MARIANGELA CERRINO I CIELI DIMENTICATI (1992) 1. Il cielo si era oscurato all'improvviso, poco prima del tramonto. Fino ...
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MARIANGELA CERRINO I CIELI DIMENTICATI (1992) 1. Il cielo si era oscurato all'improvviso, poco prima del tramonto. Fino a quel momento la giornata era stata bella e quasi troppo calda per la stagione, con il vento che arruffava le masse contorte dei caprifogli tutt'attorno a quell'ala del Palazzo che, volgendo a oriente, era riservata alle donne. Poi, da occidente, erano venute le nuvole. «Da occidente, come il malaugurio», mormorò Velvur tra sé, restando immobile in prossimità dell'apertura ad arco che portava a uno dei cortili interni, e fingendo di non vedere l'agitazione delle serve per il prossimo evento e per la sua presenza, che le metteva in soggezione e le spaventava quanto e più del temporale imminente. I segni erano gli stessi: li aveva letti il giorno prima, sacrificando l'ultima agnella nata nella casa, e li ritrovava adesso, nelle nuvole che correvano veloci arrampicandosi a coprire ogni frammento di azzurro e ogni traccia di luce. Velvur sentiva salire nell'aria l'odore e la vibrazione del fulmine, come una febbre lieve sotto la pelle, una eccitazione che lo possedeva interamente, strappandolo persino alla realtà dei propri pensieri per trascinarlo a vedere cose e tempi diversi. «Ma non adesso», si disse Velvur, «non adesso.» Una delle ancelle di Ramtha l'aveva raggiunto, ma non osando chiamarlo né farsi sentire stava a qualche passo: sembrava cercare, nella sua ombra, rifugio da ciò che il cielo stava preparando appena oltre le mura sicure del Palazzo. Velvur si girò abbozzando un sorriso. «La mia signora chiede di te, Grande Trutnot», mormorò la serva, facendosi coraggio. «Il bambino non nasce...» «La bambina, mia fedele Hasti. È una bambina», ribatté Velvur muovendosi a seguirla. La giovane donna si illuminò un attimo; appena un'ombra di speranza sul viso tirato da quasi una notte e un giorno di veglia, ma non osò parlare. Le schiave stavano accendendo le lampade, e Velvur si fermò sulla soglia della stanza della Regina. L'aria, lì, era molto più densa, soffocante, e
colma di dolore e di paura. Le ancelle stavano attorno al letto con le vecchie donne della casa, ma nessuna di loro poteva più di quanto era già stato fatto. Nei bacili l'acqua era calda e i panni di lino erano ancora intatti. Dalla finestra appena schermata dall'ampia tela chiara, filtravano la luce crepuscolare e la collera del vento, ma il temporale era come trattenuto, sospeso quasi sul filo teso di una ragnatela che scintillava subito oltre la finestra, immobile nel turbine. Velvur sorrise appena, vedendola con gli occhi della mente. Il temporale e il futuro stavano sospesi su quel filo e nelle sue mani: ma l'evento era scritto. E niente poteva mutare ciò che era stato scritto. Ramtha giaceva nel letto, sfatta dalle troppe ore di dolore, e dalla paura che nemmeno Velvur aveva potuto allontanare da lei. Aveva già avuto tre figli, e tutti e tre erano morti nel venire alla luce. Ramtha era molto giovane, ma Re Tarchon aveva passato il culmine della sua età adulta, e non aveva Eredi. Velvur allungò una mano e le sfiorò la fronte con la punta delle dita. Ramtha aprì gli occhi. Erano d'oro scuro, perduti adesso sull'orlo di un oblio che poteva sembrarle il minore dei mali, dopo tanto dolore. Tentò di parlargli, sollevandosi appena. Era bella, e di nobile famiglia, ed era andata sposa a Tarchon appena quattro anni prima, ma adesso persino il suo corpo giovane sembrava arrendersi e ritirarsi dal mondo. «Non parlare, mia Regina», mormorò Velvur, posandole sulle labbra l'ampolla di liquido scuro e amaro che aveva portato con sé, e che la giovane donna assaporò con la punta della lingua. «La tua bambina nascerà adesso», continuò. «Il suo nome sarà Caitli, e i suoi occhi vedranno oltre il Tempo e di là dai confini. Sarà sacra ad Athrpa, la Dea del Fato, e per lei nascerà una potente nazione, la più potente di tutto il tempo già segnato. E sarà quella nazione a disperderci, quando i nostri secoli saranno compiuti, come il vento disperde la polvere sul finire dell'estate.» Ramtha si morse le labbra. Per un istante Velvur tenne i suoi occhi, quietandola, poi la donna si inarcò gridando, e il Sacerdote si ritrasse. Lo strillo della bimba riempì l'aria immobile. Il vento era caduto. Velvur spezzò con la mente il filo della ragnatela, e lasciò che il fulmine colpisse l'albero sacro ad Athrpa, posto sul limitare del bosco consacrato alla Dea alle spalle di quell'ala del Palazzo. Non riusciva a vedere null'altro per quella piccola vita preziosa che per
un istante era stata nelle sue mani. «Caitli mi supererà, quando sarà cresciuta», pensò. «Ma così è scritto, e così dovrà essere.» Il frontale policromo sulla nuova ala del Palazzo, volta a meridione in osservanza alle regole della Disciplina che imponevano l'allineamento con le forze propizie, era così bello che persino i mercanti di Pyrgi venivano soltanto per vederlo, e tutto il Palazzo di Tarchon, grazie a quell'opera appena terminata, si era fatto degno del Re di Tarchna e della sua aspirazione a essere prima o poi eletto Re Supremo della Lega delle Dodici Città. Quel giorno, Tarchon l'aveva voluto di festa: per onorare sia la Dea Athrpa sia Caitli, che compiva ormai cinque anni. Ma, in cuor suo, il Re voleva soprattutto rendere grazie di quel tempo che era stato il migliore della sua esistenza, che già era stata buona e felice. Ed era stato davvero un tempo ricco e sereno in modo speciale; la sua corte di servi, i suoi raccolti e le sue miniere nei monti prosperavano. Non c'erano state annate cattive e, durante le annate, nemmeno stagioni o tempi meno che buoni; né troppa pioggia o troppo vento secco, né razzie o atti di guerra tanto vicini da sollevare le armi; né febbri improvvise a portarsi via gli ultimi nati e i vecchi saggi. Da quando era nata la bambina, la vita del Palazzo si era fatta serena come i suoi occhi d'oro chiaro, in cui brillavano, quando mutava il tempo, macchie di verde intenso. A tutti, tranne che a quelli della casa, che sapevano, o ai pochi ai quali le parole di Velvur erano state riportate, Caitli appariva come le altre bambine della sua età: abbastanza obbediente, sufficientemente chiassosa, irrimediabilmente testarda. Ma Velvur diceva che era grazie a lei che l'altra bambina aveva potuto nascere bene: Thanaquil aveva appena un mese e già Ramtha era rifiorita come una sposa al suo primo figlio, e non aveva più timore a dividere il suo letto con il Re. Tarchon, dal canto suo, non faceva mistero del suo amore per la Regina, né di accogliere per lei artisti e mercanti con quanto di meglio avevano da offrire. Era ricco, ed era felice. E in qualche modo l'una cosa e l'altra andavano compensate, perché era abbastanza vecchio per sapere che niente dura tanto a lungo da non essere rimpianto. «Paura?» gli sussurrò Velvur giungendogli alle spalle. Tarchon detestava e invidiava al tempo stesso la capacità del Grande Trutnot di muoversi con tanta leggerezza. «Come se fosse invisibile», si
diceva di lui. Tarchon gli sorrise appena e gli fece cenno di accompagnarlo a vedere la nuova ala del Palazzo, e il maestoso frontale. «Sarei uno stolto se non avessi paura, Grande Trutnot», sussurrò il Re mentre si avviavano. «È giusto», convenne Velvur. «È la mancanza della paura che taglia il filo della vita in un uomo.» Per un momento, Tarchon cercò di comprendere quanto potevano celare le parole del Trutnot; ma non c'era posto per la paura in un mattino come quello, così pieno di sole e di animazione allegra. I servi stavano preparando il banchetto che avrebbe visto riunita la nobiltà di Tarchna, e così il cortile interno era tutto un andirivieni di uomini e donne indaffarati. Demestone, il mercante, stava curando personalmente l'esposizione delle proprie merci in una delle stanze ancora vuote della nuova ala, e con la sua corte di schiavi ciarlieri faceva da solo più confusione di tutti gli altri; dalla strada maestra stava giungendo Laris, amico fidato del Re, con il corteo della sua Casa; infine c'erano i bambini, per i quali tutto era gioco e divertimento, che si inseguivano strillando e alzando le proteste di Demestone ogni qualvolta si intrufolavano a ostacolare il lavoro dei suoi servi. Era Caitli a guidare il corteo di coraggiosi pronti a sfidare le ire del mercante per un altro sguardo alla mercanzia. La sua testa arruffata di riccioli color rame, in cui il sole accendeva bagliori di fiamma viva, sopravanzava di un palmo quella dei piccoli della sua età, e anche più grandi, che la accompagnavano. «Che cosa ho fatto per meritare la Dea del Fato nella mia casa, Velvur?» mormorò Tarchon. «Tu puoi dirmelo?» «Io sono soltanto un misero Aruspice, che legge ciò che gli Dei gli permettono di leggere. E adesso vedo soltanto un mercante inferocito; non gli porterebbe bene alzare la mano su di lei.» Tarchon trattenne una risata alla risposta di Velvur, deviando per raggiungere Demestone. Agli strilli del greco, gli altri bambini si erano dispersi, ma Caitli era rimasta e il mercante era indeciso se ignorarla o tentare di scacciarla con la frusta. Si inchinò immediatamente riconoscendo il Re e, appena più indietro, la tunica colorata del Sacerdote del quale in effetti avrebbe fatto volentieri a meno, perché Velvur riusciva a mercanteggiare così bene i suoi prezzi da farli scendere della metà, rovinandogli la piazza.
«Il giorno ti è propizio, Re Tarchon», mormorò invece, celando i pensieri ostili e irriverenti e chinando la fronte. «Ti ho portato le merci più belle: sete e profumi da Babilonia, opali dall'Egitto e garza di lino lieve come la luce della luna, per la tua Regina. E tutto mi è costato due navi colate a picco e un intero equipaggio di schiavi. Più di trenta uomini forti e giovani e ben addestrati!» «Perché dici quello che non è vero?» esclamò Caitli, dimenticandosi delle merci tra cui aveva ripreso a gironzolare per girarsi a guardarlo. L'uomo esitò a quell'accusa così precisa e soprattutto inaspettata. La bambina era troppo piccola per sapere quello che stava dicendo, ma nemmeno quella constatazione riusciva a respingere il disagio. «Questa bambina mi rovinerà la giornata», mormorò infine. «Prima mi porta tutti i mocciosi del Palazzo e adesso mi accusa di avere la lingua falsa!» «Le tue navi non coleranno a picco che tra due stagioni», ribatté Caitli, interessandosi agli opali che un servo aveva disposto su un tappeto. Demestone impallidì. «Ho forse offeso la tua Casa, Re Tarchon?» mormorò. «Se è così, lasciami rimediare e richiama le parole di questa bambina!» «Gli Dei parlano talvolta dalla sua bocca: è Caitli, figlia del Re. E se tu non avessi mentito, lei non avrebbe avuto bisogno di dirti quello che il fato ha in serbo per te. Sii prudente in futuro, quindi, e sii grato per questo avviso, che ti è stato porto come un dono», intervenne Velvur, osservando ciò che aveva richiamato l'interesse di Caitli: un opale scuro quasi quanto l'ossidiana, e appena venato da una sfumatura color latte. Ne avevano fatto un ciondolo, appeso a una sottile catena d'oro. «È questo che ti piace?» la interrogò il Re. «È suo!» si intromise Demestone. «Per il dono dell'avviso e per la benevolenza di qualunque Dea parli per lei!» «È uno strano gioiello per una bambina», osservò Velvur quando Caitli lo tenne alto per mostrarglielo, quasi fosse stato una conquista. Nella luce, l'opale sembrava trasparente. «È per Larth, che sta venendo», fu tutto quello che la bimba rispose, prima di sgusciare via. Tarchon non voleva che la faccia cupa del mercante gli guastasse la giornata. «Verrò più tardi a scegliere tra le tue mercanzie», disse quindi rivolgendosi al greco. «E stasera avrai qui tutti i Principi di Tarchna e un posto alla mia tavola. Perciò rallegrati per questo presente.»
Demestone si inchinò, ripromettendosi di sacrificare non appena fosse tornato a Pyrgi, e sentendo su di sé gli sguardi degli schiavi che avevano assistito alla scena. Avrebbe dovuto venderli al più presto, e far purificare le navi. E tutto per la lingua troppo pronta di una bambina. Tarchon andò personalmente a ricevere Laris e il suo seguito. Laris era stato il suo compagno, nell'infanzia e nella giovinezza, e adesso Tarchon lo sentiva come il fratello che gli era stato tolto troppo presto in una battaglia lungo il fiume del confine; era fidato, leale, e mai una volta aveva sentito dalle sue labbra una parola che non fosse nel giusto o non fosse dettata dalla pietà. Sotto questo punto di vista, Tarchon aveva riconosciuto da tempo che Laris era migliore di lui, e più colto, anche se conseguentemente meno ricco. Aveva, come lui, perduto da tempo figli che ora sarebbero stati adulti, ma ne aveva ancora tre, il maggiore dei quali, Larth, di appena un anno più vecchio di Caitli, se ne stava adesso con la testa per aria, perduto a guardare il frontale, e assolutamente dimentico della sua gente che era già entrata nel Palazzo, lasciandolo indietro. Larth stava tentando di scoprire l'utilità di quella selva di figure che si protendevano alla conquista di un animale alato che, così in alto e così assolutamente nuovo, gli sembrava mostruoso, e non abbassò lo sguardo nemmeno quando il padre, il Re e Velvur uscirono a loro volta fermandosi a guardare. «Ebbene, mio giovane Principe, ti piace tanto questo lavoro sulla pietra?» lo richiamò Tarchon. Larth lo guardò, poi alzò gli occhi verso il frontale e infine si rivolse al Re. «Non lo so. Che cos'è quell'animale?» chiese. Velvur sorrise. Gli occhi di Larth erano di un blu così cupo da apparire neri e i capelli neri e lisci erano tenuti cortissimi. Il ragazzino non aveva addosso altro che il perizoma e un corto giacchetto, nonché qualche livido di troppo a denunciare l'eccessiva vivacità. «È una chimera, Larth», spiegò il Sacerdote. «Qualcosa che gli uomini possono raggiungere, se così è scritto.» «E se lo vogliono senza che sia scritto?» ribatté vivacemente Larth. «Questo nostro giovane Principe lascerà la sua impronta, Laris», commentò Tarchon invitando l'amico a rientrare. Velvur si piegò in ginocchio, per vedere il frontale dallo stesso punto di vista del bambino: era più lontano, ma sembrava più grande. «Tutto ciò che accade è già stato scritto, Larth. È così che il Tempo con-
suma il Tempo, e che tutto si ripete pur sembrando sempre nuovo.» Larth tenne per sé la propria opinione; Velvur sentì la sua piccola mente ostinata scegliere il dubbio. «Caitli ti sta aspettando, e ha un regalo per te. È prezioso, ed è molto importante; dovrai conservarlo con cura per tutta la vita.» Ma Larth era già corso via, verso il cortile interno, e non lo aveva nemmeno sentito. Mentre il meriggio portava la calura precoce a stendersi sul Palazzo e, nel frinire delle cicale, la luce da azzurra si faceva bianca, l'allestimento del banchetto era ormai agli ultimi particolari: i fuochi odorosi erano pronti e le serve si muovevano adesso silenziose a ornare di ginestre la sala delle feste. La Regina, che aveva diretto personalmente i preparativi per tutta la mattina, si era ritirata nelle sue stanze, aspettando di accompagnare Tarchon dal mercante e poi di aprire il banchetto, dopo aver diviso con il Re il benvenuto agli ospiti. Ci sarebbero stati altri Greci oltre a Demestone, soprattutto Maestri e scultori, ma tutti avevano ormai imparato a non esprimere in pubblico il loro disappunto per la presenza delle consorti e delle donne della casa ai banchetti e alle feste. E Tarchon fingeva volentieri di non sapere quale fosse il giudizio degli stranieri sulle donne rasna; secondo il suo personale punto di vista si trattava soltanto di invidia. Nell'ampio cortile interno, due servi rinfrescavano il lastricato; le pietre che erano state portate dall'Isola Fumosa e che componevano la scritta «Tarchon» brillavano nel sole. «Un giorno avrò un Palazzo più grande e più bello di questo», esclamò Larth. Stava rincantucciato con Caitli in un angolo d'ombra. Il ciondolo appena ricevuto si era rivelato troppo lungo per lui e gli batteva sulla cintura, infastidendolo. «Sarai Re anche qui», ribatté la bambina, senza muoversi, ritirando soltanto i piedi nudi dalla striscia di sole che stava invadendo il riparo. «Certo: tu sei la mia Regina!» Larth tentò di dare alla propria voce tutta la solennità di cui era capace. Era poca cosa e avrebbe fatto sorridere chi l'avesse ascoltato, ma ai suoi orecchi suonò forte e decisa come quella di un uomo, e altrettanto importante. Caitli si girò di scatto e lo baciò sulla guancia. «Sì. Sarò la tua Regina», gli rispose con semplicità.
Larth si tirò indietro, imbarazzato, scoprendo che Hasti stava venendo a cercarli e che li aveva visti. La donna portava su un braccio le corte tuniche bianche con il bordo ricamato in oro, ancora uguali per entrambi, che avrebbero indossato più tardi. «Perché restate fuori come cuccioli randagi a soffrire il caldo invece di riposare nelle stanze? Venite», li esortò, «devo farvi il bagno e prepararvi. Il Re vi vuole accanto a lui per il benvenuto agli ospiti.» «Io voglio starci anche dopo!» esclamò Larth. «Il dopo non è per i bambini. Saresti addormentato prima che i musici comincino a suonare!» ribatté la donna. «Mettimi alla prova!» la sfidò Larth. Hasti scosse il capo, indulgente. «Io sono soltanto una serva e la mia vita appartiene a questa Casa; ma per quanto ne so e per quanto ho visto, nessuno può fare ciò che vuole.» «Io sarò Re», obiettò Larth. «I Re meno degli altri; anche questo lo so e l'ho visto», concluse Hasti. «Possiamo andare dalla bambina, prima?» la interruppe Caitli. «Larth non l'ha ancora vista!» «Tua madre, la Regina, sta riposando, ma se promettete di essere buoni e zitti, vi lascerò entrare per un momento.» Entrambi i bambini assentirono, e Hasti li spinse davanti a sé, sorridendo della loro compunta serietà per tenere fede alla promessa di rimanere in silenzio. Zittì con un cenno le due ancelle che vegliavano il riposo della Regina dalla soglia della stanza; era in penombra, deliziosamente fresca dopo la calura del cortile assolato, e nel letto Ramtha riposava con appena una leggera garza di lino a velarle il corpo. Nella culla sospesa accanto al letto, la nuova nata stava con gli occhi aperti a succhiarsi un pollice. Entrambi i bambini le si chinarono sopra, da una parte e dall'altra. «È brutta», mormorò Larth ridendo e poggiandole un dito sul pancino nudo. «Sciocco», ribatté Caitli. «È piccola. Anche noi eravamo così.» «Non ci credo», replicò Larth, ostinato. «Zitti!» li riprese Hasti. «E adesso fuori, con me.» Caitli si chinò a sfiorare con le labbra la fronte della sorella, poi prese per mano Larth e lo tirò via a seguire Hasti. Nella sua casa, Larth non poteva più entrare nelle stanze delle donne, e così il ricordo di quella stanza, della luce, del profumo e del silenzio di-
screto e palpitante che la colmavano e la meraviglia di quel corpo appena velato che non gli sarebbe stato permesso vedere lo avrebbero seguito come una memoria incantata. 2. La Foresta Sacra del Dio Tinia era ancora silenziosa. Altrove la primavera avanzata aveva già colmato gli anfratti di rovi in fiore e aveva portato foglie nuove a coprire i rami nudi, ma la foresta era ancora spoglia, così cupa che solo a tratti, e molto di rado, riuscivano a scorgere, in alto, la luce del giorno. Nel folto non c'era nemmeno il vento e tuttavia l'aria vibrava per qualcosa di più nascosto, dandole una consistenza diversa e una diversa sonorità. «Questa è la sacralità di un luogo», pensò Larth, seguendo il corteo delle Case di Tardona al quale si affiancavano gli Aruspici e i nobili. «Qualcosa che ti possiede, come una malattia.» I cavalli erano nervosi e la pista era appena un varco che poteva sfuggire a occhi non attenti. A un certo punto il corteo deviò bruscamente, immergendosi in una galleria. Prima che Larth potesse accorgersene, erano all'interno e i servi li precedevano portando lampade di bitume accese. «Questo passaggio ci porterà al Luogo Sacro senza dover salire al Monte di Tinia», gli mormorò all'orecchio uno degli Aruspici. «Eppure anche tu un giorno dovrai salire al monte, Principe, per avvicinarti a Tinia e sentire il respiro della sua voce e della sua potenza.» Larth assentì, più attento tuttavia a ricordare ogni particolare dello stretto sentiero scavato nella roccia, con le pareti avvolte da viluppi di radici e trasudanti acqua, che a considerare l'effettiva utilità di salire fino alla cima del Monte di Tinia, il Signore dei Cieli e degli Dei e Dispensatore di fulmini. Per la prima volta era ammesso a Fanu Veltune, il Luogo Sacro. Non era più un bambino. La galleria si apriva come una bocca sbadigliarne su una stretta spiaggia di ciotoli neri e, oltre la spiaggia, il lago si allargava come uno specchio d'ambra increspato dal vento e serrato dalle cime boscose; nel mezzo si ergeva il Monte della Dea Turan, la Dea dell'Amore, e quell'isola nell'ombra sembrava all'improvviso un cuore palpitante, vivo com'era di fuochi ondeggianti e di riflessi di musiche, canti e fumi odorosi che saturavano l'aria circostante. «Il centro del mondo», pensò Larth. Si sentiva afferrato da qualcosa che sembrava inchiodarlo dove si trovava; tuttavia dominò quella sensazione e
smontò da cavallo. I servi stavano preparando le barche; altri servi di casate non di Tarchna erano a custodia della riva e del pontile di legno; c'erano capanne con i tetti spioventi di paglia e recinti per i cavalli, fuochi già accesi e dovunque una gran confusione che tuttavia non riusciva a scalfire la quiete del lago e la maestà dell'isola d'ombra. Alcuni corvi volavano bassi, verso occidente, e Larth vide gli Aruspici fissarli e poi parlare tra loro sommessamente. Era un buon segno: le sventure si allontanavano per tornare al loro luogo d'origine. Questo, almeno, Larth lo sapeva. Prese posto nella prima barca, con suo padre e i Sacerdoti; i servi stavano ai remi. Il tramonto aveva dato all'aria una luce leggera, appena stemperata dal vento, e il crepuscolo sembrava trattenerla, lasciando filare via il tempo sul ritmo dei remi. All'improvviso, scendendo da occidente, un falco si profilò nel cielo. Per un momento, nell'attimo in cui virò piegando le ali, sembrò bianco, e Larth ebbe la sensazione di essere l'unico a vederlo. Poi l'uccello scomparve, calando in qualche punto sulla sommità del Monte della Dea. Larth spiò le facce dei Sacerdoti, poi quella di suo padre; ma i primi stavano zitti e assorti, come se il Luogo Sacro cui stavano per approdare li distogliesse da qualunque altro pensiero, e suo padre stava guardando verso il Monte del Dio Tinia, ancora fiammeggiante in lontananza, e forse non aveva visto. «O forse l'unico a vederlo sono stato io... ed è soltanto un sogno. Una suggestione. Potrò parlarne a Velvur?» si chiese Larth; un senso di gelo gli aveva stretto il cuore, per la frazione di un attimo. Quelle bianche ali gli si erano posate addosso come un macigno. La barca sfilò rapida, accostando al pontile dell'isola; tutta la corta spiaggia era punteggiata di fuochi e l'oscurità, ormai densa su quel versante, lasciava solo intravedere la gran quantità di tende e di ripari, alzati con ordine fin dentro i boschi sulle pendici del monte. Una strada larga e segnata da fuochi che ardevano in grandi bracieri portava a un vasto sperone roccioso, privo d'alberi e coronato da un anfiteatro naturale di rocce: lì si svolgevano i giochi, e una tribuna di legno, cui il tempo aveva dato il colore e la consistenza della pietra, era stata alzata a ospitare i Re e i Sacerdoti, lasciando l'anfiteatro naturale ai nobili di tutte le città. Non c'era alcuna distinzione tra le genti della Lega, a Veltune. «Non sempre l'apparenza è verità, mio giovane Principe», gli mormorò
all'orecchio Velvur, posandogli una mano sulla spalla a trattenerlo. Larth non l'aveva sentito: in effetti non avrebbe potuto neanche dire da dove fosse comparso, perché c'era molta gente sulla strada che andava nella loro stessa direzione, ma non c'era stato nessuno tanto vicino a lui fino a un attimo prima. Larth accennò con il capo al padre e ai Sacerdoti che andavano a rendere omaggio a Tarchon, i cui padiglioni erano più in alto, oltre l'anfiteatro. Larth guardò il Grande Trutnot. «Non posso attardarmi», obiettò. «Non temere. Tuo padre sa che non ti avrà accanto in questi giorni, e Tarchon ti dispensa dal rendergli omaggio. Vieni. Questa notte si eleggerà il Re Supremo, ma noi non avremo tempo per queste cose di uomini.» «Cose di uomini? L'elezione del Re Supremo?» Il solito, enigmatico sorriso - qualcosa a mezzo tra la sufficienza e il divertimento - apparve sulle labbra sottili di Velvur... o almeno così sembrò a Larth che si trovò sospinto verso uno degli innumerevoli sentieri che si diramavano da quello principale. «Cose di uomini, sì. Un Re che dura un anno è un legame troppo sottile per tessere la rete degli Dei. Ricordalo, Larth: è il limite imposto alla superbia degli uomini», riprese a dire Velvur. «Dove stiamo andando?» «Al Tempio. Domani, quando il Re sarà eletto, ci sarà la cerimonia del Chiodo del Destino, e tu e Caitli siete i prescelti.» Larth si morse le labbra. Avrebbe voluto vedere i cavalli, i giovani nobili scelti per il gioco della truia e quanta complessità avevano saputo dare al labirinto che era il percorso obbligato della gara, e magari anche il Re di Xaire che stava per perdere il proprio potere; di questa cerimonia, la più sacra, non gli importava molto. Il sentiero era ripido e immerso nel buio, ma Velvur lo percorreva come se fosse giorno pieno. A un certo punto si trovarono su un costone, e Larth capì che stavano girando verso occidente: guardando in basso non c'erano che l'oscurità dell'acqua e la luminosità di turchese della sera dietro i monti. Le luci e la confusione dell'adunanza erano sparite. Di nuovo si sentiva nell'aria l'impalpabile sensazione della sacralità del luogo, ma lì era diversa da quella della Foresta: era qualcosa che veniva dalla terra, ed era un legame che appagava l'anima, donandole una pace sovrannaturale. Il Tempio stava incastonato nella parete del monte, perennemente invisibile tranne che in rari momenti e con particolari condizioni di luce; ades-
so tuttavia lo spiazzo antistante era colmo di bracieri accesi e l'odore dell'incenso che bruciava era tanto forte da stordire; per contro, lo spiazzo era vuoto, e anche il Tempio sembrava deserto. «Non stupirti», gli spiegò Velvur. «Tutti gli Aruspici sono Principi, e devono intervenire all'elezione del Re.» «Non tu?» «Il Re non ha bisogno del mio voto.» «Sarà Tarchon?» Velvur si fermò. Erano ormai sui gradini del Tempio, e si era fatta notte. «Sei tanto impaziente da voler conoscere un futuro così breve?» Larth scosse il capo. Girò la testa, voltandosi a fissare il lago buio e il profilo dei monti che si era fatto una traccia oscura. «Quando sono arrivato ho visto un falco bianco venire da occidente e posarsi qui», mormorò Larth. «Lo so.» Il tono della voce di Velvur era dolce, poco più di un sussurro, o di un brusio di vento. Non gli disse altro, spingendolo a entrare. Il Tempio era grande, anche se non quanto quello di Tagete appena fuori le mura di Tarchna, e tutta la parete di fondo era una liscia roccia nera, coperta di chiodi. Nella penombra dorata dei bracieri, Larth restò con il naso per aria a guardarli sfuggire verso l'alta volta: anche questo luogo era pervaso dalla sacralità, ma ancora diversa, e Larth non era sicuro di riuscire a comprenderla. Appoggiò il palmo della mano aperta e la roccia gli sembrò calda, viva. Com'era possibile che un popolo riuscisse a contare con tanta esattezza il proprio tempo? Quale patto era stato stipulato con gli Dei, e che cosa li avrebbe salvati dalla superbia della perfezione? «C'è ancora molto posto», mormorò invece, tentando di nascondere a Velvur quei pensieri irrispettosi. «Quanto ne è stato destinato alla nostra stirpe: dieci dei nostri secoli, Larth. Quando sulla parete non ci sarà più posto per un solo altro chiodo, il nostro nome sarà dimenticato.» Larth restò in silenzio un attimo e poi sbottò: «Perché?» «Perché, mi chiedi?» mormorò Velvur. «Perché è questo l'ordine delle cose, dal quale noi non possiamo scinderci; noi abbiamo il Potere su ciò che non si vede e non si sente, e possiamo toccare gli eventi non nati, perché abbiamo toccato quelli dimenticati. Così viviamo con il respiro della Terra e l'armonia del Cielo. Pensaci, Larth: se tu uccidi un albero, anche tu muori con l'albero, e se dimentichi il Cielo, anche tu sei dimenticato.» Larth annuì; adesso temeva che Velvur potesse sentire i suoi pensieri di
rivolta a quella predestinazione che un Principe, più di ogni altro, doveva vivere come esperienza mistica, perché un Principe era anche Sacerdote, per la sua gente. «Dov'è Caitli?» esclamò quindi, tentando di distrarlo, ma non illudendosi di riuscirci davvero. Velvur tuttavia si girò appena verso la parte del Tempio fusa con la montagna: una scala portava all'interno, e la giovinetta stava seduta sull'ultimo gradino. «Posso andare a salutarla?» «Certo.» Larth si affrettò verso Caitli, preso da una specie di turbamento che non capiva. Per tutta la loro infanzia erano stati compagni inseparabili, e mai prima di quel momento Larth l'aveva vista con occhi diversi: che cos'era adesso quel fremito, quell'onda calda e sconosciuta che lo aveva assalito al vederla? In fondo, Caitli non sembrava cambiata: portava lo stesso chiton e i capelli sciolti. Ma anche lei non era più una bambina, e solo l'ingenuità di Larth non gli aveva permesso di accorgersene. Il ragazzo le sedette accanto e le prese una mano: aveva bisogno di sentirne il calore, perché all'improvviso quel luogo gli stava addosso come un nemico, qualcosa cui non avrebbe mai accettato di sottomettersi. «Questo luogo era sacro alla Madre Dia, prima che a noi, e sarà sacro ad altri Dei dopo i nostri», mormorò Caitli, rispondendo ai suoi pensieri non espressi. Lo faceva spesso, e fino a quel momento era sempre stato un gioco. «Io sarò Re in questo luogo, un giorno. E tu quel giorno sarai Regina.» Caitli abbozzò un sorriso, alzandosi. «Velvur ci aspetta», lo esortò, ma le dita del ragazzo si erano intrecciate alle sue, e la stretta non era più quella del compagno. All'improvviso, Caitli vide quello che aveva visto lui: scorse il grande falco dalle ali bianche venire da occidente, e posarsi sulla sommità del monte sacro alla Dea Turan. La Dea dell'Amore. «Tu che mi sei destinato non sarai il mio uomo.» La voce era chiara e vibrante come cristallo nella sua mente. «Lui verrà da occidente, come tutto ciò che è di malaugurio. Le sue parole saranno diverse; avrà capelli come il lino appena maturo, e occhi di cielo chiaro come i giorni d'inverno. «E lui sarà l'ombra sulla tua vita.» Caitli soffocò quella voce in sé e Larth non se ne avvide, ma Velvur di-
stolse lo sguardo dagli occhi d'oro chiaro della fanciulla e tenne per sé quel poco che sapeva. L'indomani Tarchon fu eletto Re Supremo. Le dodici scuri dalla doppia lama, una per ogni città della Lega, gli furono deposte ai piedi; ma attraverso il fumo dei bracieri sembrò a Larth che il Re fosse stanco, e quel fatto lo stupì. Poteva un Re essere stanco nel giorno del suo trionfo? Per un poco Larth restò disteso nell'erba alta, con la schiena scaldata dal sole, a guardare il Tibrin che scorreva sotto di loro. Nel mezzo, proprio in quel punto, una lingua di terra fittamente boscosa ne facilitava la traversata. Oltre il fiume c'erano poggi e colline, con villaggi sulle sommità e il brillare delle paludi e fitti boschi tra una cima e l'altra. Qualche traccia di fumo si alzava qui e là e piccole greggi pascolavano immediatamente a ridosso della riva, ma l'aria aveva un odore greve e malsano. Larth si era aspettato una città, delle mura; e un nemico. Un vero nemico, mentre c'era un'aria di desolazione in quello che aveva sotto gli occhi. Niente mura, niente case ornate d'oro o templi, e nemmeno gioielli, armi, statue, libri, musica, danze. Niente di tutto ciò che faceva parte della sua vita. «Barbari», pensò. «Questi Latini che attaccano le nostre campagne e rubano i nostri carichi dalle Colline dei Metalli non sono altro che barbari che stanno appena guardandosi attorno.» Posò la faccia nell'erba e rise sommessamente. Uno dei suoi due compagni, Tese, più giovane di lui, lo scosse preoccupato. «Che ti prende?» gli mormorò in un orecchio. «Niente. Voglio vedere da vicino il nostro nemico; voglio vedere perché ha potuto uccidere quattro Principi della nostra città quando sarebbe stato tanto semplice averli come amici.» Tese ammutolì; Larth si girò verso l'altro compagno: era Kae Aivas, e due dei morti appartenevano alla sua Casa; nominandoli l'aveva invitato esplicitamente a entrare nel suo piano. Tuttavia il ragazzo scosse il capo. «Non è né saggio né prudente quello che vuoi fare, Larth. Il Re ti punirà. Siamo stati mandati ai Villaggi dei Fusori nelle colline per restarvi tutta l'estate, e apprendere i segreti dei metalli, e non per venire a caccia né tantomeno per spingerci a spiare i Latini!» La voce di Kae era poco più che un sussurro.
«Forse, ma gli porterò notizie utili, così ne sarà valsa la pena. Torna al Villaggio dei Fusori, che non stiano in pena per noi. Tese mi aspetterà in quella radura dove ci siamo fermati ieri, con i cavalli, e lui e io torneremo insieme tra sei giorni da questo.» Tese accettò senza battere ciglio la sua decisione, mentre il giovane Aivas si rabbuiò: era convinto di essere il migliore tra i nobili di Tarchna, e quando Larth gli aveva chiesto di accompagnarlo se ne era vantato, pur non riuscendo a capire come l'altro ragazzo scelto potesse essere Tese, di rango decisamente inferiore e troppo giovane e minuto per servire a qualcosa che non fosse semplicemente badare ai cavalli. Tuttavia era davvero difficile non obbedire a Larth e, in quel momento, Kae Aivas nemmeno desiderava farlo: non aveva alcuna curiosità di saperne di più sui Latini. Fece bruscamente cenno a Tese di muoversi. «Ti serve qualcosa?» chiese. Larth osservò il suo equipaggiamento: portava soltanto il perizoma e una corta tunica nera, non ornata; così il pugnale sarebbe stato nascosto al di sotto, e anche il suo opale. La sua tebenna era rimasta sul cavallo, con la bisaccia. «No», rispose quindi. I due ragazzi si allontanarono, attenti a non fare ondeggiare le alte erbe nella direzione sbagliata, e Larth restò solo. Tentò di ascoltare la terra sotto di sé e di farsela amica: la sentiva vibrare, ed era come se stesse diventando parte di lui, entrandogli nel sangue. Quella terra non poteva essergli nemica. Alzando il capo, Larth cercò un segno, uno qualunque, che potesse interpretare in suo favore o sfavore. Tuttavia niente era mutato e il giovane notò soltanto che il fumo, diffondendosi in ampie volute, si era allargato fino a coprire le paludi e i colli con un impalpabile velo grigiastro. Aspettò un poco, ma le rive erano tranquille, e si decise: passò a nuoto il primo tratto, riparò sulla punta dell'isola e poi coprì il secondo, sbucando sulle rive boscose, dove il terreno trasudava ancora acqua, fradicio. «I nostri Maestri delle acque sarebbero contenti di metterci le mani», pensò. «Saprebbero come drenarlo, per farne una buona pianura. Dovrò ricordarmelo, quando tornerò.» Si avviò di buon passo; aveva preso come meta il colle che gli sembrava ospitare il villaggio più esteso, e quando vi arrivò sotto scoprì gente sui sentieri di terra battuta; erano contadini, e stavano spingendo nei recinti le
bestie di casa lasciate al pascolo lungo le pendici. Scelse quella che gli sembrava la via più impervia e folta di vegetazione, e arrivò in cima. Le case si estendevano quasi a ridosso l'una dell'altra e avevano tutte un'aria miserabile, persino quella più grande, che doveva essere la Casa del Re. Non c'erano insegne, se non scudi e lunghe lance appoggiate al rozzo portico che conduceva all'ingresso. All'ombra di un altro portico di foglie, più avanti, scorse un gruppetto di bambini, mentre alcuni ragazzi - più giovani di lui - si stavano cimentando in un finto combattimento all'interno di un recinto poco lontano. Larth comprese all'istante che non si trattava di un gioco, bensì di un vero allenamento: sebbene fosse presente un istruttore - che Larth non riusciva però a scorgere - e le spade fossero di legno, al ragazzo che cadeva non venivano infatti risparmiati umilianti e feroci colpi, come se i compagni volessero realmente finirlo. Lì attorno, infine, il giovane vide alcuni cavalli che pascolavano: la forma slanciata del loro corpo indicava chiaramente che erano animali rasna. «Barbari e ladri», pensò Larth, sgusciando in una delle stalle, prima che due uomini che stavano venendo potessero vederlo. Entrambi erano appena smontati e conducevano i loro cavalli per la briglia. Il primo era un uomo vigoroso, basso di statura, dalle spalle larghe e dal naso sporgente. L'altro era un giovane, e pur non somigliandogli in qualcosa di definito aveva un'aria di familiarità che lo diceva parente stretto del primo. «Tu sei pazzo», stava dicendo l'uomo più anziano. «Somigli al toro che ha travolto i recinti finendo giù dalla rupe a primavera. Nostro nonno Numa avrebbe dovuto essere meno tenero nei tuoi confronti. Io sono il Re, e quello che vale per tutta la nostra gente deve valere anche per te!» «Tu sei un Re senza ambizione, e la tua principale attività è di riempirti la pancia!» sbottò il giovane senza alcun riguardo, accennando a uscire. Il Re lo afferrò per la tunica e lo ributtò all'interno, mandandolo a sbattere contro una delle pareti. «Riempire la mia quanto la tua e quella di tutti gli altri non mi sembra un'occupazione disonorevole; che cosa vuoi, Ancus? Che dimentichi che sei mio fratello e ti metta al bando?» Il giovane, schiacciato tra il Re e la parete, era adesso a meno di due passi da Larth, che era sgusciato dietro un mucchio di fieno nel tentativo di nascondersi. Il giovane latino era paonazzo, e il braccio del Re gli premeva sulla gola togliendogli il fiato. Il Re allentò quindi un poco la presa, scuotendo il capo. «Sei uno stolto. Tutto quello che puoi fare ai Rasna è rubargli i cavalli o
qualche carico di ferro, e già quello ti riesce difficile!» «Se io avessi gli uomini che non vuoi darmi...» «Perché poi i Rasna vengano qui a distruggerci? Quanto credi che impiegherebbero? Meno di quanto tu possa impiegare a buttarti giù dalla rupe Tarpei!» «Questo è quanto crediamo. Ma se sono forti come dici, perché non ci hanno già sconfitto?» «Io non ho voglia di saperlo, Ancus.» «E che cosa ce ne facciamo di un popolo barbaro e di terre fradice e malsane?» pensò Larth, trattenendo la voglia di saltar fuori a rispondere. Non sarebbe stato saggio, e tuttavia la discussione tra il Re e il fratello lo aveva interessato tanto da allentare impercettibilmente la sua attenzione: buon per lui che Velvur aveva preteso che imparasse alla perfezione anche quella lingua sibilante, e così diversa dalla loro! Improvvisamente uno dei cavalli, che aveva tuffato il muso nel fieno, avvertì la sua presenza e si tirò indietro, sbuffando. Immediatamente il Re lasciò il fratello, che si proiettò verso il nascondiglio del giovane rasna: Larth venne afferrato per il collo, sollevato e sbattuto a terra nella stessa frazione di tempo. Per la sua età era alto e proporzionato e non certo sottile, e aveva agilità e rapidità nei movimenti, affinati dalla palestra dove la preparazione era arte, ma Ancus era forza bruta, e pesava tre volte lui: gli piantò così senza difficoltà un piede sul petto e lo tenne schiacciato con le spalle al suolo. Chinandosi gli afferrò quindi i capelli per guardarlo in faccia. «Tu non sei uno schiavo!» sibilò. Larth tentò di ragionare in fretta; da quello che aveva sentito, il giovane Ancus non gli avrebbe riservato una buona sorte, e tutto quello che poteva servirgli era guadagnare tempo. Ignorando il piede che lo schiacciava, si portò una delle mani alla bocca, tentando di fargli capire a gesti che era muto. Ancus, per tutta risposta, lo colpì con un manrovescio che quasi gli staccò la testa dal collo, e poi gli strappò la tunica dal petto, rivelando il pugnale alla cintura, e la collana d'oro con l'opale. Il Re si chinò su di lui, fermando la mano del giovane pronta a colpire ancora, e lo scrutò a lungo, con occhi indagatori; infine gli tolse il pugnale, che passò al fratello, ma non toccò l'opale. «Tu parlavi dei Rasna, Ancus», mormorò. «Questo ti dà la misura della loro potenza. Vedi? Erano già qui a sentirti, e lui di certo è un Mago. Que-
sta è una pietra cattiva, che porta la morte. Non toccarla.» Si chinò ancora di più, tanto che Larth si sentì addosso il suo fiato. «Sei un Mago rasna, non è vero? E ti sei trasformato in ragazzo per venirci a spiare!» Larth scosse il capo, ma non emise alcun suono. «Ci capisce!» constatò il fratello. «Certo che ci capisce: siamo noi a non capire i Rasna!» «Allora vediamo se è davvero muto!» Ancus si fece avanti con il pugnale e glielo appoggiò sul petto, dapprima con un tocco lieve, che segnò appena una striscia di sangue. Larth sentì il suo furore: lo stesso che prima era stato diretto al Re trovava adesso in lui il suo sfogo. Visto così da vicino, il latino aveva occhi scuri, vivaci, e una pericolosa eccitazione che Larth era troppo giovane per tenere a freno, o per contrastare. «Se mi dici chi sei, questo pugnale non ti farà altro male.» Larth tenne la bocca chiusa; Ancus, furioso, gli piantò il pugnale nella spalla destra, non tanto in profondità da ucciderlo o da procurargli una ferita mortale, ma abbastanza per farlo soffrire. Quindi si rialzò, e, visto che il giovane continuava a non parlare, gli affibbiò un calcio che lo mandò a rotolare tra le zampe dei cavalli. «Lo darò ai nostri ragazzi, che si esercitino con qualcosa di vivo!» esclamò poi, tenendo per sé il pugnale. «No», lo fermò il Re. «Forse è davvero muto. E se non è un Mago deve essere un nobile e forse potrà esserci utile in qualche modo. Ci penseremo, se sarà ancora vivo domani.» Larth intuì che sulla soglia erano comparsi altri uomini, anche se non vedeva quasi nulla. Due di loro, per ordine del Re, lo sollevarono e lo portarono nella casa sotto il cui portico aveva visto gli scudi e le lance, lasciandolo in un angolo della grande stanza centrale, dove c'era il focolare. Per un poco, Larth giacque supino; non sentiva molto dolore: era piuttosto una pericolosa sensazione di abbandono, dovuta al sangue che stava perdendo. Una vecchia, seguita da una ragazza, venne infine a medicarlo, e con mani asciutte e ruvide gli strinse la spalla in una tela molto stretta dopo averla cosparsa di foglie. La ragazza gli chiese se voleva dell'acqua, ma egli ancora non rispose, e quindi entrambe le donne se ne andarono. Dopo un poco il sangue smise di filtrare e Larth si guardò attorno con estrema cautela: il Re e altri uomini stavano cenando.
A un certo punto, un gruppetto di ragazzini venne a spiarlo: parlottarono un po' tra loro ma si tennero a rispettosa distanza. Di tanto in tanto anche il Re guardava nella sua direzione, vagamente timoroso; l'irascibile Ancus non c'era e gli altri giovani sembravano più docili. Molto più tardi la stanza si svuotò, tranne per qualche schiavo che dormiva sul pavimento davanti all'ingresso. Fuori, forse, c'erano delle guardie, ma il fuoco si era quasi spento: restava solo una penombra fumosa mista all'odore dei resti della cena, che, secondo l'uso, venivano lasciati a consumarsi tra le braci. Larth riuscì a mettersi seduto. Stretta com'era, la spalla non gli faceva molto male, ma la testa era pesante e le mani gli tremavano un poco. I corpi dei servi erano immobili, e restarono tali anche quando Larth sgusciò in mezzo a loro, sia perché forse realmente dormivano, sia perché temevano davvero la sua magia. Fuori, sotto il portico, non c'era nessuno. La notte era buia, senza stelle, e l'aria odorosa di fieno e di erbe mature sapeva di pioggia. «Caitli.» La chiamò con tutta l'intensità di cui era capace. «Un temporale: ora! È quanto mi serve per passare il fiume. Mostriamo a questa gente che cos'è il nostro potere!» Passò tra due sentinelle che non lo sentirono, girando dietro la casa, e guadagnò a fatica il fondovalle e gli acquitrini. Doveva assolutamente passare il fiume, prima che il dolore e la debolezza potessero fermarlo, tuttavia riposò un momento, accosciato nel fitto di una macchia, perché il respiro gli mancava, e le gambe si erano fatte macigni. Quando arrivò all'acqua, il temporale si era già disteso sui colli: fulmini e tuoni rimbombavano da una sommità all'altra rotolando dal cielo come se fosse stato scosso sin nelle fondamenta e rischiaravano a giorno Ruma facendola tremare. Si girò solo una volta a guardarla, sorridendo appena. «Ci tornerò», pensò Larth. «Questo, posso prometterlo.» La pioggia cadeva fittissima, quando attraversò il fiume. 3. Larth aprì gli occhi, rabbrividendo. Era nudo, avvolto dalla vita in giù in una leggera coperta di lana; nella stanza dei Principi, la più antica del Palazzo di Tarchna, l'aria era fresca, profumata di erbe forti: girando la testa
scorse il fuoco che ardeva basso nel grande focolare di pietre nere, sul fondo della stanza. Stentava a riconoscere il luogo, eppure aveva giocato in quella stessa stanza, da bambino: era volta a oriente, e si affacciava su un piccolo cortile unito da uno stretto passaggio a quello delle donne. Lì esisteva ancora un altare dedicato alla Madre Dia, l'antica Signora della Terra, che Caitli aveva sempre onorato. Sul bordo di pietra del focolare era scolpita un'aquila: pietra su pietra, e tuttavia viva, possente, pronta a librarsi. Anzi, fissandola, gli sembrava di vederla muoversi, come se avesse in qualche modo potuto indicargli una strada, o il suo stesso futuro. Chino sul tavolo a lato del focolare, Velvur stava preparando qualcosa che Larth non poteva vedere. Una penombra densa impregnava la luce del giorno e sembrava restare aggrappata alla luce del fuoco senza venirne sconfitta. Caitli sedeva presso la finestra, quasi in ombra, il capo piegato un poco all'indietro. Adesso Larth sapeva chi lo aveva guidato nella traversata del fiume e chi lo aveva sostenuto fino al luogo dove Tese lo aveva aspettato; del resto non ricordava molto. La ferita si era infettata subito, la febbre era salita così alta che del viaggio dalle Colline dei Metalli a Tarchna non ricordava nulla. Caitli mosse appena il capo, con un sussulto, come se avesse potuto sentire il ritorno della coscienza nel giovane. Velvur, di rimando, si sollevò, guardando prima lei, poi il fuoco, e soltanto per ultimo l'angolo buio in cui giaceva Larth. Il Trutnot smise quindi di manipolare l'impiastro di muffa e argilla e lo distese sul lino candido; giacevano, lì accanto, i suoi bisturi da chirurgo, inutilizzati ormai da due giorni, perché la ferita aveva cessato di spurgare, e l'osso della spalla non era stato toccato. Velvur passò una mano sull'impiastro, cedendogli la sua forza, e Larth sentì di rimando un soffio di vento freddo sul volto; tremò appena, per qualcosa che non poteva capire. «Il fulmine, Caitli. Non trattenere il fulmine purificatore, ora», mormorò il Sacerdote. Caitli si alzò all'improvviso: tesa come la corda di un arco, toccò con gesto lieve l'aria e le infinite trame che facevano dell'umanità, della Terra e del Cielo un solo essere. Larth sentì una corrente viva penetrargli il corpo, e in quello stesso istante una luce accecante dilagò nella stanza e il tuono squassò il Palazzo facendolo tremare. Il fulmine era caduto nel minuscolo cortile, davanti all'altare della Madre Dia, e l'aria era satura e immersa nella sua corrente
purificatrice. Larth sbatté gli occhi; Caitli gli stava accanto e lui, finalmente, riusciva a vederla. Con un tocco lieve, la fanciulla gli sfiorò la ferita messa a nudo. «Guarirai», gli mormorò sorridendo, poi si chinò su di lui. Larth avvertì i suoi riccioli che gli sfioravano le guance, e ne provò una indicibile sensazione di gioia. Gli sembrò di essere rinato, e si sentì stranamente forte e pago. Sollevò lo sguardo sul Grande Trutnot, che si era avvicinato posando una mano sul capo di Caitli. «Non dimenticare, Larth», sussurrò. «Non dimenticare quello che Caitli è per te, quello che per te ha fatto e quello che i tuoi occhi hanno visto oggi. La vita è gioia, ma è anche pietà, e la gloria dei guerrieri nasce dall'anima delle donne. Non dimenticarlo, Larth.» Larth sbatté le palpebre. Nel focolare, le fiamme avevano acquistato vigore, e la pioggia aveva preso a scrosciare; echi di voci venivano dall'intero Palazzo in subbuglio, ma nessuno osava passare la soglia della stanza per sapere quello che era accaduto. Nemmeno il Re. «Dunque loro sono più forti del Re», pensò Larth, confuso. «E Caitli ha il Potere di Velvur!... Perché me ne stupisco? Non le ho forse chiesto il temporale, quando dovevo passare il fiume?» «Ho visto Ruma...» mormorò, senza rendersi conto che erano le sue prime parole dopo una infinità di tempo. «La vedrai ancora, non temere», gli rispose Velvur. Caitli si chinò ancora di più, posando le labbra dischiuse su quelle di Larth, che l'attirò a sé con il braccio sano e la tenne stretta. La sensazione delle due bocche unite e senza più respiro, e quel primo possesso, brevissimo, ma tuttavia così intimo e assoluto, gli portò dentro il torrente impetuoso della vita. Da quel momento, le condizioni di Larth migliorarono in modo rapido e costante; dopo una settimana, era già in grado di lasciare il letto, e dopo due Velvur gli permise di incontrare il Re. Re Tarchon era tranquillo. In fondo, non aveva nulla di cui dispiacersi, nemmeno dell'avventata temerarietà di quel giovane Principe che non a caso Velvur aveva voluto ospitare nella stanza più antica del Palazzo. Lì c'era l'anima di Tarchna, e quell'anima doveva ora riposare in Larth, che in quel luogo - grazie alla benevolenza degli Dei che si erano manifestati aveva sconfitto la morte.
Tarchon sfiorò appena con lo sguardo l'amico Laris, prima di posarlo su Larth, che gli stava davanti, dritto e rispettoso ma non servile, attento, ma non timoroso. Padre e figlio si somigliavano in questo, e tuttavia erano differenti, perché il secondo aveva la durezza che mancava al primo; e se Laris non aveva mai voluto nulla più di quanto già possedeva, Larth non aveva il gusto del possesso per se stesso, ma per il potere, e se questo desiderio poteva farlo grande, con la stessa facilità avrebbe potuto distruggerlo... «Così, hai voluto essere temerario. Non ti chiederò perché, Larth. Conosco la risposta: la vedo scritta nei tuoi occhi. Ciò che non vedo è che cosa ne hai ricavato», esordì il Re. «Sono stato nella Casa del Re e ho visto Ruma, che non ha mura, e che non è nemmeno una vera città. Ho visto che sarebbe meglio per i Latini averci come alleati che come nemici. Sono barbari e, in fondo, sono soltanto ladri.» «Sì, questo già lo sapevamo. È per vederla di persona che hai rischiato la vita?» «Vedere non è come sapere perché ci è stato detto che è così; noi potremmo drenare le acque del fiume e rendere abitabile la terra tra un colle e l'altro. Potremmo costruire una vera città, e insegnare loro a usare l'acqua e le colture, le armi e la medicina.» La voce di Larth risuonò alta e chiara. «E che cosa potremmo guadagnarci?» replicò, pacato, Tarchon. Larth tacque un istante. «Ecco una cosa che non mi sono chiesto», pensò. «Una porta sulle città rasna del sud, e un baluardo da opporre ai Sabini e ai Falisci», rispose tuttavia. Tarchon piegò lievemente il capo. «Questa è una risposta assennata. I Rasna non hanno mai dovuto conquistare le proprie terre con le armi, ma i popoli nostri vicini sembrano non conoscere altra forza, ed è difficile far intendere la ragione a chi sa misurare il valore soltanto con la spada. Tuttavia è vero: se Ruma fosse nostra alleata, il vantaggio sarebbe nostro quanto loro.» «Più loro che nostro, mio Re, temo», ribatté Larth. Tarchon rise. «Le tue osservazioni sono acute, Larth. Tuttavia dovrò punirti. Lo sai, questo?» «Sì.» Tarchon assentì. Gli piaceva quella freddezza, che non era mai irriveren-
za: in un ragazzo così giovane lasciava promettere bene, purché fosse ben guidata. Doveva pensare a una punizione speciale: molto speciale. «C'è altro che mi devi dire?» lo interrogò ancora. «Ascoltando quanto dicevano il Re Numa e suo fratello Ancus, ho dedotto che il Re sarà presto in difficoltà e che il fratello tenterà di prendere il suo posto, forse facendolo uccidere. So che è d'uso presso quella gente prendere il potere in questo modo.» «E allora?» incalzò Tarchon. «Credo che il Re Numa sia più ragionevole, e che forse una nostra delegazione avrebbe buone possibilità di essere ascoltata; quando Ancus diventerà Re, ci sarà guerra lungo i confini.» «Ne terrò conto. Adesso puoi andare, Larth. Ti farò sapere quello che deciderò per te.» Larth chinò appena il capo, e lasciò la sala senza guardare suo padre. Tarchon restò un istante in silenzio, teso. «Sarà un buon Re», mormorò infine. I suoi occhi brillavano di orgoglio nel vedere la realizzazione di quanto aveva sempre desiderato. «Nessun altro potrebbe essere un Re migliore per la mia Caitli e la mia gente.» «Potresti ancora avere un figlio», intervenne Laris. Tarchon allontanò il suggerimento dell'amico con un lieve gesto della mano. «Se così è scritto...» sussurrò tuttavia. Larth uscì, lasciandosi sfuggire un sospiro; nel cortile di pietra nera i Principi e i nobili di Tarchna aspettavano che il Re facesse aprire le porte per il consueto consiglio. Appena oltre il portale supplici, artisti, viaggiatori e mercanti erano, come ogni giorno, in attesa di essere ricevuti. La piccola folla si assiepava sotto la chimera alata del frontale e a Larth pareva che, in effetti, fosse tenuta a bada dalla bellezza di quel mostro irraggiungibile. Un gruppo di Aruspici del Collegio di Tagete, situato oltre le mura della città, avanzava in processione, portando i responsi di qualche segno. Il Palazzo e l'altare della Madre Dia avevano acquisito ai loro occhi e a quelli della gente della città una sacralità speciale, dopo che il fulmine li aveva consacrati per una seconda volta. Larth scese dal poggio che ospitava il Palazzo fino alla via della Porta d'Oriente, poi imboccò la via Larga, verso il cuore della città, e giunse alla palestra del Re, dove il Maestro d'Armi l'aveva fatto chiamare per controllare il recupero del movimento del braccio.
A Larth sembrava perfetto, ma Tefrie era un altro di quegli uomini che dovevano essere obbediti senza discussioni, se non altro per il rispetto che sapevano guadagnarsi. Era oltre la mezza età, e tuttavia in pieno vigore: nessuno usciva dalle sue mani se non davvero degno di impugnare tutte le armi, dall'asta pesante alla machaira. «È presto per gli esercizi», fu la sua sentenza, dopo aver esaminato la cicatrice e avergli fatto compiere tutti i movimenti possibili, seguendo il tendersi dei muscoli con le dita abili. Larth assentì senza ribattere: il giudizio di Tefrie era certamente migliore del suo. L'uomo fece un vago sorriso. «Sei partito all'inizio dell'estate che eri ragazzo: adesso sei un uomo, Larth», esclamò Tefrie. «Perché sono stato ferito da un nemico?» ribatté Larth, sorpreso. «No. Perché hai riconosciuto giusta la mia decisione e l'hai accettata senza tentare di cambiarla. Guarda: ciascuno di loro avrebbe provato a farlo.» Accennò con il capo all'arena più in basso, dove i ragazzi e le ragazze si allenavano insieme, quasi nudi nella luminosità dorata del giorno pieno; Larth li osservò, distratto. Li conosceva tutti, ma di nessuno poteva dirsi veramente amico. «Attento, Larth», mormorò Tefrie, cogliendo i suoi pensieri. «La via della solitudine è una strada difficile. Hai bisogno di compagni che dividano la tua ombra. Altrimenti chi ti guarderà la sinistra in battaglia? Chi veglierà le tue spalle nella casa straniera e chi ti appoggerà quando porterai il tuo nome all'assemblea dei Re?» Larth sorrise appena, sostenendo lo sguardo dritto e freddo del Maestro d'Armi. «Non vedo compagni, qui», mormorò senza presunzione. «Buoni guerrieri e nobili governanti delle loro Case... forse. Ma non vedo altro.» «Forse guardi troppo lontano», gli suggerì Tefrie. Larth rabbrividì: un'ombra, un pensiero gli era passato accanto senza farsi cogliere. «Forse», mormorò. Era quasi il tramonto quando fece ritorno alla sua casa; il cielo si era coperto di nuvole e spirava un vento teso, fresco, profumato di erbe amare e consumate, che sapevano di stagione alla fine. I servi avevano acceso le lampade; ma il Principe Laris era trattenuto a Palazzo dal Re e i suoi due fratelli Egene e Cneve erano con i loro Maestri.
La sua casa gli sembrò grande, vuota ed estranea, e per un poco girò per le stanze, tornando poi nella propria e restando a spiare il levarsi delle costellazioni tra gli squarci delle nuvole. Forse stavano decidendo della sua punizione, a Palazzo, e forse il bellicoso fratello del Re di Ruma aveva già ordito la sua trappola per strappare il potere a Tarchon. «Se è questo che hanno deciso gli Dei...» avrebbe risposto il Re, come sempre. Scese di sotto; la stanza comune dei servi era chiusa, ma c'erano ancora suoni di voci, e di una in particolare: una voce squillante di ragazza, allegra, che non conosceva. Entrò a ordinare a una delle donne di preparargli il bagno, e intanto cercò di scoprire qualcosa di quella nuova voce, ma non vide serve sconosciute. L'ancella più vecchia lo seguì nella stanza da bagno portando i teli puliti. L'acqua scorreva calda ai lati della vasca, come sempre, e non ci voleva davvero molto a preparare il bagno, ma la donna si attardò. L'averlo accudito nell'infanzia sembrava darle qualche diritto, che Larth non si sentiva di contrastare. «L'hai sentita?» mormorò quindi la donna, aiutandolo a spogliarsi. Larth trasalì. «Chi?» La donna sorrise. «Tyrò. È questo il suo nome. È con noi da metà dell'estate: il mercante Demestone l'ha comprata a Creta e l'ha regalata al Re per sdebitarsi di quell'antica profezia della nobile Caitli, che gli ha salvato la vita quando le sue navi sono andate perdute. Ma il Re l'ha regalata al Principe tuo padre; il Re ha a cuore il nostro Principe e la sua tristezza gli pesa. Una ragazza giovane è la migliore medicina per un cuore vecchio e un letto vuoto. Lo dicono i saggi.» Larth si irrigidì impercettibilmente. La donna gli carezzò le spalle controllando con affetto materno l'asciuttezza dei muscoli, e la traccia della ferita. «È bella... e appena più vecchia di te», gli mormorò. «E conosce molte più cose di quante tu abbia osato pensarne.» «Mandamela.» La donna sorrise ancora. «Certo; con i profumi e gli oli per il bagno», gli rispose. Larth si immerse nell'acqua e per un poco vi restò con gli occhi chiusi,
aspettando. Doveva essere impazzito; quella ragazza era un dono del Re a suo padre, il quale forse l'aveva onorata nel suo letto. E poi, lui che cosa avrebbe fatto? Neanche sapeva da dove cominciare! In quel momento due delicate mani femminili gli si posarono sulla nuca, lievi, scendendo lungo le spalle e poi giù, nell'acqua, attorno alla sua vita, e ancora più giù. La lasciò fare. Nella luce dorata, Tyrò gli parve giovane quanto Caitli e non, come aveva detto l'ancella, di qualche anno più vecchia di lui. I capelli lunghi e scuri erano trattenuti da un nastro di porpora sulla fronte, e gli occhi erano pozze di buio sul naso piccolo. Il corpo era minuto, sodo, d'oro scuro. Non portava addosso che un perizoma bianco e i seni erano gonfi, con i capezzoli dipinti di carminio, tesi. Larth non finì il bagno; ne uscì, grondante, la prese per mano e la distese sui teli: era più giovane, ma era anche più alto, e questo lo rincuorò un poco. Tuttavia, dopo averle slacciato il perizoma, diventò affrettato e maldestro e penetrò in lei con troppa ansia: la sentì scuotersi, ribellarsi e poi prenderlo, tenerlo e istigarlo ancora, confondendolo. Più tardi, Larth le giaceva ancora addosso, appena sollevato da poterla guardare, così intimamente preso da quel corpo di donna appena scoperto da non avere altri pensieri. «Tyrò...» esordì, titubante. La ragazza socchiuse gli occhi, sorridendo tentatrice, e avviluppò le gambe attorno ai suoi fianchi. «Che cosa sei per mio padre?» le chiese, dando voce all'ansia che lo divorava. «Per tuo padre l'amore è un'onda troppo breve, e il suo spirito è altrove. Non sono nulla. Se non fossi un regalo del Re mi avrebbe già rivenduta.» «Quanti padroni hai avuto?» insisté Lardi. Tyrò rise al suo orecchio, afferrandolo per i capelli e tirandolo contro di sé. «Davvero vuoi saperlo? L'ancella ti ha mentito: ho la tua età, e ho avuto quattro padroni con molti amici vecchi e avidi. Ho imparato da loro.» Rise ancora. Quando Larth la riprese, la ragazza si lasciò sopraffare facilmente e il giovane restò in lei per un tempo che gli sembrò eterno, e il migliore della sua vita. «Perché non sei Caitli?» le mormorò all'orecchio, ma Tyrò non lo capì. Solo molto più tardi, Larth si ricordò di rimandarla negli alloggi dei servi, e tornò nella propria stanza, avvolto soltanto nel telo. Suo padre lo aspettava davanti all'alto vano della finestra. La stanza era
avvolta nell'ombra: l'unico lume acceso era quello accanto al suo letto vuoto. Larth si immobilizzò sulla soglia e lasciò scorrere lo sguardo attorno: i letti dei suoi fratelli non c'erano più. «Sei un uomo», lo salutò il padre. «È tempo che tu abbia la tua stanza di Principe; i tuoi fratelli ne hanno avuta un'altra. Avrai un servo e potrà dormire fuori della porta.» «Non può avermi aspettato soltanto per dirmi questo», pensò Larth; in effetti non doveva mancare molto all'alba, e una parvenza lattiginosa di luce si stava sciogliendo nell'oscurità del cielo ancora buio. Laris trasse un sospiro, e sedette stancamente su una delle panche lì accanto. Il timore e il senso di colpa sparirono del tutto, all'improvviso sostituiti da una impressione di pena, e da qualcosa che non aveva mai visto prima: suo padre era vecchio. E, d'un tratto, era uno straniero che non aveva più tempo per conoscere. «Se ti ho offeso con Tyrò, perdonami», mormorò infine. «Sapevo che era un regalo del Re.» Laris sollevò appena una mano a zittirlo. «Tyrò si addice al tuo letto di giovane più che al mio; si annoiava, con me. Non temere: saremo lieti entrambi.» «Ti ringrazio. Ma tu sai che io avrei voluto onorare Caitli questa notte, come ho onorato Tyrò, e anche lei lo sa, e anche il Re, e anche Velvur.» «Una schiava per una Regina; è questo, Larth, che non ti dà pace?» Larth tacque: non credeva che si vedesse tanto. «Il Re ha deciso la tua punizione. Per questo ti ho atteso.» Larth restò in silenzio; suo padre scosse appena il capo con l'aria rassegnata di chi, dopo aver contrastato un progetto con tutte le proprie forze, ne accetta l'esecuzione senza più voglia di parlarne. «Velvur ha chiesto al Re il permesso di portarti con sé per un certo tempo, e il Re ha acconsentito.» «Quanto tempo?» La voce di Larth tremò appena. «Una stagione, due... tre... quante ne saranno necessarie per la tua preparazione secondo il giudizio di Velvur. Partirete tra una settimana, e fino a quel momento non sarai più ricevuto a Palazzo.» «Io sarò guerriero e sarò Re, e non un Sacerdote!» «Il Re deve essere tutto. Così, se sarai guerriero e Sacerdote, sarai Re.» Larth tacque. Laris gli passò accanto per uscire. «Perché Velvur ci ha fatto questo?» lo fermò Larth. «Caitli non si sente pronta a dividere il tuo letto, e tu non sei pronto per
essere Re. Perché Velvur ti vuole con sé, dovrai chiederlo a lui, ma non dimenticare che lui vede ciò che noi non vediamo, e che i segni degli Dei tessono una trama che noi non possiamo cambiare.» Larth sedette sul bordo del letto; la fiammella della lampada tremò appena. «Caitli è pronta per darmi ciò che mi ha dato Tyrò, e anche molto di più. Me l'hanno detto la sua bocca, la sua pelle, la sua anima. Io solo la conosco. Da sempre. Perché Velvur ci ha fatto questo?» pensò Larth, senza rendersi conto che l'accesso al Palazzo gli era vietato, e che non l'avrebbe rivista. «Ti farò portare Tyrò», stava dicendo suo padre. «Potrai tenerla qui con te fino a quando partirai. Ma ricorda che non la troverai al tuo ritorno, fosse soltanto tra una stagione. La venderò non appena sarai partito, anche se è un regalo del Re.» Larth neanche lo sentì. Tenne Tyrò con sé, e imparò da lei più cose di quante aveva osato pensarne, proprio come gli aveva detto l'ancella che gliela aveva condotta; ma, per quanto potesse sembrargli strano, dopo la sua partenza la dimenticò subito, e ricordando l'amore nei quattro lunghi anni in cui Velvur lo tenne lontano era soltanto a Caitli che pensava. 4. C'erano suoni e voci di morte nel vento che soffiava sull'acqua verso la strada costiera e i ricchi quartieri dei mercanti di Pyrgi, la bella città-porto di Xaire. Il cielo si era coperto, e le nuvole che venivano dal mare promettevano tempesta; la processione tuttavia si snodava festosa verso il Tempio della Dea Uni e una gran folla faceva ala al corteo aperto dal Re Aucnus di Xaire e dal Re Tarchon di Tarchna, il Re Supremo, venuto con la sua Regina a ringraziare la Dea per il figlio inaspettato che tutti gli Aruspici dicevano maschio, e che già scalciava nel ventre della madre. Re Tarchon era certo del favore degli Dei: persino Velvur era tornato, in tempo per guidare la processione e riportando finalmente Larth alla sua gente, sebbene il giovane che lo accompagnava fosse assai diverso dal ragazzo rimasto nella memoria di tutti. Era alto e asciutto: il volto era impassibile, ma si intuiva che nulla poteva sfuggire a quello sguardo penetrante. Un uomo dai movimenti misurati e composti sembrava aver vinto il
ragazzo ardito e impulsivo, rendendolo tuttavia chiuso e distante e come circondato da un'oscura e potente aura. Nessuno dei giovani che gli erano stati compagni aveva osato avvicinarsi per salutarlo, e Caitli incontrò i suoi occhi nello stesso istante in cui sentì la paura venire dal mare. Impallidì, passandogli davanti: ma, nella processione sacra, Caitli precedeva ancora il Re, come sua Erede, e non poterono lanciarsi altro che uno sguardo. La musica dei flauti era tanto forte ora da coprire i sussurri delle ombre che venendo dal mare portavano l'allarme, e le esclamazioni della folla si levavano alte. Nel porto, almeno venti holkades, con le vele ripiegate, stavano in attesa, le stive ancora gonfie di merci: da lontano, somigliavano a neri uccelli del malaugurio, pronti ad avventarsi sulla preda. Il corteo tuttavia guadagnò festante il recinto più esterno del santuario e si sparse attorno alla grande vasca purificatrice; soltanto Velvur e il Re Tarchon, con la Regina e le figlie, entrarono a portare il sacrificio: il primo nato tra gli agnelli di primavera, tenuto in braccio da Thanaquil. La ragazzina avanzava lentamente, assorta nel compito che le era stato affidato, e precedeva la madre, cui somigliava come una goccia d'acqua. All'interno, non appena le porte furono richiuse alle loro spalle, dilagò un silenzio gelido. Caitli lo sentì sulla pelle. Per contro, la luce era intensa e calda: decine di bracieri ardevano infatti dall'una e dall'altra parte del passaggio verso l'alta statua della Dea Uni, la Madre, Signora della nascita e della luce. Era velata, da quella distanza, ma l'effetto svaniva a mano a mano che si avvicinavano. Il Tempio era straordinariamente ricco: lamine d'oro rivestivano le pareti e d'oro erano le lampade e le brocche d'oli profumati: pesanti tappeti fenici coprivano il pavimento di pietra nera, porpora e ancora oro velavano il portico delle Sacerdotesse, dove gli uomini lasciavano le loro offerte e il loro seme alla Dea. «Forse è questo», pensò Caitli. «Questa ricchezza è per gli uomini e parla del loro potere, non del potere della Dea, e nemmeno della sua presenza. Non ci sono vincoli sacri, qui; nulla unisce la pietra alla Terra e l'uomo al Cielo.» Caitli trasalì. Era solo il Tempio, a disturbarla? O piuttosto non erano stati gli occhi di Larth, appena incontrati e subito lasciati dopo tanto tempo? Quei cupi occhi blu che per lei non avevano segreti l'avevano presa in un istante, come se l'avessero già fatto centinaia di volte, e la felicità di
quel possesso esalava da lui come una fragranza sconosciuta. Caitli trattenne il respiro: quella felicità che calava su di lei non era che un'onda di Potere riflesso. La cerimonia era cominciata: Thanaquil aveva consegnato l'agnello. Caitli sentì la paura tornare all'improvviso. L'immagine di Larth svanì. Nel fuoco del primo braciere presero forma il volto di un uomo sconosciuto e urlante e una lama che sanguinava, viva, tra le fiamme. Caitli si ritrasse di un passo; ma nessuno oltre a lei aveva visto e sentito. Il Grande Trutnot, che fino a quel momento era stato in disparte, la raggiunse. «Vieni», le ordinò, precedendola. In silenzio, Caitli lo seguì, senza girarsi a guardare il volto e la spada nella fiamma. I due imboccarono un passaggio in penombra, che li portò a una delle stanze riservate alle Sacerdotesse. Era altrettanto ricca del Tempio, con una dozzina di clinai disposti in circolo e un gran braciere nel centro, in cui si consumavano erbe profumate. Ora era spento, e la stanza era vuota. Caitli si guardò attorno. Lini candidi erano disposti sui clinai, e vino speziato era pronto in coppe preziose, posate su fornelli di bronzo foggiati come bocche di chimere. Doveva essere la prima donna non votata alla Madre che vedeva quel luogo. Velvur lasciò il bordone, l'alto cappello a punta e il mantello prezioso che come Grande Trutnot doveva vestire nelle cerimonie, e perse un momento a osservarla, per valutare quanto lei stessa fosse cambiata: era una ragazza alta e sottile, ora, come un giunco di palude, con la pelle d'oro chiaro e un viso perfetto nella gran massa dei capelli scuri che il fuoco accendeva con luci di rame. In lei non c'era nulla della sensuale morbidezza della Regina; portava la tunica bianca ricamata di porpora senza per questo mitigare quell'aria di distacco che derivava dal suo essere sacra. «Una fonte», pensò Velvur. «Una fiamma viva di Potere... ben custodito, però. Uno scrigno di cristallo puro. Larth dovrà riconoscere i segni.» Abbozzò quindi un sorriso. «Non cercare qui la Dea, Caitli. Le Sacerdotesse non sono che prostitute sacre, che si pagano il riscatto con la parte di offerte che il Tempio lascia loro.» «Perché il pellegrinaggio, allora?» «Perché spesso la consuetudine conferisce a un luogo la sacralità che
questo non possiede. Molto tempo prima che Pyrgi fosse la città che è oggi, certi mercanti fenici si stabilirono qui, portando la loro Dea Ishtar ed eleggendola a protettrice. Nessuno osa profanare il recinto di un Tempio, nemmeno i pirati, il più delle volte; quei mercanti hanno iniziato il commercio e noi lo abbiamo sviluppato. Ishtar non è altri che la nostra Uni e ha continuato a proteggerci: così il luogo si è fatto sacro.» «Ma poiché mio padre è anche il sommo Re, Re Aucnus di Xaire lo ha convinto a fare il pellegrinaggio per averlo ospite presso di sé e chiedergli l'aiuto di Tarchna e della Lega contro i pirati focesi che hanno distrutto otto delle sue navi, da che è venuta la primavera», concluse Caitli, quieta. Velvur assentì appena con il capo. La Regina non si era mai occupata del governo, ma di certo Tarchon non poteva dire altrettanto della sua bella Erede. La guidò quindi a uno dei clinai, la fece sedere e per un momento restò assorto a guardarla. «Che cosa hai visto nel fuoco, Caitli?» La sua voce adesso era lieve, e bassa di tono; appena un sussurro che tuttavia sapeva sciogliere i pensieri e consegnarli privi di difese. Usava di rado questo Potere, e malvolentieri, perché era restio a invadere il volere di un'altra creatura, e perché sapeva che invadendo sarebbe stato invaso di rimando dalle sue paure, e non sempre gli riusciva di sopportarle senza danno. Negli anni della sua giovinezza aveva sofferto e pagato duramente per quel Potere tanto invidiato da chi non ne conosceva il lato nascosto. «Morte», mormorò Caitli. «E viene dal mare.» «Morte, dunque... L'ho avvertita anch'io: l'aria ne è stata satura per tutta la durata della processione. Morte che viene dal mare! Farò avvertire Re Aucnus, in modo che rafforzi la guardia e le sentinelle nel porto.» Caitli non rispose. In quella stanza deserta, lontana ed estranea alla cerimonia nel Tempio, all'improvviso si sentì oppressa, come se fosse stata chiusa in una tomba, e sentì il bisogno dell'aria dei poggi ventosi di Tarchna e della serenità del suo Palazzo. Velvur le sfiorò la fronte con la punta delle dita, allentando la tensione. «Ho sentito che applichi la medicina meglio di quanto sappia fare il tuo Maestro», disse, cercando di distrarla. «Se è così, è soltanto merito del Maestro», rispose Caitli. Velvur annuì: aveva cresciuto bene la sua discepola, dandole tutta la sua scienza e tutta la sua cultura, ma aveva sempre saputo che gli sarebbe stata superiore, e quel giorno si stava avvicinando a grandi passi: a differenza di lui, Caitli ormai non aveva più bisogno di chiedere.
«Parliamo di Larth. Vuoi?» propose il Grande Trutnot. Caitli assentì volgendo lo sguardo altrove. Larth sarebbe stato su uno di quei clinai quella sera stessa, a portare la sua offerta a una prostituta: era il Principe più vicino al Re, e non avrebbe mancato di accompagnarlo con gli altri nobili nella cerimonia più importante e più sacra. «Come posso andare contro ciò che dovrà essere?» pensò. «Può una prostituta che si guadagna in questo modo briciole di libertà essere più felice di me?» «Larth ha lavorato molto in tutto questo tempo, Caitli», stava dicendo il Trutnot. «Il suo spirito era già forte, e noi lo sappiamo più di chiunque altro, ma adesso è temprato quanto il ferro rovente si tempra nel ghiaccio; è stato guerriero, viaggiatore, eremita, studente e Maestro. È giovane di anni, ma non di esperienza, e questo lo rende diverso dagli uomini che dovrà comandare. Ma la sua solitudine è un abisso che lo divide da tutti, e tu sei l'unica che può colmarlo; in tutto questo tempo, tu gli sei stata accanto. Ogni ragazza nel suo letto per lui era nulla e, allo stesso tempo, aveva il tuo nome. Tu hai legato il suo destino al tuo, quando non eri che una bimba. Ora io ti ho riportato un vero Re, ma che cosa mi dici di colei che dovrebbe essere la sua Regina?» «Lo vedrò dopo il banchetto. E se potrò essere la sua Regina, lo sarò stanotte, e lui non verrà qui.» La voce era tesa ma ferma, appena incrinata da una nota di disperazione che la giovane donna teneva prigioniera al suo petto nelle mani strette a pugno. «Dovrai ascoltare i segni, Caitli», la ammonì Velvur. Un amaro sorriso increspò le labbra di Caitli. «Non temere», gli rispose. «Non è forse per questo che ci hai separati, quando non avrei saputo resistergli?» Velvur assentì distrattamente, tornando alle sue insegne e mettendole malvolentieri; non amava portare i simboli della regalità sacra, perché gli sembrava di peccare di superbia, e la superbia allontanava dal vero Potere, senza il quale anche quei simboli non erano nulla. E tuttavia, se gli spiriti eletti potevano capirlo, la gente comune aveva bisogno di simboli che dovevano essere appariscenti, perché solo così potevano restare nella memoria di tutti. Sospirò. Quell'oscura paura stava divorando anche lui. Nel Tempio la cerimonia era finita, e le Sacerdotesse si erano ritirate; i servi stavano portando via i resti dell'agnello sacrificato e il sangue raccol-
to nelle coppe d'oro. Fuori, un vento tenace aveva allontanato le nuvole e il recinto sacro era pieno di sole. Il corteo si riformò per tornare al Palazzo di Aucnus, tra i musici che suonavano e la guardia d'onore. Il banchetto era al culmine. Le danzatrici stavano eseguendo gli antichi movimenti della nascita della primavera, e la sala del Palazzo di Aucnus era colma di luci e del brusio dei commensali; un velo di pioggia, sul finire del giorno, aveva lasciato una sera fresca e umida, colma degli odori della città. Il vento soffiava dal mare. Larth respirò a fondo, aspettando. Velvur gli aveva parlato di quell'allarme invisibile che sembrava correre tra il mare e la terra e Larth poteva avvertirlo con la stessa facilità con cui avrebbe sentito una preda cadere nella trappola, o un nemico avvicinarsi al proprio rifugio; Aucnus tuttavia l'aveva preso alla leggera. Aveva sì fatto rinforzare la guardia dalla parte del mare, ma né aveva distolto i suoi nobili dal banchetto e dai festeggiamenti né aveva messo in allarme le difese della città, non volendo turbare i mercanti, che erano in apprensione per le loro merci. Ma anche Larth doveva ammettere che, in quel momento, l'allarme era l'ultimo dei suoi pensieri. Caitli gli si era affiancata e, nella luce lieve dei bracieri che ardevano sparsi sulle terrazze digradanti, la sua figura sottile era poco più di un'ombra; poco più di quell'ombra che gli era stata accanto per tanto tempo e che era stata nel suo letto con altri visi e altri corpi. «Forse sto ancora sognando», mormorò quindi sorridendo appena e fermandosi. Caitli si fermò a sua volta. «Sognando?» mormorò. «Di te, che mi stai accanto.» Caitli si girò. Larth si era seduto sul muretto che delimitava la più bassa delle terrazze. Il braciere che segnava il varco d'accesso, alimentato dal bitume, bruciava bene, appena toccato dal vento. Lì vicino avrebbe dovuto esserci una guardia, ma la sua mancanza in quel momento sfuggì a entrambi. Caitli tese una mano, e gliela appoggiò sulla spalla. Larth gliela coprì con la propria. Per un istante brevissimo, sembrò a Caitli che terra e cielo trattenessero il respiro. La musica era sparita, e così i suoni e i rumori del banchetto, e la voce del mare, e la paura. Larth l'attirò a sé, la circondò con le braccia e la tenne a lungo. Caitli sentì l'opale freddo premere sul suo seno, e poi le mani calde di Larth che scendevano a liberarla della veste e la sua bocca che le copriva gli occhi, le
labbra e le spalle, risvegliandole la pelle. La terra tremò in quel momento; dapprima una vibrazione, appena un sussulto, un trasalimento lieve. Larth la tenne ancora, portando le labbra sui suoi seni e le mani sul suo ventre e al lino che le cingeva i fianchi. La terra tremò di nuovo, questa volta a lungo, con l'urlo di un essere ferito, e Caitli gridò, staccandosi da lui. «I segni. Dovrai ascoltare i segni.» Così aveva detto Velvur, ed era quanto lei stessa sapeva, molto più di quanto il Trutnot potesse immaginare. Si inginocchiò nella sabbia, le spalle al buio fragoroso del mare, un dolore vivo a dilaniarla; grida d'allarme venivano dalla città e dallo stesso Palazzo, ma lì il vuoto e il buio sembravano di colpo assoluti, come non avrebbero mai potuto esistere in alcun altro luogo e in alcun altro momento. Larth si inginocchiò a sua volta nella sabbia, quasi nudo, indifferente a quello scatenarsi di forze, sicuro di sé, di lei, e del proprio destino, che gli sembrava così facile da tenere in pugno e dominare. Le tese la mano. «Vuoi essere la mia Regina?» le chiese. «Qui, per la terra e per il mare, e per l'eternità?» Non c'era che la frazione di un attimo, adesso, profonda tuttavia quanto un abisso, e altrettanto buia, a dividerla da Larth e da tutto quanto in lei urlava per quel possesso. Caitli tese una mano a sfiorargli la punta delle dita, e la ritrasse a risollevare la veste. «No.» Era appena un soffio, ma riempiva il vuoto e il buio. «Perché? Sei pronta ora quanto lo eri il giorno che Velvur ci ha divisi! Perché, Caitli?» «Non hai sentito la terra, Larth? Non senti le voci di questa notte? Non nascerà nulla da questa notte... nulla che possa essere ricordato con gioia o senza timore. I segni, Larth. Devi ascoltare i segni!» Larth si ritrasse, sollevandosi; conosceva bene la Caitli che ora gli stava parlando: quasi non più lei, così trasfigurata e bella... Nessuno meglio di lui la conosceva. Nessuno più di lui l'avrebbe conosciuta mai! L'aiutò ad alzarsi, le riaggiustò la veste e le sfiorò le labbra che tremavano. «Anche i segni un giorno saranno dimenticati», mormorò, duro. «Allora quel giorno, e solo quel giorno, noi saremo davvero morti», lo
ammonì Caitli, e lo lasciò, tornando alla sala del banchetto. Il terremoto aveva fatto cessare le danze ma, a parte qualche frammento caduto dagli acroteri, non c'erano stati danni. Passati i brevi momenti di panico, il chiacchierio era ripreso come se niente fosse successo. Caitli restò in disparte, invasa dall'angoscia ed estranea alla festa. Il Grande Trutnot presenziò, non visto, all'ingresso del corteo degli offerenti al Tempio. Era già tardi: i servi con le fiaccole e gli Aruspici della Casa di Aucnus si fermarono al primo recinto, illuminandolo a giorno. Velvur riuscì così a scorgere tutti quelli che entravano, e individuò Larth subito dopo Re Tarchon; ne fu nella stessa misura rassicurato e addolorato, perché i segni andavano obbediti, ma il riconoscerlo non gli impediva di provarne dolore. Si mosse quindi a lasciare il Tempio; non aveva niente da fare, lì. Da molte stagioni aveva concluso un accordo segreto con la Signora onorata in quel luogo e non ne era più tormentato. Anzi, il suo giudizio aveva acquistato una serenità senza più ombre e il suo spirito era libero. Ricordando i tempi in cui le passioni lo avevano dominato, non poteva che considerare la loro inutilità in rapporto al sentiero cui era stato destinato. Del giovane Trutnot cresciuto sulle sponde serene del lago Prile e nella severa disciplina del Tivrit non era rimasto molto: appena un fantasma, in pace con se stesso, e con le forze del Cosmo nelle mani. «Tutte le nostre forze non ci salveranno», mormorò tuttavia avvertendo il nuovo tremore della terra prima ancora che giungesse a toccarne la superficie. Era stato lieve, con appena un rombo lontano. Un uccello notturno gli svolazzò davanti, impaurito. «È questo, forse? Il tremore della terra che ha toccato l'aria?» pensò quindi, percorrendo come un qualunque viandante la via maestra ormai silenziosa per ascoltare la voce delle pietre e del vento, e tentare di rubare loro la verità. Ma la notte continuava a essere colma di paura. 5. Caitli aprì gli occhi nella penombra. Era appena l'alba, e l'ala fredda della morte si stava stendendo. La sentiva: era un alito ghiacciato che avrebbe fermato l'intero universo, impedendo alla luce di crescere e al sole di spuntare. Aveva un odore, una consistenza, una voce che nessuno avvertiva e che tuttavia esisteva. Se
soltanto tendeva le mani, Caitli la poteva toccare. Giacque immobile per un momento. La stanza del Palazzo di Pyrgi dov'era ospitata con la sorella era fredda, avviluppata nel grigiore che pioveva dall'apertura sullo stretto porticato verso il digradare delle terrazze: solo un braciere, ormai quasi spento, mandava qualche bagliore. Accanto all'apertura, protetta da teli chiari gonfiati dal vento, una serva dormiva. Il silenzio era assoluto. Caitli scivolò fuori del letto e si avvicinò a Thanaquil, che dormiva inquieta, con una espressione tesa sul viso, e una lieve smorfia di pianto nelle labbra strette. Caitli le sfiorò la fronte. «Anche tu, sorella», pensò, «anche tu hai il Potere... ma con te sarà più dolce... non ti chiederà tanto...» Raggiunse l'apertura e uscì, scavalcando la serva. Nel porticato la penombra era meno fitta; la vista spaziava sulle terrazze, ma non si vedeva il mare, nascosto da una foschia greve. All'improvviso, ombre confuse attraversarono la terrazza più bassa; altre giunsero correndo da un passaggio vicino, calandosi poi in uno dei cortili interni. Taluni non portavano quasi nulla addosso, altri avevano corti mantelli e armature di cuoio a proteggere il petto. Caitli tornò dentro. Thanaquil si era svegliata, e adesso la fissava immobile, seduta nel proprio letto. Caitli si portò un dito alle labbra e si chinò a scuotere la serva. «Uomini armati stanno penetrando nel Palazzo. Tu, che conosci i passaggi, corri ad avvertire la guardia del Re!» La donna si mosse lentamente, spaventata ma insonnolita; era piccola e minuta e Caitli l'afferrò sotto le ascelle e la mise in piedi. «Corri!» le ordinò; poi andò da Thanaquil e la sollevò dal letto. La serva sgusciò fuori, per infilarsi in uno dei passaggi verso l'ala centrale del Palazzo; Caitli la seguì sotto il portico, tenendo Thanaquil per mano. Un urlo giunse da una delle terrazze soprastanti: la serva si fermò, impaurita. Caitli afferrò la sorella e la trascinò con sé oltre il portico e su per la stretta scala che portava alla terrazza. Lì, Re Aucnus aveva approntato le stanze del Re Supremo. Quell'urlo era di Ramtha. Caitli si fermò sull'ultimo gradino della scala. La terrazza sembrava deserta, bagnata di luce grigia, con le ginestre accartocciate dal vento. Uno dei teli, strappati, oscillava all'esterno. Un rantolo squarciò il silenzio.
Tenne la sorella dietro di sé, con un braccio, e si affacciò sulla soglia. L'uomo schiacciava il corpo di Ramtha sul letto con tutto il proprio peso: la Regina aveva il viso girato verso la luce, e gli occhi spalancati. Un filo di sangue le colava dalle labbra e un altro rivolo le si allargava attorno al fianco, dove il pugnale dell'uomo l'aveva colpita. L'uomo sussultò ancora in lei con furia e Thanaquil gridò. Caitli la tenne indietro, respingendola in un angolo. «Stai possedendo un cadavere e la morte ti possiede, chiunque tu sia.» La voce di Caitli risuonò gelida e l'uomo si staccò bruscamente, quasi stupito. L'attimo dopo era in piedi e un'occhiata alla bambina e alla ragazza lo rincuorarono sulla buona sorte di quella giornata: sarebbero state un proficuo bottino e in qualunque porto le avrebbe vendute bene, dopo averle godute. Alzò una mano a scacciare le parole della ragazza come avrebbe fatto con un insetto fastidioso, e le si mosse incontro. Caitli arretrò. Girò attorno al letto, inciampando nei corpi delle ancelle di sua madre, con la gola tagliata, e finì contro la parete opposta. Una porta schermata da un battente di legno intarsiato portava ai corridoi interni del Palazzo, e da lì ancora non giungevano rumori, né segnali d'allarme. «Scappa!» la sfidò l'uomo. «E io comincerò dalla bambina!» Si mosse verso Thanaquil, che era rimasta immobile nell'angolo senza quasi respirare. Caitli urtò con le spalle la parete su cui erano appese le armi di suo padre: lo scudo regale, la lunga spada d'onore, la machaira con la preziosa impugnatura d'avorio istoriato. Staccò la spada corta e gli andò incontro, costringendolo a girarsi per non perderla d'occhio. «Che cosa vorresti fare?» la schernì l'uomo, allungando una mano ad afferrare Thanaquil e strappandole via la veste con un solo strattone. «Tu sei già morto», mormorò sommessamente Caitli, con lo stesso tono di voce che Velvur aveva usato con lei nel Tempio; e quell'affermazione penetrò nella pelle dell'uomo, e poi nella sua mente, portandogli paura e orrore e infine la contaminazione che gli avrebbe consumato il soffio della vita: così respinse la bambina senza neanche guardarla. Nel momento in cui penetrò dagli strappi nelle cortine tese, la spada bruciò sulla sua punta la luce del primo sole; l'uomo sollevò una mano a pararsi gli occhi, abbacinato, e Caitli gli infisse la lama in pieno petto, con il colpo che il Maestro d'Armi Tefrie le aveva insegnato: tenendo l'impugnatura con entrambe le mani per ovviare all'inferiore forza fisica, ma concentrando tutto di sé nella lama, e dandole quella potenza che soltanto un
guerriero addestrato poteva contrastare. L'uomo urlò, incredulo, piegandosi su se stesso. Caitli estrasse la machaira e, afferrata Thanaquil, la trascinò fuori, sulla terrazza. Era deserta, ma urla venivano adesso dall'interno del Palazzo e del fumo si stava stendendo sulle terrazze inferiori. Nel primo sole, si vedevano finalmente le ombre scure delle guardie uccise e gettate a ridosso dei muretti e dei bracieri. In quel momento, l'allarme delle trombe della guardia del Re Aucnus risuonò per tutta la città, con il fragore di cavalieri al galoppo. «Non sono abbastanza veloci», pensò Caitli. «Non arriveranno in tempo.» Un gruppo di uomini stavano venendo di corsa dalla terrazza sottostante. Sempre proteggendo Thanaquil, Caitli alzò la machaira, pronta. Larth aprì gli occhi, disturbato da qualcosa che sembrava essergli passato accanto, e che forse era soltanto un sogno. Nella minuscola stanza l'aria era calda e densa; dalle cortine semiaperte riusciva a vedere la sala dove avevano bevuto il vino e ascoltato la musica, prima di ritirarsi per l'ultima parte della cerimonia. Si sedette, e percorse con lo sguardo la figura sottile della Sacerdotessa di Uni distesa al suo fianco, i capelli innaturalmente chiari sparsi intorno al viso, i capezzoli dipinti d'oro e nient'altro addosso se non le ombre delle lampade prossime a spegnersi. Era bella come tutte le Sacerdotesse della Madre: sembrava non avere età, e nemmeno un nome. Larth non aveva sentito da lei una sola parola; solo un lieve grido, quando le aveva lasciato l'offerta del suo seme. Altrove il rito si era consumato in silenzio, ma Larth sapeva che il grido era un rituale di apprezzamento, e si era sentito rassicurato. Adesso aveva la gola asciutta e la testa pesante; un sudore lieve lo infradiciava. Una sensazione di allarme gli fece scorrere un brivido sotto la pelle. Paura. «Non nascerà nulla da questa notte... nulla che possa essere ricordato con gioia o senza timore...» aveva detto Caitli. Quelle parole avevano ora un suono nuovo che echeggiava ancora e ancora nella mente di Larth: in quel momento, la presenza di Caitli era più viva di qualunque altra. La giovane donna al suo fianco si agitò, afferrata a sua volta dal sogno.
