forse il suo cliente», risponde lui. «Suona come una minaccia.» «Non lo è», risponde. «Un procuratore ha il dovere di perseguire la giustizia. Non si tratta di vincere. Il mio compito è quello di accertare la verità.» «Detta da lei sembra quasi una parolaccia», dice Lenore. «In alcuni casi è più difficile che in altri», prosegue lui. «In questo caso è reso ancora più difficile dai presenti.» Prima che lei possa rispondere Kline fa per mettersi tra noi due. È chiaro che la mia relazione con Lenore gli sta creando qualche difficoltà. Fa un cenno con la mano a un cameriere che gira per la sala.
«Credo che la signora gradirebbe un drink», dice. «Acido idrocloridrico con una spruzzata di cianuro.» Il cameriere resta immobile in mezzo alla folla, un'espressione sul volto come se avesse perso un passaggio. È proprio questo che i clienti non riescono a capire: come possano, due avvocati impegnati in un combattimento all'ultimo sangue in un'aula di tribunale, mangiare caviale e bere champagne insieme, prendersi vicendevolmente per il culo e discutere delle loro rispettive abilità professionali, mentre il cliente marcisce in galera. Nel frattempo, Kline mi ha posato un braccio sulla spalla e mi sta allontanando dal gruppo, in modo che nessuno possa sentire le sue parole. «Mi dica, come pensa che stia andando il processo? Voglio un'opinione sincera», mi chiede. Sì, come se lo andassi a dire a lui. «Un'opinione sincera?» Annuisce. «Credo che vi stiamo facendo a pezzi.» «Be', se non altro è sincero», ammette. Nei suoi occhi passa un lampo divertito e poi prosegue, stronzata per stronzata. «Dunque crede che dovremmo archiviare il caso?» «Fossi in lei, lo farei domani stesso.» Scoppia a ridere. «Sa che le cose per voi si metteranno molto peggio», mi dice. «La vita è fatta così: non c'è limite al peggio. C'è qualcosa che dovrei sapere?» «Abbiamo cominciato con le armi leggere.» «Ah, il coroner e l'investigatore», dico. «Non me n'ero accorto.» «Be', le prove puntavano in quella direzione. Ma il colpo decisivo ve lo darà il movente.» «Ah, già, dimenticavo. Il mio cliente stava sudando sangue per l'accusa di istigazione alla prostituzione mossa dai Keystone Cops. A proposito, chi di loro ha dimenticato di accendere il microfono?» Ride. «Immagino che il suo cliente sia pronto a testimoniare, no? Per negare tutto.» Sta sondando il terreno. «Glielo farò sapere se e quando lo decideremo.» «Secondo lei come sarà, come testimone? Sinceramente.» «Esattamente così: sincero.» Sorride, anche se è rimasto a mani vuote. Non si aspettava di più. Ho l'impressione che queste siano solo chiacchiere inutili e che il bello debba
ancora venire. «Lei non crede davvero a questa faccenda della polizia, vero?» mi chiede. Gli rivolgo un'occhiata incredula. «Ma no! Phil Mendel è un angelo.» «Be', sul sindacato sono d'accordo con lei. Non sono un sostenitore dell'organizzazione sindacale.» Su questo non avevo dubbi. «Ma lei sta annaspando nel buio.» «È quello che spera lei.» Mi guarda perplesso. «Lei sa qualcosa che non ci ha detto?» Ha smesso di camminare e mi guarda diritto negli occhi. Vuole sapere cosa abbiamo in mente. «Se è così, dovrebbe dirmelo», insiste. «Potrebbe fare una grande differenza.» Già. Prenderebbe l'informazione, le metterebbe una punta come a una lancia e me la infilerebbe su per il sedere. Prima che possa rispondergli, si volta e lancia un'occhiata in direzione di Lenore. «Lenore sa qualcosa?» mi chiede. «So che è stata là, quella sera. C'erano le sue impronte sulla porta», dice. «Io non voglio metterla nei guai, anche se so che Lenore non ci crede. Ma lei, avvocato, dovrebbe. Se Lenore sa qualcosa...» Lascia la frase in sospeso e mi guarda con occhi spalancati, in attesa di una risposta. Visto che non arriva, riparte all'attacco. «Potremmo sistemare la cosa in privato», dice. «Non c'è bisogno di farle passare dei guai.» Per un attimo penso creda davvero che Lenore abbia qualcosa a che fare con la morte della Hall. «Lei vuole solo la verità», gli dico. «Solo la verità», ripete, e sembra sporgersi in avanti verso di me. Faccio una smorfia, ma non dico nulla. «Se sta nascondendo qualcosa...» prosegue e poi fa una breve pausa, come se stesse aspettando di capire se ho colto il senso delle sue parole, che per me sono indecifrabili. Dalla mia espressione capisce che non so assolutamente di cosa stia parlando. «Lenore non le ha detto niente?» Scuoto la testa. Sembra molto deluso.
«Potrebbe aver raccolto qualche informazione dalla Hall», dice. «Se Lenore sa qualcosa di cui noi non siamo al corrente, potrebbe essere che abbiamo fatto un errore.» Resto sbalordito da questa ammissione, come se qualcuno mi avesse surgelato il sangue. Mi metto a ridere, il meglio che posso fare per fingere di essere divertito. «Mi sta dicendo che avete fatto un errore? Che genere di errore?» gli chiedo. Torna a posarmi il braccio sulla spalla, stringendo forte, e riprendiamo a camminare. Si porta un dito davanti alle labbra e mi fa segno di parlar piano. Mi conduce verso un angolo ancora più lontano e isolato. «Non ho detto che abbiamo fatto un errore. Ho detto che è possibile fare un errore se non si conoscono tutti i fatti. Io devo sapere se ci sta nascondendo qualcosa.» Il mio cliente rischia la vita e il procuratore che lo sta processando, arrivato a metà processo, mi dice che forse ha fatto un errore. E io dovrei parlare piano. Mi fermo di scatto e mi volto, liberandomi dalla sua stretta. «Lei ha parlato con la Hall», gli dico. «Me lo dica lei cosa ha detto.» «Quello che ha sentito in aula», risponde. «Dal suo testimone Frost?» Annuisce. Rido. «È questo il problema», dice. «Forse la Hall era disposta a essere più sincera con una donna. Le parli», mi suggerisce, accennando con la testa in direzione di Lenore. «Se sa qualcosa, a lei lo dirà. Qualsiasi cosa lei pensi, non sto cercando una vittoria politica.» È la voce della sincerità. Potrei fidarmi di lui da qui alla coppa del punch. «Potremmo trovare un accordo», dice. «Lei parli con me.» Il tono con cui pronuncia le ultime parole è sincero, quasi implorante. Poi si volta e fa un cenno di saluto a Lenore, da distanza di sicurezza, oltre la gittata dei gamberi in salsa cocktail. Quindi, a grandi passi, va a raggiungere la moglie all'altro lato della sala. Solo nell'attimo in cui si allontana vengo colpito dall'enormità di questa rivelazione. Nel teorema Brittany Hall c'è un elemento mancante, qualcosa che lui intuisce ma che non sa, una tessera mancante necessaria a completare la teoria dell'accusa, e Kline è convinto che ce l'abbia Lenore.
23. Oggi Kline ricorre all'esperto della scientifica per ribadire il concetto che prima di essere uccisa la Hall non ha avuto rapporti sessuali, né consensuali né forzati. Per ragioni che ci sfuggono anticipa che la nostra difesa si baserà sulla teoria che la donna è stata uccisa da un amante. E vuole allontanare questa idea per accentrare l'attenzione su ciò che lui afferma essere il vero movente di questo crimine, la necessità di ridurre al silenzio un testimone scomodo. La presenza di Kline in aula sembra più forte, anche se lui sa benissimo che le prove presentate oggi sono troppo generiche - comuni peli e fibre per risultare schiaccianti. Ma è comunque una tessera che va ad aggiungersi alle altre del mosaico. Oggi ha chiamato a testimoniare Harold Stinegold, il maggior esperto in capelli e fibre, un funzionario del dipartimento di giustizia dello Stato. Qualsiasi cosa si possa infilare sotto il microscopio, probabilmente Stinegold l'ha già studiata. Dichiara che sotto le unghie della Hall non è stato trovato tessuto estraneo, e che l'esame della zona pubica della vittima ha confermato l'assenza di peli estranei, che invece avrebbero dovuto essere presenti se la vittima avesse avuto un rapporto sessuale. Stinegold è un uomo sulla sessantina, affabile e sicuro di sé. L'ho già interrogato in aula in diverse occasioni e l'ho sempre trovato estremamente prudente. Di solito non è da lui stiracchiare le prove. Kline fa un po' di scena e chiede a Stinegold di tirar fuori la coperta macchiata di sangue da un sacchetto per le prove, dopo aver tagliato il sigillo davanti alla giuria. Fa lo stesso con un secondo sacchetto, più piccolo, contenente peli, e con un terzo, che contiene le fibre. «Può parlarci di queste prove?» chiede Kline. «Di come sono state raccolte e analizzate?» «I peli e le fibre sono stati raccolti dalla superficie della coperta utilizzando il nastro adesivo, come si fa per togliere la lanugine agli abiti. Quindi sono stati trasferiti su un vetrino e analizzati al microscopio.» «Parliamo prima delle fibre», dice Kline. «Le ha confrontate con campioni raccolti da un'altra fonte?» «Sì, con le fibre della tappezzeria dell'auto che l'imputato aveva ricevuto in uso dalla contea.»
«E cosa ha scoperto?» «Prima ho controllato se esisteva corrispondenza di colore e diametro, e ho appurato che in effetti c'era.» «E poi?» «Poi ho proseguito con un'analisi più dettagliata», dice il teste, «alla ricerca di altre caratteristiche morfologiche.» «Che cosa intende con il termine morfologiche'?» «Forma e struttura», risponde Stinegold. «In particolare, ho cercato striature sulla superficie delle fibre o avvallamenti con particelle opacizzanti, specialmente biossido di titanio. Talvolta vengono aggiunte nel processo di produzione delle fibre sintetiche per ridurne la lucentezza.» «E cosa ha scoperto?» «Ho osservato la presenza di particelle opacizzanti simili sia sulle fibre provenienti dal veicolo dell'imputato sia sulle fibre prelevate dalla coperta utilizzata per avvolgere il corpo della vittima.» «Secondo lei questo è un metodo di comparazione significativo?» «Sì.» «E cos'ha fatto in seguito?» «Ho esaminato le fibre dal punto di vista del colore. Il colore può rivelarsi l'elemento più importante.» «Perché?» «Perché la maggior parte dei colori è composta da un insieme di tinte mescolate per ottenere la sfumatura desiderata. Trovare la stessa composizione di tinte è un fattore molto significativo. Sarebbe una caratteristica distintiva unica», dice Stinegold. «E questo test come viene fatto?» «Con l'aiuto di un microspettrofotometro.» Stinegold è costretto a ripetere la parola per la stenografa. «È una specie di microscopio che compara i colori delle fibre mediante gli spettri di emissione. Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, fibre diverse non solo hanno colori diversi, ma, sottoposte alla luce, la rifrangono su lunghezze d'onda diverse, che possono essere misurate con appropriate apparecchiature.» «E lei l'ha fatto?» «Sì.» «E cosa ha scoperto?»» «Che le fibre prelevate dal veicolo dell'imputato, la berlina assegnatagli in uso dalla contea, erano identiche per forma, colore e composizione alle
fibre trovate sulla coperta usata per avvolgere il corpo della vittima.» Kline si addentra nei particolari, e Stinegold spiega che ci sono cinque diversi tipi di nylon usati in questa produzione; uno di questi è noto col nome di «nylon 11». In questo caso è rifinito con un pigmento di colore blu intenso. Ci sono due punti di confronto - il tipo di nylon e il bagno della tinta - che secondo il testimone accomunano le fibre trovate sulla coperta a quelle trovate nell'auto di Acosta. «Lei, come esperto in materia, considererebbe questo confronto significativo?» Kline cerca di concludere. «Obiezione. Domanda vaga.» «Accolta. Riformuli la domanda», dice Radovich. Il punto è «quanto significativo». Kline compie un piccolo cerchio davanti al banco dei testimoni, riflettendo bene prima di riformulare la domanda. «Se lei esaminasse queste fibre di moquette e le comparasse con un altro campione preso a caso da un'altra moquette, si aspetterebbe di trovare una somiglianza pari a quella che ha trovato in questo caso?» Sollevo la stessa obiezione, ma questa volta Radovich la respinge. «No.» «Se le confrontasse con dieci altri campioni si aspetterebbe di trovare una somiglianza?» «No.» «E un centinaio?» «È improbabile.» «Un migliaio?» insiste Kline. «Forse per quanto riguarda il tipo di nylon», risponde Stinegold. «Ma il pigmento, e in particolare il bagno di colore, lo distinguerebbe. Io la definirei una caratteristica più significativa.» «Non ha risposto alla domanda», obietto. «Respinta.» «Quindi, a suo parere, questa è una caratteristica significativa.» «Sì. Unica per quel particolare bagno di colore. Il produttore prepara raramente, per non dire mai, due bagni che danno esattamente la stessa pigmentazione.» «Quindi questa sarebbe una caratteristica unica?» «Sì, direi di sì.» Poi Kline passa ai peli, che Stinegold identifica come peli di origine animale.
Entra nei dettagli di una miriade di distinzioni tra i peli umani e animali, tra cui la colorazione a bande che è distintiva del pelo animale, mentre quello umano è uniforme nella colorazione fino al follicolo. «Il midollo al centro del pelo umano è amorfo nell'aspetto e raramente rappresenta più di un terzo del totale dell'asta», dice Stinegold, «mentre negli animali è molto più grosso e può occupare addirittura quasi tutta l'asta. Inoltre, la superficie cuticolare esterna varia molto tra gli umani e gli animali, e la differenza è assai chiara.» «Quindi lei non ha alcun dubbio che i peli trovati sulla superficie della coperta usata per avvolgere il corpo di Brittany Hall siano di origine animale?» «Assolutamente nessun dubbio.» «È riuscito a determinare a che animale appartengono?» «Questo è stato più difficile», dice. «Ma, andando per eliminazione, alla fine sono riuscito a stabilire che i peli in questione erano di origine equina.» È evidente dall'espressione dei giurati che si aspettavano appartenessero a un gatto o a un cane. Kline sfrutta la cosa e si finge sorpreso, rivolgendo al teste una domanda silenziosa con il semplice inarcare delle sopracciglia. «Peli di cavallo», ripete Stinegold. «Probabilmente caduti durante la muta. Ce n'era una notevole quantità.» «Ha idea di come questi peli siano arrivati a depositarsi sulla coperta?» «Probabilmente vi sono stati depositati grazie a un trasferimento secondario.» Spinto da Kline, il teste si spiega meglio. «A grandi linee, significa che la coperta non è venuta a contatto con un cavallo. È invece probabile che qualcuno abbia ricevuto i peli sui propri abiti e poi li abbia trasferiti alla coperta, o forse in casa propria, dove si sono sparpagliati su altri oggetti, quali mobili o letti. La coperta avrebbe potuto raccogliere i peli lì, oppure è possibile che l'assassino li abbia presi sui propri vestiti e, sfregando la coperta contro di essi mentre avvolgeva il corpo, possa aver trasferito i peli sulla superficie della coperta.» Questo è un meccanismo che l'accusa deve assolutamente dimostrare, perché sa che Acosta non si è mai avvicinato a una stalla. Qui entra in gioco Lili. È particolarmente preoccupata da questo fatto e, mentre la traccia dei peli si sviluppa, la vedo ritrarsi fisicamente, seduta nella prima fila destinata al pubblico, separata dal marito solo dalla balaustra. Mi rivolge un'espressione contrita.
«E questo trasferimento secondario è possibile?» «Oh, sì. Quel genere di peli... nella quantità di cui sto parlando... quando un cavallo è nel periodo della muta, è particolarmente penetrante. Sarebbe impossibile non portarlo in casa propria. Anche se ci si spazzolasse accuratamente, sono sicuro che se ne potrebbero trovare tracce significative nel luogo in cui si vive.» «Anche se la persona si cambiasse d'abito dopo essere montata a cavallo o aver lasciato la stalla?» chiede Kline. «È possibile», risponde Stinegold. «È probabile che ne possa avere un po' tra i capelli, o su qualche altra superficie ruvida del corpo. È molto difficile sbarazzarsene.» «Questo ci porta alla prossima domanda», prosegue Kline. «Ha trovato altrove tracce di peli di cavallo che corrispondevano ai peli prelevati dalla coperta utilizzata per avvolgere il corpo della signorina Hall?» «Sì.» «E dove li ha trovati?» «In tre luoghi diversi», risponde il teste. «Nell'appartamento della vittima, Brittany Hall. A casa dell'imputato, Armando Acosta. E nel bagagliaio del veicolo che l'imputato ha avuto in uso dalla contea, e anche nell'abitacolo dello stesso.» Kline sfrutta al massimo questa affermazione, lasciando trascorrere un momento di silenzio per sottolineare l'importanza di questa scoperta, prima di anticipare il nostro attacco. Porta Stinegold a spiegare che i peli provenivano da una stalla frequentata dalla moglie dell'imputato, e che è possibile si siano attaccati agli abiti dell'imputato. Poi ammette che i peli non sono un elemento di prova da ritenersi conclusivo per quanto riguarda la provenienza - non come le impronte digitali -, in quanto non possono essere ricondotti a un cavallo specifico. «Comunque», procede Kline, «secondo la sua esperienza e le sue conoscenze scientifiche, è stato in grado di giungere a qualche conclusione riguardo ai peli trovati sulla coperta in questione, e a quelli trovati nell'abitazione e nel veicolo dell'imputato?» «Secondo la mia opinione professionale», risponde Stinegold, «i campioni di peli presi dalla coperta combinano in tutte le loro caratteristiche microscopiche - colore, consistenza, superficie strutturale e spessore - con i campioni di peli prelevati da vari oggetti di arredamento e dalla moquette dell'abitazione e del veicolo dell'imputato.» «Secondo la sua opinione professionale sono gli stessi?»
«Secondo la mia opinione professionale, sì.» Peli e fibre possono anche non essere elementi probatori conclusivi come le impronte digitali, ma in questo momento sembrano produrre nella giuria uno spostamento quantico quasi palpabile. È una cosa che si apprende con l'esperienza in aula: la percezione che, se vuoi sopravvivere, alcune particolari prove richiedono una reazione. Ci sono parecchi elementi probatori che non risultano favorevoli all'accusa, e Kline ha fatto l'errore di ignorarli, così nel controinterrogatorio inizio proprio da quelli. Il primo è il rapporto metallurgico. «Signor Stinegold, non ha trovato tracce microscopiche di metallo prezioso sul bordo del tavolino nell'appartamento di Brittany Hall, vicino al punto d'impatto della testa della vittima?» «Sì, ce n'erano alcune.» «Perché non ne ha parlato durante l'interrogatorio da parte del signor Kline?» «Non me l'ha chiesto.» «Bene. Allora sarà meglio che glielo chieda io ora. Erano significative?» Se risponde sì, accentua il fatto di aver evitato l'argomento durante l'interrogatorio, e così Stinegold risponde: «No». «Secondo lei, queste tracce non erano significative?» «No.» «Perché no?» «Le abbiamo esaminate e abbiamo concluso che erano probabilmente vecchie. Potevano essere state lasciate sul tavolino mesi prima dell'omicidio.» Poi si lascia andare a qualche commento stupido sul fatto che c'era sangue sulle tracce di metallo ma, non appena insisto sull'argomento, lui lascia perdere. «Può dire alla giuria di che cosa erano composte queste tracce di metallo?» «Erano tracce di oro a ventiquattro carati, con alcuni metalli meno preziosi.» «È possibile che provenissero da un gioiello?» «È possibile.» «Ma lei non le considera significative?» «No.» «Allora può spiegare alla giuria perché ha esaminato tutti i gioielli d'oro appartenenti al mio cliente?» «Per scrupolo.»
«Per scrupolo?» ripeto. «Esatto.» «E sempre per scrupolo ha prelevato piccoli campioni dai gioielli del mio cliente per confrontarli con le tracce rinvenute sul tavolino?» «Quelli che abbiamo trovato», risponde lui con aria imbronciata. «Chiedo che la risposta venga cancellata dal verbale. Stinegold vorrebbe far credere alla giuria che Acosta si sia sbarazzato del gioiello incriminato, fatto di cui non esiste alcuna prova.» Radovich accoglie la mia mozione. «Ha o non ha prelevato alcuni microscopici campioni da tutti i gioielli del mio cliente per confrontarli con le tracce trovate sul tavolino?» «Sì, l'ho fatto.» «E ha sottoposto questi campioni a un'analisi metallurgica?» «Sì.» «E ha scoperto che il metallo prezioso rinvenuto sul tavolino corrispondeva a qualcuno dei campioni prelevati dai gioielli del mio cliente?» «No.» «Non corrispondeva?» Mi volto verso la giuria con un'espressione stupita. «No.» «Oh. Posso dedurne che se lei avesse trovato una corrispondenza ne avremmo sentito parlare durante l'interrogatorio dell'accusa?» «Obiezione. Si chiede un'opinione.» I giurati non la pensano così. Si stanno chiedendo perché Kline abbia tenuto nascosto questo fatto. Uno a zero per noi, fesso. «Riformuli la domanda», dice Radovich. «Volentieri, vostro onore. Signor Stinegold, non è vero che, nella sua mente, queste tracce di metallo non erano affatto vecchie e insignificanti finché lei non ha appurato che non corrispondevano ai campioni prelevati dai gioielli del signor Acosta?» «Non è così», risponde. «Però lei non ha un solo elemento scientifico per affermare che queste tracce sul tavolino erano vecchie.» «Siamo convinti che lo fossero», dice. «Cos'è, una professione di fede?» gli chiedo. «Obiezione, sta tormentando il teste!» esclama Kline. Lo ignoro. «Le ho chiesto se aveva un elemento scientifico. Ce l'aveva?» «No.»
«Grazie. Quindi, basandosi solo sulle prove concrete, su ciò che sappiamo di queste tracce di metallo, sul fatto che sono state trovate vicino al punto d'impatto della testa della vittima, e che non corrispondono ad alcuno dei gioielli appartenenti all'imputato, secondo la sua opinione professionale non costituirebbero una prova che potrebbe essere vista come elemento scagionante del mio cliente? Un elemento che indica che egli non è colpevole?» «Obiezione. Spetta alla giuria deciderlo», dice Kline. «Accolta», dice Radovich. «Credo che lei abbia spiegato a sufficienza il suo punto di vista», aggiunge. Passo al gioco dei numeri, le fibre di moquette che si presume provengano dalla macchina di Acosta. Interrogo Stinegold sui bagni di colore e gli chiedo se sa dirci quanti veicoli della General Motors prodotti quello stesso anno possano presentare la stessa moquette prodotta dallo stesso fornitore. Non ne ha idea, e quando gli chiedo se resterebbe sorpreso se gli dicessi che si parla di varie migliaia, è costretto ad ammettere che è possibile. «Però, non tutti quei veicoli presenterebbero la moquette dello stesso colore o dello stesso bagno», aggiunge, e guarda verso Kline con aria soddisfatta. Insisto sul parco macchine della contea, sul fatto che le macchine vengono acquistate in lotti, parecchie unità tutte insieme e dallo stesso produttore, e che quindi possono uscire dalla catena di montaggio una dopo l'altra. «Supponendo che sia così», dico, «è possibile che veicoli con moquette dello stesso colore, prodotta dallo stesso bagno, possano trovarsi in quel lotto?» Stinegold non è più tanto soddisfatto. «È possibile.» «Resterebbe sorpreso se le dicessi che documenti della contea indicano che nove veicoli sono stati acquistati dallo stesso produttore, tutti nello stesso anno della macchina data in uso all'imputato, e che sette di questi sono stati prodotti nello stesso stabilimento, e hanno la moquette dello stesso colore?» Non mi risponde. «Lo sapeva?» gli chiedo. «No», risponde lui. Ci siamo dati un gran da fare, io e il curatore, un avvocato ex procuratore incaricato dalla corte di prendere in consegna le prove raccolte dai nostri
esperti. Siamo riusciti a rintracciare questi veicoli e a raccogliere campioni di fibre di moquette. Questo apre uno spiraglio. Passo ai cavalli. «Allora l'avete trovato?» gli chiedo. «Trovato cosa?» «Il cavallo che ha perso il pelo.» Si mette a ridere. «No.» «L'avete cercato?» «No.» «Perché no?» «Non ne abbiamo visto la necessità», risponde. «Avevamo i peli nell'abitazione e nel veicolo dell'imputato. E poi, come ho già detto, non sarebbe possibile attribuire il pelo a un cavallo in particolare.» «Avete controllato qualcuna tra le altre persone che frequentano quel maneggio per vedere se c'erano peli simili nelle loro abitazioni o sulle loro macchine?» «No.» «Perché no?» L'espediente dell'avvocato difensore: sfruttare tutto ciò che l'accusa ha tralasciato. «Come le ho detto, non ne vedevamo la necessità.» «Non sarebbe stato interessante appurare a quanti cavalli di quel particolare maneggio si poteva risalire sulla base dei peli rinvenuti su quella coperta?» «Non particolarmente.» «Signor Stinegold, non è vero che il pelo di un cavallo, tranne che per il colore e per qualche specie esotica che presenta caratteristiche strutturali uniche, è molto simile a quello di un altro?» «Il colore sarebbe un elemento di differenziazione», dice. Si attacca a questo. «Sa di che colore era il cavallo che ha perso i peli rinvenuti sulla coperta?» «Marrone. Quello che viene comunemente definito sauro.» «Un colore molto comune tra i cavalli, vero?» «Obiezione. Il teste non è un esperto di cavalli.» «Di cavalli no, ma di quello che lasciano in giro sì», ribatto. «Cosa vorrebbe dire?» dice Kline. Dalla giuria si leva qualche risatina. «Peli di cavallo», rispondo. «Cos'altro aveva in mente?»
A Kline non rimane altro che guardare i giurati che ridacchiano. Radovich mi invita a concludere. «Signor Stinegold, non è di dominio pubblico che il sauro non è affatto un colore raro tra i cavalli?» «Obiezione», dice Kline. «Respinta. Il teste può rispondere alla domanda.» «Non è raro», ammette Stinegold. «In realtà, se oggi andassimo a visitare tutti i maneggi della contea, non è probabile che il marrone sia il colore predominante che troveremmo?» «È possibile.» È più che possibile, tuttavia accetto la concessione. «E se raccogliessimo campioni di pelo da tutti quei cavalli marroni e li dessimo a lei perché li esaminasse al microscopio, sarebbe in grado di dirci a quale di quei cavalli appartengono i peli rinvenuti sulla coperta?» Sorride. Ho raggiunto il mio scopo. «Probabilmente no.» «Perché il pelo dei cavalli sauri non è poi così singolare, no?» «No.» «Gli altri elementi sui quali lei ha deposto, la consistenza, la struttura superficiale e lo spessore, sono molto simili tra un cavallo sauro e l'altro, giusto?» «Probabilmente sì.» «Quindi i peli trovati sulla coperta avrebbero potuto provenire da qualsiasi cavallo sauro?» «Avrebbero potuto essere simili.» «Tanto simili che lei potrebbe avere difficoltà a distinguerli l'uno dall'altro?» «Forse.» «Perché la giuria capisca meglio, non c'è modo che lei possa sostenere che i peli di cavallo trovati a casa dell'imputato o a bordo della sua auto e quelli trovati sulla coperta sono identici; può solo affermare che sono simili, giusto?» «Sì.» «Signor Stinegold, conosce il concetto di trasferimento applicato allo studio delle tracce?» «Sì.» «Può spiegare questo concetto alla giuria?» Mi guarda come se ciò non aiutasse affatto la nostra teoria e io mi stessi scavando la fossa da solo. Quindi si rivolge alla giuria. «Il trasferimento è la teoria secondo la quale tracce microscopiche su un
oggetto in movimento, a parità di condizioni, si possano trasferire in tutto o in parte a un altro oggetto con cui il primo viene a contatto.» «Un po' come quando un'ape impollina una pianta?» suggerisco. «È un buon esempio.» «Quindi, se io mi fregassi contro di lei, ci si potrebbe aspettare che fibre dei miei abiti restassero sui suoi e viceversa?» «Premesse le differenze tra i tessuti», dice. «Alcuni potrebbero non lasciare alcuna traccia.» «Ovviamente. Ma, supponendo che la lascino, lei si aspetterebbe di trovare un trasferimento di fibre, una specie di impollinazione incrociata?» Ci riflette, ma sta già annuendo. «Sì.» «E crede sia questo il modo in cui i peli in questione sono venuti a trovarsi sull'auto dell'imputato?» «Sì.» «E nell'appartamento della vittima?» «Esatto.» «E sulla coperta usata per avvolgere il corpo?» «Sì.» «E ha trovato altro sulla coperta?» «Qualche altra fibra, frammenti di legno, microscopici residui di rifiuti del cassonetto dove il corpo è stato rinvenuto.» «Ma, secondo lei, le uniche sostanze di un qualche interesse sono le fibre di moquette e i peli di cavallo?» «A mio parere, sì.» «C'erano molti peli sulla coperta?» chiedo. «Abbastanza.» «Vostro onore, vorrei che il teste ci dimostrasse il trasferimento di peli sulla coperta», dico. Kline è contrario. Ho tagliato parecchi pezzi di moquette di nylon e lui obietta che potrebbero non essere uguali a quelli della macchina di Acosta. «Sono abbastanza simili per una dimostrazione», ribatto. «Non chiederemo al teste di comparare i campioni di peli e di fibre.» «Con questa clausola, la dimostrazione è ammessa», decide Radovich. Porgo un pezzo di moquette a Stinegold. A questo scopo ho raccolto anche alcuni peli di cavallo, che ora sono in una piccola busta, e porgo anche questi al teste. «I peli sono di colore nero», spiego, rivolto alla corte. «Dovrebbero es-
sere facilmente distinguibili da quelli trovati sulla coperta.» Stinegold li osserva e conferma. Sparge un po' di peli sulla moquette e li sfrega con la mano. Chiedo al cancelliere di andare a prendere la coperta dal tavolo delle prove e gliela porgo. È color lilla. Stinegold l'appallottola sulla balaustra di fronte a sé, ma una parte pende giù e arriva a toccare per terra. Prende un angolo della coperta e lo sfrega energicamente contro la moquette, come si farebbe con una spazzola. Poi appoggia la moquette a faccia in giù sulla balaustra ed esamina la coperta. «Ecco fatto», conclude. Stinegold mi porge la coperta con espressione vittoriosa perché la veda. La zona che ha sfregato è coperta di peli neri. «Se ha del nastro adesivo, le faccio vedere anche come abbiamo raccolto i campioni», mi dice. «Non è necessario», rispondo. Prendo la coperta e il pezzo di moquette posato sulla balaustra. Kline è seduto al suo tavolo e mi guarda con un sorriso compiaciuto. Mi allontano di qualche passo dal banco dei testimoni, tenendo la coperta in una mano e il pezzo di moquette nell'altra. Poi mi fermo e mi volto nuovamente verso il teste. Ho già guardato, e quindi so che c'è. Mostro a Stinegold il piccolo ritaglio di moquette. «E questo che cos'è?» gli chiedo. Stinegold fissa il pezzo di moquette e trasale. Sul piccolo campione di moquette ci sono una decina di palline formate da fibre della coperta lilla raccolte dalle setole ruvide. «Signor Stinegold, quando lei ha esaminato il veicolo del mio cliente, ha trovato traccia di fibre della coperta nel bagagliaio o nell'abitacolo?» È una domanda di cui conosco già la risposta, perché ho letto il suo rapporto. Non sono sorpresi. Fin dall'inizio hanno sempre saputo che questo era un punto dolente per la loro teoria. Ma il modo in cui l'ho presentato fa sembrare che Stinegold l'abbia tenuto nascosto alla giuria. Mille e un modo per fare una cattiva impressione. «Signor Stinegold, ha trovato...?» «No.» È l'ultimo elemento che offre alla giuria, insieme a un'espressione mesta che vale mille parole. 24. Hanno scoperto Oscar Nichols.
