JAMES LOWDER & VORONICA WHITNEY-ROBINSON LO SPETTRO DELLA ROSA NERA (Spectre Of The Black Rose, 1999) A Sid e Dorie Davi...
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JAMES LOWDER & VORONICA WHITNEY-ROBINSON LO SPETTRO DELLA ROSA NERA (Spectre Of The Black Rose, 1999) A Sid e Dorie Davidson, per il loro sostegno e incoraggiamento. JDL A Jim, che mi ha trascinato nel mondo dell'oscurità. E a Roderik, marito e mio unico cavaliere scuro, che amo oltre misura. VWR 1 La storia di Lord Soth portò Gesmas Malaturno a Sithicus. Come la maggior parte dei viandanti che entravano in quella terra di spettri, restò invischiato nella storia del cavaliere tre volte maledetto come mai avrebbe immaginato. E non è poco, poiché Gesmas era un uomo dalla fervida immaginazione. La capacità di individuare angoli dove gli altri vedevano solo solide pareti si era manifestata presto in Gesmas. Ancora bambino, aveva ideato un sistema di terrazzamento che aveva permesso al padre di triplicare i vigneti. La famiglia riteneva tali idee geniali, una sorta di compensazione per la gamba deforme con la quale era nato. Gesmas non si poneva domande né sulla gamba né su quelle improvvise illuminazioni mentali che rendevano il mondo così chiaro. Non le comprendeva ma capiva che entrambe, a modo loro, gli erano utili. Circa tre anni prima che giungesse nel dominio di Lord Soth, la gamba deforme lo salvò dall'arruolamento nella fanteria di Malocchio Aderre. Era infatti quello il fatale destino che attendeva gli uomini di quella terra, obbligati a lanciarsi nelle ambiziose campagne di Aderre contro le fazioni ribelli all'interno di Invidia e gli eserciti dei potenti signori dei domini. Lo stesso Aderre affrontava i misteriosi e arcigni tiranni che regnavano nelle terre intorno a Invidia: Alfred Timothy di Verbrek e Ivana Boritsi di Borca, il conte Strahd von Zarovich, signore di Baronia e, il più enigmatico di tutti, Lord Soth di Sithicus. Per loro, gli uomini non erano niente più che
monete da spendere a loro piacimento. Per colpa di quello stesso difetto fisico che gli impedì di entrare nell'esercito, Gesmas avrebbe dovuto ritrovarsi con un cappio intorno al collo e il suo cadavere avrebbe dovuto servire da monito per tutti coloro che non incarnavano il feroce spirito di conquista di Lord Aderre. Il gruppo di soldati incaricato dell'arruolamento forzato che lo giudicò inabile preparò il cappio. Quando i militari esaminarono il crocicchio dove avevano radunato uomini e donne perché assistessero all'esecuzione, non trovarono nemmeno un albero che potesse sostenere un cadavere. Mentre i soldati cercavano fra la boscaglia, come se in quella bassa vegetazione potesse esservi nascosta un'alta quercia, Gesmas ebbe un'intuizione che gli salvò la vita. La soluzione gli giunse in modo del tutto naturale, sebbene inspiegabile. In quei momenti era come se la sua mente osservasse il mondo indipendentemente da lui, elaborando dettagli a velocità inimmaginabile per poi sfornare un'idea in modo del tutto autonomo dalla mente cosciente di Gesmas. Se quest'ultimo si fosse soffermato a esaminare tale idea, a contestarne la logica generale, la soluzione avrebbe perso la propria chiarezza e lui non sarebbe stato in grado di esprimerla a parole. Soltanto in un secondo tempo, dopo avere offerto la risposta la cui ingegnosità era divenuta ovvia, poteva studiarne l'ordito. Così accadde per l'idea che gli consentì di sfuggire al cappio del boia. A tutti i presenti era chiaro che il capitano del gruppo di soldati non vedeva l'ora di risolvere la questione per potere poi raggiungere la più vicina città prima del calare delle tenebre. Il suo nervosismo era evidente. Alcuni agricoltori vociferavano di licantropi che si aggiravano nel vicino bosco di Mantle. I soldati parlavano di creature ancora più mostruose che infestavano le rive del fiume Gundar dopo il tramonto. Gesmas sospettava che quelle voci corrispondessero alla verità. Era certo che i soldati non avrebbero raggiunto in tempo il porto sicuro del villaggio di Valetta se fossero rimasti lì ancora a lungo. «Ho un'idea», disse Gesmas al capitano. «Vi aiuterà.» In sella al suo destriero, il capitano Dandret abbassò lo sguardo. Dall'espressione del suo viso non era chiaro se fosse sconvolto per ciò che Gesmas aveva detto o per il semplice fatto che il condannato avesse parlato, e a lui. Non aveva importanza. La sua reazione sarebbe comunque stata la stessa. Colpì Gesmas con una violenta scudisciata. Gocce di sangue schizzarono ovunque. Il giovane si girò verso il capitano, mostrando un taglio che dalla tempia gli arrivava al mento. Sentì il
sapore del sangue sulle labbra, ma non indietreggiò. Se il militare avesse visto che era ferito, lo avrebbe giudicato inoffensivo. «Posso salvarvi la vita», affermò Gesmas in tono tranquillo. Zoppicò verso il soldato a cavallo. «Vi prego di ascoltarmi, o non arriverete sani e salvi al villaggio.» «Suona come una minaccia. E un uomo condannato non è nella posizione giusta per minacciare», sentenziò il capitano Dandret. Il rozzo accento dell'entroterra tradì le umili origini dell'uomo. «Non puoi certo affrontarci tutti quanti e quei poveracci non ti saranno d'aiuto.» Con un cenno del capo Dandret indicò le due dozzine di spettatori assiepati alle sue spalle e con voce sprezzante aggiunse: «Esseri spregevoli senza fegato». Gesmas li conosceva tutti: l'irascibile fratello maggiore, un paio di bambinetti accorsi dalla fattoria vicina, una piccola folla di raccoglitori che lavoravano nella proprietà di famiglia. C'era anche uno dei suoi cani, l'unico a sembrare rattristato per l'imminente esecuzione. I suoi genitori non avevano nemmeno cercato di ribellarsi e, accettata la condanna, se n'erano tornati a lavorare, senza però impedire ai servi di assistere allo spettacolo. Questi ultimi erano in prima fila, soddisfatti e sghignazzanti. Quell'impiccagione era la prova che il Fato si accaniva sui ricchi quanto sui poveri. Gesmas riconobbe il loro silenzioso piacere, ma al capitano disse: «Hanno troppa paura per alzare un dito su di voi, su un soldato della vostra fama». Come il giovane aveva previsto, quelle ultime parole gonfiarono l'ego di Dandret, che osservò il condannato con nuovo interesse. Gesmas, naturalmente, non aveva mai sentito parlare del capitano. I capi di quei distaccamenti di uomini incaricati dell'arruolamento forzato vivevano poco più a lungo dei fanti che reclutavano. Ma tutto in quell'uomo parlava di boria e presunzione: dal modo rigido e imperioso con il quale stava in sella, ai precisi rattoppi dell'uniforme di seconda mano. Un tipo più sveglio avrebbe inteso le parole di Gesmas come un chiaro preludio all'adulazione. Un tipo più furbo avrebbe anche capito che, per quanto lo si spazzolasse, un ronzino non si sarebbe mai trasformato in un possente destriero. Il capitano tirò bruscamente le redini, cercando di mettersi tra il giovane e il sole calante. Se in quei luoghi conoscevano la sua reputazione, intendeva sostenere la parte magistralmente, offuscando la luce come l'eroe delle leggende che il padre un tempo gli raccontava. Ma il cavallo rifiutava di collaborare e quando finalmente destriero e cavaliere ebbero faticosa-
mente compiuto un giro su loro stessi e furono nuovamente davanti a Gesmas, era ormai troppo tardi. «Allora», disse il capitano in tono irritato, «sputa». «Trascinatemi», affermò Gesmas. Quella era la soluzione che gli era balenata alla mente e che, secondo lui, avrebbe dovuto salvarlo da quella spiacevole situazione. Gesmas non sapeva esattamente come, ma era sicuro che avrebbe funzionato. Ora che vi aveva dato voce, non gli restò che osservare la reazione dei presenti. Il capitano Dandret lo fissò, in attesa di altri dettagli. Gesmas non fiatò. Il militare sembrò sul punto di colpire nuovamente il giovane ma, fortunatamente, venne distratto dalla domanda di un sergente. «Trascinarlo, dove?» «Ma è chiaro. Ovunque siamo diretti», rispose uno dei soldati. «Invece di impiccarlo.» Il drappello di militari e gli spettatori si erano avvicinati, formando un semicerchio intorno a Gesmas e Dandret. I contadini annuirono lentamente, quasi partecipassero alla discussione. «È pratico», commentò uno di loro. «Altrimenti resterebbero qui tutta la notte alla ricerca, per altro inutile, di un albero. Non ce ne sono per miglia e miglia.» «E perché?», chiese un soldato. Nel rispondere, il villano abbassò gli occhi in segno di rispetto. «Perché i contadini tagliano ciò che cresce vicino alla strada, signore. Gli alberi caduti sono facili da trascinare nelle loro proprietà.» Il sergente si sfregò il mento, coperto da una rada barbetta. «È impazzito. La paura di morire l'ha fatto uscire di senno», affermò infine. «E allora perché propone un modo peggiore per andarsene all'aldilà?» obiettò il capitano, parlando più a se stesso che agli altri. Corrugò la fronte mentre rifletteva sulla proposta di Gesmas e ne cercava difetti o pericoli nascosti. Naturalmente, non ne trovò uno. Quello era il punto: la soluzione era perfetta nella sua semplicità e avrebbe risolto splendidamente il problema dei militari. Inoltre, era altruista, una parola il cui significato era sconosciuto a Dandret. Il sergente afferrò il cappio che teneva in spalla. «Perché perdete tempo ad ascoltarlo, capitano? La legge dice che i traditori devono essere impiccati.» «Usate la fune per trascinarlo», suggerì uno dei bambini. «Uccidetelo e basta. Sta cercando di ingannarvi», sbottò Fayard, colui che Gesmas aveva la sfortuna di chiamare fratello. Il suono di quella voce
colma d'odio bastò a far guaire e scomparire lungo il ciglio della strada il cane di Gesmas. «Tutti sanno che è posseduto da qualche creatura demoniaca, altrimenti come si spiegherebbero quelle strane idee che gli vengono?» Fayard si voltò verso i presenti. «Forza, diteglielo.» Una giovane donna borbottò parole incomprensibili che avrebbero potuto essere intese sia come una conferma sia come una negazione dell'affermazione del giovane. Il capitano decise per la prima. Gli era più semplice comprendere e accettare un essere posseduto dal demonio che uno che agiva con spirito altruistico. «Ne ho abbastanza. Lo porteremo al villaggio e domani lo consegneremo alla Commissione d'Inchiesta, che si occuperà del caso.» Il sergente si ribellò. «Uccidiamolo qui. O se volete, trasciniamolo fino a Karina. Ma teneteci lontani dalla Commissione d'Inchiesta. Odio quei giudici e l'idea di dover testimoniare davanti a loro mi fa vomitare.» Un mormorio di approvazione da parte degli altri militari, di Fayard e di alcuni contadini accolse le parole del sergente. Gesmas restò in silenzio. Il suo suggerimento aveva compiuto il miracolo, cambiando completamente lo scenario. Ma perché la sua strana offerta continuasse ad alimentare la paranoia di Dandret, Gesmas sapeva di dover tenere chiusa la bocca. Fu una mossa saggia, poiché la questione non era ancora risolta. Con un grido, il capitano zittì militari e civili. Il sergente, tuttavia, non intendeva demordere. Agitò il cappio sotto il naso di Dandret e urlò: «Questi bifolchi si stanno prendendo gioco di noi! Se non facciamo il nostro dovere e non uccidiamo questo stupido, diventeremo lo zimbello dell'intera regione». Dandret non rispose, limitandosi a fissare con espressione perplessa il sottoposto. Il sergente interpretò quel silenzio come un'abdicazione al comando. La fune in mano e uno sguardo omicida negli occhi, si voltò verso Gesmas. Fece un passo avanti, sussultò e cadde a faccia in giù nel fango. Con un cenno del capo il capitano Dandret ordinò a uno dei soldati di recuperare il pugnale conficcato nella schiena del sergente. «Il prigioniero salirà sul cavallo vuoto», disse l'ufficiale facendo scivolare il pugnale in una guaina agganciata allo stivale. «Legate il sergente a un cavallo. Proveremo quest'idea del trascinamento fino a Valetta.» Fu così che Gesmas sfuggì al cappio del boia e lasciò la Proprietà Malaturno. Il suo cane lo seguì correndo, schivando i sassi lanciati da Fayard, che non aveva il coraggio di tirarli contro i soldati. Il fedele bastardino era ormai senza fiato quando il drappello di soldati raggiunse il villaggio di
Valetta. Per riposarsi si accucciò fuori dalla prigione dove Gesmas venne rinchiuso, in attesa dell'arrivo dei rappresentanti della Commissione d'Inchiesta. I quattro giudici percorrevano in lungo e in largo le terre di Invidia, raccogliendo testimonianze su casi di tradimento, stregoneria e qualsiasi arcano episodio che coinvolgesse le tribù nomadi di ladri e indovini conosciuti come Vistani. Ovunque andassero, i giudici arrivavano a mezzanotte. I quattro carri che costituivano la tetra carovana ripartivano sempre prima dell'alba. Tra una visita e l'altra allo stesso villaggio solitamente trascorreva un mese, anche se una questione urgente poteva fare ritornare i giudici anche subito. Il caso di Gesmas presentava le caratteristiche di una questione di primaria importanza e i membri della Commissione d'Inchiesta arrivarono per interrogarlo quella stessa notte. Il processo fu breve. Nella quasi totale oscurità, il capitano Dandret, alcuni soldati e lo stesso Gesmas parlarono ai giudici. Questi ultimi indugiarono nella penombra della prigione, ponendo poche domande con voce così monotona da risultare inquietante. Soltanto una volta, al termine del processo, Gesmas intravide un volto: niente occhi né orecchie e per naso due piccole aperture posizionate sull'apertura più grande e mobile della bocca. «Servizio», disse la bocca. Gli altri giudici confermarono la sentenza con la stessa identica voce, con lo stesso tono severo. Era una delle due sentenze previste dall'Inquisizione e decisamente più rara dell'altra: morte. I giudici riconobbero il talento di Gesmas per quello che era, intuendone anche il potenziale valore per Lord Aderre. Al capitano Dandret venne ordinato di scortare Gesmas al castello di Toupet, dove il giovane sarebbe diventato un consigliere del signore di Invidia. Fu così che Gesmas sfuggì alla morte ed entrò al servizio di Lord Aderre come suo fidato inviato, un gentile eufemismo per il termine più crudo di spia. Nel giro di un anno, Gesmas aveva viaggiato in lungo e in largo e aveva visto cose meravigliose e terribili che di tanto in tanto lo ossessionavano come incubi notturni. Aveva vagato per le sale in rovina del castello di Tristenoira e aveva visto la bestia che dimorava sotto quella fortezza infestata da fantasmi. Era sfuggito alla furia omicida del golem Adam e aveva condiviso il pane con le tre streghe di Tepest, i cui ospiti spesso riposavano sopra il tavolo piuttosto che intorno. Gesmas era stato salvato più di una volta da quelle intuizioni improvvise, che Lord Aderre gli aveva insegnato a interpretare con maggior attenzione. Non aveva alcun controllo sulla tempestività delle visioni, che spes-
so rivelavano schegge di verità sulle singolari terre e gli spaventosi individui che incontrava al servizio del signore di Invidia. Così fu, fino a quando mise piede a Sithicus. Dal momento in cui oltrepassò il confine, il dominio di Lord Soth confuse Gesmas. Nei pochi giorni in cui vagò per quella terra soffocata dalla foresta, alla ricerca delle origini del suo misterioso signore, prese una decisione sbagliata dopo l'altra. L'errore peggiore lo commise al Guardiano di Ferro, una fatiscente taverna. Il proprietario di quella catapecchia riuscì quasi a convincerlo ad acquistare la locanda, un errore che avrebbe pagato con la vita, poiché Lord Soth in persona utilizzava quel luogo per reclutare ignari generali per le sue scaramucce contro gli spietati elfi delle Colline di Ferro. L'istinto aveva spinto Gesmas a fidarsi dell'oste. Soltanto la soddisfazione maligna della moglie di quest'ultimo, che farneticava sulle atrocità che gli elfi avrebbero inflitto al nuovo proprietario della locanda, lo salvarono in extremis dalla trappola. E ora, alla luce del crepuscolo, sulla strada del ritorno verso Invidia, Gesmas si chiese se avesse esaurito il proprio talento. Ma forse si era semplicemente stancato di fare la spia. Non si divertiva più a distruggere i nemici di Invidia. Prese in considerazione l'idea di abbandonare il proprio incarico e di intraprendere il lavoro per il quale sapeva di essere tagliato. Ma Lord Aderre non avrebbe permesso che Gesmas diventasse addestratore di cani nel castello di Loupet o in qualsiasi altra proprietà. Aderre trovava ridicola la passione della spia per gli animali. Aveva riso di gusto davanti alle lacrime del giovane quando l'amato segugio aveva perso ogni interesse nella vita lasciandosi morire durante una delle lunghe assenze del suo padrone. «Stupefacente», aveva commentato Aderre. «Hai tagliato la gola a decine di uomini, preoccupandoti solo che gli schizzi di sangue non ti macchiassero la giubba, e adesso piangi calde lacrime per la morte di uno stupido cane. L'incarico che ti ho affidato ti si addice di più, Gesmas. Siine felice.» No, rifletté Gesmas amaramente raggiungendo la cima di una salita, se Lord Aderre vuole che indossi il mantello della spia non riuscirò mai a fargli cambiare idea. Il sentiero scendeva fino a una valle e terminava a un vecchio ponte di pietra, che si estendeva sulle Lacrime di Vedova, un ramo del fiume Musarde. Al di là di esso iniziavano le terre di Aderre. Gesmas si lasciò sfuggire una sommessa imprecazione. C'era qualcosa in mezzo al ponte. La luce della sera gli impedì di vedere chiaramente e Gesmas scambiò
l'essere per un animale, un cucciolo d'orso o forse un cinghiale. La bestia si sarebbe defilata appena il cavallo si fosse avvicinato, pensò il giovane, ma per prudenza sguainò la spada. Giunto ai piedi della collina, si accorse che la figura era in piedi su due gambe. A cinquanta metri, comprese che quella creatura era troppo bassa per essere un uomo o un elfo e troppo muscolosa e grossa per essere un bambino. Forse era un nano. «Oh, no», mormorò. «Azrael.» Tirò bruscamente le redini. Il cavallo indietreggiò di scatto, facendolo quasi scivolare di sella. L'elaborato sostegno forgiato dal fabbro del castello di Loupet permetteva a Gesmas di cavalcare, ma non compensava totalmente la debolezza della gamba deforme. Mentre lottava per riprendere il controllo dell'animale, il giovane perse la spada. Non si fermò per raccoglierla. Quell'arma non gli sarebbe servita a niente, non contro Azrael. «Arrenditi», gridò il nano dal ponte. «Non hai scampo.» Gli alberi su entrambi i lati della strada erano troppo fitti per consentire a un uomo a cavallo di infilarsi nel bosco senza venire accecato o disarcionato da un ramo basso. Gesmas decise che l'unica possibilità di fuga era tornare sui propri passi, mettere sufficiente distanza fra sé e il nano per riuscire a smontare da cavallo e inoltrarsi nella foresta a piedi. Con un po' di fortuna avrebbe raggiunto il confine in un altro punto lungo il fiume o avrebbe seguito un sentiero dimenticato nel bosco. Se fosse riuscito a toccare il suolo di Invidia, la magia di Lord Soth non avrebbe potuto nuocergli. E i tirapiedi di quell'oscuro tiranno ci avrebbero pensato due volte prima di attraversare il confine e attirare su di loro le spiacevoli attenzioni di Malocchio Aderre. Gesmas girò il cavallo e lo spinse al galoppo. Il rumore degli zoccoli, lo sferragliamento dei finimenti e del sostegno per la gamba e il battito quasi assordante del suo cuore avrebbero dovuto impedire a Gesmas di sentire gli altri cavalieri, ma non fu così. Il tonfo di zoccoli al galoppo risuonò cupamente nella valle e due cavalieri apparvero sulla sommità della collina proprio mentre Gesmas iniziava la salita. Il mondo sembrò rallentare, il tempo stesso si fermò alla vista delle orripilanti creature gemelle. Mani scheletriche stringevano le redini di cavalli che a ogni passo perdevano brandelli di carne putrida. Armature annerite sbattevano su costole prive di carne. Le visiere sollevate degli elmi lasciavano intravedere volti scheletrici. Le bocche senza denti erano sollevate in sorrisi malvagi. Gesmas non ebbe bisogno di spronare nuovamente il cavallo per farlo
girare, poiché l'animale, terrorizzato dai due cavalieri, fece dietrofront spontaneamente e si diresse verso il ponte. I non-morti li seguirono. Se avesse potuto scegliere, Gesmas avrebbe preferito affrontare i cavalieri piuttosto che Azrael. Nutriva un sacro terrore per le creature come il nano, o per ciò che il nano si diceva fosse, sempre che le voci fossero vere. Persino i generali di Malocchio lo avevano messo in guardia contro Azrael. Quest'ultimo era imprevedibile, un essere capace di trasformare un semplice atto di spionaggio in una scusa per dichiarare guerra. A Gesmas non restò che sperare che le storie sul nano fossero pura fantasia, poiché ormai non gli era più possibile fermare il cavallo. L'animale aveva avvertito il puzzo di morte emanato dai due non-morti. «Che il fato mi assista», mormorò il giovane lanciando il cavallo al gran galoppo. Gli stivali dai rinforzi di ferro di Azrael sprizzavano scintille ogni volta che toccavano il terreno pietroso. Senza rallentare il passo, il nano chiuse le mani a pugno. Le braccia gli caddero pesantemente lungo i fianchi come rami rotti; lunghi artigli fuoriuscirono dalla punta delle dita. L'andatura pesante divenne improvvisamente più rapida e agile. Sul volto e sulle braccia spuntarono ciuffi di ispido pelo grigio e nero. Un grido di dolore e al contempo di piacere eruppe dalle labbra della creatura. Il corpo del nano venne scosso da terribili fremiti, le ossa del cranio assunsero una nuova forma e la creatura diabolica si trasformò in un orripilante incrocio fra un nano e un tasso. Quando Azrael raggiunse l'estremità del ponte, la trasformazione era ormai completata. Un istante dopo, cavallo e cavaliere erano su di lui. Gesmas cercò di dirigere al meglio la folle galoppata del cavallo, sperando di spingere il nano di lato o addirittura di calpestarlo. Per un brevissimo istante, si illuse di potercela fare. Azrael cadde sulla schiena appena il cavallo fu sopra di lui. L'animale balzò in avanti e Gesmas trasalì. La via era libera. Il confine e la salvezza erano a pochi metri da lui. La felicità fu di breve durata. Quando la spia girò la testa con la speranza di vedere il corpo spiaccicato del licantropo, il cavallo crollò sotto di lui. Lo sfortunato animale nitrì una volta, quindi si abbatté al suolo. Gesmas venne sbalzato via. La sella, improvvisamente priva di cinghie, e le bisacce schizzarono insieme a lui, atterrando in un groviglio al centro della campata del ponte. Gesmas sollevò il capo da terra e lanciò un'occhiata al cavallo. L'animale
era diviso in due dalla testa alla coda. La carcassa giaceva sopra Azrael, che cercava di liberarsi dal macabro garbuglio. Gli artigli del licantropo erano rossi di sangue, come la pelliccia del mostruoso muso. Azrael emise un grugnito di rabbia, un suono orribile pari soltanto al fragore prodotto dai non-morti che si avvicinavano al galoppo. Gesmas iniziò a strisciare. Strappò dal polso un piccolo medaglione. La filigrana d'argento luccicò timidamente, proprio come aveva fatto il giorno in cui Malocchio Aderre aveva donato il monile alla spia. Ora, nel momento del bisogno, Gesmas lo portò alle labbra e invocò l'incantesimo di cui era portatore. «Lord Aderre, aiutatemi!», gridò. «Ho ciò che volete. Ho la storia di Soth.» Guardò verso l'estremità del ponte e là, avvolto nella penombra, vide Malocchio Aderre. Coperto da un lungo mantello nero, sembrava un tutt'uno con l'oscurità. Con gesto impaziente incrociò le braccia sul petto. Una leggera brezza agitò la selvaggia massa di capelli neri, scoprendogli gli occhi. Le orbite scure brillarono su un volto pallido. «Dammele», gridò. «Presto.» Gesmas afferrò le bisacce, piene all'inverosimile di pergamene e fogli di appunti sul signore di Sithicus. La spia sollevò le sacche e improvvisamente scese il silenzio. Gli ululati di Azrael, il rombo dei cavalieri della morte, persino il sordo mormorio del fiume, si acquietarono contemporaneamente. Un rumore soffuso e fastidioso riempì subito il vuoto. Era una voce, profonda e cupa come un abisso senza fondo. Scosse l'anima e gelò il sangue. Gesmas restò immobile, paralizzato. «Che cosa senti?», urlò Malocchio Aderre, ma il suo servo non poteva rispondere. Il ronzio era divenuto un lamento, un canto funebre che parlava di fede infranta e amore dimenticato. Era la storia di Lord Soth, cantata dallo stesso cavaliere, colui che era tre volte maledetto. Le parole di quella triste canzone raggiunsero la linea di confine, ma non si spinsero oltre. Si fusero in steli spinosi che si allungarono verso il cielo. A ogni nuovo lamento, gli steli si spingevano verso l'alto, sormontati da boccioli ancora chiusi. A un tratto, la voce divenne stridente, la storia confusa. Gli ordinati steli si aggrovigliarono. Le spine provocarono profondi tagli nel legno, da cui cominciarono a colare lacrime dense, viscose. Gesmas sentì che la canzone metteva radici nella sua mente. La melodia allungò sottili tentacoli nei suoi pensieri, che riportarono a galla ricordi che la spia aveva accuratamente murato e sfiorarono le sue gesta più terribili e i riflessi orribili e morbosi che le circondavano e alla fine, si dissetarono
della loro viltà. Il bisogno di espellere quel veleno sopraffece Gesmas, che a sua volta iniziò a cantare. I suoi crimini e quelli di tutte le anime che abitavano in quella terra di spettri crearono una spaventosa melodia che gonfiò i boccioli in cima agli steli fino a farli schiudere. Rose nere, i cui petali celarono il cielo e diffusero nel mondo il profumo della corruzione. 2 Occhi famelici e spettrali seguirono il passaggio del carro di Azrael lungo la strada che conduceva a Nedragaard Keep. Niente balzò fuori dalla foresta immersa nell'oscurità né strisciò dalle maleodoranti paludi che delimitavano il cammino. Le creature che infestavano le regioni selvagge di Sithicus riconoscevano il suono del calesse del nano. Il carro a due ruote era corazzato con i denti dei nemici sconfitti da Azrael. Zanne e molari tintinnavano nervosamente a ogni buca della strada, mettendo in guardia chiunque corresse il rischio di scambiare Azrael per un viandante qualsiasi. Non che fossero in molti a frequentare le strade secondarie di Sithicus. Le tre principali città della regione, Mal-Erek, Hroth e Har-Thelen, erano autosufficienti. Gli elfi che vivevano in quei luoghi grigi e malinconici rifuggivano il commercio, anche con quelli della loro razza. La peste, che dilagava nella contea da più di vent'anni, aveva spinto le città a chiudersi in un totale isolamento. Peraltro inutile, poiché la Febbre Bianca - come era anche chiamata la malattia - non aveva arrestato la propria avanzata e colpiva indifferentemente città e campagne, a volte portandosi via una sola anima, altre villaggi interi. A un incrocio lungo la strada, Azrael notò uno dei segni più tangibili della presenza della Febbre Bianca a Sithicus. Gli zoccoli dei cavalli e le ruote del calesse frantumarono ossa e sollevarono nuvole di bianca polvere soffocante. Persino in punti isolati come quello non mancavano i poveri scheletri di dozzine di cadaveri. Nel corso delle epidemie più gravi, i crocevia principali erano intasati da un numero così alto di corpi che soltanto i carri più massicci riuscivano a passare. Le strade restavano bloccate fino a quando animali famelici trascinavano i cadaveri in punti a loro più accessibili. Non molto tempo dopo il dilagare dell'infezione a Sithicus, contadini superstiziosi avevano iniziato a legare i malati e i morenti all'incrocio fra
due strade. I corpi venivano picchettati con i quattro arti indicanti quattro direzioni diverse, nella speranza di confondere gli spiriti del flagello che si riteneva portassero la malattia. La gente di città, più sofisticata, giudicava quell'usanza una stupida credenza ed era convinta che la Febbre Bianca si diffondesse attraverso la vista, poiché gli occhi delle vittime fuoriuscivano grottescamente nelle ore che precedevano la morte. Anche loro abbandonavano i cadaveri ai crocevia, pur non puntellandoli. Preferivano decapitare i malati, infilare quindi la testa in un sacco di tela ruvida e disporla sopra il tronco del cadavere. Negli ultimi mesi, i due gruppi avevano adottato le reciproche misure di sicurezza, così ora i moribondi venivano decapitati e i loro resti si allungavano in quattro direzioni. «Sono l'unico indenne», commentò Azrael, quando il calesse schiacciò un teschio. Si voltò per lanciare un'occhiata soddisfatta al prigioniero e aggiunse: «Ho combattuto la Febbre Bianca per tre anni. Alla fine ha dovuto dichiararsi sconfitta. La peste ha ucciso migliaia di uomini, ma non può uccidere me». Gesmas si limitò ad annuire. Le cicatrici sul volto del nano indicavano i punti dove erano comparse le pustole tipiche della seconda fase della malattia. Una lunga battaglia contro l'infezione avrebbe anche spiegato perché Azrael, in alcune delle storie che Gesmas aveva sentito, veniva descritto come piegato dalla vecchiaia. La malattia risucchiava infatti il colore della pelle e dei capelli, facendo apparire la vittima invecchiata prima del tempo. Vent'anni prima, quando la peste era ancora sconosciuta, i suoi effetti sarebbero stati confusi con quelli dell'anzianità. Ma Azrael non aveva rivelato a Gesmas il proprio trionfo sulla Febbre Bianca per aiutare quest'ultimo a comprendere meglio la storia di Sithicus, ma semplicemente per sottolineare la situazione disperata del prigioniero. Ciò che voleva dire era: se la Morte in persona non è in grado di sconfiggermi, che possibilità può mai avere una spia con una gamba deforme? Precauzione del tutto inutile, poiché dall'istante in cui aveva riaperto gli occhi, Gesmas si era reso conto della natura disperata della propria condizione. Catene arrugginite gli bloccavano le mani dietro la schiena e una fune avvolta intorno a un anello di metallo conficcato sul fondo del calesse gli legava i piedi. Non poteva alzarsi e riusciva a mettersi seduto solo quando Azrael faceva rallentare il cavallo, cosa accaduta soltanto due volte durante la folle corsa sulla strada solitaria. Quando il giovane riuscì finalmente a guardarsi intorno, scoprì che i due scheletri guerrieri li seguivano mantenendo la distanza sufficiente per acciuffarlo nel caso fosse riuscito a
liberarsi dalle catene e a saltare dal carro. Il suo infallibile istinto non gli suggeriva alcuna via d'uscita. Quel luogo aveva accecato il suo sesto senso, oscurandolo come la luna nera Nuitari oscurava le stelle mentre saliva nel cielo notturno. Gesmas fissò la cupola vellutata della notte. Le costellazioni erano per lui un mondo sconosciuto, ma a un tratto scorse un vuoto dove forse avrebbero dovuto esserci degli astri. «C'è la luna piena questa notte?» domandò, sapendo che il nano gli avrebbe sicuramente dato una risposta, anche se non pertinente alla domanda. Azrael sembrava odiare il silenzio. «Da ciò che hai confessato nella canzone», rispose il nano, «dovresti essere in grado di capirlo da solo». Gesmas sentiva ancora l'amaro sapore del lamento funebre, sebbene non ricordasse niente dal momento dell'inizio del canto al momento in cui si era accorto di essere prigioniero, e già a mille miglia di distanza dal confine. «Non so di che cosa tu stia parlando», replicò. «Te l'ho già detto: non sono nessuno. Un semplice bardo in cerca di storie.» Azrael frustò il cavallo con furia selvaggia, sebbene l'animale non avrebbe potuto correre più speditamente nemmeno se gli fossero spuntate le ali. «Ti conviene cambiare ritornello», suggerì il nano. «Non ho mai conosciuto un bardo che si reputi "nessuno". Inoltre, quale cantastorie potrebbe essere così importante da spingere Malocchio Aderre ad apparire dopo un solo grido d'aiuto? In realtà, non me ne importa niente. Ciò che non sopporto...» Di punto in bianco, il nano sferrò un calcio indietro. La suola di ferro dello stivale colpì Gesmas al petto. «... è la modestia.» Il tono di Azrael era privo di rabbia, particolare che disorientò il prigioniero ancora più dell'inatteso attacco. «Hai confessato alcune azioni piuttosto raccapriccianti», continuò il nano, come se la conversazione avesse luogo intorno a una tavola imbandita. «Non sono in molti a riuscire a sopportare massacri e spargimenti di sangue con la tua indifferenza. Scommetto che non ti sei mai pentito degli assassini, delle torture e di tutto il resto.» «Non ho fatto niente di cui vergognarmi.» «Chi ha mai parlato di vergogna? Stai attento», lo redarguì Azrael prima di sferrargli un altro calcio. «La vergogna è persino più inutile della modestia.» Gesmas gemette e si rannicchiò nel punto più lontano in cui le catene gli consentivano di arrivare. Il dolore lancinante nel fianco gli disse che l'ultimo colpo gli aveva incrinato una costola. «Cerca di capire che sei tu stesso la causa dei tuoi guai. Chiamando A-
derre hai destato l'attenzione di Soth, particolare non trascurabile. Ciò che lo ha incuriosito veramente sono queste.» Con la punta della frusta toccò le bisacce accanto a sé, ancora gonfie delle pergamene che Gesmas vi aveva infilato. «Sono solo storie», replicò quest'ultimo, ansimando per il dolore. «Solo storie? Ah! È quanto basta a Sithicus. In quindici anni, Soth non ha quasi mai sollevato il suo spettrale culo dal trono. Non fa altro che rimuginare sulle svolte prese dalla sua storia. E più rimugina, più questo luogo diventa meraviglioso.» Gesmas avrebbe voluto obiettare sull'aggettivo scelto dal nano per descrivere quello che era l'attuale stato di Sithicus. Più Soth si ritraeva negli abissi della propria mente e più gli abitanti del suo regno, e il regno stesso, erano soggetti a profondi tormenti, di cui la Febbre Bianca era solo il più persistente. Nel giro di un anno dalla diffusione dell'epidemia, gli elfi selvaggi delle Colline di Ferro avevano dato il via a violente scorribande contro quelli più civilizzati della loro specie solo per il gusto di seminare il caos. Persino in quel momento, l'orizzonte a oriente era infiammato dal rosso di alte lingue di fuoco: un'altra fattoria nei sobborghi di Har-Thelen era caduta in mano agli elfi malvagi. Se le voci che Gesmas aveva raccolto dicevano la verità, un essere misterioso aveva riunito le bande delle Colline di Ferro con lo scopo di scacciare Soth da Sithicus. Solo un simbolo contrassegnava quello sconosciuto signore della guerra: la Rosa Bianca. Nel regno c'era chi vedeva la Rosa Bianca come il salvatore tanto atteso. Ma la maggior parte degli abitanti capiva che gli uomini comuni interessavano ben poco a un guerriero sufficientemente potente da minacciare Lord Soth e continuava a occuparsi delle proprie faccende sperando che l'eventuale guerra fosse di breve durata. La sola presenza della scorta di Azrael, non-morti a cavallo di animali in putrefazione, sottolineava la diversità di Sithicus da tutti gli altri luoghi visitati da Gesmas nel corso delle sue missioni per Lord Aderre. Negromanzia e creature che abbandonavano la tomba erano elementi presenti in tutti quei luoghi. Alcuni racconti dei regni circostanti identificavano un nobile, un generale o persino il signore del regno come un mostro: un vampiro, un licantropo o uno stregone dei più vili. Il mondo, secondo tali macabre leggende, era affollato da potenti malvagi e anime corrotte. Parte di quelle leggende erano vere, sebbene quei pochi che ne avrebbero potuto attestare l'autenticità non vivessero mai sufficientemente a lungo
per offrire la loro testimonianza. Molte erano naturalmente frutto della fantasia, prodotti di menti ubriache o degli stessi tiranni, per permettere ai contadini in molti domini di ingannarsi circa gli strani e sinistri dintorni. A Sithicus, tuttavia, il soprannaturale era così evidente, così sfacciato nel denunciare la propria presenza, che Gesmas si chiese come gli abitanti di quel luogo potessero dormire di notte. Se si doveva credere ad Azrael, l'unica creatura di cui i locali avevano veramente paura era lui. «Sono il loro unico incubo», soleva ripetere ogniqualvolta la conversazione verteva sugli orrori del regno. La terza volta che il nano iniziò a vantarsi, Gesmas non riuscì più a tenere a freno la lingua. «Che cosa mi dici della Bestia Sussurrante?» domandò. «O del Calzolaio Sanguinario?» «Ciabattino», lo corresse Azrael con un ringhio. «Il Ciabattino Sanguinario. Sono entrambi pure invenzioni della fantasia. Orchi cattivi delle fiabe per bambini.» Gesmas stava per ripetere le parole dello stesso Azrael sull'importanza delle storie, ma si trattenne in tempo. Era stupido e inutile provocare il nano. Ma la tensione nelle spalle del licantropo, le mani bianche strette intorno alle redini, lo aiutarono a capire che il suo aguzzino mentiva. La sua era la stessa spaventata reazione che avevano avuto tutti i locali, a esclusione dei più sprezzanti, nel sentire quei nomi. Il fatto che la Bestia e il Ciabattino spaventassero un essere come Azrael spingeva Gesmas a farsi domande sul loro potere. Prima che la giovane spia trovasse il coraggio per porre altri interrogativi sui due mostri, Azrael rallentò, permettendo a Gesmas di mettersi seduto. Gemendo per il dolore alle costole, l'uomo si guardò intorno. In quel punto, la strada correva lungo il Grande Abisso e il passaggio era così stretto che i sassi sollevati dalle ruote precipitavano nel baratro. L'ampia fenditura si allungava per circa cento miglia, da nord a sud, attraverso il cuore di Sithicus. In alcuni punti si allargava fino a cinque miglia, per poi restringersi a meno di un miglio alle estremità. La luce non filtrava mai nell'abisso, nemmeno quando il sole svettava in cielo. Lungo il suo perimetro si trovavano solo alberi spogli e malati, che spuntavano dal terreno come scarni spaventapasseri, quasi a volere allontanare i viandanti dal precipizio. E a ragione. L'oscurità del Grande Abisso fremette per l'eccitazione all'avvicinarsi del calesse e dei cavalieri non-morti che lo seguivano. Ogni colpo degli
zoccoli provocava una profonda vibrazione nel buio. Al tintinnio delle zanne appese al carro di Azrael rispondeva un ringhio feroce dalle oscure profondità. Nonostante fosse un attento osservatore, Gesmas non si accorse di niente di tutto ciò. La sua attenzione era stata attratta da uno spettacolo stupefacente: Nedragaard Keep. In quello che sembrava il palmo di una mano sollevata di un gigante di pietra si innalzava il castello diroccato di Soth. Su tre lati del maniero, la cui struttura ricordava quella di una rosa, si ergevano rupi in granito, lunghe dita che proteggevano l'edificio dall'avida oscurità dell'abisso. La torre centrale a cupola era stata disegnata per ricordare un bocciolo ancora chiuso. Su tutti i lati, ponti a traliccio portavano dal corpo centrale a spiazzi schiusi come foglie. Ma la rosa in cui viveva Lord Soth era appassita. La pietra color cremisi era annerita a causa di un incendio ormai lontano. Le pareti erano parzialmente crollate, i ponti danneggiati. Più Gesmas studiava la fortezza e più gli era difficile soffermarsi sui particolari. Una luce tremula a una finestra in cima alla torre attirò la sua attenzione. A una prima occhiata la finestra gli apparve intatta - un grande cerchio in vetro colorato illuminato dall'interno - un istante dopo era scomparsa. Gesmas sbatté le palpebre e si sfregò gli occhi. Osservò attentamente la superficie della torre. Niente. La luce non era scomparsa dalla stanza, abbandonando la finestra all'oscurità. Ma la torre stessa era in qualche modo cambiata. Cercò di ricordare la posizione esatta della finestra, ma nella sua mente l'immagine del castello divenne sempre più confusa, fino a quando non ricordò più che cosa stesse cercando di fare. La strada si allontanò dall'orlo dell'abisso, attraversando un elaborato giardino e un grande cimitero. Il tempo e l'incuria avevano annientato i confini fra i due. Erbacce ricoprivano le tombe. Rose rampicanti, nere come l'invisibile luna sovrastante, si attorcigliavano intorno ad alte statue commemorative e strisciavano lungo le pareti di antiche cripte, private ormai da secoli dei loro morti. Il vento fischiava fra alberi dai frutti troppo maturi. Nell'aria si respirava l'odore acuto e penetrante di raccolti imputriditi per le esalazioni soffocanti dei tumuli sepolcrali. «Sbrigati a trovare una scusa migliore per la tua missione in questa terra», gridò Azrael mentre il calesse superava un fatiscente cancello e attraversava l'istmo che conduceva al castello. «Soth trova le spie seccanti, ma i bardi lo fanno imbestialire.» Il vento aumentò all'improvviso, soffiando da ovest e ululando come un
animale inferocito. No, si limitava a trasportare le grida di un essere sconvolto dalla rabbia all'interno della fortezza. «Qu... quel grido», balbettò Gesmas. «Era Soth?» «Augurati di no.» Un'ampia porzione della cortina esterna e del sottostante terreno era crollata nell'abisso, aprendo una spaccatura nell'istmo, ora coperta da un ponte di legno. Il calesse sferragliò sulle assi e oltre i bastioni. Su piattaforme sovrastanti il cortile, tre non-morti in armatura facevano incessantemente la guardia. Gesmas non riuscì a capire che scopo avessero quelle sentinelle. Soltanto un generale completamente folle avrebbe condotto un esercito contro Nedragaard. Il suono che l'uomo aveva scambiato per l'ululato di una sola creatura sì spezzò in più voci, ognuna delle quali proclamava il proprio risentimento con grida che riecheggiavano nella notte: «Ci sente ancora!» «Non si cura di noi!» «La rosa annerita dal fuoco si è allontanata da noi, dalla sua maledizione.» «Ma lui si sveglierà, sorelle. Il primo buio nel vuoto della luce lo desterà e ancora una volta sentirà le scudisciate del nostro canto sferzargli il cuore.» Una creatura apparve al portone. La spettrale figura era snella e indossava una veste svolazzante. Il viso era quello di una fanciulla elfica, dai tratti spigolosi ma dalla perfetta geometria. Gesmas sentì un improvviso peso gravargli sul cuore, un peso che non aveva niente a che fare con le sue ferite. «Lui è qui», annunciò l'apparizione con voce sommessa, così diversa dalle grida laceranti che risuonavano nella sala dietro di lei. «È ora.» «È ora quando lo dico io», sbottò Azrael. Il nano passò attraverso il fantasma come se non fosse stato niente più che un velo di nebbia. Il volto che un istante prima era l'immagine della dolcezza divenne una maschera d'ira. Le morbide curve e gli angoli perfetti scomparvero, lasciando il posto a file di denti aguzzi. «Divoratore di fango!» gemette la banshee. «Ti faremo soffrire!» «Oggi in quante siete?» domandò il nano in tono indifferente. «Tre? Tredici? Trecento?» Si voltò e fece segno a Gesmas di seguirlo. «Forza. Lei, e tutte le altre sorelle che ha in questo momento, non possono farti niente. Un tempo erano banshee. La noncuranza di Soth le ha trasformate
in innocui spettri. Dovrebbero essere abbastanza numerose, ma loro stesse non sanno decidere sul numero.» Uno dei cavalieri non-morti posò le mani scheletriche su Gesmas e lo spinse attraverso l'apparizione. Offesa per l'insulto subito, la banshee emise un grido di rabbia. Il suono scosse la spia mentre attraversava lo spettro. La gelida forma cercò di afferrarlo e di strappargli il calore di essere vivente, ma inutilmente. Gesmas emerse, tremante e senza fiato, in un'immensa sala. Due scale gemelle si arrampicavano lungo le pareti dell'ampia stanza circolare, fino a una balconata posta di fronte al portale. Forse un tempo era lì che prendevano posto i musicisti. Ora, l'unica musica che risuonava nel maniero era il lamento funebre delle banshee. Gli spiriti inquieti si libravano a mezz'aria o disegnavano intricati motivi intorno al grande lampadario appeso al centro del soffitto. Tutte le candele nei tre anelli di ferro erano accese e la luce che irradiavano diminuiva l'oscurità che soffocava la sala. Su un palco, nascosto nella penombra della sala, era posto un trono divorato dai vermi sul quale sedeva un'armatura. Il metallo, un tempo scintillante, era annerito dalla fuliggine e dal tempo. Una cappa color porpora dalle frange logore e consunte era drappeggiata sulle spalle dell'armatura. L'elmo, sovrastato da un ciuffo di piume nere, ricadeva in avanti. Soltanto la debole luce che ardeva attraverso l'apertura dell'elmo rivelava che qualcosa si nascondeva sotto quella coperta di metallo annerita dal fuoco. «In ginocchio», ordinò Azrael e lo scheletro guerriero spinse Gesmas sulla nuda pietra. Il nano si voltò verso il trono e si esibì in un deferente inchino. «Come avete comandato, mio signore, vi ho portato lo straniero.» Le banshee interruppero il loro lamento e si voltarono verso il palco. Nell'attesa, i loro volti divennero ancora più orribili. Lo scheletro guerriero, un fedele seguace di Soth, sembrava condividere la loro ansia. Gesmas sentì le dita ossute chiudersi sulle sue spalle. Finalmente Soth si mosse. Le fiamme arancioni che erano i suoi occhi scintillarono. O forse la sala divenne improvvisamente più buia. Calore e speranza svanirono dalla stanza, forse assorbite dallo stesso Soth come combustibile per quello sguardo spaventoso. «Parla.» La voce era profonda, cavernosa. Più che udirle, Gesmas avvertì le parole. Aprì la bocca per rispondere, ma riuscì a gracchiare soltanto qualcosa di incomprensibile. I polmoni erano privi d'aria, consumata dalla paura.