Larth lasciò il letto, indossò rapidamente la tebenna e tornò nella sala, e poi nel Tempio. Qualcuno stava battendo al portale. Dalle feritoie in alto penetrava appena un lieve grigiore; con le spalle a una delle porte laterali che doveva aver richiuso con un certo sforzo -, una guardia del Re Aucnus giaceva morta, con una corta spada infissa nel ventre. Larth si chinò a guardarlo: era caldo e la ferita aveva appena cessato di sanguinare. Gli posò una mano sugli occhi per chiuderli. «Perdonami, se non ti onoro», pensò tra sé, sfilando la spada dalla ferita; non sarebbe stata la propria, che era rimasta al Palazzo come imponeva il cerimoniale, ma era meglio di niente. Aprì quindi la stretta porta laterale e sgusciò fuori. Un servo del Re Aucnus stava tentando di farsi aprire, ed era lui a battere al portale principale con tutte le proprie forze. Sullo spiazzo, i servi sorpresi nel sonno o nei festeggiamenti giacevano adesso morti, spogliati e mutilati, come se un'orda di feroci predatori fosse dilagata nel recinto troppo improvvisamente per essere sentita. Un nucleo della Guardia dei due Re resisteva ancora, in prossimità dell'uscita del recinto sacro, ma di fatto erano gli assalitori che li tenevano inchiodati lì, per evitare che mettessero in allarme la città ancora silenziosa. Larth afferrò il servo per un braccio e lo trascinò nel Tempio, rientrando dalla porta laterale. L'uomo aveva una ferita lieve su un lato della faccia: un colpo di spada che il suo assalitore aveva certo creduto mortale. «Sono arrivati dal mare, mio signore!» balbettò, con le ginocchia tremanti, afferrandosi alla sua tebenna. «Quando era ancora buio! Sono spuntati dal niente e ci sono piombati addosso... noi... dormivamo!» «Calmati, e corri dal tuo Re, a dare l'allarme!» «Io sono un servo, mio signore: come posso entrare nel recinto delle donne della Madre?» «Perché io te lo ordino! Muoviti!» gli ingiunse Larth, spazientito. L'uomo arretrò di un passo, non meno timoroso di lui che dei nemici, e si decise a obbedire. Larth riaprì la porta e tornò fuori; la penombra si era mutata in un chiarore livido, rivelando gli assalitori stretti attorno al drappello di guardie ancora in grado di combattere: erano pirati focesi, e molti erano stati in città per giorni, confusi tra i mercanti e tra la folla venuta a rendere omaggio al Re Supremo. Non doveva essere stato difficile preparare ai compagni la via più sicura e imprevedibile per l'invasione. A quel pensiero, Larth maledisse la leggerezza delle guardie di Aucnus, e anche la propria, ricordando di aver notato la mancanza della sentinella al braciere
della terrazza inferiore del Palazzo. Le sentinelle dovevano essere state eliminate molto prima che tutto avesse inizio, per non correre rischi inutili. Larth si mosse: inaspettato, giunse alle spalle degli assalitori e si aprì un varco verso le Guardie, falciando tutti quelli che tentavano di sbarrargli il passo verso l'uscita dal recinto sacro. Trascinate dal suo slancio, le guardie si mossero con lui, di fatto incuneandosi tra i pirati e ricacciandoli oltre il recinto e fin sulla spiaggia. Larth si trovò a rotolare nella sabbia avvinghiato a un assalitore di cui a stento riusciva a vedere il viso. Era molto più vecchio di lui, e robusto; per un momento Larth giacque supino, oppresso dal peso dell'uomo e minacciato dalla spada sospesa sulla sua testa. Riuscì a scuoterlo e la lama calò a vuoto, graffiandolo appena; nello stesso momento, sollevandosi, infilava la propria nel petto dell'uomo e lo lasciava morto correndo via, verso il Palazzo. Le guardie lo seguirono. Ne mandò due alla Porta d'Oriente, sull'altro lato della città, dove aveva inizio la strada per Xaire e per l'interno; la porta e le mura non erano facilmente conquistabili, per un assalitore dall'esterno, ma, ormai, erano inutili. Mandò altre due guardie a portare l'allarme alla caserma, con la sola speranza che il resto della Guardia del Re non fosse già stato annientato, e corse verso il Palazzo tenendo con sé una decina di uomini. Il fumo si stava diffondendo sulle terrazze più basse e il grigiore era squarciato dalla luce del sole, sempre più viva. Il silenzio era rotto da urla e richiami: il rumore della lotta dilagava più velocemente dell'allarme, e finalmente giunsero il suono delle trombe e quello dei cavalli della Guardia. Con un balzo, Larth superò le basse mura delle prime terrazze, senza curarsi di essere o no seguito dagli uomini, e si infilò nel Palazzo, che non conosceva, e che gli sembrò ostentatamente grande e ricco al confronto di quanto ricordava della rigida sobrietà di quello di Tarchna. Incontrò i corpi di un paio di serve uccise e le tracce di un bottino forse troppo pesante: coppe d'oro e gioielli caduti da una sporta improvvisata. Appena oltre, sulla soglia di una delle stanze, una giovinetta nuda giaceva in una pozza di sangue, gemendo piano. Larth trovò un porticato e tornò all'esterno: era finito su una delle terrazze superiori. Nell'angolo opposto, Caitli stava tra lui e Thanaquil, la machaira in mano, pronta. Rialzò la propria spada, girando appena il capo verso l'interno della
stanza, e capì all'istante quello che era accaduto. Fece cenno agli uomini che l'avevano seguito di fermarsi. «Continuate a frugare il Palazzo», ordinò. «Uccidete tutti i pirati che riuscite a scovare!» Lentamente, Caitli abbassò l'arma. Per un attimo ancora Larth non si mosse, poi la raggiunse e gliela tolse di mano: era un'arma del Re, ed era sacra. La tenne solo un istante, e poi gliela posò ai piedi, riconoscendole il diritto dell'Erede. Thanaquil prese a singhiozzare; Caitli andò a prendere uno dei mantelli di Ramtha, la coprì e la strinse a sé, consolandola sommessamente. Larth si staccò da loro e arretrò fino alla sommità delle scale, la spada pronta. Era escluso da quel dolore, che Caitli sembrava arginare soffocandolo tra le sue braccia; ma poteva almeno morire per proteggere le figlie del suo Re. L'assalto a Pyrgi fallì nel momento in cui la Guardia a cavallo, scendendo dalla via maestra al Tempio, strinse la città in un cerchio che i pirati, ormai chiusi all'interno, non riuscirono a forzare. Stretti tra le mura a est e a sud e gli uomini e il mare a nord e a ovest, appesantiti dal bottino che si intestardivano a trascinare, finirono infilzati dalle lunghe lance o trapassati dalle spade. Il sole del mezzogiorno non vedeva più un solo pirata in Pyrgi, ma la città mostrava tutte le sue ferite, mentre si raccoglievano i morti e si organizzavano i primi soccorsi. Il Tempio, che con le sue ricchezze e la sua sacralità era la meta ultima della scorreria, non era stato toccato. Il capitano della Guardia di Re Aucnus armò quanti tra i suoi uomini erano ancora validi e corse dove le navi focesi erano rimaste alla fonda, aspettando il ritorno dei propri uomini con bottino e schiavi. Quando arrivarono, tuttavia, scoprirono che le navi erano state messe in qualche modo in allarme e avevano già preso il largo. Non poterono fare altro che guardarle allontanarsi. Larth aprì il corteo funebre che riportava le spoglie di Ramtha al suo Palazzo di Tarchna; sul carro a due ruote, coperto dalla sontuosa tela ricamata d'argento, il corpo della Regina era stato composto nei lini e avvolto nel manto di porpora. Re Tarchon, trasformato dal dolore che gli aveva impietrito i lineamenti, seguiva il corteo sul suo cavallo. Ma era il Re Supremo, e doveva agire come tale: Ramtha era appena sta-
ta consegnata al suo sepolcro e già il Palazzo doveva aprirsi a ospitare i Re delle Dodici Città della Lega, che venivano a portargli le asce dalla doppia lama in custodia, come stabiliva la Disciplina, perché il tempo della guerra sul mare era venuto e i simboli del potere delle città dovevano testimoniare al Re Supremo l'alleanza e sancirla concretamente. I Rasna dovevano difendersi. Poco prima dell'inizio dell'assemblea, Caitli raggiunse suo padre e, non vista, restò a guardarlo. Se ne stava inginocchiato all'altare della Madre Dia, nel piccolo cortile nascosto, e sfiorava con la punta delle dita le pietre annerite dal fulmine: tentava di attingere alla sacralità del luogo, ma non ne riceveva sollievo, perché tutto gli scivolava addosso senza neppure sfiorarlo. Caitli gli si avvicinò e gli accarezzò il capo con una mano. In nessun altro luogo avrebbe osato quel gesto; lì e in quel momento tuttavia non era una figlia, ma la Sacerdotessa della Casa, e Tarchon, sollevando appena lo sguardo, la riconobbe per tale. Le prese la mano, e se la portò alla fronte. «Che cosa devo fare?» mormorò, così sommessamente che appena si poteva udirlo, simile a un bambino che chiede il suo primo consiglio e che vede la disperazione più forte di ogni speranza. «Aspettare», disse Caitli, «ed essere Re, per coloro che ti hanno eletto.» Tarchon girò attorno lo sguardo; aveva pensato molto a se stesso, in tutti quei giorni, dimenticando tutto ciò che era stato importante per lui prima e che ancora faceva fatica a ricordare. «Alzati, mio Re», lo esortò Caitli, chinandosi ad aiutarlo. Tarchon si appoggiò all'altare coperto di asfodeli bianchi, rosa e gialli. Il fiore della morte, che si apriva soltanto al soffiare del vento, ornava ora anche la camera vuota della Regina e si addiceva al suo stato d'animo; ma il peso che gli imprigionava la testa si era sciolto sotto il tocco di Caitli. Trasse un sospiro. «Sacerdotessa della mia Casa», sussurrò quindi. «Cerca un segno per me: un segno che mi parli di quello che mi aspetta ancora.» Caitli distolse lo sguardo dal viso del padre. Grandi api d'oro, precoci per la stagione, si intrufolavano nelle corolle delicate degli asfodeli, a succhiare il nettare. I caprifogli erano in fiore, e il loro profumo addolciva l'aria. Caitli toccò la pietra antica, traendone una sensazione di gioia, che era per lei, e lei soltanto: non solo non si allargava a sfiorare il Re, ma anzi era confusa e oscurata da qualcosa che veniva da lui, e che avrebbe portato
sofferenza. «La più giovane delle tue serve, Vultha, è rimasta gravida di te, sette lune fa. Ti darà un figlio maschio che nascerà presto.» «Vivrà?» mormorò il Re. «Sì, perché il suo tempo è prossimo.» «E a causa di quel bambino tu mi perderai, e questa Casa non avrà Re», pensò Caitli, ma non lo disse, trattenuta all'ultimo istante da quel tenue filo di vita che aveva visto brillare negli occhi del padre. Tarchon serrò le labbra. «Sii al mio fianco per il benvenuto ai Re», le disse, alzandosi. «Sei la Sacerdotessa di una Casa che non ha più Regina.» «Se così è scritto», mormorò Caitli, muovendosi a seguirlo. Larth aspettò paziente che Marce Vibenna avesse tempo anche per lui. L'uomo, della nobile Casa dei Vibenna di Velx, stava ricevendo i comandanti che avrebbero servito ai suoi ordini e i giovani nobili che avrebbero formato la Guardia. Le ventidue navi da guerra, con i minacciosi rostri di bronzo a prua, erano ormai pronte e ben custodite, attraccate al molo di Pyrgi appena oltre le navi mercantili, alcune giunte da poco, altre in procinto di ripartire. Il molo brulicava di gente: mercanti, artigiani, schiavi, soldati e nobili; e i giovani delle Case più in vista delle Città della Lega, per i quali sarebbe stato il primo vero distacco dalla famiglia, e la prima occasione per portare onore al loro nome. «Ma non è il suo caso», pensò Marce Vibenna non appena Larth gli arrivò davanti. Vibenna era un uomo alto e massiccio, con i capelli grigi e occhi freddi e attenti: il miglior comandante che i Rasna avessero avuto da molte generazioni, e i Rasna erano signori del mare da molto più tempo di quanto le genti che cercavano di ostacolarli potessero ricordare. La sua nomina aveva trovato concordi tutti e dodici i Re, e anche il Re Supremo, che l'aveva sancita. «Larth di Tarchna», sussurrò quindi, senza lasciar trasparire dallo sguardo nulla di quanto pensava, e tuttavia compiaciuto di quanto vedeva. Un bel giovane con l'aria troppo dura per poter osare una qualunque cosa nei suoi confronti e non averne in cambio la risposta adatta. «Mi hanno detto che hai seguito gli insegnamenti dei Trutnot», disse tuttavia, e lasciò a metà la frase, come se fosse un'accusa di debolezza. «Ho accompagnato il Grande Trutnot Velvur nei suoi sentieri», fu la ri-
sposta, misurata quanto bastava. Marce Vibenna sorrise appena: non si sbagliava mai nel giudicare gli uomini, e quel ragazzo non lo avrebbe deluso. «Un soldato non è mai abbastanza uomo, e un uomo non è mai abbastanza saggio. Io credo che questi sentieri siano stati molto più istruttivi dei giochi di palestra.» Larth non sentì nemmeno il bisogno di assecondarlo. L'uomo posò gli occhi sulla fibula che gli chiudeva la tebenna di lana bianca ricamata a spirali nere: il simbolo del Re di Tarchna era un impegno solenne. «Quella», esclamò Marce Vibenna indicandola, «poiché non sei figlio di Re, faresti meglio a riporla. I tuoi compagni non gradirebbero avere tra loro un Principe che si avvale di un simbolo che non è il suo.» Larth per la prima volta accennò un sorriso, coprendo la fibula con la mano, e Vibenna avvertì il fascino di quel sorriso che sapeva da solo essere più efficace di una minaccia. «Forse lo farò», fu tutto quello che rispose. Il generale accennò al molo. «Ti voglio sulla mia nave con mio figlio Caile, il giovane Mastarna e il meglio dei giovani di Velx. La mia nave è sempre la prima in ogni azione e non tutti sono degni di essere scelti per lei, sappilo. E sappi anche che io apprezzo il valore in battaglia, ma non ammetto errori in alcun momento, fosse pure nel più fiacco giorno di vento e con il più pacifico dei mari. E sul mare non ci sono privilegi di casta... o di simboli.» «L'ho sentito. Ma ci sono le navi armate da Tarchna, condotte da Aivas, con gli uomini della Casa del Re e dei suoi Principi.» «Rifiuti la mia scelta?» Larth sostenne il suo sguardo. «No.» Vibenna lasciò passare un breve silenzio; la sua prima impressione si stava rivelando esatta. «Nella taverna di Deste troverai gli altri giovani nobili e anche il resto del tuo equipaggio», gli disse, congedandolo. «Questa notte ci saranno i riti di propiziazione, ma vi voglio tutti a bordo un'ora prima del sorgere del sole. E con Mastarna, cui ho dato lo stesso ordine, ti riterrò responsabile se mancherà qualcuno.» Larth assentì, chinò il capo e gli voltò le spalle. Marce lo seguì fin sulla porta e restò a guardarlo un momento, pensando che quell'uomo sarebbe stato pericoloso. Il tramonto faceva colare una luce densa sul porto e sulla
città; l'aria era calda, colma dell'odore dei cibi, dei fuochi accesi, delle spezie e dei pesci cucinati sotto le pietre calde, avvolti nelle foglie di vite. Gli Aruspici traevano i loro segni e preparavano i riti della notte, ma per sua richiesta il Tempio della Dea Madre sarebbe rimasto chiuso: avrebbero festeggiato la Dea quando, e se, fossero tornati. Marce Vibenna si era sorpreso sapendo che il Grande Trutnot in persona aveva sostenuto la sua scelta. Larth entrò nella taverna di Deste, passando tra i nobili riuniti, mentre i servi preparavano i pochi bagagli necessari e vigilavano, custodendo le armi. Il suo servo lo aveva preceduto e lo aspettava con gli altri: sarebbero tornati poi tutti insieme alle rispettive case dopo la partenza delle navi. Così molti di loro erano davvero allegri, considerandosi assai più fortunati dei padroni. «Abbiamo un Re!» esclamò uno dei giovani di Sveana, non appena mise piede nella taverna, accennando ad alzare una coppa di vino nella sua direzione. Larth finse di non sentirlo: non lo conosceva, e non aveva alcun motivo per volerlo fare, ma gran parte di quelli che il ragazzo aveva attorno lo spalleggiavano, resi euforici dal vino e dall'eccitazione per la partenza imminente. «Non dovrebbero essere lasciati a loro stessi», pensò Larth. «Questi non hanno mai avuto paura davvero.» «Ho parlato con te, Tarquinio!» lo stuzzicò di nuovo il giovane. «I diritti di un Re non si guadagnano nel letto di una donna, così il tuo simbolo non ha valore!» Larth si fermò. Uno dei giovani che erano rimasti in disparte al proprio tavolo si fece avanti d'un balzo, mettendosi tra lui e il provocatore. Era agile quanto un gatto, con una testa di capelli ricci color bronzo e il simbolo di una Casa di Velx sulla tebenna. «È ubriaco; lascialo perdere, amico», esclamò, e tese il braccio a tenere lontano l'altro. Larth, tuttavia, notò che quelli che erano al tavolo con il suo sostenitore non si erano mossi. In effetti, in tutta la taverna, loro due erano soli a spalla a spalla. «Non ti ho chiamato», disse Larth. «Lo so. Ma so anche come il generale Vibenna ci farà pentire di qualunque cosa possa accadere qui dentro.»
Sorrise, per un istante: gli occhi verde chiaro molto più duri e minacciosi di quanto l'atteggiamento avrebbe lasciato supporre. Puntò un dito contro il provocatore. «E lo sai anche tu, Varxie, perché sei già stato punito una volta da che siamo qui aspettando di partire.» Si girò di nuovo verso Larth. «Sono Mastarna, di Velx, e ti offro da bere.» Larth fece un breve cenno di assenso. Passarono accanto al nobile di Sveana senza più prestargli attenzione, ma Mastarna restò alla sua sinistra, pronto. Larth ricordò all'improvviso le parole del suo Maestro d'Armi, Tefrie: «Forse guardi troppo lontano...» Accettò la coppa di vino, ma restarono in silenzio. Mastarna, come lui, sapeva aspettare. Larth riuscì a vedere Velvur solo poco prima della partenza, mentre controllava con Mastarna l'imbarco di tutti quelli destinati alla sua nave. Il Grande Trutnot per un poco rimase in disparte sulla banchina, a osservarli, protetto nel suo mantello dai colori vivaci, che lo facevano apparire strano come un uccello variopinto in mezzo a topi indaffarati, poi si avvicinò e gli posò una mano sul petto, trattenendolo un attimo. «Non dimenticarti di ciò che sei, e di ciò che sogni», mormorò il Trutnot. Larth gli strinse la mano, sorridendo a fior di labbra. Forse era la prima volta che l'affetto emergeva da quella voce profonda che sapeva incantare. «Vuoi vegliare su Caitli per me?» gli rispose. Velvur assentì appena; dopo tanto tempo, Larth pensava ancora che una chimera potesse essere conquistata se soltanto si voleva, e quell'ostinazione gli dava pena. Non poteva fare più nulla per il giovane che ancora una volta si allontanava dal luogo cui apparteneva; non poteva fare altro che aspettare e osservare, sperando che i suoi insegnamenti fossero tanto forti da restare vivi. «Veglierò su Caitli», promise quindi, ma non gli disse che sarebbe stato lui a essere vegliato dalla giovane donna. L'alba era appena spuntata quando le navi salparono, girando la prua verso il largo fino a distendere le vele e a prendere il vento. Sarebbe stato un altro caldo giorno d'estate. 6.
Caitli soffiò sulla fiamma e restò ad aspettare, avvolta nel pesante mantello di lana e accoccolata ai piedi del grande focolare di pietra nella stanza dei Principi. Da lungo tempo era diventata una sua abitudine passare ore e ore in quella stanza, e più nessuno si stupiva se spesso dava l'ordine di accendervi il focolare, e vi si ritirava. Lì c'erano le erbe e gli unguenti, i bisturi e i ferri, e i preziosissimi rotoli scritti che il Grande Trutnot le aveva trasmesso; soprattutto, però, c'era qualcosa che non si vedeva, ma che si sentiva addosso come un fluido o una corrente e rendeva gli occasionali visitatori ansiosi di andarsene. Solo Caitli riusciva a dominare quella forza. Nessuno passava quella soglia se non chiamato, nemmeno il Re. Solo Thanaquil aveva libero accesso alla stanza, attratta e partecipe di quella stessa corrente; con lei - vivace, attenta e curiosa ma anche allieva diligente - Caitli riusciva a dimenticare il fato che la voleva Sacerdotessa e non Regina. Nella stanza faceva ancora freddo; l'inverno era stato tardo, ma rigido, e la primavera era aspra. Sul mare c'erano ancora tempeste... Caitli allungò una mano sulla fiamma, che sembrò arretrare, lasciandole per un attimo la visione delle onde alte. «Dov'è Mastarna?» mormorò Thanaquil al suo orecchio, accoccolandosi accanto a lei sul gradino. «Aspetta. Sii paziente, e lo vedrai», rispose la giovane donna in un soffio, senza distrarsi. Thanaquil trattenne quello che stava per dire, rabbrividendo appena. Il crepuscolo ammassava ombre tutt'attorno, addensandole negli angoli. «Sono in pericolo?» mormorò quindi. Nemmeno lei era del tutto al riparo da quel Potere che non avrebbe mai saputo dominare quanto Caitli. Questo, lo sapeva. «Non più. Guarda!» L'ombra di Larth si stava componendo nel fuoco partendo da un punto buio grande quanto l'opale nero che portava sul petto e che ingrandendosi a poco a poco riusciva a prendere la forma del suo viso. Le sue labbra si stavano muovendo. Caitli imprigionò quell'immagine nel proprio pugno chiuso, e per un attimo fu sul ponte dell'ammiraglia di Vibenna e sentì il gemito dei feriti e gli ordini urlati; poi vide l'altra nave, agganciata dal rostro e abbordata, e passò tra i morti e i soldati rasna, fino a lui, sfiorandolo con una carezza
leggera che lo fece trasalire. Era coperto di sangue, ma non era ferito, e non lo era nemmeno Mastarna al suo fianco, la corta spada ancora sguainata. Thanaquil si era innamorata del suo viso la prima volta che era comparso nel fuoco e per causa sua, pur avendo già quindici anni, aveva rifiutato due pretendenti. Re Tarchon aveva accettato di buon grado la sua decisione: Thanaquil era il ritratto di Ramtha e la sua sola presenza gli dava quella consolazione che non aveva più trovato. Gli occhi di Thanaquil adesso brillavano. Caitli riaprì la mano e carezzò la sommità del fuoco, spezzata in centinaia di faville luminose. Thanaquil si strinse nel mantello. «Quando torneranno?» chiese. «Presto», mormorò Caitli, senza più voglia di alimentare ancora quel fuoco. Anche la pietra era calda e viva attorno a lei: era come se fosse partecipe dell'evento, e altrettanto sfibrata. Caitli buttò nel fuoco una manciata di erbe: aveva alterato l'equilibrio lieve dello spazio e del tempo, ed era un'azione che richiedeva una ricompensa; come tutti gli eventi, non era senza un prezzo. Quindi si strinse nel mantello e chiuse gli occhi. Erano via da quattro interi cicli di stagione; quattro lunghi anni che erano stati tuttavia brevi per Larth, attratto da tutto ciò che gli sembrava nuovo: il giovane era sempre stato avido di imparare e se quel periodo gli aveva preso molto, gli aveva dato altrettanto. Una guerra troppo lunga per tutti, e che stava per dare i suoi frutti. «Cattivi», pensò Caitli. «Come quelli di tutte le guerre. Morte e distruzione. E molto onore. Ma l'onore è degli uomini, e la terra ne è impoverita, così anche gli uomini diventano più poveri ricevendo quello che hanno dato.» Non l'avrebbe detto all'imminente assemblea dei Re delle Dodici Città della Lega, che la chiamava sempre più spesso a interpretare i segni: il popolo rasna stava per riconquistare il dominio del suo mare e tanto sarebbe bastato ai Principi preoccupati per l'economia delle città e per il futuro dei propri figli. «Torneranno da eroi», mormorò; l'idea della morte le dava una grande tristezza, ma solo Velvur poteva condividere questo suo sentimento e Velvur adesso era lontano, in viaggio, a studiare i fulmini e a preparare i giovani nel Sacro Centro del Tivrit, sull'Isola Fumosa. In effetti, i Rasna avevano rischiato la disfatta già sul finire della prima
estate, quando la flotta focese, al largo di Cuma, aveva assalito di sorpresa le loro navi dimezzandole di numero. Avevano così perso quasi una stagione per riarmare le navi e rimpiazzare gli uomini; quindi avevano fatto vela per Cartagine, per stabilire i patti e rinsaldare l'alleanza; infine erano tornati a risalire il loro mare e avevano dato battaglia alle vele greche e focesi dinanzi alle coste di Motya. Da allora le battaglie si erano susseguite senza più soste se non quelle forzate dell'autunno e dell'inverno. Ora la flotta focese era senza risorse, ed era ormai soltanto una questione di tempo. Presto gli uomini sarebbero stati di ritorno, salutati come eroi. La porta si aprì in quel momento, con uno scatto brusco. Thanaquil sobbalzò; nel vano, messa appena in risalto dalla luce delle lampade accese nella loggia che univa l'ala antica del Palazzo a quella principale, si stagliò la piccola ombra del bambino. Caitli sollevò il capo. «Non devi venire in questa stanza, Vul. Ti è già stato detto più di una volta. Dovrò forse punirti perché tu possa ricordarlo?» «Tu non puoi punirmi.» La vocina era acuta per l'emozione. «Io sono il figlio del Re!» «Piccolo impertinente!» esclamò Thanaquil alzandosi di scatto, minacciosa. Il bambino balzò all'indietro e corse via, mentre una delle ancelle, che stava venendo di corsa a cercarlo, si ritirò subito, senza osare guardare all'interno. «Non lo sopporto», mormorò Thanaquil richiudendo la porta con violenza. Girandosi, rabbrividì: il fuoco si era spento all'improvviso perché Caitli l'aveva lasciato per andare ad accendere le lampade, e la stanza era piombata nel buio della notte. «Perché io e te?» mormorò Mastarna, osservando la linea cupa della costa in lontananza. La luna era uno spicchio pallido, troppa bassa per dare luce. «E perché no?» ribatté Larth appoggiato al parapetto della nave, senza girarsi. Mastarna scosse il capo; quattro anni al suo fianco gli avevano dato la non comune abilità di riuscire a capirlo e di essergli amico; l'impresa non era stata facile: ma Mastarna era testardo e la sua tenacia era stata premia-
ta. «Vibenna non ci ha chiesto tanto», obiettò quindi. «Ma non si aspetta di meno.» Mastarna si girò a guardare la tolda vuota e buia dell'ammiraglia; l'ordine per il silenzio e l'oscurità assoluta era imperativo: dalle coste di Alalia, prossimo obiettivo della flotta rasna, non dovevano nemmeno sospettare della loro presenza. E tuttavia proprio quel buio e quel silenzio facevano della nave un involucro scricchiolante di cattivi presagi. «Suggestioni», mormorò Larth. «È solo questo che sono: non ci pensare.» «Suggestioni, dici?» mormorò Mastarna di rimando, senza più stupirsi della capacità di Larth di rispondere ai suoi pensieri. «Anche alla nostra prima battaglia davanti a Cuma hai detto che erano soltanto suggestioni e per poco non ci hanno sbaragliato.» «Ma siamo ancora qui a parlarne», sorrise Larth. Mastarna scosse il capo e si sedette con le spalle alla fiancata. Di certo la calma di Larth, in battaglia come nelle lunghe attese, era preziosa per gli uomini, che lo riconoscevano il migliore e gli obbedivano. E tuttavia non aveva amici; lo avrebbero seguito senza fiatare in qualunque conquista, ma non si sarebbero attardati per lui moribondo o per dargli gli onori della morte. Ovviamente Mastarna faceva eccezione, ma era troppo poco per chi voleva essere Re Supremo, come più volte Marce Vibenna gli aveva fatto osservare. La barca si stava accostando; i due uomini ai remi appena sfioravano l'acqua, e non erano che ombre indistinte, come fantasmi della mente. Mastarna si alzò, Larth si mosse. Marce Vibenna stava venendo da sottocoperta, insieme con i comandanti delle otto navi che già avevano raggiunto l'ammiraglia: gli ultimi mesi l'avevano logorato e una ferita che tardava a chiudersi lo indeboliva. Per un attimo rimase in silenzio a guardare i due giovani, poi mormorò: «Domani a quest'ora tutta la nostra flotta sarà qui e all'alba attaccheremo Alalia dal porto, se vedremo bruciare le navi focesi alla fonda». Larth assentì; avevano discusso più volte il piano d'attacco. Riparlarne gli sembrava una perdita di tempo, ma Vibenna non era mai abbastanza sicuro, o soddisfatto. Marce Vibenna girò lo sguardo su Mastarna. «Cosa c'è? Non mi sembri convinto», gli chiese.
«Perché non lo sono. Io, a differenza di Larth, non considero una cosa già fatta solo perché voglio farla. Mi piace vedere quello che non funziona e cercare di rimediare prima di trovarmi morto da qualche parte.» «La tua prudenza e la sua temerarietà mi sono di conforto: l'uno non sarà mai un vigliacco e l'altro non morirà inutilmente», ribatté Vibenna, facendo trasparire una lieve ironia dalla sua pur sincera affermazione. «Avrete un giorno e una notte per mischiarvi ai Focesi e incendiare le navi; intanto Caile sbarcherà la fanteria a sud di Alalia e resterà nascosto, in attesa. Mentre tutti saranno impegnati a spegnere gli incendi, voi attaccherete la città dall'interno, forti di trecento uomini. A quel punto noi entreremo in porto. Continui a considerare troppo lungo il tempo che dovrete passare ad Alalia tra la gente, Mastarna?» Mastarna assentì, infastidito dal tono di Vibenna e dall'ostentata neutralità dei comandanti, ciascuno dei quali aveva proposto i nomi dei propri migliori uomini per l'impresa e che quindi ritenevano a dir poco disdicevole la sua logica opposizione. Lardi lo spinse verso la scala di corda che i marinai avevano silenziosamente srotolato lungo il fianco della nave. «Le navi bruceranno, e anche il porto», disse girandosi verso il generale. «Già: chiameremo il fulmine, per riuscirci», borbottò Mastarna tra i denti, calandosi giù. «Sì, se sarà necessario», ribatté Larth, serio, prendendo posto al suo fianco mentre la barca si muoveva. Entrambi vestivano alla greca: portavano la spada corta e il pugnale, ed entrambi parlavano greco tanto da essere creduti da un orecchio non addestrato. Tutto quello che poteva servire loro erano l'arco cretese e la faretra di frecce: non portavano insegne, e ciò li avrebbe condannati all'oblio se fossero morti prima di far sì che la flotta rasna potesse entrare in porto. Quella, e non la morte in sé, sarebbe stata la vera tragedia. Tuttavia Larth aveva tenuto l'opale, la cui fattura orientale non poteva tradirlo, e dal quale comunque non si sarebbe mai separato. Sfiorandolo con la punta delle dita, rammentò la paura del Re di Ruma, e di molti avversari dopo quello: «È una pietra cattiva, che porta la morte...» Ma per Larth era il Potere. Il mare era tranquillo, appena increspato da un accenno di vento. Lo specchio della baia era un chiuso anello naturale dove l'apertura, di per sé
già stretta, era stata ulteriormente ridotta da un frangiflutti di grossi blocchi di pietra. Il passaggio che restava era appena sufficiente per una nave alla volta, ed era facilmente controllabile: nessuna imbarcazione aveva la possibilità di passarvi senza essere abbordata; d'altra parte la costa, accidentata e rocciosa, non permetteva di attraccare al di fuori della baia. La barca nera accostò silenziosamente alla barriera frangiflutti; Larth e Mastarna ne guadagnarono la sommità, mentre l'imbarcazione tornava indietro per la stessa via. L'onda era fiacca; l'aria umida era carica di una tensione lieve. Il porto sembrava quieto, con i fuochi di guardia all'estremità di ciascuna delle otto banchine e la linea degli edifici bassi, del tutto silenziosi, a eccezione di un paio di locande che restavano aperte tutta la notte. Alle spalle del porto la città, formata da piccole case di pietra strette l'una all'altra, s'inerpicava su un colle, sulla cui sommità si trovava un Tempio, appena distinguibile per i bracieri sacri accesi davanti all'ara. «Legno», osservò Mastarna, protendendosi a sfiorare la prima delle banchine nel momento in cui, risalendo dalla barriera frangiflutti alla spiaggia sassosa, gli arrivò sotto. «Tutto legno; non roccia, o massi squadrati. Brucerà.» «Sì; e le navi all'attracco sono undici. La più grande è una holkas e sembra carica. Dobbiamo scoprire di cosa», replicò Larth. «Hai una buona vista», esclamò Mastarna, mentre valutava la grossa nave; era tanto bassa sulla linea di galleggiamento da far pensare a un carico pesante. «Potrebbe essere uno dei carichi del nostro ferro.» «Sarebbe meglio se fosse il loro olio, diretto a Massilia», rifletté Larth. «Vuoi incendiarla per prima?» «Ci sto pensando.» Si diressero a una delle locande. Lungo il molo c'erano uomini riuniti in crocchio a giocare con i dadi secondo l'uso dei Lidi; più avanti dei ruffiani offrivano la strada più breve e la spesa più modica per passare il resto della notte in buona compagnia. Se c'erano guardie, si tenevano lontane da entrambe le tentazioni: lungo il molo, infatti, non si scorgeva un solo uomo armato. La locanda era abbastanza affollata, ma così male illuminata da permettere a stento di distinguere gli avventori. Il pavimento di pietra era coperto di paglia che era anche ammassata, a mucchi, sul fondo della sala: quella era dunque la sistemazione per la notte che un ragazzino, per invogliare i clienti, offriva sulla soglia.
Sedettero a uno dei tavoli liberi: qualcuno si era girato, al loro passaggio, ma non era altro che banale curiosità. C'erano altri stranieri, e l'arco cretese che i due giovani portavano serviva a cacciare; non era un'arma da guerra. «Da dove venite?» borbottò il locandiere in un greco stentato, quando finalmente si degnò di venire al loro tavolo. «Non vi ho mai visto qui intorno.» «Dalle colline», rispose Larth. «Io e il mio amico non abbiamo avuto modo di stare un po' soli, ultimamente.» Il locandiere accettò la spiegazione con una smorfia che commentava da sola la sua opinione sulle abitudini greche. «Siete di Creta?» esclamò, ponendo loro davanti il vino e la focaccia calda alle olive. «Tirinto», ribatté Larth placidamente, versando il vino per Mastarna e porgendogli la coppa fino ad appoggiargliela sulle labbra. «Festeggiamo?» mormorò quindi con una traccia di sorriso che non si riflesse nei suoi occhi. Mastarna, suo malgrado, distolse lo sguardo e lo affogò nel vino. L'oste girò loro le spalle e tornò alle sue faccende. Mastarna ingoiò un lungo sorso e sorrise appena, posando la coppa e valutandone la rozza fattura. «Adesso so come si sente un amato», mormorò. «Bravo. Però la prossima volta io faccio l'amante e tu l'amato!» Larth si concesse un breve sorriso. «Non criticare le abitudini altrui solo perché non sono le tue. Non c'era scusa migliore per spiegare la nostra comparsa così tardi: ci sono due navi greche all'attracco e dobbiamo per forza essere venuti con una di quelle.» «Sì, naturalmente hai ragione», concordò Mastarna. Per un poco restarono in silenzio; la focaccia calda era ottima e anche il vino. «Il vino è nostro», mormorò Larth. «Di Velzna, direi.» «Continuando a depredare si sono affinati il gusto», commentò Mastarna, serio. Una mezza dozzina di uomini erano entrati nella locanda; avevano l'aspetto di una ronda e portavano le insegne del Re di Alalia. Parlarono un momento con l'oste, bevvero un paio di coppe e se ne tornarono fuori; avevano l'aria svogliata, di chi fa una cosa desiderando di fare tutt'altro. Alcuni avventori avevano già lasciato i tavoli per i mucchi di paglia, sul fondo del locale, ma nessuno degli uomini della ronda si scomodò per an-
darli a controllare. «Io sono convinto», mormorò Mastarna, «che se ciascuno potesse davvero partecipare alle decisioni importanti della propria città farebbe la sua parte molto meglio.» «Che stai dicendo?» gli rispose Larth, distratto. «Prova a pensarci: noi siamo nobili e le nostre sono Case di Principi. Abbiamo uomini e donne legati a noi dalla proprietà. I nostri servi, i nostri soldati, i nostri artigiani: sono tutti legati dall'obbligo, e non hanno scampo. La nostra monarchia è assoluta ed ereditaria; e il Re Supremo è il risultato di un accordo di convenienza stipulato di anno in anno tra le città della Lega. Ma un Re che si meritasse il regno per davvero saprebbe essere un Re migliore, non credi? E se la gente potesse dire la propria idea saprebbe difenderla e combattere...» «Un Re deve esserlo nell'anima e nella carne, amico mio. Un Re parla con gli Dei e deve sacrificarsi, se necessario», mormorò Larth. «Le idee mutano a ogni soffio di vento, e i tuoi servi potrebbero acclamarti oggi e domani tagliarti la gola, se qualcuno promettesse loro più di quanto tu hai dato.» Mastarna assentì cupamente. «Che facciamo adesso?» fu tutto quello che disse. «Che cosa fanno due amanti? Cercano un altro posto tranquillo, dopo il buon cibo e il vino!» scherzò Larth. «Magnifico», mormorò Mastarna. «Saliamo fino al Tempio: di lassù vedremo se ci sono mura verso l'interno. Torneremo qui a giorno fatto, per dare un'occhiata ai magazzini.» Si avviarono alla porta, lanciando al locandiere un saluto per l'indomani. L'uomo si affrettò a segnare il loro pasto sulla lunga lista a debito delle navi greche alla fonda, pensando al suo magazzino che in cambio si sarebbe riempito di olio pregiato e stoffe colorate. Salirono fino al Tempio: la luna era tramontata e la brezza aveva preso a spirare dal mare, umida. La tensione nell'aria si stava lentamente mutando in qualcosa di più consistente, ma ancora troppo lieve per essere percepito, se non come un fastidio sulla pelle. Il Tempio era una costruzione quadrata, non molto grande: il portale era chiuso. Non aveva ovviamente nulla a che vedere con i grandi Templi di Pyrgi o di Tarchna, ma dallo spiazzo antistante Larth e Mastarna potevano spaziare con lo sguardo tanto lontano quanto serviva loro. La città non aveva mura. Un attacco dall'interno doveva sembrare tanto improbabile ai
Focesi quanto la violazione del blocco all'ingresso della baia; la collina scabra sulla cui sommità si ergeva il Tempio era roccia viva sull'altro versante, ma non così impervia da non poter essere risalita in silenzio da trecento uomini addestrati come quelli che componevano le forze di Caile. I difensori del Palazzo del Re, che giaceva nel buio appena più in basso, non sarebbero stati un problema; il Palazzo sarebbe stato quindi il loro primo obiettivo. Ma non avrebbero toccato il Tempio. Larth era stato assolutamente chiaro su quel punto, quando il piano era stato preparato sulla nave ammiraglia; Larth dedicò un vago pensiero d'omaggio al Dio del luogo, qualunque fosse, poi i due ridiscesero al porto. Albeggiava. L'aria si era fatta densa e il cielo era gravido di nuvole nere. Il mare grigio sembrava animato da una forza interna, segreta, viva sotto la superficie ancora calma. Si coprirono con i mantelli e raggiunsero i magazzini. Gli schiavi avevano già cominciato il carico della nave attraccata all'ultima banchina; l'odore forte della carne abbrustolita aleggiava intorno alle locande. Il padrone del magazzino interessato al carico era un focese piccolo di statura, con il collo tozzo e le spalle larghe; arrivò di lì a poco, cordiale, scambiandoli per inviati dalla nave. «Il carico sarà pronto per oggi, ma il tempo non è buono per prendere il mare. Un giorno o due, forse: ecco, fra un giorno o due probabilmente le tempeste passeranno e potrete dirigere a nord», disse. «In effetti i nostri capitani hanno detto lo stesso. Però vogliono il carico a bordo», ribatté Larth, curiosando tra i pithoi di olio e di vino. L'uomo ammiccò, esprimendo così la sua tacita comprensione per l'irrimediabile ottusità di quanti di solito stanno più in alto sul gradino del comando. «Il Palazzo del Re è confortevole», esclamò quindi. «Vedrete che i vostri capitani non avranno tanta fretta di lasciarlo. Con quell'ultima nave sono arrivati una decina di schiavi cartaginesi di non più di dodici o tredici anni... e il nostro Re non è avaro.» «Su questo non c'è dubbio. Peccato che non tocchi mai a noi», ribatté Larth ridendo. «Che cos'hai laggiù?» chiese poi, indicando dei pithoi più piccoli e ben accatastati, che non sembravano far parte del carico. «Quelli? Vino fermentato, con miele e resina di pino. Un vero nettare! E poi essenza di vino, senza colore, ma come fuoco giù nella pancia. Vuoi provarla?» chiese l'uomo.
«Perché no?» Larth lo seguì di buon grado, mentre Mastarna restava a guardare le cataste di pithoi ordinate contro la parete di fondo del magazzino a sbarrare un portale di legno. Il focese versò due dita di liquido giallastro sul fondo di una coppa; l'odore era sgradevole: la distillazione doveva essere stata rozza, ottenuta comprimendo il raspo dell'uva in un torchio e poi lasciandolo fermentare con altre bacche. Il gusto non era cattivo, ma forte. «Almeno una ventina vanno sulla nave!» esclamò subito Larth, apparentemente entusiasta. «Non ho avuto ordini per questo», ribatté l'uomo un po' sorpreso. «Ci penseremo noi e ti assicuro che ne faremo un buon mercato! E poi... mettine anche dieci di quelli con la resina: è come avere aria di casa!» Il focese gli circondò le spalle in una stretta eloquente. «Nostalgia?» mormorò. Larth incontrò lo sguardo curioso di Mastarna, divertito dalla facilità con cui sapeva ingannare il mercante. Ma il focese diede un altro senso all'occhiata. «Un poco», sospirò Larth. «Ma, come vedi, non sono solo. Se fai portare subito a bordo i pithoi noi seguiremo i portatori per farli sistemare, e poi avremo ancora un po' di tempo per restarcene in disparte.» «Ho capito.» L'uomo sorrise, malizioso. «Andate: li farò portare subito. E poi chiedete di Xanthos, alla locanda qui dietro: lui ha delle stanze e si accontenta di poco. Dite che vi mando io.» Larth assentì, come se l'offerta lo avesse particolarmente soddisfatto, e il focese si attardò quindi un momento con lui, parlottando sottovoce, mentre Mastarna già usciva. Poco dopo precedevano una piccola schiera di portatori verso la nave greca. C'era una gran confusione sulla tolda, tra gli schiavi che andavano e venivano e i pochi greci rimasti a controllarli. Mastarna restò a terra, pronto; Larth si fece passare per uno dei nobili greci del Palazzo, da anni ad Alalia, con un dono del Re, e fece accatastare i venti pithoi sulla tolda; ricevette i ringraziamenti che accettò senza dilungarsi troppo, nel timore che i marinai si stupissero del suo accento, e lasciò la nave. Era mattino pieno, ormai, e i due decisero di andare in cerca di Xanthos, dopo che Mastarna si era procurato dal mercante un vaso di grasso e uno di olio.
«Per il corpo», gli aveva spiegato, lasciandolo con gli occhietti che brillavano. La stanza di Xanthos era piccola e maleodorante, ma aveva un'apertura proprio sul porto e un accesso indipendente da una scala di pietra che si arrampicava dai tetti delle case sottostanti. Nell'aria grigia del mattino, una luminescenza insolita si stendeva sul mare come un velo: neanche la vista più acuta avrebbe potuto scorgere le navi rasna, nemmeno se fossero già state all'orizzonte. «Che succede se il nostro cordiale mercante parla di noi con qualcuno della nave o del Palazzo? Il nostro gioco verrà fuori», mormorò Mastarna, disponendosi a lacerare la tela dell'unico pagliericcio per farne esca per le frecce. «Non lo farà: gli ho detto di venirci a trovare stanotte. Certo dovrà essere molto discreto, perché lui dopotutto non è che un mercante», replicò Larth. «Come fai a essere sicuro che non sia tanto curioso da voler sapere qualcosa di noi?» incalzò Mastarna. «Perché l'hai conquistato, e non vorrebbe perderti per sapere qualcosa che conta comunque di conoscere questa notte stessa», ribatté Larth sorridendo. Mastarna lasciò scivolare un insulto a fior di labbra; da tempo aveva cessato di stupirsi della rapidità con cui Larth volgeva le attitudini altrui a proprio vantaggio. «Certo sei bravo a vendere quel che non è tuo», aggiunse tuttavia, fingendosi più serio di quanto non si sentisse. «Non temere: non ti venderei per così poco», lo rassicurò Larth con altrettanta serietà, mentre disponeva sul tavolo, l'una accanto all'altra, le sei frecce: nessuna avrebbe dovuto mancare il bersaglio, e la prima sarebbe andata a incendiare quella piccola catasta preziosa appena sistemata sulla tolda della nave greca. E poi sarebbe arrivata la tempesta: quella che stava crescendo con esasperante lentezza. Sfiorò con la punta delle dita l'opale: era caldo e sembrava vibrare, e per un attimo Larth riuscì a essere la terra, e il mare, e la tempesta: e sentì che stavano aspettando il momento in cui lui avrebbe agito. 7.
Era buio. L'aria vibrava sul mare di piombo; i magazzini erano chiusi, mentre le locande si erano gremite di gente che, presagendo pioggia, si era tolta dal molo e dalle banchine; gli schiavi erano stati ricondotti presto ai recinti. Mastarna prese la via del Tempio con la promessa di esservi con Caile e i suoi trecento uomini prima dell'alba; Larth ridiscese al magazzino e si infilò nel vicolo raggiungendo la porta contro cui, all'interno, erano accatastati i pithoi. Posò a terra accanto a sé l'arco e le frecce e trasse la canna vuota che aveva preparato e riempito con uno stoppino imbevuto di olio e di grasso. Infilò quindi il proprio pugnale in una delle fessure, allargandola abbastanza, e bucò con un colpo secco uno dei pithoi. Ritirato il pugnale, fece passare la canna e, dopo averla ben sistemata, incendiò lo stoppino. Lentamente, la fiamma corse all'interno. Larth riprese l'arco e le frecce, si coprì con il mantello e lasciò il vicolo, guadagnando indisturbato uno spuntone roccioso che sovrastava il molo, oltre l'ultimo magazzino. Si dispose, paziente, a una lunga attesa. L'allarme arrivò nel momento in cui le prime lingue di fiamma giunsero a lambire la porta principale del magazzino, lasciando filtrare all'esterno un fumo denso accompagnato da un odore penetrante. Tutti gli uomini delle locande saltarono fuori in un attimo e qualcuno spalancò la porta del magazzino mentre il tozzo mercante focese arrivava trafelato, urlando, e a stento gli amici riuscivano a trattenerlo dall'entrare nel solido muro di fiamme che stava consumando le sue merci. Il vento si alzò in quel momento, quando ancora gli uomini non avevano pensato ad arginare il fuoco. E, subito dopo, il primo fulmine. Si abbatté sull'acqua, poco oltre l'ultima banchina, squassando la notte con un boato fortissimo e lasciando una scia di luce che per un attimo la trasformò in giorno. Gli schiavi urlarono dai loro recinti. Le fiamme erano già più alte del tetto del magazzino e stavano arrampicandosi al grappolo di case soprastanti e ai depositi intorno. Larth accese il fuoco nell'acciarino, si liberò del mantello e incoccò la prima freccia; un drappello armato stava venendo di corsa dalla strada che portava alla città alta. Aspettò ancora. Il molo era tanto illuminato dall'incendio che le navi, prigioniere alle loro banchine, erano diventate dei bersagli facili: in special modo la più vicina, la bella nave greca pronta a partire, con la stiva piena di olio e i pithoi di acquavite accatastati in perfetto ordine sulla tolda.
Larth incendiò la testa della freccia e la lasciò partire, tesa, in un attimo di pausa di vento: volò a conficcarsi in uno dei pithoi posto alla base della catasta. La seconda, subito dopo, si infilò nel viluppo della vela maestra, e la terza precipitò nuovamente tra i pithoi, che avvamparono. Larth lo sentì in quel momento; era una specie di tremore sulla pelle, e la sensazione che il fiato gli dovesse mancare. «Il fulmine», pensò, e per la prima volta in vita sua ne fu spaventato, per qualche ragione oscura che non riusciva a comprendere. Un attimo dopo la folgore si abbatté sulla banchina centrale e sulla nave che vi era attraccata, schiantando l'albero della vela maestra e incendiandolo come un fuscello. L'aria tremò di rimando, al contraccolpo, e il vento portò in un istante le fiamme alla nave accanto, avvolgendola. Rapidamente, scagliò le ultime due frecce sul tetto di paglia della locanda più vicina, e poi lasciò l'arco: i Focesi stavano tentando finalmente di arginare il fuoco, ma una decina di uomini ormai avevano individuato il suo nascondiglio e stavano salendo di corsa per prenderlo in mezzo tra loro e le guardie della città. Larth rinunciò a ridiscendere e si arrampicò per la dorsale della collina, che in quel punto si ripiegava sulla baia. I Focesi invocavano la pioggia, mentre una terza nave andava in fiamme, e le donne scappavano urlando e portando via i bambini dalle casupole sugli stretti passaggi. «Non ci sarà pioggia», pensò Larth, e sentì la terra e il vento e il mare rispondergli: «Non ci sarà pioggia». Scivolò su una roccia scoscesa, e cadde bocconi mentre due o tre ombre che l'avevano seguito più velocemente degli altri gli passavano accanto senza vederlo e una quarta, che l'aveva individuato, tentava di fermarlo con un fendente di spada che gli strisciò il braccio sinistro. Con un balzo Larth gli fu sopra, e l'uomo era morto prima di aver potuto richiamare gli altri. Il giovane aspettò un attimo, poi riprese a salire. Si infilò in una macchia di lecci per riprendere fiato. I bagliori degli incendi illuminavano Alalia come un'improvvisa aurora, e i fulmini si susseguivano così rapidamente che non era più possibile distinguerli l'uno dall'altro. Tutta la volta della notte era un'unica luce e un solo rombo di tuono. Arrivò al Tempio dopo un ampio giro e da lassù riuscì finalmente a vedere lo stretto anello del porto pieno di fiamme, e otto delle undici navi all'ancora ridotte a bracieri. Tutti gli uomini validi di Alalia stavano tentando di salvare il salvabile e di arginare le fiamme prima che potessero
salire alla seconda linea di case oltre il molo. Ma il vento era tenace, bizzoso e sempre fortissimo, e spingeva il fuoco in tutte le direzioni, senza che gli uomini potessero fare molto. La porta del Tempio era chiusa e dall'interno non giungeva alcun suono. Quel Dio doveva essere in collera con lui, per quello che aveva fatto al suo popolo: tuttavia Larth sentiva che la forza che gli stava accanto era più potente di quella che dimorava tra quelle pietre. Era una forza senza nome; era il bisbiglio della terra sotto i suoi piedi e del vento sulla sua pelle. Era come se un intero universo fosse al suo fianco. «Siamo pronti», mormorò prudentemente Mastarna prima di giungere alla portata del suo braccio. Alle sue spalle, Caile Vibenna lo salutò con un amichevole cenno silenzioso. La collina sembrava deserta. Larth era soddisfatto di quella forza così ben addestrata, degna di essere la Guardia di un Re. «Gli uomini?» chiese quindi. «Sono tutti qui, pronti. Non abbiamo incontrato ostacoli», gli rispose Caile. Larth si girò verso l'oscuro Palazzo del Re. «Andiamo», disse. Quando entrarono nel Palazzo albeggiava, ma gli incendi che divoravano la città coprivano la vaga luce che filtrava da un cielo di basse nuvole in corsa. Il vento aveva mutato decisamente direzione e spirava adesso da oriente, portando quindi le fiamme a risalire le alture. L'intero quartiere a ridosso dei magazzini era già stato abbandonato alla distruzione. Il Palazzo era una tozza costruzione di pietra, con molte stanze l'una dentro l'altra e nuove ali aggiunte di recente, segni della prosperità e delle nuove ricchezze portate dagli alleati greci. Era rimasta a custodirlo soltanto la Guardia, sopraffatta alla prima spinta, e Larth stesso entrò per primo nella stanza del Re, la spada sguainata, seguito dai suoi uomini che reggevano le torce accese. Il focese se ne stava immobile davanti all'ampia apertura sulla città sottostante seguendo i progressi dell'opera maligna del fuoco e le manovre dell'ammiraglia nemica che, superato indenne lo sbarramento della baia, stava prudentemente sbarcando i suoi uomini al frangiflutti, in modo da non correre il rischio di avvicinarsi troppo alle banchine. Alalia non era più in grado di opporre resistenza. Il giovane efebo che stava, dimenticato, nel letto del Re, si lasciò sfuggire un singulto. Era pallido e immobile, le mani strette a pugno: aspettava di
morire. Larth trattenne Mastarna e Caile, alle sue spalle, e si avvicinò al Re, toccandogli appena la schiena con la punta della spada. «Se sei il Re, sei mio prigioniero», disse in greco. Il focese si girò a mezzo: il suo volto pareva quasi atteggiato al sorriso. Era un uomo maturo, con la pelle raggrinzita dall'abitudine al mare, e portava al collo una squisita collana d'oro granulato che qualche orafo rasna di certo non aveva creato per lui. Guardò fisso Larth e ignorò la sua scorta che obbedendogli si era fatta silenziosa e immobile. «Ho sognato», mormorò quindi, «che un Re sarebbe venuto a bruciare il mio trono. Tu sei un Re?» Larth gli staccò la collana con un colpo di spada, senza ferirlo. «Più di te che sei un ladro», sibilò; con il movimento, l'opale che adesso portava sopra la tunica greca raccolse la luce delle torce e riverberò per un attimo, con un guizzo di fiamma viva. Il focese si ritrasse di un passo. «Sono tuo prigioniero, se puoi fermare le fiamme che divorano la mia città», rispose, indifferente all'accusa di Larth. «Tu sei già mio prigioniero, e le fiamme si fermeranno se lo vorranno gli Dei. Te lo affido, Caile, custodiscilo con riguardo!» Il focese diede un'occhiata distratta al suo efebo e si mosse a precedere Caile mentre i Rasna gli si ponevano intorno. «Fuori, tu!» Larth ordinò al ragazzo, e il giovane scappò via di corsa, imboccando un passaggio che doveva trovarsi da qualche parte oltre il letto. «Dobbiamo stare attenti alle trappole», mormorò Mastarna esaminando con cura le pareti e i ricchi oggetti che riempivano la stanza, facendola più simile a quella di un mercante che a quella di un Re. «O ai servi troppo fedeli.» «Non ci sono servi tanto fedeli», commentò Larth. «Questo lo credi tu», ribatté Mastarna raggiungendolo all'apertura, dove il giovane era rimasto a guardare la città e le navi rasna, adesso aperte a ventaglio a presidiare la baia di là dal frangiflutti. «Pioggia», pensò Larth. «Altrimenti di questa conquista non ci resterà che un pugno di cenere.» Un tuono rotolò via, lontano, attutito. Qualche goccia arrivò a turbare l'aria secca di fumo e di fuoco. Mastarna guardò pensoso il suo compagno, avvertendo quella specie di fremito lieve che denunciava il cambiamento
nell'essenza stessa delle cose, ma non parlò. Riempì invece due coppe con vino resinoso e gliene porse una. Le coppe erano gioielli preziosi, lavorate di fili d'oro a trattenere le delicate figure dei fregi: un falco con le ali aperte, in procinto di scendere su un monte. Larth sollevò la coppa, a osservare il suo antico presagio fermato per l'eternità in quel piccolo oggetto straniero. «Caitli», pensò, e il desiderio di lei diventò tutt'uno con la voglia di pioggia e quella di stordirsi. Assaggiò il vino: era buono e forte, e vuotò la coppa versandosene subito un'altra. «Vedi?» mormorò quindi. «Potrei essere Re, adesso!» «Sta' attento: potrei esserlo anch'io!» ribatté Mastarna ridendo, e tuttavia consapevole della validità della sua affermazione. «Sì», mormorò Larth, e all'improvviso tornò serio: «Nessuno all'infuori di te, ai mio posto», confermò. Lo strinse in un abbraccio silenzioso, forte; appena un istante. Vuotò la coppa ancora una volta e poi la scagliò via, frantumandola. I fantasmi del futuro erano allontanati, respinti, e stavano adesso nascosti, di là dal velario della pioggia che aveva preso a scrosciare. Il corteo si snodava solenne lungo il sentiero appena tracciato nella Foresta Sacra a Tinia. I musici con le lunghe trombe ne annunciavano il passaggio, a intervalli regolari, e la foresta sembrava assorbire quel suono, restituendolo poi amplificato in echi e in rivoli di foglie smosse dal vento, e voci sulle quali non potevano essere fatte domande, perché ogni risposta poteva celare un mistero, e le menti umane erano troppo deboli per comprendere. Quasi nulla del luminoso giorno d'autunno riusciva a forzare la penombra del fitto sottobosco; tuttavia persino quel luogo sacro sembrava raccogliere il messaggio delle trombe. I giovani nobili di Tarchna erano meno della metà di quelli che erano partiti quattro anni prima e andavano a raccogliere un tributo che la nazione rasna da lungo tempo non aveva più avuto motivo di elargire: l'onore. Alla testa del corteo otto Aruspici li precedevano a piedi traendo segni da ogni particolarità del sentiero, ma le vere cerimonie li aspettavano a Veltune con i giochi per celebrare la vittoria, e i Re delle Dodici Città. Nessuno avrebbe dimenticato il loro nome o il debito contratto con ciascuno di loro.
«Almeno questo è quanto Marce Vibenna ci ha detto», pensò Larth. «Ma anche i debiti sono cose che si dimenticano, quando sono gli uomini a doverli pagare.» Marce Vibenna si era trattenuto poco ad Alalia, tornando a Velx a causa della sua ferita che aveva ancora bisogno di cure; da quel momento Larth era stato di fatto il comandante della città conquistata, fintanto che un Principe della Casa dei Vibenna era stato nominato a sostituirlo, con suo grande sollievo. Governare gli riusciva facile quanto combattere e aveva scoperto subito che non ci voleva molto ad assicurarsi la lealtà dei servi, offrendo un trattamento migliore e cancellando i soprusi. E la lealtà dei servi, in una casa straniera, era importante quanto quella della propria Guardia. Era stato l'ultimo dei Principi a rientrare, appena in tempo per la cerimonia a Veltune; non aveva quindi avuto modo di sostare a Tarchna, e non aveva potuto incontrare suo padre e i suoi fratelli... e nemmeno Caitli. «Quanto tempo...» rifletté Larth tentando di ricordare le pieghe del sentiero e l'imbocco del passaggio che portava all'isola d'ombra al centro del lago. «Oggi, come allora, non so quello che davvero mi aspetta; ma ormai ho imparato a mentire a me stesso e posso godere della giornata senza curarmi di ciò che è scritto, perché un giorno è così breve...» Se avesse potuto sentirlo, il Grande Trutnot lo avrebbe rimproverato per quei pensieri sacrileghi; ma poi si sarebbe limitato a scuotere il capo, senza tentare di imporgli la propria opinione, aspettando il tempo e il luogo giusti per farlo. Larth sorrise tra sé. L'impazienza era una cattiva consigliera e la sua ansia era una debolezza, alla quale tuttavia era dolce abbandonarsi. Il passaggio nella galleria li inghiottì all'improvviso, proprio come ricordava: ai suoi occhi di adulto appariva meno ampia, anche se vi spirava una corrente lieve, fredda, come dita di ghiaccio capaci di penetrare attraverso i mantelli pesanti e di toccare il cuore, portandovi un timore irragionevole. «La paura di ciò che non si vede non dovrebbe toccare gli eroi», si scoprì a pensare. «E tuttavia è la paura di ciò che non si vede che piega anche ciò che non si può piegare.» Uscendo dalla galleria, la spiaggia di ciotoli neri gli sembrò uguale ad allora e, durante la traversata sulla prima barca del corteo di Tarchna, restò con lo sguardo fisso al cielo d'occidente, aspettando il ripetersi di quel presagio. L'isola era una gloria di oro e rosso nell'autunno avanzato e il Monte del-
la Dea Turan brillava nel sole come il diadema di una Regina. L'acqua del lago era tranquilla, azzurra, senza una sola increspatura, e il cielo era pulito. Non c'erano segni. O forse era in quella maestà perfetta, il segno su cui si sarebbe disegnato il futuro? «Bentornato a casa.» Il tocco lieve di un pensiero gli sfiorò la mente, avvolgendolo all'improvviso. Coprì l'opale sul petto con il palmo della mano: la sensazione di calore, che provava sempre toccandolo, gli si stemperò nella carne; era atteso e la sua Regina gli porgeva un benvenuto più prezioso e più sacro di ogni altro, con la stessa limpida serenità di quando erano stati bambini. Il suo cuore gli aveva parlato. All'attracco c'erano ad attenderli i parenti, gli amici e i nobili che erano troppo giovani per partecipare all'impresa, quando era cominciata. I suoi fratelli Egene e Cneve si fecero strada fino a lui. Egene si era fatto un bel ragazzo dall'aria pensosa, più chiaro di lui di capelli, ma non di carnagione; Cneve era più piccolo: aveva preso dalla madre la rotondità dei lineamenti e gli occhi scuri, vivissimi, allegri. Larth ricordava in modo vago sua madre, ma Cneve gliela richiamava prepotentemente. Gli arruffò i capelli, accogliendolo in un abbraccio che l'altro, per soggezione, era restio a cercare. «Nostro padre?» chiese quindi Larth, ripiegando la tebenna bianca sulle spalle per avere le braccia libere. «Tu porti i simboli del Re», esclamò Egene, lo sguardo fisso alla fibula con l'aquila di Tarchna. «Perché chiedi di nostro padre?» Egene aveva parlato senza animosità, tuttavia era serio e duro. «Proprio come Laris», pensò Larth. «Altrettanto cupo e noioso. Non avrà mai il coraggio della sfida e costruirà con la mente palazzi vuoti.» Lo fissò per un istante. «Egene non voleva dirlo in questo modo», intervenne Cneve, frapponendosi. Larth sorrise. «Era esattamente quello che intendeva dire, ma non allarmarti, Cneve. Porto i simboli che mi sono stati dati, e li ho portati con onore in tutti questi anni, sapendo che quelli della nostra Casa avrebbero avuto in voi due il giusto sostegno.» Egene chinò un poco il capo, accettando la lode con una punta di confusione. Larth gli leggeva in viso quello che pensava della sua diplomatica risposta, ma non era quello il tempo e il luogo per chiarirla.
«Nostro padre si sta spegnendo, Larth», proseguì Cneve. «Non per una malattia del corpo, ma perché divide la tristezza del Re e se ne consuma.» «È qui?» «Certo! Ma al fianco del suo Re, e ti aspettano, da solo, prima della consacrazione e del sacrificio», ribatté Egene, e Larth si chiese se, dietro l'animosità del fratello, non ci fosse anche una punta d'invidia. Mastarna gli stava venendo incontro, facendosi largo nella calca; la sua testa di riccioli color bronzo illuminata dal sole, che si era abituato a cercare in battaglia e ad avere accanto durante le soste, gli sollevò lo spirito. «Il mio vero fratello», rifletté Larth, accorgendosi di avere ancora paura di quel pensiero, perché ammetteva un altro essere nella sfera dei suoi sentimenti dove solo Caitli poteva regnare. Mastarna gli fece il vuoto attorno con l'abilità che gli era consueta e poco dopo erano ben oltre la banchina, lungo l'ampia strada che saliva all'anfiteatro dei giochi e, appena oltre, ai padiglioni dei Re. Ovunque erano stati disposti i bracieri per illuminare la notte e i giochi. «Non avevo mai visto Veltune così», esclamò Mastarna, cogliendo tuttavia il malessere dell'amico e tentando di scoprirne la causa senza fare domande. Larth scosse il capo; in effetti lui aveva visto troppo poco di quel luogo nell'unica volta che c'era stato ragazzo, per poterne cogliere i cambiamenti. Certo, questa non era l'adunanza di primavera per l'elezione del Re Supremo e la rinascita del mondo: era una festa speciale per dare onore ai guerrieri e alla loro impresa che aveva liberato il mare dagli invasori focesi, e così c'erano in gran numero le famiglie nobili e molti sarebbero stati i matrimoni che, rimandati al momento della partenza, potevano essere finalmente consacrati a Turati. L'atmosfera gioiosa invitava a dimenticare la lunga guerra, ma sulla riva la Guardia armata vigilava all'uscita di ogni galleria. «Da quanto sei qui?» chiese quindi a Mastarna. «Da tre giorni. E lungo la strada per poco il corteo di Velx non è caduto in una imboscata dei Latini.» «È a questo che si devono tutte quelle guardie, allora», commentò Larth. «Non soltanto: dalla scorsa primavera Sabini e Latini passano sempre più spesso il Tibrin, attaccando le nostre spedizioni di ferro dai Monti delle Miniere e depredando i raccolti. Il Re di Velx e quello di Vaduna hanno chiesto la convocazione della Lega, non appena gli onori saranno conclusi», spiegò Mastarna.
«Nessun Re darà loro un'altra campagna, in questo momento», mormorò Larth. «No», ammise Mastarna. «E questo potrebbe portare qualcuna delle città più colpite a muoversi da sola.» «Velx?» chiese Larth. «Sono soltanto voci», precisò Mastarna; ma non avevano bisogno di molto per intendersi, e Larth comprese il messaggio del compagno; la lotta condotta soltanto da Velx avrebbe spodestato Tarchna dalla guida della Lega, ed era qualcosa che Larth non poteva permettere e che Mastarna non si sentiva di affrontare. Lo accompagnò fin sulla soglia del padiglione del Re Supremo; un padiglione di teli preziosi sostenuto da pali e ampio da solo quanto l'intera sala dei banchetti del Palazzo di Tarchna, e altrettanto ricco. Nobili di molti luoghi diversi vi sostavano davanti e intorno, godendo della giornata calda e della festa; le giovani donne vestivano abiti dai bordi dipinti o ricamati, e l'argento e l'oro brillavano a ogni più piccolo movimento. I musici suonavano il flauto doppio, e la musica, ammaliante come un incantesimo, si stendeva sulla folla. Larth entrò senza farsi annunciare, perfettamente consapevole degli sguardi che lo seguivano e dei commenti appena trattenuti: portava i simboli del Re. Vide per primo suo padre, ma i segni della resa di cui aveva parlato Egene non erano diversi da quelli che già incupivano il volto dell'uomo prima della partenza del figlio; il Re, invece, era davvero più vecchio. Si era appesantito, e sedeva in disparte dallo scranno regale, intento ad ascoltare Velvur che gli stava illustrando un qualche evento di cui Larth non riuscì a cogliere parola. Di tutti e tre, soltanto il Grande Trutnot sollevò subito il capo, e gli sorrise, gli occhi vivi e attenti di sempre. Larth si inchinò al Re e al padre, ma parlò al Sacerdote. «Non ho dimenticato chi sono, né che cosa sogno», mormorò, accettando il tocco della sua mano sulla fronte. Un tocco lieve, che sapeva placare i tumulti della mente e le ansie del cuore e che Larth aveva sperimentato spesso da ragazzo con una certa avversione, perché aveva creduto - e ne era ancora convinto - che anche i dolori avessero il diritto di appartenergli. «Questo lo so», rispose Velvur sommessamente. «Nemmeno tu sei mai stato dimenticato.» «Siamo fieri di te, Larth», intervenne il Re, «e dei nostri simboli.»
«Se continuerò a portarli, dovrò averne motivo», replicò Larth. «Nulla è accaduto per cui tu debba privartene né io lo voglio», ribatté Tarchon, pacato. «Ma la Dea del Fato ha segnato la mia Casa, e né tu né io possiamo violare il cuore di una donna che vede al di là dei nostri occhi. Sii paziente.» «Lo sono ancora, mio Re. Tu hai dato al ragazzo un buon Maestro, quando lo hai allontanato», asserì Larth. Velvur assentì con un vago sorriso, appena distratto dalla musica dei flauti, all'esterno. Tarchon si alzò pesantemente, subito aiutato da Laris. Una gamba aveva cominciato a farlo soffrire, ingrossandosi per un qualche umore cattivo che aveva preso a stagnare attorno al ginocchio. Fece qualche passo e poi si appoggiò a Larth, gravandogli sulle spalle con quasi tutto il suo peso. «Vedi, mio giovane Principe», mormorò, «ho avuto un figlio che non mi potrà succedere, perché è un piccolo bastardo con la pelle scura e gli occhi affilati come lame; è un bambino, adesso, e so che dovrei ascoltare il buon senso e allontanarlo dal Palazzo. È un servo, figlio di una serva. Ma il mio cuore è debole e il bambino è furbo, e io rimando ogni giorno la decisione. Ma tu sei il Principe e qualunque cosa accada tu sarai il Re.» «Senza matrimonio con la tua Erede? Questo farà sollevare tutta la nobiltà di Tarchna», ribatté Larth, sostenendolo fino allo scranno regale. «Sei sfrontato come quando eri ragazzo», borbottò Tarchon tra i denti. «Larth ha ragione», intervenne Velvur. «Lui, come te, non vuole un regno illegittimo.» «Gli Dei l'hanno scelto!» ribatté Tarchon alzando la voce. «Allora gli Dei faranno meglio a confermarlo», concluse Larth, ignorando le regole che gli imponevano il silenzio. Tarchon si sedette pesantemente sullo scranno. «Il Re di Velx ha chiesto di parlare alla Lega per le scorrerie dei Latini. Sarà il prossimo Re Supremo; lo sapevi, Larth?» «Sì», ammise il giovane. «Lo vedi, Laris? È appena tornato ed è già riuscito a sapere più di quanto io stesso so stando nel mio Palazzo di Tarchna! Come vedi un'alleanza con Velx, Larth?» «Ho combattuto sulla nave ammiraglia di Marce Vibenna; ho obbedito e sono stato obbedito secondo i momenti e le circostanze, e onoro il coraggio di Velx», disse Larth. «Hai obbedito a stento e comandato facilmente: questo, Marce Vibenna
dice di te; ma afferma anche che ti ha affidato il comando di Alalia non per onorare Tarchna che tu rappresentavi, ma per onorarti, e questo, conoscendo Vibenna, è il massimo della lode. E poi raccontano che comandi il fulmine e il fuoco e che la città focese è bruciata fintanto che tu non hai chiamato la pioggia. Così sei molto più di un capitano: sei un Mago.» «È questo che dicono?» replicò Larth, senza battere ciglio. Tarchon lo fissò a lungo. «Non hai ancora risposto al tuo Re», lo ammonì. «Per l'alleanza con Velx? Sono favorevole; solo in questo modo Tarchna conserverà il suo potere nella Lega», rispose Larth. «Già, il potere...» borbottò Tarchon. «Lasciaci, adesso; ma ricordati che potrei avere bisogno di te in qualunque momento, perché tu sarai il Re.» Larth si inchinò appena, lasciando il padiglione, e Velvur lo seguì subito all'esterno. «Indubbiamente ci deve essere del vero in quello che dicono di te», esclamò maliziosamente il Trutnot, quasi sbarrandogli il passo. Larth lo conosceva troppo bene per non sapere che aveva qualche preciso scopo da raggiungere e che il suo silenzio, davanti al Re, non era un segno di disinteresse. «Mi hai voluto al tuo fianco; perché adesso ti stupisci se dimostro di aver appreso più di quanto avresti voluto?» ribatté quindi, accennando un sorriso. «Appreso? Tu hai appreso molte cose, Larth, ma la tua magia è un'altra: io e te lo sappiamo.» Velvur sfiorò con la punta delle dita l'opale sul suo petto. «Non mi chiedi di Caitli?» lo esortò. «Ne ho bisogno? Caitli e io non siamo mai davvero separati, e tu sai anche questo.» Velvur assentì con aria grave, prendendolo per un braccio e guidandolo all'ombra di un gruppo di alberi. Larth era consapevole degli sguardi che li seguivano: quella nobiltà colta e prudente stava parlando di lui, del suo dominio sul fuoco e sui fulmini, e segretamente si interrogava. Il Grande Trutnot sfiorò uno dei tronchi con tocco lieve, come se volesse accarezzarlo. «Sto diventando vecchio, Larth», mormorò. «E proprio come questo vecchio albero posso sentire più facilmente le brezze leggere che le urla delle tempeste. Tu riesci a sentire le voci, Larth?» Larth girò lo sguardo attorno; il brusio era confuso ma insistente, come il suono del vento quando si diffonde sui monti salendo dalle conche bo-
scose. Non una sola parola gli era chiara. «No», rispose. «Si stanno chiedendo quanto tempo passerà prima che tu sia il Re Supremo. Ne hanno paura, perché sono adagiati nel loro splendore, mentre tu sei giovane e l'ombra del tuo potere oscura il sole.» «Può essere un vanto», ribatté Larth, stanco di restarsene in mostra come un pavone. «Non lo so», rispose Velvur. «Dimmelo tu.» «Quando potrò vedere Caitli?» chiese Larth. «Domani, quando il sole toccherà la cima del Monte di Tinia e comincerà il Phersu. Entrambe le figlie del nostro Re seguono i sentieri sacri, così questa sarà una notte di veglia per loro, nel Tempio della Dea sulla cima del monte. Ti ricordi della piccola Thanaquil?» Larth assentì appena; ricordava la bambina cui erano state strappate le vesti e che Caitli difendeva con la machaira alzata; una piccola creatura insignificante e atterrita. «È diventata bella quanto sua madre, e anche lei rifiuta lo sposo.» «Perché mi dici questo?» domandò Larth. Velvur alzò le spalle. «Perché a differenza di te io sento le voci della brezza, mio giovane Principe. Vai, non ti trattengo oltre. I tuoi compagni ti reclamano.» Mastarna e il gruppo che gli si era formato attorno stavano venendo verso di loro; era tempo per andare a vedere l'arena e gli atleti che avrebbero partecipato alle gare in loro onore; i cavalli e i cavalieri per il gioco della truia, il salto e la corsa, e gli schiavi per la lotta, che si concludeva quando uno dei due cedeva, senza altro male che costringerlo a toccare il suolo con la schiena e altra vergogna che quella di essere deriso dai sostenitori. Scesero all'interno del monte per raggiungere i recinti dove i lottatori si preparavano alle gare. Erano stati ricavati nella roccia viva di grotte naturali, molto tempo addietro, e forse in origine avevano ospitato gli eremiti, o i Sacerdoti della Madre Dia. Adesso i recinti custodivano gli schiavi di tutte le città della Lega e ospitavano i liberi lottatori; si fermarono a ogni recinto a scommettere su questo o su quell'atleta, a parlare con gli allenatori e i Maestri d'Armi, a sentire i vanti dei campioni e le sfide dei giovani debuttanti. L'aria era greve di olio e di sudore, del cibo e del vino abbondanti; e anche di una lieve, nascosta angoscia. Oltre l'ultimo recinto comune, la volta si arcuava, abbassandosi. La cella
- che era stata ricavata sul fondo - tuttavia era ancora asciutta e il suolo era di pietra nera; lievi tracce d'acqua inumidivano la volta: filtrando, le gocce brillavano come perle, accese dalle torce al di qua dell'inferriata. Dovevano essere ormai al di sotto del Tempio del Chiodo; sull'altro lato della caverna, scivoli artificiali incanalavano le acque portandole a riversarsi in una polla ancora più in basso, e un sistema di scoli e di canali imprigionava dell'altra acqua, trasportandola ai recinti, per le abluzioni. Larth si fermò davanti alla grata. L'uomo dall'altra parte era giovane quanto lui: la carnagione troppo chiara delle spalle e del petto nudo e glabro era arrossata dal sole, i capelli biondissimi gli spiovevano lisci sulla fronte e nel collo, i polsi erano stretti in una catena che gli dava pochissimo movimento: indosso aveva soltanto una specie di mantello, avvolto attorno ai fianchi. Tuttavia aveva accanto una brocca di vino e un piatto di carne che doveva essere ancora calda e che si era trattenuto dal toccare, sentendoli venire. «È stato mandato da Felsina, come dono per onorarci», esclamò Caile Vibenna. «È un celta. E avrà il Phersu, domani.» «Qualcuno gli ha detto che cos'è?» chiese Larth rompendo il silenzio che aveva seguito le parole di Caile. Il giovane finalmente girò appena il capo e alzò gli occhi. Erano azzurri, chiari e fermi come le acque del lago quello stesso mattino e non vi si leggeva la paura, ma nemmeno la resa. «Ci capisce?» chiese Caile. «Forse», mormorò Mastarna, disturbato dall'invisibile corrente che andava formandosi tra loro. Alle sue spalle i compagni si erano zittiti: nessuno avrebbe mai contaminato il sacrificio con una qualsiasi offesa, anche involontaria. «Liberalo dalla catena», ordinò Larth al custode. «Non potrà difendersi se non avrà ripreso i pieni movimenti delle braccia.» «Come ordini, nobile Tarquinio», mormorò l'uomo passando loro davanti per aprire la cella e obbedirgli. Il giovane prigioniero non si mosse, nemmeno quando le braccia furono libere; tuttavia c'era, in lui, una impressione di forza segreta: era agile, con lunghe mani dalle dita sottili, ma soprattutto aveva un certo modo di tenere alta la testa pur senza degnarli di uno sguardo. «I Celti sono dei pazzi», mormorò Aule Vibenna. «Perché lo hanno scelto per il Phersu?» «Zitto», lo quietò Mastarna. «Le pietre hanno orecchie, qui.» Larth voltò le spalle all'uomo del sacrificio. Aveva ragione Mastarna: le
pietre e l'aria stessa erano impregnate di un furore vivo, che non si sarebbe placato facilmente perché quell'uomo, al pari di lui, non voleva accettare la morte. 8. Avevano riso e cantato per quasi tutta la notte, riunite nella grande sala a volta ricavata sulla sommità del monte alle spalle del Tempio della Dea Turan e invisibile da qualunque punto dell'isola e della terra ferma. Nessun uomo era ammesso lì, così l'allegria poteva essere spensierata e le ospiti non dovevano guardarsi da pericoli né sottostare ad alcuna imposizione, se non a quella di essere libere. Le Sacerdotesse non lasciavano mai il loro eremo e onoravano le Regine e le nobili con raffinata eleganza. Caitli aveva passato ore con la Signora di Turan e con le sue allieve, che sapevano di poesia e di musica, e avevano dipinto le pareti della sala dove, al centro, affiorava l'occhio azzurro di una polla d'acqua sorgiva, frizzante, pulita come un frammento di cielo imprigionato nel basalto nero. Era l'Occhio della Dea, e una giovane lo vegliava costantemente, ignara del banchetto e dell'allegro brusio. Thanaquil era stata eccitata come una bambina per tutto il giorno. Aveva preparato la veste bianca ricamata d'argento per l'indomani e aveva portato offerte alla Dea, scrivendo il nome di Mastarna accanto al suo; al pari eccitate erano state anche le giovani, destinate al matrimonio, che avevano passato la veglia; tra di esse c'erano la figlia del Re di Vatluna e le nobili figlie di Marce Vibenna, che andavano spose a Vei per rinsaldare una alleanza tra famiglie. Poi, poco prima dell'alba, tutte si erano ritirate per riposare un poco, prima della giornata tanto attesa. Ma Thanaquil, dopo la prima ora di sonno tranquillo, si svegliò di soprassalto: rimase poi supina e con gli occhi aperti a fissare il soffitto di basalto nero. Le celle delle ospiti, ricavate nella roccia viva, erano piccole ma riccamente adornate nonché calde e confortevoli; Thanaquil non avrebbe quindi saputo dire che cosa l'avesse svegliata. Tuttavia qualcosa l'aveva raggiunta e, qualunque cosa fosse, era ancora lì. Il letto di Caitli accanto al suo era vuoto. Si sollevò a sedere, presa all'improvviso dal ricordo di un altro risveglio e agghiacciata dal terrore provato allora.
Caitli era in piedi sull'apertura della cella, i capelli sciolti e appena trattenuti da un cerchio d'oro; indosso portava la tunica e il mantello di porpora. «Le insegne regali...» si meravigliò Thanaquil. «Perché?» «L'Occhio della Dea si è intorbidito...» mormoravano le voci segrete dell'aria e della roccia: sussurri lievissimi e tuttavia così pressanti da colmare il silenzio: erano state loro a svegliarla. Thanaquil balzò giù dal letto e afferrò la veste. «No», la fermò Caitli senza girarsi. «Resta qui.» Si immobilizzò: conosceva quel tono nella voce della sorella e sapeva che nessuno poteva disobbedirle quando parlava così, nemmeno un Re. Thanaquil ricadde seduta, tenendosi la veste stretta al seno. Caitli uscì seguendo l'ancella che era venuta a chiamarla; in silenzio raggiunsero la sala, dove la Signora di Turan, visibilmente angosciata, l'aspettava accanto alla polla. Inginocchiata davanti all'acqua, la giovane che aveva compiuto l'ultimo turno di veglia si nascondeva il viso tra le mani, piangendo sommessamente. L'Anziana le sfiorò i capelli con la punta delle dita. «Calmati. Non hai alcuna colpa», la quietò. Sollevò quindi lo sguardo su Caitli che era rimasta in attesa, muta. La donna era alta e dritta, quasi senza età, con la pelle liscia e chiara e grandi occhi acquosi; ma il suo potere era appena una pallida ombra, che si dissolveva nel confronto con Caitli, lasciandola impotente e perduta. Questo, l'Anziana lo sapeva chiaramente. «L'Occhio della Dea si è appannato. Non accadeva da molto tempo», disse infine, facendo cenno alla giovane di allontanarsi e di lasciarle sole accanto all'acqua. Un silenzio inconsueto, innaturale, gravava adesso sull'intera struttura del Tempio: le ospiti, ignare, dormivano e le Sacerdotesse che facevano cerchio intorno parevano trattenere il respiro. Fuori, il sole stava per spuntare sulla corona dei monti, ma lì il tempo era fermo, trattenuto su uno spazio che sembrava sul punto di lacerarsi. Caitli lo sentiva nella carne. Si girò verso la polla che si era fatta scura, e tese le mani, per raccogliere le vibrazioni profonde della terra muta. Un brivido di paura l'avvertì, insinuando nella sua mente la tentazione di ritrarsi dall'abisso. «Una torcia», ordinò invece Caitli. Una delle giovani si affrettò a staccarla dal sostegno di bronzo e a por-
targliela. Caitli si inginocchiò presso la polla: non amava l'acqua, ma un'attrazione profonda, estenuante, la portava verso quello specchio liquido che aveva di fronte; abbassò la torcia fino a sfiorarne la superficie. E seppe. Questo era il giorno: e per quello che sarebbe accaduto, tutti i giorni a venire sarebbero stati contati per il popolo rasna. Un esercito invasore avrebbe percorso le campagne ricche di messi e le belle città industriose; vide Tarchna e Vei e Xaire e Velx soccombere e bruciare, vide gli uomini uccisi e la terra violata. Vide le opere che trattenevano le acque profonde cancellate e le paludi invadere le coste portando morte e abbandono. Vide le città rase al suolo perché fossero dimenticate. E vide i Re lottare l'uno contro l'altro e piegarsi all'invasore e ciò che era stato vivo e glorioso diventare meno di un'ombra nel regno dei morti. «Nascerà da noi una nazione: la più potente di tutto il tempo già segnato. Per nostra colpa e nostro merito apprenderà a essere grande e dilagherà come un vento di tempesta su tutto il mondo conosciuto. Non parlerà mai la nostra lingua, e non avrà mai il nostro nome. Coltiverà soltanto il potere, la conquista e il dominio, e quando sarà forte ci distruggerà.» Aveva parlato sommessamente, e tuttavia la sua voce era giunta in ogni angolo della sala e strisciando aveva raggiunto le viscere del monte, per esplodere poi in un grido di dolore che per un attimo aveva turbato i sogni di quelli che ancora dormivano. L'Anziana si coprì il viso con le mani. Caitli scagliò la torcia nell'acqua e restò inginocchiata; la polla si stava increspando, ma era ancora cupa. «Il Grande Trutnot chiede di entrare», disse una delle giovani, violando il silenzio, incerta, perché nemmeno Velvur poteva ignorare la regola del Tempio. L'Anziana trasalì e poi, angosciata, fece un cenno di assenso: in quel giorno speciale anche un evento speciale quanto un uomo nel Tempio poteva essere ammesso. Velvur restò tuttavia sulla soglia della sala; portava il manto delle cerimonie, ma la sua figura appariva sottile e incerta come un sogno mattutino nella luce del sole che ormai dilagava dalle ampie aperture, piovendo come un velario a mitigare la paura. Per un lungo momento l'uomo restò in silenzio, osservando. «Ero nel Tempio del Chiodo», disse infine, «e ho provato un gran dolore. Ho sentito sanguinare ferite profonde, che quasi mi hanno ucciso. Ma se così è scritto, così dovrà essere.»
Caitli si sollevò; l'Occhio della Dea era tornato azzurro, appena percorso da venature più scure che il sole avrebbe presto cancellato. La giovane era passata indenne nella rete del Tempo, ma ciò che aveva visto le faceva tremare le labbra, e aveva ancora le mani strette a pugno, in un gesto di inutile disperazione. «Non parlerai di quanto hai sentito», mormorò, rivolta alla Signora di Turan. «Né adesso né mai, a meno che il Grande Trutnot non disponga diversamente.» La donna assentì inchinandosi leggermente; non le sarebbe piaciuto sottostare all'autorità di Velvur, ma non avrebbe nemmeno osato opporsi a quella disposizione. Caitli girò quindi le spalle alla polla e raggiunse sulla soglia il Grande Trutnot. «Sarò alla consacrazione del Phersu», fu tutto quello che disse. Velvur assentì, con la sensazione che gli fosse stato impartito un ordine e che, in effetti, fosse salito fin lì solo per obbedirle. Un largo sentiero lastricato portava dal complesso sistema di grotte all'interno del monte sino all'anfiteatro, passando nel mezzo di una vegetazione fitta, tenacemente intrecciata a costituire una volta, quasi fosse un prolungamento delle grotte stesse. Il passaggio conduceva a una serie di caverne aperte e non molto profonde, situate al di sotto della parte di anfiteatro destinata ai nobili e ai dignitari di minor conto, in fronte alle tribune dei Re e dei Principi, ed era riservato esclusivamente agli atleti, agli schiavi e ai Sacerdoti che venivano dal monte stesso. Nelle caverne gli atleti e i lottatori attendevano i loro turni, scrutando l'arena e i giochi, valutando gli avversari e segnandone gli errori e i punti di forza, mentre gli stallieri preparavano i cavalli e i servi approntavano gli attrezzi, gli oli e i profumi. Quel mattino tuttavia la consueta allegra animazione era trattenuta, quasi raggelata dal Phersu: fintanto che il sacrificio non fosse compiuto, nessun gioco poteva iniziare e nessuna voce poteva levarsi. Il corteo dei Sacerdoti seguì la via nascosta, preceduto dai suonatori con le lunghe trombe, mentre l'anfiteatro si stava riempiendo e i Re si accingevano a prendere posto. Caitli si distrasse un istante a seguire la luce del sole che, filtrando dalle aperture sull'anfiteatro, sembrava voler infiammare gli scranni regali. Camminava come in sogno. Davanti a lei, il Grande Trutnot le appariva
indistinto, mentre la folla degli Aruspici, alle sue spalle, era come se non esistesse. Gli occhi accesi degli atleti, i loro segni per invocare la buona sorte e la loro allegria la lasciavano del tutto indifferente. Il Phersu attendeva, pronto, ai lati di una delle aperture d'uscita. Era un uomo alto e robusto, dalle spalle ampie e massicce: aveva la pelle scura della gente delle saline. Portava una tunica e un corto mantello nero con il cappuccio alzato; i lineamenti del viso, in ombra, apparivano forti e privi di armonia. Teneva al guinzaglio un grosso cane lupo, nero di mantello, gli occhi accesi e la bocca aperta a mostrare i denti aguzzi. Era feroce, e solo la forza dell'uomo riusciva a tenerlo. Il corteo non badò né all'uomo né al cane; il Phersu non aveva nome, come la vittima non aveva volto: il primo non avrebbe avuto onori, poiché agiva in nome della gente rasna, ma il secondo era l'offerta per compensare ciò che era stato preso. Caitli tremò nel momento in cui raggiunse l'estremità opposta dov'era la vittima. Le guardie aprirono il cerchio che vi avevano fatto attorno: l'uomo era giovane, chiaro di carnagione e di capelli come le genti del nord, e aveva un viso bello, illuminato dagli occhi azzurri; era alto, proporzionato e glabro; solo un perizoma lo copriva a stento. Il Trutnot gli si fermò davanti, ma il giovane distolse lo sguardo e lo posò sulla donna, sfrontato e tuttavia intenso, come se avesse voluto rammentarsi qualcosa di bello e chiudersi quella visione nell'anima. Velvur si scostò, prendendo il cappuccio nero dall'Aruspice al suo fianco e porgendolo a Caitli, perché compisse il rito in sua vece. Per un istante Caitli restò assolutamente immobile, come se volesse rifiutare di eseguire il gesto che avrebbe condannato il giovane straniero. Infine prese il cappuccio e gli si avvicinò. Gli sfiorò la fronte con le dita e sentì per un attimo la sua essenza viva, come un torrente impetuoso anche se trattenuto: percepì una mente agile e pronta, ascoltò l'eco di parole non dette e catturò l'ombra di un sorriso lievissimo sulle labbra belle. Caitli mormorò le antiche parole del rito con cui lo dedicava alla terra, sfiorandogli la gola e il petto, poi sollevò il cappuccio e glielo infilò sul capo. Due guardie lo sigillarono sulle spalle. Adesso il giovane era cieco e presto la stoffa pesante gli avrebbe tolto il fiato. «Verrai condotto nell'arena», sussurrò Caitli seguendo le parole del rito. «Là ad attenderti troverai il Phersu e il suo cane. Il primo rappresenta la
nostra gente e il suo debito, il secondo la forza della terra. Entrambi saranno contro di te. Ma la terra è clemente e da lungo tempo il nostro popolo non compie più sacrifici umani. Così ti verrà dato un bastone e, se saprai lottare e se gli Dei lo vorranno, potrai vincere.» «Quali Dei?» mormorò il giovane, la voce soffocata dal cappuccio e arrochita dalla pronuncia imprecisa. Caitli gli prese entrambe le mani per guidarlo a ricevere il bastone da Velvur: le tenne però un attimo tra le sue, tentando di infondergli quello che sentiva e di lasciar fluire in lui il Potere, con qualsiasi nome il giovane straniero potesse intenderlo. «I nomi non sono che il bisogno meschino degli uomini per poter capire, ma la forza è una», gli rispose. Il giovane strinse le mani attorno al pesante bastone e vi premette sopra quelle di Caitli. «Dimmi il tuo nome», mormorò Caitli. «La vittima non ha nome», intervenne Velvur. «Axal», rispose il giovane. «Il mio nome è Axal.» Caitli si fece da parte: ormai ogni minuto era prezioso per il respiro della vittima. Le guardie si affiancarono all'uomo e lo condussero fuori, mentre Velvur, Caitli e gli Aruspici raggiungevano la parte opposta dell'anfiteatro; la parte più bassa era riservata ai Principi Sacerdoti, e lo scranno centrale era quello del Grande Trutnot; Velvur trattenne Caitli, impedendole di raggiungere Larth che la stava aspettando. «Resta», le disse in un sussurro; il dolore che l'aveva colpito al momento della profezia segnava ancora il suo viso, dandogli un'aria sofferente, e non pochi tra gli Aruspici si erano già allarmati per quel fatto; tuttavia in quel momento il centro delle sue attenzioni era soltanto Caitli, che portava le insegne regali e restava al suo fianco: non più quindi l'Erede del Re, ma la sua; ammettendola in quel recinto, Velvur la toglieva al Re e la liberava dalla promessa a Larth, sebbene nessuno, tantomeno Caitli, in quel momento se ne rendesse conto. Il Trutnot sospirò, e si sentì invadere da una grande tristezza. I musici stavano suonando le lunghe trombe per salutare il sole che si era alzato tanto da illuminare la sommità del Monte di Tinia, e il Phersu entrò nell'anfiteatro. Il lupo immediatamente tese la corda, ringhiando. Il prigioniero si girò a fronteggiare il suono, il bastone saldamente impugnato con ambedue le mani.
