JAMES LOWDER IL CAVALIERE DELLA ROSA NERA (Knight Of The Black Rose, 1991) PROLOGO Dall'Iconochronos di Astinus di Palan...
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JAMES LOWDER IL CAVALIERE DELLA ROSA NERA (Knight Of The Black Rose, 1991) PROLOGO Dall'Iconochronos di Astinus di Palanthas. Un nome, registrato nella cronaca di Krynn, è diventato sinonimo di corruzione e male in tutta Ansalon: Lord Soth di Dargaard Keep. Il Cavaliere della Rosa Nera. Ma non fu sempre così. Un tempo, prima che gli dei punissero i mortali con il Cataclisma che sconvolse queste terre, Lord Soth era un valoroso e nobile soldato che combatteva per il Bene, un esponente dei famosi Cavalieri di Solamnia. E all'interno di quell'ordine, Soth era entrato a fare parte della ristretta cerchia degli eletti, dei migliori, di coloro che facevano parte dell'Ordine della Rosa. Aveva combattuto in nome della giustizia e della libertà. Il suo cuore era puro, la sua anima immacolata. Quando era giunto il momento di costruirsi un castello, Soth lo aveva voluto a somiglianza del simbolo del suo ordine: la rosa rossa. Non era trascorso molto tempo da quando Soth aveva portato la sua sposa a Dargaard Keep che l'oscurità si era impadronita della sua vita, un'oscurità così profonda da non riuscire più a liberarsene, una corruzione così totale da trasformare il prode cavaliere in un compiacente servo di Takhisis, la Regina delle Tenebre. C'è chi dice che fu l'orgoglio a minare la volontà di Soth di difendere il Bene, altri incolpano la lussuria, altri ancora l'avidità. Fra tutti coloro che camminano ancora sotto le tre lune di Krynn, soltanto Soth conosce le ragioni del proprio destino. Al mondo non resta che cercare di ricostruire gli eventi del passato affidandosi a brandelli di storia. La sposa di Soth ben si addiceva a un uomo di siffatta levatura e posizione sociale. Figlia di un nobile, offrì molto al giovane cavaliere in termini di beni terreni. Che l'amore non abitasse a Dargaard Keep diveniva lampante a tutti coloro che visitavano il maniero e che raramente avevano la fortuna di trovarvi il proprietario. Accompagnato da tredici fedelissimi cavalieri, il signore del castello trascorreva buona parte del suo tempo vagando instancabilmente per le terre solamniche alla ricerca di ingiustizie da combattere.
La convocazione a Palanthas, la più bella di tutte le città, giunse all'inizio della primavera. Insieme ai suoi uomini, Soth partì alla volta del Consiglio dei Cavalieri, ma prima che avesse raggiunto le strade della città, la tentazione ebbe la meglio su di lui. Con il suo gruppo di fedelissimi s'imbatté in una banda di orchi che avevano attaccato alcune donne elfo. I cavalieri sconfissero facilmente i bruti, tranne uno, che rapì una donna e scomparve nella foresta. Lo stesso Lord Soth lo inseguì, lo affrontò e lo sconfisse, liberando così la fanciulla, una giovane vergine destinata a prendere i voti come Reverenda Figlia di Paladine. Colpito dall'innocente bellezza della giovane, il cavaliere la sedusse, e ben presto i due divennero amanti. La passione travolse Soth al punto tale da spingerlo a infrangere i sacri voti matrimoniali e il codice d'onore dei Cavalieri di Solamnia. Forse il signore di Dargaard Keep credeva che quella macchia sulla sua anima sarebbe rimasta nascosta per sempre, poiché si recò al Consiglio dei Cavalieri come se niente fosse accaduto fra lui e la fanciulla elfo. Tuttavia, due avvenimenti cospirarono per gettare infamia e vergogna sul Cavaliere della Rosa. Il primo fu la notizia della scomparsa di sua moglie da Dargaard Keep. Le macchie di sangue trovate nelle stanze della donna erano la chiara prova di un assassinio, e la reazione quasi indifferente del nobile a una notizia così sconvolgente insinuò il dubbio sulla sua innocenza. Il secondo evento che agli occhi del Consiglio puntava il dito contro Soth fu un improvviso malore della fanciulla elfo. Quando si diffuse la voce che la giovane portava in grembo un figlio, furono in molti a sospettare di Soth. Ma furono le donne elfo salvate dal Cavaliere della Rosa a tradirlo e a svelare la sua slealtà. I dettagli del processo al nobile cavaliere sono riportati in altri punti di questa cronaca. Qui dirò soltanto che venne riconosciuto colpevole di molti crimini, condannato a morte e sottoposto al pubblico ludibrio per le strade di Palanthas. La morte sarebbe stata un destino migliore di quello rivendicato infine dal cavaliere in disgrazia. I tredici nobili a lui fedeli lo liberarono la notte prima dell'esecuzione. Accompagnati dalla fanciulla elfo, la banda di ignobili scivolò furtivamente lungo le vie della città e fuggì verso Dargaard Keep. I Cavalieri di Solamnia inseguirono i rinnegati, ma Soth e i suoi uomini riuscirono a raggiungere il castello. Nei mesi successivi, il signore di Dargaard cercò di costruirsi una nuova esistenza fra le mura del maniero assediato. Sposò la fanciulla elfo e af-
frontò il rituale imposto dall'ordine. Sebbene nessuno fra coloro che rimasero nel castello visse sufficientemente a lungo per raccontarne la storia, la leggenda vuole che Soth divenne collerico e violento, al punto da colpire anche lei, la dolce sposa che presto avrebbe dato alla luce suo figlio. Gli dei offrirono a Soth sufficiente raziocinio per aiutarlo a comprendere quanto fosse caduto in basso e per risvegliare in lui quella coscienza dell'onore che sembrava sopita per sempre. Nella cappella di Dargaard, Soth pregò Paladine, padre di tutti gli dei, mentre la sua sposa rivolgeva le proprie suppliche a Mishakal, colei che portava la luce. Ancora una volta gli dei ascoltarono il cavaliere e gli offrirono un'ultima possibilità di redenzione, affidandogli un sacro compito: impedire al Sommo Sacerdote di Istar di esigere potere dalle divinità che vegliavano su Krynn. Se Soth avesse portato a termine con successo l'incarico affidatogli, Ansalon, anzi tutta Krynn, oggi sarebbe un luogo diverso. Ma purtroppo, il cavaliere non raggiunse mai la città di Istar. Le donne elfo che un tempo aveva salvato gli avvelenarono la mente, insinuando in lui il seme del sospetto. Era certo che quel bambino fosse suo? Fu così che Lord Soth voltò le 'spalle a Istar e tornò a Dargaard Keep. Pazzo di rabbia, affrontò la moglie, convinto che la donna avesse infranto la promessa matrimoniale; in quello stesso momento, il Sommo Sacerdote fece sentire la sua voce, chiedendo il potere di estirpare il male da Krynn e ordinando agli dei di inchinarsi e di servire quei mortali che li avessero adorati. In preda all'ira per un simile affronto, gli dei scagliarono una montagna contro l'altera città di Istar. La distruzione provocata dal più terribile dei messaggeri celesti è conosciuta al mondo intero con il nome di Cataclisma. Ma pochi fra coloro che sanno come la catastrofe sconvolse la terra si rendono conto di come modificò anche il destino di Lord Soth. Mentre la montagna infuocata colpiva Istar, il fuoco avvolse Dargaard Keep. La sposa di Soth, intrappolata fra le fiamme e in fin di vita, porse il neonato al cavaliere affinché lo salvasse. Ancora in preda ai fumi della gelosia, lui si voltò e si allontanò. Per avere tradito gli dei, per avere abbandonato suo figlio, la sposa elfo maledisse quello che un tempo era stato un nobile cavaliere. «Morirai questa notte fra le fiamme!» gridò. «Proprio come moriamo tuo figlio e io. Ma tu vivrai per sempre nelle tenebre. Vivrai una vita per ogni altra vita che la tua follia ha distrutto!» C'è chi sostiene che la maledizione della fanciulla elfo echeggi ancora tra le montagne intorno al castello. E chi afferma che sia lo stesso Lord Soth a ripetere quelle parole per riempire il silenzio delle
sue lunghe notti insonni. Quella notte le fiamme presero la vita di Soth, ma lui non morì. Consumato dal fuoco, rinacque come un non-morto, una creatura del male. Oggi indossa ancora l'armatura annerita di un Cavaliere di Solamnia, ma l'emblema della rosa che un tempo parlava del suo onore è bruciata e avvizzita. È con il nome di questo simbolo di corruzione, la rosa nera, che molti conoscono Soth; e da più di trecento anni, il cavaliere vaga sulla terra agli ordini della più crudele delle divinità del male, Takhisis, Regina delle Tenebre. Sebbene il cavaliere della Rosa Nera sia già apparso nelle pagine della mia cronaca, scrivo ora di lui perché ancora una volta si sta dirigendo a Palanthas. Lo aspettiamo, terrorizzati, nella città che non è mai stata conquistata. Si sta avvicinando con un esercito spaventoso. Lui e la Signora dei Draghi, Kitiara Uth Matar, giungeranno prima del tramonto. Il futuro resta nascosto agli uomini, e a ragione. Oggi, tuttavia, non disdegnerei di conoscere l'indomani. 1 A ogni colpo degli zoccoli infuocati, il mostruoso destriero di Lord Soth lasciava dietro di sé tracce ardenti. La creatura era uno spirito maligno, un incubo abitante dell'Ade che esseri diabolici, quali il cavaliere della morte, potevano convocare per andare in battaglia. Il mantello nero come l'ebano, gli occhi fiammeggianti e le narici che sputavano fiamme rivelavano l'origine infernale del cavallo. Lord Soth era indifferente alla reputazione di traditore del suo destriero. La sua mente era concentrata su piani altrettanto sleali. Il cavaliere della morte costituiva l'avanguardia dell'esercito della Signora dei Draghi, Kitiara Uth Matar, che intendeva conquistare Palanthas per impadronirsi di un edificio magico racchiuso fra le mura della città. Nella Torre dell'Alta Magia si trovava infatti un portale che si apriva sull'Abisso e dal quale il potente fratellastro di Kitiara, Raistlin, si era avventurato per affrontare la dea del male Takhisis. La Signora dei Draghi progettava di radere al suolo Palanthas per raggiungere la torre. Da là, avrebbe offerto la città sconfitta a chiunque fosse emerso vittorioso dal portale. A Soth non interessava niente di tutto ciò: lui voleva Kitiara, preferibilmente morta. Sebbene ora guidasse l'esercito della donna, il cavaliere della morte aveva avvisato Palanthas del suo arrivo. Sapeva che gli abitanti della città non
erano sufficientemente forti da fermare le truppe del male, ma il guardiano della torre possedeva la magia necessaria per sconfiggere Kitiara. Una volta recuperato il cadavere e intrappolata l'anima della donna, Soth avrebbe abbandonato la battaglia per tornarsene a Dargaard Keep. Protetto fra le mura di quel luogo infernale, avrebbe compiuto un rito che avrebbe fatto di Kitiara la sua compagna per l'eternità. Soth scacciò quei pensieri mentre si avvicinava alle torri gemelle che svettavano ai lati della porta principale. Schierati lungo le antiche mura, il cavaliere della morte vide i nemici, alcuni in armatura, altri privi di protezione. I loro sguardi erano incatenati alla cittadella volante appena sbucata dalle nuvole e che ora sorvolava la Città Nuova. Quando Soth si fermò davanti alla porta, molti occhi lo fissarono terrorizzati. «Signore di Palanthas.» La voce cavernosa del Cavaliere della Rosa Nera echeggiò dalle mura. Quando il nobile Lord Amothus avanzò sulla merlatura, Soth continuò. «Consegnate la città a Kitiara e offritele le chiavi della Torre dell'Alta Magia, nominatela signora di Palanthas e lei vi permetterà di continuare a vivere in pace. La città verrà risparmiata.» Subito il panico s'impadronì degli uomini di Amothus. Sebbene fosse anch'egli spaventato, il signore della città si passò una mano fra i pochi capelli e guardò con finta indifferenza il cavaliere della morte e la cittadella volante che si avvicinava in cielo. Lord Soth, protetto dall'antica armatura, sedeva a cavallo dello spirito maligno. Il fuoco che si era portato via la vita del cavaliere aveva bruciato anche la cotta di maglia e ne aveva cancellato gli elaborati disegni rappresentanti martin pescatori e rose. L'unica decorazione ancora visibile, una rosa annerita sulla corazza, era diventata il simbolo dell'uomo morto. Sulla schiena di Soth, una svolazzante cappa color porpora ondeggiava come un vessillo spettrale. Dall'elmo, gli occhi del cavaliere della morte ardevano di una luce arancione. Il non-morto se ne stava rigido in sella, una mano stretta intorno alle redini, l'altra posata sull'impugnatura della spada, dalla lama ormai scura per il sangue di centinaia di uomini. Mentre la cittadella sorvolava Palanthas, un'ombra si allungò sul cavaliere della morte inghiottendolo nell'oscurità. La cittadella volante era un capolavoro di magia nera. Un castello in pietra scura svettava su una roccia gigantesca, circondata da ribollenti nuvole magiche. L'urto per la violenza con la quale era stata strappata alla terra aveva provocato il crollo di alcuni muri della prigione, ma la cittadella era ancora sufficientemente intatta per ospitare un esercito di ripugnanti crea-
ture. Mentre la fortezza volante si avvicinava alle mura che proteggevano la Città Vecchia di Palanthas, draghi infernali sbucarono dalle nuvole, iniziando a volteggiare a spirale in attesa dell'ordine di attaccare. Nella cittadella, esseri malvagi erano appostati sulla roccia, pronti a lanciarsi in battaglia. Formazioni di draghi di bronzo si levarono in volo in difesa di Palanthas, scontrandosi con lo stormo di draghi neri e azzurri. Le immense creature sfrecciarono in cielo e le loro grida echeggiarono nelle vie silenziose. «Portate questo messaggio alla Signora dei Draghi» disse infine Amothus in tono glaciale. «Palanthas ha vissuto in pace e bellezza per molti secoli, ma non siamo disposti a comperare né la pace, né la bellezza al prezzo della nostra libertà.» La cittadella sorvolava ancora le mura che cingevano la Città Vecchia, quando Lord Soth urlò la propria risposta. «E allora comperatele al prezzo della vostra vita!» Sottovoce, il Cavaliere della Rosa Nera pronunciò alcune parole magiche. Dall'oscurità intorno a lui apparvero tredici scheletri guerrieri, a cavallo, come il loro signore, di spiriti maligni. E dietro di loro, in piedi su carri fatti di ossa umane, apparvero le banshee. I wyvern, dragoni alati a due zampe, tiravano i carri spettrali, ma non erano quelle creature dall'immensa apertura alare a seminare il terrore. Le banshee gemevano e brandivano spade di ghiaccio mentre giravano in cerchio davanti alla porta. Ed era il suono delle loro urla lamentose a raggelare l'anima degli uomini sulla merlatura. Soth pronunciò altre parole magiche, puntando una mano, protetta dal guanto di cotta, verso la pesante porta innanzi a lui. Uno spettacolare ricamo di brina si allargò sulle fasce di ferro della porta. La brina si trasformò rapidamente in ghiaccio. Poi, a un altro comando di Soth, la porta, ormai tutta di ghiaccio, s'infranse. Mentre si lanciava all'interno della città, seguito dagli scheletri guerrieri e dalle banshee, il cavaliere della morte udì, come echi lontani, le grida frenetiche dei difensori di Palanthas. «Che gli dei del Bene ci proteggano!» urlò un uomo. Un soldato scagliò una freccia contro i non-morti. «Fermateli! Per il Giuramento e la Misura, non possiamo lasciare entrare quei mostri!» Quell'ultima esclamazione, pronunciata da un Cavaliere di Solamnia, catturò l'attenzione di Soth, ma solo per un istante. Le parole dell'uomo e le altre grida vennero soffocate da respiri affannosi e ansanti appena l'eser-
cito del male iniziò a lanciarsi dalla cittadella volante sulle mura e nelle strade della città. Le ali coriacee spiegate per rallentare la discesa, centinaia di draconici saltarono dalla fortezza. Simili agli uomini per alcuni aspetti, avevano la pelle ricoperta di squame e mani e piedi dotati di lunghi artigli. Mentre si tuffavano, i draconici lanciarono il loro grido di guerra. Voci feroci e fruscianti giurarono fedeltà a Kitiara e a Takhisis, la dea scura di cui erano fedeli servitori. Alcuni esternarono la loro fame di sangue umano e si leccarono le labbra con lunghe lingue biforcute. Una di quelle creature atterrò accanto all'orribile destriero di Soth e si fece piccolo per paura dell'animale demoniaco e del suo feroce cavaliere. Persino i draconici, sebbene ricoperti dalla spessa pelle squamosa, avvertivano il gelo della morte emanato da Soth. Come i difensori della città assediata, il draconico fuggì davanti al cavaliere della morte. «Kitiara intende raggiungere la Torre dell'Alta Magia a cavallo del suo drago non appena avrà inizio la battaglia. Uccidete chiunque si trovi sul nostro cammino da qui alla torre», ordinò Soth. La magia portò le sue parole agli scheletri guerrieri e alle banshee, persino oltre il frastuono della guerra. I non-morti diedero il via allo sterminio, ma l'attenzione di Soth venne destata dalla linea difensiva che si andava formando alla fine della strada. Al centro dell'ampia via lastricata, un gruppo di Cavalieri Solamnici a cavallo aspettava Lord Soth e i suoi scheletri guerrieri. Tuttavia, il gruppo di Cavalieri della Rosa interessava Soth solo marginalmente, era il loro comandante ad avere attirato il suo sguardo. Tanis Mezzelfo. Lord Soth si diresse verso Tanis. Il cavaliere della morte aveva già affrontato l'eroico mezzelfo, che era sopravvissuto allo scontro solo per pura fortuna, o così pensava Soth. In seguito, Tanis aveva ucciso il sommo signore dei draghi Ariakas e si era impadronito della Corona del Potere, soffiandola sotto il naso a Soth. Ma quella sconfitta aveva poco a che fare con l'odio travolgente che il cavaliere della morte provava per il giovane eroe. Tanis era stato uno dei molti amanti di Kitiara e aveva una forte influenza sullo spietato generale. Dall'armatura che Tanis indossava si sarebbe detto che i Cavalieri di Solamnia gli avessero riconosciuto una sorta di titolo onorario per l'aiuto offerto in difesa di Palanthas. Soth trasalì nel vedere il mezzelfo con indosso l'armatura di cavaliere; ai suoi tempi, l'Ordine non avrebbe permesso una simile mascherata. Tanis non aveva sicuramente affrontato le prove neces-
sarie per un avanzamento. Né lui, né la sua famiglia erano degni di un simile onore. Sogghignando malignamente fra sé e sé, Soth si ripromise di smascherare l'incapacità del mezzelfo. Gli occhi del cavaliere della morte scintillarono appena si posarono sulla piccola figura che saltò accanto a Tanis. Un kender, un rappresentante di quella razza dannosa e malefica famosa per la pessima abitudine di "prendere in prestito" cose non sue, si aggrappò al mezzelfo come una sposa disperata per la partenza del marito. Dopo una breve lotta, Tanis afferrò il kender per la vita e se ne disfò senza tante cerimonie. Mentre il kender atterrava in un vicolo, Soth riconobbe Tasslehoff Burrfoot, uno dei vecchi compagni del mezzelfo. «Tanis!» piagnucolò il kender, «non puoi uscire là fuori! Morirai, lo so!» Il mezzelfo lanciò un'occhiata a Tas, quindi raggiunse i cavalieri. «Fireflash!» gridò, sollevando lo sguardo. Con un forte fruscio di vento, un giovane drago di bronzo si tuffò dal cielo e atterrò accanto a Tanis. I cavalli vicini degli altri cavalieri nitrirono e si scostarono dal drago buono. Di nuovo in piedi, il kender corse verso il mezzelfo, urlando: «Tanis! Non puoi combattere contro Lord Soth senza il braccialetto!» Braccialetto? Il cavaliere della morte rifletté un istante sulle parole del kender, poi giunse alla conclusione che Tasslehoff si riferisse a qualche gingillo magico capace di aiutare Tanis contro i non-morti. «Impostore», mormorò malignamente. «Un vero cavaliere non ricorrerebbe mai alla magia in un duello d'onore.» Il cavaliere della morte si trovava sufficientemente vicino per distinguere, sull'armatura del mezzelfo, il simbolo dei Cavalieri della Rosa. All'improvviso, uno dei cavalieri indicò Soth e chiamò il suo comandante. Tanis si voltò, la barba rossiccia incorniciava un volto preoccupato. I suoi occhi incontrarono le orbite fiammeggianti di Soth e una smorfia di paura gli sfigurò il volto. Il cavaliere della morte tirò le redini e, lentamente, scese da cavallo. «Via!» gridò Tanis con voce roca. Guardò Soth. Le banshee e gli scheletri guerrieri erano dietro il cavaliere della morte. Indietreggiando verso il drago di bronzo accovacciato sulla strada, il mezzelfo gridò: «Non possiamo fare nulla contro di loro!» Lord Soth sguainò la spada e avanzò verso il nemico. In quell'istante, un draconico proveniente dalla cittadella atterrò davanti a Tanis. Il mezzelfo colpì la creatura con il pomo della spada, gli assestò un potente calcio nel-
lo stomaco e con un balzo saltò la schiena squamata e le ali coriacee. «Il kender!» strillò a Fireflash. Il drago si alzò in volo. Con la grazia elfica ereditata dal popolo della madre, grazia che nemmeno la pesante armatura riusciva a celare, Tanis saltò in sella a Fireflash. Gli altri cavalieri si sparpagliarono e fuggirono lungo i vicoli vicini. Ripugnanza e soddisfazione si impadronirono di Soth mentre guardava Tanis scappare. Il cavaliere della morte era sceso da cavallo per affrontare il mezzelfo, secondo quanto imposto dalla Misura, il codice d'onore dei Cavalieri Solamnici; secondo tale codice, combattere da cavallo un nemico appiedato era considerato un atto sleale. Soth, sebbene disprezzasse la Misura, cercava di seguirne i dettami ogniqualvolta possibile, per provare che i cosiddetti uomini d'onore dell'Ordine non avrebbero dovuto essere apprezzati per i loro rigidi principi. Ma la codarda ritirata di Tanis aveva stupito persino Soth. Si era aspettato che il mezzelfo combattesse, o per lo meno che tentasse di ritardare l'attacco del cavaliere della morte. La sorpresa era mitigata dal disgusto che provava per un uomo che portava il simbolo di Cavaliere della Rosa e aveva scelto di rifuggire dalla battaglia. Un tempo quell'armatura era il simbolo di tutto ciò che Lord Soth aveva di più caro, e vedere qualcuno macchiarla con l'infamia della codardia gli ricordava che aveva trascorso la vita a dare la caccia a un'idea illusoria di onore. I cavalieri non erano forse quei paladini dal cuore puro che pretendevano di essere, ma scoprire la loro bassezza non era mai piacevole per il cavaliere della morte. La strada ormai sgombra, gli scheletri guerrieri attorniarono Soth. Dopo avere osservato il drago di bronzo scomparire oltre un edificio, il cavaliere della morte si rivolse ai suoi seguaci. In fondo alla lunga via, un gruppo di mercanti stava ergendo una barricata per cercare di fermare l'esercito del male. Armati di vecchie spade recuperate da banchi di pegni o dal posto d'onore sopra i focolari domestici, gli abitanti di Palanthas ammassavano casse e tavoli capovolti lungo il cammino dell'armata nemica. «Quei seccatori intralciano la strada per la torre», ringhiò Soth, indicando il gruppo ormai condannato. «Eliminateli.» Gli scheletri guerrieri tirarono le redini con forza e i destrieri infernali scattarono in avanti. All'avvicinarsi degli scheletri, alcuni mercanti fuggirono, ma quelli che restarono in difesa delle barricate combatterono valorosamente. Inizialmente sembrò riuscissero a tenere a bada i non-morti, ma poi, una banshee si unì alla mischia. A bordo del macabro carro di ossa, lo
spirito inquieto si lanciò lungo la via, colpendo, con la spada di ghiaccio, gli alberi sul ciglio della strada. A ogni colpo, un albero avvizziva e moriva. «Su!» gridò lo spirito al wyvern che tirava il suo carro. «Sulla barricata!» Sbattendo le ali, il drago si sollevò in cielo. La grande lucertola volante serrò i denti gialli e appuntiti e contrasse la coda da scorpione. Poi, con un grido, si lanciò in picchiata e con le zampe dai lunghi artigli afferrò un uomo dalla cima della ridotta. La banshee tranciò in due il corpo di un altro difensore. Prima che i resti del malcapitato cadessero a terra, molti mercanti erano già fuggiti. I valorosi, rimasti per combattere, vennero rapidamente sopraffatti dai tirapiedi di Soth. Lo scontro fu breve e cruento. Senza dire una parola, il cavaliere della morte montò sul suo destriero e passò attraverso il varco aperto nella barricata. Buona parte degli scheletri guerrieri rincorsero gli abitanti di Palanthas in fuga. Altri vagarono fra i corpi, decapitando i feriti. La banshee restò sul carro, in attesa che il wyvern finisse di martoriare il corpo di un grasso fabbricante di frecce. Sebbene lo spirito inquieto avesse pieno controllo dell'animale, si guardava bene dall'impedirgli di assaporarsi il meritato spuntino. Gli antenati di quegli uomini un tempo affollavano queste strade e mentre mi conducevano in prigione, mi ricoprivano di insulti e immondizia, ricordò Soth superando i cadaveri decapitati. La mia vendetta è compiuta. Hanno pagato. Eppure quel pensiero non gli arrecò alcuna gioia; la maledizione gli impediva infatti di provare non solo la gioia ma anche molte altre emozioni. Soltanto rabbia, odio, gelosia e altri impulsi distruttivi avevano ancora il potere di infiammare il cuore senza vita di Soth. Poteva distruggere, ma non ne traeva che un piacere tedioso. Come un bicchiere di acqua tiepida, una simile ricompensa faceva ben poco per soddisfare la sua sete di sollievo dalla monotonia di quell'esistenza. Era perciò sotto una coltre di impotente insoddisfazione che Soth attraversava Palanthas. Per le strade, i draconici massacravano uomini e donne trascinati fuori dai loro nascondigli. Il sangue delle vittime tingeva di rosso gli edifici immacolati che fiancheggiavano la via che conduceva alla Torre dell'Alta Magia. Le grida selvagge dei draghi malvagi, impegnati in combattimenti all'ultimo sangue contro guerrieri a cavallo di draghi del bene, echeggiavano in tutta la città. Il sangue di un animale ferito a morte cadde a pioggia. La ripugnante cascata creò pozze rossastre che, con un sibilo,
evaporarono sotto gli zoccoli infuocati del demoniaco destriero di Soth. Il pugno stretto intorno alle redini, il cavaliere della morte intravide la cittadella volante. La montagna fluttuante ondeggiava in cielo. Perplesso, Soth si accorse all'improvviso che la cittadella si librava pericolosamente sulla Torre dell'Alta Magia. Con l'arroganza di chi era avvezzo alle minacce mortali, Soth si lanciò in direzione della torre. Trovò il resto della città sgombro del nemico; i pochi che incrociavano il cavaliere della morte fuggivano al suo avvicinarsi. Ben presto la strada incominciò ad allargarsi fino ad aprirsi nell'ampio cortile che circondava la Torre dell'Alta Magia. La cittadella che sovrastava l'antica struttura nascondeva il cielo, ma l'oscurità che regnava intorno alla torre maledetta era perenne, come il boschetto intricato che faceva la guardia intorno a essa. Soth spronò lo spirito maligno perché si avvicinasse allo sbarramento di querce giganti, conosciuto come Bosco di Shoikan, ma la creatura rifiutò. Dagli alberi s'irradiava un freddo intenso, che attenuava il bagliore degli zoccoli infuocati e trasformava in vapore il fiato bollente. Sbuffando spaventato, il destriero scalpitò sul selciato e indietreggiò. Soth lasciò retrocedere l'animale di qualche passo, quindi smontò di sella. «Vattene. Torna pure alle fiamme infernali che ti hanno generato.» Lo spirito maligno riprese ad arretrare, fino a scomparire in un'esplosione di fumo e cenere nauseanti. Mentre attraversava il cortile deserto diretto al boschetto, il cavaliere della morte studiò l'antica struttura protetta dalle alte querce. Un tempo, la Torre dell'Alta Magia era una sede prestigiosa di apprendistato magico, un luogo dove i maghi conservavano i loro libri e si sottoponevano a pericolose prove per stabilire la loro posizione all'interno della gerarchia degli stregoni. Ma molti anni addietro, quando Soth era ancora mortale, il Sommo Sacerdote di Istar aveva intrapreso una crociata contro la magia, bollandola come strumento del male e incitando il popolo di Ansalon a scagliarsi contro le torri. Piuttosto che permettere ai profani di impadronirsi dei loro segreti, i maghi avevano distrutto due delle loro cinque roccaforti, quindi avevano deciso di rifugiarsi in un'unica torre, lontano dalla civiltà. La torre di Palanthas si supponeva fosse stata abbandonata. Il giorno in cui gli stregoni avevano pianificato di lasciare la torre di Palanthas, un mago dalle vesti nere, un servo del male, aveva maledetto la struttura. Giurò che le porte della torre sarebbero rimaste chiuse e le sue sale vuote fino a quando non si fosse avverata la profezia. Per suggellare la
maledizione, si era lanciato dal balcone più alto della torre sullo steccato che la circondava. Le porte d'oro e d'argento erano divenute immediatamente nere e l'edificio, fino a un istante prima immacolato, si era annerito. Da quel giorno, la Torre dell'Alta Magia era diventata un luogo di ombre all'interno della radiosa Palanthas; il marmo grigio dell'edificio contrastava nettamente con la pietra bianca con la quale erano state costruite le torri della città. Per accedere alla Torre dell'Alta Magia era necessario attraversare il Bosco di Shoikan; neppure un incantesimo di teletrasporto avrebbe permesso di raggiungerne l'ingresso. Le contorte querce, cresciute intorno alla torre, ospitavano spaventosi guardiani sovrannaturali. Anche gli alberi incutevano terrore. Quel luogo era così raccapricciante che persino i kender, la cui curiosità sconfiggeva quasi sempre la paura, non osavano mettere piede nel bosco. Ma quei timori non avevano alcuna presa su Soth, che si addentrò nella foresta oscura come se niente fosse. Mentre avanzava fra gli alberi, il cavaliere della morte avvertì appena quel gelo che avrebbe fatto tremare un mortale. Un'oscurità eterna avvolgeva come muschio le radici e i rami intricati e nemmeno un alito d'aria agitava le foglie stracciate e avvizzite. Eppure, nel bosco c'era vita. Soth ne riconobbe il pulsare: era quello di una vita empia, orribile, che non era affatto una vita ma una morte vivente. Il terreno, reso spugnoso dalle foglie marce e coperto di muffa per la mancanza di luce, tremava a ogni passo silenzioso. Appena Soth fu circondato dagli alti alberi, il tremore cessò. Una mano sudicia e pallida spuntò dal suolo e si allungò verso la gamba di Soth. Un'altra mano ossuta, e un'altra ancora, sbucarono dalla terra per afferrare il cavaliere della morte. Molte altre mani si chiusero intorno alle sue caviglie e cercarono di trascinarlo giù. «Non avete motivo di fermarmi, fratelli», disse il cavaliere della morte in tono pacato. Le mani esangui e imputridite esitarono. «Non intendo prendere niente di ciò che dovete proteggere alla torre, ma vi distruggerò se mi rallenterete.» Dalla terra si udì una voce flebile: «Ti riconosciamo, Soth, come uno dei nostri. Che cosa cerchi nella Torre dell'Alta Magia?» «La donna mortale, Kitiara Uth Matar, sorellastra dello stregone scuro Raistlin. Ha attraversato il bosco poco fa, non è vero?» «Ci ha provato», rispose la voce incorporea.
«Provato?» domandò Soth, sentendo montare l'ira. «Possiede un talismano che le permette di passare fra di voi illesa. Ero con lei la prima volta che l'ha usato contro di voi.» «Il talismano le assicura protezione... a meno che non mostri paura», sussurrò la voce dalle profondità della terra. Infuriato per quanto sottinteso da quelle parole, Soth scattò: «Dov'è?» Le mani si allontanarono e scomparvero nel terreno. «Rinunciate al suo corpo!» gridò il cavaliere della morte, furibondo. La voce cavernosa echeggiò nel silenzio del bosco. Il senso di oppressione che aleggiava fra gli alberi aumentò e un gemito di disperazione giunse dalle profondità. Una mano sbucò fra le foglie cadute. Stringeva il frammento di un'armatura blu notte. «L'abbiamo ferita, abbiamo distrutto la sua armatura ma non abbiamo rivendicato il suo corpo. È viva, nella torre.» Il cavaliere della morte si precipitò verso la palizzata di ferro che circondava la torre. Spalancò il cancello arrugginito, quindi forzò la porta, sulla quale erano incisi simboli magici. Come i guardiani del bosco, le cose informi e indistinte, che abitavano le antiche sale della Torre dell'Alta Magia, arretrarono davanti a Soth. All'interno dell'edificio, il cavaliere della morte si fermò ai piedi di una lunga scala che portava ai piani superiori, illuminata qua e là da sfere che irradiavano una flebile luce magica. La stanza che conteneva il portale per accedere al dominio di Takhisis era sopra di lui. Soth si diresse verso un angolo in ombra, lontano dai globi magici. Utilizzando un potere conferitogli dalla sua condizione di non-morto, il cavaliere della morte si dissolse nell'oscurità. Un istante dopo, emerse da un'altra ombra e spinse la pesante porta di legno che conduceva al laboratorio della torre, dove si trovava il portale. I cardini arrugginiti cigolarono rumorosamente. L'elfo reietto, Dalamar, sollevò lo sguardo verso la porta, ma inizialmente Soth rimase nell'ombra, nascosto alla vista. Il mago sedeva su una poltrona, apparentemente assorto nei propri pensieri. A un tratto, iniziò a lisciarsi la veste nera. «Nessuno può entrare», mormorò a un uomo in armatura, che s'inginocchiò dando la schiena alla porta. Dalamar portò la mano a una pergamena che portava alla cintura. «I guardiani...» Soth avanzò nella stanza nell'istante in cui l'uomo in armatura si voltava verso la porta. Era Tanis Mezzelfo. «... non possono fermare lui» affermò il mezzelfo, completando la frase di Dalamar.
Uno sguardo inorridito si dipinse sul volto di Tanis alla vista del cavaliere della morte. Le labbra di Dalamar si arricciarono in un sorriso arcigno e il mago si rilassò. «Entrate, Lord Soth», disse. «Vi aspettavo.» Il cavaliere reietto non si mosse e Dalamar ripeté l'invito. Soth restò ancora un istante nell'ombra, lo sguardo fisso sul volto di Tanis. Non gl'importava sapere come il suo nemico fosse riuscito ad arrivare alla torre, forse aveva sorvolato il Bosco di Shoikan sul drago di bronzo e si era lanciato sul tetto. Tutto ciò che gl'importava era che Tanis Mezzelfo stava fra lui e il suo premio. Tanis portò la mano alla spada, un gesto che sorprese Soth dopo la codardia mostrata dall'altro. Dalamar posò le lunghe dita affusolate sul braccio del mezzelfo e disse: «Non interferire, Tanis. Non è a noi che è interessato. È qui per un altro motivo». La luce fioca delle candele illuminava il laboratorio, rivelando libri di magia, bottigliette e beccucci che sibilavano in modo sinistro, ed enormi tavoli di pietra riservati a esperimenti più impegnativi e spaventosi. Il portale attraverso il quale Raistlin era già passato per incontrare Takhisis era dall'altra parte della stanza, diametralmente opposto a Soth. Il grande anello di acciaio era ricoperto di simboli magici in oro e argento e cinque teste di drago erano scolpite intorno alla circonferenza. Abbandonato in un angolo a pochi passi dal portale e coperto da un mantello, si trovava l'oggetto della ricerca del cavaliere della morte. Kitiara! Il cuore di Soth fece un balzo, mentre il non-morto attraversava a lunghi passi la stanza. Il cavaliere sollevò il mantello e s'inginocchiò accanto al cadavere. Nella morte, Kitiara Uth Matar gli apparve bella come era stata in vita. Gli splendenti occhi castani erano spalancati in un'espressione di orrore. L'armatura blu notte era stata strappata dai guardiani della torre e l'aderente giubba nera, ormai a brandelli, rivelava la pelle abbronzata della donna. Il cavaliere della morte non fece caso al taglio sanguinante nella gamba o ai lunghi graffi, rossi per il veleno, provocati dalle mani dei guardiani. Il buco bruciacchiato nel suo petto, provocato sicuramente da un attacco magico di Dalamar, lo turbò per un solo istante. Le ferite avevano poca importanza, purché il corpo di Kitiara restasse sufficientemente intatto per ospitare l'anima risuscitata della donna. Le ultime scintille della vita mortale di Kitiara stavano spegnendosi, ma la sua anima era ancora sospesa sul corpo. Un'immagine spettrale della donna si contorse nel dolore, attaccata al cadavere da un filo sottile, ma luminoso, di energia. «Lascia andare questa vita», mormorò Soth a Kitiara.
Il filo divenne più luminoso, mentre l'anima cercava disperatamente di restare avvinghiata alla vita mortale. Non era per paura, ma per amore. Soth si voltò per affrontare il suo più odiato nemico. «Lasciala a me, Tanis Mezzelfo», tuonò. «Il tuo amore la lega a questo piano. Lasciala andare.» Con passo deciso, il mezzelfo avanzò verso Soth. Teneva la mano sull'impugnatura della spada. Mentre si avvicinava al cavaliere della morte, Dalamar lo ammonì: «Ti ucciderà, Tanis. Ti massacrerà senza alcuna esitazione. Lasciala a lui. Dopo tutto, credo che lui sia l'unico che l'abbia capita veramente». Le parole dell'elfo ravvivarono la fiamma dell'odio nel cuore di Soth; Kitiara era tenuta lontana da lui da codardi e lacchè! Gli occhi del cavaliere della morte fiammeggiarono. «Capita?» ringhiò. «Ammirata! Come me, lei era nata per comandare, per conquistare! Ma lei era più forte di me. Era capace di mettere da parte l'amore che rischiava di incatenarla. Se non fosse stato per uno strano scherzo del destino, avrebbe regnato su tutta Ansalon!» La mano di Tanis serrò la spada. «No», mormorò in tono sommesso. Dalamar afferrò il polso del mezzelfo e lo guardò negli occhi. «Non ti ha mai amato, Tanis», disse senza lasciare trapelare alcuna emozione. «Ti ha usato come ha usato tutti noi, lui compreso.» Mentre Dalamar spostava lo sguardo su Soth, Tanis iniziò a parlare. L'elfo scuro lo interruppe. «Ti ha usato fino alla fine, Mezzelfo. Anche adesso, cerca di raggiungerti, sperando che tu la salvi.» Mentre Soth impugnava la spada, pronto a colpire Tanis, sul volto di quest'ultimo apparve un'improvvisa stanchezza. Era come se gli fosse stato concesso di vedere l'anima egoista di Kitiara. Il mezzelfo incontrò lo sguardo feroce del cavaliere della morte mentre allontanava la mano dalla spada. Lord Soth prese in considerazione la possibilità di uccidere comunque il rivale per avere abbandonato Kitiara senza combattere. Quell'ultimo gesto era per lui l'ennesima prova di quanto Tanis fosse indegno di portare l'armatura dei Cavalieri della Rosa. Vivrà con la codardia come compagna, decise infine il cavaliere della morte, girandosi verso il cadavere di Kitiara. L'anima della donna se n'era andata. Sebbene Soth avesse sperato che Kitiara non avrebbe cercato si sfuggirgli, aveva previsto già da tempo una simile eventualità. Mentre il cavaliere della morte sollevava il cadavere avvolto nel mantello macchiato di san-
gue, il suo siniscalco si avventurava nell'Abisso diretto al dominio di Takhisis. Là, il suo servitore avrebbe catturato l'anima della donna e l'avrebbe riportata nella casa di Soth. Con il corpo di Kitiara fra le braccia, Soth raggiunse un angolo in ombra del laboratorio e pronunciò una parola magica. Ai suoi piedi si aprì un abisso tenebroso, dal quale soffiò una ventata di aria gelida. Dopo avere lanciato un'ultima occhiata a Tanis Mezzelfo, che si riparava il viso dal freddo pungente, il cavaliere della morte scomparve dalla Torre dell'Alta Magia. Le pianure polverose si estendevano a perdita d'occhio, arse da un sole infernale che non conosceva tramonto e restava sempre alto in cielo. Venti afosi, che odoravano di carne bruciata, soffiavano vorticose nubi di sabbia sulle distese inaridite. Di tanto in tanto, i vortici di vento si fondevano l'uno nell'altro dando vita a tornado ululanti. Ma perturbazioni simili non duravano mai a lungo. Il sole li schiacciava con la stessa forza con la quale opprimeva tutto ciò che entrava nel regno di Pazunia. «Quarantanovemilatrentotto. Quarantanovemilatrentanove.» Un essere solitario si trascinava nel deserto, le spalle ricurve, la testa bassa. Caradoc, così si chiamava quella pover'anima, non aveva bisogno di sollevare lo sguardo per sapere che intorno a lui si allargava una piana desertica infinita. Erano ormai ore, forse giorni, che camminava nel mondo dell'aldilà, l'anticamera dell'Abisso. Soltanto tre cose spezzavano la monotonia di quel luogo e nessuna di esse era particolarmente piacevole. All'orizzonte, il fiume Styx scorreva sinuoso. Le sue rive erano infide come tutta Pazunia, poiché il fiume era, per sua natura, ladro e non benefattore. Bastava che un uomo sfiorasse le acque dello Styx per essere privato della memoria e venire trascinato dalla corrente nell'oltretomba, verso un tragico destino. «Quarantanovemilacinquantaquattro.» Caradoc si portò una mano alla fronte. «No, un attimo. Quarantanovemilaquarantaquattro.» Fortezze arcane sbucavano dalla terra morta. Erano gli avamposti dei potentissimi tanar'ri, i signori che abitavano nei seicentosessantasei strati dell'Abisso, da dove potevano lanciare attacchi al mondo dei mortali. Sentinelle raccapriccianti facevano la guardia per proteggere le fortezze da spiriti maligni al servizio di tanar'ri rivali. Ciononostante, gli assalti erano frequenti. Gli echi di queste sanguinose battaglie venivano trasportati dai venti di Pazunia. Fortunatamente per Caradoc, gli spiriti coinvolti nei con-
flitti non nutrivano alcun interesse nei confronti di un viaggiatore solitario, soprattutto di uno già morto. «Quarantanovemilasessantotto», mormorò, dando un calcio a un sasso lungo il sentiero. Lanciò un'occhiata agli stivali di pelle nera e scosse la testa disgustato. Causa della sua infelicità non erano né il caldo di Pazunia, né il fetore, ma lo stato dei suoi abiti. Gli stivali, rimasti lucidi per tre secoli e mezzo dalla sua morte, erano ormai opachi e sporchi. I tacchi erano consumati per la lunga marcia e la giubba di seta gli si era appiccicata alla schiena madida di sudore. Scosse nuovamente la testa. Quando avrebbe lasciato l'Abisso per tornare a Krynn sarebbe stata sicuramente anche macchiata. Prima di contare il passo successivo, si lisciò la giubba e spolverò gli stivali. Quindi sollevò la testa e scrutò in lontananza. «Dovrei esserci vicino», disse, se non altro per sentire quella che un tempo era la sua voce umana. Lo stanco viandante aspettava di vedere spalancarsi una buca, ma tutto era immobile. Portali che si aprivano nel terreno erano una peculiarità del deserto ed erano il terzo elemento che spezzava la monotonia di Pazunia. Lungo il cammino, Caradoc aveva superato dozzine, forse addirittura centinaia di buche simili. Da alcune fuoriusciva una sottile nebbia. Da altre grida angosciose. Ma quei portali non interessavano a Caradoc, poiché non portavano al livello dell'Abisso dove lui era diretto. «Quarantanovemilasessantanove», sospirò e riprese. Non si affrettò. Né smise di contare. Lord Soth, il suo signore, era stato molto chiaro in merito. Doveva contare diecimila passi per ogni testa di drago cromatico, ripeté Caradoc fra sé e sé. Soltanto allora si sarebbe trovato davanti al portale oltre il quale si apriva il regno di Takhisis. Finalmente esclamò: «Cinquantamila!» Appena ebbe contato l'ultimo dei passi, si fermò. Davanti a lui non c'era nessun portale. Si schermò gli occhi contro il sole e guardò in cielo. Forse il portale era sospeso; cose simili accadevano a Pazunia. Niente. Caradoc precipitò nello sgomento. L'ululato del vento era come un gemito di dolore e la polvere sibilava come l'ultimo respiro di un uomo morente. «Cinquantamila», ripeté. «Dov'è la maledetta porta?» Afferrò la catena che portava al collo ed estrasse il medaglione da sotto la giubba. Una rosa contorta, un tempo rossa ma ora scura per la ruggine, brillò sul ciondolo.
«Sono il siniscalco di Soth di Dargaard Keep. Cerco l'ingresso al regno della Regina delle Tenebre.» All'improvviso, nella pianura assolata si aprì un baratro e Caradoc venne inghiottito. Si ritrovò nell'oscurità e lentamente fluttuò da un livello all'altro dell'Abisso. Non era la prima volta che provava la sensazione di volare, mentre non si poteva dire lo stesso per ciò che vedeva, udiva e annusava. Allo strato di totale oscurità seguì un impero di ghiaccio. Pioggia ghiacciata sferzava l'aria, sospinta da venti gelidi. Isole di ghiaccio galleggianti si allungavano all'orizzonte, inframmezzate, di tanto in tanto, da enormi pilastri di roccia incrostata di neve. Il vento ululava e si avvolgeva intorno ai monoliti, rendendoli lisci come la neve ai loro piedi. La montagna di ghiaccio si mosse. Un paio di freddi occhi azzurri si aprirono lentamente su ogni pilastro e gli sguardi ostili seguirono Caradoc mentre passava al livello successivo. Su una pianura di acciaio rugginoso erano schierati due eserciti. Si incontrarono su un ampio fronte, dove corpi e parti di corpi si lanciarono gli uni sugli altri. Nell'aria risuonò un gemito di disperazione, basso e straziante, e l'odore penetrante di metallo arrugginito sovrastò persino il puzzo del sangue e della carne in putrefazione. Una moltitudine di creature scarne si ammassava su un lato del campo di battaglia. Dietro di loro, esseri titanici le spingevano ad avanzare. Quei giganteschi tanar'ri avevano il corpo di spaventosi serpenti ma il volto, le spalle e il petto di donne. Là, finivano le somiglianze con la razza umana, poiché in ognuna delle loro sei braccia brandivano armi dalle lame affilate. Dall'altra parte del campo di metallo era radunato un altro esercito di uguali proporzioni. Caradoc rabbrividì nel riconoscere in quelle creature i mani: mortali che nel corso della vita avevano disseminato caos e malvagità. La loro pelle era cinerea e il corpo era gonfio come quello di cadaveri abbandonati in un fiume fetido; minuscoli animali necrofagi strisciavano su di loro. Gli occhi vuoti, fissi davanti a loro, i mani venivano spinti verso il nemico da un generale mostruoso: un torreggiante tanar'ri dalla pelle brunita e ali ricoperte di squame ruvide e irregolari. Ogni volta che apriva bocca, dai lunghi denti gialli gocciolava veleno. In una mano, il generale brandiva una frusta con venti code spinose, e nell'altra una spada di saette. Caradoc sapeva che se le sue gesta da mortale fossero state più atroci dell'assassinio della prima moglie di Lord Soth, ora avrebbe potuto trovarsi fra le fila di quell'esercito. Per la prima volta in trecentocinquant'anni, fu felice di essere stato condannato a trascorrere l'eternità sottoforma di spet-
tro su Krynn. Chiuse gli occhi e proseguì. Superando luoghi di oscurità e di luce, attraversò regni di fuoco, di aria e d'acqua. A un certo punto si ritrovò in un posto caldo e umido. Quando finalmente gli occhi si abituarono al buio, riuscì a vedere intorno a sé. Ovunque c'erano funghi vischiosi che s'innalzavano per un migliaio di piedi nell'oscurità, trascinando funi di squamosa vegetazione bianca. Pozze di limo grigio scorrevano lentamente sul terreno spugnoso e da masse color porpora si protendevano lunghi tentacoli. Regnava il silenzio, ma il puzzo di marciume riempì il naso e la bocca di Caradoc. Ciò che più turbava il siniscalco era la sensazione che un'entità potente e malvagia guardasse da quel silenzio. Sebbene Caradoc non vide alcun bagliore nell'oscurità, sapeva che un essere superiore lo stava osservando. Finalmente il siniscalco giunse alla fine della discesa nell'Abisso. Si ritrovò sul tetto di un tempio fatiscente, dalle colonne in rovina e le pareti annerite dal fuoco. Un tempo, quell'edificio era stato la casa del Sommo Sacerdote di Istar a Krynn; ora, Takhisis, la Regina delle Tenebre, utilizzava ciò che restava della costruzione come porta d'ingresso a Krynn. Dal tempio, tramava per distruggere tutto ciò che di buono esisteva nel mondo dei mortali. L'ironia della situazione non sfuggì a Caradoc; il Sommo Sacerdote aveva voluto con tutto se stesso distruggere il male. Ora, il suo tempio era la dimora di una delle più perfide fra tutte le divinità. «Forse anche il Sommo Sacerdote si trova nei paraggi», rifletté Caradoc, guardandosi intorno. Il tempio era circondato da una folla di anime dannate che spingeva per avvicinarsi all'edificio. «Regina dei draghi!» gridava la legione di anime. «Ti siamo fedeli. Permettici di aiutarti!» Caradoc sapeva che Takhisis non avrebbe risposto. Come Lord Soth gli aveva spiegato prima della partenza, un mago mortale di Krynn intendeva sfidare Takhisis nel suo stesso regno. Un simile conflitto era senza precedenti; pochi mortali possedevano sufficiente potere per opporsi a un dio nel suo dominio, soprattutto a una divinità potente quanto Takhisis. Tuttavia, lo scontro avrebbe sviato l'attenzione della Regina Scura sufficientemente a lungo per permettere a Caradoc di individuare l'anima di una donna appena arrivata: Kitiara Uth Matar. Sorrise al pensiero. Una volta ritrovata e condotta l'anima a Dargaard Keep, Lord Soth lo avrebbe ricompensato. Il cavaliere della morte era un servitore potente degli dei del male e poteva rivolgere una supplica a Chemosh, Signore dei Nonmorti, affinché annullasse la maledizione che
aveva colpito Caradoc. Sarebbe tornato mortale. O per lo meno era quanto Soth gli aveva promesso. Un pensiero improvviso gli attraversò la mente. Che cosa avrebbe fatto nel caso Soth si fosse rifiutato di rispettare la parola data? Dopo un istante di riflessione, il sorriso tornò sul suo volto. Conosceva diversi modi per obbligare il cavaliere della morte a onorare i patti. Il siniscalco prese fra le mani il medaglione. «Svela ai miei occhi lo spirito della Signora dei Draghi Kitiara», disse. Dalla rosa sul medaglione si diffuse una calda luce magica. Il siniscalco tenne il disco innanzi a sé e un raggio luminoso si proiettò sulla folla davanti al tempio, illuminando la donna che lui cercava. 2 «Dov'è finito quello stupido?» ringhiò Lord Soth, stringendo le mani intorno ai braccioli del trono, sbriciolati e anneriti. «L'incarico era semplice. Dovrebbe già essere tornato da tempo.» Una figura trasparente con lunghi capelli fluttuanti e orecchie a punta si librò su Soth. Ti ha ingannato così come tu hai ingannato tutti quelli che si sono fidati di te, mormorò la banshee. Il traditore è stato tradito! gridò un altro spirito inquieto volteggiando in aria. La banshee più vicina a Soth gettò la testa indietro e scoppiò a ridere, subito imitata dalle dodici sorelle, che piroettarono nella grande sala del trono. Il loro ululato echeggiò dalle pareti circolari della stanza fino al soffitto a volta e alle scale che conducevano alla terrazza. Chiunque nel raggio di un miglio avrebbe potuto sentire la terrificante cacofonia, ma pochi mortali si avventuravano nelle vicinanze del maniero e il lamento lugubre delle banshee avrebbe fatto fuggire dai dirupi rocciosi anche le creature più feroci. Uno spirito si avvicinò a Soth, il volto dai bei lineamenti sfigurato dall'odio. Gli dei hanno scritto la tua punizione con il sangue di due mogli assassinate e le lacrime del tuo unico figlio. La banshee era così vicina che se Soth avesse voluto, avrebbe potuto colpirla. Lo spirito aveva il viso di una bellissima donna elfo. Sebbene gli occhi fossero ormai pallidi e spenti, in loro s'intravedeva ancora l'azzurro intenso di un tempo. La chioma selvaggia che le incoronava il capo secoli prima era bionda. Persino i suoi movimenti flessuosi tradivano una grazia
tipica degli elfi. Ma quella visione di bellezza svanì rapidamente e la fanciulla elfo divenne ancora una volta uno spirito privo di sostanza, un'immagine luminescente e corrotta dell'essere incantevole che era stata. Il tuo destino è scritto in quel libro, Soth di Dargaard, sibilò la banshee. È fissato in quelle pagine. Conoscerai il tradimento! Le invettive dello spirito irrequieto lasciavano Soth indifferente, poiché non avvertiva più i rimorsi della coscienza o la paura inquietante del futuro che tormentavano alcuni mortali. L'incendio che secoli prima aveva annerito le mura di Dargaard Keep si era preso la sua vita. Coloro che su Krynn avevano avuto la sfortuna di incrociare il signore di Dargaard si riferivano a lui come a un "cavaliere della morte" e quel titolo diffondeva più terrore di un fantasma, di un predatore di tombe o di una banshee. «Quel libro non esiste, né a Krynn, né nei cieli. Io sono l'artefice del mio destino.» Soth allontanò lo spirito con un gesto della mano. «Sono felice di assumermi il merito e la colpa per tutto il male che ho commesso.» E ne hai commesso molto, mormorò la banshee più vicina a lui. Tu eri il buio nella luce, una macchia che si espande, un cancro. La voce di un altro spirito aggiunse: Tu eri lo squalo che iniziava a muoversi nelle acque immobili. Un terzo e un quarto spirito levarono i loro lamenti sopra quelli degli altri e le parole presero a volteggiare vorticosamente raggiungendo un volume assordante. Quando i suoni divennero un grido incomprensibile, la voce di una sola banshee superò le altre. Tu eri il più coraggioso dei Cavalieri di Solamnia, il più valoroso dell'Ordine della Rosa. Le tue gesta eroiche venivano cantate in tutta Krynn, dalle terre dei nani di Thorbardin alla foresta elfica di Silvanost, dalle radure sacre dell'isola di Sancrist ai templi del Sommo Sacerdote di Istar. Sotto l'elmo, Soth si fece minaccioso. «Assolvete malamente il vostro compito», tuonò con voce cupa. «Paladine vi ha creato e vi ha inviato a infestare il mio castello. Ogni notte, da sette volte cinquant'anni, siete la voce accusatrice del Padre del Bene, che mi ricorda i miei fallimenti.» Il cavaliere della morte si alzò di scatto. L'antica armatura non cigolò. La lunga cappa ondeggiò intorno a lui, ma in perfetto silenzio. «Le vostre insulse accuse mi annoiano. Soltanto i ricordi mi provocano dolore e il vostro ciarlare non serve a fare tornare alla mia mente il passato migliore.» Uno degli spiriti gridò. Gli altri dodici si unirono a lui, dando vita a un coro di lamenti. Vuoi ricordare i tuoi peccati? Devi crescere per godere il dolore!
«Desidero soltanto distrarmi», ammise infine il cavaliere della morte. Con la mano indicò una sagoma nascosta nell'ombra accanto al trono. «Dopo tutto, è per questo che ho portato qui Kitiara.» Con sorprendente delicatezza, sollevò un mantello macchiato di sangue. Là, seminascosto dalla nebbia che si sollevava dal pavimento, giaceva il cadavere di Kitiara Uth Matar. L'impazienza s'impadronì nuovamente di Soth. «Tra poco ti avrò ancora con me», disse al corpo immobile. Si chinò e accarezzò una guancia esangue. «Spezzerai il drappo funebre che aleggia su questo castello in rovina.» Ti stancherai di lei come hai fatto con le tue mogli, affermò uno spirito. La sua fine sarà... «Basta!» tuonò Soth e le banshee indietreggiarono. Il cavaliere della morte lasciò vagare lo sguardo nella sala; timidi raggi di un sole debole filtravano dalle porte fatiscenti, mentre le ombre si allungavano nella stanza. Il tramonto era ormai vicino. «Caradoc è partito da ore. La pagherà cara per questo ritardo!» Forse la battaglia tra la Regina Scura e Raistlin è terminata prima che Caradoc riuscisse a catturare l'anima, bisbigliò uno spirito. Sia Takhisis che il fratellastro di Kitiara hanno validi motivi per volerla nell'Abisso. Le mani intrecciate innanzi a lui, Soth misurò nervosamente la stanza a grandi passi. Il suo avanzare era silenzioso. E i suoi stivali non agitarono la foschia che s'insinuava attraverso le porte distrutte e ricopriva il pavimento annerito. Le banshee si ritirarono negli angoli oscuri della sala, mentre il cavaliere della morte raggiungeva le scale e iniziava a salire. «Vado a cercare indizi sull'esito della battaglia», affermò senza voltarsi indietro. «Che nessuno tocchi il corpo della Signora dei Draghi.» Il corridoio, privo di finestre, era immerso nell'oscurità, ma il cavaliere della morte poteva vedere nel buio. Vedeva le antiche pareti di pietra e le crepe che si arrampicavano su di esse come edera. Persino un topolino, denutrito e assordato dai continui lamenti funebri delle banshee, non passò inosservato. L'animale fuggì all'avvicinarsi di Soth, allontanato dal gelo innaturale che irradiava il corpo del non-morto. Con passo marziale, Soth percorse i corridoi oscuri, pensando ad alta voce quali punizioni fossero più adatte per il siniscalco in ritardo. «Forse dovrei trasformare i suoi abiti in stracci», mormorò. «In vita era un damerino, più interessato ai broccati che alle spade, e la morte non lo ha cambiato.» Una porta deformata su cardini arrugginiti segnava la fine del corridoio.
Cigolò fragorosamente quando Soth la spalancò. La stanza su cui si apriva era piccola, ma la breccia creatasi dove la parete era crollata secoli prima la faceva sembrare più grande. Una fresca brezza s'infiltrava dallo squarcio, sollevando la polvere e lo sporco che coprivano il pavimento. Situata in cima alla torre, quella stanzetta un tempo era un posto di guardia. Ormai, Dargaard Keep non aveva più bisogno di sentinelle. La reputazione del signore del maniero bastava a tenere lontani gli intrusi e i curiosi. Ciononostante, una figura solitaria montava la guardia nel locale colmo di macerie. «Ah, Sir Mikel», disse Soth in tono distratto. «Spostatevi.» Il militare si fermò. L'armatura arrugginita di Sir Mikel era vecchia quanto quella di Soth e pendeva sul corpo scheletrico. Scarnificate costole gialle risplendevano attraverso le aperture nella corazza del cavaliere e gli stivali consumati martellavano il pavimento quando il soldato marciava. Un teschio senza occhi né carne appariva sotto una visiera sollevata. Mentre lo scheletro guerriero lo fissava, Soth si chiese se minuscole parti dell'anima del cavaliere restassero ancora. Mikel, come tutti i tredici Cavalieri Solamnici che avevano assecondato Soth nei suoi crimini, era stato condannato a servire il cavaliere della morte per l'eternità. La carne aveva abbandonato lo scheletro dei cavalieri ormai da secoli e con essa se n'era andata la loro individualità e capacità razionale. Ora, a meno che Soth non impartisse loro degli ordini, i cavalieri montavano incessantemente la guardia nel luogo in cui erano morti. Dopo un breve istante, Mikel sembrò riconoscere il suo signore. Chinò la testa e si spostò di lato per permettere al cavaliere della morte di raggiungere la breccia nel muro. «Avete visto Caradoc, oggi?» domandò Soth al sottoposto. Una lunga e dolorosa pausa seguì la domanda, poi Sir Mikel annuì esitante. Le sue ossa sfregarono l'una contro l'altra producendo un suono stridulo e penetrante. «Lo avete visto questa mattina prima che si avventurasse nell'Abisso?» Mikel annuì nuovamente. «E lo avete visto da quando sono tornato da Palanthas con il corpo della Signora dei Draghi?» Un'altra pausa, poi lo scheletro guerriero scosse la testa. Nessuna scintilla brillò nella cavità dei bulbi oculari; nessun tipo di espressione modificò la smorfia pietrificata del nonmorto. Il cavaliere della morte guardò il cielo, che si oscurava per l'avanzare
della notte. Le tre lune, che vegliavano su Krynn, stavano sorgendo. Solinari, la luna argentea della magia bianca, non era che una scheggia nel cielo. Il simbolo della neutralità, Lunitari, brillava fulgidamente, proiettando un bagliore rossastro sulle montagne che circondavano Dargaard su tre lati. La terza luna era visibile solo alle creature del male come Soth. Nuitari emanava infatti una sorta di luce negativa, un nero fulgore che risplendeva su ciò che apparteneva alle tenebre. Anche le stelle cominciavano a stagliarsi nel cielo scuro. Ciascuna delle ventuno divinità di Krynn era rappresentata in cielo da una costellazione, un pianeta o una luna. Le stelle che raffiguravano Paladine, il Padre del Bene, creavano un drago d'argento. Quei punti di luce, chiamati il Valoroso Guerriero, si contrapponevano al drago a cinque teste conosciuto come la Regina delle Tenebre. In passato, quelle manifestazioni di potere divino avevano rispecchiato le battaglie delle divinità, i loro trionfi e le loro sconfitte. Soth posò lo sguardo sul drago a cinque teste alla ricerca di un indizio sul risultato dello scontro avvenuto, o ancora in corso, fra Takhisis e Raistlin Majere. La Regina delle Tenebre era distesa in cielo, attorcigliata e pronta per colpire il Valoroso Guerriero. Niente era cambiato. «La battaglia deve essersi conclusa», borbottò Soth. «Takhisis ha sconfitto il mago.» Voltò le spalle alla breccia nel muro e si rivolse a Sir Mikel. «Vi ordino di osservare le stelle, soprattutto la costellazione della Regina delle Tenebre. Avete capito?» Il non-morto si avvicinò allo squarcio. Con esasperata lentezza sollevò gli occhi vuoti al cielo. «Se le stelle modificano la loro posizione, avvertitemi», aggiunse Soth, allontanandosi precipitosamente. Il cavaliere della morte si avviò lungo i corridoio bui e polverosi. A ogni passo si pentiva di avere fatto affidamento sul siniscalco per recuperare l'anima di Kitiara. Nessuno dei suoi servitori possedeva sufficiente potere per sconfiggere i guardiani della Torre dell'Alta Magia, perciò Soth stesso era stato obbligato ad andare in cerca del cadavere. E tra i suoi tirapiedi, soltanto Caradoc era abbastanza intelligente da riuscire a sopravvivere a un viaggio nell'Abisso. Ma ora sembrava che lo spettro avesse fallito. O lo avesse ingannato. Spinse con violenza una porta, facendo volare ovunque schegge di legno marcio. «Caradoc pagherà. La maledizione lo obbliga a tornare qui», sibilò il cavaliere della morte.