«Parla!» Azrael colpì Gesmas con una gomitata nel fianco, facendolo gridare di dolore. Soltanto le mani scheletriche sulle spalle del prigioniero impedirono a quest'ultimo di crollare in avanti. «Potente signore», ansimò, «non so che cosa...». «Il tuo nome», lo interruppe Soth, «la tua missione». A Gesmas sembrò di scorgere il ghigno malefico e soddisfatto di Azrael. Sapeva che il nano aspettava solo che lui commettesse un passo falso, facendo infuriare Soth. Forse Azrael gli aveva mentito e Soth non odiava i bardi. Dopotutto, il nano era famoso in tutta Sithicus per essere un inguaribile bugiardo. Gesmas non aveva niente a cui aggrapparsi, nessuna intuizione che lo guidasse. Così decise di dire la verità. «Sono una spia.» Un suono echeggiò dall'elmo di Soth, un'esclamazione sommessa, sorpresa e al tempo stesso divertita. «Che cosa hai cercato di rubarmi, onesto ladro?» L'altro scheletro guerriero si fece avanti, portando le bisacce della spia. Azrael strappò le fibbie e le cinghie di cuoio che chiudevano le sacche. Una cascata di carta piovve sul pavimento. «Mio signore, quest'uomo...» «Non l'ho chiesto a te, siniscalco», lo interruppe Soth. Le banshee ridacchiarono al rimprovero. Erano rimaste in quattro; le altre erano scomparse. «È tornato», mormorò una. «Tornato al suo dovere», aggiunse la seconda, librandosi accanto ad Azrael. «Tornato al suo tormento», sibilò la terza. Il ripugnante quartetto cantò in coro: «È tornato da noi». Soth ignorò gli spiriti inquieti, se mai li udì. Si concentrò su Gesmas. «Che cosa hai cercato di rubare?» «La vostra storia.» «Chi è il tuo padrone?» «Malocchio Aderre.» Lentamente, Soth sollevò una mano. Un intricato pizzo di ragnatele cadde dal guanto di ferro che aveva drappeggiato a lungo. Dita che per anni non si erano mosse, fecero segno al prigioniero di avvicinarsi al trono. Gesmas si alzò, si avvicinò alle bisacce e raccolse i fogli che Azrael aveva sparso ovunque. Il dolore alle costole e la paura di Lord Soth si ab-
batterono su di lui, gettandolo in uno stato di totale stordimento. Quando raggiunse un punto del pavimento che appariva trasparente, inconsistente, lo scambiò per un'allucinazione dovuta alla sua sbadataggine. Ma Azrael lo afferrò per il braccio e lo fece girare intorno. Gesmas fissò il nano con sguardo interrogativo, ma la risposta dell'altro fu il solito ghigno malvagio che aveva sfoderato da quando erano entrati nel castello. Mentre continuava ad avanzare, Gesmas notò altri punti dell'ambiente che lo circondava che non sembravano interamente corporei. Un pezzo della scala di pietra mancava; non era crollato, semplicemente non c'era. Altri tasselli del pavimento fluttuavano fra l'opacità e la trasparenza. Sospeso sopra il centro della stanza circolare, il massiccio lampadario di ferro ondeggiava come un miraggio. Il soffitto, al quale avrebbero dovuto essere ancorati i grandi anelli di metallo, era soltanto un buco nero e vuoto. Le catene erano fissate all'aria. Gesmas smise di cercare di capire le stranezze che lo circondavano. Assorbì i dettagli di quel luogo con indifferenza. Era come se guardasse l'evolversi degli eventi da una certa distanza, come uno degli spettri volubili che fluttuavano per la sala. Quel distacco, e poco altro, permise a Gesmas di avanzare verso il trono di Soth, di stargli così vicino da poter scorgere l'antica decorazione sull'armatura annerita. Un intricato motivo di rose e martin pescatori adornava il metallo. La polvere, la fuliggine e gli anni avevano coperto alcuni boccioli, cancellato alcuni deliziosi particolari delle ali degli uccelli. Eppure, la decorazione conservava ancora sufficiente parte dell'antica bellezza da suggerire che il cavaliere così temuto, e così temibile, un tempo avesse conosciuto la pace e l'onore. «Raccontami la mia storia», ordinò Soth al prigioniero. «Dimmi chi sono e come sono giunto in questo luogo.» Gesmas salì uno alla volta gli ampi gradini e posò le bisacce sul palco. Frammenti di vetro erano disseminati sulla pietra, dove brillavano come stelle terrene. Soltanto allora la spia notò i sei ovali di ferro appesi alle pareti dietro il trono. Lo stesso Malocchio Aderre lo aveva messo in guardia contro gli specchi che un tempo erano contenuti in quelle cornici, specchi magici che permettevano a Soth di avventurarsi nei propri ricordi e di seguire la propria vita lungo la miriade di sentieri che avrebbe potuto imboccare. Ovviamente, il signore di Sithicus non aveva più bisogno di oggetti simili per sostenere i propri sogni. Mentre estraeva i primi fogli dalle bisacce, Gesmas si chiese se i sogni a
occhi aperti di Soth fossero più stravaganti delle storie che lui aveva raccolto. Ne dubitava. «Questa storia mi è stata raccontata dagli elfi di Hroth», esordì la spia. Strizzò gli occhi e iniziò a leggere: «"L'essere conosciuto come Soth apparve circa trentadue anni fa nella terra di Baronia. Poiché una creatura tanto potente non sarebbe sfuggita all'occhio attento dei bardi che vagano per questi reami tormentati, non può essere esistito prima di quel tempo. Strahd von Zarovich, signore di Baronia, deve avere creato Soth, evocandolo con la magia nera. Questo particolare spiegherebbe perché non sia possibile vedere Soth se non con l'armatura. In realtà, il rivestimento metallico è una maglia vuota e maledetta che si è rivoltata contro lo stregone che le ha dato vita"». «È falso», sibilarono le banshee. «È falso!» Tuttavia, non c'era convinzione nelle loro parole. Come Soth, non sembravano sicure della verità. «Ricordo questo Strahd von Zarovich», affermò il cavaliere della morte, «e so che nel cammino verso questo reame maledetto ho attraversato il suo dominio. Per quanto riguarda il resto, è abbastanza facile provarlo o confutarlo...» Soth fece scivolare in avanti il guanto di ferro, scoprendo un angolo di polso. Quel che Gesmas intravide gli bastò per capire che il signore di Nedragaard non era un essere vivente. «Ah!» esclamò Soth. «Non ci sono dubbi sul fatto che sono più che una semplice armatura vuota. Che altro dice la gente di me?» Per diverse ore, Gesmas raccontò ciò che aveva imparato. La maggior parte delle storie era ovviamente falsa, facilmente confutata da Soth. Le banshee a volte confermavano e altre si opponevano alle parole del cavaliere della morte. A volte gli spiriti si contraddicevano l'un l'altro, a volte persino da soli. Azrael restò in silenzio, ma a Gesmas non sfuggì che il nano si agitava a disagio ogniqualvolta il suo padrone mostrava interesse nei racconti. Alcune storie in particolare ottennero la totale attenzione di Soth. Secondo tali racconti, il signore di Nedragaard era giunto da una terra ben più lontana di Baronia o Sithicus, un luogo chiamato Krynn. In quel regno di luce e speranza, Soth aveva commesso un terribile crimine, forse l'uccisione di un fratello e di una sorella, forse l'assassinio di un sacerdote o addirittura la distruzione degli stessi dei. I racconti non sapevano stabilire quali gesta fossero vere e quali pura fantasia, ma tutti sembravano concludere che gli atti infami di Soth avevano fatto abbattere su di lui la maledizione
dell'eternità della non-vita. Di tanto in tanto, mentre Gesmas parlava, le banshee scomparivano e riapparivano, in numero variabile quanto le loro forme. Tuttavia, durante il racconto del supposto passato di Soth a Krynn, quegli spiriti non si mossero, restando sempre in tredici. La voce ormai poco più che un rauco sussurro, Gesmas giunse all'ultima storia. Raccontava della passione di Soth per una fanciulla elfica di nome Isolde, una passione così intensa che spinse quello che un tempo era un nobile cavaliere a tradire sia i sacri vincoli coniugali sia l'ordine cavalleresco al quale aveva dedicato la propria vita. Ne seguirono disgrazia e tragedia, con l'uccisione della moglie di Soth e l'espulsione dall'ordine che lui tanto amava. Come spesso accadeva in storie di sfrenata bramosia, la fine fu tragica. «"Lord Soth affrontò la bella Isolde nella grande sala"», lesse Gesmas con voce stanca. «"Il fatto che l'accusasse di infedeltà non deve sorprendere, poiché colui che ha infranto i sacri voti non è più capace di fidarsi degli altri. Nell'istante in cui diede voce alla propria furibonda gelosia, una scossa fece tremare il castello e il lampadario a triplo anello crollò a terra. Il fuoco invase la sala, intrappolando..."» Un tonfo metallico risuonò nella stanza. Gesmas trasalì e la pergamena gli cadde di mano. Si voltò e vide che il lampadario era caduto. Giaceva a terra sulla nuda pietra e sopra di esso, tredici banshee si libravano silenziose. Tredici scheletri guerrieri erano sull'attenti intorno agli anelli di ferro sul pavimento. «Intrappolando Isolde e il neonato che lei stringeva al petto», mormorò una voce sepolcrale. Lentamente, Soth si alzò. Le ragnatele caddero dall'armatura come un sudario imputridito. Il signore di Sithicus non stava leggendo la storia della spia, ma parlava con la voce della memoria. «Gli dei, sempre pietosi, offrirono al cavaliere, un tempo valoroso, la possibilità di provare che nel suo cuore non dimorava solo l'odio», continuò Soth. «Dalle fiamme, la fanciulla elfica lo pregò di salvare il loro unico figlio. Ma la rabbia e l'orgoglio impedirono all'uomo di agire. Il cavaliere si voltò e lasciò perire fra le fiamme la donna e il bambino.» Appena Soth pronunciò le ultime parole, le banshee intonarono un nuovo canto funebre. Le loro voci si levarono all'unisono. «E nell'atmosfera dei sogni Quando ripensi a lei, quando il mondo del sogno
Si allarga, ondeggia alla luce, quando ti trovi al limitare di quella terra benedetta, Allora ti faremo ricordare, ti faremo rivivere attraverso la lunga negazione del corpo.» Come una furia, Azrael afferrò Gesmas per un braccio. «Chi ti ha raccontato questa storia?» Il canto delle banshee, che continuavano a elencare i crimini commessi da Soth, impediva a Gesmas di pensare chiaramente. «Io... io non ricordo.» Crollò su un ginocchio, la gamba deforme allungata. «Sono così tante...» «I Vagabondi», sentenziò Soth. «Solo loro conoscono la mia vera storia.» Il ghigno di Azrael era scomparso. Il nano si umettò nervosamente le labbra e disse: «Non affaticatevi, mio signore. Se sospettate che i ladri di Magda vi tradiscano, posso occuparmene...». «No. Ho dormito troppo a lungo, dimenticato troppo di me stesso.» Soth piegò le dita, chiudendole a pugno. «È ora che riprenda in mano le redini del mio destino.» Il cavaliere della morte scese i gradini di pietra. «Convocherò Magda e il suo clan perché si presentino entro l'alba», annunciò alzando la voce oltre il lamento della banshee. «E io mi occuperò del prigioniero», si offrì Azrael. «Nelle prigioni sotterranee c'è ancora posto per...» «No», intervenne Soth. «Mettilo al lavoro nelle miniere.» Posò gli occhi fiammeggianti sulla spia. «Consideralo un premio, onesto ladro. Laggiù potrai vivere ancora un po'. I miei ringraziamenti per avermi fatto... divertire.» Due scheletri guerrieri si avvicinarono al palco e afferrarono Gesmas. «Svuotate le prigioni», la spia sentì dire a Soth. «Liberate, dietro pagamento di un riscatto, nobili e mercanti. Gli altri metteteli ai lavori forzati fino a quando potranno pagarsi la libertà. È così che un cavaliere tratta i suoi prigionieri, Azrael. Ricordatelo.» Gesmas sentì lo sguardo infuocato di Lord Soth seguirlo nella sala. «Niente riscatto per te, onesto ladro», affermò il cavaliere della morte, mentre la spia gli passava accanto. «Non ho dimenticato chi servi.» Nel cortile invaso da macerie di Nedragaard Keep, Gesmas guardò tra-
scorrere la notte. Esausto, stremato dal dolore e dalla paura, teneva lo sguardo fisso all'orizzonte in attesa di vedere sorgere il sole. Ma l'oscurità non sembrava volere mollare la morsa sulla terra. Quando infine gli scheletri guerrieri ebbero svuotato le prigioni, Gesmas iniziò a chiedersi se la luce sarebbe mai tornata a Sithicus. Un carrozzone giunse proprio quando l'ultimo degli sciagurati entrò nel cortile. Un trio di soldati armati fino ai denti prese in consegna i prigionieri nel silenzio assoluto. Nessuno aprì bocca, nessuno urlò ordini. Gesmas fu il primo a salire sul carro. I prigionieri in grado di camminare si affollarono dietro di lui, obbligandolo a rifugiarsi in un angolo del mezzo, lontano dalla finestrella. Gli invalidi vennero ammassati sul pavimento come legna da ardere. Il puzzo di escrementi rilasciato da quei poveri derelitti diede il voltastomaco alla spia. Le loro ferite sanguinanti e putrefatte, chiaramente provocate da colpi di frusta, bastone e altri più esotici strumenti di tortura, lo fecero sentire felice per essere sfuggito ai diabolici piani che Azrael aveva in serbo per lui. Uno dei tre soldati salì sul carro e chiuse il portellone dietro di sé. Non ci fu alcuna minaccia di rivolta; i prigionieri fissavano il militare con occhi spenti o voltavano il volto ogniqualvolta l'uomo guardava verso di loro. Nessuno aprì bocca quando il carro si mise in movimento. Gesmas si chiese se avessero perso tutti quanti la lingua, per poi giungere alla conclusione che la maggior parte di essi era probabilmente sorda, dopo avere sopportato per mesi o anni le grida delle banshee. Abbandonata la bolgia di Nedragaard, l'andatura costante dei cavalli iniziò a tranquillizzare Gesmas. Dopotutto, sembrava che la sincerità lo avesse salvato. Era sfuggito alle grinfie di Azrael ed era diretto in un luogo dove aveva una possibilità di rimanere in vita. Lavorare nelle miniere sarebbe stato duro, forse letale, ma forse avrebbe vissuto sufficientemente a lungo per scappare. La gamba lo avrebbe fatto escludere dai lavori più pesanti. Forse avrebbe avuto la fortuna di occuparsi dei cavalli e degli altri animali che trainavano i carri. E comunque, quella era sempre stata la sua vera vocazione. Scosse la testa. Suo dovere era quello di fuggire, raggiungere Invidia e fare rapporto. Anche senza gli appunti, ciò che ora sapeva su Soth avrebbe soddisfatto Lord Aderre. Un tonfo sordo contro un lato del carro distolse Gesmas dai suoi pensieri. Un secondo e un terzo colpo destarono l'attenzione della guardia. L'uomo si voltò per guardare attraverso la finestrella nello sportello. Un secon-
do dopo indietreggiò, crollando sul mucchio di feriti. Una freccia bianca era conficcata in un occhio. I prigionieri si allontanarono dalla freccia quasi temessero che prendesse vita e potesse colpirli. Le loro grida incoerenti vennero coperte dagli improvvisi nitriti dei cavalli e dallo scricchiolio del legno che urtò qualcosa, ondeggiò qualche istante per poi piegarsi su un fianco. Gesmas fu sufficientemente veloce da rannicchiarsi su se stesso per attutire l'impatto. Non gli servì molto. Restò bloccato sotto un intrico di gambe e braccia sanguinanti. Sgomento e sbigottito, udì il legno spaccarsi e il mucchio su di lui alleggerirsi, man mano che i corpi venivano rimossi. Restò immobile, intuendo che avrebbe fatto meglio a fingersi morto, per recuperare le forze e cercare di capire che cosa stesse accadendo. I prigionieri, sia i vivi che i morti, vennero fatti uscire dal carro. Gesmas udì alcune parole pronunciate in elfico, ma in un dialetto che non aveva mai sentito. Era ricco di suoni gutturali, ben diverso dalla lingua dolce e musicale degli elfi di città. I selvaggi delle Colline di Ferro, comprese a un tratto. Il sole stava finalmente sorgendo e raggi di luce filtrarono nel carro. Attraverso le palpebre abbassate, Gesmas seguì i giochi d'ombra. Non capì quanti elfi andarono avanti e indietro guidando o trascinando i prigionieri. Ascoltò immobile. Sentì degli uomini piangere e il crepitio di un fuoco. Non si levarono grida, ma presto i lamenti e gli ordini gridati in elfico diminuirono, fino a quando restò soltanto il fruscio delle fiamme. A un tratto lo sentì: il puzzo nauseante della carne bruciata. Aprì gli occhi e si trovò da solo nel carro semidistrutto. La luce dell'alba scivolava all'interno attraverso il varco lasciato dallo sportello. Rotolò sulla pancia e lentamente strisciò verso la breccia. Ogni movimento sembrò richiedergli un'ora. Ogni scricchiolio gli gelava il sangue nelle vene. «Il fuoco è per i morti», disse una voce alle spalle della spia. Gesmas gridò per lo spavento e si voltò. Nell'ombra all'estremità del carro, dove Gesmas stesso era rimasto fino a pochi istanti prima, si stagliava un'alta figura mascherata. Il corpo e il viso erano nascosti da un ampio mantello e da un cappello a tesa larga che come la maschera, le scarpe, i pantaloni e la giubba erano di una tinta uniforme, pallida, sbiadita. Lo sconosciuto allungò una mano guantata verso la spia. «Non avere paura, Gesmas. Non intendevo spaventarti.» «Chi diavolo sei?» L'uomo si portò una mano alla maschera. Gesmas ne aveva già viste al-
tre come quella: tessuto imbottito, il grande naso adunco vuoto per contenere fiori, erbe o qualsiasi cosa tenesse lontana la peste. «Non mi conosci», rispose lo sconosciuto. La voce era musicale, l'accento di una persona istruita. «Sono un mercante.» Quando tolse la maschera, per un attimo Gesmas pensò che sotto di essa non vi fosse alcun viso, solo pelle liscia dello stesso pallido colore degli abiti dello sconosciuto. Sbatté le palpebre e si accorse di essersi sbagliato. L'uomo sarebbe stato considerato bello e affascinante in tutte le terre che Gesmas aveva visitato, e anche oltre. Capelli biondi incorniciavano lineamenti decisi. Occhi profondi sostennero lo sguardo nervoso della spia con un guizzo di allegria. «So che il fuoco ti ha spaventato. Volevo che sapessi che le fiamme non sono il tuo destino.» «Preferirei che mi dicessi come tornare a casa da qui», replicò Gesmas. «Ma tutto sommato, posso trovare la strada da solo.» Si voltò verso la porta, ma trovò l'uscita bloccata dallo sconosciuto, il sole nascente alle sue spalle. Alla luce, gli abiti dell'uomo non apparivano più di un pallido colore uniforme, ma lievemente macchiati di rosso, dalla punta del cappello all'astuccio che ora teneva in mano. Lentamente, lo sconosciuto aprì il contenitore di pelle. All'interno, disposti in bell'ordine apparvero gli attrezzi del ciabattino. Bullette, forbici, martelli, persino ago e filo erano in puro argento. E anch'essi erano punteggiati di sangue. «Il Ciabattino Sanguinario», mormorò Gesmas. L'uomo annuì ed estrasse un coltello dall'astuccio. Illuminata dal sole, la lama riflesse lampi di luce. «Voglio che tu sappia che mi dispiace.» Era inutile scappare, inutile combattere. Gesmas lo sapeva. Ma ormai era così calato nel ruolo di spia che non poté fare a meno di chiedere, «Che cosa sei?» «Non che cosa, ma chi.» Il Ciabattino si avvicinò e sussurrò il proprio nome all'orecchio della spia. Un bieco sorriso apparve sul volto di Gesmas. «Ma certo.» «Vorrei ci fosse un altro sistema», affermò il Ciabattino sollevando il coltello. «Ma hai già avuto tante opportunità per percorrere il tuo cammino.» Ore più tardi, quando un gruppo di cacciatori scoprì il carro ribaltato, le frecce bianche bastarono a spiegare l'accaduto. Elfi alleati della Rosa Bianca avevano attaccato il carro e, come era loro abitudine, avevano preso i vivi e bruciato i morti per impedire che Lord Soth li facesse resuscitare con la magia riducendoli in schiavitù. I cavalli erano stati macellati per
ricavarne carne con cui nutrirsi e quanto c'era di valore era stato rubato. Trovarono il corpo di Gesmas Malaturno all'interno del carro. Le braccia erano conserte e un'espressione di serena tranquillità era scesa sul volto smunto. Persino la gamba storta era distesa, come se la morte avesse liberato il giovane da quel tormento. Le frecce bianche non spiegarono quella morte; ma lo fecero le uniche ferite sul corpo della spia. Con precisione e accuratezza, le piante dei piedi di Gesmas erano state tagliate via. 3 Rose bianche riempivano la cappella. Incorniciavano porte e finestre, penzolavano da nastri sulle travi, fluttuavano in globi di vetro sull'altare. Il loro profumo aleggiava nella sala, placando anche il cuore più inquieto. Le rose bianche erano rare a Sithicus. Nessun giardiniere era in grado di coltivarle. Crescevano spontanee solo negli angoli più remoti delle Colline di Ferro, nel cuore del territorio controllato dai terribili elfi. Ganelon non sapeva come avessero fatto i suoi amici a raccoglierne tante per la cerimonia, ma la loro presenza non lo sorprese. Ambrose, Kern e gli altri minatori avevano compiuto prodezze ancora più miracolose. Ganelon era certo che in nome dell'amicizia avrebbero affrontato lo stesso Lord Soth. Se la sua sposa voleva rose bianche per il loro matrimonio, i suoi amici avrebbero fatto in modo che lei ne fosse circondata. Helain aveva scelto un bocciolo particolare da infilare nei capelli. Non era il più grande e nemmeno il più perfetto, ma qualcosa di quella rosa aveva catturato la sua attenzione. Spinta dalla sua consueta impulsività, Helain aveva deciso che sarebbe stato l'unico fiore che avrebbe indossato. I petali bianchi risaltavano magnificamente sulle lunghe trecce rosse, una scultura di neve su una cascata di fuoco. La cerimonia fu breve ed elegante. Mentre pronunciava i voti coniugali, Ganelon legò intorno al polso un semplice nastro di seta. Prese quindi con delicatezza la mano di Helain e aspettò che si legasse a lui. Le dita della donna tremarono mentre avvolgeva il nastro intorno al proprio polso. Ganelon guardò in quei profondi occhi azzurri per rassicurarla. Ma vide solo confusione e l'ombra di qualcosa di oscuro e fugace, qualcosa che non riconobbe. Lei esitò un istante prima di aprire bocca per lo scambio delle promesse, ma ciò che emerse da quelle labbra delicate fu un grido.
Ganelon fece per allungare un braccio verso Helain, ma si ritrasse per l'improvviso dolore. Il nastro intorno ai loro polsi si era trasformato in una corda di spine. Ganelon chiamò Ambrose, Kern e Ogier, ma loro non risposero. I suoi amici erano fuggiti, lasciando dietro di loro solo ombre. Le forme oscure indugiavano, circondate da rose divenute improvvisamente nere. Helain stava ancora gridando quando Ganelon si svegliò. Il sonno gli annebbiava la mente. Si chiese se stesse ancora sognando. Gli era già capitato di venire trascinato in sogni dentro ai sogni nei quali credeva di essere sveglio, ma non lo era. No. Ambrose era alla porta di Helain e le parlava con voce rassicurante. «Siamo qui per proteggerti», disse il bottegaio in un dolce sussurro. «Ago e filo», urlò Helain. «Il cammino della spia. Non capite? Il sentiero della spia!» Con movimenti rigidi, Ganelon si sollevò dalla panca di legno e si ritrovò in piedi su una coperta, con la quale Ambrose doveva averlo coperto durante la notte e di cui lui si era liberato nel sonno. Ganelon si rammaricò di non essere rimasto avvolto in quel caldo tepore: gambe e piedi gli dolevano per il freddo. «Helain, stai bene?» chiese il giovane. Sapeva che la fandulia probabilmente non avrebbe risposto, ma porre la domanda ad Ambrose invece che a lei sarebbe stato come ammettere di averla persa. Il bottegaio sollevò una mano, un timido tentativo per tenere Ganelon lontano. Il giovane si avvicinò comunque. Con il suo comportamento non voleva mancare di rispetto nei confronti di Ambrose; il problema era che il suo cuore non gli avrebbe consentito di abbandonare Helain al suo dolore. «Che cosa c'è, tesoro?» domandò attraverso la finestrella sbarrata. Lentamente, come un animale sospettoso, Helain si allontanò dalla porta. I fulvi capelli le ricadevano sul viso, lasciando intravedere solo gli occhi. Buttò indietro alcune lunghe ciocche e fissò Ganelon. «Chi sei?» Fu come un pugno allo stomaco. Anche nei momenti di peggior delirio, lo aveva sempre riconosciuto, se non altro come una vecchia conoscenza. Prima che Ganelon potesse rispondere, il volto di Helain si distese e la donna scoppiò a ridere. Una risata cristallina. «Sei molto attraente questa mattina», commentò, «anche se hai bisogno di sbarbarti». Ganelon guardò Ambrose e sul volto dell'amico vide riflesso il proprio stupore. L'osservazione era molto più logica di quelle fatte da Helain nelle ultime settimane. E la sua risata era anche più sorprendente. Era ormai un
anno, da quando erano comparsi i primi segni della pazzia, che non sentivano quel dolce suono. Sorridendo, Ganelon tornò a voltarsi verso la finestrella. «Non ti sono mai piaciuto con la barba lunga.» «Ti stai confondendo», replicò lei in tono piatto. «Noi non ci conosciamo.» Ganelon ripiombò nello sconforto. «Non mi riconosci?» «Ambrose ha detto che eri qui per proteggermi», rispose Helain, «ma io non ti ho mai visto. Lavori alle miniere?» Il giovane soffocò un singhiozzo. «Sono Ganelon. Dovevamo sposarci... e lo faremo appena starai nuovamente bene.» Helain si portò le mani alle orecchie. «Non voglio sentire parlare d'amore», disse. «Non posso.» «Ma devi, perché io ti amo.» Lei gridò, non per la paura ma per il dolore. La mente di Ganelon corse alle banshee che infestavano Nedregaard Keep. Nel grido di Helain gli sembrò di avvertire un'eco del loro canto. Se non fosse stato così sopraffatto dal proprio dolore e dalle preoccupazioni, si sarebbe stupito di tale sensazione, poiché non si era mai avvicinato alla fortezza e aveva sentito parlare degli spiriti inquieti solo nelle storie. Ganelon avvertì la mano di Ambrose sul braccio e lasciò che l'uomo lo allontanasse dalla porta. «Non avresti dovuto dirglielo», lo rimproverò il bottegaio. «Sai quanto la irrita.» «Ma perché?» domandò il giovane, disperato. «Che cosa le ho fatto perché non riesca a sopportare quelle parole?» Non c'era risposta a quella domanda, o per lo meno non per quanto sapessero Ambrose, Ganelon e tutti quelli che amavano Helain. Pochi giorni prima del matrimonio con Ganelon, Helain si era ammalata. Inizialmente Ambrose aveva pensato si trattasse di una semplice febbre dovuta all'emozione e come suo tutore, si era preoccupato che lei si riposasse. Tutti erano convinti che si sarebbe ripresa in tempo per la cerimonia. Ma nelle settimane e nei mesi che erano seguiti, le condizioni di Helain erano peggiorate. Per un certo periodo, Ambrose aveva temuto che avesse contratto la peste e con l'aiuto di Ganelon e alcune coraggiose mogli di minatori, aveva curato i sintomi fisici, che infine erano scomparsi. Ma non era la Febbre Bianca a tenere in pugno Helain, bensì una malattia della mente. Da ormai un anno la pazzia la tormentava con manie paranoiche, la teneva sveglia per giorni interi per poi farla piombare in un sonno così profondo da non poter essere svegliata in nessun modo.
Attraverso quelle dure prove, Ganelon non aveva mai vacillato, dimostrando la sua fedeltà, seppure non fosse mai stato nella sua natura impegnarsi senza riserve. Alla miniera aveva coperto dozzine di incarichi, e mai molto a lungo. Soltanto il sostegno e la pazienza di amici come Ambrose gli avevano permesso di ottenere di che vivere. Saltava i turni, trascurava i propri doveri e scompariva per giorni interi, trascinato da qualsiasi avventura avesse destato il suo interesse. Non era stato facile per Ambrose tenere il giovane impulsivo lontano dagli occhi degli scagnozzi di Azrael. In qualche modo, però, ci era sempre riuscito. La devozione di Ganelon nei confronti di Helain, e della loro reciproca felicità, era l'unica ricompensa di cui Ambrose aveva bisogno. Persino dopo che la fanciulla si era ammalata, il giovane non aveva mai vacillato, non aveva permesso che il suo desiderio di vedere il mondo lo allontanasse dalla miniera. Ganelon si dedicava con tale fervore a Helain che Ambrose temeva che anche il giovane fosse posseduto da una sorta di pazzia; in realtà, non era altro che la frenesia della passione. «È meglio lasciarla sola», suggerì Ambrose dopo che lui e Ganelon restarono seduti in silenzio per alcuni minuti. Batté le mani tozze sulla panca. «È ora di cominciare a lavorare. Il sole si è levato e così i nostri clienti.» Ganelon annuì ma non seguì il bottegaio per le scale che dal ballatoio conducevano al negozio. Restò seduto con la testa china ad ascoltare le grida di Helain e i rumori prodotti da Ambrose mentre si preparava a un altro giorno di lavoro. Presto le grida divennero singhiozzi e poi lamenti. Per tutto il tempo, Ambrose proseguì con le proprie faccende, aprendo barili e spostando casse. Stava rimettendo a posto le sedie utilizzate per l'incontro di preghiera della notte precedente, quando Ganelon si decise a infilare gli stivali, si avvicinò alla ringhiera e lanciò un'occhiata all'ordinata confusione sottostante. La grande stanza a due piani veniva utilizzata come bottega, magazzino, sala riunioni e punto d'incontro per la gente che lavorava alla miniera di sale di Veidrava. I minatori e le loro famiglie pensavano che l'emporio appartenesse ad Ambrose, mentre in realtà lui si limitava a gestirlo. Come ogni altra cosa di valore a Sithicus, la bottega era di Lord Soth. Il signore di Nedragaard Keep non si era mai recato né allo spaccio né alla miniera, ma il suo siniscalco si faceva vedere spesso per far sì che nessuno dimenticasse chi era il padrone. «Con l'arrivo dei nuovi tessuti da Borca, oggi i clienti non dovrebbero
mancare», gridò Ambrose a Ganelon. Lo sforzo gli provocò un violento attacco di tosse: gli anni trascorsi in miniera avevano irrimediabilmente minato la salute dei polmoni dell'anziano. In preda all'affanno, l'uomo aprì la porta d'ingresso, convinto di trovare una fila di clienti in paziente attesa. La soglia era deserta. Uscì. Come era sua abitudine, restò vicino all'uscio, entro il cono d'ombra dell'edificio. Gli anni sottoterra lo avevano reso estremamente sensibile alla luce. A differenza degli altri uomini che erano sopravvissuti alla cava, non si era più riabituato alla luce del sole. Strizzando gli occhi persino alla debole luce dell'alba, Ambrose si guardò intorno. Un gruppo di mogli di minatori, vestite con abiti di tela grezza, dal taglio uniformemente sciatto, facevano capannello dall'altra parte dell'ampia strada sterrata. Incontrarono lo sguardo del bottegaio, ma non ricambiarono il suo saluto. «E adesso che cosa succede?» si domandò l'uomo. «Le pecore si tengono alla larga dai lupi», affermò una voce sommessa. Ambrose si voltò e si trovò davanti una graziosa donna dai capelli grigi abbigliata con le vesti colorate caratteristiche del suo clan. «Magda Kulchevich», disse il bottegaio. «Sono felice di vederti.» Ambrose non si domandò come avesse fatto la zingara a prenderlo alle spalle senza fare alcun rumore o perché le mogli dei minatori si tenessero a distanza. Madame Magda era la raunie dei Vagabondi, il piccolo clan Vistani di indovini, commercianti e ladri, che vagava per le regioni selvagge di Sithicus. I locali li evitavano, a meno che non avessero bisogno di qualcuno da assoldare per i loro loschi affari. In tal caso erano felici di pagare quanto i Vistani chiedevano, indifferenti a che il prezzo venisse calcolato in denaro o in sangue. Ambrose limitava i suoi affari con i Vagabondi al baratto di oggetti più materiali. «Che cos'hai per me oggi?» domandò, invitando la matriarca a entrare nella bottega. «Coperte? Gioielli?» «Accetteresti qualcosa di più esoterico?» replicò la donna. Prima che l'uomo potesse rispondere, scoppiò a ridere nel modo in cui una madre ride per la stupidità di un bambino. «Certo che no! Non prenderesti nemmeno un talismano per aiutare la fanciulla pazza.» «Puoi aiutarla?» gridò Ganelon. Si precipitò giù dalla scala saltando quattro gradini alla volta. «Ambrose, perché non me lo hai mai detto?» «Poche creature sono al di là dell'aiuto dei Vistani», affermò Magda. Il bottegaio afferrò Ganelon per un braccio. «Farsi aiutare da loro signi-
fica perdere la propria anima», sussurrò. «Lascia perdere.» Magda scosse la testa. «Non c'è bisogno di mormorare, Ambrose. So che cosa pensi della mia gente. E chi lo sa, forse hai ragione.» Si voltò verso Ganelon. Quegli occhi verdi lo attiravano come il mare attira un marinaio; erano colmi di mistero e avventura e persino di pace, ma era la pace della morte. «Tu pensi che l'amore la salverà, ma a volte l'amore peggiora le cose.» «O forse il ragazzo non sa che cosa sia l'amore», suggerì un corpulento Vistani. L'uomo entrò a grandi passi nella bottega e buttò a terra l'immenso tappeto che trasportava sulla spalla. Il rotolo rimbalzò sul pavimento di legno sollevando una nuvola di polvere. «Non ha l'aspetto di uno con molta esperienza.» Fissò il giovane sghignazzando. «Va tutto bene, ragazzo. Ti sostituirò con la tua amata, se la tua sciabola non sarà all'altezza del duello.» Magda sputò, disgustata. «Stiamo parlando di faccende di cuore, Bratu. In un duello del cuore tu saresti disarmato.» Bratu rispose in tono aspro in quel miscuglio di lingue che era il Paterno, il dialetto dei Vistani. Era chiaramente irritato per essere stato insultato davanti a un giorgio, un estraneo al clan. Magda lo lasciò parlare, ma quando le sue parole divennero taglienti, lo zittì con un rapido movimento della mano. «Hai detto quello che volevi», affermò, quindi indicò il tappeto. «Srotolalo. A un amico come Ambrose non vendiamo a scatola chiusa.» Ganelon fissava il robusto Vistani con malcelato odio. Dal canto suo, Bratu contraccambiava l'occhiata inferocita, osservando il giovane con un ghigno. Lo zingaro era due volte il ragazzo e le sue braccia erano possenti quasi quanto le gambe di Ganelon. Ma quest'ultimo non sì era mai tirato indietro in vita sua, soprattutto se l'insulto colpiva anche Helain, seppur alla lontana. Ambrose aveva curato i tagli e le ferite di Ganelon sufficientemente spesso da capire che una baruffa era imminente. Inoltre, aveva visto il giovane amico combattere così spesso da sapere che contro Bratu avrebbe avuto ben poche speranze. Così, sviò l'attenzione di Ganelon sul tappeto, commentando: «Nessuna famiglia di minatori lo comprerebbe, ma penso che a Helain farebbe piacere averlo nella sua stanza». «Il tappeto è stato trafugato dal castello del duca Gundar la notte in cui è stato assassinato», spiegò Magda. Ne sollevò un angolo e lasciò scivolare le dita sul motivo astratto. «O così sostiene l'uomo che me l'ha venduto.
Anche se io non ci credo. È impossibile che Gundar possedesse qualcosa di così bello, anche se solo per camminarci sopra.» Mosse le labbra in un insulto silenzioso rivolto alla memoria del nobile trucidato. Magda aveva viaggiato per più di dieci anni nel dominio di quel tiranno prima che degli assassini gli tagliassero la gola e il suo territorio venisse diviso fra quei vicini con i quali rivaleggiava in crudeltà. Tempo prima, la zingara aveva giurato di maledire il nome del duca per ogni ora di dolore che l'uomo aveva provocato a lei e al piccolo clan che la zingara aveva creato con i pochi Vistani sopravvissuti nel regno di Gundar. Quest'ultimo era morto da sedici anni e ne sarebbero passati altrettanti prima che Magda avesse adempiuto al proprio voto. Ambrose iniziò a mercanteggiare sul prezzo del tappeto, che sarebbe stato pagato in sale. Alla miniera era difficile trovare moneta sonante, anche per Ambrose, ma per i Vistani quello non costituiva un problema. Nelle terre limitrofe esistevano ben poche fonti di sale, perciò avrebbero potuto vendere il prodotto lungo il confine ricavandone un ottimo profitto. Bratu condusse la trattativa, poiché simile attività era ritenuta poco consona alla posizione occupata da Magda all'interno del clan. Quest'ultima si preoccupò che tutti gli oggetti portati dai Vistani venissero sottoposti all'attenzione di Ambrose. Ganelon osservò una fanciulla trascinare nella bottega pentole, abiti e persino uno scrigno di legno. «Attenta con quello, Inza», si raccomandò Magda, mentre la ragazza depositava a terra lo scrigno di legno. «Certamente», rispose la giovane zingara in tono mellifluo. «Anche se sarei molto più attenta se fosse mio.» Magda la fulminò con lo sguardo. «Non ti sei ancora arresa?» Si avvicinò alla ragazza e le posò una mano sulla spalla. «Che cosa possiedi per avere bisogno di uno scrigno simile?» «Niente, per il momento.» Inza lasciò scorrere le dita affusolate sul coperchio del cofanetto, sul quale era inciso un viandante solitario circondato da verdi fronde. «Ma un giorno, le cose cambieranno.» Nel vedere le due donne l'una accanto all'altra, Ganelon si accorse che Inza doveva essere la figlia della raunie. La somiglianza era così forte che avrebbero potuto essere la stessa persona alterata attraverso una lente di trentacinque anni, una lente che rendeva i capelli grigi della madre nuovamente corvini, il viso segnato dall'età nuovamente fresco e bellissimo. Un'illusione distrutta solo dai loro occhi. Quelli verdi di Inza non richiamavano alla mente le impenetrabili profondità del mare. In essi, Ganelon vide
la vegetazione nel cuore della foresta, un labirinto oscuro di rampicanti. L'effetto era affascinante. Il giovane non si rese conto di fissarle fino a quando non si accorse che madre e figlia lo guardavano con espressione di disgusto. «Scusate», mormorò, spostando repentinamente la propria attenzione sulla punta delle sue scarpe. Ma le donne non reagirono. Ganelon aveva appena iniziato a chiedersene il motivo, quando sentì dietro di sé il raschiare di stivali dalla suola di ferro. Si voltò e vide il vero oggetto della loro ripugnanza. Azrael, il siniscalco di Lord Soth, emerse dall'oscurità di un angolo avvolto nella penombra. Ganelon non aveva idea di come il nano fosse arrivato là, ma accettò la presenza dell'intruso senza esitazione. Simili stranezze divenivano infatti sempre più frequenti in tutta Veidrava. Il volto del nano era atteggiato a un ampio sorriso, un'espressione così esasperata che gli faceva rizzare i mustacchi e le basette bianchi come i baffi di un animale. Una crudele malizia scintillava in quegli occhi scuri. «Ho sognato questo giorno», sussurrò con voce gutturale. «Quanto tempo è passato, eh, Magda? Vent'anni? Venticinque?» «Trentadue», rispose la raunie. «Ancora pochi per i miei gusti.» Sollevò la mano destra, le dita lievemente piegate. D'un tratto stringeva un bastone. Era lungo quanto il suo braccio, il legno scuro e nodoso. Bratu le fu subito accanto. Sia lui che Inza brandivano coltelli dalla lama d'argento. Azrael posò una mano carnosa su Ganelon e lo spinse da parte. Il giovane crollò su una cassetta di mele. Restò immobile un istante, attonito. «Basta.» Due fiammelle arancioni - occhi, comprese sgomento Ganelon - tremolarono come luci di palude nello stesso angolo oscuro da cui era apparso Azrael. Un'ondata di inesplicabile gelo fluì dall'ombra, foriera di una figura in armatura bruciata e annerita. Quell'unico ordine era bastato per fermare sia il siniscalco che i Vistani e quella voce fu sufficiente per fare cadere Ambrose in ginocchio. Sebbene non avesse mai visto Lord Soth, Ganelon comprese che quel sinistro figuro non poteva essere che il signore di Nedragaard Keep e si unì rapidamente al bottegaio in quella dimostrazione di deferenza. «Mio signore», mormorò. Soth ignorò i mercanti e concentrò la propria attenzione sui Vistani. Bratu e Inza abbassarono i pugnali e distolsero lo sguardo in segno di rispetto. Magda, al contrario, tenne sollevato il bastone. Fissò Soth senza mostrare sorpresa o paura. «Ossequi», disse. «Che cosa volete da me?»
«La tua testa», ruggì Azrael. «Ho bisogno di qualcosa da buttare ai ratti che continuano a infilarsi nella mia dispensa.» Magda sospirò, ma non staccò gli occhi da Soth. «Il tempo trascorso in solitudine nel vostro fatiscente castello vi ha fatto dimenticare le buone maniere», affermò. «Persino noi ladri senza titolo nobiliare sappiamo che gli animali vanno lasciati fuori.» «Ti strappo il cuore!» sbottò Azrael in tono aspro. «Così perlomeno ne avresti uno», replicò la donna. Il nano fece un passo verso la raunie, ma la zingara lo respinse brandendo minacciosamente il bastone. Già una volta Azrael aveva provato il sapore di quel legno incantato: con un solo colpo, Magda gli aveva infatti fatto perdere i sensi. E ora, non aveva nessuna intenzione di scoprire quali danni la donna potesse arrecare dopo trent'anni di pratica con l'arma. Soth indicò la porta aperta, oltre la quale altri Vistani del clan di Magda si erano assiepati. Fra di loro c'era anche un cane, un animale grande e possente che soltanto le forti braccia di tre uomini riuscivano a tenere. «Fuori, siniscalco», ordinò. «Ciò che devo dire agli zingari non ti riguarda.» Azrael fissò il suo padrone, pronto a replicare, ma si trattenne e brontolando un'imprecazione contro tutti i Vistani, uscì con passo lento dalla bottega. Inza e Bratu seguirono il nano e anche Ganelon li imitò. Soltanto Ambrose esitava. Stava sull'uscio, tremante. Infine si voltò, la testa bassa, le mani giunte. «Scusatemi, mio signore, ma c'è una donna malata di sopra. Non voglio lasciarla sola. Ora dorme, ma quando si sveglierà potrebbe gridare e...» «È la sua pupilla», intervenne Magda, «e lui si sente responsabile nei suoi confronti». «Ho giurato di occuparmi di lei come se fosse mia figlia», aggiunse il bottegaio in tono spaventato. Soth congedò l'uomo, e la questione, con un gesto della mano. «Vai da lei, allora. Non capiresti comunque ciò che verrà detto qui. Ma prima che tu ti muova, giura sull'anima di quella donna che non ripeterai nulla di ciò che dovessi sentire.» Ambrose giurò e si precipitò sulle scale, sbuffando e tossendo. «Che mondo meraviglioso sarebbe se tutti rispettassero i giuramenti», commentò il signore di Nedragaard. «Se voi aveste onorato il vostro giuramento come Cavaliere di Solamnia, questo mondo non esisterebbe, Lord Soth.»
Il cavaliere della morte si voltò, inferocito. «Mi riferivo a te, signora, a una promessa che non hai rispettato.» «Allora non c'è niente di cui discutere.» Magda allentò la presa sul bastone, che scomparve. «Sette anni fa ho giurato che nessuno del mio clan avrebbe ripetuto ciò che sappiamo sul vostro infame passato, nemmeno a voi. In cambio, voi avete promesso di difenderci dagli assassini che Malocchio Aderre invia oltre il confine per ucciderci.» Si pizzicò un braccio. «Sono ancora viva, giusto? Perciò desumo che voi abbiate mantenuto la parola. Il fatto che non possiate più ricordare i dettagli della vostra esistenza prima che giungeste in questo luogo dimenticato dagli dei... be', dovrebbe provare che anche noi abbiamo mantenuto fede alla parola data.» «Ho catturato una delle spie di Aderre», replicò Soth. «Era a caccia della mia storia e qualcuno gli ha raccontato la verità.» Magda annuì. «Non ne dubito. Soltanto la verità poteva svegliarvi dal vostro sonno ad occhi aperti sul trono. Ma oltre agli appartenenti al mio clan ci sono altri uomini che sostengono di conoscere le vostre origini.» «Altri?» «Le Spine della Rosa Bianca. Si dice che sappiano persino più di noi sulla vostra vita prima della dannazione eterna.» «Chi sono?» «Banditi e guerrieri, per lo più appartenenti agli elfi delle Colline di Ferro», spiegò Magda. «Servono un generale solitario chiamato la Rosa Bianca.» «A che scopo?» «Il nome del generale dovrebbe aiutarvi a capire, Cavaliere della Rosa Nera. Vogliono sconfiggervi, distruggervi. Non so come siano venuti a conoscenza della vostra storia. Non ho mai incontrato il loro capo. Ma anche l'ultimo dei loro uomini conosce la storia della vostra vita. Forse il generale è un vostro vecchio nemico, no?» «Forse.» Soth misurò la stanza a grandi passi, le mani incrociate dietro la schiena. Dall'esterno giunse un acceso vociferare e l'abbaiare di un cane. Né Soth né Magda si mossero. Entrambi erano sicuri che i rispettivi seguaci se la sarebbero cavata da soli. Infine, il cavaliere della morte riprese a parlare. «Questa Rosa Bianca probabilmente fornisce informazioni ad Aderre, ma non sono convinto dell'innocenza della tua gente. Voglio una prova della tua lealtà.» «Non è la lealtà che mi lega a voi», ribatté Magda in tono distaccato.
«Dal momento in cui entraste nel campo della mia famiglia a Baronia e mi obbligaste a farvi da guida, siamo stati legati dalla necessità e dall'interesse personale.» «E dalla paura», aggiunse Soth. «Un tempo», confermò Magda. «Ma non sono più la ragazza che avete rapito. Ho visto cose più oscure di voi, ho compiuto azioni più terribili di quanto possiate immaginare. Ciò che ci lega ora è solo l'interesse personale.» Soth annuì. «Certamente. Allora basterà essere chiari su un punto: è nel tuo interesse stare dalla mia parte in questa battaglia, Magda Ulyanova Kulchevich. Non confondere la mia pazienza con la debolezza di un vecchio alleato dalla lingua tagliente.» Quell'ultimo commento colse Magda di sorpresa. «Alleato», ripeté e le dure pieghe del volto si ammorbidirono. Scoprì la spalla destra, rivelando tre lunghe cicatrici. Il tempo le aveva rese più tenui, ma non le aveva cancellate. «Gli artigli della gargotta», disse. «Un ricordino della lotta nel castello di Strahd. Mi fanno ancora male quando cambia il tempo.» «Vorrei ricordare più chiaramente quello scontro», commentò Soth. Senza timore di violare la promessa fatta, la raunie gli raccontò di come erano fuggiti dal castello di Ravenloft, di come lei aveva affrontato una delle gargolle del vampiro mentre lui sconfiggeva il drago rosso a guardia dell'uscita del castello. Mentre parlava, Magda camminava per la stanza secondo uno schema lento e deliberato. I suoi movimenti approfondirono alcuni dei dettagli più sottili della storia, fino a quando i gesti e le parole si intrecciarono in un'unica voce. Soth notò che le candele che illuminavano la stanza danzavano con lei. Le fiamme assunsero le forme di sottili figure: una giovane e un drago strisciante. Soth riconobbe persino se stesso, un cavaliere di fuoco avvolto in spire di fumo. Tanti anni prima, la notte in cui Soth era comparso nell'accampamento dei Vistani, Magda aveva usato la stessa magia per raccontare la storia del suo avo, l'eroe Kulchek. La recita delle ombre. Così l'aveva chiamata la nonna di Magda, Madame Girani. Prima che lui la uccidesse. Prima che lei lo maledicesse. Era il volto di Madame Girani quello che il cavaliere della morte vide in quel momento nelle fiamme delle candele e fu la sua voce quella che udì attraverso le labbra di Magda. «"Non tornerai mai più a Krynn, anche se la tua casa sarà sempre sotto i tuoi occhi!"»
«Sono stufo di questa farsa», sbottò Soth spezzando l'incantesimo della danza e i ricordi che aveva suscitato. «Incontrerai Aderre per dimostrargli che la nostra alleanza è intatta.» «Non sono niente per lui», replicò Magda. «Soltanto un'altra zingara da trucidare.» «Sarebbe proprio uno stupido. Tua nonna non mi ha forse intrappolato in questo regno maledetto con la sua maledizione? Non possiedi gli stessi poteri?» Soth non aspettò la risposta, si avvicinò alla porta e chiamò Azrael. Con sua grande sorpresa, il nano rideva quando entrò nella bottega. «Ehi, Magda», disse sghignazzando. «Il tuo bastardo ha cercato di addentare il piede di quel minatore e tirando gli ha staccato la suola degli stivali.» «Fra tre giorni mi incontrerò con Malocchio Aderre», comunicò Soth al nano, mentre lo spingeva nell'angolo in penombra. «Dovrai occupartene tu.» «Lo uccideremo?» domandò il siniscalco in tono speranzoso. «Tu non ci sarai», sottolineò Soth. «Farai meglio a impegnare il tuo tempo per cercare di scoprire l'identità della Rosa Bianca.» Afferrò Azrael per le spalle e i due scomparvero nell'oscurità. Inza e Bratu entrarono un istante dopo, sorreggendo Ganelon. Quest'ultimo zoppicava vistosamente. Lo stivale sinistro era completamente lacerato. «Quella bestia ha nuovamente dato i numeri», spiegò Inza. «Lo ha attaccato e non voleva mollare. Dovresti eliminarlo prima che uccida qualcuno.» Magda si avvicinò a Ganelon e s'inginocchiò davanti a lui. Esaminò il piede, pulendolo dal sangue con l'orlo della sottana. La pianta del piede era grigia, attraversata da strani graffi. «Non posso fare niente», disse allontanandosi rapidamente. «Mi spiace veramente.» «Nessun problema. Passerà», affermò Ganelon, avviandosi sulle scale. Gocce di sangue segnarono ogni gradino. Bratu si grattò la nuca. «Hai curato le ferite provocate dai morsi di cane molte altre volte. Perché non puoi...» Magda lo zittì con un'occhiata. «Quelle non sono ferite di cane», mormorò la raunie, quando Ganelon aveva ormai raggiunto il ballatoio. «Inoltre, abbiamo altre questioni di cui occuparci.» Si rivolse alla figlia. «Riunisci il clan.» «Per quale motivo?» chiese Inza.
«Per giurare nuovamente di mantenere il segreto sul passato di Lord Soth.» Bratu corrugò la fronte con espressione preoccupata. «Ce n'è forse bisogno?» Con fare distratto lasciò scivolare le dita su una cassa. Si sporcò la mano con la polvere che rivestiva ogni cosa nei pressi della miniera. «E poi dicono che noi siamo rozzi e sudici, eh?» Dall'altra parte della stanza, Magda osservava l'uomo. Esibiva una sicurezza che chiaramente non provava. I muscoli del collo erano tesi come corde di violino. «Quanto ti ha pagato?» gli domandò. Bratu non mentì né cercò di celare il proprio crimine. Al contrario, gonfiò il torace come se si compiacesse per quell'atto di coraggio. «Più che a sufficienza per quello che gli ho detto, considerato che non tutto era vero», affermò. «Hai infranto una promessa», lo accusò Magda. Bratu guardò Inza. Sperava di trovare in lei un valido sostegno, ma la figlia della raunie tenne gli occhi fissi sullo scrigno di legno. La confusione dell'uomo si trasformò rapidamente in atteggiamento di sfida. «Un giuramento a un uomo morto non è un vero giuramento», disse. Accorgendosi che con quella tattica non otteneva niente, cambiò rotta. «Non dobbiamo nulla a Soth!» Magda voltò le spalle allo zingaro. «Il giuramento lo avevi fatto a me», asserì. Il tono della voce era piatto, privo di emozione. La donna era immobile come una statua. «A tutti coloro che desiderano sentire, agli uomini e ...» «Magda, no!» gridò Bratu. «E alle bestie...» Il corpulento Vistani si precipitò da lei. «Abbi pietà!» «Io ti dichiaro Spergiuro.» Al piano superiore, Helain si svegliò gridando. Ganelon e Ambrose cercarono di tranquillizzarla, ma inutilmente. Le sue grida coprirono le loro dolci parole e le suppliche di Bratu. «Inza», implorò. «Aiutami.» La ragazza sollevò lo sguardo dagli intagli sul cofanetto. «Non posso fare niente», mormorò, le dita che seguivano i rampicanti intrecciati. «È fatta», affermò Magda. «E non si può più tornare indietro.» Disse alla figlia di lasciare ad Ambrose un appunto sul baratto, quindi uscì dalla bottega. Inza ordinò per iscritto al bottegaio di utilizzare il cofanetto come conte-
nitore per il sale che doveva loro in pagamento per il tappeto e altri oggetti. «Non lo apprezzerebbero comunque», mormorò in tono allegro. «Adesso so che cosa metterci dentro.» Le lacrime che gli bagnavano le guance, Bratu cadde in ginocchio ai piedi di Inza. Le si aggrappò alla gonna. «Falle rimangiare le sue parole», la implorò. «Se non lo farai, le dirò che non ero solo.» «No, non lo farai», replicò Inza. La sua voce aveva assunto un tono improvvisamente gelido, una ferocia che zittì Bratu. Guardò negli occhi verdi della donna e li trovò vuoti di ogni emozione a eccezione dell'ira. «Ci sono cose peggiori della Bestia, lo sai.» «Che cosa farò?» piagnucolò lo zingaro. «Che cosa farò?» Inza si aggirò fra gli scaffali della bottega fino a quando trovò ciò che cercava. Tornò da Bratu e gli fece cadere in mano un ago da maglia. «Naturalmente, la Bestia potrebbe essere solo una leggenda. Ma se così non fosse, questo potrà servirti.» Non si voltò indietro quando Bratu si portò l'ago all'orecchio e lo spinse dentro, prima in quello destro poi in quello sinistro. Ululando, gettò a terra il ferro insanguinato. Oscillò avanti e indietro, le mani strette ai lati della testa. Dopo qualche istante, la guardò con occhi spalancati, colmi di paura e con voce stridula disse: «La Bestia! Oh, Inza, la sento sussurrare!». 4 Azrael si fidava dell'oscurità. Gli aveva parlato molte volte nel corso degli anni, in molti luoghi diversi, e se il buio diceva sempre il vero, non usava mai la stessa voce due volte. Talora era una voce di donna, talaltra d'uomo. A volte era acuta, spesso sonora e vibrante. L'oscurità diceva ad Azrael cose che doveva sapere e, più importante ancora, cose che doveva fare. La prima volta che aveva ascoltato l'oscurità era nella lontana Brigalaure, il giorno in cui aveva sfondato con un martello il cranio del padre. La madre lo aveva cacciato dal laboratorio orafo per avere fatto cadere uno stupido opale, proprio come il padre lo aveva bandito dalla fucina per avere provocato un incendio. Non aveva speranze di ottenere un apprendistato dopo quei disastri, ma il padre aveva insistito perché pagasse sia per la sostituzione della gemma che per i lavori di restauro della fucina. Nei fumi dell'ira della discussione emersa, per quella che forse era stata la millesima volta, l'anziano nano aveva gridato al figlio: «Che cosa c'è che
non va in te?». Seccato all'inverosimile, Azrael aveva deciso di fare qualcosa che non aveva mai fatto prima: aveva cercato di rispondere alla domanda. I sacerdoti avevano sempre sostenuto che il modo più rapido per risolvere questioni irrisolvibili era attraverso la ricerca dell'anima, e così aveva fatto il giovane nano. Aveva cercato dentro di sé, poiché era convinto che se davvero c'era qualcosa in lui che non andava, il difetto doveva essere là dentro. Ma Azrael non aveva trovato la propria anima. Aveva trovato solo il buio. Gli aveva sussurrato con voce molto simile alla sua, ma priva di quella rabbia e risentimento che ormai era abituato a sentire nelle proprie parole. Aveva ormai dimenticato i termini esatti utilizzati dall'oscurità. Sapeva soltanto che quelle parole erano più sensate di quelle che i genitori, i sacerdoti o tutti gli altri gli avessero mai detto. Così aveva agito secondo il loro suggerimento. Ad Azrael piaceva pensare di avere colto di sorpresa il padre, che soleva ripetere quanto il figlio fosse incapace di usare qualsiasi tipo di strumento. L'oscurità non aveva suggerito al giovane nano di eliminare tutta la famiglia. Non ve n'era stato bisogno. Nell'istante in cui il corpo del padre aveva cessato di contorcersi e lamentarsi, Azrael aveva scoperto la propria vocazione. Le dita grosse e tozze che la madre aveva sempre ritenuto inutili per qualsiasi delicata attività artigianale avevano dimostrato di essere più che adeguate per spezzarle il collo. Forse non era sufficientemente forte per lavorare ore e ore alla fornace, ma i suoi compagni si erano dimostrati così lenti e impacciati da non riuscire a raggiungerlo quando era fuggito infilandosi negli stretti tunnel che incanalavano la spazzatura dalla grande città sotterranea. Il buio gli aveva nuovamente parlato nei labirinti senza luce fuori dalla città, mentre si nascondeva dalla Politskara, la temuta polizia che gli dava la caccia per l'assassinio della sua famiglia e di chiunque avesse osato mettergli il bastone fra le ruote nei mesi successivi alla morte del padre. In cambio della promessa di distruggere la bellissima Brigalaure e tutti coloro che vivevano fra le sue mura, l'oscurità aveva tramutato Azrael in un licantropo. Il nano ne aveva sentito parlare spesso, ma in tutte le storie i poteri di quelle creature erano descritti come delle maledizioni. Azrael non ne capiva il motivo. Nei primi stadi la trasformazione era dolorosa, ma con il tempo ci si era abituato. Talvolta riusciva persino a divertirsi e, comunque, i poteri che acquisiva valevano bene la sofferenza.
Soltanto una volta Azrael si era chiesto se l'oscurità l'avesse tradito. Dopo un anno di incessante caccia agli sventurati abitanti di Brigalaure, il licantropo aveva scoperto di annoiarsi. Aveva combattuto la noia, poiché gli era sembrata un segno di ingratitudine, ma non aveva potuto bandirla dalla propria mente, dove l'oscurità, ne era certo, aveva libero accesso. Era stato nel momento in cui l'insoddisfazione aveva raggiunto l'apice, che l'oscurità aveva trasportato Azrael da Brigalaure ai regni maledetti dove aveva vagato da allora. Inizialmente si era compianto per quel destino, sicuro che il proprio atteggiamento insofferente avesse provocato l'ira dell'oscurità, che non gli aveva dato alcuna possibilità di scelta. Un istante prima se ne stava accucciato in una caverna alle porte di Brigalaure, chiedendosi da dove fosse giunta la nebbia che lo aveva improvvisamente avvolto e un attimo dopo si era trovato in una terra desolata, conosciuta come Forlorn. Aveva odiato quella regione, alla quale mancava la bellezza di Brigalaure e l'allegria dei suoi abitanti. Non che le apprezzasse per loro stesse: senza la bellezza, non aveva niente da corrompere. Per un popolo che non conosce la gioia, paura e dolore sono solo una lieve gradazione della loro abituale e monotona malinconia. La sua successiva dimora a Gundarak non si era rivelata diversa. Il duca vampiro che regnava su quelle terre praticava quel genere di carneficina truce e generica che lasciava ad Azrael ben poco da fare. Gli eccidi sconsiderati giungevano addirittura a offendere il suo senso estetico. Se l'assassinio era un'arte, il duca Gundar era un imbrattacarte della peggior specie. Circondato giorno dopo giorno dai rozzi massacri del signore di Gundarak, Azrael era giunto a un punto tale di infelicità da prendere in considerazione l'idea di togliersi la vita. Era stato allora che l'oscurità, da molto tempo silenziosa, aveva ripreso a parlargli. Lievi sussurri, voci che alla luce della luna si elevavano da cadaveri impiccati, lo avevano condotto dal dominio di Gundar al regno di Barovia, dove gioia e terrore si mischiavano in modo stupefacente. Il signore di quella terra, il conte Strahd von Zarovich, aveva dipinto, sui suoi possedimenti, entrambe le emozioni con pennellate ampie e decise. Quando splendeva il sole, la felicità degli abitanti di quei luoghi era quasi palpabile. Quando scendeva la notte, la paura dilagava per la regione e sostituiva i colori accesi del giorno con tinte cupe. Quello era il mondo che Azrael poteva modellare, come gli aveva sussurrato la voce.
Alla fine, l'oscurità gli aveva fornito il mezzo per raggiungere tale obiettivo. L'oscurità gli aveva dato Lord Soth. Azrael non aveva afferrato subito il vero significato del loro incontro. Aveva semplicemente riconosciuto il potere grossolano di Soth e si era immediatamente calato nella parte del servo. Un errore comprensibile. Nella sua terra natale, il Cavaliere della Rosa Nera era stato un assassino a un livello che Azrael riusciva appena a immaginare. Quando gli era stata offerta la possibilità di impedire un cataclisma di portata mondiale, Soth aveva rifiutato, permettendo all'ira e alla gelosia di allontanarlo dalla missione affidatagli dagli dei. Ne era risultata la morte di centinaia e centinaia di innocenti. Quello era un crimine degno della peggior nefandezza, un crimine al confronto del quale le poche decine di assassini perpetrati da Azrael scomparivano. O così gli era sembrato all'epoca. Ora, dopo avere trascorso anni a guardare il cavaliere della morte oziare sul trono come un pezzo di metallo scartato, Azrael la pensava diversamente. Soth era debole, incapace di governare il suo regno. Persino i suoi crimini tradivano la sua inadeguatezza. Non aveva ucciso le innumerevoli vittime del Cataclisma di Krynn, aveva permesso loro di morire. Non poteva vantare più diritti su quelle morti di quanto Azrael potesse aggiungere le vittime della Febbre Bianca al proprio conteggio. Con il riconoscimento della debolezza del suo padrone, Azrael era giunto a una conclusione persino più importante: Soth era una pedina. L'oscurità lo stava usando per fornire un regno al suo vero erede, un appropriato canovaccio sul quale Azrael poteva dipingere il proprio capolavoro di terrore. Il dominio di Sithicus era sorto intorno a Soth, ma era destinato a lui, Azrael. Tutto ciò che doveva fare era impadronirsi del controllo del regno sottraendolo alle mani del cavaliere della morte. Ed era proprio ciò che programmava di fare. Ma prima doveva liberarsi di un sassolino nella scarpa che gli dava noia da decine d'anni. «Nessuno deve aprirlo», disse il nano. Batté la mano sullo scrigno al centro della bottega di Ambrose. «Chi dovesse disobbedire varrà fatto a pezzettini, chiaro?» Ambrose annuì con espressione cupa. «Preferirei che trovassi un altro sistema. Non mi piace trovarmi invischiato in un inganno a danno dei Vistani...» «Ti ho protetto dal giorno dell'incidente, o no?» replicò il nano, solle-
vando una mano per pizzicare la guancia paffuta del bottegaio. «Non avere paura. Non ti incolperanno per la merce alterata. Inoltre, ho investito troppo tempo su di te per permettere a una banda di stupidi borsaioli e puttane di tagliarti la gola.» Ambrose si allontanò, la testa china, le spalle curve. «Vorrei che lo facessero», mormorò. «Non servirebbe a niente», commentò Azrael in tono indifferente salendo sullo scrigno. Posò una mano sulla spalla di Ambrose e lo fece girare, avvicinandolo a sé e sollevandogli il viso con le dita tozze. «Non stai pensando di fare qualcosa di stupido, vero?» La risposta che Ambrose riuscì a balbettare era confusa ma soddisfò il nano, che con una spinta lo allontanò. «Uomo intelligente», commentò Azrael. «La ragazza di sopra conta su di te. Tradiscimi e non avrò motivo di impedire ai sorveglianti di metterla a lavorare.» Un ghigno gli illuminò il volto. «Sono sicuro che troverebbero qualcosa anche per lei. Non ci sarà con la testa, ma non è niente male... per un umano.» Il riferimento a Helain zittì Ambrose. Con una fragorosa risata, il nano saltò giù dallo scrigno. Gli stivali dalla suola di ferro avevano graffiato la superficie decorata del cofanetto. «Occupati dei tuoi affari, bottegaio, e sappi che in questo gioco stai dalla parte giusta.» «Non capisco che cosa tu voglia ottenere», osservò l'uomo. «L'unico premio che conti», replicò Azrael. «Tutto.» Il nano lasciò Ambrose ad aspettare l'arrivo di Inza. Mentre si avviava verso la porta, prese un pugno di carne sotto sale da un vaso sul bancone. Era terribilmente dura e sapeva di carne di cane mummificata. Azrael ne andava matto. Masticando un boccone di quella robaccia, si fermò a osservare quel luogo di dolore che era la Miniera di Sale di Veidrava. Alla fine della strada in cui si trovava il negozio di Ambrose, si ergevano le stamberghe dei minatori. Gli edifici erano ammassati sul pendio della collina, a una certa distanza dalla linea degli alberi. Se un ignaro viandante poteva credere che una simile disposizione servisse per difendere più facilmente il villaggio, i minatori sapevano che quell'isolamento serviva solo per agevolare il compito di controllo dei sorveglianti. Anche in quel momento, i cavalieri in armatura giravano intorno al villaggio di baracche come lupi intorno a un gregge. Gli occhi dei soldati, e i loro archi, erano puntati sui fatiscenti edifici, non sulla foresta.
