KATE ATKINSON I CASI DIMENTICATI (Case Histories, 2004)
Per Anne McIntyre Conoscerete la verità, e la verità vi farà li...
97 downloads
1307 Views
932KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
KATE ATKINSON I CASI DIMENTICATI (Case Histories, 2004)
Per Anne McIntyre Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi. GIOVANNI, 8, 32 1 Caso n. 1 1970 Complotto di famiglia Era o non era una fortuna? Un'ondata di caldo proprio nel bel mezzo delle vacanze scolastiche, com'era giusto che fosse. La mattina il sole si alzava molto prima di loro, facendosi beffe delle vaporose tende estive che pendevano flosce dalle finestre della camera da letto, un sole già caldo e appiccicoso di promesse ben prima che Olivia aprisse gli occhi. Olivia, puntuale come un gallo, sempre la prima ad alzarsi, tanto che da quand'era nata, tre anni prima, in casa nessuno usava più la sveglia. Olivia, la più piccola e quindi l'attuale occupante della stanzetta sul retro con la carta da parati con i personaggi delle filastrocche, una stanza in cui tutte loro, a turno, avevano dormito e da cui erano state scacciate. Olivia, bella come il sole, su questo erano tutti d'accordo, anche Julia che ci aveva messo parecchio a rassegnarsi al fatto di non essere più la piccolina della famiglia, ruolo che prima dell'arrivo di Olivia aveva ricoperto per cinque anni ricchi di soddisfazioni. Rosemary, la madre, diceva che avrebbe voluto che Olivia restasse piccola per sempre, perché era così adorabile. Non l'avevano mai sentita usare quell'aggettivo per descrivere una di loro. Non si erano mai nemmeno rese conto che quella parola esistesse nel suo vocabolario, di solito limitato a comandi noiosi - venite qui, andate via, state buone e, il più usato di tutti, smettetela. A volte entrava in una stanza o si presentava in giardino, lanciava loro un'occhiataccia e diceva: «qualunque cosa stiate facendo, non fatela», e poi se ne andava, lasciandole in preda a una sensazione di rabbia e ingiustizia, anche quando le coglieva con le mani nel sacco, impegnate a combinare una marachella, di solito escogitata da Sylvia.
La loro capacità di combinare disastri, soprattutto se guidate dalla spericolata Sylvia, sembrava illimitata. Le tre più grandi erano (a detta di tutti) "delle pesti", troppo vicine per età perché la madre riuscisse a distinguerle, al punto che si erano trasformate in una bambina collettiva a cui lei non riusciva ad attribuire caratteristiche individuali e a cui si rivolgeva in modo impreciso «Julia - Sylvia - Amelia - o quello che è» e in tono esasperato, come se fosse colpa loro se erano così tante. Di solito Olivia era esclusa da quella fiacca litania; Rosemary non la confondeva mai con le altre. Avevano creduto che Olivia sarebbe stata l'ultima a occupare la cameretta sul retro e che un giorno la carta da parati con le filastrocche sarebbe finalmente stata strappata via (dalla madre esasperata, perché il padre diceva che chiamare un tappezziere professionista equivaleva a buttare i soldi dalla finestra) e sostituita da una più da grandi - fiori, oppure dei pony, qualunque cosa era meglio di quel rosa cerotto della camera che Julia e Amelia dividevano, colore che sulla mazzetta dei campioni era parso loro così piacevole, ma sulle pareti era diventato allarmante e che la madre non aveva né il tempo né il denaro (o l'energia) per sostituire. Ora invece veniva fuori che Olivia avrebbe dovuto sottoporsi allo stesso rito di iniziazione delle sorelle maggiori e si sarebbe lasciata alle spalle quelle file un po' storte di Humpty Dumpty e Vispe Terese per far posto a un fuori programma il cui avvento era stato annunciato da Rosemary, in modo piuttosto sbrigativo, il giorno prima, sul prato, mentre serviva un pranzo improvvisato a base di panini con carne e spremuta d'arancia. «Ma il fuori programma non era Olivia?» disse Sylvia rivolta a nessuno in particolare, e alle parole della figlia maggiore Rosemary si accigliò come se si fosse accorta della sua esistenza solo in quell'istante. Sylvia, che aveva tredici anni e fino a poco prima era stata una bambina piena di entusiasmo (anzi, molti l'avrebbero definita iperentusiasta), prometteva un'adolescenza piena di caustico cinismo. Sylvia, goffa e occhialuta, con i denti da poco imprigionati in un orribile apparecchio ortodontico, aveva i capelli unti, una risata ululante e mani e piedi dalle dita lunghe e sottili di una creatura extraterrestre. Le persone benevole la chiamavano "brutto anatroccolo" (glielo dicevano in faccia, come se fosse un complimento, ma Sylvia non lo prendeva certo come tale), immaginando una futura Sylvia che, senza più apparecchio, con un paio di lenti a contatto e un po' di seno, sbocciava diventando un cigno. In lei, Rosemary un cigno non lo vedeva di certo, soprattutto quando un filamento di carne le rimaneva incastrato nell'apparecchio. Sylvia aveva da poco maturato un'insana ossessione per
la religione e sosteneva che Dio le avesse parlato. Rosemary si era chiesta se fosse una normale fase adolescenziale, e se Dio fosse semplicemente un'alternativa alle pop star o ai pony, ma poi aveva deciso che era meglio ignorare i tête-à-tête di sua figlia con l'Onnipotente. Almeno le conversazioni con Dio erano gratuite, mentre mantenere un pony le sarebbe costato una fortuna. E quegli strani svenimenti che secondo il dottore erano dovuti al fatto che Sylvia «era cresciuta troppo in fretta»? Spiegazione quanto meno ambigua dal punto di vista medico, almeno secondo Rosemary, che aveva deciso di ignorare anche quelli. Probabilmente Sylvia cercava solo di attirare l'attenzione. Rosemary aveva sposato il loro padre, Victor, a diciotto anni - solo cinque più di Sylvia. Trovava ridicola l'idea che di lì a cinque anni sua figlia potesse essere abbastanza grande da sposare qualcuno, e questo non faceva che confermarle che i suoi genitori sarebbero dovuti intervenire e impedirglielo, spiegandole che era soltanto una bambina, mentre lui era un uomo di trentasei anni. Spesso provava il desiderio di rimproverare ai suoi quella mancanza di attenzioni che avrebbero dovuto avere in quanto genitori, ma sua madre era morta di cancro allo stomaco poco dopo la nascita di Amelia e suo padre si era risposato e trasferito a Ipswich, dove trascorreva gran parte delle giornate nelle agenzie di scommesse e tutte le serate al pub. Se di lì a cinque anni Sylvia fosse arrivata a casa con un fidanzato trentaseienne, di quelli che se le scelgono ancora in fasce (soprattutto se si vantava di essere un grande matematico), Rosemary gli avrebbe probabilmente cavato il cuore con il coltello dell'arrosto. Era una fantasia così appagante che l'annuncio del fuori programma fu per il momento dimenticato e Rosemary permise alle figlie di precipitarsi verso il furgoncino dei gelati che aveva melodiosamente annunciato il suo arrivo. Il trio Sylvia-Amelia-Julia sapeva benissimo che non si trattava di un fuori programma e che il "feto", come Sylvia insisteva nel chiamarlo (era un'appassionata di questioni scientifiche), che rendeva la madre così irritabile e letargica era probabilmente l'ultimo tentativo del padre di procurarsi un maschio. Non era di quelli che stravedevano per le figlie femmine e non mostrava alcuna predilezione speciale per nessuna di loro; solo Sylvia, ogni tanto, si conquistava il suo rispetto perché era «brava con i numeri». Victor era un matematico e conduceva un'esistenza mentale esclusiva dove la sua famiglia aveva divieto d'accesso. La cosa gli era facilitata dal fatto che trascorreva pochissimo tempo con loro: o era al dipartimento o nelle
sue stanze al college, e quand'era a casa si rinchiudeva nello studio, ogni tanto con qualche studente ma più spesso da solo. Non le aveva mai portate alla piscina all'aperto di Jesus Green, non si era mai lasciato coinvolgere in giochi come rubamazzo o asino, non le aveva mai lanciate in aria per poi acchiapparle, non le aveva mai spinte sull'altalena, non le aveva mai portate in barca sul fiume, a passeggiare nelle Fens o a fare una gita istruttiva al museo Fitzwilliam. La sua era più un'assenza che una presenza: tutto ciò che era - e non era - era rappresentato dallo spazio inviolabile del suo studio. Sarebbero rimaste sorprese se avessero saputo che una volta lo studio era un soggiorno luminoso con vista sul giardino posteriore, una stanza dove i precedenti inquilini avevano gustato piacevoli prime colazioni, dove le donne avevano trascorso i pomeriggi a cucire e leggere romanzi rosa e dove la famiglia si riuniva, la sera, a giocare a cribbage o Scarabeo ascoltando un radiodramma. Tutte queste attività erano state previste da Rosemary subito dopo il matrimonio, quando era stata acquistata la casa - nel 1956, a un prezzo molto superiore alle loro possibilità - ma Victor aveva immediatamente rivendicato la stanza e in qualche modo era riuscito a trasformarla in un luogo buio, stipato di pesanti librerie e orrendi schedari in legno di quercia, che puzzava delle sue Capstan senza filtro. La perdita della stanza non era niente in confronto alla perdita dello stile di vita con cui Rosemary aveva immaginato di riempirla. Cosa facesse realmente là dentro era un mistero per tutte loro. A quanto pareva, qualcosa di così importante da far sembrare la sua vita familiare una cosa da niente. La madre diceva che era un grande matematico, e che lavorava su una ricerca che un giorno l'avrebbe reso famoso, però nelle rare occasioni in cui la porta restava aperta e riuscivano a intravederlo mentre era al lavoro, sembrava che se ne stesse seduto alla scrivania a fissare il vuoto con aria accigliata. Quando lavorava non voleva essere disturbato, e soprattutto non da ragazzine selvagge urlanti e schiamazzanti. La completa incapacità di quelle piccole selvagge di astenersi da urla e schiamazzi (per non parlare delle grida, dei piagnucolii e degli strani ululati, simili a quelli di un branco di lupi, che Victor non era mai riuscito a capire) creava un rapporto fragile tra padre e figlie. I castighi di Rosemary scivolavano loro addosso come acqua, ma l'immagine di Victor che usciva dallo studio a passi pesanti, come un orso risvegliato dal letargo, era stranamente paurosa e anche se passavano il tem-
po a sfidare i veti materni, nemmeno una volta pensarono di esplorare l'interno proibito di quella stanza. Le uniche volte che venivano sospinte nelle cupe profondità della tana di Victor era quando avevano bisogno d'aiuto per i compiti di matematica. Non era un grosso problema per Sylvia, che aveva una qualche minima possibilità di comprendere i segni di matita grassa con cui Victor ricopriva impaziente infinite pagine di carta a righe, ma per Julia e Amelia i segni e i simboli di Victor erano misteriosi come antichi geroglifici. Se pensavano allo studio, cosa che cercavano di non fare, lo immaginavano come una camera di tortura. Della loro completa ignoranza in fatto di matematica Victor incolpava Rosemary: era chiaro che avevano ereditato lo scarso cervello femminile della madre. La madre di Victor, Ellen, era stata una presenza dolce e benefica nella sua prima infanzia, ma nel 1924 era stata rinchiusa in manicomio. All'epoca Victor aveva solo quattro anni e si decise che sarebbe stato meglio per lui non andarla a trovare in un luogo così inquietante: il risultato fu che crebbe immaginandola come una pazza da romanzo vittoriano - camicia da notte lunga e bianca e capelli scarmigliati, che vagava nei corridoi del manicomio di notte, blaterando frasi senza senso come una bambina - e fu soltanto molto più tardi che scoprì che non era «uscita di senno» (così ne parlavano i familiari), ma aveva sofferto di una grave depressione post partum dopo aver dato alla luce un bambino morto, e non delirava né blaterava, ma aveva vissuto triste e solitaria in una camera tappezzata di fotografie di Victor, finché non era morta di tubercolosi quando lui aveva dieci anni. A quell'epoca Oswald, suo padre, aveva già spedito Victor in collegio, e quando morì, a causa di una caduta accidentale nelle acque gelide dell'Antartico, il figlio accolse la notizia senza scomporsi e poi tornò a un quesito matematico particolarmente difficile al quale stava lavorando. Prima della guerra il padre di Victor era stato una fra le creature inglesi più arcane e inutili, un esploratore polare, e Victor fu felice di non dover più cercare di essere all'altezza dell'immagine eroica di Oswald Land, ma di poter diventare grande nel suo campo, decisamente meno glorioso. Conobbe Rosemary al pronto soccorso di Addenbrooke, dove lei era un'infermiera tirocinante. Era inciampato sui gradini cadendo goffamente sul polso, ma le raccontò che, mentre percorreva in bicicletta Newmarket Road, un'auto gli aveva «tagliato la strada». Alle sue orecchie quell'espressione suonava bene, era una frase che apparteneva a un mondo virile (quel-
lo di suo padre) in cui non era mai riuscito a trovarsi a proprio agio e "Newmarket Road" lasciava intendere (a torto) che non trascorreva una vita da recluso nell'area compresa tra il St John's e il dipartimento di matematica. Se non fosse stato per quel fortuito incontro in ospedale, incidentale in tutti i sensi, forse Victor non avrebbe mai corteggiato una donna. Si sentiva già avviato verso la mezza età e la sua vita sociale era limitata al circolo degli scacchi. Non avvertiva la reale necessità di un'altra persona nella sua vita, anzi, trovava bizzarro il concetto di "condividere" l'esistenza. La matematica gli riempiva quasi completamente le giornate, quindi non capiva bene a cosa potesse servirgli una moglie. Le donne gli parevano dotate di ogni genere di caratteristiche indesiderabili, prima fra tutte la follia, ma anche di una molteplicità di svantaggi fisici - sangue, sesso, bambini - che trovava inquietanti ed estranei. Eppure una parte di lui desiderava soltanto quel calore che tanto gli era mancato nell'infanzia: ecco perché, ancora prima di rendersi conto dell'accaduto, come quando si apre la porta di una stanza sbagliata, si ritrovò a prendere il tè in un cottage di campagna del Norfolk mentre Rosemary esibiva timidamente ai genitori un anello di fidanzamento piuttosto modesto con un diamante microscopico. A parte le baffute benedizioni di suo padre prima di addormentarsi, Victor era il primo uomo da cui Rosemary fosse mai stata baciata (e anche in modo alquanto goffo, visto che le si era gettato addosso come una foca gigantesca). Il padre di Rosemary, un semaforista delle ferrovie, e sua madre, casalinga, quando conobbero Victor ne furono stupefatti. Restarono a bocca aperta di fronte alle sue indiscutibili credenziali da intellettuale (gli occhiali con montatura nera, la giacca sportiva e sgualcita, quell'aria di distrazione perenne) e alla possibilità che potesse perfino essere un autentico genio (possibilità che Victor non si preoccupò di escludere), figuriamoci quando seppero che aveva scelto come compagna la loro figlia - una ragazza silenziosa e facilmente influenzabile, e quindi ignorata quasi da tutti. Il fatto che avesse il doppio dei suoi anni sembrò non preoccuparli affatto, anche se in seguito, quando la coppia felice se ne andò, il padre di Rosemary, un uomo molto virile, commentò con la moglie che Victor non era proprio «un magnifico esemplare dal punto di vista fisico». L'unica riserva della madre di Rosemary, invece, fu che sebbene Victor fosse dottore, non era parso in grado di spiegarle i dolori di stomaco che la tormentavano. Messo alle strette davanti a una tavola apparecchiata con una tovaglia di pizzo maltese e dolcetti ripieni, scones e torta ai semi di cumino, al-
la fine Victor aveva confermato: «Credo sia indigestione, signora Vane», diagnosi sbagliata che la donna accettò con sollievo. Olivia aprì gli occhi e fissò soddisfatta la carta da parati con le filastrocche. I due piccoli protagonisti, Jack e Jill, arrancavano perennemente su per la collina. Jill portava un secchio di legno per il pozzo che era destinata a non raggiungere mai, mentre in un altro punto dello stesso versante la Pastorella cercava la sua pecora smarrita. Olivia non era troppo preoccupata per la sorte del gregge perché nascosto dietro una siepe si vedeva un bell'agnellino con un nastro azzurro attorno al collo. Olivia non aveva capito bene la storia del fuori programma, ma un bambino le sarebbe piaciuto. I bambini e gli animali erano le cose che più amava al mondo. Accanto ai piedi avvertiva il peso di Rascal, il terrier di famiglia. A Rascal era tassativamente proibito dormire nelle stanze da letto, ma tutte le sere una di loro se lo portava di nascosto in camera, anche se di solito prima del mattino l'animale aveva già trovato il modo di raggiungere Olivia. Olivia scrollò dolcemente Topoblù per svegliarlo. Topoblù era un animale di spugna floscio e allampanato. Era l'oracolo di Olivia, che lo consultava sempre su tutto. Una fetta luminosa di sole si spostò lentamente sulla parete, e quando raggiunse l'agnellino che si nascondeva dietro la siepe, Olivia scese dal letto e infilò obbediente i piedi nelle pantofoline rosa, decorate con musi e orecchie di coniglio, che Julia le invidiava tanto. Le altre non si preoccupavano di mettersele e adesso faceva così caldo che Rosemary non riusciva nemmeno a convincerle a infilarsi le scarpe, ma Olivia era una bambina ubbidiente. In quel preciso momento Rosemary, che era distesa nel suo letto, sveglia ma a malapena in grado di muoversi, come se il midollo osseo si fosse trasformato in una guarnizione di piombo, stava cercando di ideare un piano per impedire alle altre tre di guastare il buon carattere di Olivia. Il nuovo bambino le faceva venire le nausee e Rosemary pensò che sarebbe stato meraviglioso se Victor si fosse improvvisamente svegliato dal suo sonno rumoroso e le avesse chiesto: «Hai bisogno di qualcosa, cara?» Lei avrebbe risposto: «Oh, sì, grazie, Victor, vorrei una tazza di tè senza latte e una fetta di pane tostato con un velo di burro». Sì, e gli asini avrebbero cominciato a volare. Se solo non fosse stata così fertile. Non poteva prendere la pillola perché le faceva venire la pressione alta, aveva provato la spirale ma si era stacca-
ta e per Victor i preservativi erano un attentato alla virilità. Lei non era altro che la sua giumenta da riproduzione. L'unica cosa buona dell'essere incinta era che non doveva più sopportare di fare sesso con lui. Gli aveva detto che faceva male al bambino e lui ci aveva creduto perché non ne sapeva niente - non sapeva niente di neonati, donne o bambini, niente della vita. Quando l'aveva sposato era vergine ed era tornata dalla luna di miele in Galles, dopo una settimana, in stato di shock. Certo, avrebbe dovuto lasciarlo allora, ma Victor aveva già cominciato a sfinirla. A volte le sembrava che si nutrisse di lei. Se ne avesse avuto l'energia si sarebbe alzata, avrebbe strisciato fino alla camera vuota, quella degli ospiti, e si sarebbe distesa sul duro letto singolo con le fresche lenzuola bianche trattenute da stretti ferma-angoli da ospedale. In quella casa la camera degli ospiti era come una bolla d'aria, la sua atmosfera non era stata respirata da nessuno, la sua moquette non era stata consumata da piedi sbadati. Non le importava quanti bambini aveva, avrebbe potuto sfornarne come una vacca, uno all'anno (anche se piuttosto si sarebbe ammazzata), ma nessuno di loro avrebbe mai occupato lo spazio immacolato della camera degli ospiti. Era pulita, intatta, sua. La soffitta sarebbe stata anche meglio. Poteva far rifare il pavimento, farla intonacare di bianco, metterci una botola e poi avrebbe potuto salirci, tirare su la botola come un ponte levatoio e nessuno sarebbe riuscito a trovarla. Rosemary immaginò la sua famiglia che andava di stanza in stanza chiamandola a voce alta, e rise. Victor grugnì nel sonno. Ma poi immaginò Olivia che vagava per casa incapace di trovarla e avvertì una fitta di paura, come un colpo al petto. Avrebbe dovuto portarla in soffitta con sé. Anche Victor era in quella fase tra il sonno e il risveglio, un luogo non contaminato dai sentimenti amari della sua vita quotidiana, vissuta in una casa di donne che sentiva estranee. Olivia, con il pollice ben ficcato in bocca e Topoblù stretto nell'incavo del gomito, ciabattò in corridoio fino alla camera di Julia e Amelia e si infilò nel letto di Julia. La sorella stava facendo un sogno forsennato. I capelli scompigliati, appiccicati al cranio, erano umidi di sudore e le labbra si muovevano di continuo, balbettando frasi senza senso mentre lei lottava contro qualche mostro invisibile. Julia aveva sempre un sonno pesante: parlava e camminava mentre dormiva, si arrotolava nelle coperte e si svegliava di soprassalto, fissando a occhi sgranati qualche fantasticheria sva-
nita prima ancora di riuscire a ricordarla. A volte si agitava talmente tanto che le venivano degli attacchi d'asma e si svegliava in uno stato di terrore mortale. Amelia e Sylvia la consideravano una gran scocciatura; aveva una personalità estremamente imprevedibile - un attimo prima tirava pugni e calci, un attimo dopo era tutta smancerie e baci finti. Quand'era più piccola era stata soggetta ai capricci più sfrenati e anche ora quasi non passava giorno senza che avesse una crisi isterica per qualcosa e si precipitasse irritata fuori dalla stanza. Era Olivia che, di solito, la seguiva e cercava di consolarla, ma gli altri non se ne curavano. Sembrava che Olivia avesse capito che Julia voleva soltanto un po' di attenzione (anche se cercava di attirarne moltissima). Olivia la tirò per la manica della camicia da notte per svegliarla, cosa che di solito richiedeva un certo tempo. Amelia, nel letto accanto, era già sveglia ma teneva gli occhi chiusi per assaporare l'ultima goccia di sonno. E poi, se fingeva di essere addormentata sapeva che Olivia sarebbe entrata nel suo letto, aggrappandosi a lei come una scimmia, la pelle abbronzata calda e asciutta contro la sua, il corpo spugnoso di Topoblù schiacciato tra di loro. Finché non era nata Olivia, Amelia aveva diviso la camera con Sylvia, cosa che, sebbene avesse molti svantaggi, era decisamente preferibile a doverla dividere con Julia. Fra Sylvia e Julia, due poli opposti e molto ben definiti, Amelia si sentiva arenata, incerta e inconsistente. A prescindere dal numero dei fuori programma, aveva la sensazione che si sarebbe smarrita nel mezzo. Amelia era una ragazzina più riflessiva e amante dei libri di Sylvia. All'ordine Sylvia preferiva l'entusiasmo (ecco perché, diceva Victor, non avrebbe mai potuto diventare una grande matematica, solo mediocre). Certo, Sylvia era pazza. Aveva detto ad Amelia che Dio le aveva parlato (senza contare Giovanna d'Arco). Nell'improbabile eventualità che Dio avesse voluto rivolgere la parola a qualcuno, Sylvia non sembrava di certo la persona più adatta. Sylvia adorava i segreti e, anche se non ne aveva, faceva di tutto pur di farti credere il contrario. Amelia non aveva segreti, Amelia non sapeva niente. Da grande aveva intenzione di imparare tutto e di tenerselo per sé. L'arrivo di quel fuori programma significava forse che la mamma le avrebbe di nuovo rimescolate nell'ennesima combinazione arbitraria? Con chi sarebbe finita Olivia? Una volta litigavano su chi poteva tenere il cane nel letto, ora discutevano per l'affetto di Olivia. In tutto c'erano cinque stanze, ma una era sempre destinata a camera degli ospiti anche se nessuna
di loro ricordava che un ospite si fosse mai fermato a dormire. Adesso la mamma aveva cominciato a parlare di ristrutturare la soffitta. Ad Amelia piaceva l'idea di avere una stanza lassù, lontano da tutti. Immaginava una scala a chiocciola e pareti intonacate di bianco, con un divano bianco, moquette bianca e sottilissime tende bianche appese alla finestra. Da grande voleva sposarsi, avere un figlio unico, un unico figlio perfetto (identico a Olivia), e vivere in una casa bianca. Quando cercò di immaginare il marito che l'avrebbe condivisa con lei riuscì soltanto a evocare un'immagine sfocata, un'ombra d'uomo che la incrociava per le scale e nei corridoi mormorandole educate frasi di saluto. Quando Olivia le ebbe svegliate tutte erano già quasi le sette e mezzo. Si prepararono la colazione da sole, tranne Olivia, che fu piazzata su un cuscino mentre Amelia le serviva latte e cereali e Julia le offriva pezzetti di pane tostato. Olivia era tutta per loro, il loro agnellino addomesticato, perché mamma era esausta per via del fuori programma e papà era un grande matematico. Julia, mentre si ingozzava di cibo (Rosemary era certa che dentro di lei vivesse un labrador), riuscì a tagliarsi con il coltello del pane, ma Sylvia la convinse a non urlare e a non svegliare i genitori premendole una mano sulla bocca, come una maschera chirurgica. Almeno un incidente al giorno con spargimento di sangue era la norma. Secondo la mamma, nessun bambino al mondo si tirava addosso gli incidenti domestici più delle sue figlie, e per colpa loro le toccava sorbirsi una quantità infinita di viaggi all'ospedale di Addenbrooke: Amelia che si rompeva un braccio facendo la ruota, Sylvia che si ustionava un piede cercando di riempire la borsa dell'acqua calda, Julia che una volta si spaccava un labbro saltando giù dal tetto del garage, un'altra volta si schiantava contro una porta a vetri - mentre Amelia e Sylvia la guardavano stupefatte e incredule (come aveva fatto a non vederla?), e poi naturalmente c'erano gli strani svenimenti di Sylvia - dalla posizione verticale a quella orizzontale senza alcun preavviso, la pelle esangue, le labbra secche - una prova generale della morte, tradita soltanto da una lieve vibrazione delle palpebre. L'unica immune da quella goffaggine generale era Olivia, che nei suoi tre anni di vita non aveva dovuto subire niente di più grave di qualche livido. Quanto alle altre, la madre sosteneva che con tutto il tempo trascorso in ospedale avrebbe anche potuto finire la scuola per infermiere. Il più eccitante, naturalmente, fu il giorno in cui Julia si tagliò via un dito (aveva in effetti una strana attrazione verso gli oggetti affilati). All'epo-
ca aveva cinque anni, entrò in cucina senza che sua madre se ne accorgesse e Rosemary notò il dito amputato solo quando distolse l'attenzione dalle carote che stava affettando con particolare foga, e vide che Julia, con aria scioccata, teneva la mano in alto in preda a uno stupore muto, esibendo la ferita come una martire bambina. Rosemary buttò uno strofinaccio sulla mano insanguinata, sollevò Julia e si precipitò da una vicina che le portò di corsa in auto all'ospedale in un sovraeccitato stridio di freni, lasciando Sylvia e Amelia a risolvere il problema di cosa fare del minuscolo e pallido dito abbandonato sul linoleum della cucina. (Sylvia, sempre piena di risorse, lo ficcò in un sacchetto di piselli surgelati e poi, con Amelia, andò all'ospedale in autobus, stringendo i piselli in via di scongelamento per tutto il tragitto, come se la vita di Julia dipendesse da quello). La prima cosa in programma per quel giorno era una passeggiata lungo il fiume fino a Grantchester. Da quand'erano iniziate le vacanze facevano quella spedizione almeno due volte la settimana, e quando Olivia si stancava la portavano a cavalluccio. Era un'avventura che occupava gran parte della giornata perché c'erano moltissime cose divertenti da scoprire - sulla sponda del fiume, nei campi, perfino nei giardini sul retro delle altre case. L'unico divieto di Rosemary era di fare il bagno, ma loro partivano immancabilmente con i costumi nascosti sotto i vestiti e i calzoncini e raramente concludevano una gita senza spogliarsi e tuffarsi nel fiume. Erano grate al fuori programma per avere trasformato la loro mamma, di solito prudente, in una custode tanto sbadata. Quell'estate nessun altro bambino di loro conoscenza se la stava spassando in modo così rischioso. In una o due occasioni Rosemary aveva dato loro i soldi per pagarsi il tè del pomeriggio alle Orchard Tea Rooms (dove non erano esattamente le clienti più benvenute), ma spesso si portavano dietro un picnic improvvisato che consumavano ancora prima di avere superato Newnham. Ma non quel giorno: il sole si era avvicinato ulteriormente a Cambridge e le aveva intrappolate in giardino. Cercarono di sfoderare un po' di energia e giocarono a nascondino senza troppa convinzione, ma nessuna di loro trovò un buon rifugio. Perfino Sylvia non riuscì a escogitare niente di più creativo del nido di coda di topo dietro i cespugli di ribes nero in fondo al giardino - Sylvia, che una volta era rimasta nascosta senza che nessuno la scoprisse per tre ore, un record (si era allungata come un bradipo su un ramo alto e liscio del faggio del giardino della signora Rain, lì di fronte), e fu ritrovata
soltanto quando si addormentò e piombò giù dall'albero, procurandosi una frattura a legno verde al braccio. La madre ebbe una lite terribile con la signora Rain, che voleva fare arrestare Sylvia per violazione di proprietà privata (stupida donna). Si intrufolavano sempre nel suo giardino, per rubarle le mele acidule dal frutteto e farle degli scherzi, perché era una strega e quindi meritava di essere maltrattata. Dopo un pranzo apatico a base di insalata di tonno cominciarono a giocare a pallabase, ma Amelia inciampò e le uscì sangue dal naso e poi Sylvia e Julia si azzuffarono, con il risultato che Sylvia le mollò uno schiaffo e alla fine si accontentarono di fabbricare ghirlande di margherite da intrecciare nei capelli di Olivia e da usare come collari per Rascal. Di lì a poco si resero conto che la cosa richiedeva troppa fatica e Julia strisciò all'ombra dei cespugli di ortensie e si addormentò, acciambellata con il cane, mentre Sylvia portò Olivia e Topoblù nella tenda e si mise a leggere loro qualcosa. La tenda, un oggetto vetusto che era stato lasciato nel capanno dai precedenti proprietari della casa, era fissata sul prato fin da quando aveva iniziato a fare bel tempo e loro si contendevano lo spazio all'interno di quelle pareti ammuffite, dove faceva perfino più caldo e c'era meno aria che in giardino. Nel giro di pochi minuti Sylvia e Olivia si erano addormentate e il libro era stato dimenticato. Amelia, languida e sognante per la canicola, era distesa di schiena sull'erba riarsa e sul terreno cotto del prato e fissava l'azzurro infinito e senza nuvole, trafitto soltanto dai giganteschi malvoni che crescevano in giardino come erbaccia. Guardava le rondini che si tuffavano spericolate nel vuoto e ascoltava il piacevole ronzio e brusio del mondo degli insetti. Una coccinella le strisciò sulla pelle lentigginosa del braccio. Una mongolfiera fluttuava pigra sopra di lei e Amelia desiderò avere la voglia e la forza di svegliare Sylvia e raccontarglielo. Nelle vene di Rosemary il sangue scorreva pigro. Bevve un bicchiere d'acqua del rubinetto in cucina e guardò fuori dalla finestra, in giardino. Una mongolfiera solcava il cielo muovendosi come un uccello che si abbandona a una corrente ascensionale. Le bambine sembravano addormentate. Quell'inconsueta tranquillità le fece provare un inatteso guizzo d'affetto per la creatura che portava dentro. Se non avessero fatto altro che dormire, non avrebbe avuto problemi a far loro da madre. Tranne che per Olivia: non le sarebbe piaciuto che dormisse sempre. Quattordici anni prima, quando Victor le aveva chiesto di sposarlo,
Rosemary non aveva la più pallida idea di cosa significasse essere la moglie di un docente universitario, ma aveva immaginato che consistesse nell'indossare quelli che sua madre chiamava "abiti da giorno", partecipare a garden party sui Backs e passeggiare elegantemente sull'erba rigogliosa dei giardini mentre la gente mormorava: «Quella è la moglie del famoso Victor Land: sapete, senza di lei non sarebbe nessuno». Poi naturalmente aveva scoperto che la vita di un docente universitario non era affatto come se l'era immaginata. Nei Backs non organizzavano garden party e di sicuro non era possibile passeggiare elegantemente nei giardini dei college, dove l'erba era venerata con lo stesso fervore riservato alle immagini religiose. Poco dopo il matrimonio lei e Victor erano stati invitati nel giardino privato del Direttore, dove ben presto risultò chiaro che i colleghi di Victor erano convinti che avesse sposato una donna di livello orribilmente inferiore («Un'infermiera» sussurrò qualcuno, in modo da farla sembrare una posizione appena più rispettabile di quella di una passeggiatrice). Ma mentre una cosa era certa - Victor non sarebbe stato nessuno senza di lei - era altrettanto vero che non era nessuno neppure con lei. In quel preciso istante stava sgobbando nella buia frescura dello studio, le pesanti tende di ciniglia chiuse contro l'estate, perso nel suo lavoro, un lavoro che non arrivava mai a compimento, non cambiava mai il mondo e non lo rendeva mai celebre. Nel suo campo non era un grande, era semplicemente bravo. Questo le dava una certa soddisfazione. Le grandi scoperte matematiche si compivano prima dei trent'anni: gliel'aveva detto un collega di Victor. Rosemary ne aveva solo trentadue non riusciva a credere a quanto le sembrassero pochi e a quanto le pesassero. Immaginava che Victor l'avesse sposata perché la trovava una brava casalinga - probabilmente le tavole imbandite per il tè di sua madre l'avevano ingannato, perché quando abitava con i suoi, Rosemary non aveva mai preparato nemmeno un semplice scone - e visto che era infermiera aveva senza dubbio dato per scontato che fosse una persona affettuosa e sollecita - cosa che a quell'epoca anche a lei sembrava ovvia, ma ormai non si sentiva più capace di provvedere nemmeno a un gattino, figurarsi a quattro figli, che stavano per diventare cinque, più un grande matematico. Inoltre sospettava che quelle grandi ricerche fossero una farsa. Aveva visto le carte sulla scrivania, quando spolverava la sua stanza, e i calcoli di Victor non erano molto dissimili dai complicati conteggi di suo padre per le corse dei cavalli e le scommesse. Non riusciva a immaginare Victor nei
panni di un giocatore d'azzardo. Suo padre lo era stato, con grande disperazione di sua madre. Una volta, da bambina, l'aveva accompagnato a Newmarket. Lui se l'era issata sulle spalle e si erano fermati accanto al traguardo. Il fragore dei cavalli sulla dirittura d'arrivo l'aveva terrorizzata e la folla presente sulle tribune laterali era diventata sempre più irrequieta, come se in caso di vittoria di un outsider dato 30 a 1 il mondo rischiasse di finire. Rosemary non riusciva a immaginare Victor in un ambiente animato come un ippodromo e nemmeno nell'atmosfera promiscua e fumosa di un'agenzia di scommesse. Julia emerse da sotto le ortensie con un'espressione piagnucolosa per il caldo. Come sarebbe riuscita a trasformarle in brave scolare inglesi, all'inizio del nuovo trimestre? Quella vita all'aria aperta le aveva fatte diventare zingare dalla pelle bruna e scorticata, dai capelli fitti, arruffati e bruciati dal sole, e dall'aria perennemente sporca, nonostante tutti quei bagni. Sull'apertura della tenda c'era una Olivia assonnata e il cuore di Rosemary ebbe un lieve sobbalzo. Aveva la faccia lurida e nelle trecce sbiancate, tutte storte, erano infilati quelli che sembravano fiori morti. Sussurrava un segreto all'orecchio di Topoblù. Olivia era l'unica bella. Julia, con i suoi riccioli scuri e il naso all'insù, era carina, ma aveva un pessimo carattere, e Sylvia... povera Sylvia, di lei cosa si poteva dire? E in un certo senso Amelia era... insipida, ma Olivia, Olivia era intessuta di luce. Pareva impossibile che fosse figlia di Victor, anche se purtroppo non c'era modo di dubitarne. Olivia era l'unica a cui voleva bene, anche se Dio solo sa se con le altre non faceva del suo meglio. Ciò che provava nasceva dal senso del dovere, non certo dall'amore. E alla fine il senso del dovere uccide. Era tutto così sbagliato, come se l'amore che avrebbe dovuto provare per le altre fosse stato travasato in Olivia; amava la figlia minore con una ferocia che non sempre le sembrava naturale. A volte avrebbe voluto mangiarla, morderle un tenero avambraccio o un morbido polpaccio, magari inghiottirla intera come fanno i serpenti e riportarla dentro di sé, dove sarebbe stata al sicuro. Era una madre orribile, su questo non c'erano dubbi, ma non aveva nemmeno la forza di sentirsi in colpa. Olivia la scorse e la salutò con la mano. All'ora del tè l'appetito era fiacco e si limitarono a spiluccare lo stufato d'agnello fuori stagione che Rosemary aveva passato troppo tempo a cucinare. Victor emerse alla luce del giorno sbattendo le palpebre come un cavernicolo e mangiò tutto quello che aveva davanti, poi ne chiese ancora e
Rosemary si domandò che aspetto avrebbe avuto da morto. Lo guardò mangiare, la forchetta che entrava e usciva dalle labbra con ritmo meccanico, le mani enormi, simili a pagaie, che racchiudevano le posate. Aveva mani da contadino, era una delle prime cose che aveva notato in lui. Un matematico avrebbe dovuto avere mani snelle, eleganti. Rosemary avrebbe dovuto capire tutto, da quelle mani. Aveva la nausea e i crampi. Forse rischiava di perdere il bambino. Sarebbe davvero stato un bel sollievo. Si alzò da tavola di scatto e annunciò che era ora di andare a letto. Normalmente si sarebbero levate delle proteste, ma Julia faticava a respirare e aveva gli occhi rossi per il sole e l'erba - soffriva di tutte le allergie estive possibili - e pareva che Sylvia avesse preso una specie di colpo di sole: stava male, piangeva e diceva che le faceva male la testa, anche se questo non le impedì di fare l'isterica quando Rosemary le impose di andare a letto presto. Quell'estate, quasi tutte le notti le tre più grandi avevano chiesto di poter dormire fuori, in tenda, e ogni sera Rosemary aveva risposto di no, per principio: sembravano già delle zingare, non c'era bisogno che vivessero come tali, e il fatto che gli zingari abitassero nelle roulotte - come Sylvia aveva tenuto a sottolineare - non c'entrava. Rosemary faceva del suo meglio per mantenere il controllo della famiglia, a dispetto di tutto e senza alcun aiuto da parte di un marito per cui la fatica quotidiana di preparare i pasti, fare i lavori domestici e occuparsi dei figli non aveva alcun significato, e che l'aveva sposata soltanto per avere qualcuno che si prendesse cura di lui, e si sentì ancora peggio quando Amelia le chiese: «Stai bene, mamma?» perché Amelia era la più trascurata. Ecco perché Rosemary sospirò, prese due pastiglie di paracetamolo e una di sonnifero - probabilmente un cocktail letale per il bambino che portava dentro - e disse alla figlia meno considerata: «Se vuoi stasera puoi dormire nella tenda con Olivia». L'erba coperta di rugiada e l'odore di tela della tenda erano davvero eccitanti, quando ci si svegliava - molto meglio dell'alito di Julia, che di notte diventava sempre cattivo. L'odore indistinto di Olivia era appena percettibile. Amelia tenne gli occhi chiusi per difendersi dalla luce. Il sole pareva già alto nel cielo e lei attendeva che Olivia si svegliasse e uscisse dalla vecchia trapunta che fungeva da sacco a pelo, ma alla fine fu Rascal a destarla leccandole la faccia. Di Olivia nessuna traccia, solo un guscio di coperte vuoto, come se fosse stata rapita, e Amelia provò una certa delusione al pensiero che si fosse alzata senza svegliarla. Attraversò a piedi nudi il prato umido di rugiada, con
Rascal alle calcagna, e provò ad aprire la porta posteriore di casa, che però era chiusa - evidentemente sua madre non aveva pensato a darle la chiave. Ma che razza di madre chiude fuori casa le proprie figlie? C'era silenzio, sembrava molto presto, benché Amelia non avesse idea di che ora fosse. Si chiese se Olivia fosse riuscita a entrare, visto che in giardino non si vedeva. La chiamò e restò stupefatta dal tremito della sua voce: fino a quel momento non si era resa conto di essere preoccupata. Bussò a lungo alla porta posteriore senza ricevere risposta, così si mise a correre lungo il sentiero che costeggiava la casa - il cancelletto di legno era aperto, cosa che la spaventò ulteriormente - e si precipitò in strada urlando: «Olivia!» con forza ancora maggiore. Rascal, fiutando un po' di divertimento, iniziò ad abbaiare. La strada era vuota, a parte un uomo che stava salendo in auto e lanciò ad Amelia un'occhiata curiosa. Era scalza, portava un pigiama smesso di Sylvia e doveva avere un'aria strampalata, ma non le importava. Corse all'ingresso principale e suonò il campanello, tenendo il dito sul pulsante finché fu proprio suo padre a spalancare la porta. Si vedeva che si era appena svegliato, aveva la faccia sgualcita come il pigiama, i capelli da scienziato pazzo ritti in tutte le direzioni, e la fissava con aria feroce, come se non sapesse nemmeno chi era. Quando si rese conto che era una delle sue figlie ne rimase ancora più stupito. «Olivia,» esclamò lei, e stavolta la voce le uscì in un sussurro. Nel pomeriggio un lampo squarciò il cielo basso sopra Cambridge, indicando la fine di quell'ondata di caldo. Ormai la tenda in giardino era diventata il fulcro di un cerchio che con il passare delle ore si era allargato, inglobando un numero sempre maggiore di persone - per primi gli stessi Land, che vagarono per le strade, frugarono sotto arbusti e siepi e urlarono il nome di Olivia fino a diventare rauchi. A quel punto alle ricerche si era unita anche la polizia e i vicini avevano controllato giardini, capanni e cantine. Il cerchio si dilatò all'esterno fino a includere i sommozzatori che scandagliarono il fiume e perfetti sconosciuti che si offrirono di setacciare il prato e la palude. Gli elicotteri della polizia volarono bassi su villaggi e campi fino ai confini della contea, i camionisti furono avvertiti di tenere d'occhio l'autostrada e per battere le Fens fu convocato l'esercito, ma nessuno di loro - da Amelia che gridò in giardino fino a star male, alle reclute del corpo dei volontari che cercarono carponi sotto la pioggia nel Midsummer Common - riuscì a trovare una sola traccia di Olivia, un capello o
una pellicina, una pantofola rosa a forma di coniglietto o un topo blu. 2 Caso n. 2 1994 Una giornata normale Theo aveva cominciato a cercare di camminare di più. Ormai era assodato: era «patologicamente obeso», secondo il nuovo e intransigente medico della mutua. Theo sapeva che quel medico nuovo e intransigente - una donna giovane con i capelli cortissimi e una borsa da palestra buttata in un angolo dell'ambulatorio - usava quell'espressione per cercare di spaventarlo. Fino a quel momento non si era mai considerato "patologicamente obeso". Si riteneva allegramente sovrappeso, una specie di Babbo Natale tondeggiante, e avrebbe anche ignorato i consigli della dottoressa, ma quand'era tornato a casa e aveva riferito a sua figlia Laura la conversazione avvenuta nell'ambulatorio, lei ne era rimasta scioccata e gli aveva subito organizzato un programma di ginnastica e dieta: ecco perché ogni mattina a colazione mangiava crusca e latte scremato e si faceva a piedi i tre chilometri fino al suo ufficio di Parkside. La moglie di Theo, Valerie, era morta a causa di un coagulo di sangue al cervello, un embolo postoperatorio, all'assurda età di trentaquattro anni, e da allora era passato così tanto tempo che a volte Theo trovava difficile credere di avere avuto una moglie, una volta, o di essere stato sposato. Era stata ricoverata per una semplice appendicectomia. A ripensarci ora, si rendeva conto che forse avrebbe dovuto denunciare l'ospedale o le autorità sanitarie per negligenza, ma era stato così impegnato a occuparsi giorno per giorno delle due figlie - quando Valerie era morta Jennifer aveva sette anni e Laura soltanto due - che non aveva quasi avuto il tempo di piangere la sua povera moglie, figuriamoci di vendicarsi. Se le ragazze non le fossero somigliate così tanto - e ancora di più ora che erano cresciute - per Theo sarebbe stato difficile rievocare anche un vago ricordo di lei. Il matrimonio e la maternità avevano reso Valerie più seria della studentessa che Theo aveva corteggiato con tante attenzioni. Theo si chiedeva se le persone destinate a morire giovani fossero in grado di prevedere in qualche modo la brevità della propria esistenza e se questo portasse su di essa l'ombra presaga di un'intensità e una serietà accresciute. Più che essere legati dalla passione, Valerie e Theo si erano voluti molto bene, e Theo non avrebbe saputo dire se quel matrimonio sarebbe durato, nel caso che lei
fosse sopravvissuta. Jennifer e Laura non avevano mai dato problemi e per Theo era stato facile diventare un buon genitore. Ora Jennifer studiava medicina a Londra. Era una ragazza assennata e determinata con poco tempo per scherzi e frivolezze, ma questo non significava che non fosse comprensiva, e Theo non riusciva a immaginarsela seduta in un ambulatorio a dare del patologicamente obeso a un ciccione mai visto prima, incitandolo ad alzare un po' più spesso le chiappe. La nuova dottoressa non aveva detto proprio così, però era come se l'avesse fatto. Al pari di sua sorella, Laura era una di quelle ragazze organizzate e capaci che riescono in tutto ciò che si propongono, senza tante storie, ma a differenza di Jennifer aveva un carattere spensierato. Questo non significava che non riscuotesse successi - a vent'anni aveva già preso tutti i brevetti di immersione e aveva deciso di diventare master diver. Il mese successivo doveva sostenere l'esame di guida e si aspettava di prendere il massimo dei voti in tutti i test. C'era un posto pronto per lei ad Aberdeen, alla facoltà di biologia marina. Per l'estate aveva trovato lavoro in un pub di King Street e visto che doveva tornare a casa in piena notte Theo si preoccupava, immaginava che un maniaco la buttasse giù dalla bici in Christ's Pieces e le facesse cose innominabili. Il pensiero che in ottobre sarebbe andata direttamente all'università, e non volesse girare con lo zaino la Thailandia o il Sud America o qualche altro posto, come facevano tutti i suoi amici, era stato per lui un enorme sollievo. Il mondo era un posto pieno di pericoli. «Per Jenny non ti preoccupi», diceva Laura, ed era vero, per Jennifer non si preoccupava e fingeva (con se stesso e con Laura) che fosse perché non poteva toccare con mano come viveva a Londra, ma in realtà era perché non le voleva bene quanto ne voleva a Laura. Ogni volta che Laura usciva, ogni volta che saltava in bici, si infilava la muta o saliva su un treno, lui si preoccupava. Quando tirava vento forte aveva paura che le cadesse in testa un pezzo di cornicione, temeva che affittasse un appartamento per studenti con lo scaldabagno vecchio e morisse per avvelenamento da monossido di carbonio. Aveva paura che non avesse fatto il richiamo dell'antitetanica, che entrasse in un edificio pubblico il cui impianto di aria condizionata potesse diffondere il virus della legionella, che fosse ricoverata in ospedale per un banale intervento e non ne uscisse più, che fosse punta da un'ape e morisse di shock anafilattico (non le era mai successo, quindi come faceva a sapere di non essere allergica?) Natu-
ralmente a Laura non ne aveva mai parlato, lei avrebbe trovato ridicole quelle paure. Se esprimeva la minima trepidazione per qualsiasi motivo («Attenta a svoltare a sinistra, non c'è visibilità» o «Prima di cambiare la lampadina spegni la luce dall'interruttore»), Laura rideva di lui, gli dava della vecchia signora incapace di cambiare una lampadina senza prevedere una disastrosa catena di eventi. Ma Theo sapeva che bastava una minuscola vite mal filettata per causare l'esplosione in pieno volo del portellone della stiva. «Perché ti preoccupi, papà?» era la costante e divertita reazione di Laura alle sue ansie. «E perché no?» era la muta risposta di Theo. E dopo l'ennesima veglia fino alle prime ore del mattino, in attesa che lei tornasse dal pub (anche se fingeva sempre di dormire), le aveva raccontato in tono noncurante che in ufficio avevano bisogno di una persona per un contratto a tempo determinato e le aveva suggerito di offrirsi di dare una mano. Con sua grande sorpresa, lei ci aveva riflettuto un minuto, poi aveva risposto «Okay» con quel suo delizioso sorriso (frutto di ore e ore di paziente e dispendioso lavoro ortodontico quando era piccola) e Theo aveva pensato «Grazie Dio», perché anche se non credeva in Dio ci parlava spesso. Ma per il primo giorno di lavoro di sua figlia da Holroyd, Wyre e Stanton (quel "Wyre" era lui), Theo non poteva esserci, e la cosa, naturalmente, lo turbava più di quanto non turbasse Laura. Doveva recarsi in tribunale a Peterborough, per un contenzioso riguardo una noiosa questione di confini di cui avrebbe dovuto occuparsi un notaio, ma il cliente era una persona anziana che si era trasferita di recente. Laura aveva indossato una gonna nera e una camicetta bianca, si era legata i capelli castani e lui pensò che era davvero carina e in ordine. «Papà, mi prometti che andrai alla stazione a piedi?» esclamò Laura in tono severo quando Theo si alzò da tavola, e lui le rispose: «Se proprio devo,» ma sapeva che se l'avesse fatto avrebbe perso il treno, e pensò che poteva far finta e magari prendere un taxi. Terminò i cereali a basso tasso calorico e ad alto contenuto di fibre, che sembravano mangime per bestiame, finì la tazza di caffè nero sognando latte, zucchero e una pasta glassata, di quelle con la crema e l'albicocca che sembrano uova fritte, e pensò che forse al buffet della stazione le vendevano. «Papà, non dimenticare l'inalatore,» aggiunse Laura, e Theo si tastò la tasca della giacca per dimostrare che l'aveva preso. Bastava il pensiero di non avere con sé il Ventolin a procurargli una crisi di panico, anche se non ce n'era motivo: se gli fosse venuto un attacco d'asma in una qualsiasi strada inglese, probabilmente la metà
dei passanti avrebbe tirato fuori un inalatore e gliel'avrebbe offerto. Le rispose: «Cheryl ti spiegherà tutto». Cheryl era la sua segretaria. «Io torno in ufficio prima di pranzo, vuoi che andiamo a mangiare fuori?» Lei disse: «Sarebbe carino». Poi lo accompagnò alla porta e gli diede un bacio sulla guancia con un «Ti voglio bene, papà» e lui le rispose: «Anch'io ti voglio bene, tesoro». Arrivato all'angolo si girò e vide che lei lo stava ancora salutando con la mano. Laura, che aveva occhi castani e la pelle bianca, che amava la Pepsi Light e le patatine fritte con sale e aceto, che aveva un'intelligenza pronta e affilata come una lama, che la domenica mattina gli preparava le uova strapazzate, Laura che era ancora vergine (lo sapeva perché gliel'aveva detto lei, mettendolo in grande imbarazzo), cosa che gli aveva fatto provare un immenso sollievo anche se sapeva che non lo sarebbe rimasta per sempre, Laura che in camera da letto teneva un acquario di pesci tropicali d'acqua salata, il cui colore preferito era il blu, il cui fiore preferito era il bucaneve, che amava i Radiohead e i Nirvana, che odiava quel pupazzo televisivo, Mr Blobby, e aveva visto dieci volte Dirty Dancing. Laura, che Theo amava con un'intensità simile a un cataclisma, a una calamità. Theo e David Holroyd avevano avviato lo studio poco dopo il matrimonio di Theo e Valerie. Di lì a un paio d'anni era arrivata Jean Stanton. Avevano frequentato la stessa università e volevano mettere in piedi uno studio "dinamico e socialmente responsabile", che portasse avanti soprattutto cause legate alle violenze domestiche e al diritto matrimoniale, e con patrocinio gratuito. Con gli anni le buone intenzioni si erano un po' perse per strada. Jean Stanton aveva scoperto di preferire le controversie legali alla violenza domestica e le sue simpatie politiche erano passate dal centro-sinistra al partito conservatore con la "C" maiuscola, mentre David Holroyd, che incarnava la quinta generazione di una famiglia di avvocati dell'East Anglia, si era reso conto di avere un'innata predisposizione per gli atti di cessione, quindi di solito toccava a Theo "occuparsi delle questioni etiche", come amava esprimersi lo stesso David Holroyd. Lo studio era notevolmente cresciuto; ora c'erano tre soci giovani e due associati e nell'ufficio di Parkside ormai non c'era più nemmeno un centimetro di spazio, ma nessuno riusciva ad accettare l'idea di un trasloco. In origine l'edificio era stato un'abitazione di cinque piani, dall'umida cucina del seminterrato alle fredde soffitte destinate alla servitù, una serie di stanze assemblate abbastanza a casaccio che però costituivano una resi-
denza dignitosa per una famiglia benestante. Dopo la guerra era stata divisa in una serie di uffici e appartamenti e ormai degli interni restavano solo tracce frammentarie e funebri - un bordo di stucco decorativo a base di festoni e urne sopra la scrivania di Cheryl e il fregio a ovoli e dentelli sotto la cornice dell'ingresso. Il salotto, ovaleggiante e di misurato gusto neoclassico, con vista su Parker's Piece, era diventato la sala riunioni di Holroyd, Wyre e Stanton e d'inverno nel caminetto di marmo ardeva sempre un fuoco alimentato a carbone, perché David Holroyd era un tipo vecchio stile. Theo si era ritrovato molto spesso in quella sala, a bere un bicchiere di vino in compagnia di soci e associati, tutti pieni di quella bonarietà provinciale tipica dei professionisti di successo. Certo, anche Jennifer e Laura erano entrate e uscite spesso da quello studio, sin da quand'erano bambine, ma trovava ancora strano pensare a Laura là dentro, impegnata ad archiviare, trovare e spostare; sapeva che sarebbe stata educata e volonterosa e si sentì orgoglioso perché in ufficio tutti avrebbero detto: «Che ragazza deliziosa, eh?», come del resto facevano sempre. Pecore sui binari. Il controllore non spiegò se si trattava di un gregge o di alcuni capi dispersi. A ogni modo ce n'erano abbastanza perché tutti i passeggeri sul treno per Cambridge avvertissero l'urto e il sussulto. Il treno era fermo da dieci minuti quando il macchinista percorse le quattro carrozze e spiegò che erano pecore, annullando ogni congettura a proposito di mucche, cavalli e suicidi. Dopo mezz'ora il treno era ancora bloccato, quindi Theo ipotizzò che si trattasse di un gregge, e non di qualche animale isolato. Voleva tornare a Cambridge e pranzare con Laura, ma la situazione era "nelle braccia di Dio", come si espresse il macchinista. Theo si chiese perché le braccia, e non le mani. Nel treno si soffocava; qualcuno, probabilmente il capotreno, aprì le porte e la gente cominciò a calarsi giù. Theo era sicuro che fosse contro il regolamento ferroviario, ma accanto al treno c'erano una stretta sponda e un terrapieno, quindi sembrava piuttosto sicuro - non era possibile che un altro convoglio li investisse com'era accaduto con le pecore. Theo scese con cautela e difficoltà, compiaciuto con se stesso all'idea di quell'avventura. Era curioso di vedere che aspetto avessero le pecore dopo l'incontro ravvicinato con il treno. Camminando lungo i binari scoprì la risposta alla sua domanda - frammenti di pecora, simili a tagli di carne con la lana ancora attaccata, erano disseminati ovunque, come se gli animali fossero stati
sbranati nel corso di una strage sanguinosa commessa da un branco di lupi. Theo si sorprese nel constatare che il suo stomaco reggeva alla vista di quel massacro, ma del resto aveva sempre considerato gli avvocati simili ai poliziotti e alle infermiere, nella loro capacità di distaccarsi dal caos e dalle tragedie della vita quotidiana e di affrontarle in modo disinteressato. Provò una strana sensazione di trionfo: aveva viaggiato su un treno che era quasi deragliato ma non gli era successo niente. Per la legge delle probabilità questo significava che il rischio che lui (e quindi le persone a lui care) fosse nuovamente coinvolto in un incidente ferroviario si era ridotto di molto. Il controllore era fermo accanto alla locomotiva con aria sconcertata. Theo gli chiese se stava bene e per tutta risposta l'uomo disse: «Ne ho vista solo una e ho pensato, be', forse non c'è bisogno che freni, e poi...» fece un gesto drammatico con le braccia come se cercasse di riprodurre l'effetto di un gregge di pecore che si disintegrano «e poi il mondo è diventato bianco.» Theo fu così colpito da quell'immagine che non riuscì a togliersela dalla testa per il resto del viaggio, che ricominciò non appena furono trasferiti su un altro treno. Immaginò di descrivere la scena a Laura, e di vederla reagire con un misto di orrore e macabro divertimento. Quando finalmente scese dal treno prese un taxi fino a metà strada, e poi proseguì a piedi. Sarebbe arrivato ancora più in ritardo, ma a Laura avrebbe fatto piacere. Theo riposò per un minuto sul marciapiede prima di imboccare la ripida scala che portava al primo piano e allo studio Holroyd, Wyre e Stanton. Il medico aveva ragione, Laura aveva ragione, doveva dimagrire un po'. La porta era tenuta aperta da un fermaporta di ghisa. Theo si fermava ad ammirarla ogni volta che entrava nell'edificio. Era verniciata di un verde scuro e lucido e gli splendidi dettagli in ottone (buca per le lettere, toppa, battente a forma di testa di leone) erano originali. La targa d'ottone, che la donna delle pulizie lucidava ogni giorno, annunciava "Holroyd, Wyre e Stanton - Notai e avvocati". Theo prese un respiro profondo e iniziò la scalata. Anche la porta della reception era - stranamente - aperta e non appena Theo entrò, capì subito che c'era qualcosa di terribilmente sbagliato. La segretaria di Jean Stanton era rannicchiata sul pavimento con gli abiti striati di vomito. L'addetta alla reception, Moira, era al telefono e scandiva l'indirizzo dello studio con un tono di trattenuta isteria. Aveva i capelli e la faccia imbrattati di sangue e Theo la credette ferita, ma quando fece per