Si fermò e rifletté sulla verità di quelle parole. C'era un luogo in cui il siniscalco avrebbe dovuto fare ritorno, che fosse riuscito o meno nell'impresa. Soth decise di attendere Caradoc proprio là. Affrettò il passo mentre saliva le scale di pietra che conducevano alla torre, utilizzata come edificio principale del maniero. Caradoc si era ritrovato intrappolato dalla maledizione che aveva condannato Soth. In vita, il siniscalco era stato un uomo avido, ambizioso, che aveva aiutato il suo signore in ogni modo. Aveva diffuso voci false su chiunque aveva tentato di minare la posizione di Soth all'interno dell'ordine cavalleresco. Quando il Consiglio dei Cavalieri aveva messo in dubbio la bontà di alcune azioni del suo padrone, Caradoc non aveva esitato a testimoniare in favore di Soth. Aveva persino ucciso per il suo signore, pugnalando la sua prima moglie nel sonno. Anche mentre il fuoco devastava Dargaard, Caradoc era rimasto nello studio privato di Soth impegnato nel controllo dei libri contabili del suo padrone. Ed era là che riposavano ancora le sue ossa. Dopo aver salito un numero di scalini sufficiente per sfiancare anche il più robusto mortale, Soth raggiunse un ballatoio, dove una spaccatura nel pavimento si apriva nel vuoto sottostante. La cornice che un tempo ospitava la porta dello studio era parzialmente crollata. Per entrare, Soth dovette superare un mucchio di masserizie. In confronto alla confusione che regnava nel resto del maniero, lo studio era pulito, persino in ordine. Lo strato di polvere e sporcizia che rivestiva il pavimento delle altre stanze era stranamente assente. Mancavano anche schegge e frammenti della porta o dei mobili di legno che un tempo arredavano lo studio. Un arazzo copriva una parete. Su di esso erano rappresentati elfi che combattevano contro loro simili nella guerra fratricida che aveva sconvolto le nazioni elfiche centinaia di anni prima. Sul pavimento sotto l'arazzo giaceva uno scheletro. Dall'unica finestra della stanza penetrava la luce delle lune. Rossa come sangue appena versato, Lunitari tingeva i resti scheletrici di Caradoc e creava macchie di oscurità negli angoli dello studio. Soth si avvicinò allo scheletro e aggrottò la fronte. Come il resto della stanza, le ossa di Caradoc erano pulite. La carne imputridita era stata eliminata con cura e non rosicchiata dai parassiti che abitavano il castello. Le braccia erano state piegate sul petto, conferendo allo scheletro quell'aspetto di serenità che nessuno degli altri abitanti di Dargaard possedeva. Soth sapeva che il siniscalco doveva avere impiegato anni per comporre
il cadavere ed eliminare i detriti dalla stanza. Per il corpo spettrale di Caradoc, come per quello della maggior parte dei fantasmi, il contatto con il mondo fisico era estremamente difficile; per muovere anche una minuscola pietra era necessaria una profonda concentrazione. Tuttavia, così come era stato in vita, anche in morte il siniscalco era costantemente preoccupato del proprio aspetto e desiderava che i suoi resti fossero presentabili. Aveva persino coperto il teschio con un drappo di seta come dettava un'antica usanza funebre solamnica. Il cavaliere della morte si piegò per sollevare il velo. «Quel drappo un tempo apparteneva a Kitiara, mio signore», affermò una voce tremante dietro Soth. «Glielo rubai una notte in cui si era fermata al castello.» Il cavaliere della morte si voltò di scatto. Là, nell'angolo buio vicino all'ingresso, era rannicchiato Caradoc. «Dov'è lei?» domandò Soth in tono pacato. Il siniscalco emerse dall'oscurità. La luce della luna lo illuminava di rosso. «Mio signore...» iniziò, ma si fermò appena il cavaliere della morte fece un passo verso di lui. «Come potete vedere, ho fatto ciò che mi avete chiesto.» Caradoc allargò le braccia, indicando se stesso. Sebbene lo spettro fosse trasparente, Soth vide che aveva i vestiti sporchi e stracciati. La polvere gli copriva ancora gli stivali. «Le pianure di Pazunia sembravano infinite e il portale...» «Dov'è l'anima di Kitiara?» lo interruppe Soth, spazientito. «Dov'è il medaglione?» Piegando il capo, Caradoc rispose: «Abbiamo fatto un patto, mio signore. Avete promesso che avreste perorato la mia causa con Chemosh, che avreste convinto il Signore dei Nonmorti a farmi tornare mortale». «Non ho scordato la mia promessa», affermò il cavaliere della morte, mentendo con sfacciata disinvoltura. Puntò un dito contro lo spettro. «La promessa verrà revocata se non mi dirai dove si trova l'anima di Kitiara.» Il siniscalco sapeva che se le sue gambe fossero state di carne e di sangue si sarebbero piegate per la paura. Facendosi coraggio, drizzò le spalle e assunse un atteggiamento sicuro. «Perdonatemi, mio signore, ma vi ho visto infrangere la parola data troppe volte negli ultimi trecentocinquanta anni. Voglio...» «Non osare pretendere niente da me!» gridò Soth, balzando in avanti. Lo spettro schivò la mano che il cavaliere della morte aveva allungato
per afferrarlo. Volò attraverso la stanza verso la finestra aperta. «Fatemi del male e non avrete mai Kitiara.» Cercando di placare l'ira che sentiva ribollire dentro di sé, Lord Soth affrontò il siniscalco. «Vola pure fuori dalla finestra se vuoi, Caradoc. So che la tua maledizione ti obbliga a tornare sempre al tuo scheletro.» Appoggiò la spessa suola dello stivale sopra il teschio sul pavimento. «Minacciami ancora e ti schiaccio come una mosca.» Lo spettro s'irrigidì. Non aveva niente di più prezioso delle ossa che un tempo avevano contenuto la sua anima, e la speranza che un giorno avrebbe abbandonato la condizione di non-morto lo aveva spinto a conservare il suo cadavere pulito e intatto. «Aspettate! Vi prego!» Soth non si mosse, lo stivale ancora sulle ossa coperte dal velo. «Vieni qua.» Riluttante, il siniscalco volò verso il suo padrone. «Ho raggiunto il regno di Takhisis quando la battaglia fra la Regina Scura e il mago mortale infuriava ancora», spiegò mentre si avvicinava a Soth. Il cavaliere della morte posò lo stivale sul pavimento. «Bene», disse. «Hai individuato l'anima di Kitiara Uth Matar?» «Sì. Il medaglione stregato mi ha aiutato.» Soth annuì e i fiammeggianti globi arancioni, che erano i suoi occhi, scintillarono pregustando già ciò che sarebbe accaduto. Lo spettro si interruppe. Un'espressione turbata gli oscurò il volto, spingendolo a distogliere lo sguardo. «Lei ha... opposto resistenza, mio signore», affermò infine. «Fortunatamente, il suo spirito era ancora disorientato per il tuffo nell'Abisso. Come mi avete ordinato, ho intrappolato la sua anima nel medaglione.» Soth non sopportava più l'attesa. La sua mano scattò in avanti e si chiuse intorno alla gola di Caradoc. Prima che lo spettro potesse reagire, con l'altra mano Soth strappò il colletto della giubba del servo. «Il medaglione non c'è! Dov'è?» Il cavaliere della morte colpì Caradoc. Nessun mortale avrebbe potuto imitarlo, poiché la spettrale forma incorporea proteggeva il siniscalco da attacchi fisici. Ma per Soth, Caradoc era solido quanto lo scheletro conservato nella stanza. «A Pazunia», ansimò lo spettro. «L'ho lasciato a Pazunia.» «E Kitiara è intrappolata al suo interno?» «S... sì.» L'acciaio della voce di Soth era più gelido del freddo emanato dalla sua
sostanza. «Che cosa speri di ottenere, traditore?» «Ho... ho fatto un patto con un potente signore tanar'ri sulla strada del ritorno dal regno di Takhisis», rispose l'altro. «Se voi...» Lo spirito deglutì e si fece forza per continuare. «Se voi non manterrete la parola e non farete in modo che io ritorni mortale, non avrete l'anima di Kitiara.» Senza pensarci due volte, Soth sferrò un potente calcio ai resti di Caradoc, frantumando la cassa toracica e spezzando entrambe le braccia. Lo spettro, ancora stretto nella morsa del cavaliere della morte, gridò disperato. Soth non si fermò e con mossa fulminea schiacciò il teschio ai suoi piedi. Le ossa si spezzarono e schizzarono sul pavimento illuminato dalla luna per poi scomparire nella nebbiolina che si andava diffondendo nella stanza. «Non immagini nemmeno quanto sia profonda la mia ira», affermò il cavaliere della morte in tono gelido. Soth trascinò Caradoc verso l'angolo in ombra dello studio. Quando furono entrambi coperti dall'oscurità, il cavaliere della morte pronunciò una parola magica. Scomparvero entrambi. Un istante dopo, emersero dall'ombra nella sala del trono del castello. Le banshee si libravano vicino al soffitto a volta. Quando il cavaliere della morte apparve dalle tenebre, stringendo ancora Caradoc per la gola, gli spiriti inquieti proruppero in assordanti ululati. La fitta nebbia che copriva il pavimento turbinò e palpitò, come spaventata dalle raggelanti grida delle banshee. Guarda come tratta il suo servo fedele! gridò una delle voci. Veloce come una saetta, una banshee attraversò la stanza. Non vedo l'anima di Kitiara. La Signora dei Draghi è sfuggita alle grinfie del cavaliere della morte! Il libro del suo destino è forse corretto? Il signore di Dargaard ha forse trovato un traditore tra le sue fila? «Non vi conviene prendervi gioco di me», intimò Soth in tono glaciale, «o quando avrò finito con Caradoc mi occuperò di voi». La minaccia placò le banshee, ma solo per pochi istanti. Appena il cavaliere della morte si mosse verso il centro della sala, gli spiriti fluttuarono fuori dalla sua portata, bisbigliando battute sarcastiche. Nel frattempo, Caradoc cercava di liberarsi dalla presa d'acciaio di Soth, ma inutilmente. «Pietà, mio signore», piagnucolò. All'improvviso, Soth si diresse verso il trono, trascinando con sé lo spettro. Là, afferrò il bordo del suo lungo mantello purpureo e lo agitò per allontanare la nebbia dal corpo rigido di Kitiara. La foschia si sollevò il tem-
po sufficiente per rivelare un cadavere coperto da goccioline di vapore. Sulle guance della donna, le gocce di umidità sembravano lacrime che scivolavano lentamente da occhi senza vita. Il cavaliere della morte fissò il bellissimo volto, poi, sollevò di peso il suo servitore. «Puoi comprare la mia pietà con l'anima di Kitiara. Dimmi dov'è.» Nel corso del lungo viaggio di ritorno dal regno di Takhisis, Caradoc aveva preparato il proprio bluff. Sapeva che difficilmente Soth avrebbe mantenuto la promessa... a meno che non avesse creduto che il siniscalco aveva un alleato di forza uguale o addirittura superiore. Era stato facile escogitare una menzogna, poiché Caradoc sapeva che persino Lord Soth rispettava i tanar'ri, i terribili signori dei demoni che abitavano l'Abisso. Ma ora, tuttavia, il pensiero di inscenare quella finzione terrorizzava lo spettro. La sua altra, e unica, alternativa era rivelare dove si trovasse realmente il medaglione e quindi l'anima di Kitiara, ma ciò avrebbe significato rinunciare per sempre alle sue speranza di risurrezione. «Su... sulla strada del ritorno da Pazunia», balbettò Caradoc, «sono giunto a una fortezza abbandonata. Là, ho lasciato il medaglione e l'anima della Signora dei Draghi». «Aprirò un portale per l'Abisso e mi condurrai alla fortezza.» «Io... non posso.» «Perché?» chiese Soth, aumentando la stretta intorno alla gola dello spettro. Caradoc si agitò come un forsennato, cercando disperatamente di liberarsi. «Un signore tanar'ri è arrivato mentre ero alla fortezza e si è impadronito del medaglione.» «Un signore tanar'ri», ripeté il cavaliere della morte. Rimise il siniscalco con i piedi per terra. «Sì, ho fatto un patto con un potentissimo abitante dell'Abisso», spiegò Caradoc, provando un certo sollievo. Restò sorpreso nello scoprire che la voce non gli tremava, come se la menzogna gli desse forza. «L'anima di Kitiara è imprigionata nel medaglione e il signore tanar'ri lo custodirà fino a quando non andrò a riprenderlo... nelle spoglie di un corpo mortale.» Le banshee risero sguaiatamente alle parole di Caradoc. Te l'ha fatta, cavaliere della morte, sghignazzarono. Il suo nuovo signore lo proteggerà da quello vecchio. Sei finito! Caradoc guardò negli occhi fiammeggianti di Soth, sperando di leggervi le sue intenzioni, ma l'espressione del cavaliere era indecifrabile.
«Il tuo piano è astuto, Caradoc», riconobbe infine Lord Soth in tono sorprendentemente calmo. «Sebbene mi obblighi ad affrontare e combattere questo tuo signore tanar'ri, non posso permettere che la tua astuzia non venga premiata.» Detto ciò, il cavaliere della morte aumentò ulteriormente la stretta intorno alla gola dello spettro. Caradoc si contorse e cercò di liberarsi dalla mano infilata nel guanto di cotta, ma le dita di Soth affondarono lentamente e dolorosamente in lui. Il siniscalco non riusciva più a parlare e a un forte ronzio nelle orecchie seguì la voce cavernosa del suo padrone. «Quando avrò distrutto questa forma, la tua anima tornerà al Signore dei Nonmorti, che ti rinchiuderà nel vuoto riservato agli spiriti che non sono più tali» ringhiò il cavaliere della morte. La vista di Caradoc si annebbiò. In lontananza udiva ancora le grida delle banshee, ma soltanto la voce di Soth risuonava forte e chiara. «Forse Chemosh ti farà risorgere ancora una volta, traditore, ma questa volta come qualcosa di più stupido, qualcosa come Sir Mikel e gli altri cavalieri condannati a servirmi.» Uno schiocco improvviso si levò dal collo di Caradoc. La testa dello spettro penzolò da una parte, non più sostenuta dalla spina dorsale ormai spezzata. «Oppure», continuò Soth, «potresti finire come i mani, arruolato nell'esercito di qualche generale mostruoso. Penso che...» Il cavaliere della morte si interruppe bruscamente, allentando la stretta. Intorno a lui, un banco di nebbia si era levato dal pavimento, oscurando la sala del trono e attutendo le grida e gli sberleffi delle banshee. «A che gioco stai giocando, Caradoc?» Lo spettro grugnì una risposta, ma Soth non la comprese. Caradoc gli avrebbe rivelato dove si trovava il medaglione solo se avesse smesso di torturarlo. Forse se Soth avesse saputo che l'anima di Kitiara si trovava fra le mura di Dargaard... Un cono di nebbia avvolse il cavaliere della morte e il siniscalco. La nebbia d'avorio si diffuse in ogni angolo della sala del trono, permeò ogni pietra. Nelle orecchie di Soth, i lamenti delle banshee diminuirono fino a cessare del tutto. La nebbia strisciò fuori dalla porta e nella notte, come se fosse stata richiamata altrove. Defluì come acqua sul pavimento di pietra, intorno al trono annerito e sbriciolato dai vermi, sul corpo immobile di Kitiara Uth Matara e sotto le tredici banshee che volteggiavano in aria. Sorelle! Gridò allibito uno degli spiriti inquieti, indicando il punto dove,
fino a un istante prima, si era trovato Soth. Il cavaliere della morte e lo spettro erano svaniti. 3 Quel bagliore accecante gli procurò un intenso bruciore agli occhi. La fitta nebbia s'insinuò da tutti gli angoli. Strisciò tra le crepe dell'armatura e si sfregò contro di lui come un gatto mostruoso. Tentacoli della sostanza lattiginosa s'infiltrarono nelle sue orecchie, nella bocca e nel naso, per poi ritrarsi rapidamente. «Caradoc», chiamò Soth, scrutando intorno a sé. La nebbia inghiottì ogni suono. Forse non aveva mai parlato! Forse aveva solo immaginato di avere chiamato il siniscalco. Ripeté il nome a voce più alta. «Caradoc!» Non ottenne risposta. Soth non sapeva come, ma lo spettro gli era sfuggito di mano quando la nebbia aveva invaso la sala del trono. Era certo che quel codardo di un siniscalco se l'era svignata. Si sarà nascosto in qualche angolo del castello, pensò. O forse sta fluttuando nello studio, cercando di rimettere insieme il suo scheletro. Dopo avere atteso qualche istante nel silenzio, Soth imprecò, infuriato. La nebbia smorzava persino i lamenti delle banshee. Era strano: i forti gemiti degli spiriti inquieti solitamente si udivano anche dalla torre più alta del maniero, nonostante le spesse mura di pietra. Soth ascoltò di nuovo. Niente. Le banshee tacevano. «È un trucco», mormorò. «O forse se ne sono andate quando ho attaccato Caradoc.» Ma Soth sapeva che le banshee non si sarebbero perse un'occasione di divertimento come la punizione di Caradoc. Gli spiriti elfici erano creature malvagie e assistere alla tortura del siniscalco sarebbe stato per loro un vero piacere. Ricordando che il trono era subito dietro di lui quando la nebbia aveva coperto ogni cosa, il cavaliere della morte si voltò e avanzò lentamente, ma dopo più di trentasei passi non aveva trovato né il trono, né la parete. Due cose gli furono subito chiare: non si trovava più nella sala del trono di Dargaard Keep e la nebbia che lo aveva inghiottito non era un prodotto della natura, ma della magia. «Tutto questo è molto al di là dei tuoi poteri, Caradoc», sibilò. «Ma ci sono altri...» Il cavaliere della morte lasciò la frase in sospeso mentre rifletteva sulla
causa della sua situazione. Forse dietro a quel mistero si nascondeva Takhisis. Aveva forse fatto infuriare la Regina Scura progettando la morte di Kitiara, una delle sue protette? No. Guerre fratricide e assassini erano all'ordine del giorno nella cerchia dei fedeli della dea del male. Non avrebbe punito un suo servo per avere seguito i propri impulsi malvagi, quegli impulsi che lei stessa osannava. Quel genere di tortura indiretta non era nemmeno opera di Paladine. Il Padre del Bene preferiva tormentare i suoi nemici con punizioni più lampanti. Lo stesso valeva per i cosiddetti Eroi della Lancia, Tanis Mezzelfo e il gruppo eterogeneo di mortali che combattevano contro le forze di Takhisis su Krynn. Come Paladine, rifuggivano infatti l'astuzia in favore dello scontro diretto con gli avversari. «Ah!» esclamo infine Soth. «L'alleato tanar'ri di Caradoc!» Scrutò nella nebbia alla ricerca della creatura malvagia. «Esci alla scoperto!» La nebbia si sollevò a spirale sotto gli occhi fiammeggianti di Soth, ma non apparve nessuna creatura. Il cavaliere della morte si accigliò sotto il pesante elmo. Ascoltò nuovamente. Nessun suono penetrò la nebbia. «Mi hai portato nell'Abisso?» domandò Soth all'invisibile nemico. «Se è così, ora mi trovo in un luogo che non ho ancora visitato.» Soth non si aspettava una risposta, ormai non parlava più nella speranza che qualcuno gli rispondesse: parlava per se stesso. Le paure mortali non esercitavano alcun potere sul cavaliere della Rosa Nera, eppure il silenzio lo spaventava quanto la morte terrorizzava la maggior parte degli esseri viventi. Era nel silenzio che Soth si sentiva scivolare nell'oblio, sentiva di perdere la memoria e di non provare più quella sofferenza che gli ricordava di esistere. Negli ultimi trecentocinquant'anni le banshee aveva riempito Dargaard Keep con i loro lamenti. Ora si ritrovava circondato dal silenzio, totalmente solo, strappato da Krynn. Prese in considerazione la possibilità di ricorrere alla magia per sfuggire alla nebbia. Aveva a disposizione alcuni incantesimi e molti poteri sovrannaturali assicuratigli dal suo stato di non-morto; per esempio, poteva muoversi da un'ombra all'altra a suo piacimento. Ma in quella nebbia non c'erano ombre e Soth sapeva che tentare qualsiasi altra magia, quando non conosceva esattamente ciò che lo circondava, sarebbe stata una pazzia. «Se non ti decidi a mostrarti, esplorerò il tuo regno e troverò la via d'uscita.» Detto ciò, si incamminò a passo di marcia. Per tenere la mente occupata, iniziò a contare i passi. Ma un'occupazione così noiosa non poteva certo
sopperire alla mancanza di suoni, di odori e di visibilità nella nebbia. Presto il torpore ebbe la meglio su Soth, indebolendo la forza di volontà che lo spingeva ad andare avanti. Fermatosi, estrasse la spada dal fodero, ma invece del sibilo del metallo, gli giunse alle orecchie un suono sordo. «Non mi spezzerai!» gridò, sollevando la spada. «Chiunque tu sia, fatti avanti!» Improvvisamente, si accorse di riuscire a vedere l'arma che teneva sollevata innanzi a lui, di riuscire a scorgerne la lama affilata e macchiata di sangue ormai scuro. La nebbia iniziava a diradarsi. Guardandosi intorno, scorse una sagoma. Inizialmente, gli apparve come un'ombra indistinta, ma presto si rivelò come un grande albero spoglio. I rami avvizziti erano contorti e nodosi e si protendevano nella nebbia come la mano di un avaro si allunga su un mucchio di monete d'oro. La collinetta sulla quale si trovava il cavaliere della morte apparve dopo pochi istanti. Erbacce infestanti cercavano di aprirsi un varco nel terreno pietroso. Piccoli cespugli e piante rachitiche si ammassavano lontano dall'albero sulla vetta della collina. Vicino a grovigli di ligustri dai fiori bianchi e scarne belladonna, turbini di nebbia coprivano ancora il suolo roccioso. «Sono lontano da Dargaard», sussurrò Soth. Il resto del paesaggio si offrì ai suoi occhi appena la nebbia si diradò completamente. Il non-morto si trovava su una collinetta circondata da una folta foresta. A sud, un fiume gonfio d'acqua serpeggiava fra gli alberi. Montagne dalle cime incappucciate di neve svettavano in lontananza. Mentre Soth si guardava intorno, il sole toccò l'orizzonte a ovest, accendendolo con mille tonalità di rosso, oro e porpora. Dopo la monotonia della nebbia, il cavaliere restò impietrito ad ammirare la natura circostante. Il cinguettio degli uccelli che annunciavano la fine della giornata, il profumo pungente dei cespugli in fiore e la carezza della brezza serale che muoveva gli alberi stimolarono i sensi assopiti del cavaliere della morte. Per chi da tempo assaporava il mondo solo come cenere, quell'improvvisa esplosione di stimoli sensori era sconvolgente. Soth riportò la propria attenzione all'albero sulla cresta della collina. Ciò che vide lo rese temporaneamente cieco alle bellezze e sordo ai suoni che lo circondavano. Sotto l'albero nodoso, in piedi sul terreno pietroso, c'era il suo siniscalco, Caradoc. Lo spettro era chiaramente stordito. Attraverso occhi senza pupille, fis-
sava il mondo intorno a sé. I brandelli di nebbia aggrappati ai vestiti del siniscalco li facevano apparire ancora più laceri di quanto fossero in realtà. Soth sogghignò, soddisfatto. «Il signore tanar'ri ti ha tradito», disse, puntando la punta della spada contro Caradoc. Il siniscalco restò immobile, come in trance. Gli occhi erano roteati all'indietro, le labbra tremanti. Non sollevò le mani per difendersi. Anzi, si comportò come se non vedesse affatto Lord Soth. «Ti spezzerò braccia e gambe prima di rispedirti a Chemosh», minacciò il cavaliere della morte avvicinandosi. «Implorerai pietà, implorerai per rivelare il luogo in cui è nascosta l'anima di Kitiara.» Soth fece un altro passo verso lo spettro, poi si fermò. Era a pochi palmi di distanza da Caradoc, eppure il siniscalco continuava a indugiare sotto l'albero. Ma ora, il cavaliere della morte era sufficientemente vicino per udire le parole sussurrate dal suo servo. «Il vuoto», mormorò Caradoc. «Morte per i non-morti. Nulla. Il vuoto!» Il viaggio nelle nebbie lo ha sconvolto, pensò Soth. Guardò il sole calante e si rivolse a esso. «Signore Tanar'ri! Quest'insetto è spezzato. Qualsiasi patto tu abbia fatto con lui è ormai nullo.» Osservò cielo e terra alla ricerca di un segno della presenza del mostro. «Dammi il medaglione contenente l'anima della donna umana, trasportami nel mio castello su Krynn e considererò risolta la faccenda. In caso contrario, ti darò la caccia per l'eternità. L'anima di Kitiara è mia!» «Kitiara?» borbottò Caradoc. «"Recuperala dall'Abisso", mi ha ordinato e così ho fatto.» In preda a un'ira furibonda, il cavaliere della morte afferrò il braccio dello spettro e lo scosse selvaggiamente. «Sì, Caradoc, l'hai recuperata. A che signore tanar'ri l'hai ceduta? Dov'è Kitiara?» Una scintilla di consapevolezza illuminò gli occhi vuoti del siniscalco. «Signore tanar'ri?» ripeté, confuso. Rabbrividendo, si liberò dalla stretta di Soth. Uno sguardo terrorizzato aveva sostituito quello disorientato e lo spettro teneva le braccia stese innanzi a sé. «Basta, mio signore. Ho visto il vuoto che attende i non-morti banditi dal mondo mortale. Mi avete torturato a sufficienza.» «Allora dimmi dove si trova Kitiara», insistette il cavaliere della morte. Infuriato, colpì con forza l'albero, dal cui tronco fuoriuscì un liquido nero e purulento. Prima che Soth potesse afferrare nuovamente il siniscalco, un lamento spezzò il silenzio. Era un suono cavernoso, come la voce di Lord Soth, ma crepitò come
l'ululato del vento che soffia via le foglie morte. Soth e Caradoc fissarono l'albero nodoso. Il taglio che il cavaliere della morte aveva aperto nel legno si era trasformato in una bocca. Un liquido denso e nero stillava ancora dal buco ma ora, prima di scivolare sul tronco, passava sopra contorte zanne di legno. Il gemito divenne più forte e risuonò sulla collina e la foresta ombrosa. Soth colpì l'albero per farlo tacere. La spada aprì un altro taglio e una seconda bocca iniziò a gemere e a stillare un liquido nero. Due voci cavernose riempirono l'aria con i loro lamenti di dolore. «Solo nell'Abisso», ringhiò Soth allontanandosi dall'albero. «Creature come questa vivono solo nell'Abisso.» Il cavaliere della morte lasciò cadere la spada. Con movimento lento e rigido, allungò una mano davanti a sé. L'incantesimo che pronunciò fu breve e l'effetto immediato. Un puntino di luce azzurra apparve sull'albero gemente, vicino alle bocche ferite. Sottili raggi luminosi s'irradiarono dal puntino, si avvolsero intorno al tronco e alle fauci dai lunghi denti. Un delicato merletto di sorprendente forza coprì ben presto tutto l'albero, trasformandosi in una coperta di luce, che riempì le bocche, soffocandone le grida. Il liquido nero congelò in rivoli che dalle ferite scendevano verso le radici dell'albero nodoso. Con la stessa forza micidiale che aveva spezzato il collo di Caradoc, Soth serrò a pugno la mano stesa. La coperta di luce si strinse intorno all'albero. Un gemito acuto risuonò non appena le prime fenditure si aprirono nel tronco e dopo pochi secondi, l'albero esplose in migliaia di schegge di legno. Un ceppo fu tutto quello che restò dell'albero. Un liquido scuro pulsò e ribollì dal troncone per qualche istante, poi cessò. Alcuni secondi di silenzio seguirono la distruzione dell'albero, poi, un rauco ululato risuonò nella foresta. Il grido basso e gutturale simulò il gemito di dolore dell'albero distrutto. A occidente, dove il sole era ormai tramontato dietro le montagne, creature nascoste nella foresta crepuscolare risposero con altri ululati. Caradoc non si era più mosso da quando le misteriose bocche avevano iniziato a gridare. Frammenti dell'albero giacevano ai suoi piedi. Alcuni pezzi erano inondati da una luce azzurra; altri, provenienti dall'interno del tronco, erano ricoperti dal liquido scuro. Quando altri ululati risuonarono da sud e nord, lo spettro sollevò bruscamente lo sguardo. «Padrone, torniamo a Dargaard Keep», disse. «Ho
visto abbastanza di questo luogo.» «Come? Hai paura del tuo alleato tanar'ri?», domandò Soth in tono ironico. «Non dovresti sentirti minacciato qui, nel suo regno.» Un'espressione perplessa si dipinse sul volto dello spettro. Alleato tanar'ri? Soth crede ancora alla mia storia sul signore tanar'ri, si disse Caradoc. Poi, un altro pensiero si fece strada nella sua mente: il cavaliere magico non li aveva trasportati in quel luogo con la sua magia. Anche Soth era stato trascinato contro la sua volontà. Anche Soth era perduto. Un ringhio tuonò dagli abeti ai piedi della collina. Laggiù, nell'oscurità, un paio di fiammeggianti occhi rossi osservavano il cavaliere e il siniscalco. Caradoc intravide solo le orbite, ma Soth vide molto di più. Accucciato dietro un rovo, il cavaliere della morte scorse un lupo gigantesco dal pelo lungo e ispido. Soth non aveva mai visto una creatura simile di tali dimensioni. Quando lo sguardo del cavaliere incontrò quello dell'animale, quest'ultimo scoprì le zanne in un ringhio feroce. Il cavaliere interpretò quel gesto come un segno di disprezzo, non d'ira; un atteggiamento che sembrava indotto da un'intelligenza superiore a quella dell'animale. Una seconda fiera scivolò di soppiatto nella foresta e raggiunse l'altra dietro i rovi, accucciandosi e sollevando il muso in un ululato. In risposta al grido dell'animale, intorno alla collina si levarono rauchi ululati. Il cavaliere della morte assunse una posizione da combattimento, la spada sollevata innanzi a lui. Sapeva che, sebbene quelle creature avessero l'aspetto di grandi lupi, sotto quelle spoglie avrebbero potuto nascondersi esseri ben più pericolosi. Dopo tutto, anche l'albero nodoso all'inizio gli era sembrato terreno. «Fatevi avanti», li sfidò Soth. Una dozzina o anche più di occhi fiammeggianti scintillavano fra gli alberi intorno alla collina. «Se il vostro padrone vi ha ordinato di attaccare, fatevi sotto, cagnacci bastardi.» I lupi restarono ai piedi della collina. Alcuni si accucciarono. Altri cominciarono ad andare avanti e indietro. Di tanto in tanto, una delle fiere ululava alla notte e in lontananza, rispondevano grida simili. Poco dopo, un altro lupo si univa al branco in attesa. Soth studiò gli avversari. Non sembrava intendessero attaccarlo subito, ma allora che cosa volevano? Brandendo la spada, il cavaliere della morte scese di qualche passo la collina. I lupi più vicini si precipitarono a bloccargli il cammino, scoprendo i lunghi denti gialli. Soth fece un altro passo e le bestie si prepararono alla carica, ma non avanzarono sulla collina. Lasciata cadere la spada, il cavaliere restò immobile, allungando le orec-
chie per avvertire eventuali movimenti provenienti dalla foresta. «Possiedono una forma di intelligenza», osservò a voce alta, senza staccare gli occhi dalle mostruose creature. «Hanno ricevuto l'ordine di tenerci qui. Nel bosco si nasconde qualcos'altro. Sta arrivando.» Il cavaliere della morte si voltò verso l'albero abbattuto, convinto di vedere il siniscalco immobile, accanto al ceppo. «Caradoc?» Scrutò la collina e la linea d'alberi, ma dello spettro non c'era traccia. Il fruscio degli aghi di pino e un sinistro scricchiolio dei rami del sottobosco rivelarono una presenza fra gli alberi. Non può essere Caradoc, pensò Soth, poiché il suo corpo in questo piano è privo di sostanza. Una strana creatura emerse dal bosco e avanzò con passo goffo e pesante sulla collina. A prima vista sembrava un uomo vestito di stracci e protetto da pochi pezzi di un'armatura malandata. Un elmo arrugginito gli cascava sulla fronte, nascondendo quasi gli occhi. Il torace era coperto da una corazza vecchia e consunta e una sola gamba era difesa da gambiere. Si trascinava a piedi nudi sui ligustri spinosi come se indossasse raffinati stivali. Il puzzo di carne putrida raggiunse il cavaliere della morte prima che la flebile luce della luna rivelasse altri particolari della creatura. «Zombie», mormorò Soth fra sé e sé. Man mano che l'essere mostruoso si avvicinava, Soth cominciò a distinguerne alcune caratteristiche. La pelle era grigiastra e la carne, ricoperta da piaghe e vesciche, sembrava spalmata sul corpo come morbida argilla. Il fetore aumentò; Soth sapeva che avrebbe soffocato un mortale. Ma l'odore di pelle imputridita e di sangue stagnante non erano nuovi per il cavaliere della morte. Sebbene la sua carne non fosse mai realmente marcita, nel corso degli anni i suoi fedeli cavalieri si erano lentamente decomposti, invadendo Dargaard Keep con il tanfo nauseante della morte. «Vattene», ordinò Soth, sebbene il suo tono fosse più condiscendente che di comando. «Non hai niente contro di me. Vattene prima che sia obbligato a farti a pezzi.» Lo zombie non arrestò la sua avanzata sulla collina. Soth ripeté l'ordine. «Vattene. Subito.» Il mostro continuò la marcia. Soth era confuso. Aveva un certo controllo su tutte le forme inferiori di non-morti di Krynn; gli zombie erano masse di carne rianimate prive di raziocinio, ma a livello istintivo avevano sempre riconosciuto il potere del cavaliere della morte. Fino a quel giorno. Soth si piantò a gambe larghe, aspettando che l'essere dinoccolato fosse più vicino prima di colpirlo.
Un passo, poi un altro. La luna gli rivelò le fattezze dello zombie. Sotto l'elmo arrugginito, due cavità oscure riempivano i bulbi oculari e soltanto un minuscolo frammento di naso restava appeso al volto. Pelle cadaverica, butterata dai vermi, era tirata su zigomi e mento. Labbra e guance erano state strappate per svelare denti grandi e marci. Lentamente, meccanicamente, il non-morto si avvicinò, fino ad allungare le mani ossute, che terminavano con affilati artigli. La lama della spada di Soth tagliò silenziosamente l'aria. Il colpo fece perdere l'equilibrio allo zombie e il suo braccio sinistro cadde con un colpo sordo sulla dura terra. Con un grugnito, la creatura si raddrizzò e con l'altro braccio cercò di afferrare il cavaliere. Con tutta calma Soth roteò nuovamente la spada. Il braccio destro dello zombie seguì il sinistro, ma la creatura continuò ad avanzare verso l'uomo in armatura. La bocca spalancata, si sporse in avanti per utilizzare l'unica arma rimastagli: i denti gialli e affilati. Imprecando, il cavaliere della morte colpì la creatura al volto con il pesante pomolo della spada. Lo zombie barcollò, il cranio sfondato, il frammento di naso saltato via. Prima che potesse fare un altro passo, Soth abbassò nuovamente la spada su di lui. La testa decapitata del mostro roteò in aria per poi atterrare a faccia in su in un cespuglio spinoso. Senza testa e senza braccia, il corpo dello zombie vacillò, per poi crollare nel fango. Gocce di sangue stillarono dal collo, macchiando di rosso la corazza arrugginita. «Hai visto?» gridò Soth nell'oscurità indicando il cadavere. «Ho superato la tua prova!» In risposta al suo sfogo, i lupi intorno alla collina levarono le loro voci nella notte. Gli ululati risuonarono nella foresta. Il fruscio di altre creature che avanzavano fra gli alberi emerse non appena le fiere tacquero. Sei zombie, ricoperti di stracci e armature come il primo, si trascinarono sulla collina. «Bah!» esclamò Soth, disgustato. «Uno, sei o seicento che differenza fa? Ucciderò questi esseri come capretti prima di un banchetto.» Quando fece un passo avanti, tuttavia, si accorse di muoversi con difficoltà. Si sentiva improvvisamente impacciato. Abbassò lo sguardo e là, avvinghiata alla caviglia destra, vide una delle braccia mozzate dello zombie. Anche se staccato dal resto del corpo, l'arto teneva Soth saldamente, bloccandolo sul posto. L'altro braccio dello zombie si trascinava sul terreno e mentre si avvicinava, le sue dita assumevano sempre l'aspetto delle zampe di un ragno.
«Che diavoleria è mai questa?» esclamò il cavaliere della morte. Guardò la testa decapitata caduta tra gli arbusti. La bocca si apriva e chiudeva come per masticare l'aria e le spine dei rovi scavavano lunghi e profondi solchi nelle guance, mentre la testa si girava da una parte all'altra. L'orrendo spettacolo distrasse il cavaliere per pochi istanti. Quando alzò nuovamente lo sguardo, i sei zombie lo avevano quasi raggiunto. Soth non sollevò subito la spada, ma puntando un dito contro i mostri, pronunciò una parola magica. Una fiammella spuntò all'improvviso dalla punta del suo dito per poi sfrecciare verso lo zombie a capo del gruppo. La palla infuocata si gonfiò rapidamente, lasciando dietro di sé una scia di fuoco e fumo. I sei mostruosi esseri non fecero niente per evitare il proiettile, come se si rendessero conto di essere ormai condannati. La palla di fuoco colpì il bersaglio. Intrappolata fra le fiamme, la prima creatura crollò a terra ridotta a poco più che un guscio annerito. L'attacco mortale non lasciò indenni le altre creature. All'improvviso, il cadavere in fiamme esplose, travolgendo sotto una pioggia di fuoco i cinque zombie. Altri tre mostri bruciarono, nascondendo il versante della collina sotto il fumo che si alzava dai loro corpi. Dei due esseri ancora in piedi, uno non aveva l'armatura. Portava una lunga veste simile a quella che su Krynn indossavano sacerdoti o monaci. Il cavaliere della morte lo uccise per primo. Sollevò la spada e stringendola con entrambe le mani, l'abbassò con violenza. La lama penetrò nella spalla dello zombie per poi scivolare verso il basso, tagliando le ossa e la pelle avvizzita, prima di uscire dall'anca dall'altra parte del corpo. Lo zombie fece un altro passo prima che il suo corpo si aprisse in due. L'ululato dei lupi risuonò ancora una volta, mentre l'ultimo mostro si fermava fuori dalla portata della spada di Soth. Lo zombie non indossava l'elmo ma il resto del corpo era protetto da una vecchia armatura. Sulla corazza era dipinto un corvo, le ali spiegate in volo. Lunghe ciocche di capelli biondi gli ricadevano dallo scalpo imputridito e buona parte del suo volto era ricoperto da pelle, conferendogli un aspetto più umano dei suoi compagni. Soth, ancora bloccato dai due monconi di braccia, sollevò la spada in atteggiamento difensivo. Ma l'attacco non ci fu. I lupi ulularono nuovamente, lo zombie si voltò e si trascinò giù per la collina. Passando accanto ai suoi simili, l'essere ripeteva un'unica parola: «Strahd». Lo zombie scomparve nella foresta. Anche i lupi svanirono uno dopo
l'altro, fino a quando ne restò uno soltanto. La bestia fissava il cavaliere della morte e i focherelli sul fianco della collina riempivano i suoi occhi di una luce malvagia. Lo sguardo di Soth incontrò quello feroce della fiera. Infine, il lupo si voltò e si allontanò. Mentre colpiva ripetutamente le mani chiuse intorno alle sue caviglie, Soth udiva i latrati dei lupi svanire a ovest. Il cavaliere della morte sapeva che quei versi erano rivolti a lui. «Seguici», dicevano. Soth buttò le membra contorte su una pira e attizzò il fuoco con pezzi dell'albero esploso. Dalla fiammata si levò un fumo ancora più denso e acre. Qualche stella brillava nel cielo nero, ma la loro posizione sembrava casuale. Soth non riconobbe la Regina Scura, il Guerriero Intrepido, le costellazioni che definivano la volta celeste di Krynn. Anche la luna rossa e quella nera erano scomparse. Rimaneva soltanto una sfera gibbosa dalla luce brillante. «Sono lontano da Krynn», mormorò Soth. E aggiunse: «Ma non ci tornerò fino a quando non avrò trovato Caradoc e non avrò scoperto dove ha nascosto l'anima di Kitiara». A occidente, il gutturale ululato di un lupo spezzò il silenzio. Il cavaliere della morte inguainò la spada. «Portatemi da questo "Strahd". Il vostro padrone potrebbe essermi di aiuto per trovare il mio servo ribelle», sussurrò. Mani ossute e segnate dagli anni accarezzarono la sfera di cristallo con la delicatezza di un amante. Sotto quel sapiente tocco, il vetro immacolato emise bagliori di luce. L'antico manufatto non avrebbe rivelato nulla a occhi inesperti, ma alle dite deformate che tessevano motivi intricati su di essa la sfera di cristallo aveva molto da dire. «Hmm», mormorò l'anziano mistico, pensieroso. Chiuse gli occhi ciechi e sfregò il globo con insistenza. La luce proveniente dalla sfera aumentò d'intensità, gettando ombre sinistre sul volto rugoso. L'anziano tolse bruscamente le mani dalla sfera, come se si fosse scottato. Con movimenti convulsi, cercò di prendere la pergamena e la penna d'oca che giacevano lì accanto. Abbassò gli occhi senza vista, bianchi come la sfera di cristallo, e iniziò a scrivere. Le linee vagarono sulla carta, alcune frasi intersecandosi con altre, alcune avvolgendosi in circolo ai lati della pergamena. Ma la mano del mistico non si sollevò nemmeno un istante dal foglio ingiallito, e per chi era abitu-
ato ai suoi scarabocchi il messaggio era più che leggibile. Quando l'uomo ebbe terminato di scrivere, ondeggiò un istante, quindi abbassò il capo sul tavolo. «Vediamo che cosa hai scoperto», disse una voce sommessa dall'altra parte della stanza. Bastò una parola magica e una mezza dozzina di candele si accesero. Una mano snella coperta da un guanto di pelle sollevò il candelabro. La luce calda della cera si diffuse sul pavimento di pietra e raggiunse il tavolo dove sedeva il mistico, esausto. Colui che aveva parlato raggiunse l'uomo e con delicatezza prese la pergamena. Due sono arrivati, diceva il messaggio, uno di grande potere, entrambi di grande utilità. I peccati di antiche offese mai perdonate li hanno portati nel tuo giardino, sebbene non conoscano i Poteri Oscuri, né il luogo in cui sono stati trascinati. Cane per la caccia al cinghiale e cinghiale, padrone e servitore; non sperare di infrangere il loro modello, ma onoralo. L'uomo posò il candelabro sul tavolo, il foglio sollevato innanzi a sé. L'espressione nei suoi occhi era distante, assente e le labbra erano piegate in una smorfia di preoccupazione. Gli abiti scuri e il lungo mantello nero inghiottivano la luce che li colpiva, ma la grande pietra rossa, che l'uomo portava appesa a una catena d'oro al collo, rifletteva perfettamente il chiarore delle candele. Una mano posata sulla guancia, l'uomo restò immobile, perso nei propri pensieri. Infine, abbassò il foglio e scompigliò affettuosamente i candidi capelli dell'anziano. «È un peccato che le tue visioni non ti offrano messaggi più chiari, Voldra», disse il conte Strahd von Zarovich, sebbene sapesse che il mistico non poteva sentirlo. Oltre che cieco, il poveretto era anche sordo. «In occasioni come questa giungo quasi a pentirmi di averti strappato la lingua. Ma purtroppo, non avevo altra scelta. Non potevo correre il rischio che rivelassi i miei segreti nel caso fossi fuggito, non ti pare?» Il conte accartocciò la pergamena e la gettò nel camino spento. Per magia, la carta prese fuoco. «Cane per la caccia al cinghiale e cinghiale», ripeté Strahd mentre apriva un pannello nascosto nel muro di pietra. Nella minuscola nicchia posò la penna, l'inchiostro e la sfera di cristallo. «Interessante.» Il mistico si mosse e allungò le mani verso il globo. «Oh», si lamentò nello scoprire il tavolo vuoto. La sfera offriva a Voldra, cieco e sordo dalla nascita, la possibilità di mantenere i contatti con il mondo. Ma gli offriva anche altri doni. Il mistico non aveva mai imparato a scrivere; nel villaggio di contadini dove ave-
va trascorso buona parte della sua vita, simili capacità non erano mai state necessarie. La sfera di cristallo gli consentiva di unire la penna alla carta e di creare frasi con un significato compiuto anche se, a volte, oscuro. I lamenti soffocati e incomprensibili del suo prigioniero lasciarono Strahd indifferente. L'uomo raggiunse la porta di ferro e lasciò la cella. Forse i due sconosciuti potrebbero essermi utili, pensò. Aveva infatti intuito che uno dei due era potente ancor prima di leggere il messaggio di Voldra; nessun essere dotato di forza di volontà o di magia entrava nel ducato all'insaputa di Strahd. Il conte sapeva che gli zombie, che aveva mandato per mettere alla prova la forza dei nuovi arrivati, erano stati distrutti. Sapeva anche che il più debole dei due sconosciuti era fuggito nella foresta prima dell'inizio della battaglia. I lupi lo stavano seguendo, spingendolo verso il castello. Con l'altro, le cose sarebbero state più difficili. Il solo pensiero eccitava Strahd; era trascorso molto tempo da quando aveva dovuto affrontare un rivale degno della sua mente perfida e astuta. Aveva bisogno di maggiori informazioni, decise, mentre con passo veloce e aggraziato percorreva il corridoio buio su cui si aprivano le celle. 4 Il malinconico lamento di un violino riempì la radura e si intrecciò alla luce della luna nella foresta. Il musicista impegnato a suonare quella triste melodia batteva il piede a tempo con il suo archetto. Vicino a lui, due dozzine di uomini, donne e bambini sedevano intorno a un fuoco. La piccola folla dondolava seguendo il ritmo, come cobra ipnotizzati dal flauto di un incantatore di serpenti. Sette carrozzoni, decorati con motivi dai colori brillanti e variopinti, erano disposti a semicerchio intorno al campo. La fascia multicolore legata intorno alla testa e la fusciacca delle stesse tonalità che il giovane musicista portava alla vita ben si armonizzavano con gli sgargianti carri, in netto contrasto con i pantaloni neri e la camicia bianca slacciata al collo. All'avvicinarsi della conclusione del brano, il musicista aumentò il ritmo. Suonò le ultime note con audacia, sprezzante del tono malinconico del pezzo. Tre note pizzicate terminarono il pezzo. Poi, nel campo scese il silenzio, rotto soltanto dal crepitio del fuoco. Il giovane non si aspettava l'applauso, poiché il pubblico era costituito da nipoti, cugini e nonni. Il loro riflessivo silenzio fece capire ad Andari che la sua musica li aveva
commossi e un simile risultato era gratificante quanto le monete con le quali gli sconosciuti premiavano le sue esibizioni. Il giovane avvolse il violino in un pesante panno ricamato, rubato il giorno precedente in un villaggio nelle vicinanze. Prestava sempre particolare attenzione al suo strumento. Era passato di padre in figlio per cinque generazioni e intendeva donarlo al suo primogenito quando le sue mani sarebbero divenute troppo rigide per suonare. «No! Lasciami!» Andari sussultò e il prezioso strumento gli scivolò di mano. Se il violino non fosse stato protetto dal panno, la pietra sulla quale cadde avrebbe potuto aprire un buco profondo nella delicata struttura di legno. Una piccola scheggiatura fu l'unico danno riportato dallo strumento, ma fu sufficiente per fare infuriare il giovane. «Magda!» gridò, stringendo fra le braccia il violino ferito come se fosse stato un bambino. Il suono di vetri infranti echeggiò da uno dei carrozzoni. «Vattene!» Un oggetto pesante colpì con un tonfo la parete del carro e la porta si spalancò. «Tornatene dalla tua grassa moglie!» Una giovane donna, illuminata dalla luce di una lanterna, apparve sull'uscio. I capelli corvini le ricadevano in riccioli scomposti oltre la spalla e lei allontanò un ciuffo ribelle con un brusco movimento della testa. Alti zigomi le conferivano un'espressione dura, nonostante le labbra piene e carnose e gli invitanti occhi verdi. Lanciò un'occhiata furibonda dietro di sé, raccolse la lunga gonna in una mano, scoprendo gambe snelle e ben modellate, e saltò i tre gradini di legno con la grazia di una danzatrice. «Accidenti a te, Magda», imprecò Andari, raggiungendo la donna. Con una mano stringeva il violino al petto e con l'altra afferrò Magda per la spalla. «Guarda cos'hai combinato! Le tue grida mi hanno fatto cadere il violino!» Un uomo basso e pelato si affacciò dal carrozzone. Il volto era pallido e gocce di sudore gli scendevano dalla fronte colandogli negli occhi piccoli e luccicanti. Con una scrollata di spalle, si raddrizzò la camicia. Mentre si allacciava i costosi bottoni d'argento, disse: «Non è per me, Andari, non ci tengo a essere ucciso nel sonno». Il giovane musicista scosse la donna con violenza. «Non ti avevo detto di essere gentile con lui?» Magda assestò un ceffone sul volto del fratello. Gli uomini e le donne presenti non li degnarono di uno sguardo e si allontanarono dal fuoco, di-
rigendosi verso i loro carrozzoni. Non era la prima volta che assistevano a scene simili fra Andari e la sorella; non c'era bisogno di intervenire. «Non puoi obbligarmi ad andare a letto con un simile zoticone, nemmeno per denaro», ribatté Magda in tono irato. La camicia perfettamente allacciata sull'addome prominente, l'uomo calvo uscì dal carro. «Avrei pagato profumatamente per una sgualdrinella avvenente come te», ammise. «Per avermi colpito con quel vaso dovrei farti frustrare. Sei fortunata che io sia un tipo bonario.» Andari sorrise ossequiosamente. «Certamente, Herr Grest», replicò in tono servile. «Ma state tranquillo. Faremo in modo che Magda venga punita per il suo comportamento.» «Come volete», rispose l'ometto in tono distratto. Spogliò con gli occhi la bellissima fanciulla. La rabbia inondò il volto abbronzato della ragazza e gli occhi verdi mandarono scintille. Anche dopo essere stato insultato, il boiaro trovava quei grandi occhi affascinanti. Un uomo avrebbe potuto annegarcisi... Grest scosse la testa. «Avrei fatto di te una donna ricca.» Detto ciò, sospirò e si rivolse ad Andari. «Il mio cavallo, ragazzo. Devo tornare al villaggio immediatamente.» Il sorriso ipocrita del musicista svanì. «Siete sicuro di non volere conoscere il vostro futuro, Herr Grest? O forse preferireste la compagnia di una delle mie cugine?» Fissò il portafoglio fissato alla cintura dell'uomo; raramente il clan permetteva agli estranei, definiti giorgio, di entrare nell'accampamento. Lasciarsene sfuggire uno con il portafoglio pieno sarebbe stato un vero peccato. «Prendimi il cavallo», ordinò Herr Grest in tono asciutto. Spostò lo sguardo sulla foresta. «Sono un pazzo a viaggiare di notte... ma pensavo che ne sarebbe valsa la pena.» «Vai a prendere il cavallo del signore», scattò bruscamente Magda. Andari si irrigidì, pronto a colpire la sorella. La fanciulla lasciò scivolare la mano alla fusciacca che le cingeva la vita e il fratello si fermò; sapeva per esperienza che lei teneva nascosto un pugnale. «Mia sorella non ha ancora capito come va il mondo», osservò il ragazzo, voltandosi per recuperare il cavallo del boiaro. Si sfregò una lunga cicatrice bianca sul dorso della mano. «Non pensate che tutti i Vistani siano così ingenui.» Il musicista corse al proprio carrozzone, depose il violino sui gradini e scomparve dietro i carri. Un silenzio imbarazzante scese fra Magda e Grest, poi la giovane sorri-
se. «Forse, dopo tutto, c'è qualcosa che posso offrirvi», disse timidamente. La zingara raggiunse il carrozzone di famiglia e stando ben attenta a non sfiorare il violino di Andari, afferrò una piccola bisaccia di tela abbandonata vicino all'ingresso. Il contenuto della sacca tintinnò mentre tornava dal giorgio. «Ci sono metodi astuti per rendervi irresistibile agli occhi delle fanciulle», mormorò Magda, estraendo una bustina dalla sacca. «Versate un pizzico di questo nel vino di una donna e lei cadrà ai vostri piedi. Naturalmente, non funziona su noi Vistani.» Herr Grest osservò il piccolo involucro. «Stupidaggini», brontolò. «I filtri d'amore sono per quelli troppo vecchi o brutti per avere la donna che vogliono.» Con un sorrisetto furbo, Magda lasciò cadere la bustina nella sacca. Meglio che non lo compri, pensò. Grest è il tipo che darebbe la caccia all'intero clan se scoprisse che il filtro non è altro che polvere d'ossa. «Forse allora questo amuleto potrebbe fare al caso vostro, Herr Grest. Siete un uomo coraggioso per attraversare Barovia dopo il tramonto, ma anche il più audace farebbe meglio a portare uno di questi.» Sollevò un cordoncino di cuoio e il talismano d'argento brillò alla luce del fuoco. Sulla goccia luminosa era inciso un occhio, socchiuso e dall'espressione malvagia. «Vi proteggerà dagli esseri oscuri che popolano questi boschi di notte.» Magda abbassò la voce a un lieve sussurro. «Zombie, lupi mannari, persino i vampiri non possono vedervi quando indossate questo.» Dal modo in cui gli occhi rotondi di Grest si fissarono sull'amuleto d'argento, Magda capì che la vendita era quasi sicura. «Quanto vuoi?» domandò il giorgio, portando la mano al portafoglio. «Trenta monete d'oro.» «Scordatele», ribatté Grest. «Quindici al massimo.» Magda scosse la testa, facendo danzare i lunghi capelli corvini. Il talismano aveva qualche potere, anche se lei ne stava esagerando l'efficacia. «Ve lo offro a questo prezzo solo per scusarmi per il mio comportamento. Se però non volete pagare per il suo valore, allora...» «E trenta siano, ciarlatana.» Mentre la vendita veniva conclusa, Andari tornò con il cavallo, sellato e pronto per partire. Grest strappò l'amuleto dalla mano di Magda e dopo avere lasciato cadere nel fango due manciate di monete d'oro, montò a cavallo. «Avrei pagato due volte tanto per una notte con te», disse alla
splendida fanciulla, mentre girava il cavallo e si avviava lungo lo stretto sentiero che conduceva nella foresta. Raggiunto il limitare del bosco, l'animale indietreggiò innervosito, riluttante ad abbandonare la sicurezza del campo. L'uomo speronò i fianchi della bestia. «Muoviti, bastardo. Vai», lo incitò con voce furibonda. Il cavallo fissò gli arbusti al di là della radura, gli occhi spalancati per la paura. Grest gli conficcò nuovamente gli speroni nei fianchi. Dopo avere scalciato un paio di volte, l'animale riprese ad avanzare. Una figura, più scura dell'oscurità in cui era nascosta, si mosse appena. Il cavaliere della morte si volse nuovamente verso l'accampamento Vistani, ricominciando a osservarlo. Per ore, aveva seguito i lupi nella foresta, oltre ruscelli dalle acque scure e attraverso rovi intricati quanto la mente di un folle. Alcune miglia prima, le bestie feroci avevano cessato di ululare e i loro versi erano stati sostituiti dalle note di una melodia lontana. Soth aveva seguito quel suono fino a quando era giunto al piccolo accampamento. Inizialmente aveva creduto che gli zingari riuniti intorno al fuoco fossero un'illusione o le spoglie umane dei ripugnanti abitanti dell'Abisso. Ma dopo avere trascorso diverse ore a spiare quegli uomini e quelle donne aveva scartato quella prima ipotesi; quelli sembravano semplici esseri umani. Ora aspettava che qualcuno si rivelasse come il capo di quel clan di straccioni; chissà, forse era proprio quello "Strahd" di cui aveva parlato lo zombie. Il giovane di nome Andari aveva chiaramente una certa autorità sugli altri del gruppo, ma nessuno sembrava temerlo. No, non era lui a tenere unito il clan. Ignaro di quegli occhi fiammeggianti che lo spiavano, Andari continuò a sgridare la sorella. «Non vuoi rubare. Non vuoi ballare per gli sconosciuti. Le tue storie non servono al clan.» Il giovane sferrò un calcio alla sorella, facendola cadere. «Ti è andata bene che Grest ha comperato l'amuleto, altrimenti questa notte avresti dormito nel bosco.» «Non spetta a te decidere il destino di Magda.» Il giovane si voltò di scatto verso l'anziana donna dal volto raggrinzito che aveva pronunciato quelle parole. «Madame Girarti», mormorò, mentre le guance gli si imporporavano per l'imbarazzo. «Non ho l'ardire di parlare per voi, ma Magda...» «Bada alle mie parole, non alle tue.» Madame Girarti posò su Andari uno sguardo gelido e gli occhi azzurri della donna succhiarono il calore dall'anima del giovane. Intimorito, il ragazzo porse la mano alla sorella.
«Molto bene», commentò l'anziana Vistari, mentre Magda si alzava e si toglieva la polvere dalla gonna. «Allora, qual è il problema?» La giovane gitana si avvicinò all'anziana e le appoggiò delicatamente una mano sulla spalla. «Andari voleva che mi vendessi a un ricco boiaro del villaggio. Quando ho rifiutato, mi ha lasciato da sola nel carrozzone con quel maiale. Ho dovuto rompergli in testa un vaso di cristallo per convincerlo a lasciarmi perdere.» Madame Girani sospirò e strinse con maggior vigore il nodoso bastone da passeggio. «Te l'ho già detto altre volte, Andari. Ho dei progetti per tua sorella. Il clan è sufficientemente grande per mantenere un cantastorie e voglio che Magda rivesta quel ruolo.» «Pensavo solo di guadagnare qualche moneta in più per il clan togliendola al gonfio portafoglio di un giorgio», replicò il giovane, inginocchiandosi e raccogliendo alcune delle monete sparse per terra. «Questo è per te.» L'anziana Vistani non ribatté. Fissò invece l'uomo in armatura apparso improvvisamente al limitare della radura. Quando lo sconosciuto si fu avvicinato, il fuoco lo svelò come un cavaliere in antica armatura. Le battaglie avevano segnato la delicata decorazione sulla corazza, annerita anche dal fumo di qualche incendio. Eppure, quegli sfregi non riuscivano a celare completamente la trascorsa bellezza dell'armatura. Un lungo mantello color porpora ondeggiava pesantemente dalle spalle dello straniero. Un ciuffo di piume nere sovrastava l'elmo, vecchio e carbonizzato come il resto dell'armatura. Dell'uomo erano visibili soltanto gli occhi sotto la cotta di maglia. Il cavaliere avanzò nell'accampamento con la tracotanza di un ricco boiaro, e il passo lento e sicuro come l'avanzata inarrestabile dell'inverno. «Benvenuto», lo salutò Madame Girani. «Questo è l'accampamento del mio clan in cui vi offro rifugio.» Lord Soth accennò un inchino e posò una mano sul pomo della spada. «E io accetto l'offerta.» Andari fissò lo straniero con aria istupidita. Al suo fianco, Magda s'irrigidì nell'udire la voce cavernosa di Soth. Come tutti i Vistani, sapeva che le creature soprannaturali si avventuravano per i boschi di Barovia dopo il tramonto e quello poteva essere uno di quei mostri. Allungò la mano verso il pugnale dalla lama d'argento nascosto nella fusciacca che portava in vita. «È sotto la protezione del padrone», sussurrò Madame Girani, posando una mano ossuta sul braccio di Magda. La giovane si rilassò, sebbene i
suoi occhi non lasciarono il cavaliere per un solo istante. Le due donne erano l'immagine, distorta dall'età, l'una dell'altra. Entrambe indossavano lunghe e morbide gonne e bluse immacolate con maniche a sbuffo. Intorno alla vita portavano fusciacche colorate, ai polsi tintinnanti braccialetti e alle orecchie scintillanti anelli dorati. E anche se i capelli di Madame Girani erano ormai fili d'argento, il cavaliere della morte era sicuro che un tempo fossero stati scuri come i riccioli di Magda. Le similarità andavano al di là della somiglianza fisica. Negli occhi di entrambe le donne Vistani, Soth lesse determinazione e sprezzo della paura. Se Andari era chiaramente terrorizzato dal cavaliere della morte, Magda e Madame Girani sembravano accettarlo per ciò che era. Queste donne sanno molto, decise Soth, ma non sono pienamente affidabili. «La notte si sta facendo fredda», osservò Magda dopo qualche istante di silenzio. «Venite, scaldatevi accanto al fuoco.» Si mosse verso Soth, ma il cavaliere sollevò una mano per fermarla. «Non ho bisogno di scaldarmi. Voglio solo delle informazioni.» «Avrete ciò che volete», assicurò Madame Girani, voltandogli le spalle. Con passi volutamente lenti, si avviò verso una sedia posta accanto al fuoco ormai morente. «Andari, suonerai per il nostro ospite. E, se vorrà onorarci, Magda danzerà.» «Magda non balla mai per...» s'intromise Andari. «Con piacere», lo interruppe la sorella. «Vai a prendere il violino, fratello. Danzerò la storia di Kulchek il Vagabondo.» Sbigottito, il musicista prese lo strumento e lo accordò, accarezzandolo dolcemente nel punto in cui si era scheggiato poco prima. Magda aiutò Madame Girani a coprirsi le spalle con un piccolo scialle. Soth rimase sul bordo della radura. Quando Adari fu pronto per iniziare, l'anziana donna si rivolse al cavaliere. «Godetevi la danza e poi parleremo.» Il cavaliere della morte attraversò la radura e si mise accanto al fuoco, lontano da Madame Girani. Quando Magda gli indicò una sedia, l'uomo scosse la testa. «Sto bene qui», affermò in tono asciutto. La canzone scelta da Andari aveva un andamento lento, ma sembrò rapire Magda fin dalle prime note. Gli occhi chiusi, si dondolava al ritmo della musica, ondeggiando il corpo con una grazia nota solo agli elfi di Krynn. Le sue labbra si muovevano come se stesse parlando a un amante nascosto e Soth s'irrigidì, temendo un attacco. «Sta raccontando una parte della storia in accordo con la musica», spiegò rassicurante Madame Girani dall'altra parte del fuoco. «È una storia
lunga e non la conosce ancora tutta.» Il ritmo divenne più incalzante. Magda volteggiava su se stessa e intorno al fuoco. La lunga gonna ondeggiava e i braccialetti tintinnavano aggiungendo un altro tono a quello del violino. Involontariamente, il cavaliere della morte si lasciò rapire dalla danza della fanciulla. Secoli prima, quando era vivo, Soth aveva amato profondamente la musica e la danza. Certo, l'appassionato flamenco di Magda aveva poco a che fare con le danze solenni e formali alle quali era abituato, eppure il cavaliere si trovò a rimpiangere la vita mortale che gli era stata strappata a causa della maledizione. Il fuoco scintillava. Al centro, le fiamme assunsero la forma di un uomo. In una mano la figura infuocata teneva un bastone, nell'altra, un pugnale. Un cane di fumo era al suo fianco. Soth sguainò la spada prima che Madame Girani avesse la possibilità di spiegare: «Fa parte del racconto, un'ombra recita la parte per coloro che non desiderano guardare la danza». Magda continuò a piroettare, ignara dell'arma nella mano del cavaliere. Lo sguardo fisso sul fuoco, Soth vide l'uomo e il cane combattere contro un gigante di lingue infuocate. Fu allora che il cavaliere si accorse che l'ombra rifletteva la danza della donna. Quando Magda volteggiava più rapidamente, i combattenti scambiavano colpi furibondi; quando i movimenti della donna rallentavano, i contendenti giravano in cerchio scrutandosi attentamente. La magica atmosfera creata dalla grazia di Magda venne infranta quando la fanciulla danzò troppo vicino al cavaliere. Il freddo che emanava il corpo senza vita di Soth raggiunse la zingara, gelandola nel profondo. La donna non smise di danzare, ma per un istante perse il ritmo, incespicando nei propri passi. La magia era spezzata. Il fuoco inghiottì l'eroe e il suo cane. Fortunatamente, Andari smise di suonare proprio allora e Magda si precipitò accanto a Madame Girarti. Incantato dalla leggiadria della danzatrice, Soth non si era accorto che l'anziana donna lo aveva osservato attentamente per tutta la danza. «Buona notte, ragazzi», disse Madame Girani. I due fratelli restarono sorpresi dall'improvviso commiato, ma non discussero. Magda si inchinò a Lord Soth e sorrise il più graziosamente possibile, sebbene le si leggesse in viso la preoccupazione per l'anziana Vistani. Andari si affrettò verso il carrozzone, il prezioso violino fra le braccia. Quando se ne furono andati, Madame Girani si alzò e si diresse verso un carro a un'estremità del semicerchio. «Parleremo da un'altra parte», fu la
lapidaria spiegazione. Il carrozzone in cui entrò era il più grande dell'accampamento e l'anziana donna vi viveva da sola. Un letto singolo, poco più che un ammasso di coperte, era relegato in un angolo. Il resto della spazio era occupato da contenitori e bottigliette di ogni forma e dimensione, alcuni pieni di polveri, altri di liquidi. Pelli di animali pendevano dal soffitto, coprendo parte della luce di una lanterna appesa in mezzo a esse. Libri dalle copertine unte e le pagine consumate erano accatastati in un angolo. Tazze piene di dadi, ossa e altri piccoli oggetti erano seminate ovunque. Una gabbia dorata, sufficientemente grande per contenere un bambino, era sistemata accanto al letto della Vistani. Lo spazio fra le sbarre era stretto e le sbarre resistenti. Serpenti in argento s'intrecciavano alla base della gabbia, dove le teste di animali divenivano un tutt'uno con le sbarre. La parte superiore della gabbia era costituita da un grosso serpente avvolto su se stesso. Su Krynn, Soth aveva visto gabbie simili utilizzate per ospitare uccelli esotici. Ma la cosa imprigionata là dentro non aveva nulla di terreno. «Vedo che vi piace il mio animaletto», disse l'anziana donna. Prese il manico di una scopa e lo fece scorrere sulle sbarre. Il grido stridulo della creatura sembrava quello di un maiale, ma le parole che seguirono furono pronunciate in una lingua sconosciuta. L'essere afferrò le sbarre con le zampe, avvolgendole intorno al metallo come la coda di una scimmia intorno a un ramo e scuotendo le sbarre con sufficiente forza da fare muovere la gabbia. Piccole ali, ricoperte di piume come quelle di una colomba, sbatterono nella minuscola prigione, per poi richiudersi sul corpo squamoso. Il muso della bestiola era tondo e grasso, ma privo di naso e orecchie; aveva un unico occhio rosso e una bocca larga e bavosa. «Me lo ha donato un mago anni fa in cambio di alcune informazioni.» Madame Girani si strinse nelle spalle. «Non so ancora che cosa sia, ma di tanto in tanto parla nel sonno, e mormora incantesimi e parole magiche. Ho imparato la magia alla quale avete assistito questa notte, l'ombra che recita nel fuoco, ascoltando i suoi farneticamenti.» Fece scivolare nuovamente il bastone sulle sbarre e la creatura sputò una serie di parole dal suono terribile. Madame Girani sghignazzò divertita, quindi coprì la gabbia con una coperta. Le grida dell'animale continuarono ancora per qualche istante, poi nel carrozzone scese il silenzio. Al centro della casa viaggiante si trovavano un tavolino e due sedie.
Madame Girani zigzagò nel disordine, evitando i mucchi di abiti abbandonati sul pavimento. Si accomodò su un lato del tavolo e indicò l'altra sedia, di fronte a lei. «Vi dirò ciò che posso, Lord Soth di Dargaard Keep», mormorò. Il cavaliere della morte annuì, restando impassibile nell'udire il proprio nome. Entrando nell'accampamento, aveva evitato di proposito di presentarsi, ma era chiaro che in quella strana terra simili precauzioni erano inutili. «Forse vi sentirete a disagio vicino a me. Il gelo dell'aldilà non mi abbandona un istante.» L'anziana rise malinconicamente. «Il freddo della morte penetra nelle mie vecchie ossa a ogni alba e a ogni tramonto», affermò, incrociando le dita sul tavolo. «Ciò che vi circonda non può farmi niente che il tempo non abbia già fatto. Sedetevi, vi prego.» Soth accettò l'invito. «I lupi dei vostri boschi sono piuttosto grandi», osservò senza alcun preambolo. Madame Girani annuì. «I lupi sono niente in confronto alle altre infauste creature che si aggirano furtive nella foresta. Ma ben poco in questa terra può farvi del male, Lord Soth.» «E che terra è mai questa?» «Il ducato di Barovia.» «Barovia», ripeté Soth, pensoso. «Non l'ho mai sentito nominare. Si trova a Krynn? È forse un livello dell'Abisso?» «Sebbene abbia viaggiato molto con il mio clan, non conosco quei luoghi», ammise l'anziana Vistani. «Barovia è semplicemente... Barovia.» Il cavaliere della morte rifletté su quelle parole. Madame Girani sorrise e giocherellò con uno dei suoi braccialetti. «Le Nebbie vi hanno portato qui, vero?» domandò dopo qualche istante. «Sì. Un attimo prima ero nel mio castello su Krynn e un attimo dopo mi sono trovato circondato dalla nebbia. Quando si è diradata, ho scoperto di essere su una collina a poche miglia da qui.» «Eravate solo?» Sotto l'elmo, Soth aggrottò la fronte. «Sono solo ora. Vi basti sapere questo.» Madame Girani non si offese per il tono brusco. Il suo sorriso svanì, mentre si appoggiava allo schienale della sedia. «Ho promesso di rispondere a ciò che potevo, Lord Soth, ma sono una donna anziana e ho bisogno di riposo. C'è nient'altro che volete sapere?» «Chi controlla le Nebbie?»
