BRAD MELTZER IL DECIMO GIUDICE (The Tenth Justice, 1997) Per Cori, che ha cambiato la mia vita dal momento in cui vi è e...
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BRAD MELTZER IL DECIMO GIUDICE (The Tenth Justice, 1997) Per Cori, che ha cambiato la mia vita dal momento in cui vi è entrata RINGRAZIAMENTI Desidero ringraziare tutte le persone che contribuendo alla realizzazione di questo libro sono divenute parte integrante della mia vita. In particolare: Jill Kneerim, la mia agente, per aver avuto fiducia nelle mie qualità di scrittore. Negli ultimi quattro anni è stata editor, consigliera, sostenitrice sfegatata e persona fidatissima. Ma soprattutto mi è stata amica. Le sue intuizioni sagaci (talvolta preveggenti) e la grande sensibilità umana rendono inestimabile il valore della sua amicizia. Se non avesse mai riso per le mie fraterne spiritosaggini, oggi non saremmo qui. Elaine Rogcrs, la cui abilità di venditrice ha messo in moto tutta l'operazione: anche solo per questo, le sarei eternamente debitore; Sandy Missakian, che con il suo sense of humour, la sua tenacia e la sua diplomazia mi ha reso la vita molto più facile; Sharon Silva-Lamberson, per essersi prodigata ben al di là del suo dovere e per aver dato impulso alla realizzazione del libro provandoci anche gusto (grazie, Sharon); ìke Williams e tutti i collaboratori dell'agenzia Palmer & Dodge per il sostegno datomi; Neil Stearns e tutti gli amici del Dick Clark Film Group per il coraggio, l'impegno e la dedizione. Neil, tu e il tuo gruppo siete stati i primi a concedermi una possibilità. Non lo dimenticherò mai. Voglio ringraziare i miei genitori, che mi hanno sempre circondato di un amore incredibile, fornendomi inoltre, a loro insaputa, per anni e anni, materiale preziosissimo; mia sorella Bari, per il suo costante supporto; Ethan Kline e Noah Kuttler, che hanno dedicato un'impressionante quantità di tempo e di energia alla cura di questo libro nei più minuti dettagli; Matt Oshinsky, Joel Rose, Chris Weiss e Judd Winick, per la loro instancabile assistenza e per l'impagabile amicizia; il professor Kellis Parker, per il suo deciso sostegno; Kathy Bradley, per avermi dedicato così tanto tempo nella fase preparatoria, fornendomi una quantità di brillanti spunti su cui lavorare; Chris Vasil, per il suo occhio clinico e la sua generosità; e tutto il resto della mia famiglia e dei miei amici, i cui nomi ho usato in queste pagi-
ne. Vorrei ringraziare anche la Rob Weisbach Books e William Morrow; Bill Wright per il suo incredibile entusiasmo; Jackie Deval, Michael Murphy, Lisa Queen e Sharyn Rosenblum, per l'inesauribile energia profusa e per l'inestimabile supporto; Colin Dickerman, per i suoi commenti e suggerimenti; David Szanto, per il lavoro sul manoscritto e per tutto il resto; tutte le persone meravigliose della Weisbach/Morrow che hanno operato a che questo libro divenisse realtà. Infine, sono infinitamente grato al mio editore Rob Weisbach: Rob è una delle persone più lungimiranti di questo mondo; è un editore espertissimo, il cui impegno nei confronti dei suoi autori non potrà mai essere sovrastimato. Sono onorato di partecipare a questa sua nuova impresa editoriale e ancora più fiero per il fatto di poterlo annoverare tra i miei amici. Rob, non potrò mai ringraziarti abbastanza per tutto quello che hai fatto, perché oltre al tuo incontenibile entusiasmo mi hai concesso la tua fiducia. In una capitale piena di segreti - e di fughe di notizie - la Corte suprema degli Stati Uniti opera affinché gli affari riservati rimangano tali. I giornalisti possono formulare ipotesi, ma non trapelano mai indiscrezioni sulle discussioni in corso, il cui andamento viene reso noto solo quando le decisioni sono ormai state annunciate. The Supreme Court Historical Society, Equal Justice Under Law Con cinque voti, qui si può fare di tutto. William Brennan, Giudice della Corte suprema 1 Ben Addison stava sudando. Come un maiale. E non ce n'era motivo. Nelle ultime tre ore aveva letto le notizie d'attualità del «Washington Post», del «New York Times», di «Law Week» e di «Legai Times». La sera precedente, prima di coricarsi, aveva ripassato a memoria tutti i principali casi affrontati dalla Corte suprema nella sessione appena conclusa e stilato un elenco di tutte le opinioni personalmente sottoscritte dal giudice Mason Hollis; infine, per sicurezza, aveva riletto la biografia di Hollis. Ben era convinto di essere preparato su qualsiasi argomento il giudice po-
tesse decidere di affrontare. Aveva messo in borsa due bloc notes dai fogli gialli, quattro penne, due matite, un dizionario tascabile di giurisprudenza, un piccolo vocabolario e un sandwich al tacchino. Aveva sentito dire che gli assistenti della Corte suprema lavoravano anche durante il pranzo. Non c'erano dubbi: Ben Addison era pronto. Eppure continuava a sudare. Come un maiale. Davanti alla sede della Corte suprema, con mezz'ora di anticipo sull'orario stabilito per il suo primo giorno di lavoro, Ben fu abbagliato dallo splendore del bianco edificio che ospitava la più alta istituzione giuridica nazionale. "Eccomi qua", pensò, inspirando profondamente. "Finalmente!". Passandosi una mano tra i capelli appena tagliati, Ben salì la liscia scalinata di marmo. Contò i gradini, nel caso il giudice Hollis fosse stato curioso di sapere quanti erano. "Quarantaquattro", mormorò tra sé, archiviando l'informazione. Appena varcato l'ingresso principale, Ben fu fermato da un agente di sicurezza seduto accanto a un metal detector. «Posso esserle utile?», domandò. «Mi chiamo Ben Addison. Lavoro qui, da oggi». L'agente consultò il suo registro e trovò il nome. «Manca ancora mezz'ora all'inizio del colloquio di orientamento». «Mi piace essere in anticipo», replicò Ben, sorridendo. «D'accordo». L'agente roteò gli occhi. «In fondo al corridoio, la prima a sinistra». Seguendo le indicazioni dell'agente, Ben attraversò la Great Hall. Con i busti degli ex presidenti della Corte allineati lungo le pareti, quell'atrio conservava l'imponenza che lui ricordava. Adottò un sorriso beffardo passando davanti a quei volti scolpiti. "Buongiorno, Corte suprema", bisbigliò tra sé. "Buongiorno, Ben", si rispose. Quando giunse a destinazione, aprì l'ampia porta di legno. Oltrepassando la soglia, si aspettava di vedere una stanza vuota. Invece, vide altri otto assistenti. "Leccaculi", grugnì tra sé, dirigendosi verso l'unica sedia vuota rimasta nella stanza. Con la massima discrezione possibile, Ben squadrò i suoi nuovi colleghi. Ne riconobbe tre. Il primo da destra, un elegantone con gli occhiali dalla montatura di osso, redigeva articoli per la «Stanford Law Review». Alla sua sinistra era seduta una nera piuttosto alta, ex caporedattrice della «Harvard Law Review». Ben li aveva conosciuti entrambi a una congresso delle riviste di giurisprudenza tenutosi a Yale. Ricordava anche che il tipo
occhialuto aveva lavorato come giornalista per il «Los Angeles Times», mentre la donna era stata consulente di Sotheby quale esperta di arte classica. Si chiamava Angela. Gli sfuggiva il cognome. Il terzo, seduto accanto a Ben, era Joel Westman, suo compagno di studi alla Yale Law School. Joel era un analista politico e negli anni precedenti la laurea in legge aveva scritto discorsi per la Casa Bianca. "Tutti con ottimi curriculum", pensò Ben. Sforzandosi di apparire rilassato, sorrise e annuì cordialmente ai tre, i quali, a turno, annuirono di rimando. In attesa che il colloquio di orientamento iniziasse, Ben prese a battere nervosamente con un piede sullo sfarzoso tappeto. "Non ti preoccupare", disse tra sé. "Andrà tutto bene. Sei preparato quanto gli altri. Ma sei altrettanto navigato e con le spalle coperte?". Non aveva importanza. "Ricordati delle mutande fortunate", pensò, cercando di rassicurarsi. Ben aveva comprato quei boxer rossi, ormai lisi, quando era matricola alla Columbia University. Li aveva indossati il primo giorno di ogni anno accademico, in occasione di ogni esame e in tutte le circostanze importanti. Anche quando, alla fine di ogni anno accademico, aveva dovuto sostenere esami per tre giorni consecutivi, quei boxer non li aveva mai tolti. Li aveva a più riprese indossati anche nei tre anni a Yale e in occasione di tutti i colloqui di lavoro. "Oggi", realizzò, smettendo di battere a terra con il piede, "è il giorno fatidico in cui le mie mutande fortunate fanno il loro esordio nelle sacre aule della Corte suprema". All'ora prevista, un uomo di mezz'età in gessato grigio fece il suo ingresso nella stanza. Sotto il braccio reggeva una pila di buste color carta da pacco. Raggiunta la tribuna, contò silenziosamente i presenti con una rapida rotazione del capo. «Mi chiamo Reed Hughes», disse, afferrando saldamente uno dei bordi laterali del podio. «Come capo dell'ufficio assistenti sono lieto di darvi il benvenuto ufficiale alla Corte suprema degli Stati Uniti. A rischio di ribadire concetti a voi già noti, credo sia opportuno che vi spieghi a grandi linee come passerete il prossimo anno qui alla Corte». In pochi secondi quattro assistenti estrassero i taccuini e, penna in mano, si prepararono a scrivere. "Penosi", pensò Ben, resistendo all'impulso di imitarli. «Come sapete, ogni giudice ha diritto a due assistenti che lo aiutino nel lavoro necessario alla preparazione delle decisioni», spiegò Hughes. «Voi nove, che cominciate oggi, vi unirete a nove vostri colleghi che sono entrati in servizio un mese fa, il 1° luglio. So che voi tutti avete lavorato molto duramente per essere qui oggi. Per la maggior parte della vostra vita avete
inseguito questo traguardo. Ebbene, lasciate che vi dica una cosa: la corsa è finita. Avete vinto. Siete assistenti presso la Corte suprema degli Stati Uniti». «Hai preso nota?», bisbigliò Ben a Joel. «Noi siamo gli assistenti». Joel gli lanciò un'occhiataccia. «I saputelli non piacciono a nessuno, Addison». «Voi e i vostri nove colleghi siete gli elementi migliori della comunità giuridica, i più brillanti», proseguì Hughes. «Dopo aver esaminato migliaia di domande provenienti dalle migliori facoltà di legge di tutto il paese, i giudici di questa Corte hanno scelto voi. Che cosa significa? Significa che le vostra vita carnbierà irreversibilmente. Riceverete offerte di lavoro, vi inviteranno a costosissime cene, e aspiranti datori di lavoro faranno carte false per avervi al loro servizio. Siete membri dell'élite più esclusiva del paese. L'attuale segretario di stato ha lavorato come assistente alla Corte suprema, e anche l'attuale segretario alla difesa. Tre dei nove giudici della Corte suprema attualmente in carica sono stati assistenti. Dunque, è molto probabile che qualcuno di voi diventi a sua volta giudice della Corte suprema. Da questo momento, siete la merce più ambita che si trovi sul mercato. Voi siete sia carne sia pesce. Insomma, avete potere». Ben si appoggiò allo schienale della sedia. Aveva smesso di sudare. Hughes scrutò il suo pubblico ammaliato. «Sapete perché vi dico questo? Non certo per darvi modo di far colpo sui vostri amici. E neppure per sollecitare la vostra autostima. Sono anni, ormai, che tratto con voi assistenti e so che non ne avete bisogno. Il mio compito consiste nel prepararvi alla responsabilità che vi attende. «Questo lavoro è importante, probabilmente il più importante che vi sia mai capitato. Per più di due secoli la Corte suprema ha guidato il paese attraverso le più spinose controversie. Il Congresso vota le leggi e il presidente le controfirma, ma è la Corte suprema che decide come interpretarle. A partire da oggi, questo potere è nelle vostre mani. Insieme ai giudici, prenderete decisioni in grado di cambiare la vita delle persone. Il vostro parere sarà continuamente richiesto, e le vostre idee troveranno applicazione pratica. In molti casi i giudici si affideranno interamente alle vostre analisi. Fonderanno le loro opinioni sulle vostre ricerche. Ciò implica che voi condizionerete ciò che essi vedranno e sapranno. I giudici della Corte sono nove, ma la vostra influenza, il potere di cui disponete, vi trasforma in una sorta di decimo giudice». Hughes fece una pausa, aggiustandosi con cura gli occhiali sul naso. «O-
ra avete una grande responsabilità. Dovrete esercitarla saggiamente. Detto questo, so per certo che prenderete l'impegno molto sul serio. Se possedete la mentalità giusta, quest'anno alla Corte suprema potrà cambiarvi la vita. Ci sono domande?». Nessuno alzò la mano. «Bene», riprese Hughes, prelevando la pila di buste. «Allora, potete recarvi al vostro ufficio». Distribuendo le buste spiegò: «Ciascuno prenda la busta col proprio nome. Contiene il vostro tesserino di riconoscimento e la password. Col tesserino potrete entrare da qualsiasi ingresso, mentre la password vi consentirà di accedere al computer del vostro ufficio. La vostra segretaria vi spiegherà come fare. Ci sono domande?». Di nuovo, neanche una mano alzata. «Bene», disse Hughes. «Accomodatevi pure nei vostri uffici. Il numero è scritto sulla busta». Mentre gli assistenti defluivano dalla sala, Hughes richiamò la loro attenzione: «Se avete domande da rivolgermi, non fatevi scrupoli». Ben uscì per ultimo e si diresse al suo ufficio, l'unico situato al secondo piano. Aveva conosciuto gli ex assistenti del giudice Hollis nel corso di un incontro, l'anno precedente. Si fece rapidamente largo verso l'ingresso principale della Corte, accanto al quale si trovava l'ascensore. L'addetta all'ascensore era una donna anziana con i capelli che sembravano tinti con l'inchiostro di china. Indossava una divisa inadeguata alla sua taglia forte e stava lavorando a un puzzle posato su un tavolino. «Secondo piano, grazie», disse Ben, quando giunse al cospetto della donna. Poiché questa non rispose, Ben aggiunse: «Signora, avrei bisogno di andare al secondo piano. Non potrebbe, per favore...». «Non si agiti», rispose lei, strascicando le parole e senza neppure alzare gli occhi. «Sarò da lei in un attimo». Solo dopo aver sistemato il pezzo del puzzle che teneva in mano alzò gli occhi dal tavolo. «Bene, vediamo, con chi ha appuntamento?». «Sono un assistente del giudice Hollis. Mi chiamo Ben Addison», disse, porgendo la mano. «Non mi importa chi è lei, mi dica semplicemente a che piano deve andare», disse la donna, entrando nella cabina dell'ascensore. «Secondo», disse Ben, a denti stretti, nel tentativo di non perdere la pazienza. Giunti al secondo piano. Ben uscì dall'ascensore e si avviò lungo il corridoio, cercando l'ufficio con il numero segnato sulla sua busta. "Piacere di vederla, giudice Hollis", ripeteva tra sé mentre camminava. "Buongiorno, giudice Hollis, che piacere vederla. Come va, giudice Hollis? Bel-
lissimo vestito, giudice Hollis, le sta benissimo. Posso leccarle il culo ancora un po', giudice Hollis?". Infine, trovò la stanza 2143. Davanti alla massiccia porta di mogano, Ben si asciugò la destra sui pantaloni, preparandosi all'eventualità di una stretta di mano. Girò la maniglia, aprì la porta ed entrò nell'ufficio. «Ciao, tu sei Ben, vero?». Una donna sotto i trent'anni sbirciò al di sopra del giornale che stava leggendo. «Mi dispiace, ma il tuo bel vestito è sprecato con me». La donna, che indossava un paio di bermuda kaki e una maglietta a girocollo verde, mise da parte il giornale e si avvicinò a Ben, porgendogli la mano. «Felice di conoscerti. Io sono Lisa, saremo colleghi per il prossimo anno. Spero che non finiremo per odiarci, perché trascorreremo un bel po' di tempo insieme». «Ma il giudice...?». «Ti faccio vedere il nostro ufficio», lo interruppe Lisa, conducendolo all'interno. «Questa è solo la reception. Oggi, Nancy non c'è, ma di solito lì ci sta seduta lei, la segretaria di Hollis». Benché minuta, Lisa era di struttura piuttosto atletica, solida ma elegante. Aveva un nasino che si integrava alla perfezione tra le labbra sottili e gli occhi azzurri. Ravviandosi i capelli dietro un orecchio, aprì una porta che introduceva a una stanza più piccola. «Ecco il nostro ufficio. Bella schifezza, eh?». «Incredibile!», esclamò Ben, ancora sulla soglia. L'ufficio non era grande, e l'arredamento era ridotto all'osso, ma i pannelli di legno scuro che ne rivestivano le pareti davano l'immediata sensazione di trovarsi in un luogo storico. Sul lato destro dell'ufficio c'erano scaffali componibili che ospitavano i libri a disposizione di Ben e Lisa. Stipata di materiale bibliografico relativo ai vari casi, di trattati e di riviste di giurisprudenza, quella stanza ricordò a Ben le biblioteche dei miliardari di certi film di serie B. Sulla parete in fondo era appeso l'unico quadro: la fotografia dei giudici membri della Corte suprema. Ne veniva scattata una ogni volta che un nuovo giudice entrava a far parte della Corte, e la posa era sempre la stessa: cinque giudici seduti e quattro in piedi. Il presidente era seduto al centro, mentre gli altri giudici erano disposti intorno a lui secondo il criterio dell'anzianità di servizio: il più anziano all'estrema sinistra, il più giovane all'estrema destra. Benché la foto risalisse a soli sei mesi prima, gli identici completi neri dei giudici e i loro sguardi fieri la rendevano pressoché indistinguibile da quelle del passato. Sopra il tappeto blu e oro erano sistemate due scrivanie, l'una di fronte
all'altra, due computer, uno schedario che copriva tutta una parete, un tritacarte e un lussuoso, benché consunto, divano rosso. Le scrivanie erano già sommerse da una montagna di carte. «Se non sbaglio, le scrivanie risalgono ai primordi delle colonie», spiegò Lisa. «Probabilmente sono appartenute a qualche ex giudice. Ma per quel che ne so io di antiquariato, potrebbero benissimo essere copie più recenti recuperate in qualche cantina». Seguendola all'interno dell'angusto ma lussuoso ufficio, Ben notò che Lisa era scalza. «Il giudice non verrà, oggi, vero?», domandò Ben, scostando alcune carte da una delle scrivanie per posarvi la propria borsa. «Esatto. Mi dispiace, avrei dovuto chiamarti ieri sera. La maggior parte dei giudici va in vacanza, d'estate. Hollis starà via per altre due settimane. Quindi, puoi venire vestito come più ti piace». Lisa si appoggiò alla scrivania di Ben. «Allora, cosa ne pensi?». Ben scrutò la stanza e disse: «Il divano ha l'aria di essere comodo». «Una cosa media. Di certo, però, è più comodo di queste vecchie sedie». Lisa lanciò un'occhiata verso uno dei grìgi schedari metallici e disse: «In ogni caso, questa è la parte migliore dell'ufficio. Dacci un'occhiata». Ben spostò lo schedario dalla parete per vedere meglio e contò diciotto firme vergate con un pennarellone nero. «Sono gli ex assistenti di Hollis?», domandò, scorrendo i nomi che coprivano metà dello schedario. «No, sono i nomi dei veri moschettieri», rispose Lisa. «Ovvio che sono gli ex assistenti». «E noi quando firmiamo?». «Questa circostanza mi pare la più propizia», disse Lisa, estraendo un pennarellone nero dalla tasca posteriore dei suoi pantaloncini. «Non è che corriamo troppo?», ridacchiò Ben. «Ehi, sei fortunato che io ti abbia aspettato». Con uno svolazzo, Lisa scrisse il proprio nome sul fianco dello schedario. Quando lei ebbe terminato, Ben appose la propria firma e risospinse il mobile contro il muro. «Dunque, tu hai cominciato a luglio», disse. «Esatto», confermò Lisa. «Anche se mi sarebbe piaciuto viaggiare ancora un po'». «È quello che ho fatto io», disse Ben. «Sono tornato dall'Europa l'altroieri». «Buon per te», esclamò Lisa, lasciandosi andare sul divano. «Dammi i tuoi estremi: di dove sei, dove hai studiato, hobby, aspirazioni... e tutte le cose più interessanti».
«Vuoi sapere anche tutte le mie misure o ti basta il numero di scarpe?». «Le misure le vedo da me», ribatté Lisa. «Piedi piccoli, mani di media grandezza, costituzione normale, enorme autostima». Ben rise. «Me l'avevano detto che la mia collega assistente sarebbe stata una cafona», disse, togliendosi la giacca. Aveva il viso ovale e una mascella non certo pronunciata, eppure era considerato carino, con quei suoi occhi verdi, cupi e intensi, e i capelli castano chiaro che gli ricadevano sulla fronte. Arrotolandosi le maniche disse: «Sono di Newton, Massachusetts; ho frequentato la Columbia e mi sono laureato in legge a Yale; l'anno scorso ho lavorato per il giudice Stanley, competente per il District of Columbia; infine, vorrei diventare magistrato». «Che noioso!», esclamò Lisa, sprofondando nel divano. «Già che ci sei, dammi il tuo curriculum... Io vorrei sapere qualcosa di te: quello che ti piace o che detesti, i tuoi cibi preferiti, scandali sessuali, com'è la tua famiglia... e tutte le cose più succulente». «Sei sempre così curiosa?», domandò Ben sedendosi con un saltello su un angolo della scrivania. «Passeremo gran parte dei prossimi dodici mesi in questa stanza. Da qualche parte dobbiamo pur cominciare. Mi rispondi o no?». «Mia madre lavora come dirigente in una ditta di computer di Boston. Una supermamma energica e molto sgamata, cresciuta a Brooklyn. Mio padre è un liberal titolare di una rubrica di commenti sul "Boston Globe". Hanno frequentato entrambi l'università del Michigan e si sono conosciuti a un corso di sociologia. Il loro primo approccio fu un diverbio: mio padre si infuriò quando udì mia madre affermare che il livello del salario è direttamente proporzionale all'intelligenza». «Va be', normali contrasti!», disse Lisa, ricomponendosi. «Vanno molto d'accordo, ma in casa è vietato discutere di politica». «E tu, politicamente, dove ti collochi?». «Tra il moderato e il liberal, più o meno», rispose Ben, aiutandosi con le mani. «Sono il frutto di un matrimonio tra opposte fazioni». «Fidanzate?», domandò Lisa. «Nessuna. Credo che mio padre sia sempre e solo stato con mia madre». «Spiritoso», fece Lisa. «Abito con i miei tre migliori amici, ex compagni di liceo», disse Ben, appoggiandosi all'indietro sulle mani. «Sei mai stato innamorato?». «Ti hanno mai detto che sei impertinente?».
«Rispondi alla domanda», insistette Lisa. «Solo una volta, ma dubito che lo si possa chiamare amore. Dopo la laurea in legge, ho girato il mondo per un paio di mesi, in Europa e in Asia: Bangkok e Bali, la Spagna e la Svizzera e tutto quello che sono riuscito a vedere». «Devo dedurre che ti piace viaggiare». «Moltissimo», confermò Ben. «Comunque, in Spagna ho conosciuto questa donna. Si chiamava Jacqueline Ambrosio». «Che nome esotico! Era spagnola?». «Nah. Faceva la consulente di marketing nel Rhode Island. Lei era all'inizio del suo viaggio in Spagna, mentre io ero alla fine del mio. Ci siamo incontrati a Salamanca, abbiamo trascorso un week-end all'isola di Maiorca e ci siamo separati cinque giorni dopo il nostro incontro». «Ti prego, mi stai spezzando il cuore», gemette Lisa. «Aspetta, fammi indovinare: hai perso il suo indirizzo, non sei più riuscito a rintracciarla e il tuo cuore sanguina ancora per lei». «A dire il vero, l'ultimo giorno mi ha rivelato che era già sposata, e che le era molto piaciuto riassaporare le gioie della vita da nubile. Il marito sarebbe arrivato il giorno dopo». Dopo un breve silenzio, Lisa disse: «Mi stai prendendo in giro?». «Per niente». «Non portava la fede nuziale?». «No, almeno quando eravamo insieme». «Be', allora è una bella storia», concluse Lisa. «Ma di certo non era amore». «Non ho mai detto che lo fosse», disse Ben, sorridendo. «Ma adesso parlami di te. Qual è la tua storia? Solo le cose succulente». Lisa si rannicchiò, poggiando i piedi sul divano. «Sono di Los Angeles, che mi fa schifo. È un po' il cesso di quella grande casa che è l'Ovest degli Stati Uniti. Ho frequentato Stanford e mi sono laureata lì solo perché mi piace stare vicino alla mia famiglia...». «Che noiosa!», modulò Ben. «Non essere precipitoso», disse Lisa. «Mio padre è di L.A., mia madre è di Memphis, e ti giuro che si sono conosciuti a una convention di fan di Elvis a Las Vegas. Collezionano di tutto: piatti, asciugamani, portatovaglioli...». «Non mi dirai che il tuo secondo nome...». «Esatto. Mi chiamo Lisa Marie Schulman».
«Fantastico», esclamò Ben, sinceramente impressionato. «Ho sempre sognato di rovinare i miei figli con un nome davvero ridicolo. Che so, Thor o Ira». «Te lo raccomando di cuore. Essere scherniti durante l'infanzia fa molto bene alla propria autostima». «Voglio farti una domanda», disse Ben. «Tu gli spaghetti li arrotoli?». Lisa corrugò la fronte, perplessa. «Secondo me, ci sono due tipi di persone al mondo», spiegò Ben. «Quelle che arrotolano gli spaghetti e quelle che li risucchiano schizzandosi addosso tutto il sugo. Tu a quale categoria appartieni?». «Io li risucchio», disse Lisa con un vago sorriso. «E quando ero piccola non mangiavo cibi bianchi, cosicché mia madre doveva tingermi il latte e le uova con i coloranti per alimenti». «Cosa?», fece Ben, scoppiando a ridere. «Dico sul serio. Odiavo il bianco, e lei mi colorava il latte di viola e le uova di rosso. Era divertentissimo». «Scommetto che tagliavi i capelli alle tue Barbie». «Appena le estraevo dalla confezione», confermò Lisa, con orgoglio. «Erano loro che me lo chiedevano, le troiette». «Be', ho già capito», disse Ben ridendo. «Andremo d'accordo alla grande». Ben prese la linea rossa del metrò fino a Dupont Circle, dopodiché si avviò a piedi verso casa. A un isolato dall'imbocco della metropolitana vide Joey il Duro, il barbone più incazzato della zona. «Ciao, Joey», fece Ben. «Fottiti», sparò Joey. «Lasciami perdere». «Ho qui la tua cena», disse Ben, porgendogli il sandwich al tacchino che si era portato al lavoro. «Mi è andata bene, il primo giorno ti danno da mangiare loro». «Grazie, amico», rispose Joey, afferrando il sandwich. «Morivo di fame. Non ho mangiato un cazzo». «Eccoti servito», disse Ben, e proseguì verso casa. Costeggiando i muretti di arenaria che cingevano quasi tutti gli isolati della zona, Ben osservava le legioni di giovani professionisti che correvano a casa per cena lungo le vie alberate di Dupont Circle. Quando fu quasi arrivato, Ben inspirò profondamente per godersi l'odorino di cucina che proveniva dalla casa di mattoni rossi all'angolo del suo isolato. La casa di Ben era una stretta e a-
nonima costruzione di arenaria con il tetto di un beige stinto e una bandiera americana con quarantotto stelle. Benché fosse agosto, sulla porta erano ancora appese le decorazioni di Halloween. Ober, uno dei coinquilini di Ben, era molto fiero della sua opera e si era rifiutato di staccarla, dicendo che sarebbe stata perfetta per almeno un altro anno. Quando Ben entrò in casa, Ober e Nathan stavano preparando la cena. «Com'è andata?», domandò Ober. «Hai condannato qualcuno?». «È andata benissimo», rispose Ben, posando la borsa per potersi sciogliere il nodo della cravatta. «Il giudice è in vacanza per le prossime due settimane. Io e l'assistente che lavora con me ci siamo limitati a un lavoro propedeutico». «E com'è questo tuo collega?», domandò Ober, buttando la pasta nell'acqua che bolliva. «È una donna», rispose Ben. «E com'è? È arrapante?». «È piuttosto carina», disse Ben. «Spiritosa e molto esplicita. Senza peli sulla lingua. Ha degli occhi molto belli e i capelli cortissimi...». «È lesbica», sentenziò Ober. «Non c'è il minimo dubbio». «Sei completamente pazzo...», sospirò Nathan, mentre Ben scuoteva la testa. «Capelli corti, molto esplicita», disse Ober in tono di scherno. «Credi davvero che non sia lesbica?». «Si è offerta di aggiustarmi l'auto, oggi», aggiunse Ben. «Lo vedi?», disse Ober a Nathan, indicando Ben. «L'ha appena conosciuto e gli vuole sistemare la cinghia di trasmissione». Ben lo ignorò e aprì il frigorifero. «Che cosa state preparando?». «Anita Bryant sta cuocendo la pasta, io sto facendo il mio fetentissimo sugo con l'aglio», rispose Nathan. Le sue spalle squadrate non si incurvarono di un millimetro quando spostò la pentola della pasta sul fornello posteriore della cucina a gas. Aveva ancora la cravatta al collo nonostante fosse a casa da almeno mezz'ora. «Butta dell'altra pasta; ne abbiamo solo venti pacchi nella dispensa». Spostò con cautela la padella del sugo sul fornello anteriore. «Raccontaci com'è andata. Che cos'hai fatto tutto il giorno?». «Fino all'apertura ufficiale della Corte, passeremo la maggior parte del tempo a scrivere promemoria per le richieste di riesame di atti processuali», spiegò Ben. Accertatosi, con un'occhiata, che gli amici fossero ancora interessati alla spiegazione, proseguì: «Ogni giorno la Corte è sommersa
da richieste di revisione di processi. Quando quattro giudici esprimono parere favorevole, la Corte riesamina il caso. Per risparmiare tempo, noi esaminiamo le richieste di revisione, le riduciamo a un promemoria standard ed esprimiamo il nostro parere sulla concessione o meno della revisione». «Dunque, a seconda di come scrivete il promemoria, potete influenzare la decisione della Corte in merito all'opportunità o meno di riesaminare il caso», disse Nathan. «In un certo senso, ma forse tu sopravvaluti il nostro potere», replicò Ben, intingendo un dito nel sugo per assaggiarlo. «I promemoria vengono esaminati anche dagli uffici di tutti gli altri giudici. Se ad esempio si presenta un caso di reale limitazione del diritto di aborto e io redigo il promemoria in modo tendenzioso, raccomandando al giudice Hollis di opporsi al riesame, tutti i giudici conservatori andrebbero immediatamente da lui a protestare, e io ci farei la figura del cretino». «In casi meno importanti, però, nessuno si accorgerà di niente, soprattutto se sarai tu l'unico a leggere la richiesta di revisione del processo», disse Nathan. «Bah», disse Ben, scuotendo il capo e appoggiandosi al bancone della cucina. «Non ti facevo così napoleonico... Guarda che stiamo parlando della Corte suprema, dove vige un ferreo codice deontologico». «Ancora non riesco a credere che lavori alla Corte suprema», intervenne Ober, intento a pelare spicchi d'aglio sul lavandino. «Cazzo! La Corte suprema! Io rispondo alle telefonate e tu bazzichi la Corte suprema». «Vuoi dire che non hai ottenuto la promozione?», domandò Ben. «Mi hanno fregato», disse Ober, tranquillamente. Con le fossette che gli segnavano le guance e le pallide lentiggini che gli punteggiavano il naso, Ober era l'unico compagno di Ben che avesse ancora la faccia del liceale. «Ho accettato di lavorare nell'ufficio del senatore Stevens perché mi avevano detto che avrei dovuto rispondere al telefono solo per qualche settimana. Sono passati cinque mesi». «Hai parlato con qualcuno?», domandò Ben. «Ci ho provato», spiegò Ober. «Ma non riesco a essere aggressivo come te». «Ma almeno hai minacciato di licenziarti?», lo incalzò Ben. «Be', più o meno». «"Più o meno"?», ripeté Ben. «E loro cos'hanno risposto». «Che sono dispiaciuti. Si avvicina l'anno delle elezioni; eppoi, ci sono
almeno cento persone pronte a prendere il mio posto al primo schiocco di dita. Avrei voluto pisciare sul tavolo della direttrice del personale». «Mi sembra un'ottima idea», disse Nathan. «Una bella pisciata è una reazione degna di un ventottenne. Di certo, è il modo migliore per ottenere una promozione». «Dovevi essere più incisivo», disse Ben. «Devi convincerli che un tuo eventuale abbandono sarebbe la rovina, per loro». «E come dovrei fare?». «Devi dargli l'aut-aut», spiegò Ben. Soffermandosi sulla maglietta bianca di Ober, aggiunse: «Inoltre, devi vestirti adeguatamente. Te l'ho già detto... Non metterti quella maglietta. Biondo e lentigginoso come sei sembri un bambino». «Ma allora cosa...?». «Mettiti questa». Ben si tolse la giacca e la porse a Ober. Quando Ober l'ebbe indossata, Ben continuò: «Ti sta alla perfezione. Devi metterti il mio completo con la cravatta. È un vestito che fa colpo. Domattina vai al lavoro e gliene riparli». «Non posso», obiettò Ober. «Allora, potresti scrivere una lettera», gli suggerì Nathan. «Così non devi affrontarli faccia a faccia». «Va benissimo», assentì Ben. «Se vuoi, ti aiuto a buttar giù una traccia. Con l'aiuto dei tuoi tre amici, avrai un nuovo lavoro in men che non si dica». «Non so», disse Ober. Si tolse la giacca e la restituì a Ben. «Forse è meglio che ci mettiamo una croce sopra». «Non ti abbattere», lo incitò Ben. «Ti aiuteremo a risolvere il problema». «Perché non racconti a Ben la tua storiella del gratta-e-vinci?», disse Nathan, nel tentativo di cambiare argomento. «Oh, Cristo, me n'ero quasi dimenticato! Torno subito». Ober uscì dalla cucina e si lanciò su per le scale. «Dobbiamo aiutarlo sul serio», disse Ben. «Lo so», assentì Nathan. «Lasciagli raccontare la sua storiella, lo metterà di buon umore». «Fammi indovinare: ha a che fare con la lotteria?». «Il padrone del circo Barnum sarebbe felice di averlo come figlio». «Come fa a essere così fanatico?». «Non capisco la tua sorpresa», disse Nathan. «Sei stato in Europa per sei
settimane. Credevi che il mondo fosse cambiato in tua assenza? Certe cose sono assolutamente immutabili». «Come mai ci hai messo tutto questo tempo?», domandò Ben a Ober, quando questi fu di ritorno. «Aspetta e vedrai», esordì Ober, con le mani nascoste dietro la schiena. «Stavo tornando a casa dal lavoro, di pessimo umore. All'improvviso, vedo una nuova locandina sulla vetrina della drogheria di Paul: "Abiamo biglietti della lotteria!"». «L'ortografia è tutto per Paul», lo interruppe Nathan. Imperterrito, Ober proseguì: «Per prima cosa compro un gratta-e-vinci. Lo gratto e vinco un dollaro; allora, compro un altro biglietto. E vinco due dollari!». La voce cominciava a farsi concitata. «Ho capito che non potevo perdere. Allora prendo altri due biglietti: col primo non vinco niente, col secondo vinco un altro dollaro». «A questo punto la gente normale si ferma», lo interruppe Nathan. «Io, invece, ho comprato un altro biglietto», riprese Ober. «L'ho grattato e ho vinto tre dollari, con cui ho comprato tre barre di Snickers per voi!». Da dietro la schiena, lanciò due Snickers, uno per Ben e l'altro per Nathan. «Incredibile!», esclamò Nathan, scartando la merendina. «Ti rendi conto che hai abboccato a tutti gli ami preparati per te dalla commissione che ha organizzato la lotteria?». «Chissenefrega», ribatté Ober, inghiottendo un grosso pezzo della sua barra. «Erano mesi che non mi gustavo uno Snickers. Ho pensato che sarebbe stato un ottimo modo per festeggiare il primo giorno di lavoro di Ben». Mezz'ora dopo, i tre amici erano seduti al tavolo della cucina. «Tesorucci, eccomi!», si annunciò Eric, aprendo con un calcio la porta d'ingresso. «Si può essere più intempestivi?», domandò Nathan, posando la forchetta sul tavolo, mentre Ben e Ober si alzarono per andare incontro all'ultimo arrivato. «Il figliol prodigo è tornato!», esclamò Eric, quando vide Ben. «Era ora!», disse Ben. «Pensavo fossi scappato». Con un sandwich smangiucchiato in mano, Eric abbracciò il compagno. Indossava una camicia non stirata, con i bottoni sulle punte del colletto, e dei pantaloni kaki stropicciati che lo rendevano sicuramente il più trasandato dei quattro. I suoi folti capelli neri erano immancabilmente spettinati, e la barba sempre da fare. La scurezza della sua peluria incolta era accentuata dalle nere e folte sopracciglia che, separate appena di qualche milli-
metro, gli conferivano un espressione sempre un po' torva. «Mi spiace», disse Eric. «Mi è toccata la chiusura tutte le sere, questa settimana». «Tutte le sere?», domandò Ben, perplesso. «Ma non lavoravi per un mensile?». «Non sa niente del tuo lavoro», disse Nathan, facendo il suo ingresso in soggiorno. «È stato via sei settimane». «Non sei più al "Washington Life"?», domandò Ben. «Nossignore», rispose Eric, grattandosi il capo con vigoroso orgoglio. «Proprio quando pensavo di essere destinato a una carriera giornalistica spesa a render conto di fiere d'antiquariato locali e dei migliori ristoranti, ho ricevuto una telefonata dal "Washington Herald". C'era un posto disponibile nella redazione politica. Ho cominciato due settimane fa». «Lavori per quella accozzaglia di destrorsi?», insinuò Ben. «Ehi, sarà anche un giornale di secondo piano, in città, ma è letto da almeno 80.000 persone!». «Oh, è fantastico», disse Ben, dandogli una pacca sulla spalla. «E comunque», disse Eric rivolgendosi a Ober, «indovina che cosa pubblicheranno sulla pagina dei giochi?». «Non me lo dire... Le parole intrecciate?», disse Ober, afferrando Eric per il bavero della camicia. «Indovinato!», gridò Eric. «A cominciare dal prossimo mese». «Alé! Le parole intrecciate», ripeté Ober. «Pa-ro-le in-trec-cia-te!», cominciarono a scandire in coro i due amici. «Ah, basta poco per divertire gli stolti», sospirò Nathan, cingendo le spalle di Ben con un braccio. «Devo ammettere che avevo nostalgia di queste scene», disse Ben. «Non ce n'è di scemi in Europa?», domandò Nathan. «Spiritoso», commentò Ben, volgendo le spalle ai due tifosi delle parole intrecciate. «Ehi, gemellini-prodigio, che ne direste di tornare a tavola?». «Io non posso», disse Eric. Diede un altro morso al suo sandwich e aggiunse: «La mia cena è questa. L'edizione di domani mi chiama». In seguito, quella sera, Nathan andò nella stanza di Ben, che era probabilmente la meglio arredata di tutta la casa. Il tavolo di quercia antico, il letto di quercia con quattro sostegni e la libreria di quercia, testimoniavano che Ben era l'unico dei quattro sensibile agli accostamenti. A un certo punto, anche Nathan aveva deciso di sistemare la propria stanza, ma poi desi-
stette quando si rese conto che lo stava facendo per emulare Ben. Sopra il letto di Ben erano appese tre fotografie in bianco e nero, che raffiguravano il Washington Monument, la torre Eiffel e la statua della Libertà, quando erano ancora in fase di costruzione. Quanto a souvenir, Ben era davvero bizzarro. Sulla libreria, tra le altre cose, spiccavano le chiavi della sua prima auto, una fibbia personalizzata che aveva ricevuto in regalo, all'età di nove anni, da suo nonno, la retina per capelli indossata da Ober quando lavorava al Paradiso degli hamburger, l'orribile cravatta indossata da Nathan per il suo primo giorno di lavoro, il tesserino di riconoscimento utilizzato il giorno in cui era andato al colloquio con il giudice Hollis e, infine, il suo pezzo preferito: il martelletto tribunalizio donatogli dal giudice Stanley, quando Ben aveva smesso di lavorare per lui. «Sei ancora alle prese con la tua corrispondenza?», gli domandò Nathan notando la pila di buste che Ben stava smistando. «È incredibile quanta posta-spazzatura può arrivarti nell'arco di sei settimane», spiegò Ben. «Tre proposte di partecipazione a concorsi, cinquanta cataloghi, una dozzina di riviste in omaggio e poi... ti ricordi che l'anno scorso Ober stava guardando Miss Teen USA e ha chiamato il numero verde per richiedere il modulo d'iscrizione? Be', hanno ancora il mio indirizzo. Senti qua: "Gentile signor Ben Addison, sarà lei la prossima Miss Teen USA? Solo i giurati potranno dirlo, ma lei potrà dimostrare di aver partecipato al concorso ordinando i prodotti del Catalogo ufficiale Miss Teen USA». Rialzando gli occhi dal foglio, Ben aggiunse: «Ho idea che ordinerò a nome di Ober un reggiseno Miss Teen USA da competizione. Una volta entrato nel loro elenco di indirizzi, non ne uscirà più». «Mi sembra un'ottima idea», disse Nathan, sedendosi sul letto di Ben. «Allora, dimmi un po' che altro succede da queste parti», gli chiese Ben, mettendo da parte la lettera. «Niente, a dire il vero. Solo Eric si vede un po' meno in giro, perchè è sempre in chiusura». «Non ha ancora consumato, vero?». «No, il nostro quarto uomo è ancora vergine. E continua a sostenere che è una sua scelta... Vuole aspettare il giorno del matrimonio e via dicendo». «E Ober, per questo, continua a tormentarlo, vero?», domandò Ben, pur conoscendo già la risposta. «Lo tormenta dai tempi della scuola media», rispose Nathan, lisciandosi all'indietro i capelli rossi, che portava cortissimi per mascherare l'incipiente calvizie. Nathan era il primo tra i compagni a cui cominciavano a cadere
i capelli, e in sua presenza era assolutamente vietato parlare di calvizie o acconciature. Era animato da un notevole spirito di competizione, non voleva mai perdere, in nessun campo, e secondo lui quell'attaccatura che arretrava comprometteva il suo aspetto complessivo, dalla posa volitiva alla mascella squadrata. «E questo nuovo lavoro all'"Herald"? Eric mi sembra piuttosto contento». «Peggio!», esclamò Nathan. «Da quando ha questo lavoro cammina a due spanne da terra. Si sente il re del mondo». «Sbaglio o noto un vago accento di gelosia?», insinuò Ben. «Nient'affatto», negò Nathan. «Ha fatto i suoi due anni alla scuola di giornalismo, e io sono felice che possa finalmente scrivere di cose più importanti delle piccole fiere locali. Mi piacerebbe solo poterlo vedere di più». «Non me la dai a bere», lo sfotté Ben. «Non te ne frega un cazzo che lui si faccia vedere o meno. Ti dà semplicemente fastidio il fatto che se la stia cavando meglio di te». «Prima di tutto, non se la sta cavando meglio di me. E poi, non mi dispiace affatto che a lui stia andando bene; vorrei soltanto che lo facesse pesare di meno». «E la gelosia mostra di nuovo il suo orribile volto». «Sai benissimo cosa intendo», fece Nathan. «Ogni volta che Eric inizia qualcosa, è un'ossessione. Ha fatto la stessa cosa con l'università, quando scriveva per quella rivista letteraria e quando ha cominciato a lavorare al "Washington Life". Si crede Woodward e Bernstein messi assieme, ma a me piacerebbe che facesse un po' più di attenzione ai suoi amici. Di fatto, credo di non aver avuto una sola conversazione seria con lui da quando ha cominciato questo nuovo lavoro. Pare che non abbia più tempo per noi». «Vuoi sapere cosa penso? Secondo me, sbagli a metterla sul piano della competizione, ma l'hai sempre fatto e forse non cambierai mai». «Non è questione di competizione, bensì di amicizia». «Dagli un po' di tempo», disse Ben. «È ancora agli inizi. Sono sicuro che sta solo cercando di fare buona impressione». «Forse», disse Nathan, e raccolse dal tavolo una matita con cui prese a scarabocchiare. «Scordatene. Come va, piuttosto, al Dipartimento di Stato?», domandò Ben. «Ti sei impadronito del potere in qualche paese del Terzo mondo, mentre io ero via?».
«Ahimè, no! Le cose sono andate praticamente come prevedevo. Nelle ultime settimane il mio capo è stato in Sudafrica, e il ritmo di lavoro è stato blando. Ma credo che vogliano tenermi. Se non ho capito male passerò all'ufficio S/P nel giro di qualche mese». «"S/P"?». «Lo staff che elabora la linea politica del Segretario di Stato. È questo staff che si occupa di tutto il lavoro politico del dipartimento. I membri dell'S/P sono abitualmente in contatto con tutti i principali think tank». «Insomma, un mucchio di cervelloni che meditano sul destino delle nostre esistenze, vero?». «Qualcuno deve pur pensare a far andare avanti il mondo», disse Nathan, disegnando il contorno degli Stati Uniti. «Ma parlami di te, invece; del tuo primo giorno alla Corte suprema. Non è certo un lavoro qualsiasi». «Lo so», disse Ben, giocherellando nervosamente con la chiusura della sua agenda. «Spero solo che non ci siano problemi per il fatto che ho cominciato ad agosto invece che a luglio. Mi sono sentito un po' perso, oggi». «Sono certo che andrà benissimo», lo rassicurò Nathan. «Non ti sei perso nulla. E poi tieni conto del fatto che la tua collega ha un mese di vantaggio». «Speriamo bene», disse Ben. Si avvicinò alla libreria e prese a riordinare i libri. Nathan lo osservò in silenzio per un minuto. «È normale essere nervosi», disse poi. «Si tratta pur sempre della Corte suprema». «Lo so. Solo che sono tutti così incredibilmente preparati. Conoscono a menadito tutti i precedenti della Corte degli ultimi vent'anni; io, al massimo, potrei snocciolare i nomi del cast originale di Avvocati a Los Angeles. Ma non farei molta strada». Ober fece irruzione nella stanza, senza bussare. «Chi è morto?», domandò, notando l'ansia dipinta sul volto di Ben. «Teme che l'ambiente della Corte suprema possa metterlo culturalmente in soggezione», spiegò Nathan. «Niente paura», disse Ober, sedendosi sul letto di Ben. «Recitagli i nomi dell'intero cast di Avvocati a Los Angeles. E una cosa che mi ha sempre strabiliato». «Sono un uomo morto», riprese Ben, continuando a rimettere a posto i suoi libri. «Ben, smettila con quei libri. Non c'è nulla di cui preoccuparsi», disse
Nathan. «Sei sempre stato sul gradino più alto della scala intellettuale. Sei passato dalla Columbia a Yale, all'ufficio del giudice Stanley. Ora lavori per il giudice Hollis, uno dei migliori giudici della Corte suprema. O il tuo successo è pura fortuna, o tu stai esagerando. Delle due, una». «Probabilmente, la prima», scherzò Ober. «Taci, testina», lo fulminò Nathan. «Ben, tu sei l'ultimo dei ragazzi prodigio. Da piccolo mettevi nella scatola le matite colorate Crayola 64 in ordine alfabetico. Studiavi l'aerodinamica dei tiri a effetto...». «Era l'unico, tra noi, che non mangiava il pongo», aggiunse Ober. «Esatto», confermò Nathan. «Insieme a me, sei la persona più intelligente che conosca». Ben, finalmente, sorrise e disse: «Io sono più intelligente». Reprimendo una risata, Nathan rispose: «Amico, ricordati queste tre lettere: test scolastico attitudinale». «Solo perché mi hai battuto di cento miseri punti, non crederai di essere più intelligente di me?», disse Ben. «Quel test non mente», insistette Nathan avviandosi alla porta. «Tu sarai anche più furbo di me, ma quando si tratta di puro intelletto puoi chiamarmi maestro». E rivolgendosi a Ober aggiunse: «E tu sappi che quando eravamo piccoli nessuno di noi mangiava il pongo. Facevamo finta solo per guardare te che lo mangiavi». Mentre Nathan usciva dalla stanza, Ober si voltò verso Ben. Quando questi scoppiò a ridere, Ober gli urlò dietro: «Lo sapevo!». 2 Alle sette del mattino seguente, Ben fece il suo ingresso negli uffici del giudice Hollis in pantaloncini scozzesi e maglietta sbiadita. «BEN, SEI TU?», sentì gridare dall'ufficio. Era Lisa. «Porta qui il culo, immediatamente!». «Cosa c'è che non va?», domandò Ben, raggiungendola di corsa. «Stai bene?». «Non ci crederai», rispose Lisa, con le dita che spulciavano frenetiche l'indirizzario circolare a schede che aveva sulla scrivania. «Ho ricevuto una telefonata dall'ufficio del governatore della South Carolina: abbiamo ventiquattr'ore di tempo per esaminare un appello contro una condanna a morte». «Che cosa?», domandò Ben, lanciando la borsa sul proprio tavolo.
«Ecco!», esclamò Lisa, estraendo una scheda dall'indirizzario. Si girò verso Ben e spiegò: «C'è un uomo, in South Carolina, che ha ucciso tre bambini. È stato condannato a morte una decina d'anni fa, e da allora gli appelli si susseguono. L'esecuzione era prevista per ottobre, ma per qualche ragione hanno deciso di anticiparla a domani. Il condannato ha diritto di appellarsi alla Corte suprema, e così noi abbiamo ventiquattr'ore di tempo per trovare Hollis e scoprire qual è la sua opinione al riguardo». «Come facciamo a raggiungerlo?», domandò Ben. «È esattamente quello che sto cercando di capire», rispose Lisa, facendo cenno alla scheda che teneva in mano. «Hollis mi ha lasciato il numero del posto in cui andava a stare in Norvegia, ma a quanto pare è partito per una gita di qualche giorno. Questo indirizzario l'ho preso nel suo ufficio. So che ha una sorella che vive in California e pensavo di chiamarla». Ben sollevò la cornetta del telefono, compose il numero delle informazioni e chiese il numero dell'U.S. Marshals Service, l'ufficio degli ispettori giudiziari. Rivolto verso di lei, disse: «Ogni giudice è sempre accompagnato da un marshal, che dev'essere sempre in grado di rintracciarlo». «Buongiorno, parlo con la signora Winston?», domandò Lisa. «Mi rincresce svegliarla. Sono un'assistente del giudice Hollis e avrei bisogno di mettermi in contatto con lui. E un'emergenza». «Buongiorno, parlo con il Marshals Service?», domandò Ben. «Sono Ben Addison e chiamo dall'ufficio del giudice Hollis. Abbiamo bisogno di metterci in contatto con il giudice. È un'emergenza». «La sorella non sa niente», disse Lisa, che riagganciò proprio mentre Ben stava spiegando la situazione al funzionario del Marshals Service. «Ah, bene. Sì, certo», disse Ben. «Cosa dicono?», domandò Lisa, dando una gomitata a Ben. «Sanno dov'è», rispose Ben, riagganciando. «Non sono autorizzati a fornirci il numero, ma lo contatteranno e gli diranno di chiamarci». «Gli hai detto che è un'emergenza?», fece Lisa, ma notando l'espressione risentita di Ben, si scusò. «Volevo solo essere sicura». Dieci minuti dopo, squillò il telefono. Ben alzò immediatamente il ricevitore e disse, con calma: «Ufficio del giudice Hollis... Buongiorno, signor giudice. Com'è la Norvegia? Sì, mi hanno detto che è stupenda in questo periodo dell'anno. No. L'ufficio è stupendo. L'accoglienza di Lisa è stata meravigliosa. Solo che si è presentata una piccola emergenza. È appena stato inoltrato un appello per la sospensione di una condanna a morte la cui esecuzione sarebbe prevista per domattina. Come dobbiamo comportar-
ci?». Dopo aver buttato giù qualche appunto, Ben concluse: «D'accordo, le telefoneremo più tardi, nel pomeriggio». «Che cosa ha detto?», strillò Lisa, non appena Ben ebbe posato la cornetta. «Ecco cosa dobbiamo fare», esordì Ben, girando il foglio del suo blocchetto per stilare un piano d'azione. «Innanzi tutto dobbiamo comunicare agli altri giudici della Corte che è richiesta una loro decisione per le otto di domani mattina. Perché l'esecuzione venga sospesa sono necessari cinque voti. Se i voti sono quattro, il condannato verrà giustiziato. Poi, dopo la notifica agli uffici degli altri giudici, dobbiamo redigere un promemoria per certificare e motivare il parere di Hollis». «Tutta la documentazione relativa al caso si troverà negli archivi della corte federale competente, no?», disse Lisa. «Esatto», confermò Ben. «E mi ha detto anche come fare per procurarcela. Prevede che non finiremo prima dell'alba, ma ha chiesto il promemoria per le sei di domani mattina. Mi ha dato il suo numero di fax». Ben balzò alla tastiera del computer e disse: «Scrivo la richiesta ufficiale per ottenere gli atti del processo». «Io avverto gli uffici degli altri giudici». «Dopo averli avvertiti, fagli avere anche qualcosa di scritto, in modo che ricevano tutti una notifica ufficiale», disse Ben, mentre Lisa si stava fiondando alla porta. «Così nessuno potrà dire che non è stato informato». Lisa annuì e corse fuori. Un'ora dopo, nell'ufficio del giudice Hollis furono recapitati otto scatoloni contenenti gli atti del processo. «Siamo finiti», sospirò Ben, quando vide il carrello con i pacchi di documenti. «Non ce la faremo mai a leggerli entro domattina», disse Lisa. Gli scatoloni erano contrassegnati dalla data a cui risalivano le carte ivi contenute. «Io potrei cominciare dai documenti più vecchi, tu da quelli più recenti. Dovremmo incontrarci a metà strada più o meno quest'inverno». Lisa acconsentì, e i due cominciarono ad aprirsi un varco tra quelle montagne cartacee. Alle due del pomeriggio, il telefono di Ben squillò. «Ufficio del giudice Hollis. Sono Ben». «Ciao, Ben. Sono Rick Fagen. Ho lavorato come assistente del giudice Hollis tre anni fa. Chiamavo solo per sapere come vanno le cose. È consuetudine di noi ex assistenti telefonarvi ogni tanto. So che nei primi tempi
può sembrare davvero dura». «Ah, ma qui le cose vanno benissimo. A meraviglia», disse Ben, in tono sarcastico. «Chi è?», gli domandò Lisa. Coprendo il microfono con una mano Ben bisbigliò: «È un ex assistente di Hollis». «Stupendo», disse Lisa, con concitazione crescente. «Ho ricevuto anch'io una chiamata del genere un mese fa. Loro sanno benissimo cosa fare in queste situazioni di merda. Chiedigli come dobbiamo comportarci». «Rick, posso farti una domanda?», esordì Ben. «Ci sarebbe un caso di condanna a morte...». «Incredibile», lo interruppe Rick. «Succede sempre all'inizio. Scommetto che Hollis non c'è». «È a prendere il sole e a divertirsi in Norvegia», disse Ben. «Noi, invece, abbiamo da leggere una camionata di fogli per giustificare il nostro parere favorevole o contrario alla sospensione della pena». «Ho capito, ecco come dovete regolarvi», disse Rick, rassicurante e ottimista. «Se questo caso è in ballo da qualche anno, con tutta probabilità non riuscirete mai a leggere tutta la documentazione agli atti. Dovete restringere il campo all'elemento giuridico su cui si fonda quest'ultimo ricorso. Tutte il resto è ininfluente. Io mi collegherei a una banca-dati tematica e farei una ricerca utilizzando come parola chiave l'elemento giuridico che ti interessa. Se è un problema di habeas corpus, inserisci "habeas corpus"; se è una questione di composizione della giuria, digita "composizione" o "giuria". Consultare Westlaw è sicuramente il modo più semplice per...». «Ho già cercato su Westlaw», disse Ben. «Il fatto è che questi atti sono un vero casino. Non sappiamo neppure da dove cominciare». «Concentratevi sui verbali originali del processo; di solito, un ricorso si fonda su un piccolo errore procedurale verificatosi al livello più basso. Nessun giudice ha ancora dato il suo responso?». «No», disse Ben, ancora intento a prender nota dei consigli di Rick. «Il problema è sorto stamattina». «Se siete fortunati, cinque giudici esprimeranno il loro parere prima che voi abbiate finito. A quel punto non dovrete più neppure portare a termine il vostro lavoro». «Quante probabilità ci sono che vada in questo modo?», domandò Ben, mentre Lisa gli si appostò alle spalle per leggere quel che stava trascrivendo.
«Dipende dal tipo di questione sollevata. Se è in gioco il quarto emendamento, Osterman e i conservatori non concederanno mai la sospensione. Dreiberg, però, potrebbe accogliere l'appello. Voi dovete assolutamente tenere presente che non state esprimendo la vostra opinione, bensì quella di Hollis. Magari voi credete che l'imputato sia stato fregato, ma voi dovete orientarvi in base a quello che Hollis potrebbe pensare del caso. Di regola, non accoglie mai appelli per la sospensione di una condanna a morte, a meno che la questione sollevata non presenti qualche elemento di novità. Altrimenti, è ben felice di riporre la propria fiducia nelle decisioni prese dalla corte di giustizia di grado inferiore». «E se nell'appello si chiede l'assoluzione dell'imputato per non aver commesso il fatto?», domandò Ben, attorcigliandosi il cavo del telefono attorno a un dito. «Dipende dagli elementi su cui si fonda questa ipotesi», disse Rick. «Nel caso in cui a un ricorrente siano stati realmente negati dei diritti, Hollis potrebbe accogliere l'appello. Però dovete fare molta attenzione. Non siete Sherlock Holmes e, quindi, non crediate di poter risolvere il caso da soli. Se l'imputato si proclama innocente, dovete prima accertarvi che nel processo siano stati effettivamente compiuti degli errori. Non fate perdere tempo a Hollis con la scusa che voi avete un presagio o la sensazione che il condannato non abbia commesso il fatto. Sono ventitré anni che Hollis fa questo mestiere. Può essere che abbia qualche vago interesse per le questioni relative al primo emendamento, ma di certo non gli importa un accidente dei vostri presagi». Dopo una lunga pausa, Ben disse: «Ma che cosa faresti se fossi sicuro, sicurissimo dell'innocenza dell'imputato, se ne avessi un sentore intenso e diffuso in tutto il corpo?». «Spetta a te decidere», lo avvertì Rick. «Se hai ragione, buon per te. Ma se ti sbagli, Hollis respingerà il ricorso e tu prenderai le secchiate di merda. Non è così grave, ma dato che sei all'inizio, se fossi in te aspetterei di essermi guadagnato un po' della sua fiducia prima di fare acrobazie». «Dunque, dovrei lasciar friggere un uomo per non fare brutta figura?». «Ascolta, non conosco il caso nei dettagli», disse Rick. «Ti consiglio però di attaccare battaglia a ragion veduta. Ora devo scappare, ma se hai altre domande chiamami». Dopo aver trascritto il numero di Rick, Ben riattaccò, accese il computer e si collegò alla banca-dati Westlaw.
Alle cinque e mezza Joel, uno degli assistenti del giudice Osterman, entrò nell'ufficio di Hollis. «Noi abbiamo chiuso. Osterman si è opposto alla sospensione della pena». «Ve ne state andando?», domandò Lisa, alzando gli occhi dal mucchio di carte che aveva davanti. «Indovinato», fece Joel, mentre un sorriso compiaciuto prendeva possesso della sua faccia. «La nostra giornata è finita». Quando Joel era ormai fuori dalla porta, Lisa gli urlò: «Ti auguro una vita di disgrazie e una morte lenta e dolorosa». «A domani», intonò Joel. «Spero che non avrete addosso gli stessi vestiti di oggi». Nelle tre ore successive giunsero i pareri del giudice Gardner, contrario alla sospensione, e dei giudici Veidt, Kovacs, Moloch e Dreiberg, favorevoli. «Mancano tre giudici, e a noi serve un solo altro voto favorevole», disse Ben. «Quante probabilità ci sono che la decisione ricada su di noi?». «Non ho voglia di parlarne», tagliò corto Lisa, gli occhi incollati al documento che stava esaminando. «Devo solo riuscire a concentrarmi, e presto sarà tutto finito. Sono calma. Sono concentrata. Sono il centro dell'universo e sono tutt'uno con questo foglio». Alle undici di sera Lisa si abbandonò contro lo schienale della sua sedia e urlò: «Basta! Non ce la faccio più! Sono dodici ore che non mi muovo!». «Dov'è finita quella che doveva essere tutt'uno con l'universo?», domandò Ben. «Affanculo l'universo», sbottò Lisa, alzandosi dalla sedia e mettendosi a passeggiare nervosamente per l'ufficio. «Io odio l'universo! Io sull'universo ci piscio. Ora sono in preda alla rabbia, al risentimento e all'odio. Friggiamo questo bastardo e andiamocene a casa». «È esattamente il genere di giurisprudenza di cui si sente la mancanza, qui alla Corte suprema». All'improvviso la porta dell'ufficio si aprì e un assistente annunciò: «Anche Blake e Flam hanno deciso: sospensione negata. Dipende tutto da voi». Ben si voltò verso Lisa, le cui spalle si incurvarono in segno di sconforto. «Allora, se mandiamo il tipo a farsi friggere, possiamo tornare a casa anche noi?».
Passata da poco la mezzanotte, Ben era seduto al suo computer, con gli occhi fissi sullo schermo. «Io qui di prove non ne vedo», disse, per la terza volta nell'ultimo quarto d'ora. «Io questo non lo conosco, non l'ho mai incontrato, ma qui manca la prova». «Tu non sai un cazzo», disse Lisa, stesa sul divano con le braccia davanti agli occhi. «Allora, che cosa scriviamo nel promemoria?». «Diamo a Hollis un breve riassunto dei fatti e gli suggeriamo di pronunciarsi a favore della sospensione della pena perché l'imputato non ha commesso il fatto». «Ma non abbiamo elementi per affermare che quest'uomo è innocente», obiettò Lisa. «Quest'imputato non ha avuto un giusto processo, è innegabile», sentenziò Ben, smettendo di pestare sui tasti. «L'agente che ha compiuto l'arresto giura, nel verbale di polizia, di aver visto un uomo correre fuori dalla porta di servizio della casa proprio mentre l'imputato veniva arrestato. Ma quando l'avvocato difensore chiede che sia ascoltata la testimonianza dell'agente, il giudice respinge la richiesta ritenendola non pertinente. È ridicolo». Lisa si mise a sedere. «Si chiama discrezionalità del giudice. Non c'è ragione di credere che il giudice si sia sbagliato». «La ragione c'è», disse Ben, girandosi con tutta la sedia verso la collega. «L'imputato sostiene che questa persona misteriosa potrebbe fornirgli un alibi per la sera di uno degli omicidi». «Restano comunque gli altri due omicidi», obiettò Lisa. «Anche ammesso che uno dei bambini non l'abbia ucciso lui, ne ha pur sempre ammazzati altri due». «Ma allora non capisci», disse Ben, con voce sempre più irritata. «Non sto dicendo che è innocente per tutti gli omicidi, ma se solo si fosse dimostrato che lui ha ucciso due bambini, e non tre, magari non si sarebbe beccato la condanna a morte. Magari la corte gli avrebbe comminato l'ergastolo». «Ben, quest'uomo ha ucciso due creature innocenti in una sera. Lo sai benissimo anche tu. Se il terzo non l'ha ucciso lui, be', sai che roba! Merita comunque la sorte peggiore». «Questa è soltanto la tua opinione», disse Ben, scattando all'impiedi. «Se i giurati l'hanno condannato per tre omicidi e lui ne ha commessi solo due, l'appello va accolto». «Tu, però, non hai la certezza che la testimonianza dell'agente lo scagio-
ni», replicò Lisa. «Forse sarebbe stato comunque giudicato colpevole di tutti e tre gli omicidi». «Ma forse no», gridò Ben, gesticolando platealmente per rafforzare la propria tesi. «Non sta a noi giudicare». «Ma ti rendi conto?», ribatté Lisa, alzandosi a sua volta in piedi per fronteggiare Ben. «Non puoi rifare tutti i processi solo perché tu li avresti condotti diversamente. La giuria ha ascoltato la testimonianza dell'imputato, secondo cui esisterebbe un testimone misterioso rivelatosi irreperibile. Ciononostante, l'hanno condannato per tre omicidi. Il semplice fatto che un agente abbia visto il testimone misterioso non garantisce che l'alibi da questi fornito sia effettivamente valido. Che la testimonianza del poliziotto fosse accolta o meno, l'alibi non avrebbe retto comunque. Il fatto di aver visto una persona che potrebbe teoricamente fornire un alibi per l'imputato, non implica certo l'effettiva consistenza dell'alibi». «Ma cambia sensibilmente la storia ricostruita davanti alla giuria», disse Ben. «Non dico che la testimonianza del poliziotto implichi la validità dell'alibi, ma avrebbe corroborato la tesi dell'imputato secondo cui esiste una persona misteriosa. Prima di essere mandati a morire, credo sia giusto avere almeno la possibilità di sostenere la propria versione dei fatti». «Ti appassioni per la sorte di quest'uomo, solo perché non ti convince la pena di morte in generale, come soluzione», rispose Lisa. «Hai perfettamente ragione», assentì Ben, facendo schioccare le nocche. «Io voglio suggerire a Hollis di accogliere l'istanza di riesame. Se non sei d'accordo, non ti biasimo; secondo me, però, vale la pena. Se Hollis la respinge, al massimo ci faccio una brutta figura. Ma considerando che la posta in gioco è la vita di un uomo, sono deciso a correre il rischio. Se preferisci, firmerò da solo il promemoria». Lisa scosse il capo e mise le mani sui fianchi. «Sei davvero così preoccupato per il destino di quello stronzo?». Ben annuì. «E va bene, allora. Scriviamo questo promemoria», acconsentì Lisa. «Però se Hollis non accetta il nostro suggerimento ti prendo a calci in culo». Tornando al suo computer Ben disse: «Affare fatto». «Sbrigati!», strillò Lisa alle cinque e mezza di mattina. Ben uscì di corsa dall'ufficio, con la motivazione di trentadue pagine appena stampata, e si diresse al fax che si trovava nell'ufficio privato di Hollis. Venti minuti dopo ricomparve. «Si può essere più stanchi di così?», domandò Ben, rav-
viando i capelli ormai un po' unti che gli ricadevano sulla fronte. «Non hai avuto problemi con il fax, vero?», disse Lisa, con due occhiaie che testimoniavano della sua stanchezza. Ben annuì e le si sedette accanto sul divano. Sogguardando il proprio collega, Lisa disse: «Che barbetta loffia che hai!». «Non è affatto vero», rispose lui, passandosi una mano sulla rada peluria che cominciava a spuntare. «Invece sì», disse lei. «Non è un difetto del carattere. Significa solo che non sei ancora un vero uomo». «Tu muori dalla voglia di sapere quanto sono uomo!», disse Ben, sorridendo. Un imbarazzante silenzio riempì la stanza. «Mi hai fatto una avance», disse Lisa. «Ma che dici?», si schermì Ben, ridacchiando. «Proprio così. Mi hai appena fatto una avance». «Ti sbagli». «E allora che significa: "Tu muori dalla voglia di sapere quanto sono uomo". Tanto valeva che mi dicessi: "Lo vuoi vedere?"». «Oh, sicuro. Mi hai scoperto», disse Ben, in tono sarcastico. «Dài, Lisa, bando alle ciance. Lo vuoi vedere?». «Ti piacerebbe, eh?», rispose Lisa con un ghigno. «Senti, con me non attacca, capito? Adesso sei tu che mi hai fatto una avance». «Tu sei matto!», sbottò Lisa, ridendo. «Ascolta, lasciamo perdere, okay? Niente storie. Siamo tutt'e due stanchi, e io non ho intenzione di farmi trascinare dalla stanchezza in cose di cui poi debba pentirmi». «Esatto», concordò Ben, rovesciando la testa sulla spalliera del divano. «Anche se ti giuro che non c'è una sola donna che se ne sia pentita». «Lisa, svegliati!», disse Ben, scuotendola. «Che c'è?», fece lei, riprendendo coscienza. «Che ore sono?». «Sono le sette e mezza. Non riesco a dormire. Continuo a pensare a quell'uomo. E se Hollis respingesse l'appello perché abbiamo fatto un lavoro di merda? Sarebbe come se lo avessimo ucciso noi». «Noi non abbiamo ucciso proprio nessuno», lo tranquillizzò Lisa. «Abbiamo fatto del nostro meglio e lo abbiamo raccomandato più che caldamente». «Tu credi?». «Assolutamente. Abbiamo fatto quello che ritenevamo...». In quel preci-
so istante squillò il telefono. Ben si avventò sulla cornetta. «Pronto? Buongiorno, signor giudice. Ha ricevuto il fax?». Ben tacque, e Lisa gli diede dei colpetti sul braccio per sollecitare una sua reazione. «No, ci rendiamo conto», disse Ben. «Sì, conosciamo il processo. D'accordo. Allora, ci vediamo tra un mese circa. Buona giornata». Ben riagganciò e restò per un attimo in silenzio fissando Lisa con sguardo vuoto. «Abbiamo il quinto voto! Si sospende l'esecuzione!», urlò. I due colleghi si abbracciarono e cominciarono a saltare in giro per l'ufficio cantando: «Sos-pen-sio-ne! Sos-pen-sio-ne!». «Non ci posso credere!», esultò Lisa. «Che altro ti ha detto?». «Ha detto che gli è piaciuto il promemoria. Gli è parso che l'argomentazione fosse persuasiva e che fosse fondata su una solida analisi. Ha aggiunto che abbiamo usato un po' troppo la parola "inoltre", ma è convinto che abbiamo centrato il problema. Ha già telefonato all'ufficio del governatore della South Carolina. Dobbiamo solo predisporre tutto per il riesame del caso». «Non ci posso credere!», ripeté Lisa, portandosi una mano alla fronte. «Ma sai qual è stata la cosa più bella?», aggiunse Ben. «Hollis ha detto, testuali parole: "Queste corti sono una cazzo di piaga sul culo"». «Cosa? Hollis ha detto "una cazzo di piaga sul culo"?». «Per quanto mi riguarda», confermò Ben, con un sorriso enorme. «Questa è una cazzo di giornata di merda!». 3 Davanti alla pizzeria Armand's, Ben si godeva il fresco venticello portato in città da quegli ultimi scampoli di ottobre. Con la fine ufficiale dell'estate era scomparsa anche l'insopportabile umidità di Washington. Senza giacca e con le maniche della camicia arrotolate fino al gomito, Ben assaporava la calma silenziosa che avvolgeva la zona. Ormai dimentico del verde estivo, osservava le sfumature marroni e arancio che tingevano gli alberi di Massachusetts Avenue. Aspettava, rilassato e sereno, l'arrivo della persona con cui doveva pranzare. Dopo qualche minuto, sentì un colpetto su una spalla. «Ben?». «Ciao, Rick», fece Ben, riconoscendo la voce dell'ex assistente del giudice Hollis. Rick indossava un completo verde oliva e una cravatta paisley. Il suo tratto somatico più caratteristico era rappresentato dagli occhi, gonfi
e iniettati di sangue come quelli di chi dorme troppo poco. Aveva capelli biondi e fini, pettinati alla perfezione, ed era alto, allampanato, e appariva più vecchio di come Ben se l'era immaginato. «Sono contento di avere finalmente una faccia da abbinare alla tua voce», aggiunse Ben. Si strinsero la mano. «Con tutti i consigli che mi hai dato negli ultimi due mesi, ho pensato che fosse ora di scoprire com'eri fatto». «Perfettamente d'accordo», disse Rick, mentre entravano nel ristorante. «Allora, come ti tratta Hollis?». «È gentile», rispose Ben, mentre prendevano posto a un tavolo in un angolo del locale. «È un mese che è tornato dalla Norvegia, e ormai credo di essermi abituato alle sue idiosincrasie». «Certe volte è davvero strano, non credi?», domandò Rick. «Non ho mai capito perché scriva soltanto a matita. Pensi che sia allergico alle penne?». «Credo faccia parte della sua personalità», disse Ben. «Forse gli pare che nulla di quanto viene scritto a matita sia indelebile, che tutto sia emendabile. Mi piacerebbe solo che non si mangiasse la gomma che sta in cima alle matite». «Lo fa ancora?», disse Rick, scoppiando a ridere. «Mi faceva star male». «Capisco mangiarsi le gomme pulite», fece Ben. «Non ho nulla in contrario. Ma lui mastica quelle usate. Una volta gli ho visto cancellare una mezza pagina abbondante. C'erano resti di cancellatura su tutto il foglio, e la gomma era diventata nerissima. Ma lui si è lo stesso infilato il ciuccio tra i denti e ha cominciato a mordicchiarlo. Quando si è tolto la matita di bocca, della gomma non restava che il cerchietto di metallo, e lui aveva i denti tutti neri. Era orribile». «Ah, che nostalgia!», sospirò Rick, dando un'occhiata al menù. «Lascia perdere il menù», disse Ben. «Qui si mangia una sola cosa». Ben indicò alle spalle di Rick il gigantesco bancone delle pizze, la specialità di Armand. «Tutte le pizze che vuoi per quattro dollari e novantacinque cent. Per quel che mi riguarda, è assolutamente la migliore della città. Mi meraviglia che tu non lo abbia mai sentito nominare». «Evidentemente sono fuori dal giro», disse Rick, scorrendo la lista delle pizze. Dopo aver fatto lo scontrino, Ben e Rick raggiunsero il bancone e presero tre fette di pizza ciascuno. «Intanto, grazie ancora per il consiglio che mi hai dato per quel caso riguardante il sesto emendamento», disse Ben, mentre tornavano al tavolo. «Non credevo che Hollis fosse così intransigente nello schierarsi a favore degli imputati in quelle circostanze».
«Non ho mai visto un caso riguardante il sesto emendamento a cui il nostro buon giudice non si sia appassionato», disse Rick. «A parte questo, come si è risolto l'appello per quella condanna a morte?». «Sai bene che non posso dirti nulla», disse Ben con una risatina. «Abbiamo sottoscritto un codice deontologico che prevede l'assoluto riserbo». «L'ho sottoscritto anch'io», lo rassicurò Rick, ripiegando una fetta di pizza all'aglio e cipolle. «E ne sono ancora vincolato. Credimi, so cosa significa sedere in quegli uffici. Una responsabilità immane». Ben lanciò un'occhiata alle proprie spalle e poi si sporse sopra il tavolo. «Stiamo stilando la relazione di minoranza. I giudici hanno votato per l'esecuzione: 5 a 4. È stato terribile». «Ehi, non ti abbattere», lo rincuorò Rick. «Avete fatto un ottimo lavoro nella preparazione del caso. Non puoi...». «Lo so, non posso vincere sempre», cantilenò Ben. «E so lo che mi sarebbe piaciuto salvargli la pelle. Quell'uomo è stato fregato al processo di primo grado». «Non è il primo e non sarà certo l'ultimo», disse Rick. «E cos'altro avete in ballo? Come procede l'esame della fusione CMI? Si deciderà la prossima settimana, no?». «In realtà, credo che la decisione tarderà un po'. Blake e Osterman hanno chiesto una proroga per la stesura delle motivazioni. Sai com'è... Le cause per le fusioni finiscono sempre per confondere tutti. Ci vuole un tempo infinito per venire a capo di tutti quegli insensati cavilli». «E chi la spunta?». «A dire il vero, la vicenda è andata in modo piuttosto strano», rispose Ben, guardandosi nuovamente alle spalle. «Al momento della votazione, la situazione era di cinque voti a quattro contro la CMI. All'ultimo minuto, Osterman ha chiamato il giudice Dreiberg fuori dall'aula in cui erano riuniti e l'ha portata nel proprio ufficio. Secondo gli assistenti di Osterman, questi l'ha convinta del fatto che i regolamenti davano ragione alla CMI, e che la fusione con la Lexcoll era perfettamente legale alla luce dello Sherman Antitrust Act. Charles Maxwell si metterà immediatamente al lavoro quando verrà resa nota questa decisione. Si dice che abbia investito più di cinque milioni di dollari in spese legali solo per portare il caso all'attenzione della Corte». «Si conosce il motivo del mutamento di opinione di Dreiberg?». «No», disse Ben, addentando una fetta di pomodoro fresco. «Sai com'è Osterman. Avrà fatto appello alle qualità intellettuali di Dreiberg, e lei avrà
ceduto. È difficile, per l'ultimo arrivato, resistere alle pressioni del presidente della Corte». «Tanto più se è una donna», disse Rick. Colto di sorpresa dal commento di Rick, Ben disse: «Be', io non direi. Se anche Dreiberg fosse stata un uomo, avrebbe avuto comunque dei problemi a ignorare le pressioni di Osterman». «Be', sì, immagino», abbozzò Rick. «A che ora arriva?», domandò Nathan, intento a lucidarsi le scarpe sul tavolino da caffè del soggiorno. «Sarà qui da un momento all'altro», rispose Ben, anch'egli alle prese con le proprie scarpe. Osservò il meticoloso strofinio e spolveramento di Nathan. «Che ne diresti di lucidare anche le mie? Ti do dei soldi». «Questa è cultura che si tramanda», disse Nathan. «Di padre in figlio, e dal figlio all'amico. Lucidare le scarpe fa parte della vita». «Non avrei mai creduto di finire anch'io così», disse Ben, applicando il lucido nero sul cuoio. «Mi sembra di essere mio nonno. In effetti, solo i vecchi si lucidano le scarpe. Forse sto proprio invecchiando». «L'età non c'entra», disse Nathan. «Io mi lucido le scarpe da quando ho dodici anni». «Già, ma tu stiri anche i calzini». «Solo quelli che metto con i completi», precisò Nathan. «E poi senti da che pulpito...». «Come sarebbe?», fece Ben. «Io sarò un tipo ordinato, ma tu sei il Re dell'Anal». Nathan stava spazzolando una scarpa, aiutandosi di tanto in tanto con piccoli sputacchi. «Sì, nel mondo all'incontrario». «Ah, come mai, allora, tieni le carte di credito in ordine alfabetico nel portafogli? E come mai i tuoi vestiti nell'armadio sono tutti rigorosamente separati l'uno dall'altro?». «È solo perché mi piace che ogni cosa abbia il proprio spazio a disposizione», spiegò Nathan. «Oh, certo... e non sei fuori, vero?». Fissando lo sguardo sulla scarpa infilata nella mano destra, Ben aggiunse. «Se Lisa mi vedesse, riderebbe un bel po'». «Non posso credere che tu non l'abbia invitata prima». «Ti piacerà moltissimo, vedrai», disse Ben. «È davvero tosta». «Allora perché non la corteggi tu?».
«Non posso», disse Ben, calzando le sue loafer scintillanti. «Siamo troppo in confidenza. Sarebbe come fare il filo a mia sorella». Quando il campanello suonò, andò Ben ad aprire. «Bel posto», disse Lisa, entrando. «Meglio di come me l'immaginavo». Contro la parete più lontana del soggiorno era sistemato un enorme divano blu scuro. Un divanetto più piccolo, a strisce, serviva da piano d'appoggio per giacche, borse, portafogli e mazzi di chiavi. Erano stati acquistati entrambi all'arrivo del primo stipendio ricevuto a Washington dai quattro amici. Alla parete sopra il divano più grande era appesa una grande cornice dorata che racchiudeva delle chiazze di vernice rossa, blu, gialla e verde dipinte direttamente sul muro da Eric, il giorno stesso in cui erano entrati in quella casa. Secondo Eric, si trattava di «colori primari in azione»; secondo Ben, di «un primo simpatico tentativo... sempreché vi piacciano robe tipo Jackson Pollock»; secondo Ober, «non faceva completamente schifo». Nathan, invece, l'aveva definito «un disastro». Ben accompagnò Lisa in soggiorno e le presentò Nathan, ancora impegnato a lucidare le scarpe. «Finalmente ci conosciamo», disse Lisa. Vedendo la cassetta per la pulizia delle scarpe, aggiunse: «Se volete poi possiamo andare al cinema. Per i pensionati c'è la tariffa ridotta». «Ridi, ridi pure, se ti va», disse Ben. «Certo che mi va», disse lei, partendo per un giro della casa autoguidato. «Ehi, cosa c'è su quel tavolino?». Il tavolino al centro della stanza era praticamente costituito da un gigantesco poster di Elbridge Gerry - il peggior vice-presidente americano di tutti i tempi, secondo Ben - montato su un solido pezzo di formica sostenuto da nudi blocchi di cemento armato. «È il tavolino politicamente più equivoco di tutta la città», spiegò Ben, orgoglioso. «Non esiste altro posto in cui sia possibile appoggiare i piedi sulla faccia di uno che si è rifiutato di sottoscrivere la costituzione degli Stati Uniti». «A volte mi sembri davvero matto, lo sai?», fece Lisa. Passò accanto al tavolo di vetro della sala da pranzo, situata tra il soggiorno e la cucina, e si avvicinò a un calendario appeso al muro sopra il frigorifero. «È un calendario di Miss Teen USA?», domandò, identificando il logo sotto la foto di una ragazzina in abito da sera. Sfogliando il calendario, sospirò: «Patetico». «Lo sapevo che eri una sfogliatrice», disse Ben, osservandola dal soggiorno. «Ci sono due tipi di persone al mondo: quelle che non guardano
mai le pagine nascoste del calendario per godersi la sorpresa di mese in mese, e quelle che le sfogliano, curiose di vedere tutti i mesi in un colpo solo». Lisa tornò in soggiorno. «Mi pareva di aver capito che le due categorie erano gli arrotolatori e i risucchiatori di spaghetti». Dopo un breve silenzio, Ben disse: «Okay, ci sono quattro categorie». All'improvviso, entrò in casa Ober. «Sono qui!», annunciò. «È già arrivata la lesbica?». «In effetti, le categorie sono cinque», dovette ammettere Ben. Mentre Ober procedeva incontro a Lisa, Ben chiuse gli occhi preparandosi al peggio. «Tu devi essere Ober», disse Lisa, tendendogli la mano. «Strano... Da come ti aveva descritto Ben, credevo avessi i palmi delle mani molto più pelosi». Nathan scoppiò a ridere, e Ober ribatté: «Ah, davvero? Io, invece, ti immaginavo molto più macho». «Diceva che non riuscivi a camminare eretto», proseguì Lisa. «A me ha detto che pisci all'impiedi». «Che tenero», disse Lisa. «Mi raccontava che non avevi i pollici opponibili». «Scusa, ma non capisco», disse Ober, perplesso. «Cosa sono i pollici opponibili?». «Se non li avessi, saresti una scimmia», spiegò Lisa. «O un rettile, o magari un batterio. Un forma di vita inferiore...». «Okay, okay... Abbiamo afferrato il concetto», li interruppe Ben, interponendosi fisicamente tra i due. «Si vede subito che diventerete amici per la pelle, voi due... Nel frattempo, come ci organizziamo per la cena?». «Credevo che Lisa fosse venuta per cucinare», disse Ober, prendendo posto sul divano grande, accanto a Nathan. «Ah, no, è vero. È venuta per aggiustare la macchina». «Non ricominciate», implorò Ben, prima che Lisa potesse replicare. «Che ne direste di ordinare del cibo cinese?». I tre amici annuirono, e Ben telefonò per ordinare. Quando riagganciò, Lisa era occupata a frugare nella borsa. «Ben, volevo farti vedere una cosa». Estrasse dalla borsa un documento di una decina di pagine. «L'ho appena scaricato da Westlaw. È la nostra prima motivazione pubblicata». Scorrendo le pagine di quel documento ufficiale, Ben non poté non sorridere soddisfatto: «Non ci posso credere! Queste sono le nostre parole! La nostra parola è legge!».
«Non capisco», disse Nathan. «Decidete voi in merito ai casi, al posto dei giudici? È legale?». «Non siamo noi a decidere. Noi scriviamo le motivazioni», spiegò Ben, agitando in aria quei fogli. «Ogni mercoledì e venerdì i giudici si riuniscono e votano sui casi all'ordine del giorno. Sulla base dei nostri promemoria e delle nostre ricerche, loro decidono. Poniamo che la Corte debba affrontare un caso di violazione dei diritti civili. I giudici votano, e se cinque di loro ritengono che l'imputato sia colpevole, così sarà. Ma oltre all'annuncio della decisione, è prevista anche la pubblicazione delle motivazioni di ciascun giudice, in un arco di tempo che va da uno a sei mesi. Così, se Hollis ha maturato la sua decisione, esce dalla riunione e dice a me e a Lisa: "Dobbiamo scrivere la relazione di maggioranza, l'imputato è colpevole. Vorrei che affrontaste la questione alla luce del quattordicesimo emendamento". Noi fotografiamo la situazione e passiamo il risultato del nostro lavoro a Hollis. Di solito, lui apporta significativi cambiamenti prima che la relazione pervenga alla sua stesura definitiva, ma il lavoro che sta alla base è nostro». «Infatti», confermò Lisa, togliendo il documento dalle mani di Ben e passandolo a Nathan. «Hollis ha deciso un mese fa, ma la motivazione è stata resa nota solo questa settimana». «Davvero interessante», commentò Nathan. «Vedi questo paragrafo?», domandò Lisa, indicando la pagina. «Ci abbiamo lavorato per due giorni interi. Hollis non voleva contraddire una sua precedente decisione». La spiegazione di Lisa fu interrotta dal suono del campanello. «Cibo. Cibo. Cibo», scandì Ober, correndo alla porta. «Non può essere», gli urlò Ben. «Ho appena ordinato». Ober aprì la porta e provò una certa delusione quando vide che era Eric. «Mi spiace, ho dimenticato le chiavi in ufficio», disse Eric, passandosi una mano tra i capelli spettinati. «Stupendo», esclamo Ober, tutto infervorato. «Vieni, c'è una persona che voglio presentarti». Lo trascinò in soggiorno e disse: «Lisa, questo è Eric. È vergine». «Devi scusarlo», disse Eric, stringendo la mano di Lisa. «È così fiero di me che non riesce a trattenersi». «Felice di conoscerti», disse Lisa. «Ben mi ha parlato molto di te». «E a me di te», rispose Eric. Ignorando Ober, Ben si rivolse a Eric: «Ti va di restare a cena? Abbiamo
ordinato cibo cinese. Dovrebbe essere qui da un momento all'altro». «Be', sì, perfetto», acconsentì Eric. «Comunque, avete sentito la storia della fusione CMI?». «No. Di cosa si tratta?», domandò Ben. «Ero in redazione, ed è arrivata la notizia. Proprio mentre il mercato stava per chiudere, Charles Maxwell ha acquistato un altro venti per cento delle azioni Lexcoll, che sono aumentate di quattordici punti percentuali negli ultimi tre minuti di contrattazione. Gli investitori prevedono che domattina alle 9,35 la CMI avrà superato il trenta per cento. Chi aveva venduto le azioni si stava strappando i capelli». «Maxwell non poteva sapere, vero?», domandò Lisa a Ben. «No. Certo che no», rispose lui, mentre al pensiero della conversazione avuta con Rick un brivido gelido gli scese lungo la spina dorsale. "No, Maxwell non poteva sapere", ripeté tra sé Ben. «Non è possibile che sapesse. Si tratta di una congettura indovinata. La decisione della Corte non è così imprevedibile. Maxwell deve aver parlato con i propri esperti legali». «Che sapesse o meno», intervenne Eric, «la sua decisione è considerata la più azzardata che abbia mai preso. Se ha ragione, guadagnerà presto un bel po' di miliardi di dollari, ma se la Corte vieta la fusione, Maxwell avrà investito tutti i suoi soldi nella peggiore alleanza mai stipulata nel campo delle comunicazioni». Quando Ben giunse in ufficio il giorno successivo, sulla scrivania trovò un promemoria. Nel documento, indirizzato a tutti gli assistenti, si precisava, a causa dei recenti sviluppi relativi alla fusione CMI, che tutte le informazioni riguardanti l'operato della Corte sono assolutamente riservate e non devono essere diffuse per nessuna ragione. D'improvviso, Ben sentì una mano posarsi sulla propria spalla. «Chi cazz...», strillò, girandosi di scatto. «Ehi, rilassati, ragazzo», disse Lisa. «Mi hai fatto cagare addosso», sospirò Ben, passandosi una mano sulla fronte. «Hai visto? È pazzesco», disse Lisa, agitando la sua copia del promemoria. «Ma con chi credono di avere a che fare? È una specie di accusa, o cosa?». «Be', non è poi così grave», rispose Ben, tormentandosi il nodo della cravatta. «Vogliono solo rinfrescarci la memoria. Di certo, avranno alle calcagna tutta la stampa, che vorrà verificare se l'intuizione di Maxwell è
corretta». «Be', la decisione sarà resa nota la settimana prossima. Gli avvoltoi sapranno presto se Maxwell è un genio o un deficiente. Io sto andando a prendere un caffè. Vuoi qualcosa?». Ben scosse il capo in segno di diniego. Quando Lisa uscì dall'ufficio, Ben consultò il suo indirizzario e cercò il numero di Rick. Sollevò la cornetta e compose il numero, ma fu accolto da una voce impersonale che disse: «Il numero da lei chiamato non è in elenco. La preghiamo di controllare e di comporre nuovamente il numero da lei desiderato». Sorpreso, Ben rifece il numero, verificando due volte ogni cifra. «Il numero da lei chiamato non è in elenco. La preghiamo di controllare e di comporre nuovamente il numero da lei desiderato». Sbatté giù la cornetta, strappò la scheda dall'indirizzario e, dopo averla appallottolata, la scagliò contro il muro. "Merda", pensò. "E adesso che cazzo faccio?". Riprese la cornetta del telefono e chiamò il servizio "elenco abbonati". «Avrei bisogno del numero di Rick Fagen, Washington, D.C. Effe-a-gi-e-enne». Ben tamburellava nervosamente con la penna sul tavolo. «Spiacente, signore», rispose l'operatore. «Non c'è alcun Fagen in elenco». «Io avrei il suo vecchio numero, potrebbe controllare se esiste un numero nuovo?», domandò Ben. «Posso provare», disse l'operatore. Ben corse a recuperare la scheda accartocciata. «È in linea, signore?». Ben tornò immediatamente al telefono. «Eccomi». Lesse il vecchio numero di Rick. «Spiacente, signore», fece l'operatore. «Quel numero non esiste più». «Lo so», sbottò Ben. «È per questo che cerco un eventuale nuovo numero». Sempre in tono adirato, aggiunse: «Mi può dare l'indirizzo a cui veniva spedita la bolletta?». «Spiacente, ma non sono autorizzato a fornire quest'informazione». «Grazie», disse Ben, riagganciando. In un bagno di sudore, Ben appoggiò scoraggiato la fronte alla scrivania. "Dev'esserci una spiegazione", disse tra sé. "Rick ha semplicemente traslocato. Non c'è ragione di farsi prendere dal panico. Non c'è nulla di cui preoccuparsi". Rifece il numero della compagnia telefonica. «Salve, mi chiamo Rick Fagen», disse Ben all'operatore. «Di recente ho cambiato numero, ma temo che il nuovo indirizzo da me fornitovi sia sbagliato. Potrebbe
controllare? Sa, non vorrei ritardare il pagamento delle bollette». «Le passo l'ufficio pagamenti, signor Fagen», disse l'operatore. «Dica pure», esordì un nuovo operatore. Ben rispiegò la situazione. «Qual era il suo vecchio numero?». Ben lo lesse dalla scheda spiegazzata e attese. Alla fine, l'operatore disse: «È una fortuna che lei abbia chiamato, signor Fagen. Lei non ha lasciato alcun nuovo indirizzo». «Ne è sicuro?», domandò Ben, afferrando una penna. «Che indirizzo avete?». «Abbiamo quello vecchio», disse l'operatore. «1780 Rhode Island Avenue, N.W., interno 317». «Sì, è quello vecchio», disse Ben, prendendo nota. «Be', non appena avrò un nuovo indirizzo ve lo farò sapere». Ben abbassò la cornetta e si abbandonò all'indietro sulla sedia, intento a escogitare un altro modo per rintracciare Rick. Dopo aver controllato il registro della Corte suprema, uscì dall'ufficio e percorse a passi svelti il corridoio. Prese di corsa la scala a chiocciola sospesa, una meraviglia architettonica cui potevano accedere soltanto gli addetti ai lavori. Attraversò la Great Hall seguendo il suo percorso sulla planimetria mentale del palazzo della Corte, per poi incunearsi tra labirintici meandri fino all'ufficio del personale. «Posso esserle utile?», gli domandò una donna da dietro il banco della reception. «Salve, mi chiamo Ben Addison, sono assistente del giudice Hollis. Stiamo organizzando un incontro con tutti gli ex assistenti del giudice, e ricordo di aver riempito tutta una serie di moduli in questo ufficio, quando ho cominciato a lavorare qui. Non avreste, per caso un elenco degli indirizzi degli ex assistenti?». «Ah, qui c'è tutto», disse la donna, orgogliosa. «Dato che ci occupiamo dei formulari relativi alle questioni di sicurezza, conosciamo tutti gli indirizzi a cui avete abitato negli ultimi dieci anni». «Bene. Noi avremmo bisogno dell'indirizzo di un ex assistente in particolare. Tutti gli altri li abbiamo rintracciati». «Tesserino di riconoscimento, prego», chiese la donna. Ben pescò nel taschino della camicia il tesserino e lo porse all'impiegata. Dopo aver fatto scorrere la tessera in un aggeggino elettronico posto sul suo tavolo, la donna fissò il monitor del computer, in attesa che comparisse l'autorizzazione per Ben.
"E dài!", pensò Ben, tamburellando con il pollice sul massiccio bancone. «Come si chiama questo assistente?», domandò infine la donna, restituendo a Ben il tesserino. «Rick Fagen», disse Ben, riponendo la tessera nel taschino. «Immagino che sia registrato come Richard». Dopo aver digitato il nome, la donna disse: «Non c'è nessuno che risponda a questo nome tra gli ex assistenti del giudice Hollis». Sorpreso, Ben disse: «Può essere che la nostra lista sia sbagliata. Potrebbe controllare tra gli assistenti degli altri giudici?». Mentre la donna modificava l'oggetto della ricerca, Ben continuava a tamburellare. «Spiacente», disse la donna, «non ci sono mai stati assistenti con questo nome». «È impossibile», esclamò Ben, a voce più alta, tradendo la propria inquietudine. «Glielo assicuro», ribadì la donna. «Ho controllato nell'archivio di tutto il personale. Nessun Rick Fagen ha mai lavorato alla Corte suprema». 4 Ben sfrecciò su per le scale e fece rapidamente ritorno in ufficio. Si lanciò sullo schedario più lontano e lo spostò dal muro. Scorse la lista dei nomi degli ex assistenti: la firma di Rick Fagen non c'era. «Merda!», gridò, gibollando il mobiletto con un pugno. «Come si può essere così stupidi?». Ben si voltò e si accorse del gigantesco bouquet di fiori posato sulla sua scrivania. Tolse la minuscola busta dal mastodontico cesto di vimini e l'aprì. «Grazie di tutto», c'era scritto sul bigliettino. «Con sincero affetto, Rick». Ben ebbe un tuffo al cuore. Credette di essere sul punto di vomitare. Quando la stanza cominciò a girargli intorno, si aggrappò al bordo della scrivania. "Sono nei guai fino al collo", pensò. "Che cazzo faccio, adesso?". Dopo un paio di respiri profondi, spostò il cesto di fiori e telefonò a Nathan. «Sono io», disse. «Stai bene?», domandò Nathan, cogliendo quel misto di paura e fiato corto che improntava la voce di Ben. «Possiamo vederci a casa?», domandò Ben. «Non sono neanche le dieci». «Nathan, per favore, possiamo vederci a casa?», ripeté Ben. «È impor-
tante». «Certo», rispose Nathan, perplesso. «Esco immediatamente. Ma che cosa succede?». «Te lo dirò quando ci vediamo», disse Ben, e chiuse. Scrisse un breve messaggio per Lisa, afferrò la borsa e si diresse alla porta. Mentre lasciava l'edificio, vide Lisa che saliva la scalinata della Corte suprema. «Dove vai?», gli chiese. «Ho i crampi allo stomaco», disse Ben. «Potresti dire a Hollis che sono andato a casa perché non mi sentivo bene?». «Certo», disse lei. «Ma come stai?». La faccia di Ben era cinerea. «Ho solo bisogno di andarmene a casa», rispose Ben. Giunto a casa, Ben andò dritto in camera sua, si sedette sul letto e cercò di rilassarsi. Rallentò il ritmo della respirazione. Immaginò di camminare in una foresta. Pensò al silenzio delle immersioni subacquee. "Stai calmo" disse tra sé. "Va tutto bene. Può capitare di peggio. Il cancro. La malattia. La morte". Non riusciva a star fermo e quindi si mise a camminare avanti e indietro in quel piccolo locale. Riesaminò più volte la successione degli eventi. «Cazzo!», esclamò infine. «Come si può essere così stupidi?». Tornò a sdraiarsi, tentando nuovamente di rilassarsi. Dopo un po', sentì il rumore di un'auto che entrava nel vialetto. «Ben!», gridò Nathan, appena entrato in casa. «Sono qui!», gli rispose Ben dalla propria stanza. Nathan salì i gradini a due a due e irruppe in camera di Ben. «Cos'è successo?». Ben era seduto sul letto, con la testa tra le mani. «Ho combinato un enorme casino», disse Ben. «Di che si tratta?», domandò Nathan. «Raccontami». Ben gli spiegò la situazione d'un fiato. «Credo che questo Rick abbia passato l'informazione a Maxwell». Nathan si diresse alla finestra. «Tu non puoi saperlo», disse. Sforzandosi di parlare lentamente, con calma spiegò: «Non c'è motivo di pensare al peggio». Alzando lo sguardo sull'amico, Ben si rese conto che stava cercando di consolarlo con una pietosa bugia. «Nathan, io so benissimo che l'ha fatto. Nessuno rischia milioni di dollari su una congettura. Mi ha persino mandato i fiori per ringraziare. Rick mi ha gettato l'amo e io ho abboccato. È stato facile, per lui. Gli è bastato fare una rapida ricerca e una telefonata alla
Corte suprema il primo giorno di lavoro dei nuovi assistenti. I giudici non ci sono, e noi siamo ancora sprovveduti. Semplice». «Non capisco», disse Nathan, appoggiandosi al davanzale. «Non hai mai chiesto di Rick a Hollis?». «No di certo», disse Ben. «Hollis non doveva sapere che io mi facevo consigliare dall'esterno. Lisa e io dobbiamo filare dritto il più possibile». Tacque e tornò a fissare lo sguardo a terra, «CAZZO!», gridò, tirando un pugno al materasso. «È colpa mia! Sono un cretino». «Non ci puoi fare nulla», disse Nathan, cercando di confortare l'amico. «Forse possiamo tentare di rintracciare Rick. Hai il suo numero di telefono?». «Ho già provato. E stato disattivato», disse Ben. «Però ho l'indirizzo». «No, tu non devi venire», disse Ben, aprendo la portiera della Volvo marrone di Nathan. «Come? Mi fai uscire dal lavoro e poi vuoi tenermi fuori quando vai a controllare l'indirizzo del tipo?», domandò Nathan. «Scordatelo». «Io non voglio affatto tenerti fuori...». «Lo so», disse Nathan. «Non sono certo qui perché ho paura che tu mi tenga all'oscuro. È solo che voglio aiutarti». «Lo apprezzo», disse Ben, mentre Nathan manovrava per uscire dal vialetto d'accesso. «Però non voglio scaricarti addosso tutti i miei problemi». Risalendo la 17a Strada, Nathan si fermò in uno spazio libero a pochi isolati dall'indirizzo recuperato da Ben. «È meglio avvicinarsi a piedi». Ben alzò gli occhi al cielo, che era completamente coperto da nuvole scure. «Hai un ombrello? Sta per diluviare». «Dovrebbe essercene uno sotto il tuo sedile», rispose Nathan, scrutando a sua volta il cielo. Situato nei pressi del quartiere degli affari, l'edificio corrispondente all'indirizzo di 1780 Rhode Island era una costruzione anacronistica. Progettato alla fine degli anni Settanta, quel palazzo di otto piani era di un colore verde bile, con una struttura metallica a vista e finestre scure che si estendevano dal pavimento al soffitto di ogni piano. Un vero pugno in un occhio. Ben e Nathan aprirono con una spinta la pesante porta di vetro, si introdussero nell'atrio e avanzarono verso il portiere, seduto dietro un bancone metallico un po' arrugginito che spiccava in quell'ambiente altrimenti rinnovato. «Posso essere utile?», domandò il portiere.
«Sono venuto a trovare mio fratello, Rick Fagen», disse Ben. «Abita nell'appartamento 317». Dopo essere rimasto a fissare i due amici per qualche secondo, il portiere disse: «Seguitemi». Ben e Nathan si scambiarono un'occhiata ed ebbero un attimo di esitazione. Ma la curiosità prevalse sulla paura, e i due si incamminarono alle spalle del portiere. Saliti alcuni gradini e oltrepassato l'unico ascensore dell'edificio, il portiere svoltò in un lungo corridoio che si dipanava sul lato destro del palazzo. Si fermò davanti a una porta su cui era scritto "Privato" e l'aprì, invitando i due ad accomodarsi. «Sedetevi», disse il portiere, indicando i due consunti divanetti di pelle nera che arredavano quell'anticamera. Nathan e Ben ringraziarono; il portiere entrò in un'altra stanza che aveva l'aria di essere un ufficio. «Credi che funzionerà?», domandò Nathan. «Tentar non nuoce», disse Ben. Nathan diede un'occhiata alla stanza in cui si trovavano, rivestita in finto pino nodoso. «Questo posto puzza di mafia lontano un miglio», sussurrò Nathan. «Ma che dici?». «È vero», insistette Nathan. «Mi ricorda la casa di mio cugino Lou. Dobbiamo andarcene di qui». «Puoi andare, se vuoi», bisbigliò Ben. «Io resto». «È stata una pessima idea», disse Nathan. «Per quel che ne sappiamo, Rick potrebbe essere in quell'ufficio». Prima ancora che Ben potesse replicare, ricomparve il portiere seguito da un ometto baffuto. «Sono l'amministratore. Posso esservi utile?». «Salve, sono il fratello di Rick Fagen», disse Ben, tendendo la mano al direttore. «Ci ha dato appuntamento qui». Ignorando la mano tesa, il direttore squadrò Ben e Nathan. Infilando le mani nelle tasche dei pantaloni, fece un sorrisetto compiaciuto. «Se sei suo fratello, come mai non ti ha detto che se n'è andato due settimane fa?». Prima ancora che Ben potesse abbozzare una risposta, il direttore aggiunse: «Ascolta, qui la gente tiene molto alla propria privacy. Se hai voglia di prenderci per il culo, ti conviene scegliere meglio le stronzate che vieni a raccontarci. Quindi, a meno che tu non sia un poliziotto, adesso ti togli dalle palle». Il portiere aprì la porta e accompagnò fuori i due amici con una certa rudezza. «Be', è stato un successone», commentò Nathan quando la porta a vetri si fu richiusa alle loro spalle. In piedi sotto il portico del palazzo, Ben
fissava in silenzio il furioso acquazzone. Aprendo l'ombrello, Nathan aggiunse: «Perlomeno non prenderemo...». «Sono un uomo finito», disse Ben, e corse sotto la pioggia fino all'auto. Per tutto il viaggio di ritorno Ben restò in silenzio, con i capelli appiattiti sul cranio. «Dài, ripigliati», disse Nathan, giunti a casa. «Ho bisogno di riflettere», disse Ben, dirigendosi in cucina. «Non hai fatto altro nell'ultimo quarto d'ora. Adesso dimmi qualcosa». «Cosa vuoi che dica?», domandò Ben, alzando la voce. «Sono appena stato fregato, e la mia carriera è in grave pericolo. Ragazzi, che giornata fantastica!». «Adesso non prendertela con me, però», disse Nathan. Tolse il tè dal frigorifero e se ne versò un bicchiere. «Sono qui per aiutarti, farò del mio meglio, ma non trasformarmi nel tuo capro espiatorio». «Scusami», disse Ben, sedendosi al piccolo tavolo della cucina. «È solo che... ho combinato un disastro». Nathan porse un bicchiere di tè freddo a Ben. «D'accordo, ma almeno facciamo qualcosa. Raccogli le tue forze. Che ne diresti di pensare a come uccidere Rick?». «Non ho fatto altro nelle ultime tre ore», disse Ben, afferrando il bicchiere. «Finora, la tortura peggiore che mi è venuta in mente consiste nel tagliargli via le palpebre e legarlo davanti a uno specchio. Impazzirebbe a furia di guardarsi, dato che non potrebbe più chiudere gli occhi». «Be', è una possibilità», concesse Nathan. «Non sto scherzando», disse Ben, ingerendo un sorso di tè. «Devo trovarlo. Se viene fuori che ho rivelato informazioni riservate, sono un uomo morto. E se non trovo Rick non posso provare la mia innocenza. Non potremmo cercarlo tramite il Dipartimento di Stato?». «Ti chiederebbero di certo la ragione della tua ricerca», disse Nathan. «E se gliela riveli, puoi dire addio al tuo lavoro». «E alla mia carriera». «Però possiamo fare una ricerca riservata», buttò lì Nathan, con voce che acquistava velocità col crescere della sua convinzione. «È sufficiente trovare un membro del Congresso che...». Saltò fuori da dietro il bancone, afferrò il telefono e compose il numero di Ober. «Ober? Sono io. Abbiamo seriamente bisogno del tuo aiuto. Rispondi ancora alle lettere degli elettori?». «Certo», rispose Ober. «Sono il re della posta-spazzatura». «Dunque, hai ancora accesso alla macchinetta che riproduce la firma del
senatore...». «Ovvio», disse Ober. «Credevi davvero che il senatore Stevens avesse firmato di persona il biglietto d'auguri per il tuo compleanno?». «Ho bisogno di un favore», disse Nathan, tendendo al massimo il cavo del telefono. «Devi preparare una richiesta ufficiale su carta intestata del Senato, da indirizzare alla mia attenzione presso il Dipartimento di Stato, in cui si chiede un controllo riservato sul conto di... Come si chiama?». «Richard o Rick Fagen», rispose Ben con un sorriso obliquo, indice di un morale risollevato. «Qui ci sono numero di telefono e indirizzo vecchi». Dopo aver comunicato nome, indirizzo e numero di telefono, Nathan aggiunse: «Nella lettera dev'esserci scritto che tutto il materiale raccolto va assolutamente indirizzato a me». «A che scopo?», domandò Ober, sospettoso. «Te lo dico un'altra volta», tagliò corto Nathan. «Ora non è il caso». «Ma non è illegale?», domandò Ober. «Più o meno, ma è un'emergenza», disse Nathan. «Abbiamo bisogno di quelle informazioni». «Aspetta, ho un'idea per evitare di commettere illegalità», intervenne Ben, impadronendosi della cornetta. «Ober, sono io», disse. «Senti un po': che cosa fate quando un mitomane scrive una lettera al senatore?». «Dipende», disse Ober. «Le gravi minacce di morte finiscono dritte ai servizi segreti. Ma se si tratta di un pazzo normale, decidiamo noi quale procedura seguire». «Perfetto», disse Ben. «Allora, ecco cosa devi fare: scrivi una falsa lettera di minacce al senatore e firmala col nome di Rick Fagen. Ma fa' in modo che la lettera sia un po' strana. Così, se qualcuno chiede perché hai aperto un'indagine, tu puoi mostrare la lettera e dire che hai agito a salvaguardia dell'incolumità del senatore». «Bella mossa», esultò Nathan, riprendendo possesso della cornetta. «Ober, un'ultima cosa: accertati che la macchina per autografi apponga una bella firma. Quelle firme false si riconoscono lontano un miglio». Nathan salutò e chiuse la comunicazione. «Va meglio?». «Un po'», disse Ben, togliendosi i capelli ancora umidi dalla fronte. «Comunque, grazie per essere venuto a casa». «Tu ordina, io eseguo», disse Nathan, e se ne andò. Più tardi, nel pomeriggio, squillò il telefono nella stanza di Ben. «Pronto?», fece lui, allungandosi per prendere la cornetta.