Sull'anfiteatro era sceso un silenzio assoluto. Velvur fece scorrere lo sguardo attorno per poi girarsi a osservare i Re, consapevole che Larth lo stava guardando. Il lupo balzò in avanti e questa volta il Phersu non lo tenne, mollando la corda e balzando avanti egli stesso per accompagnarlo nell'assalto. L'animale volò addosso al prigioniero. Questi doveva essere abituato a trattare con i lupi perché, pur nell'impossibilità di vederlo, si girò di fianco, offrendo all'assalto il gomito e il braccio e parandosi la gola. Il lupo gli azzannò il braccio, e il sangue sgorgò immediatamente copioso. Axal non mollò il bastone; lo alzò anzi tanto da servirsene come una clava e lo abbatté sull'animale, riuscendo a fargli lasciare la presa. Per un istante l'uomo restò in piedi, mostrando il braccio inservibile: attorno a lui turbinava un alto mulinello di polvere. Una specie di mormorio, poco più di un sospiro, passò tra gli Aruspici; Velvur sentiva l'inutilità del proprio Potere contro la forza che si agitava tra loro. Caitli la tratteneva in sé, raggelata nella propria immobilità, e tuttavia Velvur sapeva esattamente che cosa stava pensando la giovane donna. «L'uomo della profezia. L'uomo che viene da occidente, come i segni del malaugurio...» Il Phersu aveva trattenuto il lupo per un attimo, per dargli fiato, ma di nuovo lasciò la corda, incitandolo; adesso però l'animale sembrava restio a sferrare un attacco diretto: era sporco di sangue e ammaccato e preferiva la prudenza. Per alcuni lunghi minuti si limitò a guatare l'uomo; però il celta riusciva a sentirlo, e tentava di muoversi di conseguenza, girandosi, il bastone ben saldo nel braccio sano e le gambe ancora agili. «È abile», mormorò Velvur, «davvero abile; non si lascia prendere dal panico e non ha paura. Usa il bastone per intimorire l'animale e il coraggio per farlo esitare.» «Lui non vuole morire», gli rispose Caitli. «Non in questo modo e non per quello che pensa sia un nostro piacere.» «Ne ha tutti i diritti», ribatté il Trutnot, ma in modo così sommesso che nessuno riuscì a sentirlo. Il lupo balzò in avanti in quel momento. Una specie di urlo trattenuto si levò dall'anfiteatro. Sotto l'impeto dell'assalto il giovane finì a terra, quindi con uno scatto fulmineo riuscì a proteggersi la gola con il bastone, anticipando d'un soffio l'assalto dell'a-
nimale: con un rumore secco la mascella del cane si ruppe sul legno durissimo. Il sangue, che colava copioso dallo squarcio sul braccio, investì l'animale, rendendolo folle; ma il celta riuscì a strozzarlo nonostante le unghie che gli stavano devastando il petto e la schiena. Per un lungo momento, dopo l'ansimare dell'uomo e i mugolii dell'animale, nell'arena non ci fu che il silenzio. Poi il giovane si scrollò di dosso la carcassa e si risollevò, aiutandosi con il bastone. Il Phersu si spostò appena, abbandonando il guinzaglio ormai inutile; era un uomo forte, ma non era un combattente e l'imprevista morte del lupo lo disorientava, lasciandolo senza difese. Il celta, i sensi acuiti dalla cecità, avvertì la paura dell'uomo esattamente come aveva sentito il lupo nei suoi slanci d'attacco. Urlò: un grido roco, tipico della sua gente, poi sollevò il bastone in segno di sfida. Il Phersu, maldestro e rumoroso, si slanciò verso lui, ma il celta si spostò di lato e gli abbatté l'arma tra le spalle e la testa, spezzandogli il collo. L'uomo incespicò urlando e rotolò a terra, senza più muoversi. Il celta, trasportato dal suo stesso slancio e dallo sfinimento, cadde a sua volta: rimase in ginocchio, il bastone ancora saldamente in pugno, e il petto sollevato a conquistare un respiro sempre più difficile. Un silenzio greve aleggiò ancora per un istante; poi si levò una specie di sussurro, simile al ronzio di uno sciame di api spaventate. Velvur si alzò, sollevando entrambe le braccia per decretare la fine del sacrificio. Poi si girò a osservare le facce attorno a sé e quelle più in alto, attorno al Re Supremo: non si poteva certo dire che Larth e i suoi compagni fossero delusi per come il giovane aveva mutato il sacrificio in combattimento e sapeva perfettamente come il rifiuto della vittima a sottostare alla morte sarebbe stato interpretato dagli Aruspici delle città decise a non farsi coinvolgere in una nuova guerra contro i Latini e i Sabini. Ma anche quel modo di leggere i segni secondo convenienza indicava che i tempi stavano mutando. «La verità», rifletté amaramente Velvur, «finirà per non appartenerci più, se continuiamo a distorcerla.» Tornò il silenzio. Due guardie avevano sollevato il giovane e l'avevano portato davanti al Trutnot. «Toglietegli il cappuccio», ordinò Velvur. Un istante dopo il giovane era libero, ma la luce lo accecò; poi distinse
la folla, i visi, il sole. Scorse Caitli e le rivolse un fuggevole sorriso: un sorriso che rivelava una profonda e limpida complicità. «È imprudente», pensò Velvur. «Ma la sua gente è ancora rozza, e i suoi usi sono troppo diversi.» Sollevò di nuovo le braccia, e si girò verso Tarchon, seguendo il rituale. «Questo giovane che era sacrificio ha portato onore ai nostri eroi, che noi oggi festeggiamo, e la sua vita gli è restituita. Come impone la nostra legge, sarà schiavo del Re Supremo che lo ha in dono. Apparterrà dunque alla Casa di Tarchna e al suo Re, fintanto che gli Dei gli lasceranno ciò che oggi si è conquistato.» Tarchon si alzò ad accettare l'omaggio; in tutta risposta, Axal distolse lo sguardo: era evidente che non gli importava molto di quel nuovo padrone, e questa volta evitò con cura di alzare gli occhi su Caitli. Si lasciò portare fuori dell'arena senza dire una sola parola o accennare un gesto. Caitli tornò a sedersi; in apparenza l'evento non l'aveva toccata, e Velvur ammirò la sua capacità di mascherare i sentimenti che di certo la turbavano. «Sarebbe stata davvero una perfetta Regina», pensò, mentre i servi ripulivano l'arena e si approntavano i giochi. «Io resterò qui ancora per un poco. Ci sono stati dei... turbamenti profondi nell'ordine delle cose, che tenterò di conoscere meglio», mormorò Velvur, facendosi di lato. «Ma ti ringrazio per essere venuto a informarti. Entra: il Tempio è sempre aperto.» Larth scosse appena il capo; Mastarna lo aveva accompagnato fin lì, abbandonando il banchetto che chiudeva gli onori, e se ne stava adesso un gradino più in basso, come se non volesse intromettersi tra il Maestro e il discepolo. Velvur si sporse a guardarlo. «Anche tu, Mastarna, vieni: se accompagni Larth, ciò che tocca lui tocca anche te, e non puoi sottrarti al debito dell'amicizia.» «Mi aspettavi?» lo interruppe Larth, precedendolo all'interno. Il Tempio era vuoto, appena illuminato dai bracieri che ardevano sul fondo, nel punto che il giovane ricordava tanto bene, ed era pervaso del forte profumo d'assenzio che il Trutnot aveva sparso a bruciare. «Certo che ti aspettavo. Sei stato il mio allievo: vuoi che non ti conosca?» disse Velvur con un lieve, misterioso sorriso. «Nessuno può conoscere davvero un'altra persona», mormorò Larth,
fermandosi davanti allo scranno destinato alla consacrazione del Re. Ricordava in tutti i particolari la cerimonia che lo aveva portato lì la prima volta; gli era facile sentire la presenza di Caitli, e rivedere il suo corpo vestito soltanto di profumo e di luce a un solo passo da lui, mentre insieme conficcavano il chiodo che segnava l'anno rasna. Allora aveva scoperto il desiderio. Ora quel desiderio gli passava nella carne come un vento di tempesta. Velvur gli posò una mano sulla spalla. «Ci sono eventi che anche un re deve accettare, Larth: ciò che è scritto può farci male, ma ci distrugge se tentiamo di cambiarlo.» «Cambiare ciò che è scritto?» Larth sorrise, feroce, tenendo per sé la risposta che in quel luogo sarebbe stata un'offesa. Che il Grande Trutnot non tornasse con loro a Tarchna lo contrariava, perché Velvur era comunque il filo che lo legava a Caitli: in lui potevano trovarsi entrambi e fingere che niente fosse cambiato. «Ho una amorosa sorella, ma non una Regina», mormorò quindi, girando attorno allo scranno. «Che ne dici, Mastarna? Non era proprio questo di cui abbiamo tanto parlato, aspettando di tornare?» «Un matrimonio può essere celebrato per convenienza», tentò di suggerire l'amico. Larth scosse il capo. «Con altre, forse, ma non con Caitli.» «Ti sbagli su di lei», ribatté Mastarna. «Oggi non ho mai cessato di osservarla, ed è esattamente come la immaginavo: obbedirà al suo Re. Quindi suo padre non ha che da ordinarle le nozze per il bene di Tarchna, e non ti sarà difficile ottenere quell'ordine da chi già ti ha scelto come suo successore.» «Tu che cosa mi consigli, Velvur?» «Solo le nozze ti faranno Re, e tu devi essere Re, ma nessuno può mutare ciò che Athrpa ha deciso.» La voce del Trutnot era calma e decisa. «Questo è l'Aruspice che parla», si risentì Larth. «Ma io avrei voluto ascoltare l'amico.» Velvur aprì le braccia con un gesto di rassegnazione; non avrebbe detto più nulla sull'argomento. Non poteva dire più nulla. I cortei sarebbero partiti presto, l'indomani; i sentieri erano segnati e ciò che sarebbe accaduto era ancora nebuloso ai suoi occhi. Di certo il mutamento era già avvenuto: il falco bianco calato da occidente aveva stesso le sue ali, e tutti ora si trovavano nella sua ombra; ma gli eventi avevano troppe pieghe, e restavano
strettamente avvolti l'uno sull'altro, indecifrabili. Da tempo aveva imparato ad accettare il fatto che la conoscenza gli veniva data e tolta indipendentemente dalla sua volontà e dai suoi desideri, ma adesso si trattava di Larth, e di Caitli; amava entrambi, e così accettare quella limitazione gli riusciva molto più difficile. Si rivolse a Mastarna. «La richiesta del tuo Re non è stata accolta; cercherai comunque di ottenere qualche altro aiuto per la difesa comune dai Latini?» «Quello di Tarchna: non è un segreto. Farò parte della scorta del mio Re a Velx, ma conto di andare presto a Tarchna, con Aule e Caile Vibenna, a negoziare un patto.» Velvur sorrise appena, pensando che era stato sufficiente il breve volgere di un giorno perché Mastarna fosse conquistato da Thanaquil, anche se lui non se ne rendeva ancora del tutto conto. «Certo», rispose invece. «Ho già espresso il mio parere al consiglio dei Re: l'alleanza è la nostra più grande forza.» «Che cosa sono quei turbamenti che hai sentito?» intervenne Larth. «Eventi lontanissimi... qualcuno che vede molto meglio di me nella rete del Tempo ha seguito un sentiero che nessuno di noi potrà mai percorrere e che tuttavia saremo proprio noi a tracciare. Non lo so; come ti ho detto, la mia vista non è tanto potente e non arriva tanto lontano.» «È accaduto all'alba?» Velvur assentì, rendendosi conto che anche Larth era stato investito dall'onda bruciante che Caitli aveva svegliato dal pozzo profondo del tempo e dello spazio e che, come lui, ne era stato ferito. Quello che avevano sentito era l'urlo del loro popolo che moriva. 9. Pioveva già durante la notte: un acquazzone che investì l'isola e le banchine, spazzando i padiglioni dove i servi stavano facendo i preparativi per la partenza. L'acqua, tuttavia, era stata fatta confluire negli scoli artificiali e da lì nelle vasche, e quindi non aveva procurato danni. All'alba erano rimasti un cielo pesante di nuvole nere e un vento teso, che agitava le acque del lago, spezzandole. Uno dopo l'altro i Re e i loro seguiti avevano traghettato alle rive, dove i rispettivi cortei si erano composti ed erano pronti a muoversi, con gli atleti, gli schiavi, le guardie e i servi ancora fradici per il lavoro notturno.
Larth raggiunse la testa del corteo del Re Supremo, non appena fuori della galleria nascosta; Re Tarchon e Laris erano sul primo dei carri a due ruote: il Re non poteva reggersi in sella perché il dolore al ginocchio lo tormentava, ed era quindi di pessimo umore. Sul secondo carro c'erano Caitli e Thanaquil, ma la tenda ricamata con le insegne di Tarchna che lo copriva era ancora in parte abbassata. Giungendovi accanto, Larth si sporse per guardare dentro e incontrò il sorriso di Caitli. La giovane si portò un dito alle labbra, accennando a Thanaquil ancora raggomitolata sui cuscini, avvolta in una coperta e addormentata. «Le piace dormire», mormorò Larth. «I giorni appena passati sono stati memorabili per lei», ribatté Caitli. «Si è meritata il riposo.» «E tu?» Caitli ricambiò il suo sguardo diretto. «Io sono abituata alle veglie; ho vegliato con te in molte delle tue notti. Non ricordi? Da quel primo scontro al largo di Cuma e poi in ogni battaglia... fino ad Alalia.» Larth assentì appena; la voce di Caitli era stata un sussurro e sembrava esistere solo per lui; la giovane donna parlava di quella comunione come se fosse un evento del tutto normale o un gioco segreto tra loro e non quello che era: il Potere. «Mio padre è malato, Larth, e questo viaggio lo ha stancato più di quanto sia disposto ad ammettere», riprese Caitli, volutamente allontanando l'argomento. «E anche il carro lo fa soffrire: dovremo fermarci tra qualche ora e permettergli di riposare.» «Appena saremo fuori della foresta. Non prima», disse Larth. Caitli assentì. Turbato, il giovane distolse lo sguardo. Come doveva trattare quella donna? Aveva detto a Velvur che non erano mai stati davvero separati, ed era stato sincero: nulla aveva infatti intaccato la dolce familiarità dell'infanzia. Il vero abisso che li divideva apparteneva quindi al futuro, a quel futuro che premeva loro addosso. «Il Re potrebbe ordinarle le nozze e lei obbedirebbe, come ha giustamente detto Mastarna. Ma a quale prezzo?» pensò, coprendo l'opale con il gesto che gli era diventato abituale, e sentendo la pietra calda e rassicurante come sempre. «Io non sono un Mago, ma soltanto Velvur lo sa. Posso perdere il Potere che ricevo da lei?» Larth lasciò che il carro lo superasse, quindi si affiancò ai suoi fratelli e ai giovani della Guardia che non erano partiti per la campagna sul mare:
Tese, che era stato suo compagno a Ruma, e Kae Aivas, che adesso era l'Erede della Casa di Tite Aivas. «E con molte pretese», gli aveva confidato Cneve. «Lui è uno dei due pretendenti rifiutati da Thanaquil. Vuole diventare Re.» «Thanaquil non potrà avere il regno, fintanto che c'è Caitli», aveva ribattuto Larth. «Caitli rinuncerà. È questo che dicono, fratello mio: Caitli rinuncerà per votarsi alla Dea Athrpa e Thanaquil sarà l'Erede.» «Il Re ha un figlio bastardo.» «È vero. Ma è ancora un bambino. E ci sarà un altro Re quando sarà grande abbastanza per essere un pericolo. E comunque le Case dei nobili fanno buona guardia, e non permetteranno a un bastardo di salire al regno di Tarchna», aveva concluso Cneve. Le parole del fratello gli venivano alla mente osservando Kae Aivas che cavalcava, rigido davanti a tutti, affiancato da Egene. I due ogni tanto si parlavano. «C'è da sperare che non si rendano conto di quanto il Re sia davvero malato», pensò Larth, e poi si corresse subito, perché era Caitli che curava il Re e nulla che potesse mettere in pericolo il trono poteva venire dal Palazzo. «Il piccolo bastardo è davvero ancora troppo giovane...» Quando gli alberi incominciarono a diradarsi - nel punto in cui la foresta cedeva al bosco - l'uragano apparve ormai imminente. Il cielo, anziché risplendere della luce del mattino pieno, aveva il plumbeo chiarore di un crepuscolo d'inverno e la terra era soffocata dalle nuvole basse, che giungevano a lambire le colline e i dirupi che si alzavano ai lati della vecchia pista. C'era una viva, pressante sensazione di pericolo. Larth ordinò alla Guardia del Re di scortare i carri a due ruote poco oltre il bordo destro della pista, fino a un crinale roccioso che offriva un certo riparo. Il ritardo del resto del corteo, con i carri dei doni e delle provviste, dei servi e degli atleti, cominciava a preoccuparlo. «Torno indietro», disse a Cneve, e girò il cavallo prima che il fratello potesse anche solo tentare di unirsi a lui. Rientrando nel folto della foresta, Larth fu afferrato da una inspiegabile angoscia: non si trattava di paura, ma piuttosto d'orrore per qualcosa che avrebbe potuto infrangere la sacralità del luogo e, di conseguenza, contaminare anche lui. Era quasi notte, lì, e solo a sprazzi la luce riusciva a far scintillare le fo-
glie di porpora sul sentiero appena tracciato; intravide un cervo curioso e stranamente immobile, quasi raggelato dalla sua stessa paura. Incontrò il resto del corteo ancora molto indietro, e si affiancò a Tefrie, il suo antico Maestro d'Armi, che non aveva voluto mancare agli onori tributati a quelli che considerava ancora i suoi allievi. «Temo qualcosa, mio Principe», mormorò Tefrie, senza staccare lo sguardo dal sentiero. «Abbiamo trovato due tronchi di traverso e abbiamo dovuto fermarci per spostarli, così abbiamo perso tempo... sembravano abbattuti dal vento, e tuttavia mi sono parsi strani.» «C'erano segni di tagli?» chiese Larth. «No. Sembravano spezzati dalla spinta del vento, e dentro erano marci; tuttavia erano sistemati alla perfezione di traverso al sentiero.» «Il sentiero è stretto: è facile che accada», commentò Larth. «È vero, ma tu sei tornato indietro...» ribatté Tefrie, lasciandogli intendere che quel suo gesto da solo giustificava in pieno tutte le sue congetture. «Continua a tenere gli occhi aperti», gli rispose Larth, trattenendo il cavallo per affiancarsi ai servi e agli atleti che seguivano a piedi; sull'ultimo dei carri, di traverso all'apertura posteriore, era seduto il giovane celta, il nuovo schiavo della Casa di Tarchon. Qualcuno, forse Tefrie, gli aveva avvolto il braccio ferito in una tela e glielo aveva stretto alla spalla per ridurne i movimenti, mentre l'altro braccio era legato all'intelaiatura del carro. Il celta stava immobile, lo sguardo apparentemente distratto; una vecchia tebenna gli copriva a malapena il petto devastato dall'assalto del lupo. Adesso, esattamente come quando l'aveva visto la prima volta in cella, Larth sentì il rifiuto dell'uomo al destino che gli si presentava, un rifiuto prepotente quanto la sua voglia di vivere e altrettanto assoluto. Senza dire una parola, Larth si piegò sul collo del cavallo per protendersi a tagliare la corda che lo teneva legato all'intelaiatura. In quel momento arrivò l'attacco. Una freccia che avrebbe dovuto ucciderlo lo colpì alto nella schiena. Il cavallo scartò di lato. In un istante i servi si sparpagliarono urlando, mentre gli assalitori piombavano loro in mezzo e la maggior parte degli atleti veniva abbattuta dalle frecce. Larth non fermò il suo gesto: con un solo movimento recise la corda e passò la spada allo schiavo. Con un salto, il celta volò giù dal carro in tempo per sostenere Larth, ferito e sbalzato a terra dal cavallo, quindi af-
fondò la spada nel petto dell'aggressore. Trascinò poi Larth sul bordo del sentiero e lontano dal carro; gli assalitori, dopo aver rovesciato entrambi i carri, stavano lottando con Tefrie e con i pochi uomini della Guardia; tuttavia, non appena riuscivano ad afferrare una parte del bottino, sparivano nella foresta. Dal punto dove era stato lasciato cadere, Larth vedeva ben poco. Riusciva a malapena a sollevare la testa, ma non poteva muoversi. Dovevano crederlo morto, e questo gli stava salvando la vita. Il fuoco, di cui gli attribuivano il dominio, adesso dominava lui, divorandogli la carne, e in quel dolore il giovane trovò una sorta di giusta compensazione. Strinse i pugni e sforzandosi sollevò il capo: aveva già sentito quelle voci, molto tempo prima. Allora, come adesso, era stato ferito e creduto in punto di morte, ma aveva poi riso di quei nemici che era andato a cercarsi con la leggerezza dell'adolescenza; adesso il suo spirito era diverso, rafforzato dalla determinazione che quegli uomini, prima o poi, gli sarebbero stati servi. Gli occhi acquosi di un vecchio ucciso con un fendente alla fronte lo guardavano da un palmo, e rispecchiavano il cupo terrore della sua fuga senza scampo. «Te lo prometto, vecchio Aras», mormorò Larth tra i denti, riconoscendo l'anziano servo che lo aveva tenuto sulle ginocchia da bambino nel cortile assolato del Palazzo del Re. All'improvviso cadde il silenzio. Sentì Tefrie che urlava a uno degli atleti di correre a richiamare la Guardia rimasta con il Re, e allora si fece forza. «No!» urlò. Il celta lo raggiunse e anche Tefrie si precipitò; gli si inginocchiò accanto senza toccarlo. «La Guardia non deve lasciare il Re!» ordinò Larth. «Devono muoversi subito, invece, e proseguire per Tarchna. Che ne sappiamo di quanti erano i Latini e se volevano davvero soltanto il bottino dei carri?» Il Maestro d'Armi gli sfiorò la schiena ferita, sollevando gli occhi sul celta, che era rimasto lì vicino, immobile. «Come ordini, Principe», mormorò il Maestro. Gli atleti rimasti erano due lottatori e un giovane del salto, che era stato campione nei giochi. Tefrie si rivolse al giovane: «Hai sentito l'ordine del tuo Principe: vai, e non perdere neanche un istante!» Il giovane corse via; il rombo sordo del tuono percorse l'aria, ma lontano, trattenuto, senza davvero penetrare nella foresta.
«Cercheremo di sistemare il carro meno danneggiato», mormorò Tefrie. «Con quello ti riporteremo a Tarchna. Ma adesso dobbiamo cercare un riparo e provare a togliere la freccia.» «Una cosa alla volta, Maestro», bisbigliò Larth, respingendo un attacco di tosse; lo sforzo gli imperlò il viso di sudore. Dopo essersi aperti un varco nell'intrico fitto dei rovi e dei corbezzoli, trovarono un riparo poco oltre la curva del sentiero: su un rialzo del terreno c'era una grotta, creata da una frana antica che aveva accatastato grossi massi l'uno sull'altro. In quel punto, anche l'oscurità era quasi meno fitta che sul sentiero, perché tra le fessure, dall'alto, pioveva la luce livida dell'uragano. Tefrie e i due lottatori si occuparono immediatamente del carro. Il celta aveva recuperato delle coperte e una fiasca di vino tra il poco sfuggito ai Latini e li portò nel riparo. Su una delle coperte ripiegate depose la spada, quindi sedette con le spalle alla roccia e per un istante chiuse gli occhi a riprendere fiato. Larth lo vedeva appena, e tuttavia sentiva la sua sofferenza tanto intensa quanto la propria. Strinse nei pugni chiusi la nera sabbia fine del suolo su cui giaceva; che cos'altro ancora poteva accomunarli in quella veglia se non il fatto che ambedue non accettavano la morte e il destino segnato? «L'ho ammesso, finalmente», pensò. «Ma non me ne verrà alcun bene: un Re è Sacerdote e non può imporre alla sua gente di credere in ciò in cui lui non crede. Un Re deve pagare con la propria carne e la propria anima. Se non può pagare, non può essere Re.» Con grande sforzo, Larth sollevò un poco lo sguardo. Il celta era ancora immobile e la spada stava tra loro, muta, sporca di sangue. Un fragore di gocce d'acqua colpì i massi, più in alto, ma nessuna toccò il suolo. «Perché mi hai salvato la vita?» esclamò infine Larth. La risposta arrivò pronta, se pure con un accento che un poco la alterava. «Perché mi hai fatto togliere le catene; ho pagato il mio debito.» «Così, parli la lingua rasna», constatò Larth. «E anche meglio dei nostri alleati cartaginesi e dei mercanti greci che ci frequentano da tanto tempo.» «Imparo facilmente.» «Avrai un nome.» «Axal.» «Axal, ho un pugnale alla cintura: prendilo e vedi di togliermi questa freccia», gli ordinò Larth. «No. C'è bisogno di fuoco e di qualcuno che ti sostenga, e io posso usare
un solo braccio. Aspettiamo; il sangue non esce», gli rispose il celta, impassibile. «Solo perché sta bruciando», mormorò Larth, appoggiando la guancia sulla sabbia e tentando di respirare; adesso il tempo gli sfuggiva. Una goccia di pioggia lo colpì sulla fronte e subito dopo avvertì lo scroscio dell'acqua sulle rocce. Un tuono, lontanissimo, rotolò dalla cima del Monte di Tinia sin nei meandri della sua Foresta Sacra. «Tu non temi il fulmine», commentò Larth. «Solo quando mi incenerisce», borbottò Axal. «E non è detto che ci riesca.» Larth sorrise debolmente. «Chiama Tefrie e aiutalo a togliermi questa freccia che mi sta divorando!» ordinò. «Zitto!» esclamò Axal, e Larth si stupì di quel tono di comando sulla bocca di uno schiavo. D'improvviso Axal impugnò la spada e balzò all'apertura del riparo. Cneve si fermò in tempo, sorpreso, le mani aperte. «Se ci fosse stato un latino tu saresti già morto, fratello», mormorò Larth. «Che cosa sei venuto a fare qui?» Axal sollevò la spada e Cneve si intrufolò nel riparo e, subito dopo di lui, entrò Caitli. Portava un mantello pesante, che la pioggia le faceva aderire addosso, e aveva chiuso i capelli in un velo scuro, tenuto da un cerchio d'oro. «La Guardia sta scortando il Re e il suo seguito a Tarchna», esclamò Cneve. «Ma non potevamo abbandonarti. Io, Tese e Aivas resteremo qui con quattro uomini fintanto che non potremo trasportarti.» «Aivas?» «Vuole mettersi in luce e la tua salvezza è l'ultimo dei suoi pensieri», intervenne Caitli. «Cneve, portami un po' di legna per il fuoco e la borsa rimasta sul mio cavallo.» «La legna sarà tutta bagnata», obiettò il giovane, lanciando uno sguardo dubbioso ad Axal, che non aveva lasciato la spada. «Portala ugualmente», lo riprese Caitli. Si inginocchiò accanto a Larth e gli sfiorò la fronte con la punta delle dita; un gesto lieve che il giovane accolse come una benedizione. «Tu non puoi restare qui», mormorò tuttavia Larth a denti stretti. «Perché no?» ribatté Caitli, sollevando lo sguardo sul celta. «Solo perché sono una donna?»
«Perché sei una Regina, e dovresti essere al sicuro.» «Lo sono ovunque, qui come in una fortezza. Non sprecare il respiro, Larth: presto dovrò farti male», lo ammonì Caitli. Larth tacque; Cneve tornò con una bracciata di rami fradici e la pesante borsa, e lasciò cadere entrambe a terra. «Sistemali», ordinò ad Axal. «Sistemali tu», lo riprese Caitli. «Poi torna fuori e di' agli uomini di trovarsi un buon riparo: pioverà per tutta la notte e i Latini sono già lontani.» Il ragazzo fece come gli era stato ordinato, impreparato a opporsi e lasciandosi sfuggire qualche ramo per la fretta e l'emozione. L'acciarino era asciutto, ma i rami erano bagnati e, dopo due tentativi, Cneve si arrese, porgendoglielo. Caitli fece scaturire la scintilla, l'accolse nel palmo della mano e la portò a dilagare sui rami. Cneve abbassò lo sguardo, turbato. «Occorrerà altra legna; questo fuoco non deve spegnersi», lo riscosse Caitli. «Ne farò tagliare», rispose Cneve intimidito. «Bene. Adesso poni il tuo pugnale nel fuoco e lascialo arroventare.» Caitli quindi si disinteressò di lui; aveva disposto su una coperta accanto a sé tutto quello che le occorreva: gli affilati bisturi, le fasce e le ampolle di unguenti. Tefrie si affacciò in quel momento portando il cratere che aveva lasciato all'esterno perché si riempisse d'acqua piovana, e restò incerto, con la sensazione di penetrare un rito al quale gli Dei non lo avevano chiamato. «Mettilo sul fuoco», ordinò Caitli, senza neanche girarsi. Adesso nel riparo c'erano luce e calore. Caitli alzò gli occhi su Axal. «Ho bisogno del tuo aiuto.» Il celta si inginocchiò accanto a Larth, sedendosi sui talloni, pronto a obbedirle. «Non Cneve e non Tefrie», pensò Lardi. Tuttavia gli sembrò naturale che avesse chiamato il celta a quel compito. Caitli aveva messo a nudo la ferita; c'era pochissimo sangue, ma attorno alla punta della freccia si stava formando un alone nerastro e gonfio. Caitli la cosparse di unguento. «Alzalo appena e sostienilo perché possa respirare», ordinò quindi, e Axal passò un braccio attorno al petto di Larth, e lo sollevò un poco, tenendolo contro di sé. Il bisturi affilato brillò nelle mani di Caitli. Larth sentì la stretta del celta farsi impercettibilmente più salda, e ne ri-
cavò un senso di conforto e di sollievo; un abbraccio che in un altro momento lo avrebbe stupito, ma che adesso accettava con gratitudine. Quell'uomo, come lui, aveva battuto i sentieri delle armi e tuttavia era più di un guerriero. Serrò le labbra. Aveva la sensazione che l'opale, stretto tra il suo petto e quello del celta, fosse diventato di ghiaccio. La lama morse la carne attorno al cerchio disegnato con l'unguento; il sangue nero e cattivo sgorgò in un fiotto. Larth si irrigidì, ma Axal lo tenne: con un solo colpo la lama liberò la punta della freccia, e Caitli la estrasse di netto. Adesso il sangue era rosso e vivo. La giovane donna cauterizzò la ferita aperta con la lama piatta del pugnale di Cneve, la coprì di unguento e la lasciò esposta. «Distendilo sulle coperte», ordinò quindi, facendosi da parte per permettere a Tefrie di aiutarlo: sistemarono Larth su due coperte e gliene misero un'altra addosso, senza toccare la ferita. Larth si inumidì le labbra; era stanco, ma non aveva alcuna intenzione di dormire. Tentò di sollevarsi un poco e Axal lo tenne giù con fermezza. «Vado a prendere altra legna», mormorò Tefrie, tuffandosi nella pioggia fitta; il riparo tuttavia era miracolosamente asciutto e solo qualche goccia a tratti penetrava dalle alte spaccature. «E io voglio vedere dove si sono riparati gli uomini e come hanno disposto la Guardia», esclamò Cneve. «Lascia fare a Tefrie», gli ordinò Larth, senza aprire gli occhi. «Lui intanto può stare qui fuori», ribatté Cneve indicando Axal; lo disturbava che quello schiavo potesse essere vicino a suo fratello e a Caitli più di quanto lui lo fosse mai stato. «No», mormorò Caitli. «Anche lui è ferito. Resterà qui.» Era un ordine. Tefrie arrivò con la legna e Cneve si rassegnò a seguirlo al riparo degli uomini; Aivas non avrebbe mancato di notare il trattamento di favore allo schiavo straniero. E Aivas aveva la lingua più avvelenata di un serpente. Axal si era ritirato con la schiena alla roccia, e trasalì lievemente quando Caitli lo raggiunse, prendendogli il braccio e liberandolo dalle bende della sommaria medicazione del Maestro d'Armi. Sfiorò le profonde ferite con la mano e lo sentì tremare. L'uomo abbassò lo sguardo. «Devo ricucirle. Ti farò male», sussurrò Caitli. «Questo è un dolore che passa», ribatté il celta. Caitli colse una specie di
sorriso quando gli occhi azzurri tornarono su di lei. «Sei una Regina?» «Sono figlia di Re.» Il celta appoggiò il capo alla roccia, sopportando in silenzio il lavoro di quelle mani femminili che esploravano la ferita. «E tu?» mormorò Caitli. Axal accennò un sorriso. «Sono figlio di Re. Ma noi non abbiamo città, solo villaggi, e così il Re è molto più... piccolo. Non lo chiamereste Re, qui. Noi...» Si interruppe. Caitli sollevò il capo, che aveva liberato dal velo. «Sì?» Axal si rese conto che era la prima volta che parlava della sua gente da quando era stato catturato. Scosse il capo, e tacque. «Riposati, ora», mormorò Caitli, risistemando il braccio in una fasciatura pulita, «e prendi una coperta.» «E tu?» «Io non lascerò spegnere il fuoco.» Il celta si distese al fianco di Larth e giacque supino, gli occhi aperti a guardare il cielo tempestoso dalle fessure della volta. Al suo fianco, Larth aveva ceduto a una specie di quieto torpore. Un fumo odoroso si levava dalle erbe che Caitli aveva gettato nel fuoco: ancora non aveva aggiunto altra legna, e tuttavia la fiamma era alta e viva, e la coronava di luce. 10. Larth si svegliò sotto la spinta del dolore bruciante che gli divorava la schiena. Aprì gli occhi con una certa fatica, e scoprì un raggio di sole che piovendo dall'alto illuminava la grotta, facendo scintillare la sabbia nera e la testa bionda del celta, che gli sorrise con gli occhi. Il fuoco languiva. Dall'esterno veniva il battere dei martelli e degli attrezzi degli uomini che riparavano il carro. Larth sfiorò con le mani la sabbia: era tiepida. «Ho dormito», mormorò. «Per tutta la notte e parte del mattino. Il sole è alto», gli rispose Axal. Larth tentò di sollevarsi a sedere e ci riuscì a stento, facendo forza sulle braccia. Il celta non si mosse. «Dov'è la Regina?» «A parlare con i vostri Dei per i morti che sono rimasti appena oltre la
curva del sentiero.» «La sacralità del luogo era stata violata, e i morti non avevano avuto onori: Caitli la Sacerdotessa aveva il dovere di occuparsene, ma la Regina avrebbe dovuto restare con me», pensò Larth, e si sentì osservato da due occhi penetranti che sembravano avere la capacità di vedere ben oltre le apparenze. «Chi c'è con lei?» chiese al celta. «Nessuno. Ho sentito che ordinava a tuo fratello di restare qui.» «La tua gente onora i morti?» «Certo.» Il tono era stato asciutto, trattenuto; Larth pensò che sapeva ancora troppo poco delle terre e delle genti che potevano essere un pericolo o un vantaggio - per il popolo rasna. E a questo avrebbe dovuto rimediare. «Allora vai: veglia su di lei ma non interromperla, qualunque cosa stia facendo. E poi riportala qui.» «Potrei fuggire.» Lo sguardo di Axal era indecifrabile. «Ma non lo farai.» Axal sorrise appena, muovendosi. «No. Adesso no», rispose alzandosi. Larth gli porse il proprio pugnale; Axal esitò trattenendosi dal toccarlo. «Tra la mia gente un'arma è un patto sacro, che si scrive nel sangue, e che non si affida a uno straniero», mormorò. «Io ti ho già affidato la mia spada, così il patto è stato scritto e sigillato», ribatté Larth. «È un patto difficile», disse Axal. «Ti chiedo fedeltà e obbedienza.» «Non avrai né l'una né l'altra. Io non ti considero padrone e non mi ritengo schiavo; il mio debito con te è saldato e quando riterrò di aver sciolto l'ultimo dei miei obblighi cercherò di fuggire. Se vuoi, puoi farmi uccidere qui, subito, dalla tua gente; se mi tieni devi sapere che comunque non rinuncerò alla fuga.» «Ti terrò correndo il rischio», confermò Larth. Axal sfiorò con la punta delle dita la lama del pugnale e la bella impugnatura incisa, dove l'aquila di Tarchna aveva le ali aperte. «Questa notte sarebbe stato facile tagliarti la gola e lasciare il riparo: nessuno dei tuoi mi avrebbe sentito. Io vedo nel buio e non faccio più rumore di una foglia che cade. Ma la tua Regina ha acceso un fuoco sacro, e siamo legati. Nessuno di noi può spezzare quel vincolo: né tu, né io, e nemmeno lei. Chiedilo alla tua Regina, quando la riporterò qui.»
Larth fece un breve cenno di assenso; sapeva perfettamente quello che il celta aveva sentito: il Potere. Per difenderli, Caitli aveva risvegliato quanto di più profondo e intimo esisteva tra loro; ma aveva anche stretto tra loro un legame che difficilmente si sarebbe potuto sciogliere. «Hai la fedeltà che darei a un amico, ora», mormorò Axal prendendo il pugnale. Dopo averlo nascosto tra il braccio ferito e il petto, uscì. Larth si mise quindi faticosamente in piedi e si affacciò all'ingresso del riparo: il sole era alto e la giornata era tiepida. Le tracce dell'uragano del giorno prima e della pioggia notturna brillavano in pozzanghere e rigagnoli tra la vegetazione spoglia, mentre pennellate di azzurro vivo illuminavano il cielo, minacciato tuttavia da altre nuvole scure che giungevano veloci da occidente. Tefrie e i due atleti stavano lavorando al carro: lo avevano già raddrizzato, ma mancava ancora una delle ruote. «Lascialo andare, Cneve», ordinò. «Si allontana per mio ordine.» Il ragazzo si girò sorpreso; aveva fermato Axal con l'impeto e la leggerezza dell'età, senza davvero rendersi conto di quanto potesse essere pericoloso e di quanto poco il celta tenesse in considerazione chi gli sbarrava la strada; di rimando, non capiva perché Larth si fidasse e lo guardò sbalordito. Axal si incamminò lungo il sentiero senza più badargli e Cneve raggiunse Larth. «Perché lo mandi via?» chiese, non nascondendo il suo stupore. «Perché voglio che riporti qui Caitli.» «Non possiamo fidarci di lui! Aivas dice che tenterà di fuggire e magari anche di venderci ai Latini.» «Questo dice Aivas.» Cneve scosse il capo. «Mi ero offerto di accompagnarla, ma non ha voluto. Ha detto che non ci sarebbe stato pericolo per lei, ma che per quello che doveva fare non dovevano esserci spettatori. Charun e Vanth forse sono ancora lì attorno, per guidare i morti nel regno d'ombra. Che cosa potevo fare?» «Nient'altro che obbedirle», convenne Larth, sorridendo appena: Cneve aveva l'aria confusa e risentita. «Aiutami a sedere», lo incoraggiò. «Qui: lascia che mi appoggi.» Gli passò un braccio attorno alle spalle, e si lasciò sostenere sedendosi sulle pietre già asciutte davanti alla grotta, in una macchia di sole; gli sembrava che il tepore gli portasse un po' di sollievo alla schiena, ma aveva i brividi
e una certa difficoltà nel respiro. Cneve gli restò inginocchiato accanto. Tese e Aivas, vedendoli, li raggiunsero. «Nostro padre mi ha già messo da parte», mormorò Cneve. «Non vorrei che lo facessi anche tu.» «Non ti metterò da parte. Te lo prometto. Porterò la mia risposta ai Latini molto presto e, se vorrai, potrai essere al mio fianco.» Cneve gli strinse forte la mano. «Credo alla tua promessa», rispose. «E sarò sempre al tuo fianco.» «Sono lieto di vederti discorrere, Larth», esclamò Aivas, fermandosi accanto a lui. «Abbiamo promesso un'offerta al Tempio di Tagete per te.» «Ti ringrazio. Se il carro sarà pronto, potremo essere di ritorno già oggi, così potrai sciogliere l'offerta.» «Lo sarà, mio Principe», gli rispose Tefrie, lavorando alacremente alla seconda ruota. «La presenza tra noi dell'Erede del Grande Trutnot ci rassicura», ribatté Aivas. «Ma sarebbe imprudente passare qui una seconda notte.» «Imprudente per chi?» chiese Larth, sfiorando con la punta delle dita l'opale che aveva sul petto. Aivas si tirò indietro; aver definito Caitli Erede del Sacerdote anziché del Re era stato un atto coraggioso ma certamente temerario, e non l'avrebbe fatto se non avesse visto sul viso di Larth quella fatica mortale che gli cambiava i lineamenti. «Appoggerai la richiesta di Velx per un attacco ai Latini?» intervenne Tese, che aveva conservato la sua aria spigliata e il suo modo schietto di parlare. «Mi hai sentito parlare con mio fratello, quindi lo sai: perché me lo chiedi ancora?» «Sono con te, se armerai la Guardia di Tarchna», replicò baldanzoso il ragazzo. «Solo se il Re lo vorrà», lo riprese Aivas. «Perché solo il Re può armare la Guardia della città.» «Vorrei potermi fidare di questo nobile della mia città», pensò Larth, «almeno quanto mi fido di quello schiavo straniero che mi ha salvato la vita.» «Basta!» intervenne Cneve. «Parlare lo affatica, non vedete?» Aivas chinò appena il capo; Tese ne convenne con più apprensione, e si trattenne un momento, mentre l'altro già se ne tornava al proprio fuoco. «Sarà contro di te con tutta la sua Casa al consiglio del Re», lo avvertì
Tese. «È soltanto uno», ribatté Larth. Tese guardò altrove, imbarazzato dal sorriso che aveva accompagnato quelle parole e che appariva più mortale di una minaccia. «Uno è l'inizio della dissidenza. Le Case dei nobili devono seguire il Re, tutte. Soltanto così la città può vivere e ingrandirsi, e dominare.» Quante volte Tarchon l'aveva ripetuto a Larth, per tutto il tempo della sua infanzia? Si distrasse a seguire un volo improvviso di poiane, dall'alto del dirupo. Andavano verso sud, rigando il cielo azzurro con il battere lento delle ali frangiate. Larth decise di non pensare ai presagi. Caitli si fermò; quel punto del sentiero era buio e la pioggia caduta stava risalendo in nebbia; era così differente dallo stesso sentiero appena oltre la curva, dove il sole riusciva a penetrare. Questo era un altro mondo: un mondo offeso, sanguinante e muto. I corpi dei giovani atleti, delle guardie e dei servi giacevano dov'erano caduti, mischiati ai cadaveri degli aggressori; erano scomposti, fradici, qui e là dilaniati dai predatori notturni. La terra aveva bevuto il sangue e ne era contaminata. Caitli respirò a fondo, immobile: non sentiva nulla, ed era questo nulla a spaventarla perché era come se non ci fosse più vita in tutta la foresta. Tese le mani davanti a sé per raccogliere le vibrazioni dell'aria e gli invisibili fili del Tempo. Con gli occhi chiusi, rivide il corteo che procedeva frettolosamente per recuperare il cammino e per sfuggire all'uragano minaccioso che andava preparandosi. Vide Tefrie, in testa, ordinare ai servi di affrettare il passo; vide il secondo carro, con Axal legato, e scoprì i suoi occhi di cielo chiaro che frugavano la fitta cortina alla ricerca del nemico, e infine vide Larth, che si fermava a parlare con Tefrie e poi si portava in coda e si piegava verso Axal per liberarlo dalle corde. Aprì gli occhi nello stesso momento in cui la prima freccia scatenava l'attacco colpendo Larth. Nella foresta restò un urlo sommesso; un grido di dolore non umano che strisciava ovunque, ripetendosi all'infinito nelle forre, negli anfratti, nei dirupi, per poi correre come un vento maligno a inseguire gli assalitori, riuscendo a toccarli a uno a uno nei ripari e sui sentieri. «Non vendetta», mormorò Caitli quasi senza muovere le labbra, «ma pu-
rificazione!» Alzò le mani al cielo per catturare il filo invisibile del Tempo trattenuto. L'uragano era lì: prese l'onda vibrante del fulmine sulla punta delle dita e lo lasciò scaturire sul carro e sui corpi che lo circondavano. La folgore lampeggiò un istante incenerendo la struttura e poi corse come una sfera luminosa, bianca, lungo il sentiero, annichilendosi sul corpo di un latino riverso con una lancia rasna in petto. Il boato scosse la terra fin nel profondo. Caitli vacillò all'indietro, all'improvviso senza forze. Axal la afferrò e la giovane gli si abbandonò, consapevole soltanto del braccio attorno alla sua vita e del corpo dell'uomo contro il suo. Si girò, gli appoggiò il viso contro il petto e sentì l'abbraccio serrarsi, protettivo. C'era nell'aria l'energia viva appena scatenata e adesso riverberante come un fuoco fatuo: qualcosa che correva sulla pelle come una febbre. Axal si chinò a baciarla sulla bocca e Caitli dischiuse le labbra, accogliendolo con l'ansia per un amante atteso a lungo; il piacere di quel contatto li avvolse, prendendoli entrambi, e invase anche i loro corpi, più forte e più impetuoso dei pensieri. Caitli si staccò a fatica, ma non lasciò gli occhi dell'uomo, divenuti improvvisamente seri e duri. «Devo riportarti al riparo», mormorò Axal, senza più toccarla. «Dirai quello che hai visto?» «Soltanto se tu lo vuoi.» Caitli girò il capo. «Credi nel destino, Axal?» gli chiese in un soffio. «Perché me lo chiedi?» «Perché tu potrai fuggire cento volte, ma sarai sempre nel luogo dove ci incontreremo.» Axal sorrise appena e le sfiorò il viso con il palmo aperto, con una carezza leggera e intima. «Non accetto il destino», fu tutto quello che disse. Caitli assentì, muovendosi. «Sii il mio testimone», mormorò, senza più girarsi a guardarlo. Axal la seguì in silenzio per il breve tratto di sentiero. Aivas, Cneve e Tefrie la aspettavano ansiosi già prima dell'ultima curva: avevano visto il fulmine cadere, e il boato era stato tanto forte da far credere in un improvviso tremore della terra. Vedendola tuttavia non osarono parlare, e ovviamente non chiesero nulla allo schiavo che la seguiva. «La Guardia è arrivata», disse infine Cneve. «Il carro è pronto.»
Caitli sorrise appena al giovane della Casa di Matlu che comandava la Guardia: un centinaio di uomini armati che per metà si sarebbero occupati dei corpi riportandoli a Tarchna, e che per l'altra metà li avrebbero scortati nel rientro. «La foresta è purificata: non avere alcun timore», lo rassicurò Caitli. Il giovane si inchinò a toccarle l'orlo della veste, nell'omaggio dato soltanto ai Trutnot; la giovane lo accettò senza parlare, ma cercando Larth con lo sguardo. «È già nel carro», mormorò Cneve, «e credo abbia la febbre.» Caitli si affrettò; Tefrie aveva accolto Axal sul proprio cavallo e tutti gli altri erano già pronti a muoversi. Chiuse con cura la tenda danneggiata del carro in cui Cneve aveva avuto cura di sistemare la borsa di unguenti e i ferri accanto al mantello. Raccolse i capelli nel velo e si accoccolò accanto a Larth, che giaceva sulle coperte: la pelle del giovane scottava e la fronte era madida di sudore. Non sarebbe stato un viaggio facile. Gli sfiorò la schiena con le mani e il giovane reagì a quel contatto, irrigidendosi. «Mio povero grande Re», mormorò Caitli, accarezzandolo dolcemente per dargli sollievo. Lì, non vista, poteva piangere. Larth ricordava appena la sofferenza del viaggio di ritorno lungo il sentiero dove l'uragano aveva aperto grosse buche; si sovrapponevano a quello i ricordi confusi dei suoi anni sul mare, poi la notte di Alalia, con la città che bruciava, e la sensazione inebriante della conquista del Palazzo e del suo Re. Era forse in quel Palazzo, adesso? Aprì gli occhi con la sensazione precisa di uno sguardo acuto e curioso che lo spiava; e per un momento sentì soltanto il proprio malessere, che non era più dolore, ma soltanto spossatezza. Il bambino era ai piedi del letto e lo fissava intensamente; aveva gli occhi piccoli e scuri e le labbra strette. Portava una corta tunica di lana fine e scarpe con legacci, decorate con ricami a colori vivaci sulla punta ricurva. Un piccolo Principe non sarebbe stato meglio vestito. Larth lasciò correre lo sguardo attorno: la stanza era grande e con molti tappeti; pesanti tendaggi ricamati ricoprivano le pareti e il grande focolare era acceso; le sue armi vi stavano accanto perfettamente disposte. «Anche il pugnale...» pensò. «Axal...»
La porta era chiusa da un pesante battente in legno, ma un'altra apertura portava forse su un cortile, ed era schermata da un'anta di fine alabastro, montata su cardini di bronzo. Doveva essere una delle stanze della nuova ala del Palazzo, volta a meridione, di cui aveva sentito parlare, ma che non aveva ancora fatto a tempo a vedere. Era una bella stanza, e tuttavia non era la stanza dei Principi: non c'era memoria, in queste nuove mura. Tornò a posare lo sguardo sul bambino, che era rimasto perfettamente immobile e attento. Larth gli sorrise brevemente, poi si mise a sedere. «Suppongo che ci debba essere una buona ragione perché tu stia qui a guardarmi. Non hai niente di meglio da fare?» lo interrogò, mentre provava ad aprire le braccia nel movimento di tensione dell'arco, cercando di capire se il dolore che gli aveva tolto il fiato per così tanto tempo se ne fosse finalmente andato. «Io non ho bisogno di fare: io sono il figlio del Re!» dichiarò il bambino. Larth assentì, come se quella rivelazione lo avesse impressionato. «Ammettiamo pure che tu sia il figlio del Re; però non hai risposto alla mia prima domanda.» Il piccolo lo guardò con improvviso risentimento; dove prima c'era stata soltanto curiosità ostile, adesso c'era odio, e Larth se ne meravigliò. Non aveva mai pensato che lo sguardo di un bambino potesse essere tanto intenso e cattivo. «Mi hanno detto che tu vuoi il trono che è mio», mormorò quindi il bambino, ma con voce all'improvviso incerta. Larth non fece in tempo a rispondere. Il battente si aprì con esitazione e una serva si sporse all'interno, richiamando il piccolo che tuttavia la ignorò. «Tua madre ti sta chiamando», lo esortò Larth. «È soltanto una serva», borbottò il bambino senza muoversi. Larth fece cenno alla donna di entrare; era piccola e bruna, con la pelle scura, i fianchi tondi e un petto sodo e prominente; obbedì fingendo timore, ma era una finzione che Larth aveva appreso da tempo a distinguere. «Stai allevando una serpe, donna: stai attenta, perché sarai la prima a esserne morsa. Portatelo via», la ammonì. Il bambino aprì bocca per protestare, ma la donna fu veloce a tappargliela. Hasti comparve sulla soglia in quel momento, le mani sui fianchi e l'aria furiosa.
«Hai avuto ordini precisi, Vultha, e quegli ordini riguardano anche tuo figlio!» esclamò. «A meno che non sia il Re a mandarvi a chiamare, dovete restare nel quartiere nelle cucine. Sarò costretta a punirti se disobbedirai ancora. Hai turbato il Principe Larth nel suo riposo, e questo non ti sarà perdonato!» Larth quietò l'irruenza di Hasti con un cenno. Rivederla lo riportava ai giorni belli della sua infanzia e gli dava una specie di malinconia lieve. Hasti mandò fuori Vultha e il bambino e chiuse la porta. «Il bambino ti ha dato fastidio, mio Principe?» mormorò. La donna aveva negli occhi lo stesso sorriso di un tempo e nella voce lo stesso tono di pazienza rassegnata. «No, non mi ha dato fastidio. Da quanto sono qui?» «Due giorni. La febbre è stata alta, ma Caitli ha detto che tutto l'umore cattivo era uscito, e che dovevi soltanto riposare. Ti hanno vegliato, lei e Thanaquil. Non lo ricordi?» Scosse il capo. Hasti se ne stava dritta a guardarlo come avrebbe fatto una madre preoccupata per quello che doveva dire. «Cos'altro c'è, Hasti?» la interrogò quindi. La donna sorrise appena. «Questo Palazzo diventa sempre più grande e vivere qui pare sempre più difficile. Adesso ci sono ombre negli angoli e qualche volta ho paura.» «Nella casa del tuo Re?» La donna sospirò, cercando disperatamente con lo sguardo qualcosa da fare, per poter parlare senza doversene star ferma a subire la sua curiosità. «La piccola Thanaquil è molto innamorata di un giovane di Velx che tu ben conosci. Ma questo è un segreto...» «Perché allora me ne stai parlando?» «Perché ieri è venuto a Palazzo il nobile Tite Aivas, e per la seconda volta ha chiesto Thanaquil per il nipote Kae. E il Re non ha rifiutato, ha soltanto preso tempo. Così la mia bambina è disperata e Caitli è furiosa, perché teme una manovra al di là di questa insistenza.» Hasti tacque; aveva detto ciò che le pesava e per nessuna ragione al mondo avrebbe dubitato del suo diritto di rivolgersi a lui, e a lui solo. «Manda qualcuno a cercare mio fratello Cneve, che venga qui», le ordinò Larth. «Ho un messaggio da affidargli e dovrà portarlo a Velx.» Hasti si inchinò e uscì subito. Per un momento ancora, Larth restò nel letto; Hasti aveva buoni motivi per essere preoccupata ed era troppo attenta e acuta per farsi sfuggire i
segni di pericolo attorno al Re. Larth si avviluppò una coperta attorno ai fianchi e raggiunse la finestra; ne dischiuse il battente prezioso e scoprì che stava piovendo. Il vento spazzava il cortile che portava all'ala delle donne; più in là c'era l'ala antica, con l'altare della Madre Dia e la stanza dei Principi, dove c'erano i suoi ricordi e la sua Regina. Axal stava attraversando il cortile proprio in quel momento: andava in direzione dell'ala antica. Portava una tebenna pesante, nera, ed era solo. Larth richiuse il battente. «Tefrie aveva ragione», pensò. «La via della solitudine è una strada difficile.» Si vestì rapidamente, si coprì con la propria tebenna bianca e raggiunse l'ala dove c'erano le stanze del Re. Dava sul cortile principale che in quel momento era vuoto e sferzato dalla pioggia. Le lettere che componevano il nome di Tarchon affogavano in cinque dita d'acqua, e questo non sembrò un buon segno a Larth; appena oltre, un Aruspice del Collegio di Tagete compiva la quotidiana offerta sull'ara. Ordinò a una delle guardie alle stanze di annunciarlo, ma non aspettò che ne tornasse fuori per entrare. Tarchon stava sdraiato su un clinai davanti al grande focolare acceso, ed era solo. Una pesante coperta di lana ricamata lo avvolgeva interamente, ma la gamba malata ne stava al di fuori, il ginocchio gonfio due volte il normale e nessun altro segno visibile a denunciare la natura del male. Gli fece cenno con la mano di avanzare e Larth si pose tra lui e il fuoco, restando in piedi. «Così Caitli aveva ragione nel dire che ne saresti uscito presto», mormorò, rivolgendogli uno sguardo penetrante. «Che succede, mio giovane Principe? Su quel sentiero c'era la morte e nessuno l'ha sentita!» «A volte accadono cose non scritte», ribatté Larth. «Tutto ciò che accade deve essere scritto: questo lo sai quanto me! Ricordi Demestone, il mercante?» «Certo.» «È arrivato ieri, con i suoi schiavi e le sue merci, e ancora viene a rendermi grazia per quell'avvertimento che gli ha salvato la vita tanto tempo fa. Il nostro vecchio mercante che non ha nemici, purché paghino!» Rise appena, ma era un riso forzato, che lo affaticava. Larth tacque; il Re gli sembrava troppo afflitto dai propri mali per affrontare lucidamente gli argomenti che voleva proporgli.
«Perdonami», mormorò quindi il giovane. «Tornerò un'altra volta.» «Resta! Che cosa credi? Che io non sappia che cosa sei venuto a fare?» Ordinò al servo che vegliava nell'angolo opposto della stanza di avvicinare una sedia al fuoco per il suo ospite e di servire il vino caldo, aromatizzato con il ginepro e il miele. Larth obbedì, e aspettò che il vino fosse servito. Brillava di un bel colore cupo, nelle coppe preziose, ma Larth ne prese appena un sorso; il servo si ritirò di nuovo nel suo angolo. «Sono lieto che tu sappia che cosa sono venuto a chiedere, mio Re», esordì Larth. «Voglio il tuo consenso per armare la Guardia e portarla contro Ruma. Mi basteranno trecento uomini: non di più.» «Non di più!» ribatté il Re. «Siamo quasi in inverno e tu vuoi armare trecento uomini e portarli a combattere! E scommetto che conti su Velx per almeno altri trecento.» «Mastarna li porterà qui non appena avrà il mio messaggio», ammise Larth. Tarchon assentì, cupo. «Così, c'erano già degli accordi segreti tra voi. Devo pensare che il Principe di Tarchna si allea prima con un'altra città che con la propria?» «L'impegno è quello di un amico a un amico. Non posso sapere se Mastarna ha ottenuto dal suo Re quello che io chiedo al mio, ma non ho dubbi che ci sia riuscito.» «Così come non hai dubbi sulla tua riuscita», commentò amaramente il Re. «Tu sai che non ne ho.» «Già.» Tarchon affondò lo sguardo nella propria coppa di vino quasi vuota. «Tu sei un Mago.» Larth non rispose; Tarchon sorrise appena, lasciando che il rimpianto per la sua giovinezza perduta si facesse visibile nel suo sguardo. «Aivas è venuto a chiedermi Thanaquil per suo nipote. Tu sai perché vuole questo matrimonio, non è vero?» Lardi assentì; Tarchon si morse le labbra. «Non gli ho detto di sì, ma nemmeno di no. Aivas è potente tra i miei nobili, e ne ha raccolti molti attorno a sé... più di quanti tuo padre e io avevamo previsto. Così non sarebbe saggio farselo nemico apertamente, come non è saggio che tu ti allontani adesso.» «Se mi allontano porterò con me tutti i giovani nobili delle famiglie che tu temi, e farò in modo che nessuno di loro possa rifiutare la spedizione
per l'onore di Tarchna e la pace dei suoi morti.» Tarchon lo guardò dritto. «Sei davvero così sicuro di te contro i Latini?» Larth sorrise appena, girandosi verso il fuoco, a scaldarsi; l'opale raccolse la luce, e la fiamma tremò, impercettibilmente. «Prenderò Ruma», mormorò Larth. Tarchon assentì. «Sì, se così è scritto», sussurrò. 11. Scivolando lungo la loggia, l'ombra pareva soltanto sfiorarne il pavimento di pietra nera. Le lampade, che pendevano a intervalli regolari da bracci in bronzo a foggia d'aquile in volo, la rischiaravano appena, allargando pozze di luce gialla e tremolante, che l'ombra evitò con cura. Era notte fonda, e tutti dormivano. La pioggia, che durava da giorni, batteva ancora sul tetto, colando in rivoli dagli spioventi. L'ombra esitò per un momento nel punto in cui la loggia, piegando a gomito, immetteva alla galleria su cui si affacciavano le stanze del Re. Correva lungo il muro il bassorilievo raffigurante una battaglia antica, fermata nella pietra e, sfiorandolo con le spalle, l'uomo se ne sentì turbato e in allarme. Quello che stava per fare sarebbe stato ben pagato, e poteva persino credere di agire per una giusta vendetta. Tuttavia, qualunque definizione avesse attribuito al suo gesto, la realtà non poteva cambiare: l'assassinio di un Re nel suo Palazzo sarebbe rimasto comunque un delitto. Esitò, rabbrividendo; la Guardia si era appena allontanata nel suo giro attorno ai cortili e quindi l'uomo aveva poco tempo. Tuttavia avanzava in modo sempre più incerto, trattenuto da qualcosa di oscuro, che non capiva. Spinse il pesante battente, attento a non fare il minimo rumore che potesse svegliare i servi, e si trovò in una prima stanza; il fuoco languiva nel camino e la stanza era vuota, a eccezione di un servo addormentato in un angolo, che non si mosse. Andò alla seconda porta, e questa volta trasse la spada corta da sotto il mantello: era fredda, e la sentì pesante nel pugno, come se in qualche modo rifiutasse di appartenergli. La stanza oltre la porta era quella privata del Re: aveva il letto sul fondo, schermato dai pesanti tendaggi di porpora; tappeti e stipi d'avorio e d'argento; appesi al muro, c'erano lo scudo, le armi e l'ascia bipenne, simbolo
del potere di Tarchna. Il focolare era acceso; la legna era consumata, e tuttavia la fiamma era alta e viva. Quel particolare lo disturbò. Un'onda di gelo lo pervase mentre avanzava a passi misurati verso il grande letto. Sollevò la spada e in quello stesso momento qualcuno lo afferrò sbattendolo contro il muro. Un braccio gli torse il suo all'indietro, spezzandoglielo. Urlò. L'altro accentuò la stretta, schiacciandogli la faccia contro la parete, poi lo sollevò per le spalle e lo trascinò in una terza stanza, costringendolo a inginocchiarsi e tirandogli via il cappuccio che gli proteggeva il viso. Lì, davanti al focolare, sedeva il Re. Alle sue spalle c'era la Sacerdotessa del Palazzo. Distolse bruscamente gli occhi da lei, per impedirle di frugargli la mente, ma si sentì intrappolato: una rete gli si stava avviluppando attorno e lo soffocava. Capì quello che aveva sentito nell'aria e nelle stesse mura e che l'aveva circondato cercando di proteggere la sua vittima: la Sacerdotessa del Palazzo aveva destato le forze della pietra contro di lui. Larth lo afferrò per i capelli costringendolo a rialzare il viso. «Ho già visto questa faccia», osservò. «Certo», mormorò Tarchon. «È arrivato con Demestone il mercante e il suo seguito. L'hai visto ieri, quando li ho ricevuti.» «È Demestone che ti manda? Parla!» gli ordinò Larth accentuando la stretta. L'uomo riuscì appena a borbottare tra i denti. La rete lo soffocava sempre di più. «È un focese», mormorò Larth. «Non è un greco.» «Non parlerà», intervenne Caitli. «Non ha abbastanza paura.» «Non ancora... ma l'avrà molto presto!» sibilò Larth. Tarchon strinse forte la mano che Caitli gli aveva appoggiato su una spalla. «Sono molto stanco; domani sapremo perché era venuto per uccidere il Re di Tarchna. Ora devo riposare, e anche voi, figli miei. È molto tardi.» «Domani sapremo per chi voleva farlo», lo corresse Larth, afferrando il prigioniero e mettendolo in piedi. Le guardie, che erano state messe in allarme per tempo con l'ordine di lasciarlo entrare, lo presero in custodia trascinandolo via. Caitli fece cenno ai servi perché accompagnassero il Re nel suo letto e restò ancora un momento accanto al focolare. Aveva sentito la minaccia aleggiare e consolidarsi già da qualche tempo,
ma solo quel giorno aveva avuto chiara la sua natura. Forse, se non fosse stata tanto distratta, avrebbe potuto avvertirla prima, e non avrebbe dovuto costringere Larth ad alzarsi nel cuore della notte, ordinandogli di armarsi e di seguirla nelle stanze del Re. Quel gesto poteva essere frainteso, ed era anche un rischio. Gli Aruspici di Tagete che dimoravano nel Palazzo erano numerosi e il loro Sacerdote anziano era un nobile della Casa di Aivas, Flasi, che con molta tenacia e pazienza si era ritagliato una posizione di prestigio e che il Grande Trutnot considerava con diffidenza. Era sicura che Flasi Aivas non avrebbe mancato di trarre profitto anche da quest'evento. Larth le rialzò il viso e le sorrise fuggevolmente. «Non è accaduto nulla», la consolò. «Il Re ha dato il suo consenso per Ruma e Mastarna non tarderà. Così Thanaquil smetterà di piangere e io porterò via tutti quelli che possono avere strane idee di potere.» «I segni dicono che è uno straniero a portare il malaugurio sul Palazzo. Uno straniero che viene da occidente.» «Il Palazzo è pieno di stranieri. Demestone e tutti i suoi servi lo sono e hanno fatto vela da Alalia che è a occidente.» «Però i segni non sono cambiati, e dicono ancora la stessa cosa.» Caitli si girò verso il fuoco, trattenendo la propria emozione. Anche Larth la percepiva, ma le dava un nome e una causa sbagliata: lui non poteva sapere. La prese per le spalle e la tenne un poco contro di sé, per rassicurarla. «Scopriremo che cosa ha armato la mano del focese; se è stata vendetta o complotto.» «Complotto», mormorò Caitli, e sentì su di sé l'ombra buia che quella parola portava sul Palazzo e su Tarchna. Da molto tempo i Re della Casa di Tarchon non avevano dovuto temere un simile evento, tanto che sembrava anche più mostruoso, adesso. «Avrò la tua protezione, a Ruma?» chiese Larth. «Perché me lo chiedi?» Larth la guardò negli occhi. «Perché sei la mia Regina.» Caitli sorrise, sfiorando l'opale. «Certo», mormorò. Si staccò da lui e a Larth sembrò che lo facesse con fatica, e che cose non dette restassero tra loro, pesanti.
Ordinò alle guardie di scortare Caitli nelle sue stanze; poi scese alle celle dov'era stato condotto il prigioniero. L'accesso al sotterraneo si apriva sul cortile dei servi; il cunicolo scendeva bruscamente inoltrandosi nella massa tufacea e allargandosi al di sotto dell'ala antica in un vero e proprio nodo di passaggi, con piccole celle anguste e senza luce. Solo un unico vano più ampio, al centro, serviva per gli interrogatori o le punizioni, sebbene solo di rado lo si utilizzasse. Si diceva che anticamente, ai tempi del primo Tarchon, quello fosse stato un luogo segreto di culto, o addirittura un rifugio, ma adesso era soltanto un buio spazio dove l'aria circolava a stento, viziata da umori malsani. Larth si fermò sulla soglia; la pioggia filtrava dal terreno saturo incanalandosi in una condotta e tuffandosi in un pozzo bordato di pietre, ma, a parte il rumore monotono dell'acqua, non c'erano altri suoni. Il prigioniero giaceva nudo tra le catene che lo imprigionavano, gli occhi spalancati e le membra flaccide. Appena un sottile velo di bava gli colava all'angolo delle labbra ed era ancora bagnato dell'orina che non era riuscito a trattenere negli spasimi. Laris, nella sua qualità di Zilath, era già lì, e alle sue spalle c'era Flasi, in compagnia di un piccolo gruppo di Aruspici. «Veleno», lo informò Laris, «assunto probabilmente mentre lo portavano qui dalle stanze del Re o mentre lo spogliavano.» «Non ha detto nulla?» «Non ne ha avuto il tempo: solo qualche parola in focese, ma nessun nome, nemmeno il suo.» «I segni sono stati chiari», intervenne Flasi. «Uno straniero da occidente porta il malaugurio sul Palazzo. I segni sono gli stessi da molti giorni.» «Da quando lo schiavo celta non ha onorato il Phersu», gli suggerì un Aruspice alle sue spalle. «Esattamente da allora», convenne Flasi, ma non accettò lo scontro con lo sguardo tutt'altro che benevolo di Larth. Flasi era un uomo asciutto, non alto, con gli occhi acuti e infossati, il naso prominente e una corta barba appena grigia che gli coronava il mento. La sua voglia di potere era pari alla sua abilità di essere sempre presente a qualunque evento che potesse tornargli utile. E tuttavia diceva esattamente quanto aveva detto Caitli. «Questo focese veniva da occidente», ribatté Larth. «E noi avremmo voluto avere prima l'allarme che questi segni ti hanno dato.» «La nobile Caitli mi ha preceduto, come sempre. Poiché la Dea l'ha scel-
ta, nessuno può essere come lei», replicò Flasi, conciliante, ma le sue parole lasciarono un senso di gelo quasi tangibile. Laris si mosse verso l'uscita, spingendo Larth a seguirlo: qualunque cosa volessero fare ora gli Aruspici con il corpo del prigioniero non era certo affar loro. Traversarono in silenzio il cortile dei servi, rifugiandosi subito nella loggia che portava all'ala centrale per sfuggire alla pioggia, e poi in una delle stanze aperte sul cortile principale. Il focolare, nel centro della stanza, era acceso e mandava un buon calore. Chiesero a un servo di portare loro del vino caldo e sedettero entrambi, restando per un poco in silenzio. A Larth riusciva difficile, ora, pensare che l'uomo che gli stava accanto aveva pur sempre dei diritti su di lui poiché era suo padre. Ricordava l'ultima volta in cui avevano realmente parlato, la notte in cui la bella Tyrò dalla pelle d'oro l'aveva fatto uomo; allora aveva visto se stesso adulto e suo padre vecchio; di quest'uomo che gli stava davanti e che gli parlava non sapeva più nulla e ne provava rammarico, perché dovevano ancora esserci cose che dovevano dirsi, prima che fosse troppo tardi. «È strano», mormorò quindi Laris, quasi avesse potuto seguire i suoi pensieri. «Deve essere un evento grave come il tentativo di uccidere il Re perché ci si ritrovi a parlare da soli, io e te.» «Il Re mi ha ordinato di alloggiare a Palazzo.» «Lo so, lo so.» Laris allontanò la sua giustificazione con un gesto di fastidio. «Non era questo che intendevo. I tempi sono difficili, Larth. Qualcuno comincia a parlare troppo della malattia del Re e quel Flasi della Casa di Aivas farebbe qualunque cosa pur di portare suo nipote sul trono di Tarchna.» «Commetterebbe anche un assassinio?» Laris alzò una mano, imponendogli di tacere. «Sei imprudente, figlio mio; questo Palazzo, che hai sempre considerato la tua casa, potrebbe avere orecchie ostili e lingue cattive. Sta' attento. La tua fama di guerriero e di Mago fa invidia a molti, e così la tua alleanza con Velx è fonte di sospetti.» «Sì, questo lo so: da quando ho accettato l'imbarco sull'ammiraglia di Vibenna anziché sulle navi di Tarchna. Ma quella era l'ammiraglia, padre, ed era sempre la prima in qualunque porto e in qualunque battaglia.» «Certo, perché tu ami cavalcare l'azzardo. E anche la tua campagna contro Ruma lo è.» «È vero; ma è anche un modo per portare con me i giovani di tutte le
famiglie nobili e di lasciare Tarchna e il suo Re a un inverno tranquillo.» Laris sorrise appena. «Devo riconoscere che Velvur è stato un buon Maestro.» Il servo aveva deposto le coppe di vino caldo e l'aria umida si era impregnata del profumo forte delle spezie che vi erano state disciolte. Dall'apertura che si affacciava sul cortile, oltre il porticato, un tratto di cielo cominciava appena a impallidire nel velario della pioggia. «Quello schiavo di nome Axal che la sorte ha voluto consegnare a questa Casa mi è già stato segnalato due volte dal capo dei servi.» «Perché? E perché a te?» chiese Larth, turbato. «Perché sono il magistrato supremo, e lui è lo schiavo che non si è piegato, e che ha sconvolto la tradizione rifiutandosi al Phersu. Hai sentito Flasi: se deve proteggere qualcuno, non gli sarà difficile attribuire al celta molte colpe.» «Non hai risposto, padre: perché?» «Perché ancora non sa obbedire. E poi si crede... speciale.» «Lo è: mi ha salvato la vita», ammise Larth. «È uno straniero», obiettò Laris. «È un uomo che sa onorare la propria parola. Mi basta.» «Basterebbe certamente a un Re, ma non a un Principe che deve conquistare un trono e che dovrebbe badare alle proprie convenienze.» «Convenienze?» si stupì Larth. «Non ti ho mai sentito barattare il giusto per il conveniente, padre.» Lo sguardo di Laris era impassibile. «Ho dovuto accettare la richiesta del capo dei servi e farlo punire; ma certo non servirà a molto, e quindi non credo che vivrà a lungo.» «Farò richiesta al Re e porterò il celta nella campagna contro Ruma. Non era questo che volevi?» Laris assentì con un cenno vago del capo, distratto. Larth sapeva che quello era il suo modo per dirgli che c'era dell'altro e che non aveva voglia di parlargliene. «Che altro, padre?» disse quindi. «La nobile Caitli ha curato personalmente il suo braccio e per questo non ha mai mancato di incontrarlo, almeno una volta al giorno.» «Tra la vittima consacrata e il consacrante si stabilisce un legame che poi è lento a estinguersi. In questo modo, il primo impara ad accettare la morte e il secondo si pone come tramite tra gli Dei e gli uomini.» «Già», convenne Laris. «Ma lui non ha accettato la morte e non è morto.
Ti ripeto, figlio, il Palazzo è un luogo infido e tutto può volgersi contro di te.» «No.» Larth si alzò, avvicinandosi all'apertura sul porticato; Laris non si mosse. Il portale veniva aperto per la prima volta in quel momento: l'alba scoloriva il cielo ancora gravido di nuvole, e un piccolo corteo composto da un paio di carri coperti e da un manipolo di guardie stava entrando. La pioggia si era ridotta a una acquerugiola sottile e fredda. Un attimo dopo Velvur stava loro davanti, l'aria stanca e tesa. «Non sono il solo ad aver vegliato», disse a mo' di saluto, vedendo prima Larth e riconoscendo quindi Laris. «Il Re sta bene, ma l'uomo che voleva ucciderlo si è dato la morte», lo informò Laris. «Di lui sappiamo solo che è un focese, entrato a Palazzo con il seguito del mercante Demestone, che interrogherò tra poco. Vuoi essere presente, Grande Trutnot?» «Con piacere, dopo che avrò visto il Re», replicò Velvur. Laris si inchinò, formale. Velvur prese amichevolmente Larth sottobraccio, tirandolo in disparte. «Com'è andata?» Larth lo fissò. «Perché me lo chiedi, dal momento che lo sai?» Velvur scosse il capo. «L'aria di questo Palazzo non è buona. Dov'è Caitli?» «Nelle sue stanze. Senza di lei il Re... sarebbe morto, ora.» Velvur assentì pensieroso. «Tuo fratello Cneve e Mastarna sono alla Porta di Settentrione, in attesa che venga aperta. Mastarna ha con sé molti uomini, e in questo momento non sarebbe saggio se venissero sotto le mura del Palazzo. Si potrebbe pensare a una congiura, o peggio. Così ti consiglio di andargli incontro e di chiedergli di far accampare i suoi uomini fuori. Poi lui, con i suoi capitani, potrà venire qui.» Larth assentì. Il Grande Trutnot si rivolse a Laris. «Accompagnami dal Re, ora. E poi voglio vedere Caitli prima di interrogare il greco, e voglio che ci sia anche lei all'interrogatorio.» «È contro le tradizioni. C'è un motivo preciso?» volle sapere Laris. «Oh, certo.» Velvur sorrise, avviandosi. «Con lei, quel vecchio imbroglione non proverà nemmeno a mentire.» «Mi rendo conto che chiedere ai tuoi uomini di accamparsi qui, e sotto la
pioggia per giunta, non è la sistemazione migliore per degli alleati, ma la situazione di Tarchna oggi è tale che questa è l'unica soluzione possibile.» Mastarna assentì pensieroso, girandosi a guardare la Porta di Settentrione rimasta aperta dopo che Larth ne era uscito; dopotutto, si fidavano. Si rivolse nuovamente a Larth: lo conosceva troppo bene, ormai, per dubitare dei motivi che lo spingevano ad agire. «Hai una faccia spaventosa», commentò quindi, ordinando che gli portassero il suo cavallo ma non le armi, e facendo chiamare Aule e Caile. Non voleva certo urtare la suscettibilità dei nobili già ostili presentandosi armato e in compagnia di un nutrito gruppo di uomini. «Quasi moriva, nella Foresta Sacra», intervenne Cneve. «Per una volta che non ti sono al fianco», scherzò amichevolmente Mastarna, «devi farti salvare la vita da uno schiavo!» Larth scelse di non rispondergli. «Ti è stato difficile convincere il tuo Re?» disse invece. «Mi è stato difficile limitare il numero degli uomini a trecento, vuoi dire. E tu?» «Quasi la stessa cosa.» Cneve sgranò gli occhi e Mastarna rise. «Mente meglio di una puttana di Cartagine, mio giovane Cneve. Ma scommetto che non lo sa nessuno.» Larth sorrise vagamente, duro. Con Mastarna al fianco, c'erano ben poche cose che non avrebbe tentato. Entrarono in Tarchna dalla Porta di Settentrione - lasciando gli uomini accampati con l'ordine di sistemarsi per una sosta che poteva durare giorni - e andarono subito a Palazzo; ma il Re non avrebbe ricevuto nessuno, né lasciato le proprie stanze per tutto il giorno. A sera, tuttavia, su consiglio del Grande Trutnot, avrebbe dato udienza a tutta la nobiltà di Tarchna, per rassicurarla sul fallimento dell'attentato alla sua persona. Il Grande Trutnot, ancora impegnato - assieme a Caitli - nell'interrogatorio del greco Demestone, mandò a chiamare Thanaquil e le affidò gli ospiti. La ragazza portava una tunica di lana fine, ricamata d'azzurro, e una sopravveste di lana altrettanto fine trattenuta da una fibula d'oro. Aveva acconciato i capelli attorno al capo, chiudendoli in una sottile rete d'oro; era chiaro che li aspettava e che sapeva esattamente quando e per cosa sarebbe stata chiamata. Rimase accanto ai due uomini per il pasto frugale; quindi Larth mandò a
chiamare Axal e poi si rivolse a Mastarna. «Ho fatto riunire alla palestra tutti i giovani delle famiglie nobili per sceglierli, e tuttavia non posso portarti con me: mi accuserebbero di fare in qualche modo gli interessi di Velx, che tu rappresenti.» «È giusto», ammise Mastarna al di sopra dell'orlo della sua coppa di vino. I suoi occhi, tuttavia, erano fissi su Thanaquil che si trovava sul clinai dinanzi a lui, e il suo sguardo era certo più intenso di quanto sarebbe stato conveniente. Il vino era buono, speziato, e anche il pasto gli era parso eccellente. Avevano parlato molto e toccato in pratica tutti gli argomenti: i Latini, Ruma, il tempo troppo piovoso, l'attacco sulla strada nella Foresta Sacra; ma nessuno dei due uomini aveva fatto cenno all'attentato al Re. Mastarna notò che Thanaquil era abile nell'adeguarsi e di ogni cosa sapeva tanto da intervenire a proposito, e aveva una voce dolce... anzi, dolcissima. «Che ti succede, amico mio?» lo riprese Larth. «Mi fai pensare che tu abbia bevuto troppo, però quella è solo la tua prima coppa.» Mastarna distolse gli occhi da quelli scuri della ragazza e si girò a guardare Axal che attendeva sulla soglia. «Ti sono grato: hai salvato una vita preziosa che mi è molto cara», lo salutò, senza curarsi del fatto che solitamente non si ringraziava in pubblico uno schiavo. Axal sembrò non notare il gesto e Thanaquil lo guardò stupita. Larth gli batté una mano sulla spalla. «Ti lascio, ma sarò di ritorno al più presto.» Mastarna si sentì vagamente a disagio, ma gli era grato per il tempo che gli regalava. «Certo», rispose. Fuori spioveva: si era alzato un vento freddo e tenace che ammucchiava altre nuvole buie, spingendole giù da settentrione. Una Guardia di otto uomini lo aspettava alla porta del Palazzo, anche se lui non l'aveva chiesta. «Velvur», pensò Larth. «O lo stesso Re. Nessuno può dare ordine alla Guardia, tranne Laris e me. E non è stato certamente mio padre.» Axal gli camminava alle spalle, muto: era la prima volta che aveva la possibilità di uscire dal Palazzo e di vedere la città e, come sempre, niente sembrava sfuggire alla sua attenzione. La strada larga e spazzata dal vento era piena di gente che si faceva da parte al loro passaggio; colonne di fumo si levavano dagli opifici più in basso e gli artigiani erano al lavoro nelle botteghe; dalla Porta d'Oriente una colonna di carri veniva dai Villaggi dei Fusori, portando ferro lavora-
to. Una città ricca, con i granai colmi e un porto sicuro: «Una città adagiata in un perfetto splendore,» pensò Larth. Il celta riusciva davvero a rendersi conto della sua civiltà e della sua ricchezza? «Il capo dei servi di Palazzo si è lamentato di te e mi hanno detto che sei stato punito», esclamò quindi, lasciandosi quasi affiancare. «Sai dove ti può portare questo?» «Fuggirò, prima», mormorò il celta. «Non hai speranza di riuscire.» «Allora morirò provandoci.» Il tono quasi non era serio, ma la durezza degli occhi lo smentiva. «No: ti porto con me. Con la tua fedeltà per amicizia, ricordi?» disse Larth, pensando tuttavia: «E prima che Flasi Aivas riesca ad addossarti tutte le colpe che possono servirgli». Axal sorrise appena. «Un debito pagato», rispose sfrontatamente. La palestra era già affollata; Cneve era rimasto a Palazzo con Mastarna e i Vibenna, ma Egene era presente e con lui tutti i nobili delle Case di Tarchna, Kae Aivas in testa. Al suo ingresso, il vociare si affievolì e quasi subito cessò del tutto. Tefrie gli venne incontro sulle scale che scendevano all'arena, con il diritto che gli veniva dall'essere il Maestro e lì, nella palestra, l'ultimo ad avere il diritto di parola durante i giochi o gli addestramenti. «Non sono più giovane, mio Principe», esclamò. «Ma aver visto con questi occhi la profanazione della Foresta Sacra di Tinia mi concede il diritto di chiederti di lasciarmi venire con te!» Axal era rimasto alle spalle di Larth: centinaia di sguardi curiosi si stavano chiedendo perché il destino l'aveva risparmiato per portarlo tra loro come un seme di malaugurio; il celta invece stava valutando gli uomini, chiedendosi quanti avrebbero potuto davvero competere con Larth, ma la sua ricerca era infruttuosa. «Ti ringrazio, vecchio amico», stava dicendo Larth. «La tua offerta mi onora. Avrai la cura delle armi e sarai al mio fianco.» «Se è una profezia che ti dà tanta sicurezza, raccontacela», esclamò Kae Aivas. «E forse potremo dimostrare anche noi un simile slancio.» Qualcuno alle sue spalle accennò un commento, subito zittito. Egene se ne risentì; ma Larth lo fermò prima che potesse rispondere e scese fino a raggiungere Aivas.
«Davvero vuoi una profezia, Kae? Davvero ne hai bisogno?» La voce di Larth passò tra gli uomini come un vento gelato; una sensazione tangibile di disagio li investì. «Il futuro Re di Tarchna sarà anche Re di Ruma e la porterà nella propria corona come un dono alla Lega.» Larth guardò Aivas negli occhi e lo costrinse ad abbassare lo sguardo. «Vorresti mancare, proprio tu, Kae?» «Il futuro Re, dici...» ribatté Kae Aivas, tacendo i propri pensieri. Larth coprì l'opale sul petto con il palmo della mano e lasciò scorrere i secondi aspettando che quel gesto avesse il suo effetto. Aivas non avrebbe potuto tirarsi indietro, adesso, nemmeno se lo avesse voluto davvero. «A Ruma», mormorò. «Per il nostro Re. Avrai mille uomini domani alla Porta di Meridione.» «Trecento, Kae: me ne bastano trecento, tra due giorni, armati ed equipaggiati. E li sceglierò io.» E prese a muoversi tra gli uomini, scegliendoli non per la preparazione, ma per il casato, e togliendo a ciascuna delle famiglie almeno due dei rappresentanti ai primi posti nella scala ereditaria; gli ultimi cinquanta li scelse invece tra quelli che conosceva come buoni combattenti, e senza riguardo alla Casa. Ciascuno di loro avrebbe portato uno o due servi, un paio di cavalli, armi, viveri e coperte, ma Tarchna era abbastanza ricca per sostenere la spesa di un piccolo esercito senza soffrire: spendeva quotidianamente tre volte tanto nelle botteghe dei suoi orafi per il solo gusto del suo splendore. «Che cos'è questa profezia?» chiese guardingo Velvur, affiancando Larth nel cammino verso la sala delle udienze pubbliche, dove il Re avrebbe ricevuto i nobili per dimostrare loro che nulla era accaduto. Larth abbozzò un sorriso. «Tu sei il mio Maestro: dovresti saperlo», ribatté, gustandosi il piacere di essere insolente. Il Grande Trutnot scosse il capo. Lungo la loggia, rischiarata a giorno dai molti bracieri aggiunti alle fiaccole, i servi si affaccendavano per portare nella sala i crateri di vino e miele. Un profumo forte di incenso ed erbe bruciate diceva che gli Aruspici del Palazzo avevano appena concluso le funzioni di purificazione: Masi Aivas di certo si stava rammaricando della presenza di Caitli in qualità di Sacerdotessa officiante. «Una profezia...» mormorò Velvur. «È qualcosa che si paga, Larth. Qualcosa che tu togli a un Tempo che deve venire e porti nel Tempo in cui
la pronunci; ma il tessuto del Tempo è una rete strana, e devi compensare ciò che sottrai. Come hai compensato ciò che hai tolto per placare la lingua di Kae Aivas?» «In nessun modo; forse non era una profezia, ma soltanto calcolo... o convenienza... o desiderio.» Velvur sospirò. «I desideri sono pericolosi per un Mago. Offuscano la lucidità.» «Ma non per un Re: lo spingono ad andare avanti.» Velvur si fermò: dalla soglia della sala delle udienze la luce si propagava all'esterno con uno splendore diffuso, e tutto il Palazzo sembrava vivere soltanto in funzione di quel luogo di raccolta, dove il Re poteva essere visto. «Che mi dici del mercante greco?» «Non sapeva che il focese avesse il proposito di uccidere il Re. L'ha imbarcato ad Alalia perché era un buon conoscitore di stoffe e tinture e anche di gemme e di gioielli. Gliene avevano parlato bene.» «Era sincero?» «Nel modo più assoluto; è troppo avido per giocarsi la piazza dove fa i migliori affari, ed è terrorizzato all'idea di quello che potremmo fargli in qualsiasi momento. Vedi, questi Greci hanno un'idea strana di noi e hanno paura, e la paura è il veicolo migliore per qualsiasi magia. Ricordalo, quando sarai a Ruma.» Larth si affacciò sulla soglia, seguendo il Grande Trutnot. Al fondo della lunga e stretta sala poteva vedere lo scranno regale e lo scudo e l'ascia bipenne portati per l'occasione dalle stanze del Re, e infine il Re, con l'aria cupa, e Caitli, con l'abito di porpora e oro, come una fiamma viva al suo fianco. Gli ospiti di Velx, onorati da Thanaquil, sedevano più in basso, sulla destra, e i musici suonavano il doppio flauto. «Quando sarai a Ruma», aggiunse Velvur, «non dimenticarti che tu appartieni a questo trono.» Larth lo seguì in silenzio fino al Re. 12. Ci doveva essere un branco di lupi sulla riva; Marcius, della famiglia degli Hostilii, era stato svegliato più volte durante la notte dai loro ululati, e aveva maledetto tra sé la cattiva stagione e l'inflessibilità del Re che non
gli concedeva nemmeno una notte lontano dal posto di guardia cui era destinato. Ma adesso a svegliarlo non erano stati i lupi: c'era qualcos'altro. Qualcosa che passava sulla pelle come un soffio gelato e che gli fece scorrere un brivido lungo la schiena. Il silenzio era assoluto, come se la notte all'improvviso fosse diventata vuota e tutte le sue creature non avessero più respiro. Marcius si alzò, afferrando la corta spada che gli giaceva accanto. I suoi compagni dormivano. Nella capanna, lunga e stretta e con il tetto spiovente coperto di paglia, i giacigli erano soltanto mucchi di fieno dove ciascuno stendeva il proprio mantello; le sentinelle, quattro, stavano all'esterno. Un recinto con i cavalli circondava il posto di guardia e sotto una tettoia, al riparo, c'erano il pozzo e il fuoco sempre acceso: il segnale alla città sui colli per confermare la quiete. Silenziosamente, Marcius raggiunse la porta e ne scostò il battente. Era buio, fuori: il buio intenso che precede l'alba. Il freddo era pungente, ma sotto la tettoia il fuoco era alto e vivo e un paio di ombre vi stavano attorno. Si strinse il mantello addosso, rallegrandosi di averne uno nuovo e abbastanza pesante da dargli una buona protezione, e si avviò deciso alla tettoia: era contrario agli ordini che le sentinelle restassero accanto al fuoco e toccava a lui rimandarle ai loro posti. Arrivò alla tettoia senza più pensare alla sensazione inquietante che l'aveva svegliato, ma all'improvviso la risentì e si fermò, incerto. Le ombre sotto la tettoia erano immobili. La paura gli attanagliò lo stomaco. L'urlo arrivò in quel momento dalla capanna, subito soffocato; girandosi gli sembrò di scoprire il passaggio veloce di una luce attraverso il vano della porta. Ma intorno c'era la stessa immobilità, e anche i cavalli, liberi nell'ampio recinto tutt'attorno, non davano segni di spavento. Tornò indietro di corsa, ma inciampò contro un ostacolo appena al di là della soglia e qualcuno lo afferrò per le spalle e lo colpì alla base del collo. Si ritrovò in ginocchio, dopo un minuto, mentre la vista gli si snebbiava e un paio di lampade venivano accese. Nella capanna c'erano una dozzina di uomini armati, ma senza armatura e senza scudo, i mantelli ripiegati sulle spalle e una specie di giubba di cuoio rigido sulle corte tuniche e sugli alti cosciali di cuoio. Tutti i suoi compagni, sorpresi nel sonno, erano adesso ammucchiati sul
fondo della capanna, legati l'uno all'altro e imbavagliati; qualcuno, che forse aveva opposto resistenza, giaceva privo di sensi, o morto. Guardò sbalordito quello che sembrava comandare gli attaccanti. Era un giovane con una folta massa di riccioli rosso scuro e un corpo asciutto e sottile, non più alto di lui. «Chi sei?» urlò quindi, nella speranza che comunque la sua voce potesse richiamare un qualche aiuto. L'uomo si girò immediatamente verso di lui, alzando una mano a zittirlo. «I tuoi compagni dicono che l'unico che abbiamo dovuto uccidere era il comandante e che tu sei il nipote del Re. Sei ancora un ragazzo, quindi obbedisci e resta tranquillo; forse potrai essere utile alla tua gente.» «Parli la mia lingua!» esclamò Marcius. Mastarna scosse appena il capo; conosceva bene quell'irruenza che traspariva dalla voce del ragazzo e che avrebbe certamente spinto questi a tentare qualcosa di insensato. «Muoviamoci», ordinò perciò ai suoi uomini, disinteressandosi di lui. «Dovrete ucciderci tutti!» urlò Marcius mentre le guardie lo afferravano. Mastarna si girò di scatto e lo colpì sulla bocca; non molto forte, ma abbastanza per zittirlo bruscamente. «Non temere: uccideremo te e i tuoi compagni se non avremo altra scelta. Imbavagliatelo», ordinò. Un attimo dopo, con le mani legate dietro la schiena e un bavaglio di cuoio attorno sulla bocca, il ragazzo veniva portato fuori di peso e messo di traverso sulla groppa di un cavallo; senza il suo mantello pesante, cadutogli a terra, sentiva freddo e la faccia gli bruciava dove il colpo lo aveva raggiunto. «Chiunque sia, quest'uomo mi pagherà l'umiliazione», pensò rabbiosamente, mentre qualcuno prendeva le redini del cavallo e lo conduceva fuori del recinto. Il buio era ancora compatto, e la sua posizione scomoda e vergognosa. «Perché i cavalli non hanno sentito gli stranieri? Quale magia posseggono, per muoversi come ombre? E le nostre sentinelle? E gli altri posti di guardia lungo il fiume?» rifletteva Marcius sempre più angosciato. E allora si rese conto che la città poteva essere in balia degli assalitori se tutti i posti di guardia erano stati presi allo stesso modo: gli uomini venuti a dare il cambio infatti erano ormai in cammino e sarebbero di certo caduti anche loro nella trappola. La città quindi sarebbe già stata circondata dal nemico credendo di essere protetta dai propri custodi. Per un momento la paura lo sopraffece e il giovane chiuse gli occhi; sta-
vano andando verso il fiume e gli zoccoli lo infradiciarono affondando nel terreno paludoso dove le erbe alte erano piegate dalla brina. Si fermarono in una stretta radura tra la macchia fitta a ridosso della riva; si sentiva il fragore del fiume in piena, ma l'acqua non si vedeva. Scorse altri uomini, ma ancora soltanto con l'armatura di cuoio e i mantelli; non erano molti e sembravano spiriti della notte, così quieti e muti. Qualcuno lo buttò giù dal cavallo e il ragazzo si tirò su a fatica, in ginocchio, per guardarsi intorno. Presto sarebbe stato giorno. Un riflesso di luce azzurra piovve nel fitto degli alberi. Due mani afferrarono Marcius per i capelli costringendolo ad alzare la testa. Fu allora che lo vide: veniva dalla riva del fiume, con un pesante mantello bianco ricamato a spirali nere e chiuso da una fibula d'oro. E la mano che si tese per ordinare agli uomini di liberarlo dal bavaglio portava al polso un pesante bracciale d'oro che lo turbò, almeno quanto i suoi occhi. Per un attimo libero, Marcius annaspò in cerca di un po' d'aria. «Il tuo nome?» gli chiese l'uomo, parlando latino senza sembrare uno straniero. L'uomo con i capelli ricci lo aveva raggiunto e gli si era messo al fianco, ma Marcius non ci fece caso, preso com'era da quegli occhi implacabili. «Mio padre era figlio del Re Tullus degli Hostilii ed è morto in battaglia. Suo fratello Numa è il Re. Il mio nome è Marcius», gli rispose in tono fermo. «Così, sei il nipote di Re Numa», ribatté l'uomo, e ne parlava come se lo conoscesse. L'ammettere di essere il nipote del Re come se volesse trarne dei benefici era l'ultima cosa che Marcius voleva in quel momento, e tuttavia assentì. Il sole arrivò a toccarli, appena al di sopra della linea dell'orizzonte, e il ragazzo ebbe la sensazione di un bagliore nero e vivo quanto una fiamma sul petto dell'uomo, nel momento in cui il mantello si aprì. Ricordò all'improvviso di aver visto da bambino la stessa cosa sul petto di uno stregone rasna, catturato e portato morente nella Casa del Re per il breve spazio di una notte. Rammentava anche che il Re aveva vietato a tutti di toccare la pietra, perché portava la morte. Poi, all'alba, il Mago rasna era misteriosamente scomparso. Deglutì, sentendosi soffocare. «Stai pensando agli altri posti di guardia?» lo interrogò l'uomo. «Non temere: tutti sono stati presi, e la stessa sorte è toccata agli uomini scesi
per il cambio.» Si interruppe un attimo, quasi ad ascoltare le voci di un'alba insolitamente silenziosa, di là dal fragore del fiume. «Sì», riprese, come se il silenzio avesse potuto dargli la conferma che aspettava, «ma, proprio come te e i tuoi compagni, non saranno uccisi, a parte quei pochi per i quali il destino ha disposto diversamente. La pace è difficile quando un popolo deve soddisfare le anime dei propri morti.» «Che cosa vuoi?» trovò il coraggio di ribattere Marcius. «Voglio che torni dal tuo Re. A lui dirai che i Re di Tarchna e di Velx gli concedono di arrendersi e di consegnare Ruma, intatta. Se lo farà, la sua gente e la sua città non saranno toccati; noi porteremo qui i nostri ingegneri e i nostri costruttori, gli studiosi delle acque e dei raccolti, trasformeremo le paludi in campi di grano e le capanne in palazzi, e faremo della città una vera città. Se sceglierà di combattere sarà sconfitto, e avrà le stesse cose pagandole con il sangue, sangue che ricadrà soltanto su di lui.» «Il... tuo nome?» mormorò Marcius. «Sono un Tarquinio e il mio nome è Larth. Ma lui mi conosce. Mi ha già avuto nella sua casa. Diglielo. Digli quello che hai visto e quello che gli chiedo e portami la risposta. Aspetterò fino al tramonto.» «Sei un Mago rasna!» Larth si tirò indietro sorridendo appena. Un sorriso che non addolcì la minaccia dello sguardo. «Forse...» gli rispose. «Scioglietelo e ridategli il suo cavallo.» Improvvisamente libero, Marcius rimase un istante immobile, fino a che l'uomo dai capelli ricci non lo afferrò per una spalla tirandolo in piedi. «Monta», gli ordinò, spingendolo in groppa al cavallo e mettendogli in mano le briglie. Un momento dopo il ragazzo incitava il cavallo a tuffarsi nella macchia oltre la radura. «Il ponte mi preoccupa», mormorò Mastarna, guardandolo allontanarsi. «I nostri uomini e persino le nostre armi e gli scudi sono ancora dall'altra parte, e la corrente è troppo forte.» «Il ponte reggerà», lo rassicurò Larth. «E avremo tutto per tempo. I posti di guardia sono affar tuo e dovranno essere bruciati non appena il ragazzo scenderà a dirci che scelgono di battersi.» «È questo che succederà?» chiese Mastarna un po' sorpreso. «Tu che cosa faresti?» ribatté Larth già a cavallo. Aveva lasciato il grosso delle truppe dall'altra parte del fiume al comando di Kae Aivas e di Cneve, mentre i Vibenna si occupavano del ponte, e se era tranquillo con
Mastarna per quanto riguardava i posti di guardia e il fianco sinistro del terreno di battaglia, avrebbe voluto esserlo altrettanto delle sue truppe. «Sceglierei sempre il male minore per la città: te, in questo caso», gli rispose Mastarna, strappandolo dalle sue preoccupazioni. Larth sorrise fugacemente, inoltrandosi nella fitta vegetazione verso le rive mentre il sole scioglieva la brina, riempiendo l'aria di una leggera nebbia azzurra. Marcius sedeva al centro della stanza, accanto al fuoco che ardeva nell'alto focolare di grosse pietre disposte in circolo attorno a una pietra madre, tonda: la pietra del fuoco, antica quanto la stessa vita sui colli e, a memoria d'uomo, da sempre nella Casa del Re. La stanza, ampia da sola quanto il resto della parte più vecchia della costruzione, era affollata dai consiglieri del Re. Tutti avevano ascoltato nel più assoluto silenzio il racconto di Marcius e le parole che il Principe rasna aveva pronunciato; tutti, proprio come lui, ricordavano il Mago sotto le spoglie di ragazzo che proprio in quella stanza aveva trascorso quasi una notte, prima di sparire lasciando al suo posto un uragano di pioggia e fulmini. Ancus degli Hostilii fu il primo a riprendersi, puntando il dito accusatore sul Re. «Ti avevo chiesto di farmelo uccidere e tu non hai voluto!» gli rinfacciò. Numa sollevò la testa lentamente, e per un momento osservò le facce dei suoi uomini e quella di suo nipote, che stava rigido e pallido, ma calmo, anche se era la prima volta che sedeva in Consiglio tra gli adulti. Il ragazzo si stava comportando bene: il Re era fiero di lui, e pensò che avrebbe dovuto dirglielo prima che fosse troppo tardi. «Se ti avessi lasciato fare, questi che ora sono i nostri migliori giovani forse sarebbero morti allora. No, Ancus. Non è il caso di parlare di quello che è accaduto quella notte. Tu sei certo di aver ripetuto esattamente le sue condizioni?» chiese invece, rivolgendosi a Marcius. «Sì. Parla la nostra lingua come uno di noi.» «Già», mormorò il Re. «Come uno di noi! Possiamo respingere la sua offerta di fare grande questa città?» «Dobbiamo!» intervenne Ancus. «A meno che tu non abbia già deciso di andargli a baciare i piedi!» «Tutto ha un prezzo, fratello mio. E anche i Rasna hanno il loro, ma finché non lo scopriremo non potremo barattare alcunché, non credi?»