«Non lo so», fu la risposta. «C'è chi dice che siano una forza irrazionale, che spinge le genti di altri paesi fino a Barovia. E chi sostiene che siano invece controllate da forze oscure.» «Forze oscure? E Strahd ne è forse il rappresentante?» La domanda sembrò sorprendere l'anziana Vistani, che tuttavia fece del suo meglio per mantenere un atteggiamento impassibile. «Dove avete sentito quel nome?» «Non sapete leggere nel pensiero?» domandò il cavaliere della morte. «Sapevate il mio nome anche se non ve lo avevo rivelato, allora perché non sapete rispondervi da sola?» Madame Girani si accigliò. «Mia nipote ha danzato per voi, l'ombra ha mimato la leggenda, per mostrarvi che siamo un popolo magico. È stato piuttosto facile scoprire il vostro nome.» Le braccia conserte, Soth ripeté la domanda. «Chi è Strahd?» «In questa terra, alcune informazioni costano a caro prezzo», rispose Madame Girani. Soth batté il pugno sul tavolo. Una ragnatela di crepe si aprì nel legno. «Non ho denaro e non ho niente da barattare.» «Ah, vi sbagliate», ribatté la donna. «Noi Vistani viaggiamo molto. Nel corso dei secoli la mia gente ha imparato che esiste una moneta universale: le informazioni.» Si alzò, prese uno dei libri consunti abbandonati nell'angolo e lo buttò sul tavolo. Si aprì spontaneamente. Due colonne di parole occupavano ciascuna pagina. «Questo è l'elenco dei veri nomi di tutti i maghi della terra di Cormyr, nomi magici che possono essere usati per controllare quegli uomini e quelle donne. Nessuno stregone di quel paese oserebbe fare del male a un Vistani del mio clan, perché potrei dare il suo vero nome a un nemico.» «Non vi trasmetterò mai una conoscenza che potrebbe danneggiarmi, vecchia», sbottò Soth sbattendo via il libro, che si chiuse con un tonfo sordo cadendo su un mucchio di piume. «Sarei una stupida se mi aspettassi che lo faceste, Lord Soth», affermò Girarti in tono sommesso. Si sedette. «Ma vi rendete conto che devo ricevere qualcosa in cambio per ciò che vi dirò.» «Che cosa volete sapere?» Il conte Strahd aveva inviato una serie di ordini confusi all'accampamento Vistani: scoprite ciò che potete sul cavaliere, ma non fatelo arrabbiare e non rivelate troppo su di me. Gli zingari servivano spesso Strahd ed erano
abili nello strappare informazioni a viaggiatori incauti. Ma quel cavaliere era tutto tranne che incauto, per questo Madame Girani doveva riflettere sulle risposte. «Ditemi ciò che volete. Parlatemi di un vostro atto eroico. Come siete diventato ciò che siete», rispose infine. «E io vi racconterò ciò che posso su Strahd.» Il cavaliere della morte cercò nella memoria una storia adatta, una storia che potesse soddisfare la Vistani, ma che non le dicesse niente che potesse essere usato contro di lui. «Nei tre secoli e mezzo che ho trascorso come non morto, ho dimenticato molti episodi interessanti della mia vita passata», iniziò. «Ma posso dirvi questo. Un tempo ero il più ardito fra tutti i Cavalieri di Solamnia, il più valoroso dell'Ordine della Rosa. Le mie gesta eroiche venivano cantate in tutta Krynn, dalle rive sacre dell'isola di Sancrist al tempio del Sommo Sacerdote di Istar. «La mia caduta fu lenta ed ebbe inizio il giorno in cui lasciai la mia casa alla volta di un Consiglio dei Cavalieri convocato nella città di Palanthas, la più bella città di tutta Krynn. Lungo il cammino, io e miei tredici fedeli cavalieri salvammo un gruppo di donne elfo attaccate da una banda di orchi.» Il ricordo s'impadronì di Soth e lo squallido carrozzone svanì ai suoi occhi. «Ero sposato», continuò, «ma l'innocente bellezza di Isolde, una delle fanciulle elfo, mi conquistò. Nel corso del lungo viaggio verso Palanthas, la sedussi. Avrebbe dovuto diventare Reverenda Figlia di Paladine, una sacerdotessa del più grande dio del Bene di tutta Krynn, ma io la corruppi!» Un'immagine guizzò nella mente di Soth: rivide Isolde, i biondi capelli sciolti, il viso radioso. Sebbene non potesse più avvertire l'eccitazione della passione, il cavaliere della morte venne travolto per un istante dal ricordo del desiderio. «Il mio legame con un'altra donna», sottolineò Soth, «non m'impedì di volere Isolde. Ero disposto a rinunciare a tutto per lei: alla mia condizione di cavaliere, alla mia posizione sociale... al mio onore». «Era importante, per voi, l'onore?» domandò Madame Girani spezzando l'onda dei ricordi del cavaliere. Irritato per essere stato interrotto, Soth rispose: «Est Sularus oth Mithas. Il mio onore è la mia vita. È questo il giuramento sacro a ogni Cavaliere di Solamnia». Fece una pausa. «Rinunciai al mio onore per Isolde», ammise. «Prima che raggiungessi Palanthas, feci recapitare i miei ordini al siniscal-
co rimasto al castello per curare le mie terre. Doveva uccidere mia moglie, tagliarle la gola nel sonno e gettare il suo corpo in un burrone non lontano dal maniero. L'ordine venne eseguito. Pensai di avere risolto tutti i miei problemi ma a Palanthas, Isolde si ammalò. Portava in grembo mio figlio.» Agitando la mano per accantonare la questione, Soth concluse rapidamente. «Le donne elfo rivelarono il mio crimine al Consiglio dei Cavalieri e venni condannato come adultero e assassino.» Detto ciò, si piegò minacciosamente in avanti, ma l'anziana non arretrò. «Adesso ditemi, chi è Strahd?» le domandò Soth. «Il conte Strahd von Zarovich è il signore di Barovia», rispose Madame Girani senza alcuna esitazione. «Il suo castello, Ravenloft, sorge sul fianco di una montagna. Domina il villaggio di Barovia, da cui prende il nome l'intero ducato.» Soth annuì. «Questo Strahd è un potente negromante, vero? «Strahd non controlla le Nebbie che vi hanno portato qui, se è questo che intendete», affermò la donna. Uno sguardo preoccupato oscurò il volto dell'anziana Vistani. Il cavaliere della morte era troppo pressante e a lei non era consentito fornire determinate informazioni. «C'è chi dice che si diletti con tutto ciò che è magico e misterioso.» «Ci vuole più di un dilettante per resuscitare zombie che continuano a combattere anche senza braccia!» gridò il cavaliere. «Non sono uno stupido zoticone che puoi imbonire con le tue storielle, vecchia. Dimmi tutto quello che sai su Strahd!» Intimorita, Madame Girani si alzò lentamente dalla sedia. «Gli abitanti del villaggio lo chiamano "Strahd, il diavolo", un titolo pienamente meritato.» Anche Soth si alzò e con fare minaccioso si avvicinò alla donna. «Quando i Vistani passano per Barovia sono sotto la protezione di Strahd, così gli abitanti del villaggio non osano toccarci», concluse la zingara, arretrando. La risata diabolica di Soth riempì il carrozzone. «Poco fa hai detto che ben poco può farmi del male in questa terra. Se è la verità, allora non ho motivo di temere te o Strahd.» Prima che il cavaliere della morte facesse un altro passo, la Vistani estrasse un pugnale. Soth rise divertito, mentre la donna brandiva l'arma. «Pensate di uccidermi con quello?» le domandò. Allungò una mano verso la zingara. «Vi ho detto che non siamo a digiuno di magia, cavaliere della morte. Questa lama è stregata per tenere a bada quelli come voi.» Madame Girani
mosse il polso e il pugnale trapassò il guanto di cotta di Soth, conficcandosi nella sua mano. La ferita non era profonda, ma bruciava come se la lama fosse stata immersa in un potente acido. Il cavaliere della morte sussultò per il dolore, una sensazione che non provava ormai da secoli. Soth non era così stupido da sguainare la spada, poiché sapeva che non era facile maneggiare un'arma così lunga nei confini ristretti del carrozzone. Si mosse rapidamente, sollevando la gabbia e gettando da parte la coperta. L'essere all'interno della voliera gridò e artigliò la mano di Soth; le unghie affilate scivolarono indolori sull'armatura del cavaliere. Madame Girani si voltò verso la porta ma Soth, più veloce di lei, aveva già aperto la gabbia. Lo strano animale si lanciò verso l'anziana Vistani, le ali spiegate e le zampe protese. La zingara cercò di allontanarlo, ma inutilmente. La bestia atterrò sul braccio disteso della donna, per poi balzarle sul viso. Soth staccò la lanterna dal gancio. «I miei saluti ai vostri poteri oscuri», disse. E gettò la lampada a terra. Piume, vestiti e libri, impregnati di petrolio, presero subito fuoco. Le fiamme si propagarono da una catasta di ninnoli all'altra. Lottando contro la creatura avvinghiatasi a lei, Madame Girani riuscì a urlare la sua ultima maledizione. «Che tu sia maledetto, Soth di Dargaard Keep! Non tornerai mai più a Krynn, anche se la tua casa sarà sempre sotto i tuoi occhi!» L'animale graffiò la donna in volto e dai profondi solchi iniziò a sgorgare il sangue. Il piccolo mostro spalancò la bocca e il suo unico occhio roteò all'indietro, mentre i denti affondavano nella gola della gitana. Una lingua di fuoco nascose per un istante Madame Girani alla vista di Soth, poi un grido terrificante riempì il carro. Il puzzo di carne bruciata si aggiunse all'odore nauseante delle pelli di animali carbonizzate e del legno in fiamme. Soth si voltò e diede un calcio alla porta del carrozzone, facendola saltare dai cardini. L'aria fresca della notte ravvivò le fiamme e il cavaliere della morte lasciò il carro in una nuvola di denso fumo nero. «Al fuoco!» gridò una voce. «Sveglia!» «Aiuto!» rispose un'altra. «Ho sentito Madame Girani urlare.» Gli uomini del clan avevano lasciato frettolosamente i letti e ora correvano per l'accampamento alla ricerca di acqua per spegnere le fiamme. Udirono le grida provenire dal carrozzone e videro Lord Soth uscire da quell'inferno. Il fuoco non aveva nemmeno sfiorato il cavaliere della morte. Appena la cenere cadeva sul mantello o sull'elmo, si raffreddava istan-
taneamente. Quando una nuvola di denso fumo asfissiante lo avvolse, vi passò attraverso come se fosse stata una piacevole brezza di primavera. «L'ha uccisa lui», mormorò qualcuno, senza però osare avvicinarsi al cavaliere. Immobili, con in mano secchi colmi d'acqua, i Vistarli avevano i volti paralizzati in espressioni di terrore. Quell'uomo dagli occhi arancioni doveva essere un messaggero di Strahd. Forse era al servizio dei poteri oscuri del male che regnavano su ogni cosa, persino sul conte stesso. Quel pensiero spinse molti Vistani a fuggire nella foresta. Altri, più giovani e meno superstiziosi, videro Soth come niente più che un giorgio che aveva avuto il coraggio di attaccare una di loro. Due di questi, ragazzini di non più di quindici anni, si precipitarono dall'uomo in armatura. Il codice dei Vistani esigeva vendetta e i due ragazzi si fecero carico di tale incombenza con tutto l'entusiasmo della gioventù. Uno brandiva una lunga spada, l'altro un pugnale. Entrambi sembravano combattenti provetti, ma il cavaliere della morte comprese che la rabbia e la paura li avevano resi incauti. Sguainò la spada e li liquidò rapidamente. Il loro sangue fluì nel fango, tingendolo di rosso. Il cavaliere della morte restò immobile, il carrozzone alle sue spalle, la spada nella mano sinistra abbassata innanzi a lui. Le fiamme, che guizzavano avide intorno al carro, proiettarono l'ombra di Soth sui corpi ai suoi piedi e nell'intero accampamento. Un'esplosione fece tremare la terra, quando i vasi e le bottigliette di Madame Girani contenenti componenti di esotici incantesimi presero fuoco. Il soffitto del carrozzone, già in fiamme, esplose in mille frammenti che schizzarono in tutta la radura. I pochi Vistani rimasti gettarono secchi d'acqua sui fuochi minori provocati dai frammenti, ma il carro più vicino a quello dell'anziana zingara venne rapidamente avvolto da alte lingue di fuoco. Tra i bambini terrorizzati e gli adulti in preda al panico rimasti nel campo soltanto una persona osò avvicinarsi a Soth. Magda, la bellissima danzatrice, attraversò correndo la radura. «Madame Girani!» gridò, le guance bagnate di lacrime. Soth afferrò la giovane mentre gli passava accanto. Il gelo della sua mano provocò la comparsa di lividi blu sul polso sottile della ragazza. «È morta», le disse. Magda s'immobilizzò, pietrificata dalla paura e dal dolore. Cercò di liberarsi, ma la stretta del cavaliere era come una morsa di ferro. In ginocchio accanto ai corpi dei suoi compagni, la giovane spostò lo sguardo sugli ul-
timi Vistani che fuggivano nella foresta. Il fratello, Andari, si fermò sul limitare della radura e i suoi occhi incontrarono quelli della sorella. Senza provare alcuna vergogna per la propria codardia, si voltò e corse via, il violino stretto al petto. Il cavaliere della morte scrutò la radura. I Vistani si erano dispersi nella notte e soltanto il crepitio del fuoco e i singhiozzi della giovane ai suoi piedi rompevano il silenzio. Allentando la stretta sul polso, chiese: «Ti chiami Magda, giusto?» Senza aspettare una risposta, continuò. «Sembri una donna intelligente, Magda, perciò non pensare di potermi mentire o scappare.» La lasciò andare e inguainò la spada. Sfregandosi il polso, Magda non sollevò lo sguardo sul cavaliere. «Madame Girani mi ha detto che il tuo clan si sposta per tutta Barovia, perciò ho deciso di fare di te la mia guida», disse infine Soth. «Il castello di Ravenloft sarà la nostra prima tappa. Portami là.» 5 Magda inciampò in un ramo contorto nascosto dalla luce confusa dell'alba e cadde in ginocchio. Dopo cinque ore di cammino nell'intricata foresta, era esausta. «Vi prego», implorò, «fatemi riposare. Abbiamo camminato per tutta la notte». «Alzati», tuonò una voce dietro di lei. La giovane Vistani si sfregò gli occhi, quindi si alzò faticosamente. Guardò gli strappi nella gonna e le macchie di fango sulla camicetta bianca. Le scarpe si erano bagnate attraversando un fiume e le gambe erano coperte di graffi causati dai rovi spinosi del bosco. Ore prima aveva perso tutti i suoi braccialetti. «Tra poco dovremmo ricongiungerci con la via Svalich», disse speranzosa, sistemando la bisaccia che teneva legata in vita. «Avanzare sarà più facile.» Soth infranse subito le speranze della donna. «Resteremo nella foresta. Le strade sono controllate da pattuglie e non voglio che il conte sappia del mio arrivo.» Stese la mano verso la donna. In un altro luogo, quello sarebbe stato interpretato come un gesto di soccorso, ma Magda sapeva che era una minaccia: cammina o ti brucerò nuovamente con il gelo della morte. Magda fece qualcosa di più che camminare. Iniziò a correre. La giovane scattò fra gli alberi, lanciandosi a perdifiato. Rami sottili le frustarono viso e braccia e piante rampicanti sembrarono avvolgersi intor-
no alle sue caviglie. Dopo pochi minuti, era già ansante e con il fiato corto, ma non rallentò. La strada è là in fondo, continuò a ripetersi. Raggiungila e riuscirai a sfuggirgli. Magda non osò voltarsi indietro, poiché sapeva che il cavaliere della morte era dietro di lei, pronto ad agguantarla con le sue mani gelide. Il cuore le batteva all'impazzata, soffocando lo scalpiccio dei suoi piedi, che inciampavano nelle radici emerse e tra le foglie morte. Eppure le mani del cavaliere non si erano ancora chiuse sulle sue spalle, nessuna lama l'aveva ancora trafitta. Osò sperare di essere riuscita a sfuggire al suo aguzzino. Attraverso un'apertura fra gli abeti, vide l'ampia via Svalich. I raggi del sole nascente filtravano a macchie nella foresta, gettando ovunque lunghe ombre ed era proprio attraverso questo alternarsi di luce e oscurità che la giovane correva. Sono libera! gridò in silenzio. Salva! Due occhi arancioni guizzarono nell'ombra degli abeti. Magda gridò e si bloccò di colpo. I muscoli tesi dopo la lunga marcia e l'improvvisa corsa frenetica, inciampò. Ignorando l'improvviso dolore a una spalla, balzò in piedi e riprese a correre. Non sapeva se stesse avvicinandosi alla strada. Non importava più. Il non-morto era riuscito a superarla e a frapporsi fra lei e la salvezza. Continua a correre, si disse. Non può tenere il tuo passo per sempre. Lord Soth emerse dall'ombra di un grande masso ricoperto di muschio. Magda gli andò quasi addosso, poi cadde ai suoi piedi, ansante e singhiozzante. «È un bene che tu ci abbia provato», affermò il cavaliere della morte in tono pacato. «Ora che sai che scappare è impossibile, possiamo proseguire.» Con una profonda tristezza nei grandi occhi verdi, Magda si alzò faticosamente e riprese la marcia. Il cavaliere della morte si era fermato nell'accampamento Vistani quel poco che era bastato per consentire a Magda di avvolgere il polso congelato con bende ricavate dalla sua gonna e di prendere poche cose dal suo carrozzone. Non le aveva concesso nemmeno il tempo per recitare una preghiera sulle rovine del carro di Madame Girani. Nelle prime ore, a Magda era sembrato di vivere un incubo. Spesso aveva sperato di svegliarsi nel suo letto, con Andari che russava accanto a lei. L'ululato dei lupi o il ruggito di qualche creatura ancora più spaventosa la riportavano sempre alla realtà. Allora si voltava e vedeva il non-morto camminare dietro di lei, vedeva i suoi occhi arancioni ardere come fuochi fatui. I pesanti stivali del cavaliere non producevano alcun rumore mentre
avanzava nel bosco e raramente parlava. Eppure, al sorgere del sole, la giovane donna era giunta alla conclusione che Lord Soth non intendeva ucciderla, per lo meno non prima di essere giunti al castello di Ravenloft. L'idea di andare alla ricerca della casa del conte Strahd von Zarovich spaventava Magda quanto Soth. Voci sulle torture inflitte ai visitatori indesiderati circolavano liberamente nel ducato e lei stessa aveva visto i resti agghiaccianti di due vittime. Erano avventurieri, ladri che avevano cercato di intrufolarsi nel castello al calare dell'oscurità. Il miraggio di facili ricchezze li aveva accecati e Strahd li aveva usati come monito per chiunque altro avesse osato sfidarlo. La giovane Vistani tremò al ricordo di quei corpi dissanguati e decapitati gettati nella piazza del paese. Per scacciare quell'immagine spaventosa, cercò di concentrarsi sul cinguettio degli uccelli che risuonava in tutto il bosco, sui caldi raggi del sole che filtravano attraverso i rami intricati degli alberi. Fu tutto inutile. Il ricordo di quei cadaveri restava impresso nella sua mente. Ma Madame Girani aveva detto che Soth era sotto la protezione di Strahd, ricordò improvvisamente Magda. Forse il conte voleva che arrivassero sani e salvi al castello. Quel pensiero mantenne viva la speranza. Il sole era ormai alto nel cielo, quando tre cavalieri comparvero sulla via Svalich, i cavalli lanciati al galoppo. Dietro di loro tiravano un quarto cavallo, con un uomo gettato sulla sella. La strada era distante al punto tale da impedire sia a Soth che a Magda di distinguere i lineamenti dei cavalieri, ma gruppi di uomini a cavallo, così come contadini solitari con carri carichi di scorte alimentari, erano diventati piuttosto frequenti nelle ultime ore. «Probabilmente ci stiamo avvicinando al villaggio», osservò Soth appena i cavalieri furono scomparsi in lontananza. «Se continuiamo di questo passo, quando arriveremo?» Magda si guardò intorno; la strada iniziava a curvare verso sudest: il villaggio e il castello di Ravenloft erano a poco più di quattro miglia. «A metà pomeriggio», rispose, «ma solo se manterremo questo ritmo». Dopo avere riflettuto alcuni istanti sulle parole della ragazza, il cavaliere della morte le ordinò di sedersi. «È troppo presto», osservò. «Voglio raggiungere il castello dopo il calare delle tenebre. Allora sarà più facile infrangerne le difese.» A Barovia tutti sapevano che, giorno o notte, gli ospiti erano raramente i benvenuti al castello e che la grande fortezza di pietra aveva difese più
minacciose di semplici mura o spesse pareti. Ma Lord Soth non era un ladruncolo interessato a mettere le mani sulle ricchezze del conte. «Puoi dormire», disse il cavaliere della morte, sebbene le sue parole suonarono suonate più come un ordine che un invito. Magda controllò le ferite che Soth le aveva procurato afferrandole il polso all'accampamento: bruciavano ancora, ma stavano già guarendo. Anche la spalla andava meglio. Ma la lunga marcia aveva richiesto un tributo ben peggiore ai suoi piedi. Dopo avere esaminato vesciche e graffi su dita e talloni, la Vistani estrasse il pugnale d'argento e ricavò dalla fusciacca alcune bende. A un tratto si bloccò e sollevò lo sguardo su Soth. Era a pochi passi da lei, le braccia conserte. «Non vi sedete?» «Non ho bisogno di riposo», rispose l'altro, asciutto. «"I vivi si stancano facilmente, ma i morti non dormono mai"», mormorò la ragazza, ripetendo un vecchio detto Vistani. Si bendò i piedi, avvolse intorno alla vita ciò che rimaneva della fusciacca e si lasciò andare contro un albero. «Che cosa volete dal conte, non-morto?» «Non fare la sfacciata con me, ragazza», la rimproverò il cavaliere della morte. «Sono Lord Soth di Dargaard Keep. Se devi rivolgerti a me, usa il mio titolo.» Magda non aveva voluto mancare di rispetto, ma la stanchezza le aveva fatto momentaneamente dimenticare la paura. «Perdonatemi, Lord Soth», disse, senza tradire la propria ansia. Seguì un silenzio carico di tensione. «Voi Vistani siete audaci», commentò infine Soth. «Dovete nutrire grande fiducia in Strahd. Pensi che possa proteggerti se decidessi di ucciderti?» Magda si chiese se il cavaliere potesse leggerle nel pensiero. Tutti i Vistani, non solo quelli del clan di Madame Girani, servivano Strahd come suoi occhi e orecchie sul territorio di Barovia e dei ducati confinanti. In cambio, il conte garantiva loro libertà di movimento nel suo dominio. «Perché pensate che sia al servizio del conte?» domandò la gitana, nervosa. «La tua protettrice mi ha rivelato che i Vistani sono sotto la protezione di Strahd», replicò Soth. Agitò la mano, liquidando la questione. «Ciò che è accaduto al campo dovrebbe averti dimostrato come ciò significhi poco.» Per la prima volta la giovane incontrò lo sguardo di Soth. «Il potere di Strahd è grande e, in un certo senso, anche quello dei Vistani. A Barovia e nei ducati vicini vivono molti clan Vistani e presto la notizia dei vostri crimini contro di noi si diffonderà ovunque.»
«Bah!» esclamò il cavaliere della morte. «I tuoi fratelli zingari non possono farmi niente.» La schiena appoggiata al tronco di un albero, Magda chiuse gli occhi. «Esistono poteri oscuri più grandi di voi, più grandi anche di Strahd, che ascoltano le preghiere dei Vistani e rendono realtà le nostre maledizioni.» Rotolò su un fianco, voltando la schiena al cavaliere. «Persino Strahd rispetta i Vistani, Lord Soth. Non c'è niente di cui vergognarsi.» La prima reazione del cavaliere fu di rabbia, ma riflettendo sulle parole di Magda si rese conto che non erano altro che la ripetizione di un luogo comune pronunciato da una donna stanca e spaventata. Mentre guardava la fanciulla dai capelli corvini scivolare nel sonno, si trovò a paragonarla a Kitiara. Lo stesso feroce desiderio di sopravvivenza bruciava in entrambe le donne. Ma alla Vistani mancava quel coraggio che alla Signora dei Draghi non era mai venuto meno. Kitiara non si sarebbe mai sottomessa a lui con tanta facilità. Forse la giovane zingara aspettava il momento opportuno. Forse possedeva più pazienza di quanto Kitiara avesse mai sperato di avere. Da Magda e Kitiara, il flusso dei pensieri di Soth raggiunse Caradoc. Il cavaliere si chiese dove si fosse nascosto il siniscalco traditore, dove avrebbe potuto trovare rifugio a Barovia, poiché lo spettro doveva sapere che il suo padrone lo avrebbe ucciso quando si fossero incontrati. «Non esiste nessuno sufficientemente potente da proteggerti», sussurrò il cavaliere della morte. «E quando sarò certo di averti distrutto, fuggirò da questo luogo infernale e farò risorgere la mia Kitiara.» La via Svalich si svuotò di viandanti molto prima del tramonto e dopo il calare dell'oscurità non venne più percorsa da nemmeno un cavaliere. Soth svegliò Magda quando la luce iniziò a diminuire. «È ora», fu tutto quello che dovette dire per fare scattare in piedi la Vistani. Mentre arrancava ancora esausta, Magda mangiò l'ultimo pezzo di pane che era riuscita a prendere prima di lasciare il campo distrutto. Sebbene un fiume scorresse a pochi passi da loro, Soth non le permise di abbeverarcisi. Le ultime miglia prima del villaggio e del castello di Barovia furono caratterizzate da continui saliscendi, mentre la strada serpeggiava intorno a enormi affioramenti di granito. Sopra i due viandanti si librava un grande stormo di pipistrelli. Il suono ovattato del loro battito d'ali nel cielo coperto annunciava il calare della notte. «Sono di cattivo auspicio», commentò Magda, facendosi un segno sul
cuore. Soth avvertì una fitta di... qualcosa quando la donna compì il gesto superstizioso. Forse il rituale faceva parte di un incantesimo contro il male, pensò. Come aveva detto Madame Girani, i Vistani possedevano qualche conoscenza magica. Finalmente raggiunsero la cima dell'ultima salita. Sotto di loro si apriva una valle con al centro un piccolo villaggio. All'ormai fioca luce del sole, quel luogo appariva sicuro e invitante. La via Svalich passava attraverso il centro di Barovia, dividendo il villaggio in due perfette metà. Un palazzotto tozzo e fatiscente si ergeva appena fuori dal paese e una chiesa di pietra e legno, dal campanile semidistrutto, sorgeva a nord del villaggio. Le case erano delimitate dagli alberi del bosco, e il fiume che fino a poche miglia prima scorreva accanto alla strada ora fiancheggiava Barovia a sud. Sia la strada che il fiume si dirigevano verso occidente. Prima di scorrere sinuosamente fra colline alte e scoscese, il corso d'acqua si allargava in un ampio laghetto. La strada conduceva a un castello arroccato su una rupe sovrastante il villaggio. «Il castello di Ravenloft», mormorò Magda. Si strinse nelle braccia, e Soth non capì se quel gesto fosse dettato dal freddo della notte o dalla vista dell'antica fortezza. Non fu solo il castello ad attirare l'attenzione del cavaliere mentre lasciava vagare lo sguardo nella valle. Un anello di nebbia, largo svariati piedi, circondava Barovia e il castello di Ravenloft come un muro di protezione. «Ancora nebbia», sibilò. «Allora è Strahd che mi ha condotto qui da Krynn.» «No», affermò Magda. «L'anello di nebbia è una barriera di protezione per il villaggio e il castello. Strahd lo utilizza per individuare e controllare chi entra o esce da queste terre.» Frugò nella bisaccia ed estrasse una bottiglietta di vetro colma di un denso liquido rosso. Dopo avere bevuto la strana bevanda, continuò. «La nebbia è un potente veleno. A chi non beve l'antidoto, una pozione che soltanto noi Vistani abbiamo il permesso di preparare, il veleno penetra nei polmoni e raggiunge il cuore. E a chi cerca di lasciare il villaggio senza il permesso di Strahd...» La Vistani non concluse la frase. «È una fortuna che io non respiri», commentò Soth avviandosi verso la barriera. Magda si affrettò dietro di lui. Raggiunto l'anello di nebbia, il cavaliere della morte ebbe un istante di esitazione. «Stringi bene la fusciacca intorno
alla vita.» Poiché la zingara non obbediva, aggiunse: «Se non lo fai, per attraversare la nebbia sarò costretto a prenderti per il braccio». Non ebbe bisogno di dire altro. «Tieni stretta la fascia», si raccomandò. «Se la sentirò allentarsi mentre saremo nella nebbia, ti afferrerò per la gola e ti terrò così fino a quando non avremo raggiunto il villaggio.» Emersero dalla nebbia a nord dell'abitato e proseguirono verso il castello restando nascosti fra gli alberi. Quando ormai gli ultimi raggi di sole svanivano dietro le montagne a occidente, udirono delle voci. «Sbrigati!» gridò qualcuno in preda al panico. «Sta per scendere il buio.» «Lancia la fune su quel ramo!» Il cavaliere della morte si mosse silenziosamente nel bosco con Magda al suo fianco. Sul limitare della foresta, vicino alla chiesa che Soth aveva visto dall'alto, si era riunito un gruppo di dieci uomini grossi e corpulenti. Uno di loro cercava di tirare una fune sul ramo più alto di un albero che cresceva davanti all'edificio abbandonato. La maggior parte degli uomini aveva capelli e occhi scuri e sfoggiava lunghi baffi; un tempo, anche Soth aveva portato i baffi, come d'altronde tutti i Cavalieri di Solamnia. Ma le vesti di lana e il pesante accento denunciavano quegli individui come semplici contadini e non certo nobili guerrieri. «Dammela», intervenne un uomo togliendo la fune dalle mani del compagno. A differenza degli altri, aveva capelli biondi e occhi azzurri. Era anche perfettamente sbarbato e invece di pesanti abiti da lavoro indossava lunghe vesti rosse, sbiadite dal tempo e di una taglia troppo piccola per la sua corporatura. L'uomo afferrò la corda e la lanciò in aria, centrando il bersaglio al primo colpo. Nascosta fra gli alberi, Magda chiuse gli occhi. «Un'impiccagione», bisbigliò. «Forse un ladro scoperto a rubare.» Gli uomini si voltarono verso il villaggio, in attesa. Trovarsi in prossimità della foresta al calar del sole li rendeva chiaramente nervosi, poiché non facevano altro che lanciare occhiate preoccupate verso gli alberi. Il crepuscolo non aveva ancora lasciato il posto alla notte, che uno sconosciuto a cavallo di un baio castano apparve sulla strada acciottolata che proveniva dal villaggio. Legato dietro al cavallo trascinava quello che, dalla taglia, sembrava un bambino. Il poverino rimbalzava e rotolava dolosamente sul terreno. «Finalmente!» gridò uno dei contadini e il gruppo andò incontro all'ultimo arrivato. L'animale si fermò a pochi passi dall'albero e lo sfortunato
prigioniero venne obbligato ad alzarsi. Era alto non più di quattro piedi, dalla punta della testa pelata ai tacchi di ferro degli stivali. Il rude trattamento aveva ridotto i pantaloni a brandelli e profondi graffi sanguinanti gli solcavano il petto nudo e le braccia muscolose. Le mani erano legate dietro la schiena con una fune sufficientemente lunga da avvolgere più di un uomo. Il prigioniero si agitava come un pazzo per cercare di liberarsi. «State facendo un grosso sbaglio», si lamentò. Fece un respiro profondo e smise di divincolarsi. «Lasciatemi andare e mi dimenticherò di questo terribile equivoco.» «Ah, un nano», mormorò Soth. «Questo mondo non è poi così diverso dal mio.» Magda lo guardò confusa. «Volete dire che da dove venite vi sono molti di quegli scherzi della natura?» domandò. «A Barovia ne esistono pochi come lui.» Mentre Soth rifletteva sulle parole della donna, l'uomo dalle vesti rosse accese una torcia e l'avvicinò al prigioniero. «Devi pagare per i tuoi crimini.» Alla luce della fiaccola, Soth vide che il nano aveva un occhio pesto e gonfio. Il volto era graffiato come il petto e un rivolo di sangue gli scorreva dal naso, impregnando i baffi scuri. Stranamente, il nano sorrideva. «Credimi», disse il piccoletto all'uomo vestito di rosso, «sarebbe molto meglio per tutti se mi lasciaste andare». «Muoviamoci e facciamola finita», affermò uno del gruppo, lanciando occhiate preoccupate ai pipistrelli che si libravano in cielo. Senza perdere altro tempo, il nano venne spinto verso l'albero. Mentre gli uomini infilavano il cappio al collo del condannato e legavano l'altra estremità al cavallo, Soth voltò le spalle a quello spettacolo. «Andiamo», disse alla Vistarti. «Ho visto abbastanza.» Magda fu felice di seguire il cavaliere oltre la radura. Mentre si inoltravano nella foresta, le grida dell'impiccato e dei suoi boia vennero sostituiti dal piacevole frinire dei grilli. Magda cercò di rilassarsi ascoltando quei suoni familiari. «Per la miseria, no!» Un urlo fendette l'aria. Poi, un ruggito, forte e potente, echeggiò nella notte. «Scappate, stupidi! Via!» Un confuso frastuono risuonò dalla radura dell'impiccagione. Grida di
uomini penetrarono l'oscurità. Il nitrito di dolore di un cavallo superò le grida, seguito da passi che si allontanavano frettolosamente nel bosco. Senza aprire bocca, Soth cambiò direzione, tornando indietro. Magda gli restò accanto. Sussultarono entrambi quando l'uomo dalle vesti rosse sbucò all'improvviso da dietro un abete. L'uomo agitava una torcia innanzi a sé. Magda si mise sulla difensiva. Soth non si mosse, soltanto il lungo mantello sventolava silenziosamente dietro di lui. A pochi passi da loro, lo sconosciuto dalle vesti rosse fissò il cavaliere della morte con occhi colmi di terrore. Ma in quegli occhi Soth vide qualcos'altro: l'uomo lo fissava in preda al panico perché lo aveva riconosciuto per ciò che era. Con la stessa rapidità con la quale era apparso, lo sconosciuto fuggì nella foresta. Il cavaliere della morte stava per inseguirlo, quando l'ululato terrificante che giunse dalla radura gli fece cambiare idea. Si diresse verso il teatro dell'impiccagione. Una scena sorprendente attendeva il cavaliere e la sua guida. Il cavallo e cinque uomini giacevano senza vita vicino all'albero, i loro corpi dilaniati e sanguinanti. Dei loro compagni non c'era traccia. Al centro di quella carneficina sedeva il nano, ferito e ammaccato, ma libero dalla fune che gli era stata legata intorno ai polsi e al collo. Mentre s'infilava uno stivale, fischiettava allegramente. Con la lentezza di chi si è appena svegliato, si allungò e afferrò l'altro stivale. Si fermò di colpo e arricciò il naso disgustato. «Altri contadini?» brontolò, lasciando cadere lo stivale. Annusò l'aria. «Vieni fuori e fatti vedere.» Guardava verso Soth e Magda, sebbene questi ultimi fossero ben nascosti tra gli alberi. La Vistarti cercò di ritrarsi nella foresta, ma il cavaliere della morte fece un passo avanti. «Anche l'altro», disse il nano, strizzando gli occhi. «Vieni, Magda», ordinò Soth quando la zingara esitò. La ragazza abbandonò il nascondiglio, la mano sul pugnale nella fusciacca. «Vistarti!» esclamò il nano appena vide la pelle olivastra e i capelli corvini della fanciulla. Tese improvvisamente i muscoli, pronto per schizzare via. «Avrei dovuto saperlo che siete spie del conte.» Magda estrasse il pugnale e la luce della luna, che filtrava fra i rami, si rifletté sulla lama. Il nano fece un cauto passo avanti. «Basta», intervenne Soth. «La ragazza è mia prigioniera e io non sono un servo di Strahd von Zarovich.»
Il nano sbuffò e si strinse nelle spalle. «Una donna Vistani e un... hmmm.» Studiò Soth, cercando di misurarne il valore. Il suo volto tradiva interesse per lo sconosciuto. Indicando il castello, disse: «Sicuramente non siete uno dei suoi cadaveri ambulanti, signor cavaliere. Non sanno dire molto oltre al nome del loro padrone. Una chiara dimostrazione del proprio egocentrismo avere degli zombie che non sanno fare altro che ripetere "Strahd", non vi pare?» Soth osservò attentamente il nano, mentre questi si sedeva per infilarsi l'altro stivale. «Fai sempre così con gli abitanti del villaggio?» gli domandò. L'altro sorrise. «Non è tutta opera mia», rispose. «Ma li avevo avvertiti. "Se provate a impiccarmi, ve ne pentirete", avevo detto loro.» Guardò i corpi senza vita. «E così sono morti.» «Come?» domandò il cavaliere della morte. Infilatosi lo stivale, l'ometto si occupò dei pantaloni, cercando di eliminare le macchie di sangue. «Siete nuovo.» Scoppiò a ridere e posò lo sguardo sulla Vistani. «Sbaglio o... sei Magda, giusto? È appena arrivato nel ducato, vero?» La Vistani, stringendo ancora fra le mani il pugnale dalla lama d'argento, restò in silenzio. Il suo sguardo si spostava da cadavere a cadavere e ogni qualvolta il nano si muoveva, agitava minacciosamente l'arma. Indifferente all'ostilità di Magda o al silenzio di Soth, il nano riprese a pulirsi. Dopo aver fatto il possibile per rendersi più presentabile, passò di cadavere in cadavere alla ricerca di eventuali oggetti da rubare. La maggior parte dei pesanti indumenti di lana dei contadini erano logori per l'uso, ma il nano riuscì a recuperare un gilet di lana da un morto e una coperta multicolore dal cavallo. Mentre si buttava quest'ultima sulle spalle a mo' di mantello, si voltò verso il cavaliere della morte. «Posso fare qualcos'altro per voi? Immagino non siate venuto da queste parti per guardarmi derubare dei cadaveri, giusto?» «Hai detto che sono un forestiero. Come fai a esserne così sicuro?» Il nano si avvicinò a Soth e nel fare ciò, si avvolse la coperta intorno al corpo. «Da quando sono arrivato a Barovia ho imparato due cose», affermò in tono cospiratorio. «Primo: non fare mai domande agli sconosciuti. La maggior parte della gente che ho incontrato qui nasconde segreti che non vuole svelare. Hanno compiuto azioni che io e voi non riusciamo nemmeno a immaginare... beh, per lo meno voi. E alcuni, anzi molti, non gradiscono che si metta il naso nei loro affari.»
Indietreggiò e si guardò intorno come se temesse che qualcuno potesse ascoltare le sue parole. «Per esempio, so che non siete mortale, non chiedetemi come faccio a saperlo, perché non ve lo dirò. Ma vi accetto per quello che siete. Ho visto cose più strane di voi da queste parti. Non molte, naturalmente.» Quando Soth non replicò, il nano si strinse nelle spalle. «Perché mi dici tutto questo? Come fai a essere sicuro che non sia una spia di Strahd von Zarovich?» gli domandò Soth. Un sorriso compiaciuto illuminò il volto dell'omuncolo. «La seconda cosa che ho imparato è non avere niente a che fare con i Vistani. Raccontano al conte tutto quello che scoprono sugli stranieri e colpire loro è come insultare lo stesso Strahd.» Indicò Magda. «Se ha scoperto qualcosa su di voi, signor cavaliere, vi conviene ricondurla nella foresta e assicurarvi che nessuno la veda mai più. È solo un consiglio, naturalmente. Un suggerimento da uno che è bloccato in questo inferno da parecchio tempo.» Magda, che teneva ancora il pugnale stretto in pugno, indietreggiò verso il bosco. «Sta arrivando qualcuno», bisbigliò. «Dal villaggio.» «Non possono essere quegli zoticoni di Barovia», commentò il nano. «Non escono mai di casa dopo il tramonto. Troppi esseri come me e voi vagano nella notte.» Un rumore lontano di ruote di legno e di zoccoli di cavallo risuonò sul selciato. La luce di due lanterne guizzò nella notte e il tramestio aumentò. «È una carrozza», disse Soth, penetrando il buio con gli occhi incandescenti. «Due cavalli, neri come la pece.» Scrutò la strada. «Non vedo il cocchiere.» «Oh! Maledizione!» Il nano si diresse verso gli alberi. «Ve lo avevo detto, no? Maledetti Vistarti!» Continuando a imprecare scomparve nella foresta. Soth sguainò la spada e si rivolse a Magda. «Che cos'è?» La donna non aveva ancora aperto bocca che la carrozza si fermò bruscamente davanti alla chiesa in rovina. Sbuffando e agitando il muso, i cavalli battevano gli zoccoli, impazienti. Nessun cocchiere aveva guidato i cavalli lungo la strada dal villaggio e nessuna mano toccò lo sportello della carrozza, quando si aprì. «La carrozza di Strahd», riuscì infine a dire Magda. «È come nei racconti! L'ha mandata per voi!» «Per noi, Magda», la corresse Soth. «Non abbandonerei mai la mia affascinante guida.»
6 Strahd von Zarovich era in piedi davanti a un immenso camino, un braccio appoggiato sulla mensola. Un paio di ceppi bruciavano, ma la luce che emettevano illuminava appena il conte, lasciando nella completa oscurità il resto della stanza. Il signore di Barovia sfogliava distrattamente un volume di poesie. Ogni volta che girava la pagina, il sorriso che gli arricciava la bocca diveniva più ampio. «Ah, Sergei. Sei sempre stato un inguaribile romantico.» Il libro era stato scritto molti anni prima dal fratello minore di Strahd, Sergei, e i versi contenuti erano interamente dedicati a una donna, l'amata Tatyana. L'ilarità del conte non era stata suscitata dalle poesie in se stesse, poiché erano come tutto ciò che Sergei aveva creato nella sua breve vita: meraviglioso e ridondante di sentimento. No, era la consapevolezza della futilità di quelle parole d'amore a divertirlo. I sacri voti non avevano mai legato gli amanti nel vincolo matrimoniale; Strahd lo sapeva, poiché lui stesso aveva assassinato il fratello il giorno in cui lui avrebbe sposato Tatyana. Un desiderio struggente per la ragazza lo aveva reso pazzo al punto da impedirgli di pensare a qualcos'altro che non fosse la dolce, affettuosa Tatyana. Il pensiero che avrebbe sposato l'ingenuo fratello non aveva fatto che aumentare la passione che Strahd nutriva per lei; aveva trascorso giornate intere vagando per le sale del castello di Ravenloft, sperando di intravedere l'amata. Di notte, impazziva su antichi volumi di magia, nella speranza di trovare un incantesimo che l'aiutasse a conquistare il cuore di Tatyana. Alla fine, l'amore non corrisposto aveva spinto Strahd a stringere un patto con le forze delle tenebre, un patto che doveva essere suggellato con un fratricidio. Aveva concluso l'accordo il giorno in cui Sergei avrebbe dovuto sposarsi; aveva infatti trucidato il fratello con il pugnale più affilato che avesse mai visto. Con quell'assassinio, Strahd aveva ottenuto poteri che potevano essere immaginati solo negli incubi, ma nemmeno quelle nuove forze erano servite per conquistare l'amore di Tatyana. Quando le aveva rivelato ciò che provava, la fanciulla aveva preferito porre fine alla propria vita, piuttosto che trascorrere anche solo un istante fra le sue braccia. Strahd chiuse di colpo il libro. Tatyana non sapeva che lui, dopo quasi quattrocento anni dalla sua morte, abitava ancora il castello... e la deside-
rava ancora. Gettò il volume nel fuoco, lasciando che le vecchie pagine consunte venissero inghiottite dalle fiamme. In preda al nervosismo, il conte misurò la stanza a grandi passi. I poteri oscuri che Strahd aveva patteggiato secoli addietro gli avevano dato molto in cambio della morte di Sergei. Non conosceva la malattia e nemmeno il peso della vecchiaia. Regnava su Barovia da secoli e aveva dedicato buona parte del suo tempo a studi arcani e i segreti che aveva scoperto gli avevano assicurato un potere immenso sui vivi e sui morti. Barovia, il ducato in cui i von Zarovich regnavano da secoli, aveva pagato per le azioni malvagie del conte, equilibrando i trionfi di Strahd con le proprie sofferenze. Subito dopo l'assassinio di Sergei, il ducato era stato trasformato in un inferno di nebbie. Strahd scoprì ben presto di non poter superare i confini di Barovia, sebbene acquistò la capacità di impedire agli altri di lasciare le sue terre. Divenne signore incontrastato del suo regno, ma quella vittoria rivelò rapidamente i suoi limiti. Pochi, fra i contadini e i boiari che abitavano al villaggio, costituivano una vera sfida per il conte; ecco perché Strahd aspettava con ansia l'arrivo di individui del calibro di Soth. «Chissà se i miei ospiti stanno comodi», mormorò Strahd avvicinandosi a una finestra. Guardò la strada che si inerpicava lungo il fianco della montagna fino al castello. La carrozza, giunta in prossimità del fiume Ivlis, attraversò il ponte e proseguì il viaggio. Il signore del castello di Ravenloft chiuse gli occhi e si concentrò. Come la carrozza senza cocchiere obbediva alla sua volontà, così la mente dei passeggeri era per lui un libro aperto. Iniziò dalla donna Vistani. Come si aspettava, il terrore le offuscava la mente, sebbene una parte del suo intelletto resistesse alla paura, un brandello di coraggio che lei alimentava ripensando ad antiche leggende di eroi Vistani. Ma simili racconti non potevano scacciare completamente la paura. E proprio su quella paura avrebbe fatto leva Strahd per piegare la zingara al suo volere. Ma era soprattutto Soth a risvegliare l'interesse del conte. Magda, dopo tutto, non era che una pedina. Il cavaliere della morte esigeva invece un attento esame. Strahd liberò la mente e si spinse nella coscienza del nuovo arrivato. La superficie della mente di Soth appariva vaga e confusa come il muro di nebbia soffocante che circondava il villaggio. Emozioni quali amore, desiderio, rispetto, che animavano solitamente i pensieri degli uomini, era-
no scomparse o spente. Strahd si spinse oltre e venne improvvisamente investito da un'ondata di ribollente odio e impotente lussuria. L'intensità di quei sentimenti sconvolse il conte e per un breve istante la sua mente arretrò. Ripreso il viaggio nella coscienza del cavaliere, Strahd restò stupito di non trovarvi traccia di paura. Chi aveva sentito parlare del conte aveva sempre mostrato preoccupazione all'idea di doverlo incontrare; tutti, tranne quel cavaliere. È forse uno sconsiderato? si chiese il signore di Ravenloft, ma il potere che avvertiva nell'altro gli disse il contrario. Soddisfatto per quanto aveva scoperto sui pensieri tumultuosi del cavaliere della morte, Strahd si preparò a lasciare la mente di Soth. Si allontanò dal turbinio vorticoso delle emozioni violente ma, a un tratto, uno strano impulso lo fece rallentare. Il passaggio in carrozza aveva evocato antichi ricordi nella mente del cavaliere della morte. Spinto dal piacere perverso del voyeur, il signore di Barovia si fermò. Non sentiva più le ginocchia per il dolore. La grande sala era affollata dai tre ordini dei Cavalieri di Solamnia - Corona, Spada e Rosa - e tutti i presenti allungavano il collo per vedere il compagno caduto in disgrazia. I loro stupidi volti irritavano Soth, che si impose di incontrare lo sguardo di molti di loro. Ma gli diede ben poca soddisfazione vederli abbassare gli occhi prima di lui. Quelle voci bisbiglianti gli risuonavano nelle orecchie come il vuoto ciarlare delle donne al mercato, e le loro scintillanti armature odoravano come le forti fragranze predilette dai cortigiani di Kalaman. In fondo alla sala, schierati dietro a un lungo tavolo ricoperto da uno strato di rose nere, vide i generali di ciascun ordine. I fiori scuri proclamavano la sentenza del consiglio, ma Soth sapeva che i Cavalieri Solamnici avrebbero seguito il rituale del processo fino alla fine. Ma loro non dovevano starsene inginocchiati con indosso l'armatura. Le loro ginocchia non erano intorpidite e insensibili per il dolore. «Non siete stato in grado di difendervi dalle accuse formulate a vostro carico, Soth. Siete stato riconosciuto colpevole dell'assassinio di Lady Gadria, vostra moglie, di adulterio con la donna elfo Isolde e di un'altra dozzina di crimini minori», affermò in tono mesto Lord Ratelif. Il valoroso guerriero dei Cavalieri della Rosa afferrò uno dei fiori neri e lo gettò addosso al prigioniero. La rosa colpì Soth in pieno viso, ma l'uomo non sussultò. Non vi darò nemmeno questa soddisfazione, pensò, cercando soddisfazione nella ven-
detta. Sir Ratelif si alzò e pronunciò la sentenza che avrebbe segnato il destino del cavaliere. «Secondo quanto previsto dalla Misura, Soth di Dargaard Keep, Cavaliere della Rosa, verrà sottoposto al pubblico ludibrio per le vie della città. Trascorrerà la notte in prigione e al sorgere del sole verrà giustiziato per i crimini commessi contro l'onore dell'Ordine.» Mani rudi afferrarono Soth per le spalle e un sergente estrasse la spada del cavaliere dalla guaina, per poi porgerla a Lord Ratelif, che la puntò contro Soth. «L'arma dell'esecuzione sarà la spada del condannato.» Il ricordo nella mente di Soth divenne vago, mentre i cavalieri nella sala si affollavano intorno a lui. Strahd dovette sforzarsi per seguire il filo dei pensieri del cavaliere della morte. Gli tolsero l'armatura, ma Soth persistette nel suo silenzio, rifiutando di riconoscere la legittimità del processo. Vestito solo di una giubba imbottita, venne trascinato su un carro che procedette per le vie di Palanthas. La giornata era fredda e gli odori del porto si diffondevano in tutta la città: gli aromi pungenti della carne e delle verdure cotti nei mercati all'aperto, l'odore penetrante del fumo delle fornaci, il profumo dell'aria salmastra. Scribi e macellai, sacerdoti e burocrati, tutti si erano riversati per le strade per vedere il cavaliere in disgrazia, l'uomo che aveva voltato le spalle all'onore. A Soth, quella folla vociante apparve come un gregge belante. «Voi cavalieri non siete migliori dei comuni mortali», gridò una donna. Un droghiere lanciò un melone marcio sul carro. «Il Sommo Sacerdote ha ragione! Persino i Cavalieri di Solamnia sono corrotti!» La folla esultò quando il missile colpì Soth. Togliendosi la polpa dagli occhi, il condannato fissò il suo accusatore. Sul volto dell'uomo lesse più odio di quanto avesse mai visto sul volto di molti nemici. Non sono un povero innocente, si disse Soth, mentre il carro procedeva per le vie affollate. La sua determinazione s'incrinò e il dubbio s'insinuò in lui. Ho fornito al Sommo Sacerdote la prova che la corruzione esiste ovunque, persino tra i cavalieri. Una donna svuotò dalla finestra il secchio dei liquami. Sotto l'immonda cascata, Soth dimenticò le proprie colpe. La gente di Palanthas si comportava come la peggior plebaglia e i cavalieri preposti alla sua custodia non facevano niente per proteggerlo. «Siete tutti colpevoli quanto me!» gridò. Qualcosa lo colpì, mandandolo a terra. Quando riaprì gli occhi, vide sopra di lui un Cavaliere della Corona, il pugno sollevato pronto a colpire
ancora. Una fredda determinazione s'impadronì dell'anima di Soth, chiudendo il suo cuore a qualsiasi autorecriminazione. Abbassò le palpebre e restò sordo e immobile agli insulti che lo seguirono per tutte le vie della città. Un giorno gliela farò pagare, continuò a ripetersi. Non so come, ma un giorno Palanthas pagherà. Un draconico, la lama ricurva ricoperta di sangue, sovrastava una donna caduta a terra. Il viso pietrificato in un'espressione di terrore, un giovane cercò di tenere testa a uno scheletro guerriero, ma inutilmente. Il nonmorto non ebbe pietà di lui e con un colpo secco gli mozzò la testa. Tanis Mezzelfo lungo vicoli stretti, mostrando infine la sua vera anima... Qualcosa s'insinuò nell'anima di Soth. L'immagine della vittoria venne oscurata da un'ombra. Ma quando il cavaliere della morte cercò di concentrarsi su di essa, l'ombra scivolò via. Un'energia potente e misteriosa stava infiltrandosi nella sua mente. Soth si fece cupo. Annienterò chiunque mi tradisca, chiunque cerchi di impedirmi di tornare a Krynn, continuò a ripetersi, mentre la carrozza correva nella notte. Magda trasalì e l'urlo lacerante strappò Soth dal torpore in cui era caduto. Aveva perso la nozione del tempo e si accorse che la carrozza era già in cima alla salita. «Che cos'è stato?» domandò, ma la risposta era ovvia. Erano arrivato al castello di Ravenloft. Due fatiscenti torri di guardia pendevano nell'oscurità come sentinelle assonnate. Su un profondo fossato si allungava un ponte levatoio le cui catene arrugginite scricchiolavano e gemevano sospinte dal vento. Oltre il ponte si ergeva il torrione centrale, protetto da un'altra barriera di pietra grigia rivestita di muschio. Gargolle dai volti spaventosi e sofferenti fissavano il vuoto dalle mura. Le assi traballanti e stagionate gemettero quando i cavalli si lanciarono sul ponte. I loro lamenti erano come minacce inutili; la carrozza attraversò illesa. All'avvicinarsi dei cavalli, la vecchia saracinesca che sbarrava l'entrata al maniero si sollevò, aprendo l'accesso al cortile esterno. Giunti all'interno delle massicce mura, i cavalli rallentarono per poi fermarsi. «Siamo arrivati», annunciò Soth quando gli sportelli della carrozza si spalancarono. Il cavaliere della morte scese nel cortile deserto, guardandosi intorno. In passato, il castello di Ravenloft doveva essere stato spettacolare. I tetti
aguzzi e le torri altere testimoniavano ancora un antico splendore, ma l'incolta vegetazione e i danni provocati dal tempo avevano ormai devastato la bellezza virginale del luogo. Il maestoso portale del castello era aperto e una morbida luce si rifletteva nel cortile. «Vieni», ordinò Soth. Magda esitò, ritraendosi sul velluto rosso del sedile. In tono gelido, il cavaliere della morte aggiunse: «Il tuo padrone ci aspetta». Facendosi forza, la Vistani uscì dalla carrozza. Appena ebbe messo piede per terra, gli sportelli si chiusero e i cavalli scattarono in avanti. La carrozza scomparve oltre il ponte levatoio e nella notte. Magda precedette Lord Soth in un piccolo atrio. Sopra di loro, quattro draghi, scolpiti nella pietra rossa, sembravano pronti a balzare sui visitatori indesiderati. «Vostra Eccellenza?» chiamò la Vistani. Con un cigolio, la porta che dava sul cortile si chiuse. «Un trucchetto che qualsiasi buffone conosce», commentò Soth in tono sprezzante. Senza aspettare oltre, entrò nella stanza attigua. Era un locale ampio, dove le torce alle pareti offrivano quel poco di luce appena sufficiente per sconfiggere l'oscurità. La sala era priva di arredo e le pareti erano spoglie. Il soffitto a volta e le lascive gargolle, accovacciate lateralmente, erano ornate di ragnatele. I lunghi filamenti grigi danzavano e fluttuavano, gettando ombre fantastiche sugli affreschi ormai scrostati, che un tempo impreziosivano la volta. Un arco si affacciava su una stanzetta a destra; in fondo, porte di bronzo avevano ceduto sui cardini e a sinistra, una polverosa scala di pietra conduceva al piano superiore. «Conte Strahd?» mormorò Magda, tremante. L'atmosfera nel castello era opprimente, si respirava un'aria di mistero che le ricordò il mausoleo dal quale aveva salvato Andari quando erano bambini. Il fratello si era infilato nella tomba per depredare i morti, ma al termine dell'avventura si era ritrovato a mani vuote e con una caviglia slogata. «Ah, Lord Soth, Magda. Sono il conte Strahd von Zarovich, signore di Barovia. Grazie per avere accettato il mio invito.» La Vistani trasalì nell'udire quella voce, mentre il cavaliere della morte si voltò quasi seccato verso l'uomo che era apparso in cima alle scale. «Chiedo scusa per non avervi accolto sulla porta», disse con voce pacata il padrone del castello di Ravenloft. «Ero in una delle stanze della torre a leggere alcuni volumi di... valore sentimentale.» Il conte scese i gradini lentamente, con studiata eleganza. Il lungo man-
tello nero fluttuava dietro di lui. Ma il mantello non poteva celare la forza di colui che lo indossava, una forza posseduta solo dai grandi guerrieri. Il signore di Barovia era alto, superava i sei piedi. Indossava una giacca aderente, ma formale, su pantaloni neri e scintillanti stivali di pelle scura. Al collo portava una catena d'oro, alla quale era appesa un'abbagliante pietra rossa che rifletteva la luce delle torce. La camicia bianca, che il conte indossava con il colletto sollevato, era in netto contrasto con il resto dell'abbigliamento. Il tessuto immacolato incorniciava il mento volitivo come ali di colomba. Giunto al termine della scala, il conte si inchinò a Lord Soth. Aveva il viso pallido, con zigomi alti e capelli neri pettinati indietro. Sopracciglia altrettanto scure risaltavano su occhi indagatori. Posò lo sguardo sul cavaliere in armatura e attese che quest'ultimo si inchinasse a lui. Soth si fece cupo. «Non perdiamo tempo con questi convenevoli, conte», sbottò. «Perché mi avete portato qui?» Invece di rispondere, Strahd sollevò una mano inguantata e posò gli occhi dallo sguardo ipnotico su Magda. «Non è stato un viaggio piacevole per te, mia cara. Sono certo che Lord Soth non intendesse provocarti alcun fastidio trascinandoti nella foresta, ma...», arricciò le labbra sottili in un sorriso, «... è un soldato come me. I militari tendono a dimenticare che non tutti hanno ricevuto il loro addestramento». La donna si guardò le gambe sporche di fango e la gonna stracciata. «Le mie scuse, Vostra Eccellenza, io...». Strahd sorrise nuovamente, ma di un sorriso subdolo. La sua espressione era spaventosa quanto il ringhio di un lupo. «Non ti preoccupare», disse in tono mieloso. «Tuttavia, penso faresti meglio a cambiarti. Nella stanza accanto troverai dei vestiti, vecchi ma in buone condizioni. Vai e provali.» Per sottolineare l'invito, Strahd additò la stanza di fronte alle scale. «La porta alla tua destra», indicò in tono paziente. «Il pudore richiederebbe che tu chiudessi la porta dietro di te. Prenditi tutto il tempo necessario. Ti aspetteremo qui.» Il sorriso stampato in volto, Strahd seguì con lo sguardo la gitana fino a quando la porta si chiuse dietro di lei. Si voltò allora verso il cavaliere della morte. La maschera di ipocrita cortesia era già scomparsa. «La vostra domanda è un po' vaga, Lord Soth, ma vi risponderò ugualmente. Io non controllo, come voi sospettate, le nebbie che vi hanno portato a Barovia.» Tacque, in attesa di una reazione del suo interlocutore. Quando fu chiaro che Soth non intendeva controbattere, aggiunse: «Vi ho portato nella mia
casa per pura cortesia. È il mio modo di scusarmi per l'orribile accoglienza riservatavi da Madame Girani». «Allora ammettete che i Vistani sono vostre spie?» «Niente di così formale», replicò Strahd. «Garantisco loro alcuni privilegi e, in cambio, loro mi forniscono informazioni sugli stranieri che entrano nelle mie terre. Devo ammettere che avevo chiesto a Madame Girani di scoprire ciò che poteva su di voi.» «Perché? Vi interesso?» La mano di Soth si posò minacciosamente sull'elsa della spada. La rabbia oscurò il volto del conte e i suoi occhi scuri si trasformarono in tizzoni ardenti. «Siete un ospite nella mia casa e nella mia terra», affermò con malcelata calma. «Diciamo che avevate le vostre buone ragioni per attaccare gli zingari. Ora hanno pagato per qualsiasi sgarbo vi abbiano fatto. Ma non pensiate che vi permetterò di minacciarmi. Nonostante i vostri trecento anni, la mia esperienza mi rende superiore a voi. Non sottovalutate la mia rabbia.» Soth sorrise intimamente per l'atteggiamento altero del conte. Se non si fosse offeso, lo avrebbe bollato come un debole o uno sciocco. Entrambe le conclusioni lo avrebbero spinto a un attacco immediato. «Le mie scuse, conte», disse Lord Soth, allentando la presa e ricambiando l'inchino di Strahd. «Il mio viaggio nel vostro paese è stato inaspettato e sgradito. Quello che voglio ora è trovare il mio siniscalco e tornarmene a casa mia.» Strahd sollevò un sopracciglio. «Siniscalco? Vi riferite allo spettro che è arrivato con voi?» «Che notizie avete su di lui? È qui?» «Ahimè, no», replicò il conte. «È giunto al castello e ha cercato di entrarvi senza il mio permesso. La mia casa è protetta da guardie magiche... piuttosto pericolose anche per i nonmorti. Il vostro... siniscalco è stato annientato da una di queste guardie.» Dopo un'adeguata pausa, aggiunse: «Le mie condoglianze, Lord Soth. Eravate affezionato a quell'uomo?» Il cavaliere della morte non udì la domanda del conte. Caradoc morto? Non poteva crederci. Era forse stato privato del piacere della vendetta contro quel traditore? E Kitiara? La fine del siniscalco avrebbe reso più difficile il ritrovamento dell'anima della Signora dei Draghi. Ah, gridò dentro di sé Soth, avrei dato qualsiasi cosa per potermi vendicare. Venne sopraffatto da un fastidioso senso di frustrazione, eppure, c'era qualcosa che non quadrava.