«Ben, sono Lisa. Ho chiamato per sapere come ti senti». «Non c'è male», disse Ben, a disagio nel mentire alla collega. «Ho solo avuto un po' di crampi allo stomaco». «Spero per te che tu non stia cercando di prendermi per il culo», lo avvertì Lisa. «Perché dopo il lavoro vengo dritta da te». «Sto bene, ti giuro», insistette Ben, tornando a sdraiarsi a letto, con gli occhi fissi sul soffitto. «Avevo lo stomaco un po' fuori posto e non mi sentivo tanto bene. Okay?». «Certo, va bene», disse Lisa. Appoggiò i gomiti alla scrivania. «Be', quanto ti sono mancata?». «Un casino. Ma com'è andata, oggi? Qualcosa di interessante?». «Niente di particolare. Erano tutti occupati a discutere del caso Maxwell. Hollis teme che, una volta resa nota la decisione, tutti si metteranno a dire che c'è una talpa alla Corte suprema». «Be', in fondo è possibile», disse Ben, giocherellando con le tendine a strisce verticali che oscuravano la stanza. «Lo credo anch'io». Lisa cominciò ad appallottolare foglietti e a tirarli sulla scrivania di Ben. «I media gridano al complotto al minimo stormir di fronde». «Chi ti ha mandato i fiori?», chiese Lisa. Rendendosi conto all'improvviso di non aver buttato via i fiori di Rick, Ben fece fatica a mantenere la calma. «Quali fiori?», domandò. «C'è un cesto di fiori gigantesco sul tuo tavolo», spiegò Lisa. «Probabilmente li ha spediti mia madre. Le ho detto che non mi sono sentito bene ieri sera». «Vuoi che legga il bigliettino?», domandò Lisa. «Vedo che c'è una busta proprio...». «No!», strillò Ben. «Lascia stare». «Scusa», disse Lisa. «Io non...». «No, scusami tu. È solo che non mi piace che si apra la mia posta». «Forse mi conviene prendere una settimana di vacanza dal lavoro», disse Ben, mentre Nathan preparava la cena. «Nient'affatto», rispose Nathan, tagliando a dadini una grossa cipolla. «Non devi attirare l'attenzione su di te. È meglio che continui ad andare al lavoro». «Non riuscirei a concentrarmi. Devo trovare Rick, devo...». «Scordatelo», lo interruppe Nathan. «Cosa avresti intenzione di fare? Di andartene a zonzo per la città finché non lo incontri? Se Ober ha avviato
l'indagine come si deve, riceveremo qualche informazione prima della fine della settimana». Tolse il coperchio dalla pentola in cui stava cuocendo il riso, e una fragrante nuvola di vapore si disperse nella stanza. «Hai deciso se raccontare o meno a Ober quello che sta succedendo?». «Non ho scelta», disse Ben, apparecchiando la tavola. «È mio amico». «È anche un coglione, però», aggiunse Nathan. «È vero, ma è pur sempre un amico. Ha il diritto di sapere a che cosa serve quella lettera». «E a Eric lo dirai?», gli domandò Nathan, mentre versava la cipolla sminuzzata in una padella. «Non lo so», rispose Ben. «Non voglio coinvolgere tutti. Voi due siete già troppi». «Capisco la tua preoccupazione, ma secondo me a Eric dovresti dirlo. Magari conosce qualcuno che sa dirgli qualcosa del palazzo in cui abitava Rick». «Non è un'idea malvagia», concordò Ben. «Hai già pensato se dirlo o meno a Hollis?». «Non posso», disse Ben, scuotendo la testa. «Perderebbe qualsiasi stima nei miei riguardi. Per non dire che mi licenzierebbe su due piedi per la violazione del codice deontologico che ho sottoscritto». Mettendo in tavola forchette e tovaglioli, aggiunse: «Pensavo di dirlo a Lisa, invece». «Pessima idea», disse Nathan. «La conosci a malapena. Chi ti assicura che non ti tradisca?». «Non lo farebbe mai», rispose Ben. «Lisa è una grande amica. Inoltre, ha il diritto di sapere. Anche lei ha parlato con Rick. Devo dirle tutto, non foss'altro che per la sua sicurezza».. «Lei non corre alcun pericolo. Non devi dirle niente». «Sì, invece», insistette Ben. «È la cosa più giusta da fare. Se la situazione fosse invertita, preferirei che lei me ne parlasse. E poi, con tutti quei fiori che mi ha mandato alla Corte suprema, è evidente che Rick non ha alcuna intenzione di sparire. Secondo me, è un modo per dirmi che sa come raggiungermi. Se così fosse, devo mettere in guardia Lisa». «Be', stai attento», disse Nathan. «Spero proprio che tu non debba pentirti di... Merda!». Nathan mancò lo spicchio d'aglio che stava sminuzzando e si procurò un taglio a un dito. «Coltello del cazzo!», imprecò. «Tutto bene?», domandò Ben. «Sì, sto bene», disse Nathan. Mise il dito sanguinante sotto l'acqua corrente. «È solo un taglietto».
«Sono quelli che fanno più male». In quel momento, arrivarono Ober e Eric. «Casa, merdosissima casa», sospirò Ober varcando la soglia. Si diresse immediatamente in cucina e rivolgendosi a Nathan disse: «Be', che cos'era tutta quella segretezza, oggi? Cos'è successo?». Nathan lo guardò senza rispondere, continuando a stringersi il dito. «Mi sono cacciato in un bel guaio», disse Ben, cercando di assumere il tono più neutro possibile. «Ti conviene che sia grosso», disse Ober. «Per aver inviato minacce di morte a un senatore potrei finire in galera». «Hai scritto una lettera di minacce a un senatore?», domandò Eric, rubando una strisciolina di peperone rosso dal tagliere. «Okay, vi spiego tutto», disse Ben, «però dovete giurare di non farne parola con nessuno». Ricevuti rassicuranti cenni di assenso da parte degli amici, Ben raccontò la storia, fino alla visita compiuta con Nathan al palazzo in cui abitava Rick. «Sei un uomo morto», sentenziò Ober. «Probabilmente staranno già pianificando la tua eliminazione fisica». «T'avevo detto di non coinvolgerlo», disse Nathan, rivolto a Ben. «Eric, credi di poter scoprire qualcosa riguardo a quel palazzo, tramite qualcuno dei tuoi giri?», domandò Ben. «Ci posso provare», rispose Eric, con gli occhi fissi a terra. «Cosa c'è?», domandò Ben, notando il disagio di Eric. «Non è una cosa da poco», disse Eric, sedendosi al tavolo. «Questo Rick, chiunque sia, non dev'essere un truffatorello da quattro soldi. Non è che si possa semplicemente andare da Charles Maxwell e dirgli: "Avrei un segreto da vendere". Rick dev'essere uno ben ammanicato». «Ne sono sicuro», disse Ben. «Quando oggi siamo stati al suo vecchio indirizzo, l'amministratore del palazzo non si è lasciato scappare neanche una parola su di lui». Dopo una breve pausa, Eric disse: «So che potrà sembrarti una sciocchezza, ma potresti rivolgerti alla stampa». «Non ci penso neanche», disse Ben, con un gesto reciso della mano. «Se alla Corte scoprono che ho violato il codice deontologico, saranno costretti a licenziarmi e la mia carriera sarebbe rovinata. Per giunta ci farei la figura dello scemo davanti a milioni di persone». «In effetti, ti sei fatto fregare come un fesso», disse Ober, afferrando anch'egli una strisciolina di peperone.
«Grazie», disse Ben. «Grazie per il tuo sostegno morale». Guardò Eric. «Per il momento, voglio vedere se riusciamo a scoprire qualcosa da soli. La mia carriera è già sufficientemente in pericolo; l'ultima cosa di cui ho bisogno è che la questione diventi di pubblico dominio». «Come vuoi», disse Eric. «Sta a te decidere». Rientrando al lavoro, il giorno seguente, Ben si preoccupò immediatamente di recuperare il bigliettino che accompagnava il bouquet di fiori. Stracciando il cartoncino, Ben pensò a cosa fare del cesto di fiori. Non voleva che rimanesse in giro, ma gettandolo avrebbe ulteriormente insospettito Lisa. Alla fine decise di sistemarlo su uno degli schedari. Avrebbe abbellito la stanza, e lui poteva sempre dire che gliel'aveva mandato sua madre. Risolta la questione dei fiori, Ben non si meravigliò di trovare la scrivania coperta di carta. Tra le quotidiane richieste di revisione di processi si trovavano svariate bozze relative a decisioni imminenti. Ogni gruppo di documenti era racchiuso in una cartelletta marrone su cui era scritto "Riservato all'ufficio del giudice Hollis". Benché nulla, materialmente, impedisse l'apertura delle cartellette da parte di una persona non autorizzata, Hollis era convinto che le sole conseguenze morali bastassero a tener lontani eventuali curiosi. Ciascuna cartelletta recava sul davanti un foglietto semiadesivo giallo, su cui Ben e Lisa si segnalavano l'un l'altra il grado di avanzamento della pratica. Solo quando entrambi si dichiaravano soddisfatti del contenuto di un elaborato provvedevano a inviarlo al giudice Hollis. Diede una rapida scorsa ai foglietti gialli e restò sorpreso quando lesse "Prima bozza - decisione Kramer". Lisa fece il suo ingresso in ufficio. «'Ngiorno. Come sta il nostro malatino, oggi?». «Sto bene». Con la cartelletta segnata "Kramer" ancora in mano le disse: «Non dovevi farlo. La stesura della prima bozza toccava a me». «Lo so», disse Lisa, «ma tu non stavi bene, e io avevo del tempo libero, così ho pensato...». «Non avresti dovuto scrivere tutta una prima bozza che non ti spettava. Hai già da fare a sufficienza». «Non ci pensare», disse Lisa. «Volevo solo aiutarti. Ormai, l'ho fatto. Limitati a ringraziarmi». Ben attese che Lisa si fosse seduta al suo tavolo e sorridendo disse: «Grazie».
A mezzogiorno Lisa e Ben raggiunsero a piedi la Union Station, dove pranzarono. Dopo anni di abbandono, la stazione si era ripopolata di turisti. Sotto i soffitti voltati a botte, tra le statue e le colonne, i bassorilievi e i passaggi sormontati da archi, erano spuntati più di cento negozi di lusso, insieme a un cinema multisala e, ovviamente, a una specie di piazzetta dove era possibile mangiare. Ogni volta che ci entrava, Ben stava male. Facendosi largo a fatica tra compattissimi gruppi di avventori, Lisa e Ben si accaparrarono un tavolo d'angolo. «Ti senti bene?», domandò Lisa, osservando Ben che pescava patatine fritte dal cartoccio. «Sto bene», rispose Ben. «È solo che devo dirti una cosa». «Aspetta», fece Lisa. «Se mi dici che sei innamorato di me, potrei vomitare». «Non si tratta di questo», disse Ben. «Ti sarebbe piaciuto, eh?». Pulendosi le mani in un tovagliolino, proseguì: «Ti ricordi di Rick? L'ex assistente di Hollis». Lisa annuì. «Circa tre settimane fa gli ho raccontato di come si sarebbe risolto il caso CMI. Pochi giorni dopo, è successo quello che sai... Maxwell si è giocato tutto il suo patrimonio su una decisione a proprio favore. Quando ho cercato di rintracciarlo, Rick era scomparso». Ben vide la bocca di Lisa spalancarsi. «Rick Fagen non è mai stato assistente alla Corte suprema. Il suo numero di telefono non esiste più e lui ha traslocato. Scomparso nel nulla». «Cazzo fai? Mi prendi in giro?», boccheggiò Lisa, immobile, col suo sandwich in mano. «E come t'è saltato in mente di rivelargli la decisione?». «Ne stavamo parlando in generale», disse Ben a propria discolpa. «Mi ha detto che era curioso, e io ho parlato. Ogni volta che avevamo avuto bisogno di consigli lui era sempre stato disponibile. Non potevo non dirglielo». «Ma tu sei tenuto all'assoluto riserbo riguardo alle decisioni», disse Lisa, montando su tutte le furie. «Ascolta, ho fatto una cagata. Lo so», ammise Ben, esasperato. «Mi ha fregato. Credimi, al mio posto avresti fatto lo stesso. La messinscena era perfetta». «Non posso crederci». «Lisa, calmati. Te ne ho parlato perché mi fido di te. Non lo dirai a nessuno, vero?». Lisa posò il sandwich e squadrò il collega. «Questa è roba seria, Ben.
Dobbiamo far qualcosa». «Lo so. Ma finché non sono in grado di dimostrare il coinvolgimento di Rick preferisco mantenere un profilo basso. Nathan sta compiendo delle ricerche tramite il Dipartimento di Stato; Eric, invece, chiederà ai suoi informatori notizie sul palazzo in cui abitava Rick». «Dovremmo dirlo a Hollis». «No, a Hollis no!», esclamò Ben. Si sporse in avanti. «Credimi, sono stato sveglio tutta la notte a pensarci. Se lo dico a Hollis, perdo il lavoro. Anche se ho agito in buona fede, ho pur sempre violato il codice deontologico. Se perdo il posto, sono un uomo morto». Dopo un lungo silenzio, Lisa domandò: «Perché hai deciso di parlarmene?». «Perché non volevo che potesse succedere anche a te. Non so se Rick ha preso di mira tutti gli assistenti o se io sono l'unico, il Babbeo dell'anno. Non ti chiedo di mentire per me, e non voglio assolutamente crearti problemi. Ho deciso di parlartene perché ti considero un'amica». Dopo un altro silenzio, Lisa disse: «Dunque, i fiori che hai ricevuto ieri... non te li ha mandati tua madre, vero?». «Li ha spediti Rick», disse Ben. «Volevo dirtelo, ieri, ma io...». «Hai controllato che nel cesto non ci fossero delle cimici?», domandò Lisa. «Che cosa vuoi dire?». «Le cimici... Microspie». «Non crederai...». «Presto!», disse Lisa, spingendo indietro la sedia e afferrando la propria borsa. I due assistenti corsero su per la scala mobile e si fiondarono fuori dalla Union Station. All'angolo opposto della piazzetta, vedendoli andar via di fretta, Rick si appoggiò allo schienale della sedia. «Dove vanno?», domandò Rick. «Non sono riuscito a sentire», rispose il socio di Rick, avvicinandosi al tavolo. «Ma hai visto che facce da panico? Non sanno più dove sbattere la testa». Rick sorrise. «Il bello è che sarà sempre peggio». Ben e Lisa tornarono di corsa alla Corte percorrendo la Prima Strada, senza parlare. «Ehi, ragazzi», disse Nancy, quando le sfrecciarono davanti. «Com'era il pranzo?».
«Buono», disse Ben. «Ottimo», confermò Lisa. I due assistenti si precipitarono in ufficio e si chiusero la porta alle spalle. Si diressero allo schedario. Ben afferrò il cesto di vimini con i fiori e lo appoggiò sul divano. Si rimboccarono le maniche e disfecero con metodo il bouquet. Sminuzzarono ogni singolo fiore, polverizzandone la corolla e sezionandone gli steli. Ventidue rose, quattordici iris, undici gigli e quattro gambi di fresia. Il divano e metà del pavimento erano coperti dai minuscoli resti di quella che fino a pochi minuti prima era una composizione floreale perfetta. Non trovarono nulla. «Non può che essere qui», disse Lisa. «Perché mandare i fiori, sennò?» «Forse voleva solo farsi beffe di me», suggerì Ben. «O forse vuole tenermi sotto pressione». Mentre Lisa ripuliva il divano, Ben riesaminò il mucchio dei resti floreali. Per circa un quarto d'ora i due colleghi ricontrollarono tutto con estrema attenzione, dopodiché fecero a pezzi anche il cesto, senza trovare nulla. «Cristo», disse Ben, spazzando la poltiglia vegetale dal divano. «È impossibile». «Non credo che possa esserci sfuggito qualcosa», disse Lisa. Ben si appoggiò allo schienale del divano. «Non ci è sfuggito nulla. Abbiamo solo perso tempo». «Non fa niente», disse Lisa. «Dovevamo farlo, lo sai anche tu. Che avresti detto se avessimo trovato qualcosa?». «Intanto, non abbiamo trovato niente», sospirò Ben, giocherellando nervosamente con il tappeto. Lisa posò una mano sulla spalla del collega. «È normale che tu abbia paura». «È solo che la mia vita...». «So bene qual è la posta in gioco...», lo interruppe Lisa. «E so anche che non avresti dovuto rischiare in questo modo. Comunque, vedrai che ne usciremo». «Non voglio che tu sia coinvolta. Te ne ho parlato solo per avvertirti». «Troppo tardi, ragazzo mio», disse Lisa, senza togliergli la mano dalla spalla. «Allora, ce ne restiamo qui tutto il giorno con le mani in mano oppure proviamo a trovare questo tipo?». Rivolgendo uno sguardo alla collega, Ben si sforzò di sorridere. «Sei una grande amica. Lisa Marie. Se vado in prigione, giuro che ti porto con me».
Qualche sera dopo, Ben, Lisa e Ober stavano aspettando che Nathan tornasse a casa dal lavoro. Erano in soggiorno, Ben e Ober seduti sul divano grande, Lisa sul divanetto con i piedi sui cuscini. «Non capisco», disse Lisa. «Sono quasi le nove. Dove diavolo s'è cacciato?». «Ha detto che i risultati delle indagini sarebbero stati disponibili per le sette o le otto», disse Ben, guardando l'orologio che aveva al polso. «Forse c'è stato un piccolo ritardo». «Magari è stato catturato da Rick e dalla sua banda di malavitosi», suggerì Ober, senza smettere di tagliarsi le unghie dei piedi. «Ora dovremo andare a salvarlo servendoci di armi di fortuna ricavate da comuni utensili da cucina». «La vuoi smettere?», gli domandò Ben. «Era un pensiero come un altro», disse Ober. Lisa cercò di cambiare argomento. «Come avete fatto a trasferirvi tutti insieme a Washington? I miei amici sono sparsi in tutti gli Stati Uniti». «Be', è molto semplice», spiegò Ben. «Nathan, Eric e io ci interessiamo tutti di politica; restare a Washington ci è parsa la scelta più logica. Ober si è aggregato perché non voleva rimanere escluso». «Non è vero», intervenne Ober, distogliendo lo sguardo dalla punta dei propri piedi. «Io sono qui perché ho fiducia nel senatore Stevens». «Non può essere vero», disse Lisa. «Tu non sai niente del senatore Stevens». «Io so moltissime cose del senatore Stevens, invece», ribatté Ober. «Allora raccontacene una», lo provocò Lisa. «Enunciami uno dei suoi principi e spiegalo». Dopo una lunga pausa, Ober scoppiò a ridere. «È contro il crimine e a favore dei bambini». «Che pensiero rivoluzionario!», lo schernì Lisa. «E io che credevo che Stevens avesse una posizione a favore del crimine e contro i bambini...». «Lascialo stare», interloquì Ben. «Ober è portatore di un sapere insolito. Sa molte più cose di quante ne dia a vedere». «Mi è difficile crederti», disse Lisa. «Invece devi crederci», insistette Ober. «Ad esempio, io so capire se un paio di dadi è bilanciato nel modo giusto». «Dadi?», domandò Lisa. «Certo, i dadi», disse Ober. «Quelli che si usano nei giochi di società». «Negli ultimi anni Ober è stato quello che tra noi ha dimostrato di avere più spirito - come dire? - "imprenditoriale"», spiegò Ben. «Finito il
college, lui e suo padre hanno inventato un gioco di società che si pensava dovesse avere un enorme successo in tutti gli Stati Uniti. Ecco perché Ober conosce così bene i dadi». «Tu avresti inventato un gioco di società?», domandò Lisa. «In realtà, l'idea è venuta a mio padre. Si chiamava...». «Speculation - Il gioco dell'astuzia e dell'inganno», dissero Ben e Ober all'unisono. «Ecco», spiegò Ober. «Era un gioco di strategia davvero tosto. Non gli mancava nulla: pedine, bluff, giochi di potere... Tutti gli ingredienti indispensabili al successo di un gioco». «E che cos'è successo?». «Non piaceva a nessuno», ammise Ober. «Dicevano che era noioso. Dopo un anno e mezzo abbiamo dichiarato fallimento, e io ho passato in rassegna una clamorosa serie di infimi lavori. In tre anni ho fatto di tutto, dall'imbianchino all'assistente nel settore marketing per uno studio di pubbliche relazioni». «Se sei un tale disastro, come hai fatto a trovare lavoro al Senato?». «Tutto merito di Ben», disse Ober. «Quando ha saputo che si era liberato un posto nello staff del senatore Stevens, mi ha scritto una lettera falsa, ha rabberciato un curriculum facendomi passare per un super-politico e mi ha preparato per il colloquio. Una settimana dopo ho avuto il lavoro. Il resto è ormai storia del Congresso». «Be', e da cosa si capisce che due dadi sono ben bilanciati?», domandò Lisa. «Non te lo dico», rispose Ober. «Apri la tua ditta di giochi e scoprilo da te». Lisa alzò gli occhi al cielo e si rivolse a Ben. «Insomma, tu hai preso la laurea in legge, Eric ha preso una laurea breve e lo strampalato qui presente ha giocato a dadi. E Nathan cos'ha fatto prima di trovare impiego nello stato?». «Ha vinto una borsa di studio, e dopo il college ha studiato per due anni Commercio internazionale all'università di Tokyo. Poi, ha lavorato nel settore mercati esteri per una ditta giapponese che produce apparecchi ad alta tecnologia; dopodiché è rientrato negli Stati Uniti e ha cominciato la sua scalata al Dipartimento di Stato. Secondo me, lui farà...». La profezia di Ben fu interrotta dall'arrivo di Nathan. «Parli del diavolo...», disse Lisa. «È Nathan-san in persona». «Allora?», domandò Ben non appena Nathan fece il suo ingresso nella
stanza. «Niente», rispose Nathan, gettandogli un dossier piuttosto corposo. «Hanno trovato quattrocentocinquantasette Rick Fagen. Solo dodici di questi corrispondevano alla descrizione, e tra questi solo due avevano precedenti penali. Nessuno di loro è dotato della benché minima preparazione giuridico-legale e del resto sono entrambi in carcere. Ho chiamato l'ufficio che si è occupato delle ricerche, e loro mi hanno detto che Rick probabilmente ha usato un nome falso. Finché non scopriamo il suo vero nome, non abbiamo possibilità di trovarlo». «Merda!», imprecò Ben, scartabellando tra quei fogli inutili. «In ogni caso», proseguì Nathan, rivolto a Ober, «hanno sottoposto a un accurato esame la firma del senatore Stevens e hanno appurato che era autentica al cento per cento. Credevo avessi utilizzato la macchinetta». «Infatti», disse Ober, fiero di sé. «Ho soltanto dato un colpo d'anca alla macchina proprio mentre scriveva. È il modo migliore per far sembrare autentica una firma». «Ottima mossa», si congratulò Nathan, sinceramente impressionato. «Ogni tanto ho questi colpi di genio», disse Ober, abbassando lo sguardo. Vedendo che Ben continuava a sfogliare nervosamente quei documenti, Lisa gli disse: «Non scoraggiarti. Non ci daremo certo per vinti». «Ancora dobbiamo sentire cos'ha scoperto Eric», aggiunse Nathan. «Magari ha raccolto qualche informazione utile su quel palazzo». Alle dieci meno un quarto, Eric rientrò a casa. Ben, Lisa, Nathan e Ober stavano guardando la TV, nel tentativo di ingannare il tempo. «Come mai hai fatto così tardi?», domandò Ben, puntando il telecomando verso il televisore per spegnerlo. «Sono in ritardo di un misero quarto d'ora. Dovevo finire di rileggere un articolo», si giustificò Eric. «C'è niente da mangiare?». «Hai scoperto qualcosa su quel palazzo?», domandò Nathan, mentre Eric già puntava verso la cucina. «Ah, sì», rispose Eric, voltandosi. «Quasi me ne dimenticavo. 1780 Rhode Island non è un posto raccomandabile. Ho chiesto a della gente del giro che cosa ci fosse sotto, e mi hanno detto che la storia è piuttosto sporca». «In effetti, ne aveva l'aria», disse Nathan. «Il proprietario è un certo Mickey Strauss», disse Eric. «Mickey è uno sfigato. A quell'indirizzo, due anni fa sono stati trovati due morti ammaz-
zati. L'anno scorso c'era un grosso spaccio di droga tutt'attorno al palazzo, ma Mickey ha sempre affermato di non saperne nulla. I miei colleghi, in redazione, dicono che se anche gli arrivasse un TIR a tutta velocità in ufficio, Mickey giurerebbe fino all'ultimo di non essersene accorto. Rick è stato furbo a scegliere quel posto. Evidentemente sapeva che Mickey non avrebbe parlato con nessuno». «Dobbiamo assolutamente trovare il modo di entrare», disse Ben alzandosi in piedi. «Forse sul contratto c'è il vero nome di Rick». «E perché mai?», domandò Lisa. «Se il posto è così sicuro, magari i contratti li tengono altrove». I quattro compagni la fissarono. «Uno a zero per lei», disse Nathan, dopo un breve silenzio.. «Questo non significa che i contratti non esistano», disse Ben, avviandosi alla porta. «Al momento è l'unico appiglio di cui disponiamo». «Dove vai?», gli domandò Eric, ormai in cucina. «Mica ti lasciano entrare per la tua bella faccia». «Entrare non dovrebbe essere difficilissimo», disse Ben, ormai sulla porta di casa. «Di guardia, in quel posto, c'è solo uno stupido portiere». «E una telecamera a circuito chiuso», aggiunse Nathan. Ben si voltò verso il soggiorno. «C'era una telecamera?». «Un modello vecchio», spiegò Nathan. «Appena sopra la porta dell'ufficio. Ma non è certo un ostacolo insormontabile». «E se ci fingessimo fattorini di una pizzeria?», suggerì Ober. «Se non altro, riusciremo a entrare». «No, non funzionerebbe», disse Ben. «Molto probabilmente l'ufficio è vuoto, e quindi nessuno può aver richiesto la pizza». «Perlomeno, riusciremmo a superare il filtro del portiere, a entrare nel palazzo», insistette Ben. «A quel punto, ci rimarrebbe soltanto da aprire la porta dell'ufficio». «Non funzionerà mai», disse Ben. «A meno che tu non sia un fabbro, non riusciremo mai ad aprire la porta. Dobbiamo trovare un modo per convincere il portiere a farci entrare in quell'ufficio». «Scusate», li interruppe Lisa. «Mi spiace riportarvi alla realtà, ma vi rendete conto che state progettando una cosa illegale?». «L'avevo detto che non avremmo dovuto invitarla», disse Ober. «È una disfattista». Ignorando Ober, Lisa raggelò Ben con un'occhiataccia. «Guarda che non siamo al cinema. Se fai irruzione in quel palazzo commetti un reato. Do-
vreste pensarci bene». «Non mi pare di avere alternative», disse Ben, irritato. «Allora ti conviene valutare bene le possibili conseguenze», lo avvertì Lisa. «Se ti beccano, con il lavoro hai chiuso. Verrai radiato dall'albo. La carriera te la scordi. Tutto per uno stupido reato di scasso». «Non è scasso», disse Ben. «Se convinciamo il portiere, potremo dire di aver avuto il suo permesso». «Ma per entrare dovrai mentire», incalzò Lisa. «Allora, al massimo si tratterà di violazione di domicilio». «Ah, stupendo», ribatté Lisa. «Perché, allora, non fai semplicemente...». «Che vuoi che faccia?», le domandò Ben, con voce rotta. «Io devo assolutamente entrare in quell'ufficio. Se si viene a sapere che ho rivelato informazioni riservate, la mia carriera sarà rovinata comunque. Almeno, così, ho qualche speranza di evitarlo. Se non ti va a genio, ti capisco, ma non farmi la morale. La situazione è già sufficientemente tesa». Rivolgendosi ai propri compagni, Ben disse: «Avete altre proposte?». «Che ne dici di fingerci operai della disinfestazione antiscarafaggi?», propose Ober. «E dove troviamo tutto l'equipaggiamento da disinfestatori?», domandò Nathan. «Oppure ci presentiamo in jeans e torcia elettrica sperando che il portiere non ci faccia caso?». «Allora, potremmo vestirci da imbianchini», suggerì Ober. «Come nella Stangata. Il portiere ci fa entrare e noi, invece di imbiancare, controlliamo gli schedari». «Se davvero avete deciso di controllare i contratti d'affitto, io avrei un'idea», li interruppe Lisa. «Invece di entrare in qualche modo balordo, perché non proviamo una via semi-legale? Possiamo parlare con il portiere, offrirgli dei soldi e chiedergli di andare lui a rovistare tra i contratti. In questo modo, non saremmo noi a commettere materialmente la violazione». «Non è una cattiva idea», ammise Nathan. «Cosa potrebbe capitare, nella peggiore delle ipotesi?», domandò Ben, stringendosi nelle spalle. «Il portiere potrebbe rifiutare». «Oppure potrebbero riconoscerti e ucciderti», soggiunse Eric, di ritorno dalla cucina con un sandwich al roast-beef. «Non ci riconosceranno», disse Nathan. «È escluso che di sera ci sia lo stesso portiere che lavora lì durante il giorno». «E se il portiere è lo stesso?», domandò Eric.
«Faremo finta di aver sbagliato palazzo», disse Nathan. Poiché il silenzio di Ben si prolungava, Nathan gli domandò: «Ti senti bene?». «Sì», rispose Ben, in modo poco convincente. Rivolgendosi a Lisa disse: «Se non te la senti di venire, ti capisco...». «Smettila con queste stronzate da macho», disse Lisa. «Vengo anch'io». «Che fine ha fatto le tua paura di essere arrestata?», domandò Ben. «La conosci la legge che punisce i reati associativi, no?», disse lei. «Trovandomi qui, sono già coinvolta». «Io non posso venire», disse Eric, inghiottendo un boccone del suo sandwich. «Devo tornare al giornale per finire un articolo». «Che cosa significa "io non posso venire"?», intervenne Nathan. «Ben ha bisogno...». «Che ci posso fare?», si scusò Eric. «Ho un articolo da scrivere». «Non preoccuparti», disse Ben. «Ma se non hai nostre notizie per le due di stanotte, avverti la polizia». A mezzanotte, i nostri eroi erano in cerca di un parcheggio dietro l'angolo del palazzo. «Questa città fa schifo», disse Nathan. «Migliaia di persone, migliaia di auto e soltanto dodici parcheggi». Ben osservava la fine pioggerella che picchiettava sul parabrezza. «Sarà un disastro». «Ci stai ripensando?», domandò Lisa, seduta sul sedile posteriore. «Che succede? Il tuo cervello ha ripreso improvvisamente a funzionare?». «Non ci sto ripensando», disse Ben, voltandosi. «Sono solo un po' nervoso, va bene?». «Non ti preoccupare», disse Nathan. «Filerà tutto liscio». Disperando di trovare parcheggio all'angolo del palazzo, Nathan svoltò in un vicoletto lì vicino. «Ce li hai i soldi?», domandò a Ben, chiudendo l'auto. «Sì», rispose lui, tastandosi la giacca all'altezza della tasca destra, dove aveva messo cento dollari, e della tasca sinistra, dove ne aveva altri duecento. «Continuo a credere che dovrei venire anch'io», disse Nathan. «Non prenderla come un affronto», disse Ben. «Te l'ho già detto: entriamo io e Lisa. Una coppia mista è più credibile». «E chi lo dice?», domandò Ober. «Lo dico io», tagliò corto Ben. «E ora smettetela di piagnucolare. Non mi sembra così grave». Ben prese l'ombrello da sotto il sedile anteriore e
aprì la portiera per uscire dall'auto. Lisa lo seguì. Quando raggiunsero l'edificio, Ben passò l'ombrello alla collega. «Sei sicuro di quello che fai?», gli domandò lei. «Non esattamente», rispose Ben. «Allora, perché non giriamo i tacchi e...». «Non posso, lo sai», si giustificò Ben. «Devo trovare Rick. Al momento, questo è il modo migliore. Però se tu vuoi andare...». «No, resto», lo rassicurò Lisa. «Finché rimaniamo nella legalità sono con te». Quando furono davanti all'ingresso, Ben notò con sorpresa che il portone era chiuso. Lisa premette la faccia contro la vetrata per vedere all'interno. «Bussa forte», consigliò Lisa. «Il portiere è lì». Poco dopo udirono un ronzio, e Ben poté aprire il portone. Con aria calma e sicura, Ben e Lisa si avvicinarono al portiere notturno, che era seduto al suo banco di metallo. «Cos'è successo?», domandò il portiere. «Non avete le chiavi?». «A dire il vero, non abitiamo qui», spiegò Ben. «Con chi vi dovete incontrare?», domandò il portiere, sollevando la cornetta del suo interfono. «Non dobbiamo incontrare nessuno», disse Ben. «Vorremmo solo chiederle un favore». Il portiere posò la cornetta. «Sentiamo». «Io e mia moglie stiamo cercando suo fratello - mio cognato - che abitava qui. Sa, gli abbiamo prestato dei soldi e, come può immaginare, ci piacerebbe riaverli». Ben estrasse le cinque banconote da venti dollari dalla tasca destra della giacca e li posò sul banco del portiere. «Ci chiedevamo se per caso lei non potesse aiutarci a trovare il suo contratto d'affitto o il suo nuovo indirizzo. L'una e l'altra informazione ci sarebbero estremamente utili». Guardandoli fisso negli occhi, il portiere disse: «Non esistono contratti». «E per il nuovo indirizzo?», domandò Ben. «Non potrebbe controllare sull'indirizzario?». «Non teniamo informazioni di questo genere su nessun inquilino del palazzo», rispose il portiere. «Non abbiamo neanche l'indirizzario. Niente di niente». «Non potrebbe dare un'ulteriore controllatina, per sicurezza?», domandò Ben. «Magari nel suo ufficio c'è qualcosa». Fece scivolare altri cento dollari sul banco. «L'appartamento è il 317. Mi serve soltanto un nome, o un
indirizzo. Nessuno verrà mai a saperlo». «Ma se è vostro parente, perché volete sapere come si chiama?», domandò il portiere, sospettoso. «Senti, ti interessa davvero così tanto?», intervenne Lisa. «Ti stiamo offrendo del denaro facile. Lo vuoi o no?». Il portiere continuò a fissarli. Alla fine, si decise a prendere i soldi. «Facciamo trecento e siamo d'accordo». Ben posò gli altri cento dollari sul banco. Intascando i soldi, il portiere si alzò in piedi e aprì il cassetto superiore del suo tavolo. Ne tolse una pistola e la puntò contro Ben e Lisa. «Conto fino a tre». «Cosa dobbiamo fare?», domandò Ben, alzando le mani d'istinto. «Ti ho riconosciuto», disse il portiere. «Adesso sparite!». «Calmati», fece Lisa. Il portiere tirò all'indietro il cane della pistola. «Via di qui! Veloci!». I due colleghi si voltarono e si avviarono a passi svelti verso la porta. Quando furono all'esterno, si misero a correre. «Portaci via di qui», disse Ben, quando lui e Lisa furono risaliti in auto. «Cos'è successo?», domandò, accendendo il motore. «Gliel'avete chiesto il contratto d'affitto?». «Guida. Pensa a guidare», disse Ben, con la voce scossa. «Non ho voglia di parlarne». A mezzanotte e mezza i tre amici erano già di ritorno a casa. «Com'è andata?», domandò Eric seduto sul divano, telecomando alla mano. «Abbiamo fatto un buco nell'acqua», disse Nathan, crollando sul divano. «Ben è un ricercato, in quel palazzo». «E abbiamo buttato al vento trecento dollari», aggiunse Ober, sfilandosi la maglietta e gettandola sul divanetto. «E Lisa dov'è?», domandò Eric. «L'abbiamo accompagnata a casa», disse Ben. «Non avevamo più nulla di cui discutere». «Il portiere ha detto che non ci sono contratti né registrazioni degli inquilini», spiegò Nathan. «A quanto ho capito, Rick è molto più scaltro di quanto pensassimo». «E adesso?», domandò Eric. «È già finita la vostra ricerca?». «Niente affatto», disse Ben, salendo le scale. «È appena cominciata». 5
«Salve, mi chiamo Rick Fagen e avrei bisogno del vostro aiuto», disse Ben, con il tono più conciliante di cui era capace. «Di recente ho disdetto il mio abbonamento telefonico, ma non ho ancora pagato l'ultima bolletta, perché credo che voi non abbiate ancora il mio nuovo indirizzo». «Può dirmi il suo vecchio numero telefonico, signore?». Dopo aver digitato il vecchio numero di Rick, l'operatore della compagnia telefonica disse: «Ha ragione, signor Fagen. Non abbiamo ancora il suo indirizzo nuovo. Se lei è così gentile da fornirmelo, saremo felici di inviarle copia della bolletta». «Sarebbe magnifico», disse Ben. «Il mio nuovo indirizzo è Casella postale 1227, Washington, D.C., 20037». «Signor Fagen, la bolletta le arriverà nel giro di un mese, un mese e mezzo al massimo», avvisò l'operatore. «Posso fare altro per lei?». «In effetti, avrei un ulteriore cortesia da chiederle», disse Ben. «Purtroppo, durante il trasloco, ho perso le ricevute delle vecchie bollette, che mi servirebbero per la dichiarazione dei redditi. Non potrei avere anche quelle?». «Certo», disse l'operatore. «Prendo nota. Gliele invieremo al più presto. Serve altro, signore?». «No. Credo di aver detto tutto. La ringrazio per l'aiuto». Quando riagganciò, Ben guardò Lisa, che era seduta di fronte a lui. «Credi davvero che quelle bollette ti serviranno a qualcosa?», gli domandò. «Be', no», sospirò Ben. «Non credo che Rick sia così scemo da fare telefonate importanti su una linea facilmente accessibile. Secondo me, lui è stato costantemente in movimento e ha sbrigato la maggior parte dei suoi affari con un telefono cellulare. Il numero di casa, probabilmente, gli è servito solo per me». «Hai fatto bene ad affittare una casella postale», disse Lisa, nel tentativo di risollevare il morale del collega. «È inutile», disse Ben. «Se la linea di Rick era controllata, il mio coinvolgimento è ormai noto a mezza Washington». «Non lo possiamo sapere», disse Lisa. Guardando l'orologio che aveva al polso, aggiunse: «Sono quasi le dieci. Dobbiamo muoverci». «Non me la sento», disse Ben, con un improvviso moto di irritazione. «Sei impazzito?», domandò Lisa. «Stanno per annunciare la decisione sul caso CMI. Non ti interessa la reazione dei presenti?».
Ben tacque. «Volente o nolente, ci verrai», ingiunse lei, afferrandolo per una mano. «È nostro dovere presenziare alla lettura delle sentenze». Benché i giudici riprendessero il lavoro all'inizio di settembre e la sessione autunnale venisse ufficialmente inaugurata il primo lunedì di ottobre, era solo all'inizio di novembre - con le prime sentenze - che l'energia, alla Corte suprema, raggiungeva la massa critica. Mentre nel corso della settimana si tenevano le audizioni, le sentenze venivano emesse alle dieci in punto di ogni lunedì. Aperte al pubblico, queste sedute erano sempre affollate di turisti, giornalisti e frequentatori della Corte. Nei lunedì in cui erano previste decisioni di ordinaria amministrazione, la coda davanti alla sede della Corte cominciava a formarsi intorno alle otto del mattino; per casi di maggior richiamo, addirittura alle sei. In occasione del pronunciamento su un caso di aborto noto come caso Webster, nel 1989, alcuni imprenditori locali avevano intuito che sia i turisti sia i giornalisti sarebbero stati disposti a pagare fior di dollari perché qualcuno facesse la fila in vece loro. Ne nacque un servizio clandestino di coda-sitting attivo in occasione degli eventi mediatici più importanti verificatisi a Capitol Hill. Per la decisione sul caso CMI, i coda-sitter professionisti avevano cominciato a mettersi in fila dal giorno prima. Verso le nove del mattino, la folla scalpitante fu ammessa all'interno dell'edificio. Mentre le masse penetravano nella Great Hall e venivano convogliate verso due metal detector, Ben e Lisa fecero il loro ingresso nell'aula principale. «È bellissimo», disse Lisa, osservando la fila di turisti che veniva fatta accomodare ordinatamente in aula. Ben non era certo entusiasta di assistere all'annunciato trionfo di Charles Maxwell, ma non poté evitare di cogliere il tipico fermento dei giorni in cui vengono annunciate le decisioni. I giornalisti sciamarono all'interno dell'angusta area a loro riservata, sul lato sinistro dell'aula. Era l'unico spazio in cui fosse permesso prendere appunti, benché fosse vietato l'uso di registratori. Alcune guardie armate vigilavano sui turisti e sugli altri osservatori, distribuiti tra le dodici file di panche poste al centro dell'aula, in attesa dell'arrivo dei giudici. Parlavano tutti sottovoce, e quel brusio conferiva un elemento di concitazione alla scena. Sul lato destro dell'aula c'erano alcuni posti a sedere, per i familiari e gli amici dei giudici, e una piccola area riservata agli assistenti della Corte suprema. «Sono dei pecoroni», disse Ben, osservando l'aula gremita. «Vengono ad assistere allo spettacolo e se ne vanno. A loro non interessano le conse-
guenze. Per loro si tratta soltanto di un'attrazione turistica». «Rilassati», disse Lisa. Lei stessa elettrizzata dall'atmosfera e dalla situazione, guardò l'orologio, le cui lancette segnavano quasi le dieci in punto. Alzando gli occhi verso i fregi marmorei scolpiti che profilavano la parte alta delle pareti. Ben posò lo sguardo sul pannello soprastante l'ingresso principale dell'aula, di fronte al quale sedevano i giudici. Rappresentava le potenze del Male - Corruzione e Inganno - contrapposte alle potenze del Bene - Sicurezza, Carità e Pace, con la Giustizia affiancata da Saggezza e Verità. Seguendo lo sguardo di Ben, Lisa domandò: «A quanto pare, l'arte imita la realtà. O no?». «Spiritosa», la fulminò Ben. Quando mancavano esattamente tre minuti alle dieci, un campanello richiamò i giudici nell'aula in cui la Corte si riuniva per discutere i casi, da dove sarebbero poi passati nell'aula delle udienze. Dietro le pesanti tende di velluto rosso, i giudici si strinsero la mano a vicenda, secondo il cerimoniale. Si trattava di una consuetudine introdotta dal giudice Fuller, agli albori della Corte suprema, per dimostrare che "l'unità d'intenti, se non dei punti di vista, è il principio guida della Corte". Alle dieci in punto, il marshall batté col suo martelletto, e tutti i presenti si alzarono in piedi. «L'onorevole presidente e i giudici della Corte suprema degli Stati Uniti!», annunciò il marshall. Dopo qualche secondo i nove giudici comparvero da dietro la tenda e si diressero ciascuno al proprio posto. Lisa aveva assistito a quella scena un'infinità di volte, ma l'ingresso dei nove giudici le provocava sempre un certo turbamento. «È stupendo», sussurrò a Ben. «E come quando entrano in campo le squadre dell'All-star game». «Shhh!», la zittì Ben, incapace di distogliere lo sguardo dalla tribuna centrale. I nove seggi dei giudici erano addossati alla parete. Le poltrone di pelle marrone venivano realizzate su misura, adattate una per una alla corporatura dei giudici. Quando questi presero posto, il marshall annunciò: «Udite! Udite! Udite! Chiunque abbia in corso procedimenti davanti all'onorevole Corte suprema degli Stati Uniti è invitato ad avvicinarsi e a prestare attenzione. La Corte è riunita. Dio salvi gli Stati Uniti e la loro Corte suprema!». Ci fu un altro colpo di martelletto, e i presenti si sedettero. Osterman, il presidente, era seduto al centro dello schieramento. «Per
quest'oggi è previsto l'annuncio ufficiale delle decisioni Stati Uniti v. CMILexcoll e Stato del Tennessee v. Shreve. Le decisioni saranno lette dal giudice Blake». «La ringrazio, signor presidente», esordì Blake. Questi era un giudice della South Carolina che, giunto alla Corte suprema dieci anni prima, aveva mantenuto intatto il suo pesante accento del Sud. Ansioso di conoscere la decisione sul caso CMI, il pubblico trattenne il respiro. Leggendo la dichiarazione preparata, Blake disse: «Nel caso Tennessee-Shreve, si è deciso in favore del querelante e si conferma la sentenza della Corte suprema del Tennessee». Ben consapevole della grande curiosità con cui la gente attendeva la decisione sul caso CMI, Blake temporeggiò prima di annunciare l'esito della discussione. Quando ebbe concluso con il caso riguardante lo stato del Tennessee, Blake si accomodò sulla propria poltrona. Si schiarì la voce e allungò una mano verso un contenitore di peltro che lui, come ogni altro giudice, aveva davanti a sé. Si versò un bicchiere d'acqua e si accinse a leggere la seconda parte della dichiarazione ufficiale. Dopo essersi asciugato gli angoli della bocca con un fazzoletto, Blake sorrise con affettazione: «Nel caso che oppone gli Stati Uniti alla CMI e alla Lexcoll, noi riteniamo che, nonostante le due società, unite, diano vita a un colosso delle comunicazioni, non siano ravvisabili comportamenti scorretti a fini monopolistici. Pertanto, la fusione delle due aziende non viola lo Sherman Antitrust Act. Dunque, la Corte suprema conferma la decisione della Corte d'appello». Un distinto mormorio si levò tra i presenti, che dovettero riconoscere l'astuzia di Charles Maxwell il quale aveva deciso di rafforzare la sua quota azionaria nella Lexcoll. Pochi secondi dopo, l'ufficio assistenti spense l'interfono che lo teneva in comunicazione con l'aula delle udienze e comunicò formalmente all'ufficio stampa che la decisione era stata annunciata. Le sette persone impiegate in questo ufficio fornirono immediatamente copia della dichiarazione ufficiale ai giornalisti riuniti in attesa in un locale situato nel seminterrato, mentre due addetti ai computer la inviarono via modem alle diverse reti informatiche operanti nel campo giuridico. All'interno dell'aula, i giornalisti della carta stampata prendevano appunti sull'umore dei giudici. Fuori dal palazzo, almeno venti giornalisti televisivi sgomitavano per fare spazio attorno a sé, nella speranza di essere i primi a dare la notizia. Quando il giudice Blake ebbe finito di leggere la sentenza emessa dalla Corte suprema, tremilasettecentosessanta persone potevano già disporre di una copia della dichiarazione ufficiale. Quando la seduta fu
tolta, i media erano indaffaratissimi, Charles Maxwell poteva essere considerato un genio e Ben era piuttosto infastidito. «Che merda!», esclamò Ben, mentre con Lisa si faceva largo tra la gente che si accalcava all'uscita dall'aula. «Perché te ne meravigli?», domandò lei. «Sono mesi che sei a conoscenza dell'orientamento della Corte». «Andiamocene di qui», pretese Ben, aprendosi un varco tra la folla. Inserirono i loro tesserini di riconoscimento in una macchinetta, e due pesanti porte antiproiettile si spalancarono, consentendo loro di accedere all'area riservata agli addetti. Per salire al proprio ufficio i due assistenti scelsero la scala meno utilizzata. «Non ci posso credere», disse Ben, non appena la porta si fu richiusa alle loro spalle. «Maxwell diventa un magnate delle telecomunicazioni solo perché un coglione di assistente della Corte suprema non sa tenere la bocca chiusa». Ben si tolse la giacca e l'appese allo schienale della propria sedia. «Forse Eric aveva ragione. Forse dovrei rivolgermi alla stampa». «Nient'affatto», disse Lisa. Prese una cartelletta marrone dalla propria scrivania e si diresse verso la macchina tritacarta. L'accese e vi gettò la cartelletta con tutto quel che conteneva. Non gettava mai le vecchie stesure di una motivazione finché la decisione relativa non era stata annunciata. «Intanto, non hai prove, e quindi passeresti per matto; ma se anche ti credessero, la tua carriera sarebbe compromessa». «Maxwell, però, verrebbe smascherato». «Ma sei matto? Ti rovineresti la vita solo per fare un dispetto a Maxwell?». «È la cosa più giusta che io possa fare», disse Ben, accasciandosi sul divano dell'ufficio. «Rick è introvabile; può darsi che non si faccia mai più vedere. È l'unica maniera per risolvere questo guaio». Lisa si avvicinò al divano e guardò Ben negli occhi. «Si può sapere che cazzo hai? Ti comporti come se fosse la fine del mondo. Hai fatto un errore. Hai parlato troppo. Ti hanno raggirato. Ma non l'hai fatto apposta. Sei stato fregato...». «È proprio per questo che sono incazzato», la interruppe Ben, ricomponendosi. «Ah, si tratta di questo? Sei fuori di te perché alla fine qualcuno ti ha fregato? Tutta questa disperazione è causata dal fatto che qualcuno si è dimostrato più astuto di te?». «Tu non capisci...».
«Io ho capito benissimo, Ben. Tu sei fuori di te perché lui ha dimostrato di avere un quoziente d'intelligenza superiore al tuo». Lisa gli si sedette accanto sul divano. «Togliti le fette di salame da davanti agli occhi. Non è colpa tua. Non sei stato stupido o credulone. Hai agito da persona ragionevole. Sei stato ingannato. Rick ti ha fregato, e tu devi fartene una ragione». «Non posso tenere il broncio ancora un po'?». «Ti concedo altri trenta secondi», disse Lisa, consultando il proprio orologio. Attese. «Okay, il tempo è scaduto. Hai finito?». «Allora, com'è andata l'udienza, oggi?», domandò Eric a Ben, quella sera, mentre guardavano la televisione. «Bene. Come titola domani il "Washington Herald" sulla vicenda?». «Non avevano ancora deciso», spiegò Eric, tra una cucchiaiata di cereali e un'altra. «Dovrai aspettare domattina. In prima pagina c'è un'enorme fotografia di Maxwell, ritratto pochi minuti dopo l'annuncio ufficiale, con un sorriso da mangiamerda che fa venire il voltastomaco». «Grandioso», sospirò Ben. «Domenica, invece, uscirà un articolone su di lui. L'amico gode di una stampa migliore di quella del papa». «Grandioso», ripeté Ben, passando da un canale TV all'altro. Si fermò sulla CNN, ma appena intravide il volto di Maxwell riprese lo zapping. «Alla chiusura di oggi, le azioni CMI erano salite di almeno settanta punti». «Grandioso», ribadì Ben. «Eric, scusa, potresti andare in cucina a prendermi un coltello? Vorrei cavarmi gli occhi». «Come Edipo, eh?», lo schernì Eric, ingurgitando un'altra cucchiaiata di cereali. «Saresti bellissimo». Senza preavviso, Ober entrò in casa canticchiando: «Indovinate chi ha smesso di rispondere alle telefonate nell'ufficio del senatore Stevens?». «Vuoi dire che hai ottenuto una promozione?», domandò Eric, balzando in piedi per abbracciarlo. Nathan entrò subito dopo Ober. «Ha avuto una promozione?», domandò Ben. «Da non crederci», disse Nathan. «Ober, racconta». «Aprite bene le orecchie», disse Ober. «Una storia totale». «Totale?», intervenne Eric, sogghignando. «Guarda che non siamo a Los Angeles. Qui non si parla in quel modo cretino».
«Lascialo dire», lo zittì Ben. «La storia è questa», esordì Ober. «Ti ricordi che mi hai chiesto di scrivere quella falsa lettera di minacce al senatore Stevens?». Ben annuì. «A quanto pare, la direttrice del personale ha scoperto che ho ordinato un'indagine sul conto di questo Rick presso il Dipartimento di Stato. La settimana scorsa viene da me e me ne chiede la ragione. Io mi sono giustificato dicendo che forse ero stato esageratamente prudente, che non consideravo credibile quella lettera di minacce, ma che avevo preferito andare sul sicuro. Questa settimana mi richiama e mi dice che sono il loro nuovo assistente legale. Risponderò a tutte le lamentele degli elettori riguardo al piano regolatore e alle sovvenzioni per l'aranciata». «Insomma, sei in prima linea nella campagna per la rielezione di Stevens», disse Ben. «Aspetta, il meglio deve ancora venire», disse Nathan. «Ober, mostragli la lettera». «Ecco qua», disse Ober, aprendo la borsa di pelle che gli avevano comprato i genitori come regalo di laurea. Ne tolse un semplice foglio e lo passò a Ben. «Caro William», lesse Ben ad alta voce, in piedi al centro del soggiorno. «Ti ringrazio moltissimo per il tuo assiduo impegno in merito alle recenti minacce di morte da me ricevute. Il tuo comportamento costituisce un brillante esempio del genere di iniziative che poche persone, oggigiorno, accettano di prendere. Voglio che tu sappia quanto apprezzo il tuo operato. Marcia mi dice che stai lavorando meravigliosamente. Continua così». «Leggi anche il resto», disse Ober, ridacchiando. «Con amicizia, Paul». «Si è firmato "Paul"?», domandò Eric, strappando la lettera dalle mani di Ben. «E dice anche che siamo amici», aggiunse Ober. «È incredibile», disse Ben. «Non si era mai visto», soggiunse Nathan. «Inaudito!». «Pazzesco!». «È fantastico!», riprese Ben. «Sono dei cretini totali», esclamò Ober. «E io ne ho ricavato una promozione!». Mentre Ober e Eric ballonzolavano per la stanza, Ben domandò: «Hai mai letto I vestiti nuovi dell'Imperatore?».
«È vero», disse Nathan. In cucina squillò il telefono. «Aspetta un attimo», disse Ben, andando a rispondere. «Pronto?». «Ciao, Benjamin». «Ciao, mamma». «Benjamin, devo farti una domanda. C'entri anche tu, per caso, con la decisione odierna della Corte sul caso di Charles Maxwell?». «Non esattamente», rispose Ben, rovesciando gli occhi. «La stesura della relazione di maggioranza è stata affidata agli assistenti di un altro giudice». «Ma tu sapevi in anticipo quale sarebbe stata la decisione, vero?», domandò lei. «Certo, mamma. Lo sapevo da tre mesi». «Be', grazie», disse Sheila Addison. «Non potresti dirlo a tuo padre? Se glielo dico io non ci crede. Siccome ha una rubrica di commenti su un giornale, crede di sapere tutto...». «Mamma, devi dirmi altro?», domandò Ben. «Siamo nel pieno dei festeggiamenti. Ober ha appena avuto una promozione». «Oh, sono felice per lui!», disse Sheila. «Barbara ne sarà così fiera. Passamelo, che voglio salutarlo». «No, mamma, non se ne parla neppure», tagliò corto Ben. «Be', allora digli che ci vediamo quando verrete a casa per il giorno del Ringraziamento. A proposito, verrete il martedì o il mercoledì?». «Mancano ancora tre settimane. Non ne ho idea», sospirò Ben. Nel tentativo di cambiare argomento, disse: «Niente di nuovo, a casa?». «Non esattamente», disse Sheila. «Ho ricevuto una busta indirizzata a te. Aveva l'aria di essere piuttosto importante. Vuoi che la apra o che te la spedisca al tuo indirizzo?». «Da dove arriva?», domandò Ben. «Il mittente è Caselle postali & affini», rispose la donna, esaminando la busta. «Ha una grossa stampigliatura che dice "Secondo avviso"». Riconoscendo il nome del negozio in cui aveva affittato la sua casella postale, Ben restò sorpreso. "Eppure ho pagato in anticipo", pensò. «Aprila», disse alla madre. «In effetti è una bolletta», disse. «C'è scritto che se non paghi, la tua casella 1327 verrà chiusa, e la tua posta confiscata. Perché hai affittato una casella postale, Benjamin?». «Com'è il numero della casella?», chiese Ben, ignorando la domanda della madre.
«Tredici-ventisette». «Dev'esserci un errore», disse Ben. «Non è il numero della mia casella postale». «Vuoi che te la spedisca?». «No, vado io al negozio domani. Ascolta, devo andare. Salutami papà». Ben riagganciò e tornò in soggiorno. «Vieni anche tu?», gli domandò Ober. «Andiamo a festeggiare la mia promozione». «Certo», rispose Ben, prendendo il cappotto dal ripostiglio in anticamera. «Miracoli del genere capitano una volta ogni dieci anni». Entrando al Boosin's Bar, Ober inspirò profondamente l'odore di birra rancida e di sigarette. «Ahh, non c'è niente di meglio dell'aria dei bar», disse. «Mi sembra di tornare ai tempi del college». Da quando erano arrivati a Washington, il Boosin's era il loro abituale luogo di ritrovo e una specie di seconda casa per la gioventù in giacca e cravatta della città. Occuparono il loro solito tavolo sul fondo del locale, e poco dopo furono raggiunti dalla solita cameriera. «Ciao, Tina», disse Ben. «Come mai da queste parti?», domandò lei. «Oggi Ober ha avuto una promozione. Abbiamo intenzione di riempirlo di birra finché non crollerà a terra vomitando allegramente». «Vedrò che cosa posso fare», disse lei avviandosi al bancone. Tornò con due barilotti e quattro bicchieri, che posò sul tavolo. Dopo averli riempiti, Nathan alzò il proprio per fare un brindisi. «A Ober. Che la fortuna ti assista in tutti i tuoi travagli». Dopo aver brindato, Ben posò una mano su una spalla di Ober: «Sono proprio fiero di te, amico mio». «Wow, le congratulazioni del Guru del lavoro in persona». «Dico sul serio», insistette Ben. «Non importa com'è successo, noi sappiamo che la promozione è meritata». «Non so», disse Ober. «Comunque, ancora non sono diventato assistente alla Corte suprema». «Non ce n'è bisogno», disse Ben. «Devi semplicemente essere te stesso». «E ascolta sempre la voce della tua coscienza!», cantilenarono in coro Eric e Nathan. Mezz'ora dopo, Ober fu avvicinato da una bella mora che indossava un
completo nero firmato e gli domandò: «Ti dispiace se ci uniamo alla compagnia?». «Lila!», esultò Ober. «Che ci fai qui?». Dopo essersi alzato per abbracciarla, si rivolse ai propri compagni e spiegò: «Lei è Lila Jospin. Ce la spassavamo al college». «Che presentazione stupenda», disse Ben. Stringendo la mano di Lila, aggiunse: «Sei chiaramente una donna dal gusto raffinato. Felice di conoscerti». «Piacere», disse Lila. «A quanto pare, hai portato un po' di amiche. Quante siete?», domandò Ober, cominciando a riunire tavoli per creare posti a sedere. «Siamo in quattro», disse Lila, facendo cenno alle sue tre amiche di avvicinarsi. «Perfetto», disse Ober. «Assolutamente perfetto». Il giorno dopo Ben arrivò in ufficio alle sette e mezza. «Sei in ritardo», disse Lisa, mentre lui si abbandonò sul divano. «Sono stanco», disse Ben. «Dove sei stato ieri sera? Ad affogare i dispiaceri nella birra?». «Ieri sera, se proprio lo vuoi sapere, non ho avuto il benché minimo dispiacere. È stata una serata di sola allegria». «Vuoi dire che sei andato al bar, hai trovato una qualche donna e te la sei portata a casa? Bella roba. Ma chi ti credi di essere? Guglielmo il Conquistatore?». «A dire il vero, io mi identificavo piuttosto con Magellano. È una figura molto più regale e importante, un vero pioniere. Come me, lui era un uomo del Rinascimento costretto a vivere in un mondo e in un tempo che raramente lo comprendevano». «A dire il vero, era un barbaro misogino che si è reso conto a malapena di quello che aveva trovato. In questo senso, effettivamente, siete simili». Lisa si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le mani dietro la testa. «Be', non mi domandi com'è andato il mio appuntamento di ieri sera?». «Cos'è 'sta storia dell'appuntamento?», domandò Ben, alzando un sopracciglio. «Embe'? Che c'è di così sorprendente?», replicò Lisa. «Sono una donna volitiva che ha le sue esigenze». «Perché non mi hai detto che avevi un appuntamento?».
«Perché mi avresti preso in giro». «Lo farò comunque», disse Ben. «Ma dimmi un po': chi sarebbe il malcapitato?». «Si chiama Jonathan Kord. Lavora nell'ufficio del senatore Greiff». «Oh, mio Dio! Jonathan Kord? Lo conosco! Oddio, una mia amica - povera lei! - è uscita con quel tipo!?». «Tu non lo conosci», disse Lisa, afferrando una manciata di fermagli da carta e tirandoli a Ben. «Non ce n'è bisogno», ribatté lui. «Uno che si chiama Jonathan non può che essere un tipo scialbo». «Ma che dici?», fece lei. «Jonathan è un nome bellissimo. I suoi amici lo chiamano Jon». «Lui però si presenta come Jonathan, vero?», incalzò Ben. Lisa tacque. «Lo sapevo!», esclamò lui. «È uno scialbo». «L'ho trovato nel pieno delle forze, invece», disse Lisa. «Uah, uah, uah!», fece Ben, rialzandosi a sedere sul divano. «Davvero, hai passato una notte così movimentata?». «Può darsi», disse lei, per provocare. «Ma se anche non l'avessi fatto, ora so per certo che sei geloso». «Non lo sono affatto». «Allora, perché la tua faccia ha lo stesso colore del divano?». «Fidati, non sono per niente geloso», insistette Ben. «Piuttosto, raccontami com'è andata?». «Niente di particolare», disse Lisa. «Siamo usciti a cena e poi abbiamo fatto un giro attorno al Washington Monument». «Oddio!», esclamò Ben, alzando le mani al cielo. «Ti sei fatta abbindolare. Il tipo ti ha pagato la cena e poi ti ha portato a far due passi intorno a un'erezione gigante. Capita l'antifona?». «La cena l'ho pagata io, signor rubacuori. E ho proposto io di andare all'obelisco». «Insomma, un vero appuntamento», disse Ben, dondolando il capo. «Sono davvero impressionato». Incrociò le braccia e disse: «E poi cos'è successo?». «L'ho mandato in bianco». «Dici davvero?», domandò Ben, dubbioso. «L'hai invitato fuori e poi l'hai mandato in bianco?». Lisa fissò lo sguardo sulla punta dei propri piedi. «Non so, credo di averlo spaventato. Forse sono stata un po' troppo aggressiva».
«Tu? Aggressiva?». «Anzi, sono stata sicuramente troppo aggressiva», disse Lisa, con espressione improvvisamente seria. «Mi è parso seriamente intimidito quando gli ho detto che avrei potuto insegnargli un paio di cose, a letto». «Gli hai detto questo?», sobbalzò Ben. «Visto? Lo sapevo. Sono stato troppo aggressiva». «Tu ti sottovaluti, Lisa. Sei semplicemente stata te stessa», disse Ben. «Non ti si può rimproverare per questo. Tu sei una donna aggressiva, e la maggior parte degli uomini è intimidita dalle donne aggressive. Li vedi mai i talk-show? L'americano medio desidera una donna compiacente e remissiva, solo perché è stato abituato ad aver paura delle donne forti». «Okay, dottor Freud. Cosa vuoi dire?». «Che il numero di uomini tra cui puoi scegliere si restringe, ma la loro qualità è tre volte migliore di quella dello sfigato medio. Il patrimonio genetico a cui finisci per attingere è molto più resistente, più complesso, più intelligente...». «Uomini come te, insomma», disse Lisa in tono di scherno. «Esatto», disse Ben. «Siamo un nuovo genere di uomini. Noi non temiamo di mostrare i nostri sentimenti. Ci piacciono le donne forti. In campo sessuale ci piace essere dominati...». «Non vi vergognate se vi viene da piangere alla fine di Rocky», aggiunse Lisa. «L'hai detto», confermò Ben. «E ci piace il profumo del pot-pourri». «Non vorrei frenare il tuo slancio, ma che faresti se ti dicessi che a me il tipo sensibile non piace? Che preferisco il tipo alto, muscoloso e scemo che mi fa divertire a letto e non si fa problemi se non gli telefono?». Ben restò in silenzio per un attimo; poi, disse: «Ti piacciono i tipi alti e muscolosi?». «Per divertirmi un po', sì», disse Lisa. «Non mi ci sposerei, ma come accompagnatori saltuari non sono male». Ben si grattò la fronte, perplesso. «Come fanno a piacerti i tipi così?», domandò. «Come puoi andare a letto con uno che ti considera solo alla stregua di una conquista sessuale?». «Senti un po'», disse Lisa. «La conquista sessuale è una strada a due sensi di marcia. E io guido una Ferrari». Ben scoppiò a ridere. «Devo rimangiarmi quello che ho detto poco fa. Tu sei sicuramente troppo aggressiva per trovare un uomo. Probabilmente resterai sola per tutta la vita». Alzandosi dal divano Ben diede una scorsa
all'ultimo malloppo di carte giunto sulla sua scrivania. «Che c'è da fare, oggi?». «È appena arrivato un nuovo blocco di richieste di revisione. Hollis vuole che le sbrighiamo velocemente, perché si aspetta che scriviamo la motivazione della sentenza sul caso Grinnell». «Ma ancora non hanno votato, vero?», disse Ben. «Ehi, coglione, dai un'occhiata all'orologio», disse Lisa. «La seduta non si terrà prima di domani. Hollis crede addirittura che sarà posticipata, ma di certo non si andrà oltre la settimana prossima. E Osterman che sta temporeggiando. Gli assistenti di Veidt sostengono che il loro capo sia ancora incerto, e Osterman se lo sta lavorando sin da quando è giunta alla Corte la richiesta di revisione». «Che problemi ha Veidt?», domandò Ben. «Credi che abbia un debole per Osterman?». «Ne dubito», disse Lisa. «Veidt è un giudice privo di particolare spessore che sa di essere stato scelto in quanto suscettibile di non essere riconfermato». «Può darsi», disse Ben, «ma la mia ipotesi è molto più intrigante. Te la immagini, una squallida tresca amorosa tra due giudici della Corte suprema? Non sarebbe grandioso?». «Certamente molto meglio che passare la giornata a sbrigare appelli per la revisione di processi». Dopo un rapido spuntino meridiano al bar della Corte, Ben andò da Caselle postali & affini in Constitution Avenue. "È tempo di togliere il cappotto dall'armadio", pensò, mentre un gelido vento novembrino staccava le ultime foglie dai rami degli alberi. Per contrastare l'incombente clima invernale, Ben soffiò del fiato caldo nelle mani riunite a coppa. Giunto a destinazione, entrò nel negozio che, come gran parte degli esercizi di Washington, era dipinto di rosso, bianco e blu. «Posso esserle utile?», domandò un commesso che indossava un maglione a collo alto. «Sì, ho ricevuto una ingiunzione di pagamento per una casella postale», disse Ben. «Senonché io ho già pagato in anticipo e il numero della casella non corrisponde alla mia». «Oh, dev'esserci stato un disguido», disse il commesso. «Può dirmi il suo nome?». «Certo, mi chiamo Be...». Ben si bloccò, ricordandosi in extremis di aver fornito un nome falso per l'affitto della casella. «Mi chiamo Alvy
Singer», disse. «Singer, Singer...», ripeté il commesso, cercando nel suo schedario. «Ecco». Estrasse la scheda e aggiunse: «Lei ha affittato la casella 1227 il giorno 28 di settembre, e ha pagato in anticipo. Poi ha affittato la casella 1327, in data 29 settembre, chiedendo che le venisse spedita la bolletta». Continuando a leggere dalla scheda, il commesso disse: «C'è scritto anche che lei ha versato 25 dollari di soprattassa perché fosse possibile aprire entrambe le caselle con una stessa chiave». «Ma certo, che stupido!», esclamò Ben, tergendosi il sudore freddo dalla fronte. «Vuole saldare il conto oggi stesso?», gli domandò il commesso. «Veramente, preferirei pagare alla fine della settimana, se è possibile». «Come le è più comodo. Arrivederci». Raggiungendo la sala in cui si trovavano le caselle, Ben piombò nel panico più totale. Guardandosi intorno, fu sollevato nel vedere che nessuno lo stava osservando. Si tolse la chiave di tasca e aprì la casella 1227. Vuota. Appena sotto c'era la casella 1327. Introducendo con circospezione la chiave nella toppa, fece scattare la serratura e aprì la casella. Conteneva una sola busta per stampe color carta da pacco. La estrasse, richiuse la casella e si diresse al piccolo banco che correva lungo le pareti della sala. Nella busta trovò un foglio scritto a macchina. «Caro Ben», lesse. «Mi dispiace di non essermi fatto vivo, ma come immaginerai sono stato piuttosto occupato. Inutile dire che è andato tutto a meraviglia. Capisco che tu sia irritato per quel che è successo, ma, ti prego, smetti di cercarmi! Stai sprecando il tuo tempo. Fare a pezzi i fiori che ti ho spedito è stato inutile, il tentativo di corruzione del portiere è stato penoso, come l'idea delle bollette telefoniche: credi davvero che io possa aver fatto delle telefonate importanti su una linea così facilmente individuabile? Suvvia! Siccome non ti sei ancora rivolto alle autorità, devo dedurre che tu abbia ben presente quali conseguenze nefaste subirebbe la tua carriera se ti venisse in mente di rivelare tutto. «A questo punto, ti propongo una tregua. Se sei interessato, fatti vedere al Two Quail sabato alle otto di sera. La prenotazione è stata fatta a tuo nome. Se hai bisogno di metterti in contatto con me, usa pure la nostra casella postale 1327. Tuo, Rick». Ben reinfilò la lettera nella busta, uscì dal negozio e si incamminò a passo spedito verso la Corte. "Come diavolo fa a sapere tutto?", si domandò. Salita la scalinata antistante la Corte, Ben mostrò il tesserino di riconosci-
mento alla guardia e aggirò il metal detector. Un minuto dopo era già nell'area della reception, lanciato verso il proprio ufficio. Richiuse la porta con violenza e gettò la busta sulla scrivania di Lisa. «Roba da non credersi», commentò con stizza. «Dove l'hai trovata?», domandò Lisa, leggendo la lettera. «Ha affittato una casella postale attaccata alla mia... con lo stesso falso nome che avevo adottato io», disse Ben, con voce tremante. «Come ha fatto a scoprire che avevi una casella postale?», domandò Lisa. Alzando una mano, però, prevenne la risposta di Ben. «Lasciami finire di leggere». Quando ebbe terminato, si rivolse a Ben e ripeté la domanda. «E come ha fatto a scoprire il mio falso nome?», aggiunse Ben, impalato in mezzo all'ufficio. «Chi gli ha detto della fine che abbiamo fatto fare ai suoi fiori? Come ha fatto a scoprire che ho chiamato la compagnia telefonica e che abbiamo cercato di entrare nell'appartamento in cui abitava? Cristo, conosce addirittura l'indirizzo dei miei genitori! Ha fatto spedire la bolletta della casella postale a casa dei miei!». «Calmati un attimo», disse Lisa, posando sul tavolo gli occhiali che usava per leggere. «Proviamo a riflettere». «Se tocca la mia famiglia, giuro che l'ammazzo, quel bastardo!». «Rilassati», disse Lisa. «Sono sicura che voleva solo spaventarti». «Be', ha funzionato», disse Ben, togliendosi la giacca. «Evidentemente, nell'ultimo mese mi ha seguito. Sa tutto di me: quello che ho fatto, dove sono andato, dove abitano i miei genitori...». «Devi calmarti», disse Lisa, accingendosi a rileggere la lettera. «Lasciami pensare un attimo». Ben prese a camminare su e giù per l'ufficio, sforzandosi di rimanere in silenzio. «Non mi stupisce che sappia del nostro tentativo al suo ex appartamento, ma non capisco come possa aver saputo delle bollette telefoniche. Tutt'e due le volte che hai chiamato la compagnia dei telefoni, l'hai fatto da quest'ufficio, vero?». Ben annuì, e Lisa aggiunse: «Dubito che abbia potuto intercettare le telefonate. Cioè, stiamo parlando della Corte suprema». «È impossibile che abbia intercettato questa linea, con il sistema di sicurezza che abbiamo», concordò Ben. «Ma, allora, come ha scoperto quello che abbiamo fatto ai suoi fiori? Noi due eravamo gli unici a saperlo». Tornando alla questione delle bollette telefoniche, Lisa disse: «Molto probabilmente, ha aspettato di vedere cosa avremmo fatto prima di cambiare indirizzo. Probabilmente la compagnia dei telefoni l'ha avvertito del-
la tua richiesta di copia delle bollette». Si soffermò a riflettere sulle sue ipotesi e, poi, aggiunse: «Non posso credere che abbia previsto le nostre mosse». «L'amico non è scemo», disse Ben, incapace di star fermo. «Credi davvero che ti abbia fatto pedinare?». «Come faccio a saperlo? Del resto come avrebbe potuto scoprire il falso nome che ho usato per affittare la casella?». «Pensi di accettare il suo invito?», domandò Lisa. «Certo», rispose Ben. «È mio. Gli appendo il culo al muro». «Parli come un telefilm di quart'ordine», disse Lisa. «Secondo me, dovresti preparare un piano d'azione serio, prima di fare stupidaggini». «Hai ragione», assentì Ben. Si sedette alla scrivania e prese un foglio. «Intanto, vorrei fare una piccola seduta di brainstorming con tutti quanti. Si può fare a casa tua?». «Perché a casa mia?», domandò Lisa. «Perché probabilmente a casa mia ci sono le microspie». «Senti, tu devi calmarti», disse Lisa. «Questo non è Il socio». «Il tuo Rick individuo è in contatto con Charles Maxwell, riesce a estorcere una delle più succulente informazioni riservate del decennio, e tu dubiti che sia in grado di riempire di microspie la mia cazzosissima casa, che tra l'altro non ha sistemi d'allarme?». «Allora, va bene», disse Lisa. «Ci vediamo a casa mia». Alzandosi dalla sedia, si avvicinò a Ben, appoggiandosi alla sua scrivania. «Nel frattempo, non vuoi sapere l'ultimo pettegolezzo?». «Non sono dell'umore adatto». «D'accordo. Allora non ti dirò che il giudice Blake sta per dare le dimissioni». «Non è una novità», disse Ben. «Sono anni che se ne parla». «Ma ora è ufficiale», insistette Lisa. «Oggi ne ha informato Osterman». «Dici sul serio?», disse Ben, alzando le sopracciglia e corrugando la fronte. «Parola di lupetto». «È una notizia confermata o è solo una voce?». «Mettiamola così: mentre tu eri fuori a pranzo, è venuto qui Hollis e mi ha detto che Blake aveva appena annunciato le proprie dimissioni. Oggi pomeriggio telefonerà al presidente degli Stati Uniti, mentre la stampa verrà informata nel giro di una settimana o due. Ti sembra sufficientemente attendibile come fonte?».
«Se l'ha detto Hollis, è vangelo». «Mi sa, però, che la maggior parte dei giudici non ne ha dato notizia ai propri assistenti, quindi è meglio che tieni la bocca chiusa. Hollis ha detto di aver parlato a titolo puramente informativo». «Che altro ha detto?», domandò Ben. «Ha detto che la decisione sul caso Grinnell non verrà presa prima della fine della settimana. Il giudice Veidt non ha ancora scelto da che parte stare, e i conservatori ne hanno approfittato per rimandare nella speranza di tirarlo dalla loro parte». «Ottimo pettegolezzo», ammise Ben. «A quanto pare, oggi Hollis aveva la lingua sciolta». «Lo sai com'è», disse Lisa. «A volte non spiccica una parola, altre volte non sta zitto un attimo. Oggi era in giornata buona». «Insomma, se ho capito bene, vuoi dire che non lavoreremo al caso Grinnell questa settimana». «È esattamente questo che volevo dirti», fece Lisa, battendo un colpo sulla scrivania di Ben. «Siccome Blake si dimette, intende alleggerire il proprio carico di lavoro e non scriverà la relazione di maggioranza sul caso Pacheco v. Stato del Rhode Island». «Immagino che toccherà a noi...», sospirò Ben. Lisa annuì. «Ma perché? È un bellissimo caso di bancarotta. È interessante». «È interessante, ma non è un caso clamoroso. Secondo Hollis, quando un giudice dà le dimissioni, si riserva i casi più importanti. Gli altri giudici si rimettono alla sua volontà, in modo che questi possa pronunciare le sue ultime grandi decisioni». «Vuoi dire che si accaparrerà tutti i casi migliori di questa sessione?». «Più o meno», disse Lisa. «Magari non proprio tutti, ma una buona parte sì». «Grandioso!», esclamò Ben, in tono sarcastico. «Hollis ha detto quando riceveremo la documentazione dall'ufficio di Blake?». «L'ufficio assistenti ce l'invierà più tardi, nel pomeriggio». Accendendo il computer, Ben disse: «E Hollis non ha ancora dato un'occhiata alla nostra relazione sul caso Oshinsky, vero?». «Be', in realtà l'ha fatto», disse Lisa, passandogli un mazzo di fogli. «E non è ancora soddisfatto», dedusse Ben, non potendo fingere di non vedere i segni rossi sulla prima pagina del documento. «A che bozza siamo? Alla sesta?». «Alla settima, se teniamo conto dello schemino originale».
«Non sarà mai soddisfatto di questa relazione», disse Ben. «Credo che dovremo rassegnarci e darci da fare». «La vuoi finire di lamentarti?», disse Lisa. «Le cose non vanno poi così male». «Stai scherzando? Arriviamo qui alle sette di mattina, stiamo lavorando a quattro casi contemporaneamente, più un quinto scaricatoci addosso da un giudice che sta per dimettersi e un sesto all'orizzonte, visto che Veidt presto si schiererà con i conservatori. Nel frattempo abbiamo una dozzina di richieste di revisione di processi da sbrigare ogni settimana. Impossibile essere più incasinati». «Non so», disse Lisa. «Immagina se fossimo anche coinvolti nella caccia a un folle genio del male che tenta di minare dalle fondamenta l'intera struttura della Corte suprema...». Quella sera, alle nove e mezza, Ben e Lisa arrivarono a casa di quest'ultima, a pochi passi dalla stazione del metrò di Tenleytown. Davanti all'anonimo palazzo in mattoni, li attendevano Ober e Nathan. «Perché ci avete messo così tanto?», domandò Ober, entrando. «L'appuntamento era alle nove». «Scusate», disse Ben, seccamente. «Ci stavamo solo rompendo il culo a riscrivere la storia, alla Corte suprema. Non tutti hanno la fortuna di uscire dal lavoro alle cinque». «Ehi, che ti prende?», gli domandò Nathan, salendo in ascensore. «Noi siamo qui per aiutarti». Giunti al quarto piano, uscirono dalla cabina e percorsero un corridoio fino all'appartamento di Lisa. «Scusate», disse Ben. «Non intendevo essere aggressivo». «Eccoci», disse Lisa, facendo accomodare gli ospiti in soggiorno. «Non è tanto grande, ma è casa mia». Arredata in modo essenziale, quella stanza presentava un vecchio e consunto divano di pelle marrone, un tavolino da caffè e una scrivania, che in realtà consisteva di un semplice piano di legno levigato posto su due piccoli schedari metallici. Tavolino da caffè e scrivania erano sommersi di carte. Sulla parete in fondo era appeso un enorme poster raffigurante dei gatti che giocano a poker. Sopra il divano, due ritratti su sfondo di velluto nero: una Monna Lisa e un puffo in piedi accanto a un fiore. «Che capolavori!», disse Ben, incuriosito dal luogo in cui viveva la sua collega. «Mi piace l'arte neo-trash», disse Lisa. «Più fa schifo e più mi piace. Il
puffo è il pezzo più prezioso della mia collezione. L'ho vinto a una festa di carnevale». «È un posto davvero niente male», commentò Ober. «Mi sembri sorpreso», disse Lisa. «Ti aspettavi cuscini foderati di satin rosa e violetto sparsi in ogni angolo?». «No», disse Ober. «Piuttosto credevo di trovare pieno di assorbenti maxi e di prodotti per l'igiene intima femminile». «Credevi o speravi?», gli domandò Nathan, prendendo posto sul divano. Lisa gettò la propria borsa piena di documenti sulla scrivania e si diresse in cucina. «Volete qualcosa da mangiare o da bere?». «Io prenderei un cosciotto di agnello e un vino bianco spruzzato al selz», disse Ober. «Dov'è Eric?», domandò Ben, accomodandosi sul divano. «Lavora fino a tardi stasera», rispose Ober. «Ha detto che gli dispiaceva, ma proprio non poteva venire». «Tipico», disse Ben. «Hai finito?», gli domandò Nathan, vedendo che Ben si era messo a sfogliare nervosamente una rivista. «Eh?», fece Ben. «Sì, è solo che vorrei iniziare». Lisa portò una sedia dalla cucina, la sistemò di fronte al divano e vi si sedette. «Quello che non capisco è il motivo per cui Rick ti ha mandato la lettera servendosi della sua casella postale. Avrebbe più semplicemente potuto spedirla o, al limite, imbucarla nella tua casella». «Ci stavo appunto pensando», disse Ben. «Credo sia soprattutto uno sfoggio di potenza. In un colpo solo ha fatto crollare il mio nuovo piano e mi ha fatto capire che la mia pretesa segretezza lo fa ridere». «Però non è chiaro il motivo per cui ti propone una tregua», disse Ober. «Non hai alcuna possibilità di beccarlo, è evidente. In un certo senso tu non sei che una piccola seccatura, per lui». Guardando Ben negli occhi, aggiunse: «Senza offesa». «Secondo me, vuole altre informazioni», suggerì Nathan, seduto tra Ober e Ben. «Anche secondo me», disse Ben. «Non vedo che altra ragione avrebbe Rick per volere una tregua». «Credi che voglia chiederti di rivelargli in anticipo un'altra decisione?», gli domandò Lisa. Ben continuava a sfogliare riviste. «Non saprei di che altro potrebbe trattarsi».
«Allora, supponiamo che il motivo sia questo». «Hai intenzione di andare all'appuntamento?», gli domandò Lisa. «Ovvio», rispose Ben. «Credi che voglia lasciarmelo scappare?». «Come hai intenzione di comportarti?», gli domandò Lisa. «Non ho ancora deciso», ammise Ben. «È per questo che contavo sul vostro aiuto. Pensavo di filmarlo al ristorante, o qualcosa del genere». «Ho trovato!», esultò Ober. «Che ne dici se uno di noi si veste da cameriere e in qualche modo preleva il suo bicchiere di vino, ovviamente pieno di impronte digitali?». «Per farne cosa?», domandò Lisa. «Lo facciamo elaborare dal nostro computer nella Bat-caverna?». «Lo mandiamo al Dipartimento di Stato con Nathan». «Io direi che possiamo scattargli delle foto segnaletiche quando entra al ristorante», disse Nathan. «Scopriremmo la sua vera identità in men che non si dica». «Conosco un posto ideale a questo scopo», disse Ben, concitato. «C'è un caffè con terrazza proprio dirimpetto al ristorante». «Possiamo andare a comprare un filtro per foto in notturna», disse Ober, alzandosi in piedi. «Sì, e magari adottiamo dei bei travestimenti, tipo trench, cappello e baffi finti», disse Lisa, sarcastica. «Dovete calmarvi. Quest'idea non promette nulla di buono». «Ah, davvero?», fece Ben. «Immagino che saprai anche spiegarci perché». «A che vi serve avere delle fotografie? Sareste sempre al punto di partenza. Anche se scopriste il suo vero nome, non potreste comunque denunciarlo... a meno che in prigione non vogliamo spedirci anche Ben». Il silenzio invase la stanza. Poi, Nathan disse: «La donna dice il vero». «Dobbiamo in qualche modo indurlo a chiederti informazioni su un altro caso», suggerì Lisa. «Se ci riusciamo, possiamo farlo incriminare per tentata corruzione di pubblico ufficiale». «Ben non è un pubblico ufficiale», ricordò Ober. «Però è un impiegato federale», insistette Lisa. «Cercando di corromperlo, Rick mira a interferire con l'operato del governo degli Stati Uniti. È un reato federale, che lo toglierebbe dalla circolazione per almeno un paio d'anni». «Aspetta un attimo», disse Nathan. «Nulla impedirebbe a Rick di proporre uno scambio alle autorità. Per quel che ne sappiamo, potrebbe rac-
contare anche del caso CMI e offrire la testa di Ben su un piatto d'argento, accusandolo di essere il vero regista delle operazioni, dall'interno della Corte suprema. A quel punto Rick uscirebbe di galera, mentre Ben sarebbe processato, e tutto grazie al nostro piano». «Rick non lo farebbe mai», obiettò Lisa. «La notizia estorta in merito al caso CMI è probabilmente il capolavoro della sua vita. Ci avrà guadagnato non meno di un paio di milioni di dollari. Se coinvolgesse Ben o anche solo attirasse l'attenzione sulla CMI, Charles Maxwell avrebbe ben presto la Securities & Exchange Commission alle calcagna. Di sicuro Rick preferisce farsi un paio d'anni per il secondo tentativo di corruzione piuttosto che perdere i soldi ed esporsi all'ira di Maxwell. Non ha a che fare con dei pesci piccoli. La CMI lo mangerà vivo». «Sono sbalordito», ammise Nathan. «E tu dicevi che era poco intelligente...», disse Ben, incrociando le braccia e rivolgendosi a Ober. «Coosa?», esplose Lisa. Rivolta a Ober disse: «Hai detto che sono poco intelligente?». «Io non...», balbettò Ober. «Proprio tu?!», insistette Lisa, alzandosi in piedi. «Ma se la scorsa settimana, giocando a Scarabeo, volevi usare la parola "nah", come puoi pensare che io sia stupida?». «"Nah" è una parola», obiettò Ober. «No che non è una parola!», insistette Lisa. «È al massimo un'espressione insulsa impiegata da qualche scimmione verso la fine del Ventesimo secolo. È rumore privo di senso. Stupidità pura. Ma non è una parola». «È una parola», reiterò Ober. «Non potete litigare più tardi?», implorò Ben. «Ora vorrei che discutessimo del piano. A quanto pare, l'idea migliore che ci è venuta prevede di incastrarlo con l'accusa di corruzione. Non è il massimo, come vendetta, ma è meglio di niente. Però come facciamo a metterla in pratica?». «Potresti indossare un microfono», disse Nathan. «Forse riesco a procurartelo tramite alcuni amici che lavorano nei servizi di sicurezza». «Dici davvero?», domandò Ben. «Altrimenti porterai con te un mangianastri», disse Lisa. «In un modo o nell'altro, riusciremo a registrare la sua voce». «Io sono sempre dell'idea che dovremmo scattargli qualche foto», disse Ober. «Di' la verità, tu vuoi travestirti», lo schernì Lisa.
«Sì, è vero, voglio travestirmi», ammise Ober. «Ma credo anche che sarebbe utile avere un qualche elemento concreto sul reale aspetto di Rick». «In effetti, non mi sembra una cattiva idea», concesse Ben. «Prima o poi, le autorità dovranno fermarlo, e potremmo addirittura essere noi a mostrar loro com'è fatto». Quando Ben si accorse che Lisa stava storcendo il naso le domandò: «Cosa c'è che non va?». «Eh?», fece lei. «No, niente». «Non me la dai a bere», disse Ben. «Conosco quell'espressione. Cos'è che ti preoccupa?». «Be', ecco, continuo a domandarmi se per caso... non ci convenga rivolgerci subito alle autorità. Cioè, mi sa che stiamo uscendo non poco dal seminato. Forse dovremmo chiedere aiuto». «No», disse Ben. «Se lo facciamo, posso benissimo dire addio al mio lavoro. Inoltre, se andassi alla polizia, Rick se ne accorgerebbe con largo anticipo». «Che cosa te lo fa pensare?», domandò Lisa. «Come sarebbe a dire?», fece Ben. «Nell'ultimo mese ha tenuto d'occhio ogni nostra mossa. E poi non è che dobbiamo compiere chissà quale impresa complicata. Cercheremo soltanto di registrare la sua voce su nastro. Non stiamo cercando di fare irruzione nel suo nascondiglio segreto su un'isola privata». Lisa si voltò verso Ober. «Non ti preoccupare. Rick non possiede veramente un'isola privata. È solo un modo di dire». «Nah!?», fece Ober. «Dico sul serio», riprese Ben. «Se le cose si mettono male, chiameremo aiuto. Ma prima vorrei che ci provassimo noi». 6 Il giorno seguente, Ben e Lisa lavorarono senza interruzioni a quattro diversi casi. Dopo tre mesi di collaborazione, avevano ormai sviluppato un efficientissimo metodo per la stesura delle relazioni. Poiché Ben era il più abile, tra i due, nell'elaborazione di argomentazioni originali, si occupava in genere della stesura della prima bozza. Con il suo stile aggressivo e una coerenza scevra di compromessi, i suoi lavori filavano dritti come fusi dall'introduzione alle conclusioni. Lisa, invece, era l'impeccabile analista. Ben le attribuiva una vista ai raggi X: era capace di individuare lacune nella più raffinata delle argomentazioni. Dunque, quando Ben portava a termine la
prima stesura, entrava in scena l'abilità da redattrice di Lisa. Con la sua cura maniacale dei dettagli e le sopraffine capacità logiche, Lisa redigeva a commento della bozza di Ben, che solitamente si aggirava sulla quarantina di pagine, un documento di una ventina di pagine. Terminata la riscrittura, la relazione veniva presentata a Hollis. Alle sei in punto, Ben spense il suo computer e prese la giacca dall'attaccapanni. «Dove vai?», gli domandò Lisa, rialzando il capo per guardarlo. «Ho una cena a cui non posso mancare. È da quando sono tornato dall'Europa che gli zii di Eric insistono nell'invito». «Non ho ancora visto la prima bozza del caso Russell». «È quasi finita. Per domani a mezzogiorno è pronta». «Sarà meglio», disse Lisa. «Vedrai. Te lo prometto». Stava già uscendo dall'ufficio quando sentì squillare il telefono. Supponendo che si trattasse di Eric, con qualche scusa per giustificare il proprio ritardo, Ben tornò al proprio tavolo e sollevò la cornetta: «Sono Ben», disse. «Ehi, Ben», disse Rick. «Come va la vita?». «Che diavolo vuoi?», domandò Ben, riconoscendo la voce. «Niente», rispose Rick. «Volevo solo sapere che intenzioni hai. Se ho capito bene, sei invitato a cena, stasera». «Vale ancora l'appuntamento di sabato?», domandò Ben. «Perché...». Rick interruppe la chiamata. Sentendo che la linea era caduta, Ben sbatté giù la cornetta. «Che succede?», domandò Lisa. «Chi era?». «Era Rick», rispose Ben, correndo via. «Che cosa...». Prima ancora che Lisa potesse terminare la frase, Ben si era dileguato. Scese a rotta di collo i quarantaquattro gradini della Corte e attese con impazienza l'arrivo dei suoi amici. Alle sei e cinque minuti, l'auto di Eric, con Eric e Ober a bordo, accostò davanti a lui. Ben salì sulla Honda grigio pallido e rimase in silenzio. «Oggi m'è venuto in mente il nome più bello per un ristorante messicano», annunciò Ober, voltandosi indietro tutto entusiasta. «Tequila Mockingbird». Ben non mosse ciglio. «Mi dispiace per il ritardo», disse Eric. «Stavo...». «Dov'è Nathan?», lo interruppe Ben.
«Passiamo a prenderlo a casa. Ho pensato che prima di andare a cena vi sareste cambiati volentieri d'abito. La zia Katie non pretende che vi presentiate in giacca e cravatta». Nello specchietto retrovisore, Eric colse la preoccupazione dipinta sul volto di Ben. «Cos'è successo?». «Niente», tagliò corto Ben. «Non ho voglia di parlarne». «Ma stai...?». «Non ho voglia di parlarne», ribadì Ben. Eric guardò Ober, si strinse nelle spalle e proseguì verso casa. «Siete in ritardo», protestò Nathan, vedendoli entrare. Ben andò diritto in cucina. «Che cos'ha?», domandò Nathan. «Non vuole dirlo», rispose Eric. «Credo che si tratti di un problema di lavoro». Sedendosi sul divanetto, Eric domandò: «È molto che aspetti?». «Questa tua precisione nell'essere costantemente in ritardo di cinque minuti non smette di stupirmi», disse Nathan. «Potrei quasi sincronizzare il mio orologio sul tuo ritardo». Poco incline a radersi di frequente, Eric si passò una mano sulla barba di qualche giorno. «Non sono io il ritardatario», disse. «Sei tu che ti incasini perché hai messo il tuo orologio dieci minuti avanti». «Ti sbagli», replicò Nathan. «Sul mio orologio sei in ritardo di quindici minuti; quindi, cinque minuti in ritardo sull'ora reale». «Questa non l'ho mai capita», intervenne Ober. «Che senso ha spostare il proprio orologio dieci minuti avanti?». «Invece ha senso, caro sprovvedutissimo amico. Io non faccio caso a...». «Chi ha aperto la mia posta?», lo interruppe Ben. Era in piedi sulla soglia della cucina con il mazzetto delle buste in mano. «L'ho trovata così nella cassetta della posta», spiegò Nathan. «Per caso, hai trovato aperta anche la posta di qualcun altro?», domandò Ben. «No, solo la tua», rispose Nathan. «Credi che sia stato Rick?». Ben allentò il nodo della cravatta e si sbottonò il colletto della camicia. «Non so più cosa pensare. Oggi mi ha telefonato proprio mentre stavo uscendo dall'ufficio. Sapeva della cena di stasera». «C'era qualcosa di importante tra le tue lettere?». «No», rispose Ben. «Solo pubblicità e bollette». «Non vorrei sembrarvi frivolo, ma se arriviamo in ritardo, mia zia Katie ci ucciderà, e non conosceremo mai la fine di questa storia», disse Eric, avviandosi alla porta.
«Io non vengo», disse Ben. «Perché?», domandò Eric. «Solo perché qualcuno ti ha aperto la posta?». «No, perché ho il terrore che Rick mi stia spiando». Ben posò la posta sul bancone della cucina e si versò un bicchiere d'acqua. «Magari ha intenzione di entrarci in casa, dopo che ce ne siamo andati». «Se fosse stata questa la sua intenzione, l'avrebbe messa in pratica quando è venuto ad aprirti la posta», disse Eric. «Non farti rovinare la vita in questo modo. Vuole solo spaventarti». «Infatti, io mi spavento», disse Ben. «Andate senza di me e porgete le mie scuse alla zia Katie. Non sarei comunque una presenza particolarmente gradevole». «Sei sicuro?», insistette Eric. «Sì», confermò Ben. «Non vi preoccupate». Resisi conto che Ben non avrebbe cambiato idea, i tre amici si avviarono alla porta. «Ci vediamo dopo». Quando se ne furono andati, Ben riprese in mano al posta. Scartabellò tra i plichi alla ricerca dell'unica busta priva di mittente e ne estrasse un foglio. Ben rilesse le sette parole scritte a pennarellone nero: «Ti fidi dei tuoi amici? Tuo, Rick». Ben restò a fissare quel breve messaggio senza sapere se considerarlo un fosco avvertimento o una semplice domanda. Rimproverandosi per non averne parlato con gli amici, Ben accartocciò il foglio serrandolo nel pugno. "Come ho potuto permettergli di arrivare a tanto?", si domandò. "Adesso, vuole addirittura insinuare in me il sospetto nei confronti dei miei migliori amici". Gettò nuovamente il resto della posta sul bancone, andò in sala da pranzo e si appoggiò al grande tavolo di vetro. "Non posso credere che la spia sia uno di loro. È impossibile", si rassicurò. "Se non mi fido di loro, di chi potrei fidarmi?". Fissando la propria immagine riflessa dal vetro sporco del tavolo, ripercorse mentalmente la successione degli eventi. Ripensò a tutte le informazioni di cui Rick disponeva. Passò in rassegna tutte le persone che potessero essere a conoscenza di quelle informazioni. Alla fine, trovò una spiegazione logica. "Se ha piazzato delle microspie qui in casa, può averci sentito parlare della cena dalla zia Katie. E a Nathan ho raccontato della storia dei fiori. Potrebbe aver captato anche questo. Con un microfono ben nascosto, Rick potrebbe aver sentito tutto". Rivolto alla propria immagine riflessa, Ben fece un cenno col capo. "È la spiegazione più logica. È così che...". Attraverso la superficie di vetro, Ben osservò il pavimento. Sotto il tavo-
lo intravide un piccolo oggetto scuro. Si inginocchiò in un baleno per esaminare quell'oggetto da vicino. Un pezzettino di fango staccatosi dalla suola di una scarpa. Imperterrito, Ben ruotò il tavolo di novanta gradi e controllò sotto ognuna delle quattro gambe, alla ricerca del microfono di Rick. Poi fu la volta delle sedie. Ribaltò i divani, ne sollevò i cuscini, tastò i guanciali, sollevò il tavolino da caffè, passò una mano dietro ogni cornice appesa al muro, esaminò il televisore, capovolse il videoregistratore, ispezionò ogni singola videocassetta, rovistò nel ripostiglio, controllò nelle tasche di ogni giacca e cappotto, aprì tutti gli ombrelli, frugò dentro i guantoni da baseball, sbirciò nelle scatole delle palle da tennis, perlustrò sotto la tazza del cesso, svuotò il frigorifero, verificò negli schedari, sollevò ogni elettrodomestico, cercò in ogni cassetto, analizzò minuziosamente i lampadari e smontò tutti gli apparecchi telefonici. Quando ebbe finito, il primo piano della casa era a soqquadro. E non aveva trovato nulla. "Tieni duro", pensò Ben, con la camicia fradicia di sudore. "Non mollare". Dopo aver rimesso a posto la cucina, il bagno, la sala da pranzo e il soggiorno, Ben crollò a faccia in giù sul divano. Il braccio destro toccava terra e le dita tormentavano la superficie del tappeto. Inspirando profondamente, Ben giunse alla sua risoluzione. "In qualsiasi caso, bisogna fidarsi degli amici. È l'unico modo per non impazzire. Fidati dei tuoi amici". Quando gli amici di Ben rientrarono a casa, Nathan si diresse in bagno, Ober filò in cucina e Eric si accomodò sul divano davanti alla TV. Sentendo sbattere la porta d'ingresso, Ben uscì dalla propria stanza e scese al piano di sotto. Sorprese Ober intento a raschiare il fondo di un barattolo di gelato. «Come fai ad avere ancora fame?», gli domandò Ben. «Hai finito di cenare adesso». «Devo crescere», disse Ober. Nathan ricomparve in soggiorno. «Come ti senti?», domandò a Ben. «Sempre preoccupato per la storia di Rick?». «Ovvio», rispose Ben. «Però mi sono calmato. Avevo giusto bisogno di starmene un po' da solo». Andò a sedersi sul divano, accanto a Eric. «Com'è stata la cena?». «Ti sei perso qualcosa», disse Ober, senza smettere di piluccare dal barattolo. «La zia di Eric è più arrapante che mai!». «Volete smetterla?», supplicò Eric. «Senti, capiamo bene la ragione del tuo atteggiamento protettivo, ma devi guardare in faccia la realtà», disse Nathan. «Tua zia è arrapantissima».
«Non vi capisco», disse Eric. «Non mi pare così bella». «Tu non puoi capire», disse Nathan. «È la sua aura che ci ammalia». «Ha ancora sul frigorifero la foto in bikini?», domandò Ben. Ober sorrise. «No». Infilò una mano nella tasca posteriore dei pantaloni, ne tirò fuori la foto in questione e la lanciò a Ben. «Ho pensato che magari avresti gradito un po' di tirami su». «Avete rubato la fotografia che teneva sul frigorifero?», domandò Eric, sbirciando alle spalle di Ben. «L'abbiamo presa in prestito», disse Ober. «Gliela restituiremo. Volevo solo ricordare a Ben quel che si è appena perso». «Ehi, pervertiti!», sbottò Eric. «State parlando di mia zia». «Che cosa succederebbe se tu scopassi con lei?», domandò Ober. «I vostri figli sarebbero una specie di mutanti o cosa?». «Aspetta, come si chiamano i figli dei genitori consanguinei?», domandò Nathan. «Mi pare che si chiamino Ober», rispose Eric. «Ma che spiritosi!», disse Ober. «Una vera orgia di risate». Riconfortato dal buon umore degli amici, Ben si convinse: con quella lettera, Rick stava cercando di fargli perdere la testa. Passò la foto a Nathan e mise una mano sulla spalla di Eric. «Volevo dirti una cosa... Ho un pettegolezzo da leccarsi i baffi. Ma devi mantenere il riserbo finché non ti dirò che può trapelare». «Lasciala in pace», disse Eric, vedendo che Nathan continuava a scrutare avidamente la foto della zia. «Dico solo che se fossi in te, e mi dovesse venire un presentimento giornalistico, mi metterei a fare domande in giro a proposito di un vecchio giudice della Corte suprema». «Vuoi dire che Blake ha deciso finalmente di dimettersi?», domandò Eric. «Io non ti ho detto niente», fece Ben. «Dico solo che se hai voglia di fare colpo sul tuo editore con il tuo sesto senso, ti conviene seguire la pista che ti ho suggerito». «Grazie», disse Eric, sorridendogli. «È legale fornire questo genere di indiscrezioni?», domandò Ober, alzando gli occhi dal gelato ormai in via di liquefazione. «Ovvio, che è legale», disse Ben. «È solo un consiglio da amico». «Perché se fosse illegale, sarei costretto a farvi arrestare». Poiché Ben scosse la testa. Ober insistette: «Dico sul serio. Vi farei arrestare tutt'e
due». «Ober, se tu mi fai arrestare, telefono alla tua direttrice del personale e le racconto che la settimana scorsa mi hai faxato una fotocopia del tuo pene». «E allora?», fece Ober. «Le dico anche che sei stato tu quello che le ha rigato la fiancata dell'auto al ritrovo tra colleghi dello scorso luglio». «E con questo?». «Chiamo anche le banche in cui hai il conto in rosso e rivelo il tuo vero indirizzo e il numero di telefono a cui possono rintracciarti di giorno». Ober tacque per un istante. «Non mi fai paura». «Allora dirò a Eric che non fai altro che rubargli i suoi quarti di dollaro per la lavanderia». «Cosa?», intervenne Eric. «Ben, sei proprio un pezzo di m...». «Ecco dove finivano tutti i miei quarti di dollaro!». «Buonanotte!», disse Ben, alzandosi in piedi. «È ora di andare a letto». Il mattino dopo, alle sei e mezza, Ben andò in cucina per far colazione. «'Ngiorno», disse a Nathan, che era sempre il primo ad alzarsi. Ripiegando il giornale sul tavolo, Nathan mise da una parte la ciotola dei cereali. «Credo che tu debba dare un'occhiata a questo». «Cos'è?», domandò Ben, versandosi un bicchiere di succo d'arancia. «Leggimelo tu». «No, credo sia meglio che tu lo legga di persona», disse Nathan. Ben prese il giornale. Il titolo indicato da Nathan recitava: «Corte suprema: aperta inchiesta sul caso CMI». In preda a un'improvvisa agitazione, lesse l'articolo. «Secondo un'autorevole fonte operante all'interno della Corte suprema, sarebbe stata aperta un'inchiesta per dissipare le voci circolate in merito a possibili irregolarità nella recente decisione sul caso CMI. Dopo che Charles Maxwell ha rischiato diversi milioni di dollari, confidando in un esito a lui favorevole, molti osservatori, da Wall Street a Washington, hanno sollevato dubbi sulla regolarità dei suoi investimenti. Di fatto, la Corte avrebbe avviato "un'indagine rigorosa e ad alto livello". Secondo la stessa fonte, "chiunque conoscesse in anticipo la sentenza - dall'ufficio tecnico agli assistenti - sarà interrogato a fondo"». Mentre leggeva, Ben cominciò a digrignare i denti. «Questa è una puttanata colossale», disse, gettando il giornale sul tavolo. «Non c'è nessuna inchiesta in corso. Stanno solo cercando di sollevare un polverone».
«Hai visto da chi è firmato l'articolo?». Quando Ben lesse "di Eric Stromer", gli si contorsero le budella. «Non posso crederci». «Calmati», disse Nathan, posandogli una mano sulla spalla. «Che figlio di puttana!», urlò Ben, facendo a pezzi il giornale. Corse fuori dalla cucina e si fiondò su per le scale. «ERIC! ALZA IL CULO DAL LETTO!». «Cerca di calmarti», gli urlò dietro Nathan, seguendolo. Ben aprì a calci la porta della stanza di Eric. Il letto era vuoto. Nathan tirò un sospiro di sollievo. «Dove cazzo è?», domandò Ben. Notò una busta bianca, al centro del letto sfatto di Eric, su cui era scritto il suo nome. Mentre apriva la busta, Ober entrò barcollando nella stanza, in mutande. «Che diavolo sta succedendo?», domandò, stropicciandosi gli occhi. «Lascia perdere», lo avvertì Nathan. «Adesso te lo spiego io», disse Ben, inferocito, senza curarsi del biglietto che aveva in mano. «Quel pezzo di merda del nostro amico ha scritto un articolo a pagina cinque del giornale in cui si adombra l'ipotesi di irregolarità alla Corte suprema. L'infamone continua dicendo che sarebbe stata aperta un'inchiesta, e che si indaga tra il personale alla ricerca di una talpa che ha consentito la fuga di notizie a favore di Charles Maxwell prima dell'annuncio della decisione della Corte sul suo caso. In altre parole, mi ha inculato. Se ancora l'inchiesta non era stata aperta, ora la apriranno di sicuro. Se invece era già stata avviata, con il suo articolo costringerà la Corte a un ulteriore giro di vite». «Assurdo», disse Ober. «Calmati, dài», disse Nathan. «Che cosa c'è scritto su quel biglietto?». «"Caro Ben"», lesse ad alta voce il destinatario del messaggio. «"Sono certo che a quest'ora sarai imbestialito. Sperò, però, che mi concederai la possibilità di spiegare tutto. Mi dispiace di essere uscito così presto stamattina, ma avevo alcune cose da fare al lavoro. Comunque tuo, Eric"». «Ma per favore!», sbottò Ben, passando il biglietto a Nathan. «Sarà almeno un anno che non si alza prima di mezzogiorno, e casualmente proprio stamattina è dovuto uscire presto. Con me ha chiuso». «A quanto pare, esiste una spiegazione», disse Nathan, passando il biglietto a Ober. «Ah, sì? E quale scusa potrebbe addurre?», domandò Ben. «Quale giustificazione potrà mai esistere? "Scusa, dovevamo riempire la pagina e così ho deciso di ficcartelo in culo"?».
«Forse dovevano riempire il buco delle parole intrecciate», ironizzò Ober. «Ober, non ho nessuna voglia di scherzare», avvertì Ben. «La questione, per me, è molto seria. Potrei perdere il lavoro». Ben si appoggiò alla libreria di Eric e rimase in silenzio. Ober e Nathan rimasero a fissarlo, senza dir nulla. «MERDA!», sbottò infine Ben, gettando a terra una pila di fogli. «Ora dovranno per forza indagare. Non possono far finta di nulla». «Devi parlargli», consigliò Nathan. «Chiamalo». Ben guardò l'orologio e disse: «Sono in ritardo. Devo correre al lavoro». Scese i gradini a tre a tre, afferrò il cappotto e uscì di casa in tutta fretta. «Che brutta storia», disse Nathan, quando Ben se ne fu andato sbattendo la porta. «Ne sapevi qualcosa?», domandò Ober. «No, è ovvio», rispose Nathan. «Io lo sapevo», ammise Ober, sedendosi sul letto di Eric. «Lo sapevi?», domandò Nathan, incredulo. «E non hai fatto nulla per fermarlo?». «Non c'è stato niente da fare», si giustificò Ober. «Lo sai come diventa Eric quando si cala nei panni del grande giornalista. Spera di vincere il premio Pulitzer». «Ma almeno gli hai detto qualcosa?». «Certo», disse Ober. «Ma non mi ascoltava. Eppoi, ormai era troppo tardi. Me l'ha detto ieri sera». «Ti dico una cosa: la loro amicizia è finita», sentenziò Nathan, raccogliendo i fogli sparsi per terra. «E Ben non è certo una persona che ti augureresti di avere come nemico». «Lo ucciderà», disse Ober. «Esatto. Non lo perdonerà mai. E non importa quanto tempo gli ci vorrà: Ben non si darà pace finché non lo vedrà rovinato». «Forse è il caso di mettere un annuncio per cercare un nuovo compagno di stanza», disse Ober, con un vago sorriso. «Potresti scriverlo davvero, oggi, al lavoro. Dovrà recitare così: Cercasi ragazzo/a non maniaco/a dell'ordine per sostituire coinquilino morto. Dovrà convivere con un genio, uno scimmione e un assistente della Corte suprema, che ha di recente manifestato una certa tendenza omicida». Andando al lavoro, Ben si sforzò di calmarsi. Inspirando piano e a fondo, salì i gradini della Corte ed entrò nel marmoreo palazzo. Mordicchian-
dosi l'interno della guancia, mostrò il tesserino di riconoscimento e aggirò il metal detector. Fece attenzione a non lasciar trasparire la sua agitazione, procedendo a passi piccolissimi per non sembrare troppo veloce. Attraversando la reception si rese conto con sollievo che le segretarie non erano ancora arrivate. Entrò in ufficio e chiuse piano la porta. «Sai già, vero?», disse Lisa, che aveva il giornale aperto sulla scrivania. «Non ho voglia di parlarne», disse Ben, avviandosi al proprio tavolo. «È un uomo morto». «Gli hai parlato?». «È scappato prima che mi alzassi. Nessuno ha ancora detto niente?». «Per ora no. Però sono solo le sette. La giornata è appena all'inizio». «Oh, fantastico. Grazie per avermelo ricordato». «Dài, è solo il "Washington Herald". Lo sanno tutti, in città, che è un giornale balordo e di destra. Nessuno l'ha mai preso sul serio». Non ricevendo risposta, aggiunse: «Non l'hanno neanche messo in prima pagina». «Stupendo. Sono davvero emozionato». «Senti, poteva andare peggio. Perlomeno, non dice che la fonte è un assistente», considerò Lisa. «Cazzo, che meraviglia!», esclamò, con voce sempre più alterata. «Va tutto benissimo. Non devo preoccuparmi. La mia carriera va a gonfie vele!». «Senti, risparmiami quel tuo tono da stronzo, capito?», replicò Lisa, urlando da dietro la sua scrivania. «Volevo solo aiutarti». «Be', scusa se non sono dell'umore». «L'umore non c'entra niente», disse lei. «Se vuoi piangerti addosso, fa' pure. Ma non sfogarti con me». «Scusa», abbozzò Ben, appoggiandosi all'indietro sulla sedia. «Davvero. È solo che tutta questa situazione mi spaventa». «E hai ragione di essere spaventato», disse lei. «Io avrei voglia di fargli vomitare a calci tutta la merda che ha in corpo». «Non so proprio cosa fare». «Be', mi dispiace dirlo, ma credo che non ci sia molto da fare, al momento. Dobbiamo preparare la relazione sul caso Russell, e io non ho ancora visto la tua prima stesura». «Non potresti occupartene tu?». «Non ci penso nemmeno», rispose Lisa. «Sono tua amica e sono pronta a parlare con te ogni volta che vuoi, ma non credere di poterti liberare del tuo lavoro solo per restare lì con il muso tutto il giorno».