Il tonfo regolare dello schiacciasassi e gli altri suoni più indefiniti della miniera coprivano qualsiasi altro rumore provenisse dal campo di derelitti. Azrael non sentiva le urla dei neonati o gli alterchi fra ubriachi, ma ne avvertiva l'odore. Si riempiva i polmoni del puzzo di urina, sangue e disperazione come un altro avrebbe potuto godere dell'aroma di un vino pregiato. C'era qualcosa in Azrael che a Veidrava aveva trovato terreno per attecchire. Era qualcosa di più di una semplice preferenza per quel luogo, più di un'affinità mentale. Un tipo spirituale avrebbe attribuito ciò che provava a una risonanza del posto con la propria anima. Ma Azrael sapeva con certezza, e un certo sollievo, di essere privo di qualsiasi valenza spirituale. Eppure, il nano sentiva qualcosa dentro di sé agitarsi gioiosamente a ogni cupo tramonto, impinguarsi con la lotta, la miseria e il caos che consumavano quella terra, e in particolare la miniera. Pensava che tutto ciò fosse dovuto all'oscurità, a qualche minuscolo frammento di essa che portava dentro di sé. Ma il più delle volte simili riflessioni metafisiche venivano spazzate via dall'inebriante piacere che Azrael traeva dalla sofferenza intorno a sé. In cerca di un simile dolce tormento, il nano voltò le spalle alle case dei minatori e si incamminò sul fianco della collina diretto alla miniera. Il sole ormai prossimo al tramonto rendeva quel luogo misterioso, affollato di ombre in movimento. Torri ed edifici si innalzavano dal terreno scavato. Funi pendevano fra i tetti, mentre canali di legno strisciavano più vicini al terreno. Uno spesso strato di polvere di sale copriva ogni cosa: le torri, il magazzino dal tetto di latta, persino i guardiani impegnati nel lento giro di ronda. Azrael mormorò un saluto a uno dei sorveglianti mentre si dirigeva verso l'edificio più vicino al pozzo principale. Era un blocco massiccio con pareti in legno senza finestre, che i minatori chiamavano Casa della Macchina. Nessuno, a esclusione di Azrael e dei sorveglianti più fidati, entrava là dentro. Gli operai che l'avevano costruita in soli tre giorni ora giacevano in una fossa comune poco distante. La maggior parte dei minatori riteneva che fra quelle mura fossero contenute prodigiose macchine in grado di alimentare il montacarichi, la coclea e la molatrice. L'intuizione era al tempo stesso corretta ed errata. La Casa della Macchina conteneva effettivamente la fonte primaria di energia della miniera, ma non era una fonte meccanica. Le macchine non piangevano. Lo sferragliare delle catene e il frastuono dei martelli coprivano i lamen-
ti per chiunque passasse accanto alla Casa della Macchina. Ma una volta percorso il breve tunnel che serviva come unica entrata alla Casa della Macchina, Azrael riuscì a udirli distintamente. Là, nella penombra, sedeva un gigante. Si trovava in quella posizione da ormai cinque anni, da quando la Casa della Macchina era stata costruita intorno a lui. Sbarre di ferro gli inchiodavano le gambe a terra con angolazioni che facevano venire i brividi solo a vederle. Anche senza le catene, quegli arti sudici gli erano chiaramente inutili. «Nabon! Smettila di piagnucolare», gridò il nano. «Finirai per fare arrugginire gli ingranaggi.» Il gigante continuò a singhiozzare, anche mentre spostava un'imponente ruota con una mano e faceva girare una catena con l'altra. Convinto che il bruto non l'avesse sentito, Azrael afferrò una frusta appesa alla parete della galleria. Ci vollero tre frustate per attirare l'attenzione di Nabon e altre due per fermarlo. «Ma il montacarichi», iniziò il gigante, lanciando un'occhiata a un pilastro segnato con svariati simboli misteriosi; una freccia arrugginita dondolava fra due di quei segni. «Sono bloccati fra le gallerie.» «Non ribattere», ruggì Azrael. Fece schioccare la frusta il più vicino possibile al volto del gigante, colpendolo al torace. «Tu fai quello che ti dico io, quando te lo dico io.» «Sì, grande Piaga.» Il nano sorrise. La Piaga di Sithicus era il titolo coniato dallo stesso Nabon per definire Azrael. Al terribile siniscalco era piaciuto al punto tale da spingerlo a ordinare ai sorveglianti della miniera di chiamarlo usando quell'appellativo. Il titolo era poi passato di bocca in bocca fino a raggiungere gli elfi e i Vistani. Soltanto gli esseri umani sembravano riluttanti a usarlo, non riuscendo a capire come qualcuno potesse considerare un onore un simile soprannome. «Vado giù nella cappella», annunciò il nano. Nabon smise di far girare la catena. Da qualche parte nelle vicinanze, un immenso martello si fermò. «Che cosa stai combinando?» gridò Azrael. «Continua a far funzionare lo schiacciassi e lascia perdere il montacarichi.» Nabon esitò. Azrael aspettò tre secondi, quindi buttò via la frusta. Dall'ombra produsse un enorme maglio. La testa dell'arma era rivestita di metallo, il legno punteggiato di sangue rappreso. Diresse il maglio contro le gambe del gigante, sebbene i colpi ferissero più l'anima della creatura
che gli arti ormai deformi. Un tempo, Nabon era stato un viandante, un viaggiatore senza una particolare meta. Viaggiare era stato il suo unico desiderio, un piacere che si era concesso per settimane, mesi, anni. Si era sempre tenuto sui sentieri segreti e nascosti che serpeggiavano per i regni oscuri, terre così desolate che persino un gigante poteva aggirarvisi senza essere visto. Non aveva mai fatto male a nessuno. Non aveva mai chiesto nulla se non la libertà di viaggiare. Ad Azrael sarebbe piaciuto potersi vantare della cattura del bruto, ma quell'onore spettava a un altro. Il nano doveva accontentarsi di mietere i frutti di quel gesto infido. Poteva solo vantarsi di avere scoperto che il modo più rapido per piegare la volontà del gigante era spezzargli le gambe. Ciononostante, Nabon sperava che un giorno avrebbe ripreso il cammino. Era quella speranza, più di ogni catena o minaccia di violenza, che aveva piegato il suo animo gentile ai perfidi capricci di Azrael, poiché quest'ultimo aveva promesso che gli avrebbe curato le gambe, ma solo se avesse eseguito i suoi ordini. Avvicinandosi al gigante, Azrael sollevò il maglio. «Ti riduco le ossa in polvere, Nabon. Lascia andare quel montacarichi.» Il gigante chiuse gli occhi, come se così potesse attenuare l'orrore di ciò che stava per fare. Non funzionò. Aprì la mano e lasciò che la ruota girasse sempre più fretta, fino a quando si fermò di colpo. Il montacarichi aveva raggiunto il fondo del pozzo. Coloro che vi erano sopra erano sicuramente morti. Quando Nabon riaprì finalmente gli occhi, le lacrime si erano asciugate. Con una mano callosa tirò la catena dello schiacciasassi. Allungò l'altra, il palmo rivolto verso l'alto e disse: «Che cosa vuoi che faccia ora, mia Piaga?». Il tono era piatto, privo di emozione. «Così va meglio», affermò soddisfatto il nano. «Puoi fermare lo schiacciasassi. Vado giù nella cappella.» Azrael aspettò che Nabon preparasse lo speciale montacarichi, una scatola di ferro nero utilizzata solo da lui. Il nano entrò, chiuse la grata e si sedette sulla panca imbottita. Nabon fece scivolare indietro la botola che portava al pozzo principale. Il suono scaturì dalla cava come acqua da una sorgente. Le grida e il clamore provenienti dal luogo in cui si era schiantato il montacarichi si mescolavano a rumori più terreni: il fragore di picconi e martelli, il ragliare dei muli, le grida e le imprecazioni dei minatori impegnati nel loro massacrante lavoro.
Mentre il montacarichi iniziava la discesa, Azrael si beava dei rumori e dell'oscurità. Non temeva che Nabon lo facesse precipitare. Era una possibilità remota quanto una rivolta da parte dei minatori o il tradimento di Ambrose. Lo temevano troppo per sfidarlo. Inoltre, aveva lasciato loro sufficiente speranza da prevenire la totale disperazione. Sarebbero stati pericolosi se avessero pensato che non avevano niente da perdere, ma il nano non aveva nessuna intenzione di permettere loro di rendersene conto. Il montacarichi si fermò dolcemente in un punto intermedio del pozzo. La piattaforma era immersa nell'oscurità e disseminata di detriti, che il nano superò con la disinvoltura con la quale un'altra creatura avrebbe attraversato un campo inondato dalla luce del sole. La piattaforma si restrinse rapidamente per poi terminare in un tunnel ancor più stipato di travi marce e utensili rotti. Ogni venti passi, si apriva una nicchia. Sagomata nelle spesse pareti di sale, ciascuna nicchia era abbellita da candelabri cesellati a forma di fiore ma privi di candele. L'oscurità aveva reclamato quella galleria da quando l'ultimo minatore l'aveva attraversata circa una decina di anni prima. Dopo un breve tratto, il tunnel si apriva in un ampio corridoio, libero da detriti di ogni genere. Le pareti e il pavimento erano lisci e uniformi. I semplici candelabri erano stati sostituiti da elaborate statue di cani, cervi e altre e più esotiche creature scolpite nel sale. Il soffitto era decorato con intagli: nuvole sospinte dal vento e falchi che si libravano in aria davano l'illusione di un cielo aperto. Alla luce delle torce, l'effetto era sconvolgente: una scanalatura nella cupola di sale faceva scintillare d'azzurro la roccia. Azrael non si guardò intorno mentre avanzava con passo deciso lungo il corridoio verso l'apertura ad arco posta all'estremità opposta. Non aveva ancora trovato il tempo per rinnovare le statue e il soffitto. Restavano ancora troppe testimonianze dell'originale scopo di quel luogo; la sua identità come un'isola di bellezza nella desolazione di Veidrava faceva sentire il nano a disagio. Non si poteva dire la stessa cosa della stanza adiacente. Là, Azrael si sentiva a casa. Appena il nano entrò nella sala, deboli fiammelle sprigionarono dalle candele. Quella magia non era opera di Azrael, ma di qualche stregone del passato. L'ampia stanza a volta un tempo era stata una cappella. Un attento visitatore avrebbe riconosciuto le testimonianze del suo passato. Al centro della
sala era sistemato un blocco crepato e macchiato che un tempo serviva da altare. Come tutti gli oggetti nella cappella era stato scolpito nel sale. Panche ormai deformi erano disposte in file ordinate; le masse arrotondate sembravano figure inginocchiate davanti al tavolo sacrificale. Ripugnanti figure umane, vestigia di statue, erano poste lungo le pareti. Un tempo eroi della fede, erano ridotti ad ammassi grotteschi che persino la più umile divinità umana avrebbe bandito dal proprio tempio. La luce vacillante rifletteva ombre che serpeggiavano lungo i muri e sul pavimento. Le forme sinuose sembravano seguire Azrael, accompagnandolo per la stanza come nessuna ombra terrena avrebbe potuto fare. Apparivano staccate dagli oggetti che le avevano prodotte. «Adesso non ho tempo per voi», disse il nano. Nel silenzio della cappella si udì una flebile risposta, un sussurro che chi non fosse mai entrato in quel luogo maledetto avrebbe scambiato per una fredda brezza. Ma Azrael conosceva quel luogo e i suoi abitanti piuttosto bene. «Fra non molto sarete tutte libere», annunciò. «Per la fine dell'anno vi darò un corpo.» Uscì dalla cappella attraverso una galleria situata dalla parte opposta rispetto al punto in cui era entrato. Dietro di lui, le ombre danzarono, mimando atti osceni sull'altare abbandonato e sulle statue deformi. Anche quando le fiammelle magiche si abbassarono fino a spegnersi, forme più oscure del buio della cappella scivolarono nelle tenebre e sussurrarono con voci che pochi uomini sani di mente avevano mai udito. Oltre la cappella, una stretta galleria si dipanava nelle profondità della terra. Qualcosa di gigantesco aveva scavato laggiù, con artigli che erano affondati nel sale e nella pietra come fossero stati burro. Quell'impresa lasciava esterrefatto persino Azrael, soddisfatto di aggirarsi per quel dedalo di gallerie e quella rete di stanze da esso collegate. Le stanze erano perfette per ospitare il bottino del nano. Scatole, casse, sacche, persino alcune piccole bare costruite per le giovani vittime della peste, erano sistemate nelle cavità e tutte straripavano d'oro e d'argento. Azrael aveva impiegato vent'anni per accumulare quel tesoro, derubando gli abitanti del regno e impossessandosi di parte dei profitti della miniera. Ma mentre avanzava nel tunnel non si soffermò ad ammirare l'oro; il nano si vantava del personale disinteresse per i metalli preziosi, disinteresse totalmente atipico per quelli della sua razza. Oro e argento gli interessavano solo per ciò che potevano comprare, e quelle monete erano destinate a un acquisto che pochi potevano immaginare.
Azrael sapeva che la vista di tutto quel denaro, più che sufficiente per il raggiungimento del suo obiettivo, avrebbe dovuto renderlo felice. Sapeva anche che presto i Vistani non lo avrebbero più impensierito, per lo meno l'unica di loro che contasse. Aveva umiliato Ambrose, ferito Nabon, e stava per raggiungere il luogo a lui più caro di tutta Sithicus, un luogo che gli riempiva il cuore di gioia. Ma tutto ciò non bastava a fargli dimenticare che Soth si era alzato dal trono. «Maledetto», imprecò. Un ghigno gli illuminò il viso appena si rese conto di ciò che aveva detto. «Eh, troppo tardi.» Un arcano bagliore rosso alla fine della galleria informò Azrael di essere giunto a destinazione. L'odore di acqua salmastra, più forte lì che nel resto della miniera, saturava l'aria. Una fredda umidità avvolse il nano come indumenti bagnati. Azrael emerse dal tunnel sulle rive di un grande lago sotterraneo. Sopra di lui, imponenti stalattiti rifulgevano di una luce violacea, la cui radiosità era provocata dal muschio che cresceva sulla roccia. La pianta malsana non attecchiva in nessun altro punto della miniera, ma se era inutilizzabile come fonte luminosa, Azrael aveva scoperto che da essa poteva ricavare un ottimo veleno, che provocava nelle vittime un «divertente» isterismo. L'acqua era nera e immobile, una lastra di vetro scuro che si allungava verso l'orizzonte. Azrael immerse una mano nel lago. L'acqua appariva nera anche nel suo palmo e aveva una strana consistenza, più pesante e densa dell'acqua normale. Eppure, il nano non esitò ad abbassare il viso e a dissetarsi con il liquido scuro. A ogni sorso i denti dolevano e le tempie pulsavano. Mentre gli scivolava in gola, l'acqua bruciava come pece liquida. Quell'insopportabile calore aveva appena raggiunto le viscere che il nano sentì le prime voci. Si sedette prima che lo soprafacessero. Erano frammenti sconnessi, uno sciame di parole che affollarono la mente di Azrael. Domande senza risposte, grida di gioia, urla di dolore, il canto funebre delle banshee a Nedragaard Keep; suoni che giunsero a lui da tutto il dominio. Si concentrò e iniziò a eliminare le voci monotone della quotidianità. Al nano non interessavano le ciance della gente comune intorno al tavolo per la colazione né gli stupidi balbettii degli amanti. Voleva sentire la paura... «Presto, Thomas, nasconditi! Sono armati!» O il dolore... «Non posso più andare avanti così.»
O ancora meglio, parole toccate dalla pazzia... «Morto, eh? Pazienza. Sappiamo come utilizzare anche il tuo cadavere, mio caro.» Azrael ascoltò per alcuni minuti, lasciando che il dolore e la sofferenza di Sitichus gli riempissero la mente. Si era imbattuto in quel luogo una decina di anni prima, non molto tempo dopo che la Grande Faglia si era aperta sulla superficie. Le scosse che avevano accompagnato quell'evento avevano fatto crollare il muro posteriore della cappella svelando il tunnel che lo aveva condotto dove si trovava ora. Era giunto alla conclusione che quel Lago delle Voci, come lo aveva battezzato, era in qualche modo collegato alla faglia e che l'immensa spaccatura raccogliesse le grida e i sussurri e li canalizzasse laggiù. Quel primo giorno, la cacofonia di suoni aveva minacciato di annientargli la mente, ma alla fine era riuscito a padroneggiarla. E da quel caos aveva estrapolato una chiarezza mentale che lo rendeva immune alla confusione che affliggeva quelle terre. Soltanto lui ricordava con chiarezza cristallina il proprio passato, e quello di chiunque altro gli interessasse. Poiché quando Soth e gli abitanti del paese sollevavano le loro voci in confessione, Azrael li udiva e in seguito ricordava i loro peccati. Il perché le voci del lago divenissero udibili solo dopo avere bevuto l'acqua fetida non lo interessava. Azrael sapeva solo che quel luogo era più utile di una rete di spie. Un sorso e poteva sentire chiunque volesse; be', forse non proprio tutti. Per qualche oscura ragione la Rosa Bianca, il Ciabattino Sanguinario e la Bestia Sussurrante erano irraggiungibili. Come tutto quello che riguardava il trio, quella era una questione alquanto preoccupante, ma era sicuro di riuscire presto a risolverla. L'oscurità abitava nell'immensa distesa nera del Lago delle Voci e Azrael aveva piena fiducia nell'oscurità. Era stata una voce nel buio che lo aveva spinto a sorseggiare l'acqua il giorno in cui aveva scoperto quelle sponde senza vita. Così come gli aveva dato Soth, gli aveva dato accesso a tutte quelle voci, a quelle informazioni. E ora l'oscurità sfruttava la cacofonia per trasmettergli un messaggio che aspettava da tempo. La voce dell'oscurità non si confondeva nel mormorio; superava le chiacchiere terrene, sottolineando le singole parole, sovrapponendo frasi che erano già state pronunciate. «A quelli della miniera non piacerà.» «Fai attenzione quando ti parlano, ragazzo.» «Perché tutti dovrebbero sempre interessarsi di te, Ginnie?»
«Dovremmo incontrarli al confine a mezzogiorno. Vieni?» «Adesso?» mormorò Azrael. Si concentrò, spazzando via ogni mormorio tranne quello di due voci familiari. «È una bestia», affermò Magda. «Non è degno della vostra considerazione.» Azrael avvertì l'affanno della donna. Un affanno provocato non dalla paura dell'imminente incontro, ma dal freddo. Il nano sorrise. Sta davvero invecchiando, pensò, se un piacevole fresco come quello odierno la fa tremare. La risposta di Soth fu un brontolio spazientito, ma Magda non desistette. «Non dovreste fidarvi di Azrael. Non ci si può fidare di quell'essere.» Il sorriso del nano si aprì in un ghigno soddisfatto per l'ironia della situazione, e la sua risata volgare risuonò nel crepuscolo purpureo che sovrastava il Lago delle Voci. Nell'eco, anche l'oscurità rideva, ma Azrael era troppo preso dalla propria ilarità per avvertire il tono derisorio della risata. 5 Il vento frusciava intorno alla figura ingannevolmente fragile di Magda sollevandole ciuffi di capelli grigi. Era poco più che una leggera brezza, il fresco respiro del crepuscolo, ma la donna tremava. Il freddo ricordava al suo corpo vecchie battaglie, contrasti e ferite non ancora sanate. A casa si sarebbe avvolta nel suo scialle preferito, ma lo aveva lasciato al vardo. Sarebbe stato controproducente presentarsi a Lord Aderre fasciata come una vecchia e debole nonna, sebbene Magda dovesse ammettere che quella sera si sentiva il doppio dei suoi cinquant'anni. La presenza di Soth non era certo di aiuto. Come sempre, il cavaliere irradiava il gelo della morte. Magda si manteneva a una certa distanza da lui, ma serviva a ben poco. Lanciò un'occhiata al suo silenzioso compagno. Si chiese se per lui fosse ancora più dura. Il peso di cinquecento anni gravava sulle sue spalle senza la speranza della morte a liberarlo. La Vistani scosse la testa. Non aveva senso provare pietà per il nonmorto. Era stato l'artefice del proprio destino, di cui andava anche fiero. Quell'atteggiamento autodistruttivo non abbandonava Soth e influenzava qualsiasi decisione prendesse, fino alla scelta di Azrael come siniscalco del dominio.
«È una bestia», affermò Magda senza tanti preamboli. «Non è degno della vostra considerazione.» La risposta di Soth fu un brontolio spazientito. Non bastò a convincere la zingara a cambiare discorso. «Non dovreste fidarvi di Azrael. Non ci si può fidare di quell'essere.» La sua voce assunse un tono irritato. «Dopo tutti questi anni, dovreste sapere che bestia è. Eppure continuate a tenerlo accanto a voi.» Nell'ultima ora Magda aveva cercato più volte di spezzare il silenzio. Era stanca e infreddolita e quella tranquillità non serviva certo a distrarla dalla propria situazione. Magda e Soth erano al centro di un ponte di pietra che attraversava un ramo collaterale del Musarde, il piccolo corso d'acqua conosciuto come le Lacrime della Vedova. Al di là del ponte, si estendeva il dominio di Malocchio Aderre, una terra letale per tutti i Vistani. Nonostante i suoi poteri, nonostante gli anni trascorsi a combattere le terrificanti creature che infestavano le notti di Sithicus, Magda non si sarebbe recata in quel luogo se Soth non avesse richiesto la sua presenza. Richiesto? Magda aggrottò la fronte. Non era stata una richiesta a condurla in quel luogo pericoloso, ma un ordine. Naturalmente avrebbe potuto rifiutare e fare pagare cara quell'insolenza al signore di Nedragaard. Ma Soth aveva ragione nel sostenere che, in quel momento, mostrare la loro solidarietà era importante. Sarebbe servito per tenere a bada Malocchio, almeno per un po'. Inquieta, Magda accelerò il passo sulle pietre sbozzate che rivestivano il ponte fra le due terre. Si fermò per guardare che cosa avesse attirato l'attenzione del suo segugio. Sabak annusava una chiazza scura. Sangue. Magda non sapeva della battaglia che aveva avuto luogo in quel punto, di come un animale coraggioso avesse cercato di portare il suo padrone al di là del ponte e verso la salvezza; ma la macchia rossa diceva a Sabak tutto ciò, e anche di più. Il cane leccò il sangue, annusò i brandelli di carne di cavallo rimasti sul ponte. In quel miscuglio di paura, sangue e sudore, riconobbe l'odore dell'unico animale che il suo cuore di cane era in grado di odiare: Azrael. Un ringhio basso e profondo emerse dalla gola di Sabak, riecheggiò oltre il ponte e nella valle. Il rombo feroce sembrò infinito. Nemmeno la fitta foresta riuscì a contenerlo. I nervi già tesi, Magda non aveva né la voglia né la pazienza di dare retta alle stupidaggini di Sabak. Fischiò. Le orecchie del segugio si drizzarono immediatamente. Dopo un breve istante di esitazione, il gigantesco cane
trotterellò silenziosamente al fianco di Magda. La zingara posò le mani sul collo dell'animale e inconsciamente iniziò a lasciare vagare le dita sul morbido pelo grigio, calmando se stessa e il cane. La voce gelida di Lord Soth interruppe quella momentanea tregua. «Potrei farti la stessa domanda, Magda Ilyanova Kulchevich.» Nel vedere l'espressione confusa della zingara, continuò: «Mi hai chiesto perché permetto a una bestia come Azrael di servirmi. Eppure tu tieni al tuo fianco una creatura altrettanto feroce e imprevedibile». Indicò Sabak, che fissava il cavaliere della morte senza mostrare la minima paura. «I tuoi stessi figli vorrebbero vederlo morto. C'è forse qualche membro del tuo clan che non tema quella creatura?» «No.» «Sicuramente tua figlia ti avrà messo in guardia dicendoti che il segugio potrebbe rivoltarsi anche contro di te.» «Lo ha fatto.» «E ciononostante continui a tenere la bestia con te e pretendi che la tua gente l'accetti, nonostante ne sia terrorizzata.» Magda annuì, ma aveva perso il filo del discorso. La sua attenzione era invece focalizzata su Soth. L'argomento sembrava avere acceso una fiamma in lui. Dalle sue parole traspariva una passione che la donna non sentiva dai tempi del loro viaggio nel dominio di Strahd. «Azrael per me è lo stesso», proseguì Soth. «È la mia bestia, ed è anche utile, nonostante il suo bisogno di rubare.» Sabak sbuffò a una mosca che gli ronzava intorno. A un tratto, il cavaliere della morte si chinò su Magda e disse: «Entrambi sappiamo fin troppo bene che uccideremmo le nostre bestie all'istante se solo osassero rivoltarsi contro di noi.» Soth sembrava propenso a continuare la conversazione, ma un tuono risuonò nella foresta. Proveniva da nord. Gli uccelli si levarono in volo, sbattendo le ali nel cielo dorato. Magda sentì la terra tremare: passi pesanti di un gruppo di creature gigantesche. Guardò i compagni di viaggio. Soth e Sabak erano immobili, quasi fossero stati intagliati nella pietra del ponte. Magda non era così tranquilla; il cuore iniziò a galoppare e un lieve rossore le imporporò le guance. Malocchio Aderre era arrivato. Tredici orchi costituivano l'avanguardia, marciando lungo il limitare della stretta strada, schiacciando le fragili piante del sottobosco e sradicando
alberi. Come tutti quelli della loro specie, erano enormi giganti dalle cui orbite rosse traspariva ben poca intelligenza. Alcuni avanzavano eretti, ma la maggior parte camminava accovacciata come scimmioni. Dovevano avere ricevuto l'ordine di estirpare le piante che ostacolavano la loro avanzata, perciò la loro postura gli risparmiava parte della fatica. Magda studiò gli orchi, mentre dodici di loro si disponevano in semicerchio su entrambi i lati della strada, bloccando l'estremità del ponte che terminava nella terra di Aderre. A una prima occhiata non apparivano particolarmente impressionanti. Alcuni indossavano maglie di ferro arrugginito, altri indumenti di pelo di ratto. Ma bastava spostare lo sguardo sulle loro armi per cambiare idea. Le mazze erano ormai dentellate per le innumerevoli battaglie sostenute e ricoperte di macchie scure, a ricordo del sangue versato dai nemici. Il tredicesimo orco, tale Onkar, era staccato dagli altri. Non era né più sporco né più rude dei suoi fratelli, di altezza e corporatura media. Ciò che distingueva Onkar era una caratteristica particolare, o meglio la mancanza di essa. Quando l'orco si avvicinò al ponte, si acquattò di profilo. Da quell'angolatura, Magda riuscì a vedere che gli mancava il naso. Prima che la Vistani potesse chiedersi che cosa fosse successo al muso dell'orco e che prezzo avesse dovuto pagare il nemico che aveva osato tanto, il semicerchio si aprì lasciando passare un cavaliere solitario: Malocchio Aderre. Cavalcava uno stallone nero così imponente da potere trasportare con facilità uno dei mostruosi soldati. Un mantello color della notte fluttuava dietro di lui come le ali di un immenso uccello predatore. Pantaloni, stivali, camicia, guanti e ogni altro accessorio dell'uomo era dello stesso color ebano. Soltanto il viso, bianco e levigato come ossa sbiadite, creava un acceso contrasto. E in lui era tutto così: bianco e nero. Aderre era tutto estremi e nient'altro. Tirò le redini per fermare il cavallo. Dietro di lui, una ventina di cavalieri armati e un'altra dozzina di orchi si bloccarono con un sinistro sferragliamento. Malocchio tenne lo sguardo fisso su Lord Soth, mentre la retroguardia si disponeva lungo le rive del fiume. L'ombra di una ruga solcò la maschera che era il suo volto, quando il cavaliere della morte non reagì in alcun modo a quello spiegamento di forze. Con un unico fluido movimento, Malocchio scivolò giù dal destriero, la cappa svolazzante, i neri speroni tintinnanti. Mentre smontava, due soldati si avvicinarono. Erano gemelli, perfettamente identici, probabilmente
mezzelfi, immaginò Magda. Simili incroci di razze erano piuttosto comuni a Sithicus ma non nel regno di Malocchio. Quest'ultimo doveva averli portati con sé per qualche precisa ragione, pensò la zingara. Ma quale? Lord Aderre si avvicinò all'estremità del ponte, il punto più estremo del confine meridionale di Invidia. Se anche avesse voluto, non avrebbe potuto andare oltre. All'interno delle loro terre i signori dell'oscurità erano padroni assoluti, ma quelle stesse terre costituivano anche la loro prigione. I gemelli affiancarono il loro padrone, pur mantenendosi rispettosamente a qualche passo di distanza. Tenevano gli occhi bassi, le mani intrecciate davanti a loro come monaci in preghiera. Il resto delle forze di Aderre si agitava inquieta. Gli orchi e i soldati umani non amavano le posizioni di stallo dettate da quel genere di azione diplomatica. Preferivano negoziare ricorrendo a bastoni e tizzoni ardenti. Per alcuni istanti né Soth né Malocchio aprì bocca. Era come se una legge non scritta decretasse che parlare per primi corrispondeva a un'ammissione di debolezza. Lo stallo sarebbe proseguito oltre il tramonto e per tutta la notte se Magda non avesse interrotto la sfida. Qualsiasi paura Malocchio avesse suscitato nella Vistani era sparita, svanita alla comparsa dell'uomo. Era così che spesso accadeva con la paura, aveva scoperto: la bestia semi nascosta era sempre più terrificante della creatura acquattata sotto il cielo, anche se quest'ultima non era meno pericolosa, ma semplicemente più semplice da gestire. «Per quanto tempo voi orgogliosi uccelli pensate di restare appollaiati in questo posto?» domandò in tono brusco. «Come voi ben sapete, l'inverno non è lontano. Sarà una lunga attesa, dovremmo cercare qualcosa con cui scaldare i nostri nidi.» «Zittisci quella ripudiata che ti si aggrappa al mantello», inveì Malocchio. Appena si rese conto di essere stato spinto a parlare per primo, avvolse un occhio con due dita della mano sinistra in gesto scaramantico contro la magia della zingara. Magda sorrise fra sé e sé. Non aveva dovuto ricorrere a nessuna magia per sciogliere la lingua di Aderre. Nonostante l'ostentata spavalderia, quel macellaio non si sentiva sicuro. Forse era proprio quello il motivo per cui si era presentato con quello spiegamento di forze. Più forte era lo sferragliare delle armi, meno percepibile era il tremito nella voce del capitano. Anche Lord Soth sembrò avvertire l'ansia del giovane, poiché le sue prime parole furono tanto provocatorie quanto inaspettate. «La mia alleata non conosce nobiltà», esordì. «Perciò non vi chiederò di perdonarla, poi-
ché non farlo significherebbe abbassarvi a un rango inferiore.» Malocchio ingoiò qualsiasi mordace risposta avesse sulla punta della lingua. Fece un gesto a uno dei mezzelfi, che si avvicinò srotolando una pergamena. Con voce più sicura di quanto avrebbe dovuto essere, lesse: «"In nome della giustizia e dell'onore, la popolazione di Invidia chiede l'estradizione di Magda Kulchevich e di tutti i Vistani che viaggiano con lei, che siano membri della banda di ladri conosciuta come i Vagabondi o semplicemente..."» «Basta», lo interruppe Soth. Il mezzelfo sollevò gli occhi dalla carta. Forse era incredibilmente stupido o soltanto tranquillo per la vicinanza di Lord Aderre, fatto sta che abbassò nuovamente lo sguardo sull'editto e continuò. «"O semplicemente quegli abitanti di Sithicus nelle cui vene scorre sangue Vistani. I suoi crimini sono innumerevoli, ma includono..."» Lord Soth parlò nuovamente e questa volta pronunciò una parola magica. A un tratto, il mezzelfo che con tanta audacia proclamava l'editto lasciò cadere la pergamena. Un'espressione confusa apparve sul suo volto, subito seguita da una smorfia di dolore. L'uomo crollò a terra, contorcendosi violentemente mentre la parola magica faceva il suo corso. Un liquido fluido, che fino a un istante prima era stato il suo cervello, gli fuoriuscì dalle orecchie e dal naso. Il soldato vomitò i resti del proprio intestino. Ma la parola non si fermò e continuò a lavorare all'interno di quel corpo fino a quando del mezzelfo non restò che un mucchietto di pelle abbandonato sul terreno. «Non sono venuto qui per ascoltare le richieste del "popolo di Invidia"», affermò Soth. «E comunque, il vostro scagnozzo ha avuto la mia risposta. Ora, Lord Aderre, abbiamo alcune questioni di cui discutere.» «Era sotto la mia protezione», proclamò Malocchio riferendosi al mezzelfo. «Lo capisco», replicò Soth, «ma gli avevo detto di fermarsi. È stata la sua impudenza a portarlo alla morte, non la vostra incapacità come protettore.» Malocchio abbozzò un inchino. «Quale bontà a volere discolpare il mio nome.» Soth accettò il ringraziamento con un lieve movimento del capo. Mentre il signore di Invidia si sollevava, un pugnale apparve come per incanto nella sua mano. «Vi ripagherò con la stessa cortesia appena avrò fatto tacere quella strega Vistani per la sua impertinenza.» «Sarebbe divertente vedervi impegnato in un simile tentativo», rimbeccò
Soth con tutta calma, «ma vi farò il piacere di impedirvi di rendervi ridicolo davanti ai vostri uomini.» Indicò il pugnale di Aderre. «A meno che non pensiate di sollevare quell'arma contro di me, vi consiglio di rimetterla nel fodero.» Le truppe di Invidia si agitarono nervosamente. I soldati umani erano sufficientemente addestrati da non sfoderare le spade, ma gli orchi sollevarono i bastoni e biascicarono bieche minacce. Tutti erano pronti per l'attacco, aspettavano solo una parola di Lord Aderre. «Mi state tentando», commentò Malocchio dopo alcuni istanti di tensione. Fece scivolare il pugnale nella manica e proseguì: «Avete riposato troppo a lungo sul vostro trono di polvere. Le cose sono cambiate mentre dormivate, non-morto. Sono sorti poteri che non vi temono». «E invece dovrebbero», commentò Soth. «La carcassa che svolazza ai vostri piedi come una vela stracciata dovrebbe essere una prova sufficiente.» Malocchio si strinse nelle spalle. «Si dice che nel vostro regno le cose non vadano meglio che per questa sfortunata anima. I viandanti tornano con racconti...» «Finalmente al nocciolo della questione», osservò Soth. «Chiamateli viandanti, agenti o spie, sappiate che non permetterò che altri vostri scagnozzi vaghino per i miei territori.» «La vostra stessa gente è più che felice di aiutarmi», replicò Malocchio in tono beffardo. «Sono tutti pronti a raccontarmi ogni dettaglio su di voi a patto che non li rimandi a Sithicus.» Spinse avanti il mezzelfo ancora in vita; quest'ultimo era così sconvolto per il destino toccato al gemello che non riusciva a distogliere lo sguardo da terra. Malocchio gli lanciò un'occhiata e scoppiò a ridere. «Non sembra molto sveglio, ma non si può pretendere di più dai meticci, no? Naturalmente voi non ne sapete niente. Immagino sia contro il vostro codice militare generare bastardi.» Magda strinse i denti. Finalmente aveva capito perché Malocchio avesse esibito quei particolari traditori. Costituivano una prova. Uno doveva servire per valutare il potere della magia del cavaliere della morte, l'altro per scoprire lo stato della sua memoria. Malocchio doveva avere scoperto a sufficienza del passato di Soth per sapere del figlio che aveva procreato con la fanciulla elfica. La Vistani aprì la bocca per rispondere, per dire qualcosa che avrebbe rovinato la prova di Malocchio. Non ne ebbe la possibilità. Lord Soth agitò
una mano, quasi a volere cancellare dall'esistenza il tremante mezzelfo. «Basta con questi giochetti», tuonò il cavaliere della morte. «Voi vi trastullate con il passato, ma io sono qui per discutere del futuro.» «Allora non c'è niente di cui parlare.» Malocchio spinse da parte il mezzelfo. La maschera di fredda cortesia era scomparsa, sostituita da un'ira crescente. «Il futuro mi appartiene e voi avete perso ogni diritto a farvi parte associandovi con quelle nullità Vistani. Intendo eliminarli fino all'ultimo, nonmorto. E credetemi, lo farò.» «Non metto in dubbio le vostre intenzioni», replicò Soth in tono gelido, «e non m'importa niente del destino degli zingari nelle vostre terre. Ma sappiate che Magda e il suo clan sono miei sudditi, miei alleati. Tale allenza è come il mio potere: indiscutibile, inviolato. Non sopporterò alcuno sgarbo da parte vostra o dei vostri agenti nei confronti del suo clan». Sgarbo, pensò Magda. Uno strano termine per la carneficina che Aderre ha in mente per noi. Rigida accanto al cavaliere della morte, fissò quest'ultimo. È come se parlasse meccanicamente, rifletté, traendo le parole dall'antico codice del suo ordine. «Inoltre», continuò Soth, «interromperete qualsiasi rapporto con i miei sudditti, soprattutto gli elfi delle Colline di Ferro. Siete diffidato dall'offrire sostegno a loro o al loro capo». Malocchio si trattenne a fatica. Voltò le spalle a Soth, come per allontanarsi, quindi si girò di scatto puntando un dito accusatorio contro l'avversario. «Non avete alcun diritto di farmi la predica come... come a un bambino. Se la Rosa Bianca e le Spine di quella donna mi aiuteranno a vedere quella puttana morta, svuoterò i miei forzieri per favorire la loro guerra contro di voi.» Lord Soth non udì i successivi minuti dell'invettiva di Malocchio. Una sola parola gli risuonava nella mente: donna. La Rosa Bianca era una donna. Da quando si era alzato dal trono a Nedragaard Keep, il cavaliere della morte era tormentato da una miriade di ricordi frammentari. Il più nitido dei quali era quello di un volto di donna, una bellezza dai capelli scuri e un sinistro sorriso. La sua immagine fluttuava per il castello in rovina nei ricordi di Soth, sempre fuori portata, un palmo più in là di quanto lui riuscisse a spingersi. Ora, grazie alla rivelazione di Malocchio, quel fantasma aveva un nome e una forma. Era una guerriera, un generale dell'esercito della Regina dell'Oscurità a Krynn. Quando l'aveva incontrata, lui era morto da centinaia d'anni, ma
aveva immediatamente riconosciuto la donna come suo perfetto completamento, una gemma oscura con sufficienti sfaccettature da tenerlo occupato per tutta l'eternità. Il ricordo frammentario aveva trovato il collante per unire i pezzi e lei gli apparve agli occhi della mente. Lo fissava con sguardo di sfida, avvolta nell'armatura blu di un signore dei draghi. Kitiara! Lei doveva essere la Rosa Bianca. Nelle ore precedenti alla discesa negli inferi, Lord Soth aveva cercato di catturare l'anima di Kitiara. Aveva progettato di elevarla a sua consorte non-morta. Il suo piano sarebbe anche andato a buon fine se non fosse stato per il tradimento dello spettro che lo aveva servito come siniscalco a Krynn, Caradoc, ricordò amaramente il cavaliere della morte. Quel bastardo piagnucoloso aveva cercato di barattare l'anima catturata con una ricompensa così insignificante che Soth nemmeno ricordava. Ma il tradimento era costato caro al cavaliere della morte. Prima che riuscisse a recuperare l'essenza di Kit, si era trovato trasportato lontano da Krynn, imprigionato nel dominio di Strahd von Zarovich. Anche l'anima di Kitiara doveva essere stata imprigionata, concluse Soth. Gli era sfuggita per tutti quegli anni. Ma ora si era finalmente rivelata. Naturalmente l'esercito della donna conosceva la vera storia del cavaliere; lei stessa aveva assistito ad alcuni suoi atti oscuri. Soth sorrise severo: sembrava che Kit non avesse perso la voglia di combattere. Tuttavia era sicuro che, alla fine, l'avrebbe tirata dalla sua parte. Quello era il loro destino. Né Magda né Malocchio si accorsero dell'improvvisa preoccupazione del cavaliere della morte. La raunie teneva d'occhio le truppe di Aderre, temendo un attacco. Per quanto cercasse di nascondere i propri timori non riuscì a evitare di guardare Soth. Gli occhi infuocati del padrone di Nedragaard erano poco più che deboli scintille. Le braccia erano molli lungo fianchi. Il signore di Invidia continuò a elencare i propri motivi di rancore nei confronti di Soth e Sithicus, fermandosi di tanto in tanto per esternare il proprio odio per i Vistani e per chiunque offrisse loro asilo. Nascoste nella sua invettiva c'erano le parole di un ordine, che venne udito soltanto dai serpenti velenosi avvolti a spirale vicino al fiume. Quelle creature, a causa delle vite che avevano rubato, avevano fatto guadagnare al corso d'acqua il nome di Lacrime della vedova. A un impercettibile cenno di Malocchio, un trio di serpenti si mosse dal-
la riva ricoperta di erbacce sul lato di Invidia e scivolò sul suolo di Sithicus, strisciando furtivamente. Nascosti dalle ombre del crepuscolo, i rettili si bloccarono a distanza di tiro dalle gambe di Magda. Con un ringhio selvaggio, Sabak si voltò di colpo per affrontarli. In un batter d'occhio addentò due serpenti. Veleno verde e brandelli di carne di rettile si mischiarono alla bava schiumosa del cane pendendogli dalle mascelle come ghiaccioli. Messa in allarme dal ringhio di Sabak, Magda si girò in tempo per sferrare un poderoso calcio al terzo serpente. Il segugio scattò all'inseguimento del rettile. Mentre avanzava sul ponte, le zampe di Sabak lasciarono impronte infuocate sul terreno. Come il suo antenato, il mitico cane di Kulchek il Vagabondo, la bestia non cacciava senza lasciare chiare tracce di sé per il proprio padrone. L'ultimo serpente era quasi arrivato all'erba e alla salvezza, quando Sabak ne addentò la coda facendolo volare via. Il rettile indietreggiò, sibillando e mettendo in mostra i pericolosi denti aguzzi. Sabak si fermò un istante; la minaccia potenziale rappresentata dal rettile era chiara anche alla sua intelligenza canina. Fece un paio di finti attacchi, sperando di spingere il serpente ad avanzare. Infine, il rettile infuriato scattò verso una delle zampe anteriori del cane. Il segugio schivò l'attacco e addentò la bestia per la coda per poi scaraventarla con violenza contro il ponte. La testa del serpente si fracassò sulla pietra. Il cane agitò soddisfatto la coda mentre annusava i resti sanguinanti del rettile. Magda tirò un sospiro di sollievo, quando il fedele segugio fece dietro front e trotterellò verso di lei. Sorpresa dall'improvviso attacco, non aveva visto Soth estrarre la spada. Il cavaliere della morte puntò minacciosamente l'arma contro Malocchio; chiunque avrebbe capito che intendeva affondare l'antico ferro nel cranio dell'uomo vestito di nero. Da parte sua, Malocchio sospirò spazientito e diede il segnale di attacco. L'avanguardia marciò sferragliando sul ponte. Soth non ripose la spada mentre i passi pesanti degli orchi risuonavano sulle pietre. Tenne l'arma immobile, puntata verso Malocchio, fissando l'esercito di mostruose creature avanzare in massa. Magda lanciò a Soth un'occhiata spaventata. Gli orchi erano ormai così vicini da avvertirne il puzzo, eppure il cavaliere della morte non si era ancora mosso. Era forse perso in un sogno a occhi aperti? Un attimo dopo, Magda ebbe risposta alla sua domanda. Il primo orco aveva raggiunto la punta della spada sguainata di Soth, immediatamente
seguito dal resto dell'esercito. L'orco sollevò il bastone con entrambe le mani e gridò: «Invidia!». L'enorme creatura non vide Soth aprire la mano sinistra, né si accorse della scintilla di luce arancione che eruppe dal palmo del cavaliere della morte e schizzò verso il nemico come il proiettile di una fionda. L'orco si accorse del pericolo nel momento in cui il grido patriottico aveva lasciato le sue labbra. Una palla di fuoco, comprese la mente ottusa di orco. Uh, oh... Il fuoco magico incenerì l'orco in testa alla carica e continuò nella sua corsa. Gli altri bruti delle due prime file subirono lo stesso destino. Quelli nella retroguardia non furono così fortunati. La fiamma era diminuita quel tanto che bastava per lasciare loro il tempo di capire di avere preso fuoco e di gridare di dolore prima di morire. L'improvvisa apparizione della fiamma aveva accecato Magda per qualche istante e il fischio prodotto dalla palla di fuoco l'aveva assordata, impedendole di sentire il tonfo dell'acqua sotto il ponte e i latrati di avvertimento di Sabak. Prima che se ne rendesse conto si trovò in pericolo, la testa tirata indietro con incredibile forza. Una mano animalesca ricoperta dalle alghe del fiume l'aveva afferrata per i capelli. Appena la nebbia provocata dal dolore si diradò, vide l'orco al quale apparteneva quella mano. Era abbarbicato al parapetto. Lui e le restanti truppe avevano sfruttato la copertura dell'esercito d'avanguardia come mezzo di distrazione. Bastò un pensiero e Gard, il bastone, apparve nella mano della zingara. Prima che l'orco potesse ricadere nell'acqua trascinando con sé la donna, o per lo meno la sua testa, Magda si girò di scatto finendo con lo stomaco contro la ringhiera. Il volto dell'orco era così vicino che ne poteva contare i peli che spuntavano dai porri che gli punteggiavano il naso. La Vistarli colpì violentemente con il bastone e contemporaneamente sferrò un potente calcio. Quell'unico colpo di Gard affondò nella parte sinistra del volto dell'orco; il grido di morte del bruto risuonò insieme al tonfo sordo dei denti che si rompevano contro il parapetto. Ma l'orco non mollò la presa e mentre scivolava strappò un sanguinante trofeo. Il bruto affondò nell'acqua melmosa stringendo ancora tra le dita una matassa di capelli. Ansimante, Magda cadde contro il parapetto. Sollevò lo sguardo e vide Soth valutare freddamente la situazione. Orchi uscivano dal fiume su entrambi i lati del ponte; una dozzina di soldati umani erano schierati alle
estremità. Le truppe sul territorio del cavaliere della morte, ancora bagnate per la carica attraverso il corso d'acqua, erano armate di spade. I soldati dalla parte di Malocchio avevano sollevato gli archi e stavano per accoccare le frecce. Il signore di Invidia indicò gli arceri. «Forse non uccideranno voi, Lord Soth, ma sicuramente trafiggeranno il cuore inaridito della zingara.» Il cavaliere della morte agitò la mano, diffondendo intorno a sé il gelo ultraterreno che avvolgeva il suo corpo. Prima che gli arceri potessero scoccare una sola freccia, si trovarono davanti a un muro di ghiaccio che bloccava l'estremità del ponte dalla parte di Malocchio. Soth si girò verso gli altri soldati umani. «Siete nel mio regno, ora», disse e sollevò la spada. Magda non vide ciò che accadde in seguito; altri due orchi si erano arrampicati sul ponte. Si voltò per affrontare il primo. L'altro si scontrò con Sabak. La Vistana fronteggiò il bruto, saggiandone le capacità. Sapeva di non dovere affrettare il duello. L'impazienza l'avrebbe condotta all'errore. Ma si stava stancando molto più rapidamente di quanto si aspettasse. Ogni colpo del bastone dell'orco le faceva tremare le braccia e abbassare la guardia sempre di più. Quando si rese conto che dopo quel primo orco ce ne sarebbero stati altri da respingere, si sentì pervadere dalla disperazione. Un tempo avrei potuto affrontarli e liberarmene da sola, pensò, ma ora non più. Quasi a riprova di quella riflessione, il colpo successivo dell'avversario la buttò a terra. Magda mantenne però la presa di Gard e reagì con un bastonata che ruppe le gambe dell'orco. Ma era ancora vulnerabile e il bruto avrebbe potuto approfittare della situazione. Fortunatamente non ne ebbe il tempo. Sabak intervenne nello scontro, essendosi già liberato del proprio assalitore. Mentre l'orco ferito avanzava incespicando, il segugio gli affondò i denti nel fianco, strappandogli pezzi di maglia di ferro e di carne. Quando l'orco crollò, Sabak gli saltò alla gola. Un sinistro ululato riportò l'attenzione di Magda su Lord Soth. Il cavaliere della morte era al centro del ponte, le braccia sollevate oltre la testa. L'aria dietro di lui si era divisa. In completo assetto da battaglia, e con un rombo di tuono, tredici banshee apparvero dal cielo divelto. Cavalcavano carri di ossa trainati da wyvern. I draghi alati sorvolarono il ponte, ma solo quanto bastava per scegliere una vittima. Gli spiriti gementi si abbatterono sulle truppe intrappolate sul lato di Sithicus.
Magda restò a fissare le banshee sguainare le loro armi, spade e mazzafruste di ghiaccio, e attaccare. I soldati cercarono di scappare, riuscendo soltanto ad aumentare il desiderio di sangue degli wyvern. Le bestie colpirono gli umani con gli artigli, impalandoli con code acuminate. I pochi risparmiati dai draghi vennero finiti dalle banshee prima che potessero raggiungere la salvezza. Il destino degli orchi non fu migliore. Soth uccise quelli rimasti sul ponte. Gli altri caddero per opera di Sabak o delle banshee. I bruti che dovevano ancora arrampicarsi sul ponte furono i più fortunati. L'inettitudine, o la paura di Soth, aveva lasciato loro qualche speranza di fuga. Usando il ponte come copertura, indietreggiarono verso la riva di Invidia. Onkar, l'orco senza naso, guidava la ritirata. I soldati girarono intorno al muro di ghiaccio, che finalmente cominciava a cedere sotto i colpi degli arceri, e svanirono nella foresta. Magda, seduta nel bel mezzo della carneficina, si doleva, sebbene non sapesse bene per chi. Forse per se stessa, concluse. Posò lo sguardo su Lord Soth e lo osservò pulire la spada sul cadavere di un orco. Un wyvern aspettava pazientemente che il cavaliere avesse terminato per poi poter dilaniare con tutta tranquillità il corpo della vittima. Anche Sabak si unì al festino. Un gelo che le penetrò anche l'anima fece capire a Magda che Soth era vicino. Alzò gli occhi nell'oscurità incombente e scoprì il signore di Nedragaard in piedi accanto a lei. Guardava qualcosa nei pressi dell'estremità del ponte sul lato di Sithicus. Senza una parola, Soth sguainò nuovamente la spada e s'incamminò. Magda si alzò in piedi e lo seguì. Avvicinandosi, la zingara scorse ciò che aveva attratto l'attenzione di Soth. Inginocchiato fra quell'ammasso di soldati smembrati e così ricoperto di sangue da essere scambiato anch'egli per un cadavere, stava il mezzelfo. Come fosse sfuggito alla carneficina era un mistero. «La battaglia è terminata», annunciò Soth. Il mezzelfo aprì le mani vuote. «Sono disarmato», piagnucolò. «Risparmiatemi.» Soth studiò per qualche istante il militare e a un tratto un barlume di riconoscimento brillò nei suoi occhi. «Tanis Mezzelfo», disse in tono animoso. «No, mio signore», rispose l'altro. «Stefan di Mal-Erek.» «Fuggi allora, Stefan di Mal-Erek. Sei disarmato e anche ora io seguo i dettami della Misura.» La voce di Soth gelò l'aria densa di sangue. «Vatte-
ne e porta con te la tua disgrazia.» Il mezzelfo barcollò sul ponte e oltre i resti del muro di ghiaccio. Magda percepiva il disprezzo del cavaliere della morte per il giovane. Gliene chiese il motivo, ma la risposta dell'altro fu alquanto oscura. «A Krynn conoscevo uno come lui», affermò Soth. «La sua razza non è mai stata brava con la spada.» Dall'altra parte del ponte, sfiorato dalla luce morente del giorno, Malocchio Aderre urlò. «Tutto questo», e con un ampio movimento del braccio indicò la carneficina intorno a sé, «non significa nulla». Senza muoversi, Soth rispose: «Avete ragione. Ho spazzato via i vostri soldati come fossero stati fantocci. E così sarà per chiunque altro tenterete di aizzare contro di me». Sguainò la spada. «Possiamo decidere di farla finita ora, poiché non ho più tempo da perdere con simili sciocchezze.» Malocchio ordinò ai soldati superstiti di montare a cavallo. Lui si attardò un istante ancora, la sua figura nera un tutt'uno con l'oscurità calante della notte. «Avete ragione, Soth», disse infine. «Per il momento, avete problemi più pressanti di me, fantasmi sotto il vostro letto che richiedono la vostra totale attenzione. Ma tu, zingara, ricordati che io sono la tua peggior paura. La tua unica paura.» E con quelle parole, Malocchio Aderre scomparve. I soldati mantennero le posizioni per una decina di secondi circa prima di fuggire a gambe levate. «Sei sotto la mia protezione», affermò Soth prima di voltarsi e allontanarsi dal ponte. Pur trovando un certo conforto in quelle parole, Magda Kulchevich era ben lungi dall'essere tranquilla. 6 Quella fresca umidità confortava Inza. Gli alti battenti del carrozzone erano aperti e le tende erano tirate per allontanare persino la luce delle stelle. Nella stufa la brace era ormai spenta. Magda non era lì per obiettare. Dopo soli due giorni dall'incontro con Lord Aderre se n'era andata, prendendo con sé solo Sabak. L'improvvisa partenza aveva sorpreso il clan; raramente Magda stava lontana per più di un paio d'ore. Ma questa volta mancava da otto giorni. Il clan non sapeva che cosa l'avesse spinta ad allontanarsi subito dopo le minacce di Maloc-
chio e una battaglia che l'aveva chiaramente scossa. A Inza in realtà non importava il motivo della partenza della madre, sperava soltanto che i suoi affari, di qualunque natura fossero, la tenessero lontana ancora un po'. Non troppo, naturalmente, ma quanto bastava per potersi godere un po' di privacy. Ad eccezione del tempo che le era stato necessario per risolvere una questione di cui aveva dovuto occuparsi di persona, negli ultimi otto giorni Inza si era allontanata dal vardo solo per brevi istanti. Aveva trascorso la maggior parte del tempo ad ammirare lo scrigno intagliato che aveva ripreso da Ambrose. Era ancora pieno di sale, in pagamento degli altri beni che il clan aveva barattato alla bottega della cava. Ben presto, però, la carovana si sarebbe spostata verso il confine, dove avrebbero scambiato il sale con oro, vino o qualche altro prodotto di maggior valore a Sithicus. Una volta fatto tutto ciò, il cofanetto avrebbe potuto contenere i suoi tesori. I motivi intagliati sulla superficie del bauletto avevano qualcosa di ipnotico. Come aveva fatto ogni notte dalla partenza della madre, Inza estrasse lo scrigno da sotto il letto. Lasciò scorrere le dita sui viticci intrecciati. Nemmeno i profondi graffi lasciati da qualche stupido idiota nella bottega di Ambrose potevano rovinarne il fascino. Avrebbe potuto restare per ore in adorazione di quei viticci rampicanti se un grido nel campo non avesse disturbato la sua meditazione. «Per il bagliore nero di Nuitari, chi è stato?» Era la voce di sua madre. Era un bene che fosse tornata, pensò Inza. Era un bene poter risolvere con lei quell'ultima seccatura. La ragazza sospirò, si alzò e spazzolò via la polvere dalla sottana rossa. Lentamente, facendo attenzione a non urtare niente del ciarpame a cui sua madre teneva tanto, raggiunse l'entrata. Spostata la tenda che serviva come porta, uscì nella notte. Magda era in piedi accanto al fuoco, la bisaccia ai suoi piedi. La polvere le ricopriva le gambe e gli stivali. Il mantello le ricadeva a brandelli sulle spalle. «Madre», disse Inza in tono mellifluo, «sono felice che tu sia tornata. Ero preoccupata». Inza scese graziosamente i gradini del carrozzone e andò ad avvolgere la madre in un abbraccio non molto dissimile a quello dei viticci intagliati che tanto ammirava. «Devi essere esausta», mormorò. «Riposati accanto al fuoco e lascia che ti prepari qualcosa di caldo.» Magda era indubbiamente sfinita, e una bevanda forte le avrebbe sicu-
ramente sollevato lo spirito, ma si divincolò dall'abbraccio della figlia e con un gesto della mano rifiutò l'offerta. «Ti avevo detto di badare a lui», le disse. Il volto era rosso per l'ira. Inza sbatté le palpebre. «Non capisco, Madre. Ho forse mancato in qualcosa?» «Non fare l'angioletto con me», sbraitò Magda. «Sei troppo vecchia per quella parte.» La raunie sollevò la bisaccia e la buttò sui gradini del vardo. Lentamente si avvicinò a un Vistani calvo che si dimenava nel fango poco distante. Era Bratu. L'uomo corpulento sembrava ignaro di ciò che accadeva intorno a sé e la sua attenzione era focalizzata sulle mani strettamente bendate. Da quando Magda aveva marchiato Bratu con l'infamia di Spergiuro, la mente dell'uomo ne era rimasta sconvolta. Si era perforato le orecchie nella speranza di zittire la Bestia Sussurrante, ma quando si era reso conto di non essere riuscito a fare tacere la voce di quella misteriosa creatura, se l'era addirittura strappate. Eppure aveva continuato a sentire quei mormorii, che da sporadici si erano trasformati in una costante litania. Ogni menzogna, ogni promessa infranta e atto oscuro veniva cantilenato continuamente, in una ripetizione infinita di crimini e trasgressioni. Giorno e notte le accuse non gli avevano lasciato pace, fino a quando il poveretto era completamente uscito di senno. A Sithicus, quello era il destino che attendeva chiunque tradisse un giuramento. Elfo o Vistani, contadino o nobile, infrangere la parola data significava attirare su di sé le spiacevoli attenzioni della Bestia Sussurrante. Quest'ultima non colpiva tutti i bugiardi, per questo alcuni ritenevano la «Pazzia Sussurrante» niente più che i deliri di coscienze consumate dalla colpa. Era anche vero che alcuni, il cui tradimento non era stato scoperto, erano impazziti nell'attesa di udire la voce maledetta. Soltanto i Vagabondi sapevano che l'ira della Bestia si scagliava su coloro che infrangevano un giuramento fatto in pubblico e il cui tradimento veniva rivelato pubblicamente. Magda sapeva che cosa avrebbe significato per Bratu il marchio di Spergiuro. Dal canto suo, il corpulento zingaro conosceva i rischi a cui andava incontro quando aveva infranto il giuramento fatto alla donna. Magda detestava infliggere simili punizioni, ma sapeva che erano necessarie per la sopravvivenza dei Vagabondi a Sithicus. Tuttavia, come conseguenza del severo verdetto, aveva insistito affinché il clan continuasse a prendersi cura di Bratu. Il destino dell'uomo era ormai nelle mani della
Bestia, ma i suoi simili non avrebbero fatto niente per rendergli la vita ancora più dura. Mentre fissava l'uomo, capì che qualcuno le aveva disobbedito. La bocca di Bratu era impastata di sangue. La lingua gli era stata strappata alla radice. Soltanto un membro del clan poteva essere così audace. Magda si voltò verso la figlia. «Sei stata tu», l'accusò. «No!» Inza sussultò spaventata. «Se l'è fatto da solo.» «Con queste?» Magda si inginocchiò e prese delicatamente fra le sue una mano dell'uomo. Spessi bendaggi legavano insieme le dita. Dopo che Bratu si era ferito le orecchie per la seconda volta, la raunie stessa aveva ordinato che gli venissero bendate le mani. «Sei una povera bugiarda.» Quando Magda si alzò, l'ira era svanita dal suo volto. La sua voce non tradiva alcuna emozione più di quella di Soth. «Voglio sapere perché, Inza. Siediti con me. Parlamene.» I Vagabondi avevano imparato a temere quell'ordine. Magda lo usava solo quando non riusciva a trovare un motivo per permettere a un Vistani di restare con il clan. Inza decise che era inutile continuare a mantenere quella facciata di falsa innocenza, così si sedette su una delle sedie accanto al fuoco. Mentre la madre ordinava che Bratu venisse lavato e le ferite medicate, la ragazza lasciò scorrere lo sguardo per il campo. I quindici Vagabondi rimasti avevano improvvisamente sentito il bisogno di occuparsi delle loro faccende ed erano spariti nei vardo. Inza diede loro dei codardi, ma segretamente avrebbe voluto poterli imitare. La madre aveva reagito in modo spropositato ai crimini della figlia e quella sera Inza non aveva né la voglia né la pazienza di sopportarla. La fanciulla non aspettò che le venisse nuovamente posta la domanda sulle sue ragioni. «Tu te n'eri andata», affermò prima ancora che la madre si fosse seduta davanti a lei. «Tu non dovevi sentire ciò che diceva. Delirava giorno e notte... parlava di te, madre, e di altri. Persino di me. Gridava cose orribili, oscene!» «È malato», spiegò Magda. «Che fine ha fatto la tua pietà?» Inza abbassò la voce portandola a un sussurro cospiratorio. «Gli altri erano pronti a ucciderlo per ciò che diceva. Ciò che ho fatto è stato un gesto di pietà in confronto a ciò che gli altri avevano progettato.» «Anche gli altri dovranno rispondere a me, uno per uno. Ma prima, bambina, devo stabilire il tuo destino.» Inza trasalì alla parola bambina. La madre colse l'occhiata indignata lan-
ciatale dalla figlia e si corresse. «Hai ragione», sospirò Magda, «è molto tempo che non lo sei più». «E per questo dovresti ringraziarmi», replicò l'altra. «Non abbiamo un capo in questo clan. Tu non penseresti mai di condividere il tuo potere con un uomo. Resto solo io come tuo braccio destro.» Stava cominciando a scaldarsi, la sua passione attizzata dal silenzio della madre. «Gli altri sanno che mi hai addestrata nell'uso di Gard, che mi hai mostrato i segreti della recita delle ombre. Così quando tu e quel... quel mutt siete scomparsi per una settimana, si sono affidati a me per mantenere l'unità del gruppo. Ed è quello che ho fatto.» «Ciò che hai fatto è mostruoso.» Magda scosse la testa. «C'era un tempo, e quel tempo non è molto lontano, in cui Bratu avrebbe fatto qualsiasi cosa per te. Non cercare di negarlo. L'accampamento non è così grande perché nessuno potesse accorgersi di come ti veniva dietro.» Inza scattò in piedi. «Una ragione in più per odiare quel vecchio voglioso», rimbeccò. «Faremmo bene a costruire una gabbia in cui rinchiuderlo e portarlo a Veidrava per mostrare la fine che fanno i bastardi bugiardi che importunano le ragazzine.» «Basta», la zittì Magda in tono secco. «I Vagabondi non metteranno mai in mostra i loro fratelli come fenomeni da baraccone.» Inza restò a bocca aperta, incredula. «Invocare l'attenzione della Bestia su Bratu non è forse stato uno spettacolo a beneficio di Soth, una dimostrazione della tua lealtà nei suoi confronti? Per lo meno i giorgio della cava pagherebbero per lo spettacolo.» «Se pensi che Soth non ci offra niente, vai al Ponte della Vedova e conta i cadaveri dei nostri nemici. Abbiamo bisogno di lui, Figlia. Non dimenticarlo.» «Sicuramente non dimenticherò che hai più a cuore l'opinione di un uomo morto che la tua gente.» Lo schiaffo colse Inza di sorpresa. Negli occhi non comparvero lacrime, ma solo una cieca rabbia. La ragazza allungò la mano per afferrare il pugnale nello stivale. Aveva appena stretto l'impugnatura, che Sabak chiuse le fauci sulla sua mano. Il ringhio di avvertimento le provocò brividi di paura. «Lasciala», ordinò Magda, prendendo il cane per la collottola. Ma Sabak non mollò fino a quando Inza non lasciò cadere l'arma a terra. La sottile lama del pugnale rifletté come uno specchio la luce del fuoco. La radiosità era quasi accecante. Persino l'impugnatura di cuoio sembrava
risplendere. «Non ricordo di avertelo dato», commentò Magda indicando l'arma. «Non tutto quello che possiedo proviene da te.» Ignorando la stizzosa risposta della figlia, la raunie allungò la mano verso il pugnale. La ritrasse immediatamente quando si tagliò il dito sulla punta della lama. «Ahi, com'è affilato. Come l'hai avuto?» «Un baratto», rispose Inza. «Un ottimo affare.» Tenendo d'occhio Sabak, fece scivolare lentamente il pugnale nel fodero che aveva cucito nello stivale. «Alcune cose me le hai insegnate molto bene, Madre.» Inza voltò le spalle a Magda e scomparve nel bosco. Non era stata congedata, ma la raunie sapeva che sarebbe stato inutile continuare il discorso. Alla meglio, avrebbe potuto fare assaggiare alla figlia il proprio potere. Alla peggio, sarebbe rimasta a urlare dietro alla ragazza disobbediente mentre il resto del clan ascoltava dai vardo. Un'indicibile stanchezza scese sulla donna, che si lasciò nuovamente andare sulla sedia davanti al fuoco. Sabak fece scivolare la testa sotto il braccio della padrona, per poi sollevarla subito dopo richiamando la sua attenzione. «E così», disse Magda sfiorandogli il pelo, «questa sera anche tu hai delle pretese, eh?». La coda del segugio si agitò in risposta. La raunie ravvivò il fuoco e si immerse nei propri pensieri. Non sapeva che cosa fare con Inza. La ragazza era impetuosa, irascibile e caparbia. Molto simile a sua madre a quell'età, ricordò Magda. Ma nella figlia c'era una ferocia che la zingara non riusciva a comprendere. Era come se avesse assimilato tutto il potere distruttivo della tempesta scoppiata a Gundarak la notte in cui era nata. Una tempesta misteriosa che era seguita alla morte del duca Gundar. Qualcuno aveva affermato che era la terra stessa che piangeva la sua dipartita. Se così era stato, quella era tutta la disperazione che Gundar aveva ricevuto; i suoi sudditti avevano infatti preferito festeggiare quell'evento. Forse la tempesta aveva in qualche modo danneggiato l'anima della neonata. Magda si passò una mano fra i capelli e sobbalzò quando le dita toccarono la pelle nuda. Le ferite sofferte nello scontro al ponte stavano guarendo molto lentamente. Il sospiro di dolore fece sollevare lo sguardo di Sabak verso di lei, negli occhi del cane si leggeva la preoccupazione. «Stai tranquillo, amico mio», disse lei dolcemente, accarezzandolo dietro all'orecchio. «Il mio umore migliorerà con il sorgere del sole.» Il sorriso scomparve e la donna guardò il fuoco. Era trascorso parecchio
tempo dall'ultima volta in cui aveva cercato di usare i suoi poteri precognitivi. Fino al giorno in cui Soth si era alzato dal trono, gli eventi si erano susseguiti come lei si era aspettata senza che avesse dovuto ricorrere al proprio dono della preveggenza. Ma ora la situazione era cambiata. A mala pena poteva immaginare ciò che sarebbe accaduto il mattino dopo e ancor meno nei mesi successivi. Lo scontro al ponte era ancora vivo nella sua mente, ma ciò che più la preoccupava era quanto aveva scoperto nel suo viaggio. Parte delle parole farneticanti di Malocchio erano vere: forze più antiche, più spietate del signore di Invidia inseguivano furtivamente Soth. Magda aveva visto i loro volti. Fra non molto anche Soth li avrebbe visti. Ma quali orrori avrebbe scatenato, sui Vagabondi e su tutta Sithicus, quella riunione a lungo ritardata? Magda si concentrò sul fuoco. Provò ad aprire la propria mente al futuro, cercando nelle fiamme i suoi disegni. Guizzi di bianco e di rosso, riccioli di fumo nero le apparvero agli occhi della mente. Crebbero fino a diventare rose che fiorirono per poi appassire. Nessuna resisteva a lungo. Ognuna di esse sopraffaceva l'altra per poi essere a sua volta sopraffatta un istante dopo. La raunie cercò di vedere nel futuro del clan e il fuoco salì ruggendo, riempiendo la notte di una luce scarlatta. Le rose erano scomparse, annegate in un mare rosso, un mare di sangue. Magda si ritrasse bruscamente, risvegliandosi dalla trance. Accanto a lei, Sabak ringhiò sommessamente. Inizialmente Magda pensò che il cane avesse avvertito il disagio della padrona davanti all'immagine di quel futuro devastante, ma poi si accorse che l'attenzione del segugio era incentrata su qualcosa che si nascondeva fra i vardo. Magda si voltò verso il semicerchio di carrozzoni. Ombre scivolarono sulla fiancata colorata del suo vardo. Assunsero forme indescrivibili, strisciarono e fluirono lungo le ruote e fino a terra. La zingara si sfregò gli occhi. Ombre sgusciarono anche sugli altri carrozzoni, ma erano più indistinte, più sfuggevoli rispetto alle forme scure che strisciavano sul suo. Fra il fuoco e il suo vardo non c'era niente che potesse proiettare simili ombre arcane. Magda balzò in piedi appena prese coscienza del proprio pensiero. «Ombre di sale!» urlò. A quel grido le ombre si ritrassero lievemente. Per quanto fossero letali, erano cose codarde più avvezze a nascondersi che a combattere.