«Come diavolo hanno fatto?» esclama Acosta. Siamo nel carcere della contea, Harry, Acosta e io. Nocedicocco siede dall'altra parte della spessa lastra di vetro e ci parla attraverso il microfono inserito nel divisorio. In questo momento ce ne stiamo attoniti a riflettere sulla catastrofe che questo teste potrebbe rappresentare per il nostro caso. «Come hanno fatto a trovarlo?» Acosta ha l'aria stanca, colpa dello stress causato da ogni nuova testimonianza, da ogni nuova rivelazione, dagli alti del nostro caso e dai bassi che certamente verranno. «Si è fatto avanti lui», gli dico. «Di sua spontanea volontà.» L'idea che un uomo che egli credeva un amico abbia fatto una cosa simile sembra dargli ancora più fastidio delle conseguenze che il fatto in sé può avere. Abbiamo avuto sentore della cosa quando l'accusa ha presentato una mozione per chiamare a testimoniare Nichols. Le dichiarazioni giurate allegate alla mozione rivelano che Nichols ha chiamato l'ufficio di Kline tre giorni fa, dicendo che aveva informazioni su presunte ammissioni fattegli dall'imputato. Pare che, nonostante i danni fatti alla tesi di Kline - l'aver smontato l'importanza dei peli e delle fibre e messo in luce la circostanza che egli ha evitato di parlare delle tracce di oro sul tavolino -, Nichols si sia sentito roso fin dall'inizio da un unico, angosciante pensiero: che il suo vecchio amico potesse essere colpevole di omicidio. La cosa che più ci preoccupa è il tempismo. Kline deve aver fatto qualcosa, non sappiamo bene cosa, per costringerlo a uscire allo scoperto. «Tutto quadra», dice Harry. «Nichols se n'è stato per giorni e giorni nel suo ufficio a chiedersi se sarebbe uscito fuori qualcosa. Cosa ci dice delle ammissioni?» «Io non ho ammesso proprio niente», risponde Acosta. «Ha pronunciato minacce di morte», ribatte Harry. «Parole amare che non significavano nulla.» «Be', avremo modo di capire che cosa ne pensa la giuria.» Harry ha sempre l'ultima parola. Per Nichols dev'essere stata una lunga, inquietante attesa. Un giudice in carica, seduto lì a sudare freddo all'idea che le minacce di morte pronunciate in sua presenza potessero giungere all'orecchio della corte. Se si fosse scoperto che lui stava tenendo nascoste delle prove, il fatto avrebbe sollevato un sacco di domande da parte della Commissione di vigilanza della magistratura: esattamente il genere di cosa che può stroncare la carriera di
un giudice. «Perché l'ha fatto? Perché è andato a raccontarglielo?» dice Acosta. «Per pararsi il culo», gli risponde Harry. «Ma perché ora?» chiede il giudice. «Perché proprio adesso che le cose stavano andando così bene?» Guarda Harry e poi me. Anche noi ce lo siamo chiesto. «Forse sa qualcosa che noi non sappiamo», butto là. Qualche prova tenuta nascosta. Il pensiero colpisce improvvisamente Acosta. È così che hanno fatto leva su Nichols, usando qualcosa le cui implicazioni sono così gravi che persino un vecchio amico non poteva ignorarlo. «Cosa potrebbe essere?» chiede. «Lo verremo a sapere di certo», rispondo. «Sicuro. Quando ce lo molleranno sulla testa come una tonnellata di merda», aggiunge Harry. Per Acosta, seduto al di là del vetro, deve essere come vedere che anche l'ultimo topo sta abbandonando la nave. È stato un motivo ricorrente delle ultime due settimane. Prima il suo cancelliere, con lui da dieci anni, gli ha detto che aveva ricevuto ordini tassativi di riferire qualsiasi loro contatto telefonico e gli aveva chiesto di non chiamarlo più. Poi, la settimana scorsa, Acosta ha chiamato la sua impiegata per chiederle il favore di fargli avere qualcosa che aveva lasciato nel suo ufficio, ma la donna si è rifiutata di rispondere e non lo ha più richiamato. Certamente Kline ha fatto pressioni su di loro attraverso i giudici per tagliar fuori Acosta. Sta usando l'isolamento come un'arma. La sensazione di essere stato abbandonato da tutti sembra essersi posata su Nocedicocco come l'angelo della morte, e l'unico partigiano che gli rimane, oltre a noi, è Lili. A sentir lui, non sono mai stati così uniti come in questo momento. «Però abbiamo un appiglio», dice Harry. «Il nome di Nichols non compare sulla loro lista dei testimoni.» «Vero. Ma è probabile che Radovich faccia un'eccezione. Kline afferma che non c'era modo che la polizia potesse venire a sapere delle minacce di Acosta, a meno che Nichols non si fosse fatto avanti.» «Ha sicuramente ragione.» Dall'altra parte del vetro Acosta sembra scuotersi da un oscuro pensiero. «C'è solo una spiegazione: Oscar si è fatto avanti perché è convinto che io sia colpevole.»
Finalmente c'è arrivato. «Già, può darsi», dice Harry, guardandolo. Nichols potrebbe anche non essere l'unico a pensarlo. «Lasciamo da parte le sue convinzioni», ribatto. «Al momento sono preoccupato di ciò che dirà sul banco dei testimoni. E, se possibile, vorrei fare in modo che non ci salisse.» Il criterio di ammissibilità di Nichols come testimone è basato sulla buona fede. Se la polizia non aveva modo di scoprire quelle maledette minacce pronunciate da Acosta in presenza di Nichols, non potevano certo informarci di questo in sede di presentazione delle prove, né mettere Nichols sulla lista dei loro testimoni. Anche se noi non avevamo il dovere di rivelare questa informazione, ben diverso è ingannare Radovich, dichiarandoci sorpresi da questa testimonianza. Probabilmente non ci crederebbe comunque. C'è una certa giustizia nelle argomentazioni di Kline, che Radovich non mancherà di rilevare. Se Acosta non è stato sufficientemente onesto con i suoi avvocati da informarli delle minacce di morte profferite - una vera e propria bomba a orologeria nel mezzo del nostro caso -, chi meglio dell'imputato deve soffrirne le conseguenze? «Kline ci marcerà sopra. Dirà che Nichols ha ascoltato la voce della coscienza», ipotizza Harry. «Questo, più il fatto che è un giudice, aumenterà la sua credibilità.» Meditiamo sulle opzioni, per quanto siano davvero poche. Harry suggerisce un accordo. Un ultimo, disperato tentativo. Intende una dichiarazione concordata tra le parti, riveduta e corretta, che riassuma la deposizione di Nichols senza che lui salga sul banco dei testimoni. «Potremmo limare gli spigoli», prosegue Harry, «e forse la giuria non gli presterebbe attenzione più di tanto.» «E perché Kline dovrebbe accettare?» chiede Acosta. Sarà anche depresso, ma non ha certo perso il contatto con la realtà. «Diremo che siamo stati colti di sorpresa», insiste Harry. «Che è un testimone dell'ultimo momento. Possiamo tentare di convincere Radovich a fare pressioni. In fondo, ci sono tutti i presupposti per un appello.» L'ultimo asso nella manica dell'imputato. «Possiamo cercare di barattarlo con la minaccia dell'appello.» Harry e io ne discutiamo. Anche se dubito che possa funzionare, è comunque la migliore fra tante pessime alternative. Mentre parliamo e discutiamo su come condurre la trattativa, Acosta sembra perso nei suoi oscuri
pensieri. Se ne sta lì, seduto dietro il vetro, le mani giunte a sostenere il mento. Improvvisamente, mi interrompe a metà frase. «C'è un'altra alternativa», dice. «Quale?» «Potrei parlargli. Potrei chiamare Oscar e chiedergli di venire a farmi visita.» «Figuriamoci», esclama Harry. «È pur sempre un amico», ribatte Acosta. «Qualsiasi cosa gli abbiano fatto credere, penso che lui mi ascolterebbe.» «Già. E poi, quando lo chiamano a testimoniare, gli chiedono del vostro incontro e cosa vi siete detti; e se esce fuori che lei gli ha chiesto di non testimoniare o, peggio, di mentire, che cosa facciamo?» Harry ha ragione. Sarebbe un disastro. «Io non gli chiederei di mentire», dice Acosta. «E allora a cosa servirebbe un incontro?» ribatte Harry. Quello che sta cercando di dire è che, a meno che non dichiari il falso, non c'è niente che Nichols possa fare per rimediare al danno che Acosta ha già fatto a se stesso con quelle minacce. «Io non gli chiederei mai di mentire.» Su questo punto Acosta è chiarissimo. L'onore innanzi tutto. «Be', mi scusi», replica Harry, «ma Kline potrebbe far credere che lei ci abbia provato, non pensa?» Un'occhiata imbarazzata dall'altro lato del vetro. «Certo, ha ragione. Non so cosa mi sia venuto in mente. Solo gli stupidi si rappresentano da soli», sospira Acosta. «In questo caso faremo un'eccezione», gli dice Harry. «La definizione si applica in egual misura al cliente e all'avvocato.» Acosta ride, Harry no. Nel pomeriggio, Kline ci attacca con una prova che aveva promesso alla giuria nella dichiarazione d'apertura: il tentativo di collegare Acosta al paio di occhiali rotti rinvenuti nell'appartamento della Hall la mattina dopo l'omicidio. Quando Kline scende nell'arena dell'aula è, come al solito, molto elegante: porta benissimo il denaro della moglie. Oggi indossa un abito di lana grigio scuro gessato; quando cammina, la giacca si apre lasciando intravedere la fodera in seta bordò, una camicia di lino inamidato con polsini doppi lunghi un metro e una cravatta che trasuda potere.
Dentro quell'abito, nonostante le batoste che ha preso, la sicurezza di Kline sta aumentando. A ogni testimone sembra crescere di statura. Sta acquisendo una presenza in aula che, tra qualche mese, potrebbe diventare una minaccia per gli avvocati della difesa. Dai manrovesci che ha preso ha imparato a rispondere a tono. Anche se con alcuni dei primi testimoni ha avuto qualche difficoltà, c'è un'evoluzione di metodo nella sua strategia che sta diventando evidente. Ha consapevolmente e deliberatamente preso le sue batoste all'inizio, risparmiando le forze per la fine. Il dottor Noram Hazlid è un oculista che alcuni definirebbero «dottoreespresso». Collabora con il punto vendita di una grossa catena di negozi di ottica in un centro commerciale nella zona nord della città. Hazlid effettua veloci esami della vista e manda i pazienti alla Vision Ease, un negozio discount, dove per sessantanove dollari si può scegliere tra un completo campionario di montature e di lenti e avere gli occhiali nel giro di un'ora. Ha passato la quarantina, è ben vestito, e si esprime con cura quando parla della correzione della vista. I presupposti per parlare degli occhiali rotti sono stati precedentemente gettati dagli investigatori della squadra omicidi, che li hanno identificati come quelli rinvenuti nell'appartamento della Hall. Sono stati contrassegnati dal cancelliere ed è stato loro assegnato un numero, cui adesso Kline fa riferimento. Chiede al teste di estrarre gli occhiali da una busta di carta. Poiché una parte della lente rotta è macchiata di sangue, per esaminarli Hazlid indossa un paio di guanti da chirurgo. «Dottore, ha già avuto occasione di esaminare questi occhiali prima d'ora?» chiede Kline. «Sì.» «Cominciamo dal loro stato. Cosa può dirci?» «La lente sinistra è rotta, direi in seguito a una notevole pressione.» «Causata forse da qualcuno che li ha calpestati?» È un suggerimento, ma dopo la scheggia di vetro rimossa dal piede della vittima su cui ha già testimoniato l'anatomo-patologo, non c'è motivo di obiettare. «Forse. Potrebbe essere», conferma Hazlid. Il teste prende in mano gli occhiali e li esamina con maggior attenzione. «La montatura di metallo è piegata, probabilmente a causa della stessa pressione che ha rotto la lente. Manca la vite superiore sinistra.» «È il pezzo che tiene a posto la stanghetta che va dietro l'orecchio?»
Kline lo chiama perno. «Esatto», conferma Hazlid, anche se chiaramente lui avrebbe usato un altro termine. «E può dirci se c'è qualcosa di particolare in questi occhiali, nelle lenti o nella montatura?» «Sì, in entrambi.» Acosta mi bisbiglia nell'orecchio mentre cerco di seguire ciò che dice il teste. Afferma di non aver mai visto il dottore prima d'ora. Non è il suo ottico e Acosta non riesce a capire come quest'uomo possa collegarlo a quegli occhiali. Gli dico di star zitto e di rilassarsi, ma lui è molto agitato. «Cominciamo dalla montatura», dice Kline. «In che senso è speciale?» «È un tipo di montatura prodotta esclusivamente per la Vision Ease, su licenza particolare. Non ne vendiamo molte, perché sono piuttosto costose.» «Ha un nome o un numero di modello?» «Si chiama Specter 430», dice Hazlid. «E non si trova in vendita presso altri negozi?» «No.» Cattive notizie per noi. «Sa dirmi quante ne sono state vendute, diciamo, negli ultimi cinque anni dalla Vision Ease?» «Posso guardare.» «La prego.» A questo scopo, Hazlid ha portato con sé un tabulato, una piccola risma di pagine ripiegate che ora scorre come un contabile finché non trova quello che sta cercando. Posa un dito sotto una voce nel margine sinistro e lo sposta attraverso la pagina, poi alza lo sguardo. «Quarantuno paia.» «Solo? In tutta la nazione?» «Esatto.» Hazlid spiega che il costruttore vende soltanto da due anni quella particolare montatura, che è molto cara e non ha avuto molto successo. Attribuisce la colpa al fattore costo. «Quanto, esattamente?» chiede Kline, guardando gli occhiali come se volesse comperarli se non avessero una lente rotta e fossero tutti sporchi di sangue. «All'ingrosso vanno a 179 dollari. Al dettaglio si vendono a 418.» Kline emette un fischio prolungato per il ricarico. Parecchi giurati ridono. Non me la sento proprio di obiettare.
Hazlid cerca di giustificarsi. «È una montatura firmata.» C'è una chiara allusione quando Kline si volta verso Acosta. L'illazione fa un certo effetto sulla giuria, gente che se ne sta qui per trenta dollari al giorno più le spese, e che ora guarda il mio cliente, accusato di aver acquistato una montatura che costa quanto mezzo mese di stipendio. «Sa quante di queste particolari montature sono state vendute dal suo negozio?» Per questo Hazlid non ha bisogno di consultare la documentazione. «Tre.» «E il suo è l'unico punto vendita a Capital City?» «Sì.» «Dove si trova il negozio più vicino che vende queste montature?» «Nella Bay Area», risponde Hazlid. Kline chiude velocemente questa porta. Chiede quante ne ha vendute l'altro negozio. Quattro. Gli unici altri negozi si trovano nella parte meridionale dello Stato, dove il testimone afferma che ne sono state vendute cinque. «Quindi, in tutto lo Stato», conclude Kline, facendo mentalmente la somma, «sono state vendute dodici di queste montature?» «Esatto.» «E ogni negozio tiene traccia di queste vendite?» «Al momento della vendita inseriamo i dati del cliente in un archivio computerizzato», risponde Hazlid. Harry lascia cadere la matita sul tavolo e alza gli occhi al cielo, poi guarda verso di me. Non è un buon atteggiamento. Cerco di ignorarlo. «Quando un cliente viene da noi, prendiamo il suo indirizzo e il numero di telefono, il numero di riferimento dell'articolo acquistato, in questo caso la montatura, e un numero d'archivio dal quale possiamo risalire alla sua ricetta oculistica, se è già stata registrata.» Sto cercando di mantenere un'aria distaccata e imperterrita. Vicino a me, Acosta è un automa: non ha più detto una parola dopo aver sconfessato il dottore all'inizio. «Quindi lei ha la registrazione per ognuno dei tre clienti che hanno acquistato la Specter 430 nel suo negozio?» «Sì.» «Queste registrazioni indicano che questo particolare modello di montatura è stato venduto all'imputato, Armando Acosta?» «No.»
Il sospiro di sollievo da parte di Harry, seduto in fondo al nostro tavolo, è quasi palpabile. Prende la matita, si asciuga il sudore dal naso e guarda verso Acosta. Gli dà una pacca sul braccio. È la prima dimostrazione di solidarietà cui si lascia andare nei confronti del nostro cliente. Davanti all'euforia di Harry, Nocedicocco mostra poche emozioni, a parte una leggera sorpresa. «Ha qualche registrazione di vendita di questa montatura sotto il cognome Acosta?» chiede Kline. «Sì.» Harry interrompe i festeggiamenti. «A che nome è?» «Lili Acosta», risponde il teste. «E c'è un indirizzo?» «Sorenson Way 234, a Oak Grove.» Harry spezza la matita con le dita, e un pezzo vola a terra. Nocedicocco va in merda. Oggi Lili non è presente. È la prima udienza che perde dall'inizio del processo, e mi chiedo se sia un'assenza calcolata. Harry guarda verso di me, al di sopra degli occhiali, con un'espressione del tipo: «Io te l'avevo detto». «Me n'ero dimenticato», mi bisbiglia Acosta all'orecchio. «Erano un regalo di mia moglie. Non li portavo mai, tranne che a casa.» È questo il motivo per cui siamo stati presi in contropiede dagli occhiali rinvenuti sulla scena del delitto: non sono stati acquistati presso il solito ottico di Acosta, del quale abbiamo controllato tutte le registrazioni. A questo punto ci troviamo in una situazione terribilmente imbarazzante e non ci resta altro che procedere bluffando. Kline fa un passo indietro e si rivolge a Radovich. «Immagino che sul verbale verrà indicato che questo è l'indirizzo dell'imputato e che Lili Acosta è sua moglie», osserva, e poi si volta verso di me. «Siamo d'accordo», acconsento. Qualsiasi cosa pur di tagliar corto. «Quando è stato fatto questo acquisto?» Kline è tornato dal teste. «Il 18 settembre dell'anno scorso», risponde Hazlid. Ci dice il prezzo - il prezzo pieno di vendita - e ci spiega che Lili li ha pagati con una carta di credito appoggiata su un conto intestato a lei e al marito. «E questi sono occhiali da uomo?» dice Kline. «Esatto. Ma immagino...»
«Obiezione.» «Accolta. Non c'è nessun bisogno di immaginare nulla», dice Radovich. Kline si riorganizza. Gli hanno bloccato quella strada e ne deve cercare un'altra. «Ha detto per chi erano, quando li ha comperati?» «Obiezione. Domanda infondata. Testimonianza indiretta. Il teste non ha testimoniato di aver personalmente venduto questi occhiali», dico a Radovich. «Accolta.» «Dalla registrazione di vendita risulta?» chiede Kline. «No.» Kline non ha bisogno di una risposta, la domanda è già sufficiente. I giurati sono in grado di riempire i vuoti da soli: una donna sposata acquista un paio di occhiali da uomo. «Parliamo delle lenti. Hanno qualcosa di speciale?» «Il materiale è piuttosto costoso e la prescrizione è abbastanza insolita.» «Ci parli del materiale.» Kline, sta guardando Acosta. Ecco che ci siamo. «Il migliore in assoluto», dice il teste. «Quello che chiamiamo 'vetro ad alto indice'. Molto sottile e molto leggero, ma capace di sopportare un valore di correzione molto alto.» «Che cosa vuol dire?» «In termini di peso, si ottiene una leggerezza comparabile a quella della plastica, ma con una resistenza ai graffi molto superiore, e inoltre si può lavorare questo vetro con un alto indice di correzione.» «Col vetro meno costoso non si può?» «No.» «E immagino che al consumatore costi caro?» «Di solito due volte il prezzo del normale vetro ottico.» «Di quanto stiamo parlando?» «Cento, centocinquanta dollari.» «E nel caso di questi occhiali, quanto?» «Centocinquanta dollari.» Ci stiamo rapidamente avvicinando alla cifra che la maggior parte delle famiglie spende in un mese per mangiare e vestirsi, e non abbiamo ancora messo in conto la visita dell'oculista, la ricetta e le tasse. «Pensavo che il vostro fosse un negozio discount.» «Lo siamo», ribatte il teste. «E offriamo anche un servizio veloce. Alcu-
ni clienti li vogliono subito.» Così dicendo, fa schioccare le dita, e non si può fare a meno di pensare che questo gesto sia stato provato più volte. «Obiezione. Si fanno ipotesi,» «Respinta.» Kline ha fatto i compiti a casa e ora sta raccogliendo i frutti, e sta ballando il tip-tap sul nostro cadavere... con tutti gli svolazzi che servono per metterti contro una giuria. L'immagine che intende comunicare è chiara: Acosta, con la faccia immersa nella mangiatoia pubblica, che si becca uno stipendio principesco, tanto da comperarsi montature firmate, è troppo pieno di sé per aspettare in fila come i comuni mortali. «Non fate molte vendite come queste, vero?» «Come ho già detto, quattro o cinque in un anno.» Intende dire a pochi potenti, uno o due sceicchi arabi, e magari un giudice. «Ma sono vendite molto fruttuose, quindi lei le ricorderebbe e comunque le registrerebbe?» «Obiezione. Si suggerisce al teste. Si ipotizzano fatti non portati come prova.» «Signor Kline», dice Radovich, «se vuole testimoniare, alzi la mano e salga sul banco.» «Chiedo scusa, vostro onore.» «Perché non ci riprova?» Kline fa mente locale. «La registrazione di una vendita simile salterebbe agli occhi, dottore?» «Sì.» «Sa quanti clienti hanno acquistato lenti di quel tipo, del cosiddetto vetro ad alto indice di riflessione con montatura Specter 430, da quando la montatura è stata messa in vendita dalla Vision Ease?» «Due.» «Sa se uno di questi era Lili Acosta?» «Sì.» Si potrebbe affermare che per un imputato non esiste prova più incriminatoria di un'impronta digitale, ma con questo teste Kline si sta avvicinando molto a quel livello. Ora è chiaro cosa abbia portato davanti a Oscar Nichols per convincerlo della colpevolezza di Acosta... gli occhiali sporchi di sangue che ora sono posati sulla balaustra, e il teste che siede dietro di essa. «C'è qualcos'altro di speciale a proposito di queste lenti?» insiste Kline.
Non è ancora finita. «Direi che la correzione dell'astigmatismo è insolita.» «Potrebbe spiegarlo alla giuria in termini più semplici?» «La prescrizione è per un occhiale da vista, una prescrizione comune per le persone di una certa età. Ma il paziente che portava questi occhiali soffriva anche di un grave astigmatismo. È una irregolarità della cornea. La luce che entra nell'occhio non incontra un unico punto focale. Se è grave, può portare a una visione molto sfocata. Il paziente che portava questi occhiali soffriva di astigmatismo a entrambi gli occhi.» «Ed era una forma grave?» «Per alcuni tipi di lavoro avrebbe potuto considerarsi invalidante.» «Non entrerò nei dettagli dei metodi di correzione, non è necessario. Ma, per quanto riguarda questo particolare paio di occhiali ammesso come prova, lei sa qual è la correzione prescritta per ognuna delle lenti?» È il momento decisivo. Kline ha estratto la spada e ce la punta alle palle. «Sì.» «Vorrebbe dirlo alla giuria, per favore?» «Se non si considera la correzione per la lettura, che è comune, un più due per ogni occhio, la correzione per l'astigmatismo dell'occhio sinistro è tre diottrie e venticinque per ventitré gradi. Per l'occhio destro è quattro diottrie e cinque, per centocinquantasette gradi.» «Affermerebbe che è una correzione insolita?» «Direi che è molto insolita.» E, con questo, Kline sembra essersi spinto molto più in là di quanto persino lui si aspettasse. Sta guardando raggiante il box della giuria, e il suo non è tanto un sorriso quanto un'espressione risoluta. In questo momento l'aula è carica di elettricità, e si avverte una chiara inversione di tendenza che non riuscirò facilmente a capovolgere con questo teste. Con una sola prova Kline sta per oltrepassare la soglia del ragionevole dubbio e arrivare nella terra promessa della pubblica accusa, dove l'onere della prova cadrà tutto sulle nostre spalle. «Dottore, può dirci se ha nel suo archivio la ricetta dell'imputato, Armando Acosta, registrata dalla Vision Ease?» «Sì, ce l'ho.» «E qual è?» «Quella che le ho appena detto», risponde Hazlid. «È la stessa prescrizione del paio di occhiali davanti a me.» Mentre pronuncia queste parole, nel box della giuria si potrebbe sentir
cadere uno spillo. In questo momento diciotto paia di occhi sono puntate sugli occhiali posati sulla balaustra. Tutti hanno una sola domanda in mente: come spiegherà l'imputato la presenza di questi occhiali sul luogo del delitto e di una scheggia di vetro della lente incastrata nel piede della vittima come la tessera di un mosaico? 25. Dopo la testimonianza dell'oculista, Kline chiama a deporre il teste successivo, la ciliegina sulla torta, il cacio sui maccheroni, o un chiodo sulla bara, a seconda dei punti di vista. Con i capelli completamente bianchi prima dei cinquant'anni, Oscar Nichols ha un viso affabile e un modo di esprimersi etereo, conciliante e sermoneggiante, che fa sì che ogni suo pronunciamento in materia criminale abbia il sapore di un'esperienza vagamente religiosa. Non è una figura imponente. Sarà alto un metro e sessantacinque e peserà sì e no settantacinque chili bagnato. Sulle guance ha inciso una specie di sorriso permanente, due rughe d'espressione che sembrano scolpite nel cemento. La sua ascesa allo scanno dà credito alla teoria che i miti erediteranno la Terra, o, quantomeno, la porzione che sta al di là della balaustra. Gestisce il suo tribunale basandosi sul consenso, all'eterna ricerca di un accordo tra personaggi difficili, una specie di burlesque legale nel quale accusa e difesa contrattano, disprezzandosi reciprocamente, a favore di imputati che farebbero la pelle a tutti quanti, se le guardie togliessero loro le manette. Nichols è l'incarnazione del nonno benevolo, un monumento all'innocuità che prega davanti all'altare della buona fede. Ma, in caso di necessità, è anche capace di fare la cosa giusta, il che, sfortunatamente, in questo momento significa rendere una testimonianza a sfavore di un vecchio amico. Questa mattina Acosta sembra quasi sollevato nel vederlo. Devo alzarmi e fare da barriera nel corridoio per evitare che Nocedicocco parli con il teste che sta per mettergli il cappio al collo. Anche così, riescono in un veloce scambio di carinerie, si chiedono a vicenda come stanno le rispettive famiglie, con i giornalisti che prendono nota. Kline è occupato a esaminare alcuni documenti al suo tavolo dall'altra parte dell'aula, e intanto parlotta con uno dei suoi sostituti. È stato molto abile nel gestire questi ultimi testimoni e ha recuperato il terreno perso in precedenza.
Con gli occhiali ci ha teso una bella trappola. Ha scovato una prova di cui tutti si erano dimenticati, occhiali che Acosta non aveva acquistato presso il suo ottico di fiducia, e che quindi noi non avevamo scoperto. Per quanto riguarda Armando, si è profuso in mille scuse per questa sua dimenticanza. Si è ricordato che quegli occhiali giravano per casa mesi prima, ma non ha idea di come siano arrivati sul luogo del delitto. Nel controinterrogatorio di Hazlid ho cercato di limitare i danni. Usando la massima cautela, mi sono attaccato all'unico punto di una qualche importanza, la vite della stanghetta mancante. Su questo Hazlid mi ha dato un contentino, ammettendo che in base alle condizioni del foro, privo di qualsiasi deformazione, è probabile che la vite mancasse già prima che gli occhiali venissero calpestati nell'appartamento della Hall. La scientifica non è riuscita a trovarla, e Hazlid ha affermato che sarebbe difficile, se non addirittura impossibile, indossare occhiali cui manca una vite. Da questo ho formulato un'ipotesi, che il teste non ha potuto totalmente smantellare, secondo la quale gli occhiali erano stati messi da parte dal proprietario, forse in un luogo in cui chiunque poteva trovarli. L'allusione è chiara: qualcuno li ha messi deliberatamente nell'appartamento della Hall. Che poi la giuria ci creda, è un'altra questione. Nichols presenta un'altra serie di problemi. Da un punto di vista strategico, la difficoltà è il rapporto tra i due uomini. La loro amicizia dura da vent'anni. Tutti, al tribunale, sapevano che erano molto uniti. Se c'era una persona nell'ambiente professionale con cui Acosta si sarebbe confidato, questa era Oscar Nichols. Sono questa amicizia e l'idea che ora Nichols si sia convinto della colpevolezza di Acosta gli aspetti più negativi: un amico, un giudice, che ha già emesso il proprio verdetto. Venendo subito dopo la faccenda degli occhiali, questa testimonianza avrà certamente sulla giuria un effetto pericoloso. All'inizio Kline inciampa sulle convenienze sociali. Chiama Nichols «vostro onore» e poi si corregge, riferendosi a lui come «giudice». Questo contraddice la sua iniziale insistenza sul fatto che in aula ci doveva essere un solo giudice a portare quel titolo. Ma Kline non è tipo da farsi ostacolare dalla coerenza. «Giudice Nichols, vorrebbe dire alla giuria da quanto tempo conosce l'imputato?» «Da più di vent'anni.» «E si considera un suo amico?» Nichols guarda verso Acosta e fa un sospiro profondo, addolorato, che
potrebbe essere interpretato in molti modi. «Sì.» E poi aggiunge: «Almeno, lo spero». Se in questo momento la sua voce venisse analizzata alla ricerca di segni di tensione, l'ago finirebbe fuori scala e i pennini schizzerebbero oltre i bordi della carta dello strumento. Kline lo rabbonisce e lo seduce, facendogli domande sdolcinate sulla natura solitaria della professione di giudice, sull'isolamento e sul bisogno di confidarsi, come una divinità con i propri pari. «Immagino che questo porti a un senso di fiducia tra colleghi», insinua Kline. «Al desiderio di condividere le esperienze.» Intende dire i loro oscuri segreti. «Direi che, col passare degli anni, si trovano confidenti in materia professionale, persone con cui parlare.» Non è esattamente quello che Kline aveva in mente. «E, per quanto riguarda questioni personali, immagino discutiate anche di quelle?» «A volte capita.» «Affermerebbe che, in passato, tra lei e l'imputato è esistito un simile rapporto?» «A volte.» «Ed è corretto dire che a volte egli ha avuto con lei un simile rapporto di confidenza? Che le abbia parlato, abbia condiviso con lei qualche esperienza?» Kline è molto vivace, continua a gesticolare per trasmettere l'impressione di essere in buona fede e di non avere la volpe sotto l'ascella. «Sì.» «Dunque, voi vi confidavate l'uno con l'altro?» «Talvolta.» «Giudice Nichols, lei conosce il J Street Diners, che si trova in fondo alla strada del palazzo di giustizia?» «Sì.» «Ci va mai a prendere il caffè?» «Di quando in quando.» «È uno di quei luoghi in cui talvolta vanno i giudici per allontanarsi dal palazzo di giustizia?» Nichols soppesa la domanda. E poi ammette: «Talvolta». «Dove potete parlare in privato senza avere intorno un sacco di avvocati o, magari, di giornalisti?» «Si suggerisce al teste», obietto. Dopotutto il ristorante non è esattamen-
te il confessionale della parrocchia. «Accolta.» «Comunque, voi andate là per allontanarvi dal tribunale?» Kline è tornato al punto di partenza. «Sì.» Richiama l'attenzione del teste al 25 giugno dell'anno precedente e gli chiede se ricorda di essere stato con l'imputato in quel ristorante. «Sì, lo ricordo.» La voce di Nichols sale di un'ottava. Un picco d'ansia. Beve un sorso d'acqua dal bicchiere posato di fronte a lui sulla balaustra, e ha difficoltà a guardare verso Acosta. «Ricorda chi suggerì di andare a bere un caffè, quel giorno, lei o l'imputato?» «Credo sia stato il giudice Acosta», risponde Nichols. Per un attimo alza lo sguardo come se volesse chiedere: «Armando, te lo ricordi?» Ma poi si rende conto di dove si trova. «L'imputato è passato a prenderla nel suo ufficio in tribunale?» «Credo mi abbia telefonato.» «Perché non è semplicemente sceso a chiamarla?» Kline conosce già la risposta. In quel periodo Acosta era stato sospeso dal servizio in seguito all'arresto per istigazione alla prostituzione. Ma Kline vuole che il teste lo dica. «Quel giorno non c'era», risponde Nichols. «Come mai?» «A causa degli avvenimenti della sera prima.» È l'eufemismo di Oscar per dire che il suo amico era stato beccato a chiedere favori sessuali. Quando Nichols cerca una scappatoia per sminuire le cose, Kline lo richiama all'ordine, e gli ricorda il brutto incidente, l'operazione della buoncostume. «Sì, è vero», ammette Nichols. «Si era dimesso.» «Si era dimesso o era stato sospeso?» chiede Kline. È evidente che Nichols non sta collaborando molto. Forse ci ha ripensato. «Immagino che 'sospeso' sia il termine più appropriato.» «Bene», prosegue Kline, «così verrà messo a verbale correttamente.» Nichols beve nuovamente, si asciuga il sudore dalla fronte, lancia un'occhiata in direzione di Acosta che, impassibile, si limita di tanto in tanto a stringersi nelle spalle davanti a fatti innegabili, come per concedere una specie di dispensa all'amico. «Immagino sia piuttosto imbarazzante per lei...»