aiutarla lei lo scacciò con la mano. Pensò che volesse allontanarlo, ma poi capì che cercava di indicargli la sala riunioni. In seguito, più e più volte, Theo mise insieme gli eventi che avevano preceduto quel momento. Laura aveva appena finito di fotocopiare un modulo per l'ufficio del registro catastale quando nella reception era entrato un uomo, un uomo d'aspetto così comune che più tardi neppure una delle persone presenti nello studio Holroyd, Wyre e Stanton fu in grado di descriverlo in modo decente: l'unica cosa che riuscirono a ricordare di lui fu che indossava un maglione da golf giallo. L'uomo pareva confuso e disorientato e quando Moira, l'addetta alla reception, gli aveva domandato: «Posso aiutarla?» aveva detto: «Il signor Wyre, dov'è?» con voce stridula e tesa. Moira, allarmata da quei modi, aveva risposto: «Sta rientrando dal tribunale, e temo che tarderà. Ha un appuntamento? Posso fare qualcosa io, per lei?» ma l'uomo aveva imboccato il corridoio e si era messo a correre in modo strano, come un bambino, e aveva fatto irruzione nella sala riunioni, dove era in corso un pranzomeeting di tutti i soci tranne Theo, che stava ancora tornando dalla stazione (del meeting si era dimenticato). Poco prima Laura era stata spedita a comprare dei panini per il pranzo dei soci - cocktail di scampi, formaggio e insalata di cavolo, roast-beef, tonno e mais, e pollo e insalata (senza maionese) per suo padre perché doveva davvero stare attento al peso, e aveva pensato con affetto che era proprio uno sciocco: quando le aveva suggerito di pranzare insieme, quella mattina, si era dimenticato del meeting. I panini, il caffè e i computer portatili erano tutti pronti sul tavolo di mogano (ovale, come la sala) ma ancora non si era seduto nessuno. David Holroyd era in piedi davanti al caminetto e raccontava a uno dei soci giovani della "fantastica vacanza" da cui era appena tornato, quando lo sconosciuto era piombato nella sala, aveva tirato fuori da qualche parte, probabilmente da sotto il maglione da golf giallo, ma nessuno ne era certo, un coltello da caccia e l'aveva conficcato nella scura lana pettinata del completo firmato Austin Reed di David Holroyd, nel popeline bianco della sua camicia Charles Tyrwhitt, nell'abbronzatura tropicale del suo braccio sinistro e, infine, nell'arteria sottostante. E Laura, che amava lo yogurt all'albicocca, che beveva tè e non caffè, che portava il trentasei di scarpe e adorava i cavalli, che preferiva la cioccolata amara a quella al latte, che aveva studiato chitarra classica per cinque anni ma poi non aveva più suonato e provava ancora tristezza al pensiero di
quando la loro cagnolina Poppy era stata investita, l'estate precedente, Laura, che per Theo restava sempre la sua bambina e la sua migliore amica, aveva lasciato cadere il modulo per il catasto e aveva inseguito l'uomo fino alla sala riunioni - forse perché aveva il brevetto della Croce Rossa o perché alle superiori aveva seguito un corso di autodifesa, o magari per semplice curiosità o istinto, impossibile sapere cos'avesse pensato mentre si precipitava nella sala in cui quell'uomo, un perfetto sconosciuto, aveva fatto perno sui talloni con l'agilità e la grazia di un ballerino e con la mano ancora impegnata a percorrere l'arco che aveva ferito il braccio di David Holroyd le aveva falciato il collo, recidendo la carotide e lasciandone uscire un potente getto di prezioso e bellissimo sangue che aveva raggiunto l'altra estremità della sala. Come in un sogno, un lento movimento subacqueo, Theo infilò di corsa il corridoio ed entrò nella sala. Notò le tazze e i panini sul tavolo di mogano e si rese conto che si era dimenticato del meeting. Sulle pareti color crema c'erano spruzzi di sangue e David Holroyd era afflosciato come un sacco imbrattato di rosso accanto al caminetto di marmo, mentre più vicino alla porta sua figlia era distesa sul pavimento, con il sangue schiumoso che ribolliva piano nello squarcio della gola. Theo sentì qualcuno singhiozzare in modo incontrollabile e qualcun altro dire: «Ma perché non arriva l'ambulanza?» Cadde in ginocchio accanto a Laura. Cheryl, la sua segretaria, vestita con un assurdo abbinamento di gonna e reggiseno, era china su di lei. Si era tolta la camicetta e aveva cercato di fermare l'emorragia. Stringeva ancora la camicetta, ormai uno straccio fradicio, e la pelle nuda era lucida per il sangue che le era colato in rivoli nella scollatura. Theo pensò all'espressione "bagno di sangue". C'era sangue dappertutto, Theo era inginocchiato in una pozzanghera, la moquette ne era imbevuta. Il sangue di Laura. Che era anche il suo. La camicetta bianca era color cremisi. Ne sentiva l'odore rame, sale e un fetore sgradevole di macelleria. Si chiese se fosse possibile recidersi vene e arterie, pomparsi fuori il sangue e darlo alla figlia. Contemporaneamente pregò «Per favore, Dio, fa' che stia bene», una specie di mantra orribile e inarrestabile, ed ebbe la sensazione che se avesse continuato a ripetere quelle parole avrebbe potuto evitare che tutto ciò accadesse. Gli occhi di Laura erano semiaperti e Theo non capiva se era morta o no. Ripensò all'anno prima, a quando aveva confortato Poppy sul ciglio della
strada, dopo che era stata investita da un'auto appena fuori casa. Era un cane di taglia piccola, un terrier, l'aveva tenuto in braccio mentre moriva e gli aveva visto negli occhi lo stesso sguardo vuoto di chi si allontana verso un luogo irraggiungibile e inevitabile. Premette sulla ferita di Laura, ma in realtà non c'era più sangue da fermare, quindi le prese la mano, morbida e calda, si chinò sul suo viso e le mormorò all'orecchio: «Va tutto bene,» poi si mise la sua testa in grembo e le accarezzò i capelli incrostati di sangue mentre la sua segretaria, Cheryl, piangeva dicendo: «Che Dio ti protegga, Laura.» Nell'istante in cui smise di pregare, nell'istante in cui capì che era morta, Theo si rese conto che non avrebbe mai smesso di accadere. In ogni momento Laura sarebbe stata alla fotocopiatrice a cercare di risolvere i problemi di quel modulo catastale, a chiedersi se suo padre sarebbe tornato o se doveva andare a pranzo da sola perché moriva di fame. Forse rimpiangeva di avere accettato quel lavoro perché era parecchio noioso, ma l'aveva fatto per fare piacere a lui, perché amava renderlo felice, perché gli voleva bene. Laura, che dormiva tutta raggomitolata, a cui piacevano il pane tostato e imburrato e i film di Indiana Jones ma non Guerre stellari, la cui prima parola era stata "cane", che amava la pioggia ma non il vento, che voleva avere tre figli, Laura che sarebbe rimasta per sempre in piedi accanto alla fotocopiatrice nell'ufficio di Parkside in attesa dello sconosciuto con il coltello, in attesa che il mondo diventasse bianco. 3 Caso n. 3 1979 Tutto per dovere, niente per amore Ogni giorno Michelle metteva la sveglia cinque minuti prima. Quella mattina aveva suonato alle cinque e venti. Il giorno dopo l'avrebbe puntata alle cinque e un quarto. Si rendeva conto che prima o poi doveva smettere, altrimenti avrebbe finito per alzarsi ancora prima di andare a letto. Ma non ancora. Si alzava solo poco prima della bambina, che si svegliava all'alba con gli uccellini, e in quel periodo dell'anno alba e uccellini arrivavano sempre più presto. Le serviva più tempo, quello che aveva non le bastava mai e solo così riusciva a ritagliarsene un po'. In realtà non lo ricavava dal nulla: sarebbe stato fantastico avere la possibilità di creare del tempo nuovo di zecca. Cercò di pensare a modi diversi di fabbricare una cosa tanto astratta, ma
gli unici esempi che le venivano in mente si riferivano alle limitate attività della sua vita domestica - lavorare a maglia, cucire e preparare dolci. Se avesse potuto fabbricarsi del tempo lavorando a maglia, Cristo santo, i ferri avrebbero ticchettato giorno e notte. E che vantaggio avrebbe avuto sulle sue amiche! Nessuna di loro sapeva lavorare a maglia (né preparare dolci o cucire), ma del resto nessuna di loro si era ritrovata tra capo e collo, all'età di diciotto anni, un marito, una bambina e un maledetto cottage in mezzo al nulla, circondato solo dall'orizzonte, tanto che sembrava come se il cielo fosse un'enorme pietra che ti schiacciava a terra. No, non se li era ritrovati tra capo e collo, li adorava entrambi. Davvero. E comunque, dove avrebbe trovato il tempo di costruirsi un po' di tempo? Di tempo non ce n'era. Era proprio questo, il problema. E se avesse smesso del tutto di dormire? Poteva rinchiudersi in una stanzetta in cima a una torre, come il personaggio di una favola, e filare il tempo come se fosse oro. Poteva restare sveglia finché non ne avesse filato abbastanza, tanto da formare matasse dorate ai suoi piedi, tanto da durarle tutta la vita, tanto da non rimanerne mai senza. L'idea di vivere in una torre, lontana da tutto e tutti, le sembrava il paradiso. La bambina era un pacco consegnato all'indirizzo sbagliato e non c'era modo di rispedirlo indietro o di farlo recapitare a qualcun altro. («Chiamala per nome» le ripeteva sempre Keith, «chiamala Tanya, non "la bambina"»). Michelle si era appena lasciata alle spalle la propria (insoddisfacente) infanzia: come faceva a prendersi in carico quella di qualcun altro? Sapeva che l'espressione giusta era "formazione di un legame affettivo", l'aveva letta in un libro sui bambini (Come avere un bambino felice, che spiritosi!) Non era riuscita a formare un legame affettivo con la bambina, la percepiva solo come una palla al piede. In fondo, tutti quelli che le avevano detto che abortire e finire il liceo erano le uniche cose ragionevoli da fare avevano ragione. E se avesse potuto tornare indietro - un altro modo di guadagnare tempo - avrebbe seguito il consiglio. Se non avesse avuto la bambina sarebbe stata una studentessa in un'altra città, avrebbe bevuto come una spugna, preso droghe e scritto temi mediocri sul Reform Act del 1832 o su Il segreto della signora in nero di Anne Brontë, invece di spargere semi di coriandolo su un vassoio di concime organico ascoltando la bambina che piangeva là dove l'aveva lasciata, qualunque posto fosse, quando non era più stata in grado di sopportarne il rumore. Probabilmente era in camera: forse in quel momento stava trascinando quel grasso corpicino da millepiedi fino all'orlo del letto, stava
masticando un filo elettrico o si stava soffocando con un cuscino. Michelle posò il vassoio di semi sul davanzale della cucina, dove avrebbe potuto osservarli mentre si facevano strada verso la luce. Dalla finestra scorgeva il preludio del suo orto, solchi diritti di terreno rivoltato, forme geometriche delineate da spago e bacchette per reggere i piselli. Keith non capiva perché l'avesse piantato. «Viviamo in una fattoria, cazzo,» aveva detto allargando esageratamente le braccia, come uno spaventapasseri (in quel momento si trovavano in mezzo a un campo), «qui è pieno di verdura. Possiamo prendere tutto quello che vogliamo». Ma in realtà quel posto era pieno di patate, il che era una cosa ben diversa. E navoni e cavoli verdi: cibo per bestie e contadini. Michelle voleva zucchini, spinaci e barbabietole. E coriandolo. E poi voleva dei fiori, fiori bellissimi e profumati, rose, caprifoglio e gigli - gigli bianchi e puri, di quelli che si usano per i matrimoni o i funerali. Nel campo in cui si erano messi a discutere non c'era niente, tranne una distesa d'erba che formava collinette irregolari, su cui Michelle marciava furiosa, spingendo a fatica il passeggino con dentro la bambina che sobbalzava come un manichino di quelli utilizzati per simulare gli incidenti. La rabbia la faceva camminare così in fretta che Keith, nonostante le gambe lunghe, doveva trottare per tenerle dietro. «Cos'hanno le patate che non va?» le aveva domandato, e Michelle gli aveva risposto, anzi urlato: «Siamo in marzo, cazzo, di patate non ce ne sono, non c'è niente, niente tranne fango, fango dappertutto e pioggia, è come stare in trincea, cazzo!» e lui aveva replicato: «Non fare tanti drammi, per la miseria!» Lei aveva pensato che quel suo accento da contadino era davvero ridicolo, sembrava il bifolco di uno sketch televisivo, un maledetto contadino mangiapatate. Michelle si era liberata della sua cadenza ascoltando il modo di parlare di certe persone del ceto medio alla tele e dei professori a scuola, finché era riuscita ad acquisire una pronuncia così pulita che era impossibile capire dov'era nata. Si era messa a camminare ancora più in fretta, quasi correva. «E comunque,» le aveva urlato lui, «forse non mi va di mangiare quel tuo maledetto coriandolo!» Lei si era fermata di botto, causando alla bambina nel passeggino un colpo di frusta. Si era girata ribattendo: «Be', a me invece sì,» e gli aveva lanciato una lunga occhiataccia, pentendosi di non avere preso con sé l'ascia per la legna, con cui avrebbe potuto aprirgli la testa in due, come un melone o una zucca. No, un melone no, i meloni sono dolci ed esotici, non sono abbastanza banali, e le zucche si trovano nel-
le favole. Una rapa. Le rape sono ortaggi volgari, da buzzurri. Sarebbe caduto come uno spaventapasseri senza testa, proprio lì, nel campo, la terra lo avrebbe inghiottito e nessuno l'avrebbe più rivisto, e lei avrebbe potuto affidare la bambina a sua madre e rovinare la vita a qualcun altro. O forse - che idea da incubo - lui avrebbe germogliato, si sarebbe ramificato e moltiplicato nel terreno, all'insaputa di tutti, e con l'estate sarebbero improvvisamente spuntati un centinaio, un migliaio di Keith, a ondeggiare e oscillare nel campo come girasoli. Un'ascia - che idea assurda. Tutti gli altri avevano il riscaldamento centralizzato o almeno un tipo di riscaldamento a cui non dovevano pensare: non dovevano uscire con qualsiasi tempo a segare e tagliare la legna per accendere il fuoco, o aspettare per ore che il fuoco riscaldasse il boiler in modo da avere l'acqua calda. Non avevano nemmeno il carbone perché la legna, quella della proprietà, era gratis. Le asce sono oggetti che si usano soltanto nelle fiabe. Forse era proprio questo che le era accaduto, forse era rimasta intrappolata in una favola malvagia e finché non raccoglieva tutte le patate del campo o tagliava tutti gli alberi del bosco non sarebbe stata libera. A meno che non imparasse a filare il tempo. Altrimenti le sarebbe scoppiata la testa. Doveva lavorare e sgobbare così tanto che le sembrava di essere una serva della gleba medievale. Viveva nel feudalesimo. «Il passeggino dallo a me,» aveva detto Keith. «Se la spingi così, a Tanya verrà un trauma cranico.» D'un tratto la furia di Michelle si era spenta; era sempre troppo stanca per sopportare qualsiasi cosa, perfino la rabbia. Ora camminavano fianco a fianco, più lenti, e la bambina si era finalmente addormentata - in fondo era stato quello lo scopo della passeggiata, secoli prima. Dopo un po' Keith le aveva cinto le spalle con un braccio, le aveva strofinato il mento sulla testa e le aveva detto: «Io ti amo, piccola, lo sai, vero?» e sarebbe anche stato un bel momento se non si fosse messo a piovere e quel mostro di bambina non avesse ricominciato a piangere. Michelle era cresciuta in una famiglia scombinata a Fen Ditton, uno di quegli spaventosi paesi satellite in cui erano stati confinati i poveri di Cambridge. Suo padre era un alcolizzato e uno «spreco di spazio», come sosteneva sua madre, che però era rimasta con lui perché non voleva stare sola, scelta che Michelle e sua sorella giudicavano patetica. Anche la madre beveva, ma almeno non diventava violenta. La sorella di Michelle, Shirley, aveva quindici anni e viveva ancora in casa e Michelle avrebbe
voluto portarla ad abitare con loro, ma non c'era spazio. Shirley le mancava moltissimo. Voleva diventare medico ed era molto intelligente, tutti dicevano che sarebbe diventata "qualcuno". Lo dicevano anche di Michelle, prima di Keith e della nascita del mostriciattolo. Ma adesso pareva proprio che non fosse riuscita a diventare nessuno. Il cottage era minuscolo. La loro camera era attaccata al cornicione e quella della bambina era più simile a un ripostiglio, però là, nel suo lettino, dove avrebbe dovuto dormire tranquilla invece di insistere per stare in braccio e farsi trascinare in giro, ci stava pochissimo. Da quand'era nata, Michelle non era riuscita a leggere nemmeno un libro. Ci aveva provato, un romanzo sistemato alla meglio su un cuscino mentre allattava, ma la bambina non succhiava bene se si accorgeva che lei pensava ad altro. E poi, quando aveva dovuto smettere (grazie a Dio) perché non aveva più latte («Devi provare a rilassarti e goderti la piccola» aveva detto l'ostetrica, ma cosa c'era da godere?), per manovrare biberon, libro e bambina avrebbe dovuto avere sei mani. Sarebbe stato un altro modo per guadagnare un po' di tempo. Quand'era incinta ce l'aveva messa tutta per arredare la sua cameretta. Aveva intonacato le pareti di giallo uovo, aveva dipinto un fregio di anatroccoli e agnellini con gli stencil e cucito allegre tendine a scacchi bianchi e gialli per la minuscola finestra, così la stanza pareva una scatola piena di raggi di sole. Michelle faceva sempre tutto per bene. Sin da piccola era sempre stata pulita e ordinata e sua madre ridendo diceva: «Non so da chi abbia preso, da me no di certo» (era la sacrosanta verità). Era così anche a scuola, i suoi quaderni non erano mai macchiati, disegni e cartine erano sempre tracciati con precisione, tutto era sottolineato e dotato di indici e tabelle, e lavorava sempre così tanto e con metodo che anche quando la qualità dei compiti non era all'altezza, gli insegnanti le davano comunque il massimo dei voti. Avrebbe dovuto iscriversi all'università, per essere libera, invece era stata portata fuori strada da uno che aveva il diploma dell'istituto di agraria, lavorava in una fattoria e non aveva un soldo bucato. Aveva iniziato a uscire con Keith Fletcher a sedici anni, lui ne aveva ventuno e quasi tutte le sue amiche erano invidiose perché era più grande, aveva la moto ed era incredibilmente bello e sexy, portava l'orecchino, aveva i capelli neri e un sorriso sensuale, e a lei piaceva pensare che fosse uno zingaro, il che era molto romantico, ma era chiaro che un orecchino e un sorriso sensuale non bastavano a farlo somigliare a uno zingaro. Non lo
facevano somigliare a nessuno in particolare. Adesso non aveva più nemmeno la moto, perché l'aveva venduta per comprare un vecchio furgone. A quel tempo, quando era giovane, quando doveva preoccuparsi soltanto di consegnare i compiti in tempo o di avere un paio di calze decenti, Michelle trovava romantica anche l'idea del cottage in campagna e la prima volta che l'aveva visto aveva pensato che fosse la cosa più pittoresca e graziosa del mondo: era così piccolo e antico - aveva più di duecento anni era fatto di mattoni con decorazioni di selce tutto intorno agli architravi e ai davanzali, e una volta - davvero - era stato l'abitazione del guardaboschi, e quando si erano sposati quelli della tenuta gli avevano permesso di viverci. Era un cottage "vincolato" e Michelle lo trovava un termine buffo (non tanto da farla ridere), perché non era il cottage a essere vincolato, ma lei. Aveva intravisto un possibile futuro - quel cottage grazioso, il giardino pieno di fiori e ortaggi, il pane nel forno, una ciotola di fragole sul tavolo, lei che gettava il mangime alle galline tenendosi la bambina felice premuta contro il fianco. Come in un romanzo di Hardy, prima che tutto inizi ad andare per il verso sbagliato. Quando si era sposata, incinta di sei mesi, aveva lasciato la scuola e il lavoretto al bar e Keith aveva detto: «Va bene, quando sarà nato il bambino potrai tornare al college e tutto il resto» anche se sapevano entrambi che non si sarebbe più trattato di una buona università, ma di uno schifoso politecnico in qualche città schifosa (probabilmente Cambridge, che Dio ce ne scampi e liberi), dove avrebbe finito per prendere un diploma in economia o amministrazione alberghiera. Però Michelle aveva pensato, sì, va bene, lo farò, ma nel frattempo se doveva fare la madre e la moglie aveva intenzione di farlo bene, ecco perché trascorreva le giornate a pulire, strofinare e cucinare e leggeva continuamente libri di economia domestica senza mai smettere di stupirsi di quante tecniche fosse necessario imparare per creare una "casa accogliente" - cucire le trapunte patchwork, arricciare le tendine, mettere sott'aceto i cetrioli, preparare la marmellata di rabarbaro, creare le decorazioni di glassa per il dolce natalizio - che bisognava preparare come minimo a settembre (Cristo santo) - e al tempo stesso bisognava ricordarsi di piantare i bulbi al coperto in modo che fossero pronti per le "festività" e così via, ogni mese un elenco di cose da fare che avrebbero sfiancato Ercole, senza contare i pasti da cucinare tutti i giorni, compito doppiamente difficile ora che la bambina era svezzata. Quando sua madre l'aveva vista preparare purè di carote e creme all'uo-
vo per la piccola aveva commentato: «Per l'amor di Dio, Michelle, comprale un vasetto di omogeneizzati,» ma se le avesse dato retta sarebbero finiti sul lastrico, la bambina era così vorace, continuava a ingrassare come un baco. Aveva sempre fame, il cibo non le bastava mai. E poi comprare gli omogeneizzati sarebbe stato come imbrogliare, bisognava fare le cose per bene, anche se Shirley, che di solito era dalla sua parte, le diceva: «Michelle, non devi sempre dare il massimo in tutto quello che fai». Ma lei lo faceva perché si sentiva spinta da qualcosa, non sapeva bene cosa, ma era sicura che se un giorno fosse riuscita a fare tutto se ne sarebbe liberata, di quella cosa che la spronava. «Non riuscirai mai a fare tutto alla perfezione,» sosteneva Shirley. «È impossibile». Ma non era vero, avendo il tempo si poteva ottenere la perfezione. Pensò che forse potevano comprare delle galline e magari anche una capra da latte, perché mancava qualcosa - forse un'unica gallina wyandotte, grassa e bianca, sarebbe bastata a rendere possibile un'esistenza idilliaca. O una gallina siciliana. Le galline hanno davvero nomi graziosi - Brahma, Marsh Daisy, Faverolles. Aveva preso un libro in biblioteca. L'aveva rubato, perché raramente le capitava di andare in città e passare in biblioteca. Non le piaceva rubare, ma nemmeno restare ignorante come una contadina. O magari una capra - una capra della Mancia o una Bionda dell'Adamello. Aveva rubato anche il libro sulle capre. La vita di campagna l'aveva trasformata in una volgare ladra. Le capre hanno nomi ridicoli - la nana africana e la capra miotonica del Tennessee. O forse sarebbe bastato un campo di fragole perfetto, un filare di piante di fagioli di Spagna o una fila di zucche e poi, all'improvviso, come quando si trova una chiave magica, tutto sarebbe andato per il verso giusto. Non aveva parlato a Keith della Marsh Daisy o della nana africana perché anche se era nato e cresciuto in campagna preferiva andare tutti i giorni al supermercato, piuttosto che allevare animali. E poi comunque non le rivolgeva più la parola, perché ogni volta che allungava la mano, a letto, lei lo respingeva e si girava dall'altra parte e pensava «Allora è così quando non si è più innamorati di qualcuno». A volte cercava di ricordare com'era prima che arrivasse la bambina, quand'erano soli e potevano stare a letto tutto il giorno a fare sesso in modo febbrile e sfiancante, e poi mangiare pane tostato con la marmellata e guardare il minuscolo televisore in bianco e nero che tenevano in fondo al letto fino a quando Michelle non l'aveva buttato a terra perché Keith guar-
dava il biliardo (su un televisore in bianco e nero, ma che senso aveva?) e la bambina urlava e lei non ce la faceva più. Voleva bene a tutti e due, davvero. Però quell'amore non lo sentiva. Non erano legati, erano come molecole, molecole che non riuscivano a fondersi e a formare elementi stabili e rimbalzavano in giro come palline del bingo. Avrebbe dovuto studiare scienze e non trascorrere tutto il tempo con la testa nei romanzi. I romanzi ti davano un'idea completamente falsa della vita, raccontavano bugie e insinuavano l'esistenza degli epiloghi, che nella realtà non esistevano, perché tutto andava avanti all'infinito. Poi aveva iniziato a svegliarsi sempre più presto perché se voleva tirarsi fuori da quel casino doveva studiare e prendere il diploma. Se si svegliava alle quattro - quando era tutto miracolosamente silenzioso, perfino gli uccellini e la bambina - poteva preparare la cena, pulire la cucina e lavare qualcosa e poi, se era fortunata, tirare fuori i vecchi libri di scuola e riprendere la propria istruzione da dove l'aveva interrotta. Era impossibile guadagnare tempo, anche se si era fatta delle illusioni in proposito. Il tempo era un ladro, ti rubava la vita, e l'unico modo per riaverla era essere più furbi di lui e riprendersela. Era una giornata normale (o almeno lo era per lei). Era sabato, Michelle si era alzata alle tre e mezza e si sentiva particolarmente soddisfatta della propria strategia. Nel frigo c'era un piatto di lasagne, ben sigillato con la pellicola da cucina, pronto per essere riscaldato, e aveva fatto un dolce al cioccolato «il preferito di Shirley, perché sua sorella di sabato spesso prendeva l'autobus e veniva a trovarla. Aveva letto tre capitoli di La Gran Bretagna tra le due guerre di Mowat e preso appunti per un tema su Re Lear. Aveva dato da mangiare alla bambina, l'aveva lavata e le aveva messo quella bella tutina a righe blu e bianche di OshKosh che le aveva regalato Shirley. Lavò le finestre mentre la bambina giocava nel box. Il cielo era azzurro, c'era una brezza fresca e Michelle riusciva a vedere i germogli verdi nati nell'orto, era spuntato perfino il coriandolo.» Dopo un po' diede un'occhiata alla bambina, vide che dormiva raggomitolata come un bruco sul materassino del box e pensò che poteva sfruttare l'occasione per continuare a studiare geografia, ma in quel momento Keith entrò in casa a grandi passi con un mucchio di legna appena tagliata e la lasciò cadere nel focolare facendo un bel fracasso e svegliando di botto la bambina. Automaticamente, come se avesse toccato un interruttore, la pic-
cola iniziò a urlare e anche Michelle, lì in piedi al centro della stanza, con le braccia lungo i fianchi, si mise a sbraitare, finché Keith non le mollò un ceffone sulla guancia, dandole la sensazione di essere stata marchiata. Le faceva male la gola tanto aveva urlato e si sentiva debole, pronta a crollare sul pavimento, e poi ecco come sarebbe andata (perché a dire la verità, a parte lo schiaffo, era già successo): sarebbe scoppiata in lacrime, Keith l'avrebbe abbracciata dicendole: «Non piangere, piccola, non piangere», lei avrebbe singhiozzato fino a sentirsi un po' meglio e avrebbero coccolato insieme la bambina, e poi tutto sarebbe andato meglio. Poi avrebbero acceso il fuoco, perché la sera faceva ancora freddo, riscaldato le lasagne e si sarebbero messi davanti al nuovo televisore a colori, comprato al posto di quello vecchio in bianco e nero, a guardare qualche programma idiota. Sarebbero andati a letto a pancia piena, avrebbero fatto sesso per fare la pace e dormito così bene da essere pronti per un altro giorno della solita vita, ma invece accadde che Keith fece il gesto di abbracciarla e lei gli sputò addosso, cosa che non era mai successa prima, corse fuori, prese l'ascia conficcata in un tronco accanto al cavalletto per segare la legna e si precipitò dentro. Faceva molto freddo, perché il fuoco non era stato acceso. Michelle era seduta sul pavimento. La bambina dormiva, esausta come quando la lasciavano piangere finché non si riaddormentava, e ogni tanto emetteva un minuscolo singulto triste. Michelle sentiva come una pietra, dentro, una cosa dura e inamovibile che le dava la nausea. Non aveva creduto che fosse possibile sentirsi così male. Guardò Keith e provò pena per lui. Quando tagli la legna con l'ascia e i ciocchi si aprono hanno un profumo meraviglioso, di Natale. Ma quando apri in due la testa di qualcuno, la puzza di mattatoio copre il profumo dei lillà che hai tagliato e portato in casa quella mattina, che ormai fa già parte di un'altra vita. Se avesse potuto esprimere un desiderio - se la sua fata madrina (che fino a quel momento aveva brillato per la sua assenza) fosse comparsa all'improvviso nel gelido soggiorno del cottage e le avesse offerto qualunque cosa volesse - Michelle avrebbe saputo esattamente che cosa chiederle. Le avrebbe chiesto di tornare indietro e ricominciare la propria vita dall'inizio. Si chiese se fosse il caso di alzarsi e dare una pulita, ma era così stanca che pensò che era meglio restare lì e aspettare la polizia. Ormai aveva tutto il tempo del mondo.
4 Jackson Jackson accese la radio e ascoltò la voce rassicurante di Jenni Murray a L'ora della donna. Si accese un'altra sigaretta con il mozzicone della precedente perché aveva finito i cerini: se avesse dovuto scegliere tra il fumo accanito e l'astinenza avrebbe scelto il primo, perché aveva la sensazione di astenersi già abbastanza, nella vita. Se si fosse fatto aggiustare l'accendisigari non sarebbe stato costretto a fumare tutto il pacchetto, ma di cose che dovevano essere aggiustate ce n'erano parecchie e l'accendisigari non era in cima alla lista. Jackson guidava un'Alfa Romeo 156 nera usata, comprata quattro anni prima per 13.000 sterline, che probabilmente ora valeva meno della mountain bike Emmelle Freedom che aveva appena regalato a sua figlia per il suo ottavo compleanno (a condizione che non la usasse su strada fino almeno ai quarant'anni). Quand'era tornato a casa con l'Alfa Romeo, sua moglie aveva guardato l'auto con aria di sufficienza e aveva commentato: «Ti sei comprato una macchina da poliziotto». Quattro anni prima Josie guidava una Polo tutta sua ed era ancora sposata con Jackson, ma adesso viveva con un barbuto professore universitario e guidava la Volvo V70 di lui, con l'adesivo "Bambino a bordo" sul lunotto posteriore, il che testimoniava la solidità della loro relazione e il compiaciuto bisogno del tizio di dimostrare al mondo che proteggeva il figlio di un altro. Jackson odiava quegli adesivi. Era un non fumatore pentito, aveva ricominciato solo sei mesi prima. Non aveva toccato una sigaretta per quindici anni e ora era come se non avesse mai smesso. E per nessun motivo apparente. «Così, da un giorno all'altro,» disse imitando senza convinzione Tommy Cooper nello specchietto retrovisore. Ovviamente non era successo "da un giorno all'altro". Non succedeva mai così. Avrebbe fatto meglio a sbrigarsi, quella. La porta si ostinava a restare chiusa. Era di legno verniciato, roba da quattro soldi, con una finta lunetta georgiana identica a tutte le altre porte del complesso residenziale di Cherry Hinton. Jackson avrebbe potuto buttarla giù con un calcio senza versare una sola goccia di sudore. Lei era in ritardo. Aveva l'aereo all'una e ormai avrebbe dovuto partire per l'aeroporto. Jackson abbassò appena il finestrino perché entrasse un po' d'aria e uscisse un po' di fumo. Lei era sempre in ritardo.
Il caffè non era un buon modo di alleviare la noia, a meno di non essere disposti a pisciare in una bottiglia, e lui non lo era. Adesso che aveva divorziato era libero di usare parole come "pisciare" e "cagare" - elementi del suo vocabolario che Josie era quasi riuscita a eliminare. Lei insegnava alle elementari e trascorreva gran parte della giornata lavorativa a modificare il comportamento di ragazzini di cinque anni. Quand'erano sposati tornava a casa e faceva lo stesso con lui («Per l'amor di Dio, Jackson, usa la parola giusta, si chiama pene») durante le serate trascorse insieme a cucinare pasta e a sbadigliare davanti alla spazzatura che trasmettevano in televisione. Voleva che la loro figlia, Marlee, crescesse «utilizzando le corrette espressioni anatomiche per indicare i genitali». Jackson avrebbe preferito che crescesse senza nemmeno sapere dell'esistenza dei genitali, figuriamoci sentirsi dire che era stata "fatta" quando lui aveva «infilato il pene nella vagina di mamma», descrizione stranamente clinica di un evento frettoloso, sudaticcio e precipitoso che si era svolto in un campo lungo la A1066 tra Thetford e Diss, un accoppiamento acrobatico nella sua vecchia Bmw F Reg (320i, due porte, proprio una macchina da poliziotto, di cui sentiva tanto la mancanza, pace all'anima sua). Era accaduto nei giorni in cui tra loro si manifestava spesso un improvviso e disperato bisogno di sesso e l'unica cosa che aveva reso memorabile quel particolare episodio era stato l'atteggiamento da roulette russa di Josie, del tutto inconsueto per lei, nei confronti della contraccezione. In seguito Josie aveva dato la colpa delle conseguenze (Marlee) alla scarsa preparazione di lui. Jackson trovava invece che Marlee fosse un grande successo, e comunque Josie non poteva certo aspettarsi altro quando aveva cominciato ad accarezzargli il - e qui usiamo il termine anatomicamente corretto - pene mentre lui cercava soltanto di arrivare a Diss, anche se ora non ne ricordava più il motivo. Lo stesso Jackson era stato concepito durante una vacanza in una pensione nell'Ayrshire, fatto che suo padre aveva sempre trovato inspiegabilmente esilarante. Non avrebbe dovuto pensare al caffè: adesso sentiva un dolore sordo alla vescica. Alla fine di L'ora della donna mise su il Cd di Allison Moorer, Alabama Song, album che trovava piacevolmente malinconico. Bonjour tristesse. Jackson frequentava un corso di francese pensando al giorno in cui avrebbe potuto vendere tutto, trasferirsi all'estero e fare tutto quello che facevano i baby pensionati. Golf? I francesi giocavano a golf? Jackson non riusciva a farsi venire in mente il nome di nessun giocatore di golf francese, e forse era un buon segno, visto che odiava quello sport. Forse gli sa-
rebbe bastato giocare a boules e fumare fino a crepare. I francesi andavano forte, quanto a fumo. Jackson non si era mai sentito a casa a Cambridge, e se per questo nemmeno nel sud dell'Inghilterra. C'era arrivato più o meno per caso, per seguire una ragazza, ed era rimasto per sua moglie. Per anni aveva pensato di ritornare al nord, ma sapeva che non l'avrebbe mai fatto. Laggiù non c'era niente che facesse per lui, soltanto brutti ricordi e un passato a cui non avrebbe mai potuto rimediare, e poi che senso aveva, quando al di là della Manica c'era la Francia, come un esotico patchwork fatto di girasoli, vigneti e piccoli caffè dove avrebbe potuto trascorrere i pomeriggi a bere vino locale e caffè espresso senza zucchero e a fumare Gitanes, dove tutti l'avrebbero salutato con un «Bonjour, Jackson», ma pronunciandolo "zaksong", e lui sarebbe stato felice. L'esatto contrario di come si sentiva ora. Certo, se andava avanti di questo passo non sarebbe diventato un baby pensionato, ma un pensionato e basta. Ricordava che, quand'era piccolo, i pensionati erano vecchietti che trotterellavano tra l'orto assegnato dal comune e l'angolino del séparé al pub. A lui parevano davvero anziani, ma forse avevano più o meno la sua età di adesso. Jackson aveva quarantacinque anni ma si sentiva molto, molto più vecchio. Era in quell'età pericolosa in cui gli uomini d'un tratto si rendono conto che prima o poi, inevitabilmente, moriranno e non possono proprio farci niente, ma questo non impedisce loro di provarci, scopandosi chiunque respiri, ascoltando le prime canzoni di Bruce Springsteen e comprandosi una moto di prima classe (di solito una Bmw K 1200 LT, anche se questo aumenta di parecchio le loro possibilità di incontrare la morte anche prima del previsto). Poi ci sono quelli che si ritrovano intrappolati nella routine del tedio alcolico - la strada perduta e solitaria del maschio beta medio (come suo padre). E poi c'è la scelta fatta da Jackson, lo zen quotidiano di una casa francese con pareti di stucco bianco, gerani in vaso sui davanzali, una porta blu e l'intonaco che si stacca, perché nella campagna francese nessuno si preoccupa della manutenzione della casa. Aveva parcheggiato all'ombra, ma ora il sole si era alzato e nell'abitacolo la temperatura stava diventando sgradevole. Si chiamava Nicola Spencer, aveva ventinove anni e viveva in un lindo ghetto di case di mattoni. A Jackson strade e case parevano tutte uguali e se per un attimo perdeva l'orientamento si ritrovava in un triangolo delle Bermuda di piccoli prati non recintati, tutti uguali. Jackson nutriva pregiudizi quasi irragionevoli nei confronti dei complessi residenziali, pregiudizi che avevano a che fare con
la sua ex moglie e il suo ex matrimonio. Era stata Josie a volere una casa in un complesso nuovo, era stata una delle prime persone a firmare per andare a vivere a Cambourne, "comunità" in stile Disney appositamente creata alla periferia di Cambridge, con il campo da cricket nel "tipico" parco pubblico, e l'"area ricreativa di ispirazione romana". Era stata Josie a farli traslocare in quella casa quando la strada era ancora un cantiere, che aveva insistito perché la arredassero con mobili dal design pratico e moderno, che aveva rifiutato quelli vittoriani perché troppo ingombranti, che trovava "soffocante" un eccesso di tende e tappeti e che adesso viveva in una specie di bottega da rigattiere insieme a David Lastingham - una palazzina a schiera vittoriana piena zeppa di mobili antichi che lui aveva ereditato dai genitori, in cui ogni superficie disponibile era ingombra, drappeggiata e tappezzata. («Ma sei sicura che non sia gay?» aveva chiesto a Josie, tanto per irritarla, «quel tizio si faceva fare la manicure, Cristo santo», e lei, ridendo, gli aveva risposto: «Lui non ha dubbi sulla propria mascolinità, Jackson»). Sentì di nuovo aumentare il dolore alla mascella. Ormai vedeva più spesso la dentista che sua moglie nell'ultimo anno del loro matrimonio. La dentista si chiamava Sharon e, come avrebbe detto suo padre, era "ben carrozzata". Aveva trentasei anni e guidava una Bmw Z3, che secondo Jackson era più che altro una macchina da parrucchiere, ma la trovava comunque attraente. Purtroppo non esisteva alcuna possibilità di intrecciare una relazione con una persona che per toccarti doveva indossare una maschera, occhiali protettivi e guanti. (O con una che ti guardava in bocca e mormorava: «Fumi, Jackson?») Aprì una vecchia copia de «Le Nouvel Observateur» e cercò di leggere, perché la sua insegnante diceva che bisognava immergersi nella cultura francese, anche se non la si capiva. Jackson riusciva soltanto a individuare qualche parola strana che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa e a vedere congiuntivi disseminati ovunque - se esisteva un tempo verbale inutile, era proprio il congiuntivo francese. I suoi occhi si mossero pigri sulla pagina. Ultimamente la sua vita consisteva soprattutto nell'attendere, cosa che vent'anni prima non sarebbe riuscito a fare, ma che ora trovava quasi gradevole. Non fare niente era molto più produttivo di quanto la gente non credesse. Spesso Jackson aveva le sue intuizioni più profonde proprio quand'era apparentemente inattivo. Non si annoiava, si limitava a ritirarsi in un luogo inesistente. A volte pensava che gli sarebbe piaciuto entrare in un monastero, che sarebbe stato un ottimo asceta, un anacoreta, un monaco zen.
Una volta aveva arrestato un gioielliere, un vecchio che aveva ricettato merce rubata, e quand'era passato a cercarlo in negozio l'aveva trovato seduto su una poltrona antica, a fumare la pipa e a contemplare un sasso posato sul tavolo da lavoro. Senza dire nulla, l'uomo aveva preso il sasso e l'aveva posato sul palmo di Jackson, come un regalo. A Jackson era tornato in mente il suo professore di biologia a scuola, che ti porgeva un oggetto un uovo d'uccello, una foglia - e voleva che tu glielo spiegassi, invece che il contrario. Il sasso era una roccia ferrosa che sembrava corteccia pietrificata, e conficcata nel centro aveva una venatura di opale latteo, simile a un brumoso cielo estivo all'alba. Una pietra notoriamente difficile da lavorare, lo aveva informato il vecchio. La osservava ormai da due settimane, altre due e forse sarebbe stato pronto a tagliarla, e Jackson gli aveva risposto che nel giro di due settimane sarebbe finito in prigione in attesa di giudizio, ma il tipo aveva un avvocato di prima classe, aveva chiesto la libertà su cauzione e se l'era cavata con la sospensione della sentenza. Un anno dopo, presso la centrale di polizia, Jackson aveva ricevuto un pacchetto. All'interno non c'erano biglietti, solo una scatola, e annidato nel velluto blu notte c'era un pendente di opale, un pezzettino di cielo. Jackson sapeva che il vecchio voleva dargli una lezione, ma gli ci erano voluti molti anni per capirla. Il pendente lo conservava per il diciottesimo compleanno di Marlee. Il marito di Nicola, Steve Spencer, era convinto che la moglie si fosse "presa un amante" - aveva usato proprio questa espressione, che alle orecchie di Jackson suonava delicata e piuttosto raffinata, mentre la maggior parte dei coniugi sospettosi che si rivolgevano a lui tendevano a esprimere la propria diffidenza in termini più crudi. Steve era un tipo nervoso e paranoico e Jackson non riusciva a capire come fosse riuscito a incastrare una come Nicola, uno "schianto di donna". Ai suoi tempi Jackson si era fatto un'idea di come fosse uno schianto di donna, e di certo Nicola Spencer non rientrava nella categoria, però anche lui sarebbe stato tentato di "prendersi un amante", se fosse stato sposato con Steve Spencer. Steve lavorava in una farmacia che faceva parte di una catena e pareva che non avesse hobby o interessi, a parte Nicola. Per lui, era «l'unica donna al mondo». Jackson non aveva mai creduto che al mondo esistesse una persona destinata a lui. E se c'era, con la fortuna che aveva, in quel momento stava lavorando in una risaia cinese o era un'assassina appena scappata dal penitenziario. Quando non lavorava, Nicola Spencer andava in palestra, al supermercato Sainsbury (e una volta, senza alcun motivo apparente, da Tesco), da sua
madre, da un'amica di nome Louise e da una di nome Vanessa. Vanessa faceva parte di una coppia sposata - Vanessa e Mike - amica di «Steve e Nicola». Louise e Vanessa, a quanto aveva capito Jackson, non si conoscevano. Nicola andava anche spesso al distributore, per fare benzina, naturalmente, ma a volte ci comprava il latte, e quasi sempre un po' di cioccolata e una copia di Hello! o Heat. Era anche andata al vivaio, dove aveva comprato una cassetta di piantine che aveva subito trapiantato in giardino e poi dimenticato di innaffiare, a giudicare da ciò che Jackson aveva visto quando aveva scavalcato la recinzione per sbirciare che cosa succedeva chez Spencer o, più precisamente, au jardin Spencer. Nelle ultime quattro settimane si era anche recata in un magazzino del fai da te, dove aveva comprato un cacciavite e un cutter, da Habitat per acquistare una lampada da tavolo, da Top Shop per una maglietta bianca, da Next per una camicetta bianca, da Boots (due volte per cosmetici e articoli da toilette e una volta per un antinfiammatorio), da Robert Sayle per due asciugamani azzurri, e dal pescivendolo del mercato locale, dove aveva comprato un po' di costosa rana pescatrice per una cena con i sopracitati Vanessa e Mike; più tardi Steve Spencer dichiarò che era stato "un disastro". A quanto pare Nicola non era una grande cuoca. Faceva anche una vita spaventosamente noiosa, a meno che non le accadesse qualcosa di molto, molto interessante quando spingeva un carrello su e giù per la classe turistica della compagnia aerea per cui lavorava. Era questo che era accaduto a Josie quando si era "presa" David Lastingham, era così annoiata da Jackson da non riuscire più a sopportarlo? L'aveva conosciuto a una festa, una festa a cui Jackson non era andato perché lavorava, e i due avevano cercato di "reprimere i propri sentimenti" ma evidentemente non si erano impegnati abbastanza, visto che di lì a sei mesi si "prendevano" in ogni occasione clandestina disponibile, e ora David Lastingham poteva infilare il pene nella vagina di mamma ogni volta che gli andava. Josie aveva chiesto il divorzio appena possibile. Una rottura irreparabile - come se fosse tutta colpa sua e lei non si stesse scopando un tizio con il pizzetto e l'aria da checca. («David,» diceva Marlee, ma non a malincuore come Jackson avrebbe desiderato, «non è male, mi compra la cioccolata e cucina bene la pasta». La strada che portava dallo stomaco al cuore di quella bambina era un'autostrada a sei corsie. «Anch'io so cucinare bene la pasta,» aveva replicato Jackson, che si rendeva conto di quanto suonasse infantile, ma non gliene importava. Aveva chiesto a uno che conosceva di cercare il nome di David Lastingham nel registro dei pedofili. Tanto per
essere sicuri). Fumò l'ultima sigaretta. Durante la sorveglianza Nicola non aveva fatto nulla di minimamente sospetto, quindi se aveva un amante giocava sicuramente fuori casa - tutte quelle soste in alberghi a tre stelle, serate calde e alcolici scadenti fornivano le condizioni ideali per alimentare comportamenti scorretti. Jackson aveva cercato di spiegare a Steve che avrebbe dovuto pagargli un biglietto sull'aereo in cui lavorava Nicola, se voleva davvero scoprire cosa stava succedendo, ma a Steve non andava di finanziare quella che secondo lui sarebbe stata una vacanza gratuita all'estero. Jackson stava pensando di andarci lo stesso e poi di alterare un po' la nota spese, un biglietto andata e ritorno per una qualsiasi destinazione europea poteva facilmente scomparire sotto la dicitura complessiva "Varie". Forse era meglio aspettare che Nicola lavorasse su un volo per la Francia, e accodarsi. Jackson non voleva una vacanza, voleva una nuova vita. E voleva farla finita con Nicola Spencer e la sua vita noiosa. Quando aveva iniziato a fare l'investigatore privato, due anni prima, non si aspettava di certo che fosse una professione prestigiosa. Per dodici anni aveva fatto parte del distretto di polizia del Cambridgeshire e prima ancora della polizia militare, quindi non si faceva illusioni su come andava il mondo. Tutto quello che sapeva fare era svolgere indagini sulle tragedie, i casini e le disgrazie della gente. Era abituato a fare il guardone, l'estraneo che sbircia, e niente, niente di ciò che le persone facevano lo sorprendeva più. Eppure, nonostante tutto ciò che aveva visto e fatto, dentro di lui sopravviveva la convinzione - per quanto piccola, malconcia e strapazzata che il suo lavoro consistesse nell'aiutare la gente a comportarsi bene, piuttosto che nel punirla per essersi comportata male. Quando aveva visto il proprio matrimonio svanirgli davanti agli occhi, aveva lasciato la polizia e fondato l'agenzia di investigazioni. «E la pensione?» gli aveva detto Josie. «E allora?» le aveva risposto, con un atteggiamento sprezzante di cui stava cominciando a pentirsi. In genere gli affidavano lavori seccanti o noiosi - notifiche di citazioni in tribunale, verifiche sul passato delle persone, problemi di debiti e, ogni tanto, il compito di rintracciare qualche truffatore su cui la polizia non sarebbe mai riuscita a mettere le mani («Gli ho anticipato 300 sterline per il materiale e non l'ho più rivisto». Ma va?) Ah, e poi c'erano i gatti scomparsi. Con tempismo perfetto, il cellulare trillò una versione metallica dei
Carmina Burana, suoneria riservata esclusivamente a Binky Rain ("Binky", ma che razza di nome era? Incredibile!) Binky Rain era stata la sua prima cliente da investigatore privato ed era certo che non si sarebbe mai più sbarazzato di lei fino alla pensione: immaginava perfino che l'avrebbe seguito in Francia, scortata da un codazzo di gatti randagi, a mo' di pifferaio magico. Era una gattara, una di quelle vecchie megere mezze matte che lasciavano la porta aperta a tutti i gatti fannulloni di Cambridge. Binky aveva superato i novanta ed era vedova di un "docente di Peterhouse", un don di filosofia (nonostante vivesse a Cambridge da quattordici anni, quando sentiva quella parola Jackson pensava sempre alla mafia). Il "dottor Rain" - Julian - riposava da tempo nella grande Aula Magna del cielo. Binky era cresciuta nell'Africa coloniale e trattava Jackson come uno schiavo, cosa che del resto faceva con tutti. Abitava a Newnham, sulla strada per Grantchester Meadows, in una casetta che un tempo doveva essere stata un comunissimo edificio di mattoni rossi costruito tra le due guerre, ma che anni di trascuratezza avevano trasformato in un orrore gotico infestato di erbacce. Brulicava di gatti, centinaia di maledette bestiacce. A Jackson venivano i brividi soltanto a pensare alla puzza - orina di gatto, schizzi per delimitare il territorio, piattini di cibo in scatola su ogni superficie, del tipo economico fatto con parti di animali sdegnate perfino dalle catene di fast food. Binky Rain non aveva soldi, né amici né famiglia, i vicini la evitavano, eppure riusciva a mantenere senza sforzo una facciata di alterigia aristocratica, come la rifugiata di qualche ancien régime costretta a vivere da stracciona. Binky Rain era esattamente il tipo di persona il cui cadavere resta in casa per settimane, e che prima di essere scoperto viene probabilmente divorato dai suoi stessi gatti. Il motivo per cui in origine aveva assunto Jackson, sosteneva lei, era perché qualcuno le rubava i gatti. Jackson non era riuscito a capire se gli animali sparissero davvero o se fosse lei a crederlo. Era fissata in particolare con i gatti neri. «Qualcuno me li porta via,» diceva con quella vocetta smozzicata dall'accento anacronistico come tutto ciò che la riguardava, il residuo di un'altra epoca, di un altro luogo, da tempo trasformati in storia. Il primo gatto sparito era nero e si chiamava Negro - e Binky Rain non ci trovava nulla di strano! Non l'aveva chiamato così per via dei "moretti", aveva risposto in tono noncurante quando lui aveva sbarrato gli occhi, ma come il gatto del capitano Scott sulla Discovery. (Davvero girava per le tranquille strade di Newnham urlando «Negro!»? Dio, speriamo di no). Suo cognato era stato un sostenitore dell'Istituto Scott per le Ricerche Po-
lari di Lensfield Road e aveva trascorso un inverno accampato sul ghiaccio del Mare di Ross, facendo così di Binky un'esperta di esplorazioni antartiche, almeno secondo lei. Scott era "un idiota", Shackleton "un dongiovanni" e Peary "un americano", già di per sé una condanna. Il modo in cui Binky parlava delle esplorazioni polari («Cavalli! Soltanto un idiota si porterebbe dei cavalli!») nascondeva il fatto che il viaggio più rischioso che avesse intrapreso era stato nel 1938, da Città del Capo a Southampton in prima classe, a bordo della Dunnottar Castle. Il migliore amico di Jackson, Howell, era nero, e quando Jackson gli raccontò che Binky aveva un gatto di nome Negro si fece una grassa risata. Jackson aveva conosciuto Howell nell'esercito, quand'erano entrambi reclute. "Moretti" aveva riso Howell facendo l'inquietante imitazione di una vecchia signora bianca, inquietante perché Howell era alto uno e novantacinque ed era il nero più nero che Jackson avesse mai incontrato. Dopo la leva era tornato nella sua città natale, Birmingham, e attualmente faceva il portiere per un grande albergo, lavoro che gli imponeva di indossare un ridicolo costume da recita natalizia - cappottone lungo blu coperto di galloni dorati e, cosa ancora più ridicola, cappello a cilindro. Howell aveva un fisico così imponente che invece di togliergli dignità, quell'assurdo travestimento da lacchè gli conferiva una strana eleganza. Anche Howell doveva avere raggiunto un'età pericolosa. Come l'affrontava? Dovevano essere passati sei mesi dall'ultima volta che si erano parlati. È così che si perdono di vista le persone, basta un po' di disattenzione e ti sfuggono tra le dita. Jackson sentiva la mancanza di Howell. A un certo punto della vita era riuscito a perdere non solo moglie e figlia, ma anche tutti gli amici. (Ma ne aveva avuti altri, a parte Howell?) Forse era per questo che la gente si riempiva la casa di gatti puzzolenti, per non prendere atto della propria solitudine, per non morire senza che anima viva se ne accorgesse. Jackson sperava che non accadesse anche a lui. Be', comunque aveva intenzione di farlo in Francia, in poltrona, in giardino, dopo un buon pasto. Forse Marlee sarebbe andata a trovarlo, magari con i bambini, così Jackson avrebbe potuto vedere quella parte di sé proiettata nel futuro, avrebbe capito che la morte non era la fine di tutto. Lasciò che il messaggio di Binky fosse raccolto dalla segreteria telefonica e poi la riascoltò comandargli in tono imperioso di passare da lei il più presto possibile per un "problema della massima importanza" che aveva a che fare con "Frisky". Nei due anni trascorsi da quando si erano conosciuti, Binky Rain non
l'aveva mai pagato, ma Jackson lo trovava giusto, visto che, da parte sua, in quei due anni non aveva mai ritrovato un solo gatto scomparso. Considerava le sue visite a Binky più come un servizio sociale. Nessun altro faceva visita a quella poveretta e Jackson aveva una capacità di sopportare le sue idiosincrasie di cui si stupiva lui per primo. Era una vecchia megera nazista, ma dotata di uno spirito ammirevole. Perché credeva che le portassero via i gatti? Jackson pensava che temesse la vivisezione - la consueta paranoia degli amanti dei felini - invece no, secondo Binky glieli rubavano per ricavarne dei guanti (guanti neri, ovviamente). Stava cercando di decidere se mollare quella tardona di Nicola e obbedire al richiamo di Binky, quando la porta d'ingresso si spalancò di scatto. Jackson scivolò sul sedile e finse di concentrarsi su «Le Nouvel Observateur». Si vedeva anche a cinquanta metri di distanza che Nicola era di pessimo umore, anche se quella era più o meno la sua espressione abituale. Sembrava accaldata, già tutta abbottonata com'era nella divisa brutta e aderente della compagnia aerea. La divisa non esaltava il suo fisico e le décolleté che portava - simili alle scarpe della Regina - le ingrossavano le caviglie. Le uniche volte che Jackson l'aveva vista senza trucco era quando correva. Au naturel. Correva come una che si allena per una maratona. Anche Jackson correva - cinque chilometri al giorno, si alzava alle sei, si metteva in strada e tornava per il caffè quando la maggior parte della gente si svegliava. Ecco cosa succedeva quando avevi fatto il servizio militare. L'esercito, la polizia e una dose massiccia di geni scozzesi presbiteriani. («Corri sempre, Jackson,» diceva Josie. «Se corri all'infinito tornerai da dove sei partito,» è il principio della curvatura dello spazio, «lo sapevi?») Nicola stava molto meglio in tuta da jogging. Con la divisa aveva un'aria sciatta, ma quando correva nel labirinto di stradine in cui abitava sembrava forte e atletica. Per correre indossava i pantaloni di una tuta e una vecchia maglietta dei Blue Jays che doveva avere acquistato a Toronto, anche se non aveva più volato oltreoceano da quando Jackson aveva iniziato a sorvegliarla. Era stata tre volte a Milano, due volte a Roma e una volta a Madrid, Dusseldorf, Perpignan, Napoli e Faro. Nicola salì in auto, una Ford Ka da signorine, e partì come un razzo diretta a Stanstead. Jackson non era certo uno che guidava lento, ma Nicola toccava velocità terrificanti. Una volta chiuso il caso avrebbe preso in considerazione l'eventualità di avvertire le autorità della sicurezza stradale. Aveva lavorato in quel reparto di polizia prima di finire in borghese, e in alcuni momenti avrebbe voluto farla accostare e arrestarla.