«Non abbiamo bisogno di fare baratti. Abbiamo una città che si allarga già a tre colli, abbiamo bestiame, cavalli, servi e possiamo resistere a un assedio.» «Ma le nostre case sono di legno e paglia: le bruceranno in una notte e senza neanche avvicinarsi. Non hai sentito quei mercanti greci parlare di Alalia?» ribatté Numa. «I Rasna sono dominatori sul mare, ma qui siamo sulla terra e noi abbiamo mille uomini abili al combattimento; loro hanno le spalle a un fiume in piena e il giovane Marcius ha detto di aver visto ben pochi soldati. Il loro esercito è ancora dall'altra parte e, se devono guadare il fiume, molti non saranno passati per domani, e molti altri saranno travolti dalla corrente. Dammi gli uomini e domani all'alba li annienterò.» «Forse potremo chiedere l'aiuto dei Sabini», suggerì uno dei consiglieri anziani. «I Sabini del Quirinalis sono già con noi; quelli di Fidenae stanno soltanto aspettando che ci distruggano per venire a scavare nelle nostre rovine come le carogne. No: non possiamo contare su nessuno al di fuori di noi stessi!» «Questo è giusto», convenne il Re, quietando l'irruenza del fratello. Il tempo, che di regola poneva rimedio ai lati più aspri del carattere, non aveva mutato Ancus: ora era un capo e aveva moglie e figli, ma continuava a essere incapace di riflettere abbastanza per non pronunciare parole di cui presto o tardi doveva pentirsi. «Domani all'alba li annienterai: è questo che hai detto?» chiese Numa. «Esattamente questo!» ribatté Ancus, e avrebbe potuto aggiungere con lo stesso tono: «Con o senza il tuo permesso», ma si trattenne all'ultimo istante, consapevole del fatto che opporsi al Re in quel momento non avrebbe avuto altro risultato che favorire gli aggressori. Numa si girò appena verso il nipote; il volto severo non tradiva alcuna emozione. «Hai sentito ciò che è stato detto. Torna dal Principe rasna e digli che potrà avere la nostra città solo al nostro prezzo.» Una fitta di delusione attraversò Marcius, mordendolo allo stomaco con una improvvisa paura. Il Re lo rimandava al nemico; era cresciuto nella sua casa come un figlio e tuttavia lo sacrificava senza un attimo di esitazione o una sola parola di commiato. Si sentì per un istante del tutto solo e abbandonato. «Lo farò subito», mormorò quindi il ragazzo, accennando a muoversi. «No», lo fermò Ancus. «Ti ha dato tempo fino al tramonto, e solo allora
avrà la risposta. Non diamogli più tempo per prepararsi di quanto ne ha dato a noi.» Marcius guardò il Re, che assentì appena, come se fosse una questione ormai irrilevante. «Al tramonto.» Fu tutto quello che disse. Un volo di aquile, almeno otto, tracciò il cielo scendendo dal nord e si diresse verso i colli boscosi, mentre il sole andava calando. Larth lasciò la capanna di frasche e canne, improvvisata ma calda e asciutta, nella quale si era concesso un po' di riposo, appena in tempo per vederlo. Axal alzò gli occhi su di lui. «È un buon presagio», disse. «Anche per la tua gente?» Il celta assentì. Aveva vegliato il suo riposo, e adesso se ne stava avvolto nella tebenna nera e con la spada al fianco, come un suo capitano. Larth poteva capire come quella consuetudine dovesse sembrare strana agli occhi dei suoi nobili mentre, per lui, stava diventando preziosa. Cneve stava venendo con il giovane latino nipote del Re. Il ragazzo montava fieramente un bel cavallo nero che forse, nelle intenzioni degli assediati, avrebbe dovuto impressionare i Rasna per la facilità con cui veniva offerto in dono. Il giovane smontò con ostentata sicurezza e gli si fermò davanti, senza trattenersi dal guardare di sottecchi il celta; così chiaro di capelli e di carnagione, doveva riuscirgli del tutto nuovo. «Il Re ha deciso di combattere», dichiarò e poi distolse lo sguardo, perché il Tarquinio non scoprisse nei suoi occhi la paura. Era preparato al peggio, ma Larth si limitò ad assentire, come se quello che gli aveva appena detto non avesse alcuna importanza. «Vieni», gli disse semplicemente, allacciandosi il mantello e precedendolo verso la riva. Axal e Cneve li seguirono; intorno al riparo c'erano non più di una ventina di uomini, e Marcius spiò con apprensione il suo cavallo che veniva condotto via. Faceva freddo; una nebbia leggera si infilava tra la vegetazione e il fragore della corrente era forte nella penombra che infittiva. A Marcius il cammino sembrò lungo e gli parve addirittura che ormai fossero giunti nella zona degli acquitrini: l'idea che gli assalitori, ignari del pericolo, presto sarebbero rimasti intrappolati nelle paludi e nelle sabbie mobili sulle rive del fiume lo rallegrò. Uscendo dalla vegetazione, tuttavia,
il ragazzo scoprì che avevano scelto proprio il punto dove il terreno della riva era più compatto e sicuro: il fiume era coperto di nebbia bassa e sulle rive ardevano fuochi schermati. Una colonna di uomini, ciascuno dei quali conduceva per la briglia un cavallo carico, stava attraversando una passerella ondeggiante, tesa attraverso il fiume. Gli uomini avanzavano a passi cadenzati e sicuri: dovevano essere gli ultimi di una lunga catena. «Hai mai visto qualcosa del genere?» chiese Larth a Marcius, mentre valutava quanto tempo ancora sarebbe occorso per avere gli uomini pronti e quindi trasferire sull'altra riva i prigionieri. Il ragazzo era troppo stupito per rispondergli. «Naturalmente no», commentò Larth. «Eppure questo è il punto migliore per costruire un ponte. Le rive sono vicine, solide, e la corrente è smorzata da quell'ansa laggiù, che ne rallenta l'impeto. Costruiremo qui il primo ponte di Ruma.» «E quello?» mormorò Marcius suo malgrado affascinato. «Quello non è destinato a durare. Sono zattere con il fondo piatto, tenute assieme da funi. È un ponte che si costruisce in un mattino e si scioglie in un'ora. Via, adesso», ordinò, «portatelo con i suoi.» «Permettimi di tornare dalla mia gente, in modo che io possa combattere con loro!» Quella di Marcius era una preghiera, ma il tono di voce era fermo. Larth scosse il capo. Capiva perfettamente il ragazzo e lo sapeva sincero: forse un giorno avrebbe potuto rendergli onore, ma ora era costretto a seguire il suo piano. «Tu sei il nipote del Re e sei mio ospite», gli disse e poi si disinteressò completamente di lui. Era già quasi buio quando Marcius, con le mani legate dietro la schiena, attraversò il ponte ondeggiante; trovò dall'altra parte gli uomini dei posti di guardia e quelli catturati all'alba, legati e in custodia di uomini e servi che non parlavano altro che la loro lingua incomprensibile e che era quindi inutile interpellare. Volgendosi nel buio a spiare il fiume fragoroso e con il cuore alla Casa del Re, Marcius tuttavia non poteva fare a meno di immaginare quella cosa mai vista, un ponte, e pensare a come poteva essere. Mastarna incendiò i venti posti di guardia attorno alla città poco prima dell'alba. I suoi uomini se ne erano serviti per ripararsi e riposare in due turni; adesso l'esercito di Velx aveva preso la sua posizione sul fianco sini-
stro, allargandosi a ventaglio, e aspettava. I Latini avevano cominciato a scendere dai colli che era ancora quasi buio: meno di un terzo era a cavallo, gli altri a piedi, armati di spade e di lance. Il fumo degli incendi stagnava basso, in una calma di vento assoluta, proteggendo l'esercito di Tarchna. Sul fianco destro, le paludi e i boschi avrebbero contenuto entrambi gli schieramenti nella stessa misura. «Catturare i comandanti vivi e ottenere la resa dei soldati. Evitare il massacro e prendere prigionieri: quanti più possibile. La pace è difficile quando un popolo deve placare i propri morti, e una conquista mette più facilmente radici, quando non sembra tale.» Questi erano stati gli ordini e Larth aveva fatto in modo che tutti li comprendessero, rendendo ben chiaro quanto sarebbe stato imprudente dimenticarsene. L'alba pennellò di rosso acceso un cielo di nuvole grigie e Larth portò avanti il proprio cavallo: vestiva la sua armatura, ma sullo scudo rotondo c'era l'aquila di Tarchna con le ali spiegate. Il copricapo gli nascondeva anche quasi tutto il viso, lasciandogli esposte appena le labbra. «Ricordate: prigionieri!» ordinò. La nebbia si sfilò a coprire la prima fila dei suoi cavalieri, proteggendoli nell'avanzata. Arrivarono addosso ai cavalieri latini primi di poter essere visti e subito dopo la seconda fila accerchiò gli armati a piedi: dividendoli in gruppi li isolò, impegnandoli in piccoli scontri frazionati. I cavalieri di Mastarna presero quindi ad avanzare dal fianco sinistro, tagliando la ritirata verso la città e spingendo gli avversari verso le paludi. La battaglia sarebbe stata più breve se i Rasna avessero combattuto per uccidere; l'ordine di fare prigionieri li portò invece a impegnarsi in piccoli assalti, che tuttavia lasciarono un centinaio di morti sul terreno, in maggior parte rasna, e non meno di cinquecento feriti, quasi tutti latini. Quando Ancus e l'ultimo dei suoi comandanti, presi, vennero mostrati a cavallo e con le mani legate dietro la schiena, anche l'ultima resistenza latina cessò. Qualche piccolo gruppo si era inoltrato nella macchia fitta tra gli acquitrini, ma Larth ordinò che non fossero seguiti: non gli sarebbe servito a nulla perdere altri uomini per qualche pugno di sbandati che avrebbero finito per tornare da soli allo scoperto. Ordinò tuttavia di rinforzare la guardia al ponte e ai prigionieri sull'altra sponda; il sole era alto, ma appariva velato in un cielo bianco latte, e si era alzato il vento di tramontana che portava via le ceneri degli incendi notturni creando una sorta di sipario polveroso. Larth lasciò il comando a Kae Aivas, che si era comportato egregiamen-
te in battaglia e che aveva dimostrato di saper obbedire, e a Caile Vibenna. Poi, con cento uomini di Tarchna e di Velx, salì al colle dove c'era la Casa del Re, preceduto dai musici con le trombe, da Ancus e dal giovane Marcius, a piedi e legati. Era tempo che un popolo di barbari e ladri imparasse a dare l'esatto valore alle cose e che quindi vedesse gli uomini e gli eventi nel modo giusto per poterli valutare. Mastarna, al suo fianco sinistro, si girò per controllare la compattezza della schiera che li seguiva: un attacco dei Latini sarebbe stato disperato, e quindi improbabile, tuttavia Larth non aveva atteso il responso degli Aruspici a battaglia finita e non aveva celebrato alcun rito, rendendo inquieti molti tra i nobili scelti ad accompagnarli. D'altra parte, Larth aveva dato ordini severi: nessuna donna doveva essere toccata, nessuna casa violata, nessun Tempio, se ce n'erano, doveva essere profanato. E non doveva essere preso bottino. Avrebbe ucciso personalmente chiunque si fosse azzardato a disobbedirlo, e nessuno metteva in forse la verità della minaccia e la decisione a metterla in pratica. Il bottino lo avrebbero preso al Re, nei modi e nei tempi stabiliti, ma come pegno di conquista e non come razzia. «Devono sentirci amici, prima di odiarci come nemici», disse a Mastarna, lasciando correre lo sguardo sulla folla di vecchi, giovinetti e servi che si era ammassata nella piazza davanti alla Casa del Re e che il sole pallido toccava appena. Numa non era cambiato da come lo ricordava; era ancora grosso, con i lineamenti duri e l'aria di un pastore distratto dalle sue occupazioni, ma gli tenne testa e non abbassò lo sguardo, stando rigido sulla soglia della propria casa. Il suo sguardo tagliente non mutò neppure quando scorse il fratello e il nipote condotti da lui come prigionieri. Larth smontò per primo, e gli si fermò davanti; unico tra tutti i suoi uomini, aveva tolto l'armatura e portava una corta tunica nera, ricamata d'oro, con la tebenna bianca e l'opale sul petto, su cui si fissò lo sguardo del Re. Senza una parola, Larth si avvicinò e lo abbracciò, quasi senza toccarlo, ma lasciandogli percepire il calore della pietra. «Il sangue dei tuoi morti non sia sulle mie mani come il sangue dei miei non sia sulle tue», gli disse semplicemente. «Entro nella tua casa come ospite.» Numa restò un istante rigido, ma poi comprese: il vincitore stava offrendo al vinto la possibilità di rendere accettabile la disfatta; l'idea lo lasciò sgomento e gli occhi che lo fissavano implacabili lasciandogli la scelta e il
peso del futuro lo trafissero peggio di una spada, e ne sentì il dolore vivo fin nelle viscere. Gli strinse il braccio, nel gesto di amicizia. «Entra: sei un ospite benvenuto, Tarquinio.» Larth si girò appena, facendo cenno ai suoi di smontare: Mastarna, Aule Vibenna, Cneve e quattro dei suoi comandanti anziani lo seguirono; lasciò le briglie del suo cavallo ad Axal, con uno sguardo d'intesa, ed entrò. Larth notò che la stanza era più piccola di quanto la rammentasse, ma un fuggevole sorriso gli illuminò gli occhi quando si rese conto che il ricordo che aveva conservato era quello di un ragazzo. Tuttavia scorse una serie di oggetti che un tempo non la adornavano: scudi alle pareti, piatti di bronzo, asce e lance di fattura rasna e un grande scudo corinzio, lavorato a sbalzo, che non avrebbe sfigurato nel Palazzo di Tarchna. «Doni di amici», esclamò Numa con un abbozzo di sorriso, seguendo il suo sguardo. «Per lo scudo corinzio posso anche crederti, Re Numa», rispose con franchezza Larth, accettando di sedersi davanti a lui, accanto al fuoco. I consiglieri anziani del Re si erano disposti in cerchio più indietro, con l'unica evidente preoccupazione di farsi dimenticare. «Se tu mi credi, io posso crederti», fu la risposta prudente di Numa. Venne portato del vino aspro, servito in coppe di legno. Solo quella del Re e la sua erano di bronzo, anche se di semplice fattura. «Il mio giovane nipote mi ha riferito che tu vuoi aiutarci a far grande la nostra città; vuoi far venire i tuoi saggi per asciugare le acque e rendere fertile la terra e vuoi costruire palazzi dove adesso ci sono capanne. Quale sarà il prezzo per questa amicizia, Tarquinio?» «Può un'amicizia avere prezzo?» ribatté Larth, ordinando a Cneve di far condurre dentro Ancus e il ragazzo. Nel compiere quel movimento l'opale raccolse la luce del fuoco, e l'irradiò, oscura: fu come se un'ombra si fosse stesa attorno a Larth, circondandolo. Numa si mosse a disagio. L'istante dopo i due prigionieri erano nella sala; Cneve liberò loro le mani. «Ti restituisco subito tuo fratello e tuo nipote, come segno della mia amicizia», esclamò Larth. «Non ho un buon ricordo di tuo fratello, e quindi sarai responsabile di qualunque atto dovesse compiere contro di noi; ma il ragazzo ha coraggio e una mente aperta e i nostri Maestri gli insegneranno tutto quello che vorrà apprendere: a lui come agli altri giovani che ci darai per essere istruiti. E questo è una parte del prezzo. Le tue donne, le tue
case e i tuoi Dei non saranno toccati, ma voi non toccherete arma, fintanto che non sarà raggiunta una vera amicizia. E solo noi potremo decidere quando sarà abbastanza vera.» «Questo è difficile, Tarquinio», mormorò Numa. «Noi abbiamo una guerra aperta con i Sabini di Fidenae, che hanno preso il nostro bestiame e i cavalli e che razziano continuamente il nostro confine, bruciando i villaggi e uccidendo. Ma se tu vuoi aiutarci, allora lasceremo a te anche questa piccola cosa.» Larth assentì appena. «Ti libereremo di questi razziatori, ma dovrai essere tu a dire che cosa vuoi che ne facciamo.» Lo sguardo del Re si accese per un istante, intravedendo la possibilità insperata di liberarsi di due nemici nello stesso momento. «Morte», rispose Numa. «E donne e bambini qui, servi.» Il Tarquinio sorrise in maniera impercettibile, gli occhi più scuri della pietra che rubava il calore al fuoco. «Se è questo che vuoi», concluse, e sembrò al Re di aver deciso la sentenza per se stesso e per la sua gente. 13. «Ci deve essere un prezzo... per ciò che chiedi, per ciò che ottieni, per ciò che togli...» Larth affondò il coltello nella nuca del superbo montone scelto per il sacrificio e si fece da parte perché i suoi uomini partecipassero con lui alla riparazione. Il freddo giorno volgeva al tramonto e tutto il margine occidentale del cielo si era fatto di fuoco per il riverbero del sole tra le nuvole di un uragano lontano, che avrebbe portato la neve sulle montagne. La maggior parte delle capanne di Fidenae, abbarbicate tra il fiume e le pendici boscose, erano bruciate e le rovine erano ancora calde; quasi tutti gli uomini erano stati uccisi, compresi il Principe e gli uomini della sua Casa; le donne, i servi e i bambini erano stati chiusi in uno dei recinti, al riparo dei tetti spioventi di un lungo fienile e insieme con il bestiame, per essere condotti a Ruma. Larth aveva dato a questo Principe la stessa possibilità di resa che aveva concesso a Numa, ma in nome del Re latino lo aveva condannato quando gli aveva risposto con il previsto rifiuto e, in nome del Re latino, Fidenae era stata prima conquistata e poi distrutta nello spazio di un mattino. Era
una città piccola, non protetta da mura, ma ricca del bottino di giornaliere razzie, di certo non ultime quelle ai convogli o ai villaggi della campagna di Faleri. Questa volta Larth non aveva posto freni ai propri soldati. Aveva portato con sé duecento uomini, divisi equamente tra i suoi e quelli di Velx, consapevole della speranza di Numa di liberarsi di un vecchio nemico e del nuovo dominatore, e altrettanto consapevole della necessità di dare un esempio al Re latino. Dopo Fidenae, la gente di Ruma si sarebbe guardata dal pensare di avere un dominatore debole o incapace di attuare le minacce. Ed era per questo che aveva voluto anche il giovane Marcius e Ancus: perché si battessero e fossero testimoni, e perché si prendessero carico di quelle morti richieste. «Il sangue di questa gente per l'altare di Ruma e sulle mani del suo Re», pensò Larth, lasciando l'ara del sacrificio; i fuochi di bivacco erano stati accesi lungo il fiume; le sentinelle disposte, i capitani vigili. Ma per tutti gli altri sarebbe stata una notte di festa, perché il bottino era ricco e doveva, per concessione dello stesso Larth, essere diviso, e così le donne, i servi e gli animali. Mastarna gli si incamminò al fianco, silenzioso, verso la casa del Principe, risparmiata dal fuoco per ospitarli. Lì avrebbero consumato la parte più sacra della vittoria. «Partiremo subito?» chiese. «No. Domani, a giorno fatto. Quando gli uomini saranno appagati, e pronti a seguirmi in qualunque battaglia», rispose Larth. Mastarna assentì, incerto, lasciando correre lo sguardo sui fuochi lungo le rive; le risate e le grida giungevano attutite, lontane. Il profumo della carne arrostita stava riempiendo l'aria, ma c'erano anche dei pianti di bambini, che venivano dai recinti. Larth si fermò: sulla soglia della casa del Principe, Axal sedeva avvolto nella propria tebenna; non gli era stato permesso entrare e non aveva nemmeno diritto ai fuochi dei soldati o al loro bottino. Se ne stava quindi in disparte, solo, e Larth sentì quella solitudine così intima e assoluta aggredirlo dentro, come se avesse visto in uno specchio uno squarcio del proprio futuro. «Farò entrare Axal con noi», mormorò allora. Mastarna scosse il capo, trattenendolo. «Non è una buona idea, questa.» «Perché no? Ho ammesso Ancus, sapendo che non aspetta altro momen-
to che quello di potermi uccidere; e ho ammesso il giovane Marcius, che pure ha giurato di vendicarsi di te. Divideranno con noi il cibo, il bottino e le donne, consacrando la vittoria; perché non Axal, che ha combattuto al mio fianco, e ha parato più d'uno dei colpi diretti a me, con il suo scudo e la sua carne? Questa vittoria è anche sua.» «Axal è uno schiavo; non solo, è lo schiavo che non ha accettato il Phersu, e potrebbe essere l'ombra che gli Aruspici hanno visto scendere su Tarchna. Tu stesso mi hai detto che anche Caitli ha visto i segni.» «Non parlare di Caitli, qui; Caitli ha idee di donna su quello che gli uomini fanno per consacrare la vittoria e ciò che faremo questa notte è soltanto affar nostro.» «Non parlarne non servirà. Thanaquil mi ha rivelato che Caitli può sentirti e persino vederti quando vuole... e tu lo sai.» «È vero.» Larth coprì l'opale con il palmo della mano. «Lo so bene.» Gli passò un braccio attorno alle spalle, e lo spinse fino alla soglia, fermandosi davanti ad Axal. «Vieni», gli disse. Il celta si sollevò in piedi senza proferire parola e a Larth parve che l'uomo stesse ancora una volta raccogliendo la sua sfida, una sfida che li rendeva complici nella divisione di una conquista ben diversa da quella che stavano festeggiando. Cneve si affacciò, eccitato dalla battaglia e dal vino. «Aspettiamo il Re!» esclamò, alzando una coppa colma in segno di benvenuto. I comandanti di Tarchna e di Velx gli fecero eco: erano gli uomini che aveva scelto perché sapevano combattere ed erano già stati i suoi compagni sul mare; a Ruma aveva invece fatto rimanere quasi tutti gli altri nobili di Tarchna, tranne pochi, in modo da scongiurare il pericolo di coalizioni troppo strette. «Perché lui?» esclamò Pelgi, uno dei comandanti anziani, indicando Axal. «Lui è uno schiavo. Se lo porti qui, chiunque di noi lo desideri può averlo; e nessuno di noi vuole rischiare di farti offesa.» Larth raggiunse la parte più alta della stanza, dove un paio di gradini di pietra portavano al focolare e allo spazio che era stato il posto del Principe e del suo Consiglio. Fece cenno ad Axal di raggiungerlo, girandosi a fronteggiare gli astanti. «Io porto le insegne del Re di Tarchna e questo è il suo schiavo, che si è battuto per lui al vostro fianco. Nessuno di voi alzerà un dito sulla proprietà del Re, a meno che non voglia andare contro il Re e sopportarne le conseguenze.»
Ci furono un istante di silenzio e qualche trattenuta esclamazione di delusione, poi Cneve alzò la coppa traboccante di vino. «Al Re!» esclamò, ma più nessuno poteva dire se quell'acclamazione fosse davvero per il vecchio Re lontano o non piuttosto per Larth. Mastarna alzò a sua volta la coppa. «Al Re!» ripeté e gli altri lo imitarono, consapevoli che in quel modo Velx accettava di non contrapporsi a Tarchna per il dominio appena conquistato e che, almeno fintanto che fossero stati loro a governare, non ci sarebbe stata lotta di potere tra le due città della Lega. «Portate il cibo!» ordinò Larth, accettando l'acclamazione. Presero vino e cibo in abbondanza; i fuochi erano alti e allegri e quelli tra loro che avevano abilità di commedianti si misero presto a recitare brevi satire e a cantare, tra il divertimento degli altri. Persino i due Latini, che sulle prime erano stati cauti e attenti, si stavano lasciando andare, presi dal vino e dalla festa. Poi vennero portate le donne della Casa del Principe sabino: erano la moglie, le figlie, le sorelle, le parenti e le serve. Rimandarono tuttavia ai recinti quelle troppo vecchie o ancora bambine, e Larth scelse per primo, con il diritto che l'acclamazione gli aveva dato, una giovane dalle forme piene, vestita di una tunica di lana grezza e con fili di lana colorata intrecciati fra i capelli, e che aveva uno sguardo fiero simile a quello di certe ragazze di Cartagine. Non le avrebbe chiesto nulla; né il suo ruolo nella Casa, né il suo grado di parentela con il Principe morto, e nemmeno il nome. Poteva essere la moglie o l'ultima delle serve, ma per quella notte era una parte di bottino, ed era la vita. La prese per mano e la condusse al focolare, dove Axal era rimasto ad aspettare sistemando le stuoie e le loro tebenne come coperte. Mastarna l'aveva preceduto. Nella stanza, gli uomini stavano scegliendo tra risate e scherzi; guardò di sottecchi quella che era toccata a Cneve, ma gli sembrò che il fratello se la cavasse anche fin troppo bene e non avesse problemi a dividerla con il giovane Marcius. «È di tuo gusto?» chiese quindi ad Axal. Il celta assentì con aria distratta; non si era lasciato andare o forse il vino non gli aveva fatto effetto. Larth si chiese se quello che stava per offrirgli non costituisse un'offesa, tra la sua gente, o se il celta fosse risentito perché era lo schiavo del Re, e lui lo comandava pur non essendo il Re. «Puoi restare o andartene», gli disse quindi Larth. «Sei libero di sceglie-
re.» «Ho già scelto», ribatté il celta, e vuotò la sua coppa di vino. La ragazza si lasciò piegare sulle stuoie, rigida e con le labbra serrate: guardò ciascuno dei tre, e quando Axal le posò una mano sul ventre si ritrasse appena. Larth le sfiorò la fronte con il tocco del Trutnot. «Non avere paura», le disse; sollevò poi lo sguardo su Axal, dall'altra parte. «Non è vergine, e sa godere. Spogliala tu, amico mio.» La ragazza chiuse gli occhi quando le mani presero a muoversi su di lei; i suoni e le voci del resto della stanza le svanirono dalla mente, come per una specie di magia. Non c'era più nulla, nemmeno il ricordo dei lutti o la pena per la gente che aveva amato e che era perduta. C'era solo la vita che le pulsava nelle vene, l'onda del sangue che saliva, e l'armonia di questi uomini giovani che, toccandola, la facevano strumento di un rito di possesso che in realtà li univa intimamente tra loro. Le sembrò di essere presa da qualcosa che non poteva capire; da un fuoco che la faceva parte viva della terra, dell'aria, dell'intero universo. Attraverso di lei, la morte che aveva regnato per tutta quell'interminabile giornata si ritraeva, sconfitta, facendo posto al seme dirompente che, mescolandosi, la invadeva e dava origine a una vita nuova e sacra. Gridò, infine, sopraffatta, afferrandosi ai corpi e lasciando che l'intero universo si fondesse, dimentico di qualunque altro desiderio. La notte si consumò lenta; la casa del Principe morto era percorsa da gemiti e da sospiri, che qualche volta sfumavano in singhiozzi. Poi giunse il sonno, pesante negli odori acuti e negli ultimi barbagli dei fuochi. Larth si svegliò che era appena l'alba; qualcuno si era mosso, ma non Axal, né la ragazza: i corpi nudi di entrambi brillavano ancora, lucidi di sudore, e i respiri erano un'onda calma e appagata. Si tirò su, si avvolse uno dei mantelli attorno ai fianchi e ne stese un altro su di loro, poi uscì a respirare l'aria ghiacciata dell'alba, che lo aggredì sulla pelle nuda portandogli una nuova gioia. Mastarna, che era uscito prima di lui, gli venne incontro porgendogli un otre di acqua gelida, che Larth si rovesciò sulla testa. «È stata una bella notte, amico mio», mormorò Mastarna. «La migliore da molto tempo.» Larth assentì; quella notte, era stato davvero il Re, ma Axal e Mastarna gli avevano tenuto testa, e la morte si era ritratta sconfitta perché loro erano stati più forti. Tuttavia scoprire quell'attaccamento che li univa come
una debolezza inaspettata non era che un lieve fastidio; appena un'ombra che nemmeno toccava la sua gioia di vivere. Quel mattino, il mondo era suo. «Così, hai lasciato laggiù Kae Aivas. Hai dunque completa fiducia in lui?» esclamò Velvur, aspettandolo appena fuori della stanza del Re. Il mese di velchitua, lento a venire, sembrava portare con dispetto le prime nuvole di insetti a volare nelle strisce di sole che penetravano nella loggia coperta. «Non mi fido di lui; ma tenerlo là lo sottopone al mio potere, qualunque cosa faccia, e i Vibenna sono forti abbastanza per fermarlo se dovesse occorrere, mentre Cneve non lo lascia un istante. Io so sempre tutto ciò che fa e anche ciò che pensa: molto più che se fosse qui.» «Ma potrebbe avvalersi dei tuoi nemici, o di quelli del Re Numa, e allearsi a loro per rovesciarti», obiettò Velvur. «Questo è quello che sto aspettando.» Velvur assentì, cupo. C'erano molte cose che lo preoccupavano e Larth non era certo una delle ultime: stava assaporando il suo trionfo, ma lo faceva con attenzione, pronto a balzare per primo se qualcuno lo attaccava; era facile acclamarlo, così come averne paura, e tra le due cose c'era un confine molto sottile, che Larth poteva distruggere facilmente con un gesto. La salute del Re non era migliorata, ma nemmeno peggiorata di molto durante quell'inverno trascorso nell'attesa di notizie sulle terre conquistate di là dal Tibrin. C'erano state le cerimonie per i morti e i riti di propiziazione e poi l'interesse delle altre città della Lega, ormai non più tanto ostili a partecipare alla campagna, e i cui delegati erano venuti spesso in visita dal Re Tarchon. «Flasi Aivas sta stringendo il suo cerchio, qui a Palazzo», riprese Velvur. «Non senti il suo fiato sul collo? Tuttavia non può negare che la presa di Ruma sia tua e non può quindi far nulla, dal momento che vi hai legato tutte le famiglie di Tarchna. Hai scelto bene, quando hai scelto chi portare con te.» «È per Aivas che sei rimasto, Grande Trutnot?» «Tuo padre e io abbiamo dovuto vegliare, certo; sul Re e sulle sue figlie. Il Re non ti ha ancora parlato di Thanaquil?» «Thanaquil?» Larth era sorpreso. Velvur scosse il capo.
«Dovrai celebrare le nozze, Larth. Comunque.» Larth non rispose; Velvur sentiva il rifiuto della sua mente forte, proprio come quando era bambino, e si ostinava nei suoi convincimenti. «Quando tornerai a Ruma?» disse quindi, incamminandosi al suo fianco per raggiungere un punto in cui il sole creava nella loggia una pozza di luce calda. Il Palazzo stava diventando sempre più freddo per le sue ossa. «Dopo Veltune; se le città della Lega lo vorranno potranno mandare a Ruma ingegneri, artigiani, Maestri, medici e costruttori. Ruma sarà presto troppo grande soltanto per Tarchna e Velx.» «No», lo interruppe Velvur, «non per questo; tu vuoi essere Re Supremo, così tu non chiedi, ma permetti alle altre città della Lega di andare a Ruma, e così ti sarà facile avere la nomina quando tutte ti saranno comunque legate. Attento, però: i piccoli bocconi accendono i grandi appetiti, e non potrai fidarti della gente latina, che prenderà quello che gli serve ma non ti darà il cuore.» «Tu lo daresti a un conquistatore?» «Come posso saperlo? Noi non siamo mai stati conquistati», ribatté il Trutnot, sorridendo. «Non ancora», avrebbe dovuto aggiungere, ricordando il presagio che Caitli aveva svegliato nell'Occhio della Dea, a Veltune, ma restò zitto. Non c'era niente che potesse fare, contro quell'evento che stava nascendo sotto i suoi occhi. Sospirò, lasciando che Larth credesse in altri fastidi. «Lo schiavo celta è un giovane di vero talento», disse quindi, «con il suo aiuto sto tracciando una mappa delle terre d'occidente oltre le montagne alte, e sto anche imparando la sua lingua. Ha una buona memoria e una capacità di pensiero affilata come una lama. Se fosse un Principe rasna potrebbe soltanto esserti rivale, o rimanere al tuo fianco come il più fedele degli amici. E in entrambi i casi sarebbe fino alla morte.» Larth sorrise vagamente; sapeva che il Trutnot voleva farlo parlare delle regole che aveva infranto dividendo con uno schiavo la consacrazione della vittoria. «Mi hanno detto che il Re te l'ha concesso per tutto il tempo di questo tuo lavoro», disse invece. «Ne sono lieto. Con te sarà al sicuro; gli altri servi non lo hanno accettato.» «Come potevano? Tu non l'hai fatto servo, e lui non lo è.» Larth si distrasse volutamente: erano arrivati Laris e i nobili per le solite faccende giornaliere del governo della città; li seguivano gli Aruspici, Flasi Aivas in testa, che portavano l'olio e il fuoco per le cerimonie di propi-
ziazione per la salute del Re. «Devo lasciarti: Laris deve sottoporre una questione di misure di proprietà e il Re mi ha chiesto di essere presente. Non vuoi esserci anche tu?» chiese al Trutnot. Velvur scosse il capo. «Se il Re avesse bisogno di me, lo saprei, e poi non intendo rovinare i riti di Aivas. La mia presenza lo disturba e un Sacerdote di Tagete che confonde le formule non è uno spettacolo rassicurante.» Larth sorrise, ma Velvur gli girò le spalle e lasciò la loggia, infilandosi nel passaggio che portava all'ala antica, e alla stanza dei Principi. Faceva ancora freddo, tra le spesse mura. Così scelse il primo passaggio che portava all'esterno e andò a sbucare oltre il cortile delle donne, nel piccolo spazio chiuso da mura dove c'era l'altare della Madre Dia, e dove si apriva la stanza dei Principi. Si appressò quindi godendo del sole che gli scaldava la schiena e della brezza che sapeva di terra umida e di erba nuova. Le foglie tenere del caprifoglio coronavano le pietre annerite dell'altare davanti al quale il Trutnot sostò un attimo, senza tuttavia riuscire a toccarlo. Qualcosa di molto forte lo respingeva facendolo sentire un intruso, all'improvviso cieco alle infinite sfumature dell'aria, vecchio, e molto infelice. Una sensazione del genere non gli era nuova: accadeva sempre quando la forza padrona in quel momento del luogo sacro voleva per qualche motivo escluderlo da una comunione. Quando era stato molto giovane aveva reagito con rabbia all'esclusione; gli anni gli avevano poi insegnato a restarsene in disparte, spettatore, rassegnato a osservare la gioia senza poterne godere. Ora tuttavia quel che si stava compiendo lo riguardava da vicino, perché era la voce di Caitli che veniva dalla stanza dei Principi, ed era dolce e lieve come non gli era mai accaduto di sentirla. Si avvicinò. Caitli stava portando avanti il suo lavoro - una mappa della terra d'occidente - e Velvur si meravigliò di aver taciuto a Larth il fatto che non lo stava facendo da solo, ma che proprio Caitli si prendeva la cura di trascrivere, disegnare e annotare tutto quanto. La ragazza sedeva allo scrittoio, la grande mappa aperta davanti a sé, e Axal le sedeva accanto, sulla stessa panca. Le loro teste, chine, si toccavano; il celta stava sostenendo la necessità di spostare una linea che rappresentava un fiume e la ragazza stava tentando di stabilire il giusto allineamento con la volta celeste. Entrambi erano totalmente assorti in ciò che stavano facendo, come se non esistesse nient'altro, e niente li potesse toc-
care. I colori scintillavano davanti a loro nel kèrnos acceso dal sole: Velvur li vide all'improvviso con gli occhi della mente e scoprì, nello stesso momento, altri due occhi curiosi che spiavano. Non era più cieco, e la profonda infelicità che l'aveva invaso pochi istanti prima aveva ceduto a una malinconia lieve, come quella che si dà al ricordo di un bene perduto. Senza nemmeno girarsi scoprì quindi il bambino appollaiato sul basso muro che delimitava l'estremità opposta dell'apertura; silenziosamente, ridiscese nel cortile e gli arrivò alle spalle, posandogli una mano sul capo. Vul si girò di scatto, ma non riuscì a parlare. Velvur gli sorrise, rassicurante. «Un bambino deve usare il suo tempo per apprendere. Dovresti essere con i Maestri, dal momento che il Re ha decretato che ti sia data istruzione.» Vul restò zitto; non sapeva di non poter fare diversamente, e quindi si sentì molto coraggioso nell'opporre il silenzio alla voce del Grande Trutnot. «Vieni», disse Velvur, prendendolo per mano. «Vedrò personalmente che ci si occupi meglio della tua istruzione.» Caitli trasalì: nell'ampolla che conteneva il colore azzurro il riflesso di due occhi si stava affievolendo; la brezza entrando dall'apertura aveva portato un brivido, appena un soffio, che aveva smosso loro i capelli. Caitli posò lo stilo sottile, ritraendosi. «Il Grande Trutnot era qui», mormorò. Axal scosse lievemente il capo, senza distogliere lo sguardo dalla mappa; la sua terra gli sembrava adesso più lontana, prigioniera di quel rotolo che la comprimeva, riducendola a linee e a figure colorate, ciascuna con un significato che non era il suo vero aspetto, un aspetto che tuttavia stava svanendo anche dai suoi occhi, confondendosi nella memoria. «Aiutami», disse infine ritraendosi. «Aiutami a fuggire.» Caitli restò immobile, tentando di cancellare dall'esistenza quelle parole, che tuttavia erano state pronunciate, e quindi esistevano. Axal era un libro aperto per lei; l'aveva visto entrare la prima volta nella stanza dei Principi guardingo, attento, chiuso e pronto a difendersi da qualunque magia. Ma Velvur non aveva usato su di lui nessuna delle doti del Trutnot per allentarne la tensione o l'ostilità. Aveva lasciato che scoprisse da solo quello che gli chiedeva, lo aveva portato a parlare della sua terra e della sua gente, e persino di sé, consapevole che era lei a raccogliere la sua
nostalgia. E in quella nostalgia, in quel dolore che il celta teneva nascosto come una debolezza, Caitli si era perduta davvero, prima di rendersene conto. Era innamorata; e l'aria, il sole, il tempo e tutto quello che la circondava non avevano più lo stesso aspetto né lo stesso sapore. Erano giunti a stare l'uno accanto all'altra, senza toccarsi, ma uniti in un connubio così stretto di pensieri che Caitli si sorprendeva a ricordare come suoi gli eventi e gli usi di cui le raccontava. Era innamorata; ma Axal non credeva al destino e rivendicava per sé il diritto di scegliere. Caitli ignorava quindi per amor suo il destino e tutto quanto scorreva nella sua ruota, e desiderava combattere per quel diritto e spezzare qualunque filo, fosse anche l'ultimo che la teneva in vita. Ma il suo potere non poteva essere così grande, e qualunque cosa lei si imponesse di pensare, non poteva cancellare quella consapevolezza che la tormentava. «Fuggire da Tarchna?» mormorò quindi, sommessamente. «Devo farlo adesso.» Caitli allungò una mano e gli sfiorò il viso. «Ti uccideranno. Se verrai ripreso ti metteranno a morte, e nessuno potrà cambiare questa legge.» «Per la mia gente l'aldilà è un mondo senza inverno; un mondo migliore, e morire soffrendo non cambia la morte in sé. Io ho paura di vivere una vita non mia, decisa da altri.» Le prese le mani e se le portò alle labbra. «Io ti amo e ti desidero, e tu sei la Regina. Questo fatto, da solo, mi farà mettere a morte. Qui, come tra la mia gente, ci sono cose che non si possono fare.» «Non è solo questo», pensò Caitli. «È per Larth, che ami quanto me. Non lo vuoi tradire, e non hai altro modo per provarglielo.» «Ti aiuterò», mormorò alzandosi. E sentì in quello stesso momento che le sue parole non toccavano la rete già tessuta. «Ti farò fuggire dall'apertura che porta al Bosco Sacro alla Dea Athrpa non appena farà buio; dovrai girare attorno al Palazzo, dall'esterno, e passare le mura nel punto dove costeggiano il vallone, verso occidente. Ti darò una bisaccia, delle provviste, e ti tingerò i capelli di scuro. Ma se ti bagnerai, il colore andrà via, e tu tornerai a essere uno straniero, e sarai perduto: molti ti hanno visto a Veltune e al fianco di Larth e sanno che appartieni a questa casa.»
«Non mi farò prendere vivo», mormorò Axal. E tornò a occuparsi della mappa, senza più parlare, e senza più guardarla. Era tardi, ormai. Un vento teso agitava le lampade lungo le logge e nei passaggi, modulando suoni sommessi. Axal l'attirò contro di sé nella buia protezione dell'altare della Madre Dia. La tenne stretta, come se avesse voluto possederla. «Non dimenticarmi», le mormorò all'orecchio. Caitli distolse lo sguardo; in quel luogo tutto le gridava l'inutilità della sua opposizione. Si strinse forte a sua volta, per lasciargli di sé almeno il calore. «I tuoi Dei ti accompagneranno», gli disse semplicemente; gli aveva mostrato la strada, il varco nelle mura del Palazzo per raggiungere il Bosco Sacro e il punto più basso delle mura d'occidente a lato del bosco, in cui assolutamente non doveva entrare. Nessuno poteva farlo, di notte. «Io lo farò... presto», pensò. Quella certezza era prepotente e le faceva male. Axal passò agilmente il varco, un'ampia fenditura aperta dal fulmine quando aveva colpito il primo albero del bosco appena oltre: l'albero sacro alla Dea Athrpa... L'albero, spaccato in due, era tuttavia miracolosamente vivo e già coperto dalla peluria delle foglie nuove. I grossi massi squadrati delle mura erano stati lasciati esattamente dov'erano caduti, e ora erano coperti di muschio e di rampicanti e quasi facevano da scala. Axal costeggiò quindi dall'esterno le mura del palazzo, e raggiunse quelle della città, separate in quel punto soltanto da uno stretto passaggio tenuto libero dalla vegetazione, ma ingombro di grossi massi e completamente al buio. In quel punto, il più alto di Tarchna, le mura davano su un vallone boscoso, selvaggio, a dirupo sulla vallata sottostante. Axal mise la bisaccia in spalla e si arrampicò, lasciandosi poi cadere dall'altra parte; allora si infilò nel fitto, senza perdere di vista le stelle tra i rami ancora nudi dei rovi e dei noccioli. In parte scese e in parte si lasciò scivolare sino al fondo del dirupo; adesso Tarchna non era più che l'ombra delle mura molto più in alto e un barbaglio di luci nel cielo ventoso. Cominciò a camminare; da quel punto poteva vedere la larga strada che uscendo dalla Porta d'Occidente portava a Velx: non doveva perderla di
vista, ma si sarebbe tenuto nei boschi. Lì, nessuno poteva sentirlo, o essere più veloce di lui. Per quella notte e il giorno e la notte successivi riuscì a tenere fede al suo proposito; la strada era molto battuta, ma i boschi erano fitti, e gli bastava riposare poche ore, nel cuore della notte, quando era troppo buio, perché il cielo si era coperto di spesse nuvole e il vento era tornato freddo per un capriccio della primavera. Passò una buona parte della mattina del terzo giorno in un anfratto roccioso per ripararsi dalla pioggia che aveva preso a cadere e si arrischiò a uscire solo quando il pomeriggio era già avanzato. Non pioveva, tuttavia l'aria era umida e fredda. Verso sera si trovò in un punto di vegetazione meno fitta, una zona aperta per creare un pascolo. Lì trovò un capanno con il lungo tetto spiovente coperto di paglia e fango e qualche avanzo di fieno all'interno. Era vuoto, e stava ricominciando a piovere. Vi si riparò, appena in tempo per non bagnarsi. Si scrollò di dosso la tebenna umida, con cui si era protetto i capelli, e ammucchiò un po' di fieno nell'angolo più buio, in fondo. Non aveva praticamente ancora toccato le focacce, la carne secca e i fichi nel miele che Caitli gli aveva messo nella bisaccia, ma si concesse un po' di quel cibo prima di addormentarsi. Si svegliò bruscamente, al suono delle voci: alcuni uomini stavano entrando nel capanno, mentre altri si attardavano a sistemare i cavalli sotto il tetto spiovente. La pioggia scrosciava violenta, coprendo a tratti le voci. Axal si irrigidì; gli uomini erano una ventina. Soldati di Tarchna diretti a Velx. Decise in un attimo, mentre gli uomini stavano armeggiando per accendere una delle loro lampade e dare luce all'interno: saltò via dal suo nascondiglio e passò tra loro urlando, e prendendoli di sorpresa. L'istante dopo era fuori, e si catapultò addosso al primo uomo e al suo cavallo, non ancora legato. Colpì l'uomo e balzò sul cavallo, affondandogli le ginocchia nel ventre per farlo muovere. In quel momento il soldato che gli era più vicino lo colpì alle spalle con una lancia, sbilanciandolo. Il cavallo si impennò. Qualcun altro lo colpì ai garretti, facendolo cadere, e Axal finì a terra schiacciato dal peso dell'animale. Quattro o cinque braccia lo afferrarono da tutte le parti strappandolo bruscamente alla sua prigione e lo trascinarono all'interno, dov'erano state accese le lampade. Lo lasciarono sull'impiantito, supino, facendogli cerchio attorno. Uno si chinò a toccargli i capelli, trattenendo tra le dita la tintura che la
pioggia aveva preso a diluire. Lo afferrarono quindi per le braccia e lo trascinarono fuori, immergendolo fin oltre la cintura nella vasca di acqua piovana. Lo tennero immerso a lungo; Axal non oppose resistenza e lasciò fuggire via l'aria, ma il capitano del drappello capì troppo presto quali erano le sue intenzioni e lo fece tirare fuori prima che riuscisse a soffocarsi. Lo schiacciarono a terra; l'aria suo malgrado gli stava tornando nei polmoni, portandogli conati di vomito. Qualcuno lo girò sulla schiena e gli legò le mani; un altro gli passò una catena attorno al collo e lo sollevò, colpendolo per fargli aprire gli occhi. «Lo schiavo del Phersu!» stava dicendo il capitano. «L'ispirazione di venirci a riparare qui è stata propizia. Il Re ci renderà merito di questa cattura.» «È un demone», gli rispose qualcuno. «Così dicono a Palazzo. Un demone che porta cattiva sorte: la malattia del Re, forse.» «Un demone che non dividerà il nostro tetto, non temere; spogliatelo e legatelo al palo dei cavalli, ma non toccatelo: non ci appartiene e non dobbiamo farci contaminare.» I soldati lo afferrarono, lo trascinarono fuori, lo piegarono in ginocchio e lo legarono saldamente, le braccia aperte che tendevano i muscoli delle spalle fino allo spasimo e la catena che lo feriva a sangue attorno al collo. Quindi gli tirarono via la tunica e lo lasciarono nudo nella pioggia gelata. 14. Larth si fermò sull'ultimo gradino che portava alle celle. L'ampio vano di confluenza del labirinto sotterraneo era illuminato dalle torce appese ai muri e da due bracieri in cui la fiamma ardeva alta, appena toccata da una misteriosa corrente che a tratti la spezzava. Axal era incatenato con le spalle al muro, non lontano da uno dei bracieri: sul suo corpo riverberava una luce sanguigna. Non aveva altro addosso che il perizoma lacero, e tutta la pelle era coperta di piccole ferite e di fango rappreso; non si reggeva sulle gambe, così le catene che lo sostenevano gli avevano inciso profondamente i polsi e le braccia erano segnate da rivoli di sangue. La testa del celta era girata verso la parte opposta al braciere, la cui onda di calore di certo gli toccava dolorosamente la pelle. Gli avevano tagliato i capelli: adesso gli arrivavano appena alla nuca, e gli spiovevano sulla fronte, intrisi di fango, ma di nuovo chiari; attraverso le ciglia socchiuse, gli
occhi erano due stagni ghiacciati e restarono freddi anche quando Larth lo raggiunse. «Perché adesso?» gli chiese Larth, aspro. «Perché tu, di cui mi fido, e di cui ho bisogno?» avrebbe potuto chiedergli, con lo stesso tono. Axal deglutì a fatica, girando il capo a guardarlo. «Andarmene era l'unico modo per cambiare quello che la Regina ha visto per noi. Ti ho promesso amicizia e non ho altro modo per onorarla, Tarquinio.» Il celta sorrise appena, con aria di sfida. «Così lascia che mi mettano a morte, oppure uccidimi tu, da amico, come si usa tra la mia gente.» «Mi chiedi di darti la morte?» «Noi diamo questo onore al compagno della nostra spada che ci è vicino molto più di un fratello. Quando sei ferito, è meglio la mano ferma dell'amico piuttosto che la tortura del nemico.» Larth gli passò un braccio attorno alle spalle, sostenendolo, e lasciò che gli si appoggiasse addosso alleviando la tensione delle catene sui polsi tumefatti. Axal accettò il sostegno e Larth sentì il corpo contro il suo tremare leggermente, esausto. «No», mormorò quindi. «È stata tessuta una rete, ed eravamo in tre: devi restare al mio fianco.» Axal lo fissò, con uno sguardo all'improvviso triste, quasi disperato. «La Regina è qui?» mormorò infine. «È stata lei a farti fuggire?» «Non sarò io a dirlo.» Larth assentì: non dubitava del celta né del fatto che dalle sue labbra non sarebbe mai uscito il nome di Caitli, qualsiasi sistema avessero usato per costringerlo a parlare. Lo lasciò lentamente, avvertendo per riflesso il dolore non appena le catene tornarono a mordere le ferite aperte sui polsi. «Ti otterrò dal Re o tornerò per ucciderti, come un amico. Te lo prometto.» Axal non rispose, e gli occhi restarono chiusi; Larth lasciò le celle e salì alle stanze del Re, incurante del fatto che nessuno, tranne Velvur, poteva entrare senza esservi chiamato. Passò tra le guardie ignorandole e tra i servi delle prime due stanze, giungendo fino all'ultima. Qui si fermò, restando sulla soglia. Tarchon, aiutato da un servo, aveva appena finito di vestirsi e adesso stava riprendendo un po' di fiato sul clinai, tenendo sollevata la gamba che gli doleva per alleviarne il peso. Alzò il capo, sorpreso dall'irruzione di Larth, poi
allontanò i servi con un cenno. Un istante dopo erano soli. «Tarchna deve essere minacciata da un qualche poderoso nemico, per portarti qui in questo modo», esclamò il Re. Larth sorrise. «Tu sai perché sono qui, mio Re.» «Io non sono un indovino, ma di certo conosco la tua abitudine a infrangere le regole. È una pessima abitudine. Pericolosa.» Larth restò zitto. Tarchon si spazientì. «Ebbene? Ho un Consiglio che mi aspetta, e io non intendo cambiare ciò che è stabilito. Che cosa vuoi?» «Il celta.» «Lo schiavo del Phersu non può essere venduto; questo lo sai, e nemmeno tu puoi cambiare questa regola.» «Fammene dono.» La voce di Larth non tradiva alcuna emozione. Il Re lo fissò cupo, per un lungo minuto. «Di certo non ti manca la temerarietà. Tu che cosa pensi di offrirmi, in cambio?» «Ti ho portato una terra appena conquistata.» «Una terra di barbari e ladri. Erano le tue parole, ricordi?» «Diventerà grande e sarà dei Tarquini.» Il Re accennò ad alzarsi; Larth non si mosse per aiutarlo: non gli era stato richiesto e Tarchon non era uomo da accettare un aiuto non sollecitato. Dopo un paio di tentativi, tuttavia, il Re restò dov'era, limitandosi a spostare appena la gamba gonfia e rigida. «Sai che cosa si sta dicendo nel Palazzo?» riprese. «Voci senza nome?» ironizzò Larth. «Vul! Quel mio piccolo bastardo con gli occhi acuti e la lingua pronta che ha l'abitudine di intrufolarsi dovunque.» «L'ho incontrato, infatti.» «Vul va raccontando come l'Erede del Re passi il suo tempo con uno schiavo, e poiché Vul è un bambino, si presume che l'innocenza o gli Dei stessi parlino per la sua bocca. Di certo qualcuno dimostrerà che è stata Caitli a farlo fuggire: faranno parlare quello schiavo, o riusciranno a portare delle prove. E io dovrò allontanare mia figlia dal Palazzo, per questo!» «Ma non lo permetteremo: quello schiavo non parlerà. Ne farai dono a me, oppure andrò a ucciderlo. In entrambi i casi, il nome di Caitli non sarà pronunciato.»
«Lo faresti?» Il Re lo guardò incuriosito, ma Larth non proferì parola. «Sì, lo faresti», concluse Tarchon. «Per Caitli. Un servo, Larth, uno schiavo: davvero puoi permettere che osi sollevare gli occhi su di lei?» Al perdurare del suo silenzio, Tarchon scosse il capo. «Preparati a celebrare le nozze, figlio mio. Se non con Caitli, con sua sorella. Una delle due dovrà portarti il titolo di Erede legittimo prima che sia troppo tardi. E adesso fai entrare Velvur e Flasi Aivas, che dovrebbero essere qui fuori.» Larth obbedì: il Grande Trutnot e l'Aruspice di Tagete stavano in effetti tra gli altri consiglieri, nella loggia, aspettando l'inizio della seduta. Larth, ignorando la curiosità degli altri, introdusse i due uomini restandosene quindi accanto alla porta, immobile. «Il mio giovane Principe ha un desiderio che tuttavia necessita del vostro consiglio», disse Tarchon. Aivas si inchinò appena. «Mi compiaccio con il Principe Larth per la sua conquista e per l'onore che grazie a lui Kae Aivas può portare alla sua Casa», esclamò, lasciando che un'ombra di sorriso vestisse di cordialità le sue parole. «Kae è di certo all'altezza del compito che si è assunto», rispose Larth. «Ed è un amico fidato.» Parlando, fissò Velvur; possibile che il Grande Trutnot fosse al corrente del tentativo di fuga del celta? Forse era per questo che il giorno dopo Caitli e Thanaquil erano partite per Veltune: il ritiro nel santuario della Dea Turan così in anticipo sull'inizio dell'annuale riunione suonava adesso come un pretesto per allontanarsi dal Palazzo e da Tarchna. Forse Caitli non voleva vedere Axal morire. Quel pensiero gli attraversò la mente e il lampo negli occhi di Velvur gli trasmise una sensazione di dolorosa ineluttabilità che trasformava il suo antico Maestro in uno sconosciuto. «Qual è il problema?» chiese il Grande Trutnot, con un tono così pacato da far sembrare Aivas un principiante in vena di entusiasmi. «Il celta. Quello schiavo deve morire o può essere consegnato in dono al nostro Principe?» «È questa la tua domanda?» mormorò Aivas. «Non voglio presagi, ma il vostro consiglio e la vostra esperienza», ribatté Tarchon. «Entrambi ne sono il frutto», commentò Flasi. «E il Grande Trutnot di certo ne è il più ricco.»
«Apprezzo la prudenza dell'Aruspice di Tagete, che vuol farmi parlare per primo», ribatté Velvur. Poi si voltò verso il Re. «La sorte di quel giovane straniero è nelle mani di un Tarquinio, mani che però non sono le tue, Re Tarchon. Liberati di lui, ma non versare il sangue che la terra rasna ha rifiutato.» Aivas sorrise fugacemente, carezzandosi la corta barba ben curata. «Sono d'accordo. Lo schiavo del Phersu è così speciale che la legge di Tarchna per i fuggiaschi può non essergli applicata; tuttavia può essere donato, dopo una giusta punizione che sia d'esempio agli altri.» Tarchon sollevò una mano a imporre il silenzio. «Così sarà: lo schiavo sarà punito oggi prima del tramonto e resterà in cella. Quando ritorneremo da Veltune sarà tuo, Larth, e quello che accadrà di lui da quel momento dipenderà soltanto da te.» Larth chinò il capo, congedandosi. Velvur lo seguì in silenzio. «Aivas è stato concorde con te», lo fermò Larth, «mentre gli sarebbe stato facile chiederne la morte dandogli colpa di quello che è accaduto nel Palazzo, e servirsene per allontanare Caitli, che teme.» «È vero. Tuttavia Aivas non è cieco e sa che tu non hai amici oltre a Mastarna, che non è un Tarquinio, e non hai amore oltre a Caitli, che non è la tua Regina; ma hai fatto di questo schiavo un amico e hai permesso che il tuo attaccamento per lui risultasse chiaro a tutti. Così hai finalmente una debolezza... e Aivas prima o poi la userà, Larth.» «E tu?» chiese il giovane. Velvur tacque. «Io seguirò la trama di una rete già tessuta», pensò. «Non c'è altro che io possa fare.» Il dolore gli aveva scavato tra gli occhi una ruga profonda; l'uomo stava disteso nudo sulla pietra nera come un'offerta a qualche Dio che non conosceva la pietà e le ferite erano marchi profondi e sanguinanti nella carne bianca della schiena. Ma l'abbandono era più intimo e profondo di quello di un fisico spossato. Tuttavia Axal sostenne lo sguardo di Larth senza battere ciglio: la differenza fra essere di sua proprietà e non più in possesso del Re non entrava nella sua comprensione; aveva fallito la fuga, e rimproverava al compagno d'armi, non al padrone, la vita che gli sibilava tra i denti con il respiro affannoso del dolore. Larth gli sfiorò appena le spalle e Axal trasalì, soffocando un gemito; le
ferite erano tanto profonde in quel punto da lasciare a nudo la carne viva. Il carnefice aveva infierito con compiacimento, ma di ogni colpo Larth aveva tenuto il conto, e l'uomo avrebbe pagato il suo zelo. Larth alzò gli occhi su Velvur, dall'altra parte, incurante di quello che poteva pensare di lui in quel momento. «Puoi fare qualcosa?» chiese. Il Grande Trutnot fece un impercettibile segno di assenso; gli aveva già dato una pozione diluita nel vino e nel miele, che gli aveva riportato un po' di forza, e avrebbe continuato a curarlo fino alla guarigione. Spesso aveva riportato alla vita esseri ben più deboli del celta e sapeva come risvegliare quella volontà di opporsi alla morte che Axal credeva di aver soffocato, e senza la quale ogni cura sarebbe stata vana. «Non temere, Larth», disse quindi Velvur. «I miei studi mi trattengono qui, proprio come il malessere improvviso impedisce a Flasi Aivas di lasciare il Palazzo. L'annuale festa di Veltune sarà priva di noi, ma così potrò vegliare anche sul tuo schiavo e fare in modo che sia pronto per il tuo ritorno.» Larth riconobbe nella voce di Velvur quella particolare intonazione che spesso aveva notato standogli accanto: i suoi studi erano forse più veri del malessere che Aivas aveva portato a pretesto per restare nel Palazzo mentre il Re, le sue figlie e il suo Principe ne erano lontani, e tuttavia proprio il modo in cui Velvur asseriva tutto ciò rendeva difficile credergli. Il Trutnot si mosse ad accompagnarlo fuori, dove il corteo era pronto; il giorno era tiepido, quasi sereno, con appena un velo alto di nuvole a coronare i rilievi d'oriente. La Foresta Sacra di Tinia sarebbe stata in fiore, come sempre; Larth scoprì che quel pensiero gli dava una lieve eccitazione: a Veltune lo aspettava la vera battaglia, ben più aspra di quella combattuta ai piedi dei colli di Ruma. Avrebbe dovuto fronteggiare Sevre di Velx, che avrebbe cercato di far pesare la parte di Mastarna per reclamare divisioni che non erano state ancora tracciate e che come Re Supremo poteva influenzare gli altri; e i Re delle altre città della Lega, ansiosi di accettare patti che non dovevano sembrare tali. E ci sarebbe stata Caitli, alla quale doveva chiedere perché. Velvur lo accompagnò fino alla testa del corteo; Aivas stava ritirato nelle sue stanze, sul lato sinistro del cortile principale, dove gli Aruspici del Collegio di Tagete avevano gli alloggiamenti quando si trattenevano nel Palazzo. La consueta processione li attendeva per accompagnarli fin oltre
la Porta d'Oriente e i campanelli ondeggiavano in segno di buon augurio sulla sommità degli alti bastoni ricurvi. Larth montò a cavallo, affiancandosi al carro a due ruote con le insegne regali di porpora e oro, ma le cortine erano chiuse e non riuscì a vedere né il Re né Laris, che lo accompagnava. Suo fratello Egene lo raggiunse subito: l'idea di far parte della scorta d'onore non gli sorrideva particolarmente, ma gli era stato ordinato, e obbediva. Gli rivolse appena un cenno, e Larth si rese conto che non aveva niente da dirgli. Si passò quindi la tebenna bianca attorno alla spalla sinistra, chinò il capo per salutare il Grande Trutnot e ordinò al corteo di avviarsi. Thanaquil stava accovacciata accanto al fuoco, assorta; dall'attigua sala a volta sulla sommità del monte venivano ancora qualche voce, l'accenno di un canto e di una melodia di flauto, ma era molto tardi, e quasi tutte le ospiti e le Sacerdotesse si erano ritirate. Lì non c'erano altre luci, se non quella del fuoco che viveva su poche braci. Tuttavia le fiamme sembravano non avere voci, né volti. Thanaquil sollevò il capo a guardare Caitli. «Perché io non posso vedere nel fuoco quello che dovrà accadere?» chiese. «Ti succederà, qualche volta; quando non lo vorrai», mormorò Caitli, e tacque, cercando di chiudersi a quello che le palpitava attorno, incalzante. Fece scorrere lo sguardo sulla sorella, con affetto: era bella, innamorata, e doveva far risplendere i suoi tesori così ricchi e luminosi prima che si velassero. Le tese la mano al di sopra delle fiamme. «Promettimi obbedienza, Thanaquil», chiese. La ragazza assentì gravemente. «Ti ho sempre obbedito.» «Questa non è una promessa», sorrise Caitli. Thanaquil trattenne il respiro. «Perché?» mormorò. «Perché dovrai sposare Larth ed essere la sua Regina.» Thanaquil si tirò indietro, senza tuttavia riuscire a sottrarre la mano da quella della sorella. «Io amo Mastarna e lui mi ama!» si ribellò. «Sii paziente: verrà il giorno in cui ci ritroveremo, e allora avrai davanti a te lunghi anni felici con il tuo uomo.»
«Larth non mi vorrà!» ribatté. «Lui ama soltanto te, e tutti lo sanno!» Era la sua ultima speranza, ma era tenue come il filo in procinto di spezzarsi nel vento di un temporale. «Larth mi ama soltanto perché non ha mai pensato di poter fare a meno di me; ma ama il suo destino di Re più di quanto possa amare qualunque altra cosa. Ti ha accettata e domani sarai al suo fianco in tribuna, durante i giochi. Dovrai essere una vera Regina.» «Ma io ho scritto il mio nome e quello di Mastarna nel grembo della Dea di questo Tempio; e quello che qui è stato legato non si può sciogliere...» Caitli assentì. «Lo so», rispose. «E... tu?» mormorò Thanaquil. «Io lascerò Veltune domani... appena si sarà levato il sole. Il Grande Trutnot mi ha mandato un messaggero; ha bisogno di me a Palazzo, al più presto.» «Perché? Domani cominciano i giochi e i banchetti, verranno gli artisti di Samo, e Mastarna e Larth hanno accettato la gara della truia e...» Si interruppe bruscamente, rendendosi conto che tutto quanto aveva atteso sarebbe stato diverso; l'immagine di se stessa accanto a Larth era diventata, d'un tratto, vivida e prepotente, mentre quella di sé vicino a Mastarna non era che un ricordo tenue, sbiadito come un desiderio segreto già consumato. Girò il capo serrando le labbra per non piangere. «Il piccolo Vul è caduto in un sonno da cui non si sveglia e sua madre Vultha ha accusato Hasti di averglielo in qualche modo procurato. Vultha è una creatura di Aivas; non posso lasciare la nostra Hasti da sola, e se Velvur mi ha mandata a chiamare ci devono essere dei buoni motivi.» Thanaquil assentì; in realtà non riusciva a pensare né al piccolo intrigante dagli occhi cattivi né alla fedele Hasti. «Larth mi fa paura», mormorò. «Mi... resterai vicina?» «Io ti sarò sempre vicina finché sarò con lui. E tu sai quello che voglio dire, sorella mia.» Caitli l'accolse tra le braccia, lasciandola piangere e consolandola silenziosamente; e restarono così, strette l'una all'altra, dimentiche del tempo e del luogo. Caitli lasciò il santuario della Dea Turan che era ancora quasi buio; sulla banchina l'attendeva la sua scorta. La cerimonia del Chiodo avrebbe avuto luogo quello stesso mattino, ma adesso i Re e i loro nobili stavano ancora
al banchetto e alle interminabili chiacchiere che finivano comunque con la scontata conclusione che non sempre quello che era un bene per la Lega finiva per esserlo per tutte le città che la componevano. Un accenno di vento toccava le acque ancora buie del lago, un barlume di luce coronava l'oriente. Caitli rabbrividì, stringendosi nel mantello pesante: gli uomini misero in acqua la barca e traghettarono in silenzio. Sulla sponda opposta, le capanne dei servi e dei soldati avevano i focolari accesi e una lieve cortina di fumo stagnava così all'altezza dei tetti di paglia e di argilla e sembrava attutire i suoni. L'isola nel lago era ancora avvolta nel buio e solo un fremito rosato giungeva a lambire l'acqua, nel punto per primo toccato dall'aurora. Mastarna l'aspettava sulla banchina, avvolto nella tebenna; aveva l'aria stanca e severa. L'aiutò a lasciare la barca e le si incamminò al fianco, mentre la sua scorta correva a preparare i cavalli e il carro coperto a due ruote. «Si sta ancora discutendo nella sala dei banchetti, e io ho lasciato solo Larth per correre qui», esclamò Mastarna, trattenendola. «Perché hai voluto vedermi?» «Per Thanaquil. Lei ti ha amato prima di conoscerti davvero, lo sai?» «Sì. Me ne ha parlato. Ma era una bambina ed era come un gioco.» Caitli scosse il capo. «Non era una bambina e non era un gioco, e siete legati molto più di quanto tu creda. Hai sciolto la sua cintura, Mastarna?» Il giovane scosse il capo. I soldati stavano portando i cavalli, e il primo spicchio di sole coronava di splendore la sommità dell'isola riverberando sulle rocce levigate a specchio attorno al Tempio della Dea. «No. Ero ospite a Palazzo e non potevo recare offesa al Re violando sua figlia. Ma l'abbiamo desiderato entrambi. Intensamente. Io la voglio in moglie, ma non so quanto Re Tarchon possa volermi come suo Principe. Io non sono un Tarquinio, e non sono un Erede.» «Thanaquil sposerà Larth molto presto e non volevo che lo sapessi da altri. Poiché li ami entrambi, dovrai essere forte e fedele.» Mastarna si fermò bruscamente; sentiva una forte attrazione per lei, non disgiunta da un certo timore: era la donna di cui Larth gli aveva parlato tanto a lungo, ed era al tempo stesso lontana e intoccabile come una Dea. «Il Potere e il dolore», pensò. «E Larth non rinuncerà al Potere, non importa quanto dolore dovrà spargere attorno a sé. Povero amico mio.» «Saprai aspettare?» mormorò Caitli ponendo una mano nelle sue. Sentì
un calore benefico toccarlo e invaderlo, allentandogli la morsa che gli chiudeva il petto. «È questo che devo fare? Aspettare?» «Sì. Restando al fianco di Larth. Ti ha scelto come fratello e non dovrai abbandonarlo.» Assentì appena; il capo della scorta si fermò rispettosamente a una certa distanza, per avvertirli che il carro e gli uomini erano pronti. Il sole era ormai fuori; la spiaggia di sabbia nera era ancora nell'ombra, protetta, ma tutto il lago si stava vestendo di luce e l'isola brillava come una gemma nell'azzurro. Il suono delle trombe dal Tempio del Chiodo, portato dal vento, annunciò la nascita del giorno della cerimonia che avrebbe visto riconfermato come Re Supremo Sevre di Velx. «Presto», pensò Caitli, «acclameranno Larth.» Mastarna l'accompagnò al carro e l'aiutò a salire. Senza una parola, Caitli abbassò la cortina scura che la nascondeva, e il piccolo corteo si mosse. Mastarna tornò quindi alla barca; forse il convegno aveva finalmente avuto termine e forse Larth aveva avuto modo di accorgersi della sua fuga improvvisa, per cui avrebbe dovuto inventare una plausibile scusa. E sarebbe stata la prima menzogna, tra loro. Le guardie lo avevano condotto fino alla stanza dei Principi; lì Velvur le aveva congedate, lasciando che il celta se ne restasse seduto sui gradini, accanto all'ampia apertura sul cortile nascosto. Le sue cure gli avevano ridato vigore, e le ferite si erano composte in arrossate cicatrici sulla schiena e sulle braccia, ma non aveva più detto una sola parola, con nessuno, come se all'improvviso non fosse più in grado di intendere la lingua rasna. Velvur tuttavia aveva finto di dimenticarsi di lui: era andato ad accogliere Caitli, ma non le aveva permesso di andare a vedere il bambino né di incontrare Hasti, invitandola invece a ritirarsi nel Bosco Sacro alla Dea Athrpa. Da sempre, infatti, quando una particolare minaccia gravava sul Palazzo, il rifugio nel cuore del bosco ospitava la Sacerdotessa della Casa: fintanto che i segni non avessero mostrato un cambiamento, quello era dunque il posto di Caitli. La giovane aveva accettato l'ordine senza battere ciglio. Velvur, dal canto suo, avrebbe voluto chiederle di Larth, di Thanaquil, e se le nozze erano state concordate, ma quello non era il momento, né poteva permettere che altri pensieri lo costringessero a divagare.
Tornò infine nella stanza dei Principi, e chiamò i servi perché provvedessero a lavare e a rivestire Axal, e quando glielo riportarono lo lasciò in piedi, immobile, senza alcun ordine, per un certo tempo. Il crepuscolo stava fuggendo dal cielo e una brezza tiepida arrivava a impigliarsi nella massa verde dei caprifogli in fiore, attorno all'altare della Madre Dia. Armeggiando per accendere l'olio di una lucerna sul suo tavolo da lavoro, Velvur si decise finalmente ad alzare lo sguardo su Axal e lo osservò, critico, per un lungo minuto. Non si era sbagliato; il celta stava sfiorando con la punta delle dita la mappa della sua terra e il lavoro interrotto: la voglia di vivere gli era tornata dentro, come un'onda calda, e dilagava, prepotente, a investire quanto lo circondava. «Questa, se non sbaglio», disse Velvur in tono casuale, «è una notte molto speciale per la tua gente.» Axal sollevò gli occhi dalla mappa, incontrando quelli gentili del Trutnot che, in quel momento, sembravano azzurri quanto i suoi. «Beltane», riprese Velvur. «Se non sbaglio, è questo il nome.» Axal assentì; Caitli aveva diligentemente annotato quanto aveva detto dei loro costumi: una notte speciale, per festeggiare la transumanza delle greggi e la fertilità della terra. La notte in cui si accendevano i fuochi e venivano consumate le unioni con chiunque vi si appressasse, in nome di quel rimescolamento che faceva nuova la terra e il sangue. «Questa sarà una notte speciale anche per noi. I segni dicono che ci saranno due lune in cielo, questa notte. È un prodigio raro. Vieni», lo invitò, accennando a uscire nel cortile. Axal lo raggiunse; il crepuscolo aveva lasciato un cielo luminoso e il vento si era rinforzato, ma la luna non si era ancora levata. Velvur gli fece cenno di seguirlo. «Il bosco della Dea Athrpa è il luogo più sacro; le nostre storie più antiche dicono che qui Tagete tracciò un solco per far nascere le mura del Palazzo e mise a dimora l'albero della Dea.» «Quello spezzato dal fulmine?» Velvur sorrise, tra sé. «Così, non hai dimenticato la nostra lingua, dopotutto», commentò. Axal restò zitto; Velvur uscì dalle mura del Palazzo passando dal varco e si fermò a guardare Axal fare altrettanto. «Proprio quest'albero; il fulmine l'ha colpito nel preciso momento in cui
Caitli è nata. Vedi... c'è stato un istante, durante quell'evento, in cui io ho avuto la sua vita in una mano e il fulmine nell'altra, eppure nemmeno allora io mi sono sentito libero di scegliere, ma soltanto libero di vedere il destino tracciato, e di assecondarlo.» Axal lo stava ascoltando, e tuttavia il suo sguardo si era distratto a seguire il baluginare vago di un fuoco nel fitto del bosco. Velvur tremò, fermandosi al limitare della cortina di alberi: il vento impazziva tra le foglie, in alto, e il cielo si era coperto di stelle basse. «Onora la tua notte di Beltane, Axal», mormorò il Trutnot. «Se passerai il bosco.» Axal sorrise. «È una sfida?» Velvur sorrise di rimando. «Forse.» Gli girò le spalle e se ne tornò al varco sul cortile; l'altare della Madre Dia era buio, e il profumo dei caprifogli era prepotente quanto un filtro d'amore; Velvur vi sostò accanto, a guardare la stanza dei Principi. Anche la fiamma della sua lucerna, che aveva lasciato accesa sul tavolo, tremò. 15. Nel bosco non c'era traccia di sentiero, e tuttavia Axal poteva dire dove passavano i cervi e seguire i loro varchi; persino adesso, con il buio, gli era facile trovare la strada tra i fitti rovi, le viti selvatiche e i corbezzoli saldamente intrecciati. Sentiva un rinnovato vigore e il sangue gli scorreva rapido; quel fuoco lo scaldava, ancora così lontano e incerto, rotto dal vento e tuttavia così potente. Era un richiamo che non poteva fuggire. Il rifugio della Dea Athrpa era stato scavato nella parete tufacea, nel punto più alto del bosco, ed era più antico persino delle mura del Palazzo vecchio e del suo labirinto sotterraneo. La sua grandezza non superava di molto quella di una camera e il lato a oriente era interamente aperto sul bosco. Ed era colmo di Potere. Axal si fermò sulla soglia osservando il fuoco che era stato acceso in un largo braciere di bronzo: le fiamme si torcevano nel vento, piegandosi a lambire le figure di chimere abbarbicate ai manici rotondi sui lati. Non passò il cerchio magico di quella luce, ma Caitli era appena al di là, e sollevò il capo a guardarlo.
Era poco più di una apparizione, e sarebbe stata una Dea per chiunque, ma non per lui. Per lui era soltanto la compagna sconosciuta del fuoco di Beltane: non una Regina, non la donna amata dall'unico uomo con cui aveva stretto il patto sacro sul filo della sua spada e nemmeno la Sacerdotessa che vedeva nel Tempo e che comandava i fulmini. Soltanto una donna. Caitli si mosse, lasciando che la tunica leggera le scivolasse dalle spalle. Rimase inginocchiata, con soltanto la cintura a coprirle i fianchi; e il seno nudo, cosparso di olio profumato, si offrì, delicato e niveo, allo sguardo dell'uomo. Axal passò la soglia e le si inginocchiò davanti, accogliendo nelle mani l'offerta e tracciando con dita leggere il sentiero del desiderio fino al suo inguine. In un attimo, la cintura di Caitli era aperta e Axal le era disteso sopra, già nudo, la pelle che palpitava con la sua: nel tempo di un respiro, la febbre che lo pervadeva trasmise a lei la stessa ansia e lo stesso spasimo. L'onda del fuoco e del vento li travolse: Axal non trattenne la sua foga e per la prima volta la penetrò con la dolce irruenza di una tempesta di primavera. Il fuoco non si spense nel braciere nemmeno all'alba. Più volte si erano presi e lasciati e, nella luce del giorno nuovo, Axal fu ancora su di lei; questa volta l'onda del desiderio, controllata, trovò tempo per la dolcezza, e Caitli sentì in questo seme che la colmava la possibilità di una vita nuova e segreta: una piccola vita che poteva chiudere nel suo pugno, e amare. Tenne l'uomo su di sé a lungo, e non avrebbe voluto staccarsene, carezzando con mani leggere la sua schiena segnata di cicatrici ancora dolorose. «Una figlia, Axal», gli mormorò infine all'orecchio. «Avremo una figlia.» Il celta si sollevò baciandole le labbra, e poi la sollevò arcuandole la schiena e tenendola. Era ancora in lei, e le strappò un grido di piacere e di sorpresa. «I figli di Beltane sono figli degli Dei», le rispose Axal, e Caitli gli si aggrappò, come se bastasse quel gesto a nasconderlo e a salvarlo. Il Grande Trutnot salì al rifugio della Dea Athrpa che il sole era ormai prossimo allo zenit; spirava una brezza lieve e il giorno era caldo e azzurro. Seguì il sentiero che, girando attorno alle mura del Palazzo, saliva al
bosco dall'esterno: un piccolo sentiero in terra battuta che nessuno aveva il diritto di percorrere, e che tuttavia aveva il merito di essere meno ripido e più accessibile. Giunse al rifugio un po' affannato, e restò un momento assorto a rendere omaggio alla Dea; poi si volse a guardare la lepre che rosolava sul fuoco di sterpi tra le pietre, appena fuori del rifugio, le coppe di vino e di miele per metà vuote e il tappeto disteso al sole, tra l'erba. Sorrise, posando infine lo sguardo su di loro. «Axal», ordinò, «rientra al Palazzo passando dal varco nel cortile e aspettami nella stanza dei Principi. Non obbedire ad alcun ordine che ti allontani da quella stanza. Caitli, è tempo anche per te di rientrare. Devi pronunciarti sul piccolo Vul.» Un'ombra passò sul viso di Caitli, così evidente che Velvur - per un attimo - se ne sentì responsabile; tuttavia là giovane si alzò e sparì nel rifugio, senza una parola, per riprendere le vesti del suo rango. Axal si sollevò, abbattendo il sostegno e la lepre che rosolava e spegnendo il fuoco. L'ordine di Velvur, all'improvviso, lo riportava alla sua condizione di schiavo e alla realtà al di fuori di quel bosco. «La notte di Beltane è stata onorata», esclamò quindi. «E anche la tua Dea. Era quanto volevi?» C'era una nota prepotente di dolore nel tono; Velvur quietò quella animosità con un cenno. «Due universi si sono congiunti stanotte e insieme hanno gioito: è raro avere il privilegio di toccare il cielo così in alto, Axal.» Il celta tacque. Adesso che la magia di Beltane gli era passata dal sangue e dalla mente gli restavano l'amore e il possesso, ma non poteva vantare né l'uno né l'altro. Non si sentiva colpevole per quel rito sacro, tuttavia non gli sarebbe stato facile sostenere lo sguardo di Larth, né l'ombra del suo potere che tanto dipendeva dalla Regina. «Tu puoi davvero dividerci, adesso che ci hai uniti?» mormorò quindi. «Non sono io a unire o a dividere. Vai, ora: e attento che non ti vedano.» Axal prese la via del bosco prima che Caitli fosse pronta. Quando uscì, portando la sua tunica bianca con i ricami di porpora e oro, Velvur si era seduto in un piccolo lago di sole, e si stava scaldando le ossa, felice di poter godere anche lui della gioia che colmava quel luogo. «Sono pronta», mormorò Caitli, e Velvur ne ammirò la compostezza e la serenità del viso, che non lasciavano indovinare nulla. «Sei stata davvero una grande Regina», pensò, seguendola sul sentiero,
come un servo. Il sentiero girava attorno alle mura del Palazzo, costeggiando i cortili delle cucine e l'ala degli ospiti e giungendo al portale sovrastato dalla chimera; una folla si era radunata da un lato e dall'altro della strada. Lo straordinario evento delle due lune e l'ansia per ciò che la Sacerdotessa del Palazzo poteva aver visto e per i segni raccolti nella sua veglia si leggevano sui visi di tutti. Flasi Aivas le andò incontro, seguito da una trentina di Aruspici, ciascuno con le tuniche colorate e splendenti e le mitrie e i litui delle grandi cerimonie; per contro, il Grande Trutnot sembrava una figura trascurabile, e proprio per questo magicamente trionfante in virtù di un'aura intima che non aveva bisogno di simboli esteriori. Aivas si inchinò profondamente a Caitli. «Il cielo di stanotte è stato specchio di eventi straordinari, nobile Caitli», esclamò l'Aruspice. «Ci sono state due lune, una rossa come il sangue e un'altra a farle da alone, d'oro, splendente come una corona. Noi temiamo questi segni. Forse, nobile Caitli, dovresti accettare il fato manifesto per te già al momento della tua nascita, e non opporti oltre, se la Dea ti reclama.» Caitli lo guardò a lungo, immobile, tanto che Aivas si sentì avvolto e come ferito dal suo gelo. «In questa notte di straordinari eventi io sono stata consacrata, Aruspice di Tagete, nel grembo della Dea. Non sono più l'Erede al trono di Tarchon.» Aivas si inchinò di nuovo e tutti lo imitarono; poi l'uomo piegò entrambe le ginocchia a terra e le baciò l'orlo della veste. «Ti onoro, mia signora, in nome della Dea che scioglie i nodi delle nostre esistenze, e sacrificherò per te a ogni alba, da ora e fintanto che la stagione muterà le foglie dell'albero sacro.» Caitli gli sfiorò appena la fronte e sentì l'odio prepotente dell'uomo salire a soffocarla. «Accetto il tuo sacrificio, Aivas», gli disse, pacata. «La Dea ti ricambierà in egual misura per tutto ciò che dai.» La giovane avvertì il tremito profondo con cui Aivas rispondeva a quella formula così semplice e antica che aveva il potere di rovesciare come uno specchio le azioni e i desideri. Quindi Caitli passò oltre. Velvur l'accompagnò al capezzale del piccolo Vul, in una delle stanze dell'ala di settentrione; la stanza era piccola, e il bambino in quel momento
era vegliato da una serva. Caitli si fermò un momento sulla soglia: era buio, e l'aria era satura del profumo forte dell'incenso e delle erbe che bruciavano in un braciere troppo vicino al letto. Il sonno del bambino pareva leggerissimo e agitato, mentre le piccole mani tormentavano incessantemente le coperte che lo proteggevano dalla vita in giù. «Ho interrogato Hasti», le mormorò il Trutnot. «Ha dato al bambino una pozione perché era sofferente; forse le dosi erano sbagliate, sebbene Hasti abbia dato la stessa pozione a decine di altri bambini del Palazzo in tanti anni, quando erano malati, e non sia mai accaduto nulla.» «Forse qualcuno ha aggiunto degli ingredienti alla pozione dopo che era stata preparata; o forse il piccolo soffre di qualcosa in particolare, che l'ha reso sensibile», rispose Caitli, ordinando alla serva di allontanare il braciere e di aprire la finestra in modo che la stanza fosse pervasa del benefico sole. Aivas intanto li aveva raggiunti e Vultha lo seguiva, scarmigliata e dolente, ma attenta: aveva già fatto le sue insinuazioni, sostenendo persino che Hasti aveva agito per ordine del Principe Larth, smanioso di togliersi di torno un possibile erede; nessuno, apparentemente, le aveva dato credito, ma per tutti era difficile cancellare quelle parole. Caitli ordinò alla serva di allontanare la coperta e nel letto restò soltanto il corpo gracile e mutilato del bambino: le recenti ferite non si erano ancora chiuse del tutto. «Il Re ha ordinato che il bambino fosse castrato», spiegò Aivas. «Io stesso ho eseguito l'intervento; tuttavia il piccolo si è liberato di un legame e il bisturi l'ha ferito più a fondo di quanto era necessario.» «Perché il Re ha ordinato questo?» mormorò Caitli. «Non vuole privarsi della sua compagnia, ma non ha intenzione di crescere un uomo che possa portare ombre sul trono di Tarchna», le rispose Velvur. Caitli sfiorò il viso del bambino; c'era ancora una febbre lieve, dovuta più che altro al calore eccessivo della stanza e all'intorpidimento del fumo dei bracieri. «Per causa sua, il Palazzo non avrà Re...» Incapace di resisterle, Vul aprì gli occhi di colpo, fissandola con astio; le mani corsero immediatamente alle ferite e si fermarono, inerti. «È stata una notte di grandi prodigi...» mormoravano le voci del Palazzo.