Nichols fa un sospiro profondo. «Non è divertente.» Kline sa bene che, più travagliata è la testimonianza di Nichols, più è probabile che la giuria l'accetti come vera. «A parte lei e l'imputato, a questa conversazione ha assistito qualcun altro?» «Intende dire al ristorante?» «Sì, al ristorante.» «No. Eravamo solo noi due.» «E ricorda l'argomento di questa conversazione?» «Lui era...» «L'imputato?» «Sì. L'imputato era...» Kline riesce a far pronunciare questa parola a Nichols mentre egli è intento a cercare un termine che minimizzi l'impatto di ciò che sta per dire. Finalmente decide per «turbato». «E per che cosa era turbato?» «Per l'arresto.» «Intende dire l'arresto per istigazione alla prostituzione?» «Sì.» «Ora, turbato può significare un sacco di cose diverse, per persone diverse», dice Kline. «Quando lei dice turbato, che cosa intende dire, esattamente?» «Intendo dire che era turbato.» Nichols non ha alcuna intenzione di offrire dei sinonimi a Kline per permettergli di scegliere quello più dannoso. «Intende dire che stava male?» Nichols riflette. Non è affatto quello che intendeva dire, ma alla fine risponde: «In un certo senso, stava male». «Oppure era arrabbiato? Furioso?» Ovviamente Kline preferirebbe uno di questi. «Sì, anche.» Kline si concentra sul concetto di rabbia e chiede al teste se questa fosse indirizzata verso qualcuno in particolare. «Verso la polizia, in generale.» Quello che sta succedendo è chiaro. Kline sta cercando, per quanto possibile, di evitare l'argomento della macchinazione, la convinzione di Acosta di essere stato incastrato dai poliziotti. Preferirebbe poter dimostrare che era arrabbiato semplicemente perché era stato beccato. Continua a menare il can per l'aia con qualche altra domanda, evitando
però quella decisiva: il motivo di questa rabbia. Invece, cerca di individuarne il bersaglio. «C'era qualcuno, in particolare nella polizia, o meglio, che collaborava con la polizia, su cui l'imputato aveva diretto la sua rabbia?» «Intende dire quella donna?» Kline non risponde ma si sporge in avanti e scruta il teste al di sopra degli occhiali, come se si sentisse attratto verso il banco dei testimoni da un oscuro magnetismo. «È vero che le sue parole erano indirizzate a lei.» «Sta parlando della vittima, Brittany Hall?» «Sì», risponde Nichols. Kline si lecca le labbra. Finalmente è arrivato al punto. «Dunque, giudice Nichols», dice, e va a piazzarsi davanti al banco dei testimoni, le gambe leggermente divaricate, le ginocchia rigide, le braccia tese in avanti coi palmi delle mani uno contro l'altro, come uno sciatore acquatico dietro una barca. «Voglio che lei si concentri, che pensi solo a quella parte della sua conversazione con l'imputato relativa ai commenti sulla signorina Hall.» Kline fa una pausa e guarda Nichols come per dire: «Ha capito bene?» Nichols annuisce. «Ora, vorrei chiederle se riesce a ricordare gli specifici commenti fatti dall'imputato, possibilmente con le parole esatte.» C'è un lungo momento di silenzio, mentre Nichols riflette sulla richiesta. Lancia un'occhiata in direzione di Acosta che, però, non lo sta guardando. «Ricordo alcune cose, ma non sono sicuro di ricordarle nei dettagli», dice. «È passato tanto tempo.» «Faccia con comodo.» «So che ha detto che la signorina Hall aveva mentito.» «Bene. E che altro?» Kline si guarda bene dal fargli la domanda più ovvia: mentito a proposito di cosa? Fino a questo momento Kline ha abilmente navigato tra le insidie del rapporto causa-effetto, il motivo implicito della rabbia di Acosta, la presunta trappola tesagli dalla polizia. Fa affidamento sul fatto che, poiché questa non si configura come un'ammissione contro gli interessi dell'imputato, Radovich escluderà ogni riferimento alla presunta macchinazione, in quanto testimonianza indiretta. Se vogliamo farla uscir fuori, dobbiamo chiamare a deporre Acosta. Il punto debole del nostro caso. «Durante questa conversazione come si è riferito alla signorina Hall, per
nome o in qualche altro modo?» Kline si muove in punta di piedi attraverso questo campo minato, cercando di evitare la domanda sbagliata e di fornirci così una scappatoia. «Sì, l'ha chiamata con qualche termine dispregiativo», ammette Nichols. «Ricorda che termini ha usato?» «Erano parole volgari, non degne di Armando.» Mi domando se conosca davvero bene il mio cliente. «Chiedo che la risposta venga tolta dagli atti», dice Kline. Radovich si sporge verso il teste. «Deve rispondere alla domanda», gli dice. «Lui... lui l'ha chiamata puttana bugiarda.» «Sono state queste le sue parole esatte?» Kline si volta verso la giuria. «Puttana bugiarda?» «Sì.» «E ha usato altri termini?» «No, no. L'ha chiamata solo così, e ha detto che la morte era troppo poco per lei.» «Ha detto questo?» Kline si finge sorpreso, come se fosse la prima volta che lo sente. «L'ha chiamata puttana bugiarda e ha detto che la morte era troppo poco per lei?» «È quello che ha detto.» «L'ha detto a voce alta o l'ha sussurrato?» «L'ha detto piano.» «Ma lei l'ha sentito bene?» «Sì. Ma non credo che lo pensasse veramente.» «Chiedo che venga tolto dal verbale», dice Kline. «La supposizione del teste.» «La giuria non ne tenga conto», ordina Radovich. Kline si allontana di un passo dal banco dei testimoni, poi si volta, si ferma e si sfiora con un dito la fossetta sul mento. «Lei si considera tuttora amico dell'imputato, vero?» «Sì.» «E crede che lui la consideri un amico?» «Si chiede un'opinione», obietto. Cerco di togliere Nichols dai guai. «Accolta.» «Ma lei vorrebbe che lui fosse ancora suo amico, vero?» È un altro modo per dire la stessa cosa. Obietto, dicendo che è una domanda tendenziosa, ma Radovich respinge
l'obiezione. Nichols guarda verso di noi con espressione incerta. «Spero che lui lo sia ancora.» Mi volto e all'improvviso mi rendo conto che a quest'ultima risposta del teste Acosta si è come chiuso in sé. Non riesce a guardare in faccia il suo vecchio amico, mentre io gli ho raccomandato di farlo, e non riesce ad affrontare questo momento a testa alta. È cupo, abbattuto, un cane bastonato. A questo punto Kline interrompe l'interrogatorio, vedendo l'occasione per capitalizzare. Gli occhi di tutti i presenti sono puntati su Acosta, che è l'immagine vivente della colpa. Kline non riesce a credere alla propria fortuna. Assume addirittura un'espressione sorpresa, osserva l'imputato e prolunga questo momento di silenzio fino a farlo diventare una pausa imbarazzante, tanto che il giudice è costretto a chiedergli di proseguire. Finalmente, approfittando di questo momento di distrazione, posso allungare una mano fino a toccare Acosta sulla spalla, una dimostrazione di sostegno in un momento difficile. Lui alza lentamente la testa e, per la prima volta, vedo che ha gli occhi umidi. «Giudice Nichols, non è vero che lei è stato interrogato dal gran giurì?» «Come?» La domanda di Kline lo scuote dalle sue riflessioni, causate forse dalla pena di vedere Acosta in quelle condizioni. «Ah, sì.» «Ma lei non ha mai riferito al gran giurì i commenti dell'imputato, quello che ci ha raccontato qui, oggi?» «No.» «Perché no?» «Non me l'hanno chiesto.» «Però in questo caso si è fatto avanti e ci ha fornito queste informazioni. Perché?» Cosa lo abbia spinto a questa improvvisa dimostrazione di sincerità è come un punteruolo infilato nel nostro cuore. Nichols doveva essere consapevole che questo momento sarebbe arrivato, eppure l'espressione del suo volto dice chiaramente che non è preparato a rispondere. Balbetta qualcosa, e poi se ne esce con una scusa che non regge. «Pensavo fosse una cosa che andava fatta.» «Perché?» «Era una prova.» Così dicendo, Nichols guarda la giuria, chiaramente convinto che la risposta sia sufficiente. «Ma era una prova anche al tempo dell'indagine del gran giurì, giusto?»
«Presumo di sì.» «Ma lei ha aspettato fino a ora.» «Sì.» «Come mai?» Nichols non risponde. Invece, alza gli occhi al cielo, come per radunare le idee e trovare una via d'uscita senza fare altri danni. Sta contando i forellini dei pannelli fonoassorbenti e intanto prega. Kline gli concede questa pausa densa di significato, e poi riprende. «Giudice Nichols, è corretto affermare che all'epoca dell'inchiesta del gran giurì lei aveva qualche dubbio sulla colpevolezza dell'imputato, mentre oggi lei siede qui perché non ha più tali dubbi?» «Obiezione, vostro onore. È un oltraggio!» Sono schizzato in piedi. Harry pure, e per un attimo ho l'impressione di sentirlo pronunciare qualche oscenità. Nichols risponde alla domanda e, se riesco a leggergli le labbra, dice: «No», ma nessuno nell'aula riesce a sentirlo, meno che mai la stenografa che, in tutta questa confusione, si arrende e stacca le dita dalla macchinetta. In ogni angolo dell'aula regna il caos. Anche se questa era la domanda mai fatta, ma presente nella mente di tutti, il fatto che Kline la formuli realmente, davanti alla giuria, manda Radovich su tutte le furie. Quando si accorgono che Nichols ha cercato di rispondere alla domanda, tutti i giornalisti non fanno che chiedere: «Cos'ha detto? Cos'ha detto?» Harry si volta e dice loro che il teste ha risposto: «No», e molti di loro prendono nota. Possiamo anche vincere la battaglia dei media, ma perdere la guerra. Radovich, ancora seduto sulla sua poltrona ma tutto sporto in avanti, batte il martelletto sul legno. «Faccio sgombrare l'aula», ammonisce. Questo fa calare il rumore di uno o due decibel e il giudice si rivolge a Kline. «Questa è una domanda sconveniente, e penso che lei lo sappia», dice. «Tiri fuori il portafogli», gli ordina. Radovich ha intenzione di imporgli una sanzione penale, qui, davanti a mezzo mondo. Non fa neppure uscire la giuria. È questo il problema per l'accusa: non esiste diritto di appello. La persona più sorpresa per tutto questo sembra proprio Nichols. L'idea di dare una strigliata a un avvocato, e ancor più di umiliarlo in pubblico, gli è del tutto estranea. Si era illuso di vivere in tempi più moderati, in cui vincere non è tutto.
«La giuria non tenga conto di questa domanda e delle sue implicazioni», ordina Radovich. «Non ho altre domande da fare a questo teste», dice Kline, distrattamente, cercando il portafogli nella tasca interna della giacca. «Ha proprio ragione», lo rimbecca il giudice. «L'ultima che ha fatto le costerà seicento dollari. Paghi al cancelliere. Voglio vedere gli avvocati nel mio ufficio. Cinque minuti di sospensione», conclude, e batte il martelletto con tanta violenza che la testa si stacca dal manico e schizza attraverso il pavimento, andando a colpire il piede di una delle guardie. Quando entriamo nel suo ufficio, Radovich non si è ancora calmato. Kline sta rimettendo a posto il libretto degli assegni e continua a scusarsi. «Ho parlato senza riflettere», dice. «Avrebbe potuto far annullare il processo per un vizio di procedura», sbotta Radovich, paonazzo. «Non credo sia così grave», obietta Kline. «Lei non è la corte d'appello», risponde Radovich. «Per lo meno, non ancora.» Fin dall'inizio si è reso conto dell'ambizione di Kline e ora la battuta gli sfugge. «Se c'è un problema, lo si può risolvere dando istruzioni alla giuria», insiste Kline. «Lei ha già detto loro di non tener conto della risposta.» «Vostro onore, la domanda era enunciata in modo molto chiaro», mi intrometto. «Alla giuria non possono essere sfuggite le implicazioni. Verrà fortemente influenzata dalla deposizione di un giudice, uno che non ha alcun motivo per mentire.» «Allora cosa vuole?» mi chiede. «Vuole un altro processo?» Sta cercando di capire se intendo chiedere un annullamento per vizio di forma. Senza dubbio me lo negherebbe. «No.» «Allora cosa?» «Desidero che venga un po' spianato il campo di gioco.» Kline ha un'espressione guardinga. Ha capito che è in arrivo qualcosa, ma non sa che cosa. «Io credo si possa correttamente sostenere che il signor Kline ha deliberatamente sorvolato sulla ragione dell'ira del mio cliente, sul motivo delle sue intemperanti affermazioni nei confronti della vittima. E credo che ci dovrebbe essere permesso fare domande in merito nel controinterrogatorio.»
Kline lancia un ululato che ho il sospetto si senta fino in aula. I giornalisti si staranno chiedendo se Radovich lo stia scorticando con un gatto a nove code. «Vostro onore, io sono stato molto attento a non entrare nel merito. Va oltre lo scopo dell'interrogatorio», dice Kline con un gemito, davanti alla scrivania del giudice, insistendo sul fatto che non esistono precedenti. «Inoltre, qualsiasi cosa Nichols avesse da dire sull'argomento, è interamente de auditu.» «Per quanto riguarda i precedenti», ribatto, «ci sono casi che trattano del contesto della deposizione di un teste. È giusto che la giuria capisca in quale contesto il mio cliente ha fatto queste affermazioni, che cosa le ha motivate.» «Cosa mai potrebbe giustificare affermazioni così offensive?» chiede Kline. «Perché non lasciamo che sia il teste a dircelo?» «Quando tocca a lei», ribatte. «Se vuole chiamarlo a testimoniare, bene. Allora gli potrà chiedere tutto quello che vuole.» Il problema, e Kline lo sa benissimo, è che chiamare Nichols a testimoniare aprirebbe la questione del carattere di Acosta. Se varchiamo questa linea, la vita di Nocedicocco diventa un libro aperto di cui io non conosco il contenuto, mentre sono pronto a scommettere che Phil Mendel e i ragazzi della buoncostume ne hanno già scritto volumi, che tengono rilegati e in bell'ordine, pronti per essere letti. «Ora basta», dice Radovich. «Se vuole addentrarsi nel motivo di queste affermazioni, faccia pure.» «Ma, giudice...» L'ultimo appello di Kline viene bruscamente interrotto. «Se non le va bene, obietti.» Con noi ha finito. Si sta già allontanando dalla scrivania, diretto verso l'aula, seguito da me e Kline che continuiamo a litigare. Quando torno al tavolo della difesa, Acosta mi prende per il braccio e vuole sapere che cosa è successo. «Aspetti e vedrà», gli dico. «Non lo so neppure io.» Radovich richiama l'aula all'ordine. Nichols è ancora sul banco dei testimoni. «Il teste è suo», dice Radovich. Ora che tocca a me, non perdo tempo. La teoria è quella di battere finché Radovich è ancora caldo, ancora arrabbiato con Kline. Se è disposto a darmi un qualche vantaggio, questo è il momento buono.
«Lei ha dichiarato che, per prima cosa, ricorda che il mio cliente, il signor Acosta, le ha detto che la signorina Hall aveva mentito.» «Esatto.» «Le ha detto a proposito di cosa aveva mentito?» «Obiezione. Questo va oltre lo scopo del controinterrogatorio.» «Respinta, su questa base.» «Testimonianza indiretta», ritenta Kline. Radovich tentenna solo un attimo prima di respingere nuovamente l'obiezione. Kline sa bene che questa valutazione parziale delle obiezioni è un corollario delle sanzioni. «La prego di rispondere alla domanda», dico a Nichols. Lui sembra più che lieto di accontentarmi. «Mi ha detto che la donna aveva mentito sulla natura della loro conversazione la sera in cui lui era stato arrestato. Che lui non aveva assolutamente cercato di indurla a un atto di prostituzione e che, anzi, era stata la signorina Hall a telefonargli per chiedergli di incontrarsi con lei.» «Le ha detto perché lei voleva incontrarlo?» «Secondo il giudice Acosta, la donna aveva informazioni riguardanti una particolare indagine del gran giurì.» «Le ha detto quale?» «Sì. Un'indagine sulla corruzione nella polizia. In particolare, l'Associazione della Polizia.» «Dunque, secondo il giudice Acosta...» - Kline non si prende neppure la briga di muovere un'obiezione quando io uso questo titolo. Al momento è più preoccupato per il contenuto della deposizione - «...egli è stato attirato con l'inganno a questo appuntamento, con la promessa di informazioni che riguardavano la sua attività professionale.» «Obiezione. Altera la sostanza della prova», dice Kline. «Respinta.» Il fatto che Radovich non la pensi come l'accusa dà credibilità alla supposizione. «Questo è quanto mi ha detto lui.» «Ed è per questo che era arrabbiato?» «Per questo e perché diceva che erano prove artefatte. False testimonianze sul presunto episodio di istigazione alla prostituzione.» «Ed è stato in questo contesto che egli ha profferito le avventate affermazioni che lei ci ha esposto prima?» «Sì. Esatto.» Nichols è ansioso di minimizzare il più possibile, di fare il
proprio dovere senza danneggiare un amico. È il suo concetto di giustizia. «Durante questa conversazione, il giudice Acosta ha detto qualcosa a proposito di un coinvolgimento della signorina Hall con l'Associazione della Polizia, con le persone indagate?» Nichols ci pensa per un momento. È chiaro che vorrebbe aiutarci, ma non può. Scuote la testa. «Non mi pare.» Conoscevo già la risposta. Nichols l'avrebbe detto di sua spontanea volontà, se l'avesse saputo. Qualsiasi cosa, pur di far rivivere la loro amicizia. Il mio scopo è quello di piantare il seme del dubbio nella giuria. «Le ha mai detto che la donna era in stretto contatto con membri di quell'associazione, in particolare con gli agenti della buoncostume assegnati all'operazione la sera in cui il giudice Acosta è stato arrestato?» Ora lo innaffio e lo concimo. «No, temo di no.» Mi volto e mi avvio verso il mio tavolo, come se avessi terminato. Poi mi fermo di colpo, quasi per un ripensamento. «Un'ultima domanda, giudice. Sono curioso di sapere se lei ha mai riferito alla polizia, quando l'hanno interrogata, o al procuratore distrettuale, dell'insistenza del giudice Acosta sul fatto di essere stato incastrato per questa accusa di istigazione alla prostituzione.» «Sì. Gli ho detto quello che ho detto a lei.» Guardo Kline. Lo scopo è quello di dimostrare che egli stava nascondendo tutto questo alla giuria. «E loro vi hanno dato seguito? Le hanno fatto altre domande sui particolari di ciò che la signorina Hall potrebbe aver detto al giudice Acosta per attirarlo all'appuntamento, quella sera?» Lo sguardo di Nichols si illumina. Sarà anche un cuore tenero, ma non è uno stupido. Capisce dove voglio arrivare. È un'àncora di salvataggio per riabilitare la sua amicizia. «A dire il vero, no, non l'hanno fatto.» Poi, prima che mi allontani, aggiunge: «Non sembravano interessati». Kline fa un'esclamazione sorpresa, ma trattiene l'obiezione. Sa che ormai il danno è stato fatto. 26. L'ultima teste che l'accusa chiama sul banco dei testimoni è qui per un unico scopo: concludere le deposizioni con una nota malinconica. Il tutto è
gestito con molta ostentazione per ottenere il massimo effetto. Coleman Kline si assenta pochi attimi prima che lei arrivi in aula, dopo aver detto a Radovich che il teste seguente avrà bisogno di particolari attenzioni. Poiché ha altri impegni, ha affidato l'interrogatorio a una delle sue assistenti, che secondo lui è particolarmente adatta al compito. Raduna le sue carte ed esce dalla porta che conduce all'ufficio del giudice, un percorso secondario che gli permette di evitare le telecamere e la folla di giornalisti che stazionano fuori dell'aula. Ci sono lunghi attimi di trepida attesa durante i quali, in base ad accordi presi in precedenza, il cancelliere non annuncia il nome del teste, anche se tutti gli interessati sanno di chi si tratta. Gli occhi sono tutti puntati sulla porta in fondo all'aula che comincia ad aprirsi, ma viene quasi subito richiusa. Quando finalmente si spalanca, è un usciere che fa strada, seguito da un piccolo corteo di persone. Nascosta fra queste, piccola piccola in tutto il suo metro scarso di altezza, ecco Kimberly Hall. La bambina avanza trascinando i piedi lungo il corridoio centrale, con un orsacchiotto di peluche sotto il braccio. Il silenzio viene interrotto dal bisbigliare del pubblico: «È la bambina di Brittany!» Abbiamo avuto la peggio e ora Kline sfrutta la vittoria al massimo. In quella famosa udienza Harry e io avevamo sostenuto con vigore che Kimberly non avrebbe potuto aggiungere nulla in fatto di elementi probatori, ma Kline l'ha avuta vinta. La bambina ha testimoniato di aver udito un litigio violento prima della morte della madre. E, anche se ispirata da un suggerimento di Radovich, è stata in grado di identificare come quella di un uomo la voce dell'altra persona che quella sera si trovava con la madre. Ho rinnovato la richiesta che questo venisse stralciato dal verbale di quell'udienza, richiesta che Radovich ha respinto. Se la bambina lo ripetesse qui, sul banco dei testimoni, potrebbe diventare un motivo di appello. Ma è chiaro che lo scopo per cui Kline ha chiamato sul banco questa teste non è tanto strumentale, quanto tattico. Kimberly è qui per ricordare alla giuria la perdita irrimediabile causata da questo crimine, la sofferenza che non è certo terminata con la morte della madre. È una mossa audace da parte di Kline, e presenta rischi per entrambe le parti. Kimberly è attorniata da una squadra di persone, la nonna, la psicologa del Servizio Protezione Infanzia e da Julie Hovander, il sostituto procuratore che in tutti questi mesi è riuscito a stabilire con lei un rapporto di fiducia.
Fanno salire la bambina sul banco dei testimoni. La nonna raggiunge il suo posto oltre la balaustra, nel settore destinato al pubblico. La psicologa prende posizione di fianco a Kimberly, vicino al banco, da dove può manovrare la bambina e farla parlare a suo piacimento, come in un teatro delle marionette. Io mi oppongo e Radovich, dopo molte proteste da parte della psicologa, le ordina di andare a sedersi. «Se avremo bisogno di lei», le dice, «sarò il primo a chiamarla.» Si attira un'occhiata feroce da parte della donna che finalmente si siede, ma al di qua della balaustra, al tavolo dell'accusa di fianco al sostituto procuratore. Quando obietto nuovamente, Radovich fa un'eccezione e mi ingiunge di star zitto. La situazione è molto delicata e lui non vuole spaventare la bambina. Stringendo a sé l'orsacchiotto, Kimberly siede impettita al suo posto. Kline e i suoi scagnozzi hanno avuto mesi di tempo per istruirla e offrirle suggerimenti, alcuni nemmeno troppo sottili. La nostra paura è che adesso Kimberly, grazie a queste imbeccate, possa dire cose che non ha detto durante la prima udienza. Questo mi metterebbe nell'impossibile posizione di doverla incriminare sulla base delle sue dichiarazioni precedenti, cosa che la giuria certo non apprezzerebbe. Acosta si ritroverebbe condannato per omicidio perché il suo avvocato ha maltrattato una bambina sul banco dei testimoni. «Cosa ne pensa?» mi chiede Acosta. «Confermerà la sua testimonianza?» «Chi può dire cosa passa nella testa di una bambina?» «Esattamente quello che pensavo io.» C'è uno scambio di battute sussurrate tra il giudice e Kimberly. Lui le fa grandi sorrisi. Non la fa giurare, ma le chiede se conosce la differenza tra la verità e le bugie. Lei risponde che la verità è quello che è accaduto davvero, mentre le bugie sono cose inventate. «E tu sai quale delle due è buona?» «La verità.» «E prometti che oggi ci dirai la verità?» «Sì», risponde la bambina. «Solo la verità, niente bugie?» «Sì.»
È chiaramente più spigliata nelle sue risposte di quanto fosse mesi fa. Lo prendo come un segno del lavoro svolto dall'accusa. «A lei la teste», dice Radovich. La Hovander è un rullo compressore, per niente elegante nello stile, ma metodica, uno di quegli avvocati che con ogni gruppo di domande fanno due passi avanti e tre indietro. «Come si chiama il tuo orso?» chiede, per stabilire un rapporto di fiducia. «Panciavuota», risponde la bambina. È l'orsacchiotto che le è stato regalato dalla polizia dopo che Binky, quello che aveva la sera dell'omicidio, è stato sequestrato come prova. «Perché si chiama Panciavuota?» «Perché gli orsi hanno sempre fame e lui non può mangiare.» «Già, è vero.» Kline si è preso un vantaggio tattico. Il rapporto tra la Hovander e la bambina è gentile, rilassato. Temo che Harry non se la caverà altrettanto bene. Viene appurato velocemente che una bambina di cinque anni non ha la percezione del tempo o delle date. Kimberly non è in grado di dare alcun aiuto riguardo all'ora della morte. Tutto quello che riesce a dire è che quando la mamma ha cominciato a litigare e a fare rumore, fuori era ancora chiaro. La Hovander ha maggior fortuna per quanto riguarda la geografia del luogo del delitto, ma niente di nuovo rispetto alla prima udienza. Kimberly stava giocando nella sua stanza quando è scoppiata la lite tra sua madre e la persona che poi l'ha uccisa. Pare che la cosa sia degenerata in fretta e che nel giro di un paio di minuti la bambina fosse così spaventata dal tono delle voci e dai rumori provenienti dal soggiorno, che è corsa a nascondersi nel ripostiglio in corridoio. «Hai visto qualcosa?» le chiede la Hovander. Per tutta risposta la bambina scuote la testa in maniera decisa e inequivocabile. Viene messo a verbale che la piccola non ha visto niente. «Hai visto l'altra persona che era con la tua mamma quella sera?» «No.» «Però hai sentito la voce di quell'uomo?» «Obiezione.» Oggi tocca a Harry. Abbiamo deciso che sarà lui a condurre il controinterrogatorio della bambina. Non gli è stato detto il perché di questa mia decisione, ma credo che l'abbia intuito. Da quando Kimberly
mi ha identificato come l'uomo che si trovava a casa sua quella sera, non ho voluto tentare oltre la sorte. A dire il vero avevo persino pensato di non presenziare, oggi, ma poi ho deciso di rischiare. Se non ci fossi stato, Acosta si sarebbe insospettito. «Su quali basi?» chiede Radovich. «Si presuppongono fatti non provati», dice Harry. «Il sesso dell'altra persona presente quella sera.» «Accolta.» «Kimberly, hai sentito un'altra voce, quella sera, a parte quella di tua mamma?» La bimba annuisce. Radovich ordina alla stenografa di metterlo a verbale. «Era la voce di un uomo o di una donna?» «Di un uomo.» Lo dice senza esitazione, e mi rendo conto che, vero o falso, ora lei ne è convinta. Potenza della suggestione. Adesso c'è un po' di confusione, poiché la bambina cambia versione più volte, ma i punti essenziali restano gli stessi. A un certo momento, dopo il fatale litigio, Kimberly è uscita dal ripostiglio e ha trovato il corpo senza vita della madre sul pavimento, immerso in una pozza di sangue. «Ho cercato di svegliarla», dice, «ma non ci sono riuscita. Così ho preso Binky.» «Binky è il tuo orsacchiotto?» «Uh uh.» «E dove l'hai trovato?» «Di fianco alla mamma. Sul pavimento.» «Cosa ci faceva Binky vicino alla mamma?» «L'avevo lasciato sul tavolo quando sono tornata da casa della baby sitter.» «Ricordi che ora era quando sei tornata?» Kimberly guarda il soffitto e fa una smorfia. «Le dieci. O forse le otto.» Spara numeri a caso, lasciandoci nel dubbio che confonda l'ora con il numero di scarpe o l'età di un'amichetta. Per i bambini di questa età i numeri non hanno significato e sono assolutamente intercambiabili. La Hovander cerca di chiarire questo dettaglio. Una precedente testimonianza ha già stabilito che Brittany è andata a prendere la figlia dalla baby sitter subito dopo le cinque e che probabilmente è arrivata a casa tra le cinque e mezzo e le sei. Quel giorno era tornata dal lavoro prima, poiché si era presa mezza giornata di ferie per motivi non noti.
«E così hai preso Binky. E poi cos'hai fatto?» «Mi sono seduta vicino alla mamma e ho cercato di svegliarla. Ma non ci sono riuscita.» Sul volto di parecchi giurati è dipinta un'espressione tormentata. L'immagine di una bambina seduta per terra di fianco al cadavere della madre, con l'unico conforto della pelliccia sintetica di un orsacchiotto, non evoca certo pensieri di clemenza verso l'imputato. «E dopo sei tornata nel ripostiglio?» La bambina annuisce. «E ho preso Binky.» «Perché? Perché sei tornata nel ripostiglio?» «Perché l'ho sentito arrivare.» «Chi?» «L'uomo che ha fatto male alla mamma.» «E da dove veniva?» «Da fuori. Ha aperto la porta.» «Ti ha vista?» Scuote la testa, perplessa, forse stupita lei stessa dal fatto che lui non l'abbia vista. «Sono corsa via.» «Avevi paura?» Kimberly annuisce ripetutamente. «Pensavi che quella persona ti avrebbe fatto del male?» «Sì, perché aveva fatto del male alla mamma.» «Obiezione. Si chiede al teste di esprimere un'opinione.» «Accolta. La giuria non ne tenga conto», dice Radovich. Ma è poco probabile che gli diano retta. La Hovander sta aumentando la pressione. I giurati sono come rapiti. La tattica è quella di sondare le paure di Kimberly per comunicare la chiara impressione che Acosta, che aveva già ucciso la madre, non avrebbe avuto altra scelta che quella di uccidere anche la bambina, se avesse saputo che lei era lì. Accusato di un crimine non commesso. «Hai visto quell'uomo quando è tornato?» «Le sue scarpe», dice. «Erano nere e brillavano.» A questo punto tutti gli occhi dei giurati sono puntati sotto il nostro tavolo. Sono tentato di farlo anch'io, ma mi trattengo. «Lo hai visto in faccia?» Scuote la testa. «Come hai fatto a vedergli le scarpe?» «È andato in camera della mamma. Ho visto passare i suoi piedi.»