In prossimità di Stansted, mentre il traffico rallentava fino a fermarsi, il telefono suonò di nuovo. Stavolta era la sua segretaria, Deborah, che sbottò: «Dove sei?» come se lui avesse dovuto trovarsi da qualche altra parte. «Sto bene, grazie, e tu?» «Ha chiamato qualcuno, meglio che ci fai un salto visto che sei in giro». Deborah pronunciò quelle ultime parole come se Jackson si stesse ubriacando o rimorchiando delle donne. «Mi dai qualche altro dettaglio?» le domandò. «No,» rispose Deborah. «Qualcuno che deve trovare qualcun altro.» Una volta all'aeroporto, i movimenti di Nicola seguirono il solito schema. Parcheggiò l'auto ed entrò nel terminal. Jackson la osservò finché non scomparve alla vista. Poi andò alla toilette, ordinò un doppio espresso che non servì affatto ad attutire il calore del giorno, acquistò delle sigarette, lesse i titoli di un giornale che non comprò e ripartì di nuovo. Mentre l'aereo di Nicola, diretto a Praga, impennava lasciandosi dietro il piatto paesaggio campestre, Jackson percorreva il vialetto di una grande abitazione in Owlstone Road, pericolosamente vicina a casa di Binky Rain. Ad aprire la porta venne una donna sulla quarantina che lo scrutò al di sopra di un paio d'occhiali a mezzaluna. Un'accademica, pensò lui. «La signora Land?» domandò. «Signorina,» rispose lei, «Amelia Land. Grazie per essere venuto.» Amelia Land gli preparò un caffè orribile. Jackson ne sentì subito l'effetto corrosivo nello stomaco. Lei vagava per la cucina in disordine alla ricerca di biscotti, anche se Jackson le aveva detto già due volte no, grazie. Alla fine, nelle profondità di un pensile trovò un pacchetto di frollini umidi e Jackson ne mangiò uno solo per farla contenta. In bocca, il biscotto pareva sabbia morbida e stantia, ma Amelia Land sembrava soddisfatta di avere compiuto il proprio dovere di padrona di casa. Pareva molto agitata, persino lievemente disturbata, anche se, abitando a Cambridge, Jackson era abituato alla gente dell'ambiente universitario. Lei però gli aveva spiegato che viveva a «Oxford, non Cambridge, è un posto completamente diverso» e Jackson aveva pensato «Sì, come no», ma senza commentare. Amelia Land continuava a blaterare di topi blu e quando lui l'aveva interrotta gentilmente dicendo: «Parta dall'inizio, signorina Land» lei aveva continuato imperterrita con quella storia sostenendo che l'inizio era quello e poi aveva aggiunto: «Per favore, mi chiami Amelia». Jackson,
dentro di sé, aveva sospirato, con la precisa sensazione che quel caso gli avrebbe richiesto una notevole capacità di persuasione. La sorella di Amelia comparve, scomparve e poi ricomparve di nuovo, tenendo in mano quella che assomigliava a una vecchia bambola. Non si sarebbe mai detto che erano sorelle, una alta e robusta, con i capelli grigi che sfuggivano a una specie di chignon, l'altra piccola e formosa e - Jackson conosceva bene il tipo - di quelle che flirtano con qualsiasi maschio, basta che respiri. Aveva un rossetto rosso fuoco e portava dei vestiti che sembravano usati, strati di indumenti eccentrici e male abbinati, i capelli arruffati raccolti a casaccio in cima al capo e trattenuti da una matita. Portavano entrambe abiti più adatti alla stagione fredda che a quella giornata soffocante. Ma Jackson intuiva il perché: varcando la soglia, lasciandosi alle spalle i raggi del sole per la gelida cupezza dell'interno, era rabbrividito. «Nostro padre è morto due giorni fa,» disse Julia, come se si trattasse di un'ordinaria seccatura. Jackson guardò la bambola sul tavolo. Era fatta di una specie di tessuto di spugna lurido, aveva gambe e braccia sottili e lunghissime e una testa da topo. Ed era blu. Finalmente ebbe un'illuminazione. Fece un cenno verso la bambola. «Un topo blu,» disse ad Amelia. «No, Topoblù,» ribatté lei, come se quella distinzione fosse vitale. Amelia Land avrebbe anche potuto farsi tatuare sulla fronte le parole "non amata". Da com'era vestita si intuiva che aveva smesso di comprarsi abiti nuovi vent'anni prima, e comunque aveva sempre portato quelli di Laura Ashley. Gli ricordava alcune vecchie fotografie di pescivendole - scarpe grosse, calze di lana e gonna arricciata di velluto a coste in stile tirolese, e attorno alle spalle uno scialletto che stringeva come se stesse morendo di freddo, il che non era strano, visto che quel posto pareva il Baltico. Sembrava che quella casa avesse un clima tutto suo. «Nostro padre è morto,» esclamò Amelia bruscamente, «due giorni fa.» «Sì,» replicò Jackson, cauto, «sua sorella me l'ha appena detto. Vi faccio le mie condoglianze,» aggiunse, in modo piuttosto automatico perché si era accorto che nessuna delle due sembrava particolarmente affranta. Amelia si accigliò e continuò: «Quello che intendo dire è...» Guardò la sorella in cerca d'aiuto. Ecco il problema dei tipi accademici, pensò Jackson, non riescono mai a dire quello che pensano e la metà delle volte non pensano veramente ciò che dicono. «Mi lasci indovinare,» intervenne, per rendersi utile. «Vostro padre è morto...» Le due annuirono decise, come sollevate al pensiero che Jackson
avesse finalmente afferrato. «Vostro padre è morto,» continuò lui, «e voi avete iniziato a riordinare la vecchia casa di famiglia...» Esitò perché su quel punto le due parevano meno sicure. «Questa è la vecchia casa di famiglia?» «Be', sì,» rispose Julia. «È solo che...» e si strinse nelle spalle, «sa, è un'espressione così piena di calore. "La vecchia casa di famiglia".» «Be',» disse Jackson, «che ne dite se togliamo a queste tre parole ogni significato emotivo e le trattiamo come due semplici aggettivi e un nome? Vecchia. Casa. Famiglia. Giusto?» «Giusto,» ammise Julia a malincuore. «Be', a dire la verità,» intervenne Amelia, guardando fisso fuori dalla finestra della cucina come se stesse parlando con qualcuno in giardino, «"famiglia" non è un aggettivo. L'aggettivo corrispondente sarebbe "familiare".» Jackson decise che la cosa migliore era continuare come se niente fosse. «Non gli eravate molto legate, allora?» domandò a Julia. «No,» rispose Amelia, voltandosi e concentrando l'attenzione su di lui. «E in un cassetto chiuso a chiave, nel suo studio, abbiamo trovato questo». Ancora il topo blu. Anzi, Topoblù. «E quale sarebbe il significato di "Topoblù"?» la incalzò Jackson, sperando che non avessero appena scoperto che il vecchio era una specie di feticista dei peluche. «Ha mai sentito parlare di Olivia Land?» domandò Julia. «In effetti mi dice qualcosa,» rispose Jackson. Molto poco, però. «Una parente?» «Nostra sorella,» disse Amelia. «È scomparsa trentaquattro anni fa. L'hanno portata via.» Rapita? Oh, no, gli alieni no, gli ci mancava solo questa. Julia tirò fuori un pacchetto di sigarette e gliene offrì una. Riusciva a dare a quel gesto il significato di un'offerta sessuale. Da dov'era seduto percepiva la disapprovazione della sorella, ma non capiva se era per via del sesso o della nicotina. Probabilmente per entrambe. Rifiutò la sigaretta - non avrebbe mai fumato davanti a un cliente - ma quando Julia accese la sua inspirò a pieni polmoni. «È stata rapita,» disse Julia, «da una tenda in giardino.» «Una tenda?» «Era estate,» replicò secca Amelia. «D'estate i bambini dormono all'aperto, in tenda.»
«Già,» rispose Jackson, in tono gentile. Aveva la sensazione che in quella tenda con la sorella ci fosse stata proprio lei. «Aveva solo tre anni,» continuò Julia. «Non l'hanno mai più ritrovata.» «Davvero non se lo ricorda?» aggiunse Amelia. «È stato un caso clamoroso.» «Non sono di queste parti,» replicò Jackson e pensò a tutte le bambine che dovevano essere scomparse negli ultimi trentaquattro anni. Ma naturalmente, per le sorelle Land ne esisteva soltanto una. A un tratto si sentì troppo triste e troppo vecchio. «Faceva molto caldo,» disse Amelia, «c'era la canicola.» «Come adesso?» «Sì. Non prende appunti?» «Le farebbe più piacere se lo facessi?» disse lui. «No,» ribatté Amelia. Era chiaro che la conversazione era arrivata a un punto morto. Jackson guardò Topoblù. Era come se sopra ci fosse scritto "indizio" a caratteri cubitali. Jackson cercò di collegare insieme i vari punti. «Allora, vediamo,» buttò lì. «Questo era di Olivia e l'aveva con sé quand'è stata rapita? E l'avete ritrovato dopo la morte di vostro padre? E non avete chiamato la polizia?» Le due si accigliarono. Era buffo, perché sebbene non si assomigliassero avevano esattamente le stesse espressioni facciali. Jackson pensò che la loro era proprio quella che veniva definita "vaga somiglianza". «Ma che meravigliosi poteri deduttivi, signor Brodie,» esclamò Julia, ed era difficile capire se l'avesse detto in tono ironico o lusinghiero. Aveva una di quelle voci roche che sembrano il frutto di un perenne raffreddore. Pareva che gli uomini le trovassero sexy, cosa che lasciava Jackson perplesso perché a suo avviso facevano sembrare le donne meno donne e più maschi. Forse era una cosa un po' gay. «All'epoca la polizia non è riuscita a rintracciarla,» disse Amelia, ignorando la sorella, «e adesso non saranno di certo interessati. E poi, forse non è cosa per la polizia.» «E invece per me sì?» «Signor Brodie,» intervenne Julia molto dolcemente, anzi troppo. Si comportavano come il poliziotto buono e quello cattivo. «Signor Brodie, vorremmo soltanto sapere perché Victor aveva Topoblù.» «Victor?» «Nostro padre. È solo che ci sembra...»
«Strano?» azzardò Jackson. Jackson aveva affittato una casa, parecchio lontana dal ghetto di Cambourne. In realtà era una casetta in una fila di altre casette tutte uguali, in una via che una volta doveva essere stata un sentiero di campagna. Probabilmente erano state case coloniche. Ormai la fattoria di cui avevano fatto parte era stata sostituita da strade piene di case vittoriane a schiera per famiglie della classe operaia. Al giorno d'oggi, in quella zona, perfino le bifamiliari con la porta che dava direttamente sulla strada costavano una fortuna. I poveri si erano trasferiti in posti come Milton e Cherry Hinton, ma ormai anche le case comunali erano state colonizzate da persone di ambiente universitario della classe media (e dalle Nicola Spencer di tutto il mondo), che dovevano davvero avere irritato la povera gente. I poveri c'erano sempre, ma Jackson si chiedeva dove fossero finiti. Quando Josie se n'era andata per inaugurare il suo legame non ufficiale con David Lastingham, Jackson aveva preso in considerazione l'idea di restare a vivere nel domicilio coniugale, nella casa di Lego. Aveva intrattenuto quel pensiero per circa dieci minuti prima di chiamare l'agente immobiliare e metterla sul mercato. Dopo essersi divisi il ricavato della vendita, a Jackson non era rimasto molto denaro per comprare un nuovo appartamento, quindi aveva scelto di prendere una casa in affitto. Era l'ultima della fila, sul lato più malridotto, e il muro che la divideva da quella accanto era così sottile che si sentivano tutte le scoregge dei vicini e i miagolii dei loro gatti. I mobili erano di qualità scadente e creavano un'atmosfera impersonale, come quella di una casa per le vacanze al di sotto delle aspettative, cosa che Jackson trovava però stranamente riposante. Quando se n'era andato dalla casa che aveva diviso con moglie e figlia, aveva controllato stanza per stanza per essere sicuro di non lasciare niente, a parte le loro stesse vite, naturalmente. Quand'era entrato in bagno si era reso conto di sentire ancora il profumo di Josie - L'Air du Temps - che portava da molto prima di incontrarlo. Adesso usava Joy di Patou, regalatole da David Lastingham, un profumo così datato che la faceva sembrare una donna diversa, e lo era davvero. La Josie che lui aveva conosciuto aveva rifiutato tutti gli attributi delle mogli della generazione di sua madre. Era una pessima cuoca e non possedeva nemmeno un cestino del cucito, ma in quella minuscola casetta era lei a occuparsi del fai da te. Una volta gli aveva detto che quando le donne avessero imparato che le prese non erano oggetti misteriosi, allora avrebbero governato il mondo. Jackson aveva l'im-
pressione, invece, che lo governassero già e aveva fatto l'errore di esprimere questa opinione, il che aveva scatenato una predica a base di statistiche sulla rappresentanza femminile nella politica globale - «Le donne svolgono i due terzi del lavoro mondiale, Jackson, eppure possiedono soltanto un decimo delle proprietà, e secondo te è normale?» («No» pensava lui). Invece adesso si era trasformata in una donna d'altri tempi, una specie di mogliettina perfetta che faceva il pane in casa e andava a lezione di maglia. Maglia! Che cos'era, uno scherzo? Quando andò a vivere nella casa in affitto si comprò un flacone di L'Air du Temps e ne spruzzò un po' nel minuscolo bagnetto, ma non era la stessa cosa. Amelia e Julia gli avevano dato una fotografia, la foto a colori piccola, quadrata e scolorita di un'altra epoca. Era un primo piano di Olivia che sorrideva per l'obbiettivo, mettendo in mostra tutti i bei dentini regolari. Il naso a patata era coperto di lentiggini e i capelli erano raccolti in corte trecce ripiegate ad anello e legate con nastri a quadretti verdi e bianchi, anche se con il tempo tutti i colori della foto avevano acquisito una sfumatura giallastra. Indossava un vestito coordinato ai nastri, con la pettorina a punto smock parzialmente nascosta dal topo blu che stringeva al petto. Jackson capì che stava cercando di mettere il topo in posa, gli sembrava quasi di sentirla, mentre diceva al topo di sorridere, ma i lineamenti in lana nera del giocattolo avevano la stessa aria grave che si era conservata fino a ora, tranne che con il tempo mezzo occhio e una narice erano andati perduti. Era la stessa fotografia che era stata utilizzata dai giornali. Tornando a casa Jackson aveva consultato i microfilm. Sulle ricerche di Olivia Land c'erano pagine e pagine, gli articoli si erano susseguiti per settimane, e Amelia aveva ragione - prima di Olivia, l'ultimo grande evento era stata la canicola. Jackson cercò di ripensare a trentaquattro anni prima. Lui ne aveva undici. Faceva caldo? Non se lo ricordava. Non si ricordava i suoi undici anni. Allora l'unica cosa che contava era che non ne aveva ancora dodici. Gli anni prima dei dodici risplendevano di una luce intatta e immacolata. Dopo i dodici, il buio. Ascoltò i messaggi in segreteria. Uno era di sua figlia Marlee, che si lamentava perché la madre non la lasciava andare a un concerto a Parker's Piece, perché non ci parlava lui, per favore per favore per favore? (Marlee aveva otto anni, non l'avrebbe mai mandata a un concerto all'aperto); un altro messaggio di Binky Rain su Frisky e uno di Deborah Arnold, la sua se-
gretaria, che lo rimproverava perché non era passato dall'ufficio. Lo chiamava da casa, si sentivano le voci di due di quei suoi zotici figli adolescenti sul sottofondo assordante di Mtv. Deborah aveva dovuto urlare per informarlo che c'era un certo "Theo Wyre" che lo cercava e che lei non sapeva esattamente perché, tranne che forse "aveva perso qualcosa". Il nome "Theo Wyre" gli suonava sorprendentemente familiare, ma non riusciva a ricordarne il motivo. La vecchiaia, di sicuro. Jackson prese una birra Tiger dal frigo, si tolse gli anfibi (marca Magnum Stealth, per lui non esisteva altro), si stese sullo scomodo divano, allungò la mano verso il lettore Cd (la cosa positiva delle dimensioni di quella casa era che riusciva a raggiungere quasi tutto, nella stanza, senza doversi alzare) e mise su Thinkin' about you, un album di Trisha Yearwood del 1995 che per qualche motivo era finito fuori catalogo. Trisha faceva musica commerciale, ma questo non significava che non fosse brava. Lei sì che comprendeva il dolore. Aprì Introduzione alla grammatica francese e cercò di studiare la formazione corretta del passato con être (quando sarebbe andato a vivere in Francia non ci sarebbero stati né passato e né futuro, soltanto il presente), ma trovava difficile concentrarsi perché gli pulsava la gengiva sopra il dente malato. Sospirò, prese il topo blu dalla mensola del caminetto, se lo posò su una spalla e ne accarezzò il minuscolo dorso morbido, più o meno come aveva fatto con Marlee da piccola. Il topo blu era freddo, come se fosse rimasto a lungo in un luogo buio. Jackson non pensò nemmeno per un momento di poter ritrovare la bambina con le trecce e i fiocchi a quadretti. Chiuse gli occhi e li riaprì immediatamente, perché a un tratto si era ricordato chi era Theo Wyre. Emise un brontolio. Non voleva ricordarsene. Non voleva avere niente a che fare con lui. Trisha stava cantando On a Bus to St Cloud. A volte aveva l'impressione che il mondo intero fosse un registro contabile - entrate da una parte, uscite dall'altra. Purtroppo i conti non tornavano mai. Amelia e Julia Land avevano trovato qualcosa, Theo Wyre aveva perso qualcosa. La vita sarebbe stata facile se le due cose avessero coinciso. 5 Amelia Victor morì come aveva desiderato, nel suo letto, in casa sua, più o meno di vecchiaia. Aveva ottantaquattro anni e, per quanto potevano ricorda-
re, su una cosa era sempre stato inflessibile: voleva essere sepolto e non cremato. Trentaquattro anni prima, quand'era morta la loro sorellina Annabelle, Victor aveva comprato una "tomba di famiglia" a tre posti nel cimitero locale. Amelia e Julia si erano accorte di aver fatto male i calcoli solo alla morte di Victor, e a quel punto la tomba era piena per due terzi - la mamma aveva raggiunto Annabelle con fretta immotivata - e lo spazio rimasto era appena sufficiente per lui, ma non per le altre figlie. Julia disse che era una dimostrazione del tipico egoismo di Victor, ma Amelia replicò che probabilmente aveva scelto quella soluzione per evitare, nel caso l'aldilà esistesse davvero, di doverlo condividere con loro. In realtà ad Amelia non sembrava molto plausibile - Victor era stato un ateo convinto e non si addiceva al suo carattere testardo e caustico cercare all'improvviso, verso la fine, di correre ai ripari - ma d'altronde contraddire Julia le veniva naturale. Julia era tenace (ed esuberante) come un terrier, quando si trattava di litigare, quindi si ritrovavano sempre a difendere punti di vista che non interessavano molto a nessuna delle due, come una coppia di avvocati litigiosi e annoiati. Certi giorni era come se fossero tornate le bambine turbolente di un tempo, capaci da un momento all'altro dei pizzicotti furtivi, delle tirate di capelli e degli insulti di quei primi anni. Erano state convocate. «È come recarsi al capezzale di un re,» aveva detto Julia in tono risentito e Amelia aveva replicato: «Non starai pensando a Re Lear?» e Julia: «E anche se fosse?» e Amelia: «Per te le cose della vita hanno senso solo se le hai viste in scena» e Julia: «Io non l'ho neanche nominato, quel re Lear del cazzo» e poi si erano messe a litigare prima ancora che il treno uscisse dalla stazione di King's Cross. Victor era morto qualche ora dopo il loro arrivo. «Meglio così,» aveva esclamato Julia, perché avevano sospettato che Victor stesse cercando di attirarle nella vecchia casa di famiglia per farsi accudire. Entrambe provavano irritazione alle parole "casa nostra" - erano passati anni da quando ci avevano vissuto, eppure non riuscivano a smettere di chiamarla in quel modo. Amelia aveva chiesto scusa, ma Julia guardava dal finestrino il paesaggio della periferia di Londra e non aprì bocca finché non attraversarono i campi in pieno splendore estivo dell'East Anglia; a quel punto disse: «Lear non stava morendo, stava per abdicare» Amelia rispose: «A volte è la stessa cosa,» e fu felice che avessero fatto la pace. Si erano sedute ai due lati del letto, in attesa che morisse. Victor era disteso in quella che un tempo era stata la sua camera matrimoniale, ancora
arredata nello stile eccessivamente femminile che la madre aveva tanto amato. Forse Rosemary in quel momento si stava preparando ad accoglierlo nel terreno umido della tomba di famiglia? Amelia immaginò i suoi genitori unire i propri corpi in un gelido abbraccio e provò dispiacere al pensiero della povera madre, che probabilmente aveva creduto di essere riuscita a sfuggire a Victor per sempre. E comunque, come fece notare a Julia, sollevando l'argomento nonostante si fosse ripromessa di non farlo, visto che nessuna delle due aveva mai voluto essergli vicina quand'era in vita, perché esserlo nella morte? Julia aveva risposto che non era quello il punto, ma che era una "questione di principio" e Amelia aveva replicato: «Quand'è che hai cominciato ad avere dei principi?»; da lì la conversazione era scaduta molto prima che riuscissero a discutere il problema più spinoso del funerale vero e proprio, per il quale Victor non aveva lasciato alcuna indicazione. Quando avevano deciso di smettere di chiamarlo "papà" e di iniziare a chiamarlo "Victor"? Julia a volte lo chiamava "papà", specialmente quando cercava di metterlo di buon umore, ma ad Amelia piaceva la distanza che "Victor" implicava. In un certo senso glielo rendeva più umano. Il mento di Victor era spolverato di bianco e quella nuova barba, insieme ai chili che aveva perso, gli dava un'aria poco familiare. Solo le mani sembravano non essersi rimpicciolite, erano ancora enormi pale ossute, primitive su quei polsi sottili. A un tratto mormorò qualcosa che nessuna delle due riuscì a capire e Julia lanciò ad Amelia un'occhiata piena di panico. Si era aspettata che fosse moribondo, ma non che fosse ancora se stesso. «Vuoi qualcosa, papà?» gli domandò a voce alta, e lui scosse la testa come se cercasse di scacciare un nugolo di mosche, ma era impossibile capire se l'avesse sentita. Il medico, al telefono, aveva detto che le infermiere distrettuali passavano tre volte al giorno. «Per dargli un'occhiata» era l'espressione che aveva usato, facendo apparire il tutto molto semplice e informale, ma Amelia e Julia sapevano che quegli aggettivi non si adattavano alla morte di Victor, proprio come non erano stati adatti a descriverne la vita. Pensavano che le infermiere si sarebbero trattenute, ma subito dopo l'arrivo di Julia e Amelia una delle due disse: «Allora noi andiamo», e l'altra girò la testa e urlò al paziente: «Sono arrivate!» in tono allegro, come se Victor avesse atteso le figlie con ansia, il che naturalmente non era vero, e l'unico felice di vederle era Sammy, il vecchio golden retriever, che fece un eroico tentativo di salutarle agitando a fatica i fianchi artritici mentre le unghie ticchettavano sul
parquet lucido del corridoio. Victor aveva avuto un grave colpo apoplettico, aveva detto il medico al telefono. Un mese prima un altro medico aveva decretato che Victor non aveva nulla che non andasse, tranne l'età, e che aveva un «cuore da bue». Amelia trovava che "cuore da bue" fosse un'espressione ambigua, non si diceva "cuor di leone" e "forte come un bue"? Ma cos'era un bue? Una specie di mucca? C'erano molte cose su cui ormai Amelia non aveva più tante certezze (o forse non le aveva mai avute). Presto sarebbe stata più vicina ai cinquanta che ai quaranta ed era sicura di sentir scomparire, giorno per giorno, qualche altra connessione neurale, che saltava, si fulminava e si spegneva rendendola incapace di recuperare le informazioni. La mente di Victor era stata metodica come una efficiente biblioteca, fino alla fine, mentre Amelia aveva la sensazione che la sua fosse più simile al ripostiglio nel sottoscala, dove erano stati ficcati i vecchi bastoni da hockey insieme ad aspirapolvere rotti e scatole di decrepite decorazioni natalizie; e quanto agli oggetti che di sicuro si trovavano lì dentro - un fusibile da 5 ampere, una scatoletta di lucido da scarpe, un cacciavite Philips - potevi star certo che non saresti mai riuscito a trovarli. Forse la mente di Victor era rimasta organizzata, ma di certo non la casa. Quando loro se ne erano andate, a poco a poco si era deteriorata e ora era quasi squallida, come una di quelle abitazioni in cui vengono inviati a fare pulizia quelli dell'igiene ambientale, dopo che qualche sfortunato ci è morto e lì è rimasto per settimane senza che nessuno se ne accorgesse, in una pozzanghera della propria carne putrefatta. C'erano libri ovunque, tutti ammuffiti e macchiati, e nessuno di essi invitava alla lettura. Victor aveva rinunciato da tempo alla matematica, erano passati anni da quando si teneva aggiornato sulle ricerche o mostrava qualche interesse per riviste o pubblicazioni. Quand'erano bambine Rosemary diceva che Victor era un "grande" matematico (o forse era stato lo stesso Victor a esprimersi così), ma qualunque fosse stata la sua reputazione, ormai era svanita e lui non era altro che un noioso membro del dipartimento. Le sue specialità erano state la probabilità e il rischio, cose che Amelia non capiva (lui cercava sempre di spiegarle la probabilità lanciando delle monetine), e trovava ironico che un uomo che aveva studiato il rischio per anni, nella vita non ne avesse mai corso uno. «Milly? Stai bene?» «Che cos'è un bue?» «Una mucca maschio». Julia si strinse nelle spalle. «Non lo so. Perché?»
Da bambine avevano mangiato cuore di bue. Rosemary, che prima del matrimonio non aveva mai nemmeno bollito un uovo, aveva imparato a cucinare quel genere di piatti sostanziosi e tradizionali che Victor amava perché erano economici e nutrienti. Cibo da collegio, il cibo con cui era stato cresciuto. Ad Amelia, il pensiero di quegli stufati a base di fegato e pancetta e di quegli sformati di manzo e rognone faceva venire la nausea. Le tornò in mente l'immagine di un cuore sanguinolento posato sul bancone della cucina, scuro, lucido e decorato con festoni di grasso, che sembrava avesse appena finito di battere, mentre sua madre, impugnando un enorme coltello, lo contemplava con espressione enigmatica. «Zuppa di coda di bue, quella me la ricordo,» disse Julia con una smorfia disgustata. «La faceva davvero con la coda?» Rosemary si era congedata dalla vita con grande facilità. Non aveva opposto alcuna resistenza quando aveva scoperto che la bambina che portava in grembo quand'era scomparsa Olivia aveva un gemello, non il figlio tanto desiderato da Victor, bensì un intruso maligno che crebbe e si gonfiò dentro di lei senza incontrare ostacoli. Quando tutti si resero conto che annunciava la fine, e non l'inizio, di una vita, era già troppo tardi. Annabelle visse per poche ore e il suo canceroso doppio fu rimosso, ma Rosemary morì nel giro di sei mesi. Pareva che Victor russasse - un rumore profondo e sibilante, come se la trachea si restringesse e cedesse. Quel suono era seguito, a intervalli regolari, da un orribile boccheggiare, quando i riflessi entravano in azione e lui riusciva a prendere fiato. Amelia e Julia si guardarono, allarmate. «Che sia un rantolo?» sussurrò Julia, e Amelia rispose: «Zitta,» perché le pareva maleducato parlare delle dinamiche del decesso davanti a un moribondo. «Non sente,» disse Julia, e Amelia rispose: «Non è questo il punto.» Dopo un po' il rumore cessò e tutto faceva supporre che Victor stesse dormendo tranquillo. Amelia preparò il tè - prima dovette scrostare le macchie dalle tazze - che bevettero in piedi davanti alla finestra, scrutando giù verso l'oscurità del giardino. «E il funerale?» sussurrò Julia. «Non vuole niente di religioso, vero?» A parte qualche debole tentativo da parte di Rosemary di mandarle a catechismo, avevano ricevuto un'educazione laica. In quanto matematico, Victor trovava che fosse suo dovere inculcare lo scetticismo nelle figlie, soprattutto dal momento che le trovava frivole - a parte Sylvia, naturalmente, che si era sempre approfittata del fatto di essere un po' secchiona in matemati-
ca. Dopo che era uscita dalle loro vite, nelle parole di Victor la "secchiona" era diventata una "bambina prodigio" e più avanti un "genio", al punto che più passavano gli anni più diventava intelligente, mentre Amelia e Julia, per quanto riguardava il padre, erano sempre più idiote. Una volta Amelia si sarebbe messa a discutere con lui, anche se era più probabile che fosse Julia quella sempre pronta a difendere a spada tratta "le arti", perché Amelia trovava difficile contrastare l'atteggiamento tirannico di Victor. Ma ora non ne era più tanto sicura. Forse lui aveva ragione. In fondo, loro due erano delle ignoranti. «Be', che ne pensi?» disse Julia. «Ci ha lasciato la casa, no? Credi che ci abbia anche lasciato dei soldi? Cristo, spero proprio di sì». Victor non aveva mai parlato con loro del testamento e non aveva mai accennato a questioni di denaro. Dava l'impressione di non averne, ma in fondo era sempre stato avaro. Julia ricominciò con le lamentele sulla tomba di famiglia e Amelia rispose: «Sai, sarebbe più pratico cremarlo. Credo che per un certificato di sepoltura ci voglia molto di più.» «Ma saremo maledette per sempre,» obiettò Julia, «come le donne di quella tragedia greca che non osservano il rituale prescritto per il padre, il re» e Amelia ribatté: «Non siamo i personaggi di una tragedia, Julia, questo non l'ha scritto Euripide» e Julia: «No, sul serio, Milly, è già abbastanza brutto che non gli vogliamo bene» e Amelia: «Vabbè, va,» e si accigliò quando si rese conto di parlare come uno dei suoi studenti. Julia annunciò che voleva fare un sonnellino e posò la testa tra le braccia incrociate sul copriletto sudicio, come in uno strano omaggio al padre morente. Le grosse mani di Victor riposavano sulla coperta, religiosamente unite, come a suggerire che era pronto per il trapasso. Gli avrebbe richiesto uno sforzo minimo sollevarne una e posarla sulla testa della figlia, per impartirle l'ultima benedizione. Le aveva mai toccate con gentilezza? Un bacio, un abbraccio? Una tenera carezza sulla guancia? Se era accaduto, Amelia non se ne ricordava. «Svegliami se succede qualcosa,» borbottò Julia, «se muore o qualcosa del genere». Julia aveva un sonno pesantissimo e nel giro di pochi minuti pareva morta quanto lui. Amelia osservò i ricci scuri della sorella e provò un'ondata d'affetto tanto forte da somigliare a una fitta dolorosa. Di recente Julia non aveva combinato granché. Una volta lavorava moltissimo: teatri di provincia, rappresentazioni d'avanguardia in minuscoli studi londinesi e piccole parti televisive - reiette della società in The Bill e pazienti terminali in Casualty (era morta due volte in dieci anni) - ma ora
pareva che non la chiamassero più per i provini. L'anno prima aveva girato un video didattico per un'azienda, ma si trattava di una multinazionale del petrolio e Amelia se l'era presa con lei, le aveva detto che «avrebbe dovuto prendere in considerazione l'aspetto politico» e Julia le aveva risposto che era facile «permettersi il lusso della politica quando si ha di che mangiare», al che Amelia aveva replicato: «Questa è un'esagerazione ridicola, quando mai hai sofferto la fame?», ma ora le dispiaceva, perché Julia era felice quando le aveva raccontato del lavoro e lei aveva rovinato tutto. Amelia aveva visto quasi tutti i suoi lavori e anche se le diceva sempre che era "magnifica", perché a teatro si faceva così, spesso si sorprendeva a pensare che sul palcoscenico Julia non era proprio niente di speciale. Lo spettacolo migliore che le aveva visto interpretare era stata una rappresentazione natalizia a Bristol, una cosa banale, forse Cenerentola, in cui Julia faceva la parte di un cane - un barboncino nero con il pelo tagliato in foggia leonina e l'accento francese. Il fisico di Julia, che era piccola e pettoruta, si adattava perfettamente al costume e lei aveva assunto una specie di arroganza parigina che il pubblico aveva molto apprezzato. Non aveva avuto bisogno di una parrucca, le avevano raccolto i capelli ribelli in uno chignon legato con un fiocco. Prima di allora Amelia non aveva mai pensato a Julia come a un barboncino - trovava che somigliasse di più a un Jack Russell. A un tratto le sembrò molto triste che il ruolo migliore della sua carriera fosse stato quello di un cane. E che non avesse avuto bisogno della parrucca per interpretare un barboncino. Era morto? Quand'era addormentato lo sembrava davvero - se ne stava disteso sulla schiena con gli occhi chiusi e la bocca affilata aperta - ma stavolta non c'era traccia di respiro faticoso e la pelle era di uno strano color stucco che le riportò improvvisamente alla memoria l'immagine di Rosemary morta nel letto d'ospedale, un ricordo così inatteso che per un istante Amelia non riuscì a muoversi. Doveva essersi addormentata anche lei. Le figlie cattive del re che non riescono nemmeno a vegliarlo sul letto di morte. Sammy si alzò a fatica dal tappeto accanto al letto e si diresse zoppicando verso Amelia, ficcandole in mano il naso secco con aria inquisitiva. «Povero vecchio cane». Scosse dolcemente Julia per svegliarla e le disse che Victor era morto. «Come lo sai?» domandò la sorella, stordita dal sonno. Aveva una macchia rosso livido sulla guancia, il segno dell'orologio. «Perché non respira più,» disse Amelia.
La dipartita di Victor aveva instaurato tra loro un clima quasi festoso e anche se erano solo le sei del mattino Julia, come se seguisse una specie di rituale post-mortem, versò un brandy abbondante per tutte e due. Amelia era convinta che si sarebbe sentita male, ma fu sorpresa nel constatare che le piaceva. Più tardi si recarono a piedi, belle sbronze alle otto del mattino, al supermercato di quartiere per fare provviste e riempirono i cestini con cose che normalmente Amelia non avrebbe mai comprato - pancetta, salsicce, panini bianchi spolverati di farina, cioccolato e gin - ridacchiando come le ragazzine che avevano dimenticato di essere state. Una volta rientrate prepararono dei panini con uova e pancetta, Julia ne mangiò tre e Amelia uno. Non appena ebbero finito di mangiare Julia si accese una sigaretta. «Per l'amor di Dio,» esclamò Amelia agitando la mano davanti alla faccia per allontanare il fumo, «tu hai una specie di ossessione orale, lo sai, vero?» Julia fumava in modo teatrale, recitando, come faceva per ogni cosa. Quand'era adolescente faceva pratica allo specchio (a quanto ricordava Amelia, gran parte dell'infanzia di Julia si era svolta davanti allo specchio). Il modo in cui alzava la mano a incontrare la luce del giorno rivelava la spettrale linea argentea della cicatrice nel punto in cui le avevano ricucito il dito. Perché da piccole avevano avuto tanti incidenti? Cercavano forse di farsi notare da Rosemary (o da qualcun altro), di distinguersi rispetto all'ibrido Amelia-Julia-Sylvia? Anche ora Julia e Amelia erano goffe e sempre coperte di lividi per aver urtato contro qualche mobile o aver inciampato su un tappeto. Solo l'anno prima Amelia si era lasciata cadere sul piede una padella pesantissima e si era chiusa la mano nello sportello dell'auto, mentre Julia si era beccata un colpo di frusta in taxi e si era slogata la caviglia cadendo da una scala. Amelia trovava che non avesse molto senso cercare l'attenzione altrui dopo i quarant'anni, soprattutto se non c'era nessuno a concedertela. «Ti ricordi che Sylvia sveniva sempre?» disse a Julia. «No. Più o meno.» Ogni volta che le tornava in mente che Victor era morto, le venivano le vertigini. Era come se qualcuno le avesse tolto di dosso un peso enorme e lei rischiasse di volare via come un aquilone, o un palloncino. Il corpo di Victor era ancora infilato a letto, di sopra, e anche se sapevano che avrebbero dovuto fare qualcosa, chiamare qualcuno, reagire a quella morte con un gesto rapido, erano state colte da una specie di indolenza. Infatti fu solo il giorno seguente che si recarono al convento delle Clarisse Povere e, dopo un'attesa interminabile, riuscirono a parlare con "so-
rella Mary Luke" - un nome ridicolo al quale nessuna delle due, anche dopo quasi trent'anni, era mai riuscita ad abituarsi. Quando le dissero che Victor era morto, Sylvia parve stupefatta ed esclamò: «Papà? Morto?» E per un istante perse la sua compostezza da santa e scoppiò a ridere. In quanto suora di un ordine di clausura, viveva così lontana dalla vita normale che non pensarono nemmeno di consultarla per il funerale. A quel punto, comunque, avevano già deciso cosa fare di lui. Quando il becchino aveva portato via il corpo, Julia aveva tirato fuori il gin e avevano iniziato a ubriacarsi in modo spaventoso. Amelia non riusciva a ricordare di essersi mai sbronzata così, probabilmente era la prima volta. Il gin aveva scacciato l'effetto del brandy mattutino, le aveva rese quasi isteriche e a un certo punto di quella lunga orgia alcolica avevano perfino lanciato una monetina per determinare il destino finale di Victor. Julia, istrionica come al solito, teneva le gambe incrociate e si stringeva l'inguine dicendo: «Oddio, smettila, finisce che me la faccio addosso!» e Amelia aveva dovuto correre fuori e vomitare sul prato. Ormai era quasi l'alba e l'umida aria notturna l'aveva riportata alla ragione. Aveva scelto testa, ma la moneta aveva detto croce (una probabilità su due, grazie papà) e Julia aveva dichiarato: «Il vecchio stronzo finirà bruciato.» Amelia si svegliò presto, troppo presto. A casa - la sua vera casa, quella di Oxford - non sarebbe stato un problema, ma non voleva andarsene in giro da sola in quel posto e Julia si sarebbe alzata soltanto dopo parecchie ore. A volte si chiedeva se i geni di sua sorella non fossero stati incrociati con quelli di un gatto. Julia disprezzava gli "orari provinciali" di Amelia da quand'erano arrivate non era mai andata a letto prima delle due del mattino per poi rispuntare a mezzogiorno con gli occhi annebbiati, implorando un caffè con voce roca («Per favore, tesoro») come se avesse vissuto una grande avventura notturna che le aveva messo a dura prova nervi e spirito, e non avesse invece trascorso tutto il tempo sdraiata sul divano con una bottiglia di vino rosso a guardare film ormai dimenticati alla televisione via cavo. Erano rimaste stupefatte quando avevano scoperto che Victor - che nessuna delle due ricordava di avere mai visto davanti al televisore - non soltanto possedeva un enorme apparecchio widescreen, ma aveva anche l'abbonamento ai canali via cavo, proprio tutti, non solo sport e film ma anche luci rosse. Amelia ne era rimasta scioccata, non tanto per via dei contenuti
"per soli adulti" (anche se lo trovava piuttosto disgustoso), ma perché non riusciva immaginare suo padre seduto, notte dopo notte, su quella poltrona a guardare Ragazze bollenti e Dio solo sa quali altre schifezze. Provò un certo sollievo quando si rese conto che anche Julia - che di solito era così allegramente tollerante verso le pecche del sesso maschile - era rimasta schifata quanto lei. Una delle prime cose che fecero fu sbarazzarsi di quella poltrona. Amelia guardava soltanto il telegiornale e i documentari, la domenica ogni tanto anche l'Antiques Roadshow, e restò sconvolta quando si rese conto di quali porcherie venissero trasmesse ventiquattr'ore su ventiquattro. Forse questo offriva alla gente qualcosa su cui fantasticare? Ma le persone credevano davvero che quelle stupidaggini rappresentassero uno dei traguardi dell'evoluzione? «Su, Milly, rilassati,» disse (prevedibilmente) Julia, «ma cosa t'importa di quello che fa la gente? In fondo, alla fine moriamo tutti.» «Be', ovvio,» rispose Amelia. Non appena avessero liberato la casa da Victor e dalle sue proprietà mondane, avrebbero potuto metterla in vendita e farla finita. O almeno sistemarla per la vendita, visto che il notaio di Victor aveva borbottato con tetraggine dickensiana «il testamento è valido». Le ultime volontà erano molto chiare, tutto andava diviso a metà, Sylvia non avrebbe avuto niente perché pareva che l'avesse chiesto lei. «Come Cordelia,» disse Julia e Amelia aggiunse: «Non direi» e incredibilmente la conversazione finì lì. Dalla morte di Victor, avvenuta due giorni prima, litigavano meno. Tra loro, mentre passavano in rassegna i suoi vestiti (buoni soltanto a fare stracci) e gettavano via vecchie padelle d'alluminio bucherellate e libri di matematica che si disintegravano al primo tocco, era nata una nuova aria di cameratismo. In casa tutto sembrava sgradevole e in cucina e nel bagno Amelia infilò i guanti di gomma e pulì tutto con lo spray disinfettante. «Non aveva mica la peste,» commentò Julia, ma in tono poco convinto, perché le lenzuola e gli asciugamani che usavano loro li aveva già bolliti. Anche se era luglio e faceva caldo, la casa di Victor aveva un clima autonomo, umido e freddo, che pareva scollegato dal mondo esterno. Ogni sera, da quand'erano arrivate, accendevano il fuoco e restavano sedute davanti al caminetto del soggiorno con la stessa devozione che gli uomini preistorici dovevano avere tributato alle fiamme, tranne che gli uomini preistorici non potevano usufruire di un pacchetto completo di canali via
cavo. Di giorno era sorprendente uscire nel giardino soffocato dalle erbacce per respirare un po' d'aria fresca e scoprire che sopra di loro splendeva un sole caldo, bianco e mediterraneo. Amelia dormiva nella vecchia camera di Sylvia, quella in cui la sorella aveva vissuto prima di scoprire la sua assurda e inspiegabile vocazione. Naturalmente si era già convertita al cattolicesimo, cosa che aveva provocato a Victor un colpo apoplettico, ma quando per entrare in convento aveva rinunciato al posto al Girton College, dove avrebbe dovuto laurearsi in matematica, avevano temuto che suo padre l'ammazzasse. Julia e Amelia, che andavano ancora a scuola, trovavano che rinunciare al mondo ed entrare in un ordine di clausura fosse una tecnica inutilmente teatrale per sfuggirgli. (Avevano davvero intenzione di cremarlo il giorno seguente, ridurlo in cenere? Che cosa straordinaria avere il permesso di fare una cosa del genere a un altro essere umano. Sbarazzarsene, come se fosse un rifiuto). Ovviamente Sylvia non aveva dovuto affrontare le conseguenze della morte del padre. Essere una sposa di Cristo era un modo meraviglioso di cavarsela. Julia amava raccontare alla gente che sua sorella si era fatta suora, perché la notizia suscitava sempre reazioni stupefatte («Tua sorella?»), ma Amelia lo trovava imbarazzante. Dio parlava con Sylvia regolarmente, ma lei era sempre reticente riguardo al contenuto di quelle conversazioni, si limitava a un sorriso da santa (enigmatico ed esasperante). Chiunque ne avrebbe dedotto che Dio era una sua intima conoscenza, qualcuno con cui Sylvia discuteva di filosofia esistenziale bevendo vino da quattro soldi nel séparé di un pub vecchio stile sulla riva del fiume. A quanto Amelia riusciva a ricordare, Dio e Sylvia si parlavano da sempre. Sylvia ci credeva davvero? Sicuramente sì illudeva che fosse vero. Come minimo era isterica. Sentiva le voci, come Giovanna d'Arco. Anzi, non era proprio Giovanna d'Arco quella con cui parlava? Anche prima della morte di Rosemary o della scomparsa di Olivia. Qualcuno aveva mai preso in considerazione l'idea che fosse schizofrenica? Se Dio le avesse parlato, Amelia avrebbe pensato di essere impazzita. Avrebbero dovuto occuparsi delle bizzarrie di Sylvia, avrebbero proprio dovuto. Sammy, completamente allungato ai piedi del letto singolo e troppo piccolo di Amelia, cominciò a mugolare nel sonno. La coda percuoteva eccitata il piumino e le zampe raspavano, come se stesse dando la caccia ai conigli della sua giovinezza. Amelia l'avrebbe anche lasciato ai suoi bei sogni, ma poi le venne in mente che forse non stava inseguendo qualcuno,
ma veniva inseguito, e che quel rumore forse esprimeva paura, e non entusiasmo (com'era possibile che due cose così diverse sembrassero tanto simili?), così si tirò su a sedere e gli accarezzò il fianco finché non riuscì a calmarlo. Il corpo del cane era scavato dalla vecchiaia. Sammy era l'unica creatura vivente che, a quanto Amelia riuscisse a ricordare, Victor aveva trattato come un suo pari. Pensò che avrebbe dovuto portarlo con sé a Oxford. Julia avrebbe sicuramente detto che lo voleva lei, ma a Londra non sarebbe mai riuscita a tenerlo. A Oxford Amelia aveva un giardino. Era proprietaria del piano superiore di un villino edoardiano diviso in due parti, perfetto per una persona sola, e condivideva il giardino con quello del piano di sotto, un tranquillo docente di geometria al New College, un certo Philip, che pareva provare un totale disinteresse per entrambi i sessi ma aveva un cane (un rumoroso pechinese, però), ed era bravo a riparare le cose e quindi costituiva il vicino perfetto. («O il perfetto serial killer» aveva commentato Julia). Con grande sollievo di Amelia, non era appassionato di giardinaggio, e le permetteva di pacciamare, scavare e piantare a suo piacimento. Amelia credeva nel giardinaggio proprio come Sylvia credeva in Dio. Anche lei, come Sylvia, era stata convertita. Non aveva capito di essere una giardiniera fino all'età di trent'anni, quando in novembre aveva piantato una rosa Regina di Danimarca e, a giugno, aveva osservato sbocciare un fiore dopo l'altro. Era stata una rivelazione - pianti qualcosa, e questo qualcosa cresce. «Be', forte» aveva commentato Julia (come un'adolescente cretina) quando Amelia aveva cercato di spiegarle quel miracolo. Era stata a Cambridge solo pochi giorni e già la sua altra vita, quella vera, le pareva lontanissima, e ogni tanto doveva ripetersi che esisteva. Una parte di lei avrebbe voluto restare là per sempre e invecchiare discutendo con Julia. Insieme forse avrebbero potuto tenere a bada tutte le paure e la solitudine della vita. E lei avrebbe potuto affrontare il giardino di Victor e rimediare a tutti quegli anni di trascuratezza. Le sarebbe piaciuto starsene là distesa per ore a progettare aiuole (delphinium, campanule, coreopsidi, veroniche) e a ridisegnare il prato (un gioco d'acqua? magari qualcosa di giapponese?) ma si alzò malvolentieri dal letto, fedelmente seguita da Sammy, e scese nella cucina fredda, dove riempì il bollitore e poi lo sbatté sul bancone per dimostrare tutta la propria irritazione all'idea che Julia dormisse ancora. Amelia era in sala da pranzo a inscatolare un'infinità di soprammobili e ninnoli. Julia era nello studio, proprio dove avrebbe dovuto essere. Era ri-
masta là sin da quando avevano iniziato a passare in rassegna le cose e gli oggetti del padre e aveva detto (melodrammatica come al solito) che aveva l'impressione di essere vittima di un incantesimo che la condannava a restare intrappolata là per sempre. La tana umida e asfittica di Victor era rimasta un buco nero per tutti quegli anni e ora era piena zeppa di mucchi di carte polverose, cartelle e raccoglitori. Era come un falò in attesa del fiammifero. Avevano tirato giù le tende e Julia aveva esclamato: «E luce sia!» e Amelia: «In realtà è proprio una bella stanza.» A Julia dava così fastidio la polvere presente in casa che, oltre a tutte le medicine che prendeva (si comportava come se fossero mentine), aveva cominciato a indossare mascherina e occhiali protettivi comprati in un negozio di ferramenta. La sua tosse secca si sentiva a cinquecento metri di distanza. Amelia si rese conto con stupore che a mezzogiorno Julia non era ancora scesa alla ricerca di cibo. Quando andò a cercarla la trovò appoggiata alla scrivania di Victor con un'espressione tormentata. «Cosa c'è?» le domandò e Julia indicò uno dei cassetti. «Ho spaccato il lucchetto.» «Be', non importa,» replicò Amelia. «Dobbiamo guardare dappertutto. E adesso, tecnicamente, è roba nostra.» «No, non è questo che intendevo. Ho trovato una cosa,» disse Julia aprendo il cassetto. Ne estrasse un oggetto e lo maneggiò con delicatezza, come un archeologo che rimuove un manufatto che rischia di disintegrarsi se esposto all'aria. Poi lo tese alla sorella. Per un istante Amelia rimase perplessa e poi, all'improvviso, le parve di fare un passo avanti nello spazio, come se avesse varcato una porta aperta sul nulla. E mentre cadeva non riuscì a pensare ad altro a parte che l'oggetto che stringeva era Topoblù. «Ti piace.» «Non è vero». Stavano preparando la cena. Amelia faceva le uova in camicia, Julia riscaldava i fagioli in scatola in una padella. Erano giunte entrambe ai limiti delle proprie capacità culinarie. «Invece sì,» disse Julia. «Ecco perché eri così aggressiva.» «Io sono aggressiva con tutti». Amelia si sentì arrossire e si concentrò sul tostapane, come se per saltare su le fette avessero bisogno di sostegno psicologico. «Piace anche a te,» borbottò. «Sì, trovo che nel signor Brodie ci sia qualcosa di molto attraente. Ha ancora tutti i denti e nemmeno un accenno di calvizie,» disse Julia. «È mi-
o» e Amelia: «Perché?» e Julia rispose: «Perché no? E poi tu un ragazzo ce l'hai già, Henry.» Amelia pensò che la parola "ragazzo" suonava ridicola se utilizzata per una donna di quarantacinque anni. E cioè lei. Era un peccato che Julia non avesse incontrato Jackson Brodie quando indossava ancora occhialini e mascherina, così almeno lui non l'avrebbe trovata attraente. Perché l'aveva trovata attraente, su questo non c'era alcun dubbio. Certo, c'erano uomini a cui piacevano cose del genere, maschere, bondage e Dio solo sa cos'altro (gomma? ma perché?) «Oh, sei così puritana, Milly,» disse Julia. «Con Henry dovresti sperimentare qualcosa di avventuroso. Prova a rendere la vostra relazione un po' più piccante. Ti ci è voluto così tanto a trovarti un ragazzo che sarebbe un peccato perderlo perché non riesci ad andare oltre alla posizione del missionario.» Amelia spalmò il burro sul pane tostato e lo mise nei piatti. Julia ci versò sopra i fagioli. Amelia aveva cominciato a provare piacere nel condividere con lei i doveri domestici, anche se erano molto semplici. Viveva da sola dal secondo anno di università: era un bel po' di tempo, più di vent'anni. Quella vita solitaria non era stata una scelta, mai nessuno aveva voluto vivere con lei. Non doveva abituarsi a stare con Julia. Non doveva abituarsi a svegliarsi in una casa in cui c'era qualcuno che la conosceva così bene. «Manette,» continuò Julia in tono allegro, come se stesse descrivendo gli accessori giusti per la stagione, «un tocco di cuoio o una frusta.» «Henry non è un cavallo,» replicò Amelia, irritata. Gli accessori si cambiavano ancora secondo le stagioni? Quando c'era sua madre era così. D'estate Rosemary portava scarpe e borsa bianche e cappellino di paglia. Stivali di camoscio con la cerniera d'inverno e - o se lo stava immaginando lei? - un berretto di lana scozzese con un pompon. Se soltanto avesse badato di più a Rosemary, quand'era viva. «Non c'è niente di male in un po' di bondage,» continuò Julia. «Secondo me a Henry piacerebbe. Gli uomini adorano le cose sporche». Pronunciò la parola "sporche" con gusto. Una volta Amelia, del tutto inconsapevole, l'aveva accompagnata in un sex shop di Soho. Un negozio di lusso, per sole donne, che si spacciava per un orgoglioso simbolo del trionfo del femminismo quando in realtà conteneva soltanto un mucchio di porcherie pornografiche. L'aveva seguita all'interno credendo che vendessero sali da bagno ed era rimasta stupefatta quando Julia aveva preso in mano un oggetto che sembrava una coda di cavallo rosa e aveva dichiarato in tono ammirato:
«Oh guarda, un tappo anale, - che carino!» A volte Amelia si chiedeva se le donne non avrebbero fatto meglio a rammendare, cucire e sfornare pane. Anche se lei non sapeva fare nessuna di quelle cose. «Gli accessori si cambiano ancora in base alla stagione?» «Sì, certo,» esclamò Julia decisa e poi, un po' meno decisa, «o no? Sai, Milly, sei davvero fortunata ad avere un ragazzo fisso» e Amelia rispose: «Perché sono brutta?» e Julia: «Non fare Milli-Stupidilli». Era così che la chiamava Sylvia, da piccola. Sylvia prendeva sempre in giro tutti. Sapeva essere molto crudele. «Alla tua età,» continuò Julia (ma perché non chiudeva il becco?), «le donne di solito o vivono sole o sono incastrate in matrimoni noiosi.» Amelia fece scivolare le uova in camicia sopra i fagioli. «Alla nostra età, vorrai dire,» la corresse. «E non essere tanto condiscendente. "Ragazzo fisso" e "Julia" sono parole che non sono mai comparse nella stessa frase. Se per te non va bene, perché dovrebbe andare bene per me?» C'era qualcosa di sbagliato nel mangiare le uova - inghiottire, distruggere qualcosa che conteneva una nuova vita. Relegarla nell'oscurità interna. Julia fece mostra di essersi offesa. «No, davvero, io volevo dire che il tuo Henry sembra proprio quello giusto, sei fortunata ad avere trovato qualcuno adatto a te. Se trovassi la persona giusta mi sistemerei anch'io, puoi credermi.» «Non ti credo». Amelia guardò le uova, che parevano occhi malati di itterizia, e pensò ai suoi ovuli, gliene erano rimasti pochi, vecchi e avvizziti come frutti secchi e ammuffiti quando una volta erano pronti a sbocciare verso la luce... «Su, Milly, che ti diventa freddo. Milly?» Amelia uscì a precipizio dalla stanza e salì goffamente le scale, di corsa, per poi vomitare nel water, in bagno. Il water era stato scrostato e lavato con la varechina, ma c'erano ancora le macchie dovute ad anni di incuria, e il pensiero di Victor là dentro la fece vomitare ancora. «Milly, stai bene?» le giunse la voce di Julia dalle scale. Amelia uscì dal bagno e sostò sulla soglia della camera di Olivia. Era com'era sempre stata - il letto, senza lenzuola, il piccolo armadio e il cassettone, tutti vuoti. In quella stanzetta sembrava concentrarsi tutto il passato. In questa casa ha abitato un fantasma, pensò, ma non quello di Olivia, il mio. L'Amelia che avrebbe potuto essere - che sarebbe dovuta diventare se la sua famiglia non fosse crollata. E poi, a un tratto, lì in piedi nella camera decrepita di Olivia, ebbe ciò
che avrebbe potuto definire soltanto come un'epifania. Pensò che doveva proprio essere così, per coloro che ricevevano visioni mistiche, quelli che, come Sylvia, credevano di sentire la voce di Dio o sentivano calare su di sé la grazia (anche se Amelia sapeva benissimo che era soltanto la prova che il loro lobo temporale non funzionava a dovere). Capì, semplicemente - e quella consapevolezza fu come un'onda calda attraverso il corpo - che Olivia sarebbe tornata. Forse sarebbe stata solo un'ombra fatta di grasso e cenere, ma sarebbe tornata. E lì doveva esserci qualcuno ad accoglierla. «Milly?» 6 Theo 2004 Ogni anno andava a piedi all'ufficio di Parkside, e poi rifaceva i tre chilometri fino a casa. Lo stesso pellegrinaggio ormai da dieci anni. Sei chilometri in tutto, ogni anno un po' più faticosi, perché doveva portare un peso maggiore, ma ormai i dottori non riuscivano più a spaventarlo con niente. Quando arrivò a Parkside era sfiatato e restò per un po' sul marciapiede, prima di affrontare le scale. Si riposò con le mani sulle cosce, inspirando ed espirando, in modo lento e determinato, come un atleta dopo una corsa difficile. I passanti gli lanciavano occhiate furtive (e non) a indicare diverse sfumature di disgusto, come se cercassero di immaginare quale terribile disturbo della personalità fosse alla radice di una tale grassezza. Negli ultimi dieci anni era entrato nell'edificio solo tre volte. Negli altri casi aveva tributato una specie di segreto omaggio al marciapiede. David Holroyd non era morto. Quand'erano arrivati i paramedici era ancora vivo e l'avevano portato in ospedale, dove era stato ricucito e aveva ricevuto il sangue di parecchi sconosciuti. Ora lavorava tre giorni alla settimana e per il resto del tempo si occupava del giardino del suo cottage nella campagna del Norfolk. La sala riunioni era stata ridipinta e sulla macchia indelebile del sangue di Laura era stata stesa una moquette nuova, ma nessuna delle persone presenti quel giorno gradiva l'idea di tornarci: così nel giro di un anno lo studio Holroyd, Wyre e Stanton aveva traslocato in un orribile palazzo di uffici degli anni Sessanta accanto al Grafton Centre, dove si era più semplicemente reincarnato come "Holroyd e Stanton", perché dopo la morte di