«Come fate a sapere che è morto?» domandò Soth. Strahd si strinse nelle spalle come se la questione non fosse di alcuna importanza. «Come vi ho già detto, la sentinella che l'ha ucciso era magica. Io non ho assistito alla fine del siniscalco, ma gli incantesimi sul castello sono tali da permettermi di richiamare qualsiasi avvenimento verificatosi nella proprietà.» «Allora desidererei vedere come è morto Caradoc. Rievocate l'incantesimo.» «Adesso?» esclamò Strahd, sorpreso da tanta audacia. Soth annuì e il conte si strofinò il mento, perplesso. «Lo faccio solo perché siete mio ospite, Lord Soth, e perché desidero essere sincero con voi.» Con un gesto della mano, Strahd evocò un'immagine, in dimensioni ridotte, dell'immensa saracinesca del castello. Subito apparve l'immagine sfuocata di Caradoc, che avanzava furtivamente. Il collo dello spettro era spezzato, il suo passo lento e strascicato. L'immagine era priva di suoni, ma il cavaliere della morte immaginò che qualcosa tallonasse Caradoc; a ogni passo, il siniscalco si voltava, gli occhi colmi di paura. Giunto davanti alla saracinesca, lo spettro cercò di passarci attraverso, ma appena la toccò, venne colpito da un dardo luminoso. Caradoc s'irrigidì sotto le violente sferzate del dardo magico, aprì la bocca per gridare e, infine, scomparve senza lasciare tracce. Svanita l'immagine, il conte si girò e si mise a osservare gli affreschi sovrastanti. «Questo castello ha più di quattrocento anni. Non è più un luogo elegante e lussuoso come un tempo, ma...» «È chiaro che siete un mago.» Soth si avvicinò al punto in cui era apparsa l'immagine di Caradoc. «È così che avete scoperto il mio nome, che avete seguito le mie mosse... attraverso la magia?» Sospirando, Strahd fronteggiò ancora una volta il cavaliere della morte. «So molto di voi, Lord Soth. Più di quanto possiate immaginare. Come avete già capito, i Vistani sono soltanto una delle mie fonti di informazioni. Tuttavia, sarebbe imprudente da parte mia svelarvi tutti i miei segreti. A suo tempo...» Magda aprì la porta ed entrò nella stanza. Era avvolta in uno splendido abito di seta rossa che le lasciava scoperte le spalle. Il tessuto frusciava sul pavimento di pietra, sollevando la polvere. I piedi nudi della zingara spuntavano da sotto l'orlo. «Grazie, Vostra Eccellenza», disse la fanciulla. «È un abito meraviglioso, il più bello che abbia mai avuto.» Il conte la guardò avanzare, incantato dalla sua grazia e bellezza. Era
chiaro che aveva trovato la brocca d'acqua che lui aveva lasciato nella stanza; il fango sulle guance era stato sostituito da un delicato rossore e si era raccolta i capelli in un'acconciatura che faceva risaltare la curva del collo. «Un vestito non è altro che un pezzo di tessuto. È chi lo indossa a renderlo meraviglioso.» In segno di risposta, Magda si produsse in un'aggraziata riverenza, orgogliosa di indossare un dono del conte e sicura di averlo ricevuto come ricompensa per avere condotto Soth al castello. Poi lo vide. Tremò. «Lord Soth», mormorò. Le sue parole restarono sospese in un silenzio imbarazzato. «Il cavaliere ha ancora i nervi a fior di pelle per il viaggio», spiegò Strahd in tono amabile, gli occhi incatenati alla pelle morbida e immacolata della donna. «Spostiamoci in sala da pranzo per mangiare qualcosa e per un piacevole intrattenimento.» «Non ho bisogno di cibo», osservò Soth, cupo. Strahd posò una mano sulla spalla del cavaliere della morte. «Ma la signora, sì», ribatté. «E sono certo che troverete l'intrattenimento di vostro gradimento.» Soth si sottrasse immediatamente alla stretta del conte, insofferente al tocco del nobiluomo. «Non ne vedo il bisogno, conte. Voglio informazioni, non diversivi.» Magda restò immobile, timorosa di disturbare il silenzio teso che scese nella stanza. Strahd e Soth si fissarono. Senza sollevare il braccio, il conte tracciò un disegno in aria con la punta del dito. Né il cavaliere né la Vistarti si accorsero di qualcosa. La musica di un violino risuonò improvvisamente nella stanza accanto. «Ah, ha cominciato senza di noi», commentò il conte, simulando una finta sorpresa. Un'espressione sconcertata apparve sul viso di Magda. «Non c'era nessuno là dentro fino a un attimo fa e per entrare in quella stanza bisogna passare da qui...» Si diresse verso la porta aperta e sbirciò nella grande sala dove si era cambiata. Tre enormi candelieri di cristallo illuminavano la stanza. Colonne di pietra stavano sull'attenti lungo le pareti di marmo bianco. Il tavolo di legno era ricoperto da una raffinata tovaglia di raso, immacolata come il soffitto e le pareti. Gli abiti che Magda aveva provato, e gli stracci che aveva dismesso, erano buttati sul lato del tavolo vicino alla porta; sull'estremità opposta, erano state disposte un'elegante apparecchiatura per tre persone e
invitanti prelibatezze. Piatti e manicaretti non c'erano quando pochi minuti prima Magda si era cambiata, eppure la Vistani notò appena l'arrosto o il vino rosso. La sua attenzione venne attratta dalla figura solitaria dall'altra parte della sala. Il musicista era in piedi davanti a un massiccio organo a canne incorniciato da due specchiere, che occupavano tutta la parete. Il giovane aveva la testa coperta da un fazzoletto variopinto, una sciarpa nera gli proteggeva la gola e intorno alla vita snella portava una fusciacca. I pantaloni neri erano stracciati e macchiati di sangue, come anche la camicia bianca. La testa china, l'uomo si muoveva come un giocattolo meccanico che Magda aveva visto una volta in un villaggio. Terminata la canzone, il musicista sollevò il capo. «Andari!» gridò Magda, barcollando verso di lui. Fu soltanto quando si trovò accanto al fratello che ne notò l'aspetto malsano. La pelle solitamente scura era pallida, gli occhi spenti e assenti. «Andari?» Quando lui non rispose, gli posò una mano sulla guancia. Era fredda ed esangue. «Nel tardo pomeriggio tuo fratello si è precipitato al villaggio, mettendo uomini e donne in guardia contro la creatura che aveva ucciso Madame Girani», spiegò Strahd dal vano della porta. Si voltò verso Soth. «Come vi ho detto prima, sono piuttosto irritato per il trattamento riservatovi dal clan. La progenie di Girani verrà perseguitata ed eliminata per l'insulto. Andari è stato solo il primo.» La stanza iniziò a girare vorticosamente davanti agli occhi di Magda. La fanciulla allungò la mano per aggrapparsi al fratello, che aveva appena abbassato la testa per riprendere a suonare. «Non preoccuparti, Magda», disse Strahd. «Poiché hai collaborato con Lord Soth, ti risparmierò.» La voce sembrava giungere da molto lontano. Con un grido sommesso, la giovane crollò a terra, svenuta. Mentre cadeva, strappò il violino dalle mani di Andari, ma quello che un tempo era suo fratello non se ne accorse nemmeno. Continuò a muovere l'archetto come se avesse ancora avuto lo strumento fra le mani. Strahd sospirò. «La mia sorpresa sembra averla stremata.» «Perché lo avete fatto?» domandò Lord Soth sebbene le condizioni della donna lo lasciassero totalmente indifferente. «È andata come ho spiegato. Andari è arrivato al villaggio gridando ai quattro venti ciò che era accaduto all'accampamento Vistani. Aveva ori-
gliato al carrozzone della vecchia, perciò sapeva tutto quello che vi eravate detti. Venuto a conoscenza dei fatti, ho ritenuto che voi foste stato insultato e ho deciso di intervenire punendo il clan nel modo che vedete.» Strahd agitò una mano in aria. «Ritenete che la punizione sia sufficiente per l'offesa subita?» Soth seguì il suo ospite. «Sì.» Il conte sembrò rallegrarsene. «Bene», commentò. Con ostentazione, gettò il mantello oltre una spalla e si chinò per prendere la Vistani fra le braccia. «Mi occuperò di Magda. La porterò in una stanza al piano superiore, dove potrà riposare. Se non vi spiace, aspettatemi qui. Tornerò fra un attimo. Ci sono parecchie cose di cui dobbiamo parlare.» Senza aspettare una risposta, il conte si allontanò con la fanciulla in braccio. «Sono certo che troverete l'attesa proficua, Lord Soth», aggiunse, raggiunta la porta. «Ho qualcosa di grande valore da offrirvi.» La voce di Strahd che canticchiava il motivo suonato da Andari risuonò dalla stanza attigua, poi dalla scala. Quando scese nuovamente il silenzio, il cavaliere della morte incrociò le braccia e si guardò intorno. Studiò attentamente una delle grandi specchiere che torreggiavano su entrambi i lati dell'organo. Per la prima volta da molti anni vide la propria immagine: armatura annerita, mantello fluttuante, fiammeggianti occhi arancioni, ma in realtà non era il suo riflesso a interessarlo. Un istante prima, Strahd aveva sollevato Magda ed era passato attraverso quello specchio senza riflettere alcuna immagine. Ripensando a quel particolare, Soth si avvicinò ad Andari. Il Vistani stava ancora pizzicando l'aria, muovendo meccanicamente l'archetto avanti e indietro. Lentamente, il cavaliere slacciò la sciarpa nera che proteggeva il collo del ragazzo. Aveva la gola squarciata e la carne intorno a essa pendeva a brandelli. «Sì», mormorò Soth, «il conte è un uomo dalle mille sorprese». Rimise delicatamente a posto la sciarpa, quindi raccolse il violino. Dopo averlo risistemato fra le mani del musicista, si sedette al lungo tavolo e attese il ritorno del suo ospite. La porta della camera da letto si aprì spontaneamente appena Strahd ci si avvicinò. Come qualsiasi altro oggetto all'interno del castello, anch'essa riconobbe il suo signore e padrone. Un letto a quattro colonne troneggiava nella stanza. Le lenzuola bianche erano ammuffite e le tarme avevano bucato il tessuto diafano che pendeva
dal baldacchino, ma alla luce dell'unica torcia che illuminava la camera, il letto appariva elegante e sfarzoso. Il conte posò Magda sul materasso. Il volto nella penombra, indietreggiò per ammirare la fanciulla. I capelli della Vistani si erano sciolti. In netto contrasto con il candore del cuscino, i riccioli corvini si allargavano a raggiera intorno al viso. Gli occhi di Strahd scivolarono dalle guance pallide per lo spavento alla delicata curva del collo fino alle spalle nude e abbronzate. Si umettò le labbra e improvvisamente venne travolto da un impeto di lussuria. Magda aprì gli occhi e il terrore s'impadronì di lei. La sagoma di Strahd, circondata da teli di garza consunta, si profilava su di lei. L'uomo teneva gli occhi chiusi, ma la bocca spalancata lasciava intravedere denti bianchi e affilati. Quando Strahd l'afferrò, la zingara urlò con quanto fiato aveva in gola. «Dovrei ucciderti per quello che sai», la zittì lui, fissandola con occhi iniettati di sangue. Il controllo acquisito in centinaia di anni di vita permise a Strahd von Zarovich di sconfiggere la voglia impellente di bere il sangue della Vistani. Miriadi di esseri affollavano la dispensa che il conte teneva nelle prigioni sotterranee; si sarebbe dissetato con uno di loro prima del sorgere del sole. «Le forze oscure ti sono amiche questa notte», mormorò, lasciando andare la fanciulla. «Ho un lavoretto per te. Apri bene le orecchie.» Magda si rannicchiò contro la testata del letto abbracciandosi le gambe. «Ora che sei comoda», commentò Strahd in tono nuovamente mellifluo, «passiamo alla mia generosa offerta.» Sorrise. «Devi continuare a fare da guida a Lord Soth. In cambio, ti lascerò vivere.» «Do... dove devo condurlo?» balbettò la ragazza. «Il cavaliere della morte dovrà svolgere un incarico per me», replicò il conte. «Lo accompagnerai e ogni giorno mi farai rapporto utilizzando una spilla incantata che ti darò.» Magda cercò disperatamente di scacciare la paura dai suoi occhi e di fermare il tremore delle sue mani. «Noi Vistani viviamo per servirvi, Vostra Eccellenza», disse con voce pacata, rilassandosi. Pronunciò la menzogna con la stessa disinvoltura che l'aveva aiutata a vendere gingilli inutili ai boiari del villaggio; tuttavia, Strahd non era un povero commerciante ignorante. Il conte trovò divertente la falsità della donna. Le prese il mento fra le dita e la fissò negli occhi. «Penso tu abbia capito che sono un uomo di
mondo, Magda. Servimi bene e verrai ricompensata.» Strahd attraversò la stanza. «Non uscire da qui fino a quando non ti chiamerò», le ordinò. «Dirò a Lord Soth che stai riposando dopo la lunga marcia.» L'uomo chiuse la porta ma non girò la chiave. Quella doveva essere una prova per la Vistarli, decise. Se avesse obbedito agli ordini e fosse rimasta nella stanza fino al tramonto del giorno successivo, avrebbe potuto fidarsi di lei e affidarle altri incarichi. In caso contrario... beh, il castello era ben protetto e le creature che pattugliavano le mura durante il giorno l'avrebbero fatta a pezzi. Soddisfatto della decisione presa, attraversò rapidamente la parete ed entrò in una stanza senza bussare, facendo trasalire la figura solitaria che la occupava. «Mio signore», mormorò Caradoc. Lo spettro si inchinò, ma il collo rotto fece apparire il gesto più comico che ossequioso. Strahd gli fece segno di alzarsi. «Lord Soth è arrivato», mormorò il vampiro, in tono sadicamente divertito. «È come mi avevi descritto.» 7 Il suono della voce del conte fece schizzare un topo dalla sua tana al ballatoio sul quale si trovavano il vampiro e il cavaliere della morte. La creatura obesa squittì ai due uomini. Gli occhietti tondi brillarono alla debole luce del candelabro di Strahd. «Ah», esclamò il conte, sinceramente compiaciuto, «fai bene il tuo lavoro». Dopo un lungo squittio, il ratto si diresse ondeggiando verso una crepa nel muro. Strahd, soddisfatto del rapporto appena ricevuto, si diresse verso un piccolo corridoio oltre il ballatoio. «I topi sono solo alcuni degli esseri che fanno la guardia alla mia casa», spiegò a Lord Soth. Mentre avanzavano lungo il corridoio, il cavaliere della morte udì dei singhiozzi. Inizialmente gli parve una sola voce ma ascoltando meglio, capì che si trattava di un coro di voci. Il suono proveniva dal corridoio che si diramava alla sinistra di Soth. Pozze di acqua putrida insudiciavano il pavimento e scarafaggi neri, grandi quanto il pomo della spada del cavaliere, si aggiravano ovunque. Oltre le porte di legno marcio che si allineavano su entrambi i lati, pianti e suppliche si fondevano in un unico lamento.
Erano i primi segni di vita umana che il cavaliere rilevava da quando era giunto al castello di Ravenloft. Quel luogo era immenso ma sembrava deserto quanto il maniero Dargaard Keep. E se la sua fortezza aveva una collezione di banshee e scheletri guerrieri, la casa di Strahd sembrava principalmente il rifugio di ratti, ragni e poco altro. In generale, quel luogo appariva al cavaliere della morte come un monumento alla decadenza. Statue e dipinti affollavano molte stanze, ma tutte le opere d'arte erano state devastate dal tempo. Strahd aveva richiamato l'attenzione del suo ospite sulla cappella del maniero, una stanza enorme un tempo impreziosita da una magnifica collezione di finestre dai vetri colorati. Ma ora le finestre erano infrante o coperte con assi. La cappella stessa era disseminata di pezzi di panche distrutte, l'altare inutilizzato. Strahd si voltò indietro e vide Soth lanciare un'occhiata nel corridoio sul quale si aprivano le celle dove teneva rinchiuse le sue provviste. Il vampiro aggrottò le sopracciglia e aprì la porta di ferro innanzi a sé. «Da questa parte, Lord Soth. Voglio che incontriate un uomo che ha delle informazioni che sono certo troverete molto interessanti.» Il cavaliere della morte spostò la propria attenzione dalle implorazioni dei prigionieri al proprio ospite e seguì quest'ultimo in una grande stanza. La porta si chiuse con un tonfo. «Buona sera, ambasciatore Pargat», disse il vampiro. Teneva il candelabro in alto, ma la luce era troppo fioca per illuminare tutto l'ambiente. «C'è una visita per voi.» Temendo un'imboscata, Soth s'irrigidì e strinse l'elsa della spada. In quella stanza poteva esserci di tutto. Strahd s'accigliò. «Forse dorme.» Notando la posizione di allerta del cavaliere, aggiunse: «Non temete, Lord Soth. L'ambasciatore è ormai innocuo». A una parola del vampiro, le torce disseminate lungo i muri si accesero. Con l'esclusione delle porte che si aprivano su tre lati della stanza, nessun manufatto prodotto da mani umane adornava le fredde pareti di pietra, su cui spuntavano licheni e icore verdi. Ragnatele grandi quanto Soth, e geometricamente precise quanto le strade di Palanthas, affollavano gli angoli. Sulle dimensioni dei ragni Soth non poté scoprire nulla, poiché gli animali rimasero nascosti. Ma che fossero di dimensioni inusuali lo testimoniavano i topi intrappolati e paralizzati nei fili di seta. L'ambasciatore giaceva al centro della stanza, circondato da una struttura metallica intricata quanto le ragnatele dei ragni giganti. Il congegno pog-
giava su otto gambe di spesso acciaio, da cui partivano delle cinghie d'argento che tenevano l'uomo sospeso dal pavimento con braccia e gambe spalancate. Una serie di pesi, carrucole e contrappesi pendeva sopra il prigioniero, collegata alla lama di un'ascia di bronzo e a una schiera di pugnali d'argento e di bronzo. «Ripeto: buona sera, ambasciatore Pargat.» Il prigioniero si svegliò e mormorò parole incomprensibili. «Non sapete fare niente di meglio? Temo non sia sufficiente.» L'ambasciatore iniziò a piagnucolare appena il signore del castello di Ravenloft gli si avvicinò. Il vampiro appoggiò il candelabro a terra e si sfregò il mento in atteggiamento pensoso. «Ah!» esclamò infine. «La lingua. L'abbiamo danneggiata, vero?» Accarezzò la lama d'argento sospesa sul volto di Pargat. «Avrei dovuto prevederlo.» Mentre il vampiro toglieva la lama d'argento insanguinata e la sostituiva con una di bronzo, Lord Soth si avvicinò per studiare lo strumento di tortura. Quando l'ambasciatore vide il nuovo venuto, implorò, gemette e imprecò. Soth non capiva le parole distorte dell'uomo, ma bastava guardare quegli occhi terrorizzati per capirne il significato. Strahd indicò distrattamente il prigioniero. «Lord Soth, questo è l'ambasciatore Pargat. È un messaggero del duca Gundar, signore di Gundarak, un ducato confinante.» Basso e magro, l'ambasciatore sembrava, tuttavia, piuttosto forte; a ogni suo movimento, la struttura metallica gemeva. Le manette che Strahd gli aveva chiuso ai polsi, alla vita e alle caviglie erano di un particolare acciaio a reticolato, più flessibile delle catene ma ugualmente efficace. La camicia bianca priva di bottoni di Pargat era stracciata e dai buchi orlati di sangue si intravedevano ferite e, in altri punti, pelle rosea e sana. Gli stivali e i pantaloni erano nelle stesse condizioni delle camicia e tutti i buchi erano allineati con le lame che pendevano minacciosamente dalla struttura. «Non mi piacciono le torture», affermò Strahd in tono di scusa. Indietreggiò e sembrò riflettere. Soth era certo che, in realtà, il conte stesse ammirando la propria creazione. «Sembra uno strumento ingegnoso», commentò il cavaliere della morte. Con un sospiro, Pargat smise di implorare. «In realtà è molto semplice», spiegò il conte, infervorandosi immediatamente sull'argomento. «I pesi e le carrucole muovono le lame. Possono tenere la macchina in funzione per ore senza bisogno di una persona che
controlli.» Il vampiro girò intorno alla struttura metallica, accarezzando le lame e regolando la tensione dei pesi. «Avrete notato che alcune lame sono d'argento e altre di bronzo. L'ambasciatore è infatti un licantropo.» Voltò bruscamente la testa del prigioniero e fece scivolare una mano inguantata sulla sua guancia. Soth toccò una delle ferite dell'ambasciatore; l'uomo sussultò, soffocando un grido. «Le lame d'argento gli procurano ferite profonde e dolorose, al contrario di quelle di bronzo, le cui ferite lo lasciano indifferente. Grazie ai suoi poteri di guarigione, il licantropo teme solo l'argento.» «Capisco.» Fu il turno di Soth di girare intorno alla macchina. «E togliete una lama d'argento ogniqualvolta vi fornisce informazioni che vi interessano?» Un ghigno beffardo apparve sul volto di Strahd. «Esattamente il contrario. Per ogni informazione che mi dà sul suo padrone aggiungo una lama d'argento. Prima o poi il dolore, o più semplicemente le ferite, lo uccideranno.» Tirò i capelli impregnati di sangue dell'uomo. «Sono certo che Pargat si augura che accada il più presto possibile. Questa tattica è una sorta di... incentivo per spingerlo a rivelare rapidamente tutto quello che sa. Giusto, ambasciatore?» La risposta di Pargat fu solo un brontolio confuso, ma dal tono della voce non fu difficile interpretarla come una serie di maledizioni. «Che maleducato», osservò Strahd con finta indignazione. Dopo di che, sostituì la lama di bronzo posizionata sull'occhio sinistro del prigioniero con una d'argento. Soth osservò i lineamenti dell'uomo. Gli occhi azzurri di Pargat erano vacui, il volto sottile, rigido per il dolore. Le narici erano dilatate al punto da deformare il naso e un largo taglio sulla guancia rivelava denti bianchi e spezzati e quanto rimaneva della lingua. Ogniqualvolta il prigioniero cercava di parlare, sulla superficie della ferita compariva un miscuglio di sangue e saliva. «Che informazioni può mai avere quest'uomo che possano interessarmi?» domandò Soth. Posando una mano sul braccio del cavaliere, Strahd sorrise. «C'è solo un modo per fuggire da questo inferno ed è attraverso un portale che conduce in un altro mondo. L'ambasciatore sa dove si trova una di queste uscite.» «Quest'uomo conosce il portale per tornare a Krynn?» «Sa dove si trova un portale per uscire da questi inferi», lo corresse Strahd. «Non ho idea di che cosa si trovi al di là di quel passaggio. Ma un
cavaliere dalle mille risorse come voi non dovrebbe avere difficoltà per tornare a Krynn, una volta uscito dal ducato, naturalmente.» Il vampiro fece scivolare un dito sull'estremità della lama di bronzo che pendeva sulla gola di Pargat. Il pugnale oscillò su una rotaia ben oliata. «So che il portale si trova nel castello del duca Gundar. Quando l'ambasciatore si deciderà a parlare, sostituirò questa lama con una d'argento. La sua vita e le sue pene cesseranno istantaneamente.» «Da quanto tempo si trova qui?» «Tre giorni.» Strahd osservò i lineamenti del prigioniero alla ricerca di un segno di cedimento. «Gundar lo ha mandato per recapitarmi un ultimatum su questioni di carattere commerciale: libertà di movimento per i commercianti o qualcosa del genere.» Il cavaliere della morte scosse la testa. «Se dopo tre giorni di tortura non vi ha ancora detto ciò che volete sapere, non lo farà mai.» «Avete troppa fretta, Lord Soth», commentò il conte, prendendo nuovamente in mano il candelabro. «Il primo giorno la macchina ha funzionato solo alcuni minuti. Il secondo per un'ora. Questa notte, non si fermerà.» Il vampiro si rivolse al prigioniero. «Probabilmente perderete conoscenza per il dolore, ma non abbiate paura, non vi lascerò morire.» Senza degnare Pargat di uno sguardo, Strahd tirò la leva che metteva in funzione la macchina. «Venite, Lord Soth. Torneremo più tardi per vedere se le lame gli hanno fatto tornare la memoria.» Il cavaliere della morte lanciò un'occhiata dietro di sé mentre seguiva il conte fuori dalla stanza. Con un tremito, la struttura iniziò a muoversi, sollevando e abbassando le lame con una precisione cronometrica. La testa dell'accetta dondolava come un pendolo, tagliando la gola di Pargat e la lama d'argento si conficcò nell'occhio. Il prigioniero gridò e arcuò la schiena, non per evitare le lame ma per spingerle più a fondo nella speranza di procurarsi una ferita mortale. Mentre la porta si chiudeva dietro Soth e Strahd, il vampiro sorrise. «Ho permesso a Pargat di dormire perché il sonno è molto simile alla morte. Se anela alla tregua del sonno dal dolore, mi dirà presto ciò che voglio per poter riposare in eterno.» «Non potete ricorrere a un incantesimo per leggergli nella mente?» Scuotendo la testa, il conte si avviò lungo il corridoio. «Il duca Gundar, o per essere più precisi, suo figlio, è un mago di provata abilità. Non sono mai stati così stupidi da mandare qualcuno privo di protezione magica da simili incantesimi. Il primo ambasciatore è esploso quando cercai di inter-
rogarlo ricorrendo alla magia.» Passando accanto alle porte allineate lungo il corridoio, Soth chiese: «Magda è in una di queste stanze?» «Sta riposando di sopra», rispose il vampiro, sorpreso. «Come mai me lo chiedete? Quella ragazza vi interessa?» «Assolutamente no», replicò l'altro senza lasciar trapelare alcuna emozione. «La mia era solo curiosità.» «Naturalmente», commentò Strahd un po' troppo affettatamente. Raggiunse l'ultima porta e si fermò. Soth lo seguì, camminando sulla sporcizia e i nugoli di scarafaggi che coprivano il pavimento. Le grida pietose degli abitanti delle celle risuonarono nel silenzio. «Perché mi avete abbandonato, Dei della Luce?» urlò una donna. «No», rispose un uomo dalla voce grave. «Troveremo una via di uscita. Solo uno di noi deve scappare. Mettiamoci al lavoro.» Quando nessuno rispose alla sua esortazione, la ripeté. Una volta e poi un'altra ancora. Dietro un'altra porta, un uomo singhiozzava disperatamente. Di tanto in tanto, mormorava alcune parole, ma pronunciate in una lingua che il cavaliere della morte non aveva mai sentito. «Da questa parte, Lord Soth», disse il conte aprendo un uscio al termine del corridoio. La minuscola stanza in cui entrarono aveva solo un tavolino, uno sgabello e un camino spento. Strahd posò il candelabro sul tavolo traballante, illuminando un vecchio avvizzito, gli occhi spenti che scrutavano la cella, inutilmente. Era seduto sullo sgabello e toccava l'aria con dita insanguinate. Le labbra secche si muovevano senza emettere alcun suono. «Mi avevate chiesto come facevo a sapere tanto su di voi», spiegò Strahd. «Questo è Voldra, un mistico di una certa abilità, sebbene sia muto, sordo e cieco al mondo intorno a lui.» Il vampiro mormorò una parola magica e una porticina si aprì nella pietra. Una sfera di cristallo, bianca come gli occhi e l'irta barba di Voldra, era nascosta nella nicchia segreta. «Con questa», spiegò il conte, sollevando la sfera, «Voldra può svelarmi particolari su coloro che lavorano per me o contro di me». «Può dirci qualcosa di più su questo duca Gundar o sul portale che si trova nel suo castello?» «Hmm», gemette il mistico quando il globo di vetro venne a contatto con le sue dita ossute. Iniziò a tessere uno strano disegno sul cristallo,
sporcando il vetro con il sangue delle dita. «Soffre per la mancanza di contatto con il mondo», affermò Strahd, quindi aggiunse: «Quelle ferite se le è procurate nel tentativo di scavare una via di fuga». Il cavaliere della morte e il vampiro osservarono Voldra tracciare un intricato motivo sul vetro. Dopo qualche istante, Strahd prese una penna e una pergamena dalla nicchia e le posò sul tavolo. «Risponderà alle vostre domande, sebbene non le senta. Io stesso non sono ancora riuscito a capire come funzionino i suoi poteri, ma solitamente sono soddisfatto delle informazioni che mi passa.» Tremando violentemente, l'anziano mistico afferrò carta e penna e scrisse un messaggio. Lo sforzo sembrava prosciugarlo di ogni energia e quando ebbe terminato, si accasciò sul tavolo, esausto. Il conte afferrò il foglio e lesse ad alta voce: «"Il sangue di un bambino che non è mai stato innocente apre le porte del castello di Hunadora. La pazzia non è debolezza, perciò guardatevi dal figlio immortale".» Strahd accartocciò la pergamena. «Questa roba non serve a niente», sospirò e sollevò l'anziano mistico dallo sgabello. Voldra ciondolò nella morsa del vampiro come una bambola di pezza nelle mani di un bambino. «Riprovaci, d'accordo?» Il conte rimise l'uomo davanti alla sfera di cristallo e il vecchio si concentrò nuovamente per cercare di offrire al suo aguzzino una risposta migliore. «È lo stesso messaggio che Voldra ha scritto l'ultima volta che gli ho chiesto informazioni sul portale», spiegò Strahd, buttando la carta nel camino spento. «Non mi dice niente di nuovo. Temo che il problema sia la distanza. Più Voldra è lontano dalla persona oggetto della sua ricerca, più il messaggio diventa nebuloso e confuso.» Soth si avvicinò al camino e raccolse la pallottola di carta. Dopo aver letto il contenuto, la lasciò cadere sul pavimento. «Sapete chi è il bambino di cui si parla?» Tenendo gli occhi fissi su Voldra, ancora impegnato ad agitare le mani sulla sfera, il signore di Ravenloft annuì. «Il bambino è il figlio di Gundar. Per aprire il portale è necessario entrare nel castello del duca, e versare il suo sangue o quello del figlio. La chiave è il sangue. Questo è chiaro. Ciò che bisogna scoprire è in quale parte del castello si trova esattamente il portale.» «Come fate a sapere che il loro sangue aprirà il portale?» «Lo dicono la leggenda, le informazioni che ho strappato ad ambasciato-
ri e rifugiati da Gundarak, la tradizione orale dei Vistani, i messaggi di Voldra.» Il vampiro si avvolse nel mantello e si stirò voluttuosamente, come un pipistrello svegliatosi dopo un lungo sonno. «Tante fonti non possono sbagliarsi.» Il silenzio scese nella stanza mentre sia il conte che il cavaliere della morte prendevano in considerazione ciò che avrebbero guadagnato dall'impresa contro il duca Gundar. Da parte sua, Lord Soth si chiese se quella potesse essere la via giusta per tornare a Krynn, da Kitiara. Morto Caradoc, avrebbe dovuto cercare il signore tanar'ri che teneva prigioniera l'anima della donna, ma quello non era un problema. Niente gli avrebbe impedito di ricatturare la forza vitale della Signora dei Draghi e di fare di lei la sua compagna immortale. Anche la mente del vampiro si addentrò in piani diabolici. Per molti anni, Strahd e Gundar si erano scambiati insulti e scortesie. Il conte uccideva automaticamente tutti gli ambasciatori inviati dal duca e quest'ultimo lo ripagava con la stessa moneta. Per quei due signori degli inferi inviare un messaggero che non morisse troppo facilmente era diventata una sorta di sfida perversa; naturalmente, i loro inviati erano individui di cui non avevano più bisogno o che comunque non avevano saputo soddisfarli pienamente nell'esercizio dei loro doveri. Ma ora il conte cominciava a stancarsi di quel giochetto. Le grida dei prigionieri e il suono delle dita di Voldra che sfregavano il vetro lo riportarono alla realtà. A un tratto, le mani del mistico scivolarono dalla sfera. L'uomo cercò tastoni la penna e, trovatala, iniziò a scrivere. Come in precedenza, Voldra cominciò a tremare mentre le parole si facevano strada attraverso lui per poi fissarsi sulla pergamena. «Questa volta la risposta è molto più lunga», osservò Strahd. Il vampiro e il cavaliere della morte si piegarono sul vecchio, in attesa che terminasse di scrivere. Quando infine Voldra crollò sul tavolo, privo di energie, il conte prese il foglio. «"Il successo ti costerà ogni cosa"», lesse il vampiro. Strizzò gli occhi cercando di decifrare alcune parole. «Ci sono alcuni scarabocchi incomprensibili, poi continua: "Termina all'inizio, e..."» Strahd sollevò il foglio verso la luce per illuminare il messaggio. L'ombra della carta si rifletté sulla parete, mentre quella di Strahd, come era normale per quelli della sua specie, non apparve. «Temo che questo secondo tentativo abbia spossato completamente Voldra. Non si legge quasi niente.» Lanciò un'occhiata a Soth e aggiunse: «Riesco a decifrare solo
l'ultima riga: "Il generale dal sorriso sleale è per te irraggiungibile"». Il cavaliere della morte s'irrigidì e, senza tanti preamboli, strappò il foglio dalle mani di Strahd. Lesse ciò che poté del messaggio che, come aveva già detto il conte, terminava con una frase leggibile. Il generale dal sorriso sleale, ripeté fra sé e sé, mentre la rabbia s'impadroniva di lui. Quella era Kitiara! «Avete detto che può scoprire qualcosa sul castello del duca e sulla posizione del portale, giusto?» affermò Soth con voce tonante, mentre stracciava in due la pagina. Strahd si appoggiò al tavolo con grazia felina. «Voldra risponde a qualsiasi domanda di vitale importanza per chi si trova accanto a lui. Mi sembra di capire che conosciate questo generale, o sbaglio?» Veloce come una saetta, il cavaliere della morte afferrò la sfera di cristallo. La sollevò in aria e la scagliò contro il pavimento. Un lampo illuminò la stanza e un rombo di tuono scosse il tavolo, facendo sbattere la porta sui cardini di ferro. Quando la nuvola nociva di nebbia multicolore si dissipò, Soth e Strahd si trovarono faccia a faccia. «Stupido!» gridò Strahd. «Quel cristallo non può essere sostituito!» Gesticolò verso il vecchio. La barba e i capelli di Voldra erano bruciati e buona parte del lato destro dell'uomo era nero per l'esplosione. «Senza il cristallo mi serve poco.» Soth incrociò le braccia al petto. «Non amo che altri leggano i miei pensieri», affermò in tono calmo. «Ho ucciso la strega Vistani per quell'offesa. Il vecchio non è diverso. Se dite che senza la sfera di cristallo non può leggere, allora a me serve ancor meno. Sarebbe un piacere ucciderlo.» «Il vostro piacere non ha alcuna importanza», sibilò il vampiro. Si inginocchiò accanto a Voldra e avvolse le lunghe dita intorno al collo del vecchio. Un rantolo sfuggì dalle labbra del mistico, quindi il conte gli girò bruscamente la testa, spezzandogli il collo. Strahd mantenne sempre lo sguardo fisso su Soth. Quando il signore di Ravenloft si rialzò, il suo volto era rosso d'ira. «Io sono il padrone di questo regno, Soth, e la chiave per la vostra fuga è nelle mie mani. Se volete tornare a Krynn, se volete rivedere il sorriso sleale del vostro generale, farete bene a ricordarvelo.» La mano di Soth si abbatté sul tavolo, facendo schizzare ovunque schegge di legno. Il candelabro cadde a terra, le candele si spensero. «Su Krynn sono uno dei servitori prediletti della dea scura, Takhisis», disse, avvicinandosi a Strahd nell'oscurità. «Là, lei è la mia padrona. A Barovia, non
riconosco altri poteri.» Il cavaliere della morte fece partire un colpo diretto alla testa del conte. Ma prima che il guanto di cotta si fosse avvicinato all'obiettivo, il vampiro afferrò il polso di Soth. Gli sguardi dei due non-morti si incatenarono. La mano sinistra di Soth iniziò a muoversi ritmicamente. «Non penserete di usare un incantesimo contro di me?», sibilò Strahd, aumentando la pressione intorno al polso del cavaliere. «Ho studiato la magia per secoli e conosco degli incantesimi che potrebbero distruggervi.» Dopo qualche istante, quando la tensione aveva ormai abbandonato il braccio di Soth, il vampiro gli liberò il braccio. Strahd si avvolse nuovamente nel mantello e il colore dell'ira svanì dalle guance. «Sono giunti altri viaggiatori da Krynn», mormorò il conte in tono divertito. «Voldra e altri quattro sono arrivati a Barovia venticinque... anzi no, trent'anni fa. Provenivano da Palanthas.» Immobile, Soth ascoltava il conte. L'ultima volta che si era trovato ad affrontare un nemico di pari valore era ancora umano e quella consapevolezza lo agghiacciò. «Voldra si definiva un "Mago dalle Vesti Rosse"», continuò Strahd, gli occhi che scintillavano nell'oscurità, «e sosteneva di essere un servitore del grande dio Gilean, patriarca della Neutralità. Questo Gilean deve essere un rivale di Takhisis, giusto?» Il mantello del vampiro ondeggiò dietro di lui, quando si piegò sul cadavere del mistico. «Gilean non ha mandato le sue schiere per punirmi quando ho strappato la lingua a Voldra. I suoi servi non verranno nel castello di Ravenloft per portare il corpo del morto, o la sua anima, nel luogo dell'eterno riposo.» Alzandosi, raccolse il candelabro. A una sua parola, le candele si riaccesero. «In questo inferno, gli dei di Krynn non sono nessuno, cavaliere. Servitemi o non abbandonerete mai più questo luogo.» Nel silenzio che seguì, le grida dei prigionieri risuonarono distintamente. «Perché mi avete abbandonata, Dei della Luce?» urlò una donna. «Soltanto uno di noi deve fuggire», gridò un uomo con voce grave. «Mettiamoci al lavoro.» Il vampiro represse un improvviso sbadiglio. «Immagino di poter interpretare il vostro silenzio come un assenso. Saggia scelta.» Liberatosi dello stupore per il potere del vampiro, il cavaliere della morte calciò con noncuranza il corpo di Voldra. «Che cosa ne avete fatto degli altri quattro provenienti da Palanthas? Sono anche loro nella vostra dispensa?»
Strahd inclinò il capo. «Voldra era l'unico che potesse servirmi. Ho lasciato gli altri a vagare a loro piacimento nel ducato.» Si strofinò il mento con fare pensoso. «Uno di loro è ancora vivo. Un grasso chierico di nome Terlarm. Abita al villaggio.» Il signore di Ravenloft si mosse silenziosamente verso la porta. «Temo che dovremo riprendere la nostra chiacchierata questa sera, Lord Soth. Si avvicina il tramonto e sono piuttosto affaticato per la nostra... discussione.» Voltò le spalle al cavaliere della morte e scomparve nel corridoio. Le narici colme del puzzo di carne bruciata di Voldra e le orecchie assordate dai lamenti dei prigionieri, Lord Soth rimase nella piccola cella. Era decisamente lontano da casa, separato da Takhisis, dalle banshee e dagli scheletri guerrieri che in passato avevano sempre eseguito i suoi ordini. Eppure, il cavaliere della morte non era mai stato uno che accettava facilmente la sottomissione. Fermo sulla soglia, un topo scrutò nella stanza. Fissò Soth con occhietti neri e tondi e arricciò il naso annusando l'aria. Appena Soth si mosse verso di lui, la creatura, che si nutriva di carogne si accovacciò, ma non fuggì. «Strahd crede che sia sconfitto al punto tale che le sue spie parassite non debbano temermi?» mormorò Soth. Sollevò uno stivale e schiacciò il topo sotto il tacco. Allo squittio di morte dell'animale fecero eco le grida di una dozzina di suoi simili disseminati ovunque. Quell'attacco, il cavaliere della morte lo sapeva, sarebbe stato riportato a Strahd come un atto di sfida. Non aveva importanza; Soth intendeva fare ben peggio prima del tramonto del sole. 8 In piedi davanti a una torcia, Magda ne osservava la fiamma immobile. Prodotto dalla magia, il legno che alimentava il fuoco riappariva non appena veniva bruciato. La zingara si trovava in quella stanza da ore. «Se resto qui, diventerò una delle schiave del conte», iniziò, riprendendo le elucubrazioni iniziate da quando Strahd l'aveva lasciata. Rivide il fratello, gli occhi vuoti come quelli di un morto, impegnato a suonare tristi melodie. L'immagine la fece tremare di paura e disgusto. Le antiche leggende della tradizione Vistani avevano spesso come protagonisti i vampiri e Magda sapeva bene ciò che l'aspettava nel caso il conte avesse deciso di nutrirsi di lei. Sarebbe divenuta un povero essere infelice e assetato di sangue, costretto a eseguire gli ordini di Strahd. Avrebbe
vagato nella notte, uccidendo suoi simili per potersi nutrire. Era un destino orribile. Se solo ci fosse stata una finestra nella stanza! La luce del giorno era nemica dei vampiri. Protetta da quella luce, avrebbe potuto trovare il coraggio di avventurarsi nel castello. A quell'ora sarebbe almeno stata certa che Strahd riposava nella sua bara. «Il conte non è così stupido da non proteggere la sua casa mentre dorme. Ci saranno delle guardie», mormorò, chiudendo gli occhi. «Ma giorno o notte che sia, se resterò qui, Strahd mi ucciderà. Se cerco di scappare, avrò almeno una possibilità.» Fissò ancora una volta le fiamme delle torce. All'accampamento, con la musica di Andari che l'accompagnava nella danza, sarebbe stata capace di evocare l'immagine di antichi eroi della tradizione Vistarti, di raccontare le storie di atti di grande eroismo, di fughe temerarie e di liberazioni mozzafiato. Un sorriso le illuminò il viso mentre ripensava alla leggenda di Kulchek e il gigante. Era una delle sue preferite. La storia narrava di come l'astuto eroe fosse riuscito a ingannare un gigante, rapirne la bellissima figlia e fuggire da un castello colmo di trappole. Andari aveva sempre odiato quelle leggende, perché erano troppo fantasiose per uno dall'immaginazione limitata come la sua. Tuttavia, il suo disprezzo non aveva mai diminuito la passione di Magda per quei racconti. Se potesse, ora Andari si rimangerebbe le sue parole, pensò confusamente. Presa la decisione, Magda legò la lunga gonna rossa in un nodo su un fianco. Restò sorpresa nel notare che le mani le tremavano appena. Forse sono più coraggiosa di quanto pensassi, decise. Dopo tutto, sono sopravvissuta alla marcia fino al castello in compagnia di un cavaliere della morte. Perché non dovrei riuscire a fuggire per tornarmene nella foresta? Afferrata la torcia, si diresse verso la porta e l'aprì lentamente. La luce fece fuggire alcuni topi. Dalle fessure nei muri di pietra, i piccoli predatori osservarono la Vistarti scivolare fuori dalla stanza. Sul soffitto, centopiedi lunghi quanto il braccio di Magda si spingevano avanti su centinaia di sottili zampe. La donna trasalì a quella vista, ma non si fermò. Quelle creature terrene sarebbero sicuramente state le meno paurose fra tutte quelle che avrebbe incontrato. Un'unica ragnatela copriva le scale. Non c'erano né porte, né finestre. Magda avanzò lentamente verso la stretta scala, tenendo la torcia davanti a sé come un chierico che mostrava un simbolo sacro a una creatura dell'o-
scurità. Non aveva ancora appoggiato il piede sul primo gradino che sentì qualcosa scivolare lungo la scala verso di lei. Senza pensarci due volte, si diresse verso la camera da letto. Afferrò la maniglia d'ottone, ma la porta non si aprì. Il suono di passi pesanti aumentò, mentre si avvicinava ai piedi della scala. Un grido di paura soffocato in gola, Magda riprovò ad aprire la porta, ma inutilmente. Era come se la serratura fosse scattata dietro di lei. Agitò la torcia a destra e a sinistra, ma le pareti non avevano aperture, a eccezione delle fessure abitate da topi e insetti. Era in trappola. «Qualcosa è fuori posto», sibilò una voce dalla scala buia. «Qualcosa che ha bisogno della luce per vedere.» Magda si buttò con tutto il peso contro la pesante porta di legno per tentare di aprirla. I passi cessarono e due luminosi occhi azzurri apparvero nell'oscurità ai piedi della scala. «È una lei», disse la creatura allegramente. Il braccio teso, la Vistani teneva la torcia davanti a sé. L'essere misterioso ridacchiò nell'ombra. «Vuoi vedermi, vero?» domandò e apparve nel cono di luce. La creatura si reggeva su due gambe, come un uomo, ed era alta circa quattro piedi. Tutto il corpo, dalla punta del corno che gli spuntava sulla fronte alla fine della lunga coda spinosa, era coperto da pelle ruvida e scura. Gli occhi erano grandi e tondi, il naso poco più che due fori, la bocca una caverna bavosa. Con un lieve spostamento d'aria, l'essere ripiegò piccole ali robuste sulla schiena, quindi si accovacciò, grattando il pavimento con le mani dai tre lunghi artigli. Mentre studiava Magda, la guardia passò la lingua grigia e biforcuta sui denti appuntiti. «Il padrone immagino ti vorrà», disse. La creatura parlò lentamente, come se muovere le mascelle le procurasse dolore. Improvvisamente, Magda ricordò di avere già visto quell'essere, o altri simili a lui, intorno al castello. Davanti a sé aveva una gargolla, animata per magia. L'essere mostruoso si allungò in avanti e stese una mano verso la gamba di Magda. Gridando per la sorpresa, la fanciulla balzò indietro e colpì la gargolla con la torcia. Uno schianto risuonò nella stanza. La fiaccola rimbalzò sul braccio dalla pelle di pietra, urtando le spalle di Magda. La luce della torcia, spaccata, diminuì: era magica ma non indistruttibile. «Vuoi giocare, eh?» sibilò la gargolla. Strisciò fuori dal cono di luce, sfregandosi il braccio dove la fiamma lo aveva bruciato. I malvagi occhi azzurri scintillarono nell'oscurità.
Tenendo la torcia tra sé e la creatura, Magda avanzò lentamente verso le scale. Tentò di pronunciare una preghiera agli spiriti dei suoi avi, ma un nodo alla gola le impedì di aprire bocca. Dalle sue labbra uscì solo un rantolo soffocato. Un passo, poi l'altro. La Vistani tenne lo sguardo puntato sugli occhi di ghiaccio della gargolla, mentre quest'ultima si allontanava dalla luce. Una speranza la rianimò: la creatura stava andandosene! Ma non aveva fatto in tempo a formularla, che la speranza veniva già distrutta. All'improvviso, la gargolla si lanciò nel cono di luce. Il suo volto era una maschera terrificante: occhi sporgenti, denti scoperti e bocca spalancata. Un grido stridulo riempì l'aria, quando la creatura balzò verso la Vistani. Magda era impotente di fronte alla velocità dell'essere mostruoso, che le graffiò una spalla. Tre rivoli rossi apparvero dove erano affondati gli artigli. La spalla iniziò a pulsare, ma il dolore era niente in confronto al puzzo nauseante di carne in putrefazione proveniente dall'alito caldo della gargolla. In preda a conati di vomito, Magda si coprì la bocca con la mano e indietreggiò contro il muro. Una risata beffarda risuonò nel corridoio, mentre la creatura si avvicinava sempre più. La Vistani, confusa e disorientata, avanzò incespicando lungo la parete. Una mano toccò un millepiedi, che si avvolse intorno al braccio della zingara prima di cadere a terra e strisciare nell'oscurità. Magda se ne accorse appena. «Non vuoi più giocare?» sibilò la gargolla, divertita. Lo sguardo fisso sugli occhi luccicanti del mostro, la gitana continuò ad avanzare fino a quando si ritrovò alla fine del corridoio. Aveva sbagliato qualcosa e invece di raggiungere le scale era arrivata in fondo al muro di pietra. Piegò la testa, sconfitta, e la torcia le cadde quasi di mano. Appena l'avversaria abbassò le difese, la gargolla balzò in avanti. Nonostante lo sconforto, Magda reagì prontamente e affondò la torcia negli occhi di ghiaccio del mostro, come se fosse stata un pugnale dalla lunga lama. Il terrore s'impadronì dell'essere malvagio, mentre la fiamma magica gli colpiva gli occhi e si insinuava nel naso e nella bocca. Il fetore di carne bruciata invase il corridoio. «Ma come, hai smesso di giocare?» gridò la Vistani nel vedere la gargolla crollare contro il muro, le mani dai lunghi artigli che cercavano di strappare gli occhi bruciati. Mentre il mostro correva via, Magda scoppiò in una risata incontrollabile nell'udire gli ululati di dolore risuonare nell'oscurità. Quando si accorse di ciò che stava facendo, si bloccò di colpo e le lacrime
le bagnarono il viso. «Non permetterò che lo facciano a me», mormorò. «Non diventerò pazza. Non diventerò come loro.» Un suono stridulo catturò la sua attenzione, spingendola ad allontanarsi dal muro. Tenne la torcia bassa, in direzione del rumore. Là, dove la pietra si univa al pavimento, vide un angolo privo di sporcizia e polvere. La parete si era mossa! Appoggiata la torcia a terra, iniziò a spingere con tutte le sue forze. Il rumore stridente di pietra contro pietra aumentò all'improvviso quando una parte di muro scivolò indietro. Raccolta la torcia, la Vistani s'infilò sotto il basso portale che conduceva in un breve corridoio. Due porte a battenti si aprivano nella stanzetta e una luce fioca filtrava sotto la porta alla destra di Magda. Sollievo e speranza le fecero balzare il cuore in gola. Con rinnovato vigore, strinse la fiaccola e si diresse verso la porta. «Vuoi andartene?» biascicò una voce. La zingara si voltò di scatto e vide la gargolla strisciare sotto la porta segreta. La lingua grigia che penzolava dalla bocca era coperta di vesciche. La pelle di ossidiana intorno al naso si era crepata e un liquido grigio fuoriusciva dalle ferite. Gli occhi erano i più colpiti. Una cavità era vuota, sebbene le profonde ferite circostanti lasciassero supporre che il mostro stesso si fosse strappato l'organo. L'altro occhio, non più azzurro, era opaco e bianco. Tuttavia, la gargolla sembrava poterci vedere ancora bene, poiché l'unico occhio rimasto era fisso sulla Vistani. Magda si lanciò contro la porta a battenti e, apertala, si trovò in una stanza enorme. I raggi del sole filtravano attraverso finestre dai vetri infranti. L'unico mobilio della sala era un imponente trono disposto su un palco. In preda al panico, la gitana si guardò a destra e a sinistra. Due scale, separate da uno stretto muro, scendevano dalla sala del trono. L'ansimare della gargolla mise le ali ai piedi di Magda, che si lanciò verso le scale. Non dovrebbe essere difficile distanziare quel mostro, pensò, mentre si catapultava giù. L'aveva ferito quanto bastava per rallentarlo. Ma la voce stridula del suo nemico risuonò molto più vicina di quanto Magda si sarebbe aspettata. «Ti aspetta il peggio laggiù», gridò. La fanciulla lanciò un'occhiata oltre la spalla e vide la gargolla sbattere le ali di pipistrello. Fortunatamente, il soffitto era troppo basso e le pareti troppo strette perché le ali dell'essere malvagio potessero aiutarlo. Magda si lanciò per le scale saltando tre, quattro gradini alla volta, attraversando cortine di ragna-
tele e schiacciando gli onnipresenti topi. Dopo un piccolo ballatoio, le scale si univano e si allargavano in un'ampia scalinata di pietra che terminava in una stanza dal soffitto a volta. Era la stanza dove Magda e Soth avevano incontrato per la prima volta il conte. La zingara la riconobbe immediatamente. Le fiaccole, allineate lungo le pareti, erano ancora accese. Fitte ragnatele pendevano dal soffitto, nascondendo alla vista gli antichi affreschi dipinti sul soffitto. Mancavano soltanto le perfide gargolle. Le loro postazioni intorno al bordo della volta erano vuote. Magda si chiese se avrebbe dovuto cercare di recuperare il pugnale e la bisaccia dalla sala da pranzo, ma abbandonò immediatamente l'idea. Il rumore di passi pesanti lungo la scala si avvicinava pericolosamente. Si voltò verso la porta spalancata che conduceva nell'ingresso e quindi all'esterno del castello. Ma appena si mosse, qualcosa di rosso e squamoso emerse dall'ombra, bloccandole la strada. «Nessuno può andarsene senza il permesso del padrone», l'ammonì un piccolo drago rosso con voce sibilante. La Vistani non aveva mai visto un essere simile. Era lungo quanto lei era alta e mentre parlava, dalle narici gli uscivano nuvole di fumo. Un paio di ali erano ripiegate sul dorso. Accovacciato a terra, studiava la ragazza con occhi sottili come fessure e muoveva la testa lentamente, avanti e indietro sul lungo collo squamoso. Una volta, nella piazza di un mercato, Magda aveva visto un incantatore di serpenti e il cobra danzava al suono del flauto muovendosi in modo analogo. Anche l'effetto era lo stesso. La Vistani si trovò attratta dal drago come lo era stata dal serpente nella piazza. «Il peggio ti aspetta», bisbigliò una voce dietro la fanciulla. Magda non ebbe bisogno di voltarsi per capire che la gargolla aveva raggiunto i piedi della scala. La torcia le cadde dalle dita improvvisamente insensibili. Il legno crepato andò in mille pezzi e la fiaccola si divise in dozzine di frammenti luminosi. L'immenso ragno tremò, mentre saltellava lateralmente sul pavimento. Ciuffi di peli neri gli coprivano il corpo e le zampe lunghe ed esili, e dalla bocca dotata di zanne fuoriuscivano filamenti vischiosi e velenosi. La bestia s'impennò su quattro delle otto zampe e balzò in avanti. Lord Soth prestò poca attenzione a quell'essere; gli altri tre mostruosi aracnidi che avevano cercato di attaccarlo erano spiaccicati sul pavimento come mosche. L'ultimo ragno rimasto, pur sfidandolo, non si era mai avvi-
cinato tanto da rappresentare una minaccia. Bastava che il cavaliere sguainasse la spada, perché l'animale si ritraesse precipitosamente nell'angolo dove la sua ragnatela, ormai distrutta, ricopriva il pavimento. Soth riportò la propria attenzione sull'essere legato con le cinghie allo strumento di tortura davanti a lui. Il licantropo era morto, una lama d'argento nel cuore e un'altra conficcata nel cranio. Mentre il cavaliere della morte lo osservava, il muso allungato e peloso assunse caratteristiche umane e le orecchie a punta si rimpicciolirono, arrotondandosi. La gobba scomparve dalla schiena di Pargat. L'ambasciatore si era trasformato in uno spaventoso uomo-ratto subito prima che Soth conficcasse i pugnali d'argento nei suoi organi vitali; una volta morto, aveva nuovamente assunto la sua forma umana. «Vai nell'inferno che ti aspetta», mormorò Soth, allontanandosi dallo strumento di tortura. Il cavaliere della morte aveva cercato di spingere l'ambasciatore a rivelare la posizione del portale all'interno del castello di Gundar, ma inutilmente. Soth era convinto che, alla fine, Pargat avesse detto la verità: non poteva parlare del portale a causa dell'incantesimo che il figlio di Gundar aveva lanciato su di lui. Annullare un incantesimo simile andava al di là delle capacità di Soth che, spinto dall'ira, aveva ucciso lo sfortunato ambasciatore. Il ragno gigante si avvicinò, ma Soth gli voltò le spalle e attraversò la stanza. L'aracnide aspettò che il cavaliere della morte raggiungesse la porta, quindi balzò in avanti e si arrampicò fin sulla testa dell'uomo morto intrappolato fra le lame. «Buon appetito», disse Soth prima di scomparire nell'oscurità del corridoio. Un gruppo di ratti, riunitosi nel corridoio che ospitava la dispensa del vampiro, si disperse al passaggio di Soth. Ogniqualvolta le bestie immonde finivano sotto i piedi del cavaliere venivano schiacciate senza pietà e fra di loro era chiaramente passata parola di evitare il nuovo arrivato. I topi trovarono facili vie di fuga, poiché le porte delle dieci celle erano state abbattute. Dopo avere lasciato la stanza di Voldra, Soth aveva buttato giù ogni porta e tagliato la gola agli sfortunati contadini tenuti prigionieri. Un solo uomo aveva cercato di difendersi, gli altri erano andati incontro alla morte quasi con sollievo. Soth guardò i ratti fuggire. «I corpi e il sangue versato sono la ricompensa per la vostra collaborazione. Ricordate bene tutto quello che farò e riferite ogni cosa al vostro padrone quando si sveglierà.»
Le scale erano vuote e silenziose quando il cavaliere della morte scese i gradini. Mentre camminava, si chiese quali altri danni avrebbe potuto arrecare alla casa del conte; Strahd non doveva dimenticare il grave errore commesso nel trattare Lord Soth di Dargaard Keep come un suo servo. Quando si fosse vendicato, Soth avrebbe proseguito per il castello di Gundar. Non aveva bisogno di informazioni strappate con la tortura per trovare la via di accesso a Krynn. «Nessuno può andarsene senza il permesso del padrone.» Le parole giunsero dalla stanza al di là delle scale e Soth si fermò, in attesa di udire ancora la voce sibilante. Ma a parlare fu un'altra voce, alta e stridula, che pronunciò parole che il cavaliere non riuscì a comprendere. Una risata riempì la stanza, poi un oggetto di legno cadde a terra. «Ah, altri tirapiedi di Strahd da eliminare», disse il cavaliere della morte e si allontanò dalla scala. Un arco ormai fatiscente oscurava parzialmente la stanza, ma Soth distinse Magda al centro della sala dal soffitto a volta, frammenti infuocati ai suoi piedi e una gargolla accovacciata alla sua sinistra. La mostruosa creatura, dal volto deturpato e gli artigli affilati, rise di nuovo. Quel suono acuto ricordò a Soth le bande di briganti ubriachi che aveva affrontato spesso quando era ancora un Cavaliere della Rosa. «Lord Soth!» La Vistani posò uno sguardo implorante sul cavaliere. «A... aiutatemi», balbettò, in preda al terrore. La gargolla balzò verso Magda. Gli artigli raschiarono il pavimento di pietra. «Aiutatemi», la derise. «Ah! Niente può aiutarti!» Girò intorno alla zingara, lanciando un'occhiata ai resti della torcia. Con un calcio, Magda buttò alcuni tizzoni addosso alla gargolla e il mostro arretrò di alcuni passi. Soth vide la ragazza guardare alla propria sinistra e quindi la udì dire: «Strahd ha dei progetti per voi, Lord Soth. E ne sono al corrente». «Silenzio!» sibilò qualcosa. Il cavaliere della morte entrò nella stanza, il mantello che ondeggiava dietro di lui. Ciò che vide lo lasciò attonito. Un wyrm! Era solo un piccolo rosso, ma Soth sapeva che qualsiasi drago poteva essere un nemico mortale. Lo studiò attentamente, valutandone la forza. Il drago si era alzato, piantandosi con aria di sfida davanti al nuovo arrivato. Artigli bianchi come ossa schiarite dal sole grattarono la pietra, appena il mostro avanzò di un passo. Agitando la coda irritato, il wyrm sondò l'aria con la lingua biforcuta. Quello è un buon segno, notò Soth.
Non è sicuro della mia forza. Il cavaliere della morte aveva affrontato i draghi rossi su Krynn; i malvagi sputa-fuoco erano stati elementi di punta dell'esercito del male di Takhisis. Invecchiando, quei draghi acquisivano la capacità di studiare gli incantesimi come qualsiasi altro mago. Soth sperava che quel giovane rosso non fosse vissuto sufficientemente a lungo per sviluppare le sue innate qualità. «Saluti a te, Soth di Dargaard», disse il drago. Sebbene il tono fosse amichevole, sbuffi di fumo uscirono dalle narici del drago. Il cavaliere della morte replicò in tono gelido: «Sono in svantaggio. Strahd ti ha detto chi sono, ma si è dimenticato di farmi il tuo nome». «I nomi possiedono potere, Soth. Scusami se non te lo rivelerò.» Detto ciò, scivolò più vicino alla Vistani. «Forse se abbassassi la spada...» Soth si rivolse a Magda. «Presto, ragazza! Accanto a me!» La zingara riuscì a fare solo un passo prima che una mano dai tre artigli si chiudesse introno alla sua caviglia. La fanciulla finì faccia a terra. Attraverso le lacrime vide la gargolla stringerle la gamba con una mano. Il mostro si umettava le labbra con la lingua ricoperta di vesciche. Contemporaneamente, il drago scattò in avanti, frapponendosi fra la Vistani e quello che avrebbe potuto essere il suo salvatore. Il wyrm abbassò la testa mettendo bene in evidenza le corte corna. Appena Soth si mosse verso la donna, il drago spiegò le ali. «Non interferire, Soth», sibilò il drago. Quell'esibizione di forza non impressionò Lord Soth. Sollevato il braccio, abbatté la sua risposta sul drago. La spada rimbalzò sulle squame rosse senza avere arrecato alcun danno, sebbene il wyrm gridò infuriato per l'insolenza del cavaliere, e con un balzo raggiunse Soth. Denti aguzzi a affilati si chiusero sul polso del cavaliere della morte. Soth provò una fitta di dolore quando i denti penetrarono nell'armatura e nella carne. Se fosse stato mortale, l'attacco gli sarebbe costato il braccio. Il colpo gli fece anche cadere la spada, che rimbalzò a terra finendo fuori dalla portata del cavaliere. Soth prestò poca attenzione all'arma mentre stringeva il pugno nel guanto di cotta e lo abbatteva sul muso del drago. La gargolla era su Magda, a cui aveva immobilizzato le gambe e un braccio. Con la mano libera la Vistarti colpì il volto della creatura dalla pelle di pietra. Ma il suo pugno arrecò ben poco danno, e così tastò freneticamente il pavimento intorno a sé alla ricerca di qualcosa da usare come arma. Quando la sua mano si chiuse sull'elsa della spada, gelida per la
stretta di Soth, non ebbe un istante di esitazione. Magda sapeva come usare armi simili. Gli abitanti dei villaggi di Barovia e dei ducati circostanti non nutrivano simpatia per gli zingari, sebbene acquistassero avidamente la loro mercanzia. Alcuni si recavano persino dagli indovini Vistani, un'abitudine che costava cara. Tuttavia, uno zingaro lontano dalla sua gente diventava un facile bersaglio per i superstiziosi contadini e così, quando erano ancora bambini, tutti i Vistani imparavano a brandire una spada. Afferrata saldamente l'arma, Magda abbatté il pomo sulla tempia della gargolla. Il mostro ululò, afferrandosi la testa prima che cadesse. Era quanto bastava. Quel gesto diede alla fanciulla il tempo per balzare in piedi. La gargolla fissò la donna e l'arma con espressione scaltra. «Le spade non possono ferirmi, a meno che non siano incantate. Arrenditi prima che mi arrabbi veramente.» Il mostro allungò una mano. Magda esitò. Gli esseri stregati erano spesso immuni ad armi di ferro o di acciaio. Se la gargolla era incantata, c'era poco che lei potesse fare senza una spada magica. La gargolla si avvicinò, la mano tesa. «Dammela.» Magda colpì con la forza della disperazione. Sulla lama schizzarono gocce di sangue blu e l'arma affondò nella spalla della gargolla. Con un'ala appesa alla schiena per un lembo, il mostro dalla pelle d'ebano cercò di allontanarsi, ma Magda lo colpì di nuovo. Una delle mani della gargolla caddero a terra. Le dita artigliate si contrassero ritmicamente, poi restarono immobili. Un liquido grigio e purulento sgorgò dalle ferite della creatura mentre si arrampicava sulle scale gridando per il dolore. Stremata, Magda lasciò andare la spada. I battiti del cuore rallentarono e le pulsazioni nelle orecchie cessarono. Si voltò e restò impietrita davanti a una scena terrificante. In piedi, Lord Soth teneva alzato in aria il braccio destro, mentre i denti del drago erano ancora conficcati nel suo polso. La coda del mostro era avvolta intorno alle gambe del cavaliere e la zampa dai lunghi artigli raschiava sulla corazza del non-morto. Dalla ferita sul polso di Soth non sgorgava sangue, ma fitte di dolore s'irradiavano lungo tutto il braccio. Sebbene conoscesse degli incantesimi che avrebbero potuto ferire il drago, il cavaliere della morte non poteva usarli; la magia richiedeva concentrazione e libertà di movimenti, condizioni che in quel momento gli erano negate. Non gli restava che sopportare il dolore in silenzio e continuare a martellare il mostro con il pugno.