«Dal ripostiglio in cui ti eri nascosta?» Annuisce. «La porta era aperta.» «Tutta aperta?» «Solo un pochino.» «Quindi sei andata di nuovo a nasconderti nel ripostiglio quando hai sentito tornare l'uomo?» «Binky e io siamo andati nel ripostiglio. Di corsa.» «E sei rimasta lì?» Un cenno del capo convinto. «Sai dirmi quanto tempo sei rimasta lì?» «Tanto. Lui è venuto ed è andato via, poi è tornato ed è andato via di nuovo.» «Spiegaci bene», dice la Hovander. «Quell'uomo è tornato più di una volta?» Kimberly annuisce. A questo punto sono confuso. È la prima volta che sentiamo questa storia. Subito penso che Kimberly stia infiorando il racconto, ma poi capisco. La bambina sta dicendo la verità. Senza dubbio la prima volta era l'assassino, tornato per prendere il corpo. La seconda, Lenore e io. «Sai cos'ha fatto l'uomo quando è tornato?» Scuote la testa. «Sono rimasta nel ripostiglio per tanto tempo. E quando sono uscita la mamma non c'era più.» «E allora cos'hai fatto?» Kimberly guarda per un attimo la giuria e poi dice: «Sono uscita e ho dato da mangiare a Binky». «Hai sentito qualcosa mentre eri chiusa nel ripostiglio?» Per un attimo resta immobile. «Tesoro, hai sentito qualcosa?» «La mamma», dice. «Hai sentito la mamma?» C'è una certa agitazione nel box della giuria, e dal pubblico si leva un mormorio. Kimberly annuisce. «Ha urlato. Subito dopo che l'uomo è tornato indietro la prima volta.» Acosta e io ci guardiamo. Harry è perplesso. E poi, finalmente, capisco. Il mio sguardo incrocia quello di Radovich nel momento esatto in cui anche lui giunge alla stessa conclusione. La bambina, nascosta nel ripostiglio buio, stretta al suo orsacchiotto, ha sentito il richiamo della madre dall'ol-
tretomba, ciò che il coroner ha confermato dal banco dei testimoni: il rantolo della morte di Brittany Hall. Dopo una breve pausa, la Hovander cambia rotta. Con qualche domanda preliminare chiede alla bambina di identificare Binky, l'orsacchiotto di peluche posato sul tavolo delle prove. Hanno appena cominciato quando Kimberly chiede di riaverlo indietro. Harry sembra divertito all'idea di un tira e molla tra un pubblico ministero e una bambina di cinque anni per un animale di pezza. La Hovander cerca di proseguire, ma la bambina non cede. A un certo punto si volta verso il giudice seduto più in alto e gli chiede se Binky è in prigione. Radovich non sa cosa rispondere. Alla fine ordina alla Hovander di darglielo per un po'. Questo dà origine a una consultazione tra il giudice e tre avvocati. Come scavarsi la fossa da soli. «Sul giocattolo c'è il sangue della madre», dice la Hovander. «La bambina dovrebbe indossare guanti di gomma. Sono precauzioni di carattere igienico.» Non vuole assumersene la responsabilità. Harry ribatte che i guanti darebbero un'immagine negativa alla giuria. Un altro elemento che l'accusa può usare contro Acosta. «Allora glielo dica lei che non lo può riavere», risponde la Hovander. «Si è cacciata lei in questo pasticcio, e ora se ne tiri fuori da sola.» «Questo non ci aiuta a risolvere il problema», conclude Radovich. Chiama a raccolta le truppe. Il compito ingrato tocca alla psicologa. S'infila un paio di guanti di gomma, prende Binky dal tavolo delle prove e si avvicina a Kimberly. Noi torniamo ai nostri tavoli, e il giudice al suo scanno. Si sente bisbigliare. La psicologa parla per qualche secondo con Kimberly, cercando una soluzione ragionevole. Per tutto il tempo la bambina continua a fare gesti nervosi, a tirarsi una manica del vestito, poi un bottoncino a forma di cuore sul davanti, finché non lo strappa via. Proprio quando pensiamo che la donna abbia risolto la crisi, Kimberly a voce alta chiede di sapere se Binky sta male. «Cosa gli avete fatto?» domanda a Radovich. «Non lo trattate bene.» Il giudice alza le mani col palmo rivolto in avanti, stringendosi nelle spalle, come per dire che non è colpa sua. È un comico momento di distensione. Persino Acosta sta ridendo. La psicologa è tutta sporta in avanti oltre la balaustra e cerca di attirare l'attenzione della bambina. Prima che la donna possa reagire, Kimberly si
volta di scatto verso di lei e le strappa di mano l'orsacchiotto. Lo stringe a sé, scende dalla sedia e va a mettersi nell'angolo più remoto del palco dei testimoni, dove non può essere raggiunta. La psicologa è rimasta di sasso. Chi avrebbe mai pensato che una bambina potesse essere così svelta? Allunga un braccio e cerca di riprendere l'orso dalle mani di Kimberly. Nell'aula si sente un urlo lacerante. Scena isterica sul banco dei testimoni, pioggia di lacrime e piccole dita che sferzano l'aria. A questo punto la nonna di Kimberly si sta precipitando oltre il cancelletto come mamma orsa che corre a proteggere i suoi piccoli, inseguita da un usciere che cerca di bloccarla. Radovich lo richiama. «Ora basta», dice il giudice. «Lasciatela stare. Può tenere l'orso. E lei torni a sedersi», conclude, rivolto alla psicologa. «Lei invece può stare», dice alla nonna. Nonostante l'intervento della nonna, perché Kimberly smetta di piangere ci vogliono parecchi minuti, durante i quali la giuria viene fatta uscire. Ora siedono tutt'e due sul banco dei testimoni, la bambina in grembo alla nonna, con Binky tra le braccia. A un certo punto la piccola si mette a coccolare l'orsacchiotto come se fosse vivo e gli paria, poi gli dà da mangiare il bottone strappato dal vestitino. Il bottone scompare nella bocca dell'orso. La Hovander si avvicina al banco dei testimoni. Non riesco a sentire la conversazione, ma sembra molto animata, con un sacco di sorrisi e risate tra la bambina, la nonna e l'avvocato che tenta di riparare i danni. Quando è chiaro che Kimberly si è calmata, la giuria viene richiamata in aula e la nonna torna al suo posto. La Hovander e Kimberly sono di nuovo amiche, ora che il teste stringe tra le braccia entrambi gli orsi. «Sai che devi continuare a dire la verità.» Radovich la guarda al di sopra degli occhiali. «Uh uh.» «Proceda», dice, rivolto alla Hovander. «Kimberly, prima ci hai detto di aver sentito la voce di un uomo la sera che la tua mamma è stata ferita. Te lo ricordi?» Annuisce. «Pensi che potresti riconoscere quella voce se la sentissi di nuovo?» «Forse», dice la bimba con una vocetta allegra. La questione è stata a lungo dibattuta a porte chiuse, dopo molte discussioni nell'ufficio del giudice. La Hovander vuole che Acosta dica qualche parola, presumibilmente le parole violente che la bambina ha udito quella
sera, per vedere se lei riconosce la sua voce. Noi abbiamo ribattuto che questo è inaccettabile data l'alta suggestionabilità di un teste così giovane, anche se il Quinto Emendamento qui non è in discussione. La legge sostiene che l'identificazione della voce non è una prova testimoniale, ma, piuttosto, è a livello di un prelievo del sangue o delle impronte digitali. Radovich, che cerca sempre di trovare la giusta via di mezzo, ha deciso che l'accusa ha diritto a un confronto di voci registrate, ma senza frasi pronunciate in tono rabbioso. Sostiene che questo neutralizzerà l'effetto di suggestione dell'esperimento. Si udranno tre voci distinte, una scelta dall'accusa, una da noi, e nel mezzo quella dell'imputato. Noi abbiamo scelto un ispanico, un impiegato che lavora presso un altro studio legale che ha una voce baritonale simile a quella di Acosta, e che come lui ha un accento spagnolo. Preparano l'attrezzatura e la Hovander dice a Kimberly di ascoltare attentamente. Fanno sentire la prima voce. È stridula, quasi nasale, cosicché si fa fatica persino a capire che si tratta della voce di un uomo. «Ciao, Kimberly. Riconosci la mia voce?» Tutto qui. La Hovander le dice di non rispondere ancora e di ascoltare prima le altre due. Poi viene quella di Acosta, che legge lo stesso testo. E poi il nostro uomo. Kimberly è stordita. È la prima volta che vedo il suo faccino rivelare la pressione cui è sottoposta. «Ne hai riconosciuta una?» le chiede la Hovander. Lei scuote la testa. «Vuoi risentirle?» Harry mi guarda, incerto se sollevare un'obiezione. Radovich ordina di far sentire la registrazione ancora una volta. Il nastro riparte. «Ne riconosci qualcuna, adesso?» La vita appesa al capriccio di una bambina. Stringo il braccio di Acosta sotto il tavolo. Kimberly fa una smorfia, come fanno i bambini quando cercano di indovinare in quale mano è nascosta la caramella. «Le ultime due», dice alla fine. La Hovander assume un'espressione trionfante. «Forse dovremmo far ri-
sentire le ultime due.» Harry si oppone, ma Radovich respinge la sua obiezione. L'impiegato armeggia con la cuffia e salta la prima voce, così questa volta si sente per prima quella di Acosta. Osservo un rivoletto di sudore scendergli lungo la guancia fino al mento e, da lì, cadere sul tavolo. «Riconosci una delle due voci?» Mi preoccupa il fatto che la voce di Acosta sia la prima. Le prime impressioni sono quelle che contano, con i bambini. «Credo che sia lui», dice Kimberly. Acosta guarda me e poi Harry. «Quale?» chiede la Hovander. La bimba le lancia un'occhiata disperata, come se non capisse la domanda. Credeva fosse finita. E poi capiamo. La bambina crede che le due voci appartengano alla stessa persona. La Hovander cerca di sostenere che la teste ne ha scelto una, e vuole chiarire quale con un'ulteriore domanda. Radovich le dice di no e si sporge verso la bambina. «Kimberly, secondo te quante voci ci sono sul nastro?» Lei guarda la nonna, in cerca di aiuto. «Non devi avere paura», dice Radovich. «Se non lo sai, puoi dirlo.» «Non lo so.» Kimberly si aggrappa a questo come a un salvagente. Acosta si trasforma in un ammasso di gelatina. Radovich ci ordina di avvicinarci. Andiamo tutti, lasciando al tavolo Acosta, sorvegliato da due guardie. La stenografa si infila in mezzo a noi. «È confusa», dice il giudice. «Non sono intenzionato a continuare.» «Solo un paio di domande», dice la Hovander. «Non è giusto!» interviene Harry. «Viste le pressioni cui è stata sottoposta, dirà qualsiasi cosa che secondo lei noi vogliamo sentire. Non riusciva neppure a dirci quante voci ci fossero sul nastro.» «Perché voi avete fatto i furbi», dice la Hovander. «Sì, invece il vostro uomo aveva bisogno di qualcosa per le adenoidi», ribatte Harry. «Signori!» Radovich riprende in mano la situazione. «Così non risolviamo niente.» «Potrei fare ancora un paio di domande?» insiste la Hovander. «Cosa vuole chiedere?» «Se riconosce una delle due voci.» «Ma se ha già detto che per lei si tratta di una sola voce!» obietta Harry.
«Ci dovrebbe essere consentito di chiarire questo punto.» «Giusto», interviene Harry. «E poi, quando le avete fatto capire che sul nastro ci sono due voci, vi mettete a fare ambarabaciccicoccò tre civette sul comò. Non è questo il modo di stabilire la verità.» «È questo che mi fa paura», dice Radovich. Harry dice a Radovich che vuole ricusare il teste per quanto riguarda la sua capacità di riconoscere le voci. La Hovander obietta, ma il giudice la considera una richiesta giusta. Sciogliamo il gruppo e Harry resta solo davanti al banco dei testimoni. Kimberly lo fissa, incerta su come considerare questo nuovo sviluppo. «Kimberly, io sono il signor Hinds. Come stai?» Lei lo guarda senza rispondere. «Riconosci la mia voce, Kimberly? Somiglia a quella che hai sentito quella sera?» Un altro adulto da affrontare, un'altra minaccia. Kimberly annuisce. «La mia voce sembra quella che hai sentito quella sera?» Altri cenni affermativi col capo. «Ricordi di aver udito la voce del giudice?» Harry indica Radovich. Kimberly annuisce. «E la sua voce sembra quella che hai sentito quella sera?» Questa volta fa cenno di no. «Vostro onore, mi è concesso un altro esempio?» Radovich fa cenno a Harry di procedere. Harry si volta verso di me e mi chiede di alzarmi. In questo momento potrei anche ucciderlo. «Si alzi», mi dice. Obbedisco. «Dica qualcosa.» Mi vengono in mente solo improperi all'indirizzo di Harry. «Dica qualcosa.» «Riconosci la mia voce, Kimberly?» Prima ancora che io abbia terminato la frase, lei annuisce decisa, e pare farsi piccola piccola sulla sedia. «Visto?» conclude Harry, trionfante. Torniamo dal giudice. Questa volta Radovich ha chiesto anche alla psicologa di unirsi a noi. «Se conosce la voce e non la percepisce come una minaccia, non le sembra la voce di quella sera, altrimenti sì.» Lezione di psicologia spiccio-
la secondo Harry. «Dipende più da come si sente lei che da quello che ha realmente udito o che ricorda.» «Lei cosa ne pensa?» chiede Radovich alla psicologa. «Sono d'accordo. Sembra proprio così.» «Allora ci fermiamo qui», conclude Radovich. «Ha altre domande da porre al teste?» chiede alla Hovander. «Nient'altro», risponde lei. «E lei?» chiede a Harry. Harry e io ci consultiamo, un po' in disparte. «Non faremo certo dei punti tormentando una bambina», dice Harry. «Fino a questo momento non ci ha danneggiati, ma non si sa mai.» Sono d'accordo con lui. «Inoltre», prosegue Harry, «pare proprio che tu non le sia simpatico.» Mi rivolge uno dei suoi sorrisi enigmatici, leggendomi nella mente. Prima che possa aprire bocca per protestare e dire qualche stronzata che Harry già si aspetta, lui mi chiede: «Perché sfidare la sorte?» «Abbiamo finito con il teste», dice a Radovich. «Bene», conclude il giudice, tornando al suo posto. «Faremo una pausa per il pranzo», annuncia. «La teste può andare. Non c'è bisogno che torni», aggiunge, rivolgendosi alla nonna. I giurati sembrano sollevati nel sentire questo. Il giudice ordina loro di non parlare del caso e poi dice che per oggi sono liberi. Radovich ha altri impegni nel pomeriggio. Harry e io torniamo lentamente verso il tavolo. «Non è andata poi male», dice Acosta. «Abbiamo schivato un proiettile», ribatto. Harry lo sta fissando come se la bambina sapesse quello che stava dicendo, come se la voce che ha sentito quella sera fosse proprio quella di Acosta. Harry non è mai del tutto salito a bordo del treno della difesa. Qualcuno, uno dei cancellieri, ha dato qualche gelatina a Kimberly. Stanno cercando di convincerla a mollare Binky, per rimetterlo sul carrello delle prove. La bambina, invece, vuole portarselo a casa. Quando mi volto a guardare, vedo che Kline ha finito con i suoi impegni fuori dell'aula. Se ne sta nascosto in un angolo e confabula con la Hovander, che senza dubbio lo sta aggiornando sugli sviluppi della mattinata, cercando di stabilire quanto danno ci hanno arrecato. Mentre li osservo, la Hovander sta guardando la scena al banco dei testimoni, e ride. Due impiegati e un usciere stanno cercando di convincere
Kimberly. Sono impegnati in una lotta per l'orso, che deve tornarsene sul tavolo delle prove. Compaiono altre gelatine. La bambina ne infila due in bocca all'orsacchiotto. A questo punto il solo che non sta ridendo è Kline. Come l'unica persona sobria in un gruppo di ubriachi, se ne sta lì impietrito, incantato, e ascolta le risate mentre dita minuscole e gelatine scompaiono nelle fauci pelose del piccolo animale. 27. «Abbiamo soltanto un minuto. Hai pensato a quello di cui abbiamo parlato l'altro giorno, ai discorsi di Kline?» Lenore e io siamo nel mio ufficio, con la porta chiusa. Harry è fuori, al bancone della reception, impegnato al telefono, ma sta per raggiungerci per una riunione. «Mi sono spremuta il cervello», dice Lenore, «ma non so proprio di che cosa stesse parlando. Quell'uomo è paranoico.» Stiamo discutendo della conversazione che ho avuto con Kline alla cena del governatore, e delle sue elucubrazioni sul fatto che Lenore possa sapere qualcosa che non dice. «Vuoi sapere la mia opinione?» dice Lenore. «Spara.» «Sta cercando di seminare zizzania.» «Perché?» Lenore ride. «Riuscire a iniettare il seme della discordia nelle vite degli altri è uno degli scopi principali di Kline. Quell'uomo è matto da legare.» Questa non me la bevo. Le parole di Kline non erano un'oziosa presa in giro. C'è qualcosa di molto grosso in questo caso che Kline non sa. Il trucco è scoprirlo prima che lo scopra lui. Lenore mi osserva in silenzio per qualche secondo, mentre io rifletto su questo. «Credi che io ti stia nascondendo qualcosa?» mi chiede. «No. No. È possibile che si tratti di qualcosa che sai, ma che non riesci a collegare.» «Di' a Kline che ti dia una traccia. Potreste giocare agli indovinelli.» «Già.» «Tu sai tutto quello che so io. Non ti ha fatto capire di cosa potrebbe trattarsi?»
«No.» Mi gratto l'ombra di barba sul mento. Oggi non abbiamo udienze e ho concesso un giorno di vacanza alla mia faccia. «Ma credo che si riduca a due possibilità», proseguo. «La tua conversazione con la Hall, quel giorno nel tuo ufficio. Sembra profondamente preoccupato che lei ti abbia detto qualcosa che a lui non ha confidato.» «Sono i primi segni della paranoia.» «Può essere. Forse è per questo che ti ha licenziata.» Questo sembra accendere l'interesse di Lenore. «Perché Brittany avrebbe dovuto confidare a me i suoi segreti?» La guardo con aria interrogativa. «Forse è convinto che tra donne... che lei potesse avere più confidenza con te.» «Se anche fosse, non ha niente a che vedere con il sesso», ribatte lei. «Però lui è preoccupato di questo.» «Sono sicura che si potrebbe riempire un fascicolo intero con le sue ossessioni. E l'altra?» «Come?» «Hai detto che c'erano due possibilità.» «Ah, quella... è solo un'ipotesi.» «Cos'è?» «Il fatto che abbiano trovato la tua impronta digitale sulla porta d'ingresso dell'appartamento della Hall. È possibile che se lui pensa che tu sei entrata...» Lascio la frase in sospeso. «Pensa che io abbia trovato qualcosa?» «È possibile.» «E cosa?» «Non saprei.» Questo le mette in moto il cervello. «Non gli avrai detto del post-it con sopra il nome di Tony?» «Ho l'aria dello stupido?» «Pensi che lui sappia qualcosa?» «No, a meno che non gliel'abbia detto tu. Ci sono solo cinque persone che sanno di quell'appunto. Una è morta, poi ci sono Tony e Acosta; le altre due sono sedute in questa stanza.» Sono di gran lunga troppo vago e questo stuzzica la sua curiosità. «Cosa intendi fare a proposito di quel biglietto? Non me l'hai ancora detto.» «E ho le mie buone ragioni. Ti basti sapere che non sarai chiamata a te-
stimoniare.» «Allora lascerai perdere?» mi chiede. Lenore ha altre priorità: Tony. Il sangue non è acqua. «Non dovremmo parlarne», rispondo. «Ma non intendi chiamarmi a deporre e chiedermi del biglietto?» «No.» Fa un sospiro di sollievo. «Ti devo confessare che ho passato qualche notte in bianco.» Mi fa tenerezza. La lealtà di Lenore nei confronti di Arguillo ha radici profonde, che vanno oltre la semplice parentela. È il tipo di legame che nasce durante l'infanzia, quando si cresce insieme sulla strada. Qualche mese fa, in un momento di intimità in cui aveva abbassato la guardia, me l'ha spiegato. Mi ha raccontato di un incidente capitatole quando aveva dodici anni. Un gruppo di ragazzi, alcuni poco più grandi di lei e tre quasi adulti, avevano voluto prendersi delle libertà cui lei si era decisamente opposta. Per farla breve, Tony e un altro amico l'avevano salvata da uno stupro di gruppo e per questo si erano beccati una carica di botte dagli altri. Lei non l'ha mai dimenticato. «So che hai dei doveri», mi dice, «ma quel biglietto non portava a nulla, era solo un pezzetto di carta senza significato.» È visibilmente sollevata al pensiero che io non intenda usarlo. Sorride e poi mi chiede: «Posso dirlo a Tony?» «Dirgli cosa?» «Che è fuori dai guai.» Lenore ha portato il significato delle mie parole un po' troppo oltre. «Non ho detto questo.» «Ma hai detto che non mi avresti chiamata a testimoniare.» «Vero. E non lo farò.» Mi guarda con aria perplessa, poi capisce. «Non vorrai chiamare a deporre Tony?» «Non posso dirti altro.» Ci sono dettagli del caso che, ora che lei ne è fuori, non posso rivelarle. «Stai facendo un errore», mi dice. «Non caverai niente da lui.» «Perché? Perché non me lo vuole dire?» «Perché non c'è niente da dire», ribatte. «Avevano un appuntamento che è stato annullato. L'unico motivo per cui mi ha chiesto di toglierlo era per via del...» «Lo so, dell'imbarazzo.» Finisco la frase al posto suo.
«Esattamente. Se lo chiami a testimoniare non avrà altra scelta che negare tutto.» La guardo con aria perplessa. «Anche il fatto che lui e la Hall avevano un appuntamento per quella sera?» La sua espressione mi conferma che Tony sarebbe capace di mentire anche su questo. «Ma sarebbe spergiuro.» «È irrilevante. L'appuntamento è stato annullato.» «Solo se la giuria gli crede.» Evidentemente Lenore gli crede. «Ma non hai alcuna prova», insiste. «Senza la mia testimonianza non puoi dimostrare che il biglietto esisteva. E anche se io testimoniassi, anche se fossi in grado di produrre il biglietto, sarebbe comunque una testimonianza indiretta.» «È possibile», ammetto. «Diciamo che abbiamo opinioni diverse. E che non possiamo parlarne.» Non voglio spingermi oltre. «Sai qualcos'altro?» insiste lei. Sembra abbia fatto parecchi passi indietro. «Cos'è?» Sento la voce di Harry nell'ingresso. Di solito lo si sente anche senza telefono, ma ora sta proprio gridando. «Cosa diavolo sta succedendo là fuori?» Lei è più vicina di me alla porta, ma ignora la mia domanda. «Allora, vuoi dirmelo o no?» «Non posso.» «Ah, allora è così?» Sta raccogliendo le sue carte, la valigetta, la borsa. «Vorrei potertelo dire, ma non posso.» Fisso gli occhi scuri e risoluti di Lenore, e so che la prima persona con cui parlerà dopo aver lasciato l'ufficio sarà Tony. E ce l'avrò spinta io, con il mio silenzio. Si sentono altre urla. Mi rendo conto che Harry non è al telefono. Le voci sono due: c'è qualcuno con lui. Mi alzo e vado alla porta. Quando la apro, mi trovo davanti gli occhi infuocati e rabbiosi di Phil Mendel. «Proprio la persona che volevo vedere», dice. «Che cazzo è questo?» In mano ha un foglio di carta tutto accartocciato. «È la sua citazione», mi spiega Harry. «A quanto pare è un po' seccato.» «Sbagliato. Io non sono seccato, sono incazzato nero!» La sua è tra le ultime citazioni che Harry ha inviato, a Mendel e un centinaio di altre persone, nell'eventualità che il nostro caso si sviluppi come
una piovra, con tentacoli in ogni direzione. «Bene», dice. «Andate pure avanti con la vostra farsa al palazzo di giustizia. Sono fatti vostri, ma non provate a tirarci dentro anche me. O l'Associazione. Perché vi prenderemo a calci in culo.» «Pare ci abbiate già provato.» «Non so di che cosa stia parlando.» Ma il suo volto dice il contrario. «L'irruzione in casa mia», gli ricordo. «Ah, quella», dice, con un tentativo di sorriso. «L'ho letto sul giornale. Certa gente è convinta che lei se la sia cavata per un pelo.» «Sarà gente che sa.» «In futuro dovranno essere più veloci», sentenzia. «Già. E molto più silenziosi.» Mi guarda con espressione interrogativa. «Il rumore del coperchio dello sciacquone», gli spiego. Capisco che questo era l'elemento che gli mancava. Ora sa come ho fatto a scoprire la droga così in fretta. Ne prende nota mentalmente. L'uomo della televisione ne sentirà delle belle. «La prossima volta che i suoi uomini decidono di venire a nuotare nel mio gabinetto, mi faccia un favore.» Non me lo chiede, ma mi guarda come per dire: «Quale?» «Gli dica di lavarsi, prima, così non lasciano il segno dentro la tazza.» Mi lancia un'occhiata perfida e un arrogante diniego. «Non so di che cosa stia parlando.» «Ci pensi. Sono sicuro che le verrà in mente.» Faccio per chiudere la porta. «E questa?» Mi porge la citazione come se io potessi ritirarla. «Fra cinque giorni me ne vado all'estero. In vacanza, a Bali.» Harry, armato di matita, gli chiede la data di partenza e Mendel, senza riflettere, gliela dice. «Fossi in lei, aspetterei a comperare la crema da sole», gli dice Harry. Mendel lo guarda con disprezzo e si rivolge a me, come per appellarsi a una corte superiore. «Allora, questa?» «Spero che serva», rispondo, e faccio per chiudere la porta. «Ottomila dollari di biglietti», dice. «Non rimborsabili. Sarà meglio che serva.» «Se ha qualche problema, parli con la sua agenzia di viaggio», ribatto. Il
fatto è che, almeno sulla carta, Mendel è un agente di polizia. Una volta ricevuta una citazione a comparire, non può non presentarsi in tribunale senza dover rendere conto alla corte. E in questo caso ci sarebbero gravi ripercussioni. «Sono tutte stronzate e lei lo sa benissimo. Io non so un accidente del vostro caso.» «È stato un piacere parlare con lei», gli dico, e chiudo la porta. Continua a inveire contro Harry ancora per qualche secondo, finché Harry non minaccia di chiamare la vigilanza. Poi sente un gran fracasso, come se Mendel avesse gettato a terra tutto quanto stava sulla scrivania. Ancora un paio di imprecazioni e poi la porta dell'ufficio che sbatte con violenza, facendo tremare gli stipiti. Guardo Lenore che mi sta osservando, con la valigetta in mano, di fianco alla porta. «Visto? Questi sarebbero i migliori amici di Tony.» 28. Quando Harry e io iniziamo la nostra esposizione, la apriamo in quell'area di perizie scientifiche nelle quali l'accusa per qualche inspiegabile motivo non si è mai avventurata. Se Kline ha un punto debole, messo a nudo dall'inesperienza in aula, è proprio quello di non essere capace di giocare d'anticipo. Si è lasciato dietro alcuni interrogativi, inquietanti questioni irrisolte che avrebbe fatto meglio a esplorare, invece che cederle a noi. Lewis DeShield è un esperto in metallurgia, e più specificamente nell'arte di separare tracce di elementi, nel confrontare campioni di sostanze note con altri provenienti da scene di delitti. Gettiamo le basi per la sua deposizione illustrando il suo curriculum, la preparazione e l'esperienza professionale che gli danno diritto di testimoniare in qualità di esperto. Kline si offre di accettare le credenziali di DeShield nel tentativo di non farle presentare alla giuria. Noi rifiutiamo e finalmente, venti minuti dopo, arriviamo al nocciolo della questione. «Signor DeShield, lei ha esaminato il luogo del delitto, in questo caso l'appartamento della vittima, lo scorso 28 agosto?» «Sì, su vostra richiesta.» «E può dire alla giuria cos'ha trovato nel corso della sua indagine?» «Ho ispezionato la zona del soggiorno e in particolare un tavolino di me-
tallo e cristallo. Sulla parte inferiore del tavolino ho rilevato graffi sulla cornice di ferro e tracce di un altro metallo, estraneo alla struttura. Le ho fotografate e poi, con l'aiuto di appositi strumenti, ne ho prelevato alcuni campioni, li ho chiusi in una busta per le prove e li ho portati nel mio laboratorio per analizzarli.» Prendiamo la busta da una scatola che contiene i reperti. DeShield la identifica e noi la facciamo contrassegnare dal cancelliere, assieme ad alcuni lucidi e fotografie. Faccio portare in aula il tavolino, che l'accusa ha già presentato come prova, e DeShield identifica anche quello. Quindi scende dal banco dei testimoni per mostrarci dove ha trovato i graffi e le tracce di metallo, vicino all'angolo in cui si era raccolto il sangue e dove, secondo la testimonianza del coroner, era più probabile che fossero stati inferti i colpi che avevano ucciso Brittany Hall. Poi DeShield torna a sedersi. «Sulla base di quanto ha visto sul posto, si è formato un'opinione di cosa potessero essere quelle tracce di metallo sul tavolino?» «Ho pensato che fossero graffi lasciati da un gioiello. Nelle tracce sembrava esserci dell'oro.» A sostegno di quanto dice, DeShield utilizza ingrandimenti fotografici montati su cartelloni. Li piazziamo su due cavalletti davanti alla giuria e il teste procede a indicare con una bacchetta la posizione delle tracce. «Sa se la vittima, la sera in cui è stata uccisa, indossava gioielli che avrebbero potuto provocare questi graffi?» «In base alle informazioni che ho, direi di no.» «Quando ha esaminato il tavolino, ha notato qualcosa di interessante riguardo alla posizione di questi graffi?» «Sì. Anche se c'erano alcuni graffi di minore entità sulla superficie vicino al bordo del tavolino, i segni più evidenti sembravano essere stati lasciati sulla parte inferiore. Supponendo che siano stati fatti da un gioiello indossato dall'assassino, sembrerebbe che la forza esercitata per produrli sia stata il risultato di un movimento verso l'alto, come se l'assassino avesse tirato a sé la vittima per prepararsi a infliggerle un altro colpo. Questo è successo parecchie volte, e ogni volta ha lasciato una serie distinta di segni.» «E perché questo le pare significativo?» «Coincide con l'opinione di altri esperti, secondo i quali sono stati inferti più colpi. Ma, cosa ancora più importante, è possibile che, in seguito alla violenza di questi colpi, il gioiello in questione possa essersi danneggiato
ed essere rimasto impigliato nel tavolino, staccandosi da chi lo portava. «Obiezione», dice Kline. «Sono solo congetture.» A questo punto l'investigatore di Kline, John Stobel, si alza e si sporge verso di lui. Vuole dirgli qualcosa, ma Kline lo allontana con un gesto, come se non volesse essere distratto. «È in grado di affermarlo?» chiede Radovich, guardando il testimone. «Non con certezza», risponde DeShield. «Ma dalla profondità dei graffi, di uno in particolare che appare negli ingrandimenti, direi che è possibile.» Il giudice fa un gesto con la mano, come se avesse evitato un rischio. «Respinta.» Il problema, per l'accusa, è che se questo gioiello si è effettivamente staccato, Stobel non l'ha trovato. Torniamo all'analisi delle tracce di metallo che DeShield ha raccolto dalla cornice del tavolino ed entriamo nei dettagli tecnici. La questione, qui, è se i campioni di metallo prelevati dal tavolino possano essere ricondotti a un particolare gioiello. DeShield mi dice che è possibile. «È come confrontare le impronte digitali?» chiedo. Ci pensa un attimo e poi risponde: «Non è sempre così. Siamo in grado di provare o no l'esistenza di particolari caratteristiche della composizione chimica del metallo. È più facile riuscire a escludere la possibilità che determinati campioni corrispondano». Ma ammette che ci sono casi in cui la presenza di quelli che definisce «microelementi», particolari impurità del metallo, possa dare origine a caratteristiche distintive altrimenti non rilevabili. «A seconda della rarità dei metalli che costituiscono questi microelementi, della loro concentrazione rispetto alla composizione totale del metallo, e al numero di queste impurità, ci si può trovare in una situazione in cui significativi punti di confronto rendono possibile una identificazione positiva.» Sta parlando di prove al di là di ogni ragionevole dubbio. Trovato il proprietario del gioiello, trovato l'assassino. «Come con le impronte digitali?» chiedo. «Ci sono stati casi di comparazione di vernici», dice DeShield, «in cui i campioni da analizzare sono stati ricondotti a campioni di riferimento con una probabilità di errore minore di uno su dieci miliardi. È una probabilità molto più bassa di quella che si può avere con le impronte digitali. Quest'analisi era basata sull'esame delle varie impurità presenti nella ver-
nice e sulla quasi impossibilità che la stessa combinazione e concentrazione di queste impurità potesse ripetersi in lotti diversi di prodotto.» «E lo stesso vale per i metalli?» «È possibile.» L'espressione di Kline in questo momento è sinistra. Per un attimo penso sospetti che noi abbiamo realmente trovato il gioiello, che l'abbiamo identificato e che esso non appartenga al mio cliente. Segue una furibonda discussione al tavolo dell'accusa tra Kline e Stobel. L'investigatore sta scuotendo la testa, come per dire che la polizia non la pensa così. Ciononostante, la deposizione offre alla giuria un'alternativa interessante. «Ha avuto la possibilità di analizzare le tracce di metallo prelevate dal tavolino?» «Sì.» «E come è stata effettuata questa analisi?» «A dire il vero ho usato due metodi: la normale spettrografia e un esame con un microscopio elettronico a scansione con un rivelatore di dispersione energetica a raggi X, un procedimento noto come EDX.» Queste cose sono mortali. Vedo che gli sguardi dei giurati cominciano ad appannarsi. Basta parlare di scienza. «Brevemente, che cos'è la spettrografia?» chiedo. «Un piccolo campione, di solito una frazione di grammo, viene bruciato a temperatura elevata. La struttura atomica della sostanza viene eccitata dal calore ed emette onde di energia, che noi osserviamo sotto forma di colore. Queste emissioni vengono fissate su un supporto fotografico e possono essere interpretate come composte da particolari lunghezze d'onda che corrispondono alla precisa composizione chimica della sostanza in esame. È un procedimento molto vecchio ma affidabile.» Allo stesso modo ci descrive brevemente il procedimento chiamato EDX. I giurati sbadigliano. «Quindi siete in grado di determinare con precisione quanto ferro, rame o magnesio, le cosiddette impurità, sono contenuti in un campione di metallo?» «Esatto. In teoria basterebbe avere un campione del metallo trovato sul tavolino e un campione prelevato da un gioiello, li si confronta in base alla composizione chimica, in particolare in base alla presenza di impurità conosciute, i microelementi. Se si rileva un numero sufficiente di microelementi e questi corrispondono, voilà.» «E siete in grado di fare tutto questo con una quantità minima di metal-
lo?» «Sì. A dire il vero non abbiamo neppure usato tutti i campioni prelevati dal tavolino.» «Quindi avete ancora dei campioni?» «Sì.» «E quindi potreste darli alla polizia, nel caso dovesse condurre i propri test?» «Potremmo farlo», risponde, «ma non ce n'è bisogno. Anche loro hanno prelevato campioni dalla stessa area.» È proprio quello che voglio dimostrare: che la polizia ha raccolto prove e le ha poi accantonate. «Lei sa se hanno analizzato i campioni prelevati?» «Obiezione», scatta Kline. «Testimonianza indiretta.» «Sto chiedendo se il teste lo sa per esperienza personale», dico a Radovich. «Lo sa?» gli chiede il giudice. «Sì», risponde DeShield. «Ero presente a parte delle analisi.» «Respinta.» «Hanno condotto test sui gioielli dell'imputato», continua DeShield. «Su tutti?» «Che io sappia, sì.» «Torneremo su questo punto più tardi», dico. «Ora, cos'ha scoperto con le sue analisi?» «Ritengo che, qualunque cosa abbia prodotto quei graffi sul tavolino e lasciato tracce del metallo di cui è composto, sia un oggetto fatto artigianalmente e molto costoso.» «E su cosa si basa la sua opinione?» «Sulla composizione chimica», risponde DeShield. «Un titolo d'oro molto elevato. Ventidue carati, cosa molto rara per i gioielli. Un titolo usato principalmente in India, dove la manodopera a buon mercato rende il disegno e la manifattura dei gioielli artigianali elementi di costo trascurabili. La gente compera oro là per il suo valore intrinseco. Una difesa contro l'inflazione.» «Lei è convinto che il gioiello in questione abbia questa provenienza?» «È molto probabile. Qui ne viene importato molto poco. È troppo costoso», dice DeShield. «Ha trovato qualche elemento distintivo? Qualche impurità nel metallo?»