Laura Theo aveva abbandonato i soci e non era più tornato a lavorare. Aveva azioni, buoni del tesoro e risparmi sufficienti per la vita piuttosto frugale che conduceva. Il denaro ricevuto dall'assicurazione l'aveva donato al rifugio per cani dove avevano trovato Poppy. La porta, che una volta era di un bel verde bottiglia, ora era verniciata di bianco e nessuno lucidava gli ottoni da un po'. Non c'era nessun sistema di sicurezza, niente lucchetti o citofoni o telecamere: era ancora possibile per chiunque entrare senza problemi. La targa d'ottone su cui una volta c'era scritto "Holroyd, Wyre e Stanton - Notai e avvocati" era stata sostituita da una versione di plastica che annunciava "Estasi - salone di bellezza". Prima di Estasi c'era stata la misteriosa "Hellier s.p.a.", comparsa e scomparsa tra il terzo e quarto anniversario. Dopo la sua scomparsa nel nulla, gli uffici erano rimasti vuoti a lungo prima dell'arrivo di "JM consulenze finanziarie". Nel sesto anniversario, Theo era salito con la scusa di chiedere lumi su un corso di informatica, ma la ragazza della reception l'aveva guardato male e gli aveva detto: «Non è questo che facciamo», senza però chiarirgli di cosa si occupassero in realtà. Theo aveva avuto l'impressione che non facessero poi granché, a meno che non si trattasse di un deposito per quegli enormi scatoloni impilati ovunque. Voleva soltanto dare un'occhiata, vedere il posto - il punto preciso - ma a parte le scatole che ostruivano il corridoio, c'erano paraventi sottili dappertutto e lui non voleva creare problemi e spaventare la ragazza. Le scale lo sfiancarono e arrivato in cima dovette riposare prima di accingersi a superare la nuova porta di vetro su cui, in caratteri romantici ed eleganti, era incisa la parola "Estasi", simile a una promessa, a un preludio al paradiso o al paese di Cuccagna. La ragazza della reception, in divisa di un bianco ospedaliero, si chiamava "Milanda", almeno così diceva la targhetta: a Theo sembrava più la marca di una margarina light. La ragazza lo guardò con orrore e lui, anche se era tentato di rassicurarla spiegandole che la ciccia non è contagiosa, le disse che voleva fare una sorpresa a sua moglie per il compleanno e «viziarla un po'». Era una bugia, però innocua. Ora si pentiva di non avere "viziato" un po' di più Valerie, ma ormai era troppo tardi. Una volta superato l'iniziale disgusto alla vista delle dimensioni di Theo, Milanda gli suggerì il pacchetto "Un pomeriggio alle terme", che comprendeva manicure, pedicure e un "bendaggio alle alghe". Theo rispose che gli sembrava "perfetto", ma che preferiva sfogliare il dépliant e vedere se c'era qualcos'altro. Milanda rispose: «Ma certo,» con un sorriso fisso. Si
vedeva che era preoccupata del fatto che Theo potesse fare cattiva pubblicità al salone, lì seduto alla reception sul divanetto di vimini (forse troppo esile), accanto alla fontana in fibra di vetro il cui scroscio si sommava alla "melodia rilassante" del Cd Meditation, strano miscuglio di flauto di Pan, versi di balene e sciabordio di onde. Dalla sua ultima visita mal riuscita, gli uffici erano stati completamente rimodernati. Ora le pareti erano lilla e le porte verniciate in una serie di sfumature di viola, rosa e azzurri. Anche la forma era stata cambiata: pareti divisorie di cartongesso creavano spazi aperti e stanze più piccole - "suite terapeutiche", stando alle targhe sulle porte. La sala riunioni c'era ancora, intatta, o era stata trasformata in... che cosa? Un bagno di vapore, una sauna? Oppure era stata divisa in cellette cubiche per il "massaggio thailandese" o la "ceretta brasiliana"? (Il dépliant offriva servizi straordinari). Arrivò una donna che aveva un appuntamento e Milanda la scortò in una delle suite terapeutiche. Theo si alzò con aria noncurante, come se volesse sgranchirsi le gambe, e finse di gironzolare per il corridoio. La porta della sala riunioni (azzurro cianotico) era socchiusa e quando Theo la sfiorò si spalancò, offrendogli la possibilità di vedere tutto l'interno. Non si era mai spinto fino a quel punto e non aveva alcuna idea dei cambiamenti subiti dalla stanza nel corso degli ultimi dieci anni, ma restò sorpreso quando la trovò priva di mobili e impianti, con il parquet polveroso e graffiato e la vernice scrostata. Era sempre stata il cuore dell'ufficio, ma ora veniva utilizzata come magazzino, era piena di scatoloni di oli e creme, c'erano un lettino da massaggi ripiegato e appoggiato al muro e un cesto della biancheria sporca traboccante di asciugamani bianchi usati. Il caminetto di marmo c'era ancora, conteneva ceneri fredde. Il punto in cui sua figlia era stata ammazzata si trovava dietro una specie di carrello. Pareva uno di quelli da ospedale, ma al posto delle medicine c'erano decine di boccette di smalto per unghie di colori diversi. Una volta, a San Pietroburgo, Theo aveva visitato la Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, costruita nel punto in cui era stato assassinato Alessandro II. Era un edificio fantastico d'oro e mosaici, guglie e cupole a cipolla ricoperte di smalti, eppure l'interno gli era sembrato uno spazio inanimato, echeggiante di gelo. Adesso si rendeva conto che l'atmosfera non aveva una reale importanza, ciò che contava era che il luogo esistesse ancora, e la sua esistenza significava che nessuno avrebbe potuto dimenticare ciò che vi era accaduto. Il luogo in cui era caduta Laura era contrassegnato da un carrello
pieno di smalti per unghie. Ma che razza di santuario era? Nel luogo sacro in cui era stato versato il sangue di sua figlia avrebbe dovuto sgorgare una sorgente, o spuntare un albero. Dissanguata. Una parola strana, drammatica, che pareva uscita da una tragedia elisabettiana della vendetta, ma per Theo nessuna vendetta era stata possibile. «Maniaco armato di coltello uccide giovane concittadina!» avevano stampato i giornali locali, e anche quelli nazionali. Per qualche giorno se ne era parlato al telegiornale e poi era sembrato che se ne fossero dimenticati tutti. Ma la polizia no. A loro importava veramente, Theo non ne aveva mai dubitato nemmeno per un secondo. Ogni tanto vedeva ancora Alison, l'agente incaricato dei rapporti con la famiglia, e la polizia aveva seguito tutti gli indizi possibili. Da Holroyd, Wyre e Stanton non c'era più stato posto per la riservatezza professionale, una volta che erano stati analizzati tutti i dossier e i frammenti di corrispondenza. I media l'avevano definito un crimine casuale, il gesto di uno psicopatico, ma l'uomo - il maniaco armato di coltello - era entrato in ufficio per cercare Theo, il "signor Wyre". Theo aveva fatto qualcosa, aveva scatenato qualcosa. Aveva fatto impazzire un uomo con un maglione da golf giallo, al punto da spingerlo a volerlo uccidere. La sete di sangue era stata placata? L'uomo con il maglione da golf giallo aveva trovato una primitiva soddisfazione nel massacrare la bambina di Theo? Sangue del suo sangue. Il carrello aveva le ruote e Theo stava quasi per spostarlo quando una delle porte nascoste nella curva della parete ovale fu aperta all'improvviso da una donna impeccabile con la stessa divisa bianca di Milanda. Quando vide Theo si accigliò, ma prima che potesse protestare lui esclamò: «Scusi, ho sbagliato stanza!» e arretrò, esibendosi in una specie di ridicolo inchino nel tentativo di dissipare le paure della donna. «Eccomi,» disse in tono disinvolto a Milanda, agitando il dépliant che ancora stringeva. Imboccò le scale con tutta la rapidità che la sua mole gli consentiva, ma riuscì soltanto ad acquisire una rotolante andatura a papera. Immaginò che Milanda lo seguisse e lo placcasse una volta giunto in Parker's Piece. Il cuore gli batteva stranamente nel petto. Si rifugiò in un caffè di Mill Road, dove ordinò un modesto latte macchiato con un pasticcino, non senza dover comunque subire lo sguardo di disapprovazione della cameriera: era chiaro che pensava che una persona così sovrappeso non avrebbe dovuto mangiare affatto. Il tempo non guariva la ferita, ma continuava a stuzzicarla, piano, e sen-
za dargli tregua. Il mondo aveva continuato a girare e aveva dimenticato, e ormai c'era solo Theo a tenere vivo il ricordo di Laura. Jennifer ora viveva in Canada e anche se si telefonavano e si scrivevano e-mail, raramente parlavano di lei. Jennifer non amava il dolore che le suscitava ripensare all'accaduto, ma per Theo era proprio il dolore a tenere viva Laura nella memoria. Temeva che con la guarigione sarebbe scomparsa. Dopo ciò che era accaduto dieci anni prima, Theo non aveva voluto parlare con nessuno, non aveva voluto parlare e riconoscere l'esistenza di un mondo che continuava anche senza Laura, ma quand'era tornato a casa dall'ospedale si era sforzato di telefonare a Jennifer. Quando lei aveva risposto al telefono e aveva udito la sua voce aveva esclamato: «Cosa?» con quel suo tono impaziente, come se lui l'avesse chiamata soltanto per seccarla. Poi era diventata ancora più impaziente perché lui non riusciva a parlare, ed era stato solo in virtù di una straordinaria forza di volontà che era riuscito a dire: «Jenny, è successa una cosa brutta, una cosa molto brutta,» al che lei aveva detto, con voce piatta: «Laura.» Theo avrebbe voluto suicidarsi, magari non quel giorno, non prima del funerale, dopo avere messo in ordine tutti i suoi affari, ma non l'aveva fatto perché Jennifer avrebbe capito (ma forse lo sapeva da sempre, no?) che lui voleva più bene a Laura che a lei. Perché se fosse morta Jennifer, e non Laura, non avrebbe nemmeno lontanamente pensato al suicidio. Anche ora Theo sperava che un giorno lo sconosciuto che era venuto per lui e invece aveva trovato la sua bambina sarebbe tornato. Immaginava di aprire la porta all'uomo con il maglione giallo e di spalancare le braccia al coltello, di abbracciare la morte che l'avrebbe ricongiunto a lei. L'aveva fatta seppellire, non cremare. Aveva bisogno di una tomba da visitare (in continuazione), un luogo dove lei gli sembrasse tangibile, a portata di mano, distante solo pochi metri. C'erano stati momenti in cui il dolore era così forte che aveva pensato di scavare, riesumare quel povero corpo decomposto in modo da poterla cullare un'ultima volta, rassicurarla, dirle che c'era ancora, che pensava ancora a lei, anche se non lo faceva nessun altro. Pagò il latte macchiato lasciando una mancia superiore al conto. Peggiore era il servizio, maggiore la mancia che tendeva a lasciare. Forse si trattava di debolezza di carattere. Era convinto di essere una persona fatta quasi interamente di debolezze, piuttosto che di punti forti. Dovette farsi largo controcorrente tra una folla di turisti, rapiti dai college, dal tessuto tangibile della storia - istruzione, architettura e bellezza. Quando aveva visto per la prima volta Cambridge, da studente, aveva pensato che fosse il
posto più bello del mondo. Era cresciuto in un prosaico sobborgo di Manchester, e Cambridge gli era sembrata l'architettura della trascendenza. La prima volta che aveva sbirciato dentro i giardini dei college era stato come avere una visione del paradiso. Non credeva che potesse esistere niente di così bello, eppure erano dieci anni che non ne guardava uno. Passò accanto alle meravigliose facciate del Queens', del Corpus Christi, del Clare e del King's e vide soltanto pietra e calce e, forse, polvere. "Chiusura", ecco come la chiamavano. Una parola che suonava molto californiana. Aveva evitato quella parola, quel gesto, ma sapeva di non poter scendere nella tomba senza conoscere l'identità dell'uomo con il maglione giallo. Diede un'occhiata all'orologio. Non voleva fare tardi. Mentre aspettava, lesse una copia del «Reader's Digest». Ormai pareva che il «Reader's Digest» si trovasse soltanto nelle sale d'aspetto. La donna alla reception gli aveva detto che il signor Brodie «al momento ha le mani legate», ma se era disposto ad aspettare l'avrebbe ricevuto dopo dieci minuti. «Io sono la sua assistente, Deborah,» aveva aggiunto la donna, «ma può chiamarmi signora Arnold». Theo non riuscì a capire se faceva la spiritosa oppure no. Gli venne in mente che tra le segretarie di Holroyd, Wyre e Stanton girava una battuta - al telefono le aveva sentite dire ai clienti: «Mi dispiace, in questo momento il signor Holroyd ha le mani legate» con quella voce cantilenante da segretaria che usavano sempre e poi, quando mettevano giù, scoppiavano a ridere. Ma la segretaria del signor Brodie pareva non provare alcun divertimento all'idea che il suo capo fosse impegnato in qualche pratica sadomaso proprio dietro la porta chiusa dell'ufficio. Invece scaricava la propria aggressività sulla tastiera del computer: come Cheryl, la sua segretaria, ti faceva sospettare che avesse imparato a dattilografare su una di quelle vecchie macchine meccaniche, solide come carri armati. Ogni tanto vedeva anche Cheryl. Adesso era in pensione, ma Theo era andato a trovarla nella sua casetta iperriscaldata e, con un certo imbarazzo, avevano bevuto il tè insieme e mangiato una torta alla crusca. Cheryl era l'ultima persona con cui Laura aveva parlato. «Vuole più di una copia di questo modulo?»: frase davvero prosaica con cui concludere la propria vita. Deborah Arnold smise per un attimo di cercare di distruggere la tastiera e gli offrì un caffè, ma lui rifiutò. Stava cominciando a sospettare che il signor Brodie non avesse affatto le mani legate, ma che non ci fosse proprio.
Se la polizia non aveva mai trovato l'assassino di Laura, sembrava assurdo pensare che ci sarebbe riuscito un investigatore privato, però Theo era convinto che anche la minima possibilità che questo accadesse era meglio di niente. E se avesse trovato quell'uomo, forse non avrebbe spalancato le braccia e accolto la morte. Forse sarebbe stato Theo, stavolta, il maniaco armato di coltello. Un uomo entrò a precipizio in ufficio e Deborah Arnold esclamò: «Finalmente,» senza alzare lo sguardo dalla tastiera. «Scusi,» disse l'uomo rivolto a Theo, che ne dedusse che si trattava di Jackson Brodie. «Sono dovuto andare dal dentista». Deborah scoppiò in una risata canina, come se la trovasse una scusa ridicola. L'uomo gli strinse la mano, disse: «Jackson, Jackson Brodie, si accomodi, prego, si sieda,» e gli fece strada verso il suo ufficio. Mentre chiudeva la porta si udì la voce sarcastica di Deborah scandire: «Il signor Brodie è pronto a riceverla.» «Mi scusi,» disse Jackson, «ma ha le allucinazioni. Crede di essere una donna.» 7 Caroline La chiesa si chiamava St Anne. Caroline non aveva la più pallida idea di chi fosse sant'Anna, era stata cresciuta senza religione, non era nemmeno mai stata a una cerimonia religiosa vera e propria, o almeno non in una chiesa normale, neanche per il suo matrimonio con Jonathan, che si era svolto in un ufficio comunale perché la prima moglie di lui era viva e vegeta anche se, per fortuna, viveva in Argentina con un allevatore di cavalli. La chiesa si trovava in una strada secondaria, era piccola e molto antica e aveva un tozzo campanile sassone e un cimitero ormai chiuso da anni, ora soffocato, ma in maniera pittoresca, da erbacce e rose canine. Non era in grado di riconoscere nessuno dei fiori e pensò che doveva comprarsi un libro, l'avrebbe ordinato on line su Amazon, perché ovviamente vivevano a chilometri di distanza dalla libreria più vicina. St Anne si trovava a metà strada tra il loro piccolo villaggio e un altro ancora più piccolo, quindi Caroline ne dedusse che a un certo punto, nel medioevo, la Chiesa aveva deciso di risparmiare e far condividere ai due paesi lo stesso prete. E naturalmente a quell'epoca nessuno si preoccupava di percorrere lunghe distanze a piedi. I bambini di campagna facevano otto chilometri per andare a scuola la mattina e otto la sera per tornare a casa,
senza lamentarsi. O forse si lamentavano, ma nessuno aveva mai trasmesso ai posteri le loro rimostranze. La storia funziona così, no? Se non è scritta, è come se non esistesse. È possibile lasciare gioielli e vasellame, tombe ornamentali, è possibile lasciarsi dietro le proprie ossa, in modo che qualcuno le riporti alla luce in un'epoca successiva, ma nessuno di questi oggetti è in grado di esprimere i nostri sentimenti. I corpi sepolti nell'antico cimitero di St Anne erano privi di lingua e muti. Non riusciva a immaginare James e Hannah che andavano a scuola a piedi; sembrava proprio che non sapessero che farsene dei piedi. Era passata in auto davanti alla chiesa parecchie volte, ma fino a quel momento non le era mai venuto in mente di poterci entrare. Certo, conosceva il vicario, o almeno l'aveva conosciuto: era morto l'anno prima e il sostituto non era ancora arrivato. Il nuovo ministro (o ministra?) non avrebbe avuto solo due villaggi di cui occuparsi, ormai facevano capo a lui almeno quattro o cinque parrocchie povere perché nessuno andava più in chiesa, nemmeno la madre di Jonathan. Non aveva niente a che fare con la religione: Caroline tentava soltanto di ripararsi dalla pioggia. Aveva portato i cani a fare una passeggiata - la chiesa si trovava a circa un chilometro e mezzo da casa loro (o meglio, dalla loro tenuta) - e i cani erano entrati nel cimitero e ora si stavano muovendo come degli aspirapolvere, con il naso a terra, le code ritte e quei loro piccoli cervelli tutti presi dall'idea di un territorio inesplorato e da mille nuovi odori. Caroline ne fiutava uno solo - l'odore acre e malinconico della vegetazione. I cani avevano già orinato su parecchie lapidi e Caroline sperò che nessuno la stesse spiando. Guardando, non spiando. «Dio, Caro, sei così paranoica,» diceva Jonathan. «Ecco cosa succede a nascere in città». I cani erano labrador e appartenevano a Jonathan. Il suo contributo al matrimonio: due cani e due bambini. James e Hannah, Meg e Bruce. Meg e Bruce erano i cani. I cani e i bambini si comportavano bene con Jonathan, un po' meno con Caroline, anche se i cani erano sempre meglio dei bambini. Quando aveva cominciato a piovere li aveva legati sotto il portico (magari avesse potuto farlo anche con i bambini). Non si era resa conto che "Caro" era un diminutivo di Caroline finché non aveva conosciuto Jonathan. Trovava che avesse un suono d'altri tempi, sembrava uscito da uno di quei vecchi romanzi storici che leggeva quand'era giovane. Molto più giovane. Certo, lui proveniva da quel genere di ambiente - la provincia - in cui le donne si chiamavano "Caroline", Lucy, Amanda e Jemima, quindi sapeva bene quel
che diceva. Sospettava che esistesse un termine ecclesiastico speciale per definire il portico, ma se c'era lei non lo conosceva, anche se sapeva che esistevano un sacco di sostantivi particolari per definire l'ossatura di una chiesa, la carcassa e le costole, come nelle poesie medievali - abside, coro, navata, transetto, cleristorio, sacrestia, misericordia - pur non essendo troppo sicura del loro significato, tranne che per misericordia, perché era una di quelle parole che, una volta che le incontri, te le ricordi per sempre. I misericordia di St Anne erano antichi e fatti in legno di quercia, ma non lo stesso del portone, che era grigio e scolorito come legno arenato su una spiaggia, rimasto immerso a lungo in mare: i misericordia erano color torba o color foglie di tè bagnate. Guardandoli con attenzione ci si rendeva conto che vi erano intagliate bizzarre creature pagane, più simili a folletti che a uomini, seminascoste tra alberi e foglie - qui tralci di acanto e là una specie di palma. Forse si trattava de "l'Uomo Verde"1, ma alle estremità delle panche ce n'erano moltissimi - tutti diversi - quindi l'espressione più appropriata sarebbe stata "uomini verdi". Non sapeva che ce ne fossero anche nello Yorkshire. Oltre al luogo in cui aveva vissuto prima. In un'altra vita, di cui ormai non ricordava quasi più niente. Altre volte, invece, se ne ricordava fin troppo bene. Adorava la parola "misericordia" perché suonava così carica di infelicità, eppure non lo era. Voleva dire "con il cuore pietoso", dal latino cor, cuore, da cui hanno origine anche "accordo" e "cordiale" ma non "cardiaco", che viene sì dal latino, ma attraverso il greco kardia (anche se più anticamente, a un livello più primitivo, le due parole dovevano essere collegate). A scuola Caroline non aveva studiato né latino né greco ma più tardi, dopo aver lasciato la scuola, quando aveva avuto un sacco di tempo a disposizione, si era fatta strada con pazienza attraverso i testi classici di base, per principianti, in modo da poter almeno capire l'etimologia delle parole, risalire le loro ramificazioni e i loro tronchi fino alle radici. Se si spostavano le lettere, anche il suo nome conteneva la parola "cor". Caro. Cora. Cor. Come i corvi, i corvi che si nutrono di cadaveri. Se ti inginocchiavi sul pavimento duro, che in quella chiesa significava inevitabilmente inginocchiarsi sulla fredda lapide della tomba di qualcuno (che però con molta probabilità sarebbe stato contento della compagnia), e guardavi negli occhi uno degli uomini verdi, potevi scorgere un balenio primordiale di follia e... «Tutto bene?»
«Sì,» rispose Caroline, «credo di sì». L'uomo le porse la mano perché era rimasta inginocchiata sul pavimento, sui morti, e ora aveva le ginocchia rigide. La mano era morbida e piuttosto fredda per appartenere a uno palesemente vivo. «Mi chiamo John Burton,» disse (in tono cordiale). «È molto giovane,» replicò Caroline, «o crede che il fatto che vicari e poliziotti comincino a sembrarmi giovani sia segno che sto invecchiando?» Il vicario (John Burton) scoppiò a ridere e rispose: «Mia madre dice sempre che quando i vescovi iniziano a sembrarti giovani, allora sì che ti devi preoccupare» e Caroline si chiese come fosse possibile vivere con tanta disinvoltura in un mondo in cui tua madre fa battute sui vescovi e c'è gente soprannominata Caro. «Allora lei dev'essere il nuovo vicario,» disse. Portava la tonaca (era così che si chiamava?) quindi non era proprio un'ipotesi azzardata; l'uomo si guardò con un sorriso mesto e disse: «Mi hai beccato con le mani nel sacco, amico,» con effetto lievemente ridicolo, perché pronunciò quelle parole in tono effeminato e aristocratico. La voce di Jonathan, invece, aveva mantenuto (o acquisito) una sfumatura aspra, quasi calcarea, che lo faceva sembrare diretto ed energico. «Molto Heathcliff,» aveva commentato sarcastica la sua amica Gillian, perché Jonathan aveva i soldi, aveva ricevuto un'educazione molto costosa e sua madre parlava come la regina. «Anch'io so chi è lei,» disse John Burton e Caroline replicò: «Oh, davvero?» e pensò «Stiamo flirtando? No, non è possibile», e John Burton «il reverendo John Burton» rispose: «Sì, certo, lei è la direttrice della scuola elementare» e Caroline pensò «Accidenti», perché in realtà preferiva che nessuno sapesse chi era. Proprio nessuno. Risposarsi non era nei suoi programmi. Aveva pensato di seppellirsi in qualche cittadina sperduta e fare beneficenza, come una quacchera del Settecento o una gentildonna vittoriana spinta da filantropia. Aveva perfino pensato di trasferirsi presso qualche missione all'estero - India o Africa - e lavorare a un progetto di alfabetizzazione per le donne o i fuori casta, perché sapeva bene cosa voleva dire essere un paria. Sì era spostata a nord, aspettandosi una regione cupa e industriale, ma sapeva che erano i romanzi che aveva letto a suggerirle quell'immagine e, infatti, invece di essere come in Nord e sud o Sabato sera, domenica mattina, il paesaggio era cupo e postindustriale e la vita molto più difficile di quanto avesse immaginato. Aveva fatto un anno di tirocinio a Liverpool,
poi un paio d'anni a Oldham e alla fine si era stabilita a Manchester. Era una "superinsegnante", anche se questo non era il titolo esatto, addestrata al recupero di ragazzini socialmente emarginati, e aveva bruciato le tappe negli inferni delle periferie in modo da potere, un giorno, essere destinata a guidare una scuola sull'orlo dell'implosione e a cercare di salvarla dal disastro, come il capitano di una nave che affonda. Era cosa buona e giusta perché stava espiando, ma invece di entrare in convento, in un ordine di penitenti (idea da cui si era lasciata tentare) era diventata insegnante, il che probabilmente era molto più utile che isolarsi dal mondo e pregare ogni quattro ore, giorno e notte, anche se, certo, non era possibile averne la certezza - magari era solo grazie a quelle donne rinchiuse a pregare notte e giorno che si era potuto evitare un cataclisma, lo schianto di una meteora o un'esplosione nucleare globale. E così aveva portato avanti la sua vita con quel progetto in mente. Abitava in un piccolo appartamento con una sola camera da letto, pareti intonacate di bianco e candele profumate, tutto molto semplice (in realtà viveva come una anacoreta laica) e con il resto dei colleghi socializzava il minimo indispensabile. C'erano un paio di divorziate di mezza età con cui a volte andava al cinema o divideva una bottiglia di vino in un posto tranquillo dove fosse possibile parlare. In generale le conversazioni vertevano sulla scarsità di uomini disponibili - «tutti quelli buoni sono sposati o gay» - le solite cose, e quando si impicciavano della sua vita privata rispondeva: «Un matrimonio fallito basta e avanza», con un tono che suggeriva che era stato troppo brutto per parlarne. Stava attraversando un periodo in cui voleva evitare altre relazioni, diceva, solo che non specificava mai da quanto quel periodo andasse avanti. Erano passati ventidue anni dall'ultima volta che era stata con un uomo! Le divorziate di mezza età sarebbero rimaste di sasso se l'avessero saputo. Ma in fondo la castità faceva parte della vita degli anacoreti, no? O avrebbe dovuto dire "anacorete"? Sicuramente il reverendo Burton lo sapeva («Mi chiami John, per carità» aveva esclamato con una risata). Comunque in quel periodo aveva fatto sesso con delle donne, quindi non si trattava di castità vera e propria. John Burton era proprio un tipo divertente. Capelli chiari, rossicci, piuttosto basso e minuto, niente a che vedere con Jonathan. In lui c'era qualcosa di dolce, una specie di bontà intrinseca che lei trovava adorabile. Anche John era stato un penitente dei ghetti, ma qualcosa in lui si era spezzato, e ora era sepolto lì in campagna come un convalescente. Jonathan, invece, non era il tipo d'uomo da avere un crollo. Era incredibilmente educato
(merito di sua madre e dell'Ampleforth College, anche se i Weaver non erano cattolici, tutt'altro), una delle cose che trovava seducenti in lui, ma in fondo era duro e indistruttibile, cosa che trovava altrettanto seducente. ("Adamantino", quella sì che sarebbe stata una parola perfetta per definirlo. Veniva dal greco, ma aveva origini piuttosto oscure). Gillian, un'amica della scuola di specializzazione per insegnanti, l'aveva invitata nella fattoria dei suoi genitori per un lungo weekend di fine agosto. Alla scuola avevano fatto amicizia perché erano più grandi della maggior parte degli studenti. Non erano amiche intime - anche se Gillian credeva di sì - ma Gillian era una persona con cui era facile stare, era buffa, cinica eppure alla mano, quindi, dopo essersi dibattuta a lungo (come faceva sempre, per ogni cosa) alla fine Caroline aveva accettato l'invito. «Un fine settimana in campagna», si era detta, «che male mi può fare, no?» Ed era stato delizioso, assolutamente delizioso. I genitori di Gillian erano persone divertenti e sua madre continuava a ingozzarle, cosa che andava bene a entrambe. La madre disse che trovava ammirevole il fatto che fossero "ragazze" così indipendenti, in carriera, e con il mutuo da pagare, ma in realtà intendeva dire che visto che Gillian, figlia unica, ormai aveva passato i trenta, quand'è che si decideva a farle un nipotino? La camera degli ospiti era pulita e comoda e Caroline aveva dormito come non le accadeva da anni, probabilmente per via del silenzio. Gli unici suoni erano i belati delle pecore e il canto dei galli, la melodia ininterrotta degli uccelli e, ogni tanto, il brusio accettabile di un trattore. Si sentiva un profumo dolce, piacevole: pensò a quanto tempo era passato dall'ultima volta che aveva respirato dell'aria davvero pulita. La camera da letto si affacciava su valli verdi e ondulate, cucite e intrecciate da muri di pietra grigia che si prolungavano all'infinito: le era parso il paesaggio più bello che avesse mai visto in vita sua (e ne aveva visti, di paesaggi schifosi), quindi se ne era innamorata prima ancora di innamorarsi di Jonathan, che in un certo senso era come un'estensione e incarnazione della campagna stessa. E faceva caldo, molto più caldo di quanto si fosse aspettata di trovare nello Yorkshire, anche se non si aspettava granché, visto che non c'era mai stata. («Cosa, non hai mai visitato il paese di Dio?» aveva esclamato Jonathan fingendosi scandalizzato. «Non ho viaggiato molto,» gli aveva risposto lei, sincera). Il sabato pomeriggio Gillian l'aveva portata a una fiera agricola, una fiera piccola, locale, - non come il Great Yorkshire Show o cose del genere,
sarà più simile a una festa parrocchiale - le aveva spiegato. Si teneva in un campo a tre o quattro chilometri di distanza, ai confini di un paesino che, le aveva detto Gillian, le sarebbe piaciuto perché era «pittoresco, da cartolina». Caroline aveva sorriso e non aveva detto niente perché, sì, era tutto bellissimo, sarà anche stato lo Yorkshire (che pareva più uno stato della mente che un luogo) ma era pur sempre campagna. Ma naturalmente Gillian aveva ragione: era proprio l'idea platonica del villaggio - un ponte stretto e inarcato, un ruscello orlato di giaggioli gialli che si snodava tra casette in pietra grigia, la vecchia cabina telefonica rossa, la buca per le lettere nel muro, il pascolo pubblico con grasse pecore bianche che brucavano libere. («Le pecore dello Yorkshire», aveva detto Jonathan, «sono più grosse». Mesi dopo lei aveva sciorinato l'informazione a una collega, a scuola, e quella si era spanciata dal ridere al punto da farla sentire un'idiota. Caroline portava già al dito un anello di rubini e diamanti appartenuto alla nonna paterna di Jonathan. Fu solo in seguito che la madre di lui, Rowena, le disse che al suo posto l'avrebbe rifiutato e ne avrebbe preteso uno nuovo, di diamanti - comprato da Garrard - perché non avrebbe mai accettato una cosa "di seconda mano"). Ovviamente Caroline non era mai stata a una fiera agricola in vita sua e rimase affascinata da tutto quanto. Sì, era andata proprio così: era rimasta affascinata, incantata, stregata, ammaliata - dalle pecore pettinate, dalla mucche infiocchettate e dai maiali tirati a lucido, dai padiglioni che esponevano marmellate e torte da primo premio, scialli all'uncinetto e giacchette lavorate a maglia, dalle mostre di zucche, patate, porri e rose, dal Club delle Donne che offriva tè al latte sotto una tenda riscaldata che odorava d'erba, dal vicario - un omone con la pelle rubizza tipica dei bevitori - che aveva inaugurato la manifestazione raccontando storielle divertenti (nulla a che vedere con il suo successore, John Burton). C'erano un furgone dei gelati, una gimcana per bambini e una giostra minuscola, antica e perfetta. Era tutto irreale. Ridicolo. Caroline si aspettava che da un momento all'altro arrivasse una locomotiva a vapore e ne scendesse l'intero cast di Heartbeat. Invece arrivò Jonathan Weaver, che anziché scendere si avvicinò a falcate. «Quelle cosce sono merito dell'equitazione,» sussurrò Gillian. «Non è un professionista, ma tutti dicono che avrebbe potuto arrivare lontano». Oh no, proprio come nei romanzi di Jilly Cooper. «Aristocrazia fondiaria,» aggiunse Gillian. «Sai, famiglia di antiche origini, possidenti sin dalla notte dei tempi, una cosa così, però sono dei dilettanti, mica veri agricoltori,» aveva concluso in tono acido.
«Perché no?» «Hanno sempre avuto altre entrate, e parecchie, - case affittate a Londra, terreni, traffico di schiavi, le solite cose con cui la gente fa i soldi, quindi fanno soltanto finta di fare i contadini, - hanno un gregge di mucche Red Devon, così per bellezza, e delle pecore come quelle di Maria Antonietta questo è il paese delle pecore, non dimentichiamocelo, dove una pecora è una pecora, tutte le fattorie sono moderne e hanno il riscaldamento centralizzato, e stanno perfino ricostruendo un antico orto originale con i soldi della Sovrintendenza, pensa un po'.» Caroline non aveva capito fino in fondo quella tirata da figlia del fattore, quindi si limitò a commentare: «Già», poi Gillian scoppiò a ridere e aggiunse: «Però, Cristo, me lo scoperei fino allo sfinimento.» Ricordava di essersi fermata di fronte a un espositore della «miglior marmellata di fragole». I vasetti - con i coperchi foderati di stoffa a quadretti ed etichette che ricordavano il Diario di campagna di una gentildonna edoardiana - si erano guadagnati coccarde e cartellini con la scritta "menzione speciale" e lei stava pensando che quella marmellata da primo premio avrebbero dovuto farla assaggiare, non solo esporla, quando a un tratto lui le fu accanto, si presentò e a quel punto ci fu una specie di blackout, perché ricordava soltanto di essersi ritrovata seduta sul sedile anteriore della sua Range Rover. Lui le aveva detto qualcosa di educato tipo «vieni a casa mia a prendere il tè», ma doveva essere stata la pura e semplice lussuria, repressa troppo a lungo, a guidare le sue azioni: Caroline aveva letteralmente abbandonato Gillian, che si era infuriata (giustamente) nel vederla allontanarsi così, in pubblico, con una persona appena conosciuta. Avevano imboccato una lunga strada diritta che attraversava un parco e solo dopo cinque minuti Caroline si era resa conto che la strada apparteneva a lui, come il parco e tutto il resto - era lui il proprietario di quel paesaggio, per la miseria. E sebbene fosse stata la lussuria a spingerla, a quel punto aveva sinceramente creduto che l'invito per il tè significasse un soggiorno elegante e arioso con pareti ricoperte di quadri raffiguranti cavalli e cani. Enormi divani foderati di sete damascate color limone pallido e un pianoforte a coda su cui poggiavano, in pesanti cornici d'argento, le foto di famiglia (fantasia che si basava soprattutto su una gita a una dimora signorile fatta in epoca scolastica). Si immaginò nervosamente appollaiata sull'orlo di uno dei divani di damasco giallo limone mentre la madre di Jonathan, occupandosi del vassoio del tè - splendide porcellane antiche - la
interrogava con educazione sulla sua "affascinante" vita cittadina. In realtà, la madre di Jonathan si trovava ancora alla fiera, dove consegnava con grazia le coccarde al club dei pony, e Jonathan e Caroline non si erano nemmeno avvicinati al soggiorno (che poi si rivelò molto diverso da come l'aveva immaginato): si erano invece diretti verso il retro della casa, dove lui l'aveva fatta entrare in una specie di disimpegno e, appena varcata la soglia, le aveva abbassato le mutandine alle caviglie, l'aveva fatta chinare su una vecchia tavola da stiro di legno e l'aveva penetrata rudemente mentre lei si teneva aggrappata ai (provvidenziali) rubinetti dell'acquaio pensando «Gesù santo, questa sì che è una scopata!» E adesso eccola lì, guidava una Land Rover Discovery, si vestiva al reparto Country Casuals di Harrogate e sedeva di fronte a Jonathan al tavolo della prima colazione (stile Chippendale, mogano) con i due marmocchi di lui. Qualcuno era in grado di spiegarle come diavolo fosse potuto accadere? «Be',» disse John Burton, «credo che sia ora di andare». Erano seduti su un banco, vicini, in atteggiamento socievole, ma non parlavano. Il vantaggio delle chiese era che potevi stare in silenzio e nessuno ti chiedeva il perché. Aveva quasi smesso di piovere, anche se della pioggia si sentiva ancora l'odore - verde ed estivo - che entrava dalla porta aperta. «Sta smettendo,» aggiunse lui e Caroline disse: «Sì, credo anch'io». Lui si alzò e la accompagnò fuori. I cani, che avevano dormito, fecero una gran scena per festeggiare la ricomparsa della padrona, ma Caroline sapeva benissimo che era tutta una finta. «Be', allora arrivederci,» disse John Burton stringendole di nuovo la mano. Lei ebbe un piccolo tuffo al cuore, come se fosse tornato alla vita qualcosa di assopito da tempo. Il vicario salì sulla sua bici, si avviò e si girò una volta per salutarla con la mano, gesto che lo fece barcollare in modo ridicolo. Caroline si alzò e lo guardò allontanarsi, ignorando i cani sovraeccitati. Era innamorata. Innamorata e basta. Una cosa assolutamente e totalmente folle. 8 Jackson Le esequie di Victor elevarono il minimalismo a nuove vette di austerità. Jackson, Julia e Amelia erano le uniche persone presenti, a meno di non contare lo stesso Victor, che si decomponeva muto in una bara impiallac-
ciata di quercia rimasta priva di omaggi floreali. Jackson si era aspettato, almeno, un'atmosfera speciale. Aveva immaginato che il funerale di Victor si sarebbe svolto nella cappella del St John, il suo vecchio college, tra gli epitaffi degli ex colleghi, in una noiosa cerimonia anglicana interrotta da inni mal eseguiti con l'accompagnamento di un organo stonato. Amelia e Julia erano sedute nel primo banco della cappella del crematorio. Jackson era riuscito a resistere all'invito di sedersi in mezzo a loro, al posto dell'inesistente fratello maschio. Si chinò in avanti e sussurrò a Julia: «Perché non c'è nessun altro?» Teoricamente lui era lì in veste ufficiale: voleva vedere chi si sarebbe presentato alle esequie e ne dedusse che il fatto che non fosse venuta anima viva era comunque significativo. «Non c'è nessuno perché non l'abbiamo detto a nessuno,» rispose Amelia, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Non si era vestita di nero per il funerale del padre, nemmeno in parte, anzi: sfoggiava un paio di calze di lana a coste di un rosso scarlatto quasi allarmante. Jackson si chiese se avessero un significato simbolico - probabilmente qualche antica tradizione di Cambridge imponeva che alla morte del padre una "calze blu" indossasse invece un paio di calze rosse2. Sembrava che ci fossero antiche tradizioni per quasi tutto, a Cambridge (pardon, Oxford). Perché calze di lana in piena estate? La cappella del crematorio era rinfrescata dall'aria condizionata, ma fuori faceva caldo. Julia era vestita altrettanto male, anche lei aveva rifiutato il nero del lutto e si era infagottata dalla testa ai piedi in un antiquato cappotto di velluto verde erba (avevano il sangue freddo, come i rettili?) Pareva che si fosse fatta spazzolare i capelli arruffati da un branco di cani da circo. Jackson, con il suo completo nero da funerale e la sua severa cravatta nera, era l'unico che sembrasse davvero in lutto per Victor. Le gambe fiammeggianti di Amelia gli ricordavano le zampe di un uccello che aveva visto di recente in una copia del National Geographic nella sala d'aspetto del dentista. Julia si girò verso di lui. «Penso sempre che, in queste occasioni,» disse, «be', veramente non occasioni come questa...» e indicò la bara con un gesto brusco, «ma per cose di famiglia, sa, compleanni, natali... che Olivia possa farsi viva.» «Ridicolo,» commentò Amelia. «Lo so». Piombarono entrambe nella tristezza, ma poi Julia si riprese e aggiunse: «Sta benissimo in giacca e cravatta, signor Brodie». Amelia le lanciò un'occhiata sprezzante. Julia aveva gli occhi umidi e la voce roca,
ma sostenne che erano dovuti alla febbre da fieno, e non al dispiacere, «nel caso vi siate fatti un'idea sbagliata». Offrì il suo Beconase spray a Jackson, che però rifiutò educatamente. Non aveva mai sofferto di allergie in vita sua (tranne che nei confronti della gente, forse) e si riteneva dotato di una robusta costituzione settentrionale. Ultimamente aveva visto un documentario, su Discovery Channel, che dimostrava come i settentrionali avessero ancora un vigoroso Dna vichingo, mentre i meridionali ce l'avevano diverso, più debole, tipo sassone o francese. «Qui l'arredamento è così tetro,» sussurrò forte Julia e Amelia la zittì come se fossero a teatro e Julia fosse una fastidiosa sconosciuta. «Be'?» replicò, irritata. «Non credo che salterà fuori dalla bara per protestare, no?» A quell'idea un breve spasmo di orrore contrasse il volto di Amelia, ma l'immagine di un Victor risorto riuscì a farle tacere entrambe, anche se solo per un momento. Perfino un noioso funerale anglicano sarebbe stato preferibile alle litigiose sorelle Land. Mentre si recava al funerale, Jackson era passato al vecchio studio Holroyd, Wyre e Stanton, diventato il salone di bellezza Estasi. "Terapisti della bellezza", così si definivano, ma a Jackson quell'espressione faceva venire in mente più la psichiatria che le maschere e la manicure. Guarire la gente con la bellezza. E come? Musica? Poesia? Natura? Sesso? A cosa ricorreva, lui, quando aveva bisogno di stare meglio? A From Boulder to Birmingham, l'album di Emmylou Harris. Al viso di sua figlia. Banale ma vero. Nella casa di Theo c'era una stanza. Theo l'aveva invitato per mostrargliela. Jackson non avrebbe potuto vivere in una casa con una stanza del genere. Una camera da letto, al piano di sopra, che sembrava la sala operativa di un commissariato - fotografie e cartine appese alla parete, grafici e lavagne, tabelle e orari. Due schedari metallici pieni di cartelle fino a scoppiare, sul pavimento scatole contenenti altre cartelle. Quella stanza racchiudeva tutto ciò che poteva riguardare la morte di sua figlia. E Theo non avrebbe dovuto trovarsi in possesso di gran parte di quelle cose - fotografie della scena del delitto, per esempio, che non erano attaccate alla parete (meno male, pensò Jackson) ma che Theo estrasse dallo schedario. Fotografie orribili del corpo di sua figlia, che Theo maneggiava con una sorta di distacco professionale, come se fossero immagini di vacanze a cui Jackson poteva essere interessato. Jackson sapeva che non era così, che il tempo aveva in qualche modo assuefatto Theo a ogni orrore, ma ne rimase
comunque colpito. «Ho qualche aggancio,» disse Theo, senza dare altre spiegazioni. Era stato avvocato e gli avvocati, Jackson lo sapeva per esperienza, avevano sempre degli agganci. Theo aveva trascorso gli ultimi dieci anni della sua vita a indagare sulla morte della figlia, e basta. Era la cosa giusta da fare, oppure era una follia? Quella stanza gli pareva una cosa da psicopatici, non che Jackson ne avesse mai conosciuti, ma di quelli da romanzi gialli e programmi televisivi. Jackson trovava che avrebbero dovuto girare più telefilm su crimini commessi da quattordicenni strafatti di colla, sidro e noia. Sarebbe stato molto più realistico, anche se molto meno interessante. Guardando la bara di Victor si chiese com'era stato il funerale di Laura Wyre. Secondo i giornali vi avevano partecipato centinaia di persone. Theo se ne ricordava a malapena, anche se aveva conservato tutti gli articoli. Quando gli aveva chiesto di parlargliene, i suoi occhi si erano spostati prima a destra e poi a sinistra, come se il cervello fosse scisso da quel ricordo. Non c'erano forse degli stadi del lutto, da superare - shock, negazione, senso di colpa, rabbia, depressione - prima di arrivare all'accettazione, al punto in cui si esce dal tunnel e si sta meglio, si continua a vivere? Una volta Jackson era andato a parlare con un counselor. La sua scuola aveva richiesto qualcuno della "Unità psichiatrica per adolescenti del West Yorkshire", definizione eccessiva che pesava sulle spalle curve dello psicologo basso e rosso di capelli con l'alito che sapeva di cipolla cruda e che aveva ricevuto Jackson nello sgabuzzino improvvisato che a scuola veniva spacciato per infermeria. Quello psicologo dalla barba fulva gli aveva detto di voltare pagina e continuare a vivere, ma Jackson aveva solo dodici anni e non sapeva di che pagina stesse parlando. Si chiese quante volte la gente avesse suggerito anche a Theo di fare altrettanto. Theo Wyre era rimasto bloccato a un punto appena successivo all'inizio del processo di elaborazione del lutto, un punto che aveva fatto suo, nel quale, se combatteva con sufficiente energia, avrebbe potuto riportare in vita sua figlia. Ma non sarebbe andata così. Jackson sapeva che i morti non ritornavano. Mai. Il maglione da golf giallo. Era quello il dettaglio che avrebbe dovuto condurli all'assassino. Nessun cliente di Theo aveva mai espresso alcun interesse per il golf (era il golf quello che chiamavano il "gioco dei re", o era il tennis?) Questa indifferenza nasceva dal fatto che gran parte dei clienti di Theo erano donne - i casi che affrontava erano quasi tutti divorzi e cause per violenze domestiche. (Ma allora perché, il giorno della morte di sua fi-
glia, era a Peterborough per un contenzioso su una proprietà fondiaria?) Passare in rassegna le sue cartelle era davvero deprimente: contenevano una sfilata interminabile di donne picchiate, maltrattate e sconfitte, per non parlare di tutte quelle che erano semplicemente infelici e non potevano più nemmeno sopportare la vista del poveraccio con cui erano sposate. Era educativo (anche se Jackson non ne aveva certo bisogno), perché Theo era straordinariamente bravo nel documentare i banali dettagli del fallimento, la litania di minuscoli difetti e mancanze che per un profano non significavano niente, ma che visti dall'interno sembravano enormi: «Mi compra i garofani, i garofani fanno schifo, lo sanno tutte, ma allora perché lo fa?» «Non gli viene mai in mente di mettere un po' di disinfettante nel water, anche se io glielo lascio lì sotto gli occhi e gliel'ho anche chiesto, gliel'ho chiesto mille volte». «Le poche volte che si mette a stirare lo fa con quell'aria da "Guardami, sto stirando, guarda come lo faccio bene, stiro molto meglio di te, sono il migliore, lo faccio magnificamente"». «Se glielo chiedessi mi porterebbe la colazione a letto, ma non voglio doverglielo chiedere». Ma gli uomini lo sapevano quanto davano sui nervi alle donne? Theo Wyre lo sapeva sicuramente. Jackson aveva sempre fatto il bravo, non lasciava mai alzata la ciambella del water e tutti quegli altri luoghi comuni, e comunque era in minoranza, due donne contro un uomo solo. I maschi ci mettevano parecchio a diventare uomini, ma le femmine erano donne fin dall'inizio. Jackson aveva sperato in un secondo bambino; gli sarebbe piaciuta un'altra figlia, anzi, a dire la verità gli sarebbe piaciuto averne cinque o sei. I maschi gli erano fin troppo familiari, ma le femmine, le femmine erano straordinarie. Josie non aveva mostrato alcun interesse all'idea di avere un altro figlio e nell'unica occasione in cui Jackson gliel'aveva suggerito gli aveva lanciato un'occhiataccia ribattendo: «Allora fattelo da solo». Poteva indossare un maglione da golf anche una persona non interessata a quello sport? E a quel punto che cosa lo rendeva un maglione da golf piuttosto che un maglione normale? Jackson aveva frugato tra le fotografie scattate dalla polizia finché non aveva trovato quella di un maglione giallo che, secondo i testimoni oculari, era "molto simile" a quello indossato dall'assassino di Laura Wyre. Le testimonianze oculari si rivelarono inutili. Jackson scrutò attentamente il piccolo disegno sul maglione, la minuscola sagoma di un giocatore di golf in procinto di tirare un colpo. L'avrebbe indossato anche uno che non giocava a golf? Forse sì se l'aveva comprato in un negozio dell'usato, ed era disposto a chiudere un occhio visto che era un
maglione di qualità (60 per cento pura lana vergine, 40 per cento cashmere) e non costava tanto. Giallo come il pericolo, come quei minuscoli ranocchi velenosi. La ragazza vagabonda, quella mattina in St Andrew's Street, aveva i capelli del colore di quei ranocchi. Le era quasi andato a sbattere contro, mentre andava da Estasi. Aveva con sé un cane, una specie di piccolo levriero. «Mi può aiutare?» gli aveva chiesto, lui si era accovacciato per non sovrastarla e aveva detto: «Cosa vuoi che faccia?» e lei, fissando un punto indefinito, in lontananza, aveva risposto: «Non lo so». Aveva una brutta pelle e sembrava una drogata, una bambina perduta. Lui era in ritardo, quindi aveva lasciato lì la ragazza con i capelli giallo ranocchio pensando «Quando torno le chiedo come si chiama». E i mariti di tutte quelle donne scontente sullo schedario di Theo, uno di loro giocava forse a golf? La polizia aveva indagato su tutti quanti e aveva scoperto che due erano golfisti, però possedevano entrambi alibi di ferro. Aveva anche indagato sugli ex, alla ricerca di rancori per divorzi e relazioni clandestine, per liti sulla custodia, sul mantenimento dei figli e sugli alimenti, e non era riuscita a trovare un solo sospettato plausibile. Aveva interrogato tutti, annotato gli alibi di ciascuno, perfino rilevato il Dna e le impronte digitali, anche se sulla scena del delitto non c'erano né Dna né impronte perché l'uomo non aveva toccato nulla, non aveva nemmeno aperto la porta dell'ufficio - quella di sotto era già aperta e la ragazza della reception (Moira Tyler) aveva riferito che l'uomo aveva aperto quella interna con il gomito. Quindi era entrato, aveva puntato dritto verso la sala riunioni sul retro, zac, zac, ed era uscito. Niente confusione, niente insulti, niente urla, niente invocazioni di vendetta. Sembrava più un assassinio su commissione che un delitto passionale. Crime passionnel. Si era portato via il coltello, che non era più stato ritrovato. Jackson aveva esaminato gli ex a cui il tribunale aveva intimato di stare lontani dalla compagna. Nada. Rien. Tutti erano stati interrogati, e tutti avevano alibi che tenevano. Se poi l'assassino aveva qualche rapporto con la vita privata di Theo, be', pareva proprio che Theo una vita privata non ce l'avesse, a parte le figlie, a parte Laura. L'altra, Jennifer, non la nominava quasi mai. (Ma perché?) Julia sembrava addormentata. Amelia, sprofondata sul sedile, fissava il tappeto con aria cupa. Si stava comportando in modo terribile. Jackson si aspettava che qualcuno avrebbe sancito quella morte, che da qualche parte
sarebbe sbucato un vicario a pronunciare qualche parola impersonale prima di affidare Victor al nulla, quindi restò stupefatto quando la bara scivolò silenziosamente via e scomparve dietro le tende con la stessa noncuranza di una valigia su un nastro trasportatore. «Tutto qui?» disse a Julia. «Perché, cosa credeva?» domandò Amelia, alzandosi e dirigendosi a grandi passi fuori dalla cappella con quelle zampe rosse da uccello. Julia prese il braccio di Jackson, lo strinse e uscirono insieme dalla cappella del crematorio, come se si fossero appena sposati. «Non è illegale,» disse in tono vivace. «Abbiamo controllato.» Faceva caldo, non c'era affatto un clima da funerale, e Julia, che appena usciti aveva cominciato a starnutire, commentò allegramente: «Sì, fa caldo, ma non come nel posto dove si trova adesso papà». Jackson inforcò i suoi occhiali da sole Oakley, e Julia commentò: «Oo-la-la, che aria seria, signor B., pare proprio un agente dei servizi segreti» e Amelia emise un suono simile a quello di un maiale che grufola. Era ferma sul sentiero, li aspettava. «Tutto qui?» ripeté Jackson, liberandosi dalla stretta di Julia. «No, certo che no,» disse Amelia. «Adesso ci prendiamo un tè e una fetta di torta.» «Se lei fosse un cane, di che razza crede che sarebbe?» Julia si ficcò in bocca un bel pezzo di dolce. «Non saprei». Jackson si strinse nelle spalle. «Un labrador, forse?» ed entrambe avevano urlato, all'unisono: «No!», incredule, come se anche il solo pensarlo fosse pura follia. «Lei non è per niente un Labrador, Jackson,» disse Julia. «I labrador sono banali.» «I labrador color cioccolato no,» replicò Amelia. «Sono quelli a pelo chiaro che sono... noiosi.» «I labrador color cioccolato». Julia scoppiò a ridere. «Secondo me bisognerebbe poterli mangiare.» «Credo che il signor Brodie sia un pointer inglese,» affermò Amelia, decisa. «Davvero?» esclamò Julia. «Perdiana. Non ci avrei mai pensato». Jackson non si era reso conto che c'era gente che diceva ancora "perdiana". Le sorelle Land facevano un gran chiasso. Erano davvero imbarazzanti. Avrebbe voluto che non fossero così espansive. Certo, a Cambridge la follia era endemica, quindi non è che si facessero poi troppo notare. Ma l'avrebbe imbarazzato moltissimo trovarsi con loro in un caffè nella sua cittadina natale, su al nord, dove ormai nessuno diceva più "perdiana" da secoli. Quel giorno parevano entrambe alquanto vivaci, stato d'animo che a
quanto pareva era collegato al fatto di aver appena cremato il padre. Julia si dedicò alla seconda tazza di tè. Faceva troppo caldo per il tè; Jackson avrebbe voluto una birra ghiacciata. La tazza bianca di Julia recava un'impronta di rossetto e a Jackson tornò subito alla mente sua sorella. Lei però portava un rossetto meno appariscente, rosa pastello, e lasciava l'impronta spettrale delle labbra su ogni tazza e bicchiere da cui aveva bevuto. Il pensiero di Niamh gli appesantì il cuore nel petto, e in senso letterale, non metaforico. «No, secondo me no,» disse Julia dopo avere meditato sulla domanda (ma andavano mai d'accordo su qualcosa?) «No, un pointer no. E sicuramente non inglese, magari un Antico Pointer Danese, e dico "Antico" con la A maiuscola, nel caso che lei, signor Brodie, pensi che mi stia riferendo alla sua età. O forse un Pointer Francese Gigante. Lo stesso dicasi per "Gigante", signor Brodie. Ma sai, Milly, credo che il signor Brodie sia un pastore tedesco. Si vede lontano un miglio che ti tirerebbe fuori da una casa in fiamme o da un fiume in piena. Lui sì che ti salverebbe!» Si girò verso Jackson e gli elargì un luminoso sorriso teatrale. «Vero?» «Lei dice?» replicò Jackson. Amelia si alzò bruscamente e annunciò: «Molto carino, ma non possiamo certo passare la giornata a divertirci», Julia fece altrettanto ed esclamò: «Sì, andiamo, Milly, forza, dobbiamo fare shopping. Mystery shopping,» aggiunse «. Amelia grugnì commentando:» Detesto il mystery shopping. Jackson tirò fuori il portafoglio per pagare il conto. Dentro ci aveva messo la fotografia di Olivia e ogni volta che l'apriva per tirare fuori una delle sue carte di credito quasi esaurite vedeva quella faccia e quel sorriso. Certo, non sorrideva mica a lui, ma a chiunque si trovasse dietro l'obiettivo. «Mamma,» spiegò Julia. «Papà non scattava mai foto». Tutti e tre si misero a fissare l'immagine con aria triste. «Io e Julia siamo le uniche,» disse Amelia. «Siamo le uniche due persone rimaste al mondo che si ricordano di lei. Non possiamo scendere nella tomba senza sapere cosa le è accaduto.» «Perché proprio adesso, dopo tutto questo tempo?» domandò Jackson. «Non è "dopo tutto questo tempo",» precisò Amelia, irritata. «Non ci siamo mai dimenticate di Olivia. È solo che dopo aver trovato Topoblù, non so, è come se lui avesse trovato noi.» «Siamo in tre,» Julia corresse Amelia. «Sylvia si ricorda di Olivia.» «Sylvia?»