Lo spettacolo dei due malvagi titani impegnati in uno scontro mortale era qualcosa che un giorno avrebbe potuto creare la struttura di un racconto epico. Ma se non fuggo dal castello, pensò la Vistani, non ci sarà nessuno a raccontare la storia. Con un occhio sulla lotta in corso, Magda si diresse verso la sala da pranzo. Andari era scomparso e la stanza era immersa nel silenzio. La bisaccia che aveva riempito prima di lasciare l'accampamento in compagnia del cavaliere della morte giaceva nascosta dietro a un angolo del tavolo. Recuperò il suo pugnale d'argento e lo usò per strappare qualche dito di tessuto dall'orlo della gonna ed eliminare pizzi e gale. Lasciò la sala nel momento in cui Soth e il drago ruzzolarono a terra. La coda del wyrm era ancora attorcigliata intorno alle gambe del cavaliere e Soth doveva usare la mano libera per cercare di tenere lontane le fauci del mostro. Il lato destro della testa del drago era una maschera di sangue; l'occhio, gonfio, era ormai chiuso e molte squame erano state strappate. Ma l'essere demoniaco teneva ancora i denti affondati nel polso di Soth. Lo sforzo della lotta cominciava a farsi sentire. La mano destra del cavaliere della morte era dolorosamente chiusa in un pugno, pietrificata come la mano di un paralitico. I denti del drago avevano distrutto buona parte del guanto di cotta, rivelando macchie di pelle traslucida e bruciata. Con un grugnito di dolore, il cavaliere della morte spinse la mano sinistra nella bocca del drago. Gli tirò indietro le labbra e gli strappò tre denti, che restarono conficcati nel suo braccio. Lentamente, Lord Soth spalancò la bocca del drago. Lo scricchiolio di ossa spezzate riempì la stanza. All'improvviso, il drago mollò la presa e rotolò via, allontanandosi da Lord Soth. Entrambi i contendenti si rimisero dolorosamente in piedi, ma nessuno dei due sembrava pronto per riconoscere la propria sconfitta. «Il padrone non approverà la vostra fine, cavaliere della morte», ringhiò il guardiano con voce resa ancora più sibilante dalla mancanza dei tre denti. Il wyrm inarcò la schiena e inspirò profondamente. Un sibilo acuto, come un'improvvisa corrente d'aria, risuonò nel silenzio, poi il drago sputò un getto di fumo e fuoco. Magda si rifugiò nella sala da pranzo, ma Soth lasciò che il fuoco liquido lo investisse. Il lungo mantello porpora prese fuoco, riducendosi ben presto a un mucchietto di cenere. Una risata profonda riempì la stanza. «Un fuoco magico creato dagli dei mi ha privato della vita tre secoli e mezzo fa», spiegò Soth. «Sono immune al tuo sputo.» Un'improvvisa tranquillità scese sul cavaliere, permettendogli di liberare
la mente. Un'unica parola, terrificante nella sua intensità, prese vita in lui. Coloro che su Krynn studiavano le vie più oscure della stregoneria conoscevano e temevano parole magiche di tale potere, poiché potevano essere usate per accecare, tramortire o uccidere la maggior parte degli esseri viventi. Nemmeno i draghi erano immuni ai terrificanti effetti di quelle antiche stregonerie. Soth stese la mano illesa e pronunciò la più micidiale di quelle parole. Il drago indietreggiò nell'udirla e spalancò la bocca per sputare nuovamente fuoco. Ma prima che potesse agire, venne avvolto da una crepitante sfera di energia nera. Le bande luccicanti si contrassero e tentacoli magici s'insinuarono negli occhi, nelle orecchie e nella bocca del drago. Il wyrm iniziò a tremare e una luce nera fluì da fenditure nelle squame rosse. Il cavaliere della morte, l'armatura ancora incandescente per il fuoco del drago, sovrastava la creatura morente scossa da spasmi di dolore. Infine il drago giacque immobile, gli occhi fuori dalle orbite e il fumo che filtrava dalle narici dilatate. «Vieni fuori, Magda.» La Vistani emerse dalla sala da pranzo, il pugnale stretto in mano. Impegnato a esaminare il braccio ferito, Soth le dava le spalle. Il dolore che ancora sentiva pulsare lo affascinava, poiché era raro che un avversario potesse farlo soffrire. «Me ne vado.» Inguainata la spada, Soth perlustrò la stanza alla ricerca di un'ombra sufficientemente grande perché lui e la zingara potessero usarla per fuggire dal castello. Dalla scala che la zingara aveva sceso poco prima, cominciarono a levarsi mugolii e lamenti. «Lasciatemi andare da sola», implorò la fanciulla. «Non rivelerò al conte ciò che avete fatto.» Voltandosi verso di lei, Soth sorrise sotto l'elmo. «Voglio che Strahd sappia ciò che ho fatto. Inoltre, mi devi illustrare i piani del conte...» Il rumore dal piano superiore aumentò e una figura dalla prominente gobba emerse dall'oscurità in cima alle scale. Era una gargolla, simile a quella che Magda aveva sconfitto, solo che questa era dotata di quattro braccia e una serie di corna che spuntavano sulla testa grigio ardesia. «Eccoli qua!» gridò il mostro. Una mezza dozzina di gargolle apparvero sulle scale. Lord Soth fece un passo verso un angolo in ombra e stese la mano. «Allora, Magda?» La Vistani si precipitò accanto al cavaliere della morte. Chiuse gli occhi
quando porse la mano sinistra, poiché sapeva che la gelida stretta di Soth le avrebbe procurato dolore. «Saggia scelta», commentò il cavaliere, chiudendo delicatamente le dita sulla mano tremante della ragazza. Insieme scomparvero nell'oscurità. Gridando minacce e imprecazioni, le gargolle graffiarono l'aria con gli affilati artigli, ma del cavaliere e della zingara non c'era più traccia. «Il padrone non sarà contento», gemette la creatura a quattro braccia. «Ci distruggerà.» Una piccola gargolla del colore della ruggine si acquattò ai piedi del capo. «Forse potremmo fuggire», suggerì. Il mostro a quattro braccia scosse la testa e si lasciò andare a terra. «Non esiste un luogo sicuro in tutta Barovia. Strahd è il signore di questa terra e ci troverebbe prima del tramonto.» Annuendo affrante, le altre gargolle si accovacciarono nell'ingresso in attesa della scomparsa del sole e del momento in cui il loro padrone sarebbe uscito dalla bara. La loro punizione sarebbe stata terribile ma, rapida. Strahd von Zarovich non avrebbe dimostrato tanta misericordia, il giorno in cui avesse ritrovato il cavaliere della morte e la Vistani. 9 Sangue sulla Vigna. Così riportava la fatiscente insegna che scricchiolava sospinta dal vento. L'edificio sul quale era esposta aveva visto tempi migliori: imposte di legno sbiadite dal sole incorniciavano finestre imbrattate e in più punti l'intonaco era scrostato. La porta chiusa della taverna sembrava ammonire che solo i clienti abituali erano i benvenuti. Non che molte persone passassero per quel luogo desolato. Sebbene fosse quasi mezzogiorno, la piazza del villaggio era silenziosa. Un paio di commercianti consegnavano le loro mercanzie e lo spauracchio di un uomo, che assolveva l'incarico di esattore in vece del borgomastro, scivolava di bottega in bottega. «È in arrivo una tempesta. Con un po' di fortuna, un lampo potrebbe colpire quel bastardo», commentò stizzito uno degli avventori della taverna, osservando l'esattore da un angolo di vetro pulito della finestra. Nella stanza dal basso soffitto, le parole risuonarono come il rombo di un tuono, poiché il crepitio del fuoco nel camino era l'unico altro rumore. Buttato giù un sorso di vino annacquato, si voltò verso i compagni in cerca di sostegno. «Ho detto che con un po' di fortuna potrebbe essere in-
cenerito dal fulmine.» Gli altri due uomini nel locale non erano all'altezza del compito. Arik, il proprietario della taverna, biascicò parole incomprensibili e riprese a lavare bicchieri che non sarebbero stati usati per giorni. Era così scarno che avrebbe potuto essere il fratello dell'esattore spaventapasseri, ma era tanto apprezzato quanto quest'ultimo era detestato e aborrito. La maggior parte degli abitanti più anziani del villaggio erano stati serviti da Arik o da suo fratello, anch'egli battezzato con lo stesso nome. La famiglia proprietaria del Sangue sulla Vigna aveva ritenuto opportuno non cambiare il nome dell'oste e la gente del villaggio l'aveva sempre ritenuta un'ottima idea. L'altro avventore ignorò l'invito a inveire contro l'esattore e continuò a fissare il legno tarlato della superficie del tavolo. Gli occhi azzurri tradivano il persistente terrore che dimorava nell'uomo e il volto pallido aveva un'espressione tormentata. A differenza degli altri due uomini, era sbarbato e i biondi capelli erano puliti e in ordine. La frangetta sulla fronte rugosa enfatizzava il volto paffuto, facendolo apparire più giovane dei suoi cinquant'anni. «Hey, Terlarm», gridò l'uomo alla finestra. «Sei troppo impegnato a pregare per rispondermi?» «Lascialo in pace, Donovich», intervenne Arik. «Se avessi visto i tuoi amici venire massacrati da una bestia della notte, nemmeno tu saresti tanto baldanzoso.» Donovich ingurgitò l'ultimo sorso di vino, si passò una mano lurida sui baffi bagnati e barcollò verso la botte sistemata a un'estremità della locanda. «Vero, ma l'uomo che quella maledetta Vistani ha ammazzato era mio fratello, giusto?» Sottolineò le parole battendo una mano sulla fascia nera che portava al braccio in segno di lutto. «Eppure non me ne vado in giro a piangere come una fontana.» «Dal luogo in cui provengo non si dimentica il dolore tanto facilmente», replicò Terlarm, sollevando gli occhi azzurri. «Ormai dovresti avere imparato le nostre usanze. Sei a Barovia da parecchio tempo», ribatté seccato Donovich. Come la maggior parte della gente del posto tollerava poco i forestieri. Si riempì nuovamente il bicchiere e si sedette al tavolo davanti al camino. Terlarm ingoiò una risposta pungente, quindi lisciò la manica della logora veste rossa. Il boiaro aveva ragione; si trovava a Barovia da quasi trent'anni. Lui e altri quattro si erano persi in un banco di nebbia e quando ne erano emersi, si erano trovati a Barovia. Il chierico venne pervaso da una
profonda malinconia al ricordo della sua casa e dei quattro amici rimasti intrappolati, come lui, in quegli inferi dimenticati da tutti gli dei. «Un giorno tornerò a Palanthas», mormorò, più a se stesso che agli altri. «È la più bella città di tutta Ansalon. Le sue mura non sono mai state violate, le sue bianche torri non sono mai state...» La porta si spalancò all'improvviso, interrompendo il triste flusso di ricordi di Terlarm e provocando le imprecazioni di Arik, irritato per la polvere soffiata dentro al locale dal vento. Quando gli uomini videro la giovane ferma sull'uscio, restarono a fissarla a bocca aperta. I riccioli scuri della Vistani danzavano al vento e l'orlo sfilacciato dell'abito rosso come il sangue ondeggiava, rivelando un paio di gambe graffiate ma ben modellate. La zingara entrò nel locale, lanciò un'occhiata dietro di sé come se temesse di essere inseguita, quindi chiuse la porta. Arik prese una scopa, sottile quanto le sue braccia, e iniziò a rimuovere la sporcizia. «Quelle come te non sono le benvenute qui.» Magda si fece forza. Sapeva che era pericoloso per una Vistani viaggiare da sola nei pressi di un villaggio; i baroviani incolpavano i clan di nomadi per le loro disgrazie. «Non voglio creare problemi, amico», disse, sfoderando tutto il suo fascino. «Sto cercando un abitante del villaggio, un sacerdote di nome Terlarm. Forse voi signori sapete indicarmi dove trovarlo.» Donovich scattò in piedi, facendo ribaltare una panca. Il frastuono fece trasalire Magda, che tuttavia s'impose di continuare a sorridere. L'uomo tarchiato si avvicinò alla Vistani. «Conosci Boyar Grest?» le domandò in tono ingannevolmente tranquillo. La baruffa con l'odioso proprietario terriero che aveva cercato di comprare la sua virtù le sembrava storia di secoli passati. Osservò meglio l'uomo robusto in piedi davanti a lei. I baffi e i capelli ispidi e scuri lo denunciavano come uno del posto, ma gli occhi tondi e la forma della mascella le suggerirono che poteva trattarsi di un parente di Grest. E la fascia nera indossata dall'uomo indicava una perdita recente. «Molti lo conoscono», rispose cautamente. «È un grand'uomo e un amico della mia gente. Ma, per favore, io...» Sogghignando, Donovich sferrò un pugno sul tavolo. «La tua gente lo ha ucciso.» Frugò nelle tasche dei pantaloni di lana ed estrasse un talismano d'argento appeso a una stringa di cuoio. Il pendente a goccia scintillò alla luce del fuoco. «Quando l'hanno trovato, stordito e morente sul ciglio della strada, non faceva che ripetere la promessa dei Vistarli. Diceva che il
ciondolo avrebbe dovuto renderlo invisibile alle creature dell'oscurità.» Il sacerdote dalla veste rossa si frappose tra Magda e Donovich. «Uscite», disse alla donna. «Sono Terlarm. Vi parlerò fuori.» Magda riconobbe l'uomo: era il grasso chierico che avevano visto nel luogo dell'impiccagione vicino alla chiesa e che avevano incontrato nella foresta dopo che il nano si era liberato. Ma prima che la Vistani potesse rispondere, il rude boiaro assestò a Terlarm un potente manrovescio. Il chierico crollò a terra, intontito. «Fatti gli affari tuoi», grugnì Donovich senza degnare di un'occhiata il poveretto. Afferrò Magda per la gola e la spinse con la schiena su un tavolo. La Vistani si dimenò, ma il boiaro era troppo forte. Arik continuò a occuparsi dei bicchieri. In seguito alla morte di Herr Grest, Donovich era diventato il capo famiglia; non sarebbe stata una buona idea opporsi alle vendette di un influente proprietario terriero. Inoltre, pensò mentre riprendeva a pulire i bicchieri, i Vistarli non erano mai stati buoni clienti. Magda sferrò un potente calcio nello stinco di Donovich e gli graffiò il viso con le lunghe unghie. Forse erano i molti bicchieri di vino o l'annebbiamento dell'ira a offuscargli i sensi, fatto sta che il boiaro sembrava non avvertire i colpi. La Vistarli cercò disperatamente di raggiungere il pugnale nascosto nella bisaccia che portava legata in vita, ma Donovich aveva involontariamente bloccato l'arma sotto il suo corpo. «Lascia stare quella donna.» La voce cavernosa che risuonò nel locale non spaventò Magda quanto Arik. Il barista si voltò di colpo, poiché le parole erano giunte da un angolo in ombra dietro di lui. Là, una figura in armatura stava immobile, gli occhi arancioni che scintillavano sotto l'elmo. Lo straniero puzzava di abiti bruciati e polvere di cenere ricopriva la sua armatura. Tenendo il braccio destro, chiaramente ferito, al petto, il cavaliere afferrò Arik per la fronte e gli girò la testa bruscamente. Lo schioccare del collo dell'uomo che si spezzava fu seguito dal rumore di vetri infranti. Concentrato sulla sua vittima, Donovich non si accorse di niente. Non allentò la presa e non sollevò gli occhi rotondi dalla Vistani imprigionata sotto di lui, nemmeno quando sentì un'ondata di gelo sulla schiena. Il boiaro non vide Lord Soth alzare il pugno sinistro e colpirlo. La mano del cavaliere penetrò nel cranio di Donovich, facendolo crollare, sanguinante, su Magda. Il cavaliere della morte sollevò il cadavere del boiaro e lo lasciò cadere
sul pavimento. Quando Magda incominciò a tossire, le mani alla gola come se così potesse fare affluire più aria ai polmoni, Soth non vi fece caso e si inginocchiò invece accanto a Terlarm. Il chierico riprese lentamente i sensi, ma quando riuscì nuovamente a vedere, l'armatura carbonizzata e devastata di un Cavaliere di Solamnia gli si parò innanzi. «Gilean, proteggimi!» sussurrò. «Sapete chi sono?» domandò Soth. Annuendo debolmente, Terlarm si sollevò sulle braccia tremanti. Pochi a Krynn non conoscevano la storia di Lord Soth, il Cavaliere della Rosa Nera. Guardandosi intorno, vide i corpi dei due uomini. Il chierico iniziò a mormorare parole senza senso, ma Soth sollevò una mano e lo zittì. «Voi e altri quattro siete giunti qui da Palanthas trent'anni fa», affermò il cavaliere della morte. «Da allora, avete mai saputo di qualcuno che sia riuscito a tornare a Krynn?» «Sono tutti morti», sussurrò l'altro. Soth non capì se si riferisse ai quattro amici o agli avventori della taverna. «Eravamo in cinque, tutti chierici o maghi devoti alla Bilancia.» Allargando le braccia, l'uomo guardò le vesti rosse ormai consunte. «Una sera, mentre facevamo una passeggiata verso il porto di Palanthas, siamo stati avvolti da una nebbia improvvisa e quando ne siamo emersi, ci siamo ritrovati in questo villaggio.» Tacque. Poi, una risatina nervosa gli sfuggì dalle labbra. «Keth, Bast e Fingelin sono stati uccisi dal guardiano, l'essere alla fine del tunnel. E Voldra...» Si segnò. «Il castello lo ha ingoiato. Sono rimasto solo io.» Dopo qualche istante, si piegò in avanti e osservò attentamente il cavaliere della morte. «Anche voi siete intrappolato qui?» domandò, gli occhi velati di lacrime. «Allora avevo ragione! Questo posto è un inferno!» Il chierico sollevò lo sguardo verso il lurido soffitto e alzò le mani. «Gilean, Signore della Bilancia, perdonami per i miei peccati. O svelami quali crimini ho commesso, così che possa fare ammenda. Forse dopo mi permetterai di oltrepassare la porta, di superare il guardiano...» C'era acredine nelle parole del chierico e un furore selvaggio nei suoi occhi. La parola "porta" risvegliò immediatamente l'attenzione di Soth. «Porta?» ripeté il cavaliere della morte. «Avete scoperto un portale per tornare a Krynn?» La paura s'impadronì di Terlarm. «I Vistani ci avevano parlato di una via per casa. Avevamo pagato l'informazione con tutto l'oro che avevamo.» Il povero demente aggrottò la fronte. «La porta era là, ma il guardiano non ci ha lasciati passare. Solo io e Voldra siamo riusciti a scappare. Gli altri so-
no stati uccisi.» «Dove si trova?» ruggì Soth. «Alla biforcazione del fiume Luna», disse in tono sommesso il chierico, indietreggiando. «Ma il guardiano...» Soth scoppiò a ridere. «Il guardiano non è un problema per me!» «Lord Soth?» sussurrò una voce dietro il cavaliere. Il nonmorto si voltò verso Magda. La donna si massaggiava la gola, mentre i tagli sulla spalla, provocati dagli artigli della gargolla, avevano ripreso a sanguinare. Con voce roca, aggiunse, «Posso condurvi alla biforcazione del fiume. Ho sentito parlare della porta che si trova là.» Soth la osservò attentamente. Abbandonato il castello di Ravenloft, Magda gli aveva rivelato l'intenzione di Strahd di usarla come spia. Dopo quanto accaduto nel maniero, la fanciulla era in pericolo, aveva perciò validi motivi per aiutare il cavaliere della morte. Ma non era per questo che le credeva. Magda si era dimostrata molto più forte di quanto avesse immaginato la notte in cui aveva distrutto il campo dei Vistarti. Aveva sfidato Strahd, ucciso uno dei suoi tirapiedi e ora aveva persino vinto la paura che provava per lui. Soth aveva sempre ritenuto i deboli inaffidabili, come quel traditore di Caradoc, ma Magda era tutt'altro che priva di volontà. Tuttavia, da come andavano le cose in quel luogo, il cavaliere aveva capito che era meglio evitare di fidarsi completamente. «Continua», disse alla donna. «I cantastorie di alcuni clan raccontano di una porta che conduce ad altri mondi», spiegò la zingara. «Si trova là da secoli. Uno dei miei antenati, un eroe di nome Kulchek, è fuggito da Barovia attraverso quel portale. Seconda la leggenda, il passaggio è custodito da un orribile guardiano... una cosa.» Il chierico scosse la testa. «Aveva occhi e bocche. Lo ferivamo e risorgeva.» Si raggomitolò su se stesso. «Prima ha strappato il braccio di Keth. Il sangue... era ovunque.» Lasciato l'uomo ai suoi farneticamenti, Soth si rivolse a Magda. «Il fiume Luna scorre fino al castello di Gundar?» Quando la fanciulla annuì, il cavaliere aggiunse: «Allora, andiamo». Prima che Soth avesse raggiunto l'uscita, Magda aveva già derubato Donovich e Arik del portafoglio. S'impossessò anche delle scarpe del locandiere. Gli stivali di pelle consunta non sarebbero stati molto comodi, ma almeno le avrebbero evitato di dover camminare per miglia e miglia a piedi nudi. Infine, recuperò il talismano a forma di goccia dalla tasca del boia-
ro e lo infilò nella bisaccia. Simili amuleti potevano essere sempre utili. «Vi prego», implorò il chierico a mani giunte, «portatemi con voi. Forse voi sconfiggerete il guardiano». Cadde in ginocchio. «Riportatemi a Palanthas.» «Palanthas è stata distrutta», affermò il cavaliere della morte. «Ho condotto io l'esercito che pochi giorni fa ha saccheggiato la città.» Voltò le spalle all'uomo e aprì la porta. Terlarm iniziò a gemere e a dondolarsi ritmicamente. «Non può essere», mormorò. «Non ci credo. Palanthas non è mai stata invasa. Le sue mura meravigliose non sono mai state violate, le sue torri...» Il cavaliere della morte attraversò le strade del villaggio senza incontrare alcun impedimento. Le imposte sbattevano e le madri si affrettavano a portare in casa i bambini. Persino la strada commerciale che conduceva a oriente era stranamente deserta, quando il non-morto e la Vistani la imboccarono. Soltanto una volta Magda ebbe l'impressione che qualcosa li seguisse, ma quando si fermò per guardarsi intorno, non notò niente di strano. Soth sedeva a gambe incrociate all'imbocco di una piccola caverna; guardava la pioggia cadere in gocce fredde e pesanti. Maledisse il tempo. Il rumore avrebbe coperto il frusciare di misteriose creature in avvicinamento dalle fenditure nella roccia o dal sottobosco. Gli avrebbe persino impedito di capire se le trappole che aveva disseminato erano scattate nel corso della notte. Posando gli occhi arancioni sulla foresta oscura, Soth perlustrò quella terra inospitale alla ricerca di segni della presenza del trio di lupi che aveva iniziato a seguirli appena avevano lasciato il villaggio due giorni prima. Le bestie dal pelo lungo e ispido si erano sempre tenute fuori dal campo visivo, denunciando la loro presenza con ululati laceranti. Ma qualcos'altro seguiva la coppia. Magda lo aveva intravisto una volta, fuori dal villaggio, e anche il cavaliere aveva scorto una cosa pelosa, delle dimensioni di un bambino, muoversi nel sottobosco. «Sono ancora là?» domandò Magda dall'interno della grotta. «Sì», rispose Soth, «ma i lupi non mi attaccheranno, e l'altra cosa... vedremo.» Dopo un istante di silenzio, la zingara chiese: «Perché Strahd non ci ha inseguiti?» Il cavaliere della morte non rispose subito, poiché anche lui non capiva
come mai il conte non li avesse ancora catturati. I lupi erano chiaramente sue spie; appena giunto a Barovia, lo avevano condotto all'accampamento Vistarti. «Le sue ragioni non ci interessano. L'importante è raggiungere questo portale vicino al fiume o quello nel castello di Gundar.» Il lungo ululato di un lupo risuonò in lontananza. Un suo simile rispose da un punto più vicino alla grotta e un terzo unì la sua voce da un affioramento roccioso soprastante la caverna. Mentre Soth scrutava fra gli alberi e le formazioni granitiche, un altro suono gli giunse alle orecchie: musica. Magda canticchiava un'antica canzone dei Vistani. Il cavaliere della morte udì dei frammenti della storia: una leggenda, stranamente familiare, di amore conquistato e poi perduto. A catturare la sua attenzione non fu il fatto che la zingara cantasse; quando era ancora un Cavaliere di Solamnia si era trovato in sufficienti battaglie, aveva atteso sufficienti duelli, per riconoscere un tentativo di calmare nervi particolarmente tesi. No, fu la melodia a toccare qualcosa nel suo inconscio. La canzone s'insinuò nella sua mente e si acciambellò come un gatto davanti al focolare spento dei suoi ricordi. Improvvisamente, immagini seppellite da secoli si scrollarono di dosso la cenere e s'infiammarono di nuova vita. Soth si stupì per ciò che gli stava accadendo e cercò di soffocare i ricordi. Ma le immagini non scomparvero e si ritrovò nel passato, a ricordare... La musica risuonava in tutta Dargaard Keep. Cinque menestrelli nella galleria che si affacciava sulla grande sala circolare suonavano una piacevole melodia. Le vivaci note sembravano saltare oltre la ringhiera, scivolare lungo la scala e le pareti, e saltellare intorno agli ospiti nella sala. Uomini e donne, abbigliati con sete e broccati, volteggiavano in coppia. La musica piroettò con loro, quindi si sollevò sempre più in alto, fino a raggiungere il massiccio lampadario e il soffitto a volta. Mentre le danze continuavano, uno scoppio di risate s'intrecciò alla musica. Le risate provenivano dai celebri tredici cavalieri riuniti intorno a un tavolo a un'estremità della sala. Sollevando in aria i calici contenenti il dolce nettare delle vigne di Solamnia, gli uomini brindarono alla coppia di sposi. Fatto ciò, tornarono ai racconti di gesta eroiche e belle fanciulle. In un continuo crescendo, la musica trascinò le coppie in una danza frenetica, quindi s'interruppe all'improvviso. I danzatori applaudirono i menestrelli, ma il loro cortese ringraziamento venne coperto dal suono di voci adirate. «Non esiste un uomo in tutta Solamnia, anzi, in tutto il continente di Ansalon, che possa superare Sir Mikel in una prova di arguzia!» gridò uno dei
cavalieri. Con una mano indicò l'uomo sorridente alla sua destra. «A Palanthas, quella notte...» La rabbia esplose nel petto di uno dei ballerini. Prima che il cavaliere potesse pronunciare un'altra parola, il ballerino, Lord Soth, si allontanò dalla sua compagna. «Miei fedeli amici», disse con voce tonante, zittendo le grida e le risate. «State offendendo i menestrelli che ci allietano con la loro musica.» I tredici cavalieri abbassarono i calici di vino. Soth lesse la vergogna nei loro occhi, sebbene non capì se fosse sincera. Gli uomini unirono le mani inguantate in un gentile applauso, ma tennero gli sguardi fissi sul cavaliere che aveva sottolineato la loro mancanza di buone maniere. Dopo qualche istante, Soth congedò i menestrelli con un gesto della mano. Lanciò ai suoi uomini un'occhiata veloce, ma dal cipiglio del loro signore, i cavalieri compresero di dover contenere la loro baldanza. Infine, il Cavaliere della Rosa riportò le sue attenzioni sulla deliziosa compagna. «Ti chiedo scusa, mia cara», mormorò, prendendo la mano della sua sposa. La guardò nei profondi occhi azzurri e le accarezzò dolcemente la guancia. Il calore della pelle della donna risvegliò il suo desiderio. «I miei cavalieri a volte si comportano in modo disdicevole. Sono felici per me, perché sanno che d'ora in poi in questo castello regnerà la gioia.» Rise sommessamente. «O forse festeggiano nella speranza che la tua dolcezza ammorbidisca la mia mano nel governo delle terre che circondano Dargaard.» La fanciulla elfo sorrise teneramente. «Insieme supereremo ogni difficoltà, lo sai.» Scosse la testa e i lunghi capelli dorati ondeggiarono, scoprendo le delicate orecchie a punta di elfo di nobili natali. «Forse anche Paladine, con il tempo...» «Certamente», s'intromise uno dei ballerini, affiancando Lord Soth. «Lady Isolde ha ragione. Il grande dio Paladine, Padre del Bene, Signore della Legge, illuminerà il vostro cammino e alleggerirà questo momento di... ehm, difficoltà. Il fatto che mi abbiate voluto qui a ufficiare la vostra unione è, naturalmente, un primo passo. Noi fedeli di Paladine siamo certi che un cavaliere della vostra levatura riuscirà a...» L'uomo, uno sciocco chierico di non grande nomea, non terminò la frase e sorrise ossequiosamente quando Soth posò lo sguardo su di lui. Il cavaliere sentì la felicità svanire e un'espressione cupa gli oscurò il viso. Una rabbia furibonda e il desiderio di colpire l'uomo davanti a lui sostituirono lo struggimento per la moglie. Soth lottò per bandire dalla sua mente pen-
sieri così violenti, pensieri che negli ultimi tempi gli erano sempre più familiari. «Discepolo Garath», mormorò il cavaliere, liberando la mano dalla stretta della moglie, «apprezziamo la vostra presenza alla cerimonia. Ma nemmeno la vostra posizione di officiante di questo matrimonio vi dà il diritto di fare commenti su questioni private.» L'ometto si toccò i pochi ciuffi di capelli rimastigli e deglutì nervosamente. La moglie, una donna dall'aspetto bisbetico e con il doppio di anni del giovane chierico, accorse per impedire al marito di peggiorare la situazione. «Vostra Signoria ha naturalmente ragione», affermò. Con la velocità del lampo, afferrò la mano di Garath. «Siamo onorati di poter partecipare a questa festa meravigliosa. I musicisti sono bravissimi, non trovate?» Prima che Soth potesse rispondere, si rivolse a Lady Isolde. «L'abito che indossate è incantevole. Ho saputo che l'avete cucito con le vostre mani.» La fanciulla elfo arrossì. «Ho dovuto arrangiarmi con ciò che ho trovato nel castello. Sono contenta che vi piaccia.» Sollevò le braccia e lo scialle di garza sottilissima dell'abito bianco ondeggiò delicatamente. Isolde abbassò lo sguardo sulla lunga gonna e un velo di tristezza le adombrò gli occhi. Soth strinse i denti. A Silvanost, la terra del popolo di Isolde, gli abiti da sposa dei nobili erano ricamati con perle e pietre preziose; quello della giovane meglio non era che una pallida imitazione dell'abito fiabesco che le sue sorelle e le sue amiche avrebbero indossato il giorno del loro matrimonio. Soth vide la malinconia sfigurare i delicati lineamenti della donna e quell'espressione gettò un'ombra sul suo cuore. Una volta cambiato argomento di conversazione, il cavaliere e la sua sposa, il sacerdote e la moglie poterono lasciarsi la tensione alle spalle. L'altra coppia che si era unita a loro nelle danze, un burocrate di basso livello della vicina città di Kalaman e la consorte, li raggiunse per ascoltare i fatui discorsi sulla caccia e la moda di corte, ma non parlarono molto. Non erano abituati alla compagnia dei ricchi e potenti. Pur restando impassibile e mostrandosi un perfetto padrone di casa, Soth era sempre più irritato da quelle chiacchiere vuote. Quei quattro erano gli unici che avevano accettato il suo invito; gli altri cavalieri, politici e mercanti di Kalaman e delle cittadine nei pressi di Dargaard Keep avevano trovato ogni genere di scusa per evitare di dover partecipare alla cerimonia. Molti non avevano nemmeno risposto all'invito di Soth.
Passò lentamente un'ora, poi, nella sala risuonarono i passi della boria. Soth, come tutti gli altri, si voltò verso il giovane, impeccabilmente vestito, che avanzava con studiata lentezza. Caradoc era il siniscalco di Dargaard Keep, l'uomo responsabile della gestione quotidiana del maniero. Quella sera indossava un paio di calzoni alla cavallerizza in velluto bianco, stivali neri e una giubba di seta. Nastri d'oro puro gli stringevano i polsi e un medaglione decorato denunciava la sua posizione sociale. Il servitore si muoveva con una grazia solitamente negata a individui di così bassa estrazione. Eppure, la presenza di quell'uomo era uno schiaffo morale per il signore di Dargaard Keep. Dal giorno in cui gli aveva ordinato di uccidere la sua prima moglie, Caradoc aveva usato il crimine come arma di ricatto; il Consiglio dei Cavalieri aveva condannato Soth per sospetto coinvolgimento nella misteriosa scomparsa della moglie, ma nessuno avrebbe potuto provare l'assassinio, a meno che Caradoc non avesse rivelato ciò che sapeva. Il siniscalco era sufficientemente scaltro da non approfittare eccessivamente della situazione, poiché Soth l'avrebbe sicuramente ucciso se si fosse spinto troppo in là. Tuttavia, ostentava la propria posizione quel tanto che bastava per imbarazzare il Cavaliere della Rosa. Apparentemente inconsapevole dell'attenzione suscitata con la sua comparsa, Caradoc raggiunse Lord Soth e gli chiese di potergli parlare in privato. «I cavalieri accampati all'esterno del castello vi mandano a dire che la luna rossa è alta in cielo», disse con fare cospiratorio, quando ebbero raggiunto un angolo in disparte. Lord Soth sospirò. «Allora la festa deve finire, come abbiamo deciso ieri.» Si guardò intorno e lesse preoccupazione sui volti di tutti i presenti. Ostentando una tranquillità che non provava, si rivolse agli ospiti. «Purtroppo è giunta l'ora di sciogliere quest'allegra compagnia.» Alcuni cavalieri si alzarono, ma Soth fece loro segno di risedersi. «Non c'è bisogno di prendere posto sulle merlature...» si voltò verso i quattro ospiti, «... non fino a quando i nostri amici saranno qui. Possiamo fidarci degli uomini di quell'esercito. Non vi faranno del male». Dopo rapide e false congratulazioni agli sposi, le due coppie recuperarono i loro mantelli e se ne andarono guidati da Caradoc, che li condusse all'ingresso principale del castello. Sulla porta, il sacerdote di Paladine si fermò e mormorò una preghiera, allargando le braccia come a voler comprendere l'intero edificio. Soth ritenne quel gesto patetico. «Non è stato il matrimonio che avrei voluto», ammise Lord Soth voltan-
dosi verso la moglie. «I signori di Kalaman hanno avuto paura a partecipare a una festa in un castello sotto assedio, anche se i cavalieri hanno garantito una tregua di un giorno. Quel buffone e...» La fanciulla elfo zittì dolcemente il marito posandogli un dito sulle labbra. Il suo tocco era leggero e portava con sé la fresca fragranza del suo profumo. «Mio caro, i tuoi uomini ti sono fedeli. E anche Caradoc. E così i servi che si occupano delle stalle e delle cucine. Anch'io ti sarò sempre accanto.» Abbassò lo sguardo e si posò una mano sul ventre. «E non dimentichiamo il nostro bambino, mio signore. Avrà bisogno di te e ti amerà sopra ogni cosa.» La coppia restò in silenzio qualche istante, poi la grande porta a battenti della sala da ballo si spalancò. Una ventata d'aria gelida entrò dall'esterno, facendo vacillare le fiamme delle candele. Ombre inquietanti si allungarono sulle pareti e il pavimento, e per un attimo la luce sembrò svanire completamente. Ma quando Caradoc chiuse la porta dietro di sé, le candele ripresero vita. «Gli assedianti hanno accompagnato i musicisti e i vostri ospiti oltre il ponte levatoio e li hanno scortati a distanza di sicurezza dal castello», annunciò il siniscalco, dopo essersi messo a posto i corti capelli neri e aver sistemato il medaglione. «Forse è ora di disporre gli uomini sulle torri e sollevare il ponte levatoio.» «Va bene», tagliò corto Soth. «Vai a dare un'occhiata ai servitori, Caradoc. Accertati che gli artieri abbiano scorte d'acqua accanto alle loro case nel caso i nemici lanciassero palle di pece infuocate all'interno della fortezza.» Il siniscalco s'inchinò e se ne andò. Soth si voltò verso la moglie. «Buona notte, amore mio», mormorò, posando un delicato bacio sulla mano di lei. «Devo preparare la nostra difesa e tu devi riposare.» Isolde baciò il marito, poi si avviò sulla scala che conduceva ai suoi appartamenti. La donna se n'era già andata da svariati minuti, quando Lord Soth ordinò ai suoi cavalieri di prendere le armi e raggiungere le posizioni di difesa. Restò solo nella grande sala, che ora appariva cupa e cavernosa. Per un istante, l'eco della canzone dei menestrelli gli risuonò nelle orecchie. Scuotendo la testa, scacciò il ricordo e si diresse verso le scale. Sul primo ballatoio, passò davanti a uno specchio a tutta persona, un dono del chierico e della moglie. Oggetti simili erano rari e costosi, ma gli ecclesiastici, per lo meno quelli che conosceva Soth, amavano vivere nel lusso.
Guardandosi allo specchio, si mise sull'attenti: spalle indietro e schiena diritta. I capelli dorati risplendevano alla luce di una torcia, incorniciandogli il viso come un bagliore celestiale. I baffi, lunghi ma curati, scendevano sui lati di una bocca piccola ma espressiva. Il torace muscoloso era stretto in una giubba di velluto nero, rischiarata da una rosa rossa ricamata sul petto: il simbolo dell'ordine di cavalleria al quale apparteneva Lord Soth. Il cavaliere restò soddisfatto dell'immagine riflessa. Sebbene l'Ordine lo avesse privato del suo titolo e grado, non avrebbe potuto privarlo della sua nobiltà d'animo. Meritava più rispetto lui di tutti quegli ipocriti che lo avevano condannato. Isolde lo sapeva. E così anche i suoi fedeli compagni. Quando gliene fosse stata data l'occasione, avrebbe mostrato il suo valore a tutta Solamnia. Compiaciuto di sé, riprese la marcia verso i piani superiori. Man mano che saliva, le scale interne si restringevano sempre più. La mente affollata da questioni di estrema importanza e gravità, Soth continuò a salire senza nemmeno accorgersi dello sforzo fisico necessario per superare le centinaia di gradini. Quando aprì la botola alla fine delle scale, una folata d'aria fresca gli scompigliò i capelli. Ignorando il freddo che annunciava l'arrivo dell'inverno, il cavaliere salì sul punto più alto del castello. Da una stretta passerella delimitata da una bassa ringhiera in ferro battuto, Soth contemplò i suoi domini. La struttura principale di Dargaard era un grande castello circolare, sbozzato dalla montagna che lo proteggeva su tutti i lati, tranne uno. Man mano che saliva verso il cielo, la costruzione si assottigliava, fino a ridursi a una punta smussata. Rampe di scale giravano intorno alla fortezza, aprendosi in ballatoi in punti strategicamente importanti. Ed era sul punto più alto del maniero che si trovava ora Soth. Il cavaliere osservò i servi trasportare le armi sulle quattro terrazze principali che sporgevano dall'edificio subito sopra il quarto piano e sovrastavano il cortile ben al disopra dei cottage in paglia e legno degli artieri del castello. Dalle terrazze, i cavalieri di Soth portavano frecce e lance, torce e barili di pece attraverso ponti a tralicci fino alle mura esterne esagonali. Da là, le armi difensive venivano spostate sulle torri del corpo di guardia situate ai lati della massiccia saracinesca di ferro e del portale di legno che sbarravano l'accesso a Dargaard. Al di là di quell'unica entrata si trovava un ampio ponte levatoio che una volta abbassato, copriva il profondo fos-
sato che correva per miglia in entrambe le direzioni. In quel momento, il ponte veniva alzato. Soth immaginò la stanza oscura dove cinque o sei soldati, sudati fradici, grugnivano e imprecavano mentre giravano le gigantesche ruote che sollevavano il ponte e lo riportavano sul fianco della montagna. Un fumo nero s'innalzava dalle torce degli uomini, annerendo il basso soffitto. Mentre i soldati combattevano con le ruote, lunghe ombre giocavano sulle pareti come creature dell'oscurità. La causa di quelle precauzioni difensive si trovava dall'altra parte del fossato, pazientemente accampata intorno a una dozzina di falò: un gruppo di cavalieri, appartenenti all'ordine di Lord Soth, si erano schierati davanti a Dargaard, pronti a dare il via all'assedio che avevano gentilmente rimandato per consentire la celebrazione del matrimonio. Baliste e catapulte erano già in posizione, pronte a lanciare proiettili contro la pietra color vermiglio del maniero. Cavalieri in armatura e vivaci mantelli si assiepavano intorno ai falò per sconfiggere il freddo. In passato, anche Soth aveva partecipato a simili assedi. Sapeva che gli uomini sarebbero stati presto esausti, stanchi delle razioni insipide e del duro terreno sul quale si stendevano ogni notte. Ma non avrebbero abbandonato l'assedio, anche se si fossero ritrovati con un numero insufficiente di catapulte per abbattere le mura e l'inverno fosse ormai alle porte. I Cavalieri di Solamnia non gettavano la spugna facilmente. A un tratto, a Soth ritornò in mente un ariete avvistato sulle montagne. Doveva essere cieco per la vecchiaia, poiché aveva scambiato un pezzo di roccia per un rivale e si era schiantato con violenza contro la pietra. Quella notte, mentre giaceva stordito, i lupi lo avevano divorato. Ed ecco la testa dell'ariete, pensò Soth con disprezzo, vedendo apparire il capo dei cavalieri, Sir Ratelif. Sir Ratelif raggiunse il ciglio del fossato e aspettò che cessasse lo stridio delle ruote che sollevavano il ponte. Quando restò soltanto l'eco del rumore assordante, l'uomo in armatura stese le mani, il palmo rivolto verso l'alto. A Soth, sembrò un gesto d'implorazione, e il suo disprezzo per il cavaliere aumentò. «Soth di Dargaard Keep, siete stato riconosciuto colpevole di crimini contro la vostra famiglia e l'onore dell'Ordine. In nome di Paladine, KiriJolith e Habbabuk, arrendetevi all'esercito schierato contro di voi», gridò Sir Ratelif, declamando una formula che i Cavalieri di Solamnia ripetevano da secoli. Soth sollevò il pugno in segno di sfida. «Questa fortezza può resistere al
vostro assedio per mesi», gridò di rimando. «L'inverno non è lontano: non potrete restare qui per sempre.» Sir Ratelif ignorò le parole del nobiluomo e continuò con il suo monologo, recitando frasi che nelle ultime due settimane aveva ripetuto ogni giorno. «I vostri crimini sono molteplici, perciò citerò solo i più gravi. Sappiate che siete ritenuto colpevole per avere infranto i voti sacri del matrimonio dilettandovi con la donna elfo Isolde di Silvanost, quando eravate ancora sposato con lady Gadria di Kalaman. Sappiate inoltre che siete ritenuto colpevole per avere giaciuto con la donna elfo e di averla resa gravida di un figlio bastardo.» Il cavaliere increspò le labbra, come se cercasse di liberarsi di un sapore disgustoso. «Sappiate infine che siete sospettato di avere premeditato ed eseguito l'assassinio della vostra legittima moglie, Gadria.» La mascella serrata, le mani chiuse a pugno, Soth voltò le spalle all'esercito. Dal basso, la voce di Ratelif risuonò nuovamente: «Ve ne state su una torre costruita a somiglianza della rosa rossa, Lord Soth. Mai, una macchia simile aveva insudiciato il simbolo sacro del nostro Ordine». Le parole colpirono il cuore del nobile. Aveva scelto quel luogo per la costruzione di Dargaard Keep perché le montagne vicine abbondavano di quarzo rosa e lui stesso aveva disegnato la costruzione affinché la forma affusolata della torre ricordasse quel fiore incomparabile. Che un cavaliere osasse denigrare il suo omaggio all'Ordine... Sollevò lo sguardo verso le due lune nel cielo di Krynn. Solinari, uno spicchio nel cielo notturno, proiettava languidamente la sua luce argentea. Era il bagliore rosso di Lunitari che colorava il mondo, inondando la notte di sangue. Esisteva una terza luna, Nuitari, ma quella sfera nera poteva essere individuata solo da chi si era lasciato corrompere dal male. Alla luna bianca, simbolo della magia buona, il Cavaliere della Rosa fece un voto. «Farò vedere loro, alla luce di Solinari, quanto si sbagliano. Il mio onore è la mia vita», sussurrò Soth. «E io riavrò indietro la mia vita...» Uno schiocco improvviso fece svanire l'immagine del ricordo nella mente del cavaliere della morte. Il non-morto scrutò il paesaggio brullo innanzi a sé. I primi raggi del sole del mattino filtrarono attraverso la coltre di nubi. La pioggia era cessata. Il silenzio regnava sovrano poi, all'improvviso, di nuovo quello schiocco. Soth balzò in piedi, il braccio ferito ciondolante su un fianco. Il rumore risuonò una terza volta. Sono le trappole, capì il cavaliere della morte. Qualcosa ci era finito sopra. «Svegliati, Magda.»
La Vistani aprì gli occhi di scatto e altrettanto fulmineamente afferrò il pugnale. Senza aprire bocca, seguì il cavaliere fuori dalla caverna. Lentamente e con circospezione, si avvicinarono alla prima trappola, un semplice tranello che Soth aveva preparato vicino al boschetto di abeti. Un lupo, la gola squarciata, il pelo imbrattato del proprio sangue, giaceva a terra. Lo stesso destino si era abbattuto sugli altri lupi che li seguivano da giorni. Il cavaliere della morte esaminò le ferite della terza fiera; i profondi tagli nella gola non erano stati provocati da una lama, ma dai denti e dagli artigli di un altro animale. Eppure nessuna bestia avrebbe potuto far scattare le trappole di proposito. «Lord Soth», lo chiamò Magda, inginocchiandosi accanto al lupo morto. La ragazza indicò una macchia di fango vicino al muso dell'animale. Una serie di piccole orme di stivali conducevano dal terreno fangoso fino al corpo del lupo. «Le impronte conducono al lupo e poi scompaiono», osservò la fanciulla, confusa. Soth esaminò attentamente il terreno, quindi indicò qualcosa. Una sfilza di impronte si allontanavano dal lupo trucidato; ma non erano impronte di stivali, bensì di zampe dai lunghi artigli ricurvi. 10 «Non ho mai creduto alle parole di bardi o storici», affermò Lord Soth. «Per ogni verità che pronunciano, ti chiedono di credere a dieci menzogne.» S'incamminò lungo la strada bagnata dalla pioggia, senza lasciare alcuna impronta nel terreno fangoso. Magda sospirò esasperata e si affrettò dietro il cavaliere della morte. Gli stivali che aveva sfilato a uno degli uomini morti nella taverna erano inzuppati d'acqua e coperti di fango. «Le leggende dei cantastorie Vistani sono diverse», disse, appena raggiunse Lord Soth. «Certo, non tutte le parole corrispondono al vero, ma spesso contengono più verità che menzogna. E potrebbero aiutarci a scoprire qualche particolare che potrebbe servirci per affrontare e sconfiggere il guardiano del portale.» Senza nemmeno degnare di un'occhiata la propria compagna di viaggio, il cavaliere della morte replicò: «Da dove vengo, io sono il soggetto di molte leggende. E pare che studiosi di storia abbiano raccontato dettagliatamente la mia vita». Scosse la testa. «Non ho mai aperto il mio cuore a un cantastorie o a uno scribacchino, e coloro che hanno condiviso le mie av-
venture, quando ancora un cuore batteva nel mio petto, sono morti da secoli. E allora, come è possibile che ci siano individui che pretendono di conoscere la mia storia?» «Le leggende vengono tramandate di padre in figlio», osservò Magda. «E se un tempo eravate un mortale, sicuramente avrete condiviso un racconto con gli amici o altri cavalieri. Voi...» Soth la interruppe. «Sì, un tempo ho condiviso storie delle mie avventure di cavaliere con i miei compagni», ammise. «Il mio ordine richiedeva ai cavalieri che volevano crescere di rango di compiere atti di grande eroismo, ma anche di descrivere quelle valorose gesta davanti ai propri pari.» E ridacchiando amaramente, aggiunse: «Se una storia su dieci raccontata da guerrieri alla ricerca di avanzamento nei Cavalieri di Solamnia fosse stata vera, Krynn sarebbe stata un vero paradiso grazie ai loro incredibili atti di coraggio». Magda non replicò, apparentemente intimidita dal cinismo del cavaliere. Alla fine, tuttavia, si fece coraggio e domandò: «Non c'era verità nelle storie che voi raccontavate?» Fu la volta di Soth a restare in silenzio. Dal giorno precedente, gli scambi di battute fra il cavaliere della morte e la zingara erano un continuo battibecco. La scoperta delle carcasse dei lupi aveva reso nervosi entrambi. Dal macabro ritrovamento erano trascorsi un giorno e una notte, ma né Soth né Magda avevano rilevato altri segni del nemico, o del benefattore che aveva ucciso le bestie feroci. Mentre i due marciavano, il sole fece capolino da dietro una coltre di nubi, diffondendo ovunque un velo di luce. Alcune nuvole nere vagavano ancora in cielo, minacciando di innaffiare la terra con una cascata d'acqua. Negli alberi nodosi che fiancheggiavano il sentiero, alcuni uccellini cinguettarono allegramente, sebbene fosse il profondo gracchiare dei corvi a riempire più frequentemente l'aria. La strada fangosa si snodava ai piedi del monte Ghakis. La montagna incappucciata di neve svettava sulla sinistra e in lontananza, sulla destra, le acque del fiume Luna scorrevano argentee verso la folta e intricata foresta. Pochi viandanti osavano spingersi sul sentiero solitario preferito da Magda, una scelta che Soth aveva apprezzato. Avevano incontrato soltanto un gruppo di Vistani, non imparentati con Madame Girani. Nel vederli, Magda si era precipitata fra gli alberi ancora più velocemente di Soth. Quando la carovana si era allontanata, la zingara aveva spiegato al cavaliere della morte che la notizia dell'intenzione di Strahd di trucidare tutti gli apparte-
nenti al clan di Madame Girani doveva essere ormai giunta alle orecchie di tutti gli zingari di Barovia. Magda aveva tanto da temere dai Vistani quanto dai terribili scagnozzi del vampiro. Percorsero un paio di miglia e la mattina lasciò il posto al pomeriggio. Mentre camminavano, il cavaliere della morte piegava la mano per muovere il polso ferito. Le ossa si erano saldate e la carne ricominciava a crescere nel taglio aperto dal morso del drago. «Raccontami la tua storia», mormorò Soth. «Che cosa?» domandò Magda, incredula. «Volete che vi racconti la storia, ora?» «Potrebbe contenere un seme di verità. E chissà, forse potrebbe aiutarci a sconfiggere il guardiano, sempre che una simile creatura esista. Racconta la tua storia, Magda», invitò nuovamente il cavaliere della morte. La giovane si schiarì la gola e qualsiasi buon osservatore si sarebbe accorto che camminava più eretta, soddisfatta. Non era per il fatto che il cavaliere della morte fosse stato colpito da qualcosa che lei aveva detto, anche se una simile vittoria non l'aveva certo lasciata indifferente. Era l'antica leggenda Vistani che la riempiva di orgoglio. «Kulchek era un vagabondo», iniziò Magda, «un ladro astuto e un amante appassionato, che teneva strettamente in pugno le redini del proprio destino. «Vagabondava per Barovia prima che sconfiggesse il gigante e ottenesse la mano della figlia del gigante, prima che attraversasse il corridoio delle lame per rubare i gioielli dell'orafo e persino prima che uccidesse i nove boiari che tentarono di renderlo schiavo.» Un aperto sorriso illuminò il viso della giovane. «È un grande eroe per il mio popolo, sapete, Lord Soth? Madame Girani era imparentata con lui e anch'io.» «Che cosa ha a che fare tutto questo con il portale?» domandò Soth, irritato. «È passato molto tempo da quando avete sentito un bardo raccontare una storia», commentò la zingara, indifferente all'impazienza del suo pubblico. «Se non imparate a conoscere Kulchek, non trarrete nulla dal suo viaggio attraverso il portale.» La Vistani intese il silenzio di Soth come un assenso alle sue parole e riprese a raccontare. «Come ho detto, Kulchek viaggiò per Barovia quando ancora non aveva compiuto le sue famose imprese. Dovete sapere che, in seguito a una maledizione, non poteva dormire due notti nello stesso posto. Quando si trovava in un paese che gli piaceva, ogni sera spostava il suo letto fino a
quando non c'era più un posto dove non fosse stato per dormire. A quel punto, doveva riprendere il viaggio e fu per questo che visse in molti paesi e vagabondò per molte terre. «Accanto a lui c'era sempre Sabak, il fedele segugio le cui zampe lasciavano orme ardenti nella pietra quando era in caccia di una preda. In mano, Kulchek teneva Gard, il bastone che aveva ricavato dall'albero sulla vetta della montagna più alta del mondo. Poiché l'albero cresceva molto vicino agli dei, i suoi rami potevano essere tagliati solo dalla lama di Novgor, un pugnale che Kulchek teneva nascosto in uno stivale.» Magda era ormai concentrata nel racconto che le era stato insegnato dai cantastorie che si spostavano di clan in clan. La storia era stata creata per essere raccontata lungo il cammino e infatti il suo linguaggio possedeva un ritmo che rifletteva un passo lento, ma costante. Di tanto in tanto, la fanciulla aggiungeva un commento personale o poneva una domanda retorica, spezzando il ritmo. Il cavaliere della morte aveva ascoltato sufficienti leggende per capire che quelle interruzioni venivano fatte per impedire al racconto di divenire ripetitivo o monotono. I bardi più esperti ben sapevano che un pubblico annoiato raramente premiava il cantastorie con laute mance. La storia di Magda era semplice, ma lunga. La zingara parlò per tutto il pomeriggio prima di giungere alla conclusione. Dopo avere dormito in ogni angolo di Barovia, Kulchek cercò di andarsene. Ma trovare una via d'uscita dal ducato non era facile: le nebbie che circondavano i confini gli impedivano di oltrepassarli. Per venti notti, non dormì. Né poteva fermarsi per riposare, poiché se si fosse appisolato, malefiche creature alate lo avrebbero sbranato. Così diceva la maledizione. Il trentesimo giorno, quando ormai Kulchek era allo stremo delle forze, il fedele Sabak vide un grande topo cornuto. Kulchek aveva già incontrato quel genere di roditore carnivoro in una terra lontana da Barovia. Gli abitanti di quel luogo sostenevano che quei ratti vivessero solo nel loro paese. Il vagabondo lanciò il cane all'inseguimento dell'altro animale; se quest'ultimo viveva a Barovia si sarebbe recato nella sua tana, ma se era giunto dalla sua terra lontana, allora forse lo avrebbe condotto al passaggio che gli avrebbe permesso di lasciare il ducato. Esausto per la mancanza di sonno, Kulchek non riusciva a mantenere il passo con il cane, ma le impronte infuocate lasciate da Sabak nella pietra risplendevano alla luce ormai fioca del crepuscolo. Dalla vetta del monte Ghakis, i due seguirono il topo a valle, verso il fiume Luna. Nel punto in
cui il fiume si biforcava, il roditore cornuto s'infilò in un buco e scomparve. Persa la sua preda, Sabak iniziò ad abbaiare e guaire, disperato. I Vistarli, fece notare Magda, affermavano che i latrati del cane si udivano ancora alla biforcazione del fiume, ogni giorno al tramonto. Kulchek raggiunse infine il punto in cui l'animale era scomparso nella terra. In preda alla rabbia, colpì il terreno con Gard, il suo bastone, distruggendo pietre e assestando colpi micidiali al suolo. All'improvviso, dalle profondità della terra, si levarono delle voci, voci di centinaia di uomini, o forse più, che ridevano e gridavano divertiti. Intuendo che il cunicolo del ratto doveva condurre in quel luogo di baldoria sotterraneo, e forse anche a un portale, Kulchek usò Gard per liberare una fascia di terra da fango e terriccio. Finalmente, una dozzina di piedi sottoterra, scoprì due immense porte di ferro. Erano socchiuse, ma una pesante catena con relativo lucchetto in metallo impediva che venissero aperte più di quel tanto che consentiva a un piccolo ratto di passare. Ostacoli simili non erano niente per un ladro della destrezza di Kulchek. Utilizzando Novgor, l'affilato pugnale, il vagabondo forzò rapidamente il lucchetto. Il corridoio che si apriva dietro il portale e s'inoltrava nelle profondità della terra era buio e umido. Lentamente, Kulchek si diresse verso le voci, il fedele Sabak accanto a lui. Dopo avere camminato per miglia e miglia, giunse in una stanza enorme, illuminata da tante torce quante non ne aveva mai viste in tutta la vita. La luce era quasi accecante. Cento uomini sedevano intorno a lunghi tavoli, mangiando e bevendo. Un ratto cornuto era accovacciato ai piedi di ogni commensale, pronto a ingoiare gli avanzi di carne e a leccare le gocce di birra chiara che cadevano dal tavolo. Oltre gli uomini, dall'altra parte della stanza, si apriva una porta, avviluppata in fiamme azzurre e oro. Attraverso il fuoco, Kulchek vide una terra sconosciuta. Finalmente aveva trovato l'agognato portale. I cento uomini balzarono in piedi, pronti a uccidere Kulchek, poiché il loro compito era proteggere il portale da chiunque avesse voluto usarlo. Il vagabondo sapeva che la mancanza di sonno gli avrebbe impedito di combattere adeguatamente, perciò si concentrò per escogitare un altro sistema per vincere rapidamente. Prima che gli uomini avessero sguainato le spade, Kulchek aveva già afferrato il suo pugnale magico, puntandolo verso i guardiani. La luce di quelle moltitudine di torce si rifletté sulla scintillante lama d'argento del pugnale, accecando cinquanta guerrieri, che il vagabondo uccise prima che potessero fare un passo. A ogni colpo mortale, un topo cornuto saltava
oltre il portale. Sebbene le fiamme lambissero la loro pelliccia, i roditori passavano indenni da Barovia al misterioso paese al di là dell'uscio. L'uccisione di cinquanta uomini bilanciò la situazione, dando a Kulchek la tranquillità di cui aveva bisogno per affrontare le altre guardie. Il giovane afferrò Gard e a ogni colpo il bastone frantumava il cranio di un guerriero. Ben presto, i corpi cominciarono ad ammonticchiarsi intorno al vagabondo. Sabak si diede da fare per trascinare lontano i cadaveri degli uomini ed evitare che intralciassero il suo padrone nella lotta. «E così, Kulchek il Vagabondo sconfisse cento uomini e trovò la via d'uscita da Barovia», concluse Magda, la voce ormai rauca per il lungo racconto. Il sole era ormai basso e le ombre si allungavano sul sentiero. Il fiume scorreva nelle vicinanze e il gorgoglio costante dell'acqua corrente aveva accompagnato la fine della storia. Alti canneti coprivano il Luna alla vista. Di tanto in tanto, i due viandanti notavano occhi sottili che li osservavano nascosti fra le canne. Più spesso, forme di dimensioni preoccupanti scivolavano fra gli alberi che fiancheggiavano la riva opposta del fiume. «E allora?» domandò Magda. «La storia vi è stata utile?» Facendosi scudo con una mano, guardò il sole calante. «Se non altro, ci ha aiutato a passare il pomeriggio.» Il cavaliere della morte non rispose. Rallentando il passo, sollevò la testa, in ascolto. La Vistani, imbronciata, bevve un sorso d'acqua dalla sua borraccia. «Per lo meno potreste...» «Silenzio», la zittì Soth, sollevando una mano. Sembrava sul punto di colpire la donna, ma poi abbassò il braccio. «Non voltarti. Qualcosa ci segue. Già da un po' di tempo.» Dall'espressione del suo volto, era chiaro che Magda dovette combattere contro la propria curiosità per non voltarsi e guardarsi indietro. «È un altro uomo-alligatore?» Il cavaliere della morte scosse la testa. «È una bestia di piccole dimensioni, grande quanto un bambino. Forse è quella che hai visto vicino al villaggio.» Una nota di feroce piacere s'insinuò nella voce di Soth. «Detesto giocare al gatto e al topo. Ma ora il misterioso inseguitore si è avvicinato a sufficienza perché possa scoprire la sua identità. Confido che farai ciò che ti dirò, Magda.» Confidare? La parola sorprese la Vistani. «Ce... certo», rispose. «Vedi quella curva laggiù, dove l'ombra degli alberi copre la strada?»
domandò il cavaliere. «Quando la raggiungeremo, dovrai continuare a camminare, indipendentemente da quello che farò io. Ti dirò io quando fermarti.» Seguirli non era difficile, non con il puzzo di morte che il cavaliere lasciava dietro di sé. Anche se i piedi del morto non schiacciavano il terreno, era molto più semplice stare dietro a lui che alla Vistani che gli faceva da guida. Gli zingari conoscevano sufficientemente bene il bosco per confondere le loro tracce, e quella donna non faceva eccezione. Come si chiamava? Ah, sì. Magda. La bestia arricciò le labbra sottili e sogghignò. Se il cavaliere non avrà niente in contrario, la impiccherò a un albero lungo la strada, così Strahd la vedrà. La rabbia del conte dovrebbe placarsi almeno un po'. Tutti ormai sanno che uccidere una del clan della Girarti significa conquistarsi la riconoscenza di Strahd e soltanto uno stupido sottovaluterebbe una simile possibilità. Sulla strada, Lord Soth sollevò la mano verso la ragazza, pronto a colpire. Il cuore della bestia accelerò. Il cavaliere della morte si era finalmente stancato delle chiacchiere della zingara! Aumentò l'andatura, sicuro che il rumore dell'acqua avrebbe coperto i suoi movimenti nel canneto. Anche la fanghiglia, nella quale affondavano le zampe dai lunghi artigli, attutiva i suoi passi. Annusando l'aria, lanciò un'occhiata furtiva. Se è arrabbiato, pensò la bestia speranzosa, forse mi lascerà mangiare il cuore della ragazza. E sono secoli che non gusto il sangue di una Vistarli. Perso nel ricordo del passato, la bestia lasciò vagare la mente. Quando cercò nuovamente le sue prede, i due avevano svoltato una curva. Affrettò il passo; il cavaliere era sempre molto cauto e sospettoso e più di una volta da quando avevano lasciato il villaggio aveva cercato di lasciare false tracce. Trucco che tuttavia non aveva impedito alla bestia di continuare a seguirne l'odore. Scrutando gli alberi alla ricerca di un luogo perfetto per un agguato, il misterioso inseguitore s'infilò nella boscaglia. Niente si muoveva nell'oscurità. Nessuna creatura si nascondeva nel buio. Annusando, avvertì l'odore, prima del cavaliere e poi di Magda. Avevano attraversato entrambi la boscaglia. Scivolò con circospezione nel sottobosco, tenendo gli occhi bene aperti per non lasciarsi sfuggire il bagliore di una spada nascosta e fiutando l'aria
per avvertire il puzzo di paura e attesa, segno che qualcuno si nascondeva nell'ombra pronto ad attaccare. Ma l'odore non si interrompeva. Sembrava che entrambi avessero attraversato la boscaglia senza nemmeno fermarsi. Finalmente, la bestia scorse nuovamente la strada, se così si poteva chiamare il sentiero fangoso scelto dalla Vistani. Magda camminava a passo lento alla luce del sole, ma del cavaliere non c'era traccia. In preda al panico, la bestia si guardò intorno, freneticamente. Un'improvvisa folata d'aria trasportò un fetore insopportabile; proveniva alle sue spalle. Ma prima che potesse voltarsi, una mano fredda come il ghiaccio si strinse intorno al suo collo. «Dov'è il tuo padrone?» domandò il cavaliere della morte, uscendo dalle tenebre dietro a una quercia. La capacità di entrare nell'oscurità e spostarsi da un'ombra all'altra era risultata particolarmente utile a Soth. Era rimasto nascosto nel buio della boscaglia, sfuggendo così ai sensi incredibilmente sviluppati della bestia. «Dov'è Strahd von Zarovich?» ringhiò Soth. Dita rachitiche, terminanti in lunghi artigli, raschiarono il guanto di cotta di Soth. Senza alcuno sforzo, il cavaliere della morte sollevò da terra la creatura bassa e tarchiata e dal bosco la lanciò sulla strada. La luce del sole calante rivelò la natura mostruosa della bestia che aveva inseguito Soth e Magda. Sebbene fosse di stazza massiccia, non superava i tre piedi di altezza. La bestia si accovacciò sulle zampe che, se non gli consentivano di correre velocemente erano però ottimi strumenti per scavare e arrampicarsi. Braccia tozze, ma muscolose, fuoriuscivano da spalle larghe. Sulla schiena portava un tascapane consunto, coperto di fango e rovi spinosi. La testa dell'essere poggiava su un collo così corto da essere quasi invisibile. Aveva fattezze simili a quelle di un uomo, ma così schiacciate da farlo assomigliare a una bestia feroce. Aveva occhi particolarmente distanziati e così neri da sembrare quelli di una bambola. Sul muso da canino spiccava un grugno nero, le cui narici erano ancora dilatate per seguire l'odore del cavaliere. Orecchie rotonde e piatte erano poste sull'ampio cranio e denti affilati e appuntiti spuntavano dalla bocca. Il muso, come tutto il resto del corpo, era ricoperto da una folta pelliccia a pelo corto grigiobrunastra, a eccezione di strisce bianche sotto il muso e di un'unica ampia striscia che si estendeva dal grugno alla nuca. Nel complesso, la bestia sembrava l'orripilante incrocio fra un ometto e un tasso.
«Non sono al servizio di Strahd, Lord Soth», disse la bestia con voce profonda come il ruggito di un orso. «Sono qui per aiutarvi.» «Ci hai spiato da quando abbiamo lasciato il villaggio», replicò il cavaliere della morte, osservando attentamente la strana creatura. C'era qualcosa di familiare in quella bestia, anche se non riusciva a capire di che cosa si trattasse. «È un comportamento da spia, non da alleato.» «I lupi che avevate alle calcagna erano spie», affermò lo strano animale. «Il fatto che io le abbia uccise dovrebbe essere sufficiente per provarvi che sono un amico.» Si sfregò il collo con una zampa. «Inoltre, non è la prima volta che ci incontriamo.» Violenti tremori squassarono la bestia, che si piegò in due per il dolore. Il pelo che gli copriva il corpo tarchiato svanì, come se fosse stato risucchiato dalla pelle. Gambe e braccia si allungarono e i lineamenti assunsero un aspetto più umano, o per essere più precisi, da nano. Il grugno divenne un naso piatto, il pelo irto un paio di baffi e basette. Gli occhi assunsero una tonalità marrone, che conferì loro profondità e intelligenza. Il nano si sfregò la nuca pelata, l'ultima cosa a tornare normale, e annuì soddisfatto. Magda, che nonostante gli ordini di Soth si era voltata per vedere l'essere che li aveva inseguiti, sussultò ed estrasse il pugnale. «Un licantropo!» gridò. «Avrei dovuto capirlo quando ti ho visto la prima volta!» Il nano, completamente nudo, fece scivolare il tascapane giù dalle spalle. Guardò la donna, per niente turbato dalla propria nudità, e ribatté. «Metti via il pugnale, ragazzina. Anche se è d'argento, e lo capisco da come riflette la luce, prima che tu riesca a colpirmi una seconda volta, io ti ho già fracassato il cranio.» Dal tascapane estrasse una tunica rossa. Mentre la indossava, indicò tre lunghe cicatrici che gli attraversavano lo stomaco. «E credimi, un colpo non è sufficiente per uccidermi.» Le braccia conserte, il cavaliere della morte disse: «Anche se sei un alleato, perché ci hai seguito?» «Non seguivo tutti e due», sottolineò il nano mentre s'infilava un paio di ghette logore. «Seguivo voi, Cavaliere. Non vedo l'ora di vedere morta la Vistani, e se me l'ordinate, sono pronto a farlo anche adesso.» Magda imprecò e si avvicinò a Soth. «È una spia, mio signore. Altrimenti perché ci avrebbe seguito?» Con un sospiro, il nano estrasse dal tascapane le scarpe dalla suola di ferro, si sedette su una pietra sul ciglio della strada e le infilò. «Preferisco indossarle piuttosto che trasportarle», spiegò. Abbigliato con una collezione variopinta di orribili vestiti, il nano si avvicinò al cavaliere della morte.
«Mi chiamo Azrael», iniziò, come se soltanto quell'informazione fosse già una grande concessione. «Vi seguo, signor cavaliere, perché è chiaro che siete un essere molto potente; più di me, devo ammetterlo.» Un sorriso scaltro gli apparve in volto. «Forse persino più di Strahd von Zarovich.» Il cavaliere della morte annuì in segno di ringraziamento per il complimento. «Sono Lord Soth di Dargaard Keep. Che cosa speri di ottenere venendomi dietro?» «Innanzitutto», affermò Azrael, «lasciate che vi spieghi ciò che voi potreste guadagnare permettendomi di seguirvi». Sollevò un dito puntandolo verso oriente. Là, l'oscurità aveva già cominciato a scendere. «Posso aiutarvi a tenere a bada i tirapiedi del conte, come i lupi che ho ucciso qualche giorno fa. Vi seguivano e ogni sera, al tramonto, facevano rapporto a Strahd. Ricordate gli ululati? È il loro modo di comunicare. Non avete più sentito ululati ultimamente, vero?» Si batté orgogliosamente il petto. «Non temo né il conte, né i suoi servi», ribatté Soth. Il nano si sgonfiò come un pallone. «Non hai niente da offrirmi, omuncolo. Ti lascio vivere, accontentati.» Girati i tacchi, il cavaliere della morte riprese il cammino. Magda lo seguì a ruota, brandendo il pugnale contro il licantropo in un gesto non tanto intimidatorio, quanto di offesa. Un'espressione confusa apparve sul volto del nano. Si lisciò i baffi e le basette mentre riesaminava la situazione. Infine, si sedette sul ciglio della strada. Non aveva pensato che il cavaliere della morte potesse rifiutare la sua compagnia, ma riflettendo su ciò che aveva da offrirgli, non poté che ammettere di avere ben poco, se non la sua lealtà. Il problema era che Soth non si rendeva conto di quanto avrebbe potuto essergli utile. Devo dimostrargli il mio valore, decise. Sorridendo, si alzò, si diede una sistemata e fischiettando allegramente, s'incamminò lungo la via dietro al cavaliere della morte. «Nessuna di queste pietre porta l'incisione che hai descritto», proruppe Lord Soth, irritato. Lasciò vagare lo sguardo sulle acque del fiume che il sole ormai morente aveva tinto di rosso. «C'è un'altra biforcazione?» «Sì, ma è qui che Kulchek ha trovato la galleria sotterranea», replicò Magda. Girò una pesante pietra e vi guardò sotto, alla ricerca del segno che si diceva indicasse la strada per il portale. «Le porte di accesso al tunnel erano sepolte sottoterra, vi ricordate?» «Forse nelle tue storie per bambini», ribatté Soth, «ma...»
All'improvviso, un lamento ruppe il silenzio. Non era il guaito di un lupo, ma un grido di dolore. Il suono echeggiò sul fiume e fra le montagne. Magda spalancò gli occhi. «Il gemito di Sabak per avere perso la preda!» mormorò. «L'avete sentito, mio signore? Siamo nel posto giusto!» Dopo avere scrutato intorno a sé alla ricerca di una spiegazione terrena del lamento, il cavaliere annuì. «Forse, Magda, forse. Ma dov'è l'entrata della galleria?» Imprecando, Azrael saltò fuori da un rovo, le mani allungate verso la lepre che fuggiva zigzagando davanti a lui. La presenza del nano non sorprese né Soth né Magda, poiché il licantropo li seguiva apertamente. E quando si erano rifiutati di rivelargli l'oggetto della loro ricerca, aveva deciso di cominciare a guardarsi intorno per procurare la cena per tutti e tre. La lepre era troppo veloce per il nano e scomparve rapidamente fra i rovi. Azrael si lanciò fra i cespugli, ma non trovò altro che una grande pietra coperta di licheni. Quando la voltò, scoprì un piccolo cunicolo. Il nano prese in considerazione la possibilità di trasformarsi in un tasso, poiché la sua maledizione gli consentiva di assumere le sembianze di nano, tasso gigante o di un orripilante incrocio fra i due, ma prima che avesse il tempo di decidere, Magda gridò. «Ha trovato qualcosa», strillò la Vistani. In un baleno fu accanto al nano, completamente dimentica del disprezzo che provava per quell'essere. Con mano tremante indicò il masso che il nano aveva spostato. «Le sue zampe lasciano sulla pietra impronte infuocate», mormorò. «L'orma di Sabak!» L'impronta di una zampa di cane, o di lupo, luccicava sulla pietra. Azrael allungò una mano per toccarla: era calda. «Forse puoi esserci utile, nano», affermò il cavaliere della morte, fissando il masso con fiammeggianti occhi arancioni. Soth spiegò brevemente ciò che stavano cercando e Azrael si offrì di scavare sotto la pietra alla ricerca del portale di ferro. Come in precedenza, fitte di dolore squassarono il nano mentre avveniva la trasformazione, che lo tramutò in un tasso gigante. Fatto un cenno con la testa in direzione del cavaliere della morte, si tuffò nel terreno. Il cunicolo della lepre offrì ad Azrael un buon punto di partenza, e in breve tempo scomparve completamente. Terra e sassi schizzarono fuori dal buco, poi, il silenzio. Magda camminava nervosamente avanti e indietro, mordicchiandosi le unghie in attesa di un segnale dal licantropo. Da parte sua, Soth sembrava osservare con tutta tranquillità lo scorrere del fiume,
mentre in realtà scrutava la zona circostante in cerca di tracce dei tirapiedi di Strahd o delle strane creature che vivevano nel corso d'acqua. Finalmente, il tasso emerse dal buco, la pelliccia sporca di fango. Ignorando Magda, raggiunse Soth e si lasciò nuovamente travolgere dal processo di trasformazione. «La parete di ferro si trova a pochi piedi sotto la superficie», spiegò, una volta mutato nello strano incrocio fra tasso e nano. «Inizia a scavare», ordinò Soth, lasciando trapelare una certa emozione. Si voltò verso la Vistani. «Aiutalo.» Azrael ruppe lo strato superficiale di sassi e terra. Magda lo seguiva, spostando sui bordi il terriccio estratto. Immobile, Soth osservava i due lavorare. Trascorsero così ore e ore, eppure né Magda né Azrael si lamentarono. La Vistani voleva fuggire da Barovia, dall'ira di Strahd e il nano voleva dimostrare di essere un servo degno di lode. La luna aveva già raggiunto lo zenith, quando il cavaliere della morte ordinò loro di fermarsi. «Avete scoperto a sufficienza la porta perché possa aprirla», affermò. Mentre il licantropo e la giovane si lasciavano andare a terra, esausti, le mani graffiate e imbrattate di fango, i capelli appiccicosi per il sudore, il cavaliere della morte allungò il pugno verso la terra. Una luce azzurra si attorcigliò ai suoi guanti di cotta, salendo vorticosamente e aumentando di intensità, mentre il cavaliere pronunciava parole magiche. Lentamente, Soth aprì le mani, i palmi verso il basso, e l'energia fluì verso il terreno. La terra tremò, come se un leviatano defunto si stesse risvegliando e si scuotesse di dosso il mantello di terra depositatosi su di lui nel corso del sonno millenario. La luce azzurra fluiva ora dalle mani di Soth in strisce crepitanti, che si allungarono come tentacoli e iniziarono a scavare nel terreno. Le braccia scosse da tremiti, il cavaliere della morte cominciò a voltare i palmi verso l'alto. I tentacoli di energia reagirono, aumentando la loro presa sulla porta ancora nascosta. Sebbene lo strato di terra non fosse profondo, lo sforzo per aprire magicamente la porta era evidente. Soth si arcuò indietro, lottando per muovere le mani. Un improvviso rombo di tuono echeggiò nell'aria e mentre i tentacoli spalancavano la porta, il cigolio del cancello di metallo aumentò il fragore. Quella cacofonia di suoni ricordò a Soth le grida delle anime torturate nell'Abisso. Chiunque si fosse trovato entro un miglio dalla biforcazione avrebbe udito quel frastuono.