«No. È questo il problema con l'oro di alta qualità», risponde. «I microelementi - piombo, ferro, magnesio - normalmente non sono più presenti da tempo.» Sul volto di Stobel compare l'imitazione di un sorriso, mentre Kline gli lancia un'occhiata furbesca e arriva persino a dare una manata sul tavolo in segno di sollievo, che poi cerca di mascherare come uno stiracchiamento quando si rende conto di aver attirato l'attenzione. «Quindi non c'è modo di arrivare a determinare la corrispondenza tra le tracce di metallo sul tavolino e un certo gioiello attraverso un'analisi chimica?» «Non con le analisi chimiche. No.» «C'è un altro modo?» «Secondo me, è possibile.» Il sorriso sul volto di Kline si spegne. «Come?» «Dai graffi sul gioiello.» DeShield è venuto a espormi questa idea una settimana fa. Anche se non gli è possibile identificare il metallo per via della sua purezza, l'oro ha un'altra caratteristica particolare. È tenero, malleabile, specialmente quello a ventidue carati. E ora lo spiega alla giuria. «La parte inferiore del tavolino presenta piccole creste, zone in rilievo, tipiche del suo disegno. E sono uniche per dimensioni e spaziatura.» Ha una fotografia che illustra quanto sta dicendo. La sistemiamo su un cavalletto. È un'immagine a dieci ingrandimenti che fa assomigliare i minuscoli rilievi a monti lunari o, a voler essere più precisi - come fa notare DeShield -, ai denti di una chiave. «È sufficiente trovare un gioiello d'oro con incisioni che corrispondano a questi rilievi, e avremo una identificazione certa.» Lascio che questo concetto venga ben assorbito al tavolo dell'accusa, come acque di scarico nella sabbia, e intanto frugo nella nostra scatola dei reperti. Kline è tutt'occhi. Per un attimo si alza addirittura dalla sedia, guardando Stobel. «Vostro onore, possiamo avvicinarci?» «Non ora», risponde Radovich. Kline vorrebbe tanto interrompere questo momento di drammatica tensione. Non ne è sicuro, ma c'è la possibilità che il gioiello sia nelle nostre mani. E non può sapere come ci sia arrivato. Tiro fuori un sacchetto di carta sigillato con un'etichetta per prove. Tutti
questi oggetti sono stati raccolti da noi sotto la direzione e lo sguardo vigile del curatore nominato dalla corte per essere sicuri che non ci siano problemi di manomissione o di interruzione nella custodia delle prove. Il curatore li ha esaminati, sigillati in sacchetti per le prove e consegnati alla corte. «Signor DeShield, ora le mostrerò un sacchetto e le chiederò se può identificarne il contenuto.» Glielo porgo. Lui legge l'etichetta e lo apre. «Si tratta di alcuni gioielli», dice. Kline mi guarda con aria afflitta, come se l'avessi lasciato sospeso per aria. Non si siede e, invece, si avvicina a noi e resta a sbirciare alle mie spalle. «Da dove provengono questi gioielli?» «Dal dipartimento di polizia.» «E loro dove li hanno presi?» «Dall'abitazione dell'imputato», dice. «Sono contenuti in un altro sacchetto siglato dal detective Stobel, e c'è anche un elenco.» «E lei li ha ritirati dalla polizia in presenza del curatore?» «Sì.» «Perché lo ha fatto?» «Perché l'accusa non aveva intenzione di presentarli come prove.» «Obiezione!» esclama Kline. «Come poteva saperlo, lui?» «È un dato di fatto», rispondo. «Voi avete concluso la vostra esposizione e la giuria non li ha visti.» Radovich annuisce. «Respinta. La risposta resti a verbale.» «Sa se questi sono tutti i gioielli che l'imputato possiede?» «Mi hanno detto che questi sono tutti i gioielli appartenenti all'imputato trovati dalla polizia durante la perquisizione effettuata a casa sua.» «E sa se sono stati sottoposti ad analisi chimica o confrontati con le tracce di metallo trovate sul tavolino della vittima?» «Dalle mie informazioni risulta di sì. Ho qui una copia del loro rapporto.» Questi sono i motivi per cui non bisogna mai nascondere le prove che non ti servono. L'avversario te le sbatterà sicuramente sul muso. «E cosa hanno trovato?» «Sono stati in grado di escludere che la composizione chimica delle tracce trovate sul tavolino corrisponda a qualcuno dei gioielli.» «E lei ha esaminato i gioielli dell'imputato?»
«Sì.» «Ed è in grado di confermare le conclusioni del laboratorio della scientifica, secondo le quali i gioielli dell'imputato non corrispondono alla composizione chimica delle tracce rilevate sul tavolino?» «Sì.» «E ha esaminato questi gioielli per vedere se qualcuno di essi presentava segni d'incisioni corrispondenti ai rilievi del tavolino?» «Sì.» «E cos'ha trovato?» «Nessuno dei gioielli presentava segni d'incisioni.» «Che lei sappia, la polizia era in possesso di tutte queste informazioni?» «Sì.» Ora Kline mi guarda fremente di rabbia. «Grazie. Il teste è suo.» Kline non resiste a porgli la domanda più ovvia, ancor prima di arrivare al banco dei testimoni. «Signor DeShield, non ci ha appena detto che probabilmente il gioiello in questione si è rotto ed è stato perso dalla persona che lo portava?» «È una possibilità concreta.» «Quindi è probabile che l'oggetto in questione non si trovasse nell'abitazione dell'imputato quando la polizia l'ha perquisita, giusto?» «Questo è vero», risponde DeShield, «ma in questo caso penserei che la polizia avrebbe dovuto trovarlo sul luogo del delitto.» Quando sente la risposta di DeShield, Acosta mi afferra per un braccio e ridacchia. Questo deve bruciare parecchio a Kline: non solo la polizia ha tenuto nascoste le sue conclusioni sui gioielli trovati a casa di Acosta, ma potrebbe anche aver distrutto le prove, una volta chiarito che non appartenevano al principale sospettato. Kline guarda Stobel, che si stringe nelle spalle come per dire: «Cosa vuoi farci?» «Non è possibile che l'imputato l'abbia raccolto prima di andarsene e poi se ne sia sbarazzato?» Schizzo in piedi. «Obiezione, si chiede un'opinione.» «Accolta.» «È un'opinione anche quella che noi avremmo dovuto trovarlo sulla scena del delitto», ribatte Kline. «È stato lei a fare la domanda», dice il giudice. Kline armeggia con un notes. La penna gli cade a terra e lui si china a
raccoglierla. Quando si rialza ha un'espressione chiaramente perplessa e seccata. Non è il suo momento. I giurati cominciano a essere irrequieti e, dopo parecchi secondi, Kline finalmente riprende il controllo di sé e trova quello che stava cercando tra i suoi appunti. «Dunque, dunque», comincia. «Lei sostiene che è possibile un'identificazione certa del gioiello. Esattamente, quanto si può considerare accurato uno di questi test per arrivare a un'identificazione certa?» «Di che test sta parlando?» chiede DeShield. «Uno dei due», risponde Kline, come per dire: «Scegli tu». È chiaramente arrabbiato col testimone. «Come ho già detto, dato il titolo dell'oro contenuto nelle tracce di metallo prelevate dal tavolino, l'analisi chimica non sarebbe sufficiente per arrivare a identificare con sicurezza un particolare gioiello. Ma i segni di incisione sono un'altra questione.» «Già. I segni di incisione. Quanto potrebbe essere preciso, a questo riguardo?» «Non potrei dirlo con sicurezza finché non li avessi esaminati, ma...» «Dunque lei non ha visto questo gioiello?» «Obiezione. L'accusa dovrebbe permettere al teste di terminare la risposta senza interromperlo.» «Scusi», dice Kline. «Come stavo dicendo», riprende DeShield, «ritengo che un esame del gioiello sarebbe decisivo. Sono convinto che i segni d'incisione permetterebbero una sua identificazione certa.» «Dunque lei non ha visto il gioiello?» Kline è ossessionato da questa idea. È convinto che dobbiamo averlo noi, e che lo teniamo nascosto in attesa di un colpo a effetto. «No, non ancora», risponde DeShield. Kline esplode. «Allora sa dov'è?» «No.» «Ma se ha appena detto che non l'ha ancora visto?» «È esattamente quello che ho detto.» «Ce l'ha il signor Madriani?» «Non lo so.» Kline si volta a guardarmi e per un attimo mi viene il dubbio che voglia chiamarmi a testimoniare.
«Vostro onore, abbiamo il diritto di sapere se la difesa sta nascondendo delle prove.» «Vostro onore!» Schizzo in piedi prima che Radovich possa dire qualcosa. «Siamo a conoscenza delle regole della reciproca informazione. E posso assicurare alla corte che noi non le abbiamo violate. Fino a questo momento abbiamo presentato tutto quello che la legge ci impone. Oltre a questo non abbiamo nessun obbligo.» È un cavillo legale che non soddisfa Kline. «Vostro onore, esigo una risposta chiara.» «Nel mio ufficio», dice Radovich. Batte il martelletto. «Cinque minuti di sospensione.» Dal giudice ci ritroviamo Harry, io, Kline e Stobel. Kline è agitato, chiaramente inviperito per i miei giochetti. Sta dicendo al giudice che ha capito tutto. «Il gioiello ce l'ha Lenore Goya», dice. «Abbiamo trovato le sue impronte digitali sulla porta di casa della vittima. Ora tutto quadra.» «È vero?» mi chiede Radovich. «Non so di cosa stia parlando.» «Il gioiello ce l'avete voi», insiste Kline. «Sono sicuro che appartiene al suo cliente», prosegue rivolto a Radovich. «Tutto torna. È così che si è infilata in questo caso.» «Chi?» chiede Radovich. «La Goya», risponde Kline. Afferma che è un ricatto, ma Radovich lo zittisce. «Non voglio più sentire una parola a questo proposito.» Kline sembra sull'orlo di una crisi di nervi. «Una risposta chiara», dice Radovich, e guarda me. «Avete o non avete il gioiello?» «Io non ce l'ho», rispondo, mettendo l'accento sul pronome personale, cosa che fa di nuovo andare in bestia Kline. «Se qualcun altro ce l'ha, io non ne sono al corrente.» «Ora basta giochetti», dice Radovich. «Qui dentro non li ammetto.» «È lui che fa i giochetti», puntualizza Kline. «Ma che giochetti», ribatto. «Ammetto che possiamo anche avere delle teorie. Ma non siamo certo obbligati a informare l'accusa delle nostre teorie.» «Sa dov'è?» mi chiede il giudice.
«Io non so niente.» Radovich appoggia entrambe le mani sulla scrivania e si stringe nelle spalle. «Dice che non lo sa», ripete il giudice. «Mente», ribatte Kline. «Vostro onore, lei me l'ha chiesto e io ho risposto. Io non ce l'ho e non so dove sia.» «Certo», ribatte Kline. «Ma la Goya lo sa.» «Se ne è così sicuro, lo dimostri», gli rispondo. «Vostro onore, chiediamo di riaprire l'esposizione dell'accusa, in modo da poter chiamare a testimoniare la signora Goya.» «E noi ci opponiamo», dico a Radovich. «L'accusa ha avuto tutte le opportunità per chiamare a deporre la signora Goya durante la sua esposizione. Sapeva della presenza delle sue impronte digitali sulla porta della vittima, ma non l'ha chiamata a testimoniare. Ora pensano di aver fatto un errore e vogliono rimediare.» Sul volto di Radovich si susseguono mille espressioni diverse, come se fosse fatto di burro e si stesse sciogliendo. «Sarei propenso a convenire con la difesa», dice, rivolto a Kline. «Avete avuto la vostra occasione. Non è che non vi capisca.» Poi guarda me, come se non fosse tanto sicuro se credermi o no. Kline fa un ultimo tentativo, ma il giudice lo interrompe. «A meno che lei non mi porti le prove», dice, «prove concrete che la signora Goya o il signor Madriani hanno il gioiello in questione, non vi permetterò di riaprire l'esposizione. Dobbiamo procedere.» Harry e io facciamo per andarcene. «E lei, signor Madriani», mi redarguisce il giudice, «farà meglio a non presentarsi nella mia aula con qualche prova dell'ultimo minuto, magari un gioiello scoperto la sera prima di concludere. Ci siamo capiti?» «Ci siamo capiti», rispondo. Mi lancia un'occhiataccia. «Molto bene.» Uscendo, sfioro Kline e al contatto percepisco il brivido che attraversa il suo corpo. Mi si avvicina e mi parla all'orecchio, in modo che nessuno possa sentire, neppure Harry. «Dica a quella troia che lo voglio.» Mentre pronuncia queste parole mi stringe il braccio in una morsa di ferro, così che devo far forza per liberarmi. Allora lo guardo negli occhi e la vedo: tutta l'ostilità - mesi di strisciante,
celata avversione nei confronti di Lenore - sale improvvisamente gorgogliando in superficie e trova espressione concreta in questo: in una prova mancante. 29. Viene il momento in cui sei costretto a correre qualche rischio. Se sei fortunato e il fato ti assiste, questi momenti sono rari, frammenti di panico nel bel mezzo di un processo. Tu cerchi di ridurli al minimo, di tenere il piede in due staffe, ti pari il culo, ma alla fine chiudi gli occhi e incroci le dita. Durante la nostra esposizione sta per succedere proprio questo. Jerry Franks si occupa a tempo perso e con dubbia competenza di una decina di campi peritali, ma non è esperto in nessuno di essi. Il suo curriculum ha lo spessore delle strisce umoristiche sul giornale della domenica. Che la sua testimonianza sia basata su un'effettiva conoscenza degli argomenti è un articolo di fede, come la beatificazione dei santi. In poche parole, è l'uomo che chiami a testimoniare quando vuoi comperare un'opinione. Le sue credenziali non sono soltanto discutibili, sono in vendita. Per tutte queste ragioni, quando chiamo Franks sul banco dei testimoni, Kline gongola apertamente. Nella guerra combattuta a suon di esperti, chiunque utilizzi Franks potrebbe essere considerato mentalmente minorato. Benché Franks abbia ormai acquisito una certa padronanza di espressione, le sue conoscenze tecniche lasciano sempre a desiderare. È basso e tracagnotto, con capelli arruffati - quei pochi che gli restano e occhiali di corno con le lenti spesse. Le lenti sono trasparenti come vetri di finestra e ho sempre avuto il dubbio che li indossi solo per far scena. La sua divisa da tribunale è composta da giacca di velluto a coste con toppe di camoscio sui gomiti, già passata di moda vent'anni fa, e pantaloni così intrisi di sudore che, posti a contatto con un ferro da stiro, potrebbero liberare esalazioni letali. Le sue scarpe nere non conoscono il lucido, e ha un buco enorme nella suola che gli ho visto esibire con orgoglio durante un processo già l'anno scorso. Gli piace dare l'immagine del professore debosciato, di uno che si è bevuto il cervello durante qualche esperimento di laboratorio. Quando Franks sale sul banco dei testimoni, Stobel dice qualcosa a Kline e i due uomini scoppiano a ridere, e non c'è dubbio quale sia l'oggetto della loro ilarità. Tra gli avvocati di questa città e i giurati con un po' più di cervello, l'opinione di Franks su qualsiasi argomento ha di solito il peso
dell'elio. Con una giuria non sempre è così, ma di solito un buon avvocato riesce a farlo a pezzi. Franks giura e, prima ancora che io mi avvicini al banco, Kline è già in piedi con un'obiezione. «Vostro onore, non abbiamo ricevuto alcun rapporto di questo teste. Nessuna conclusione od opinione scritta.» «Per un semplice motivo», dico alla corte, «perché il teste non ne ha resa alcuna.» Ho consegnato a Kline un sunto della deposizione di Franks, ma piuttosto vago, quel tanto che basta a incuriosirlo e a soddisfare le regole della reciproca esibizione delle prove. «Be', possiamo almeno conoscere lo scopo della sua presenza qui, oggi?» insiste Kline. Radovich ordina una consultazione. Ci raduniamo all'angolo dello scanno. «Di che cosa si tratta, signor Madriani?» «Di prove relative al calendario nell'appartamento della vittima, vostro onore.» Ho chiesto a Franks di esaminare quattro o cinque elementi di prova, tra cui il calendario, in modo che Kline non potesse concentrarsi su uno in particolare. «Cosa c'entra il calendario?» chiede Radovich. «Pare ci fossero alcune annotazioni rimaste impresse sul calendario, annotazioni che noi riteniamo importanti.» «A che scopo?» chiede Kline. «Per provare che, alla data dell'omicidio, la vittima aveva scritto sul calendario più di quanto sia venuto alla luce fino a questo momento», spiego al giudice. «Non c'è da meravigliarsi che non abbia presentato alcun rapporto», osserva Kline. «Anche se questo fosse vero, è comunque testimonianza indiretta.» A meno che non riusciamo a farlo rientrare sotto qualche eccezione, Kline ha ragione. Per far ammettere come prova l'appunto sull'incontro con Acosta, anche lui aveva dovuto trovare un'eccezione alla regola della testimonianza indiretta. «Il contenuto dell'annotazione può anche essere testimonianza indiretta», dico, «ma il fatto che sul calendario della vittima ci possano essere stati altri appunti relativi a quel giorno non lo è.»
Il problema, per Kline, è che un altro appuntamento nel giorno dell'omicidio può sicuramente indurre nella giuria dubbi che lui non può controllare. «Limitatamente a questo scopo il testimone può deporre», dice Radovich. «Ma rimanga in argomento.» Guardo Franks al banco dei testimoni. «Va bene.» Torniamo ai nostri posti. Vedo Acosta che sta chiedendo a Harry cosa succede. Benché oggi non sia in aula, Lenore è sempre più al centro del nostro caso. È stato in parte per un calcolo tattico e in parte per un senso di lealtà che non l'ho chiamata a deporre. Quello che, secondo Kline, lei sa o ha in mano è diventato per lui un incubo che non augurerei a nessuno, se non al mio avversario in un processo, perché lo tenesse sveglio in preda all'angoscia tutta la notte. Senza Lenore, sono stato costretto ad arrangiarmi come meglio ho potuto per trovare il modo di arrivare all'appunto che Lenore ha staccato dal calendario della Hall, al fatto che la vittima e Tony Arguillo avevano un appuntamento per quella sera. Questo è il motivo della presenza di Franks in aula oggi. Presentiamo le sue credenziali. Ci vuole un attimo. Kline vuole ricusare il teste per quanto riguarda la sua veste di esperto. Gli è concesso di porgli parecchie domande e, quando ha finito, si oppone al teste. «Non si può qualificare come esperto. Per lo meno non nel campo della carta e delle tracce impresse», conclude Kline. Cominciamo a discutere. Franks ha partecipato a due seminari sull'argomento, di cui uno cinque anni fa. Se n'è occupato a tempo perso, e non è in grado di dimostrare alla corte di aver mai testimoniato in precedenza sul tema delle tracce impresse di scrittura. Radovich taglia corto. Pone al teste qualche domanda riguardo alla sua formazione e alla tecnica usata per rilevare le tracce impresse sulla carta. Alla fine conclude che lo stabilire la presenza o no di tracce impresse non richiede una tecnologia avanzata. «Se dovesse testimoniare sul contenuto, potrei anche essere d'accordo», dice a Kline, «ma in questo caso è compito della giuria dare il giusto credito alla deposizione del teste.»
Kline non è tanto soddisfatto, ma si siede. Franks non ha ancora detto una parola e già si trova impantanato in una disputa. «Signor Franks, può dirci se ha esaminato un calendario consegnatole dalla polizia su mia richiesta?» «Sì, e ho trovato...» «Si limiti a rispondere alla domanda», lo interrompo io. Franks preferirebbe arrivare subito al dunque, prendersi i suoi soldi e andarsene. Faccio portare il calendario dal carrello delle prove e Franks lo identifica come quello che ha esaminato. Lo apro al mese di luglio e lo poso su un cavalletto davanti alla giuria, abbastanza lontano da aver bisogno del binocolo per vedere l'appunto col nome di Acosta. «Vorrei richiamare la sua attenzione al 15 luglio e chiederle se lei ha esaminato la parte di spazio bianco corrispondente a questa data.» «Sì, l'ho fatto.» «Può dire alla giuria che tipo di esame ha condotto?» «Mi è stato chiesto di esaminare il calendario alla data in questione, per determinare se ci fossero tracce di scrittura altrimenti non visibili. Tracce impresse o incavate.» «E che cosa si intende con tracce incavate?» chiedo. «Sono impressioni o frammenti di impressione lasciati su un foglio di carta dalla pressione esercitata durante la scrittura su un foglio posto sopra il primo e successivamente rimosso.» «Come sui fogli di un blocco?» «Sì.» «È stato in grado di determinare la presenza di queste tracce sul calendario in questione alla data del 15 luglio?» «Sì», risponde. «Sembravano esserci segni di impressione.» «Ed erano decifrabili?» «Obiezione. Testimonianza indiretta», dice Kline. «La domanda mira a chiarire se le tracce impresse fossero leggibili, non che cosa dicessero», ribatto, voltandomi verso di lui, e Radovich mi ordina di rivolgere qualsiasi argomentazione direttamente alla corte. «Il testimone può rispondere sì o no», sentenzia il giudice. «Sì», risponde Franks. «L'appunto era leggibile?» «Sì.» Mi allontano dal podio per un attimo, considerando i vari modi per aggirare l'ostacolo.
«Nell'esaminare il calendario, ha avuto modo di determinare su che tipo di carta fosse stato scritto l'appunto che poi è stato rimosso?» Aiuta sempre sapere in anticipo qual è la prova che stai cercando. Franks e io ci abbiamo lavorato sopra. Io gli ho detto cos'era e lui ha trovato il modo di scoprirla. «Ci sono alcune indicazioni», dice. Kline sta cominciando a dare segni di irrequietezza. «Quali?» «L'esame al microscopio ha rivelato l'esistenza di una mucillagine molto fine.» La parola gli piace troppo e doveva usarla. Mi ha assicurato che gli avrebbe dato maggior credibilità. «Questa mucillagine si trovava sulla superficie del calendario in corrispondenza della data in questione.» «Mucillagine?» «Colla», spiega Franks. «Ah. E che tipo di colla?» «Esaminata sotto una luce intensa e con l'ausilio di un forte ingrandimento, direi che è molto simile a quella che potrebbe essere lasciata da uno di quei fogliettini gialli autoadesivi che noi tutti usiamo.» Anche sotto una luce intensa e con l'ausilio di un forte ingrandimento, le stronzate restano stronzate e Kline ne sente l'odore. Alza gli occhi al cielo e comincia a brontolare. Arriva a gettare due pezzetti di carta in aria e li lascia ricadere sulla superficie della scrivania, come se volesse accertarsi che le leggi della fisica valgano ancora. Lancia un'occhiata a Stobel del tipo «roba da non credere». Harry ha pronto un foglietto autoadesivo da porgermi come campione, in modo che io possa mostrarlo al teste. «Sì, è proprio il tipo di cui stavo parlando.» A questo punto Kline è convinto che sia impossibile. Vuole vedere con i suoi occhi e, con Stobel al suo fianco, lo appiccica a un pezzo di carta, lo fa aderire bene col pollice e poi lo stacca. Passa il dito sulla carta alla ricerca di colla e scuote la testa. Allora solleva il foglio e lo guarda controluce. Prima ancora che io riesca a obiettare, ci pensa Franks. «Oh, occorre un microscopio», dice con ingenua sincerità, e un paio di giurati scoppiano a ridere apertamente. Kline lancia un'occhiata al teste come se la parola controinterrogatorio avesse improvvisamente assunto un
nuovo significato. Comincia a raccogliere veleno per il suo prossimo intervento. «Lei ha detto che le tracce impresse da questa annotazione erano leggibili. Quale tecnica ha usato per leggerle?» «Ho seguito il vecchio metodo», risponde. Fa una pausa e mi guarda. Per un attimo temo che stia per dire: «Me le sono inventate». E poi dice: «Luce obliqua». «Lo spieghi alla giuria, per favore.» «Si prende una luce forte e la si indirizza contro la superficie delle tracce. In questo modo appaiono ombre nelle zone incavate del foglio, e se queste sono sufficientemente profonde le parole diventano leggibili. Ci sono anche altri metodi, alcuni più sofisticati.» «Su questo non ho dubbi», interviene Kline. Sollevo un'obiezione e Radovich lo ammonisce dicendogli che potrà parlare quando verrà il suo turno. «Non vedo l'ora», ribatte Kline. Lo ignoro. «E questo metodo della luce obliqua ha funzionato?» «È stato sufficiente, per il nostro scopo.» «Quante parole sono comparse?» «Obiezione», dice Kline. «Testimonianza indiretta.» «Non ho chiesto il contenuto, solo il numero delle parole.» Stiamo camminando sul filo e Radovich riflette per un attimo prima di decidere. «Questo è permesso, ma niente di più.» «Vediamo...» Franks inizia a contare con le dita e mi domando se dovrà usare anche quelle dei piedi, caso mai superasse il dieci. «Conta sia l'iniziale dell'uomo e l'ora, o soltanto il nome?» chiede. «Obiezione!» Kline schizza in piedi. «Chiedo che venga tolto dal verbale.» «Il commento del teste verrà stralciato», dice Radovich. «La giuria non ne tenga conto.» Il giudice mi guarda con occhi di fuoco. Poi si volta verso Franks. «Si limiti a rispondere alla domanda. Quante parole? Se dice una parola di più, passerà la notte in galera. Ci siamo capiti?» «Vediamo...» Franks riprende a contare. «Ci siamo capiti?»
«Oh, sì. Certo.» «Due o tre», dice Franks. «Dipende da come si conta.» Radovich lo guarda come se volesse allungare il braccio e dargli il martelletto sulla testa. «Il teste è vostro», dico. «Salvato in extremis», commenta il giudice. Alcuni giurati scoppiano a ridere. Kline si avventa su di lui come uno squalo nell'acqua insanguinata. «Non è normale procedura scattare fotografie quando si esaminano tracce impresse di scrittura?» «Alcuni lo fanno», risponde Franks. «Io no.» «Su», insiste Kline, «non è vero che per leggere queste tracce impresse sono necessarie le foto?» «Io riesco a leggerle anche senza.» «E ci scommetto che conosce anche le lingue», ribatte ironico Kline. «Obiezione.» «Si limiti a fare domande», ordina Radovich. «Dunque abbiamo solo la sua parola che queste tracce esistono? Non ci sono prove concrete che lei possa mostrarci?» «No.» «Comodo.» «È una domanda?» chiede Radovich. «Certo», risponde Kline e decide di far vedere quanto è intelligente. «Non è vero che avete trovato molto comoda l'assenza di fotografie?» «In che senso?» chiede Franks. «Perché se foste stati costretti a mostrare le foto, noi avremmo potuto esaminarle. La giuria avrebbe potuto vederle. Senza foto lei può dire tutto quello che le pare e non c'è modo di contraddirla. Non è forse così?» «C'è un buon motivo per cui non sono state scattate delle foto», ammette Franks, «ma non è questo.» Davanti alla giuria si sta svolgendo una prova di coraggio e di virilità. Kline non ha altra scelta che chiedere quale. E lo fa. «Le foto non sarebbero state ammesse», risponde il teste. «L'ha detto lei stesso. Il contenuto della frase fotografata sarebbe stato una testimonianza indiretta.» Kline resta immobile davanti al box della giuria, vittima della sua stessa trappola. «Be', avrebbe potuto vederle il giudice, a porte chiuse.» Kline lo dice
senza convinzione, sapendo bene di essere stato fregato. Si ritira al coperto e passa all'argomento della colla. «Come può essere sicuro che quella che ha trovato sul calendario fosse colla di un foglietto autoadesivo?» «Quando ho fatto il confronto sembrava proprio quella.» «È sicuro di non essersela sniffata, la colla?» «No», risponde Franks prima di rendersi conto che è una frecciata. «Questo teste non mi serve più», dice Kline. Chiama a raccolta tutto il disprezzo di cui è capace e congeda il teste con un gesto noncurante della mano. È il massimo che può fare, vista la rabbia che sta montando dentro di lui in questo momento. Se solo sapesse la verità, la sua ira diventerebbe stratosferica. Le tracce su cui ha testimoniato Franks sono immaginarie. Il contenuto del biglietto, quello su cui ci siamo accordati lui avrebbe dichiarato, nel caso si fosse giunti a questo, doveva essere: TONY A. 7.30. È breve e chiaro, un'ermetica ricostruzione fatta da Lenore di quanto era scritto su quel foglietto, il meglio che potesse fare, a distanza di mesi. «Tu sei pazzo. Sei fuori di testa», dice Harry. «Perderai la licenza. E il giudice non vale tanto.» Harry sta parlando di Acosta. Stiamo discutendo nel corridoio fuori della caffetteria, durante una pausa. Finalmente ho detto a Harry la verità sulla testimonianza di Franks. «Non è da te», mi dice. Il fatto che questo possa offendere il senso etico di Harry per un attimo mi porta a interrogarmi sul mio centro di gravità morale. Ma poi mi rendo conto che Harry non è preoccupato tanto da ciò che ho fatto, quanto dalla possibilità che io venga scoperto. È un rischio, ma non così grave come pensa lui. Non ho rivelato al mio socio alcune cose che so e altre che ora sospetto. «Cosa farai?» domanda. «Chiamerò a deporre il prossimo teste.» «No. Volevo dire cosa farai per vivere, dopo che ti avranno radiato dall'albo.» Lo guardo. Non sta affatto scherzando. Ci facciamo largo tra la gente che affolla il corridoio fuori dell'aula alla fine della pausa di metà mattina. Una troupe televisiva, composta da cameraman, tecnico del suono e reporter, ai margini della folla, è la prima a vederci. Il reporter ci si para davanti in modo da deviarci verso uno dei corri-
doi laterali. «Può concederci solo un minuto per un'intervista?» Harry e io cerchiamo di riprendere il passo e allontanarci. «Ora non ho tempo», gli dico. «Il procuratore distrettuale dice che farà sottoporre il calendario a un esame dei suoi periti. Ha qualche commento da fare?» Mi sparano i riflettori negli occhi. «Mi aspetto che ci informi dei suoi risultati», dico. «Non è preoccupato?» «Perché dovrei esserlo? Io so cosa c'era sul calendario.» Almeno in parte è la verità. «Di chi era il nome sull'appunto?» A questo punto si sono aggiunte altre telecamere, riflettori sufficienti per girare un film e una folla crescente che ci blocca la strada. «Seguite il processo», dico, «e lo scoprirete. Uscirà fuori tutto.» Getto loro un'esca, cosicché parecchi si voltano verso le loro telecamere per un commento in primo piano: «Ecco, avete sentito...» Sento una mano che mi afferra il braccio da dietro. È Phil Mendel. «Furbo. Molto furbo», mi dice. L'ultima cosa che voglio è intavolare una discussione con lui, qui, davanti alle telecamere. «Vorrebbe dirmi quando ha intenzione di chiamarmi?» È quasi gentile nella sua richiesta. «Quando sarà il suo turno.» Sono due giorni che Mendel aspetta nel corridoio fuori dell'aula, a disposizione del tribunale. Gli ho detto che potrebbe essere chiamato in qualsiasi momento. Fermo, dietro di lui, c'è Tony, suo degno compare. Mendel mi sventola davanti al naso una piccola busta di carta dai colori vivaci, raffigurante un aereo sopra una spiaggia esotica, con un sedere di donna fasciato in un bikini che spunta da dietro la punta dell'ala, tutte le fantasie che l'arte commerciale riesce a mettere insieme. «Biglietti aerei», dice Mendel. «Le valigie sono pronte, giù di sotto. Io parto domani pomeriggio, con l'aereo delle cinque.» «Tutti abbiamo i nostri problemi.» Lo spingo via, ma lui mi afferra nuovamente per il braccio. «Alle cinque», ripete. «Può chiamarmi come prossimo teste e la facciamo finita.» È serio. Mendel è davvero convinto che potrei cambiare l'ordine delle deposizioni per andare incontro ai suoi programmi di viaggio.