«Ti prego», disse Ben. «Io per te lo farei». «Ma ti rendi conto? Mentre tu scrivi la motivazione per il caso Russell v. Pacheco, io faccio la revisione del caso Oshinsky, e del caso Lowell Corp., e del Pacific Royal e del caso Schopf. E ancora dobbiamo cominciare a lavorare alla decisione Grinnell, prevista per la fine del mese». «Allora, qual è la tua risposta?». «Ti rispondo che non devi mollare il lavoro per correre al "Washington Herald" a beccare il tuo coinquilino, perché lo so che non hai pensato ad altro da quando hai letto quell'articolo». Ben cercò di reprimere un sorriso. «Non stavo pensando a questo». «Ah, davvero?». «Pensavo di aspettare fino all'ora di pranzo». Alle undici e mezza, squillò il telefono di Ben. «Pronto? Ufficio del giudice Hollis», disse. «Parlo con Ben Addison? Qui è il servizio di sicurezza della Corte suprema. Avremmo bisogno di parlare con lei. Siamo convinti che lei abbia divulgato informazioni riservate». «P-prego?», balbettò Ben, piombando nel panico. «Ci sei cascato!». Era Ober. «Non lo fare più!», urlò Ben. «Mi hai fatto cagare sotto». «Dài, rilassati», sdrammatizzò Ober. «Non c'è nulla di cui preoccuparsi». «Che vuoi?». «Mi ha telefonato Eric. Ha detto che gli piacerebbe vederti stasera». «A che ora?». «Alle otto, se per te va bene». «D'accordo. Per me va bene». «Chi era?», domandò Lisa, cogliendo l'esasperazione nello sguardo di Ben. «Ober». Mezz'ora dopo, il telefono di Ben squillò di nuovo. «Pronto? Ufficio del giudice Hollis», disse Ben. «Parlo con Ben Addison?», domandò una voce. «Sì», disse Ben, infastidito dal fatto di dover interrompere il proprio lavoro. «Salve, signor Addison. Mi chiamo Diana Martin e lavoro per il "Washington Post". Vorrei chiederle un commento a proposito dell'articolo u-
scito stamane sull'"Herald"». «Senta, se chiama per conto di Ober, gli dica di andare a farsi fottere». «Credo che lei mi abbia confuso con qualcun altro, signor Addison. Come dicevo, sono del "Washington Post". Sarò lieta di inviarle un fax con le mie credenziali. Anzi, se preferisce, potremmo incontrarci a pranzo per parlarne». Ricomponendosi di scatto sulla sedia, Ben rovesciò la tazza del caffè sul tavolo. «In che cosa posso esserle utile, signorina Martin?», domandò, mentre Lisa estraeva un pacco di fazzoletti di carta dal proprio cassetto sinistro. «Be', come dicevo, mi piacerebbe avere un suo commento sull'articolo comparso oggi sull'"Herald"». Ben, intanto, sollevava pile di fogli, mentre Lisa asciugava il caffè. «Mi dispiace», disse Ben. «Non ne so nulla». «Un articolo comparso oggi sul "Washington Herald" ipotizza che l'esito del caso CMI sia trapelato prima dell'annuncio ufficiale della decisione. Speravo che lei potesse dirmi qualcosa al riguardo. Le garantisco l'anonimato, se ci tiene. La citerò come fonte riservata». Aprendo il cassetto superiore della sua scrivania, Ben estrasse un piccolo mazzetto di fogli. Passandoli rapidamente in rassegna, tentando di non urtare Lisa, trovò ben presto quello che cercava. Leggendo da un documento intitolato "Risposta alla stampa", disse: «Apprezzo il suo interessamento, ma come assistente della Corte suprema degli Stati Uniti, non sono autorizzato a fornire informazioni alla stampa». «Vuole dire che è in corso un'indagine e che lei non può parlarne?». «Signorina Martin, non ho commenti da fare», disse Ben, posando il foglio. «La ringrazio». Quando Ben riagganciò, Lisa stava finendo di pulire la scrivania. «Grazie per l'aiuto», disse, asciugando il caffè rimasto sotto il temperamatite. «Non c'è di che», disse Lisa, tornando al proprio posto. «Era davvero una giornalista?». «Incredibile!», esclamò Ben. «Era il "Washington Post"». «Che cosa voleva?». «Mi ha chiesto un commento sull'articolo di Eric. Stavo per cagarmi addosso». «Dalla voce non si capiva», lo rassicurò Lisa. «Hai fatto la cosa migliore. Quella dichiarazione è fatta apposta per casi come questo». «Quando sono arrivato qui, in agosto, non avrei mai creduto di doverla
usare», disse Ben, rimettendo il foglio nel cassetto. «Credi che sospettino qualcosa?». «No», rispose lei. «Probabilmente stanno telefonando a tutti. Di certo, sanno che è dagli assistenti che possono sperare di ottenere informazioni con maggiore facilità». «Secondo me lo sanno», disse Ben. «Non possono non saperlo». «Non sanno un bel niente», disse lei. «Anzi, mi sorprende che non siano arrivate altre telefonate da parte della stampa. Mi avevano preannunciato che saremmo stati tempestati di chiamate in occasione di tutte le decisioni più importanti». «A te, però, non è arrivata nessuna telefonata», disse Ben. «Come te lo spieghi, miss Ottimis...?». All'improvviso, il telefono di Lisa si mise a squillare. Lei sorrise. «Pronto? Ufficio del giudice Hollis». Ben la sentì dire: «Sì, adesso non posso parlare. Le spiace se la richiamo più tardi? Esatto, non è proprio il momento». «Chi era?», domandò Ben, quando Lisa riagganciò. «Un vecchio compagno di università». Si avvicinò alla scrivania di Ben e aggiunse: «Ascolta, non preoccuparti. Sono sicura che stanno chiamando tutti. Chiameranno anche me». «Comunque», disse Ben, «non c'è niente di strano: sono giornalisti. È loro compito scoprire questo genere di cose; se mi rovinano la vita, fanno solo il loro mestiere». «Ben, la tua vita è ben lungi dall'essere rovinata». «Non ho bisogno di incoraggiamenti. So in che guai mi sono cacciato e vedrai che troverò il modo di uscirne». «Non c'è bisogno di trovare una via d'uscita. Tu non sei nei guai. Nessuno sa che sei stato tu. Inoltre, nella peggiore delle ipotesi, puoi sempre metterti a fare il cameriere». «Molto spiritosa», disse Ben, avviandosi alla porta. «Dove vai?», domandò Lisa. «Ho uno stupido appuntamento a pranzo con quelli dello studio legale presso cui ho lavorato due estati fa». «Un pranzo di reclutamento?». «Immagino di sì», disse Ben. «Perché ci vai?», domandò Lisa. «Se vuoi diventare magistrato, non ha senso che tu vada a lavorare in uno studio legale. Dovresti rivolgerti all'ufficio del Procuratore generale degli Stati Uniti».
«Magari», fece lui, prelevando la giacca dal ripostiglio. «Solo che il lavoro all'ufficio del Procuratore generale non mi basterebbe a pagare i debiti contratti per finanziarmi gli studi». «Non hai ancora estinto i debiti con l'università? Pensavo che i tuoi genitori fossero ricchi dirigenti». «Mia madre è una dirigente, ma la mia famiglia non ha così tanti soldi. In ogni caso, io volevo pagarmela da solo». «Davvero?». «La responsabilità è mia. La facoltà di legge l'ho frequentata io, e sono io che ne godo i benefici. Perché dovrebbero pagarmela loro?». «Quanti soldi devi, ancora?». «Alla scuola devo circa novantaduemila dollari». Lisa restò a bocca aperta. «Esclusi gli ottomila dollari che ho già versato negli ultimi due anni». «Ma perché non hai chiesto dei finanziamenti?». «L'ho fatto», disse Ben. «È così che ho ottenuto il prestito». «Non capisco perché non hai lasciato che i tuoi genitori...». «È una storia lunga», disse Ben. «Del resto, non avrebbero potuto fare più di tanto, e io ho pensato di non complicargli la vita. Tutto qui». Guardò l'orologio e disse: «Devo proprio andare. Sono in ritardo». Ben salì su un taxi davanti alla sede della Corte suprema e si fece portare da Gray's, luogo di ritrovo della mondanità politica e giudiziaria di Washington. Se la gran parte degli incontri più importanti si teneva ancora in ristoranti poco illuminati, impregnati dall'odore di fumo, alcolici e bistecche al sangue, Gray's attirava invece dirigenti e membri del Congresso che volevano essere notati a pranzo. C'erano, naturalmente, anche quattro salette private, sul retro, per i clienti in cerca di un ambiente più discreto. Con i suoi enormi tavoli di vetro, sostenuti da strutture geometriche in acciaio, e le sedie rivestite di bianco, la sala principale era organizzata secondo uno schema circolare, per facilitare l'individuazione delle celebrità. Il ristorante era arredato sulla base di un vigoroso contrasto di bianchi e neri, che contribuiva a creare un atmosfera minimalista forse troppo ipermoderna per il centro di Washington. Una volta entrato, Ben si aggiustò il nodo della cravatta e cercò Adrian Alcott. Questi si occupava di reclutare collaboratori per lo studio legale Wayne & Portnoy, uno dei più noti della città, dove Ben aveva lavorato nell'estate successiva al secondo anno di Yale. In quanto associato stagio-
nale, l'ufficio del personale lo invitava alle partite di baseball a Camden Yards, a teatro al Kennedy Centre, nonché a cena e a pranzo nei migliori ristoranti di Capitol Hill. La fine dell'estate fu festeggiata con una gita in barca cui parteciparono tutti i collaboratori dello studio: più di quattrocento persone portate in giro su due magnifici yacht. Consapevole di aver attratto i migliori, gli studenti più brillanti delle più rinomate facoltà di legge d'America, lo studio faceva di tutto pur di tenerseli stretti. Per gli associati stagionali ancora indecisi tra studi concorrenti, la serata al mare era l'estremo sforzo di persuasione. Tutti i diciotto associati stagionali dello scaglione di Ben avevano compiuto un anno di tirocinio in campo legale, dopo aver conseguito la laurea in legge. Lo studio prevedeva che i suoi associati vantassero almeno un anno di pratica, esperienza che si rivelava inestimabile quando poi questi tornavano a lavorare per lo studio. Per assicurarsi che le reclute non si dimenticassero di Wayne & Portnoy nel corso del loro anno di tirocinio, lo studio li contattava due volte alla settimana, per informarsi su come procedevano le cose. Alla fine, erano ritornati in diciassette. Ben, invece, era andato alla Corte suprema. Quando allo studio si era saputo che al loro diciottesimo associato stagionale era stato offerto un posto alla Corte suprema, le telefonate triplicarono e cominciarono a piovere inviti a pranzo. Per i più prestigiosi studi legali, gli assistenti della Corte suprema erano veri e propri fiori all'occhiello. Tra i quattrocentocinquantasette avvocati di Wayne & Portnoy, dieci erano gli ex assistenti della Corte suprema. Quel giorno, Adrian Alcott aveva intenzione di convincere l'undicesimo. «Buongiorno, signor Addison», disse Alcott, sorridendo, mentre Ben si avvicinava al tavolo situato in una delle salette sul retro del ristorante. «La prego di unirsi a noi». Era alto e magro e la sua lunga sagoma culminava in una folta chioma bionda. Con il suo sorriso, che sapeva sempre sfoderare al momento giusto, Alcott era il miglior reclutatore della ditta. Adorava lo studio Wayne & Portnoy e con i suoi modi gentili e accattivanti era riuscito a convincere più di un quarto dei collaboratori a nutrire i suoi stessi sentimenti. «Ben, ti presento Christopher Nash. Quattro anni fa è stato assistente del giudice Blake, ho pensato che potesse interessarti parlare con chi ha già fatto la scelta che noi ti proponiamo». «Piacere», disse Ben, stringendogli la mano. Nash aveva il classico aspetto degli assistenti di Blake: un bianco dalla faccia astuta, con qualche radice a Andover o Exeter. «Allora, come ti trattano alla Corte?», domandò Nash. «È rimasto tutto
come quando me ne sono andato?». «Nel modo più assoluto», disse Ben, subito infastidito dal tono forzatamente disinvolto. «Hai scelto l'anno migliore per lavorare alla Corte», disse Nash. «Questa storia della CMI avrà messo tutti in agitazione». «In effetti, c'è stato di che divertirsi», disse Ben. «Insomma, che cosa ne pensi?», domandò Alcott. «Maxwell sapeva qualcosa?». «Non ne ho idea», disse Ben, con un sorriso tirato. «Le cose più importanti agli assistenti non le dicono». «Giusto. È ovvio», fece Alcott, aprendo il menu. «Allora, cosa mangiamo? Qui fanno uno snapper delizioso». Rivolto a Ben, Nash disse: «Be', ti dirò, lavorare alla Corte è la cosa più entusiasmante del mondo, ma non c'è niente come un pranzo gratis in un ristorante di lusso. Quando si tratta di mangiare, io sono come un bambino in una pasticceria». Sforzandosi di seguire la conversazione, Ben valutò diverse possibilità per sottrarsi a quel pranzo. "Scommetto che se incendio i tendaggi, nella confusione riesco a seminarli", pensò, esaminando il menu. «Non so se lo sai, ma ci troveremo di fronte molto presto», disse Alcott, «il querelato nel caso Mirsky è un nostro cliente. L'udienza è prevista per gennaio». «Dovresti mettere una buona parola per noi», disse Nash, dando di gomito ad Alcott. "Potrei fingere di soffocarmi con l'acqua minerale", pensò Ben. "Chiuderebbero immediatamente il becco". «Allora, di che cosa si sta occupando la Corte?», domandò Alcott. «Ehi, non dirlo neanche per scherzo», intervenne Nash, mentre un cameriere posava sul tavolo uno stuzzichino di spigola affumicata. «Non può dire niente. Gli affari della Corte sono riservatissimi. Quando smetti di fare l'assistente, ti obbligano persino a distruggere tutti i vecchi documenti di cui sei ancora in possesso». «Davvero?», domandò Alcott. «Nel modo più assoluto. La Corte è a tenuta stagna». Rivolto a Ben, Nash domandò: «Come sta il giudice Blake, è sempre così malridotto?». «È sempre lo stesso», disse Ben. «L'uomo più triste della Corte suprema». «Gli ho parlato di recente. Ho chiamato più di una volta per dare consi-
gli ai suoi attuali assistenti, Arthur e Steve. Mi sembrano bravi». «Lo sono davvero», disse Ben. «Cerco solo di dar loro una mano», disse Nash, mentre il cameriere gli riempiva il bicchiere dell'acqua. «So bene in quali situazioni assurde può capitare di trovarsi». «Succede spesso che gli ex assistenti chiamino i loro successori?», domandò Ben, prendendo un panino. «Qualcuno lo fa», disse Nash. «Dipende. Credo che gli assistenti di Blake lo facciano tutti, perché un anno con lui è un'esperienza che ti segna indelebilmente». «Li fa lavorare come bestie». «È fatto così. Credo che tutti i suoi assistenti siano accomunati dalla consapevolezza di essere dei sopravvissuti, dopo l'anno passato con lui. E a te ha mai telefonato nessuno degli ex assistenti di Hollis?». «No», disse Ben, reciso. «Per questo te l'ho domandato». «Aspetta, fammi pensare. Chi erano gli assistenti di Hollis quando ero alla Corte suprema? Ah, sì, ora ricordo: uno di loro era Stu Bailey. Un tipo fantastico. Adesso lavora per Winick & Trudeau». Alcott parve infastidito al solo menzionare i principali concorrenti di Wayne & Portnoy. «In effetti, non mi sorprende che nessuno abbia chiamato», aggiunse Nash. «Hollis li fa lavorare, ma in fondo è un bonaccione». «È vero?», domandò Alcott. «Non è male come descrizione», concordò Ben. «Hai mai avuto a che fare con gli assistenti di Osterman». «Non tanto», disse Ben. «Sono gli unici che se ne stanno tra di loro». «Incredibile!», esclamò Nash, battendo una manata sul tavolo. «Non è cambiato nulla». Sporgendosi in avanti e abbassando la voce, aggiunse: «Quando ci lavoravo io, gli assistenti di Osterman erano i peggiori, i più odiosi stronzi conservatori di tutta la Corte suprema. Correva voce che gli assistenti di Osterman fossero tutti parte di una rete clandestina. Si tenevano in contatto e una volta all'anno tenevano un incontro segreto». «Questa non la sapevo», sorrise Ben. «Non sto scherzando», disse Nash. «Ho sentito dire che questa specie di setta si chiama "La Cabala", e gli ex assistenti insegnano ai nuovi arrivati come far pendere le decisioni nel senso da loro desiderato. Dico sul serio», aggiunse, notando l'espressione scettica di Ben. «Sai benissimo quanta influenza potresti esercitare, se solo volessi. Quando scrivi una motivazione,
puoi decidere tu, in gran parte, come impostarla. Puoi dare rilievo a particolari elementi o renderne altri estremamente sfumati. E una forma di esercizio del potere, per quanto sottile». «Già, senonché non puoi fare nulla che il giudice non approvi». «È questa la cosa spaventosa. Si diceva che Osterman sapesse tutto e che semplicemente fingesse di non vedere, lasciando che i propri assistenti facessero il bello e il cattivo tempo». «Credo sia lo stesso metodo seguito da Hitler nell'addestramento della propria polizia segreta», osservò Ben, mentre un cameriere riempiva nuovamente il cestino del pane. «Te l'avevo detto che sapeva il fatto suo», disse Alcott a Ben, indicando Nash. «Be'», disse Ben, «raccontatemi come vanno le cose da voi». «A meraviglia», disse Alcott, appoggiando i gomiti sul tavolo. «La National Football League Properties è appena diventata nostra cliente, per cui se ti servono biglietti per le partite dei Redskins fammelo sapere. Anzi, per le partite di qualsiasi squadra, in qualsiasi stadio degli Stati Uniti, tutte le volte che vuoi. Lavoriamo anche per la Evian, e quindi tutti i frigoriferi dello studio traboccano di acqua fresca, liscia e gassata». «Fantastico», commentò Ben, rendendosi conto che Alcott si era bloccato in attesa di una sua reazione. «Inoltre, l'ufficio che si occupa delle cause pro bono ha cominciato a lavorare con il Fondo per la difesa dei bambini». «Da loro, niente benefici gratuiti», disse Nash, ridendo. Fulminandolo con lo sguardo, Alcott disse: «Però veniamo invitati al loro congresso annuale, dove in genere prende la parola il presidente degli Stati Uniti». «Fantastico», disse Ben. «Mi spediscono materiale informativo perché ho fatto alcune cose per loro, quando ero a Yale». «Ah, davvero?», domandò Alcott. «Allora dobbiamo assolutamente farteli conoscere. Appena hai un momento libero, fammelo sapere, che organizzo un incontro con la presidentessa. È una donna meravigliosa, dotata di un grande carisma». «Gli hai detto del bonus per chi ha lavorato alla Corte suprema?», lo imbeccò Nash. Alcott sorrise. «Questa è bella. La commissione selezionatrice si è riunita, di recente, per riconsiderare le tabelle dei compensi spettanti ai nuovi associati. Poiché già erano previsti dei bonus per i nuovi associati dotati di
esperienza, abbiamo pensato di concedere un ulteriore bonus se il candidato può vantare un'esperienza di lavoro come assistente alla Corte suprema. Dunque, alla cifra di cui ti ho parlato la settimana scorsa, puoi aggiungere altri diecimila dollari. Vale solo per il primo anno, ma crediamo che sia comunque un segnale positivo». Con gli occhi fissi sul piatto, Ben si domandò in che modo fosse possibile accettare un lavoro da trentottomila dollari all'anno in procura, quando aveva un posto da centomila dollari che lo corteggiava spudoratamente e gli offriva persino un pranzo di lusso. «Ascolta, non devi decidere subito», disse Alcott. «Sappiamo che la scelta non è delle più facili. Anzi, sarò sincero: sappiamo che puoi andare a lavorare dove più ti aggraderà, ma noi ti invitiamo a venire da Wayne & Portnoy. Hai lavorato con noi per un'estate, conosci l'ambiente. L'atmosfera è rilassata. Si lavora duro quando è necessario, ma cerchiamo di godere di tutti i vantaggi connessi alla nostra professione. Se verrai da noi, ti assicuro che almeno il venti per cento del tuo lavoro riguarderà cause pro bono, in modo che tu possa comunque operare per il bene della collettività. Questa non sarà certo l'ultima volta che ne parliamo, ma desidero che tu sia informato sulla scelta che dovrai compiere». «Lo apprezzo molto», disse Ben. «Sarà molto difficile rifiutare «Bene», concluse Alcott, richiudendo il menù. «Detto questo, ordiniamo un po' di cibarie di lusso». Quando rientrò in ufficio, Ben trovò Lisa ancora seduta davanti al computer. «Com'è andato il pranzo?». «A meraviglia», disse Ben, sdraiandosi sul divano e dandosi dei leggeri colpetti sullo stomaco. «Ho mangiato lo snapper più buono della mia vita. Era ricoperto di nocciole tritate e affogato nel più strabiliante sughetto di limone e burro che abbia mai assaggiato. Inverosimile». «Allora, che effetto fa vendersi l'anima per una porzione di pesce e un po' di sughetto da stilisti?». «Senti, lasciami in pace», disse Ben. «Fino a prova contraria sono io che sto ancora decidendo se andare a lavorare in uno studio legale. Tu, invece, hai già deciso di venderti, cara signora Faust». «Ci puoi giurare che mi vendo», disse Lisa. «Ho una Saab da mantenere». «La tua anima per un'automobile. Che corrotta!». «Fidati, tu mi seguirai a ruota. Ga-ran-ti-to!». «Intanto, non ti seguirò affatto, perché non andrei a vivere a Los Ange-
les neanche per tutto l'oro del mondo. Mi hanno detto che quando entri in città, al casello dell'autostrada accettano monetine di ogni taglio e anche la tua integrità morale. Eppoi, anche ammesso che io finisca a lavorare in uno studio, prenderei sempre diecimila dollari più di te». «Non è vero», disse Lisa. «Invece, sì». «No». «Okay», disse Ben, mettendo una mano dietro la testa. «Allora, vuol dire che non mi hanno offerto altri diecimila bigliettoni di bonus per aver lavorato alla Corte suprema». «Mi prendi in giro? Ti hanno promesso altri diecimila dollari per l'anno di lavoro che stai facendo qui? Oh, cazzo, adesso chiamo il mio studio. Voglio più soldi. Farò qualsiasi cosa. Li convincerò che sono un'idealista che vuol salvare il mondo». Ben scoppiò a ridere e disse: «Si può essere più schifosi di così? Aspetta, non abbiamo un caso di condanna a morte, questa settimana? Potremmo mandare qualcuno al patibolo solo perché è un poveraccio». «Hai davvero i più orribili sensi di colpa da liberal che abbia mai visto», disse Lisa. «Saremo ricchi. È stupendo. Abbiamo lavorato duro per arrivare a questo punto». «Lo so», disse Ben, «ma abbiamo avuto privilegi...». «...di cui altri non hanno goduto. Già, già, già.», disse Lisa, suonando un violino immaginario. «Senti, non so in quale quartiere residenziale sia cresciuto tu; io vengo da una normale famiglia della classe media, e negli anni di magra abbiamo dovuto fare economia. Ho frequentato la scuola pubblica e non ho mai avuto la pappa pronta. Eppoi, quanta classe possono avere, i miei genitori! Si sono incontrati a Graceland e ancora vanno in giro a raccontarlo». «Ci sono due tipi di persone al mondo», disse Ben, rimettendosi a sedere. «Quelle che trovano la pappa pronta e quelli che...». Ben fu interrotto dallo squillo del telefono di Lisa. «Scusami un attimo. Credo che sia il mio intermediario. Sta cercando di vendere tutte le mie capacità intellettuali al miglior offerente». Prese la cornetta e disse: «Pronto? Ufficio del giudice Hollis». Subito dopo sorrise, e sulle sue labbra Ben lesse: «"Washington Post"». Lisa prese il foglio con la formula da utilizzare con i giornalisti. «Apprezzo il suo interessamento, ma come assistente della Corte suprema degli Stati Uniti, non sono autorizzata a fornire informazioni alla stampa». Lisa riagganciò e si appoggiò allo schienale della
sedia. «Sei contento, ora? Sono sospettata come te». «Sì, ma di te hanno sempre sospettato. Vieni da una famiglia di ladroni». «Se dici "ladroni" mi offendo», disse Lisa. «Noi preferiamo definirci "mariuoli"». Poi, avviandosi alla porta, aggiunse: «Vado da Hollis a portargli la motivazione del caso Oshinsky. Speriamo che entro oggi dia la sua approvazione». «Buona fortuna», le augurò Ben, mentre Lisa usciva. Poi prese il telefono e compose il numero di Nathan. «Ufficio Amministrazione», disse Nathan. «Ah, è così che rispondi al telefono? Allora, non c'è da meravigliarsi che il nostro governo sia un tale caos burocratico». «Sei appena tornato dal pranzo con gli avvocati stracciacoglioni?», domandò Nathan. «Indovinato». «Doveva pur esserci una ragione per tutta questa euforia. Con che cosa hanno cercato di comprarti, questa volta?». «Con un extra di diecimila dollari». «Dici davvero?», sobbalzò Nathan. «Ho sbagliato tutto, amico. Ho fatto male a scegliere questo mestiere». «Non è affatto vero. Tu sei messo molto meglio di me. Stare lì seduti a pensare ai problemi sociali è sicuramente il modo migliore per risolverli. Inoltre, non dimenticare che al test attitudinale, a scuola, mi hai battuto di cento punti, che a pensarci bene è esattamente la radice quadrata di diecimila». «Che tu possa marcire all'inferno, lurido capitalista!». «Ascolta, volevo chiederti se ti sei procurato tutta la roba che ci serve per sabato». «Lo sto facendo», rispose Nathan. «Rick non saprà più cosa fare, quando l'avremo identificato e registrato». «Il piano è pronto?», domandò Ben. «È rimasto praticamente identico a come l'avevamo formulato in origine». «Allora, ci siamo», disse Ben. «Forse dovremmo incontrarci domani sera per dare una ripassata al tutto». «D'accordo», disse Nathan. «Non hai ancora parlato con Eric, vero?». «No. Ci incontreremo stasera alle otto». «Ben, fammi un favore. Non essere troppo duro con lui». «Sono calmissimo», disse Ben. «Sono assolutamente tranquillo».
«Sì, ma mi raccomando», disse Nathan. «Non essere troppo duro con lui. È pur sempre tuo amico». «Senti, scusa, devo andare», disse Ben, stiracchiandosi. «Ho del lavoro da sbrigare». Per riagganciare, Ben si avvicinò con la sedia alla scrivania. Aprì la cartelletta marrone su cui era scritto «Caso Russell» e ne tolse la prima bozza della motivazione da lui redatta. Fissando quei fogli si domandò se davvero gli assistenti di Osterman pilotassero le decisioni secondo i propri desideri. "Impossibile", pensò. "Questa storia puzza di leggenda metropolitana lontano un miglio". Le sue riflessioni furono interrotte dallo squillo del telefono di Lisa. Si sporse al di sopra della scrivania e rispose. «Pronto? Ufficio del giudice Hollis». «Salve, vorrei parlare con Lisa Schulman. Mi hanno passato l'interno giusto?». «Sì», disse Ben, raddrizzandosi e tendendo, in tal modo, il cavo del telefono. «È appena uscita. Tornerà subito. Vuole lasciarle un messaggio?». «Sì, grazie. Sono Diana Martin del "Washington Post". Può dirle di richiamarmi?». Sorpreso, Ben disse: «Immagino che la dottoressa Schulman abbia già il suo numero». «No, no. Non mi conosce neppure. Glielo do subito». Dopo aver preso nota del numero, Ben riagganciò e si abbandonò contro lo schienale della sedia. Per la successiva mezz'ora restò a fissare le pagine della motivazione del caso Russell. Alle tre Lisa tornò in ufficio. «È fatta», esultò lanciando la cartelletta sulla propria scrivania. «Gli è piaciuta moltissimo! Il caso Oshinsky è ormai storia!». Vedendo la faccia di Ben, domandò: «Cosa c'è?». «Ho un messaggio per te. Ha chiamato Diana Martin del "Washington Post". Vuole che tu la richiami». «Ben, posso spie...». «Lascia stare», disse, gettandole sulla scrivania il numero di telefono. «Non essere sempre così intrattabile». «E perché mai? A quanto pare, tutti i miei amici hanno scelto la giornata di oggi per fregarmi, e io non posso essere neanche un po' intrattabile? A dirla tutta, avrei il diritto di essere perfettamente stronzo». «Be', ci stai riuscendo alla grande, se è per questo. Ma tu perché hai risposto al mio telefono?». «Senti, non cercare di rivoltare la frittata», urlò Ben, scattando all'impie-
di. «Il telefono suonava e io ho risposto. Scusami. Le tue scuse, invece, non le ho sentite». Con gli occhi fissi a terra, Lisa disse: «Temevo che ti saresti preoccupato se io non avessi ricevuto la telefonata dal "Post"; così, ho chiesto a un amico di telefonarmi, e poi ho finto che fosse il giornalista. Volevo solo aiutarti». Pronto a infuriarsi, Ben si sgonfiò. «Davvero hai fatto questo per me?». «Mi facevi così pena», disse lei, sorridendo. «Non è una cattiva scusa». «Dài, non fare lo scemo». «Per questa volta sei fortunata», disse, puntandole contro l'indice. «Ma la prossima volta che cerchi di essere carina con me, mi incazzo veramente». Alle sette e mezza Ben prese la borsa e uscì dall'ufficio. Scendendo le scale, rifletté sull'imminente incontro con Eric. "Se non ha una spiegazione più che plausibile, è un uomo morto", pensò, inserendo il tesserino nella fessura aperta accanto alla porta di sicurezza del primo piano. "Anzi, lo ammazzo anche se ha una spiegazione". Mentre passava davanti ai busti di marmo allineati nella Great Hall, Ben udì l'agente seduto all'ingresso che mormorava qualcosa nel suo walkie-talkie. Quando poi l'agente si alzò dalla sedia, Ben ebbe il dubbio che qualcosa non stesse andando per il verso giusto. A passi lenti proseguì verso l'uscita. L'agente si passò una mano sulla fronte. All'ultimo momento, Ben decise di tornare indietro. Infilò il tesserino nella fessura e riattraversò in senso opposto la porta di sicurezza, rientrando nell'ala nord del palazzo della Corte. Aumentò l'andatura, diretto alla porta non sorvegliata dagli agenti che si apriva sul lato nord dell'edificio. Udì dei passi alle proprie spalle. "Solo i colpevoli corrono", pensò, ricordando il consiglio del suo professore di criminologia. Sempre più prossimo alla porta, si preparò a far scivolare il tesserino nella macchinetta. Infilandola nel binario apposito si stupì di non udire l'abituale clic che dava il via libera. Riprovò. Niente. «Ben, ti dispiacerebbe scambiare due chiacchiere con noi?». Ben trasalì. Si voltò e vide un uomo in completo di lana grigio che muoveva verso di lui. «Hai un minuto?», domandò l'uomo. «C'è qualche problema?», disse Ben. «Se vuoi seguirmi...». Tornarono all'ingresso principale. Mentre attra-
versavano la Great Hall, Ben allentò leggermente il nodo della cravatta. Presero l'ascensore e scesero nel seminterrato. Soprannominato "Disneyland" dal personale, il seminterrato della Corte suprema ospitava una tavola calda, un bar, un cinema, un negozio di articoli da regalo e mostre sulla storia della Corte. Passando davanti al busto di John Marshall, presidente della Corte suprema i dal 1801 al 1835, fece del suo meglio per mantenersi calmo. I soli uffici situati nel seminterrato si trovavano sul lato ovest dell'edificio: gli uffici dei marshall responsabili di tutti i servizi di sicurezza della Corte. Oltrepassata la porta principale, Ben si inoltrò nel labirinto di cubicoli e fu accompagnato nell'angolo sinistro più lontano. Ben si fermò sulla soglia di un grande ufficio e attese alle spalle del suo accompagnatore. Un omone in gessato blu era seduto a una scrivania in stile finto antico. «Entrate», disse. La rotondità del suo viso era accentuata da un naso grasso e butterato e da una barba sale e pepe. L'odore che pervadeva l'ufficio testimoniava della sua passione per i sigari. In fila sulla scrivania, a mo' di soprammobile, c'era un'ampia collezione di batterie elettriche. «Fammi un favore, chiudi la porta», disse l'uomo, facendo un cenno all'accompagnatore di Ben. Mentre la porta veniva chiusa, l'omone si appoggiò all'indietro sulla sua poltroncina di pelle. «Dunque, tu saresti Ben Addison», disse. «Prego, siediti». «Ci sono dei problemi?», domandò Ben nervosamente, prendendo posto su una delle due sedie sistemate davanti alla scrivania. «È quello che stiamo cercando di capire», disse l'omone, mentre il l'uomo con il completo grigio si accomodava sulla sedia rimasta. «Nel caso tu non lo sappia, io sono Carl Lungen e comando i marshall qui alla Corte. Sovrintendo a tutte le questioni relative alla sicurezza. Lui si chiama Dennis Fisk ed è vice-marshall», proseguì Lungen, indicando l'uomo seduto accanto a Ben. «Ti abbiamo condotto qui perché speriamo che tu possa rispondere ad alcune domande in merito a un articolo comparso sul "Washington Herald" di oggi. Se non ne sai nulla, ti dirò io di cosa parla: ipotizza che Charles Maxwell fosse informato dell'esito del caso CMI prima dell'annuncio ufficiale. Mi segui?». «Ho visto l'articolo», disse Ben, infastidito dal tono compiacente di Lungen. «Bene», disse Lungen, afferrando una pila Energizer del 1980. «L'articolo adombra il sospetto che ci sia stata una fuga di notizie, e come puoi ben immaginare, questa vicenda preoccupa non poco il nostro ufficio. Per for-
tuna, grazie a un amico che lavora all'"Herald", abbiamo saputo che l'autore dell'articolo è un giornalista giovane che - stranamente - abita con l'assistente di un giudice della Corte. Per giunta, risulta che quell'assistente saresti tu. Ecco spiegata la mia ansia di incontrarti». «So dove vuole arrivare», disse Ben, «ma io con quell'articolo non c'entro». «Vuoi dire che non sai nulla di questa presunta fuga di notizie?». «Nel modo più assoluto». «Allora, perché il tuo amico ha scritto quell'articolo?». «Non lo so. A essere sinceri, stavo giusto andando a chiederglielo, quando voi mi avete portato quaggiù. Ho saputo dell'articolo stamattina alle sette, ma il mio coinqulino era già uscito». «Ben, ti ripeto la domanda. Non sai nulla di questa fuga di notizie?». «No», disse Ben. «Lo giuro». Lungen risistemò la batteria in fila con le altre. Guardò Ben negli occhi. Dopo un attimo di silenzio Ben disse: «L'unica spiegazione che riesco a immaginare è che Eric abbia voluto fare colpo sui suoi capi. Insomma, lui sa che noi conosciamo in anticipo le decisioni della Corte. Partendo da questo presupposto, si può scrivere qualsiasi cosa. Lo sa come sono all'"Herald", pubblicano di tutto». Con voce sempre più sicura, proseguì: «Inoltre, crede che se Eric avesse avuto anche solo uno straccio di prova sarebbe uscito a pagina cinque? Quell'articolo è basato su una semplice congettura. Lei l'ha letto: si limita a ipotizzare l'esistenza di una talpa all'interno della Corte per spiegare la scommessa fortunata di Maxwell. Avrebbe potuto benissimo essere pubblicato nella pagina dei commenti». «Ben, sai che cosa succederebbe se scoprissimo che stai mentendo?», gli domandò Lungen, posando le mani aperte sul piano della scrivania. «In primo luogo, ovviamente, saresti rimosso dal tuo incarico. Se ciò si verificasse, sono certo che la stampa ci si butterebbe a pesce. E scommetto che, colpevole o meno, saresti immediatamente accusato di essere la talpa che ha passato a Maxwell l'informazione riservata. Dopodiché - temo - la tua carriera sarebbe finita, e potresti al massimo trovare lavoro come consulente per la serie televisiva che racconta la tua storia». «Perché non ti decidi a collaborare?», domandò Fisk, con voce calma e suadente. Fisk aveva un aspetto rude e tratti marcati, una carnagione orribile e un vestito che non gli si attagliava. Nel suo forte accento chicagoano le A risultavano apertissime e le O arrotondate. «Lo sai che possiamo aiutarti, se ce ne dai l'opportunità».
«Sentite, risparmiatemi il solito giochetto del poliziotto buono e di quello cattivo», disse Ben, mentre la sovrapproduzione di adrenalina impediva che la sua voce si incrinasse. «Se avessi rivelato io la notizia a Eric sarei un perfetto coglione. Cioè - senza offesa - non bisogna essere dei geni per scoprire che abitiamo nella stessa casa. Perché mai avrei dovuto chiedere al mio coinquilino di scrivere un articolo che non solo potrebbe mettere a repentaglio la mia carriera, bensì anche attirare su di me un'attenzione indesiderata?». Si interruppe brevemente, per lasciar che l'argomento logico sortisse il suo effetto; poi, aggiunse: «Quell'articolo è una bufala. Eric probabilmente voleva farsi notare e...». «Noi non abbiamo detto che sei stato tu a chiedergli di scrivere l'articolo», lo interruppe Fisk. «Noi crediamo che tu ti sia limitato a passargli l'informazione». «Non gli ho detto una sola parola. Credetemi, sto sempre molto attento a come parlo, con Eric soprattutto». «Però gli hai rivelato che Blake si dimette, vero?». Ben si morse l'interno della guancia. Lungen proseguì: «Non raccontarci frottole, Ben. Il mio amico dell'"Herald" ci ha detto che domani uscirà un articolo che ventila le dimissioni di Blake. L'"Herald" non lo pubblicherebbe se non avesse una fonte più che attendibile, e Eric ha fatto il tuo nome». Incrociando le braccia, nel disperato tentativo di mostrarsi sicuro, Ben era sul punto di crollare. «Lo ammetto, di Blake gli ho parlato io. Gli ho detto che avremmo dato l'annuncio ufficiale nel corso di questa settimana. Ma non gli ho detto di...». «Insomma, prima ammetti di aver spifferato la storia delle dimissioni di Blake e poi pretendi che ti crediamo a proposito di Maxwell?», domandò Lungen. «Sapete bene che c'è una bella differenza», disse Ben. «Le dimissioni di Blake erano già di dominio pubblico. Non può essere considerata un'informazione riservata. La vicenda di Maxwell è un caso completamente diverso». «Ne siamo convinti», disse Lungen. «Allora, ti decidi a collaborare?». Deciso a nascondere la propria esasperazione, Ben disse: «Sentite, ve lo giuro. Non so niente di Maxwell. Se sapessi qualcosa, credete che sarei qui a parlare con voi? Se avessi passato informazioni a Maxwell, in questo momento sarei su una spiaggia in Grecia, a contare i miei dieci milioni di dollari».
«Ben, ti dirò come la pensiamo noi. Non fatichiamo a credere che tu non abbia detto nulla a Eric. Sarebbe troppo stupido, e francamente da te ci aspettiamo qualcosa di più. Con tutta probabilità non hai parlato direttamente neppure con Maxwell. Altrimenti, come hai detto tu, non avresti più bisogno di venire qui a lavorare. Il nostro timore, però, è che tu possa aver saputo, dalla tua collega o da altri assistenti, di qualcuno che ha favorito la fuga di notizie. Casualmente, ne hai fatto cenno a Eric, o forse lui è venuto a saperlo per altri canali, ed ecco che all'improvviso ci troviamo nel bel mezzo di uno scandalo clamoroso. A questo punto, però, l'unico appiglio che abbiamo sei tu». «Ve l'ho detto: non so di nessuno, me compreso, che abbia rivelato informazioni riservate». «E la storia delle dimissioni di Blake?». «Mi riferisco a importanti informazioni relative a decisioni della Corte. Quando ho cominciato a lavorare qui, ho detto agli amici con cui abito che sarei stato al corrente in anticipo di tutte le decisioni della Corte. Loro, però, non se ne sono mai curati... Neppure Eric. Posso solo supporre che Eric si sia inventato tutta questa storia per pubblicare l'articolo. Chiedete al vostro amico dell'"Herald". Avete detto che non avrebbero pubblicato la storia delle dimissioni di Blake in assenza di una fonte attendibile: allora, chi è la fonte dell'articolo di oggi?». Lungen restò in silenzio. «Eric si è rifiutato di rivelarlo, vero?», domandò Ben. «Di certo, al vostro amico l'avete chiesto». «No», disse Lungen. «Dunque, non avevate indizi su di me e mi avete torchiato comunque, tanto per essere sicuri?», domandò Ben, scuotendo la testa. «Ben, all'"Herald" magari non sanno chi è la fonte, ma sono assolutamente certi che Eric ne abbia una. Se quell'articolo è uscito, dev'esserci sotto qualcosa di vero». «Non vi hanno mai consigliato di non credere a tutto quello che leggete?», disse Ben. «Non fare lo spiritoso», disse Lungen. «Finché non avrò scoperto come sono andate le cose, la questione resta aperta». «Be', finché non l'avrete scoperto, io resto a piede libero, vero?». Ben si alzò per andarsene. «Non sto scherzando», lo avvertì Lungen, alzandosi a sua volta. «Se credi davvero di essere innocente...».
«Io sono innocente», lo corresse Ben. «Saresti disposto, per dimostrarlo, a sottoporti a un test con la macchina della verità?». Pensandoci un attimo, Ben si rese conto di poter rispondere in un solo modo, per soddisfare Lungen. Col tono più sicuro di cui fu capace, rispose: «Se proprio è necessario...». «Devi tener presente una cosa», intervenne Fisk. «Se anche noi ti credessimo, non c'è ragione di ritenere che lo facciano anche altri. L'amico di Carl all'"Herald" ha detto di aver ricevuto telefonate dai più importanti giornali degli Stati Uniti a proposito dell'articolo di Eric. Non si erano resi conto del casino in cui si sarebbero cacciati pubblicando l'articolo di quel babbeo». «Perché non chiedete una rettifica?», domandò Ben. «È la prima cosa che abbiamo fatto stamattina», spiegò Lungen. «A quanto pare, però, poiché l'articolo si limita a vagheggiare la possibilità che ci sia stata un'irregolarità, al giornale non importa che sia privo di fondamento». «Credete che ne parleranno anche altri giornali?», domandò Ben. «È questa la nostra preoccupazione», disse Lungen. «Per quel che ci risulta, i giornali non toccheranno l'argomento finché non verrà resa nota la fonte. Non è necessario che sia attendibile. Può trattarsi di un bidello, di un segretario, di un assistente o di chiunque altro. Non appena avranno una fonte, se qualcuno ha sbagliato lo faranno a pezzi. A essere sinceri, può darsi che la fonte non salti fuori affatto. Ma come si fa a sapere? Magari alla cameriera di un bar vengono i cinque minuti per i fatti suoi e all'improvviso ce la ritroviamo al telegiornale che racconta di come ha sentito un tale che parlava con un altro tale... eccetera eccetera. Nelle prossime settimane, sia pure nel relativo silenzio della stampa, sono sicuro che anche l'ultimo dei diplomati della scuola di giornalismo verrà a gironzolare da queste parti nella speranza di scoperchiare la pentola. E se fossi in te sarei preoccupato, perché grazie al tuo amico, la persona più esposta, in tutto questo disastro, sei tu». «Grazie», disse Ben, con una smorfia, contenendo l'ansia a fatica. «Dico sul serio», aggiunse Lungen. «Me ne rendo conto», disse Ben, avviandosi alla porta. «Un'ultima cosa, prima che te ne vada», disse Fisk. «Se hai intenzione di chiedere spiegazioni al tuo amico, a proposito del suo articolo, gradiremmo che tu venissi domattina a riferirci eventuali novità».
«Vedremo», disse Ben aggirandolo e svicolando fuori dalla porta. Dopo che Ben ebbe lasciato la stanza, Lungen, rivolto a Fisk, disse: «Cosa ne pensi?». «Lo sai», rispose Fisk. «Io gli assistenti li odio. Siccome sono stati assunti alla Corte suprema, credono che la loro merda non puzzi». «Oh, davvero utile come consiglio», disse Lungen. «Insomma, cosa pensi di Ben?». «Si è comportato come mi aspettavo. È un ragazzo brillante, e credo che abbia detto delle cose giuste. Non è così scemo da rivelare informazioni riservate a Eric, anche se questo non significa che Eric si sia inventato tutto. Perché? Tu cosa pensavi?». «Non so. Avrei preferito che fosse un po' più nervoso». «Era calmissimo», concordò Fisk. «Quindi, o diceva la verità, o è il più grande bugiardo che abbia mai incontrato». «Mi è parso sorpreso quanto noi per quell'articolo. Inoltre, il mio amico dell'"Herald" ha detto che Eric è stato torchiato perché sputasse il nome della fonte, ma lui si è guardato bene dal farlo». Dopo un breve silenzio, Fisk disse: «Li detesto, questi ragazzi». «Fisk, tu detesti chiunque sia più intelligente di te». «Sono terribilmente serio. Io dico che, qualunque cosa succeda, questo tipo dobbiamo tenerlo d'occhio». 7 Quando Ober rientrò a casa, fu sorpreso di vedere Nathan e Eric seduti in silenzio sul grande divano blu. «Dov'è Ben?», domandò, guardando il suo orologio. «Credevo che avreste incrociato i guantoni alle otto». «Dev'essere stato trattenuto in ufficio», congetturò Nathan. Poi, rivolto a Ober, aggiunse: «Sei andato dal parrucchiere?». «Precisamente», disse Ober, passandosi le mani tra i capelli biondi. «Dovreste andare anche voi da questo barbiere. Me l'ha consigliato un tale, al lavoro... È frequentato da diversi senatori. Una volta ha addirittura tagliato i capelli a Jimmy Carter. Si chiama Murray Simone, il Re della sforbiciata». Passandosi una mano dietro il collo per spazzolare via alcuni rimasugli dell'operazione, proseguì: «A dire il vero, il titolo di Re della sforbiciata l'ho aggiunto io... Si chiama soltanto Murray Simone». «Okay, abbiamo capito», tagliò corto Nathan, già annoiato da quella
conversazione sui parrucchieri. «Finisci di raccontare la storia». «Allora, entro nell'atelier di Murray Simone, il Re della sforbiciata, e gli spiego quanto mi piacciono i capelli lunghi sopra e corti ai lati, e di come io detesti i capelli corti sopra. Lui valuta la situazione, mi guarda nello specchio e mi fa: "Le farò un taglio corto CON PERSONALITÀ!». Scoppiando a ridere per le parole di Murray Simone, Ober quasi cadde a terra. «Non è stupendo? "Un taglio corto CON PERSONALITÀ!"». Toccandosi i capelli, continuò: «Allora, cosa ne pensate? E riuscito Murray Simone nel suo intento di conferirmi personalità? Io dico di sì». Rimirandosi nel vetro di un quadro appeso al muro, Ober disse: «CHE PERSONALITÀ!». «Ober, forse non è il momento», disse Nathan, guardando Eric. «Su con la vita!», disse Ober a Eric. «Ti restano poche ore di vita; faresti meglio a godertele». «Vuoi tacere?», gridò Eric. «Ehi, non prendertela con me», ribatté Ober, in piedi al centro del soggiorno. «Non sono io che ho fregato un amico». «Senti, pezzo di merda», strillò Eric, «perché non...». «Ober, taci», intervenne Nathan. «Calmatevi». «Non dimenticatevi di quello che vi ho detto», disse Ober. «Murray Simone, il Re della sforbiciata. Dite che vi mando io». Quando sentì una chiave infilarsi nella serratura della porta d'ingresso, Ober si lanciò sul divanetto e guardò Eric. «Primo round. Ding ding». Ben irruppe in casa e trovò i tre amici seduti sul divano. «Allora? Sentiamo la spiegazione», esordì Ben, incrociando le braccia. «Ben, lo so che sei fuori di te», disse Eric. «Lascia che ti spieghi». «Prego», lo invitò Ben. «Non aspetto altro». «Non posso parlare se tu sei così incazzato. Ti infurieresti comunque, qualsiasi cosa io dica». «Eric, mi infurierei anche se fossi di buon umore». «Te l'avevo detto che sarebbe stato prevenuto nei miei confronti», disse Eric voltandosi verso Nathan. «Ben, concedigli almeno una possibilità», lo pregò Nathan. «D'accordo, possibilità accordata», disse Ben, fissando Eric con occhi torvi. «Sono tutt'orecchi. È da stamattina che aspetto questo momento». Poiché Eric rimase in silenzio, Ben insistette: «Dài, parla. Mi sforzerò di assumere un atteggiamento obiettivo». «Bene», disse Eric. «Innanzi tutto, giuro che quando mi hai parlato della storia di Rick e di Maxwell, l'idea di scriverne sul giornale non mi ha nep-
pure sfiorato. Cioè, siamo amici dai tempi della terza elementare. Non potrei mai fregarti o lasciare che qualcosa rovini la nostra amicizia. E di certo non scriverei mai niente che potesse metterti nei guai. Ma tu devi capire anche la mia situazione. Dopo cinque mesi di lavoro all"'Herald" non avevo ancora fatto altro che redigere riassunti degli Atti del Congresso. I miei capi volevano trasferirmi alla pagina della moda, e quando è successa la storia della CMI, non me la sono sentita di perdere quell'occasione. Ero come l'uomo tremante ai piedi del totem. Dovevo dargli in pasto qualcosa e gliel'ho dato». «Tutto qui?», domandò Ben, quando Eric si interruppe. «E questa sarebbe la tua ragione? Il rischio era che ti trasferissero alla pagina della moda?». La voce di Ben cominciò a tuonare. «Mi vieni a dire che hai una spiegazione e poi te ne esci con una cagata del genere? Eric, sei un grandissimo pezzo di merda!». «Era in gioco il mio lavoro». «Allora, hai pensato bene di mettere a repentaglio il mio per salvare il tuo», dedusse Ben. «Ti sembra una soluzione equa del problema?». «Ma tu non capisci, io non ho messo a repentaglio il tuo lavoro...», cercò di calmarlo Eric. «Ah, no?», fece Ben, incredulo. «Ti rendi conto di quello che...». «Sai benissimo che è impossibile che ti scoprano», disse Eric. «Rick non lo troveranno mai, e nessuno di noi dirà mai nulla. Non hai nulla da temere». «Ah, be', allora oggi è il mio giorno fortunato», disse Ben. «Grazie, Eric! Finché non trovano Rick, io sono libero». Smettendo il sarcasmo, proseguì: «Vuoi sapere perché sono arrivato qui in ritardo? Sono stato nell'ufficio dei marshall della Corte, che mi hanno torchiato per un'ora. E nel caso tu non lo sapessi, i marshall si occupano della sicurezza alla Corte suprema. Mi hanno fatto accomodare e mi hanno strigliato per benino sul mio eventuale coinvolgimento nella fuga di notizie in merito al caso CMI. Inoltre, il capo dei marshall ha voluto sapere in che rapporti siamo io e te, perché un suo amico all'"Herald" gli ha detto che abitiamo insieme. Se scoprono che sono coinvolto, mi licenzieranno. Vogliono sottopormi a un test con la macchina della verità per verificare la mia innocenza, e non vedono l'ora di gettarmi in pasto alla stampa e di stare a guardare mentre vengo sbranato». «Oh, merda!», sospirò Nathan. «"Oh, merda"», ripeté Ben. «Risposta esatta». Agitando l'indice davanti
alla faccia di Eric, continuò: «E visto che non ti sei soffermato un solo istante a riflettere sulle possibili conseguenze di quell'articolo, ti dirò anche che oggi hanno telefonato alla Corte tutti i giornali degli Stati Uniti, per chiedere conferma della notizia. Per ora, non mi tireranno in mezzo, ma pare che sia soltanto una questione di tempo: prima o poi troveranno una fonte disposta a parlare. E non credo gli ci vorrà molto per scoprire che abitiamo insieme». «Io mi sono limitato a ventilare un'ipotesi», disse Eric. «No, tu hai semplicemente messo la pulce nell'orecchio a tutti quanti. E siccome in quella schifezza di giornale a nessuno frega un cazzo della realtà, il tuo articolo è stato pubblicato. Il risultato è che l'unico a restare fregato sono io». «Ma io non ho rivelato la fonte», disse Eric. «NON VUOL DIRE NIENTE!», sbraitò Ben. «Scendi dal banano, coglione. Il fatto che tu non abbia rivelato la fonte significa soltanto che ci metteranno più tempo a scoprirla». «Senti, non farmi scenate», disse Eric, alzandosi dal divano. «E a chi dovrei farle, allora?», domandò Ben, alzando minacciosamente le mani. «Be', non sono stato io a rivelare informazioni riservate. Mi dispiace dirlo, ma sei stato tu a commettere un reato. Io non c'entro niente». Ben cominciò a spintonarlo. «Egoista figlio di...». Nathan balzò in piedi, ribaltando il tavolino da caffè, e si interpose tra i contendenti. «Niente risse. Vi dovete calmare tutt'e due». Serrando i pugni, Ben arretrò. «Sei un verme», disse a Eric. «Non prendertela con me», disse Eric, con voce accelerata dall'adrenalina. «Tu non hai idea di quello che stavo passando. Tu hai sempre avuto tutto e subito. Non sai cosa significa dover lottare contando solo sulle proprie forze. Il caporedattore mi ha assillato di brutto, perché gli svelassi la fonte. Ma io non ho ceduto. Non ho mai fatto il tuo nome! Mai!». «Com'è, allora, che all'ufficio dei marshall sapevano che ero stato io a raccontarti la storia delle dimissioni di Blake?». Eric ammutolì. «Che succede?», domandò Ben. «Non hai niente da dire?». «La storia di Blake è diversa, e tu lo sai», replicò Eric. «Sul caso CMI non ho aperto bocca. Hanno tentato in tutti i modi, ma io non ti ho mai nominato. Il direttore mi ha avvertito che la gente m'avrebbe dato del giornalistucolo da quattro soldi. Ma io sono rimasto muto».
«Be', sei davvero il migliore amico che si potrebbe sperare di avere. Magari settimana prossima mi farai il grande favore di tagliarmi la gola. Sarebbe stupendo». «Dico sul serio», ribadì Eric. «Sono stato sommerso dalle telefonate, oggi. Hanno chiamato "Newsweek", "Time", "USA Today", il "New York Times". Sì, persino il "New York Times". Avrei potuto spifferare tutto. Avrei potuto cavalcare l'onda fino in fondo e ricavarne fama e denaro. A quest'ora starei scrivendo un libro sulla vicenda. Avrei già venduto i diritti cinematografici a Hollywood, avrei rubriche su diversi giornali, tutto il mondo ai miei piedi, se solo togliessi il tappo. Lo sai anche tu che...». Prima che Eric potesse concludere la frase, Ben gli si avventò contro, prendendolo per il bavero e sbattendolo al muro. «Se ti sfugge una sola parola, giuro che ti stacco quella testa di cazzo con le mie mani!». «Ben, lascia perdere!», supplicò Nathan, mentre con Ober cercava di separarlo da Eric. Riaggiustandosi la camicia, Eric disse: «Senti, se sei incazzato ti capisco, ma io ho fatto del buon giornalismo. Il fatto è che ti ho parato il culo, pubblicando per giunta il mio primo articolo a pagina cinque». «Se avessi ucciso tua madre, ti avrebbero messo in prima», gli urlò in faccia Ben. «Ti pare una ragione sufficiente per farlo? Tu non hai scoperto un cazzo. Non avresti saputo nulla, se non te l'avessi detto io. Perciò non venire qui a dirmi che mi hai fatto un favore solo perché non hai venduto i diritti cinematografici!». Abbassando il tono, Eric disse: «Ben, hai idea di che tormento sia stata per me questa storia della CMI? È da quando mi hai raccontato di come Maxwell ha ottenuto l'informazione che volevo scrivere l'articolo. Invece, ho aspettato. Ho atteso finché il polverone non si è placato, finché i giornali non hanno smesso di martellare sulla storia di Maxwell e della sentenza. Ho atteso che lo scalpore si esaurisse. E alla fine mi sono limitato a scrivere quell'articoletto che cercava di dare una spiegazione». «Ma ti rendi conto di quello che dici?», domandò Ben, scuotendo la testa. «Stai cercando di dire che dovrei ringraziarti perché hai aspettato qualche giorno prima di pugnalarmi alla schiena? Ti rendi conto che come logica è folle?». «Non so perché ti agiti tanto. Non potranno mai dimostrare...». «Cazzo, non è questo il punto!», gridò Ben. «Smetti di travestire di razionalità i tuoi atti e pensa veramente, una buona volta! Tu sapevi come sarebbero andate le cose. Lo sapevi e te ne sei fregato».
Puntando le mani sui fianchi, Eric disse: «Ben, non ho mai avuto intenzione di metterti nei guai. Che vuoi che ti dica? Mi dispiace. Mi dispiace un milione di volte. Che altro vuoi che dica?». «Voglio che ti trovi un'altra casa», disse Ben. «Cosa?», fece Eric. «Ben, non puoi farlo», disse Ober, con voce preoccupata. Allontanandosi da Ober, Ben guardò fisso Eric: «Mi hai sentito. Voglio che porti via il culo da questa casa». Eric prese a scuotere la testa, incredulo. «Non sto scherzando», proseguì Ben. «Non scherzo un cazzo. Questa non è una stupida lite da ragazzini. Voglio che tu sparisca dalla mia vita. Non mi fido di te, non mi piaci e non ti considero più mio amico». «E se non me ne andassi?». «Allora, me ne andrò io», disse Ben. «Il contratto d'affitto scade il primo dell'anno. Quindi, hai un mese per trovarti un altra casa. Se non ci stai, metteremo la questione ai voti. Se nessuno vuole votare, lanceremo la monetina. In ogni caso, io non voglio più avere a che fare con te». Voltò le spalle agli amici e filò su per le scale, diretto in camera sua. «Eric, dàgli il tempo di sbollire». «Non ho voglia di parlare», disse Eric, avviandosi alla porta. «Se qualcuno ha bisogno, sono al giornale». La porta sbatté e la stanza piombò nel silenzio. «Ha l'aria di fare sul serio», disse Nathan, dopo un po'. «Non può cacciarlo di casa», disse Ober, scosso. «Non possiamo permetterglielo». «Che cosa ti prende?», domandò Nathan, sorpreso dalla reazione di Ober. «Non possiamo permettergli di rovinare tutto. Io sono venuto ad abitare qui perché pensavo che saremmo rimasti insieme». «Ober, dàtti una calmata». «Credi che lo caccerà veramente?». «Non lo so», rispose Nathan. «Ma quando gli si è scagliato addosso, ho pensato che volesse ucciderlo. Non è facile perdonare una cosa del genere». «Devi parlargli», disse Ober. «Promettimi che gliene parlerai». Quando vide che Nathan si avviava al piano di sopra, gli domandò: «Dove vai?». «A parlare con Ben». «Gli parlerai di Eric?». «No, di Murray Simone, il Re della sforbiciata».
«Che cosa ha detto?», domandò Lisa, quando Ben giunse al lavoro, l'indomani mattina. «È stato un disastro», disse Ben, appendendo il cappotto in ripostiglio. «Non aveva giustificazioni». «Niente di niente?», insistette Lisa. «Non ha neppure cercato di inventare una scusa?». Ben afferrò la tazza di caffè posata sul tavolo di Lisa e ne prese un sorso. «Ha tentato di raccontarmi che stava per essere retrocesso alla pagina della moda, ma è stato penoso». «Gli hai almeno dato una ripassata?». «Io sono un uomo pacifico, non mi piace la violenza». «Ma non volevi spaccargli la faccia? Non volevi fargli ingoiare tutti i denti? Non volevi...?». «Ho afferrato il concetto», disse lui, tormentandosi il nodo della cravatta rossa e oro. «Aspetta un attimo», proseguì Lisa. «Almeno un pugno gliel'hai dato, vero?». «No, niente pugni». «Ben, non mentire...». «L'ho solo attaccato al muro, l'ho minacciato un po' e gli ho detto di sparire». «Okay, sei un duro!», disse Lisa, alzando le mani. «Raccontami i dettagli più cruenti». «Non è successo nulla. Ho perso il controllo soltanto per un attimo». «Non ci posso credere», fece Lisa. «Non riesco neanche a immaginare che tu possa perdere il controllo». «E perché mai?». «Perché sei un tale mollaccione...». «Ah, e tu, invece, saresti la dura!». «Fidati, se c'è da dare calci in culo, lo faccio. Al momento giusto, prenderò a calci in culo anche te». «Lisa, non sono disposto a tollerare le tue fantasie sado-masochistiche in quest'ufficio. Queste sono molestie sessuali belle e buone; potrei denunciarti». Mentre Lisa si apprestava a rispondere, il telefono di Ben si mise a squillare. «Pronto? Ufficio del giudice Hollis», disse. «Ciao Ben, disturbo?». «Mamma! Tutto bene?».
«Sì, grazie. Sei in aula?». «No, non sono mai in aula, di venerdì», disse Ben, nervoso. «Perché? C'è qualcosa che non va a casa?». «Be', in verità volevo chiederti se non c'è qualcosa che devi dirmi», rispose sua madre. Non era chiaro se si riferisse all'articolo di Eric o, magari, a un'altra lettera di Rick; in ogni caso, all'orizzonte si profilavano dei guai. Nella speranza di scoprire che cosa intendesse, prima di lasciarsi sfuggire alcunché, Ben temporeggiò. «In che senso?». «Benjamin, non prendermi in giro. C'è qualcosa che avevi intenzione di dirmi?». «Mamma, non so di che cosa tu stia parlando». «Be', allora, mi spieghi perché devo venire a sapere per vie traverse, da Barbara, che hai una relazione molto seria con una ragazza?». «Oddio!», esclamò Ben. Lisa lo guardò, distogliendo lo sguardo dai fogli che aveva davanti. «Mamma, io non ho una relazione seria con una ragazza. La madre di Ober non sa quello che dice». «Non dirmi bugie, Benjamin». «Mamma, te lo giuro!». «Allora, chi è la donna di cui i tuoi amici erano così entusiasti la settimana scorsa a casa di Katie?». «Probabilmente parlavano della mia collega», disse Ben, corrugando la fronte all'indirizzo di Lisa. «Vai a letto con la tua collega?». «Non vado a letto con nessuno... Ehm, mamma, non vado a letto con Lisa. Nathan e Ober stavano solo scherzando con la zia Katie. Siamo semplicemente colleghi». «Be', a sentire Ober, pareva che fosse qualcosa di più di un semplice rapporto di lavoro». «Quando hai parlato con Ober?». «Stamattina. Tu eri già uscito», rispose la madre di Ben. «Si può sapere a che ora inizi? Scommetto che vi fanno lavorare come bestie». «È la Corte suprema, mamma. Si lavora sodo», spiegò Ben. «Che cosa ti ha detto Ober?». «Non sono affari tuoi. Io e William abbiamo avuto una conversazione molto piacevole. Ma, dimmi, la tua collega è di Washington?». «No, è di Los Angeles». «È lì con te, ora?».
«No, al momento è fuori», disse Ben, facendo un cenno a Lisa. «Sta raccogliendo delle deposizioni». «SALVE, SIGNORA ADDISON!», gridò Lisa. «Sapevo che era lì!», disse la madre di Ben. «Passamela». «No, mamma, non te la passo. Scordatelo!». «Domandale se torna a casa per le feste del Ringraziamento». «Mamma...». «Guarda che se voglio posso chiedere il numero a Ober». Scoppiando a ridere per la minaccia della madre, Ben disse: «Lisa, mia madre vuole sapere se torni a casa per le feste del Ringraziamento». Aiutandosi con il movimento del capo, Ben mimò: «Di' di sì». «No, sono assolutamente libera!», gridò Lisa. «Stupendo», disse la madre di Ben. «Dille che è invitata da noi, allora. Verrà a casa con te». Rivolto a Lisa, Ben disse: «Mia madre dice che è felicissima di sapere che passerai il giorno del Ringraziamento da sola. Spera che tu trascorra una nottataccia, che ti spengano il riscaldamento e che tu possa morire in solitudine, senza il conforto di familiari e amici». «Benjamin!». «Okay... Vuole che passi le feste del Ringraziamento a casa nostra». «Molto volentieri», disse Lisa, facendo una linguaccia a Ben. «Stupendo», disse Ben, tornando a parlare nella cornetta. «Mamma, forse è il caso di preparare un paio di tacchini in più. Non so se Ober te l'ha detto, ma Lisa mangia come un cinghiale, come un bisonte, come un'intera fattoria di animali». «Se esci con lei, voglio conoscerla», disse la madre. «D'accordo, mi arrendo. Ci hai beccati. Usciamo insieme. Mamma, questa è la volta buona. Io e Lisa ci amiamo; lei è incinta, e il bambino pensavamo di chiamarlo Hercules, secondo i desideri di zia Flo». «Non sei affatto spiritoso», disse la madre. «Senti, ora devo proprio andare». «Solo un'altra domanda: che cos'è successo tra te e Eric?». «Mamma, non è successo niente. Perché? Chi te l'ha detto?». «Ober». Ben chiuse gli occhi e si sforzò di mantenere la calma. «Tra me e Eric non è successo niente. Abbiamo avuto soltanto una piccola discussione. Nient'altro. Presto chiariremo tutto». «Ricorda quel che ti dissi alla tua partenza per il college: "Gli amici d'in-
fanzia sono la cosa più preziosa"». «D'accordo, mamma. Grazie per avermelo ripetuto per l'ottantaquattresima volta. Posso andare ora?». «Allora, Lisa verrà per il giorno del Ringraziamento?». «Sì, mamma, grazie ai tuoi intrighi». «Splendido. Ci sentiamo presto. Ti voglio bene». «Anch'io. Saluta papà». Ben posò la cornetta e si voltò verso Lisa. «Credi di essere furba, vero? Be', ritenta, cara mia, perché hai appena commesso il più grave errore della tua vita. Nella tua infinita sapienza, ti sei appena autoinvitata nel diciassettesimo girone dell'inferno, cioè a un pranzo a casa dei miei genitori». «Non vedo l'ora». «Aspetta!», esclamò Ben, estraendo un piccolo taccuino dal cassetto superiore della sua scrivania. «Questa me la devo segnare». Scribacchiando sul blocchetto, disse. «Venerdì 23 novembre, Lisa Marie Schulman dichiara: "Non vedo l'ora" in riferimento alla ormai imminente sua ultima cena». «Sarà divertente», disse lei. «"Sarà divertente"», ripeté Ben, annotando anche quest'ultima frase. «Credo sia la stessa cosa che ha detto Napoleone prima di andare a Waterloo». «Ben, i miei genitori sono rimasti fermi ai lampadari in pietra lavica. Quanto peggiore può essere la tua famiglia?». «Oh, molto, moltissimo. Neanche te lo immagini. Infinitamente peggiore». «Ma smettila!». «Lisa, non sto esagerando. I miei genitori sono dei mutanti. Sono malati, sono dei balordi disadattati venuti al mondo per instillare sensi di colpa e paura nei cuori di tutti i bambini innocenti della Terra». «Be', non vedo l'ora di conoscerli. Saranno sicuramente delle ottime persone». «"Saranno sicuramente delle ottime persone"», ripeté Ben, riprendendo a scrivere sul blocchetto. «Aspetto con ansia il momento in cui sarai costretta a rimangiarti queste parole». «Vedremo», disse Lisa, aprendo una delle tante cartellette marroni che aveva sul tavolo. «A parte questo, hai finito di scrivere la motivazione del caso Russell? Dovevi darmela due giorni fa». «Non assillarmi. Ho bisogno di lavorarci ancora», disse Ben, rimettendo a posto il blocchetto. «Comunque, possiamo vederci stasera a casa tua?
Prima di domani vorrei ripassare il piano per l'appuntamento con Rick». «Certo», rispose lei. «Ah, Ben. Non vorrei sembrarti noiosa, però ho assolutamente bisogno della motivazione del caso Russell». «Lisa, ti ho detto che te la darò appena possibile. Che cosa vuoi di più?». «Voglio che tu la finisca. Ti credo quando dici che ci stai dando dentro, ma sono due settimane che stai lavorando alla prima stesura». «Be', mi dispiace, ho avuto una settimana piuttosto intensa. Purtroppo, la mia vita si è un po' incasinata, ultimamente». «Non prendertela con me», brontolò Lisa. «Sai bene che sono totalmente dalla tua parte, qualsiasi cosa succeda. Sto solo dicendo che dovresti cercare di astrarti da tutto. Che ti piaccia o no, la Corte viene prima di qualunque altra cosa possa capitarti nella vita». Ben, nervosissimo, voltò la pagina del blocco su cui stava lavorando e disse: «D'accordo. Ho capito. Posso tornare al lavoro?». «Ben, smettila! Che cosa vuoi che faccia?». «Che ne diresti di mostrare un po' di comprensione in più, eh?», strillò Ben. «È facile per te fare la persona diligente; sono io che devo dare la caccia a questo psicopatico. Ogni volta che telefona mia madre, rabbrividisco al pensiero che Rick possa aver detto qualcosa ai miei genitori. Per giunta, il mio amico mi pugnala alle spalle e l'ufficio dei marshall mi sta alle calcagna... E la settimana non è ancora finita». «Sai, a volte mi piacerebbe che tu facessi uno sforzo per vedere le cose da una prospettiva diversa dalla tua». «Scommetto che il punto di vista ideale coincide con il tuo...». «Dico sul serio», insistette Lisa. «Hollis sa che io rileggo sempre le motivazioni, prima di consegnargliele, e quindi ha l'abitudine di sollecitare me. Per tutta la settimana ha continuato a chiedermi la bozza, e io ho dovuto inventare un mucchio di scuse: martedì gli ho detto che stavamo lavorando su alcuni punti; mercoledì ho spiegato che non li avevamo ancora risolti del tutto; ieri l'ho evitato. Oggi non saprei proprio cosa dirgli. Siamo sulla stessa barca, e non mi importa se coliamo a picco. So soltanto che sarebbe stupido. Il caso Russell è un'insulsa questione di procedura. Hollis ci ha spiegato chiaramente come affrontarla, ma noi la tiriamo in lungo. Sbrigati a finirla e dammela. Anche se l'hai sistemata solo a metà, passala a me: posso pensarci io. Devo assolutamente portargli qualcosa entro stasera. Se questo significa che devo starti addosso, mi dispiace, ma a questo punto credo sia l'unico modo di farmi prendere sul serio». Quando Lisa prese fiato, Ben rimase con gli occhi fissi sul suo blocco
per appunti. «Scusami», disse, piuttosto freddamente. «Hai assolutamente ragione. Ti passo la bozza prima di pranzo». «Ben, io...». «Non c'è altro da dire. Hai ragione. Se non sono in grado di finire un lavoro, devo passarlo a te». «È esattamente quello che tentavo di spiegarti». «Sei pronto per domani?». Davanti allo specchio, Rick si annodò la cravatta alla perfezione. «Certo che sono pronto. Il problema è se lo sarà anche Ben». «Ricordati che sta tramando ai tuoi danni». Insoddisfatto della lunghezza della cravatta, Rick disfece il nodo e ripeté daccapo l'operazione. «Può fare quello che vuole. Non mi preoccupa». «Come fai a essere così sicuro di te?». Rick distolse lo sguardo dalla propria immagine riflessa. «Perché io Ben lo capisco. Dopo il disastro che ha combinato Eric, avrà delle serie difficoltà a rifiutare la mia offerta». All'una meno un quarto Lisa tornò in ufficio con un piccolo sacchetto di carta marrone che conteneva due tazze di caffè, una focaccina di crusca e un croissant al cioccolato. «Ora di pranzo. Tie', mangia», disse, passando a Ben il croissant e una delle tazze di caffè. Venti minuti dopo, croissant e caffè erano ancora intatti. Dopo un'altra mezz'ora, distolse finalmente gli occhi dallo schermo del computer. «Motivazione in arrivo», annunciò, quando la stampante laser prese a ronzare. «Ottimo», disse Lisa, avvicinandosi alla stampante. Quando ebbe raccolto tutte le diciassette pagine, tornò al proprio posto e impugnò una biro rossa. Mentre Ben la scrutava in volto per coglierne le espressioni, Lisa lesse la motivazione, con la penna pronta a seminare correzioni. Analizzava ogni pagina lentamente, con estrema attenzione, e poi la posava a faccia in giù sul tavolo. Dopo un quarto d'ora, voltata l'ultima pagina, alzò gli occhi e guardò Ben. «Allora?», domandò Ben, staccando e mangiando piccoli pezzi di croissant. «Cosa ne pensi?». «Ben, hai fatto un lavoro fenomenale», disse Lisa, voltando a faccia in su il mazzetto di fogli e scorrendoli nuovamente. «Di solito le tue prime bozze le massacro. Ma questa volta la mia penna avrà toccato il foglio sì e no un paio di volte».
«Tre volte, per la precisione», la corresse lui. Si avvicinò al tavolo di Lisa, riprese il documento e andò a cercare le correzioni. «Semplici errori di grafia», disse lei, appoggiandosi all'indietro. «Comunque, sono sbalordita. La prima stesura è a livello di una terza bozza». «Ho fatto del mio meglio». «Perché non fai così un po' più spesso? Di solito lavori bene, ma questo è un prodotto finito. In questo modo, probabilmente, abbiamo risparmiato un'intera giornata di lavoro». «Era un caso di semplice soluzione», disse Ben. «Non è granché. È solo che lavoro meglio quando sono sotto pressione». «Allora, forse, dovrei incazzarmi più spesso». Alzandosi dalla sedia, Lisa tolse i fogli dalle mani di Ben e li infilò in una delle cartellette marroni di Hollis. «Gliela porto così com'è. Speriamo di riuscire a chiudere la questione entro questo pomeriggio». «Va bene», disse Ben, prendendo il suo cappotto nero dal ripostiglio. «Io devo correre al ristorante, ma sarò di ritorno entro un'ora». «Vai a fare un sopralluogo per l'appuntamento di domani?», domandò Lisa. «Sì», rispose lui. «Non voglio lasciare nulla al caso». Alle tre e mezza, Lisa fu di ritorno in ufficio. «E' fatta. Con il caso Russel abbiamo finito», annunciò, lanciando il documento sul tavolo di Ben. «Gli è piaciuto?». «"Piaciuto"? Diciamo che a un certo punto ho dovuto addirittura asciugargli la bava che gli penzolava dal labbro inferiore». «Dài, non scherzare». «Non sto scherzando», insistette lei. «Era molto soddisfatto. Ha detto che era ben argomentata e strutturata proprio come voleva lui. Gli è particolarmente piaciuta la conclusione, dove definisci la relazione di minoranza "un tentativo di svuotare l'oceano della logica con un cucchiaino"». «Ha deciso di mantenerla? Ero convinto che l'avrebbe tagliata. I miei insulti metaforici di solito li cassa». «Be', questo gli è piaciuto. Evidentemente, crede che Osterman sia pazzo a sostenere l'opinione contraria». «Peccato», disse Ben. «Se sapevo che sarebbe stato così ben disposto nei confronti delle battute di spirito avrei osato di più. Stavo quasi per scrivere che sostenere l'opinione contraria sarebbe come "tentare di spegnere l'inferno del senso comune con una pisciata"». «Non credo che quella te l'avrebbe lasciata passare», obiettò Lisa.
«Perché no?», domandò Ben. «Credi che non condivida il parallelo tra fuoco e senso comune?». «Non credo che Hollis voglia passare alla storia come il primo giudice che ha utilizzato il verbo "pisciare" in una sua motivazione. È già considerato abbastanza matto». «Forse hai ragione tu», concesse Ben, dando una rapida scorsa ai fogli. «Che altro ha detto?». «Niente di particolare. È contento che abbiamo finito con il caso Russell, perché quasi sicuramente stasera verrà presa la decisione sul caso Grinnell». «Come fa a sapere che la stesura della motivazione sarà assegnata a lui?». «Ha già parlato con Moloch e Kovacs, che non hanno intenzione di farsene carico. Comunque si schieri, Hollis sarà il giudice più anziano disponibile». «Si sa, per caso, se Veidt ha deciso di fare cambiare partito?». «Si saprà domani. Hollis e Veidt stasera andranno a cena con Osterman e Blake». «Insomma, l'ennesima decisione presa per effetto della pressione che un giudice riesce a esercitare su un altro». «Benvenuto a Washington». «Oh, grazie», disse Ben. «Tu sei così smaliziata, politicamente. Adesso ho capito come funziona questa città. E io che finora avevo creduto come uno scemo che il nostro paese fosse governato democraticamente!». «Ascolta, quando mi sono iscritta a legge, credevo che se la Corte suprema avesse avuto realmente a che fare con la vera giustizia, l'esame di un dato caso avrebbe dato sempre lo stesso esito. Se la sentenza sul caso Roe v. Wade, nel 1973, ha stabilito il diritto d'aborto, non si capisce perché l'arrivo alla Corte di giudici conservatori debba implicare il capovolgimento di quella decisione. Col passare del tempo, però, mi sono resa conto che questo è il bello della legge. Si decide caso per caso. Ogni volta il contesto è diverso, e ogni giudice prende in considerazione tutti i vari aspetti di una vicenda. Se volessimo una decisione sempre identica, non avremmo bisogno di giudici: ci sarebbero dei robot che, ricevuto un dato input, fornirebbero sempre la stessa fredda conclusione logica. Ma chi ha voglia di lasciar decidere della propria vita a un robot?». «Dipende... Questi robot sono conservatori o liberal?». «Ecco, lo vedi? Devi piantarla con questa visione manichea. È impossi-
bile trovare due sole persone che vedano le cose allo stesso modo. È questo il bello. Dobbiamo abbassarci al livello particolare della gente, ma ne guadagniamo un sistema giudiziario che opera caso per caso. Voglio dire, sul serio ti piacerebbe vivere in un mondo in cui non ci fossero gli Osterman e i Veidt?». «A dire il vero, forse sì», disse Ben. «Ma ciò comporterebbe di certo anche il crollo del mercato dei pantaloni da golf di madras». «Ben, sii serio». «Va bene, va bene», disse lui tornando a piluccare i resti ormai secchi del croissant. «Non per questo, però, devo accettare che un caso venga deciso sulla base dei rapporti di potere personali tra i giudici della Corte». «Infatti, hai ragione. Ma devi renderti conto che questo aspetto dei processi giudiziari garantisce, allo stesso tempo, molti benefici, i quali sono poi la sostanza della democrazia così come noi la conosciamo». «Grazie, generale Washington. Me ne ricorderò ogni volta che dovrò raccontare la storia di come Veidt ha venduto il proprio voto». 8 Quella sera, Ben e Lisa andarono a casa di lei e davanti al portone trovarono Ober e Nathan ad aspettarli. «Ehi, ragazzi, dove diavolo eravate?», domandò Ober, zampettando sul posto. «Qui fuori si congela». «Perché non avete aspettato nell'atrio?», domandò Lisa. «Perché quello stronzo del portiere non ce l'ha permesso. Ha detto che se la persone che doveva ospitarci non erano in casa, dovevamo attendere fuori». «State scherzando, vero?». Lisa si fiondò all'interno del palazzo e si diresse verso il portiere sorridente. «Perché diavolo ha lasciato i miei ospiti ad aspettare fuori?». «Signora, la persona che cercavano non era in casa». «Be', la persona che cercavano sono io», gli annunciò lei. «E se mi capita di avere cinque minuti di ritardo, non voglio che i miei amici aspettino fuori al freddo». «Signora, loro saranno pure suoi ospiti, ma in questo palazzo vigono delle regole, e nessuno ha il permesso di entrare senza l'esplicito consenso della persona ospitante. Come portiere, ho il compito di impedire ogni forma di vagabondaggio nell'atrio del palazzo». «Ah, davvero?».
«Sì, signora. Il consiglio di condominio mi ha dato pieni poteri per allontanare vagabondi, barboni e altri delinquenti dai paraggi». «Ne è proprio sicuro?», domandò Lisa. «Oh, no», sospirò Ben, coprendosi gli occhi con una mano, ma sbirciando tra le dita. «Si mette male». «Be', allora lasci che le dica un paio di cosette», continuò Lisa, puntando l'indice in faccia al portiere. «Tanto per cominciare, chiunque lei sia, quando le si presentano dei miei ospiti, questi diventano immediatamente anche suoi ospiti. Se lei crede di avere il diritto di lasciare la gente ad aspettare al freddo, allora le consiglio di togliere la testa dal culo. Non saremo nella gelida tundra, ma può comunque fare piuttosto freddo, lì fuori. In secondo luogo, le leggi sul vagabondaggio sono incostituzionali, perché consentono a degli sbirri da supermercato come lei di discriminare le persone a proprio piacimento. Quindi, a meno che lei non abbia fondati motivi per sospettare dei miei amici, le consiglio di chiudere il becco. Infine, se lei si permette di offendere i miei amici chiamandoli "barboni" o "delinquenti", io la denuncio per diffamazione, giusto per romperle i coglioni. Magari non vincerò la causa, ma mi divertirò moltissimo facendole perdere tempo e denaro nel tentativo di evitare la condanna. Ora, se non ha altro da dire, io salgo a casa mia. Mi sono spiegata?». «Certo», disse il portiere, sconvolto; poi, rivolgendosi a Nathan e Ober, aggiunse: «Chiedo scusa. C'è stato un equivoco». «Accetto le sue scuse», disse Ober, entrando in ascensore con gli amici. «Era proprio necessario?», domandò Ben. «È stato fantastico!», ululò Ober. «Mi sono stufata», disse Lisa. «A certi tipi basta dare un briciolo di potere che si trasformano in dittatori». «Sì, ma tu l'hai fatto pisciare sotto», disse Ben. «Mi ha impressionato la linearità del tuo argomentare», disse Nathan, guardando Lisa con rinnovato rispetto. «Grazie», rispose Lisa, mentre la porta dell'ascensore si apriva. Entrando in casa, Lisa accese le luci e posò la borsa sulla scrivania. «Cos'è questo odore?», domandò Ben, entrando in soggiorno. Annusando l'aria, Ober disse: «È un odore così... femminile». «È pot-pourri», disse Lisa. «Tiralo fuori. Ti piace?». «Mi fa impazzire», disse Ober. «Immagino che voi ragazzi siate abituati alle case in cui si sente sempre e solo puzza di piedi». Andando in camera da letto, Lisa aggiunse: «Torno
subito». Dopo qualche minuto tornò in soggiorno, con indosso i pantaloni di una tuta da ginnastica e la sua maglietta preferita, con l'emblema e la scritta dell'Università di Stanford. «Siamo pronti?», domandò, sedendosi sul divano accanto a Ben. «Allora», disse Ben, aprendo la propria borsa e tirandone fuori un blocco dai fogli gialli e una penna. «Rick e io ci vediamo domani. Se vuole incontrarmi è per chiedermi qualcosa, e l'unica cosa che gli può interessare è qualche altra informazione». «Come fai a saperlo?», domandò Lisa. «È l'unica ipotesi logica. Cioè, non credo che voglia parlare di politica». «Magari vuole solo sfotterti per come sei stato babbeo l'ultima volta che vi siete visti», disse Ober. «No, non credo», replicò Ben, fulminando Ober con un'occhiataccia. «Ma perché dovrebbe volere altre informazioni se ha appena guadagnato un milione di dollari con il caso CMI?», domandò Nathan, sedendosi sul divano e posando a terra, accanto a sé, uno zainetto. «Noi non sappiamo quanti soldi ha fatto con il caso CMI. Può aver ricavato dieci milioni o diecimila dollari. Il problema è che noi non sappiamo quali sono le sue condizioni economiche di partenza. Se non era già ricco, probabilmente non ha potuto investire grosse somme in azioni della CMI prima che queste salissero alle stelle. Tutto il suo guadagno potrebbe essere limitato al compenso pagatogli di Maxwell». «Di certo, però, sarà una cifra ragguardevole». «È probabile», disse Ben, «ma io non sottovaluterei l'importanza dell'avidità. Se Rick, al primo colpo, ha guadagnato un milione, sono sicuro che vorrà guadagnarne dieci al prossimo. Comunque, non abbiamo la certezza che chiederà altre informazioni, ma se lo fa, credo che la cosa migliore sia di seguire il piano originario di Lisa e di cercare di registrare la sua voce su nastro». «Se ha qualcosa da proporti, di certo ti offrirà dei soldi. E di certo non riuscirà più a estorcerti altre informazioni con l'inganno». «Non si può mai sapere», disse Ober. «Ben sa essere davvero ingenuo quando vuole». Ignorandolo, Ben disse: «E se mi offre dei soldi, noi avremo registrato su nastro il tentativo di corruzione. Quantomeno riusciremo a dimostrare il suo tentativo di corrompere un funzionario del governo». «C'è una cosa che non capisco», disse Nathan. «Se anche registri la sua offerta, come farai a usare il nastro contro di lui? Rivolgendoti alle autori-
tà, sarai costretto ad ammettere anche le tue responsabilità». «Lo so», disse Ben. «A questo punto, però, voglio togliergli dalle mani l'arma del ricatto. Anche se non è il massimo, come soluzione, almeno ci confronteremo su un piano di parità. Altrimenti, sarei condannato ad avere sempre paura». «Ti sei procurato l'apparecchiatura per la registrazione?», domandò Lisa a Nathan. Nathan raccolse lo zainetto, se lo posò sulle ginocchia e ne aprì la cerniera. «Ecco qua il microfonino senza cavo. Sappiate che è grazie ad apparecchiature come questa che gli Stati Uniti sono rimasti l'ultima superpotenza della nostra epoca». «Fantastico, colonnello», disse Ben. «Dove l'hai preso?». «Ho un amico che lavora nei servizi di sicurezza. Speravo che riuscisse a procurarmi la strumentazione più all'avanguardia, ma meglio di così non è riuscito a fare. Senza autorizzazione, l'equipaggiamento migliore non può uscire dai loro magazzini». «Ce li ha i microfonini incorporati nei gemelli?», domandò Ober. «Ah, quelli sono stupendi», disse Nathan. «Gli avevo chiesto persino le freccette avvelenate da sparare con l'orologio, ma non c'è stato niente da fare». Alzandosi, tolse tutti i vari cavi dallo zainetto. Rivolgendosi a Ben, disse: «Alzati e levati la camicia». «Iu-huu!», ululò Lisa, mentre Ben cominciava a sbottonarsi. «Aspetta di vedere sotto la camicia», disse Ober. «L'amico non ha neppure un pelo sul petto». «Perlomeno non ho quella specie di isola di Capri che hai tu», disse Ben, in piedi a dorso nudo in mezzo al soggiorno. Guardando Lisa, disse: «Ober è glabro, fatta eccezione per una compatta isola di peli al centro del petto». «Ti sbagli», replicò Ober. «Togliti la camicia, allora», lo sfidò Ben. «Non ce n'è bisogno», sorrise Ober. «Sta sicuro, però, che non ha affatto la forma dell'isola di Capri». «Fammi vedere un attimo come funziona», disse Nathan, faticando a districare i cavi. «Sia pur a malincuore, devo ammettere», disse Lisa, «che hai un fisico davvero sexy». Mentre Ben tentava di reprimere un improvviso rossore, lei continuò: «Sul serio, non credevo che avessi un torace così sviluppato». Guardando Ober, aggiunse: «Credo di essere veramente eccitata».
«Be', mi capita spesso di fare questo effetto», disse Ober. «Ecco fatto», disse Nathan, guardando in faccia Ben. «Perché stai arrossendo?», gli domandò. «Fammi vedere come funziona questo aggeggio, piuttosto», tagliò corto Ben. «Okay, prendi questa striscia di velcro e avvolgitela attorno al torace. I microfoni sono montati qui dentro», spiegò Nathan, indicando due piccoli rigonfiamenti nel velcro. «Questa è la batteria», proseguì, picchiettando su una gibbosità più consistente sulla parte posteriore della fascia. «Dovrebbe durare almeno otto ore. È nuova». Quindi, estrasse dallo zainetto una pesante scatola nera. «Questa è la ricevente. Ha un'audiocassetta incorporata, così possiamo registrare tutta la conversazione». «È accesa?», domandò Ben. «Credo di sì», rispose Nathan, estraendo l'antenna e trafficando con un paio di manopole. Mentre Ben raggiungeva la camera da letto di Lisa, gli altri tre rimasero in silenzio. All'improvviso udirono: «Sono in camera di Lisa. Le lenzuola di satin non mi stupiscono, ma... che vedo? Sul comodino accanto al letto c'è una mia foto». «ALLONTANATI IMMEDIATAMENTE DAL MIO LETTO!», Strillò Lisa. «Aspetta... Cos'è questo? Ci sono tracce di rossetto sulla mia faccia. Oh, povera Lisa, che tristezza!». «ESCI DALLA MIA STANZA!». «Un attimo... È questo il cassetto della biancheria intima? Eh, sì, ragazzi!». Lisa balzò in piedi, proprio mentre Ben voltava l'angolo per tornare in soggiorno. Nathan premette il tasto del riavvolgimento, attese un attimo e premette il tasto "play". «...camera di Lisa. Le lenzuola di satin non mi stupiscono, ma...». «Funziona», disse Nathan. Ben si tolse il microfono e si rimise la camicia. «Basta che io parli normalmente e tutto verrà registrato?». «Sì». «Forse ti conviene nasconderlo nelle mutande, nel caso Rick decida di darti una pacca sulla schiena», suggerì Ober. «Non credo che sia una buona idea», disse Nathan. «Credo che ne perderebbe la qualità della registrazione». Spegnendo la ricevente, aggiunse:
«Un'ultima cosa: siccome è senza cavo, funziona in un raggio di neanche cento metri». «Dovrebbe bastare», disse Ben, abbottonandosi la camicia. «Incontrerò Rick al Two Quail, un ristorante alla moda in Massachusetts Avenue. Ci sono passato oggi, durante la pausa pranzo, per dare un'occhiata. Il posto è piccolo e ha una sola vetrina che dà sulla strada. Esattamente di fronte, dall'altra parte del viale, c'è il ristorante thailandese in cui vi apposterete voi». «Lo conosco», disse Nathan. «È il Bangkok Orchid». «Esatto», confermò Ben. «Pensavo che tu e Ober potreste arrivare sul posto verso le sette. L'appuntamento con Rick è alle otto. I due ristoranti sono l'uno di fronte all'altro: non dovrebbero esserci problemi per la ricezione». «C'è qualcosa che potrebbe interferire con il microfono?», domandò Lisa. «Trasmissioni a onde corte, antenne paraboliche... Cose del genere». «Il mio amico ha detto che non dovrebbero esserci problemi», disse Nathan. «Non è l'ultimo ritrovato, ma è pur sempre un apparecchio affidabile». «Sapete cosa ci serve?», disse Ober, concitato. «Una parola d'ordine. Nel caso qualcosa vada storto, potrai chiedere aiuto». «Non è una cattiva idea», disse Ben, tornando a sedersi sul divano. «La parola d'ordine potrebbe essere: "Qual è il problema, Harriet?"», suggerì Ober. «Escluso», disse Ben. «Dev'essere facile introdurla nella conversazione e non deve dare l'impressione che io sia in preda al panico». «Che ne dite, allora, di "parodia della giustizia"?», domandò Nathan. «E "formaggio elettrico" non andrebbe bene?», rincarò Ober. «Come diavolo faccio a infilarle in una frase?», domandò Ben. «"Ti prego, non uccidermi e passami, per favore, del formaggio elettrico"?». «"Crimini contro l'umanità"», propose Nathan. «"Cani da guerra"», incalzò Ober. «Perché, allora, non mettersi semplicemente a urlare: "Aiuto, amici privi di immaginazione!"?», disse Ben. «Potresti usare la parola "bingo"», intervenne Lisa. «È facile inserirla in una frase e nei film funziona sempre». «Ma non farmi ridere!», esclamò Ober. «Nominami un solo film in cui abbiano usato "bingo" come parola d'ordine». «Ce ne sono tantissimi». «Dimmene uno, allora», la sfidò Ober.
«Non mi importa se nei film funziona o meno», disse Ben. «La parola d'ordine sarà "bingo". Se dico "bingo", voi correte ad aiutarmi». «La trappola del tentativo di corruzione è a posto», disse Lisa. «L'altra cosa da fare è scattargli una foto in modo da poterlo identificare». «A tale scopo, questo dovrebbe bastare», disse Nathan, tirando fuori dallo zainetto un obiettivo telescopico. «Lo monto sulla mia macchina e facciamo tutte le foto che vogliamo». «Le foto devono essere fatte bene, però», disse Lisa. «Fidati, con questo si vedranno anche i punti neri che ha sul naso. Ha persino un filtro agli infrarossi incorporato». Rivolgendosi a Ben, Nathan aggiunse: «Devo solo individuare Rick: io non l'ho mai visto». «A questo ho pensato io oggi», disse Ben. «Il Two Quail ha un tavolo sistemato esattamente davanti alla vetrina. Io e Rick ci siederemo lì, così voi non dovrete far altro che scattare fotografie alla persona seduta con me». «E se per caso non riuscissi a sederti a quel tavolo?», domandò Nathan. «Non ti preoccupare. Oggi, quando sono andato a visionare il ristorante, ho mollato un centone al maître per convincerlo a far accomodare il mio ospite a quel tavolo». «Hai bruciato altri cento dollari?», domandò Ober. «Quando sono arrivato c'era già una prenotazione a mio nome», disse Ben. «È stata una cosa loschissima e anche un po' da paura». «Andrà tutto bene», disse Nathan, riponendo il microfono nello zainetto. «Stavo pensando...», intervenne Lisa. «E se Rick non ti chiede niente?». Ben si strinse nelle spalle. «Vorrà dire che ci accontenteremo delle foto. Identificandolo, potremo chiamarlo in causa se dovesse decidere di fregarmi. E magari riusciamo persino a indovinare chi sarà il suo prossimo Charles Maxwell». «A proposito...», disse Nathan. «Hai idea di quale potrebbe essere il caso che gli interessa?». «Ci stavo appunto riflettendo», disse Lisa. «Sul caso American Steel ci sono in gioco parecchi soldi. Una soffiata potrebbe valere almeno un paio di milioni di dollari». «Lo escludo», disse Ben. «Secondo me, può trattarsi solo del caso Grinnell». «Credi?», domandò Lisa. «Sì, ne sono sicuro», ribadì Ben. «Quel caso può trasformarsi in una vera miniera d'oro». «Vi dispiacerebbe coinvolgere anche noi spettatori a digiuno di giuri-
sprudenza?», intervenne Nathan. «Howard Grinnell, insieme a un gruppo di altri investitori, è proprietario di una vecchia chiesa che sorge nel centro di Manhattan. Circa tre anni fa, questi avevano deciso di abbattere la chiesa per costruire al suo posto un nuovo ristorante e un centro commerciale... Proprio quello di cui New York ha bisogno. Quando si sono presentati davanti alla commissione del piano regolatore per chiedere l'approvazione dei loro progetti di demolizione, la questione è trapelata e la New York Historical Society, insieme a una serie di gruppi religiosi, ha protestato, sostenendo che la chiesa è patrimonio storico e non può essere distrutta. Dopo un notevole lavoro di persuasione da parte di tutte le persone sensibili al problema, la chiesa è stata dichiarata monumento storico ed è passata sotto la giurisdizione del comune. Grinnell e soci, allora, hanno querelato il comune di New York, affermando che, con il divieto di costruire sul terreno di loro proprietà, la modifica del piano regolatore si configurava come vera e propria espropriazione». «Secondo la clausola del quinto emendamento relativa alle espropriazioni», intervenne Lisa, «lo stato non può destinare una proprietà a uso pubblico senza pagare al proprietario un giusto indennizzo. In questo caso, l'indennizzo ammonterebbe alla somma che i proprietari avrebbero ricavato dalla costruzione di un grattacielo». «Ma io avevo capito che c'era stata una modifica del piano regolatore», disse Nathan. «In che senso un piano regolatore può essere considerato un'espropriazione?». «Il problema è precisamente questo», disse Ben. «La modifica del piano regolatore non è considerata espropriazione se ha come scopo la promozione di importanti interessi collettivi. Ad esempio, una giunta può decidere che un certo terreno sia riservato a uso residenziale per tenere alla larga i costruttori di centri commerciali e offrire opportunità abitative alla comunità. Questo genere di modifiche rientra nella norma. Nel caso in questione, invece, si tratta di stabilire se la conservazione di un monumento storico promuova importanti interessi collettivi». «Certo che li promuove», affermò Lisa. «Il monumento storico appartiene a tutti. Contribuisce a preservare la memoria della comunità e ad attirare turisti». «Questo è solo uno dei modi di vedere la questione», disse Ben. Rivolto a Nathan: «Su questo punto io e Lisa non siamo d'accordo. Io credo si tratti di espropriazione bell'e buona. Basta attenersi ai fatti: gli investitori hanno
pagato milioni di dollari per acquistare l'edificio e il terreno su cui sorge, il quale, al momento della transazione non era sottoposto ad alcun vincolo che vietasse l'uso commerciale. Gli investitori non possono essere privati di questo diritto. Invece Lisa sostiene che il governo può intervenire in qualsiasi momento e dire: "Scusate, ci eravamo sbagliati. Qui non si può costruire niente e per giunta non potete neppure toccare la chiesa perché è un monumento storico". È assurdo. In sostanza, il governo è entrato in gioco e di fatto si è riappropriato del terreno, togliendolo ai legittimi proprietari. La Grinnell & Company possiede ora una chiesa vecchia e cadente fondamentalmente priva di valore». «Non è priva di valore. La Grinnell possiede un prezioso monumento storico». «Lisa, nessuno andrà mai a New York per vedere quella chiesa in disarmo. Non è Disney World. Non possono far pagare il biglietto all'entrata. Gli rimane sul groppone così com'è». «Se è così importante preservare quella chiesa, perché il governo non chiude la questione pagando il dovuto a Grinnell e soci?», domandò Nathan. «Perché un privato deve sobbarcarsi i costi di un monumento storico di cui tutti gli altri godono gratuitamente?». «Hai centrato il punto», disse Ben. «Te l'avevo detto di studiare legge». «Resta il fatto che gli investitori possiedono un monumento storico», disse Lisa. «Bella roba», replicò Ben. «Che cosa te ne fai del diritto di vantarti? Se non puoi ricavarne dei soldi, è come se avessi speso cinquanta milioni di dollari per una collezione di francobolli che non puoi vendere». «E che cosa ci sarebbe di male?», domandò Lisa. «Altrimenti, radiamo al suolo la storia e costruiamo solo centri commerciali». «Senti, non vorrei far la figura di zio Paperone, ma è certo che la storia non paga le fatture. Questa società ha investito milioni di dollari solo perché faceva affidamento sul piano regolatore. Se il comune cambia idea, chiunque subisca dei danni dev'essere indennizzato. Punto». «Insomma, Ben, secondo te dovremmo...». «Okay, credo che il concetto sia chiaro», li interruppe Nathan. «Sono certo che potreste andare avanti tutta la notte, ma c'è qualcuno, tra noi, che domattina deve alzarsi per andare al lavoro». «Del resto, la decisione non spetta a noi», disse Ben. «Hollis e la sua banda ci diranno cosa scrivere e noi lo scriveremo». «Esatto», disse Nathan, richiudendo il suo zainetto. «Quindi, cambiamo
argomento. C'è altro di cui dobbiamo discutere?». «Credo di no», rispose Ben. «Speriamo che domani vada tutto bene». «In caso contrario, spero soltanto che tu non vada fuori di testa, riducendoti a un cane malato ripiegato su se stesso», disse Ober. «Che cosa dici?», domandò Lisa, perplessa. «Oh, no», piagnucolò Ben. «La teoria di Batman no». «Cosa sarebbe?», incalzò Lisa. «Non sono sicuro che tu sia in grado di reggerla», la avvertì Ober. «Ci proverò». «Bene», disse Ober, congiungendo le mani con schiocco. «La teoria si basa sul presupposto che la tua vita possa andare in malora in una sola giornata». «E cosa c'entra Batman?», domandò Lisa, scettica. «Perché Bruce Wayne è diventato Batman? Perché gli hanno ucciso i genitori davanti agli occhi. Quel giorno la sua vita è stata distrutta e lui si è dovuto trasformare in qualcosa di completamente diverso per non impazzire. Lo stesso vale per Robin: i suoi genitori sono morti cadendo dal trapezio. E adesso pensa ai cattivi: il Joker è caduto in una tinozza piena di acido ed è stato tradito dalle persone a cui voleva bene. Two-Face è stato sfigurato con una fiala di acido. Nel film, Catwoman viene spinta fuori dalla finestra e Riddler ha perso il lavoro. Basta una sola giornata per piombare nella follia e nella disperazione». «È una teoria eccellente, ma ha un difetto», disse Ben. «E quale sarebbe?». «NON PARLA DI PERSONE REALI! QUELLI SONO PERSONAGGI DEI FUMETTI!», strillò Ben, facendo sbellicare dalle risate Lisa e Nathan. «E allora?», fece Ober. «Allora, non mi interessa neppure l'alternativa tra procurarmi una tuta da Batman o diventare il nuovo cattivo di Gotham City. Chissà perché, non credo che la tua teoria si applichi alla vita reale». «Lo dici adesso», sentenziò Ober, «ma non sai cosa potrebbe riservarti il domani». «Questo è vero», disse Ben, «ma di sicuro non me ne andrò in giro con cappuccio e mantello». Quando Ben, Nathan e Ober rientrarono a casa, trovarono Eric intento a scrivere, seduto al tavolo della sala da pranzo. «Ehi, dove siete stati?», domandò, posando la penna. «Cominciavo quasi a preoccuparmi».
«Eravamo...». «Da nessuna parte», tagliò corto Ben. «Ben, la vuoi piantare?», implorò Eric. «No, proprio non posso», disse Ben, andando in cucina a prendere qualcosa da bere. «Hai cominciato tu, e ora devi accettare le conseguenze». «Ti ho chiesto scusa. Che altro vuoi?». «Che altro voglio?», domandò Ben, versandosi un bicchiere di acqua presa dal frigorifero. «Be', vediamo... Voglio lealtà. Voglio il rispetto...». «Lasciamo stare», disse Nathan, prendendo posto accanto a Eric. «Andiamocene a letto». «Ah, Ober», riprese Ben. «Non sono affatto contento che tu abbia raccontato a mia madre della lite tra me e Eric. Non sono affari suoi». Seduto sul divano, Ober stava sfogliando una rivista. «Le ho detto che si è trattato di una piccola disparità di vedute». «Spiegami che motivo c'era di parlarne con mia madre», insistette Ben. «Era proprio necessario?». «Lo sai com'è fatta», si giustificò Ober. «Ha cominciato a interrogarmi su cosa stava succedendo. Quando si mette, è impossibile fermarla. Era come se avesse capito che qualcosa non andava. Ma non le ho detto nient'altro. Giuro». «Nei sei sicuro?», incalzò Ben. «Davvero, a parte quello, sono stato muto come un pesce». «Come mai, allora, mi ha detto che hai confermato la voce secondo cui io andrei a letto con Lisa?». Il viso di Ober si aprì in un ampio sorriso. «L'ho detto per scherzo». «Ah, grazie», disse Ben, sarcastico. «Grazie alla tua idiozia, ora Lisa è invitata a casa mia per le feste del Ringraziamento». «Verrà a casa tua per il Ringraziamento?», domandò Ober, ridendo. «La mangeranno viva! Non è stupendo?». «Forse, dovresti consigliarle di indossare un giubbotto antiproiettile», disse Eric. Ben lo fulminò con un'occhiataccia; quindi, tornò a Ober. «Aspetta solo che mi capiti di parlare al telefono con tua madre». Raccogliendo lo zainetto blu posato ai piedi di Nathan, Ben si accinse a salire in camera sua. «Forse è meglio se passi a ritirare la camicia di forza in tintoria. Sai, non si sa mai». 9
L'indomani, a mezzogiorno, Lisa entrò in ufficio e annunciò «È rimandata ancorata». «Cosa?», domandò Ben, distogliendo l'attenzione dalla dozzina di richieste di revisione impilate sul suo tavolo. «È sabato... I giudici non sono neanche presenti». «Osterman ha appena chiamato Joel da casa», spiegò Lisa. «Non hanno ancora deciso». «Incredibile», disse Ben. «E qual è la ragione? Vogliono che il caso Grinnell diventi il più procrastinato della storia?». «Hanno scelto martedì come termine ultimo». «Hanno spostato la seduta da mercoledì a martedì?». «Solo per questa settimana», spiegò Lisa. «Volevano assicurarsi di avere un giorno libero in più per il ponte del Ringraziamento. Per quel giorno, dunque, la questione sarà decisa». «Non è male», ammise Ben. «In effetti, a volte sono simpatici», concesse Lisa. Andò a sedersi sul divano e si tolse le scarpe. Guardò l'orologio. «Mancano solo otto ore al grande incontro. Sei teso?». «Ho un nodo allo stomaco». «Se non altro non dovrai preoccuparti di farti sfuggire qualcosa a proposito del caso Grinnell». «Ho imparato la lezione, grazie». «Ehi, non prendertela!». «Come faccio a non prendermela?», domandò Ben. «Non sto dicendo che ti saresti lasciato sfuggire qualcosa», spiegò lei. «È solo che la tua espressione avrebbe potuto tradirti, se lui ti avesse chiesto della decisione». «Mia cara, quando uno ha una faccia da pokerista come la mia ha la certezza di non lasciar trasparire nulla». «Credi di avere una faccia da pokerista?». «Io so per certo di averla». Ben contrasse i muscoli del viso nel tentativo di adottare uno sguardo gelido, di pietra. «Sarebbe quella la tua faccia da pokerista? Sembri stitico». «È uno sguardo fiero», disse Ben, sforzandosi di conferire al proprio piglio la massima intensità. «Sono un lupo in caccia. In agguato. Sono astuto». «Tu stai sognando», disse Lisa. «Se incontrassi uno che mi guarda a quel
modo penserei che è sotto l'effetto di psicofarmaci». Smettendo quella smorfia, Ben agitò minacciosamente un dito: «Non sottovalutare l'effetto di uno sguardo da psicofarmaco-dipendente. È grazie a questo che abbiamo vinto la guerra fredda». «Sì, sì, va bene». «Sul serio», insistette Ben. «Tutta la campagna per la rielezione di Reagan si è fondata sull'effetto garantito da questo tipo di sguardo». «Le tue scemenze mi hanno stancato». «Come vuoi; però, devo dirti che la rimozione è un'arma psicologica a doppio taglio. Finisce per ferirti in modo imprevedibile». «Non c'è problema», disse Lisa. «Mi piace vivere sul filo del rasoio». Alle sette e mezza, Ben preparò la propria borsa e tolse il cappotto dal ripostiglio. «Sei pronto?», domandò Lisa. «Penso di sì», disse Ben. Appoggiò il cappotto sulla scrivania e si tastò il petto, controllando per la quinta volta che il microfono fosse fissato in modo appropriato. «Abbiamo pensato a tutto», disse, riprendendo il cappotto. «Se Nathan fa bene il suo lavoro, dovrebbe funzionare. Entro domani avremo le prove del tentativo di corruzione e la vera identità di Rick». «Chiamami quando è tutto finito. Buona fortuna», disse Lisa, protendendosi verso Ben e dandogli un bacio benaugurante sulla guancia. Sorridendo, Ben disse: «Che fatica reprimere l'impulso a infilarmi la lingua in bocca, eh?». «Ho resistito a malapena», disse lei. Mentre Ben si apprestava a uscire, Lisa aggiunse: «Fa' in modo che Rick tenti di corromperti. Altrimenti, non avremo altro che foto di due uomini a cena». «Fai conto di averle già in tasca». Percorrendo Massachusetts Avenue, Ben era in preda all'ansia. Temendo eventuali pedinatori, si guardava alle spalle ogni due minuti. La serata novembrina era fredda e Ben rialzò il bavero del cappotto. "Io sono di Boston", pensò. "Un tempo come questo non dovrebbe preoccuparmi". A mezzo isolato dal ristorante thailandese, si guardò alle spalle. Nessuno. Si mise a parlare col capo chino in avanti. «Breaker uno-nove, breaker unonove. Mi sentite? Sono il padre di Ober, Robert Oberman. Volevo sapere se mio figlio è sempre il deficiente che era. Mi sentite?». Avvicinandosi al Two Quail, vide che il tavolo davanti alla vetrina era vuoto. Guardò dietro di sé. Nulla. Quindi, rivolse uno sguardo verso la vetrina del ristorante thailandese e vide le sagome di Nathan e Ober. I due amici indossavano
maglie con la scritta Washington D.C. e cappelli da baseball dello Smithsonian. Con le loro macchine fotografiche posate sul tavolo, si confondevano tra i turisti che affollavano il locale in quella serata di fine autunno. Nathan fece un cenno discreto ma inequivocabile con un pollice alzato, a significare che la ricevente funzionava. Salendo i gradini del Two Quail, Ben si domandò a che ora si sarebbe fatto vedere Rick. "Di certo arriverà con un po' di ritardo", pensò. Situato nel vecchio quartiere elegante alle spalle di Capitol Hill, il Two Quail era poco appariscente. L'unico elemento utile a identificarlo quale ristorante era la minuscola insegna arancione e rossa sopra l'entrata. Ma il minimalismo esteriore lasciava il posto, all'interno, a una certa opulenza. Pieno di mobili antichi, il Two Quail era stato progettato in modo da assomigliare a un'abitazione familiare, in cui ogni stanza è però una sala da pranzo. Per accentuare questa impressione di luogo vissuto, ogni tavolo era circondato da sedili insoliti e vari: divani scultorei, divanetti art déco, sedie antiche con lo schienale dotato di poggiatesta laterali ed elaborate panchine fissate a terra. Ben entrò nel locale e si avvicinò al maître, che indossava pantaloni di lana nera e un maglione di cashmere a collo alto. «Salve, mi chiamo Ben Addison. Doveri incontrarmi con un amico tra cinque minuti circa». Consultando la sua lista, il maître disse: «Abbiamo una prenotazione a suo nome per due persone alle otto, vero? Vuole accomodarsi o preferisce aspettare il suo amico?». «Preferirei sedermi», disse Ben. «Come vuole. Da questa parte», disse l'uomo, conducendolo al tavolo desiderato. «Le auguro una buona serata», aggiunse poi, consegnando il menu a Ben. «Sono dentro», bisbigliò Ben a capo chino. «Mi sentite anche da qui?». Dalla sua postazione privilegiata Ben colse distintamente il cenno affermativo degli amici appostati nel ristorante sul lato opposto della strada. «Che cosa dice?», domandò Ober. «Aspetta un secondo», disse Nathan, concentrandosi sulla voce che fuoriusciva dal minuscolo auricolare. «Vuole sapere se riusciamo a sentirlo». Facendo un cenno col capo, Nathan sorrise a denti stretti e disse a Ober: «Ora non ci resta che aspettare». Alle otto e un quarto, Rick ancora non era arrivato. "Dove diavolo s'è
cacciato?", pensò Ben, prendendo un grissino dal paniere posto al centro del tavolo. "Magari ha deciso di non venire. Magari ha scoperto il nostro piano. Ma no, è impossibile. Arriverà. Quel lurido e avido bastardo. Verrà di sicuro". «Posso portarle qualcosa da bere?», domandò il cameriere. «Come?», balbettò Ben, riscosso dal suo sogno a occhi aperti. «Desidera bere qualcosa nell'attesa?», ripeté il cameriere. Ben abbassò lo sguardo e si accorse di aver ridotto il grissino in pezzi piccolissimi, sparsi un po' dappertutto sulla tovaglia immacolata. «No. No, grazie». «Sembra preoccupato», disse Ober, guardando attraverso il teleobiettivo montato sulla macchina fotografica di Nathan. «È naturale che lo sia», osservò Nathan. «Rick è in ritardo di un quarto d'ora». «Credi che si farà vedere?», domandò Ober. «Come faccio a saperlo?», rispose Nathan. «Mica lo conosco!». Dopo altri cinque minuti, il cameriere si avvicinò al tavolo di Ben. «È lei il signor Addison?». «Sì», rispose Ben. Senza dire altro, il cameriere gli consegnò un foglio ripiegato. Aprendolo, Ben vide che si trattava di un messaggio scritto a mano. Diceva: «Ben, che ne diresti di spostare la festa da qualche altra parte? Tutti quei turisti sull'altro lato della strada mi rendono nervoso. Segui il cameriere sul retro del ristorante; al resto ci penso io. Ovviamente, se non te la senti di venire, ti capisco; però sarebbe la rottura definitiva del dialogo. Rick». Quando Ben alzò gli occhi dal foglio, il cameriere disse: «Se vuole seguirmi, signore». «Dove sta andando, secondo te?», domandò Ober, quando Ben si alzò da tavola. «Non ne ho idea», disse Nathan. «Non ha detto niente. Forse sta soltanto andando in bagno». Seguendo il cameriere nel retro del ristorante, Ben disse: «Uno è lì che si prepara a gustare una bella cena rilassante e, all'improvviso, bingo! Gli arriva un biglietto che gli dice di alzarsi e uscire. Uno rimane sorpreso».