Urla soffocate risuonarono dall'interno dei vardo e l'avvertimento di Magda riecheggiò più e più volte. «Ombre! Ombre!» dicevano. I Vagabondi balzarono fuori dai carrozzoni armati di qualsiasi oggetto avessero avuto sottomano. Spade e coltelli probabilmente sarebbero stati inutili contro le forme animate dell'oscurità, ma i Vistani speravano che avrebbero distratto quelle cose sufficientemente a lungo per permettere alla loro raunie di affrontarle. Mentre gli zingari circondavano le ombre, Magda distese il braccio e Gard apparve nella sua mano. Il bastone era stato ricavato dal suo avo, Kulchek il Vagabondo, dal legno dell'albero in cima al mondo. Gli incantesimi di cui era dotata l'arma erano potenti. Il legno era indistruttibile, capace di disintegrare con facilità l'acciaio o la pietra. Le armi ordinarie erano impotenti nei confronti delle ombre di sale, ma sicuramente non Gard. Poiché Magda era stata la prima a svelare i segreti dell'arma, ora bastava che lei pensasse a Gard perché il bastone apparisse nella sua mano. Ma questa volta, la donna chiuse le dita a vuoto. Sentiva il peso rassicurante del bastone nella sua mano, ma l'arma era priva di sostanza. Imprecando, schivò un'ombra di sale che aveva strisciato fino al suo piede. Sabak balzò verso l'oscurità in movimento, quest'ultima si rivoltò. Il pelo dell'animale si rizzò quando la figura nera guizzò verso le sue zampe. «Sabak, indietro», gridò Magda e il segugio saltò di lato. Vitorio, il primo Vistani a essersi unito al nuovo clan creato da Magda a Gundarak, lanciò una lancia al centro dell'ombra. L'oscurità si bloccò, poi scivolò intorno alla testa dell'arma come acqua intorno a un palo. «Raunie», urlò l'uomo, «da dove sono saltate fuori queste ombre? Siamo lontani dalla miniera». Magda tacque, perché non aveva risposta. Le ombre di sale abitavano Veidrava. Riti di magia nera celebrati nelle profondità della miniera, in una cappella un tempo nota come luogo di speranza, avevano resuscitato le anime delle vittime della cava. Vestite della perenne oscurità della miniera, le ombre erano affamate di carne fresca. Non potevano abbandonare quel mondo oscuro: il sole sarebbe stato fatale per loro. Ma come quelle anime perdute si fossero tanto allontanate da Veidrava era un mistero che la raunie non aveva tempo di risolvere. I Vagabondi erano riusciti ad attirare le ombre da un lato, stuzzicandole con il semplice richiamo della loro carne. Uomini e ombre giravano in cerchio come ballerini impegnati in una macabra danza.
Magda si riconcentrò per evocare Gard. Da quanto aveva capito, l'arma era in qualche tasca nascosta, intangibile ma a portata di mano, sebbene in quel momento le sembrasse che qualcun altro se ne fosse impossessato. Avvertiva la resistenza, mani fredde che si opponevano alle sue. «Io sono l'erede di Kulchek», ringhiò Magda. «Gard mi appartiene!» Con quelle parole liberò l'arma e con la mazza nuovamente nelle sue mani iniziò a colpire. Come una pietra che infrange l'immobilità dell'acqua, il colpo di Gard provocò innumerevoli increspature nella forma dell'ombra. La cosa urlò, un sibilo liquido che fece tremare Magda. Un altro colpo e l'ombra esplose. Spruzzi di oscurità schizzarono in tutte le direzioni. Gli orripilanti proiettili bruciarono la pelle. Seccarono l'erba, strapparono la corteccia agli alberi e rimossero il colore dai tessuti. I singoli frammenti erano privi della forza dell'unità. L'ombra disgregata non poteva proseguire l'assalto. Alle macchie e alle pozze non restava che strisciare lentamente per poi riunirsi in un tutt'uno nuovamente letale. Sabak schiacciò i singoli pezzi cercando di ritardare il più possibile la loro riunione. In rapida successione, Magda colpì altre due ombre. Ogni volta che abbassava il bastone, le cose emettevano urla di dolore che provocavano brividi di paura nella Vistani. Ma la donna aveva ritrovato la speranza. I Vagabondi tenevano il passo contro quelle creature dell'aldilà. «Madre, aiutami!» Il grido si levò dal margine della foresta, dove accanto al fuoco Inza era come paralizzata. Due ombre di sale erano riuscite a sfuggire all'attacco dei Vagabondi e avevano messo all'angolo la ragazza, una strisciando da terra e l'altra scendendo da una vecchia quercia. Se Inza si fosse riparata nel bosco, l'oscurità le avrebbe impedito di distinguere le ombre di sale dalle normali tenebre della notte e si sarebbe trovata alla mercé delle anime perdute. Magda esitò. La fatica cominciava a farsi sentire sugli altri Vistani. Anch'essi avevano bisogno del suo aiuto. Ma quella era sua figlia. Di tutto il clan, solo lei era sangue del suo sangue. La raunie attraversò di slancio la radura. Colpì l'ombra tre volte prima che quest'ultima finalmente scoppiasse. Gli schizzi centrarono Inza in pieno viso facendola cadere contro l'albero. L'ombra sulla pianta le scivolò sulla mano. Si avvolse intorno alle sue dita, risalendole lungo il braccio prima che Magda tornasse a colpire. Il fendente investì la parte dell'ombra che era ancora sulla quercia, dividendo in due
l'odiata creatura. Dallo schianto secco che risuonò nell'aria, Magda pensò di avere spaccato l'albero. Ma non era la quercia a essersi spaccata, bensì Gard. Magda fissò il bastone, seguendo con un dito la sottile crepa che si era aperta nel legno dell'antica arma. «Indistruttibile», mormorò, ripetendo il verso di una vecchia leggenda Vistani. «"Soltanto il sangue di Kulchek può infrangere il legno di Gard."» Magda era così sbigottita che non sentì il grido di avvertimento di Vitorio. L'ombra contro la quale l'uomo lottava si era allontanata repentinamente dirigendosi verso la raunie. Altre tre la seguirono, quasi avessero compreso il significato di quello schianto. Con un urlo, Vitorio si lanciò su un'ombra. La cosa vibrò per l'impatto, poi si avvolse sullo zingaro. Una dozzina di cinghie nere come la pece gli bloccarono le braccia. L'ombra gli scivolò sul torace, sul collo, fino a raggiungere la testa, dove prese la forma di una maschera. Vitorio non gridò. Tenne la bocca chiusa, resistendo. L'ombra gli scivolò nelle orecchie e nel naso. Quando infine i polmoni dell'uomo reclamarono aria e Vitorio socchiuse le labbra, il resto dell'ombra gli scivolò giù per la gola. L'anziano barcollò, alzandosi; cercò di avanzare verso il fuoco, ma l'ombra glielo impedì. «Per l'amore del cielo», implorò, «distruggimi!». Dai gradini di un vardo emerse una possente figura. Aveva le mani e le orecchie bendate. Bratu. Il povero pazzo si lanciò nella lotta e afferrò Vitorio. Un'espressione di infinita tristezza scese sul volto di Bratu mentre sollevava il compagno e lo scagliava nelle fiamme. Il corpo dell'uomo prese immediatamente fuoco. Si agitò fra le alte fiammate, straziato dal bisogno dell'ombra di salvarsi e quello del Vistani di vedere distrutta la malvagia creatura. Ora che era nuovamente palpabile, l'ombra di sale era vulnerabile a ciò che consumava la carne, soprattutto il fuoco. Vitorio crollò infine sulle braci. Il sospiro soddisfatto dell'uomo si mescolò al gemito dell'ombra che dopo avere finalmente riacquistato un corpo, ne era stata immediatamente privata. Immobile, Bratu osservò il fuoco. Il suo era forse un silenzioso addio all'amico o forse voleva semplicemente accertarsi che il cadavere non sfuggisse alle fiamme. Dopo qualche istante, voltò le spalle e scomparve fra gli alberi. Dalla sua posizione al limitare della radura, Inza vide Bratu allontanarsi.
Fu tentata di seguirlo, poiché l'uomo non poteva avere che una meta: la tana segreta della Bestia Sussurrante. Una volta partito per quel viaggio, il clan lo avrebbe perso per sempre. Un pietoso uggiolio riportò la sua attenzione al campo. Sabak si era avvicinato troppo a un'ombra. La cosa gli si era avvolta intorno a una zampa anteriore. Per quanto cercasse di morderla, il cane non riusciva ad afferrarla. L'oscurità si aggrappò alle fauci della bestia, le si avviluppò intorno alla lingua e le scivolò lungo la gola. Un tremito scosse Sabak, che emise un unico guaito di confusione. Cominciò a girare su se stesso, una, due volte. Alla terza volta si fermò e si voltò verso la zingara più vicino. Le labbra si sollevarono in un ringhio. Attaccò. La donna emise un grido di sorpresa, prima che Sabak l'addentasse alla gola. Trionfante, il segugio si piazzò sul corpo dilaniato. Il sangue gli colava dalle fauci, gocciolando sulla blusa bianca della donna. Un urlo angosciato sfuggì dalle labbra di Magda, ma il nobile Sabak non aveva finito. Con un balzò abbandonò il cadavere e si lanciò verso il limitare della foresta, verso Inza. Magda si mosse per fermare il segugio. Se nell'animale restava ancora un briciolo di cuore intoccato dall'ombra, forse ce l'avrebbe fatta a salvarlo. In caso contrario, avrebbe messo fine alle sue sofferenze. La raunie avanzò verso la figlia, ma improvvisamente qualcosa di freddo le afferrò la gamba, facendola inciampare. Quando riuscì a rialzarsi, l'ombra che l'aveva bloccata le aveva quasi raggiunto il ginocchio. Un'altra scivolò per raggiungerla. Con tutta la forza che riuscì a trovare nella propria rabbia e dolore, Magda colpì quest'ultima ombra. La creatura esplose, ma la vittoria giunse a un prezzo terribile. Quando Gard colpì il suolo, s'infranse con lo scricchiolio di un osso che si spezzava. Mentre cadeva in ginocchio, Magda afferrò un frammento del bastone ormai a pezzi e iniziò a colpire l'ombra strettamente avvolta intorno alla sua coscia destra. A ogni colpo, fitte di dolore le annebbiavano la vista. «La fine», mormorò. A un tratto, la nebbia che le copriva gli occhi si diradò quel poco che bastò per consentirle di vedere Sabak bloccare Inza contro un vardo. Il cane balzò in avanti, ma la ragazza non indietreggiò. Con la freddezza di un esperto assassino, schivò l'attacco e affondò il pugnale nella testa del segugio. L'arma era ancora conficcata nel cranio di Sabak quando quest'ultimo crollò a terra. Magda pianse lacrime di dolore e di sollievo. Non si accorse di un'altra
ombra che strisciava verso la sua gamba, e di un'altra ancora. Infine cadde a terra. Sentiva il freddo umido della carezza delle ombre mentre le scivolavano sulla schiena. Le liquide forme scure emersero, unendosi ad anello intorno alla sua gola. Le ombre non volevano entrare in possesso del corpo della donna. Volevano distruggerla. Le labbra di Magda pronunciarono un solo nome: «Soth». Il cavaliere della morte emerse dalle normali ombre del fuoco. Sguainò la spada, la lama ormai scura del sangue di centinaia di nemici, e disperse le ombre di sale che trovava sul proprio cammino. Le anime dannate si acquattavano al suo passaggio. Non sopportavano il tocco della sua carne morta né il freddo innaturale emanato da quel corpo; l'eterna sofferenza della tomba le avvizziva come fiori in una tempesta. Il Cavaliere della Rosa Nera s'inginocchiò accanto a Magda. Con una mano strappò le ombre dalla gola della donna, per poi stringerle fra le dita fino a quando di esse non rimase che una sottile polvere color ebano. «Ti ho dato la mia parola», disse il cavaliere della morte. «E sono qua.» «Siete in ritardo», mormorò la donna con voce roca. «Ma è colpa mia.» Chiuse gli occhi e si portò una mano alla gola. Le dita si coprirono di sangue. «Per me è finita.» Soth sollevò Magda con delicatezza e l'avvicinò a sé per poter sentire meglio quella voce ormai ridotta a un sussurro. «Sto per raggiungere i miei antenati», mormorò la donna, «o meglio, loro sono venuti da me. È così che accade sempre, mio signore. Il passato non può essere negato». «Forse», mormorò Soth. «Ma non deve essere per forza una trappola.» La raunie sollevò lo sguardo sui Vagabondi, che si erano riuniti dietro Soth. Anche Inza era là. Gli occhi verdi della ragazza avevano un'espressione dura, il suo volto era una maschera imperscrutabile. «Mia figlia vi aiuterà a provarlo», continuò Magda. «Giurate di proteggere lei come avevate giurato di proteggere me.» Il cavaliere della morte chinò il capo. «Come signore di questa terra maledetta, hai la mia parola.» «In cambio, vi libero della maledizione che mia nonna fece cadere su di voi la notte in cui entraste in questi oscuri domini», affermò Magda. Un attacco di tosse scosse l'ormai debole corpo e passarono alcuni istanti prima che la donna potesse riprendere a parlare. «Per avere ucciso la mia fa-
miglia, Madame Girani vi condannò a restare per sempre in questa terra, sebbene la vostra casa restò sempre sotto i vostri occhi. Per avere giurato di proteggere la mia famiglia, io annullo quella maledizione e vi auguro buon viaggio.» Se il cuore ormai avvizzito di Soth avesse potuto battere, avrebbe galoppato. «Puoi aiutarmi ad andare via da questo posto?» le domandò. «Non io», mormorò Magda. «Ma ci sono altri...» Gli occhi si chiusero e la donna sollevò verso il cavaliere della morte una mano tremante. Fra le dita stringeva una rosa bianca. «Lei è qui per voi.» E con quelle parole, Magda Ilyanova Kulchevich morì. Lord Soth prese la rosa da quel corpo ormai senza vita. Quando strinse il delicato bocciolo fra le dita, accadde qualcosa di meraviglioso. Una luna bianca raggiunse Nuitari nel cielo della notte. La sua luce brillò su Sithicus, donando a quella terra una radiosità che sapeva di pace. «Solinari», sussurrò il cavaliere della morte. «La luna bianca di Krynn.» La gente di Sithicus interpretò l'apparizione della luna in mille modi. Alcuni la ritennero foriera di un cupo destino, altri messaggera di tempi più felici. Tuttavia, a Soth il significato di quella pallida orbita era chiaro. Era un passo più vicino alla sua casa. «Che cosa farete per quanto riguarda Malocchio?» domandò Inza interrompendo le riflessioni di Soth. Il cavaliere della morte scrutò con sguardo gelido la fanciulla. «Lo ritieni responsabile di questo massacro?» «E chi altri se non lui?» Inza guardò gli altri membri del clan, che restarono in silenzio come lei si era aspettata. Soth non se ne accorse. Si era alzato e ora si dirigeva verso il cadavere di Sabak. Un'ombra di sale sporgeva dalla bocca aperta dell'animale, cercando di liberarsi da quel corpo ormai privo di vita. Il cavaliere della morte estrasse il pugnale dal cranio del segugio. In un baleno l'ombra strisciò sulla ruota del vardo più vicino e dentro la finestra aperta. «Di chi è quel carrozzone?» domandò il cavaliere della morte. «È mio», rispose Inza. «Come il pugnale.» Soth studiò l'arma per un istante. «Stupefacente», commentò restituendogliela e avviandosi verso il vardo. Non chiese il permesso per entrarvi: come ogni cosa a Sithicus, anch'esso era di sua proprietà. Restò sorpreso nel trovare l'interno così simile al carrozzone disordinato di Madame Girani. In un angolo, una pila di manoscritti erano ricoperti di
polvere. Su un tavolo erano ammonticchiati ciondoli e scatolette contenenti amuleti. Dalle travi pendevano gabbie con strani uccelli, che cinguettarono nervosamente al passaggio di Soth. «Perché l'ombra si sarebbe nascosta qui?» domandò Inza dall'uscio. Soth buttò di lato il tappeto che copriva uno scrigno intarsiato nascosto in fondo al carrozzone. Sul pavimento intorno al bauletto c'era sparso del sale. «Perché è qui che si nascondevano da giorni», mormorò il cavaliere della morte. Aprì lo scrigno. L'ombra era avvinghiata alla parte inferiore del coperchio come un mostruoso ragno. Si lasciò andare sul sale contenuto nel bauletto cercando di nascondersi. Soth l'afferrò e lentamente la stritolò. Inza si avvicinò. Il gelo emanato da Soth non sembrava disturbarla. «Come ha fatto Malocchio a nascondere le ombre lì dentro?» domandò. Soth chiuse il coperchio con un colpo secco. «Non è stato Malocchio. È stato Azrael.» 7 Azrael avrebbe dovuto capire che qualcosa non andava quando le voci al Lago tacquero improvvisamente. Quando accadde, il nano stava ascoltando l'oscurità descrivere come sarebbe stato il suo regno. Avrebbe dovuto occuparsi di altre faccende, la ricerca della Rosa Bianca, spiare Soth o i Vagabondi, ma erano tutte questioni terribilmente noiose se paragonate alla costruzione della nuova Sithicus, sebbene solo nella sua mente. Come sempre, l'oscurità aveva descritto il regno di Azrael con le parole rubate ad altri: «Non hai mai visto un simile sguardo di terrore.» «Sarà facile obbligarla ad andarsene.» «Tutto questo deve essere chiarito.» «È stato Azrael.» In qualche angolo recondito della mente, il nano riconobbe vagamente quell'ultima voce. Tuttavia non aveva il tempo per identificare chi aveva parlato. Un inquietante silenzio era sceso sul lago, una coltre di paura che sembrava far tremare il rosso crepuscolo. Azrael aggrottò la fronte, costernato. «Che cosa succede?» mormorò. La domanda non aveva ancora lasciato le sue labbra, che giunse la risposta. Una mano coperta da un'antica armatura ormai annerita lo afferrò per una spalla. «Traditore», disse una voce cupa. La parola si ripercosse sul-
l'acqua immobile, nera. Un secondo più tardi, a quel suono si unì il gemito del nano, sbattuto con violenza contro le pareti incrostate di sale della grotta. «Mio signore», ansimò Azrael, buttandosi immediatamente ai piedi di Soth, «che cosa ho fatto per offendervi?». Soth non rispose, limitandosi a disegnare un simbolo nell'aria. Il geroglifico restò sospeso, infiammato della stessa luce arancione che scintillava negli occhi del cavaliere della morte. Un istante dopo apparve sulla fronte di Azrael. Il marchio brillò, poi scomparve. Il nano s'irrigidì e un grido strozzato di dolore uscì dalle sue labbra. Rivoli di sangue gli stillarono dal naso e dalle orecchie. Il cavaliere della morte posò le mani su entrambi i lati della testa di Azrael e lo sollevò da terra. Lentamente, iniziò a stringere la presa, premendo insieme i palmi come le ganasce di una morsa. Azrael ululò per il dolore. Con dita terminanti nelle zampe nere di un tasso, si aggrappò alle braccia di Soth. «Pietà», gridò. «Non hai avuto pietà di Magda», replicò Soth in tono gelido. Nelle sue mani, il volto del nano fremette, mentre le ossa assumevano la loro ibrida configurazione. In risposta, il cavaliere della morte sollevò i pollici dalle guance di Azrael spostandoli verso gli occhi furibondi del nano. «L'ho fatto per proteggervi!» Il licantropo si agitava come un animale in trappola. Allungò gli artigli verso l'elmo di Soth, prese a calci la sua armatura. «Si era unita alle Spine», sibilò. «Si era alleata alla Rosa Bianca. Progettava di distruggervi!» Soth mollò la presa e Azrael crollò a terra. «Provalo», affermò Soth. «Convincimi che ciò che dici è la verità o morirai.» «Dopo l'incontro con Aderre, Magda si è recata da sola sulle Colline di Ferro a cercare la Rosa Bianca», spiegò Azrael. Si pulì il vomito dal muso. «Probabilmente aveva ritenuto che voi non foste capace di proteggerla. O forse era da tempo in combutta con la Rosa.» «Sono solo congetture», replicò Soth. «No», si affrettò a dire Azrael. Con una mano dai lunghi artigli indicò il vasto e silenzioso lago. «In questo luogo posso ascoltare le voci di tutti coloro che si trovano in superficie. Magda non parlò della sua missione ai suoi fratelli, né confidò loro i suoi dubbi sulla vostra capacità di proteggerla, ma mentre si recava alle Colline di Ferro non faceva che parlarne a quel sacco di pulci del suo cane.»
«Che cosa le ha detto la Rosa Bianca? Qual era il piano contro di me?» Azrael si agitò, a disagio. «Io... ehm... non riesco a sentire la voce della Rosa Bianca o quella di chiunque altro in sua presenza.» «Basta», lo zittì Soth. «Stai solo cercando di guadagnare tempo.» Sguainò la spada. «Magda aveva in mano una rosa bianca», affermò Azrael colto dalla disperazione. «Era un simbolo della sua alleanza. Quel fiore cresce solo sulle Colline di Ferro, nel territorio controllato dalle Spine. È quella la prova che lei ha incontrato i ribelli.» Soth ripose la spada e andò nervosamente su e giù. «Mi ha dato il fiore quando è morta», disse infine. Azrael annuì. «Voleva che pensaste che la Rosa avrebbe potuto aiutarvi a fuggire da questo luogo. Quello è sempre stato il suo obiettivo, rendervi partecipe della vostra distruzione. È l'unico modo in cui possono distruggervi, mio signore.» Incoraggiato dall'esitazione del cavaliere della morte, Azrael balzò in piedi. Si tolse la collana che denunciava la sua posizione e la porse a Soth. A testa china, disse: «Pensavo di fare il mio dovere mandando le ombre contro di lei». Una risata sardonica sfuggì dalle labbra di Soth. In un tempo e in un luogo ben distanti da Sithicus, un altro siniscalco aveva pronunciato simili parole di pentimento. Nei giorni in cui il cuore di Soth batteva ancora, prima della sua condanna alla non-vita eterna, aveva affrontato il suo servo in seguito alla scomparsa della sua prima moglie. I Cavalieri di Solamnia avevano accusato Soth di avere ucciso Lady Gladria per permettere alla fanciulla elfica con la quale aveva infranto i sacri voti coniugali di entrare legalmente nel suo letto. «Centinaia di volte vi ho sentito augurarvi che la donna sparisse», aveva detto Caradoc. Anche lui aveva offerto a Soth la collana che denunciava la sua posizione. «Pensavo di fare il mio dovere nel cacciarla via.» Soth non era stato capace di negare che dentro di sé aveva desiderato che Gladria sparisse e che Caradoc aveva agito secondo un desiderio che lui non era stato capace di realizzare. Il siniscalco aveva semplicemente fatto ciò che aveva ritenuto fosse meglio per il suo signore e la sua terra. E così anche Azrael. Il nano aveva visto il tradimento di Magda, quando lui era stato cieco. Avrebbe dovuto capire che la rosa bianca era un segno dell'alleanza della donna con i ribelli. Al contrario, l'aveva interpretata come un segno di speranza. E a Sithicus, la speranza era qualcosa che soli-
tamente si lasciava agli stupidi e ai folli, Soth ricordò amaramente. «Non ho più bisogno di un siniscalco», affermò il cavaliere della morte. Prese la pesante catena, lasciandola penzolare dal pugno chiuso. «Questa posizione sembra corrompere chiunque la occupi. C'è un altro mantello per te, Azrael... un mantello che ti si addice di più.» «Qualsiasi cosa, mio signore.» «Vota te stesso e chiunque riuscirai ad assoldare alla distruzione degli alleati della Rosa Bianca. Lei è un generale, e astuto, ma un generale non è niente senza le sue truppe.» «E la Rosa?» «Quando sarà il momento mi occuperò io di lei», spiegò Soth. Azrael fece per andarsene, ma il cavaliere della morte sollevò una mano per fermarlo. «Non confondere questa sospensione dell'esecuzione con il perdono», affermò il signore di Nedragaard in tono gelido. Strinse il pugno e spezzò la pesante catena. «Sappi che il mio sguardo ti seguirà ovunque. Tu sei un mio servo, Azrael. Dimenticalo ancora una volta e l'agonia della tua morte diventerà leggenda, persino a Sithicus.» Deglutendo a vuoto, Azrael annuì. «Bene.» Soth lasciò cadere la catena. Il rumore metallico risuonò nella grotta. «Spiegami le caratteristiche di questo posto», disse, girandosi verso l'acqua. «Mi sembra di capire che possa essere molto utile.» Azrael raccontò come aveva scoperto il lago e illustrò le proprietà dell'acqua. Non accennò al fatto che l'oscurità gli parlasse e che quelle voci gli raccontassero del castello che lui avrebbe costruito sulle rovine del maniero di Soth. L'ira del cavaliere della morte lo aveva pervaso di una nuova prudenza e persino di una certa paura. Ma non temeva niente al punto tale da tradire l'oscurità. Quando il nano se ne fu andato, Soth si tolse l'elmo e il guanto destro. Lentamente, immerse due dita nel lago e portò il liquido salmastro alle labbra deturpate, ruvide. Un coro di voci gli riempì le orecchie, suoni più sconcertanti dei gemiti delle banshee. Il clamore lo sopraffece e il cavaliere si lasciò andare sulla riva pietrosa. Finalmente, la coscienza di Soth trovò un'ancora: il suo nome. Qualcuno nel regno aveva pronunciato il nome del cavaliere della morte. Con lentezza e cautela, il signore di Nedragaard Keep riacquistò il controllo. Per ore, quel giorno e in quelli successivi, ascoltò i suoi sudditi parlare di lui. Da quei confusi e frammentari scambi di battute riuscì a trarre brandelli della propria storia che aveva dimenticato, sebbene quei fram-
menti non potessero aiutarlo a riacquistare totalmente la memoria: troppi particolari della sua vita erano sconosciuti agli abitanti di Sithicus. Eppure, ogni vuoto che veniva colmato lo aiutava a comprendere quanto avesse perso di se stesso e lo rendeva sempre più sicuro di essere in grado di ricostruire ogni singolo attimo della propria vita dimenticata. Ogni sera a Veidrava, i minatori che avevano terminato il turno e le loro consorti si ritrovavano alla bottega di Ambrose. Quel luogo non era un semplice mercato: era un luogo di incontro e una taverna, a volte persino un ospedale. La maggior parte delle notti, la gente si riuniva in capannelli a raccontare storie di sofferenza o a ridere per barzellette di pessimo gusto. Gli uomini si riunivano alla locanda improvvisata che Ambrose aveva messo in piedi nella zona vuota utilizzata per riunioni, matrimoni e altro ancora. Parlavano della cava. Le donne si incontravano nella bottega vera e propria, curiosando fra gli scaffali e chiacchierando dell'esistenza in superficie. Bambini sudici correvano da un gruppo all'altro e in qualsiasi altro angolo fino a quando Kern, Ogier o qualcun altro dei regolari non li cacciavano fuori. Quella era l'usanza prima che Azrael desse inizio alla caccia delle spie della Rosa Bianca. Il nano era sempre stato una presenza sgradita alla miniera. Era brutale e spingeva i sorveglianti della cava a imitarlo. Sembrava che il siniscalco avesse orecchie ovunque. A volte ripeteva parola per parola intere conversazioni private come se fosse stato in quella stessa stanza mentre venivano pronunciate. Ma ora, Azrael e la sua polizia, la Politskara come l'aveva chiamata, incombevano su ogni aspetto della vita di Veidrava. Il nano aveva reclutato i sorveglianti più crudeli, i minatori più forti e i soldati più temibili. Era loro compito scoprire i traditori. Sospettavano ogni individuo di sovversione, di sostenere segretamente la Rosa Bianca e le sue Spine. Quando trovavano anche la più piccola prova di tale sospetto, uomini e donne sparivano nel nulla. I minatori e le loro famiglie temevano la Politskara come la peste ma, peggio ancora, erano giunti a non fidarsi dei propri amici e vicini. Vecchi risentimenti portarono fratelli a denunciare i propri fratelli, mogli a voltare le spalle ai mariti. Ormai quasi più nessuno andava da Ambrose. Era meglio restare a casa e aspettare che il regno del terrore terminasse. Quella sera non più di una mezza dozzina di anime coraggiose si erano
riunite alla bottega. Ambrose, Kern e Ogier erano chini sul bancone, impegnati a giocare a Pietre e Ossa. I tre uomini erano inseparabili dai tempi in cui erano scesi per la prima volta nella miniera. Soltanto la disgrazia di Ambrose li teneva separati durante il giorno. Gli altri due lavoravano ancora sottoterra, come ormai facevano da trent'anni. Ganelon si lasciò andare contro il bancone della bottega, cercando di combattere la noia. Due donne stavano scegliendo delle stoffe e una ragazzina vestita di stracci vagava per il locale. Dal modo in cui a ogni rumore si guardava alle spalle, Ganelon sospettò si nascondesse da qualcuno. Inoltre, teneva il cappuccio del logoro mantello tirato su intorno al viso. Probabilmente sta sfuggendo a un padre ubriacone, pensò Ganelon. Tuttavia, non la perse d'occhio un istante, nel caso quel nervosismo nascondesse l'inesperienza di una ladra in erba. Un'improvvisa rauca risata distolse l'attenzione di Ganelon dalla ragazza. «Ecco qua», ansimò Ambrose. «Ogier è il vincitore.» L'uomo corpulento annuì orgoglioso. «Mi devi una bottiglia di Malaturno», disse. Il premio era molto ambito: si trattava infatti di un vino proveniente da una sconosciuta vigna di Invidia. Kern aveva ancora lo sguardo fisso sui resti del gioco. «Vai a belare da un'altra parte», disse, strofinandosi la barba. Il suo umore nero irradiava da lui come il calore da una stufa accesa. «Sono ancora convinto che tu mi abbia imbrogliato, Caprone.» I folti riccioli, ormai grigi, che coprivano la testa di Ogier avevano suggerito quel soprannome. Ma pronunciato da Kern, l'appellativo era un chiaro riferimento al basso livello intellettivo di Ogier. Il sorriso dell'uomo si trasformò in broncio. Kern si pentì dell'insulto appena vide il viso dell'amico cambiare espressione. «Due bottiglie», offrì. «Se tu pensi di essere sufficientemente in gamba da reggerle... e Ambrose da procurarle.» Dieci anni prima, Kern stesso si sarebbe spinto oltre il confine in cerca del premio. Era sempre stato il più avventuroso del trio. Ma come Ambrose e Ogier, la preoccupazione per Helain lo teneva ormai sempre vicino a casa. Il bottegaio diede una pacca affettuosa sulla spalla dell'uomo più piccolo. «Vedrò che cosa posso fare», affermò. «Da quando è morta Magda, non faccio più molti affari con i Vistani e nessun altro osa commerciare lungo il confine. Che cosa ne dite di un'altra partita? Vediamo se riuscite a pa-
reggiare, così mi risparmiate la seccatura.» La porta della bottega si spalancò. Uno dei pannelli di legno cadde a terra come una piuma. Incorniciati dallo stipite della porta apparvero due agenti della Politskara di Azrael. I minatori ne conoscevano uno, un certo Markel, un tipo spietato arruolato dalla cava. L'uomo brandiva un'accetta d'argento. Ogni politska ne portava una, sebbene Markel sembrasse pronto a usarla a ogni occasione, come aveva fatto sulla porta. L'altro era un elfo, che guardava Ambrose, Ganelon e persino Markel con aperto disprezzo. Azrael non aveva dispensato dal servizio gli abitanti di Mal-Erek, Hroth o Har-Thelen; gli elfi selvaggi erano anche i loro nemici, sebbene fosse difficile immaginare che potessero detestare qualcuno più di quanto detestassero gli esseri umani. «C'è giunta voce che uno straniero si aggira da queste parti», tuonò Markel. «È stato visto sulla vostra porta.» I due non offrirono altre spiegazioni prima di separarsi e cominciare la ricerca nella bottega. Sollevarono Ganelon da dietro il bancone e lo buttarono a terra. Quando l'uomo cercò di protestare, l'elfo gli sferrò un calcio nelle costole. «Devi insegnare le buone maniere al ragazzo», gridò Markel ad Ambrose. I due politskae proseguirono nella ricerca, spostando ogni barile o cassa che si trovava fra i piedi e provocando più confusione che potevano. Quando si avvicinarono alle due donne, afferrarono le borse di stoffa che contenevano i loro acquisti. «Mi spiace doverlo faro, tesori», disse Markel in tono sarcastico mentre svuotava il contenuto a terra. Con la punta dello stivale spostò gli oggetti sparsi sul pavimento alla ricerca della rosa bianca simbolo delle Spine. «Non ho mai visto una rosa bianca in vita mia», piagnucolò una delle due donne. «Nessuno ne vede una da queste parti», aggiunse l'amica, «da almeno dieci anni». «La Politskara ha ricevuto notizie contrastanti», affermò Markel. Schiaffeggiò le due donne con una tale violenza da farle cadere in ginocchio. Ganelon seguì la scena con rabbia e indignazione crescenti. Si alzò da terra. Qualcuno doveva fermarli, decise. Le sue mani si chiusero a pugno e si diresse verso Markel. «Non pensarci nemmeno, figliolo», lo ammonì Ambrose sottovoce. Avvolse un braccio intorno alle spalle del giovane. «Non dimenticare la promessa fatta a Helain e resta fuori dai guai. Quel giuramento forse è l'unica
cosa che possiede a cui aggrapparsi. Lascia che spacchino qualche sedia e che si credano grandi e forti. Tra poco se ne andranno.» Il nome di Helain bloccò Ganelon come una doccia gelata. Per il bene della ragazza, e il suo onore, sarebbe rimasto fedele al giuramento. «Va bene», mormorò. Si avvicinò al bancone, zoppicando vistosamente sulla gamba sinistra. Non sapeva come si fosse fatto male, ma qualsiasi cosa fosse non stava migliorando. In quel momento, gli sembrava che delle mani invisibili gli stessero strizzando la gamba come un panno bagnato. Markel non si prese la briga di interrogare Ogier o Kern. Salì invece sulle scale di legno, diretto al piano rialzato. Ganelon guardò Ambrose con espressione supplichevole, implorandolo con gli occhi di lasciarlo andare. «Ti ho detto di starne fuori.» Un'ombra scese sul volto del bottegaio. «Fidati. Me ne occupo io», sussurrò. Si avvicinò ai piedi della scala. «C'è una ragazza malata lassù, Markel. Lo stesso Azrael mi ha assicurato che non sarebbe stata disturbata.» Il politska fissò la porta davanti a sé. «In quale stanza si trova?» domandò. Prima che Ambrose potesse rispondere, diede un calcio alla porta. «Non in questa, spero.» Svegliata di soprassalto, Helain gridò terrorizzata. Ambrose fu in cima alle scale più in fretta di quanto Ganelon si sarebbe aspettato, sebbene attraversò il pianerottolo ansante. Se non sta attento gli scoppierà il cuore, pensò il giovane. Un altro pensiero seguì il precedente, inquietante quanto improvviso: No, non è possibile. Ambrose è già morto. Un grido acuto proveniente dagli scaffali della bottega lo fece sussultare. «La ragazzina», mormorò. Trovò il compagno di Markel che la scuoteva violentemente. «Perché sei qui?» gridò l'elfo. Non ottenendo risposta, scagliò la ragazza contro gli scaffali di legno. Il colpo fece rovesciare una scatola di chiodi di ferro, che come una pioggia metallica caddero a terra. Tenendo la ragazza bloccata contro la scaffalatura con una mano, l'elfo raccolse un chiodo. In quei freddi occhi grigi si lesse l'utilizzo che intendeva farne. «Lasciala andare!» gridò Ganelon. «È poco più che una bambina!» Un sopracciglio sollevato per la sorpresa, l'elfo posò lo sguardo sul giovane. «Ehi», gridò chiamando il compagno, «questa zucca vuota sta interferendo con il mio interrogatorio». Al di sopra dei gemiti di Helain, Ganelon sentì nascere una discussione, che ben presto degenerò in uno scambio di insulti. «Markel?» chiamò l'elfo. Ma la discussione era divenuta una baruffa. Il
politska lasciò la ragazzina. «Sto arrivando», gridò. Troppo tardi. Dal ballatoio giunse un ansito di dolore e un rantolo di morte. Il rimbalzare di un corpo pesante lungo le scale di legno risuonò nella bottega. Il cuore di Ganelon si fermò. Avevano ucciso Ambrose! Quando il giovane emerse dalla scaffalatura, l'elfo dietro di lui scoprì che il corpo ai piedi delle scale non era quello di Ambrose ma di Markel. Il bottegaio era curvo sul cadavere. L'accetta d'argento che stringeva in una mano era sporca del sangue del politska. Ambrose indicò le due donne. «Portatele fuori da qui.» La sua voce era cupa e profonda, improvvisamente priva dell'affanno che lo perseguitava dal giorno dell'incidente. «Subito!» Kern e Ogier erano allibiti per l'improvviso cambiamento nel solitamente mite amico ma non esitarono a obbedirgli. «Uno sfortunato incidente», disse Kern mentre guidava le donne nella notte. «L'uomo è inciampato ed è caduto sulla sua stessa arma.» Ogier si fece cupo. «Ma la ferità è nel mezzo della schiena.» «Da queste parti non è più strano di qualcuno che si strangola con la propria lingua», replicò Kern con un sospiro. Il politska elfico gridò alle donne. «Sarete convocate come testimoni. Non pensiate che dimentichi le vostre facce.» «Sono certo che loro hanno già dimenticato la tua», commentò Ambrose. Sollevò l'accetta e si mosse verso l'elfo. Nei suoi movimenti c'era una grazia e una fluidità che l'uomo non aveva mai dimostrato prima. Ondeggiò come un serpente o un'ombra prodotta dalle fiamme tremolanti di un fuoco. Ganelon si scoprì a indietreggiare insieme all'elfo. «Ambrose», mormorò. «Taci», sibilò il bottegaio. «Occupati della ragazza.» «Lei è mia prigioniera», intervenne l'elfo senza staccare gli occhi da Ambrose. Abbassare la guardia, distogliere lo sguardo anche solo per un istante avrebbe significato la morte. Lo leggeva sul volto torvo del bottegaio. La testa che gli girava, Ganelon scattò alla ricerca della ragazza, che trovò sommersa da una marea di tessuti. «Dammi la mano», disse il giovane. «Ti aiuto ad alzarti.» Mentre la fanciulla si alzava, il cappuccio che le nascondeva il viso cadde indietro, rivelando corti capelli biondi e orecchie appuntite. Non era una ragazzina, bensì un giovane elfo. I tatuaggi che dalle tempie gli scendeva-
no lungo il collo, una serie di triangoli e spirali, lo denunciavano come un appartenente a uno dei feroci clan delle Colline di Ferro. Ganelon fissò i tatuaggi. Si era sbagliato: non erano triangoli e spirali, bensì spine e steli. Il politska aveva visto giusto. Lo straniero era una spia, una Spina della Rosa Bianca. «Che cosa ci fai qui?» ansimò Ganelon. «Che cosa vuoi da noi?» «Vi porto un messaggio da parte della Rosa Bianca.» Ambrose apparve da dietro l'angolo, un'accetta d'argento in ciascuna mano, un sentiero di impronte insanguinate dietro di sé. «Che cosa succede?» tuonò. L'elfo impallidì. Non erano le armi o il sangue a incutergli paura. Qualcosa che riconobbe in Ambrose lo spinse a mormorare una preghiera contro il male e a fuggire dalla bottega. «Aspetta», gridò Ganelon. «Il messaggio.» «Lei è la vostra unica speranza», rispose l'elfo mentre si allontanava correndo. Il giovane attraversò la stanza quanto più velocemente gli permise la gamba dolorante. Ambrose lo bloccò molto prima che raggiungesse la porta. «Dove pensi di andare?» ruggì il bottegaio. «Voglio scoprire che cosa sta succedendo.» Ganelon cercò di liberarsi dalla morsa dell'uomo più anziano, ma inutilmente. Le dita di Ambrose affondarono dolorosamente nel suo braccio. «Mi stai facendo male, Ambrose.» «Sei tu che stai facendo del male a te stesso», fu la laconica risposta. Ambrose mollò la presa e si allontanò. «Stai facendo del male anche a Helain.» Accovacciata in cima alle scale, Helain soffocò un grido di disperazione. Sollevò la lunga camicia da notte bianca e si conficcò le unghie nella carne fino a quando gocce di sangue apparvero sulla pelle. Nei suoi occhi si leggeva una sofferenza insopportabile, che a ogni parola pronunciata dai due uomini sembrava macchiare sempre più la sua anima. Ganelon si coprì il volto con una mano. «Hai ragione», disse. «Ma perché non dovrei essere tentato di unirmi alla lotta?» «Perché le hai promesso che non lo avresti fatto», replicò Ambrose. «Perché la ami e lei ti ama.» Con un grido di dolore, Helain attraversò correndo il pianerottolo e si lanciò contro una finestra chiusa. Il vetro andò in frantumi, le schegge le si conficcarono nella carne delle braccia. Macchie di sangue le macchiarono
la candida camicia da notte dello stesso rosso acceso dei suoi capelli. Helain atterrò con un grugnito bestiale. Facendosi piccola alla luce della nuova luna bianca, si chiese se aveva speranze di morire. Probabilmente no, e sicuramente non quella notte. Un ignoto e terribile benefattore l'aveva risparmiata. Non riusciva a sentirne la voce, ma sapeva che doveva andare da lui. Le lacrime che le rigavano le guance, cominciò a correre nella notte. Sulla porta della bottega, Ganelon vide Helain un attimo prima che lei scomparisse fra le torri pendenti e i mucchi di terra della miniera. Si dirigeva verso la collina. Il giovane non esitò, non si fermò per chiedere la benedizione o l'aiuto di Ambrose. Maledicendo la gamba, partì all'inseguimento della fidanzata. Ambrose lo guardò allontanarsi, poi chiuse al meglio la porta semidistrutta. Ogier e Kern sarebbero tornati presto per aiutarlo a liberarsi dei cadaveri. Non c'era bisogno di tanta segretezza, ma loro non l'avrebbero capito. Non erano a conoscenza del patto di Ambrose con Azrael o dei suoi altri più terribili segreti. Avrebbe dovuto inventarsi qualche spiegazione per il suo comportamento di quella notte e perché i suoi problemi di salute fossero magicamente svaniti nell'istante in cui era iniziata la lotta ed era stato versato sangue. Guardò il cadavere di Markel e sentì crescere la rabbia. «È colpa tua», mormorò. Sollevò una delle accette d'argento e, preso da una folle frenesia, iniziò a colpire il corpo. Quando ormai di Markel restava troppo poco per soddisfare la sua ira, Ambrose si accanì sull'elfo. Non si fermò fino a quando anche quel cadavere non fu ridotto a un ammasso di carne e sangue. Sfogata la rabbia, si fermò per osservare il proprio lavoro. Mentre affondava l'accetta nel palmo della mano nemmeno si accorse di ciò che stava facendo. Non urlò, ma si limitò a osservare il sangue che gocciolava a terra. Quando si voltò, le gocce scure strisciarono sulle assi di legno consunte per unirsi alla sua ombra. 8 Non aveva speranze. L'inseguimento era inutile. Ganelon se ne accorse nel momento in cui si mosse. La gamba dolorante non gli permetteva di mantenere il passo di Helain. La conformazione delle regioni selvagge di
Sithicus gli lasciava ancor meno speranze di trovarla nel caso lei avesse abbandonato la strada. Tuttavia, in qualche modo riuscì a non perderla di vista per diverse ore. Dopo la folle corsa dalla casa di Ambrose, Helain rallentò il passo. Seguì la strada stretta ma rettilinea che conduceva a nord, al fiume Musarde e terminava congiungendosi alla grande arteria commerciale conosciuta come la Frusta dei Mercanti. Illuminata dalla luce della nuova luna, la camicia da notte strappata che fluttuava dietro di lei come ali spezzate, sembrava un fantasma, un filo di fumo che conduceva Ganelon verso il pericolo. Il giovane si aspettava che lei gli svanisse davanti agli occhi. E fu quello che accadde poco dopo avere raggiunto la Frusta dei Mercanti. Helain restò sulla strada affollata solo il tempo per attraversarla. Terra bruciata fiancheggiava la via verso nord per tutta la sua lunghezza, dalla città elfica di Har-Thelen al confine con Kartakass, centocinquanta miglia a est. Senza un attimo di esitazione, Helain si avventurò nell'immenso deserto nero. Ancora sulla strada da Veidrava, Ganelon imprecò. La ragazza stava dirigendosi verso il Bosco della Collera. Decine di anni prima, i mercanti avevano ripulito dalla vegetazione e bruciato il varco tra la strada commerciale e il fetido intrico di foresta e palude che la delimitavano a nord. Avevano sperato che l'espediente avrebbe impedito agli abitanti del Bosco della Collera di tendere imboscate a viandanti e carovane. Non aveva funzionato. I mercanti avevano mantenuto lo spazio pulito anche quando il commercio lungo la strada era diminuito drasticamente. Che fosse efficace o meno, quell'appezzamento di terra bruciata li convinceva di avere fatto qualcosa per tenere lontana l'oscurità. Per un brevissimo istante, mentre attraversava la via commerciale, Ganelon distolse lo sguardo da Helain e lanciò un'ansiosa occhiata verso il Bosco della Collera. E in quei pochi secondi, lei scomparve. Accortosi di averla persa, Ganelon si fermò, stropicciandosi le mani per il dolore lancinante alla gamba. «Dove sei?» mormorò, esausto. La fredda aria della notte trasformava ogni respiro in vapore. Persino quest'ultimo sembrava prendersi gioco di lui; le forme bianche si soffermavano un istante davanti ai suoi occhi - Helain con la camicia da notte svolazzante per poi scomparire anch'esse. Cercando di non lasciarsi prendere dalla disperazione, esaminò la situazione.