«Se vuole posso chiedere alla corte di farla mettere sotto chiave dal marshal.» Gli rammento che, come agente di polizia, egli è a disposizione della corte e non può andarsene finché non ha finito. «Sì, le palle...» dice. «Anche quelle, se cerca di andarsene.» Parecchie telecamere sono tornate su di noi, immortalando queste ultime parole per i posteri. «Scusate.» Mi faccio largo tra la folla, con Harry che mi segue a ruota. «Lei è un testimone?» chiede un giornalista a Mendel. «Solo per colpa delle vessazioni e degli abusi della difesa. Invenzioni della loro fantasia. Stanno chiamando a deporre testi che non hanno niente a che vedere col caso solo per sollevare una cortina fumogena.» I reporter non si lasciano sfuggire una parola. Allunga un braccio e lo punta nella mia direzione, mentre io mi allontano. «La loro difesa è fondata sulla diffamazione di onesti tutori dell'ordine», prosegue. «Persone che ogni giorno rischiano la vita per la sicurezza degli altri. Sono disposti a tutto pur di vincere.» Improvvisamente i riflettori si spostano Sulla mia schiena, inseguendomi insieme ad accuse che preferirei non sentire e contro le quali non posso fare niente. Mendel ha improvvisato una conferenza stampa. Sento il mio nome pronunciato invano parecchie volte prima che Harry si chiuda alle spalle la porta dell'aula. La guerra dei media sta cominciando a lasciare profonde tracce di cingoli sulla mia faccia. Nell'aula il pubblico si muove disordinatamente, c'è posto solo in piedi. Guardo l'orologio e vedo che siamo in ritardo. Kline non è al suo tavolo, e neppure Stobel. Acosta è seduto al suo posto, sorvegliato da una guardia. Mando avanti Harry a fargli da chaperon. C'è qualcosa di strano... lo sento nell'aria. Uno degli uscieri mi si avvicina. «La vogliono nell'ufficio del giudice», mi dice. Avanzo lungo il corridoio e passo davanti allo scanno, chiedendomi quale intrigo procedurale abbia escogitato Kline. L'unica cosa che mi viene in mente è che abbia rinnovato la sua mozione per poter riaprire l'esposizione e chiamare a deporre Lenore, sulla base di qualche nuova prova che sostiene di aver scoperto solo ora. «Dentro la stanno aspettando.» Quando mi vede, il cancelliere di Radovich mi lancia un'occhiata severa, e questa è la prima indicazione che forse mi sono sbagliato.
Come entro nell'ufficio del giudice, sento subito che l'aria è carica di elettricità. Radovich è seduto alla sua scrivania, la faccia scura e la fronte corrugata, l'immagine di Dio come si vede sui soffitti a volta delle cappelle rinascimentali. Kline si volta a malapena a guardarmi, mentre Stobel distoglie lo sguardo. «Signor Madriani, sono contento che sia riuscito a venire», dice il giudice. Chiaramente la festa è tutta sua, e questo mi preoccupa. «Mi scuso per il ritardo.» Offro qualche debole scusa a proposito dei giornalisti in corridoio. «Lasci perdere», dice Radovich. «Sono state mosse accuse molto gravi. Durante la pausa il signor Kline ha fatto esaminare il calendario da uno dei suoi esperti.» All'improvviso avverto un nodo allo stomaco grosso come un masso. «Ci preoccupa il fatto che non siano stati in grado di trovare alcuna traccia di impressione.» Cerco di dire qualcosa e mi metto a balbettare. Kline sembra gradire lo spettacolo, se il suo sorriso può valere come indicazione. «Come possono essere stati accurati in così poco tempo?» riesco a dire alla fine. «Potrebbe essere come dice lei», conviene il giudice. «Ma ho pensato che fosse giusto avvertirla che l'accusa sta indagando su questo.» «Stanno solo cercando qualcosa per confutare le nostre prove.» «Non è questo che abbiamo in mente», risponde Kline. «Il vostro teste non mi preoccupa. Immagino che la giuria possa farsi un'idea da sola. Ma indurre qualcuno a rendere una falsa testimonianza è una questione molto più seria. Specialmente per un funzionario della corte.» La rabbia di Kline fa presto a mettere radici. «Spero per lei che possa dimostrarlo», gli dico. Faccio un passo in avanti e gli vado vicino. La miglior difesa... «Per il suo bene, invece, io spero di no», dice Radovich. Spiego al giudice che ci sono mille ragioni per cui le tracce impresse sulla carta possono essere transitorie. Se nell'archivio delle prove sono stati posati oggetti pesanti sul calendario, o se questo è stato arrotolato o piegato, ciò che c'era quando l'abbiamo esaminato noi mesi fa potrebbe essere stato cancellato. «Mi dicono che un microscopio elettronico a scansione è in grado di rilevare la presenza di tracce, se queste c'erano», dice Kline. «Lo scoprire-
mo.» «Ora basta», sbotta Radovich. «Abbiamo un processo da celebrare.» Si alza dalla scrivania e, mentre usciamo dal suo ufficio, non mi rivolge un'occhiata cordiale, anche se è molto attento a non restare indietro per non mostrare favoritismi nei confronti di Kline o di Stobel. Ho paura che l'unico risultato dei miei giochetti con la testimonianza di Franks sia stato quello di farmi perdere la fiducia di questo giudice. La prima cosa che noto di Tony Arguillo mentre sale sul banco dei testimoni è che non ha perso il suo atteggiamento baldanzoso. Sa che il biglietto preso da Lenore quella sera è stato distrutto. Senza dubbio a quest'ora Kline ha trovato il modo di informarlo che le tracce impresse sul calendario, se anche esistono, hanno i loro limiti. Il contenuto, che potrebbe portare a Tony, è una testimonianza indiretta e quindi non ammissibile come prova. Quando si siede al suo posto e alza lo sguardo su di me ha l'aspetto di un uomo a prova di proiettile. «Può dirci che lavoro fa?» chiedo. «Sono poliziotto. Sergente.» «Lei era uno degli agenti presenti nel vicolo la sera in cui è stato scoperto il corpo della vittima?» «Esatto.» «La conosceva, la vittima?» Tony mi guarda. Sono sicuro che negherebbe, se pensasse di poterlo fare. Però abbiamo già stabilito con altre testimonianze che la Hall era solita frequentare agenti di polizia, e da tempo aveva rapporti con la buoncostume e i suoi membri. «Ci conoscevamo», dice alla fine. «Professionalmente o socialmente?» «Professionalmente.» Non intende passare questa linea. «Si è mai recato nell'abitazione della vittima?» «Obiezione. Domanda vaga per quanto riguarda il riferimento temporale.» «Accolta.» «Parliamo del periodo precedente la sua morte. Lei ha mai avuto occasione di entrare nell'abitazione della vittima prima che questa fosse uccisa?» Ancora una volta Tony deve riflettere prima di rispondere. È questo il problema quando non hai idea di che cosa sa la parte avversa.
«È possibile che ci sia andato. Sì, è possibile. Come poliziotto ti capita di andare in un sacco di posti. Ma non ho alcun ricordo specifico.» «È possibile che lei vi sia andato più di una volta?» A questo punto Tony deve aver capito che c'è qualcosa dietro questa domanda, forse una vicina ficcanaso che lo ha visto più di una volta. «Non lo so. Tutto è possibile.» «Già.» Mentre dico questo mi allontano dal podio e da Tony, e guardo verso la giuria con un'espressione che dice: «Consideriamo questa possibilità». «Lei non ricorda nessuna di queste visite?» Ci pensa un attimo, chiedendosi che cosa so, riflette sulla risposta più sicura e poi dice: «No». «Bene. Se lei è stato là, comunque, è corretto supporre che si trattasse di visite professionali e non personali?» «Esatto, professionali.» Questa sembra essere l'unica certezza. «E che cosa avrebbe fatto là, in veste professionale?» «Se non ricordo di essere andato nel suo appartamento, come faccio a ricordare perché ci sono andato?» Rivolge un'occhiata nervosa alla giuria, e poi ride, come se la logica del suo ragionamento fosse evidente. «È possibile che lei sia andato là per discutere di qualche indagine?» «È probabile. Lavoravamo tutti e due per la buoncostume.» «Esattamente.» Ci sono alcune domande tabù che non posso fare a Tony, legate al fatto che in precedenza sono stato il suo rappresentante legale, domande che riguardano la corruzione nella polizia e che evito. «Quando è andato a casa della vittima... se ci è andato», lo assecondo nel suo gioco, «è più probabile che ci sia andato in compagnia di altre persone oppure da solo?» «Non ricordo. Probabilmente con altri», dice. Così va meglio secondo Tony. «Sa se la vittima, la signorina Hall, avesse il suo numero di telefono di casa?» «E come faccio a saperlo?» «L'ha mai chiamata a casa?» Fa una smorfia. Tony sa che abbiamo accesso agli elenchi delle telefonate fatte. «Avrebbe anche potuto averlo.» «Il suo numero non è sull'elenco, vero?»
«No.» «Quindi come poteva averlo la vittima, a meno che non sia stato lei a darglielo?» Questo lo blocca per un momento. Tony è in difficoltà. Lo si capisce dal guizzare dei suoi occhi. «Avrebbe potuto averlo avuto dal dipartimento, per motivi di lavoro.» «Ah. È abitudine del dipartimento divulgare numeri di telefono privati?» «Talvolta.» Sorride soddisfatto per la buona risposta. Sa che non posso controllare per mancanza di tempo. «Quindi il suo numero poteva trovarsi sull'agenda telefonica della vittima?» «Non lo so.» «Purtroppo non lo sappiamo neanche noi. Pare che le pagine relative alla lettera A siano state strappate via.» Tony mi guarda come se gli avessi mosso un'accusa. Kline si è alzato in piedi e sta per obiettare, quando passo a un'altra domanda. «Lei non sa come sia successo? Come mai le pagine sono state strappate?» «No. Come potrei saperlo?» «Pensavo fosse una delle tante cose che ha dimenticato.» «Obiezione.» Kline si è alzato. «Accolta. La giuria non tenga conto di questo. Signor Madriani!» Radovich agita il martelletto nella mia direzione. «Ha finito con questo teste?» «Non ancora, vostro onore.» «E allora prosegua, ma faccia in fretta.» «Sergente Arguillo, può dire alla giuria come si è arrivati all'identificazione della vittima, nel vicolo, la sera in cui è stata uccisa?» «Che cosa intende dire?» «Be', da quanto ne so, non era vestita e non aveva con sé alcun documento di identificazione. Come faceva la polizia a sapere chi fosse?» «Non lo so. Non ne sono sicuro.» «Ma lei si trovava sul posto.» «Sì.» «Lei non ha visto il corpo? Non ha guardato la vittima?» «Forse, da lontano.» «Allora, come hanno fatto a identificarla?» «Hanno avuto qualche difficoltà», ammette. «C'è voluto un po'.» «Quanto?»
«Un paio d'ore.» «E alla fine come hanno fatto?» «Credo sia stato un altro poliziotto», dice. «Uno del dipartimento che la conosceva.» «Ma lei aveva lavorato con la vittima alla buoncostume», gli ricordo. «È vero», ammette. «Ma io non ho guardato da vicino.» Il problema, per Tony, è che ora si trova penalizzato da ciò che ha fatto. C'è voluto tempo per chiamare Lenore, per farla andare all'appartamento della vittima a cercare l'appunto e distruggerlo. Tony aveva bisogno di guadagnare tempo. L'unico modo per riuscirci era quello di tenere i suoi colleghi all'oscuro sull'identità della vittima. Tony non ha perso la calma, se n'è stato zitto e si è attaccato al cellulare. «Dunque lei ha atteso per due ore, al buio, cercando prove, sapendo che gli altri agenti non riuscivano a identificare il corpo e non ha mai pensato di andare a dare un'occhiata?» «No.» «Qualcuno le ha ordinato di non guardare il corpo?» «No.» «Lei ha semplicemente scelto di non farlo?» «Esatto.» Non quadra. Una giovane donna mezza nuda, che anche morta è una festa per gli occhi di tutti i poliziotti presenti, e Tony non si prende la briga di dare un'occhiata. «È andato nell'appartamento della signorina Hall quella sera?» chiedo. «La sera in cui è stata uccisa?» «È una menzogna», risponde. Come teste, Tony è decisamente troppo impulsivo. «Obiezione. Domanda vaga per quanto riguarda il riferimento temporale.» Kline ha capito la domanda, Tony no. Improvvisamente si rende conto di aver esagerato nella reazione e che, così facendo, ha fatto trapelare più di quanto volesse. «Riformuli la domanda», mi ordina il giudice. «Chiedo scusa.» Sorrido a Tony che a questo punto è tutto rosso in viso. «Ha avuto occasione di visitare l'appartamento della vittima la sera dell'omicidio o nelle prime ore del mattino successivo? Nella sua veste professionale?» «Ah! Sì, ero uno degli agenti, dei poliziotti mandati sulla scena del delitto dopo che il corpo è stato scoperto.» «Dopo che è stato identificato?»
«Sì.» «E chi vi ci ha mandati?» «Il tenente Stobel. Era lui incaricato delle indagini.» «E cosa avete fatto una volta arrivati nell'appartamento?» «Lo abbiamo esaminato a fondo alla ricerca di prove. Abbiamo parlato con i vicini. Le solite cose.» Gli volto le spalle per un attimo. «Può dirci, sergente, come mai il suo nome compariva su un biglietto attaccato al calendario della vittima in corrispondenza del giorno dell'omicidio?» Nell'aula esplode un putiferio, specialmente nelle file della stampa, dove tutti si spintonano per vedere meglio. «Obiezione!» Kline balza in piedi come sparato da un razzo. «Presuppone fatti non provati. È oltraggioso! Possiamo avvicinarci?» «Accolta. Avvicinatevi», ordina Radovich guardandomi con due occhi di fuoco. «Lei», dice, puntando un dito verso di me prima ancora che mi sia avvicinato, «sta mettendo a dura prova la mia pazienza.» «Chiediamo un'ammonizione alla presenza della giuria», dice Kline. Ha capito che il giudice è molto arrabbiato e intende sfruttare la cosa fin che può. «Dove vuole arrivare?» mi chiede il giudice. «Abbiamo il diritto di chiedere se si è incontrato con la vittima quella sera, prima che venisse uccisa.» Kline ribatte che nelle prove non ci sono fondamenti per questa teoria. «Ci dovrebbe essere concesso di porre questa domanda», insisto. Radovich ci rimugina su per un po' sotto i nostri sguardi. «Una sola domanda», dice alla fine, «ma senza fare allusioni.» Prima ancora che io sia tornato al centro dell'aula, sta già pronunciando l'ammonizione. «La giuria non tenga conto dell'ultima domanda fatta dalla difesa.» Mi fa un cenno col capo, come per dirmi di procedere. «Sergente, lei aveva un appuntamento con la vittima, Brittany Hall, la sera in cui è stata uccisa, il 15 luglio?» «No.» Tony sembra incerto sull'atteggiamento da assumere, se indignato o di distaccata professionalità, e così il diniego risulta molto meno che enfatico. «Ne è sicuro?»
«Obiezione. Il teste ha risposto.» «Assolutamente.» Tony risponde prima che il giudice possa decidere, e così lui lascia correre. «Che lei sappia, il suo nome non compariva su un piccolo post-it appiccicato al calendario in corrispondenza della data in questione?» L'allusione è astuta, e la giuria non può che chiedersi se non sia stato proprio Tony a toglierlo, una volta giunto sul luogo del delitto. Kline salta in piedi e urla un'obiezione a pieni polmoni. «Vostro onore, ho solo chiesto se lo sa.» «Accolta», scatta Radovich. «L'avevo avvertita.» È parzialmente sollevato dalla sedia, chino sullo scanno, il martelletto puntato contro di me come un fuoco d'artificio che sta per sparare palle di fuoco colorate. «No. Non c'era alcun biglietto», risponde Tony. «Lei stia zitto», gli intima Radovich. Tony nasconde la testa nelle spalle, come un tartaruga che si ritira nel suo guscio. «Lei non deve rispondere quando io ho già accolto l'obiezione.» Aggiungerebbe anche «brutto stupido», ma la distesa di occhi sgranati nel box della giuria lo induce a tenere a freno la sua rabbia. «La giuria non tenga conto della domanda né della risposta. Entrambe vengano stralciate dal verbale.» L'unico abbastanza stupido da aprire la bocca in questo momento è il sottoscritto. «La domanda era fatta in buona fede», gli dico. Radovich mi guarda come se sulla terra non esistesse niente che possa giustificare quanto ho fatto dopo la sua ammonizione. «Esistono prove sulla base delle quali ho formulato questa domanda.» Radovich fa uscire la giuria. Poi mi guarda con aria minacciosa. «Nel mio ufficio», ordina. «E sarà meglio per lei che siano valide.» 30. Comincia come una spedizione nella tana del giudice. «Spero proprio che lei abbia con sé lo spazzolino da denti.» Mi accoglie così, da dietro la scrivania di mogano del suo ufficio. Non sta sorridendo. Non si siede né si toglie la toga, segno che prevede di fare alla svelta. Un'esecuzione sommaria. Kline e Stobel prendono posizione ai lati, come due reggilibri, con Harry
e me nel mezzo. Ci stringiamo tutti in piedi intorno al tavolo, cercando di guadagnare una posizione migliore per sostenere le nostre tesi. Lo stenografo tiene la macchinetta tra le ginocchia, ma non ha ancora cominciato a scrivere. Immagino che il giudice non voglia che queste aperte minacce compaiano a verbale; è uno dei privilegi che si acquistano con il potere. «Lei continua ad agitare le acque con questa annotazione sul calendario», dice Radovich. «Ma non riesce a provarla.» «C'è un motivo», rispondo. «Sarà meglio per lei che sia un motivo valido, se non vuole passare la notte in galera.» Sorrisini e risatine represse da parte di Kline e Stobel, come due ragazzini che hanno appena scoreggiato in mezzo al coro. Kline aggiunge la sua, e getta lì che stiamo cercando di ricusare il nostro stesso teste, un tabù procedurale, a meno che Tony non venga dichiarato teste ostile. E Kline afferma che non sussistono elementi al riguardo. «Non ci sono prove che stia mentendo o che la sua deposizione vi abbia colto di sorpresa.» La base legale per proseguire sulla strada della presunta annotazione sul calendario è un problema di buona fede. Se esistono motivi per cui sono convinto che il biglietto esisteva e che in esso c'era scritto il nome di Tony, ho il diritto di fare domande. In caso contrario, prima del tramonto verrò sottoposto a un'accurata perquisizione fisica. Chiedo di poter provare la mia affermazione, di dare una dimostrazione della mia buona fede. Chiedo a Radovich se posso far entrare una persona. Il giudice annuisce. «Però faccia presto.» Harry apre la porta e fa entrare Laurie Snyder, il curatore nominato da Radovich per sovrintendere alla raccolta delle nostre prove materiali. La Snyder è una donna vicina ai quaranta, dal fisico imponente, più alta di me, capelli scuri e modi molto professionali. Ora si è data alla libera professione, ma prima ha lavorato per otto anni nell'ufficio del procuratore di questa città. Il suo ingresso nell'ufficio del giudice ammorbidisce un po' l'atteggiamento di Radovich che, quando la vede, è costretto se non altro a salutarla e a rivolgerle un sorriso. Dopo di che si lascia cadere sulla poltrona: un'ammissione che probabilmente ci vorrà più tempo di quanto avesse sperato. «Due giorni fa, nel primo pomeriggio», dico rivolto a Radovich, «abbiamo scoperto prove la cui portata ci è stata chiara soltanto questa mattina.»
«Avrei dovuto immaginarlo!» esclama Kline. «Una sorpresa dell'ultima ora. Vostro onore, se si tratta di prove che noi non abbiamo visto, intendo oppormi.» «Si sieda, la prego. E stia zitto.» Kline obbedisce, ma non è molto contento. «Questa prova è stata acquisita come diretta conseguenza delle prove più importanti presentate dalla difesa nella sua esposizione, ed è tale da chiedere una messa in stato di accusa.» «Che cosa sarebbe, questa prova?» chiede Radovich. «Fibre di moquette provenienti da un altro veicolo, che corrispondono per tipo e morfologia a quelle ritrovate sulla coperta usata per avvolgere il corpo della vittima.» «Tutto lì?» sbotta Kline. «Tutto lì quello che avete? Vostro onore...» «Signor Kline, se non chiude quella bocca, questa notte si ritroverà a dividere la cella con il suo collega. E allora sarete liberi di pisciarvi addosso come più vi piace, e noi non saremo costretti ad assistere.» A questo punto lo stenografo è l'unico che sorride. «Non è tutto», proseguo. «Queste fibre di moquette sono state scoperte su un altro veicolo di proprietà della contea. Era la macchina della polizia assegnata al teste, Tony Arguillo.» «Le fibre non sono impronte digitali», obietta Kline. Radovich gli lancia un'occhiata come se volesse fulminarlo. «Spero per il suo bene che abbia qualcosa di più in mano», mi dice il giudice. Questo sembra calmare il procuratore, almeno per il momento. «C'è dell'altro», dico. «Su questo veicolo sono stati trovati anche dei peli.» «Di che tipo?» chiede il giudice. «Peli di cavallo e capelli.» Mi fa segno di procedere. «I periti hanno già confermato che i peli corrispondono sotto tutti gli aspetti ai peli di cavallo identificati in precedenza. Sono pronti a testimoniare che sono uguali per colore e morfologia a quelli trovati sulla coperta usata per avvolgere il corpo della vittima, come pure a quelli trovati nel suo appartamento.» Radovich si sta dondolando avanti e indietro nella sua poltrona, le mani intrecciate dietro la nuca, e ascolta attentamente. La sua espressione pensosa mi dice che sta facendo il suo mestiere: in questo caso sta soppesando
le prove. «Sappiamo tutti che i peli non sono prove determinanti», si intromette Kline. «L'ha dimostrato lei stesso.» Radovich annuisce come se fosse d'accordo con lui e convenisse che questo può solo innescare una guerra combattuta a suon di perizie. «Hanno anche trovato capelli sul pavimento davanti al sedile anteriore dell'auto civetta di Tony Arguillo. Ci troviamo di fronte a un sacco di elementi incriminanti.» Gli ricordo che la polizia non è riuscita a trovare all'interno del veicolo del mio cliente un solo capello uguale a quelli della vittima. «Tutto considerato, in questo momento, ci sono più prove a carico del sergente Arguillo che del giudice Acosta», aggiungo. Kline fa l'offeso e si mette a sbuffare. «Erano gli occhiali del sergente Arguillo quelli che hanno trovato sulla scena del delitto?» Quando vede che non reagisco, risponde per me: «No». «La questione qui non è se possiamo provare la colpevolezza di Arguillo al di là di ogni ragionevole dubbio», dico rivolto a Radovich, «ma se io posso avere il permesso di fare domande sui movimenti dell'agente la sera dell'omicidio, e sulla possibilità che lui avesse un appuntamento con la vittima.» «Vostro onore, non abbiamo avuto la possibilità di esaminare alcuna di queste prove», ribatte Kline. «È molto comodo presentarle all'ultimo minuto.» La definisce «un'imboscata processuale». Quando finalmente la smette di protestare, cala il silenzio e si sente solo il ticchettare di un antico orologio sul muro. Radovich pensa. «E quando ha trovato queste prove?» mi chiede. «Fino a due giorni fa, quando abbiamo emesso il mandato di comparizione nei confronti del teste, non avevamo a disposizione il suo veicolo. Era in servizio. Abbiamo raccolto i primi capelli e le prime fibre soltanto ieri mattina. E sono stati esaminati nella tarda giornata di ieri e nel corso di questa notte.» «Quindi lei è convinto che avessero un appuntamento, quella sera?» chiede Radovich. «Sì, ne sono convinto.» «Restano comunque i dubbi sulle tracce impresse», obietta Kline. «I miei esperti mi dicono che non c'è niente.» «Signora Snyder, questa roba, i capelli e le fibre: è stata una perquisizione regolare?» «Da quello che ho potuto vedere, sì.»
«E i periti che hanno fatto le analisi sono affidabili?» «È un laboratorio valido.» Kline sente il terreno mancargli sotto i piedi. «Avete controllato il registro del parco auto della polizia? Siete sicuri che il veicolo fosse assegnato al teste il giorno dell'omicidio?» chiede il giudice. «Abbiamo controllato. Era assegnato proprio ad Arguillo», rispondo. Radovich è impantanato nelle riflessioni. «Sono preoccupato per l'elemento sorpresa», dice alla fine. «Se ammetto queste prove, dovrò dare tempo all'accusa di prepararsi per il controinterrogatorio del teste.» All'improvviso tiriamo tutti fuori le agende come cowboy che estraggono le pistole. «Di quanto tempo pensa di aver bisogno?» chiede Radovich a Kline. Dopo molto cavillare, alla fine ci mettiamo d'accordo su quattro giorni. Poi Radovich vuole sapere quanto tempo mi ci vorrà per mettere insieme le prove relative ai capelli e alle fibre e finire con Tony. Gli rispondo che dovrei finire per giovedì pomeriggio. «Si preannuncia un fine settimana lungo», conclude il giudice. «Venerdì niente udienza, si ricomincia mercoledì mattina. Due giorni per il controinterrogatorio.» Siamo tutti d'accordo che può andare bene, anche se a Kline l'idea non va giù. Si verrà a trovare nell'imbarazzante posizione di dover riabilitare un testimone che non ha chiamato a deporre. Cerca di spiegarlo al giudice. Ma Radovich raccoglie solo in parte, poiché è già intento a mettere in moto il meccanismo e a comunicare il nuovo calendario al suo cancelliere. Vuole che, durante il periodo di sospensione, tutte le prove vengano messe al sicuro, sotto chiave. Sarà compito del cancelliere trovare venerdì mattina un armadietto vuoto nel palazzo di giustizia. Kline continua a brontolare, ma ormai la decisione è presa. In qualsiasi processo, le battaglie più importanti sono sempre quelle procedurali. «Possiamo chiedere un'immediata trasmissione di tutti i loro rapporti di laboratorio?» chiede Kline. «Mi sembra ragionevole», risponde Radovich. «E i nostri esperti dovrebbero essere presenti a qualsiasi ulteriore test condotto su questi elementi.» «Qualche obiezione?» mi chiede il giudice. «No, vostro onore, ma lavoreranno tutta la notte. Vorremmo che non ci fossero interferenze.»
«Potremmo avere un campione di queste prove per condurre i nostri test?» «Possiamo provare, ma non prometto niente», rispondo. «Saranno i tecnici a dirci se ne hanno a sufficienza.» Kline vuole sapere dove si trova ora l'auto civetta di Tony. Gli dico che si trova nel deposito della polizia per le auto sequestrate, e lui ordina a Stobel di far prelevare fibre di moquette dai loro periti. Nel giro di dodici ore sapranno tutto ciò che sappiamo noi. Ma Kline non è ancora contento. Vuole che il giudice decida se mi sarà concesso incriminare il mio teste. Sostiene, a beneficio del verbale, che non ci sono le basi per questo. «Io direi di sì», ribatte Radovich. «A meno che qualcuno non abbia utilizzato la sua auto, il teste sembra avere pochissima considerazione per la verità. Vediamo se ha una spiegazione valida, poi le farò sapere la mia decisione sull'incriminazione.» Nel pomeriggio Kline passa a controinterrogare Tony. Sceglie di aspettare fino all'ultimo, poiché Radovich ha detto al teste che è possibile che venga richiamato a deporre. Arguillo non è per niente felice di questo. Si rende conto che c'è qualcosa sotto, ma non capisce cosa. Durante una pausa lo vedo confabulare con Mendel, e quando passo lì vicino i due mi trafiggono con lo sguardo. Il resto della giornata è dedicato a fibre e peli, con la deposizione del nostro teste che ha esaminato l'auto di Tony. Su un cartellone sono stati allineati alcuni ingrandimenti fotografici, una ventina di linee serpeggianti grandi come bisce, e le disquisizioni su corteccia e midollo fanno sì che il procedimento sembri un corso di mitologia greca. Alla fine c'è una chiara traccia di elementi probatori che solleva interrogativi sui movimenti di Tony la sera dell'omicidio o, per lo meno, sul coinvolgimento della sua auto. Chiamo a testimoniare un impiegato del garage della polizia che conferma che quella sera l'auto era assegnata a Tony. Ma è solo il pomeriggio seguente che Tony sale nuovamente sul banco dei testimoni. Sembra che abbia dormito vestito. Pare invecchiato di un anno in un giorno. L'andatura baldanzosa e i risolini sono spariti e Harry mi dice che, quando lo hanno separato dal suo compare Mendel, nel corridoio fuori dell'aula, Tony aveva l'espressione di un naufrago gettato da una zattera di salvataggio.
Se dovessi azzardare un'ipotesi, direi che qualche notizia è filtrata fino a lui, cosicché adesso la fonte della sua ansia non è quello che sa, ma quello che non sa. Il giudice gli ricorda che è ancora sotto giuramento, e poi mi dice di procedere. «Come sta, sergente Arguillo?» «Bene», dice lui, «non c'è male.» Ma il suo aspetto lo smentisce, per non parlare dell'impressione di malcelata belligeranza che trapela dal suo atteggiamento. Con l'aiuto del sindacato, Tony ha assunto un avvocato, che ha sollevato alcune obiezioni in assenza della giuria. Con Radovich ha sostenuto che, visto il mio precedente patrocinio di Tony, il mio interrogatorio viola il rapporto di segretezza tra avvocato e cliente. Radovich ha respinto questa obiezione asserendo che fino a questo momento non vedeva alcun conflitto. «Sergente, abbiamo già parlato dei suoi movimenti della sera del 15 luglio, quando Brittany Hall venne uccisa.» Lui conferma. «Quella sera, lei era ufficialmente in servizio?» «Hmm, no», risponde. «Avrebbe dovuto essere la mia serata libera.» «E allora come mai lei è stato coinvolto in questo caso?» «Ero in centro e attraverso la radio ho sentito che era stato trovato un corpo in un vicolo. Così ho risposto alla chiamata.» «Lo fa spesso? Di rispondere alle chiamate quando non è in servizio?» «Dipende.» «Da cosa?» «Da quello che sto facendo. E da quanto sono lontano.» «Capisco. Molto bello da parte sua.» Tony mi rivolge un'occhiata colma di disprezzo. «Lei ci ha detto che si trovava nel vicolo insieme ad altri agenti dopo che il corpo è stato scoperto. È esatto?» «Esatto.» «E che a un certo punto, quella notte o nelle prime ore della mattinata seguente, le è stato ordinato di recarsi nell'appartamento della vittima. Giusto?» «Giusto.» «Ci ha detto che conosceva la vittima, ma quella sera non ha identificato il suo corpo nel vicolo perché non si è avvicinato abbastanza da vederla bene, vero?»