«La nobile Caitli è stata consacrata nel grembo della Dea...» «Non sarà più Regina...» «C'erano due lune... e la luna d'oro coronava la luna rossa...» Caitli sentì fluire nel proprio intimo la potenza delle parole; quell'evento che consacrava la sua unione con Axal ne consacrava un'altra futura, che ancora lei non riusciva a vedere ma che sentiva; un'unione che coinvolgeva in egual misura l'Amore e la Morte, le primordiali forze dell'universo. Cercando di nascondere quella consapevolezza così lucida ed esaltante, Caitli si rivolse alla madre di Vul. «Tuo figlio fingeva, Vultha; aveva la febbre, questo sì, ma fingeva il sonno: per vendicarsi della povera Hasti, che detesta, e che gli ha dato soltanto una pozione per alleviare il dolore fisico della privazione subita, ma anche per vendicarsi di te, perché ti odia e sa che sei disposta a farlo a pezzi, se questo è il prezzo per restare nel letto del Re. Non è così, Vultha?» La donna non osò negare, e nemmeno sostenere il suo sguardo; Caitli sollevò gli occhi su Aivas. «Sono certa che adesso saprai curarlo, Aruspice di Tagete.» Lasciò la stanza, seguita dal grande Trutnot. «Per causa sua, il Palazzo non avrà Re...» Quella voce, strisciando, aggrediva le pietre della loggia e penetrava in ogni anfratto; Caitli la cancellò dalla propria mente. In fondo al passaggio più antico il sole dilagava dall'ultima delle aperture, investendo la soglia della stanza dei Principi e coronandola di luce. Tese si fermò, cercando un riparo nel passaggio buio tra le due case: soffiava un vento forte ma caldo che faceva giungere fino al suo naso gli odori prepotenti del cortile chiuso; ci dovevano essere dei maiali in qualche recinto lì attorno. Alcuni servi dormivano sotto una tettoia, in un angolo; Tese li evitò con cura, passando alla casa vicina. Presto tutte quelle abitazioni di argilla, di paglia compressa e di tronchi sarebbero state abbattute, per fare posto a delle vere case. Tese si sentiva perfettamente consapevole dell'importanza dei suoi compiti: cancellare quell'aria di desolazione, dare al luogo un buon aspetto, tracciare strade larghe e diritte... creare insomma una vera città, come diceva Larth. Tese si era avvalso con saggezza del gesto giovanile di Larth a Ruma per salire nel prestigio dei nobili di Tarchna: era stato suo compagno in quell'impresa e quanto si era conquistato allora era diventato un vincolo tenace
al luogo, agli eventi, e all'uomo che li stava determinando. Così adesso Tese si sentiva legato a Ruma, e a Larth, con la sua stessa vita. Divideva con Cneve il compito di sorvegliare costantemente Kae Aivas, e non gli pesava. Ma contemporaneamente non poteva fare a meno di studiare la conformazione del terreno sui colli e nelle paludi, né si tratteneva dal disegnare mappe dove la città si era già fatta degna della bellezza di una città rasna. Ma Kae Aivas adesso era entrato, solo e senza scorta, nella casa di Ancus. «Ha ricevuto un messaggero, due ore prima del tramonto. Un messaggero che veniva da Tarchna e che non ha conferito né con Cneve né con i Vibenna... A che scopo?» pensò Tese, appiattendosi contro il muro e girando attorno alla casa fino a raggiungere l'angolo opposto. Si infilò dall'antiportico; non c'erano uomini di guardia e il servo che avrebbe dovuto vigilare dormiva, chino sulla sua panca. Tese distinse per prima la voce di Aivas, dura. «Adesso possiamo agire. L'Erede al trono di Tarchna si è ritirata. Tu capisci quello che sto dicendo, latino?» «Una donna erede di un trono! È vero quello che dicono di voi i Greci: tutto quello che sapete fare lo fate in un letto!» Ci fu un momento di silenzio alla risposta divertita del latino, e Tese ne approfittò per avanzare oltre: sgusciò in un angolo buio del portico interno, dal quale poteva guardare nella stanza: il fuoco era ancora acceso e i due uomini stavano soli, l'uno di fronte all'altro. «Ciò che dicono i Greci viene solo dall'invidia. Vedrai, latino: con il tempo imparerai anche tu a trovar piacere in queste cose. In quanto ai nostri usi e alle nostre donne, non possiamo cambiare né gli uni né le altre perché sono troppo forti. Tutto quello che possiamo fare è tentare di influenzare i presagi e di volgerli a nostro favore. Ma non è di questo che dobbiamo parlare, non credi?» Ancus si allontanò di qualche passo, poi si girò a guardarlo. «Così, tu mi prometti che attirerai in trappola per me il Tarquinio», sussurrò in tono dubbioso. «È quello che ho detto», dichiarò Kae. «Morto lui, tu sposerai la nuova Erede e sarai Re. E che cosa ne trarrà Ruma, dall'avere te anziché il Tarquinio?» «Ruma avrà comunque un proprio Re, ma con me non sarebbe Numa»,
spiegò Kae, ma Ancus lo interruppe: «È difficile credere a qualcuno che si fida di un nemico per tradire il proprio Re», disse. Kae Aivas alzò una mano a zittirlo, quasi avesse timore di quelle parole troppo aspre. «Io non tradisco il nostro Re Tarchon!» ribatté. «Combatto un uomo che non ha più diritti di me di salire a quel trono. Siamo cresciuti assieme, e ciò che lui ha fatto, l'ho fatto anch'io; ma di certo tu sei troppo barbaro per renderti conto di queste cose. Voglio la tua risposta, Ancus, e la voglio subito.» Il latino assentì lentamente e, dopo un attimo di riflessione, iniziò a esporre il suo piano. «Io l'ho visto battersi e posso dirti che dovremo sorprenderlo a tradimento, senza il suo amico e senza il suo schiavo, che non gli lasciano mai le spalle scoperte. Se tu lo porterai solo dove io ti dirò, e se non ti importa di come sarà ucciso, allora lo avrai morto.» «È questa l'unica cosa che conta», mormorò Kae Aivas, allungando una mano a toccare quella del latino. «E il suo Potere? La tua gente dice che quell'uomo è un Mago: com'è che tu non temi il suo Potere?» Il tono nella voce del latino era vagamente insolente, ma Aivas non batté ciglio. «So come tenere a bada questo Potere, e c'è chi già lo sta facendo. Deve essere l'ultima delle tue cure, questa. Tu pensa agli uomini fedeli che ha qui: suo fratello, il nobile Tese e i Vibenna di Velx, che si divideranno la tua casa non appena tuo fratello il Re acconsentirà a liberarsi di te come ultimo atto di sottomissione al nostro dominio.» Ancus restò in silenzio un istante, a valutare la realtà di quella minaccia. «Nostro, Kae Aivas. Tuo e mio: non dimenticarlo», mormorò quindi. «Adesso vattene: non è ancora tempo che ti riceva come ospite nella mia casa.» Tese arretrò appena e qualcuno lo afferrò improvvisamente alle spalle, serrandogli la gola e colpendolo alla schiena. L'aria gli mancò; tentò di allentare la stretta, ma non riuscì a spostare la morsa che gli inchiodava la gola. Tese fu trascinato nella stanza e Ancus lo fece portare accanto al fuoco: l'uomo che lo teneva lo costrinse in ginocchio, con la faccia verso le fiamme. «Uno dei fedeli uomini di cui debbo prendermi cura», esclamò Ancus. «Che mi dici, rasna? Lui ha visto e sentito troppo; ma se lo uccido adesso quanti dei miei moriranno per ripagarlo?» Tese alzò lo sguardo sul compagno della sua infanzia e sull'amico dell'adolescenza. In un istante ricordò tutto il tempo passato, e la lunga stagione
calda al Villaggio dei Fusori: non avevano più avuto giorni come quelli, quando il mondo era sembrato tanto bello e facile da conquistare. Larth li aveva scelti allora come compagni e, in un certo modo, era come se avesse legato assieme le loro vite, con un nodo destinato all'eternità. Negli occhi di Kae Aivas riverberarono per un attimo gli stessi ricordi, che subito però scivolarono via come un manto vecchio. «Uccidilo», disse semplicemente, «e io conterrò le rappresaglie.» L'uomo lasciò la presa afferrando la spada corta che portava al fianco; Tese restò inginocchiato, ansimando per raccogliere l'aria nella gola finalmente libera. «Il Potere di Larth ti brucerà, Kae», riuscì infine a mormorare con la voce rotta. «E io affido al fuoco tutto quello che so!» «Uccidilo!» ordinò Aivas. Il latino abbassò la spada infilandogliela nella schiena. Incredulo, Tese raccolse la sensazione della coscienza della morte come se fosse destinata a un altro, e non a lui. Fissò le fiamme alte e vive con tutta l'intensità di cui era capace, lasciando che tutto quanto costituiva la sua essenza finisse avvolto e divorato da quel calore. «Ci sarà chi leggerà il fuoco», pensò. «E Larth sarà salvo!» Un attimo dopo vi precipitava dentro a faccia in giù, alzando una nuvola di faville tumultuose. «Toglilo!» ordinò Aivas. «Toglilo, Anio», confermò Ancus, «e portalo davanti alla Casa del Re, ma senza farti vedere.» L'uomo obbedì spegnendo il fuoco che aveva preso a mordere i capelli e la tebenna di Tese, poi afferrò il corpo per i piedi, e lo tirò via, lasciando la tebenna bruciacchiata a terra. Aivas si chinò e la buttò a soffocare il fuoco; dopo qualche istante, la stanza precipitò nel buio appena rotto da una lucerna a olio. «Così tu hai paura del Potere...» mormorò Ancus, e rise sommessamente, mentre il rasna se ne andava senza nemmeno girarsi. All'alba, Cneve trovò il cadavere davanti alla Casa del Re, la corta spada infissa nella schiena e il viso devastato dal fuoco. Era piovuto e il corpo giaceva in una piccola polla d'acqua. Per un istante Cneve restò immobile; i servi stavano chiamando il Re latino, la sua Guardia avrebbe pensato a far venire i Vibenna, che avevano preso possesso del Colle delle Querce dove si trovava il campo degli uo-
mini di Velx. Cneve sfiorò con la punta delle dita il viso del morto: era freddo e rigido. Sollevando lo sguardo incontrò quello del Re Numa, sgomento. Molto più di Cneve, il Re aveva combattuto, ucciso e devastato e sapeva bene che cosa significava quell'assassinio per la sua gente. Cneve si sentì all'improvviso troppo giovane e troppo solo per il fardello di un comando che pesava quanto un macigno. «Un messaggero», ordinò, tentando di conservare ferma la propria voce. «Voglio un messaggero subito, per Tarchna. Fintanto che mio fratello non sarà qui, niente verrà deciso. E adesso onorate questo corpo; lavatelo e preparatelo!» Fece per allontanarsi, ma Numa lo fermò appoggiandogli una mano sul petto. «Attento, giovane Principe», gli mormorò in un orecchio. «Ci sono forze qui che io non posso controllare.» «Allora sarà la tua Casa a crollare per prima, Re Numa», ribatté Cneve, aspro, dirigendosi verso il messaggero già pronto. Dal largo sentiero che scendeva al piano stavano intanto giungendo i Vibenna, seguiti da un centinaio di uomini a cavallo, armati, che si sparsero a gruppi a presidiare l'abitato. Qualche voce concitata arrivava dalle case, di cui tuttavia non passarono le soglie. A Cneve sembrò di scorgere un lampo di divertimento negli occhi di Numa, come se il Re in un certo modo ricavasse piacere dalla catena di eventi che l'uccisione aveva avviato, e fosse pronto a trarne il maggior profitto possibile. La pioggia cadeva da ore: il Tibrin ne era gonfio e aveva invaso le paludi; nell'oscurità fitta non si vedevano i fuochi dei ricostituiti posti di guardia, attorno ai quali erano state alzate mura di riparo, e nemmeno i lavori su entrambe le rive per il primo ponte, che al momento era solo provvisorio e formato da zattere ma che i Latini già chiamavano Sublicio. Era una notte da passare all'asciutto, ben coperti e riscaldati dal fuoco amico di un braciere... ma l'unica cosa che poteva convincere Mastarna a muoversi gli stava davanti, e Larth non aveva intenzione di ascoltare consigli. Mastarna si piegò verso di lui, tenendo a freno l'inquietudine del proprio cavallo. «La corrente è forte, e un guado è un rischio troppo grosso. Ne vale la
pena?» «Il rischio sarà ben pagato; che ne dici, Axal?» chiese Larth. Il celta si affiancò con il proprio cavallo, e per un momento restò zitto fiutando il vento, la corrente scura e il fragore del fiume inquieto. «Passeremo», disse. «Ma ci occorre una fune.» «E quando sarai passato? Il posto di guardia sull'altra sponda è stato messo in allarme, e i nostri uomini potrebbero ucciderti per errore prima di riconoscerti!» «I nostri uomini non ci vedranno. Fai come ti ho detto, amico mio: accampati qua attorno e un'ora prima dell'alba passa il ponte di barche e sali alla Casa del Re. Non più tardi, ma nemmeno prima. Io sarò già là: è tempo che questi Latini abbiano paura di quello che non si vede.» Mastarna assentì cupamente, passando agli uomini l'ordine di smontare e di cercarsi un riparo; ne aveva con sé appena un centinaio, perché non c'era stato tempo di armarne altri. Il messaggero li aveva raggiunti sulla strada del ritorno da Veltune: così Larth aveva scortato il Re fino al proprio Palazzo e preso con sé Axal, lasciando a Laris il compito di scegliere gli ingegneri e gli artigiani da inviare con la prima spedizione, e lui l'aveva preceduto con gli uomini, raccolti tra le scorte e i nobili a Veltune, e tutti più ansiosi di battersi che di presidiare una città conquistata. Lasciato l'ordine, li accompagnò fin sulla riva del fiume; Axal si era legato un capo della fune attorno alla vita, e Larth stava facendo altrettanto. «Così se uno sarà trascinato via, l'altro non potrà liberarsi», commentò Mastarna, dubbioso. «No», ribatté Axal. «Nella mia terra ci sono fiumi larghi tre volte questo, e molto più impetuosi. Se non possiamo camminare sui tronchi, noi usiamo questo modo per passare. I cavalli ci sosterranno entrambi e noi ci sosterremo a vicenda: quattro forze contro una.» Larth abbozzò un sorriso, posandogli una mano sulla spalla. «Non è il fiume il nemico, Mastarna», mormorò all'amico. Si avviò a seguire il celta, che aveva passato attorno al ventre dei cavalli una cinghia di robusto cuoio intrecciato, alla quale aveva poi legato la fune che li univa. Controllando i nodi, Axal si fermò un istante. «Tieni il pugnale a portata di mano: se uno dei cavalli dovesse andare sotto o se io venissi trascinato oltre il punto di recupero, devi essere pronto a tagliare la fune e a continuare da solo», disse a Larth. «Questo vale anche per te», fu la pronta risposta.
Axal sfiorò appena l'impugnatura del proprio pugnale, che portava l'insegna dell'aquila di Tarchna. «Certo», mormorò con un sorriso lieve. Poi gli girò le spalle e montò, entrando in acqua per primo e impugnando saldamente le redini. Larth lo seguì tanto vicino quanto l'esiguo spazio di fune tra loro e i loro cavalli lo consentivano. In un istante erano nel vortice della corrente, verso l'ombra scura e quasi invisibile dell'isola al centro del fiume; i cavalli sbandarono, nuotando; la fune si tese, ma già Axal e il suo cavallo toccavano la corta riva sassosa dell'isola e la forza di entrambi li teneva, aiutandoli. Nella notte, all'improvviso, rotolò il rombo di un tuono senza che vi fosse stata luce; un rumore sordo, che sembrava venire dalle viscere della terra più che dal cielo e che sembrò restare prigioniero dell'aria, ripetuto dagli echi. «I tuoi Dei non amano i temerari?» chiese Axal, spingendo il cavallo di nuovo in acqua; Larth strinse le ginocchia attorno al proprio e lo imitò. La fune si tese subito. Il vortice afferrò il celta e il suo cavallo, quasi travolgendoli: Larth pungolò il proprio e la bestia sbuffò, alzando il muso al di sopra della corrente, poi inarcando la schiena nello sforzo di arrivare a puntare gli zoccoli sul fondale. Larth venne strappato di sella dal movimento improvviso e non ci furono che acqua, fragore e oscurità da ogni lato. 16. La fune si tese, stringendogli il torace fino allo spasimo, ma lo tenne, e l'attimo dopo Larth risalì alla superficie e afferrando saldamente la cinghia si risollevò in groppa. Il cavallo scartò, la fune che lo univa all'altro si tese nuovamente; il celta sembrò sul punto di scomparire sott'acqua: in realtà si avvinghiò al collo del proprio cavallo lasciandogli libero il dorso, e l'animale nuotando uscì dal gorgo e giunse a mordere la riva sassosa con gli zoccoli. L'attimo dopo Axal era già a terra, libero dalla fune, e incitava il cavallo a tirare. Larth afferrò la sua mano tesa e lo raggiunse, liberandosi a sua volta. Per un istante restarono entrambi senza fiato, spalla contro spalla, lasciandosi coprire dalla pioggia scrosciante. «Il modo della tua gente di guadare i fiumi in piena non è facile», mormorò Larth, tastandosi i segni lasciati dalla corda sul torace.
«Non avevo detto che lo sarebbe stato», replicò Axal, mascherando il dolore delle cicatrici sulla schiena con un accenno di sorriso. «Sei ancora convinto che non ti abbia onorato come amico, rifiutando di ucciderti?» La domanda di Larth era stata brusca e improvvisa. Axal si staccò, girandosi a trattenere i cavalli, e porgendogli le briglie del suo. «La morte non è il peggiore dei mali per la mia gente, Larth. Se un giorno tu dovessi uccidermi, la tua mano sarà sempre quella dell'amico.» Rapidamente, salì in groppa. Larth esitò un istante, carezzando il collo del proprio cavallo, che adesso si era quietato e sbuffava appena, di nuovo impaziente di muoversi. Rapide immagini gli traversarono la mente, troppo lievi e troppo veloci, tuttavia, perché potesse raccoglierle o definirle. «Un tempo qualcuno mi ha detto che dovevo avere dei compagni con cui dividere la mia ombra», mormorò quindi, «e allora io non vedevo nessuno. Ora devo rendere grazie agli Dei per averti portato sul mio sentiero, dopo che già mi avevano concesso Mastarna.» Axal assentì. «I nostri Dei non sono gli stessi; io spero che sappiano quello che fanno.» Larth rise; il celta, sia per la difficoltà della lingua sia per sua inclinazione naturale, aveva spesso il potere di dire le cose più empie con assoluta innocenza. Si misero in cammino: salirono al colle per la stessa via che Larth aveva seguito ragazzo, guidato allora dall'intuizione, e adesso dal ricordo; furono costretti a evitare un posto di guardia rasna e infine lasciarono i cavalli legati nel folto e si inerpicarono a piedi per l'ultimo tratto. Nel buio assoluto era il celta a fare strada; Larth si sentiva distratto da pensieri che lo tormentavano e che non riusciva a chiarire. Aveva lasciato Tarchna e il Palazzo senza poter parlare davvero con Velvur e Caitli, e tutto quello che gli restava di Veltune, oltre alla vittoria politica, era la presenza di Thanaquil al suo fianco, il peso delle nozze non annunciate e una certa tristezza in Mastarna, tristezza della quale Larth si sentiva pesantemente responsabile. E poi c'era stata la notte con due lune. Quella strana notte piena di magia aveva portato le donne della Dea Turan a scendere fino al lago per immergersi otto volte nell'acqua e, a loro dire, aveva consacrato l'unione di due universi e plasmato uno stesso viso per l'Amore e la Morte. Le parole della Signora di Turan erano passate sulla folla che aveva in-
terrotto giochi, banchetti e discussioni per assistere all'evento; ma non aveva potuto, o saputo, dire altro, così ciascuno aveva tratto dalle parole il meglio che poteva, ed era rimasto a osservare il fenomeno sino a quando aveva cominciato a perdere d'intensità per poi scomparire del tutto, lasciando un'unica, diafana luna a svanire dietro i monti. Axal in quel momento si fermò e lo trattenne posandogli una mano sul petto. «Le case», gli mormorò indicandogli il bagliore di una lucerna, appena visibile nel velo fitto della pioggia e del fogliame smosso dal vento. Larth assentì, facendogli cenno di proseguire; Cneve aveva preso alloggio nella casa di uno dei consiglieri anziani di Numa, Luceres, attigua a quella del Re. Anche Kae Aivas aveva l'ordine di alloggiare lì, per essere vicino al Re; ma era stato Larth stesso a imporglielo, in modo che Cneve e Tese potessero sorvegliarlo. E adesso Tese era morto, ucciso a tradimento da un uomo di Ruma. Il pendio si stava facendo meno ripido, la vegetazione si diradava. Axal indicò a Larth un sentiero che portava ai recinti dietro le case, alle tettoie per il bestiame e alle capanne dei servi. Lo seguirono; nella prima parte era lo stesso sentiero che l'aveva portato ragazzo nella stalla del Re, ma poi una biforcazione conduceva alla casa di Luceres. Entrarono dalla stanza dei servi, insolitamente vuota; nella stanza attigua ardeva un lume e su un tavolo era composto il corpo di Tese: un odore greve impregnava l'aria, benché i profumi bruciassero lentamente nei tripodi di bronzo rasna disposti attorno al corpo. Larth fece cenno ad Axal di restare a sorvegliare la porta e avanzò fino al corpo. Il viso di Tese era scoperto: appariva tumefatto, quasi nero; il corpo era completamente racchiuso in una tebenna scura. Larth gli sfiorò la fronte con la punta delle dita. Tese gli aveva sempre obbedito, l'obbedienza cieca che si dà a un capo e non la ragionata complicità che si ha con un amico; ma era morto per lui, e questo contava. «Che cosa avresti potuto dirmi?» pensò Larth, coprendo con il palmo della mano l'opale sul petto e sentendo il calore corrergli tra le dita come un vento ardente. «Larth!» esclamò sommessamente Cneve giungendogli alle spalle; si girò appena, intimandogli di tacere, e lo trasse in disparte, verso la porta e l'aria fresca della notte. «Da dove sei venuto? E come? Ci sono i nostri soldati lungo tutto il sen-
tiero e al ponte! Perché non hanno dato l'allarme?» «Non potevano sentirmi. Sono venuto con Axal guadando il fiume e risalendo il colle dalla parte del bosco; è tempo che Numa abbia qualcosa su cui riflettere. Che cosa è accaduto a Tese?» Cneve scosse il capo. «L'abbiamo trovato morto davanti alla Casa del Re, con una spada latina nella schiena; Tese stava addosso a Kae Aivas come un'ombra. Che altro posso dirti? Quella sera Kae si è ritirato per primo e Tese l'ha fatto subito dopo. Non l'ho più visto vivo.» Larth non rispose; Cneve proseguì. «Mi dispiace, Larth. Forse abbiamo commesso qualche errore o ci sono state cose che non abbiamo saputo vedere.» Larth gli strinse una spalla, cercando di rassicurarlo: il dolore e la mortificazione nella voce del fratello erano non meno devastanti della morte sul viso di Tese. «Calmati. Ora vado da Numa, ma tu non uscire fintanto che non sentirai Mastarna davanti alla Casa del Re con gli uomini che abbiamo portato con noi. Ti lascio Axal.» «Che cosa vuoi fare?» lo trattenne Cneve. «Il Re dorme solo, ma nella sua casa ci sono Marcius e almeno una dozzina di uomini della sua Guardia: tutti suoi cugini o parenti.» «Non temere. Il Re non avrà tempo di chiamarli. Chi altro c'è qui?» «Nessuno. Ho fatto alloggiare altrove tutti i Latini delle case attorno a quella del Re e ho messo i nostri comandanti al loro posto; nella casa dall'altra parte della piazza adesso ci sono i Vibenna, e ho fatto trasferire là anche Kae, dicendo che non mi avresti perdonato se fosse successo qualcosa anche a lui. Qui sono solo.» Larth sorrise. «Bravo, fratello mio. Stai imparando l'arte del comando molto rapidamente, mi sembra. Comunque dovremo bruciare il corpo di Tese oggi stesso; poi dovremo riempire di zolfo i bracieri di questa casa, che va sigillata, e lasciarli bruciare, prima che questa aria malsana infetti tutto il villaggio. Portami una tebenna asciutta, adesso.» Cneve si affrettò a obbedire; gli portò una delle sue, che aveva lasciato nel tornare a Tarchna. Era nera e la fibula d'oro che la chiudeva sulla spalla portava i simboli del Re. Larth scambiò uno sguardo con Axal, che se ne stava vigile sulla soglia, e scivolò nel passaggio che divideva le due case. Si infilò nella Casa del Re passando da un porticato che costeggiava l'ala
delle donne e la cucina. Le porte erano chiuse e non c'era alcuna luce. Uno stretto passaggio e una ripida scala di legno di pochi gradini lo portarono alla stanza del Re. Un servo vi dormiva davanti: era un ragazzo troppo giovane per avere il sonno leggero, tuttavia Larth gli poggiò sulle labbra una mistura nerastra e non più grossa di un unghia che gli avrebbe portato un sonno pesante e denso di sogni. Il ragazzo l'accolse di buon grado con la punta della lingua, e Larth, scavalcandolo, si infilò nella stanza. Poi si richiuse la porta alle spalle. Un istante dopo Numa si sentì pungolare il collo dalla punta di una spada. Sulle prime, ancora incerto, tentò di allontanare il fastidio con un gesto della mano; si rese immediatamente conto tuttavia dell'oggetto che aveva toccato, e allora aprì di colpo gli occhi, e restò immobile. Solo un paio di lucerne rischiaravano la stanza, così sulle prime distinse soltanto l'ombra nera su di lui e lo scintillio vago della fibula d'oro con l'aquila dalle ali spiegate. «Sei un Re senza parola, Numa. Ti era stato detto: non toccherete arma.» «Tarquinio!» esclamò sommessamente, e l'opale riverberò all'improvviso la fiamma della lucerna, facendola tremare, come se un soffio d'aria giunto dal nulla l'avesse sfiorata. Numa si afferrò saldamente al suo giaciglio; le foglie del pagliericcio scricchiolarono, ma anche quel suono era all'improvviso ostile nel silenzio freddo che si irradiava dalla figura di Larth. Quel gelo scese a toccarlo scorrendo sulla lama della spada, e gli avvolse il collo. Grosse gocce di sudore gli caddero sul petto nudo; tuttavia non si mosse né abbassò lo sguardo. «Tu non puoi rimproverarmi una morte di cui non ho colpa!» protestò. «Tu sei il Re: il Re porta tutte le colpe della sua gente e paga per la sua gente. Non lo sai, questo?» «La tua tebenna è asciutta, e io non ho sentito uomini venire dal sentiero, né allarmi. Chi sei? Uno spirito?» «Tu mi hai chiamato con il mio nome, e sai chi sono. Ora sai anche che ti posso raggiungere come e quando voglio e che pagherai sempre per primo.» «Vuoi uccidermi?» «Non ho bisogno di ucciderti; non mi serve il tuo corpo quando ho già il tuo spirito: ricordalo.»
Numa scosse il capo; aprì la bocca per chiamare le sue guardie, ma la voce gli si smorzò, come se si fosse infranta contro il gelo della spada che gli mordeva il collo. Un fumo lieve si alzava adesso da una delle lucerne spargendo un profumo dolce e intenso, che Numa non aveva mai sentito e che riuscì a farlo tremare; fu come se davvero una parte della sua coscienza gli sfuggisse, per dirigersi poi verso un luogo lontano, non infelice né spaventata, ma non più sua, come una voce rimasta nell'aria o un ricordo senza più importanza. Chiuse gli occhi, sentendosi male e in preda al vomito. «Un giorno anche tu avrai paura, Tarquinio, di queste tue ombre», mormorò tra i denti. «Allora ci sarà chi raccoglierà la tua testa senza rimorsi!» «I tuoi Dei ti concedano di provare quello che tu auguri, Numa», ribatté Larth, soffocando la fiamma della lucerna in cui aveva versato dell'opion greco, una sostanza rara, il cui fumo rendeva più facile manipolare le menti. Sollevò con la punta della spada, senza toccarla, la stuoia che proteggeva l'unica apertura nella stanza. Un lieve chiarore illuminava il cielo a oriente; l'aria fresca e colma di pioggia penetrò all'interno dissolvendo il fumo. «Alzati, adesso», lo pungolò. «I soldati rasna stanno venendo. Vuoi riceverli nudo e con il vomito addosso?» «Rendimi quella parte di me che ti sei preso!» Larth sorrise, rinfoderando la spada. «Tu la vedi qui intorno?» Numa girò gli occhi su ogni punto della stanza; la sola lucerna rimasta riusciva appena a toccare le ombre e tuttavia il giorno stava nascendo, e il suo pallore era simile a quello di ogni altra alba che Numa aveva vissuto in quella stanza. «No», ammise. «Vedi? Non posso rendertela, e questo ti dia la misura di quanto tu debba essere attento. Io non ti chiedo di consegnarmi chi ha ucciso Tese e non ucciderò la tua gente per placare il suo spirito: tu l'hai placato con quella parte di te che adesso mi appartiene. E se un altro di noi verrà ucciso, tu pagherai ancora nello stesso modo, fintanto che qualcuno raccoglierà la tua testa che non avrà più la capacità di pensare.» Sorrise appena, lasciando che la minaccia avvolgesse il Re; poi aprì la porta e svegliò con uno strattone il servo. «Aiuta il tuo Re: lavalo e vestilo!» gli ordinò.
Il ragazzo lo guardò con l'aria trasognata, gli occhi ancora pieni di visioni, e si mosse adagio. Larth lo spinse verso il Re. Poco dopo, Numa uscì dalla sua stanza aiutato dal servo, mentre Marcius stava venendo a chiamarlo, preceduto dalla Guardia. Mastarna e gli uomini che avevano portato da Veltune erano nello spiazzo, e i Vibenna, Kae Aivas e Cneve gli erano usciti incontro, con i comandanti e gli uomini rasna di guardia al villaggio. Mastarna, tuttavia, non smontò. Nello spiazzo non c'era traccia di Larth e di Axal; il Re aveva l'aria di chi ha sofferto da poco di una malattia allo stomaco: le labbra erano violacee e gli occhi dilatati. Gli altri erano comprensibilmente tesi, aspettandosi il peggio. Mastarna incontrò gli occhi attenti e duri di Ancus, alle spalle del Re, e li sostenne, fingendo una tranquillità che era ben lontano dal possedere. «Ti saluto, Re Numa», disse infine, trattenendo la vivacità del cavallo mentre si chiedeva quando avrebbe rivisto Larth e quanto del piano che avevano concordato gli sarebbe toccato portare avanti. «Ti accolgo come un amico», mormorò Numa. «Un amico non disonora i patti. Il Tarquinio ti aveva detto: non toccherete arma.» Il Re mosse qualche passo, incerto, uscendo nella luce che stava dilagando; un lieve mormorio, subito trattenuto, passò tra i suoi che gli stavano attorno: sembrava di colpo invecchiato, pesante, diverso. Un paio di volte tentò di sollevare il viso, ma la luce lo disturbava, e sempre lo girò di scatto, tentando tuttavia con lo sguardo di frugare intorno come se stesse cercando qualcosa che gli altri non potevano vedere. «Già...» mormorò, stranito. «Il Tarquinio...» «Noi non siamo crudeli, e se lo spirito del morto è placato, anche noi lo siamo. La vendetta costruisce case fragili, che cadono al primo urto, e il Tarquinio non vuole che la tua gente sia toccata per questo. Però dovrete consegnare tutte le armi e, se avremo il sospetto che non siano tutte, entreremo nelle case a cercare quelle che avrete nascosto; quindi vi censiremo.» I Latini lo avevano capito quando parlava di armi, ma non lo avevano seguito oltre. Mastarna trattenne un gesto di impazienza. «La tua gente sa che cos'è un censimento, Re Numa?» Numa scosse il capo; Ancus si fece avanti, puntando minaccioso contro Mastarna. «So che cosa volete fare: volete contarci, dividerci e farci schiavi!» «Vogliamo contarvi e dare a ciascuno un compito e un posto adeguati alla posizione che ha e a quanto possiede. Questo è un censimento, ed è a
questo che serve.» «Noi non ci faremo contare e non prenderemo da voi i nostri compiti!» esclamò Ancus, il viso arrossato dal furore che gli faceva dimenticare la prudenza. Non si accorse di Larth che gli era uscito alle spalle, e sulle prime ben pochi altri se ne accorsero, perché la soglia era in ombra e Larth era vestito di nero, mentre il sole dilagante e i bagliori nelle pozzanghere e sui tetti lucidi per la pioggia notturna accendevano di splendore la sommità del colle. «Non hai che due vie, Ancus: sottometterti e giurare fedeltà sui tuoi Dei o morire qui e subito.» La voce di Larth per un istante immobilizzò Ancus e sorprese in egual misura tutti gli altri, persino Mastarna, che pure la aspettava. Ancus si girò quindi lentamente, calmandosi. Sul viso di Larth c'era un sorriso lieve, minaccioso. «Un giuramento?» mormorò Ancus. «È questo che vuoi?» «L'hai sentito.» Ancus mantenne il suo sguardo cupo. «Mi sottometto a te, Tarquinio», disse. Ma gli occhi, fissi e ostili, affermavano esattamente l'opposto. Numa, esausto, non osava neppure guardare la scena. «Fai portare qui le armi», ordinò con voce spezzata ad Ancus. «E che siano davvero tutte; e poi fai in modo che la nostra gente venga contata.» Girandosi per rientrare, si trovò davanti a Larth. «La mia Casa è tua», mormorò, con un gesto vago. «Lo so», rispose Larth, senza lasciare con lo sguardo Ancus, che per primo aveva abbandonato a terra la propria spada corta. Mastarna smontò rapidamente; i Vibenna e gli altri amici potevano alfine andargli incontro. «Questo potrebbe essere il momento per sorprenderci», pensò Larth. «Li abbiamo creduti e siamo già pronti a far festa; siamo distratti e quindi vulnerabili. Questo è un errore che non dovrà più accadere.» Ancus sembrò percepire di rimando gli stessi pensieri; per un attimo esitò, ma anche Numa avvertì la tensione del momento e lo fermò, posandogli una mano sul petto. «No, fratello mio», mormorò. «Il Tarquinio ha detto che farà grande questa città, e io gli credo; ma può farne un pugno di cenere, e io gli credo anche in questo. E ricorda che ti sei sottomesso.» Ancus passò oltre senza rispondergli. Numa alzò gli occhi su Larth: la disperazione che l'aveva invaso al suo apparire si era un poco quietata e gli
restavano uno stordimento lieve e una specie di debolezza. Gli sorrise vagamente evitando l'opale che, colpito in pieno dal sole, sembrava all'improvviso chiaro e trasparente come ghiaccio. Con un lieve cenno ad Axal che era rimasto nell'ombra a guardargli le spalle, Larth lasciò la Casa del Re per mischiarsi ai suoi uomini. Hasti, che per tutto il tempo aveva cercato di nascondere le lacrime, l'aveva aiutata a preparare i bagagli: due capaci sacche e due stipi per gli oggetti più preziosi. Non molto, soprattutto pensando che non ci sarebbe stato altro a ricordarle il suo Palazzo sulla sommità di Tarchna. Non era ancora partita e già le mancavano i suoni del vento dagli acroteri del tetto, e i giochi di ombre e di luci nei cortili, e la stanza dei Principi e il bosco della sua Dea. E già le mancava la vita, quella vita per cui era stata cresciuta e che adesso si era ritratta precipitosamente. Thanaquil sarebbe stata Regina. Sollevò gli occhi su Hasti, sorridendo, e abbracciandola. «Non piangere, nutrice», cercò di consolarla. «Tornerò, lo sai.» Hasti assentì, poggiandole una mano esperta sul ventre. «Io che ti ho cresciuta vorrei esserti vicina quando sarà il momento», sussurrò. «Là dove sto andando avrò chi mi potrà aiutare. E ci sarà Velvur con me. Lui mi ha fatta nascere e saprà far nascere anche la mia bambina. Ma tu sei la sola a saperlo, oltre a Thanaquil: dovrai tenere il segreto.» «Con la mia vita», mormorò la donna, così a bassa voce che era appena un sospiro tra le lacrime. Caitli la tenne un momento, consolandola; poi la lasciò a chiudere le sporte e uscì a incontrare il padre. I primi giorni del mese di hermi avevano riempito di un caldo prepotente le strette strade di Tarchna, e portato la mietitura nelle campagne intorno. Il Palazzo, con le aperture spalancate protette da freschi teli, era un'oasi di quiete nel frinire assordante delle cicale. Le stanze del Re, aperte a meridione, erano ombrate da teli scuri, e il Re era sdraiato sul clinai, godendo della frescura; un servo gli aveva portato dell'acqua aromatica, mentre il piccolo Vul, accoccolato sui gradini che portavano all'esterno, giocava con una spada di legno e la figura intagliata di un cavaliere. Caitli fece cenno al servo di uscire e ordinò a Vul di allontanarsi. Il bambino le obbedì di malavoglia.
Il Re le tese la mano e Caitli vi lasciò la propria. Per un lungo momento, Tarchon non parlò, sopraffatto dal disagio. La decisione della sua rinuncia e il desiderio di accompagnare Velvur all'Isola dei Fulmini per ricevere l'iniziazione non erano stati certamente inaspettati, e tuttavia adesso che era venuto il momento Tarchon si sentiva impreparato, non tanto a privarsi di lei, quanto a sottostare ai cambiamenti che la sua assenza dal Palazzo avrebbe portato. Gli Aruspici avevano tratto ottimi segni per quel ritiro e persino Velvur ne aveva decretato la necessità, una volta tanto concordando con Flasi Aivas. «Si sarebbe detto», aveva pensato Tarchon in quel momento, «che tutti e due vogliano tenerla lontana dal Palazzo, ma non di certo per lo stesso motivo.» Il Re le strinse forte la mano, tentando di ritrovare una certa compostezza; Caitli gli rivolse un tepido sorriso. C'era indubbiamente qualcosa di diverso, in lei; ma che cosa fosse, Tarchon non avrebbe saputo dirlo: una certa quiete svagata, forse; qualcosa di interiore, come una conoscenza segreta che la illuminava. «Quando tu sei nata», mormorò Tarchon, «tua madre è tornata a vivere. Aveva soltanto diciotto anni e tu eri la sua quarta creatura. Sarebbe morta con te, piuttosto che fallire di nuovo, e io l'amavo tanto che... che avrei accettato una Regina senza eredi, piuttosto che perderla...» Tarchon scosse il capo. Erano cose che aveva già detto molte volte e che tuttavia gli dava piacere dire ancora, perché così era più facile ricordare. «Poi alla tua nascita è accaduto il prodigio e la Dea Arthpa ti ha voluta per sé; la mia Casa è stata benedetta due volte. Adesso è giusto che io renda alla Dea ciò che mi ha dato; e tuttavia il Palazzo soffrirà per la tua assenza. Thanaquil ha detto che le pietre sanno piangere.» «È vero, se si hanno orecchie che sanno sentire.» Caitli gli sfiorò con mano leggera la fronte, ma il Re le prese il polso e le fermò la mano. «Non usare le tue medicine con me, non adesso», mormorò. Caitli si tirò indietro. «Partirò domani all'alba, per evitare la calura; ma se avrai bisogno di me quando sarò all'isola, Thanaquil saprà come chiamarmi.» Tarchon sorrise. «Da Ruma le notizie sono buone: il nostro Larth il Tarquinio, come lo chiamano, sta facendo grandi cose. I mari sono tranquilli, i confini sicuri e il raccolto è abbondante. Parti.»
Caitli chinò leggermente il capo. Il piccolo Vul stava facendo capolino tra i teli e il Re si distrasse a guardarlo. In silenzio, Caitli uscì dalla stanza; Laris ed Egene stavano venendo a discutere dei casi di giustizia: entrambi si inchinarono al suo passaggio, senza rivolgerle la parola, ma Caitli sentì all'improvviso una viva nostalgia per il tempo passato, gli anni e i giorni e i sogni, e tutta la sua vita chiusa in una manciata di tempo che era nulla al confronto con quanto a volte le era permesso vedere, e che tuttavia per lei era tutto. Un lieve senso di languore le afferrò lo stomaco, a ricordarle la piccola vita che cresceva e che la trasformava. Concepita nell'alba di una notte con due lune; non sapeva nient'altro, se non che l'avrebbe chiamata così: Thesan, alba. 17. Tese gli stava venendo incontro e il fuoco gli si allargava attorno, aprendosi per farlo passare; la capanna che li ospitava in uno dei Villaggi dei Fusori non sembrava diversa, ma stranamente non c'erano i ragazzi con cui dividevano le lezioni; quel fatto mise Larth a disagio, perché qualcosa non era come avrebbe dovuto essere, e lo tormentava non riuscire a comprendere cosa fosse. In effetti, Tese non era più un ragazzo; aveva il viso affilato e gli occhi pensosi dell'età adulta e appariva stanco e segnato dalla fatica, come se avesse percorso un lungo cammino per arrivare fin lì. Larth gli tese la mano invitandolo a sedersi e Tese sorrise appena, obbedendo. Tra loro le fiamme erano calde e vive. Un sogno. Quel pensiero sfiorò Larth come una carezza fredda, ma non turbò l'immagine, né la sensazione fisica di farvi parte. Sorrise di rimando a Tese. «Sono felice di vederti», disse, ed era sincero. Tese assentì; gli occhi erano ancora tristi e affaticati. Era sempre stato così: Tese si stancava prima di tutti gli altri, pur con l'impegno e l'entusiasmo che metteva in ogni impresa, e poi se ne risentiva, vergognandosene. Era stato per dimostrargli che poteva fare quanto facevano gli altri che Larth l'aveva scelto come compagno per andare a Ruma. «Kae Aivas era con te: perché non è venuto?» chiese Larth, senza respingere quell'improvviso sussulto di coscienza. Lo sguardo di Tese si volse in direzione di un angolo buio, lontano. «Non può venire. Ha paura. Lui e il latino Ancus hanno stretto un patto
per ucciderti. Aivas tenderà la trappola, e il latino ti ucciderà. Aivas vuole il trono di Tarchna, e Ancus quello di Ruma.» «Come fai a saperlo?» «Li ho sentiti. Ma adesso sono stanco: è stata una strada molto lunga.» Larth si chinò in avanti, cercando di toccarlo, ma Tese arretrò. «Fa troppo caldo qui, vicino al fuoco», mormorò, quasi a cercare una scusa, e si mosse verso l'angolo buio. La cresta del fuoco tremò. Larth aprì gli occhi. Dormiva supino; con una mano stringeva l'opale che giaceva sul suo petto nudo e con l'altra circondava la vita sottile della ragazza che quella notte gli aveva tenuto compagnia. Era una schiava sabina, una ragazza giovanissima, con lunghi capelli inanellati e seni piccoli, appena risvegliati all'amore. Adesso dormiva con il viso contro la sua spalla e il corpo nudo si disegnava chiaro nella luce dell'alba piena. Nell'aria c'era una immobilità strana, assoluta; Larth la percepì con un sussulto doloroso. Nessun uccello cantava; era quasi come se l'aria e la terra trattenessero il respiro, aspettando. Qualcosa stava per accadere. Larth ricordò la notte di Pyrgi e quell'altra terribile alba. Per un istante quel ricordo e il sogno si fusero in un unico sospiro. Con un brivido, Larth staccò le mani dall'opale e segnò con le dita il contorno del viso della ragazza. «Caitli», mormorò, come se fosse lei a essergli accanto anche fisicamente, e non quel giovane corpo di cui non avrebbe avuto memoria. La ragazza dischiuse le labbra cercandolo e Larth si sollevò a possederla ancora, sentendo il silenzio della terra e dell'aria salire, come l'onda di un mare senza voce. Riversò in lei la sua forza, facendole male. Non era Caitli. Non era nemmeno un sussurro, nell'oceano di silenzio che sembrava raccogliere un'altra forza segreta. La scossa sembrò arrivare dal profondo e spandersi come un'onda prima di raggiungere la superficie e far tremare ogni cosa. La ragazza gridò, inchiodata dal peso dell'uomo; Larth la lasciò, staccandosi. Il tremore passò e riprese nell'arco breve di un attimo: la ragazza scappò via mentre dall'esterno provenivano urla e tonfi. La casa sussultò, scossa da una forza invisibile; Anio, il servo di Ancus, comparve in quel momento sulla porta che la ragazza aveva lasciato spalancata. Per un istante restò immobile, valutando la situazione: il suo bersaglio giaceva indifeso nel letto, nudo... tranne che per l'opale sul petto. Ma Anio
si rifiutava di averne paura: la paura era per i vecchi deboli come il Re Numa o per i giovani come Marcius, e non per i guerrieri. Gli Dei avevano svegliato la terra offrendogli l'occasione di penetrare nella casa, e adesso gli consegnavano il nemico. Nello stesso istante tuttavia si rese conto che quel nemico non aveva paura e che lo sfidava a muoversi. All'improvviso terrorizzato, Anio sollevò quindi la spada corta, gettandosi in avanti con un urlo. Larth rotolò via dal letto e il pugnale con l'aquila di Tarchna sull'impugnatura volò a infiggersi nella schiena di Anio che crollò in ginocchio. Axal avanzò a sua volta dalla soglia, chiudendo la porta: il suo tiro era stato forte e preciso e Anio non si era nemmeno accorto di morire. Larth si sollevò a sedere, appoggiandosi al giaciglio; gli sembrava che il vivido sogno, l'amore con lo spirito di Caitli, il tremare della terra e l'assassino non fossero che gli anelli uniti di una catena che poteva scrutare, ma non possedere. Sollevò gli occhi su Axal, con un vago sorriso. «Come hai fatto a vederlo?» chiese al celta. «Il terremoto ha fatto scappare tutti fuori delle case ma, mentre gli altri fuggivano, lui aveva una meta.» Larth scosse il capo. «Che cosa farei senza di te, amico mio?» «Faresti mettere delle guardie alla tua casa e alla tua porta, come ogni Re», ribatté Axal con l'abituale franchezza. Larth rise; Mastarna gli aveva detto lo stesso, una volta. Ma le guardie potevano abbandonarlo, mentre un amico fedele restava a morire. «Ho sognato di Tese,» disse poi. «Uccidendo il servo fidato di Ancus forse tu hai vendicato la sua morte.» «Se questo ti placa, ne sono lieto», ribatté Axal, riprendendosi il pugnale. Larth sorrise, appoggiando la testa sul bordo del letto e chiudendo gli occhi. Il sogno gli stava ancora addosso, con una specie di malinconia; ma il Potere gli dava una sensazione esaltante di forza e di appagamento. Anche la terra si era mossa per lui, e fintanto che tante forze gli stavano attorno così vigili, i suoi nemici non avrebbero potuto colpirlo. «Caitli», pensò, sentendo ancora prepotente nella carne il peso del desiderio. Era davvero questo il prezzo? La rinuncia e il sacrificio? «Caitli!» mormorò.
«Tu hai scelto un'altra Regina», lo riscosse Axal, fissandolo; Larth si stupì dell'intensità del suo sguardo azzurro e di quella specie di rimprovero che non riusciva a capire né accettava di ricevere. «Io non potrò mai dimenticare Caitli, amico mio», ribatté quindi alzandosi e vestendosi. «Come puoi cancellare qualcosa che hai nel sangue se è il tuo sangue stesso?» «Forse gli Dei non danno tutto a un solo uomo per paura che diventi come loro», replicò il celta. Larth assentì appena, disturbato da quella verità così semplice. Axal afferrò il corpo del latino per le braccia. «Che cosa vuoi che ne faccia?» gli chiese. Larth lo sentì all'improvviso risentito e ne fu dispiaciuto. «È un servo di Ancus, quindi disponi perché sia riportato al suo padrone. E se Ancus vorrà sapere altro, dovrà venire a chiederlo a me.» Axal assentì, trascinando il corpo inanimato fuori della stanza. Larth raggiunse l'apertura che si affacciava sulla piazza: la gente vi si era riversata impaurita e i comandanti rasna avevano richiamato i soldati, temendo qualche rivolta. Mastarna però stava passando tra la gente e aveva al suo fianco Cneve e Marcius, e così la folla si rassicurava. Gli Aruspici che erano giunti con gli ingegneri e i Maestri stavano approntando un rito di ringraziamento nell'ara al centro della piazza, dove era stato tracciato il solco sacro. Il terremoto aveva fatto sospendere solo per poco le attività che animavano i dintorni. Dalla boscaglia tra i colli venivano i suoni delle asce al lavoro; le fucine erano già attive, i cantieri per il taglio delle pietre e la preparazione dei mattoni da essiccare non conoscevano pausa, e i Maestri delle acque stavano già tracciando il percorso del canale profondo che avrebbe risanato il suolo. Larth strinse il pugno. Come tanto tempo prima, sapeva che quella terra non poteva essergli nemica, e che quella città che stava facendo nascere sarebbe stata il cuore di una potente nazione. «La più potente nazione di tutto il tempo già segnato. E sarà questa nazione a disperderci, quando i nostri secoli saranno compiuti; come il vento disperde la polvere, sul finire dell'estate...» Il temporale imminente dava una luminosità livida al cielo gravido di nuvole scure. Correvano veloci, lasciando tuttavia libero lo sguardo, che da quel punto giungeva oltre il braccio di mare e fino alla costa dove, om-
breggiate dall'alto fumo che vi stagnava in permanenza, si intravedevano le fucine di Pupluna e i loro fuochi perenni; per contro, anche l'isola era avvolta in una spessa coltre di fumo - dovuta ad altre fucine poste a ridosso delle innumerevoli miniere di ferro - e quindi, pur avendo come nome Uva, era più spesso indicata come Aethalia, la Fumosa. Ed era proprio sull'isola, sul Monte di Tiv, coperto di fitti boschi alla base, ma tutto roccia e pietraie nere dalle pendici fino alla vetta, che la casta più alta degli Aruspici, i Trutnot, i Maestri dei Fulmini, avevano il loro Tempio e il loro rifugio di Tivrit. Caitli si fermò un momento a riprendere fiato. Non c'era più sentiero; la cengia rocciosa si inerpicava costeggiando pietraie che in primavera si facevano tappeti di viole e di ginestre, ma adesso erano spoglie e ostili. Era già molto in alto; la cima del monte tuttavia era avvolta dalle nuvole basse e ciò le impediva di scorgere la sua meta... e la bambina adesso pesava in lei per le sei lune già compiute. In effetti, il Consiglio dei Trutnot era stato incerto se permetterle di affrontare la prova o rimandarla dopo la nascita. Insha, la custode del Tivrit, le aveva consigliato con insistenza di non attendere, ma Velvur le aveva lasciato la decisione, pronto ad accettarla qualunque fosse. Caitli si strinse nel mantello, avvertendo la tensione del temporale che stava crescendo; lì, così in alto, poteva sentir scorrere l'energia tra la terra e il cielo e lasciarsi prendere dal fluttuare della materia inquieta. La bambina si mosse; Caitli posò una mano sul ventre, a quietarla, e la sentì distendersi. «Non avere paura, bambina mia», pensò. «In questo luogo niente può toccarci.» Sollevò gli occhi al cielo: le nuvole stavano aprendosi, bianche dove fino a un attimo prima erano state nere. Salendo, Caitli era giunta al punto più alto della dorsale: ancora pochi passi e sarebbe entrata nella nebbia. Tutto era all'improvviso nuovo e strano da quel punto: le pendici nere del monte, l'agglomerato del Tivrit così in basso da sembrare soltanto un accumulo di sassolini caduti dal pugno di un gigante, l'aria inebriante come un profumo segreto. Fu presa da una viva, prepotente nostalgia di Axal; non dell'uomo che l'aveva posseduta onorando un rito, ma del giovane che aveva imparato a conoscere nella stanza dei Principi; di quel giovane sapeva i pensieri, le paure, i sentimenti, le debolezze. Di quel giovane aveva tenerezza, e per lui aveva paura.
«Vorrei amarti», pensò. «Vorrei amarti adesso, come una donna ama il proprio uomo, e per consacrare soltanto noi stessi. «Ma è stata tessuta una rete, ed eravamo in tre.» Quel pensiero non suo la portò a coprire sul petto lo spazio di un opale che non c'era. Sorrise appena, sentendone il calore tra le dita, e si volse al muro di nebbia, entrandovi. Era buio, lì. Buio come all'improvviso può diventare il giorno durante un fatto eccezionale: anche il vento era cessato. L'umidità la ricoprì di goccioline che non erano ancora pioggia, ma uno stato incerto della materia. Vedeva a malapena dove stava appoggiando i piedi. Il freddo e la fatica non esistevano più e nemmeno il Tempo, il sopra o il sotto, il giorno prima o il giorno dopo. Sedette su una pietra, accoccolandosi nel mantello come in un guscio e lasciando che il suo occhio mentale, uscendo dal corpo, potesse vederla. Era libera, molto più di quanto lo fosse mai stata in tutta la sua esistenza; poteva, volendo, scorgere cose mai viste, così antiche o così future che appena riusciva a comprenderle, e tuttavia non le vedeva né antiche né future; il Tempo non fluiva più in alcun luogo: semplicemente stava, ed era lì che si trovava la sua essenza. «Che cosa vuoi?» La domanda non aveva una fonte, non era suono, non era altro che un tremore dello stare. «Nulla.» «Nulla?» «Felicità, forse.» «Forse?» «Tempo. Sì: tempo!» Si vide girare il viso, così lentamente che in ognuno dei frammenti di spazio toccati il suo viso restava per intero, immobile, vivo ed estraneo. Ogni frammento era un segreto, ogni segreto una chiave per i Dodici Libri, e prima di rendersene conto possedeva il segreto delle parole nella sua intima essenza. Possedeva l'invisibile legame che imprigionava nel segno tracciato la forza e il Potere: la magia di raccogliere nel simbolo e nel suono la morte e la vita, il passato e il futuro, la felicità ed il dolore, e di portarli come un dono, o una maledizione, agli altri uomini. Era davvero questo ciò che aveva chiesto? Tremò un poco, sentendo la vita in lei destarsi: sua figlia stava bevendo da lei quella coscienza. Sua figlia sapeva.
Caitli trasse un profondo respiro e aprì gli occhi; la nebbia si era dispersa, le nuvole si erano aperte. Sul mare in lontananza brillavano vividi squarci di azzurro; un sole enorme, scarlatto, scendeva a occidente correndo al tramonto. Alcune aquile volavano alte, lanciandosi verso le prede negli anfratti e nelle pietraie, le ali spiegate, e la accompagnarono per tutta la discesa sino al Tivrit. Velvur l'aveva attesa per tutto il tempo accanto all'altare annerito dai fulmini. La bufera aveva portato una spruzzata di neve fino al Tivrit e il luogo mistico dei Trutnot appariva insolito, avvolto dal velo scricchiolante del ghiaccio. I rifugi dei Sacerdoti erano scavati nella roccia a varie altezze, partendo dal fondo di una miniera esaurita di ferro a cielo aperto, ed erano uniti tra loro da scalette, passaggi e ponti che erano stati ricavati nella roccia viva e brillante - per lo più pirite - durante i secoli rasna. Al centro della stretta base si levava l'altare di pietra nera, e non c'era altro a turbare l'aspra solennità del luogo. Ogni gradino formava un anello che si allargava a mano a mano che saliva e a ogni livello c'era un tripode dove il fuoco bruciava in permanenza, e fumo usciva anche dagli sfiatatoi dei focolari di ciascun rifugio. Un rifugio più ampio, per ospitare i novizi, si trovava infine quasi sulla sommità, e da lì era già possibile scorgere la baia, lo stretto e tortuoso sentiero per giungervi e il villaggio di minatori e di pescatori nel piccolo porto. Un paio di navi, che facevano la spola con la terra ferma, vi avevano cercato riparo al mare grosso. Non c'era mai un numero costante di Trutnot nel Tivrit; a volte, secondo le stagioni o i tempi, potevano essere fino a un centinaio, altre volte soltanto poche decine. I rifugi si addentravano all'interno del monte, caldi e asciutti, e spesso si univano in una complicata rete di passaggi e di grotte profonde, dove venivano raccolte le provviste. In talune vivevano i servi, in altre studiavano i novizi. L'anziana Insha ne era la Custode; l'unica, in effetti, con l'obbligo di non allontanarsi dal suo posto. Era lei a regolare la vita del Tivrit, come una Regina saggia e se, in realtà, nessuno si accorgeva dei suoi ordini, la sua presenza al Tivrit era indispensabile. Era stata Insha a riconoscere a Velvur il titolo di Grande Trutnot; ma questo era accaduto ormai molto tempo prima, e da quel giorno Insha aveva cominciato a guardarsi attorno, spiando la nascita di un nuovo grande
iniziato. Senza alcun risultato, tuttavia, almeno fino a quando Velvur era venuto con l'Erede di Tarchna, alla quale Insha non aveva chiesto nulla, e della quale tuttavia sapeva tutto. Caitli aveva superato facilmente la prova: era una Trutnot, e il suo nome era stato inciso sull'altare. Ma c'era dell'altro. Insha lo sentiva; un Potere ancora più forte, che veniva dal suono di determinate parole oppure dalle lievi pause tra una parola e l'altra. Qualcosa che prendeva la mente come una melodia, e la teneva come un sogno. Un Potere segreto. Caitli si concesse un lungo respiro, per riprendere vigore. I dolori erano ancora distanziati tra loro, e non molto forti. C'era ancora tempo. La Custode era appena un'ombra vaga, nella luminosità incerta dell'ambiente: tuttavia si girò verso di lei, e, senza vederla in viso, Caitli seppe che stava sorridendo. «È presto, ancora», disse la donna. «Lo so.» Una corrente di calore la toccò, senza che in effetti nulla fosse mutato. Il rifugio che le era stato destinato era ampio e caldo, con tappeti dai colori vivaci e il focolare che ardeva nel centro lo illuminava bene. Gli arredi erano preziosi e il profumo che ardeva nel braciere era lieve, vagamente speziato. Un altro dolore, appena più acuto, e appena più lungo. «Axal...» Quel nome passò nella mente di Caitli con un brivido di sofferenza. Insha la raggiunse e le si sedette accanto. Per un istante l'anziana donna restò immobile, tesa, e Caitli sentì che stava raccogliendo un dolore molto più forte, e molto più profondo. «Axal morirà per colpa di Larth.» Caitli si morse le labbra. Un dolore fortissimo, all'improvviso, le aggredì il ventre. Istintivamente strinse la mano di Insha, che si era protesa e che l'aiutò a distendersi. «È ancora presto», insistette la donna. Caitli la fissò negli occhi. «Fai chiamare Velvur.» Era un ordine, e la Custode si girò a trasmetterlo alla serva che aspettava in un angolo. La donna si mosse subito, e per un istante il freddo e la luce del giorno irruppero dalla porta aperta. Caitli girò il viso per non vedere il
fuoco. «Axal e Larth: li amo entrambi, sia pure in modo diverso, ed entrambi mi amano, e amandomi si amano molto più di quanto sapranno mai riconoscere. È stata tessuta una rete, ed eravamo in tre. La rete non può essere spezzata. Larth deve saperlo, prima che sia troppo tardi...» «Vuoi parlarmi di questo straniero?» mormorò Insha, tenendole la mano. I dolori si susseguivano rapidi, adesso, e forti. Caitli sorrise, lasciando che il ricordo di Axal respingesse il presentimento. «Ha gli occhi azzurri, e una certa malinconia che deve essere della sua gente e che lo fa quieto, ma senza tristezza. È figlio di Re, ma nella sua terra ci sono soltanto villaggi e non hanno governi che sappiano unirli. Ciascuno riconosce soltanto la propria famiglia; sono dei temerari, e barbari, ma tra loro ci sono uomini sacri e uomini che sanno cantare la poesia e conoscono l'amore. I loro secoli contano soltanto trent'anni, e nessuno si aspetta di vivere molto di più. Ma lui non crede al destino, e prima di conoscerci non accettava la morte.» «Perché dici prima di conoscerci?» «L'abbiamo contaminato», ammise Caitli. «È uno schiavo del Phersu; rifiutandosi di morire, tutto quanto ha vissuto da quel momento non gli può appartenere!» «E questo è ciò che non ci perdona, mia buona Insha. È così difficile da comprendere?» «Tu lo comprendi?» Caitli assentì appena, trattenendo il dolore. Insha le sfiorò il ventre. «Tua figlia sarà bionda e pallida come suo padre. Non potrai mostrarla senza tradirti, a meno che tu non consacri anche lui alla Dea Athrpa...» «Non posso farlo. Non appartiene più al Re: è stato ceduto a Larth, e Larth non lo lascerà alla Dea.» «No», mormorò Insha. «Non lo farà mai.» Un lieve tremore freddo nell'aria calda distrasse Caitli: Velvur era entrato in quel momento, ancora circondato da un alone gelido. Per un istante, il Trutnot si attardò presso il fuoco, tendendovi le mani e facendo alzare alte le fiamme. «Siamo stati chiamati ad assistere a un buon evento, Insha», disse, avvicinandosi; poi posò la punta delle dita sulla fronte di Caitli, e la sentì forte. Non c'era davvero bisogno di lui, ma Caitli sapeva quanto fosse importante per Velvur assistere a quella nascita, e non voleva escluderlo.
«Non potrà mostrarla, questa bambina», stava dicendo Insha, liberandola con mani esperte dalle vesti, mentre si accertava, con un'occhiata, che le serve fossero pronte con l'acqua, gli oli e i panni. «Il suo aspetto straniero la tradirà.» «Ma questa bambina sarà madre di un Re, Insha», la corresse Velvur. «Sarà un dono d'amore», ribatté Caitli. «Il più grande che possa essere fatto a un uomo.» «A Larth», pensò; e poi guidò sua figlia a nascere, accettando che si separasse da lei. «Guarda, mia signora! Thesan ha gradito il nuovo latte!» esclamò Tura sorridendo e mostrandole la vescica vuota. La bambina era arrossata dallo sforzo di succhiare, ma sembrava sazia e soddisfatta. La giovane nutrice aveva munto personalmente la capra bianca scelta da Velvur per quella bisogna, e adesso l'animale pascolava lì accanto. Caitli sorrise, riprendendo la bambina nelle sue braccia e tenendola contro di sé. Era davvero quanto il suo nome diceva: l'aveva chiamata Thesan, consacrandola alla Dea dell'Alba che aveva benedetto il suo concepimento, e come l'alba era bianca; appena una peluria chiarissima le copriva il capo e gli occhi erano azzurri. Era uguale a suo padre e altrettanto bella. Il pomeriggio era già caldo: la primavera era precoce. Thesan si avviava a compiere due mesi: era ancora piccola e indifesa come una delle innumerevoli gemme sugli alberi, ma forse c'era un motivo per cui il latte di Caitli era finito così presto. «Non rattristarti, mia signora», mormorò Tura, sfiorandole una mano. «La bambina è contenta. Vedi? Dorme!» Caitli sorrise. Tura aveva compiuto da poco quattordici anni, ed era stata destinata a servire nel Tivrit da un voto dei suoi padroni; era una ragazza semplice e buona, e Caitli l'aveva scelta tra tutte le altre perché crescesse Thesan con altrettanta semplicità. Come tutti i pomeriggi da quando la primavera era tornata sull'Isola Fumosa avevano raggiunto un poggio appena oltre il Tivrit, tanto in alto da lasciar vedere la baia e il villaggio. C'erano alcuni alberi e un basso tappeto erboso, nuovo; i rovi stavano già fiorendo. Tura aveva disteso una coperta per Caitli e aveva legato a un albero la capra perché pascolasse nell'erba tenera. Adesso stavano nel sole, e il chiacchierio di Tura era piacevole come il ronzio delle prime api. Il Palazzo di Tarchna era lontano quanto un sogno vissuto in un'altra vi-
ta, e allo stesso tempo prepotentemente vicino. La nave entrata in porto al mattino non era quella consueta che veniva da Pupluna per il carico del ferro: il suo stendardo portava il ricamo dell'aquila con le ali spiegate di Tarchna. «Cattive notizie», mormorò Caitli, quietando Tura con un cenno. «Come puoi dirlo?» protestò la ragazza, e poi ricordò chi era la sua padrona e arrossì, confusa. «Perdonami, mia signora. Io non voglio che le cattive notizie ti tocchino.» «Le cattive notizie sono come la pioggia. Non puoi impedire che ti bagni quando cade e non hai un riparo», le rispose Caitli, tornando poi a dedicarsi alla bambina, che adesso dormiva contro il suo seno, i pugni stretti e il respiro tranquillo. Velvur stava venendo dal sentiero che scendeva al Tivrit; non si affrettava, anzi sembrava prendere la passeggiata come una buona occasione per respirare l'aria nuova. Non appena raggiunse le donne, Tura si allontanò per sciogliere la capra e portarla a pascolare più lontano. «Buona ragazza», osservò Velvur. «Sono felice della mia scelta», convenne Caitli. Il Grande Trutnot si chinò a guardare la bambina. «È pura, e la gioia di vivere scorre in lei come un torrente; sì, la tua scelta è stata felice. La bambina possiede già tutta la sua vitalità.» Caitli alzò gli occhi a guardarlo. «La nave in porto viene da Tarchna e le notizie non sono buone. È così, Grande Trutnot?» Velvur sospirò, carezzando con dita leggere la piccola testa bionda. «Anche un evento che può apparire cattivo può in realtà essere la necessaria fonte del mutamento. Dobbiamo tornare a Tarchna, Caitli. Subito. Tuo padre il Re sta morendo.» «Thanaquil non mi ha chiamata, e io non ho sentito l'evento! Perché, Velvur?» Il Grande Trutnot si risollevò, scuotendo appena il capo. «Dobbiamo prendere ciò che gli Dei ci mandano, Caitli; non possiamo vedere più di quanto ci è concesso, perché non saremmo capaci di portarne il peso. Io l'ho sentito stanotte ed è stato come il sopraggiungere di una gran tristezza, venuta a riempire il mio rifugio. Quando ho visto lo stendardo di quella nave, subito dopo l'alba, ho saputo. Partiamo domani, appena farà giorno.» Caitli assentì; la bambina si mosse, sbadigliando. Era ancora così picco-
la... una gemma fragile in una stagione incerta. 18. «Non dimenticare che tu appartieni a questo trono.» La voce antica di Velvur sembrava ancora imprigionata nell'aria. Immobile, Larth aspettava. I presagi del mattino erano stati incerti, con un vento forte che aveva portato nuvole chiare a distendersi lungo la dorsale dei monti, e un volo di falchi da oriente a meridione, che gli Aruspici avevano interpretato come una predestinazione del nuovo Re per i luoghi verso cui si dirigevano gli uccelli. Tutti gli Aruspici e i Sacerdoti lo avevano avvicinato, prima che la cerimonia avesse inizio: tutti, tranne l'unica che Larth avrebbe voluto incontrare da solo, almeno per un istante. Caitli. Se solo girava il capo poteva vedere due bambini giocare nell'ampio cortile inseguendo una striscia di sole tra le lettere che componevano il nome del Re. «Perché Velvur ci ha fatto questo?» Risentiva allora la voce angosciata del ragazzo costretto a partire e tenuto poi lontano, e che ancora cercava una giustificazione; e si rivedeva in quella stessa sala ad ascoltare suo padre e il Re per imparare da loro i segreti del governo e del potere. Ma, per contrasto, spiccava ancor più netta nella sua mente la felicità che in quel tempo aveva permeato le mura del Palazzo: quella gioia di vivere che Tarchon aveva attorno a sé e che era frutto del suo amore per la Regina. Thanaquil assomigliava davvero alla madre; lo stesso bellissimo corpo che nella sua fantasia di bambino aveva rappresentato la perfezione era adesso il prezzo per il trono, un prezzo reso ancor più alto dalla consapevolezza di dover condannare all'infelicità il suo amico più caro. «Axal ha ragione di dubitare degli Dei», pensò quindi, senza lasciare che nulla di quel pensiero potesse trasparire dal suo volto e dai suoi occhi. «Se gli Dei avessero a cuore la felicità di chi li segue non spezzerebbero così alla leggera quello che è legato.» Re Tarchon era stato portato a braccia fino allo scranno regale e adesso vi sedeva diritto; la malattia non gli aveva tolto quel certo modo di dominare i suoi nobili, né di tenere alta la testa; però gli aveva trasformato il
viso dandogli il colore della cenere, e il respiro era diventato affannoso. Gli occhi infossati tuttavia ebbero una specie di sorriso, posandosi su di lui, primo fra i nobili sul lato destro della lunga e stretta sala. Al suo fianco aveva Laris, Cneve ed Egene, e quindi i nobili di Tarchna, e Kae Aivas era tra i primi. In fronte, sul lato sinistro, primo tra i nobili ospiti di riguardo, Mastarna, che fingeva una dignitosa quiete. «Vi amo entrambi», erano state le sue parole, quando era venuto a rendergli omaggio prima della cerimonia. «E se così è scritto, sarò forte, e sarò fedele.» Larth distolse lo sguardo da lui, posandolo sui nobili venuti ad assistere all'evento e a onorarlo: Marce Vibenna e il figlio del Re di Velx, il Re Aucnus di Xaire, il Re Venthi di Faleri e il giovane Marcius, che avevano portato da Ruma in parte perché si guardasse attorno e potesse poi dire alla sua gente di tutte le cose viste che facevano grande la gente rasna, in parte per mostrarlo in giro, come tutte le prede ambite; un piccolo barbaro spaesato in una cerimonia troppo grande per lui, almeno a giudicare dall'espressione del suo viso. «Non era esattamente così che volevamo questo momento, quando ne parlavamo, amico mio», pensò Larth tornando con gli occhi su Mastarna e ricevendo in risposta uno sguardo in egual misura mascherato. Il corteo degli Aruspici stava entrando in quel momento, preceduto dai suonatori di doppio flauto. Il Grande Trutnot lo apriva vestendo i suoi abiti da cerimonia e portando la mitria e il lituo intarsiato d'oro. Masi Aivas lo seguiva, altrettanto splendente, e subito dopo venivano i portatori dei simboli del regno: lo scudo e l'ascia dalla doppia lama. Caitli li seguiva tra due ali di Aruspici, vestendo la tunica azzurra, oro e scarlatto dei Trutnot e portando l'alto bastone ricurvo, simbolo della consacrazione. Una emozione viva pervase la sala e si impossessò dei presenti. Per tutta la settimana che aveva preceduto il giorno fissato avevano temuto di perdere il Re prima che tutte le cerimonie fossero compiute. Poi, subito dopo l'arrivo di Caitli e Velvur dall'Isola Fumosa, il Re aveva risposto alle cure con un miglioramento repentino: le cerimonie potevano quindi seguire il corso stabilito, e quanto era sembrato nascere sotto cattivi presagi stava invece fluendo nel modo prescritto. Velvur era arrivato davanti al Re, spostandosi sulla destra, quasi al fianco di Larth, e Flasi Aivas aveva fatto altrettanto. Caitli si fermò invece davanti al padre; il primo portatore aveva deposto lo scudo ai suoi piedi, il secondo le stava porgendo l'ascia bipenne.
Per un istante nella sala ci fu una specie di brusio non umano; il vento tra gli acroteri suscitava quelle voci come ad accompagnare i gesti solenni. Il fuoco nei bracieri tremò, di riflesso; Caitli prese l'ascia con entrambe le mani e la porse a Thanaquil, che adesso le stava davanti, tesa, il bel viso serio e attento, e l'abito di porpora dell'Erede. «Con il privilegio della scelta, io rinuncio a ciò che mi appartiene per diritto di nascita; Thanaquil figlia di Tarchon e di Ramtha è l'Erede.» Caitli sentì la propria voce, come se le parole fossero uscite dalle labbra di un'altra persona. Fu in quel momento che scorse se stessa, bambina, in un angolo della sala: stava osservando l'evento, non vista, e ne era in un certo senso intimorita e un po' rattristata. Coloro che avrebbero dovuto gioire in realtà piangevano e il trono di Tarchna era vuoto. Turbata, Caitli strinse ancora più saldamente l'ascia, e la depose con un gesto misurato e composto nelle mani della sorella, guardandola fermamente negli occhi. Thanaquil parve quasi sopraffatta da quell'atteggiamento e, dopo un istante, abbassò i propri. «Una Regina non abbassa lo sguardo», rifletté Caitli. «Povera sorella, oggi non sarà un bel giorno per te.» Thanaquil strinse a sé l'ascia, portandola al petto e alla fronte; quindi la posò ai piedi del Re, accanto allo scudo, con i gesti rituali. Tarchon chinò il capo, accettando pubblicamente sia la rinuncia sia la manifesta consacrazione. Caitli provò un moto di sorpresa nel rendersi conto di quanto tutto era stato breve e semplice e vide, con rinnovata meraviglia, che gli occhi di suo padre avevano ritrovato vivacità e limpidezza. Quindi Tarchon era davvero contento, e sembrava anche forte e sereno, come da tempo non gli era più accaduto. «La mia diletta figlia», disse quindi ad alta voce a conferma del persistere del suo rango, tendendole la mano, «mi rassicura con la sua presenza. Il Palazzo sarà sempre la sua casa.» Caitli sfiorò appena con la punta delle dita la mano del padre, ma lo lasciò subito, per tornare da Velvur. Tarchon tese quindi la mano a Thanaquil e a Larth. Per un attimo, accanto ai due giovani, riuscì a distrarsi, portato via dal ricordo di quando Velvur aveva posto come celebrante la mano di Ramtha nella sua; ma era passato tanto, tanto tempo, e forse quel Tarchon che era stato Re e che era stato felice non esisteva più. «Tu sei Regina di Tarchna», disse con voce ferma, «e Larth è da adesso il tuo sposo. Domani, quando le nozze saranno consumate, Larth sarà il nuovo Re di Tarchna.»
La mano di Thanaquil vibrò nella sua, come se all'improvviso la stretta fosse troppo forte o troppo dolorosa da sostenere; non lo guardò, e Larth si sentì colpevole per qualcosa che non aveva ancora commesso. Velvur portò la consacrazione all'unione, coprendo l'uomo e la donna con il velo rituale; i flauti avevano preso a suonare e gli ospiti fluivano verso la sala dei banchetti adorna di ginestre. Aprendo il corteo con Thanaquil, Larth incontrò i piccoli occhi scuri di Vul e sentì concretamente la minaccia che vi si addensava. Al bambino era stato permesso di assistere al banchetto, ma scappò via non appena la festa ebbe inizio. Il Re sembrava aver ritrovato la voglia della compagnia e delle chiacchiere con Laris; era interessato al giovane latino, che tutti tentavano di interrogare più o meno seriamente fintanto che Cneve non interveniva a mitigare i giudizi o le richieste: parlava ad alta voce, descrivendo Ruma come il centro dei suoi progetti e chiamava Larth a rispondere di questo o di quello. Larth in un certo senso gliene era grato, perché così poteva dimenticarsi di Thanaquil, che era distesa sul suo stesso clinai. Mastarna era lontano, all'altra estremità della sala, e Larth si stupì un poco nel distinguere Caitli e Velvur con lui. A un certo punto, Larth si alzò, abbandonando la sala. Il pomeriggio era pieno, segnato dal vento ancora forte, e molti commensali si sgranchivano le gambe passeggiando lungo le logge e nel cortile principale: il banchetto, infatti, sarebbe durato fino all'indomani, in modo da poter festeggiare anche la sua salita al trono. A passi misurati, Larth raggiunse il passaggio della loggia da cui era possibile vedere il cortile delle cucine e si fermò, restando al riparo del muro; il cortile era tutto un brulicare di servi addetti al banchetto e agli ospiti, ma Axal se ne stava seduto su un gradino, assolutamente indifferente a quella confusione. Con l'indice tracciava nella polvere del suolo alcune lettere della scrittura rasna. Larth sorrise tra sé, preso da una lieve malinconia. «Il mio Principe è forse stanco delle cerimonie?» esclamò Flasi Aivas giungendogli alle spalle. Larth si girò appena. «C'è qualche motivo per cui devi parlarmi ora?» L'Aruspice si inchinò; il tono era stato troppo brusco perché potesse ignorarlo. «Capisco la tua impazienza, mio Principe. Ogni sposo ha soltanto un pensiero, il giorno delle sue nozze. Mi dispiace servirmi del tuo tempo, e tuttavia ciò che devo dirti è soltanto per te.»
«La tua lealtà mi lusinga, Aruspice di Tagete.» Il tono era assolutamente serio e la minaccia degli occhi smentiva il tono cortese e il lieve sorriso. «Tu hai dei nemici, mio Principe, da cui devi guardarti con molta attenzione», mormorò Flasi. «Chi non ne ha? Anche l'innocente appena nato può avere dei nemici.» «Vuoi seguirmi da Demestone il mercante?» Larth fece un breve cenno di assenso; Demestone era giunto il giorno prima, con la sua corte di schiavi e di mercanzie, e adesso certamente stava predisponendo quanto aveva di meglio in attesa della visita dei nobili in una delle tante pause del banchetto. Flasi gli si incamminò accanto e solo per un istante indugiò a sua volta con lo sguardo sulla figura china di Axal, lontano. Quel particolare disturbò Larth. «Demestone è stato ad Alalia», esordì Flasi Aivas, «e ovviamente ha cercato di sapere molto di più sul focese che l'anno scorso ha attentato alla vita del Re. Quell'uomo in realtà veniva da Velx, per ordine di Sevre il Re.» Larth si fermò a fronteggiarlo. «Un Re nostro alleato avrebbe pagato per l'assassinio? È questo che mi stai dicendo, Aivas?» «Pensaci, mio Principe: la conquista di Ruma è di Velx quanto nostra. Ma con il Re morto e tu costretto qui da un evento così grave, a chi passerebbe il vero governo di Ruma? Tu ti fidi dei Vibenna e di Mastarna, ma da solo tuo fratello Cneve non può nulla contro di loro, e così in breve tempo Ruma sarebbe interamente di Velx... forse con Mastarna come Re.» Larth tacque. Erano arrivati sulla soglia del padiglione dove il greco stava facendo disporre le merci e l'uomo si avvicinò immediatamente, inchinandosi, non appena li vide: la stanza era ancora spoglia perché le merci preziose che avrebbero acceso gli occhi dei ricchi nobili di Tarchna erano ancora nei loro imballi. I servi tuttavia stavano lavorando alacremente. «Lasciaci, Aivas», ordinò Larth, brusco. L'Aruspice si inchinò e abbandonò la stanza, non senza lanciare a Larth uno sguardo che esprimeva tutto il suo disappunto. «La tua Dea ti sia propizia, Principe», mormorò il greco. Larth sorrise appena e lo trasse in disparte. «Tu sei un temerario, greco. Qualunque altro luogo ti sarebbe stato più amico», mormorò Larth. «Si sono serviti di me, e in qualunque altro luogo io sarei stato morto.
Ma il Re mi ha creduto, e così ho l'obbligo di essere leale verso la sua Casa.» «Lealtà! Io vorrei essere altrettanto sicuro di te, greco.» L'uomo scosse lievemente il capo, puntando un dito contro l'opale che portava sulla tunica di porpora. «Tu sei un Mago, perché solo un Mago può dominare la pietra. È molto antica, e viene dai Deserti Senza Nome che solo i Primi di Babilonia hanno sfiorato, ma era una pietra morta prima che la bambina la toccasse, risvegliandola per te. Per te, Principe Larth: per nessun altro! Io ricordo quel momento come se fosse oggi; non potrei mentirti, nemmeno per salvarmi la vita.» Larth sfiorò l'opale. «Sì, credo a quello che dici», ammise. «Ma adesso parlami di quel focese.» «Il nobile Aivas ti avrà detto quello che ho scoperto: il focese aveva un buon motivo per volersi vendicare di Tarchna, poiché era il nipote del Re di Alalia che tu hai deposto quando l'isola è stata conquistata. Ho trovato amici mercanti che avevano garantito per lui: erano greci, di Mileto; il torto è stato mio: non ho considerato il loro attaccamento alla causa ionica. Tuttavia non è stato difficile convincerli a raccontarmi come gli fosse sembrato un buon affare fornire all'uomo l'occasione per la sua vendetta e al Re di Velx il braccio che cercava. Loro vanno regolarmente a Velx con le loro merci, così come io vengo a Tarchna.» «Sevre Re di Velx!» mormorò Larth; appena un sussurro che tuttavia apriva una voragine di incertezze. Un pensiero lo folgorò: «Mastarna... Mastarna poteva averlo saputo? Poteva far parte del piano che doveva portarlo a essere Re di Ruma?» Scosse il capo. Non voleva sottostare a quei dubbi: avrebbero dato la vittoria a Flasi Aivas portandogli via il fratello scelto, e quindi molto più prezioso e caro di quelli che venivano dal suo sangue. Il greco si avvicinò ancora, parlando così a bassa voce che Larth dovette chinarsi per sentirlo. «Ma i tuoi nemici non sono soltanto a Velx, mio Principe», mormorò Demestone. «I tuoi nemici sono qui, tra la gente rasna, nella tua stessa città... e nella tua casa. Io viaggio, tu lo sai... tocco quasi tutte le città della Lega... e l'espansione di Tarchna nelle terre dei Latini spaventa: temono l'alleanza di Tarchna con Velx, temono il potere che potrà venirne... E anche qui, in città, ho sentito criticare la tua ambizione; c'è un certo numero di uomini ricchi e prudenti che sta pensando che Tarchna dovrebbe abban-
donare la conquista, e ce ne sono altri convinti che Tarchna dovrebbe dominare da sola su Ruma. Tu sei inutilmente ambizioso per i primi e inspiegabilmente sottomesso a Velx per i secondi. Tra i primi ci sono tuo fratello Egene e forse tuo padre. Tuo fratello non ti ha perdonato di avergli preferito Cneve, che è il più giovane, e non certo il prediletto del nobile Laris.» «Il Grande Trutnot ha ragione, greco: sei pettegolo quanto le lavandaie nel cortile dell'acqua», commentò Larth. Gli occhietti di Demestone brillarono per un attimo, con un guizzo di divertimento. «Sarò grato ai tuoi Dei se il Grande Trutnot si terrà lontano dalle mie merci durante la vendita! Però io so ascoltare, proprio quanto lui, e posso dirti che hai ben pochi amici tra quanti domani si inchineranno al tuo trono.» «Sì, questo posso concedertelo. Sarai ricompensato se sarai leale, greco», disse Larth. Demestone chinò il capo; c'erano altre cose che avrebbe potuto dire, ma era ormai vecchio, e prudente, ed era stato sincero e leale. Quindi restò zitto. Larth tornò verso la sala del banchetto: Mastarna adesso era uscito nel cortile principale e si era fermato a parlare con Marce Vibenna; i servi già preparavano i grandi bracieri da accendere non appena fosse sceso il buio, e le danzatrici stavano arrivando, precedute dai suonatori di flauto e di barbiton e dalle suonatrici di crotali, che attiravano spettatori dalle varie ali del cortile. Si avvicinò a Mastarna, e al loro antico comandante. L'uomo accennò un sorriso, osservandolo con la stessa intensità di quando l'aveva valutato per la prima volta, nel porto di Pyrgi, e poi chinò il capo. «Non ho mai dubitato che ti avrei salutato come Re, Larth.» «Nemmeno io», ribatté Larth. Vibenna assentì, pensoso. «Temerarietà e prudenza: finché sarete assieme, non potranno vincervi, ma questo lo sanno anche i vostri nemici. Se fossi ancora il vostro comandante, vi direi di tenere le vele pronte e di ascoltare il vento. Ti auguro una notte felice, Larth», concluse, dirigendosi verso la folla che si assiepava all'arrivo del corteo danzante. Larth si voltò verso Mastarna, e per un brevissimo istante l'uno sostenne lo sguardo dell'altro senza bisogno di parole. Fu Mastarna ad abbassare per primo gli occhi.
«Tornerò a Ruma domani stesso, non appena finita la cerimonia; ci rivedremo a Veltune, tra poco più di una luna», lo informò Mastarna. «Porti qualcuno con te?» chiese Larth. «Solo la mia scorta.» «Partirà anche Cneve, con il giovane latino; potete fare la strada assieme.» «Certo; ho sentito che ci sono state incursioni sabine verso Xaire, per quanto mi sembri strano che i Sabini da soli si spingano a Xaire dall'interno. L'ha detto quel mercante greco arrivato ieri.» Mastarna lanciò un'occhiata interrogativa all'amico. «Demestone», concluse Larth. Mastarna assentì. «Lui, esatto», disse. «Ha detto anche dell'altro: che il focese che ha attentato al Re era un nipote del Re di Alalia, e che era stato assoldato da Sevre Re di Velx», soggiunse Larth. Mastarna tornò a fissarlo. «Con quale scopo?» chiese in tono che a Larth parve sorpreso. «Tenermi qui e lasciarti regnare su Ruma conquistata da Velx.» «Perché mi dici questo?» La voce di Mastarna non aveva tremato; Larth distolse lo sguardo, cercando tra le ombre che ormai andavano addensandosi una qualunque luce che lo portasse via da quella improvvisa paura. «Perché voglio sapere se è vero», mormorò. «Può darsi. Re Sevre è ambizioso, ma di certo non viene a raccontare a me i suoi progetti. Quando mi ha dato gli uomini per l'impresa di Ruma non l'ha fatto soltanto per accontentarmi: deve avere le sue mire, come tutti. Il potere fa fare strane cose, Larth, e io prego gli Dei perché tu non cada mai nella sua trappola. In quanto a me, io non faccio parte di alcun intrigo, e se qualche maledizione dovesse renderci nemici, lo saremo a viso aperto.» «Nemici...» mormorò Larth, sorridendo; quel pensiero era irreale quanto il balenare dei corpi delle danzatrici nelle mussole lievi delle loro vesti. Mastarna assentì. «Non starò a guardare il corteo di nozze; credo che andrò a cercare Axal e berremo una coppa in tuo onore. Gli Dei ti siano favorevoli, amico mio; non c'è nient'altro che ti possa dire, stasera.» E si allontanò subito, senza girarsi. Larth si mosse: era tempo di rientrare al banchetto, di partecipare all'ini-
zio della notte, e infine di aprire il corteo nuziale... Nella sala, la festa era al suo culmine, e così le danze. Caitli e Thanaquil stavano adesso vicine, parlando sottovoce, come se fossero complici in qualche rito segreto, e Thanaquil stava bevendo da una coppa di vetro e oro. Il vino era resinoso, denso, certamente ricco di spezie... adatte alla necessità. Caitli alzò gli occhi su di lui e gli sorrise, ma si alzò subito, e andò a riprendere il suo posto accanto a Velvur senza parlargli. Troppi occhi erano puntati su di loro. Il corteo di nozze si formò molto più tardi; il cortile principale era illuminato a giorno dai bracieri, ma il cielo si era coperto; il vento aveva cambiato direzione, portando il fumo a stagnare nelle logge e anche il profumo delle erbe che bruciavano si era fatto più acuto. Velvur e Caitli aprivano il corteo: l'uno era la massima autorità religiosa, e l'altra era la Sacerdotessa del Palazzo. Li precedevano i portatori di luci, che reggevano le lucerne di bronzo sui lunghi sostegni, e gli spargitori di profumo. Erano seguiti dai giovani e dagli amici, ma non dagli ospiti di riguardo né dagli anziani, perché la composizione del corteo doveva seguire disposizioni ben precise ed esprimere un esatto significato. La Sacerdotessa del Palazzo aprì la porta della stanza della Regina: la stanza era illuminata, calda e ricca di tappeti e tendaggi; le ancelle attendevano per preparare gli sposi e Hasti si inchinò. Dopo tanto tempo, la stanza sarebbe tornata a vivere: quella prima notte, poiché il trono veniva portato dalla Regina, doveva essere consumata lì. Il Re sarebbe nato soltanto con il nuovo giorno. Caitli rassicurò Hasti con un cenno, quindi si girò agli sposi e prese loro le mani portandosele al petto. Per un istante i loro cuori furono suoi: li sentì palpitare, entrambi ostili a quel momento e sperduti. «Il Palazzo vi accoglie», recitò tuttavia Caitli e la potenza di quelle parole penetrò nelle loro menti. «Sarete la carne delle sue mura e il respiro delle sue stanze. Vivrete della sua grandezza e non permetterete che venga abbattuto o conquistato, perché se lo farete anche voi sarete abbattuti e conquistati con lui. Generate questa notte un figlio per il Palazzo.» Le frasi rituali erano state pronunciate; le nozze avevano avuto la loro benedizione intima e solenne. Larth serbò impressa l'immagine del viso di Caitli che si allontanava e del corteo che tornava festoso alla sala del banchetto. Fu Velvur a chiudere la porta. Larth si concesse un lungo bagno, nella stanza attigua, ma mandò via le
ancelle che erano venute per servirlo, e si versò invece del vino. Non aveva praticamente toccato cibo in tutta la giornata, e adesso che su quell'ala del Palazzo era sceso il silenzio, si sentiva all'improvviso come un intruso, sorpreso in una stanza non sua. Era molto più tardi quando si decise a tornare nella stanza della Regina: Thanaquil era sola, e stava distesa sul letto, appena coperta da una mussola lieve. Una lucerna a molte bocche la illuminava, lasciando sul suo corpo mobili zone d'ombra. L'aria aveva un profumo lieve, di fiori appena sbocciati. Larth si fermò ai piedi del letto; Thanaquil restò immobile, le mani sul petto, le labbra chiuse. Nemmeno tutte le spezie e il vino del Palazzo sarebbero riusciti a farle dimenticare che non era lui l'uomo che voleva accanto. «Hai paura di me?» chiese Larth, sommesso. Thanaquil lo fissò; c'era un'ombra di sfida, nella luce dei suoi cupi occhi scuri. O forse era una sensazione di Larth, turbato da quel corpo che si fondeva con quello dei suoi ricordi? «Sì», fu la risposta. Appena un sospiro, che lo portò più vicino. La liberò della mussola e della cintura che la cingeva, e le si adagiò sopra. Tra loro restò soltanto l'opale e Larth lo sfilò lasciandolo da parte, come se fosse l'unica causa del suo malessere. «Molto tempo fa, in questa stessa stanza, dissi che eri brutta», commentò quindi sorridendo, mentre cercava da esperto i luoghi segreti del suo piacere. Tuttavia i suoi occhi restarono freddi e Thanaquil fu presa dallo sconforto. Non era che un'altra donna. Larth la prese con una certa arroganza, incurante, e quando la sentì respingerlo la prese di nuovo, con forza, mettendo fine alla sua lotta e imponendole il seme che il Palazzo reclamava. La lasciò subito dopo; una parvenza di luce schiariva il cielo, un volo di tordi spaventati strepitò tuffandosi dal tetto al cortile. Si versò una coppa di vino, e la sollevò al cielo, nel rituale gesto di offerta: l'Erede era stata posseduta, e colmata del suo seme. La Sacerdotessa del Palazzo sarebbe venuta al primo raggio di sole per raccogliere la prova dell'evento. Il Re era nato. Il sole sfolgorava in un cielo pulito, azzurro come un cristallo quando,
più tardi, Re Tarchon gli cedette lo scranno regale, e lo nominò Re e Successore; gli ospiti vennero a portargli i loro omaggi e le loro alleanze, i doni e gli auguri. Vennero infine accesi i fuochi sulle mura, intesi ad annunciare alla gente di Tarchna il nuovo Re. Le porte del Palazzo vennero quindi aperte per permettere al popolo di raccogliere cibo e vino al banchetto. Velvur, in piedi accanto al trono, gli strinse appena una spalla, in un gesto di protezione che solo il Grande Trutnot aveva il diritto di compiere. «I segni hanno detto che la tua Regina è feconda», gli mormorò in un orecchio. «E questo è un bene per Tarchna.» «Ne sono lieto», rispose Larth, senza scomporsi. Thanaquil al suo fianco era quieta e sorridente, e riusciva perfettamente a nascondere i suoi pensieri. «Prenditi questo frammento di tempo, Larth», ribatté Velvur, chinandosi a parlargli in modo che nessun altro potesse sentire. «Oggi sei il Re!» Larth abbozzò un sorriso, coprendo con la propria la mano del Trutnot che ancora gli riposava sulla spalla. «Sono sempre stato il Re», fu la semplice e orgogliosa risposta. 19. Le tavole del banchetto erano ancora imbandite per i viandanti e gli stranieri che si trovavano a passare per Tarchna, ma erano ormai trascorsi sette giorni, e Re Larth il Tarquinio li aveva spesi tutti in compagnia dei Maestri del regno, ascoltandoli per ore e ore. Aveva raccolto intorno a sé i consiglieri; aveva ascoltato le necessità, le opere e i bisbigli, aveva valutato gli uomini, e quello che ciascuno gli portava, non disdegnando di interrogare e di chiedere consiglio a Velvur, al Re Tarchon stesso e a Laris, che in qualità di alto magistrato e primo consigliere sapeva del regno molto più del Re. Ma non aveva più avuto né voluto tempo per nient'altro: non aveva più visitato la stanza della Regina, e talvolta nemmeno la propria. «Si ammalerà», pensò Caitli. «Continuando così, finirà per attirare la disarmonia tra il suo corpo e il suo spirito.» Distolse gli occhi dai primi versi del primo dei Dodici Libri di Tagete: il Sigillo del Potere. Colui che passa seminando
chiude il Potere dell'universo. Un pugno di terra feconda o una manciata di polvere nel vento; discernimento e passione hanno lo stesso vis e ambedue si corrompono nel mulino del Fato. Caitli conosceva da sempre quei libri profetici, tuttavia la sua capacità le apriva spiragli di conoscenza su abissi di vuoto, e in questo nessuno poteva aiutarla, nemmeno Velvur che la seguiva sul filo logico delle parole, ma non riusciva a possederne l'essenza. Alzò lo sguardo sulla soglia toccata dal sole che si affacciava sul cortile dell'altare alla Madre Dia, e all'improvviso lo vide. Se ne stava immobile a guardarla, sorridendo, all'apparenza appagato soltanto dal fatto di essere lì e di poterla vedere. Il cuore di Caitli si fermò per un istante, soffocato dalla gioia, e, in quello stesso istante, la giovane avvertì il compiersi dell'evento già segnato. Ora non erano più gli esecutori di un rito e tutto ciò che avrebbero fatto non sarebbe stato mediato da alcuna divinità: sarebbe ricaduto sull'uomo e sulla donna. Si alzò e lo raggiunse. Axal le circondò la vita e per un istante Caitli si oppose a quel gesto che li univa in una intimità insolita per loro. «Attento», mormorò. «Ci sono troppi occhi in questo Palazzo, e non ci sono amici.» «Allora avranno un buon motivo per guardare!» ribatté Axal, attirandola contro di sé e cingendola con entrambe le braccia. Caitli restò contro il suo petto, respirando il suo odore e la sua presenza. All'istante, le loro bocche si cercarono. «Entra», mormorò Caitli, staccandosi e sentendo il peso dello sguardo della spia. «Soltanto un bambino», pensò. «Vul: come sempre.» Axal la seguì nella stanza dei Principi senza lasciarla; si portarono accanto al focolare spento. Quella vicinanza così sperata e temuta li colmava di una gioia nuova e inattesa, difficile da trattenere. Accovacciata con Axal su quella pietra antica, Caitli si sentì all'improvviso fuori del tempo e padrona della felicità, e sapeva che non erano molti a poter dire altrettanto, in quello stesso momento, nel Palazzo. «La nostra bambina?» stava chiedendo Axal.
«La nostra bambina si chiama Thesan. Ha i tuoi occhi e come te è luminosa e porta a pensieri d'amore.» Axal sorrise al suo tono, pensando che si prendesse gioco di lui. «Davvero, Axal! La nostra bambina è bella e ha un grande Potere: i Re di Ruma le pagheranno il prezzo del futuro.» «Vivrà a Ruma?» chiese l'uomo un po' sorpreso. «Per qualche tempo, sì.» «Saprà chi è suo padre e sarà felice?» «Parlerò a Thesan di te e lei ti potrà vedere nel fuoco proprio come se tu fossi al suo fianco, a farla giocare sulle tue ginocchia e a vederla crescere.» «Ma sarà felice?» ripeté Axal. Caitli chiuse gli occhi. «Per un momento, forse. Come tutti.» Axal tacque: non voleva sapere null'altro, né vedere oltre il viso di lei. Caitli gli sfiorò la fronte, tentando di sorridere. «Non dovrei», pensò. «Per il suo bene, non dovrei. E tuttavia ci apparteniamo...» «Stasera, quando sarà buio e tardi abbastanza, vai da Hasti: lei ti porterà da me», mormorò alla fine. «Che cosa ti accadrebbe se venissi scoperto?» «Nulla: la Sacerdotessa del Palazzo non ha obblighi; e sono sempre la figlia del Re!» «Forse possono concederti degli amanti, ma non un vero legame con uno schiavo, e tantomeno con me. E Larth non ti concederà nemmeno quello, perché appartieni pur sempre a lui. Sarai la sua Regina per l'eternità, Caitli. Lo conosco: divido la sua ombra.» «E tuttavia devi guardarti da lui, Axal. Io...» Si interruppe, girando via il viso, perché non potesse vederla negli occhi. «È stata tessuta una rete, ed eravamo in tre...» osservò il celta, con una noncuranza che non sentiva davvero. Caitli lo zittì. Aveva visto la sua morte, ma la sua morte era l'ultima cosa cui voleva pensare in quel momento. «Tu non credi al destino, Axal, e i tuoi Dei non sono i nostri: quando accompagnerai Larth a Veltune avrai attorno la Foresta Sacra. È grande, e nessuno potrà mai seguirti, lì.» «Tu vuoi che fugga?» chiese Axal. «Io non voglio più accettare quello che è stato disposto. Non più... e non per te.» La voce di Caitli era triste ma ferma. Axal si tirò indietro. L'intensità di Caitli lo coglieva impreparato, rive-
landogli quanto si fosse già abituato a quella vita e quanto pericolosamente avessero inciso sul suo spirito la presenza di Larth e il suo attaccamento. «Non posso lasciarlo adesso che ha più bisogno di me», riuscì a sussurrare. «Allora diglielo, ti prego. Fa' in modo che lo sappia e che ti ami per questo più di quanto possa odiarti per qualunque altra cosa!» «Te?» mormorò Axal, sfiorandole le labbra. Caitli si sottrasse a quel gesto, alzandosi. La porta si aprì in quel momento, lasciando entrare Flasi Aivas, seguito da Velvur che aveva l'aria di essersi accodato all'ultimo momento e con un preciso intento, del tutto diverso da quello dell'Aruspice di Tagete. Caitli si voltò di scatto; lo sguardo dell'Aruspice era corso ad Axal e non celava del tutto la sorpresa di trovarli così lontani l'uno dall'altra. Si inchinò leggermente. «Perdonami, nobile Caitli, ma ho saputo che hai iniziato la consultazione dei Sacri Libri e non ho resistito alla tentazione di vedere con i miei occhi la potenza delle parole di Tagete.» «Il primo dei Dodici Libri è qui, ed è aperto. Puoi vederlo», rispose Caitli facendosi da parte. «Forse hai qualche incombenza da dare a questo schiavo? Posso attendere, se lo desideri», ribatté Aivas, senza muoversi. «Lui sta aspettando me», intervenne Velvur. «L'ho fatto chiamare per i nostri studi sulla sua terra. Vuoi vedere le mappe?» Axal si era alzato al suo cenno, ma per un istante Caitli pensò che non avrebbe accettato la scusa che Velvur gli offriva. Gli occhi del Trutnot lo incoraggiarono, e infine Axal si mosse. Aivas si avvicinò a guardare le mappe, mostrandosi interessato e ammirato nella misura prescritta dalle regole di comportamento tra Aruspici e Trutnot. Poi si accostò al Libro di Tagete e restò in deferente atteggiamento quel tanto che poteva bastare per giustificare la sua richiesta. Infine si staccò dal tavolo, e si inchinò. «Ti ringrazio, nobile Caitli. Il Re ha chiesto di te. Gli dirò che il tuo tempo è preso e che la tua giornata è lieta.» «Digli anche che deve concedersi riposo, e cibo.» E amore, pensò, ma non lo disse. Aivas si inchinò ancora, e quindi uscì. Velvur si girò a guardarla. «Il piccolo Vul ha le gambe sempre più lunghe», commentò sorridendo. «Ma non quanto i miei occhi e le mie orecchie.» Poi sorrise ad Axal.