Helain non poteva aver raggiunto la linea degli alberi. Tra la strada e la foresta non c'era un posto dove potesse nascondersi nemmeno un gatto. Forse era caduta in un fosso, ma osservando meglio la spianata non individuò nessun avvallamento. I mercanti avevano fatto un ottimo lavoro eliminando la vegetazione e tenendo la zona pulita. Ganelon non riusciva a immaginare come qualcosa potesse strisciare attraverso quella landa desolata e attaccare qualcuno di sorpresa sulla strada, sebbene simili incidenti non fossero una rarità. Ganelon non chiamò Helain. Lei non gli avrebbe sicuramente risposto e le grida avrebbero attirato su di lui l'attenzione degli abitanti del Bosco della Collera. Decise di attraversare la spianata. Mentre abbandonava la strada, una preghiera gli salì alle labbra. Era un'antica invocazione militare. Sebbene non gli fosse mai piaciuta particolarmente, gli sembrò che in quel momento fosse perfetta. «Fato assistimi», mormorò. «Paura fuggi via da me.» Nuvole di polvere si sollevarono sulla landa desertica, cancellando ogni traccia del passaggio di Helain. Ganelon fece del suo meglio per ricordare la posizione della donna quando era scomparsa. Quando scelse un punto, trovò una quercia particolarmente alta al limitare del lontano Bosco della Collera e ne fece il proprio obiettivo. Poiché sulla spianata non c'era nulla che potesse usare come punto di riferimento, camminare verso l'albero gli avrebbe impedito di girare a vuoto. La landa era così piatta e vuota che lo sguardo di Ganelon tendeva a fissarsi sul più pericoloso Bosco della Collera. Più di una volta gli parve di vedere misteriose forme muoversi fra gli alberi. Kendralihd ha sputato fuori i suoi abitanti per la notte, pensò. Il villaggio si trovava nel cuore del Bosco della Collera. Le creature che vivevano laggiù erano il risultato di un qualche esperimento mal riuscito a Nedragaard Keep. Erano chiamati kender ed erano piccole e scarne mostruosità con una propensione al furto e una particolare predilezione per il sangue umano. Ganelon scosse la testa. Non sapeva dove avesse tratto quelle informazioni sui Kender e Kendralihd. Giravano voci su quelle creature, leggende che raccontavano di assetati vampiri che vivevano in quei boschi, ma le notizie che possedeva erano troppo precise e dettagliate. La preoccupazione per Helain, la distrazione per l'improvvisa intuizione e la minaccia incombente del Bosco della Collera lo distrassero a tal punto che non si accorse del piccolo cerchio oscuro sul terreno davanti a lui. Superò il buco e se il tacco dello stivale non avesse sollevato dei sassolini
facendoli cadere nell'apertura, non l'avrebbe mai notato. Le pietre rimbalzarono rumorosamente. Il giovane si voltò di scatto, pronto per un attacco. Quando non apparve niente, si inginocchiò per esaminare il buco. Era l'ingresso a una galleria stretta ma scavata con cura. No, non era un ingresso, si accorse, mentre spostava lo sguardo dalla foresta alla strada commerciale, bensì un'uscita. Ecco come gli abitanti del Bosco della Collera riuscivano a superare inosservati la landa desertica. Scivolavano sotto la spianata fino a emergere all'altezza della strada. Il buco era stato coperto da un manto di legno ben mimetizzato con l'ambiente circostante; se non vi fosse finito per caso, Ganelon non avrebbe mai scoperto il tunnel. Guardò indietro, verso la strada. Probabilmente aveva superato già una mezza dozzina di gallerie simili. Un brivido lo percorse. A un tratto, il Bosco della Collera non era così lontano come aveva pensato. Allontanò quel pensiero inquietante e si concentrò sulla propria scoperta. Impronte di piedi intorno al perimetro del tunnel lasciavano intuire che qualcuno vi era passato di recente. Helain doveva essere caduta nell'apertura; si sarebbe così spiegata la sua improvvisa scomparsa. Invece di uscire, aveva proseguito nello stretto passaggio. Ganelon si calò nell'oscurità. Le creature che avevano scavato la galleria erano più piccole degli uomini, ma il giovane poteva tranquillamente avanzare sulle quattro zampe. Prima di addentrarsi nel tunnel, si chiese se fosse meglio lasciare l'uscita aperta nel caso avesse dovuto fuggire rapidamente o se avesse dovuto rimettere la copertura al suo posto, per evitare che altre creature lo seguissero. Alla fine, decise di risistemare le assi di legno, anche se così facendo si precludeva ogni possibilità di fuga. Lo stretto passaggio e le tenebre non infastidirono Ganelon: il tempo trascorso a lavorare nella miniera lo aveva abituato a quelle condizioni. E anche a quell'odore. Le misteriose creature che si muovevano in quelle gallerie non aspettavano di raggiungere la superficie per liberare l'intestino. Ancora peggio, sembravano divorare le loro vittime sul posto, lasciando dietro di loro ossa sgranocchiate e carne putrida. A Ganelon non sfuggì il fatto che né ratti né altri animali si avventurassero nei tunnel per reclamare tali leccornie, ma cercò di non pensare al perché della loro assenza. Di tanto in tanto, il tunnel si apriva sulla destra e sulla sinistra, confermando così il sospetto del giovane che sotto la landa desertica correva un dedalo di gallerie. Non gli restava che sperare che Helain avesse proseguito per quel tunnel, ovunque conducesse. In caso contrario, l'avrebbe persa
per sempre. Tuttavia, a ogni intersezione si fermava per percepire eventuali tracce della posizione della ragazza. Fu durante una di quelle soste che si accorse del lieve rumore. Qualcosa stava annusando l'aria. Produceva lo stesso suono di un segugio che seguiva una pista. Ma probabilmente laggiù non c'era alcun cane. Cercò di combattere la paura, obbligandosi a proseguire. Ma ogni volta che si muoveva, non sentiva più l'inseguitore e subito se lo immaginava alle calcagna. Gli pareva quasi di sentire mani invisibili che si chiudevano intorno alle sue caviglie, fauci mordaci bloccargli la gamba dolorante. La galleria era troppo stretta perché potesse contrastare l'avversario. Anche se fosse riuscito a voltarsi per affrontare la misteriosa creatura, era disarmato. Se n'era andato dalla bottega senza nemmeno un coltello da cucina. A una successiva intersezione si fermò nuovamente. L'orribile suono proveniva ora da entrambe le direzioni, più forte e inframmezzato da un sogghigno gutturale. Gli erano ormai addosso. Accelerò. Ogni suo fruscio gli sembrava una cannonata, o forse era solo il battito del suo cuore che gli rimbombava nelle orecchie. Qualcosa di appuntito gli si conficcò nella mano. Ganelon sobbalzò per il dolore e la sorpresa, convinto che una delle misteriose creature fosse riuscita a precederlo. Era solo un pezzo d'osso. Lo estrasse dal palmo e riprese ad avanzare. Quando finalmente cominciò a intravedere la luce in fondo al tunnel, il rumore provocato dagli inseguitori sovrastava persino la sua goffa fuga. Nelle orecchie gli risuonava un sibilo costante, come se qualcosa venisse trascinato. Li sentiva sbuffare e ridere. Il crescente frastuono lasciava presumere che fossero almeno una dozzina, forse più, e che si avvicinassero pericolosamente. Si aspettava che gli saltassero addosso da un momento all'altro. La gamba sinistra era inutile. La trascinava come se la morte l'avesse già reclamata, rallentando la fuga già terribilmente lenta. A un certo punto, qualcosa afferrò l'arto inerte, ma Ganelon lo scacciò con la gamba destra. L'inseguitore sghignazzò ancora più forte. Quando finalmente risalì verso la superficie ed emerse dal tunnel, Ganelon era incredulo. Ce l'aveva fatta! Aveva ancora una possibilità. Forse avrebbe trovato un oggetto qualsiasi da utilizzare come arma. Forse le creature non lo avrebbero nemmeno seguito fuori dalla galleria. Quell'ultima speranza venne subito spazzata via. La luce della luna bianca era fievole, soffocata dalla volta degli alberi
soprastanti, ma illuminava l'ingresso a sufficienza per permettere a Ganelon di vedere chiaramente gli inseguitori quando sbucarono dal tunnel. Non per l'ultima volta quella sera, il giovane si chiese se tutti gli incubi di Sithicus avessero improvvisamente preso vita. Quando la prima zampa ossuta emerse dall'oscurità, Ganelon la scambiò per quella di un pipistrello gigante. Le tre dita erano sottili e dotate di lunghi artigli, sistemate in mezzo a un arto più grande unito da una membrana molto simile all'ala di un pipistrello. La somiglianza terminò alla testa della creatura. Era bulbiforme, con gli occhi sfaccettati di un insetto. Anche la bocca era quella di una bestia mostruosa. Aprendosi e chiudendosi, le mandibole producevano un secco schiocco, succhiando ed espellendo aria. In quel suono Ganelon riconobbe l'orribile sghignazzare che tanto lo aveva innervosito. Una seconda ala di pipistrello crepitò, piegandosi secondo articolazioni che non avrebbe dovuto avere e in modi che sfidavano il buonsenso. Continuando a sghignazzare, la cosa emerse dal tunnel. Il busto terminava in un ammasso di corti tentacoli. Come il resto di quel corpo grottesco, gli arti erano bluastri come la pelle di un uomo annegato. Ganelon si rotolò verso il bosco. Non riusciva a sollevarsi; la gamba non sosteneva più il peso. Strisciò nella macchia. Rami spinosi gli graffiarono il viso, ma non si fermò. Erano lì per lui. Chiuse gli occhi, ma sentì ancora il fruscio sul tappeto di foglie morte che ricopriva il pavimento della galleria. Altre creature uscirono allo scoperto, le ali che muovevano l'aria, le mandibole che si aprivano e chiudevano fameliche. «Helain», mormorò Ganelon, «ti chiedo perdono». Un rumore metallico accanto a lui lo fece sussultare. Si preparò al colpo, agli artigli affilati e alle mascelle possenti, ma non accadde nulla. Un terrificante grido riempì la notte. Ganelon sollevò lo sguardo e vide le creature allontanarsi, sfrecciare fra gli alberi o inciampare l'una sull'altra nel tentativo di raggiungere la salvezza nel tunnel. Sbigottito e incredulo, il giovane fissò le bestie in fuga. «Credo che questo ti appartenga», disse una voce melodiosa, priva di alcuna inflessione dialettale. Ganelon era troppo stanco per essere sorpreso, così raggelato dalla vicinanza della Morte che a fatica si voltò e a bocca aperta restò a fissare l'arcana figura in piedi dietro di lui. Un lungo mantello nascondeva l'uomo. Il suo volto era celato dietro una maschera anch'essa parzialmente oscurata
dall'ombra gettata dalla falda di un ampio cappello. I vestiti erano di una tonalità pallida quasi quanto la luce della nuova luna bianca. «Li hai spaventati», affermò Ganelon. Lo sconosciuto annuì e il giovane venne inondato da una fresca fragranza di fiori. Rose. Naturalmente. «Perché hanno paura di te?» continuò Ganelon. «Perché sono incredibilmente intelligenti per essere povere, mostruose creature», spiegò lo sconosciuto. Spostò nella mano destra una strana massa metallica; la puntò a terra e ci si appoggiò come fosse stato un bastone da passeggio. «Come ho già detto, questo è tuo.» Ganelon osservò l'ammasso di canne attorcigliate e viti. Era una sorta di sostegno per la gamba. A Veidrava aveva visto dei minatori indossarne di simili. «Ti sbagli.» Si sfregò gli occhi e cercò di pulirsi il viso dal sangue dei graffi. Cominciava a riprendersi dallo spavento. «Hai visto una donna venire da questa parte?» domandò, strisciando fuori dalla boscaglia. «Helain è sana e salva», rispose lo sconosciuto. Gli porse ancora una volta il sostegno. «Odio dover insistere, ma penso veramente che questo aggeggio sia tuo. Sono venuto per questo.» Ganelon allontanò il rinforzo. «Che cosa sai di Helain? Dov'è?» «Sta bene», ripeté lo sconosciuto, «o quasi. Le creature nel Bosco della Collera hanno offerto riparo alla pazza. In un paio di giorni giungerà a destinazione». «Sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire un luogo che tu faresti meglio a evitare.» «E io dovrei fidarmi di te», ribatté Ganelon. «Non credo a una parola di quello che mi hai detto.» Lo sconosciuto si strinse nelle spalle e si tolse la maschera. Ganelon si aspettava un volto orribile e sfigurato, ma l'uomo era invece incredibilmente bello, di una bellezza soprannaturale. «Quello che tu credi è irrilevante, Ganelon. Se vuoi riavere Helain, devi accettare le mie parole.» «Come fai a sapere il mio nome?» chiese il giovane. «No, non importa. Non ne ho il tempo. Dimmi solo dove posso trovarla.» «No», rispose lo sconosciuto. «Non ancora.» Ganelon si sollevò e fece un passo avanti, ma la gamba lo tradì facendolo miseramente crollare a terra. Lo sconosciuto lasciò cadere il sostegno per la gamba accanto al giovane. «Infilalo e poi parleremo.» Il sostegno era perfetto, quasi fosse stato forgiato per lui. Ma le macchie
di ruggine - no, di sangue, si accorse Ganelon con un brivido - denunciavano l'oggetto come vecchio e già utilizzato. Ancora più inquietante era il fatto che le mani di Ganelon sembravano sapessero come regolare l'elaborato sistema di viti e borchie che tenevano il sostegno intorno alla sua gamba. Eppure, se si concentrava e cercava di pensare a ciò che stava facendo, le dita si bloccavano. «Non preoccuparti», disse lo sconosciuto mentre Ganelon sistemava l'ultimo gancio e cercava di alzarsi in piedi. «Ti ci abituerai. Non hai perso la memoria. È semplicemente oscurata dalla natura di questo luogo.» Ganelon scosse la testa come se così facendo potesse disperdere la confusione che gli annebbiava la mente. Non servì. «Chi sei?» «Sai già anche quello», replicò lo sconosciuto. «Ti darò comunque un indizio.» Ganelon abbassò lo sguardo sulle mani guantate dell'uomo e scoprì che al posto della maschera ora teneva un astuccio di cuoio, della stessa pallida tonalità dei suoi abiti. Ancora prima che lo sconosciuto aprisse il contenitore, rivelando gli attrezzi d'argento ordinatamente allineati, Ganelon sapeva di trovarsi faccia a faccia con il Ciabattino Sanguinario. Il Ciabattino era una leggenda a Sithicus, un fantasma che abitava nei racconti e negli incubi e che puniva coloro che tradivano la loro vocazione. Se quanto si diceva era vero, uomini e donne che rifiutavano di percorrere il cammino tracciato per loro dovevano aspettarsi una visita del Ciabattino. Con gli attrezzi d'argento, l'uomo avrebbe tagliato loro le piante dei piedi per poi donarle a chi aveva solo bisogno di un leggero incoraggiamento per incamminarsi sulla strada che desiderava seguire. Di tanto in tanto, venivano scoperti cadaveri con parti dei piedi mutilate, ma era facile per gli scettici addossare la colpa a qualche organismo saprofago. «Questa riparazione è stata più complessa di quanto mi aspettassi», affermò il Ciabattino. I suoi occhi scintillarono di una malizia che Ganelon trovò disarmante, nonostante la minaccia dei coltelli macchiati di sangue nell'astuccio. «Avrei dovuto immaginare che alcune delle principali debolezze del... ehm, donatore sarebbero passate a te. Il sostegno ti permetterà di proseguire per la tua strada a passo più sicuro.» «P... perché?» balbettò il giovane. «Perché ho scelto te? Perché una vita avventurosa è quello che hai sempre desiderato», spiegò il Ciabattino. «È una vita che ti meriti.» «No», ribatté Ganelon. «Perché fai tutto questo? Chi sei?»
«Quel genere di curiosità potrebbe metterti nei guai», lo ammonì il Ciabattino. «Ha già ucciso l'uomo per il quale è stato creato quel sostegno.» «Dimmelo comunque. Ho bisogno di capirlo per potere andare avanti.» Un sorriso soddisfatto illuminò il viso del Ciabattino. «Proprio il genere di atteggiamento che mi aspettavo da un viandante solitario», commentò. Buttò indietro il mantello e si appoggiò a un albero. «Il modo migliore per spiegarti le mie motivazioni è raccontandoti una storia. Sicuramente hai già sentito diverse varianti di questa spiacevole avventura, ma mai la verità. «Tanto tempo fa, viveva un cavaliere di grande fama. L'uomo era dotato di un'intelligenza vivace e di una forza fisica che lo rendevano perfetto per il ruolo di campione di virtù. Inoltre, possedeva sufficiente saggezza per comprendere il proprio destino.» Il Ciabattino scoppiò a ridere, ma di una risata amara. «Anche un cieco avrebbe potuto riconoscere il destino di questo cavaliere: guidare la sua terra, forse persino il mondo, in una nuova era governata dai giusti. Naturalmente, conosci l'identità di questo leggendario guerriero. È il padre di questo luogo oscuro.» «Lord Soth», mormorò timidamente Ganelon. «Proprio lui», confermò il Ciabattino. «Ma tutto ciò accadeva nei giorni precedenti alla sua morte a causa dei suoi peccati, quando ancora un cuore batteva nel suo petto. Allora era un uomo giusto, che scorgeva la strada verso la gloria aprirsi innanzi a lui ma che alla fine scelse di percorrere il fossato adiacente.» Una ventata d'aria gelida giunse dall'ombra di una quercia. «Quella leggenda supera la tua abilità di cantastorie», disse il cavaliere della morte emergendo dall'oscurità. «È inoltre più lunga della tua stessa vita.» Ganelon si inchinò a Lord Soth. Il Ciabattino restò dov'era, pigramente appoggiato al tronco di un albero. Incrociò le braccia e scosse la testa. «Non avete mai saputo giudicare il vero talento», rimbeccò. «Vi basti pensare alla scelta dei vostri siniscalchi.» «C'è una differenza fra coraggio e stupidità», tuonò Soth. «Lascia che te la spieghi.» Il cavaliere della morte tracciò un geroglifico nell'aria, lo guardò infiammarsi e volare verso il Ciabattino. Ma il simbolo magico passò attraverso la pallida figura dell'uomo. Colpì l'albero, che iniziò a tremare. I rami si piegarono e dal tronco della pianta si levò un grido di dolore. «Ho imparato tutte le vostre lezioni parecchio tempo fa», affermò il Ciabattino. «Se mi lasciate salutare il mio amico, vi dimostrerò quanto sono
diventato bravo.» Soth si frappose fra il Ciabattino e Ganelon. «Mi occuperò anche di questa spia», disse, «e senza l'indulgenza che gli ho mostrato la prima volta che Azrael l'ha portato al mio cospetto». «Lo scambiate per un altro», s'intromise il Ciabattino. «È il rinforzo per la gamba che vi ha tratto in inganno. Forza, Ganelon! Mostra al sovrano il tuo volto.» Il giovane sollevò lo sguardo sul cavaliere della morte e vide le fiammeggianti orbite arancioni fissarlo attraverso la fenditura dell'elmo. «Sono un vostro fedele suddito», mormorò Ganelon. «Sono un minatore di Veidrava.» «Che cosa ci fai qui?» domandò Soth. Fu il Ciabattino a rispondere. «È a caccia del suo amore», spiegò. «È sicuramente un inseguimento che può destare persino la vostra comprensione.» Sghignazzò. «Soprattutto la vostra comprensione.» Soth si spostò da parte e con un cenno congedò Ganelon. Il Ciabattino porse al giovane una mano guantata. «Posso dirti dove iniziare la tua ricerca, ma devi giurare di non rivelare a nessuno l'informazione.» «Certamente», si affrettò ad assicurare Ganelon. Il Ciabattino si oscurò. «Temo di avere bisogno di qualcosa di più formale. Su che cosa potresti giurare?» Lanciò una gelida occhiata a Soth. «Sulla Misura, forse?» Il riferimento al codice di comportamento del suo antico ordine sorprese Soth. Il cavaliere della notte osservò con maggior attenzione la figura avvolta nel mantello. «Giuro sul mio amore per Helain», propose Ganelon. «Perfetto», replicò il Ciabattino. Si avvicinò al giovane e sussurrò: «Prosegui verso nord, verso le Colline di Ferro. Il luogo dove lei è diretta è il primo sulle colline a essere sfiorato dal sole del mattino». Ganelon pensò di chiedergli altre istruzioni e anche un'arma, ma un'occhiata a Soth gli fece capire di essere fortunato ad andarsene ancora padrone della propria vita. Si incamminò nella notte. Il Ciabattino continuò a sentire il tonfo regolare del sostegno della gamba anche quando il Bosco della Collera aveva ormai inghiottito il giovane. «Finalmente soli», disse il Ciabattino. «È molto che aspetto questo incontro.» «Tu conosci la mia storia», affermò Soth, «perciò devi essere al servizio di Kitiara».
«La Rosa Bianca», lo corresse l'altro. «Ho anche altri nomi per lei, ma sono nomi che voi non potrete mai usare.» «Sei il suo amante? Ne ha avuti tanti, ragazzo. Tutti morti per la sua slealtà.» «Proprio voi parlate di slealtà», ribatté il Ciabattino. «Quante migliaia di vite avete sulla coscienza?» «Nessuna», rispose Soth. «Per sentirmi colpevole dovrei credere che ciò che ho fatto sia sbagliato. Ma non ci credo.» Il Ciabattino Sanguinario fissò il signore di Nedragaard come se i suoi pallidi occhi azzurri potessero vedere oltre l'armatura annerita del cavaliere della morte. «Ricordate ciò che avete fatto e ciò che siete stato?» Soth non replicò. Aveva messo insieme buona parte del suo passato sfruttando il potere del Lago delle Voci. Era infatti al lago, impegnato ad ascoltare frammenti della propria storia, quando il Ciabattino aveva fatto il suo nome. «Ricordo di essere in guerra con la Rosa Bianca», disse Soth dopo qualche istante. «So quello che farò nei giorni a venire per sconfiggerla.» «Avete abdicato al vostro futuro quando avete abbandonato il cammino dei Cavalieri della Rosa e avete permesso agli dei di Krynn di devastare il mondo. Il passato è tutto ciò che avete», affermò il Ciabattino. Indicò la rosa annerita sulla corazza di Soth. «Indossate il suo simbolo. Il freddo che gela le vostre ossa è il suo respiro, l'ansito di morte di un milione di vite abusate.» Soth afferrò il Ciabattino per un braccio. «Se ti preoccupi tanto per quelle anime perdute», ringhiò, «a quelle fila aggiungerò anche la tua». La risata del Ciabattino era più tagliente di qualsiasi lama che avesse mai toccato la pelle di Soth. «Faccio già parte di quelle fila.» Con quelle parole, il Ciabattino scomparve e il pugno di Soth si chiuse sul nulla. Un odore di rose e di carne bruciata persistette nell'aria. Anche la risata dell'uomo svanì lentamente fino a trasformarsi in un verso privo di allegria e derisione. Un istante prima di svanire del tutto, la risata del Ciabattino divenne il grido disperato di un bambino. 9 Un gelo profondo si era impadronito di Ganelon dal giorno dell'incontro con Soth e il Ciabattino. Non era il preludio a una malattia e né i raggi del
sole né le fiamme di un fuoco potevano diminuire quella sensazione. Al terzo giorno nel Bosco della Collera, iniziò a pensare a esso come a un drappo gelato che gli avvolgeva l'anima, un drappo di cui non poteva liberarsi. Soltanto il pensiero di Helain sembrava scaldarlo. Il Ciabattino l'aveva chiamata «pazza», non l'aveva definita «malata» o «impazzita» e non aveva usato quei mille eufemismi utilizzati da Ambrose e gli altri. Ganelon sapeva che l'uomo misterioso aveva ragione. Il fatto non lo disturbò come avrebbe fatto un tempo. Il mondo intero sembrava impazzito, affollato di non-morti e incubi viventi. Poiché sin dalla prima notte nessuna creatura si era avvicinata a lui, Ganelon aveva cominciato a chiedersi se anche lui non fosse impazzito. Non era forse quello che aveva detto il Ciabattino? «Le creature nel Bosco della Collera hanno offerto riparo alla pazza.» No, Ganelon poteva far fronte alla pazzia di Helain e non aveva problemi a immaginarsi intento a prendersi cura di lei. Dopo tutto, l'amava ancora. Ciò che lo rattristava era la crescente certezza di avere in qualche modo favorito lo sviluppo della follia. Forse lei non si era fidata della sua promessa di tenere a bada il proprio desiderio. La paura che il suo vero e unico amore potesse abbandonarla poteva averla portata alla pazzia. Guardandosi intorno, osservando la distesa di pini rachitici che segnavano il confine alquanto indistinto fra il Bosco della Collera e le Colline di Ferro, Ganelon non poté negare una certa eccitazione. Il Ciabattino gli aveva rivelato che lo attendeva una vita avventurosa. Il misterioso uomo aveva persino ucciso per permettere a Ganelon di riprendere quel cammino. Ganelon si lasciò sfuggire un triste sospiro. Percorreva il giusto cammino, ma era un cammino solitario. Tutte le volte che si era allontanato dalla miniera, Ambrose, Kern e Ogier sapevano dove era diretto. Era una sorta di gioco in cui amavano cimentarsi. Lui lasciava piccoli indizi che gli amici si affrettavano a registrare. Il trio si riteneva una sorta di fune di sicurezza, come quelle che i minatori utilizzavano quando si calavano a esplorare una grotta appena scoperta. Era un ruolo a cui i tre uomini tenevano molto. Tuttavia, ora non potevano trarlo in salvo. Nessuno poteva. Ganelon sollevò lo sguardo verso il cielo del tardo pomeriggio che andava rapidamente oscurandosi come il suo umore. Presto sarebbe giunta la pioggia. Per la centesima volta quel giorno, si maledisse per essersi allontanato dalla bottega con tanta fretta. Fino a quel momento era riuscito a
rimediare a tutto ciò che aveva lasciato dietro di sé. Poco dopo avere lasciato il Ciabattino, era letteralmente inciampato in un pezzo di legno perfetto da usare come mazza. Il rumore metallico prodotto dal sostegno per la gamba gli impediva di cogliere di sorpresa qualsiasi animale e di utilizzare l'arma improvvisata, ma conosceva sufficientemente bene la vegetazione dei boschi per riuscire a sopravvivere nutrendosi di bacche e radici. Tuttavia, niente nella foresta avrebbe potuto sostituire un mantello. Sarà meglio cercare un riparo per la notte, pensò, sebbene intorno a sé non vedesse alcun rifugio. Le Colline di Ferro erano ancora troppo lontane per sperare in una grotta e lui si era allontanato da qualsiasi sentiero, dove avrebbe potuto trovare una capanna o un altro ricovero improvvisato. Anche gli alberi in quella parte del bosco non sembravano offrire buon materiale da costruzione. La maggior parte delle piante erano vecchi pini, secchi e deformi. I tronchi erano ricoperti da termiti che divoravano il legno. I rami e gli aghi caduti bruciavano a fatica e producevano un fumo denso e puzzolente. Quando Ganelon cercava di tagliare un ramo, quest'ultimo sembrava opporre resistenza. Era come se le piante sapessero ciò che lui stava facendo, proprio come nelle leggende che la madre gli raccontava da piccolo. E così aveva preso la decisione di non toccare più gli alberi. Come aveva imparato negli ultimi giorni, le vecchie storie contenevano più verità di quanto avesse mai immaginato. Fu così che il frusciare delle fronde e lo scricchiolio del legno alle sue spalle portò ai suoi occhi l'immagine di un albero sradicato e infuriato invece di un più banale viandante che avanzava nel bosco. Spaventato, si buttò dietro a un tronco caduto e si nascose come meglio poté sotto una coperta di aghi di pino. Aveva appena terminato l'opera, quando apparve una figura imponente. Inizialmente, Ganelon non riuscì a vederlo in viso, ma il corpo massiccio era coperto da abiti sbrindellati nei colori degli zingari Vistani. Profondi graffi gli segnavano le braccia. Da una ferita su un fianco fuoriusciva un liquido giallo e purulento. L'uomo sollevò entrambe le braccia e allontanò un ramo dal viso; i resti di luride bende gli legavano i polsi. Appena ebbe spostato il ramo, Ganelon poté vederlo in volto. Bratu. Al posto delle orecchie aveva due monconi straziati. Pus e sangue raggrumato gli punteggiavano il viso. La testa pelata era scottata dal sole. La coda di cavallo era sciolta e i capelli aggrovigliati gli ricadevano lungo il collo come la criniera di un selvaggio destriero. L'arrogante borioso di quindici
giorni prima era scomparso, al suo posto ora c'era un pazzo cencioso. Ganelon decise di correre il rischio. Appena il Vistarti lo ebbe superato, si alzò faticosamente in piedi brandendo la mazza improvvisata. «Bratu», chiamò in tono tranquillo, «che cosa ci fai qui?». Il Vistani non si voltò, non si fermò. Imprecando, Ganelon lo inseguì. Era logico: con ferite simili alle orecchie non poteva certo sentire. Avvicinandosi, Ganelon udì Bratu emettere suoni incomprensibili. L'uomo era pazzo per il dolore e probabilmente anche affamato. E perciò pericoloso. Ganelon esitò, il braccio allungato verso la spalla di Bratu. Forse un sesto senso ancora presente nel Vistani lo avvisò del pericolo dietro di lui. Con un grugnito bestiale, Bratu si voltò verso Ganelon. La pazzia negli occhi dello zingaro fece indietreggiare il giovane. «Sono Ganelon, di Veidrava.» Abbassò la mazza e mostrò l'altra mano vuota. «Sono un amico.» Bratu dondolò la testa da una parte all'altra, gli occhi incollati sul viso di Ganelon. Che lo avesse o meno riconosciuto, improvvisamente sembrò calmarsi. Con un ampio gesto indicò il bosco e aprì la bocca per parlare. Ne uscirono solo suoni incomprensibili. Era senza lingua. Disgustato, Ganelon distolse lo sguardo e si girò. Gli stessi Vistani dovevano aver ridotto in quello stato il pover'uomo. Probabilmente era stato cacciato ed era rimasto vittima di un qualche rito tribale. Strappandogli la lingua, gli zingari gli avevano impedito di divulgare i loro segreti. «Mi dispiace», mormorò Ganelon. Ma quando si voltò, Bratu aveva ripreso il cammino. Il giovane non si mosse, incerto sul da farsi. Non poteva far niente per aiutare il Vistani e, a dire la verità, non stava facendo niente nemmeno per aiutare se stesso. Se voleva raggiungere le Colline di Ferro e trovare Helain, doveva darsi una mossa e lasciare Bratu al suo destino. Quando le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere, Ganelon decise che il tronco e gli aghi di pino erano il miglior riparo che potesse sperare di trovare per quella notte. Si appiattì contro il tronco e coprì gambe e stomaco con gli aghi. Se si fosse coperto fino al collo sarebbe stato più al caldo, ma in quel modo avrebbe invitato blatte e zecche ad avventurarsi sul suo viso. Non avevano bisogno di un aiuto in più per trovare il suo naso e le sue orecchie. Si addormentò con un incubo già presente nella mente: scarafaggi rosso sangue pigiati nella bocca. Le affilate tenaglie che scattavano pregustando già lo spuntino, gli insetti scivolarono verso la radice della sua lingua e si
misero al lavoro. La mattina successiva, Ganelon si svegliò più riposato di quanto avesse il diritto di sperare. La pioggia non era stata intensa quanto le nuvole avevano lasciato supporre e gli insetti lo avevano disturbato solo marginalmente, nonostante l'incubo. Restò immobile ancora qualche istante, gli occhi chiusi. Finalmente allungò le braccia stiracchiandosi e socchiuse un occhio alla luce del mattino. Il vivido bagliore lo accecò, obbligandolo a chiudere nuovamente l'occhio. Che cosa stava succedendo? Il sole non poteva filtrare a quel modo attraverso la fitta volta di fronde. «Non pensare di allungare le mani per prendere il bastone, dormiglione», ammonì una voce femminile. «Non c'è più. Inoltre, non ti sarebbe servito a niente. Non contro questo.» Ganelon sentì una leggera puntura sulla punta del naso. Aprì nuovamente gli occhi e ne scoprì la causa: un pugnale, la cui sottile lama rifletteva la luce del sole. L'arma si spostò lievemente e la luce riflessa brillò, accecandolo nuovamente. «Alzati», ordinò la donna. «Lentamente.» Ganelon si sollevò sui gomiti e da quella posizione poté valutare meglio la situazione. Avrebbe potuto andare meglio. Dopo avere incontrato Bratu la sera precedente, Ganelon non restò particolarmente sorpreso nel vedere Inza Kulchevich dall'altra parte dell'affilato pugnale. L'affascinante Vistani aveva abbandonato le gonne svolazzanti per indossare pantaloni di pelle e aveva legato i lunghi capelli neri in una coda di cavallo. Sfoggiava anche un pesante mantello, come notò Ganelon con invidia. «Forza», continuò la ragazza in tono perentorio, «è ora di svegliarsi, giorgio. Ho un paio di domande da farti». Mentre guardava negli occhi verdi della ragazza, Ganelon non riusciva a togliersi dalla mente i grugniti incomprensibili di Bratu. Mostro, pensò il giovane, tu e tutti quelli della tua razza. Lanciò un'occhiata sdegnosa all'altra mezza dozzina di Vistani accalcati dietro a Inza e disse: «Non ho le risposte che cerchi». La zingara spostò il pugnale sulla gamba sinistra di Ganelon. La lama sfiorò appena il metallo, graffiandolo. «Pensa alle ferite che quest'arma provocherebbe al tuo viso», mormorò Inza. «O alla lingua», suggerì Ganelon.
Il tono sconfitto dell'uomo fece sorridere Inza. Ma non era un sorriso piacevole. «Allora hai delle risposte per me.» Si voltò verso uno degli zingari. «Portagli qualcosa da mangiare e dell'acqua pulita. E anche un mantello.» Posò nuovamente lo sguardo su Ganelon. «Non pensare che non abbia riconosciuto l'invidia nei tuoi occhi, giorgio.» Prima di riprendere a parlare, Inza aspettò che Ganelon si fosse sciacquato il viso, avvolto in un caldo mantello colorato e seduto davanti a un piatto di pane e formaggio. «Sono stati gli uomini di Malocchio Aderre a strappare la lingua a Bratu», disse, «sebbene anche noi fossimo pronti a farlo. Faceva il doppio gioco, rivelando nostri segreti al signore di Invidia». «E allora perché gli uomini di Malocchio avrebbero dovuto tagliargli la lingua se lavorava per loro?» domandò Ganelon tra un boccone e l'altro. «È stato scoperto e temevano che avrebbe spifferato i nomi degli altri loro agenti a Sithicus», spiegò Inza con indifferenza. «Allora, dimmi, per quanto tempo avete viaggiato insieme?» «Non lo abbiamo mai fatto», replicò Ganelon. «Le nostre strade si sono incrociate in questa radura; ma lui ha proseguito, mentre io mi sono fermato.» Inza si fece cupa. «A Veidrava ti descrivono come un tipo gentile e compassionevole, ma probabilmente mentono. Hai lasciato che un uomo ferito vagasse nella notte senza offrirgli il calore del tuo fuoco.» Ganelon rovesciò il piatto ormai vuoto. «Hai detto che gli avreste tagliato la lingua se gli uomini di Malocchio non vi avessero preceduti. Che cosa vi importa di lui?» «La punizione è una cosa, la tortura è un'altra», affermò Inza. Impalò un millepiedi con la punta del pugnale e lo guardò contorcersi. «Stare lontano dal clan è una vera tortura per il povero Bratu. Noi lo avremmo tenuto al sicuro con noi, anche dopo aver fatto giustizia.» A Ganelon sfuggì la torva occhiata che si scambiarono gli altri Vistani, che sapevano che Inza aveva proposto ben altro destino per Bratu. Il giovane aveva infatti lo sguardo fisso sulla coperta di aghi di pino che lo aveva protetto nel corso della notte. «Dovrebbe essere chiaro che non avevo nessun fuoco da condividere», disse. «Gli ho offerto il mio aiuto, ma non mi sentiva. Gli uomini di Aderre gli hanno tagliato anche le orecchie?» «Si è ferito con le sue mani», replicò Inza in tono distratto. «Non mi hai detto che cosa ci fai qui, giorgio. Forse sei anche tu una spia.» Indicò il sostegno per la gamba. «Quegli aggeggi li fanno solo a Invidia. È forse il
tuo premio per avere tradito i tuoi amici?» «Sto cercando Helain», spiegò Ganelon. «Dovrei mettermi in cammino se voglio raggiungerla.» Inza fissò il giovane con un sorriso compiaciuto. «Ah, la ragazza malata della bottega. L'ha finalmente sentita, eh? Era solo questione di tempo.» «Sentita, chi?» L'espressione smarrita dell'uomo era troppo genuina perché potesse fingere. «La Bestia Sussurrante», rispose Inza. «Come Bratu, anche lei ha risposto alla chiamata della Bestia.» Ganelon si alzò, scuotendo il mantello dalle briciole di pane. «Stupidaggini», ribatté. «La Bestia parla a bugiardi e imbroglioni. Helain non è niente di tutto ciò.» La roca risata dei Vistani soffiò sul fuoco dell'ira di Ganelon. Stizzito, il giovane si rivolse loro. «Voi, luridi imbroglioni, che cosa ne sapete dell'onestà?» Inza afferrò Ganelon per un polso e lo fece sedere accanto a sé. «Se siamo tutti bugiardi, giorgio, allora farai bene a prestare ancora più attenzione alle nostre parole. I bugiardi devono conoscere la verità sufficientemente bene per evitarla. Nessuno dice che la tua Helain sia come Bratu. Forse è il senso di colpa ad averla spinta dalla Bestia. A volte basta.» «Senso di colpa per che cosa?» La ragazza si strinse nelle spalle. «L'unica cosa importante è che tu riesca a trovarla prima che lei giunga dalla Bestia. Una volta nelle sue mani...», trattenne un brivido. «Non voglio pensarci. E poi sarebbe impossibile ritrovarla. La tana della Bestia è nascosta.» A Ganelon tornarono in mente le parole del Ciabattino Sanguinario: «Il luogo dove lei è diretta è il primo sulle colline a essere sfiorato dal sole del mattino». E quel luogo doveva essere la tana della Bestia Sussurrante. Inza si chinò sull'uomo e posandogli un dito sotto il mento gli sollevò il viso, fino a quando i loro sguardi si incontrarono. Ganelon si sentì scivolare nella verde profondità degli occhi della ragazza, e in qualche angolo recondito della mente, comprese che quegli occhi erano molto simili al Bosco della Collera. Entrambi possedevano una certa intollerante rigogliosità. Per quanto sembrassero pieni di vita, in realtà erano soffocati dalla morte. «Qualcosa ti ha portato fino a qui», mormorò Inza. «Non puoi avere mantenuto il passo con lei, non con quella gamba e non fermandoti a dormire. Come fai a sapere dove dirigerti?»
«Non lo so. Seguo il sentiero.» «Prima ti ho detto che i bugiardi devono conoscere la verità», affermò Inza, facendo un segnale a uno dei suoi. «E noi capiamo quando qualcuno mente.» Due mani forti e possenti afferrarono Ganelon per le spalle e lo sollevarono di peso. Il giovane sferrò un calcio con la gamba avvolta nel metallo, ma il Vistani non si mosse. Il pugnale in mano, Inza si parò innanzi al giovane. «Chi ti ha detto come trovare le vittime della Bestia?» gli gridò in faccia. Davanti al silenzio di Ganelon, gli posò la lama del pugnale sul lobo dell'orecchio. «Chi te l'ha detto?» Bastò un lieve movimento del polso della zingara e il lobo cadde a terra. Quando Ganelon ebbe finito di gridare e di agitarsi, Inza posò la lama sull'altro orecchio. «Da qui posso arrivare fino agli occhi.» «Il Ciabattino», mormorò Ganelon. La risposta lasciò Inza di sasso, ma solo per un breve istante. «Menti», lo accusò. La punta del pugnale perforò il lobo e si appoggiò sulla guancia. «Qualche notte fa», disse Ganelon a denti stretti. «Mi ha dato anche il sostegno per la gamba.» Inza si fermò e osservò attentamente il sostegno. Una scintilla le illuminò lo sguardo. «Bene, bene», mormorò infine. «Hai amici importanti, giorgio. Dimmi quello che voglio sapere e potrai annoverarmi fra di loro.» «Non posso svelarti ciò che mi ha detto il Ciabattino.» «Non vuoi», lo corresse Inza. «Ho fatto un giuramento. Non posso infrangerlo.» Inza sollevò nuovamente il pugnale. «Resterai sorpreso da quello che puoi fare, una volta motivato.» Quando la donna abbassò l'arma, Ganelon non si divincolò. Si lasciò andare a peso morto. Per compensare l'improvviso peso sulle braccia, il Vistani che lo teneva balzò indietro. In quel preciso istante, Ganelon si spinse sulle gambe. Invece di colpire il viso del giovane, la lama del pugnale finì sul braccio del Vistani. Era un colpo di striscio che avrebbe dovuto provocare poco più che un graffio. Ma il pugnale di Inza era potenziato da magie più antiche dei Vistani stessi e la lama affondò fino all'osso. Ganelon crollò a terra e venne immediatamente bloccato dagli altri Vistani, che lo presero a calci e pugni, facendogli saltare più di un dente. Nel frattempo, l'uomo che lo aveva tenuto stretto cercava disperatamente di
bloccare il flusso di sangue dal braccio. I suoi tentativi si rivelarono vani quanto le speranze di fuga di Ganelon. Poco dopo, lo zingaro cadde pesantemente a terra ed emise l'ultimo respiro. Soltanto Inza mantenne la calma. Quando Ganelon venne nuovamente bloccato, pulì il pugnale e si avvicinò lentamente al giovane. «Ho giurato sul mio amore per Helain», gridò Ganelon. «Non la tradirò.» «Certo che no», affermò Inza. Sollevò la lama del pugnale fino a farle riflettere la luce del sole. Il riverbero colpì Ganelon in pieno viso. In quello stesso istante, gli occhi di Inza si posarono su quelli del giovane. Quando poté nuovamente vedere, Ganelon scoprì di trovarsi sotto uno splendido pergolato. Profumate piante rampicanti s'intrecciavano intorno a lui, facendogli schermo contro il sole. Il sostegno per la gamba era sparito, come anche le ferite e quel terribile gelo che lo aveva pervaso dal giorno dell'incontro con il Ciabattino. Lì era al sicuro. Niente poteva ferirlo, né i Vistani, né le bestie del Bosco della Collera e nemmeno Lord Soth. Si beò in quella meravigliosa sensazione di sicurezza. L'aveva provata molto raramente e solo fra le braccia di Helain. «Proprio come dovrebbe essere», sussurrò una voce. «Sei veramente al sicuro solo con chi ti ama totalmente.» Ganelon si voltò, sollevò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono quelli di Helain. La testa del giovane era posata sul grembo della donna, dalla cui espressione era scomparsa la luce della follia. Gli sorrise felice. Una mano era posata sul torace dell'uomo, l'altra era nascosta fra i capelli rossi, una fiamma accesa che risaltava contro il verde scuro del bosco. Gli occhi della ragazza scintillarono come due pozze d'acqua che riflettevano il primo sole del mattino, quando lei disse: «Mi hai liberata». Si chinò a baciarlo e le sue trecce gli scivolarono sul viso. I sensi di Ganelon si destarono. Si inebriò del profumo della donna e la strinse a sé. Il mattino divenne pomeriggio e il pomeriggio sfociò nella sera e loro erano ancora abbracciati. Fu Ganelon a staccarsi da lei. «Non posso credere che tu sia qui», sospirò, allontanandosi un palmo per poterla guardare meglio. Stringendolo ancora a sé, lei rispose: «Credimi. Devi ringraziare te stesso. Solo tu potevi salvarmi». «Sei veramente qui.» Helain si finse offesa e lo allontanò. «Se i miei metodi per provarvelo
non vi bastano, signore, vi suggerisco di trovare un altro grembo su cui posare il capo.» «Mi bastano eccome», replicò Ganelon, ridendo. «È solo che... forse sono rimasto sdraiato qui troppo a lungo. Non riesco a ricordare che cosa è accaduto.» «Oh, smettila», lo derise Helain. «Sicuramente ti ricordi di avermi trovato nella tana della Bestia Sussurrante.» Davanti all'espressione persa dell'uomo, aggiunse: «Cominci a preoccuparmi, amore». Ganelon venne colto dalle vertigini. Disorientato, si coprì gli occhi con una mano. «Ricordo il Ciabattino che mi ha aiutato. Hai ragione...» Helain gli tolse la mano dagli occhi e la strinse fra le sue. Corrugò la fronte, turbata. «Perché non cominciamo dall'inizio, da quando il Ciabattino ti ha detto come trovarmi? Così dovresti riuscire a mettere insieme i diversi avvenimenti.» Ganelon cercò di sedersi, ma Helain glielo impedì. «Non muoverti», disse. «Ti prego, amore.» Un'ombra di preoccupazione le oscurò il viso, facendo apparire verdi i suoi occhi azzurri. Verdi come il pergolato. Verdi come i rampicanti che ora si attorcigliavano anche intorno alle sue gambe. In qualche angolo recondito della mente, Ganelon sentì sorgere la paura. «No!» gridò. Con mani tremanti afferrò Helain per le spalle e iniziò a scuoterla. Lei gli urlò di smetterla, ma era troppo tardi. Le chiome cremisi divennero ben presto scure come le ali dei corvi. I suoi occhi abbandonarono l'azzurro del cielo e divennero verdi come le squame dei serpenti e altrettanto freddi. «Basta», ordinò Inza. Si lasciò andare a terra, esausta. Come nel sogno, il giorno aveva lasciato il posto alla notte e il buio era calato sul Bosco della Collera. «Il tuo cuore può anche resistermi», mormorò in tono sfinito, «ma esistono altri sistemi per farti cedere, altri agenti per imporre la mia volontà su di te». Inza fece un cenno a uno del suo clan, un tipo dal volto sinistro di nome Alexi. Come buona parte dei Vagabondi, Alexi era rimasto senza famiglia a causa della persecuzione e del conseguente massacro operato dal duca Gundar nei confronti dei Vistani. Dopo essersi unito a Magda, erano poche le creature della notte che non avesse affrontato. In tutto il mondo, l'unico essere che lo spaventava veramente era la ragazza che ora era a capo del clan.
A un cenno di Inza, Alexi sollevò Ganelon di peso e lo trascinò fino al falò che gli zingari avevano appesa acceso. Non faceva fumo e i ceppi di legna sembrava avessero già preso fuoco perfettamente. Ganelon si chiese se i Vistani ricorressero a una sorta di magia che rendeva il legno più compiacente. «Non c'è bisogno che lo tenga tu», disse Inza. «Trova un albero e immobilizzalo.» «Come desideri, raunie», rispose Alexi. Al Vistani furono sufficienti pochi minuti per legare Ganelon al tronco di un grande albero ricoperto di muschio. Nel frattempo, un altro Vistani infilò tre attizzatoi nelle braci ardenti. In silenzio, Inza osservava gli uomini, la sua figura illuminata dal bagliore del fuoco. «Otterrò ciò che voglio da te», disse a Ganelon. «Non sperare. Vinco sempre.» Il giovane sbuffò, sfoggiando una spacconeria che era ben lungi dal provare. «Attizzatoi ardenti? Non è un sistema un po' rozzo per i Vistani?» «Oh, quelli sono solo i miei strumenti di riserva», spiegò Inza divertita. La raunie infilò la mano in una tasca nascosta del mantello. Con un sorriso soddisfatto estrasse una graziosa scatola decorata e la mostrò al giovane. «Ti do un'ultima possibilità, Ganelon, prima che la liberi.» «Non disonorerò me stesso o il mio amore per Helain.» Inza lanciò all'uomo un'ultima occhiata pensierosa prima di posare la scatoletta a terra e aprirla. Una morbida forma nera scivolò fuori dal contenitore. Iniziò a crescere, mentre il puzzo di salmastro sovrastava qualsiasi altro odore nell'accampamento. Ganelon restò a fissare la creatura a bocca aperta. Superato lo stupore, la paura cominciò a impadronirsi di lui. Chiuse gli occhi e richiamò alla mente un'immagine di Helain. Era l'ultima volta che poteva immaginarla con quella passione nel cuore. Le ombre non conoscevano l'amore e non tolleravano simili emozioni nei loro schiavi. Un'improvvisa imprecazione di Inza lo spinse ad aprire gli occhi. L'ombra ristagnava ai suoi piedi. Esitante, la macchia nera allungò un tentacolo verso gli stivali del giovane per poi ritrarlo immediatamente come se si fosse bruciata. La cosa era come un cane attirato da un osso che sapeva vicino ma che non riusciva a raggiungere. Dopo svariati tentativi rinunciò e strisciando tornò nella scatola. Con un grido di rabbia, Inza afferrò un attizzatoio dal fuoco. «Il Ciabattino si è occupato di te, vero?» Guardò gli altri Vistani. «Ha le piante dei
piedi di un uomo morto. L'ombra non lo vede.» Con la mano libera chiuse la scatola e la lanciò ad Alexi. L'uomo rabbrividì, ma non fece cadere né posò a terra il prezioso contenitore. Dentro di sé la raunie sorrise. Sua madre non aveva mai ispirato una lealtà così ferma e assoluta; il suo cuore tenero aveva sempre interferito. Quella debolezza non aveva mai toccato Inza. E infatti, aveva tutte le intenzioni di dimostrare a quel ratto di miniera quanto fosse gelido e insensibile il suo cuore. «Non cederò mai», affermò Ganelon, mentre la zingara si avvicinava. La paura del giovane era svanita. La sconfitta dell'ombra di sale l'aveva spazzata via. Il ragazzo sapeva che stava per morire ma sapeva anche che non avrebbe infranto il giuramento. La prima volta, Ganelon la sentì nel sibilo dell'attizzatoio che gli si avvicinava al viso. Una voce sussurrò. I sussurri si estesero ai pini e al fuoco, acquistando forza. Un istante prima che il ferro infuocato gli toccasse la pelle, il sussurro esplose in un terrificante ululato: Inza lasciò cadere l'attizzatoio e i Vistani fuggirono in tutte le direzioni come animali spaventati. Soltanto Ganelon vide il suo salvatore. Emerse dall'ombra dietro l'albero al quale era legato e trascinò dentro il giovane. Nel vederlo, Ganelon gridò con quanto fiato aveva in gola. Inza intravide soltanto un braccio allampanato, coperto di peli aggrovigliati, portarle via la sua vittima. Dove un istante prima c'era Ganelon, ora non restavano che delle funi avvolte intorno al tronco dell'albero. Non ebbe tempo per lanciare il pugnale, ma l'odio che covava dentro le permise di pronunciare un'ultima maledizione: Niente amore, niente luce, ma solo ciò che provoca dolore. Tutto ciò che hai di più caro morirà per mano tua. Quella maledizione, veloce come un pensiero vendicativo, seguì Ganelon nell'oscurità, così come lo avrebbe seguito per il resto della vita. 10 «È ora», annunciò Azrael in tono allegro. «Voglio che tu e i tuoi amici scendiate nella miniera. Adesso. Hanno quasi finito di caricare le casse. Accertatevi che non lascino niente sulla piattaforma e poi occupatevi dell'altra faccenda di cui abbiamo parlato. Chiaro?» Ambrose non rispose. Appena il nano se ne fu andato, il bottegaio si alzò. «Lo avete sentito», disse a Kern e Ogier.
I due minatori si scambiarono occhiate perplesse. «E il vino?» domandò Kern. Sollevò una mezza bottiglia di Chateau Malanimo. La gemella, vuota, era davanti a Ogier. «Ce n'è ancora per un brindisi. Dopo tutto quello che ho fatto per procurarmi questo nettare, sarebbe un peccato sprecarlo.» Ambrose non raccolse la provocazione. Il bottegaio non si era mai dato da fare per cercare le bottiglie per Kern, nonostante la sua iniziale offerta. Come risultato, Kern le aveva pagate il doppio del loro valore per potere estinguere il debito con Ogier. «Inoltre», aggiunse Kern, «avevi detto che dovevamo fare un altro lavoro per Azrael. Questo significa che dovremo sollevare altre casse». «Quello è un incarico speciale» spiegò Ambrose. «Una misteriosa incombenza per il nano omicida e in più altre casse da trascinare», osservò Kern. Sollevò il bicchiere vuoto in un immaginario brindisi. «Soltanto un vero amico poteva organizzarci un simile affare.» Ogier diede una gomitata all'uomo più minuto. «Lascialo stare. Cerca di fare del suo meglio.» Continuando a guardare Ambrose in cagnesco, Kern si riempì il bicchiere fino all'orlo e lo stesso fece per Ogier. Decise di finire di svuotare la bottiglia nel bicchiere di Ambrose, ma si accorse che l'amico non ne aveva bevuto nemmeno un goccio. Con un'alzata di spalle, porse la bottiglia a Ogier. Il corpulento anziano se la portò alle labbra e la svuotò in due sorsate. Kern tornò a sollevare il bicchiere, questa volta per davvero. In tono solenne, disse: «Agli amici assenti che lasciano ombre dietro di loro. Che possano tornare presto». Annuendo in segno di approvazione, Ogier svuotò il bicchiere. Dopo un istante di esitazione, Ambrose sollevò il calice. «Agli amici e alle ombre», mormorò in tono assente. Un'affermazione enigmatica come tutto ciò che ultimamente usciva dalla bocca di Ambrose. Dal giorno della scomparsa di Helain e Ganelon, l'uomo si comportava misteriosamente. Kern lo aveva interpretato come un modo per compiangere gli amici. Anche Ogier aveva notato un profondo cambiamento in Ambrose. La sua voce era diventata più forte e decisa, priva dell'affanno che aveva perseguitato l'uomo dal giorno dell'incidente. Era divenuto anche più energico e persino crudele. Ogier sapeva che non era così che si piangevano i propri cari. L'uccisione di quei due politskae aveva cambiato Ambrose: qualcosa di feroce e selvaggio si era impadronito del suo cuore.
I volti paonazzi per il vino, i tre lasciarono la bottega diretti alla miniera. Un centinaio di torce illuminavano i terreni intorno alla cava. Lavoratori trasportavano pesanti casse dal montacarichi e li caricavano su grandi carri, quindi tornavano indietro per un altro carico. L'intero processo era controllato dalla Politskara di Azrael. Gli agenti erano ovunque, le accette d'argento a portata di mano. Qualsiasi cosa gli uomini stessero trasportando, era decisamente più preziosa del sale. O per lo meno era quanto pensava Azrael. Il nano aveva fatto chiudere la miniera, cosicché tutti potessero concentrarsi sullo spostamento delle pesanti casse. Era un evento senza precedenti, che aveva turbato i lavoratori più dell'improvvisa comparsa della luna bianca. Sapevano che cosa significava la chiusura della miniera: perdita di guadagno, forse persino di lavoro. Giravano voci che la cava stava per essere chiusa per sempre. Per uomini che non sapevano fare altro, perdere quell'impiego significava morire di fame o affrontare una vita di stenti come quella delle creature che si nascondevano nei boschi. Avvicinandosi al montacarichi, Ambrose e i due amici lessero apprensione e persino paura sui volti dei minatori. Ma gli uomini non erano preoccupati solo per il loro sostentamento; erano spaventati anche per le loro anime. Il nano aveva insistito perché il lavoro procedesse giorno e notte, infrangendo ogni regola che i minatori avevano stabilito per proteggersi dalle ombre di sale. Poiché le maledette creature non potevano sopravvivere alla luce se non dentro a un corpo, niente e nessuno lasciava la miniera se il sole non era alto in cielo. Anche se un'ombra si fosse attaccata a un minatore, un solo turno sarebbe stato troppo breve per permetterle di possedere completamente il malcapitato. Quando quest'ultimo fosse risalito alla luce del sole, l'ospite indesiderato sarebbe stato scoperto. Il poveretto forse non sarebbe stato salvato, ma avrebbe potuto essere ucciso prima che l'ombra di sale lo obbligasse a una vita di corruzione e depravazione. Azrael aveva condannato tali paure come stupide superstizioni e aveva ordinato che gli uomini continuassero a lavorare anche dopo il tramonto. Alcuni dei minatori più giovani concordavano con il nano, poiché non avevano mai visto le ombre. Per loro, simili creature erano frutto della fantasia quanto il Ciabattino Sanguinario e la Bestia Sussurrante. Di parere contrario, i lavoratori più anziani osservavano scrupolosamente le casse, per timore che un'ombra potesse essercisi nascosta. Alcuni di loro si erano persino bruciati i palmi delle mani e le piante dei piedi, poiché si diceva
che la pelle morta allontanasse le malvagie creature. Ogier recitò una breve preghiera quando l'ultima cassa venne scaricata e lui, Kern e Ambrose salirono sul montacarichi. L'uomo non temeva le ombre di sale, ma aveva paura della discesa nella cava. Pochi mesi prima, il cavo che sosteneva un montacarichi era uscito dalla guida, causando un massacro. Ogier chiese al fato che il meccanismo funzionasse alla perfezione. Nel vedere l'espressione grave dell'amico, Kern non trattenne una risatina. Avvicinandosi a lui per impedire che i due politskae sul montacarichi lo sentissero, sussurrò: «Dovresti pregare il nano perché ci preservi la vita. Il montacarichi non si inceppa mai quando trasporta qualcosa di importante per Azrael». «Basta dire sciocchezze», affermò Ambrose con voce baritonale. Kern gli lanciò un'occhiata stizzita, ma il bottegaio non abbassò lo sguardo. Come sempre, fu Ogier il diplomatico a spezzare la tensione. «Forse hai ragione, Kern. Ma poiché Ambrose è importante per Azrael e noi siamo importanti per Ambrose, possiamo stare tranquilli.» Il montacarichi iniziò la discesa e fra i tre uomini scese il silenzio. Soltanto lo scricchiolio delle carrucole e lo stridio delle funi riempiva l'aria. Dopo alcuni minuti, udirono voci pacate giungere da un pozzo laterale sottostante. La miniera solitamente risuonava delle grida dei lavoratori e dell'impatto di picconi e martelli sulla pietra e ora i rumori smorzati assumevano un che di misterioso per i tre amici abituati al frastuono della cava. Con un sobbalzo, il montacarichi si fermò. La piattaforma era affollata di uomini e casse. Kern e Ogier non riconobbero i minatori. Immaginarono fossero i poveretti dei turni di notte. «Ultimo carico», annunciò il capogruppo. Ambrose gli passò innanzi come se non avesse sentito. Si diresse senza alcuna esitazione verso sei politskae raggruppati dove la piattaforma si stringeva in una galleria. Mentre Ambrose parlava con loro, i minatori caricarono il montacarichi. Senza pensarci due volte, Ogier diede una mano ai colleghi, sollevando con facilità anche le casse più grandi. C'erano contenitori di tutte le forme, dai barili per il sale alle bare per bambini. L'unica cosa che avevano in comune era il peso e il suono metallico che emettevano quando venivano depositate a terra o spinte in avanti. Persino un individuo dalle capacità intellettive limitate come Ogier poteva indovinarne il contenuto. «Attacco in vista», mormorò uno dei lavoratori a Kern. «È per questo che spostiamo le casse. Azrael non vuole che cadano in mano agli uomini
di Aderre.» Kern, che si guardava intorno alla ricerca della cassa più leggera, non trattenne una risata. «Siamo troppo lontani dal confine e poi se venissimo attaccati, questa roba sarebbe più al sicuro qua sotto.» «Se l'esercito di Invidia si farà vedere», osservò una voce, «saremo tutti più al sicuro quaggiù». «Non in questo tunnel», commentò un anziano di nome Divelg, che lavorava nella miniera da tempo immemore. «Meglio essere seduti sulle gambe di Malocchio Aderre che stare qua sotto. Sapete dove conduce?» Indicò la galleria. Ambrose apparve improvvisamente accanto a Divelg. Afferrò l'anziano per la gola e lo sbatté contro la parete. «È meglio che dimentichi ciò che c'è là dietro», minacciò. «Gli stai facendo male», intervenne Ogier. «Ambrose, smettila.» Il bottegaio si girò come una furia. «Chiudi quella boccaccia, Caprone, e rimettiti al lavoro.» Tremando per lo spavento, Divelg fissò Ambrose e mormorò: «So che cosa sei». Ambrose non trattenne un'imprecazione e spinse violentemente l'anziano minatore verso Ogier. Divelg inciampò su una cassa, rovesciandone il contenuto. Una piccola fortuna in monete d'oro e d'argento rotolò a terra. «Pensa a quante bottiglie di Malaturno si potrebbero comprare», commentò Kern, gli occhi spalancati per la sorpresa. Si chinò per osservare da vicino quel tesoro. Le monete provenivano da tutte le terre confinanti con Sithicus e anche da alcune più lontane. I politskae furono subito intorno a Kern. «Non intendevo rubare niente», si affrettò ad assicurare il minatore, sorridendo. Le accette d'argento che apparvero nelle mani degli agenti dimostrarono che non gli credevano o che non gl'importava. «Stiamo perdendo tempo», tuonò Ambrose. Persino gli impassibili politskae sobbalzarono all'inusuale tono furibondo dell'uomo. Lasciarono passare Ambrose, che fece alzare Kern. «Avrei dovuto lasciare che ti uccidessero», brontolò, «ma non te ne saresti andato tanto facilmente». Mentre le ultime casse venivano caricate, Kern e Ogier vennero spintonati in fondo alla piattaforma. Ambrose ordinò a Divelg di raccogliere il denaro che aveva fatto cadere. Il bottegaio e un paio di politskae circondarono l'anziano per assicurarsi che tutte le monete tornassero al loro posto. Un istante prima che il coperchio venisse nuovamente inchiodato, Ambro-
se prese due monete e le porse a Divelg. Kern allungò il collo per vedere ciò che stava accadendo. «Ha dato dei soldi a Divelg?» domandò. «Già», rispose Ogier, «ma il vecchio non sembra particolarmente felice». Infatti, Divelg era affranto. Fissava le monetine nere nella sua mano, girandole e rigirandole. Infine, recitò una silenziosa preghiera e guardò Ambrose. «È tornato, vero? Esiste veramente.» Ambrose posò un braccio sulle spalle dell'anziano e si allontanò con lui. Sarà forse stata la luce languida delle torce, ma l'espressione del bottegaio sembrava fluttuare fra la gioia e il dolore. «Sì, esiste. È là che Ambrose ha avuto il suo piccolo incidente tanti anni fa.» Chiuse le dita del vecchio sulle monete. «Tienile strette. Ti serviranno prima di quanto immagini.» Quando l'ultima cassa fu caricata, Ambrose ordinò che la piattaforma venisse sgombrata. I minatori, e persino i politskae, entrarono nel montacarichi. Soltanto Ambrose e i suoi due amici restarono nelle profondità della terra. Divelg fu tra gli ultimi a salire sul montacarichi, un politskae per lato. Subito prima che l'ascensore svanisse oltre il soffitto del pozzo, il vecchio si accovacciò. «Devi avere avuto il cuore di un titano per essere riuscito a controllarlo fino ad ora», disse ad Ambrose. Con un triste sorriso sul viso, lanciò le monete sulla piattaforma. «Quei due ne avranno più bisogno di me. Io so che non tornerò indietro.» L'eco delle ultime parole risuonò quando il montacarichi scomparve alla vista. Kern pestò un piede su una delle monete, che rotolava sulla pietra. Sollevato il tallone, trovò un penny nero di Sithicus. Era caduto con la rosa verso l'alto: un cattivo presagio. Ogier raccolse l'altro penny. «Non penso di tenerlo», commentò l'omone. Un brivido di paura percorse la schiena di Kern. Conosceva perfettamente il significato di quelle monete. Quando un cadavere veniva deposto sulla pira funeraria, su ciascun occhio veniva posato un penny. Una volta appiccato il fuoco, le monete sarebbero bruciate insieme agli occhi del defunto. Lo spirito di quest'ultimo sarebbe stato cieco e nel caso si fosse sollevato dalla tomba non sarebbe stato in grado di trovare la propria casa. L'implicazione del dono di Ambrose a Divelg era chiaro: l'anziano sarebbe presto stato cadavere. Ma Kern trovava ancora più inquietante il fatto che il vecchio ritenesse che anche lui e l'amico ne avessero bisogno.