«Vero.» «Quindi ne deduco che lei non abbia mai toccato il corpo, né la coperta in cui la donna era stata avvolta quella sera...» «Esatto.» «Quando lei è andato all'appartamento della vittima, quale era il suo incarico specifico? È entrato?» «Sì.» «Si è presentato a rapporto da qualcuno?» «C'era un tenente, Michaelson.» «Lei si è presentato a rapporto dal tenente Michaelson?» «Sì.» «E lui cosa le ha ordinato di fare?» «Mi ha detto di dare un'occhiata all'esterno della casa. Di controllare le finestre, per vedere se c'erano segni di effrazione.» «E lei l'ha fatto?» «Sì.» «Quando lei è arrivato all'appartamento, i tecnici della scientifica erano già là?» Ci pensa su un attimo. Si stringe nelle spalle. «Sarà scritto sul rapporto.» «Io le sto chiedendo se se lo ricorda.» «È possibile. Non lo so. Forse.» «Era stato messo del nastro giallo della polizia intorno all'appartamento? Davanti alla porta?» «Sì, era già in posizione.» «Dunque lei ha dovuto passarci sotto per entrare?» «Non ricordo. Penso di sì.» Gli porgo il rapporto e gli chiedo se desidera rinfrescarsi la memoria a proposito dell'arrivo della scientifica sul luogo del delitto. «Certo.» «Lo guardi, per favore», gli dico. Lo scorre velocemente, si inumidisce un dito e gira la pagina, poi mi guarda. «Sì, erano già là quando sono arrivato.» «Quanti tecnici c'erano?» Consulta nuovamente il rapporto. «Due», dice. «Sanchez e Sally Swartz.» «Ora che ha letto il rapporto, ricorda di averli visti sulla scena del delitto?»
«È probabile, ma non ricordo.» «Dove avrebbero potuto essere?» «Avrebbero potuto essere ovunque. Molto probabilmente dentro.» «In soggiorno?» «È lì che è stata uccisa.» «Ne deduco che, se non ricorda di aver visto i tecnici della scientifica sulla scena del delitto, lei non deve aver passato molto tempo nel soggiorno.» «No.» «Era in un certo senso terreno off limits per gli agenti, a parte i tecnici della scientifica?» Kline capisce dove voglio arrivare, sa che voglio precludergli ogni possibile via di ritirata. «Non esattamente», risponde Arguillo. «Il tenente c'è entrato, e anche altri. Se avevano qualcosa da fare.» «Ma lei non doveva fare niente?» Ci rimugina su per un attimo, come una volpe che scruta le foglie che ricoprono il terreno di un bosco alla ricerca di trappole. «Non ricordo», dice. «Ricorda di essersi avvicinato alla zona intorno al tavolino? Ricorda di aver visto il sangue sulla moquette del soggiorno?» «È possibile.» «Ma non ricorda di aver visto i tecnici della scientifica?» «Avrebbe potuto essere anche dopo. Dopo che se ne sono andati.» Beve una sorsata d'acqua da un bicchiere di carta posato sulla balaustra e per la prima volta mi sorride. Tony si sta lasciando aperte tutte le strade. «Capisco. Lei ha personalmente raccolto qualche prova da quella zona dell'appartamento, dal soggiorno?» «No.» Questo può essere provato, e Tony lo sa. «Ha parlato con qualche tecnico o con altri agenti mentre stavano lavorando in quella zona?» «No.» «Ha preso in consegna qualcuna delle prove che essi hanno raccolto dalla zona?» «No.» «Allora, sergente, può spiegarci come mai i tecnici della difesa sono riusciti a trovare sul pavimento davanti al sedile del passeggero della sua auto di servizio fili di capelli corrispondenti a quelli della vittima?»
Gli occhi di Tony hanno un guizzo. Il suo pomo d'Adamo si muove appena. «Come faccio a saperlo? Potrei averli tirati su ovunque.» «Ovunque?» «Certo. Anche solo camminando nel suo appartamento.» Annuisco, come se pensassi che è possibile. Faccio portare alcune foto montate su cartelloni e le faccio sistemare sui cavalletti di fronte alla giuria. «E peli come questi», dico, «che sono stati identificati come peli di cavallo, corrispondenti in tutto e per tutto ai peli trovati nell'appartamento e sulla coperta usata per avvolgere il corpo della vittima? Questi peli sono stati trovati sul pavimento della sua auto davanti al sedile del passeggero. Ha idea di come ci siano arrivati, sergente?» Tony si stringe nelle spalle come per dire: «E con questo?» «Nello stesso modo. Probabilmente mi sono rimasti attaccati alle scarpe.» «Quando lei ha camminato per l'appartamento?» «Certo.» Prendo la bacchetta e vado a mettermi davanti ai cartelloni. «E queste, sergente, le vede, queste?» Sto indicando altri oggetti, dal colore più chiaro, come barre d'oro che si fossero attaccate a qualcuno dei capelli. «Sa che cosa sono, queste, sergente?» «Non ne ho idea.» «Sono fibre», gli dico. «Sessanta per cento di Dacron, quaranta per cento di Orlon. Esattamente la stessa composizione, tipologia e colore della coperta usata per avvolgere il corpo della vittima. Può dirci, sergente, come hanno fatto queste fibre ad arrivare nella sua auto, insieme ai peli che si trovavano sulla coperta?» Più che ogni singola prova, è il loro peso cumulativo a condannarlo. «Come ho già detto, sono stato nel suo appartamento.» «E c'è anche del sangue, del tipo A, lo stesso della vittima. Trovato sul pavimento della sua auto.» «Non mi sorprende», dice. «Nelle auto della polizia c'è sempre un sacco di sangue.» «Preferirebbe aspettare di vedere cosa dice il test del DNA?» A questo Tony non risponde. Di queste due ultime cose non avevo discusso con Radovich nel suo uf-
ficio. I tecnici le avevano trovate, ma non le avevano ancora analizzate al momento della mia mozione. Ma, in ogni caso, sono già state presentate durante la testimonianza del nostro esperto. «Come spiega la presenza del sangue e delle fibre della coperta?» «Come ho già detto, sono stato nel suo appartamento.» «E ha sguazzato nel sangue? Si è rotolato sul pavimento fino a tirar su capelli e fibre?» «Obiezione», dice Kline. «No», risponde Tony. «Obiezione! Chiedo venga cancellato dal verbale», ripete Kline. «Respinta.» «Ma l'avvocato sta tentando di incriminare il suo stesso teste!» «Respinta. Il teste verrà considerato ostile», dice Radovich. Ora ho le mani libere. «Non è vero, sergente, che lei aveva un appuntamento con la vittima, Brittany Hall, la sera dell'omicidio, e che lei si trovava nell'appartamento ore prima che la polizia scoprisse il suo corpo in un vicolo? Non è vero che è stato lei a ucciderla?» «Stronzate!» sbotta Tony alzandosi di scatto. «Si sieda», gli intima Radovich, «e moderi il linguaggio.» «Non è vero», dice Tony. «E cosa mi dice dell'appunto?» «È stato cancellato.» Nell'istante in cui pronuncia le parole, Tony si rende conto di aver fatto un passo falso. È questo il problema, quando si mente. Si tende a dimenticare quale bugia si è detta e a chi. «Che cosa ha detto?» «Niente», risponde. «Ho capito male.» «Che cosa è stato cancellato?» «Ho frainteso la domanda.» «Cos'è che ha frainteso, sergente? Quale delle sue tante menzogne?» Kline non si prende neppure la briga di obiettare. Si trova a fare i conti con il fatto che tutto quello che non era riuscito a trovare sull'auto di Acosta - le fibre della coperta, il sangue, i capelli della vittima -, tutto, è saltato fuori sull'auto di Tony. 31.
Se le guardie potessero accontentarlo, Acosta ordinerebbe una bottiglia di champagne. La deposizione di Tony lo ha reso euforico. Per un attimo si lancia pure in un balletto in punta di piedi, dimostrando una grazia che non avrei ritenuto possibile in un uomo così massiccio. È tanto eccitato che si lascia andare persino a una specie di piroetta. «È incredibile che abbia fatto un'ammissione simile!» esclama. «Che stupido! Che incommensurabile stupido!» Poi, dopo aver ripreso fiato, assume un'aria seria e mi chiede, con tono più calmo: «Pensa che la giuria abbia capito?» Il fatto che Arguillo non abbia voluto ripeterla, gli spiego, è stato l'argomento decisivo. «Sono convinto che i giurati più perspicaci abbiano colto il messaggio: Tony stava dicendo che l'appuntamento con la Hall, di cui aveva sempre negato l'esistenza, era stato cancellato. La stessa storia che aveva raccontato a Lenore. Armando, come del resto tutti i clienti che mi è capitato di difendere durante un processo, è un maniaco-depressivo. Ogni buona notizia ha bisogno della conferma del suo avvocato. Non si fida più del proprio giudizio. Siamo nelle camere di sicurezza del tribunale e le guardie ci dicono di sbrigarci. È tardi e sono impazienti di riportare Acosta in cella, nel carcere a tre isolati da qui, prima che abbiano finito di servire la cena. «Lasciateci soli», intima Acosta col suo tono più imperioso. Ordina alle guardie di uscire per poter parlare in privato con il suo avvocato. Un agente guarda l'altro, incerto se obbedire. «Mi avete sentito?» dice Acosta con voce tonante. I due escono con la coda tra le gambe e si chiudono la porta alle spalle. «Dopo che hai comandato una volta...» Lascia la frase in sospeso e mi fa l'occhiolino. Se dovessero condannarlo a morte, non c'è dubbio che sarebbe Acosta a dirigere la propria esecuzione. «Pensa che sia stato lui a ucciderla?» mi chiede. Avvicina una sedia al tavolo, si siede e congiunge le mani, sfregandole una contro l'altra, come se la grande agitazione per l'ammissione di Tony gli avesse fatto venir freddo. «Credo che sappia più di quanto dice.» Da un po' di tempo sono giunto alla conclusione che Tony abbia giocato un ruolo significativo nel dramma che si è svolto nell'appartamento della Hall quella sera. «La sua presenza potrebbe spiegare una cosa», aggiungo. «Cosa?» «Perché il corpo è stato spostato.»
«Pensa che sia stato lui?» Lo sguardo di Acosta si illumina. «Dovremmo richiamarlo sul banco dei testimoni.» «No. No. Non tentiamo la sorte.» Per noi è molto meglio lasciare che l'immaginazione dei giurati corra libera sulle prove che sono state messe davanti a loro. «Abbiamo sangue, capelli e fibre sulla sua auto», dico. «Lasciamo che siano loro a rifletterci. Inoltre, se gli dessimo una seconda opportunità, Tony potrebbe mettere insieme una spiegazione più convincente.» «Perché avrebbe dovuto spostare il corpo?» chiede, tutto eccitato. «Metta insieme tutto quello che noi sappiamo», rispondo. «L'annotazione sul calendario, il loro appuntamento, Tony e la Hall.» Annuisce come se mi stesse seguendo. «Da quello che sappiamo, l'appuntamento era per le sette e mezzo di quella sera.» «Esatto.» «Allora, tu arrivi all'appartamento di una donna, una donna con la quale esci da tempo. La porta è aperta, oppure hai la chiave. Entri e cosa trovi?» Acosta mi guarda senza capire. «Il corpo in soggiorno, in una pozza di sangue.» «Questo potrebbe ostacolare i tuoi progetti per la serata», dice. «Potrebbe fare molto di peggio, a seconda della natura della tua relazione. Supponiamo che la tua amica fosse una donna molto attiva. Supponiamo che ci fossero nell'appartamento cose e oggetti che potrebbero causarti un certo imbarazzo. Cose che potrebbero collegarti a lei e che tu preferiresti nessuno vedesse.» «Tipo?» «Tipo i nomi sulla sua agendina telefonica. Appunti personali. Tenga presente che lei aveva un debole per gli appunti.» «Ah!» Annuisce con aria pensosa. «E ora aggiungiamo un'altra tessera al mosaico», gli dico. «Supponiamo che tu sia nella sua camera da letto impegnato a far sparire queste possibili fonti d'imbarazzo: il tuo nome, i nomi di tuoi amici. Stai facendo quello che puoi per limitare al minimo i pettegolezzi postumi, e sei intento a strappare le pagine dall'agendina.» «Lei sta dando per scontato che la Hall fosse una donna molto vivace.» «Diciamo che aveva con la buoncostume rapporti di natura non solo professionale.» I suoi occhi hanno un guizzo, e sulle sue labbra compare un sorriso ma-
lizioso. «Immaginiamo che all'improvviso tu senta un rumore.» «Che rumore?» «Come se qualcuno urlasse.» «Chi?» «Ricorda la deposizione della vicina del piano di sopra che ha sentito un rumore intorno alle sette e trenta? Come se qualcuno avesse urlato?» Ora capisce. «Anche la piccola Kimberly ha udito un urlo. Ricorda? Ricorda la deposizione del coroner?» «Il rantolo della morte», dice lui. «Esatto.» «Mettiamoci nei panni di Tony: tu sei in camera da letto e senti quest'urlo provenire dal soggiorno. Potresti pensare...» «Che non è morta», conclude lui. «Esattamente. Ti fai prendere dal panico, afferri una coperta, avvolgi la testa nella prima cosa che ti capita sottomano. Cerchi di portare la vittima all'ospedale.» «E, strada facendo, ti accorgi dell'errore.» Questa è l'idea che mi sono fatto. Una volta in macchina, Tony si è reso conto che era morta. Non poteva tornare nell'appartamento con il corpo. Era troppo rischioso. E così se n'è sbarazzato. «Ora capisco perché lei non vuole chiamarlo nuovamente a testimoniare», mi dice. «Questa potrebbe essere la sua spiegazione. Che poi la giuria ci creda...» «Perché correre rischi?» «Esattamente.» Stiamo discutendo di qualche altro particolare, cose dell'ultimo minuto prima della pausa di fine settimana, quando Harry ci raggiunge. Ha sistemato alcune pendenze che dovevano essere chiuse prima del fine settimana. Quando Harry l'ha lasciato libero di andare, meno di mezz'ora prima della partenza del suo volo per Bali, Mendel ha coperto il miglio in quattro minuti. Ha afferrato la valigia depositata nell'ufficio del cancelliere al piano di sotto ed è stato visto precipitarsi verso la macchina che lo aspettava in strada con uno dei suoi schiavetti del sindacato al volante. «Mentre usciva c'è mancato poco che mi baciasse sulla bocca», dice Harry.
«Purché torni entro una settimana», dico. «Tornerà molto prima», mi risponde. Lo guardo incuriosito. A volte i pensieri di Harry seguono un corso misterioso. Prima che possa chiedergli spiegazioni, mi avverte che Lenore sta aspettando fuori. Le avevo telefonato chiedendole di passare di qui stasera. Una cosa che avevo visto in tribunale mi aveva fatto venire un'idea, e mi aveva tolto il sonno per parecchie notti. Forse lei ha la soluzione di questo enigma. «La ringrazio, amico mio.» Acosta si alza dalla sedia e mi augura una buona serata. Mi stringe la mano con entusiasmo. «Devo confessare che negli ultimi mesi ho avuto momenti bui. Speriamo che ci aspettino altri giorni come questo.» «Altroché», gli dico. «Se solo potessimo risolvere così facilmente qualcuno degli altri problemi.» Mi rivolge un'occhiata interrogativa. «Gli occhiali sulla scena del delitto e l'appunto col suo nome scritto sul calendario», gli spiego. «Lei se n'è occupato magnificamente.» «Forse. Tant'è, sarebbe utile scoprire come hanno fatto ad arrivare là.» Mi guarda con un'espressione incredula e spavalda, quella che passa per un'espressione di sorpresa tra coloro che per guadagnarsi da vivere navigano nelle stronzate. «Ma lo sappiamo già! Sono stati messi lì apposta dalla polizia.» «Lo crede davvero?» «Assolutamente. Non ho dubbi.» «E l'appunto scritto dalla vittima?» «Falso», dichiara. «Lei sa bene quanto me che hanno a disposizione gente in grado di farlo.» Ne è convinto, specialmente adesso che è uscito fuori il coinvolgimento di Arguillo. «Mi ci giocherei la testa.» Lo dice con espressione serissima. «Bene. Perché è esattamente questo che stiamo facendo. Ci stiamo giocando la sua testa.» Quando usciamo dal blocco delle celle, il tribunale è già buio. L'entrata per il pubblico sul retro è chiusa e l'usciere di Radovich deve tirar fuori la sua chiave per farci uscire. Siamo gli ultimi ad andarcene. Il carrello delle prove, con tutta la sua raccolta di oggetti, è già stato portato nell'ufficio del cancelliere. In aula restano solo alcuni cartelloni ap-
poggiati contro la balaustra del box della giuria con sopra appiccicate alcune foto. L'usciere ci augura la buona notte e sento il chiavistello della serratura scattare alle nostre spalle. Una volta fuori, nel corridoio riservato al pubblico, Harry e io ci avviamo verso l'ascensore. In giro c'è ancora qualche impiegato che passa da un ufficio all'altro per sistemare le ultime cose prima di andare a casa. Sono le sette passate. Ho già programmato tutto: Sarah passerà la notte a casa di un'amica. «Dove mi aspetta?» chiedo a Harry. «Sezione Sedici», dice lui. «Le ha dato la chiave un'amica. Ha detto che avrebbe lasciato la porta aperta.» «Bene.» «Vorrei tanto che mi dicessi cosa sta succedendo.» «Fidati di me.» «Certo. Tenetemi al buio e ricopritemi di stronzate. Harry lo champignon.» Borbotta ancora qualche parola che non riesco a sentir bene, ma una è un'imprecazione, ne sono certo. «Senti. Se finisco nei guai avrò bisogno di qualcuno che mi tiri fuori dalla merda. Qualcuno che non sia coinvolto.» Per qualche strano motivo, tipico solo di Harry, l'idea che io stia per fare qualcosa di illegale sembra ammorbidirlo, anche se di poco. Ma stuzzica ulteriormente la sua curiosità. «Dimmi cosa sta succedendo», insiste. «Non posso.» «Perché?» «Forse non lo so neppure io di sicuro. Ho un sospetto. C'è una cosa che devo controllare.» «Allora non vuoi proprio dirmelo?» «No.» Ha la valigetta piena di libri. Arriviamo a passo lento all'ascensore. Lì le nostre strade si dividono. «Abbiamo aperto una bella falla nel loro caso», dice Harry. «Puoi dirlo.» «Però, come hai detto ad Acosta, ci sono ancora un sacco di questioni da risolvere.» Intende dire gli occhiali di Acosta sulla scena del delitto e l'appunto con il suo nome sul calendario della Hall. Fin dall'inizio, sono stati elementi in-
spiegabili per Harry e il motivo principale per cui non ha mai creduto all'innocenza di Acosta. Convengo con lui che confutare questi elementi d'accusa in aula sarà difficile. «È difficile, specialmente perché, pur sapendo quel che è successo, non hai le prove per dimostrarlo.» Harry mi lancia un'occhiata fosca, dura e schietta. «C'è qualcosa che non so?» Mi ha sempre preoccupato il fatto che Acosta abbia fatto dichiarazioni alla polizia prima del suo arresto, dichiarazioni ambigue a proposito dell'appunto sul calendario della Hall e che hanno permesso a Kline di presentarle come prove, nonostante la loro evidente natura di testimonianza indiretta. Si possono dire tante cose di Acosta, ma non che sia stupido. Mi sono fatto l'idea che queste dichiarazioni non siano state dettate da un'improvvisa perdita di lucidità, ma da qualcos'altro. «Ti sei mai chiesto perché la Hall avrebbe accettato di incontrare Acosta in privato quando si stava preparando a testimoniare contro di lui in seguito all'operazione condotta dalla buoncostume?» «Il dubbio mi è venuto, ma trattandosi di Acosta non gli ho dato troppo peso.» Intende dire che tutto è possibile. «Tu non credi alla teoria di Acosta secondo la quale è stata la polizia a fabbricare la prova del calendario?» Scuoto la testa. «Che volesse spremerlo?» Harry sta pensando al ricatto. «No. Se c'è una cosa certa in questo caso, è che Brittany Hall era bravissima a spillare soldi. Non era il tipo da tirare una stoccata unica e accontentarsi. Era una che guardava lontano. Se aveva incastrato Acosta, era per qualcosa di più. Penso piuttosto a favori professionali da parte di Phil Mendel.» Harry ci rimugina su un po', ma non mi contraddice. «Allora perché aveva in programma di incontrarsi col giudice, a casa sua?» chiede. «Il fatto è che lei non ce l'aveva.» «Ma se hai appena detto che la prova non è fabbricata. Che è stata lei a scrivere quell'annotazione!» «Esatto. Ci sono due elementi che corrono sempre paralleli in questo caso: gli occhiali e l'annotazione», gli faccio notare. «E hanno un'origine comune.»
Mi guarda con espressione perplessa. «Dimentica per un attimo l'annotazione. Pensa a questo: hai un paio di occhiali cui manca una vite. Sei un giudice, sei molto occupato. Li porti tu dall'ottico?» Harry ci pensa su per un attimo e poi scuote la testa. «Ci mandi il cancelliere o la segretaria.» «Oppure tua moglie.» L'espressione che compare sul volto di Harry in questo momento è come un'illuminazione, un sole nascente. «Lili.» Pronunciamo il nome quasi all'unisono. «La mia idea è che lei li avesse nella borsa da settimane. Magari li ha tirati fuori mentre cercava il fazzoletto. Non lo sapremo mai. Ma una cosa è certa: sono arrivati là il pomeriggio in cui lei è andata a parlare con la Hall nel suo appartamento per supplicarla di non rovinare la carriera al marito.» Il Vangelo secondo Armando. Se dovessi avanzare un'ipotesi, lui aveva raccontato alla moglie che era andato all'appuntamento con la Hall per motivi legittimi ed esclusivamente professionali e che la polizia l'aveva incastrato. «E l'annotazione sul calendario?» dice Harry. «Non diceva ARMANDO», gli faccio notare, «diceva ACOSTA.» «Secondo te, lui sa che la moglie era là?» «Come qualcuno mi ha appena detto, mi ci giocherei la testa.» Harry resta lì impalato a guardarmi, ammutolito, la porta dell'ascensore aperta dietro di lui. Si volta a guardare come in trance, fa due passi all'indietro ed entra nella cabina vuota. Passano parecchi secondi prima che riesca a dire qualcosa. «Quel pezzo di merda ci ha mentito», sono le sue ultime parole prima che le porte di acciaio si chiudano e ci separino. Già, ci ha mentito... ma per il giudice era una menzogna dettata dall'onore. Lenore ha un'amica, un giudice della Corte suprema. Appartengono entrambe a un'infinità di associazioni femminili. Ogni tanto pranzano insieme. Questa sera Lenore ha convinto l'amica a lasciarle usare il suo ufficio, ufficialmente per fare una ricerca e consultare le raccolte di sentenze che tappezzano le pareti. «Allora, mi spieghi?» mi chiede. «Perché hai voluto che ci incontrassimo qui, in tribunale?»
Lenore ha saputo cosa è successo in aula oggi. Senza dubbio si sta chiedendo se si è sbagliata sul conto di Tony. Le amicizie nate durante l'infanzia sono dure a morire. È seduta sul divano. Io sono appoggiato all'angolo della scrivania. C'è una cosa in tutta questa faccenda che non quadra, a meno che non sia coinvolto Tony. È il motivo per cui ho chiesto a Lenore di venire qui questa sera. «Ricordi quando siamo andati nell'appartamento, quella sera?» Lei annuisce. Mi sta fissando con espressione intensa. «Ricordi che abbiamo visto qualcosa? Qualcosa che luccicava sul pavimento, forse un gioiello, mezzo nascosto dal terriccio del vaso rotto che conteneva la piantina?» «Sì, me lo ricordo.» «Tu l'hai guardato meglio di me. Ricordi che cos'era?» «Stai pensando alle tracce di metallo sul tavolino?» «Sì.» «È stata una cosa così rapida... e poi era buio», dice. «Non ci ho prestato molta attenzione. Era piccolo. Forse un anello. O un pezzo di braccialetto.» Scuote la testa, incerta. «Il fatto è che la polizia non l'ha trovato.» «Dice di non averlo trovato», mi corregge lei. «No. Io credo che su questo non mentano. C'è un'altra possibilità.» Lenore mi guarda. «Che l'abbia preso Tony?» Lenore fa un sospiro profondo. «Tu sei convinto che sia stato lui.» È un'affermazione, non una domanda. Ora Lenore sa che Tony le ha mentito e che si trovava là quella sera. «Gli hai parlato?» le chiedo. Dopo un momento Lenore annuisce. «Cosa ha detto?» «Ha ammesso di essere stato là. Ma dice che non l'ha uccisa lui. Dice che lui l'ha trovata già morta.» «È stato lui a spostare il corpo, vero?» «Come hai fatto a capirlo?» «Chiamalo intuito», le rispondo. «Ha preso qualcos'altro dalla scena del delitto?» «Alcune pagine della sua agendina telefonica. Almeno, questo è quanto mi ha detto.» «Non ti ha parlato del gioiello per terra?»
Lenore scuote la testa. Comincio a camminare su e giù per la stanza. Ci troviamo a una trentina di metri dall'aula di Radovich. Le varie sezioni sono collegate da un corridoio privato che corre su ogni piano tutto intorno all'edificio contro le finestre esterne. È usato dal personale del tribunale per consegnare documenti e costituisce un'uscita di emergenza controllata in caso di incendio o di episodi di violenza in aula. «La risposta potrebbe essere in fondo al corridoio», le dico. «Cosa stai dicendo?» «Supponi per un momento che non sia stato Tony a prendere quell'oggetto finito sul pavimento sotto il tavolino. E che la polizia non l'abbia trovato. Dov'è finito?» Lei scuote la testa, fa una smorfia e alla fine si stringe nelle spalle. È questo che turba i miei sonni. «Andiamo per eliminazione», le dico. «C'era l'assassino. Supponiamo che sia stato lui, o lei, a perderlo. Poi c'era Tony. Supponiamo che avesse cose più importanti da fare, per esempio far sparire alcuni numeri di telefono. Non l'ha visto. Forse era troppo impegnato. Poi c'eravamo tu e io, e noi non l'abbiamo toccato.» «E allora dove è finito?» chiede Lenore. «C'era un'altra persona», le dico. Mi lancia un'occhiata come se non capisse. «Kimberly.» «La bambina?» dice, spalancando gli occhi. Annuisco lentamente. «Ma è stata interrogata.» «Esatto. E ha detto qualcosa. Qualcosa cui al momento non ho dato peso, perché ero concentrato su altre cose. Ma mi ronza per la testa da settimane. Kimberly non lo ha ripetuto quando ha testimoniato in aula. Ma la prima volta, quando è stata interrogata in privato dagli avvocati e dal giudice, lo ha detto.» «Cosa?» «All'inizio non ero sicuro se l'avevo realmente sentito o me l'ero sognato, così ho chiesto una trascrizione di quella prima udienza, quando Kline aveva chiesto e ottenuto che la bambina venisse interrogata a porte chiuse.» Tiro fuori la trascrizione dalla valigetta. Due notti fa ho segnato la parte che mi interessa con un evidenziatore, e ora la leggo a Lenore.
«Sta' a sentire», le dico, e intanto cerco la riga giusta. «La sta interrogando Radovich. «KIMBERLY: Erano proprio arrabbiati. «IL GIUDICE: Chi? «KIMBERLY: La mamma... «IL GIUDICE: Sai se l'altra voce era di una signora, come quella della mamma, oppure di un uomo? «KIMBERLY: Nessuna risposta. «IL GIUDICE: La tua mamma ha detto qualcosa? «KIMBERLY: Ha detto: 'No!' Era proprio tanto arrabbiata. «IL GIUDICE: Hai sentito la voce di un uomo? «A questo punto ho sollevato un'obiezione», dico a Lenore. «C'è uno scambio di battute tra me e Radovich a proposito dell'interrogatorio. Lui stava suggerendo alla teste cose che non servivano.» Lenore mi guarda, annuisce e sorride, da avvocato. «Lui ha respinto la mia obiezione e ha ripreso chiedendo alla bambina dove si trovassero lei e l'orsacchiotto. Senti. «KIMBERLY: Binky era fuori con la mamma. «IL GIUDICE: Binky deve essere un vero amico, eh? «KIMBERLY: Binky tiene tutti i miei tesori. «IL GIUDICE: Quando avevo la tua età, anch'io avevo un piccolo amico peloso. Eravamo veri amici. Io gli raccontavo tutto. Dimmi, Kimberly, hai visto come la mamma si è fatta male quella sera?» Radovich è come la maggior parte di noi adulti quando parliamo con i bambini: non li ascoltiamo. Aveva ottenuto da lei quello che voleva, ma non aveva saputo ascoltare, come del resto nessuna delle persone presenti in aula quel giorno. Lei ci stava dicendo quello che aveva visto, quello che aveva preso e dove l'aveva messo. «Il tesoro», dice Lenore. «Esatto. Nella pancia dell'orso.» «Ma...» «Gliel'ho visto fare in aula, la seconda volta», la interrompo. «Con un bottone che si era strappata dal vestitino. L'ha dato da mangiare all'orso.» «Come?» «Non lo so. Ha infilato il dito nella bocca dell'orso e, quando l'ha tirato fuori, il bottone era sparito.» «Dunque tu pensi che qualsiasi cosa fosse...» «Ora è nella pancia dell'orso.»