«Oh, merda, è nei guai», disse Nathan. Prelevò la macchina fotografica e si lanciò a prendere il cappotto. «Cos'ha detto?», domandò Ober, seguendo l'esempio di Nathan. «Tienimi la macchina fotografica», disse Nathan. I due amici uscirono a razzo dal ristorante thai e attraversarono il viale diretti al Two Quail. Appena entrati, furono bloccati dal maître. «Posso essere utile?». «Dov'è l'uomo che era seduto lì?», domandò Nathan, indicando il tavolo accanto alla vetrina. «Credo sia andato in bagno», disse. Nathan si fece largo e attraversò di corsa il ristorante. «Dov'è il bagno?», urlò, incocciando in un assistente di sala. «Di là», rispose questi, indicando il retro del ristorante. Nathan si fiondò nel bagno e spalancò le due cabine. «Merda!», esclamò, scoprendole entrambe vuote. Uscì dal bagno e andò a sbattere contro Ober. «Non c'è», disse Nathan, nello spazio angusto di un corridoio sul retro del ristorante. Si guardò in giro e in fondo al corridoietto vide un'uscita d'emergenza. Nathan e Ober si lanciarono verso la porta e si ritrovarono nel vicolo sul retro. In fondo all'isolato videro una limousine nera che stava ripartendo. «Presto, passami la mia macchina», disse Nathan. Ober gliela diede. Nathan scattò quattro foto in rapida successione mentre l'auto scompariva alla loro vista. «Maledizione!», urlò, mentre l'auto svoltava l'angolo. «Sei riuscito a leggere la targa?», domandò Ober. «Io no, ma la macchina dovrebbe averla fotografata. Speriamo di poterla ingrandire». Prendendo dallo zainetto la ricevente, Nathan si risistemò l'auricolare nelle orecchie e accese l'apparecchio. «Non credo che ci servirà più», disse Ober. Stupito di sentire le parole di Ober in stereo, Nathan alzò gli occhi e vide che Ober stava raccogliendo da terra il microfono di Ben. «Merda!», gridò Nathan, togliendosi l'auricolare. «Credi che se la caverà?», domandò Ober. «Sì», rispose Nathan, senza troppa convinzione. «Sono sicuro che se la caverà». Quando ebbe la certezza che l'auto si fosse definitivamente allontanata, Nathan si voltò e gridò: «Lisa, li hai fotografati?». «Sì, li ho presi!», esultò Lisa, sbucando da dentro un bidone verde scuro dell'immondizia accanto all'uscita di emergenza. Nathan e Ober le si avvicinarono e lei passò loro la macchina per uscire dal bidone. «Ho fotografa-
to tutto! L'autista della limousine, Rick, la targa e tutto il resto». «Mi sarebbe piaciuto avere anche la registrazione audio», disse Nathan, riavvolgendo il rullino della macchina di Lisa. «Non ti preoccupare», disse lei. «Perlomeno riusciremo a identificarlo». «Meno male che eri nascosta nel bidone», commentò Ober. «È stata un'idea di Ben», disse Lisa. «Sapeva che Rick vi avrebbe individuati immediatamente». Togliendosi dai jeans l'immondizia residua, aggiunse: «Avrei solo preferito che non toccasse a me calarmi in quella fetenzia». «Rick non si sarebbe mosso se non avesse saputo dove eravamo io e Ober», disse Nathan, mentre i tre si avviarono lungo il vicolo. «Sei sicura di aver fatto delle fotografie nitide?», domandò, reggendo tutt'e due le macchine fotografiche. «Sì, assolutamente», disse Lisa. «I finestrini erano oscurati, ma Ben glieli ha fatti abbassare prima di salire». «A proposito», disse Nathan, «possiamo considerarlo al sicuro? Perché altrimenti io chiamerei la polizia». «No, aspetta a chiamare la polizia», obiettò Lisa, quando i tre raggiunsero la strada principale. «Per quel che ne sappiamo, Rick è solo in cerca di informazioni». «Da quanto tempo!», disse Ben, quando si fu accomodato accanto a Rick sul sedile posteriore della limousine. «Devi essere stato piuttosto impegnato ultimamente». «Puoi dirlo», ammise Rick, lisciandosi il cappotto beige di cashmere contro i pantaloni marroni di tweed. «E immagino che tu abbia fatto strada nel giro, dall'ultima volta», disse Ben. «Sono impressionato. Una limousine solo per me». «Be', credo che tu meriti il meglio». «Sai, vorrei anche ringraziare il tuo autista», disse Ben, bussando sul vetro divisorio. «Mi ha dato proprio una bella palpata generale prima di farmi salire in macchina». «L'idea di perquisirti è stata mia», confessò Rick. «A dire il vero, lui sosteneva che tu non avessi le risorse per procurarti un microfonino senza fili». «Davvero ha detto questo di me?», disse Ben, bussando più forte sul vetro. Quando l'autista si voltò, Ben gli mostrò il dito medio. Tornando a voltarsi verso Rick, disse: «Scusa. Dov'eravamo rimasti?». «Ti ricordavo meno nervoso», disse Rick. Si passò una mano tra i capelli
biondi perfettamente pettinati. «Sai bene com'è lavorare alla Corte suprema», Ben disse. «Oh, è vero... dimenticavo che tu non ci hai mai lavorato. Che sbadato!». «Ben, lo so che sei arrabbiato, e capisco che...». «No, tu non capisci. A meno che tu non sia stato inculato per dei luridi soldi da qualcuno di cui ti fidavi». «Non essere così drastico nei tuoi giudizi», sbottò Rick. «Non sai nulla della mia vita». Poi, aggiunse: «Non ti avrei voluto ingannare, ma a quel punto non sapevo ancora se fidarmi di te». «Allora è per questo che adesso siamo qui? Adesso sai di poterti fidare di me?». «Non ho detto questo», rispose Rick, appoggiandosi alla portiera. «Credevo soltanto che tu meritassi una spiegazione». «E quale sarebbe la spiegazione? Sei andato da Maxwell con l'informazione che mi hai estorto e ti sei fatto qualche milioncino di dollari. Che altro c'è da dire?». «Sei così sicuro che sia andata così?». «Be', abbastanza», disse Ben. «L'ultima volta che ci siamo visti, abbiamo mangiato in una pizzeria dove per quattro dollari e novantacinque cent si può ingollare tutta la pizza che si vuole. Adesso, invece, giriamo in limousine e sei vestito come se dovessi andare alla prima di un film. Se aggiungi che Maxwell ha compiuto una delle operazioni più spericolate in tutta la storia delle telecomunicazioni, direi che il quadro è completo. Mi sbaglio?». «Perché cerchi ossessivamente di stabilire cosa è giusto e cosa sbagliato?», domandò Rick. «È questo il tuo problema, lo sai? Vuoi sempre distinguere il bianco dal nero, ma la vita è tutta un chiaroscuro, amico mio...». Ben lo interruppe. «Rick, perché hai voluto incontrarmi?». «Per fare due chiacchiere con un vecchio amico. So che ultimamente hai avuto dei contrattempi e volevo accertarmi che stessi bene». «Quali contrattempi?», domandò Ben, per cercare di capire fino a che punto Rick sapesse. «Be', per prima cosa, il tuo amico ti ha usato per fare carriera come giornalista; poi sei stato interrogato nell'ufficio dei marshall; infine, il tuo piano per registrare la mia voce è fallito. Tutto sommato, direi che hai passato una settimana tremenda. Mi sbaglio?». «È stata un po' agitata, ma posso sopportare ben altro», disse Ben, ab-
bassando lo sguardo. «Mi sembra una visione piuttosto ottimistica», commentò Rick, con un ghigno appena accennato. «Vorrei farti una domanda, Ben: hai scoperto qualcosa con le indagini che hai avviato sul mio conto? Come ho scritto nella lettera che t'ho mandato, il giochetto della bolletta telefonica non era male, ma tentare di entrare nel mio ex appartamento è stata davvero una mossa stupida. Insomma, da un uomo della tua statura intellettuale, mi aspetto una maggiore capacità di analisi». «Be', in effetti, a parte il microfonino incorporato nei gemelli, le cose non sono andate particolarmente bene. Ma visto che quello ce l'ho ancora, non mi lamento». «Eppure meriteresti maggior fortuna», disse Rick, con un sorriso tirato. Notando alcune goccioline di sudore sulla fronte di Rick, Ben prese un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e glielo porse. «Non vuoi asciugarti la fronte? Hai un'aria così poco professionale». «Sei tutto contento quando credi di avere la vittoria in pugno, eh?», domandò Rick. «Ma sappi che se anche tu avessi addosso il più minuscolo dei microfoni, io lo saprei. Ho investito troppo nella mia attività, perché possa rischiare tutto per uno stupido errore». Accorgendosi a sua volta del velo di sudore che imperlava la fronte di Ben, Rick gli restituì il fazzoletto. «Il microfono nei gemelli... Ma chi credi di essere? James Bond?». «Visto che sei così preparato, dimmi per quale ragione rischi di farti beccare in giro con me?». «Come ti ripeto, volevo solo rivedere un vecchio amico. Ma dimmi, come vanno le cose alla Corte?». «Benissimo. Da quando la sessione ha avuto inizio, ho scritto le relazioni per più di trenta casi. Tra questi, ce n'era almeno una dozzina in grado di farti guadagnare ben più di un milione di dollari». Ben fissò Rick negli occhi, senza battere ciglio. «Non offendere la mia intelligenza. Dimmi cosa vuoi e qual è l'offerta». «Eh, già, e magari ti piacerebbe ricevere la tua parte in un bel pacchettino anonimo con i fiocchi, vero?», disse Rick. «So che sei in una posizione difficile. All'inizio dell'anno eri destinato al successo, ma con l'inconveniente di Eric hai messo a repentaglio la tua intera carriera. Se la stampa scopre il legame tra te e Eric, finirai sbranato vivo! Le offerte di lavoro degli studi legali di Washington non valgono nulla: se verrai sospettato di aver favorito una fuga di notizie, nessuno ti farà più lavorare. Ciò significa che le prossime settimane saranno piuttosto pericolose, per te».
«È una minaccia?». «Nient'affatto. Anzi, io sono venuto a proporti una tregua. Tu sai che cosa mi serve. Sono quasi sicuro che l'hai sempre saputo. In cambio, io farò in modo che tu venga adeguatamente ricompensato». «Mi scuserai, ma non conosco bene il gergo della malavita. A quanto ammonta l'avverbio "adeguatamente"?». «Tre milioni di dollari», disse Rick, senza giri di parole. «Credo siano più che sufficienti a dissipare qualsiasi tuo timore per il futuro». «Almeno una parte dei soldi che hai fatto devi esserteli fumati, se credi che io intenda prendere la percentuale da te. Al momento, la mia vita va abbastanza bene. La stampa nutre qualche sospetto, ma per il resto è tranquilla. Se invece accetto i tuoi soldi, sono definitivamente fregato. Se un assistente si fa vedere in giro con tre milioni di dollari, è probabile che a qualcuno venga ben più di un semplice sospetto». «Ben, tu sei fregato comunque. Magari, al momento, non hai ancora troppi problemi con la stampa, ma è solo una questione di tempo; scopriranno presto che tu e Eric vi conoscete. Quando quel giorno arriverà, spero che ti troverà pronto. Io ti consiglio di accettare il denaro: se non altro sarai preparato a fronteggiare il disastro cui va incontro la tua esistenza». «Hai ragione. Se la stampa viene a sapere di me e Eric, sono finito. Ma non è detto che succeda. Se invece all'improvviso il mio conto in banca si gonfia a dismisura, ho la certezza che più d'un sopracciglio si solleverebbe sospettoso. A quel punto, tanto varrebbe costituirmi». «Che ingenuo! Credi davvero che io sia così scemo da presentarmi a casa tua con una borsa piena di soldi? I tuoi tre milioni di dollari verrebbero depositati in un conto che nessuno riuscirebbe a individuare, a parte noi due». «Ah, certo... il conto in Svizzera. Che stupido!». «Ben, non stiamo giocando. Questa è la vita, la realtà. Se vuoi giocarti l'esistenza sull'improbabile eventualità che i media non si accorgano di nulla, accomodati pure. Ma io so che tu sei un tipo più pragmatico. Se non prendi i soldi, rischi di perdere tutto. Spero che tu scelga un futuro più sicuro». «Se decidessi di non aiutarti chi mi garantisce che tu non mi ricatteresti?». Rick lo fissò gelidamente negli occhi. «Nessuno. Il ricatto, però, non risolverebbe né i miei problemi né i tuoi. Se io svelassi il tuo coinvolgimento nella vicenda Maxwell rischierei di rimanere implicato a mia volta. Sai
bene che se si scopre la verità, siamo entrambi rovinati. Se è facile imbrogliare un assistente della Corte suprema, molto più difficile è sfuggire ai servizi di sicurezza e agli insaziabili mezzi di comunicazione». «E se dico di no?». «Troverò qualcuno che mi dirà di sì», rispose Rick. «Credimi, non sarà difficile». «Cerchi indiscrezioni su qualche caso in particolare?». «Grinnell v. New York è uno, ma ce ne sarebbero altri». «E per quando ti servirebbe quest'informazione?». «È sufficiente che tu me la dia con tre settimane di anticipo. Prima possibile, comunque». Ben tormentava un buchetto aperto nel rivestimento del sedile. «Che effetto fa sapere che si finirà all'inferno?». «Non venire a farmi la predica», disse Rick. «È facile essere onesti quando si è già in cima alla scala sociale. Prova a rifare la corsa partendo dal basso». «Oh, ma tu vuoi spezzarmi il cuore». «Dico sul serio», lo avvertì Rick. «Se fossi in te. avrei meno preoccupazioni morali e baderei piuttosto a garantirmi un futuro sicuro. Non c'è grande domanda di geni della giurisprudenza in declino». «Dimmi una cosa», fece Ben. «Come hai fatto a ottenere tutte le informazioni sul mio conto?». «Non posso rivelarlo. Sai come si dice: un prestigiatore non rivela mai i suoi trucchi». «Bella questa», disse Ben. «Sei così originale. Be', c'è altro di cui dobbiamo parlare?». «Credo di no». «Sai una cosa?», fece Ben. «Da quando mi hanno revocato alcune autorizzazioni di sicurezza, i marshall mi stanno con il fiato sul collo». «Credo che le restrizioni a cui sei stato sottoposto non avranno alcun effetto», disse Rick. «In futuro, se avrai bisogno di metterti in contatto con me, utilizza la nostra casella postale». «Comunque, devo ammettere che il trucco della casella postale è notevole», disse Ben. «Mi ha davvero impressionato». «Oh, non è niente», si schermì Rick. Premette il pulsante dell'interfono e, rivolto all'autista, disse: «Appena vedi un posto adatto, fa' scendere il nostro ospite». «Un'ultima cosa» aggiunse Rick, quando l'autista ebbe accostato. «To-
gliti le lenti a contatto». «Cosa?». «Hai capito benissimo. Togliti le lenti. Preferisco che tu non veda la nostra targa». «Le ho pagate cento dollari», disse Ben, togliendosi la lente dall'occhio sinistro. «Nessuno te le tocca», lo rassicurò Rick. «Voglio solo che tu le tolga». Quando Ben ebbe eseguito, Rick aprì la portiera e lo fece scendere. «Grazie per la cena», disse, ridacchiando. La portiera sbatté, e la limousine ripartì. Strizzando gli occhi, Ben tentò invano di leggere la targa. «Stronzo». «Dove diavolo s'è cacciato?», domandò Nathan. «Sono sicuro che se la sta cavando bene», disse Ober, chinato a scrutare nel frigorifero. «Sono solo andati a fare un giro». «Come cavolo fai a essere così tranquillo?», domandò Nathan. «Non lo sono affatto», rispose Ober, prendendo un'acqua tonica. «Ma cosa vuoi che faccia? Quando arriverà, vedremo». Aprendo la lattina aggiunse: «Non crederai mica che Rick l'abbia rapito e gettato da un molo, vero?». «No, certo», concesse Nathan, entrando in cucina. «Rick non è un criminale da quattro soldi. Se avesse temuto che Ben potesse testimoniare contro di lui, l'avrebbe eliminato con una pallottola in testa pochi giorni dopo la sentenza. Rick vuole altre indiscrezioni». Nathan si lavò le mani con il detersivo per i piatti. Quindi, chiuse il rubinetto e dopo un breve silenzio disse: «Ober, ti fidi di Lisa?». «In che senso?». «Sul serio», insistette Nathan, asciugandosi le mani con uno strofinaccio. «Ti fidi di Lisa?». «Certo che mi fido», disse Ober, seduto al tavolo in sala da pranzo. «Non la sopporto, però mi fido ciecamente di lei. Perché? Cosa vuoi dire?». «Voglio dire che qualcuno deve aver imbeccato Rick. Il nostro piano non può averlo indovinato così, per un colpo di fortuna. Anche ammesso che ci abbia visti, come faceva a sapere del microfono? Per quel che ne so io, o Rick ci ha spiati tutti, o c'è qualcuno che dall'interno lo informa sui nostri piani». «Non è detto. Magari Rick ritiene che Ben sia un avversario da non sottovalutare e ha soltanto deciso di prendere le sue precauzioni».
«Può darsi», concesse Nathan. «Perché poi sospetti proprio di Lisa?», domandò Ober. «Perché, a parte Ben, solo noi tre conoscevamo il piano. Se c'è una spia, si tratta di uno di noi tre». «Be', io non sono», disse Ober, in tono autoapologetico. «Non ho detto che sei tu. Ho detto che, secondo me, è Lisa». «La credi davvero capace di una cosa simile?». «Come faccio a saperlo?», domandò Nathan. «Ma non ti sembra strano che lei abbia voluto andarsene a casa, invece di venire qui con noi ad aspettare Ben?» «Voleva farsi una doccia. Puzzava da far schifo». «Avrebbe potuto farla qui. Eppoi, che cosa sappiamo di lei, veramente?». «Sappiamo che lavora con Ben da quattro mesi, e Ben non ha mai avuto una parola men che gentile nei suoi riguardi». «Perché lei gli piace. Il sesso è in grado di oscurare qualsiasi capacità di giudizio». «Non so», disse Ober, scuotendo il capo. «Non credo che Lisa possa davvero fare il doppio gioco». All'improvviso, si spalancò la porta e Ben fece il suo ingresso in casa. Cominciarono a fioccare domande: «Cos'è successo?», «Dove ti ha portato?», «Stai bene?». «Sì, sto bene», rispose Ben, con le mani congiunte a coppa. «Mi serve soltanto la soluzione salina per le lenti a contatto». Dirigendosi in bagno, spiegò: «Il nostro genio del male me le ha fatte togliere perché non leggessi la targa». «Non fa niente, abbiamo fotografato tutto», disse Nathan, mentre Ben si rimetteva le lenti. «La limousine e tutto il resto». «Dov'è Lisa?» domandò Ben. Sbattendo le palpebre per posizionare le lenti, lacrime di soluzione salina gli rigarono le guance. «È andata a casa a farsi una doccia», spiegò Ober. «È riuscita a vedere Rick quando ha abbassato il finestrino?», domandò Ben. «Ha detto di sì. Ha scattato un intero rullino». «L'avete già portato a sviluppare? Le foto sono nitide? Magari possiamo ingrandirle». «Ci abbiamo già pensato», disse Nathan. «Le abbiamo portate al negozio che c'è non lontano da qui. Siccome stavano chiudendo, le foto non saran-
no pronte prima di domani mattina. Appena le ritiriamo le porto al lavoro. Lo identificheremo in men che non si dica». «Di cosa avete parlato?», domandò Ober. «Cos'è successo?». «Avete visto tutto», disse Ben, ancora alle prese con le sue lenti a contatto. «Proprio come pensavamo, quello stronzo sapeva tutto. Quando ero seduto al tavolo mi ha fatto recapitare un biglietto che diceva di uscire sul retro, se volevo vederlo, perché non voleva farsi fotografare da voi due. Stavo per cagarmi addosso». «Dunque, sapeva che eravamo lì», rifletté Nathan. «Hai conservato il biglietto? Potremmo trovare delle impronte digitali o commissionare un'analisi grafologica». «Niente da fare», disse Ben. «L'autista della limousine me l'ha tolto di mano quando mi ha perquisito per cercare il microfono». «Te l'avevo detto...», attaccò Ober. «Ti prego, risparmiami», disse Ben, irritato. «Siediti», disse Nathan. «Non posso», sospirò Ben, appoggiandosi al tavolo della cucina. «Sono troppo agitato». Passandosi una mano tra i capelli, disse: «Non ci posso credere. Siamo senza registrazione audio. Se anche avesse avuto un trapano elettrico, non credo che avrebbe potuto perforarci più a sangue di così». «Che altro ha detto?». «Vuole la decisione sul caso Grinnell, e ha detto che se lo aiuto mi dà tre milioni di dollari». «Tre milioni?», domandò Ober. «Gli hai detto di no?», aggiunse Nathan. «Certo che no», disse Ben. «Ho fatto esattamente come avevamo deciso». «Quando se n'è parlato?», domandò Ober. «Non ricordo». «Stanotte», rispose Ben. «Tu eri giù a parlare con Eric». «E perché non mi avete chiamato?». «Te l'ho appena detto... Eri con Eric», si giustificò Ben. «Mi dispiace». «A proposito di Eric...», disse Ober. «Ober, lo so che ti dà fastidio, ma non ho assolutamente voglia di parlarne», lo interruppe Ben. «Per me l'argomento è chiuso, quindi lascia perdere». «Pensi che Rick ti creda sinceramente interessato?», domandò Nathan. «Assolutamente. Ha detto che se si scopre che io e Eric ci conosciamo, sono fregato. Quindi, secondo lui, se non accettassi quei soldi sarei un cre-
tino». Dopo un breve silenzio, Nathan disse: «In effetti, rifiutare è da cretini». «Lo so», disse Ben, fissando il pavimento attraverso il piano del tavolo di vetro. Quindi, si alzò e si diresse in cucina. «L'unica altra cosa che mi ha sconvolto è stata la quantità di cose che sapeva di me. Sapeva tutto. Sapeva di Eric e dell'ufficio dei marshals. Ha persino detto qualcosa a proposito del pranzo con quelli dello studio legale», spiegò Ben. Nel frattempo, aveva sollevato la cornetta del telefono. «Chi chiami?», domandò Nathan, sospettoso. «Lisa», rispose Ben. «Voglio raccontarle com'è andata». Notando le strane smorfie dipinte sui volti di Nathan e Ober, Ben domandò: «Perché? Cosa c'è che non va?». Nathan tacque. «Crede che Lisa possa aver fatto la spia con Rick», spiegò Ober. «State scherzando?!», replicò Ben, rimettendo a posto la cornetta. Tornando in soggiorno, domandò: «Non direte mica sul serio, eh?». «Non è affatto una possibilità da escludere», disse Nathan. «Come ti spieghi, altrimenti, che Rick sapesse tutto?». «Be', non è così difficile», ragionò Ben. «Conosce il nome di Eric, e l'articolo può averlo letto sul giornale...». «E come mai era a conoscenza del nostro piano?». «Può benissimo avervi visto, quando eravate appostati in quel ristorante». «E quello che gli ho detto anch'io», intervenne Ober. «Sì, ma tutto il resto? L'ufficio dei marshals, lo studio legale, i microfoni...», domandò Nathan. «Dài, Ben, non puoi fingere di non vedere». «Non faccio finta di non vedere», insistette Ben. «Credimi, è dall'inizio di questa storia che ci sto pensando. Escludo che Lisa sia una spia. Non potrebbe mai farmi una cosa simile». «La conosci a malapena», disse Nathan. «Tu non puoi sapere cosa farebbe e cosa no». «È un'ottima amica», replicò Ben. «Ti garantisco che non lo farebbe. Eppoi, il fatto che Rick sembri così incredibilmente pieno di risorse non implica che la mia migliore amica sia una spia». «Eric è stato il tuo migliore amico per vent'anni, ma non ha avuto alcun problema a fregarti. Come puoi escludere che Lisa abbia fatto lo stesso?». «Perché Lisa è una persona infinitamente migliore di Eric. So che vi può sembrare una fanfarona, ma è di un'integrità assoluta. Fidatevi, non può es-
sere». «Ben, mi sembri scemo», disse Nathan, alzandosi in piedi. «Se credi che lei non possa fregarti, stai commettendo un errore. Ognuno ha il suo prezzo, e lei non fa eccezione. Se cominciassi a usare veramente la testa, ti renderesti conto che ho ragione da vendere». «No, non esiste», ribadì Ben, scuotendo la testa. «Se Lisa avesse fatto la spia, Rick sarebbe molto meglio informato di quanto non mi sia apparso oggi. Sapeva di cose che sono successe, ma in modo estremamente generico. In realtà, non sembrava a conoscenza di tutti i dettagli». «Non puoi esserne sicuro». «Sì, invece», disse Ben. «Gli ho gettato l'amo e lui ha abboccato». «È cascato sulla storia delle autorizzazioni?», domandò Nathan. «Si è mangiato l'amo, il filo e il galleggiante». «Ah, interessante», disse Nathan. «Di che autorizzazioni state parlando?», domandò Ober, ignaro. «Stanotte io e Nathan abbiamo discusso di strategia», spiegò Ben. «Abbiamo deciso che avrei dovuto mentire a Rick, raccontandogli che mi era successa una cosa in realtà mai verificatasi. Se lui avesse detto di esserne al corrente, avremmo scoperto che almeno in parte lui sta bluffando. Così, ho inventato che l'ufficio dei marshals mi aveva revocato alcune autorizzazioni di sicurezza, e Rick ci è cascato, dicendo di essere a conoscenza di questo fatto». «Bella mossa», commentò Ober, sinceramente colpito. «Puoi dirlo forte», ammise Ben. «Però sarei curioso di sapere come ha fatto a procurarsi le informazioni corrette di cui disponeva». «Secondo me, ha piazzato delle microspie da qualche parte», disse Ober. «Io continuo a pensare che gliele abbia fornite Lisa», disse Nathan. «Non voglio neanche sentirne parlare», disse Ben, apprestandosi a salire in camera sua. «Ho già troppe cose a cui pensare; non ho voglia di mettermi a sospettare dei miei migliori amici». Giunto in camera, Ben si richiuse la porta alle spalle; quindi, prese il telefono e compose il numero di Lisa. «Ben?», domandò lei, inquieta. «Rilassati, sto bene», disse lui, guardando sotto il tavolo alla ricerca di qualcosa che potesse assomigliare a un microfono. «Com'è andata? Tutto a posto? Ha tentato di corromperti?». «Certo, vuole altre informazioni», disse Ben. Dopo aver rievocato per lei gli eventi delle ultime ore, proseguì: «Insomma, non abbiamo altro che le
foto scattate da te e da Nathan. Speriamo che siano sufficienti». «Quando ve le consegnano?». «Saranno pronte per domani mattina», rispose Ben, esaminando a uno a uno i pezzi della sua collezione di souvenir, alla ricerca di eventuali microfoni. «Nathan ha portato i rullini a un negozio qui vicino. Se non vengono bene, siamo al punto di partenza». «Verranno benissimo», lo rassicurò Lisa. «Non appena Nathan le porterà al Dipartimento di stato, avremo tutte le informazioni che ci servono». «Be', vedremo», fece Ben. «Sei tranquillo veramente o sei semplicemente impazzito?». «Sono tranquillissimo», disse lui, mentre a quattro zampe controllava sotto il letto. «Comunque, grazie per aver accettato di infilarti nel bidone della spazzatura. Se non ci fossi stata tu, saremmo ancora al punto di partenza». «Non ci pensare», disse Lisa. «Sono qui per questo». «Lo so, ma volevo ringraziarti ugualmente». «A disposizione», disse Lisa, e riagganciò. Quella sera Nathan tornò in camera di Ben. Questi era seduto alla sua scrivania, abbandonato sulla sedia, con gli occhi fissi sulla parete. «Come va?», domandò Nathan. «Bene», rispose Ben. «Sto solo cercando di fare il punto della situazione». «Hai qualche idea?». Ben scosse piano la testa. «Non esattamente». «Non è obbligatorio che tu ci sguazzi, in questa merda», disse Nathan, sedendosi sul letto di Ben. «Cioè, potresti semplicemente lasciar perdere. L'unico problema è il tuo orgoglio ferito». «No, non è una questione di orgoglio», negò Ben, sempre sprofondato sulla sedia. «Rick continuerà a disporre di informazioni che potrebbero rovinarmi la carriera. Se io lascio perdere, vivrò sempre nell'incubo che lui si ripresenti e me le sventoli davanti al naso. Se invece riusciamo a procurarci informazioni su di lui, potrò difendermi da qualsiasi ricatto lui possa architettare contro di me in futuro». Aprì il cassetto superiore della scrivania e prese una matita. «Eppoi, è un fatto personale». «Non vorrei sembrarti un disfattista, ma non hai pensato alla possibilità di spiegare tutto alla polizia? In fondo, quelle informazioni non le hai rivelate di proposito. Rick te le ha estorte con l'inganno».
«Ci ho pensato», rispose Ben. «Ma il modo in cui Rick ha ottenuto le informazioni non ha importanza. Se si scopre che ho rivelato notizie riservate, mi cacciano dalla Corte a calci». «Sempre meglio che finire in prigione... Da parte tua non c'era alcun dolo». «Se un assistente viene licenziato dalla Corte suprema, il suo nome finisce su tutti i giornali del paese. I media si avventano sugli scandali della Corte suprema come a casa mia ci si avventa sul dessert. E se ciò si verifica, la mia carriera è finita; verrei radiato dall'albo e non potrei mai più esercitare la mia professione». «A me sembra che tu sia soprattutto preoccupato di perdere i benefici della tua condizione di ragazzo prodigio». «Può darsi. Mi sono fatto il culo per arrivare fin qui. L'ultima cosa che intendo fare è rovinare tutto con una confessione. Senza offesa, non mi pare certo la soluzione ideale». «Stavo solo considerando eventuali alternative», disse Nathan. «Sai bene che ti aiuterò comunque, qualsiasi cosa tu decida di fare». Il mattino dopo, sul presto, Ben bussò alla porta della camera di Nathan. «Mi daresti il tagliando per ritirare le foto? Ci vado io». «Aspetta un attimo», disse Nathan, chinato ad allacciarsi le sneakers. «Ti accompagno». Nathan sciolse il nodo e lo rifece. «Dài!», lo sollecitò Ben. «Quante volte l'hai già rifatto? Quattro? Cinque? Sei? Mi sembri malato, lo sai?». «A me piacciono i nodi fatti bene», disse Nathan, ancora chinato. «Scusa se sono un perfezionista». «Tu non sei un perfezionista. Sei il testimonial del prossimo calendario dell'associazione maniaci ossessivi e compulsivi». «Ecco fatto», disse Nathan, alzandosi in piedi e rimirandosi le stringhe. «Davvero un fiocco fantastico», commentò Ben, fissando le scarpe dell'amico. «Un capolavoro». «Tutta invidia», ribatté Nathan, scendendo le scale. «Ah, senti, è tutta la settimana che mia madre mi stressa. Ti va di venire a cena la vigilia del giorno del Ringraziamento?». «Chi ci sarà?», domandò Ben, abbottonandosi il cappotto. «Tutta la mia famiglia e noi quattro... e Lisa, se vuole venire». «Che significa "noi quattro"? Io non vengo se c'è Eric». «Dài!», supplicò Nathan, aprendo la porta per uscire. «Non essere immaturo».
«Non sono affatto immaturo. È solo che se vengo a casa tua voglio godermi la serata. Se c'è Eric, la cosa è impossibile. Tutto qui». «Cosa vuoi che faccia?», domandò Nathan, mentre procedevano sul marciapiede del loro isolato. «Vuoi che gli dica che non può venire? Vuoi che inviti tutti tranne lui? Inoltre, se non lo invito, mia madre non ci darà tregua. Vorrà sapere la storia dall'inizio alla fine». Camminarono in silenzio fino all'angolo della strada. Quindi, Ben disse: «Va bene. Può venire anche lui». «Oh, bravo!», fece Nathan, tirando un sospiro di sollievo. «Sono felice che il lato più indulgente di te abbia prevalso». «Nessuna indulgenza. È solo che tra il mio odio per Eric e le possibili conseguenze di un interrogatorio materno non c'è partita. Le mamme sono imbattibili». Ben e Nathan proseguirono per altri tre isolati e giunsero da Rob's Camera and Video. Sulla strada, Ben disse: «Probabilmente dovremo ingrandire le foto». «Non è un problema. Ci vorrà al massimo un'ora. Piuttosto ho paura che dalla targa non si riescano a ricavare elementi utili». «Non ti preoccupare. Se anche risalissimo soltanto a un'agenzia di autonoleggio, sarebbe comunque qualcosa». Ben aprì la porta del negozio e diede la precedenza all'amico. Nathan porse i tagliandi dei due rullini a una delle due commesse che si trovavano dietro il banco. «Dovremmo ritirare delle foto». Mentre una delle due andò a controllare nello scomparto dei rullini sviluppati, l'altra osservò Ben incuriosita. «Scusi, non è che per caso lei ha frequentato il primo biennio dell'università in Maryland? La sua faccia non mi è nuova». «No, mi dispiace», disse Ben. «Il mio amico sì, però. Si è laureato in allacciatura di scarpe». Indicando i piedi di Nathan, domandò: «Ha mai visto un nodo più teso di questo, in vita sua?». La commessa si sporse da dietro il banco. «In effetti... Ha anche un bellissimo fiocchetto». «Spiacente», disse l'altra commessa, ripassando per l'ennesima volta le buste contenenti le foto sviluppate. «Per quando dovevano essere pronte?». «Avevate detto di venire a ritirarle stamattina», rispose Nathan. «Il cognome era Oberman. Due rullini». La commessa scosse la testa. «Non le trovo. Ma... aspettate un attimo». Si mise a sfogliare tra le carte contenute in una cartelletta; a un certo pun-
to, si fermò. «Ecco. Le foto sono state ritirate circa un'ora fa da un vostro amico». Un brivido corse lungo la schiena di Ben. «Un nostro amico?». «Ah, sì! Adesso ricordo. L'ho servito io», disse l'altra commessa. «Ci ha chiesto di dirvi che le foto le aveva già ritirate lui». «Era per caso un tipo alto, capelli biondi e occhi all'ingiù?», domandò Ben. «Sì, è lui», rispose la commessa. «È stato gentilissimo». «Cazzo!», inveì Ben, picchiando un pugno sul banco di vetro. «Rilassati», disse Nathan. Rivolgendosi alle commesse sbalordite, aggiunse: «Non era un nostro amico. Avete consegnato le foto a una persona che non doveva vederle». «Oddio, mi dispiace», piagnucolò la commessa. «Non volevo...». «Non si preoccupi», la tranquillizzò Nathan. «Come sarebbe a dire "non si preoccupi"?», urlò Ben. Si voltò verso le commesse e domandò: «Non esiste una procedura di sicurezza per il ritiro delle foto? Non chiedete sempre la ricevuta?». «Conosceva il nome... Ha detto che era vostro amico...». «Non tenete copia delle foto in archivio?», incalzò Ben. «Nel caso qualcuno ritiri foto non sue». «No, e al cliente restituiamo anche i negativi». «Cazzo, non ci posso credere», disse Ben, avviandosi alla porta. Seguendolo, Nathan domandò: «Non è che per caso avete delle telecamere a circuito chiuso, qui, o qualcos'altro da cui trarre un immagine del nostro amico?». «Purtroppo no», rispose la commessa. «Ce le hanno rubate nel corso dell'ultima rapina che abbiamo subito, a marzo». «Pazzesco!», esclamò Ben uscendo dal negozio. Nathan salutò le commesse, ringraziò e uscì. Raggiunse Ben di corsa e disse: «Mi dispiace, non avrei dovuto lasciare le foto al negozio per tutta la notte». «Non è colpa tua», disse Ben, aumentando l'andatura. «Avrei dovuto pensarci. Sono stato un vero coglione. Sarei dovuto venire a ritirarle all'apertura del negozio». «Come può averlo scoperto? Credi che qualcuno ci abbia seguito, quando ce ne siamo andati dal ristorante?». Mantenendo a fatica il passo dell'amico, domandò: «Hai detto a Lisa dov'erano le foto?». Ben non rispose.
«Gliel'hai detto, vero?». Silenzio. «Rispondi», insistette Nathan. «Hai detto a Lisa dov'erano le foto?». Bloccandosi all'improvviso, Ben alzò le braccia al cielo e urlò: «EBBENE, SÌ! GLIEL'HO DETTO! Che cosa ci vuoi fare? Le ho detto che avevamo portato i rullini a un negozio a pochi isolati da casa nostra!» «Perché l'hai fatto? Ti avevo consigliato...». «L'ho fatto perché mi fido di lei, e quando parlo con lei non mi preoccupo di dissimulare i miei pensieri: è mia amica. Puoi dire quello che vuoi, ma finché non avrai le prove, le tue congetture non mi convincono». «Di quali prove hai bisogno? Se ti accoltellasse alla schiena, diresti che non è stata lei perché non l'hai vista con i tuoi occhi». Rimettendosi in marcia, Ben disse: «Lisa non ci guadagna nulla spifferando le nostre mosse a Rick. Se il suo obiettivo fossero i soldi, si occuperebbe personalmente di passare le informazioni a Rick». «Ne sei proprio convinto?», domandò Nathan. «Prova a considerare quest'altro scenario: Rick e Lisa sono in combutta tra loro, e Lisa gli passa le informazioni. Ma c'è un problema: nel caso si scopra che c'è stata una fuga di notizie, serve un capro espiatorio. A questo punto entra in scena l'assistente scemo, tale Benjamin Addison. Si procurano informazioni sul suo conto e, se qualcosa va storto, ecco pronta la vittima sacrificale. Non devono far altro che accumulare le prove del tuo coinvolgimento». Ben percorse in silenzio l'isolato successivo. Poi disse: «Capisco quello che vuoi dire, ma non sono d'accordo. Quando torneremo dalle feste del Ringraziamento, ne riparleremo, ma fino a quel momento voglio trascorrere giorni tranquilli. Ci sarà anche Lisa, e non voglio passare il fine settimana a sospettare di lei». «Forse, faresti meglio a non portarla a casa con te», consigliò Nathan. «Toglitelo dalla testa. Lisa ha già fatto il biglietto e verrà. Fine della discussione». «Come vuoi. Sei tu che decidi». 10 «La decisione sul caso Grinnell è stata presa», disse Ben, entrando nell'ufficio con una pila di libri. «Come fai a saperlo?», domandò Lisa, distogliendo lo sguardo dai fogli su cui stava lavorando. «La seduta non è ancora terminata».
«Sì, invece», replicò Ben, scaricando i libri sulla scrivania di Lisa. «Osterman ha appena avvertito i suoi assistenti che toccherà a loro scrivere la relazione di maggioranza. Alla fine, Veidt ha deciso di stare con i cattivi». «Chi te l'ha detto?». «Ho appena incontrato uno degli assistenti di Blake in ascensore. Aveva il sorriso da mangiamerda più enorme che abbia mai visto. Stronzo devastatore di monumenti storici». «Questa è bella», disse Lisa, afferrando la cornetta del telefono. «Dov'è Hollis? Come mai non ce l'ha detto?». «Non credo che sia il momento più adatto per chiamarlo. Probabilmente è già abbastanza incazzato». «È sicuro che toccherà a noi scrivere la relazione di minoranza?», domandò Lisa, rimettendo a posto la cornetta. «Così pare. È solo una mia supposizione, però». «Perché sei così arrabbiato?», domandò Lisa. «Non dicevi che la delibera della giunta di New York è da considerare come un'espropriazione». «Infatti», disse Ben. «Solo che detesto assistere alla vittoria dei vampiri. Eppoi, hanno giocato sporco, questa volta». «Com'è andata la votazione finale?». «Cinque a quattro. A quanto pare, Osterman ha convinto Veidt del fatto che la salvaguardia della chiesa finirebbe per gravare in misura sproporzionata sui proprietari del terreno». «Vuoi dire che la decisione di Osterman si basa sulla sproporzione tra danni e benefici? Sei sicuro che non si tratti di un atto di sfida volto a delegittimare il piano regolatore?» Scuotendo il capo, Ben disse: «Se avessero attaccato apertamente il piano regolatore, non avrebbero ottenuto i voti necessari. L'assistente di Blake ha detto che c'era un'unica formulazione a cui Veidt potesse acconsentire, e dunque Osterman sosterrà che i benefici derivanti dalla presenza di monumenti storici investono l'intera cittadinanza, cosicché anche l'onere della loro conservazione spetta all'intera cittadinanza e non a singoli individui». «Insomma, se la città di New York vuole preservare quella chiesa, deve pagare a Grinnell e soci i ricavi previsti in caso di sviluppo alternativo dell'area?». «Esatto», disse Ben. «Grinnell ha trovato la miniera d'oro e non lo sa. Mieterà gli utili di un centro commerciale senza neppure doverlo costruire. Così il comune impara a non intromettersi negli affari di un privato cittadino».
«Come puoi credere che Grinnell sia in buonafede?», domandò Lisa. «Secondo me, aveva previsto tutto. Ha acquistato quel terreno su consiglio di un esperto costituzionalista. Sapeva che il comune sarebbe insorto se lui avesse annunciato di voler radere al suolo la chiesa per farne un centro commerciale. E quanto più faraonico sarebbe stato il suo progetto, tanti più soldi avrebbe incassato in caso di decisione della Corte a lui favorevole». «Ma dài!», esclamò Ben. «Ci sono voluti tre anni perché il caso giungesse fino a noi. Non crederai mica che l'intera operazione sia l'effetto di una speculazione?». «Forse non è una speculazione in tutto e per tutto, ma Grinnell è comunque un pezzo di merda. Hai letto il suo profilo? È un costruttore edile borioso e avido, dotato di un culo incredibile». «Così diceva il profilo?», domandò Ben. «Non me ne sono accorto». «Sai una cosa? Non posso credere che Veidt sia stato così vile», disse Lisa, voltando una pagina del suo blocco giallo. «Dobbiamo scrivere una relazione di minoranza corrosiva. La portata di questa decisione dev'essere limitata il più possibile». «Non ti preoccupare. Lo scarso entusiasmo di Veidt circoscrive l'effetto della loro decisione a questo caso particolare. Quando avremo finito, la decisione di Osterman e soci sembrerà il verbale di una riunione di vigili urbani». Lisa posò la matita e si concentrò sul ragionamento di Ben. Se il voto di un giudice non troppo convinto poteva risultare decisivo in merito a un determinato caso, era anche vero che tale decisione non risultava particolarmente autorevole. Storicamente, decisioni di questo tipo non erano quasi mai considerate validi precedenti. «Inoltre», disse Ben, «questa decisione sarà capovolta nel giro di un anno. Quando Blake si dimetterà, sai bene che gli subentrerà un giudice liberal». «Lo so», ammise Lisa. «Però è seccante vedere Grinnell che si porta a casa tutti quei soldi». Alzando gli occhi dal tavolo, aggiunse: «Hai pensato a quale interesse potrebbe avere Rick in questa vicenda?». «Ancora non sono riuscito a spiegarmelo, ma immagino che conoscendo in anticipo la decisione potrebbe cercare di acquistare azioni della Grinnell». «Cos'hai deciso? Gli fornirai l'informazione o hai un nuovo piano per registrare su nastro il suo tentativo di corruzione?». «Ancora non ho deciso», disse Ben. «Prima devo sopravvivere alle feste
del Ringraziamento con la famiglia». «Dove diavolo è finito?», domandò Ben a Nathan. Erano a casa, in soggiorno, con le valigie pronte. «Dev'essersi perso tornando a casa», rispose Nathan. «Gli stupidi si confondono facilmente». «Io dico che dovremmo piantarlo qui», disse Lisa, tornando dalla cucina con una lattina di acqua tonica in mano. «Se siamo fortunati, magari riesce anche a perdere il volo». «È meglio di no, credimi», avvertì Ben. «Se perde l'aereo, sua madre ci starà alle calcagna per tutto il fine settimana». Ben si mise a starnazzare, imitando la madre di Ober: «Vi siete dimenticati del mio bambino! Dov'è mio figlio?». «È figlio unico», spiegò Nathan a Lisa. «Sua madre è un po' posseduta». «Possessiva, vorrai dire», lo corresse Ben. «Certo, intendevo dire "possessiva". Che stupido», recitò Nathan, replicando quello scherzo che andava avanti dai tempi del liceo. «PORTATEMI VIA DI QUI!», urlò Ober, spalancando la porta di casa. «Dove diavolo sei stato?», domandò Ben. «C'è stata un'emergenza in ufficio», disse Nathan, sarcastico. «Ha dovuto tenere a bada torme di elettori che reclamavano sovvenzioni per l'aranciata». «Non sapevo che saresti partita con noi», disse Ober, rivolgendosi a Lisa. «Figurati che non paga neanche il biglietto», disse Ben. «Gliel'hanno offerto i miei genitori». «Dici sul serio?», domandò Ober. «Se sapevo che c'era in ballo un volo gratis, a tua madre avrei detto che ero io il tuo fidanzato». «M'è andata bene, allora», disse Ben. «Vogliamo uscire o no?». Ober filò a prendere la valigia in camera e tornò in soggiorno. «Dov'è Eric?», domandò. «ERIC!», urlò Nathan. «NOI ANDIAMO!». Eric si precipitò giù per le scale con uno zainetto blu scuro e si unì al gruppo senza dire una parola. Si calcarono nella Volvo di Nathan e partirono alla volta del National Airport. «I nostri bagagli sono destinati a smarrirsi», disse Lisa, dopo che le borse furono ammassate su un carrello e quindi depositate sul nastro trasportatore da un addetto.
«Cosa te lo fa pensare?», domandò Ben. «Ho appena visto la mancia che zio Paperone ha dato al facchino», disse Lisa indicando Ober. «Quanto gli hai dato?», domandò Nathan, dopo essersi accertato che la sua borsa fosse stata messa sul nastro. «Un dollaro», rispose Ober. «Gli hai dato un dollaro per cinque bagagli?», domandò Ben. «Addio, valige, è stato bello conoscervi!», gridò Lisa, all'indirizzo dei propri bagagli. «Che problema c'è?», domandò Ober. «Per un bagaglio, un dollaro va bene», disse Ben. «Ma se i bagagli sono cinque, con cinque persone diverse, dare un dollaro di mancia è come dire: "Gettate pure questi bagagli nel cratere di un vulcano. Non mi servono"». «Tranquilli», disse Eric, quando il gruppo entrò nel terminal. Rivolto a Ober, disse: «Non succederà nulla. Vedrai». Essendo l'antivigilia del giorno del Ringraziamento, l'aeroporto era affollatissimo. Sgomitando tra sciami di persone irritabili, gli amici superarono il controllo ai raggi X e si avviarono al cancello del loro volo. Ober pareva interessato alle file di negozi presenti nel terminal. «Torno subito», disse, saettando via. «Biglietti della lotteria», disse Ben a Lisa. Quando la comitiva giunse al cancello d'imbarco, si mise in coda, dietro una scia di persone in fila indiana. Dopo un po', arrivò anche Ober, congestionato e col fiatone. «Fammi indovinare», disse Ben. «Hai vinto?». «Prima ho comprato un biglietto e ho perso», spiegò Ober. «Poi ne ho preso un altro e ho perso ancora. Allora, ne ho acquistato un terzo...». «E hai perso», intervenne Nathan. «... e ho perso», ripeté Nathan. «Alla fine, però, ho comprato il quarto, magico, fortunatissimo biglietto...». «E hai vinto». «... E HO VINTO!», urlò Ober, attirando l'attenzione di tutte le persone in coda. «HO VINTO VENTI DOLLARONI!». «Dovete scusarlo, ha un piccolo scompenso», spiegò Ben ai curiosi. «Con una medicina starà meglio». «Hai vinto venti dollari?», domandò Nathan. «E che cosa ci hai comprato?». «Non vi ho comprato proprio niente», disse Ober. «Finché vi prenderete gioco delle lotterie, non ne godrete i frutti».
«Come? Hai vinto venti dollari e non hai comprato niente ai tuoi amici?», domandò Ben. «Io sto morendo di fame». «Anch'io», disse Eric. «Vado a prendere una fetta di pizza. Qualcuno ne vuole?». «Io una fetta me la mangio», disse Ober. «Fai due», disse Nathan. «Fai tre», si associò Lisa. «E tu, Ben, non ne vuoi una fetta?», domandò Eric. «No», disse Ben, distogliendo lo sguardo. «Grazie». Quando Eric si fu allontanato dalla fila, Ober diede un colpetto sulla spalla di Ben. «Non essere così stronzo. Sta facendo del suo meglio per rappacificarsi con te». «Peccato», disse Ben. «Non ho alcuna intenzione di rappacificarmi». «Sforzati di essere un po' più carino», lo implorò Nathan. «Solo per il fine settimana». «Non ti preoccupare», disse Ben. «So io come comportarmi». «Non sei un po' nervosa?», domandò Ben, quando l'aeroplano atterrò a Boston. «Un po' sì», ammise Lisa, asciugandosi i palmi delle mani sui jeans. «Ne hai ben donde», disse Ober. «Sheila Addison ti divorerà viva». «Hai portato l'aglio e il paletto di frassino?», domandò Nathan. «Se per caso ti sembra che ci sia una pausa nella conversazione, puoi guardarla negli occhi e mormorare: "Mamma...". Funziona sempre nelle situazioni critiche», disse Ben. «Sono sicura che andrà tutto bene», disse Lisa. Scuotendo la testa, Ben disse: «Ricordati che sei stata tu a voler venire. Io ho cercato di convincerti a restare a casa. La responsabilità del sangue che verrà versato ricadrà interamente su di te». «Me la caverò, vedrai», disse Lisa. Quando l'aereo fu atterrato, lo stretto corridoio si riempì di gente. Ben si alzò dalla sua poltroncina, ma per non sbattere la testa dovette rimanere curvo. Con il capo inclinato a destra, incrociò le braccia e si mise in paziente attesa. Esattamente dietro di lui, Eric si trovava nella stessa situazione. «Non è stupendo?», domandò Eric, forzando una risata gutturale. «A me fa schifo», disse Ben. «Senti, non possiamo almeno far finta che non sia successo niente?», domandò Eric. «Per non rovinarci il fine settimana». «No, Eric. Non possiamo far finta che non sia successo niente», lo ful-
minò Ben. «Per quanto tu ti sforzi di cancellarla, questa storia ci dividerà per molto tempo ancora». «Perché? Perché non possiamo ricominciare tutto daccapo? Ti ho già chiesto scusa. Te lo ripeto: scusa». «Da come ne parli tu, sembra che tutto sia successo per caso», disse Ben, sempre con il collo torto. «Ma il responsabile sei tu, se non te ne sei accorto. La colpa è tua. È chiaro?». «Okay, ho capito... Cercherò di sopravvivere, ma perché non ci provi anche tu?». Accorgendosi che alcuni passeggeri li stavano fissando, Ben abbassò la voce: «Perché con te non voglio più avere niente a che fare. Ficcatelo bene in testa e lasciami in pace». Quando parte dei passeggeri fu sbarcata, Ben riuscì a raggiungere a piccoli passi il corridoio. Finalmente in grado di raddrizzare il collo si infilò tra Nathan e Lisa. «Cos'è successo?», domandò Nathan. «Niente», tagliò corto Ben. «C'è qualcosa della tua famiglia che per caso ti sei dimenticato di dirmi?», domandò Lisa. «Ah, sì», disse Ben, inspirando profondamente, con un vago sorriso al pensiero dell'imminente fine settimana. «Non toccare mai il piatto di mio padre mentre sta mangiando. Ha uno spiccato senso della proprietà e del territorio». «Dài, Ben, non scherzare». «Sono affari tuoi, signorina. Ti consiglio soltanto di tenere sempre gli occhi bassi». Quando furono nel terminal, Lisa scrutò tra la folla nella speranza di riconoscere i familiari di Ben. All'improvviso, si sentì un ululato: «Iu-huu! Benjamin! Nathan!». «Oddio, è la mamma di Ober», sussurrò Ben a Lisa, accennando con il capo in direzione di un'acconciatura biondo platino che ballonzolava tra la folla. La donna agitava freneticamente una mano. «Fai attenzione», avvertì Ben. «Potrebbe morderti». I cinque amici si fecero largo tra la folla e videro Ober scomparire nell'abbraccio della madre. Barbara Oberman indossava una maglietta amaranto extralunga con un paio di fuseaux neri e non stava più nella pelle. «William! Quanto mi sei mancato!». Strinse Ober tra le braccia con tutta la sua forza. «Nathan!», esclamò poi, muovendo verso il gruppo degli altri. «Eric! Ben!». Li abbracciò a uno a uno, con modi da operaio alla catena di
montaggio. «E tu devi essere Lisa», aggiunse. «Devi sapere che sei la prima ragazza che Ben porta a casa dai tempi di - come si chiamava? - Lindsay... E poi?». «Lindsay Lucas», cinguettò Ober. «La pazza di Long Island». «Che fine ha fatto, a proposito?», domandò Nathan. «L'ultima cosa che ho saputo di lei è che si è fatta male giocando a bowling», disse Ober. Arrossendo violentemente, Ben lo interruppe: «Signora Oberman, sa dov'è mio padre?». «I tuoi genitori avevano da fare», rispose lei. «Vi accompagnerò io a casa. Nathan, Eric, ho detto a casa vostra che avrei accompagnato anche voi. Sono qui con il pullmino». Dopo aver recuperato i bagagli, il gruppetto uscì nel parcheggio e caricò tutto sul pullmino ogivale rosso ciliegia. Uscendo dalla Massachusetts Turnpike allo svincolo di West Newton, il pullmino si inoltrò in quel sobborgo residenziale di Boston. Armata fino ai denti e sorvegliata da pattuglie di sbirri in affitto, la comunità dei residenti era determinata a difendere il proprio status di quartiere sicuro e pulito a qualsiasi costo. Mentre l'automezzo percorreva le vie tortuose, Ben disse: «Alla tua sinistra, puoi ammirare la casa del dottor McKenzie. È la casa più grande di Newton, ovviamente». «È il migliore chirurgo plastico del mondo», spiegò la madre di Ober. «Che posto incredibile!», disse Lisa, dando un'occhiata ai dintorni. «E dire che di zone del genere ne ho viste!». Dopo aver accompagnato Eric e Nathan, la navetta degli Oberman parcheggiò davanti a casa di Ben. «Allora, come vi sistemerete per la notte?», domandò Ober, aprendo la portiera. «Spiritoso», disse Ben, mentre lui e Lisa uscivano dal pullmino. «Grazie del passaggio, signora Oberman». «Di niente. Salutami la mamma». «Lo farò di sicuro», disse Ben. «Comunque, se fossi in lei, farei molta attenzione a suo figlio, quando è in casa. È stato molto occupato al lavoro e non sta mangiando molto bene». «Mi pareva che fossi dimagrito!», disse la madre di Ober, mentre Ben richiudeva la portiera, guardato di traverso da Ober. «Sei stato davvero perfido», disse Lisa. «Se lo merita», disse Ben, percorrendo il vialetto d'accesso di casa sua. Lisa osservò la modesta dimora in stile coloniale. «Bel posto».
Quando furono giunti ai piedi dei tre gradini che conducevano all'entrata, la porta si aprì. «Benjamin!», esultò sua madre, stringendolo in un lungo abbraccio. «Sei stupendo», disse. «Un po' magro, forse, ma per il resto ti trovo benissimo. E tu devi essere Lisa», aggiunse, tendendole la mano. «Felice di conoscerla», disse Lisa. «Nel caso non l'avessi capito, questa è mia madre», disse Ben. «La stregaccia cattiva di cui ti parlavo». «Non fare lo scemo», disse la madre di Ben. «Sto cercando di fare buona impressione». Ben aveva senz'altro ereditato i tratti materni: gli occhi intensi, le sopracciglia espressive, quel modo di arricciare il naso ridendo. Anche i loro modi sembravano identici. A ogni battuta di Ben corrispondeva la pronta replica della madre. Trascinandosi dietro la propria borsa di tela riempita all'inverosimile, Ben seguì sua madre e Lisa all'interno. Quando furono in soggiorno, la signora Addison gridò: «Michael! Sono arrivati!». Da fuori, passando per la cucina, giunse il padre di Ben, in jeans e con una vecchia e frusta maglietta dell'università del Michigan. «Felice di conoscerla, signor Addison. Io sono Lisa». Stringendole la mano, Michael Addison disse: «Chiamami Michael, ti prego. Il signor Addison è il mio vecchio e malinconico papà». Aveva i capelli più lunghi di quanto Lisa si aspettasse. "Dev'essere una reminiscenza da vecchio hippy", pensò. «Perché non porti di sopra i bagagli di Lisa?», disse a Ben la madre. «Non sapevo come vi sareste organizzati per dormire, e così...». «Mamma, non siamo neanche mai usciti insieme», disse Ben. «Be', scusa, mister Scapolone», fece la madre. Rivolgendosi a Lisa, aggiunse: «Dice che non uscite insieme, ma sei la prima ragazza che porta a casa da quando stava con una certa Lindsay... Come si chiamava di cognome?». «Lindsay Lucas», dissero all'unisono Ben e Lisa. La madre di Ben sorrise. «Vedo che ne avete già parlato». «No, invece, e mi rifiuto di spiegare alcunché», disse Ben. Prese la borsa di Lisa e salì al piano di sopra. «Torno subito». Dirigendosi nella sua vecchia camera, Ben respirò il profumo dell'infanzia. "Essere di nuovo a casa dà una bella e confortevole sensazione di sicurezza", decise. Ogni volta che vi faceva ritorno si meravigliava di come tutto paresse rimpicciolito: il letto, la scrivania, il poster di Albert Einstein... Dopo aver fatto un salto in bagno, depositò la borsa di Lisa nella camera degli ospiti e ridiscese in cu-
cina. «Oooh!», esclamò Lisa, quando Ben ricomparve. «Eri così carino!». «Noo», fece Ben. «Siete già alle foto dell'infanzia? Quanto c'è voluto? Due minuti? Mamma, è il tuo nuovo record». «Lasciala stare», disse Lisa, ancora assorta in contemplazione. «Dovresti vedere qualche filmino», rincarò il padre di Ben. «Non ci pensare neppure, papà», lo avvertì Ben. «Per i filmini devono passare almeno ventiquattr'ore». «Raccontatemi di quando Ben era piccolo», chiese Lisa. «Ditele di quella volta che ho dato fuoco a Jimmy Eisenberg». «Oh, smettila», disse la madre. Tornando a rivolgersi a Lisa disse: «Era così sveglio. Ha imparato a leggere a due anni. E a quattro leggeva già gli articoli di Michael». «Ha scovato un errore di ortografia in ultima bozza», disse il padre di Ben, fiero del figlio. «Racconta a Lisa di quando l'hai trovato sul tetto...». «Ah, questa è davvero bella», disse la madre di Ben. «Una sera, quando Ben aveva cinque anni, si era fatto tardi e io non riuscivo a trovarlo. Ero disperata...». «Disperata? Tu?», domandò Ben. «Ero disperata perché non lo trovavo da nessuna parte. Volevo strapparmi i capelli, dalla disperazione. A un certo punto, sento provenire un rumore dal tetto. Mi è preso un colpo. Corro in soffitta, apro la porta che dà sul tetto e chi ti vedo? Benjamin, in pigiama, con una fune tra le mani. Gli ho gridato: "Benjamin, che cosa diavolo stai facendo quassù?". E lui, per tutta risposta: "Stavo cercando di prendere al lazo la luna"». «Noooh», disse Lisa. «Sempre il solito ambiziosetto». «Oh, insomma... lo spettacolo è finito», disse Ben, uscendo dalla cucina. «Buona notte». «Benjamin, torna qui», disse sua madre. Scorrendo le foto, Lisa alzò gli occhi e domandò: «È tuo fratello questo ragazzino?». «Sì», rispose Ben, con un sorriso malinconico. Poi guardò i genitori. Lisa tacque, confusa. «Daniel è morto quando aveva dodici anni», spiegò il padre di Ben. «Di leucemia». «Mi dispiace», disse Lisa. «Non lo sapevo». «Ora lo sai», disse Ben, nel tentativo di togliere d'impaccio Lisa. In piedi dietro di lei, le posò una mano sulla spalla. «Non ci pensare. Va tutto be-
ne». «Era un ragazzo stupendo», disse la madre di Ben, in tono estremamente fiero e dignitoso. «Sareste andati sicuramente d'accordo». «Grazie», balbettò Lisa, non sapendo che altro dire. «Forse dovremmo andare a letto», disse Ben, consultando il suo orologio. «È quasi mezzanotte». «Hai ragione», concordò la madre di Ben, impilando in perfetto ordine gli album di fotografie. «Che programmi avete, voi due, per domani?». «Credo che andremo in centro», disse Ben. «Lisa non è mai stata a Boston. Di sera, dovremmo cenare a casa di Nathan». «D'accordo», disse sua madre, alzandosi da tavola. «Joan me l'aveva detto. Ma cercate di riservare qualche ora anche per noi». «Okay. Non ti preoccupare». «È stato davvero un piacere conoscervi», disse Lisa, accomiatandosi. Lei e Ben non dissero altro finché non furono al piano di sopra. «Mi dispiace di aver chiesto di tuo fratello», disse infine Lisa, entrando con Ben nella camera degli ospiti. «Non fa niente», disse Ben, affettuoso. «È passato un po' di tempo. Ora riusciamo a parlarne». «Dev'essere stata una perdita dolorosissima». Sedendosi sul ripiano in fòrmica bianca della scrivania, Ben spiegò: «In effetti, è stato tremendo. All'età di dieci anni gli avevano diagnosticato un diabete infantile. Poi ci sono state delle complicazioni che hanno portato alla leucemia. Aveva un sacco di guai fisici». «Quanti anni avevi quando è morto?». «Quattordici», disse Ben, sollevando le gambe e appoggiando i piedi sulla scrivania. «È stato il peggior periodo della mia vita. Ho passato mesi e mesi senza dormire... A un certo punto ho cominciato a frequentare uno psicologo amico di mio padre. Mia madre era un relitto. Anzi, se non fosse stato per mio padre, a questo punto saremmo tutti in manicomio. È stato lui che ha tenuto insieme la famiglia». «I tuoi genitori sono grandiosi», disse Lisa, sedendosi sul letto. «Be', in effetti...», ammise Ben. «Mi sorprende soltanto che tu sia venuto fuori così bene», osservò Lisa. «Cioè, per tentare di prendere al lazo il satellite preferito della Terra, un po' matti bisogna esserlo». «Ah, ah, ma sei davvero una burlona!». Lisa si tolse le sneakers, senza usare le mani. «Cos'è successo tra te e E-
ric sull'aereo? Non ha detto una sola parola in tutto il tragitto dall'aeroporto a casa». «Niente. Gli ho detto che non voglio più sentire le sue cagate». «Hai fatto bene», disse Lisa. «Temevo che volessi già perdonarlo». «Per niente», disse Ben. «Adoro i miei amici. Farei qualsiasi cosa per loro. Per te, ad esempio. Ma la vita è troppo breve; non si può sprecare il tempo con gli stronzi». «Non credo sia questione di essere stronzi o meno. Con il suo comportamento ha tradito la tua fiducia. Per quel che mi riguarda, è la cosa peggiore che si possa fare a un amico». «Non me lo dire. Tra la storia di Eric e quella di Rick, la fiducia è stata il mio problema numero uno, quest'anno». L'indomani, a mezzogiorno, Ben scese in cucina e vi trovò sua madre e Lisa che chiacchieravano. «Guarda un po' chi ha deciso di unirsi finalmente a noi!», disse la madre, intenta a tagliare verdura per la cena del giorno dopo. Nonostante Ben fosse fresco di doccia e sbarbato di fino, la madre colse il suo sguardo ancora assonnato. «Fino a che ora siete stati svegli, stanotte?». «Fin verso le quattro, credo», rispose Lisa. La madre di Ben posò il coltello sul tagliere e rimase un attimo imbambolata. «Mamma, rilassati», disse Ben, alzando gli occhi al cielo. «Abbiamo soltanto parlato, okay?». «Non sono cose che mi riguardano», replicò sua madre. «Io non ho fiatato». «Non ce n'era bisogno». Poi, rivolgendosi a Lisa, aggiunse: «Come mai sei così sveglia?». «Non riesco a dormire fino a tardi, di mattina», spiegò Lisa. «Sono in piedi dalle sette». Con un mezzo sbadiglio, Ben si stiracchiò. «Sei pazza. Il sonno è la fonte della vita». All'improvviso, squillò il telefono. «Pronto», disse la madre di Ben, smettendo di tagliare la verdura. Dopo un istante di pausa, rispose: «Sì, è qui. Attenda un attimo». Si voltò verso Ben e disse: «È per te. Un certo Rick». Ben lanciò un'occhiata a Lisa, impallidendo. Sorpresa dalla reazione del figlio, la madre gli passò il telefono. Ben tese il cavo dell'apparecchio fin quasi ad arrivare nell'altra stanza. «Pronto?».
«Ciao, Ben», fece Rick. «Come vanno le cose lì a casa?». Tirando ulteriormente il cavo, Ben si spostò in sala da pranzo. «Che cosa vuoi?». «Niente», rispose Rick. «Volevo solo sapere se andava tutto bene e augurare a te e alla tua famiglia buone feste. Okay?». «Okay un cazzo», disse Ben, cercando di tenere bassa la voce. «Sto riattaccando. Se vuoi parlare con me, chiamami quando torno a Washington. E comunque stai lontano dalla mia famiglia». «Ben volevo solo farti gli auguri di buon...». Ben riagganciò e tornando in cucina tentò di assumere un'espressione serena. «Tutto bene?», gli domandò la madre. «Chi era al telefono? Chi è questo Rick?». «È un amico che lavora alla Corte», rispose Ben. «Abbiamo avuto una discussione su un caso, e voleva riparlarne. Niente di grave». «Benjamin, non dire bugie», disse la madre. «Mamma, non sto dicendo bugie!», insistette Ben. «È un cretino con cui non mi trovo mai d'accordo. Non c'è problema. Si risolverà tutto». Prima ancora che la madre potesse dire una parola, Ben era già uscito dalla stanza. «Dai, Lisa, andiamo!», gridò dall'anticamera. Ben salì nell'auto della madre e restò lì un attimo in silenzio, con le labbra increspate per la rabbia. Stava già iniziando a fare manovra, quando Lisa saltò in macchina al volo. «Non aspettarmi, eh?», disse Lisa, mentre Ben usciva dal vialetto d'accesso. Non ricevendo risposta, domandò: «Cos'ha detto?». «Niente. Faceva solo lo stronzo». «Lo supponevo», disse Lisa. «Ma cosa ti ha detto?». «Non ho voglia di parlarne», tagliò corto Ben. «Oggi voglio solo pensare a divertirmi». «Dimmi soltanto...». «Ti prego», la supplicò Ben. «Dimentichiamocene». Lisa restò in silenzio finché non imboccarono la Massachusetts Turnpike. «Mi dici almeno dove stiamo andando?». Ben inspirò profondamente e rispose: «Per cominciare andiamo a Beacon Hill, dove potrai non solo ammirare alcune tra le migliori perle architettoniche della nostra bella città, bensì anche degustare l'ineffabile pizza "Ringo" di Vito». «Una pizza "Ringo"?».
«Mangeremo da Vito, un ristorante in cui servono la pizza coperta da un'altra pizza capovolta. Ma non voglio rovinarti la sorpresa». Tornando a un tono calmo, da narratore, continuò: «Poi, andremo a Boston Common e di lì nel cuore della città». «Non passiamo davanti al Cheers bar?». «No, davanti al Cheers bar non ci passiamo. Non faremo un giro turistico. Vedrai la città dal punto di vista di chi ci è nato. Ovviamente, ti perderai la U.S.S. Constitution, il Cheers bar, Faneuil Hall e tutti quegli stupidi posti che la gente adora fotografare, ma ti assicuro che ti gioverà». «Mi sento già meglio». «E se sei fortunata ti mostro anche il mio posto preferito, qui a Boston». «Mi porti in biblioteca?». «Guarda che posso farti scendere in qualsiasi momento», disse Ben. «Farò la brava. Te lo prometto», disse Lisa, chiudendosi la bocca con una cerniera immaginaria. Quel pomeriggio, alle quattro e mezza, Ben svoltò con l'auto in un piccolo parcheggio ricoperto di ghiaia accanto a Memorial Drive. Non c'erano altre macchine. Lisa si guardò intorno sospettosa. «Se questo è il posto dei tuoi momenti di gloria, mi metto a piangere». «Non è il posto dei miei momenti di gloria», replicò lui, spegnendo il motore. «Te l'ho detto: ti porto nel mio posto preferito qui a Boston. Ti ho mai mentito, forse?». «A Copley Square non c'erano i ragazzi sullo skateboard». «Fa troppo freddo», disse Ben. «A parte questo, però?». «Gli artisti di strada in Harvard Square erano noiosissimi». «I migliori escono di sera. A parte questo?». Dopo averci riflettuto un attimo, Lisa ammise: «No, non mi hai mentito su nient'altro». «Allora seguimi», disse Ben, scendendo dall'auto. Avanzando contro il vento freddo che proveniva dal fiume, Ben la guidò verso una strettissima pista ciclabile che costeggiava il parcheggio. Da quella striscia di cemento il panorama era ostruito da uno steccato di legni vecchi e marci, provvisoriamente ricoperti di slogan scritti con la vernice spray. Quando giunsero all'estremità del recinto, Lisa si accorse che stavano procedendo in direzione del fiume Charles. La pista ciclabile diventava uno sterrato che conduceva a una casa galleggiante di media grandezza sulla riva del Charles. «Un tempo apparteneva alla Boston University», spiegò Ben. «Ospitava
tutto il materiale per la squadra di canottaggio. Tutte le scuole ne hanno una lungo il fiume: Harvard, MIT, Boston College, Northeastern... Ci sono tutti. Ma quando la Boston University ha avuto i soldi, ha abbandonato questo tugurio e ha trasferito tutto nei capannoni nuovi di zecca più vicini al campus. Mentre procedevano verso la punta del molo, Ben indicò alla propria destra. «Da qui potremo vedere il tramonto che sommerge di luce la città. Per questo ti ho detto che è il punto panoramico migliore della città. Il giro turistico è terminato. Et voilà!», disse, voltandosi verso Lisa e facendo un inchino. Lisa si sedette sul molo con i piedi a penzoloni. «Avevi ragione, questo posto è fantastico». «L'ha scoperto il fratello maggiore di Eric. È stato lui che ci ha portati qui la prima volta», disse Ben, sedendosi accanto a Lisa. «È qui che ho scritto il mio saggio di ammissione alla Columbia University e anche il saggio di ammissione a Yale». «Allora avremmo dovuto portare con noi la relazione sul caso Grinnell». «Nel giro di venti minuti, vedremo il sole tramontare», disse Ben, dando un'occhiata all'orologio. «In questa città cala il buio troppo presto», disse Lisa, guardando in giro. «Sono solo le quattro e mezza». «Devi vedere in pieno inverno», disse Ben. «Alle quattro e un quarto è già buio pesto. Oltre ad avere il tramonto più precoce di tutti gli Stati Uniti, a Boston abbiamo anche il più alto tasso di suicidi nel periodo invernale». «C'è da andarne davvero fieri», commentò Lisa, inclinando il busto all'indietro e appoggiando il proprio peso sulle mani. Per qualche minuto, i due amici attesero in silenzio che il sole calasse dietro il grigio orizzonte di Boston. Quando Lisa si accorse che Ben la stava fissando, sollevò un sopracciglio. «Stai meditando di baciarmi, vero?». «Ti piacerebbe, eh?», disse Ben, battendo in ritirata. «Ma dài!», fece Lisa. «Con quello sguardo da cagnolino che ti ritrovi!». «Lisa, so bene di averti portato in un posto magico, ma non tutti i desideri si realizzano». «Piantala di dire cagate», fece Lisa, puntandogli l'indice in faccia. «Hai la stessa espressione di quella notte che abbiamo lavorato all'appello per la sospensione della condanna a morte». «Ti riferisci a quell'espressione così affaticata da poter essere scambiata per uno sguardo languido? Hai ragione, credo di avere la stessa espressio-
ne di allora». «Va be', lasciamo perdere», disse Lisa, scuotendo il capo. «Hai ragione, godiamoci il tramonto». Appoggiandosi ai gomiti, Ben si mise a contemplare la sfumatura arancione-dorata che tingeva la sommità della State House. Dopo qualche minuto, domandò: «Credi che riusciremo a beccarlo?». «Non lo so», rispose Lisa, stringendosi nelle spalle. «Cioè, lo spero. Il fatto è che sembra sempre così preparato, rispetto a noi. Perché?». «Lasciamo perdere», disse Ben. Sollevandosi a sedere, si ripulì le mani dalla terra e dai sassolini. «Cambiamo discorso». «È possibile che tu debba ripetere sempre la stessa cosa, quando sei preoccupato? Dimmi a che cosa stai pensando. Lo so che tutta questa storia ti spaventa a morte». Ben tacque. «E ne hai ben donde». «Cosa vuoi che ti dica?», domandò infine Ben. «Ovvio che sono spaventato. La mia carriera è appesa a un filo, e proprio quando sto per rilassarmi, quel verme mi telefona a casa dei miei genitori solo per farmi saltare i nervi! Vediamo un po', che altro potrei dirti? Che ho gli incubi? Che non riesco a togliermi questo problema dalla testa? Che sono fuori di me? A Washington è un conto, qui è diverso». «In che senso è diverso?», domandò Lisa. «Qui ci sono i miei genitori», rispose Ben. «Punto e basta. Non voglio che siano coinvolti in questa storia». «Probabilmente, è proprio per questo che Rick ha telefonato», suggerì Lisa. «Sapeva che ti avrebbe mandato fuori dai gangheri». «No! Davvero?», domandò Ben in tono sarcastico. «E io che pensavo che lui stesse cercando di stringere una sincera amicizia. Dopo quel giretto sulla sua limousine, abbiamo un sacco di ricordi in comune di cui ridere e scherzare». Lisa non rispose. «Scusami», disse Ben, inspirando profondamente. «Per favore, ricominciamo da capo». «Okay», disse Lisa, mentre un vago sorriso si insinuava sulle sue labbra. «Allora, dimmi: che ti ha detto Rick?». «Ha detto che voleva solo augurarmi buone feste. Sono sicuro che intendeva dire: "Non dimenticarti della nostra conversazione in limousine"». «Dobbiamo assolutamente trovarlo e fargli il culo», disse Lisa, con i
piedi penzolanti dal molo. «Sono perfettamente d'accordo», disse Ben, appoggiandosi all'indietro sulle mani. «Sappi che quando vuoi parlarne io sono sempre disponibile». «Grazie», disse Ben, sorridendo. «E adesso godiamoci il tramonto». «Tutti pronti per mangiare?», domandò la madre di Ben alle sette precise della sera seguente. «Dov'è papà?», domandò Ben, tirando fuori dal frigorifero una brocca d'acqua e due bottiglie di coca-cola. «Ha chiamato poco fa. Gli hanno tagliato le gomme posteriori ed è rimasto bloccato al lavoro». «Tagliato le gomme? Lui sta bene?», domandò Lisa, inquieta. «Vuoi che lo vada a prendere?», propose Ben. «Non ti preoccupare», disse la madre di Ben. «Ha detto che il carroattrezzi sarebbe arrivato entro breve». Mentre Ben e Lisa prendevano posto a tavola, la madre di Ben portò un'enorme zuppiera di insalata mista e carne. «Passatemi i piatti». D'un tratto si aprì la porta e il padre di Ben entrò in casa. «Ciao a tutti!», esclamò. Diede un bacio a ognuno prima di sedersi a capotavola. «Arrivo al momento giusto!». «Hanno fatto in fretta», disse la madre di Ben. «Non ci crederete», disse il padre di Ben, allentandosi la cravatta. «Appena chiamato il carro-attrezzi ho cominciato a cambiare la prima ruota. Pensavo di guadagnare tempo. Ero lì che montavo la ruota di scorta, quando si avvicina questo tizio in macchina e nota che anche l'altro pneumatico posteriore è bucato. Insomma, mi ha offerto la sua ruota di scorta e mi ha persino aiutato a montarla. Poi, quando gli ho chiesto quanto gli dovevo, mi ha detto che non poteva accettare denaro, perché è il giorno del Ringraziamento e altre scuse del genere». «Che aspetto aveva questo tizio?», domandò Ben, sperando di sembrare indifferente. «Biondo, tipo elegante e perfettino. Nulla di speciale». Lisa e Ben si scambiarono un'occhiata. «Ti ha detto altro?», domandò Ben, cercando di mantenere la calma. «No», rispose il padre di Ben, servendosi una montagna di insalata. «Ha detto che mi aveva riconosciuto per via della foto che compare a corredo della mia rubrica sul giornale. E senti questa: sapeva anche che lavori alla
Corte suprema. Si ricordava dell'articolo che Cary ha scritto su di te, quando sei stato scelto come assistente». Dalle mani improvvisamente sudate Ben lasciò cadere la forchetta nel piatto. «Ti senti bene?», gli domandò la madre. Dopo essersi asciugato i palmi sui pantaloni, Ben raccolse la forchetta e si ricompose. «Sì, è solo che oggi non ho mangiato niente». Sorpresa dalla reazione tranquilla del padre di Ben all'episodio delle gomme tagliate, Lisa domandò: «Le capita spesso di trovare le gomme bucate?». «Ogni tanto», rispose il padre di Ben, mangiando la sua insalata. «Ogni volta che nei miei commenti affronto il tema della corruzione nel governo della città mi tagliano le gomme o mi rompono i vetri. È la dura vita del columnist. Troppi nemici». «Ordinaria amministrazione, insomma», disse Lisa, sperando che Ben la stesse ascoltando. «Assolutamente», disse il padre di Ben, fiero di sé. Per niente interessata al discorso di Michael sulla vita del columnist, la madre di Ben domandò: «È successo qualcos'altro al lavoro?». «Non direi», rispose il padre di Ben. «È stata una giornata piuttosto tranquilla: hanno sparato a uno, in centro; domani uscirà una nuova denuncia sulla corruzione della polizia; mio figlio si è fidanzato... Ma a parte questo, niente di particolare». «Cosa?», sbottò Ben, tornando bruscamente alla realtà. «Non hai visto il giornale, oggi?». Il padre di Ben frugò nella sua borsa e ne tirò fuori una copia. «È a pagina ventisette», disse, porgendolo a Ben. Ben aprì il quotidiano alla pagina della cronaca locale. In testa alla prima colonna c'era una grande foto di Lisa. La didascalia recitava: «Margaret e Shep Schulman di Los Angeles annunciano il fidanzamento della figlia Lisa Marie con Benjamin Addison di Newton. Il matrimonio è previsto per il marzo prossimo». Senza neppure leggere i brevi profili dedicati a lui e Lisa, Ben si mise a strillare: «E questo che diavolo è?». «Fa' vedere», disse Lisa, afferrando il giornale. «Chi potrebbe essere stato?». «Che amici deficienti!», borbottò Ben, sempre pensando, però, all'incontro tra suo padre e Rick. «Vuoi dire che non vi sposerete?», domandò il padre di Ben. «Questa è bella!», esclamò la madre di Ben, quando Lisa le ebbe passato
il giornale. «Chi può averlo fatto? Ober? Nathan?». «Chi altri, se no?», domandò Lisa. Incurante delle reazioni dei familiari a quello scherzo, Ben non riusciva a cancellare il pensiero di Rick. «Ben, c'è qualcosa che non va?», gli domandò il padre. «No, tutto bene», rispose Ben, guardando il padre. Indicando il giornale, aggiunse: «Io non c'entro». «Non fa niente», disse il padre di Ben. «Ci piace essere pubblicamente umiliati, al giornale. Qualsiasi testata rispettabile gode nel restare vittima, ogni tanto, di scherzi demenziali». «Hai avuto delle seccature, per questa storia?». «Assolutamente no», rispose il padre. «A parte il fatto che per tutto il giorno è venuta da me gente a domandare perché non avevo avvertito che ti saresti fidanzato». Finita l'insalata, aggiunse: «Comunque, a quanto pare il presidente sta scegliendo tra una rosa di candidati il sostituto di Blake alla Corte». «E chi sarebbero?», domandò Ben, sforzandosi di non pensare a Rick. «Kuttler, Redlich... Chi altri?». «Si parla anche del tuo vecchio amico, il giudice Stanley». «È impossibile», disse Ben, gesticolando come a escludere l'ipotesi. «È solo un contentino dato ai liberal. Scommetto cento dollari che non sarà Stanley il sostituto». «Si sa nulla alla Corte?», domandò il padre di Ben. «Noi di queste cose non veniamo informati», spiegò Ben. «Si sa solo che lo staff del Presidente convoca a consulto alcuni giudici, ma è un fatto di cortesia pura e semplice. Per il resto, ne sappiamo quanto voi». «Suvvia», insistette il padre. «Lavorate lì. Le voci girano. Per una volta sola, regala al tuo papà un'indiscrezione dall'interno». «T'ho detto che non so niente», sbottò Ben. «E non mettermi in imbarazzo. Anche se sapessi qualcosa, non potrei dirtelo». «Ehi, rilassati», replicò il padre, sorpreso dal tono irritato del figlio. «Stavo solo scherzando». «Era solo una battuta», disse Lisa. «Ah, okay», disse Ben, tornando alla sua insalata. «Era una battuta. Ah, ah, ah». Fissandolo, la madre domandò: «Sei sicuro che vada tutto bene, al lavoro?». «Sicurissimo», disse Ben. «Va tutto a meraviglia».
«Come va con quello studio che voleva assumerti? Sono ancora interessati?». «Mamma, va tutto benissimo. Ho imboccato la corsia preferenziale del campo della giurisprudenza. Nulla potrà fermarmi. Possiamo cambiare argomento, ora?». «No. Che cosa mi nascondi?», domandò la madre di Ben. Poi, rivolta a Lisa, aggiunse: «Che cosa mi nasconde? Me lo puoi dire tu». «Mamma, lascia in pace Lisa», sbraitò Ben. «Ben, non c'è bisogno di alzare la voce», disse il padre. «Sì, che c'è bisogno, se la gente non si fa gli affari propri», disse Ben. «Avevo chiesto di cambiare discorso». «Smettila di parlare con questo tono», disse la madre di Ben. «O chiedi scusa o te ne vai in camera tua». «In camera mia?», domandò Ben, con una risata forzata. «Perché se no? Mi metti in castigo? Mi prendi a sculacciate? Magari puoi vietarmi di vedere la TV, oppure impedirmi fare la festa al mio prossimo compleanno». «Benjamin, ti prego di alzarti da tavola e di andartene in camera tua», disse suo padre con voce calmissima. Ben si alzò e volò di sopra. «Sono in camera mia». Alle otto, suonarono alla porta. «Vado io», disse il padre di Ben, allontanandosi da tavola. Aprì la porta e disse: «Ehi, amici! Entrate. Arrivate giusto in tempo per il dessert». «Sento odore di cretini o mi sbaglio?», disse Lisa, annusando l'aria, mentre Ober e Nathan raggiungevano la tavola. «Ciao, ragazzi», disse la madre di Ben. «Buonasera, signora Addison», disse Ober, reprimendo un sorriso. «Spero stiate godendovi una buona cena del Ringraziamento». «Stavamo, per la precisione», disse Lisa. «Qual buon vento vi porta?», domandò la madre di Ben. «Volevamo semplicemente salutare. È da tanto che non ci vediamo, signora Addison», disse Ober. «E poi volevamo congratularci per il fidanzamento di suo figlio». «Sì, è così», confermò Nathan, dando dei colpetti sulla spalla di Lisa. «Questo è un grande giorno. Il più bello della vostra vita». «Molto spiritoso», disse Lisa. «Suvvia», fece Nathan. «Non dirmi che non l'hai trovato divertente! La tua foto, i falsi profili biografici... È geniale». «E ci è costato anche cento dollari», aggiunse Ober.
«Oh, è stato divertentissimo», concesse Lisa. «Spero solo che non vi illudiate di passarla liscia». «Dài, sii uomo», disse Ober, costringendo fisicamente Lisa a lasciargli metà del suo posto a sedere. «A proposito, dov'è il nostro promesso sposo?». «È su in camera con il broncio», spiegò la madre di Ben. Dieci minuti dopo, Ober, Nathan e Lisa si presentarono in camera di Ben. «Ehi, forse che il mio castigo è stato sospeso?», disse Ben, alzandosi a sedere sul letto. «Ho il permesso di ricevere visite?». «Smettila», lo zittì Lisa, accomodandosi anche lei sul letto. «Vogliono sapere perché sei arrabbiato?». «Glielo dirò se e quando ne avrò voglia io», disse Ben, acido. «Senti, non prendertela con me se i tuoi genitori ti trattano come un ragazzino di dodici anni», disse Lisa. «Lo fanno tutti i genitori. È il loro mestiere. Si accorgono subito se c'è qualcosa che non va. D'altra parte tu non fai nessuno sforzo per non comportarti da dodicenne». «Credi che fosse Rick l'uomo che ha avvicinato mio padre?», domandò Ben, tormentandosi un bottone della camicia. Spiegò la situazione a Ober e Nathan. «Non saprei, però mi sembra impossibile che si tratti di una semplice coincidenza», disse Lisa. «Perché lo fa?», domandò Ben. «Perché non lasciamo perdere?», suggerì Nathan. «Non possiamo far nulla, qui a Boston. Stare a guardare te che diventi matto è inutile. Quando torneremo a Washington, ci metteremo intorno a un tavolo e studieremo un nuovo piano». «E se...», stava per dire Ben. «Ti prego», lo interruppe Nathan. «Cambiamo argomento e usciamo». «Io avrei un nuovo argomento da suggerire», intervenne Ober, sfogliando il calendario di Albert Einstein, ancora appeso alla parete benché vecchio di sette anni. «Parliamo del motivo per cui domani sarà un giorno tanto speciale». Ben ci pensò su un attimo e disse: «Ober, a volte sei davvero squallido». «Di che si tratta?», domandò Lisa. «Domani è l'anniversario della primo rapporto sessuale completo di Ober», spiegò Nathan. «E sono stato il primo, tra noi, a raggiungere questo traguardo», aggiun-
se Ober. «Cosa per cui il nostro signor Musone, qui, non smetterà mai di rodersi il fegato». «Ben era sul punto di farlo con Lindsay Lucas», disse Nathan, «ma siccome Ober voleva essere il primo, tra noi, a perdere la verginità è andato a letto con Shelly Levine, alias Miss Ribrezzo». «Sei andato a letto con lei solo per precedere Ben?». «No, non solo per questo», rispose Ober. «Volevo anche conoscerla meglio». «Invece, sì: l'ha fatto solo per quello», disse Ben. «Da allora, però, lui non si è più dato pace», ribatté Ober. «Voi, ragazzi, siete malati», disse Lisa. «Facevate a gara per vedere chi avrebbe per primo avuto un rapporto sessuale?». «Questa gara esisteva solo nella mente di Ober», si schermì Ben. «Però la medaglia d'oro l'ho vinta io», insistette Ober. «Comunque, non ti preoccupare: vincere quella d'argento è pur sempre un buon risultato». «E a che età è successo?», domandò Lisa. «A sedici anni, in undicesima classe», dissero i tre amici in coro. «Non c'è male», commentò Lisa. «E tu, Nathan? A quando risale la tua prima storia?». «Che domanda impertinente!», esclamò Nathan. «E tu? Quando l'hai fatto la prima volta?». «L'ho fatto in decima, a quindici anni, con un certo Chris Weiss, nel letto dei suoi genitori. Erano partiti per il fine settimana». «Bene! Che ragazza precoce!», esultò Ober. «Allora, quando l'hai fatto?», domandò Lisa a Nathan. «In dodicesima classe...», esordì Nathan. «A dir la verità, era dopo la dodicesima classe», lo corresse Ben. «È successo nell'estate tra la dodicesima classe e il primo anno di college», precisò Nathan. «Tecnicamente, rientra ancora nell'anno della dodicesima classe. Perlomeno, io allora mi consideravo in dodicesima. L'ho fatto con Eleanore Sussman, in una piccola stanza d'hotel sulla Jersey Shore... i miei genitori ci vanno in vacanza». «Molto elegante», fu il commento di Lisa. «E tu dove l'hai fatto?», domandò a Ben. «Essendo il più raffinato dei tre, ho portato la mia ragazza giù alla casa galleggiante della Boston University. Avevamo unito i sacchi a pelo, e l'abbiamo fatto con molto stile... sotto le stelle e con il panorama della città davanti».
«E tu?», domandò Lisa a Ober. «Io e Miss Ribrezzo siamo andati a casa sua dopo aver bevuto di brutto per tutta la sera e l'abbiamo fatto nella sua stanza, arredata peraltro con molto gusto». «Mentre i genitori dormivano nell'altra stanza», aggiunse Ben. «Non ci credo», disse Lisa. «Non hanno sentito nulla», confermò Ober, sedendosi per terra a gambe incrociate. «Perché non chiedi a Ober di raccontarti la storia che ha avuto con la sua datrice di lavoro?», le suggerì Nathan. «Sì, sì», fece Ben, cominciando a ridere. «È stupenda...». «Non ho avuto una storia», precisò Ober. «Sono stato brutalmente sedotto». «Poteva esserci una storia, ma ti sei cagato sotto», insistette Nathan. «Dài, raccontate», incitò Lisa. «È successo quando Ober, per un breve periodo, ha lavorato come assistente in uno studio di pubbliche relazioni, spiegò Ben. «Era uno studio specializzato nel campo dell'industria informatica», aggiunse Ober. «Sì, ma la direttrice di Ober...», riprese Ben, con voce estremamente profonda e ironicamente sexy, «... diciamo che era specializzata in amore...». «Dài, taglia!», implorò Ober. «Mi ha fatto un'avance e io l'ho respinta. Fine». «No, no, no», si intromise Nathan. «Lei ti ha fatto un'avance e tu sei caduto in avanti». «Che cos'hai fatto?», domandò Lisa, ridendo. «Lei lo ha convocato nel proprio ufficio vestita di sola biancheria intima nera: reggiseno, mutande, calze, reggicalze...», proseguì Ben. «E Ober, appena entrato, l'ha vista ed è svenuto». «Era tutto il giorno che stavo male», spiegò Ober, seccato. «Mi ero alzato troppo bruscamente dalla sedia e quando sono arrivato nel suo ufficio mi girava già la testa». «Direi, piuttosto, che ti ha messo un po' in soggezione», disse Nathan. «E lei che ha fatto quando tu sei svenuto?», domandò Lisa. «Non lo so, di preciso», disse Ober. «So solo che quando ho riaperto gli occhi mi stava facendo vento con una cartelletta». «Va detto che era ancora discinta», aggiunse Ben. «Ma a quel punto
l'eccitazione era svanita. Lo svenimento è il peggiore afrodisiaco del mondo». «Ora possiamo cambiare argomento?», supplicò Ober. «Oh, baby», disse Nathan, rivolto a Ben. «La tua biancheria intima mi fa impaz...». Chiuse gli occhi e si lasciò cadere a terra. «Svenuto... così, senza colpo ferire», rincarò Ben. «Basta. Me ne vado», sbottò Ober. «Se avessi saputo che volevate passare la serata a prendermi in giro, me ne sarei rimasto a casa». «Puoi darmi un passaggio?», gli domandò Nathan, mentre Ober già era sulla soglia. Ober lasciò la stanza senza rispondere. «Vorrà dire che chi tace acconsente», disse Nathan, salutando Ben e Lisa. «Ci vediamo». «A presto», disse Ben, mentre Nathan usciva dalla stanza. «Fai davvero pena», disse Lisa, punzecchiando con un dito il torace di Ben. «Perché?». «In quel posto dove mi hai portato ieri... alla casa galleggiante... avevi in mente di circuirmi, vero?». «Ma smettila», disse Ben. «Non ci pensavo affatto». Lisa imitò l'espressione di Ben e disse, con voce bassa: «Sai, qui ho scritto i saggi di ammissione alla Columbia e a Yale, ho fatto...». Si interruppe e a voce ancora più bassa riprese: «No, deficiente, non dirle della prima volta che hai scopato... Se glielo dici, è capace di non venirci più, a letto con noi». «Incredibile», disse Ben, ridendo. «Hai riprodotto alla perfezione il mio ragionamento». «Non sarà testuale, ma di sicuro ci sono andata molto vicino». «Ne sei davvero convinta?», domandò Ben. «Perché? Mi sbaglio, forse?», lo sfidò Lisa. «Ripeto: ne sei davvero convinta?». «Rispondi alla mia domanda», provocò Lisa. «Mi sbaglio, forse?». Ben fu sopraffatto da un violento rossore. «Non dico che hai ragione, però la tua ricostruzione non è completamente fuori dal mondo». «Lo sapevo!», esultò Lisa. «Sei così prevedibile!». «Ma va' là! Non sono affatto prevedibile». «Vuoi scherzare?», rincarò Lisa. «Lo sei al punto che potrei regolare l'orologio su...». Prima che Lisa potesse terminare la frase, Ben si sporse verso di lei e la
rapì in un lungo e intensissimo bacio. Colta di sorpresa, Lisa si ritrasse un poco. «Sono stata baciata da mister Addison... Sono sbalordita, non credevo che ci saresti riuscito». «Vuoi tacere?», domandò Ben, baciandola di nuovo. Quando lui fece per abbracciarla, Lisa lo spinse supino sul letto e gli salì sopra, sbottonandogli la camicia come una furia. «...ah! Un'ultima cosa», disse Ober, facendo improvvisamente irruzione nella stanza. «AUGURI E LINGUA IN BOCCA, BATMAN!». «Incredibile!», sospirò Nathan. «Volete scusarci?», disse Lisa. «Qui c'è gente che sta cercando di divertirsi». «Povera te, non sopravviverai abbastanza a lungo per raccontarlo!», avvertì Ober, chiudendo la porta con un enorme ghigno stampato in faccia. «Che cosa racconterai a Lindsay Lucas?», gridò Nathan, mentre la porta si richiudeva. Abbandonando la testa sul cuscino, Ben disse: «Cristo, non è possibile!». «Non ci pensare», disse Lisa. Si chinò su di lui e lo baciò. 11 «Allora?», domandò Ben. «"Allora" cosa?», domandò a sua volta Lisa, distesa accanto a lui. «Che cosa ne pensi?». «Di che cosa?», disse Lisa, sorridendo. «Del fatto che i tuoi vestiti ornano il pavimento di camera mia. Di che altro, se no?». «È stato bello», rispose lei. «Mi è piaciuto». Rialzandosi a sedere sul letto, Ben scosse la testa. «Smettila con questo gioco crudele. Queste formule vaghe mi tirano scemo». «Che cosa vuoi che ti dica?», domandò lei. «È stato fenomenale. Il massimo della vita. Tu eri l'artista, io la tua tela». «Sei noiosa, lo sai?». «Strano...», disse Lisa con un ghigno sottile. «Mezz'ora fa non ti lamentavi». «Non è stato 'sto granché». «Come vuoi», disse Lisa, osservando i vestiti sparsi sul pavimento. Indicando un angolo della stanza, domandò: «Sono i tuoi boxer fortunati, quel-
li?». «La fortuna non c'entra proprio niente». «Uh, ti ho fatto arrabbiare?», domandò Lisa, accarezzandogli il mento con la punta delle dita. «Che scemo sono stato», disse Ben, ritraendosi per appoggiarsi alla testata del letto. «Non avrei dovuto darti questa soddisfazione. Adesso non la smetterai più di fare battute a sfondo sessuale». «Certo che farò battute a sfondo sessuale», confermò Lisa. «Sono fatta così. Che cosa credevi? Che avremmo cominciato a "uscire insieme"? Speravi che diventassimo i piccioncini della Corte suprema? Ci siamo soltanto divertiti. Era dalla prima volta che ti ho incontrato che non vedevo l'ora di saltarti addosso». «Balle». Afferrandolo per la nuca, lo attrasse a sé e disse: «Dico sul serio». «Ora, però, il mistero è svelato». «Ascolta, quando ne hai voglia, io sono pronta. È stato fantastico». «Non ci sarà una prossima volta. Questa è stata la prima e l'ultima», disse Ben, divincolandosi. «Adesso non potremo fare a meno di sentirci a disagio, al lavoro. Ogni volta che ti vedrò, mi verrai in mente nuda...». «Sai che roba...», disse Lisa. «Sono maggiorenne, posso sopportare. Inoltre, se pensi di potermi respingere la prossima volta che voglio fare l'amore con te, sei completamente pazzo». «Tu non conosci la mia forza di volontà. Credimi, questa è stata la prima e l'ultima volta». «Come vuoi, caro», disse Lisa, voltandosi dall'altra parte e tirandosi le coperte sopra la testa. La domenica mattina, sul presto, gli Addison accompagnarono Ben e Lisa all'aeroporto. Mentre Ben toglieva i bagagli dal cofano, Lisa abbracciò Sheila Addison e disse: «Grazie ancora per l'ospitalità». «È stato un piacere», rispose la madre di Ben. «Sono felice di averti finalmente conosciuta». «Ci vediamo presto, ma'», disse Ben, abbracciando la madre. Notando che lei tratteneva a stento le lacrime, aggiunse: «Non piangere, torno presto a trovarvi». «Non è niente», lo tranquillizzò lei, stringendo i denti. «Fate un buon viaggio». Dopo il check-in, Ben e Lisa si addentrarono nell'aeroporto diretti al loro
cancello di imbarco. «Si sa nulla di Ober e Nathan?», domandò Lisa. «Nulla», rispose Ben. «Neanche una telefonata. Stanno di certo architettando qualcosa». Giunti al cancello, trovarono ad aspettarli Nathan, Ober ed Eric. Esitando, Ben andò incontro agli amici. «Allora, come avete passato il fine settimana?». «Bene», disse Nathan. «Meravigliosamente», rispose Eric. «Benissimo», fece Ober. «E voi?». «Non c'è male», disse Ben con aria sospettosa. Dopo essersi guardato intorno, tornò a rivolgersi a Ober e Nathan. Alla fine, disse: «Okay, facciamola finita. Ditemi quello che c'è da dire, ma sbrighiamoci. L'attesa mi sta snervando». «Sbrigarci a far cosa?», domandò Ober. «Non capisco cosa vuoi dire», disse Nathan con espressione sincera. «Non cercate di darmela a bere», disse Ben. «Dài, che cosa avete architettato? Non è che adesso salta fuori qualcuno che ci tira i chicchi di riso? O magari avete ingaggiato una banda? Che scherzo avete organizzato, questa volta?». «"Scherzo"?», disse Nathan. «Ma sta dando i numeri?», domandò Ober a Nathan. «Non ne ho idea», fu la risposta. «Mi pare un classico caso di paranoia. Dopo aver accompagnato Lisa, i quattro tornarono a casa. Il primo a raggiungere la porta fu Ober, il quale estrasse la posta dalla cassetta, trascinò il bagaglio all'interno e gettò il pacco di lettere sul tavolo della cucina. Eric, dopo aver lasciato la valigia vicino al ripostiglio, si apprestò a uscire di nuovo. «Ci vediamo dopo. Devo andare al giornale». Appena la porta si richiuse, Ober afferrò Ben per le spalle. «Allora, com'è andata? Scommetto che è una porcellona a letto». «Ma se credevi che fosse lesbica!», disse Ben. «Non l'ho mai detto», disse Ober. «Credevo fosse bisessuale». «Invece sì che l'hai detto», ribatté Ben. Nathan era seduto sul divanetto. «Non posso credere che l'abbiate fatto. Che cosa ti è saltato in mente?». «Che vuoi dire?», domandò Ben. «Insomma, pensavo avessimo deciso che, dopo la festa del Ringraziamento, avremmo valutato l'affidabilità di Lisa», disse Nathan.
In piedi al centro della stanza, con la giacca ancora indosso. Ben disse: «Non ricominciare. Io di lei mi fido». «Ben, non voglio offenderti, ma non è giusto che ti rovini la vita per un week-end di sesso». «Be', non avertene a male, ma io mi offendo. Ho capito molte cose di Lisa, in questi giorni, ed è impossibile che stia tramando ai miei danni in combutta con Rick». «Come fai a esserne così sicuro?», lo sfidò Nathan. «Quale fatto nuovo è intervenuto a rafforzare questo tuo convincimento? Credi di conoscerla meglio solo perché hai scopato con lei?». «Non è solo una questione di sesso», rispose Ben, in tono autogiustificatorio. «La conosco meglio come persona». «Ben, l'unica differenza tra adesso e la settimana scorsa consiste nel fatto che l'hai vista nuda». «Non è vero», disse Ben. «Tu non c'eri, ma in questo fine settimana noi...». «Piantala di pensare a questo fine settimana, e ascoltami bene», disse Nathan, alzandosi dal divano. «Per essere una persona intelligente, mi sembri davvero scemo. Se la mia ipotesi è corretta, Lisa sta facendo esattamente quello che ci si aspetterebbe. Prova a riflettere! Ti sta abbindolando!». Nella stanza scese un silenzio assoluto. Ben si avvicinò al tavolo e prese a scartabellare tra la posta. Prese le buste a lui indirizzate e, infine, disse: «Almeno, lei si preoccupa dei miei problemi». «Che caspita vuoi dire?», domandò Nathan. «Voglio dire che lei ha passato il fine settimana con me a parlare di questa storiaccia di Rick, mentre voi eravate in giro a organizzare scherzi stupidi». «Questo è il colmo», sbottò Nathan. «Sai benissimo quanto tempo abbiamo investito in questa storia. Sia io che Ober abbiamo rischiato il posto di lavoro per aiutarti a beccare Rick. E con l'annuncio di fidanzamento cercavamo soltanto di tirarti su il morale. Eppoi, se Lisa passa il tempo a parlare con te è solo per scoprire quello che sai». «Non sai quello che dici», disse Ben, avviandosi verso le scale. «Che fai? Ti offendi e scappi?», domandò Nathan. «Torna qui e affronta il problema». Ben lo ignorò e salì le scale. «Avresti dovuto immaginare che si sarebbe chiuso a riccio», disse Ober,
quando Ben scomparve alla loro vista. «Infatti, lo immaginavo», disse Nathan. «Però, cazzo, io lo faccio per il suo bene». «Lo so», fece Ober, «ma forse sarebbe stato meglio se avessi usato un po' più di tatto». «Proprio tu dici a me di avere più tatto?», disse Nathan, scoppiando a ridere. «Dico sul serio. Ben, è davvero nel panico». «È naturale che lo sia. Gliel'avevo anche detto, prima di partire: il sesso offusca sempre la ragione. Ma ora Ben deve svegliarsi. Si è divertito; adesso, però, deve affrontare la realtà: non può fidarsi di Lisa». Mentre attendeva il proprio bagaglio, all'aeroporto, Rick parlava con qualcuno sul suo telefono cellulare. «Com'è andato il viaggio di ritorno?». «Dovevi per forza seguirci a Boston?». «Certo», spiegò Rick. «I propri interessi vanno curati». «Be', spero tu sia soddisfatto del risultato. L'hai mandato davvero in bestia». «La storia di suo padre l'ha sconvolto, vero?», domandò Rick. «Questo è l'eufemismo dell'anno. Non sa più di chi fidarsi». «Ha qualche sospetto su di te?». «Non credo; però è sempre più intrattabile. Non ha praticamente aperto bocca per tutto il viaggio». Rick sorrise, passando il telefono nell'altra mano. «È quello che succede quando vedi incombere la catastrofe. Cominci a prendertela con chi ti sta più vicino». Entrato in camera sua, Ben gettò la posta sulla scrivania e si abbandonò sulla sedia. "No, Lisa non può essere", disse tra sé, tamburellando nervosamente con i pollici sul piano di scrittura. "Considera i fatti: con tutto quello che sai di lei, quali sono le probabilità che stia facendo il doppiogioco? No, è impossibile". Ripercorrendo gli ultimi eventi, suddivise l'unico informe mucchio di lettere in tre mazzetti più ordinati: uno per le bollette, uno per la pubblicità e uno per la corrispondenza personale. Quando vide la copia omaggio di una rivista indirizzata a Benjamin N. Addison, ebbe la certezza che "Newsweek" aveva passato il suo indirizzo ad altri. Vedendone un'altra indirizzata a Benjamin L. Addison, capì che "Legai Times" doveva aver avuto bisogno di valuta fresca. Quando ne vide una terza indirizzata a Benjamin
B. Addison, si accigliò, seccato per il fatto che anche la sua banca avesse dato in giro il suo nome. Aveva espressamente richiesto che ciò non avvenisse. Ripromettendosi di reclamare, notò la lettera posata in cima al mazzetto della corrispondenza personale. Raccolse quella busta bianca e vide con sorpresa che era priva dell'indirizzo del mittente, del timbro e persino del francobollo. Facendo scivolare il pollice sotto il risvolto, Ben aprì la busta e ne tolse la breve lettera scritta a macchina. «Caro Ben, spero tu abbia trascorso buone feste del Ringraziamento... Di certo, molto presto verrò a sapere tutti i particolari. Sinceramente tuo, Rick». Quando rilesse la lettera, il cuore di Ben prese a battere più veloce. Si alzò bruscamente dalla sedia e lasciò la stanza. Scese al piano di sotto e tornò in soggiorno, dove Nathan stava riagganciando la cornetta del telefono. «Con chi parlavi?», domandò Ben. «Con mia madre», rispose Nathan. «L'ho avvertita che siamo a casa». «Questa è stata consegnata a mano mentre eravamo via», disse Ben, porgendo la lettera a Nathan. «Non c'era francobollo sulla busta». Mentre Nathan leggeva il breve messaggio, Ober ricomparve dal bagno. «Che si fa?», domandò Ober. Senza proferire parola, Nathan gli passò la lettera. Ober la lesse senza commentare. «Possiamo parlare un attimo nel vostro ufficio?», domandò Ben, prelevando la giacca dal ripostiglio e indicando ai due amici la porta di casa. I tre uscirono e salirono sull'auto di Nathan. «Quando l'hai ricevuta?», domandò Nathan, sbattendo la portiera. «Adesso», disse Ben, irritato. «Che ne pensi della seconda parte della lettera, dove dice che verrà presto a sapere tutti i particolari del mio fine settimana?». «Sai già come la penso», disse Nathan. «Se non si riferisce a Lisa, non so che altro dire». «Lo so, lo so», disse Ben. «Ma credi che se fosse davvero in combutta con Lisa, Rick rischierebbe di scoprire il suo gioco?». «Secondo me, Rick vuole soltanto prenderci in giro», spiegò Nathan. «Se lui sta tramando con Lisa, starà certamente divertendosi. Se loro due non sono d'accordo, sollevando il sospetto vuole soltanto innervosirci. In ogni caso, lui gioca su questa paura e, comunque, ci sta facendo impazzire. Evidentemente, sa bene quanto tieni a lei». «Merda», borbottò Ben, sprofondando nel sedile rivestito in pelle.