«Nostra sorella maggiore,» spiegò Amelia in tono noncurante. Jackson attese, lasciando che fosse quel silenzio a formulare la domanda. Alla fine fu Julia a rispondere. «È in convento.» «E quando esattamente avevate intenzione di parlarmene?» domandò Jackson, cercando di non sembrare seccato quanto era in realtà. «Glielo diciamo adesso,» disse Julia, quasi fosse l'incarnazione stessa della ragionevolezza. «Non faccia il burbero, signor Brodie, lei è una persona molto più simpatica di quanto non finga di essere.» «No, non è vero,» replicò Jackson. «Invece sì,» insisté Julia. (Ma perché non se ne andavano, Cristo santo?) A un tratto, con grande sorpresa di Jackson, si alzò sulle punte e gli diede un bacio sulla guancia. «Grazie,» disse, «per essere venuto al funerale e tutto il resto.» Jackson iniziò a preoccuparsi di essere in ritardo. Tornando al parcheggio dovette combattere contro una mandria di studenti stranieri inconsapevoli dell'esistenza degli altri abitanti del pianeta, tranne gli adolescenti come loro. D'estate, invasa da un miscuglio di turisti e ragazzini stranieri, tutti quanti apparentemente creati al solo scopo di bighellonare, Cambridge si trasformava per Jackson in un inferno. Gli studenti d'inglese parevano in assetto da combattimento, portavano pantaloni militari e capi mimetici, come se fosse scoppiata la guerra e fossero loro l'esercito (per carità, che Dio ci aiuti). E le biciclette: perché la gente pensava che le biciclette fossero una buona cosa? Perché i ciclisti erano così tronfi? Perché passavano sui marciapiedi quando c'erano ottime piste ciclabili? E chi aveva pensato che fosse una buona idea noleggiare biciclette agli studenti italiani? Se esisteva l'inferno, e Jackson ne era certo, era sicuramente governato da un gruppo di quindicenni italiani in bicicletta. E per quanto riguardava i turisti... affascinati dai college, dalla storia, non volevano vedere cosa c'era dietro, il denaro e il potere. I vasti terreni che i college possedevano, non solo a Cambridge, anche se erano i padroni di quasi tutta la città. I college avevano una grossa influenza su licenze e affitti e Dio solo sa su cos'altro. Una volta aveva sentito dire che si poteva percorrere a piedi tutta l'Inghilterra senza mai lasciare i terreni di proprietà del Trinity College. E tutti quei magnifici giardini: per entrarci bisognava pagare. Tutte quelle ricchezze e privilegi nelle mani di pochi, mentre le strade erano piene di gente che non aveva niente, mendicanti, alcolizzati, matti. Cambridge pareva avere un'incidenza particolarmente alta di follia.
Però - anche se di poco - Jackson preferiva la popolazione estiva ai fighetti arroganti del periodo scolastico. Era soltanto l'invidia delle classi inferiori? La voce che sentiva nella testa era quella di suo padre? Jackson temeva di diventare un vecchio brontolone. Ma forse diventare un vecchio brontolone non era necessariamente una brutta cosa. Certo, avere il mal di denti perenne non aiutava affatto. («Trattamento endodontico» gli aveva mormorato all'orecchio Sharon in tono seducente durante l'ultima visita). Jackson parcheggiò in doppia fila fuori dalla casa. Alle finestre c'erano veneziane di legno sollevate in modo da lasciargli scorgere il soggiorno librerie alte fino al soffitto, palme in vaso, grandi divani - squallido ma artistico, da docente universitario. La strada era intasata da enormi Suv, veicoli tipici delle madri borghesi, che sui lunotti posteriori esibivano gli immancabili adesivi "Bambino a bordo" e "Neonato a bordo". Jackson si accese una sigaretta e mise su, come antidoto, Sweet Old World di Lucinda Williams. Al cancello erano stati legati dei palloncini che la contrassegnavano ufficialmente come casa en fête. Dal giardino sul retro si alzarono grida isteriche di bambine, che riempirono l'aria come richiami di terrificanti uccelli preistorici. I Suv erano vuoti, le conducenti erano tutte dentro, ma Jackson decise di restare in auto. Non se la sentiva di affrontare l'inquisitorio calore femminile che lo accoglieva tutte le volte che faceva il suo ingresso in un branco di madri. Sfogliò alcune delle numerose carte e cartelle che si era portato dietro da casa di Theo. La stanza - la sala operativa, cioè - non era la camera da letto di Laura, quella si trovava sul retro, e dava sul giardino. Jackson si aspettava che fosse stata preservata come il giorno in cui la ragazza ne era uscita per l'ultima volta - era già entrato in sacrari del genere, che diventavano anno dopo anno sempre più tristi e sbiaditi - ma con sua grande sorpresa scoprì che nella stanza di Laura non era rimasta alcuna traccia di lei. Era arredata in colori neutri, come una camera d'albergo, e sembrava riservata agli ospiti. «Anche se io di ospiti non ne ho» aveva precisato Theo, con quel suo sorriso triste e abbacchiato. Sembrava un grosso cane malinconico, un terranova o un sanbernardo. Oh no, stava cominciando a ragionare come Julia. Che cane era, lui? Aveva detto labrador perché era il primo che gli era venuto in mente. Jackson non conosceva i cani, non ne aveva mai avuto uno, nemmeno da ragazzo. Suo padre li detestava. Jackson pensò a com'era la camera di Laura Wyre dieci anni prima. Una trapunta patchwork, un acquario di pesci tropicali, un mucchio di orsacchiotti sul letto. Libri ovunque, vestiti sul pavimento, cosmetici, fotografie.
Disordinata come ci si può aspettare dalla camera da letto di una diciottenne. Ma non era questa l'impressione che Theo dava di Laura, ora. La morte aveva cancellato tutti i suoi difetti, a cominciare dal disordine. Nel ricordo del padre era diventata una santa, una ragazza perfetta. Jackson si disse che forse era naturale. Dieci anni prima alla parete c'era una fotografia incorniciata - una fotografia di Laura con un cane. Lei era carina, aveva un bel sorriso. Pareva proprio una brava ragazza, non una santa, ma una brava ragazza. Jackson pensò a Olivia, al sicuro nel portafoglio, nella sua tasca, che sorrideva, non vista, nelle tenebre. "Clausura". Questo aveva detto Amelia quando le aveva domandato se avevano invitato la sorella al funerale. («Neanche Sylvia?») «Certo che gliel'abbiamo detto,» aveva risposto, «ma non può venire, non glielo permettono. È in clausura.» Anche Olivia era in clausura da qualche parte, sotto un pavimento, sottoterra? Poco più che un mucchietto di ossicini da leprotto, in attesa di essere trovato. Jackson era entrato nella camera di Laura per fatalità. All'epoca lavorava a un altro caso, una ragazza di nome Kerry-Anne Brockley, scomparsa dalla zona urbana di Chesterton. Kerry-Anne aveva sedici anni, era disoccupata e sicuramente non era vergine. Era stata uccisa mentre tornava a casa dopo una serata con gli amici - violentata, strangolata e scaricata in un campo fuori città. Rientrava a piedi dalla discoteca alle due del mattino, molto truccata e in abiti succinti, e qualcuno aveva insinuato che quello che le era successo se l'era cercato, in fondo. Ma non quelli della squadra di Jackson. Se avesse anche solo immaginato che uno dei suoi agenti poteva pensare una cosa simile, gliel'avrebbe fatta pagare. Non avevano ancora fermato un sospetto, ma tornando a casa per la prima notte di sonno da giorni, Jackson aveva scroccato un passaggio in un'auto di pattuglia insieme a un agente incaricato dei rapporti con le famiglie (una donna che si chiamava Alison e che Jackson avrebbe dovuto sposare, altro che Josie). Alison doveva restituire a Theo alcune foto di Laura. Fotografie, sempre fotografie. Intense immagini di ragazze che se ne erano andate. Le Kerry-Anne e le Olivie e le Laure, tutte preziose, tutte perdute per sempre. Tutte ragazze perfette. Sacrificate a qualche divinità sconosciuta e malvagia. Ti prego, Dio, fa' che non accada a Marlee. Aveva aperto Theo Wyre, un uomo scavato dal dolore, con una faccia color formaggio, aveva pensato Jackson in quel momento. Aveva offerto loro il tè e Jackson aveva pensato - né per la prima né per l'ultima volta - a
com'era strano che la gente riuscisse a tirare avanti, anche quando il loro mondo cessava di esistere. Theo aveva anche servito una torta dicendo: «Ciliegie e mandorle, l'ho fatta il giorno prima che morisse. Si mantiene bene». Poi aveva scosso la testa con aria triste, come se non riuscisse a credere che la torta esisteva ancora, mentre sua figlia non c'era più. Ovviamente non l'avevano mangiata. Jackson aveva detto: «Le dispiace se do un'occhiata alla stanza di Laura, signor Wyre?» perché sapeva che per Theo Wyre lui era solo l'ennesimo detective, non una persona che si occupava di quel caso. Da parte di Jackson era stata soprattutto curiosità: niente suggeriva che l'omicidio di Laura Wyre fosse legato al "suo" omicidio, quello di Kerry-Anne Brockley. Ed era soltanto una camera, la camera in disordine in cui una ragazza non sarebbe mai più rientrata, non avrebbe mai più buttato a terra la borsa e non avrebbe mai più calciato via le scarpe, non si sarebbe più distesa sul letto a leggere un libro o ad ascoltare lo stereo, non avrebbe mai più dormito il sonno irrequieto e innocente dei vivi. Era accaduto due anni prima della nascita di Marlee e Jackson non sapeva allora ciò che sapeva adesso - cosa significava amare un bambino, sentirsi capaci di sacrificare la propria vita in qualsiasi momento pur di salvare la sua, ritenerlo la cosa più preziosa del mondo. Josie non gli mancava più come avrebbe creduto, ma Marlee gli mancava quasi sempre. Ecco perché non voleva occuparsi del caso di Theo Wyre. Theo lo terrorizzava, rendeva la morte di sua figlia un'idea possibile, lo costringeva a immaginarla, a sostituire Marlee con Laura. Ma cosa poteva fare? Non poteva dire di no a quel poveretto, a quell'obeso che ansimava e aspirava dal suo inalatore, a cui non era rimasto che un ricordo - la forma di uno spazio in cui avrebbe dovuto trovarsi una donna di ventotto anni. Theo aveva avuto un corpo, Amelia e Julia ancora ne cercavano uno. Rispetto a Laura, Olivia era uno spazio di tipo diverso, un mistero incorporeo, una domanda senza risposta. Un enigma in grado di stuzzicarti fino a farti impazzire. Jackson non avrebbe mai trovato Olivia, non avrebbe mai scoperto che cosa le era accaduto, ora lo sapeva, doveva soltanto trovare il momento giusto per dirlo anche a loro. Non sarebbe nemmeno mai riuscito a farsi pagare, giusto? Mi dispiace, la vostra sorellina è morta, andata per sempre, sono 500 dollari, prego. («Sei troppo tenero per questo mestiere» gli diceva ogni mese Deborah Arnold, mentre teneva la contabilità, «troppo tenero o troppo stupido»). Se fosse stata Marlee e lui avesse dovuto decidere - morta o scomparsa
per sempre - cos'avrebbe scelto? No, non ce la faceva, non riusciva nemmeno a sopportare l'idea, non voleva indurre in tentazione il destino. Entrambe le possibilità contemplavano l'ipotesi peggiore che potesse verificarsi. Cosa fai quando la peggior cosa che ti può capitare ti è già successa come fai a vivere la tua vita? Bisognava riconoscerglielo, a Theo Wyre: continuare a vivere richiedeva un coraggio che la maggior parte delle persone non aveva. La porta si aprì e le ragazzine e le madri della festa si riversarono in strada facendo tutto il rumore possibile. Jackson ficcò in fretta le foto della scena dell'omicidio di Laura Wyre sotto il sedile accanto al suo. Stava per scendere dall'auto ed entrare quando Marlee corse fuori. Cristo, era vestita come una sgualdrina. Ma cos'aveva in testa Josie, a farla andare in giro conciata come un'esca per pedofili? Aveva perfino il rossetto. Pensò a JonBenet Ramsay. Un'altra bambina perduta. Prima, da Estasi, era entrata una ragazza, un'amica della segretaria (Milanda - un nome inventato?) e aveva preso appuntamento per "una brasiliana". Milanda aveva commentato: «Ah sì?» e lei: «È il mio ragazzo che vuole che me la faccia, vuole fingere di fare l'amore con una più giovane». Milanda aveva ripetuto: «Ah sì?» come se fosse una ragione sufficiente. Jackson conosceva le statistiche, sapeva quanti noti pedofili si aggiravano in ciascuna zona, sapeva che si radunavano, fitti come mosche, attorno a campi giochi, scuole, piscine (e case con i palloncini appesi al cancello). Se fosse stato un pedofilo, Jackson si sarebbe appostato da Claire's Accessories. «E se esiste la reincarnazione e ti tocca tornare sulla terra nel corpo di un pedofilo? Cosa devi aver fatto per meritare un destino del genere?» E le ragazze perfette, sotto che forma tornavano? Stormi di colombe, boschi d'alberi? «Ciao, tesoro? Ti sei divertita?» («Ti sei precipitata in strada senza sapere che c'era qualcuno che ti aspettava?») «Dove stavi andando? Lo sapevi che ero qui?» «Sì.» «Ti sei ricordata di ringraziare?» «Sì. Ho detto "Grazie mille per avermi invitato".» «Mi stai raccontando una balla,» disse Jackson. «No, non è vero.» «Sì, invece, è la prima cosa che ti insegnano per gli interrogatori. Quando cerca di ricordare, la gente guarda in alto a sinistra e quando sta inven-
tando in alto a destra. Tu stavi guardando in alto a destra». «Chiudi il becco, Jackson. Non ti ascolta nemmeno». «C'hai preso,» replicò lei in tono indifferente. «C'ho preso?» Ma che razza di linguaggio era quello? Aveva l'aria esausta e un'ombra scura sotto gli occhi. Ma cosa facevano a quelle feste? Era madida di sudore. «Ballavamo,» rispose, «la musica di Christina Aguilera, è da sballo». Fece una mossetta per mimare il ballo, una mossetta così sexy che Jackson si sentì morire. Aveva otto anni, Cristo santo. «Bene, tesoro». Profumava di zucchero e sudore. Gli tornò in mente la prima volta che l'aveva presa in braccio, la testa gli entrava tutta intera nel palmo della mano, e Josie aveva detto: «Fai attenzione» (come se non ci avesse pensato) e lui aveva giurato che non le sarebbe mai accaduto nulla di male, che sarebbe sempre stata al sicuro. Una promessa solenne, un voto. Theo Wyre aveva forse formulato lo stesso voto la prima volta che gli avevano messo in braccio Laura? Quasi sicuramente. (E Victor Land?) Ma Jackson non poteva garantire la sicurezza di Marlee né quella di nessun altro. Si era sicuri solo da morti. Theo era l'uomo più ansioso del mondo, ma l'unica cosa di cui non si preoccupava più, ormai, era la sicurezza di sua figlia. «Sei tutto sporco di rossetto,» gli disse Marlee. Jackson si esaminò nello specchietto retrovisore e scoprì sulla guancia l'impronta netta della bocca cremisi di Julia. La strofinò con piglio aggressivo, ma il colore gli restò sulla faccia, come una macchia accaldata. «Era un frugoletto,» stava dicendo Binky Rain, anche se Jackson non la stava ascoltando. Si era lasciato coinvolgere da un passaggio dei Carmina Burana e aveva detto a Marlee: «Ti va se lungo la strada ci fermiamo a trovare una vecchia signora?» addolcendo quell'invito non molto invitante con la promessa dei gatti. Così ora Marlee si rotolava nella giungla piena di erbacce del giardino di Binky insieme a un assortimento di felini riluttanti. «Ed è figlia sua?» disse Binky, guardando Marlee con aria dubbiosa. «Non ce la vedo, come padre.» «No?» rispose lui in tono assente. Stava pensando a Olivia Land; anche lei era un frugoletto. Si era allontanata da sola? Amelia e Julia sostenevano di no, che era molto "obbediente". Abbastanza da uscire dalla tenda nel bel mezzo della notte e seguire qualcuno che gliel'aveva chiesto? E per andare
dove? Jackson aveva cercato di convincere la sua vecchia collega Wendy a lasciargli esaminare gli indizi relativi al caso di Olivia conservati nell'archivio della polizia, ma anche se lei avesse accettato non sarebbe servito a niente, perché erano scomparsi. «Mi dispiace, Jackson, sono spariti,» aveva detto Wendy. «A volte succede. Trentaquattro anni sono un bel po' di tempo.» «Mica poi tanto,» aveva risposto lui. Anche se il caso di Olivia non era mai stato ufficialmente chiuso, poche delle persone che ci avevano lavorato erano ancora vive. Era successo prima che arrivassero i sofisticati esami del Dna e i profili creati dalla polizia, prima dei computer, Cristo santo. Se fosse stata rapita ora, sarebbe stato più facile trovarla. Forse. Tutti i detective che avevano lavorato al caso erano morti e l'unica persona che Jackson era riuscito a rintracciare era un agente investigativo, una certa Marian Foster, che doveva aver condotto gran parte degli interrogatori con le ragazze Land. Era appena andata in pensione dopo aver lavorato come sovrintendente in un distretto di polizia del nord troppo vicino alla città natale di Jackson perché la prospettiva di passarla a trovare lo entusiasmasse. Naturalmente, oggi i genitori sarebbero le prime persone a cui pensare, soprattutto il padre. Quanto si era accanita la polizia nell'interrogare Victor? Se il caso fosse stato suo, Jackson avrebbe indicato come primo sospetto proprio Victor Land. Stando attento che Marlee non sentisse, domandò a Binky: «Si ricorda la scomparsa di Olivia Land? Una bambina di qui, rapita, trentaquattro anni fa?» «Frisky,» replicò Binky, tenacemente fedele alle sue intenzioni. «È poco più che una cucciola.» «La famiglia Land,» insisté Jackson, «li conosceva? Lui era docente di matematica al St John's, avevano quattro figlie piccole». Non avrà mica dimenticato la scomparsa di una bambina in una via del quartiere, no? «Oh, quelle mocciose,» disse Binky. «Erano delle selvagge, completamente indisciplinate. Secondo me i bambini non si dovrebbero né sentire né vedere. Famiglie come quella si meritano quello che gli è capitato, davvero». Jackson pensò a diverse risposte a questa osservazione, ma alla fine decise di tenersele per sé. «E, naturalmente,» continuò Binky, «lui era figlio di Oswald Land, il cosiddetto eroe del Polo, e posso assicurarle che era un ciarlatano fatto e finito.» «Ricorda di avere visto qualcuno che non era di queste parti, uno sconosciuto?»
«No. La polizia fu davvero una scocciatura, andavano di casa in casa a fare domande. Mi perquisirono persino il giardino, da non credere. Io non li degnai della minima attenzione, può scommetterci. Era molto strana.» «Chi era strana? La signora Land?» «No, la grande, quella alta e pallida.» «Strana in che senso?» «Molto scaltra. Sa, entravano sempre nel mio giardino, urlavano delle cose e rubavano i frutti dei miei magnifici meli. Questo era un frutteto così bello». Jackson guardò gli alberi, ora contorti e vetusti come Binky Rain. «Sylvia?» «Sì, si chiamava così.» Jackson lasciò la casa di Binky dal cancello in fondo al giardino. Era la prima volta che usciva da quella parte e fu sorpreso di trovarsi sul sentiero che costeggiava la parte posteriore del giardino di Victor. Non si era reso conto di quanto le due proprietà fossero vicine - si trovava a soli pochi metri dal punto in cui era stata piantata la fatidica tenda. Qualcuno aveva scavalcato il muro e aveva sorpreso Olivia addormentata? E poi se ne era andato dalla stessa parte? Era facile scalare un muro con una bambina di tre anni sulle spalle? Jackson avrebbe potuto riuscirci senza problemi. Il muro era soffocato dall'edera, che offriva un sacco di appigli per mani e piedi. Ma quella tecnica d'ingresso implicava un intruso e non spiegava perché il cane, di notte, non avesse abbaiato. Rascal. Era il tipo di cane che avrebbe abbaiato, secondo Amelia e Julia, quindi doveva aver riconosciuto il rapitore. A quante persone non avrebbe abbaiato? Diede uno strattone all'edera e nel muro scoprì un cancello, identico a quello di Binky. Pensò a Il giardino segreto, un film che aveva guardato in videocassetta con Marlee e che l'aveva affascinata. Non bisognava scalare niente, bastava entrare. O forse nessuno era entrato e uscito con Olivia forse qualcuno l'aveva portata fuori e poi era rientrato senza di lei. Victor? Rosemary Land? Marlee era quasi addormentata quando arrivarono a casa di David Lastingham. Sarebbe mai riuscito a chiamarla la casa di Josie e David? (No). L'eccesso di zuccheri che aveva tanto eccitato Marlee si era trasformato in irritabilità. Era coperta di lappole e peli di gatto, il che avrebbe senza dubbio scatenato una lite con Josie. Jackson le aveva suggerito di dormire a casa sua, quella sera, così almeno avrebbe potuto lavarla, ma lei aveva ri-
fiutato perché «domattina andiamo a raccogliere frutti di bosco». «Raccogliere frutti di bosco?» ripeté Jackson, mentre suonava il campanello di David Lastingham. Pensò a uomini primitivi e contadini. «Così mamma può fare la marmellata.» «Marmellata? Tua madre?» La moglie ravveduta, la madre contadina che fa la marmellata, uscì dalla cucina leccandosi le dita. La donna che prima era troppo impegnata per cucinare - la regina dei surgelati - ora trascorreva le serate a preparare gustosi spezzatini e a condire insalate per la sua nuova famiglia. Era difficile credere che fosse la stessa donna che gli faceva i pompini mentre lui guidava, che lo inchiodava contro una superficie qualsiasi mugolando: «Forza, Jackson, adesso, sbrigati», che dormendo adattava il proprio corpo al suo, che ogni mattina, svegliandosi, si girava verso di lui e in tono assonnato gli diceva «ti amo ancora» come sollevata al pensiero che la notte non l'avesse privata dei suoi sentimenti per lui. Finché una mattina, tre anni dopo la nascita di Marlee, si era svegliata e non aveva detto niente. «Sei in ritardo,» lo apostrofò. «Dove sei stato?» «Siamo andati a trovare una strega,» rispose Marlee. Le chat noir. Les chats noirs. Ma gli chats avevano un sesso? Esistevano le chattes? «Bonsoir Jackson». Joan Dodds lo salutò mettendo l'accento su soir invece che su bon. Disprezzava i ritardatari. «Bonsoir Jackson,» intonò l'intera classe mentre lui faceva il suo ingresso con aria imbarazzata. «Vous êtes en retard, comme toutes les semaines,» disse Joan Dodds. Era una maestra in pensione con un carattere da perfetta dominatrix. Jackson ricordava un'epoca della sua vita in cui pareva che le donne lo volessero rendere felice. Adesso, invece, sembravano sempre arrabbiate. Si sentì come un piccolo discolo. «Je suis désolé,» rispose. I francesi erano davvero strani, riuscivano a far sembrare estremo e disperato anche un semplice "scusi". Da Estasi, Jackson aveva mostrato a Milanda le proprie credenziali e le aveva chiesto di vedere il luogo in cui era stata uccisa Laura Wyre. «Che morbosità» era stato l'unico commento della donna. Ora la sala riunioni, come gli aveva spiegato Theo, veniva utilizzata come magazzino. Il carrello degli smalti era stato spostato e non fungeva più da cenotafio. Il sangue di Laura era lì, in bella vista, una macchia slavata (ma non abbastanza) sul
parquet nudo. «Cristo,» esclamò Milanda, finalmente risvegliata dal proprio torpore. «Credevo che fosse vernice o qualcosa del genere. È disgustoso.» Uscendo, aggiunse: «Il suo fantasma non è qui. Me ne sarei accorta. Ho un sesto senso, se ci fosse l'avrei sentita.» «Davvero?» disse Jackson. Milanda gli pareva strana, per essere una che diceva di avere il sesto senso, ma lei continuò: «Oh sì, sono la settima figlia di una settima figlia» e Jackson pensò «Roba da contadini che si accoppiano tra consanguinei». Milanda lo fissò con occhi azzurro cielo - un colore stupefacente e innaturale che, se ne rese conto dopo, doveva essere frutto di lenti a contatto - e continuò: «Lei, per esempio». E Jackson: «Sì?» «Sì,» replicò Milanda, «i gatti neri le portano molta fortuna». E Jackson provò un inatteso senso di delusione perché per un attimo, strano e inquietante, aveva pensato che gli avrebbe davvero fornito una rivelazione portentosa. 9 Amelia «Non faccia il burbero, signor Brodie,» scimmiottò Amelia. «Ma come ti sei ridotta, Julia?» (E l'aveva baciato! L'aveva baciato davvero! ) «Perché non ti sei spogliata lì in mezzo alla strada?» «Oh, mi sa tanto che sei gelosa, Milly!» Julia scoppiò a ridere di (crudele) compiacimento. «Cosa direbbe Henry se lo scoprisse?» «Chiudi il becco». Amelia si rese conto che stava arrossendo e prese a camminare più in fretta per allontanarsi dalla sorella. Julia dovette mettersi a correre per tenerle dietro. Aveva il fiato corto e Amelia pensò che era assurdo che una persona con la febbre da fieno fumasse così tanto. Non la commiserava neanche un po'. «Dobbiamo proprio andare così in fretta? Hai le gambe molto più lunghe delle mie.» Si trovavano in St Andrew's Street e si stavano avvicinando a una ragazza seduta a terra su un vecchio lenzuolo, con un cane - un bastardino - allungato lì accanto. A Jackson non era importato un fico secco quando lei gli aveva detto che somigliava a un pointer inglese, ma era sembrato piuttosto compiaciuto quando Julia gli aveva detto di trovarlo identico a un pastore tedesco. E Julia l'aveva scelto proprio perché era il cane giusto, non un dobermann, non
un rottweiler, e sicuramente non un pointer - era un pastore tedesco, non c'era dubbio. Lei gli aveva mentito, be', mentito non era la parola giusta, ma gli aveva lasciato credere di essere un'illustre professoressa di Oxford, mentre in realtà era soltanto l'insegnante di "tecniche della comunicazione" (che definizione ridicola) presso un corso parauniversitario, e i suoi studenti erano manovali, muratori apprendisti e compagnia bella. Avrebbe voluto amare quei ragazzi, pensare che erano bravi - forse un po' troppo esuberanti, ma in fondo esseri umani degni di rispetto - ma non era vero, erano un branco di stronzetti che non ascoltavano una parola di quello che diceva. Julia, naturalmente, fu subito attratta dal cane della ragazza, il che significava che una delle due avrebbe dovuto darle dei soldi: non si potevano fare tante storie per il cane e poi non darle niente in cambio, no? Julia era in ginocchio sul marciapiede e lasciava che il cane le leccasse il viso. Amelia avrebbe preferito che non lo facesse, chissà dov'era stata quella lingua - be', facile immaginarlo, ecco perché era meglio non farsi sbavare in faccia. La ragazza aveva i capelli gialli, uno strano color canarino, e una faccia giallastra, quasi itterica. Di solito Amelia dava dei soldi ai mendicanti e a quelli che vendevano The Big Issue, il giornale dei senzatetto, ma di recente era diventata più circospetta. Una volta a Oxford, in High Street, aveva incrociato una delle sue allieve che chiedeva l'elemosina. Amelia sapeva per certo che quella ragazza - Lisa, aiuto parrucchiera - viveva comodamente a casa con i genitori, e che il cane che aveva con sé (quelli avevano tutti dei cani) era di famiglia. E poi è risaputo che un sacco di barboni in realtà hanno la casa, e a volte anche l'auto. Risaputo? E lei come faceva a saperlo? Probabilmente l'aveva letto sul «Sun», i manovali se ne lasciavano sempre dietro qualche copia. A un tratto la sua mente evocò un'immagine straordinaria - copie del sole disseminate in modo noncurante in tutto l'universo, come monete d'oro. Scoppiò a ridere, la ragazza la guardò e le chiese: «Può aiutarmi?» Al che Amelia rispose: «No.» «Oh, Milly, per l'amor di Dio,» esclamò Julia, abbandonando le moine rivolte al cane e frugando nella borsa alla ricerca del portamonete, «nella vita è solo questione di fortuna, lo sai». Poi trovò una banconota da cinque sterline - cinque sterline che in realtà avrebbe dovuto restituire ad Amelia e la tese alla ragazza, che la prese come se le stesse facendo un favore. Non era per i soldi, in realtà la ragazza non voleva quelli. Aveva chiesto una mano ad Amelia e Amelia le aveva detto la verità. Non poteva aiutarla,
non poteva aiutare nessuno. Tanto meno se stessa. «Le spenderà in droghe,» disse Amelia mentre si allontanavano. «Può spenderle come vuole,» replicò Julia. «Anzi, la droga mi sembra una buona idea. Se fossi nei suoi panni, anch'io le spenderei così.» «È proprio a causa della droga che si trova in quei panni.» «Come fai a dirlo? Non sai niente di lei.» «So che scrocca soldi alla gente che si spacca la schiena per guadagnarsi da vivere». Oddio, con l'età stava diventando fascista. Presto avrebbe invocato il ripristino dell'impiccagione e delle punizioni corporali, anzi, magari anche della pena di morte - certo, perché no? Be', il mondo era già abbastanza popolato, non era necessario farci stare anche quegli infami bastardi che torturavano bambini e animali e mannaiavano gli innocenti. "Infami bastardi", lo stesso linguaggio da quotidiano scandalistico dei manovali che leggevano il «Sun». Da come stavano andando le cose, ormai poteva anche disdire l'abbonamento al «Guardian». «"Mannaiare" è un verbo?» domandò a Julia. «Non credo proprio.» Be', allora era proprio arrivata alla frutta, ormai americanizzava le parole. Il crollo della civiltà era vicino. Si fermarono fuori da un fast food. L'interno pulsava di studenti stranieri e, non appena li vide, Amelia iniziò a lamentarsi. Era sicura che l'unica lingua che avrebbero imparato a Cambridge sarebbe stata composta di parolacce o descrizioni di cibo spazzatura. A Londra, Julia aveva fatto un sacco di mystery shopping per un'agenzia - controllava il servizio nei fast food e nelle pizzerie, nei negozi di abbigliamento delle strade più frequentate e nelle maggiori catene di farmacie. Praticamente era come recitare, e in più poteva anche tenersi la merce o mangiare il cibo. L'agenzia era rimasta piacevolmente sorpresa quando aveva saputo che si trovava a Cambridge, dove non avevano più qualcuno che svolgesse quel lavoro per loro. «Bene,» disse Julia consultando un foglio di carta, «dobbiamo ordinare un hamburger con patatine fritte e un Pollosnello senza patatine, una coca grande, un frappé alla banana e un affogato alla fragola.» «Che sarebbe?» «Un gelato. Più o meno.» «Io un Pollosnello non lo ordino,» disse Amelia. «Non lo farei nemmeno se tu fossi in pericolo di vita.»
«Sì, lo faresti. Ma non devi, ci penso io. E non dobbiamo portarli via. Consumiamo qui.» «Non è nemmeno grammaticalmente corretto» obiettò Amelia. «In questo pasto non c'è niente di grammaticale. Qui non si tratta di grammatica. Cerchiamo l'atteggiamento giusto. Valutiamo la qualità del servizio.» «Non posso prendere solo un caffè?» «No». Julia ricominciò a starnutire. Era sempre imbarazzante quando le veniva un attacco di starnuti, uno dopo l'altro, suoni esplosivi e incontrollabili, come le salve di un cannone. Una volta Amelia aveva sentito dire che è possibile prevedere il tipo di orgasmo di una donna solo sentendola starnutire. (Come se la cosa potesse interessare a qualcuno). Le bastò ripensare a quella cosa per provare imbarazzo. Da allora, per paura che fosse una notizia di pubblico dominio, Amelia si era sforzata di non starnutire mai in pubblico, se ci riusciva. «Per l'amor di Dio, prendi un altro Zyrtec,» sbottò, contrariata. Amelia si trovava molto a disagio in posti come quello. La facevano sentire vecchia e snob e questo, anche se era la verità, non le piaceva. Invece Julia era un camaleonte, si adattava subito a qualsiasi circostanza; gridò l'ordinazione al giovanotto brufoloso e imberbe dietro il banco (ma si lavavano le mani?) con una specie di accento dell'Essex che secondo lei avrebbe dovuto essere plebeo, ma che era in completo contrasto con i suoi vestiti. Il cappotto era bizzarro, pareva uscito da un disegno di Beardsley. Amelia non ci aveva ancora fatto caso. Era di un colore così acceso che sarebbe stato impossibile perderla di vista, a meno che non si sdraiasse su una collina coperta di erba verde estiva, diventando così invisibile. Quando era stata Olivia a diventare invisibile, indossava una camicia da notte di cotone che era appartenuta a turno a tutte loro e che una volta era stata rosa, ma quando l'aveva ereditata lei era di un colore slavato e indefinibile. Amelia la ricordava molto chiaramente entrare nella tenda con quella camicia da notte scolorita e le pantofoline rosa con il coniglietto, stringendo al petto Topoblù. Il cappotto di Julia era troppo grande. Si aprì e strascicò sul pavimento mentre maneggiava il vassoio con il cibo cercando di superare una muraglia invalicabile di studenti stranieri. Amelia continuava a dire, in tono seccato: «Mi scusi, mi scusi», ma non serviva: l'unico metodo per farli spostare era scansarli a gomitate. Quando alla fine riuscirono a trovare posto Julia iniziò ad attaccare
l'hamburger con una specie di voluttà primitiva. «Mmm, carne!» esclamò. «Sei sicura?» replicò Amelia. Se avesse mangiato una qualsiasi di quelle cose le sarebbe di sicuro venuta la nausea. «È carne, senza dubbio,» disse Julia. «Di quale animale, è un altro discorso. O quale parte dell'animale. In fondo una volta mangiavamo le code. Code di buoi. Buoi: ma che razza di plurale è?» «Forse viene dal latino. Dev'esserci un'intera generazione di bambini che pensa che "pollo" si scriva "McChicken".» «Ci sono cose ben peggiori.» «E cioè?» «Le meteore.» «La possibilità che una meteora entri in collisione con la terra non significa che dobbiamo per forza adeguarci alla totale americanizzazione della nostra lingua e della nostra cultura.» «Oh, Milly, chiudi il becco, fammi il favore.» Julia mangiò il Pollosnello, ma nemmeno lei riuscì ad affrontare l'affogato alla fragola. Amelia annusò incerta il frappé. Sembrava completamente artificiale, come se fosse stato creato in laboratorio. «Questa roba è chimica.» «Come tutto, del resto.» «Ah sì?» «Dai,» disse Julia, «basta chiacchiere, mettiamoci al lavoro». Tirò fuori un modulo e cominciò a riempirlo. «Il commesso ha salutato? Sono sicura di sì.» «Perché non ti metti gli occhiali? Senza non vedi un accidente.» «Cos'ha detto?» «Sei così vanitosa, Julia.» «Mi pare che abbia detto, "'Giorno".» «Non saprei, non ero attenta. Julia?» «Sono tutti australiani. L'intera forza lavoro inglese è composta da australiani.» «Julia. Julia, ascolta: quando Victor ti aiutava a fare i compiti, nel suo studio... ti ha mai, insomma, fatto niente? Ha mai cercato di importunarti?» «Secondo te chi è che lavora al posto loro, in Australia? Su, Milly, qui dobbiamo finire. Senti, Il commesso ha sorriso? Ha sorriso? Oddio, non me lo ricordo.» Era sicura che Jackson pensasse che era stupida, una stupida donna. A-
veva quella peculiare austerità maschile che la faceva infuriare - era il tipo che pensa che le donne sono schiave del ciclo, della cioccolata e dei gattini (il che costituiva un'ottima descrizione di Julia), ma in realtà Amelia non era così. Be', per i gattini forse sì. Voleva che avesse un'opinione migliore di lei, voleva piacergli. Oo-k-k, che aria seria, signor B., pare proprio un agente dei servizi segreti. Julia era così scontata. «Oo-la-la», per l'amor di Dio. «Vuoi un tè?» domandò alla sorella che aveva appena fatto il suo ingresso in cucina impugnando un bicchiere vuoto. «No. Voglio dell'altro gin,» rispose Julia, frugando negli armadietti in cerca di qualcosa da mangiare. Ma beveva sempre così tanto? Anche da sola? Era peggio che bere con qualcuno? A Jackson Julia piaceva, naturalmente. Julia piaceva a tutti gli uomini, e non c'era da stupirsi, visto che si offriva su un piatto d'argento. Una volta le aveva detto che adorava fare sesso orale a un uomo (sicuramente era per questo che metteva quel rossetto rosso) e ad Amelia era immediatamente apparsa l'immagine sgradevole della sorella in ginocchio davanti a Jackson - avrebbe voluto dire "all'uccello di Jackson" ma quella parola non riusciva a materializzarsi nella sua mente perché era troppo oscena, e "pene" le sembrava ridicola. Non avrebbe voluto essere così pudica - si sentiva come una che ha smarrito la strada ed è finita nella generazione sbagliata. Sarebbe stata molto più adatta a un'altra epoca, fatta di strutture rigide, ranghi e regole, in cui il bottone slacciato di un guanto era indice di licenziosità. Avrebbe potuto cavarsela piuttosto bene, in quel rigore. Aveva letto troppi James e Wharton. Nei romanzi di Edith Wharton nessuno desidera realmente fare parte di quel mondo, ma Amelia ci sarebbe stata benissimo. Anzi, avrebbe potuto benissimo vivere in un qualsiasi romanzo scritto prima della seconda guerra mondiale. Sentiva l'acqua della vasca che scorreva al piano di sopra (ci metteva una vita), sapeva che Julia si sarebbe portata su il gin in bagno (e probabilmente anche uno spinello) e ci sarebbe rimasta per ore. Si chiese cosa si provasse a essere così indulgenti con se stessi. Julia strappò un pezzo di pane da una pagnotta e se lo ficcò in bocca. Ma perché non usava il coltello? Come faceva a far sembrare sexy anche il gesto di mangiare un pezzo di pane? Amelia si pentì di quella visione di Julia che faceva un - sì, diciamolo - pompino a Jackson. Lei non aveva mai fatto un pompino a nessuno, e comunque non l'avrebbe mai raccontato a Julia, che altrimenti avrebbe ricominciato a menargliela su "Henry" e le sue necessità sessuali.
Ha! «Sei sicura che non ne vuoi uno?» disse Julia, agitando la bottiglia. «Magari ti aiuta a rilassarti.» «Non voglio rilassarmi, grazie tante». Com'era potuto succedere? Come aveva fatto a diventare la persona che non voleva essere? Amelia non capiva come mai l'essere "brava in letteratura" si fosse deformato nell'insegnare "tecniche della comunicazione". Aveva fatto domanda per iscriversi a Oxbridge alla fine del liceo, voleva dimostrare ai suoi insegnanti e a Victor - soprattutto a lui - che era intelligente. I suoi insegnanti avevano delle perplessità e non l'avevano affatto aiutata a prepararsi, quindi si era fatta strada a fatica tra le procedure burocratiche d'ammissione, piene di domande impenetrabili su The Faerie Queene e The Dunciad - non aveva letto nessuno dei due - e sulle loro trame assurde, che mettevano alla prova l'abilità del candidato nello scrivere dissertazioni. «Immaginate di dover proporre l'invenzione della ruota» - come se si potesse assegnare un tema del genere a manovali e apprendisti. In qualche modo sarebbero riusciti a farci entrare il sesso, come sempre. Non capiva se lo facevano perché sapevano che la imbarazzava (era ridicolo avere superato i quaranta e arrossire ancora) o se invece l'avrebbero fatto comunque. Con sua grande sorprèsa, il Newnham l'aveva chiamata per un colloquio. Le ci era voluto un bel po' per rendersi conto che Victor aveva probabilmente scomodato qualche conoscenza, o che il college aveva riconosciuto il nome e le aveva concesso quel colloquio per pura cortesia. Aveva sempre voluto andare al Newnham; quand'erano bambine sbirciavano dai cancelli del giardino. Era proprio così che immaginava il paradiso. Certo, al paradiso non ci credeva. Non era religiosa. Questo non significava che non volesse crederci, però. Prima del colloquio aveva sognato di passeggiare in quei giardini, di ammirarne le splendide bordure erbose, di discutere Middlemarch e Guerra e pace con un nuovo appassionato amico, di fare un giro in barca sul fiume con un bellissimo e poco raccomandabile studente di medicina al remo, odi diventare qualcuno che la gente desiderava conoscere - «Oh, guarda, quella è Amelia Land, andiamo a parlare con lei, è così interessante» (o «è davvero divertente» o «è tanto carina» o perfino «è assolutamente eccentrica») - ma non era andata affatto così. Il colloquio al Newnham era stato mortificante. Erano stati gentili, perfino solerti, l'avevano trattata co-
me se avesse qualche problema o soffrisse di qualche disabilità, ma le avevano fatto domande su opere e autori che non aveva mai sentito nominare, altro che Spenser e Pope: le avevano chiesto Storia di Rasselas, principe di Abissinia e A quest'ultimo di Ruskin. Non era questo il concetto che Amelia aveva della letteratura, che per lei coincideva con le grandi opere (Middlemarch e Guerra e pace) di cui ci si poteva innamorare e in cui perdersi per sempre. E quindi era finita in un'altra università, lontana e mediocre, priva di peso intellettuale, ma dove almeno era concesso scrivere lunghe dissertazioni sulla propria storia d'amore con Middlemarch e Guerra e pace. Julia tornò in cucina e si versò dell'altro gin. Amelia la trovava irritante. «Credevo che ti stessi facendo un bagno,» sbottò, seccata. «Esatto. Cos'è, sei arrabbiata?» «No.» Amelia attraversò il soggiorno con la tazza di tè e accese il televisore. Sammy la raggiunse sul divano. Trasmettevano una specie di reality show con alcune celebrità. Amelia non ne conosceva nessuna e aveva l'impressione che non ci fosse niente di reale nella difficile situazione in cui si trovavano. Non voleva andare a letto, non voleva dormire nella fredda stanza di Sylvia che prendeva la luce dal lampione stradale e dove l'umidità filtrava giù dal tetto lungo i muri. Forse poteva trasferirsi nella camera degli ospiti. A quanto ricordava, non ci aveva mai dormito nessuno. Così facendo si sarebbe attirata una maledizione da parte di sua madre? Amelia non credeva nei fantasmi, ma se sua madre era diventata una di loro, di sicuro si era stabilita nella camera degli ospiti. La immaginava distesa sul lettuccio, con il copriletto bianco macchiato di muffa, a trascorrere pigre giornate tra riviste e scatole di cioccolatini, lasciando cadere le cartacce a terra visto che ormai non toccava più a lei tenere in ordine la casa. E la camera di Olivia? Amelia sarebbe riuscita a dormirci? Poteva stendersi su quel lettino, fissare la carta da parati con i personaggi delle filastrocche che si stava staccando e non sentirsi spezzare il cuore? Chi aveva rapito Olivia? Era stato Victor a strisciare tra l'erba, quella notte, e a portarla fuori dalla tenda con quelle enormi mani simili a pale, mentre Amelia dormiva? Suo padre? Perché no, era capitato in molti altri casi, giusto? E sì era tenuto Topoblù a mo' di orribile souvenir? O c'era una spiegazione più innocente? (Ma quale?) Avevano sempre trovato conforto nell'idea che Olivia potesse non essere
morta, ma vivesse una vita diversa da qualche altra parte. Per anni e anni, loro tre le avevano costruito una storia: rapita nella notte da una figura simile alla Regina delle Nevi, però più gentile e amorevole e proveniente da un regno più temperato. Quella creatura empirea desiderava ardentemente una bambina tutta sua e aveva scelto Olivia perché era perfetta sotto tutti i punti di vista. L'Olivia della storia era cresciuta nel paradiso più lussuoso che la loro immaginazione infantile potesse concepire - avvolta in sete e pellicce, nutrita di dolci e torte, circondata da cani e gatti e (per qualche motivo) pavoni, immersa in vasche da bagno dorate e distesa in letti d'argento. E anche se sapevano che era felice in quella nuova vita, credevano che un giorno le sarebbe stato concesso di tornare a casa. Mentre loro crescevano, cresceva anche Olivia, e fu soltanto quando Julia raggiunse l'adolescenza (i suoi ormoni producevano tanta energia da poter illuminare una cittadina di piccole dimensioni) che la favolosa vita parallela di Olivia cominciò a svanire. Eppure era così fortemente radicata nel suo subconscio che perfino ora Amelia trovava difficile credere che la sorella potesse essere davvero morta, invece che una donna di trentasette anni che viveva da qualche parte in una casetta arcadica. Julia entrò in soggiorno e si sedette sul divano infilandosi tra lei e Sammy, dove non c'era abbastanza spazio. «Vattene,» le disse Amelia. Julia tirò fuori una barretta di cioccolata e ne staccò un pezzo per la sorella e uno per il cane. «Insomma, non è impossibile che Olivia sia ancora viva,» disse, come se le avesse letto nel pensiero (che idea orribile). «Forse è stata rapita da qualcuno che voleva una figlia e che l'ha tirata su come se fosse sua, quindi lei si è dimenticata di noi, ha dimenticato di essere Olivia e crede di chiamarsi in un altro modo... non so, Charlotte...» «Charlotte?» «Sì. E poi, sul letto di morte, i rapitori le hanno rivelato chi è veramente. "Charlotte, in realtà ti chiami Olivia Land, abitavi in Owlstone Road a Cambridge e hai tre sorelle, Sylvia, Amelia e Julia".» «Lo trovi plausibile?» Amelia cambiò canale finché non trovò Perdutamente tua e Julia disse: «Oh, lascia.» «Farai traboccare la vasca.» «Milly?» «Sì?» «Ti sei resa conto di quello che hai detto di Victor?»