Fortunatamente, Ogier sembrava non essersi reso conto della situazione. «Non ti preoccupare», disse Kern, dando un colpetto sulla spalla del compagno. «Divelg probabilmente voleva che li tenessimo come portafortuna.» «Dal tono di voce sembrava che ci fosse qualcosa che non andava», osservò Ogier. Un cervello così piccolo in un uomo così grande, pensò Kern. A voce alta disse: «Ma di che cosa ti preoccupi? Abbiamo Ambrose con noi e lui non permetterebbe mai che ci accadesse qualcosa». Il bottegaio era all'imbocco della galleria. «Vi ho già salvato da una morte orribile sul campo di battaglia.» Ogier gli lanciò un'occhiata confusa. «Le voci sulla chiusura della miniera sono vere», continuò Ambrose. «Azrael sta arruolando tutti nell'esercito. O meglio, quasi tutti. Pochi individui scelti verranno destinati a incarichi speciali, lontano dalla battaglia.» Kern fissò il vecchio amico con sguardo gelido. «Il che ci porta a "quell'incarico speciale" di cui ci hai accennato.» «Esattamente», replicò Ambrose. «Se volete seguirmi, cominceremo subito il vostro addestramento.» Soddisfatto, Ogier sbirciò nella galleria, quindi si voltò verso Kern. «Andiamo», invitò l'amico. «Prima cominciamo e prima potremo riposarci.» «Mi hai tolto le parole di bocca», commentò Ambrose. Allungò la mano verso Kern, che gli lanciò un'occhiata disgustata e riprese a cercare una via d'uscita. Non fu particolarmente sorpreso nello scoprire che non ve n'erano. Tutte le scale d'emergenza erano state tolte. Non c'era nemmeno il modo per fare scendere il montacarichi, per lo meno non da quanto vedeva. Era chiaro che Ambrose aveva progettato quella piccola imboscata nei minimi particolari. «Adesso che ci penso», affermò Kern sforzandosi di sorridere, «mi sarebbe sempre piaciuto vedere una grande battaglia in prima persona. E anche a te, Ogier. È un modo come un altro per ampliare le proprie vedute». «Ormai è troppo tardi per modificare i piani», replicò Ambrose in tono grave. Si avvicinò a Kern da dietro la schiena e posò una mano su una spalla dell'amico. Con l'altra strinse un pezzo di roccia che sporgeva dalla parete. «Dobbiamo stare uniti, Kern», affermò. «Questa galleria è infida.»
Una leggera pressione e la pietra si sbriciolò. Ogier si girò di scatto e fischiò. «Ehi, hai ragione. Le pareti sono piuttosto fragili.» «Direi che Ambrose ha usato un termine più corretto», commentò Kern avviandosi verso il tunnel con espressione torva. «"Infida".» Kern e Ogier andarono per primi, sebbene Ambrose non li perse mai di vista. Quando la galleria si aprì in un corridoio più ampio, si mise fra i due, una mano apparentemente amichevole sulla spalla di ciascuno. Ogier continuò a camminare sereno, totalmente ignaro del pericolo che Kern aveva fiutato già da tempo. Se non c'era niente che potesse fare per le loro vite, Kern sperava almeno di riuscire a tenere l'amico all'oscuro del loro destino fino all'ultimo istante. «Questo posto non è niente male», osservò Ogier, gli occhi spalancati davanti alle statue allineate lungo le pareti. Indicò il soffitto, decorato in modo tale da offrire l'illusione di un cielo aperto con nuvole e uccellini. «Perché non siamo mai venuti qui?» Kern si fermò a pochi passi dall'arco dall'altra parte della sala. Nella stanza attigua, le torce si erano magicamente accese, offrendo sufficiente luce per permettergli di intravedere l'altare, le panche e le forme scure che si muovevano in una macabra danza lungo le pareti e sul pavimento. Non aveva mai creduto veramente alle storie dei vecchi minatori sulla Cappella Nera o sulle ombre di sale generate in quel luogo sconsacrato. In quel preciso istante capì di avere sbagliato e comprese anche ciò che Ambrose aveva in mente per loro. Il bottegaio si fermò davanti a Kern, bloccandogli la visuale. «Sono sicuro che una parte di me si dispiace per tutto questo», affermò. Una risatina folle affiorò dalle sue labbra. «Ma che io sia dannato se riesco a trovarla.» Le ombre sciamarono fuori dalla cappella, scivolando sopra e intorno ad Ambrose come un torrente sibilante. Il grido di Kern distolse finalmente Ogier dalla contemplazione dei falchi e delle farfalle sul soffitto. L'uomo urlò terrorizzato. Mentre quel grido echeggiava per i passaggi sotterranei abbandonati dalla speranza, in tutta Veidrava risuonò il belato di un agnellino smarrito. Nei secoli dei secoli fu conosciuta come la Notte dei Teschi. Mentre le armate si radunavano a Veidrava e in un'altra mezza dozzina di località sparse per tutta Sithicus, Lord Soth e i tredici scheletri guerrieri
abbandonavano al gran galoppo Nedragaard Keep. Il tonfo degli zoccoli dei destrieri riecheggiò nella notte, tramutando i sogni in incubi. Nuvole di polvere soffocante si sollevarono in cielo fino a nascondere Solinari. I mercenari stavano già ritirandosi quando incapparono nella squadriglia di Soth. Erano diretti a nord attraverso uno stretto canyon nella valle di Arden, da cui avrebbero raggiunto il confine con Invidia. Dovevano avere sentito il rombo della pattuglia in avvicinamento perché fuggirono per evitare di incontrare il drappello in avvicinamento. O per lo meno, ci tentarono. Nei giorni ormai lontani come Cavaliere della Rosa, l'ordine più alto dei leggendari Cavalieri di Solamnia, Lord Soth aveva avuto a che fare con centinaia di bande simili. La loro tattica si era sempre fondata su un semplice concetto: dato un nemico in fuga, un soldato lo seguirà sempre. Soth aveva visto abili guerrieri scattare all'inseguimento, la loro sete di sangue risvegliata dall'apparente debolezza del nemico. Lui stesso aveva teso agguati basati su quella sorta di miopia dell'avversario. Ma in tutti i suoi anni di vita o non-vita non si era mai lasciato ingannare da quello stratagemma. Appena lui e i suoi guerrieri entrarono nel canyon, Soth sollevò la spada e l'agitò due volte. Insieme a tre scheletri guerrieri partì alla carica, mettendosi alle calcagna degli orchi e dei mercenari umani in fuga. Il resto della squadriglia si divise in due gruppi, che senza un attimo di esitazione si lanciarono sulle pareti scoscese del canyon. Gli arcieri Invidiani nascosti in cima al canyon, dietro a massi giganteschi e a bassi alberi, incoccarono le frecce. La maggior parte di loro non tirò nemmeno un colpo. La vista dei cavalieri della morte che salivano le pareti a picco fu troppo anche per loro. Abbandonarono le armi e fuggirono, trasformando la finta sconfitta in una vera disfatta. Le spade degli scheletri guerrieri si tinsero del sangue degli Invidiani. I non-morti non mostrarono alcuna pietà, restando totalmente insensibili alle grida dei nemici. Si occuparono di quel macabro compito con il distacco e l'efficacia omicida che mettevano in tutto ciò che facevano. La vittoria, la battaglia, niente aveva per loro un significato. Eppure, quelli che un tempo erano soldati leali e valorosi sapevano che simili imprese avrebbero dovuto agitare i loro animi. Ma quella era la loro condanna. Anche Soth lasciò dietro di sé una scia di cadaveri. E anche lui, come i suoi compagni, non traeva alcuna eccitazione dal conflitto. Quei mercenari erano avversari deboli, indegni della sua spada. Se quelle erano le truppe migliori che Malocchio poteva radunare, la guerra sarebbe stata molto bre-
ve. Il signore di Nedragaard e i suoi tredici leali cavalieri inseguirono gli Invidiani sopravvissuti fino a quando giunsero in vista del confine. Ne restavano troppi e troppo sparpagliati perché il cavaliere della morte e i suoi fidi potessero ucciderli tutti quanti prima che mettessero nuovamente piede nella loro terra. Soth tirò le redini del cavallo. Sguainata la spada macchiata di sangue, iniziò a cantare con una voce profonda quanto un abisso senza fondo. Quel triste lamento di giuramenti traditi e destini abbandonati riempì la notte. Gli scheletri guerrieri abbandonarono l'inseguimento, gettarono indietro la testa e si unirono al canto. Le loro voci crepitarono come carta accartocciata mentre aggiungevano l'elenco dei loro peccati a quello del loro signore. Lussuria, avidità, orgoglio fu ciò che confessarono. Il peggiore dei loro crimini, quello che li legava per sempre al Cavaliere della Rosa Nera, era l'idolatria. In vita, avevano venerato Lord Soth al di sopra di ogni cosa. Nella morte, condividevano il suo terribile destino, dannati per sempre accanto a colui che avevano scambiato per un dio in terra. In tutta Sithicus, altre voci si unirono al canto. Come lo stesso Soth, erano anch'esse inconsapevoli di ciò che confessavano, incapaci di sentire i vizi segreti rivelati da chi era loro vicino. Il canto divenne un'unica voce e al confine, i peccati fiorirono in una parete di rose spettrali che raggiunse il cielo. Improvvisamente, i fiori avvizzirono e svanirono. I mercenari sopravvissuti attraversarono il confine verso la salvezza. Soth, immobile e sbalordito sul suo macabro destriero, li guardò allontanarsi. Avvertì il peso di quel canto, ma soprattutto sentì chiaramente il lamento un istante prima che calasse il silenzio. Il terribile fardello di quelle confessioni, l'indiscutibile verità di quelle imprese oscure gravavano ancora su di lui. Lentamente, il cavaliere della morte si avviò verso il confine. Da lontano, il limite di demarcazione sembrava un basso muro di pietra. Avvicinandosi, Soth si accorse che era una barriera di sanguinanti teschi umani. Erano allineati lungo il confine in entrambe le direzioni e si estendevano a perdita d'occhio. Piccoli e grandi, antichi e recenti, i teschi erano rivolti verso Sithicus. Le orbite vuote fissavano quella terra e il suo signore con il totale distacco dei morti. Soth smontò di sella e con passo cauto si accostò alla barriera. Si accorse che i teschi non erano semplicemente macchiati di sangue, ma ricoperti di
parole incise con quella linfa vitale. La scrittura era elaborata ma elegante. Prese uno dei teschi e iniziò a leggere. Gli dei hanno concesso a Soth sufficiente conoscenza di sé per rendersi conto di quanto sia caduto in basso... Il cavaliere della morte gettò a terra il teschio, riducendolo in polvere sotto il proprio stivale. Ne prese un altro. Anch'esso riportava un frammento della sua storia. Per aver fallito nella sua ricerca, per aver lasciato morire il figlio sotto i suoi occhi, la sposa elfica di Soth invocò una maledizione su quello che un tempo era un nobile cavaliere... E così era per tutti i teschi. Qualcuno aveva raccolto la storia di Soth e gliel'aveva gettata contro, proprio quando il cavaliere della morte era nuovamente sicuro di avere il proprio passato sotto controllo. Lì non c'entrava Malocchio Aderre; i teschi erano a Sithicus, al di là della portata del signore di Invidia. Il responsabile era qualcuno all'interno del suo dominio. La Rosa Bianca. Soth si bloccò. Una simile stregoneria era al di là delle capacità di Kitiara. Ma se non era lei, chi era? Quali altri poteri si erano schierati contro di lui? Un'ombra oscurò i pensieri già desolati di Soth. Con essa giunse una sensazione che il cavaliere della morte aveva dimenticato. Per la prima volta in secoli, Lord Soth sentì il tocco gelido della paura. 11 Inondato dalla luce del tardo pomeriggio, Ganelon si svegliò sotto un pergolato cosparso di petali di rose bianche. Il forte profumo gli inebriava i sensi. Cercò di sollevarsi, ma venne sopraffatto da una sorta di letargia provocata dalla fragranza dei fiori. Con un sospiro, si lasciò andare fra i petali. Cercò di ricordare come fosse giunto in quel luogo. Il cinguettio degli uccelli e una lontana risata scacciarono i vaghi pensieri prima che potessero saldarsi in ricordi. Ma che importanza aveva? Lì era al sicuro. «È come dovrebbe essere», mormorò una voce fredda ma gradevole. «Sei veramente al sicuro solo con qualcuno che ti detesti con tutto se stesso.» Al suono della voce di Helain, la sonnolenza abbandonò Ganelon. Il cuore che batteva come impazzito, il giovane si agitò sul letto di fiori. Il
sostegno per la gamba gli impedì di scattare rapidamente in piedi e per un breve istante, il sole lo accecò. Quando tornò a mettere a fuoco, la vide. Era seduta fra i fiori, il viso acceso dalla follia. Il suo sorriso era così ampio che dalle labbra screpolate stillava sangue. Ma per quanto fosse grande, quel sorriso era vuoto. E così erano i bellissimi occhi azzurri, che fissavano con sguardo assente la cosa che cullava in grembo. Una delle mani di Helain era posata su una guancia scabra. L'altra era immersa nei capelli fiammanti e aggrovigliati. «Mi hai liberato», disse la fanciulla prima di chinarsi a baciare le labbra ulcerose della creatura. Un grido d'orrore proruppe dall'anima di Ganelon. «Helain!» gemette. Helain sussultò e si ritrasse. Sghignazzando, la creatura sollevò la testa deforme dal grembo della donna. «Ah, finalmente ti sei svegliato», disse la cosa. Mentre osservava il volto corrotto e malvagio della creatura, Ganelon sentì fluire i ricordi: il povero Bratu, la cattura da parte dei Vistani, la magia di Inza e la maledizione che aveva invocato quando non era riuscita a fargli infrangere il giuramento fatto al Ciabattino Sanguinario. Quella creatura lo aveva salvato, trascinandolo fra le ombre, mentre la Vistani sollevava l'attizzatoio ardente. La Bestia Sussurrante. Lui ed Helain erano nelle mani della Bestia Sussurrante. «A... allontanati da lei», balbettò il giovane. La Bestia si acquattò. Helain gli avvolse subito le braccia intorno allo scarno torace. «Che cosa ti fa pensare che voglia essere lasciata in pace?» domandò la Bestia. «Dubito anche che fosse così affettuosa con te, ragazzo. E se lo era, era tempo sprecato.» Con una mano sudicia, la Bestia si liberò dall'abbraccio della fanciulla. Si alzò, rivelando tutta la sua mostruosità. Era scheletrico e più alto di qualsiasi uomo Ganelon avesse mai visto. Il corpo era coperto da peli lunghi e radi, il cui colore grigiastro era visibile solo dove la peluria non si mischiava alla sporcizia e agli escrementi. Braccia che sembravano piegarsi dalla parte sbagliata gli ciondolavano fin oltre le ginocchia. Le mani all'estremità di quegli arti deformi erano ingentilite da lunghe dita affusolate che non smettevano di tracciare in aria motivi volgari. Quelle dita agili lasciavano intendere la cosa più orribile della Bestia. Alla base della perversione sopravvivevano ancora deboli tracce di una bellezza così profonda che non poteva essere nascosta nemmeno da una montagna di sporcizia. Uno sguardo lascivo illuminava il volto distorto della Bestia, sebbene
anche il viso mantenesse vestigia di magnificenza. Il teschio scimmiesco conservava gli zigomi alti di un elfo dai nobili natali. Piaghe purulente nascondevano quel tratto, così come un muco arancione appannava gli occhi luminosi e penetranti. Il pus scaturiva agli angoli e velava le orbite, per poi scivolare lungo le guance. Paralizzato alla vista di quella creatura maligna, Ganelon non si accorse della folla che stava raccogliendosi intorno a lui. Il fianco della collina pullulava di pazzi. Avanzavano a quattro zampe verso la Bestia implorandola, gli occhi bassi. La creatura sogghignò soddisfatta, sputando addosso a quelli che si avvicinavano troppo. Infine, quando la moltitudine l'aveva ormai circondata, la Bestia sollevò la lurida collana dal petto peloso. Lungo la catena di acciaio annerito erano appese tredici orecchie umane. La Bestia prese uno di quei macabri ornamenti e se lo portò alle labbra, sussurrando. Un unico grido si levò dalla folla. Uggiolando e abbaiando come bastardi fustigati, uomini e donne scomparvero oltre la sommità della collina. Anche Helain fuggì. Ganelon si girò per rincorrerla, ma luride dita si strinsero intorno al suo braccio. «La parte più divertente dello scherzo è che i poveretti nemmeno sentono quello che dico.» Il puzzo di sangue e carne putrida emanato dalla Bestia fece salire il vomito a Ganelon. Il giovane resistette, premendosi un fazzoletto sulla bocca. «Lei non è tua», riuscì a mormorare. «Ciò che dici è tecnicamente corretto», replicò la Bestia. «Nessuno l'ha condannata per avere infranto il suo giuramento. Tuttavia, in senso più pratico, è stata mia dal momento che ha giurato di amarti per sempre.» «Helain mi ama ancora!» sbottò Ganelon, furibondo. La Bestia sollevò gli occhi al cielo. «Non l'hai ancora capito? Helain ama l'uomo che eri, il temerario zuccone che l'ha fatta palpitare. Dopo che le hai promesso di non imbarcarti più in alcuna pericolosa avventura, lei... be', si è stancata di te. Ha cominciato a trovarti noioso.» «L'avevo fatto per lei.» «E allora non sentirti uno stupido», sghignazzò la Bestia. Ganelon scoppiò a piangere. La Bestia lo fissò con sguardo sprezzante. «Asciuga quelle lacrime, ragazzo. La parte dell'amante tradito con me non attacca.» Si avvicinò. «So che hai sognato di infrangere la promessa di restarle sempre accanto. Avevi praticamente la schiuma alla bocca al pensiero di tornare a vagabondare per il paese.»
La Bestia sollevò una delle orecchie mozzate e la posò su un orecchio di Ganelon. Il giovane sentiva i vermi che strisciavano sulla carne putrida mentre la Bestia sussurrava: «Se non fossi così ottuso, ti saresti accorto della tua infedeltà alla povera Helain. Una persona cinica potrebbe addirittura pensare che tu fossi felice della sua pazzia e della sua fuga, che ti ha offerto la scusa per tornare a essere un eroe». Ganelon allontanò la Bestia con una spinta. «La porterò via da qui», affermò. «Te l'ho già detto: le piace stare qui. Ha una così bassa stima di sé, si sente bene solo con qualcuno che la disprezzi.» La Bestia si batté lo scarno torace. «Nessuno detesta la falsità più di me.» La testa che gli girava, Ganelon si allontanò. Lasciò scorrere lo sguardo sul fianco della collina, ancora misteriosamente verde quando ogni altro angolo di Sithicus era ingiallito per i primi freddi autunnali. «Se non è per salvare Helain, perché mi hai portato qui?» Cadde il silenzio, subito rotto dalla risata della Bestia. Ganelon si girò, un dito accusatorio puntato verso la creatura. «Non intendo farmi prendere in giro», gridò. «Io non...» Le parole gli morirono in gola. La Bestia Sussurrante non era più sola. Era accovacciata in atteggiamento remissivo ai piedi di una figura coperta da una veste bianca. Il volto, le mani e ogni altra parte del corpo della donna era nascosta dall'abito. «Sei stato portato qui su mia insistenza», disse la figura. «Io sono la Rosa Bianca.» La voce era dolce, gentile eppure impregnata di una profonda tristezza che sopraffece persino il cuore infranto di Ganelon. La donna si avvicinò al giovane con passo lento, rivelando tutta la sua grazia e il suo portamento elegante. Era palesemente abituata ad aprire il cammino e non a seguire quello di un altro. Ganelon non si era nemmeno reso conto di essersi inchinato alla Rosa fino a quando la mano di lei, infilata in un guanto di seta bianca, apparve davanti ai suoi occhi abbassati. «Mia signora», mormorò e baciò la mano che gli veniva porta. All'ombra del cappuccio, un lieve sorriso scintillò e svanì. «Che galante», commentò la Rosa. «È chiaro che ho scelto bene. Vieni, parliamo di avventura.» S'incamminò verso la cima della collina. «E di giustizia», aggiunse la Bestia, tenendosi deferentemente a due passi dietro la Rosa. «E di giustizia... come sempre», confermò la Rosa. Allungò la mano e accarezzò la testa pelata della creatura. La Bestia si beò di quella carezza
come un cane affamato di affetto. Davanti a quello spettacolo Ganelon sentì la pelle accapponarsi. «Hai mantenuto la parola data al Ciabattino, Ganelon», commentò la Rosa. «Non hai rivelato a quell'orribile zingara come trovare la tana della Bestia. Non sarebbe riuscita a farti parlare, nemmeno sotto tortura.» Ganelon non le chiese come facesse a saperlo. La Bestia sembrava in grado di guardare nel suo cuore e di vedere cose che lui stesso ignorava, perciò non c'era motivo per cui lei non dovesse possedere quello stesso potere. Così, il giovane si limitò a dire: «Avevo giurato sul mio amore per Helain. E per me nulla è più prezioso». La Bestia ridacchiò, ma la Rosa la zittì con un gesto imperioso della mano. «Non è nella natura della Bestia comprendere quelle passioni oscure che affliggono l'umanità», spiegò, «ma solo punire coloro che si arrendono a esse. Io, al contrario, apprezzo fin troppo bene quei desideri oscuri. Tu mi interessi perché li hai combattuti e ne sei uscito vittorioso». «Per ora», aggiunse la Bestia. La Rosa Bianca annuì. «Per ora. Ma è quanto mi basta per fare di te un mio servo.» «Non per essere scortese», obiettò Ganelon, «ma perché dovrei servirvi?». «Perché posso liberare Helain da questo luogo», rispose la Rosa. I tre raggiunsero la cima della collina. Sul pendio della salita di fronte si snodava un complicato labirinto di siepi. Dalla loro posizione riuscivano a vedere chiaramente le figure all'interno del dedalo verde. Anche nella penombra del tardo pomeriggio, era piuttosto semplice distinguerne i movimenti. Alcuni vagavano senza meta, versando lacrime di pentimento. Altri andavano avanti e indietro lungo spazi ristretti. Altri ancora se ne stavano acquattati negli angoli, la testa fra le mani, mentre cantilenavano, gridavano o piangevano il loro dolore. Era quello il frastuono che Ganelon, semiaddormentato sotto il pergolato, aveva scambiato per il cinguettio degli uccelli e per allegre risate. «Io sono in grado di entrare e uscire dal labirinto», spiegò la Rosa, «al contrario di un uomo sano di mente, che se entrasse là dentro non riuscirebbe più a venirne fuori. È il potere della pazzia... forse... oppure un capriccio degli dei». La Bestia scivolò accanto a Ganelon, le braccia esageratamente lunghe che strisciavano a terra. «Prendilo come un avvertimento», sibilò, «nel
caso pensassi di intrufolarti nel labirinto e rapire la ragazza». A Ganelon iniziò a girare la testa. Era troppo. Cercò di focalizzare ciò che aveva appena scoperto, ma la sensazione di qualcosa di caldo e bagnato sul collo lo distrasse. Si portò una mano tremante alla nuca e si guardò le dita: erano rosse di sangue. La ferita del pugnale di Inza. Si toccò l'orecchio, ma non trovò il lobo. Al suo posto c'erano dei punti che però dovevano essere saltati. Barcollò, ma le forti mani della Rosa lo sorressero impedendogli di cadere. «I Vistani sono stati crudeli con te», commentò la donna, «e hai avuto solo pochi giorni per riposare». «Giorni», ripeté Ganelon, stordito. La Rosa lo prese per il braccio e lo condusse giù per la collina e verso il labirinto. «Fra uno o due giorni», disse, «sarai pronto per intraprendere un viaggio per me». Bastò una carezza della Rosa e la ferita di Ganelon smise di sanguinare. Mentre camminavano, la donna lo stordì di parole, senza però fare più alcun riferimento al viaggio a cui aveva accennato. Rispose solo una volta alle domande di Ganelon sull'argomento dicendo: «Quando vedrai, capirai meglio». Con l'andatura sgraziata di una scimmia, la Bestia li precedette all'ingresso del labirinto. I pochi pazzi sul fianco della collina fuggivano al suo avvicinarsi; correvano cercando rifugio nel dedalo di siepi, sebbene nessuno fosse più veloce della malvagia creatura. Quando infine giunsero anche Ganelon e la Rosa Bianca, la Bestia era accovacciata su un povero demente. Un uomo calvo e balbettante che Ganelon riconobbe subito. «Bratu», mormorò muovendosi per aiutare l'uomo. La Bestia scoprì lunghi denti gialli. «Non interferire», sibilò, «almeno che tu non voglia prendere il suo posto». «Starebbe meglio con i Vistani», affermò il giovane. La Bestia si sporse in avanti. «Che cosa te lo fa pensare, eroe?» «Si prenderebbero cura di loro», rispose Ganelon. «Inza ha detto...» «E tu credi a quella piccola sgualdrina?» chiese la Bestia, sorpresa. Allontanò Bratu con un calcio. L'uomo arrancò fino al labirinto, le cui fronde si aprirono, per poi richiudersi dietro di lui. «Inza lo rivoleva indietro solo per finirlo», continuò la Bestia, «per farlo tacere per sempre prima che gli sfuggisse nuovamente». Ganelon ricordò lo scintillio degli occhi della zingara mentre si avvicinava a lui con l'attizzatoio ardente. «È stata lei a strappargli la lingua.»
«Inza avrebbe ucciso il povero Bratu se la madre fosse stata già morta», sottolineò la Rosa. «Come capo del clan, Magda avrebbe potuto esiliarla, cacciarla nell'oscurità. E non c'è un Vistani che non tema quel mondo.» «Non esiste creatura che non tema l'ira della propria madre», aggiunse la Bestia. «E ora Magda è morta», mormorò Ganelon ripensando alle voci che aveva sentito alla miniera, «e Inza è la nuova raunie. Può fare ciò che vuole». «Bravo, ci sei arrivato!» La Bestia si alzò e il folle su cui si era appollaiata strisciò lungo la parete verde del labirinto. Finalmente le siepi si aprirono e lo inghiottirono così come avevano fatto con Bratu. «Per dire la verità», continuò la Bestia, avvicinandosi a Ganelon, «tu e la zingara formate una bella coppia. Siete peggiori di tutti quelli che sono qui, solo che non siete stati colti sul fatto... non ancora». La Rosa Bianca congedò l'orripilante creatura con un gesto della mano. «Occupati dei calderoni», gli ordinò. «Sta diventando buio.» La Bestia avanzò a lunghi balzi lungo il perimetro del labirinto. Di tanto in tanto, portava alle labbra la macabra collana e sussurrava in un orecchio. Ganelon non sapeva che cosa dicesse e nemmeno desiderava scoprirlo. Il crepuscolo era ormai sceso sulle colline e le grida dei pazzi che vagavano nel labirinto si erano trasformate in una sorta di litania. La Rosa Bianca si girò verso l'intricato dedalo e la parete verde si aprì. La donna prese Ganelon per un braccio. «Vieni», lo invitò. Il giovane esitò. Le parole della Rosa sul labirinto erano ancora fresche nella sua mente. «Non avere paura. Fin quando sei con me, sei immune alla magia del labirinto», si affrettò ad assicurargli la Rosa, che dopo una breve pausa aggiunse: «O forse sei già pazzo e il labirinto non farà che darti il benvenuto». Ganelon borbottò una risposta, che si perse sopraffatta dalla risata della Rosa. «Ti chiedo scusa», disse la donna. «Stare tanto tempo con la Bestia ha intaccato anche il mio senso dell'umorismo. Fidati di me quando ti dico che in mia compagnia sei al sicuro.» La siepe si chiuse dietro di loro appena l'ebbero attraversata. Ganelon si voltò verso il muro verde: non c'era traccia del varco attraverso il quale erano passati. Le piante erano cariche di rose, bianche e nere. La fragranza dei fiori era persino più forte che sotto il pergolato. Ganelon era sempre più disorientato. Riusciva a camminare solo se si concentrava sulla Rosa Bianca, la cui
mano lo teneva ben saldo per il braccio. «Noi siamo agenti di una giustizia più antica di Sithicus, più antica persino di Soth», iniziò la donna. «Siamo qui per ricordare al Cavaliere della Rosa Nera che quella giustizia si estende anche in quei luoghi nascosti agli dei.» «Non capisco che cosa posso fare per aiutarvi», commentò Ganelon. «Non capisco quello che mi dite.» «E non c'è di che sorprendersi. Sei stato trascinato in questa battaglia come nemmeno noi avremmo potuto prevedere.» La Rosa strappò un bocciolo bianco. Quando riprese a parlare, la sua voce era carica di tristezza. «Eventi di proporzioni gigantesche si abbatteranno anche sull'innocente così sfortunato da trovarsi sul loro cammino.» Un bagliore soffuso illuminò il sentiero e l'aria divenne più pesante. Gocce di sudore apparvero sulla fronte di Ganelon, che iniziò ad ansimare per l'eccessivo calore. Girato un angolo, il giovane scoprì la fonte della strana luce e del caldo insopportabile. Al centro del labirinto erano collocati due calderoni colossali. Erano cinque volte più alti di un uomo e larghi quanto il pozzo di una miniera. Erano circondati da immense impalcature, le cui rampe e piattaforme erano nascoste dietro a graticci di spettacolari fiori di metallo. Mentre Ganelon guardava, un gruppo di elfi si arrampicò sull'impalcatura più vicina; sulla schiena portavano sacchi colmi di rose bianche. Svuotarono i contenitori nel calderone e si affrettarono a scendere. Il secondo calderone era la fonte di quel caldo insopportabile. Un fuoco ruggiva nell'immenso pentolone di ferro, circondato da alcuni sacchi di rose rosse. Quei fiori non crescevano a Sithicus e nemmeno a Invidia o a Baronia. La Rosa Bianca indicò i rari boccioli. «Ecco come puoi aiutarci, Ganelon», spiegò. «Quel calderone è stato purificato e ora è pronto. Abbiamo solo bisogno dei fiori per riempirlo.» Davanti all'espressione perplessa del giovane, la Rosa Bianca si limitò a sollevare il pallido fiore che aveva strappato dalla siepe. Il fiore si fuse con la sovrastante luna bianca. «Abbiamo già portato in cielo Solinari. Quando Lunitari rifletterà la sua luce cremisi su Sithicus, Soth sarà pronto per essere giudicato. Ma dobbiamo sbrigarci. Mentre parliamo, soldati provenienti da Invidia stanno muovendosi per stringere d'assedio Nedragaard Keep.» «Se anche sapessi dove trovare sufficienti rose rosse per riempire il cal-
derone non ce la farei a trasportarle qui da solo.» Ganelon si toccò il sostegno per la gamba. «Non posso cavalcare e a piedi temo che non andrei molto lontano.» «Oh, buuu...» gli sussurrò una voce all'orecchio. Il puzzo dell'alito della Bestia lo paralizzò. «Sempre lì a piangere su te stesso. Be', non ti preoccupare, ragazzo. Stattene pure a casa a giocare con il tuo sostegno. Io mi prenderò cura di Helain.» La mano di Ganelon scattò in avanti, pronta a sferrare un manrovescio. La Bestia non si mosse né indietreggiò. Con indifferenza chiuse il pugno del giovane in una zampa sudicia, quindi lo attirò a sé. I due erano faccia a faccia quando la Bestia disse: «Era ora». Tenne imprigionato Ganelon ancora qualche istante, gli occhi che scintillavano di un perverso piacere. «Forse, dopo tutto, puoi esserci utile.» La Bestia allontanò Ganelon. «Questo è il patto», disse grattandosi i peli sul mento incrostati di cibo. «Tu ci porti le rose rosse e io libero la mente di Helain dalla pazzia. Troverai un campo di quei fiori appena oltre il confine di Invidia. Sono un po' più vivaci delle normali piante, ma ce la farai.» «Prima cura Helain», ribatté Ganelon. «Farò quello che volete ma solo se prima la curerete.» «Prima di essere ricompensato devi dare prova del tuo valore», intervenne la Rosa Bianca. «Qui commerciamo in giustizia», sottolineò la Bestia, «non in pietà». «Non me ne vado da qui senza di lei.» «Nessuno pretendeva che lo facessi», disse la Rosa. A quelle parole, la Bestia la fissò sbigottito. «Porterai con te Helain e tutte le creature della Bestia che vorrai. Ti aiuteranno a trasportare i sacchi.» «E perché non gli elfi? Loro almeno sanno eseguire gli ordini.» «Gli elfi selvaggi che si occupano dei calderoni sono gli unici rimasti. Gli altri sono già tutti impegnati nella ricerca», spiegò la Rosa Bianca. «Questa è la nostra offerta, Ganelon. Qual è la tua risposta?» Il giovane si lasciò cadere a terra. «Ho forse una scelta?» «C'è sempre una scelta», replicò la Rosa Bianca, stizzita. Per la prima volta, nella sua voce si avvertì la rabbia. «Puoi scegliere di seguire il cammino dell'onore o meno.» La Bestia si fece piccola, coprendosi il volto con le mani. Una sensazione di gelo scese su Ganelon, non una sensazione frutto della paura, ma di un freddo palpabile irradiato dalla Rosa Bianca. Mitigò persino il caldo del fuoco del calderone.
L'ira nella voce della Rosa, la paura che suscitò nella Bestia, non distolse Ganelon dalla ricerca. Era l'amore per Helain che lo spingeva ad accettare. «Distruggerò Nedragaard Keep se sarà necessario per salvarla», rispose infine. «Non fare simili offerte con leggerezza», lo riprese la Rosa Bianca. Allungò la mano guantata verso Ganelon perché la baciasse. Nel movimento, la manica scivolò quel tanto che bastava per scoprire un braccio scheletrico e bruciato. «Potresti essere chiamato a rendere conto di una simile promessa in situazioni che nemmeno ti immagini.» Rabbrividendo, Ganelon portò alle labbra quelle dita gelide e rigide. 12 Per i Vagabondi quella era una giornata diversa dalle altre. Per la prima volta da quando, tanti anni prima, Magda aveva creato il clan a Gundarak, l'alba trovò i Vistani nello stesso accampamento della sera precedente. La superstizione aveva sempre spinto gli zingari a cercare un posto nuovo tutti i giorni. Kulchek, il leggendario eroe Vistani antenato di Magda, era stato vittima di una maledizione che gli impediva di dormire due volte nello stesso luogo. In compagnia del bastone di Kulchek e di un segugio diretto discendente di Sabak, il cane del mitico eroe, Magda aveva fatto sue le abitudine dello zingaro e al suo clan non era rimasta altra scelta che seguire la propria raunie. Inza era libera da simili scrupoli, sebbene portasse con sé più di un segno dell'eredità di Kulchek. Il pugnale che usava non era altro che Novgor, una delle armi dell'antico eroe. Qual pugnale appuntito e sempre affilato aveva liberato Kulchek dalle catene che i nove bovari avevano utilizzato per asservirlo. Grazie a Novgor aveva forzato la serratura della torre in cui il gigante teneva nascosta la bellissima figlia. Quel pugnale era l'unica arma sufficientemente affilata da poter tagliare l'albero che il Vagabondo aveva trovato in cima al mondo, l'albero dal quale aveva ricavato Gard, il suo bastone. Ed era anche l'unica arma sufficientemente tagliente da scalfire quel bastone indistruttibile, come era accaduto nella notte dell'attacco delle ombre di sale, quando Magda aveva perso la vita. Quella losca impresa non aveva provocato alcun fastidio a Inza, la quale era giunta alla conclusione che l'abbandono delle abitudini di Kulchek non si sarebbe riflesso negativamente sul clan. Dopotutto, l'obiettivo dell'ana-
tema era Kulchek e l'uomo era morto ormai da anni. Così, Inza aveva bloccato i compagni quando il pomeriggio precedente volevano mettersi in movimento. «Non troveremmo un posto migliore lungo il limitare del bosco», si era limitata ad affermare. Alcuni Vagabondi avevano brontolato. Un paio avevano addirittura fatto fagotto ed erano andati a dormire nella foresta. Ma la maggior parte, esausta dopo avere trascorso una settimana a perlustrare in lungo e in largo il Bosco della Collera in cerca di Bratu, si era semplicemente rinchiusa nei propri vardo a dormire. In quegli istanti di pace che precedevano l'alba, quando il mondo intero sembrava trattenere il fiato in attesa del nuovo giorno, Inza si aggirò silenziosamente per l'accampamento. Alexi la salutò con un cenno del capo dalla sua postazione accanto al fuoco. Inza trattenne a stento una risata. Che stesse facendo la guardia ai vardo o festeggiando un imbroglio ben riuscito a un giorgio, l'uomo aveva sempre la stessa espressione comicamente arcigna. Era come se avesse appena mangiato qualcosa di così aspro da non riuscire a riaprire la bocca per sputarlo fuori. Inza sapeva che Alexi la temeva e forse quell'espressione era riservata solo a lei. Non che le importasse. Alexi faceva ciò che gli ordinava senza discutere e senza esitare un istante. Chissà, forse sarebbe sopravvissuto per aiutarla nel suo piano, ma non ci contava molto. Sapeva che era meglio fare assegnamento solo su se stessi. Immersa nei propri pensieri, s'incamminò lungo un sentiero serpeggiante verso un torrente che aveva scoperto un paio di giorni prima. Il corso d'acqua era uno di quegli elementi naturali che rendevano un luogo particolarmente allettante per un accampamento. Giunta alle acque limpide e fresche, non bevve né si sciacquò il viso, ma si sedette sulla riva coperta di muschio e attese. Il sole era appena salito in cielo che un grido di allarme fece balzare in piedi la raunie. Estrasse Novgor dallo speciale fodero nello stivale e tornò verso i vardo. Si fermò quando al primo grido ne seguirono un secondo e un terzo. Infine, quando i nitriti dei cavalli e il fragore del metallo risuonarono dall'accampamento, iniziò a correre. Osservò il piccolo campo di battaglia dal limitare della radura. Un gruppo di orchi aveva preso d'assalto il campo. Al posto dei soliti stracci e pellicce pulciose, indossavano robuste corazze, completate da elmi decorati che nascondevano i volti cosparsi di verruche e i capelli unti e luridi. In mano brandivano armi che avrebbero soddisfatto anche il soldato più esi-
gente. Per quanto non portassero né insegne né stendardi, i colori dei mantelli - porpora e nero - li denunciavano come alleati di Malocchio Aderre. La superiorità numerica degli orchi era evidente, ciononostante i Vistani si difendevano con onore. Dieci corpi sanguinanti giacevano a terra, equamente divisi fra le due fazioni. Alexi in particolare sembrava comportarsi con ardimento. In quel momento stava tenendo a bada non uno, bensì due orchi. Chiunque gli avesse insegnato a brandire una spada aveva fatto un ottimo lavoro. «Tutti vicino a me», gridò Alexi. Inza e gli altri Vistani raggiunsero lo zingaro, i vardo alle loro spalle. Gli orchi si disposero a semicerchio e lentamente iniziarono a spingere nell'angolo i nemici. «Ci stavano separando», spiegò Alexi senza fiato. «Possiamo resistere all'attacco, ma solo se restiamo uniti.» Guardò Inza con la solita espressione arcigna. «Se conosci qualche bizzarra magia, raunie, è il momento di usarla.» Inza non ebbe la possibilità di rispondere. Uno dei carrozzoni sul quale i Vagabondi avevano fatto affidamento per impedire agli orchi di accerchiarli saltò per aria. Due Vistani scoperti sotto il vardo vennero uccisi sul posto. Un secondo carrozzone venne rovesciato. Seguito da un terzo. Gli orchi circondarono gli zingari. Al grido di «Invidia!» caricarono. Greta, una bionda bellezza che aveva promesso a Piotr di sposarlo la primavera seguente, si ritrovò intrappolata tra due bruti. Combatté con coraggio. Un colpo del bastone e il più basso degli assalitori cadde a terra, il naso rotto e sanguinante. L'altro sollevò di peso la ragazza e con una rapidità inusuale per la sua stazza, sollevò un ginocchio all'altezza della vita e vi spezzò sopra la zingara come se fosse stata un ramoscello secco. Dall'altra parte del campo, Piotr gridò il proprio dolore. Abbatté la spada con una tale forza che penetrò nell'armatura di un orco e lì rimase. Il bruto si girò di colpo, afferrando l'arma conficcata nella spalla. Così facendo, lasciò cadere la picca che teneva in mano. Piotr l'afferrò e si buttò sull'orco che aveva ucciso la sua amata Greta. La punta arpionata della picca affondò nelle budella dell'orco. La forza del colpo gli fece perdere l'equilibrio, ma il bruto non morì. Anche mentre Piotr spingeva più a fondo la picca nello stomaco dell'orco, quest'ultimo si dibatté per liberarsi. Forse era troppo stupito o troppo tenace per rendersi conto della gravità delle sue ferite. Quando fu chiaro che la picca non avrebbe messo la parola fine alla vita dell'orco, Piotr raccolse un ceppo di legna da ardere. Mentre il bruto com-
batteva con l'arma infilzata nello stomaco, il Vistani gli strappò l'elmo e gli abbatté il ceppo sulla testa. Le grida, il sangue e la confusione fecero palpitare il cuore di Inza. Si ritirò dalla mischia, Novgor stretto in pugno. Gli orchi non la toccarono. Di tanto in tanto le correvano davanti senza vederla, quasi fosse invisibile. Gli altri Vagabondi non erano così fortunati. Dopo pochi minuti, soltanto quattro uomini resistevano ancora. Alexi e Piotr si difendevano egregiamente ma Katan, il più giovane del clan, era stato ferito a una gamba. Nikolas gli fu subito accanto, offrendogli il proprio aiuto. Inza sorrise. Era giunto il momento. «Sull'anima di mia madre, sul sacro giuramento, io ti invoco, Lord Soth! Difendimi!» Il fragore della battaglia e le grida dei feriti coprirono le parole di Inza, ma lei sapeva che Soth le avrebbe udite, ovunque fosse stato. Se la madre, quando raccontava quelle noiosissime storie intorno al fuoco, aveva detto la verità, Soth avrebbe mantenuto il giuramento fatto e sarebbe giunto in soccorso della povera piccola Inza, se non altro per dimostrare quanto tali nobili azioni fossero vuote e insignificanti. Dopotutto, se un essere dell'oscurità come Soth poteva indossare la maschera dell'onore, forse tutti gli uomini che sembravano retti e giusti in realtà condividevano con il cavaliere della morte un cuore oscuro. Così come alcune donne che fingevano di essere deboli e indifese potevano condividere il suo spirito guerriero, rifletté Inza. Quasi a volere provare la veridicità di tale affermazione, si lanciò su un orco. Novgor penetrò attraverso la maglia di ferro che proteggeva il torace del bruto e affondò nella carne fino a raggiungere il cuore. Era morto ancora prima che avesse il tempo di sorprendersi. Fu in quel momento che Lord Soth emerse dall'ombra di un vardo. Il freddo della morte scivolò dall'oscurità insieme a lui e investì il campo come una marea di ghiaccio. Le orbite arancioni fiammeggianti, osservò la carneficina. Non c'era bisogno che Inza parlasse. La situazione era sufficientemente chiara. Un ignaro orco, allarmato dall'improvvisa ondata di freddo, finì letteralmente addosso al cavaliere della morte. Soth strinse una mano intorno alla gola del soldato. Niente avrebbe potuto fargli mollare la presa. Iniziò a stringere fino a quando gli occhi dell'orco uscirono dalle orbite e la lingua gli penzolò dalla bocca. Soddisfatto, buttò di lato il cadavere come un bambino annoiato da un giocattolo e si lanciò nella mischia.
Le sorti della battaglia girarono immediatamente. Inza vide sbigottimento e incredulità dipingersi sul volto dei nemici. «Traditi!» gridarono alcuni di essi mentre fuggivano nel bosco. Altri cercarono di raggiungere Inza, i volti paonazzi per l'ira. Novgor decapitò i primi due che osarono lanciarsi sulla donna. Gli altri le voltarono le spalle. Come la personificazione della Morte stessa, Lord Soth attraversò a grandi passi il campo diretto verso Inza. Ogni soldato che incontrava sul cammino diceva addio alla vita. Inizialmente non sguainò la spada. I suoi pugni erano sufficienti. Quando due orchi si buttarono su di lui, sbatté le loro teste l'una contro l'altra con una tale violenza da aprire in due i crani come meloni. I bruti caddero a terra in una pozza di sangue. Fu solo quando raggiunse Alexi, impegnato in un combattimento mortale, che Soth sguainò l'antica spada. Il cavaliere della morte non rallentò il passo, limitandosi a chiamare l'orco mentre si avvicinava. «Combatti con me», tuonò, «o fuggi. Non hai altra scelta». L'orco si voltò, esitante. Soth gli tagliò la gola e proseguì. Mentre l'avversario crollava, Alexi restò a fissare il Cavaliere della Rosa Nera. Era certo che Soth non lo avesse nemmeno visto. Il cavaliere della morte stava semplicemente aprendosi un varco per raggiungere Inza. Con la stessa rapidità con la quale era scoppiata, la battaglia finì. Soltanto quattro membri del clan di Inza erano sopravvissuti. Piotr e Nikolas cercarono di ringraziare Lord Soth. Esitanti, si avvicinarono al cavaliere della morte, che non si curò di loro. Immobile in mezzo ai cadaveri, aveva gli occhi fissi su qualcosa. Inza pulì Novgor dal sangue e raggiunse Soth. «Erano scagnozzi di Aderre», spiegò, «inviati per ucciderci». Quando Soth non rispose, Inza seguì il suo sguardo. Un pugno di monete d'oro e d'argento erano sparse a terra, fuoriuscite da un sacchetto di pelle che un orco portava al collo. La zingara si inginocchiò. Alcune monete erano di Invidia, altre di Sithicus e altre ancora di Baronia. Raccolse un pezzo d'argento il cui stemma le era sconosciuto. «Dov'è Palanthas?» chiese. «Lontano da qui», rispose Soth, la mente persa nel ricordo di quelle mura mai conquistate, cadute infine per opera della sua magia. Il cavaliere della morte scacciò i ricordi e si avvicinò al cadavere di un altro orco. Con la punta della spada aprì la bisaccia del bruto. Una fortuna simile in oro e argento scivolò a terra. Si voltò e afferrò Inza per un braccio.
L'arto della donna perse immediatamente sensibilità sotto il tocco gelido della morte. «Che cos'è?» chiese Inza, la voce stridula per la paura. «Che cosa significa tutto quel denaro?» «Che qualcuno all'interno del mio regno ha stretto un'alleanza con questa marmaglia», spiegò il cavaliere della morte. «Indossano i colori dei soldati di Invidia e sicuramente hanno superato il confine come tali. Ma persino uno come Malocchio Aderre non è così stupido da pagare i suoi uomini prima della guerra o da permettere loro di andare in battaglia carichi d'oro.» Con la spada, Soth indicò il campo di battaglia. «E se ho ragione, questo è stato solo un diversivo.» «Un diversivo?» sbottò Inza. Si liberò dalla presa di Soth. «Soltanto quattro di noi sono ancora vivi. I vardo sono distrutti, i cavalli terrorizzati. E questo sarebbe un semplice diversivo? I Vagabondi sono estinti!» «Nella grande guerra che verrà combattuta, tu e il tuo clan siete solo briciole», ribatté Soth in tono gelido. «Eravate solo delle pedine. Lo scopo era allontanarmi dal principale obiettivo dell'esercito. Forza, dobbiamo tornare a Nedragaard Keep.» Alexi fece un passo avanti come se intendesse sfidare Soth, obbligarlo a lasciare la loro raunie. Ma Inza lo fulminò con lo sguardo e l'uomo si bloccò. «E la mia gente, mio signore?» chiese la ragazza. «Non sono affari miei.» «Ma miei, sì», ribatté Inza in tono tagliente. «Come lo sono stati anche di mia madre. Aiutateli in suo nome, se non nel mio.» Deglutì a vuoto, come se le successive parole fossero bloccate in gola. «Vi prego.» Soth lanciò agli zingari un'occhiata sprezzante. «Molto bene. Raggiungerete a piedi il mio castello. Avrete il permesso di entrare e restare là.» «Da soli e a piedi saranno morti prima di mezzogiorno», obiettò Inza. «Voi ci avete salvato da questo "diversivo". E se si trovassero invischiati in un altro?» «Mi chiedi molto, raunie», ribatté Soth. «Solo ciò che è giusto. La benedizione di mia madre val bene un po' di carità alla sua gente.» Girandosi verso Alexi, Soth disse: «Convocherò delle guardie che vi proteggano, ma starà a voi deciderne il numero». «E come?» domandò il Vistani. «Volete che i vostri fratelli caduti facciano parte di questa guardia?»
Alexi sbiancò in volto. «No», si affrettò a dire. «I nostri avi...» «Basta», tuonò Soth. «La decisione è vostra.» Il cavaliere della morte raggiunse il centro dell'accampamento e sollevò le braccia. Un vento improvviso soffiò intorno a lui, gonfiando il mantello rosso. Soth chiuse le mani a pugno e nuvole nere apparvero in cielo, andando a oscurare il sole. L'ululato del vento divenne più acuto. Un altro suono si levò, prima lieve e poi sempre più forte. Era il gemito delle anime tormentate. Gli orchi uccisi si sollevarono dal campo di battaglia. Con passi pesanti si mossero verso Soth, gli occhi fissi nel vuoto, le braccia che penzolavano molli lungo i fianchi. Gli zombi non avevano armi, se non quelle ancora conficcate nella loro carne. «Seguirete gli ordini di quest'uomo», tuonò Soth indicando Alexi. «Scorterete lui e i suoi compagni fino a Nedragaard Keep, uccidendo chiunque cerchi di fermarli o ferirli.» Detto ciò, il cavaliere della morte voltò loro le spalle e si avvicinò a Inza. «È giunto il momento di andare», affermò in tono grave. «Certamente, mio signore», replicò la Vistani in tono deferente. Guardò Alexi e gridò: «Prendi il cofanetto dal mio vardo. Contiene ciò di cui avrete bisogno per il viaggio». Soth mise un braccio intorno alle spalle di Inza e la trascinò nell'ombra di una quercia scheletrica. I Vagabondi guardarono la loro raunie svanire nell'oscurità. Quando se ne fu andata, Alexi si rivolse ai compagni. «Abbiamo degli ordini. Dobbiamo muoverci il più velocemente possibile verso il maniero. Prendiamo il bauletto della raunie, ma dobbiamo abbandonare qualsiasi altra cosa rallenti il nostro cammino.» Lanciò un'occhiata d'intesa a Katan. Le ferite del ragazzo erano gravi. Forse avrebbe resistito un giorno, ma senza le medicine che solo Inza sapeva preparare, le ferite si sarebbero sicuramente infettate. Spostarlo sarebbe stato per lui una vera tortura, ma aspettare, anche per poche ore, avrebbe potuto significare perdere la loro raunie per sempre. Senza di lei, i Vagabondi avrebbero dovuto disperdersi, divenendo degli emarginati, dei cani smarriti in una società che metteva il branco sopra ogni cosa. «Grazie per tutto quello che hai fatto, Fratello», sussurrò Nikolas a Katan. Lo baciò su entrambe le guance, poi affondò il pugnale fra le costole del giovane. Katan morì sul colpo. Gli zombi osservarono la scena con occhi vuoti, privi di qualsiasi emozione, quasi si aspettassero che il ragaz-
zo si alzasse e si unisse alle loro fila. «Devo costruire una pira o lo facciamo fare ai mostri?» chiese Piotr. «Nessuna delle due cose», rispose Alexi. «Ce ne andiamo ora. Non c'è tempo per costruire un fuoco sufficientemente caldo per bruciare i corpi.» Piotr scosse energicamente la testa. «Non lascerò la mia Greta in pasto ai corvi», disse. «Le nostre usanze ce lo vietano.» Alexi batté una mano sulla spalla del giovane. «Buona parte di ciò che abbiamo fatto oggi non rientra nelle nostre usanze, Fratello.» Abbassò uno sguardo carico di dolore su Katan e su Nikolas che piangeva sull'amico che aveva ucciso. «A che cosa saranno serviti tutti questi sacrifici se perderemo la nostra identità?» domandò Piotr. «Per che cosa stiamo combattendo? Che cosa cerchiamo di salvare?» Si avvicinò al corpo della sua Greta. Con una corta spada trovata a terra, iniziò a tracciare i lati di una tomba. Alexi sospirò, rassegnato. «Scavate una fossa», ordinò agli zombi. «Fatela sufficientemente grande e profonda perché possa contenere i corpi di tutti i Vistani che avete ucciso.» Poi si rivolse a Piotr. «Lascia che lo facciano loro. Vieni ad aiutarmi a cercare fra i resti del carrozzone della raunie. Dobbiamo trovare il suo scrigno.» Quando gli zombi ebbero terminato il loro compito e i corpi furono sepolti, il cielo si era rannuvolato. Una lieve pioggerellina cadeva sui tre uomini assorti davanti alla fossa. Alexi pronunciò alcune parole in Paterna, affidando i Vistani defunti ai loro avi e augurando loro buon viaggio oltre le Nebbie. «Ora non siete più legati a nessuna terra. Ora siete liberi», concluse. Cadde il silenzio, rotto soltanto dalle gocce di pioggia sull'armatura degli zombi. Pochi minuti dopo la partenza dei tre Vistani, una figura emerse dagli alberi. I suoi abiti privi di colore sembravano ben armonizzarsi con la cupa giornata di pioggia, eppure il suo spirito era colmo di allegria mentre si avvicinava alla fossa. «Vi chiedo perdono per l'oltraggio che sto per compiere su di voi», mormorò il Ciabattino Sanguinario rivolgendosi ai corpi ammucchiati sotto il cumulo di terra. «Sarebbe stato molto più semplice se vi avessero lasciati dove siete caduti. Tuttavia, è pur sempre per una giusta causa.» Sollevò le braccia come poche ore prima aveva fatto anche Lord Soth. «Alzatevi e abbandonate questo luogo di sepoltura», ordinò il Ciabattino. «Tale è il mio volere, al quale dovete obbedire.»