«Posso fare una domanda?», disse Ober, sporgendosi in avanti dal sedile posteriore. Senza attendere consensi, domandò: «Perché siamo venuti in macchina?». Nathan scosse la testa. «Se Rick si è avvicinato a casa nostra abbastanza da poter consegnare a mano una lettera e ha scoperto che non eravamo in casa, probabilmente si sarà fatto un giro all'interno». «Credi davvero che sia entrato in casa nostra?». «Perché non avrebbe dovuto?», disse Ben. «Poteva scoprire se avevamo informazioni su di lui. Poteva riempire la casa di microspie e fare tutti i suoi comodi. Per quel che mi riguarda, non dirò più una sola parola in quella casa». «Che cos'hai intenzione di fare, adesso?», domandò Nathan. «Credo che dobbiamo a tutti i costi identificare Rick. Se riusciamo a procurarci una sua foto e la passiamo nel computer del Dipartimento di stato, beccarlo sarà molto più facile». «Evidentemente, sapeva del nostro piccolo tentativo di fotografarlo», disse Nathan. «Esatto», concordò Ben. «Nei suoi panni, io non correrei più il rischio di un incontro, a meno che non si tratti di ricevere le informazioni desiderate. Ciò significa che dovremo adottare un metodo poco ortodosso per stanarlo». Rimessosi a sedere composto, Ben proseguì: «Di lui sappiamo soltanto che ha tra i ventotto e i trentotto anni, che è furbo e che sa quello che fa. Inoltre, per come la vedo io, Rick - ammesso che si chiami così - dev'essere un avvocato. Si intende troppo di questioni giuridiche per essere uno esterno all'ambiente». «Vi fanno la foto quando superate l'esame di avvocatura?», domandò Nathan. «Pensavo proprio a questo», disse Ben. «Se combiniamo le informazioni di cui siamo in possesso, è evidente che da qualche parte deve esistere una sua foto. E se troviamo la foto possiamo identificarlo». «Che ne dici della foto che si scatta in occasione dell'esame di avvocatura?». «In certi stati non la fanno», disse Ben. «Inoltre, non credo che l'albo degli avvocati sia autorizzato a fornire l'informazione che ci serve». «Che ne dite di rivolgerci alla motorizzazione», domandò Ober. «No, gli automobilisti sono una categoria troppo ampia», rispose Ben, «anche se sapessimo di quale stato è originario». I tre amici, seduti nell'auto ferma, si sfregavano le mani per combattere il freddo. «Stavo pensando,
invece, che se Rick è avvocato, ha studiato in qualche facoltà di legge. Quindi, in qualche annuario degli ultimi dieci-quindici anni, dev'esserci una sua foto. Siccome in tutti gli Stati Uniti ci sono più di cento scuole del genere, pensavo che potremmo limitare la ricerca alle dieci-dodici più importanti: Yale, Harvard, Stanford, Columbia... Rick è uno snob. Scommetto che ha frequentato una delle facoltà più rinomate». «Avremo un bel po' di foto da esaminare», disse Ober. «Non tantissime, però», insistette Ben. «Se consideriamo soltanto le dodici facoltà migliori e ci limitiamo a consultare gli annuari degli ultimi quindici anni, avremo da spulciare centottanta fascicoli, ognuno dei quali contiene una media di quattrocento foto per ogni anno di corso. Non è una cosa impossibile». «Sono settantaduemila foto», disse Nathan, dando con il polso piccoli colpetti ritmici al volante. «In realtà, si restringono a poco più della metà», disse Ben. «Le donne non le dobbiamo considerare». «Noi non possiamo aiutarti, coglione», disse Ober. «Tu sei l'unico che l'abbia mai visto». «Vorrà dire che lo farò da solo», sospirò Ben. «Avete un'idea migliore? Se trovo la sua foto, siamo a posto». «Riuscirai, almeno, a procurarti tutti gli annuari?», domandò Nathan. «Certo», rispose Ben. «Se chiamo una facoltà e dico che un giudice della Corte suprema vuole i loro annuari, ce li spediscono nel giro di una settimana. Nelle facoltà di legge, un giudice della Corte suprema è una specie di dio in terra». «Bene, mi sembra che questa sia la soluzione migliore». Chinandosi in avanti sul volante, Nathan aggiunse: «Ora dimmi cosa pensi della questione di Lisa». Ben fissò la lettera che teneva ancora tra le mani. «Continuo a credere che ti sbagli, ma a questo punto non voglio correre rischi. Mi fido di lei, ma posso benissimo tenerla all'oscuro dei miei piani». «Non chiedo di meglio», disse Nathan. «Meno gente è coinvolta, meglio è». Il lunedì mattina, sul presto, Ben si presentò al lavoro indossando il suo completo blu preferito, una camicia stirata di fresco e il suo cappotto nero di lana. Benché non proprio riposato come avrebbe voluto, era sollevato al pensiero che le vacanze fossero finite. Non appena scorse il maestoso ed
eburneo palazzo, però, fu nuovamente assalito dall'ansia. La Corte era una costante, e da un po' di tempo a quella parte lo erano anche i problemi di Ben. Raggiunse il proprio ufficio, ma prima di aprire la porta si fermò un per attimo. "Okay", disse tra sé. "Con Lisa devo stare tranquillo. Non è cambiato nulla: siamo sempre amici. Devo semplicemente evitare di metterla a parte delle mie mosse nei confronti di Rick". Temendo che la propria faccia potesse rivelare la tensione, chiuse gli occhi e immaginò Lisa nuda. "Bene. Sono calmo", pensò, aprendo la porta. "Sono una roccia. Nulla può scuotermi". Entrando, non si stupì di vedere che Lisa era già arrivata: lei lo precedeva sempre. «Perché hai quella faccia da scemo?», domandò Lisa, mentre Ben si accomodava sul divano. «Non posso semplicemente essere contento di tornare al lavoro? Non è così male». «Non me la dai a bere», disse Lisa. «Quell'espressione la conosco. Stai ancora pensando alla sera del Ringraziamento, vero?». «Lisa, anche se so che a te piace considerarti il centro del mio universo, devo purtroppo comunicarti che non lo sei. Eppoi, la mia è soltanto un'espressione calma e tranquilla, la faccia di chi è contento di essere di nuovo qui». «Questa non è la faccia di chi è contento di essere di nuovo qui», disse lei. «È la tua solita faccia da stitico sotto l'effetto di una purga». «Essere stitici e far l'amore con te sono cose paragonabili, dunque?», disse Ben, con notevole faccia di bronzo. «Carina, questa», replicò Lisa. «Facile, ma efficace». Si appoggiò allo schienale della sedia. «Dimmi un po': com'è che sei così tranquillo riguardo alla storia di sesso che abbiamo avuto? Credevo che non avessi intenzione di parlarne». «Me ne sono fatto una ragione», rispose Ben. «Finché non sarà d'intralcio, non me ne preoccuperò». «E finché non sarai preoccupato tu, non lo sarò neanch'io», disse Lisa. «Be', allora, dimmi: hai pensato a cosa fare con Rick?». «No, a dire il vero», rispose Ben, avviandosi al proprio posto. «Ho pensato piuttosto a come scrivere la relazione di minoranza per il caso Grinnell». «Bene», disse Lisa, seguendo Ben con il proprio blocco per appunti in mano. «Anch'io ho riflettuto su come impostarla». Mettendo davanti a Ben il blocco pieno di appunti, spiegò: «Siccome Veidt non si lega mani e piedi
alla banda di Osterman, credo che potremmo circoscrivere la portata della decisione al singolo fatto in questione. Loro sosterranno che il divieto di costruire rappresenterebbe per la Grinnell una perdita sproporzionata rispetto ai benefici goduti dalla collettività, ma noi possiamo controbattere che ciò vale solo nei rari casi di monumenti storici poco importanti, che noi...». «Ehi, ehi, ehi», fece Ben, cercando di frenarla. «Rilassati un attimo. Prima di tutto vorrei sapere quando dobbiamo consegnarla». «Hollis dice che vuole la prima bozza entro dieci giorni e spera che la stesura definitiva sia pronta prima di Natale. Hanno intenzione di ufficializzare la decisione prima della fine dell'anno». «Quindi, a conti fatti, abbiamo tre settimane per far tutto», disse Ben, «considerando che Hollis ha l'abitudine di consegnare la relazione agli altri giudici una settimana prima dell'annuncio della decisione». «Esatto», confermò Lisa. «Su, cominciamo!». «No, io comincio», precisò Ben, prendendo il proprio blocco per gli appunti. «Se però, improvvisamente, vuoi essere tu a incaricarti della prima stesura, accomodati». «Risparmiami il tuo sarcasmo, e scusa se ho invaso il tuo territorio intellettuale, permettendomi di darti alcuni consigli». «Sto soltanto dicendo che, da quando siamo qui, l'attacco l'ho sempre impostato io, e tu sei sempre intervenuta per curarne i dettagli e renderlo coerente. Al momento, però, non sono in grado di cominciare il lavoro, perché prima di mettermi a scrivere ho bisogno di almeno un paio di giorni di ricerche in biblioteca per raccogliere informazioni utili ad affrontare il caso. Se tu eri già pronta a fare tutto di testa tua, mi dispiace, ma non è il modo migliore per scrivere una motivazione. Non è un compito in classe del liceo». «Non cercare pretesti per litigare, e parliamo piuttosto della motivazione». «Pronto? Pronto, mi senti?», domandò Ben. «Ho appena detto che non ne ho voglia». «Io sì, invece», insistette Lisa. «Perché? Finora non abbiamo mai fatto così. Perché per questo caso, improvvisamente, ti agiti tanto? È un caso come tutti gli altri». «È vero, ma non era mai successo di dover scrivere una relazione della cui giustezza tu non fossi convinto», disse Lisa, mentre con l'unghia del pollice tormentava un angolo del proprio blocco.
«Ah, allora è per questo?», domandò Ben, alzando un sopracciglio. «Credi che io possa minare la solidità della motivazione per ottenere una soddisfazione personale?». «Non ho detto...». «Non c'è bisogno di dirlo. Te lo si legge in faccia», la interruppe Ben. «Tu pensi sul serio che ne sarei capace, vero?». «Tu non sai niente di quello che penso», disse Lisa, tornandosene al proprio tavolo. «È solo che questo caso mi appassiona molto, e vorrei seguirlo con particolare attenzione». «Non raccontarmi palle, perché...». «Non permetterti di minacciarmi!», esplose Lisa, scagliando sul tavolo il blocco per gli appunti. «Se vuoi fare l'accentratore fanatico, fa' pure. Accomodati». Nel corso della settimana, Ben fece un salto da Mailboxes & Things per controllare la propria casella. Vi trovò una busta bianca e blu e vide con sollievo che le vecchie bollette di Rick erano finalmente arrivate. Girò la busta per aprirla e sull'altro lato vide un breve messaggio scritto a mano: «Spero ti siano d'aiuto. Rick». «Merda», bisbiglio Ben tra sé e sé. Aprì la busta e ne levò le copie delle bollette di Rick. Dopo aver dato una rapida scorsa, Ben le rimise nella busta e tornò alla Corte. Notando con piacere che in ufficio non c'era nessuno, Ben prese il telefono e chiamò Nathan. «Ufficio dell'amministrazione», rispose Nathan. «Ho appena ricevuto le vecchie bollette di Rick», disse Ben. «Ce n'è voluto, di tempo», commentò Nathan. «Hai trovato qualcosa di interessante?». «No, ovviamente», rispose Ben, sfogliando nuovamente il mazzetto di bollette. «Proprio come sospettavamo. Per le chiamate personali deve avere un telefono cellulare, perché su queste bollette risultano sono quelle indirizzate a casa mia, al mio ufficio e al servizio informazioni». «Bisogna dire che è molto bene organizzato», ammise Nathan. «Te l'ho detto», disse Ben. «Rischiamo davvero di non riuscire a trovarlo». «Non dire così», fece Nathan. «È intelligente, ma non fino a questo punto». «Anch'io la pensavo così», disse Ben. «Ma ora temo che possa esserlo, eccome!».
«Non ti abbattere. Hai già richiesto gli annuari, vero?». «Sì, ieri. Li riceverò al più tardi entro la settimana prossima; quindi...». In quel momento Lisa fece il suo inaspettato ingresso in ufficio. Facendo rapidamente sparire le bollette nel cassetto della scrivania, Ben disse, rivolto a Nathan: «Sono perfettamente d'accordo. Ober s'incazza se ci si dimentica del suo compleanno». «È arrivata Lisa?», domandò Nathan. «Sì, esatto», disse Ben. «Proprio per questo dobbiamo far finta di essercene dimenticati, quest'anno». «Non dirle una sola parola, capito?», lo avvertì Nathan. Rivolgendosi a Lisa, Ben disse: «Ti saluta Nathan». «Ciao», ricambiò Lisa. «Ti saluta anche lei», disse Ben a Nathan. «Adesso, devo proprio andare. La giustizia e il diritto mi chiamano». Riagganciò e si voltò verso Lisa: «Che succede?». «Nulla di particolare», rispose lei. «State organizzando la festa per il compleanno di Ober?». «Sì», confermò Ben. «Se ce ne dimentichiamo s'incazza; quindi, abbiamo deciso di far finta di essercene dimenticati. Dopodiché, magari, usciamo a cena». «Fagli i miei auguri». «Non mancherò», disse Ben, giocherellando nervosamente con alcune graffette. «Hai sentito della nomina?». Lisa si avvicinò alla scrivania di Ben e si appoggiò a un angolo. «Si dice che il Presidente abbia nominato Kuttler». «Chi l'ha detto?», domandò Ben. «Joel, che l'ha saputo direttamente da Osterman. La decisione verrà ufficializzata domani». «Se è vero, è davvero triste. Kuttler mi sembra proprio una scelta di basso profilo». «Perché? Solo perché non è un genio della giurisprudenza come te?». «Non è necessario che sia un genio della giurisprudenza; al di sopra della media, però, sì». «Ma dài! Non sarà mica un idiota?». «Ovvio che non è un idiota, ma non è niente di speciale. È uno qualsiasi. Un signor nessuno. Uno sfigato. Un quaquaraquà. Un gino di legno...». «Ho afferrato il concetto». «Sai cosa intendo: magari sarà anche intelligente, ma secondo me alla
Corte suprema dovrebbero essere nominati soltanto i migliori, le più raffinate menti giuridiche del loro tempo». «Be', benvenuto nella realtà: la dinamica politica è regolata altrimenti. A nessuno importa del quoziente di intelligenza di un giudice della Corte suprema, a meno che non sia eletto provvisoriamente». Lisa si staccò dalla scrivania di Ben e tornò alla propria. «Che cos'hai? Non fai che lamentarti». «Non è giornata». «Be' non prendertela con me», disse Lisa. «Non è colpa mia». Il mattino seguente, Ben si alzò presto e scese al piano di sotto per fare una rapida colazione. Quando entrò in cucina, Nathan gli domandò: «Hai visto il giornale di oggi?». «No», rispose Ben, riempiendo un piatto di cereali. «Cos'è successo? Eric ha scritto un altro articolo su di me?». «Fuochino», disse Nathan, mostrando all'amico la prima pagina del giornale. L'apertura diceva: «Disco verde per Kuttler: il Presidente ha scelto». Sotto il titolo, il nome di Eric. «Come fa a saperlo?», domandò Ben. «Sai che roba...», disse Nathan. «La notizia è su tutti i giornali. A quanto pare, è trapelata ieri sera». Vedendo che il "Washington Post" aveva un titolo analogo, Ben tirò un sospiro di sollievo. «Mi stupisce soltanto che abbiano affidato a Eric una notizia così importante», disse Nathan. «Riguarda la Corte suprema», disse Ben. «Ormai è la sua specialità». «Lascialo perdere. Nell'ultimo mese ha mantenuto le distanze». «Nathan, questa storia non è uno scherzo, per me. Non lo lascio perdere affatto. E il mio ultimatum è sempre valido: se non se ne va entro la fine dell'anno me ne vado io. Uno di noi due è di troppo, qui». «Chi pagherà la sua parte di affitto?». «Possiamo trovare un nuovo inquilino; altrimenti la pagherò io». «Saresti disposto a pagare il doppio d'affitto pur di non averlo più davanti agli occhi? Sei sicuro che sia la soluzione migliore?». «Cosa vuoi che faccia? Che lo stringa tra le braccia e gli dica che lo perdono? Una stupida lite tra amici è una cosa, questa è un'altra: Eric ha davvero passato il segno. Lui...». «Senti, risparmiami la filippica», lo interruppe Nathan. «Io sono dalla
tua parte. Ober è sconvolto, ma sta anche lui con te. Se vuoi che Eric se ne vada, noi ti appoggiamo. Volevo solo che prendessi in esame tutte le possibili alternative». Sfogliando il giornale, Nathan domandò: «Hai pensato a quello che Eric potrebbe fare per vendicarsi, se tu lo cacciassi?». «Che cosa vuoi dire?», fece Ben, sbalordito e incredulo. «Dico solo che se tu mi cacciassi di casa, sarei piuttosto incazzato con te. E magari, come rappresaglia, scriverei un altro articolo su di te». «Se solo osa scrivere un altro articolo», sibilò Ben, «gli stacco la testa. E poi...». «Calmati», lo interruppe Nathan. «Non l'ha ancora scritto. Stavo solo facendo un'ipotesi». Ben bevve un sorso di succo di frutta. «Credi davvero che sarebbe capace di farlo?». «Se l'ha fatto una volta...». «Vuoi dire che dovrei fare la pace per evitare che lui mi danneggi ulteriormente? Sei rimbecillito o cosa?». «Non ho detto che devi far pace con lui. Ti dico soltanto di guardarti le spalle». Diretto in ufficio, Ben passò dall'ufficio della segretaria di Hollis, Nancy, che salutò. «Ciao, Ben», rispose lei, con un sorriso. Lavorava per Hollis da vent'anni. Gli era già accanto quando lui era un semplice giudice del distretto di Washington, D.C., ed era tra le cinque persone presenti nel momento in cui Hollis aveva ricevuto la notizia della nomina alla Corte. Nancy aveva un aspetto assolutamente normale, con dei capelli castani che cominciavano appena a ingrigire, e avrebbe probabilmente lavorato con Hollis fino alla pensione. Secondo lei, non esisteva al mondo un lavoro più appassionante. Prelevando una grossa busta dall'angolo della sua scrivania, Nancy la porse a Ben. «È per te. È appena arrivata con un pony. Dev'essere importante». Ben la ringraziò ed entrò in ufficio. Prima ancora di togliersi il cappotto, aprì la busta, che conteneva una copia del "Washington Herald" di quel giorno. Il nome di Eric era cerchiato in rosso. Accanto, un breve messaggio scritto a mano: «Ti fidi ancora di lui?». "Che stronzo!", pensò Ben. "Vuole fare in modo che io non mi dimentichi mai di lui". Gettando il giornale nel cestino dei rifiuti, Ben notò un post-it rosa con un messaggio di Lisa attaccato allo schermo del suo com-
puter: «Chiama l'ufficio dei marshals. Al più presto». Ben staccò l'adesivo dallo schermo, lo accartocciò e lo cestinò. Scorse l'elenco degli interni telefonici della Corte e compose un numero. «Buongiorno, sono Ben Addison, dell'ufficio del giudice Hollis». Dopo qualche istante d'attesa, gli fu passato il capo dei marshals. «Ciao, Ben. Come va?», domandò. «Non mi lamento», rispose Ben, sforzandosi di mantenere la calma. «E da voi come va?». «Tutto tranquillo», disse Lungen. «Ho appena visto che il tuo amico ha fatto un altro scoop, e così mi sono ricordato che è da un bel po' di tempo che non ci sentivamo». «Senta, sa benissimo che io non c'entro nulla con quell'articolo», disse Ben, alzando la voce. «È su tutti i giornali di oggi». «Ma io non ho detto questo», precisò Lungen. «Ho detto solo che mi ha fatto pensare a te. L'ultima volta che ci siamo visti hai promesso che saresti venuto a trovarci, dopo aver parlato con Eric». «Io non ho promesso nulla», disse Ben. «Fisk mi ha chiesto di tornare. Io gli ho risposto: "Vedremo". Quindi, non vorrei sembrarle brusco, ma se non c'è altro io avrei molto da fare». «Volevamo sapere com'è andata con Eric». Mentre Ben si accingeva a rispondere, entrò Lisa. «Io e Eric non ci parliamo più. Non aveva uno straccio di scusa per quello che ha fatto, e io l'ho mandato a fare in culo. Ha saputo dirmi soltanto che la sua carriera era in pericolo. Ha altre domande?». «Non ti ha dato altre spiegazioni?», insistette Lungen. Ben scrisse su un pezzo di carta la parola "marshal" e lo passò a Lisa. «Non credo che ne avesse», disse Ben. «C'è altro?». «Un'ultima cosa», rispose Lungen. «Abbiamo deciso di approfittare della tua disponibilità a sottoporti alla test con la macchina della verità». Ben raggelò sulla sedia. «Non vedo la ragione di...». «Una semplice precauzione», lo interruppe Lungen. «Sai bene che stiamo mettendo la sordina a quest'indagine e che ai giudici non abbiamo ancora notificato nulla. Se tu non ci aiuti, però...». «D'accordo, mi sottoporrò al test», disse Ben, senza neppure lasciarlo terminare. «Perfetto», esultò Lungen. «L'abbiamo fissato per il ventitré di questo mese. Ti va bene?». «Certo, benissimo», disse Ben. «Non c'è problema».
«Perfetto. Ci vediamo qui tra due settimane. Salutami il giudice Hollis». Ben riagganciò e rimase a fissare il telefono. «Cosa c'è che non va?», domandò Lisa. «Che cosa volevano?». «Hanno visto l'articolo di Eric sulla nomina di Kuttler e vogliono sottopormi al test con la macchina della verità». «È assurdo», disse lei, rilanciando a Ben il bigliettino appallottolato. «Era su tutti i giornali. L'annuncio ufficiale sarà dato oggi. La notizia è trapelata dalla Casa Bianca ieri sera». «Va' a raccontarlo ai marshals». «Non possono sottoporti al test della macchina della verità», insistette Lisa. «È una violazione della privacy». «L'hanno fissato per il ventitré, e io ho intenzione di presentarmi». «Perché?». «Non ho scelta», disse Ben, mettendo in ordine una risma di fogli sulla sua scrivania. «Se non accetto, diranno a Hollis tutto quello che sanno, e io sarò di certo sbattuto fuori dalla Corte. Ma, anche ammesso che stiano bluffando e non abbiano veramente intenzione di parlare con Hollis, se non mi presento si insospettirebbero ancora di più». «Te lo dico io quando si insospettiranno: quando non riuscirai a passare il test». «Lo passerò», disse Ben. «Ci sono dei trucchi per superarli. È questo il motivo per cui non hanno valore di prova in tribunale. Non sono affidabili. In ogni caso, posso aver fatto un errore, ma non ho agito premeditatamente contro la Corte suprema. Se mantengo la calma, sono sicuro di poterlo superare». «Se lo dici tu...», fece Lisa, scuotendo la testa. «Però continuo a credere che...». «Sai cosa ti dico? Non ho più voglia di parlarne», la interruppe Ben. «Ma...». «Lasciamo perdere», supplicò Ben, senza guardarla in faccia. «Me la caverò». Quella sera, Ben rientrò a casa sotto la prima nevicata dell'anno. Togliendosi da davanti agli occhi alcune ciocche di capelli rapprese e gelate, cercò le chiavi e aprì la porta. «Metti giù la borsa. Stasera si esce!», gli gridò Ober, infilandosi il cappotto. Poiché da parte di Ben non ci fu reazione, Ober si fermò e lo guardò negli occhi. «Cosa c'è che non va? Hai la faccia di legno».
«Grazie». Ben si fece scivolare la giacca dalle spalle e lasciò cadere a terra la borsa. «Brutta giornata al lavoro, caro?». «Terribile», disse Ben, slacciandosi la cravatta e sbottonando il colletto della camicia. «La relazione a cui stiamo lavorando non è ancora pronta. L'ufficio dei marshals ha deciso di sottopormi al test della macchina della verità. Rick imperversa. Di Lisa non posso fidarmi. La mia vita è un casino». «Ti fanno il test con la macchina della verità?», domandò Nathan. «Non possono». «Lo so che non possono, ma se non accetto raccontano tutto a Hollis». «Non vorrei sembrarti insensibile, ma esci con noi o no?», gli domandò Ober. «Oggi Nathan ha avuto una promozione, e noi stiamo qui col muso lungo». «Hai avuto il posto all'ufficio S/P?», domandò Ben a Nathan. Questi sorrise, e Ben lo abbracciò con vigore. «Congratulazioni!». «Hai davanti a te il nuovo membro dell'ufficio politico del segretario di stato», spiegò Ober. «Qualunque cosa sia». «D'ora in poi metterò lo zampino in tutte le più importanti questioni politiche affrontate dal nostro dipartimento», disse Nathan. «Incredibile!», esclamò Ben. «Sapevo che l'avresti ottenuta. Spero che ti abbiano dato un ufficio più grande». «Ufficio più grande, computer più potente, salario leggermente più alto». «Che cosa vuoi di più?», disse Ben. «Mi sento una merda... Io stavo qui a lamentarmi e tu, con una novità come questa, hai aspettato a parlarmene». «Non ti preoccupare», lo tranquillizzò Nathan. «Basta con queste cagate da amiconi», disse Ober. «Andiamo a festeggiare!». Ben corse in camera sua e ne uscì in jeans e giacca a vento marrone. «Dove si va?», domandò, scendendo le scale. «Indovina», disse Ober. «Non dirmi che...». «Ehi, è la festa per la mia promozione», disse Nathan. «E adesso sbrighiamoci. Chiude alle otto». Quando i tre giunsero al Museo aerospaziale dello Smithsonian, oltre-
passarono le enormi porte di metallo e si addentrarono nell'edificio. Un minuto dopo stavano ammirando l'esposizione dedicata alle Pietre miliari del volo. Quella raccolta di meraviglie dell'aerodinamica comprendeva l'aereo originale dei fratelli Wright, lo Spirit of St. Louis, e il Glamorous Glennis, il preferito di Nathan, primo aereo capace di infrangere la barriera del suono. «Quante volte si sono alzati in volo il primo giorno, i fratelli Wright?», domandò Ben, leggendo una breve sintesi dei primi tentativi di quei pionieri. «Quattro», rispose Nathan. «Che giorno era?». «17 dicembre 1903». «Chi fu il primo a volare, tra i due?». «Orville fu il primo e restò in aria per dodici secondi», spiegò Nathan, con gli occhi sempre fissi sul soffitto. «Ma Wilbur volò più a lungo: per cinquantanove secondi». «Ancora non sono riuscito a capire perché ti appassioni tanto a queste cose», disse Ben, osservando una ricostruzione del primo Sputnik. «Non hai fatto studi scientifici, tuo padre non è nell'esercito...». «Non riesci proprio ad apprezzare le meraviglie della tecnologia, eh?», domandò Nathan. «Riuscirai mai, con la tua mente da leguleio, a comprendere un simile trionfo? Qui siamo di fronte alle più grandi imprese scientifiche... che trascendono la nostra esistenza individuale». Ober si avvicinò a una pietra lunare autentica, portata sulla Terra dall'equipaggio dell'Apollo 17. La toccò e disse: «Questa pietra è falsa. Non arriva dalla luna». «E da che cosa lo deduci?», gli domandò Nathan. «Dalle tue vaste conoscenze in materia di geologia dei pianeti?». «Non sembra per niente autentica», spiegò Ober. «Anzi, sembra falsa». Rivolgendosi ai turisti che stavano osservando il reperto, Ober disse a voce alta: «QUESTA PIETRA È FALSA! È UNA PATACCA!». Tappandogli la bocca con una mano, Nathan disse: «Perché devi farci fare queste figure? Quanti anni hai? Dieci?». «Ne ha dodici», disse Ben. Accarezzando a sua volta la pietra, Ben disse: «In effetti, non ha l'aria di essere autentica. Sembra fatta di qualche materiale sintetico, di plastica». «Visto? Te l'avevo detto», intervenne Ober. «Questa è una pietra lunare autentica», insistette Nathan. «Leggi la dida-
scalia. È stata portata sulla Terra dall'equipaggio dell'Apollo 17. Ha quasi quattro miliardi di anni». «Forse la pietra autentica era radioattiva, e dopo aver sterminato una comitiva di turisti è stata sostituita con questo maldestro facsimile, tutto liscio», ipotizzò Ober. «Non intendo lasciarmi trascinare in questa discussione», disse Nathan. «Questa pietra è liscia solo perché milioni di turisti coglioni sentono l'irrefrenabile desiderio di toccarla». Ober tornò a tastare la pietra e disse: «È chiaramente fasulla. Rivoglio i miei soldi». «Stai cercando di invitarmi a passare al reperto successivo?», domandò Nathan. «È questo che vuoi dire?». «Sto morendo di fame», disse Ober. «Voglio soltanto mangiare qualcosa». I tre amici si recarono al Flight Line, il bar che si trovava sul lato est di quello stesso edificio. Dopo aver riempito i propri vassoi di sandwich preconfezionati e di dolciumi industriali, si accomodarono a uno dei molti tavoli vuoti. «Raccontami del test con la macchina della verità. Quand'è che devi farlo?», domandò Nathan. «Tra due settimane». «E se non lo superi?». «Non ho idea», disse Ben, scartando un sandwich al roast-beef. «Immagino che sarebbe un casino, ma non hanno parlato delle possibili conseguenze. Non credo che mi licenzierebbero in tronco, ma di certo non mi gioverebbe. Spero soltanto che non informino Hollis. Se viene a saperlo, non avrà più fiducia in me». «Non capisco perché abbiano deciso di telefonarti proprio oggi. Per l'articolo di Eric?». «Ovvio», disse Ben. «Quando hanno letto l'articolo, si sono ricordati che era da un po' che non ci sentivamo, o almeno così mi hanno detto». «Immagino che tu non ne abbia ancora parlato con Eric...». «Non ci penso neanche», disse Ben. «Potrebbe venirgli in mente di scrivere un altro articolo. Adesso devo solo fare in modo di superare quel test». «Ben, lo so che ne abbiamo già parlato, ma sei proprio convinto che Eric debba andarsene di casa?», domandò Ober, con un tono insolitamente serio. «Sai come la penso», disse Ben. «Il discorso è chiuso».
«E se...», riprese Ober. «Quei test non sono infallibili», lo interruppe Nathan, lanciandogli un'occhiataccia. «Ne sono sicuro. Ho visto un servizio alla televisione: nell'esercito somministrano ai soldati particolari droghe che provocano il rallentamento del ritmo cardiaco e consentono, così, di superare il test». «Ho sentito dire che se si riesce a rimanere calmi e concentrati», disse Ben. «Il delinquente comune di solito non ci riesce...». «...ma i colletti bianchi come te in genere ce la fanno, vero?», domandò Nathan. «Molto spiritoso», disse Ben. «Sei davvero una sagoma». «Potresti procurarti quelle droghe speciali dell'esercito, tramite il Dipartimento di Stato», suggerì Ober a Nathan. «Ora che sei diventato un pezzo grosso non dovresti avere difficoltà». «In effetti, posso provare», disse Nathan. «Chiedere non costa nulla». Addentò il proprio hamburger e disse: «Lisa ha detto qualcosa?». «Vuoi piantarla con Lisa?», supplicò Ben. «Da quando siamo tornati da Boston, non ho praticamente più potuto parlare con lei. Non appena fa per chiedermi qualcosa, io mi chiudo a riccio». «Te l'avevo detto che non era una buona idea, quella di andare a letto con lei», disse Ober, scuotendo la testa. «Il sesso non c'entra niente con questa storia. Per quello nessuno di noi due ha problemi. È solo che mi sento uno stronzo a mentirle. Forse per voi è incomprensibile, ma Lisa è mia amica. So che voi non vi fidate di lei, ma io sì». «Be', allora fa' pure: raccontale tutto quello che vuoi», disse Nathan. «Dormi pure con lei tutte le notti. Continua a scavarti la fossa con le tue mani. Sei maggiorenne, sta a te decidere. Io voglio solo che tu guardi in faccia la realtà». «Senti, non mi sto lamentando. Dico solo che non è facile mentire continuamente». «Be', ti conviene esercitarti. Tra due settimane hai appuntamento con la macchina della verità». Attraverso il leggero velo di neve che si scioglieva sul parabrezza dell'auto in cui si trovava, Rick sorvegliava l'ingresso del Museo aerospaziale. «Perché ci mettono tanto?». «Staranno sicuramente guardandosi in giro. Torniamo al punto: sei sicuro di ottenere l'informazione che vuoi?». «Non preoccuparti», disse Rick, accendendo l'aria calda. «L'otterremo.
Me la fornirà la mia fonte...». «Vorrei che tu la smettessi di fare affidamento su questa fonte. Il semplice fatto di stare accanto a Ben non significa niente. Noi abbiamo bisogno di...». «Fidati, so bene di che cosa abbiamo bisogno», disse Rick. «E se non otterremo l'informazione dalla nostra fonte, possiamo sempre riceverla da Ben. Lo vedrò la prossima settimana... Vedrai che tornerà». «Come fai a essere sicuro che accetterà di incontrarti?». Vedendo che Ober, Nathan e Ben stavano uscendo dal museo, Rick sorrise: «Ormai, Ben lo conosco. Se avrà l'opportunità di fregarmi, non saprà resistere. Tiene troppo alla sua carriera per lasciare che io gliela rovini. Eppoi, se anche non avesse l'opportunità di fregarmi, quanta gente saprebbe dire di no a una ricompensa di tre milioni di dollari?». 12 L'indomani, a mezzogiorno, Ben era in piedi accanto agli schedari metallici, in attesa che la stampante sfornasse la prima bozza della relazione di minoranza sul caso Grinnell. Non vedeva l'ora di passare quel documento a Lisa: sapeva che ne sarebbe rimasta impressionata. "Aspetta solo che la veda", disse tra sé e sé, mentre la prima pagina strisciava fuori dalla stampante. "L'opposizione è così decisa che Lisa resterà senza parole. Prima comincerà a scusarsi, implorerà il mio perdono, giurerà di non dubitare mai più di me. Ammetterà esplicitamente che sono io, tra i due, il più bravo a scrivere. Dopodiché si strapperà di dosso i vestiti e si stenderà nuda sulla scrivania". Mentre Ben sorrideva tra sé, Lisa irruppe in ufficio. Aveva due scatoloni di cartone di media grandezza, che gettò sul divano. «Dov'eri?», gli domandò. «Ti sei perso la festa d'anniversario di Blake». «Sai che roba...», disse Ben, prelevando un altro foglio dalla stampante laser. «Non potrebbe importarmi di meno dei suoi dieci anni di Corte suprema. Eppoi volevo proprio chiudere con il caso Grinnell. Mi mancava poco, e non volevo interrompere il flusso di idee geniali che dalla mia testa, attraverso la tastiera, scorreva nel computer». Quando Lisa si avviò al proprio posto, Ben domandò: «Be', cos'ha fatto Blake? Ha stretto la mano a tutti e ha ringraziato per il supporto che ha sempre ricevuto?». «Più o meno. Però è stata una festa carina. C'erano i giudici al gran completo, tutti gli assistenti e gli impiegati. È durata solo mezz'ora, ma è
stata carina». Lisa inforcò gli occhiali che utilizzava per leggere e aggiunse: «E ti sei perso anche l'inevitabile scontro tra Osterman e Kovacs». «Sono passati alle vie di fatto?», domandò Ben, incuriosito dalle voci che circolavano a proposito di un odio profondo tra l'ultra-conservatore Osterman e il semi-liberal Kovacs. «Non è successo niente, ma non si sono scambiati una sola parola», rispose Lisa. «Joel mi ha detto che, quando Kovacs è stato eletto alla Corte, Osterman l'ha accolto dicendo: "Spero che lei si renda conto di quanti libri dovrà ancora leggere"». «Ma smettila!». «Non sto scherzando», disse Lisa. «Un'esplicita riserva in merito alla preparazione di Kovacs». «E Kovacs che cosa avrebbe risposto?». «Non lo so. Joel non mi ha detto altro». «È assurdo», disse Ben. «Certi giudici sono prossimi alla settantina e si comportano ancora come bambini al parco-giochi». «È così che funziona», disse Lisa sedendosi alla propria scrivania. «I giudici anziani sottopongono i nuovi arrivati a ogni genere di angheria. È una sorta di confraternita geriatrica. Ai nuovi giudici sono riservati gli uffici peggiori, le sedie più scomode, e i loro familiari vengono relegati nelle file di sedie più lontane. Anche quando si riuniscono tocca all'ultimo arrivato rispondere, al telefono o aprire, se bussano alla porta». «Stai scherzando, vero?». «Nient'affatto. Puoi verificare anche al negozio di libri che c'è nel seminterrato. È scritto su tutti i libri che parlano della Corte». «Non riesco a immaginarmelo... Il nonnismo tra i giudici». Con voce tonante, Ben si mise a imitare Osterman. «Ehi, Kovacs, voglio che per domani, prima della discussione, il mio ufficio sia perfettamente pulito e spolverato! Altrimenti, la relazione di minoranza sul caso Mirsky te la sogni! Capito?». «Sissignore, signor giudice Osterman!», disse Lisa. «Come mi hai chiamato?», urlò Ben. «Sissignore, signor presidente Osterman!», gridò Lisa. Ben prelevò un altro foglio dalla stampante. «Sì, ora riesco a immaginarlo». «Hai davvero finito la prima bozza della relazione sul caso Grinnell?». «Eccola qui», disse Ben, mentre l'ultimo foglio scivolava fuori dalla stampante. Sbatté le trenta pagine di quel documento sulla scrivania di Li-
sa. «Fresca di stampa». «Ah, senti, quegli scatoloni sono per te», disse Lisa, indicando il divano. «Ce ne sono altri sette alla reception, ma non ce la facevo a portarli tutte». Ben prese le chiavi da una tasca e se ne servì per aprire una delle scatole. Conteneva gli annuari della facoltà di legge della Columbia University. Senza dire una parola, Ben richiuse il pacco e tornò al suo tavolo. Nella mezz'ora successiva osservò Lisa - intenta a leggere la relazione - sperando di cogliere sul suo viso un accenno di reazione. "Se non le piace, vuol dire che è pazza", pensò Ben. Quando lei ebbe terminato di leggere, Ben domandò: «Allora? Che ne pensi?». «È una relazione eccellente», disse Lisa, togliendosi gli occhiali e posandoli sulla scrivania. «Sono davvero sbalordita. La quarta parte è eccezionale. Portando alle estreme conseguenze la logica di questa decisione, l'hai sbriciolata. Blake si incazzerà molto quando la leggerà». «Insomma, avevo ragione io». «Sì, va bene. Avevi ragione tu. Non dubiterò mai più di te, mio Signore di tutti gli assistenti». Lisa indicò gli scatoloni sul divano. «Di che si tratta?». «Oh, non è nulla». «Dimmi cosa c'è in quegli scatoloni», insistette Lisa, avvicinandosi al divano. Ben balzò in piedi e fece ostruzione, richiudendo meglio lo scatolone. «È una cosa privata. Non ti offendere, ma non ho voglia di parlarne». «Cosa c'è in quegli scatoloni?», ripeté Lisa. «Una testa mozzata? Coadiuvanti sessuali? Che cosa nascondi?». «Lascia stare!», le ingiunse Ben, togliendole le mani da sopra lo scatolone. Sorpresa dalla violenta resistenza di Ben, Lisa arretrò. «Scusami», disse Ben. «Non voglio che tu ci metta le mani». «Se non ti fidi di me, abbi il coraggio di dirmelo in faccia», lo sfidò Lisa. «Lisa, non è questo: è solo che io...». «Non raccontarmi stronzate», lo interruppe lei. «Sarebbe un insulto alla mia intelligenza e alla tua. È evidente che ha a che fare con la storia di Rick. Che altro potrebbe esserci di così importante?». «La storia di Rick non c'entra niente», ribadì Ben. «Allora fammi vedere cosa contengono gli scatoloni». «Lisa, non posso. Io...».
«È da quando siamo tornati da Boston che mi sfuggi. So che non dipende dalla storia che abbiamo avuto... Non voglio credere che tu sia così scemo. Ma è evidente che mi nascondi qualcosa». «E che cosa ti nasconderei? Sentiamo», disse Ben. «Non so. È il tuo modo di fare. Sei... diverso. Non saprei spiegare. Hai subito una specie di metamorfosi. Eppoi, ti ricordi quando la scorsa settimana sono rientrata in ufficio mentre tu eri al telefono e mi hai detto che stavate organizzando uno scherzo per il compleanno di Ober? Ebbene, quando l'ho conosciuto, Ober mi ha detto che è nato in estate: si lamentava perché secondo lui nessuno si ricorda dei compleanni estivi e non si ricevono mai regali. Adesso, se non te ne sei accorto, siamo in dicembre». Lisa tacque e fissò Ben. «Non è che non mi fidi di te». «Allora dimmi cosa c'è in quegli scatoloni», disse Lisa. «Cosa?». «Hai capito benissimo. Se davvero ti fidi così tanto di me, dimmi cosa c'è lì dentro». «Sono solo vecchi annuari», disse Ben, aprendo controvoglia uno scatolone e passando un fascicolo a Lisa. «Speravo di trovare una foto di Rick che mi consentisse di identificarlo». Lisa sembrò sul punto di esplodere, rossa di rabbia in viso. Prese il proprio portafoglio dal cassetto della scrivania, si precipitò in ripostiglio, afferrò il cappotto e aprì la porta. «Lisa, non volevo...», provò a dire Ben. Ma Lisa uscì dall'ufficio, sbattendo la porta. Quella sera, alle otto, Ben era davanti alla porta di casa. Urlò: «Ehi, aprite la porta!». Aveva tra le mani una pila di cinque scatoloni pieni di annuari e sentiva che la sua presa stava venendo meno. «Sbrigatevi!». «Tieni duro!», gridò Nathan di rimando, precipitandosi alla porta. «Sto arrivando!». Quando Nathan aprì la porta, Ben caracollò all'interno e lasciò cadere gli scatoloni sul divano. «Nel taxi ce ne sono altri. Mi aiuti a portarli dentro?» Sfidando il freddo, senza infilarsi la giacca, Nathan raggiunse il taxi in sosta davanti a casa loro. Prese dal bagagliaio tre dei cinque scatoloni rimasti e tornò dentro di corsa, seguito da Ben. Quando ebbero richiuso la porta, Nathan disse: «Immagino che siano gli annuari». «Li ho ricevuti quasi tutti», disse Ben, togliendosi il cappotto. «Mancano
solo quelli di Harvard e dell'università del Michigan». «Ho visto un servizio sulla festa di Blake, al telegiornale. C'eri anche tu?». «No, me la sono persa», rispose Ben. «Ero troppo occupato a farmi stangare da Lisa. Si è incazzata da morire perché alla fine ha capito che non le stavo più dicendo nulla della storia di Rick». «Come ha fatto a capirlo?». «La ragazza non è scema», disse Ben. «La Corte suprema non è un covo di trogloditi come il Dipartimento di Stato: io lavoro con gente brillante, intelligente. Quando ha visto gli annuari, ha capito che le cose andavano avanti senza di lei e si è un filo arrabbiata». «Le hai detto degli annuari?». «Non ho potuto fare altrimenti», spiegò Ben, aprendo uno scatolone. «Ho pensato che fosse l'unico modo per dimostrarle che mi fidavo di lei». «E non ha funzionato?». «Vuoi scherzare? Adesso lei ha la prova concreta che io le nascondevo qualcosa». «Insomma, la persona di cui non ci fidiamo non solo è al corrente del nostro nuovo piano, bensì è anche inferocita con te». «Mi sembra una buona sintesi», ammise Ben. «Una giornata niente male, al lavoro, eh? Penso che domani proverò a rompere un paio di specchi, per vedere se riesco a peggiorare ulteriormente le cose». All'improvviso entrò Ober. «Ho un'idea fantastica per un nome di ristorante!», annunciò. «Meglio ancora di Tequila Mockingbird». «A quanto pare, non puoi resistere fino a domani», disse Nathan. «Sentite qua», cominciò Ober, gettando la giacca sul tavolo da pranzo. «Sarà la prima rosticceria non-ebrea del mondo». Con gesti ampi e plateali, spiegò: «Di rosticcerie ebree ce n'è una sfilza, e servono tutte le stesse cose. Ma ci sono milioni di persone a cui il solito pastrami o il roast-beef on rye non piace. Allora il mio ristorante si chiamerà "Cristo, che buono 'sto sandwich!", la prima rosticceria non-ebrea al mondo. I sandwich saranno fatti tutti con pane bianco e saranno serviti con formaggio o maionese, a scelta. Sarà una miniera d'oro!». Fregandosi le mani, disse: «Se volete, voi potete essere i primi investitori». «Magari puoi proporre una joint-venture a una ditta produttrice di pan carré», suggerì Nathan. «Non è un'idea malvagia», assentì Ober. Notando l'espressione vacua di Ben, domandò: «Cosa c'è che non va?».
«Lisa ha scoperto che l'abbiamo esclusa dai nostri piani per identificare Rick e ora è convinta che non ci fidiamo di lei». «Ha ragione», disse Ober. «Noi non ci fidiamo». «Non rivolgerà mai più la parola a Ben. Lo odia e vorrebbe vederlo morto». «Oh, Be', non ti abbattere», disse Ober, sedendosi accanto a Ben. «Ci sono un sacco di donne che mi odiano. Non è così male». «Come mai tutto questo buon umore?», gli domandò Ben, squadrandolo. «L'ultima volta che ti ho visto così euforico è stata quando ti sei sparato tutto il flacone delle vitamine dei Flintstone». «Sono felice, tutto qui», disse Ober, mettendo un braccio attorno alle spalle di Ben. «Ho dei bravi amici, una bella casa, un ottimo lavoro...». Ober si accorse degli scatoloni che sommergevano il divanetto. «Sono gli annuari?». «Indovinato», disse Nathan. «La proverbiale pagliuzza che ha spezzato la schiena di Lisa». «Io non mi preoccuperei per Lisa», disse Ober, voltandosi verso Ben. «Siete ottimi amici. Farete subito la pace». «Certo, si risolverà tutto», concordò Nathan. «Cioè, basta vedere come va con Eric. State facendo enormi passi in avanti». Un'ora più tardi arrivò un fattorino con pizza all'aglio per tutti. Con gli annuari sparsi ai quattro angoli della casa, ognuno prese la propria fetta e continuò a sfogliare fascicoli. Ober, in pantaloni della tuta da ginnastica grigi e maglietta a strisce nere, era seduto con i piedi sul divano. «Non riesco a capire perché lo facciamo», piagnucolò, fissando un vecchio annuario della facoltà di legge di Stanford. «Non so neanche che faccia abbia, Rick. Non l'ho mai visto in vita mia». «Continua a sfogliare», disse Ben. «Te l'ho descritto. Ha la testa lunghissima e stretta e le borse sotto gli occhi». «La metà delle foto corrisponde a questa descrizione», si lamentò Ober. «Senza offesa, gli avvocati non sono certo il massimo dal punto di vista estetico». «Stai facendo questo lavoro perché ho bisogno del tuo aiuto», disse Ben. «Se vedi qualcuno che corrisponde alla descrizione, evidenziane il nome. Così è più difficile che possano sfuggirmi quando mi ci imbatterò». «Ma dovrai comunque passarli a uno a uno», disse Ober.
«Taci e sfoglia», gli ordinò Nathan. «Ho l'impressione che questi tipi comincino ad avere un po' tutti la stessa faccia», disse Ober un paio d'ore più tardi. «Ogni anno la stessa cosa: un pelatone, un ciospo, una racchia, un altro pelato, un'altra racchia, una tipa pelata...». «In effetti, non è esattamente una parata di bellezze», concordò Nathan. «Facciamo una gara», disse Ober. «Vince chi trova la faccia più brutta». «E che cosa si vince?», domandò Ben. «Non ha importanza», disse Nathan, alzandosi dal divano. «Ho già vinto. Guarda 'sto sfigato». Nathan passò a Ober l'annuario che aveva in mano, indicando la foto di Ben dei tempi di Yale. «Guardati», disse Ober. «Con che cosa ti eri pettinato quel giorno? Con un rastrello?». «In effetti, quel giorno non sfoggiavo la mia migliore acconciatura», ammise Ben, guardando la foto. «Come minimo», disse Ober. «Sembra quasi che tu abbia dormito con una scatola in testa. È praticamente un cubo perfetto». «Cerchiamo la foto di Lisa!», disse Nathan, prelevando un fascicolo dalla pila degli annuari di Stanford. «Vi siete laureati nello stesso anno, vero?». Sfogliò l'annuario corrispondente. «Non c'è», disse, dopo un po'. «A quanto pare non le piace essere fotografata». «Davvero?», domandò Ben, sospettoso. «Controlla, se vuoi», disse Nathan, passandogli l'annuario. «Io non l'ho trovata». Ben diede una scorsa ai cognomi che cominciavano per S. Non trovando la foto, decise di consultare l'elenco degli studenti non fotografati, e lì il nome di Lisa c'era. «Sai cosa stavo pensando?», domandò infine. «E se...». Prima ancora che Ben potesse cominciare a formulare il suo pensiero, Eric aprì la porta ed entrò in casa, scrollandosi la neve dai capelli. «Non è ancora mezzanotte», disse Ober, consultando il suo orologio. «Stasera hai lavorato persino meno del solito, eh?». «Che state facendo?», domandò Eric, vedendo tutti quei fascicoli sparsi per la stanza. «Se non ti dispiace, sono fatti miei», disse Ben. «È sempre un piacere incontrarti», disse Eric. «Comunque, devo parlarti del tuo bigliettino». «Non c'è nulla da dire», sibilò Ben. «È sufficiente che tu mi faccia sape-
re cos'hai intenzione di fare. Mi rimetterò alla tua decisione senza discutere». «Che ne diresti di...». «Non ho voglia di parlarne, adesso», lo interruppe Ben. «Quindi, se non hai ancora deciso, vorrai scusarci, vero? Devo discutere di alcune cose in privato». «Possiamo parlarne domani?», domandò Eric, grattandosi la barba che cominciava a rispuntargli sul mento. «No, ti ho già detto che...». «Senti, Ben, se vuoi che io me ne vada di casa, il meno che puoi fare è di concedermi mezz'ora del tuo tempo. Ripeto: possiamo parlarne domani?». «Va bene», acconsentì Ben, raccogliendo un pezzo di crosta della pizza dal piatto. «Domani ci sentiamo». Quando Eric se ne fu andato di sopra, Nathan domandò: «Qual è il problema?». «Gli ho scritto un biglietto in cui gli chiedevo di decidere al più presto. Se il primo dell'anno non è fuori di qui, me ne andrò io. Ho soltanto bisogno di saperlo, in modo da potermi muovere per tempo». «Ben, ti prego, non fare così», supplicò Ober. «Potete mettervi d'accordo». «No, è impossibile», disse Ben. «È troppo tardi, ormai. So che la prospettiva ti inquieta, ma non possiamo essere sempre tutti amici, fino alla fine dei nostri giorni». «Smettila», replicò Ober, irritato. «Non devi far altro che...». «Io non devo fare proprio niente», lo interruppe Ben. «Qualsiasi cosa Eric decida, io l'accetterò. A questo punto, me ne frego». «Te ne freghi?», domandò Ober. «Ma come fai a essere così ottuso?». «Ottuso, io?», rispose Ben. «Parli proprio tu, che vuoi aprire una rosticceria non-ebrea, che sei convinto che Mussolini sia una varietà di pasticcini e che consideri un reato federale il fatto che al Museo aerospaziale non vendano i bomb-pops! Da che pulpito...!». Ober ammutolì, come se gli avessero aspirato il fiato dai polmoni. «Be'?», fece Ben. Nathan, rivolto a Ben, disse: «Era proprio necessar...?». «Non sono stupido», disse Ober, con voce rotta. «Non sarò un genio come SuperBen Addison, ma non sono un coglione». «Scusami», disse Ben. «Cercavo solo di...». «Cercavi solo di sentirti un po' meglio a mie spese», lo interruppe Ober,
con gli occhi che gli si riempivano di lacrime. «Fai sempre così... Prendiamocela con Ober e facciamo ridere tutti. È la soluzione ideale per ogni problema. Sissignore, questa è la spiegazione migliore che mi viene in mente. Non ti preoccupare se io sono sempre quello che subisce. Continua pure a fare quello che ti riesce meglio». Preso alla sprovvista dall'esplosione di Ober, Ben non seppe più cosa dire. Da quando si conoscevano, in anni e anni di prese in giro, era la prima volta lo vedeva reagire in quel modo. «Calmati...», provò a dire. «Non ho voglia di calmarmi», riprese Ober, asciugandosi le lacrime che gli rigavano le guance. «Voi potete pure farvi due risate, ma io sono stufo di essere il buffone di corte. Non sono un fallito». La faccia di Ober era ormai di un rosso scarlatto. «Non sono un fallito, e non voglio che mi trattiate come se lo fossi». «Nessuno pensa che tu sia un fallito», lo rassicurò Nathan. «Adesso, prendi fiato e rilassati». Ober voltò bruscamente la testa, distogliendo lo sguardo. «Scusami», disse Ben. «Non avrei mai dovuto prendermela con te». «Già, proprio così», disse Ober. Ben riprovò. «Sapevo che la questione del trasloco di Eric ti turbava, non avrei dovuto toccare questo tasto». «Adesso mi passa». Osservando Ober, Ben si domandò come avesse fatto una normale conversazione a trasformarsi in un simile disastro. Sapeva che la questione di Eric era un nervo scoperto, per Ober, ma non immaginava di poter scuotere fino a quel punto le fondamenta dell'autostima di Ober. «Sai benissimo che non ti considero un fallito». «Lo so», disse Ober. «E mi spiace di aver fatto questa scenata. È solo che mi ha dato fastidio». Rimettendosi comodo sul divano, Ober fece un respiro profondo e fissò gli occhi a terra. «Non riguarda soltanto la questione di Eric. Riguarda noi quattro. Se dobbiamo rimanere insieme, tu e Eric dovete fare la pace». «A dir la verità, non credo che sia più possibile», cercò di spiegargli Ben, sedendosi accanto a lui sul divano. «Devi prepararti a questa possibilità». «Non potresti...?». «Ober, sto facendo il possibile». «No, non è vero».
«È inutile riparlarne», disse Ben. «La decisione è nelle mani di Eric. Aspettiamo di vedere cosa succede». «D'accordo... aspettiamo», disse Ober, alzandosi dal divano. «Ma se mandi all'aria questa amicizia, sappi che non te lo perdonerò mai». Senza aggiungere altro, Ober salì in camera sua. Quando fu scomparso, Nathan si sedette vicino a Ben, sul divano. «Devi prenderlo con le molle», gli consigliò Nathan. «Sapevo che gli dispiaceva, ma non credevo fino a questo punto. Quando si è messo a piangere, ho temuto che cedessero i nervi anche a me. È stato come se mi avessero preso a calci in bocca». «Vuoi dire che cambierai idea su Eric?». «Lo farei volentieri, per Ober, ma sai bene che non posso. Al momento la mia unica preoccupazione è quella di beccare Rick e di togliermi da questo casino». «Va bene», disse Nathan. «Ma vuoi farci un favore? Non dimenticarti dei tuoi amici». Il mattino dopo, sul presto, Ben prese il metrò fino a Union Station, diretto al negozio di Mailboxes & Things. Sulla strada si domandò se con Eric le cose sarebbero andate come dovevano. "È la soluzione migliore", si ripeté. "Non ho altra scelta. Devo stare tranquillo e aspettare'". Quando Ben giunse al negozio, estrasse una busta aperta dalla tasca posteriore dei pantaloni, ne tolse la lettera che conteneva e la rilesse per la quarta volta, da quando l'aveva scritta. «Caro Rick, dato che mancano quasi tre settimane all'annuncio della decisione, ho pensato che forse è il caso di incontrarci. Come d'accordo, io porterò quello che ti serve; tu porta quello che voglio io. Scegli tu l'ora e il luogo dell'incontro, al più presto». Ben rimise la lettera nella busta e la infilò nella propria casella postale, che era vuota. "Chissà se Rick si beve la storia che sono interessato ai soldi?", si domandò. Tornò al banco del negozio. "Forse dovremmo sorvegliare questo posto", pensò. "Rick dovrà pur venire a ritirare la lettera... A meno che non si serva di un fattorino". Soprappensiero, Ben aprì la porta del negozio e andò a sbattere contro un cliente che stava entrando. «Mi scusi», disse quest'ultimo. «È tutta colpa mia». Ben sussultò, riconoscendo quella voce, e alzò la testa. Era Rick. «Non fare quella faccia stupita», disse Rick. «Sembri un bambino». Rick entrò nel negozio; Ben girò i tacchi e lo seguì. «Mi hai seguito, vero?», domandò Ben.
Ignorandolo, Rick prese la chiave e aprì la casella postale. Prelevò la lettera di Ben e la lesse immediatamente. «Sono d'accordo», disse. «Dove vuoi che ci incontriamo?». «Ti ho fatto una domanda. Mi hai seguito?». «Perché sei così turbato?», domandò Rick, con un vago sorriso da furbo. «Perché mi sto incazzando», disse Ben. «E non credere che mi sia dimenticato del giorno del Ringraziamento. So che eri tu l'uomo che ha aiutato mio padre. Se ti avvicini alla mia famiglia...». «Vuoi smetterla di minacciarmi, per favore?», domandò Rick, spostando Ben da una parte. «Sei peggio dei miei colleghi di lavoro». Alle spalle di Rick, Ben non poté non notare gli altri clienti che affollavano il negozio. Seguendo lo sguardo di Ben, Rick si voltò. «Viene voglia di mettersi a urlare, vero? Finalmente mi trovi qui, in campo aperto, e non c'è un cane che abbia una macchina fotografica. Se tu fossi veramente intelligente ti saresti fatto seguire da uno dei tuoi amici». «Magari l'ho fatto...», disse Ben. «Sì, nei tuoi sogni a occhi aperti», ribatté Rick, divertito. «Prendi atto della realtà: finché non riesci a identificarmi, tu hai bisogno di me. Comunque, visto che ci dobbiamo incontrare, vediamoci all'aeroporto. Sabato prossimo alle cinque, al Washington National. Solleva la cornetta del telefono bianco di servizio: troverai un messaggio per te. Segui le istruzioni e vedrai che ci incontreremo». «Non voglio che ci incontriamo in aeroporto», disse Ben, nel tentativo di guadagnare tempo. «È troppo affollato. Scegliamo un altro posto». «O all'aeroporto o niente», tagliò corto Rick. «E se fossi in te la smetterei di perdere tempo. Dopo il test con la macchina della verità, avrai comunque bisogno di trovarti qualcos'altro da fare». Facendo scivolare la busta nella tasca interna del suo cappotto color cammello, Rick si voltò e si avviò alla porta. «Ci vediamo sabato prossimo». Seguendolo all'esterno, Ben si guardò freneticamente in giro, nella speranza di riuscire almeno a leggere la targa dell'auto di Rick. «Maledizione», imprecò, quando vide Rick che fermava un taxi di passaggio. D'istinto, tentò di fermare un taxi a sua volta, agitando furiosamente il braccio in aria. «TAXI!», gridò, ma nessuno si fermò. L'auto su cui era salito Rick si stava allontanando, e Ben la osservò svanire dopo la svolta a sinistra in fondo all'isolato. Giunto ormai quasi a casa, Ben continuava a maledirsi per non aver pre-
visto le mosse di Rick. Interrogandosi sul da farsi, si rese conto che gli rimaneva una sola settimana di tempo per preparare un piano. Imboccò il vialetto d'accesso, cercando di immaginare in quale punto dell'aeroporto Rick avrebbe deciso di convocarlo. Magari in una di quelle salette riservate dove si incontrano i dirigenti d'azienda. Aperta la porta, Ben vide che in soggiorno e in cucina non c'era nessuno. Si tolse il cappotto, lo mise in ripostiglio e salì al piano superiore. Udì il rumore dell'acqua che scorreva nel bagno di sopra. Senza preoccuparsi di scoprire chi altri ci fosse, continuò a domandarsi chi mai potesse aver raccontato a Rick del test con la macchina della verità. Ben fu distolto dai suoi pensieri quando, aprendo la porta di camera sua, vide che Eric stava frugando nel cassetto superiore della sua scrivania. «Che cazzo stai facendo?», domandò Ben. «Oh, Cristo!», esclamò Eric. «Mi hai fatto cagare addosso». «Che ne diresti di rispondere alla mia domanda?», disse Ben. «Per quale cazzo di motivo stai frugando nei miei cassetti?». «Stavo cercando delle puntine da disegno», disse Eric. «Volevo attaccare degli annunci al coffee shop che c'è in fondo alla strada. Devo cambiare casa, no? Vuoi vedere anche gli annunci, adesso?». Ben raggiunse la scrivania, aprì il secondo cassetto e diede le puntine a Eric. Questi le prese e si avviò alla porta. «Grazie per l'aiuto». Facendo il suo ingresso nella hall del Washington Hilton, Rick diede un'occhiata al suo orologio. Entrò in ascensore, si aggiustò il nodo della cravatta e infilò le mani nelle tasche dei pantaloni del suo completo di tweed marrone. Quando fu al decimo piano, il suo ritardo toccò il quarto d'ora esatto. Percorse i labirintici corridoi dell'hotel e, infine, scorse la sagoma della persona che lo attendeva, davanti alla porta contrassegnata dal numero 1027. «Sei in ritardo». «Scusami. Ho voluto accertarmi che non ci fossero in giro amici tuoi in attesa», spiegò Rick, aprendo la porta. «Sai, sono piuttosto famoso». Entrò e attese che l'ospite lo seguisse. Quando furono entrambi all'interno, Rick chiuse la porta. «Fermati lì». «Cosa?». «Una semplice precauzione», spiegò Rick, estraendo dalla propria borsa un metal detector nero e sottile. Passandolo lungo il corpo dell'ospite, ag-
giunse: «Spero che vorrai scusarmi». Quando si convinse che non aveva addosso apparecchi di registrazione, Rick si diresse nel soggiorno della suite, si accomodò su uno dei due divani identici e fece cenno all'ospite di sedersi. Rick andò subito al sodo. «Non vorrei sembrarti troppo frettoloso, ma dimmi: ce l'hai la decisione?». «Ce l'ho. E tu ce li hai i soldi». «Una buona parte», disse Rick. «Che cosa significa "una buona parte"? Quanto hai?». «Per il momento, un milione di dollari esatto è già depositato sul conto. Ovviamente, puoi telefonare per controllare». «E gli altri cinquecentomila?». «Li depositerò dopo il nostro prossimo incontro, se tu mi terrai informato sulle mosse di Ben». «Questo non rientrava nei patti». «Sì, invece», disse Rick, reciso. «Quando ti ho contattato la prima volta, ti ho detto chiaramente che avresti dovuto anche tenere a bada Ben, e il modo migliore di farlo è di tenermi informato sui suoi spostamenti. In altre parole, quando gli dirò che non ho più bisogno dell'informazione che gli avevo chiesto, sarà furioso e tenterà in ogni modo di scoprire come ho fatto ad ottenerla, senza il suo aiuto». «Insomma, vuoi che faccia la spia per un altro mese?». «Credimi, non è peggio di quello che hai fatto finora». «Grazie, apprezzo molto il tuo appoggio etico-morale». «Allora, d'accordo?», domandò Rick. «Aspetta un attimo. Prima di tutto, voglio i soldi che mancano entro due settimane al massimo. Io ti riferirò i movimenti di Ben, ma non per molto. Quando la decisione sarà ufficializzata, te la vedrai da solo». Rick accavallò le gambe e si appoggiò all'indietro. «Mi sembra giusto». «Inoltre, ti ricordo che io non sono semplicemente l'opzione meno costosa. Se tu avessi ottenuto l'informazione da Ben non solo avresti speso il doppio dei soldi, ma avresti anche dovuto preoccuparti di tutte le diavolerie che avrebbe inventato per fregarti a ogni vostro incontro. Ha mantenuto i contatti con te solo perché sperava di riuscire in qualche modo a identificarti. E prima o poi ci sarebbe riuscito». «Fidati, Ben non ci è mai neppure arrivato vicino». «Ne dubito. Ho visto che sei rimasto a bocca aperta quando ti ho detto del suo piano degli annuari». «Pensa pure quello che vuoi», disse Rick. «Sappi però che l'unica ragio-
ne per cui ho scelto te è che Ben mi è sembrato un po' incerto, ultimamente. All'ultimo momento, probabilmente, non mi avrebbe rivelato la decisione». «Forse hai ragione», disse l'ospite di Rick, estraendo da una busta la decisione sul caso Grinnell. «Per tua fortuna...». Le trenta pagine del documento furono appoggiate sul tavolino di vetro. Rick si protese e le raccolse. Dopo aver esaminato la motivazione, disse: «Incredibile. La Corte ha considerato la modifica del piano regolatore alla stregua di un'espropriazione. Non credevo che il giudice Veidt potesse arrivare a tanto». Giunto all'ultima pagina, aggiunse: «È un peccato che Grinnell non sappia su quale miniera d'oro è seduto. Se lo sapesse, non si darebbe certo così da fare per trovare nuovi soci». «Okay, quando ci rivediamo?». Riponendo il documento nella propria borsa, Rick disse: «Mi farò sentire». Si alzò in piedi, raggiunse la porta e l'aprì. Quando furono entrambi in corridoio, Rick disse: «Se non ti dispiace, io prendo l'ascensore nell'altra ala dell'hotel». «Come preferisci». Giunto in fondo al corridoio, Rick si voltò: «Comunque, congratulazioni per il tuo primo milione di dollari». 13 «Washington National Airport Executive Center. Posso esserle utile?», domandò l'operatrice. «Sì, avrei un problemino che forse lei può aiutarmi a risolvere», disse Ben col tono più cordiale di cui era capace. «Dovrei presentarmi a un colloquio, il prossimo sabato, in una delle salette riservate dell'aeroporto, ma ho perso la mia agenda e non ricordo più dove si terrà». «Mi dispiace, signore, ma la prenotazione dei locali per gli incontri in aeroporto è gestita dalle compagnie aeree. Ricorda il nome della compagnia presso cui è stata prenotata la sala?». «Purtroppo, no», disse Ben. «Era tutto scritto nell'agenda». «Sa dirmi almeno il nome a cui è stata fatta la prenotazione? Forse così riesco a trovarla». «È una società che si sta formando», spiegò Ben, col tono implorante di chi è all'ultima spiaggia. «Non è ancora registrata; la prenotazione dovrebbe essere stata fatta a nome del direttore generale, che però davvero mi
sfugge. Non ricordandomelo, non posso neppure cercarlo nell'elenco telefonico. Mi creda, le ho provate tutte». «Mi dispiace, ma temo di non poter far nulla per aiutarla». «La prego, non riattacchi», supplicò Ben. «Deve aiutarmi, se non mi presento a questo colloquio sono finito. Non c'è un registro delle prenotazioni, da qualche parte? Qualsiasi cosa lei faccia potrebbe salvarmi la vita». «Mi dispiace», ripeté l'operatrice. «Non sono autorizzata a fornire questo genere di informazioni». «Per favore», disse Ben, mettendocela tutta per essere gentile. «Non sono un pazzo o un criminale. Le darò nome, indirizzo e numero di telefono. Le darò anche il numero di mia madre. Chieda a lei quanto sono carino. È solo che mi dispiacerebbe molto perdere questo lavoro per una sciocchezza del genere». «Be'...». «La prego. Se mi aiuta le sarò per sempre riconoscente. Le manderò dei fiori, dei cioccolatini e anche dei brutti-ma-buoni della Hickory Farms incartati manualmente a uno a uno. Tutto quello che vuole». «Senta», disse infine l'operatrice. «Al massimo, posso fornirle un elenco delle società che hanno prenotato le salette gestite dall'aeroporto. Le salette sono solo sei. Se il nome che le interessa non è tra questi, dovrà telefonare alle singole compagnie aeree e chiedere a ognuna le informazioni che le servono». «Lei è fantastica», esclamò Ben. «Come posso ringraziarla? Mi dica lei. Diamanti? Perle? Brutti-ma-buoni?». «Mi accontenterei di essere lasciata in pace», rispose l'operatrice. «D'accordo». «Ecco», disse lei. «Una saletta è occupata dalla Texaco. E l'altra è prenotata da Brennan, Leit & Zareh». «È uno studio legale, vero?», domandò Ben, disegnando un asterisco accanto a questo nome. «Non saprei», rispose l'operatrice. «Nessun altro nome?». «No, è tutto», rispose lui. «Le altre quattro sale sono ancora libere». «Ah, d'accordo», disse Ben. «Mi sa che dovrò fare un po' di telefonate. La ringrazio molto per il suo aiuto». «Non c'è di che», si congedò l'operatrice, non senza un certo sollievo.
Quattordici telefonate più tardi, Ben aveva raccolto i nomi corrispondenti a trentaquattro prenotazioni. Tra questi, ventidue erano di grandi compagnie, otto di singoli privati, tre di studi legali e l'ultimo era quello di Cohen, il congressman di Philadelphia. Ben si collegò via computer al database Lexis, scelse dal menu l'opzione Periodici e digitò il nome "Stewart Moore", uno degli otto nomi di persona con cui erano state prenotate le salette. Mentre il computer passava in rassegna le copie digitali di oltre quattromila periodici, Ben si rese conto che quella ricerca era inutile. "Rick è troppo scaltro per prenotare una sala col suo vero nome", pensò, fissando lo schermo del computer. Dopo un po', sul monitor comparve la scritta: «Ventisei elementi trovati», il primo dei quali era incluso in un articolo del "Wall Street Journal" su un certo Stewart Moore, presidente di una banca di Chicago che aveva da poco riorganizzato il suo settore finanziario. Quando lesse che costui aveva cinquantacinque anni, Ben capì che non poteva trattarsi di Rick. Mentre si accingeva a inserire un secondo nome, Lisa arrivò in ufficio. «Che succede?», domandò Ben, distogliendo lo sguardo dallo schermo. Lisa non rispose. «Pronto!? Terra chiama Lisa! Che cosa succede? Come va? Perché non rispondi?». Di nuovo, silenzio. «Dai, Lisa! Smettila. Ti ho già chiesto scusa dieci volte». «Be', allora ti perdono», fece Lisa, freddamente. «Sputa il rospo». «Okay, vuoi sapere la verità?», disse Lisa. «Mi fa davvero incazzare che tu non ti fidi più di me». «Che diavolo stai dicendo?», domandò Ben. «Io di te mi fido». «Ben, prova a metterti nei miei panni: negli ultimi tre mesi non abbiamo fatto altro, dalla mattina alla sera, che parlare di come incastrare Rick. Adesso, all'improvviso, più niente. Che cosa dovrei pensare, secondo te?». «Pensa un po' quello che ti pare», disse Ben. «La verità è che non c'è nulla da dire. Sono settimane che non ho notizie di Rick, e finché non si fa sentire lui, c'è poco di cui parlare». «Sei un bugiardo», disse Lisa. «E perché mai sarei un bugiardo?». «Non sono scema: si vede benissimo che stai mentendo, e so quello che stai pensando. Ma se credi che sia io l'informatrice di Rick, Be', allora sei completamente fuori di testa. Non lo farei mai».
«Io non penso che tu...». «Fammi un favore». Lisa si avvicinò a Ben e si sedette su un angolo della sua scrivania. «Guardami negli occhi e dimmi che ti fidi di me». «Tanto, tu non mi credi...». «Se mi dici la verità, ti credo», disse Lisa. «Lisa, ti giuro che mi fido di te», disse Ben, guardandola negli occhi. «Se ci fosse qualcosa di nuovo te lo direi». «Un'ultima domanda», disse Lisa. «Che cosa stavi facendo quando sono entrata?». «In che senso?». «Sul computer», indicò Lisa. «A che cosa stavi lavorando?». «Stavo leggendo il "Wall Street Journal" on-line. Sei contenta?». «E allora, come mai leggi un giornale di una settimana fa?», domandò Lisa. Ben guardò in basso a destra sul monitor e vide che l'articolo visualizzato era contrassegnato dalla data di una settimana prima. «È brutto essere smascherati, eh?», lo punzecchiò Lisa. «Scommetto che ti rimangeresti volentieri quello che hai detto». «Ti sbagli», disse Ben. «Tu non hai mai pensato di credermi. Ti sei avvicinata perché volevi vedere con i tuoi occhi». «Esatto», disse Lisa, alzandosi dalla scrivania di Ben. «E ora ho la risposta che mi interessava». «Ma...». «Lascia stare. Non sprecare il fiato e non offendere la mia intelligenza. E quando vedi Rick, digli che faccio il tifo per lui». Un'ora dopo, Ben e Lisa erano entrambi in silenzio, immersi nella lettura della terza bozza della relazione di Osterman sul caso Grinnell, quando all'improvviso nell'ufficio risuonò il trillo elettronico del telefono di Ben. «Pronto?», rispose lui. «Ufficio del giudice Hollis». «Ciao, Ben. Come va?». Riconoscendo la voce di Rick, Ben serrò la presa sulla cornetta. «Che vuoi?». «Volevo parlarti del nostro incontro di sabato», disse Rick. «Ah, bene, sono contento di sentirti», disse Ben. «Perché l'aeroporto non mi piace. Voglio...». «Me ne frego di quello che vuoi», lo interruppe Rick. «Volevo semplicemente dirti che il nostro incontro è annullato. Non ho più bisogno del tuo aiuto».
«Ma io credevo...». «Come nella maggior parte dei casi, quello che credi tu è sbagliato», disse Rick, con un tono sicuro e compiaciuto. «Divertiti con i tuoi annuari e buona fortuna per il test con la macchina della verità. Non credo che ci risentiremo... anche se di certo verrò a sapere i risultati». «Aspetta, io...». Prima che Ben fosse riuscito a formulare la frase, Rick aveva già riagganciato. «Chi era?», domandò Lisa, vedendo Ben sconvolto. Lui non rispose. Si alzò dalla scrivania e si avviò alla porta; afferrò il cappotto dal ripostiglio e uscì dall'ufficio. Lasciò la Corte scendendo dalla scalinata principale e percorse la First Street fino al primo telefono pubblico. Alzò la cornetta, inserì alcune monete e compose il numero di Nathan. «Andrew Lukens. Posso esserle utile?». «Mi scusi», disse Ben, non riconoscendo quel nome né la voce. «Cercavo Nathan». «Nathan ha avuto una promozione e si è trasferito in un altro ufficio. Posso fare qualcosa per lei?». «Mi chiamo Ben, abito con Nathan. Non saprebbe dirmi il suo nuovo interno?». «Ah, Ben», disse Andrew, con un tono molto più confidenziale. «Ho sentito molto parlare di te. Come vanno le cose alla Corte suprema? Avete cambiato qualche legge, oggi?». «No, oggi niente», rispose Ben. «Le leggi le cambiamo di mercoledì. Al lunedì cerchiamo soltanto di metterci in contatto con i nostri coinquilini». «Ah, già... Nathan m'aveva detto del tuo spiccato senso dell'umorismo», disse Andrew, nient'affatto intenzionato a passargli l'interno desiderato. «Ah, senti... Volevo chiederlo a Nathan... Com'è andato a finire quello scherzo che dovevate fare al vostro coinquilino?». «Quale scherzo?». «Quello per cui avevate bisogno dei microfoni e delle macchine fotografiche. Nathan mi ha detto che dovevate immortalare e registrare il vostro amico mentre scopava». «Ah, sì, certo», disse Ben, rendendosi conto che quella era la scusa adottata da Nathan per ottenere l'equipaggiamento elettronico al Dipartimento di Stato. «È andato benissimo. Devo ricordarmi di dire a Nathan di mostrarti qualche foto. Sono un po' sfocate, ma non per questo meno divertenti». «Be', se le foto non sono un gran che, puoi dirgli di farmi avere l'audio.
Sono sicuro che il microfono da borsa ha registrato tutti i gemiti e i mugolii». Ben ebbe un sobbalzò. "'Microfono da borsa'?". «Dimmi un po', Andrew, come funzionano quei microfoni?», domandò Ben. «Come quelli senza fili», spiegò Andrew. «Solo che vengono applicati a una borsa. Vengono impiegati quando l'agente impegnato in missione teme che i microfoni normali possano essere scoperti. A dirla tutta, sono la cosa più vicina a un film di James Bond di cui disponiamo. Sono ancora un semplice prototipo, ma Nathan era entusiasta. Diceva che vi sareste divertiti molto». «In effetti, è stato tremendo», disse Ben, mentre la fronte gli si velava di sudore freddo. «Siamo riusciti a sentire tutto quello che volevamo». «Be', ti passo Nathan, adesso», disse Andrew. «Sai una cosa?», gli disse Ben. «Si è fatto un po' tardi; credo che lo richiamerò». «Vuoi che gli dica che l'hai cercato?». «No, no», rispose Ben. «Anzi, oggi avrò da fare. Lo vedrò stasera a casa». Ben riagganciò e posò la testa contro la parete metallica della cabina telefonica. Chiuse gli occhi, alla ricerca di una possibile spiegazione. Non riuscendo a trovarla, cominciò ad ansimare. Sempre a occhi chiusi, batté la testa contro la parete della cabina. «Non ci posso credere!», urlò. Afferrò di nuovo la cornetta e si frugò le tasche in cerca di altri spiccioli. Mentre si accingeva a inserire le monete nella fessura, si bloccò: «Maledizione!», gridò, sbattendo con violenza il ricevitore sulla forcella. Grattandosi la fronte, riconsiderò le conversazioni appena avute con Rick e con Andrew nel tentativo di ricavarne un senso. Dieci minuti dopo, Ben sortì dall'ombra della cabina telefonica e tornò in ufficio. Quando udì la porta sbattere, Lisa si voltò, sorpresa dall'irruenza di Ben. Dopo aver lanciato il cappotto in ripostiglio, Ben andò a piazzarsi davanti alla scrivania di Lisa. «Cos'è successo?», domandò lei. «Cos'ho fatto, questa volta?». «Senti, ti dirò una cosa, ma solo perché ho bisogno del tuo aiuto», spiegò Ben. «Una settimana fa, Rick si è messo in contatto con me...». «Lo sapevo!», lo interruppe Lisa. «Sapevo che lui...». «Lisa, ti prego, concedimi una possibilità di spiegare», supplicò Ben. «Quando ho parlato con Rick, lui mi ha chiesto la decisione sul caso Grinnell. In cambio, mi avrebbe dato tre milioni di dollari. Ovviamente, io non
gliel'avrei mai passata, ma speravo di combinare ugualmente l'incontro per poterlo poi in qualche modo identificare. L'incontro era fissato per sabato all'aeroporto, probabilmente in una delle sale riunioni riservate». «E così ora hai bisogno di me per organizzare un piano, vero?». «Il piano ce l'avevo già», disse Ben. «Avevo chiamato l'aeroporto per sapere quali sale erano state prenotate per sabato. Quando ho ottenuto l'elenco, ho cominciato a controllare tutti i nomi che non conoscevo. È per questo che stavo leggendo il "Wall Street Journal" di una settimana fa. Pensavo che se fossi riuscito a individuare la sala in cui ci saremmo dovuti incontrare, avrei potuto piazzare un registratore o una microspia. Comunque, ero quasi convinto che questa sarebbe stata la volta buona, quand'ecco che il nostro caro sacco di merda mi telefona». «Era lui, poco fa?». «Sì», disse Ben, annuendo. «E mi ha detto che posso anche grattarmi, perché il nostro incontro è cancellato. Ha detto che non ha più bisogno del mio aiuto e ha riattaccato. Evidentemente, ha ottenuto la decisione sul caso Grinnell da qualcun altro». «Se credi che l'abbia avuta da me, sei completamente fuori strada». «A dire la verità, ci ho pensato», ammise Ben. «Ho pensato che in fondo eri l'unica persona, oltre a me, che avesse accesso al documento». «Ben, ti giuro...». «Lasciami finire. Dopo aver ricevuto la telefonata di Rick, sono andato in una cabina telefonica per chiamare Nathan. Ho parlato con un suo collega, il quale, a un certo punto, mi fa: "Allora, come ha funzionato il microfono da borsa?"». «Di che si tratta?». «Appunto», disse Ben. «Ah, adesso siccome Nathan ha tenuto per sé un pezzo dell'equipaggiamento elettronico, credi che sia lui quello che fa la spia a Rick?». «Cos'altro potrei pensare?», domandò Ben, con voce via via più concitata. «Non si tratta di un pezzo qualsiasi... Se avessi avuto quel microfono, quando ho incontrato Rick al ristorante sarei riuscito a registrare la sua voce. Adesso avrei la prova del suo tentativo di corruzione: l'offerta di Rick, la sua spiegazione della truffa nel caso CMI. Insomma, tutto quello che mi sarebbe servito per togliermi dai guai. Ma si dà il caso che Nathan abbia evitato di darmi proprio quel particolare microfono. Non credi che la circostanza sia quanto meno sospetta?». «Non so...».
«Ho cercato di immaginare una spiegazione ragionevole, ma per quanto mi sia sforzato non ho trovato un solo valido motivo per cui Nathan avrebbe dovuto tacere di questa cosa. Tanto più che sarebbe stata un'ottima occasione per pavoneggiarsi». «Ma se Nathan è dalla sua parte, Rick sarebbe stato informato del microfono da borsa, e quindi non avrebbe avuto nulla da temere». «Ci ho pensato anch'io», disse Ben, dirigendosi verso lo schedario di metallo. «Però continuo a credere che Rick non avrebbe potuto impedirmi di salire sulla limousine con la borsa. Se non me l'avesse permesso, non sarei salito. Avrei detto che era impossibile, per me, lasciare la borsa incustodita in un vicolo, con la scusa che conteneva importanti documenti ufficiali della Corte suprema. A quel punto, Rick mi avrebbe fatto salire in macchina». «Non è malvagia, come teoria», ammise Lisa. «Insomma, ora sono costretto a sospettare di Nathan», disse Ben, appoggiandosi allo schedario. «Posso farti una domanda?», disse Lisa, avvicinandosi a Ben. «Un quarto d'ora fa pensavi che io stessi vendendo la tua anima al diavolo; adesso arrivi qui e ti metti a vomitare anche le budella, a momenti. A cosa è dovuto questo cambiamento?». «Lisa, la verità è che non ho assolutamente nulla da perdere, parlandotene», spiegò Ben, giocherellando con la maniglia di un cassetto dello schedario. «Rick mi ha scaricato; probabilmente ha avuto da altri ciò che gli serviva. Non lo vedrò più e quindi non ho più speranze di beccarlo. Sono perduto. Non ho tracce, nessun indizio, e un test con la macchina della verità tra due giorni. E come se non bastasse non c'è nessuno di cui possa fidarmi». «Che ne dici di Ober?». «Credimi, è stato il primo a cui ho pensato. Ma mi sono reso conto che non sarebbe stato in grado di aiutarmi. Ober è simpatico, e gli voglio bene come a un fratello, ma non saprebbe trovarsi il buco del culo neanche con la mappa. Qui ci vorrebbe un genio per inventarsi qualcosa da fare». «Ammesso che Nathan sia in combutta con Rick, come ha fatto a procurarsi la decisione?». «Per quel che ne so io, potrebbe aver usato il supercomputer del Dipartimento di Stato per intrufolarsi nel nostro sistema. Oppure, più semplicemente, potrebbe averla presa dalla mia borsa... Non doveva far altro che prelevarla nel bel mezzo della notte, uscire, fotocopiarla e rimetterla a po-
sto prima del mio risveglio». «Vuoi dire che la tua borsa non ha la serratura?», domandò Lisa. «Dopo quello che è successo con Eric...». «Certo che ha la serratura. Ma Nathan conosce la combinazione... Gliel'ho prestata per andare al colloquio di lavoro al Dipartimento di Stato». «Be', senza offesa, gli amici di Giulio Cesare erano meno infidi dei tuoi». «Grazie per il complimento», disse Ben, tornando alla propria scrivania. «Allora, mi aiuti?». «Dipende», rispose Lisa, incrociando le braccia. «Ti fidi di me?». «Al punto in cui mi trovo, non mi fido più nemmeno di mia madre. L'ultima volta che l'ho vista mi è sembrata un po' losca». «Ma sei dispiaciuto per le accuse ingiuste che mi hai rivolto, almeno?», gli domandò Lisa. «Più di quanto tu possa lontanamente immaginare», rispose Ben, ciancicando gli angoli della relazione di Osterman sul caso Grinnell. «Allora, mi aiuti, per favore?». «Certo che ti aiuto». Lisa si avvicinò a Ben e gli tolse il documento dalle mani, gliele fece posare sul tavolo e le coprì con le proprie. «Che tu ci creda o meno, mi importa veramente di quello che ti succede. Se ti cacciassero di qui a calci, dovrei fare il doppio del lavoro». «Spiritosa», disse Ben, in tono secco. «Muoio dal ridere». «Puoi nasconderti dietro tutte le battute che vuoi, ma io so che apprezzi il mio aiuto». «Ovvio che l'apprezzo. La mia vita sta andando a rotoli, la mia carriera sta raggiungendo il punto di fusione e gli amici mi tradiscono». «Be'», disse Lisa, «spero che non dimenticherai di avere ancora qualche amico a cui importa veramente di te». «Grazie. Lisa Marie», disse Ben, annuendo. «Apprezzo molto il tuo aiuto. Davvero». «Okay», disse Lisa. «Ma non credere neanche per un secondo che io ti abbia perdonato. Dovrò rinfacciartelo almeno altre venti volte, prima che io possa dimenticare lo stress emotivo che mi hai provocato». «Affare fatto», disse Ben. Lisa arretrò di alcuni passi e si sedette sul divano. «E adesso lo vogliamo beccare o no, quel figlio di puttana?». Ben sorrise e avvicinò a sé il blocco per appunti appoggiato su un angolo della scrivania. «Credo che l'unica cosa da fare sia stilare un elenco del-
le persone che Rick potrebbe avvicinare alla Grinnell & Associates». «Di questo posso occuparmi io», disse Lisa. «Sono sicura che l'ufficio assistenti ha a disposizione un elenco di tutti gli azionisti delle società coinvolte nei vari casi. Se ce lo procuriamo, avremo anche un elenco di potenziali venditori. Se li teniamo d'occhio, quando Rick farà la sua mossa noi ce ne accorgeremo». «Non è neppure necessario che li teniamo d'occhio», disse Ben, liberando lo schermo per avviare una nuova ricerca. «Lexis offre un archivio di tutti gli atti registrati. Tutte le transazioni immobiliari e gli atti di vendita devono essere notificati all'apposito ufficio della contea. Se abbiamo i nomi dei venditori, dovremmo essere in grado di rintracciarli direttamente da qui». «Perfetto», disse Lisa. Si avviò alla porta. «Torno subito con i nomi». «Comunque, di te mi fido!», gridò Ben, mentre Lisa usciva. «Lo so», gridò lei di rimando. Quando la porta fu richiusa. Ben si avvicinò con la sedia alla scrivania e fece il numero della compagnia telefonica. «Salve, telefono per un'informazione. Mia moglie, per errore, ha buttato via tutte le nostre vecchie bollette del telefono. Siccome ne avremmo bisogno per la dichiarazione dei redditi, mi chiedevo se voi non potreste inviarcene una copia». «Non dovrebbe essere un problema, signore», disse l'operatore. «Mi servono soltanto nome e numero di telefono». «L'abbonamento è stato sottoscritto da mia moglie: Lisa Schulman». Dopo aver fornito all'operatore anche il numero di telefono di Lisa, Ben aggiunse: «Mi chiedevo anche se non potreste magari spedire le bollette direttamente al mio commercialista, dato che ne ha bisogno al più presto». «Veramente, non potremmo...». «È il mio telefono», insistette Ben. «Solo che è registrato sotto il nome di mia moglie». Prima che l'operatore potesse replicare, aggiunse: «Se preferisce, parlo con un suo superiore». «No, d'accordo», rispose l'operatore. «Me lo segno. Vuole darmi l'indirizzo a cui spedire le bollette?». Ben dettò l'indirizzo a cui lavorava Ober e disse: «La ringrazio, mi è stato di grandissimo aiuto». Quel pomeriggio, Ben era davanti al computer con gli occhi fissi sullo schermo. «Diventerai cieco, se continui così», disse Lisa. «Magari».
«Smettila di preoccuparti. Hai evidenziato ogni sìngolo nome presente negli atti di proprietà. Se qualcuno vende, te ne accorgerai subito». «Non ce ne accorgeremo mai», disse Ben, togliendo gli occhi dallo schermo. «Li hai visti i documenti. La Grinnell è perlopiù proprietà di quattro società a responsabilità limitata, a loro volta possedute da altre otto società a responsabilità limitata, le quali sono di proprietà di sedici società per azioni...». «Abbiamo estrapolato tutti i nomi possibili. Se noi non siamo riusciti a trovarne altri, quante probabilità ci sono che li abbia trovati Rick?». Ben fulminò Lisa con un'occhiata alla "stai-scherzando?". «Okay», disse Lisa. «Rick, forse, può trovare tutto quello che vuole. Ma questo non significa che stiamo seguendo la pista sbagliata». «Non è che io creda di non essere sulla pista giusta», disse Ben. «Penso soltanto che il nostro piano sia un po' troppo passivo. Ce ne stiamo qui seduti ad aspettare». «Be', al momento è l'unica cosa che possiamo fare. Se non stai più nella pelle, perché non ti metti a spulciare gli annuari di Harvard e dell'università del Michigan?». «Che stai dicendo?», domandò Ben. «Non sono ancora arrivati». «Sì, invece. Te l'ho detto, prima, che c'erano due scatoloni per te, alla reception». «No che non me l'hai detto», disse Ben, alzandosi dalla sedia. «Certo che te l'ho detto. Quando sono tornata con i documenti relativi alla proprietà della Grinnell, ti ho detto che c'erano due scatoloni per te. Forse tu eri troppo impegnato al computer per accorgertene». Ben si diresse al ripostiglio e prese il cappotto. «Piuttosto che portarli a casa, visto che c'è Nathan, preferisco lasciarli qui. Li sfoglierò domani». «Dove vai, adesso?», domandò Lisa, vedendo che non erano ancora le cinque. «Voglio parlare con Ober prima che Nathan rientri a casa. Puoi coprirmi, nel caso telefoni Hollis?». «Non ti preoccupare. Ci penso io». Quando Ben arrivò a casa, il tipico ronzio prodotto dal silenzio segnalava che la casa era vuota. Dopo essersi tolto il cappotto e averlo gettato sul divano, si diresse in cucina, controllò nel bagno del piano inferiore e aprì per sicurezza anche la porta che conduceva in cantina. «C'è nessuno?»,
gridò. Salì al piano superiore, sbirciò nelle stanze di Eric e di Ober, oltre che nella propria. Dopo aver guardato nel bagno di sopra e in tutti i ripostigli, Ben spalancò la porta della camera di Nathan. Senza accendere la luce, aprì il ripostiglio e vi infilò dentro la testa. Definitivamente convinto di essere solo, Ben si avvicinò alla scrivania di Nathan e notò un piccolo mazzo di fogli ordinatamente sovrapposti. Cercando di non fare rumore, Ben diede una scorsa. Lista della spesa, lista delle cose da fare, lista dei compleanni, lista dei film da noleggiare. Nulla di importante. Dopo aver rimesso i fogli a posto, Ben trattenne il respiro e aprì con circospezione il cassetto centrale della scrivania. Dopo aver sollevato lo stampo di plastica che teneva in ordine matite, penne e gomme per cancellare, Ben perquisì il cassetto lentamente e con metodo, in cerca di un qualsiasi indizio che potesse ricondurre a Rick. Dopo aver richiuso piano il cassetto, Ben si avvicinò al comodino di Nathan e prese l'agenda che vi era appoggiata. Leggendo i nomi uno per uno, Ben tentava di ricordare a chi appartenessero. «Che cazzo stai facendo con la mia agenda?». Spaventato, Ben lasciò cadere l'agenda, alzò gli occhi e, con sorpresa, vide Ober che rideva sulla soglia. «Non lo rifare!», gli urlò Ben, raccogliendo l'agenda e rimettendola a posto. «Avresti dovuto vedere la faccia che hai fatto. Eri...». «Sei solo?», domandò Ben, correndo fuori dalla stanza di Nathan. «Sì, perché? Che cosa succede?». «Ascolta, ti dirò una cosa, ma tu devi giurarmi che non ti lascerai sfuggire neanche una parola». «Giuro», disse Ober, mentre scendevano le scale, diretti in soggiorno. «Parla pure». Dopo aver spiegato a Ober tutta la storia, Ben disse: «Allora, che cosa ne pensi?». «Non riesco neanche a immaginare che tu possa avere ragione», rispose Ober con gli occhi spalancati per l'incredulità. «Come puoi pensare che io creda che Nathan sia implicato in tutta questa storia?». «Che altro dovrei pensare, allora?». «È impossibile», disse Ober, spaparanzato su una sedia accanto al tavolo. «Sei completamente pazzo. Davvero, se mi avessi detto di Eric, avrei capito. Anzi, settimana scorsa l'ho visto in camera tua che frugava nel cestino dei rifiuti». «Gli hai chiesto cosa cercava?». «Ha risposto che gli erano sparite delle carte, e voleva vedere se eri stato
tu». «Be', si sbagliava», disse Ben. «Avresti dovuto mandarlo da Nathan: è lui l'infido qua dentro». «Escludo che Nathan possa aver fatto quello di cui l'accusi», insistette Ober. «Non ci credo neanche un po'». «Be', io sì», disse Ben. «E a questo punto è l'unica cosa che conta. Io e Lisa stiamo cercando...». «Come mai, all'improvviso, ti fidi così ciecamente di Lisa?», lo interruppe Ober. «Cioè, tu dici sempre che io sono scemo, ma anche tu non sei furbissimo se le hai detto qualcos'altro». «Ascolta, non mi fido affatto di lei», disse Ben, avvicinandosi al lavandino. Aprì l'acqua e si lavò le mani. «Appena è uscita dall'ufficio, ho cominciato a indagare anche sul suo conto». «Allora, perché l'hai coinvolta?». «È semplice. Prima di tutto perché non può farmi alcun male. Eppoi anche se so che non capirai - insieme a lei riesco a pensare meglio». «Infatti, non capisco». «Non saprei spiegare, ma è quando discuto con lei che mi vengono le idee migliori». «Be', mi dispiace doverti riscuotere dal sogno, ma qui non si tratta di lavorare a una qualche decisione della Corte suprema. Questa è la tua vita, amico». «Davvero?», domandò Ben, in tono sarcastico. «E io che credevo fosse soltanto una partita a backgammon. Merda!». «Secondo me, tu stai prendendo un granchio di dimensioni colossali», disse Ober, scuotendo la testa. «Okay, terrò conto del tuo consiglio. Allora, mi aiuti o no?». «Mi stupisce che ti fidi di me. Cioè, potrei essere coinvolto anch'io». «Senza offesa, ci ho pensato», ammise Ben. «Grazie», disse Ober. «Ti sono davvero grato per la fiducia». «Senti, non ti offendere. Almeno te l'ho detto, no?». «Non capisco perché». «Perché ho bisogno che tu mi faccia un favore», disse Ben. «Ho fatto spedire una copia delle bollette telefoniche di Lisa all'indirizzo dove lavori. È l'unico posto in cui Nathan, Rick e Lisa non possono arrivare. Quando le ricevi, me lo fai sapere? Voglio dare un'occhiata». «Certo», rispose Ben. «Vorrei farti una domanda, però: se questa casa è spiata, perché mi dici questo?».
«Nulla di quello che ti ho detto può essere usato da Rick contro di me», spiegò Ben. «Le bollette di Lisa sono già in viaggio, e se Nathan è in combutta con lui, Rick sa già...». Quando Ben udì il rumore di una chiave infilata nella serratura, tacque. «Non dire niente, mi raccomando», disse a Ober, parlandogli all'orecchio mentre lo seguiva in soggiorno. «Me l'hai promesso». La porta si aprì, e Nathan entrò in casa. «Rimarrai di sasso, amico mio», disse rivolto a Ben, appendendo la giacca in ripostiglio. Posò la borsa sul tavolino da caffè e si sedette accanto a Ober. «Grazie al sottoscritto, sarai in grado di superare quel tremendo test della macchina della verità». «E come?», domandò Ben. «Be', diciamo che oggi ho fatto un certo numero di telefonate e sono riuscito a procurarmi tutto quello che serve per superarlo». Nathan aprì la borsa e ne tirò fuori un singolo, semplice foglio di carta. «Ho parlato con alcuni esperti del settore sicurezza e ho spiegato loro la situazione. Innanzi tutto, avevi ragione quando dicevi che il test non ha valore di prova in tribunale». «Lo so», disse Ben, secco. «Non lo ha mai avuto». «Ehi, che ti prende?», domandò Nathan, sorpreso dalla scarsa loquacità di Ben. Ober guardò Ben. «Non è niente», rispose questi. «Sono solo un po' nervoso. Che altro ti hanno detto?». «Allora, il test funziona così», disse Nathan, tenendo il foglio sott'occhio. «La macchina della verità si trova solitamente al centro della stanza in cui si svolge il test. Ciò serve a mettere in soggezione l'esaminando, che nella maggior parte dei casi si tradisce proprio per il terrore suscitato in lui da quella apparecchiatura. Può capitare che ti interroghino anche per un'ora prima di collegare e mettere in funzione la macchina. Gran parte delle persone crolla in questa fase». Nathan alzò gli occhi dal foglio per sottolineare questo punto. «Mi hanno detto che per far confessare il delinquente comune è sufficiente lasciargli intravedere l'ombra della macchina». «Ehi, Ben non è certo un delinquente comune», disse Ober. «Nella tabella dei criminali è almeno al novantesimo percentile». Ignorando l'amico, Nathan proseguì: «La macchina misura fondamentalmente tre funzioni: il ritmo respiratorio, la pressione del sangue e la reazione galvanica della pelle, cioè la reazione dell'epidermide alla corrente elettrica. Raccontare bugie ha di solito un effetto sulla sudorazione, cosicché la macchina rileva anche quanto suda la persona sotto esame. Ma tu
non avrai questi problemi». «Dimmi soltanto come devo fare per passare il test», disse Ben, impaziente. «Ehi, rilassati», disse Nathan, tornando a guardare sul foglio. «Dopo averti interrogato per un'ora, ti attaccano alla macchina, che rileva il ritmo respiratorio e la pressione sanguigna iniziali. È in questa fase che le persone poco istruite cercano di ingannare la macchina. Provano a respirare più forte, si agitano... Insomma fanno di tutto perché la macchina si convinca che il ritmo del loro battito cardiaco è più rapido di quanto non sia realmente. Ma i miei colleghi dicono che un buon operatore se ne accorge subito e ne tiene conto nella valutazione degli esiti del test. «Dopo la regolazione iniziale, tirano fuori un mazzo di carte da gioco e cominciano a farti domande sulle carte, solo per convincerti del fatto che la macchina funziona. Quindi ti pongono altre tre domande a cui devi rispondere negativamente anche se la risposta giusta è affermativa. È così che si accorgono se menti. Ti domandano se hai più di ventun'anni, se fumi e se hai mai fatto qualcosa di cui ti vergogni. Dopodiché, ti fanno un massimo di tre domande a proposito dell'accusa che ti viene rivolta». «Tutto qui?», domandò Ben, scettico. «Tutto qui», confermò Nathan. «E tutte le cose che si vedono nei film?», domandò Ober. «Avete presente quando il presunto colpevole viene bombardato di domande, mentre gli aghi inchiostrati lasciano la traccia sulla carta che si srotola?». «Nella vita reale non succede», disse Nathan. «Nella realtà, non è possibile valutare la veridicità di più di tre affermazioni per seduta». «E tu che cosa mi hai procurato?», domandò Ben. «Oh, sono contento che tu me l'abbia chiesto», disse Nathan, infilando una mano nella propria borsa. Ne estrasse una piccola boccetta di vetro marrone e la lanciò a Ben. «Eccoti le pillole di cui ti dicevo, quelle usate dai militari per superare il test». Ben lesse l'etichetta applicata sulla boccetta. «Synadolol?». «Funzionano», disse Nathan. «Devi prenderne una appena ti svegli e, se il test si tiene dopo le tre del pomeriggio, un'altra a pranzo». «Come le hai avute?», domandò Ben, svitando il tappo della boccetta che conteneva cinque pillole. «Ho raccontato agli addetti che il mio fratellino doveva passare un test con la macchina della verità per ottenere il posto di lavoro al centro com-
merciale. Non appena l'hanno saputo, sono stati loro a offrirmele». «Come funzionano?», domandò Ben. «Rallentano il ritmo cardiaco e la pressione del sangue», spiegò Nathan. «I medici di solito le prescrivono ai cardiopatici, mentre i politici le usano per vincere la paura di prendere la parola in pubblico, ma i militari hanno trovato il modo di impiegarle per ben altri scopi». «Sono in fase di sperimentazione o sono autorizzate dalla Food & Drugs Administration?». «Se fossero autorizzate le troveresti in farmacia», disse Nathan. «Dunque, sono medicine sperimentali», insistette Ben. «Non sono pericolose», assicurò Nathan. «Credi che me le avrebbero date, altrimenti?». «Se sono pericolose, è meglio», disse Ober. «Magari ti cresce una terza narice in fronte, e noi possiamo chiedere dei miliardi di risarcimento allo stato». «O magari mi fa miracolosamente spuntare uno straccio di cervello», disse Ben. Rivolgendosi a Nathan, aggiunse: «E dimmi un po': in che modo queste pillole mi faranno passare il test?». «Nessuno può garantire il passaggio del test», disse Nathan. «Le pillole servono solo ad aumentare considerevolmente le tue possibilità, ma poi sta a te, soprattutto. Quando sei sul posto devi cercare di mantenere la calma. Tieni le mani ferme e non ti innervosire. I miei amici esperti dicono che se sei un buon bugiardo, non dovresti avere problemi. Se sei un coglione, puoi tradirti a prescindere dalle pillole». «Oh, Cristo, sei fregato», disse Ober a Ben. Questi si mise la boccetta in tasca e si alzò dal divano. «Vado a fare della pasta», disse, gelido. «Qualcuno ne vuole?». «Grazie, eh?», rispose Nathan, con una smorfia. «Ti ringrazierò quando avrò superato il test, sempre che lo superi», disse Ben, andando in cucina. «Che cazzo intendi dire? Si può sapere cos'hai?». «Vorrei soltanto essere sicuro di potermi fidare», disse Ben, voltandosi e guardando Nathan dritto in faccia. «Non saranno dei placebo?». «Che cosa stai dicendo?», domandò Nathan. «Ben, non accusarlo...», fece per intromettersi Ober. «No, lascialo finire», lo interruppe Nathan. «Accusarmi di cosa?». «Oggi mi ha telefonato Rick e mi ha detto che non ha più bisogno del mio aiuto. A quanto pare ha già ottenuto da qualcun altro l'informazione
che gli serviva». «E credi che sia stato io a fornirgliela?», domandò Nathan, con voce sempre più incazzata. «E alla tua amica Lisa ci hai pensato, o il sangue che un tempo ti irrigava il cervello è affluito tutto al cazzo?». «Ci ho pensato», ribatté Ben, tornando in soggiorno. «Stavo appunto telefonandoti per parlarne, quando ho avuto un'illuminante conversazione con un tuo collega, un certo Andrew, il quale mi ha raccontato di quei microfoni da borsa che avrei dovuto usare al mio primo incontro con Rick. Me ne ha decantato l'efficacia, la potenza, la sensibilità. Immaginerai la mia sorpresa, quando mi sono reso conto che di una simile meraviglia tecnologica tu non mi avevi detto una sola parola». «E perciò credi che io sia d'accordo con Rick?», domandò Nathan, ridendo. «Non sto scherzando», disse Ben. «Considera i fatti». «I fatti non dicono niente!», urlò Nathan. «Oltre tutto, non ti è venuto in mente di chiedermi come mai non abbiamo usato il microfono da borsa?». «Ah, immagino che avrai pronta una spiegazione perfettamente logica». «Certo che ce l'ho. Quel microfono è un prototipo e, checché ne dica Andrew, non serve a un cazzo. Il cuoio della borsa attutisce il suono, e non si riesce a capire una parola. Li costruiscono solo perché l'idea non è male. Io ho semplicemente pensato che ci sarebbe convenuto utilizzare strumenti affidabili. Pensa che scemo che sono!». «E io dovrei crederci?». «Credi un po' quello che vuoi», rispose Nathan. «Questa, però, è la verità». «Ti dirò una cosa», disse Ben, puntando l'indice contro Nathan. «Ti conosco bene - meglio di quanto conosca me stesso, probabilmente - e so per certo che se tu solo avessi l'opportunità, anche vaghissima, di utilizzare una borsa con un microfono incorporato, la coglieresti al volo e verresti qui a mostrarcela di corsa, anche se non ha mai funzionato». «E questo come fai a saperlo?». «Lo so perché sei vanitoso. Ti piace pavoneggiarti quando hai qualcosa che gli altri non hanno. Avresti fatto qualsiasi cosa pur di arrivare da Lisa con quel microfono. E se anche tu non fossi stato in grado di farlo funzionare, l'avresti portato lo stesso fingendo di saperlo fare. Dài, è logico: a chiunque piacerebbe fare una figura del genere. E adesso tu vuoi farmi credere che non solo non l'hai portato a casa, ma non hai neppure ritenuto che fosse il caso di parlarne? Per favore, Nathan. Il tuo spirito agonistico e
il tuo ego strabordante non ti avrebbero mai permesso di scegliere la via del silenzio». «Hai finito?», domandò Nathan, con calma, le braccia conserte. «Credo di sì». «Be', allora puoi anche andare a fare in culo, brutto stronzo paranoico! Io mi sono dannato l'anima per procurarti quell'equipaggiamento! Ho rischiato il posto di lavoro raccontando un sacco di palle a tutti e sono diventato matto per aiutarti a trovare il modo di liberarti da questo incubo. Ma se vieni a rompermi i coglioni con queste accuse prima ancora di aver cercato di parlarmene, Be', allora stacci da solo sul tuo Zeppelin. So che sei in una situazione difficile, ma io ho di meglio da fare che farmi prendere a pesci in faccia da te». «Senti...». «No, sentimi tu», urlò Nathan. «Questa storia ti ha fatto andare fuori di testa. E il fatto che tu accusi me, e non Lisa, dimostra che hai perso completamente il senno e sei a un passo dal manicomio. Se mai recupererai la ragione, spero avrai l'onestà di venire a scusarti». Nathan girò le spalle ai due amici e uscì dal soggiorno. Giunto ai piedi della scala, si voltò e aggiunse: «E quando Lisa ti avrà rovinato la vita, non contare su di me». Nathan se ne andò, e Ben rimase in silenzio. «Non avresti dovuto accusarlo in quel modo», disse Ober. «È stato un errore madornale». «Che cosa dovevo fare? Non c'entra il modo in cui gliel'ho detto. Sarebbe andata a finire così comunque». «Ci sono altri modi per litigare. Hai detto alcune cose davvero imperdonabili». «Taci», disse Ben. «Se Nathan fosse stato nella mia situazione avrebbe fatto la stessa identica cosa». «Be', Eric ha usato questa stessa giustificazione quando ha scritto l'articolo che ti ha fatto incazzare, ricordi? E tu l'hai mandato a fare in culo, proprio come ha fatto Nathan con te», disse Ober. Si alzò dal divano e si avviò verso la scala. «Inquietante, eh?». «Allora, hai proprio deciso si prenderle, quelle pillole?», domandò Lisa l'indomani mattina, sorbendo il caffè seduta alla propria scrivania. «Sì», rispose Ben, sfogliando un annuario della facoltà di legge dell'università del Michigan. «Non ho scelta». «Puoi decidere di non prenderle».