«Cosa?» «Mi hai chiesto se ha mai cercato di importunarmi. Che espressione, che eufemismo stupido, quando invece volevi chiedermi se papà mi ha mai costretto a succhiargli l'uccello o mi ha mai infilato le dita da qualche parte mentre si faceva una sega...» Amelia non riusciva a sopportarlo. Si concentrò sull'aria tragica di Bette Davis e cercò di escludere le oscenità che la sorella le stava elencando. «In qualunque modo tu la metta, si tratterebbe di stupro,» concluse Julia. «E, visto che me l'hai chiesto, no, non l'ha fatto. Però ci ha provato.» Amelia avrebbe voluto mettersi le mani sulle orecchie, avrebbe voluto essere sorda. «Ci ha provato? Cosa intendi dire?» «Ha provato a infilarmi le mani nelle mutandine, una volta, ma io mi sono messa a strillare come un'aquila. Stava cercando di spiegarmi le frazioni,» aggiunse, come se c'entrasse qualcosa. Tipico di Julia, mettersi a urlare. Invece Amelia l'avrebbe semplicemente lasciato fare. Però con lei non ci aveva mai provato. Non aveva mai cercato di importunarla. «E a te cos'ha fatto, Milly?» domandò dolcemente Julia, mettendole una mano sull'avambraccio come se stesse male o avesse subito un lutto. Una volta Amelia l'aveva beccato con Sylvia. Era entrata nello studio senza bussare, cosa assolutamente vietata, probabilmente persa nelle sue fantasticherie, e aveva trovato papà insieme a Sylvia e da allora aveva cercato di dimenticare ciò che aveva visto. Sylvia a faccia in giù sulla scrivania, come una martire semicrocifissa, con il sedere bianco e magro scoperto e Victor che si preparava... Amelia si scosse Julia di dosso e replicò in tono secco: «Niente, non mi ha mai fatto niente. Non gliel'avrei mai permesso. Adesso vai a farti il bagno.» Amelia si svegliò di soprassalto. La casa era buia e muta, niente fantasmi in giro, soltanto il leggero ronzio elettrico del lampione in strada. Non ricordava se Julia era uscita dal bagno e dovette salire per accertarsi che non fosse annegata in silenzio. La vasca era vuota, il bagno coperto di fredde gocce di condensa. C'erano asciugamani buttati dappertutto. Julia era a letto, al sicuro, le lenzuola in disordine come al solito, i capelli da barboncino ancora umidi. Il suo respiro era pesante e regolare, anche se Amelia avvertì un brontolio nel petto. I polmoni di Julia emettevano sem-
pre un suono come se avessero bisogno di essere strizzati, come degli strofinacci. Cos'avrebbe fatto se Julia fosse morta prima di lei? Se lei fosse rimasta l'ultima? (Sylvia non contava). Sammy, addormentato sul letto, si svegliò quando Amelia entrò nella stanza e agitò la coda. Amelia sistemò le coperte della sorella, il cane scivolò goffamente giù dal letto e la seguì fuori dalla stanza. Tornando in camera sua, Amelia si fermò fuori dalla porta chiusa di Olivia. Sammy la guardò con aria interrogativa, lei girò la maniglia ed entrò. Dalla finestra sporca filtrava la luce diffusa della luna. Si stese sul lettino a pancia in su. Sammy si afflosciò sul pavimento e gemette per lo sforzo. L'ultimo giorno della sua vita Olivia si era svegliata nel suo letto e aveva guardato quelle pareti. Sarebbe morta se avesse dormito lì e non nella tenda? Se soltanto Amelia avesse potuto tornare indietro, sostituirsi a Olivia, quella notte, e sconfiggere la creatura malvagia che l'aveva portata via. Se soltanto fosse toccato a lei. 10 Theo La bambina stringeva un tubo di caramelle - cose dall'aspetto sgargiante, probabilmente fatte di sostanze chimiche e coloranti E-vattelapesca. Ne offrì una a Theo, che la prese per educazione. Sapeva vagamente di benzina o liquido per accendini, certo non di qualcosa che potesse far bene a ossa e cervelli in crescita. Theo non comprava mai dolci e anche se adorava la cioccolata non gli piaceva acquistarla nei negozi perché si attirava sempre la disapprovazione altrui. I ciccioni non avrebbero dovuto mangiare, e soprattutto non i dolci, così si era iscritto a un gruppo di "degustazione" on line, il che significava che ogni mese una fabbrica di cioccolato gli mandava un nuovo assortimento da provare, in cambio del quale doveva inviare una recensione («vellutata e deliziosa, la pralina alla nocciola offre il giusto livello di contrasto»), incarico che trovava stranamente gravoso, come un bizzarro compito a casa. Era così che regolava il proprio consumo di cioccolata: un'unica scatola al mese di qualcosa di vellutato e delizioso. Del colesterolo e della pressione non gliene importava poi molto, sarebbe stato felice di morire di un colpo apoplettico o di un attacco cardiaco. «I colpi apoplettici non sono sempre mortali, papà» gli aveva scritto Jennifer in una mail irritata, da Toronto. «Quasi sempre, dopo, rimani disabile. È questo che vuoi?» Forse aveva paura di doversi occupare di lui, ma Theo
non le avrebbe mai fatto una cosa del genere - per quanto lo riguardava, la relazione genitore-figli funzionava a senso unico: tu donavi tutto il tuo amore e loro non avevano nessun obbligo di ricambiare. Naturalmente, se ti volevano bene era come la ciliegina sulla torta. E la glassa, le scaglie di cioccolato e quelle palline d'argento che ti incrinavano le otturazioni. Laura le adorava. Lui le usava sempre per decorare i dolci che preparava. Torte, pasticcini, scones, dopo la morte di Valerie aveva imparato a fare tutto. Si era rivelato un cuoco molto migliore di sua moglie. Aveva assunto una donna delle pulizie che veniva due volte la settimana e una ragazza, una studentessa, per andare a prendere le bambine a scuola e badare a loro finché lui non tornava a casa dall'ufficio. Per il resto faceva tutto da solo - svolgeva i lavori di casa, si prendeva cura delle figlie, partecipava alle riunioni scolastiche e alle serate per i genitori, accompagnava le piccole alle feste di compleanno, ne organizzava per ricambiare. Le altre madri lo trattavano come una donna ad honorem e dicevano che sarebbe stato una moglie meravigliosa: lui lo prendeva come un complimento. La ragazzina diceva di avere otto anni ma era vestita come un'adolescente. Al giorno d'oggi era così che andava. Nel passato, i bambini venivano vestiti come piccoli adulti, quindi in fondo non c'era niente di nuovo. A otto anni Laura indossava salopette e jeans, e begli abitini per le occasioni speciali. Valerie li avrebbe chiamati "grembiulini", se fosse stata ancora viva. Calzini bianchi, sandali, magliette e calzoni corti. Lui le comprava dei vestiti tutti suoi, non le faceva mettere quelli smessi da Jennifer. Un sacco di gente pensava che Theo le viziasse troppo, le rovinasse, quelle figlie, ma come si fa a rovinare un bambino? Lo si può rovinare trascurandolo, non certo amandolo. Bisogna dare loro tutto l'amore possibile, anche se questo può causare dolore, angoscia e orrore e, alla fine, tutto quell'amore rischia di distruggerti. Perché poi se ne vanno, si iscrivono all'università e si sposano, finiscono in Canada e sottoterra. Theo rifiutò una seconda caramella. «Sarebbe educato offrirne una a tutti,» disse Deborah Arnold alla bambina. Con una certa riluttanza, così parve a Theo, la bambina scivolò giù dalla sedia, si avvicinò alla scrivania di Deborah e senza dire una parola le offrì il tubo di caramelle. Deborah ne prese tre. C'era qualcosa di stranamente ammirevole in quella donna. Terrificante, ma ammirevole. «Che lavoro fai?» gli domandò la bambina. «Sono in pensione,» rispose Theo, chiedendosi se lei sapesse cosa voleva dire.
«Perché sei vecchio,» rispose lei, annuendo con aria saggia. Theo si dichiarò d'accordo. «Sì, perché sono vecchio.» «Anche il mio papà andrà in pensione,» disse la bambina. «Andrà a vivere in Francia». Deborah Arnold scoppiò in una risata di scherno. «Francia?» ripeté Theo. Non sapeva perché, ma non riusciva a immaginare Jackson in Francia. «Ci sei stata?» «Sì, in vacanza. C'era della gente che mangiava i tordi.» «Oddio,» esclamò Deborah Arnold. «Voi due non dovreste essere qui,» aggiunse, come se fossero entrambi responsabili dell'abitudine francese di pasteggiare a base di uccellini innocenti. «Volevo soltanto scambiare due parole con il signor Brodie, capire come procedono le cose,» replicò Theo in tono di scusa. Deborah Arnold pareva estremamente impegnata - batteva sui tasti, archiviava e copiava come se fosse posseduta. Jackson Brodie le dava davvero così tanto da fare? Pareva un po' troppo rilassato per tenere così occupata un'assistente. Era lei che si definiva così, lui la chiamava la sua segretaria. «Quindi il signor Brodie è fuori per un caso?» domandò Theo, più per fare conversazione che per altro. Al di sopra degli occhiali, Deborah gli lanciò un'occhiata compassionevole, come se non riuscisse a crederlo tanto stupido da pensare che Jackson lavorasse davvero. Dopo cinque minuti disse: «È dal dentista. Di nuovo.» «A papà piace la dentista,» disse la bambina, ficcandosi un'altra caramella nella bocca già piena. Era triste che una bambina così piccola parlasse in quel modo e sapesse tutto sul sesso. Ma forse non era così, forse conosceva solo le parole. Però Marlee sembrava molto precoce, più simile a una diciottenne che a una bambina di otto anni. Certo, non come la sua (per lui Laura sarebbe sempre rimasta diciottenne): aveva in sé una freschezza, un'innocenza, come una luce che risplendeva da dentro. Jackson non gli aveva mai detto di avere una figlia, ma del resto era normale. Impiegati di banca, autisti di autobus, non passano mica il tempo a comunicarti: «A proposito, ho una figlia.» «Tu hai dei bambini?» gli domandò Marlee. «Sì,» disse Theo. «Ho una figlia che si chiama Jenny e abita in Canada. È grande». Certo, aveva la sensazione di rinnegare Laura, e ogni volta che rispondeva così si aspettava di udire il canto del gallo, ma la gente non voleva sentirgli dire: «Sì, ne ho due, una è viva e sta bene e abita a Toronto, l'altra è morta e sta sottoterra.»
«Nipoti?» domandò Marlee. «No,» rispose Theo. Jennifer e suo marito Alan - un anziano ebreo newyorchese che faceva il chirurgo cardiaco - avevano deciso di non avere figli e a lui era parso indelicato chiedere il perché. Jennifer aveva fatto carriera, naturalmente, era consulente ortopedica, e lei e il marito avevano una bella vita, una bella casa in periferia e un'altra sul lago Ontario, un "cottage", termine pittoresco che gli abitanti di Toronto usano per definire le loro enormi dimore sul lungolago. Un'estate Theo ci era andato. La casa era circondata su tre lati da alberi e di notte era il posto più buio e silenzioso in cui fosse mai stato, l'unica illuminazione proveniva dalle lucciole che danzavano tutta la notte fuori dalla sua camera da letto. Era favoloso, avevano una canoa che usavano per navigare sul lago, c'erano sentieri che attraversavano quegli antichi boschi, facevano ogni giorno il barbecue sulla terrazza che dava sul lago - per dei bambini sarebbe stato un paradiso. Naturalmente, non si può sentire la mancanza di ciò che non si è mai avuto. E una volta che lo si è avuto, se ne sente sempre la mancanza. Forse Jennifer aveva fatto una scelta di buon senso. Se non aveva un figlio, non poteva perderlo. «Sei triste?» «No. Sì. A volte, un po'». (Un sacco, e sempre). «Prendi un'altra caramella.» «Grazie.» Dopo dieci anni, a un tratto Theo era diventato impaziente. Per dieci anni aveva raccolto prove, accumulato ostinatamente ogni possibile frammento, ma adesso voleva sapere. Jackson aveva portato via tutti i dossier dei suoi clienti, caricandoli sul sedile posteriore e nel bagagliaio, scatole su scatole di vite altrui - divorzi, transazioni immobiliari, testamenti e ultime volontà. Jackson aveva forse scorto qualcosa in tutte quelle informazioni, come un indovino, come quei veggenti che venivano interpellati e che lo stesso Theo aveva consultato? Anche la polizia ne aveva chiamato uno, ma non l'avevano bene informato e quello aveva creduto che cercassero un corpo, mentre invece uno ce l'avevano già. Il veggente disse che il cadavere della ragazza era «in un giardino, a poca distanza da un fiume», descrizione che corrispondeva a circa la metà di Cambridge, se qualcuno avesse voluto andare a cercarla, cosa che non era necessaria. Quante ragazze c'erano, là fuori, indisturbate dall'aratro, non viste dai passanti? Se solo fosse stato possibile rinchiuderle nelle torri, nei sotterranei, nei conventi, nelle
loro camere, in qualsiasi luogo al sicuro. C'era una ragazza che Theo vedeva tutti i giorni. A volte era in Regent Street, spesso in Sydney Street, e l'aveva anche vista al Grafton Centre, seduta su un vecchio lenzuolo e con una coperta attorno alle spalle. Una "mendicante": pareva un personaggio storico, una figura del diciottesimo secolo. Quella mattina era in St Andrew's Street e Theo le aveva dato cinque sterline, tutte le monete che aveva. La ragazza aveva un'aria malaticcia, ma il cane che aveva con sé era sempre ben curato, un bel bastardino nero e lustro, ancora cucciolo. La ragazza aveva i capelli giallo uovo, corti e ispidi, e sembrava che nessuno le desse dei soldi, forse perché non ne chiedeva, non guardava mai in faccia nessuno e non diceva mai niente di carino per far sentire la gente soddisfatta di se stessa e per rendere accettabile il fatto di essere una mendicante. O forse perché aveva l'aria di una che spende tutto in droga. Theo invece era sicuro che, prima della droga, avrebbe comprato cibo per cani. Le dava sempre dei soldi, ma sentiva che avrebbe potuto fare di più - pagarle un buon pasto, trovarle un posto dove stare, chiederle come si chiamava, qualsiasi cosa, prima che scomparisse, ma era sempre troppo timido, troppo preoccupato che il suo interesse potesse essere frainteso, che lei si girasse e gli sibilasse: «Vaffanculo, nonnetto pervertito». «Tuo padre lo sa che sei qui?» domandò Deborah Arnold a Marlee. «Mamma gli ha lasciato un messaggio sul cellulare.» «Be', io devo uscire,» disse Deborah. «Devo ritirare la posta». Quest'ultima osservazione era diretta a Theo, che si chiese cosa ci si aspettasse da lui. «Può darle un'occhiata lei?» continuò Deborah accennando nella direzione di Marlee, e Theo avrebbe voluto risponderle: «Ma io sono quasi un perfetto sconosciuto, come lo sa che non le farò qualcosa di terribile?» Fraintendendo la sua esitazione, Deborah aggiunse: «Solo per un quarto d'ora, o finché non torna Sua Altezza». Marlee gli si arrampicò sulle ginocchia, gli circondò il collo con le braccia e disse: «Per favore, per favore, signore gentile, dica di sì» e Theo pensò «Oddio, ma non gliel'ha spiegato nessuno che non bisogna dare confidenza agli sconosciuti?» Solo perché somigliava a Babbo Natale non significava che fosse buono, anche se ovviamente lo era. Ma prima che potesse protestare, Deborah Arnold era già fuori dalla porta e giù dalle scale. «Il mio papà torna subito,» lo rassicurò Marlee. «Il mio papà». Quelle parole gli fecero venire un groppo in gola. Il secondo film preferito di Lau-
ra, dopo Dirty Dancing, era The railway children, e lui gliene aveva comprato una copia in videocassetta un paio d'anni prima che morisse. L'avevano guardato parecchie volte e alla fine, quando il treno si ferma e il fumo e il vapore si dissipano intorno alla figura del padre di Bobbie e Jenny Agutter (che gli ricordava sempre un pochino Laura) grida: «Papà, il mio papà», piangevano sempre, ed era strano perché per Bobbie era un momento così felice, eppure pareva sempre insopportabilmente triste. Certo, dalla morte di Laura non aveva più guardato quel film, altrimenti si sarebbe sentito morire. Theo non aveva mai dubitato, nemmeno per un istante, che alla sua morte l'avrebbe ritrovata e, nella sua fantasia, sarebbe stato proprio come in The railway children - lui sarebbe emerso dalla nebbia e Laura sarebbe stata là e avrebbe esclamato: «Papà, il mio papà». Theo non era religioso, non credeva in Dio o in una vita ultraterrena, ma sapeva soltanto che era impossibile provare così tanto amore e accettare che fosse finito. Marlee si annoiava. Aveva mangiato tutti i dolci e giocato a tris - che già conosceva - e all'impiccato, a cui invece non aveva mai giocato prima, quindi Theo aveva dovuto insegnarglielo, ma ora stava diventando piagnucolosa per la fame. Dalla finestra dell'ufficio di Jackson, che si trovava al primo piano, si godeva una vista allettante su una paninoteca. «Sto morendo,» dichiarò lei in tono melodrammatico, piegandosi per dimostrare che aveva i morsi della fame. Forse Deborah Arnold non sarebbe tornata. Forse non sarebbe tornato nemmeno Jackson, forse non aveva mai ricevuto quel messaggio riguardo alla figlia. Forse aveva reagito male all'anestetico, dal dentista, forse era morto, o magari era stato investito mentre tornava. Theo pensò che forse poteva lasciare Marlee da sola mentre sgusciava fuori, attraversava la strada e comprava a entrambi qualcosa da mangiare. Ci avrebbe messo al massimo, vediamo, dieci minuti? Cosa poteva succederle, in dieci minuti? Era una domanda assurda, perché Theo sapeva esattamente cosa poteva succedere in dieci minuti - un aereo poteva esplodere sopra la città o schiantarsi contro un edificio, un treno poteva deragliare, un maniaco con un maglione da golf giallo poteva fare irruzione in un ufficio armato di coltello. Lasciarla in un ufficio... ma come aveva potuto anche solo pensarlo? Nella lista dei posti pericolosi di Theo, gli uffici erano peggio degli aerei, delle montagne o delle scuole. «Su, vieni,» le disse, «facciamo un salto fuori a comprare un panino.» «E se arriva papà e non ci trova?»
Theo si commosse a quel "ci". «Be', metteremo un biglietto sulla porta.» «Torno tra dieci minuti,» disse Marlee. «Papà scrive sempre così.» Naturalmente non era così semplice. Erano le tre del pomeriggio, la paninoteca stava per chiudere, di panini ne erano rimasti pochissimi e quelli avanzati - uova e maionese o roast-beef e rafano - invitarono Marlee a esibirsi nella convincente simulazione di un attacco di vomito. Quando uscirono dal negozio, infilò la mano piccola e asciutta nella sua e gli diede una stretta rassicurante. Si entusiasmò all'improvviso quando dall'altra parte della strada vide un fast food e riuscì quasi a trascinarcelo. A Theo vennero in mente le parole "mucca pazza" ma cercò di scacciare quel pensiero, e comunque Marlee voleva una cosa che si chiamava "Pollosnello": Theo sperava che contenesse pollo invece che manzo, ma quale parte del pollo, e un pollo di che età? E con cosa era stato nutrito? Probabilmente con del manzo. Le comprò un Pollosnello («con le patatine» lo implorò lei) e una Coca. Per essere un fast food pareva piuttosto lento e Theo si chiese se in quei locali ci fosse qualcuno a monitorare il servizio. Quasi tutti i dipendenti parevano bambini, bambini australiani. Erano fuori da ben più di dieci minuti, ormai: se Jackson era tornato, sicuramente aveva già mandato qualcuno a cercarli. Come se Theo fosse riuscito a evocarlo con il pensiero, Jackson apparve improvvisamente tra una folla di studenti stranieri che si spintonavano. Aveva un'aria un po' scarmigliata e afferrò il braccio di Marlee che in tono di protesta strillò: «Papà, attento alla Coca.» «Dove sei stata?» le urlò Jackson. Lanciò un'occhiataccia a Theo. Che coraggio, quando lui non aveva fatto altro che badare alla bambina, il che era molto più di quanto non facessero i suoi stessi genitori. «Le faccio da baby-sitter,» disse Theo, «non l'ho mica rapita.» «Certo,» replicò Jackson, «naturalmente, mi scusi. Ero preoccupato.» «Theo ha badato a me,» disse Marlee, dando un grosso morso al suo panino, «e mi ha comprato le patatine. Mi è simpatico.» Quando Theo ripercorse St Andrew's Street la ragazza con i capelli giallo uovo non c'era più e lui temette di non rivederla. Perché era così che succedeva: un attimo prima c'eri, ridevi, parlavi, respiravi, e un attimo dopo non c'eri più. Per sempre. E al mondo non restava neanche la forma di ciò che eri stato, nemmeno la traccia di un sorriso, né il sussurro di una parola. Niente.
11 Jackson «Hai il palato molle molto infiammato,» mormorò Sharon. «Ti fa male?» «Nuhhh.» «Credo che si stia formando un ascesso, Jackson.» Ufficialmente era la "dottoressa S. Anderson, medico dentista" e non l'aveva mai invitato a darle del tu, però lei lo chiamava per nome. Medici, direttori di banca, perfetti sconosciuti, ormai tutti usavano il "tu". Era una delle ossessioni di Binky Rain: «E allora ho detto all'uomo della banca - un cassiere - "Mi scusi, giovanotto, ma non mi pare che siamo stati presentati. Per lei, io sono la signora Rain e non mi interessa affatto sapere il suo nome"». Binky Rain pronunciava la parola "cassiere" come se fosse una cosa appiccicata alla suola della scarpa che ti fa schifo staccare. Lì sulla poltrona si sentiva assurdamente vulnerabile, sopraffatto e inerme, soggetto ai capricci di Sharon e della sua silenziosa infermiera. Entrambe avevano occhi scuri ed enigmatici e un modo indifferente di guardarlo da sopra le mascherine, come se stessero pregustando ciò che gli avrebbero fatto dopo, simili a sadiche danzatrici del ventre armate di strumenti chirurgici. Jackson cercò di non pensarci e di non pensare nemmeno a quella scena del Maratoneta; si concentrò invece su un'immagine della Francia. Avrebbe potuto coltivare verdura. Non l'aveva mai fatto, era Josie la giardiniera della famiglia e lui aveva eseguito gli ordini, scava qui, sposta quello, falcia l'erba. Comunque in Francia la verdura probabilmente cresceva da sola. Terra fertile e calda. Pomodori, pesche. Vigne. Sarebbe stato in grado di coltivare una vigna? Olive, limoni, fichi - parole dal suono biblico. Immaginò di osservare i viticci che si allungavano, i frutti che si gonfiavano, oddio, gli stava venendo un'erezione (pensando alla verdura? In lui c'era qualcosa che non andava). Il panico lo costrinse a deglutire e la sua stessa saliva gli fece venire un conato di vomito. Sharon rimise la poltrona in posizione verticale e domandò: «Tutto bene?» con la testa inclinata, simulando preoccupazione, mentre lui tossiva rumorosamente. L'infermiera silenziosa gli porse un bicchiere di plastica colmo d'acqua. «Abbiamo quasi finito,» mentì Sharon, facendolo stendere di nuovo. Stavolta Jackson si concentrò su qualcosa di sgradevole. Il corpo di Laura
Wyre. Abbattuta di colpo, come un animale, come un cervo. Il signor Wyre, dov'è? Domanda strana - non sarebbe stato più normale chiedere «Dov'è il signor Wyre?» L'assassino aveva veramente detto questo? E se avesse detto "la signorina Wyre" o "la signora Wyre"? Moira Tyler (l'unica persona a cui l'assassino aveva rivolto la parola) poteva essersi sbagliata? Nel caos di quell'istante - ma in realtà quell'istante non era stato poi così caotico, in fondo era solo un tizio con un maglione da golf giallo che aveva chiesto dove si trovava uno degli avvocati. E la vita privata di Laura, era trasparente come sembrava? Una vergine sacrificale. Era davvero vergine? Jackson non ricordava di averlo letto, nel referto dell'autopsia. Certo, Theo ne era convinto. Jackson sapeva che Marlee avrebbe potuto sposarsi e divorziare tre volte e avere dieci figli e lui avrebbe sempre creduto che fosse ancora vergine. La stampa aveva adorato la purezza di Laura, era sempre meglio quando a essere colpita era una bella ragazza della media borghesia con abitudini sane e aspirazioni a un'educazione superiore, piuttosto che una prostituta o un'adolescente volgare e disoccupata (le Kerry-Anne Brockley di tutto il mondo). Ma chi poteva dire che Laura Wyre non avesse segreti? Una relazione con un uomo sposato che non voleva rivelare al padre per non ferirlo, forse. Oppure, senza averne alcuna colpa, era perseguitata da un maniaco, uno schifoso piccolo pervertito con un'ossessione per lei? Forse l'aveva trattato con gentilezza (a volte bastava) e quello si era fatto delle illusioni, aveva immaginato che fosse innamorata di lui, che tra loro fosse scoccato qualcosa di fatale. C'era una parola per definirlo, ma Jackson non se la ricordava, una specie di sindrome, ma non quella di Münchhausen. Esistevano solo quattro possibilità. Il tipo conosceva personalmente Theo, oppure no. Conosceva personalmente Laura, oppure no. Erotomania, ecco cos'era. Sembrava il titolo di un brutto film porno olandese. Alcuni anni addietro un sondaggio aveva rivelato che le donne non si sentivano minacciate dagli uomini che avevano con sé una copia del «Guardian» o una spilletta della campagna per il disarmo nucleare. All'epoca Jackson si era chiesto quanti stupratori avessero cominciato a comprare il «Guardian». Bastava pensare a Ted Bundy: infila il braccio in un gesso finto e le donne penseranno che sei innocuo. Nessuna donna era mai veramente al sicuro. Non bastava essere toste come Sigourney Weaver in Alien: la clonazione o Linda Hamilton in Terminator 2, perché dovunque andassero c'erano sempre degli uomini. Uomini pazzi. Quello che gli piaceva, in donne toste come Ripley e Sarah Connor (anche se sapeva che e-
rano personaggi di fantasia), era che potevano essere grintose quanto volevano, ma ciò che le spingeva era sempre una specie di amore materno, un amore materno per il mondo intero. «No, Jackson, lascia perdere, non pensare a Sarah Connor, pensa a qualcosa di brutto, pensa al tubo di scappamento della macchina, che è da riparare, pensa a qualcosa di noioso. Al golf». «Ho asciugato il pus, Jackson,» sussurrò dolcemente Sharon, «e adesso ti metto una medicazione, ma non possiamo continuare a curare i sintomi, dobbiamo eliminare la causa. La radice.» I migliori amici di Laura, al liceo, erano stati Christina, Ayshea, Josh, Joanna, Tom, Eleanor, Emma, Hannah e Pansy. Jackson lo sapeva perché Theo aveva appeso alla parete un'utile tabella intitolata "Studenti del liceo di Laura", per distinguerla da un'altra tabella, "Amici di Laura fuori dal liceo" (il club delle immersioni, quelli del pub dove aveva lavorato ecc.) e da una terza tabella, "Amicizie occasionali di Laura" (cioè chiunque l'avesse incontrata per caso). "Studenti del liceo di Laura" era una lista numerata e i numeri indicavano il grado di amicizia - il numero uno era il suo migliore amico e così via. Vi era elencato ogni studente del liceo. Quanto tempo ci aveva messo Theo a decidere se qualcuno andava classificato al numero centootto o centonove? Non l'aveva nemmeno compilata al computer, ma aveva laboriosamente trascritto tutti i nomi a mano. Quell'uomo era pazzo. Gli amici erano anche contrassegnati da colori che indicavano il sesso inchiostro blu per le ragazze, rosso per i ragazzi, il che rendeva facile accorgersi che i più cari amici di Laura erano prevalentemente femmine. I primi dieci nomi erano tutti blu, con due sole eccezioni - Josh e Tom. Era chiaro che Laura Wyre era stata una ragazza che amava frequentare altre ragazze, e non sarebbe mai diventata una donna che avrebbe frequentato altre donne. Verso la fine della lista c'era una falange piuttosto compatta di nomi rossi - una sfilza di ragazzi che probabilmente Laura Wyre aveva a malapena notato, figuriamoci se ci aveva scambiato due parole. L'inchiostro rosso faceva spiccare i nomi dei maschi e li faceva sembrare pericolosi, o quanto meno scorretti. A Jackson si ripresentò improvvisamente l'immagine dei suoi compiti scolastici, ragnatele di annotazioni dell'insegnante in inchiostro rosso fiammante. Soltanto dopo aver lasciato la scuola ed essersi arruolato aveva scoperto di essere intelligente. La polizia aveva interrogato tutti gli studenti del liceo di Laura, ma pur-
troppo i primi dieci erano quasi tutti irreperibili. «Anno sabbatico» aveva spiegato Theo a Jackson. Aveva temuto che volesse prenderselo anche Laura, che volesse visitare qualche pericoloso angolo di mondo, ma sarebbe stata più al sicuro in un ostello di Bangkok infestato di pulci e di eroina che nell'ufficio di suo padre. «Mea culpa» aveva aggiunto con quel suo triste sorriso da cane. Per tutta la durata delle indagini, la polizia non aveva mai creduto che Laura fosse qualcosa di più di una sfortunata vittima delle circostanze: erano sempre stati convinti che il vero bersaglio fosse Theo. A Jackson tornò subito in mente Bob Peck in Edge of Darkness - ormai non li facevano più, programmi così, anzi, forse era stato l'ultimo sceneggiato valido della Bbc che Jackson avesse visto. 1984? 1985? Cercò di ricordarsi il 1985. Tre anni dopo le Falkland. Howell aveva lasciato l'esercito e Jackson aveva firmato per altri cinque anni. Usciva con una ragazza che si chiamava Carol, ma poi lei aveva aderito alla campagna per il disarmo nucleare e aveva annunciato che le sue idee politiche erano "incompatibili" con la sua relazione con Jackson. Jackson le aveva fatto notare che nemmeno lui era esattamente a favore della guerra atomica, ma a lei interessava di più incatenarsi in giro e strillare insulti alla polizia della Thames Valley. Nel 1985 Laura Wyre aveva nove anni e Olivia Land era morta da quindici. Anche in Edge of Darkness, Craven, il personaggio interpretato da Bob Peck, era ossessionato dalla figlia - Emma, si chiamava, lo stesso nome della ragazza numero cinque sulla lista rossa e blu di Theo, e l'unica tra le prime dieci ad abitare vicino a Cambridge. Christina, l'amica numero uno, era sposata e viveva in Australia, Ayshea insegnava nel Dorset, Tom lavorava per la Comunità europea a Strasburgo, Josh pareva scomparso, Joanna era medico a Dublino, Hannah abitava negli Stati Uniti, Eleanor faceva l'avvocato a Newcastle, Pansy lavorava per una casa editrice scozzese. Una diaspora femminile. Stavano forse scappando da qualcosa? («Se scappi in eterno tornerai da dove sei partito, Jackson»). Voleva parlare con qualcuno che avesse conosciuto una Laura diversa da quella di Theo. Non che la Laura di Theo non fosse vera, ma anche se era stato vicinissimo a sua figlia c'erano sicuramente cose di lei che non sapeva o non avrebbe capito. Era così che funzionava. Anche se era la cosa che detestavi di più al mondo, loro avevano sempre dei segreti. Emma Drake abitava a Crouch End e lavorava per la Bbc. Quando Jackson le telefonò disse che sarebbe stata felice di parlare con lui e gli diede
appuntamento dopo il lavoro, al Langham Hotel di fronte alla Broadcasting House, "per un paio di cocktail". Era una ragazza carina, educata e aperta, e ordinò tre Manhattan, uno dopo l'altro, come se volesse dimenticare quella giornata il prima possibile. Non è esattamente una ragazza, dovette ripetersi Jackson, è una donna di ventotto anni. «Ricordo di aver pensato che avrei potuto essere al suo posto,» disse lei gettandosi in bocca una nocciolina. «Oggi non ho mangiato niente,» aggiunse in tono di scusa, «sono stata chiusa in studio. Un pensiero un po' egoistico, non trova?» «No,» rispose Jackson. «Insomma, non sarebbe potuto accadere, io non ero in quell'ufficio, in quell'istante preciso, ma c'è qualcosa nella violenza casuale...» «Davvero? Casuale?» la interruppe Jackson. «Non crede che il tizio che ha ucciso Laura volesse davvero farlo, che fosse lei il bersaglio, e non suo padre?» Un uomo in smoking si sedette a un piano nell'angolo della sala e, dopo aver sollevato le dita sulla tastiera con un gesto lezioso alla Liberace, cominciò a suonare una versione sonora e fiorita di Some Enchanted Evening. «Oddio». Emma Drake fece una smorfia e scoppiò a ridere. «Forse aveva conosciuto qualcuno, non lo so. Erano quasi tutti all'estero, per un viaggio o per lavoro. Laura era una delle poche che dopo le vacanze estive si era iscritta subito all'università. Io ero in Perù e ho saputo della sua morte solo dopo parecchie settimane. Il pensiero che per tutti gli altri fosse già storia passata me l'ha fatta sembrare ancora peggiore.» «Ricorda anche un minimo dettaglio che qualcuno si è scordato di menzionare?» insisté Jackson. Si chiese se un altro Manhattan l'avrebbe aiutata o le avrebbe impedito di parlare, e se era corretto far bere una giovane donna e poi lasciarla sola ad attraversare le pericolose strade di Londra. Marlee avrebbe seguito lo stesso percorso? Avrebbe ricevuto una buona istruzione, avrebbe frequentato l'università e sarebbe finita a fare un lavoro di merda alla Bbc, avrebbe bevuto troppo e sarebbe tornata a casa da sola con la metro, fino al suo appartamento in affitto di Crouch End? Le suggerì di prendere un caffè e quando lei accettò ne fu sollevato. «Mi dispiace, non riesco proprio a farmi venire in mente niente,» rispose lei, accigliandosi quando il pianista iniziò un medley di Andrew Lloyd Webber. «Mi pare che ci fosse quella cosa con Jessop.» «Jessop?»
«Stan». Si accigliò ancora di più, ma stavolta non per colpa de Il fantasma dell'opera. «Il suo professore di biologia.» «Una cosa? Cioè una relazione?» Aveva già visto da qualche parte il nome di Stan Jessop, su un'altra delle tabelle di Theo - "Insegnanti del liceo di Laura". Era stato interrogato dalla polizia due giorni dopo l'omicidio ed escluso dalle indagini. Emma Drake si morse un labbro e fece roteare nel bicchiere ciò che restava del Manhattan. «Non lo so, deve chiedere a Christina, lei era molto più amica di Laura. Anche lei era nella classe del professor Jessop.» «Vive in un allevamento di pecore nell'entroterra australiano.» «Davvero?» esclamò Emma, illuminandosi per un istante. «Incredibile. Mi sa che ci siamo tutti persi di vista. È una cosa che non ci si aspetta, vero?» Oh sì, pensò Jackson, alla fine si perdono di vista tutti. Arrivò il caffè e Jackson pensò che avrebbe dovuto ordinarle anche un panino. Cosa amavano mangiare le ragazze come lei quando arrivavano a casa? E mangiavano, poi? «Ci siamo ripromessi di ritrovarci dieci anni dopo l'ultimo giorno di liceo,» disse lei. «Un paio di settimane fa, fuori dall'Hobbs Pavilion. Ovviamente non è venuto nessuno.» «E lei c'è andata?» Lei annuì e gli occhi le si riempirono di lacrime. «Che stupida. Mi sono sentita una stupida, ferma là davanti ad aspettare. Non ho mai pensato che sarebbe venuto qualcuno, non ci ho mai creduto veramente, ma ho pensato che dovevo andarci, sa, non si sa mai. Non è tanto che non sia venuto nessuno, è che non è venuta Laura. Voglio dire, lo so che è morta, e non mi aspettavo che comparisse, è solo che in quel momento mi sono resa conto che per Laura non c'è stato nessun "tra dieci anni", nessun futuro. Per lei si è fermato tutto. Così, di colpo.» Jackson le porse un fazzoletto di carta (ne aveva sempre con sé, metà delle persone che incontrava si mettevano a piangere). «E il professor Jessop?» «In realtà era solo un pettegolezzo. Laura non era riservata, però molto discreta, raccontava poco di sé. Dio, parlo come mia madre. Non penso mai a Laura. Orribile, vero? Orribile che la gente ti dimentichi e che quando ti ricorda parli di te per frasi fatte. Cioè, ho pensato a lei quando mi sono ritrovata davanti all'Hobbs Pavilion, perché sapevo che c'era la possibilità che venissero gli altri, ma non c'era alcuna speranza che venisse anche lei. Ma per il resto del tempo...» Si morse un labbro e Jackson avrebbe vo-
luto impedirglielo, perché avrebbe cominciato a sanguinare. «È come se non fosse mai esistita» concluse in tono piatto. «Sa, non era vergine,» azzardò Jackson, ed Emma sospirò e disse: «Be', non lo era nessuna di noi. Non era mica una santa. Era come tutte le altre, normale.» «Ma ufficialmente non aveva un fidanzato. La polizia non ha interrogato nessuno.» «Non usciva con uno in particolare. Era andata a letto con un paio di ragazzi, tutto qui.» Era normale? Era così che si comportavano le ragazze, dieci anni prima? E adesso, cosa facevano? E tra dieci anni? Quando Marlee avrebbe avuto l'età in cui Laura Wyre aveva cessato di esistere? Mio Dio. «Era molto legata a Josh, erano stati alle elementari insieme. A me non è mai piaciuto molto. Era molto pieno di sé. Molto intelligente.» «Non sono riuscito a trovarlo,» disse Jackson. «Non ha finito l'università. Adesso fa il dj ad Amsterdam, ho sentito dire. Laura ha perso la verginità con lui.» «Suo padre pensava che fosse ancora vergine,» aggiunse Jackson; Emma Drake scoppiò a ridere e disse: «I padri lo pensano sempre.» «Anche se esistono le prove del contrario?» «Anzi, soprattutto in questo caso.» «E il professor Jessop?» suggerì Jackson. «Oh, piaceva a tutte». A quel ricordo Emma sorrise. «Era davvero carino, troppo bello per essere un professore. Laura e Christina erano nella sua classe l'ultimo anno. Laura era decisamente la sua preferita, l'allieva modello eccetera. Non c'era niente di male, lui era sposato e aveva anche una bambina». (Come se questo avesse mai fermato qualcuno). «Laura le faceva da baby-sitter, io andavo spesso a farle compagnia. Non si considerava particolarmente brava con i bambini, ma con Nina, la figlia dei Jessop, non aveva problemi. A Laura era simpatica sua moglie, Kim. Andavano d'accordo. L'ho sempre trovata una cosa buffa. Kim era davvero una persona ordinaria». Emma Drake si portò la mano alla bocca, scioccata. «Oddio, ho detto una cosa orribile, così snob. Ma lei ha capito cosa intendo, era una di quelle bionde volgari. Una scozzese un po' rozza. Oddio, dovrei proprio chiudere il becco.» Quella ragazza era una miniera di informazioni, eppure non era mai stata interrogata. E nemmeno Kim Jessop. «All'epoca nessuno ha parlato del professor Jessop e di Laura,» disse Jackson.
«Be', e perché? Non è mica stato lui il pazzo che l'ha accoltellata, no? Senta, era solo un pettegolezzo, una cotta. Solo parlarne mi mette a disagio.» «Avere una cotta per il professore non è una cosa strana. Sono sicura che a Laura non dispiace che ne parliamo». Come se fosse viva, come se fosse vera. A Laura Wyre non importava più niente di niente, ormai. «Oh no, no, non sto dicendo che Laura avesse una cotta per lui, era il professor Jessop quello innamorato. Di Laura.» Jackson mise Emma Drake su un taxi e diede all'autista una cifra così generosa da risultare ridicola, venticinque sterline, per riportarla a Crouch End e riaccompagnarla fino al suo appartamento. Poi tornò, spendendo molto meno, a King's Cross e per tutto il tragitto fissò fuori dal finestrino con lo sguardo perso nel nulla. «Ecco qua, Jackson, tutto medicato e pronto per tornare a casa». Sharon tirò giù la mascherina e gli sorrise come se lui avesse tre anni. Si aspettava quasi che gli regalasse una spilletta o un adesivo. «Prendiamo appuntamento per estrarre la radice, vuoi?» Lui aveva creduto che parlasse per metafore, quando aveva nominato la radice. Magari. In strada controllò il telefono. C'era un messaggio di Josie, che gli chiedeva di badare a Marlee per il pomeriggio e lo informava che sua figlia lo aspettava in ufficio. Però la bambina non c'era. In ufficio non c'era nessuno, ed era aperto. Sulla porta c'era un biglietto scritto in una calligrafia che riconobbe, ma non era né di Deborah né di Marlee, e diceva: «Torniamo tra dieci minuti». Dovette riflettere per un istante prima di rendersi conto che era la scrittura di Theo (Dio solo sa quanti esempi ne aveva visti, negli ultimi giorni). Stavolta era in inchiostro nero e neutro. «Torniamo tra dieci minuti» non significa niente se non sai quando sono iniziati quei dieci minuti. Jackson avvertì una inattesa ondata di panico: cosa sapeva, in realtà, di Theo? Pareva una persona a posto, del tutto innocuo, ma gli psicopatici non avevano la parola "psicopatico" tatuata sulla fronte. Perché pensava che Theo fosse una brava persona? Perché sua figlia era morta? Era una garanzia, quella? Jackson si precipitò giù dalle scale e poi in strada. Dov'era Marlee? Con Theo? Con Deborah? Da sola? Con uno sconosciuto? Lui avrebbe voluto
comprarle un cellulare ma Josie era contraria (e da quando era diventata l'unica a prendere decisioni riguardo alla loro figlia?) In quel momento avrebbe potuto rivelarsi molto utile. Jackson notò Theo che usciva dal fast food in fondo alla strada. Era così grosso che era impossibile non vederlo. E con lui c'era Marlee. Grazie a Dio. Portava una gonna minuscola e una maglietta che lasciava scoperta la pancia; su internet era pieno di ragazzine vestite così. Jackson si fece strada in mezzo a un branco di adolescenti spagnoli senza la più pallida idea di cosa sia la buona educazione, afferrò Marlee per un braccio e urlò: «Dove sei stata?» Gli venne voglia di mollare un pugno a Theo, anche se non capiva perché, visto che era chiaro che Marlee stava bene e si riempiva la bocca di patatine. Probabilmente avrebbe seguito qualunque sconosciuto in cambio di una sola pralina al cioccolato. «Le faccio da baby-sitter,» disse Theo a Jackson, «non l'ho mica rapita» e Jackson si vergognò. «Certo,» replicò, «naturalmente, mi scusi. Ero preoccupato.» «Theo ha badato a me,» disse Marlee, «e mi ha comprato le patatine. Mi è simpatico». Cristo, era davvero tutto lì? «Tua madre ti ha scaricato qui?» domandò Jackson quando tornarono in ufficio. «Mi ha accompagnato David.» «Allora è stato David a scaricarti?» Che testa di cazzo. «Qui c'era Deborah.» «Be', adesso non c'è» (Dove diavolo era finita?) «Hai lasciato l'ufficio aperto, avrebbe potuto entrare chiunque, e te ne sei andata con un perfetto sconosciuto. Hai idea di quanto può essere pericoloso?» «Non conosci Theo?» «Non è questo il punto.» Il labbro di Marlee cominciò a tremare e lei sussurrò: «Non è colpa mia, papà» e il cuore di Jackson si contrasse per il senso di colpa e il rimorso. «Scusa, tesoro,» disse, «hai ragione, è colpa mia». La abbracciò e le diede un bacio sulla testa. Profumava di shampoo al limone e grasso di hamburger. «C'hai preso,» le mormorò tra i capelli. «Posso entrare?» Sulla soglia c'era una donna, incerta. Jackson allentò la stretta; Marlee, con aria paziente, si era lasciata stringere al punto da restare senza fiato. «Sono venuta solo a prendere appuntamento,» aggiunse la donna. Aveva
passato la trentina, portava jeans, maglietta, sandali infradito, aveva un'aria sportiva (Jackson ipotizzò che praticasse il kick boxing) ma gli occhi pesantemente cerchiati. Un tipo alla Sarah Connor. Oppure quell'infermiera di ER che tutti gli uomini erano convinti di poter trattare meglio di quanto non facessero i suoi fidanzati sullo schermo. (Jackson aveva iniziato a guardare un sacco di televisione, da quando aveva divorziato). In lei c'era qualcosa di familiare. Di solito scopriva che quasi tutte le persone che gli sembravano familiari erano criminali, ma lei non ne aveva l'aria. «Be',» rispose indicando l'ufficio con un gesto vago, «se vuole possiamo parlare adesso.» La donna lanciò un'occhiata a Marlee e disse: «No, credo che prenderò appuntamento» e in quel momento Jackson capì che si trattava di qualcosa che non aveva nessuna voglia di sapere. La donna prese appuntamento per mercoledì alle undici, «perché non ho le notti» e Jackson pensò "infermiera": ecco perché gli sembrava familiare. Poliziotti e infermiere si incontravano spesso, per motivi professionali. Le infermiere gli piacevano, e non per via dei film della serie Carry On, per le cartoline sconce o le divise porno o i soliti motivi, e nemmeno quelle grosse infermiere brusche e praticone con la schiena enorme (ce n'erano un sacco), no, gli piacevano quelle che capivano la sofferenza, quelle che soffrivano, quelle con le borse sotto gli occhi che somigliavano a Sarah Connor. Quelle che capivano il dolore, come Trisha, Emmylou e Luanda quando cantavano. E forse, chissà, anche quando non cantavano. Aveva davvero qualcosa di speciale. Un je ne sais quoi. Disse di chiamarsi Shirley e lui capì subito, senza doverglielo chiedere, perché era venuta. Aveva perso qualcuno, glielo si leggeva negli occhi. «Adesso andiamo a casa?» domandò Marlee con un sospiro esagerato, arrampicandosi sul sedile posteriore dell'auto. «Sto morendo di fame.» «Non è vero.» «Invece sì. Sto crescendo,» aggiunse in tono difensivo. «Non l'avevo notato.» «La macchina puzza di sigarette, è un odore disgustoso, papà. Non dovresti fumare.» «Adesso non sto fumando. Siediti dall'altra parte, non dietro di me.» «Perché?» «Perché no». («Perché se per qualche motivo la cintura non funziona voli dritta fuori dal parabrezza, il che sarebbe leggermente meglio che finire
schiantata contro il mio sedile»). Marlee si spostò a sinistra. Il posto dov'era seduta Diana d'Inghilterra. Poi mise la sicura. «Non chiudere, Marlee.» «Perché no?» «Non farlo e basta». («Così se l'auto prende fuoco sarà più facile tirarti fuori»). «Cosa voleva quella signora?» «La signorina Morrison?» Shirley. Un nome carino. «Ti sei messa la cintura?» «Mm.» «"Sì", non "mm". Non lo so cosa voleva la signorina Morrison». Invece lo sapeva. Gliel'aveva letto negli occhi. Aveva perso qualcosa, qualcuno, l'ennesima annotazione alla voce uscite del registro contabile. Il caso più interessante che gli fosse capitato da mesi era quello di Nicola Spencer (il che la diceva lunga), altrimenti erano solo lavori noiosi e di routine, eppure ora, a un tratto, nel giro di un paio di settimane gli erano capitati un caso di omicidio da riaprire, un rapimento avvenuto trentaquattro anni prima e la disgrazia fresca, di qualunque cosa si trattasse, che Shirley Morrison stava per offrirgli. Lanciò un'occhiata a Marlee, che si stava divincolando sul sedile posteriore come una Houdini in miniatura. A un certo punto si chinò e scomparve alla vista. «Cosa stai facendo? Hai ancora la cintura?» «Sì, sto cercando di prendere una cosa sul pavimento». La voce era soffocata dallo sforzo. «Che cosa?» «Questa!» esclamò lei trionfante ricomparendo come un subacqueo che risalga per respirare. «È una lattina, credo». Jackson guardò nello specchietto retrovisore l'oggetto che lei aveva alzato perché lui lo identificasse. Oh Cristo, le ceneri di Victor. «Rimettilo a posto, tesoro.» «Cos'è?» Stava cercando di aprire quell'orribile urna di metallo; Jackson allungò un braccio e gliela strappò di mano. L'auto sbandò e Marlee lanciò un grido di orrore. Lui posò con attenzione l'urna a terra, davanti al sedile accanto al suo. Julia gli aveva chiesto di ritirarla al crematorium quella mattina «perché lei ha la macchina, signor Brodie, e noi no». Jackson non la trovava una motivazione particolarmente valida, visto che non aveva mai conosciuto Victor. «Ma lei era l'unica persona presente al suo funera-
le» aveva obiettato Julia. «Non ti metterai mica a piangere, vero?» disse guardando nello specchietto. «No,» rispose lei infuriata. Marlee sapeva essere una vera forza della natura, quand'era infuriata. «Sei quasi andato a sbattere.» «Invece no». Frugò nel portaoggetti alla ricerca di qualche caramella, ma trovò soltanto sigarette e monetine per i parchimetri. Le offrì i soldi. «Cosa c'è in quella lattina?» insisté lei, prendendoli. «Qualcosa di brutto?» «No, niente del genere». Perché non glielo diceva? Sapeva distinguere la vita e la morte, nei suoi otto anni di esistenza aveva già sepolto un numero sufficiente di criceti e l'anno prima Josie l'aveva portata al funerale della nonna. «Be', tesoro,» esordì in tono esitante, «sai che la gente muore, no?» «Mi annoio.» «Allora facciamo un gioco.» «Quale?» Bella domanda. Jackson non era molto bravo con i giochi. «Ne so uno: se fossi un cane, che cane saresti?» «Boh». Tutto lì. Marlee cominciò a piagnucolare sul serio. «Ho fame, papà. Ho fame.» «Mm, va bene, sulla strada ci fermiamo a prendere qualcosa da mangiare.» «Devi dire "sì", non "mm". Sulla strada per andare dove?» «In un convento.» «Cos'è?» «Un gruppo di donne chiuse insieme in un posto.» «Perché sono cattive?» «Perché sono buone. Almeno lo spero.» Be', era un modo di tenere le donne al sicuro. Bastava metterle in convento. «Sarai inviata in un monastero», come disse Amleto a Ofelia. Il convento aveva lo stesso odore di tutte le chiese cattoliche in cui Jackson era entrato - un eccesso di incenso e cera per pavimenti. La gente diceva sempre, «Chi è cattolico resta cattolico per sempre», ma non era vero, Jackson non entrava in chiesa da anni - tranne che per i funerali (sul suo calendario sociale matrimoni e battesimi parevano inesistenti) - e non credeva in nessun dio. Sua madre, Fidelma, aveva fatto del suo meglio per alle-
varli in seno alla chiesa, ma, chissà perché, con Jackson non aveva avuto successo. A volte riaffioravano frammenti di memoria, la voce di sua madre, da tempo dimenticata. Anima Christi, sanctifica me. I suoi genitori erano emigrati nel nord dell'Inghilterra, ma Jackson non sapeva né come né perché. Suo padre, Robert, era un minatore di Fife e sua madre era nata nella contea di Mayo, un'unione celtica non del tutto armoniosa. Jackson, suo fratello Francis e sua sorella Niamh. Francis portava il nome del nonno materno e Jackson quello della nonna paterna. Cioè, Jackson era il suo cognome da ragazza (Margaret Jackson) e quella era una tradizione scozzese: gliel'aveva detto suo padre. Jackson non sapeva da chi avesse preso nome Niamh, e se in famiglia c'era mai stato qualcuno che si chiamasse così. Era più grande di lui di cinque anni e ne aveva uno meno di Francis. Dopo la nascita di Niamh sua madre aveva praticato con successo il metodo del calendario e l'arrivo di Jackson, concepito in una pensione dell'Ayrshire, era stato inaspettato. Il piccolino della famiglia. «A cosa stai pensando, papà?» «Niente, tesoro». Sussurravano entrambi, anche se sorella Michael, la monaca grassa e quasi chiassosa che stavano seguendo passo passo, aveva una voce tonante che echeggiava lungo il corridoio. Sorella Michael, gli avevano spiegato Amelia e Julia, era una "esterna". Al convento c'erano sei esterne, che facevano da tramite con il mondo per conto delle "interne" - quelle che non se ne andavano mai, che trascorrevano le loro giornate, una dopo l'altra, fino alla morte, in preghiera e contemplazione. Sylvia era un'interna. Marlee era rapita e affascinata da quel nuovo mondo. «Ma perché sorella Michael ha un nome da uomo?» «Porta il nome di un santo,» disse Jackson, «san Michele». Perché Marks and Spencer usavano san Michele come logo? Per sembrare meno ebrei? Sorella Michael lo sapeva perché? Lui non aveva certo intenzione di chiederglielo. Michele era il santo patrono dei paracadutisti, Jackson di questo era certo. Per via delle ali? Ma tutti gli angeli avevano le ali. (Anche se Jackson non credeva nella loro esistenza). Il corridoio, che s'immetteva in un secondo, e poi in un terzo, era disseminato di statue e dipinti san Francesco e santa Chiara, naturalmente, e decine di Cristi in croce dagli occhi spalancati, sanguinanti e contorti. Corpus Christi, salva me. Caspita, aveva dimenticato quanto fosse fisicamente estrema quella roba. O meglio, quella «serie di assurdità sadomaso e omoerotiche», per usa-
re la caustica definizione di Amelia. Ma perché era sempre così rigida? Era sicuro che Olivia non c'entrasse. E nemmeno la morte di suo padre. Sapeva che era la cosa più politicamente scorretta che potesse pensare e, per l'amor di Dio, non l'avrebbe mai espressa ad alta voce, nemmeno in un milione di anni, ma bisognava ammetterlo, Amelia Land aveva proprio bisogno di farsi una scopata. «E questa è Nostra Signora di Cracovia,» stava spiegando sorella Michael a Marlee, indicandole una stamina in un contenitore di vetro. «È stata portata via dalla Polonia da un prete, durante la guerra. Nei momenti di crisi storiche piange». Jackson pensò che forse il prete avrebbe fatto meglio a salvare qualche ebreo, invece che una statua di gesso. «Piange?» domandò Marlee, stupefatta. «Sì, le lacrime le colano giù dalle guance». Jackson avrebbe voluto dire: «Sono cazzate, Marlee, non darle retta», ma sorella Michael si girò e lo guardò. Nonostante la faccia paffuta e allegra, aveva occhi da suora, e gli occhi da suora, Jackson lo sapeva bene, ti leggevano dentro, quindi fece un cenno di rispetto verso la statua. Sanguis Christi, inebria me. Sorella Mary Luke li stava aspettando, disse sorella Michael, continuando a camminare e scortandoli nel cuore degli intricati corridoi del convento, l'abito che svolazzava mentre proseguiva decisa. Jackson si rese conto che le suore si muovevano con grande rapidità, ma senza mai correre, come se avessero le ruote (forse faceva parte del loro addestramento). Lo stupiva che l'abito da suora non fosse un travestimento più usato dai criminali. Era un depistaggio perfetto - nessuno avrebbe mai notato la tua faccia, tutti avrebbero visto soltanto l'abito. Bastava pensare a tutti i testimoni dell'omicidio di Laura: avevano visto soltanto il maglione da golf giallo. Jackson ricordava che Julia gli aveva detto che Sylvia era un "levriero", ma forse in realtà voleva dire che aveva un levriero: e in effetti era proprio così. Quando si ritrovarono faccia a faccia con lei, il cane era seduto paziente al suo fianco. Sylvia era separata da loro da una griglia, disposizione che gli ricordava sia il banco degli imputati nelle celle di sicurezza sia gli harem, anche se non sapeva bene da dove gli venisse la seconda immagine. Aveva dato per scontato che Sylvia somigliasse a un levriero, e che fosse cioè magra e slanciata, ma non era affatto pelle e ossa, come avrebbe detto suo padre, e aveva i denti sporgenti e gli occhiali, mentre il levriero era un'elegante creatura pezzata, quel tipo di cani che si vedono nei quadri medievali, nell'atto di accompagnare le nobildonne a caccia. Jackson non
sapeva nemmeno dove l'aveva pescata, quell'immagine. Forse i conventi avevano qualcosa di medievale, in generale. Quando entrarono il cane si alzò e leccò dolcemente le dita di Marlee attraverso la griglia. «Francescane», pensò Jackson. «Sono una specie di ordine hippy,» aveva detto Julia. «D'estate vanno in giro scalze e si fabbricano da sole i sandali per l'inverno, hanno degli animali domestici e sono tutte vegetariane». Amelia e Julia gli avevano descritto il convento in lungo e in largo e pareva che disprezzassero sinceramente la vocazione di Sylvia. «Non si faccia incantare da quelle storie di santità,» aveva aggiunto Julia, «dietro tutte quelle idiozie da pinguine Sylvia è rimasta la stessa.» «È solo una forma di fuga,» era intervenuta Amelia in tono beffardo. «Non deve pagare i conti o pensare a come mettere insieme pranzo e cena, non deve mai stare da sola». Era per questo che Amelia era sempre così negativa, perché era sola? Ma Julia non gli aveva parlato di un certo "Henry"? Difficile immaginare Amelia tra le braccia di un uomo. Chiunque fosse Henry, non lo faceva per Amelia. (Quand'è che aveva smesso di chiamarla "signorina Land" ed era passato a chiamarla per nome?) Amelia aveva detto che non andava quasi mai a trovare la sorella, ma che intrattenevano una corrispondenza irregolare e distaccata, «anche se Sylvia non ha molto da scrivere - preghiere, preghiere e ancora preghiere e poi, naturalmente, fa quelli che in altre parole si potrebbero definire lavori domestici - preparano le ostie per la comunione, inamidano e stirano i paramenti dei preti e tutte quelle cose lì. Fa anche molto giardinaggio e lavora a maglia indumenti per i poveri» aveva aggiunto, sprezzante, e Julia era intervenuta: «Questo te lo sei inventato» e Amelia aveva risposto: «No, non è vero» e Julia: «Sì, invece, io sono andata a trovarla spesso, sai» e Amelia: «L'hai fatto perché avevi un'audizione per la parte della suora in Tutti insieme appassionatamente» e Julia: «Non è vero» e Jackson si era intromesso in tono fiacco: «Oh, smettetela tutte e due» e loro si erano girate in contemporanea e l'avevano guardato come se lo vedessero per la prima volta. «Insomma,» aveva continuato lui, «dovreste proprio darvi una regolata» e poi si era chiesto da quando aveva iniziato a parlare come sua madre. «Be', è stato interessante,» disse Jackson a Marlee, guardandola nello specchietto retrovisore. Lei aveva tutta l'aria di essere sul punto di addormentarsi. Dopo aver fatto conoscenza con il cane di sorella Mary Luke (Jester, il nome con cui prima gareggiava alle corse, era un cane riabilita-
to), sorella Michael l'aveva portata via e le aveva offerto qualcosa da mangiare. Le altre interne le avevano fatto mille feste, come se non avessero mai visto una bambina, e lei pareva più che soddisfatta del pane tostato con i fagioli, della torta paradiso e del gelato che avevano messo insieme. Se le avessero dato delle patatine probabilmente si sarebbero ritrovate con un'aspirante novizia. «Non dire a tua madre che ti ho portato in un convento.» In realtà non era stato poi così interessante. Sylvia sapeva che sarebbe arrivato. Amelia le aveva telefonato e le aveva spiegato che Jackson stava indagando sulla scomparsa di Olivia, ma non le aveva detto perché. Quando Marlee era stata portata via da sorella Michael, Jackson aveva tirato fuori Topoblù dalla tasca in cui l'aveva ficcato ("in clausura") e gliel'aveva fatto vedere. Gli interessava il fattore shock: Julia gli aveva detto che quando l'aveva visto Amelia era svenuta, e dopotutto Amelia non era il tipo che sviene facilmente. Sylvia aveva guardato l'animale, stringendo le labbra sottili e secche, e quegli occhietti color fango non avevano avuto un istante di incertezza. Dopo qualche secondo aveva esclamato "Topoblù" e aveva infilato un dito nella griglia. Jackson le aveva avvicinato il giocattolo e lei ne aveva sfiorato teneramente il corpo vecchio e logoro. Una lacrima le era colata silenziosa sulla guancia. No, non lo vedeva dal giorno che Olivia era scomparsa e non riusciva nemmeno a immaginare perché mai l'avessero trovato tra gli oggetti di suo padre. «Io e papà non siamo mai stati molto vicini,» aveva aggiunto. «La torta era buona,» disse Marlee assonnata. Il telefono di Jackson suonò. Guardò il numero - Amelia e Julia - e si lasciò sfuggire un mugolio. Lasciò che rispondesse la segreteria, ma quando riascoltò il messaggio ne fu così allarmato che dovette accostare per riascoltarlo. Amelia stava singhiozzando, un lamento incipiente e primitivo che era dolore puro e semplice. Jackson si chiese se non fosse morta Julia. Non aveva scelta, doveva richiamarla. «Amelia, prenda un respiro profondo, per l'amor di Dio,» disse. «Cos'è successo? Julia?» Ma lei si limitò a rispondere: «Ti prego, Jackson». (Non gli aveva mai dato del tu. Per lei era troppo confidenziale). «Ti prego, Jackson, vieni, ho bisogno di te». Poi era caduta la linea, oppure l'aveva fatta cadere lei in modo da costringerlo ad andare in Owlstone Road per scoprire cos'era successo (qualcosa di grave a Julia?) «Cosa c'è, papà?»