Una spaccatura si aprì all'improvviso, ingoiando sassi e terriccio. I tentacoli di energia scivolarono abilmente nella fessura e la allargarono. Con un ultimo sforzo, il cavaliere della morte voltò i palmi verso il cielo. La porta si spalancò di colpo, sommergendo la zona di detriti. La luce azzurra scomparve mentre Soth si avvicinava alla galleria. «Presto», disse. «Non vedo l'ora di andarmene da questo posto maledetto.» 11 Il tunnel scendeva ripidamente e il percorso era insidioso. L'acqua che gocciolava dalle pareti e dal soffitto di pietra scorreva in rivoli lungo il pavimento. Licheni pallidi e maleodoranti crescevano ovunque. Magda scivolò e corse il rischio di cadere più di una volta e persino Azrael, sottoforma di mezzo-tasso e avanzando sulle quattro zampe, finì a terra un paio di volte. Solo Lord Soth marciava nella galleria come se stesse camminando su un terreno piatto. «Sembra non finire mai», sussurrò Magda, tenendo in alto la torcia che aveva ricavato con le canne. Alla flebile luce della fiamma, si accorsero che la discesa diminuiva lentamente e che le pareti si stringevano al punto tale che presto avrebbero dovuto procedere in fila indiana. Il cavaliere della morte accelerò il passo. «Se la porta alla fine della galleria mi dovesse condurre a Krynn, sarei felice di attraversare la distesa dei Nove Inferni per raggiungerla.» Giunti nel punto il cui il tunnel si restringeva, Azrael tallonò Soth, mentre Magda chiudeva il gruppo illuminando la via. Sebbene il cavaliere della morte avesse chiuso la pesante porta dietro di loro, Magda aveva il sospetto che qualcosa li seguisse. Di tanto in tanto, uno schiocco o un gorgogliare improvvisi la facevano voltare di colpo e sollevare la torcia come un talismano. Ma se qualcosa si nascondeva nella galleria, si limitava a seguire il trio a distanza. Finalmente, il corridoio si allargò e il licantropo e la zingara riaffiancarono Soth. Il tunnel girava bruscamente a destra, e a metà della curva Azrael si bloccò. «Sento odore di ossa», mormorò. Si sollevò sulle zampe anteriori e annusò l'aria. «Ossa ma niente carne.» Al termine della curva si apriva un arco di pietra nera e oltre esso, una stanza enorme, dove colonne di pietra scura s'innalzavano fin dove la luce della torcia di Magda non poteva arrivare. Fiaccole, disposte a pochi passi l'una dall'altra in sostegni di ferro, erano agganciate alle pareti. Il legno era
secco e deformato. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, la Vistani riuscì ad accenderne una dozzina, illuminando così la stanza. Magda guardò in alto e vide file e file di fiaccole che arrivavano fino al soffitto. «La stanza delle torce», mormorò, sbalordita, «dove Kulchek combatté contro i guardiani del portale». Si guardò intorno. «Ma ora non ci sono guardiani.» Mucchi di ossa sbiadite riempivano il centro della camera, circondati e parzialmente coperti da sporcizia. Se lo spettacolo disgustò Magda, Azrael si sentì attratto da quei resti cartilaginosi come un perdigiorno da una taverna. Il licantropo sollevò il fragile osso di una gamba e lo osservò attentamente. «Umano... maschio... non troppo vecchio.» Girò e rigirò l'osso fra le zampe. Dopo averlo annusato, ne morse un'estremità. L'osso scricchiolò sgradevolmente e Azrael lo masticò. «Puah... è qui da un sacco di tempo. Non c'è rimasto nemmeno un pezzetto di midollo.» Soth prestava poca attenzione ai compagni. Il cavaliere della morte studiò le pareti, facendo scivolare le mani sulla pietra fredda. A un certo punto si fermò, seguendo una lunga fessura rettilinea, ma quando si accorse che non era altro che una crepa, riprese la sua ispezione. Sia Magda che Azrael erano impegnati a esaminare altri oggetti: una quantità di spade arrugginite aveva attratto l'occhio della zingara, mentre alcune ossa, apparentemente meno vetuste delle altre, avevano risvegliato l'appetito del licantropo. Ma né Magda, né Azrael si accorsero degli occhi minacciosi che si socchiusero per guardare gli intrusi. Un occhio, poi due, poi dieci sbatterono via una coltre di polvere e sporcizia, e si posarono su Soth. «Ehi! Guardate questo!» Una piacevole sorpresa fece gridare Magda e il suo sorriso parlava di una bellissima scoperta. Spingendo di lato una spada rotta, vecchia quanto il castello di Strahd, la Vistarti afferrò un bastone di legno nodoso. Era corto quanto l'avambraccio della ragazza, ma il pomo all'estremità era il doppio del suo pugno. «Un bastone. È molto vecchio. Pensate che potrebbe essere...» «Non c'è niente qui!» gridò Soth dall'altra parte della stanza. «Nessun portale. Nient'altro oltre la porta attraverso la quale siamo entrati.» Azrael lasciò cadere il teschio con il quale stava giocherellando e sollevò lo sguardo. «Forse potrei aiutarvi a cercare, signore. I miei sensi sono mol-
to sviluppati, sapete.» Quando il licantropo si allontanò dalle ossa sparse, il mucchio di sporcizia che si trovava fra lui e il cavaliere della morte si sollevò dal pavimento e la cosa apparve. Una massa grumosa e viscosa ne costituiva il corpo, la cui forma cambiava continuamente, come se fosse fatto d'acqua. Tentacoli di fango si agitavano intorno a esso, scomparendo da una parte per poi ricomparire da un'altra. Non aveva un volto, ma dozzine di volti. Duecento occhi, alcuni grandi e attenti, altri piccoli e chiusi, coprivano l'essere. Soltanto pochi di essi erano fissi sugli intrusi. Gli altri osservavano la stanza e scrutavano l'oscurità del corridoio alla ricerca di altri nemici. Intorno agli occhi si aprivano dozzine di bocche. Ognuna di esse aveva un'espressione diversa dall'altra, spesso opposta. Una si spalancava avidamente, passando una lingua nera su incisivi appuntiti, mentre un'altra sorrideva dolcemente. Una terza, a un palmo di distanza, sbavava come le fauci di un lupo. Da ogni bocca usciva un borbottio costante, una cacofonia di grida, imprecazioni, risa e implorazioni. Le pareti di pietra rifrangevano le onde del suono, raddoppiandole. Azrael, il più vicino all'essere, si portò le zampe alle orecchie. Sul muso gli apparve una smorfia di dolore, ma il licantropo restò immobile al suo posto. Le voci chiamavano il nano. Esplosero nella sua mente e richiamarono le sue paure più profonde e i suoi sogni. Attraverso un velo di dolore, le immagini sfrecciarono nel suo inconscio, una dopo l'altra. Azrael guardò il sangue sulle sue mani e sorrise. Era il sangue di suo fratello, o forse era quello di sua madre? Non lo ricordava più; gli assassinii si erano ormai confusi nella sua mente. Il fatto che le grida dei suoi parenti fossero incredibilmente simili non aiutava a risolvere la questione. Azrael si chiese se il suo grido di morte sarebbe stato come quello di tutti gli altri. All'improvviso, la porta si spalancò con violenza; frammenti e schegge di legno schizzarono nella modesta casa. Azrael lanciò un'occhiata al fratello, il collo spezzato, il volto coperto di sangue, poi vide il borgomastro della città in piedi sull'uscio. Il grasso politskara era sgomento, le mascelle che tremavano per la paura o, forse, la rabbia. Azrael si sentì pervadere da un'ondata di energia e si lanciò oltre l'uomo. Era libero! Attraversando di corsa il cortile della piccola casa di famiglia, il nano sentì l'aria fresca della città scivolare su di lui. Ovunque guardasse, vedeva nani affaccendati e il tintinnio del martello sul metallo, dello scalpello sulla pietra, gli riempiva le orecchie. Un profondo disgusto per
gli abitanti del Quartiere degli Artigiani, lacchè privi di nerbo come la sua famiglia, minacciava di sopraffare Azrael. Doveva vincere il bisogno di attaccare chiunque incontrasse. Ma, no, doveva scappare, doveva raggiungere le gallerie buie che conducevano ancora più in profondità nelle viscere della terra. Il grido di «Assassino!» risuonò dietro di lui. Il borgomastro stava urlando a pieni polmoni i crimini commessi da Azrael. Il giovane nano spinse via un tagliapietre che gli bloccava la via, e fuggì. Un mare di volti guardò passare Azrael, occhi che lo fissavano inorriditi e sconvolti, bocche spalancate. Per un istante, il nano pensò che lo avrebbero lasciato passare, che il sangue che gli copriva le braccia e i graffi e i lividi sul viso li avrebbero spaventati. Poi, la freccia lo colpì al braccio. Il dolore s'irradiò dal gomito alla spalla. Il nano maledisse lo sconosciuto arciere che aveva scoccato la freccia. Aveva sempre detestato gli archi; solo i codardi li usavano. Non corri il rischio di sporcarti le mani di sangue se miri a qualcuno da una iarda di distanza, pensò, barcollando per il dolore. La folla avanzò da ogni lato e Azrael si trovò accerchiato. Gli occhi dei nani lo fissavano, ma in quegli occhi ora si leggevano emozioni diverse. La rabbia, non la paura, imporporava i volti degli artigiani che stringevano il cerchio intorno ad Azrael, e quando cadde a terra, le loro minacce gli riempirono le orecchie. Nella camera sotterranea, a Barovia, l'essere viscoso incombeva sul nano caduto, una delle bocche chiusa sul braccio del malcapitato. Gli occhi più vicini ad Azrael lo guardarono famelici e il corpo del mostro si spinse in avanti per avvicinare un'altra bocca affamata alla vittima prescelta. Soth e Magda erano immobili, ipnotizzati. Anche loro imprigionati da visioni paralizzanti. Magda si ritrovò nuovamente nella lunga galleria che portava alla stanza sotterranea. Un cane di dimensioni spropositate, la testa le arrivava quasi al petto, la seguiva a pochi passi. «Vieni, Sabak», disse la zingara. «Dobbiamo trovare il modo per andarcene da questa terra.» Dopo avere trascorso tanti giorni senza dormire, la stanchezza aveva ridotto la sua voce a un debole sussurro. La luce proveniente da una stanza davanti a loro inondò la galleria e risate e grida riempirono l'aria. Magda avanzò fino alla camera, rischiarata da centinaia di torce. Là, cento uomini si affollavano intorno a un tavolo,
impegnati a divorare carne rossa e a trangugiare birra chiara. Ai loro piedi, ratti dalle corna attorcigliate si lanciavano sugli avanzi di cibo che cadevano a terra, squittendo e mordendo i loro simili. Dall'altra parte della stanza, si trovava l'oggetto della sua ricerca, il portale che l'avrebbe condotta lontano da Barovia. Magda entrò baldanzosamente nella stanza. Lei era un'eroina, la protagonista di leggende e dei semplici mortali non si sarebbero frapposti fra lei e la libertà. I guardiani del portale si voltarono contemporaneamente verso l'intrusa, sguainando le spade. L'incertezza s'impadronì di Magda per un istante, poi un piano prese forma nella sua mente: usa il tuo pugnale per riflettere la luce delle torce e accecare metà degli uomini, quindi lanciati sugli altri con Gard. Nella mano destra teneva stretto il bastone, Gard, mentre con la sinistra cercò il pugnale. Diede un colpo agli stivali di pelle, ma l'impugnatura non saltò fuori dal bordo delle calzature. In preda al panico, abbassò lo sguardo. Novgor, il pugnale sempre affilato con la punta come uno spillo, era sparito. I cento uomini si avvicinarono e Sabak balzò in avanti per proteggere la sua padrona. Una dozzina di guardiani si lanciarono sul fedele quadrupede, colpendolo violentemente. Il cane crollò a terra. I topi si buttarono allora sul corpo sanguinante dell'animale, scavarono nel suo petto e andarono alla ricerca del cuore che batteva ancora. Di fronte a quello spettacolo, Magda si disprezzò per la propria debolezza. Si lanciò in avanti e iniziò a colpire con Gard, fracassando il cranio di una delle guardie. Nella stanza, l'essere vischioso tremò per il colpo. La bocca chiusa sul braccio di Azrael si aprì e sibilò alla donna. Tenendo bloccato il nano con altre tre bocche, la cosa si protese verso la Vistarti. Tentacoli apparvero ovunque davanti a lei. Le lunghe braccia si allungarono e tentarono si strapparle di mano l'antico bastone. Un tentacolo la colpì in pieno viso, facendola crollare a terra. Soth non vide niente di ciò che accadeva ai compagni, sebbene i suoi occhi scrutassero ancora la stanza; come gli altri era prigioniero di una visione evocata dal coro di voci dei guardiani. Erano anni che quella scena non si ripresentava alla sua mente. Centinaia di goblin affollavano una caverna umida e lugubre. I volti piatti si voltarono verso di lui e i loro ghigni di vittoria svelarono piccoli denti aguzzi, famelici di carne. Della sua carne.
Insieme ad altri due compagni, Soth era entrato nella zona più remota delle montagne Vingaard. Lui e gli altri cavalieri cercavano una reliquia del più grande Cavaliere di Solamnia, Huma Dragonbane. Secondo la leggenda, Huma si spinse all'interno delle montagne alla ricerca di un servo della dea del male, Takhisis. La caccia durò cento giorni, e durante il lungo inseguimento il grande condottiero perse gli speroni. Erano speroni particolarmente cari a Huma, poiché gli erano stati donati dalla chiesa di Majere in riconoscimento per le sue valorose imprese, ma il cavaliere non si fermò per cercarli. Nella mente di Huma il dovere veniva sempre per primo. Ed era alla ricerca di quegli speroni, simbolo della devozione di Huma alla causa del Bene, che Soth e compagni erano partiti. Come gli altri due cavalieri, Soth aveva sperato che l'avventura gli avrebbe offerto l'occasione per dimostrare il suo valore, poiché quello era l'unico modo per avanzare da Cavaliere della Spada a Cavaliere della Rosa, il più alto onore per un appartenente all'Ordine. A quel tempo, le decorazioni legate al rango non suscitavano l'interesse del giovane Cavaliere della Spada. Un'orda di goblin faceva la guardia alle reliquie, nascondendole ai rappresentanti del Bene e le creature malvagie erano riuscite a isolare i cavalieri e a catturare due di loro. Soth era rimasto solo, i sogni di gloria svaniti dalla sua mente. Sono un Cavaliere della Spada, si disse, asciugandosi il sudore dalla fronte. Paladine, padre del Bene, insegna al tuo umile servo a non aver paura. Sebbene il giovane cavaliere continuasse a ripetersi quelle parole, quando alzò la spada, la mano tremava ancora. «Liberate i miei compagni», si sentì dire, sorpreso dal tono deciso e perentorio della sua voce. Indicò i due cavalieri feriti e incatenati alla parete della caverna. «Ve lo chiederò una sola volta. Se non obbedirete immediatamente, vi massacrerò e li libererò io stesso.» Entrambi i prigionieri erano stati violentemente percossi e Soth non poté fare a meno di chiedersi se fossero ancora vivi. Non aveva importanza; il suo dovere nei loro confronti era chiaro: doveva salvarli o morire nel tentativo. I goblin divennero un'orda confusa. Alcuni battevano le corte lance dalla punta di silice contro gli scudi. Se colpito singolarmente, l'ovale in cuoio emetteva un suono sordo, ma se colpiti contemporaneamente, il suono prodotto dagli scudi echeggiava nella caverna come il rombo di un tuono.
Altri goblin gridavano nella loro lingua sgradevole e gutturale. L'orda avanzava e alla luce delle torce la pelle rossa dei volti conferiva ai temibili folletti un aspetto demoniaco. Gli occhi gialli, sottili come fessure, risplendevano malvagi. Soth strinse la spada e pregò gli dei del Bene. «Siete stati avvisati», gridò all'orda, ma i goblin continuarono ad avvicinarsi. Un comando gridato dalle retrovie bloccò l'avanzata delle malvagie creature. Molti di loro si voltarono verso il goblin che aveva impartito l'ordine e si fecero da parte. Avevano riconosciuto il loro re, che avanzò verso il cavaliere. Al contrario dei suoi sudditi, alti la metà di Soth, l'altezza del re uguagliava quella di un normale essere umano. Aveva la pelle rossa, come tutta la tribù, e il volto scarno. L'armatura che indossava metteva in risalto la possente muscolatura e il goblin si muoveva con la sicurezza di chi era abituato al comando. Soth aveva già combattuto contro creature simili e sapeva che erano orgogliose, abili e letali. A simili guerrieri la nozione di sconfitta con onore era sconosciuta, così come la pietà per i nemici battuti. «Butta la spada, cavaliere», gridò il sovrano, sollevando la mazza ferrata e brandendola minacciosamente contro Soth. «Ti aprirò il cranio e per te sarà finita.» Il giovane Cavaliere della Spada si fece forza. «Sono felice di sentire che parli la mia lingua», disse. «Sappi che non mi tirerò indietro. Libera i miei compagni e consegnami gli speroni che la tua tribù conserva senza alcun diritto. Soltanto allora me ne andrò.» «E se non te li dessi?» A un tratto, le parole di uno dei cavalieri più anziani risuonarono alla mente di Soth: Nell'affrontare una tribù di goblin, una sfida diretta al loro sovrano può impedire un massacro. Se il re viene sconfitto, spesso la tribù si disperde, poiché la morte del capo viene interpretata come un segno d'ira degli dei. Soth si eresse in tutta la sua persona, tenendo la spada con la punta verso il basso, un chiaro segno di disprezzo nei confronti del re goblin. «Se non libererete i miei compagni o non mi consegnerete ciò che appartiene al mio Ordine, vi sfiderò in un duello. È mio diritto di cavaliere domandarvelo ed è vostro dovere di guerriero accettare. A meno che, naturalmente, abbiate paura di me.» Soth si sforzò di sorridere. «In tal caso, affronterò il vostro campione.» Il re goblin lo fissò, sorpreso. «Non ti temo, umano.» Sogghignò. Solle-
vata la mazza ferrata, abbaiò un ordine. L'orda si lanciò all'attacco. Al di sopra delle grida di guerra dei soldati, aggiunse: «Ma non sono così stupido da affrontarti da solo». Soth colpì il primo goblin che gli si avvicinò e infilzò il secondo aprendogli un taglio dalla spalla allo stomaco. Man mano che i guerrieri morivano, il sangue ristagnava ai piedi del cavaliere, rendendo scivoloso il pavimento di pietra. In preda al panico, non riuscì a parare un colpo e una lancia lo colpì alla gamba. Prima che potesse reagire, un altro goblin lo trafisse alla schiena. Non sentiva più il braccio sinistro e la testa iniziò a girargli. Non è così che è andata, si rese conto Soth mentre un altro goblin cadeva sotto la sua spada. Quando sono entrato nella caverna, il re dei goblin ha accettato la mia sfida. Ho ucciso lui e un'altra dozzina dei suoi. Gli altri sono fuggiti e io ho vinto. Il coraggio dimostrato mi ha permesso di rivolgere una petizione al Consiglio dei Cavalieri per un mio avanzamento... Un'altra fitta di dolore al braccio sinistro lo fece trasalire. Abbassò lo sguardo e vide un buco nell'armatura. Sotto il buco, la pelle che copriva appena l'osso era pallida e ruvida. La pelle di un uomo morto, pensò, sebbene le voci nella sua mente cercassero di scacciare quel pensiero. Erano voci di goblin? No. Di qualcos'altro, di qualcosa in una stanza ingombra d'ossa alla fine di una lunga galleria. E la ferita sul braccio non era opera delle lance dei goblin, ma del drago del castello di Ravenloft. L'ira di Lord Soth zittì le voci nella sua mente. Guardò nella stanza e vide la cosa gelatinosa. Una mezza dozzina di bocche stavano nutrendosi della carne di Azrael. Il licantropo era rannicchiato a terra e ululava per il dolore. Magda era in ginocchio a pochi passi da Azrael, impegnata a tenere lontano l'essere mostruoso con una mazza di legno. Ogniqualvolta il bastone colpiva, un occhio si chiudeva, una bocca taceva, o sulla massa vischiosa si formava un'orribile livido nero. Lunghi tentacoli si erano avvolti intorno al braccio della ragazza e si erano insinuati nei suoi capelli per cercare di trascinarla più vicino alla grande bocca dai denti appuntiti che si apriva a pochi palmi da lei. «Sabak!» gridò la donna. «Ti vendicherò. Porterò con me il tuo corpo quando passerò attraverso il portale dopo avere ucciso questi uomini.» Di nuovo quella stupida leggenda, pensò il cavaliere della morte. Crede di essere Kulchek, che combatte contro i nemici. Il mostro posò buona parte dei suoi occhi su Lord Soth. Le orbite mostrarono sorpresa e le bocche borbottarono ancora più forte. Un lungo e
spesso tentacolo, terminante in un artiglio dalle dita aguzze, scattò in avanti verso il cavaliere della morte. Soth tagliò il braccio con la spada. Il colpo tranciò di netto il tentacolo, ma lo sforzo provocò al cavaliere un'insopportabile fitta di dolore, che dal polso raggiunse il petto. La spada gli cadde di mano. L'essere studiò nuovamente Lord Soth. Il cavaliere ricambiò lo sguardo oggettivo, di valutazione. Mentre osservava la massa di occhi, alcuni senza pupille, altri senza iride, un'idea prese forma nella sua mente. Dopo tutto, forse la leggenda dei bardi non era così assurda. Sollevò le mani. Sebbene il polso destro gli facesse male, disegnò nell'aria un intricato motivo. Pronunciò una sola parola, un comando magico antico quanto il mondo, e una luce invase la stanza. La luminosità dorata era quasi un oggetto fisico, dotato di peso e sostanza, quasi una cascata di acqua limpida e fresca. Il lampo provocò un forte bruciore agli occhi di Soth, ma la luce magica non lo accecò. Al contrario, dal grido lacerante emesso dalla creatura soprannaturale al centro della stanza, il cavaliere della morte capì che quelle centinaia di occhi non si erano dimostrate altrettanto forti. L'essere mostruoso s'irrigidì e i suoi occhi divennero bianchi, orbite prive di vista che galleggiavano nel corpo liquido. Quando il grido delle cento voci svanì, le bocche tacquero. Poi, iniziarono a gemere e piangere, spezzando così la trance ipnotica di Magda e Azrael. La Vistarti fu la prima a riprendersi, sbattendo gli occhi per scacciare il dolore procuratole dall'incantesimo. Si allontanò dalla creatura innanzi a lei, ma solo per un istante. Stringendo il bastone, balzò in piedi e colpì i tentacoli che si allungavano verso di lei. Sotto il feroce attacco della zingara, la creatura ormai cieca si ritirò, posando la propria massa su Azrael. Un grido si levò. «Per tutti gli inferi! Toglietemi di dosso questa montagna di sputo!» Un suono terrificante seguì il grido. La cosa sobbalzò, allontanandosi infine da Azrael. Il nano giaceva a terra, tre delle bocche della creatura ancora attaccate al suo braccio e alla spalla. Le fauci continuavano ad aprirsi e chiudersi sulla carne. Ci volle tutta la forza del licantropo per strappare e gettare via le bocche. Magda raggiunse il nano e lo aiutò con un paio di colpi ben assestati. Soth recuperò la spada, sollevandola con la mano illesa. Si avvicinò cautamente all'essere vischioso, studiandolo attentamente. Dalla mostruosa creatura ora si protendevano un centinaio di dita ondeggianti, surrogati
degli occhi che ispezionavano la stanza alla ricerca di una via di fuga, e tenevano gli intrusi a distanza. Lividi bluastri erano comparsi sulla pelle colpita da Magda e tre ferite aperte indicavano il punto in cui Azrael aveva strappato le bocche. Quello che fino a pochi istanti prima appariva come un gigantesco fungo dotato di pericolosi tentacoli ora non era altro che un mostruoso verme strisciante, che scivolava lungo le pareti alla ricerca di una via di fuga. «Quella cosa non ha odore», affermò Azrael, pensieroso. «Altrimenti l'avrei sentita quando siamo entrati nella stanza.» Allontanò a calci le bocche sul pavimento. «Ma morde, accidenti!» Magda aiutò Azrael ad alzarsi. «Avete bisogno di aiuto, mio signore?» domandò al cavaliere della morte, che si stava preparando a un attacco. In risposta, Soth infilzò la creatura, affondando la spada fino all'elsa. Il colpo non provocò grandi danni; come le ferite inferte da Azrael, quelle aperte dalla lama si chiusero non appena l'acciaio uscì dalla carne. La cosa si avvolse a palla e rotolò in un angolo. Quando Soth sollevò la spada per colpire ancora, spesse funi, terminanti con bocche spalancate, scattarono verso di lui e gli strapparono l'arma di mano. Prima che Magda o Azrael potessero fare un passo, un tentacolo, della circonferenza di un serpente, si avviluppò intorno al cavaliere e lo trascinò verso il mostro. La carne lattiginosa della creatura venne spinta contro l'armatura del cavaliere. Pelle pulsante riempì gli spazi nell'elmo di Soth, eliminando l'aria. Con la faccia schiacciata contro il mostro, Soth poteva vedere il flusso e il riflusso del denso liquido che ne costituiva il corpo e la massa pallida e grumosa situata al centro dell'essere. Il cavaliere piegò le braccia e si liberò delle dozzine di tentacoli vischiosi che lo legavano. Affondò la mano sinistra nel mostro. Quest'ultimo cercò inutilmente di allontanarlo, sorpreso che il suo nemico non fosse soffocato. Il braccio immerso fino alla spalla, Soth afferrò la massa polposa che era il cuore e il cervello del mostro. Quando il cavaliere gli strappò la vita, l'essere mostruoso emise un solo lamento, poi si accasciò sul pavimento. Liberatosi della massa inerte della creatura, Soth si accorse che Magda e Azrael erano vicini a lui. Stavano ancora colpendo furiosamente il mostro e si fermarono solo quando il cavaliere sollevò una mano. La Vistarti aprì la bocca per parlare, ma una ventata d'aria insopportabilmente calda e l'improvviso ruggito di un fuoco soppiantarono le domande. Il muro dall'altra parte della stanza era scomparso e il varco apertosi si affacciava su un vasto mare di fiamme azzurre e dorate. Sbalorditi, i tre
raggiunsero il bordo del pavimento di pietra e guardarono fuori. Il calore obbligò Magda e Azrael a ripararsi il viso con le mani; persino Soth avvertì il calore dell'inferno sulla sua carne morta. Il mare di fiamme era a centinaia, forse migliaia di piedi di profondità, sebbene lingue di fuoco guizzassero nel cielo nero, salendo a spirale e svanendo in fili di luce e colori. Un gorgo roteava vorticosamente sotto i tre compagni, una macchia rossa nella distesa di azzurro e oro. Al centro del vortice si apriva un girone nero come le profondità dell'Abisso. «È... è questo il portale che state cercando?» balbettò Azrael. «Non mi sembra molto... sicuro.» «No», rispose Soth, sospirando. «Non è un portale.» Magda scosse la testa. «Ma la leggenda dice che Kulchek trovò un portale avvolto in fiamme azzurre e dorate. Deve essere per forza questo. E poi ci sono le ossa, e le torce.» Tacque, poi sollevò la mazza. «C'è persino questa. È tutto come dice la storia. Non possiamo ignorarlo.» «Allora, prego, dopo di te», grugnì Azrael, indicando l'abisso infuocato. «Sì», disse una voce sul lato opposto della stanza. «Salta, Magda.» Strahd von Zarovich era in piedi sotto l'arco di accesso alla camera. Le mani, infilate in raffinati guanti di capretto, erano incrociate sul petto, proprio come venivano disposti i cadaveri all'interno delle bare. Indossava gli stessi abiti eleganti che portava la notte in cui Soth e Magda erano giunti al castello di Ravenloft: giacca nera su camicia bianca, pantaloni neri e stivali scuri, e mantello di seta color ebano foderato dello stesso tessuto, ma in rosso. Un'espressione quasi divertita illuminava il volto scarno di Strahd e la bocca sottile era arricciata in un sorrisetto di scherno. La Vistani guardò negli occhi scuri del conte e vide scintille di rabbia, tracce del sentimento che la maschera del vampiro non riusciva a nascondere completamente. In quegli occhi, Magda vide anche il proprio destino: una morte lenta per mano di Strahd, una morte che l'avrebbe condannata alla vita eterna come una delle schiave del conte. Si voltò di colpo e si lanciò nel baratro. L'aria sembrava spingerla verso il basso. Un'improvvisa sensazione di vertigine le fece girare la testa. Con gli occhi, trovò il gorgo sottostante e in quell'istante capì che Soth aveva ragione. Quello non era un portale. All'improvviso, il bustino dell'abito iniziò a stringere fino quasi a soffocarla. Un gemito di dolore le sfuggì dalle labbra, poi, si ritrovò nella stanza. Atterrò su un mucchio d'ossa al centro della sala. Lasciò cadere il bastone, confusa. Come aveva fatto a tornare indietro? Guardò Soth.
Il cavaliere della morte era sull'orlo dell'abisso infernale e la fissava con occhi freddi e impassibili. Aveva ancora la mano sinistra stesa in avanti, la mano con la quale l'aveva salvata dalla morte. Azrael era accanto al cavaliere della morte. Il licantropo era acquattato sulla difensiva e i suoi occhi scuri saettavano da Magda a Soth e Strahd. «Peccato», commentò il conte languidamente, entrando nella stanza. «Mi sarebbe piaciuto sentire le sue grida. Chi è così maldestro da cadere nell'inferno, di solito prende fuoco molto prima che precipiti fra le fiamme.» Indicando la parete aperta, il vampiro continuò. «Il guardiano contro il quale avete combattuto era qui, quando ho scoperto questo luogo. Quando l'ho ucciso...» «Voi l'avete ucciso?» domandò Azrael. Strahd evitò di fulminare con lo sguardo il licantropo. «Sì, e se restiamo qui a sufficienza, lo vedremo emergere nuovamente», affermò. «Quando il guardiano viene ucciso, la parete si apre. Forse un tempo era un portale, ma ora non più. Qualche tempo fa, un paio di miei servitori si sono offerti di... verificare questa voce. La loro fine è stata atroce e molto dolorosa.» Stese la mano snella verso la donna. Quando Magda si ritrasse rifiutando l'aiuto, il conte alzò le spalle e si girò dall'altra parte. «Naturalmente, se me lo aveste chiesto, avrei potuto dirvi che questo era uno stratagemma, Lord Soth.» Fissò il cavaliere della morte. L'espressione divertita scomparve e al suo posto emerse un'ira furibonda. «Ma voi avete rifiutato sdegnosamente la mia offerta di amicizia, come ha fatto questa puttanella che vi segue come un cane bastardo.» Lord Soth si avvicinò lentamente a Magda. «Alzati», le ordinò in tono gelido. Usando la mazza come sostegno, la zingara si sollevò, senza mai distogliere lo sguardo da Strahd. Anche Azrael strisciò accanto al cavaliere della morte. «La schiavitù non alimenta l'amicizia, conte», ribatté Soth. «Mi avete trattato come un lacchè, un galoppino o un sicario.» «E voi non siete il tirapiedi di nessuno, vero, Soth? Siete convinto di controllare il vostro destino?» chiese il vampiro. Sorrise, un sorriso di crudele divertimento. «Presto scoprirete che siamo tutti lacchè dei poteri oscuri che governano questo luogo, pedine che vengono spostate e gettate l'una contro l'altra.» Soth chiuse le mani a pugno. «Siete venuto per lanciarvi contro di me?» «Contro di noi», affermò Azrael rivolgendosi al conte. Magda brandì la mazza, un chiaro segno della sua posizione.
Strahd scoppiò a ridere. «Certo che no», replicò. Inchinandosi e sventolando il mantello con una mano, aggiunse: «Sono qui, Lord Soth, per proporvi una tregua e per offrirmi come vostro alleato». «Bene», disse il cavaliere della morte. «Andiamocene da qui, allora. Troveremo un luogo più adatto dove due... alleati potranno discutere i loro piani.» Strahd si inchinò nuovamente e si diresse verso la porta, dicendo: «Ho un avamposto nelle vicinanze, una torre in rovina. È perfetta per scambiare due chiacchiere». Soth inguainò la spada e seguì il vampiro verso la galleria. Azrael si affrettò a raggiungere il cavaliere della morte e la Vistarti. Prima di lasciare la stanza, Lord Soth si rivolse al licantropo. «Non provare mai più a parlare in mia vece o ti ritroverai senza lingua ancora prima che te ne accorga.» Azrael sapeva che rispondere sarebbe stata una mossa stupida e si limitò ad annuire e ad arretrare di qualche passo. In perfetto silenzio, il quartetto percorse nuovamente la galleria diretto alla biforcazione del fiume Luna. Il peso delle speranze infrante gravava sulle loro spalle come mantelli inzuppati d'acqua. 12 Le urla del giovane risuonarono in tutta la fatiscente torre nella periferia di Barovia. Le grida di pietà divennero implorazioni per una morte rapida, crescendo di intensità a ogni minuto. Riempirono i camini della torre come folate d'aria e raggiunsero il cielo notturno come flebili lamenti. I pochi contadini che vivevano nelle vicinanze avevano sentito grida ben più forti provenire da quel luogo e non si spaventarono. Dopo tutto, erano baroviani, e i terrori notturni facevano parte della loro vita. Coloro che udivano le urla si limitavano a controllare i ganci delle imposte, e prima di addormentarsi ringraziavano gli dei che li avevano protetti. In fin dei conti, non erano loro a trovarsi nella torre. Anche lo sfortunato prigioniero all'interno della fortezza in rovina pregava gli dei, che però sembravano sordi alle sue implorazioni, o più semplicemente, non erano in grado di assicurargli una morte rapida. In quella terra, e forse anche nei cieli, tutti sapevano che raramente Strahd von Zarovich concedeva una fine pietosa. Il vampiro si trovava in un'ampia sala al pianterreno della torre e in quel
momento dava le spalle a un allegro focherello che scoppiettava nel camino. Teneva una mano sulla fronte del prigioniero, e l'altra sul braccio ferito di Lord Soth. Il giovane era uno zingaro, un Vistani appartenente al clan di madame Girani e cugino di Magda. Il ragazzo tentò per l'ennesima volta di allontanare le dita ossute dal suo volto, ma diventava ormai sempre più debole. Le braccia bloccate dietro la schiena e il torace e le gambe legate a una pesante sedia, il giovane non aveva alcuna speranza di riuscire a impedire al conte di completare il suo incantesimo. Da parte sua, Soth se ne stava immobile e tranquillo, mentre il flusso caldo della forza vitale dello zingaro fluiva nel suo polso. La sua mano si piegò e le dita si allargarono spontaneamente, come se l'energia che Strahd stava risucchiando al Vistani donasse al suo arto una propria volontà. Ma il cavaliere della morte sapeva che l'incantesimo negromantico del vampiro non faceva altro che dirottare la vita dal prigioniero mortale e trasferirla a lui. Ben presto le ferite inflittegli dal drago sarebbero guarite completamente. Gli spasmi muscolari non erano altro che un particolare effetto collaterale. L'espressione del volto del conte disse a Soth che il vampiro adorava quel particolare incantesimo. Gli occhi scuri di Strahd rotearono all'indietro, mostrando soltanto la parte bianca. Le guance pallide si imporporarono; la bocca crudele si aprì in un perfido sorriso di piacere. I denti del vampiro si erano allungati, raggiungendo la massima estensione. I lunghi canini conferivano al volto sottile del conte un aspetto bestiale. Per una creatura come Strahd, che sopravviveva impossessandosi della linfa vitale degli altri, agire da mezzo di passaggio di tale energia era un'esperienza allettante e corroborante. Le grida divennero infine gemiti, poi anche i lamenti cessarono. I bei lineamenti del Vistani cambiarono; gli occhi scuri e penetranti divennero spenti e assenti, il volto levigato venne deturpato da rughe e pustole vaiolose. La pelle divenne molle e cadente e un rivolo di saliva gli colò lungo il mento. Quando Strahd tolse la mano dalla fronte del prigioniero, il giovane crollò in avanti. «È morto?» chiese Soth, accarezzandosi il polso guarito. «Certo», rispose Strahd. Sollevò la testa del Vistarti e ne osservò il volto. «Era l'ultimo del clan Girani, esclusa Magda, naturalmente. Quando lei è...» Il vampiro lasciò penzolare in avanti la testa del cadavere e si sfregò le mani, come se si fossero insudiciate a contatto con il morto. Lord Soth afferrò il bracciale dell'armatura, che gli aveva coperto l'a-
vambraccio, e il guanto di cotta che aveva indossato sulla mano ferita. Il metallo di entrambi i pezzi portava i segni dell'attacco del drago. «Ora mi occuperò dell'armatura», disse. «Non ancora, Lord Soth», lo bloccò Strahd. Indicò le uniche sedie vuote nella sala. «Dovremmo fare due chiacchiere. Inoltre, nell'armeria della torre troverete i pezzi che cercate. Nessuno ha osato saccheggiare questo posto da quando io... ho sfrattato il precedente inquilino.» «Preferisco tenere questi», replicò il cavaliere della morte. «Questa armatura è antica e con il tempo è diventata una vera e propria pelle, più di questa.» Sollevò il braccio e la carne avvizzita, bianca e spettrale, splendette alla luce delle torce. Strahd si sedette accanto al camino. «Certo, certo», affermò, annuendo. Indicò nuovamente l'altra sedia. Quando finalmente Soth cedette e acconsentì ad accomodarsi, il vampiro stese le dita. Le lunghe unghie nere erano affilate come gli artigli di Azrael. «Non mi avete chiesto perché vi voglio ancora come alleato.» Il cavaliere della morte sollevò le spalle. «Il perché è ovvio, conte. Sperate di disturbare, se non addirittura di uccidere, il duca Gundar. Ora che vi ho mostrato la mia forza, è chiaro che sarò io a farlo.» «Esatto», ammise il vampiro. «Inizialmente ero furibondo. Pochi osano sfidarmi e soprattutto non nella mia casa.» Unendo la punta delle dita, aggiunse: «Erano secoli che nel mio regno non giungeva qualcuno di tanto potente. Per questo ho sottovalutato la vostra posizione nell'ordito della vita». Si alzò e cominciò ad andare su e giù davanti al camino. «Il drago che avete ucciso era una rarità da queste parti, ma fortunatamente non è insostituibile e per quanto riguarda l'ambasciatore di Gundar, siete riuscito a ingannarlo e a farlo collaborare.» «Pargat non mi ha rivelato nulla prima di morire.» «Ma mi ha detto tutto quando ho evocato il suo spirito», spiegò Strahd in tono allegro. «Il figlio di Gundar aveva lanciato su di lui un potente incantesimo che gli impediva di rivelarmi qualsiasi segreto, ma il potere della magia è svanito con la morte. Avrei dovuto pensarci.» Gli occhi di Strahd brillarono alla luce del fuoco. «Vi siete dimostrato formidabile... devo ammetterlo. Ho sottovalutato il vostro potere. Per compensare l'offesa, ho guarito le vostre ferite e vi ho persino perdonato per il vostro comportamento.» «Si ricomincia da capo?»
«Esatto», affermò Strahd, sedendosi nuovamente. «So che cercate un portale, una via d'uscita da questo regno dell'oscurità.. Si dà il caso che sappia dove se ne trova uno, oltre a conoscere il rituale necessario per aprirlo.» Il cavaliere annuì. «Poiché questo portale si trova nelle terre del vostro nemico, potrei trovarmi obbligato a fargli capire, anche con la forza, l'importanza e l'urgenza della mia ricerca.» «Ci capiamo perfettamente, Lord Soth.» Il vampiro buttò un pezzo di legno nel fuoco, sebbene la fiamma non scaldasse nessuno dei due esseri seduti davanti al camino. «Un equo scambio fra alleati. Io vi indico la posizione del portale e voi non vi trattenete dall'eliminare chiunque osi mettersi sulla vostra strada.» La conversazione si spostò sul duca Gundar e sulla sanguinosa storia del portale che si trovava nella sua casa, il castello Hunadora. Come Strahd, il duca era un vampiro, ma governava le sue terre con la forza bruta, evitando le sottili tattiche di paura che invece preferiva il conte. I baroviani vivevano nel terrore del loro misterioso signore o, per essere più precisi, della classe di boiari che eseguivano gli ordini di Strahd, incassavano i tributi destinati a lui e facevano rispettare le sue leggi. I poveretti che vivevano a Gundarak non temevano solo l'esercito del duca, composto principalmente da criminali e assassini, ma il duca stesso. Sebbene non avessero capito che era un vampiro, la gente di Gundarak era al corrente delle sue scorribande nel paese. Coloro che vivevano all'ombra del castello di Ravenloft lavoravano sodo per pagare le tasse, nella speranza di non dover mai scoprire che cosa contenessero le antiche mura; gli uomini e le donne di Gundarak sapevano che, qualsiasi cosa facessero, avrebbero potuto finire appesi alle merlature insanguinate di Hunadora. La storia del portale di Hunadora era innanzitutto una storia di violenza. Centinaia di anni prima, il figlio cadetto del duca aveva litigato con la sorella nella sala principale del castello. Già allora, il ragazzo era il ritratto del padre, non solo nel fisico ma anche nel temperamento irascibile, e la discussione era finita con la morte della ragazza: il fratello le aveva fracassato il cranio. Il sangue della fanciulla non aveva ancora toccato il pavimento, che una porta di una scintillante oscurità era apparsa al centro della stanza. Gundar e il figlio avevano cercato di oltrepassare la soglia, ma un muro di scoppiettante energia li aveva respinti. Per più di dieci anni, avevano conservato il cadavere della ragazza, u-
sando la magia nera per farlo sanguinare continuamente. Il portale era rimasto aperto, ma gli esperimenti non avevano portato al duca che delusione e disappunto. Tutti i membri della famiglia di Gundar potevano superare il portale, ma né il duca, né il figlio potevano oltrepassare quella soglia. Alla fine, Gundar aveva gettato il corpo della figlia ai corvi e aveva lasciato chiudere il passaggio. «Gli esperimenti lasciarono il loro segno anche sul crudele figlio del duca», spiegò il conte, allungando le gambe davanti al fuoco. «A causa delle energie emesse dal portale, Medraut è intrappolato per l'eternità in un corpo di bambino.» «Ma il mostro-bambino può essere ucciso?» «Per quanto sappia, sì. Si dice che se il suo sangue, o quello del padre, verrà versato nel salone di Hunadora, il portale apparirà nuovamente.» Nella stanza scese il silenzio, rotto soltanto dal crepitio del fuoco. Soth rifletteva sulle parole del conte, mentre quest'ultimo se ne stava tranquillo, apparentemente appisolato. Infine, il cavaliere della morte si alzò. «Partirò domani mattina, conte.» «Splendido!» esclamò Strahd. Dalla velocità con la quale balzò in piedi, Soth capì che era tutt'altro che addormentato. «Ho ancora due doni da offrirvi. Il primo è un consiglio.» Il vampiro si avvicinò all'unica finestra della stanza e fece segno a Soth di raggiungerlo. «Un tempo, Barovia era l'unico ducato di questi inferi», iniziò Strahd. «Era circondato da un anello di nebbia, la stessa che vi ha portato qui. Con il passare del tempo, la nebbia ha iniziato a portare degli stranieri nella mia terra. Era inevitabile che, un giorno, qualcuno avrebbe cercato di tornare indietro. Alcuni viaggiatori, entrati nell'Anello di Nebbia, sono scomparsi per sempre. Altri hanno lasciato semplicemente le nebbie del ducato per poi riapparire in luoghi lontani.» Puntando un dito a sud, il conte continuò. «Ma un giorno, uno spirito di grande potere e malvagità ha aperto un varco nell'Anello di Nebbia, creando un altro ducato, una terra chiamata Forlorn. Lo spirito oscuro, di cui nessuno ha mai saputo il nome, regnava su Forlorn... così come altri potenti esseri regnano sui domini sorti dopo l'apertura di altre brecce nell'Anello di Nebbia.» «Pensate che se io entrassi in questo anello nascerebbe una nuova terra?» domandò Soth. Annuendo, Strahd si allontanò dalla finestra. «Forse. E vi ritrovereste intrappolato per sempre in quel regno, così come io sono prigioniero nei
confini di Barovia.» Alimentò il fuoco e fissò le scintille salire nel camino. «Un tratto dell'Anello di Nebbia costeggia Gundarak, a sudest del castello Hunadora. Seguite la strada che vi indicherò e sarete salvo. Fate di testa vostra e...» Il cavaliere della morte non aveva bisogno di altre spiegazioni. «E l'altro dono?» Il conte fissò il fuoco. «Truppe in grado di accompagnarvi nelle terre di Gundar.» «Non ho bisogno di uomini», replicò Soth. «Grazie, ma Azrael e Magda si sono dimostrati estremamente utili. Ho intenzioni di portarmi soltanto loro.» Strahd aggrottò la fronte, costernato. «Speravo mi avreste permesso di occuparmi della zingara e del nano. Magda sa troppo su di me e ultimamente i licantropi compiono scorrerie nei villaggi, facendosi beffe della mia autorità..» Soth raccolse i pezzi dell'armatura. «Sono entrambi pedine», disse. «Ma sono le mie pedine e non rinuncerò a loro senza un buon motivo. In veste di alleato, mi riservo questo diritto. Sono certo che capirete.» Ora che le grida erano finalmente cessate, Magda riprese a lavorare. Sospirando, si avvolse meglio la coperta colorata intorno alle spalle, prese l'ago da cucito e ricominciò a rammentare l'abito stracciato. Quando Strahd glielo aveva donato era un vestito meraviglioso, ma dopo molti giorni di viaggio non era diverso dalla semplice gonna che la zingara indossava la notte in cui Soth l'aveva rapita. «Lo conoscevi?» le domandò Azrael, sbocconcellando un pezzo di pane. Il nano indicò verso il basso, in direzione della stanza in cui si trovavano Soth e Strahd. «Mi riferisco allo zingaro in mano loro.» Magda strizzò gli occhi e infilò l'ago. Dopo un paio di punti, sollevò lo sguardo. «Il mio clan era molto piccolo. Conoscevo tutti.» Con un pezzo di pane in una mano, Azrael rovistò con l'altra nel cesto accanto a lui. Formaggio, forme di pane, frutta secca e gallette e persino due bottiglie di vino riempivano il cesto fino all'orlo. Dopo una lunga ricerca, la mano del nano emerse stringendo una coscia di agnello. «Tra poco ci rimarrai solo tu... se non è già così.» «Non m'importa», rispose Magda in tono gelido. «A parte l'anziana a capo del clan, nessun'altro mi avrebbe compianta, se fossi morta prima di loro... nemmeno mio fratello.» Riprese a cucire. «Se sono rimasta solo io,
fonderò un nuovo clan.» La voce di Magda non tradì alcuna emozione, come se la ragazza avesse parlato delle condizioni climatiche del giorno precedente o di ciò che aveva mangiato a pranzo. Con calma, sollevò l'abito alla luce dell'unica candela che illuminava la stanza al piano più in alto della torre. Soddisfatta del rammendo, Magda si apprestò a ricucire l'orlo. Dopo di che, avrebbe rattoppato i buchi. Non sarebbe stato il genere d'abito che avrebbe attratto lo sguardo di un uomo, ma quelli erano dettagli che ormai non avevano più alcuna importanza. Aveva ben altro a cui pensare. Più che a fare girare la testa agli altri, doveva preoccuparsi di tenere la sua sul collo. Azrael si cacciò in bocca l'ultimo boccone di pane. «Non sei come gli altri Vistani che ho conosciuto», mormorò. «Non che non vada bene, per carità. Ma è chiaro che non sei una spia del conte.» «Difficile», replicò Magda, senza sollevare lo sguardo dal lavoro. Durante il tragitto fino alla torre, Strahd aveva trattato la donna con freddo disprezzo. Quando Azrael aveva fatto notare che non avevano niente da mangiare, il conte li aveva condotti a una fattoria vicino alla biforcazione del fiume Luna. Là, aveva ordinato a Magda e al nano di presentarsi come suoi agenti. I contadini sapevano che a chi possedeva il sigillo del conte non poteva essere negato nulla; la coppia non doveva fare altro che chiedere abiti, cibo e armi. Quando Magda si era dimostrata recalcitrante a chiedere cibo a chi aveva ben poco, Strahd era andato su tutte le furie. Solo la presenza di Soth aveva mitigato l'ira del vampiro. Terminati i rammendi, Magda voltò le spalle al nano e infilò l'abito facendolo scivolare dalla testa. Lasciò cadere la coperta e lisciò l'abito rosso sulle curve dei fianchi. Quando si girò, il nano la fissava con sguardo concupiscente. La fanciulla afferrò la mazza ai suoi piedi. «Non hai bisogno di quella», si affrettò ad assicurarle Azrael. «Spiacente che non ti piaccia il modo in cui ti guardo ma... sei piuttosto attraente per essere un'umana.» Magda lasciò l'arma dove si trovava. Dopo tutto, se Azrael l'avesse minacciata, aveva sempre il pugnale d'argento a portata di mano. Dopo la battaglia contro il guardiano vischioso, lo aveva infilato in uno stivale; le superstizioni Vistani erano chiare in materia. Soltanto uno stupido avrebbe ignorato un simile avvertimento. Sentendosi sicura, infilò ago e filo nella piccola bisaccia di tela. Insieme a una forma di pane e a una brocca di sidro, il corredo per cucire era tutto
ciò che aveva chiesto alla terrorizzata anziana che viveva nel cottage dove si erano recati. Azrael aveva preteso tutto il cibo che poteva portarsi dietro, oltre a delle coperte, una nuova giubba e un tascapane dove infilare ogni cosa. La Vistani lanciò al licantropo la coperta variopinta, ma logora, che aveva utilizzato per coprirsi. «Grazie per il complimento e per questa.» «Perché pensi che la mazza sia così speciale?» domandò il nano senza tanti giri di parole. Dopo che Magda gli ebbe raccontato brevemente la storia di Kulchek, sbuffò. «Se quella era la stanza che ha visitato, allora il suo teschio era probabilmente insieme a tutto il resto. Il mostro vischioso deve averlo divorato.» Magda non abboccò. «Strahd ha detto che quell'essere torna dal mondo dei morti dopo essere stato ucciso. Kulchek non potrebbe averlo uccisa prima?» «E il portale che avrebbe dovuto essere là?» La donna allontanò la domanda con un gesto della mano. «Forse un tempo, là c'era un portale, ma l'incantesimo su cui si reggeva è svanito.» Confuso, il nano rituffò la mano nel cesto. «Ma il tuo eroe ha dimenticato il bastone, giusto? Mi sembra strano. Se fosse stato magico, lo avrebbe portato con sé.» Le mani piantate sui fianchi, Magda affermò in tono categorico: «Hai visto che cosa ha fatto la mazza al guardiano del portale, vero? Forse dovrei provarla anche sui mutanti come te». Azrael scoppiò a ridere. «I bastoni magici non servono contro quelli come me», le spiegò. «Forse quella mazza è qualcosa di più di un semplice pezzo di legno, ma non farci troppo affidamento.» Infervoratosi per la discussione, Azrael balzò in piedi e lisciò la giubba in broccatello sottratta ai contadini. La trama colorata del tessuto dell'indumento conferiva al nano l'aspetto di un giullare di corte. «Pensa allo zoticone che ho incontrato l'altra notte sulla strada per il villaggio di Barovia», iniziò. «Mi ero nascosto fra i cespugli in attesa di una vittima. Quando ho visto il boiaro a cavallo sono saltato fuori sottoforma di mezzotasso, con denti, artigli e tutto il resto. E che cosa fa quello sciocco? Scappa via? Sguaina la spada? No, estrae questo ciondolo e me lo sventola sotto il naso.» Al solo pensiero iniziò a rotolarsi dalle risate. «"Oh", ruggisco io, "non farlo più. Potrebbe venirmi mal di pancia dal ridere."» Magda non aprì bocca. Incredula e sconvolta, infilò la mano nella bisac-
cia ed estrasse il ciondolo che aveva venduto a Herr Grast la notte in cui Soth aveva attaccato il clan. Aveva raccontato al boiaro che il monile era in grado di proteggere chi lo indossava dalle creature della notte. «Ehi, ne hai uno uguale!» esclamò, stupefatto, il nano. «No, è lo stesso ciondolo», lo corresse la zingara. «L'ho preso al parente del boiaro. Gli abitanti del villaggio hanno incolpato il mio clan per quell'assassinio.» Il nano sogghignò. «Non avranno molti corpi caldi da mettere sotto processo dopo che Strahd avrà finito con voi.» «Non mi avrà», affermò la Vistani, infilando al collo la collanina con il ciondolo. «Una volta giunti a Gundarak, non tornerò mai più indietro.» Infilò il resto delle sue cose nella bisaccia. «Cambiando discorso, hai intenzione di indossare quella giubba da buffone per tutto il tragitto fino al castello di Gundar? Le guardie del duca ti vedranno arrivare a dieci leghe di distanza.» «Il conte ha detto di avere delle vecchie armature. Mi infilerò sopra una maglia di ferro.» «Se fossi in te non mi fiderei della parola di Strahd», mormorò Magda. «Ma tu ti fidi di Soth? Per lo meno Strahd non nasconde i suoi piani. Puoi essere certo che farà come ha detto.» Allargando le braccia, aggiunse: «Sai che cos'era un tempo questo edificio? La fortezza di un nobile locale. Quando il nobiluomo rubò i soldi delle imposte, il conte fece uccidere tutti gli abitanti del castello. Fu una sorpresa? Certamente no» «Tu che cosa ne pensi?» Un largo sorriso illuminò il viso del nano. «Un individuo prevedibile è molto meno pericoloso di chi ama sorprenderti.» Magda si buttò la bisaccia sulle spalle e diede un'ultima occhiata alla stanza. «Sei bravo a dare consigli quanto un cantastorie Vistani. Fai mai ciò che dici?» Azrael non rispose subito. Quando ebbe finito di mettere via le sue cose, disse: «Se seguissi la metà dei consigli che do agli altri, pensi che sarei qui?» Caradoc stava finalmente abituandosi a vedere il mondo di sbieco. La testa, non più sostenuta dal collo, ciondolava di lato, ma lo spettro ormai non faceva più caso alla strana angolazione dalla quale osservava ciò che avveniva intorno a lui. A volte, la mente compensava la lesione, raddrizzando il paesaggio e l'orizzonte. Ma poi c'erano i minuti e anche le ore in cui non
riusciva nemmeno a camminare a causa delle vertigini che lo assalivano. Fortunatamente, gli attacchi stavano diminuendo e lo spettro era certo che, con il tempo, la sua mente avrebbe sconfitto il disturbo. Mentre se ne stava nell'ombra al pianterreno della torre, Caradoc vedeva il mondo come pensava che fosse realmente. L'antica torre a due piani era accovacciata in cima a un ripido terrapieno come un drago sul suo tesoro. Per decenni, la torre aveva protetto la collina e il suo signore, ma anche le solide mura non erano riuscite a impedire al conte di attuare la sua vendetta. Ora l'edificio era vuoto, salvo per qualche ignaro viandante che vi cercava rifugio nella notte o per i topi che scorrazzavano ovunque. Un nano e una donna uscirono dalla torre all'aria fresca che precedeva l'alba. Deposero delle piccole bisacce davanti all'ingresso. I nuovi tirapiedi di Soth, pensò lo spettro, sprezzante. Una maglia di ferro arrugginita pendeva dalle spalle del nano, arrivandogli ben oltre la vita. L'armatura era stata chiaramente creata per un essere umano, ma il nano sembrava non rendersi conto di quanto fosse ridicolo; a Caradoc sembrava di vedere un giovane signorotto di campagna che giocava a fare il cavaliere. Ma gli bastò guardare in faccia il nano per cancellare quell'immagine bucolica. C'era uno scintillio feroce negli occhi dell'omuncolo e le basette incorniciavano un naso all'insù e una bocca larga che ricordavano le fattezze di un animale. Vestita di un abito rosso, rattoppato in qualche modo e con l'orlo storto, la giovane sembrava meno pericolosa del nano. Eppure camminava con una sicurezza e una tracotanza che misero lo spettro a disagio. Era alta e snella, con le gambe nerborute di una ballerina. I graffi sulle gambe e i segni di artigli sulle spalle dovevano essere il ricordo di incontri spiacevoli. Bastava guardare il modo in cui teneva a portata di mano il bastone di legno per capire che era sempre all'erta. Sebbene avesse i lineamenti delicati, occhi verdi, labbra piene e mento arrotondato, Caradoc sapeva che doveva essere una donna energica, poiché era riuscita a sopravvivere a estenuanti giorni di marcia in compagnia di Lord Soth e a fuggire dal castello di Ravenloft. «Ogni momento è ormai buono per partire», disse il nano. «Scommetto che il conte non vorrà aspettare fino al sorgere del sole.» Nell'udire il tono irriverente del nano, lo spettro non seppe trattenere un moto di gioia. Se Strahd l'avesse sentito, ci sarebbe sicuramente stato un confronto e Caradoc non vedeva l'ora di trovare una scusa per uscire allo scoperto e per rivelare la sua nuova alleanza a Lord Soth. Allora capirà che
errore ha fatto a maltrattarmi, concluse lo spettro, restando nell'ombra. Magda si sedette nella parte più ripida della collina, proprio davanti all'ingresso. Accanto a lei, una scala di pietra dai gradini irregolari scendeva lungo il pendio. «Non vedo l'ora di andarmene», ammise, battendo con impazienza il bastone a terra. Erano passati pochi minuti, quando il cavaliere della morte e il vampiro raggiunsero i servitori di Soth. Nel vedere il suo antico padrone, Caradoc si ritrasse nell'ombra, poi addirittura nella torre. Il ricordo delle mani gelide di Soth che gli spezzavano il collo lo fece tremare di paura. Pensandoci bene, quello non era il momento giusto per un incontro. «Sebbene non siate d'accordo con la mia valutazione dei vostri compagni», affermò il conte Strahd, «vi farò affiancare da truppe speciali, che vi saranno molto utili nel corso del viaggio nelle terre del duca». Magda e Azrael fissarono il vampiro, ma questi non li degnò di un'occhiata. Il conte Strahd portò le mani alla testa e pronunciò alcune parole magiche. Alla pallida luce della luna apparvero dei volti, contorti in smorfie di dolore. I volti girarono vorticosamente intorno alla collina, poi scomparvero nella terra. Il terreno tremò in tredici punti lungo la china. Una mano ricoperta di fango si aprì un varco, buttando da parte sassi e terriccio. Ne seguì un'altra. Come boccioli spettrali, mani e braccia scheletriche si allungarono lentamente verso la luna. Magda trasalì e scivolò lungo il dirupo. A pochi passi da dove sedeva, una testa coperta da un elmo emerse dal sottosuolo. Con mani ossute, lo scheletro si pulì il petto dal fango, quindi si sedette e procedette, metodicamente, a ripulirsi le gambe. Sul fianco della collina si ripetevano scene simili: guerrieri morti da secoli, le armature che pendevano mollemente sulle ossa putride, rispondevano alla chiamata di Strahd. Vermi cadevano dalle costole degli scheletri e orribili insetti fuggivano da sotto gli elmi. Alla fine, tredici scheletri di guerrieri stavano sull'attenti sul fianco della collina, le tombe vuote ai loro piedi, le spade consumate in mano. «Ora dovreste avere una forza degna di un cavaliere della vostra levatura», disse Strahd, indicando lo spettrale esercito. Caradoc si ritrasse ancora di più nel muro del castello, fino a quando fuori dalla fredda pietra restò solo il viso. Il conte si stava scoprendo troppo! A Krynn, Soth aveva guidato tredici guerrieri e ora sembrava che Strahd si prendesse gioco di lui. Soth annuì e fece segno a Magda e Azrael di raccogliere le loro bisacce. «Seguiranno i miei ordini?»
«Come ho già detto, sono un mio dono, Lord Soth», rispose il conte con un inchino. «Un tempo obbedivano al boiaro che viveva in questa fortezza, ma ora sono al vostro servizio.» Fece una pausa e puntò il dito a ovest. «Fate attenzione all'influsso del duca Gundar su di loro quando vi troverete nelle vicinanze del suo castello. Creature simili, prive di raziocinio, cambiano facilmente bandiera una volta entrati nelle proprietà di un altro.» Il cavaliere della morte si voltò verso i guerrieri. «Seguitemi», ordinò e iniziò a scendere la scala di pietra. Magda e Azrael si lanciarono dietro di lui. I non-morti obbedirono all'ordine ricevuto e iniziarono a marciare dietro al loro nuovo signore. «Che le nostre strade si dividano per sempre», gridò Lord Soth dal limitare della foresta. Il conte sollevò la mano in gesto di saluto. «Speriamo», mormorò. Solo quando il cavaliere della morte e il suo strano esercito furono scomparsi nel bosco, Caradoc osò emergere dal suo nascondiglio. Lo spettro fluttuò verso il vampiro, torcendosi le mani per la disperazione. «Perdonatemi, mio signore, ma convocando un esercito come quello che Soth comandava a Krynn non gli avrete fatto capire di sapere più di quanto lui immagini?» Strahd sollevò un sopracciglio. «Era proprio questo il mio obiettivo, Caradoc. A Soth non è sfuggito il significato del mio dono e la domanda che spunterà alla sua mente mi aiuterà. Se non è sicuro di ciò che sono, non potrà voltarmi le spalle con tanta rapidità.» Osservato il cielo per alcuni istanti, Strahd si allontanò dallo spettro. «Sta per sorgere il sole. Me ne vado.» «Padrone», gridò Caradoc. «Vi ho guardato mentre guarivate il braccio del cavaliere della morte. Non potreste curare il mio collo rotto? Sono stato fedele...» Strahd fissò il suo servo. «Non essere stupido, Caradoc», affermò in tono pacato. «Ringrazia che Soth non si sia accorto della tua presenza. Se fossi stato così sciocco da farti scoprire, ti avrei lasciato nelle sue mani.» Lo spettro cadde in ginocchio e abbassò gli occhi sul pavimento. «Perdonatemi. Credevo...» «Credevi che potessi guarirti. Toglitelo dalla testa, Caradoc. È stata la speranza di tornare a essere umano che ti ha causato guai con il tuo ultimo padrone...» Strahd fece segno allo spettro di alzarsi, «... e non tollererò il ripetersi di una simile sciocchezza. Abbandona simili speranze. Sei un servo, e sarà meglio che impari ad accontentarti di ciò che hai».
Il vampiro chiuse gli occhi e venne immediatamente avvolto da una nebbia sottile. Iniziò a svanire, per poi trasformarsi in un orribile pipistrello. Un istante dopo, volava nel cielo ancora buio, diretto al castello di Ravenloft. L'alba si avvicinava, e la bara di legno che lo proteggeva dai raggi assassini del sole lo chiamò. Una profonda amarezza s'impadronì di Caradoc, sebbene sapesse che Strahd aveva ragione. Lo spettro non aveva niente da offrire e il conte gli avrebbe concesso di vivere fino a quando si fosse dimostrato un servo compiacente. Sconfitto, s'incamminò verso il castello di Ravenloft. Con un po' di fortuna, sarebbe giunto a destinazione al calare del sole, pronto per obbedire agli ordini di Strahd. Mentre copriva la lunga distanza che lo avrebbe portato al castello, Caradoc placò la propria amarezza con un pensiero: forse imparare a vivere senza speranza sarebbe stato come imparare a vedere il mondo con il collo spezzato. Con un po' di tempo e di pazienza ci si poteva abituare a tutto. 13 Le cornacchie avevano già strappato buona parte della carne dal cadavere nudo impiccato sul ciglio della strada. Al sole di mezzogiorno, i brandelli di pelle rimasta apparivano bianchi come gesso e dondolavano avanti e indietro sospinti dalla brezza. Una delle gambe del morto era stata amputata sotto il ginocchio; le braccia erano ridotte a corti monconi. Un cartello appeso al collo del cadavere ne spiegava il motivo: Ladro, era scritto a chiare lettere. «Benvenuti a Gundarak», disse Azrael sbuffando. Scosse la testa e guardò Soth. Il cavaliere della morte si fermò e ordinò l'alt ai tredici scheletri. Non aveva visto nessun cartello, nessun segnale che indicasse il confine fra i due ducati. Il paesaggio non era cambiato. Querce e pini ricoprivano le colline di Gundarak, come quelle di Barovia. «Come fai a sapere che siamo nelle terre di Gundar?» Indicando l'impiccato, il nano disse: «Per quello. Strahd è molto più sottile con le sue vittima. Certo, a suo tempo ha disseminato il paese di cadaveri, ma sempre per un motivo ben preciso. Ancora oggi, quando i suoi sudditi si lamentano per le tasse, il conte lascia nella piazza del villaggio un contadino completamente dissanguato». Azrael simulò un brivido. «Un solo cadavere per spaventare quegli zoticoni.»