«E tu vorresti che io...» Non finisce neppure la frase. «Non se ne parla nemmeno.» È un dilemma: cosa fare dei miei sospetti riguardo all'orsacchiotto e a ciò che esso potrebbe contenere. Il problema è che non ho alcuna prova sufficiente per aprire il pupazzo davanti al curatore. Rischiare di farlo di fronte alla giuria potrebbe rivelarsi una catastrofe nel caso non ci fosse dentro niente o, peggio, ci fossero elementi che incriminassero il mio cliente. Non credo sia così, ma non sono tanto stupido da correre questo rischio. La guardo con occhi imploranti, pieni di aspettativa. «Non se ne parla.» C'è qualcosa di definitivo nel suo tono. Il discorso è chiuso. Lenore ha un mazzo di chiavi datole dalla sua amica giudice. Tra queste c'è un passe-partout in dotazione a ogni giudice che frequenta questo edificio e a un numero ristretto di altri pubblici ufficiali. Apre tutte le porte che danno sul corridoio esterno e portano alle aule di questo piano, come pure all'ufficio del cancelliere di Radovich, dove ora è custodito il carrello con le prove. «Domani mattina lo spostano.» Le spiego che Radovich ha dato ordine al cancelliere di mettere al sicuro e sotto chiave le prove durante la pausa. «È la nostra ultima occasione.» «Non se ne parla nemmeno», ripete. «Se ci beccano è la fine.» «Non ti sei preoccupata di questo la sera in cui mi hai trascinato nell'appartamento della Hall.» «Ero ubriaca. E arrabbiata.» «Però mi devi un favore», le dico. «Per avermi coinvolto in questo casino. Per avermi detto che Tony quella sera non era stato là.» «Io gli credevo.» «E ora? A chi credi? Cosa credi che sia successo quella sera?» Il suo viso è l'immagine del conflitto. «Non lo so.» «È il momento di scoprirlo.» 32. Aspettiamo per quasi due ore, finché non è tutto tranquillo. La squadra delle pulizie ha finito con questo piano e l'agente della sorveglianza è già passato più volte, così ora abbiamo un'idea dei tempi del suo giro. La guardia scuote la porta esterna dell'aula e si allontana lungo l'ampio
corridoio di accesso. Sento il campanello dell'ascensore che arriva al piano, poi il fruscio sommesso della cabina che si allontana per portarlo a un altro piano. Lenore e io arriviamo alla porta sul retro ed entriamo nel corridoio privato che porta all'aula di Radovich. Il corridoio è ben illuminato e ha una parete tutta costituita da finestre che danno sulla strada. È totalmente spoglio, pavimento di linoleum chiaro e pareti bianche e asettiche interrotte a intervalli regolari dalle porte che si aprono sulle varie aule. Ogni porta è identificata dal numero della sezione dipinto a grosse cifre verdi. Lenore ha dato a me le chiavi e quindi sono io che faccio strada. Non dobbiamo andare tanto lontano: un solo gruppo di stanze ci separa dall'aula di Radovich. «Non ti voltare, ma ci stanno osservando», dice Lenore. «Hmm?» «Il soffitto.» Lancio un'occhiata verso l'alto e la vedo: una telecamera del sistema di sicurezza inserita nel soffitto. «Sorridi e continua a parlare», mi dice. «Siamo due persone che lavorano fino a tardi. Poveri schiavi che devono controllare tutte le prove.» Ho portato con me una piccola torcia elettrica e uno dei vecchi uncinetti di Nikki, qualcosa con cui sondare rapidamente la pancia dell'orsacchiotto. Se troverò qualcosa, lo lascerò lì, chiamerò nuovamente Kimberly sul banco dei testimoni e le chiederò specificamente che cosa abbia dato da mangiare all'orso la sera dell'omicidio, ponendo così le basi per un esame più completo della prova materiale, questa volta di fronte alla giuria. Passiamo sotto la telecamera fissa che ora è puntata sopra le nostre teste e oltre noi. Per un momento siamo fuori portata e ci fermiamo. La porta dell'ufficio di Radovich è a circa dieci metri da noi, vicino a un'altra telecamera piazzata sul soffitto. «Una cosa è sicura», dice Lenore. «Ci stanno filmando.» «Speriamo solo che nessuno stia guardando lo schermo in questo momento.» In ogni caso, dovremo rischiare. «Non fare gesti sospetti, cerca di essere naturale», le dico. «Comportati come se avessimo tutti i diritti e i motivi di essere qui», aggiungo. «Bene. Se ci beccano, parli tu», mi dice Lenore. «Se ci beccano, lasceremo parlare il nostro avvocato», ribatto io. Copriamo la distanza che ci separa dall'ingresso dell'ufficio, con Lenore
che continua a parlarmi nell'orecchio, un monologo isterico che non richiede risposta. Quando arriviamo alla porta, lei si trova tra me e la telecamera e mi nasconde per un istante mentre armeggio con la serratura. Sono necessari parecchi tentativi prima di trovare la chiave giusta, quella che fa girare il cilindro. La serratura si apre con uno scatto e in meno di un secondo siamo dentro. La porta si richiude silenziosa alle nostre spalle. L'interno dell'ufficio è illuminato dall'unica, fioca luce rossa che indica l'uscita di sicurezza, in alto, sopra la porta, e da un paio di luci tubolari lasciate accese per sicurezza all'esterno dell'aula. Faccio segno a Lenore di dare un'occhiata alla zona che conduce all'aula. Lei obbedisce e poi ritorna da me. «Tutto vuoto.» «C'è forse una chiave separata per l'ufficio del cancelliere?» le chiedo. Lenore mi rivolge uno sguardo desolato. A questo non avevamo pensato. «Prova col passe-partout.» È chiaro che questa è la nostra unica speranza. Se non abbiamo la chiave, la fortuna è finita. Nessuno di noi due ha il coraggio di forzare la serratura. In questo momento mi sento le ginocchia di gelatina. Senza far rumore inserisco la chiave nella serratura e la faccio ruotare. La chiave gira, liscia come seta. La porta si apre. Il cuore quasi mi si ferma. Il sangue mi si gela nelle vene. «Oh, merda!» esclama Lenore, vedendolo. Illuminato dalla luce azzurrina e soffusa dello schermo di un computer, Coleman Kline è in piedi in mezzo alla stanza e ci guarda. Le gambe leggermente divaricate, le mani intrecciate dietro la schiena, si dondola piano avanti e indietro come un poliziotto in servizio: ci stava aspettando, il freddo assalto frontale. «Le dispiacerebbe dirmi cosa ci fa qui?» chiede. È la voce dell'autorità, e si rivolge a Lenore. Lei arretra, viene a mettersi dietro di me e mi sussurra qualche parola all'orecchio, per ricordarmi che tocca a me parlare. «Ah, signor Madriani. Fa lei da portavoce, questa sera? E lei, signora Goya, ha perso la lingua? Be', direi che è la prima volta che succede.» Gonfia le spalle dell'abito, inalando autorità come un pesce palla inala l'acqua: il procuratore zelante con un bell'osso da scarnificare. «Potremmo farle la stessa domanda.» Lenore è la prima a trovare le pa-
role, anche se le pronuncia da dietro di me. «Cosa ci fa qui?» «Ho la chiave», dice lui. «Datami dalla contea. E voi, dove avete preso la vostra?» Non è esattamente una risposta, ma è pur sempre meglio della nostra, caso mai insistesse sull'argomento. Nel frattempo i miei occhi non lo lasciano un istante e continuano ad andare su e giù, dalla testa ai piedi, finché, al secondo giro, non si posano all'altezza delle scarpe. Tutto intorno ai suoi piedi ci sono batuffoli di un materiale bianco, simile a cotone, con tracce di quella che sembra lana strappata. Sulla moquette vedo una monetina da dieci centesimi e una gelatina. Frugo con lo sguardo intorno ai suoi piedi e alla fine lo trovo. L'ultimo a entrare, il primo a uscire: un bottoncino fatto a forma di cuore. Resto lì, come pietrificato, ad ascoltare la sua arringa con espressione scoraggiata, finché la cosa non mi colpisce. La mente di Kline e la mia corrono su percorsi paralleli. Radovich ha dato ordine di mettere sotto chiave le prove domani mattina. Non ho mai preso in considerazione la possibilità che l'assassino potesse venire anche lui qui, questa sera. Kline segue il mio sguardo. Abbassa gli occhi e improvvisamente vede cosa sto guardando. Smette di parlare di colpo. E allora capisco che le sue mani non sono intrecciate dietro la schiena. Lui ha in mano qualcosa. «Be', io non so voi, ma se proprio dobbiamo stare qui a litigare», dice Lenore, «preferirei non stare al buio come un'entraîneuse. Se non vi dispiace, accendo qualche luce.» Prima che possa fermarla, si stacca da me e va verso l'interruttore posto sulla parete in fondo, dietro Kline. «No!» Faccio per fermarla, ma è troppo tardi. È più veloce di quanto immaginassi. La afferra saldamente per la spalla e la fa girare su se stessa. Lenore si trova improvvisamente con la schiena bloccata contro il corpo di lui, che la tiene stretta premendole il braccio sinistro contro il petto. Nella mano destra tiene un coltello con dieci centimetri di lama puntato contro la gola di Lenore. Nella sinistra stringe i resti martoriati dell'orsacchiotto di Kimberly con la pancia squarciata. Pronto come sempre, Kline aveva reagito bene quando lo avevamo sorpreso, facendo l'offeso, sparando minacce e cazzate. E quasi quasi era riuscito a cavarsela. Lenore si divincola, ma lui la tiene stretta. Kline le preme la punta del coltello contro la gola e lei si calma. «Lei è stata una vera rompicoglioni, signora», le dice nell'orecchio. «U-
na maledetta ficcanaso, sempre a fare le domande sbagliate. Lei e la Hall assieme, il mio peggiore incubo.» Mi sporgo in avanti, sulla punta dei piedi, alla ricerca di una via d'uscita, e lui preme ancora di più il coltello: sulla punta della lama si forma una goccia di sangue. «Ah. No, no», dice. «Non c'è niente di personale. Non voglio farle del male, ma se mi ci costringe...» «Piano», gli dico. «Lei stia indietro.» Arretro di un passo. «Sta facendo una cosa stupida», gli dico. «Ormai è finita.» Non dice nulla, ma mi osserva con un'espressione che non gli ho mai visto prima, a metà strada tra malizia e follia: un lato di Kline totalmente nuovo, come se il professionista serio fosse improvvisamente diventato uno spregiudicato playboy. «Lei non la ucciderà», gli dico. «Lo sappiamo tutti e due.» «A questo punto potrei scuoiarla anche solo per il lato sportivo della cosa. Potrei fargliela pagare per tutte le seccature che mi ha dato», dice. «E poi usare la pelle per il ripiano della scrivania.» Mi sposto lateralmente di qualche passo, ma non a sufficienza per farlo passare. «La prova», dico, accennando con la testa all'orsacchiotto. «Era un anello?» Lenore mi guarda con un'espressione come per dirmi che questo non è proprio il momento di fare conversazione. Kline non risponde. In questo momento è troppo impegnato. Poi li vedo, messi in evidenza dalla posizione delle braccia che stringono Lenore: i polsini inamidati e, a ogni polso, il marchio di fabbrica di Kline, i gemelli d'oro con le sue iniziali. «Ma certo!» È questo il motivo per cui doveva assolutamente recuperarlo: oltre ai graffi lasciati dal metallo del tavolino, c'erano sopra anche le sue iniziali. Finalmente capisco perché era ossessionato da Lenore. Quando il gemello che lui aveva perso non era comparso tra le prove, si era chiesto il perché. E quando le impronte digitali di Lenore erano state trovate sulla porta d'ingresso dell'appartamento di Lenore, lui aveva fatto due più due, ma aveva sbagliato il conto. Kline era convinto che Lenore avesse trovato il gemello. «Più in là!» mi ordina.
«Dove pensa di andare? Fin dove pensa di poter scappare?» «Che cosa le fa pensare che io debba andare da qualche parte?» «E noi?» «Voi? Si sposti più in là.» Faccio ancora qualche passo di lato, ma non abbastanza perché lui rischi di passarmi accanto. «Chi vi crederà?» dice. «Un acerrimo avversario in un processo per omicidio e una ex collaboratrice che sono stato costretto a licenziare per comportamento indegno sul lavoro, che ha lasciato le proprie impronte digitali sulla porta della vittima. Non siete molto credibili.» Kline ha ragione. Senza il gemello che lo incrimina, non abbiamo niente in mano. Ma considerando i graffi lasciati dal tavolino, le iniziali e la testimonianza di Kimberly che lo identifichi come il tesoro che ha raccolto da terra quella sera vicino al corpo della madre e che ha dato da mangiare all'orso, Kline ha validi motivi per preoccuparsi. «È sufficiente che scompaia», dice, «e potremo tutti continuare con la nostra vita.» Tutti, tranne Acosta che, a quanto pare, è destinato a fare da capro espiatorio. Lenore si divincola. Per un attimo penso che lui stia per tagliarle la gola come un melone. Invece riesce solo a scuotere ciò che rimane dell'orso di Kimberly, come una carcassa che sia stata eviscerata. Ne esce un po' d'imbottitura, insieme a un tesoro che cade al suolo tintinnando. Lui lancia un'occhiata veloce e avida da sopra le spalle di Lenore. Lì, sul pavimento, davanti ai loro piedi, scintillante nella luce soffusa, c'è l'oggetto che ha tanto cercato. Ma Kline non può prenderlo, non senza lasciar andare Lenore. E, se lo fa, sa che io gli salterò addosso. Guarda me e poi di nuovo il gemello per terra. «Indietro», mi ordina. «Indietro!» Arretro di un altro passo. «Di più!» Un altro piccolo passo. «Lo prenda!» ordina a Lenore. «Ma faccia piano.» La spinge in avanti con un ginocchio, tenendole il coltello puntato alla giugulare. «Se mi muovo mi taglierà la gola, con quell'affare», dice lei. «Non mi tenti», le dice Kline. «Ora lascio andare la presa. Lei provi a fare uno scherzo e la taglio a fette. Guardi che faccio sul serio.»
«Non ne dubito», dice Lenore. La lascia andare appena, tenendo gli occhi puntati su di me. Ritrae il coltello di qualche centimetro. Lenore si china e afferra l'oggetto lucente. «Me lo dia!» le ordina Kline. Col braccio destro teso, il gemello stretto nella mano chiusa a pugno, Lenore fa un unico gesto esplosivo. «Certo.» Il suo gomito parte all'indietro come il pistone di una locomotiva e colpisce Kline con tutta la forza nelle costole. La sua esclamazione di dolore echeggia nella stanza. Nell'attimo in cui si piega in due, Lenore è libera. La spingo verso la porta. Lei cade carponi, e io mi metto tra loro due. «Vai! Vai! Fuori!» Mentre mi volto Kline lancia un fendente col coltello, colpendomi sulla manica della giacca. Il sangue si mescola alle fibre del tessuto, ma non sento dolore. Poi, un attimo dopo, una sensazione bruciante mi percorre l'avambraccio e alla fine raggiunge il cervello. Lui tira indietro il braccio per sferrare un altro colpo. Io mi scanso, afferro una lampada dalla scrivania e la uso per deviare il colpo. Il metallo colpisce il metallo. Un terzo colpo squarcia il paralume. Lenore è ancora lì, ferma, apparentemente sotto shock, incapace di andarsene e lasciarmi solo. Agito la lampada contro di lui e lo colpisco su un braccio, strappando via il filo dalla presa. «Scappa!» urlo a Lenore. Continuo a roteare la lampada, come fosse un mulino a vento, restando tra Lenore e Kline per tenerlo a bada. Finalmente Lenore capisce che, avendo lei l'oggetto incriminato, Kline perderà presto interesse per me, e scappa. Kline distoglie lo sguardo per un attimo, distratto dal movimento. Faccio compiere un arco alla lampada e lo colpisco su una guancia. Kline barcolla all'indietro e finisce contro il muro dopo aver travolto una sedia. Lenore è sulla porta. Un attimo dopo sento il ticchettio dei suoi passi sul linoleum del corridoio, mentre corre verso l'altro lato dell'edificio, e poi più niente, come se stesse camminando sulla moquette. Improvvisamente mi rendo conto che ho io le chiavi. Lenore non può entrare in nessuna delle aule che danno sul corridoio. Kline fa un passo verso la porta, ma gli blocco la strada. Comincio a tirargli contro tutti gli oggetti che trovo sulla scrivania, come un bambino
che lanci palline contro i bersagli al parco dei divertimenti. Lo colpisco in pieno petto con una pesante cucitrice e lui emette un gemito. Segue un porta-scotch che deve pesare almeno un chilo. Ora è davvero arrabbiato. Comincia a rendermi pan per focaccia. Afferra la lampada e la scaglia contro di me con tutta la forza che ha in corpo. Mi chino per scansarla, ma mi colpisce di striscio alla spalla. Mi sto risollevando quando, con la coda dell'occhio, vedo un vasetto con una pianta volare attraverso la stanza come un satellite lanciato in orbita. Mi colpisce poco sopra l'occhio destro, ed è l'unica cosa che vedo prima di finire a terra. Kline mi scavalca e, così facendo, mi calpesta la parte posteriore di un ginocchio. Poi sento il rumore della porta che si apre e si richiude. Mi sento stordito. Mi tiro su barcollando a quattro zampe e vedo che sulla mano mi cadono alcune gocce di sangue. Mi tasto e sento la fronte umidiccia e viscida. E poi penso: Lenore. Mi ci vuole un momento per tirarmi in piedi, tenendomi al bordo della scrivania. Mi volto e, incespicando, vado verso la porta. Esco nel lungo corridoio bianco. Dieci metri più in giù scopro il motivo della corsa improvvisamente silenziosa di Lenore, che io credevo dovuta alla moquette. Le sue scarpe col tacco giacciono a terra, una qui, l'altra tre metri più in là, come se le avesse scalciate via correndo. Sento sbattere la porta dell'uscita d'emergenza in fondo al corridoio. Mi metto a correre, con le ginocchia molli come gelatina, e a un certo punto vado a sbattere contro il muro. Poi, finalmente, ecco davanti a me la doppia porta di metallo. Spingo il maniglione antipanico e mi ritrovo dentro un vano-scale di cemento. Sento risuonare sui gradini di metallo passi che scendono velocemente. Quando arrivo al terzo piano sento un tonfo cavernoso provenire dalle viscere del palazzo: è la porta sulla strada che si è chiusa. E poi rumore di passi sul marciapiede. Dev'essere Kline che è uscito e sta rincorrendo Lenore. Mi ci vogliono altri trenta secondi per arrivare al piano terra. Apro la porta sulla notte fredda e buia, guardo in una direzione, poi nell'altra. A un isolato di distanza, illuminata dalla debole luce dei lampioni, vedo una forma felina che attraversa diagonalmente la strada, correndo scalza. Poi si ferma e si volta a guardare. È Lenore. Perlustro con lo sguardo il marciapiede alla ricerca di Kline, ma non riesco a vederlo: la zona rimane
protetta dall'ombra dei giganteschi olmi che fiancheggiano la strada. D'un tratto Lenore riprende a correre: qualcosa la spinge a fuggire come una cerbiatta spaventata. Comincio a correre. Col cuore che mi martella in petto arrivo all'angolo. Lì, un isolato più avanti, vedo una figura che passa correndo sotto la luce di un lampione: è una figura d'uomo che corre con passo veloce e regolare. A un certo punto abbandona il marciapiede e attraversa la strada. Quando Lenore arriva al centro commerciale di K Street, Kline ha già dimezzato la distanza che lo separa da lei. Io sono ancora a un isolato di distanza, e corro a tutto gas. Il centro commerciale è attraversato da un ampio viale riservato ai pedoni, con i binari del tram che corrono nel mezzo per cinque isolati. Questa sera ha un aspetto splendente, addobbato nei colori del Natale con mille lucine intermittenti che brillano tra le fronde degli alberi. Ma, sotto questo splendore, abita una legione di alcolizzati, senzatetto e vagabondi. Di notte il centro cittadino viene abbandonato dalle classi medie. A un isolato di distanza da K Street, vicino alla Ninth Street Plaza, c'è una folla di ragazzini, in maggioranza adolescenti, che lottano per conquistarsi un posto all'interno della pista prefabbricata di pattinaggio, che viene montata ogni anno. Lenore la vede e vi si dirige di corsa. Sa di poter trovare rifugio tra la folla. Io continuo a correre, lasciandomi dietro nuvolette di fiato bianche. Improvvisamente mi accorgo di aver perso di vista Kline, che era davanti a me. Si sarà nascosto da qualche parte lungo la strada, mentre io guardavo Lenore. Mi domando se l'ho superato senza accorgermene e mi si rizzano i capelli in testa all'idea che possa trovarsi alle mie spalle. Mi volto a guardare: non vedo altro che fredda oscurità. Mi guardo in giro alla ricerca di un poliziotto, di una qualsiasi persona che indossi un'uniforme, anche se questo non sarebbe di molto aiuto contro Kline. Ha la parlantina sciolta e senza dubbio riuscirebbe a farci sbattere in galera nel giro di un minuto, dopo averci fatti perquisire e averci sottratto l'unica prova che non mente. Un poliziotto in servizio non si azzarderebbe mai a mettere in dubbio la parola di un procuratore distrettuale. Un agente di vigilanza si metterebbe semplicemente in ginocchio di fronte a lui. Quando arrivo sotto gli alberi illuminati del centro commerciale sto camminando di buon passo. Lenore è scomparsa tra la folla di giovani che pattinano felici. Tutt'intorno alla pista c'è una marea di ragazzi che aspettano il proprio turno, mentre gli altoparlanti trasmettono Jingle Bell Rock a
un volume tale da svegliare anche i morti. Mi avvicino a un telefono pubblico vicino a un lampione. Per un attimo penso che potrei chiamare aiuto. Ma chi? Sono a una trentina di metri dalla pista di pattinaggio, assediato da ubriaconi che mi chiedono qualche spicciolo. Chiunque indossi giacca e cravatta, di sera, è una preda sicura. Uno di loro mi tocca un braccio e io lo allontano bruscamente, cercando Lenore con lo sguardo. Vedo una testa di capelli neri e una giacca scura a circa dieci metri di distanza. È lei e mi dà la schiena. Cerco Kline tra la folla. Niente. Raggiungo Lenore e l'afferro per la spalla. Lei si volta. È un'adolescente coperta di brufoli che mastica chewing-gum. «Ehi, cosa vuoi?» Un ragazzotto, anche lui coperto di foruncoli, in piedi di fianco a lei, esclama: «Ragazzi, Jeannie ha un nuovo ganzo!» «Ehi, questo qui vuole toccare», dice un altro. «Cosa c'è, vuoi fare amicizia?» dice un ragazzo dietro di me, quasi due metri d'altezza e baffi spioventi alla Fu-manchu. «Scusi, credevo fosse un'altra persona», dico alla ragazza. «Sì, sicuro. Ma sparisci!» risponde lei. «Vaffanculo, stronzo», mi apostrofano due sue amiche, voltandosi verso di me mentre mi dileguo tra la folla, grato per la musica assordante. Avrò fatto sì e no cinque passi quando la vedo. È dall'altra parte della pista e sta scrutando attentamente la folla nella mia direzione, appoggiata alla ringhiera. Le faccio segno con la mano, ma non mi vede. Poi, come una telecamera che mette a fuoco, vedo una figura alta che le si avvicina da dietro. I miei occhi scrutano i suoi come un radar. Kline l'ha vista. È a meno di sette metri da lei, e si sta facendo strada tra la gente come fosse un rompighiaccio. Mi metto a correre, rischiando di far cadere a terra qualche ragazzo. Esco dalla folla e giro intorno alla pista. Corro come un matto, scansando le persone, cercandola tra la gente. Tutt'intorno a me la musica è assordante, e si sentono il tintinnio di una stupida campanella elettronica e il fruscio di ruote metalliche sui binari d'acciaio. Poi li vedo che lottano in mezzo alla strada. Lenore, con un braccio teso, il pugno chiuso che stringe il gemello d'oro di Kline, che porta incise, oltre alle sue iniziali, anche graffi che lo possono incriminare quanto impronte digitali. Lenore sta lottando, sta cercando di liberarsi. Kline è dietro di lei e annaspa cercando di afferrarle il braccio.
Corro ancora più veloce. Con la coda dell'occhio vedo la lunga sagoma metallica bianca e blu, i finestrini scintillanti, cinque carrozze di metropolitana leggera che risalgono a tutta velocità Ninth Street e si avvicinano alla curva secca all'inizio del centro commerciale. Da dietro l'angolo il macchinista non può vedere Lenore e Kline che lottano sui binari. Poi, è questione di un secondo, Lenore allunga il braccio - un debole lancio - ed ecco un luccichio metallico che fende l'aria: da qui solo un'immagine indistinta. Il gemello d'oro di Kline descrive una parabola di un metro, cade a terra, rimbalza due volte e va a fermarsi nella fessura tra il binario e la strada. Sono ancora a circa sette metri di distanza. Il treno si sta avvicinando. Finalmente il macchinista li vede, ma è troppo tardi. Il metallo stride contro il metallo, slitta, in balia delle leggi della velocità e dell'inerzia. Kline la tiene da dietro, circondandola con un braccio, e intanto cerca di andare verso l'oggetto sui binari, verso il treno che sta arrivando. Abbasso una spalla e con tutta la forza che ho scivolo davanti a Kline, inchiodando Lenore tra anca e coscia, tenendola con entrambe le braccia, le gambe che spingono. L'impatto la stacca dalla stretta di Kline e ci fa volare oltre i binari, mandandoci a rotolare sul cemento come due burattini. D'un tratto sembra che le uniche facoltà rimastemi siano quelle che registrano i rumori e le vibrazioni: il tonfo sordo del metallo che colpisce la carne e il silenzio attonito della folla nel breve istante che segue. Lenore e io restiamo a terra sulla strada, mentre il dolore arriva a riempire i vuoti. Il treno slitta ancora per mezzo isolato prima di riuscire a fermarsi, e l'ultima carrozza ci passa vicina. I ragazzi si precipitano a vedere come una mandria di animali selvaggi. C'è sangue dappertutto, nel punto dell'impatto a quattro metri da noi: un'esplosione che si staglia sul cemento come un dipinto di Dalí. Tra i binari c'è una scarpa strappata al proprietario dalla forza dell'urto. Sulla punta brillano comete di sangue, quasi la macabra presentazione di una nuova moda. Lenore sta tremando, intontita: sono i sintomi dello shock. Come in trance, mi tolgo la giacca e gliel'avvolgo intorno alle spalle. Mi trascino carponi lungo i binari, osservando le rotaie. Il pensiero che il procuratore distrettuale della contea giaccia morto sulle rotaie, spettacolo
per un'orda di giovani assatanati, e che la nostra prova sia scomparsa, mi passa per la mente come una nuvola scura. Il gemello d'oro è sparito. Dietro di me Lenore si alza in piedi. A voce alta mi chiedo quale ossessione possa aver spinto un uomo a gettarsi contro trenta tonnellate di acciaio e vetro. «Cosa diavolo avrà avuto al posto del cervello?» «Probabilmente il culo», dice Lenore. Quando alzo lo sguardo su Lenore tremante per il freddo dietro di me, vedo che ha sul volto un'espressione ambigua, tra la smorfia e il sorriso. Il suo umorismo macabro di fronte alla morte di Kline è l'ultimo tocco di ostilità in un pessimo rapporto di lavoro. Mi concentro nuovamente sul compito più impellente, la ricerca tra i binari scintillanti. «Non riesco a trovarlo», le dico, frugando con le dita nella fessura che corre lungo il binario, trenta centimetri per volta, tra il grasso e la sporcizia. «Ne sei sicuro?» mi chiede. «Sì. Non c'è.» Comincia a prendermi il panico. Non so proprio cosa diremo alla polizia senza quella prova in mano. Per un attimo sento la presenza di lei, china sulla mia spalla, che si unisce a me nella ricerca. «Maledizione», dice. «Erano pure i miei preferiti.» Mi blocco e mi volto a guardarla al chiarore delle lucine natalizie. Sta ancora tremando. Nel palmo della mano tiene un orecchino dorato. Per un attimo non capisco. Osservo il suo volto illuminato da un sorriso enigmatico. Poi apre l'altra mano. Posato sul palmo c'è il gemello d'oro di Coleman Kline. EPILOGO È stata la beffa finale: mentre lottava per la propria sopravvivenza, non volendo separarsi dalla prova della colpevolezza di Kline, Lenore si è esibita in un gioco di prestigio, sostituendo il polsino d'oro di Kline con uno dei suoi orecchini. Era un orecchino quello che ho visto volare, quello che lei ha lanciato sulle rotaie quella notte, e che Kline ha inseguito fino a incontrare la morte. È passata più di una settimana, e Radovich ha decretato l'annullamento del processo contro Acosta. Tutti i giorni la stampa è piena di nuove rivelazioni sul caso: prove sempre più concrete che Kline ha ucciso Brittany
Hall. Da alcune foto che la polizia le ha mostrato, Kimberly ha finito con l'identificare Kline come l'uomo che aveva visto con la madre la sera del delitto. Era questa la ragione per cui Kline aveva lasciato l'aula entrambe le volte in cui la bambina era stata chiamata a testimoniare: temeva che potesse riconoscerlo. È intervenuto il procuratore distrettuale, e due giorni fa ha annunciato che, sulla base delle prove attualmente in suo possesso, le accuse contro Acosta sono venute a cadere. Il giudice è ora un uomo libero. Armando e Lili sono venuti ieri nel mio ufficio e abbiamo parlato a lungo. Non c'è stata alcuna ammissione a proposito della presenza di Lili a casa della Hall quel giorno. Certe cose è meglio che restino non dette. Questa mattina Lenore e io siamo rimasti a casa. Siamo entrambi esausti e abbiamo bisogno di riposo. Harry ha acconsentito a mandare avanti l'ufficio per una settimana, così adesso stiamo caricando la macchina all'inverosimile per portare le bambine, Sarah e le due figlie di Lenore, in montagna per qualche giorno di campeggio. Sarah ha riempito l'auto con i suoi animali di peluche: probabilmente saremo costretti a viaggiare tutti sul tetto. «Questo serve?» Lenore ha in mano la scatola che contiene il fornello da campo. «Se vogliamo mangiare», le rispondo. «Pensavo che avremmo potuto ordinare qualche piatto cinese da asporto.» Mi sto rendendo conto che tende e sacchi a pelo non rientrano nell'idea che Lenore ha del riposo. Ma so che ci rilasseremo all'aria pura di montagna senza televisione né telefoni, o giornalisti che ci danno la caccia. Se da un lato restano ancora diverse questioni irrisolte, Tony Arguillo ha riempito alcuni dei vuoti, sia con gli investigatori che lo hanno interrogato, sia in privato con Lenore. Nell'intimità, la Hall gli aveva raccontato della sua relazione con Kline che si era ormai inasprita. Aveva fatto qualche allusione a episodi di molestie sessuali. Qualcuno sostiene che lui si rifiutasse di darle un lavoro. Lenore è convinta che ci sia sotto dell'altro. Intuito femminile. Lenore sostiene che Kline avrebbe dato un lavoro alla Hall anche subito. «Con uno staff di un centinaio di persone, le posizioni nel suo ufficio non valevano una cicca.» «E allora cosa ne pensi?» le chiedo. «Vuoi sapere la mia idea? La Hall voleva farsi mettere un anello al dito. Voleva che lui lasciasse la moglie, ma era il denaro della moglie che gli fo-
raggiava la carriera.» Preso nella morsa delle sue debolezze, una moglie con i soldi e un'amante che lo accusava di molestie sessuali, Kline non ha retto alla pressione. Quella sera, a casa della Hall, la sua rabbia è esplosa. Il resto lo sappiamo. Lenore è enigmatica. Mi guarda inarcando le sopracciglia, come una che la sa lunga, lasciandomi con il seme di un dubbio. Forse Kline aveva ragione. Quel giorno, la Hall le aveva davvero detto qualcosa che le aveva fatto nascere qualche sospetto? O è solo il senno di poi? Non lo saprò mai. Era solo un'ipotesi, ma nella mia testa avevo cominciato a collegare alcuni particolari fin dal giorno della deposizione di Kimberly. Perché, dopo essersi assunto il carico di un processo così importante, Kline si era fatto da parte lasciando a un collaboratore l'interrogatorio del teste più popolare, la sopravvissuta, la piccola Kimberly? A meno che non avesse qualcosa da temere. Era stata l'incertezza di Kline circa il fatto che lei lo avesse visto o no quella sera a renderlo così timoroso. E poi c'era stato quello sguardo dal fondo dell'aula, quello stesso giorno, quello sguardo perplesso mentre Kimberly ingozzava il suo orsacchiotto di gelatine, quella luce negli occhi quando finalmente aveva capito, la tessera finale del mosaico: ecco cos'era successo al gemello sparito. Sospetto che per un po' abbia pensato che l'avesse Lenore, che lei l'avesse trovato quella sera, quando aveva lasciato le sue impronte sulla porta dell'appartamento della Hall. Forse pensava che lei fosse una delle tante femmine intriganti che aspettava soltanto il momento giusto per usarlo e trarne il massimo vantaggio. Molto di quello che mi aveva detto quella sera alla cena del governatore aveva un significato nascosto: Lenore che sapeva qualcosa, che forse aveva qualcosa. E poi c'era l'ossessione di Kline per il colloquio di Lenore con la Hall. Perché? A meno che non fosse convinto che la Hall avesse rivelato a Lenore qualcosa a proposito della loro relazione. La Hall era una vera seccatrice e un'arrampicatrice sociale. Non avevo potuto fare a meno di notare che dalla sua agendina mancava la lettera K. Non sappiamo ancora se si è trattato di un caso fortuito - un lavoretto di Tony per conto di qualcun altro - o se sia stato lo stesso Kline a farlo. L'appartamento della Hall quella sera era come la Grand Central Station. Il fatto che quasi tutte le persone in seguito coinvolte nel processo si trovassero lì quella sera - anche se non contemporaneamente - dà una misura delle aspirazioni di quella donna: Lili e Tony, Lenore e io, e lo stesso Kline. A dire il vero, il solo a non averle fatto visita quella sera è stato Phil
Mendel, anche se era sulla sua agendina, e adesso è in galera. La ragione per cui Harry era così sicuro che Mendel sarebbe tornato presto dal suo viaggio era che non è mai partito. Mendel aveva un appuntamento all'aeroporto con quelli della dogana, un appuntamento che non poteva prevedere: una telefonata anonima li aveva avvertiti che in una delle sue valigie c'era quasi un chilo di cocaina. Dopo la perquisizione in casa mia, l'avevo data a Harry perché se ne liberasse. Gettandola nel gabinetto, immaginavo io. Ma l'idea che Harry aveva di una toilette compiacente si è concretizzata in una delle valigie di Mendel, lasciate incustodite nell'ufficio del cancelliere durante l'ultimo giorno del processo. Quando gli ho chiesto spiegazioni, lui l'ha definito «un riciclaggio»: è l'interpretazione che Harry dà all'ambientalismo militante... Mendel che attraversa l'aeroporto correndo e facendo un sacco di chiasso per prendere l'aereo, e gli agenti federali che lo fottono. Tutti i debiti sono stati pagati, tutte le domande hanno trovato una risposta, il cerchio si è chiuso... poesia in movimento. FINE