«Niente, tesoro, tornando a casa dobbiamo solo fare una piccola deviazione». A volte Jackson aveva l'impressione che tutta la sua vita fosse una deviazione. «Siamo andati in un convento,» urlò Marlee entrando in casa di corsa. «Un convento?» David Lastingham scoppiò a ridere, afferrò Marlee che gli passava accanto, la sollevò in aria e poi la strinse forte a sé. Jackson pensò «Aspetto finché non la mette giù e poi gli salto addosso», ma in quel momento era uscita Josie dalla cucina, con indosso un grembiule, Cristo santo. Jackson non l'aveva mai vista così. «Un convento?» ripeté. «E cosa ci facevate in un convento?» «Avevano la torta paradiso,» disse Marlee. Josie guardò Jackson in cerca di una spiegazione, ma lui si strinse nelle spalle e si limitò a dire: «Già.» «E il cane era morto,» continuò Marlee, a un tratto mortificata a quel ricordo. «Che cane?» domandò Josie in tono secco. «Jackson, hai messo sotto un cane?» e Marlee rispose: «No, mamma, il cane era vecchio e adesso è felice, in paradiso. Con tutti gli altri cani morti». Fece una faccia come se stesse per scoppiare di nuovo a piangere (aveva già pianto parecchio) e Jackson le ricordò che avevano anche visto un cane vivo. «Jester,» esclamò lei, felice. «Era in prigione con una suora e avevano una statua che piange e papà ha in macchina una lattina con dentro un signore morto.» Josie lanciò a Jackson uno sguardo disgustato. «Ma perché la devi sempre sovraeccitare?» e prima che lui potesse rispondere si girò verso David e disse: «La porti di sopra, tesoro, e le fai fare un bagno?» Jackson attese finché Marlee e David - l'usurpatore, l'uomo che adesso addormentava sua figlia e si scopava sua moglie - furono saliti e poi disse: «Trovi davvero che sia una mossa intelligente?» «Una mossa intelligente? Ma di che cosa stai parlando?» «Parlo di lasciare un uomo che conosci a malapena con tua figlia, nuda. Nostra figlia. Oh, a proposito, trovi davvero che sia una buona idea vestirla come una mini prostituta?» Rapida come un serpente, lei gli sferrò un pugno in faccia. La cosa lo stordì, non per il dolore (era un pugno da donnetta) ma per lo stupore - mai una volta, quand'erano sposati, c'era stata violenza tra loro. «Ma perché cazzo l'hai fatto?» «Perché sei disgustoso, Jackson. È l'uomo con cui vivo, l'uomo che amo.
Credi davvero che avrei portato mia figlia a vivere con uno di cui non mi fido?» «Ti stupirebbe sapere quante volte l'ho sentito dire.» David Lastingham doveva averli sentiti urlare, perché si precipitò giù dalle scale inveendo contro Jackson. «Cosa le hai fatto?» Jackson lo trovò divertente e Josie, tanto per migliorare la situazione, aggiunse: «Ti ha accusato di importunare Marlee.» «Importunare?» Jackson la guardò con una smorfia. «È così che si esprimono i borghesi?» Ma a quel punto David Lastingham, arrivato in fondo alle scale, gli tirò un gancio deboluccio ma incazzato di cui Jackson non fece nemmeno in tempo ad accorgersi, ma che sentì di sicuro quando arrivò a destinazione, anzi, avrebbe potuto giurare di avere sentito lo scricchiolio dello zigomo. Jackson pensò «Ecco, adesso lo ammazzo», ma a un tratto in cima alle scale apparve Marlee e disse: «Papà?» Josie sbottò: «Vattene fuori da casa nostra, stronzo, ah, a proposito, non ti ho detto che ci trasferiamo in Nuova Zelanda. Volevo farti accomodare e fare una cosa tipo tè e simpatia, mettertela giù con calma, ma non ti meriti niente. A David hanno offerto un lavoro a Wellington, l'ha accettato e noi andiamo con lui. Allora, Jackson, che te ne pare?» Jackson parcheggiò l'Alfa in uno dei garage che aveva affittato in fondo al vicolo, provando il solito, momentaneo senso di colpa per il rumore provocato dal tubo di scappamento. Pensava a Sylvia, che aveva rinunciato alla sua vita per farsi rinchiudere in quel posto. Sapeva più di quanto non gli avesse detto, ne era certo. Ma in quel momento non voleva pensare a lei, voleva pensare soltanto a un bagno caldo e a un birra ghiacciata. Lo infuriava l'idea di avere lasciato che David Lastingham gli sferrasse un pugno. Quella giornata non poteva andare peggio, anche se l'esperienza gli aveva insegnato che le cose possono sempre peggiorare e, come a voler dimostrare quella tesi, una figura scura scivolò fuori dalle ombre dietro il garage e lo colpì alla testa con qualcosa che assomigliava terribilmente al calcio di una pistola. «Sì, ma avresti dovuto vedere quell'altro,» cercò di scherzare Jackson, però Josie non rise. Profumava di frutta e sole e a Jackson venne in mente la spedizione per raccogliere frutti di bosco. Le sue braccia abbronzate erano graffiate come se avesse lottato contro dei gatti. «Cespugli di uva spina,» rispose quando lui glielo fece notare.
«Scusa,» disse Jackson, «ma hanno trovato la mia tessera da donatore di organi, e come parente più prossimo c'è segnato il tuo nome. È solo una leggera commozione cerebrale, non avrebbero dovuto disturbarti.» «Sei rimasto disteso là quasi tutta la notte, Jackson. Per fortuna fa caldo, immagina se fosse stato inverno». Lo disse in tono accusatorio invece che compassionevole, come se quell'aggressione fosse stata tutta colpa sua. In realtà a Jackson sarebbe davvero piaciuto vedere l'altro, perché era quasi sicuro di avergli procurato qualche danno. Era stato fortunato, aveva reagito con prontezza e quando aveva visto quella sagoma venirgli incontro si era mosso d'intuito, abbastanza da deviare il colpo, in modo da uscirne soltanto con una commozione cerebrale e non con il cranio spaccato come un uovo. E aveva risposto al colpo, anche se non era niente di fronte a un buon gancio destro o a un bel calcio con lo slancio, o a una delle mosse calcolate che aveva imparato in diverse occasioni - era stata invece la reazione automatica e primitiva di un bruto che si ubriaca il sabato sera, e aveva beccato il tizio dritto in faccia. Sentiva ancora il naso spiaccicarsi e la fronte combaciare con il tessuto molle. Non aveva fatto un gran bene alla sua commozione cerebrale, ovviamente, e allora doveva essere svenuto perché ricordava soltanto che a un certo punto, prima dell'alba, il lattaio aveva cercato di svegliarlo. Josie lo accompagnò a casa in macchina. «Vogliono che qualcuno stia con me per le prossime ventiquattrore,» le disse in tono contrito, «nel caso che svenga di nuovo.» «Be', dovrai trovarti qualcun altro,» gli rispose lei accostando all'inizio del vicolo, senza nemmeno entrarci. Lui si rese conto di aspettarsi una comprensione che non sarebbe venuta. Scese goffamente dalla Volvo. Gli sembrava che gli avessero spostato le ossa del cranio, come placche tettoniche che scivolano e scorrono le une sulle altre. Ogni movimento gli riverberava nel cervello. Si sentiva gravemente ferito. Josie abbassò il finestrino per parlargli. Per un secondo pensò che si sarebbe allungata e gli avrebbe dato un bacio da moglie per salutarlo, o magari si sarebbe offerta di fermarsi a badare a lui, ma invece gli disse: «Forse è ora che ti trovi un altro parente prossimo.» Quando arrivò a casa mise Topoblù sulla mensola del caminetto. Sapeva che prima o poi avrebbe iniziato a cavarne qualcosa di buono. Sistemò l'urna di Victor (in tutta quella baraonda aveva dimenticato di restituirla ad Amelia e a Julia) tra Topoblù e l'unico soprammobile della mensola - un
pozzo dei desideri di terracotta da quattro soldi con la scritta "Saluti da Scarborough". Dopo il divorzio le proprietà coniugali erano state divise in un modo che Josie considerava equo - Jackson si era ripreso la sua «merda» (così Josie definiva i suoi Cd country e il piccolo pozzo) e lei si era tenuta il resto. Forse Topoblù avrebbe vegliato su di lui, visto che non c'era nessun altro. Mandò giù due antidolorifici che gli avevano dato all'ospedale (anche se avrebbe preferito la morfina), si sdraiò sul divano e ascoltò Emmylou che cantava From Boulder to Birmingham, ma il dolore era troppo, nemmeno lei avrebbe potuto lenirlo. 12 Caroline Caroline lanciò un'occhiata ai figliastri sul sedile posteriore della Discovery e ringraziò il cielo che non frequentassero la sua scuola. Andavano a un piccolo istituto privato in una località sperduta, dove facevano un sacco di sport all'aperto e il mercoledì parlavano francese tutto il giorno. Certo, in linea di principio non c'era niente di male in tutto questo e sarebbe stato interessante applicare lo stesso sistema ad alcune delle scuole di periferia in cui lei aveva insegnato. Erano passati solo due anni, ma sembrava una vita. Un'altra vita. Quante volte era possibile cambiare pelle? Hannah e James le facevano le smorfie nello specchietto retrovisore: o erano incredibilmente stupidi e non pensavano che lei riuscisse a vederli, oppure non gliene fregava niente. In ogni caso parevano frutto di un incrocio tra consanguinei. Rowena, la madre di Jonathan, parlava sempre di «incroci» perché aveva una stalla piena di cavalli da caccia (bestie enormi e spaventose), ma a volte pareva applicare quel concetto alla sua stessa famiglia; Caroline avrebbe voluto spiegarle che la selezione naturale dà origine a specie più forti, mentre dagli "incroci" discendono difetti congeniti, bambini pallidi e biondi che parlano francese il mercoledì e le cui facce vuote da ultracorpi suggeriscono un'idiozia latente. Almeno secondo l'opinione professionale di Caroline. Dopo il matrimonio Rowena si era trasferita nella dépendance, una casetta all'interno della proprietà che chiamava «il mio piccolo cottage», anche se aveva quattro camere da letto e due salotti. Si vantava di «non interferire», cosa che faceva in continuazione, ma alle spalle di Caroline. Però faceva buon viso a cattivo gioco: al matrimonio aveva sorriso con aria benevola per tutto il tempo, come una che è imbottita di Valium, e aveva pa-
gato tutto, il padiglione, il quartetto d'archi, i camerieri che servivano a tavola in grande stile, il salmone freddo e la cacciagione arrosto, gli enormi vasi di gigli bianchi a cui purtroppo qualcuno aveva dimenticato di tagliare gli stami, così gli ospiti erano sempre spolverati di polline. E nessuno aveva accennato al fatto che si trattava di un matrimonio civile, o un secondo matrimonio, anche se i figli di primo letto non passavano certo inosservati e correvano in giro come ratti trasformati in bambini - in abiti di seta bianca che non avrebbero sfigurato all'infausta corte di Luigi XVI. Erano arrivati in aereo da Buenos Aires qualche giorno prima del matrimonio e non erano più ripartiti perché Jemima - la prima moglie - aveva deciso che dovevano essere educati all'inglese e Jonathan era stato d'accordo. La cosa non aveva disturbato Caroline (sì, ne coglieva l'ironia), che con i bambini era fantastica, ecco perché era così brava sul lavoro - e le due cose non andavano necessariamente insieme, conosceva un sacco di insegnanti che vedevano i bambini come un fastidioso sottoprodotto della loro professione piuttosto che come la sua stessa ragion d'essere. Solo non si era aspettata che Hannah e James fossero due piccoli bastardi. Era la giornata libera della ragazza alla pari, quindi Caroline si era offerta di andarli a prendere a scuola. La ragazza era spagnola e si chiamava Paola, e Caroline cercava di tenerla allegra con del Rioja e un po' di simpatia, visto che pareva sempre pronta ad andarsene. E chi poteva biasimarla, bloccata lì in quel posto sperduto con un clima di merda e due piccole pesti che cercavano sempre di esasperarla? Non si prendevano nemmeno il disturbo di pronunciare correttamente il suo nome - lei li correggeva di continuo, allungando in tono esotico le vocali come un gatto che sbadigli, eppure loro insistevano nel chiamarla "Porla" con quelle loro vocette rigide e snob. Negli ultimi due anni avevano vissuto in un paese di lingua spagnola, Cristo, ma non sapevano, o forse non volevano, dire neanche «Buenos días». La loro piccola scuola isolata teneva i bambini impegnati più a lungo rispetto a quella del paese. Caroline finiva di lavorare un'ora prima, ma nel pomeriggio Hannah e James avevano tutta una serie di attività extrascolastiche: clarinetto e cricket, piano, "voce" (come se quella che già avevano non bastasse), danza popolare (oddio) e fioretto - quando ne aveva sentito parlare la prima volta aveva creduto che si trattasse di buone azioni. Le sarebbe piaciuto scaraventarli - preferibilmente da un'altezza considerevole in una classe di Toxteth o Chapeltown e stare a vedere a cosa diavolo gli serviva, il fioretto.
Passarono accanto alla scuola del villaggio e James muggì. Caroline l'aveva sentito chiamare i ragazzi del paese "burini" ed era stata sul punto di mollargli uno schiaffo. Sospettava che quel suo lento cervellino maschile avesse confuso "burino" con "bovino", ecco perché muggiva sempre quando si trovava nei paraggi di qualcuno di classe sociale inferiore. Non era sicura di riuscire a trattenersi ancora per molto dal compiere qualche gesto violento nei suoi confronti. Per una coincidenza la direttrice della scuola era andata in pensione subito dopo che loro erano tornati dal viaggio di nozze. Era stato facile prendere il suo posto. Le credenziali di Caroline superavano di gran lunga i requisiti necessari per una piccola scuola di paese composta da sole tre classi e si era sentita subito a casa anche pochi giorni dopo il suo ritorno dal Jersey - là avevano trascorso una settimana di luna di miele, all'Atlantic, in una camera con vista sul mare, a picco sulla baia di St Ouen, anche se il mare l'avevano visto molto poco, dal momento che avevano trascorso quasi tutto il tempo a letto. «Oh, l'Atlantic,» aveva detto Rowena al loro ritorno, «che albergo delizioso. Cos'avete fatto tutta la settimana?» e Jonathan aveva risposto: «Oh, le solite cose, lo zoo, il giardino delle orchidee, una passeggiata a La Corbière, il tè al Secret Garden» e nell'udire quell'itinerario così ottusamente borghese Rowena aveva sorriso con tale soddisfazione che Caroline si era trattenuta a stento dal dire: «In realtà, Rowena, non abbiamo fatto altro che scopare come ricci.» «Allora dopo il matrimonio ti metterai a lavorare?» le aveva chiesto la suocera nell'atmosfera soffocante del padiglione nuziale e Caroline aveva risposto: «Sì», senza sentire la necessità di entrare nei dettagli. Il colletto del completo di seta cruda color crema di Rowena era segnato da una macchia di polline di giglio, arancione bruciato, e Caroline sperò che la lavanderia a secco avrebbe trovato grosse difficoltà a toglierla. In paese tutti sostenevano che dirigere quella scuola era un lavoro duro, ma in realtà non avrebbe potuto essere più facile. I bambini erano figli di gente di campagna, dolci e carini - c'era un solo caso, non grave, di deficit dell'attenzione, un paio di ragazzini coperti di croste e uno stronzetto, e secondo le statistiche avrebbe dovuto esserci almeno un bambino vittima di violenza, ma Caroline non l'aveva ancora identificato. Nella lettura andavano quasi tutti bene (un miracolo), facevano i vecchi giochi da cortile di sempre e le loro vite seguivano il calendario agricolo, quindi la festa del raccolto era una festa a tutti gli effetti e in primavera, per "Mostra e dimo-
stra", qualcuno portava sempre un agnellino vero. Nel parco del villaggio c'era perfino un albero della cuccagna attorno al quale i bambini ballavano, ignorandone le connotazioni falliche. Adorava quel lavoro e sperava che, in caso di divorzio, sarebbe riuscita a tenerselo: in quel posto era tutto così maledettamente feudale che probabilmente l'incarico era stato un regalo al signorotto locale, e cioè Jonathan, o almeno così sembrava. Non che avesse intenzione di divorziare, ma era difficile credere che quella situazione si sarebbe protratta all'infinito, niente durava per sempre, e perché quel lavoro avrebbe dovuto fare eccezione? E poi non era possibile mantenersi sempre un passo avanti agli altri. Non importava da quanto tempo ti eri perduta, presto o tardi ti trovavano. Senza contare che vivere lì e non lavorare sarebbe stato impossibile. Che cosa avrebbe fatto tutto il giorno? Jonathan si inventava sempre qualcosa di cui occuparsi. Entrava e usciva dall'ufficio dell'azienda agricola o girava per le colline controllando campi e recinzioni - anche se non se ne curava personalmente - ma aveva un amministratore che seguiva l'azienda, quindi se non andava in ufficio e non controllava lo steccato tutto filava lo stesso. Usciva molto con il fucile e uccideva animali, come se fosse una parte importante del suo ruolo di possidente agricolo, ma in realtà era solo perché adorava sparare (o uccidere). Aveva una buona mira ed era un buon insegnante: Caroline aveva scoperto di avere un certo talento come tiratrice scelta. Ma non sparava alle cose vive, non come Jonathan - solo a bersagli, piccioni di terracotta e lattine allineate sui muretti. Le piacevano i fucili, le piaceva sentirne il peso sulle braccia, le piaceva quel momento di equilibrio perfetto che precede lo scatto del grilletto, quando capisci che hai preso bene la mira. Era incredibile poter passeggiare in campagna (anche se era di tua proprietà) brandendo armi letali, senza che nessuno ti fermasse. Quando non fingeva di amministrare la proprietà o non sparava a qualcosa di più piccolo e indifeso di lui, Jonathan usciva con uno dei cavalli di sua madre. Caroline si sentiva sempre domandare: «Vai a cavallo?» e quando rispondeva di no nessuno ci credeva. Naturalmente Rowena era una "amazzone meravigliosa" (come una creatura mitica), e a quanto pareva buona parte del suo matrimonio Jemima l'aveva passato a cavallo. La gente faticava a credere che Jonathan avesse sposato una donna che non distingueva il garretto dal garrese, ma in realtà a lui non importava un fico se le piacevano o meno i cavalli. Era uno dei suoi pregi: era totalmente indifferente a quello che lei faceva, anzi, era indifferente a quasi tutto ciò che faceva chiunque. Era segno che in lui c'era qualcosa che non funzionava,
una mancanza di capacità di stringere legami sociali, Caroline ne era certa. In un'altra vita forse avrebbe potuto essere etichettato come psicopatico. Gli psicopatici erano ovunque: non sempre uccidevano, stupravano e si esercitavano a diventare serial killer. A Caroline avevano diagnosticato tendenze psicopatiche, be', non proprio a lei, ma alla persona che era stata. Caroline trovava che avessero commesso un grave errore. James: lui sì che era un vero sociopatico; ecco cosa succedeva con gli incroci. Jemima, la madre dei due ragazzi, era venuta a trovarli l'estate precedente. Era una perfetta miniatura di porcellana inglese che andava d'accordissimo con Rowena, parlavano di giarrettiere e martingale, delle mucche Red Devon e del problema del "prato superiore" «Caroline non sapeva nemmeno di averlo, un prato superiore.» «Allora hai divorziato... ma perché esattamente?» aveva chiesto a Jonathan, stringendolo in uno scivoloso e sudato abbraccio postcoitale mentre a cinquecento metri di distanza, in una delle tre camere da letto per gli ospiti della dépendance, Jemima posava la sua testa bionda e delicata su un cuscino di piuma d'oca ungherese del valore di centoventi sterline. «Oddio,» mugolò Jonathan, «Jem era così noiosa. Non te l'immagini neanche, Caro», poi era scoppiato in una risata maliziosa, l'aveva fatta girare e l'aveva presa da dietro - niente da dire, il ragazzo ne aveva, di energia - e mentre rischiava di soffocare nei cuscini (meno costosi, ma di poco) si chiese se Jemima lo prendesse mai nel culo. Probabilmente no, ma con queste ragazze snob non si poteva mai dire, erano capaci di depravazioni che i burini non sospettavano neppure. Avevano trascorso la luna di miele in Jersey perché, più tardi quello stesso giorno, Caroline aveva scoperto di non avere il passaporto. Jonathan non fece una piega, non era granché interessato a vedere posti che non fossero lo Yorkshire settentrionale. Avrebbe potuto richiederne uno, aveva il certificato di nascita - intestato a Caroline Edith Edwards. Secondo Caroline, "Edith" doveva essere il nome della nonna, perché era piuttosto datato per una ragazza nata nel 1967. "Caroline Edwards" aveva sei anni meno di Caroline, anche se, naturalmente, non aveva mai raggiunto la sua età. Quella Caroline era morta prima dei cinque anni, "portata via da un angelo", così diceva la lapide, anche se il certificato di morte affermava che a rapirla era stata una più prosaica leucemia. Aveva visitato la tomba, a Swindon, e vi aveva deposto un mazzolino di fiori, per ringraziare Caroline Edith Edwards di averle donato, o meglio di essersi lasciata portare via,
la sua identità. Quando finalmente arrivarono a casa erano ormai le cinque e mezza e Hannah e James cominciarono subito a pretendere qualcosa da mangiare. Paola era seduta al tavolo di cucina con un'aria imbronciata, ma quando li vide si alzò e iniziò a frugare nel freezer alla ricerca delle pizzette; Caroline dovette dirle di sedersi e stare ferma, visto che era il suo giorno libero. Non che avesse qualche altro posto dove andare. A volte usciva per una passeggiata, ma veniva da Barcellona e non aveva nulla in comune con quella campagna umida e verde. Ogni tanto Caroline, diretta al lavoro, le dava un passaggio alla fermata dell'autobus, e Paola trascorreva la giornata in giro per Richmond o Harrogate con il muso lungo, ma poi tornare era un problema. Molto spesso restava in camera sua. Un paio di volte Caroline le aveva dato dei soldi perché andasse a Londra per il weekend: pareva che là conoscesse centinaia di spagnoli. Era terrorizzata all'idea che non tornasse; Paola era la cosa più vicina a un'amica che avesse, ed era più emarginata di quanto non lo fosse lei. Gillian se ne era andata da tempo, faceva la volontaria in Sri Lanka, e Caroline si era pentita di non averla imitata. Rowena non vedeva la necessità di tenere una ragazza alla pari e trovava sempre nuovi modi di inimicarsela. «I ragazzi sono fuori tutto il giorno,» sosteneva con Caroline. «Sarebbe diverso se tu avessi un bambino». In questa affermazione era nascosta una velata domanda. Stava forse pensando di mettere in cantiere un figlio? Rowena non voleva che il sangue dei Weaver fosse diluito dal Dna sospetto di Caroline. («Cosa faceva esattamente tuo padre, cara?» Il padre di Caroline Edith Edwards era macellaio, ma sarebbe stato troppo per Rowena, così Caroline disse vagamente che era contabile). Non avevano bisogno di un bambino, avevano un erede e Hannah faceva da ruota di scorta. Erano una famiglia completa - due adulti, due bambini, quattro angoli di un quadrato, solido, come il maschio di un castello. Non c'era spazio per nessun altro, nemmeno per quel bambino grande come una pulce che in quel momento era in incubazione nel ventre di Caroline. Probabilmente Jonathan ne sarebbe stato entusiasta. Quante volte avrebbe fatto lo stesso errore, nella vita? In teoria ti era concesso commettere un unico grosso sbaglio nella vita, uno solo, per poi non caderci più. E comunque, che tu riuscissi a rimediare o meno non aveva importanza, visto che ti avrebbe seguito per sempre, ovunque, qualunque cosa tu avessi fatto, prima o poi svoltavi un angolo e vedevi quel mostriciattolo sul pavimento, il mostriciattolo che a forza di piangere era piombato
nell'oblio del sonno. Il mostriciattolo con la sua nuova tutina OshKosh. I capelli di John Burton si stavano diradando e in cima alla testa si delineavano i contorni appena accennati di una tonsura da monaco. Quando notò quella piccola chiazza di calvizie Caroline si intenerì. Le assurdità della passione erano per lei fonte di continuo stupore. Era inginocchiato davanti all'altare e faceva qualcosa di religioso, o almeno così lei supponeva, ma quando si avvicinò si rese conto che stava ripulendo il pavimento con una spazzola e una paletta. Quando la vide scoppiò in una risata imbarazzata e disse: «La signora delle pulizie è in vacanza.» «Dove?» Adorava il fatto che avesse detto "signora" invece di "donna". «Majorca.» «La paga?» «Be', certo,» replicò lui, con aria stupefatta. «Credevo che le chiese fossero piene di donne che si danno da fare solo per il piacere di farlo, che sistemano fiori, lucidano ottoni e cose del genere.» «Credo che lei stia pensando al passato,» disse. «O a uno sceneggiato televisivo.» Caroline sedette sulla prima panca e disse: «Avrei voglia di una sigaretta». Lui le sedette accanto, con spazzola e paletta sempre in mano, e rispose: «Non sapevo che fumasse» e lei: «Infatti non fumo. Non proprio». Lui portava pantaloni da vicario, neri, banali e piuttosto economici, una maglietta bianca e un vecchio cardigan grigio che lei avrebbe voluto accarezzare come se fosse un animale. Sembrava un vicario anche quand'era in borghese. Non riusciva a immaginarlo in jeans o in giacca e cravatta. Non aveva idea di quello che Caroline provava per lui. Se lei gliel'avesse detto avrebbe distrutto la sua innocenza. Certo, non lo conosceva, non lo conosceva affatto. Ma che differenza faceva? Forse non era la persona giusta (anzi, era ovvio che non lo era) e non dimentichiamo che lei era sposata (ma che importanza ha, poi?) La verità è che al mondo esiste più di una persona fatta per noi, no? Se invece ne esistesse una sola, allora le possibilità di trovarla sarebbero minime, e conoscendo la sua fortuna, anche se Caroline l'avesse incontrata probabilmente non l'avrebbe riconosciuta. E se la persona destinata a te vive in una baraccopoli di Città del Messico, è un prigioniero politico birmano o una delle miriadi di persone con cui è altamente improbabile entrare in contatto? Come un vicario anglicano con calvizie precoce in una parrocchia rurale dello Yorkshire settentrionale.
A un tratto le venne da piangere. «La mia ragazza alla pari sta per andarsene,» disse. Oh, lui doveva trovarla davvero patetica. Era possibile mettere sullo stesso piano una ragazza alla pari spagnola, la pace universale e la povertà nel Terzo mondo? Ma fu gentile, come si era aspettata, le disse: «Mi dispiace», come se fosse sincero, e poi rimasero seduti in silenzio a fissare l'altare e ad ascoltare la pioggia estiva che tamburellava sulle tegole antiche. 13 Amelia Julia trasportò una badilata di carbone in soggiorno, scortata da un Sammy zoppicante. «Non riesco a credere che Victor non abbia mai messo il riscaldamento centralizzato,» boccheggiò, lasciando cadere il badile a terra e disseminando sul tappeto polvere e minuscoli frammenti di carbone, simili a giaietto lucido e non lavorato. Amelia la guardò accigliata e disse: «Avevo appena pulito» e Julia rispose: «Te lo farò scrivere sulla lapide» e Amelia ribatté: «Oh, davvero?» e Julia: «Dio, mi pare di soffocare, a te no?» e Amelia: «A cosa ti riferisci, esattamente?» «Due settimane di castità forzata, da quando sono arrivata qui,» disse Julia. «Sto proprio impazzendo. Devo farmi un ditalino tutte le sere.» «Oh, Cristo santo, Julia, sei così volgare, è disgustoso». Amelia odiava quel linguaggio, i muratori e i piastrellisti lo usavano continuamente, e anche le parrucchiere, le ragazze si comportavano proprio come i maschi. «Segaiolo!» si urlavano da un capo all'altro dell'aula. «Perché, tu come lo chiami?» domandò Julia, e Amelia rispose: «Non saprei, procurarsi piacere», al che Julia scoppiò a ridere e poi aggiunse: «Dio, non dirmi che non lo fai, Milly, lo fanno tutti, è normale, sono sicura che lo fai pensando a Henry. Oh, no, a Henry no, scommetto che pensi a Jackson!» Pareva particolarmente divertita da quell'idea. Amelia avrebbe voluto mollarle un ceffone. «Lo fai, vero, Milly? Te la meni e pensi a Jackson!» «Sei disgustosa, Julia. Disgustosa e offensiva». Amelia sapeva di essere diventata rossa come le sue calze - indossate appositamente nel caso che Jackson passasse di lì, visto che al funerale di Victor le aveva trovate parecchio interessanti. Quella mattina si era svegliata con la sensazione che nelle vene le scorresse miele caldo, al posto del sangue, e aveva pensato «Stamattina passerà», e si era messa un po' del trucco di Julia, aveva la-
sciato i capelli sciolti perché erano più sbarazzini, aveva fatto il caffè e aveva riscaldato i croissant stantii che Julia aveva comprato il giorno prima. Aveva raccolto dei fiori in giardino (era stato difficile trovarli, in mezzo alle erbacce) e li aveva messi in un vaso, così Jackson l'avrebbe guardata e avrebbe capito che era una donna. Ma naturalmente lui non era venuto: Amelia non aveva mai avuto alcun intuito, né femminile né di altro genere. Era stata solo una speranza. Julia canterellò: «Milly ha un nuovo fidanzato, povero vecchio Henry, a Milly piace Jackson», come una bambina di otto anni. Una parte di lei avrebbe avuto otto anni per sempre, mentre una parte di Amelia ne avrebbe sempre avuti undici, l'età che avevano quando il mondo si era fermato. «Quanti anni hai, Julia?» «Non quanti ne hai tu.» «Me ne vado prima che mi venga voglia di picchiarti.» Amelia si spruzzò le guance con l'acqua fredda del rubinetto della cucina. Sentiva ancora la sorella ridacchiare da sola in soggiorno; se ricominciava le avrebbe spaccato la testa. Ma Julia non mollò l'osso e la seguì in cucina dicendo: «Cristo, Milly, sei così rigida, non riesco a immaginare come siete a letto, tu e Henry». Nemmeno Amelia ci riusciva, perché, ovviamente, Henry non esisteva. Era un'invenzione, evocata dal nulla, nata dall'esasperazione nei confronti di Julia, che la prendeva continuamente in giro perché era zitella e (orrore) si offriva con insistenza di "sistemarla" con qualcuno. «Qualcuno ce l'ho già, grazie» le aveva risposto in tono irritato, dopo che le aveva rivolto l'ennesima serie di domande alquanto personali, «un collega di dipartimento» e, alla ricerca del primo nome maschile che le venisse in mente, aveva detto «Henry», il nome del cane del vicino al piano di sotto, un piccolo pechinese rivoltante con gli occhi che pareva dovessero schizzargli dalle orbite da un momento all'altro. «Se Henry fosse un cane che cane sarebbe?» le aveva chiesto Julia, prevedibilmente, e Amelia senza riflettere aveva risposto: «Un pechinese». Julia si era accigliata e aveva replicato: «Oh, povera Milly.» Da allora, l'Henry immaginario aveva a poco a poco acquisito i dettagli di una personalità definita. Aveva una calvizie incipiente, un po' di pancia, preferiva la birra ai superalcolici e una volta, molto tempo prima, era stato sposato con una donna che era morta di cancro e che lui aveva devotamente assistito in casa. Non aveva figli ma un gatto soriano, Molly, ottimo per dare la caccia ai topi. Fu così che Amelia scoprì che le bugie stanno soprattutto nei dettagli.
Henry e Amelia conducevano una relazione tranquilla e fittizia a base di spettacoli teatrali, cinema d'essai, ristoranti italiani, pub di provincia e passeggiate rigeneranti. Avevano trascorso insieme due weekend, uno nelle Mendip Hills e l'altro nel Devon settentrionale: Amelia si era accuratamente documentata su entrambe le località, su internet, nel caso che Julia si rivelasse curiosa nei confronti della geografia o della storia dei luoghi, anche se, naturalmente, le aveva domandato soltanto del cibo e del sesso («Su, dai, Milly, non fare la timida»). Era importante non rendere Henry troppo interessante, perché altrimenti Julia avrebbe voluto incontrarlo, quindi il sesso era «un po' monotono» ma comunque «carino» - parola che Julia detestava. Di recente Amelia le aveva confessato che Henry amava molto il golf, passatempo che sapeva avrebbe sicuramente suscitato l'indifferenza della sorella. Henry si era dimostrato un tale successo con Julia che Amelia l'aveva introdotto anche al lavoro. Era un utile antidoto agli sguardi di pietà e divertimento che la seguivano ovunque. Aveva sentito gli altri docenti definirla «zitella» e sapeva che un paio di persone la credevano lesbica. Era un'idea che la faceva vagamente rabbrividire. Julia diceva di avere fatto sesso con delle donne, e ne parlava con la stessa disinvoltura di quando raccontava del suo supermercato preferito o degli ultimi libri che aveva letto. Amelia si imponeva di non fare una faccia stupita, perché quello era il genere di reazione che Julia adorava. C'era un limite alle cose che era disposta a fare? L'avrebbe fatto con un cane? «Zoofilia,» disse Julia in tono meditativo. «Be', solo se ci fossi costretta.» «Costretta? Per recitare una parte?» «No, ovviamente no, ma per salvarti la vita, per esempio.» Amelia avrebbe fatto sesso con un cane per salvare la vita di Julia? Che modo agghiacciante di mettere alla prova qualcuno. A quanto ne sapevano i colleghi della sala professori, Henry gliel'aveva presentato sua sorella. Visto che Julia faceva l'attrice, tutti pensavano che conducesse una vita molto mondana, idea che di solito Amelia trovava irritante, ma a volte le faceva anche comodo. Questo Henry viveva a Edimburgo, cosa che lo rendeva inaccessibile e le dava qualcosa da fare nei weekend - «Oh, prendo un aereo e vado in Scozia, Henry mi porta a pesca», genere di attività secondo lei tipicamente scozzese; pensava sempre alla regina madre che, in un assurdo completo di stivali di gomma e impermeabile, gettava l'amo alle trote in mezzo a un fiumiciattolo marrone
(sicuramente nei dintorni di Brigadoon). Amelia non si era mai spinta più a nord di York, e solo per vedere Julia recitare in uno spettacolo natalizio nei panni del gatto di Dick Whittington, un'interpretazione che pareva suggerire che l'animale fosse costantemente in calore. Amelia immaginava che tra York e le Highlands scozzesi, infestate di teste coronate, si stendesse una cupa terra di nessuno popolata di gru abbandonate, fabbriche diroccate e gente tradita, eppure sempre leale. Oh, e la brughiera, certo, ampi tratti di paesaggio triste sotto cieli bassi, attraversato a lunghe falcate da uomini imbronciati e cupi, intenti a raggiungere residenze ancestrali, dove avrebbero spalancato porte e castigato governanti orfane ma risolute. Oppure anzi, meglio - dove uomini imbronciati e cupi cavalcavano cavalli neri con fianchi enormi e muscolosi, luccicanti di sudore... «Milly?» «Eh?» «Non mi stai a sentire, stavo dicendo che potremmo usare parte dei soldi della casa per prenderci una vera vacanza». Julia stava accendendo il fuoco nel caminetto, piegando e increspando fogli di giornale a formare esche improvvisate. Amelia si accigliò e accese il televisore. Dapprima aveva suggerito a Julia di guardare i canali più culturali, Performance o Discovery o, se necessario, TV5, per rispolverare il loro francese (anche se sfortunatamente trovare TV5 implicava anche frugare tra il porno e lo sport), ma l'idea era stata sonoramente bocciata («Milly, non rompere») e adesso trascorrevano lunghe ore davanti al caminetto e alle repliche di decrepiti telefilm e sceneggiati anni Settanta, Bergerac più La saga dei Poldark, per finire con Only fools and horses, che nell'etere pareva godere di perenni riproposte. «Parlo di una vacanza come si deve,» continuò Julia, «un safari in Africa o un trekking in Nepal, i templi di Machu Picchu o una traversata in piroscafo fino al Polo Sud. Che ne pensi, Milly?» Amelia non aveva mai viaggiato perché non aveva mai avuto nessuno con cui farlo. Julia era l'unica persona con cui fosse mai stata in vacanza una volta in Portogallo (piacevole) e una in Marocco (un incubo) - quindi aveva la sensazione di vedere il mondo attraverso un piccolo vetro, ma l'idea di andare là fuori, nel mondo, su un'alta montagna, in mezzo all'oceano, in qualche luogo sconosciuto e pericoloso, lontano dalla sicurezza di un soggiorno inglese, le faceva venire immediatamente le vertigini e la nausea per la paura. «E potresti fare una sorpresa a Henry,» proseguì Julia allegramente,
«portarlo a New York o Parigi per il fine settimana, prendere una stanza in un albergo favoloso, come il George Cinq o il Bristol...» «Ti si sta spegnendo il fuoco.» Molto spesso "Henry" scendeva a Oxford per il weekend e se qualcuno glielo domandava, il lunedì mattina Amelia riferiva di avere trascorso due giorni "deliziosi": una gita in auto a Cliveden, un "meraviglioso" pranzo a Bray. Non glielo chiedevano in molti, ma tra i colleghi regnava la convinzione che, da quando aveva conosciuto Henry, Amelia fosse un po' meno fredda e caustica. L'Henry che utilizzava per i colleghi era una versione lievemente meno calva e grassa di quella che aveva studiato per Julia. Era anche più attivo ed estroverso - tutta quella pesca - e molto più facoltoso («lavora nel campo finanziario, oddio, non chiedermi di più, per me è arabo»). Le piaceva esaltarne i lati più affascinanti soprattutto con Andrew Vardy, un collega del dipartimento "comunicazioni" e l'unico uomo con cui Amelia avesse in realtà fatto sesso. Amelia aveva fatto sesso con Andrew Vardy dieci anni prima perché aveva paura di morire vergine. Perché le sembrava ridicolo essere vergine a trentacinque anni, agli sgoccioli del ventesimo secolo. Perché non capiva come fosse potuta arrivare così vicina alla morte senza avere nemmeno vissuto. Immaginava di trovarsi in quello stato virginale per timidezza, si imbarazzava con facilità e il sesso le sembrava del tutto scoraggiante (e, ammettiamolo, vagamente disgustoso). All'università si era fatta la fama di persona sussiegosa ma si aspettava sempre che qualche ragazzo (o qualche uomo imbronciato e cupo) superasse quella sua strategia difensiva, facesse piazza pulita delle sue inibizioni e introducesse nella sua vita la passione sensuale. Ma pareva che nessuno, imbronciato o meno, la volesse. A volte si chiedeva se per caso non emanasse l'odore sbagliato, oppure se ne era del tutto sprovvista, perché era una cosa primitiva, no? Come per i gatti, le api regine e i cervi muschiati. Ancora più curioso del fatto che nessuno la volesse, era che anche lei non voleva nessuno - a parte gli uomini dei romanzi ottocenteschi, che davano un effetto tutto nuovo alla parola "irraggiungibile". Perfino Sylvia non era vergine: prima della sua "conversione" era andata a letto con decine di ragazzi. E se era riuscita a trovarsi dei ragazzi Sylvia, che era diventata un brutto anatroccolo e non un cigno, perché non Amelia? Per un sacco di tempo aveva atteso che comparisse qualcuno che le facesse battere il
cuore all'impazzata, le annebbiasse il cervello e le sbriciolasse le facoltà razionali, e quando non era successo aveva pensato che forse la natura aveva voluto che lei restasse zitella, che godesse (in privato, naturalmente) di quella sua condizione di vestale e invece che preoccuparsene, considerasse il proprio imene intatto come un trofeo irraggiungibile dai comuni mortali. (In realtà come trofeo non era proprio il massimo). Sarebbe morta come una nobile regina vergine, una nuova Gloriana. Tutto questo in un periodo in cui era in preda a una specie di tracollo nervoso, dovuto in parte all'impossibilità di "comunicare" con piastrellisti, manovali e parrucchiere e in parte all'intrinseca futilità della vita (sarebbe bastato avere anche solo mezzo cervello per restare impantanati nella cupezza esistenziale). E poi, proprio quand'era stata più debole e vulnerabile, Andrew Vardy le aveva detto: «Sai, Amelia, se mai ti verrà voglia di fare sesso, sarei felice di aiutarti». Così, papale papale - come se fosse una mucca che aveva bisogno di essere munta. O una vergine bisognosa di essere deflorata. Aveva capito che era intatta, che la sua virtù era incontaminata, soltanto guardandola? Quelle antiche parole erano molto più carine. Cos'avrebbero detto i piastrellisti? «Farle saltare il tappo». Probabilmente di vergini non ne conoscevano nemmeno. E per definire l'attività sessuale non conoscevano nessuna parola decente, loro "scopavano" e basta (ogni ora che Dio metteva in terra, da come ne parlavano). E lo stesso valeva per le ragazze. Aveva portato a scuola una capelvenere, per rallegrare la prosaica tristezza della sala professori, un tralcio che aveva staccato da una pianta appartenente a Philip, quello del piano di sotto con il pechinese. Qualcuno, uno squallido vecchio idiota che si comportava come se la sala professori fosse la biblioteca di un club londinese per soli uomini, disse: «Ah, questi vecchi nomi inglesi di piante sono davvero magnificamente erotici. Capelvenere, cioè i peli pubici: cosa c'è di più delizioso?» il che aveva scatenato le risatine di parecchie persone (donne comprese, Cristo santo, ma non avevano un briciolo di intelligenza in più?) Amelia avrebbe voluto spaccargli il vaso in testa. «E la verga d'oro?» insisté lui. «Sembra un nome innocente, vero? Ma "verga" sta per "pene"!» Cos'avrebbe detto se lei gliel'avesse mozzato? Allora sì che avrebbe chiuso il becco. Si era tuffata nei libri come se avesse dovuto prepararsi per una lezione, ma non era così, e aveva cercato di fingere che la sfumatura rosso scuro della sua faccia non fosse dovuta alla vergogna e all'umiliazione. Grazie a Dio, la pianta era avvizzita e morta in fretta e Amelia si era rifiutata di attribuire alla cosa un
qualsiasi significato metaforico, ma quando Andrew Vardy si era reso disponibile, qualche settimana dopo, la sua stessa risposta l'aveva sorpresa. Ora, quando lo scorgeva attraverso l'aria viziata e odorosa di zuppe in scatola della sala professori, non riusciva ancora a credere - ricordo orribile - di essersi spogliata davanti a lui, per non parlare di quando aveva congiunto alcune parti delicate e intime della propria anatomia con le sue, brutte e brufolose. Era l'unico uomo che avesse avuto, e non era nemmeno lontanamente carino. Aveva la pelle rovinata e butterata da un'antica acne e dei baffetti da gay che sua moglie avrebbe dovuto dirgli di tagliarsi. Non era gay, affatto, era cattolico, aveva cinque figli ed era piuttosto basso, anzi, perfino un po' più basso di Amelia, ma sapeva essere divertente e, oddio, quello sì che era importante, per due anni avevano condiviso piccoli commenti cinici bevendo caffè e intrecciando qualche conversazione più lunga e filosofica ogni tanto, durante uno degli atroci pranzi nel bar della scuola. Andrew era un taccagno (dopo tutto ho cinque figli, si era giustificato) e si offriva di pagare per Amelia solo nei giorni in cui cucinavano gli studenti del primo anno del corso alberghiero, un pranzo di tre portate a metà del prezzo normale (perché il rischio di morte per intossicazione alimentare raddoppiava). Amelia era lusingata dal fatto che Andrew Vardy apprezzasse la sua compagnia, perché apparentemente era l'unico, ed era per questo che, agli sgoccioli di una giornata sfiancante, quand'erano rimasti soli in sala professori e lui le aveva rivolto quelle mielose frasi seducenti (e cioè: «Sai, Amelia, se mai ti verrà voglia di fare sesso, sarei felice di aiutarti»), lei aveva pensato «Be', perché no?» Non subito, non in sala professori, ovviamente - sarebbe stato spaventoso, se lui l'avesse presa tra i giornali stropicciati e le vecchie tazze con i fondi di Nescafe, mentre lei si chiedeva se il bidello avrebbe messo dentro la testa. No, aveva semplicemente preso il suo zainetto aggiungendo: «Allora ci vediamo domani,» come se tra loro non fosse accaduto nulla di significativo. Prima di Andrew Vardy, Amelia immaginava (Dio solo sa come) che il sesso fosse un miscuglio di misticismo e cruda animalità, un'esperienza calda e sfocata in grado di trascendere la meccanica. Quello che non aveva immaginato era che si sarebbe rivelato banale e piuttosto stancante. E comunque sempre vagamente disgustoso. «Coraggio», aveva pensato, e l'aveva invitato per «una tazza di caffè, una di queste sere». Era sicura che sapessero entrambi che cosa significa-
va, ma se poi fosse davvero finita così - con una tazza di caffè - lei non avrebbe fatto la figura della stupida. Comprò una rivista femminile con allegato un libro sigillato che proclamava di contenere Consigli piccanti per farlo impazzire e cercò (inutilmente) di impararne alcuni a memoria. Si sentiva come una che prepara un esame che è destinata a fallire. E poi era impossibile che qualcuno potesse desiderare davvero di farsi sgocciolare della cera calda sui capezzoli. Lui aveva intenzione di fare una cosa del genere? Sicuramente no. «Spogliati lentamente» consigliava il libro. «Tutti gli uomini apprezzano gli striptease sexy». Amelia aveva sperato che sarebbero riusciti a restare vestiti per tutta la durata della cosa. Tuttavia si depilò gambe e ascelle, anche se non riusciva a capire che cosa ci fosse di male nell'avere dei peli, si smaltò (malamente) le unghie dei piedi, si fece la doccia e si mise un profumo francese che Julia aveva dimenticato da lei. Si sentiva come chi si prepara a un sacrificio. Tenne da parte una buona bottiglia di Bordeaux e comprò olive ripiene e arachidi come se stesse organizzando una di quelle feste a cui tutti portano qualcosa. Una volta era stata a una festa così, su invito di un'insegnante del dipartimento bellezza e capelli, e per l'occasione aveva comprato un utilissimo dispenser per cereali. Era stata l'unica festa decente a cui avesse partecipato negli ultimi cinque anni. Olive e arachidi non facevano parte dei consigli sexy, anche se il libro proponeva di usare i popcorn per qualcosa che Amelia riteneva più adatto a un film a luci rosse che non a una rivista femminile venduta in tutte le edicole. Chi avrebbe potuto pensare che il sesso servisse alla procreazione della specie, che si basasse semplicemente sull'unione a scopo biologico di organi genitali maschili e femminili? Certo non lo pensavano gli autori di Consigli piccanti per farlo impazzire, che parevano convinti che il sesso consistesse nel riempire gli orifizi altrui con qualsiasi oggetto a portata di mano. Amelia aveva aspettato cinque sere consecutive. La sesta cominciò a chiedersi se non avesse frainteso, se lui non si fosse per caso offerto di "aiutarla" in un altro senso, magari prestandole un libro o un programma per il computer. In sala professori nessuno dei due parlò di caffè o di sesso; ebbero un'unica conversazione, sul fatto che erano costretti a fingere che i piastrellisti avessero superato tutti i test di apprendimento per fargli finire il corso e toglierseli dai piedi. Smise di prepararsi ogni sera, le gambe le divennero ispide, dimenticò tutti i suggerimenti sexy e così, ovviamente, in ossequio alla legge di Murphy, quando Andrew Vardy si presen-
tò alla sua porta lei indossava gli abiti più vecchi che aveva e stava verniciando un comodino comprato all'asta. Niente fiori, niente cioccolatini, niente corteggiamento - almeno questo se l'era aspettato - e quando disse: «Ti va una tazza di caffè?» lui sogghignò. Si limitò a offrirgli il vino buono perché sapeva che non sarebbe riuscita a superare quell'esperienza da sobria. Svuotò arachidi e olive in piattini di vetro e li posò sul tavolino. Era così che facevano gli altri? Era così che le altre donne si preparavano per un innamorato? Non si ungevano con oli e balsami profumati, non si pettinavano, non si sdraiavano su lenzuola di seta per offrire seni simili a melagrane ai baci dell'amante? Sicuramente non preparavano gli stuzzichini. Quando si sedettero sul divano lui iniziò a baciarla: aveva le labbra secche e screpolate, lei se ne accorse subito. Portava gli stessi vestiti di quella mattina, a scuola, e odorava di chiuso. Poi iniziò a tirarle la maglietta macchiata di vernice e a palparle i seni, manipolandoli come se fossero palle di plastilina, e al tempo stesso cercava di slacciarsi i pantaloni, al che lei si chiese che senso avesse la fatica di tutti quei preliminari. Premuta contro i cuscini del divano, non riusciva a capire che cosa stesse facendo e quando si rese conto che si stava infilando un preservativo provò un imbarazzo incredibile (ridicolo) e una parte di lei avrebbe voluto dirgli di smettere subito, in modo da intavolare una discussione sul cattolicesimo e l'etica della contraccezione - dopo tutto aveva cinque figli, e usava due metri e due misure per moglie e amante (associare quella parola a se stessa le dava un certo frisson). E, più in generale, chissà se Andrew credeva nell'infallibilità del papa, perché lei si era spesso chiesta come una persona intelligente (per esempio Sylvia) potesse prestare fede a quelle assurdità. Ma il momento giusto per una discussione dogmatica era già passato perché lui la stava penetrando (era più liscio e freddo del previsto) e lei lo trovò così scomodo e innaturale che dovette reprimere l'istinto di spingerlo via. Poi si dimenarono goffamente per un po', spargendo ovunque le arachidi e rovesciando il vino (da parte di Andrew era stato un gesto incredibilmente poco rispettoso) e poi a un tratto lui emise un roco suono animale, come una vacca in procinto di partorire, e un istante dopo estrasse quel suo coso molliccio, che si afflosciò sulla coscia di lei come un pesce rosso morto. Amelia guardò il soffitto e vide una crepa che non aveva mai notato. C'era sempre stata o la casa stava cedendo? Guardò il pavimento, dov'erano sparse le arachidi e il Bordeaux aveva formato una chiazza enorme sul tappeto pallido, simile a sangue diluito, e si chiese se il lavasecco sarebbe
stato in grado di rimuoverla. Andrew Vardy sì riprese e si rivestì - sulla spalla della giacca aveva un po' di schiuma bianca rappresa e Amelia sospettò che si trattasse di rigurgito infantile. Ebbe l'impressione che i suoi organi interni si afflosciassero. «Scusa, ma devo andare,» disse lui, come se lei l'avesse implorato di restare. «Ho promesso a Bernie che avrei comprato il latte». Amelia capì che era passato da lei mentre invece avrebbe dovuto fare la spesa. Un po' di latte e una sveltina. Così l'accompagnò alla porta, lui la baciò sulla guancia dicendo: «È stato grandioso,» poi si cacciò in bocca un'oliva come uno che è appena uscito da una festicciola e scomparve. Fece le scale a grandi balzi mentre Henry, il pechinese, abbaiava furioso dal piano di sotto. Sul divano c'era un'altra macchia, più scura, e Amelia ci mise qualche secondo a realizzare che non era Bordeaux, ma il suo sangue. Sentì le ginocchia cedere e si accasciò sul pavimento. Si sentiva menomata. Udì ripartire la Passat sporca di bambino di Andrew Vardy e scoppiò a piangere. Voleva Jackson. Disperatamente. Sì, se ne stava distesa a letto, pensava a lui e si procurava piacere, Dio che espressione idiota. Il signor Brodie sì che ti salverebbe, aveva detto Julia quando aveva decretato la sua somiglianza con un pastore tedesco. Amelia voleva essere salvata da Jackson, lo voleva più di ogni altra cosa. Jackson, l'idea di Jackson, era una speranza, una promessa e una consolazione, era un sasso riscaldato dal sole nella mano, il profumo delle rose bagnate sotto la pioggia, una possibilità di cambiamento. Forse avrebbe dovuto dirgli: «Se mai ti verrà voglia di fare sesso, Jackson, sarei felice di aiutarti.» Cominciò a spogliarsi per andare a letto. In realtà era presto, troppo presto. Fuori il cielo era ancora chiaro e le venne in mente che quand'era piccola, d'estate, andava a dormire quando era ancora giorno perché aveva paura del buio. Questo prima della scomparsa di Olivia. Dopo, nemmeno la luce fu più una sicurezza. Guardò il proprio corpo nudo nello specchio stinto e macchiato d'argento del piccolo armadio di Sylvia. La carne pareva formaggio cagliato, aveva rotoli di grasso come l'omino Michelin, la pancia sporgente, i seni che penzolavano per il peso, sembrava che avesse messo al mondo una dozzina di bambini, pareva uno di quegli antichi simboli della fertilità scolpiti nella pietra. Ma in lei non c'era nulla di fertile, giusto? Stava ormai oltrepassando l'età utile per avere figli e dentro di lei l'utero si stava raggrinzendo. «Sono ancora in tempo per sfornarne uno,» aveva detto Julia il giorno pri-
ma con il suo solito linguaggio disgustoso. Amelia invece non avrebbe più potuto e presto non sarebbe stata più di alcuna utilità per il pianeta. Nessuno l'aveva mai trovata attraente, nessuno l'aveva mai voluta, perfino Victor, suo padre, l'aveva trovata troppo brutta per cercare di sedurla... Un urlo interruppe i suoi pensieri, un suono terrificante, come se qualcuno stesse sventrando Julia, un suono che presagiva l'orrore assoluto. Amelia sollevò gli orli della camicia da notte e corse di sotto. Julia era distesa sul pavimento in un angolo della cucina e in un primo momento Amelia pensò che le fosse accaduto qualcosa di orrendo, ma poi si rese conto che circondava con le braccia il corpo di Sammy. Il cane aveva gli occhi velati, in lui tutto era velato, come se stesse svanendo, ma quando udì la voce turbata di Amelia agitò appena la coda. «Chiamo il veterinario, cosa dici?» disse Amelia e Julia, con voce soffocata perché premeva la bocca contro il collo di Sammy, replicò: «Mi sa che è troppo tardi. Credo che abbia avuto un colpo.» «Allora dobbiamo chiamare il veterinario.» «No, davvero, Milly, sta per morire, è un cane vecchio. Non spaventiamolo». Julia gli prese una zampa e la baciò. Mormorò parole dolci all'orecchio del cane morente, gli baciò le orecchie, il naso, la bocca, strofinò la faccia sui peli bianchi del muso. Amelia la odiava perché pensava sempre di fare la cosa giusta. «Tu accarezzalo e basta,» disse Julia, ma Amelia stava sfogliando le pagine gialle alla ricerca di un veterinario di guardia e così si perse la morte del cane e si rese conto che se ne era andato solo quando Julia si alzò, coperta di peli e con la faccia tutta grinzosa. Sembrava che fosse rimasta aggrappata a quel cane molto a lungo. Non ce la faceva. Aveva chiamato Jackson perché voleva che lui facesse cessare il dolore. Non voleva che lo facesse qualcun altro, solo lui. Voleva che l'abbracciasse e la consolasse come aveva fatto Julia con il cane. («Ti prego, Jackson, per favore vieni, ho bisogno di te» - c'era stato qualcosa di eccitante nel pronunciare parole tanto appassionate e disperate. Era davvero appassionata. Era davvero disperata). Ma quello che non voleva era che lui arrivasse alla loro porta con aria incazzata (oddio, che vocabolario da piastrellista) e soprattutto non con una bambina al seguito. Sua figlia. Ovviamente non aveva mai immaginato che ne avesse una; non gliel'aveva mai domandato. Aveva anche una moglie? Glielo domandò non appena varcò la soglia, accusandolo come una pazza; sapeva di sembrare pazza,
aveva i capelli tutti in disordine, la faccia devastata dal pianto, i seni che ballonzolavano nella vestaglia troppo grande. «Non sapevo che fosse sposato, signor Brodie,» sputando quelle parole come se lui l'avesse tradita. La bambina prese un'aria sconvolta e Jackson ne fu anche più irritato perché gli stava spaventando la figlia, e fu Julia a calmare la situazione dicendo: «Ci scusi, signor Brodie, stasera non siamo in noi, temo che il povero Sammy se ne sia andato». Dopodiché tutto divenne un po' indistinto, Julia continuava a versare del brandy e la bambina si era morbosamente interessata al cadavere del cane, gli accarezzava il pelo senza vita dicendo: «Povero cane morto» e ad Amelia venne voglia di mollarle uno schiaffo perché il cane non era mica suo, dimenticava che era appartenuto a Victor. Jackson le spiegò che ora era felice nel paradiso dei cani e poi Julia aiutò Amelia ad andare a letto ed era là che si trovava ora, singhiozzando disperata in silenzio, ma in modo orribile, un pianto che non cessava perché nasceva da troppe cose. Piangeva per un generale senso di infelicità (cosa che ogni tanto era concessa a tutti), piangeva per se stessa e la sua piccola vita rinsecchita e priva di senso. Non riusciva a sopportarlo, non ce la faceva. Piangeva per Victor, Olivia, Rosemary e Rascal (morto due anni dopo la scomparsa di Olivia). E piangeva perché aveva fatto sesso soltanto con Andrew Vardy, perché Mozart era morto giovane e Sammy era morto vecchio, perché era grassa e brutta e doveva insegnare ai piastrellisti e non avrebbe mai potuto rifugiarsi tra le braccia di Jackson. E piangeva perché non credeva in Dio o nel paradiso dei cani e nessuno sarebbe mai rimasto a letto con lei la domenica mattina a leggere i giornali o a massaggiarle la schiena chiedendole: «C'è qualcosa che posso fare per te?» E perché non esisteva felicità, solo vuoto. E perché avrebbe voluto avere sedici anni e lunghi capelli lucidi (che non aveva mai avuto) e scrutare ansiosa da una finestra del primo piano mentre di sotto sua madre urlava: «È arrivato», poi correre leggera giù per le scale e salire in auto con il suo bel fidanzato al volante: sarebbero partiti insieme e avrebbero fatto sesso in modo caldo e indistinto da qualche parte e poi lui l'avrebbe riportata a casa, dove la sua famiglia l'avrebbe aspettata. Al suo ingresso, Victor l'avrebbe accolta con un burbero cenno paterno, mentre una scontrosa Julia adolescente l'avrebbe ignorata e la flessuosa Sylvia, studentessa del primo anno di università, le avrebbe rivolto un sorriso di superiorità. Da qualche parte, forse nella camera degli ospiti, dormiva la vaga sagoma mai formata di Annabelle, cinque anni. E Rosemary, la madre, le avrebbe chiesto, con
complicità femminile, se si era divertita, poi le avrebbe offerto latte caldo con il miele (cosa che di sicuro nella vita reale non aveva mai fatto) e forse, prima di piombare nel sonno dolce e regolare delle sedicenni graziose, Amelia avrebbe dato un'occhiata nella camera di Olivia, otto anni, che dormiva sicura nel suo lettino. A volte, la notte, Julia entrava nella sua stanza, si stendeva sul letto, la abbracciava e la stringeva come aveva fatto con Sammy morente dicendo: «Va tutto bene, Milly, davvero». Una bugia così enorme e inverosimile che non valeva nemmeno la pena di discuterne. 14 Jackson «Oddio, Jackson, cosa ti è successo?» Jackson notò che la voce di Deborah aveva la stessa sfumatura di rimprovero di quella di Josie. «Sì, grazie, mi sento molto meglio,» rispose, facendosi strada nel suo rifugio personale, dove lo attendeva Shirley Morrison. Quando lo vide la donna sobbalzò (era infermiera, quindi Jackson doveva avere un aspetto davvero orribile). Aveva un occhio nero grazie a David Lastingham (bastardo) ed evidentemente essere stato colpito alla testa e avere trascorso tutta la notte all'addiaccio in stato d'incoscienza non aveva migliorato le cose. «Non è grave come sembra,» le disse, anche se probabilmente non era vero. Shirley Morrison era seduta nella posizione del loto. Teneva la schiena diritta e aveva un corpo sottile, da danzatrice. Aveva quarant'anni, ma ne avrebbe dimostrati trenta, se dopo averla guardata negli occhi non ti fossi reso conto che aveva vissuto più di una vita intera. Jackson sapeva chi era, non aveva mai cambiato nome; era accaduto prima che lui si trasferisse a Cambridge, ma quando aveva chiesto a Deborah di verificarne l'identità lei aveva risposto: «Shirley Morrison... ma non è la sorella di Michelle Fletcher? L'assassina con l'accetta?» «... Era lì, seduta sul pavimento, con l'accetta ancora in pugno. Non so da quanto tempo si trovasse in quella posizione. Keith era morto da circa un'ora, secondo il referto dell'autopsia». Shirley Morrison reggeva la tazza di caffè con due mani, come se volesse assorbirne il tepore, anche se nell'ufficio di Jackson faceva un caldo infernale e il caffè doveva essersi raffreddato da secoli. Fissava un punto in lontananza e Jackson ebbe l'impressione che stesse ripassando mentalmente l'autopsia di Keith Fletcher.