Magda si avvicinò al morto, schermandosi gli occhi con la mano per proteggersi dai raggi del sole. «E che cos'ha questo di diverso?» «Gundar e i suoi assassini uccidono chiunque incroci la loro strada», affermò Azrael. «Ne vedremo molti di questi...», sollevò lo sguardo verso l'impiccato, «... lungo la via per il castello di Hunadora». «Sei già stato a Gundarak?» domandò Soth. «Perché non me lo hai mai detto?» «Oh, ah, davvero?» Il nano scoppiò a ridere, ma di una risata forzata e poco convincente. «Vi chiedo scusa, mio signore. Ho vagabondato talmente tanto che a volte dimentico persino dove sono stato.» Un silenzio imbarazzante scese sul gruppo. Azrael, consapevole degli occhi che lo stavano scrutando, si mise a posto la lunga maglia di ferro e giocherellò nervosamente con le basette. «Prima o poi ve lo avrei detto, ma temevo che vi sareste insospettito. Ho vissuto qui per un certo periodo, ma molto tempo fa.» Azrael divenne più audace, osò persino irritarsi quando nell'espressione degli occhi del cavaliere della morte e sul volto della Vistarti lesse una domanda inespressa. «Ero un ladro, proprio come questo sfortunato bastardo. Era l'unico modo in cui potevo sopravvivere. Vedete che cosa fa Gundar ai criminali? È per questo che me ne sono andato. Che ci crediate o meno, Barovia è un luogo decisamente migliore. Certo, Strahd è pericoloso e squilibrato, ma Gundar è dieci volte peggio.» Soth fece segno ai guerrieri di riprendere la marcia. Prima di rimettersi in cammino, lanciò al nano un'occhiata glaciale. «Hai tempo fino al tramonto per rivelarmi altri segreti. Dopo di che, deciderò se potrai restare con noi.» Sospirando, Azrael chinò il capo e lasciò passare i nonmorti. Quando sollevò lo sguardo, vide Magda che lo osservava dall'altra parte della strada. «Se tu non ti fidi di me», l'aggredì il nano, «ti conviene tornare immediatamente a Barovia. Dopo tutto, se sono una spia, tu e Soth non arriverete mai al castello del duca. È quello che stai pensando, vero, Vistani? Lavoro per Strahd? O forse per Gundar?» Con fare sprezzante sputò ai piedi della ragazza e si voltò per seguire Soth. «Ti terrò d'occhio, Azrael», gli gridò Magda. «E se farai qualcosa di sospetto, ti ritroverai la testa aperta in due.» Il nano si fermò. Quando guardò la ragazza, la rabbia era svanita e un sorriso divertito gli illuminava il volto. «Te l'ho già detto, non fare minac-
ce simili, a meno che tu non intenda attuarle veramente.» Con fare intimidatorio si avvicinò a Magda, che sollevò il bastone, pronta a colpire. «Così va meglio», disse il nano, compiaciuto. Ridacchiando, Azrael arrancò dietro Soth. «Ad ogni modo», gridò oltre le spalle, «se fossi in te non starei troppo vicino al cadavere. Il figlio di Gundar a volte lancia degli incantesimi che tengono in vita le vittime per un certo periodo dopo la morte. Sono bravi a recitare la parte del morto fino a quando qualcosa di gustoso non si avvicina a sufficienza per acchiapparlo». Con un balzo, la Vistani si allontanò dall'impiccato, ma il cadavere si limitò a dondolare sospinto dalla brezza. Affrettandosi dietro agli altri, Magda maledisse il nano per il suo macabro umorismo. Lungo tutta la strada che si dipanava sinuosamente ai piedi delle colline nel regno di Gundar, corpi di uomini e donne penzolavano dagli alberi. Molti erano stati frustati a sangue, altri erano sparpagliati a terra come foglie cadute. La maggior parte erano etichettati come ladri o traditori, ma non tutti avevano un cartello al collo. Gli uomini del duca non avevano particolari preferenze in fatto di vittime; uomini e donne, giovani e anziani, dondolavano insieme. Azrael aveva ragione: alcuni corpi erano stregati. Il primo che incontrarono era appeso a una quercia. Una fune nera teneva sospeso il cadavere, e dalla carne rimasta sul corpo si capiva che era una donna. «Non è qui da molto», osservò Azrael. «I contadini strappano i vestiti degli impiccati nel giro di uno o due giorni. Si accontentano anche di stracci come questi.» Quando uno dei non-morti diede una spinta al corpo, il cadavere di donna iniziò a dimenarsi, come se lo scheletro l'avesse svegliato. Imprecando, il corpo vestito di stracci afferrò l'elmo dello scheletro e utilizzò il copricapo come arma contundente. Sul teschio nudo apparve un buco della dimensione di un pugno. Lo scheletro allungò la mano per prendere la spada, ma il cadavere attaccò altre due volte. Entrambi i colpi fecero schizzare in aria frammenti di ossa. Il secondo sfondò i bulbi oculari. Il teschio aperto in due, il guerriero lasciò cadere la spada. Il cadavere avvolse le gambe intorno alla gabbia toracica dello scheletro e tirò il guerriero verso di sé, spezzandogli la spalla destra e buona parte delle costole. Gli altri dodici scheletri fecero a pezzi il corpo di donna. Da allora, per non correre rischi, gli scheletri guerrieri sopravvissuti attaccarono ogni
corpo che incontravano lungo il cammino. Alcuni cadaveri imprecavano e si dimenavano distribuendo pugni e calci, ma senza il vantaggio della sorpresa non potevano competere con la forza combinata dei loro nemici. «Se procedessimo nel bosco, non dovremmo aspettare che i cavalieri mutilino tutti i cadaveri», si lamentò Magda, irritata, mentre aspettavano che gli scheletri riducessero al silenzio un altro corpo che si era messo a urlare sul ciglio della strada. Azrael giaceva supino in mezzo alla via, le braccia aperte. «Ottima idea», commentò. «Mi fido della foresta. Inoltre, ci sottrarremmo ai raggi del sole.» «Restiamo sulla strada», replicò Soth senza staccare gli occhi dagli scheletri impegnati a tagliare e squarciare il cadavere. «Strahd mi ha dato indicazioni precise per raggiungere il castello di Gundar e per evitare eventuali trappole che il duca potrebbe avere disseminato nel bosco.» Magda si piazzò davanti a Soth e lo guardò negli occhi. «Mio signore, non potete fidarvi di Strahd. Per quanto ne sapete, il suo potrebbe essere un piano diabolico per vendicarsi per ciò che avete fatto al castello di Ravenloft.» «Potrebbe essere», concesse il cavaliere della morte. Con un grugnito, il nano si mise a sedere. «Allora, andiamo per il bosco?» «No», disse Soth. «Seguiamo le indicazioni del conte.» Magda e Azrael lo guardarono attoniti. «Perché?» osò chiedere la Vistani. «C'è solo una cosa di cui dovete preoccuparvi», tuonò il cavaliere della morte. «Ho deciso di seguire i consigli di Strahd. Fine della discussione.» Assolto il loro compito, i dodici scheletri guerrieri aspettarono gli ordini di Soth. Il cavaliere raggiunse la testa del gruppo e si rimise in cammino. Uno accanto all'altra, Magda e Azrael guardarono Soth marciare. «Probabilmente ha ragione», osservò il nano. Si buttò la bisaccia sulla spalla e sistemò meglio la maglia di ferro. «Dopo tutto, su questa strada non abbiamo incontrato nemici, non vivi, per lo meno. E stiamo procedendo nella direzione giusta.» L'ultimo commento risvegliò i sospetti di Magda. L'espressione del suo viso tradì i suoi pensieri e Azrael non poté fare a meno di notarlo. «Sì, ho visto il castello una volta», ammise, «ma non ci sono mai entrato. E, sì, ho intenzione di dirlo a Soth entro il tramonto. Sto solo aspettando il momento giusto per svelargli tutto quello che potrebbe interessargli».
Sorrise con aria furba. «La mia vita è stata più movimentata di quella del tuo Kulchek. Senza offesa, ma le leggende sulle nobili gesta degli eroi mi hanno sempre annoiato a morte.» Magda non ribatté e si mise dietro all'ultimo scheletro guerriero. Il nonmorto si trascinava a passo lento ma regolare, l'armatura che tintinnava contro le ossa, le spalle curve e le braccia ciondolanti lungo i fianchi. Ogni passo sembrava gli costasse una fatica immane. Poveretti, pensò Magda osservando il piccolo esercito di non-morti. Vogliono riposare, ma non possono. Devono andare avanti, lavorando sodo come facevano quando erano vivi. Si avvicinò a uno scheletro e ne osservò il volto. Sebbene un elmo di bronzo gli coprisse buona parte della testa, le orbite scure degli occhi erano visibili. Erano vuote, e mancavano di personalità, proprio come i lineamenti del cavaliere. Lo scheletro guerriero si spostò lateralmente per evitare un masso sulla strada, e si scontrò con Magda. La Vistani sapeva che, sebbene non avesse occhi, lo scheletro avrebbe dovuto essere in grado di vedere come tutti gli esseri viventi. La confusione della ragazza aumentò quando il soldato si fermò e scrutò la strada alla ricerca di ciò che lo aveva fatto inciampare; i suoi occhi passarono sulla zingara come se fosse stata invisibile. «Il medaglione», disse una voce dietro di lei. Magda si girò come una furia, il bastone sollevato pronto a colpire. Azrael scoppiò a ridere. «Non possono vederti a causa del medaglione», insinuò. «Lo hai detto tu stessa.» Il nano alzò le spalle. «Forse mentivi, ma noi spie in genere capiamo quando qualcuno distorce la verità.» La Vistani sorrise, ma più per l'assurdità della situazione che per puro divertimento. In meno di metà ciclo della luna, era passata da una vita tranquilla e monotona alla lotta quotidiana per la sopravvivenza. Un licantropo e dei non-morti erano i suoi compagni, creature di cui aveva sentito parlare solo nelle leggende fino a quando Soth non era apparso all'accampamento. «Non farti gioco dei miei sospetti, Azrael», disse infine. «Quando ci siamo incontrati non ti fidavi di me perché sono una Vistani. Ho dato prova della mia lealtà, ma tu no.» «Non hai dato prova di lealtà nei miei confronti», la corresse Azrael. «Inoltre, non ho mai detto di fidarmi di te. È solo che evito di sollevare la questione ogni due ore.» Camminarono per tutto il pomeriggio, fermandosi di tanto in tanto per
permettere agli scheletri di occuparsi dei cadaveri che trovavano lungo la strada. Soth non degnò di un'occhiata né Magda, né Azrael. Trascorreva quasi tutto il tempo con i non-morti. Magda lo sentì persino parlare a uno di loro, come se lo scheletro potesse comprendere pienamente le sue parole. Quando il sole era ormai basso all'orizzonte, la strada iniziò a inerpicarsi sul fianco di una montagna. La vegetazione cambiò e grossi cespugli sostituirono gli alberi. Anche il numero dei cadaveri disseminati lungo il cammino diminuì, ma il sollievo venne ben presto sostituito dalla preoccupazione: marciare sul fondo sconnesso era particolarmente faticoso. Persino gli scheletri, che raramente mettevano un piede in fallo, scivolavano sulla ghiaia che copriva la strada di montagna. Soltanto Soth a Azrael si muovevano con disinvoltura, sebbene il terreno pietroso non fosse il preferito del nano, che procedeva con espressione afflitta. Magda si chiese se quel luogo gli facesse provare nostalgia di casa; Soth le aveva spiegato che, nel suo mondo, i nani vivevano sottoterra in grandi città di pietra. La zingara non poteva sapere che quel luogo deprimeva Azrael proprio per il motivo contrario. «Possiamo fermarci per la notte, mio signore?» domandò il licantropo, attardandosi per togliersi un sasso da uno stivale. Soth scrutò l'orizzonte. Erano circondati da immensi massi di granito, separati soltanto da sentieri sinuosi ricoperti di ghiaia. Una colonna di pietra bianca, che il sole calante tingeva di rosso, svettava oltre il deserto di granito. «Ci fermeremo ai piedi di quella colonna», rispose il cavaliere della morte. «È un punto di riferimento indicatomi da Strahd.» Magda e Azrael si affrettarono nel labirinto di massi verso la colonna di pietra bianca, ma ben presto si accorsero che era più lontana di quanto sembrasse. Quando finalmente raggiunsero l'obelisco, il sole era scomparso, lasciando Gundarak alla luce del crepuscolo. La colonna era immensa, più alta di qualsiasi albero Magda avesse mai visto. Su tutta la superficie dell'obelisco erano incise delle rune e intorno alla base della colonna si apriva un grande spiazzo privo di sassi e pietre. «È marmo», osservò Azrael. Buttò a terra la bisaccia e si lasciò andare contro la stele. La maglia di ferro gli impedì di avvertire il lieve fremito che percorse il marmo e il lungo giorno di marcia aveva appannato i suoi sensi al punto da renderlo sordo al lieve brusio magico, un segnale che vibrò per miglia e miglia in tutte le direzioni. Lord Soth e i dodici guerrieri raggiunsero la spianata. «All'alba, ci diri-
geremo a nord. Avanzeremo tenendoci ai piedi della montagna», affermò il cavaliere della morte. Magda depose la propria bisaccia e si guardò intorno alla ricerca di legna da ardere. «Non c'è un gran che per accendere un fuoco», commentò. «Niente fuoco», ordinò Soth. «Denuncerebbe la nostra presenza.» «Mi rovina un po' l'atmosfera per raccontare la storia della mia vita», si lamentò in tono sarcastico Azrael, «ma non vogliamo certo che Gundar in persona si butti su di noi e mi interrompa». Gli altri non dissero niente mentre il nano si sfregava le mani e faceva schioccare le nocche. «La superficie del luogo dal quale provengo assomiglia molto a quello in cui ci troviamo: massi, rocce e poco altro» iniziò. «Avevo visto la superficie solo un paio di volte, ma era già di più della maggior parte della mia gente: che trascorreva tutto il tempo nelle città, a costruire armi che nessuno usava e a creare gioielli che nessuno indossava. Pace e umiltà erano la regola nella città di Brigalaure, ma i suoi abitanti lavoravano le spade e gli anelli solo perché era importante fare qualcosa...» La storia di Azrael si rivelò più cruenta di qualsiasi leggenda Magda avesse mai sentito. I genitori del nano erano modesti artigiani e come tutti i giovani della grande città sotterranea di Brigalaure, Azrael era destinato a imparare uno dei mestieri di famiglia. Avrebbe potuto apprendere a lavorare il ferro come il padre, o a tagliare le pietre preziose per creare splendidi monili come la madre. Ma in realtà, il giovane nano non era portato per nessuno dei due lavori. Il frastuono, il calore e il puzzo di sudore delle fucine lo rendevano cupo e ostile. Il suo braccio non era sufficientemente forte per sostenere lo sforzo necessario per picchiare il ferro e sagomarlo, e gli mancava l'energia per schiacciare il mantice o trasportare pesanti fardelli per tutto il giorno. Tuttavia, suo padre era un uomo molto paziente e decise di concedere ad Azrael un periodo di apprendistato di dieci anni per dargli la possibilità di abituarsi al lavoro. Per un nano di Brigalaure, che in media viveva cinquecento anni o anche più, un decennio era un tempo piuttosto breve per imparare un mestiere, ma Azrael si stancò dopo nemmeno dodici mesi. Passava ogni giorno a sognare a occhi aperti, perso in immaginarie esplorazioni della terra sopra la città. Le leggende parlavano di lucertole mostruose - persino più grandi
degli immensi verricelli che i nani usavano per spostare le pietre - che distruggevano tutto quello che trovavano sul loro cammino. Era a causa loro che migliaia di anni prima i nani si erano trasferiti sotto terra. Il padre lasciò che Azrael vivesse, giorno dopo giorno, in quel suo mondo fantastico fino a quando la negligenza del figlio causò un incendio. Il giovane non mostrò alcuna preoccupazione per la distruzione quasi totale della fucina e le condizioni di un apprendista, menomato a causa delle fiamme, lo lasciarono del tutto indifferente. I genitori interpretarono il silenzio del figlio sul tragico incidente come un segno di pentimento, ma sapevano che il giovane non poteva tornare alla forgia. Fu così che Azrael si ritrovò nel silenzioso laboratorio della madre. Con sua grande sorpresa, scoprì che quel posto gli piaceva ancor meno della fucina; non perché si aspettasse di divertirsi a tagliare pietre, ma perché detestava con tutto il cuore il mestiere paterno. Ma nella fucina era uno dei tanti apprendisti e, se anche spariva per una o due ore, nessuno sembrava accorgersene. Nel piccolo laboratorio era solo con la madre e quest'ultima lo teneva continuamente impegnato con compiti che potessero aiutarlo a imparare l'arte del tagliatore di pietre. Lucidare le pietre tagliate, raccogliere le schegge di rubini e diamanti, arrotare gli strumenti da taglio, erano tutte mansioni che richiedevano concentrazione. Ben presto, fu chiaro che anche il mestiere materno non faceva per Azrael. Le sue dita, corte e tozze, non erano adatte a una professione che richiedeva un tocco gentile e delicato; inoltre, il giovane rifiutava di abbandonare i suoi sogni a occhi aperti, anche quando aveva fra le mani le pietre più preziose. Infine, giunse il giorno del disastro. Azrael lasciò cadere una pietra rara e preziosa, che andò in mille pezzi. La madre, stanca dell'incompetenza del figlio e preoccupata dal pensiero di dovere ripagare la gemma distrutta, cacciò Azrael dal laboratorio. Per i nani di Brigalaure, il mestiere era uno status e il fallimento di Azrael fece di lui un emarginato. Senza una professione non poteva essere considerato un adulto. Non poteva guadagnare denaro, né un posto in società e nemmeno il rispetto degli altri. Nessuno lo avrebbe preso come apprendista, non dopo le sue precedenti esperienze. Mentre se ne stava fuori dal laboratorio della madre, la sua filippica che gli rimbombava ancora nelle orecchie, il giovane nano capì di avere fallito definitivamente e che Brigalaure non poteva offrirgli più niente. Quello stesso giorno, buttò in una bisaccia le sue poche cose, sebbene
non sapesse ancora dove andare. Quando il padre lo affrontò chiedendogli di pagare per la pietra che aveva rotto, il giovane, in preda a una furia omicida, gli sfracellò il cranio con un martello. Seguirono la madre, poi i fratelli e le sorelle. Su di loro, Azrael non usò il martello macchiato di sangue, ma le mani nude. Se le sue dita erano troppo corte per i delicati lavori artigianali, erano sufficientemente forti per uccidere. Poiché la sorella era riuscita a gridare prima che lui la colpisse, Azrael si trovò davanti un politskara. Tra le altre incombenze, i politskara si occupavano di sedare piccoli litigi domestici e non erano preparati per affrontare situazioni drammatiche quali un omicidio. Azrael riuscì quasi a scappare ma, sfortunatamente per lui, il guardiano giunto alla sua porta ebbe la presenza di spirito di chiedere aiuto. Ben presto si radunò una folla di fabbricanti di frecce e tagliatori di pietre, che misero fine alle speranze dell'assassino di riuscire a scappare. Ciò che accadde in seguito era confuso nella mente di Azrael. Dopo essere stato colpito da una freccia era svenuto, e si era svegliato in una galleria buia nelle profondità della terra, senza cibo né luce e soprattutto senza alcuna speranza di ritrovare la strada per Brigalaure. I suoi concittadini non avevano avuto il coraggio di ucciderlo. Dall'oscurità, una voce parlò ad Azrael. Gli offrì vita e potere a patto però che usasse quel potere per distruggere la splendida città dei nani. Appena ebbe accettato, un'assordante risata riempì la caverna e un dolore insopportabile colpì Azrael allo stomaco. Cadde a faccia in giù sulla gelida pietra, mentre le sue ossa si contorcevano. Con la testa che pulsava, gridò, e il suono che uscì dalla sua bocca era come il guaito di una bestia ferita. Divenne un licantropo, in parte nano, in parte tasso gigante. Grazie ai nuovi sensi della vista e dell'udito, particolarmente sviluppati, seguì le tracce lasciate dai suoi concittadini e raggiunse la città. Là, usò le ombre per coprire le sue azioni malvagie. Trascorse i successivi cinquant'anni a saccheggiare e distruggere le case e le botteghe di coloro che vivevano nei sobborghi di Brigalaure e uccidendo chi osava opporgli resistenza. In centinaia caddero sotto i suoi artigli. Gli abitanti di Brigalaure cercarono di acciuffarlo, ma inutilmente. «Avevo trovato il mio mestiere», affermò Azrael, tronfio d'orgoglio. «Ed ero molto più bravo io di quanto lo fossero loro nel cercare di fermarmi.» Malgrado tutto, Magda si trovò coinvolta dalla storia. Era seduta vicino al nano e alla pallida luce della luna, riusciva a scorgerne appena il viso.
«Un giorno stavo attirando un gruppo di cacciatori nel labirinto di gallerie che consideravo la mia casa, nella speranza di riuscire a separare un rubicondo fornaio», continuò Azrael. «Erano parecchi giorni che non mangiavo e la fame cominciava a diventare insopportabile. Comunque, ero quasi riuscito nel mio intento, quando dal nulla comparvero le nebbie. Un attimo prima vagavo nella foschia e un secondo dopo mi ritrovai sulle sponde di un lago.» «A Barovia?» domandò Soth. Erano le prime parole pronunciate dal cavaliere della morte da quando Azrael aveva iniziato il racconto. Il nano scosse la testa. «No, in un luogo sinistro chiamato Forlorn. Un posto raccapricciante, dove non c'erano persone né animali, ma solo un immenso castello. Inutile dire che mi tenni alla larga dal maniero.» Il nano rovistò nella bisaccia in cerca di un pezzo di pane, ma non trovò niente. Aveva già finito la sua razione quotidiana. «Ehi, Magda, hai niente da mangiare? Pare che io abbia già finito tutto.» Quando la ragazza gli lanciò una mela, il nano aggrottò la fronte, disgustato ma, non potendo ottenere niente di meglio, addentò il frutto. «Così giunsi a Gundarak», riprese. «Ci rimasi solo un paio di mesi. Derubare poveri contadini che non avevano niente da offrire non mi dava grandi soddisfazioni.» Affondò nuovamente i denti nella mela. «Inoltre, i contadini erano tutti pelle e ossa e non erano per niente gustosi.» Magda chiuse gli occhi e girò la testa dall'altra parte. Soth, al contrario, sembrava affascinato dalla storia del nano. «Hai mai incontrato il duca?» domandò. «Ho visto il castello di Hunadora, ma non ci sono mai entrato», rispose Azrael. «E meno male, devo dire. Una volta sono sfuggito alla cattura buttandomi nel fossato che circonda il maniero. Mi avevano sorpreso mentre dormivo nel bosco e mi stavano portando al castello per "interrogarmi". In queste terre quella parola ha un solo significato: tortura.» Su invito di Soth, il nano proseguì nella descrizione del castello di Gundar, ma la sua conoscenza del luogo era quasi esclusivamente limitata ai dettagli sul fetido fossato che circondava la proprietà. «Meno male che riesco a trattenere il respiro a lungo», concluse. «L'acqua è densa per i liquami provenienti dal castello e i rifiuti degli esperimenti che il figlio di Gundar, Medraut, conduce nelle prigioni.» A un tratto, una risata profonda risuonò nella notte. «Hai ragione, Fej», disse una voce, «è stato un nano a fare scattare l'allarme. Sai leggere i loro segnali meglio di chiunque altro».
Il suono stridente dell'acciaio contro la silice echeggiò dai massi circostanti e due torce apparvero sui lati opposti dello spiazzo. Gli scheletri guerrieri si schierarono in cerchio e Magda aveva già afferrato la sua mazza prima che loro avessero sguainato la spada. La Vistani trasalì nel vedere le due grottesche figure illuminate dalla luce delle torce. Erano giganti, alti il doppio di Soth, dai lineamenti mostruosi e i corpi deformi. Uno aveva un occhio che era il doppio dell'altro, un naso bulboso e una bocca enorme. La mascella inferiore era priva di denti e le gengive erano state raschiate dai denti superiori. Una delle braccia del mostro si protendeva dal fianco e non dalla spalla. Una camicia stracciata gli copriva il corpo enorme e il gigante trascinava una lunga catena che terminava con un peso di ferro. L'altro gigante era altrettanto orribile. Aveva lineamenti più umani, a parte il grugno da maiale, ma aveva il corpo ricoperto di vesciche, da cui spuntavano ciuffi di peli rossi come il fuoco. Era gobbo e aveva il corpo protetto da una singolare collezione di pezzi di armature. Non era armato, ma le sue mani erano di dimensioni spaventose. «Ascoltatemi», disse il primo gigante, «dovete seguirci. Se metterete giù le armi, non vi faremo del male... non molto». Entrambi i giganti scoppiarono a ridere per quel gesto pietoso. Magda era confusa. Come avevano fatto i giganti a sorprenderli? Non sembravano capaci di muoversi furtivamente. E Azrael che allarme aveva fatto scattare? Guardò la colonna. Il nano vi era rimasto appoggiato per buona parte della serata. Il sospetto di tradimento s'insinuò nuovamente nella sua mente, ma quello non era il momento per pensarci. Era infatti scoppiata una battaglia. A pochi passi dalla Vistani, Lord Soth sollevò le mani e iniziò a muoverle secondo l'intricato disegno di un incantesimo. L'aria davanti al gigante gobbo si riempì improvvisamente di neve poi, fra due massi, apparve un muro di ghiaccio. Il gigante ringhiò di rabbia, quando si rese conto di non poter più andare avanti. Fissando il cavaliere della morte, l'altro gigante avanzò. Fece oscillare il mazzafrusto e la catena e il peso d'acciaio strisciarono sul terreno, sibilando come una falce. Due scheletri guerrieri vennero colpiti. Le loro ossa schizzarono in aria come schegge di una ceramica infranta. In preda al panico, Magda spostava lo sguardo da Soth ad Azrael. Il gigante era troppo vicino perché il cavaliere della morte avesse il tempo per lanciare un altro incantesimo, così Soth sguainò la spada. Gli scheletri
guerrieri lo imitarono. Azrael, invece, indietreggiò verso il muro di ghiaccio. Nel vedere la ritirata del nano, la Vistarli imprecò; era ormai evidente che Azrael era un traditore. Magda strinse con forza la mazza e si unì a Soth nella lotta contro il gigante. Il mostro aveva sollevato la sua arma, ma il cavaliere della morte lo trafisse al ginocchio. La gamba si piegò e il gigante incespicò, lasciando cadere il mazzafrusto. Ma il colpo subito non gl'impedì di abbattere con la torcia un altro scheletro guerriero. In quello stesso istante, un pugno poderoso aprì un buco nel muro di ghiaccio. Il secondo gigante allungò un braccio attraverso la breccia e afferrò Azrael. Il nano, acciuffato a metà del processo di trasformazione in mezzo-tasso, non poté fare altro che ringhiare e dimenarsi. Grugnendo come un maiale, il gigante gobbo lanciò Azrael oltre le proprie spalle come se fosse stato un giocattolo. «Ehi, Fej, dammi una mano», gridò il primo gigante. Era in ginocchio, impegnato a tenere a bada i cinque scheletri. Aveva le braccia coperte di tagli sanguinanti. «Va bene, Bilgaar. Smettila di lamentarti.» Il gigante gobbo, scavalcato il muro di ghiaccio, si lanciò sui nemici. Su ordine di Soth, gli scheletri smisero di combattere e formarono una linea fra Fej e il suo compagno. Bilgaar, il gigante che si trovava davanti a Soth e Magda, si strinse il ginocchio con la mano e cercò di alzarsi in piedi. La Vistarti non perse tempo e sollevò la mazza. Bilgaar cercò di parare il colpo con la torcia, ma si ritrovò con due dita rotte. «Uhhh!» ululò. La torcia gli sfuggì di mano e atterrò alla base della colonna. Magda sollevò Gard per colpire ancora, ma il gigante la spinse da parte. La Vistani finì a terra. Ma alla mostruosa creatura quella mossa costò cara. Soth, approfittando dell'occasione favorevole, calò la spada su Bilgaar e gli tagliò la mano. Il gigante crollò a terra. Senza un attimo di esitazione, il cavaliere della morte gli affondò la spada nella nuca. Bilgaar ebbe il tempo per un solo lamento, poi la bocca si chiuse e la vita volò via. Per Fej le cose andavano molto meglio. Uno scheletro sconfitto giaceva ai suoi piedi e i sette sopravvissuti cercavano disperatamente di penetrare l'armatura del gigante. Uno dei non-morti gli si avvicinò troppo e Fej usò il pugno enorme per schiacciarlo come un moscerino. Il gigante ridacchiò compiaciuto nel vedere le ossa sparse ai suoi piedi, ma un ululato raccapricciante lo gelò. Prima che Fej potesse lanciare un'occhiata dietro di sé, Azrael si lanciò da un affioramento di granito e
atterrò sulla gobba del mostro. Il licantropo, trasformatosi in mezzo-tasso, affondò artigli e denti nella gola di Fej. Il gigante lasciò cadere la torcia e cercò di afferrare il licantropo. Gridò una volta prima che Azrael gli tranciasse le corde vocali. Poi, gli scheletri guerrieri lo circondarono. Protetta tra due massi, Magda guardò gli scheletri e il licantropo fare a pezzi il gigante. Soth, a pochi passi da lei, osservava la scena, pulendo la spada intrisa di sangue su un brandello della giubba di Bilgaar. Azrael si è unito alla battaglia, pensò la zingara, ma solo perché stavamo vincendo. Ormai non aveva più dubbi: il nano aveva usato la colonna per convocare i giganti. Che lo avesse fatto per Strahd o Gundar non aveva importanza; lui aveva preso parte alla trappola. Questa potrebbe essere la mia ultima possibilità di fuga, decise. Sono tutti troppo impegnati nella lotta per accorgersene. Lentamente, si alzò e strisciò nell'oscurità. «Ne sono rimasti sei», osservò Soth, seccato, contando i guerrieri sopravvissuti. «E siamo ancora a diversi giorni di marcia dal castello di Hunadora.» Azrael, il muso e le zampe incrostati di sangue, si allontanò dal gigante ormai morto. Si guardò intorno. «Se n'è andata», mormorò. «La Vistani è scappata!» Il cavaliere della morte scrutò nella notte. Azrael aveva ragione. Magda era fuggita. «Puoi trovarla?» domandò, senza riuscire a nascondere un certo disappunto. Un sorriso malvagio apparve sul muso del licantropo, che appoggiate le mani a terra, annusò l'aria. «Non disturbatevi a mandare gli scheletri», disse. «La zingara indossa un ciondolo che la rende invisibile a loro.» Detto ciò, scomparve nel labirinto di massi, annusando la ghiaia. Al ritorno di Azrael la luna era scomparsa, ma il cavaliere della morte era ancora nello stesso posto e nella stessa posizione in cui il licantropo lo aveva lasciato quando si era lanciato a caccia della zingara. Azrael aveva ripreso le sembianze di nano e un livido gonfio gli copriva metà faccia. «Mi ha ingannato, mio signore», ammise in tono umile. «Ho seguito il suo odore ma ho trovato solo i suoi vestiti. Li aveva lasciati là per ingannarmi e attirarmi in una trappola.» Piegò la testa. «Prima ancora che mi fossi girato, ha tirato un sasso e mi ha colpito con quel maledetto bastone. Mi ha messo fuori combattimento.» «Non preoccuparti», replicò Soth dopo qualche istante. «Si è guadagnata
la libertà. Inoltre, sa ben poco che possa servire ai nostri nemici.» Azrael si toccò con circospezione la faccia gonfia. «Potrebbe rivelare a Gundar il vostro piano», suggerì. Soth si risvegliò dal suo sogno a occhi aperti. «Non è da lei», affermò. «Correrebbe un grande pericolo a contattare Gundar, se è quel pazzo che sembra. Sarebbe un'azione stupida, e Magda non è stupida.» Si fermò, riflettendo sulla scomparsa della ragazza. «Inoltre, queste non sono terre in cui viaggiare da soli. Probabilmente sarà già morta prima del sorgere del sole.» Nel vedere il nano ferito, un sorriso comparve sulle labbra di Soth. Indicò il livido variopinto e aggiunse: «Anche se non so quale creatura potrebbe essere così forte da avere la meglio su di lei». 14 Il singhiozzare ritmico e sommesso ricordava a Soth il tubare di una colomba. Sollevò lo sguardo dai libri contabili del castello, lanciando alla moglie una breve occhiata. «Se non riesci a controllarti, vai in un'altra stanza, Isolde.» La donna elfo smise di piangere e si alzò faticosamente dal letto. Ogni movimento era per lei motivo di sforzo - mancava ormai poco alla nascita del bambino - ma Soth sapeva che le lacrime non erano causate dalla fatica della maternità. Un livido nero risaltava sul candore di una guancia di Isolde. Nel suo intimo, Soth trasalì. Si è meritata la punizione per i suoi continui brontolii, cercò di convincersi, ma forse l'ho colpita un po' troppo forte. «Non so come tu possa ancora sopportarti, Soth», disse la donna raggiungendo la porta. Il signore di Dargaard balzò in piedi, fremente di rabbia. Il lieve rimorso che un attimo prima aveva occupato la sua mente era già scomparso, sostituito da una fredda ira. Con un'imprecazione, afferrò il calamaio in pesante vetro e lo lanciò contro la moglie. Lei sgusciò fuori dalla stanza proprio quando il vetro colpì la porta. L'inchiostro schizzò le pareti bianche e una pioggia di schegge di vetro cadde sul pavimento. Quel suono lacerante ricordò a Soth le risate delle prostitute rinchiuse nella cella accanto a lui nella prigione di Palanthas. Cercò di calmarsi, ma non riusciva a pensare che all'omicidio. Caradoc si era occupato di Lady Gadria. Forse lui avrebbe dovuto fare lo stesso con
Isolde... «Per tutti gli dei», gridò, disgustato da quei pensieri sanguinosi, «sono caduto così in basso?» Trovò la risposta dall'altra parte della stanza. Scarmigliata e accigliata, la sua immagine lo fissò dallo specchio a tutta persona, regalatogli dal chierico in occasione delle sue nozze. Il cavaliere in disgrazia si scoprì attratto da quell'immagine, affascinato dall'uomo che stava innanzi a lui. Aveva il viso stanco e tirato, gli occhi azzurri cerchiati da profonde occhiaie. Ciuffi di capelli spettinati gli ricadevano sulle spalle. Anche i baffi erano disordinati. Gli incorniciavano la bocca, ma non nascondevano il taglio sul labbro che si era procurato la notte precedente. Come gli altri uomini nel castello assediato, Soth aveva bevuto più del solito ed era scivolato su una pietra coperta di ghiaccio sui bastioni, cadendo a faccia in giù sul pavimento gelato. Per lo meno era quanto gli avevano raccontato i suoi cavalieri, poiché lui non ricordava niente. Le spalle di Soth erano curve per la stanchezza. Quando non beveva, faceva la guardia sui bastioni. Non che i Solamnici potessero raggiungere le mura esterne della fortezza. C'era il fossato a impedirglielo, e chiunque tentasse di gettare le fondamenta per un ponte veniva travolto dalle frecce. Tuttavia, ogni notte l'esercito nemico lanciava pece infuocata nel castello. Ci volevano ore per spegnere il fuoco e le fiamme ogni volta distruggevano un'altra casa, un altro magazzino o un altro carro. Lord Soth sapeva che la stanchezza, la fame e la noia erano i migliori alleati dei Solamnici; i cavalieri al comando di Sir Ratelif erano accampati all'esterno delle mura di Dargaard Keep da settimane, ma in termini di danni fisici avevano ottenuto ben poco. Infatti, con l'inverno ormai alle porte, sembrava che la fortezza sarebbe riuscita a resistere fino alla fine dell'assedio. Tuttavia, i cavalieri di Solamnia avevano istituito un blocco e, con il passare delle ore, le provviste di Dargaard diminuivano. Scoraggiato, Soth afferrò una coperta e la gettò sullo specchio. Quando la mano si avvicinò al vetro, vide qualcosa che fece divampare la sua rabbia. Macchie di inchiostro gli coprivano le dita come i segni di un'orribile malattia. Soth, amante dell'avventura, non era mai stato bravo a tenere resoconti e libri mastri, per questo pagava Caradoc. Ma nelle ultime settimane era ossessionato dalla necessità di registrare minuziosamente le razioni di cibo e acqua rimaste. Si fregò le dita sporche di inchiostro, ma le mac-
chie non andarono via. «Mi hanno fatto diventare un contabile», ringhiò. Si guardò nuovamente le mani. Nell'ultimo mese le sue dita avevano trascorso più tempo chiuse intorno a un boccale di vino o a una penna che all'elsa di una spada. Anche se la Misura imponeva quotidiane esercitazioni armate per tutti i Cavalieri di Solamnia, Soth aveva fatto ben poco a questo riguardo dal processo di Palanthas. E quello non era l'unico rituale che aveva abbandonato. Dal momento in cui entravano a fare parte dell'Ordine della Spada, tutti i cavalieri digiunavano un giorno su sette; Soth non ricordava più quando aveva saltato un pranzo, per sua scelta. Non aveva più seguito le norme dell'Ordine nemmeno in relazione al consumo di bevande alcoliche, al gioco e al comportamento cavalleresco nei confronti delle donne. In realtà, quelle erano trasgressioni minori se paragonate all'allontanamento di Soth da quelle divinità che vigilavano sui Cavalieri di Solamnia. Habbabuk, Kiri-Jolith e soprattutto Paladine proteggevano l'Ordine. Erano gli ideali personificati da queste divinità che spingevano i cavalieri a lanciarsi in valorose imprese. Eppure, Soth non era più andato nella cappella dall'inizio dell'assedio. Aveva smesso di pregare Paladine, protettore dei Cavalieri della Rosa, il giorno in cui aveva fatto l'amore per la prima volta con Isolde. Persino i sacri voti che aveva scambiato con la fanciulla elfo il giorno del matrimonio erano stati pronunciati per semplice convenienza; se Paladine li aveva uditi, non era perché Soth lo aveva desiderato. Il primo pensiero del cavaliere in disgrazia fu quello di biasimare Isolde per il suo stato pietoso. Forse lei lo aveva stregato, facendolo ribellare al Codice e alla Misura. Ma sapeva che non era così. Ogni giorno dall'inizio dell'assedio, lei lo aveva implorato, lo aveva supplicato di levare la sua voce agli dei, affinché gli affidassero un'impresa. Solo così avrebbe potuto fare ammenda per i peccati commessi. «Isolde!» gridò, precipitandosi fuori dalla stanza. Il suono della sua voce echeggiò nelle sale, ma nessuno gli venne incontro. Spesso nelle ultime settimane, in preda agli effetti dell'alcol, Soth si era aggirato per il castello gridando il nome della moglie; gli abitanti del maniero ormai sapevano che era meglio tenersi lontani da lui. Trovò la moglie nella stanza del bambino. Isolde sussultò nel vederlo entrare e Soth sentì parte della propria anima morire di fronte al timore della donna. Sua moglie aveva paura di lui. «Ti prego, Isolde», disse, cadendo in ginocchio. «Vieni con me nella
cappella a pregare. Voglio liberarmi di questo fardello.» Lei gli si avvicinò e lo strinse a sé. Quando Soth sollevò lo sguardo su di lei, vide le lacrime scivolarle lungo le guance. «Aiutami a ritrovare l'onore», le sussurrò, «e riavremo finalmente la nostra vita, ritroveremo la felicità». Trascorsero le ore e Soth si ritrovò nella cappella del castello, l'odore del legno lucido e del fumo delle candele che gli riempiva la mente. Si concentrò su quegli odori e chiuse la coscienza a tutto il resto: alle macchie di luce che fluttuavano nell'oscurità davanti ai suoi occhi chiusi; al suono del respiro di Isolde inginocchiata accanto a lui; al fruscio dei paramenti sacri; al sapore amaro nella sua bocca. Il dolore alla schiena e alle ginocchia, causato dalla posizione scomoda, e i morsi della fame furono molto più difficili da bandire ma, alla fine, anch'essi scomparvero dalla sua mente. Ho paura ad affrontare il mio protettore, ora che la mia anima è macchiata da molti peccati? Sì, aveva paura, ma l'averlo finalmente compreso gli permise di aprire il cuore per ricevere Paladine. Una meteora grande quanto una montagna comparve all'improvviso in cielo. Soth si sentì bruciare dal fuoco della roccia incandescente. Cercò di respirare, ma il fumo gli riempì i polmoni, e fitte di dolore gli squassarono il petto. La vista gli si annebbiò. Ribollendo come acqua, gli occhi traboccarono e gli scivolarono lungo le guance coperte di vesciche. Poi la meteora colpì. Soltanto tu puoi impedire che ciò accada, disse una voce nella mente di Soth. La voce era colma di amore e comprensione e calmò i pensieri deliranti del cavaliere. Una simile voce poteva appartenere a un solo essere. «È questo l'inferno che mi aspetta, Paladine?» riuscì a mormorare Soth. Aprì gli occhi e si trovò circondato da una luce bianca. Un tempo eri un paladino della giustizia, Soth di Dargaard, per questo ti affiderò questo compito, disse il Padre del Bene. Sappi, però, che i tuoi peccati sono stati grandi quanto le gesta da te compiute per la mia causa. Perciò, l'impresa che ti affiderò sarà estremamente difficile. Soltanto se ti convertirai al Bene, totalmente e irrevocabilmente, puoi sperare di vincere. Un'altra visione apparve alla mente di Soth: un'immagine cristallina del Sommo Sacerdote di Istar, impegnato in una predica in un giorno di festa. Sotto un arco in alabastro puro, il Sommo Sacerdote parlava alla folla. Con gesti teatrali, sollevò lo sguardo al cielo e alzò le mani. Inizialmente, a Soth sembrò che il sacerdote fosse impegnato in un semplice sermone, ma
la visione si focalizzò sul volto dell'uomo e il cavaliere si accorse che vaneggiava come un pazzo. Le sue mani non erano levate al cielo in segno di supplica; le sue dita erano puntate contro gli dei in segno di accusa. Come te, Soth, il Sommo Sacerdote ha fatto molto per combattere il Male ad Ansalon, continuò Paladine, la voce colma di tristezza. Ora ha nominato se stesso mediatore fra l'uomo e gli dei. Spinto dal suo orgoglio, lui e le sue migliaia di seguaci presto chiederanno a noi guardiani del Bene di trasferire a lui il potere di sradicare il Male. «Devo impedirgli di avanzare una tale richiesta?» domandò Soth. Sì. Vai a Istar, Soth, e ferma il Sommo Sacerdote. Non comprende l'equilibrio della Bilancia. Nel tentativo di piegare al suo volere forze immense, distruggerà tutto ciò per cui ha lavorato. Soth, sbalordito che il più grande di tutti gli dei affidasse a lui un simile incarico, riuscì a dire: «Farò tutto quello che mi chiedi, grande Padre del Bene». Sarai redento, Soth di Dargaard, ma ti costerà la vita. La visione del Sommo Sacerdote svanì, ma Paladine continuò a parlare. Sappi che dal tuo successo non dipende solo il tuo onore, Soth. Se il Sommo Sacerdote non viene fermato, tutti gli dei, quelli che combattono per il Bene e il Male e l'equilibrio fra i due, puniranno il mondo. La montagna colpirà Istar, come tu hai appena visto. Soth avvertì il dolore delle migliaia di uomini che sarebbero morti se ciò fosse accaduto. Tutta Krynn sarebbe cambiata: i continenti si sarebbero spostati, i mari sarebbero divenuti una distesa rossa di sangue e un numero infinito di vite sarebbe stato soppresso. La sofferenza dei sopravvissuti sarebbe stata ancora peggiore. Solo il Sommo Sacerdote... Se fallirai, sappi che il tuo destino sarà ancora più terribile di quello del Sommo Sacerdote, ammonì il Padre del Bene. Soth si ritrovò nella cappella. Isolde lo fissava con occhi spaventati. «Devo partire immediatamente per Istar», disse Soth in tono infervorato. «Paladine stesso mi ha dato il potere di salvare l'intera Krynn.» «Paladine stesso mi ha dato il potere», disse Soth. «Paladine stesso.» Azrael si tirò a sedere, togliendosi lo sporco e gli aghi di pino dalla schiena. «Che cosa avete detto, mio signore?» domandò in tono sommesso. «Che potere vi ha dato Paladine?» Per la prima volta in molte ore, il cavaliere della morte si mosse. «Che cosa pensi di sapere sul dio Paladine?» borbottò.
Il nano sollevò le mani come per difendersi. «Niente. È solo che... avete appena mormorato qualcosa su di lui. Un dio, avete detto?» Afferrata una zecca dalle ghette, la schiacciò fra le dita tozze. «Non ho mai adorato una divinità in tutta la mia vita, sebbene a volte mi chieda se non sia stato un qualche dio del male a donarmi i miei poteri; sapete, giusto per creare un po' di caos in città.» Sghignazzò. «È strano, erano anni che non ci pensavo, da quando ero finito a Forlorn.» Soth inclinò la testa. «C'è qualcosa in questo posto che... fa tornare a galla vecchi ricordi. È fastidioso, ma non credo che si possa impedire che accada.» Ciò che il cavaliere della morte non disse era che i suoi ricordi divenivano più vividi con il passare dei giorni. Un tempo aveva accettato con piacere quelle visioni, perché risvegliavano emozioni sopite e perché cacciavano l'intorpidimento dell'esistenza di non-morto. Ora, tuttavia, gli provocavano uno strano tormento. Dopo avere frugato inutilmente nella bisaccia vuota, Azrael la gettò via. Non aveva più un pezzo di pane né un goccio di vino. Anche le scorte che aveva sottratto il giorno precedente a uno sfortunato viandante erano finite; in quel momento, si pentì di non avere strappato qualche lembo in più di carne dal corpo del cadavere. «C'è chi dice che i poteri oscuri governino questo luogo», iniziò il nano. «Non si tratta proprio di dei, ma di esseri che amano opprimere quei poveracci che finiscono qui. Forse quei ricordi sono le divinità oscure che vi perseguitano.» Sorrise. «Personalmente, non credo che "poteri senza volto" abbiano a che fare con la situazione personale di ogni individuo. Per quanto mi riguardo, ho fatto tutto da solo. Penso che...» Il cavaliere della morte si allontanò, mettendo fine al soliloquio del nano. Dalla fuga di Magda, tre giorni prima, Azrael era diventato molto più loquace, come se si sentisse finalmente sicuro della sua posizione accanto al cavaliere. A volte, le chiacchiere del nano lo annoiavano, ma Soth si accorse che gli impedivano di tornare con la mente al passato troppo frequentemente o, ancora peggio, di soffermarsi a pensare a Kitiara. Inoltre, il nano era l'unica pedina che gli era rimasta. Soth aveva dovuto eliminare gli scheletri guerrieri rimasti. Man mano che si avvicinavano al castello di Gundar, i nonmorti diventavano più ribelli, meno disposti a eseguire gli ordini del cavaliere della morte. Il giorno precedente, Soth e il suo gruppo avevano corso il rischio di essere sorpresi da una pattuglia di uomini del duca, perché gli scheletri si
erano rifiutati di nascondersi fino a quando Azrael non li aveva obbligati a lasciare la strada. Il cavaliere della morte sapeva che era solo una questione di tempo e che presto si sarebbero imbattuti in un'altra pattuglia. Con l'aiuto del nano, Soth non aveva avuto alcun problema a eliminare metà degli scheletri guerrieri prima che avessero l'opportunità di reagire. I tre rimasti avevano opposto più resistenza, ma né Soth né Azrael avevano riportato gravi ferite nella breve colluttazione. Ora, lui e il nano erano accampati al limitare della foresta di pini che costeggiava due lati del fossato del castello di Hunadora. Appena aveva visto il maniero, Soth era giunto alla conclusione che Gundar doveva essere uno stupido; soltanto un incompetente avrebbe lasciato crescere una foresta così a ridosso della propria casa. Anche se il fossato era ampio e le mura alte e ben protette, difese simili sarebbero state inutili davanti a un nemico ben addestrato. E infatti, Soth era riuscito a restare nascosto fra le ombre della foresta per un giorno intero a studiare indisturbato il castello di Hunadora. Il maniero sorgeva in cima a un terrapieno, una collinetta degradante sul davanti e un ripido precipizio roccioso sulla sinistra. Una fitta foresta di pini cresceva sul retro e sulla destra della fortezza, offrendo una copertura perfetta per un assedio. Le mura di Hunadora erano in pietra scura, con rocce più chiare a incorniciare le merlature. La sezione principale del castello era delimitata da un muro secondario quadrato, con piccole torri agli angoli e al centro di ogni muro. Le mura erano circondate da un ampio fossato colmo di acqua fetida, la cui superficie immobile e scura veniva mossa, di tanto in tanto, da cadaveri gonfi o da un pallido tentacolo che emergeva dall'oscurità. Due torri del corpo di guardia svettavano accanto alla saracinesca. Da lì, entravano tutti i visitatori e in quel particolare giorno una folla silenziosa si accalcava davanti all'ingresso. Uomini e donne lanciavano occhiate furtive ai corpi che penzolavano sui tetti delle torri di guardia e alle sagome scure e misteriose che si muovevano tra le merlature. «Sono qui per pagare le tasse», spiegò Azrael, seguendo lo sguardo di Soth. «Il duca li terrà lì, ad aspettare, anche tutta la notte. Ne fa entrare ventiquattro alla volta, così i suoi uomini possono tenerli d'occhio.» «Allora entreremo nel castello ora, mentre i soldati sono ancora impegnati con la plebaglia», replicò Soth. Indicò il muro secondario, dove una grata semi sommersa si affacciava nel fossato. «Ecco da dove entreremo. Se ciò che hai detto del bambino è vero, i suoi appartamenti saranno nei
sotterranei, da dove le grida delle sue vittime non disturberanno gli altri abitanti del castello.» Azrael si agitò, cercando le parole giuste per esprimere ciò che voleva dire. «Eh, mio signore, forse non ci conviene affrontare Medraut nel suo laboratorio. Ho sentito che laggiù tiene manufatti dai grandi poteri, strumenti che potrebbe usare contro di noi.» «Abbiamo bisogno del sangue di Gundar o del figlio per aprire il portale», ribatté Soth. «Strahd mi ha detto che il duca è un vampiro. Perciò, a meno che tu non desideri andare a cercare la sua bara...» Ridacchiando nervosamente, Azrael raggiunse il limitare del bosco. «Dovremo nuotare?» domandò. Soth non rispose. Afferrò il nano per la maglia di ferro e scomparve nell'oscurità che circondava gli alberi. Un istante dopo, lui e Azrael emersero dall'ombra all'interno della galleria sotto il fossato. Il nano si appoggiò alla grata arrugginita. «Potevate avvertirmi.» Acqua fredda turbinava intorno alle ginocchia di Soth, raggiungendo Azrael alla vita. Era colorata da tracce di blu, giallo e azzurro provenienti dai resti di pozioni. Frammenti di pergamena e statuette di legno semi bruciate galleggiavano verso le sbarre della grata. Una bottiglia contenente una creatura rosa simile a un ragno rimbalzò contro l'anca di Azrael. Quando il nano la prese in mano, la creatura si lanciò contro il vetro, cercando di toccare Azrael con le lunghe zampe e la coda sinuosa. Il licantropo ringhiò allo strano essere, quindi spinse la bottiglia fuori dalla grata. Il vetro galleggiò nel fossato, poi un tentacolo gli si avviluppò intorno tirandolo sotto. «Forza», esortò Soth, piegandosi lievemente per non toccare il basso soffitto. Licheni luminosi ricoprivano le pareti oltre la linea dell'acqua. Azrael avanzò cautamente dietro al cavaliere della morte. Era felice di avere un po' di luce che gli consentisse di evitare di camminare contro il muro, ma non era così sicuro di voler vedere che cosa sguazzasse in quell'acqua putrida. Gli odori erano per Azrael la cosa peggiore. Sebbene si fosse tappato il naso, ai suoi sensi, particolarmente sviluppati, non sfuggiva il puzzo nauseante prodotto dai liquami e dai rifiuti che galleggiavano intorno a lui. «La prima cosa che faremo dopo essere usciti dal portale sarà restare immersi nell'acqua pulita per una settimana», brontolò. «Oppure farci tagliare il naso.» La sua voce riecheggiò nel tunnel.
«Se non stai zitto», ribatté Soth, «provvederò subito io». Dopo un po', la galleria cominciò a salire, lasciando l'acqua indietro. Inizialmente, Azrael fu contento di non essere più immerso nella puzzolente acqua delle fogne, ma presto scoprì che la parte secca del tunnel non era migliore. La cassa toracica di un gigante morto e altri resti di uomini e animali ostruivano il passaggio. Naturalmente, Soth superò gli ostacoli con disinvoltura. «Questo posto non vi turba, mio signore?» sussurrò il nano. «Non è diverso da altri in cui mi sono trovato nel corso dei miei viaggi», rispose il cavaliere della morte. «Inoltre, il mio mondo è privo dei colori e degli odori che invece tu avverti. Quelli sono particolari che ora io posso solo ricordare.» Un anello di luce apparve sul muro davanti a loro e il suono di una risata riempì la galleria. Soth avanzò lentamente. La luce proveniva da un'apertura, viscida per le pozioni versateci e puzzolente per i pezzi di carne putrefatta intrappolati nelle pietre intorno al bordo. Oltre il passaggio, si apriva una stanza enorme, piena di oggetti in vetro e bobine di metallo, teschi e carcasse di creature soprannaturali. Sparsi ovunque c'erano tavoli ricoperti da provette contenenti liquidi multicolori. Ripiani ammuffiti di libri rilegati in pelle, legno o tessuti più preziosi occupavano due pareti; scatole contenenti collezioni di polveri o di oggetti rari usati in magia occupavano le altre due. Apparentemente, la stanza sembrava priva di porta e l'unico accesso pareva essere lo spazio dal quale Soth stava spiando. Inoltre, lungo le pareti non si vedevano torce, sfere magiche o altre fonti luminose, eppure una calda luce gialla illuminava l'enorme stanza. L'illuminazione era così completa che non un'ombra si nascondeva negli angoli e non un libro o una bottiglietta erano coperti dal buio. A margine di quel caos ordinato, vicino al buco della fogna, un ragazzino stava seduto su un alto sgabello. Doveva essere il figlio del duca, Medraut. Stava guardando dentro a una struttura in vetro e acciaio larga e alta come una porta. Pezzi di arredamento e armi delle dimensioni di giocattoli erano posati fra due piastre di cristallo cosparse di forellini; l'utilizzo di questi fori fu subito chiaro. Il ragazzo accese dei pezzi di carta con una candela e li infilò nei tre livelli inferiori. «Non potete nascondervi per sempre, vermicelli», disse Medraut con voce roca. Diede dei colpetti al vetro con le dita. «Venite fuori, forza. È ora di giocare.»
Man mano che il fumo raggiungeva i diversi livelli, strane cose iniziarono a contorcersi. Inizialmente, Soth non riuscì a capire di che cosa si trattasse, ma quando le figure cominciarono ad arrampicarsi su scale a pioli per sfuggire al fumo, capì ciò che stava accadendo. Essere umani in miniatura! I prigionieri gridavano, imprecavano e agitavano i pugni contro il bambino, che rideva divertito. «Il gioco di oggi è serpenti e scale», annunciò il ragazzino, prendendo una scatola da un tavolo vicino. «Haderak, l'ultima volta sei sopravvissuto, perciò puoi fare a meno di ascoltare le regole. Voi altri aprite bene le orecchie.» Medrault infilò un guanto e afferrò un pugno di serpenti dalla scatola. In piedi sullo sgabello, aprì una minuscola porta di vetro. Uno alla volta, lasciò andare gli animali nella casa delle bambole. «Ogni volta che uno di voi verrà mangiato da un serpente, toglierò una scala.» Fissando una figura aggiunse: «Devi andare avanti, non indietro, Costigan, piccolo imbroglione». Liberato l'ultimo serpente, chiuse la porta e si sistemò per godersi lo spettacolo. «Se riuscirete a uccidere uno dei serpenti, come ha fatto il coraggioso Haderak, rimetterò una scala.» Le mani sul grembo, alzò le spalle. «Va bene, partite.» Alcune figure si lanciarono sulle minuscole lance e spade disposte in rastrelliere sul pavimento. Altre si allontanarono rapidamente dai serpenti. Il fumo della carta aveva ormai riempito i primi quattro piani. «Potete correre, ma non nascondervi!» Affermò Medraut, bloccando l'ingresso al livello più basso con un vetrino. Soth si voltò, solo per trovare Azrael che lottava con la maglia di ferro. Il cavaliere della morte sapeva che il nano doveva togliere la maglia prima di trasformarsi altrimenti il metallo lo avrebbero strangolato. Tuttavia, non poté fare a meno di imprecare contro la goffaggine del licantropo. Il metallo tintinnò. Fortunatamente, Medraut era troppo concentrato sul suo gioco per fare caso a quello strano suono. Il cavaliere della morte fece segno ad Azrael di seguirlo, quindi diede un'ultima occhiata alla stanza e passò attraverso l'apertura. Medraut si voltò di scatto nell'istante in cui Soth entrava nella camera. Sebbene fosse alto quanto un bambino di dieci anni, nessuno avrebbe potuto scambiare il figlio del duca per un normale ragazzino. Aveva il viso butterato per la malattia e i denti marci. Le gambe, nude e sudice, erano ricoperte da piaghe e ferite. Ma soprattutto, i suoi occhi avevano uno scintillio diabolico, maniacale.
«Un altro assassino di papà», mormorò Medraut, fissando Soth con sguardo lascivo. «Che divertente!» Muovendo le mani alla velocità del lampo, Soth evocò un incantesimo, ma il ragazzino fu più veloce. Prima che l'incantesimo potesse lasciare le labbra del cavaliere della morte, Medraut lanciò il proprio sortilegio. La mente di Soth si svuotò. Un minuscolo gorgo bianco si aprì al centro della sua coscienza, inghiottendo le parole che avrebbero dovuto evocare l'incantesimo che aveva preparato. Poi, il vortice aumentò. «Perché dovete sempre interrompere i miei giochi?» brontolò il bambino, saltando giù dallo sgabello. Infilò una mano in tasca ed estrasse ciò che gli serviva: una magnetite e un pizzico di polvere. «Dopo averti ridotto le braccia in cenere, ti rimpicciolirò e ti metterò nel labirinto con gli altri. Sei contento, signor Assassino?» Soth combatté contro il vortice riempiendo tutti i suoi pensieri di odio e rabbia. Il ricordo di Kitiara, avvolta in un abito trasparente, s'insinuò in lui e Soth si arrese. La mente occupata da altri dolci pensieri, udì le parole di Medraut vagamente, attraverso una nebbia. E allo stesso modo percepì l'ululato che proveniva dalle fogne. Con un grido, Azrael balzò fuori dall'apertura. Si era trasformato in mezzo tasso e ringhiando minacciosamente, mostrava i denti appuntiti. Invece di aggredire Medraut con gli artigli, lo colpì in viso con la maglia di ferro. Il colpo scagliò Medraut contro il labirinto di vetro e acciaio. La struttura oscillò, quindi cadde, schiantandosi su un tavolo pieno di pesi e bilance. Una pioggia di schegge di vetro e pezzi di metallo inondò il pavimento. Colto di sorpresa, con la testa coperta dalla maglia di metallo, Medraut ebbe un attimo di sbandamento. Furono pochi istanti, ma sufficienti perché Soth riuscisse a spezzare l'incantesimo. Il vortice nella mente del cavaliere si chiuse, senza avere arrecato gravi danni ai suoi pensieri oscuri. Mentre il ragazzo si liberava della maglia di metallo, Azrael gli conficcò gli artigli nella schiena. Approfittando dell'occasione, Soth evocò il primo incantesimo. Una folata di vento sollevò il bambino fino al soffitto. Poi, come una grande mano, lo scagliò contro un tavolo pieno di bottiglie e provette. Schegge di vetro schizzarono ovunque, mentre i serpenti e gli umani in miniatura cercavano rifugio. Il ragazzino si alzò sorridendo; rivoli di sangue gli scorrevano sul viso da decine di piccoli tagli. «Sei molto meglio degli zoticoni che di solito mi manda il papà. Almeno con te posso divertirmi.» Nella sua mano apparve
una bacchetta, che puntò contro Azrael. Il licantropo fece per scostarsi, ma il lampo che esplose dalla bacchetta lo colpì prima che i muscoli trasformassero l'impulso in azione. Venne scagliato violentemente contro un tavolo e dal puzzo di pelo bruciato capì di avere preso fuoco. Il ragazzino ridacchiò divertito e puntò la bacchetta verso Soth. Improvvisamente, fra Medraut e il cavaliere della morte apparve un uomo. Indossava l'uniforme militare, alti stivali di pelle, pantaloni neri e un'aderente giacca rossa bordata di bianco. Sul fianco portava una sciabola d'argento, ma Soth capì subito che era solo per bellezza. Le mani dell'uomo erano tozze e callose, erano mani da macellaio, non certo da spadaccino. «Papà», tubò Medraut, «sei venuto a vedere come finisco i tuoi assassini». Forse, un tempo, il duca era stato un bell'uomo, ma ora assomigliava più ad Azrael che a un essere umano. I capelli neri gli cadevano disordinatamente intorno al viso; la barba si aggrovigliava intorno al mento e alla bocca; folte sopracciglia si univano al di sopra di un naso largo e grosso, conferendo al viso un'espressione perennemente accigliata. Canini, bianchi e appuntiti, sporgevano su labbra rosse. Era anch'egli un vampiro, ma diverso da Strahd von Zarovich come il giorno dalla notte. «Non è un mio agente», gridò il duca, scagliandosi su Soth. Il cavaliere della morte allontanò le mani del vampiro e chiuse le dita intorno alla gola di Gundar. «Il signore di Barovia vi manda i suoi saluti», disse Soth, stringendo la presa. Medraut agitò la mano e la bacchetta scomparve. «Bene, bene. Un agente del conte.» Raddrizzato lo sgabello, vi salì per assistere allo scontro. «Papà, credo che questo gentile signore sia qui per te.» Imprecando, Gundar si trasformò in nebbia e si affrettò a strisciare tra i tavoli ribaltati e le attrezzature rotte. «Uffa!», sbuffò Medraut, quando il cavaliere della morte si girò nuovamente verso di lui. Una palla di fuoco sfrecciò dalla mano di Soth, ma uno scudo di luce azzurra apparve davanti a Medraut. Il proiettile infuocato sbatté contro la barriera magica ed esplose, spruzzando ovunque fiamme liquide. Alcuni tavoli presero fuoco e un mortaio pieno di polvere gialla sfrigolò sinistramente. Soth fece un passo avanti, pronto a sfondare il cranio del bambino in caso la magia non avesse funzionato, ma un colpo alla schiena lo fece girare
su se stesso. Fu allora che vide il duca Gundar. Il vampiro era acquattato come un lupo; gocce di saliva rosse gli macchiavano le labbra e la pazzia gl'illuminava lo sguardo. «Oh, papà, mi hai salvato», mormorò Medraut, poi scoppiò a ridere. L'ilarità non abbandonò il ragazzino nemmeno quando Soth e Gundar ripresero lo scontro. Le mani dei due nonmorti si agganciarono. Medraut era così preso dallo spettacolo che non si accorse del movimento furtivo dietro di sé. E quando l'odore di carne bruciata gli raggiunse le narici, era ormai troppo tardi. Azrael, la parte sinistra del corpo carbonizzata e ricoperta di vesciche, balzò sulla schiena di Medraut. Il ragazzo cercò di ricordare un qualsiasi incantesimo che ponesse una certa distanza fra lui e quella strana creatura, ma il licantropo non gliene diede il tempo. I due caddero a terra. Il grido di Medraut fu come quello di un bambino svegliatosi di soprassalto per un brutto sogno; ma quell'incubo non sarebbe stato scacciato tanto facilmente. Azrael conficcò i denti nella gola del ragazzino e il grido si spense in un gorgogliante fiotto di sangue. Il terrore velò gli occhi di Gundar. Poi, improvvisamente, la paura si trasformò in un'espressione di sollievo; il duca divenne nuovamente nebbia e scivolò fra le mani di Soth. Il cavaliere della morte scrutò nella stanza alla ricerca del duca, ma quest'ultimo sembrava scomparso. «Abbiamo ciò per cui siamo venuti, Gundar!» gridò. «Permettici di portare il ragazzo nella sala grande e di aprire il portale che si trova laggiù. Se cercherai di fermarci, farai la fine di tuo figlio.» L'oscurità avvolse la stanza e Soth si preparò a un attacco. Niente. All'improvviso, la sezione di una vecchia libreria si spalancò, rivelando una scala illuminata. «Beh, mi sembra una risposta chiara», commentò Azrael. «Puoi portare il bambino?» domandò Soth. Sentì il licantropo brontolare mentre sollevava il corpo. «Faremo meglio a sbrigarci, mio signore», suggerì Azrael, camminando sui vetri rotti. «O il suo sangue finirà tutto sulla mia giubba.» Quando raggiunsero il corridoio, il cavaliere della morte notò gli effetti del fulmine su Azrael. La pelliccia sul lato sinistro del corpo e del volto era sparita e la pelle sottostante era bruciata. Il grugno si era aperto in due e l'occhio sinistro era chiuso. Ma erano il braccio e la spalla a sembrare ferite più seriamente. La spalla quadrata e muscolosa era torta e spezzata e il braccio ciondolava mollemente lungo il fianco del nano. La giubba era
coperta di sangue, ma era quello di Medraut, non del licantropo. «In un paio di giorni starò meglio», rispose Azrael, quando si accorse dello sguardo del cavaliere. «Non preoccupatevi, mio signore, non vi rallenterò.» Come se volesse provare la veridicità delle sue parole, sistemò il cadavere sulla spalla sana e proseguì. A ogni passo, una smorfia di dolore gli sfigurava il volto. Seguirono le scale della torre fino a quando raggiunsero una porta aperta. Da là, un ampio corridoio li condusse nell'ala principale del castello. Logori stendardi, scudi sbalzati e armi rotte erano appesi alle pareti, probabilmente trofei conquistati a nemici del passato o simboli di vittorie. Il corridoio terminava davanti a una porta a battenti. Come il resto del maniero, la sontuosa sala era deserta. La stanza era lunga, con un soffitto ad arco simile a quello che Soth aveva visto in alcuni templi antichi a Krynn. Enormi lampadari a corona erano appesi in quattro punti. Nei giorni di sole, la luce delle centinaia di candele veniva potenziata dalle finestre con vetri colorati che si aprivano su un lato della sala. Lungo la parete opposta erano allineate delle statue, rappresentanti il duca Gundar in pose teatrali. Alcune erano in alabastro, altre in giaietto, ma tutte raffiguravano il signore di Gundarak come un eroico guerriero. Azrael sistemò meglio il cadavere sulla spalla e si guardò intorno, nervoso. «Sento odore di trappola.» Soth scosse la testa. «Molti condottieri che espongono statue autocelebrative spesso sono dei codardi. Il duca vuole che ce ne andiamo senza arrecare altri danni.» Il cavaliere della morte raggiunse il centro della stanza. La storia raccontatagli da Strahd lo aiutò a trovare il luogo esatto; una grande macchia di sangue, scuritasi con il tempo, indicava il punto in cui la figlia di Gundar aveva giaciuto per anni, tenendo aperta la porta con il proprio sangue. Soth prese il corpo da Azrael e lo lasciò cadere a terra. Mentre il sangue di Medraut scorreva sulla macchia lasciata dalla sorella, un cerchio scuro apparve sopra il cadavere. Nessuna luce sembrava penetrare l'oscurità del portale e, al suo interno, Soth non vide. «Vengo per te, mia Kitiara», sussurrò. Senza alcuna esitazione, il cavaliere della morte entrò nel cerchio oscuro. Azrael sussultò per la temerarietà del suo padrone, quindi strinse i denti e lo seguì. 15
Una luce azzurra e soffusa brillò intorno a Soth, per poi allungarsi in una sottile striscia di terra e rivelare un sentiero circondato dall'oscurità. Azrael apparve all'improvviso, inondato di una luce azzurra. Acquattandosi accanto al cavaliere, mormorò: «Qui è nero come il cuore di Strahd». Annusò l'aria, per avvertire l'odore di eventuali nemici. «Stammi vicino», ordinò il cavaliere della morte. Si avviò lungo il sentiero, lentamente. Il licantropo si sistemò meglio la giubba sulla spalla ferita, poi si affrettò dietro il suo signore. Dopo pochi passi, al termine del sentiero apparve un'elaborata porta in ferro battuto. «Che nessuno passi senza avere pagato il tributo», tuonò una voce dall'oscurità. Le parole erano una velata minaccia per chi avesse osato disubbidire. Soth avanzò ancora verso la porta e una figura scivolò fuori dall'oscurità per bloccargli il cammino. La guardiana sembrava semplicemente un'ombra, sebbene di profilo assomigliasse a una donna molto alta o, forse, a una donna elfo. Aveva braccia e gambe lunghe e snelle e si muoveva con grazia. Sebbene i particolari del viso restassero nascosti, la luce proveniente dal portale ne rivelava il profilo. Lunghi capelli fluttuanti incorniciavano un viso dagli zigomi alti, il naso aquilino e le labbra piene e imbronciate. Teneva il mento alto, atteggiamento che le conferiva un'aria di indifferente disprezzo. La guardiana aveva una caratteristica stravagante che saltava immediatamente all'occhio, sebbene lei fosse avvolta dall'oscurità. Sulla testa le spuntavano un paio di corna attorcigliate, simili a quelle di un cervo, ma con curve più eleganti. La punta delle corna sembrava affilata quanto gli artigli di Azrael. «Non andate oltre», disse, puntando il dito contro Soth. Il cavaliere della morte tracciò in aria linee arcane, ma quando pronunciò le parole per evocare l'incantesimo, non accadde nulla. «Questo è il mio reame e le tue stregonerie non funzionano», spiegò la guardiana. Allungò una mano nell'oscurità oltre il sentiero, quindi la ritirò. Dopo un istante, un enorme cane apparve sul sentiero. Come la guardiana, era composto d'aria. Aveva la forma imponente dei mastini che Soth aveva visto nei castelli di alcuni cavalieri su Krynn. Ma era magro da fare spavento. La guardiana si mosse verso Soth e Azrael, il mastino al suo fianco. «Il tributo per passare sulla mia strada è alto, ma tutti devono pagarlo.»