Fischiettando un'antica canzone un tempo popolare fra i Cavalieri di Solamnia, voltò le spalle al tumulo sepolcrale e si avvicinò a un tronco caduto, sul quale posò un astuccio di cuoio dello stesso colore esangue dei suoi vestiti. Lanciò un'occhiata dietro di sé una sola volta, giusto in tempo per vedere le prima dita affiorare dalla terra. Sorrise, aprì l'astuccio e iniziò a estrarre i ferri del mestiere. 13 Ganelon guardò l'orecchio mozzato che teneva in mano. Lentamente, portò il pezzo di carne putrida alle labbra e vi sussurrò dentro. L'effetto fu immediato. Bratu e gli altri folli, fra cui anche l'amata Helain, abbandonarono il crinale della collina e si ammassarono ai suoi piedi, fissandolo in attesa. Al di là di quella piccola folla, ai piedi della collina, si trovava la loro meta. Gli Invidiani che vivevano in quella parte chiamavano quello sterminato campo il Giardino dei Sogni di Malocchio. Un nome perfetto, rifletté Ganelon, per un luogo tanto lugubre e deprimente. Un muretto di pietre sbozzate circondava un'orgia di piante deformi. Tentacoli color smeraldo, come vene sottili, strisciavano dal giardino nei varchi del muro. Non se ne ricavava l'impressione che stessero fuggendo, quanto che fossero intenti a puntellare le pietre per tenere lontani gli intrusi. Il giardino era orribilmente incolto, le piante troppo grandi, i sentieri soffocati dalle erbacce. Le aiuole sembravano essere state piantate senza seguire un particolare disegno. Alcune erano più piccole di un bambino e altre più grandi dei pesanti carri che venivano utilizzati alla miniera per trasportare il sale. Alcune erano affiancate, altre isolate. L'unica cosa che avevano in comune era il tipo di pianta accovacciata all'interno: un ampio cespuglio di rose e spine con fiori color rosso sangue. La visione d'insieme era quella di una distesa rossa che ricordava una ferita aperta nella campagna di Invidia. Era indubbiamente un'immagine macabra, ma appropriata. Il giardino sorgeva sul luogo di un massacro, il luogo in cui lo stesso Malocchio Aderre aveva sterminato un'intera carovana di Vistani. Poiché un ambizioso desiderio di Malocchio era proprio quello di eliminare dalla faccia della terra tutti i Vistani, quel campo era stato battezzato il suo «Giardino dei
Sogni». Era un altro monumento alla pazzia, proprio come lo era il labirinto verde della Bestia Sussurrante. Mentre si apprestava a ordinare alla banda di pazzi cenciosi di cominciare la loro rischiosa raccolta, Ganelon si augurò che la similitudine agisse in suo favore. «Raggiungete il muro del giardino e aspettate», disse ai circa ventiquattro soldati di quel folle esercito. Uno sparuto gruppo diede segno di avere capito; la maggior parte continuò a fissarlo con sguardo vuoto. Il giovane sospirò e ripeté l'ordine nell'orecchio che la Bestia gli aveva dato. I soldati balzarono in piedi e obbedirono all'ordine. Ganelon si chiese che cosa sentissero quando parlava loro, se la voce fosse la sua o se il macabro regalo della Bestia la distorcesse. Da quello che la Bestia aveva detto su Helain, la fanciulla non sentiva del tutto. Si limitava a imitare gli altri, poiché il suo senso di colpa la spingeva a fare sue le punizioni e le paure altrui. Ganelon soffriva nel vedere la sua amata così diversa da come era un tempo, sebbene di tanto in tanto riaffiorasse la vera Helain. Quando i matti si agitavano all'apice della pazzia, lei diventava improvvisamente tranquilla. Gli altri sbraitavano e si dimenavano; lei restava immobile. La brezza sollevata al loro passaggio le agitava i riccioli rossi e le gonfiava la camicia da notte sporca e stracciata. In quella confusione, lei restava placida, lasciando che gli altri le girassero vorticosamente intorno come vespe che sciamavano intorno a una lapide. La guardò mentre camminava sopra il muretto. Lei si voltò, come se avesse avvertito lo sguardo del giovane su di sé. I suoi occhi non diedero segno di riconoscerlo mentre lo fissavano. Ganelon girò il capo. L'aveva persa. Con il cuore pesante, il giovane si concentrò nuovamente sul compito che lo aspettava e diede un'occhiata alla sua «truppa». La maggior parte aveva raggiunto il muretto per poi assumere nuovamente l'abituale atteggiamento folle. Una donna, di cui Ganelon aveva dimenticato il nome, camminava decisa per alcuni passi, poi si bloccava di colpo. Restava immobile per alcuni secondi e a un tratto iniziava a tirarsi i capelli fino a strapparne otto, che buttava dietro le spalle. Poi, ricominciava tutto da capo. Alcuni piangevano apertamente, altri sedevano a terra e si dondolavano avanti e indietro. Soltanto Bratu si avventurò nel giardino. Vagava in quel groviglio di piante, schiaffeggiando ciò che restava delle sue orecchie e
indicando le aiuole. Era un gesto che molti altri, ancora appollaiati sul muretto, imitarono presto. Erano chiaramente spaventati da qualcosa nel giardino, qualcosa che le piante e il muretto nascondevano a Ganelon. Il giovane zoppicò verso il giardino. Mentre sollevava faticosamente la gamba malata oltre il muretto, si accorse che al profumo di rose si mescolava un odore pungente, acre, di carne putrida. Inizialmente incolpò le nere ragnatele che si allargavano su molte piante, ma un attento esame del cespuglio di rose più vicino rivelò la vera fonte dell'odore. Le basi dei cespugli erano spesse e legnose, totalmente prive di foglie. Assomigliavano a ossa umane, una particolarità che permetteva loro di fondersi con i vecchi scheletri dai quali spuntavano. Ecco che cosa aveva spaventato Bratu e gli altri. Ogni cespuglio di rose era radicato in un cadavere. Malocchio aveva lasciato i corpi dei Vistani dove erano caduti e aveva piantato il suo giardino della vittoria fra i morti. Alcuni dei corpi erano parzialmente sepolti. Altri giacevano sul terriccio scuro. I rami assomigliavano a tal punto a ossa sbiancate, che da lontano i resti erano invisibili. Mentre camminava sui sentieri coperti di erbacce, Ganelon notò che alcuni cadaveri erano più recenti di altri. I corpi erano ancora coperti da alcuni lembi di pelle o da qualche pezzo di tessuto sbrindellato. Un paio di aiuole erano circondate da monete e piccoli amuleti, persino qualche pugnale ormai arrugginito. Senza dubbio i resti di ladri falliti, immaginò Ganelon. A quel pensiero si bloccò di colpo. Si avvicinò per guardare meglio un cespuglio. Fra le foglie chiazzate di terra, sparse sugli steli e sui rami, distinse delle pericolose spine giallo-verdognole. Alcune erano scure per il sangue raggrumato, altre avevano brandelli di carne appesi alle punte. Un'improvvisa intuizione gli squarciò la mente: quelle non sono spine. Sono denti. Queste sono rose di cadaveri. La chiarezza dell'intuizione lo lasciò sgomento. Si chiese quale ne fosse l'origine, ma rimandò la soluzione dell'enigma a un altro momento. L'informazione fornita era inconfutabile. Erano tutti in grave pericolo. «Non toccate le rose», bisbigliò nell'orecchio mozzato. «Restate da quella parte del muro!» Cercò di indurre Bratu a raggiungere gli altri. Il Vistani si mostrava riluttante ad abbandonare il giardino, come se percepisse che quelle anime disgraziate appartenevano alla sua gente. Alla fine, Ganelon lo prese per mano e lo obbligò a salire sul muretto. Sistemati i suoi pupilli lontani dal pericolo, Ganelon riprese a esaminare
le rose dei cadaveri. Non aveva scampo: senza le rose, la Bestia non avrebbe curato Helain. Con estrema cautela colse un fiore. Lo stelo fremette e stillò sangue rosso come il bocciolo, ma non colpì il giovane. Se Bratu e gli altri fossero riusciti a prendere le rose prestando grande attenzione, non avrebbero corso alcun rischio. Tornò al muretto, tenendosi il più possibile alla larga dai cespugli. Attraverso l'amuleto della Bestia, riunì il gregge. Il fatto che nessuno si fosse avventurato nel giardino, come aveva ordinato, fece nascere in Ganelon una lieve speranza. Se le sue istruzioni fossero state sufficientemente precise, forse sarebbero sopravvissuti tutti quanti. «Molto bene», esordì, «ricordate bene perché siamo qui. Dobbiamo raccogliere le rose per la Bestia». Nel sentire il nome del loro tormentatore, i poveri mentecatti gemettero pietosamente. «Lei non vuole foglie, steli o spine, soprattutto non spine. Qualsiasi cosa facciate, non toccate altre parti dei cespugli di rose se non i fiori.» Ganelon sollevò la piccola bisaccia che aveva portato sulla schiena. «Il sacco che avete legato alla cintura serve per metterci i fiori.» Lasciò cadere il bocciolo che aveva in mano nella bisaccia. «Così. Soltanto il fiore, nient'altro.» Uno degli uomini più anziani afferrò il sacco di tela del suo vicino, stringendolo al petto come se fosse stato un vecchio amico ritrovato. Ganelon restituì rapidamente il contenitore al legittimo proprietario prima che scoppiasse una rissa; poi condusse il vecchio nel giardino. «Vedi, Nonno», mormorò in tono gentile, «vogliamo tutti i fiori. Ma solo quelli». A dimostrazione, Ganelon strappò alcuni boccioli. Con mano tremante, il vecchio lo imitò. Con una parola di lode, il giovane lo lasciò e si affrettò a raggiungere gli altri per invitarli a cominciare il lavoro. Se inizialmente Ganelon tenne costantemente d'occhio i poveri mentecatti, con il passare delle ore divenne sempre meno attento. Era noioso guardarli lavorare e dopo tre giorni trascorsi a guidarli dalla tana della Bestia in quel campo oltre il confine di Invidia, era stanco delle manifestazioni della loro follia. Pensare a Helain lo aiutò a distrarsi. Il profumo delle rose gli ricordò i progetti che avevano fatto per il matrimonio, come avrebbero trasformato la bottega di Ambrose in una cappella fiorita. Era immerso nei propri sogni a occhi aperti quando una voce melodiosa lo riportò alla realtà. «Hanno il profumo delle chiese», mormorò Helain. In mano teneva una rosa rossa. «Anche se sono del colore sbagliato. Quelle bianche sono le
mie preferite.» Il cuore di Ganelon fece una capriola. Anche quando lei se ne andò senza concludere una frase, facendogli chiaramente capire che non parlava a lui come a nessun altro in particolare, la felicità non lo abbandonò. La vecchia Helain era riaffiorata per un istante sufficientemente lungo per ricordargli che lei esisteva ancora. Era quanto gli bastava. Helain si inginocchiò per raccogliere i boccioli da un cespuglio particolarmente spinoso e Ganelon la raggiunse. Anche se lei non si accorgeva della sua presenza, lui si accontentava di starle vicino e di poter sperare in un altro istante di felicità. Mentre raccoglieva i fiori, Helain intonò una vecchia canzone della miniera. Era una di quelle preferite da Ambrose. Il vecchio zuccone la cantava continuamente quando era nella bottega. Helain ne cantò tre strofe, fermandosi solo quando un bocciolo le sfuggì di mano. Il fiore cadde sullo scheletro sotto il cespuglio, infilandosi nella cassa toracica e posandosi dove un tempo c'era il cuore. Ganelon allungò la mano e con molta attenzione recuperò la rosa. Restò affascinato dal colore del fiore, un cremisi così scuro da virare verso il nero. Lo porse a Helain. Lei guardò prima il bocciolo, poi Ganelon. Senza una parola, scosse lentamente la testa da una parte all'altra. Prima che Ganelon potesse chiederle spiegazioni, un grido di paura infranse la quiete del giardino. Bratu era davanti a un'aiuola particolarmente grande, un'espressione terrorizzata dipinta in viso. Uno degli scheletri parzialmente sepolti stava muovendosi. Le ossa nude fremettero, quasi volessero sollevarsi da terra. Ganelon fu accanto all'uomo in un baleno. Individuò subito il topo, disturbato dal Vistani, mentre s'infilava nella sua tana fra le ossa. Bratu, tuttavia, era troppo accecato dalla paura per comprendere la causa assolutamente terrena del suo spavento. Muovendo le labbra in una muta preghiera ai suoi avi, lo zingaro indietreggiò, allontanandosi dal cespuglio di rose. Non sentiva le rassicuranti parole di Ganelon, né le grida spaventate degli altri mentecatti. Spinse via le mani del giovane quando questi cercò di afferrarlo. Un attimo più tardi, il Vistani capitombolò in un cespuglio di rose. La lotta fu breve, troppo breve perché Ganelon potesse reagire in tempo per aiutare lo zingaro. Le spine si conficcarono nella schiena di Bratu. L'uomo ululò per il dolore e cercò di alzarsi, ma i rami gli si aggrovigliarono intorno alle gambe. Appoggiò le mani, divincolandosi per cercare di
liberarsi. I rami del cespuglio si piegarono sulle dita e le spine affondarono in una mano. Mentre succhiavano il sangue del malcapitato, cominciarono a pulsare e a gonfiarsi nelle ferite fino a quando divenne impossibile strapparle. Altri rami si avvilupparono intorno allo zingaro, assetati di sangue. Finalmente, il corpulento Vistani riuscì ad appoggiare i piedi a terra. Ricorrendo a tutta la sua forza, si sollevò. Alcuni rami mollarono la presa, solcando la pelle di graffi profondi. Ma la maggior parte di essi restò avvinghiata all'uomo, cosicché quando lui si alzò, anche lo scheletro dal quale era germogliata la rosa balzò in piedi. Lo scheletro sembrò avvolgere le braccia intorno a Bratu, sebbene non fosse chiaro se si muovesse di sua spontanea volontà o se fosse semplicemente animato dai viticci e dai rami della rosa cadavere. Alla vista dei resti dello scheletro avviluppati allo zingaro, Ganelon scattò. Cercò di afferrare la mano del Vistani, ma il cadavere avvolse le braccia di Bratu, bloccandogliele lungo i fianchi. Il suono di bocche che si dissetavano avidamente si levò dalle spine impegnate a trangugiare il sangue dell'uomo. Mentre Ganelon restava immobile, come paralizzato, a guardare quel macabro spettacolo, nuove rose germogliarono e fiorirono, i loro petali rossi del sangue di Bratu. A un tratto, tutto il giardino sembrò risvegliarsi. Le piante allungarono i loro tentacoli, intrappolando braccia e gambe con le lunghe spine. Nel giardino si diffuse il panico. La maggior parte dei mentecatti fuggì, il loro prezioso carico nei sacchi legati alla vita. Alcuni non si mossero, pietrificati dalla paura. Fra questi c'era anche Helain. Ganelon salvò un uomo da un cespuglio, ma non prima che le spine riuscissero a strappargli brandelli di carne dal viso. Trattolo in salvo, il giovane attraversò il giardino come una furia. Ossa e rami scricchiolarono sotto i suoi passi pesanti. Trovò Helain rannicchiata al centro del giardino. Rose cadaveri strisciavano intorno a lei, ma la fortuna o una mano misericordiosa le teneva lontane dalla sua pelle candida. «Ho rovesciato il mio sacco», mormorò indicando le rose rosse sparse intorno al sentiero. «Ora non ci sarà più alcun matrimonio.» Ganelon cercò di farla alzare, ma lei oppose resistenza. Un ramo gli afferrò la gamba. Riuscì a liberarsi, incurante dei tagli profondi lasciati dalle spine nel polpaccio. Ma il sangue che scorreva da quelle ferite attirò l'attenzione di un altro cespuglio, che assetato balzò in avanti. Sostenuto dallo scheletro, strisciò via in cerca di sangue.
Ganelon ficcò la propria bisaccia piena di rose in mano a Helain. «La Bestia le vuole. Presto.» Senza indugiare oltre, afferrò la fanciulla per una mano e la trascinò via, cercando di proteggere la loro fuga meglio che poté. I cadaveri si muovevano con sufficiente lentezza da consentire loro di allontanarsi. I mentecatti già immobilizzati dalle piante fisse non furono così fortunati. Assetate di sangue, le rose si piegarono sulle loro vittime. I rumori prodotti da quel banchetto inseguirono Ganelon su per la collina, lontano dal Giardino dei Sogni di Malocchio. Il giovane sapeva che quelle grida di dolore sarebbero riecheggiate per sempre nei suoi incubi. Quando fu sufficientemente lontano da poter rallentare il passo, Ganelon estrasse dalla tasca il talismano consegnatogli della Bestia. «Tornate indietro», sussurrò nell'orecchio. «Portate le rose alla Bestia.» Ganelon sperò che i dementi lo sentissero, poiché ormai aveva poche speranze di raggiungerli. Giunto in cima alla collina, restò sorpreso nel trovare i sopravvissuti della sua folle armata inginocchiati ai piedi di un giovane vestito di nero. La sinistra figura andava su e giù circondato da quella folla gemente, le mani allacciate dietro la schiena. Il rumore metallico del sostegno per la gamba di Ganelon distolse la sua attenzione dal gruppo di matti e l'uomo restò immobile ad aspettare che il nuovo arrivato si avvicinasse. «Sai qual è la pena per chi osa entrare nel mio giardino?» domandò Malocchio Aderre in tono irritato. «Naturalmente ti ucciderò, che tu lo sappia o meno. Sono solo curioso di sapere se sei ignorante o sconsiderato.» Il tono era scherzoso, eppure Ganelon percepì un'estrema serietà, che avrebbe potuto rivelarsi fatale. Doveva stare molto attento, sebbene si sentisse stranamente a suo agio in presenza del signore di Invidia. Gli aveva già parlato molte volte, solo che non ricordava quando. Probabilmente era nuovamente incappato nei ricordi fantasma causati dall'innesto del Ciabattino. Per quanto Ganelon non riuscisse a collegarli agli avvenimenti che li avevano provocati, ricordava perfettamente il consiglio ricevuto dal Ciabattino: perché quegli impulsi potessero essergli utili, doveva rilassarsi e seguire l'istinto. «Né stupido né imbecille, mio signore», rispose, inchinandosi quanto gli consentiva la gamba malata. «Sono un semplice servo in missione per il mio padrone.» «Gli unici servi che tollero su questa terra sono i miei», ribatté Malocchio. «E tu e questa... plebaglia non siete certo miei servi.»
«Forse lo siamo», lo corresse Ganelon in tono deferente, «in un certo modo». Malocchio sferrò un calcio a uno dei mentecatti, poi fissò Ganelon con nuovo interesse. «Avvicinati», gli ordinò. Mentre il giovane zoppicava verso di lui, un'improvvisa luce scintillò nei penetranti occhi scuri di Lord Aderre. «Dove hai preso quel sostegno?» «Me l'ha donato un benefattore», spiegò Ganelon. «Pensava che mi avrebbe aiutato a percorrere il difficile cammino che ho scelto di seguire.» Il signore di Invidia allungò una mano e picchiettò sul metallo. «Questo è mio, forgiato nel mio castello, dai miei fabbri, per un mio amico.» «Allora ve lo restituirò», disse Ganelon. Iniziò a slacciare il sostegno e aggiunse: «Sebbene continui a essere indossato da un amico». «Sarebbe a dire?» «Colui che io servo combatte contro Lord Soth», spiegò Ganelon. «Questo ci offre un terreno comune su cui fondare un'amicizia.» Malocchio afferrò uno dei sacchi colmi di rose e lo rovesciò. «Questi ladruncoli mi danno motivo di pensare che tu sia un nemico», ribatté in tono tagliente. Con la punta di uno stivale nero, calciò i petali. «Avversari di Soth, dici? A che cosa ti servirebbero questi contro di lui? Speri forse di disseminare di fiori il suo muro di cortina così che scivoli e precipiti nel Grande Abisso?» Ganelon terminò di sfilare il sostegno. La gamba, libera da quell'ingombro, sembrava più leggera. «Non mi è dato di capire totalmente», affermò. «So solo che la Rosa Bianca ha un piano, che porterà Soth a rendere conto dei suoi crimini.» «La Rosa Bianca.» Malocchio riallacciò le mani dietro la schiena e riprese a camminare avanti e indietro fra i mentecatti ancora prostrati ai suoi piedi. «Esiste davvero?» «L'ho vista con i miei occhi. È stata lei a mandarmi a cercare queste rose. Servono per un'antica magia che utilizzerà contro Soth. Credo intenda fissare l'incantesimo in modo tale che coincida con l'assedio di Nedragaard Keep.» «Quale assedio?» Un'espressione perplessa si dipinse sul volto di Ganelon. «Ma come, il vostro. La Rosa mi ha detto che le vostre truppe stavano già muovendosi.» Malocchio imprecò aspramente. «La Rosa partecipa all'assedio?» «Non credo», rispose Ganelon. «Parlava come se lei non vi avesse niente a che fare.»
Con un balzo, il giovane vestito di nero fu accanto a Ganelon, che sollevò di peso. «Dici la verità?» gridò. Il giovane minatore distolse lo sguardo dal volto di Aderre. L'ira di quell'uomo incuteva paura; c'era qualcosa di demoniaco nei suoi occhi. «È la verità finché non provate il contrario», affermò in tono mite. Era una frase familiare ai subalterni di Malocchio. Il signore di Invidia posò lentamente Ganelon a terra. «Rimettiti il sostegno», ordinò, «e raccontami come l'hai avuto». Ganelon obbedì e raccontò a Malocchio la storia riferitagli dal Ciabattino Sanguinario. Mentre parlava capì che la vittima del Ciabattino era stato un individuo vicino ad Aderre, qualcuno che quest'ultimo aveva persino apprezzato. Quel particolare non poteva che giocare a suo favore, rifletté Ganelon. Forse gli avrebbe persino consentito di avere sufficiente influenza per portare in salvo oltre il confine Helain e gli altri. «Sì, certo. Possono andare», disse Malocchio quando il giovane si informò sul destino della sua armata di folli. «In cambio per la mia generosità, tu rimarrai qui con me per un certo periodo. Ci sono piani da preparare e tradimenti da punire.» Il signore di Invidia congedò i mentecatti con un cenno della mano. Alcuni si alzarono, ma Ganelon doveva estrarre il talismano della Bestia e dire loro di tornare dalla Rosa Bianca prima che si muovessero tutti. Mentre Helain sistemava la piccola bisaccia in vista del lungo viaggio, Ganelon la prese da parte e la guardò in viso. Gli splendidi occhi azzurri erano segnati da rughe profonde, come anche la fronte. Ma non appena la Bestia avesse gettato acqua sul fuoco della colpa che consumava la fanciulla, quest'ultima sarebbe tornata quella di un tempo, la sua Helain. Sempre che fosse riuscita a raggiungere la Bestia, pensò Ganelon affranto. Le parole della maledizione di Inza erano sempre vive nella sua mente; non poteva fare a meno di chiedersi se mandare via Helain non significasse favorire l'avverarsi dell'anatema. La sua parola, la sua mano sarebbero state il destino della ragazza. «Ditele di tornare dalla Bestia», disse improvvisamente Ganelon a Malocchio. «Lord Aderre, vi prego, ordinate voi a questa donna di andarsene.» Un sorriso soddisfatto illuminò Malocchio. «Non sopporti l'idea di farlo tu stesso? Molto bene. Vattene, ragazza. Vai a consegnare i tuoi fiori.» Lei si voltò, ma Ganelon le tenne stretta la mano ancora un istante. «Mi auguro una sola cosa, tesoro, che tu possa ricordarti di me.»
L'espressione vuota di Helain lo distrusse. Le lasciò la mano e chinò il capo. La guardò allontanarsi a passo svelto, poi fermarsi e girarsi verso di lui. Lentamente, gli occhi fissi sul volto dell'amato, Helain tornò sui suoi passi. Senza dire una parola, prese la mano di Ganelon e vi depose una rosa rossa. Sorrise al fiore, poi a Ganelon. Il giovane s'impresse nella memoria quel sorriso, lasciando che riempisse la sua mente anche quando lei scomparve oltre le colline. «E ora che ci siamo occupati della ragazzina», osservò Malocchio, «occupiamoci di ciò che io voglio da te». «Sì, signore», rispose Ganelon in tono sottomesso. «Che cosa sai di Veidrava?» «Le miniere? Le conosco come le vene sul dorso delle mie mani.» «Bene, bene. Ti recherai laggiù e ti farai portatore della mia ira contro quell'infida bestia di nome Azrael. Se possibile, dovrai ucciderlo.» Ganelon si lasciò sfuggire una risata amara. «È tutto, signore?» Malocchio non se la prese per la sfacciataggine del servo poiché sapeva che, come sempre, l'ultima parola sarebbe stata la sua. «Azrael deve pagare per il suo tradimento. Quelle truppe che ora stanno marciando verso Nedragaard non dovevano essere altro che un diversivo. Avrebbero dovuto restare lungo la linea di confine per dare al mostriciattolo il tempo per celebrare un rito necessario per scacciare il cavaliere della morte dal trono. Il nano si sarebbe impossessato di Sithicus, mi avrebbe consegnato Magda e i Vistani in ringraziamento del mio aiuto e il mondo sarebbe divenuto un posto migliore. «Ma ovviamente ha in mente qualcos'altro. Deve avere corrotto i miei uomini ed essersi comperato un esercito che non poteva sperare di formare a Sithicus.» Il signore di Invidia fissò Ganelon con sguardo cupo. «Che cosa ti preoccupa? Parla.» «Come farò ad affrontare Azrael?» Il giovane sollevò le mani vuote. «Non ho nemmeno una spada.» «Una spada non ti servirebbe a niente contro un essere come Azrael», osservò Malocchio. Infilò una mano sotto il mantello ed estrasse un sacchettino. «Ma questo gli cuocerà il cervello.» Ganelon slegò la cordicella che legava il sacchetto di seta. L'involucro conteneva solo semi di papavero. «Versa il giusto quantitativo di semi nel suo cibo e nella sua bevanda e la Piaga scomparirà dalla faccia della terra», spiegò Malocchio in tono
allegro. L'uomo infilò nuovamente la mano sotto il mantello e questa volta estrasse una sfera di cristallo. La rotolò fra le mani, lasciando che i raggi del sole si riflettessero sulla superficie liscia. «Questa ti sarà utile per difenderti dai suoi scagnozzi alla miniera.» «E come, mio signore?» «Azrael si circonda di creature del buio, ombre di sale e simili. Questa sfera agisce come conduttore del loro opposto.» La sollevò verso il sole. La sfera sfolgorò con la stessa luminosità della palla infuocata, prima di riassumere l'aspetto di normale boccia di vetro. «Per attivarla non devi fare altro che pronunciare una parola.» «Quale?» «Quella che vuoi», rispose Malocchio, «basta che sia una parola che tu sia sicuro di non dimenticare». «Helain», sussurrò Ganelon. Il sorriso soddisfatto riapparve. «Di nuovo la ragazzina.» Mentre faceva scivolare le dita sulla sfera, Malocchio mormorò alcune parole. L'oggetto magico si oscurò un istante prima che l'uomo lo lasciasse cadere nelle mani di Ganelon. «C'è una cosa che non capisco», ammise il giovane minatore infilando la sfera e i semi in una bisaccia. «Perché affidate a me un simile incarico?» «La tua cara Helain», rispose il signore di Invidia. «Il rito che Azrael spera di compiere la distruggerà, così come distruggerà tutti quelli che ami a Sithicus. Il nano avrà il controllo delle loro ombre, che diventeranno sue schiave. Sono certo che riesci a immaginare ciò che ne sarà di Sithicus nel caso tutto ciò dovesse accadere.» Ganelon riusciva a immaginarlo benissimo. Quel pensiero lo tenne sveglio nelle lunghe notti durante il viaggio di ritorno attraverso il Bosco della Collera e verso Veidrava. Così come la maledizione di Inza. Se, come aveva promesso la zingara, tutto ciò che aveva di più caro sarebbe morto per causa sua, stava tornando alla miniera per salvare Sithicus o per distruggerla? 14 I sogni a occhi aperti di Nabon un tempo erano semplici. In essi il gigante vagava a suo piacimento per pianure e colline. Libero di andare dove voleva.
Ma la libertà era qualcosa che Nabon ormai non possedeva più. Quella privazione aveva reso cupe le fantasie del gigante. Ora sognava di girovagare per il paese, ma non in indolente esplorazione. Nabon si aggirava per le regioni selvagge di Sithicus alla ricerca di colei che lo aveva intrappolato per prima: Inza, una ragazza Vistani dai capelli neri come la sua anima e un cuore malvagio che non conosceva pari. Nel folto del Bosco della Collera, Nabon aveva risposto al suo grido di aiuto per poi ritrovarsi a sua volta attaccato dalla zingara. Con una mazza indistruttibile, lei gli aveva spezzato prima un ginocchio, poi l'altro. Quando era crollato a terra, urlando per il dolore, lei lo aveva colpito fino a fargli perdere i sensi. Ma l'offesa peggiore era il motivo per cui Inza lo aveva assalito. La zingara gli aveva rotto le gambe e lo aveva catturato solo per barattarlo con un semplice pugnale in possesso di Azrael. Il nano aveva ricevuto l'arma da Malocchio Aderre come segno della loro recente alleanza. Inza lo voleva e Nabon era la merce di scambio che intendeva offrire. Azrael era avvezzo a tormentare Nabon con quella storia nelle notti in cui il gigante crollava per la fatica. Nabon disprezzava il nano e gli augurava tutto il male possibile, ma l'odio maggiore lo riservava per Inza. Se lei non avesse approfittato della natura mite e gentile del gigante, quest'ultimo non sarebbe caduto in mano ad Azrael. Peggio ancora, la Vistani aveva dato la caccia a Nabon solo dopo aver sentito parlare della sua bontà d'animo, particolare che, come aveva spiegato la zingara al gigante mentre lo trascinava alla miniera di sale, faceva di lui lo schiavo perfetto. Ora che la miniera era chiusa e la maggior parte degli uomini si accingeva ad andare in guerra, Nabon trascorreva le giornate sprofondato in un sonno agitato. Si vedeva sfogare la propria ira sulla perfida zingara, ma solo dopo averla inseguita per tutta Sithicus. La caccia rendeva l'uccisione ancora più appagante. In quei sogni, i suoi passi scuotevano le montagne e rovesciavano i fiumi oltre le sponde. Le sue gambe erano intere. E lui era libero. Una mattina, aprendo gli occhi, scoprì che il sogno era diventato realtà. Non soffriva più. Il dolore lancinante provocato dalla carne maciullata e dalle ossa spezzate aveva abbandonato le gambe. Si agitò nell'oscurità, allungò le mani tremanti. Era vero. Le gambe erano nuovamente sane. Le catene che lo avevano tenuto inchiodato al pavimento erano spezzate. Nabon non fece in tempo a gustare la gioia che la mente venne sopraffatto dalla paura. Non poteva essere che un tranello. Azrael lo stava sicura-
mente spiando, nascosto nel buio. Peggio ancora, forse anche Inza era con lui. Quando si fosse mosso, quando avesse nuovamente gustato il sapore della libertà, gli sarebbero saltati addosso. E questa volta gli avrebbero tagliato le gambe, privandolo per sempre della speranza. Il gigante si rannicchiò contro il muro della sua oscura e fetida prigione. «Non ce n'è bisogno», mormorò una voce nel buio. Una lanterna prese vita. La luce svelò una figura in abiti chiari, ampio mantello e cappello a tesa larga. L'uomo si tolse la maschera che gli copriva il viso. Il sorriso amichevole su quel volto affascinante fece sussultare il gigante, non più avvezzo alla benevolenza. «Sei veramente libero», affermò il Ciabattino, «e ben equipaggiato per il lungo cammino che ti attende». Con la lanterna indicò i piedi del gigante. «Dimmi un po', come li senti?» Nabon lasciò scivolare lo sguardo lungo le gambe. Le ferite erano scomparse; al loro posto non restavano che lievi cicatrici. Intorno alle caviglie, invece, notò delle spesse increspature. Passò le dita sui segni. Erano come i punti delle cuciture che univano una manica a una giubba o tenevano insieme i pezzi di una scarpa. «Sono molto più grandi di quelli che faccio solitamente», commentò il Ciabattino in tono disinvolto. Si chinò per ammirare da vicino il suo capolavoro. Aveva impiegato buona parte della notte per sistemare i piedi del gigante. Naturalmente, per quel lavoro non aveva potuto limitarsi a utilizzare le piante dei piedi e così i cadaveri dei Vistani avevano fornito più materiale del previsto. Ma la magia aveva funzionato. Bastava dare un'occhiata alle ossa di Nabon per capirlo. Anche gli stivali non erano niente male. «Lei ha tradito anche loro», mormorò Nabon, accarezzando il pellame delle calzature. «La sua gente.» Il Ciabattino si sentì pervadere dall'orgoglio: era la migliore accoppiata che avesse mai fatto. «Inza ha organizzato l'attacco che è costato loro la vita», confermò la pallida figura. «Ha pagato gli assassini in anticipo con il denaro rubato dai vardo degli zingari.» «Ma perché?» «Il massacro doveva fornirle il pretesto per invocare l'aiuto di Lord Soth», spiegò il Ciabattino. «Deve trovarsi a Nedragaard Keep per mettere in atto ciò che ha progettato.» Nabon si alzò. Vacillò e per non cadere appoggiò la testa ai raggi della
Casa della Macchina. Dopo pochi istanti riacquistò l'equilibrio e prima di aprirsi un varco nel massiccio muro posteriore dell'edificio, non dimenticò di ringraziare il Ciabattino. Quest'ultimo ridacchiava soddisfatto quando dalle macerie emerse alla luce del sole. Il sorriso non scomparve nemmeno quando Azrael si parò innanzi a lui. «Sei fortunato che Nabon non ti abbia aspettato per schiacciarti come una formica», commentò. Il volto del nano era così paonazzo per la rabbia che persino le basette e i baffi bianchi sembravano tinti di rosso. Lasciò cadere a terra le brocche e le candele che teneva fra le braccia. «Avevo ancora bisogno di lui», tuonò. «Ora dovrò calarmi nella cappella.» «Un po' di esercizio ti farà bene», commentò il Ciabattino in tono pacato. Spessi e neri artigli spuntarono alle dita di Azrael. Le ossa del cranio si modificarono, assumendo i tratti sia di nano che di tasso. «Chi credi di essere per potermi sfidare qui?» Sghignazzando, chiuse una mano intorno al braccio del Ciabattino. «Stai perdendo tempo», ribatté l'altro, imperturbabile. «Posso andarmene quando voglio.» «Ti sbagli. Da qui non puoi», replicò Azrael e spinse l'altro contro un mucchio di legna. Fu in quel momento che il Ciabattino notò ciò che il nano aveva lasciato cadere a terra. Dalle bottiglie infrante colava una densa fanghiglia nera. Puzzava di sale e stregoneria. La preoccupazione comparve sui suoi bei lineamenti. Allungò la mano verso un'ombra nel mucchio di legna, pensando di entrarvi. Le dita sbatterono contro solidi ceppi. La via di fuga era bloccata. In un batter d'occhio, nella mano del Ciabattino apparve un astuccio di cuoio. Ma prima che riuscisse a estrarre uno dei coltelli, Azrael gli strappò di mano il contenitore. Gli strumenti d'argento si sparsero a terra. «Il posto è isolato», annunciò Azrael. Il sorriso che era prima sul bel volto del Ciabattino apparve ora sulle labbra di tasso di Azrael. «Non vai da nessuna parte.» La bestia allungò una mano per prendere uno dei bisturi d'argento. «Non puoi uccidermi», affermò il Ciabattino in tono provocatorio, «nemmeno con quello». «Oh», sussurrò Azrael. «Oh, non ti preoccupare. Questo serve solo per rendere il gioco più interessante.»
Dopo due giorni a Nedragaard Keep, Inza non avvertiva più il puzzo di morte. Il fetore trapelava ovunque nel castello, dalle prigioni alla torre diroccata. Non c'era di che sorprendersi: scheletri soldati pattugliavano le merlature e banshee ululavano nei corridoi. Ma la morte non aveva mai spaventato Inza e i non-morti non avevano mai turbato i suoi sogni. Il castello le piaceva, nonostante il persistente puzzo di marciume, anzi, forse proprio per quello. Soth l'aveva abbandonata appena erano arrivati. Erano entrati nell'ombra nella radura del massacro ed erano emersi un istante dopo nella sala circolare del trono di Nedragaard. Soth aveva informato Inza che era libera di girovagare per il maniero, naturalmente a suo rischio e pericolo e che lui aveva questioni più importanti di cui occuparsi. Dopo di che, l'aveva lasciata nell'oscurità. Da allora, Inza aveva esplorato ogni stanza di Nedragaard Keep. L'ispezione era stata lunga e noiosa. Il castello aveva rivelato ben poco del suo padrone che la Vistani non sapesse già. Ora, la zingara era finalmente tornata nella sala da dove aveva iniziato l'esplorazione. Si soffermò davanti al grande lampadario a tre anelli che giaceva al centro della stanza. Il danno al pavimento, pezzi di pietre da lastrico ovunque, era al tempo stesso antico e recente. Fuliggine e cera sciolta, provocati da fiamme novelle, mascheravano cicatrici ben più remote. Inza trovò la sovrapposizione inquietante. Era come trovarsi contemporaneamente in due epoche, pericolosamente sospesi tra il passato e il presente. «Sarà meglio che tenga gli occhi sul futuro», mormorò la Vistani. Senza accorgersene, portò una mano alla catena d'argento che aveva al collo e accarezzò il piccolo talismano nero che vi era appeso. Quindi si avviò verso il palco, e il trono. La sua bocca assunse un'espressione di disgusto nel vedere il legno roso dai vermi. Poteva essere restaurato, pensò. I pezzi di legno marcio potevano essere rinforzati con barre di metallo. I punti di giuntura potevano essere saldati meglio con chiodi o tasselli. O denti di tasso, pensò, sorridendo tra sé e sé. Sarebbero andati a pennello. Qualcosa lampeggiò sul pavimento dietro al trono, distogliendo Inza da quei piacevoli pensieri. Si inginocchiò sulla pietra gelida per dare un'occhiata.
Frammenti di vetro erano sparsi sul palco, resti dei grandi specchi ovali che un tempo erano appesi dietro al trono. Inza sussultò. Quelli erano i resti degli specchi dei ricordi che Soth aveva usato un tempo per indurre i sogni a occhi aperti. La madre gliene aveva parlato. Gli specchi si nutrivano dei ricordi o delle fantasie di un individuo per creare un sogno a occhi aperti, che poteva essere vissuto come fosse stato la realtà. Esistevano pochi uomini sufficientemente forti da resistere al potere seduttivo di uno specchio dei ricordi. La maggior parte di coloro che cedeva, finiva per abbandonare il mondo reale per vivere in quello delle illusioni. Inza raccolse uno dei frammenti più grandi. Appena abbassò lo sguardo sul vetro, non vide la propria immagine ma quella di un cavaliere in scintillante armatura d'argento decorata con rose e martin pescatori. Quello era Soth prima di essere colpito dalla maledizione o per lo meno, era come lui si ricordava. La Vistani avvicinò la mano alla tasca per farvi scivolare dentro il pezzo di vetro, ma prima che potesse nasconderlo qualcosa di bianco e veloce glielo strappò via, tagliandola. Inza imprecò. Allungò il braccio per prendere Novgor, ma una forza invisibile l'afferrò per i lunghi capelli e la fece capitombolare sulla schiena. Dimenandosi come un pesce preso all'amo, finalmente riuscì a stringere l'arma. La brandì contro le tre figure che fluttuavano sopra di lei. Il trio delle donne spettro sghignazzava, un'espressione inquietante dipinta sui loro volti di elfi. «Non è per i tuoi occhi», gemette una banshee. «A meno che tu non voglia condividere il sogno del cavaliere della morte», aggiunse una seconda. Inza si sollevò sui gomiti. «Io creo il mio destino.» Risate sguaiate e acute riempirono la sala, echeggiando sulle scale e sollevando la polvere dalle travi. Le banshee circondarono la Vistani. Una gioia malvagia deformava i loro volti. «State lontane da me, miserabili», sibilò Inza. Con mossa rapida e felina puntò Novgar contro lo spettro più vicino. Il pugnale affondò nel sudario strappato che copriva lo spirito. Un grido di dolore si levò all'improvviso. «Mi ha colpita!» urlò la banshee. «Sono ferita!» La porta principale della sala scricchiolò e Lord Soth entrò nella stanza. Inizialmente Inza pensò che fosse stato attirato dalle grida delle banshee, ma il signore di Nedregaard ignorò le grida di vendetta degli spiriti inquie-
ti. «I tuoi uomini si stanno avvicinando, Inza Magdova», affermò Soth senza aggiungere altro. La Vistani si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, Lord Soth era sparito. Il ghigno sul volto di Inza era tagliente quasi quanto Novgor quando si girò verso le banshee, ancora appollaiate vicino al trono. La zingara sollevò il pugnale. «Un'altra parola aspra nei miei confronti e vi taglio la lingua», mormorò. «L'ho fatto alla mia gente. Sarò felice di rifarlo a voi, massa di lenzuola strillanti.» Ammutolite, le banshee fissarono Inza con pallidi occhi spenti, quindi dissero: «Serviamo fedelmente e lealmente la signora di Nedragaard, così come abbiamo servito chi l'ha preceduta». Per quanto l'affermazione fosse priva di rabbia o sarcasmo, Inza sapeva che era una minaccia. Le parole avevano il peso di una maledizione, un presagio di eventi funesti. Il suono della voce di Alexi distolse la sua attenzione dalle banshee. I superstiti del clan si trascinarono nella sala. Avevano un aspetto orribile, di poco migliore di quello degli zombi che barcollavano dietro di loro. La marcia forzata li aveva portati al limite dello sfinimento. I volti erano pallidi, gli abiti sporchi e stracciati. Una fasciatura improvvisata avvolgeva il torace di Nikolas. Piotr aveva una mano, o quello che ne rimaneva, completamente bendata. Anche gli orchi erano stati picchiati e mutilati. Alcuni erano privi di braccia. Uno aveva il volto scavato e la lingua nera e gonfia penzolava dal buco nella guancia. «Abbiamo l'intero esercito di Invidia alle calcagna. Ci hanno inseguito per tutta la notte», spiegò Alexi. Crollò sul pavimento. «I soldati di Soth hanno tagliato le funi del ponte appena lo abbiamo attraversato.» A Inza non importavano né le notizie sull'esercito nemico, né la sofferenza della sua gente. Lei era interessata solo al cofanetto. «Dov'è?» ruggì, afferrando Alexi per il bavero. «Fuori, raunie», rispose lo zingaro. «Al sicuro.» «Al sicuro?» gemette Piotr. «Qui niente è al sicuro. Siamo circondati da non-morti e sulla porta d'ingresso c'è un intero esercito.» «Vi proteggerò io dai morti», assicurò Inza con voce mielosa. «E per quanto riguarda i soldati di Invidia, sono certa che Lord Soth saprà cavarsela. Dopotutto, è un guerriero abituato a vedere gli eserciti accampati davanti alle mura del suo castello.» Lo stesso pensiero attraversò la mente del Cavaliere della Morte mentre
saliva la scala a chiocciola che portava in cima alla torre centrale di Nedragaard. Quello, per lo meno, era un problema che poteva affrontare a testa alta. Erano trascorsi secoli da quando aveva posato lo sguardo sui vessilli di una forza di assedio, ma il suo istinto di militare e l'addestramento di cavaliere gli consentivano di non avere dubbi sul comportamento da seguire. Insieme ai suoi tredici fedelissimi aveva tenuto a bada un intero esercito di Cavalieri: Sir Ratelif e i migliori soldati dell'ordine di Solamnia. A quell'epoca, il sangue scorreva ancora nelle loro vene. La fame, il freddo e la disperazione erano stati loro nemici quanto i Cavalieri assedianti. Ma ora le cose erano diverse. Soth era sicuro che con l'aiuto dei suoi tredici nonmorti la fortezza avrebbe resistito all'assalto dell'intero esercito di Invidia. Perso nei propri pensieri, continuò la marcia verso i piani più alti del maniero. La scala a chiocciola diveniva sempre più stretta e ripida man mano che saliva. Giunto a un piccolo slargo alla sommità della torre, si fermò. In vita, era sua abitudine fare scorrere le dita su un'iscrizione nella roccia: Est Sularus oth Mithas. Il mio onore è la mia vita. Il sacro giuramento dei Cavalieri di Solamnia. Aveva inciso quelle parole quando era ancora un bimbetto di soli cinque anni, iniziando il pomeriggio in cui aveva salvato la sorella di Caradoc dal ragno degli abissi. Il padre aveva premiato l'eroismo del figlio donandogli una vera arma. Il piccolo pugnale non era certo adatto per un vero combattimento, ma sembrava un'arma formidabile se paragonata alle spade di legno con le quali si era divertito fino ad allora. Con quel coltello, aveva dichiarato la sua intenzione di diventare un Cavaliere di Solamnia, anche se solo alle sentinelle e ai topi che frequentavano quell'ala isolata del castello. E ora si trovava nuovamente innanzi a quel giuramento. Le lettere erano confuse, proprio come lo erano a Dargaard Keep. L'iscrizione originale era stata consumata dalla punta delle dita di Soth che scivolavano sulle parole quando, anno dopo anno, il cavaliere saliva sulla sommità del maniero per ammirare il tramonto sulle montagne di Dargaard. Quel dettaglio non era mai stato presente a Nedragaard. Eppure ora si trovava nel posto giusto e le parole erano incise con la scrittura goffa di un bambino. La sua scrittura. Soth era stato così preso dai recenti avvenimenti, che non si era accorto di come il maniero avesse cominciato ad assomigliare alla copia originale di Krynn. Aveva chiamato quel luogo Nedragaard per le piccole ma so-
stanziali differenze con Dargaard. Porte fatiscenti dove avrebbero dovuto essere perfette. Corridoi troppo lunghi o troppo corti. L'assenza del giuramento inciso dallo stesso Soth. Ma improvvisamente, quei dettagli, insieme a imperfezioni più evidenti causate dall'incuria del cavaliere della morte, sembrava fossero stati corretti. Mentre spingeva di lato alcune macerie che segnavano la fine delle scale, un vento freddo gli gonfiò il mantello. Ignorando il gelo che sicuramente indicava l'arrivo dell'inverno, il cavaliere della morte uscì nel punto più alto del maniero. Da lassù, controllò le difese della fortezza. Le ombre che affollavano il Grande Abisso si agitavano, come facevano nelle giornate particolarmente luminose, quasi il sole le irritasse. Quel giorno turbinavano con particolare brutalità lungo gli scoscesi dirupi che circondavano tutti i lati del maniero. L'oscurità lambiva anche le sponde dell'istmo che collegava il castello al lato orientale dell'abisso. O per meglio dire, che lo collegava un tempo. Subito fuori l'ingresso principale di Nedragaard Keep, un gruppo di orchi non-morti stava terminando di ritirare il ponte di legno. Un fossato di trenta piedi fra il muro esterno e l'istmo brillò sinistramente. Il motivo per quella precauzione difensiva si agitava sulla sponda orientale dell'abisso, dove una forza imponente, formata da almeno un migliaio di truppe di Invidia, si era insediata nel cimitero di Nedragaard. Un numero ancora maggiore di soldati avanzava lungo la Strada dell'Abisso. Soth sentiva le grida di gioia all'arrivo di ogni nuova compagnia. Una banshee si levò davanti al cavaliere della morte. La luce del sole la faceva apparire ancora più inconsistente del solito. Venne subito raggiunta da un secondo spirito e quindi da un terzo. Leedara, Marantha e Gisela, le sue principali tormentatrici. «I lupi sono alle porte», iniziò Marantha. «Hanno già rivendicato il cimitero, i tuoi morti», aggiunse Gisela. Leedara, nella cui forma eterea era ancora visibile la ferita inflittale da Inza, volteggiò sopra il signore di Nedragaard. «I tuoi morti sono tutto ciò che hai, rosa appassita. Perdi loro e perderai te stesso.» «Non ci sono possibilità che venga sconfitto», replicò il Cavaliere della Rosa Nera in tono sicuro. Sollevò un braccio e indicò verso est e sud. «A Sithicus, i vivi e i morti rispondono al mio grido di battaglia. In questo momento il mio esercito è giunto per scacciare il nemico dalle nostre terre.» Un esercito che superava di numero quello di Invidia. Elfi provenienti da
oriente e una marmaglia eterogenea di minatori e contadini provenienti da sud. Su ordine di Soth, Azrael aveva riunito le truppe, che avrebbero dovuto avanzare come una forza d'invasione, la punta di una spada che il cavaliere della morte rivolgeva contro la gola di Malocchio Aderre. Se prima dovevano combattere a Sithicus, tanto meglio. L'eccidio degli invasori li avrebbe resi più forti e avrebbe sollecitato la loro sete di sangue nemico. Soth osservò dall'alto, mentre gli elfi si aprivano a ventaglio, disponendosi nell'ordine di battaglia a loro più congeniale. Anche i minatori si dispersero per prepararsi allo scontro. Le loro fila erano irregolari e disordinate, e ben rispecchiavano l'assortimento di picconi, mazzafrusti e accette con i quali erano armati. La differenza nelle formazioni contava poco. Soth era certo che entrambe le armate fossero in grado di spezzare facilmente l'assedio. Un grido si levò dal cimitero, il luogo dove si incontrarono i tre eserciti. Ma non era il clamore della battaglia che Soth udì, né l'urlo atroce dei morenti. Quello era un grido di fratellanza. Le tre armate erano ora una sola. L'assedio di Nedragaard Keep era iniziato. 15 Il grido di fratellanza dell'armata tripartita risuonò dalle mura di Nedragaard Keep, echeggiò nel Grande Abisso e infine si spense. I comandanti delle tre forze alleate tacquero un istante, beandosi nell'entusiasmo dell'unità, prima di girarsi a osservare l'apparente inattacabile fortezza che incombeva su di loro. L'acclamazione di gioia svanì e il sollievo di essere giunti finalmente al termine della lunga marcia lasciò il posto alla stanchezza. Fu Gerhard, il comandante dei minatori e dei contadini del sud, a dare voce alla domanda che tutti si ponevano. «Bene», esordì con voce titubante, «e adesso che cosa facciamo?». «L'istmo è troppo stretto per un attacco frontale su vasta scala», osservò il generale elfico Ulrisch, un nobile di Har-Thelen. «Forse potremmo tentare un attacco di sorpresa dall'abisso: qualche dozzina di uomini potrebbe cercare di raggiungere l'ingresso della fortezza dal basso e poi riposizionare il ponte per permettere al resto della...» «Chi sarebbe così stupido da calarsi fra quelle ombre?» lo interruppe Gerhard. «Voi minatori, naturalmente», replicò l'elfo arricciando il naso. «Siete
abituati all'oscurità. E poi, tutte quelle storie sull'abisso sono solo stupide fandonie. È solo un buco nel terreno.» «Be', allora possono andarci i tuoi elfi», ribatté Gerhard, piccato. «Dopotutto, è una tua idea.» Il comandante dell'esercito di Invidia, un orco particolarmente raccapricciante di nome Onkar, sghignazzò divertito. «Secondo voi, perché abbiamo trasportato tutta quella legna?» domandò l'orco indicando le pile di ceppi ammonticchiate al centro del cimitero. Man mano che le diverse compagnie di orchi e mercenari giungevano da nord, le monete d'oro e d'argento che Azrael aveva usato per comperare la loro fedeltà che tintinnavano nelle loro tasche, i soldati depositavano tronchi e travi sul mucchio. Ormai c'era legna a sufficienza per costruire una casa. «Artiglieria pesante!» esclamò l'elfo. «Ma certo. Sarebbe stato il mio prossimo suggerimento. Solo che non abbiamo niente da lanciare contro la fortezza.» «Elfi», brontolò Gerhard. «Abbiamo un mare di elfi.» Onkar spostò il piede dalla grande lapide di granito sulla quale lo aveva appoggiato. Sulla pietra erano incisi il nome Gelbmartin e l'emblema del castaldo del maniero. L'orco si chinò e con uno strattone la sollevò da terra. «Con queste si fanno ottime munizioni», disse. «E quando non ne avremo più, dissotterreremo i cadaveri e lanceremo anche quelli.» Gerhard e Ulrisch fissarono il bruto. «Rude ma creativo», commentò infine l'elfo. «Onkar, tu soprintendi la preparazione dei... dardi e noi due ci occupiamo della costruzione delle catapulte.» Posò un braccio sulle spalle di Gerhard e lo allontanò dal bruto. «Pensiamo a come dividerci il lavoro.» Quando furono sufficientemente lontani, l'elfo mormorò: «Non ti sembra strana questa situazione?». Gerhard si strinse nelle spalle. «Strana? Ti riferisci al fatto che degli ubriaconi dalle orecchie a punta per una volta tanto dimostrino di avere un po' di fegato... strana, in questo senso?» L'elfo fulminò il minatore con lo sguardo e si arrotolò una manica della camicia. Dal gomito al polso, il braccio era un groviglio di cicatrici. «Sono stato catturato dai miei fratelli delle Colline di Ferro. Prima che riuscissi a fuggire, mi hanno scorticato le braccia e altri parti del corpo che non sto a mostrarti.» Tirò giù la manica. Gerhard batté la mano sull'accetta d'argento di politska che teneva in vita. «Anch'io ho spellato un bel po' di nemici. Naturalmente, nessuno è mai
riuscito a fuggire. E comunque, uno che è riuscito a sopravvivere a una simile tortura è degno del mio rispetto.» «Che felicità», commentò l'elfo in tono ironico, «ma non hai ancora risposto alla mia domanda». Nel vedere l'espressione vuota e assente del minatore, Ulrisch sbottò: «La nostra situazione. Non ci trovi niente di strano? Per esempio, dov'è Azrael?». «Alla miniera», rispose prontamente Gerhard. «E noi che cosa dovremmo fare qui, senza di lui?» Il politska restò in silenzio. Ulrisch annuì bruscamente. «Vedo che cominci a capire. Se anche riuscissimo a entrare nella fortezza, chi terrebbe testa a Soth?» «Siamo stati ingannati», borbottò Gerhard. «Usati», lo corresse l'elfo. «Non siamo nient'altro che un diversivo.» Gerhard prese a calci terra e sassi e sciorinò una serie di oscenità disgustose quanto le creature che si nascondevano nel Grande Abisso. «E allora che cosa facciamo?» domandò quando si fu calmato. «Recitiamo la parte che ci è stata assegnata», rispose l'elfo. «Perché non ce ne andiamo?» «Azrael ha dislocato alcuni dei tuoi compagni a Har-Thelen subito prima che ce ne andassimo», spiegò Ulrisch in tono grave. «Ero rimasto stupito dalla generosità del nano che si preoccupava della sicurezza della città mentre noi eravamo lontani. Ora temo che al nostro ritorno nessuno di noi troverebbe vivi i propri cari nel caso tradissimo il nano o non ci comportassimo valorosamente.» Gerhard chiuse gli occhi, focalizzando l'accampamento dove le famiglie delle sue truppe attendevano il loro ritorno. Anch'esso era controllato dalla Politskara. «Siamo uomini morti», mormorò. «Non necessariamente», replicò l'elfo. «Propongo di tenere gli Invidiani - chiedo scusa, gli ex Invidiani - in prima linea. Dal tintinnare delle loro bisacce, direi che sono stati pagati troppo bene per rendersi conto del pericolo.» Lasciò scivolare lo sguardo sulle mura annerite di Nedragaard Keep. «E speriamo.» «Che cosa?» «Che Soth scopra il piano di Azrael, qualunque esso sia, o che il nano abbia successo.» L'elfo sospirò, rassegnato. «Non ha importanza quale delle due alternative, purché avvenga prima che il signore di Nedragaard decida di scrollarci dalla sua schiena.»