«Sì, e posso anche decidere di non passare il test», disse Ben. «Mi conviene prenderle; se anche non fanno effetto, non morirò: non sono pillole al cianuro». «Che ne sai di cosa sono? Potrebbero contenere qualsiasi cosa: cianuro, amfetamina, siero della verità...». «Può bastare, grazie», la interruppe Ben. «Ho deciso che correrò il rischio». «Non sto scherzando», disse Lisa. «Nathan potrebbe averti dato qualsiasi cosa». «Non ne sei convinta neanche tu. Ti accanisci contro di lui solo perché ti ho detto che sospettava di te». «Ovvio che mi accanisco. Che si fotta». «Suvvia, sii gentile». «Gentile?», domandò Lisa. «Proprio tu mi chiedi di essere gentile. Ma se hai passato la serata di ieri a rovinare le tue amicizie di più lunga data». «Grazie per avermelo ricordato. Era da quasi due minuti che non ci pensavo». «Mi sorprende che ti lascino ancora abitare in quella casa. Se io fossi in loro, ti avrei già sbattuto fuori a calci in culo». «In effetti, stamattina a colazione l'atmosfera non era esattamente quella della famigliola felice. Eravamo a tavola tutti e quattro contemporaneamente e non ci siamo scambiati una sola parola. Se qualcuno voleva del latte o un tovagliolo, si faceva capire a gesti. Sembrava di essere una famiglia di mimi». «Se vuoi puoi venire a stare da me per un po'», propose Lisa. «Apprezzo molto il pensiero», disse Ben. «Se resto a casa, però, posso seguire l'evolversi della situazione». Lisa bevve un altro sorso di caffè. «E se i tuoi amici in realtà non stessero affatto tramando ai tuoi danni? Hai pensato alla possibilità di esserti sbagliato?». «Certo che ci ho pensato», rispose Ben, alzando gli occhi mentre voltava una pagina dell'annuario. «È ben per questo che stanotte non ho chiuso occhio». «E allora...?». «E allora continuo a ritornare alla stessa conclusione: non appena mi pongo la fatidica domanda - "e se mi fossi sbagliato?" - mi ritrovo al punto di partenza». Lisa fece un cenno col capo in direzione dell'annuario che Ben stava
consultando: «Trovato qualche faccia familiare?». «Sono tutte vagamente familiari: le tipiche facce da avvocati noiosi. A parte questo, però, nessuno che assomigli a Rick». Richiudendo l'annuario, Ben aggiunse: «Non c'è più speranza... Rick è sparito, e io sono perduto». «Non dire così. Prendi un altro annuario e continua a cercare». «Non so neanche perché lo sto facendo», disse Ben, aprendo un altro volume. «Questo piano è ridicolo». «Senti, non riporre tutte le tue speranze negli annuari. Se lo trovi, bene. Altrimenti, lo troveremo non appena un azionista della Grinnell deciderà di vendere. Eppoi, trovare Rick è secondario, a questo punto. Se non superi il test della macchina della verità, avrai ben altri problemi». «Il test lo supererò». «Come mai quest'improvvisa sicurezza in te stesso?». «Perché sì», disse Ben. «La gente comune non lo supera perché è terrorizzata dalla macchina». «E ovviamente tu sei molto più furbo della gente comune...», disse Lisa. «Esatto», disse Ben. «Può darsi che io abbia una paura fottuta, ma non è certo quello stupido macchinario a incutermela. Se queste macchine fossero così sofisticate, i loro test avrebbero valore di prova in tribunale. Finché non lo avranno, vorrà dire che queste macchine non sono perfette. Inoltre, fa parte del mestiere dell'avvocato trovarsi a sostenere posizioni di cui non si è necessariamente convinti». «Ma tu non sei un avvocato. Sei un assistente». «Non ho forse passato l'esame di avvocatura?», domandò Ben. «Dunque, sono un avvocato». «Tu sei terrorizzato: ecco cosa sei. Ogni volta che hai paura, ti metti a fare lo sbruffone... come se fosse una valida reazione di difesa». «Okay, può darsi. Però io sono sempre convinto di non aver fatto nulla di male. La prima volta Rick mi ha estorto l'informazione con l'inganno. Non gliel'ho rivelata io con l'intento di guadagnarci dei soldi. Sono stato giocato. Come un cretino. Neppure lontanamente avrei immaginato che Rick potesse servirsi di quella confidenza per infrangere la legge. Credevo di parlare con un amico. Quindi, se c'è qualcuno che può dire di essere la vittima, in tutta questa storia, quello sono io». «Bel discorso», disse Lisa, applaudendolo. «Dovresti scrivertelo da qualche parte». «Perché?». «Perché se domani non passi il test, ti tornerà utile come arringa difensi-
va nel corso del colloquio che precederà la tua espulsione». Usciti dal lavoro, Lisa e Ben si avviarono lungo la Prima Strada e svoltarono poi a destra in C Street. Passando davanti al Dirksen Senate Office Building, videro riversarsi sul marciapiede una banda di giovani funzionari del Senato, tutti con cappotto marroncino e borsa di cuoio. Ben contò i mesi che mancavano all'inizio della primavera, quando il sole sarebbe tornato a splendere. Benché non nevicasse da una settimana, la poltiglia residua, annerita dagli scarichi delle auto e da altri inquinanti, copriva Capitol Hill come un lurido velo invernale. Dieci minuti dopo, i due colleghi giunsero al Sol & Evvy Drug Store, la più antica farmacia della città. «Sei sicura che qui ce l'abbiano?», domandò Ben, aprendo la porta coperta di smalto bianco scrostato. «Vedrai», disse Lisa, entrando. Guardandosi intorno in quel negozietto stipato di roba, Ben non poté fare a meno di notare le cartine geografiche ingiallite e le pubblicità vecchie di decenni appese alle pareti. «È lo stesso odore che c'è a casa di mia nonna», disse. «Questo è un luogo storico», disse Lisa, dirigendosi al banco. «Porta rispetto». «Fidati, adoro i posti come questo. Solo qui puoi trovare farmaci con la data di scadenza uguale alla tua data di nascita». «Guarda queste cartine», disse Lisa, indicando le pareti. «Non ce n'è una che includa l'Alaska o le Hawaii». «Ci credo», disse Ben. «Quella appesa vicino all'entrata non arriva neppure all'acquisto della Louisiana. Eh, bei tempi quando c'erano solo tredici stati!». Quando Ben e Lisa giunsero al banco, il farmacista si alzò dalla sedia di metallo arrugginita posta dietro la cassa. «Che dolori avete?». «Parli con lei», disse Ben, facendo cenno verso Lisa. «Stiamo bene, grazie», disse Lisa. Indicando lo sfigmomanometro in bella mostra accanto al banco, aggiunse: «Ecco, te l'avevo detto che l'avremmo trovato». «Credi davvero che funzioni, questa roba?», domandò Ben, passando il cappotto e la giacca a Lisa. «Come faccio a saperlo?». «Devo spogliarmi per misurare la pressione?», domandò Ben, arrotolandosi una manica. «Leggiti le istruzioni», rispose Lisa.
Dopo aver letto la targhetta con le istruzioni, Ben prese un quarto di dollaro dalle tasche e lo inserì nell'apposita fessura della macchina. «Puoi provartela da sopra la camicia?», domandò Lisa. «Secondo le istruzioni, sì». All'improvviso, la fascia fissata attorno al braccio di Ben si strinse. Respirando profondamente e senza dire una parola, attese che la stretta si allentasse. Dopo un po', sullo schermo della macchina comparvero alcune cifre rosse: 122-84. «Merda», disse Ben. «Quant'è la tua pressione, di solito?». «125-85. Quelle pillole del cazzo non hanno fatto effetto. Il battito cardiaco non è cambiato, e la pressione nemmeno. Sono un uomo morto». «Non dire così. In fondo, l'hai presa solo due ore fa. Forse non ti è ancora entrata in circolo».» Ben si rimise giacca e cappotto e raccolse la sua borsa. «Può darsi. Ma, chissà perché?, ne dubito». «Non innervosirti», disse Lisa, mentre uscivano dal negozio. «Se vuoi superare il test devi cercare di stare tranquillo». 14 Alle dieci di quel mercoledì mattina, Ben si stiracchiò, sdraiato sul divano rosso dell'ufficio. Con gli occhi chiusi, si lisciò la sua cravatta preferita, a pois regolari disposti lungo linee diagonali. «Come ti senti?», sussurrò Lisa. «Benissimo», disse Ben, rialzandosi a sedere e facendo un lungo e profondo respiro. Consultò l'orologio. «Credo sia ora». «Cerca di star calmo. Pensa a una lunga passeggiata nei boschi, a un'immersione subacquea... a qualsiasi cosa possa avere un effetto tranquillizzante». «Sono concentrato», disse Ben, alzandosi in piedi. «Sono il ritratto della calma. Sono in una condizione profondamente zen». «Buona fortuna», disse Lisa, mentre lui usciva dall'ufficio. Pensando che fosse il percorso più rassicurante, per raggiungere il seminterrato Ben passò dalla scala di marmo. Scese lentamente nelle viscere del palazzo, contando i gradini per non pensare alla sua destinazione. Quando giunse al seminterrato, si diresse all'ufficio dei marshals e disse alla receptionist che aveva un appuntamento con Carl Lungen.
«Prego, la sta aspettando». Quando Ben entrò nell'ufficio di Lungen, fu colpito dalla puzza stagnante di sigaro. «Che piacere vederti, Ben», disse Lungen, appoggiandosi allo schienale della sua sedia in pelle. «Accomodati». «Credevo che in questo palazzo fosse vietato fumare», disse Ben, evitando di guardare Lungen negli occhi, «È un monumento storico». «Be', sai com'è...», disse Lungen, strofinandosi la barba. Accennò alla sedia vuota davanti alla scrivania. «Siediti». «Non vorrei sembrare scortese, ma non potremmo sbrigarci?», domandò Ben. «Ho molto lavoro da fare. Inoltre, il fumo del sigaro mi fa salire la pressione». Lungen si alzò in piedi e si avviò alla porta. Ben lo seguì. Passarono davanti alla receptionist. «Se qualcuno mi cerca, sono nella stanza degli interrogatori», la avvisò Lungen. Quindi, attraversarono lo stanzone del seminterrato e giunsero davanti a una porta su cui era scritto "MAGAZZINO". Lungen prese un mazzo di chiavi dalla tasca e la aprì. L'ampia e umida stanza, priva di finestre, misurava più o meno quindici metri per lato. Contro le pareti erano ammassati tavoli, sedie, schedari e altri arredi per ufficio in sovrappiù. L'ambiente polveroso era illuminato da lampadine fluorescenti. «Insomma, questo è un magazzino per gran parte dell'anno, ma diventa stanza degli interrogatori quando dovete spaventare qualcuno, vero?», domandò Ben. «Esatto», rispose Lungen. «Ci hai scoperto». Al centro della stanza c'erano una scrivania e tre sedie di legno. Sul tavolo era posta la macchina della verità, che a Ben parve simile alla stampante laser del suo ufficio, solo con molti cavi in più. Dennis Fisk era intento a districarli e non alzò la testa finché i due non gli furono accanto. «Siamo pronti?», domandò Lungen. «Quasi», rispose Fisk. Guardò Ben con un sorriso beffardo. «Accomodati, caro». Ben si sedette, accavallò le gambe e restò in silenzio. «Allora, come va la vita?», disse Lungen. «Come sta il tuo amico Eric?». «Non ne ho idea», disse Ben. «Non parlo con lui da diverse settimane». «Che peccato», disse Lungen, sedendosi su una delle due sedie affiancate dietro la scrivania. Si chinò in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Però abitate ancora insieme, no?». «Non per molto», rispose Ben. «Se ne va entro Capodanno».
«Immagino che andrà ad abitare in una casa più grande, visto che adesso è un pezzo grosso del giornalismo. Ho visto che si occupa di tutto quello che riguarda la Corte suprema». «Se ne va di casa perché lo caccio io», rispose Ben, sforzandosi di rimanere composto. «Ti capisco», disse Fisk, trafficando con i cavi. «Anch'io mi arrabbierei se un mio amico andasse a raccontare del mio coinvolgimento nella fuga di notizie sul caso CMI». «Senta», disse Ben a Lungen, «tenga a bada il suo collaboratore. Se vuole accusarmi di qualcosa è meglio che si procuri le prove. In caso contrario, sarò felicissimo di denunciarvi per abuso d'ufficio e diffamazione». «Fisk non intendeva accusarti», disse Lungen, scusandosi. «Siamo solo curiosi di sapere». «Be', ve l'ho già detto e ve lo ripeto: la soffiata sul caso CMI ha stupito anche me». «Però confermi di essere tu la fonte di Eric, per quanto riguarda la notizia delle dimissioni di Blake, vero?», domandò Lungen. «Sì, certo», rispose Ben, con voce ferma, imperturbata. «Ma per quel che ne so io, non c'è nulla di illegale in questo. Era solo un tentativo di aiutare un amico». «Allora tu e Eric avete fatto la pace...», lo interruppe Fisk. «Nient'affatto. L'informazione su Blake gliel'ho fornita prima che uscisse l'articolo sul caso CMI. Prima, cioè, che io litigassi con lui. Non avrete perso la cognizione del tempo, spero». Ben sorrise vedendo l'espressione attonita di Fisk. «Lo so che adesso volete intimidirmi con un'oretta di domande, ma non potremmo venire al sodo?». «Collegalo alla macchina», disse Lungen, rivolto a Fisk. Fisk arrotolò la manica della camicia di Ben e gli avvolse intorno al braccio una fascia di velcro. «Credevo ci volesse la presenza di un esperto per sottoporre un indiziato al test», disse Ben. «L'esperto sono io», replicò Fisk. «Ah, be', allora sono in buone mani», disse Ben, sarcastico. «Come fa lei di secondo nome? Imparziale, vero? Dennis Imparziale...». «Taci». Quando anche gli altri strumenti furono approntati, Fisk si sedette sulla sedia vuota accanto a Lungen. «Voglio che tu faccia dieci respiri profondi», spiegò Fisk. «Dopo il decimo respiro, cerca di rimanere più calmo che
puoi. A quel punto, rileverò la misura iniziale delle tue funzioni». Seguendo le indicazioni di Fisk, Ben inspirò profondamente dieci volte. Al momento di rilassarsi, vide Lungen che prendeva un taccuino dalla tasca della giacca. Ben chiuse gli occhi e si sforzò di ignorare quell'immagine, pensando a un volo in parapendio nel sud della Francia. Quando udì il ronzio della macchina, accompagnato da scariche e segnali acustici elettronici, Ben riaprì gli occhi e guardò dritto davanti a sé. Con la coda dell'occhio, vide Lungen intento a prendere appunti. Fisk aprì uno dei cassetti della scrivania e ne tirò fuori un mazzo di carte. «Guarda qui», disse a Ben. "Che prevedibilità!", pensò Ben, sempre attento a non far trapelare la benché minima emozione. «Ecco cosa devi fare», spiegò Fisk. «Io ti mostrerò una carta e tu mi dovrai dire che carta è. Se dici la verità, l'ago della macchina rimarrà fermo. Se menti, si muoverà». «Mi assicurate che vi hanno addestrato a distinguere tra le due cose?», domandò Ben. «Fai lo spiritoso, eh? Tra un'ora vedremo chi riderà per ultimo». «Calmati», disse Rick, tenendo la cornetta bloccata tra la guancia e la spalla. «Non sto scherzando... Voglio i miei soldi». «Ne abbiamo già parlato», disse Rick. «Li avrai non appena mi sarò tolto Ben dai piedi». «Che cosa vuoi di più? Ti ho riferito tutto quello che sa, che fa e che pensa...». «Quando l'affare sarà concluso, avrai i tuoi soldi», concluse Rick, cercando di rassicurare l'interlocutore. «Non posso credere che Ben ti faccia così paura. Nonostante il tuo atteggiamento da saputello, a volte sei un vero codardo». «La paura non c'entra nulla», disse Rick, accostando il telefono all'altro orecchio. «Sono semplicemente realista. Ben è pieno di risorse. Sarebbe un errore non tenerlo d'occhio». «Chiamala come vuoi. Ma ricordati una cosa: non sperare che Ben, quand'anche il tuo affare sia andato a buon fine, rinunci a cercarti. Se sarà obbligato, ti starà alle calcagna per tutta la vita. È testardo». «Hai ragione», concordò Rick. «Ma se Ben non è in grado di scovarmi qui a Washington, cosa ti fa credere che ne sarà capace quando la ricerca
dovrà svolgersi a livello globale?». Seduta in ufficio, Lisa fissava il gigantesco orologio governativo, simile a quelli che si vedono negli atrii dei licei, appeso sopra il divano, e si domandava come mai ci volesse così tanto. Era al terzo caffè. Batteva nervosamente un piede sul tappeto, in attesa del ritorno di Ben. Lo squillo del telefono la riportò alla realtà. Si lanciò sull'apparecchio e sollevò la cornetta prima ancora che il primo squillo terminasse. «Sono Lisa», disse. Restò in ascolto per un attimo e poi riprese: «No, certo, me ne ricordo. Te la porterò appena possibile». Guardando di nuovo l'orologio, aggiunse: «Ben dovrebbe essere qui a minuti. Penserò io a...». La frase di Lisa fu interrotta dall'ingresso di Ben. Aveva un'aria sfatta, la faccia più pallida di quanto già normalmente non fosse d'inverno. Con gli occhi bassi, sfilò davanti a Lisa e si abbandonò sul divano. «È entrato in questo momento. Ti richiamo subito», disse Lisa. Riagganciò e si alzò dalla sedia in un lampo. «Allora, com'è andata?». «Non l'ho passato», rispose Ben. «Cosa? Stai scherzando?». «Ma sì che l'ho passato!», disse saltando su dal divano. Alzò le braccia al cielo, trionfante: «L'ho passato alla grande!». «È fantastico!», esultò Lisa, abbracciando Ben e mettendosi a saltare con lui per la stanza. «Ehi, ehi, ehi», disse Ben, interrompendo l'abbraccio. «Credo di essere sul punto di eccitarmi. Ho il pisello in espansione». Lisa scoppiò a ridere e si allontanò. «Dimmi com'è andata. Che cosa ti hanno detto? Erano arrabbiati?». «Erano incazzatissimi», raccontò Ben, agitando le mani in aria. «Fisk si è morso le unghie per tutto il tempo. Se non ci fossimo sbrigati sarebbe arrivato a masticarsi le nocche». «Come hai fatto a passarlo? Che cos'hai risposto?». «Mi hanno fatto guardare delle carte da gioco», spiegò Ben. «Se la carta era un asso di picche e io dicevo semplicemente che era un asso, la macchina procedeva non registrava alcuna stranezza. Ma se mentivo e dicevo che si trattava di un re, la macchina reagiva in modo identico. Lungen e Fisk erano parecchio irritati. Non si capacitavano. Allora, mi hanno staccato dalla macchina, e abbiamo ricominciato tutto da capo. Mi hanno interrogato per una decina di minuti e poi mi hanno riattaccato. Questa volta, giunti agli indovinelli sulle carte, se mentivo la macchina impazziva. Cre-
do fosse dovuto all'euforia di aver battuto la macchina, al primo tentativo». «Devi esserti sentito morire», disse Lisa, sedendosi sul divano. «Infatti», disse Ben, incapace di star fermo. «Temevo di pisciarmi sotto. Quando Fisk ha messo via le carte, ho chiuso gli occhi e ho cominciato a pensare ai G movies. Non so come mai, ma ho riacquistato la calma». «Credi che sia stato l'effetto delle pillole?». «Può darsi», disse Ben. «A dire il vero ci ho pensato, quando ho chiuso gli occhi: ho immaginato che le pillole stessero facendo effetto, e ho cominciato a pensare al giorno del funerale di mio fratello. Con quei due pensieri in testa, il mio corpo ha praticamente smesso di dar fastidio». «Dev'essere stato terribile». «Non è stato divertente», disse Ben. «Ma è servito a calmarmi definitivamente. Quando sento il bisogno di ridimensionare un problema, mi basta pensare alla morte, al cui confronto ogni guaio impallidisce». «L'importante è che funzioni», disse Lisa, appoggiandosi al bracciolo del divano. «E i marshals che cosa ti hanno chiesto?». «Devo riconoscere che Nathan aveva ragione al millesimo. Mi hanno domandato se avevo più di ventun'anni, e ho dovuto rispondere negativamente. Quando la macchina non ha segnalato nulla di strano ho capito che ero salvo». «Ti hanno detto qualcosa?». «A dire il vero, ho fatto di tutto pur di evitare di incrociare i loro sguardi. Se avessi visto la delusione dipinta sui loro volti, probabilmente mi sarei agitato e avrei rovinato tutto». «E poi che altro ti hanno chiesto?». «Dopo la domanda sull'età, mi hanno chiesto se fumo. Ho risposto di no e la macchina non ha registrato nulla. Poi, mi hanno domandato se avevo mai fatto qualcosa di cui mi vergognavo. A quel punto, mi è venuta in mente quella volta che siamo andati a letto insieme. La macchina era così silenziosa che credevo l'avessero spenta». «Molto spiritoso». «Alla fine mi hanno domandato se sapevo qualcosa dell'informazione raccolta da Eric e dell'articolo che ha scritto... Be', in realtà, non sono sicuro che fosse esattamente questa la domanda; in ogni caso, ho cercato di essere il più possibile evasivo. Quando hanno smesso di parlare loro, ho risposto semplicemente di no. Dopo la terza domanda, quando mi sono reso conto che la macchina non aveva segnalato nulla, mi sono voltato verso i marshals. A quel punto ho avuto una percezione quasi fisica della rabbia
provata da Fisk. Ho chiesto se il test era andato bene, e Lungen mi ha congedato. Mi ha ringraziato e si è scusato per il disturbo». «Credi che sapessero che stavi mentendo?». «Ehi, aspetta un attimo», disse Ben, spalancando la porta dell'ufficio. «Potresti gridarlo un po' più forte? Non credo che in Maryland siano riusciti a sentirti tutti». «Dài, rispondi». Ben richiuse la porta. «Mettiamola così: non credo che mi ritengano del tutto innocente. Ma finché non avranno le prove, non possono fare nulla». Avvicinandosi alla propria scrivania, aggiunse: «A parte questo, con chi stavi parlando quando sono entrato?». «Come?», domandò Lisa. «Quando sono rientrato, tu eri al telefono con qualcuno», ripeté Ben. «Hai detto: "È entrato in questo momento", e hai riagganciato. Con chi stavi parlando?». «Ah, era Nancy che chiamava dall'ufficio di Hollis», rispose Lisa. «Hollis ci ha rimandato la nostra relazione sul caso Grinnell e vuole che la rileggiamo un'ultima volta. Ha bisogno della versione definitiva entro venerdì. Vuole passarla all'Ufficio assistenti entro la fine della settimana, in modo da consentire l'annuncio della decisione nella giornata di lunedì». «Non ha detto altro?». «Nient'altro». Lisa notò una strana espressione sul volto di Ben. «Non ricominciare con le tue stronzate, eh?». «Quali stronzate?». «So cosa stai pensando», disse Lisa, alzandosi in piedi. «Mi dispiace deluderti, ma non stavo parlando con Rick». «E chi ha detto che stavi parlando con Rick?». «Non cercare di prendermi in giro: quella tua faccia sospettosa la conosco bene. Ti può andar bene con i marshals, ma a me non puoi mentire: ti scopro subito». «Be', non hai nulla di cui preoccuparti. Non sono affatto sospettoso. Se mi dici che era Nancy, ci credo». «Infatti era Nancy». «Ebbene, ti credo», disse Ben, allontanando la sedia dal tavolo. «Era lei, davvero!». «Ho detto che ti credo». «Ben, io...». «Ascolta, se pensassi che mi stai mentendo, farei finta di dover pisciare
e andrei da Nancy a verificare. Mi fido. Se mi dici che era lei, ci credo». Il venerdì pomeriggio successivo, sul tardi, Ben era davanti allo schermo del suo computer da almeno tre ore. «Non mi capacito che non si sia ancora mosso», disse, stropicciandosi gli occhi iniettati di sangue. «Per guadagnarci dei soldi deve per forza comprare azioni». Lisa stava rileggendo per l'ottava volta la loro relazione sul caso Grinnell. «Forse Rick non sa ancora niente della decisione sul caso Grinnell. Forse ha ottenuto informazioni su un altro caso». «Lo escludo», disse Ben. «Rick è al corrente della decisione sul caso Grinnell. Lo sento». «Ah, davvero?», domandò Lisa, con gli occhi ancora fissi sulla pagina che stava leggendo. «Ma, anche ammesso che i tuoi poteri paranormali non ti ingannino, come fai a essere sicuro che l'azionista che venderà a Rick vorrà registrare la transazione?». «Il venditore magari non vorrà farlo, ma di certo Rick la pensa diversamente», argomentò Ben. «È nel suo interesse registrare la vendita. Altrimenti, il venditore potrebbe ricredersi e annullare l'accordo. Notificando la transazione, Rick si garantirebbe la buona riuscita dell'affare, e lui è troppo furbo per non saperlo». Affascinata dalla logica del ragionamento di Ben, Lisa posò i fogli della relazione e si mise al computer, che era collegato a Lexis, con il registro degli atti di vendita. Mentre i due colleghi sedevano ipnotizzati davanti all'elenco degli azionisti, il silenzio fu squarciato dallo squillo del telefono di Ben. «Pronto? Ufficio del giudice Hollis», disse Ben, rispondendo. «Salve, parlo con Ben Addison? Lo stesso Ben Addison che ha lavorato da Wayne & Portnoy due estati fa?». Ben riconobbe la voce di Adrian Alcott e alzò gli occhi al cielo. Sforzandosi di assumere un tono cordiale, disse: «Come va, Adrian? Sono contento di sentirti». «Anch'io», disse Alcott. «Era un po' che non ci sentivamo. Come vanno le cose, lì alla Corte?». «Sono sommerso dal lavoro», rispose Ben, seccato per quella telefonata che lo distraeva dallo schermo del computer. «Si sa», disse Alcott. «Immagino che i ritmi siano addirittura vorticosi, quando si avvicina la fine dell'anno». «Puoi ben dirlo», confermò Ben. «Cercano di sfornare il maggior numero di decisioni possibile, per poi godersi in santa pace le vacanze».
«Non dirmelo...», disse Alcott. «Anche qui cerchiamo di...». «Ben, guarda!», esclamò Lisa, indicando lo schermo. Ignorando le chiacchiere di Alcott, Ben esaminò lo schermo alla ricerca della causa dell'improvvisa agitazione di Lisa. «Allora, hai già deciso cosa farai l'anno prossimo?», domandò Alcott. Non ricevendo risposta, aggiunse: «Ben, ci sei?». «Sì, sì, sono qui», disse Ben, scorrendo l'elenco degli oltre cento azionisti identificati. «Scusami, non ho sentito l'ultima parte». «Volevo solo sapere se hai già deciso cosa farai l'anno prossimo», ripeté Alcott. «No, non ancora», rispose Ben. «Sono così occupato che non riesco a pensare neanche alla settimana entrante. Figurati, se so cosa farò l'anno prossimo». «Va' in cima all'elenco!», gridò Lisa. «Certo, capisco», disse Alcott. «Ti chiedo solo di tenerci presenti». Spostandosi con il cursore all'inizio dell'elenco alfabetico degli azionisti, Ben cercò di identificare il nome appena inserito. Quando ci riuscì, ebbe un tuffo al cuore. Non poteva credere ai suoi occhi. Il primo nome dell'elenco era "Addison & Co.". «Senti, Adrian, scusami, ma devo proprio andare». «Va tutto bene?», domandò Alcott, ma prima ancora che questi potesse terminare la frase, Ben aveva già riagganciato. «Non ci posso credere», disse Ben, con le mani nei capelli. «Non può essere. Sono fottuto». «Non fare così», gli disse Lisa, avvicinandosi per cercare di calmarlo. «Non è...». «Lisa, quando lunedì verrà annunciata la decisione, una società il cui nome, casualmente, è anche il mio cognome guadagnerà alcuni milioni di dollari in virtù di una decisione di cui io ero a conoscenza con largo anticipo. Non credi che ci sia quantomeno da preoccuparsi?». «Ben, è impossibile ricondurre a te quella società. Non l'hai fondata tu, tu non hai niente a che fare con questa storia. Eppoi, chi altri, oltre a noi, starà controllando sul database degli atti di vendita l'elenco degli azionisti della Grinnell & Associates e i relativi passaggi di azioni?». Alla domanda di Lisa rispose lo squillo del telefono di Ben. Raggelato, Ben guardò Lisa. Un secondo squillo squarciò il silenzio. «Hai intenzione di rispondere?», domandò Lisa. Il telefono squillò una terza volta.
«È di sicuro l'ufficio dei marshals», disse Ben. «L'hanno scoperto anche loro». Corse verso il ripostiglio e afferrò il cappotto. «Dove vai?», domandò Lisa. «Devo assolutamente andarmene di qui», spiegò Ben, prelevando la borsa e avviandosi alla porta. «Scambiamoci il tesserino di riconoscimento». «Cosa?». «Ho detto: scambiamoci il tesserino di riconoscimento», ripeté Ben, lanciandole il proprio. «Presto!». Lisa corse alla propria scrivania, prese il proprio tesserino da uno dei cassetti e lo lanciò a Ben, che lo afferrò e sparì all'istante. «Chiamami quando arrivi a casa», gli urlò dietro Lisa, mentre il telefono continuava a suonare. Ben si fiondò giù per la scala principale, in un bagno di sudore. Quando giunse al piano rialzato, rallentò e si sforzo di adottare un'andatura naturale. Decise di evitare l'uscita principale e rimase nell'ala nord della Corte, intenzionato a sfruttare l'unico varco non sorvegliato dell'edificio. Quando fu quasi alla porta, gli parve di udire dei passi alle sue spalle. Si voltò e non vide nessuno, ma accelerò ulteriormente. Col cuore in gola, Ben raggiunse il dispositivo di identificazione collegato al meccanismo di apertura della porta. Prese il tesserino di Lisa e, trattenendo il respiro, lo infilò nell'apposita fessura. Nulla. Con le mani che gli tremavano, ripeté l'operazione. A quel puntò si udì il clic che segnalava via libera. Avanzò di qualche passo e con una spinta aprì la porta. Quando fu all'esterno, prese finalmente fiato e lasciò cadere a terra la borsa, riscosso dal vento freddo che gli soffiava in faccia. Ben si piegò in avanti e appoggiò le mani sulle ginocchia, restando in quella posizione per un minuto buono. Quando si fu ricomposto, si passò una mano tra i capelli, chiuse gli occhi e cercò di riflettere. Raccolse da terra un pugno di neve, se lo strofinò sulla fronte e mise in bocca quel che ne restava. Dopo aver camminato per alcuni isolati lungo Maryland Avenue, Ben si fermò a un telefono pubblico e chiamò Lisa in ufficio. «Pronto? Ufficio del...». «Lisa, sono io». «Che diavolo ti è preso?», domandò Lisa. «Scusami. Sono dovuto uscire immediatamente. Mi sentivo male». «A che ti è servito il mio tesserino?». «Pensavo che i marshals avessero disattivato il mio, in modo da non farmi uscire dal palazzo. È così che mi hanno fermato, l'altra volta».
«Allora, io sono bloccata qui?». «No», disse Ben, guardandosi alle spalle. «Puoi usare il mio tesserino. Se i marshals ti fermano, vuol dire che sanno della fuga di notizie. Altrimenti, significa che è tutto tranquillo». «Non hai risposto alla mia domanda. Se mi fermano, mi spieghi come farò a uscire?». «Basta che tu vada all'uscita principale e dica che non riesci a trovare il tuo tesserino. Ti controllano di persona e ti fanno uscire», disse Ben. «Nel frattempo sei riuscita a scoprire da chi ha comprato le azioni Rick?». «Ho fatto un riscontro con l'elenco della scorsa settimana, e ho visto che manca un solo nome. La Addison & Co. è subentrata a un certo Micron Group». «Che sarebbe?». «Ho fatto una ricerca su Lexis, ma senza successo. Sono riuscita a scoprire soltanto che si tratta di una società in accomandita semplice registrata nel Delaware cinque anni fa. I documenti della registrazione sono intestati a un certo Murray Feinman, ma di questo tizio sono riuscita a scoprire soltanto che è morto l'anno scorso a ottantaquattro anni. Probabilmente, ha creato la Micron solo per investire i propri soldi prima di morire, ma non ho assolutamente idea di chi la amministri adesso». «Non hai trovato nient'altro?». «Che altro ti aspettavi?», ribatté Lisa. «Ho potuto consultare soltanto Lexis, cioè, in sostanza, periodici e pubblici registri. Già è tanto quello che ho trovato». «Scusami, sto andando fuori di testa», spiegò Ben, mentre un nugolo di turisti guidati gli passava accanto. Aspettò che si fossero definitivamente allontanati e, quindi, aggiunse: «Credi che riusciremo a scovare Rick indagando sulla Addison & Co.?». «Non lo so», rispose Lisa. «Ho controllato, ma questo nome non risulta da nessuna parte. O è stata registrata all'estero o è una consociata di una società di cui non conosciamo il nome. Ovviamente, Rick l'ha chiamata così solo per farti incazzare». «Penso che ci sia dell'altro. Attirando l'attenzione su di me, la distoglierà da sé». «Forse hai ragione», disse Lisa. «Che cos'hai intenzione di fare?». «Aspetterò che tu esca dal lavoro. Così saprò se i marshals sono sulle mie tracce». «Resterai ad aspettare per due ore?».
«Neanche per sogno», disse Ben, guardando l'orologio. «Esci subito. Hollis non avrà nulla in contrario. La relazione sul caso Grinnell è pronta: consegnala a Nancy. A parte quello, non abbiamo altro da fare...». «No, infatti. Le cinquanta richieste di revisione che dobbiamo sbrigare non esistono, vero?». «Dài, Lisa, è venerdì. Esci, e basta». «D'accordo, d'accordo», disse lei. «Dimmi dove devo raggiungerti». «Sono nella cabina all'angolo tra Maryland Avenue e D Street». «Okay», disse Lisa. «Ci vediamo tra dieci minuti». Quando Lisa giunse nel luogo stabilito, non vedendo il collega si preoccupò. Guardò in giro e vide dei passanti che procedevano a fatica sui marciapiedi appena liberati dalla neve, ma nessuno di questi gli assomigliava. Scorse il telefono pubblico all'angolo, vi si avvicinò e notò con sorpresa che tra la cornetta e la forcella era infilato un foglietto. Lo prese e vide che si trattava di un messaggio di Ben: «Sali sul taxi nero e beige parcheggiato sull'altro lato della strada». Lisa appallottolò il biglietto e si guardò alle spalle, per vedere se qualcuno l'aveva seguita. Attraversò la strada e si avvicinò al taxi nero e beige: «Taxi!», gridò. Al cenno d'intesa del taxista, lei aprì la portiera posteriore e salì a bordo. Prima ancora che potesse dire una parola, il taxi partì imboccando Maryland Avenue. «Mi scusi, come fa a sapere dove voglio andare?», domandò Lisa. «Allora, hai avuto problemi?», domandò Ben, facendo capolino da dietro lo schienale del sedile anteriore. Lisa ebbe un sobbalzo. «Oh, Cristo, mi hai fatto cagare addosso!», gridò. «Perché cazzo ti nascondevi là sotto?». «Volevo essere sicuro che nessuno ti seguisse», spiegò Ben, abbracciato al poggiatesta. «Be', puoi stare tranquillo: il tuo tesserino ha funzionato normalissimamente. Credo che i marshals siano fuori causa». «Oppure sapevano che io me n'ero già andato». «Ben, tu devi rilassarti. Nessuno, a parte noi, stava consultando quel database. I marshals non sanno niente. L'hai detto anche tu: sono dei coglioni». «Se lo dici tu...», concesse Ben, tenendo gli occhi fissi sul vetro posteriore, alle spalle di Lisa. Lisa si voltò. «Smettila, dài! Nessuno ci sta seguendo».
«Non mi sembra possibile», disse Ben, scuotendo la testa. «Sono rovinato». «Non ci pensiamo, adesso», disse Lisa, accennando con il capo al taxista. «Ne parliamo quando arriviamo a casa». Un quarto d'ora più tardi, Lisa e Ben giunsero a destinazione. «Visto? Casa tua non è sorvegliata», disse Lisa, mentre Ben infilava la chiave nella serratura. «Se i marshals avessero voluto farti arrestare, ti sarebbero saltati addosso appena siamo scesi dal taxi». Quando Ben aprì la porta, vide con sorpresa che c'era Ober in soggiorno, davanti alla Tv. «Ehi, come mai a casa così presto?», domandò Ober. «Ah, ho capito», aggiunse, vedendo Lisa. «Novità, signorina?». «Direi di no», rispose Lisa, togliendosi il cappotto. «E tu?». «Niente di che», disse Ober. «Cosa ci fai, qui?», domandò Ben all'amico. «Non dovresti essere al lavoro?». «Infatti, sto per andarci», disse Ober, spegnendo la TV. «Mi sto solo concedendo una pausa pranzo un po' più lunga». «Sono quasi le tre e mezza», disse Ben, guardando il suo orologio. «Davvero?», domantiò Ober, riaccendendo la TV. «In tal caso, ho un'altra mezz'ora». «Ti rendi conto che noi contribuenti ti paghiamo lo stipendio, e tu te ne stai lì seduto in panciolle?», domandò Lisa, prendendo posto sul divano. «Fila a lavorare». «Ehi, anche il vostro stipendio lo paghiamo noi contribuenti», replicò Ober. «O mi sbaglio?». «Lasciamo perdere», disse Ben, crollando sul divano accanto a Ober. «Cos'è successo?», domandò Ober, con gli occhi fissi sullo schermo della TV. Dopo avergli spiegato la situazione, Ben aggiunse: «E quando lunedì la decisione verrà annunciata, la Grinnell & Associates farà i miliardi e l'attenzione di tutti si appunterà su di me». «Mi sembra giusto», disse Ober. «Tu sei il presidente della Addison & Company». «Non è il momento di scherzare», disse Ben. «Posso chiederti un favore, allora?», domandò Ober. «Se lunedì sarà il tuo ultimo giorno alla Corte, posso venire ad assistere all'annuncio della decisione?». «Davvero vuoi venire?», domandò Ben.
«Sicuro», confermò Ober. «Se ti radiano dalla Corte, non avrò altre occasioni per farmi un giro dietro le quinte». «Non c'è nessun palcoscenico», disse Lisa. «I giudici siedono dietro un banco». «Be', allora dietro il banco», si corresse Ober. «Mi porti?». «Certo», disse Ben, stringendosi nelle spalle. «Perché no?». Rivolgendosi a Lisa, aggiunse: «Comunque, credo che questa storia della Addison & Company sia la migliore risposta ai tuoi dubbi sul fatto che Rick conoscesse la decisione sul caso Grinnell». «Non capisco», disse lei. «Come può, Nathan, averti fatto questo?». «Non hai prove che sia stato lui», la interruppe Ober, arrabbiandosi. «Ah, davvero?», fece Lisa. «Allora, come mai il microfono da borsa non si è visto?». «Non chiederlo a me», disse Ober. «E se vuoi parlarne con Nathan, vedi di farlo da un'altra parte, perché non ho voglia di risentire certe stronzate». «Bravo, fai come la scimmietta che si tappa le orecchie», incalzò Lisa. «Con Nathan, la scimmietta che non parla, e Eric, la scimmietta che non scrive, fate proprio un bel trio». «Senti, brutta stronzetta, tu non puoi...». «Basta! Smettetela!», li interruppe Ben. «Non ho tempo di mettermi a fare il paciere. Rimandate la lite a più tardi». «Come puoi permetterle di dire certe cose?», gli domandò Ober. «Io, Nathan e Eric siamo pur sempre tuoi amici». «Ah, sì?», disse Lisa. «E io no, vero?». «Senti, non ha importanza se è stato Nathan o no», disse Ben. «Non mi importa nemmeno se è stato uno di voi due. Anzi, a questo punto, me ne fregherei persino se scoprissi che è stata mia madre. L'unica cosa che importa è questa: lunedì sarà tutto finito». Ober andò in ripostiglio a prendere la giacca. «Ben, ne riparliamo più tardi, quando non ci sarà lei. Adesso devo proprio andare al lavoro». «Finalmente!», esclamò Lisa, quando Ober uscì sbattendo la porta. «Senti, anch'io dovrei andare. Ci sentiamo più tardi?». «Certo», disse Ben. «Abbandonami pure. Non c'è problema». «Dài, Ben, non farmi sentire in colpa. Sai bene che quelle richieste di revisione vanno sbrigate. In questo modo, almeno, uno di noi porta avanti il lavoro». «Ma sì, hai ragione», disse Ben. «Mi farà bene restare un po' da solo. Così non dovrò condividere il mio fardello con nessuno».
«Non fare così», disse Lisa. «Lo sai che ti sono vicina...». «Sto scherzando», la interruppe Ben. «Va' pure. Ci sentiamo più tardi». Per evitare l'atrio principale del Washington Hilton, Rick inserì la propria chiave nella serratura elettronica di un ingresso secondario, che si apriva sul lato del parcheggio. Si diresse all'ascensore con passo rapido e sicuro. Salì all'undicesimo piano, uscì dall'ascensore e svoltò a destra per raggiungere la stanza 1114. Infilò la chiave nella serratura, girò la maniglia ed entrò. «Dove diavolo ti sei cacciato? Sei in ritardo di mezz'ora». «Non sono affari tuoi», rispose Rick, mentre un vago sorriso gli illuminava il volto. «Allora, ne hai fatti di soldi, eh? Complimenti». «Puoi ben dirlo», ammise Rick. Si sedette su uno dei due divani giallo canarino e posò i piedi sul tavolino da caffè. La suite era lussuosissima: tre stanze, dipinti a olio alle pareti, moquette color crema e bar fornitissimo. «Lo sapevi che in questo hotel hanno sparato a Ronald Reagan?». «No, non lo sapevo. Ma sono sicuro che un giorno o l'altro questa informazione mi tornerà utile». «Perché sei così incazzato?», domandò Rick. «Senti, non ho tempo da perdere. Devo tornare al lavoro. È stato fatto il bonifico, o no?». «Gli ultimi cinquecentomila saranno sul tuo conto entro stasera», rispose Rick. Infilò una mano nella tasca della giacca, prese un foglietto e lo gettò sul tavolino. «Questo è il numero del conto. Spero che ti godrai la vincita». «Puoi starne certo». «E pensare», aggiunse Rick, «che tutto questo è successo solo perché il tuo coinquilino ti sta antipatico». «Ti sbagli. Il fatto che io gli abbia rubato la relazione dalla borsa non vuol dire che mi sia "antipatico". Ho solo intravisto l'occasione d'oro e l'ho colta al volo». «Certo, certo», disse Rick. «Tu, per il resto, sei davvero un ottimo amico. È per questo che mi hai raccontato del test con la macchina della verità e degli annuari e...». «A proposito, volevo chiederti: come mai Ben non è riuscito a trovare la tua foto sugli annuari? Credevo che con questo piano sarebbe davvero riuscito a fregarti». «Allora sei scemo come lui», rispose Rick. «Quel piano ha un difetto:
presuppone che io abbia frequentato una delle migliori facoltà di legge. Per degli intellettuali snob come voi, è escluso che esistano persone intelligenti al di fuori delle scuole Ivy League». «Hai ragione. Mi hai fregato». Si diede uno schiaffetto su una coscia e si alzò. «Oh, Be', non sempre si può vincere». «Stavolta, però, hai vinto». «Questo è sicuro». «È stato un piacere fare affari con te», disse Rick, porgendogli la mano. «Il piacere è tutto mio», disse Eric, uscendo in corridoio. «Magari ci rivedremo. Chissà? Su qualche spiaggia, magari». 15 Il lunedì successivo, alle nove e mezza di mattina, Lisa e Ben si stavano preparando a scendere in aula per assistere all'annuncio ufficiale delle decisioni. «Io sono sempre dell'idea che ti convenga costituirti», disse Lisa, infilandosi la giacca del suo gessato beige e nero. «Non ci penso neanche», disse Ben, stringendo il nodo della cravatta blu e dorata. «Almeno per il momento». «Perché no?», domandò Lisa. «Non credo che userebbero la mano pesante». «Non importa. Non ho alcuna intenzione di percorrere questa strada. Se anche non mi mettessero in prigione, verrei comunque licenziato dalla Corte. E se proprio dovrò andarmene da questo posto - credimi - dovranno trascinarmi fuori a forza. Mi rifiuto di servirgli la mia testa su un piatto d'argento». «La vita è la tua», disse Lisa. «Penso soltanto che tu stia commettendo un errore». Bussarono piano alla porta, e la discussione si interruppe. «Avanti», disse Ben, in piedi vicino alla porta. Era Nancy. «Ben, il tuo ospite è arrivato». Alle spalle di Nancy spuntò Ober, che avanzò verso di lui a braccia aperte. «Ragazzi! Dunque, è qui che lavorano i pezzi grossi, eh?», domandò Ober, toccando qualsiasi cosa gli capitasse a tiro: i libri sulla scrivania di Lisa, lo schermo del suo computer, il temperamatite di Ben, il suo telefono. Ben indicò a Ober il divano, invitandolo ad accomodarsi. «Hai avuto problemi per entrare?».
«Nessun problema», rispose Ober, togliendosi il cappotto e gettandolo sul divano. «È stato facile. L'agente di guardia al piano di sotto mi ha detto che i posti disponibili in aula erano esauriti, ma io gli ho spiegato che ero lì su invito di Ben Addison. Be', ti dirò: il tipo ha controllato su un foglio e, bingo!, mi sono ritrovato dentro, in prima fila. Dopo avermi fatto passare attraverso il metal detector, lo stesso agente mi ha accompagnato qui». Ober si guardò intorno. «Bella sistemazione. Sembra di essere alla Casa Bianca... È tutto così antico e solenne». «È la Corte suprema», disse Lisa. «Forse ne hai sentito parlare». «Hai sentito anche tu?», domandò Ober, rivolgendosi a Ben. «Mi è parso di udire una voce da stronzetta lagnosa, ma forse è solo frutto della mia immaginazione». «Ober, che cosa mi avevi promesso?», lo rimproverò Ben. «Va bene, va bene. Farò il bravo», disse Ober, sedendosi sul divano. «Come va, Lisa?». «Ti venisse la sifilide!». «Oh, grazie, me li sono tagliati settimana scorsa», disse Ober, passandosi una mano tra i capelli. «Che bel divano!», aggiunse, molleggiandosi sui cuscini. «Potete godervi la vostra privacy. Non avete mai fatto... non so, di sera, dopo che anche le donne delle pulizie se ne sono andate...?». «Ober, ti dispiacerebbe comportarti un po' più a modo?», lo pregò Ben. «Posso farti una domanda?», disse Lisa. «Come fai a essere così di buon umore se sai che un tuo amico è spaventato a morte?». «Risparmiami la predica», rispose Ober. «Tu aiuti Ben a tuo modo; io lo aiuto a modo mio». «Smettetela, tutt'e due!», ingiunse Ben, avviandosi alla porta. Scendiamo in aula. Nella Great Hall, la folla decresceva lentamente, a mano a mano che le persone intervenute sfilavano attraverso due metal detector. Ben, Lisa e Ober entrarono direttamente in aula. «È con noi», spiegò Ben a un agente di sicurezza che osservava Ober con aria interrogativa. «Fantastico!», esclamò Ober, quando vide, l'aula gremita dal pubblico, dai giornalisti e dal personale della Corte. «Se volevi la solennità, eccoti servito», disse Ben, procedendo verso un settore delimitato da una corda, sul lato destro dell'aula. «Sono tutti assistenti quelli seduti davanti a noi?», domandò Ober, notando che avevano tutti più o meno la sua stessa età. Ben annuì. «In questo settore possono sedersi solo gli assistenti e i loro
ospiti». Mentre gli ultimi spettatori venivano fatti entrare in aula, Ober disse: «Sai, Ben, la Corte è rimasta identica a com'era quando ci lavoravo io». L'assistente seduto davanti a Ober si voltò. «Per chi hai lavorato?». «Per Osterman», disse Ober. «Anch'io!», esclamò l'assistente, evidentemente entusiasta. Porgendo la mano a Ober, disse: «Io sono Joel». «Piacere, Joel», disse Ober, con voce sempre più profonda. «Che cosa sta dicendo?», domandò Lisa, rivolta a Ben. «Nulla», rispose Ben, divertito. «Lascialo fare». «Ehi, se va bene a te, sono contenta anch'io», disse Lisa. «Di' un po': che opinione avevi del grand'uomo?», domandò Joel a Ober. «Oh, una persona meravigliosa». «Davvero?», domandò Ben. «Osterman è generalmente noto come il più grosso stronzo di tutta la Corte». «È proprio quello che intendevo dire», chiarì Ober. «"Meraviglioso" nel senso di "stronzo"». «Il tuo amico non è mai stato assistente alla Corte, vero?», domandò Joel a Ben. Quando Ben sorrise, Joel disse: «Vaffanculo, Addison. Credi di essere spiritoso, vero?». «No, Joel», replicò Ben. «Io sono spiritoso». «È molto spiritoso», confermò Ober. Quando Joel tornò a voltargli le spalle, Ober aggiunse: «Piacere di averti conosciuto». A quel punto si udì il suono di un campanello, che mise fine al brusio in aula. «È adesso che devo stare zitto?», bisbigliò Ober. «Shhhh!», fece Ben. Il marshal batté il martelletto sul banco, e tutti i presenti si disposero all'ascolto. «L'onorevole presidente e i giudici della Corte suprema degli Stati Uniti!», annunciò il marshal. Dopo alcuni secondi, i nove giudici comparvero da dietro le tende di velluto rosso scuro e si accomodarono ai loro posti. «Che spettacolo!», bisbigliò Ober. Quando i giudici ebbero preso posto, il marshal riprese: «Udite! Udite! Udite! Chiunque abbia in corso procedimenti davanti all'onorevole Corte suprema degli Stati Uniti è invitato ad avvicinarsi e a prestare attenzione. La Corte è riunita. Dio salvi gli Stati Uniti e l'onorevole Corte suprema!». Di nuovo, calò il martelletto sul banco, e il pubblico prese posto. Dietro il banco, in posizione centrale, il giudice anziano Osterman disse:
«Per quest'oggi la lista delle sentenze è insolitamente lunga. Annunceremo le decisioni prese in merito ai seguenti casi: Doniger v. Lubetsky; Anderson v. governo degli Stati Uniti; stato del Maryland v. Schopf; Galani v. Zimmerman; Grinnell & Associates v. comune di New York. Le prime tre sentenze saranno lette dal giudice Blake; le altre saranno annunciate dal giudice Veidt». «Rilassati pure», sussurrò Ben. «Blake se la prenderà comoda». «Grazie, signor presidente», esordì Blake con il suo caratteristico accento del Sud. Con esasperante lentezza, lesse dal foglio la comunicazione ufficiale delle decisioni della Corte. «Con quale criterio scelgono chi dovrà parlare?», domandò Ober. «Dipende», rispose Ben, con un filo di voce. «Le motivazioni delle prime tre sentenze sono state redatte da Blake, mentre Veidt è stato scelto perché ha avuto un ruolo fondamentale nelle ultime due». Quando Blake ebbe finito, Osterman disse: «Grazie, giudice Blake. Giudice Veidt...». Veidt si avvicinò il microfono alla bocca e pronunciò la prima delle due decisioni a lui assegnate. Questi, un ometto smilzo dai capelli esageratamente tinti di nero, era noto tra gli studenti di legge per i suoi scritti sul realismo giuridico americano, assolutamente ignorati, invece, dai mass media nazional-popolari. Nonostante Ben lo considerasse uno dei migliori tra i giudici in carica alla Corte suprema, non riusciva a provare altro che odio per lui. «Come ti senti?», domandò Lisa, notando il pallore del viso di Ben. «Sto bene», rispose lui, in un sussurro. Mentre con una mano continuava a stringere il microfono, Veidt si schiarì la gola e pronunciò la seconda sentenza. «Nel caso che oppone la Grinnell & Associates al comune di New York, riconosciamo che il peso sopportato dai querelanti è notevole. D'altra parte, l'importanza della conservazione dei monumenti storici del nostro paese non può essere sottostimata. Il valore storico di quella proprietà, unito alle limitate aspettative dei querelanti al momento dell'acquisto della proprietà in questione, ci induce a concludere che la delibera del comune di New York relativa alla difesa del patrimonio storico non costituisce espropriazione. La Corte dà dunque ragione al querelato e capovolge la sentenza della Corte d'appello». Il marshal batté nuovamente il martelletto sul banco, per dichiarare tolta la seduta, e i turisti uscirono dall'aula. Ben si appoggiò allo schienale della sedia, mentre con un ampio sorriso di sollievo il suo viso riacquistava un
colorito normale. «Congratulazioni!», disse Lisa, abbracciandolo. «Non capisco», disse Ober, perplesso. «Avevo capito che Grinnell...». «Ober, non qui!», lo interruppe Ben, accennando con un gesto della mano agli altri assistenti presenti. Ben si alzò in piedi. «Usciamo». «Aspetta», riprese Ober. «Che cavolo sta succedendo?». «Taci e cammina», disse Lisa, spingendolo da dietro. I tre si fecero largo tra la folla che si attardava nella Great Hall e raggiunsero la scala sul lato nord dell'edificio. Mentre procedevano diretti all'ufficio di Lisa e Ben, Ober si sforzò di dare un senso agli eventi degli ultimi cinque minuti. «Ehi, aspettate un secondo», disse, bloccandosi sui gradini. Senza fermarsi, Ben lo invitò ad aver pazienza. «Ti spiegherò tutto tra un attimo». Quando furono in ufficio, Ober aspettò che la porta fosse completamente chiusa. «Adesso ditemi che cavolo è successo». In quell'istante, il telefono di Ben si mise a squillare. «Lo sapevo», disse Ben, rivolto a Lisa. «Te l'avevo detto che non sarebbero passati neanche dieci minuti». «Avevi ragione», disse Lisa, mentre Ober li guardava sbalordito. «Io credevo che prima avrebbe tentato di rivendere le azioni». Ben raggiunse la propria scrivania e afferrò la cornetta. «Pronto? Ufficio del giudice Hollis». «Ben, sei un uomo morto». «Ciao, Rick. Allora, come va la vita? Qui va tutto a meraviglia». «Continua pure a scherzare», disse Rick. «Ben, tu sei...». «Ehi, ascoltami bene, brutto pezzo di merda», lo interruppe Ben, alzandosi in piedi. «Sei stato tu a cominciare: sei tu che mi hai avvicinato, che mi hai mentito per carpire la mia buona fede e che mi hai inculato alla prima occasione. Se credevi che non avrei tentato di renderti la pariglia, allora non hai capito un cazzo di me. Pensavi di essere troppo furbo, per preoccuparti di questi imbecilli da Ivy League, vero? Be', hai fatto male i tuoi conti, amico: sei stato fregato! Eppoi, io non sono uno stupido figlio di papà! Non ho sempre avuto la pappa pronta! E le mie scarpe grosse hanno appena lasciato il segno sul tuo culo da studente di quart'ordine! In futuro, impara a scegliertele meglio, le tue vittime. E ora scusami: devo andare a festeggiare con i miei veri amici. Goditi le tue azioni di merda e roditi pure il fegato: ti abbiamo fregato!». Ben sbatté giù la cornetta, prese
fiato e guardò i due amici. «Wow!», fece Lisa. «Perché non dici sempre quello che pensi? Un po' di catarsi ti farà bene». «Rick era - come dire - preoccupato, ma anche pensieroso», disse Ben, ancora un po' in debito d'ossigeno. «Comunque, vi saluta caramente». «Insomma, vuoi spiegarmi cosa sta succedendo?», supplicò Ober, scuotendo Ben per le spalle. «Mi avevi fatto credere che la Grinnell & Associates avrebbe vinto». Ben si rimise a sedere. «Infatti, doveva vincere». «Tu sapevi che la decisione sarebbe stata diversa?». «Certo che lo sapevo», disse Ben. «La motivazione l'abbiamo scritta io e Lisa». «Ma io credevo che voi aveste scritto la motivazione di minoranza», disse Ober, grattandosi la testa. «Non capisco». «È questo il punto», spiegò Ben. «Quando i giudici hanno votato la prima volta, la situazione era di quattro voti contro quattro. Il giudice Veidt era indeciso. Poi, Osterman lo ha convinto dicendogli che se avesse votato a favore della Grinnell, la relazione scritta non avrebbe comportato praticamente alcuna limitazione nei confronti di eventuali futuri interventi legislativi in materia. A quel punto Veidt si è schierato con Osterman, che poteva così contare sulla maggioranza dei voti. Hollis, invece, era in minoranza; quindi, io e Lisa abbiamo cominciato a scrivere la motivazione di minoranza». «A quel punto la Grinnell era virtualmente vincitrice», disse Ober, appoggiato su un angolo della scrivania di Ben. «Esatto», confermò Ben. «Solo che quando le motivazioni sono pronte, vengono fatte girare tra i giudici, perché sappiano di preciso che cosa stanno votando». «E allora Veidt ha cambiato partito, vero?», dedusse Ober. «Esatto», rispose Ben. «Oh, mio Dio, sembra che capisca», disse Lisa, battendo sulla schiena di Ober. Ben non poté reprimere un sorriso. «Quando Veidt ha letto la relazione di Osterman, si è reso conto che quella decisione avrebbe avuto una portata ben maggiore di quanto avesse immaginato al momento di sottoscriverla. La relazione di Osterman si era rivelata una rabbiosa condanna delle ingerenze delle istituzioni. Così, Veidt gli ha detto che quella relazione, così com'era, non l'avrebbe votata. Quando si è reso conto che non sarebbe sta-
to possibile limitare la portata di quella decisione, ha scelto di passare dalla nostra parte, e la nostra motivazione di minoranza è diventata di maggioranza». «Succede spesso», disse Lisa. «In fase di discussione i giudici manifestano un parere, ma quando le motivazioni vengono formulate nero su bianco, possono cambiare idea e votare diversamente da come si pensava in un primo tempo». «Aspetta un attimo. E Rick, in tutto questo...?». Ben allungò le gambe, appoggiando i piedi sulla scrivania. «Potremmo dire che ha speso un sacco di soldi per un bidone azionario». «Quella proprietà è davvero priva di valore?». «No, ma la ragione per cui Rick ha pagato tanti soldi per quelle azioni risiedeva nella possibilità, per i proprietari, di costruire sul posto un centro commerciale che avrebbe garantito profitti stratosferici», spiegò Ben. «E, come avrai capito dalla mia ultima conversazione con mister Sacco-dimerda, quella possibilità è ormai definitivamente tramontata». «C'è un'altra cosa che non capisco», disse Ober. «Come ha fatto Rick a ricevere la decisione fasulla?». «Gliel'ha passata Eric. L'ha presa dalla mia borsa». «Eric?». «In carne e ossa», disse Lisa. «Non ci credo», disse Ober, risistemando la cancelleria nel portapenne. «Sapevi che la relazione sarebbe stata rubata e così hai messo in borsa la relazione sbagliata?». «Esatto», disse Ben, proprio mentre qualcuno bussava alla porta. «Ho utilizzato la vecchia relazione di minoranza». «Avanti!», gridò Lisa. La porta dell'ufficio si aprì, e sulla soglia comparve Nancy. «C'è qui una persona che dice di avere appuntamento con te», spiegò. Facendosi da parte, lasciò entrare Eric. Ben si alzò dalla sedia. «Sì, è vero», confermò Ben. «Grazie per averlo accompagnato qui». Quando Nancy se ne fu andata, Eric guardò in faccia Ben. «Ho appena saputo che la Grinnell ha perso la causa». «Ti rendi conto?», domandò Ben correndo incontro all'amico. «Congratulazioni!», disse Eric, abbracciandolo. «Anche a te», rispose Ben. «Senza il tuo aiuto non avremmo potuto far niente».
Eric abbracciò anche Lisa. «Grazie». «Hai avuto problemi per entrare?», gli domandò Ben. «No», rispose Eric. «Mi sono spacciato per Nathan, come mi avevi consigliato tu». «Aspetta un attimo», disse Ober, lanciando occhiate a destra e a manca. «Che diavolo sta succedendo qui? Ieri vi odiavate e adesso tubale come piccioncini?». «Siediti, Sherlock Holmes», disse Ben, indicandogli il divano. «Adesso viene il bello». Rivolgendosi a Eric, Ober domandò: «Allora, tu...». «Ascolta», lo interruppe Ben, sedendosi sul bordo della scrivania di Lisa. «Ti ricordi che io e Rick dovevamo incontrarci? Dovevo passargli l'informazione sul caso Grinnell. A quanto pare, Rick temeva - a ragione - che io potessi tendergli una trappola, cosicché si è messo in cerca di un'altra fonte da cui ottenere l'indiscrezione». «E siccome sapeva che io e Ben eravamo ai ferri corti, ha avvicinato me», disse Eric, sedendosi accanto a Ober. «Credo abbia pensato che se avevo scritto quell'articolo sulla CMI per ottenere una promozione, avrei di certo rubato dei documenti per un milione e mezzo di dollari». «Ti ha offerto un milione e mezzo di dollari?», domandò Ober. «Peccato che non sia venuto da me». «Spiritoso», disse Eric. «Comunque, qualche giorno prima delle feste del Ringraziamento, ero seduto alla mia scrivania e mi è arrivata una telefonata di Rick, che diceva di volermi parlare del nostro comune amico, cioè di Ben, e di andare a trovarlo al suo hotel. Quando sono arrivato sul posto, lui mi ha offerto un milione e mezzo di dollari per tenere d'occhio Ben e per sottrargli in qualche modo la decisione sul caso Grinnell». «Vuoi scherzare?», domandò Ober. «E tu che cosa gli hai risposto?». «Non capisco come tu sia riuscito a non mandarlo a fare in culo subito», disse Lisa. «Nessuna meraviglia», disse Ben. «Eric è troppo opportunista». Rivolgendosi a Ober, Ben aggiunse: «Quella sera Eric mi ha infilato un bigliettino sotto la porta di camera mia, in cui mi spiegava tutta la storia. Diceva che era dispiaciuto per quello che era successo tra noi e che voleva fare la pace. Avevamo così paura che la casa e il telefono fossero sotto controllo, che abbiamo cominciato a comunicare tramite bigliettini, per non compromettere il nostro piano». «Ecco cosa cercavo quando mi hai visto frugare nel cestino dei rifiuti in
camera di Ben», disse Eric a Ober. «Dunque, tu sapevi sin dall'inizio che stavi passando a Rick la decisione sbagliata, vero?», domandò Ober. «Già», confermò Eric. «E Rick si è fidato di te perché credeva che odiassi Ben?». «Esatto». «E voi eravate d'accordo?». «Sì». «E praticamente avete fregato Rick inducendolo a puntare sulla decisione fasulla?» «Indovinato». «MA QUESTO È IL PIANO PIÙ GRANDIOSO DI TUTTI I TEMPI», gridò Ober, alzando le braccia al cielo. «Siete dei geni!». «Facciamo il possibile», disse Lisa. Ober si alzò di scatto dal divano. «Dobbiamo festeggiare! È la storia migliore che abbia sentito in vita mia». «Allora, non sei arrabbiato per il fatto che ti abbiamo tenuto all'oscuro?», domandò Eric, pur conoscendo la risposta. «Ah, è vero», disse Ober, calmandosi. «Perché non me l'avete detto?». «Non volevamo metterti in pericolo», rispose Ben. «Non ci credo», disse Ober. «Non te l'hanno detto perché sei una testa di legno buona a nulla e avresti rischiato di mandare a monte l'intero piano», disse Lisa. «Ma dài!», ribatté Ober. «Sono un attore bravissimo». «Ne sono sicuro», disse Ben. «Ma la posta in gioco era troppo alta per rischiare. Nell'ultimo mese io e Eric abbiamo dovuto fingere di guardarci in cagnesco. Non potevamo correre il rischio di coinvolgere tutti». «Nathan lo sapeva?», domandò Ober. «No», disse Ben, lanciando un'occhiata a Lisa. «Puoi dirglielo, se vuoi», disse Lisa. Rivolgendosi a Ober, spiegò: «Questa parte è stata una mia idea. Sono io che gli ho consigliato di non fidarsi di Nathan. Ecco fatto. Sei contento, adesso?». Ben si voltò verso Ober. «Credimi, morivo dalla voglia di parlargliene. Ma alla fine ho pensato che meno gente lo sapeva, meglio era. Quando poi ho saputo di quella storia del microfono da borsa, mi sono deciso. Eravamo convinti che Rick avesse preso contatto anche con Nathan». «Allora lo sospettavate veramente», disse Ober. «Certo», disse Ben, sedendosi sulla scrivania di Lisa. «Tanto più che
Rick sapeva del mio piano degli annuari, nonostante Eric mi avesse detto di non avergliene mai fatto parola. Ero terrorizzato. Credevo che Rick stesse cercando di ottenere la relazione da Eric, facendomi contemporaneamente sorvegliare da Nathan». «Ma Rick non avrebbe potuto chiedere tutto a Eric?», domandò Ober, sedendosi sulla sedia di Ben. «Perché pagare due persone?». «Perché ormai io non parlavo più con Eric», spiegò Ben. «E Nathan era la persona con cui trascorrevo la maggior parte del mio tempo». «Ancora non abbiamo la certezza che Nathan sia innocente», sottolineò Lisa. «Ahi, ahi», disse Ober a Ben. «Il fatto che tu non gli abbia detto niente lo farà incazzare. Se a questo aggiungi la scenata che gli hai fatto la settimana scorsa, non credo che ti perdonerà mai». Ben infilò le mani nelle tasche. «Grazie per avermelo ricordato». «Non ti preoccupare», disse Eric, facendo cenno di lasciar correre, «Con Nathan risolverai la questione in un altro momento. Adesso dobbiamo solo festeggiare. Abbiamo ottenuto una vittoria strepitosa». «Vi dirò», fece Ober, aprendo i cassetti della scrivania di Ben. «Mi piacerebbe venire a lavorare qui. Questa è la giornata più elettrizzante della mia vita. Dov'è che posso presentare domanda?». «Credo che i lucidatori di ottoni abbiano un loro sindacato», disse Lisa. «Secondo me, dovresti rivolgerti a loro». Ignorando la frecciata, Ober domandò a Eric: «Be', di' un po', che cosa si prova a fare l'infiltrato? Si rischia la vita continuamente, con il pericolo in agguato dietro ogni angolo, eppure bisogna andare avanti perché si sa che... Ehi, aspetta un attimo». Si interruppe. Quindi, disse: «Che fine hanno fatto i soldi che ti ha dato Rick?». «Sono in una banca svizzera», spiegò Eric. «Avrebbero dovuto risultare disponibili subito dopo l'annuncio della decisione, ma ho chiamato dopo un minuto e non erano ancora accreditati. Mi sa che quei soldi non li vedremo mai». «Vi rendete conto di che cosa avremmo potuto fare con un milione e mezzo di dollari?», strillò Ober. «Avremmo potuto comprare una piccola nazione. Avremmo potuto rilevare Guam, ad esempio, e costruirvi il più grande panino del mondo come monumento al dio dei tramezzini». «Cristo», disse Eric, in tono sarcastico. «Al panino-monumento non ci avevo pensato. Proverò a recuperare quei soldi, se servono a questo». Si voltò verso Ben e aggiunse: «Comunque, mi sorprende che Rick non si sia
ancora fatto sentire. Ero sicuro che...». «Ha già telefonato», disse Ben. «Davvero? Quando?». «Eravamo rientrati in ufficio da meno di un minuto», disse Ben. «Era stordito, confuso». «Avresti dovuto esserci!», disse Ober. «Ben l'ha fatto a pezzi! Mi sarebbe piaciuto avere un videotelefono per vedere la sua faccia». «Non so se hai fatto bene a umiliarlo in quel modo», disse Lisa, sedendosi al proprio tavolo. «A essere sincero», ribatté lui, «in questo momento non me ne frega un cazzo. Sono troppo felice di essermi ripreso la vita». «Come vuoi», concesse Lisa. «Ma ti consiglio di guardarti le spalle. Non credo che con questo te lo sia tolto di torno». Eric consultò il proprio orologio. «Mi piacerebbe sapere che cosa gli hai detto esattamente, ma devo proprio tornare al lavoro. Ne parliamo più tardi, d'accordo?». «Certo», rispose Ben, sorridendo. «Ma non credere che io ti perdoni per l'articolo che hai scritto, solo perché mi hai salvato il culo, eh?». «Sì, sì, lo so, non me lo perdonerai mai», disse Eric, avviandosi alla porta. «Mi sembra di averla già sentita, questa solfa». «Aspetta», disse Ober a Eric. «Sei qui in macchina?». «Sì, perché?». «Perché devi accompagnarmi al lavoro», disse Ober, afferrando la propria giacca e seguendolo. «Comunque, Ben, ti ringrazio per avermi invitato qui oggi. Non è stato così entusiasmante come mi avevi detto, ma non fa niente». «Ciao, ragazzi, ci vediamo dopo», disse Ben. Quando la porta si richiuse alle spalle di Eric e Ober, Lisa alzò gli occhi sul suo collega. «Allora, come ti senti? Al settimo cielo, vero?». «Mi sento incredibilmente bene», disse Ben, battendo una manata sul tavolo. «Avresti dovuto sentire Rick al telefono. Era incazzato nero». «Io continuo a credere che non avresti dovuto...». «Lisa, non ho voglia di parlarne. Voglio godermi questo momento. Mi sento potente, superiore». «Devo ammettere che le sparate da superbo ti si addicono. Non ti si vedeva così felice dalla volta che mi sono lasciata rimorchiare». «Strano», disse Ben. «Perché io ricordo che sei stata tu a rimorchiare me. O forse mi hai supplicato?».
«Certo, dimenticavo che sei laureato in revisionismo storico. Avrei dovuto immaginarlo». «Fidati, le cose stanno come dico io», insistette Ben, avvicinandosi al divano. «Tu mi hai supplicato. Anzi, mi ricordo persino che hai detto, testuali parole: "Era dalla prima volta che ti ho incontrato che non vedevo l'ora di saltarti addosso". Ti risulta?». «Ma fammi il piacere», disse Lisa. «L'ho fatto solo per tirarti su il morale. Ho mentito, e tu lo sai bene». «Ah davvero?», domandò Ben. «Visto che avevi così poca voglia di venire a letto con me, come mai, proprio tu, quella sera non indossavi biancheria intima?». Lisa arrossì violentemente. «Te l'ho detto, mi ero dimenticata di portarmi il cambio. Il secondo giorno ero già senza. Non esiste altro motivo». «Sì, certo», insistette Ben, divertito. «E se fossi un coglione integrale, ci crederei anche». «Per fortuna, sei coglione solo in parte». «Ah, a proposito... Che altro hai detto quella sera?», domandò Ben. «Che se avessi voluto rifarlo tu saresti stata pronta. Ricordi?». Ben si stiracchiò sul divano e aggiunse: «Ebbene, io sono pronto». Lisa si avvicinò al divano. «Dici sul serio?». «Assolutamente». «Hai addosso le tue mutande fortunate?». «Ovvio. Sapevo che oggi sarebbe stata una grande giornata». Quando Lisa si sedette sul divano, Ben le disse: «So che ne hai voglia anche tu... Te lo si legge in faccia». «Davvero?», domandò lei, col viso sempre più vicino a quello di Ben. «Certo. Eppoi, comunque, non hai sentito cosa ho detto? Io sono pronto». «Tu stai sognando, ecco cosa», disse Lisa, scoppiando a ridere e allontanandosi bruscamente. «Siccome oggi hai avuto la tua piccola vittoria da macho, credi di avere il diritto di dar libero sfogo ai tuoi ormoni e di ordinarmi di venire a letto con te?». «Esattamente», disse Ben. «Be', allora devi essere sotto l'effetto di qualche potentissimo allucinogeno», disse Lisa, tornando alla propria scrivania. «Può anche esserti riuscito un miracolo, oggi, ma non per questo è detto che tu possa farne due». Rialzandosi a sedere e aggiustandosi la cravatta, Ben domandò: «Vuoi dire che non hai intenzione di scopare con me, qui, sul divano?».
«È incredibile», disse Ober, mentre con Eric usciva dall'ascensore che si affacciava sulla Great Hall. «Non posso credere che ce l'abbiate fatta». «Tutto merito di Ben», disse Eric. «Quando gli ho detto che Rick mi aveva contattato, ha ideato tutto il piano nel giro di poche ore». «Il ragazzo non è scemo», disse Ober. «Per quanto mi riguarda, ringrazio il cielo che non sia più arrabbiato con me. Quando è in vena di vendicarsi sa essere un vero bastardo». «Credi che Nathan lo perdonerà?». «Manco morto», disse Eric, mentre passavano davanti alla guardiola degli agenti situata in corrispondenza dell'entrata principale della Corte. «Sei sicuro che sia lui?», domandò Lungen, mentre Eric e Ober lasciavano il palazzo. «Scherzi?», disse Fisk. «Certo che è lui. Il mio amico dell'"Herald" me l'ha indicato, l'ultima volta che sono andato a trovarlo». «E non si è firmato Eric Stroman?», domandò Lungen all'agente di guardia alla porta principale. «No», disse questi, sfogliando le pagine del suo registro. Quando trovò il nome che cercava, lo indicò a Lungen e a Fisk. «Vedete? Ha dichiarato di chiamarsi Nathan». «Quello è il nome del terzo amico di Ben», disse Fisk. «È dall'inizio che sta cercando di gettarci fumo negli occhi. Te l'avevo detto che era un bugiardo». «Telefona al tuo amico dell'"Herald"», disse Lungen. «Se Eric e Ben hanno fatto la pace, voglio sapere perché». Tornando a casa dal lavoro, Ben temeva l'inevitabile confronto con Nathan. "Magari, tornerà a casa tardi", pensò Ben, procedendo a rilento sul vialetto d'accesso ghiacciato. Aprendo la porta, Ben si interrogava sul modo migliore di dare la notizia a Nathan. «Insomma, hai messo in piedi tutto il piano e gli unici di cui non ti sei fidato siamo io e Ober, vero?», domandò Nathan, prima ancora che Ben fosse riuscito a togliere la chiave dalla serratura. «A quanto pare, la buona novella ti è già arrivata», disse Ben. «Vorrei sapere una cosa», disse Nathan, fronteggiando Ben al centro del soggiorno. «Perché ti sei fidato di Lisa e non di me?». Ben lo aggirò e si diresse in cucina, sperando in tal modo di allentare la
tensione. «Non è andata esattamente così. Anzi, Lisa ha saputo del mio piano tre giorni fa, quando Rick ha investito i suoi soldi nella Grinnell. Quando ho visto che Rick ha scommesso sulla decisione sbagliata, ho avuto la certezza che Lisa fosse innocente. Se fosse stata d'accordo con Rick, lo avrebbe avvertito». «Non per questo, però, eri costretto a raccontarle tutto». «Sì, invece», disse Ben. «Se non l'avessi fatto, lei non avrebbe smesso un attimo di chiedermi come mai Rick avesse scommesso sulla decisione sbagliata. E io non volevo che si parlasse di questo ad alta voce». «Va bene, grazie», disse Nathan, avviandosi verso le scale. «Volevo sapere solo questo». «Aspetta», disse Ben, tornando in soggiorno. «Dove vai?». Nathan non rispose. Quando scomparve al piano di sopra, Ben guardò Ober. «Che cosa voleva che gli dicessi?». «Dài», disse Ober. «Sei grande, ormai. Sai bene quello che hai fatto. Credevi che ti gettasse le braccia al collo, come se nulla fosse successo?». «No, certo, ma è proprio necessario fare il muso?». «Gli passerà presto», disse Ober. «Non ti preoccupare. Sono sicuro che capirà. Cioè, è pur sempre tuo amico». «Sì, ma è un comportamento immaturo...». «Guardala da questo punto di vista», disse Ober. «Perlomeno, non ti chiederà di andartene di casa entro la fine dell'anno, mettendosi a cercare un nuovo inquilino». «Ah, ah, molto spiritoso», disse Ben, sarcastico. «Spero solo che gli passi prima dell'anno nuovo». «Perché? Avrai un po' di tempo libero?». «Be', abbiamo sempre un mucchio di richieste di revisione di processi da sbrigare, ma per le prossime settimane i giudici non si faranno vedere. Praticamente, restiamo chiusi fino alla seconda settimana di gennaio». «Però devi andare lo stesso al lavoro, vero?». «Ovvio. La giustizia non dorme mai. Non fa neppure un pisolino. E se per caso le si appesantisce la palpebra, puoi star tranquillo che quando suona la sveglia non si gira mai dall'altra parte...». «Ho afferrato il concetto», disse Ober, alzandosi dalla sedia. «Dimmi solo quando pensi di essere libero, così penso un po' a cosa organizzare». «Starò a casa solo a Natale e a Capodanno». «Be', allora faremo qualcosa qui in zona», disse Ober, andando in cucina
a preparare la cena. «Non mi importa dove andremo a festeggiare», sentenziò Ben, seguendo Ober in cucina. «Spero soltanto che l'anno nuovo sia meno stressante di questo». Ober sfregò un fiammifero, aprì il gas e accese il fornello. «Non ci contare». 16 Tre settimane dopo, alle sette e mezza di mattina, Ben era seduto alla scrivania nel proprio ufficio, immerso nella lettura del giornale. Era assolutamente casual, in jeans e vecchio maglione a girocollo, perché l'assenza dei giudici consentiva a tutti di presentarsi al lavoro vestiti come volevano. Giunto alla pagina dei commenti, si chinò in avanti e lesse con estrema attenzione le opinioni dei principali editorialisti di Washington. Quando Lisa entrò in ufficio, Ben alzò gli occhi. «Felice anno nuovo», disse lei. Aveva passato Natale e Capodanno in California, con la famiglia. Benché indossasse un maglione nerissimo e dei jeans scoloriti, la prima cosa che Ben notò della sua collega fu l'intensa abbronzatura. «Hai un aspetto stupendo», disse Ben, baciandola sulla guancia. «Grazie», disse Lisa. «Tu invece hai un'aria patita». Aprì la borsa e ne estrasse una pila di fogli alta venti centimetri, che posò sulla propria scrivania. «Hai sbrigato tutto quel lavoro?», domandò Ben, sbalordito. «Che cosa ci posso fare se sono brava?». Quando cominciò a sistemare le pratiche, vide che su un angolo della scrivania c'era un messaggio per lei. «Di che si tratta?». «Pranzi tra assistenti», spiegò Ben, mentre Lisa leggeva il messaggio. «Siccome siamo a metà del nostro periodo di lavoro qui alla Corte, stanno organizzando dei pranzi a tu per tu con i giudici, in modo da consentirci di conoscerli meglio». «Che idea carina», disse Lisa. «Dovrebbe essere interessante», disse Ben. «Con i giudici, a parte Hollis, credo di non aver mai scambiato neppure due parole». «Insomma, andremo a mettere le gambe sotto il tavolo a spese della Corte? Bella roba». Appoggiandosi allo schienale della sedia, Lisa guardò Ben. «A proposito di bella roba, non riesco a smettere di pensare a tutta la
storia del caso Grinnell». «Che ti devo dire? È stato un piano grandioso». «No, invece», disse Lisa, freddamente. «È stato un piano davvero stupido. Più ci penso, più mi rendo conto che è stata la cosa più stupida che tu potessi fare». Sorpreso dal cambiamento di tono della voce di Lisa, Ben si raddrizzò sulla sedia. «Che ti prende?». «Nulla», disse Lisa, sfogliando tra le sue carte. «Penso soltanto che il tuo piano, in realtà, sia stato una stupidaggine». «E perché mai?», domandò Ben, seccato. «Perché così hai semplicemente fatto incazzare Rick. In fondo, con il tuo piano non hai ottenuto nient'altro». «Oh, sì, invece». «Ah, davvero?», lo sfidò Lisa. «E che altro avresti ottenuto?». «Mi sono sbarazzato di Rick». Lisa smise di trafficare con i suoi fogli. «Di' un po'», fece Lisa. «Quando hai ideato il piano qual era il tuo obiettivo?». «In che senso?». «Il tuo obiettivo», ripeté Lisa. «Che cosa speravi di ottenere?». «Non avevo uno scopo particolare», spiegò Ben. «Rick ha avvicinato Eric, e Eric mi ha avvertito. A quel punto ho architettato il piano in modo che Rick non la facesse franca». «Ma qual era la tua preoccupazione principale? Che cosa ti passava per la testa?». «Migliaia di cose», disse Ben. «Agitazione, paura, ansia, rabbia, desiderio di vendetta...». «Ecco», lo interruppe Lisa, puntandogli contro l'indice. «Il desiderio di vendetta». «Be'? Qual è il problema? Quando ho scoperto che Rick mi aveva buggerato, mi sono incazzato». «E ne avevi tutto il diritto», disse Lisa. «Ma da quando ha avuto inizio questa storia, tu sei stato a tal punto ossessionato dal tuo desiderio di vendetta, da dimenticare il tuo obiettivo più importante, che era quello di toglierti davvero da questo casino». «Non è affatto vero», disse Ben. «Questo pensiero è sempre stato in cima alle mie priorità». «Allora perché non hai cercato di far arrestare Rick? Se sapevi dove si sarebbe incontrato con Eric, perché non hai fatto circondare il posto dalla
polizia?». «Non sapevamo dove si sarebbero incontrati», spiegò Ben. «Rick telefonava sempre pochi minuti prima dell'incontro. Dava appuntamento a Eric nella hall di un hotel, dove lo raggiungeva telefonicamente per dirottarlo verso un altro hotel. Era impossibile rintracciarlo. Eppoi, se anche avessi voluto, alla polizia non avrei comunque potuto andare: mi avrebbero arrestato immediatamente». «Vedi? È questo il punto debole del tuo ragionamento. Tu potresti andare alla polizia, ma il fatto è che non vuoi». «Puoi scommetterci che non voglio. Senza offesa, il mio lavoro mi piace». «Lascia perdere il lavoro. La tua vita è più importante». «Lisa, non capisco perché tu sia così preoccupata. Le ultime tre settimane sono trascorse nella più assoluta tranquillità. Non ho problemi. Sulla mia testa non pende più alcuna minaccia. Rick è sparito...». «Rick non è sparito!», disse Lisa, alzando la voce. «Te lo vuoi ficcare in testa? Può darsi che Rick sia incazzato, che sia rovinato economicamente, che sia depresso, ma puoi star certo che non è sparito. E se tu mi avessi mandato all'aria un affare da qualche milione di dollari, puoi scommettere il culo che cercherei immediatamente di ordire la più tremenda vendetta». «Perché ti accalori tanto?». «Voglio solo che tu capisca quello che sta succedendo», disse Lisa. «Tu non sei al sicuro». «Che cosa vuoi che faccia, allora? Che corra da Hollis per chiedergli aiuto?». «Non so se Hollis sia la persona più indicata, ma credo che l'idea sia buona. Altrimenti non ti toglierai mai da questo guaio. Cioè, Rick ha già tagliato le gomme dell'auto di tuo padre... Hai davvero intenzione di stare ad aspettare la sua prossima mossa?». Ben non rispose e prese in mano la calcolatrice che era posata sulla sua scrivania. Cominciò a pigiare nervosamente dei tasti. «Sai che ho ragione», riprese Lisa. «In tutto questo disastro, tu non hai mai pensato realmente a toglierti dai guai... Sei sempre e solo stato ossessionato dal fatto che Rick ti avesse fregato». «Non è vero», disse Ben, continuando a tormentare i tasti della calcolatrice. «È vero, invece», insistette Lisa, togliendogli la calcolatrice dalle mani e gettandola nel cestino dei rifiuti. «Tu non sopporti che Rick ti abbia battu-
to. E sei ossessionato dal desiderio di vendetta. Ma, credimi, vendicarsi è facile. Fregare Rick non è niente. Più difficile sarà incastrarlo. E a questo scopo, dovrai fare dei sacrifici. Per una volta nella vita dovrai ammettere di non potercela fare da solo». «Forse da solo, no; ma noi due...». «No, neanche noi due», disse Lisa. «Non possiamo far nulla. Senza offesa, ma tu, io e tutti i tuoi amici, nonostante l'aiuto di quei giocattolini da spie, non abbiamo alcuna possibilità di indovinare la prossima mossa di Rick. Per quanto furbi, non siamo certo dei maghi. E finché non lo ammetterai, ti sarà impossibile cavarti d'impaccio». Ben non fiatò, tenendo gli occhi fissi sulla scrivania. «Pensi che dovrei costituirmi?». «Sì», rispose Lisa. «In settimana ho pensato a tutte le possibili evoluzioni di questo scenario. Qualsiasi cosa succeda, in qualche modo la polizia lo scoprirà comunque. Questa è un'altra verità a cui devi rassegnarti». «A meno che non riusciamo a scoprire qualcosa sul conto di Rick...». «Non cambierebbe nulla. A Rick non importa se noi diciamo alla polizia che è lui la mente di tutta l'operazione. Tanto lui è introvabile. Al contrario di te. E finché Rick sarà in giro, questa minaccia continuerà a penderti sul capo». «E se fossimo noi stessi a bloccare Rick?». «Non farebbe differenza», rispose Lisa, spazientita. «Se anche lo catturassimo, prima o poi dovremmo comunque portarlo alla polizia. Non possiamo mica chiuderlo in una cantina per sempre. E puoi star sicuro che nel momento in cui glielo consegnamo, lui scaricherà tutte le colpe su di te». «Insomma, io resto fregato in qualsiasi caso». «Esatto», disse Lisa. «Però potresti andare subito alla polizia e prevenire in tal modo le mosse di Rick». «Magari, per il fatto che mi costituisco spontaneamente, saranno comprensivi con me». «Probabile», disse Lisa. «E se riusciamo anche a proporre un piano plausibile, ti lasceranno libero in modo da cogliere Rick in flagrante». Ben si soffermò a riflettere su quest'ultimo aspetto; quindi disse: «Se mi costituisco, il mio lavoro posso anche salutarlo». «Non è detto», obiettò Lisa. «Per quel che ne sappiamo, potrebbero anche darti una medaglia al valore». «Sai una cosa? Mi sono scocciato!», sbottò Ben, girando le spalle a Lisa. «Che ti prende? Che cosa ho detto».
«Niente», disse Ben, senza voltarsi. «Sei arrabbiato con me?». «No. Sono arrabbiato con me stesso. Avrei dovuto risolvere il problema già diverse settimane fa». «È facile dirlo ora. Diverse settimane fa la situazione era diversa». «Ah, certo», disse Ben, in tono sarcastico. Lisa tornò alla propria scrivania. «Allora, che cos'hai intenzione di fare?». «Non lo so ancora», disse Ben. «Ci devo pensare». Quella sera, alle otto meno un quarto, Ben lasciò la Corte e andò alla Union Station. Prese la scala mobile e raggiunse il grande atrio poco illuminato, surriscaldato e tappezzato di cartelloni pubblicitari, dove si ritrovò circondato da giovani washingtoniani rampanti vestiti da uomini d'affari. Ben cominciò a contare i completi blu gessati, le borse di cuoio marroni, le scarpe con doppia ala traforata sulla tomaia. La maggioranza di quelli in possesso di tutti e tre gli attributi tendeva alla calvizie, e uno solo si era allentato il nodo della cravatta, all'uscita dal lavoro. Ben fu immediatamente assalito da una sensazione di claustrofobia e si diresse all'estremità più lontana del marciapiede. "Che cosa sto facendo della mia vita?", pensò, osservando i suoi omologhi. Quando il convoglio blu e bianco entrò sibilando in stazione, Ben vi salì e trovò un posto libero. Dopo due minuti di viaggio, il treno si fermò improvvisamente. «Ci scusiamo per l'inconveniente, ma siamo in attesa di poter accedere alla prossima stazione», annunciò una voce gracchiante attraverso gli altoparlanti. «Il convoglio ripartirà tra pochi minuti». Dalla folla si levò un corale boato di disapprovazione, e Ben tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Tutti i santi giorni è così», sospirò il passeggero seduto accanto a Ben. «Non potrebbero sincronizzare i treni, una buona volta? Non è da oggi che esiste l'ora di punta». «Eh, già», mormorò Ben, facendo un cenno di cortesia a quel giovane. Anche se era in giacca e cravatta, non dimostrava più di sedici anni. «Perché ogni sera dev'essere la solita storia?», domandò il ragazzo. «Perché non risolvono il problema?». «Non ne ho idea», rispose Ben. «E sono troppo stanco per pensarci». «Ah, guarda, non mi parlare di stanchezza», disse il ragazzo con un leggero accento del Massachusetts. «Fai una ventina di volte avanti e indietro tra gli uffici e il palazzo del Senato, e poi ne riparliamo».
«Sei un interno?». Il ragazzo spalancò orgogliosamente il cappotto per mostrare il tesserino di riconoscimento del Senato che gli pendeva dal collo. «Preferisco definirmi un inserviente. Se ti interessa sapere come bevono il caffè i senatori, conosco le preferenze di ognuno di loro a memoria». «Gli orinatoi del Popolo, eh?». «Così ci chiamano. Ma non durerà a lungo». «Perché?», domandò Ben, sorridendo. «Perché so fare il mio mestiere. Io risolvo problemi». Il ragazzo alzò un braccio a indicare il treno. «È questo il guaio degli addetti all'organizzazione degli orari dei treni. Non sanno risolvere problemi. Sono capaci soltanto di reazioni banali e poco incisive. Ecco perché ci ritroviamo fermi qui. Nessuno cerca di risolvere il problema in modo attivo». «E quale sarebbe la soluzione che proponi?». «Non è tanto una soluzione, quanto un approccio diverso dal solito. Secondo me, se vuoi affrontare un problema devi sviscerarlo fino in fondo. Ma in questa città non c'è nessuno che se ne prenda la briga. Girano tutti intorno ai problemi, con un atteggiamento puramente passivo». «E quale sarebbe il tuo grande piano?». «Non dico che sarebbe una rivoluzione nel campo dei trasporti su rotaia», rispose il ragazzo. «Sto parlando di un approccio diverso al problema». «Hai intenzione di iscriverti a legge?». «Come hai fatto a indovinare?», domandò il ragazzo. «Riesco a riconoscere un avvocato a un miglio di distanza. Hanno un odore inconfondibile». «Non scherzare se non sai di cosa parli», lo ammonì il ragazzo. «Essere avvocati, al giorno d'oggi, è l'unico modo per farsi prendere sul serio. Se non mi laureo in legge, nessuno ascolterà mai una sola parola di quello che dico, ma se divento avvocato, mi affideranno compiti di alta responsabilità». «Lo credi davvero?». «Lo so per certo», insistette il ragazzo, mentre il treno si rimetteva in moto. «Le buone idee ti possono portare fino a un certo punto: per avere un buon lavoro serve credibilità. Se al lavoro ti senti soffocare, faresti meglio a riflettere su quello che ti sto dicendo. La facoltà di legge è l'ideale. Ti apre orizzonti illimitati». «Grazie per il consiglio», disse Ben, mentre il treno blu e bianco entrava
nella stazione successiva. «Ci penserò». «Lo spero per te», disse il ragazzo. «Può cambiarti la vita». Quindi, alzandosi e avviandosi alla porta, aggiunse: «Be', io scendo qui. Buon proseguimento di serata». «Anche a te», rispose Ben, mentre il ragazzo scendeva. Dopo pochi secondi, le porte si richiusero e il treno ripartì. Quando Ben giunse a casa, Eric e Ober erano in cucina e stavano lavando i piatti. «Finalmente», disse Ober, quando lo sentì entrare. «Non dirglielo», suggerì Eric a Ober, mentre con uno strofinaccio asciugava l'esterno di una zuppiera. «Non farlo incazzare». «Vedrai», disse Ober, con le mani piene di schiuma. «Gli piacerà». Mentre Ben stava mettendo via il cappotto, Ober gli urlò: «Abbiamo pensato a un nuovo modo di organizzare il sistema giudiziario». «Stupendo», disse Ben, raggiungendoli in cucina. «Che cosa ti è successo?», domandò Eric, quando lo vide. «Hai un aspetto terribile». «Grazie», disse Ben. «Tutto bene al lavoro?», domandò Eric. «A meraviglia», disse Ben, togliendo gli avanzi di spezzatino cinese dal frigorifero. «Sempre meglio, di giorno in giorno». «Rick si è fatto sentire?». «Non ancora», disse Ben, pescando una forchetta nel cassetto delle posate. «Affanculo Rick. È sparito», disse Ober, risciacquando una tazza di plastica. «Senti qua l'idea che ci è venuta: per rendere più efficiente il sistema giudiziario non sarebbe utile che tutte le questioni - cause, processi, ricorsi - venissero decise a braccio di ferro?». «Prova a pensarci», disse Eric. «Non liquidarla a priori». «Tanto per cominciare», disse Ober, «gli studi legali sarebbero popolati di enormi lottatori: verrebbero reclutati in tutte le migliori palestre». «Sarebbe il definitivo ritorno al darwinismo», aggiunse Eric. «Il più adatto sopravvive! Giustizia istantanea!». «Obiezione, vostro onore. Uno, due, tre... la seduta è tolta», disse Ober, mimando una sconfitta a braccio di ferro contro un avversario immaginario. «Allora?», domandò Eric a Ben, che si era seduto al tavolo. «Che cosa ne pensi? È un'idea notevole, eh?».
Ben scrutò il fondo del pacchetto di cartone che conteneva lo spezzatino. «Credete che dovrei costituirmi?», domandò. «Cosa?», fece Eric. «Hai capito benissimo», disse Ben. «Credete che dovrei costituirmi?». «E perché dovresti?», domandò Eric. «Per togliermi da questo guaio», spiegò Ben. «Così non ti toglieresti dai guai», replicò Eric. «Ci sprofonderesti. Non appena aprirai bocca ti licenzieranno». «E allora?», domandò Ben. «Il mio lavoro vale tutte queste preoccupazioni?». Eric gettò lo strofinaccio sul banco della cucina e si avvicinò a Ben. «Ti senti bene?», domandò. «Hai il miglior posto di lavoro del pianeta, in campo giuridico. Perché metterlo a repentaglio?». «Tu che cosa ne pensi?», domandò Ben a Ober. «Se parli sul serio, io sono d'accordo con Eric. Perché rischiare adesso? Rick è battuto. È sparito. Non c'è nulla di cui preoccuparsi». «E se ricompare?», domandò Ben. «Che cosa faccio?». «Non ne ho idea», disse Ober. «Ma se proprio vuoi rovinarti la vita, aspetta almeno che Rick si rifaccia vivo. Altrimenti, getteresti via tutto senza alcuna ragione». «Può darsi», disse Ben, infilzando dei brandelli di spezzatino. «Ma non ne sono così sicuro». Quella sera, a letto, Ben stava cercando in tutti i modi di addormentarsi. Aveva i piedi bollenti e sudati e non riusciva a trovare la posizione giusta. Disteso supino, pensava a grandi prati verdi. Girandosi su un fianco, immaginava l'accavallarsi di onde oceaniche color zaffiro. Adagiandosi sulla pancia, fantasticava di essere a letto con una rossa dalle gambe lunghissime. Ma dopo un po', immancabilmente, al posto dei prati sorgeva il palazzo della Corte suprema; le onde cominciavano a infrangersi troppo rumorosamente; la ragazza dai capelli rossi assumeva le fattezze di Rick. Essendosi i suoi occhi ormai abituati alla semioscurità, Ben si alzò dal letto e senza accendere la luce andò a sedersi alla scrivania. Su uno scaffale della libreria vide la buffa bilancia della giustizia che gli aveva regalato sua madre per il primo giorno di lavoro alla Corte suprema. Prese la bilancia dallo scaffale e non poté trattenere un sorriso. Con le dita ne fece oscillare i piatti, muovendo ora l'uno ora l'altro, nella speranza che quel movimento altalenante potesse cullarlo. Cinque minuti dopo era ancora perfettamente sveglio. Aprì il cassetto superiore della
scrivania alla ricerca di qualcosa di più interessante con cui intrattenersi. Tirò fuori le gomme, le graffette, gli evidenziatori e altri oggetti di cancelleria. Posò un levapunti sul piatto sinistro della bilancia e osservò la giustizia pendere da quel lato. Vi posò anche una graffetta e disse: «Su questo piatto ci sono tutte le cose buone del mondo». Aggiungendo un evidenziatore, disse: «Tutto ciò che è brillante». Con un ghigno, aggiunse anche una boccetta di correttore liquido e spiegò: «Questa è la mia onestà». A poco a poco vi unì matite, altre graffette, un rotolino di scotch e una gomma: l'intelligenza, l'integrità, la felicità e il futuro di Ben. Quindi, prese il proprio portafogli che era posato su un angolo della scrivania e lo tenne sospeso al di sopra del piatto destro della bilancia, ancora vuoto. «E questa è la Corte suprema», disse, lasciando cadere il portafogli che colpì il piatto destro della bilancia e fece volare tutti gli oggetti adagiati sul piatto sinistro. La mattina successiva, sul presto, Ben e Lisa erano in ufficio. «Sei sicuro?», domandò Lisa, sinceramente sorpresa. «Non del tutto», rispose Ben. «Ma al novanta per cento, sì. Dimmi soltanto come credi che dovrei agire». «Dipende da chi tu consideri degno di fiducia», disse Lisa, tra un sorso di caffè e l'altro. «Potresti andare da Hollis». «Ci stavo pensando anch'io», disse Ben, sperando che la tazza di tè che stava bevendo gli calmasse i nervi. «Ma non credo che sia la persona giusta a cui rivolgersi. Parlando con la polizia potrebbe intercedere per me, ma di certo non potrà aiutarmi a beccare Rick». «Sono d'accordo. Hollis sarà anche un bravissimo giudice, ma escludo che ti consenta di sfruttare la tua posizione alla Corte suprema per incastrare Rick». Ben arrotolò attorno a una matita il filo della bustina del tè, che fu accuratamente strizzata. «Allora, chi rimane?». «Da Lungen e Fisk io eviterei di andare. Non muoverebbero un dito per aiutarti». «È fuori discussione. Mi arresterebbero appena apro bocca». «Che ne diresti di scavalcarli?», suggerì Lisa. «Vai a parlare con il direttore del Marshals Service degli Stati Uniti». «Pensavo proprio a questo, stanotte», disse Ben, bevendo il suo primo sorso di tè. «Ho bisogno di una persona dotata di un certo potere e a cui non interessi una promozione, che si preoccupi di incastrare Rick, più che
di arrestarmi». «Allora, il direttore dei marshals fa al caso tuo». «Bene, il dado è tratto», disse Ben. Lisa si appoggiò allo schienale della sedia. «Non posso credere che tu vada a costituirti!». «Ma cosa dici?», domandò Ben. «Sei stata tu a suggerirlo». «Lo so. Però non posso credere che tu lo faccia veramente. Chi ti ha convinto?». «Il futuro assessore ai trasporti pubblici di Washington D.C.». «Cosa?», domandò Lisa. «Nulla, lascia perdere», disse Ben. «Dopo averci riflettuto su un po', ho capito che quello che dicevi ieri era giusto. Negli ultimi mesi non ho mai avuto il controllo della situazione». «Quando ci andrai?». «Durante la pausa pranzo. Devo solo scoprire come si chiama il responsabile dei marshals». «Hai già pensato a come fare per incontrarlo?». «Dirò alla sua segretaria che devo consegnare di persona un messaggio di vitale importanza da parte del giudice Hollis. Quando sarò nel suo ufficio, potrò spiegare tutta la storia e chiedergli aiuto per catturare Rick». Quando Lisa approvò con un cenno del capo, Ben proseguì: «Quindi, ci resta una sola altra cosa da fare». «E cioè?», domandò Lisa. «Ideare un piano per incastrare Rick». A mezzogiorno, Ben prese il cappotto e si avviò alla porta. «Ci siamo?», domandò Lisa, porgendogli la borsa. «A quanto pare», rispose lui. «Se accetta la nostra proposta, avremo un po' di tempo, ma se mi fa arrestare...». «Sono sicura che accetterà la proposta», lo interruppe Lisa. «È la cosa migliore anche per loro». «Forse dovrei prima telefonare ai miei genitori», disse Ben. «Così non rimarranno di sasso quando mi vedranno al telegiornale, stasera». «Non ti si vedrà al telegiornale, stai tranquillo», lo rassicurò Lisa. «Il responsabile dei marshals sarà entusiasta del piano». Lisa notò i solchi sempre più profondi sulla fronte corrucciata di Ben. «Ma sei convinto di quello che stai per fare?». «Credo di sì», disse Ben. «Cioè, è quello che abbiamo stabilito. Non do-
vrei essere così preoccupato». «Però lo sei...». «Certo che lo sono», disse Ben. «È in gioco la mia vita. Nella prossima ora dovrò prendere la mia vita e gettarla nel cesso. Chissà perché questa cosa non mi sfagiola?». «Vuoi che ti accompagni?». Ben attese un attimo prima di rispondere. «No». «Io vengo», disse Lisa, aprendo la porta del ripostiglio. «No, va tutto bene», insistette Ben, con voce tremante. «Non c'è ragione di coinvolgerti». «Sei sicuro di sentirti bene?», domandò Lisa, col cappotto in mano. «Sicurissimo», disse Ben, reciso. «Tu resti qui». «Stai attento». «D'accordo», disse Ben, accorgendosi che la maniglia della sua borsa era viscida di sudore. «Mi raccomando, stasera guardami al telegiornale. Mi riconoscerai dai ferri alle caviglie». «Smettila», disse Lisa. «Andrà tutto bene». «Grazie per la bugia», disse Ben. «E grazie per l'aiuto». «Sono sempre a tua disposizione», disse Lisa, mentre Ben si congedava. Sul metrò che lo stava portando a Pentagon City, in Virginia, Ben aveva lo stomaco in tumulto per l'ansia e l'incertezza. Erano mesi che faceva di tutto per evitare quella soluzione, e ora la adottava volontariamente. Mentre la metropolitana passava la stazione di Arlington, Ben si domandò se non fosse per caso impazzito e se il piano che stava mettendo in pratica fosse davvero il modo migliore per risolvere il problema. Scacciò i dubbi e si convinse di aver deciso per il meglio. Del resto, non c'erano alternative. Ben scese dal treno e si trovò di fronte al Mall di Pentagon City. Seguendo alla lettera le indicazioni della receptionist, Ben raggiunse il Marshals Service. Situato in un palazzo rosso di mattoni alto dodici piani, il Marshals Service ospitava novantacinque marshals di nomina presidenziale, tra cui il direttore. Avevano il compito di proteggere la magistratura federale, assicurando la sicurezza dei giudici e dei testimoni. Sebbene toccasse a Carl Lungen e a Dennis Fisk il compito di proteggere i giudici della Corte suprema finché questi si trovavano nel District of Columbia, l'ufficio centrale assegnava d'autorità a singoli marshals il compito di vegliare sui giudici quando questi ne oltrepassavano i confini. Ben attraverso Constitution Avenue. Inspirò profondamente e spinse la
porta di vetro del palazzo. Appena entrato, fu bloccato da un agente di sicurezza. «Posso aiutarla?», domandò l'agente. «Ho un appuntamento. Mi chiamo Ben Addison». «Con chi?», domandò l'agente, con aria sospettosa. «Con il direttore, Alex DeRosa». Dopo aver controllato sul suo registro, l'agente si voltò verso la scrivania e alzò la cornetta del telefono. Con la punta del piede Ben cominciò a battere nervosamente a terra. «C'è qui un certo Ben Addison che dice di dover incontrare DeRosa», disse l'agente al telefono. «Okay, lo mando su». Tornando a voltarsi verso Ben, disse: «Dodicesimo piano. Non può sbagliare». Pochi minuti dopo, Ben uscì dall'ascensore al dodicesimo piano. C'era una receptionist seduta a un tavolo davanti a una vetrata, oltre la quale un corridoio conduceva a una serie di uffici. «Posso esserle utile?», gli domandò. «Ho appuntamento con il direttor DeRosa. Mi chiamo Ben Addison». «Ah, sì. Il direttore dice di lasciare a me il messaggio del giudice Hollis», disse la receptionist. «Mi dispiace, ma è impossibile», spiegò Ben. «Ho l'ordine tassativo di riferire personalmente il messaggio». «Può riferirlo a me, signore. Il direttore è molto occupato, oggi». «Forse non mi sono spiegato», disse Ben, la cui agitazione stava tramutandosi in fastidio. «Anche il giudice Mason Hollis è molto occupato. Ha tre commessi e due assistenti legali. Per non parlare degli oltre trecento impiegati della Corte suprema, tutti formalmente sottoposti alla sua autorità. Il messaggio di cui sono latore avrebbe potuto essere scritto e spedito da una qualsiasi di queste persone. Il giudice Hollis, invece, ha stabilito che dovessi riferirlo io, a voce, al direttore in persona. Ora, se un giudice della Corte suprema ha un messaggio così riservato da non poter essere neppure messo su carta, crede davvero che io potrei semplicemente affidarlo alla prima persona che me lo chiede?». Ben fissò la receptionist finché questa non sollevò la cornetta del telefono. «C'è qui il signor Ben Addison che desidera incontrarla, signore. Il giudice Hollis ha chiesto che il messaggio sia riferito verbalmente a lei in persona», spiegò la donna. «Sì. Mi sembra piuttosto serio». La receptionist restò in ascolto; quindi, abbassò il ricevitore e premette un piccolo pulsante che fece aprire la porta a vetri da cui si accedeva agli uffici. «Può accomodarsi, signor Addison. Ultima porta a destra».
Percorrendo il corridoio, Ben cercò di concentrarsi e di rimanere calmo. Quando allungò la mano verso la maniglia, la porta dell'ufficio di DeRosa si aprì. «Spero per lei che il motivo sia valido», sibilò DeRosa, ostruendo l'ingresso. DeRosa era un uomo piccolo e tozzo, noto tanto per la sua implacabile intelligenza quanto per la sua scarsa pazienza. Aveva le maniche della camicia arrotolate fino al gomito, a rivelare avambracci muscolosi e irsuti. Indicando l'unica sedia collocata davanti alla scrivania, disse: «Si sieda». Entrando, Ben non poté fare a meno di notare le onorificenze militari che decoravano le pareti dell'ufficio di De Rosa: medaglieri incorniciati, coccarde, targhe e diplomi dell'Accademia navale e della Columbia Law School. Sulla parete alla sua destra c'erano delle fotografie che ritraevano DeRosa al fianco di due ex presidenti. «Allora, sentiamo questo messaggio così riservato...», gracchiò DeRosa, sedendosi dietro la scrivania. «È una questione di grande importanza, ma il giudice Hollis non c'entra...», esordì Ben. «Ma allora che cosa...?», domandò DeRosa, balzando all'impiedi. «Sparisca immediatamente! Chiamerò Hollis personalmente per assicurarmi che lei...». Quando DeRosa fece per aggirare la scrivania, Ben si alzò dalla sedia. «Non lo sa nessuno, ma un assistente ha rivelato informazioni riservate su una decisione della Corte!», sputò. «Charles Maxwell conosceva la sentenza sul caso CMI prima che fosse annunciata!». DeRosa si bloccò e socchiuse gli occhi. «Si sieda». Ben obbedì e si sedette. «Mi racconti tutto dall'inizio. Chi è questo assistente?». Ben attese un istante prima di rispondere. «Sono io». «La ascolto», disse DeRosa. «Poche settimane dopo l'inizio della sessione autunnale, mi telefona un ex assistente del giudice Hollis, un certo Rick Fagen, per offrirmi il suo aiuto nel caso avessi avuto bisogno di qualche consiglio. C'è questa consuetudine tra gli ex assistenti: siccome sanno che agli inizi è difficile...». «So come funziona», lo interruppe DeRosa. «Comunque, convinto che in effetti questo Rick fosse un ex assistente, un giorno lo incontro e lui mi chiede informazioni sull'esito del caso CMI. Io gli ho detto che non potevo assolutamente parlare, ma lui ha giurato di mantenere il segreto. Sapeva tutto del codice deontologico che sottoscrivono gli assistenti; inoltre, era più di un mese che ci aiutava con i suoi
consigli». Cogliendo l'impazienza di DeRosa, Ben continuò: «In breve, gli ho incidentalmente rivelato l'esito del caso CMI. Alcuni giorni dopo, Maxwell ha investito una somma considerevole, puntando sulla decisione favorevole della Corte. A quel punto, ho cercato di mettermi in contatto con Rick, ma era scomparso. Aveva disdetto l'abbonamento telefonico e al suo appartamento non c'era traccia di lui. Quando ho cercato di rintracciarlo, ho scoperto che non era mai stato assistente alla Corte suprema. Per giunta, negli ultimi quattro mesi ha tentato di convincermi a passargli altre informazioni». DeRosa, che era rimasto in piedi, si grattò il mento. «E lei gliele ha passate?». «Il mese scorso gli ho deliberatamente mentito sull'esito del caso Grinnell, solo per ripicca». DeRosa ridacchiò. «Mi è servito a scrollarmelo di dosso per un po'», aggiunse Ben. «Ma sono sicuro che tornerà presto alla carica». Dopo aver riflettuto sul racconto di Ben, DeRosa disse: «Dunque, lei ha violato la regola fondamentale della nostra più alta corte di giustizia e vuole che io ci metta una pezza? Mi dia una sola buona ragione per cui non dovrei farla arrestare con l'accusa di corruzione». Ben guardò DeRosa negli occhi. «Posso aiutarvi a catturare Rick». DeRosa tornò dietro la scrivania e si sedette. «Continui». Due ore più tardi, Ben era di ritorno alla Corte. «Com'è andata? Ce l'hai fatta? Cos'è successo?», domandò Lisa, prima ancora che Ben avesse varcato la soglia. «Ce l'ho fatta», disse Ben. «Ho raccontato tutto». Ben andò a sedersi al proprio posto; Lisa si appoggiò su un angolo della scrivania di Ben. «Che cosa ti hanno detto? Dài, parla!». «Calmati, adesso ti spiego tutto», disse Ben, con una voce vagamente narcotizzata. «Non dirmi che mi devo calmare. Spiegami cos'è successo». «Penso sia andata bene. Voleva...». «Chi "voleva"? DeRosa?». «Sì», disse Ben. «È lui il capo, lì. Ha voluto sapere tutto nei minimi dettagli: come ho fatto a superare il test con la macchina della verità, come ha fatto Rick ad avvicinare Eric, come ha reagito Rick all'annuncio della decisione sul caso Grinnell. Mi ci è voluto più di un'ora per dirgli tutto. Dopo-
diché, gli ho esposto il nostro piano». «Gli è piaciuto? È rimasto impressionato?». «Non credo che si impressioni facilmente. È uno di quegli ex militari freddi come il marmo. Nonostante tutto quello che gli ho raccontato, non sono riuscito a cogliere in lui la benché minima emozione». «In ogni caso, vuole che lo aiuti a catturare Rick. Altrimenti, non ti avrebbe lasciato andare». «È quello che spero», disse Ben. «Ma ha detto soltanto che voleva pensarci». «Vedrai che ci starà», disse Lisa. «Se non ti avesse creduto, da quell'ufficio saresti uscito con le manette ai polsi». «Sai cosa mi stavo chiedendo?», domandò Ben. «E se Rick mi avesse seguito, oggi? Se mi avesse visto entrare nel palazzo del Marshals Service?». «Ne dubito», disse Lisa. «È proprio questo lo scopo del tuo gioco d'anticipo. Rick è troppo occupato a organizzare le sue cose, per sprecare il tempo standoti alle calcagna». «Spero che tu abbia ragione», sospirò Ben. «Ti ha detto, DeRosa, quando si sarebbe fatto sentire?». «No. Mi ha detto soltanto di non parlare con nessuno di questa storia. Sa bene che i media impazzirebbero se solo subodorassero qualcosa». «Bene», disse Lisa, appoggiando le mani dietro di sé, sulla scrivania. «Per il momento, sei a posto». «Per il momento», disse Ben. «Non ti preoccupare», lo esortò Lisa. «Hai fatto la cosa più intelligente: mettere la ragione davanti al cuore. È il primo passo nella giusta direzione». Qualche giorno dopo, Ben si trovava pigiato su un treno della metropolitana diretto in centro. Ben arrivava alla stazione del metrò ogni mattina alle sette meno un quarto precise e ormai conosceva di vista gran parte dei suoi mattinieri compagni di viaggio. Benché trascorressero tutti insieme un quarto d'ora al giorno, pochissimi erano quelli che scambiavano qualche parola - ammesso che qualcuno lo facesse. Il più delle volte, come quella mattina, passavano quel quarto d'ora pensando alla giornata di lavoro che li aspettava. Ben, invece, stava pensando ai marshals. "Perché non si sono fatti sentire?", si domandò. Quando il treno raggiunse la destinazione della maggior parte dei viag-
giatori, Ben trovò posto e si sedette. Teneva gli occhi fissi sulla sua borsa. "Forse hanno deciso di non starci", pensò, preoccupato. Quando il convoglio giunse allo snodo di Metro Center, decine di pendolari sciamarono all'interno del piccolo vagone. La donna che si trovava in piedi davanti a Ben prese dalla tasca una busta da lettera e gliela passò. «L'ha persa lei, questa?», domandò la donna. «Non credo», rispose Ben, osservando la busta bianca. La donna gli lanciò un'occhiataccia insistente. «Ho visto che le è caduta». Passando a un tono più cordiale, aggiunse: «È sicuro che non sia sua?». «In effetti, dev'essere mia», disse Ben, prendendo in consegna la busta e infilandola nella borsa. «Dev'essermi scivolata fuori dal cappotto. Grazie». Quando il treno si rimise in moto, Ben alzò gli occhi e vide che la donna era scomparsa. Quando il treno giunse alla fermata di Union Station, Ben scese con calma dal vagone e si avviò verso la scala mobile. Benché morisse dalla voglia di aprire la busta, sapeva che, qualsiasi cosa ci fosse scritta, era meglio non leggerla in pubblico. Si fece largo tra le centinaia di pendolari che gremivano la Union Station e individuò l'insegna della toilette maschile. Prima di entrare guardò in giro. Non lo seguiva nessuno. Controllò in ciascuna delle cinque cabine. Deserto. Entrò nella cabina più lontana dalla porta, si chiuse dentro e aprì la busta. Sforzandosi di non andare subito alla fine della lettera, lesse tra sé: «Il nostro obiettivo primario è quello di trovare Rick. La validità del nostro accordo è contestuale al mantenimento della sua promessa di aiutarci nelle ricerche. Noi le garantiremo protezione solo se lei ci aiuterà a trovare tutte le persone implicate con Rick. «Abbiamo allegato un elenco di potenziali complici. Nessuna delle persone nominate nell'elenco dovrà sapere del nostro accordo. Crediamo che ciò sia necessario ai fini della cattura di tutti i responsabili. Se questa condizione verrà ignorata, il nostro accordo è da considerarsi decaduto. «Quando Rick le chiederà l'esito di un altro caso, lei dovrà temporeggiare fino alla domenica precedente la decisione. Solo allora lei potrà fornire l'informazione richiesta.