«Io ho da fare; mi metterò in quell'angolo, e non vi sentirò se avete qualcosa da dirvi», continuò il Trutnot. «Non abbiamo niente da dirci», ribatté il celta. Velvur lo guardò incuriosito, poi guardò lei e infine sorrise per quella prudenza. «Allora vieni ad aiutarmi. Ci sono ancora cose che devo sapere per finire questa mappa. Come definite un'altura? Ard? È questo il termine?» Axal assentì, avvicinandosi. Caitli chiuse il Libro e restò semplicemente a guardarlo, godendo della sua presenza vera nella stessa aria che anche lei respirava. Era notte fonda quando Hasti lo guidò attraversando furtivamente il cortile delle donne e costeggiando la più esterna delle logge. Axal si issò facilmente fino all'apertura della stanza di Caitli e con un balzo fu all'interno; Hasti era già sparita, allontanandosi di corsa, e il cortile e la loggia erano silenziosi e quieti, immersi nella luce lunare. Caitli aveva acceso il fuoco. Nella stanza coronata d'ombra aleggiava un profumo lieve, e la porta era chiusa dall'interno dalla sua pesante sbarra di ferro. Distolse lo sguardo dalla cresta del fuoco e gli tese la mano. «La tua Dea del Destino e la mia Athrpa ci concedono questa notte. Axal, amore mio, se io potessi scegliere, vorrei che il sole non sorgesse.» «E condannare il mondo all'oscurità soltanto perché un uomo e una donna si amino?» ribatté Axal sollevandola contro di sé. «Non ti sembra troppo?» Rise, e Caitli gli serrò le braccia attorno al collo e rise con lui, lasciando scivolare via qualsiasi pensiero. Due settimane dopo le sue nozze, Larth guidò la caccia dei nobili nei boschi intorno a Tarchna; fu una grande battuta ai cervi e ai cinghiali. Axal aveva ripreso il posto al suo fianco e sul terreno di caccia, e nessuno dei nobili osò contestare il fatto che uno schiavo avesse il posto alla destra del Re, pur non portandogli la lancia né rendendogli i servigi di un servo. Al rientro a Tarchna, Larth offrì uno dei cervi in sacrificio, e lasciò metà del bottino perché fosse diviso tra i poveri com'era stabilito dall'antichissima Legge della città. Quel giorno stesso, scortato soltanto dalle sue guardie e da Axal, raggiunse la bottega dell'orafo Pava; era stata il suo rifugio, da bambino, e fino a quando Velvur l'aveva portato via da Tarchna. Il paziente orafo, di proprietà della Casa di Laris, aveva riempito le sue giornate con i racconti di luoghi lontani, visitati cercando le gemme più rare. Così la bottega per lui era stata un porto fantastico, popolato dai
gatti che l'orafo amava e accudiva, e di opere d'arte che non avevano uguale in alcuna città. La bottega non era mutata da come la ricordava, e il vecchio era ancora tanto in forze da lavorarvi. Si inchinò con un certo sforzo, confuso, non appena si rese conto che il Re era venuto da lui, anziché mandarlo a chiamare, come sarebbe stato giusto. Larth lasciò fuori la scorta e Axal ed entrò solo. Nella bottega la luce dorata e preziosa era ancora quella della sua infanzia; il lampo di un sorriso passò nei suoi occhi nello scorgere l'angolo in cui era solito sedere da ragazzo. «Non è stagione per i fichi, mio Re», mormorò Pava, scoprendo il suo sguardo. «Ma ho del formaggio di capra che ha conosciuto due lune, ed è squisito.» «Sì: assaggerò il tuo formaggio e berrò con te, se me lo permetti.» Il vecchio si inchinò profondamente e sparì nella stanza attigua, ritornandone subito con un canestro e una brocca di vino. Sedette a sua volta e lo osservò tagliare il formaggio, confuso che Larth lo onorasse a tal punto da servirlo. «Che cosa ho fatto per meritarmi tanto?» mormorò quindi, prendendo la focaccia e il formaggio, e il vino che il Re gli aveva versato. «Mi hai dato posti lontani da sognare e la voglia di raggiungerli, vecchio amico.» L'orafo chinò il capo. «C'è un posto nuovo. Per qualcuno è una terra di là dal mare, per altri... Il giorno non si divide dalla notte e il freddo non si riconosce dal caldo; ci sono fiori, e musica... e tanti gatti, credo. Sì, anche molti gatti, di tutti i colori, e qualche volta parlano.» Larth rise. «Che viaggio è questo?» «Un viaggio che farò presto. Io spero di trovarmi bene in quel luogo, perché dovrò restarci; ma non lavorerò più l'oro per sottometterlo ai capricci dei potenti e alle voglie delle donne.» «Questo tuo paese può attendere; le tue mani sono ancora troppo preziose qui», fu l'affettuosa risposta di Larth. Pava scosse il capo. «Ho vissuto bene, facendo ciò che amavo, e a mio modo sono stato libero; io prego Tinia perché ti conceda di poter dire altrettanto, quando la Dea del Fato avrà segnato il tuo ultimo giorno. E al bambino che veniva ad ascoltarmi posso soltanto dire questo: ricordati che nessun paese è grande come quello che ci portiamo dentro e che quello è anche l'unico che può
davvero appartenerci.» Larth posò la coppa vuota e si alzò, trattenendo Pava dal muoversi; fuori il cielo si era rabbuiato, e cadeva la pioggia. La scorta aveva cercato il riparo di una tettoia, mentre Axal non si era mosso ed era rimasto saldamente piantato a sbarrare l'ingresso. Due giorni prima della partenza per Veltune, Larth informò la Regina che doveva prepararsi ad accompagnarlo e stabilì la lista dei nobili che avrebbero fatto da scorta alla sua prima apparizione all'annuale raduno della Lega come Re. Dalla lista aveva però escluso Flasi Aivas, e non erano passate due ore che l'Aruspice di Tagete - il volto impietrito e le spalle rigide - si presentava, non convocato, nelle sue stanze. «Ho avuto la lista, mio Re», esordì. «Bene», commentò Larth con fare noncurante, «qualcosa forse non ti è chiaro?» «Leggo il nome di mio nipote Kae tra i primi, e sono lieto della tua attenzione per lui.» «È il più fedele tra i miei nobili», lo interruppe Larth. Aivas assentì, incerto, cogliendo una sfumatura di ironia che gli raggelò il sangue; non era quello che l'aveva portato lì, ovviamente. «C'è dell'altro?» «Mi hai escluso.» «È vero: ritengo la tua presenza più utile qui.» Aivas tacque per un istante. Si girò per andarsene, poi si fermò e sorrise appena. «Porterai con te il tuo schiavo celta?» «Che cosa conta uno schiavo?» chiese Larth, insospettito. «Nulla, è vero. Ma dovrai escludere anche la nobile Caitli, perché non ti disonori pubblicamente con lui.» La voce di Masi era gelida e ferma, ma non era difficile leggervi l'ira e il desiderio di vendetta. «Quello che dici potrebbe costarti molto caro, Aivas.» «Io sono l'Aruspice di Tagete, e non posso dire altro che la verità! Da quasi una luna, ormai, e quasi tutte le notti, il tuo schiavo attraversa il cortile delle donne ed entra nelle stanze della Sacerdotessa del Palazzo, venendone via poco prima dell'alba. Se non mi credi, controlla tu stesso: questa notte non sarà diversa dalle altre.» «Tuttavia ritengo la tua presenza utile qui, Aruspice di Tagete. Il Grande Trutnot mi accompagnerà a Veltune. Puoi andare.»
Aivas si inchinò, lasciando la stanza senza più ribattere, e Larth riuscì a sentire quasi fisicamente l'onda della sua collera, che la sua indifferenza ingigantiva. «Apparenze...» pensò. «La sua obbedienza e la mia indifferenza non sono che finzione; due facce imposte per mascherare il nostro furore.» Ordinò ai servi di accendere il fuoco e di portargli la cena e alle guardie alla sua porta di sbarrare l'accesso a chiunque. Nella stanza le ombre della sera si erano fatte pesanti e fredde: la pioggia che aveva cominciato nel pomeriggio come un'acquerugiola era diventata fitta e scrosciante e batteva contro l'alabastro prezioso che chiudeva l'alta apertura sul cortile. Da lì poteva vedere l'ala delle donne. Mangiò distrattamente, bevve un po' di vino; il fuoco si era fatto alto e luminoso e Larth vi sedette davanti, con la coppa piena in mano. Sapeva la causa del suo malessere: il Palazzo lo respingeva e Larth sentiva quel rifiuto come un tradimento che stava scavando un abisso mortale in lui... un tradimento come quello della sua Regina, la sua vera Regina, e di Axal. Non lo schiavo, ma l'amico. «Il falco bianco venuto da occidente...» mormorò. «Ha toccato me, allora, e ha toccato lei...» Il vino aveva un colore ambrato, invitante. Vuotò la seconda coppa e se ne versò un'altra, sollevandola un poco, in omaggio all'invisibile. L'aria tremò, piegando la cresta del fuoco; di rimando, qualcosa tremò nel Palazzo, come un sussulto profondo, un brivido lieve. Qualche suppellettile rotolò via, uno scalpiccio veloce passò allarmato nella loggia esterna, e poi null'altro. «Avrò un nuovo Palazzo, soltanto mio. A Ruma. E tu resterai vuoto come uno scrigno inutile, e sarà per colpa di Caitli. Thanaquil imparerà ad amarmi, e lei sarà la mia Regina.» Era giorno fatto quando passò la soglia della stanza dei Principi, chiudendosi il battente alle spalle e ordinando alla guardia che lo aveva accompagnato di non lasciar entrare nessuno, nemmeno il Grande Trutnot. Caitli era sola. Sedeva al tavolo dei Libri, e appena sollevò gli occhi a guardarlo. Lo stava aspettando. Per un istante, Larth sentì la propria collera mitigarsi, e sparire. Forse non era collera, era soltanto delusione. O paura.
«Devo parlarti», disse, senza muoversi oltre in quella stanza così colma di Potere, vero Potere. Caitli non si scompose, come se lui adesso non fosse il Re, e quello non fosse un ordine, ma una preghiera. «Ti ascolto», rispose, quieta, ma aveva negli occhi d'oro chiaro una piccola fiamma guizzante, che ardeva di tenerezza e di consolazione. Larth distolse lo sguardo. «Hai dato ai tuoi nemici dove colpirti, e colpirmi. Perché, Caitli?» Caitli si alzò, raggiungendolo, e all'improvviso Larth la vide diversa; adesso che sapeva che apparteneva ad Axal, qualcosa gli restava precluso, nascosto. «Sei soltanto tu che lo vuoi», mormorò Caitli, rispondendo anche al suo timore non espresso proprio come faceva da bambina, qualche volta divertendolo, qualche volta irritandolo. «Io, dici!» «Nessuno potrà biasimare il tuo schiavo o colpirti a causa sua, se lo doni alla Dea.» «Alla Dea?» Larth era sconcertato. «Entrambi siamo stati consacrati nella notte delle due lune. Non sarebbe giunto fino a me attraverso quel bosco se non fosse stato il volere della Dea; e se non fosse stata la notte di Beltane, una notte sacra per la sua gente, non avrebbe mai toccato quella che sapeva essere la tua Regina.» «La mia Regina!» esclamò Larth, ironico, posando una mano sul petto, per abitudine, a coprire l'opale, e provandone un dolore vivo, così forte che gli fece mancare il respiro. Caitli lo osservò soffrire senza muoversi. «Tu hai avuto un segno che non hai saputo leggere, Larth, perché non sei un Mago. Adesso sei il Re, ma ancora non sei un Mago. Anche se siamo soltanto in due a saperlo.» «Non lo donerò alla Dea», dichiarò Larth. «Allora giura che non alzerai mai la spada su di lui!» Caitli era a meno di un palmo e la mano di lui, aperta sull'opale, sprigionava calore come una fornace. «Io ho svegliato la pietra, Larth, e io posso farla tornare morta. Ma tu ami il potere più di qualunque altra cosa e non lo perderai per un giuramento.» Si fissarono per un istante e Larth si sentì in fiamme. «Non alzerò mai la spada su di lui. Lo giuro», mormorò, con voce gelida. «Ma nemmeno per lui», pensò. «E anche questo è un giuramento.»
Caitli ritrasse la mano e la chiuse sul proprio petto. Aveva gli occhi umidi e un improvviso dolore le oscurava il viso, ma Larth finse di non vedere quel mutamento e soprattutto finse di esserne del tutto indifferente. «Axal ti ama, Larth», mormorò Caitli. «Più di quanto ama la sua libertà, che sta sacrificando per te.» Larth arretrò alla porta. «Non verrai a Veltune», ordinò. «Re Tarchon ha bisogno di assistenza.» Caitli chinò il capo, in un assenso che non era sottomissione, e gli girò le spalle. Larth se ne andò senza aggiungere altro. Il corteo del Re si mosse poco dopo l'alba, il giorno seguente, preceduto dagli Aruspici e dalla Guardia. Il primo dei carri a due ruote, coperti, era quello del Re e della sua Regina, avvolta nel manto di lana color porpora e con i capelli stretti in una rete leggera d'oro e argento. A lato del carro cavalcava Axal, con la tebenna nera, il simbolo di Tarchna sulla fibula di bronzo, e la spada al fianco; nel secondo carro c'erano il Grande Trutnot e Laris; di seguito venivano i giovani, quindi i carri dei nobili e delle loro mogli, e poi ancora la Guardia. Era il corteo più grande che avesse lasciato Tarchna per Veltune da molto tempo. Flasi Aivas stava officiando i riti propiziatori nel cortile principale, all'apparenza interamente preso dalla sua funzione: il suono delle trombe ricurve si diffondeva dal Palazzo, allargandosi oltre le mura a espandersi nella piana. La pioggia, cessata nella notte, aveva portato nuova vita alla città, lavando i vicoli e le strade maestre, i tetti e le mura: adesso il cielo era chiaro e il sole era tiepido. La gente si assiepava ai due lati della strada non appena fuori della porta principale del Palazzo, levando grida augurali e acclamando. Thanaquil sorrise, sporgendosi ad accettare l'omaggio. Le era facile farsi amare. «A Ruma», pensò Larth. «Le sarà anche più facile.» Larth si girò soltanto una volta a guardare il Palazzo e la chimera sul portale che, allontanandosi, rimpiccioliva. 20. Era buio da poco e una traccia di luminosità grigia persisteva nel cielo
d'occidente; a oriente si ammassavano le nuvole e sul villaggio, serrato da ogni lato dalla foresta, premeva già la notte. L'odore acuto della legna bagnata impregnava l'aria fradicia di pioggia. Marcius si affacciò sulla soglia. Da lì non poteva vedere molto: il villaggio non aveva che una decina di case addossate le une alle altre e bassi recinti per i cavalli, tuttavia già non riusciva più a distinguerli. «Vieni!» Cneve lo richiamò al fuoco, dove il profumo della carne arrostita si stava facendo invitante. Al mattino, prima che la pioggia li costringesse a riparare nel villaggio, avevano cacciato alcune lepri che sarebbero bastate per una cena frugale. Marcius obbedì incerto. Mastarna, dall'altra parte del fuoco, lo guardò dubbioso. «Qualcosa non va?» chiese. Marcius tentò una specie di sorriso. «Niente», protestò. Raggiunse il fuoco e sedette, all'improvviso impacciato. Nel villaggio non c'erano più di una quindicina di uomini validi; erano tagliatori di pietra, proprietà del Re di Vei, e l'andirivieni sempre più frequente sull'ampia strada che scendeva verso le terre dei Latini li aveva bruscamente sottratti all'isolamento cui erano abituati. Sebbene fossero piuttosto ostili alla gente delle altre città della Lega - e non si curavano di nasconderlo -, avevano offerto loro una capanna dal tetto di paglia, il cui suolo di pietra rialzata aveva l'innegabile pregio di essere asciutto. Il focolare, nel centro, aveva ospitato presto un buon fuoco, e il capo del villaggio aveva portato personalmente un cesto di corbezzoli come gesto d'ospitalità e Mastarna l'aveva ricambiato con alcuni doni. Dei venti uomini di scorta, cinque erano fuori di guardia e gli altri dividevano con loro il riparo. Un soppalco con un mucchio di fieno rendeva la capanna abbastanza grande per tutti, e adesso il vociare era tanto alto da coprire lo scroscio della pioggia. Di nuovo Marcius si distrasse a guardare la macchia scura della soglia e questa volta, girando lo sguardo, si trovò addosso gli occhi verde chiaro di Mastarna. «Si direbbe che in questa notte ci sia qualcosa che ti dà pena», osservò. Marcius si sentì esposto, vulnerabile: in fondo si trovava bene con quegli uomini che lo trattavano come uno di loro e che non gli rinfacciavano la sua condizione di prigioniero. Tacere gli sembrava quasi un tradimento. Ma lui era di Ruma, ed era figlio di Re: parlando, avrebbe tradito la sua gente, e se stesso.
Temeva il Tarquinio, e i suoi occhi che non sorridevano; ma con Mastarna aveva la sensazione di poter comunque parlare e con Cneve aveva scoperto molte più affinità di quante ne aveva trovate tra i suoi compagni. E tuttavia Mastarna lo aveva umiliato, e lui aveva fatto una promessa, la notte che Ruma era caduta nelle mani dei conquistatori rasna. «Mi manca... la corte di Tarchna», mentì Marcius. «Io credo di essermi abituato troppo presto alle luci, alle musiche, e ai letti morbidi.» «E alle belle donne», intervenne Cneve. Marcius cercò scampo guardando altrove; qualcuno tra gli uomini della scorta rise. «Non vergognarti, figliolo», lo ammonì Tefrie, Maestro d'Armi di Tarchna, che tornava a Ruma con loro. «Una bella donna non ha mai fatto male a nessuno.» «Io direi che qualcuna gli ha preso il cuore e tutto il resto. Insegniamogli qualcos'altro, adesso», esclamò uno degli uomini della Guardia dal soppalco. «Mandacelo su, Mastarna!» gridò un altro, alzando un coro di approvazioni. «Basta», intervenne Mastarna. «Lasciatelo stare.» Marcius alzò lo sguardo e incontrò una specie di sorriso al fondo di occhi che sapeva duri, e che tuttavia non erano mai privi di pietà. «Quest'uomo mi ha umiliato», pensò ancora. «Hai visto una delle nostre città più belle e più ricche, e di certo il nostro modo di vita ti sarà sembrato insolito e quasi uno spreco», stava dicendo Mastarna. «Ma noi siamo un popolo antico, e quando un popolo ha molti giorni e comincia a farsi domande cui è difficile trovare risposte, il lusso gli diventa necessario e la corruzione gli si annida nelle carni. Tuttavia non dimenticare che ogni popolo ha la sua anima, e che la nostra è molto forte.» «Sì, come le vostre magie! Ma non siete una nazione. Potete chiamare i fulmini e mutare le apparenze delle cose, ma siete divisi: ognuna delle vostre città è un regno chiuso, dove le alleanze si pesano con i metalli e i commerci, e dove l'ultimo pensiero è l'unione», replicò Marcius, infervorandosi. «E tuttavia siamo tanto forti da riconoscerci nazione, quando occorre. Chi ti ha parlato di queste cose?» «Ho sentito quello che si diceva nel Palazzo di Tarchna. Non è per questo che mi hai portato? Perché sentissi e vedessi il potere rasna?»
Mastarna sorrise appena. L'irruenza di quel giovane latino cominciava a dargli fastidio; in effetti rimpiangeva il tempo in cui a dividere il fuoco di un campo o una pausa d'attesa c'era soltanto Larth. «Se comincio a rimpiangere il passato, vuol dire che sto proprio diventando vecchio», pensò. L'urlo arrivò in quel momento. Uno degli uomini di guardia precipitò sulla soglia con una lancia infissa nella schiena. In quello stesso istante le prime fiamme divamparono all'interno del tetto di paglia, dove una freccia si era conficcata in profondità. Uno degli uomini la tirò via con un colpo di spada, ma il soppalco si era già riempito di un fumo così denso da togliere il respiro. Mastarna, Cneve e Tefrie avevano già le armi in pugno. «Bada a lui!» Mastarna ordinò a Tefrie, guadagnando la soglia e scavalcando la guardia caduta. La notte si era riempita di urla e le case erano in fiamme; ombre indistinte a piedi e a cavallo, più simili a demoni infernali che a uomini nel velario fitto della pioggia, passavano urlando e brandendo la corta spada, che abbattevano su tutto ciò che si muoveva. Mastarna si precipitò in avanti a proteggere un bambino, parando con la propria lama quella che si era abbassata a colpirlo. L'assalitore, impreparato a reggere l'impatto con l'improvviso ostacolo, cacciò un urlo di rabbia. La spada gli saltò via di mano e Mastarna gli infisse la propria nel petto. Tutti i suoi uomini erano fuori, adesso, a fronteggiare l'attacco, ma nel buio e nella pioggia era quasi impossibile riconoscersi: per orientarsi, i soldati si potevano affidare solo alle voci dei compagni o all'urlo di qualche donna, oppure seguire il rumore delle spade. Dai nitriti che si alzavano nella notte, Mastarna comprese che gli assalitori avevano aperto i recinti dei cavalli. Poi intravide Cneve, sporco di sangue, che correva verso di lui. «Ai recinti!» gli ordinò. «Non ho più visto né Tefrie né Marcius», gli gridò Cneve seguendolo. Gli uomini a cavallo piombarono su di loro in quel momento, uscendo dal buio di un recinto nascosto da uno spuntone roccioso. Cneve fece un salto di lato, appiattendosi alla roccia, ma Mastarna non si tirò indietro. Per un istante la sua spada, alzandosi, catturò il riflesso di luce di un incendio morente e si abbatté sul primo dei cavalieri, tirandolo giù di sella e finendolo con un colpo secco. Cneve saltò in avanti, affrontando il secondo, ma altri stavano venendo e
uno calò su Mastarna da dietro. «Attento!» gli urlò Cneve, disarcionando il suo avversario, ma perdendo così secondi preziosi. Mastarna riuscì appena a girarsi: il colpo violento lo prese di piatto alla spalla. Cneve, finalmente libero, si precipitò in avanti ad affondare la propria spada nel petto del cavaliere che, per colpire Mastarna, si era scoperto; poi si tuffò a terra, sul corpo di Mastarna, e fingendosi morto lasciò che tutti gli assalitori passassero oltre. Calò il silenzio, rotto soltanto dal rombo sordo degli zoccoli sulle pietre e da un singhiozzo di donna, distante, nel buio. Cneve si tirò su lentamente; era ferito a un braccio, ma era poca cosa, e l'altro sangue non era suo. Tefrie stava venendo con una torcia e il giovane latino lo seguiva con sei o sette uomini. Tefrie si inginocchiò a guardare Mastarna, che aveva gli occhi chiusi e la bocca contratta; la spalla e il lato destro del viso erano coperti di sangue, che la pioggia lavava via senza contenerlo. «Portiamolo all'asciutto nella capanna», ordinò il Maestro d'Armi. «Cneve, raccogli tutti i nostri uomini e la gente del villaggio, se è rimasto qualcuno...» Il vecchio alzò lo sguardo al latino. «Coraggio, ragazzo, dammi una mano.» Marcius lo fissò, troppo spaventato per muoversi. «Chi erano?» domandò Cneve. «Sabini, forse», gridò qualcuno. «Siamo nel territorio di Vei! Perché dovrebbero rischiare così all'interno della terra rasna?» «O Latini...» intervenne Tefrie. Marcius guardò altrove. Cneve lo afferrò bruscamente per il davanti della tunica. Era l'unico ad averla intatta, per quanto fradicia. «Tu li avevi visti o sentiti!» lo aggredì. «Tu lo sapevi!» Tefrie afferrò saldamente il polso di Cneve. «Lascialo, Principe», disse, usando l'appellativo nobiliare perché fosse ben evidente la gravità del gesto che Cneve stava osando. «Anche se li avesse davvero sentiti, o visti, che cosa poteva fare? È la sua gente; noi siamo il nemico.» Cneve lasciò la presa, scuotendo il capo. Poi si girò e corse via ordinando agli uomini di seguirlo. Rimasero due soldati che aiutarono Tefrie a
portare il ferito nella capanna e riaccesero il fuoco. Mastarna aprì gli occhi quando Tefrie cominciò a lavare la ferita; la lama aveva strisciato sul capo e lì era poco più di un graffio, ma poi si era infissa profondamente nella spalla. «Sei fortunato», mormorò il Maestro d'Armi, ammiccando. «O forse la Dea Athrpa è più benevola con te che con altri: appena due dita più in là e ti avrebbe tagliato la gola.» Mastarna tentò un sorriso, spostando lo sguardo su Marcius. «Li avevi sentiti?» La domanda era diretta, senza possibilità di scampo. Il giovane latino fece un passo indietro. «Stamattina, quando gli uomini si sono dispersi a cacciare le lepri. Ma non ero sicuro.» Tefrie assentì cupamente. «Così non sapevi nemmeno se erano Latini o Sabini», commentò. «Forse erano entrambi», propose timidamente Marcius. «Latini e Sabini assieme», convenne Mastarna, e poi si lasciò sfuggire un gemito quando Tefrie premette sulla spalla per fermare il sangue. Cneve entrò in quel momento; lo seguiva una ragazzina sui dieci anni che si trascinava appresso due marmocchi in lacrime, sui due o tre anni. «Non ci sono altri abitanti del villaggio vivi; hanno portato via tutti i cavalli, compresi i nostri, e ucciso gli animali, tranne due capre. Noi siamo rimasti in dodici, con quattro feriti.» «Ci muoveremo per Ruma domani, ma dovremo vigilare perché potrebbero attaccarci un'altra volta. Fai raccogliere tutti i nostri morti e quelli del villaggio, bruciali e sacrifica una delle capre agli Dei per loro. L'altra capra è per i bambini», ordinò Mastarna. «Che ne facciamo di loro?» ribatté Cneve, posando un ginocchio a terra, esausto. «Li portiamo con noi.» «Potremmo andare a Vei; è più vicina», propose Cneve. «No. Andiamo a Ruma. Latini e Sabini assieme, Cneve, pensaci: un'alleanza che potrebbe sottrarre Ruma al nostro dominio prima che ce ne accorgiamo. Dobbiamo essere là al più presto.» Cneve restò zitto. Il tono di Mastarna non ammetteva repliche. «Porta anche lui a bruciare i morti», aggiunse Mastarna accennando a Marcius. Cneve afferrò bruscamente il ragazzo per una spalla. «Non hai sentito?» esclamò spingendolo fuori. Marcius si irrigidì.
«Non ti ho tradito, se è questo che pensi!» urlò il giovane latino. «Potevi farlo e l'hai fatto. Come ha detto Tefrie, io sono il nemico. Credere il contrario è stato un mio errore, e non accadrà più.» La risposta di Cneve colpì Marcius come una frustata. Cneve quindi lo spinse avanti, poggiandogli la punta fredda della sua spada ancora sporca di sangue sulla schiena. L'alba si levò su un cielo grigio; la pioggia era finita, ma restava nell'aria un'umidità pesante e fredda, greve dell'odore dei corpi che si consumavano nella pira. Gli assalitori invece giacevano dov'erano caduti. Agli occhi esperti di Tefrie era stato subito evidente che quei soldati non erano semplici predoni in cerca di bottino, ma Latini e Sabini, uniti in un'alleanza certo insolita ma che li aveva resi bene armati, oltreché temerari. Dopo aver adagiato Mastarna in una delle barelle che avevano preparato con rami e coperte, furono pronti a muoversi. A Marcius fu dato il compito di portare in braccio i due piccoli, mentre la ragazzina badava alla capra. Cneve si inginocchiò ancora una volta accanto a Mastarna, prima che lo sollevassero. «Mandiamo un messaggero a Tarchna, ad avvisare Larth!» suggerì. Mastarna lo quietò. «No», disse, fermo. «È il suo primo mese di regno. Lasciamogli un po' di tempo.» Girò il viso, trattenendo il dolore; Tefrie aveva fatto del suo meglio, e gli aveva stretto il braccio e la spalla in una fasciatura che, comprimendoli, impediva alla ferita di sanguinare. Mastarna tuttavia era in preda a una strana sensazione, come se la vita gli stesse sfuggendo. «E forse è giusto così...» si sorprese a pensare. Ore e ore di cammino gli portarono un progressivo intorpidimento: la mente gli si annebbiò e non sentiva più il dolore nemmeno se uno degli uomini, incespicando, piegava di colpo la barella o la faceva pericolosamente oscillare. Il cielo si era fatto più chiaro; qui e là un barlume di sole splendeva sulle foglie nuove e sui rami grondanti. Stavano attraversando una macchia fitta di mirti e ligustri profumati, e l'aria ne era satura. I bambini si erano addormentati e Mastarna vedeva il capo di uno, il più piccolo, ciondolare sulla spalla del giovane latino. Un pensiero, stranamente lucido, gli attraversò la mente. «Morire qui, adesso, libererebbe Larth e Thanaquil... e anche me.» Quando Tefrie ordinò la prima sosta, su un'altura da cui potevano sorve-
gliare ambedue le direzioni del sentiero, Mastarna era svenuto da tempo. Velvur restò un attimo indeciso davanti alla cortina chiusa del padiglione del Re di Tarchna. All'interno sembrava non esserci nessuno, e tuttavia aveva appena visto uscire il Re di Faleri, Venthi, e il giovane Re di Sveana, Pesna: entrambi sembravano di buon umore, come se venissero da un incontro di formale cortesia. Tuttavia Velvur sapeva dividere l'apparenza dalla realtà, e più di tutto conosceva Larth. Ci doveva essere un buon motivo perché i Re di due città avessero scelto di incontrarlo da solo, e prima dell'assemblea che avrebbe deciso il Re Supremo per quell'anno, anche se ormai era scontata la conferma della nomina di Sevre di Velx. Il tempo brutto stava rovinando i giochi; pioggia e vento avevano alzato il lago in burrasca e i Re si erano concessi un lungo banchetto, in sostituzione del gioco della truia, dal momento che il labirinto era quasi allagato. Molti nobili avevano preferito il Tempio del Chiodo per qualche ora di ritiro, e le donne erano tutte al Tempio della Dea, sulla cima del monte. Tra queste ultime c'era anche Thanaquil, che contava la sua prima mancanza alla luna nuova. Velvur sollevò la cortina e si infilò all'interno. «Il mio Re ha troppo da fare?» esclamò ironicamente, osservando Larth che, seduto davanti al braciere, rigirava una coppa tra le mani. Un servo stava portando via quelle offerte agli ospiti. Larth osservò il suo mantello fradicio e sorrise appena. «Un Trutnot non dovrebbe bagnarsi, nella pioggia. Non era questo che mi dicevi? Ciò che credi possa essere è.» «È ancora così per te, Larth?» Larth sollevò lo sguardo. Velvur gli era arrivato vicino, e adesso non stava parlando al Re, ma all'antico discepolo. «Se è scritto!» gli rispose Larth, mentre il Trutnot si sedeva sullo sgabello più vicino al braciere, lasciando da parte il mantello. «Riconfermeranno Sevre di Velx come Re Supremo», riprese Velvur. «Sì, così ho sentito», confermò Larth, asciutto. «Ma tu non hai votato.» «Non potevo votare per lui, ma nemmeno contro. Dopotutto siamo alleati», spiegò il giovane. «Per quanto ancora?» Alla domanda brusca, Larth lo fissò sorridendo.
«Hai visto uscire Venthi e Pesna e di certo sai che cosa ho chiesto loro.» «Uomini, Maestri, ingegneri. Hai permesso loro di andare a Ruma, per ricavarne qualcosa», replicò Velvur. «Alleati. Piccole alleanze per coprirmi i fianchi; niente di più», ammise Larth. «Contro Velx.» «No, ma è meglio essere previdenti, non credi?» Il Trutnot mutò bruscamente discorso. «Nessuna notizia di Mastarna?» chiese. Larth fece uno stanco cenno di diniego. Velvur tese le mani verso il fuoco. «Ecco, vedi? Quando non sai ascoltare, anche quello che potrebbe essere non è.» Gli occhi di Larth si accesero di preoccupazione. «Che cosa sai?» mormorò, lasciando la coppa. «Non molto. È ferito o malato. Ho chiesto anche alla Signora di Turan perché guardasse nell'Occhio della Dea, e anche lei ha visto la stessa cosa, con l'aiuto della tua Regina. Purtroppo hai voluto lasciare Caitli a Tarchna. Lei avrebbe saputo risponderti meglio.» Senza veramente volerlo, Larth quasi gridò. «Lo so. Questo me l'hai detto una dozzina di volte da quando siamo qui!» «E non sarà l'ultima, temo», ribatté Velvur, alzandosi. Larth lo guardò spazientito, offrendogli ancora lo sgabello. «Siediti, ti prego», gli ordinò, ma non c'era pentimento nel suo tono. Velvur obbedì, scuotendo il capo: avvertiva una pericolosa rigidezza nella mente dell'uomo che gli stava davanti, un uomo che sembrava ormai solo l'ombra del ragazzo vivace ed esuberante che lui aveva istruito. Un dolore vivo adesso lo toccava, ferendogli l'anima. «Sarebbe più esatto definirla una perdita», pensò Velvur, e amaramente concluse che proprio quella rigidezza stava facendo grande Larth, perché la perdita ancora nessuno poteva vederla. «Partirò per Ruma, domani. Ti prego di venire con me; Mastarna potrebbe avere bisogno delle tue cure», disse infine Larth. «Verrò. Però tu non puoi lasciare Veltune prima che le cerimonie siano finite. Tutti gli altri Re prenderanno la tua partenza come un'offesa - il Re Supremo più di tutti - se non ci sarà l'ascia di Tarchna ai suoi piedi.» Larth rise. «Ma io sono più di un Re: sono un Mago, l'hai dimenticato? Sono stato tuo allievo, e comando il fuoco. È questo che dicono di me... Così posso
fare ciò che nessuno di loro può.» Velvur sorrise di rimando, ma gli occhi restarono seri, sostenendo la forza di quelli di Larth. «Attento, Larth. Queste sfide hanno un prezzo molto alto», lo ammonì Velvur. «È vero: ne terrò conto. Informa mio padre, te ne prego: sarà lui a rappresentare Tarchna nella cerimonia di investitura del Re Supremo. Digli anche che faccia partire immediatamente un messaggero per Tarchna: voglio che due schiere di armati mi aspettino sulla strada per Ruma, al confine con il territorio di Vei.» «E la Regina?» «Thanaquil tornerà a Tarchna quando le cerimonie saranno finite, con mio padre e la sua scorta.» Velvur si alzò; aveva avuto i suoi ordini, e tuttavia nessun Re, nemmeno quello Supremo, poteva imporre il silenzio al Grande Trutnot. «Thanaquil ti darà un Erede, tra otto lune.» Larth si irrigidì impercettibilmente e quella lieve reazione sarebbe sfuggita a chiunque, ma non a Velvur. Poi chinò il capo. «Ne sono felice», rispose dopo un attimo. «E anche il vecchio Re lo sarà. Di' anche a mio padre che le faccia dono da parte mia di un gioiello che vorrà scegliere da Pava l'orafo.» «Ma questo figlio non è stato concepito per amore, e il Palazzo non ne ha gioito.» Larth poteva quasi sentire i pensieri del vecchio Maestro premergli addosso. «Ti pesa così tanto amarla?» chiese invece il Trutnot. «È la mia Regina. Prego gli Dei perché mi concedano un tempo migliore per poterla rendere felice.» Velvur scosse leggermente il capo. «Sono certo che gli Dei ti ascolteranno...» incominciò. «No», lo fermò Larth. «Questo non è il Grande Trutnot che parla, e nemmeno il mio Maestro. L'uno e l'altro stanno pensando che gli Dei non hanno alcun buon motivo per ascoltarmi dal momento che io non accetto quello che decidono per me.» «Tu sei un Mago», replicò Velvur in tono pacato, «e sei il Re, ma una chimera resta qualcosa che si può conquistare soltanto se è scritto, perché è così che il Tempo consuma il Tempo, e nessun Re e nessun Mago possono cambiare questo stato di cose.»
Larth si buttò la tebenna sulle spalle e prese con sé la spada. «Resta in questo padiglione con mio padre, stanotte, in modo che non si possa dire che la Casa del Re di Tarchna è vuota.» «E il Re di Tarchna dove sarà, stanotte?» chiese Velvur. «Sul Monte Sacro a Tinia. Almeno una volta devo vedere la sua potenza dal santuario di rocce; ti aspetterò domani, con il sole, all'imbocco della galleria per la Foresta Sacra, con dieci uomini di scorta.» «Chi porterai con te sul monte?» domandò Velvur, anche se la risposta non poteva che essere una. «Axal.» La voce aveva tremato appena; un'ombra, appena lo sbattere d'ali di un falco bianco che veniva da occidente a posarsi sulla cima del Monte della Dea. Velvur allontanò l'immagine, che rimase ancora un attimo tra le fiamme del braciere e poi scomparve al muoversi lieve della mano del Trutnot. «Axal», ripeté. Larth lo aveva lasciato sulla riva, a custodire i cavalli con gli altri servi; un distacco che il celta aveva subito come un'offesa, e che Larth viveva come una rinuncia. «Il lago è agitato e la traversata non sarà facile», commentò Velvur. «Sul monte ci sarà tempesta, e tu non sai fermare i fulmini.» «Ci sarà chi lo farà per me, se lo vorrà fare. Lascerò Axal ad aspettarmi alle pendici, con i cavalli.» «Potrebbe tentare la fuga un'altra volta», insinuò Velvur. «Se cosi è scritto...» ribatté Larth, aggressivo, e uscì. La pioggia battente aveva reso quasi deserto il vasto declivio che scendeva al molo e la grande strada illuminata dai bracieri fumosi. Il lago sembrava ribollire, e sulle rive e sui monti tutt'attorno le nuvole basse correvano via e si affastellavano, seguendo il gioco dei venti con incredibile rapidità. Larth ordinò ai servi dell'isola di portarlo alla riva. Gli uomini erano esperti e la distanza non era grande, tuttavia impiegarono molto più tempo del solito e, una volta approdati, rinunciarono a tornare indietro. Il giorno volgeva al culmine e i servi stavano chiusi nelle lunghe capanne a ridosso delle pareti rocciose che chiudevano il lago: il cattivo tempo permetteva loro di oziare. Axal tuttavia non era nella capanna dei servi di Tarchna; Larth lo trovò alla tettoia dove erano custoditi i cavalli. Avvolto nella propria tebenna, se ne stava a guardare l'acqua e i monti, lo sguardo chiaro e ostile.
Larth lo osservò per un attimo. «Prepara i nostri due cavalli», gli ordinò. Per un attimo gli sembrò che Axal non volesse obbedirgli, poi il celta si mosse e rapidamente condusse fuori i cavalli. «Seguimi», gli disse Larth, montando, e Axal obbedì in silenzio; insieme si avviarono lungo le pendici del monte, fino al sentiero che staccandosi portava alla cima più alta. La foresta era fittissima ma, nel salire, gli alberi cedevano, a mano a mano, alle rocce e l'aria si faceva carica di una energia viva sulla pelle. La pioggia si era ridotta a un'acquerugiola fine, tagliente. Larth si fermò, smontando. Il sentiero finiva, scomponendosi in una pietraia, e da quel punto era possibile scorgere alto e lontano il bastione di rocce del santuario di Tinia. Dalla cima del monte giungeva il rombo del tuono, ampliato in innumerevoli echi e rimbombante di roccia in roccia, come il suono di un tamburo gigantesco percosso senza tregua. «Mi aspetterai qui, con i cavalli», ordinò Larth. Axal smontò lasciandosi scivolare a terra e si girò a guardare la pietraia e la cima lontana. «Perché?» chiese. Non era il tono di un servo: a un servo Larth non avrebbe risposto. Ma Axal non lo era, anche se Larth aveva voluto relegarlo in quel ruolo, facendo di tutto per convincersi che così era giusto. «È stata tessuta una rete, ed eravamo in tre», pensò Larth. «E lei lo sapeva. Lo sapeva fin da quel giorno del falco bianco, qui, a Veltune...» E anche Axal doveva sapere. «È tradizione provare almeno una volta ad avvicinarsi a Tinia», gli rispose Larth. «Per sentirne la voce e il respiro.» «Tu sei un Re. Che bisogno hai di provare che gli Dei esistono?» «Forse sono loro che devono provare qualcosa a me», ribatté Larth, porgendogli la propria spada. «Dovrai custodirla tu. Non è bene avere armi addosso da qui in poi.» Adesso erano l'uno di fronte all'altro e tra di loro gravava il pesante silenzio delle cose non dette. Fu Axal il primo a muoversi: prese l'arma che Larth gli tendeva e la ripose, avvolgendola nella propria tebenna. «Ti aspetterò e custodirò la tua lama», promise. Larth sorrise fugacemente; entrambi stavano pensando la stessa cosa: sarebbe stata facile la fuga, lì. O qualunque altra cosa. Tutto ciò che accade è già stato scritto... 21.
Larth salì agilmente lungo tutta la pietraia. Una traccia lieve di sentiero denunciava i passi di coloro che prima di lui, nei secoli, avevano percorso quello stesso cammino nella speranza di avere anche solo un fuggevole contatto con il Potere, quel Potere da cui Larth invece non si sentiva toccato, perché in lui c'era un'altra forza, sorta ad accompagnarlo e che gli dava una lucidità quasi dolorosa, come se in quel momento lui fosse in grado di squarciare il velo dell'apparenza che circondava le cose. Quando arrivò in cima era quasi il tramonto; un barlume di sole rosso porpora affiorò dagli ammassi neri delle nuvole, appena un istante prima di scomparire di là dai monti; il lago era un occhio buio e l'isola palpitante di luci nel suo mezzo, da quell'altezza, pareva una ferita aperta. Il bastione di rocce coronava la cima, cingendola, qui e là sbrecciato e annerito dai fulmini. Fin dove arrivava lo sguardo, sul versante opposto, non c'erano che altri monti più bassi e una foresta impenetrabile, buia, lontana come un altro universo. Era solo con gli Dei, ora. Si accovacciò a sfiorare il suolo; era compatto, ingombro di pietre, e solo a tratti affioravano ciuffi di erba magra, ingiallita dal freddo. Un tuono rimbombò come se salisse dalle profondità della terra anziché scendere dal cielo e un lieve tremore, quasi un brivido, afferrò il monte. Alcuni ciotoli rotolarono via. Larth si girò perché il vento d'occidente gli asciugasse il sudore. Fu allora che, per un istante, scorse il viso di una bimba: era piccola, quasi ancora una neonata, la pelle bianchissima, gli occhi azzurri quanto i cieli di primavera e una peluria bionda sul capo. Teneva le piccole mani strette a pugno, ma un'onda di buio le stava attorno e Larth sentì una tristezza prepotente che lo toccava nel profondo, lacerandolo. «L'Amore e la Morte sono le due forze dell'universo, e hanno lo stesso viso...» Chi era quella bambina? Una sua futura figlia? Forse quella concepita la notte delle nozze, per onorare il Palazzo? Gli sembrava difficile che potesse essere una creatura sua e di Thanaquil, così pallida e bionda. Così simile ad Axal. Larth tese la mano ad afferrare quella visione, e quella voce in lui, o attorno a lui, ma serrò il buio. Il velo dell'apparenza era intatto, e lo squarcio era stato troppo breve e troppo intenso: aveva visto, ma era stato incapace di comprendere, e quello
che sapeva ora non gli dava nulla. Un tremito più forte scosse il monte, diversi massi rovinarono e il grido spaventato di un animale nella tana lacerò il buio con una intensità penosa. Larth alzò il viso. Ora si sentiva Libero e potente e, in un certo modo, appagato. Le nuvole si stavano squarciando a meridione, mostrando qualche stella; pensò all'improvviso ad Axal. Perché l'aveva voluto lì, offrendogli quella possibilità di fuga così facile e sicura? Forse voleva lasciarlo andare Libero senza scegliere di dargli la libertà... ma era così forte la rete tessuta, o era soltanto la paura della solitudine, ben nascosta nella sua anima di solitario? «Se è scritto!» urlò Larth e sorrise, scoprendosi a pronunciare parole in cui continuava a non credere, nemmeno lì, così vicino agli Dei. Tornò che era l'alba; le nuvole si erano aperte e, sebbene la nebbia gravasse sulla foresta più in basso, il cielo offriva sprazzi di azzurro cupo. Avvertì il profumo del fuoco prima ancora di vederlo; Axal lo aspettava accovacciato, arrostendo una bestiola che aveva infilzato su uno spiedo di fortuna. I cavalli erano tranquilli e la spada di Larth stava posata davanti al fuoco con l'impugnatura rivolta verso il sentiero da cui sarebbe venuto, in segno di tacita attesa. Larth scoprì di essere affamato e infreddolito, e gli occhi del celta sorrisero appena alzandosi a salutarlo, rassicuranti come quelli di un vecchio amico. Soltanto un lume ardeva nella stanza. Fuori, l'aria era fresca e colma di umori nella notte nebbiosa. Il gracidare delle rane riempiva il buio di una estenuante cantilena. Velvur lasciò la fronte calda di Mastarna, spingendolo a bere ancora un sorso della pozione che gli aveva preparato. «Mi affogherai, Grande Trutnot», protestò Mastarna riprendendo fiato; Larth, dall'altra parte del giaciglio, sorrise. Facendosi forza, Mastarna posò la coppa e si girò a guardarlo. «Sabini e Latini assieme, Larth. Non una banda di predoni, ma un gruppo ben armato e anche ben comandato. Gli stessi che assaltano i nostri trasporti di minerali e osano quello che prima non hanno mai osato. Per ora si accontentano di piccoli villaggi senza difesa, ma per quanto ancora lo faranno?» «Calmati, o Velvur avrà un'altra scusa per farti dormire ancora.» Mastarna scosse il capo, tornando ad adocchiare con disgusto la pozione
che gli restava da bere; il Grande Trutnot tuttavia aveva compiuto un vero miracolo sulla sua spalla, riaprendo la ferita che cicatrizzava male e che adesso invece stava rapidamente guarendo. Mastarna si sentiva ancora molto debole, ma era vivo e non dubitava che sarebbe stato in piedi molto prima di quanto tutti avevano pensato nel momento in cui lo avevano visto giungere a Ruma. «Allora sarebbe molto meglio che il Re andasse altrove a passare le sue serate», intervenne il Grande Trutnot. «Mastarna è ancora troppo debole per qualunque cosa, specialmente per la tua compagnia.» Larth si mosse, rassegnato. Trovava la casa di Luceres scomoda e angusta, ma ci voleva del tempo prima che il Palazzo, che i Maestri costruttori avevano progettato di erigere al posto delle capanne davanti alla Casa del Re, fosse pronto. Nel frattempo, doveva rassegnarsi, a meno di non prendersi la stessa Casa del Re... «Oggi ho fatto visita al Re Numa», proseguì Velvur, con la sua consueta abilità di insinuarsi nei pensieri. «Mi ha chiesto se sono un Mago più forte di te.» «E tu che gli hai risposto?» ribatté Larth, cercando di nascondere a Velvur i pensieri profondi che aveva appena formulato. «Gli ho detto che non sono un Mago, ma un uomo degli Dei. Un Mago può seguire il Potere, ma un uomo degli Dei deve seguire ciò che è scritto.» «È vero», convenne Larth, rifiutandosi di cogliere ciò che Velvur continuava a ricordargli. «Il Re mi è sembrato malato; mi ha chiesto se potevo trovargli qualcosa che tu gli hai preso... una parte del suo spirito, mi ha detto.» Larth sorrise. «E tu?» domandò. «Ho risposto che avrei cercato di aiutarlo, se lui poteva portarci la vera fedeltà della sua gente.» «Bene», fu l'unico commento di Larth. Velvur si girò. «Che cosa gli hai fatto?» chiese bruscamente al giovane. «Non molto. Tu mi hai detto tempo fa che è la paura l'arma migliore, e lui ha avuto paura.» «Credi di esserne immune?» Velvur lo fissava adesso con occhi implacabili. Larth soppesò attentamente la domanda. «No. E nemmeno tu.» Detto questo uscì, lasciando nell'aria quelle dure parole. Velvur scosse il capo e si chinò nuovamente verso Mastarna.
Larth aveva posto due uomini di guardia al fondo del passaggio che immetteva alle stanze e altri due nel cortile interno, dove si affacciava la cucina, memore della facilità con cui lui e Axal vi erano penetrati salendo dal lato boscoso del colle. Si ritirò nella sua stanza, che si affacciava sulla piazza; Caile Vibenna gli aveva portato i risultati del censimento e per tutto il pomeriggio avevano valutato il sistema migliore per dividere e addestrare gli uomini; Caile gli aveva poi parlato del nuovo villaggio che Ancus e i suoi seguaci stavano edificando alle saline del Tibrin e che avevano chiamato Ostia. «Un buon porto per Ruma, che ne avrà bisogno», aveva detto Larth senza aggiungere quello che anche Caile aveva pensato, cioè che sarebbe stato anche un rifugio ideale per i Latini ribelli al Re e i loro alleati sabini. Poco dopo l'alba, senza farsi annunciare, Larth raggiunse la stanza del Re Numa, con l'unica scorta di Axal, che restò appoggiato alla soglia chiusa. Il Re era nel suo letto e nel vedere il Tarquinio si mosse come se volesse fuggire; tuttavia riuscì a trattenersi e si alzò, tentando di fronteggiarlo. Larth si inchinò appena, con un omaggio che sapeva di beffa e che riusciva, al di là della perfezione formale, a essere perfino insultante. «È un'ora insolita per un Re», mormorò Numa sostenendo i suoi occhi con uno sforzo di volontà. «È vero. Nemmeno i miei alleati hanno avuto tanto onore, ancora. Tu sei un buon alleato, Numa?» Il Re, già terreo, parve impallidire ancora di più; di tanto in tanto poi lasciava correre lo sguardo allo straniero di guardia alla sua porta: aveva paura di lui quanto del Tarquinio di cui era l'ombra. Qualcuno diceva che non era altro che uno spirito, tenuto in vita dal Mago. «Sono un buon alleato», rispose infine. «Mi hai lasciato un'altra scelta?» «Ruma sta diventando una città, anziché essere rasa al suolo e cancellata dall'esistenza. Questa è la scelta; tutto il resto conta ben poco, non credi?» Numa assentì con sforzo. «È vero. I tuoi Maestri hanno tracciato le misure e fatto demolire le capanne. La mia gente si è trasformata in una folla di operai e ovunque sorgono mura su mura, come nessuno qui aveva mai visto. Mio nipote è rimasto molto colpito dalla tua città, Tarquinio. Così grande, bella e... pericolosa.» «È questo che ti spaventa? La grandezza e la bellezza?»
Numa scosse il capo con forza. «I tuoi Maestri sono venuti a dirmi che nel tempo della luna bassa cominceranno a scavare sottoterra, per fare una grande galleria dove raccogliere le acque. Questo non è un bene. La Madre Terra potrebbe adirarsi per questa violazione, e scuotersi uccidendoci tutti», spiegò. «Una città deve dominare le sue acque; convogliare quelle di troppo durante le piogge e portare via gli scarichi di quelle sporche. E questo terreno fradicio deve essere drenato; la Madre Terra ne sarà abbellita, non temere, e in più le febbri spariranno dalla tua gente. Tra cinque anni in questa città ci saranno più di cinquantamila abitanti, e io voglio una città, non un letamaio.» «Io sono un pastore», replicò Numa, «e non vedo quello che i tuoi occhi vedono. Io vedo soltanto i miei villaggi che non ci sono più, e la mia gente che sta cambiando.» «Quelli tra i tuoi nobili che hanno spirito e capacità non avranno da perderci, non temere; tutti gli altri finiranno per essere servi, e non saranno più un problema. Che mi dici di tuo fratello Ancus? È tra i primi o dovrò relegarlo tra i secondi?» chiese Larth, con una punta d'ironia. «Non prenderti gioco di me», rispose Numa con voce quasi implorante. «Sai che se ne è andato portandosi via la sua famiglia, i servi e quelli tra i liberi che fuggendo di notte sono riusciti a sottrarsi alle tue guardie. Mi hanno detto che sta costruendo un villaggio alla foce del fiume.» «È una buona idea. Ruma avrà presto bisogno di un buon porto», commentò Larth. «Non ho potuto fermarlo», mormorò Numa con aria triste. «Lo so.» Numa si riappoggiò al proprio cuscino. «Non ho più niente da dirti, allora», mormorò. «Il Grande Trutnot pensa che tu sia gravato da troppi pensieri. Permettimi di aiutarti.» Numa tentò una risata, che gli morì agli angoli delle labbra. «Aiutarmi?» chiese. L'opale brillò un istante, raccogliendo una vibrazione di luce da una delle lampade; istintivamente, Numa si coprì gli occhi. «Tu non hai più figli, e la tua unica figlia è vedova e con tre bambine piccole. Nessun uomo di buon senso si prenderà cura di una donna con tre figlie da crescere, e così tua figlia è destinata a diventare serva. Permettimi di avere cura di lei e delle tue nipoti.»
Numa sogghignò. «Sei generoso e dici il vero: mia figlia Tullia è vedova da quattro anni. Suo marito era il più fidato tra i miei nobili, ma la sua famiglia è stata distrutta lasciando soltanto vedove e orfani già servi.» Larth chinò appena il capo. «Ordina ai tuoi nobili di lasciare la casa, quindi. Mi trasferirò qui tra qualche giorno, con i miei servi, fintanto che il mio Palazzo non sarà pronto. Naturalmente tu puoi restare, con i tuoi servi. E informa tua figlia che la onorerò come d'uso, ma soltanto se lei lo vorrà.» Numa distolse lo sguardo e non rispose. Axal aveva riaperto la porta e Larth uscì senza neanche una parola di commiato. Nei giorni che seguirono Larth armò due schiere e lasciò Ruma quasi di sorpresa, dirigendo verso sud, come se avesse deciso di conquistare e annettere a Ruma le terre latine che si trovavano a meridione. Tuttavia, non appena di là dai colli, divise le due schiere: mandò la prima, formata da uomini di Velx agli ordini di Aule Vibenna, verso meridione e fece deviare la propria, tutta di uomini di Tarchna, verso la costa. Kae Aivas gli cavalcava accanto come secondo e Axal gli guardava il fianco sinistro: Cneve, invece, era stato lasciato a, Ruma, assieme a Mastarna che cominciava a muoversi. Larth non gli aveva parlato del suo progetto; in effetti non lo aveva fatto con nessuno, se non nel momento in cui aveva ordinato a Vibenna di proseguire con la sua schiera verso sud e di prendere tutti i villaggi che incontrava lungo la strada portandone i capi a Ruma, non tanto come prigionieri, ma piuttosto come sudditi convocati forzatamente dal Re. Era giorno pieno quando Larth arrivò al nuovo villaggio: nell'aria limpida e mossa dal vento, il mare e il fiume si sposavano toccandosi sulla linea tra la costa e le saline. In effetti il villaggio non era che un pugno di miserabili capanne, popolato per lo più da donne e bambini. I cavalieri di Tarchna non incontrarono quindi alcuna resistenza e, dopo aver travolto il basso e fragile recinto inteso a proteggere le abitazioni, penetrarono nel villaggio. Ma Ancus non c'era. Il bottino accumulato nella più grande delle capanne tuttavia lo denunciava: armi, tessuti, bronzi e ceramiche fini, dirette a Ruma, e lì di nessun uso; e poi attrezzi per le misure e arnesi per i Maestri delle acque, strumenti di ogni genere, viveri e arredi. Larth fece radunare il tutto e l'indomani una parte dei suoi cavalieri ripartì per Ruma, facendosi precedere dagli uomini catturati, carichi di bot-
tino. Le capanne del villaggio, comunque, rimasero intatte e Larth vi lasciò anche le donne e i bambini, concedendoli con una buona misura di terra ai soldati che scelse perché restassero a governare. Quando lasciò Ostia, dopo una decina di giorni, Larth aveva già fatto venire operai e servi e due Maestri costruttori di Pupluna per i lavori di bonifica della foce. A Ruma trovò notizie di Aule Vibenna, che procedeva nel suo cammino verso il sud, conquistando i villaggi; gli mandò due nuove squadre di Tarchna, al comando di Cneve. Una terza squadra, al comando di Caile Vibenna, fu poi inviata al confine con le terre dei Sabini, dove certamente Ancus si era rifugiato: ormai doveva essergli giunta la notizia che Ostia era stata presa e che la sua legittima moglie e i suoi figli erano stati asserviti, come tutti gli altri. Adesso Ancus poteva divenire un vero pericolo. Entrando nella sua stanza nella Casa del Re, Larth si fermò subito; era molto tardi e il luogo era da tempo silenzioso e quasi buio. Larth aveva passato la sera discutendo con Mastarna di ciò che potevano aspettarsi, quindi aveva bevuto una coppa del vino aspro di quelle parti e infine si era ritirato. La donna lo aspettava seduta accanto al suo letto, a capo scoperto, immobile, le mani raccolte in grembo. Nella penombra della stanza, Larth vedeva tuttavia chiaramente il suo profilo duro e affilato, e la luminosità dei suoi occhi scuri. La donna era più vecchia di lui, forse di quattro o cinque anni. Larth lasciò passare qualche secondo; poi, vedendo che continuava a restarsene immobile e silenziosa, la raggiunse. «Mi compiaccio nel vederti, Tullia», disse quindi. «E ne sono onorato.» La donna sollevò gli occhi a guardarlo; per un istante Larth vi scorse una determinazione che li rendeva aggressivi. La voce, tuttavia, era pacata e lieve. «Sono io a ringraziarti per avermi accettata e per aver preso su di te il peso delle mie figlie.» «Darò loro sicurezza e istruzione; e quando saranno in età, un marito rasna nobile che sappia onorarle per il loro rango. E questa è una promessa», rispose Larth, sfiorandole il contorno del viso. La sentì rabbrividire, in preda a un'emozione che sicuramente la turbava e che divenne un fremito quando Larth le slacciò la tunica scura, facendola ricadere attorno alla vita. La donna non si mosse, restandogli davanti con occhi troppo bui e un seno pieno su un corpo asciutto e forte. Larth lo risvegliò con un tocco lieve e poi la sollevò, attirandola contro di sé.
«Vedova con onore da quattro anni. Tuo padre ha detto il vero», le mormorò in un orecchio, combattendo la sua rigidità e liberandola del tutto della veste. La donna si lasciò stendere sul letto, ma Larth non la raggiunse subito; non gli piaceva l'idea di prendere una donna timorosa o triste. Gli avrebbe ricordato Thanaquil. Versò del vino, lo miscelò con miele e spezie e lo intiepidì alla fiamma della lucerna. Quando raggiunse Tullia, le avvicinò la coppa alle labbra e la lasciò bere: poi le baciò la bocca ancora satura portandola a palpitare con lui, fintanto che la donna si affannò, stordita da qualcosa che non aveva mai provato; Larth la lasciò ancora, dominandosi, e, quando infine la prese, Tullia gli si offrì appagante, e appagata, e dopo gli restò stretta addosso, nel buio. Larth la sentì stranamente lucida e consapevole del gesto che aveva compiuto. «Tu sei il Re di Ruma», mormorò Tullia, e la voce era un sibilo caldo tra i denti. «Mio padre questa notte è andato a uccidersi, alla rupe Tarpei.» Larth si sollevò a guardarla; la donna lo stava fissando con gli occhi lucidi, ma non piangeva. Gli appoggiò le mani ruvide sul petto, premendogli l'opale nella carne. «Mi ricordo di te, quando ti hanno portato in questa casa ragazzo. Eri ferito e dicevano che saresti morto; ricordo d'aver pensato che sarebbe stato un peccato lasciarti morire, perché eri bello. Adesso vorrei averti ucciso allora.» In risposta, Larth l'attirò contro di sé e portò le mani esperte in lei, per farla tremare. «Ma questa notte non mi odi», replicò in un soffio, prendendola. La donna ebbe un singhiozzo lieve e si aggrappò a lui. «No», mormorò. Thanaquil si girò verso l'apertura sul cortile; il respiro le mancava, e le sembrava che nella stanza facesse troppo caldo. Un'improvvisa voglia di correre fuori la afferrò; avrebbe voluto immergersi nella pioggia lieve e nella nebbia fredda che gravavano ormai da giorni su Tarchna e la rendevano grigia e come soffocata, ripiegata su se stessa, in attesa dell'evento. La nascita del figlio del Re. Subito dopo tuttavia rabbrividì, e serrò le labbra per non lasciarsi sfuggire un grido al nuovo dolore. «Questo figlio di Larth è doloroso quanto il suo amore», mormorò, rab-
biosa. Caitli le circondò le spalle con affetto, togliendola alla finestra. «Non avversare il bambino; ha bisogno di te per nascere. Solo tu puoi guidarlo a staccarsi e a desiderare la vita.» Thanaquil mandò attorno uno sguardo disperato. La stanza della Regina le sembrava una prigione squallida, in cui avrebbe potuto morire senza più vedere il cielo. L'autunno volgeva alla fine, il tempo della nascita era passato da giorni e Caitli le aveva fatto bere poco prima dell'alba una bevanda amara, che la stava sconvolgendo quasi più del dolore stesso. Stringendosi alle sue mani, si lasciò condurre al focolare, e vi si accoccolò davanti, piegata. Sfiorò le pietre calde, ed ebbe l'impressione che respingessero il suo tocco. Fu scossa da un fremito di paura. Caitli la trattenne. «Non temere, sorella mia. Pensa soltanto al tuo bambino, ora. Desideralo come non hai mai fatto in tutte queste lune. Solo il tuo desiderio lo tiene vivo», le sussurrò. «È maschio, vero?» chiese Thanaquil per l'ennesima volta. «Certo», rispose Caitli, paziente. «Ma Larth non sarà qui per riconoscerlo e sollevarlo!» Caitli trattenne un sospiro che Thanaquil non percepì. «Il male che Larth ti sta facendo in questo momento lo sta facendo anche a se stesso, privandosi di te. Ma lui è un Re e ha due città, ora. Non essere severa con lui, sorella mia. Quando tornerà, sarà il più tenero e il più superbo degli amanti, e anche se non lo amerai ti darà gioia appartenergli.» Thanaquil sorrise incerta, fissando il fuoco. «Dov'è Mastarna?» chiese in un sussurro. «Con lui e con Axal, come sempre. La città sta diventando grande, e hanno posto le fondamenta di un Tempio, un vero Tempio, dedicato a Tinia. I Latini lo chiamano Jupiter e Larth gli lascerà il nome che desiderano.» «Certo; che differenza può fare un nome?» mormorò Thanaquil, distratta e ancora avversa a quel dolore. Caitli passò una mano sul fuoco e le fiamme si aprirono, fluttuando attorno a un punto oscuro che aveva le sfumature dell'opale. La stanza si illuminò, raccogliendo il calore di un altro braciere; un drappello di uomini armati passò rapidamente e per un attimo Cneve vi sostò davanti. «Abbiamo preso un centinaio di ribelli, ma i villaggi sui colli Albani
hanno mandato i loro capi per sottomettersi», stava dicendo. «Li vedrò più tardi», fu la risposta di Larth, che si girò verso la fiamma attratto dal suo richiamo. «Tutto sembra molto tranquillo», aggiunse il giovane, compiaciuto. «Dobbiamo aspettarci un attacco, invece», intervenne Mastarna. «Non abbiamo preso Ancus, e i nostri convogli non sono più stati assaliti.» «Perché li abbiamo sconfitti!» esclamò Cneve. «No, Mastarna ha ragione», lo interruppe Larth. «È soltanto quello che vogliono farci credere.» «È per questo che i Vibenna hanno fortificato il Colle delle Querce e stanno occupando quello vicino, pretendendo che i nostri soldati lo abbandonino?» ribatté Cneve, aspro. «Esattamente per questo, e su mio ordine. Lasciaci adesso, Cneve.» Il giovane obbedì. Mastarna si girò a sua volta al fuoco. «Quanto hai detto non è la verità, Larth. I Vibenna non stanno seguendo i miei ordini, ma nemmeno i tuoi.» «Essere in due a saperlo è più che sufficiente. Se ci dividiamo adesso, Ancus ci spezzerà.» «La sua gente potrebbe non seguirlo. Noi siamo la città e la sua ricchezza, adesso; la sua gente è opportunista e astuta e potrebbe voler restare con noi per un futuro di prosperità piuttosto che con lui rischiando la distruzione e certamente la miseria.» «Non mi basta per farne una certezza.» Ci fu un tremore improvviso nel fuoco; un aprirsi, come se fosse stato smosso dal vento. «Velvur», mormorò Caitli. «Re di Tarchna e di Ruma», stava dicendo il Grande Trutnot, ma il saluto aveva un sapore lieve di rimprovero che Larth scelse di ignorare. «Ti vedo volentieri, amico mio. Sono sette giorni che manchi.» «Axal e io abbiamo avuto da fare; ci sono molti luoghi che desidero vedere qui attorno e lui è certamente il più bravo nel seguire i sentieri della foresta. Un giorno dovrò chiederti di concedermelo in dono: sarà un grande aiuto per la mia vecchiaia.» «Non farlo, Grande Trutnot. Con tutto il rispetto che ho per te, mi sarebbe doloroso ammettere che sei vecchio, e che non posso accontentarti.» Velvur sorrise, avvicinandosi al braciere e schermando così Larth dalla sua luce diretta. «Un giorno ti dissi che la vita è gioia, ma anche pietà e che la gloria dei
guerrieri nasce dall'anima delle donne.» «Non l'ho dimenticato», rispose Larth. Velvur sorrise ancora. All'improvviso Larth avvertì il gelo sul petto, come un pugno di ghiaccio grande quanto l'opale, e pronto a scavargli una voragine. «È quanto stai facendo adesso.» Velvur si distolse dal braciere; una corrente lieve prese il fuoco e Caitli lo lasciò. Thanaquil si contrasse; all'improvviso le forze le mancarono e il dolore le strappò un urlo. Caitli la rimise in piedi. «Cammina», le ordinò. «Io e Hasti ti aiuteremo, ma devi camminare fintanto che non sentirai la testa del bambino. Se non nascerà adesso morirà, e tu con lui!» Thanaquil si afferrò a entrambe, obbedendo. Dieci minuti dopo potevano finalmente stenderla sul letto e assisterla; il bambino era cianotico ed emise appena un debole strillo, ma era il figlio del Re, e la notizia dell'avvenuta nascita fu subito portata all'Aruspice di Tagete, per i rituali, e al vecchio Re, che doveva riconoscerlo immediatamente, come se ne fosse il padre, per permettergli di essere l'Erede. Un'ora dopo il vecchio Re fu portato nella sala delle udienze dove i nobili di Tarchna s'erano riuniti in tutta fretta per la cerimonia. In qualità di Sacerdotessa del Palazzo, Caitli portò il bambino fino ai piedi dello scranno regale; il piccolo era stato avvolto nella porpora e nell'oro; era bello, con le guance piene e una gran quantità di capelli scurissimi, tuttavia il suo colorito non era mutato e sembrava troppo debole persino per piangere. Tenendolo tra le braccia, Caitli poteva sentire quella piccola vita sfuggirle. Prepotente, la nostalgia per la sua bambina l'afferrò, rafforzata dal contrasto fra la triste nascita cui aveva appena assistito e la gioia che aveva accompagnato quella di sua figlia. Thesan era stata concepita con amore e Caitli l'aveva amata da quel primo attimo come il legame perfetto di un disegno compiuto. Questo bambino sanciva l'apparenza di qualcosa che non era, e il Palazzo lo rifiutava. «Un vero Re deve avere legami profondi con la Terra e con il Cielo; un vero Re deve essere Terra e Cielo e accogliere in sé tutte le risonanze: solo così può mediare tra gli Dei e gli uomini. Ma quando il Cielo è dimenticato e la Terra tradita non potranno più esserci Re e gli Dei e gli uomini non si conosceranno più», pensò Caitli con profonda amarez-
za. Caitli posò il piccolo e trovò gli occhi stanchi di suo padre; il vecchio Re si protese e stando seduto sollevò il bambino al di sopra della propria testa. «Tarchon figlio di Re Larth di Tarchna e di Thanaquil entra nel suo Palazzo per volere di Tinia e con la benedizione della Dea Athrpa», esclamò, con improvviso vigore. Il fagotto nelle sue grosse mani non protestò per quell'impennata; i nobili si inchinarono, gli Aruspici mormorarono le loro benedizioni, e infine Caitli si protese a riprendere il bambino. «La Regina sta bene», disse quindi, sorridendo; Tarchon gliene fu grato. Laris lo aveva raggiunto e si compiaceva di quel primo nipote, ma quietamente, com'era sua abitudine. Caitli si ritirò con il bambino, non appena Flasi Aivas ebbe terminato il suo primo rito di divinazione; l'Aruspice di Tagete si era riservato il diritto di una notte di studi sul fegato dell'agnello ucciso, prima di parlare. Caitli ne conosceva il motivo e non trovò nulla da obiettare. Riportò il bambino da Thanaquil e glielo pose accanto; la giovane aveva riposato, poiché Hasti non aveva permesso a nessuno di avvicinarla. Accolse la propria creatura con un momento di incertezza, sorpresa da quella piccola cosa che era parte di lei e di un uomo di cui aveva ancora paura, e che le era costata soltanto dolore. «Riuscirò mai ad affezionarmi davvero a questo figlio?» pensò, tentando di sfiorargli il piccolo viso ancora grinzoso. Respirava appena: era un bambino forte, ma aveva tardato troppo a nascere. Thanaquil dormiva sotto l'effetto di una pozione che doveva riportarle le forze quando il piccolo, nelle braccia di Caitli, cessò di respirare. Era soltanto l'alba; Flasi Aivas aveva velato di nero l'ara del sacrificio, nel cortile principale, avendo terminato la sua divinazione appena pochi minuti prima. Così i fuochi che annunciavano la nascita dell'Erede vennero accesi e subito spenti per dare la notizia del lutto. Pioveva, e la nebbia si era trasformata in nuvole buie, che portavano l'inverno. 22. Kae Arvas montò a cavallo mentre il suo servo tratteneva il muso dell'animale che scalpitava, nervoso. Un'alba fredda si stava levando: il cielo era appena toccato dalla luce, e il terreno scricchiolava sotto gli zoccoli per
una patina di gelo, che aveva imbiancato i colli. Aivas si girò inquieto; l'Aruspice di Tagete che aveva officiato il rito propiziatorio si inchinò, riconoscendogli la predestinazione alla vittoria, e Aivas se ne sentì in un certo modo sollevato. Alle sue spalle, i nobili di Tarchna stavano compatti e silenziosi, in attesa. Erano meno della metà di quelli che avrebbe voluto, ma si sentiva compiaciuto dai loro nomi, e dall'importanza delle loro Case. Tutti agivano per la gloria di Tarchna e solo pochi tra loro, i più fidati, sapevano. «Dobbiamo arrivare alla sommità in silenzio!» ordinò. Ancus doveva essere ormai a metà strada; presto, molto presto, i posti di guardia avrebbero dato l'allarme. Il Colle delle Querce era avvolto da una nebbia spessa; Aivas, chinandosi per evitare i rami bassi, spinse il proprio cavallo a risalire il declivio e gli uomini lo seguirono. Non ci fu altro rumore che quello di una specie di brezza, sui rami coperti di brina. La sommità del colle era un fitto bosco di querce, in parte abbattute per farne capanne per gli uomini di Velx. Una costruzione più ampia, quasi al centro della sommità, aveva ospitato i Vibenna, ma serviva ora da luogo di riunione. Anche Mastarna si recava spesso sul colle e, proprio in quel momento, si trovava nella capanna centrale con alcuni dei suoi uomini. Aivas lo sapeva. L'allarme arrivò dal primo dei posti di guardia, al ponte Sublicio. Il richiamo forte della doppia tromba spezzò il silenzio. Aivas sfoderò la spada. «Ai Principi!» ordinò. «Colpite i Principi di Velx che vogliono prendersi Ruma!» Affondò i calcagni nel ventre del cavallo, e lo spinse verso l'ampia costruzione fortificata al centro dello spiazzo; aveva il tetto spiovente e un antiportico che correva tutt'attorno, riparato da un basso steccato. L'impeto del cavallo lo portò a scavalcarlo con un balzo e, ripiombando dall'altra parte, mancò per un soffio la lunga lancia di una guardia di Velx. L'uomo subito dietro di lui non fu altrettanto fortunato, finendovi trafitto. Le feritoie nella paratia di canne e argilla che riparava il portico si spalancarono di colpo, lasciando emergere uomini di Velx armati di archi. Lanciarono addosso agli assalitori una pioggia di frecce e i primi caddero, ostacolando quelli che venivano dopo, e costringendoli a balzare giù da cavallo. Uomini armati corsero fuori della capanna, mentre altri si appressavano,
portando torce accese. Mastarna era in testa. «Vieni a batterti con onore, Aivas!» lo sfidò Aule Vibenna giungendo alle sue spalle con un altro gruppo di armati e chiudendolo nel mezzo. «No!» ordinò Mastarna. «Non tocchiamo il sangue dell'alleato. Sarà il suo Re a decidere di lui!» Le trombe dell'allarme si levarono nuovamente da più posti di guardia. «Il segnale di raccolta, Mastarna! Che cosa facciamo?» urlò Caile Vibenna, venendo di corsa con altri uomini. «Che cosa mi chiedi, Caile? Andiamo!» gli rispose Mastarna con un grido. Con un balzo raggiunse Aivas e, afferrandolo bruscamente per un braccio, lo tirò giù di sella. «Nel frattempo Aule Vibenna avrà cura di te e dei pochi uomini che ti sono rimasti», gli sibilò. Aivas si liberò con uno strattone, arretrando di mezzo passo. «E se fosse stato proprio il Re a mandarmi? Come fai a essere sicuro che non sia Larth che vuole liberarsi di te e della tua alleanza, Mastarna di Velx?» chiese con voce roca. Mastarna lo afferrò per la tunica, spingendolo con le spalle allo steccato. «E perché tu non ti chiedi come facevamo a essere qui ad aspettarti?» ribatté con violenza. Dall'espressione sul suo viso era chiaro a Mastarna che quella era stata la prima cosa che Aivas si era chiesto, ma la risposta era anche stata l'unica che non aveva voluto pensare. «Così anche tu hai paura del suo Potere?» gli aveva chiesto Ancus all'inizio della loro alleanza... ed era dunque questo, il Potere. Qualcosa che non poteva essere visto, e che nemmeno il suo Aruspice aveva saputo intuire. Aivas non rispose. Mastarna lo respinse con uno strattone e montò sul cavallo che gli avevano appena portato; gli uomini si fecero subito compatti alle sue spalle, muovendosi nella nebbia verso il punto di raccolta. Un anello di fuoco correva adesso tutt'attorno al perimetro tracciato della città, da un posto di guardia all'altro: gli uomini avevano infatti incendiato le stoppie sistemate sul fondo del fossato per le fondamenta delle future mura, e che già adesso, proprio in virtù di quel semplice accorgimento, serviva da protezione. Nella nebbia greve il fuoco creava una cortina e allo stesso tempo illuminava tanto da permettere di vedere gli assalitori. «Sono Latini e Sabini!» urlò Cneve, venendo al galoppo dal punto di
guardia tra l'isola e il ponte. «Hanno attraversato all'isola, e per la maggior parte non sono a cavallo.» Larth si passò la tebenna sulla spalla sinistra, per avere il braccio destro libero, e fece muovere il cavallo verso il piano. Axal, al suo fianco, gli si affiancò tanto da coprirlo. Cneve morse il freno e trasalì quando Velvur gli arrivò accanto, posandogli una mano sulla spalla. «Non temere», mormorò il Grande Trutnot. «Il tuo compito qui non sarà meno difficile.» «Avrei voluto combattere al suo fianco», replicò Cneve, e un velo di amarezza gli appannò lo sguardo. «Avrai tutto il tempo di farlo. Ma oggi è molto più importante per Larth averti qui a tenere in pugno la città», rispose Velvur. «Ne è il Re, ormai», mormorò Cneve, come se quel fatto fosse di per sé così sacro da allontanare qualunque pericolo. Velvur sorrise. «I Re sono cose che passano; come la nebbia al sole, figliolo. È la città che è importante, perché rimane.» Cneve incontrò per un istante il suo sguardo triste, ma non ebbe il tempo per riflettere sul significato di quelle parole; la Guardia infatti aveva condotto a lui Marcius e gli altri nobili e si stava allargando a presidiare la piazza, mentre Larth e i suoi non si vedevano più, inghiottiti dalla nebbia che gravava in basso. I segnali di risposta che venivano dal Colle delle Querce dicevano che la sortita di Kae Aivas era stata sventata, e che gli uomini di Velx stavano scendendo per prendere a loro volta posizione contro gli assalitori. «Come ha potuto Aivas fare questo al Re?» mormorò Cneve, girandosi a incontrare lo sguardo acceso di Marcius e fingendo di ignorarlo. «Potere...» disse Velvur. «Un desiderio che pretende sempre un caro prezzo.» Larth raggiunse il posto di guardia avanzato tra l'isola e il ponte, e le schiere dei suoi, che si stavano aprendo ordinatamente. «Ancora una volta davanti alla città», pensò. «Ma per difenderla anziché attaccarla.» Posò una mano sull'opale: era caldo e vivo. «Caitli», pensò, e sorrise appena, sentendo la sua presenza. Aivas avrebbe creduto nel suo Potere; non sapeva di essere stato sorvegliato tanto strettamente - da quando era giunta la notizia che l'Erede era morto - da non essere mai lasciato davvero solo. Gli schiavi latini, che Ai-
vas aveva commesso l'errore di ignorare, l'avevano tradito per guadagnarsi la libertà e i servi tarchna erano stati fedeli al Re e avevano tradito Aivas per essere fieri della loro fedeltà. «E anche questo è il Potere», rifletté Larth, sentendo l'approssimarsi della schiera di Mastarna, mentre quella dei Vibenna, seguendo gli ordini, stava allargandosi al di là dell'anello di fuoco per prendere i nemici alla punta estrema del fianco sinistro. «Non aspetteremo che la nebbia si alzi», decise e sollevò la spada, passando a fior di labbra il comando perché fosse ripetuto. La prima schiera dei cavalieri di Tarchna piombò tra le file dei Latini e dei Sabini, superandole ma senza provocare gravi perdite. Immediatamente, tuttavia, i cavalieri si girarono e gli attaccanti si trovarono così presi tra loro e i difensori a piedi, che opponevano una cortina compatta appena al di là del fossato in fiamme; fronteggiarono quindi i primi, buttandosi avanti. La lotta divampò, e poi la linea degli assalitori cominciò a contrarsi sotto la spinta delle forze di Velx sul lato sinistro. Latini e Sabini presero a ritirarsi verso la linea fitta dei boschi alla loro destra, per sfuggire alla trappola del fiume verso cui li stavano ricacciando. La manovra era lenta, ma non lasciava un solo attimo di tregua agli assalitori. «Fermiamoci! Facciamoli ritirare!» urlò Mastarna, facendosi largo fino a Larth, che ancora in sella passava da un gruppo di combattenti a un altro, facendo cadere la propria spada a destra e a sinistra. Le gambe del Re erano coperte di sangue, ma non era ferito, e Axal teneva il cavallo costantemente accanto al suo, incurante del numero di nemici che doveva travolgere per riuscirci. Anche il celta sembrava incolume; le ferite non erano che graffi superficiali. Larth sollevò la spada, respingendo un assalitore con un calcio; Mastarna lo affiancò sul lato destro, riparandolo, ma di fatto chiudendogli la via per buttarsi in un'altra mischia. Per un istante, Larth fu sul punto di passargli comunque oltre, ma all'ultimo momento trattenne il cavallo. Mastarna sapeva che Larth non era un sanguinario; lo aveva avuto al fianco per troppo tempo e in troppe battaglie, e sapeva bene come non si lasciasse mai prendere la mano; uccideva con rapidità ed efficienza e senza battere ciglio, ma era sempre il primo a fermarsi. Almeno fino a quel momento. «Larth!» riuscì a gridargli, sopravanzando il fragore della battaglia.
«Larth, ascoltami! Non abbiamo bisogno di dimostrare alcunché: li abbiamo respinti e la gente della città non si è sollevata per loro. Hanno scelto noi, non capisci?» Larth appoggiò la spada, lasciando che il proprio braccio ricadesse lungo il fianco e fece correre lo sguardo attorno; il sole era salito alto nel cielo, le fiamme nel fossato erano spente e solo qui e là barbagli di fumo colavano bassi, strisciando sul terreno. Gli uomini dall'altra parte del fossato non avevano ceduto di un passo la linea difensiva e il fossato era pieno di corpi: il lamento dei feriti si levava così alto che in taluni punti copriva il clangore delle armi. «Tregua», disse quindi Larth. «Concedo la tregua, ma solo se si ritirano.» Il segnale della doppia tromba corse da un punto all'altro del lungo schieramento non appena Larth ebbe raggiunto il posto di guardia più vicino che, sebbene fosse di poco elevato rispetto al terreno circostante, permetteva comunque di vedere una vasta parte del campo di battaglia. Sul fianco sinistro c'era ancora lotta, ma d'un tratto la schiera sembrò cedere e poi aprirsi per far passare indenni un pugno di cavalieri, una decina in tutto, con le insegne di Tarchna. «Aivas!» esclamò Mastarna, richiamando Larth. Obbedienti all'ordine di non toccarlo, i Vibenna lo avevano lasciato passare, ma Aivas non stava muovendo per raggiungere le proprie file e riunirsi agli uomini del Re; al galoppo passò davanti al posto di guardia senza nemmeno frenare l'andatura e piombò sulla retroguardia dei Latini e dei Sabini, che stavano guadagnando il riparo dei boschi. Tuttavia non li toccò, procedendo oltre e infilandosi tra gli alberi. «Tarchna non cancellerà facilmente il proprio disonore di fronte a Ruma per questo, Larth.» La voce di Mastarna era appena un sussurro. «E io temo quello che il Re di Velx potrebbe volere dai suoi Principi, adesso.» Larth scosse lievemente il capo. «Non ci sarà disonore. Aivas e quelli che lo hanno seguito moriranno per aver tradito il Re di Tarchna, non il Re di Ruma, e questo è un problema di Tarchna in cui nessun'altra città della Lega può interferire. Ogni minuto da adesso in poi può essere quello della loro morte.» Velvur aveva raggiunto il posto di guardia da pochi minuti soltanto, con una decina di cavalieri; la città era rimasta tranquilla e la nebbia aveva impedito di seguire gran parte dello scontro. Solo la fuga dei Latini e dei Sabini era stata facilmente vista, perché proprio in quel momento il sole
aveva sciolto del tutto la cortina che gravava sulle terre basse. «Stai chiamando le forze della morte, Larth», mormorò il Grande Trutnot. «Attento: nessuno può chiamarle e poi sottrarsi alla loro ingordigia.» Gli occhi di Larth scintillarono, cupi. «Correrò il rischio», rispose seccamente. Sul campo di battaglia gli scontri erano cessati del tutto, e Velvur, nel tetro silenzio che si stendeva sui cadaveri dei soldati, chinò il capo, mormorando le formule rituali che avrebbero aperto vie di luce ai morti. «Là!» li avvertì Axal, che era rimasto attento quanto le sentinelle alla linea della foresta in cui gli attaccanti si erano ritirati. Ne stavano uscendo non più di sette od otto uomini, a cavallo. In testa a tutti c'era Ancus; Aivas correva al suo fianco, legato, ma non ferito. «Che nessuno si muova», ordinò Larth. Raggiunse Axal con Mastarna e Velvur; Ancus sanguinava da un fianco, ma stava saldo, e si fermò tanto vicino da poter essere ascoltato. Con uno strattone attirò contro di sé il nobile rasna, tendendo la corda che lo legava. «Re di Ruma!» urlò. «Tarquinio! Il tuo traditore sarà la tua vergogna. Se lo vuoi, dovrai venirlo a prendere e darmi in cambio la mia gente di Ostia!» Ancus girò quindi il proprio cavallo e riguadagnò il riparo degli alberi, trascinando il prigioniero. Larth ridiscese dal posto di guardia; gli uomini erano ancora pronti e nessuno si era lasciato distrarre dall'evento. «Portate via i feriti e raccogliete i prigionieri nelle terre basse, ai recinti. Li impiegheremo nei lavori di scavo. Mastarna, dovrò lasciarti ancora la cura della città, nei giorni a venire.» Si girò verso il nobile Tavas, che lo aveva raggiunto portandogli il numero delle perdite, e la prima conta dei prigionieri. «Preparati a seguirmi nella foresta. Voglio quattro squadre di venti uomini tra i migliori, e scegli altri due comandanti di tua fiducia. Devono essere pronti tra non più di tre ore, con viveri per molti giorni», gli ordinò. L'uomo si inchinò, muovendosi immediatamente a obbedire. Era un uomo fidato e, sebbene la sua Casa non fosse tra le maggiori di Tarchna, era un combattente nato e godeva del prestigio dato agli uomini che sanno trascinare, ma che sono attenti nell'evitare inutili massacri. Mastarna lo lasciò allontanare prima di dare voce ai propri dubbi. «Non lasciare la città adesso, Larth. Io non voglio che la gente di Tarchna mi giudichi come colui che ha spinto i tuoi nobili a mettersi dalla
parte di Aivas.» «È proprio per questo che il tradimento va punito subito, amico mio, prima che diventi un motivo su cui riflettere.» Mastarna si strinse nelle spalle; Larth non gli stava lasciando un compito facile e i Vibenna non lo avrebbero aiutato, questa volta. Larth tornò alla Casa del Re con Velvur, aspettando che Tavas raccogliesse gli uomini, mentre Axal si prendeva cura di preparare i cavalli e le provviste. La gente di Ruma uscì ad acclamarlo, mentre saliva, e così gli artigiani e i Maestri di Tarchna e delle altre città della Lega, distratti per quel giorno dai loro compiti. Tuttavia Larth si ritirò subito e Velvur lo seguì; il Re non poteva allontanare il Grande Trutnot, e quella era una regola che nemmeno Larth avrebbe potuto cambiare fintanto che fosse stato Velvur a ricoprire la carica. Velvur restò così a guardarlo mentre si faceva servire da mangiare dopo essersi lavato: accettò anche di dividere il suo pasto, ma in realtà non prese altro che un sorso di vino. La Casa del Re era silenziosa, e Velvur sapeva bene che lì, più che altrove, qualcuno doveva aver sperato nella vittoria di Ancus; Larth mangiò un pasto più che frugale, quindi raggiunse l'antiportico. A giorno pieno il sole era tiepido, e da lì era possibile vedere il Palazzo dall'altra parte della piazza: era quasi terminato, e un gruppetto di uomini erano tornati a lavorarvi, e stavano sistemando le antefisse sugli angoli esterni del tetto. «Non grande quanto quello di Tarchna, ma tuo», esclamò Velvur giungendogli alle spalle, silenzioso come sempre. «È questo che stai pensando?» Larth sorrise. «Mio, sì, a dispetto di quello che tu stai pensando ora, Grande Trutnot. Dimmi piuttosto quanto tempo mi ci vorrà prima di aver ragione di un ribelle e di un traditore.» Velvur lo guardò con aria severa. «Perché lo chiedi a me?» replicò. «Tu sei il Mago. Ma se davvero vuoi il mio giudizio, allora posso dirti di non andare.» Larth fece un breve cenno di assenso. Il piacere della sfida... era una cosa che Velvur gli rimproverava da sempre. «Ma chi sto sfidando, ora?» si chiese all'improvviso. «Il ribelle, il traditore, oppure gli Dei e i loro segni?»
Toccò l'opale, e lo sentì gelido: anche Caitli era d'accordo con Velvur. «Non andare.» «Custodisci il mio Palazzo, Grande Trutnot», disse tuttavia, e uscì incontro ad Axal che stava venendo con i cavalli pronti. Larth portava ora la sua tebenna bianca a spirali nere, con la fibula d'oro e le insegne di Tarchna, e per un attimo si fermò a guardare il sole, e il cielo azzurro e pulito, appena velato da uno stormo di anatre chiassose. Gli uomini erano già pronti a seguirlo, al fondo del sentiero. Sorrise ad Axal. «Che cosa mi consigli, amico mio?» mormorò, sentendo su di sé il peso della gente che si era raccolta per vederlo partire, e che adesso era sincera nel levare gli auguri per il suo ritorno. Axal scosse il capo. «Perché? Tu hai deciso», gli rispose, tenendo le briglie del suo cavallo mentre montava. Larth colse l'ombra nei suoi occhi, lieve, come il passaggio di una nuvola in un cielo azzurro; si chiese se l'istinto o una qualunque altra forza potessero far sentire con più chiarezza al celta in quel momento quello che lui avvertiva come un richiamo incessante e perentorio, ma privo di qualunque altra spiegazione. «Non andare!» Anche il volo di falchi che veniva da occidente e che passò sulle loro teste in quel momento lo ripeteva. «Non andare.» Uno dei falchi era bianco. Si girò verso Mastarna, che lo aveva raggiunto, chinandosi a stringergli la mano perché la gente vedesse che era lui a tenere il potere durante la sua assenza. Poi ordinò di muovere i cavalli e lasciarono Ruma. Due giorni di inseguimento serrato li portarono nel fitto di una foresta compatta quanto quella sacra a Tinia; ma lì il terreno era più basso, e le paludi rendevano assai difficoltoso il passo agli uomini e ai cavalli. Era il territorio dei Falisci, e i fuggiaschi vi si stavano inoltrando, spinti forse dall'intento di coinvolgerli o di chiedere asilo. Al terzo giorno trovarono il primo dei nobili di Tarchna che avevano seguito Aivas trafitto da una lancia, che lo conficcava al tronco di un albero dov'era stato lasciato a morire dissanguato, come un maiale. Nessuno chiese di fermarsi per dargli sepoltura. A sera, quando si accamparono su un lieve rialzo del terreno, Larth chiamò Tavas e gli altri comandanti. Era già buio e il freddo si era fatto
pungente. La foresta era brulla e immobile, ma i lupi sentivano l'odore degli uomini e dei cavalli, ed erano di certo affamati, almeno quanto i cinghiali di cui avevano visto intrecciarsi le piste per tutto il giorno. «Il latino sta cercando di rallentarci; sa che siamo in grado di seguire il passaggio della sua banda, che è troppo numerosa per non lasciare tracce. Domani troveremo certamente altri traditori lasciati ai lupi», disse Larth. «E agli orsi», intervenne Axal, gli occhi fissi a un punto impreciso d'oscurità, oltre il fuoco, di là dal cerchio compatto del campo. «Orsi?» chiese uno dei comandanti. «Oggi abbiamo attraversato le loro tracce più volte; il freddo sta cedendo e gli orsi sono affamati e furiosi», precisò il celta. «Ma questo vale anche per i nostri nemici», commentò Tavas. Ancora si stupiva della facilità con cui lo schiavo veniva ammesso nel cerchio dei capitani e interferiva con le affermazioni del Re. «Certamente», ammise Larth. «Ma questo è il loro territorio, non il nostro, e c'è da supporre che loro sappiano dove stiano andando, mentre noi dobbiamo avanzare seguendo tracce che possono anche ingannarci. Domani le quattro squadre si distanzieranno tra loro: ciascuna avanzerà facendo perno sulla mia, che resterà al centro e indicherà la direzione.» «Il latino potrebbe tenderci una trappola», osservò Aivas. «Lo farà, quando si sentirà al sicuro. E noi dovremo essere pronti. Tornate alle vostre squadre, ora», concluse Larth. Tavas e gli altri comandanti obbedirono, lasciando il fuoco che Axal aveva appena alimentato. Larth si avvolse nella propria tebenna: era infreddolito, e il fuoco non gli dava calore. In alto, le stelle scintillavano fredde nel cielo pulito, tra i rami fittamente intrecciati. «Questa assomiglia un poco alla tua terra?» chiese quindi, lasciando correre lo sguardo attorno e trovando soltanto ombre sconosciute. Non aveva amici tra quegli uomini che pure erano disposti a morire per lui. «No», rispose Axal. «La mia è diversa. Ma forse adesso è chiusa in quel grande disegno che Caitli ha tracciato con tanti colori nella stanza dei Principi.» Caitli. Stava lì tra loro, come una presenza luminosa; Larth sentì addosso un gran peso e qualcosa che lo lacerava, nel profondo. «Ho sognato», stava dicendo il celta, «di un orso che ci veniva incontro sul sentiero, e che ci uccideva.» «Quando?» mormorò Larth, così a bassa voce che Axal lo sentì appena.
Le fiamme del fuoco tremarono; un ciocco rotolò via, sfrigolando. «Non lo so.» Il celta sorrise, avvolgendosi a sua volta nella tebenna e chiudendo gli occhi. Nei due giorni seguenti continuarono ad avanzare, più rapidamente dei fuggiaschi, e coprendo un'area più ampia. Il freddo era sempre intenso, e a tratti il vento portava una pioggia lieve, e veli di brina. Trovarono altri quattro nobili di Tarchna, tutti uccisi come il primo, e altri due ammazzati con la spada e già devastati dai cinghiali e dai lupi. In mano ad Ancus ora non restava che Kae Aivas. Era ancora molto presto, ed era poco più di un'ora che avanzavano; dovevano procedere a piedi, perché il terreno nascondeva sabbie mobili e il sottobosco era troppo fitto. Un gran silenzio lo permeava, e la luce filtrava tra i rami come una pioggia. Larth trattenne il proprio cavallo sulla sommità di un rialzo; gli uomini della squadra erano ancora indietro; Axal, che lo precedeva, stava studiando il terreno in quel punto abbastanza compatto, per trovare la direzione. I fuggiaschi stavano diventando sempre più prudenti, ed era difficile non perderli. Axal infine si sollevò, girandosi. «Là c'è qualcosa», gli indicò, tendendo il braccio, ma non restò ad aspettarlo, precedendolo nella forra. Larth sentì il pericolo, con lo stesso strazio e la stessa intensità di qualcosa che lo feriva profondamente. Lasciò il cavallo e lo seguì. In quel momento sentì il fragore dei rami infranti, come se qualcosa di grossa mole si fosse fatto avanti dal fitto per andargli incontro. Si precipitò a sua volta. Oltre la forra c'era una conca erbosa, dove l'erba ingiallita era coperta di rami secchi, di foglie putride e di pozze d'acqua ancora ghiacciata. Sull'orlo opposto della conca, legato a un ramo e abbastanza in alto per non essere preda delle belve, c'era Kae Aivas. Era vivo. Nella conca un grosso orso bruno aveva assalito Axal, devastandogli con le enormi zampe il petto e la schiena. Adesso Axal giaceva con le spalle a terra e stava lottando per liberarsi dalla stretta che lo dilaniava. Larth si fermò. «Non alzerò mai la spada su di lui», ricordò. «Ma nemmeno per lui.» Il giuramento gli fermò la mano, il gelo gli scese addosso, come una malattia mortale: qualcosa che possedendolo poteva distruggerlo, ma che comunque non poteva o voleva evitare.