«A me, cavalieri!» Dalla balconata che sovrastava la sala principale, Lord Soth guardò i tredici guerrieri non-morti giungere dalle diverse postazioni della fortezza. Il primo a entrare fu Wersten Kern, in vita il più leale dei suoi uomini. E lo era anche nella morte - se la lealtà era una qualità che quegli scheletri fruscianti potevano possedere. E comunque, almeno l'ombra di quella virtù dimorava in loro. E a Soth bastava. Farold, Valcic e Vingus, gli inseparabili Cavalieri della Spada, giunsero insieme. Meyer Seril prese come sempre posto accanto alla porta. Come se fosse stato trattenuto da altre e più importanti questioni, Derik Grimscribe comparve per ultimo, trafelato. Un tempo, il Cavaliere della Spada era un vero maestro con le parole. Le spiegazioni per i suoi immancabili ritardi divertivano tutti i cavalieri. Ora, le sue mascelle si mossero senza emettere alcun suono, la spiegazione intrappolata nei resti della putrida lingua. I tredici guerrieri girarono i teschi senza occhi verso il loro signore. Tuttavia, prima che Soth potesse parlare, un'altra voce risuonò nella sala. «Come va l'assedio, mio signore?» Gli scheletri guerrieri guardarono verso il palco nell'ombra. Esitarono, poi s'inginocchiarono. Soth si sporse oltre la ringhiera della balconata. Dovette guardare sotto di essa per vedere la Vistani appollaiata su una pesante cassa di legno posta accanto al trono. Tanto tempo fa, un'altra sedia era stata sistemata là, quella appartenente alla signora del maniero, la moglie di Soth. «I miei cavalieri ti hanno scambiato per un'altra», disse Soth con voce gelida. «Tu confondi te stessa per qualcosa di più di un'ospite.» Il tono tagliente del cavaliere della morte lasciava intendere che non dimenticava facilmente simili scorrettezze. «Non intendevo offendervi», replicò Inza. «Pensavo fosse meglio rivelarvi i miei timori prima che inviaste da un'altra parte le vostre truppe.» «Stai tranquilla. Manterrò la promessa fatta a tua madre. Sei al sicuro nel mio...» Lo schiantarsi della pietra contro la pietra risuonò in tutta Nedragaard quando il bombardamento, interrotto per circa mezz'ora, riprese. I proiettili, tuttavia, non colpirono la fortezza, ma la sporgenza rocciosa a nord. La mira di coloro che dirigevano le catapulte non era migliorata nelle cinque ore di fuoco. La loro inettitudine, invece di essere di sollievo per Soth, lo mandava su tutte le furie. Con un ampio gesto del braccio, il cavaliere della morte indicò l'esercito
assediante. «Se anche fossi sola in questo castello non avresti nulla da temere da loro. Questo non è un assalto. È un fastidio, al quale intendo porre termine immediatamente.» Inza si alzò e si mosse verso il centro della sala. Quando uscì dall'ombra, gli scheletri guerrieri abbandonarono la posizione deferente. «"Un fastidio"», ripeté la zingara. «Forse. Questo assalto non deve proprio impensierirvi. A meno che...» «Sputa, donna», tuonò Soth. «La parte della ritrosa non fa per te.» «A meno che questo assurdo assedio non serva a distrarvi dalle manovre di qualche potente», insinuò Inza, «di un nemico maggiormente degno delle vostre attenzioni». Soth iniziò a scendere lo scalone che dalla balconata portava nella sala. «I nemici non mi mancano», disse, camminando. «E in quello che sta accadendo c'è la mano di tutti... di Aderre, della Rosa Bianca, di quel bastardo traditore di Azrael.» «Azrael. Deve essere quello che ha aizzato la tua gente contro di te», mormorò Inza. Il fragore di un proiettile che finalmente centrava il castello sottolineò le sue parole. «È quello che ha riempito d'oro le tasche degli uomini di Aderre, pagandoli per unirsi a questo ridicolo assedio», aggiunse Soth. «Lui non è un "potente", ma solo un traditore con una stima esagerata della propria astuzia.» Il cavaliere della morte raggiunse la sala e Inza si inchinò rispettosamente. «La Rosa Bianca, però, non è da sottovalutare, mio signore», suggerì la Vistani. «Quando ho letto il vostro futuro nelle carte, la presenza della Rosa giganteggiava. Venite, lasciate che vi mostri.» Guidò Lord Soth al palco. Là, sulla seduta del trono, c'erano nove carte disposte a croce. Erano grandi e avevano i bordi decorati con intricati disegni. Anche in quella semioscurità, Soth distinse il rosso dell'inchiostro. Quel mazzo di carte era stato disegnato con pigmenti mischiati al sangue. La carta al centro della croce riportava un cavaliere in armatura, con la corazza decorata con rose e martin pescatori. Quella figura non poteva essere che Soth, sebbene fosse rappresentato prima della dannazione. «Questo mazzo di carte era di mia madre», spiegò Inza. «Chi altri avrebbe potuto ritrarre sulla carta più importante di spade? È il seme dei guerrieri.» La Vistani indicò le due carte disposte sotto il Guerriero. La prima raffigurava uno spettro che sorgeva da una cripta. «Questo è il vostro passato prossimo», spiegò Inza. «Una forza si presenta per riscuotere un vecchio
debito, per ricordarvi antichi doveri che avete dimenticato. La carta sottostante è il vostro passato remoto: l'Innocente.» «Non ci sono innocenti nel mio passato», osservò Soth. «La carta può riferirsi a qualcuno che non era in grado di difendersi in un particolare momento, qualcuno di cui forse avete approfittato», spiegò Inza. «Ritengo che entrambe queste carte raffigurino la Rosa. Da quanto mi aveva detto mia madre, voi pensate sia una sorta di guerriera del vostro passato, qualcuno che ha un vecchio conto da regolare.» «Kitiara», disse Soth. Sebbene non fosse innocente, Kitiara era indifesa, morente, quando il cavaliere della morte aveva portato via il suo corpo dalla Torre dell'Alta Magia. Allora, lei lo temeva, temeva che lui l'avrebbe svegliata dall'eterno riposo per farne la sua consorte. Quelle erano infatti le intenzioni di Soth e se non fosse stato trascinato da Krynn in quegli inferi, avrebbe ottenuto ciò che voleva. «Forse», mormorò Soth. «Forse.» «I vostri avversari sono più facili da identificare», proseguì Inza. Indicò la prima carta alla destra del Guerriero. «Il Traditore. Può essere solo Azrael. Dietro di lui c'è il Ciarlatano. Questa donna è la vostra vera nemica. Osservate il disegno. Vedete? Si nasconde dietro una maschera, una falsa identità come la Rosa Bianca.» Soth indicò le carte restanti. «Queste mi dicono ciò che stanno tramando o come posso fermarli?» domandò. Inza trattenne un sorriso. Aveva disposto le carte proprio con quell'obiettivo in mente, per condurre Lord Soth dove lei voleva. Ma quando guardò le quattro carte rimanenti, quelle che rivelavano gli alleati di Soth e il futuro del cavaliere, venne colta dalla paura. Quelle non erano le carte che aveva accuratamente scelto. «E allora?» la spronò Soth, impaziente. «Le carte alla sinistra del Guerriero sono le forze che combattono al vostro fianco», spiegò Inza, cercando disperatamente di forgiare nella propria mente un significato appropriato per le diverse figure. «Anche se forse non capite il motivo delle loro azioni, sono personaggi importanti per voi.» Sollevò la prima carta, il due di denari. «Il Filantropo. Colui che dona altruisticamente, solo per il piacere di dare agli altri.» Un'altra carta, attaccata alla prima, cadde a terra. Era l'otto di coppe, l'Alfiere. «Questa persona è legata da un rigido codice. O forse vi sono due alleati che sono in qualche modo collegati, uno che dà, l'altro che fa rispettare un codice.»
La carta successiva, quella che rivelava l'alleato più importante di Soth, avrebbe dovuto essere il quattro di denari, colui che Abiura. Il collegamento fra l'immagine della carta - una donna dai capelli corvini e una sfera di cristallo - e Inza stessa sarebbe stato lampante anche per Soth. Ma la carta sul tavolo era Mirmidone. La figura disarmata e senza armatura era di fronte a tre uomini avvolti nella nebbia, incerta sulla loro identità di amici o nemici. «Sembrerebbe che io sia l'altro vostro alleato», mentì la zingara. «La figura è indifesa, circondata da esseri minacciosi: la mia situazione nella foresta prima che giungeste in mio aiuto.» Le restanti due carte riguardavano eventi del futuro. Il futuro prossimo era dominato dalla Bestia, simbolo di furia e rabbia. Il Torrione, con la sua figura solitaria intrappolata in una torre illuminata dalla luna, indicava il futuro remoto. Se Inza avesse cercato di interpretare il futuro in modo corretto, avrebbe detto che era la rabbia a continuare a tenere prigioniero Soth. Ma scelse di suggerire esattamente il contrario. «Se vi lascerete andare alla vostra ira e ucciderete la Bestia», affermò in tono grave, «le porte della vostra prigione si apriranno». «Allora le vostre carte confermano il piano che ho già deciso di mettere in atto.» Soth si girò e si allontanò dal palco. «Voglio che vengano uccisi fino all'ultimo», disse ai suoi fedeli servitori. «Sarete affiancati dalle banshee.» I tredici scheletri guerrieri lasciarono la sala per raggiungere i cavalli non-morti già radunati nel cortile. Soth si mosse per seguire i suoi soldati, quando Inza lo chiamò. «Un codardo come Azrael sicuramente non metterà a repentaglio la propria vita.» «Certo che no. Si sarà nascosto da qualche parte, probabilmente al Lago delle Voci per origliare sulla battaglia che dovrebbe condurre.» «Il Lago delle Voci!» esclamò Inza. «Se lui e la Rosa conoscono quel luogo, allora la battaglia è già persa.» «Che cosa stai dicendo?» «Le ombre di sale che hanno ucciso mia madre hanno origine in quel luogo», spiegò Inza in tono concitato, «ma sono il minore dei pericoli. Tuttavia, usando l'acqua del lago si possono celebrare dei rituali in grado di garantire a una sola persona il controllo su tutte le ombre di Sithicus». Soth non replicò. Sguainò la spada ed entrò nel buio accanto al trono. Un attimo dopo era nuovamente lì. Gli occhi arancioni scintillavano di rabbia. Il freddo emanato dal suo corpo fece sussultare Inza. «Il passaggio
è bloccato, così come tutta la zona intorno alla miniera.» «Hanno iniziato!» gemette Inza. «Avete solo poche ore. Cercheranno di completare il rituale nel tardo pomeriggio, quando le ombre del giorno sono più lunghe.» «Non possono precludermi l'accesso alla miniera a lungo», tuonò Soth, dirigendosi nuovamente verso l'ombra. «C'è un piccolo incantesimo che posso fare», gli gridò Inza. «Servirà a schermare il castello da qualsiasi stregoneria stiano evocando Azrael e la Rosa.» «Proteggiti come ritieni opportuno», tagliò corto Soth, svanendo ancora una volta nell'oscurità. Il cavaliere della morte non vide Inza aprire il cofanetto di legno, non vide la bottiglia nera che vi era contenuta. Tuttavia, provò un brivido di apprensione quando emerse dall'ombra di un massiccio affioramento sulla strada subito fuori Veidrava. Il cavaliere della morte uscì allo scoperto. Mentre marciava verso la miniera, la sua ombra si schierò accanto a lui. Di tanto in tanto, non riusciva a trattenersi dal lanciare rapide occhiate all'immagine oscillante. Sapeva che nelle ombre, come nei nomi delle piante e degli animali, era contenuto un certo potere. Sebbene lui stesso fosse il prodotto di una bieca stregoneria, Soth disprezzava simile magia. Utilizzarla gli sembrava da codardi, qualcosa per assassini, non per guerrieri. Rifletté sulla questione anche mentre attraversava l'accampamento abbandonato della miniera, che già sembrava disabitato da decenni. I topi correvano incautamente tra le casupole. Gli insetti si ammassavano sui davanzali. Cornacchie nere cercavano brandelli di carne su due cadaveri appesi al crocevia del campo. Fissarono Soth con sospetto, cercando di decidere se fosse un rivale a caccia dei pochi pezzi di cartilagine ancora presenti sui due corpi ben «ripuliti». La rabbia che aveva pervaso il cavaliere della morte a Nedragaard era stranamente diminuita quando superò la bottega di Ambrose. L'ira si era trasformata in una fredda determinazione. Le torri della miniera erano davanti a lui, le loro ombre si allungavano giù per le colline quasi a salutarlo. Se Inza aveva ragione, i suoi nemici avrebbero cominciato il rituale prima che le lunghe macchie scure cominciassero a fondersi. Soth non accelerò il passo. Lui era il signore di quel regno. Loro non potevano scappargli. Anche quando incontrò il muro invisibile, la stessa barriera che gli aveva impedito di entrare nella miniera direttamente da Nedragaard, mantenne
una lucida tranquillità. Con l'antica spada cominciò a colpire lo scudo invisibile. Ogni colpo provocava una cascata di scintille e lasciava nell'aria una scia azzurrognola. Le fenditure si rimarginavano rapidamente, ma Soth faceva seguire un colpo dopo l'altro, instancabilmente. Prima che il muro crollasse, un suono spaventoso rimbombò sulla collina: l'urlo dalle tre tonalità delle banshee di Nedragaard. Quando si materializzarono accanto a Lord Soth, il loro lamento tagliò l'aria sopra Veidrava. I volti elfici un tempo meravigliosi erano distorti in orribili smorfie di angoscia e felicità. «Tradito!» gridò il trio di spiriti inquieti. «Ingannato», urlò Leedara. Marantha si frappose tra Soth e il muro invisibile. «Depredato», aggiunse. Un maligno sorriso di gioia sollevò le labbra irreali di Gisela. «Lord Soth, il signore tradito di Nedragaard Keep.» Le parole erano familiari, quasi identiche a quelle che le fanciulle elfiche avevano usato tanti anni prima per insinuare in Soth il dubbio dell'infedeltà della moglie, Isolde. Il cavaliere della morte si fermò solo per dire: «Andatevene. Non è il momento di replicare scene ormai stantie. Non ho una donna che possa tradirmi». «Quest'offesa è nuova», affermò Leedara, «ma è antica quanto la tua dannazione». «Hai permesso che una serpe entrasse nella tua dimora», sussurrò Marantha. «Lei ha eretto delle barriere contro i tuoi servi.» «Che cosa?» tuonò Soth. «Mentre i tuoi cavalieri e le nostre sorelle si lanciavano contro gli assedianti, la strega zingara ha eretto delle difese che ci impediscono l'accesso alla nostra casa», spiegò Gisela. «Sicuramente ha sbarrato l'accesso anche a te, ma lei non sarà sola.» «Le sale del castello si riempiranno di vita», sottolineò Leedara. «Ha aperto le porte ai nemici», aggiunse Marantha. «La fortezza è nelle loro mani.» Il fuoco che prese vita nel petto di Soth era antico quanto familiare. L'ira consumò ogni cosa, conquistò ogni cosa. Ragione e logica crollarono davanti a essa. Quei piccoli frammenti di pietà che ancora dimoravano nel cuore senza vita del cavaliere presero fuoco e svanirono. «Nel nome dell'onore l'ho tenuta in vita», sibilò Lord Soth. «In nome dell'onore vedrò Inza Magdova morire cento volte per ogni affronto da me subito.»
Lord Soth si allontanò dalla miniera. Era sicuro che Azrael si nascondesse là sotto e che intendesse compiere qualche rito malvagio, così come era sicuro che il rituale avrebbe dato al traditore il pieno controllo su tutte le ombre di Sithicus. Soth stesso aveva visto il Lago delle Voci e aveva avvertito il potere delle sue acque. Niente di tutto ciò aveva importanza. Ora contava soltanto la vendetta. Quando il cavaliere della morte scomparve nell'ombra, seguito dalle banshee, Ganelon emerse dal suo nascondiglio dietro a una montagna di barili vuoti. Aveva scorto Lord Soth dalla bottega di Ambrose, dove si era recato in cerca dei suoi vecchi amici. Inizialmente, quando aveva visto il cavaliere della morte colpire la barriera invisibile, la speranza era sorta in lui. Forse aveva trovato un alleato, un essere potente che poteva tenere testa ad Azrael. Ma così non era stato. Quell'impresa era solo sua. Mentre Ganelon s'incamminava sull'ormai silenziosa collina, il lieve rumore metallico prodotto dal sostegno per la gamba sembrava forte e stridulo come il grido delle banshee. Il giovane raggiunse il punto lungo la strada dove era stato Soth. L'aria puzzava ancora di acciaio scaldato e di qualcos'altro, un penetrante odore di sale molto più forte del fetore che circondava abitualmente la miniera. Ganelon allungò una mano. Si aspettava di trovare la barriera invisibile che aveva bloccato il cammino al cavaliere della morte. Incontrò invece solo una lieve resistenza, come se l'aria fosse stata trasformata in acqua fredda, immobile. Chiuse gli occhi e fece un passo avanti. Mentre attraversava la barriera, una linea apparve sul terreno sotto di lui. Era la chiazza scura provocata dall'acqua che colò sulla terra arida e circondò la sommità della collina. Quando Ganelon allungò la mano per toccare la linea scura, questa si ritrasse. La sottile striscia nera si contorse come un serpente, le increspature s'irradiarono longitudinalmente in entrambe le direzioni fino a scomparire. Infine, quando non poté ritrarsi ulteriormente, la linea s'infranse. Scintille azzurrognole apparvero all'improvviso per poi dissiparsi con la stessa velocità con la quale erano comparse. «Un bel trucco», commentò una voce dalla collina. «Devi insegnarmelo.» Ganelon riconobbe la voce melodiosa. Si guardò intorno fino a quando lo vide nell'ombra della Casa della Macchina, in un piccolo spiazzo libero dalle macerie del muro crollato. Il Ciabattino Sanguinario cercava disperatamente di alzarsi da terra. Il sangue macchiava i suoi abiti stracciati. Aveva le dita spezzate, la pelle
strappata dal torace. Ciuffi di capelli biondi giacevano a terra accanto agli strumenti del suo mestiere intrisi di sangue. Le forbici, gli aghi e i coltelli d'argento erano stati piegati o spezzati. Quando il Ciabattino posò lo sguardo su Ganelon, al posto del volto affascinante apparve solo una massa di carne spappolata. «Sono qui per fermarlo», disse Ganelon. «Conosco la strada che percorri», biascicò il Ciabattino attraverso le labbra gonfie. Ganelon si avvicinò per aiutarlo ad alzarsi in piedi e avvertì nuovamente quella sensazione di acqua fredda, immobile. Anche lì c'erano barriere, che circondavano il Ciabattino per impedirgli di fuggire. Quando la linea apparve, il giovane la toccò e la infranse. «"Chi è morto non può oltrepassarla"», recitò il Ciabattino con voce cantilenante. «"Chi è semplicemente vivo non può spezzarla". Azrael non ha fatto che beffarsi di me continuando a ripetere quelle parole nel corso della nostra... chiacchierata. Ha innalzato le barriere in modo tale che nemmeno lui possa infrangerle.» Con il mantello si pulì il viso dal sangue. Il danno non era così grave come aveva temuto. «Sono sicuro che non immaginava che esistesse qualcuno in grado di farlo.» Ganelon guardò i propri piedi. Le piante dei piedi dell'uomo defunto lo rendevano più che «semplicemente» vivo ma non veramente morto. Il Ciabattino si sedette. «Mi darei una cucita se avessi tempo», mormorò in tono assente. Raccolse da terra uno dei suoi aghi e lo fissò con espressione abbattuta. «Ma ormai n'è rimasto ben poco.» «Allora, è finita», sussurrò Ganelon. Il Ciabattino indicò il cielo del tardo pomeriggio, che iniziava ad oscurarsi per il crepuscolo. «No», affermò. «Siamo finalmente pronti per iniziare.» Ganelon seguì con gli occhi le dita deformi del Ciabattino. Lassù, una piccola macchia cremisi interrompeva la distesa celeste. Una luna rossa, comprese Ganelon dopo un breve istante. «Sono tornati dalla Rosa», disse il Ciabattino. «Helain e gli altri.» «Lei è...?» «La Bestia ha mantenuto la parola. Helain è guarita.» Quando il Ciabattino si alzò, Ganelon notò che le ferite stavano scomparendo. Persino gli abiti stracciati stavano aggiustandosi. L'uomo porse una mano al giovane. In essa teneva un coltello d'argento, quello meno danneggiato tra i suoi ferri del mestiere. «Prendilo», disse. «Mi fermerei per
aiutarti, ma...» «Il tuo cammino conduce altrove», concluse Ganelon. Grato, prese il coltello e lo infilò nella piccola sacca che portava a tracolla. «Dopotutto», mormorò il giovane in tono misterioso, «lui ha bisogno di te». Per un istante, il Ciabattino restò sconcertato da quel commento, poi annuì. La spia Invidiana gli aveva chiesto la sua identità subito prima di morire. Ganelon condivideva quella conoscenza. Con un sorriso e un rapido inchino del capo, il Ciabattino Sanguinario scomparve nell'ombra della Casa della Macchina. Mentre si avviava verso l'ingresso della miniera, Ganelon pensò all'incontro che attendeva il Ciabattino e a quello che lui immaginava per se stesso con Helain. Tutto sembrava difficile, ma nelle ultime settimane si erano avverate tante cose apparentemente impossibili che non poteva perdere la speranza proprio ora. Non ora che una seconda luna rossa saliva in cielo, una luna rossa come la rosa che Helain gli aveva donato quando si erano lasciati. Ganelon estrasse il fiore dalla bisaccia. Lo aveva infilato in una tazzina perché non si rovinasse, ma si accorse che era stato inutile. I petali cremisi, come tutti quelli del suo genere che restavano troppo a lungo nel regno di Lord Soth, erano diventati neri. Lasciò cadere la rosa appassita. Dopo un istante, la seguì nella cava. 16 Le grida guidarono Ganelon nella direzione giusta. Le urla e i gemiti giungevano dalle profondità della miniera, molto più sotto di quanto lui si fosse mai avventurato. Laggiù si dipanava un dedalo di tunnel abbandonati, alcuni perché allagati, altri perché ormai poveri di sale. Una di quelle gallerie deserte doveva presumibilmente ospitare una cappella. Dal momento in cui aveva iniziato la discesa, Ganelon aveva capito che quella era la sua meta. Finalmente raggiunse il tunnel dal quale provenivano le misteriose grida. Era certo che non fossero prodotte da bocche umane. Negli ultimi giorni aveva sentito sufficientemente spesso le urla dei morti e dei dannati per avere imparato a riconoscerle. Non fu sorpreso che suoni così arcani si levassero da un luogo tanto vicino a quella che lui chiamava casa. Si meravigliò invece di essere stato tanto sordo da non averli sentiti prima. Con cautela, si avviò lungo la galleria. Poco dopo, un leggero bagliore
azzurro illuminò lo stretto passaggio e Ganelon spense la lanterna che si era portato dalla superficie. La lasciò, ancora fumante, in una nicchia vuota scavata nel muro. Quando il tunnel si aprì in un ampio corridoio, Ganelon non vide i fiori incisi intorno alla nicchia, né fece caso alle elaborate statue di cani, cervi e altre creature allineate lungo le pareti. Il soffitto, che rifletteva la luce delle torce come il bagliore di un cielo azzurro, non attirò la sua attenzione. Un tempo, quegli oggetti avrebbero suscitato la sua ammirazione. Ora li vedeva solo come nascondigli dietro i quali potersi celare ai nemici o da dove quegli stessi nemici avrebbero potuto sorprenderlo e colpirlo. Le grida echeggiarono intorno a Ganelon, mentre il giovane scivolava di statua in statua, avvicinandosi sempre più alla stanza illuminata dal fuoco alla fine del corridoio. Oltre l'arco, scorse delle ombre roteare sulle pareti. Si aspettava di trovare centinaia di uomini scatenati in una danza in attesa del macabro rito che Azrael intendeva celebrare. Ma quando fu sufficientemente vicino per riuscire a vedere meglio la stanza, si accorse che quelle ombre non avevano corrispondenti mortali. Erano l'incarnazione dell'oscurità, ombre di sale, e stavano festeggiando la battaglia ormai prossima. Era solo il numero elevato, il clamore combinato di fruscio su fruscio che permetteva alle voci delle ombre di essere udite. Quella stessa qualità rendeva impossibile a ognuna di esse di parlare al di sopra del frastuono o di dare l'allarme quando Ganelon entrò nella Cappella Nera. Il pavimento era scuro per l'ammassarsi delle ombre di sale, ma i passi di Ganelon le fecero schizzare indietro come acqua fetida. Come nel campo Vistani, le anime perdute si ritraevano dalla carne morta dei suoi piedi. Turbinarono sul soffitto a volta, attorcigliandosi sulle repellenti statue nascoste negli angoli. In alcuni punti, le ombre più agitate si lanciarono verso Ganelon come ragni deformi, senza tuttavia riuscire ad avvolgere quel corpo già toccato dalla morte. L'altare era pronto per la cerimonia di Azrael. Un panno nero copriva il blocco di sale al cui centro era posato un calice d'ebano. Intorno alla coppa erano disposti pezzi di piante e animali. Ganelon aprì il sacchetto di semi di papavero datogli da Malocchio Aderre. Lentamente, ne versò parte del contenuto nel calice e parte sulle piante. Aveva appena rimesso il sacchetto nella bisaccia e stava pensando che cosa fare della grande tinozza sistemata davanti all'altare, quando una voce famigliare lo raggelò. «Che cosa ci fai qui?» domandò Ambrose. Ganelon si voltò e vide il piccolo e tozzo bottegaio allo sbocco di uno
stretto tunnel che dalla cappella conduceva nelle profondità della terra. Il volto dell'uomo era pallido, gli occhi privi di quell'allegria che un tempo li faceva scintillare. «Che cosa ci fai qui?» ripeté Ambrose. Il giovane scattò verso l'amico, le braccia aperte pronte per stringerlo in un caloroso abbraccio. Ma mentre si avvicinava notò le ombre che si affollavano ai piedi del bottegaio. L'oscurità si arrampicò sulla gamba di Ambrose e stese su di lui i lunghi tentacoli. «Sei stato toccato dalla Morte», disse Ambrose con una voce che aveva ormai ben poco di quella che Ganelon ricordava con affetto. «Ne sento l'odore.» «Che cosa è successo?» domandò il giovane, il cuore chiuso in una morsa di dolore. «Come...?» «Mi sono impossessato di questo corpo molto tempo fa», disse la cosa dentro Ambrose. «Non è stato facile estirpare gli ultimi brandelli della personalità di quello zotico. Desiderava Helain, lo sai?» «No. Non ti credo.» Le labbra di Ambrose si sollevarono in un vuoto sorriso. «Non importa quello che credi. Lui la desiderava comunque. Ho cercato di spronarlo Helain sarebbe stata una gran bella conquista - ma era troppo codardo per lasciarsi guidare da me.» «Non sai nemmeno distinguere l'amore dal desiderio», ribatté Ganelon in tono gelido. «Non c'è da stupirsi che Ambrose ti abbia tenuto a bada così a lungo.» Il giovane infilò una mano nella bisaccia alla ricerca della sfera. Prima che potesse chiudere le dita su di essa, Ambrose gli fu accanto. La velocità del bottegaio sbigottì il giovane, così come la furia selvaggia del suo attacco. La borsa gli scivolò dalle mani appena cominciarono a piovere i colpi. Il giovane crollò rapidamente a terra, rannicchiato su se stesso per cercare di difendersi dalla grandinata di pugni e calci. «Che cosa succede qui?» abbaiò Azrael emergendo dal tunnel. Dietro di lui, giunsero Kern e Ogier. I due uomini trasportavano un enorme secchio pieno fino all'orlo di acqua del Lago delle Voci. «Una spia», spiegò Ambrose. «Non so chi l'abbia mandata.» Azrael lanciò un'occhiata al sostegno per la gamba e sibilò: «È l'uomo di Malocchio Aderre, ma dovrebbe essere morto». Con la punta di uno stivale, voltò Ganelon. «Aspetta», disse quando vide il volto di Ganelon. «Questo tizio lavorava alla bottega, vero? Non è una spia.» «Sì, è uno della miniera, ma le ombre non lo toccano», lo informò Ambrose. «C'è qualcosa che non va.»
«Non ha importanza chi sia o perché sia qui», tagliò corto il nano. «Ormai è troppo tardi. Non può fermare la cerimonia, e questo è quello che conta.» Con un cenno chiamò Kern e Ogier che avevano appena finito di svuotare l'enorme secchio nella tinozza davanti all'altare. «Toglietelo dai piedi.» Per Ganelon, la cerimonia non fu altro che una serie di immagini confuse, di figure oscure e di lampi di luce scorti attraverso un velo di dolore. Kern e Ogier si occuparono infatti di lui, come aveva ordinato Azrael. Quest'ultimo cantilenò per quelle che sembrarono ore. Le parole bruciavano nell'aria appena le pronunciava, quindi fluttuavano fino alla tinozza di acqua nera, dove si spegnevano una dopo l'altra con un sibilo ripetuto dalle ombre di sale. Quando l'ultima delle parole affondò, l'acqua iniziò a muoversi. In preda a una misteriosa frenesia, le ombre di sale girarono intorno alla tinozza. Il liquido fetente seguì il loro esempio, roteando fino a quando al centro si formò un vortice. Azrael sollevò il calice. Ganelon strinse i denti; mormorò una muta preghiera sperando di avere versato un quantitativo di semi di papavero sufficiente per uccidere il licantropo. Azrael capovolse la coppa. I semi di papavero si sparsero sul pavimento; né il nano né i suoi scagnozzi se ne accorsero. Per Ganelon fu come un pugno allo stomaco. Abbassò il capo. L'ultima speranza svanì. «Chiedo il potere di ricreare questo regno a mia immagine», intonò Azrael. «Chiedo potere sugli uomini, gli animali e la terra stessa. Essi saranno come la mia ombra, per questo non avranno bisogno di una loro ombra. Venite a me. Riempite il mio calice cosicché io possa bere tutta l'oscurità del mondo.» L'acqua nera nella tinozza si sollevò in un getto verso la coppa rovesciata. Le ombre di sale che le giravano intorno schizzarono dentro e fuori dal vortice. Anche Ganelon si sentì tirare verso il gorgo. Non per i capelli e nemmeno per i vestiti, ma per l'ombra. Sentiva che gli veniva strappata; il vortice la chiamava a sé. Azrael prese i pezzi di carne e i fiori dal blocco di pietra. Li gettò nella tinozza invocando i poteri dell'oscurità perché gli donassero supremazia assoluta su animali, piante e uomini. A ogni nuovo nome, il getto girava più vorticosamente, fino a quando fu poco più che una macchia scura e confusa davanti all'altare. Ganelon sentì l'anima venirgli strappata. Scivolò sul pavimento della grotta come un foglio di pergamena in una tempesta, fino a quando venne
risucchiata nel vortice. Un senso di vuoto invase il cuore di Ganelon, e una strana spossatezza scese su di lui. Cadde in avanti. Kern e Ogier, anch'essi indeboliti dalla perdita delle loro ombre, lo lasciarono a terra. Dal Bosco della Collera alla città elfica di Mal-Erek, dalle Colline di Ferro alla Frusta dei Mercanti, tutte le ombre di Sithicus avvertirono la chiamata. Cercarono di opporre resistenza, ma nessuna di esse era sufficientemente forte per ignorare l'ordine. Una dopo l'altra volarono verso la fonte. Come frecce color ebano saettarono sopra la terra. Alcune si tuffarono nella tinozza a Veidrava. La maggior parte venne inghiottita dal Grande Abisso, dove seguendo un tortuoso cammino di caverne e tunnel, raggiunse il Lago delle Voci. A nord di Nedragaard Keep, lungo i dirupi dell'abisso, Nabon il gigante sentì la propria ombra ondeggiare come una vela sospinta dal vento, per poi scivolare nell'abisso. Ma non era sola. Venne rapidamente raggiunta da quelle delle centinaia e centinaia di cadaveri sparsi nel cimitero di Nedragaard. I poveri stupidi erano caduti per mano degli scheletri guerrieri e delle banshee prima che Inza aprisse la fortezza all'esercito assediante. La maggior parte delle vittime erano Invidiani voltagabbana e insieme a loro c'erano anche Onkar e la sua schiera di ottusi orchi. Le loro ombre apparvero quasi felici di abbandonarli. Il castello non offrì alcuna protezione dalla potenza del rito. Ulrisch e i suoi elfi, Gerhard e il suo esercito di minatori e contadini cenciosi, guardarono inermi le ombre che fuggivano. Alexi, Piotr e Nikolas cercarono rifugio nella buia stanza del corpo di guardia, ma non furono sufficientemente veloci. Le loro ombre si unirono alle altre, che dal maniero scivolarono nelle tenebre del Grande Abisso. Sull'istmo che collegava la fortezza alle rupi, Lord Soth e i suoi fedelissimi avevano appena cominciato a colpire lo scudo invisibile eretto intorno a Nedragaard. Gli scheletri guerrieri abbassarono le cavità prive di occhi e trasalirono quando le loro ombre li abbandonarono. Uno di essi si buttò addirittura in ginocchio in un vano tentativo di trattenere la scura forma. L'ombra di Lord Soth, la più nera di tutte e la più ardente per il gelo della tomba, oppose una strenua resistenza. Si aggrappò al cavaliere della morte come un bambino spaventato. Ma il signore di Nedragaard non si lasciò distrarre. La vendetta era tutto ciò che riempiva ora la sua mente. Anche quando la sua ombra scivolò via e una spossatezza profonda piombò su di lui, lottò per sollevare l'antica spada e continuare a colpire lo scudo.
In tutta Sithicus soltanto l'ombra di una creatura ignorò la chiamata: quella di Inza Magdova Kulchevich. La sua ombra era infatti avvinghiata all'amuleto che la donna portava al collo, un frammento d'argento incantato, che Inza aveva appositamente creato. Nelle profondità della miniera, Azrael non si accorse dell'assenza di quella briciola di oscurità. Né avvertì la potente magia che resisteva alla sua stregoneria. Era troppo preso dallo spettacolo in scena davanti a suoi occhi. Le ombre rubate saettavano intorno alla Cappella Nera e si tuffavano nel vortice. Ogni nuova goccia nera scuriva ancora di più le acque tumultuose fino a farle diventare nere come la pece. Infine, il vortice si sollevò e si tuffò nella coppa di Azrael. Il licantropo strinse le mani intorno al calice. Un silenzio irreale scese nella cappella. Ancora a terra, Ganelon alzò lo sguardo appena in tempo per vedere Azrael portare la coppa alle labbra e berne il contenuto. Nell'immobilità della Cappella, mentre l'amaro liquido nero scivolava lungo la gola del nano, una voce parlò ad Azrael. «Il terrore sarà ovunque», promise. Azrael riconobbe subito le parole: erano quelle che l'oscurità aveva usato più volte per descrivere Sithicus sotto il suo regno. Anche la voce era familiare. Libero da ogni stregoneria, non fu difficile riconoscere il tono canzonatorio di Inza. Un fremito di paura scivolò lungo la schiena del nano. «Sì, il terrore sarà ovunque», ripeté la voce, «ma tu sarai morto». La consapevolezza di essere stato tradito eruppe nella mente del nano. Inza aveva usato l'oscurità contro di lui. Lei era la confortante voce del Lago. Lei gli aveva parlato di quel rito e lo aveva spinto a ribellarsi a Soth. Ora avrebbe reclamato la ricompensa che avrebbe dovuto essere del nano e avrebbe strappato il controllo del reame dal pugno indebolito del cavaliere della morte. Un dolore lancinante allo stomaco distolse la mente di Azrael da Inza. Lasciò cadere il calice vuoto, che s'incrinò e rotolò via. Tutte le ombre catturate si dimenarono dentro di lui. Un'altra fitta di dolore gli penetrò il fianco, strappandogli amare lacrime nere. L'oscurità gli colò lungo le guance per poi scivolargli nuovamente in bocca, desiderosa di riunirsi alla moltitudine corrotta che si agitava dentro di lui. Ambrose e gli altri barcollarono per aiutare il loro signore. Come tutti loro, Ganelon non aveva sentito la minaccia di Inza, ma aveva capito che qualcosa non andava. Approfittò della confusione per strisciare fino alla
sua bisaccia abbandonata a terra. Mentre rovistava nella sacca in cerca del coltello donatogli dal Ciabattino, sentì una mano posarsi sulla sua gamba. Sollevò lo sguardo e vide Ogier piegato su di lui. «Non obbligarmi a farti del male», lo implorò Ganelon. Le sue dita si strinsero intorno alla sfera che Malocchio gli aveva dato. Le labbra di Ogier si sollevarono in un ringhio più adatto a un lupo che al mite animale al quale era stato spesso paragonato. «Temo sia il contrario», replicò, stringendo la presa intorno alla gamba di Ganelon fino a quando le ossa scricchiolarono. «Tu dovresti pregarmi di non farti del male.» «Helain», sussurrò Ganelon. Lo scudo che Inza aveva eretto intorno a Nedragaard Keep era cento volte più forte di quello che Azrael aveva sollevato a Veidrava. Era strutturato per resistere alla potenza delle banshee, degli scheletri guerrieri e di Soth. Quando le loro ombre fossero state risucchiate via e con esse se ne fosse andata la loro forza, il cavaliere della morte e i suoi scagnozzi sarebbero stati inermi contro lo scudo. Ma Inza non aveva considerato la potenza dell'ira di Soth. Quando si accorse che la spada era inutile, Soth spinse le mani nella barriera magica. L'incantesimo agì contro di lui, scaldando i guanti di ferro fino a fare scintillare il metallo. Mentre il cavaliere della morte allargava la fenditura, una cascata di scintille cadde su di lui e lampi di luce gli guizzarono intorno. «Vendetta!» gridò lanciandosi all'assalto. Una luce azzurrognola illuminò la barriera invisibile, rivelandone la forma di cupola gigantesca. Soth allargò ancora di più la fenditura e uno squarcio si aprì da terra fino alla sommità della cupola. Come alberi sradicati da terra, la barriera si spalancò con uno schianto sordo. Un debole fulgore illuminò il cielo: il fantasma dello scudo magico. Poi, anch'esso svanì. Senza soffermarsi a riflettere, Soth si lanciò avanti. Passò attraverso la breccia nelle mura più esterne della fortezza, percorse a grandi passi il cortile diretto verso il grande portale e quindi la sala principale. Al suo passaggio, elfi e uomini si scansavano, terrorizzati, ma il cavaliere della morte non prestò loro alcuna attenzione. Il suo unico interesse era la donna che l'aveva tradito, l'infida Vistani. Non fu così per i suoi scagnozzi. Gli scheletri guerrieri e le banshee sterminavano chiunque incontrassero sul loro cammino. Il massacro conti-
nuò fino a quando il cortile divenne una distesa di morti e morenti, e gli assedianti che avevano ritenuto fosse impossibile invadere Nedragaard Keep scoprirono che era ancora più difficile scapparne. Il Cavaliere della Rosa Nera trovò Inza nella grande sala. Era rannicchiata davanti al trono come un animale braccato. Gli occhi verdi divennero sottili fessure quando vide il cavaliere della morte e udì il clamore della battaglia nel cortile. Estrasse Novgor, il pugnale magico di Kulcheck il Vagabondo, e lo puntò contro il signore del castello. «Questo ti reciderà le spine con la stessa facilità con la quale le reciderebbe a una rosa, giorgio», sibilò. Soth si fermò. In tono canzonatorio disse: «Ti ringrazio per l'informazione, strega. Se quel coltello è incantato, la Misura mi permette di ricorrere alla mia magia per equilibrare lo scontro». Con un dito, Soth tracciò un simbolo in aria. Il segno restò sospeso; scintillava dello stesso bagliore infuocato degli occhi del cavaliere della morte. Ma prima che potesse saettare verso Inza, una rosa bianca fluttuò dalla balconata e lo cancellò. «Non credo che Vinas Solamnus avesse in mente creature come te quando ha scritto la Misura, Loren», disse la Rosa Bianca. Era in piedi nella balconata dell'orchestra che sovrastava la sala principale, il Ciabattino Sanguinario alla sua sinistra, la Bestia Sussurrante alla destra. «Le tue parole blasfeme non possono macchiare il codice più prezioso di virtù cavalleresca. Nel pronunciarle non fai che disonorare te stesso ancor di più... se ciò è possibile.» Soth non replicò. Restò immobile ad aspettare che la Rosa scendesse la scalinata. Quando lei si avviò, la Bestia saltò la ringhiera della balconata e con un balzo atterrò sul trono dietro Inza. La Vistani si girò di scatto, pronta a colpire con Novgor. L'improvvisa pressione di un coltello alla gola la raggelò. «Bel pugnale», commentò il Ciabattino in tono allegro. Le sue ferite erano guarite, per lo meno, quelle visibili. Il volto era nascosto dietro una maschera, ma Inza udì chiaramente la sua voce quando aggiunse: «Mettilo via prima che ti mozzi la testa». Al centro della sala, accanto a ciò che restava dell'immenso lampadario, Lord Soth s'inchinò in modo formale alla Rosa Bianca. Lei ricambiò la cortesia con una riverenza altrettanto affettata. «Mai avrei pensato di rivederti, Isolde», disse il cavaliere della morte. La Rosa Bianca annuì lievemente; nell'oscurità del cappuccio s'intravide
soltanto l'ombra di un triste sorriso. «Né io te, marito mio.» La sfera nella mano di Ganelon sfolgorò, irradiando raggi di luce che tagliarono la Cappella Nera come fulgide falci. Le incorporee ombre di sale si raggomitolarono sotto la vampata del sole. Il loro perpetuo sibilo divenne un ansito di dolore, un grido d'angoscia uguagliato soltanto dai gemiti di Azrael. Un'espressione sorpresa apparve sul volto di Ogier. Era quasi la stessa espressione di gentile sbigottimento che i suoi amici gli avevano visto per tutta una vita; anzi, era così simile che Ganelon provò una fitta al cuore nel vederla. Quello sguardo confuso fu il primo a liquefarsi sotto la luce. Seguito dai riccioli bianchi e dal corpo ormai senz'ombra. Anche Kern bruciò sotto la luce intensa della sfera. Ganelon lo intravide mentre avanzava carponi da dietro l'altare. Forse stava usando Ogier come scudo per fuggire dalla cappella, ma Ganelon sapeva che quel cinico dal cuore tenero aveva cercato fino all'ultimo di proteggere il compagno. Le ceneri dei due amici si mescolarono sul lurido pavimento della cappella. Soltanto Ambrose resistette alla luce sufficientemente a lungo per parlare. Il volto colmo d'odio della cosa che lo possedeva si ammorbidì. Per un breve istante, riapparve l'uomo buono e gentile a cui Ganelon era stato sinceramente affezionato. «Bravo ragazzo», disse con la sua voce ansante. Poi Ambrose scomparve, incenerito dai raggi del sole. La luce della sfera diminuì, per poi spegnersi. Ganelon lasciò cadere il cristallo annerito fra la cenere. Con mani tremanti frugò ancora una volta nella bisaccia, alla ricerca del coltello d'argento. Forse c'era ancora tempo per uccidere Azrael e salvare Helain e tutte le creature viventi dalla schiavitù eterna. Ma Ganelon aveva già assicurato loro la libertà. I semi di papavero che aveva versato sugli oggetti utilizzati da Azrael per il rito - la carne e le piante che aveva gettato nella tinozza - non erano sufficienti per uccidere il licantropo. Tuttavia, lo erano per avvelenare la bevanda, per spingere il corpo del nano a vomitarla. Le ombre imprigionate sgorgarono da Azrael, sanguinando dal naso e dalla bocca, trapelando dagli occhi e le orecchie. Riempirono la Cappella Nera, ognuna di esse echeggiando il grido di dolore del nano. Ganelon si sentì sollevare da quel mare di oscurità e trasportare lungo il tunnel e su per il pozzo principale della miniera. Stordito, le dita ancora strette intorno alla bisaccia contenente quel poco
che possedeva al mondo, Ganelon si ritrovò sdraiato fra le rovine della Casa della Macchina di Veidrava. Non sapeva quanto tempo fosse trascorso. Un getto d'ombra continuava a schizzare dalla miniera. L'oscurità si stava ammassando in cielo, fondendosi con le ombre zampillate dal Grande Abisso un centinaio di miglia a occidente. L'ultimo brandello di oscurità salì al cielo. Per un istante, le ombre restarono immobili, celando le tre lune che brillavano nel cielo del crepuscolo. Infine, la massa scura vibrò e cominciò a cadere. Agli occhi di Ganelon apparve come una montagna scagliata giù dal cielo. Nedragaard Keep era in fiamme. Grida risuonarono dai piani superiori della torre. Il rumore metallico delle spade era stato sostituito dalle urla e dai tonfi dei corpi divorati dal fuoco che precipitavano dalle merlature. Era una ben magra consolazione, ma appena toccavano terra, i cadaveri si ricongiungevano alle loro ombre. Per l'impatto, la montagna nera era esplosa, scagliando le singole ombre verso i loro possessori. In tutto ciò, Soth e Isolde se ne stavano in silenzio al centro della grande sala di Nedragaard. Si fissavano con occhi che vedevano attraverso secoli, fino a un tempo in cui loro erano stati il punto immoto al centro di un altro cataclisma. Come il piano fallito di Azrael, anche quel disastro avrebbe potuto essere prevenuto da Soth, ma l'ira aveva dominato il suo cuore e la sua mente, così come aveva fatto nei dintorni di Veidrava. «Penso sia ora che tu te ne vada, ragazzina», disse la Bestia Sussurrante a Inza. Scivolò sul trono, accarezzò la gamba della Vistani allungando un piede. «Peccato, però. Avremmo potuto divertirci.» Giocherellò con una delle orecchie mozzate appese alla catena che portava al collo. «Ha altri amici che la stanno aspettando per giocare un po'», intervenne il Ciabattino Sanguinario. Tirò giù Inza dal palco. La zingara atterrò in posizione d'attacco, il pugnale già in mano. «Risparmia le tue energie per quando uscirai», le suggerì il Ciabattino. «Loro ti stanno aspettando.» «Sanno quello che hai fatto», aggiunse la Bestia, «al gigante, ai Vagabondi, persino a tua madre». «Tutti lo sapranno», sottolineò il Ciabattino. «Nessuno lo dimenticherà mai.» Una vibrazione scosse la torre e una pioggia di pietre e polvere inondò la sala. Il Ciabattino allungò la mano come per controllare ciò che cadeva
dall'alto. La Bestia balzò dal trono. Assunse una posizione d'attacco, imitando Inza. «Vattene», ruggì, battendo a terra le mani deformi. Inza si girò e fuggì. Soth si mosse dietro di lei, ma Isolde lo fermò, posandogli una mano sul braccio. «No, Loren», disse in tono sommesso. «Altri poteri controllano il suo destino.» La Vistani emerse nel caos del cortile. I morti e i feriti coprivano il terreno. I tredici scheletri guerrieri di Soth marciavano fra i corpi, colpendo sistematicamente chiunque si muovesse, piangesse o sanguinasse eccessivamente. Sopra di loro, le tredici banshee giravano intorno alla fortezza su carri di ossa trainati da Wyvern. La luce delle fiamme e della nuova luna rossa che splendeva su Nedragaard faceva apparire come imbevuti di sangue gli spiriti solitamente eterei. Inza superò indenne quella carneficina, quasi fosse circondata da uno scudo invisibile. Raggiunse il limitare del cortile. Là, la spaccatura nelle mura esterne si apriva sull'istmo e sulla libertà. Solo che l'istmo era scomparso. La parte del ponte più vicina alla fortezza era crollata nel Grande Abisso. Dall'altra parte del burrone c'era lo sfortunato gigante che Inza aveva azzoppato; ai suoi piedi, la zingara vide i tre Vagabondi sopravvissuti. Nabon indietreggiò, come se intendesse prendere la rincorsa per poi saltare. Inza vide Alexi che cercava di fargli cambiare idea. Piotr e Nikolas, al contrario, lo incitavano. Era chiaro che il gigante ce l'avrebbe fatta. Se necessario, la rabbia e l'odio lo avrebbero spinto anche oltre tutto il Grande Abisso. Inza sapeva che Nabon le avrebbe strappato braccia e gambe per vendicarsi di ciò che lei gli aveva fatto. Nabon prese la rincorsa. I suoi passi fecero tremare le fragili sponde di ciò che rimaneva dell'istmo, facendo rotolare pezzi di roccia nell'oscurità eterna del Grande Abisso. Inza osservò il gigante con sguardo di sfida, il pugnale del leggendario avo stretto in pugno. Ma prima che Nabon saltasse, Inza Magdova Kulchevich si buttò dalla rupe. Il gigante che lei aveva torturato e i fratelli che aveva tradito, la guardarono cadere. Quel sorriso insolente non abbandonò le labbra della zingara, fino a quando la donna non sentì l'oscurità avvolgerla, rallentando la sua discesa. Quando mani disgustose la depositarono nelle buie profondità dell'abisso, Inza gridò. Nella grande sala all'interno di Nedragaard, la Rosa Bianca annuì guardando Soth. «Ecco», disse, «la voce della giustizia». La Bestia abbassò la collana di orecchie, che aveva sollevato in gesto
canzonatorio come se potesse amplificare il grido terrorizzato della Vistani. «Ma dai, che cosa vuoi che sappia lui di giustizia?» brontolò. Puntò un dito sudicio contro Soth. «Scommetto che non saprebbe nemmeno darne la definizione.» «È necessario conoscere per corrompere», affermò il Ciabattino. Girò intorno al cavaliere della morte, lentamente. «Così come è necessario riconoscere il cammino del giusto per poter scegliere di abbandonarlo.» «Rispetto», intervenne Isolde. «Indipendentemente da ciò che lui è, devi mostrare rispetto per tuo padre.» Sebbene il volto di Soth fosse nascosto dall'elmo, la sua voce lasciò trapelare tutto il suo disgusto. «Questi mostri non sono miei, donna.» «Lo siamo», disse il Ciabattino, «e non siamo i soli. Questa terra è stata creata intorno a te, a tua somiglianza, Padre. Perché ti stupisci di essere genitore dei suoi incubi?» «Siamo mostri solo per quelli come te», sibilò la Bestia, «per coloro che prestano giuramenti e poi li infrangono». «Per coloro che riconoscono i doni ricevuti dagli dei ma li dissipano», aggiunse il Ciabattino. «Ti era stato donato valore, onore e forza per difendere gli innocenti. Ma tu hai gettato via tutto.» «L'onore è un'illusione», ribatté Soth. «Non potete essere miei figli se non lo sapete.» Isolde fece un passo avanti, abbassando il cappuccio. La sua pelle era carbonizzata dall'incendio che le era costato la vita, un fuoco simile a quello che ardeva sopra di loro ai piani superiori di Nedragaard. «Questo luogo ti ha fatto dimenticare. È questa la sua natura.» «Io non dimentico niente», replicò Soth, togliendosi l'elmo. Come quella di Isolde, la pelle del cavaliere della morte era bruciata, avvizzita. Ma intorno a quel cuore immutabile e corrotto si librava un fantasma, una riflessione spettrale dell'uomo nobile che un tempo lui era stato. Se Soth si fosse preso la briga di guardare, avrebbe riconosciuto i suoi occhi profondi sul volto affascinante del Ciabattino. Persino la Bestia, al di sotto dello strato di sudiciume e apparente corazza di depravazione, assomigliava al genitore. Il fumo aveva iniziato a riempire la sala, e Isolde vacillò, più in ricordo della sofferenza di un tempo che per un effettivo disagio. La Bestia e il Ciabattino le furono subito accanto, sorreggendola mentre lei affrontava Soth. «La maledizione che ho gettato su di te, Marito, è potente. Così potente da mandarmi qui a controllare che tu non sfugga alla sua morsa. Pri-
ma che possa andarmene, devo accertarmi che tu sia pronto a sentirne la presa ancora una volta...» Isolde congiunse le mani. La Bestia e il Ciabattino si fusero in una nebbia, che fluì nelle braccia stese della Rosa Bianca assumendo la forma dello scheletro di un neonato avvolto nelle fiamme. L'incendio aveva raggiunto il piano nobile. Il soffitto gemette sotto il peso delle pietre e delle travi cadute sopra di esso. Isolde tese le braccia che stringevano il bimbo in lacrime, il povero Peradur, e disse: «Ti prego, mio signore, è carne della tua carne». Soth indossò nuovamente l'elmo. Fissò per un breve istante la cosa mostruosa in braccio a Isolde. Pur riconoscendo come suo il bambino spettrale, il suo spirito si ribellò all'idea di accettarlo. Se lo avesse fatto, avrebbe capovolto il gesto finale che aveva provocato la maledizione di Isolde su di lui e lo aveva trasformato in ciò che era. Se lo avesse fatto, avrebbe ammesso di avere sbagliato. Il soffitto crollò. Tizzoni ardenti e pietre annerite piovvero nella sala. Indifferente alla devastazione, Lord Soth voltò le spalle a Isolde e a Peradur, così come aveva fatto in un altro mondo e molte vite fa a Dargaard Keep. Con quella decisione, la memoria ferita del cavaliere della morte finalmente guarì. Il signore di Nedragaard guardò dentro di sé e scoprì di avere trovato anche l'ultimo frammento mancante del suo passato. La sua storia si spiegò innanzi a lui, un macabro spettacolo che lui aveva scritto e diretto. Mentre rivedeva le sue gesta, gloriose e infami, il Cavaliere della Rosa Nera sentì che quella stessa storia lo avvolgeva in un gelido abbraccio. EPILOGO Fu attraverso il crepuscolo perpetuo di Nightlund che giunsero i nonmorti e i non-morenti, le creature dell'oscurità che fecero di quel regno maledetto la spina nel fianco delle terre tranquille che lo circondavano. L'aria fremette per l'avanzare di quelle mostruosità. I campi inariditi si risvegliarono per i sussurri inquietanti di anime perdute vaganti sulla terra. Le bestie che vivevano del sangue versato misero da parte le loro ostilità. Per una notte soltanto, si riconobbero in un unico obiettivo. Erano venute per prestare omaggio. Erano venute per provare a loro stesse che i racconti erano veri. Quando quelle malvagie creature videro la luce che bruciava fra le rovi-
ne di Dargaard Keep e intravidero la figura in armatura in piedi sulle merlature, tremarono e imprecarono, sebbene i loro cuori corrotti gridassero di gioia. Il Cavaliere della Rosa Nera era tornato. Quella notte, sogni inquieti disturbarono il sonno della gente di Krynn. Dalle profonde gallerie di Thorbardin alle isolate radure della foresta di Silvanesti, le menti addormentate di uomini, elfi e nani vennero sopraffatte da una simile visione. Una rosa nera aveva messo radici nel giardino di Ansalon. I suoi petali si schiusero lentamente fino a quando il fiore inghiottì il mondo intero. Anche gli abitanti di Sithicus sognarono la rosa scura ma nei loro incubi, il fiore che per lungo tempo aveva giganteggiato su quella terra, appassì e volò via. Lord Soth se n'era andato e con lui la peste e la Rosa Bianca, la Bestia Sussurrante e il Ciabattino Sanguinario. Nedragaard Keep era crollata. Le rovine erano sprofondate nel Grande Abisso, dove erano circondate da un mare di ombre fameliche. Un'unica luna illuminava quelle macerie e quanto era stato distrutto dall'impatto della montagna d'ombre. Disegnata sulla superficie del disco, alcuni vedevano una rosa con petali bianchi, neri e rossi. Altri vedevano cose più terribili, che non osavano nemmeno descrivere. L'unica cosa su cui erano tutti d'accordo era la strana luce a tre colori diffusa dalla luna. Ma una così particolare illuminazione ben si accordava con quella terra curiosa e originale che era sempre stata Sithicus. Se Inza Magdova Kulchevich vide mai la luce di quella strana luna, tenne i suoi pensieri per sé. La Vistani non era più stata vista dall'Ora delle Ombre Strillanti, come la gente di Sithicus ormai chiamava quel terribile pomeriggio. Eppure, le anime coraggiose che si avventuravano nei pressi del Grande Abisso spesso affermavano che dalle profondità si udiva la risata canzonatoria di una donna. Chi si sporgeva oltre il baratro aveva anche sentito parole sussurrate in Paterna, il dialetto dei Vistani. Saggiamente, nessuno si era mai soffermato sufficientemente a lungo per afferrare il senso di quei sussurri. Nabon sapeva quanta verità c'era in quei racconti. Sapeva anche ciò che Inza bisbigliava nelle buie profondità. Con Alexi, Piotr e Nikolas, il gigante pattugliava incessantemente l'abisso, in attesa che la traditrice si mostrasse. Quando l'avessero incontrata, il frammento di Gard che avevano recuperato dalla tomba di Magda sarebbe stato il loro dono, un punteruolo per il suo cuore nero e crudele. Altri due viandanti vagavano sotto la strana luce della luna dai tre colori.
Uno portava la speranza ai contadini e ai minatori dei villaggi di Sithicus, l'altro la paura. Pochi erano gli uomini o gli elfi che non riconoscevano il sommesso rumore metallico del sostegno della gamba di Ganelon. Il giovane seguiva la propria strada, una strada solitaria che però non gli impediva di fermarsi per aiutare chi ne aveva bisogno. Grazie all'orecchio mozzato datogli dalla Bestia, riportava la ragione nelle menti sconvolte dalla pazzia e con l'aiuto del coltello d'argento del Ciabattino, estirpava la malattia e la disperazione dalle anime innocenti e la vita stessa dai malvagi e corrotti. Quegli strumenti non potevano però curare il suo cuore malato. Per quanto desiderasse rivedere Helain, sapeva che se si fossero incontrati lei avrebbe perso la vita. Se sentiva vacillare la propria forza d'animo, gli bastava ripensare alla morte di Ambrose, Kern e Ogier nella Cappella Nera per ricordare il potere della maledizione di Inza. Così vagava per la notte, sperando e temendo un incontro che non avrebbe mai dovuto avvenire. E meno ancora erano coloro che non riconoscevano le grida stridule di Azrael quando imperversava nel Bosco della Collera o sulle Colline di Ferro. Incontrare il nano significava incontrare la morte. I fragili fili di restrizione e razionalità che avevano tenuto a bada la sua furia selvaggia si erano spezzati nell'Ora delle Ombre Strillanti. Se non era pazzo, era più vicino a quell'abisso di qualsiasi altra creatura. Non era tanto la sconfitta subita a sconvolgere il nano. Per tutta la vita aveva confidato nell'oscurità, e l'oscurità gli aveva mentito. Non poteva pensare a quel tradimento senza che una domanda più importante e terribile gli passasse per la mente: se tutto quello in cui aveva creduto era una menzogna, cos'altro era una menzogna? La risposta era là, a portata di mano, ma non voleva sentirla. Ma dopo la partenza del suo antico signore, il nano costituiva un problema relativamente grave per Sithicus. Con la scomparsa del cavaliere della morte la natura del regno era mutata, trasformata dalla magia della Rosa Bianca e dalla sostanza della maledizione di Soth. Il luogo che aveva nutrito tanti inganni e mezze verità, storie perdute e ricordi corrotti, rivelò la sua nuova natura in centinaia di modi orribili, di cui la trasformazione di Sithicus era, per coloro che come Azrael si erano a lungo crogiolati nelle illusioni, la più straziante. Come in tutti i domini del terrore, cose sinistre si nascondevano nelle ombre di Sithicus, predando le menti dei deboli, sussurrando parole che aprivano le porte alla pazzia.
Ma a Sithicus, quelle cose nell'oscurità ora dicevano la verità. FINE