«Se lei accetterà la nostra proposta, sarà sottoposto alla nostra sorveglianza. Se Rick agirà come previsto, non saranno necessari ulteriori contatti. «Da questo momento, comunicheremo solo se decideremo noi di metterci in contatto con lei. Se qualcosa non va per il verso giusto, telefoni al numero che troverà scritto in fondo al foglio. In tal caso, avvertirò immediatamente i nostri agenti in servizio della sua richiesta d'aiuto. Questo numero va utilizzato solo in caso di assoluta necessità. Se seguirà scrupolosamente queste indicazioni, non avrà nulla da temere per la sua sorte. Spero che il nostro prossimo incontro avvenga in circostanze più felici». Quando Ben ebbe finito di leggere la lettera, girò il foglio per esaminare l'elenco dei potenziali complici. All'improvviso sentì aprirsi la porta del bagno. Attraverso la stretta fessura tra il cardine e la parete della cabina, Ben vide una sagoma che correva verso di lui. L'uomo colpì ripetutamente e con violenza la porta della cabina, urlando: «Esci subito di lì! So chi sei!». In preda al panico, Ben appallottolò la lettera e se la ficcò nelle mutande. «Ti ho detto di uscire!», insistette l'uomo. «So che stai cercando di stanarmi!». Ben sollevò un sopracciglio, cogliendo una strana inflessione nella voce dell'uomo. «Chi sei?», domandò Ben. «Sai benissimo chi sono!». Ben prese la borsa, aprì la porta e uscì dalla cabina. Quell'uomo minaccioso era un vagabondo, vestito di stracci e con una barba lunga e sudicia. Non appena Ben gli si avvicinò, l'uomo prese a picchiare contro la cabina adiacente. «So che sei lì dentro!», urlò. Dopo aver dato una rapida occhiata all'interno delle altre cabine, Ben si avvicinò al barbone. «Dammi un dollaro!», urlò l'uomo, stendendo un palmo aperto sotto il naso di Ben. Convintosi che non si trattava di un marshals e che non rappresentava una minaccia, Ben aprì la borsa e prese il suo sandwich d'ordinanza al gusto di tacchino. «Non è un dollaro, ma...».
«Grazie», disse l'uomo, togliendoglielo di mano. «Sei una brava persona». Dopo essere passato a tutta velocità attraverso i controlli di sicurezza della Corte, Ben evitò di prendere l'ascensore e salì di corsa per le scale. Quando raggiunse il suo ufficio, al secondo piano, entrò e gettò la borsa sul divano, si infilò una mano nelle mutande e tirò fuori la lettera. La stirò alla meglio e la passò a Lisa. «Non ti aspetterai che io la tocchi, vero?», disse Lisa, seduta al suo tavolo. «Me l'ha passata una sconosciuta in metropolitana», spiegò Ben, con voce concitata. «I marshals hanno accettato!». Lisa diede una scorsa veloce alla lettera, voltò il foglio e lesse l'elenco dei potenziali complici. Nell'elenco figuravano i nomi di Lungen e di Fisk, di Nancy, di alcuni assistenti e di tutta una serie di altri impiegati della Corte suprema. I primi tre nomi, comunque, erano quelli di Nathan, Ober e Eric. «Credi che sia autentica?», domandò Lisa, guardando Ben. «Che vuoi dire?», disse Ben. «Certo che è autentica». «Te lo domando solo perché mi sembra un po' troppo misteriosa. Cioè, non è esplicitamente indirizzata a te, non è firmata, non fa alcun riferimento al vostro precedente incontro. Per quel che ne sappiamo, potrebbe averla scritta Rick». «È impossibile», insistette Ben, riprendendosi bruscamente la lettera. «Me l'hanno fatta consegnare i marshals». «Ehi, contento tu, contenti tutti», disse Lisa. «Ebbene sì, sono contento», disse Ben. «Assolutamente soddisfatto». «Che cosa pensi dell'elenco di nomi?». «Non so cosa pensare», rispose lui, riesaminando la lista. «Ma credo che per quanto riguarda i miei amici non ci sia da preoccuparsi». «Non ne sarei così certa», disse Lisa. «Chi altro può aver detto a Rick del nostro piano degli annuari?». «Non so. Potrebbe essere stato qualcuno dell'ufficio che smista la corrispondenza. I pacchi sono passati di lì. Chiunque potrebbe aver aperto gli scatoloni prima che ci venissero consegnati». «Può darsi», concesse Lisa. «Però non dirai nulla di tutto questo ai tuoi amici, vero?». «Certo che no», confermò Ben. «Hai letto anche tu la lettera. Senza la mia piena collaborazione, l'accordo decade. Se scopriranno che li ho tenuti
all'oscuro si incazzeranno, ma ci penseremo al momento giusto, se si presenta». «Esatto», concordò Lisa. «È...». La frase di Lisa fu interrotta dallo squillo del telefono di Ben. «Scusa un attimo», disse Ben, sollevando la cornetta. «Pronto? Ufficio del giudice Hollis». «Buongiorno, cercavo un certo Alvy Singer». «Sono io», disse Ben, dopo qualche esitazione, ricordandosi di aver usato quel falso nome per affittare la casella postale. «Ciao, Alvy. Io sono Scott, di Mailboxes & Things. Volevo dirti che sei nuovamente in ritardo sul pagamento della tua seconda casella postale, e che dovresti provvedere al più presto, altrimenti dovremo rivolgerci a un'agenzia di recupero crediti». Ben comprese che Scott si riferiva alla casella postale aperta da Rick. «Mi dispiace», disse Ben. «Mi è sfuggito di mente. Entro che termine devo saldare il conto?». «Qui risulta che vogliono i soldi per la fine del mese», spiegò Scott. «Ma se posso darti un consiglio, io pagherei al più presto. Se non ti sbrighi la proprietaria è capace di sequestrarti la posta. Io non c'entro, ma qui le cose funzionano così». «Lo sa che è illegale, vero?», disse Ben, seccamente. «Non fa niente se è illegale... La proprietaria, qui, ragiona così. Anzi, mi ha chiesto di dirti che se non paghi il conto non ti consegnerà il tuo pacchetto». «Quale pacchetto?». «Ah, scusa... Pensavo che lo sapessi. C'è qui un pacchetto per te. Probabilmente è per questo che mi ha chiesto di telefonarti». «Puoi controllare l'affrancatura?», domandò Ben, in preda all'agitazione. «Vorrei sapere se si tratta di qualcosa di importante». «Certo. Resta in linea». Ben si voltò verso Lisa. «Roba da non credere». «Alvy, ci sei?», domandò Scott. «Sì, pronto», disse Ben. «Il francobollo è stato timbrato qualche giorno fa, ma probabilmente il pacchetto è arrivato ieri». «Grazie», disse Ben. «Passerò a saldare il mio debito nel pomeriggio». «Perfetto», disse Scott. «Il tuo pacchetto sarà qui ad aspettarti». Ben riagganciò e si avviò alla porta.
«Che succede?», domandò Lisa. «Dove vai?». «Mi è arrivato un pacco alla casella postale». «E allora? Non vuol dire niente». «Sì, invece», obiettò Ben. «Solo Rick comunica con me tramite la casella postale». «Non fa niente. Ci penseranno i marshals». «Non ne sono sicuro», disse Ben, con la mano sulla maniglia. «Il pacco porta il timbro di qualche giorno fa. Magari i marshals sono riusciti a mettersi in moto soltanto oggi». «Sono sicura che...». «Io non sono sicuro di niente», tagliò corto Ben, aprendo la porta. «Se Rick ci ha prevenuti, siamo nei guai grossi». Venti minuti dopo, Ben era di ritorno in ufficio con una busta marroncina di piccole dimensioni. Si accorse subito dell'espressione turbata dipinta sul volto di Lisa. «Cos'è successo?», le domandò. «Dennis Fisk, il vice di Lungen, è appena stato qui. Mi ha detto che voleva parlarti non appena fossi tornato». «Ha detto nient'altro?», domandò Ben, gettando la busta sulla propria scrivania. «Mi ha chiesto come mai qui con noi c'era Eric il giorno dell'annuncio della decisione sul caso Grinnell». «Oh, no», disse Ben, sollevando la cornetta del telefono. «Tutte oggi capitano?». Digitò nervosamente un numero e attese la risposta della receptionist. «Salve, mi chiamo Ben Addison. Vorrei parlare con Carl Lungen». Dopo un breve silenzio sulla linea, Ben udì la voce di Lungen. «Ciao, Ben. Da quanto tempo! Come hai passato il Capodanno?». «Mi ascolti bene», disse Ben, furioso. «Se ha dei sospetti su di me, abbia almeno la decenza di dirmelo in faccia. Non provi a spaventarmi mandando Fisk a cercarmi. Ho superato il vostro dannato test con la macchina della verità e ho risposto a ogni vostra domanda». «Ehi, perché non tiri il fiato e ti dai una calmata?», disse Lungen. «Non ho alcuna intenzione di calmarmi. Che cosa state cercando di fare?». «Fisk non è venuto a cercarti per metterti paura. Voleva solo consegnarti un messaggio». «Ho una segreteria telefonica. Lo sapete o no come funziona un telefono?».
«Senti, Ben, a me pare che il nostro comportamento nei tuoi confronti sia stato più che corretto, da quando è cominciata questa storia». «Quale storia?», lo interruppe Ben. «Lei continua a parlare di questa fantomatica "storia", ma non è mai stato in grado di dirmi con precisione di quale misteriosa "storia" si tratti». «Mettiamola così», disse Lungen. «Tre settimane fa hai giurato di aver litigato con Eric. Pochi giorni dopo, però, Eric si è presentato alla Corte ed è venuto nel vostro ufficio. Come se non bastasse, per entrare ha dato un nome falso. Vuoi che sia io a dirti quello che penso, o preferisci essere tu a raccontarmi finalmente la verità?». «D'accordo», disse Ben. «Tanto, ormai, mi ha scoperto. È vero, io e Eric abbiamo fatto la pace. Presto, avverta la polizia!». «C'è poco da fare gli spiritosi...». «Esatto. Lei ha perfettamente ragione», lo interruppe Ben. «Voi state giocando con la mia vita. Nelle due settimane appena trascorse, vi sarete scervellati per indovinare quale crimine io abbia commesso. Ma fare pace con un amico non è reato. Quindi, finché non avrete qualcosa di preciso da contestarmi, state alla larga da me, capito?». «Come mai Eric è venuto alla Corte, l'altro giorno?». «Eric è un cronista giudiziario! Che cosa credete che sia venuto a fare, qui?». «Perché ha usato il nome di Nathan?». «Le dirò la verità: gliel'ho consigliato io, perché se voi aveste scoperto che avevamo fatto la pace, ci sareste saltati addosso. E avevo ragione, a quanto pare». «Questo non...». «Senta, per quanto mi riguarda, il discorso è chiuso. Lei continuerà comunque a sospettare di me, qualsiasi cosa io dica. Non ho fatto nulla di male e non ho nulla da nascondere. Se lei non mi crede, be', mi dispiace. Ma se proprio desidera rovinarmi la vita, almeno si procuri delle prove. Perché altrimenti le giuro che vi denuncio per abuso d'ufficio prima ancora che voi possiate dire: "Dimissioni forzate e ciao pensione". Ora, se non le dispiace, avrei del lavoro da sbrigare. Spero di non sentirla tanto presto». Prima che Lungen potesse replicare, Ben sbatté giù la cornetta. Quando si accorse che Lisa lo stava fissando, le domandò: «Embe'?». «Nulla», disse lei. «Sono soltanto incantata dalla tua abilità diplomatica: sei sempre così calmo, lucido... Non perdi mai la pazienza, eh?». «Che cosa avrei dovuto fare, secondo te?».
«Rilassati», gli consigliò Lisa. «Dimenticati dei marshals. Non hanno prove contro di te». «È ovvio», disse Ben, cercando di rassicurarsi. «Se ne avessero sarei già stato cacciato da qui». Ben raccolse dal tavolo la busta e la gettò a Lisa. «Ma torniamo al problema originario...». Lisa svuotò sul tavolo la busta, che conteneva una minicassetta audio e un piccolo mazzo di fotocopie. Esaminò le fotocopie, la prima delle quali recava l'immagine della prima pagina di un libretto bancario. Vi era registrato un solo versamento, di centocinquantamila dollari, sopra la scritta "City of Bern" stampata in piccolo a piè di pagina. «Sembrerebbe un libretto bancario svizzero», disse Ben. «È il conto di Rick?». «In realtà, sì», spiegò Ben. «Ma dai un'occhiata all'ultima pagina». Lisa andò all'ultima pagina, e sotto la scritta "Intestatario del conto" vide che c'era il nome di Ben. «Lo so», disse Ben, notando la reazione angosciata di Lisa. «Ha cancellato tutte le informazioni utili - nome della banca, numero di conto ecc. ma ha voluto assicurarsi che noi leggessimo chiaramente il mio nome». «Diciassette novembre!?», disse Lisa, tra l'esclamativo e l'interrogativo, leggendo la data dell'unico versamento. «Cos'è successo in quella data?». «Adesso controllo», disse Ben, prendendo l'agenda che teneva sulla scrivania. Tornò indietro al mese di novembre. «Come immaginavo. È il giorno in cui è stata annunciata la decisione sul caso CMI». «Hai idea di che cosa ci sia sulla minicassetta?», domandò Lisa, posando sul tavolo le fotocopie. «No», rispose Ben. Aprì un cassetto della scrivania, da cui estrasse un miniregistratore. «Però scommetto che non è un Greatest Hits di James Taylor». Ben infilò il nastro nell'apposito vano e i due assistenti si misero in ascolto. «...come procede l'esame della fusione CMI? Si deciderà la prossima settimana, no?». «In realtà credo che la decisione tarderà un po'. Blake e Osterman hanno chiesto una proroga per la stesura delle motivazioni. Sai com'è... Le cause per le fusioni finiscono sempre per confondere tutti. Ci vuole un tempo infinito per venire fuori da tutti quegli insensati cavilli regolamentari». «E chi la spunta?».
«A dire il vero la vicenda è andata in modo piuttosto strano. Al momento della prima votazione, la situazione era di cinque voti a quattro contro la CMI. All'ultimo minuto...». «Merda», disse Ben, fermando il nastro. «Ha registrato tutta la conversazione». «È la registrazione di quando gli hai dato l'informazione sulla CMI?». «No, di quando ci siamo scambiati ricette di cucina... Certo che è quella!». «Non...». «Merda!», urlò Ben, battendo un pugno sul tavolo. «Come ho potuto essere così stupido?». «Senti, quel che è stato, è stato», disse Lisa. «Non potevi saperlo, allora. Eri convinto che Rick fosse un amico». «Sì, ma se non avessi detto niente...». «Ora probabilmente non ti troveresti nei guai. È vero. Ne abbiamo già parlato. Il punto però è che per la prima volta sei nelle condizioni di uscirne». «Non ne sono più così convinto. E se i marshals non avessero approntato il loro piano per tempo?». «Sono sicura che hanno fatto tutto il necessario», disse Lisa. «Si saranno messi all'opera non appena tu sei uscito dall'ufficio di DeRosa». «Lo spero», sospirò Ben, con gli occhi fissi sul miniregistratore posato sulla scrivania. Poi, guardò Lisa. «Però, è ammirevole l'abilità di Rick. Prima di oggi, l'unica cosa che credevo di rischiare era il mio lavoro. Poteva dimostrare soltanto la mia violazione del codice deontologico della Corte. Ma con il nastro e il libretto bancario ha creato una situazione completamente nuova: ora risulta che io sono stato pagato per l'indiscrezione che gli ho fornito. Cioè, ha creato le prove dell'avvenuto pagamento a mio favore. E questo è ben più che una semplice violazione del codice deontologico. Prendere tangenti come pubblici ufficiali è un reato federale». «Io non me ne preoccuperei», disse Lisa, avvicinandosi alla scrivania di Ben. Tolse la minicassetta dal miniregistratore. «Questa la mandiamo a DeRosa, per sicurezza». «Pensi che DeRosa ci crederà?», domandò Ben. «Non è che vedendo il conto penserà che io abbia davvero preso la tangente?». «No», disse Lisa, facendo cadere il nastro in una busta. «Andando a raccontargli tutto di tua spontanea volontà, hai dimostrato l'assurdità di questa
ipotesi. Spedendogli il nastro, non farai che confermare la tua onestà». Mentre Ben scriveva una breve nota per DeRosa, Lisa domandò: «Credi che in questo momento DeRosa ci stia ascoltando?». «Lo escludo», disse Ben. «Ci spierebbe solo se avesse il sospetto che io gli ho mentito. Ma se avesse questo sospetto, io non lavorerei più qui. Non possono rischiare altre fughe di notizie. Questo è l'unico posto in cui possiamo sentirci al sicuro». Lisa tornò alla propria scrivania, prese le fotocopie del libretto bancario e le porse a Ben, che le infilò nella busta. «E adesso cosa facciamo?», domandò Lisa. «Restiamo qui, e speriamo che Rick telefoni!». «Chiamerà di sicuro», disse Lisa. «Segnatelo, se vuoi. Vorrà accertarsi che il suo plico di prove schiaccianti sia arrivato, per cominciare a ricattarti. Immagino che se non gli darai quello che vuole, minaccerà di divulgare la registrazione e le fotocopie del libretto bancario». «Non credevo che sarei mai arrivato a questo, ma ora spero proprio che lo faccia». Alle sei e mezza, quella sera, Ben rientrò in ufficio. «Ha chiamato qualcuno per me?». «Non ancora», rispose Lisa. «Come va?». «Va bene», disse Ben. «Sono un po' nervoso, ma è normale. Comunque, se ti interessa, ho dato un'occhiata al codice penale: il reato di corruzione prevede una pena variabile tra i cinque e i quindici anni». «Stupendo», disse Lisa, storcendo il naso. «Hai scoperto...?». La domanda di Lisa fu interrotta dallo squillo del telefono di Ben. Visto che Ben non dava segno di voler rispondere, Lisa disse: «Che cosa aspetti? Rispondi». «Non dovrei forse...?». «Rispondi!», ripeté Lisa. Non senza esitazioni, Ben sollevò la cornetta. «Pronto?». «Ciao, Ben. Sono Adrian Alcott». Il più insistente reclutatore dello studio Wayne & Portnoy. Ben lo aveva riconosciuto prima ancora che si fosse qualificato. «Non è Rick, vero?», domandò Lisa. «Magari...», sussurrò Ben, coprendo con una mano il microfono della cornetta. «Allora, come procedono le cose alla vecchia Corte suprema?», doman-
dò Alcott. «Va tutto bene. Siamo super-indaffarati». «Immagino», disse Alcott. «Volevo soltanto accertarmi che fosse tutto a posto. L'ultima volta che ci siamo sentiti, hai chiuso bruscamente». «Ah, sì, scusami», disse Ben. «Dovevamo consegnare un lavoro a Hollis... Ero un po' di corsa». «Non devi giustificarti», disse Alcott. «Voglio dire: chi è più importante? Io o un giudice della Corte suprema?». Visto che Ben non diceva nulla, Alcott aggiunse: «Comunque, la ragione per cui ti ho chiamato è che nel giro di tre settimane ci vedremo lì. Sosteniamo il querelato nel caso Mirsky». «Ah, stupendo», disse Ben, cercando di sembrare sorpreso, anche se Alcott gliene aveva già parlato almeno tre volte. «A quanto pare, sarà durissima», disse Alcott. «Dopo la relazione di maggioranza di Osterman sul caso Cooper, nessuno l'ha più spuntata in casi riguardanti il sesto emendamento «No comment», disse Ben, freddamente. «Lo sai che non posso parlare di casi in discussione». «Certo, hai ragione», disse Alcott. «Scusami, non volevo...». «Non c'è bisogno di scusarsi», disse Ben. «È uno dei vantaggi di lavorare qui». «Be', spero che mi permetterai di mostrarti i vantaggi di lavorare da noi», disse Alcott, soddisfatto per il modo in cui era riuscito a introdurre l'argomento nella conversazione. «Certo, non è la Corte suprema, ma anche noi non ce la passiamo tanto male. A proposito... chiamavo anche per chiederti se ti va di pranzare insieme qualche volta. È un bel po' che non ci si vede». «Mi piacerebbe», disse Ben. «Magari, però, mi faccio sentire io nel giro di un paio di settimane al massimo. Ho così tanto da fare, al momento, che sarei davvero di pessima compagnia». «D'accordo», disse Alcott. «Fai pure quello che devi fare. Ti chiamo io nelle prossime settimane». «Sì, credo che sia meglio», disse Ben, scarabocchiando la sagoma di una pistola puntata alla tempia di un uomo in giacca e cravatta. «Spero che per allora le cose si saranno un po' calmate». Quando Ben riattaccò, Lisa domandò: «Era lo studio Wayne & Portnoy?». «Esatto».
«Fammi indovinare... sperano di mettertelo in culo un po' più a fondo e per questo ti offrono altri diecimila dollari?». «Volevano solo invitarmi a pranzo», disse Ben, aggiungendo un'altra pistola alla sua composizione. «Ehi, su col morale», lo esortò Lisa. «Dovresti essere contento del fatto che ci sono prestigiosi studi legali interessati a te. Può capitare di peggio nella vita». «Come ad esempio essere in balia di uno psicopatico che minaccia di sputtanarti davanti al mondo intero?». «Esatto. Cioè, essere in balia di uno psicopatico è molto meglio», disse Lisa. «Comunque, pensi che parlerai del nastro di Rick con i tuoi coinquilini?». «Non credo», spiegò Ben. «Altrimenti, per tutta la sera, dovrò fare quello preoccupato». «E non lo sei?». «Mi sto sforzando di non esserlo», disse Ben, scarabocchiando una terza pistola puntata contro il disegnino che lo raffigurava. «Sperando che tutto proceda secondo i piani». Mentre costeggiava l'isolato di casa sua, Ben percepì il silenzio in cui l'inverno aveva immerso la città. Faceva freddo ma il cielo era terso: niente neve in arrivo, e stelle a volontà. Saliti i gradini di casa, si fermò e respirò a pieni polmoni quell'aria frizzante. "È quasi finita", pensò. Infilò la chiave nella toppa e girò la maniglia. «Dove diavolo sei stato?», domandò Nathan, non appena Ben ebbe aperto la porta. «Lisa ha detto che si uscito dal lavoro quasi un'ora fa». «Siamo nella merda fino al collo», aggiunse Ober, seduto sul divano grande. «Questa è la goccia che fa traboccare il vaso», strillò Nathan, agitando un foglio davanti alla faccia di Ben. «Con te ho chiuso». «Che cos'è successo?», domandò Ben, lasciando cadere a terra la borsa. «Leggi qua», disse Nathan, passandogli il foglio. «Egregio signor Bachman», lesse Ben, tra sé e sé, «a partire dall'ottobre scorso Nathan Hollister ha fatto illegalmente uso, per scopi personali, dei seguenti strumenti...». Diede una scorsa all'elenco - che comprendeva il teleobiettivo fotografico, i microfoni senza fili e persino il synadolol per il test con la macchina della verità - e saltò all'ultimo paragrafo. «Benché io preferisca non rivelare la mia identità, potrà controllare la veridicità di
quanto dico sull'apposito registro presso l'ufficio dei servizi di sicurezza. Non è previsto che un membro dell'ufficio politico abbia accesso a simili strumenti. Spero che al proposito sia aperta un'inchiesta. Copia della presente è stata inviata, per conoscenza, anche ai Suoi superiori e al segretario di stato». «Oh, cazzo», disse Ben, guardando l'amico. «Bachman è il tuo capo?». «È il capo dell'ufficio legale del dipartimento», rispose Nathan. «Se Rick l'ha spedita, la lettera, appena aperta, dovrà essere riportata sul registro della corrispondenza, cosicché Rick potrà disporre della prova che la lettera è stata ricevuta». «In tal modo, Bachman sarà costretto ad avviare un'inchiesta», disse Ben. «Esatto», confermò Nathan. «Se Bachman non indaga, rischia, perché si potrà dimostrare che il suo ufficio quella lettera l'ha aperta. Darebbe l'impressione di aver voluto ignorare la cosa; e dopo il trauma dei colloqui per la sua riconferma, è terrorizzato all'idea che lo si possa sospettare di aver voluto insabbiare lo scandalo. Rick ha davvero pensato a tutto». «Quando l'hai ricevuta?», domandò Ben. «È arrivata oggi per posta», spiegò Nathan, in tono accusatorio. «Ne sono arrivate anche altre due: una per Ober e l'altra per Eric». «Maledizione!», esclamò Ben, restituendo la lettera a Nathan. «Appena l'ho ricevuta ho cercato di chiamarti» disse Ober, con la sua lettera in mano. «Quando mi hanno detto che eri uscito, ho telefonato a Nathan e a Eric per avvisarli di venire immediatamente a casa». «Ha mandato qualcos'altro, insieme alle lettere?», domandò Ben, terrorizzato, rendendosi conto che i suoi amici non erano più soltanto coinvolti, bensì alle prese con guai serissimi. «No», rispose Nathan. «Nessuna istruzione. Nessuna spiegazione: solo la lettera. Non si capisce se l'abbia spedita o no». «E la tua lettera cosa dice?», domandò Ben a Ober. «Dice che sono un uomo morto», rispose Ober, porgendogliela. «È indirizzata alla mia direttrice, spiega che la lettera di minacce al senatore Stevens l'ho scritta io, per guadagnarmi una bella promozione». «E infatti l'hai avuta», disse Nathan, indignato. Rivolgendosi a Ben, continuò: «Faresti meglio a inventarti qualcosa, perché la situazione ti è davvero sfuggita di mano». «Che vuoi che faccia?», domandò Ben, mentre la stanza cominciava a girargli intorno. «Ho ricevuto anch'io una lettera, sotto forma di un nastro
registrato e di fotocopie di un libretto bancario». Ben si sedete sul divano e si asciugò la fronte con la manica della camicia. «Ma non c'è ragione di credere che ne sia giunta copia ad altri. Che cosa dice la lettera di Eric?». «Quella di Eric è indirizzata al "New York Times"», spiegò Nathan, «ma sono sicuro che Rick ha in mente di spedirla a tutta la stampa nazionale». «Che cosa dice?», domandò Ben, intrecciando le mani dietro la testa. «Ripercorre tutta la vicenda dall'inizio alla fine. Ti accusa di aver rivelato la decisione sul caso CMI e di essere la fonte dell'articolo di Eric. Se ho capito bene, per Eric la cosa non dovrebbe avere effetti devastanti...». «Senonché dimostra che Eric ha mentito ai suoi capi, dicendo di non sapere nulla», lo interruppe Ben. «Eric è già al corrente?». «Era in giro per lavoro, quando ho chiamato», disse Ober. «Sarà qui a momenti». Dopo aver concesso a Ben un attimo di tregua per elaborare l'informazione, Nathan riprese: «Adesso, però, andrai alla polizia, spero». «Cosa?», domandò Ben, guardando l'amico. «Andrai a costituirti, adesso, vero?», domandò Nathan. «No», disse Ben, gelido. «Ti sbagli». «Ben, non arrabbiarti», insistette Nathan. «Che altro puoi fare?». «Possiamo aspettare la prossima mossa di Rick. Sono sicuro che non ha ancora spedito le lettere. Se avesse voluto soltanto farci licenziare, l'avrebbe già fatto diversi mesi fa». «Ma chi ti credi di essere?», sbottò Nathan. «Non c'è soltanto la tua vita in gioco: ci siamo anche io, Ober e Eric». «Ma se vado alla polizia, Rick spedirà le lettere», fece notare Ben. «E allora sì che sareste fregati, qualsiasi cosa io faccia». «Ma se ti assumi tutta la responsabilità e collabori, noi abbiamo qualche speranza di uscirne senza troppi danni». Prima che Ben potesse replicare, la porta di casa si aprì e Eric fece il suo ingresso. Vedendo le facce degli amici, disse: «Che succede? Chi è morto?». «Abbiamo ricevuto posta, oggi», disse Nathan. Lui e Ober gli mostrarono anche le lettere indirizzate a loro. Quando ebbe finito di leggere, Eric domandò: «Che cosa facciamo?». «Noi niente», disse Nathan. «Tocca a Ben fare qualcosa». «Secondo lui, dovrei costituirmi e subire la punizione che mi merito», spiegò Ben. «Escluso», disse Eric. «Ti licenzierebbero all'istante».
«Lascia perdere il licenziamento», disse Ben. «Se si viene a sapere di quel libretto bancario finisco in galera». «Se è così, allora dovresti cercare di incastrare Rick», disse Eric, togliendosi finalmente il cappotto. «Non venire qui a farci questa sceneggiata da macho», lo interruppe Nathan. «Tu sei quello che ha meno da perdere». «E come fai a dirlo?», domandò Eric, scettico. «Se la tua lettera salta fuori, magari riesci anche a scrivere qualche articolo», fece notare Nathan. «È nel tuo interesse istigare Ben». «Sei incredibile», disse Eric, scuotendo la testa. «Credi davvero che io sia un tale pezzo di merda?». «Non sarebbe la prima volta che il tuo interesse personale prevale sul tuo discernimento». «Ma vattene affanculo», replicò Eric. Rivolgendosi a Ober, Ben disse: «Tu sei un po' troppo silenzioso. A che cosa stai pensando?». «Credo di essere d'accordo con Nathan», rispose Ober. «Mi dispiace». «Ma è pura follia...», sbottò Eric. «Non ha senso discutere», lo interruppe Ben, cercando di porre fine alla conversazione. «Finché non sento Rick, non posso far niente». «Ma...». «Mi spiace, ma la mia decisione, per il momento, è questa», disse Ben. «L'unica cosa che posso fare è chiedervi di fidarvi di me. Non farei mai nulla che potesse mettervi in pericolo». «Hai in mente un piano?», domandò Nathan, sospettoso. «Perché se agisci come in occasione del caso Grinnell...». «Non ho in mente nessun piano», lo interruppe Ben. «Non so ancora cosa farò. Ma voglio che sappiate che non farò nulla che possa danneggiarvi. Ve lo giuro». «Okay», disse Nathan, prendendo il cappotto dal ripostiglio e avviandosi alla porta. «Dove vai?», domandò Ben. «Esco», disse Nathan. «Ho fame, vado a mangiare qualcosa». Quando la porta si chiuse, Ober si rivolse a Ben. «Ben, tu hai perso il lume della ragione. Ti conviene parlargli, quando torna». «Ma quando gli parli stai attento a quello che dici», sottolineò Eric. «Cosa vuoi dire?», domandò Ober. «Voglio dire che se fossi nei panni di Ben, non mi fiderei di nessuno».
«Nutri ancora dei sospetti sul conto di Nathan?». «No, nessun sospetto», disse Eric. «Penso soltanto che un vero amico avrebbe offerto un po' più di sostegno». «Tu riesci a essere davvero stronzo, certe volte», disse Ober, alzandosi dal divano. «Tu non hai il diritto di sputare sentenze su cosa dovrebbe fare un "vero amico"». Prima che Eric potesse rispondergli, Ober si trovava già a metà della scala. «Lascialo andare», disse Ben, prendendo il cappotto dal ripostiglio. «Dove vai?», domandò Eric, colto di sorpresa dall'esodo di massa dei suoi amici. «Ho bisogno di fare due passi», rispose Ben, chiudendosi la porta alle spalle. Mentre camminava, Ben non smetteva di voltarsi indietro. Scrutava attentamente ogni persona che entrava nel suo campo visivo, domandandosi dove fossero gli agenti di DeRosa, ammesso che ci fossero. Giunto nella zona commerciale del suo quartiere, Ben infilò la testa da Jumbo's, la migliore tavola calda aperta fino a tardi. Si sedette al banco e ordinò uno dei piatti del giorno. Quindi, si alzò e raggiunse il telefono pubblico sul retro del ristorante. Inserì gli spiccioli necessari e compose il numero di Lisa. «Dài, rispondi, ti prego. Sii a casa!». Mentre il telefono continuava a squillare, Ben pensò a tutto quello di cui avrebbe voluto parlarle: dello spavento per le lettere di Rick; del dispiacere di dover mentire agli amici; del timore per la propria sorte; del desiderio di parlare con una persona fidata. Quando scattò la segreteria telefonica, Ben capì che Lisa non era a casa. Era solo. Scrutando i volti dei clienti del locale, Ben riagganciò. Infilò una mano in tasca e prese il foglietto con il numero che gli aveva dato DeRosa. "Forse, dovrei chiamare", pensò, sollevando nuovamente la cornetta. "No, non è ancora successo nulla di così terribile. Il piano potrebbe ancora funzionare". Posò la cornetta. "È molto probabile che Rick agisca esattamente come previsto". Agitatissimo, ma sempre circospetto, Ben si allontanò dal telefono e tornò a sedersi. "Ma se qualcosa non va per il verso giusto, suono l'allarme". 17 «Non ce la faccio più», disse Ben. Davanti allo specchio dell'ufficio si tormentava il mento nel punto in cui, radendosi, si era procurato un pro-
fondo taglio. «Perché non ha ancora chiamato?». «È passata soltanto una settimana», disse Lisa. «È stata la settimana più lunga della mia vita», disse Ben, mentre il taglio riprendeva a sanguinare. «A questo punto lui dovrebbe farsi vivo per dirci cosa vuole». «Forse sta cercando di fiaccare la tua resistenza», disse Lisa, passandogli un fazzolettino. «È evidente», ammise Ben. Applicò il fazzolettino sulla ferita. «Più lui aspetta, più io divento matto. Uno dei soliti giochini psicologici di Rick». «Non mi sorprende che Rick non abbia chiamato; piuttosto mi preoccuperei per il fatto che non ha chiamato DeRosa». «Non me ne parlare. Ha promesso di tenermi informato e poi non si è più fatto sentire. Per quel che ne so io, i marshals potrebbero non essere neppure entrati in azione». «Non hai l'impressione di essere sorvegliato?». «Per niente», disse Ben. «E questo può significare due cose: o sono bravissimi oppure mi hanno mentito». «Conviene che ti sbrighi», disse Lisa, consultando il proprio orologio. «Altrimenti arriverai in ritardo al tuo primo pranzo gratuito». «Gli va bene che è gratis...», disse Ben, sempre intento a tamponarsi il mento. «Non venirmi a raccontare palle», disse Lisa. «Stai per andare a pranzo con il presidente della Corte suprema. Non far l'indifferente». «Hai ragione», ammise Ben. «Non sono affatto indifferente. Nessuno lo sarebbe all'idea di farsi prendere a martellate per un'ora». «Non far caso a quello che dicono i suoi assistenti. Hanno la spina dorsale così molle, che riescono a malapena a stare eretti». «Be', sappilo, io so stare eretto alla perfezione», disse Ben, orgoglioso, col petto in fuori. «Super-eretto». «Certo, sei tutto un'erezione», disse Lisa, mentre Ben si avviava alla porta. Sul punto di lasciare l'ufficio, Ben fu bloccato dallo squillo del suo telefono. Guardò Lisa. «Lascialo suonare», disse lei. «Non rovinarti il pranzo». Quando vide che lui tornava sui propri passi, aggiunse: «Rilassati, non è lui». «Pronto? Ufficio del giudice Hollis», disse Ben, dopo aver sollevato la cornetta. «Ciao, Ben», disse Rick. «Come vanno le cose lì alla Corte?». Ben chiuse gli occhi e gettò il fazzolettino sulla scrivania. «Dimmi cosa
vuoi». «Cosa voglio?», domandò Rick. «Chi ha detto che voglio qualcosa? Ho chiamato solo per salutare». «Senti, Rick, non ho proprio tempo per questi giochetti, adesso. Cosa vuoi?». «Ehi, che ti prende?», domandò Rick. «Non mi sembri più così sicuro come l'ultima volta che ci siamo sentiti». «Sto benissimo», disse Ben, a denti stretti. «Immagino che tu e i tuoi amici abbiate ricevuto le mie missive...». «Sì, le abbiamo ricevute. Dimmi cosa vuoi». «D'accordo, parliamo di affari», disse Rick. Si schiarì la gola. «Voglio la decisione sul caso American Steel, e la voglio stasera». «Ma la decisione verrà annunciata lunedì», disse Ben, preso dal panico. «Lo so, non ti preoccupare», disse Rick. «Voglio che sia tu in persona a consegnarmela». «Devo pensarci», disse Ben. «Ti concedo mezz'ora». «Tra mezz'ora non sarò neanche in ufficio. Oggi sono a pranzo con Osterman». «Ti richiamo alle due in punto», disse Rick. «Per quell'ora voglio una risposta. Ovviamente, visto il contenuto delle buste che vi ho spedito, puoi immaginare le conseguenze di un tuo rifiuto». «Aspetta un attimo», disse Ben. «Che ne diresti...». «Non c'è altro da dire», disse Rick. «Ti saluto». «Che cos'ha detto?», domandò Lisa, quando Ben ebbe messo giù il telefono. «Devo andare», disse Ben, guardando l'orologio. «Sono in ritardo». «Dimmi solo che cosa ti ha chiesto», disse Lisa. Ignorandola, Ben uscì dall'ufficio e corse giù per le scale, diretto all'ufficio di Osterman, che si trovava al primo piano. «Sei in ritardo di due minuti», disse la segretaria. «Non sperare che non te lo faccia notare». «Splendido», disse Ben. Oltrepassò il tavolo della segretaria ed entrò nell'ufficio di Osterman. Questi, in quanto presidente, occupava l'ufficio più grande di tutta la Corte. Al di là dell'oceanico tappeto rosso scuro, Osterman era seduto alla sua scrivania, che era la copia perfetta di quella usata da John Jay, il primo presidente della Corte. Avvicinandosi, Ben notò sul piano del tavolo una cornice dorata lavorata a sbalzo, che racchiudeva
la descrizione della Corte fornita da Oliver Wendell Holmes nel 1913: «C'è una grande quiete, ma è la quiete che si dice vi sia nell'occhio di un ciclone...». Di umore inadatto a soffermarsi sull'accuratezza della citazione, Ben rimase lì in piedi ad attendere che Osterman alzasse gli occhi dalle sue carte. Dopo circa un minuto, Ben strisciò un poco i piedi per terra e si schiarì la gola. Osterman alzò la testa di scatto e guardò l'ospite. «Lei è in ritardo. Ora mi farà il piacere di attendere un momento». Era un ometto smilzo, con occhiali enormi e un riporto di sottili capelli neri. Con i suoi cinquantanove anni, era uno dei presidenti della Corte più giovani di tutti i tempi, ma il suo scarso gusto nella scelta degli occhiali e dell'acconciatura lo faceva sembrare più vecchio. Rialzando la testa, aggiunse: «Per non dover uscire con questo tempaccio, ho chiesto di portare qui il pranzo». Indicando un tavolo antico disposto su un lato della stanza, disse: «Ho pensato che avremmo potuto mangiare lì». «Per me va benissimo», acconsentì Ben. «Si sieda, prego». «Grazie», disse Ben, accomodandosi sulla sedia di pelle di fronte a Osterman. «Columbia, facoltà di legge a Yale e un periodo con il giudice Stanley», disse Osterman, richiamando alla memoria il curriculum di Ben. «Com'è stata, finora, la sua esperienza alla Corte suprema?». «Molto interessante», rispose Ben. «C'è qualcosa che la turba?», domandò Osterman, indicando il piede di Ben che batteva nervosamente sul tappeto. «No», rispose Ben, fermando il piede. «È solo una brutta abitudine». Nel tentativo di cambiare argomento, Ben domandò: «Come ha passato le vacanze?». «Non c'è male», rispose Osterman. «E lei?». «Benissimo», disse Ben, in tono sobrio. «Mi dica», lo interrogò Osterman, «ha esaminato qualche richiesta di revisione che le sia parsa degna di nota?». «Be', ci sarebbe la questione di costituzionalità sollevata in merito al nuovo piano presidenziale di sostegno all'agricoltura. Mi sembra piuttosto interessante». «Gli agricoltori sono dei jeffersoniani reazionari che non hanno mai avuto un pensiero progressista in tutta la loro vita», disse Osterman.
«È uno dei possibili modi di vedere la questione», disse Ben, sorpreso dalla reazione di Osterman. «Ma non ha la sensazione che...». «Ben, lasci perdere le sensazioni! La legge non ha nulla a che fare con il sentire. Se c'è una cosa che deve imparare, qui alla Corte, è questa: la vita è una tragedia per chi si basa sul sentire, ma è una commedia per chi, invece, pensa». «Ed è un musical per quelli che cantano», suggerì Ben. Quando vide le sopracciglia di Osterman abbassarsi al di sotto del bordo superiore degli occhiali, Ben aggiunse: «Comunque, capisco quello che intende». Prima che Osterman potesse dire altro, la porta dell'ufficio si aprì e la segretaria avvisò: «È arrivato il pranzo». Un'ora dopo, Ben tornò in ufficio. «Finalmente!», esclamò Lisa, non appena lui si affacciò alla porta. «Raccontami che cosa ha detto Rick. Che cosa voleva? Com'è andato il pranzo?». «Comincio dalla domanda più facile: il pranzo è stato un disastro su tutta la linea», rispose Ben, crollando sulla sedia. «Hai presente che di lui dicono che ha due lenti come culi di bottiglia? Be', non è vero. Porta un paio di occhiali che sembrano due sportelli di banca». «Lascia perdere Osterman», disse Lisa. Aveva preso un'insalata in rosticceria e la stava mangiando seduta al suo tavolo. «Che cos'è successo con Rick?». «Ah, sì, passiamo allo stronzo numero due. Vuole la decisione sul caso American Steel». «Ma verrà annunciata lunedì», disse Lisa, «e oggi è già venerdì». «Penso che sia proprio questo il punto», disse Ben, gettandosi sul divano. «Chiaramente, Rick vuole evitare che noi si possa ordire una qualche trama ai suoi danni». «Pensi che il piano sia in atto?», domandò Lisa con la bocca piena di verdura. Dopo una breve pausa, Ben rispose: «Non ne ho idea». «Come sarebbe a dire: "non ne ho idea"?». «Non ne ho idea», ripeté Ben, alzando la voce. «Non so se i marshals sono pronti; non so se stanno facendo qualcosa; non so neppure se sono ancora dalla mia parte. Per quel che ne sappiamo, potremmo essere da soli alle prese con Rick». «Questa è una stronzata». «Come sarebbe a dire: "questa è una stronzata"?», domandò Ben. «Ave-
vano promesso di farsi sentire, ma è più di una settimana che non ho notizie. Rick mi sta chiedendo altre informazioni e le vuole due giorni prima che io possa fornirgliele. È in possesso di materiale che potrebbe causare il licenziamento dei miei amici e spedirci tutti in galera. Io sarò radiato e tutto quello per cui ho faticato nella mia vita svanirebbe in un istante. Se il piano non funziona alla perfezione, so cosa mi aspetta. Dimmi tu quale sarebbe la stronzata». «Nessuno ti dice che il piano non funzionerà». «Il piano è già fallito», disse Ben. «Il coinvolgimento dei miei amici rende tutto maledettamente complicato». «Non ho voglia di discuterne», tagliò corto Lisa. «Secondo me, il piano funzionerà. Che altro ha detto Rick?». Ben consultò l'orologio. «Dovrebbe chiamare a momenti. Vuole che gli dica se gli passerò l'informazione o meno». «La vuole assolutamente entro stasera?». «Così pare». «Cerca di temporeggiare fino a domenica. Così possiamo metterci in contatto...». Lisa fu interrotta da qualcuno che bussava alla porta. «Avanti», disse Ben. Era Nancy. «Come va?», domandò Nancy, portando alcuni libri e una pila di carte. «Hai un'aria stanca», disse a Ben, passando una busta marroncina a Lisa. «È la versione corretta della relazione di minoranza sul caso di diritto commerciale?». Lisa tolse l'insalata dalla scrivania e si pulì le mani con un fazzolettino, prima di prendere la busta. «Esatto», disse Nancy. Si avvicinò alla parete opposta alla porta e raddrizzò la foto incorniciata dei giudici. Quindi, si voltò verso Ben, che era ancora allungato sul divano. «Hai dormito, stanotte?». «Oh, sì», disse Ben, immobile. «Almeno un'ora piena». «Dovreste prendervi un giorno di vacanza», disse Nancy. «Ogni anno vedo gli assistenti che si ammazzano di lavoro. Non ne vale proprio la pena». «Lo so...», stava dicendo Ben, quando all'improvviso il suo telefono cominciò a squillare. Scattò su dal divano e mise una mano sulla cornetta. «Grazie, Nancy. Ti darò la nuova stampata prima di sera», disse Lisa. «Fai pure con calma. A Hollis non serve prima di lunedì», la tranquillizzò Nancy, chinandosi sul tavolo di Lisa. «Avete in mente di fare qualcosa di bello nel fine settimana o sarete qui a lavorare?». Visto che Nancy non dava segno di volersene andare, Ben sollevò la
cornetta, sia pure con una certa riluttanza. «Ufficio del giudice Hollis», disse. «Sono Ben». «Allora, sei pronto?», domandò Rick. «Ehi, ciao, come va?», disse Ben, cercando di sembrare il più cordiale possibile. «Non è più tempo di scherzare». «Io sto bene». Ben forzò una risata. «Ero qui che parlavo con dei colleghi». «Allora, qual è la risposta?», domandò Rick. Ben voltò le spalle a Lisa e Nancy. «Ho bisogno di più tempo». «Questo non è il caso Grinnell. Non hai bisogno di altro tempo». «Sì, invece», disse Ben. «Non è ancora pronta». «Non raccontarmi stronzate», avvertì Rick. «So per certo che la decisione è pronta». «Ti giuro...», disse Ben, cercando si convincerlo. Senza dir altro, Rick riagganciò. «Pronto?», domandò Ben nervosamente. «Ci sei?». Riabbassando la cornetta, Ben tornò a voltarsi verso Lisa e Nancy, che lo stavano fissando. «Tutto bene?», domandò Nancy. «Sì, benissimo» rispose Ben, con nonchalance. «È caduta la linea». «Non ti preoccupare», gli disse Nancy. «Richiameranno». Avviandosi alla porta, aggiunse: «Lisa, davvero non c'è fretta per l'inserimento di quelle correzioni. Sono sicura che Hollis non le guarderà prima di lunedì». «Grazie», disse Lisa, mentre Nancy usciva dall'ufficio. Non appena la porta si fu richiusa, Lisa guardò Ben. «Che cos'ha detto?». «Quel figlio di puttana ha riattaccato!», inveì Ben. «Mi ha chiesto la decisione, io ho cercato di prendere tempo e lui ha riattaccato. Non ci posso credere». Ben e Lisa attesero che il telefono squillasse di nuovo. Dopo un minuto abbondante, Ben disse: «Non richiama più? Che diavolo succede, adesso?» «Sta solo cercando di farti impazzire», disse Lisa. «Be', sta funzionando», disse Ben. «Che cosa posso fare?». «Rilassati. Richiamerà di sicuro». «Non richiama più! Che diavolo succede, adesso?». «Sta solo cercando di farti impazzire», disse Lisa. «Be', sta funzionando», disse Ben. «Che cosa posso fare'?». «Rilassati. Richiamerà di sicuro».
Fisk passeggiava avanti e indietro nell'ufficio di Lungen, sorridendo compiaciuto per il fatto che il microfono fosse finalmente in funzione. «Non so che cos'abbiano in mente, ma il ragazzo è tutto meno che innocente». Lungen aveva lo sguardo fisso sull'altoparlante grigio antracite posato sulla sua scrivania. «Non so», disse. «Non so chi sia questo Rick; di certo, però, Ben ne era terrorizzato. A quanto pare, lo sta ricattando». «Ricattato o no, ha di sicuro infranto la legge». «Noi questo non lo sappiamo», disse Lungen. «Non conosciamo ancora tutta la storia». «Vuoi scherzare?», domandò Fisk, fermandosi bruscamente. «Abbiamo montato 'sto aggeggio cinque minuti fa e li abbiamo già sentiti parlare di informazioni riservate da far trapelare all'esterno della Corte». «Non dobbiamo saltare alle conclusioni...». «Non c'è nessun bisogno di saltare. La risposta ce l'abbiamo davanti agli occhi. Qualunque cosa abbiano fatto, per questi due non si mette molto bene». «Il microfono è stato installato ieri sera. Fino a mezzogiorno di oggi non siamo riusciti a farlo funzionare e abbiamo ascoltato sì e no cinque minuti di conversazione. Dico soltanto che dovremmo aspettare un attimo. Voglio vedere bene cosa c'è sotto, prima di fare irruzione con le pistole spianate». «Fidati, lo scopriremo presto», disse Fisk. «Da come parlano questi due, tra una settimana il giudice Hollis dovrà trovarsi dei nuovi assistenti». «Basta», disse Rick, chiudendo di scatto il suo cellulare. «Ne ho abbastanza di questa storia di merda». Aprì la portiera anteriore dal lato del passeggero e uscì dall'auto. Dal posto di guida, invece, scese Richard Claremont, il dirigente responsabile del ramo finanziario della American Steel, che gli domandò: «Che cosa ha detto?». Rick sbatté la portiera e guardò la via su cui si trovava. Da quel punto godeva di una vista perfetta sul palazzo della Corte. «Cercava di guadagnare tempo». Incurante del gelido vento che spazzava la Prima Strada, Rick non si abbottonò neanche il cappotto. «Sembrava nervoso, ma stava chiaramente cercando di guadagnare tempo». «Ha buoni motivi di essere nervoso. Con quello che gli hai detto, la sua vita è rovinata». «Non voglio spaventarlo troppo, però», spiegò Rick, camminando verso
la Corte. «Se si spaventa, correrà alla polizia. Se invece si convince di avere ancora una possibilità di fregarmi, probabilmente riusciremo a ottenere la decisione». «Credi che possa ancora rivolgersi alla polizia?», domandò Claremont. «A dire il vero, no», rispose Rick, osservando un pullman carico di turisti infagottati che scattavano fotografie della più alta corte di giustizia degli Stati Uniti. «Ben tiene troppo alla propria carriera per andare alla polizia. È questa la ragione per cui la mia scelta si è appuntata proprio su di lui. Ha molto da perdere». «Perché, allora, non hai scelto Lisa? Dal dossier che hai raccolto su di lei, sembra che abbia più o meno lo stesso retroterra di Ben». «Ben è un bersaglio molto più facile», spiegò Rick. «Tra i due, Lisa è più intelligente. Non si sarebbe mai fatta sfuggire la prima decisione. Ben, invece, è più vanitoso. Sapevo che avrebbe abboccato». «Se lo dici tu...», assentì Claremont. «Anche se pare che non sia stato così prevedibile come pensavi». «Ha avuto qualche trovata brillante», disse Rick. «Ma quest'ultima settimana l'ha davvero prostrato. Non ce la fa più». Rick infilò una mano nella tasca del cappotto e tirò fuori il telefono. «Comunque, presto si renderà conto che non sto scherzando». "Persino in due dimensioni, non sei niente male", pensò Ober, ammirando la più recente tra le fotocopie della sua faccia. Seduto alla sua scrivania, aprì il cassetto superiore sul lato sinistro, prese una grossa cartelletta e aggiunse la fotocopia del giorno alle altre trecentoventisei che già vi si trovavano. Ogni giorno, Ober posizionava la propria faccia sulla fotocopiatrice e posava per la foto ritratto più istantanea del mondo allo scopo di creare un album fotografico assolutamente originale. Dopo aver segnato la data sul retro del foglio, ripose la fotocopia insieme alle altre. Mentre risistemava la cartelletta nel cassetto, notò la sagoma di una persona sulla soglia, che presto riconobbe: era Marcia Sturgis, la direttrice del personale del senatore Stevens. «Ober, posso parlarti nel mio ufficio?», domandò Marcia, in tono brusco. Marcia era una veterana di Capitol Hill: aveva cominciato la sua carriera lavorando, subito dopo la laurea, come receptionist per il senatore Edward Kennedy, e nell'arco di vent'anni aveva fatto strada nella gerarchia burocratica. Dal suo punto di vista, era valsa la pena spendere quegli anni in uffici oscuri, perché era diventata la figura più importante dello staff del
senatore Stevens. Con una giornata di lavoro che cominciava alle sei di mattina e finiva alle undici di sera, Marcia controllava quotidianamente tutto ciò che il senatore Stevens vedeva e sentiva. Presenziava agli incontri con gli elettori, organizzava le apparizioni televisive e curava i discorsi e i comunicati stampa del senatore. Le competevano, inoltre, tutte le più importanti decisioni relative alla gestione del personale. Seguendo Marcia nel suo ufficio, Ober tentò di indovinare che altro poteva aver combinato, questa volta. Da quando era stato promosso assistente amministrativo, le convocazioni nell'ufficio di Marcia erano roba di tutti i giorni. Una volta era stato richiamato perché a una lettera di protesta di un elettore, aveva semplicemente risposto: «Rilassati». Un'altra volta aveva sbagliato a scrivere il nome della moglie di Stevens sulla lettera indirizzata a un altro senatore. Poi, Marcia lo aveva colto in flagrante mentre telefonava agli staff dei senatori repubblicani per convincerli ad arrendersi. Entrando nell'ufficio di Marcia, Ober vide uno sconosciuto dalla schiena eretta seduto su una delle sedie davanti alla scrivania. Quando vide l'espressione solenne dipinta sul volto di quell'uomo, Ober comprese che non si sarebbe parlato del caffè che aveva inavvertitamente versato sul computer di Marcia. «Siediti», disse Marcia, indicando la sedia vuota accanto a quella occupata dallo sconosciuto. «Ober, questo è Victor Langdon, dell'FBI». «Piacere di conoscerla», disse Ober, porgendogli la mano. «Possiamo venire al dunque?», domandò Langdon, ignorando la mano tesa di Ober. Gli occhi di Marcia erano fissi su Ober. «Volevo parlarti di un fax anonimo che ho ricevuto poche ore fa», gli spiegò. «Vi si afferma che la lettera di minacce al senatore su cui tu hai indagato alcuni mesi orsono l'avevi scritta tu stesso. L'autore del fax sostiene che l'hai fatto per ottenere una promozione. E siccome la tua promozione è stata decisa proprio in considerazione della tua condotta in quel caso, ci chiedevamo se avevi qualcosa da dire a tua discolpa». «Non ne so assolutamente niente», disse Ober. Accavallò le gambe e cercò di non farsi prendere dal panico. «Guarda che non ho alcuna intenzione di perdere tempo», disse Langdon, puntando un dito contro Ober. «Ober, non mentire, ti prego», lo esortò Marcia, con i pugni chiusi appoggiati sul tavolo. «La questione è seria». Ober scavallò le gambe. «Non è come sembra...», balbettò.
«Allora, neghi?», lo incalzò Langdon, prendendolo per un braccio. «Se non l'hai scritta tu e sai chi è stato, devi dircelo», gli consigliò Marcia. Ober cercò di liberarsi dalla stretta di Langdon. «Non era una vera lettera di minacce. Il senatore non è mai stato in pericolo». «Questo l'ho già riferito io», disse Marcia, «ma l'FBI vuole sapere chi l'ha scritta». Ober tacque, pensando a un modo per evitare il coinvolgimento di Ben. «Se non ci dici chi l'ha scritta, sarò costretta a chiedere il tuo licenziamento», disse Marcia. «Con una condanna per tentato omicidio, passerai il resto della tua vita in prigione», aggiunse Langdon. Ober riuscì infine a divincolarsi dalla presa di Langdon. «Ma quale tentato omicidio?». «Allora, dicci com'è andata», disse Langdon. «Chi ha scritto quella lettera?». Di nuovo, Ober tacque. «Ober, ti prego, non peggiorare la tua situazione», disse Marcia, sporgendosi al di sopra della scrivania. «Basta», disse Langdon, alzandosi in piedi. «Visto che qui non ha intenzione di parlare, lo porto dentro per interrogarlo». Marcia balzò in piedi. «No, questo no», disse. «Lei mi ha garantito la piena giurisdizione sul caso. È evidente che il senatore Stevens non ha mai corso alcun rischio...». «Perché protegge questo ragazzo?», domandò Langdon. «Non lo sto proteggendo. È solo...». «L'ho scritta io», la interruppe Ober, con un filo di voce. «Cosa?», domandò Marcia. «L'ho scritta io», ripeté Ober, con gli occhi fissi a terra. «Quella lettera l'ho scritta io». «Dici davvero?», domandò Marcia. «Lo sapevo», disse Langdon, tornando a sedersi. «Perché l'hai fatto?», domandò Marcia. «Non saprei spiegarlo», disse Ober, senza alzare gli occhi. «L'ho scritta e basta. Non ho altro da dire». Langdon prese il taccuino che aveva posato sulla scrivania di Marcia e cominciò a prendere appunti. «La minaccia al senatore era seria?», domandò.
«No», disse Ober. «No, davvero. Il senatore è sempre stato splendido nei miei riguardi». «L'hai fatto per ottenere la promozione?», domandò Marcia. «Il fax dice il vero?». «No, assolutamente, ma è chiaro che potrebbe sembrare così», disse Ober. «Dopo aver scritto la lettera ho avuto la promozione». Nell'ufficio calò il silenzio. Marcia e Langdon fissavano Ober. Quando Ober alzò la testa per guardare in faccia i suoi interlocutori, i suoi occhi erano gonfi di lacrime. «Be'?», fece. «Che altro volete che vi dica? L'ho scritta io. Punto e basta». Langdon si rivolse a Marcia. «Se vuole posso portarlo...». «Lo lasci stare», disse Marcia. «Risolveremo la questione al nostro interno. E spero che lei mantenga la sua promessa. Non voglio vedere una sola parola sui giornali a questo riguardo». «Meglio andarci cauti in periodo pre-elettorale, vero?», domandò Langdon. «Lei che ne dice?», domandò a sua volta Marcia, rimettendosi a sedere. Prese nota di qualcosa; quindi, guardò Ober: «Se sarai tu a dimetterti, non presenteremo alcuna denuncia «E se io volessi conservare il mio posto di lavoro?», domandò Ober, ormai terreo in volto. «È fuori discussione», disse lei. «Sei comunque licenziato, ma se presenti le dimissioni spontaneamente risparmierai a entrambi un bel po' di problemi. Altrimenti dovremo licenziarti noi, ma in tal caso saremmo costretti a documentare tutta la vicenda a discapito della tua fedina penale». «Ma...», cercò di replicare Ober. «Questa è la mia offerta», disse Marcia, riprendendo a scrivere. Ober si rese conto di non avere scelta. «Presenterò le dimissioni». «Bene», disse Marcia, posando la penna. «Hai dieci minuti di tempo per liberare l'ufficio. Lasciami il tesserino di riconoscimento». Tornando al proprio ufficio, Ober si sentì male al pensiero delle conseguenze che avrebbe avuto quell'ultima mezz'ora. Era a Washington da due anni e non aveva ancora combinato nulla di buono. Il suo primo successo professionale si era rivelato un fuoco di paglia. La sua promozione di breve durata gli aveva fatto assaporare il gusto della vittoria, per poi precipitarlo di nuovo verso il fallimento. Non avrebbe più potuto farsi vedere in ufficio. Se avesse incontrato i colleghi per strada, avrebbe dovuto mentire
sulla ragione delle sue dimissioni. E anche per genitori e parenti avrebbe dovuto inventare una scusa. "E sarà meglio che ne trovi una buona", pensò, raggiungendo la propria scrivania, "perché altrimenti mia madre mi uccide". Raccattò le sue poche cose con le mani che gli tremavano. Quando staccò dalla parete il diploma incorniciato, quasi lo fece cadere. Gli avevano ordinato di lasciare in ufficio qualsiasi tipo di documento, ma Ober aprì ugualmente il cassetto della scrivania e ne tolse l'unico documento che era indubitabilmente suo. Scorrendo le trecentoventisette fotocopie della sua faccia, pensò al giorno in cui aveva cominciato a lavorare per il senatore Stevens e a come si era intrufolato nella sala fotocopie per scattare la prima foto della serie. Si ricordò dell'entusiasmo con cui aveva cominciato a tenere quell'album e di come aveva deciso di non parlarne agli amici finché non fosse stato completato. "Be', adesso è proprio finito", pensò, fissando il mazzo di fogli che teneva tra le mani. «È finito. Ora posso farlo vedere a Eric, a Nathan e a Ben... Ben...". Quel silenzio lo mandò in tilt: Ober scagliò il pacco di fogli contro il muro, e le trecentoventisette pagine volarono dappertutto. "Cos'ho che non va?", si domandò, sprofondando in quella che fino a poco prima era la sua poltrona. Tra i resti di quell'uragano di carta, Ober scoppiò a piangere. "Non può essere", pensò Ben, uscendo dalla stazione del metrò e correndo a casa. "Forse Eric ha capito male". Svoltando l'angolo dell'isolato di casa sua, scivolò su una lastra di ghiaccio, che gli fece perdere l'equilibrio, mandandolo a sbattere l'anca destra contro il marciapiede gelato. Ignorando il dolore, si rialzò in piedi e riprese la sua corsa affannosa fino a casa. Quando spalancò la porta, vide Ober seduto sul divano. Aveva ancora addosso il suo completo blu con la cravatta allentata e fissava lo schermo della TV. All'arrivo di Ben non ebbe alcuna reazione. «Sono uscito appena l'ho saputo», disse Ben, lasciando scivolare a terra il cappotto. «Come va? Ti senti bene?». Siccome la risposta tardava, Ben riprese: «Dài, Ober, rispondimi. Sono qui per aiutarti». «Non c'è niente da dire», disse Ober, con voce piana e assente. «Ti ho aiutato, mi hanno scoperto e sono stato licenziato». Ben si avvicinò al divano e si sedette accanto all'amico. «Ober, io credevo...». «Sì, lo so: tu credevi che non sarebbe successo», lo interruppe Ober, con le spalle curve per lo sconforto. «Lo giuro. Credevo che Rick stesse bluffando. Non credevo che l'avreb-
be fatto veramente. Pensavo...». «Non importa cosa pensavi», disse Ober, con una voce che era poco più di un bisbiglio. «Io ho perso il lavoro. Questa è l'unica cosa che importa». Ben, incapace di sostenere lo sguardo dell'amico, alzò gli occhi sul dipinto di Eric. Cercò il motivo più fondato, la spiegazione più convincente, la scusa ideale, ma non trovò nulla da dire. Nelle discussioni Ben non perdeva un colpo, ma quando si trattava di scusarsi era un disastro. Alla fine, se ne uscì con un semplice «mi dispiace». Senza preavviso, gli occhi di Ober si riempirono di lacrime. Si coprì la faccia con le mani. «Non sai quanto mi dispiace», disse Ben, cingendo le spalle dell'amico. «Non potrò mai scusarmi abbastanza per quello che è successo». «Sono rovinato...». «No, non sei rovinato», disse Ben, cercando di scuoterlo. «Troverai un altro lavoro. Migliore di questo». «No, non è vero», singhiozzò Ober. «Ci ho messo cinque mesi per trovare quel lavoro. Come faccio a trovarne un altro?». «Ti aiuteremo noi», disse Ben. «La situazione è meno grave di quanto pensi. Tra tutti e cinque, vedrai che...». «Neanche questo è vero», lo interruppe Ober, asciugandosi gli occhi. «Sai benissimo che io non sono come voi. Non sono mai stato uno studente modello. Non sono un genietto come voi. Sono un coglione qualunque». «Smettila, con questa storia, Ober», disse Ben. «Tu sei intelligente quanto noi». «No, non è vero», disse Ober, ancora ansimante. «Sei stato tu a dirlo, e avevi ragione: non lo sono affatto». «Sì, invece», insistette Ben. «Invece no», ribadì Ober. «È la sesta volta che vengo licenziato. Ci vorranno dei mesi prima che riesca a trovare un altro posto di lavoro. E sarà sicuramente peggiore dell'ultimo. La mia vita è come la ditta di giochi di mio padre: un fallimento totale». «Ober, non essere così duro con te stesso», disse Ben, con il braccio che ancora cingeva le spalle dell'amico. «La vita non ruota attorno al risultato dei test attitudinali scolastici o alla media dei voti con cui ci si laurea. Se ci fai caso, una forte personalità può portarti altrettanto lontano. E quella puoi star sicuro che ce l'hai». «No, non ho nemmeno quella», disse Ober, allontanandosi da Ben. «Non sono intelligente, non sono pieno di risorse, non riesco a lavorare sotto
pressione. Perché, secondo te, non riesco a tenermi un lavoro? Sono mesi che continuo a fare cazzate... Mi avrebbero licenziato comunque. Questa storia di Rick non ha fatto altro che accelerare i tempi». «Non è vero», disse Ben. «Come fai a dire che non è vero?», domandò Ober, con gli occhi nuovamente pieni di lacrime. «Tu non c'eri. Tu non mi hai mai visto al lavoro. Il più delle volte neanch'io sapevo spiegarmi che cosa ci facessi, lì...». «Facevi l'assistente amministrativo», lo interruppe Ben. «È un buon lavoro». «Un impiego di bassissimo profilo», disse Ober, asciugandosi le guance con il dorso di una mano. «E l'unica ragione per cui l'ho ottenuto è l'indagine che ho condotto su una lettera di minacce scritta da me. Se non fosse stato per quello, sarei ancora lì a rispondere al telefono». Si interruppe per prendere fiato e guardò Ben negli occhi. «Perché è successo tutto questo?». Colto di sorpresa dal crollo emotivo di Ober, Ben stentava a riconoscere l'amico che frequentava dai tempi delle elementari. Ma quando vide che l'agitazione di Ober non accennava a placarsi, gli si avvicinò e abbracciandolo disse: «È tutta colpa mia». «Vorrei solo che tutto fosse ancora come quando siamo arrivati qui», disse Ober, con il viso affondato nella spalla di Ben. «Noi quattro, e basta. Senza litigi. Senza discussioni». «Lo sarà, vedrai», disse Ben. «Te lo prometto». «È impossibile», disse Ober. «Non sarà mai più così. È finita. Abbiamo chiuso con quei tempi». «Non è vero», replicò Ben. «Siamo ancora tutti amici. Risolveremo tutti i problemi». «Non è possibile!», disse Ober, con voce rotta dai singhiozzi. «Tu e Nathan vi parlate a malapena. Eric e Nathan non si parlano proprio. Questo è il giorno peggiore della mia vita, e loro due sono così occupati da non poter nemmeno venire a casa per vedere che cosa mi è successo. Questa non è un'amicizia, è una barzelletta». «Non è finita», insistette Ben. «Rick non riuscirà...». «Ormai, non ha più importanza quello che farà Rick», gemette Ober. «Il danno è fatto. Nathan non ti perdonerà mai per avermi fatto licenziare. E finché Nathan sarà incazzato con te, Eric sarà incazzato con lui. È inevitabile». Ben lo guardò ammutolito, cosciente del fatto che Ober aveva ragione.
«E tu?», domandò infine. «Mi perdonerai mai?». Ober si asciugò gli occhi. «Non lo so». «Ma...». «Non dire nulla, ti prego», lo interruppe Ober. «Non voglio sentire nulla, ora». Prima che Ben potesse replicare, squillò il telefono. Ben si voltò verso l'apparecchio, appoggiato sul tavolino da caffè. Poi tornò a voltarsi verso Ober. «Dài, rispondi», disse Ober. «Lo so che vuoi rispondere». «Non è questo», disse Ben. «È solo...». «Rispondi», insistette Ober. Ben afferrò la cornetta. «Pronto». «Allora, sei ancora interessato a Wayne & Portnoy?», domandò Alcott con voce esageratamente allegra. «Adrian?», domandò Ben, infastidito. «Sì, sono io», rispose Alcott. «Mi avevi detto di farmi sentire per incontrarci a pranzo, e così ho pensato...». «Adrian, perché mi telefoni a casa?», domandò Ben, alzandosi di scatto dal divano, facendo cadere a terra il telefono. «Ti chiedo scusa», disse Alcott. «La segretaria, alla Corte, mi ha detto che non ti saresti fatto vedere, questo fine settimana, e io volevo fissare per lunedì». «Ascoltami bene», disse Ben, serrando la cornetta nel pugno. «Non chiamarmi mai più a casa. Se non sono al lavoro, non voglio che mi disturbi. Anzi, neanche quando sono al lavoro mi devi chiamare. So tutto quel che c'è da sapere sullo studio. Non sarà certo un pranzo gratuito in più o in meno a farmi decidere». «Io...», balbettò Alcott. «Lascia perdere», lo interruppe Ben. «Se mi viene voglia di venire a pranzo con te, mi farò sentire. Altrimenti, lasciami in pace. Ho da fare». Senza aspettare la risposta di Alcott, Ben sbatté giù la cornetta. «Chi era?», domandò Ober. «Nessuno», spiegò Ben. «Era un...». Prima che Ben potesse finire la frase, il telefono squillò di nuovo. Ben sollevò la cornetta. «Adrian, sono certo che ti dispiace, ma adesso non ho tempo per le tue scuse». «Non sono Adrian, e di certo non mi dispiace per niente». «Rick?», domandò Ben, già conoscendo la risposta. «A quanto pare, non stai passando una buona serata», disse Rick. «Ober
è stato licenziato ed è sull'orlo di un esaurimento nervoso; tu che ti metti a inveire contro l'unica persona che ancora ti cerca. Sarò sincero: se fossi in te, non mi metterei a urlare contro qualcuno che dovesse offrirmi un lavoro». Ben si rivolse a Ober. «Rick ha sentito tutto. La casa è piena di microspie». Tornando a Rick, disse: «Che cosa vuoi?». «Sai benissimo quello che voglio», rispose Rick. «L'unico dubbio è se tu hai deciso di darmelo». Ben si sedette sul divano piccolo. «Secondo te?». «Be', secondo me, Ober ti sta spezzando il cuore e tu stai valutando la possibilità di costituirti», disse Rick. «Io penso soltanto che se mi passi l'informazione, tutto si risolve». «Grazie per il consiglio», disse Ben. «Lo terrò presente». «Se mi passerai la decisione, io sparirò dalla tua vita. Il caso sarà definitivamente chiuso. Tu conserverai il tuo lavoro, e Nathan il suo. Io avrò ottenuto quello che voglio. Saremo tutti felici e contenti». Senza concedere a Ben l'opportunità di rispondere, Rick continuò: «Se sei interessato, presentati al Museo di storia americana domenica a mezzogiorno. C'è un telefono di servizio accanto al banco delle informazioni. Aspetta lì: ti farò sapere il luogo dell'incontro. Se non ci sarai, il tuo libretto bancario e la lettera di Nathan verranno consegnate ai vostri rispettivi superiori». «Ci sarò», disse Ben, freddamente. Senza aggiungere altro, riagganciò. «Che cos'ha detto», domandò Ober. «Lo odio, quel bastardo», disse Ben. «È così spocchioso...». «Dimmi cos'ha detto». «Qui è meglio di no», disse Ben, guardandosi intorno. «In questa casa non dobbiamo più dire una parola». Ben si alzò in piedi. «Usciamo di qui». «No, basta», disse Ober. «Mi sono stufato di questa storia. Veditela tu». «Vado soltanto da Lisa. Per parlare è più sicuro». «Non mi importa dove vai. Ne ho abbastanza». «Stai bene, però?», domandò Ben, raccogliendo il cappotto da terra. «Tu come staresti?», disse Ober. «Ho solo bisogno di farmi una dormita». Non sapendo che altro dire, Ben si abbottonò il cappotto, prese la borsa e si avviò alla porta. Proprio mentre stava per raggiungerla, la porta si spalancò e Nathan irruppe in casa. «Dove diavolo stai andando?», domandò Nathan a Ben. «Fuori», rispose secco Ben, irritato dal tono arrogante di Nathan.
«Aspetta un attimo», ribatté Nathan. Si voltò verso Ober e domandò: «È vero che ti hanno licenziato?». Quando Ober annuì, tornò a voltarsi verso Ben e disse: «Tu non vai da nessuna parte». «Davvero?», fece Ben. «E allora guarda». In una frazione di secondo fu fuori dalla porta. Ben costeggiò l'isolato e raggiunse il primo telefono pubblico, subito oltre la prima traversa. Dalla tasca della giacca prese un biglietto accartocciato, sganciò la cornetta e digitò il numero fornitogli da DeRosa. «Dài, alza quel cazzo di telefono», disse, prima ancora che la chiamata fosse inoltrata. Dopo aver atteso con impazienza che qualcuno rispondesse, Ben si allarmò sentendo una voce preregistrata che diceva: «Il numero che lei ha chiamato non è in elenco. La preghiamo di verificare e di ricomporre il numero desiderato». Abbassò la cornetta, ricompose il numero, controllando attentamente ogni tasto che premeva. Di nuovo quella voce: «Il numero che lei ha chiamato non è in elenco. La preghiamo di verificare e di ricomporre il numero desiderato». «Non è possibile», sospirò Ben. Con gli occhi chiusi e le mani strette attorno ai bordi della struttura che copriva il telefono, cercò una spiegazione razionale a quel che stava succedendo. Ma non la trovò. «Figlio di puttana!», gridò, prendendo a pugni il telefono. Col cuore in gola, si girò e urlò: «EHI, CI SIETE? CHE CAZZO SUCCEDE?». Attese una risposta in silenzio, senza peraltro sperarci. Nulla. Scrutò attentamente la zona, ispezionò ogni albero, ogni cespuglio e ogni altro possibile nascondiglio nel suo campo visivo. Niente. Era solo. Scorse un taxi verde smeraldo che veniva dalla sua parte con la lucina accesa sul tetto. Ben si mise in mezzo alla strada e costrinse l'auto a una frenata brusca per evitare di investirlo. «Ma sei matto o che cosa?», domandò il taxista, quando Ben aprì la portiera. «Conosci un motel da quattro soldi?», domandò Ben, accomodandosi all'interno. «Ne conosco un po'», rispose il taxista, innervosito dall'evidente agitazione di Ben. «Portami al primo che ti viene in mente», gli chiese Ben. L'autista acconsentì e mosse l'auto in direzione di Connecticut Avenue. «Ti senti bene?», domandò. Ben guardò fuori dal vetro posteriore, per controllare che nessuno lo
stesse seguendo. «Sì», rispose. «Benissimo». Dieci minuti dopo, il taxi svoltò nel piazzale del Monument Inn, un comunissimo edificio a un piano con una grande insegna al neon che diceva "Camere libere". Ben pagò il taxista, entrò nel motel e raggiunse il banco della reception. «Vorrei una stanza». Mettendo in borsa le relazioni riguardanti tre decisioni imminenti, Lisa si preparò a un lungo fine settimana di lavoro. Abituata, da quando lavorava alla Corte, all'idea di non avere più un week-end libero, aggiunse anche tre floppy disk, contenenti le osservazioni di Hollis, e le fotocopie di una dozzina di vecchie decisioni che sarebbero potute tornare utili. Chiuse la borsa e girò le rotelline della serratura a combinazione accanto alla maniglia. Mentre stava per prendere il cappotto, squillò il telefono. Temendo che potesse essere Hollis con qualche nuovo lavoro da sbrigare al volo, Lisa non rispose subito. Come al solito, però, non riuscì a trattenersi. «Pronto, sono Lisa». «Lisa, devo vederti al più presto», la implorò Ben. «Cosa?», domandò lei. «Dove sei?». «Sono al Monument Inn. È sulla Connecticut Avenue, vicino alla fermata del metrò di Van Ness. Sono nella stanza sedici». «Com'è andata con Ober? Sta bene?». «Ne parliamo dopo», disse Ben. «Ora, ti prego, vieni qui subito. Non so cosa fare». Quaranta minuti dopo, Ben sentì bussare alla porta. «Chi è?», domandò, sospettoso. «Apri», disse Lisa. Ben guardò dallo spioncino e la fece entrare. «Cos'è successo?», domandò lei, entrando. Ben guardò fuori dalla stanza per accertarsi che Lisa fosse sola; quindi, sbatté la porta e chiuse a chiave. Lisa fece una smorfia di disgusto. «Bel posto», disse, osservando la carta da parati lacera e penzolante dalle pareti in gran parte già nude. «A questa stregua, potevamo incontrarci in una discarica. È più pulito, oltre a essere più sicuro». «Rick ha riempito casa mia di microspie», disse Ben, con l'occhio incollato allo spioncino della porta. «E non mi stupirei se lo fosse anche casa tua. Ho pensato che ci serviva un luogo dove parlare senza essere ascolta-
ti». «Dimmi che cos'è successo», domandò Lisa, sedendosi sul bordo di uno dei due identici letti singoli presenti nella stanza. Ben si voltò verso Lisa, appoggiandosi con la schiena alla porta. «Non ci sono», disse. «Sono spariti. Credo che abbiano cambiato idea. È l'unica spiegazione...». «Aspetta... Una cosa alla volta», disse Lisa. «Di chi stai parlando?». Ben si avvicinò all'altro letto e si sedette di fronte a Lisa. «I marshals, DeRosa. Non ci sono», spiegò. «Dopo aver parlato con Ober, ho telefonato al numero che mi avevano dato e...». «Hai chiamato da casa tua?», domandò Lisa. «Sei impazzito? Rick ti avrà sicuramente sentito...». «Ho chiamato da un telefono pubblico», la interruppe Ben. «Il numero non è in elenco. Non esiste». «Vuoi scherzare? DeRosa ha detto...». «Lo so che cosa ha detto. Ma evidentemente ha mentito. Secondo me, era d'accordo con Rick sin dall'inizio. Prova a pensarci: DeRosa non ha detto nulla a Lungen e a Fisk che pure sono i marshals responsabili della Corte. Ha preteso che non parlassi con nessuno di quello che stavo facendo. Non mi ha fatto firmare alcun verbale. Mi ha persino detto di passare la decisione a Rick. Secondo me, Rick ha parlato con DeRosa prima di me». «Non so», disse Lisa, afferrando uno dei cuscini posati contro la testata del letto. «Credi che le sue risorse siano tali di consentirgli di arrivare al direttore del Marshals Service?». «Scherzi?», domandò Ben, irritato. «Ci sono arrivato io, vuoi che non ci riesca Rick?». Con un cenno del capo, Lisa riconobbe la fondatezza dell'obiezione di Ben. «Non è detto, però, che siano d'accordo». «E allora cosa dovrei pensare?». «Ci sono molte possibilità», spiegò Lisa. «Se fossi in te, domani cercherei in tutti i modi di mettermi in contatto con DeRosa. Per quel che ne sappiamo noi, il vostro piano potrebbe essere in atto, e il fatto che il numero risulti fuori servizio può essere dovuto a un errore di trascrizione da parte della segretaria». «E se non dovessi riuscire a raggiungerlo?». «A quel punto, probabilmente, ci farei una croce sopra. Mi rivolgerei alla stampa, a Hollis o a chiunque altro sia disposto a darmi ascolto, e racconterei tutta la storia».
«Non ho pensato ad altro, nell'ultima ora. Se DeRosa e Rick sono d'accordo, sono finito». «Ora, però, sai cosa fare», disse Lisa, mettendo da parte il cuscino. «Se trovi DeRosa, bene. Se invece lui è d'accordo con Rick, ti rivolgi alla stampa e la fai finita. In un modo o nell'altro, entro domenica questa storia sarà risolta». «Fantastico», disse Ben, in tono sarcastico. «Ora mi resta solo da pensare a cosa dire ai miei amici». «Eric, sono io», disse Ben, ancora seduto sul letto, nella stanza del motel. «Dove sei?», domandò Eric. «Nathan ha detto che...». «Sono da Lisa», mentì Ben. «Non mi sento più libero di parlare, lì a casa». «Torni a dormire, stanotte?». «No, resto qui». «Credo sia una buona idea», disse Eric. «Dimmi cos'è successo. Ho saputo che Rick ha richiamato». «Lascia perdere Rick. Vorrei che ci incontrassimo tutti e quattro; vi racconterò tutto». «Dimmi dove. Ci sarò». «Voglio che veniate tutti», disse Ben. «Tu, Nathan e Ober». «D'accordo», disse Eric. «Dimmi dove e quando». «Domani sera alle otto. Nel posto in cui abbiamo festeggiato la prima sera che abbiamo passato a Washington». «Al...». «Non dirlo», lo zittì Ben. «Il telefono non è sicuro». «Ah, è vero. Ober me l'ha detto». «Già», disse Ben. «A proposito, come se la passa?». «È stravolto», spiegò Eric. «Non l'ho mai visto così. Sono due ore che io e Nathan cerchiamo di consolarlo, ma non siamo neanche riusciti a farlo smettere di piangere». «Lo ha già detto ai suoi genitori?». «L'idea di chiamarli lo terrorizza. Sai com'è sua madre. Appena lo saprà, non lo mollerà più un attimo». «Lo so. Ci stavo pensando. A dire la verità, credo sia questa la cosa che più lo spaventa». «Non credo che ci sia qualcosa che lo spaventi», disse Eric. «Non sono
neppure sicuro che gli dispiaccia veramente per il lavoro. Penso che più che altro sia distrutto per il fatto che noi quattro non andiamo più d'amore e d'accordo». «È quello che diceva quando ero lì io». «Si affeziona troppo», spiegò Eric. «È come un cucciolo: se tutti sono contenti, è contento anche lui, ma se per caso l'atmosfera è triste, si riduce a uno straccio». «Continuate a parlargli, vedrai che si riprenderà». «Sì, hai ragione. Solo che...». «Ben, sei tu?», domandò Nathan, che aveva sollevato la cornetta dell'apparecchio del soggiorno. «Dove sei? Sono tre ore che sei uscito. Muovi il culo e vieni...». «Non dirmi cosa devo fare», lo interruppe Ben. «Se vuoi farmi una scenata, ci vediamo domani. Ho detto a Eric dove e quando». Non essendo in condizioni di tollerare i rimproveri di Nathan, Ben riagganciò. La mattina del sabato, sul presto, Ben era seduto sul letto, incapace di prendere sonno. Sull'altro letto c'era Lisa, che evidentemente non aveva di questi problemi. Ben guardò l'orologio e vide che erano le sette. Si fece la doccia più lunga della sua vita. Poi, accese la TV, senza audio, sperando di distrarsi con dei cartoni animati. Non ottenendo l'effetto sperato, spense il televisore e tornò a letto. Per un'ora buona rimase a fissare il soffitto bianco decorato a stucco. Verso le nove, Ben portò il telefono in bagno. Si sedette sul water e chiamò l'elenco abbonati per avere il numero del Marshals Service. Compose il numero e chiese di parlare con DeRosa. Un attimo dopo, una voce femminile disse: «Ufficio del direttore. Posso esserle utile?». «Non c'è il direttore, oggi?», domandò Ben, con il tono più cortese di cui era capace. «No, mi dispiace. Posso comunque fare qualcosa per lei?». «Penso di sì», rispose Ben, riconoscendo la voce della segretaria di DeRosa. «Sono Ben Addison, la persona che è venuta a riferire di persona un messaggio del giudice Hollis, un paio di settimane fa. Siccome dovrei consegnargli personalmente un altro messaggio, saprebbe dirmi come fare per mettermi in contatto con il direttore?». Ben fece una pausa a effetto. Quindi, aggiunse: «È un'emergenza». «Attenda un attimo», disse la segretaria. «Posso cercare di trasferire la
chiamata al numero privato del direttore». Battendo nervosamente un piede a terra, Ben pregò che DeRosa potesse spiegargli tutto. "È stato un errore di trascrizione", sperava che gli dicesse. "Va tutto bene. Il piano è in funzione". «Signor Addison?», disse la segretaria, infrangendo i sogni a occhi aperti di Ben. «Sono qui», disse Ben. «Mi dispiace, ma il direttore non vuole parlarle. Ho appena conferito con lui: dice che non ne sa nulla e che non ha idea di chi lei sia». «Sa benissimo chi sono», disse Ben. «E anche lei sa chi sono. Ci siamo visti due settimane...». «Mi dispiace, signor Addison. Ho parlato con lui or ora, e questo è quanto mi ha incaricato di dirle». «Cosa? Come si chiama, lei?», domandò Ben. «Buona giornata, signor Addison», disse la segretaria, interrompendo la comunicazione. Mettendo giù il telefono, Ben fu assalito da un'agghiacciante consapevolezza. "Ecco fatto", pensò. "Sono fregato". Fissando il nudo pavimento di linoleum, Ben si interrogò sulla successiva mossa da fare. Le sue riflessioni furono interrotte dallo spalancarsi della porta del bagno. Ben alzò gli occhi e vide Lisa, che ovviamente aveva sentito tutto. «Che cosa hanno detto?», gli domandò. «DeRosa si è rifiutato di parlare con me», disse Ben, con la voce rotta. «Nega di avermi mai conosciuto». «Allora, basta... è finita», disse Lisa, appoggiandosi allo stipite della porta. «Pensi di rivolgerti alla stampa?». «Non so ancora con chi, ma con qualcuno dovrò parlarne». «Dovresti parlarne con Hollis». «Forse», disse Ben, soppesando le conseguenze di tale atto. «Pensavo che forse dovrei mettere per iscritto tutta questa storia. Così, qualsiasi cosa succeda, sarà documentata». «Non mi sembra così fondamentale», disse Lisa. «Prima di affrontare l'opinione pubblica e la legge, dovrai vedertela con i tuoi amici». Alle sette e mezza, quella sera, sfidando il gelo della fine di gennaio, Ben si sedette su una delle panchine di cemento che circondano il Jefferson Memorial. Non riusciva a star fermo, a trovare una posizione comoda. Rivolto in direzione del vialetto che, costeggiando l'acqua, conduceva al
monumento vero e proprio, vagava con lo sguardo senza fissarsi su nulla in particolare eppur osservando tutto. Dopo un quarto d'ora, prese a guardare l'orologio ogni trenta secondi, in nervosa attesa dell'arrivo dei suoi amici. Cominciava a credere che non si sarebbero fatti vedere e, fissando il volto nero e lucente di Jefferson, si rimproverò per essersi lasciato convincere da Lisa a parlare con loro. All'improvviso sentì una voce provenire dal lato ovest del monumento. «Perché diavolo siamo dovuti venire fin qui? Fa un freddo cane». Eric e Nathan videro Ben e gli andarono incontro. Eric si fermò accanto alla gigantesca statua di bronzo, raffigurante il terzo presidente degli Stati Uniti, e diede un'occhiata in giro: il luogo era completamente deserto. «Devo dire che appuntamenti come questo - di sera tardi, davanti a uno dei più famosi monumenti del mondo - danno quasi l'impressione di trovarsi in un film di spionaggio hollywoodiano». «Sono contento che ti diverta», disse Nathan, indignato. «Ascolta, so che sei fuori di te», disse Ben, sistemandosi i guanti. «Lo siamo tutti. È stata una brutta settimana. Quindi, lasciamo perdere e...». «Non ti offendere, ma non ho nessuna voglia di fare l'amicone», disse Nathan. «Concedigli una possibilità, testone», lo interruppe Eric. «Se ci ha fatto venire fin qui per parlare, il meno che tu possa fare è sentire cos'ha da dire». «Sono venuto qui per capire una cosa», disse Nathan, incrociando le braccia. «Hai intenzione di costituirti?». Ben ignorò la domanda. «Dov'è Ober?». «Ha detto che sarebbe arrivato un po' in ritardo», spiegò Eric. «Era al telefono con sua madre, quando siamo usciti». «Che cosa vuoi che faccia?», domandò Ober, sforzandosi di trattenere le lacrime. «Che domande!», sbottò Barbara Oberman. «Voglio che tu torni a lavorare in quell'ufficio». «Mamma, non posso tornarci. Mi hanno licenziato. Non gli piaceva come lavoravo e mi hanno licenziato». «Non ci credo. Torna da loro e di' che cambierai registro. Che lavorerai per meno soldi e per il doppio delle ore. Devi riavere quel posto, non importa come». «Perché ti importa tanto di quel posto?».
«Perché mi importa? Ficcatelo bene in testa, William: tu hai bisogno di quel lavoro. È il primo posto in cui tu sia riuscito a ottenere una promozione. L'unico posto in cui tu sia mai stato rispettato. Era la prima volta che non ti licenziavano entro i primi sei mesi. Per quattro anni sei passato da un fallimento all'altro, e ora sei riuscito a rovinare tutto un'altra volta». «Troverò un altro lavoro», disse Ober. «Ben e Nathan mi hanno promesso che mi aiuteranno». «Lascia perdere Ben e Nathan. Sei fissato con Ben e Nathan. Non voglio più sentirli nominare. Per loro trovare un lavoro è facile. I loro datori di lavoro li hanno sempre stimati, i professori del college e il preside della high school li adoravano, persino le maestre dell'asilo erano entusiaste di loro. Per loro trovare lavoro non è un problema. Ma per te... sarà molto più difficile». «Ma hanno detto...». «Non mi importa quello che dicono», lo interruppe la madre. «Loro non sono te. Che cosa ti fa pensare che si danneranno l'anima per trovarti un nuovo lavoro?». «Sono miei amici». «Bella roba! Sono tuoi amici... Loro non sanno cosa vuol dire cercare lavoro. Non l'hanno mai provato sulla loro pelle. Cercare un lavoro vuol dire anche giorni e giorni di pellegrinaggi porta a porta. Ricordi quanto ti ci è voluto per trovare quel posto dal senatore Stevens?». «Sì, ma...». «Niente ma. L'hai detto tu stesso, qualche tempo addietro: loro tre, Eric compreso, sono sempre al lavoro. Non hanno tempo di cercarti un lavoro». «Il lavoro dal senatore Stevens, però, l'avevo trovato grazie a Ben. Forse può ancora...». «Non può fare niente per te», disse Barbara. «Devi imparare a cavartela da solo. Loro saranno anche tuoi amici, ma di certo non sono uguali a te. Quando arriva il momento di cercarsi un lavoro o di fare qualsiasi altra cosa, si è da soli e tocca cavarsela. Ora metti giù il telefono e rifletti su quello che ti ho detto. E non farti risentire finché non hai riavuto quel lavoro». «Ti ho fatto una domanda», disse Nathan, col fiato che gli si condensava davanti alla faccia, nell'aria gelida. «Hai intenzione di costituirti o no?». «Adesso ci arriviamo», disse Ben. Indicò i posti vuoti accanto a sé, sulla panchina. «Che ne direste di sedervi, prima?». «Io sto bene in piedi», disse Nathan, mentre Eric si sedeva.
«Va bene. Stai pure in piedi», concesse Ben, lanciando una rapida occhiata alle proprie spalle. «Cos'è che ti innervosisce tanto?», domandò Nathan. «Indovina», disse Ben. «Volete smetterla, voi due?», si intromise Eric. «Litigare non serve a niente. Calmatevi». Rivolgendosi a Ben, aggiunse: «Parla». «Grazie», disse Ben, abbassando la voce. «Al telefono non volevo parlarne, ma domani mattina vado a costituirmi. Poiché questa decisione ci riguarda tutti, volevo prima discuterne con voi». «Per me non c'è niente da discutere», disse Nathan. «Io ho già deciso quando ho saputo di Ober». «Buon per te», disse Ben. «Eric, hai qualche suggerimento?». «Sta a te decidere. Spero solo che tu sappia a cosa vai incontro». «Comunque, non ho scelta», disse Ben. «Quello che è successo a Ober è stato straziante. È stato licenziato per colpa mia. E ho messo in pericolo anche voi. Non posso continuare così». «Che gesto nobile!», esclamò Nathan. «Comunque, ti consiglio di chiudere la questione domani stesso». «Altrimenti?», domandò Ben, provocatorio. «Lo farai tu per me?». «Puoi scommetterci qualsiasi cosa», sibilò Nathan. «E non proverò neanche un briciolo di senso di colpa. Anzi, sei fortunato che il mio capo non lavori nei fine settimana, perché altrimenti ti avrei consegnato oggi». «Perché non ti calmi un attimo?», disse Eric. «E tu perché non taci?», ribatté Nathan. «È inutile che continui a schierarti dalla parte di Ben, tanto lui non ti perdonerà mai del tutto». «Si può sapere che cosa ti prende?», domandò Ben. «Che cosa mi prende?», replicò Nathan, forzando una risata. «Vediamo: ieri, per colpa tua, un mio amico è stato licenziato; il mio posto di lavoro è in pericolo; eppoi non mi fido né di te né di Eric. A parte questo, sto benissimo». «Ascolta, tu puoi...». «No, ascolta tu, per una volta!», urlò Nathan, nel vento che sibilava infilandosi nei varchi concessi dal monumento. «Devi superare questo tuo complesso del ragazzo prodigio. Per una volta, nella tua vita perfetta, hai fatto una cazzata. Hai cannato. Hai toppato. Hai commesso un errore enorme e ora devi assumertene la responsabilità. Se fossi tu l'unico a rischiare, ti direi di fare quello che più ti aggrada. Ma se credi che io, con la mia carriera in pericolo, resti a guardare mentre tu continui la tua inutile caccia a
Rick, sei completamente fuori di testa. Prendine atto, Ben: sei stato fregato. Hai perso. Arrenditi». «Chiudi quella cazzo di bocca!». Ben si alzò di scatto dalla panchina e si avventò contro Nathan, prendendolo per il bavero della giacca. Eric li separò immediatamente. «Ben, rilassati un attimo. Calmati». Mentre Eric faceva del suo meglio per tenerlo a bada, Ben continuò a strepitare. «Se tu chiudessi un attimo quella cazzo di bocca, capiresti subito che non sono qui per tramare contro Rick. Sono venuto qui per parlare con i miei amici». Ober andò in soggiorno e sistemò una pila di libri sul tavolino da caffé: quattro annuari del liceo e un album rigonfio di foto e ritagli. Prese l'annuario della nona classe e lo sfogliò alla ricerca delle foto dei suoi amici: sorrise vedendo la massa cespugliosa dei capelli di Nathan. Quando invece arrivò al ritratto di Ben, scoppiò a ridere forte. Erano almeno quattro anni che non riguardava, sull'annuario, la faccia di quel goffo e spettinato secchione dal volto rubizzo che rispondeva al nome di Ben Addison. Passando alla foto di Eric, si ricordò di quando smaniava dal desiderio di andare a dormire a casa sua, solo perché il fratello di Eric possedeva la più vasta collezione di carte da gioco pornografiche di tutto il quartiere. Quando aprì l'annuario della decima classe, Ober andò subito alle pagine con i ritratti degli amici, e si ricordò che quello era stato l'anno in cui avevano preso la patente. Il primo a guidare era stato Eric, e anche il primo ad avere un incidente: era finito dritto dritto contro l'auto della madre di Nathan che usciva in quel momento dal vialetto di casa sua. Consultando l'annuario dell'undicesima classe, Ober ripensò alla loro prima festa del college, alla Boston University. Rise pensando a Ben, che per tutta la sera aveva cercato di convincere le ragazze di essere Ben Addison, insegnante d'amore. Aprì l'album di ritagli, orgoglioso di aver accuratamente documentato tutti i risultati raggiunti dai suoi amici. Conservava gli articoli apparsi sul "Boston Globe" con la foto di Nathan insieme al segretario di stato e con quella di Ben nel giorno in cui era stato prescelto per fare l'assistente alla Corte suprema. Aveva tenuto anche il primo articolo scritto da Eric per il giornalino della high school, così come, ovviamente, i suoi esordi su "Washington Life" e "Washington Herald". C'erano anche le prime parole intrecciate dell'"Herald" e l'articolo di Eric sulla possibile fuga di notizie alla Corte suprema. C'era persino l'annuncio di fidanzamento tra Ben e Lisa.
"Sono tutti famosi", pensò, richiudendo l'album. "Sono delle superstar". «Non venir qui a fare la vittima, capito?», disse Nathan, risistemandosi il bavero della giacca. «È l'ultima cosa che tu...». «Non ho mai fatto la vittima», replicò Ben, mentre Eric lo teneva lontano da Nathan. «Lo so. Ho sbagliato. Lo ammetto... è colpa mia se Ober ha perso il lavoro. Che altro posso dire?». «È questo il tuo problema», disse Nathan, con voce suadente. «Credi di essere responsabile solo per il licenziamento di Ober, ma devi capire che sei responsabile di ben altro. Tutta questa storia è cominciata per colpa tua. E, come se non bastasse, è sempre per colpa tua che questa storia sta andando avanti». «Credi che non lo sappia?», domandò Ben, con la voce che gli tremava. «Io sto malissimo per il fatto di...». «Ah, dunque, ora ti senti in colpa?». «È da quando ho conosciuto Rick che mi sento in colpa. Che altro vuoi che dica? Sono mesi che mi sto rodendo il fegato per questa storia». «Mi sembra il minimo», disse Nathan. «E spero...». «Okay, abbiamo capito», interloquì Eric. «Non potresti smetterla un attimo?». «No, non posso», proseguì Nathan. «Voglio accertarmi che capisca come mi sento». «Io so come ti senti...», cominciò a dire Ben. «No, tu non sai niente», insistette Nathan, con voce sempre più alta: «Se l'avessi saputo, adesso non saremmo qui a litigare. Era chiaro, quando abbiamo ricevuto le lettere di Rick, che sarebbe potuto succedere questo. A quel punto, avresti dovuto avere la decenza di consegnarti alle autorità... se non per il tuo bene, almeno per il nostro. Il fatto che tu abbia trascinato in lungo questa storia fino a ora, mi fa capire che...». «Che io sono una persona malvagia senza possibilità di redenzione?», domandò Ben. «No», disse Ben, ricomponendosi. «Che non voglio avere più niente a che fare con te. Mai più». Ben e Eric ammutolirono; Nathan proseguì: «Non siamo più alla high school. Non possiamo essere sempre dalla tua parte. E non credere che io parli perché sono un egoista. Tu hai lasciato che Ober patisse le conseguenze di un tuo errore. Questo non te lo perdonerò mai. Lui è tuo amico; non se lo meritava». «Lo so», disse Ben, in preda alla disperazione. «Lo aiuterò».
«Sarà meglio», disse Nathan. «Questa storia è più grave di una qualsiasi stupida fuga di notizie sul caso CMI o sul caso Grinnell o...». «Puoi abbassare la voce?», lo interruppe Ben. «Cosa c'è?», domandò Nathan. «Sei ancora preoccupato che Rick ci stia ascoltando? Che stia registrando la nostra conversazione?». «Sta zitto», disse Ben. Nathan corse verso il perimetro del monumento e si mise a urlare. «EHI, RICK! SEI IN ASCOLTO? SPERO CHE TU MI SENTA..». «Chiudi quella cazzo di bocca!», gli gridò Ben. «...PERCHÉ QUESTO È L'ULTIMO AVVERTIMENTO! RESTA FUORI DALLA MIA VITA! SE BEN HA PAURA DI ANDARE ALLA POLIZIA, SAPPI CHE IO NON NE HO AFFATTO!». «Nathan, smettila!», gridò Eric. «Abbiamo capito». Nathan si voltò di nuovo verso Ben e gli puntò contro un indice. «Bada che non sto scherzando. Me ne frego di quello che vuoi fare tu. Lunedì mattina io vado a parlare con il mio capo». «Dici sul serio?», disse Ben, fissando la statua del presidente Jefferson. «Non prendertela con me», disse Nathan. «Io non ho nessuna colpa». Si asciugò la fronte con la manica della giacca. «Andiamo, Eric?». «Io torno con Ben». «Ma non ha la macchina», fece notare Nathan. «Prenderemo un taxi». «Come vuoi». Nathan scese la scalinata e si avviò verso il parcheggio. Il taxi che trasportava Ben e Eric accostò davanti a casa loro proprio mentre Nathan imboccava il vialetto d'accesso. «È stata una decisione molto sensata», disse Nathan, mentre i tre salivano i gradini di casa. Ben ignorò il commento ed entrò. «Secondo me, devi dire tutto a Ober», suggerì Eric. «Lo so», disse Ben. «Ma non voglio parlare qui in casa». Notò gli annuari sul tavolino da caffè. «Cos'è sta roba?». «Forse Ober ha voluto ripensare a tempi meno bui», disse Nathan, dirigendosi in cucina. «Non parlavo con te», reagì Ben. Sopra quella pila di libriccini, Ben vide un foglio di carta. Lo raccolse e lesse tra sé: "Cari Ben, Nathan e Eric, mi dispiace così tanto. Non riesco a spiegare la ragione di questo mio gesto, ma non so più cosa fare. Probabilmente penserete che sia un'altra stupidaggine delle mie, ma vi prego di credermi: non riuscirei più a essere fe-
lice. Da che io mi ricordo, voi mi avete sempre aiutato ad andare avanti, mentre io sono sempre stato una zavorra, per voi. Dite a mia madre di andare al diavolo e a Rick che spero che muoia. Dite anche alla mia direttrice, Marcia, che non miravo alla promozione... Ci terrei che lo sapesse. Se posso chiedervi un ultimo favore, vi prego di stare in pace tra di voi. Mi mancherete più di quanto potrete mai immaginare. Siete i miei migliori amici, vi voglio bene. Ober". «Oh, mio Dio», esclamò Ben, correndo verso le scale. «OBER!», urlò. Nathan e Eric lo seguirono, d'istinto. «OBER, CI SEI?», gridò Ben, battendo con i pugni sulla porta della camera di Ober chiusa a chiave. Ben si voltò verso Eric e Nathan: «Credo che avesse intenzione di suicidarsi!». «OBER, APRI!», gridò Nathan, picchiando a sua volta sulla porta. «Abbattiamola», disse Ben, in preda al panico. «Toglietevi», ordinò Nathan. Arretrò di alcuni passi e si scagliò di peso contro la porta. «Insisti!», lo incitò Ben. Di nuovo, Nathan si avventò di spalle. «PRENDILA A CALCI!», urlò Eric. «SBRIGATI!». Nathan sferrò un calcione nel centro della porta, e i cardini vacillarono. Al secondo calcio la porta si spalancò, e i tre si lanciarono nella stanza. Ober penzolava dalla porta del ripostiglio, con una cintura stretta intorno al collo. «Oh, Cristo!», esclamò Eric. «Cristo! Cristo!». «Aiutatemi a tirarlo giù», disse Ben. Nathan afferrò le gambe di Ober per sostenerne il peso. «Eric, apri la porta». Eric era in preda a un pianto isterico. Tremava tutto, il viso inondato di lacrime, e non fece neppure caso all'esortazione di Nathan. Non vedeva altro che Ober. «È morto». «APRI QUELLA CAZZO DI PORTA!», urlò Nathan. Eric eseguì. Il corpo di Ober si inclinò in avanti e cadde a terra. Nathan lo girò immediatamente sulla schiena e si accinse a praticare la respirazione bocca a bocca. «Sbrigati!», disse Ben, mentre Nathan tappava il naso di Ober e, dopo aver inspirato profondamente, cercava di reinsufflare la vita nel corpo dell'amico. «Guardate gli occhi!», disse Eric, sconvolto dallo sguardo spento di Ober. «È morto». Nathan chiuse gli occhi di Ober e guardò Ben. «Manda Eric fuori di
qui». «Eric, vai giù», disse Ben. «Chiama un'ambulanza». Mentre Eric usciva di corsa dalla stanza, Nathan premette sul torace di Ober e lo auscultò nella speranza di cogliere un battito cardiaco. «Non ha pulsazioni!», disse Ben, tenendo tra le mani un polso di Ober. «È pallido come un cencio», disse Nathan, osservando il colorito di Ober. «Continua con la respirazione», lo supplicò Ben. «Continua!». Nathan riprese inutilmente a riempire d'aria i polmoni dell'amico steso a terra. Cogliendo lo sguardo scoraggiato di Nathan, Ben urlò: «NON SMETTERE! PROVACI ANCORA!». Nathan provò nuovamente a riportare in vita l'amico. Premette di nuovo sul petto di Ober con tutta la forza che aveva, e fece il possibile per cavarne il benché minimo segno di vita. Gli posò ancora una volta l'orecchio sul petto, ma se ne staccò subito. «È inutile. È finita». «Fammi provare», disse Ben, spostando Nathan. «Ben, è finita». «Aiutami a portarlo di sotto», chiese Ben, prendendo Ober per i piedi. «Forse in ambulanza possono rianimarlo. Hanno quegli apparecchi che praticano uno shock...». «Non serve», disse Nathan, seduto a terra, appoggiato contro il letto di Ober. Quando gli infermieri trasportarono la barella fuori di casa, Ben affidò l'ultimo messaggio di Ober e la cintura di cuoio ai poliziotti giunti sul posto. Dopo aver interrogato i tre amici, uno degli agenti restituì a Ben la carta d'identità e disse. «Se è possibile, vorrei riparlare con voi». «Verremo al comando domani», disse Ben. Si sentiva emotivamente svuotato. Chiuse gli occhi, sperando così con, di cancellare la realtà, o almeno di lenire il dolore che gli faceva pulsare la nuca. «Mi dispiace molto per il vostro amico», disse l'altro agente. «Grazie», rispose Ben, accompagnandoli alla porta. Quando l'auto della polizia e l'ambulanza se ne furono andate, Ben richiuse la porta. Si lasciò cadere a terra, si allungò sulla schiena e fece del suo meglio per cercare di riflettere. Un attimo dopo, si voltò verso Nathan che era seduto al tavolo di vetro del soggiorno. «Dov'è Eric?», domandò Ben. Nathan si osservava i piedi, attraverso il vetro del tavolo. «È in camera
sua. Sta parlando al telefono con sua madre». «Sta bene?». «Be', viste le circostanze...», disse Nathan. «Quando mette giù, dovrai chiamare i genitori di Ober». «Proprio io?», domandò Ben. «Io non ce la faccio». «Oh, sì che ce la fai». Nathan si alzò dalla sedia e si diresse verso le scale. «Perché proprio io?», domandò Ben, seguendolo. «Perché sei tu il responsabile», rispose Nathan, reciso. «Non ti permettere di ripeterlo», lo avvertì Ben. Nathan si fermò su un gradino e si girò verso Ben, guardandolo con aria incredula. «Ah, dunque, non saresti tu il responsabile di tutta questa situazione?», domandò, avvicinandoglisi. «E allora di chi sarebbe la colpa?». La faccia di Nathan era a pochi centimetri da quella di Ben. «Di Ober? No, non può essere colpa sua. Forse è colpa di Rick. O forse mia. Oppure, magari, è colpa del senatore Stevens». «Non è una questione di colpa», ribatté Ben. «Insomma, non possiamo prendercela con nessuno?», domandò Nathan. «Questa cosa è successa così, di punto in bianco, per caso?». «Ovvio, che non è successa così, per caso. E so anche che se non fosse stato per me, Ober sarebbe ancora vivo, probabilmente. Ma questo non significa che l'abbia ucciso io». «No, infatti. Tu gli hai solo messo la corda intorno al collo». Un silenzio carico di tensione riempì la stanza. «Certe volte, sai essere un vero figlio di puttana, lo sai?». «Voglio solo che tu...». «Che io...? Cosa?», lo interruppe Ben, con gli occhi pieni di lacrime. «Che io mi autoaccusi? Che io ammetta la mia colpa? Non preoccuparti... Lo ammetto. Mi riconosco colpevole al cento per cento. Sono stato io a mettere in moto questo meccanismo infernale, che mi perseguiterà per tutta la vita. Finché vivrò, non ci sarà un solo giorno in cui non mi sentirò in colpa per quello che è successo». «È giusto così». «Non dirmi cos'è giusto», riprese Ben, con la voce incrinata. «Ober era il mio migliore amico! Avrei fatto qualsiasi cosa purché non morisse». «Tu avresti potuto salvarlo», accusò Nathan. «Sarebbe bastato che ti fossi deciso a raccontare tutto». «Che cazzo ti prende?», reagì Ben. «Come puoi essere così insensibile?