Fu allora che Soth sguainò la spada e colpì la guardiana. La lama la trapassò senza ferirla, ma l'attacco provocò il cane, che iniziò ad abbaiare. Il cavaliere della morte colpì nuovamente, e ancora una volta l'acciaio non ferì la donna ombra. Azrael indietreggiò e si guardò intorno alla frenetica ricerca della porta dalla quale erano entrati nel regno delle ombre. «Mio signore, forse dovremmo tornare indietro.» «Mai!» gridò Soth. «Qual è il tuo prezzo, guardiana?» La donna inchinò lievemente il capo. «Siete un uomo saggio. Anche se lo desideraste, non potreste andarvene senza aver pagato il tributo. È la legge.» Avanzò di un altro passo verso Soth. «Il prezzo per passare attraverso il mio regno è la tua anima.» Ridendo, il cavaliere della morte inguainò la spada. «Ho perso la mia anima secoli fa», disse, quindi slacciò il sottogola che teneva bloccato l'elmo e se lo tolse. Ciuffi di lunghi capelli biondi gli ricadevano fino alle spalle. La pelle, avvizzita, aderiva alle ossa. Di quelli che un tempo erano i lineamenti di un affascinante cavaliere era rimasto ben poco; un'ombra gli nascondeva il naso e la bocca. Tuttavia, quando parlava i denti bianchi risplendevano dietro le labbra secche. L'oscurità era maggiore intorno ai suoi occhi, non più umani, ma orbite luminose di luce arancione. Il cavaliere della morte infilò nuovamente l'elmo e allacciò il sottogola. «Per ottenere la mia anima, dovresti viaggiare fino alla casa degli dei del mio mondo, fino al regno di Chemosh, Signore dei Nonmorti.» Dopo aver piegato il capo in una sorta di inchino, la guardiana si spostò sul ciglio del sentiero. «Potete passare», disse, facendo seguire le parole dal gesto della mano. Il cavaliere della morte si avviò lungo il sentiero. Ma quando Azrael cercò di seguirlo, la guardiana bloccò nuovamente il passo. Il cane iniziò ad abbaiare. «Sei indubbiamente una strana creatura», disse la donna ombra al licantropo ferito, «ma nel tuo petto batte ancora un cuore. Devi pagare il tuo tributo». «Farà male? Perdere l'anima, intendo.» «Non lo so. Nessuno ha mai pagato il tributo e ha vissuto per dirmelo», spiegò spazientita. Mentre allungava una mano dalle dita affusolate, aggiunse: «Adesso, smettila con le chiacchiere. Sono anni che nessuno passa sul sentiero e io e il mio cane abbiamo bisogno di nutrimento». Il cavaliere della morte se ne stava in piedi dietro la guardiana, ma era chiaro che non intendeva sollevare un dito per aiutare Azrael. Il licantropo
doveva cavarsela da solo. Quando la mano della donna ombra si avvicinò ulteriormente al suo petto, il nano si spostò sul bordo del sentiero illuminato. «Non c'è niente da entrambi i lati del sentiero», affermò la guardiana. «Se lasci la luce, rimarrai nell'oscurità fino a quando io non ti porterò fuori.» Azrael imprecò e balzò in avanti, lanciandosi sulla donna e il mastino. Come la spada di Soth, l'attacco di Azrael lasciò la guardiana illesa, ma le sue possenti gambe lo trascinarono nel cuore della creatura d'ombra. Il nano si ritrovò inghiottito nell'oscurità, mentre precipitava verso un destino sconosciuto. Gridò, ma dalla sua voce non uscì alcun suono. Agitò braccia e gambe ma non avvertì alcun movimento, se non l'inesorabile attrazione della forza di gravità. La spalla ferita non gli procurava più dolore. Forse, comprese spaventato, sono morto. Improvvisamente, si sentì toccare da dita affusolate e la sua caduta rallentò. Poi, una luce azzurra gli trapassò l'occhio destro come uno spillo; il sinistro era ancora accecato per il lampo. Un grido, il suo, gli riempì le orecchie, e le ferite ripresero a pulsare. Quando riuscì nuovamente a vedere, si trovò sdraiato sul sentiero. La guardiana lo sovrastava, il mastino sempre al suo fianco. Il cane aveva la bocca spalancata e la bava gli cadeva in spessi filamenti. Azrael si guardò il corpo. Era tornato nano. «Che... che cosa è successo?» balbettò. «Hai avuto un assaggio di ciò che si trova su entrambi i lati del sentiero», spiegò la guardiana. «Ma adesso, basta. Dammi la tua anima.» Infilò la mano nel petto del nano. Le dita della donna sembravano stiletti di ghiaccio, ma più Azrael combatteva contro di essi, più il gelo si diffondeva in lui. «Deve essere qui!» gridò la guardiana. Affondò la mano fino al gomito. Accanto a lei, il mastino ululava per la fame. Infine la donna ombra indietreggiò. «Non mi è mai successo», commentò in tono deluso. «Sei vivo, eppure non hai anima.» Il mastino ombra scivolò nell'oscurità in attesa di un'altra anima che potesse sfamarlo. Azrael si alzò faticosamente in piedi e posò lo sguardo sul portale di ferro battuto al termine del sentiero. Soth non c'era più. «Da quanto tempo se ne sarà andato?» si domandò il nano, superando la guardiana. Il disinteresse del cavaliere della morte nei suoi confronti non lo aveva sorpreso. Da esseri così potenti si aspettava un trattamento duro e al contempo indifferente. Ma non aveva sopportato quel lungo viaggio per poi lasciarsi scari-
care senza combattere; Soth era ovviamente destinato a grandi cose e Azrael voleva essere al suo fianco. La guardiana sollevò le spalle. «Quando sei scomparso, se n'è andato senza una parola. Forse ha pensato che tu fossi morto. Ma non sei stato via a lungo. Forse sarà ancora vicino all'altra parte del portale.» Il nano corse alla porta, ma prima di oltrepassarla, si voltò a guardare un'ultima volta la donna ombra. «Dove conduce?» domandò. La guardiana, le spalle curve, il capo reclinato, era sul limitare dell'oscurità, oltre il sentiero. «Non lo so», mormorò, affranta. «Nessuno è mai tornato indietro a dirmelo e io non posso lasciare questo regno per scoprirlo da me.» Azrael spalancò la porta, che scricchiolò sui cardini arrugginiti. Una ventata di aria calda investì il nano, che si trovò in un vicolo deserto davanti a una botte per acqua piovana rovesciata. Guardò nella botte; nell'acqua contenuta all'interno vide un'immagine confusa del portale di ferro battuto. Il portale era nascosto così bene che non c'era da stupirsi che fossero in pochi a conoscerne l'esistenza. L'acqua rifletté anche l'immagine di Azrael, che per la prima volta vide gli effetti devastanti del lampo. Le basette e i baffi sul lato sinistro del viso erano spariti, l'occhio sinistro era completamente chiuso e la spalla era ancora lussata. Il braccio andava meglio, ma le scottature sul petto, il fianco e il viso bruciavano terribilmente. La perdita dei capelli lo preoccupava più del dolore. Il giorno dopo si sarebbe sentito molto meglio; come tutti i licantropi, possedeva eccezionali capacità che gli permettevano di guarire in tempi brevissimi. Ma per qualche misteriosa ragione, capelli e baffi impiegavano molto tempo a ricrescere. Quando abbassò lo sguardo sulla sua tunica, semicarbonizzata e macchiata di sangue, desiderò che i suoi abiti potessero aggiustarsi spontaneamente e rapidamente quanto il suo corpo. Appena avesse trovato Lord Soth, avrebbe dovuto rubare qualcosa da mettersi addosso. Lo stretto vicolo correva tra due edifici, un forno e una macelleria. L'aroma del pane appena sfornato e della carne macellata fece brontolare lo stomaco vuoto del licantropo. Cercando di spostare la propria attenzione, si mise a studiare i dintorni. I muri che delimitavano il vicolo s'inclinavano l'uno verso l'altro man mano che salivano, e i tetti degli edifici si incontravano, lasciando filtrare solo pochi raggi di sole. Da una parte, il vicolo era cieco, dall'altra si apriva su un vivace mercato. Sotto ogni finestra, pozze puzzolenti di liquami e
rifiuti punteggiavano il selciato. Come tutti i vicoli delle grandi città era buio e sporco. «Dei della luce proteggeteci!» urlò una voce dal mercato. Il grido di una donna risuonò lungo e acuto, seguito da esclamazioni di paura. Mi hanno scoperto, pensò Azrael, ma quando guardò verso il mercato, si accorse che il trambusto era stato causato da qualcos'altro. Corse all'imbocco del vicolo e scrutò attentamente la folla spaventata. Duecento persone affollavano la piazza, sebbene molte di esse si stessero allontanando frettolosamente. Altre tentavano di rifugiarsi nelle botteghe circostanti. Uomini e donne, nella fretta di fuggire, urtavano i supporti delle bancarelle, facendole crollare. I carretti erano rovesciati e il contenuto di cesti di frutta e ortaggi era disseminato ovunque. Fornai, tessitori e venditori ambulanti scappavano dalla figura in antiquata armatura al centro della piazza. Un sorriso soddisfatto illuminò il volto di Azrael. La guardiana del portale aveva avuto ragione: Lord Soth non era andato lontano. Il cavaliere della morte stava seminando il terrore, uccidendo indiscriminatamente chiunque incontrasse sul suo cammino. Una dozzina di corpi giacevano già ai suoi piedi. «È così che tratta la gente di Krynn?» si chiese il nano. Guardò la folla, ma non individuò immediatamente il motivo dell'ira funesta del cavaliere. Nessuno sembrava stesse sfidando Soth, sebbene uno dei cadaveri indossasse l'abbagliante uniforme di una guardia. La vista di quell'uniforme fece balzare il cuore in gola ad Azrael. La giacca blu con bottoni d'oro e spalline; i pantaloni neri e gli alti stivali di pelle; il cappello piatto con il corvo nero dalle ali spiegate... quell'uniforme gli era familiare. Era indossata dalle sentinelle della città di Vallaki. E se si trovavano a Vallaki... Il nano rabbrividì. Aveva capito il motivo della furia omicida di Soth. Il portale li aveva riportati nel ducato di Barovia. La vecchia via Svalich restò stranamente deserta nel corso dei due giorni che Soth e Azrael impiegarono per dirigersi a oriente, da Vallaki al castello di Ravenloft. Entrambi sapevano che Strahd sarebbe venuto a conoscenza del massacro perpetrato dal cavaliere della morte nella tranquilla città di pescatori. Eppure, nessuno cercò di ostacolare il loro cammino, sebbene stretti tornanti e curve cieche facessero di quella strada un luogo perfetto per un'imboscata.
I lupi, naturalmente, li seguivano a distanza, scomparendo nel bosco se Azrael cercava di catturarli. Al cavaliere della morte importava poco delle bestie, sebbene sapesse che facevano rapporto al conte. Il nano li considerava una sorta di sfida personale, e a volte passava un'ora a cercare di acchiapparli. Ma per quanto fosse un abile cacciatore, i lupi erano al di là delle sue capacità. «Strahd ci starà aspettando», disse Azrael arrancando lungo la strada. «Avete una sorpresa per lui, mio signore?» Non ottenendo risposta, alzò le spalle e riprese a scrutare fra gli alberi alla ricerca dei lupi. Da quando erano tornati a Barovia, il cavaliere della morte era divenuto sinistramente silenzioso. Azrael non riusciva a farlo parlare più di quattro volte al giorno. «Sono certo che avete una sorpresa per lui», aggiunse il nano, più a se stesso che all'altro. Sospirò e si grattò furiosamente il collo, dove cominciava ad apparire il nuovo strato di pelle. Sul corpo e sul viso del licantropo restavano ancora pochi segni dei danni provocati dal lampo. La pelle bruciata era venuta via e la spalla era guarita spontaneamente. La palpebra dell'occhio sinistro era lievemente abbassata, ma riusciva a vedere perfettamente. Anche l'odorato era tornato infallibile come prima. Soltanto la mancanza di capelli e di baffi gli ricordava ancora lo spiacevole incidente. Azrael aveva spogliato una delle vittime di Soth al mercato, sostituendo la giubba macchiata di sangue e i calzoni con una camicia e un paio di pantaloni nuovi. Erano entrambi troppo grandi, ma aveva usato il rasoio, trovato nella bisaccia del cadavere, per tagliarli a sua misura. Si era anche impossessato della mazza della guardia morta, sapendo che il conte avrebbe probabilmente mandato contro di loro scheletri o zombie. Armi simili erano perfette per ridurre in poltiglia le ossa dei non-morti. Giunsero in vista del castello e del villaggio di Barovia al calar del sole, un particolare che Azrael interpretò come un cattivo presagio. «Non sarebbe meglio aspettare fino all'alba quando Strahd tornerà nella bara?» domandò timidamente. «No», rispose il cavaliere della morte. «Non sarà facile raggiungere il maniero, sia con il sole che con la luna. Prima daremo il via a questa battaglia e prima pianterò la testa di Strahd sulle merlature del castello di Ravenloft.» L'anello di nebbia che solitamente circondava il villaggio era scomparso e il villaggio stesso sembrava deserto; le strade erano vuote e le botteghe
chiuse. Un piccolo esercito era appostato davanti al ponte traballante, l'unica via di accesso alla fortezza. «Ha obbligato gli abitanti del villaggio a difendere la sua casa», osservò Soth. «Soldati umani?» esclamò il nano. «Allora, sarà fin troppo facile.» Ma ben presto, il cavaliere della morte e il licantropo si accorsero che il grosso dell'esercito era costituito da zombie, con qualche scheletro e alcuni agguerriti mercenari umani. Le gargolle sbattevano le ali sopra le truppe, spronando i soldati con fruste di metallo. Uno di quegli ufficiali lasciò le fila appena vide avvicinarsi Soth. «Il mio signore vi manda i suoi saluti, Lord Soth», gridò, mentre volava verso il cavaliere della morte. Le ali grigie della gargolla assunsero un colore rossastro alla luce del sole calante. Aveva il volto lungo, con un mento prominente e aguzzo. Il corpo era così rotondo da sembrare morbido; in realtà, Soth sapeva che la pelle di creature simili era dura come la pietra. Atterrando dolcemente davanti a Soth, la gargolla s'inginocchiò e chinò il capo. «Il mio signore ha saputo del vostro ritorno nel ducato, ma non conosce il motivo della vostra ira.» Il cavaliere della morte fissò il messaggero. «Non parlerò con un lacchè. Voglio Strahd.» Alzandosi, la gargolla annuì. «Allora, sappiate che il mio signore ha sigillato il castello con la sua magia. Non potete infiltrarvi passando fra le ombre.» Indicò l'esercito. «Potete entrare solo attraversando il ponte e noi abbiamo il compito di impedirvelo.» «Il destino di queste truppe è segnato», replicò Soth. Dopo un ultimo inchino, la gargolla si rialzò in volo, superò il ponte ed entrò nel castello a informare il conte delle parole del cavaliere. I comandanti ordinarono l'attacco e l'esercito iniziò l'avanzata. Azrael strinse la mazza. In quel momento, rimpianse di avere abbandonato la maglia di ferro nel castello di Gundar, ma poi si rincuorò. Le armi di ferro potevano fargli ben poco; guariva così in fretta dalle ferite causate da armi simili che poteva stare tranquillo. Soltanto le armi create con la magia o le lame in argento rappresentavano un vero pericolo, ma non sembrava che gli zombie e gli scheletri davanti a lui fossero dotati di tali mezzi difensivi. «Cento a uno», mormorò il nano, sorridendo al cavaliere della morte. «Quello che ci vuole per divertirsi.» Soth si voltò. «Quando ero un mortale mi sono trovato in situazioni ben
peggiori», spiegò. «E non possedevo i poteri che ho ora.» L'esercito era ormai a pochi passi. Gli zombie erano disarmati, ma Soth non aveva dimenticato le difficoltà incontrate quando li aveva affrontati nel corso della sua prima notte a Barovia. Gli scheletri e i pochi umani brandivano le armi più disparate: spade, asce, persino mazzafrusti e pertiche. Il cavaliere non si mosse. Con un rapido movimento della mano accompagnato da una parola magica, Soth evocò uno sciame di pietre ardenti. Le meteore erano grandi quanto il pugno del cavaliere e quando colpirono, penetrarono nella carne, nell'armatura o nelle ossa. Uno scheletro, il cranio fracassato, crollò a terra. Gli zombie in seconda fila lo calpestarono. Nonmorti coperti di stracci presero fuoco e, nel tentativo di spegnere le fiamme magiche, diffusero il fuoco anche su mani e braccia. Caddero anch'essi, ma i compagni schivarono i corpi in fiamme. In tutto questo, i soldati dell'oltretomba non emisero un suono. Ma la battaglia era tutt'altro che silenziosa. Gli umani urlavano mentre morivano e le gargolle continuarono a gridare ordini. Altri soldati avanzarono per rimpiazzare i trenta compagni eliminati dall'attacco magico e il cavaliere della morte sguainò la spada. Il primo soldato cadde sotto la mazza di Azrael. Il nano lanciò un ululato di vittoria quando lo scheletro crollò a terra, la spina dorsale spezzata, la cassa toracica aperta in due. Venne presto seguito da un umano; Soth lo aveva quasi decapitato. Ma il grido di tripudio morì sulle labbra di Azrael, quando il nano vide un bagliore d'argento. Un mercenario, il volto sfigurato dalle cicatrici, si piantò davanti al licantropo. In una mano stringeva una lunga spada d'argento, nell'altra, un pugnale circondato da una pallida aura magica. «Dopo aver pregato Paladine, Soth ricevette un incarico», spiegò Caradoc. «Doveva andare nella città di Istar e impedire al Sommo Sacerdote di chiedere il potere di sradicare il male da Krynn.» Strahd von Zarovich si tormentò le dita. «Vai avanti», ordinò. Era la terza volta che lo spettro ripeteva la storia della maledizione di Soth e il conte aveva finalmente trovato un argomento che avrebbe potuto usare in suo favore. «Quella notte, i cavalieri che avevano stretto l'assedio intorno a Dargaard Keep caddero in una sorta di sonno magico, che permise a Soth di strisciare furtivamente senza essere scoperto», continuò Caradoc. «Cavalcò
per giorni e giorni, ma le tredici donne elfo che avevano svelato il suo tradimento al Consiglio dei Cavalieri lo bloccarono lungo la strada. Le donne insinuarono che Isolde lo aveva tradito e che il bambino che portava in grembo non era di Soth, ma di uno dei suoi "leali" cavalieri.» Il vampiro sorrise. «E Lord Soth rinunciò alla sacra impresa per affrontare la moglie.» Si alzò e iniziò ad andare su e giù per la stanza. «Era un uomo di forti passioni, eh, Caradoc?» «Mi disse che Paladine gli offrì una visione di ciò che sarebbe accaduto nel caso non fosse riuscito a fermare il Sommo Sacerdote», spiegò lo spettro. «Lui sapeva che gli dei avrebbero punito il Sommo Sacerdote per il suo peccato di orgoglio scagliando una montagna su Istar. Nella visione, il fuoco inghiottiva la città e Soth sentì persino le grida degli sventurati abitanti.» Strahd si sedette davanti a una scrivania. «Ma nonostante tutto è tornato a Dargaard per accusare la moglie di infedeltà.» Lo spettro annuì goffamente, appoggiando la testa sulla spalla. «E quel giorno, quando morì, la maledizione colpì tutti coloro che lo avevano servito fedelmente. I suoi cavalieri divennero scheletri privi di intelletto e io...» Sollevò le braccia e indicò la sua forma trasparente. «Le passioni di Soth sono state la sua condanna, ma io non avrei dovuto condividere il suo destino.» Il vampiro rifletté qualche istante sulle parole dello spettro. A un tratto, gli tornò alla mente il messaggio scarabocchiato dal mistico cieco, il giorno in cui Soth e Caradoc erano stati trascinati a Barovia: cane per la caccia al cinghiale e cinghiale, padrone e servitore; non sperare di poter spezzare il modello. Ma onoralo. Il misterioso avvertimento gli fu finalmente chiaro. Afferrata una penna e un foglio, buttò giù un'annotazione. «Voglio che memorizzi questo messaggio e lo riferisca a Lord Soth.» Terrorizzato, lo spettro cercò di balbettare un'implorazione, ma le parole non gli uscirono di bocca. Notando l'angoscia del servo, il conte aggiunse: «Estenderò la protezione magica che ripara il castello dalle stregonerie di Soth fino al ponte levatoio. Se non oltrepasserai le torri del corpo di guardia, lui non potrà farti niente». Caradoc abbozzò una protesta, ma il conte lo interruppe. «Vorrei che il cavaliere udisse queste parole dalle tue labbra prima del sorgere della luna. Hai la mia parola che non ti succederà nulla. Dubiti forse delle mie promesse?»
«Certamente, no, padrone. Io... farò tutto ciò che mi chiederete», replicò Caradoc, chinando la testa mentre il vampiro lasciava la stanza. La gargolla alla quale Strahd aveva assegnato il compito di accogliere Soth aspettava il suo signore nel corridoio. «Siamo in difficoltà, padrone», riferì. «Il cavaliere della morte e il licantropo hanno ucciso quasi la metà dei soldati che avete risuscitato, riportando, da parte loro, ben poche ferite.» Chiudendo la porta dello studio, Strahd annuì. «Non siamo in difficoltà, Iagus. La battaglia procede esattamente come previsto. Se il numero dei soldati dovesse ridursi al di sotto delle cinquanta unità, farò risuscitare nuove truppe dal cimitero nei sobborghi del villaggio. Soth non riuscirà mai ad attraversare il ponte.» Strahd s'incammino lungo il corridoio e, senza voltarsi, aggiunse: «Fra qualche istante, Caradoc uscirà per consegnare un messaggio a Lord Soth. Seguilo e riferiscimi ogni dettaglio dell'incontro». Se ne andò in tutta fretta, diretto in una stanza delle due torri. Era una piccola cella senza finestre e con una sola porta, che si aprì su comando di Strahd. Un paio di torce si accesero spontaneamente appena il conte mise piede nella stanza. A differenza delle altre camere del castello, gli scaffali alle pareti non erano coperti di polvere e le pareti erano prive di crepe. Persino le torce bruciavano senza fumo. Il muro dietro le fiamme non era annerito. Arazzi decorati con elaborati disegni di anelli intrecciati e motivi geometrici erano appesi a tre pareti, e sul soffitto un affascinante affresco faceva mostra di sé. La cella era arredata con due soli mobili: uno sgabello a tre gambe e un tavolo con la superficie di vetro. Il conte sistemò lo sgabello davanti a uno degli arazzi e si sedette. Nello stesso istante, due delle gambe del tavolo si allungarono, sollevando la superficie di vetro. Gundar odia essere contattato in questo modo, pensò il vampiro, divertito. Poi chiuse gli occhi ed evocò alla mente l'immagine del signore di Gundarak. «Hai un bel coraggio a metterti in contatto con me, bastardo!» gridò Gundar. Strahd aprì gli occhi e guardò nel vetro. Il duca era là, paonazzo per la rabbia. Il signore di Barovia sapeva che a Gundar lui appariva come una testa spettrale, senza corpo, una testa circondata dai disegni ipnotici degli arazzi intorno a lui. Chiunque avesse guardato a lungo quei motivi sarebbe rimasto ipnotizzato.
Ma Gundar ormai conosceva i trucchi del rivale e puntò gli occhi sul conte, evitando di guardare gli arazzi. «Pagherai per la morte di Medraut, Strahd», affermò il duca, inferocito. «Ti assicuro che le creature che hanno ucciso tuo figlio non sono al mio servizio. Il licantropo è un rinnegato, un assassino, e il cavaliere della morte è troppo potente per servire me o te.» Il conte fece del suo meglio per sembrare preoccupato. «Infatti, in questo preciso momento, quei due stanno attaccando il mio castello. Dopo avere oltrepassato il portale, si sono ritrovati in un vicolo nel villaggio di Vallaki. Il cavaliere della morte è convinto che la colpa sia mia.» Gundar strinse gli occhi. «Riconosci che hanno scoperto l'esistenza del portale grazie a te?» «Certamente», replicò il conte, «sebbene io abbia parlato solo con il cavaliere della morte. L'altro è il lacchè». Si piegò in avanti. «Ma siamo onesti, eh, Gundar? Avevo sperato che il cavaliere della morte creasse un po' di trambusto nel tuo castello. Se avesse ucciso tuo figlio, tanto meglio, ma sapevo che non era sufficientemente potente da farti del male... non seriamente, per lo meno.» Il duca lo investì con una valanga di improperi e Strahd lo bloccò, sollevando una mano. «Se il cavaliere della morte fosse venuto prima da te», osservò in tono glaciale, «lo avresti messo contro di me. È un po' come l'uccisione dei messaggeri che ci mandiamo l'un l'altro». «Ma questa volta non è morto un semplice ambasciatore», sbraitò il duca. «Quel maledetto licantropo ha sgozzato il povero Medraut. Qualcuno deve pagare. Voglio vendetta.» Strahd scoppiò a ridere. «Il licantropo dovrebbe chiedere a te di pagare, duca. Avevi il terrore di quel ragazzino. Se avessi potuto, lo avresti ucciso tu stesso anni fa.» Lentamente, Gundar voltò le spalle a Strahd e fra i due vampiri scese il silenzio. Quando il duca si girò nuovamente verso l'immagine spettrale, il suo volto era il ritratto della preoccupazione, o forse, della paura. «Il cavaliere della morte mi ha sfidato. Qui, nel mio castello!» «È per questo che ti ho contattato», spiegò Strahd. «Questo cavaliere della morte, Lord Soth è il suo nome, ha dimostrato di essere una minaccia sia per Barovia che per Gundarak. Come ti ho già detto, mentre parliamo sta combattendo contro il mio esercito per cercare di entrare nel mio castello.» Il conte sorrise, scoprendo i canini. «Potrei liberarmi di lui, ma ho bisogno del tuo aiuto.»
Gundar rifletté qualche istante, poi chiese: «Che cosa vuoi che faccia?» Soth e Azrael combattevano schiena contro schiena. I cadaveri e le ossa ammonticchiati intorno a loro servivano per rallentare l'assalto, e la macabra barricata diventava più alta a ogni affondo della spada di Soth e a ogni colpo della mazza di Azrael. Entrambi erano stati colpiti, ma l'armatura proteggeva il cavaliere della morte e gli incredibili poteri rigenerativi del nano lo aiutavano a scrollarsi di dosso la maggior parte delle ferite. Soltanto il mercenario dal volto sfregiato riusciva, di tanto in tanto, a colpire seriamente il licantropo; la spada d'argento e il pugnale stregato dell'uomo avevano trapassato la spalla e la gamba di Azrael. Il nano non aveva potuto contrattaccare l'umano, poiché quest'ultimo lo assaliva quando era impegnato nella lotta contro uno zombie o uno scheletro, e poi svaniva nuovamente fra le fila dell'esercito del conte. Come Soth aveva previsto, gli zombie si dimostrarono i nemici più temibili. Le loro membra continuavano a combattere anche quando venivano mozzate dal busto. Con una mano, Azrael aveva afferrato un ramo in fiamme e ogni volta che se ne presentava l'occasione, dava fuoco alle orribili creature. Il fuoco sembrava l'arma migliore per fermare i dinoccolati non-morti, poiché gli abiti stracciati e la carne disidratata s'incendiavano quasi istantaneamente. Il nano aveva appena incendiato un altro zombie, quando le gargolle che volavano sopra di loro, ordinarono la ritirata. «Al ponte», gridarono, abbassando le fruste metalliche sulle schiene degli zombie. Mentre i sopravvissuti dell'esercito di Strahd retrocedevano verso il ponte, Soth osservò il campo di battaglia, in attesa di un nuovo e più micidiale avversario. «I miei saluti, Lord Soth», disse una voce proveniente da una delle fatiscenti torri di guardia situate ai lati del ponte. «Vi porto un messaggio da parte del mio padrone, il conte Strahd von Zarovich.» La voce familiare fece sussultare Soth; la spada gli scivolò di mano quando vide Caradoc in piedi su una torre. La testa dello spettro ciondolava ancora sulla spalla. «Il conte vi chiede perdono per non potervi consegnare il messaggio di persona, ma mi ha chiesto di informarvi che verrà a conferire con voi quando la luna raggiungerà lo zenith.» «Caradoc», sussurrò il cavaliere della morte, incredulo. «Maledetto traditore!» Fece un passo avanti e sollevò le braccia. Un lampo balenò dalla sua mano e sfrecciò verso il siniscalco, ma prima che raggiungesse la torre,
sbatté contro un muro invisibile, un potente scudo contro la magia che Strahd aveva eretto intorno al castello. Il raggio si dissolse in una cascata di luci. Caradoc impiegò un attimo per ritrovare la voce. Strahd aveva mantenuto la parola: il cavaliere della morte non poteva raggiungerlo. «Il messaggio del mio padrone è questo: "Mi dispiace che non siate riuscito a lasciare Barovia, ma la carneficina dei miei sudditi di Vallala e il vostro attacco alla mia casa non possono essere perdonati. Se interromperete ora le ostilità, forse potrei avere misericordia di voi".» Azrael prese a calci uno dei cadaveri sparsi sul terreno. «Misericordia? Lui è quello rintanato nel castello e offre a noi la sua misericordia?» Il pugno sollevato, Soth scattò in avanti. L'esercito serrò le file per bloccarlo, ma il cavaliere si fermò prima di raggiungere la prima schiera. «Non puoi nasconderti per sempre, Caradoc», gridò. La rabbia bruciava in lui, rovente come il fuoco che lo aveva privato della vita. Lo spettro si sporse oltre le merlature. «Non sconfiggerete mai Strahd». E scoppiò a ridere. Caradoc era così felice di poter deridere il cavaliere della morte, che non si accorse del tenue scintillio nell'aria sopra la testa di Soth. «Io vi ho rubato Kitiara», gridò lo spettro, «e voi pensate di essere più furbo di Soth? Il medaglione era nascosto nel mio scheletro nella torre di Dargaard. Ci avete praticamente camminato sopra quando avete disperso le mie ossa. È ancora là, ma non lo avrete mai. Lei non sarà mai vostra». Un enorme pugno infuocato apparve sopra Soth. Il cavaliere della morte sollevò la mano oltre la testa e il pugno sfolgorante, che aveva creato, salì più in alto. Quando fu allo stesso livello della parte superiore della torre di guardia, Soth batté con forza l'aria davanti a sé; il pugno imitò quel gesto e sbatté violentemente contro lo scudo invisibile. «Tu... non... scapperai... mai!» gridò il cavaliere della morte. A ogni parola il pugno colpì la barriera, facendo echeggiare nel cielo terso spaventosi rombi di tuono. Fili di luce azzurra si propagarono in aria come crepe nella malta, e la torre del corpo di guardia vibrò fino alle fondamenta. Caradoc non aveva bisogno di altro incitamento. Si precipitò verso il castello, le grida di Soth e il rombo del tuono magico nelle orecchie. Tirò un sospiro di sollievo quando all'entrata del maniero vide Strahd. «Pare che tu lo abbia fatto arrabbiare», disse il conte in tono tranquillo. «Un vero peccato.» Il sollievo di Caradoc si trasformò in paura quando vide il gelido scintil-
lio degli occhi del vampiro. «Padrone, io...» Strahd scosse la testa, soffocando l'implorazione prima che lasciasse la bocca dello spettro. «Temo tu non sia più il benvenuto al castello di Ravenloft, Caradoc», disse il vampiro. «Devi andartene immediatamente.» 16 I pugno magico che Soth aveva scagliato contro la barriera di protezione, intorno al castello di Ravenloft, affondò un ultimo colpo e poi scomparve. Il muro invisibile aveva resistito al furioso attacco del cavaliere della morte; sebbene si fosse crepato più volte, le sinuose linee azzurre erano scomparse dopo ogni colpo, senza mai riuscire ad aprire una vera breccia. L'ultimo tuono rimbombò dalle mura esterne del castello e nel crepaccio che si spalancava davanti alla porta principale, poi scese il silenzio. L'esercito di Strahd era schierato davanti al ponte levatoio. La superiorità di zombie, scheletri e mercenari nei confronti di Soth e Azrael era stata inizialmente di cento a uno, ma ora era ridotta della metà. Alcuni soldati possedevano ancora la capacità di comprendere la situazione di pericolo nella quale si trovavano e pregavano disperatamente gli dei oscuri, affinché Strahd non ordinasse un nuovo attacco. Non desideravano condividere il destino dei corpi martoriati disseminati ovunque. Fischiettando, Azrael approfittò del momento di stasi nella battaglia e si fece strada sul campo di battaglia. Diede fuoco ai resti degli zombie che ancora si contorcevano e infierì selvaggiamente su qualsiasi cosa cercasse di muoversi. Ogni volta che trovava un mercenario umano, gli frugava nelle tasche, appropriandosi delle monete o di qualsiasi altra cosa trovasse. Completato il giro, raggiunse Soth. Il cavaliere della morte fissava la torre del corpo di guardia da dove Caradoc si era beffato di lui. «Non mi sfuggirà», ripeté Soft in tono sommesso. «Il suo tradimento verrà punito.» Azrael stava per chiedergli come intendesse catturare lo spettro, considerato il fatto che le difese di Strahd sembravano resistere al loro attacco, quando una certa agitazione nelle fila nemiche lo zittì. Le gargolle che guidavano l'orda di assassini si sollevarono in volo, schioccando le fruste. Zombie e scheletri si aprirono su due file, creando un passaggio proprio davanti al ponte. Soth fece un passo verso il varco, poi si bloccò. Una nuvola di nebbia turbinò sul ponte, si fermò a metà e, lentamente,
assunse la forma di un uomo, materializzandosi infine nel vampiro signore di Barovia, Strahd von Zarovich. «Dov'è Caradoc?» gridò il cavaliere della morte. Strahd teneva le mano allacciate dietro la schiena. Indossava una camicia bianca con maniche ampie, slacciata fino a metà torace. I pantaloni neri erano lievemente stropicciati e gli stivali consumati. Soth sapeva che l'aspetto del conte era una mascherata, studiata minuziosamente per dare l'impressione di essere stato colto impreparato dall'attacco. Spostando lo sguardo a destra e a sinistra, Strahd osservò le proprie truppe. Gli zombie e gli scheletri fissarono il conte con sguardi spenti; gli uomini distolsero gli occhi. «Potete tornare nel castello», disse loro. Mentre i soldati si trascinavano sul ponte, Soth si precipitò avanti. «Mi dovete molte spiegazioni, Strahd», ruggì. L'altro inclinò il capo. «Non vi devo niente», replicò, tranquillo. «Vi ho detto tutto quello che sapevo sul portale. Non è colpa mia se non vi ha riportato a Krynn.» «E Caradoc?» domandò Soth. Era ormai così vicino a Strahd, che il conte avvertiva il puzzo di sangue della spada e dell'armatura del cavaliere della morte. «Mi avevate detto che era morto cercando di entrare nella vostra casa, ricordate? È un mio servo. Voglio che lo liberiate immediatamente.» «Lo spettro era un vostro servo, Lord Soth», lo corresse il vampiro. «Si era presentato da me in cerca di asilo. Poiché a Barovia non vi sono chiese, ho ritenuto mio dovere accoglierlo sotto la mia ala protettrice. Caradoc ha fatto un giuramento di fedeltà nei miei confronti e ora lo considero di mia proprietà.» «Allora distruggerò la vostra casa per trovarlo», affermò Soth, superando il conte. Strahd non cercò di fermarlo mentre si dirigeva verso il castello. Indicando il maniero, il conte disse: «Non troverete Caradoc là dentro, Soth. Lo avete così spaventato con la vostra ostentazione di forza, che è fuggito». All'improvviso, Strahd si voltò verso Azrael. Il nano era a soli pochi passi dietro il conte, la mazza saldamente in pugno. Prima che potesse aprire bocca, si ritrovò paralizzato. «Sei fortunato, cane bastardo. Conosco una dozzina di incantesimi che ti avrebbero strappato la vita, invece di congelarti le membra.» Sebbene l'espressione del suo volto fosse pietrificata in un ghigno, negli
occhi di Azrael si leggeva paura e sorpresa. Il conte si rivolse nuovamente a Soth, un sorrisetto compiacente sulle labbra. «Non vi riterrò responsabile per gli errori di coloro che vi servono. Non portatemi rancore perché dovete regolare un vecchio conto con un mio servo.» Il cavaliere della morte si girò verso Strahd. Il vampiro era accanto al nano paralizzato e con un dito tracciava le ferite che Azrael aveva riportato nel corso della battaglia. «Un tempo», proseguì Strahd, «quando ero un soldato, fui obbligato a mangiare della carne cruda. Era l'unico cibo che avevamo a disposizione, capite, e non potevamo accendere un fuoco per timore che il nemico ci individuasse». Leccò il sangue di Azrael dalle dita e digrignò i denti. «Mai avrei immaginato che un giorno lo avrei apprezzato tanto.» Soth girò i tacchi e tornò da Strahd. «Dov'è?» domandò. Quando il vampiro continuò ad accarezzare le ferite di Azrael, il cavaliere gli afferrò il polso. «Dove è andato Caradoc?» Stringendo gli occhi fino a farli diventare due sottili fessure, Strahd si leccò le labbra. «Se Magda fosse ancora con voi, vi proporrei uno scambio: la sua vita per quella dello spettro. Il nano non vale così tanto.» Liberò il braccio dalla stretta di Soth e indicò Azrael. «Avrete bisogno di lui per trovare il vostro siniscalco.» Il conte si allontanò di qualche passo, quindi si sistemò il polsino della camicia. «Caradoc è fuggito dal castello e si sta dirigendo verso il portale per Gundarak. Forse spera di ottenere l'aiuto di Gundar contro di voi, ma temo che il buon duca vi tema al punto tale da non accogliere chi state cercando.» «Allora vuole trovare l'Anello di Nebbia», concluse Soth. «Spera che le nebbie lo depositino da qualche parte lontano da me. E se lo seguissi...» Strahd annuì. «Come vi avevo spiegato prima della vostra partenza per Gundarak, Lord Soth, qualsiasi creatura dell'oscurità corre un grosso rischio a entrare nell'Anello di Nebbia. Se è sufficientemente potente, intorno a lei si forma un nuovo ducato, che la intrappola per sempre.» Soth non esitò. «Libera Azrael», disse. «Dobbiamo partire.» Il conte esaudì la richiesta del cavaliere e appena il nano fu libero, si precipitò al fianco di Soth. «Mio signore, ho udito le vostre parole. È una trappola. Strahd spera che veniate imprigionato nell'Anello di Nebbia.» «Naturalmente», replicò Soth. «Da chi altro Caradoc avrebbe sentito parlare dell'Anello di Nebbia?» Si voltò verso il conte. «Immagino abbiate
stretto un patto con Gundar perché tenga la strada dal castello di Hunadora all'Anello sgombra dai pericoli.» Un sorriso sulle labbra, Strahd s'inchinò. «Esattamente, Lord Soth.» Azrael era sbigottito. Invece di una sanguinosa battaglia, il conflitto fra il cavaliere della morte e il vampiro si era trasformato in un gelido, ma cortese, scambio di battute. «Raggiungi il portale di Vallaki» disse il conte al nano. «Là, troverai le tracce dello spettro. Sono sicuro che riuscirai a stanarlo.» Senza aggiungere altro, Soth raggiunse la strada e si preparò a percorrere il tortuoso cammino seguito dal villaggio dei pescatori. Azrael si affrettò dietro di lui. Prima di girare una curva, il nano lanciò un'ultima occhiata a Strahd; le braccia conserte, il conte se ne stava immobile, illuminato dalla pallida luce della luna. «Non preoccuparti, Azrael», disse Soth mentre procedevano nella notte. «Ci occuperemo ora dello spettro, poiché se aspettiamo troppo potrebbe sfuggirci. Strahd non ha scampo; è intrappolato per sempre a Barovia e a costo di impiegarci centinaia d'anni, gliela farò pagare.» In quello stesso istante, i pensieri di Strahd riflettevano quelli del cavaliere della morte. Il conte sapeva che Caradoc gli aveva fornito il modo per distogliere da sé la rabbia di Soth, ma solo per poco. Prima o poi, il cavaliere della morte sarebbe tornato per vendicarsi. Mentre attraversava il ponte diretto al castello, Strahd si rese conto di avere scoperto parecchio su Soth grazie alla storia del suo destino. Il cavaliere era un essere passionale, con una particolare preoccupazione per l'onore. Aveva voltato le spalle a un sacro compito affidatogli dagli dei per punire una moglie che sospettava di tradimento; perché non avrebbe dovuto rinunciare alla fuga dagli inferi per distruggere un servo infedele? Dopo tutto, pensò Strahd mentre entrava nel fatiscente maniero, la forma esteriore di un uomo può cambiare, ma il suo cuore è immutabile, che batta o meno in petto. Il sole era basso all'orizzonte, un disco rosso nel cielo sempre più scuro della sera. Era quello il punto di riferimento di Caradoc mentre si dirigeva a sudest, verso l'Anello di Nebbia. Strahd gli aveva spiegato che l'anello era la sua unica speranza di salvezza da Soth. Lo spettro non si fidava del conte, ma non aveva scelta. Se Strahd aveva mentito, per lui sarebbe stata la fine. In caso contrario, forse sarebbe riuscito a evitare l'ira del cavaliere della morte.
Caradoc non aveva bisogno di voltarsi per sapere che Soth e Azrael lo tallonavano. Aveva attraversato il portale per arrivare nel castello di Gundar, da lì aveva proseguito per il villaggio fuori da Hunadora, ma il cavaliere della morte gli era sempre rimasto dietro. Per giorni, ormai non sapeva più quanti, aveva vagato per foreste montane. Per quanto avanzasse velocemente, Soth e il licantropo non lo perdevano. E nelle ultime ore, era riuscito a sfuggire alla cattura per un soffio. Qualcosa ringhiò alla sinistra dello spettro, nella gola che correva parallela al sentiero. Esseri misteriosi si muovevano nelle caverne che punteggiavano la gola, esseri che lo guardavano con quattro paia di piccoli occhi luminosi. «Se volete qualcosa di consistente da mangiare», gridò, «dietro di me ci sono un nano e un uomo morto». Le creature sbatterono gli occhi, poi scomparvero nelle tane. Valeva la pena tentare, pensò lo spettro. «La tua disperazione è spregevole», disse una voce cavernosa dietro Caradoc. Il siniscalco si girò di scatto e vide Soth emergere dall'ombra di un grande masso a pochi passi di distanza. Gli occhi arancioni guizzavano sinistramente alla luce del crepuscolo. «Fermati ora e in un attimo sarà finita.» Il cavaliere della morte rientrò nell'ombra del masso e svanì, ma Caradoc non aspettò di vedere da dove saltasse nuovamente fuori. Si buttò a terra e scivolò agilmente nel terreno. Nelle ultime ore era sfuggito diverse volte alla cattura proprio in quel modo. Tuttavia, era un sistema da utilizzare solo nelle emergenze poiché una volta sotto terra, Caradoc non vedeva niente e ogni volta perdeva la strada. Trascorso qualche istante, il siniscalco tornò in superficie. Sollevò la testa lentamente e, dall'interno di un albero caduto, diede un'occhiata intorno a sé. Imprecando e affondando la spada nel terreno, il cavaliere della morte stava cercando Caradoc nel punto in cui quest'ultimo era scomparso. Lo spettro sorrise, sollevato; aveva seminato il suo inseguitore, almeno per un po'. «Eccoti lì, codardo», disse una voce e una mazza si abbassò sulla testa del siniscalco, passandole attraverso. Caradoc sollevò lo sguardo e vide Azrael, pronto a colpirlo nuovamente. Le armi terrene non avevano alcun effetto sulla forma incorporea di Caradoc, ma lo spettro sapeva di potere ferire una creatura mortale, anche una soprannaturale come Azrael. Prima che il nano avvertisse Lord Soth, Ca-
radoc schizzò fuori dal terreno. Si lanciò oltre Azrael, colpendolo in viso con le mani eteree mentre passava. Il dolore fu tale da far crollare il licantropo in ginocchio, senza fiato e incapace di gridare. Il tocco del fantasma aveva lasciato su di lui il gelo della morte. Viso e testa gli dolevano come se fosse stato colpito da dieci pugnali e le basette e i baffi appena cresciuti divennero bianchi come la neve. La sofferenza del nano offrì a Caradoc il tempo di cui aveva bisogno. Senza l'aiuto del licantropo, il cavaliere della morte non sarebbe riuscito a seguire le tracce del siniscalco tanto rapidamente. Inoltre, le nuvole cominciavano ad avanzare e con un po' di fortuna avrebbero nascosto la luna. Privato del disco argenteo, Soth non avrebbe trovato ombre in cui viaggiare. Avrebbe dovuto rallentare. Il sole scomparve a ovest e l'oscurità della notte sostituì gli abbaglianti colori del tramonto. Da una caverna nella gola sbucarono un centinaio di pipistrelli, che ad ali spiegate iniziarono la caccia per la sopravvivenza. Caradoc invidiò la loro libertà, mentre sfrecciavano in aria sopra di lui. Senza il sole o la luna a guidarlo, lo spettro dovette rallentare il passo. Se anche fosse riuscito a vedere le stelle oltre le nubi, non conosceva le costellazioni di Gundarak a sufficienza per poterle usare per orientarsi. La paura s'insinuò nella sua mente, affollandola di immagini spaventose. Ogni albero sembrava in grado di nascondere Soth o Azrael. Ogni rumore nell'oscurità, l'ululato lontano di un predatore notturno, il fruscio delle foglie sospinte dal vento, il gorgoglio del fiume che scorreva in fondo alla gola, sembrava avvisare Caradoc del destino che lo aspettava. E così trascorse la lunga notte. Mentre avanzava, Caradoc tenne la gola sulla sua sinistra. Inizialmente, camminò sull'orlo del burrone, ma un ramo nodoso che spuntava fuori dal dirupo assomigliava così tanto a una mano pronta ad afferrarlo, che decise di spostarsi nel folto della foresta. Forse il ramo era un avvertimento, si disse, improvvisamente convinto che la terra stessa gli indicasse i punti dove Soth avrebbe potuto tendergli un'imboscata. Come le nuvole che coprivano la luna, la paura gli addormentò i sensi e gli annebbiò la mente. Tante erano le cose che quella notte lo terrorizzavano, che la sua mente iniziò a girare su se stessa, sorda ai rumori improvvisi degli animali a caccia o del vento fra gli alberi. Ben presto, nella sua mente si spalancò il vuoto che attendeva le creature come lui. I suoni e gli odori della foresta impallidirono di fronte a quella visione apocalittica. Caradoc non si accorse quando le prime strisce di azzurro e oro apparve-
ro a oriente, annunciando l'alba. E non si accorse nemmeno della nebbiolina che fuoriusciva dal terreno mentre correva alla cieca attraverso un boschetto di pini. Se anche avesse visto la foschia, probabilmente non si sarebbe reso conto di essere finalmente arrivato nei pressi dell'Anello di Nebbia. Mentre il sole si faceva strada in cielo e le ombre iniziavano a cadere intorno agli alberi, Caradoc era consapevole di una sola cosa: doveva continuare a correre, perché il cavaliere della morte era dietro di lui. Si sbagliava. Dall'ombra di un pino nodoso, davanti allo spettro apparve una mano. Le dita fredde come il ghiaccio si allungarono verso la gola di Caradoc, ma si chiusero invece sui suoi capelli. «Ti ho preso, finalmente», tuonò Soth. Il cavaliere della morte emerse completamente dall'ombra e sollevò da terra il siniscalco tenendolo per i capelli. Il dolore e lo spavento risvegliarono il siniscalco, ma ormai poteva fare ben poco. Soth lo schiaffeggiò in viso con il dorso del guanto di cotta una volta, e poi un'altra. «Il sole tramonterà ancora, prima che abbia finito con te», sibilò il cavaliere della morte. «Mio signore!» gridò Azrael, correndo fra gli alberi. «La nebbia si sta alzando.» Il nano aveva ragione. Agli albori del nuovo giorno, riccioli di nebbia si attorcigliavano come serpenti intorno ai tronchi degli alberi. Sottili tentacoli si avvolsero intorno alle gambe di Soth, fino alle ginocchia. La nebbia coprì le ombre e offuscò la luce. «Presto», incitò Azrael. «Uccidetelo! Dobbiamo scappare da qui!» Nella voce del nano trapelò tutta la sua paura, e non solo per la minaccia costituita dall'Anello di Nebbia. Al posto dello spettro vedeva se stesso. Caradoc cercò di liberarsi dalla morsa di Soth, ma il cavaliere chiuse l'altra mano intorno alla gola del siniscalco. Gli occhi arancioni del cavaliere della morte scintillarono mentre aumentava la presa. «Non... avrete... mai... Kitiara», riuscì a mormorare lo spettro con voce soffocata. Soth scoppiò a ridere. «Non sei nella posizione giusta per potermi negare qualcosa, traditore.» Lo spettro ormai non poteva più sperare in una vita nell'aldilà migliore, ma un istante prima di morire, vide la nebbia avvolgere Soth. E capì che la vendetta aveva privato il cavaliere della morte di ogni cosa. Gli bastò. La nebbia si levò intorno a Soth nello stesso istante in cui Caradoc moriva e il suo corpo scivolava come sabbia fra le dita del cavaliere. Come
era accaduto a Dargaard Keep, la nebbia invase il mondo di Soth, accecandolo, assordandolo. Il sole, Azrael, il bosco, tutto scomparve, come se non fosse mai esistito. Per qualche breve attimo, osò sperare che la nebbia si sarebbe diradata e si sarebbe ritrovato nuovamente a Krynn, nella sala del trono carbonizzata di Dargaard Keep. Una figura apparve nella nebbia. Era coperta dalla testa ai piedi dalla scintillante armatura decorata con rose e martin pescatori, i simboli dell'Ordine della Rosa. Legata in vita portava una fusciacca, pegno d'amore della donna per cui si batteva. La fascia era azzurra come il cielo di primavera e si accordava perfettamente con il colore degli occhi che ammiccavano sotto l'elmo. Soth s'irrigidì alla vista del cavaliere. L'uomo si muoveva con la disinvolta sicurezza dell'esperto guerriero. Soltanto chi era abituato a combattere poteva muoversi con grazia nella pesante armatura. Ma un guizzo di speranza si risvegliò in Soth: la presenza di un cavaliere dell'ordine significava che aveva ritrovato la strada per Krynn! «Seguitemi», disse il cavaliere in tono fermo e sicuro. «Sono venuto a salvarvi.» Si voltò e s'incamminò nella nebbia. Soth lo seguì e dopo pochi passi la nebbia si diradò. Insieme al cavaliere dall'armatura scintillante si trovò nei pressi di una strada affollata. L'ampia via attraversava un accampamento che si estendeva fuori dalle mura del castello. Centinaia di cavalieri, sacerdoti e mercanti si dirigevano verso il maniero, dove le porte spalancate accoglievano tutti i visitatori. Il castello era in pietra color vermiglio e la sua struttura ricordava il bocciolo ancora chiuso di una rosa. Vessilli azzurri, oro e bianchi garrivano al vento e il suono di dolci melodie e di risate raggiunse le orecchie di Soth. «Dargaard Keep!» esclamò il cavaliere. Barcollò nel vedere la sua antica dimora. Il misterioso cavaliere fece un passo avanti. «Sì, Soth», disse allegramente. «Anche se Dargaard non è mai stata così, ma potrebbe diventarlo. Voi potreste riuscirci.» Una donna raggiunse il cavaliere. Era snella, dall'andatura aggraziata. I lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle come caldi raggi di sole. Un velo le nascondeva il viso, ma i suoi occhi splendevano di bellezza e serenità «Mio signore», disse, accennando un inchino. Il cavaliere dall'armatura d'argento si tolse l'elmo e baciò la donna. Soth trasalì. Quel volto era il suo, com'era stato centinaia d'anni prima. I riccioli biondi gli incorniciavano i tratti regolari del viso e i baffi erano perfetta-
mente curati. Gli occhi azzurri riflettevano pace e saggezza, tesori che Soth aveva perso molti anni prima della sua morte. E quegli occhi lo trafissero come un arpione, quando l'uomo sollevò il velo dal volto della moglie e la baciò. Isolde! Anche la donna elfo era come era stata prima dell'assedio, prima del Cataclisma. Mentre abbracciava il marito, un sorriso di gioia le illuminò il viso. Il cavaliere della morte sguainò la spada. «Che stregoneria è mai questa?» «Nessuna stregoneria», rispose Isolde, dolcemente. «Questo è un mondo dove tu hai portato a termine il compito l'incarico affidatoti dal Padre del Bene. E poiché hai salvato Krynn dall'ira degli dei, questa gente...» e indicò gli uomini e le donne che affollavano la strada, «... è venuta nella nostra casa per partecipare alla tua gloria. Ad Ansalon, molti ti onorano come il più grande Cavaliere di Solamnia. C'è chi dice che la tua stella offuscherà quella di Huma Dragonbane.» «Bah», borbottò Soth. «È tutto un'illusione e nemmeno delle migliori. Paladine mi aveva detto che avrei dovuto sacrificare la mia vita per fermare il Sommo Sacerdote.» Ciononostante, la scena che si presentava ai suoi occhi risvegliò in lui pensieri sopiti da secoli. Un tempo era stato un grande cavaliere, capace di affrontare qualsiasi sfida. Se gli dei gli avessero offerto un'altra possibilità... Isolde gli rivolse un sorriso dolce. «Sì, Soth. Gli dei del Bene sono misericordiosi. Per avere tutto questo, per avermi nuovamente, non devi fare altro che inginocchiarti davanti alla tua nuova casa e giurare di proteggerla.» «Dimostra di meritare il tuo nuovo palazzo», aggiunse il Soth mortale. «Inchinati agli dei del Bene.» La richiesta provocò nella mente del cavaliere della morte un impeto di rabbia, un'ira che cancellò le speranze per una vita nuova. «Non mi inchino davanti a nessuno», replicò. Si avvicinò a Isolde. «Stai forse mettendomi alla prova, donna? La maledizione che hai scagliato su di me non ti è forse bastata?» Isolde arretrò, ma fu il disprezzo, non la paura, a imporporarle le guance. «Hai sempre detto che tu sei l'artefice del tuo destino.» Un sorriso malvagio arricciò le labbra dell'uomo. «Hai ragione, naturalmente.» La sua spada penetrò nella spalla di Isolde e un fiotto di sangue macchiò
l'abito immacolato della donna. «E tu sei sempre stata l'artefice del tuo destino, bella Isolde», affermò Soth, mentre Isolde cadeva a terra. Una lama scintillante cozzò rumorosamente contro quella macchiata di sangue del cavaliere della morte. Soth guardò se stesso; il volto del nobile cavaliere era sfigurato dall'ira. «Prega affinché continui a vivere. Chi uccide in questo luogo è dannato per sempre.» I due incrociarono le spade, ma né il cavaliere della morte, né il suo rivale riuscirono ad affondare un colpo. Nel frattempo, il sangue di Isolde aveva impregnato il terreno sotto il suo corpo immobile. La gente per strada si fermava e guardava inorridita. I cavalieri che si trovavano a passare sguainavano le spade ma non intervenivano, poiché così voleva l'Ordine. Alcune donne cercarono di avvicinarsi per portare soccorso a Isolde, ma vennero respinte dalla furia del duello. Fu un giovane cavaliere che si lanciò fra i contendenti. «Madre!» gridò il giovane, il volto rigato di lacrime. Peradur, il figlio di Soth e Isolde, aveva la pelle chiara e i capelli così biondi da sembrare bianchi. Un'espressione compassionevole e risoluta induriva i lineamenti del sedicenne, ma gli occhi riflettevano la bontà del suo cuore. Come il padre, il ragazzo indossava l'armatura dei Cavalieri di Solamnia. Di metallo immacolato, era decorata con i simboli sacri degli dei del Bene. Peradur, tremante, si sfilò i guanti e posò le mani sulla ferita della madre. Un tenue bagliore si sprigionò dalle dita del giovane, quando sollevò al cielo gli occhi velati di lacrime. La ferita si chiuse e Isolde scivolò nel sonno. Il cavaliere della morte e il suo nemico ripresero il duello e si trovarono così vicini, che l'uomo morto avvertì il fiato caldo del rivale attraverso le fessure dell'elmo. «Hai ancora una possibilità», disse il mortale Soth. «Posa la spada.» Il cavaliere della morte spinse lontano il suo nemico e spostò lo sguardo dall'immagine distorta di se stesso al giovane... suo figlio. Le loro armature erano perfette, le spade scintillavano come rasoi. Così come lui irradiava il gelo della morte, il freddo dell'Abisso, così loro erano circondati dalla luce invisibile della forza e della vitalità. Erano modelli di virtù cavalleresca, uomini la cui bontà si rifletteva sui loro volti e nelle loro azioni. Li odiava con tutto il cuore, anche se il suo non batteva da più di tre secoli. Con un grido di rabbia, il cavaliere della morte afferrò la spada del riva-
le. La lama stridette a contatto con il guanto di cotta, ma il cavaliere aumentò la presa su di essa. Sostenuto da una forza sconosciuta ai mortali, strappò l'arma al nemico e la gettò lontano. Invece di tuffarsi per riappropriarsi della spada, il cavaliere dall'armatura scintillante si inginocchiò davanti al cavaliere della morte. Sollevò su di lui uno sguardo speranzoso. «Mi hai sconfitto in duello», disse. «Ti proclamerò vincitore se ti inginocchierai e ringrazierai per la tua forza.» Sebbene sapesse che quanto stava accadendo era una sorta di prova a cui lo sottoponevano i guardiani delle Nebbie per stabilire se fosse degno di un dominio, Soth non prese mai in considerazione la possibilità di dare ascolto alle parole della sua controparte buona. E infatti, sollevò la mano e pronunciò una parola magica che avrebbe messo fine allo scontro. Oscuri tentacoli di energia fuoriuscirono dalle dita di Lord Soth diretti verso il cavaliere in armatura scintillante. Ma prima che colpissero il bersaglio, Peradur si lanciò davanti al padre. Il suo scatto fu fulmineo e il giovane venne colpito in pieno petto. I tentacoli neri macchiarono l'armatura immacolata e ne cancellarono i simboli sacri. L'energia s'insinuò nel foro aperto nella corazza di Peradur e trovò il nobile cuore del giovane. Quando i tentacoli strapparono quel cuore, il giovane cavaliere gridò, non per la paura o il dolore, ma in reverente preghiera a Paladine. Gli occhi velati per la moglie ferita e il figlio morto, il Soth mortale prese il giovane fra le braccia, cullandolo come un bambino. «Hai perso», disse al cavaliere della morte. «Così hai creato il tuo nuovo dominio.» La folla abbassò il capo e si allontanò, divenendo sempre più eterea e immateriale. Per le strade scese il silenzio e un'atmosfera spettrale avvolse ogni cosa. Un gruppo di chierici si avvicinò per portare via Isolde e Peradur, mentre tredici cavalieri, Sir Mikel e gli altri fedelissimi che avevano seguito Soth nel tempo che aveva preceduto il Cataclisma circondarono il loro signore in scintillante armatura e avanzarono in lenta processione verso le mura color vermiglio di Dargaard Keep. L'esiguo gruppo era ormai entrato nel castello, quando una fitta coltre si stese sulla terra. Persino Soth avvertì quel gelo improvviso, che spazzò via qualsiasi segno di vita. Poi, come se avessero voluto vestirsi a lutto, le mura di Dargaard Keep divennero nere e fatiscenti. I vessilli scomparvero dalle torri e la musica e le risate vennero sostituite dai lamenti funebri delle banshee. Il cavaliere della morte sollevò lo sguardo al cielo notturno, improvvisamente comparso sul maniero. Ciò che vide gli disse che non era tornato a
Krynn, sebbene il castello che si delineava davanti a lui assomigliasse a Dargaard. Soltanto una luna splendeva nel cielo oscuro: Nuitari, la luna della magia nera. Se fosse stato a Krynn, Lunitari e Solinari, la luna rossa e quella bianca, sarebbero apparse in cielo per rappresentare l'equilibrio. Azrael se ne stava al centro della vecchia strada dissestata, scuotendo la testa. «Che cosa è successo? Siete scomparso nella nebbia, dopo di che mi sono ritrovato qui.» Indicò il cielo buio. «Anche se il sole se n'è andato! Ma allora, siamo a Krynn? Questo castello è Dargaard Keep?» «No», rispose Soth, in tono stanco. «Questo non è Dargaard Keep. Siamo a casa, ma non a Krynn.» Il cavaliere della morte si avviò lentamente verso il castello. Appena ebbe messo piede nel maniero, le banshee iniziarono a gemere la storia della sua dannazione. L'atroce storia era ora più lunga e tutti, a Barovia, Gundarak e nei ducati vicini che componevano l'aldilà, la udirono distintamente. Quella notte, Soth apparve nei loro incubi per non andarsene mai più. EPILOGO Gli anni scorrevano lentamente per Lord Soth. Battezzò il suo nuovo castello Nedragaard, un'antica parola solamnica il cui significato era "non Dargaard". Il nuovo maniero era infatti molto simile a quello su Krynn, sebbene non passasse giorno in cui il cavaliere della morte non scoprisse delle discrepanze. La maggior parte erano dettagli insignificanti, quali porte intatte che avrebbero dovuto essere disastrate o camminamenti lievemente più corti della lunghezza originale, ma per un essere che non aveva bisogno di dormire, che per trecento anni aveva vagato per le sale e i corridoi della sua casa a Krynn, ogni incongruenza si scontrava dolorosamente con i ricordi. C'erano anche differenze importanti. Tredici scheletri guerrieri piantonavano le mura di Nedragaard Keep, come i tredici leali guerrieri che avevano servito Soth a Krynn, ma a differenza di questi ultimi non facevano la guardia nel punto in cui erano morti. Vagavano liberamente per la fortezza, in attesa di quel nemico che non arrivava mai. Anche le banshee erano giunte a Nedragaard, ma la loro memoria sembrava essere stata infettata. Ogni sera ripetevano in modo diverso la storia di Soth; a volte dimenticavano dei versi o aggiungevano avvenimenti mai accaduti, facendo infuriare il cavaliere della morte. Ma per quanto lui sbraitasse, le banshee non cantavano mai la stessa storia.
Il passato era stata l'unica fonte di consolazione rimasta al cavaliere della morte; il dolore dei ricordi era stata l'unica cosa che potesse pungolare i suoi sensi assopiti e risvegliare in lui una parvenza di umanità. E ora gli bastava lasciare vagare lo sguardo nel fatiscente castello o ascoltare i lamenti delle banshee, perché il passato rivivesse in lui; ma il dolore provocato da quei ricordi e il bruciante desiderio che provava per ciò che aveva perso non risvegliava più i suoi sensi, li indeboliva. E così Lord Soth se ne stava seduto sul trono, indifferente al vento gelido e sferzante che s'infilava dalle brecce nelle pareti. Non sentiva i passi di stivali dalle suole di ferro sul pavimento di pietra, né i gemiti delle banshee. Ed era solo quando Azrael si inginocchiava davanti al trono sbriciolato dai vermi, che Soth si accorgeva della sua presenza. «Che notizie mi porti, siniscalco?» domandò Soth, la voce spenta, priva di emozioni. Il nano si alzò. Indossava pantaloni sporchi di fango e una cotta di maglia, bagnata dalla pioggia e dal sudore. «Mi spiace, mio signore», azzardò timidamente. «Non ho trovato traccia di un accampamento Vistani.» Soth sospirò. Negli ultimi mesi, correva voce che un clan di Vistani viaggiasse nel suo dominio. Il loro capo era una donna che affermava di possedere un potente talismano: la mazza del grande eroe Kulchak il Vagabondo. Gli zingari si guadagnavano da vivere raccontando storie alle tribù elfiche sparse per il paese. La maggior parte di queste leggende parlavano di Soth, o di un cavaliere in armatura d'argento che assomigliava molto al signore di Nedragaard Keep. Soth era certo che Magda fosse sopravvissuta e avesse creato quel clan; la storia che la ragazza raccontava sul valoroso cavaliere che aveva salvato il loro capo dal wyrm a guardia del castello di Ravenloft era per lui una prova più che esauriente. «E l'altra?» incalzò Soth. Affondò le dita nel trono, facendo schizzare ovunque schegge di legno. «Anche la donna dai capelli scuri e il sorriso astuto vaga per le colline», riferì Azrael. «Gli elfi dicono che si faccia chiamare Kitiara. Afferma che è stata il vostro destino, che avete seguito la sua voce nelle nebbie che vi hanno trascinato qui.» Soth batté il pugno sul trono. «Voglio che tu uccida chiunque osi mettere in giro simili voci!» gridò. «Io ho forgiato il mio destino. Io sono la causa della mia dannazione.» Negli ultimi anni, il cavaliere della morte aveva ripetuto spesso quelle parole, ma sapeva che erano una menzogna. C'erano esseri nell'oscurità
che possedevano poteri ben maggiori del suo. Lui era il padrone di Nedragaard Keep e signore di un ducato persino più grande di quello di Barovia. Ma gli elfi chiamavano Sithicus il dominio di Soth, un termine che nelle loro lingua significava "terra degli spettri". E sebbene non l'avrebbe mai ammesso, Soth sapeva che nessun altro nome si addiceva di più per il suo regno di ombre. FINE