Axal annaspò per afferrare il pugnale che portava alla cintura, e Larth non si mosse né toccò la propria spada. Il celta infine riuscì ad afferrare l'arma, e con quella più volte colpì la bestia. Riuscì finalmente a tagliargli la gola ma, dopo quel gesto, Axal giacque immobile sotto la mole enorme dell'orso. La testa era abbandonata all'indietro, il viso quasi salvo dalla furia degli artigli ma il corpo devastato. Di lui, Larth vedeva soltanto i fini capelli biondi arruffati, e una mano che si stava riempiendo di sangue. 23. Larth si mosse adagio, con la sensazione di essere in un sogno. Sentì distintamente i suoi uomini sciamargli attorno, le spade pronte a proteggerlo, ma quasi non li vide. A un suo cenno, due soldati rimossero la carcassa della bestia, e solo allora raggiunse il celta e gli si inginocchiò accanto. Non avrebbe voluto vederlo così. Gran parte del petto, le spalle e le braccia erano devastate dalle ferite e il sangue usciva copioso da un largo squarcio sul fianco. Gli appoggiò le dita sulla fronte, con il tocco del Trutnot, per portargli via il dolore, ma per la prima volta da che aveva imparato quel tocco risanatore dimenticò di proteggersi, e assorbì in sé lo strazio con un impeto tale che riuscì a fargli piegare le spalle. «Caitli deve aver sentito», pensò. Axal girò il viso per sfuggire a quel contatto. «Stai bene, mio Re?» chiese Tavas, allungando una mano a sostenerlo, ma ritirandola subito, non osando toccarlo. Larth si rialzò lentamente; non era un dottore e non sapeva se Axal poteva vivere con quelle ferite. Ciò che sapeva era di aver avuto la sua vita in pugno e di non aver fatto nulla per salvarlo. Ma entrambi avevano atteso l'evento; Larth lo sapeva bene. Entrambi lo avevano fatto spinti dalla stessa sfida, e dallo stesso rifiuto. «Perché lui, al pari di me, non accetta ciò che è deciso... nemmeno la morte», pensò Larth. «E io ho desiderato punirlo per questo, nonostante tutto.» «Fermate la perdita di sangue, e preparate una barella per riportarlo a Ruma», ordinò. «Gli Dei sono contro di te, Tarquinio!» gli urlò Aivas, dall'alto dell'albe-
ro cui era stato appeso come un penoso fantoccio. Larth si girò verso di lui. «Scioglietelo», ordinò. «E portatelo qui.» Due uomini si mossero a obbedire; la tunica di Aivas era a pezzi, e lui aveva graffi e lividi per tutto il corpo, ma nessuna vera ferita. Gli uomini lo portarono nel mezzo della conca e lo tennero dritto davanti al Re. Aivas non abbassò lo sguardo. «Ancus è ferito e mi ha lasciato qui per farti perdere tempo; molti dei suoi uomini sono già morti e gli altri sono ormai allo stremo. Lo raggiungi prima di sera, se ti muovi subito!» «Ancus si è battuto per la sua gente, Aivas. Non era lui che stavo inseguendo, ma te. Lui lo sapeva bene: per questo ti ha tenuto per ultimo e ora ti ha lasciato. Poco prima del tramonto, Ancus giungerà presso i Falisci, ma io non ho alcun motivo per attaccare quella gente, ora. Ho ciò che volevo.» «Ancus ha fatto uccidere Tese!» gridò Aivas in tono d'accusa. «La morte di Tese è sulle tue mani: Tese stesso me l'ha confermato. Dimentichi che sono un Mago? Lui ha lasciato al fuoco quello che sapeva e nel fuoco io l'ho trovato. Puoi negarlo, adesso?» Aivas si irrigidì. «Non posso negare quella morte, ma l'Aruspice di Tagete ha parlato, Tarquinio: tu non sei un buon Re per Tarchna. Hai per alleato il Principe di una città il cui Re ha tentato di uccidere il nostro e tutti sanno che è lui che riconosci fratello, e non quelli del tuo stesso sangue! La Regina che ti era destinata non ti ha voluto, preferendoti uno schiavo in una notte consacrata da cui potrebbero generarsi mostri o tiranni. Quanto alla tua nuova Regina... non ha saputo fare altro che darti un figlio che è morto. Io mi chiedo, Tarquinio, quanto tempo passerà prima che tu ci venda ai tuoi amici di Velx trascinandoci nella vergogna!» Aivas girò attorno uno sguardo sprezzante: le altre squadre, attirate dall'allarme, li avevano raggiunti e Tavas, che temendo una trappola aveva fatto disporre tutt'attorno delle sentinelle, non poteva trattenere gli uomini dal serrarsi attorno alla conca a guardare. Larth fece un passo indietro, sfoderando la propria spada. «Lasciatelo, e dategli una spada», ordinò. «Tutti mi hanno sentito!» ribatté Aivas, all'improvviso libero. «E mi sono testimoni! Io accuso il Re!» «Tutti ti hanno sentito, Kae», ripeté Larth. «Anche la Dea Athrpa, e io chiamo lei a testimone, poiché tu hai nominato la Regina che mi era desti-
nata e che la Dea ha voluto consacrare. Prendi la spada: uno soltanto di noi resterà vivo.» Aivas balzò di lato e afferrò la spada di Axal che era rimasta a terra e l'alzò davanti a sé. «Se devo uccidere un Re non voglio che sia con una spada di Tarchna; meglio quella senza onore di uno schiavo!» esclamò. «La spada che stringi ha più onore di quanto meriti, Aivas. Difenditi.» Larth si liberò della tebenna; l'opale sul suo petto mandò un lampo, riflettendo la luce del sole che riusciva appena a filtrare tra gli alberi. All'istante, tutti gli uomini si tirarono indietro, in preda a un malessere che li attanagliava. Ma erano i migliori, ed erano stati scelti: quindi, anche se il disegno della Dea era ancora oscuro, la trama che in quel luogo si stava dipanando li eleggeva a testimoni. Aivas si mosse guardingo, girando attorno a Larth: tentò un primo affondo, facilmente parato, e subito dopo gli si scagliò contro, dimentico di ogni prudenza. Kae Aivas non aveva mai brillato nella lotta con la spada; la sua costituzione fisica era troppo robusta e gli facevano difetto la destrezza e l'agilità, doti che avevano fatto di quella stessa lama un'arma micidiale nelle mani del celta. Larth contenne senza sforzo i suoi assalti, costringendo l'avversario a indietreggiare e a risalire il bordo della conca. Senza concedergli un istante di pausa, Larth lo seguì, sbilanciandolo al punto da fargli mettere un piede in fallo. Rotolando, Aivas cadde nuovamente verso il fondo, perdendo la spada. A tentoni riuscì a riafferrarla, poi si girò, cercando di colpire Larth ai fianchi. Ma era troppo lento e grosso per portare a segno quel colpo. Larth lo raggiunse al mento con un calcio, e nell'attimo in cui Aivas aprì le braccia gli infisse la propria lama nel petto, in profondità, e poi lo ricacciò indietro, morto. Per un istante nella conca tutto rimase immobile e silenzioso. Poi, inatteso, dall'orlo orientale dilagò all'interno un ventaglio di sole, filtrato dai rami. Un sospiro, quasi un sibilo, venne dalle gole degli uomini. Larth pulì la spada, e si girò a guardare il celta, che era stato sistemato sulla rudimentale barella: aveva gli occhi chiusi ed era avvolto in un manto pesante. Larth incontrò lo sguardo attento di Tavas. «Torniamo», disse semplicemente. «Legate il corpo del traditore su uno dei cavalli, ma pulite la spada, e ridatela al celta.»
Nessuno osò aggiungere una sola parola. «Non lo so, mio Re.» Il Grande Trutnot era freddo e ostile come le parole che sceglieva con tanta cura. «Io posso fare molto su un corpo ferito, ma soltanto se lo spirito lo vuole. L'ho già fatto una volta per lui, ma quella volta gli Dei avevano mostrato i loro segni, e lui era una figura importante nei loro piani.» «Importante...» mormorò Larth, senza distogliere lo sguardo dal giaciglio dove l'uomo era sdraiato, immobile. «Perché mi hai fatto questo, Velvur?» Alzò gli occhi e incontrò quelli tristi del vecchio, adesso meno duri, perché lasciavano trasparire l'affetto e la pena. «Tu mi hai chiesto di riportarlo alla vita, allora, quando persino Caitli si era opposta al segno degli Dei e l'aveva aiutato a fuggire. Lei sapeva che cosa sarebbe stato questo straniero. Nella notte delle due lune gli Dei hanno disposto di loro e nessuno poteva impedirlo. Nessuno, Larth, nemmeno tu.» «Posso capire quella notte. Non è stato quello il tradimento», replicò Larth. Velvur assentì rassegnato; quella stanza del nuovo Palazzo che guardava a meridione era tiepida nel sole alto. Dall'antiportico filtravano appena echi di voci e rumori di gente che passava lì accanto; nessuno tuttavia osava entrare. Il Trutnot aveva fatto accendere il focolare che Larth aveva voluto sovrastato dall'aquila con le ali aperte e dal simbolo dell'ascia a doppia lama. Ma quello era un Palazzo nuovo: pietre senza storia e stanze senza voci, così qualunque simbolo Larth avesse scelto perché ricordasse Tarchna, il Palazzo restava comunque un guscio privo di vibrazioni e di Potere. «Così, quello che tu non hai perdonato è l'amore», sussurrò Velvur. «O forse soltanto il possesso? Eppure è un prezzo piccolo, per un impero.» «Un impero!» Il tono di Larth era ironico. Gli occhi di Velvur si incupirono. «Il potere, Larth. Ricordi? Non dimenticarti ciò che sei, e ciò che sogni.» Larth tornò a guardare Axal: aveva il viso madido di sudore e i bei lineamenti erano tesi nella sofferenza; una ruga profonda gli incideva la fronte. «Quindi non puoi dire se vivrà», mormorò. «Le sue ferite sono gravi, ma è il desiderio della vita che non è più abbastanza forte in lui. L'hai abbandonato, e ciò che non ha accettato dagli altri,
nemmeno dagli Dei, lo accetta da te: hai decretato la sua morte, Larth.» «Che cosa posso fare?» «Fai venire Caitli.» Velvur lo fissò apertamente per cogliere la sua reazione, e nemmeno Larth poteva sfuggire quando il Grande Trutnot esigeva tanta attenzione. Piegò il capo. «Chiederò a Mastarna di andarla a prendere e di portarla qui.» «Sì», acconsentì Velvur. «Fallo.» Larth uscì nell'antiportico, e da lì nel portico che circondava l'ampio cortile quadrato su cui si affacciava la sala delle udienze. Mastarna lo aspettava con Cneve e i Vibenna e gli altri comandanti. Il corpo di Aivas era stato esposto accanto all'ara, e gli Aruspici avevano celebrato i loro riti, ma il Grande Trutnot non era sceso a vederlo e adesso la salma era stata rimossa per essere sepolta senza onori di là dal fossato che rappresentava le mura. Mastarna si affiancò subito a Larth, senza parlare; aspettava, come sempre, che fosse il primo, e che svelasse il proprio umore e i propri sentimenti. «La città ha assorbito bene il contraccolpo», disse infine, vedendo che il Re continuava a tacere. «La gente è rimasta quieta e, sincera o no, appoggia comunque il suo Re Tarquinio. Qualcuno dei loro saggi ti ha consacrato.» Larth si fermò bruscamente, girandosi a guardarlo. «Vorresti andare a Tarchna e accompagnare qui Caitli?» «Mi chiedi di portare qui la Sacerdotessa del Palazzo per uno schiavo?» chiese Mastarna. Larth non batté ciglio. «Farai questo per me?» insistette. «Sei il Re; certo che lo farò», rispose, ma il suo pensiero era già corso a Thanaquil: l'idea di lei bruciava come un fuoco pronto a divampare. Mastarna sentì che Larth avvertiva quel fuoco, ma che non ne teneva conto, e questa volta non era una sfida, ma una scelta. Larth piegò appena il capo. «Ti ringrazio», mormorò. «Parti subito.» Entrò quindi a prendere il suo posto nella sala delle udienze, mentre i nobili gli sciamavano attorno. Mastarna era stato preceduto a Tarchna dai messaggeri inviati prima da Cneve, e quindi da Larth, non appena quest'ultimo era rientrato a Ruma con il corpo di Kae Aivas. Le notizie che quei messaggeri avevano portato
furono accolte con grande sorpresa. Flasi Aivas e i suoi Aruspici si erano immediatamente ritirati, chiudendosi in meditazione nell'unico luogo dove potevano ancora essere al sicuro: il santuario di Tagete appena oltre le mura. Tutti i nobili più o meno imparentati con la Casa degli Aivas, o loro aperti alleati, avevano scelto una prudente attesa, tentando di farsi dimenticare. Per ordine di Laris, che agiva in nome del Re, i beni della Casa degli Aivas erano stati confiscati, e il nonno e i due fratelli di Kae esiliati da Tarchna. Alla luce di quegli eventi la vita del Palazzo ne era uscita mutata, quasi assopita, e Laris aveva ridotto le pubbliche udienze a una per settimana. Soltanto Caitli scendeva ancora ogni giorno a incontrare i viaggiatori, i poveri e i forestieri che si assiepavano davanti al portale cercando aiuto o cure. Da qualche tempo, inoltre, aveva faticosamente convinto Thanaquil ad accompagnarla, sostenendo che una Regina doveva conoscere la sua gente se voleva davvero essere il ponte tra loro e il Re, così come era scritto che fosse. Caitli tuttavia quel giorno non era scesa, mandando soltanto le ancelle a distribuire cibo e cure; il suo tempo era stato interamente occupato dai preparativi per la partenza. Thanaquil l'aveva poi raggiunta per interrogarla su quella decisione all'apparenza così priva di senso. Caitli aveva scosso il capo, senza rispondere; due ore dopo le sentinelle avevano annunciato l'arrivo di Mastarna, che il vecchio Re aveva ricevuto subito, e che quindi aveva chiesto di parlare con lei, e con la Regina. Caitli li aveva lasciati soli quasi subito; Mastarna non intendeva sostare nemmeno per quella notte nel Palazzo, e la sua scorta si stava unendo a quella di Caitli nel cortile grande. Thanaquil la spiò un attimo dall'ampia apertura della sala delle udienze, mentre i servi stavano portando a Mastarna vino caldo e ciambelle di uva e miele; si girò quindi a guardare l'uomo, il quale fissava ostinatamente la propria coppa. «Hai chiesto di parlarmi», gli ricordò. Mastarna sollevò lo sguardo e Thanaquil sentì il turbamento che quegli occhi le davano: una sensazione prepotente e non disgiunta dalla paura, perché legata nel ricordo a quel momento di sopraffazione che Larth le aveva fatto subire. «L'amore non può essere così», aveva pensato spesso. «E non sarebbe così con lui», pensò nel momento in cui lo sguardo caldo di Mastarna si fissava su di lei. Una gioia sconosciuta e inebriante la pervase.
«È vero», ammise Mastarna, dominandosi. «Il Re mi ha chiesto di portarti il suo pensiero e la sua speranza di averti presto vicina.» Thanaquil scosse il capo. «Tu non sai mentire, Mastarna», mormorò. «Larth non ti ha detto nulla di tutto ciò.» Mastarna si alzò, lasciando la coppa. Raggiungendola, le si fermò davanti, così vicino che avrebbe potuto toccarla. Thanaquil, avvolta nel profumo lieve di essenze preziose, era così diversa dalle rozze donne di Ruma... era la delicata opera d'un artista perfetto. «È vero», le confidò. «Ma si è dispiaciuto per suo figlio, e per la sofferenza che ti ha causato. Queste non sono menzogne, credimi.» Thanaquil assentì, mordendosi le labbra. «Sono pronta per essere una vera Regina. Diglielo, ti prego.» «Lo farò. Il Grande Trutnot dice che il Palazzo del Re non sarà tale fintanto che la nascita di un Principe non lo avrà consacrato.» Mastarna quindi chinò il capo, allontanandosi. Thanaquil lo seguì nel cortile, per salutare Caitli: abbracciandola le appoggiò la testa sulla spalla e la strinse forte. Sapeva a cosa stava andando incontro, e un poco invidiava la sua compostezza, che la rendeva già così distante, e in un certo senso così dura. Caitli la lasciò con appena l'ombra di un sorriso. «Abbi cura del Palazzo», fu tutto quello che le disse. Mastarna la sollevò sul cavallo; non aveva voluto il carro a due ruote perché non voleva rallentare il viaggio; d'altra parte, Caitli cavalcava meglio di molti uomini e spesso, proprio per la sua leggerezza, aveva battuto Larth e gli altri giovani, fintanto che erano stati ragazzi e avevano potuto gareggiare assieme. La Sacerdotessa aveva indossato una tunica corta su calzari alti di cuoio; portava una pesante tebenna nera e aveva chiuso i capelli in un velo, tanto che da lontano poteva essere scambiata per un ragazzo. Mastarna le si affiancò e la scorta si chiuse loro attorno. Il giorno era grigio e freddo. L'inverno sembrava non volersi mitigare, e il cielo era un ammasso di nuvole nere, appena frangiate di chiaro lungo gli orli, nei punti in cui la luce tentava di farsi strada. Spirava un vento basso, teso, e tutti i camini di Tarchna fumavano; la città era tranquilla e operosa come sempre, ma come gravata da un pesante senso di abbandono. «Le pietre sanno», pensò Caitli. Si accamparono quella prima sera al riparo di una forra che attutiva a malapena l'inclemenza del vento. La sua scorta e quella di Mastarna si
disposero attorno, con più attenzione del solito: sentivano fortemente la presenza della Sacerdotessa, come e più di quella di una Regina. «Le forze del Cielo e della Terra sono con noi», mormorò Mastarna, porgendole la sua parte di cena: focaccia con le olive schiacciate e una sottile fetta di carne secca, affumicata e saporita come solo a Velx sapevano fare. Caitli accettò la cena e la lode, lasciando correre lo sguardo sulle ombre della scorta tutt'attorno. «Mi dispiace, Caitli; Larth ti desiderava a Ruma, ma non così e in queste circostanze», le disse Mastarna. «Lo so. Ho visto quello che è successo, in gran parte. Raccontami ora quello che tu sai», lo invitò. Mastarna le parlò di Aivas, dell'attacco al Colle delle Querce sventato grazie a Larth, della battaglia e del lungo inseguimento nel territorio dei Falisci nonostante il parere contrario del Grande Trutnot; e infine narrò del ritorno di Larth con Axal morente e con il corpo del traditore. Quando finì non osò guardarla. Caitli gli rivolse un debole sorriso. «Sei ancora innamorato di Thanaquil?» mormorò. «Lo sarò sempre», disse Mastarna in un soffio. Caitli si sporse a sfiorargli la fronte; un tocco leggero, che gli portò una sensazione di quiete e di gioia. «È quanto volevo sapere», gli rispose, e poi alzò il viso al cielo, restando a fissare le nuvole che correvano via, svelando le stelle. Quando arrivarono a Ruma il giorno era freddo, ma assolato, e la città sembrò a Caitli un solo grande cantiere, stracolmo di operai al lavoro. La base massiccia di un Tempio si levava dalla sommità di uno dei colli; a fianco, un palazzo, il più grande tra quelli già terminati, era la meta di una piccola folla indaffarata. Ovunque ferveva una vita intensa, uno spirito potente... «Una forza», pensò Caitli, una reale forza dilagante, che Larth aveva scatenato e che adesso, come Re, dominava. La profezia ritornò a disegnarsi chiara nella sua mente: «Nascerà da noi una nazione: la più potente di tutto il tempo già segnato. Per nostra colpa e nostro merito apprenderà a essere grande, e dilagherà come un vento di tempesta su tutto il mondo conosciuto. Non parlerà mai la nostra lingua, e non avrà mai il nostro nome. Coltiverà soltanto il potere, la conquista e il dominio, e quando sarà forte ci distruggerà.» Mastarna scortò Caitli fin dentro il Palazzo. La costruzione era straordinariamente luminosa, con un grande cortile quadrato e il portico e l'anti-
portico dove ancora gli operai stavano finendo dei lavori; il sole vi cadeva dall'alto, illuminando una vasca ancora vuota e in cui soltanto un fondo di acqua piovana scintillava a tratti. L'arrivo di Caitli non passò inosservato. Molti sguardi curiosi la seguirono: era il simbolo di un Potere che non conoscevano, e di forze che temevano per istinto e che appena riuscivano a intravedere. Caitli scelse di ignorarli e Velvur la raggiunse subito. Le tese le mani, e lei le strinse in silenzio; non avevano davvero più bisogno di parole, per intendersi. «Pietre nuove, senza storia», mormorò Velvur, dando voce ai suoi pensieri nei confronti dell'edificio che li ospitava. «Ne raccoglieranno molta», mormorò Caitli di rimando. Ma quel futuro lontano in quel momento non la toccava più di un sogno non suo. Velvur la trattenne un attimo, prima di permetterle di entrare nella stanza. «Non vivrà, Caitli, e anzi mi sono stupito che sia durato tanto.» «È cosciente?» «A tratti, ma è come se avesse dimenticato la nostra lingua o avesse nuovamente scelto di dimenticarla; io credo che stia pensando alla sua gente e forse crede davvero di essere tornato nella sua terra.» Caitli assentì, e Velvur la lasciò entrare da sola. La stanza era grande, e il focolare era acceso. C'erano tappeti e qualcuno degli arredi preziosi che Larth aveva fatto venire da Tarchna: di certo non era la stanza di uno schiavo. Sul giaciglio pulito Axal era quieto, con gli occhi semichiusi; sul petto nudo le abrasioni superficiali si erano ridotte a cicatrici, ma le bende che coprivano le ferite profonde erano macchiate di sangue. Un odore forte di unguenti e di erbe saturava l'aria. Caitli si liberò della tebenna e gli si inginocchiò accanto; per lunghi minuti restò immobile, senza toccarlo, fintanto che Axal aprì gli occhi. La riconobbe all'istante. Le sorrise, e con un certo sforzo serrò le dita della mano destra attorno alle sue. Non poteva più muovere il braccio sinistro, e nemmeno la mano. «Gli occhi di questo Palazzo ci sono amici?» mormorò, e la voce gli usciva a fatica, rauca. Caitli si chinò a baciarlo sulle labbra. «Questo Palazzo non ha occhi, ancora.» Axal le tenne la mano. Uno spasimo tuttavia gli attraversò i lineamenti, facendolo rabbrividire; adesso Caitli sentiva il potere di quella morte ac-
cettata, che incombeva. Era quasi buio quando venne un servo, timoroso, a rinvigorire il fuoco e ad accendere le lampade. Subito dopo entrò Cneve, che si inchinò, restando tuttavia sulla soglia. «Il Re chiede di vederti», disse a Caitli e poi aspettò, per accompagnarla. Caitli aveva ripreso gli abiti che le erano usuali: la tunica azzurra colorata di scarlatto e oro dei Trutnot, e il manto azzurro appena toccato da un ricamo d'oro, che scintillava nella penombra. Scoprì lo sguardo turbato del giovane su di lei, quando lo raggiunse, e si mosse al suo fianco. «Vivi a Palazzo?» gli chiese quindi, e intuì un certo fastidio, anche se ben mascherato, che diceva chiaramente come Cneve si fosse già abituato a non sentirsi rivolgere domande dirette da una donna. «Sì, certo. Larth mi ha affidato molti compiti importanti. Aspettiamo il delegato di Cartagine e quello di Corinto. Il nostro porto di Ostia potrà accogliere le prime navi già quest'estate!» «Sei fiero di questa città», commentò Caitli. Cneve si fermò, incerto; non per la risposta che doveva darle, ma dubbioso se quella donna avesse il diritto di parlargli in quel modo. Caitli accennò un sorriso, sfiorandogli la fronte con un tocco lieve, che provocò nel ragazzo uno strano dolore. «Attento, Cneve. Tu sei giustamente fiero di quello che stai aiutando a creare, ma ti sei già lasciato travolgere da questa febbre di possesso che non ti può dare nulla, se dimentichi il Cielo», lo ammonì Caitli, pacata. «Facciamo i nostri riti e i Latini li stanno imparando. Sono attenti a ripetere i gesti e le parole: perché dici che dimentichiamo il Cielo?» chiese Cneve, insospettito. «Perché i gesti e le parole sono gusci vuoti, che verranno adattati e mutati per seguire le necessità. Il Cielo è un'altra cosa, Cneve, e non è più in te.» Il giovane sentì all'improvviso quelle parole in modo diverso, come se in effetti non fossero state pronunciate con le labbra, ma gli fossero state instillate direttamente nella mente, e nella carne. Non gli era mai accaduto prima, e Cneve ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse serrato la gola. Ma erano arrivati davanti alla porta delle stanze del Re e le guardie, riconoscendolo, l'avevano già aperta. Cneve si inchinò, rigido. «Spero che Axal viva», disse. Caitli si girò, fissandolo duramente. «No. Tu stai pensando che è vergognoso che tuo fratello il Re si preoc-
cupi di uno schiavo; e sei lieto della sua morte, perché Axal aveva al fianco di Larth il posto che doveva essere tuo. Era questo che pensavi quella notte nella Foresta Sacra di Tinia, ed è questo che pensi ora.» Lo lasciò, entrando. Quella prima stanza, quasi vuota, era rigida e severa. Due clinai erano disposti davanti al camino; una preziosa cassapanca di onice e avorio intarsiato e un lungo tavolo di pietra nera occupavano l'angolo opposto; un tappeto di colori e disegni egizi copriva la pietra del pavimento, e uno più piccolo, quasi uguale, pendeva sulla parete opposta a quella occupata dal camino. Raffigurava una scena di pace: uno specchio d'acqua con un lento volo d'uccelli dalle grandi ali distese, in volo verso il tramonto del sole. Uno degli uccelli era bianco. Larth le venne incontro, ma si fermò a qualche passo, senza toccarla. «Velvur dice che non puoi salvarlo», disse senza neppure rivolgerle un cenno di saluto. «No. Lui continua a non credere in ciò che è scritto, ma crede in ciò che ha visto, e ti ha visto restare immobile quando avresti potuto aiutarlo; ti aveva detto che avrebbe accettato la morte da te. È quello che ha fatto», rispose Caitli, guardandolo con durezza. Larth chinò il capo: non mascherava il suo dolore, a lei. E sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe permesso a qualcuno di vederlo così debole e indifeso. «Non ho potuto rompere il giuramento», mormorò. «Lo so. Godi della tua città, Tarquinio: sarà bella e potente. Axal e io ameremo sempre Larth di Tarchna», rispose Caitli. Gli girò le spalle, e lo lasciò, portandosi via un frammento di Potere che spense in parte lo splendore dell'opale sul petto di Larth, il quale, tuttavia, non se ne accorse. L'agonia di Axal durò ancora due giorni; all'alba del terzo riprese coscienza, e con un certo sforzo passò il braccio che ancora poteva muovere attorno alla vita di Caitli e l'attirò a sé. Il viso gli si era trasformato, distendendosi; i lineamenti avevano ripreso la loro affilata bellezza, gli unguenti e i profumi nascondevano l'odore della morte e il corpo martoriato era immobile, senza più ribellioni. La sua Dea della Guerra e della Morte era lì: aspettava. Contro di lei Caitli non poteva fare alcunché. «Tra la mia gente», mormorò Axal, «un guerriero non deve morire con il pianto di una donna nelle orecchie. Chiama Larth.»
Caitli si sollevò un poco, passando l'ordine al servo che era rimasto muto, in attesa, sulla soglia. Quando Larth giunse, tuttavia, Axal era già morto. Bruciarono il corpo al tramonto, su una pira eretta secondo l'uso della sua gente; le sue ceneri, con le sue armi, sarebbero state deposte nella tomba dei Re di Tarchna, accanto a quelle dei servi fidati e delle nutrici. Nel tramonto freddo, Caitli incendiò la pira. Larth la guardò bruciare dall'alto del suo Palazzo; per la prima volta sentiva il fuoco ostile, e le fiamme che divoravano il corpo avvolto nella tebenna nera in realtà bruciavano sino in fondo alla sua anima. L'opale sul suo petto era gelido. 24. Il corteo di Tarchna raggiunse Veltune per primo. Faceva già caldo e le giornate erano luminose e piene di sole, tanto che la Foresta Sacra era precocemente verde e tappeti di fiori selvatici giungevano fino alle acque del lago. Larth passò i primi giorni a rinsaldare le alleanze con i Re di Faleri, di Velzna e di Sveana, e a trattare con i Re di Roselle e di Vetaln, che avevano ferro in abbondanza da smaltire verso il sud. Velvur si era ritirato al Tempio del Chiodo; Thanaquil e Caitli, appena giunte, in quello della Dea Turan. Il Trutnot aveva ordinato a entrambe con un messaggero inviato per tempo a Tarchna - di essere presenti, ma lasciò comunque passare i giorni che precedevano l'inizio vero e proprio del convegno senza vederle. Per ultimo arrivò Sevre di Velx, con il seguito; Mastarna aveva scelto di restare a Ruma, ma i Vibenna si accompagnavano ai Principi. Già correvano voci, tuttavia, sui risultati dell'elezione del Re Supremo. Sebbene nessuno ne parlasse apertamente, tutti mormoravano un solo nome, e ne erano al tempo stesso entusiasti e timorosi, perché Larth Re di Tarchna portava Ruma nella propria corona, proprio come aveva promesso, ma era anche un Mago, e non rispettava le regole. Larth ascoltò paziente ore e ore di disquisizioni sull'utilità dell'espansione e sulla necessità che la Lega si mantenesse solida; ascoltò altrettanto paziente le preoccupazioni dei vecchi Zilath sulla bontà di una politica che rischiava di accentuare la rivalità tra le città, e quindi in effetti di indebolire la Lega nella sua unità; e ignorò i commenti più o meno aperti e aspri
sul tradimento di Kae Aivas e sull'incrinarsi dell'unione con Velx. «Aveva ragione Velvur», pensò tuttavia, osservando i Re e gli Zilath riuniti nel banchetto che aveva offerto nel suo padiglione, «è più facile sentire le brezze dei mormorii che le urla delle tempeste. E più utile. Io adesso posso sentirle. Posso sentire le loro paure, ma anche la loro sete di guadagno e di prestigio, più forte delle paure stesse. E così posso dominarli.» Era già molto tardi quando lasciò il padiglione per salire, da solo, al santuario della Dea. Portava una tebenna nera e senza insegne, e si prese gioco delle guardie, passando nel cerchio protettivo attorno ai padiglioni senza che potessero vederlo o sentirlo. Era una bella notte; la luna era piena, appena rosata, enorme, sospesa su acque immobili. L'aria era satura del profumo della terra appena risvegliata. Girò attorno al monte, per l'antico sentiero che proprio Velvur gli aveva mostrato; era passato tanto tempo da allora, e Larth riusciva quasi a vedere l'ombra del ragazzo che aveva avuto i segni, anche se non aveva saputo leggerli. Adesso, passando dinanzi alla bocca spalancata e luminosa del Tempio del Chiodo, Larth nemmeno girò il capo. Quella notte era sacra per lui; nient'altro, nemmeno i ricordi, doveva toccarla. Si presentò al Tempio della Dea; la Signora di Turan gli venne incontro, il viso impassibile tra i veli chiari che le serravano il capo. Aveva occhi d'acqua, che sembravano vedere nel profondo, ma li abbassò subito al suo sguardo. «Non puoi entrare», disse tuttavia. «Nessun uomo può sostare davanti all'Occhio della Dea.» «Non voglio vedere l'Occhio della Dea né alcun altro dei vostri luoghi segreti, Signora di Turan. Ma ho avuto un segno, e chiedo la mia Regina Thanaquil e un luogo confortevole per onorarlo con lei nella benedizione della Dea», spiegò Larth. La donna trasse un lungo sospiro. Dalla grande sala scavata nella roccia e aperta sul lago venivano le musiche, i canti consueti e gli echi delle voci. La donna si distrasse un attimo, pensando se accettare o respingere quella preghiera. Infine chinò il capo. «Sento la forza del tuo segno, Re di Tarchna e di Ruma. Vieni: seguimi», lo invitò. Larth obbedì senza rispondere; la donna lo guidò per cammini di pietra
tra pareti anguste di roccia che scendevano in profondità; a tratti lo colpiva in viso l'aria fresca della notte, che si insinuava da spaccature segrete, e avvertiva lo stillicidio dell'acqua nelle viscere della montagna. Lungo il cammino, a intervalli regolari, pendevano dalla volta o dalle pareti lampade di bronzo di squisita fattura; fiere ed animali d'Egitto e di Babilonia, serpenti e chimere alate avvolte in spirali a sostenere la fiamma: ogni volta, al loro passaggio, il fuoco si inchinava. Infine la Signora di Turan lo introdusse in una delle celle ricavate nella roccia. Larth non riusciva a capire a quale livello della montagna si trovasse, ma la cella aveva una feritoia verso l'alto, e da lì penetravano la luce della luna e l'aria profumata. La cella era grande, ricoperta di tappeti preziosi; il letto era sontuoso e del vino aromatico stava scaldandosi su un braciere. Un basso tavolo di onice ospitava coppe d'argento e frutta fusa nel miele. «La tua Regina ti raggiungerà al più presto. All'alba, un'ancella verrà per guidarti all'esterno.» «Ti ringrazio», rispose Larth. La donna chinò il capo; aveva appena un'ombra di sorriso sulle labbra strette. «Adesso so che eri atteso», gli mormorò. Poi si allontanò, chiudendosi con cura la porta alle spalle. Larth si liberò della tebenna e della tunica; nella piccola stanza faceva caldo, ed era un caldo denso, che aiutava il desiderio. «Eri atteso...» Poteva essere il più innocente dei commenti, per confermargli la fedeltà e l'amore della sua sposa, e tuttavia la Signora di Turan sembrava poter ascoltare le voci profonde e aveva inteso davvero quello che aveva detto. «Caitli», pensò Larth, con una sorta di risentimento; non voleva che il rimpianto si impadronisse della notte e soprattutto non voleva fantasmi. Copri l'opale con una mano, sentendolo tiepido, ma non lo tolse, perché non osava spezzare quel legame che adesso gli sembrava così tenue e disperato. Thanaquil entrò in quel momento; l'uscio si richiuse alle sue spalle e per un istante non si sentirono altro che lo sfrigolio del vino che si scaldava e un sospiro di vento, in alto, dalla fenditura da cui si vedeva la luna. Thanaquil era bella come non era mai stata; le sue forme si erano fatte morbide e piene e il seno tendeva con arroganza la mussola lieve della tunica chiara. Si liberò della sottile sopravveste a rete d'oro e la lasciò cadere ai piedi, senza muoversi.
Le sembrava che Larth fosse cambiato. Davanti a lei c'era un uomo all'apice del suo vigore: le spalle erano larghe e forti; il corpo era bello e armonioso; il viso glabro era duro e aveva ciglia lunghe a mitigare occhi terribili, mentre le belle labbra sapevano esattamente come sorridere a una donna. E Larth le sorrise, muovendosi per raggiungerla. L'attirò a sé con gentilezza, passandole un braccio attorno alla vita e sfiorandole appena le labbra con le proprie. «Siamo stati troppo lontani l'uno dall'altra. Permettimi di onorarti come mia Regina, Thanaquil», le disse, senza lasciarle gli occhi. Thanaquil sentì la sua forza, ma la avvertì diversa, questa volta: una forza trattenuta e guidata a comporre qualcosa che ancora non conosceva. «Nostro figlio Tarchon...» mormorò, ma Larth le pose un dito sulle labbra impedendole di continuare. «Era scritto; avremo altri figli e la Dea Turan ci consacrerà nel suo ventre», le sussurrò. La guidò poi al letto, accarezzandola fintanto che Thanaquil si ritrovò nelle sue braccia, sentendo crescere sulla sua pelle il desiderio di appartenergli; Larth la risvegliò con lenta sapienza da quel sonno della carne, che per lei era stato troppo lungo, prima di stendersi su di lei, appagandola; dopo continuò a tenerla contro di sé, a colmarla ancora di calore e di tenerezza. Thanaquil si sentì sazia e felice. L'intero mondo poteva finire in quella cella nelle viscere del monte sacro, e lei non avere futuro né ricordare il passato... Si strinse a lui, assaporando la sua abilità, all'improvviso libera e fiera del proprio corpo e della propria bellezza, che la facevano desiderabile per un uomo così grande. Un Re e la sua Regina; nessun seme era più sacro e nessuna unione più cara agli Dei di quella, perché era la continuità e il trionfo del prescelto; era il passaggio del divino dal cielo alla terra: era la vita. Per il Tempio della Dea Turan, poi, era allo stesso tempo l'apoteosi e la negazione della disciplina che vi si praticava. «Hai violato le regole, lo sai?» gli mormorò infine Thanaquil. «Nessun uomo può entrare in questo Tempio.» Larth sorrise, sollevandosi a guardarla. «Un uomo, forse. Ma io sono due volte Re, e sono un Mago», le sussurrò. La lasciò, per versare il vino e portarglielo; Thanaquil bevve con gioia dalla stessa coppa. Il braciere era quasi spento e la luce della luna, già più alta, portava una luminosità bianca a disegnare arabeschi sui loro corpi.
Thanaquil lo attirò a sé. «Sei rimasto padrone di te stesso, ma sei nella Casa della Dea Turan, e non sei l'unico a conoscere la magia: amami ancora, e anche tu conoscerai la Dea!» «Non restare padrone di me stesso è un prezzo alto, mia Regina», l'ammonì Larth. «No, è un piccolo prezzo per chiunque, tranne che per te», disse Thanaquil con un misterioso sorriso. Larth acconsentì, come se quello che Thanaquil gli chiedeva fosse solo un nuovo, intrigante gioco d'amore. Tuttavia, ben presto, Larth giunse realmente a dimenticarsi di sé e di tutto quanto lo faceva ciò che era; e non gli era mai accaduto, con nessuna, e in nessuna circostanza. Quella sensazione, inebriante e assoluta, lo scosse nel profondo: era forse opera della Dea, o di Thanaquil, o di entrambe, alleate per vendicarsi di lui uomo, dal quale erano state offese? «Questo», si sorprese a pensare Larth, ancora ebbro, «è molto più che onorare la Regina: è bruciare come un'unica fiamma viva, senza poter quietare la sorgente.» Larth si svegliò solo molto più tardi: un chiarore lieve penetrava dalla fenditura nella volta e il braciere era spento: nella stanza faceva quasi freddo. Per un momento restò ad ammirare il corpo perfetto di Thanaquil, nella penombra; gli apparteneva realmente, adesso. Il suo seme l'aveva colmata e se ne fosse venuto un figlio sarebbe stato benedetto. Quindi la coprì, si rivestì e uscì dalla stanza, chiudendo con cura la porta. Un'ancella della Dea lo aspettava; era piccola e minuta, quasi ancora una bambina, e gli fece cenno di seguirlo. Risalirono per una strada diversa da quella per cui l'aveva guidato la Signora di Turan. Questa finiva in una grande sala a volta, spoglia, a eccezione di grandi teli dipinti a schermare le aperture sul lago, e di una polla d'acqua sorgiva nel suo mezzo. Una donna era accovacciata accanto alla polla, immobile. Un braciere poco lontano le accendeva i capelli color del rame, liberi, che le ricadevano in riccioli lunghi fin oltre la vita. Portava la tunica azzurra dei Trutnot. Larth la raggiunse; la sua piccola guida si dileguò in uno degli innumerevoli passaggi laterali. Erano soli. «Tu sei quello che sovverte le regole», lo salutò Caitli, sollevando su di
lui gli occhi d'oro chiaro. Larth la sentì ostile. «Tua sorella è stata felice, e anch'io: non puoi rimproverarmi per questo. Non sono stato io a sceglierla come Regina», le rispose Larth. «E questo è quello che non le perdoni», concluse Caitli. «L'ho accettata; io non ricordo tutto quello che è accaduto questa notte, e nemmeno lei, forse. Ma abbiamo scoperto di poter stare a fianco a fianco, così la vita non le sarà troppo dura, a Ruma.» «È là che la vuoi portare?» chiese Caitli. «Là porterò la mia corte; lascerò a Tarchna mio padre, ad amministrare la giustizia, ed Egene prenderà il suo posto, quando sarà troppo vecchio. Ma la mia corte sarà a Ruma.» «Così il Palazzo resterà vuoto», commentò Caitli, e non era un rimprovero a lui, ma piuttosto la coscienza del compimento di un presagio. «Così era scritto», ribatté Larth, ironico, gettando un'occhiata distratta alla polla, e rendendosi conto che quello era l'Occhio della Dea che lui non avrebbe dovuto vedere. La polla gli sembrò profonda, buia, indifferente. «Anche tu verrai a Ruma, con i Libri di Tagete. Ho bisogno di dare a quella gente qualcosa di concreto su cui fondare il proprio comportamento, e anche noi ne abbiamo bisogno; là rischiamo di dimenticarci dei nostri riti e della nostra lingua.» «Nessun libro potrà far ritornare un Cielo, quando è stato dimenticato», ribatté Caitli. «Sono gli uomini che tengono vivo il Cielo, Larth. Quando gli uomini non crederanno più, non ci sarà più niente in cui credere.» «È ancora presto per questo», replicò Larth e le sorrise. Per un attimo, fu tentato di prenderla tra le braccia in nome di quell'unione profonda che ancora vibrava tra loro, per consolarla di quella morte non più ricordata, che li divideva come un abisso. «Io non verrò a Ruma, Larth», disse Caitli, pacata. «Posso ordinartelo.» Il sorriso era sparito dalle labbra di Larth. «Tu puoi ordinarlo, ma io non ti obbedirò. Domani avrai la corona del Re Supremo, e anni di potere davanti a te. Non hai più bisogno di me, Larth.» Larth allungò una mano a sollevarle il viso; provava una gran pena, come se fosse l'ultima volta che la vedeva, e la chiarezza di quella sensazione gli lacerava l'anima. «Dove vivrai?» La voce di Larth era poco più di un sussurro. «Al Tivrit, nell'Isola Fumosa», disse Caitli, e pensò: «Devo crescere mia figlia, la figlia di Axal. Il nostro dono».
Aveva una traccia di pianto negli occhi. Larth si risollevò. «Perché ci hai fatto questo, Velvur?» si scoprì a pensare. «Che cosa dice la Dea?» osò quindi chiedere. Ma l'acqua restò cupa, e i grandi teli dipinti si gonfiarono per la spinta del vento, salito con l'alba ad avvolgere il monte. Un volo di uccelli mattutini si precipitò giù dalla cima, riempiendo il silenzio con alti gridi. Larth girò le spalle a Caitli e uscì dalla sala trovandosi nel Tempio della Dea e subito dopo all'aperto, nel sole dilagante. Il giorno seguente Larth fu eletto Re Supremo; vestì la tunica guarnita d'oro, il mantello di porpora, il diadema d'oro e lo scettro, e si sedette sul trono d'avorio, mentre due adolescenti svolgevano la cerimonia del Chiodo sotto l'attenta guida di Velvur. I due giovanissimi scelti per la cerimonia erano figli dei Principi di Velzna; erano compiti e impacciati. Il corpo della fanciulla era ancora acerbo, mentre quello del ragazzo lasciava vedere tutta la sua eccitazione, ma quello era un buon segno di fertilità e gli Aruspici avrebbero tratto dei buoni auguri. Sorrise tra sé. Le dodici asce dalla doppia lama riposavano deposte ai suoi piedi; la sua Regina era splendente e i Re che lo avevano eletto sembravano ora paghi del fatto compiuto. Da lui si aspettavano espansione, conquista, potere. Si era chiesto, da ragazzo, se un Re poteva essere stanco nel giorno del suo trionfo. Adesso, attraverso il fumo, cercando di scorgere nei due adolescenti qualcosa che gli apparteneva, scoprì che la stanchezza era un nemico subdolo, e prepotente, e si sentì all'improvviso stanco. L'Erede tuttavia non fu concepito nel Tempio della Dea, bensì nel nuovo Palazzo e nacque in un mattino d'estate rallegrato dal sole. La nascita venne salutata con gioia anche perché, in tal modo, l'edificio veniva consacrato, e le pietre potevano iniziare veramente ad avere memorie. Thanaquil aveva desiderato con fervore quel bambino e non gli avrebbe mai permesso di morire per mancanza d'amore. Aveva così compiuto tutti i riti, anche quelli onorati dalle donne latine, e poi si era affidata a Velvur. Thanaquil andava spesso con il pensiero a raggiungere Caitli e talvolta la sentiva, sulla cresta del fuoco; ma erano sensazioni imprecise, frammenti, sussurri che non sapeva ascoltare davvero. Tuttavia le bastavano, per non sentirsi troppo sola in un Palazzo dove in effetti era amata molto più del
Re e dove, con discrezione e astuzia, riusciva a essere veramente Regina, conquistando la fedeltà e la simpatia delle donne e il rispetto degli uomini. Il bambino nacque facilmente: era un maschio robusto, e Larth lasciò i Re di Xaire e di Vei, con i quali in quel momento stava trattando un patto di confine, per correre da Thanaquil e sollevare il figlio, riconoscendolo Erede. Gli fu imposto il nome di Tarquinio Laris. Larth, che era stato rieletto Re Supremo a Veltune, adesso era veramente appagato. Tra i colli, i suoi Maestri stavano progettando un ampio luogo per gli incontri, il Foro, e le costruzioni stavano scendendo dalle alture conquistando gli spazi prima occupati da paludi e boschi; la prima cerchia di mura si stava alzando a proteggere la città a oriente. All'inizio dell'autunno arrivò la notizia della morte del vecchio Re di Tarchna. Tarchon era morto tra le braccia di Velvur, dopo avergli rimproverato di saper essere sempre presente, quasi comparendo per magia, quando era necessario; e dopo aver chiesto più volte di potersi alzare per uscire incontro alla sua Regina Ramtha e alla sua corte, che vedeva gremire il cortile del Palazzo, e di cui riusciva persino a sentire le voci e le ovazioni. Velvur si era ritrovato solo, quello stesso giorno, nel piccolo cortile su cui si affacciava la stanza dei Principi; aveva bisogno di meditare, dopo aver compiuto i riti più immediati e aver diviso con il Principe Laris il dolore non per il Re, ma per l'amico. E più di ogni altra cosa aveva necessità di ritrovare le fila di un disegno per una tela che ormai si componeva altrove. Tarchna non era mai stata tanto ricca e potente: tuttavia Velvur sapeva che proprio la conquista di Ruma stava tracciando la fine della gente rasna nei secoli a venire. Ma in nome di quale verità poteva svelarlo? L'altare della Madre Dia era coperto di foglie precocemente cadute e gli insetti volavano pigri e gonfi di nettare; una gran quiete colmava l'aria e il tempo sembrava sospeso. «Sei ancora qui?» lo apostrofò il giovane, arrivandogli alle spalle e spezzando gli arbusti cresciuti lungo le mura. Velvur non si girò; poteva vedere il ragazzo con gli occhi della mente, e in modo molto più chiaro. Vul si era fatto grande, anche se la sua figura era pingue attorno ai fianchi e all'addome, e le guance paffute contrastavano con il fuoco degli occhi cupi. «Che cosa stai pensando, vecchio?» mormorò tra i denti. «Che somiglio
di più a una puttana di Gravisca che si vende per niente piuttosto che a un figlio di Re?» Velvur si girò lentamente; Vul teneva la mano sinistra sul petto, all'interno di un corto mantello. «L'età non ti ha portato saggezza», replicò quietamente Velvur. «Nemmeno un figlio di Re può permettersi di parlare al Grande Trutnot come tu hai fatto.» «Io non ti riconosco; mio padre sarà sepolto domani e tutta la città gli renderà gli onori, ma io non vedo altri Re, né Eredi, tranne me.» «Uno schiavo castrato?» mormorò Velvur, sapendo di scatenare così la sua ira. «Che ha fatto vendere sua madre al postribolo più infimo del porto di Pyrgi?» Velvur vide l'arma molto prima che il giovane traesse la mano che la nascondeva sotto il mantello. «Sto davvero diventando vecchio», pensò. «Non ricordavo che Vul fosse mancino.» L'istante dopo Vul si scagliò avanti; Velvur sorrise appena, chiamando a sé la radice di uno dei caprifogli che ormai coprivano tutta la facciata, non più trattenuti da alcuna cura. La radice si tese, si gonfiò e si inarcò infine verso l'alto nello spazio di pochi istanti: Vul inciampò, finendo in ginocchio ed evitando a stento di ferirsi con il suo stesso pugnale. Troppo pesante per rialzarsi abbastanza in fretta, rimase quindi immobile, sollevando appena il viso astioso. Velvur scosse il capo. «Non profanare la Terra, Vul. Nessuno può darti la pace, se non sei pronto a riceverla.» «Il Principe Laris ha disposto che io sia venduto come schiavo di piacere a un mercante di Cartagine che riparte domani!» «Il Principe Laris ha preso una saggia decisione; da anni allieti i letti dei mercanti d'oriente ospiti del Palazzo, benché il vecchio Re ti avesse ordinato di astenerti dal prestarti ai loro giochi. Di che ti lamenti ora?» commentò Velvur. «Di essere nato», mormorò il ragazzo, risollevandosi con rabbia. «Sei colto e sei ambizioso, e la tua mutilazione ti farà apprezzare anche di più come amante, a Cartagine; e poiché sei anche furbo, non dubito che potrai presto farti ricco e potente in quella città lontana. Sta a te scegliere», concluse il Trutnot. Vul rise. «Scegliere?» ripeté, ma alzò un istante gli occhi al cielo e scoprì un cumulo di nubi nere dove prima c'era soltanto azzurro.
«Certo; tra l'accettare il tuo futuro e provare di nuovo a uccidermi. È quello che ti stai chiedendo proprio in questo momento.» Vul trasse a sé il pugnale. «Se sapessi di poterti offendere, in qualunque modo, lo farei, vecchio. Ma io credo nel futuro che mi hai predetto e quando sarò ricco e potente la mia vendetta sarà più dolce.» «La vendetta non ha mai frutti dolci», lo ammonì Velvur. Vul sputò a terra con disgusto, e poi arretrò, senza lasciare il Grande Trutnot con lo sguardo, aspettandosi comunque una punizione. Riparò nel quartiere degli schiavi in preda a una disperazione per lui inconsueta; all'improvviso il Re suo padre, che aveva odiato per così tanto tempo, gli mancava. Gli altri servi del Palazzo lo evitavano con cura, memori dei suoi capricci e delle sue prepotenze; era solo, e presto i soldati sarebbero venuti a prenderlo per consegnarlo al suo nuovo padrone. Rapide come si erano addensate, tuttavia, le nubi oscure si stavano dissolvendo. I fuochi accesi sulle mura per annunciare il lutto si alzavano su un cielo pulito e vuoto. 25. «So bene che uno dei generali al comando della schiera falisca è tuo zio Ancus; so altrettanto bene che ha passato questo tempo a raccogliere i Latini per portarli ai nostri nemici: Falisci, Sabini, forse persino Focesi, che li hanno armati, per allentare la nostra pressione sul mare e lasciare i nostri alleati cartaginesi soli ad affrontare la loro nuova espansione. Ma è proprio per questo che tu ora hai il comando di una delle nostre squadre. Hai sposato una nobile rasna, figlia prediletta di Tavas, il migliore tra i miei comandanti, e hai una posizione invidiabile nella città, quindi sta a te giudicare qual è il tuo posto e su cosa è basata la tua fedeltà.» Larth aveva parlato usando un tono lieve, quello che avrebbe scelto per discorrere con un vecchio amico della situazione del tempo o dell'andamento dei raccolti. Sorridendo appena, alzò quindi gli occhi a guardarlo; lo aveva invitato a dividere la cena nella sua tenda, tuttavia Marcius aveva appena toccato cibo, e sapeva perfettamente che non era il modo migliore per onorare la tavola del Re e il privilegio che gli era stato concesso. «Tu non mi avresti dato il comando se avessi avuto dei dubbi su di me», mormorò alla fine. «Qui ti sbagli; Cneve ha scommesso che ci tradirai e passerai dall'altra
parte, ma io amo le sfide e ho detto il contrario. Tu cosa mi dici?» All'improvviso, Marcius si sentì confuso. Aveva obbedito all'ordine che lo convocava nella tenda sentendosi sicuro di sé e assolutamente calmo; adesso, però, sotto quegli occhi che non gli concedevano tregua, si sentiva ancora il ragazzo che era stato catturato in un mattino d'inverno, tanto tempo prima. «Sono onorato della moglie che mi hai concesso e del prestigio che mi hai dato», rispose chinando il capo. «Questa non è una risposta, Marcius. Tu sei uno dei miei capitani, e domani combatterai contro quella schiera accampata appena oltre la gola e che è fatta della tua gente, e comandata dal parente più prossimo che ti è rimasto», incalzò Larth. «Vuoi che mi senta un traditore?» «Non puoi sentirti un traditore. Cneve ha in moglie la maggiore delle nipoti di Numa, e quindi anche lui è un tuo parente. Ma il punto non è questo, perché per te non ci sono vincoli di legge o d'affetto, anche se ti piace usarli come scudo per le tue azioni; non è vero, Marcius?» chiese Larth con un leggero sorriso. «Sei spietato, Re Tarquinio. Dicono di te che sei un grande Mago e che sei un saggio, ma dicono anche che sono state le tue reti invisibili a portare mio nonno a buttarsi dalla rupe Tarpei», mormorò Marcius. «Tuo nonno ha pagato tutte le colpe della sua gente, come deve essere per un Re.» La voce di Larth era dura. «Anche per te, Tarquinio?» La domanda era stata sfrontata, improvvisa; Marcius se ne pentì nel momento stesso in cui sentì la propria voce dargli consistenza, ma ormai era tardi; restò quindi coraggiosamente a testa alta, aspettando, ma Larth assentì, senza scomporsi. «Io più di chiunque altro, quando e se sarò chiamato; ma ancora aspetto la tua risposta.» Marcius si sentì all'improvviso disarmato davanti all'uomo che così facilmente aveva messo a nudo la sua parte più segreta, quella che sempre cercava di ingannare, avanzando motivazioni che in realtà non erano altro che scuse. «Io amo la mia città così come è adesso; la amo per quello che la vedo diventare, e amo il potere che mi hai dato, e che la fa mia più di qualunque altra cosa io possa mai sognare d'avere. È questo che volevi sentirmi dire?» domandò Marcius, cercando di fissare il Re negli occhi.
«Sì. Perché a questa città tu sarai fedele come non potresti esserlo né a un Re né ai tuoi Dei.» La risposta di Larth era appena un soffio; Marcius se ne sentì disturbato. Gli sembrò di vedere un tremito nelle fiamme dei due bracieri appena oltre il tavolo e un improvviso inseguirsi di ombre, come fantasmi d'aria, passare da un fuoco all'altro. «Non aver paura», mormorò Larth. «Amare un luogo lo rende sacro, e stabilisce vincoli tra la terra e l'uomo che neanche la morte può spezzare. Così domani sarai il migliore condottiero per le nostre schiere. I Rasna non sono per natura conquistatori: sottomettere le genti non è nella nostra tradizione, ma tu hai entrambe queste qualità: così ora sai perché ti ho scelto.» Marcius accettò la coppa che il Re gli porgeva; era vino chiaro, ma non aspro come quello dei Latini; vino che veniva dalle terre di Velzna, e che dava piacere. Bevve in silenzio, sentendolo fresco e profumato; fuori la notte era calda e il cielo era saturo di vapori pesanti. Una nebbia lieve si stringeva attorno alle tende delle schiere di Ruma, allargandosi come una coperta umida sulla stretta piana e nascondendo la gola al di là della quale erano accampati i nemici. Re Tarquinio non era rimasto ad aspettare che i Latini e i loro alleati assediassero Ruma dopo che, avvicinandosi, avevano messo a saccheggio le campagne; contrariamente alle regole, non aveva accettato di chiudersi in difesa, ma era uscito incontro al nemico costringendolo a ritirarsi. E ancora andando contro la consueta tradizione d'arme, non si era accontentato di respingerli fino ai colli Albani; da aggredito si era fatto aggressore, aprendosi così la strada verso il sud; aveva preso Albalonga - costringendola a giurare fedeltà e a pagare il proprio tributo - e poi aveva proseguito, spingendo le schiere ancora a sud, nel cuore dei monti, dove la stessa natura aspra del territorio avrebbe intrappolato definitivamente i nemici. Altre schiere rasna avevano contemporaneamente disceso la costa. Erano cadute Lavinium, Ardea, Antium e Astura sul mare, e le navi rasna avevano così nuovi porti dove attraccare. Tuttavia lì, nella stretta piana tra i monti, quelle vittorie avevano un peso relativo, e le due schiere si fronteggiavano come se non ci fosse stata prima altra battaglia, e non dovessero essercene dopo. «Mi sarà difficile pregare gli Dei, stanotte», pensò amaramente Marcius. «Ma forse è questo il mio prezzo, e lui l'ha fissato.»
Si alzò, accomiatandosi; il Re restò solo, e il fuoco brillò nella sua tenda per tutta la notte e neppure gli Aruspici, al seguito delle schiere per celebrare i riti, osarono affacciarvisi. L'alba si distese, cupa, nella valle e sulle montagne attorno; la nebbia si era dissolta, lasciando un vento molto basso che filava silenzioso tra le alte erbe. Il nuovo giorno sembrava restio a sorgere. Larth aveva vegliato per tutta la notte; in effetti senza alcuna fatica e senza nemmeno l'intenzione di una vera veglia per la vittoria. Era rimasto semplicemente a pensare, fintanto che aveva sentito la tempesta venire. C'era stato un attimo in cui era diventato nuvole e vento, e aveva visto la piana dall'alto, ancora addormentata, buia e innocente, e aveva sentito la terra tremare, afflitta. Allora aveva sentito Caitli. Per la prima volta da quando aveva iniziato quella campagna, aveva sentito il calore della sua presenza e del suo pensiero, come gli era stato usuale per tanto tempo, prima, e come gli era sempre più difficile a mano a mano che gli anni passavano. «Dalla morte di Axal», pensò. E strinse l'opale nel pugno, riempiendosi di quel calore come di un affetto mancato troppo a lungo. La magia vibrava in lui, adesso, prendendo vita e potere; ma ciò che Larth voleva era un evento ancora chiuso, che doveva vivere in lui per farlo vivo nella realtà comune agli altri esseri. Era una delicata trasposizione da un piano all'altro dell'esistenza, il prendere e il dare per compensare gli equilibri instabili della materia ed essere la materia, per muoverla. Larth si passò una mano sul viso. Era la tempesta, ed era il vento e la terra; era ogni singolo filo d'erba ed era l'insieme della valle con centinaia di piccoli menti spaventate da una parte e dall'altra. Uno dei suoi giovani capitani scostò in quel momento la cortina della sua tenda. «Mio Re, i nemici stanno sciamando nella gola», disse con un tono quieto che rivelava la buona scuola di Tavas. Larth si sollevò; un servo venne a portargli la tebenna e, fuori della tenda, un altro teneva il suo cavallo per le briglia, pronto. Mastarna lo aspettava, già a cavallo. Raggiunsero un rialzo del terreno, poco oltre il punto dov'erano state montate le tende; la prima schiera, quella agli ordini di Marcius, era già in posizione appena fuori della gola.
«Loro potranno tenere quella gola molto a lungo e noi dovremo aggirare la montagna per prenderli alle spalle», concluse Mastarna dopo qualche minuto d'osservazione. «Per contro, se decidessero un buon attacco, io non credo che la nostra schiera riuscirà a reggerlo. Allineamone una seconda, immediatamente dietro, pronta a contenere l'urto quando la prima dovrà indietreggiare.» «Non servirà; puoi comandarla tu, quella seconda schiera, se credi, amico mio.» Mastarna scosse il capo. «Non servirà, dici?» chiese. Larth alzò il capo a guardare il cielo; adesso tutte le nuvole erano diventate rosso scuro, tranne quelle poco al di sopra della gola, ancora nere, e appena venate di sfumature bianco latte, luminose. Come l'opale. Mastarna avvertì l'evento, ma fece ugualmente muovere il cavallo, ordinando che la schiera scendesse a prendere posizione, e quindi seguendola. Larth restò dov'era. «Deluderò i miei giovani capitani, smaniosi di battersi», pensò. «Dopotutto loro hanno seguito il guerriero, non il Sacerdote e tantomeno il Mago.» Marcius aspettava, appena al di qua della gola. La prima squadra di uomini filtrati dal passaggio era stata abbattuta facilmente, con le frecce e le lunghe aste; ma la seconda venne al galoppo e travolse gli arcieri, tranne quelli appostati più in alto, che, tuttavia, non fecero in tempo a tendere gli archi. Si accese la battaglia. Marcius abbatté due uomini e incrociò la spada con un terzo, ma la forza con cui il suo colpo venne sostenuto lo sbalzò di sella. Finì al suolo, tuttavia si rialzò agilmente, e si trovò a faccia a faccia con Ancus. «Il mio piccolo nipote venduto al Mago rasna!» sibilò il latino tra i denti, colpendo ancor più vigorosamente con la spada, tanto che Marcius quasi perse la propria. I due finirono avvinghiati al suolo, rotolando. D'improvviso entrambi furono immersi in un silenzio irreale, come se le urla della lotta e il rumore del ferro contro il ferro non appartenessero più al luogo dove si trovavano; le schiere in prossimità della gola erano avvolte adesso da uh chiarore lattiginoso. E subito dopo giunse ai loro orecchi una specie di lamento, un sibilo lieve che sembrava salire dalle profondità. Un mulinello nero, come una gigantesca trottola nata dal nulla, veniva avanti dalla piana verso la gola, toccando la terra e il cielo. Girando vorticosamente, passò loro in mezzo,
tuffandosi tra le rocce e, in breve tempo, l'aria si riempì delle urla degli uomini e degli animali ricacciati dall'altra parte o travolti. La tempesta si scatenò in quel momento, altrettanto improvvisa. Il fulmine colpì l'altro versante della gola e il tuono lacerò l'aria. Gli uomini fuggirono. Marcius staccò la propria spada da quella di Ancus. «Vattene! Non voglio ucciderti!» urlò. «Che cosa temi? Che il tuo Mago rasna non sappia proteggerti?» sibilò Ancus, sarcastico. «Non è il mio Mago rasna! È il mio Re!» protestò Marcius. Ancus gli appoggiò la spada sul petto, di piatto, senza ferirlo. «Ecco, senti?» mormorò. «Tu l'hai detto, nipote. Hai detto Re! Io sono il Re della nostra gente, e io riprenderò la mia città, dovessi per questo raderla al suolo e bruciarla fino all'ultimo filo d'erba!» «Allora gli Dei non hanno posto per te, Ancus. Mi dispiace.» La voce di Marcius era insolitamente ferma e pacata. Ancus tirò via la spada. «Fammi vedere come ti ha cresciuto questo Mago che tu chiami Re e che la nostra gente applaude.» Marcius si voltò per un attimo; lo spaventoso fenomeno si era scaricato nella gola e grossi massi stavano ancora franando; ma la pioggia era ormai troppo fitta per scorgere nettamente i contorni del paesaggio circostante. Anche Ancus si distrasse per un istante, cercando di capire che cos'era davvero accaduto. Marcius assentì, lieto che la pioggia gli nascondesse il viso dello zio, e girandosi gli affondò la spada nel petto fin quasi all'elsa. Si allontanò quindi di corsa da quel punto e cercò la propria schiera per riunirla e per raccogliere i pochi prigionieri ancora vivi. Quando Larth lasciò il poggio su cui era rimasto a osservare lo scontro, il temporale era già finito; del fenomeno non restava altro effetto che la spaccatura colmata tra le montagne e la paura degli uomini unita alla loro meraviglia. Un arcobaleno scavalcava adesso l'intera vallata, da una estremità all'altra, e gli uomini lo additavano come l'ultimo segno di una giornata memorabile. Così acclamarono a lungo il Re, posando a terra al suo passaggio le spade e le lance; anche gli Aruspici chinarono davanti a lui i loro alti bastoni dalla sommità ricurva, riconoscendogli il Potere. Mastarna alzò gli occhi al cielo; alcune aquile, disturbate dal temporale, volavano basse, con le ali spiegate.
«La tua vittoria, Larth», gli disse, e ne ebbe in cambio un lieve sorriso distaccato. «Torniamo a Ruma», fu la risposta. Il giorno era freddo, con il sole che a stento riusciva a farsi strada tra le nuvole; ma nemmeno un tempo più inclemente avrebbe potuto trattenere la gente di Ruma dall'affollare l'area del Foro. Per la prima volta da quando la pavimentazione era stata completata, la grande piazza ospitava una vera fiera, con i mercanti rasna, greci, sabini e falisci e le loro merci variopinte. Cartaginesi ed Egiziani, tuttavia, attiravano la maggior curiosità con i loro schiavi, le stoffe, gli ori e gli oggetti preziosi che avevano il sapore della lontananza e il fascino dell'insolito. Tutta l'immensa piazza era così un brulicare di nobili e servi, uomini e donne, riuniti in crocchi o in movimento da un mercante all'altro. Grandi bracieri di bronzo, posti a intervalli regolari, davano calore, e illuminavano la piazza al cadere del buio: l'aria fredda d'inverno era colma del profumo denso del miele scaldato e versato sui fichi secchi della passata stagione, e delle torte di farina e d'uva conservata, di mele cotogne e di rose, secondo l'uso greco. La Via Sacra saliva al Palazzo del Re, illuminata per tutta la sua lunghezza, teatro di processioni augurali e di riti, l'ultimo dei quali, il più sontuoso, risaliva alla primavera, quando il Re aveva inaugurato il grande ippodromo nella valle Marcia tra i colli. Dove c'erano state soltanto paludi e dove si erano combattute le prime battaglie per la conquista della città, sorgeva adesso il più grande luogo per i giochi e le gare, che i Latini non conoscevano, ma che cominciavano ad apprezzare come spettatori. Al suono dei flauti e delle trombe, Tarquinio aveva aperto i giochi, cui avevano partecipato i migliori atleti rasna, oltre a cavalli, cavalieri e aurighi tra i migliori che avessero mai disputato la truia. Per la prima volta nella storia della Lega, i Re delle altre undici città erano venuti a Ruma e avevano deposto le asce dalla doppia lama ai piedi del suo trono: persino l'annuale incontro aveva disertato Veltune per tenersi sotto un nuovo cielo. Larth tuttavia aveva saputo avvertire, mascherati dalle ovazioni e dai voti unanimi alla sua ormai abituale rielezione a Re Supremo, le paure, le invidie, i risentimenti per le regole sovvertite e per il potere da troppi anni deposto nelle sue mani. Gli riusciva sempre più facile ascoltare i mormorii
anziché le urla. Così non aveva voluto far passare l'inverno senza stringere patti più stretti con i suoi alleati di sempre: i Re di Velzna, Sveana e Faleri, che si compiacevano adesso della grande fiera e dei buoni affari trattati con i mercanti stranieri. «Sono lieto di essermi fatto tentare, la prima volta che ti ho dato il mio appoggio», stava dicendo Pesna Arcusnas, Re di Sveana, lasciandosi tentare anche dalla fragranza di una fetta di torta d'uva che un servo gli aveva porto. Larth si fermò, per permettere al suo ospite di gustare il dolce, e ne approfittò per guardarsi attorno; la gente era felice, in pace e ricca. Le processioni avevano soddisfatto il suo bisogno di sentirsi protetta dagli Dei; i giochi all'ippodromo del giorno prima l'avevano esaltata; il mercato, ora, appagava anche le donne e le loro voglie di cose belle e preziose. Larth non aveva permesso ai nobili di impigrirsi: se volevano restare a Ruma dovevano impegnarvi la propria ricchezza in qualunque cosa fosse utile per la città: dal commercio alla scuola, dalle navi alle armi, dall'arte per abbellire le costruzioni all'ingegno per elevarle. Qualunque cosa, purché potesse servire alla città. Lo strillo di un bambino richiamato da un Maestro, poco oltre, strappò Larth ai suoi pensieri; si girò, portando la destra sul petto, a coprire l'opale, in un gesto che aveva quasi dimenticato, perché da molto la pietra non gli dava più nulla. E all'improvviso la sentì calda e vide. Caitli sedeva davanti al fuoco; e il focolare di pietra era al centro della stanza, che sembrava essa stessa scavata nella pietra; ma c'erano tappeti dalle tinte vivaci, ori e bronzi ad arricchirla e poi rotoli di libri, tavole per le incisioni, colori per dipingere sparsi ovunque. Percepì una sensazione viva di letizia, di armonia; la Caitli che vedeva era bella quanto quella che aveva scelto di disobbedirgli dieci anni prima ritirandosi al Tivrit, quasi che il tempo su di lei non fosse passato. I capelli trattenuti dalla rete d'oro le incorniciavano il viso e i riccioli color rame, così come li vedeva lui, attraverso il fuoco, splendevano di un colore caldo. Al suo fianco, intenta a un esercizio di scrittura su una tavoletta, sedeva la bambina. Era così assorta e compiaciuta di ciò che stava facendo che sorrideva appena, con un sorriso che Larth aveva conosciuto bene e che gli strinse il cuore. La bambina aveva capelli così chiari che li distingueva a fatica; d'un trat-
to, poi, alzò gli occhi, e fissò il fuoco: occhi azzurri come un cielo di primavera. Le labbra della bambina si mossero. «Il figlio del Re Supremo sta morendo», mormorò. Aveva posato lo stilo e la tavoletta e fissava adesso il fuoco e lo stesso Larth, come se sapesse di vederlo e con una tristezza immensa, che le portava due grosse lacrime a scivolarle sulle guance. «Tarquinio!» stava dicendo Pesna, e lo aveva afferrato per un braccio. «Che cos'hai? Che ti succede?» Larth si liberò dalla stretta, bruscamente. «Mio figlio è morto», mormorò, guardando Pesna e tutti quelli del suo seguito con occhi duri, perché non capivano. Un uomo stava venendo al galoppo dalla Via Sacra, scendendo dal Palazzo, e già a quell'estremità del Foro c'era confusione. «Laris era a Palazzo», intervenne Cneve, tentando di allontanare quella certezza dall'animo di Larth. «Che cosa può essergli accaduto?» «Non era a Palazzo... Laris mi aveva chiesto il permesso di andare nei boschi poco oltre le postazioni di guardia, perché Tefrie gli aveva promesso d'insegnargli a cacciare le volpi che hanno cambiato colore. E io gli ho dato il permesso questa mattina.» Cneve tacque; il messaggero trattenne il cavallo e li raggiunse ansando; era un giovane nobile della Guardia del Palazzo, ma non osò alzare gli occhi sul suo Re. «Tuo figlio, Re Tarquinio; l'hanno riportato a Palazzo ferito e la Regina e il Grande Trutnot ti chiedono di raggiungerli subito.» Larth assentì, cupo, prendendogli il cavallo. Un attimo dopo era sulla Via Sacra, ed entrava nel Palazzo molto prima che la sua scorta potesse raggiungerlo, o che i suoi nobili potessero seguirlo. Il Palazzo era in piena attività per il banchetto che avrebbe dovuto allietare la notte e onorare i Re ospiti, ma adesso era come se trattenesse il respiro, incerto, per quell'evento inaspettato. Larth raggiunse le stanze della Regina, dove il bambino era stato ricoverato; le porte erano chiuse e l'androne era gremito di Aruspici silenziosi. Entrò senza vederli. La stanza era colma di luce viva e fredda, sebbene il fuoco ardesse alto nel focolare: l'aria sapeva di unguenti e gli era familiare, ricordandogli un'altra agonia. Nel letto della Regina, Laris Tarquinio era immobile; non ancora tocca-
to, né lavato, né composto, e senza più colore in viso, né respiro. Thanaquil gli sedeva accanto, rigida, e non si girò verso Larth. Velvur gli si affiancò. «Nessuno può trattenere una vita, se il filo è reciso. Era morto prima di giungere qui», sussurrò. «Il Maestro Tefrie?» chiese Larth. «È morto per difenderlo, con la spada in pugno. Sono stati attaccati da un branco di lupi. Laris doveva aver trovato dei cuccioli: forse li ha toccati, forse ha cercato di prenderli; forse Tefrie stava disponendo le trappole e non se ne è accorto in tempo.» Larth non riuscì a far altro che annuire, distogliendo lo sguardo da suo figlio. Non era più un bambino: aveva già valicato il confine dei suoi primi sette anni e aveva già ricevuto i segni dell'ingresso nella vita. Perché allora lo avevano portato nelle stanze della madre anziché in quelle che gli erano state destinate come Principe Erede? Tornò fuori, ordinando a un servo di preparargli il cavallo. Velvur lo seguì, cercando di stargli al passo; Thanaquil restò sola, mentre la vecchia Hasti e le giovani ancelle venivano per lavare e preparare il bambino per i riti, e Cneve e gli altri nobili si fermavano sulla soglia, attoniti. Cneve corse dietro al Grande Trutnot. «Dove sta andando il Re?» chiese. «Chi può dirlo?» ribatté Velvur, che aveva ormai rinunciato a scendere al cortile e che sostava con il fiato grosso, appoggiandosi a una colonna. «Nel bosco, suppongo.» «Lo fermo io», esclamò Cneve. «No!» lo trattenne il Grande Trutnot. «Ci sono cose che un uomo deve bruciare sulla propria pelle e nella propria anima. Il Re tornerà domani, se così è scritto.» Larth si fermò al posto di guardia dov'era rimasto il servo che aveva accompagnato Tefrie e Laris e che aveva dato l'allarme. Il ragazzetto, di poco più grande di Laris stesso, sedeva adesso rincantucciato in un angolo, gli occhi fissi e le labbra strette. «Non è paura», pensò Larth vedendolo. «È dolore: tu eri il compagno di mio figlio, non il suo servo... come Axal era per me.» Gli si avvicinò, ma il ragazzo nemmeno si rese conto che era il Re a stargli davanti, e non si mosse. Larth allora gli toccò la fronte, e volutamente non cercò di proteggersi da quel dolore infantile così puro e forte. «Coraggio, piccolo Acilius. Torna al Palazzo. Il tuo amico sarà più con-
tento se gli starai vicino in queste ultime ore», mormorò, sforzandosi di abbozzare un sorriso. Il ragazzetto sollevò finalmente lo sguardo e lo fissò con occhi grandi in cui Larth poteva vedere l'assalto dei lupi, le urla e il sangue, e l'ordine di Tefrie di correre a cercare aiuto. Aveva abbandonato l'amico. Ed era quello che non si perdonava. Larth si girò verso una delle guardie. «Riportalo al Palazzo, dal Grande Trutnot. Questo ragazzo sarà affidato a lui, da adesso in poi.» «E credi così di rimediare a quello che Velvur ti aveva chiesto per Axal?» si rinfacciò, aspro. Scosse il capo, sapendo che qualsiasi risposta non sarebbe servita ad alcunché. Passò allora nella stanza attigua, una piccola stanza dove usualmente venivano custodite le armi: lì era stato composto il corpo di Tefrie. Una tebenna scura lo copriva, lasciando affiorare il viso dove le zanne avevano lasciato la loro impronta. Larth gli appoggiò una mano sul petto; gli uomini del posto di guardia si ritirarono in silenzio, lasciandolo solo, e per un poco Larth restò con il suo vecchio Maestro d'Armi. Quando uscì scoprì che gli uomini della sua scorta l'avevano seguito fin lì e adesso aspettavano in silenzio i suoi ordini, ciascuno accanto al proprio cavallo, pronti. «Portate il corpo del Maestro Tefrie al Palazzo. Lui, con mio figlio, riposerà nella tomba dei Re a Tarchna prima che la settimana sia finita», ordinò. «Lasciaci venire con te», obiettò uno dei capitani, con trasporto. Larth sorrise; Mastarna, forse, avrebbe potuto dividere con lui quella veglia. Ma Mastarna era lontano, nelle terre di Cartagine, per rinsaldare in suo nome alleanze e accordi, e per mettere tra sé e la Regina un intero mare. «Non seguitemi ancora», disse quindi. «E questo è un ordine.» Montò subito dopo a cavallo e spinse l'animale verso la linea buia dei boschi; il vento aveva portato le nuvole a stendersi basse, gravide di pioggia fredda. Le tracce sul terreno gli furono subito chiare; vide il punto dove i tre avevano sostato una prima volta, forse a guardare qualche animale o ad ascoltare qualche storia di caccia di Tefrie, e poi quello dove suo figlio era stato assalito. Tre lupi uccisi raccontavano la lotta di Tefrie. Smontò; il cavallo era inquieto, fiutando il sangue e i predatori in agguato, e l'oscurità del crepuscolo scivolava anzitempo sulle ali del vento. Larth
piegò un ginocchio a terra e appoggiò la mano aperta sul suolo umido; ma la terra era silenziosa, e come in attesa. Non c'erano voci per lui, null'altro che il pensiero o il desiderio di scoprire l'ombra dell'amico che aveva scelto di restargli al fianco. «Sono stato punito», mormorò. «Ti ho lasciato morire, e gli Dei hanno voluto mio figlio per compensarti con una morte uguale. Il cerchio è chiuso, Axal. La tua morte è soddisfatta. I tuoi Dei possono darti la pace, ora, amico mio.» Ritrasse la mano sollevando lo sguardo sulle forme indistinte che premevano nel buio; lupi, e forse cinghiali. Si sollevò e condusse il cavallo per la briglia verso un'altura dove gli alberi erano più radi, e dove un barlume di luce pesante filtrava tra i rami fittamente intrecciati; lì giunto, tenne il cavallo presso di sé, per essere pronto a difenderlo, e si accovacciò a terra, avvolgendosi nella tebenna. Lasciò scorrere la notte, aspettando; ma il buio restò immobile, rotto appena da una pioggia lieve, gelata. Nessun lupo e nessun'altra fiera si azzardarono a salire l'altura, come se l'uomo non fosse diverso da una roccia, o non potesse essere toccato perché protetto da una volontà superiore. Nell'alba fumosa non c'erano fuochi ad aspettarlo. 26. «Sono troppo vecchio per viaggiare, ormai», brontolò Velvur, appoggiandosi alle spalle forti di Acilius e apprezzando la sollecitudine con cui Caitli gli avvicinò lo scranno permettendogli di sedersi. «La prossima volta disporrò che vengano a riceverti al porto con un carro», promise Caitli. «Purché tu mi avverta del tuo arrivo!» Velvur allontanò con un gesto di fastidio la proposta; il viaggio non l'aveva stancato quanto voleva far credere, e tuttavia gli anni cominciavano davvero a pesargli: presto, molto presto, avrebbe valicato l'ultimo settennale, e avrebbe smesso di contarli. Tornare al Tivrit, tuttavia, era per lui come bere a una fonte di giovinezza; lì poteva tentare di riascoltare le voci che nel chiasso quotidiano di Ruma sparivano, assorbite dalle troppe cose da fare. E poi c'erano Caitli e sua figlia. Sospirò, accettando lo sciroppo fresco che Thesan gli aveva portato e che versò nella sua coppa, e in quella di Acilius, con la stessa grazia; Velvur la trattenne, facendole cenno di sollevarsi, e di farsi vedere.
Thesan obbedì, fissandolo per un momento negli occhi e quindi abbassandoli, ma solo per onorare la buona educazione che aveva ricevuto. Quel contatto così breve portò al Grande Trutnot un frammento di Tempo che non avrebbe voluto toccare. Le prese una mano, e la tenne nelle sue. «Ti ricordi di me?» le chiese. Thesan sorrise. Si era fatta una adolescente alta e sottile, pallida di carnagione e di capelli, con un viso bello dai tratti decisi. Non rasna, non dei popoli del mare, ma una straniera. «Certo», rispose Thesan con voce sicura. «L'ultima volta che ti ho vista avevi due mesi e dormivi dopo aver succhiato del latte di capra.» «Lo so. Io mi ricordo di quel giorno e di tutti i giorni prima della mia nascita», rispose la ragazzina con disarmante semplicità. Velvur si portò la sua mano alla fronte; il tocco delle sue piccole dita era una corrente risanatrice che si portava via la fatica e i troppi giorni consumati a seguire i sentieri invisibili. «Ti ringrazio, Thesan», disse quindi, lasciandole la mano. «Adesso conduci il mio discepolo alla dispensa dei novizi; lui ha sempre appetito e apprezzerà le nostre focacce alle olive.» «Chiederò a Tura di preparare qualcosa di speciale per la cena di stasera, allora», replicò Thesan, che si girò poi verso Acilius, e gli tese la mano sorridendo. «Vieni! Il Tivrit è molto grande; quando avrai mangiato, ti mostrerò il suo labirinto.» Non era autoritaria, ma nemmeno si poteva pensare di non obbedirle. «Come sua madre», pensò Velvur senza trattenere il sorriso. Acilius si affrettò a seguirla. Si era fatto un bel ragazzo, ed era alto quanto lei, pur essendo più giovane; Velvur aveva tentato invano nei due anni da che era al suo servizio di svegliare il suo interesse per gli studi, ma aveva dovuto arrendersi e accettarlo così com'era: furbo, fedele e tenace nel raggiungere i propri intenti. «Non è più una bambina», commentò quindi, trattenendo l'immagine di Thesan per un istante. «Thesan ha compiuto quattordici anni, ed è una donna», rispose Caitli. «Una donna che ha il Potere delle parole e del ricordo; pur non avendo mai visto altro che quest'isola e il Tivrit, sa molte più cose di chi ha passato la sua vita a viaggiare e conosce più misteri di molti iniziati.»
«L'ho sentito», ammise Velvur. Caitli avvicinò uno scranno al suo e gli sedette accanto, prendendogli le mani. Velvur per un istante tacque, concedendosi il piacere di poterla osservare e assaporando il conforto di quell'affetto che la donna gli manifestava. Il tempo sembrava non essere passato per lei: era sottile come una ragazza e la pelle era ancora levigata e chiara. Solo qualche piccola ruga, attorno agli occhi, tradiva il velo degli anni. «Saresti stata una splendida Regina», mormorò stringendole forte le mani, sommerso dall'emozione: un evento raro per lui. «Sono Regina anche qui», ribatté Caitli, senza scomporsi. «Ma parlami di mia sorella e di Ruma, ti prego. Tutti dicono che sta diventando una vera città e che sarà superba.» «Lo è di certo», confermò Velvur. Poi, dopo una breve pausa, aggiunse: «Larth vorrebbe i Libri di Tagete». «Sei venuto per prenderli?» «No. Se quei Libri dovranno un giorno raggiungere Ruma non sarò io a dirlo; soltanto le donne hanno la saggezza per custodire la verità.» Caitli staccò le mani dalle sue, e, per un istante, Velvur avvertì una pena sconosciuta a quel luogo. Capì che madre e figlia erano state davvero felici, lì, e che la sua presenza portava ombre che Caitli conosceva, ma che aveva tenuto lontane, perché non toccassero Thesan prima che venisse il tempo destinato. Scosse il capo, prendendo respiro e bevendo il succo fresco dalla sua coppa. «Larth ha consacrato la morte di suo figlio agli Dei di Axal. Lo sapevi?» «Sì», mormorò Caitli abbassando il capo. Velvur scosse il capo. «Lo senti ancora?» «Non ho mai cessato di sentirlo, ma lui non lo sa, e crede che lo abbia abbandonato soltanto perché lui si è abbandonato. È un Re molto potente.» «È troppo potente. Il dissidio nella Lega sta crescendo come un'erba cattiva; presto, molto presto, arderà il fuoco, e lui è solo.» «Mastarna?» domandò Caitli. «Mastarna è tornato; chi dice per conquistarsi finalmente il regno, chi dice per la Regina, ma nessuno dice che è tornato per Larth, tranne Larth stesso», rispose il Grande Trutnot. «E... Thanaquil?»
«Non sta a me giudicare la Regina, Caitli.» Un'ombra di rimprovero passò nella voce di Velvur. «E non lo farai. Quello che sta accadendo era scritto; non dovrai lasciarla, né lascerai Mastarna quando avrà bisogno di te», commentò Caitli. «Mi chiedi di lasciare Larth, allora?» «Un giorno, ormai non più tanto lontano, si troveranno di fronte, Larth e Mastarna, sul campo di battaglia. E quel giorno non sarai tu, Grande Trutnot, a scegliere il filo da recidere.» Velvur sorrise. Era venuto a prendere i suoi ordini; adesso poteva continuare a fingere di essere il Grande Trutnot e accettare l'ospitalità della Regina del Tivrit. In un certo modo, se ne sentì sollevato. Caitli aveva preso il suo posto, e sarebbe venuto il tempo in cui avrebbe potuto chiudere gli occhi e sognare, come quando era stato bambino, senza portare con sé il volere del Cielo e la sofferenza degli uomini, ma solo le sue malinconie di vecchio. Thesan ottenne il permesso di accompagnarlo al porto, quando lasciò l'Isola Fumosa dopo una settimana passata nella quiete e nella compagnia preziosa di Caitli e della vecchia Insila, la Custode. Ma questa volta Acilius guidava il carro a due ruote che gli evitava la lunga strada e Thesan gli cavalcava accanto, indicandogli tutto ciò che di nuovo si era aggiunto all'isola dalla sua ultima visita. «Hai una memoria portentosa», convenne il Grande Trutnot, riconoscendo particolari nemmeno notati. La ragazza gli sorrise divertita. Cavalcava con l'abilità delle genti di suo padre, e Velvur aveva più volte sorpreso lo sguardo meravigliato di Acilius. Una volta tornati a Ruma, avrebbe dovuto proibirgli di raccontare di lei: era ancora troppo presto. Velvur portò in tal modo con sé l'immagine di una giovane che lo salutava dal molo con entrambe le braccia alzate, bella come la Dea dell'Alba. «Nata in una notte magica: una notte di due lune», pensò. «Una donna...» «Molto di più...» gli rispose la brezza, gonfiando la vela che i marinai stavano alzando. Solo in quel momento Velvur si accorse che Thesan, per accompagnarlo, aveva indossato la tunica azzurra, scarlatta e oro dei Trutnot. La città aveva celebrato gli antichi riti latini per la Dea Vesta; poco dopo l'alba, Thanaquil aveva acceso il fuoco nell'ara del piccolo tempio dedicato alla Dea, all'inizio della Via Sacra, e le donne di Ruma, custodi dei focola-
ri, erano venute a ricevere il fuoco dalle sue mani. La cerimonia era durata quasi tutto il giorno; gli uomini, non ammessi, se ne erano tenuti lontani; c'erano state delle gare all'ippodromo, ma un rito propiziatorio aveva trattenuto gran parte della gente di Velx sul Colle delle Querce, così in effetti la città era apparsa insolitamente tranquilla. Anche nel Palazzo c'era quiete. Il Re era a Ostia da tre giorni per incontrare il Re di Xaire e cacciare il cervo sui Monti delle Miniere, e non era atteso di ritorno prima della fine della settimana. Quasi tutti i giovani capitani della sua Guardia erano con lui. Poco prima del tramonto, Thanaquil si era infine ritirata nelle proprie stanze, si era concessa un bagno ristoratore e quindi aveva allontanato le serve, gli Aruspici e gli oziosi che quotidianamente la assillavano per avere favori o trovare udienza dal Re. Hasti accompagnò quindi l'ombra silenziosa, avvolta nella tebenna scura, senza rivolgergli la parola e senza alzare gli occhi sul suo viso nascosto. Soltanto una lampada era accesa nell'ampio androne che portava alle stanze della Regina. Hasti fece quindi entrare l'ombra, e si ritirò. Per un momento, Mastarna restò sulla soglia; la penombra era appena toccata dalla luce di un lume, ma dall'ampia apertura che si affacciava su un cortile chiuso tra mura e ligustri entravano i profumi di giugno, dolci adesso per entrambi più dei desideri appagati e dell'amore che li aveva uniti per tanto tempo. Thanaquil lasciò la finestra e lo raggiunse, passandogli le braccia attorno al collo; per un lungo momento restarono così, stretti l'uno all'altra. «Non era questo che volevo», mormorò infine Mastarna, scostandola appena. «Non intendevo rubarti a lui come un ladro.» «Viene da me troppo di rado, ormai, perché io possa ritenermi ancora la sua Regina; e anche quando è qui la sua mente è altrove, e il suo cuore non mi dà altro che la cortesia che concede all'ultima delle serve che gli scaldano il letto. Non ci siamo mai amati davvero, ma ci siamo appartenuti e siamo stati felici fino alla morte di Laris.» «Ha accettato la morte di suo figlio come una punizione!» commentò Mastarna. «Ma ha scelto di subirla da solo. Per me allora non ha avuto uno sguardo o una parola: ma Laris era anche mio figlio, e il mio dolore era grande quanto il suo! Che cosa gli ha dato il diritto di privarmi del mio dolore?» Thanaquil si lasciò sfuggire un singhiozzo.