Io avevo già deciso di andare alla polizia! È questo che volevo dirvi stasera! Come potevo immaginare che Ober si sarebbe ucciso? Non sapevo che avesse intenzione di suicidarsi!». «E io non so che cosa vuoi che ti dica. Credi di poterti guadagnare la mia assoluzione semplicemente ammettendo la tua colpa? No, non funziona così. Tu l'hai ucciso. Ora devi sopportarne le conseguenze». Infuriato, Ben colpì Nathan allo stomaco con un pugno. «NON L'HO UCCISO IO!». Nathan si piegò in due per il dolore e prese a boccheggiare, incapace di respirare. «NON L'HO UCCISO IO!», ripeté Ben. «È STATO LUI A UCCIDERSI!». Ancora ansimante, Nathan si scaraventò a testa bassa contro Ben, finendo con lui addosso al tavolino da caffè, che andò in pezzi rovesciando su di loro annuari e ritagli. Seduto su Ben, che aveva le spalle a terra, Nathan lo afferrò per la camicia. «Perché hai lasciato che succedesse questo?», urlò. Ben spinse via Nathan e si rialzò barcollando. «Io non avrei mai voluto che succedesse!». «Allora perché non hai...?». «Avrei voluto poter fare un milione di cose!», strillò Ben. «Non era necessario fare un milione di cose», disse Nathan. «Ne bastava una». «Ti giuro, avevo deciso di costituirmi domani!». «Ormai, non ha più importanza quello che avevi deciso di fare domani!», gridò Nathan, con le lacrime che gli scendevano a rivoli sulle guance. «Ober è morto stasera! È morto, Ben! Non lo rivedremo mai più! Ed è morto per colpa tua!». «Nathan, io...». «Basta, non voglio più sentire nulla», disse Nathan, correndo verso le scale. «Sono stufo delle tue maledette scuse. Qualunque cosa tu possa dire, resta il fatto che l'hai ucciso. E spero che questo pensiero ti perseguiti per sempre». «Te l'ho già detto», disse Richard Claremont, rivolto a Rick. «Non sono stato io. Ho passato tutta la sera a spiare gli altri tre al Jefferson Memorial». «Se mi stai raccontando una frottola, la polizia ti scoprirà», lo avvertì
Rick. «Hanno fatto rilevazioni su ogni millimetro di quella stanza alla ricerca di impronte digitali». «È la verità! L'ho saputo da te adesso, che si è suicidato». Togliendosi il cappotto, Claremont domandò: «Ma dimmi un po': da quando in qua sei così preoccupato per la sorte di quei tipi?». «Se uno di loro perde il lavoro non me ne frega niente, ma se viene ritrovato morto mi preoccupo, eccome!». «Non capisco perché questa cosa ti sconvolga tanto», disse Claremont, sedendosi sul lussuoso divano d'hotel. «Li hai messi in una situazione insostenibile... Avresti dovuto immaginare che prima o poi uno di loro potesse cedere». «Non era mia intenzione arrivare a questo!», urlò Rick. «Ma avresti dovuto aspettartelo...». «Non venire a dirmi quello che avrei dovuto aspettarmi», lo interruppe Rick. «Certe cose non si possono prevedere». «Ma...». «Non voglio sentire altro», disse Rick. «Cambiamo discorso». «Come vuoi», acconsentì Claremont. «Allora, che cosa facciamo per la decisione?». «Ci stavo appunto pensando», disse Rick, prendendo una bottiglietta di vino bianco dal frigorifero. «Temo che Ben smetterà di ballare». «Credi che non si presenterà all'appuntamento di domani?». «È sicuro», disse Rick, aprendo il vino. «Andrà alla polizia prima di mezzogiorno». «Ma se lui...». «Non ti preoccupare», lo rassicurò Rick. «Non ci arriverà mai». Pietrificato dall'angoscia e dal rimorso, Ben andò in bagno e aprì l'acqua della doccia. Si svestì e si infilò sotto il getto, nel tentativo di lavar via da sé le ultime ore. Protese le braccia in avanti e si appoggiò al muro, lasciando che l'acqua gli scivolasse addosso. Per tre minuti rimase in quella posizione, immobile. Quindi, lentamente e senza preavviso, un silenzioso accesso di pianto lo sopraffece. «Perdonami, Ober», singhiozzò, in un pianto sempre più dirotto. «Mi dispiace». Mentre l'acqua continuava a scorrergli lungo il corpo, immaginò se stesso nell'atto di portare in spalla la bara di Ober e si ricordò di quando aveva portato quella del proprio fratello. Immaginò la faccia che avrebbe fatto la madre di Ober alla notizia della morte del figlio e si ricordò dei gemiti disperati della propria madre. Pensò al
futuro senza Ober e capì quanto gli sarebbe mancato. 18 Alle nove e un quarto della domenica mattina, Ben indossò il cappotto e prese la borsa. Ancora sotto shock per la morte di Ober, cercò di non far caso allo snervante silenzio che riempiva la casa. Si avviò alla porta. Un velo di neve appena caduta copriva le strade. Ben uscì, cercando di ricalcare le orme lasciate da Eric e Nathan. Percorrendo la distanza che separava casa sua dalla stazione del metrò, si guardava di tanto in tanto alle spalle. Dopo quel che era successo la sera prima, la circospezione di Ben era diventata un fatto istintivo. Appena girato l'angolo del proprio isolato, vide un uomo con un cappotto blu scuro e un fedora marrone in testa che gli veniva incontro. Era infastidito dal fatto che la visiera del cappello nascondesse il volto dell'uomo. Sulla carreggiata, un'auto grigia accostò al marciapiede in prossimità di Ben, che la riconobbe: era quella di Eric. «Come va?», domandò Eric, dopo aver abbassato il finestrino. «Bene, credo», rispose Ben, poco convinto. Scese dal marciapiede e si appoggiò al finestrino. «Avrò dormito sì e no cinque minuti, stanotte». «Anch'io», disse Eric. «Non riesco a cancellare dalla mente l'immagine di Ober, lì appeso...». «Ti prego, non ne parliamo», disse Ben, aggrappato con le mani guantate al bordo della portiera. «L'hai detto a Lisa?». «L'ho chiamata ieri sera. Non ho fatto in tempo a finire la prima frase che stava già piangendo. Non l'ho mai sentita così. Si è offerta per scrivere l'elogio funebre». «Carino da parte sua». Vedendo che Ben aveva con sé la borsa, domandò: «Dove stai andando, adesso?». «All'ufficio del procuratore». «Dunque, hai deciso?». «Sì», rispose Ben. «Spero che per domattina a quest'ora sia tutto finito». «Credo di non avertelo detto, ieri sera, ma credo che tu stia facendo la cosa giusta». «Grazie», disse Ben, mentre lo sconosciuto con il cappotto blu gli passava accanto. Ben si voltò e lo osservò procedere oltre lungo il marciapiede. «Non ti sembra un po' sospetto, quel tipo?». «A dire il vero, no. Perché?».
«Mi ha guardato in modo strano», disse Ben. «Io non me ne preoccuperei», lo rassicurò Eric. «Sono certo che non è nessuno». «Già», ammise Ben, staccandosi dall'auto. «Vuoi un passaggio fino al metrò?», propose Eric. «Preferirei un passaggio fino in centro». «Non ho tempo», si scusò Eric. «Devo inserire alcune correzioni urgenti in un articolo e poi devo tornare al lavoro. O al metrò o niente». «Non ti preoccupare», disse Ben, risalendo sul marciapiede. «Penso di farcela a percorrere due isolati». «Come vuoi», disse Eric. «Ci vediamo stasera». «Lo spero. Se non mi vedi a ora di cena, vorrà dire che sono ancora nel bel mezzo della mia confessione spontanea», concluse Ben. Quando l'auto di Eric ripartì, Ben si rimise in cammino. Giunto davanti al settore commerciale dell'isolato, cominciò a lanciare occhiate ovunque. Al vecchio che spingeva il suo carrello sul marciapiede coperto di neve. All'imperterrita podista accompagnata da un labrador nero. Al commesso del supermercato che spalava la neve davanti al negozio. Alla donna grassoccia che faticava a mantenersi in equilibrio. Sempre in preda al nervosismo, Ben raggiunse la sua panetteria preferita. "Devo assolutamente calmarmi", disse tra sé, entrando. "Nessuno mi sta seguendo". Mangiò un bagel e un cornetto fresco; quindi, si pulì la bocca, riabbottonò il cappotto e uscì. Vide immediatamente che l'unica cosa che lo separava dalla stazione del metrò era proprio l'uomo con il cappotto blu e il cappello marrone. Ben avanzò cauto, cercando di identificare lo sconosciuto che gli veniva incontro. Dal suo punto di osservazione, quell'uomo sembrava più o meno della statura di Rick, ma più massiccio. D'altra parte, indossava un cappotto pesante, pensò Ben. Mentre il ritmo del suo battito cardiaco accelerava, Ben tentò di convincersi di essere vittima della propria immaginazione. "Rilassati", disse tra sé. "Non c'è motivo di allarmarsi". Quando la distanza fra i due era ormai ridotta a non più di tre metri, Ben si tolse il guanto dalla mano destra e serrò il pugno, preparandosi a colpire l'uomo, nel caso avesse compiuto movimenti sospetti. A un metro e mezzo di distanza, Ben si rese conto di essere fradicio di sudore, nonostante la gelida temperatura esterna. Sul punto di incrociarlo, Ben era in balia dell'agitazione più profonda, con la mente pronta a ogni possibile scenario. Ben trattenne il respiro, incrociandolo e dovette faticare per resistere all'impulso di voltarsi. Fu solo dopo essersi allontanato ulteriormente che
Ben tirò un sospiro di sollievo. "Tutta questa sudata per niente", pensò, ridendo tra sé in modo un po' forzato. Mentre si accingeva a voltarsi per dare un'ultima occhiata al suo supposto nemico, Ben si sentì afferrare al collo da dietro. Sentì un braccio avvinghiarglisi intorno alla gola, mentre una mano che sbucava dalla manica di un cappotto blu scuro tentò di applicargli davanti alla faccia un fazzoletto emanante un odore acre. D'istinto, Ben rovesciò il capo all'indietro, colpendo l'aggressore alla radice del naso. «Figlio di puttana!», urlò l'uomo, lasciando la presa e tenendosi il naso sanguinante. Ancora ansante per la stretta alla gola, Ben tornò di corsa sui suoi passi, cercando contemporaneamente di riprendere fiato. Passando davanti al supermarket, si accorse che l'aggressore lo stava seguendo. Ben lasciò andare la borsa e strappò la pala dalle mani del commesso del supermarket che stava ripulendo il marciapiede dalla neve. Quando l'assalitore si avvicinò, Ben si mise a roteare la pala con violenza. «Stammi lontano». «Calmati», disse l'uomo. «Non voglio farti del male». Mentre questi tentava di attirare l'attenzione di Ben, da dietro l'angolo arrivò Rick, che si avvicinò di soppiatto alle spalle di Ben. «Chi sei?», domandò Ben. «Chi ti ha mandato?». «Sono dalla tua parte», disse l'uomo. «Lo giuro. Sono un funzionario del dipartimento di giustizia». Fissava un punto alle spalle di Ben. Seguendo lo sguardo dell'uomo, Ben si voltò, roteando la pala alla cieca. Con sua grande sorpresa, finì per colpire Rick, che altrimenti l'avrebbe preso a tradimento. «Non ci posso credere», esclamò Ben. Quando Rick piombò a terra, Ben colpì nuovamente Rick alla testa. «Chi cazzo credi di essere, eh?», urlò Ben. «Tu stai giocando con la mia vita!». Ben scavalcò con un balzo Rick, in modo da poter fronteggiare entrambi gli assalitori, e urlò all'indirizzo del commesso del supermarket: «Chiami la polizia!». «Siamo noi la polizia», disse al commesso il complice di Rick. «Non c'è bisogno di chiamare nessuno». «Bloccalo, Claremont!», gridò Rick, mentre con una mano si teneva l'orecchio coperto di sangue. Lanciando la pala direttamente addosso a Claremont, Ben girò i tacchi e si mise a correre. «Seguilo!», gridò Rick al suo complice, anche se Claremont era già scattato. Più veloce e più atletico dei due aggressori, Ben ripiegò verso il settore
residenziale del quartiere. Scavalcò siepi e attraversò giardini privati, zigzagando tra le case in modo che gli inseguitori non potessero vederlo per più di pochi secondi alla volta. Imboccò il vialetto di una casa, si spinse fino al giardino posteriore, svoltò a sinistra, oltrepassò d'un balzo la siepe che fungeva da confine con il giardino adiacente; ne raggiunse la parte posteriore, scavalcò un'altra siepe che lo introdusse nel giardino di un'altra casa, di cui raggiunse il vialetto d'accesso, per poi tornare, di lì, nuovamente in strada. Durante quello slalom per il quartiere, Ben realizzò che l'unico posto da evitare assolutamente era casa sua. Se i due assalitori si erano divisi, uno di loro sarebbe certamente andato ad aspettarlo lì. Con l'aria fredda che gli riempiva i polmoni, tornò verso la zona del supermarket, stando alla larga dalle vie principali e privilegiando vicoli affollati da bidoni dell'immondizia. Sperando di aver ormai seminato gli inseguitori, Ben corse al Boosin's Bar, l'unico posto in cui era certo di trovare un telefono pubblico e, soprattutto, una porta di servizio sul retro. Diede un'ultima occhiata intorno e si infilò nel bar. Si diresse nell'angolo del bar in cui sapeva esserci la toilette degli uomini, entrò in una cabina e vi si chiuse. Si piegò in avanti, cercando di prendere fiato e di riflettere su quanto gli era appena capitato. Il caldo di quella toilette subentrò ben presto al freddo di fuori, e Ben si sentì avvampare. Si tolse la giacca, sollevò l'asse del water e vomitò il cornetto e il bagel da poco ingeriti. Lo stomaco, benché completamente svuotato, continuò a contrarsi, forse come reazione fisica al panico che si era impossessato della mente di Ben. Tirò l'acqua e si sedette, tremante. "Non ci posso credere", pensò, con i gomiti puntati sulle ginocchia. "Che diavolo sta succedendo?". A furia di tamponarsi la fronte con la carta igienica, la temperatura corporea di Ben tornò gradualmente alla normalità, così come il colore della sua faccia. Una ventina di minuti dopo, convintosi di aver definitivamente seminato Rick e il suo socio, Ben uscì dalla toilette. Si frugò le tasche in cerca di spiccioli. Trovò alcune monete e le infilò nel telefono. Componendo il numero di Lisa, Ben scrutò ogni recesso del bar affollato da tifosi di basket che facevano colazione in attesa della prima partita della giornata. «Pronto», rispose Lisa. «Vuoi sapere che cosa m'è appena successo?», disse Ben, con voce concitata. «Sono appena stato assalito da Rick e da un altro tipo. Mi sono saltati addosso e hanno cercato di rapirmi. Io mi sono difeso con una pala e poi sono scappato verso...».
«Ehi, aspetta un attimo», lo interruppe Lisa. «Ricomincia daccapo». Dopo un conciso resoconto della mezz'ora precedente, disse: «Non ci credo». «Credici, invece», le consigliò Ben. «Sei riuscito a vedere in faccia il socio di Rick?». «Non bene. Avevo la mente che mi vorticava al massimo dei giri. Ricordo soltanto che ha detto di essere un funzionario del dipartimento di giustizia». «Credi che lo fosse davvero?». «Certo che no», rispose Ben. «I funzionari del dipartimento di giustizia non vanno in giro a cercare di cloroformizzare la gente. Era un modo per convincermi a non chiamare la polizia». «Chi era, allora?». Ben aveva gli occhi fissi sull'ingresso del bar. «O è un tirapiedi di Rick o è il suo tramite per combinare l'affare sul caso American Steel». «Perché Rick dovrebbe farsi aiutare da qualcuno? La American Steel è una public company. Rick può comprare tutte le azioni che vuole». «Ma per comprare le azioni ci vogliono i soldi. Ed è presumibile che la fregatura del caso Grinnell l'abbia completamente ripulito. Gli serve qualcuno che già possieda una grande quantità di azioni della American Steel o che abbia voglia di far fruttare i suoi capitali. Altrimenti...». A Ben cascò l'occhio sul proprio cappotto, adagiato a terra. «Merda!», esclamò. «Ho abbandonato la mia borsa davanti al supermarket. Se ne saranno impossessati di sicuro». «Non c'erano decisioni, vero?». «No, ovvio», rispose Ben. «Ma c'era la lettera che stavo scrivendo. Il che significa che ora sanno della mia intenzione di costituirmi». «Questo l'avranno immaginato quando non ti hanno visto all'appuntamento di ieri al museo», disse Lisa. «Comunque, hai avvertito Nathan e Eric?». «Non ancora. Perché?», domandò Ben, nervoso. «Chiamali», gli consigliò Lisa. «Se Rick è a caccia da quelle parti, il primo posto che andrà a controllare sarà casa vostra. Sono ancora lì?». «Nathan è al lavoro, ma Eric potrebbe esserci». Ben riagganciò immediatamente e cercò altre monete nelle tasche. Non ne trovò a sufficienza. Senza scoraggiarsi, digitò il numero della sua carta di credito telefonico. Mentre componeva la cifra, si rese conto di aver sbagliato. «Merda!», esclamò, riagganciando. Ricominciò daccapo: sollevò la cornetta e digitò freneticamente il numero della sua carta di credito telefonico. «Dài! Sbri-
gati!», disse, in attesa del segnale acustico che gli avrebbe liberato la linea. Dopo il segnale compose il numero di casa, pregando che Eric avesse già finito con le sue correzioni e fosse uscito di casa. «Pronto», disse Eric, rispondendo al telefono. «Eric, sono io. Esci subito di casa. Rick, insieme a quel tipo con il cappotto blu...». «Hai parlato con Lisa?», lo interruppe Eric. «Non ti preoccupare per Lisa», disse Ben. «Devi...». «Sta' zitto un attimo», insistette Eric. «Rick ha chiamato qui. Ha detto che era urgente. E mi ha detto di riferirti che sarebbe andato da Lisa». Ben si sentì mancare. «Quanto tempo fa ha chiamato?». «Circa mezz'ora fa», spiegò Eric. «Hai bisogno di...?». Ben riattaccò senza neppure lasciarlo finire, ridigitò il numero del credito telefonico e chiamò Lisa. «Merda, merda, merda!», sbottò, dopo il quinto squillo a vuoto. Alla fine, Lisa rispose: «Pronto». «Esci subito di casa», disse Ben «Sta venendo lì Rick». «O forse sono già arrivato», disse Rick. «Come va, Ben? Quanto tempo che non ci vediamo». «Oh, Cristo». «Perché sei così triste?», gli domandò Rick. «Sono soltanto io». «Se le fai del male, ti giuro che io...». «Risparmiami le minacce», tagliò corto Rick, con voce improvvisamente seria. «Ora, Lisa e Nathan sono nelle mie mani...». «Nathan? «Taci e ascolta, una buona volta», disse Rick. «Loro sono qui, e io mi sono stufato di scherzare. Dimmi dove sei». Ben non rispose. «Non è il caso di fare lo scemo», minacciò Rick. «Hai già perso un amico, in questo fine settimana. Vuoi perderne un altro?». Non ricevendo risposta, aggiunse: «O magari altri due?». «Sono al Boosin's Bar», disse infine Ben. «È sulla New Hampshire Avenue». «So dov'è», disse Rick. «Spero di trovarti lì davanti ad attendermi tra dieci minuti. E se per caso decidi di avvertire la polizia, i tuoi genitori, Eric o chiunque altro, sappi che mi arrabbierò molto. Mi sono spiegato?». «Sì», disse Ben, cercando di reprimere l'esasperazione. «Bene. Ora, un'ultima domanda», disse Rick. «Qual è la decisione sul
caso American Steel?». Di nuovo, Ben tacque. «Ti ho fatto una domanda», disse Rick. Silenzio. «È soltanto una questione di soldi», lo avvertì Rick. «Non costringermi a usare la violenza». «Ha vinto la American Steel», sputò Ben. «Sei contento? Ora puoi andare a prendere i tuoi milioni di dollari». «Sono molto contento... Combacia alla perfezione con la risposta che mi ha dato Lisa», disse Rick. «Ci vediamo lì davanti tra dieci minuti». Sentendo che Rick aveva riagganciato, Ben andò su tutte le furie. Teneva la cornetta per la parte inferiore e la sbatté ripetutamente, con violenza, contro l'apparecchio telefonico. Udendo quel rumore, i pochi clienti si voltarono tutti verso di lui, che continuava imperterrito a martellare. All'improvviso, si sentì afferrare alle spalle. «Che diavolo t'è preso?», domandò il barista, togliendo la cornetta, ancora sana, dalle mani di Ben. «Levami le mani di dosso!», gli urlò Ben, opponendo resistenza. Il barista lo teneva saldamente, lo trascinò fino all'entrata e lo sbatté fuori di peso. «Sei hai intenzione di dare i numeri, vallo a fare da un'altra parte». Davanti al Boosin's Bar, mentre aspettava Rick, Ben era in preda alla rabbia. Con le mani calcate nelle tasche, prendeva nervosamente a calci un monticello di neve ammucchiato contro il muro. Dieci minuti dopo, una jeep rossa accostò al marciapiede. La guidava Richard Claremont, ed era solo. «Fermati lì», gli intimò Claremont, scendendo dalla jeep e avvicinandosi a Ben. Claremont si era tolto il fedora marrone e Ben poté vederlo bene in faccia. Con quel viso tondeggiante dal colorito cereo e smunto, Claremont sembrava molto più vecchio di quanto Ben si aspettasse. «Togliti la giacca», disse Claremont, facendo un cenno con le sue mani corte e tozze. Quando Ben ebbe eseguito, Claremont lo perquisì. «Ancora preoccupato per eventuali microfoni?», domandò Ben. «Mi hanno detto che hai questa brutta abitudine di metterteli addosso». Accertatosi che Ben fosse pulito, Claremont gli aprì la portiera della jeep e lo fece salire. «Tutti a bordo», disse. Venticinque minuti dopo, la jeep svoltò nell'area di parcheggio situata sul retro dell'hotel The Palm, a Bethesda. «Seguimi», disse Claremont, av-
viandosi verso l'entrata posteriore dell'edificio. «E se provi ad attirare l'attenzione di qualcuno...». «Ho afferrato il concetto», lo interruppe Ben. I due presero l'ascensore e salirono al ventiquattresimo piano. Usciti dalla cabina, percorsero lo stretto corridoio fino alla stanza 2427. Claremont infilò una chiave magnetica nella serratura elettronica ed entrò nella suite sfarzosamente arredata. Nella sala principale non c'era nessuno. «Dove sono gli altri?», domandò Ben. «Taci e seguimi», sibilò Claremont. Lo guidò in una camera da letto e aprì una porta che metteva in comunicazione la suite con quella adiacente. Attraversarono il secondo appartamento e raggiunsero un'altra porta che introduceva in una terza suite - la più grande delle tre - in cui ad attenderli c'erano Rick, Lisa e Nathan. Quando Ben e Claremont fecero la loro comparsa, Rick si alzò dal divano su cui era seduto. «Bene, bene. Ora la banda è al completo», disse. «Lisa, Nathan, immagino che conosciate già Ben. Ben, ti presento Lisa e Nathan». Ben fu sorpreso di vedere Nathan e Lisa tranquillamente seduti al grande tavolo da pranzo in vetro, ma quando guardò meglio si rese conto che erano entrambi ammanettati alle sedie. L'occhio sinistro di Nathan era tumefatto e violaceo. «Stai bene?», gli domandò Ben. «Vaffanculo», rispose Nathan, girando la faccia per non guardarlo. «Bambini», li rimbrottò Rick, «non litigate». «Non dovevi picchiarlo», disse Ben. «Oh, sì che abbiamo dovuto», replicò Rick prontamente. «Altrimenti, non sarebbe mai venuto con noi». Rivolgendosi a Lisa, Ben domandò: «Non ti hanno picchiato, vero?». «Scherzi?», si intromise Rick, mostrando i segni delle unghiate di Lisa sul collo. «Ha fatto più danni di te». Raggiunto un piccolo tavolo in mogano posto in un angolo della stanza, Rick infilò una mano nella sua borsa, ne prese due paia di manette e le lanciò a Claremont. Claremont spintonò Ben verso una grossa sedia di legno, situata accanto a Nathan. «Accomodati». «Prima, liberate loro due», chiese Ben. «Sì, così vanno dritti filati alla polizia, vero?», domandò Rick ridendo. «Siediti, Ben. Non sei nella posizione di avanzare richieste». Quando Ben si fu seduto, Claremont lo attaccò alla sedia con entrambe
le paia di manette. «E se per caso ti viene in mente di metterti a urlare», disse Rick, «ti consiglio di risparmiare il fiato e la fatica. Questo piano dell'hotel è quasi tutto prenotato da noi. Inoltre, il direttore ci ha garantito la massima discrezione. Al giorno d'oggi, si può comprare quasi tutto». «Non capisco perché fai tanto il gradasso», disse Ben. «Eric è ancora in giro. Quando non ci vedrà tornare, stasera, andrà immediatamente alla polizia». «No, non lo farà», disse Rick, gelido. Lisa si voltò verso Ben. «Nathan ha telefonato a Eric, dicendo che oggi avrebbe lavorato fino a tardi. Poi ho dovuto telefonargli io, per dirgli che io e te stavamo bene... e che la telefonata di Rick era soltanto una minaccia fasulla». Vedendo l'espressione sbalordita di Ben, Lisa aggiunse: «Rick diceva che ci avrebbe ucciso, se non l'avessimo fatto». Sorpreso dalla gravità delle minacce di Rick, Ben alzò gli occhi sul loro sequestratore. «Soddisfatto?», domandò Rick. «Hai intenzione di bloccare la decisione?», domandò Fisk, irrequieto, seduto nell'ufficio di Lungen. «Non vedo come potrei», disse Lungen. «Non abbiamo più prove di quante ne avessimo venerdì. Ben e Lisa non si sono fatti vedere per tutto il fine settimana». «Lo sapevo! Avremmo dovuto far sorvegliare la casa di Ben», disse Fisk, puntando l'indice verso Lungen. «Ora non abbiamo idea di dove sia». «Per quel che ne sappiamo, potrebbe benissimo essere andato a fare compere». «Io continuo a ritenere che dovremmo fermare la decisione. Diremo ai giudici che l'annuncio verrà dato non appena avremo trovato Ben». «Ma ti rendi conto di quello che dici?», domandò Lungen. «Vuoi che fermi il lavoro della Corte suprema degli Stati Uniti solo perché un assistente non è venuto al lavoro nel fine settimana? In men che non si dica, ci ritroveremmo a far la fila all'ufficio di collocamento». «E se non si fa vedere neanche domani?». «Non fa niente», insistette Lungen. «Finché non abbiamo prove certe anzi, certissime - non possiamo azzardarci a bloccare l'annuncio delle decisioni da parte della Corte. Fidati, se scopriamo qualcosa, il culo di Ben Addison è mio, ma fino a quel momento, non possiamo far altro che aspet-
tare». «E ascoltare», disse Fisk, accendendo l'apparecchio ricevente posato sulla scrivania di Lungen. Le braccia di Ben erano sempre più indolenzite per la posizione in cui erano costrette. «Avete sbagliato a prendere solo noi tre». «Ah, davvero?». Rick era seduto sul lussuoso divano e sfogliava delle dispense posate sul tavolino da caffè. «Certo», insistette Ben. «Eric non può aver creduto a quelle telefonate. Scommetto che a questo punto è già andato alla polizia». «Come teoria fa veramente schifo», disse Rick, con gli occhi ancora fissi sui fogli. «Perché? Sentiamo...». «Credi seriamente che Eric sia corso alla polizia?», domandò Rick, squadrandolo. «Ti riferisci allo stesso Eric che ti aveva consigliato di non rivolgerti alla polizia per nessuna ragione al mondo? Quello secondo cui tu avresti potuto incastrarmi da solo? E lui, secondo te, sarebbe andato a spifferare tutto ai quattro venti? Persino Ober aveva qualche chance più di te». Ben si irrigidì. «Ho toccato un nervo scoperto?». «Se non fosse stato per te, Ober sarebbe ancora vivo», disse Ben. «Ti ucciderò, per questo». «Ah, certo. Se lo credi davvero, allora si spiega anche come mai sei convinto che Eric possa venire a salvarti». Mettendosi comodo, Rick aggiunse: «Mi dispiace doverti aprire gli occhi, ma questa volta devi cavartela da solo». Seduto al suo tavolo nel settore politico della redazione del giornale, Eric era inquieto. Nelle tre ore precedenti, aveva cercato di rintracciare i suoi amici. Nathan non era al lavoro, Ben non era alla Corte e Lisa non era a casa. Le loro telefonate dovevano nascondere qualcosa, pensò Eric, mentre le briciole del suo frugale e tardivo pranzo cadevano negli interstizi della tastiera del suo computer. Si pulì le mani sui jeans e si mise a sfogliare il suo indirizzario. "Non posso perdere altro tempo", pensò Eric, componendo il numero dell'ufficio dei marshals della Corte suprema. "Devo chiedere aiuto". «Corte suprema, ufficio dei marshals», rispose una voce maschile. «Sono Carl Lungen». «Mr. Lungen, sono Eric Stroman, l'amico di Ben Addison».
«Come hai fatto a procurarti il mio interno?», domandò Lungen, piuttosto seccato. «L'ho rubato dall'indirizzario di Ben... Non si sa mai... Si può sempre avere bisogno di un marshal», si giustificò Eric. «La chiamo perché c'è un'emergenza. Credo che Ben sia nei guai». «Ti ascolto». «Be', senza entrare nel dettaglio, c'è un certo Rick che lo ricatta. Qualche ora fa Ben mi ha telefonato a casa dicendomi di uscire immediatamente perché questo Rick ci stava cercando. Un'ora dopo, mi ha chiamato Lisa e mi ha detto che andava tutto bene. Forse sono solo un po' paranoico, ma ho paura che possa essergli successo qualcosa di male». «Eric, sono felice che tu mi abbia chiamato», disse Lungen. «Ora raccontami tutta la storia dall'inizio». Quella sera, alle dieci, Rick e Claremont erano seduti nella suite centrale e stavano piluccando i resti della cena che si erano fatti servire in camera. «Mancano solo altre dodici ore», disse Rick, mangiucchiando una patatina fritta. «Ci siamo quasi». «Hai giurato che avremmo riscosso i premi entro mezzogiorno...», disse Claremont. «Quante volte devo ripetertelo?», domandò Rick. «A mezzogiorno sarà tutto finito». «Non guardarmi così», disse Claremont. «Se tu fossi nella mia posizione, saresti altrettanto preoccupato. Basteranno poche ore alla Security and Exchange Commission per rendersi conto che un dirigente della American Steel ha venduto tutte le sue azioni e ha investito il ricavato in una lungimirante quanto azzardata scommessa. Questo affare farà sollevare più di un sopracciglio». «Quando se ne renderanno conto, noi saremo lontani», disse Rick. «Non ti agitare». «Sarò tranquillo solo quando sarà finita», disse Claremont. «Sarai più che felice», precisò Rick. «Sarai ricco. Quei premi ammonteranno a milioni di dollari». «E se Ben avesse mentito, e la American Steel dovesse perdere?». «Non ti preoccupare», lo rassicurò Rick. «Dopo quello che è successo con il caso Grinnell, non scommetterei un dollaro se non fossi sicuro che ha detto la verità».
«Nathan, vuoi smetterla?», implorò Ben. «Dimmi qualcosa». «Lascialo in pace», disse Lisa. «Quando avrà voglia, parlerà». «Stare in silenzio non serve a nessuno, a questo punto», disse Ben. «Supera certe cagate». «"Supera certe cagate"?», domandò Nathan, rivolgendosi finalmente a Ben. «Ober è morto. Non è esattamente una cagata che io possa superare, né oggi né mai». «Smettetela di litigare», li interruppe Lisa. Si sporse a sinistra, esercitando una certa tensione sulle manette che la tenevano bloccata. Vide che erano assicurate ai traversini di legno che congiungevano le gambe anteriori e posteriori di quella vecchia sedia. «Cerchiamo piuttosto un modo per uscire di qui». «Be', vediamo...», disse Nathan. «Magari hai uno spillone tra i capelli, e siccome sei una scassinatrice provetta...». «Mi piacerebbe», disse Lisa, inclinando la sedia in avanti in modo da posare i piedi a terra. Così chinata si avvicinò a Ben. Quindi, si rimise seduta. «Li vedi quei traversini?», gli domandò. «Scommetto che con un calcio ben assestato riesci a spezzarli». Ben considerò lo spessore dei traversini. «È impossibile», disse. «Non riesco a...». «Oh, smettila!», lo interruppe Lisa. «Provaci, cazzo. Spacca tutto. Cerca solo di non colpire me». Ben si spostò in posizione favorevole e si preparò a calciare. «Aspetta un attimo», disse Lisa, facendo un cenno con la mano. «Dammi l'altro piede». «Perché?», domandò Ben. «Perché altrimenti, quando colpisci la sedia, io volo chissà dove». Ben ne convenne e lasciò che Lisa gli si aggrappasse saldamente a una caviglia. Caricò la gamba, contò fino a tre e sferrò un calcione contro il traversino. «Insisti». Dopo una dozzina di furiosi pestoni, Ben sentì che il legno cominciava a cedere. «Dài, che ci siamo», lo incitò Lisa. Al colpo successivo, il traversino si spezzò e il primo paio di manette si sfilò dalla sedia. Con un braccio ancora imprigionato, Lisa ruotò di mezzo giro con tutta la sedia. «Adesso, l'altro». «Fai piano», disse Nathan, guardando verso la porta comunicante con la suite adiacente. Ben ruppe a calci anche il secondo traversino, e Lisa fu libera. Con le manette che ancora le pendevano dai polsi, si avvicinò alla sedia di Ben e
si apprestò a ricambiargli il favore. «Lascia stare la sedia», disse Ben. «Corri a chiedere aiuto». «Non ci penso nemmeno», disse Lisa. «Non discutere, vai!», insistette Ben, con le manette che gli segnavano i polsi. «È impossibile riuscire a liberarci tutti senza che loro ci sentano». «Adesso non ci hanno sentiti», obiettò Lisa. «Eppoi, se io scappo e loro se ne accorgono, potrebbero far del male a voi». «Ce la caveremo», disse Ben. «Vai a cercare aiuto». «No», ribatté Lisa. Cominciò a prendere a calci i traversini della sedia di Ben. «Non ho intenzione di avervi per tutta la vita sulla coscienza». «Non ci uccideranno», disse Ben. Lisa si fermò per guardarlo negli occhi. «Mi pigli per scema? Credi che ci abbia picchiati, rapiti e incatenati, ma che non ci ucciderà?». «Vai a cercare aiuto», ripeté Ben. «Cosa ne pensi, Nathan?», domandò Lisa. «Spezza quei traversini», disse Nathan. «Mi hanno cambiato i connotati, e Rick sembrava provarci gusto». Lisa riprese a scalciare, equilibrandosi sul piede d'appoggio, ma il traversino resisteva. «Merda». «Fila via di qui», disse Ben. «Stai... zitto», gli ingiunse Lisa, continuando a colpire la sedia. Il traversino cominciò a cedere e dopo altre cinque o sei pedate, finalmente, si ruppe. Lisa girò intorno alla sedia. «Sbrigati», disse Ben. «Che cosa credi che stia facendo?», domandò lei, cominciando a battere sull'altro lato. Nel giro di un minuto anche il secondo traversino andò in pezzi, e Ben fu libero. Lui e Lisa corsero ai lati di Nathan e cominciarono a percuotere quel legno antico. Nathan pompava adrenalina a tutto andare. «Sta cedendo», disse. «Adesso cede». Lisa si fermò un attimo per prendere fiato, stanca per quell'incessante scarica di calci. «Continua», disse Nathan. «Ci siamo quasi». Ben spezzò il traversino dalla sua parte, e girò in fretta intorno alla sedia. All'improvviso sentì un flebile clic. Si bloccarono e guardarono tutti e tre verso la porta. «Merda!», disse Nathan. «Ma perché vi prendete tutto questo fastidio?», domandò Rick. Dall'an-
golo della stanza, puntò una pistola contro i tre amici. «Separali», disse Rick a Claremont, mentre questi si avvicinava al grande tavolo di vetro. Rick indicò Lisa con la canna della pistola: «Lei mettila in bagno. Assicura le manette alle tubature sotto il lavandino». Quando Claremont la afferrò per la manetta sinistra, Lisa roteò la destra colpendolo alla testa. Dopo aver rapidamente bloccato le mani di Lisa con una delle sue, Claremont la colpì al volto con la mano libera e la fece volare all'indietro. «T'ammazzo!», urlò Ben, avventandosi contro Claremont. Rick puntò la pistola contro Ben. «NON TI MUOVERE!». Raggelato dalla paura, Ben riusciva a vedere l'interno della canna della pistola di Rick. In quell'istante, la porta comunicante con la suite centrale si spalancò bruscamente. «FERMI TUTTI! MARSHALL DELLA CORTE SUPREMA!», gridò Carl Lungen, facendo irruzione nella stanza e sventagliando con il braccio che reggeva la pistola. Ben restò a bocca aperta. «Siete tutti in arresto!», urlò Lungen. «Dove diavolo ti eri cacciato?», gli domandò Rick, sorpreso da quell'entrata. «Dovevi essere qui alcune ore fa». Abbassando l'arma, Lungen guardò Ben e scoppiò a ridere. «Cristo, Ben, dovresti vederti in faccia», disse. «Credevi davvero che fossi venuto a salvarvi?». «Aiutaci a immobilizzarli», disse Claremont. «A momenti scappavano». «Come ci si sente nella parte dello scemo, Addison?», domandò Lungen. «Alza le mani». «Che cazzo sta succedendo?», domandò Ben, alzando le mani. «Lei è d'accordo con Rick?». Puntandogli la pistola alla schiena, Lungen condusse Ben verso una sedia ancora integra. «Niente di personale», disse Lungen. «I soldi sono soldi». «Anche Fisk è della partita?», domandò Ben, mentre Lungen lo ammanettava alla sedia. «Magari», sospirò Lungen. Voltandosi verso Rick, aggiunse: «È colpa sua se ho fatto tardi. Mi dispiace non avervi potuto aiutare a portar qui questi tre». «Fisk ha creato problemi?», domandò Rick. «Scherzi? Ho dovuto inventare ogni genere di scuse per evitare che si mettesse ad arrestare tutti. È più in ansia di una vergine la sera del debut-
to». Rick non poté trattenere un ghigno quando vide l'espressione di Ben. «Credi che se ne starà tranquillo?», domandò Rick. «Per il momento credo di sì, ma temo che andrà in fibrillazione quando non vedrà arrivare Ben al lavoro, domani». «Non farà nulla», disse Rick. «Da quel che mi hai detto, Fisk non farà un cazzo di niente senza il tuo consenso». «Non credo», interloquì Ben, mentre Lungen cominciò a occuparsi di Nathan. Riattaccò la manetta libera al bracciolo della poltrona su cui Nathan era seduto. «Suvvia, Ben», disse Lungen, «credevi davvero di essere così bravo? Se non ci fossi stato io, Fisk avrebbe seminato microspie nel vostro ufficio già diverse settimane fa, e non solo da pochi giorni. E il test con la macchina della verità non lo avresti mai passato senza il mio aiuto. Per come la vedo io, dovresti ringraziarmi». «Non capisco», disse Ben. «È stato Fisk a sottopormi al test». «Sì, ma chi credi che sia stato a manovrare la macchina?», domandò Lungen, accomodandosi sul divano accanto a Rick. «Non saresti riuscito a fallire quel test neanche se ci avessi provato». «E tu credevi, nonostante il tuo amico ti avesse dato dei placebo, di essere stato capace di superare il test», disse Rick. Ben si voltò verso Nathan. «Non ho mai pensato...». «Non fa niente», bisbigliò Nathan. «Ormai non ha più nessuna importanza». «Cristo», disse Lungen, «hai visto che facce hanno fatto quando sono entrato? Per un attimo hanno creduto che fosse tutto finito». «Finirà presto», disse Rick. «Mancano meno di undici ore». Alle quattro di mattina, tutte le luci erano spente, tranne una, e un inquietante silenzio aleggiava nella suite. La luce rimasta accesa - una piccola lampada da tavolo collocata accanto al divano - bastava a malapena per Lungen, che stava leggendo il giornale. Lisa era in bagno, addormentata sul pavimento di linoleum: la spossatezza aveva avuto la meglio sulla paura. In soggiorno, Nathan si sforzava di tenere gli occhi aperti, ma ogni tanto la testa gli cascava in avanti per il sonno. Ben, invece, completamente sveglio in un angolo della stanza, lanciava occhiate di fuoco in direzione di Lungen. Lungen, facendo la guardia ai tre, continuava a leggere il giornale, sedu-
to sul divano. A un certo punto, guardò dietro di sé e si accorse che Ben lo stava fissando. «Invece di fissarmi in quel modo, potresti parlare». Non ottenendo reazioni, Lungen aggiunse: «Perché non ti metti a dormire?». «Non ho sonno», rispose Ben. «Okay, allora stai sveglio», disse Lungen, tornando a leggere il giornale. «Come se me ne fregasse qualcosa...». «Spero che i soldi siano abbastanza». «I soldi sono tanti». «Quanto costa l'integrità, al giorno d'oggi?», domandò Ben. «Un milione di dollari? Due milioni?». Lungen ripiegò il giornale e si voltò verso Ben. «Non mi servono le tue lezioncine morali». «D'accordo», disse Ben. «Ma si rende conto che dovrà condurre una vita da latitante?». «Vuoi scherzare?», domandò Lungen. «Questa non è una piccola truffa da poveracci. Quando questa storia sarà finita, io tornerò al mio posto. E quando mi presenterò alla polizia con te e con Lisa, i due assistenti più ricercati d'America, probabilmente mi daranno anche una promozione». «Ah, certo», disse Ben. «Credi un po' quello che vuoi», disse Lungen. «Domani sera, il latitante sarà Ben Addison. La Security and Exchange Commission si accorgerà presto della nostra vendita di azioni, ma indovina qual è il nome a cui troveranno intestato il transfer? Eppoi, sei così convinto che quel bel conticino, aperto da Rick a tuo nome prima della decisione Grinnell, non possa più accogliere altri grossi depositi? Se a questo aggiungi la registrazione audio di quando hai rivelato la decisione sul caso CMI, non troverai più una sola persona disposta a crederti». «Io non sarei così sicuro». «Oh, sì, invece», insistette Lungen. «A chi pensi che crederà l'America? All'assistente con un conto da un milione di dollari in Svizzera o al marshal che l'ha smascherato? Inoltre, se anche tu volessi tentare di coinvolgere Rick, non avresti prove: al momento non saresti neanche in grado di dimostrare che esiste». Ben rimuginò in silenzio. Quando tendeva le spalle, le manette gli ferivano i polsi. «Lei può dire quello che vuole, ma secondo me Rick cercherà di prendere tutto il bottino per sé. Non gliene frega niente di lei. Anzi, non mi sorprenderebbe che a un certo punto trapelasse qualche informazione a proposito dell'ufficio dei marshals. Se fossi in lei, mi tirerei fuori in tem-
po». «Suvvia, Ben, pensi davvero di potermi coinvolgere nel giochetto del voltagabbana? Non sono un tirapiedi qualunque, magari pieno di risentimento nei confronti del mio capo. Sono perfettamente consapevole di tutte le possibili conseguenze. Era da molto che io e Rick studiavamo questo piano, e ora voglio vederlo arrivare in fondo». «Dunque, lei sapeva tutto già ai tempi della decisione sul caso CMI?». «Come credi che facesse Rick a sapere tutte quelle cose sulla Corte suprema?», domandò Lungen. «Senza una talpa, il piano non si sarebbe potuto realizzare». La porta d'angolo s'aprì, e l'intensa luce proveniente dalla suite vicina illuminò anche la stanza semibuia. Sulla soglia apparve Rick. «State facendo amicizia?», domandò, avanzando verso il centro della stanza. «Oh, sì», disse Lungen, alzandosi dal divano e avviandosi verso la suite da cui era arrivato Rick. «Ben, mi ha convinto a passare dalla sua parte. Ho capito, improvvisamente, quanto sono stato stupido e ora vado alla polizia a raccontare tutto». «Fantastico», disse Rick, dando una pacca sulla schiena di Lungen, quando si incrociarono. «Pensa a farti un sonnellino. Domani ci aspetta una giornata piuttosto intensa». Giunto alla porta, Lungen si voltò: «Buonanotte, Ben». «Spero che soffochi nel sonno», disse Ben, mentre la porta si richiudeva. «A quanto pare, siamo rimasti soli», disse Rick, notando che Nathan era ormai profondamente addormentato. «E allora?», domandò Ben, cercando di guardare dietro di sé. Alle spalle di Ben, Rick inclinò leggermente all'indietro la sedia su cui era costretto Ben. «Che cosa stai facendo?», domandò Ben. Rick non rispose. Trascinò la sedia al centro della stanza, e la posizionò di fronte al divano su cui si accomodò e da cui poteva godersi lo spettacolo del suo prigioniero numero uno. «Non essere arrabbiato», disse Rick. «In ogni gioco c'è chi vince e c'è chi perde. Questa volta hai perso tu. Fine». «E tu hai vinto, vero?». «Esatto», confermò Rick. «Avresti potuto vincere anche tu. Io la proposta te l'ho fatta, ma tu l'hai respinta...». «Tu non mi hai fatto nessuna proposta», disse Ben. «Non mi hai chiesto niente. Hai semplicemente approfittato della mia fiducia». «Be', allora denunciami. Se te l'avessi chiesta direttamente, me l'avresti data l'informazione che mi serviva?».
Ben non rispose. «Come volevasi dimostrare...». «Certo che tu sai e capisci veramente tutto di me...». «Ben, vuoi sapere qual è la differenza tra me e te?». «A parte il fatto che tu sei uno psicopatico?». «Dico sul serio», riprese Rick. «È una differenza sottile, ma decisiva». «Ah, ho capito», disse Ben. «Adesso mi propinerai una storia strappalacrime secondo cui noi saremmo le due facce di una stessa medaglia o roba del genere». «Nient'affatto», disse Rick. «Il nostro valore è paragonabile, ma credo che non apparteniamo alla stessa valuta. E ciò dipende da una fondamentale differenza: tu pensi che la società funzioni, io penso che sia una presa in giro». «Oh, che birbante!». «Pensaci e vedrai che ho ragione», disse Rick. «Tu trami, menti e manipoli tanto quanto me. Ma a te piace la società così com'è organizzata. Tu rispetti le regole. Lavorare duro, trovare il lavoro ideale, la moglie ideale, la casa ideale, comprare a rate la macchina ideale. Tu inseguirai la carota per tutta la vita. Finché percorrerai questa via, non ha importanza quanto tu sia intelligente: sarai sempre prevedibile nel tuo pragmatismo, e io avrò sempre un vantaggio su di te. È per questo che ti ho scelto». «Tu di me non sai nulla», disse Ben, gelido. «Ah, davvero?», domandò Rick. «Allora, ti farò una domanda che ho sempre evitato di porti: vuoi diventare mio socio?». «Cosa?». «Non sto scherzando», disse Rick, con un tono di voce mortalmente serio. «Diventiamo soci. Io ti lascio andare. Tu torni alla Corte e fino alla fine del tuo incarico mi passi le decisioni più lucrose. La prossima estate navigheremo nell'oro. Non dovrai più preoccuparti di nulla». «Dici sul serio?». Rick sorrise. «No, per niente. Sembro davvero così scemo?». Ben fece scattare in avanti la gamba destra e colpì Rick a uno stinco. «Sei uno stronzo», sibilò Ben. «Certo che lo sono», rispose Rick. Con un calcetto ben assestato, colpì la sedia di Ben, che si inclinò pericolosamente all'indietro. Ben tentò di rimettersi in equilibrio, ma con le mani imprigionate non riuscì a opporsi alla spinta impressa alla sedia e cercò, se non altro, di attutire l'impatto. La sedia si rovesciò a terra con fragore, e Ben sbatté la nuca contro il pavi-
mento. Con la schiena a terra, Ben restò a occhi chiusi, deciso a non mostrare il benché minimo segno di sofferenza. «Dormi bene, mi raccomando», disse Rick, appoggiandosi all'indietro sul divano. «Domani sarà una giornata importante». «Sveglia! Sveglia! Sveglia!», gridò Rick alle nove meno un quarto del mattino. Svegliata di soprassalto dai colpi di Rick sulla porta del bagno, Lisa sbatté la testa contro le tubature del lavandino. Ancora intontita, si mise a sedere sul pavimento, con la schiena appoggiata alla vasca da bagno, e prese a roteare i polsi per riattivare la circolazione nelle mani formicolanti. In soggiorno, Nathan roteava piano il collo. Ben, ancora, a terra, era quello dei tre che aveva dormito meglio. Si leccò i denti per toglierne la patina della notte. «Devo andare in bagno». «Trattienila», disse Rick, sollevando la sedia di Ben e rimettendola in piedi. «Avete un'aria terribile», disse Claremont, osservando le occhiaie gemelle dei due amici. «Dov'è Lungen?», domandò Ben, guardando in giro per la stanza. «È al lavoro», rispose Rick, avvicinandosi a Nathan. «A tener buono Fisk». «A che ora hai intenzione di chiamare il broker?», domandò Claremont, impaziente. «Sono quasi le nove». «Lo chiamo tra un minuto». Rick inclinò la sedia di Nathan all'indietro e la trascinò al centro della stanza. «Ehi», disse Nathan. «Che cosa hai intenzione di fare?». «Voglio verificare una cosa», disse Rick, rimettendo la sedia sulle sue quattro gambe. Voltandosi verso Ben, che ora si trovava di fronte a Nathan, Rick domandò: «Riesci a vederlo bene?». «Non lo toccare», lo avvertì Ben. «Quello che volevi sapere te l'ho detto». «Mi avevi rivelato anche la decisione sul caso Grinnell...», disse Rick. «E guarda in che situazione mi trovo». Rick arretrò col busto e colpì Nathan al volto. «Basta!», urlò Ben. «Sei sicuro che la American Steel vinca?», domandò Rick, sotto gli occhi di Claremont. «Sì», disse Ben. «Te lo giuro».
Rick rifilò un altro manrovescio a Nathan. «Sei proprio sicuro?». «Smettila!», urlò Ben. «La decisione è quella che ti ho dato». Da un angolo della bocca di Nathan, cominciò a uscire del sangue. A quel punto, Claremont disse: «Sta dicendo il vero». «Lo vedremo», disse Rick, dirigendosi verso il bagno. Ne trascinò fuori Lisa, ancora in manette. «Non osare!», strillò Ben, con la bava alla bocca. «Taci», disse Rick. Claremont spostò la sedia a cui era ammanettato Nathan e mise al suo posto una poltrona vuota. Lisa si dimenava e resisteva a Rick con tutte le sue forze. «Toglimi quelle manacce di dosso!», gridava. «T'ammazzo!». «Zitta», disse Rick, costringendola, con l'aiuto di Claremont, a sedersi. Quando l'ebbero ammanettata ai braccioli della poltrona, Rick indietreggiò per osservare l'espressione di Ben. Questi, con la faccia di un rosso cremisi, esplose: «Stalle lontano! La decisione l'hai avuta!». «Oh, oh», fece Rick. «Non sapevo che le fossi così affezionato». «Sbrigati», disse Claremont, consultando il suo orologio. «Non abbiamo tempo da perdere». «Credimi», disse Rick, «se ci ha mentito, tutto il tempo del mondo non significherebbe più nulla per noi». Voltatosi nuovamente verso Ben, proseguì: «Allora, Ben, sei sicuro che l'American Steel vinca?». «Non rispondergli», disse Lisa. Rick le tirò un ceffone. «Nessuno ti ha interpellato». Una chiazza rossa cominciò a spuntarle intorno all'occhio sinistro. «Così, adesso, tu e Nathan siete conciati uguali». «T'ho detto di starle lontano!», strillò Ben, con le braccia che si agitavano inutilmente nella morsa delle manette e il corpo in preda a convulsioni di rabbia cieca. «T'ammazzo!». «Ho fatto una... domanda», disse Rick, colpendo nuovamente Lisa. Quando vide la saliva mista a sangue fuoriuscire dalla bocca di Lisa, Ben cominciò a dibattersi nell'inutile tentativo di liberarsi. «Bastardo, t'ammazzo!». «Risposta sbagliata», disse Rick. Rifilò a Lisa un altro schiaffone che le fece voltare la faccia dall'altra parte. Ben urlava, accecato dalla furia, incapace di controllarsi. Continuò freneticamente a tentare di divincolarsi. «È LA VERITÀ!», gridò, con le lacrime agli occhi. «CHE ALTRO VUOI SAPERE?».
«Com'è andata la votazione?», domandò Rick. «Cinque a quattro», disse Ben. «Il voto decisivo è stato quello di Dreiberg». Rick tirò fuori la pistola e la puntò contro Lisa. «Sei sicuro?». «Dai, Rick, smettila», disse Claremont. «Taci», lo fulminò Rick. Afferrò Lisa per i capelli e le ficcò la canna della pistola in bocca. Quindi, ripeté la domanda: «Sei sicuro?». «Te lo giuro», gemette Ben. «Sulla mia vita». Rick tirò indietro il cane della pistola e fece scivolare l'indice sul grilletto. «Non sto scherzando. Guarda che non ci penso due volte». «Giuro che è come ti ho detto», disse Ben, al massimo della tensione. «La American Steel vince». Rick lo scrutò in volto, alla ricerca di un qualche segno di incertezza. «Bene», disse, ritraendo la pistola dalla bocca di Lisa. «Ti credo». Rick si avvicinò al tavolo d'angolo e prese il suo telefonino cellulare. Compose rapidamente un numero e disse: «Pronto, Noah? Sono io. Senti qua. Appena aprono i mercati, voglio che tu liquidi tutte quelle azioni privilegiate che ti ho dato. Poi, prendi il ricavato e compra tutte le azioni American Steel che riesci a rastrellare». Restò in ascolto per un attimo. Poi continuò: «Esatto. Poi, a mezzogiorno voglio che vendi tutto e mi versi il ricavato sul solito conto... Esatto. Allora, d'accordo». Rick chiuse la comunicazione e si rivolse a Claremont. «Ora, non dobbiamo far altro che aspettare». Sputando sangue sul tappeto, Lisa fece uno sforzo per far sì che la stanza smettesse di girare. «Lisa!», chiamò Ben. «Da questa parte!». «Sta rinvenendo», disse Nathan. «Lasciale un attimo di tregua». «Che caspita è successo?», domandò Lisa. «Mi sento la faccia come un pallone». «Stai bene?», domandò Ben. «Dimmi qualcosa». «Sì, sto bene», rispose Lisa, serrando le palpebre nel tentativo di fermare la vertigine. «Lasciami riprendere fiato». Dopo un minuto di silenzio, domandò: «È davvero conciato come me lo sento, l'occhio?». «È solo un occhio nero», disse Ben. «Lo so che cos'è», ribatté Lisa. «Dimmi che aspetto ha». «Be', non ha un bell'aspetto». «È stato solo Rick o ha partecipato anche Claremont?». «Solo Rick», disse Ben.
«Appena mi libero da queste manette, è un uomo morto». Lisa si voltò indietro e vide Nathan. «Come stai?». «Sto bene», rispose Nathan, con un filo di voce. «Il mio occhio è conciato come il suo?», domandò Lisa a Ben, facendo un cenno con il capo in direzione di Nathan. «Tra qualche ora lo sarà», disse Ben. «Stupendo», sospirò Lisa. «Ehi, Rick», gridò Ben. «Non possiamo almeno avere del ghiaccio?». «No», rispose Rick, estraendo un computer portatile da una borsa. Verso le dieci, Rick attaccò il suo cellulare al computer e si collegò a Westlaw, il database della Corte suprema. Alle sue spalle, Claremont osservava incuriosito. «Assisteremo all'annuncio via computer?». «No», rispose Rick, sarcastico. «Adesso andiamo alla Corte di persona». Schiacciò alcuni tasti. «Al momento dell'annuncio, l'ufficio informazioni emette il comunicato, e a quel punto la decisione compare su Westlaw». Dall'altra parte della stanza, Ben domandò a Lisa: «Sei sicura di star bene?». «È la decima volta che me lo chiedi. Sì, sto bene», rispose lei, mentre la regione circostante l'occhio sinistro continuava a gonfiarsi e a illividirsi. «Prendo pugni tutti i giorni». «Nathan, come va il tuo occhio?», si informò Ben. «Bene», rispose Nathan. «Smettila di chiedermelo». «Fate silenzio, voialtri», disse Rick, voltandosi verso i suoi tre prigionieri. Alle dieci in punto, il marshal della Corte batté il suo martelletto, e le persone presenti in aula si misero in ascolto. «L'onorevole presidente e i giudici della Corte suprema degli Stati Uniti!», annunciò il marshal. I nove giudici comparvero da dietro la pesante tenda di velluto rosso scuro e si avviarono ai rispettivi scranni. «Udite! Udite! Udite!», esclamò il marshal. «Chiunque abbia in corso procedimenti davanti all'onorevole Corte suprema degli Stati Uniti è invitato ad avvicinarsi e a prestare attenzione. La Corte è riunita. Dio salvi gli Stati Uniti e l'onorevole Corte suprema!». Di nuovo, il martelletto calò sul banco, e tutti presero posto. «Per oggi è previsto l'annuncio di tre decisioni», disse Osterman, rivolto al pubblico che, come sempre, gremiva l'aula. «Alvarez v. Comune di Gib-
sonia; Katz & Company v. Stato del Nevada; Richard Rubin v. American Steel. Le prime due decisioni saranno lette dal giudice Veidt; la terza verrà annunciata dal giudice Dreiberg». «Quanto ci vuole?», domandò Claremont, fissando lo schermo vuoto del computer di Rick. «Sono quasi le dieci e un quarto». «Rilassati», disse Rick. «Devono annunciare altre due decisioni, oltre alla nostra. È questione di un attimo». «Le decisioni compaiono a mano a mano che vengono annunciate o tutte insieme alla fine?», domandò Claremont. «T'ho detto di pazientare un attimo», disse Rick. «Adesso taci». «... è pienamente costituzionale sulla base del Primo emendamento. Quindi, nel caso Katz & Company v. Stato del Nevada abbiamo deciso in favore del querelato e confermiamo la decisione della Corte suprema dello Stato del Nevada». «Grazie, giudice Veidt», disse Osterman. «Il giudice Dreiberg annuncerà la terza e ultima decisione». «Perché non ci lasci andare?», domandò Ben. «Ormai, hai avuto quello che volevi». Rick teneva lo sguardo fisso sullo schermo del suo computer. «Non ci credo finché non vedo». «E se avesse mentito?», domandò Claremont. «Noi avremmo scommesso sull'esito sbagliato». «Lo escludo», disse Rick. «Ha detto la verità». «Come fai a esserne così sicuro?». «Perché lui sa che altrimenti lo ucciderei». «Grazie, signor presidente», annunciò Dreiberg, appoggiandosi con i gomiti alla tribuna e avvicinandosi al microfono. Con la sua voce lenta e monotona, lesse: «Per quanto riguarda il caso Robert Rubin v. American Steel, crediamo che il consiglio di amministrazione della American Steel non abbia alcun obbligo di richiedere l'approvazione dei propri azionisti di minoranza per procedere a una fusione. L'opinione degli azionisti di minoranza secondo cui il consiglio di amministrazione avrebbe tentato di evitare il confronto con loro è dunque insufficiente ad aprire un procedimento sulla base del Securities Exchange Act. Ci pronunciamo, quindi, a favore del querelato e confermiamo la sentenza della Corte d'Appello del nono di-
stretto giudiziario». «Abbiamo vinto?», domandò Claremont. Rick lesse la decisione a mano a mano che si srotolava sullo schermo. «Aspetta, sta uscendo». Tacque un istante. «A quanto pare la American Steel ha vinto. Congratulazioni, Addison. Alla fine, una cosa giusta l'hai fatta». Richiuse il computer, staccò il telefonino e si spostò verso il divano per riporli entrambi nella borsa. «Che facciamo adesso?», domandò Claremont, euforico. «Dov'è l'appuntamento con Lungen? Quando si parte?». «Una cosa alla volta», disse Rick. Prese una chiave da una tasca e si avvicinò a Ben. «Aiutami a togliere le catene a questi tre. Poi possiamo uscire». «Dove si va?», domandò Ben, mentre Rick trafficava con la serratura delle sue manette. Rick non rispose. Lo fece alzare con modi sbrigativi e lo spinse verso Claremont dicendo: «Rimettigliele». «Porgimi i polsi», disse Claremont. Ben obbedì e si lasciò riammanettare. Poi fu liberata e riammanettata anche Lisa. Claremont si mise alle loro spalle per poterli tenere d'occhio, mentre Rick si avvicinò a Nathan. «Non muovetevi finché non ve lo dico io», li avvertì Claremont. Lisa si mise a fissare Ben con insistenza, finché non riuscì ad attrarre la sua attenzione; quindi, fece cenno con gli occhi al plesso solare di Claremont. Ben indietreggiò leggermente. «Non mi sento bene», biascicò. «Sto per svenire». D'istinto, Claremont trascurò Lisa per sorreggere Ben. Lisa si girò di scatto e sferrò una ginocchiata al basso ventre di Claremont. Mentre lui e Ben cadevano a terra, Lisa corse verso la porta, ma Rick si rese conto di quello che stava succedendo e, lasciando perdere Nathan, si voltò con la pistola spianata. Sparò due colpi che attraversarono la porta proprio mentre Lisa afferrava la maniglia. «NON TI MUOVERE!», urlò Rick. Lisa restò immobile davanti alla porta appena aperta, ancora in manette. «Guarda che lo faccio... Non sto scherzando: li ammazzo tutti», minacciò Rick. Lisa comprese che quella era la sua ultima opportunità di fuga. All'improvviso, si lanciò in corridoio. Altre tre pallottole sforacchiarono la porta. Lisa sfrecciò verso l'uscita di sicurezza, ma quando ebbe aperto la porta
che immetteva sulla tromba delle scale, vide con sorpresa altre due porte: una per salire, l'altra per scendere. Con le mani ancora legate, spinse la porta di metallo e corse giù per le scale. «Prendila!», gridò Rick a Claremont, che già arrancava verso la porta crivellata di colpi. Rick puntò la pistola contro Ben. «Se esci da questa stanza, giuro che ti ritrovi con due amici da piangere». Ben si voltò verso Nathan, che era ancora ammanettato alla sedia. «Non vado da nessuna parte, lo giuro». Pochi secondi dopo, Rick era già fuori dalla porta. In precario equilibrio a causa delle manette, Lisa ebbe delle difficoltà a scendere la prima rampa di scale. Ben si rese subito conto che tenendo i gomiti attaccati al corpo riusciva a correre molto più agevolmente. Giunta al ventitreesimo piano, trovò che per accedere al ventiduesimo doveva oltrepassare un'altra porta. «Oh, merda!», esclamò. Mentre la apriva, sentì che Rick e Claremont la stavano quasi per raggiungere. Si gettò a capofitto giù per le scale, con le mani legate e i gomiti aderenti al corpo, e a ogni piano una porta da aprire. A mano a mano che scendeva, ogni porta sembrava più pesante, e ogni rampa più lunga. A ogni pianerottolo, le veniva la tentazione di infilarsi in corridoio, ma per timore o per scetticismo, proseguiva lungo le scale. Quando spalancò la porta del quinto piano, si domandò che vantaggio le rimanesse sui due inseguitori. Giunta a quel punto Lisa era ormai esausta. Per la mancanza di sonno e per quella corsa a spirale fu colta da capogiro, ma non si arrese. Strinse i denti, aspettò che la vertigine passasse e si rituffò giù per le scale. "Mancano solo quattro piani", disse tra sé. "Appena arrivo nell'atrio, mi metto a strillare come una strega". Quando raggiunse la porta del quarto piano, quella sensazione di stordimento la assalì di nuovo, mentre per la paura e lo sforzo era in un bagno di sudore. In qualche modo, afferrò la maniglia. Chiuso. Alzò gli occhi e sulla porta vide un cartello stampato a lettere colorate: PER RAGGIUNGERE L'ATRIO, SI PREGA DI UTILIZZARE LA SCALA SUL LATO SUD. "Oh, no! Proprio adesso!", pensò, prendendo a calci la porta. Riafferrò la maniglia e puntando un piede contro il muro tirò con la forza della disperazione. Il rumore dei passi di Rick e Claremont era sempre più vicino. Si voltò verso la porta che immetteva nel corridoio, la aprì e vi si infilò. Nell'improvviso silenzio di quel corridoio dal pavimento coperto di tappeti, Lisa guardò attraverso la finestra alla sua destra e colse il riflesso azzurro cristallino della piscina scoperta sottostante. Si lanciò di corsa lungo
quel corridoio, bussando a tutte le porte con le braccia unite per via delle manette: «Al fuoco! Tutti fuori! Al fuoco!», gridava. Non una sola porta si aprì. Quando giunse agli ascensori, premette ripetutamente tutti i bottoni con i pugni chiusi. I display digitali sopra gli ascensori indicavano uno il diciannovesimo piano, l'altro il ventiseiesimo. "Ci vorrebbe troppo, non posso aspettare", pensò, riprendendo a correre. Quando fu quasi al termine del corridoio, vide una piccola targhetta che diceva: «SCALA SUD - PER L'ATRIO». Adocchiata la via di fuga, si fermò di colpo e si avventò sulla maniglia. Anche quella era chiusa. «MERDA!», gridò. Dalla porta della scala nord, Lisa sentì provenire le voci concitate di Claremont e di Rick. Dovevano essere piuttosto vicini, perché Lisa li udiva distintamente. Tornò di corsa verso gli ascensori, ormai senza fiato per tutto quel correre. Tornò furiosamente a premere entrambi i pulsanti di chiamata. «Dài, cazzo! Sbrigati!». Un ascensore era al diciassettesimo piano, l'altro ancora al ventiseiesimo. Rendendosi conto che Claremont e Rick l'avrebbero raggiunta nel giro di pochi secondi, si voltò verso la finestra e si ricordò della piscina. Inspirò profondamente. "Sono solo quattro piani", pensò. "Se mi lancio con la velocità giusta dovrei riuscire a finire in acqua". Serrò i gomiti contro i fianchi e partì a tutta velocità in direzione della grande finestra vicino alle scale. "Di spalla, di spalla, di spalla", continuava a ripetere tra sé, lanciata contro l'obiettivo. Lisa saltò per abbattere la vetrata proprio mentre Claremont attraversava la porta del pianerottolo. Questi afferrò al volo la catena delle manette di Lisa, ma non poté impedirle, a causa dello slancio accumulato, di abbattere il vetro, che la investì con una pioggia di mille frammenti. La velocità e il peso di Lisa fecero cadere Claremont a terra, trascinandolo fino al bordo della finestra. Qualcuno però aveva fermato la sua scivolata: Rick. «Stai bene?», gli domandò Rick, trattenendolo per la cintura. Sporto oltre il bordo della finestra, Claremont stava tentando di non lasciarsi sfuggire Lisa, che penzolava nel vuoto. «S-sì», balbettò Claremont. «No! Non farlo!», urlò Lisa, aggrappandosi al polso di Claremont. Aveva il viso e le braccia coperti di una miriade di tagliettini sanguinanti. «Ti prego, non mollare la presa». Ormai priva dello slancio necessario per raggiungere la vasca, Lisa sarebbe precipitata sul bordo della piscina, dove già cominciava a radunarsi della gente. «Mollala», disse Rick. «Cosa?», fece Claremont.
«Ti prego, non farlo!», urlò Lisa. «Non mollarmi!». «Mollala. Dobbiamo filar via di qui al più presto», disse Rick. «Ne ho abbastanza di questa storia». Claremont, però, col braccio teso per lo sforzo, continuò a tenere Lisa per la catena delle manette. «T'ho detto di mollarla», insistette Rick. «Che ti prende? Li avremmo uccisi comunque». Claremont non obbedì. Rick impugnò la pistola che teneva alla cintola e la puntò alla testa di Claremont. «Tu non sei Richard Claremont. Chi cazzo sei?». Claremont cominciò a sollevare Lisa per metterla in salvo. Rick tirò indietro il cane della pistola e appoggiò la canna contro la testa di Claremont. «Hai tre secondi per dirmi chi sei. Al tre finite tutti e due di sotto. Uno... Due...». «Ben!», gridò Lisa. Rick si voltò di scatto e fu investito da un getto di schiuma bianca. Accecato, prese a strofinarsi gli occhi. Ben gli correva incontro con un estintore tra le mani. Sebbene ammanettato, Ben roteò l'estintore come una mazza da baseball, che colpì Rick alla testa con un rumore sordo. Rick annaspò all'indietro e cadde. Fece partire un colpo dalla sua pistola, e un dolore lacerante squarciò la spalla sinistra di Ben, perforata dalla pallottola. Arrancando, Ben si avvicinò a Rick e menò un altro fendente con l'estintore, facendogli cadere la pistola di mano. Ben cercò di sollevare l'estintore per colpire nuovamente Rick, ma non poté ignorare il dolore alla spalla. Vedendo il sangue che gli usciva dalla ferita, ebbe un mancamento e lasciò cadere l'estintore. «Fa male, vero?», disse Rick, cercando di rimettersi in piedi a fatica. «Il prossimo te lo ficco nella testa». Tenendosi la spalla, Ben voltò la testa e vide la pistola di Rick a terra, vicino agli ascensori. Tornò a voltarsi verso Rick, che si era ormai quasi rialzato. «PRENDI LA PISTOLA!», urlò Claremont, tirando in salvo Lisa. Ignorando la pistola, Ben si scagliò contro Rick. Intrecciando le dita delle mani, Ben si protese per colpire Rick. Con le manette lo percosse al volto, e Rick arretrò barcollando. Ben si avvicinò per colpirlo ancora, ma Rick gli sferrò un pugno in corrispondenza della ferita. Ben lanciò un urlo e si portò le mani alla spalla. Rick adocchiò la pistola. Ben era quasi sul punto di cedere, ma quando vide Rick che cercava di raggiungere la pistola, gli si avventò contro, placcandolo da dietro e gettandolo a terra. Rick si girò sulla schiena e tentò di divincolarsi, ma Ben
gli era sopra e lo afferrò alla gola, schiacciandolo a terra. «Lurido bastardo!», urlò Ben, completamente fuori di sé. «Hai ucciso Ober!». «Ober si è suicidato», bofonchiò Rick. «NO!», continuò Ben, sbattendogli ripetutamente la testa a terra, «L'HAI UCCISO TU!». Ben serrò ulteriormente la morsa attorno alla gola di Rick. «VUOI VEDERE COS'HA PROVATO? VUOI PROVARE DI PERSONA COME DEV'ESSERSI SENTITO?». Rick si dibatté, menando colpi alla cieca, nel tentativo di liberarsi. Ma quanto più Rick si dibatteva, tanto più la morsa di Ben si stringeva. A un certo punto, Rick smise di tossicchiare e di opporre resistenza. Ma Ben non mollò la presa. «Tu hai ucciso il mio amico», singhiozzò Ben, mentre la furia si trasformava in pianto dirotto. «E adesso io uccido te!». Tra le lacrime che gli segnavano le guance, Ben vide che Rick era ormai rosso, in volto, come una barbabietola. Strinse più forte. Con la vita di Rick nelle proprie mani, Ben si ricordò dell'ultima loro conversazione. «Vuoi vedere come infrango le regole?», ringhiò Ben, mentre il viso di Rick era sempre più scuro. «Ecco cosa penso delle tue regole del cazzo». Gli tornarono alla memoria le smargiassate di Rick, il pestaggio di Nathan, il sangue di Lisa, il suicidio di Ober. Ben singhiozzava. Quando il viso di Rick cominciava ormai a gonfiarsi, Ben mollò la presa: «Ober, mi dispiace!». Dalle labbra di Rick uscì un flebile rantolo. Ben crollò a terra, fisicamente e psicologicamente stremato, col respiro affannoso inframmezzato da singulti. Era tutto finito. Mentre Ben era lì a terra che si teneva la spalla, arrivò l'ascensore. Quando le porte si aprirono, Ben vide Alex DeRosa e una mezza dozzina di marshals con le armi in pugno. «Fuori tutti!», gridò DeRosa, mentre i suoi uomini si sparpagliavano nel corridoio. Due di loro ammanettarono Rick, mentre altri due andarono a soccorrere Lisa e Claremont. «Stai bene?», domandò DeRosa a Ben, aiutandolo a rialzarsi. «Che cosa significa questo?», domandò Ben, incredulo. «Eravate qui anche voi?». «Mi dispiace», disse DeRosa, liberando Ben dalle manette. «Rick non ti ha tolto gli occhi di dosso neanche per un istante, questa settimana. Non abbiamo voluto rischiare». «Rischiare?», urlò Ben, sfregandosi i polsi. «A momenti ci ammazzava tutti! Lei mi ha mentito».
«Non ho mentito», disse DeRosa. «Avevo bisogno che ti comportassi normalmente». Gli posò una mano sulla spalla. «Era l'unico modo...». «Non mi tocchi!», strillò Ben, evitando il contatto con DeRosa. «Lei mi ha mentito e ha messo le nostre vite a repentaglio! Chi si crede di essere, eh?». «Ben, non ho potuto mettermi in contatto con te. Rick era sempre in agguato». «Stronzate», replicò Ben. «Avreste potuto passarmi un biglietto in metrò, al Jefferson Memorial, o quando è morto Ober». «Mi dispiace davvero...». «Non voglio sentire niente», gridò Ben, allontanandosi da DeRosa. Tenendosi la spalla ferita, si avviò verso Claremont e Lisa. «Ti devo la vita», disse Claremont. «Vaffanculo», sibilò Ben, spostando Claremont da una parte per raggiungere Lisa, che era a terra addossata al muro. Le prese la mano insanguinata e vide il volto di lei, tempestato di taglietti. «Come ti senti?», le domandò. «Ho avuto giorni migliori», rispose Lisa. «Sei stata spinta fuori dalla finestra?». «No», disse lei, con un sorriso sofferente. «È stata una mia decisione. Bella idea, vero?». «Una delle più brillanti che tu abbia mai avuto», rispose Ben. «Portiamoli all'ospedale», disse un marshal. «Mi sembrano piuttosto malridotti». «Ti hanno sparato?», domandò Lisa, notando la ferita alla spalla di Ben. «No», rispose lui, con un sorriso. «È stata una mia decisione». 19 Tenendosi una borsa del ghiaccio sull'occhio, Nathan attendeva in una stanzetta comunicante con l'ufficio di DeRosa. Era lì da due ore, immobile, seduto su una sedia scomoda e appoggiato a un tavolo. Durante il viaggio che l'aveva condotto lì, i marshals non gli avevano rivolto una sola parola e non avevano risposto alle sue domande, rimanendo insensibili persino alle minacce. Sapeva soltanto che Ben e Lisa erano salvi. Infine, la porta che introduceva all'ufficio di DeRosa si aprì, e Nathan fu fatto entrare, con la sua borsa del ghiaccio. In una delle due sedie poste davanti alla scrivania di DeRosa era seduto Ben. Aveva il braccio sinistro
immobilizzato da una fasciatura. Togliendosi la borsa del ghiaccio dall'occhio, Nathan guardò torvo l'amico. «Ah, ecco perché mi avete tenuto chiuso lì dentro per due ore!», esclamò Nathan. «Doveva interrogare il Principe azzurro, vero?». «Siediti», disse DeRosa, indicandogli la sedia vuota accanto a Ben. «Preferisco restare in piedi», replicò seccamente Nathan. «Come vuoi», concesse DeRosa. «Come stai?», gli domandò Ben. «Come sto?», domandò Nathan, sarcastico. «Vediamo, ho un occhio come un melone, la testa mi rimbomba e nessuno mi ha detto un cazzo di niente. A parte questo, sto da dio». «Qual è stata l'ultima cosa che hai visto all'hotel?», domandò DeRosa. «L'ultima cosa che ho visto è stata una masnada di marshals che ha fatto irruzione nella stanza in cui mi trovavo. Hanno requisito tutte le cose di Rick, hanno urlato qualcosa a proposito della necessità di tracciare il suo telefonino e poi mi hanno liberato... evidentemente, l'ultima loro preoccupazione. Poi è arrivato lei, si è presentato ed è sparito. Un medico mi ha controllato e mi ha dato ghiaccio e aspirina. Infine due dei vostri aspiranti agenti segreti mi hanno portato qui per chiudermi nella stanzetta accanto. Non so altro». «Mi dispiace, ma sono dovuto scappare», spiegò DeRosa, scarabocchiando appunti mentre parlava. «Prima dell'irruzione dei marshals cos'è successo?». Nathan non fece in tempo a rispondere che la porta dell'ufficio di DeRosa si aprì e sulla soglia comparve Claremont, con una tazza di caffè in mano. Entrò e andò ad accomodarsi su una sedia vuota accanto alla finestra. Vedendo il suo ex rapitore, Nathan si infuriò. «Chi è costui, e che diavolo ci fa qui?», domandò. «Ti presento Michael Burke», disse DeRosa. «È uno dei miei uomini». «Allora, sei uno sbirro?», domandò Nathan. «Sono un marshal», precisò Burke. «Se sei un marshal, perché hai lasciato che Rick ci massacrasse di botte?». «Mi dispiace», disse Burke. «Dovevamo aspettare che Rick comprasse le azioni, prima di bloccarlo». «E quando ha comprato le azioni, dove sei finito?», domandò Nathan, con voce sempre più alterata. «Non è dipeso da me», disse Burke. «È stata colpa vostra. Noi eravamo
pronti a fare irruzione, ma Lisa è scappata». «Ah, e di questo avrei colpa anch'io?», sghignazzò Nathan. Si appressò alla sedia vuota accanto a Ben e si sedette. «E come diavolo facevamo a sapere che voi eravate lì pronti a fare irruzione?». «Ben e Lisa lo sapevano», disse Burke. «Tu lo sapevi?», domandò Nathan, voltandosi verso Ben. «Giuro di no», rispose Ben. «Io credevo che mi avessero abbandonato al mio destino». «Aspetta un attimo», disse Nathan. «Io due ore fa ho avuto paura di morire! Adesso, volete spiegarmi cosa diavolo sta succedendo?». «Be', ecco...», esordì Ben. «Voglio tutta la verità», intimò Nathan. «Dall'inizio». «Smetti quel tono», ordinò DeRosa. «Anzi, taci!». Nathan si rimise la borsa del ghiaccio sull'occhio. Ben fece un respiro profondo e raccontò che si era messo in contatto con DeRosa e che credeva di essere stato abbandonato dal Marshals Service. «Mi stai dicendo che avrebbero potuto catturare Rick già da diverse settimane?», domandò Nathan, incredulo. Si rivolse a DeRosa. «Perché avete aspettato tanto?». «Volevamo prendere tutti i complici di Rick», spiegò DeRosa. «Dal broker all'ultimo degli iscritti sul suo libro paga». «Eppoi volevamo beccare Carl Lungen», aggiunse Burke. Nathan gli rivolse un'occhiata gelida. Poi, domandò a Ben: «Tu sapevi che lui era un marshal?». «Assolutamente no», rispose Ben. «Per questo l'ho colpito. Ho capito che era dalla nostra parte solo quando ho visto che ha salvato Lisa». «E del licenziamento di Ober che cosa mi dite?», domandò Nathan. «Qualcuno sapeva...?». «Non potevamo prevedere che Rick facesse licenziare Ober», disse DeRosa. «Se può servire a farti star meglio», aggiunse Burke, «io non sapevo neanche che Rick avesse intenzione di rapirvi. L'ha deciso all'ultimo minuto, quando ha immaginato che Ben volesse fregarlo. Ricordati che noi contavamo sul fatto che Ben consegnasse la decisione a Rick stamattina presto». «Il sequestro ci ha spiazzato», si giustificò DeRosa. «Non pensavamo che...». «No, voi non pensavate», lo interruppe Nathan. «Quando Rick ci ha catturati, dovevate intervenire. Invece, senza alcuna ragione, avete lasciato
che mi prendesse a calci in bocca». «Non potevo far nulla», si scusò Burke. «Stronzate», disse Nathan. «Avresti potuto dirci chi eri. Questo avrebbe fatto sì che i tuoi colleghi facessero irruzione, salvandoci tutti quanti». «Non potevo farlo», insistette Burke. «Avrebbe messo a repentaglio la vita di tutti. Io non sapevo di preciso dov'erano appostati gli uomini di copertura. Sapevo solo che sarebbero intervenuti se le cose fossero sfuggite di mano». «Ah, la situazione non era sfuggita di mano?», urlò Nathan, indicando il proprio occhio nero. «E quando Rick ha messo la pistola in bocca a Lisa? Non credi che potesse bastare?». Ben posò una mano sulla spalla di Nathan. «Nathan, calmati», gli disse. «Se qualcuno fosse entrato in quel momento, allora sì che Rick le avrebbe fatto saltare la testa. Per come eravamo messi, dobbiamo considerarci fortunati se non è successo di peggio». Nathan allontanò da sé la mano dell'amico. «Che cosa poteva succedere di peggio? È stato il week-end peggiore della mia vita!». Ben tornò ad accostarglisi, per cercare di calmarlo, ma Nathan si ostinava a scansarlo, finché non si ritrovò al centro dell'ufficio di DeRosa. «Quando Ober è stato licenziato, loro avevano in pugno Rick già da tempo! E non hai detto una parola! Avresti potuto dare l'allarme! Avresti potuto...». «Ho fatto la cosa che ritenevo migliore, per il bene di tutti», disse Ben. «Se io avessi dato l'allarme troppo presto, Rick si sarebbe dileguato. L'unica soluzione definitiva era la sua cattura». Nathan serrò i pugni, ma non poté trattenere oltre la rabbia accumulata. «BRUITO EGOISTA FIGLIO DI PUTTANA! L'UNICA COSA CHE HAI RISOLTO DEFINITIVAMENTE È STATA LA VITA DI OBER! TACENDO, L'HAI UCCISO!». Nathan scagliò lontano alla cieca la borsa del ghiaccio, spedendola a planare sull'ordinatissima scrivania di DeRosa. Atterrando, la borsa del ghiaccio travolse una pila di fogli, che finì sparpagliata a terra. «Capisco il tuo dolore», disse Burke, «ma devi considerare la cosa in una prospettiva più ampia». «Affanculo la prospettiva più ampia», gridò Nathan. «La mia vita non è a disposizione per i vostri giochetti! Voi ci avete usato! E Ober, per questo, è morto». «Basta!», sbottò DeRosa, facendo rimbombare la stanza. «Ober ha agito di sua iniziativa. E se non aveva altre risorse che il suicidio... Be', doveva
avere più guai di quanti gliene avesse procurati Ben. Per quanto riguarda te, sei vivo e dovresti esserne contento. Comunque, puoi sempre lasciare un messaggio nella cassetta dei reclami». DeRosa si mise a raccogliere i fogli, mentre Nathan rimase muto e immobile, in piedi, al centro della stanza. «Nathan, non sai quanto mi dispiace», disse Ben. «Ho fatto del mio meglio...». «Non ho voglia di sentire scuse», lo interruppe Nathan. Quindi, si avvicinò a DeRosa e aggiunse: «Dunque, sapevate anche delle lettere di ricatto spedite da Rick». «Sì», disse DeRosa. «Ma non ti preoccupare. Ci premureremo di riferire ai tuoi superiori che il tuo contributo alla soluzione del caso è stato preziosissimo. Escludo che ti licenzino, considerando quello che ho intenzione di dir loro». «Benissimo. Perfetto», disse Nathan, avviandosi alla porta dell'ufficio. Burke lo seguì. «Tu non vai da nessuna parte», ringhiò. «Abbiamo altre domande da...». Nathan aprì la porta e uscì. «Lascialo andare», disse DeRosa. «Se l'è vista brutta, ultimamente». Quando la porta fu richiusa, DeRosa si rivolse a Ben, che appariva esausto, e disse: «Con lui è andata male... Sei pronto per affrontare Hollis?». Seduto fuori dall'ufficio privato di Hollis, Ben attendeva con ansia che si aprisse la porta. "Quanto tempo ci vuole?", si domandò. Tormentava senza requie la fascia che gli sosteneva il braccio sinistro. Era dal giorno in cui aveva cominciato a lavorare alla Corte che non si sentiva così agitato prima di incontrare Hollis. Venti minuti dopo, la solida porta di mogano si aprì, e dall'ufficio di Hollis uscì Lisa. «Com'è andata?», domandò Ben, impaziente. «Che cos'ha detto?». «Ti aspetta», disse Lisa. «Ma cosa...?». «Entra e parla con lui», lo interruppe Lisa. «È lui il capo, non io». Provò disagio, entrando, e forzò un sorriso, avviandosi al solito posto davanti alla scrivania di Hollis. «Buongiorno», disse. Il giudice Mason Hollis, che nel corso degli ultimi trent'anni aveva assistito da vicino all'evolversi della legge, era il più cordiale dei nove alti magistrati. Era il maggiore di sette fratelli e aveva cinque figli, e forse per questo creava intorno a sé un atmosfera di cordialità familiare. Quando
giocava a baseball nella squadra di Yale, si diceva che si facesse eliminare apposta quando lo svantaggio degli avversari gli sembrava eccessivo, mentre quand'era giudice nel distretto di Washington, D.C., una volta aveva aggiornato una seduta della corte, affinché i suoi membri potessero "dormire un po'". Secondo gli impiegati, Hollis era l'unico giudice di cui nessuno aveva timore. In quella circostanza, però, Ben Addison era terrorizzato. «Come va?», domandò Hollis. Si passò una mano tra i radi capelli bianchi, sul capo cosparso di numerose macchioline rosso-brunastre. «Non c'è male», rispose Ben, senza riuscire a guardare Hollis in faccia. «A quanto mi dicono, è una fortuna che tu sia ancora vivo. È vero?». «Credo di sì». Hollis prese una matita e cominciò a rosicchiarne la gomma. «Non essere così abbacchiato», disse. «Dovresti essere fiero di quello che hai fatto. Hai dimostrato intelligenza, saldezza di nervi, prontezza di riflessi». Non ottenendo reazioni, aggiunse: «Altri non ce l'avrebbero fatta». «Sono contento che sia tutto finito». Hollis gli sorrise. «Ti dirò... Quando ho assunto te e Lisa, sapevo che avreste formato una coppia vivace. Non così vivace, forse, ma non fa niente». Battendo nervosamente il piede sul tappeto rosso, Ben si augurò che Hollis venisse infine al punto. L'unica cosa che gli interessava era la decisione di Hollis. «Posso farle una domanda?», buttò lì. «Potrò continuare il mio lavoro?». «Ben...». «Avendo contribuito alla cattura di Rick, non sarò incriminato», disse Ben, con la voce rotta. «I marshal mi hanno detto che la mia fedina penale rimarrà pulita e che intendono consegnarmi un'onorificenza per averli aiutati a smascherare Lungen. Lo hanno arrestato stamattina». «Ben, mi dispiace...». «Dicevano che avrei potuto...». «Ben, ascoltami», lo pregò Hollis. «In teoria, tu sei innocente, ma hai pur sempre violato il codice deontologico della Corte suprema. Non ho scelta: devo chiedere le tue dimissioni». Quella sera, alle otto e mezza, Ben rientrò a casa. In soggiorno c'era Eric, chino su una tela di piccole dimensioni. Schizzandovi sopra gocce di vernice rossa, blu, gialla e verde direttamente con le dita, stava tentando di
riprodurre il dipinto astratto da lui realizzato sulla parete di casa. Era al quarto tentativo: non poteva accontentarsi di una copia men che fedele, benché ridotta, dovendola seppellire insieme a Ober. Quando si accorse dell'arrivo di Ben, Eric prese uno straccio imbevuto di acqua ragia e, andandogli incontro, cominciò a pulirsi le mani e a fare domande a raffica: «Com'è andata? Stai bene? Come va la spalla? Cos'hanno detto? Perché c'è voluto così tanto tempo?». Ben si tolse il cappotto e lo appese in ripostiglio. Quindi, voltandosi verso Eric si limitò a una sola risposta: «Mi hanno licenziato». «Cosa?», domandò Eric, mentre Ben si dirigeva in cucina. «Non ci credo. Dimmi cos'è successo». Ben si versò un bicchiere d'acqua. «Non c'è niente da dire. Mi hanno licenziato. Io ho raccontato la mia versione a Hollis. Lui mi ha ascoltato. Ha cercato di indorarmi la pillola. E poi mi ha licenziato. Infine, mi ha portato da Osterman, e dopo una lunga predica mi hanno congedato. Tutto qui. Non lavoro più alla Corte suprema». Ben scolò il bicchiere d'un fiato. «Che altro ti hanno detto?». Ben ignorò la domanda. «Dov'è Nathan?». «È tornato a Boston. Domani c'è il funerale di Ober». Ruotando lentamente la spalla ferita, Ben sentì montare un dolore intenso. «Ha detto niente?». «Mi ha raccontato la storia di Rick, ha fatto i bagagli e se n'è andato». «Era ancora infuriato?». «Io non lo chiamerei finché non arriviamo a Boston. Mi è sembrato piuttosto incazzato». «Capisco», disse Ben. Prese una boccetta di medicinali dalla tasca dei pantaloni e lesse il foglietto illustrativo allegato. Si versò dell'altra acqua e ingerì una delle minuscole pillole rosa contenute nella boccetta. «Dài, raccontami cos'è successo», insistette Eric. «Ho visto soltanto il servizio al telegiornale». «Stupendo», disse Ben, sarcastico. «Hanno fatto il mio nome?». «No», rispose Eric. «Era un filmato brevissimo. Hanno detto che un certo...». «Mark Wexler», lo imbeccò Ben, vedendo che non riusciva a ricordare il nome. «Esatto. Mark Wexler», ripeté Eric. «Hanno detto che è stato arrestato con l'accusa di insider trading per essersi servito di informazioni riservate
della Corte suprema. Non è granché e così ho pensato che...». «Mark Wexler è il vero nome di Rick», spiegò Ben, facendo ritorno in soggiorno. «A quanto pare, faceva parte di un famoso studio legale di Seattle che ha fornito consulenze altamente specialistiche alla CMI e a Charles Maxwell. Più o meno un anno fa è stato cacciato per violazione del codice deontologico: era sospettato di aver acquistato azioni di una società coinvolta in un caso di cui si stavano occupando». «Allora, è un pregiudicato», disse Eric, sedendosi sul divanetto. «No, la sua fedina è pulita», spiegò Ben. «Lo studio per cui lavorava non è stato in grado di provare le accuse. Qualsiasi cosa avesse fatto, è stato molto bravo a tenerla segreta. In ogni caso, lo studio legale gli ha chiesto di rassegnare le dimissioni. A quel punto si è trasferito a New York, dove ha vissuto fino a oggi. Così, quando aveva affari da sbrigare a Washington, si trovava a un tiro di schioppo». «Pazzesco», disse Eric. «Non ho più voglia di parlarne, comunque», disse Ben. «Non ho fatto altro per tutto il pomeriggio». «Be', dimmi almeno com'è andata con Hollis». «C'è poco da dire. Dato che la vicenda stava per diventare di dominio pubblico, non hanno potuto far finta di niente. La mia permanenza sarebbe stata una sorta di macchia, per la Corte: ho pur sempre violato il codice deontologico. Se non mi avessero chiesto di dimettermi, nessuno avrebbe più preso sul serio la Corte suprema». «Dunque, non sei stato licenziato», dedusse Eric. «Ti hanno chiesto di dimetterti». «Non fa alcuna differenza», disse Ben. «Ma Hollis, almeno, è stato gentile?». «Non avrebbe potuto essere più gentile di così. Ha detto di aver molto apprezzato il mio lavoro e che sperava noi rimanessimo in contatto. Si è offerto di scrivere una lettera di referenze per il mio prossimo lavoro. Ha aggiunto che è rimasto colpito per il modo in cui siamo riusciti a incastrare Rick. Ma non ha cambiato idea». «E Lisa?». «Lei non subirà conseguenze», disse Ben. «Ho chiesto espressamente che venisse lasciata fuori. È vero che mi ha aiutato a organizzare il piano e mi ha sostenuto nei momenti di difficoltà, ma per il resto non c'entra nulla con la fuga di notizie». Posando un braccio su un cuscino del divano, Ben si domandò quando avrebbe fatto effetto la pillola.
«E Osterman cos'ha detto?», domandò Eric. «Ha fatto lo stronzo. Ha pronunciato un'interminabile orazione sugli scopi e gli ideali della Corte suprema e su come questi non debbano mai essere persi di vista. Non vedevo l'ora che la finisse con quel suo patetico riporto. Non so perché Hollis mi abbia portato da lui: ormai mi aveva licenziato». «Avresti dovuto scarruffargli il riporto», disse Eric. «Qual è la cosa peggiore che avrebbe potuto fare? Licenziarti un'altra volta?». «Credo di sì», rispose Ben, distrattamente. «Un'ultima domanda», disse Eric, incapace di temperare il suo istinto da giornalista. «Come ha fatto Burke a farsi passare per Claremont agli occhi di Rick?». «Dopo il caso Grinnell, Lisa e io eravamo certi che Rick avrebbe cercato di rifarsi dei soldi perduti. Quindi, abbiamo individuato tra le decisioni in agenda quelle da cui Rick avrebbe potuto ricavare più denaro». «E quante erano?», domandò Eric, incuriosito. «I casi con grossi giri di soldi erano quattro», spiegò Ben. «Insomma, Burke come ha fatto a mettersi in contatto con Rick?». «Lui non ha fatto niente», disse Ben. «È Rick che si sceglie i soci; quindi, abbiamo dovuto fare in modo che Rick trovasse Burke. Abbiamo scommesso...». «Avete scommesso?», domandò Eric. «Be', la realizzazione pratica è toccata ai marshals, ma il piano l'ha ideato Lisa», spiegò Ben. «L'ufficio dei marshals ha messo sotto sorveglianza gli alti dirigenti delle quattro importanti aziende coinvolte nei casi su cui avevamo deciso di concentrarci...». «Ma ogni azienda ha centinaia di alti dirigenti», fece notare Eric. «Sì, ma quelli con precedenti penali sono pochissimi», disse Ben. «Abbiamo immaginato che se tra centinaia di dirigenti Rick avesse dovuto sceglierne uno, si sarebbe rivolto a quello che con maggiore probabilità sarebbe stato disposto a infrangere la legge». «Dunque, hanno sorvegliato tutti i dirigenti, finché Rick non ha fatto la sua mossa?», domandò Eric. «Di più», rispose Ben. «I marshals hanno letteralmente sostituito tutti i dirigenti, fino alla mossa di Rick. Burke ha preso il posto di Richard Claremont, il vicedirettore esecutivo del settore marketing dell'American Steel, già condannato per evasione fiscale». «Quanti dirigenti hanno dovuto sostituire?».
«Non potevano sostituirli tutti», spiegò Ben. «Anche per motivi di riservatezza. Così ne abbiamo scelti venti, e ci siamo messi in attesa». «E il vero Claremont, poverino?». «Gli hanno semplicemente messo il telefono sotto controllo. Il vero Richard Claremont non ha neppure dovuto cambiare ufficio. Le chiamate per Claremont venivano dirottate su Burke, il quale le filtrava. Se era Rick ci parlava lui, altrimenti passava la telefonata a Claremont». «E tu non sapevi che era in atto tutta quest'operazione?», domandò Eric. «Non sapevamo nulla», rispose Ben, la cui attenzione fu attratta dal dolore pulsante che gli aveva preso il braccio. «Lisa e io avevamo fornito a DeRosa il piano e l'elenco delle aziende potenzialmente implicate, ma poi non ci hanno detto se il piano era stato messo in atto o meno. Non ne ho saputo nulla finché non mi hanno spiegato tutto riaccompagnandomi qui». «Incredibile», commentò Eric, appoggiandosi allo schienale del divano. Notando lo sguardo assente di Ben, domandò: «Ti senti bene?». «Sono solo un po' stravolto. Tra il dolore e i farmaci che prendo...». «Hai un aspetto terribile. Forse è il caso che tu provi a dormire un po'». «Mi sento uno straccio», disse Ben, alzandosi in piedi. «Su col morale! Oggi hai ottenuto una grande vittoria». Ben si avviò lentamente verso le scale. «Non si direbbe». Eric estrasse un taccuino dalla tasca posteriore dei pantaloni. «Ben, posso chiederti un ultimo favore? Non vorrei sembrarti sconsiderato o insensibile, ma ti dispiace se scrivo un articolo su questa vicenda?». Consultò l'orologio e disse: «Se mi sbrigo, può darsi che lo pubblichino in prima pagina». «Eric, vai a fare in culo», disse Ben, salendo le scale. «Questo puoi metterlo tra virgolette». EPILOGO Un paio di settimane dopo, di sabato sera, Ben entrò nel palazzo in cui abitava Lisa. «Salve, che piacere vederla!», esclamò il portiere entusiasta. «Piacere mio», disse Ben, cercando di non incrociare il suo sguardo. «Avete fatto un ottimo lavoro», aggiunse il portiere. «Siete praticamente diventati delle celebrità». «Grazie», disse Ben, entrando in un ascensore in attesa. Salì al quarto piano, uscì in corridoio e raggiunse l'appartamento di Lisa. Suonò alla porta.
«Chi è?», domandò Lisa, guardando dallo spioncino. «Sono io», rispose Ben. «Aspetta un attimo», disse Lisa. «Non sarai mica quel tipo che ho visto stasera al telegiornale, vero? Quel geniale assistente di un giudice della Corte suprema che si è redento catturando un efferato criminale?». «Dài, apri la porta», implorò Ben. Quando Lisa aprì, Ben vide che la maggior parte dei tagli sul viso e sulle mani di lei erano già rimarginati. Restavano soltanto alcune sottili cicatrici rosee nei punti in cui il vetro aveva inciso più in profondità. «Sono contenta di vederti», disse lei. Rimase di stucco quando, protendendosi per dargli un bacio, lui le porse la guancia. «È questo che mi merito? Un semplice bacetto sulla guancia?». Ben entrò e andò a sedersi sul divano. «Ti prego, non cominciare», supplicò. «Ehi, che ti prende?», domandò Lisa. «Nathan ha deciso di cambiare casa. Ha trovato un appartamento e se ne andrà in settimana». Lisa prese la sedia della sua scrivania e si sedette. «Non capisco perché te ne meravigli. Al ritorno da Boston ti aveva avvisato che se ne sarebbe andato». «Lo so», disse Ben, «ma speravo che ci ripensasse. Credevo che...». «Che cosa credevi?», lo interruppe Lisa. «Che passasse sopra alla morte di Ober? Che dimenticasse di aver rischiato la vita per causa tua? Che si facesse una risata e ci mettesse una pietra sopra? Questa è stata una storia grossa, Ben. Sono due settimane che i giornali non parlano d'altro. Non è una cosa che si cancella così, da un giorno all'altro». «Comunque, avrò pur il diritto di essere dispiaciuto per il fatto che se ne va, o no? È uno dei miei migliori amici, e ha deciso di non rivolgermi più la parola». «Fai bene a essere dispiaciuto», disse Lisa. «Ma devi dargli un po' di tempo. Se siete davvero così amici, prima o poi si rifarà vivo». «Non so», disse Ben. «Ho paura di aver compromesso tutto». «È questo il problema delle amicizie animate dallo spirito di competizione: al minimo attrito si disintegrano». «Non credo che l'attrito sia stato "minimo", in questo caso. Ci siamo presi una tramvata micidiale». «Comunque sia, ci vorrà molto tempo perché le cose si rimettano a posto», disse Lisa. «Eric come sta reagendo? Si è schierato?».
«Non potrebbe fregargliene di meno», disse Ben. «A lui è andata bene. È al culmine della fama giornalistica. Agli occhi del suo capo, ha lui il merito di aver svelato la vicenda». «Sei ancora arrabbiato per quelle citazioni?». «Il fatto che abbia riportato brani di conversazioni private non mi entusiasma, ma cosa posso farci? Eppoi, se non fosse per l'enfasi adoperata da Eric nel suo primo articolo, non credo che tutto si sarebbe risolto così bene. È stato lui che mi ha battezzato il Re della Corte». «Il Re della Corte», ripeté Lisa, con una smorfia di disgusto. «È il soprannome più stupido che abbia mai sentito». «Mi nobilita e mi fa onore», disse Ben, con il petto in fuori. «Ti fa sembrare una star del basket un po' montata». «Prendimi pure in giro, se vuoi, ma quel nomignolo mi è servito. I media lo adorano». «Come desidera, Sua Maestà». Sorridendo, Ben le domandò: «Come vanno le cose alla Corte?». «Bene», rispose lei. «Come prima. Il nuovo assistente è noiosissimo. Una vera piaga». «Suvvia, non dev'essere così male». «Fidati, te lo dico io. La settimana scorsa, gli ho portato un bagel ai semi di sesamo dal bar, e lui mi ha detto che non poteva mangiarlo perché ha i molari e i premolari troppo distanziati. Secondo lui, i semi vi si sarebbero incastrati». «Non ci credo», disse Ben. «Vuoi dirmi che non l'hai preso a calci in culo seduta stante?». «Dico sul serio», insistette Lisa. «Prova a trascorrere una giornata con uno che è allergico al formaggio. Quel tipo è uno sfigato». «È intelligente?». «Da un punto di vista accademico è preparato, brillante. Ma è incapace di agire nel mondo reale. Non riconoscerebbe un pensiero audace neanche se gli si incastrasse tra molare e premolare». «Se è così scialbo, perché Hollis l'ha scelto?». «Credo che l'abbia scelto proprio per questo. Dopo l'esperienza con te, non potevano permettersi un'altra personalità dinamica. Cercavano un tipo tranquillo. E allergico al formaggio». «Be', intanto lui lavora», disse Ben. «Non cercare di darmela a bere. Di quel posto non frega più niente a nessuno».
«A me importa, invece». «Proprio tu sei quello a cui deve importare di meno», disse Lisa. «Tu sei venuto a lavorare alla Corte solo nella speranza di trovarti nell'attuale situazione. Qualsiasi assistente vorrebbe essere nei tuoi panni. Non si parla che di te, nell'ambiente... Wayne & Portnoy ti ha offerto un altro extra di diecimila dollari anche se hai mandato al diavolo il loro talent scout. Qualsiasi avvocato vorrebbe avere la scaltrezza di Ben Addison. Cosa potresti rimpiangere del lavoro alla Corte suprema?». «Rimpiango di non poter più lavorare con te», disse Ben, semplicemente. Sorpresa dalla risposta di Ben, Lisa domandò: «Davvero ti manco?». «Ovvio che mi manchi», rispose Ben. «Mi manchi tu. Mi manca Ober. Mi mancano i suoi racconti delle vincite alla lotteria. Mi manca...». Lisa sollevò un sopracciglio. «Ben, Ober se n'è andato, e non c'è nulla che tu possa fare per questo...». «Anche Nathan se n'è andato. E Eric non è poi 'sto grande amico». «Lo so che è dura», disse Lisa. «Ma devi pensare al futuro. Comincerai a lavorare all'ufficio del procuratore distrettuale, in una posizione per cui di solito si richiedono almeno due anni di esperienza. Hai sopravanzato qualsiasi altro concorrente e ti sei accaparrato uno dei migliori lavori di tutto il District of Columbia. Diventerai magistrato! Inseguirai gente come Rick a tempo pieno. Cos'hai detto quando mi hai annunciato che ti avevano offerto questo lavoro? Che eri entusiasta, perché ti piace questo genere di caccia. Be', ora potrai andare a caccia tutti i giorni». «Infatti, di questo sono entusiasta», confermò Ben. «Se penso a tutto quello che ho passato, adesso potrei trovarmi in una situazione ben peggiore. Ma non ci posso far niente: sento la loro mancanza». «Ci sono sempre io», disse Lisa. «Lo so», disse Ben, affettuosamente. «Ed è la più grossa fortuna che mi sia mai capitata». «Te la dico la ragione per cui sei fortunato», insinuò Lisa. «Sei fortunato perché io non ho ancora rivelato a nessuno l'identità della persona che ha realmente architettato il "segretissimo piano di Addison"». Ben scoppiò a ridere. «Non cominciare, adesso». «Non sto scherzando», disse Lisa. «Sai benissimo che sono stata io a ideare tutto...». «Lo so», la interruppe Ben. «Il piano l'hai ideato tu. E sei stata tu a consigliarmi di andare dai marshals. Tu mi hai convinto che questa era l'unica
speranza che mi rimaneva. Sei stata tu a suggerire l'idea della sostituzione degli alti dirigenti. Sempre tu hai proposto di limitarci a quelli con precedenti penali...». «Sono stata io a consigliarti di giocare all'attacco». «Certo», ribadì Ben. «Sei stata tu la più attiva. L'idea è tua. Io ho fatto il gradasso con il caso Grinnell e tu hai risolto il problema salvandomi il culo». «Be', allora dovevamo condividere anche i meriti», disse Lisa. «Hai intenzione di rinfacciarmelo ogni volta che ci vedremo?», domandò Ben. «Più o meno». «Non mi sono mai assunto i meriti dell'ideazione del piano», protestò Ben. «Io l'ho semplicemente messo per iscritto a beneficio di DeRosa». «Sulla base della mia idea». «Sulla base della tua idea», ripeté Ben. «Io gliel'ho detto. Che altro vuoi che faccia?». «Voglio che tu dica: "Il merito è tutto di Lisa; io sono solo il suo umile e indegno servitore"». «D'accordo, ti tocca condividere ingiustamente la luce dei riflettori, ma può capitare di peggio nella vita. Insomma, non è che tu sia stata del tutto ignorata». «Sono stata troppo ignorata». «Quante offerte di lavoro hai ricevuto, questa settimana? Una dozzina?». «Quattordici, per la precisione. E il "New York Times" mi dedicherà un ampio profilo nell'edizione di domenica prossima. Ciò non significa, però, che io non mi senta defraudata. Per come la vedo io, avresti dovuto dire tutta la verità sin dall'inizio». Ben afferrò il cuscino che aveva a portata di mano e lo tirò in testa a Lisa. «Io non c'entro! È colpa di Eric: è stato lui che ha attribuito a entrambi il merito di aver ideato il piano. A quel punto, è stato inevitabile che la stampa...». «Avresti potuto smentire». «Ho tentato di smentire», disse Ben, ridendo. «Ma ormai era troppo tardi. Il Re della Corte era già nato». «Non permetterti di raccontarmi simili frottole», lo avvisò Lisa. «Se preferisci, puoi chiamarmi Maestà». «Dovrei chiamarti Buffone della Corte». «Okay, chiamami. Come vuoi», concesse Ben. «Ma se ti interessa sapere
la verità, sono davvero dispiaciuto. E ti sono riconoscente». «Lo so. Spero soltanto che tu impari la lezione». Contenta di vederlo finalmente sorridere, Lisa aggiunse: «Sai una cosa? Ti preferisco di gran lunga quando sei felice». «Anch'io», disse Ben. «A mio modo di vedere, però, ci sono due tipi di persone al mondo...». «Oh, no! Non ricominciare», implorò Lisa. «Dico sul serio», riprese Ben. «Ci sono due tipi di persone al mondo: i vincenti e gli sconfitti». «Lasciami indovinare a quale tipo appartieni...». «In questo momento, appartengo a entrambi», spiegò Ben. «Non saprei cos'altro pensare». Lisa restò in silenzio per un attimo. «Mi sembra corretto. Concordo con te». «Grazie», disse Ben. Lisa balzò in piedi e si avvicinò al divano. «Ora che abbiamo ascoltato la tua meravigliosa analisi, possiamo uscire? Mi hai promesso che ci saremmo divertiti, stasera». «Non ho voglia di divertirmi», disse Ben, sorridendo. «Preferisco stare in casa». «Intendi dire che preferisci un altro genere di divertimento?», domandò lei, sedendoglisi accanto. «No», disse Ben, scostandosi da lei. «Voglio semplicemente stare qui seduto a fare il muso. Vedrai, ci divertiremo un sacco». «Fare il muso è fuori discussione», disse Lisa. «Toglitelo dalla testa». «Che ne dici, allora, se tengo il broncio?», domandò Ben. «Perché se fare il muso è fuori discussione, in alternativa posso benissimo tenere il broncio». «Né l'uno né l'altro», disse Lisa. A poco a poco si riavvicinò a Ben. «Be', allora che si fa? Ci accigliamo? Ci crucciamo? Ci autoflagelliamo?». «Mettiamola così», tagliò corto Lisa. «Secondo me, ci sono due soli tipi di persone al mondo: quelle che vengono a letto con me e quelle che non ci vengono». «Rilassati», disse Ben. «Non sono dell'umore giusto». «Smettila», replicò Lisa. «Avevi detto che quando tutto si sarebbe calmato...». «Infatti, la situazione non è ancora calma», disse Ben. «Eppoi, chi ti dice
che io ho voglia di venire a letto con te?». «Ah, questa è buona!», sbottò Lisa. «Ma il giochetto non funziona più. Ti ho visto che piangevi quando Rick mi malmenava. Eri preoccupato per me». «Non piangevo per te. Erano lacrime di rabbia e di odio». «Ah, certo», disse Lisa, sempre più vicina a Ben. «Dico sul serio», insistette lui. «Comunque, adesso non se ne parla nemmeno. Ho troppe cose per la testa. Hai visto com'ero quando sono arrivato... Sono depresso». «Tu non sei affatto depresso». «Sì che lo sono. E mi ci vorrà un bel po' di tempo per rimettermi». «Quanto?», domandò Lisa. «Molto, moltissimo». «Insomma, quand'è che potremo spassarcela?». «Mah, non saprei. Forse mai». «Ben...», disse Lisa, minacciosa. «Okay, mi hai convinto. Ma sappi che non mi piacerà». «Ti piacerà, eccome!». «Va bene. Mi piacerà. E l'ultima volta, però. Ne ho abbastanza di questa storia assurda». «Come vuoi», concordò Lisa. Lo baciò sul collo. «Deciderai tu». FINE