«La sua disperazione, forse», disse Mastarna. «Forse. Io non lo so: non mi ha permesso di saperlo. Ma il nostro accordo si è infranto: io non esisto più per lui, e lui è un grande Re che non ha eredi e che vive soltanto per la sua città e le sue corone.» La voce di Thanaquil esitò e Mastarna la sentì tremare un poco, percorsa da un brivido improvviso. «Queste sono cose lontane, ora», mormorò la Regina. «Ma oggi è stato un giorno colmo di segni e la notte è piena di voci. Il fuoco della Dea dei Latini si sarebbe spento, se io non avessi appreso da Caitli l'arte di tenere vive le fiamme. Un fuoco sacro che si spegne è la rottura di un patto, e qualunque patto si sia infranto oggi non porterà che lutti e pene.» «Dovrò andare via di nuovo», disse Mastarna. «Forse è questo il segno. Non posso disonorarti, o disonorarlo. Qualunque suo nemico nel Palazzo può far sorvegliare le tue stanze, e scoprirci, e io non voglio fargli del male. Gli Dei sanno che darei la vita per lui, e per te. Ma qui non siamo a Tarchna, e i Latini non accetterebbero una Regina che tradisce il Re.» «È vero.» Thanaquil sorrise. «I Latini tengono in ben poco conto le loro donne. Ma andartene non servirà: io aspetto un figlio da una luna, e non è suo.» «Da così tanto tempo non ti visita?» «Da molto di più», rivelò Thanaquil. Mastarna tacque; avevano raggiunto il letto e Thanaquil gli si strinse, nel buio, appoggiando il volto al suo petto. «Sono felice di questo figlio che sarà tuo, Mastarna, qualunque possa essere il mio e il suo destino. Lo consacro all'amore che ti ho portato per tutta la vita e che ti porto ora. Sei tu che io non ho mai tradito e la Dea Turan porta i nostri nomi nel suo grembo.» Mastarna la strinse a sé e la tenne stretta. Delle voci concitate lo svegliarono molto prima dell'alba. Sgusciò fuori del letto. Thanaquil dormiva, e per un istante si trattenne a guardarla, per poterla ricordare così bella e così sua. Poi si coprì con la tebenna e sgusciò fuori delle stanze. Trovò Hasti nell'anticamera, già in allarme. «Che cosa succede?» le chiese, passandole un braccio attorno alle spalle, per quietarla. «Non so bene, mio signore. Dicono che la Guardia agli ordini di Cneve ha assalito le forze di Velx, sul Colle delle Querce, che si preparavano a rovesciare il Re e a prendere la città. Dicono che ci sono dei morti e molti
prigionieri!» «Calmati, Hasti. Vai dalla Regina e resta con lei. Se ti chiedono qualcosa, rispondi che sei rimasta con lei tutta la notte perché non si sentiva bene. Hai capito?» La donna assentì, confusa, ma si mosse subito a obbedire. Mastarna infilò la loggia che portava all'esterno, ma poi scese nell'ala dei servi e da lì uscì nel cortile delle cucine e saltò oltre il muro che lo delimitava. Meno di un'ora dopo era nella propria casa sul colle che sovrastava il Circo e aveva raccolto quanti tra i suoi uomini erano sfuggiti all'attacco a sorpresa dei Tarquini. I Vibenna e un altro centinaio di uomini erano prigionieri sul Colle delle Querce, che era stato preso. Guardando i suoi uomini a uno a uno, Mastarna sentiva la collera stringergli il petto. «Così dopotutto i Vibenna volevano davvero rovesciare il Re, e questo era probabilmente l'ordine giunto con l'ultimo messaggero da Velx. Il Re di Xaire ha attratto Larth fuori di Ruma, e hanno pensato che io sarei stato comunque distratto dalla Regina. Ecco perché sono stati tutto il giorno sul colle: non un rito propiziatorio, ma gli ultimi preparativi, e Cneve l'ha saputo in tempo.» «Quanti di voi sapevano del piano dei Vibenna per rovesciare il Re?» urlò. Del centinaio di uomini che gli restavano attorno, quasi tutti fecero un passo avanti. Solo una decina, i suoi più stretti capitani, ne erano stati tenuti all'oscuro. Mastarna assentì, cupo. «Non c'è che un modo, adesso, per rimediare a questa pazzia che potrebbe far affogare nel sangue la città e soffocare nella polvere tutto quanto abbiamo fatto in questi anni per renderla ricca e potente. Andremo su quel colle prima che vengano a far prigionieri anche noi, libereremo i Vibenna e i loro seguaci e poi ci ritireremo di là dal ponte, e accetteremo di pagare il tributo per il tradimento!» Si levò qualche mormorio; Mastarna sfoderò la propria spada e la tenne davanti a sé, con il braccio teso. «Chiunque abbia qualcosa da dire, lo faccia subito; tra un minuto quelli che penseranno di tradire anche me finiranno sulla mia spada, e all'inferno da Charun, con la mia maledizione.» Gli uomini si ritrassero, tacendo. Mastarna li fece muovere a piccoli gruppi: era importante agire rapidamente e in silenzio, prima che la città si
svegliasse. Lo stridio degli uccelli e i versi degli animali dei cortili, infatti, già annunciavano l'alba. E il giorno che stava per sorgere difficilmente sarebbe stato diverso dai precedenti, saturi di caldo e appesantiti dall'umidità proveniente dai boschi. Mastarna tenne con sé i suoi capitani; ciascun gruppo risalì al Colle delle Querce insinuandosi tra la vegetazione e tenendo quieti i cavalli; nello spiazzo sulla sommità una delle case della Guardia di Velx, tra le prime costruite, con ancora il tetto di paglia e d'argilla compresse, stava bruciando e il fumo si era sparso ad altezza d'uomo su tutta l'area. La maggior parte dei prigionieri erano custoditi da un quadrato di guardie, con le lunghe lance in posizione d'attacco e gli scudi alzati; ma tra loro Mastarna non riuscì a scorgere alcun capitano, tantomeno i Vibenna. Anche Cneve e i capitani della Guardia della città non si vedevano. Tutti i suoi gruppi si erano congiunti, accerchiando la sommità del colle; Mastarna valutò in un istante le loro forze e concluse che potevano farcela, se agivano con determinazione. «A cavallo», ordinò quindi. «Liberate i nostri dalla Guardia e poi ciascuno prenda dietro a sé un compagno e ripari di là dal ponte, oltre i confini. Sgombratevi la strada, ma non date battaglia a nessuno. E questo è un ordine.» «La schiera di Marcius sta venendo dalla Via Sacra», lo avvisò qualcuno, raccogliendo l'avvertimento di quanti erano rimasti più indietro, con i cavalli. «Non arriveranno in tempo. Noi», aggiunse rivolgendosi ai suoi capitani e agli uomini che gli stavano più vicini, «prenderemo la casa dei Vibenna. E lì che Cneve li ha isolati. Se potete, non incrociate le spade per uccidere.» «Dovremo uccidere per portare via i Vibenna da lì, Mastarna», obiettò Devra, il più vecchio e fidato tra i suoi capitani. Mastarna fece un vago cenno d'assenso, ricordando le parole di Thanaquil: «Qualunque patto si sia infranto oggi non porterà che lutti e pene». «Ogni morto di oggi scaverà un abisso che sarà poi difficile colmare. Fate del vostro meglio, e restate vivi», li congedò. Si mossero rapidamente, ciascuno raggiungendo il proprio cavallo tra il fitto degli alberi. Un istante dopo l'intera schiera ne usciva al galoppo, urlando, e piombò addosso al quadrato di guardie come un volo di sparvieri, immediatamente aiutati nell'assalto dai compagni liberati. Mastarna e i suoi proseguirono al galoppo fin dentro il recinto attorno
all'edificio e poi nel portico; quindi balzarono a terra, e mentre due restavano con i cavalli gli altri si precipitarono all'interno, le spade alzate. In un istante i primi uomini di guardia furono travolti e nel cortile si accese la lotta. Mastarna superò d'un balzo un compagno morto e con Devra che gli proteggeva il fianco raggiunse la stanza del Consiglio, dove si erano riuniti per tanti anni e dove custodivano lo spirito di Velx. I Vibenna e quattro o cinque capitani erano prigionieri lì; uno, il giovane Tasna, era morto, e lo avevano composto su una panca. Immediatamente Cneve e i suoi uomini impugnarono le armi e Cneve balzò contro di lui. Le spade si toccarono e Mastarna lo respinse. «Fermati, Cneve! Non voglio altro sangue oggi! Lasciaci andare via con gli uomini di Velx.» «I traditori del Re!» ribatté Cneve, buttandosi avanti. «Ecco che cosa sono gli uomini di Velx!» Mastarna parò il colpo, sorvegliando con la coda dell'occhio Devra e gli altri tra i suoi che impegnavano la Guardia di Cneve. Il giovane lo incalzò al punto che fu costretto ad arretrare al gradino su cui, nel centro della stanza, c'era il focolare. Inciampò, perdendo l'equilibrio. Piegandosi di lato per sostenersi, si scoprì il fianco, e immediatamente Cneve abbassò la spada per ucciderlo; Mastarna lo capì e anziché rialzarsi si lasciò scivolare, rotolando al di sotto dell'avversario, e alzando a sua volta la spada lo raggiunse al fianco sinistro con più forza di quanto avrebbe voluto. Cneve arretrò vacillando e poi crollò in ginocchio. Mastarna tirò a sé la spada e lo lasciò; Devra aveva liberato dai legami i Vibenna e gli altri e tutti assieme riguadagnarono il cortile, approssimandosi agli uomini che erano rimasti lì con i cavalli. Un momento dopo si precipitavano giù dal colle e verso il ponte Sublicio, dove la schiera aveva travolto la Guardia di Cneve; lo passarono al galoppo e raggiunsero il resto degli uomini che li avevano attesi; proseguirono quindi oltre un vallone e ripararono in una radura, facendo quadrato per proteggersi i fianchi. Mastarna si lasciò scivolare dalla sella e afferrò con impeto Caile Vibenna prima che potesse fare altrettanto, tirandolo giù. «Chi ha deciso di abbattere il Re?» lo aggredì. «Chi ha ordinato il tradimento?» «Il nostro Re, Sevre», intervenne Aule Vibenna, «e i Re delle Città della
Lega in alleanza con lui. Loro hanno deciso.» «Hanno deciso che cosa? Di prendere con l'inganno la città di un amico? Di spezzare il patto?» «Velx non riconosce più i patti; Tarchna è troppo potente, e troppo predominante. Nessuna città della Lega può accettare la sovranità di una su tutte.» «E io non dovevo saperne niente!» esclamò Mastarna. «Saresti stato dei nostri se avessi saputo?» lo apostrofò Aule Vibenna. «Non lo sono forse adesso?» Aule Vibenna non riuscì a sostenere la sua accusa, e abbassò il capo; Mastarna lasciò correre lo sguardo sul resto degli uomini: molti erano feriti, anche se nessuno in modo tanto grave da non poter stare a cavallo. Rimanere accampati equivaleva a esporsi inutilmente alla rappresaglia. Tuttavia Mastarna sentiva il cuore pesante, nel dover dare quell'ordine. «Chi vi ha traditi?» chiese infine. «Marcius. Abbiamo creduto che sarebbe stato dalla nostra parte, e invece lui ha avvertito Cneve!» disse Caile. Mastarna scosse il capo. «Siete stati degli sciocchi; per il latino noi siamo i dominatori e siamo tutti uguali. Non è fedele al Re, ma alla città, e finché il Re difende la città lui è con il Re», spiegò Mastarna. «Gli avevo promesso il potere», obiettò Caile Vibenna. «Ma tu non hai mai dimostrato di saper mantenere le tue promesse, il Re sì!» Mastarna cercò di far sbollire la sua rabbia, sentendola diventare troppo forte. «Dirigiamo su Vei, che è vicina», ordinò. «Là chiederemo l'adunanza della Lega e la mediazione del Grande Trutnot.» Aule assentì gravemente, posando un ginocchio a terra, e mettendogli dinanzi la spada. «Ti abbiamo fatto torto, e ti dobbiamo la vita. Di entrambe le cose dovremo compensarti. Ti obbediremo, Mastarna.» Mastarna assentì, distratto, accogliendo quel gesto solenne come se fosse dovuto a qualcun altro, mentre Caile e gli altri capitani imitavano il Vibenna e piegavano il ginocchio a terra deponendo le armi. «Se Cneve muore», pensava Mastarna, «io sono doppiamente colpevole verso di te, Larth, fratello mio. Giacevo con la tua Regina e ho versato il tuo sangue. Con quale potere dovrei essere compensato per questi due delitti?» Ripararono in Vei raggiungendola prima che spuntasse un nuovo giorno.
Re Tulumne li accolse con onore: lui stesso era, in alleanza con Xaire e Velx, il maggior avversario di Tarchna. Tuttavia accettò di richiedere la convocazione delle Dodici Città e l'aiuto del Grande Trutnot come Mastarna aveva chiesto, perché spezzare la compattezza della Lega appariva all'improvviso a tutti un evento troppo grave per non tentare di porvi rimedio. Ma Cneve era morto, ed erano morti troppi uomini di ambedue le parti perché le voci potessero tacere. Gli Aruspici che avevano celebrato i riti del mattino lasciarono l'ara del sacrificio, nella sala delle udienze. Uno tuttavia restò a capo chino e non si mosse nemmeno quando Larth lasciò lo scranno muovendogli incontro. «Masi Aivas, Aruspice di Tagete», disse semplicemente Larth. Il tono era troppo duro per essere frainteso. «Benedico il Re che ha riconosciuto il mio nome», ribatté l'uomo, inchinandosi ancora. «Riconosco il tuo nome solo per merito della tua vecchiaia e dell'abito che porti. Che cosa vuoi, Aruspice di Tagete, così lontano dal tuo rifugio?» Aivas sollevò la schiena; il tempo gli aveva imbiancato la corta barba, ma gli occhi erano rimasti cupi nel viso scavato. Si guardò attorno e vide che nella sala ormai c'era soltanto la Regina. Fuori, i nobili aspettavano di essere ricevuti, ma Larth non aveva ancora ordinato che fossero aperte le porte e non l'avrebbe fatto finché la Regina non si fosse allontanata. «Desidero parlarti di un grave evento», mormorò l'Aruspice e si inchinò di nuovo a Thanaquil. Larth non aveva mancato di ricordargli che era lontano dal luogo in cui si era rifugiato dopo la morte di Kae Aivas, così Flasi si sentiva pericolosamente esposto. «Non ci sono cose che la mia Regina non può ascoltare, e quando non ci sono Latini io onoro le regole rasna. Quindi parla», gli ordinò Larth. «Io non dubito del coraggio della tua Regina: è figlia di Re e io ho salutato la sua nascita con i sacrifici; ma poiché porta il tuo nuovo Erede, le cattive notizie potrebbero turbarla», insistette Flasi. Larth accennò un sorriso, girandosi verso Thanaquil. La maternità appena le aveva arrotondato la vita: non più di quattro lune, di certo, e la notava adesso, perché lei era stata il suo ultimo pensiero dal giorno della fallita rivolta dei Vibenna. Le porse la mano perché venisse al suo fianco. «Non dubitare del coraggio della mia Regina e del mio Erede.» La mano di Thanaquil non tremò: Larth se ne sentì confortato.
«L'annuncio non è stato dato», intervenne Thanaquil. «Devo pensare che l'Aruspice ha avuto dei segni?» «Segni di gioia, certo, per l'Erede atteso!» si inchinò Flasi Aivas. «Pettegolezzi di serve», pensò Thanaquil, fissandolo senza abbassare lo sguardo. «Sfiderò chiunque a dire che questo figlio non è del Re.» Sentì la mano di Larth stringere la sua, e percepì dal suo tocco la verità, così semplice, così assoluta. «Ha saputo di me e di Mastarna fin dalla prima volta che è venuto nelle mie stanze...» comprese d'un tratto la Regina. «Come abbiamo potuto credere che non sapesse? E tuttavia ha accettato, e adesso accetta il figlio. Per il regno, perché niente cambi.» «Sei venuto a portare cattive notizie, hai detto», stava dicendo Larth. «Com'è nel tuo costume.» «Non per mia colpa, mio Re. Ma tu hai bandito da Tarchna mio fratello Aivas e tutti quelli ancora vivi della sua famiglia e hai confiscato i nostri beni. Mio fratello ha trovato rifugio a Vei e con vergogna è tuo nemico, e io posso dire che un suo messaggero è stato ricevuto al Palazzo di Tarchna, e si è incontrato con tuo fratello Egene per stabilire un patto», rivelò Flasi in tono duro. «I patti degli Aivas sono come le teste dei serpenti. Perché sei venuto da me?» incalzò Larth. Flasi Aivas finse di trasalire, come se la domanda fosse un insulto. «Se Egene accettasse di abbandonarti, Tarchna non entrerebbe in guerra contro le altre città della Lega! Velx avrebbe Ruma ed Egene diventerebbe Re di Tarchna e gli Aivas rientrerebbero nel loro titolo e nelle loro proprietà.» «Se Egene farà quanto hai detto, un fulmine lo incenerirà sulla soglia del Palazzo e un altro farà di te un mucchio di polvere se tornando non glielo dirai. Tu sai che lo posso fare, Aruspice di Tagete, quindi non tentarmi.» Aivas sorrise. «Conosco il tuo Potere, Tarquinio; partirò oggi stesso per Tarchna e parlerò a tuo fratello.» «Parti subito. Il diritto d'asilo per i traditori e le loro famiglie non ha valore se non in un luogo sacro, e questo non lo è.» «Non è facile amarti, mio Re», obiettò Aivas. «No», ribatté Larth, sorridendo minaccioso. «Tuttavia ha i suoi vantaggi. Con il tempo tu potresti essere perdonato, e riavere, tu solo, tutti i beni della tua famiglia.»
Aivas si inchinò, affrettandosi al passaggio che portava alla loggia degli Aruspici. Larth si girò verso Thanaquil; ancora le teneva la mano, e quindi l'attirò a sé. «Quando nascerà?» chiese, e Thanaquil sostenne lo sguardo dei suoi occhi duri; non c'era più bisogno di parole. «Tra cinque mesi», rispose la Regina. «Ne sono lieto», commentò Larth e sorrise, lasciandola. «Spero di poterlo riconoscere, prima della battaglia.» L'abisso delle cose non dette li separava sempre di più. 27. Addossata alle mura poderose di Vei, la boscaglia fitta era come avvolta in una pesante cappa. Un alito di vento portava gli odori della città, che, con i suoi cinquantamila abitanti, i palazzi, i Templi e le statue di bronzo, non nascondeva una certa ambizione di dominio sulle terre del Tibrin, dalle sue sorgenti fino alla preziose saline di Ostia. E infatti Re Tulumne di Vei, nella sua alleanza con Velx e con Xaire, era disposto a portare in campo mille uomini armati e non meno di cinquecento cavalieri. Velvur sostò qualche attimo, non visto, a osservare Mastarna che lo aspettava al punto più alto delle mura, e che stava proteso, guardando a meridione il luogo cui ormai apparteneva e che la forzata separazione non gli toglieva né dal cuore né dalla mente. «È pericoloso per te volermi incontrare da solo», lo ammonì quindi, giungendogli alle spalle. «Potrebbero pensare che vuoi concludere accordi segreti e che io sia di parte.» «Lo penseranno comunque, Grande Trutnot», replicò Mastarna. Il tono era asciutto e rivelava tutta l'insofferenza per essere costretto in un luogo ostile, in attesa delle decisioni di un Re cui non si sentiva più subordinato. «Che lo pensino di te non stupirà nessuno; che lo pensino di me... questo non posso permetterlo! Che cosa vuoi, Mastarna? Che ti dica quello che già sai da solo?» Mastarna scosse il capo e chinò leggermente le spalle. Il sole del tramonto accendeva di fuoco i suoi folti capelli ramati, e lo faceva più giovane, senza intaccare la sua durezza. «Ecco un altro giusto», pensò Velvur. «Uno di quelli che si chiede dove riposa la verità, prima di scegliere, e che tenterà di contenere i privilegi dei pochi, illudendosi di trovarne merito presso i molti. Sarà un Re generoso,
ma nel suo regno vivranno meglio gli altri di lui.» «I Re che si stanno riunendo qui lo sanno?» chiese alla fine, brusco. Mastarna sollevò lo sguardo, sorpreso. «Che cosa dovrebbero sapere?» «Che se davvero vogliono muovere guerra a Larth, tu accetterai di prendere Ruma non per un altro Re, ma per te soltanto.» «Nessuno all'infuori di te, al mio posto», mormorò Mastarna. «Larth l'ha detto molto tempo fa, ma forse non l'intendeva davvero.» «Ti sbagli!» insorse Velvur. «Larth non ha mai detto nulla che non volesse dire. E tu lo sai meglio di chiunque altro.» «È vero; ma non è per parlare della città... o di Larth, che volevo vederti», lo interruppe Mastarna. «La Regina, certo», mormorò Velvur. «La Regina...» Mastarna tacque, forzandosi al silenzio per non compromettere la donna che amava. In effetti non sapeva nemmeno quanto, e se, fidarsi del Grande Trutnot: Thanaquil si era detta sicura del suo aiuto, tuttavia Mastarna non poteva dimenticare che il vecchio era pur sempre il Maestro di Larth e che nessuno poteva conoscere le vie cui il Cielo lo obbligava a sottostare. «La Regina stava bene quando sono partito da Ruma per venire a trattare con questi Re ambiziosi; è questo che vuoi sapere?» chiese il Trutnot, cauto. Mastarna tacque. Velvur sorrise, scorgendo facilmente la sua tensione. «L'annuncio della nascita del futuro Erede è stato dato alla città da Larth stesso, e c'è stata una festa», concluse, dopo un attimo. «Larth ha dato l'annuncio...» «I segni hanno detto che sarà una femmina; ho sentito Larth dire che spera di poterla riconoscere come sua, prima che qualcuno dei tuoi pazzi Re lo chiami sul campo di battaglia a difendersi, e che per lei varrà la legge rasna. Lei sarà l'Erede e lei porterà il trono.» «Larth sa che non è sua!» Mastarna aveva di colpo abbandonato tutte le sue incertezze sulla fiducia da riporre in Velvur. Il Grande Trutnot sorrise, cupo. «Certo che lo sa: che cosa credi? Ma non voleva perdervi e non c'era altro modo per tenervi entrambi che fingere di non vedere. È tua figlia ed è l'Erede: Larth l'amerà come se fosse sua; non giudicarlo, Mastarna. La sua scelta non è stata la più facile, ma di certo la più giusta per voi, per la città e per lui stesso. Senza quel disgraziato evento e la morte di Cneve, Larth non avrebbe mai pronunciato una sola parola contro di te.»
«Questo mi fa sentire doppiamente colpevole», commentò Mastarna, amaro. «La verità spesso fa questo effetto. Solo pochi uomini possono permettersi di guardarla in faccia e accettarla senza rimpiangere qualcosa, e tu non sei uno di questi. Ma per te non è tempo di colpe. I tuoi Re passeranno intere settimane a discutere su quello che dovranno fare e ognuno tenterà di lasciarti fuori; tu lasciali discutere. C'è una cosa che devi fare per me, mentre aspettiamo.» «Per te?» chiese sorpreso Mastarna. «Devi andare all'Isola Fumosa, da Caitli. Lei ti consegnerà una fanciulla che io devo condurre a Ruma, da Thanaquil. È molto importante, Mastarna: quella fanciulla è la figlia di Caitli e di Axal, ma soltanto tu dovrai saperlo.» «La figlia di Axal!» «Per tutti soltanto la figlia di Caitli, Mastarna. Consacrata alla Dea Athrpa e intoccabile; non dimenticarlo.» «Perché a Ruma e perché adesso?» chiese Mastarna, incapace di trattenersi. Velvur sorrise, enigmatico. «Perché così è scritto.» Molto prima che la nave buttasse l'ancora nel porto, Caitli seppe che si avvicinava il momento della separazione da Thesan. E l'evento, conosciuto da sempre, adesso le sembrava troppo vicino e crudele. «Se fossi Regina», pensò, «mia figlia avrebbe comunque l'età per andare sposa a un Principe di un'altra città della Lega, per rinsaldare un'alleanza o stabilire un patto, e la cosa non sarebbe diversa.» Ma era una piccola consolazione e non mutava l'evento in sé; d'altra parte, Thesan aveva compiuto quindici anni nell'inverno, e ora l'estate era quasi consumata. Il suo tempo era venuto, e sapeva. Caitli diede ordine che Mastarna fosse accolto come un Principe, e lo ricevette nella sala comune del Tivrit dove, durante la cattiva stagione, i Trutnot si riunivano per le loro rare assemblee, o per dare onore a qualche visitatore importante. Era una sala profonda, una vera caverna naturale ingrandita e levigata, dove il quarzo delle pareti sembrava un rivestimento prezioso e non pura roccia, mentre le panche e gli scranni di pietra, nell'effetto della luce tre-
molante delle lampade, parevano nascere dal suolo. Mastarna si inchinò, senza parlare: gli era difficile ristabilire con la donna vestita d'azzurro e scarlatto assisa sullo scranno più alto quella familiarità che pure un tempo gli era stata preziosa. Tuttavia Caitli era la stessa d'allora. Lei non era cambiata. Nella sala profonda vibrò all'improvviso, intenso, il ricordo che gli era salito alla mente, come se qualche nascosta magia l'avesse fatto rivivere. Veltune in un giorno luminoso e assolato; il vento sulle alte erbe mature e sulle cime degli alberi e sull'acqua azzurra del lago; e poi i padiglioni dai colori sgargianti, la folla ricca che onorava i giovani vittoriosi sul mare di Alalia, gli odori e i suoni e le voci, l'allegria... la giovinezza. Caitli gli stava davanti e gli passò una mano sulla fronte; per un istante Mastarna era stato davvero là, indietro nel tempo, e adesso tutto quello che gli restava era una nostalgia tenera, che era anche la misura della sua stanchezza. Piegò un ginocchio a terra e le baciò l'orlo della veste. «Mi ha mandato Velvur», disse semplicemente. Caitli sorrise appena. «Lo so. Alzati, Mastarna.» Mastarna le prese una mano e se la portò alla fronte. «Che cosa è scritto per me nei tuoi Libri?» chiese, non curandosi di nascondere l'ansia che lo tormentava. «Quello che già era scritto quel mattino a Fanu Veltune, sulla riva del lago», rispose Caitli. «Non sono stato né forte né fedele», ribatté Mastarna, cupo. «Lo sei stato per quello che era la tua misura: nemmeno Larth ti ha chiesto di più.» «Ci batteremo?» incalzò l'uomo. Caitli allontanò la mano dalla sua fronte, stringendola a pugno. Per un istante, Mastarna sentì un'onda di gelo pervadere l'aria attorno; una corrente fredda che gli portò dolore. Poi capì: Caitli gli era ostile in quel momento perché lui spezzava quello che non poteva essere spezzato. «Sì, vi batterete», mormorò Caitli. «Non voglio battermi con Larth, e non lo farò.» Caitli sorrise appena, trattenendo un sospiro lieve; all'improvviso era stanca, perché il tempo si stava compiendo, e l'ostinazione di Mastarna gli appariva adesso una piccola cosa, come il capriccio di un bimbo ostinato. «Altri prima di te hanno detto: non voglio, altri lo faranno anche dopo di te. Ho preparato Thesan, e domani partirai con lei. Per questa sera, sei mio
ospite», concluse Caitli e lo congedò. Mastarna tentò di dormire, quella notte, senza riuscirci; il luogo gli sembrava colmo di voci che non aveva mai pensato di poter udire. Inoltre, i pochi Trutnot in quel momento ospiti del Tivrit l'avevano evitato, dimostrandogli il formale rispetto che avrebbero dato a uno straniero, e la stessa cauta diffidenza. A un certo punto della notte gli sembrò che la stanza rocciosa in cui lo avevano alloggiato gli si serrasse attorno, e allora si rivestì, uscendo all'aperto. La notte era fresca, ma il vento forte che soffiava da occidente la rendeva anche chiara e luminosa. Il cielo era colmo di stelle basse, quasi una rete tesa sul Tivrit buio e profondo, e Mastarna ebbe la sensazione che gli premesse addosso e che, richiudendosi per un improvviso portento, potesse soffocarlo. All'altare di pietra, nel centro, una fanciulla, troppo chiara di pelle e di capelli per essere una rasna, stava immobile, salda contro l'impeto del vento: pareva vestita di stelle e di buio. La sua veglia era silenziosa. Mastarna distolse lo sguardo, rabbrividendo. «L'Amore e la Morte hanno lo stesso viso», si sorprese a pensare, rendendosi però conto all'improvviso che quelle parole, pronunciate da una voce lontana, gli erano penetrate in mente con una forza nuova e sconosciuta, come se ciascuna parola chiudesse in sé tutti i segreti. «L'Amore e la Morte sono le forze che muovono l'universo, Mastarna. Anche tu costruisci oggi la tua morte di domani, ma è così che deve essere, perché solo così il Tempo può consumare il Tempo e ciò che è stato tornare a essere.» Non osò avvicinarsi di più alla fanciulla, e rientrò nella sua stanza. All'alba, il carro a due ruote era pronto sul sentiero che portava al villaggio; un baule di comune legno senza fregi né ornamenti conteneva il bagaglio della sua compagna, che lo aspettava già a cassetta, avvolta in una tebenna bianca. «Per la gente di Axal il bianco è il colore del lutto», pensò Mastarna. Tuttavia rivolse alla ragazza un sorriso, valutandola: era bella e somigliava troppo al padre. Chiunque avesse conosciuto Axal avrebbe visto lui. Nemmeno un tratto la legava alla stirpe regale di Tarchna. Thesan gli sorrise, e Mastarna scoprì che aveva il sorriso accattivante di una bambina; gli riuscì difficile pensare a lei come alla stessa ragazza che aveva visto nella notte presso l'altare. «Andiamo?» gli disse, quasi mettendogli fretta. Mastarna si issò sul carro, cercando Caitli con lo sguardo, per-
ché gli sembrava strano che non venisse a salutare la figlia alla partenza. «Il resto del mondo non è più bello o migliore di questo posto, nobile Thesan», le rispose allora. «Hai tanta fretta di andartene?» «Sei tu quello che ha fretta; hai atteso tutta la notte il momento di lasciare il Tivrit, e speri di non doverci più tornare.» Mastarna assorbì la limpida freddezza dei suoi occhi; accompagnarla a Vei da Velvur non sarebbe stato il più facile dei compiti. «Non ti si può nascondere molto», mormorò, irritato. «Mi dispiace; cercherò di ricordarmi che non ami essere visto.» Mastarna assentì cupamente; la ragazza distolse lo sguardo, concentrandosi sul sentiero per lasciare a ogni anfratto, a ogni pietra e a ogni albero il suo saluto lieve, e il tocco della sua essenza. Com'era accaduto al momento della sua nascita, Caitli la guidò a staccarsi, accettando che si separasse da lei. Era un autunno di piogge abbondanti e il Tibrin era in piena. Questo, se non altro, avrebbe tenuto i Re e i loro desideri a freno almeno fino a primavera, ed era in effetti quanto i Trutnot si erano prefissi compiendo i riti dell'acqua, e mettendo a dura prova la pazienza della terra. Naturalmente non lo avrebbero ammesso; ma Velvur non aveva trovato altra soluzione all'intransigenza dei Re, dall'una e dall'altra parte. Larth non poteva fare a meno di esigere un tributo per il tradimento inteso ad abbatterlo e per la morte di Cneve; i Re ribelli non potevano rinnegare la propria ribellione senza accettare di pagare il tributo, e fermenti profondi correvano in tutte le città della Lega che si stavano fortificando le une Contro le altre. Velvur lasciò il peso dei propri bagagli al giovane Acilius e guidò personalmente Thesan nelle stanze della Regina. Il Palazzo sembrava tranquillo: il Re era occupato con i suoi nobili e la pioggia tratteneva gli oziosi al riparo delle logge e le guardie negli androni. Ma Velvur conosceva ormai bene la maliziosa curiosità che prosperava in quel luogo; così Thesan aveva nascosto i capelli e gran parte del viso in un velo pesante, e il resto della figura nella tebenna; pochi badarono così alla nuova ancella della Regina. Thanaquil era circondata dalle sue donne, che stavano tessendo: quell'arte tuttavia non era coltivata dalle figlie dei Re rasna, e così Thanaquil se ne stava distesa sul clinai davanti al camino, assorta, a guardare il fuoco che aveva voluto per vincere l'umidità dei muri troppo giovani.
Velvur si fermò un istante sulla soglia; le ancelle della Regina trattennero il lavoro, incerte: avevano soggezione di lui, tanto le nobili rasna quanto le latine, e poteva quasi sentire il sipario che riuscivano ad alzare, istintivamente forti e unite a fronteggiarlo. Il Trutnot sorrise a Thanaquil, che si era sollevata, trattenendola dall'alzarsi. Le sette lune compiute l'avevano ingrossata oltre misura e il peso le dava visibilmente fastidio. «La Dea Athrpa ti è propizia», la salutò Velvur. «I tuoi desideri sono sicuri.» «Lo so», rispose Thanaquil. «L'ho incontrata nel fuoco.» Velvur comprese che Caitli l'aveva raggiunta, e rassicurata; Thanaquil si sporse quindi a guardare la nuova ancella, che era rimasta immobile e silenziosa. Sentiva facilmente il grande Potere che emanava da lei: era lo stesso che aveva colmato la stanza dei Principi e che tendeva già a stendersi attorno facendo serpeggiare tra le ancelle ansia e apprensione. «Togli i tuoi veli e avvicinati, mia cara: in queste stanze sei al sicuro, poiché questa sarà la tua casa», disse Thanaquil. «Ti ringrazio, Regina», replicò Thesan, obbedendo. Non disse: «mia Regina». Thanaquil le prese una mano, costringendola a farsi così vicina che nessuno poteva più sentirla. «Benvenuta, nipote mia», mormorò. «La Dea Athrpa guidi i nostri passi da adesso in poi.» Thesan assentì, trattenendosi; sentiva il prepotente bisogno della Regina di essere rassicurata, e ne sentiva anche la fragilità, le paure e l'ansia per la figlia che portava e per la verità nascosta che avrebbe difeso fino alla morte; ma non poteva dire o fare nulla fintanto che tutti quegli occhi erano su di lei. Le ancelle si stavano già chiedendo chi fosse, perché fosse così diversa, straniera, e perché la Regina le manifestasse tanto interesse e tanto affetto. E poiché era stato Velvur a portarla, stavano già concludendo che doveva essere legata alle sue magie e ai suoi misteri. «Tu sai perché sono qui, Regina», disse Thesan sommessamente, sollevandosi. Thanaquil alzò gli occhi su Velvur: adesso lo sapeva. Larth aveva ritrovato con piacere la compagnia del Grande Trutnot; l'a-
veva ascoltato parlare di Vei e mettere a nudo i pregi e i difetti dei Re avversari, aveva raccolto scrupolosamente la sua valutazione delle forze nemiche, dei loro progetti e dei loro intenti e aveva bevuto e mangiato con lui, nelle sue stanze, facendolo partecipe infine di parte dei suoi pensieri e dei suoi problemi. La preparazione di una schiera tanto forte da tenere la frontiera del Tibrin e il ponte, per esempio, e il fatto che quella schiera sarebbe stata comunque in maggioranza latina; o il gioco di Flasi Aivas, oppure il sospetto che Egene potesse davvero accordarsi con i traditori. Ma non aveva parlato di altre cose, incise molto più a fondo nella sua anima: non gli aveva chiesto di Mastarna, né quale fosse la sua posizione, adesso; non gli aveva domandato che cosa sarebbe stato della città, se lui fosse morto in battaglia; e non gli aveva parlato dell'Erede né aveva chiesto chi fosse la ragazza portata alla Regina, che non aveva ancora visto e che gli avevano descritto come straniera. Infine il Grande Trutnot si ritirò esausto: era molto tardi e i servi erano venuti già due volte a ravvivare il fuoco nel camino. La pioggia continuava a cadere scrosciante, e tuoni e fulmini si rincorrevano sulla piana, oltre il fiume, illuminando a giorno l'orizzonte e la linea oscura dei boschi. «Come quella prima volta», Larth pensò. «Qualcuno sta proteggendo la mia notte a Ruma.» Raggiunse la loggia e restò un momento a guardare il cortile principale invaso dall'acqua, appena rischiarato da un fuoco di bitume. «Hai chiesto del vino?» La voce era intensa e allo stesso tempo lieve; le parole, di per se stesse banali, avevano all'improvviso una sonorità diversa e sembravano attingere a profondità impensate, quasi come se ciascuna fosse uno scrigno e nascondesse un segreto che poteva farlo felice. Si girò: la ragazza stava a qualche passo, con una coppa in mano. Era alta e sottile, e portava una tunica scura, appena toccata da un ricamo d'oro lungo i bordi; i capelli chiarissimi erano trattenuti sulla nuca da un filo di perle nere. Tuttavia Larth distinse solo vagamente quello che la faceva sembrare una Regina: tutto quello che vedeva di lei era ciò che la rendeva simile ad Axal. «Sei un sogno?» le chiese, prendendo la coppa; il vino aveva un colore ambrato ed era dolce. «No. Hasti è troppo vecchia ormai, e le è dovuto del riposo; è stata la Regina a ordinarmi di sostituirla.»
«Così è stata la Regina a mandarti da me, ed è stato Velvur a portarti dal Tivrit», commentò Larth. «Come sai che vengo dal Tivrit?» Nessuna serva avrebbe mai osato fare domande al Re; Larth si sentì intrappolato nel ricordo che aveva creduto sepolto e che adesso gli scaldava il cuore. «Sono un Mago», replicò sorridendo. La ragazza non distolse il suo sguardo di cielo chiaro. «Qual è il tuo nome?» le chiese, lasciando la coppa. «Thesan.» «Sei consacrata a qualche Dea, Thesan?» «Sono consacrata a un Re.» Ancora le parole avevano una sonorità diversa; erano gocce di miele e vento freddo di settentrione; la promessa del piacere e il compiersi del segno; l'ombra di una bambina che aveva scelto per lui un opale nero; erano i loro piedi nudi in una striscia di luce sulle pietre antiche; erano anima e carne. Le circondò la vita, attirandola contro di sé; all'improvviso quel corpo sottile diventò caldo quanto un fuoco vivo, e lo avvolse, prendendolo come niente l'aveva preso da molto tempo. La portò sul clinai e la spogliò, abbracciandola strettamente, pago per un momento di sentire la sua pelle giovane e intatta contro la propria, e la smania di vita che rotolando come il tuono sulla piana riempiva la notte e la sua anima. L'assalì più e più volte fino a quando la dischiuse e si ritrovò in lei con le lacrime che gli salivano agli occhi; restò in quel corpo, dal quale non era uscito un solo grido, sentendosi nuovo, e giovane, come il ragazzo che aveva onorato una schiava credendo di onorare una Regina. «Io sono figlia di Caitli e di Axal», gli mormorò Thesan. «E poiché tu hai amato entrambi, io sono il loro dono, perché anche loro ti amavano, e molto più di quanto tu hai voluto credere.» Larth si sollevò leggermente, senza lasciarla; Thesan era molto più di un dono, nei bagliori del fuoco morente: era l'amore e la gioia. Ed era la vita. Con leggerezza, la ragazza gli sfiorò una guancia, raccogliendo una lacrima. «Un Re che piange è prezioso agli Dei; le sue lacrime sono per l'eternità molto più che ogni sua vittoria.»
Larth appoggiò il viso contro il suo e la tenne così, pago del suo respiro. «Hai scontentato gli Aruspici, che adesso tuonano contro di te; ti accusano di sacrilegio, perché per tua colpa il Cielo Sacro di Veltune non ha più benedetto l'unione della Lega; e poi dicono che anche gli Dei sono in collera, perché li hai portati a Ruma e hai permesso che i Latini cambiassero il loro nome, confondendoli con quelli dei Greci che sono nostri nemici.» «Che altro ancora ho commesso?» Larth lo interruppe senza molti riguardi. «Questo basterebbe alla maggior parte dei Re», ribatté il Grande Trutnot, senza nascondere una punta d'ironia. Non avrebbe mai ammesso in pubblico che le parole degli Aruspici potevano giungere a divertirlo, ma erano soli, e con Larth poteva azzardare i pensieri più liberi, perché comunque non sarebbero stati audaci e irrispettosi quanto i suoi. Larth si stirò dinanzi all'apertura inondata di sole; l'inverno era mite e presto sarebbe finito in una primavera precoce. «I tuoi discepoli sono pettegoli come le serve, Velvur. Che altro hai saputo? Ormai hanno toccato tutte le città della Lega, compresa Tarchna.» «Oh, Tarchna non è mai stata tanto ricca e soddisfatta; questo può essere un bene, ma anche un male. La gente ricca non combatte volentieri, e spesso cerca accomodamenti poco dispendiosi. Tuo fratello Egene ti è fedele, comunque», concluse Velvur. «Mi fa piacere per lui», mormorò Larth, distraendosi a seguire l'andirivieni dei suoi nobili nel cortile principale. Marcius stava smontando da cavallo, appena giunto con i suoi capitani dal sud, dove aveva raccolto una nuova schiera di uomini che dovevano ancora essere addestrati e armati. «È vero quello che dicono? Che gli hai promesso la collera di Tinia se soltanto pensava di tradirti?» chiese Velvur. «È vero. Era lontano da me, quindi non mi restava che usare il Potere», ribatté Larth. Il Trutnot scosse il capo. «La paura è un'arma a doppio taglio», mormorò. Larth gli sorrise, minaccioso. «Che altro, dai Re miei alleati e da quelli che mi sono nemici?» lo incalzò, ignorando il suo avvertimento. «Confusione, incertezza e ancora paura, da entrambe le parti. I tuoi alleati ti sanno forte, ma hanno paura di aver mancato qualcosa; i tuoi nemici non hanno trovato debolezze dove colpirti, e questo li sconcerta.»
«Non ho mostrato debolezze!» esclamò Larth. «È vero; i tuoi Palazzi sembrano benedetti dagli Dei. Le tue città sono prospere, la tua Regina ti darà a giorni il nuovo Erede e i tuoi uomini giurano a schiere di esserti fedeli. È per questo che gli Aruspici tuonano contro di te, e i Re tuoi avversari ti manderanno contro Mastarna, anche se volevano evitarlo, perché per loro è un pericolo altrettanto grande.» Larth assentì in silenzio; non aveva ammesso debolezze, ma le aveva sofferte in silenzio e ne portava le ferite nella propria anima: aveva pagato come un Re doveva pagare, chiudendosi, e lasciando che gli altri vivessero una vita lontana che non poteva più toccarlo. Poi era arrivata Thesan. E con Thesan qualcosa di impalpabile e tuttavia potente era mutato, in lui e attorno a lui. Sapeva che Velvur aveva seguito la corrente dei suoi pensieri, e che stava pensando adesso alla figlia di Caitli e di Axal, gravida di lui e protetta dalla Regina come una sorella, ma avversata nel Palazzo come una straniera e temuta come una Maga. Quelli che avevano conosciuto il biondo schiavo celta dicevano che quello non era altro che il suo spirito, tornato in quella forma per meglio compiacere il suo Re. Così Thesan sarebbe stata una debolezza fatale, se i suoi nemici avessero saputo. «Perché l'hai portata a me?» disse infine, aspro. «Non ti piacerebbe saperlo, mio Re», ribatté il Grande Trutnot, pensando al futuro così rigidamente segnato, e così vicino. «Se anche fosse la causa della mia morte, benedirei la sua mano come suo padre ha fatto con me. Il legame è forte, e lo sento come una rete; è certamente qualcosa di magico, ma da lei viene soltanto amore e io non capisco questo dono che mi fa così felice e al quale non posso rinunciare.» «Non sarà causa della tua morte», mormorò Velvur. «Tu che sei un Mago non vedi quello che le stelle disegnano nel cielo di primavera?» Larth sorrise appena al suo tono e alla sua sfida. «Io ho dimenticato il Cielo», rispose, muovendosi per uscire incontro a Marcius e ai capitani. «Sono soltanto un Re.» 28. Larth sollevò la bambina perché tutti potessero vederla, anche quelli in fondo alla sala e quelli che premevano alle porte. Avvolta nella porpora di Tarchna, la piccola aveva gli occhi sgranati, un viso paffuto, e teneva le
piccole mani strette a pugno con forza. Un ventaglio di sole, piovendo dall'alto, la infastidiva. «Il Potere non è in lei», pensò Velvur, e si voltò a osservare Larth, il cui viso non lasciava trasparire altra emozione se non la legittima fierezza di avere nuovamente un Erede. «Mia figlia avrà un nome latino, Tullia, per onorare quella che è la sua terra e i Re che ci hanno preceduti», stava dicendo, «e un nome rasna, Caitli, in onore della Sacerdotessa che mi è stata sorella e guida.» Velvur trasalì, sorpreso, e con lui tutti quelli che sapevano: per la prima volta da quando Caitli aveva scelto di disobbedirgli, Larth pronunciava il suo nome in pubblico. Non solo, ma riconosceva l'affinità che li legava. Un silenzio assoluto, tanto più intenso perché inaspettato, scivolò nella sala. La luce coronava adesso Larth, lasciando in ombra la bambina: una macchia di buio nelle sue mani. «Mia figlia Tullia Caitli mi è Erede e sarà Regina, secondo le leggi rasna», dichiarò Larth. Larth abbassò le braccia e la piccola fece udire un vagito sommesso; pronta ad accoglierla c'era Hasti alla quale, come nutrice anziana, era stato riservato l'onore di condurre la neonata al Re. La donna prese la bambina e la portò via, mentre gli uomini nella sala si facevano da parte e il Re usciva con Marcius. Non appena le armate delle città rasna ribelli al Re Supremo si erano distese nella piana di Vei, le schiere di Ruma avevano cominciato ad attraversare il ponte Sublicio: duemila uomini armati, più della metà cavalieri e, per il resto, una fanteria bene addestrata, al comando di Tavas. Un'altra schiera di cinquecento uomini, che non avrebbero passato il ponte, era già raccolta al di qua del fiume, baluardo estremo alla città. Marcius ne aveva il comando. I Re di Faleri, di Sveana e di Velzna aspettavano con le loro schiere: portavano altri duemila uomini e un centinaio di aurighi e di arcieri su veloci bighe. Larth, con Marcius al fianco, cavalcò lungo la linea di difesa più interna e scese fino al ponte, dove il passaggio delle schiere avveniva ordinatamente e senza interruzione, simile al sinuoso procedere di un lungo serpente. L'inverno somigliava a una primavera precoce, quasi a compensarli dell'autunno cattivo, e la giornata di sole era limpida e tanto pulita che le nuvole di polvere che si alzavano nell'aria, per il grande numero di uomini e di animali in movimento, erano simili a una fine pioggia d'oro. «Sarà una battaglia di Re, questa», pensò Larth, valutando la cura di
Marcius nel preparare le difese e i suoi uomini. Sapeva di aver fatto una giusta scelta, preferendo il latino per quel compito, a dispetto dei dubbi e delle paure dei suoi capitani. L'indomani, quando avesse lasciato la città per prendere la testa delle schiere e portarle nella piana di Vei, Marcius ne sarebbe diventato effettivamente l'ultimo difensore, e allora Larth avrebbe saputo se meritava davvero tanto potere. Lo ascoltò esporgli lo stato delle sue forze e poi ascoltò i suoi capitani fare altrettanto; ma lo spirito che li pervadeva era di lieve inquietudine, appena celata più per paura che per vergogna: non era mai accaduto che le città della Lega si combattessero tra loro, così si sentivano confusi e feriti; anche gli Aruspici non erano stati in grado di trarre segni dal Cielo, ma si affannavano tentando di spiegare l'inesistente o addirittura di inventarlo. «E Velvur tace. Lui, che sa, ha scelto di non parlare», pensò Larth, mentre lasciava il fiume e tornava al Palazzo. Larth prese un lungo bagno ristoratore, ma non toccò né cibo né vino; indossò una tunica nera e si fece annunciare alla Regina, scoprendo con la coda dell'occhio, entrando, che Thesan non era tra le ancelle che in quel momento le tenevano compagnia. Thanaquil stava distesa sul clinai davanti al fuoco acceso; la nascita della bambina era stata facile e a distanza di pochi giorni i segni più evidenti della maternità già l'avevano lasciata; portava una tunica orlata di porpora, e un corto mantello sulle spalle. Per un istante, vedendolo, non riuscì a nascondere del tutto la propria sorpresa, ma Larth la raggiunse prima che potesse parlare e, chinandosi, la baciò sulla bocca. Un bacio lieve, che le lasciò la sensazione di un'accusa; risollevandosi, Larth le sorrise appena. «Domani lascerò il Palazzo molto prima che faccia giorno; non voglio che tu debba svegliarti così presto. Abbi cura dell'Erede», le mormorò. Thanaquil lo sentì vicino e, allo stesso tempo, appartenente a un universo che non poteva più toccare. Non c'era ostilità nella sua voce e nemmeno rimprovero o dolore. Lo toccò, posandogli una mano sulla spalla. Era la Regina: poteva dirgli di non andare? E Larth poteva davvero credere che fosse per lui, e non perché temesse per la vita di Mastarna? «Avrò cura dell'Erede», promise Thanaquil. Larth lasciò la stanza senza dire altro. Scese quindi all'ara, per presenziare ai riti propiziatori. Non era Velvur il
celebrante; il Grande Trutnot se ne stava assorto nel suo scranno, vestendo le alte insegne che sembravano pesargli più del solito. Solo una volta, alzando gli occhi, scoprì quelli del Re fissi su di lui, e allora Larth vi trovò lo stesso affetto e la stessa rassegnata tristezza di quando era venuto a salutarlo sulla banchina di Pyrgi, tanto tempo prima. Adesso, come allora, c'era in Velvur la stessa rassegnazione per qualcosa che non poteva cambiare e che quindi lo straziava, perché gli dava la misura della sua impotenza di uomo di fronte agli eventi del Cielo. «Una chimera», pensò Larth, «può essere presa. Un uomo può accettare il proprio destino o distruggersi tentando di cambiarlo, ma questa scelta è soltanto sua.» L'olio della cerimonia sfrigolò con una fiammata, investito nella sua tazza d'oro dall'alito rovente di un braciere, senza alcun motivo. Le facce degli Aruspici celebranti si fecero scure per il segno, ma Larth sorrise fugacemente. Incontrando lo sguardo di Velvur, seppe. La sua sfida era stata accettata. Si ritirò presto nelle sue stanze; il buio aveva portato un vento freddo da occidente, ma non era niente di più che un brivido sulla terra tiepida. I cornioli e i noccioli erano già in fiore sui fianchi volti a mezzogiorno dei colli, e il vento stesso aveva il profumo della nuova stagione. Si girò, sentendola venire. Un Re non avrebbe dovuto turbare la veglia concedendosi al piacere: le cerimonie propiziatorie lo avevano reso sacro, e qualunque altro contatto avrebbe potuto turbare quel ponte fragile con il divino, che doveva essere il suo scudo. Ma Larth aprì le braccia e Thesan vi si rifugiò, lasciando fluire tra loro una comunione di pensieri e sensazioni, una fusione completa, che non aveva bisogno di parole. Larth la portò al proprio letto, la spogliò e le si distese accanto. Nulla era mutato in lei; il figlio che portava era ancora nascosto, ma Larth le posò una mano sul ventre e lo sentì palpitare con la stessa forza con cui sentiva battere il proprio cuore. Suo figlio: il suo Erede. «Chi penserà a mio figlio e a lei se io morirò domani?» si chiese, sapendo che poteva conoscere il suo futuro se soltanto lo voleva, ma posandole le labbra sulle labbra per impedirle di dire qualunque cosa. Si svegliò che era ancora buio; Thesan a un certo punto della notte doveva aver steso su entrambi una coperta e adesso dormiva nelle sue braccia, il viso un poco girato e i lunghi capelli chiari a coprirglielo.
Un riflesso delle fiamme che ardevano alte nel focolare la illuminava, rendendola a tratti simile a Caitli, e a tratti restituendole i lineamenti del padre, per la stessa magia o per un dono estremo. «Nessun servo è entrato per alimentare il fuoco», notò Larth, «e non è legna quella che sta bruciando senza consumarsi. Caitli, mia Regina, lasciami alla mia scelta, o alla mia illusione. Accetterò quello che è scritto, se io da solo non potrò cambiarlo.» Per un momento ancora restò disteso; poi si alzò, attento a non svegliarla. Si sfilò l'opale dal collo e glielo posò tra i seni. La pietra era spenta e muta, fredda come un abisso vuoto. Lasciò quindi la stanza e chiamò i servi perché lo lavassero e lo vestissero per la battaglia. Il sole brillava sul bronzo degli scudi e sugli elmi; un alito di vento ancora freddo muoveva le tebenne, i drappi e le insegne; un velo di brina scintillava come un cristallo infranto nella breve pianura tra Ruma e Vei, dove i due eserciti stavano schierati l'uno di fronte all'altro con i loro Re. Ma, di tutti i Re, Larth era il solo a vestire il cuoio e il bronzo e a portare le armi da guerra. Gli altri Re, gli alleati e i nemici, avevano lasciato ai loro capitani e ai Principi il comando delle schiere, e davanti a tutti c'era Mastarna, montato su un cavallo bianco, con uno scudo senza insegne: Mastarna combatteva soltanto per sé, e Larth sorrise a fior di labbra, constatandolo. «Così, amico mio», pensò. «Anche tu come me combatti per un'altra sfida e solo gli Dei, oltre a noi due, lo sanno.» Lentamente Larth alzò la propria spada, lasciando che il sole la illuminasse e tenendola alta, perché le sue schiere traessero da quel segnale la forza che doveva spingerle. Sapeva che cosa si aspettavano da lui: un prodigio, come sui colli Albani; o uno degli innumerevoli segni del Potere, che li portasse avanti con la facilità di sempre, e che facesse di quel giorno un altro trionfo. Sorrise tra sé. Solo gli Dei sapevano. Come un'onda le ali si mossero quindi in avanti, portando la cavalleria a prendere velocità per serrare in un semicerchio le schiere avversarie. La punta dello schieramento di Mastarna venne così all'improvviso a trovarsi all'interno di quello nemico, con il rischio di esserne mortalmente soffocata. La battaglia si accese prima ancora che uomini e cavalli entrassero in
contatto tra loro, mentre gli arcieri di Vei, rimasti indietro, tentavano di evitare che il semicerchio si chiudesse, bersagliando con tiri precisi uomini e animali. Larth mandò avanti i propri arcieri, sui fianchi, con le bighe, e poi la battaglia divampò, trascinata dall'impeto dei cavalieri, e si allargò a coinvolgere la fanteria, rimasta saldamente sulla propria posizione. Presto la pianura tra i boschi non fu altro che un groviglio di scontri, con le armi di Vei e delle città alleate sempre più serrate da ogni parte. Larth si trovò presto a incrociare la spada con uomini che avevano servito per lui sin dalla prima battaglia di Ruma. Ma non c'era tempo per i pensieri: non c'era nient'altro che il fragore del metallo, le urla e il sangue. Scoprì Caile Vibenna che agonizzava trafitto da una lancia e Aule già morto in una pozza di corpi e sangue. Il Re Pesna di Sveana gli passò accanto senza armatura né elmo, travolgendo due avversari, e per un momento Larth si avvalse del suo braccio per guardarsi il fianco sinistro. Il sole era alto in un cielo azzurro e sfolgorante, e abbacinava, con la cruda luce dei giorni d'inverno. Larth per un istante si portò una mano a schermo degli occhi. «Dov'è Mastarna?» si chiese. E provò una stretta al cuore all'idea che qualcuno potesse averlo ucciso. All'improvviso, in una mischia, distinse la testa di riccioli di rame, e allora affondò le ginocchia nei fianchi del proprio cavallo; nello stesso istante, Mastarna si liberò di un nemico e si girò, la spada tesa e spinta in avanti. Il suo colpo dritto e forte prese Larth prima ancora che Mastarna potesse riconoscerlo. Per un istante entrambi restarono immobili, Mastarna con la mano contratta sull'impugnatura dell'arma e Larth, che nel contraccolpo aveva perso la propria, con il pugno chiuso sulla ferita nel tentativo assurdo di arginare il sangue. Nessuno dei due distolse gli occhi dagli occhi dell'altro. Lentamente Mastarna tirò via la spada; Larth si piegò sul collo del cavallo, ma non cadde. All'improvviso i suoni, gli odori e i clamori del campo si erano fatti lontani, filtrati da qualcosa che si era frapposto tra lui e la realtà, lasciandogli un unico spiraglio di dolore come segno della consapevolezza di essere vivo. La mano di Mastarna si posò sulla sua spalla, sporca di sangue e pervasa da un tremito che nessun altro avrebbe mai potuto vedere. Si liberò quindi di un nemico, e afferrate le briglie del cavallo di Larth e del proprio spinse
entrambi avanti, verso la fanteria di Tarchna, che scavalcò con un balzo. In quel momento Larth tenne il cavallo, risollevandosi; Tavas, che si era gettato verso Mastarna nel tentativo di disarcionarlo, si fermò, la spada sollevata. «Lasciaci passare», ordinò Larth. «E poi ritirati al fiume.» Tavas esitò appena un istante; tutta la parte destra del petto del Re era coperta di sangue, e tuttavia il Re sembrava lucido, e nemmeno sofferente. Guardò dubbioso verso Mastarna: vederlo al fianco del Re era naturale come vedere un giorno che segue la sua notte, e Tavas arretrò. Mastarna spinse al galoppo entrambi i cavalli. «Il Re! Il Re è ferito!» L'urlo passò dilagando per tutto il campo. «Il Re Supremo si ritira!» Lentamente, gli scontri si smorzarono; entrambe le parti presero a ritornare sulle proprie posizioni, e poi le schiere di Tarchna, man mano che l'ordine di Tavas le raggiungeva, cominciarono ad arretrare compatte verso il fiume. Larth ripeté il proprio ordine agli uomini che proteggevano il ponte, e a Marcius, che sbarrò loro la strada immediatamente al di là. «Non temere, non è grave», gli mentì, stando sollevato sulla sella; gli costava una certa fatica, ma il giovane latino meritava di ricevere ordini così importanti dal suo Re. «Mastarna e io decideremo che cosa è meglio per questa città, ma nessuno oggi deve conquistarla. Forse toccherà a te difenderla, Marcius.» Il giovane lo guardò, duro. «Sai che lo farò; è per questo che mi hai scelto», rispose. Larth annuì; lasciò che fosse Mastarna a guidare i cavalli su per la salita e fino al Palazzo. Una mezza dozzina dei suoi capitani si erano accodati nel momento in cui Mastarna aveva passato le linee, e adesso li scortavano, ma quando giunsero nel cortile esterno Larth li fermò con un cenno, e smontò da solo. «Restate qui, e obbedite a Mastarna», ordinò. Mastarna si passò un suo braccio attorno alle spalle, e lo sostenne per la vita; a Larth sembrò un lunghissimo cammino, quello fino alle sue stanze. Non capiva perché gli venivano alla mente i disegni del pavimento del grande cortile di Tarchna, con la pietra nera che scintillava al sole, e le figure ridenti di due bambini rintanati in una striscia d'ombra che giocavano a farsi promesse per l'eternità. Faceva caldo, lì, come allora in quel cortile. Larth si scoprì fradicio; la
gente del Palazzo si faceva attorno, qualcuno strillava, ma Mastarna proseguì implacabile fino alle stanze del Re e arrivò a posarlo sul letto nel momento in cui Velvur li raggiungeva con Thanaquil. «Chiudete le porte; nessuno deve entrare qui. Nessun servo, nessuna donna», sentì il Grande Trutnot ordinare con voce dura. Le mani di Velvur scesero a sfiorargli la fronte e Larth si ritirò, perché di tutto quello che poteva desiderare l'ultima cosa era che quel tocco si portasse via, con il dolore, l'ultimo frammento di vita che gli restava. Gli afferrò il polso, e gli tenne giù la mano. «No, Grande Trutnot», ordinò. Non comprese la risposta sommessa del vecchio; Mastarna gli aveva aperto l'armatura di cuoio che il suo colpo aveva devastato e il Grande Trutnot stava adesso frugando tra la tunica e la carne. A Larth sembrò che, qualunque cosa potesse fare il Trutnot, comunque non avrebbe più potuto riguardare lui, così gli sfuggirono i motivi di quell'apprensione e di quella fretta. Era tutto inutile. Stava morendo. Velvur accese una lampada e Larth per un poco si perse in quella luce, cercando con la mano sul petto devastato l'opale e il suo calore. Adesso lo stava invadendo il freddo; e se chiudeva gli occhi poteva quasi sentire sotto di sé la sabbia nera del riparo nella Foresta Sacra, e Axal che lo sosteneva. Caitli era china ad accendere un fuoco sacro. Un fuoco inestinguibile. «Caitli», mormorò Larth, e si lasciò sfuggire un sorriso lieve, sollevando una mano a sfiorare, con la punta delle dita, il viso di Thanaquil. Mastarna, alle sue spalle, era diventato un'ombra indistinta. La pioggia. C'era stata pioggia quella notte, nel riparo. C'era pioggia anche adesso? Sembrava venire da fuori il ronzio di un alveare infuriato, o lo scroscio della pioggia sulle pietre. «Le strade si stanno riempiendo di gente... vengono al Palazzo...» stava dicendo Thanaquil. «Forse è proprio quello che i Latini aspettavano; che ci battessimo tra noi!» «Zitto, Mastarna». L'ordine del Grande Trutnot portò il silenzio. Larth si girò a guardarlo e incontrò i suoi occhi vibranti d'affetto. Le cose che avrebbe voluto dire, ora, gli sembravano all'improvviso insignificanti; il potere, il suo potere, riposava altrove, chiuso nella sua ani-
ma di uomo. Strinse la mano a Mastarna. «È questo, dunque?» pensò Larth, sentendo all'improvviso il dolore lasciarlo, come se appartenesse a un essere che non conosceva più. Le fiamme si levavano alte nel camino, come una festa. «È stato bello», disse. «È stato bello vivere», pensò, «e inseguire chimere... ho pagato il mio prezzo al mio Cielo...» Sorrise a Mastarna. Le voci della folla erano ancora salite di tono, fuori; il tramonto esplodeva all'orizzonte in uno splendore di rossi e ori e i fuochi si accendevano lungo la linea di confine come se volessero formare un cielo del tutto nuovo, ancora da tracciare. Nella sua stanza per lui era già buio. L'ultima cosa che vide fu un brivido di luce che illuminava uno dei tappeti e un volo di ali nere tra cui una, una soltanto, era bianca. «Si rivolteranno, senza di lui. Non accetteranno nessun altro!» mormorò Mastarna. Velvur si girò verso Thanaquil; la giovane donna era tesa e dura. Il Grande Trutnot se ne compiacque. «Va'», le ordinò. «Tu sei la Regina, e questa gente ti ama e ti conosce. Affacciati, e di' che il Re è ferito e che ha bisogno di tempo, e che Mastarna governerà per lui secondo la sua volontà.» Thanaquil si mosse adagio, toccando con lo sguardo prima il Grande Trutnot, poi Mastarna e infine il viso del Re, al quale l'immobilità aveva lasciato il sorriso bello e minaccioso di sempre. Tese una mano a ricevere la mano di Mastarna nella propria e senza una parola lo guidò alla loggia, uscendo su quella esterna che si affacciava sul cortile. Era già notte, ma tutto il vasto spazio sottostante brillava di torce; una moltitudine spingeva e si agitava e la notte era colma di rumori, come il crescere di una tempesta che salendo divorava gli animi presi dalla paura. Thanaquil alzò entrambe le braccia a invocare il silenzio, e per un lungo momento non ci fu che lei negli occhi di tutti, come una visione di luce mandata dagli Dei. «Ascoltate!» La sua voce era ferma, decisa; parlava la lingua latina senza esitazioni, e la sentivano una di loro. «Il Re è ferito, ma la città è salva, e gli uomini non hanno potuto sciogliere ciò che gli Dei hanno legato! L'amico più caro del Re ha raccolto la sua spada e ha votato se stesso contro tutti per onorare il legame: lui vi guiderà. Tornate alle vostre case e
sacrificate ai nostri comuni Dei per il Re e per la città!» Per un lungo momento la folla restò in silenzio, guardando Mastarna che la Regina aveva chiamato accanto a sé; lo conoscevano da sempre, e molto più del Re si era mischiato a loro quotidianamente e quindi molto più che dal Re potevano farsi ascoltare da lui. La paura del vuoto e del nemico si attenuò; lentamente la folla cominciò ad aprirsi, e a mano a mano che la notizia passava sulle bocche si faceva strada una certa quiete, quasi una fermezza, che per la prima volta dava alla città il suo volto, e la faceva città vera e vero spirito. Solo allora Thanaquil lasciò la finestra e si rese davvero conto che Larth era morto e che Mastarna sarebbe stato il nuovo Re. «Sorella mia», pensò, sfiorando con la punta delle dita l'opale che Larth non aveva voluto con sé nel suo ultimo giorno e che Thesan aveva lasciato sulla pietra del focolare. La gemma era fiamma viva. Marcius salì di corsa tutti i gradini che portavano alle stanze del Re; era sporco e impolverato, e ansimava, ma la gran quiete nel Palazzo lo rincuorava perché voleva certamente dire che il Re stava riposando, e che nessuno stava preparando cerimonie funebri. Sulla soglia chiusa delle stanze tuttavia non trovò la Guardia, ma Velvur, che lo fermò. «Sono andati via!» Marcius informò subito il Trutnot. «Le schiere nemiche sono venute fin davanti al fiume, seguendo i nostri che si ritiravano; ma lì si sono fermate, e poi hanno girato i cavalli e sono scappate, mentre noi eravamo già tutti pronti e Tavas stava per dare l'ordine dell'attacco!» «Calmati, Marcius», lo quietò Velvur. «C'è un motivo per quest'atto improvviso?» «Certo: era come se la città stesse bruciando! Noi stessi non credevamo ai nostri occhi: c'erano fiamme ovunque, dal cielo e dalla terra, e sembravano coronarla. Abbiamo avuto paura. Ma poi il Re Pasna ha preso a dire che quello era il potere del Re Supremo, e che tutti dovevano riconoscerlo: la città non poteva essere toccata. Devi dirgli quello che è successo! Tutti gli uomini acclamano soltanto il Re, ora!» Velvur assentì sommessamente, prendendolo per un braccio e guidandolo verso altre stanze. «Dillo tu stesso al Re, allora», lo invitò il Trutnot. Marcius si lasciò condurre docilmente alle stanze al fondo della loggia;
non ricordava che fossero in uso, ma non fece domande, e avanzò con entusiasmo verso l'uomo davanti al focolare, solo, che sembrava assorto in se stesso. Era avvolto in un ampio mantello scuro, e teneva la testa un poco china, appoggiata alle mani. Marcius si immobilizzò. «Mastarna?» mormorò. Velvur lo spinse avanti. «Il Re sarà lieto di ascoltare il suo capitano», lo incoraggiò. Mastarna alzò gli occhi a guardarlo; occhi seri e duri e senza sorriso. «Tanto tempo fa hai promesso di farmi pagare un'offesa; questo è il momento, Marcius degli Hostilii. Ma dopo avrò bisogno della tua fedeltà per la nostra città», disse Mastarna. «Nostra?» ripeté Marcius. Mastarna si alzò. «Io non ho più altra città, ora, né famiglia, né gente. Ho voltato le spalle a tutto ciò che mi apparteneva; ho visto uccidere e ho ucciso tutti i miei amici, ho violato i patti e ho infranto le promesse. Io non sono più rasna. Io sono soltanto il Re di Ruma, da adesso in poi. E Ruma non appartiene più ad alcuna Lega e ad alcuna alleanza: soltanto a se stessa.» Marcius per un istante restò immobile, teso; infine allungò la propria mano aperta. «Sono con te; per Ruma, grande e libera.» Si girò verso il Grande Trutnot. «Ma adesso voglio vedere il Re!» chiese, quasi implorando. «Certo», disse Velvur, guidandolo fuori delle stanze e fino alla soglia di quelle del Re. Marcius adesso sentiva il cambiamento nel Palazzo: si stava facendo strada la certezza che il Re era morto e che un nuovo Re, con un nome nuovo, avrebbe ringraziato gli Dei per il prodigio, all'alba dell'indomani. Il Grande Trutnot lo lasciò entrare da solo e Marcius esitò, avvicinandosi. In quell'interminabile giorno aveva visto centinaia di corpi tornare dal campo di battaglia; aveva visto amici e compagni, e aveva imprecato e sofferto. Ma questo era il Re. Il corpo era stato composto nel letto, avvolto nella tebenna bianca a spirali nere che era stata la sua in battaglia; la fibula d'oro con l'aquila dalle ali spiegate gli riposava sul petto, e non aveva altro oro. Marcius allungò
una mano a sfiorare il simbolo. «Difenderò la città che mi hai dato. Difenderò Roma!» Ne pronunciò il nome in latino, godendo di quel suono alle sue orecchie, e poi ritirò la mano, timoroso di toccarlo, e cercando istintivamente con lo sguardo la nera pietra della morte senza trovarla. Arretrò quindi verso la soglia, senza dargli le spalle, per rispetto. In quell'istante scoprì l'immagine sottile della donna, vestita di bianco, e pallida quasi quanto uno spirito. Non era la Regina. Aveva preso consistenza dalla penombra sul fondo della stanza e stava immobile come se fosse davanti a un invisibile altare. 29. La bambina era ancora incerta nei suoi primi passi, e tuttavia ogni giorno si staccava più spesso dalle mani della nutrice e da sola si tuffava nelle braccia aperte di Hasti, o in quelle delle giovani ancelle. Era una bella bambina, e cresceva bene. Thanaquil rise seguendola con lo sguardo nelle sue prodezze e le giovani ancelle risero con lei muovendosi in cerchio per far giocare la bimba. Il sole entrava dall'apertura sul cortile chiuso dai ligustri, già tiepido, ma qualcosa richiamò Thanaquil al focolare dove ardeva ancora il fuoco. Sedette sulla pietra. Le risa delle ancelle e gli strilli della bimba all'improvviso le giungevano come velati. Thanaquil sentì che qualcosa la stava allontanando da quel luogo, portandola altrove. La sua prima sensazione fu di paura. «Questo è il Potere», pensò. «Il vero Potere; quello che io non ho mai avuto...» La cresta danzante del fuoco le si aprì attorno, viva; vide Mastarna, sorridente, circondato dai suoi nobili, e se ne sentì confortata. Era il Re, ora. E aveva preso il nome di Servius Tullius per non dimenticare che regnava per servire l'Erede di Larth. «Questo è quello che tutti devono credere: quello che tutti credono! Ma io non posso fingere... non qui, nel fuoco. Mastarna regna per se stesso e per nostra figlia... «Siamo felici e ci aspettano anni felici.» Cercò di staccarsi dal camino, inquieta; poteva vedere le ancelle che ancora giocavano con la bimba, e Hasti che le sorvegliava attenta, ma nessu-
no sembrava accorgersi di lei, che non poteva muoversi e che stava sospesa, incerta, su un abisso di tempo che la spaventava. «Caitli», pensò. «Caitli, sorella mia...» Mastarna aveva voluto che Thesan lasciasse Ruma; era contrario alla sua presenza e non aveva voluto accettare né le preghiere della Regina né i consigli di Velvur, così la giovane era stata fatta partire con una scorta alla volta del Tivrit e da allora Thanaquil non aveva saputo più nulla. «Perché Mastarna ha paura di lei?» si chiese Thanaquil. «L'Amore e la Morte hanno lo stesso viso...» le rispose la cresta del fuoco. E all'improvviso si compose chiaro il viso del bambino con gli occhi azzurri, molto più simile a Larth dei due figli che lei gli aveva dato; aveva le sue labbra e il suo sguardo, e pur così piccolo sembrava già conoscere ciò che voleva prendere dal mondo che lo circondava. Potere. Quel bambino era l'Erede e sarebbe stato lui, un Tarquinio, a essere Re. «Deve essere nato nel mese di turana...» rifletté Thanaquil. «Dove? Al Tivrit? Come ha potuto il Grande Trutnot nasconderci la nascita del figlio di Larth? Come ha potuto nasconderci il suo vero Erede?» Thanaquil non poteva più staccarsi dal fuoco, ora. Sentì il Potere prenderla e lacerarla perché le dava la verità, quella che non avrebbe voluto sapere e che non avrebbe più potuto dimenticare. «Sua sarà la mano che ucciderà Mastarna nell'ultimo dei giorni che gli sono stati assegnati... E sua sarà nostra figlia, sua sposa, perché il cerchio si chiude, e le nostre anime sono fuse in loro... «Dopo di lui le genti rasna si perderanno e verranno i secoli della distruzione: la potente nazione è nata, per nostro merito e nostra colpa. Ruma ci disperderà come il vento disperde la polvere sul finire dell'estate...» le disse il fuoco. «Non voglio», pensò Thanaquil. «Altri prima di te hanno detto: non voglio, e altri lo diranno dopo di te. Inutilmente», bisbigliò la fiamma. Thanaquil nascose un singhiozzo. La potenza della profezia l'aveva colmata. Non era più la stessa, e non sarebbe più stata quella di prima. Caitli restò ancora un attimo protesa sul fuoco al centro della sua stanza del Tivrit: era stata una bella giornata, fin troppo calda per la stagione, ma le nuvole stavano scendendo da occidente e portavano il temporale. La
pioggia avrebbe fatto nuova la terra. Nella stanza era già quasi buio. Gli strilli del bambino nella sua culla, destato dalla febbre lieve del fulmine che correva sul Monte di Tiv, la distrassero appena. Aveva visto il fuoco, Thanaquil e la sua bimba, e il futuro. «Sorella mia», pensò. «Altri prima di te hanno detto: non voglio, e altri lo diranno dopo di te...» Passò una mano sul fuoco, a spegnerlo, e per un poco restò così, assorta, aspettando che il buio del Tempo cancellasse la memoria. APPENDICE Ringraziamenti Desidero ringraziare Cristina Prasso, alla quale devo l'attento e paziente lavoro redazionale, e la dottoressa Silvia Ciaghi, archeologa, che mi ha gentilmente messo a disposizione una parte dei testi occorsi per gli studi di preparazione. Un vivissimo ringraziamento al professor Mario Torelli, che ha avuto la bontà di leggere il manoscritto e i cui consigli sono stati preziosi. Infine un ringraziamento alla mia amatissima mamma, che ha stoicamente sopportato per tanti mesi una figlia lontana duemilacinquecento anni nel Tempo. NOTA DELL'AUTORE Avvicinarmi agli Etruschi è stato l'effetto di una serie di coincidenze che, interpretate con lo spirito di questo popolo, posso considerare come già scritte sull'altare del Tempo, ovunque esso si trovi. Chiamavano se stessi Rasna, e anch'io ormai non li posso definire in altro modo. Appassionata di archeologia da molti anni, ben poco era sfuggito al mio interesse e alle mie visite nel bacino del Mediterraneo e anche in terre più lontane, se non i Rasna che avevo sfiorato, ma mai toccato davvero. Infine, proprio per quelle coincidenze già ricordate e che talvolta sembrano aspettarci nei momenti più giusti, mi è stato offerto il compito di portarli alla luce e di farli vivere. Devo riconoscere che da quel momento in poi i Rasna sono stati davvero vivi per me: a mano a mano che procedevo negli studi di preparazione,
infatti, le loro figure giungevano a occupare un vero spazio nella dimensione del reale. E così la loro lingua, conosciuta ma mai davvero compresa, gli usi e i costumi, la filosofia e le credenze, tutto quanto si sa di loro e anche qualcosa di più, in virtù di quel ponte empatico che sempre si crea tra l'autore e le proprie creature e il loro mondo. D'altra parte, tuttavia, devo precisare che il romanzo non ha la pretesa di essere un romanzo storico: è un romanzo fantastico, sia pure costruito su quanto di più concreto abbia potuto trovare, e usando a supporto tutto quanto la lunga abitudine a guardare tra le civiltà scomparse ha potuto offrirmi. L'origine dei Rasna è tuttora sconosciuta e la loro fine è quella tipica di tutte le genti fagocitate dalla conquista romana ma con una aggravante: il disconoscimento della paternità di un impero. Basandomi sugli studi di Mario Torelli, Massimo Pallottino, Werner Keller e Romolo Staccioli (e non tralasciando ogni altra fonte raggiungibile), ho potuto trarre il nucleo della storia, puntando sul particolare a mio avviso di maggior importanza: la tradizione ci rimanda sette Re di Roma (anzi Ruma, nella lingua rasna), ma questa tradizione è stata manipolata dagli storici dell'età Imperiale, proprio per cancellare gli apporti di un popolo ormai asservito, ma che in realtà era stato l'artefice della trasformazione dell'agglomerato di villaggi di pastori in una vera città. I primi quattro Re, compreso il leggendario Romolo, erano molto probabilmente soltanto i capi di questi villaggi, raggruppati sul Palatino, sull'Esquilino e sul Quirinale, mentre le valli acquitrinose e malsane tra i colli erano disabitate. I punti per così dire fermi mi sono quindi sembrati proprio i tre Re riconosciuti tali dalle prime notizie «storiche», supportate dagli studi dei livelli più antichi del sottosuolo romano: è infatti con loro che la città inizia la sua vita come tale. E questi tre Re erano, ovviamente, rasna: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinia il Superbo. Il primo, che in effetti conquistò il territorio di là dal confine naturale del Tevere, praticava la divinazione, era un guerriero e aveva una sposa di nome Thanaquil, che non gli era inferiore nell'arte di interpretare i segni. Ne ho fatto il personaggio principale del romanzo, dandogli un nome rasna, Larth di Tarchna, e seguendolo nella sua conquista fin dai suoi giorni di ragazzo. Il suo regno su Ruma, tuttavia, è nella mia storia più breve di quello che la tradizione gli riconosce. Il secondo, Servio Tullio, era un nobile di Vulci (Velx) di nome Mastar-
na, che a un certo punto prese il potere con un atto di forza, succedendo a Tarquinio Prisco forse in seguito a una lotta tra le fazioni di Tarchna e Velx, di stanza sul Celio, dov'erano coinvolti altri nobili rasna di Velx, i Vibenna, e dove morì uno dei fratelli del Re. La leggenda di tradizione romana su Thanaquil dice inoltre che, come una Dea simbolicamente protesa sul mondo da una finestra, fu lei a sancire la legittimità della successione del nuovo Re, presentandolo al popolo da una finestra del Palazzo, sebbene talvolta nella leggenda Servio Tullio appaia come il suo nuovo marito, e talaltra come suo genero. Per necessità di narrazione, ma anche alla luce di questa più realistica interpretazione della tradizione dei primi quattro «Re» di Ruma, ho scelto di «sdoppiare» il personaggio di Anco Marzio facendone rispettivamente il fratello e il nipote del secondo Re, Numa Pompilio. Ancus è quindi la personificazione dell'uomo che non vede altro mezzo che la lotta per difendere il proprio mondo, mentre il giovane Marcius simboleggia invece la sete d'innovazione, entusiasta ma altrettanto dura, perché sostenuta da quella che sarà la futura connotazione della spinta romana nella sua conquista del mondo conosciuto. Sempre la tradizione indica Anco Marzio come fondatore di Ostia e artefice del ponte Sublicio; nella narrazione, ho reso al primo la fondazione della città-porto e al secondo la testimonianza della costruzione del ponte, la cui paternità è quasi certamente comunque da assegnare ai «Maestri delle Acque» rasna, che nel contempo prosciugarono le paludi, incanalarono le molte acque sorgive e costruirono quel vero miracolo, ancora visibile ai nostri giorni, della Cloaca Maxima, aprendo una via d'acqua sotterranea unica in Europa e precedente di decenni quella analoga al di sotto dell'Agorà di Atene. Ci sono poi tracce di una Battaglia dei Re che, come suppone il Keller, dovrebbe essersi combattuta nelle vicinanze di Veio portando Tarquinio Prisco e i Re delle Città della Lega in campo contro i Re delle città ribelli, a seguito del colpo di mano tentato dai Vibenna e da Mastarna. Devo confessare che l'immagine mi è sembrata troppo affascinante per lasciarla sfuggire; non solo, mi è sembrata anche il punto risolutivo più coerente all'intera narrazione, poiché non volevo un banale attentato o un assassinio. Queste le premesse storiche, o presunte tali, di cui mi sono appropriata per la stesura di questo romanzo. Ovviamente ho cercato ogni altra fonte e ogni altro particolare che potesse confermare o variare la linea di base, e quando due o più leggende (ma anche citazioni o notizie) si sovrappone-
vano sullo stesso fatto, ho naturalmente seguito quella che mi sembrava la più adatta - o la più logica - alla mia necessità (così nel caso di Servio Tullio, privato della sua nascita di nobile di Velx per farlo figlio della schiava Ocresia ma, secondo Plinio, concepito tra il fuoco con un evento miracoloso, versione che non ho tenuto in alcun conto e che per altro è stata smentita dallo stesso imperatore Claudio nella sua opera Tyrrenikà, purtroppo perduta). Allo stesso modo, ho utilizzato le fonti che illustrano i contatti con i popoli limitrofi. Così la figura di Axal, il celta, viene pienamente giustificata dai rapporti che i due popoli intrattenevano, spesso pacifici e volti agli scambi commerciali. In una tomba ritrovata a Todi è ricordato un celta di nome Ahal, e pur se di lui non è riportato altro che il nome, questo particolare è stato sufficiente ad ispirarmi il personaggio di Axal. Al tempo del romanzo, all'incirca nel 590 a.C, il territorio della penisola italica era coperto di foreste fittissime; i rilievi erano aspri, vaste le paludi e i laghi vulcanici; notevoli e frequenti i terremoti e gli sfiati di gas a denunciare un sottosuolo estremamente attivo; il clima era più freddo di quello attuale; il Mediterraneo era un mare affollato mentre il Tirreno era dominio dei Rasna, veri signori del mare (e, per i Greci nemici, veri e propri pirati, conosciuti come Tirreni), ma vi si insinuavano Cartaginesi, Focesi, Greci (che avevano appena fondato Massilia, l'attuale Marsiglia), tutti con la spinta a nuove colonizzazioni e a nuovi mercati. Dal nord i Celti guardavano ai commerci con le città più settentrionali della Lega (Felsina, Spina) e l'influenza culturale dei Rasna si spandeva facilmente seguendo le vie delle merci per tutta la fredda Europa. Popolo maestro nella lavorazione dei metalli e nel controllo delle acque, i Rasna avevano una concezione di sé e dell'universo fondamentalmente dissimile da quella dei popoli loro vicini; socialmente retti da una oligarchia, mai davvero nazione ma Lega di Dodici Città sovrane, non soltanto guerrieri ma piuttosto mercanti e studiosi, i Rasna erano dominati da una forza religiosa che stabiliva per ciascun individuo ogni evento, determinandone cause ed effetti. La definizione data da Seneca nelle sue Naturales quaestiones è ancora la migliore per comprendere il modo di pensare dei Rasna: «Ecco in che cosa non siamo d'accordo con gli Etruschi, espertissimi nell'interpretazione dei fulmini. Per noi il fulmine esplode quando le nubi si raccolgono insieme, per loro le nubi vengono messe insieme solo per far esplodere il fulmine. Dal momento che gli Etruschi riconducono tutto alla divinità, essi
sono convinti non che i fulmini preannuncino il futuro in quanto si sono formati, ma che si sono formati in quanto debbono preannunciare il futuro». (II, 32) Qualcosa delle loro cerimonie è stato compreso, o ha avuto un tentativo di spiegazione, e tutte quelle da me citate nel romanzo (il Phersu, la cerimonia del Chiodo, il pellegrinaggio al santuario di Pyrgi) sono il frutto di questa comprensione, naturalmente rivisitata dalla mia interpretazione, così come l'adunanza annuale a Fanu Veltune e la cerimonia delle dodici asce e dell'elezione del Re Supremo. Anche l'esatta ubicazione del luogo dell'adunanza non è stata ancora accertata. Alcuni studiosi lo collocano nelle vicinanze del lago di Bolsena, ma altri studi attendibili suggeriscono l'attuale lago di Vico. Il sito si presenta ora notevolmente diverso, ma duemilaseicento anni fa le acque si estendevano nella conca vulcanica tanto da portare nel loro centro, come un'isola, un monte; quel monte, oggi ormai lontano dalle acque, è ancora conosciuto con il nome di monte di Venere. Intorno si ergono i monti Cimini con la zona detta Selva. Non è poi così fantasioso, quindi, ritenere che possa essere la Foresta Sacra ai Rasna, e così ho optato per questa scelta, ubicandovi la mia Veltune. Di grande suggestione, tutto ciò che concerneva le scienze fulgurali, l'aruspicina e la divinazione hanno altamente influenzato il mondo antico, assimilate dai Romani in quanto popolo incurante di sviluppare scienza e religione autonome. Accantonate, ma non certo dimenticate dagli imperatori che ancora chiedevano divinazioni ai sacerdoti di un popolo ormai soggiogato, furono definitivamente messe al bando soltanto nel V secolo d.C. dall'imperatore cristiano Onorio, che fece bruciare gli ultimi tre libri sibillini, tutto ciò che restava dei Libri Profetici di Tagete, lasciati da una sibilla straniera d'aspetto a Tarquinio il Superbo e da allora custoditi nel Tempio di Giove Capitolino... ma questa è un'altra storia. Un altro punto particolarmente interessante è la posizione della donna nella società rasna: un posizione sorprendentemente moderna, che le conferiva potere civile e libertà di pensiero, di movimenti e di costumi in tempi in cui, in Grecia, era già rinchiusa nel gineceo, senza alcuna possibilità di partecipazione alla vita pubblica. Teopompo e Timeo di Taormina offrono nelle loro Storie immagini di una società spregiudicata dove le donne sono la vera personificazione della lussuria, ma ovviamente era il nemico a parlare, e già a quei tempi la propaganda era ampiamente usata. Altri e più seri studiosi greci, quali Diodoro Siculo e Posidonio, ci tra-
mandano ben altre testimonianze pur lasciando trasparire lo sconcerto per la partecipazione femminile alla vita della città, dai banchetti agli spettacoli, dalle gare atletiche ai giochi e alle cerimonie sacre, e sino agli affari, con non ultimo diritto quello del matronimico ai figli. Questo aspetto della società rasna mi ha ovviamente aiutata a creare la personalità della protagonista del mio romanzo, anche se non ho voluto dare a Caitli nulla che non sia riconducibile al suo tempo. Ho preferito mantenere i termini rasna ovunque fosse possibile; ma, sebbene il termine Aruspice derivi dal latino Haruspex, ho preferito usarlo per indicare genericamente quella casta di sacerdoti addetti alla divinazione tramite la consultazione delle viscere degli animali (forse netsvis in rasna), mentre ho usato il termine rasna Trutnot per i sacerdoti capaci di interpretatore e dominare i fulmini, così da poter conservare una chiara divisione tra le due caste. Per alcuni oggetti (clinai, holkades, kèrnos) ho mantenuto la dizione greca, in quanto non si sarebbe potuta trovare una forma italiana adeguata. Per quanto riguarda i nomi dei luoghi, infine, la terminologia è quella etrusca, raccolta nei testi degli studiosi già citati, e credo sarà uno stimolo per il lettore, avvalendosi della cartina, tentare di ritrovare le antiche città rasna e quei luoghi che, sia pure con altri nomi e altro aspetto, ancora oggi possono parlare di loro se soltanto sappiamo ascoltare, come il saggio Velvur, la voce delle pietre e il respiro del vento. M.C. Settembre 1990 - febbraio 1991
GLOSSARIO Alalia colonia fondata dai Focesi sul tratto occidentale della costa della Corsica. La battaglia di Alalia tramandata dalle cronache storiche ebbe luogo forse nel 564 a.C, come reazione etrusco-cartaginese al tentativo focese di impadronirsi delle rotte marittime del Tirreno e del Mediterraneo. Ancus (fratello del re Numa) e Marcius (nipote del Re Numa) ispirati al terzo leggendario Re, Anco Marzio, al quale la tradizione attribuisce la
costruzione del primo ponte sul Tevere, il Sublicio (il nome deriva dalle sublicae, i pali che lo sostenevano) e la fondazione di Ostia alla foce del Tevere. Aruspici (forse Netsvis in etrusco) Sacerdoti addetti alla consultazione delle viscere degli animali, particolarmente del fegato, considerato come un microcosmo corrispondente al macrocosmo. asfodelo pianta della famiglia delle gigliacee, con fiori in racemo bianchi, rosa o gialli. Presso gli antichi, il fiore della morte. ascia bipenne ascia a doppia lama, simbolo di potere, attribuita a Re e a divinità. La si trova già, con le stesse funzioni, nella civiltà minoica del II millennio a.C. Athrpa (etrusco) Dea del Fato, raffigurata nel cosiddetto specchio bronzeo di Athrpa da Perugia (fine del IV secolo a.C). Beltane (o Beltine) vocabolo celtico che significa fuoco; festa sacra che cadeva all'inizio della stagione calda, solitamente in maggio, e celebrava la transumanza delle greggi. Cerimonia del Chiodo cerimonia annuale, durante la quale veniva infisso un chiodo a testimonianza del tempo trascorso in rapporto alla teoria dei dieci secoli assegnati alla nazione etnisca. La cerimonia, che Roma ereditò, durò fino all'età imperiale, sia pure in modo saltuario. Charun Demone degli Inferi, forse identificabile con il greco Caronte. chiton tunica di origine orientale, senza maniche, a volte anche aperta sui fianchi. clinai piccolo letto per mangiare sdraiati. Cneve Tarquinio fratello del re Tarquinio Prisco: secondo la leggenda sarebbe stato ucciso durante il tentativo di prendere il potere da parte dei Vibenna e di Mastarna. Colle delle Querce identificato con l'attuale Celio, dovrebbe il suo nome, secondo la tradizione, a Caile Vibenna e all'episodio della sua liberazione durante le lotte per la presa del potere. Colline dei Metalli situate tra Pupluna, Vaduna e Velathri. In questa zona si estraeva il ferro che veniva poi lavorato soprattutto a Pupluna. crotali strumento musicale a percussione, costituito da due valve d'osso, di legno o d'avorio, unite da una cinghia. Cuma colonia calcidese fondata nel 750 a.C. con il nome di Kyme. Doppio flauto strumento musicale a fiato, a due canne di diversa lunghezza munite di fori e unite da un solo bocchino. Faleri città più importante del territorio dei Falisci, popolazione italica
di lingua latina. Fanu (etrusco) luogo sacro. Fanu Veltune (etrusco) luogo sacro al Dio Veltune; punto di incontro per il raduno annuale delle dodici città della Lega, durante il quale si celebravano riti, giochi, convegni e veniva eletto il Re Supremo. fibula spilla di bronzo (ma anche d'argento, di ferro o d'oro) di varia foggia e dimensione, composta dalla spilla vera e propria (ardiglione), dall'arco e dalla staffa. Poteva anche essere adorna di pasta vitrea, di pietre dure o d'ambra. Focesi coloni provenienti da Focea in Ionia, esuli dopo l'assedio di Arpago (generale del re persiano Ciro) della loro città, e insediatisi ad Alalia su un precedente stanziamento focese. Foro grande piazza selciata destinata al mercato, costruita ai piedi del Campidoglio all'incirca nel 575 a.C. da Tarquinio Prisco, dopo il prosciugamento delle paludi; allo stesso periodo risalgono l'edificazione della Via Sacra, del Foro Boario, del grande ippodromo tra il Palatino e l'Aventino (che diventerà successivamente il Circo Massimo), della Cloaca Maxima e della Regia. Gravisca città-porto di Tarchna. hermna (etrusco) mese di agosto. holkas e holkades navi mercantili a un albero, senza remi né vogatore, con equipaggio da quattro a otto uomini, per trasporti anche pesanti. Ilva (etrusco) detta anche Aethalia, la Fumosa, per il fumo delle fucine dove veniva lavorato il ferro estratto dalle sue miniere a cielo aperto: corrisponde all'odierna isola d'Elba. Ishtar Dea fenicia assimilata all'etnisca Uni. kèrnos vaso di forma complessa, risultante dalla giustapposizione di tanti piccoli vasetti riuniti in cerchio. Larth di Tarchna Tarquinio Prisco, quarto Re di Roma, e primo Re del periodo «storico». La tradizione lo descrive come un ricco nobile di Tarquinia, molto colto, con mire di grandezza che lo portarono a conquistare il territorio latino oltre il fiume che fungeva da confine e ad ampliare Roma. Aveva per moglie una donna di altissima casata, di nome Thanaquil, versata nella divinazione. La tradizione gli assegna un regno di circa quarant'anni, durante il quale estese il territorio della città con numerose campagne militari specialmente contro i Sabini. Edificò il Foro, il Foro Boario, il grande ippodromo, la Via Sacra, e pose le fondamenta del Tempio di Giove Capitolino.
Lega delle Dodici Città dodici città unite in federazione, con la stessa lingua, religione, scrittura; riconoscevano un Re Supremo eletto ogni anno cui conferivano il potere politico e militare in caso di guerra. Libri di Tagete libri della Disciplina etrusca, probabilmente di tre tipi: Libri Haruspicini, che trattavano della divinazione dall'osservazione del fegato delle vittime sacrificali; Libri fulgurales, che trattavano dell'interpretazione dei fulmini; Libri Rituales, che stabilivano leggi, prescrizioni, regole di comportamento sia per i tempi di pace sia per quelli di guerra e che comprendevano come «sottolibri» anche quelli detti Fatales, che trattavano della divisione del Tempo e della vita degli uomini e dei popoli, gli Acherontici, che trattavano del mondo degli Inferi e dei riti a esso connessi; gli Ostentaria, che stabilivano le regole per comprendere i simboli e per compiere i riti propiziatori. lituo bastone con l'estremità superiore ricurva, attributo dei Sacerdoti. Anche tromba con la stessa forma. machaira sciabola ricurva in uso dal VI secolo. Madre Dia antica divinità, oggetto di culto in epoche arcaiche, e considerate la Madre della Terra. Mastarna di Velx secondo quanto afferma un'orazione pronunciata dall'imperatore Claudio nell'anno 48 a.C, Mastarna era un nobile etrusco della città di Velx (Vulci), compagno d'armi dei fratelli Vibenna e successore di Tarquinio Prisco con il nome di Servio Tullio. Con la scoperta nel 1875 della tomba François a Vulci, del III secolo a.C, sono venuti alla luce affreschi che, pur narrando un evento accaduto ben due secoli prima, confermano l'esistenza di un Mastarna e illustrano l'episodio della liberazione dei fratelli Vibenna da parte di Mastarna stesso e quindi una ribellione e una conseguente scissione all'interno della Lega etrusca contro il Re Tarquinio Prisco. Secondo gli storici Tacito e Festo, i fratelli Caile e Aule Vibenna erano giunti a Roma sotto un Re Tarquinio e avevano dimora sul Celio; la ribellione e la scissione avrebbero dato luogo a una successiva battaglia con la morte del Re a l'insediamento di Mastarna come successore. Il Re Servio Tullio, durante il suo regno, si trovò a fronteggiare in battaglia le città della Lega etrusca; è ricordato per la riforma detta «Costituzione Serviana», l'introduzione del censo e per la costruzione della prima cinta di mura a difesa dei colli. mitria copricapo dei Sacerdoti, riconducibile alla tiara. Motye piazzaforte cartaginese sull'estremità occidentale della Sicilia. opale pietra preziosa, traslucida. Il nome deriva dal sanscrito upala, che
significa appunto pietra preziosa. Era già noto in oriente in tempi remoti. Il colore normale dell'opale nobile è bianco lattiginoso con iridescenze colorate più o meno vivide. Molto raro invece l'opale nero, varietà che mostra riflessi e opalescenze bluastre. Opion greco sostanza allucinogena ricavata dal papavero e commerciata dai Greci. Ostia porto alla foce del Tevere, secondo la tradizione fondato dal Re Anco Marzio. Phersu (etrusco) maschera, personaggio mascherato (da cui il latino persona); amministratore anonimo del sacrificio, dove il sacrificato è un prigioniero o un condannato. Raffigurato nell'atto di aizzare un grosso cane di cui tiene il guinzaglio contro un uomo armato di clava e con la testa avvolta in un sacco in un affresco della tomba detta degli Auguri di Tarquinia (VI secolo a.C). Il combattimento, nelle cerimonie funebri, sostituiva gli antichi sacrifici umani che avevano il compito di «compensare» le anime dei defunti. pithoi grande vaso di forma sferoidale per la conservazione di liquidi o di cereali. Re Numa Numa Pompilio, di origine sabina. Secondo la leggenda fu il secondo Re di Roma. Secoli per la nazione etnisca i secoli non avevano durata costante, e avevano inizio o fine da eventi particolari. I secoli assegnati a una nazione erano dieci; gli etruschi ne avevano nove di circa centoventi anni mentre l'ultimo, il decimo, finì nel 44 a.C. come era stato predetto, e fu segnato dal passaggio di una cometa (la stessa che comparve all'uccisione di Giulio Cesare). Tagete Genio figlio della Terra e nipote di Tinia, indicato come «costruttore» della religione etrusca. La leggenda racconta che comparve, in tempi antichissimi, a un contadino uscendo da un solco in un campo arato di fresco, nei pressi del fiume Marta. Tagete, che aveva l'aspetto di un fanciullo e la sapienza di un vecchio, lasciò le sue rivelazioni e la sua dottrina prima di svanire nuovamente nel suolo. Il contadino, di nome Tarchon, fondò su quel suolo la città di Tarchna e fu considerato padre di tutte le altre città della Lega, fedeli alla dottrina rivelata da Tagete e tramandata nei Libri della Disciplina. Tarchon il contadino che, secondo la leggenda, ricevette in tempi antichissimi la dottrina etrusca dalle stesse mani di Tagete e che fondò, nel solco del campo appena arato da cui era comparso il Dio, la città di Tar-
chna; era considerato il padre della gente etrusca. tebenna sopravveste del costume maschile, simile alla toga romana, che vi si è ispirata, ma di dimensioni più ridotte. Tempio del Chiodo il Tempio della Dea Nortia, assimilata alla Dea Athrpa, Dea del Fato, a Veltune, dove avveniva la Cerimonia del Chiodo. Tempo presso gli Etruschi il tempo per gli uomini era diviso in periodi di sette anni, e il compimento dell'ultimo anno di ciascun periodo era considerato critico. Si contavano «settimane» di sette anni e si potevano compiere, come durata della vita, dieci settimane. Oltre tale limite, si poteva anche vivere due o più settimane di anni, ma il vincolo con gli Dei era troncato, le offerte venivano rifiutate, e l'anima era considerata disgiunta dal corpo. Thanaquil nobile di Tarquinia. La tradizione la ricorda come moglie di Tarquinio Prisco e dotata di capacità divinatorie. Fu lei a presentare al popolo il nuovo Re Servio Tullio. Thesan (etrusco) Dea dell'Alba; significava anche giorno, mattino. Tibrin (etrusco) Tevere. Tinia (etrusco) Dio identificato con l'equivalente latino Giove. Tiv (etrusco) Luna. Truia (etrusco) gioco che consisteva in un labirinto tracciato con crescenti difficoltà e che impegnava giovani a cavallo. Trutnot (o Trutnot Frontac) casta sacerdotale che interpretava i fulmini e i fenomeni celesti. Forse la casta all'apice della complessa gerarchia sacerdotale. Turan (etrusco) Dea identificata con l'equivalente latina Venere. Uni (etrusco) Dea della Nascita e della Luce, identificata con l'equivalente latina Giunone. Vanth Demone femminile degli Inferi, rappresentata con il rotolo del destino in una mano. velchitna (etrusco) mese di marzo. Veltune Dio nazionale etrusco, non corrispondente o riconducibile ad altre divinità di estrazione greca. Assunto a Dio «federale» e comune a tutte le città della Lega. Vibenna Aule e Caile Nobili di Velx (Vulci) protagonisti dell'episodio illustrato nella tomba François; compagni d'armi di Mastarna. Villaggi dei Fusori situati nei monti della Tolfa, dove si estraevano rame, ferro, piombo, argento e mercurio e si applicavano le tecniche di fusione e lavorazione.
Zilath (etrusco) titolo di magistratura suprema. FINE