«Quando sono entrata,» continuò, «mi ha sorriso e mi ha detto, "Oh, Shirley, sono così contenta che tu sia venuta, ti ho fatto una torta al cioccolato". Ho capito immediatamente che non ci stava con la testa.» «La difesa ha invocato la temporanea infermità mentale,» continuò Jackson. Deborah aveva fatto delle ricerche per suo conto e gli aveva raccontato tutti i pettegolezzi. Michelle Rose Fletcher, nata Morrison, diciotto anni, condannata all'ergastolo, per dirla con le parole dello stimatissimo giudice, «per l'omicidio premeditato e a sangue freddo del coniuge. Un uomo completamente innocente». Jackson non credeva nella totale innocenza di nessuno, a parte quella di animali e bambini, e nemmeno di tutti i bambini. Le offrì dell'altro caffè ma lei scosse la testa come se volesse scacciare un insetto. «Michelle era ossessionata dall'idea del controllo, cioè, io le volevo un bene dell'anima, era la mia sorella maggiore, sa?» Jackson annuì, di sorelle maggiori ne sapeva qualcosa. Anche lui ne aveva una, Niamh. «Ma per Michelle doveva essere tutto perfetto, sempre. Sempre, cazzo. Ora capisco perché, cioè, è per via di come siamo state cresciute, era...» Shirley Morrison si strinse nelle spalle, cercando la parola giusta. «Un gran casino. Nostra madre non era nemmeno in grado di controllare un cane, figuriamoci una casa e dei bambini. Papà beveva e mamma non era esattamente una donna capace. E quindi per Michelle era davvero importante non diventare come loro. Ma la bambina le ha fatto perdere la testa. I bambini non si possono controllare.» «Quindi lei crede che soffrisse di depressione post partum?» Jackson ricordava Josie dopo la nascita di Marlee: piangeva disperata tutto il giorno mentre Marlee strillava per le coliche notturne. Jackson si era sentito completamente inerme, perché non sapeva cosa fare con nessuna delle due. E poi, a un tratto, era passato tutto, come quando sorge il sole. Josie aveva guardato Marlee che dormiva pacifica nella culla, era scoppiata a ridere e aveva detto a Jackson: «Che carina, teniamola». Molto tempo prima, quand'erano felici. Shirley Morrison gli lanciò un'occhiata, come se si stesse chiedendo che ne sapeva lui di depressione post partum, poi alzò le spalle e rispose: «Forse. Probabilmente. Non dormiva, la gente impazzisce se non dorme. Ma la stampa, la famiglia di Keith, erano lì che l'aspettavano al varco. Lui non aveva fatto niente di male, non la picchiava, niente. Era un ragazzo carino, molto tranquillo. Mi era simpatico. Piaceva a tutti. E adorava Tanya.»
«Michelle aveva dei lividi in faccia,» disse Jackson. Shirley lo guardò con aria inespressiva. «Davvero?» «Lo dice il rapporto dell'agente che l'ha arrestata. Perché la difesa non ne ha parlato?» «Non saprei.» I piedi snelli di Shirley erano scurissimi, come se andasse molto in giro scalza, all'aperto. Portava dei sandali indiani di cuoio lavorato, che ne esaltavano la bellezza. A Jackson piacevano i piedi femminili, non in senso feticistico (o almeno così gli sembrava) e non quelli brutti, e per qualche misteriosa ragione molte belle donne avevano piedi brutti. Lui trovava soltanto che i piedi belli fossero attraenti. (Stava cercando di giustificarsi, forse?) Nicola Spencer ce li aveva grossi, l'aveva notato. Si era fermata a dormire a Copenhagen, e Dio solo sa cosa stava facendo. «La puzza era incredibile, orribile, è la cosa che ricordo di più... rivoltante. Tanya era nel box e urlava, urlava a squarciagola, non avevo mai sentito un bambino urlare così, e non mi è più successo in seguito. Sono infermiera pediatrica,» aggiunse, «reparto cure intensive», ma Jackson lo sapeva già perché aveva chiamato l'ospedale per chiedere: «Shirley Morrison, in che reparto mi ha detto che lavora?» e così l'aveva saputo. Raccogliere informazioni era molto più facile di quanto si pensasse. Bastava fare una domanda e la gente ti dava la risposta. Ma questo non valeva per le grandi domande, ovviamente, come Chi ha ucciso Laura Wyre? e Dove si trovano i resti di Olivia Land? Grandi domande, come Perché la donna che una volta aveva promesso di amare e proteggere finché avesse avuto fiato in corpo aveva deciso di portare la loro unica figlia nell'altro emisfero? Così, come se niente fosse. («Sì, Jackson, così come se niente fosse»). «La prima cosa che ho fatto è stata prendere in braccio Tanya, che però non la smetteva di urlare. Era sporchissima, chissà quand'era stata cambiata l'ultima volta, ed era tutta imbrattata di sangue». Questa immagine, e tutto ciò che implicava, la costrinse a fermarsi un istante e a infrangere la propria compostezza. Shirley Morrison fissò lo sguardo fuori dalla finestra dell'ufficio, ma ciò che vedeva non era certo là. «Portava una tutina nuova che le avevo regalato io. Di OshKosh. Il sabato, dopo la scuola, lavoravo in un negozio. Michelle e io avevamo sempre lavorato, altrimenti non avremmo mai potuto comprarci niente. Ricordo di aver pensato a quant'era costata quella tutina, e che le macchie di sangue non sarebbero mai venute via. Mio cognato era appena stato ammazzato da mia sorella e io pensavo a come togliere le macchie.»
«Il cervello si dissocia per impedirci di impazzire.» «Crede che non lo sappia, signor Brodie?» Shirley Morrison aveva le unghie dipinte con uno smalto chiaro e attorno a una caviglia portava una sottile catenella d'oro. Jackson ricordava un'epoca in cui solo le poco di buono e le prostitute portavano catenelle alle caviglie. Quand'era giovane, nella loro strada abitava una prostituta. Metteva un ombretto verde smeraldo, scarpe rosse con il tacco a spillo e aveva gambe bianche solcate da vene. Portava la catenella alla caviglia? Come si chiamava? Jackson passava davanti a casa sua di corsa, per paura che uscisse e lo accalappiasse, perché sua madre gli aveva detto che era una «schiava di Satana», cosa che gli aveva creato una certa confusione, visto che Satana era anche il nome di un cane - un grosso rottweiler - di proprietà di un tizio degli orti demaniali. Non pensava a quella strada da molto tempo, una fila di case tristi con passaggi simili a tunnel che portavano nel vicolo posteriore. Quando aveva nove anni si erano trasferiti in un quartiere migliore. Niente prostitute in attesa sulle soglie, a distruggersi i polmoni con le sigarette. Shirley Morrison era sposata? Aveva un anello al dito, ma non era né una fede né un anello di fidanzamento. Era d'argento, celtico o scandinavo - che significato poteva avere? «Quando ho preso in braccio Tanya, Michelle è scoppiata a ridere e ha detto, "Sta benissimo, no?" Questa sì che è dissociazione.» «Deve avere avuto qualche motivo per ucciderlo,» disse Jackson, perplesso, «anche se non l'ha premeditato. Qualcosa deve aver fatto scattare la molla.» Era come se l'aria dell'ufficio fosse stata consumata tutta. Non era ancora mezzogiorno ma già si soffocava. I capelli castano chiaro di Shirley erano raccolti alla meglio in cima alla testa e la peluria della nuca era scura di sudore. Si chiese cos'avrebbe risposto se l'avesse invitata a pranzo, un bel pub con giardino, oppure se si fossero comprati un panino e avessero fatto una passeggiata lungo il fiume. Non sarebbe stato poco professionale, avrebbero semplicemente trasferito quell'incontro all'aperto. Ma chi voleva prendere in giro? Le sue motivazioni erano assolutamente poco professionali. Se Josie fosse morta, Jackson avrebbe avuto la custodia esclusiva. Marlee non sarebbe dovuta partire per l'altro emisfero. («Il Signore degli Anelli» gli aveva detto, entusiasta, come se Bilbo, Gandalf e il resto del cast vivessero davvero in Nuova Zelanda e aspettassero soltanto che lei si unisse
alla compagnia. Non aveva letto i libri, aveva solo visto i Dvd, che secondo Jackson erano troppo paurosi per una bambina di otto anni, ma evidentemente David Lastingham non la pensava allo stesso modo). Da parte sua, era ovvio, Josie non era riuscita a mantenere nemmeno una delle promesse fatte - amarlo e onorarlo, essergli fedele - gli pareva di sentire ancora quel lieve tremolio d'emozione nella sua voce quando aveva detto «finché morte non ci separi». Avevano scelto la funzione tradizionale, mentre adesso lei stava progettando una cerimonia su una spiaggia tropicale con un coro gospel maori e voti personalizzati. Avrebbe sposato quel coglione e «iniziato una nuova vita». Jackson si chiese se sarebbe stato capace di ammazzarla. Era più avvantaggiato di tante altre persone - conosceva tutti i metodi. Ma il problema non era tanto farlo, quanto non essere scoperto. Non poteva aspettare per ore con un'accetta in grembo. Com'era quella filastrocca su Lizzie Borden? «Lizzie Borden ha preso un'accetta e ha tagliato sua madre fetta a fetta». Se voleva ammazzare Josie doveva farlo in modo «calcolato, a sangue freddo» - fuoco, esplosivi, un fucile. Meglio un fucile, un L96 A1 con mirino Schmidt & Bender, in modo da poter sparare da più lontano possibile - non poteva ucciderla in modo più intimo, un omicidio ravvicinato e personale come uno strangolamento o un accoltellamento, non poteva star là a guardare il sangue che smetteva di far battere quel cuore bugiardo, la vita che le svaniva dagli occhi. Non andava bene nemmeno il veleno. Il veleno era per gli psicopatici e le pazze d'epoca vittoriana. Era davvero stato aggredito da un ladro, la sera prima? Non gli avevano portato via niente, il portafoglio, l'orologio e l'auto non erano stati toccati, ma aveva reagito prima che quello potesse derubarlo. Jackson sapeva per esperienza che i rapinatori non cercano di spaccarti la testa. «In giro c'è un sacco di brutta gente, signore» gli aveva detto il detective («detective Lowther, signore») che aveva raccolto la sua testimonianza. Avevano mandato un detective quando normalmente avrebbero mandato un agente. Jackson pensò che la cosa avrebbe dovuto lusingarlo. Si ricordava del detective Lowther quand'era una giovane recluta in uniforme, piena di entusiasmo. «Di recente c'è stata una serie di rapine, ispettore,» gli aveva detto Lowther e Jackson aveva risposto: «Adesso sono semplicemente il signor Brodie». Buffo, non era mai stato realmente il signor Brodie, era entrato nell'esercito a sedici anni e fino a quel momento era stato solo Jackson, a volte «Brodie!» per gli insegnanti maschi. Poi «soldato Brodie» e così via lungo la scala gerarchica, e poi aveva ricominciato come «agente Brodie». Non sapeva
bene che effetto gli avrebbe fatto tornare «semplicemente il signor Brodie». «Ha dei nemici, signore?» gli aveva domandato in tono speranzoso il detective Lowther. «Non proprio,» aveva risposto Jackson. Grossomodo tutte le persone che gli era capitato di incontrare. La camicia gli si era appiccicata alla pelle. Faceva troppo caldo per stare in ufficio. «Non so che cosa abbia fatto scattare quella molla,» disse Shirley. «Ha perso la testa, e basta.» Una molla c'era sempre. C'erano un sacco di elementi che la difesa avrebbe potuto utilizzare - episodi psicotici, privazione del sonno, depressione post partum, un'infanzia schifosa, autodifesa (e quel livido sulla faccia?) «In tribunale,» disse Jackson, «Michelle ha detto che Keith aveva svegliato la bambina. La bambina dormiva e Keith l'ha svegliata: è stata questa l'unica motivazione che ha saputo dare, sempre che si possa definire tale». Poteva immaginare benissimo che effetto avesse fatto al giudice. A quel punto avrebbe anche potuto dichiararsi colpevole. Michelle Fletcher non era scappata e non aveva mentito, aveva semplicemente aspettato che la trovassero. Che la trovasse sua sorella. Se aveva scontato due terzi della pena, doveva essere tornata in libertà nel 1989, all'età di ventotto anni. La stessa età di Laura Wyre se fosse vissuta. Jackson non aveva dubbi: Michelle doveva essere stata una detenuta modello, era stata trasferita in una prigione aperta nell'85, probabilmente si era messa in pari con gli esami in modo da poter iniziare una "nuova vita" una volta uscita. Come Josie. Un nuovo inizio, per cancellare il passato. Così, come se niente fosse. Ora cosa faceva? Shirley Morrison non lo sapeva, naturalmente. Ecco perché era lì. «Ho promesso a Michelle che mi sarei occupata di Tanya,» disse Shirley, «e l'avrei fatto, certo che l'avrei fatto, ma avevo solo quindici anni e i servizi sociali decisero giustamente che i nostri genitori non avevano i requisiti giusti, quindi affidarono la custodia ai genitori di Keith. Ma loro non erano molto meglio dei nostri. L'ultima volta che ho visto mia sorella è stato in tribunale, il giorno della sentenza. Si è rifiutata di vederci, ha respinto tutte le richieste di visita, non ha voluto leggere le lettere, non abbiamo potuto farci niente. Che non volesse incontrare mamma o papà avrei potuto capirlo: sono morti entrambi senza più rivederla. Ma che non volesse vedere me... Insomma, a me non importava che avesse ammazzato
Keith, era sempre mia sorella, e le volevo bene». Si strinse nelle spalle e aggiunse: «Tutti sono capaci di uccidere, in particolari circostanze». Si mise di nuovo a guardare quel mondo lontano, quello che esisteva oltre la finestra dell'ufficio, e Jackson avrebbe anche potuto dire: «Sì, anch'io ho ucciso qualcuno,» ma non gli sembrava il tipo di dialogo da intavolare alle undici e mezza di un lunedì mattina con quella temperatura, quindi tacque. «Quando l'hanno rilasciata ce l'hanno detto,» continuò Shirley, «ma lei non ci ha mai chiamato. Non so dove sia andata o cosa stia facendo ora. In fondo si è fatta una vita nuova, mentre noi rappresentavamo quella vecchia. "Omicidio" è un marchio davvero pesante, non trova? È così... volgare. Io avrei voluto iscrivermi a medicina, diventare medico, ma non è stato possibile, non dopo quello che abbiamo passato.» «E adesso vuole che cerchi sua sorella?» Shirley scoppiò a ridere come se avesse detto qualcosa di assurdo. «Dio, no. Perché dovrei voler cercare Michelle se è così chiaro che non vuole essere trovata? A lei non importa più niente di me. Non voglio trovare Michelle. Voglio trovare Tanya.» Nel giardino di Binky era l'ora del tè. La vegetazione era cresciuta così tanto che un machete sarebbe stato un utensile molto più adatto, al posto di quel nutrito assortimento di coltelli da burro e cucchiai da marmellata ossidati che facevano parte della sua complessa cerimonia del tè. «Darjeeling,» annunciò Binky, ma in realtà era un infuso grigiastro e annacquato che non vedeva una piantagione da anni e sapeva di calzini vecchi. Le tazze avevano l'aria di non essere state lavate da parecchio. «Oggi saremo raggiunti da un ospite,» annunciò come la pomposa presentatrice di un programma tivù, «il mio pronipote, Quintus». Come si faceva a sopportare un nome di quel genere vita natural durante, per Dio. «Davvero?» esclamò Jackson. Binky non aveva mai accennato ad altri membri della sua famiglia. «Lo conosco a malapena,» disse lei, con uno sdegnoso cenno della mano. «Io e mio nipote non siamo mai stati intimi, ma quel ragazzo è l'unico parente che ho». Binky Rain era mai stata intima di qualcuno? Strano immaginare che una volta ci fosse stato un dottor Rain a condividere con lei un tetto e un letto. Non poteva essere sempre stata vecchia, ma era difficile credere che fosse mai stata una giovane moglie attraente, capace di cedere alle necessità sessuali di "Julian" «Ah, Cristo, Jackson, togliti quest'idea dalla testa». La sgradevole immagine evocata lo spaventò al punto che ro-
vesciò il tè, anche se una macchia in più non faceva differenza per quella tovaglia che era un palinsesto di altri incidenti analoghi. «Qualcosa non va, signor Brodie?» si informò Binky, asciugando il tè con l'orlo della gonna, ma prima che lui potesse rispondere un urlo simile a quello di un cacciatore al galoppo, proveniente dal fondo del giardino, annunciò l'arrivo di Quintus Rain. Il fatto che Binky avesse usato la parola "ragazzo" aveva portato Jackson a immaginarsi un adolescente, quindi restò sorpreso quando vide che Quintus era un quarantenne robusto dai lineamenti grossolani e insipidi e dai capelli flosci. Aveva una struttura da attaccante di rugby, ma i muscoli erano diventati flaccidi e pareva troppo delicato per sopravvivere a una mischia. Portava pantaloni sportivi con le pinces, una camicia a righe bianche e azzurre con il colletto bianco e la cravatta rosa, e una giacca blu scuro gettata su una spalla. Se fosse stato possibile aprirlo in due, di sicuro si sarebbe trovata la parola "conservatore" incisa all'interno. «Cresciuto in Herefordshire,» mormorò Binky a Jackson, come se questo in qualche modo spiegasse tutto di lui. La cosa davvero interessante, o almeno lo era per Jackson, era che Quintus esibiva una vistosa ingessatura al naso, che pareva danneggiato proprio come quello di una persona che sia stata colpita mentre tenta di tramortirne un'altra con il calcio di una pistola. Ma perché diavolo qualcuno che non aveva mai conosciuto prima, con cui non aveva mai avuto alcun tipo di rapporto, avrebbe dovuto volerlo aggredire a quel modo? Quintus parve particolarmente irritato nel trovare Jackson nel giardino della prozia. Binky, dal canto suo, ignorò allegramente il fatto che stava prendendo il tè con due uomini ostili e acciaccati e continuò a blaterare a proposito di Frisky. Quintus non dava l'impressione di andare a trovare spesso l'anziana parente, ma aveva avuto una vita abbastanza movimentata: allontanato presto dal continente africano per diventare un gentiluomo inglese, poi il Clifton College, l'accademia militare di Sandhurst, un incarico nei Royal Lancers (a Jackson era sembrato di riconoscere il tono spocchioso tipico dei militari), quindi «un periodo nelle miniere» e ora qualcosa di vago che lo teneva impegnato a Londra. «Nelle miniere?» ripeté Jackson dubbioso, pescando peli di gatto dalla tazza. «Africane,» precisò Binky. «Africane?» «Sudafricane. Miniere di diamanti. Era a capo dei moretti.»
Binky rientrò a preparare un'altra teiera dicendo: «Voi due dovreste avere molto di cui discutere, signor Brodie. Dopo tutto siete stati entrambi nell'esercito.» Era un bel po' che Jackson non pensava a se stesso come a un militare; anzi, era certo di non averlo mai fatto. «Che reggimento?» gli domandò Quintus, burbero. «Fanteria. Il reggimento personale del Principe di Galles,» replicò Jackson in tono laconico. «Con che grado?» «Cos'è», si chiese Jackson, «stiamo giocando a chi ce l'ha più grosso?» Si strinse nelle spalle e rispose: «Soldato semplice.» «Certo, dovevo immaginarlo,» rispose Quintus. Scandì bene tutte le lettere della parola "certo" e ne prolungò un paio, tanto per andare sul sicuro. Jackson non si disturbò a spiegare che, anche se era entrato nell'esercito come soldato semplice, ne era uscito come ufficiale scelto di prima classe della polizia militare, perché non aveva alcuna intenzione di mettersi a giocare a Billy Cazzoritto. Prima di lasciare l'esercito gli era stato offerto un incarico, ma sapeva che dall'altra parte non sarebbe stato a suo agio: cenare in mensa con coglioni come Quintus che pensavano che i Jackson di questo mondo fossero mascalzoni di infimo livello. «Potrei mostrarle i miei tatuaggi,» propose Jackson. Quintus rifiutò, il che andava benissimo, visto che Jackson di tatuaggi non ne aveva. Shirley Morrison ne aveva uno, tra la base del collo e le scapole, una rosa nera sulla quinta vertebra. Chissà se ne aveva altri in punti meno visibili. A un tratto Quintus avvicinò la sedia alla sua come se volesse confidargli un segreto e in tono minaccioso disse: «So a che gioco stai giocando, Brodie». Jackson cercò di non scoppiare a ridere. Nella sua carriera militare aveva affrontato (con scarso entusiasmo) due guerre e ci voleva ben più di un tizio come Quintus per spaventarlo con le sue dimostrazioni di forza. A ben guardare, non avrebbe resistito tre round contro un coniglio. «E di che gioco si tratta, esattamente, signor Rain?» domandò Jackson, ma non lo scoprì mai perché in quell'istante un gatto maschio particolarmente virile decise di marcare il territorio con una pisciatina, scegliendo la gamba di Quintus come avamposto. Jackson scese a piedi al fiume e trovò un po' d'ombra lungo la sponda. Aveva in tasca un panino schiacciato comprato da Prêt à Manger e lo con-
divise con un gruppo di anatre affamate. Lungo il fiume c'era un continuo traffico di barche, quasi tutte contenevano turisti ed erano portate da studenti, o personaggi che sembravano studenti, che indossavano cappelli di paglia e giacche a righe, i maschi in flanella, le ragazze in gonne poco attraenti. I turisti erano di genere misto - giapponesi, americani (pochi rispetto a un tempo), un sacco di europei, alcuni non identificabili (più o meno dell'est) e altri provenienti da nord, che nella torpida aria di Cambridge sembravano più stranieri dei giapponesi. Parevano tutti entusiasti, come se stessero vivendo un'esperienza autentica - come se navigare lungo il fiume, bere tè e mangiare pasticcini mentre la torre dell'orologio di Grantchester suonava le tre fosse l'attività preferita dalla gente del posto. «Che mucchio di stronzate», per citare suo padre. «Signor Brodie! Yu-hu, signor Brodie!» Oddio, pensò Jackson sfiancato, non c'è verso di sfuggire a quelle due. Stavano remando, Cristo santo, o almeno lo faceva Julia, mentre Amelia la guardava da sotto un enorme cappello floscio che pareva aver visto giorni migliori sulla testa di sua madre. Portava anche degli occhiali da sole e sembrava una persona appena dimessa dall'ospedale dopo un'operazione di lifting particolarmente delicata. «Che giornata meravigliosa!» gli urlò Julia. «Andiamo a Grantchester per il tè, salti su. Deve venire con noi.» «No, non posso.» «Oh sì, sì che può,» lo contraddisse allegramente lei. «Salga. Non sia così bisbetico». Jackson si tirò su dall'erba con un sospiro e le aiutò a fare accostare la barca. Salì goffamente e Julia, ridendo, gli disse: «Lei non è certo un marinaio, eh, signor B.?» Ma perché erano ancora a Cambridge? Sarebbero mai tornate a casa? Amelia, all'altro capo dell'imbarcazione, lo salutò vagamente senza incrociare il suo sguardo. L'ultima volta che l'aveva vista era sconvolta per la morte del cane («Ti prego, Jackson, per favore vieni, ho bisogno di te»). Allora aveva un'aria stanca, portava una vestaglia vecchia ed era truccata. Prima non l'aveva mai vista così - era terribile, come se si fosse truccata al buio, e non si era raccolta i capelli, che le pendevano intorno al viso in grovigli secchi. Tutte le donne arrivano a un'età in cui sono troppo vecchie per portare i capelli sciolti, anche donne bellissime con capelli stupendi, e né Amelia né i suoi capelli lo erano mai stati. Pensò che era meglio comportarsi come se la sera precedente non fosse successo niente. Cos'era accaduto la sera precedente? «Non sapevo che fosse sposato, signor Brodie» - ma che diavolo aveva voluto dire? Sem-
brava che fosse stata tradita da un amante adultero. Non aveva mai dato ad Amelia Land il minimo motivo di credere che tra loro ci fosse qualcosa. Si era davvero presa una cotta per lui? (Oddio, speriamo di no). Stan Jessop aveva avuto una cotta per Laura Wyre. Le cotte erano pericolose? Eppure sembravano tanto innocue. «Perbacco, cosa le è successo, signor Brodie?» domandò Julia scrutandolo con aria miope. «Ha fatto a botte!» Amelia lo guardò per la prima volta, ma quando lui ricambiò lo sguardo lei si girò dall'altra parte. «Eccitante,» continuò Julia. «Non è niente,» disse Jackson. (Solo qualcuno che ha cercato di ammazzarmi). «Che giorno è oggi?» «Martedì,» replicò Julia, pronta. Amelia grugnì qualcosa che suonò come «Mercoledì». «Davvero?» ribatté Julia. «Perdindirindina, come passa il tempo, eh?» (Perdindirindina? Ma chi era che parlava più così, a parte lei?) «Secondo me,» continuò, «i mercoledì sono viola». Pareva di ottimo umore. «Mentre i martedì sono gialli, ovviamente.» «No, non è vero,» intervenne Amelia, «sono verdi.» «Non dire sciocchezze,» disse Julia. «Comunque oggi è viola ed è un giorno perfetto per le Orchard Tea Rooms. Quand'eravamo bambine ci andavamo spesso. Prima di Olivia. Vero, Milly?» Amelia era ripiombata nel silenzio e agitò vagamente una mano in segno di risposta. Per la prima volta da quando le aveva conosciute, erano vestite in modo adatto al clima. Amelia portava un abito informe di cotone e orridi sandali da escursione. Se avesse avuto un buon taglio di capelli e dei vestiti decenti sarebbe migliorata del cento per cento. Almeno Julia non era un pugno nell'occhio ed era piuttosto brava a remare. Portava una maglietta aderente da ragazzina che rivelava i bicipiti disegnati e rigidi (faceva sicuramente palestra) e se non altro i tricipiti ce li aveva, mentre Amelia aveva le tipiche braccia flaccide di chi, con quella tremula apertura alare, potrebbe anche planare da un ramo all'altro. Nonostante il sole era rimasta pallida e scialba, mentre Julia era diventata del colore degli anacardi tostati. La guardò, aggrappata al remo, la cicca pendula dall'angolo della bocca dipinta di rossetto, e pensò che era proprio un bel soggetto e si sorprese nel constatare che si stava affezionando a lei. E che l'espressione "bel soggetto" faceva parte del linguaggio di Julia, e non del suo. «Mi sta guardando le tette, signor Brodie.» «Non è vero.»
«Invece sì». All'improvviso Julia lanciò un gridolino di sorpresa e Jackson si girò di scatto per capire cos'avesse visto. Un uomo di mezza età stava uscendo dal fiume arrampicandosi sulla riva - era a culo scoperto, magro e abbronzato. Un nudista? Adesso si definivano naturisti, no? L'uomo si asciugò con il telo, poi si distese sulla sponda, completamente a suo agio, e iniziò a leggere un libro. «Santi numi». Julia scoppiò a ridere. «Avete visto? Hai visto, Milly? È legale, signor Brodie?» «Non credo.» «Non sarebbe stupendo,» continuò Julia, «togliersi tutti i vestiti e tuffarsi in acqua? I neopagani nuotavano nudi a Byron's Pool. Perché non si spoglia, signor Brodie, e si butta?» Julia si leccò il labbro superiore con la lingua rosa da gatto e Amelia emise uno sgradevole suono sbuffante. A un tratto a Jackson tornò in mente che Binky Rain diceva che le Land erano «ragazze selvatiche». Era difficile credere che Amelia lo fosse mai stata, ma Julia sì, decisamente. Pensò che forse gli sarebbe piaciuto nuotare nudo con lei. «Cosa stava leggendo?» domandò Julia e Amelia, che apparentemente non aveva nemmeno notato l'uomo nudo, rispose: «Principia mathematica» e lanciò un'occhiataccia a Jackson. «Ancora tè, signor Brodie?» domandò Julia, versandoglielo senza aspettare la risposta. «"E c'è ancora del miele?" Sì, ce n'è e lo spalmeremo sugli scones. Milly, tu ci vuoi del miele sugli scones?» Almeno il tè alle Orchard Tea Rooms era discreto, a differenza di quello di Binky. Intorno al mignolo di Julia correva una cicatrice, simile a un sottile anello d'argento. Mentre beveva il tè lo teneva ripiegato, molto vezzosamente. Si accorse che Jackson lo guardava. «Me lo sono tagliato via,» disse in tono leggero. Amelia sbuffò. «Per sbaglio,» aggiunse Julia. Amelia sbuffò di nuovo. «Ti trasformerai in un maiale, se continui così, Milly,» disse Julia. A Jackson venne in mente che aveva chiesto a Binky Rain alcune informazioni sulle ragazze Land, ma non viceversa. «Binky Rain,» disse Jackson, «la vostra vicina, la vicina di Victor?» Julia prese un'aria vaga. «Quella dei Gatti,» aggiunse Jackson. «Nel coro di Cats facevo la parte di un soriano,» disse Julia, «ma ho retto solo qualche settimana, mi è venuta la bronchite. Che peccato, era un tour fantastico.» «Già,» commentò Jackson paziente. «Be', Binky Rain, ha un sacco di
gatti.» «Quella vecchia strega,» sbottò Amelia e Julia aggiunse: «Oh, lei. Non le andavamo nemmeno vicino.» «Una volta lo facevamo,» intervenne Amelia. «Poi abbiamo smesso.» «E perché?» domandò Jackson, ma Amelia pareva essere ripiombata nel suo stato catatonico. «Ce l'aveva detto Sylvia,» disse Julia. Si accigliò nel tentativo di ricordare. «È stato dopo Olivia, credo. Diceva che il giardino era maledetto e che se ci fossimo entrate saremmo state trasformate in gatti. Che tutti quei gatti erano persone entrate nel suo giardino. Sylvia è sempre stata un po' strana, certo. La signora Rain non sarà mica ancora viva, vero? Ormai avrà trecento anni.» «Quasi,» rispose Jackson. C'era qualcosa di innegabilmente piacevole nello stare spaparanzati su una sdraio sotto gli alberi. Il brusio degli insetti e dei turisti era soporifero e Jackson non riusciva a pensare a niente di meglio che chiudere gli occhi e addormentarsi, ma Julia continuava a blaterare sui neopagani, Wittgenstein e Russell. «Ma non erano tutti degli snob di destra?» domandò. «Oh, non rovini tutto facendo il solito settentrionale socialista.» Amelia rimase una presenza cupa che comunicava a monosillabi. «Brooke se ne andava in giro senza vestiti addosso,» disse Julia. «Forse il nudismo è una specialità di Cambridge.» «Rupert Brooke non era altro che una specie di protofascista,» sbottò Amelia, da sotto il cappello, e Julia aggiunse: «Be', è morto ed era un pessimo poeta, quindi ha avuto quello che si meritava» e Amelia: «È il commento più assurdo che abbia mai sentito» e Julia... ma a quel punto Jackson dormiva già. Jackson recuperò l'auto che si trovava ancora davanti a casa di Binky. Una Lexus dorata, un veicolo (e un colore) che a Jackson non piacevano affatto, era parcheggiata proprio contro il paraurti dell'Alfa e Jackson fu quasi sicuro che appartenesse a Quintus. Non aveva ben capito cosa fosse accaduto tra di loro. Era stato Quintus ad aggredirlo? Percorse in auto Silver Street, ascoltando un album di Gillian Welch, Hell Among the Yearlings. I suoi gusti in fatto di musica diventavano sempre più deprimenti. Era diretto all'Eagle, dove aveva appuntamento con Steve Spencer, anche se non aveva nulla da riferirgli su Nicola, ma pensa-
va ancora a Quintus quando a un tratto si ritrovò a centrare il posteriore di una Ford Galaxie ferma al semaforo accanto al ristorante Fitzbillies, in Trumpington Street. Il muso dell'Alfa Romeo ne uscì molto più malconcio del posteriore della Ford, ma sarebbe andata molto peggio se Jackson non avesse rallentato in previsione del rosso. Questo non impressionò affatto la conducente della Galaxie, che balzò fuori e si mise a urlargli contro accusandolo di avere volontariamente messo in pericolo la vita dei suoi figli. Tre faccette curiose sbirciavano fuori dal lunotto posteriore. Quando arrivò la polizia stradale, la donna era in mezzo alla strada e puntava il dito verso l'adesivo "Bambino a bordo" appiccicato al lunotto. «Mi si sono rotti i freni,» si giustificò Jackson con il più anziano dei due agenti. «Bugiardo! Sporco bugiardo!» urlò la donna. «Cristo, Jackson,» disse il poliziotto, «te le vai proprio a cercare.» L'impatto gli aveva scardinato qualcosa nella testa. Il dente non gli sembrava più un dente, ma un coltello conficcato nella gengiva. Aveva l'impressione che il suo corpo non potesse sopportare ulteriori punizioni. Gli agenti del traffico lo sottoposero al test del palloncino, si appuntarono i dettagli dell'incidente e spedirono via la Galaxie e la sua furiosa conducente. Poi chiamarono un carro attrezzi e fecero portare l'auto di Jackson al garage della polizia, dove fu esaminata da un meccanico. L'agente più anziano gli doveva dieci sterline, scommesse tre anni prima per una retata a Derby, e Jackson ritenne che avesse pienamente saldato il debito. «Si sono rotti i freni,» ripeté per l'ennesima volta. Quell'incidente l'aveva innervosito. Gliene erano già capitati, ma non si era mai trovato nei panni del tamponature. Si rivedeva ancora, proiettato verso il posteriore della Galaxie, senza poter fare niente, magneticamente attratto dall'adesivo "Bambino a bordo". «Credo che sia uscito il liquido dei freni,» disse al meccanico. «Eccome,» replicò l'uomo, «è uscito da un buco enorme che è stato fatto nel serbatoio. Credo che in giro ci sia qualcuno che non la trova tanto simpatico.» «Cristo,» esclamò allegro uno degli agenti, «allora sarà dura trovarlo.» «Grazie». Forse avrebbe dovuto parlare di Quintus Rain al volonteroso e giovane detective Lowther che aveva raccolto la sua testimonianza in ospedale.
Un'auto della polizia lo scaricò davanti alla porta di casa. Intuì che la sua presenza cominciava ad abbassare il livello del quartiere. Erano le nove e il profumo del barbecue pervadeva l'aria. Non dovette nemmeno guardare il cellulare per capire che era pieno di messaggi di Steve Spencer che si chiedeva che cosa gli fosse capitato. Evitò di pensare che quella giornata non poteva andare peggio di così e fu ricompensato da uno spettacolo che a un tratto rese tutto migliore. Seduta sulla soglia c'era Shirley Morrison, con in mano due bottiglie di birra fredda. «Ho pensato che avessi bisogno di un'infermiera,» disse. Più tardi, molto più tardi, quando in cielo era già comparsa la luce, era iniziato il coro dell'alba ed era ormai giovedì (azzurro secondo Julia e arancione secondo Amelia), Jackson si girò, guardò il viso addormentato di Shirley e cercò di ricordare perché non avrebbe dovuto finire a letto con lei. Ah sì, perché era una cliente. Etica. «Ottimo, Jackson». Si chiese se si sarebbe pentito di avere infranto quella regola. Non tanto perché era una cliente, o perché pensava che tra loro sarebbe nato qualcosa. Erano usciti dalle loro orbite e si erano scontrati, tutto qui. (Anche se era bello pensare che potesse esserci qualcosa di più). Era stato sconvolgente, straordinario, ma non ci vedeva alcun futuro. Però non era tanto questo a preoccuparlo, quanto il fatto che quando Shirley gli aveva raccontato la sua orribile storia, l'aveva fatto quasi sempre guardando in alto a destra. 15 Theo Nel cimitero della chiesa faceva caldissimo, aveva la faccia coperta di sudore e immaginò che tutto il grasso del suo corpo stesse fondendo. Anche se Little St Mary si trovava in centro, tra le lapidi e i fiori selvatici, Theo non aveva mai incontrato un'anima, viva o morta che fosse. Laura gli aveva detto che ci andava spesso a studiare, si sedeva sull'erba con i libri sparsi tutt'intorno, e quindi lui ci aveva fatto sistemare una panca con la targa, «Per Laura, che amava questo posto», e quando si sedeva là si sentiva - per qualche indefinibile ragione - più vicino a lei. Per Theo era una delle tappe della sua via crucis personale, uno dei posti collegati a Laura; le sue ossa riposavano nel cimitero cittadino di Newmarket Road, ma tutta Cambridge fungeva da reliquiario per la sua memoria. La gente spargeva le ceneri dei defunti cremati nel cimitero della chiesa
e sul terreno grigio e granuloso dei morti era stato seminato un prato di fiori di camomilla. Sulla tomba di Laura, nell'anonimo cimitero municipale, Theo aveva piantato dei bucaneve, i suoi fiori preferiti. Nel cimitero c'erano degli alberi e lui si era chiesto se le radici l'avessero già trovata, se si fossero insinuate nella sua cassa toracica, se si fossero avvolte attorno alle caviglie e le avessero circondato i polsi, come braccialetti. Jackson era andato a Londra a incontrare Emma. Theo la ricordava piuttosto vagamente; gli pareva che avesse avuto una storia con un uomo e che in qualche modo non avesse funzionato. Emma lavorava per la Bbc, così aveva detto Jackson. Theo non pensava mai a cosa avrebbe potuto fare Laura se fosse vissuta. Non c'era alcun futuro da immaginare, la sua vita era circoscritta, dal 15 febbraio 1976 al 19 luglio 1994. I risultati dell'esame di maturità erano arrivati tre settimane dopo la sua morte, come un bizzarro post scriptum. Theo aveva aperto la grossa busta marrone indirizzata a "Laura Wyre" e aveva visto quattro "A", il massimo dei voti. Non aveva mai pensato a cancellare la sua iscrizione all'università e una settimana dopo l'inizio del semestre autunnale lo chiamarono dall'ufficio amministrativo di Aberdeen. «Posso parlare con Laura Wyre, per favore?» Lui aveva risposto: «No, mi dispiace, non è possibile,» e poi era scoppiato in lacrime. Aveva troppo caldo. La panchina si trovava su uno spiazzo contro il muro della chiesa. Sentiva il sudore raccogliersi nel grasso avvallamento del fondoschiena. Non era un buon giorno per stare là. Theo era allergico a quasi tutte le piante che crescevano in quel cimitero, si era munito di occhiali da sole e antistaminico e aveva sperato di resistere un po' più a lungo all'abbondante flora di Little St Mary's, ma gli occhi e il naso avevano cominciato a colare e capì che avrebbe dovuto darsi una mossa. Si alzò a fatica. «Arrivederci, tesoro,» disse, perché lei era ovunque. E da nessuna parte. A Christ's Pieces un uomo tagliava l'erba seduto su una di quelle piccole falciatrici a forma di trattore. Theo ci vedeva a malapena a causa delle lacrime che gli scendevano sul viso. Il fazzoletto che teneva premuto contro il naso era già fradicio. La gente gli lanciava strane occhiate, ma lui proseguì con andatura stentata, senza curarsene. Gli autobus della stazione di Drummond Street facevano rombare i motori come belve meccaniche e a Theo sembrò proprio di sentire in bocca il sapore dei gas di scarico. Ma a chi era venuto in mente di costruire una stazione degli autobus accanto a un'area verde? Sentiva il rumore del proprio respiro nel petto, fragoroso
come quello della falciatrice. Essere allergico all'estate gli pareva in qualche modo sbagliato. Sua moglie, Valerie, non l'aveva mai capito e pensava che le allergie e l'asma fossero l'ennesima dimostrazione della sua debolezza di carattere. Non avevano avuto animali domestici fino a quando Laura non aveva compiuto quattordici anni, ma lei desiderava così tanto un cane che alla fine si erano arresi, erano andati in auto fino al canile municipale ed erano tornati con Poppy. Aveva ancora pochi mesi; qualcuno l'aveva gettata fuori da un'auto in corsa. Chi aveva avuto il coraggio di fare una cosa del genere? Che razza di persona era capace di infliggere tali sofferenze? Laura aveva dichiarato che per rimediare avrebbe "soffocato" Poppy d'amore. E Theo si era gradualmente abituato ai peli, era perfino arrivato a lasciarsela sedere in grembo e ad accarezzarla. Anche lui voleva bene a quel cane. Era stato terribile quando l'avevano investita, minuscola premonizione di ciò che sarebbe accaduto in seguito. Avvertì una stretta al petto. Iniziò ad ansimare e infilò la mano in tasca alla ricerca del Ventolin. Non era al solito posto. Provò in tutte le tasche e poi rivide l'immagine chiara e fulminea dell'inalatore sul tavolino dell'ingresso, in attesa di essere trasferito da una giacca all'altra. Il panico lo colpì come un pugno al cuore. Le gambe furono sul punto di cedergli e barcollò fino a una panchina del Princess Diana Memorial Rose Garden, cercando di restare calmo e tenere a bada il terrore. Intorno a quella giornata di sole si era formato un orlo nero e davanti agli occhi gli danzavano delle macchie. Sentiva un nodo doloroso allo sterno e si chiese se non si trattasse di attacco cardiaco. Lottò per respirare. Avrebbe dovuto fare segno a qualcuno che aveva bisogno d'aiuto, che non era soltanto un ciccione sudato sulla panchina di un parco, ma un ciccione che stava morendo. Il panico gli attanagliava il petto, soffocandolo. Udiva i rumori orribili che produceva cercando di prendere fiato. C'era qualcuno che lo sentiva? «Passerà anche questa», pensò, ma non accadde. Ormai avrebbe dovuto sentirsi in pace, provare un senso di accettazione, la carenza di ossigeno avrebbe dovuto prepararlo alla morte, ma il corpo stava ancora lottando, con ogni nervo e fibra. Che ne avesse voglia o meno, sarebbe morto combattendo. Davanti a lui si stagliò una sagoma scura, una persona che schermava la luce del sole, e pensò che era Laura che lo riportava a casa. Avrebbe voluto pronunciarne il nome ma non riusciva a parlare, non riusciva a vedere né a respirare. Gli stava dicendo qualcosa, ma le parole parevano pronun-
ciate sott'acqua. Gli toccò il braccio, aveva le dita gelate. La udì dire: «Posso aiutarla?» e quelle parole gli rimbombarono e gli si infransero nell'orecchio come un'ondata e una parte di lui avrebbe voluto dire: «No, sto benissimo» perché non voleva che si preoccupasse, ma un'altra parte, una parte forte e insistente, che non riusciva a controllare, annaspava nell'aria cercando di comunicare la propria disperazione. Adesso sentiva altre voci. Qualcuno gli ficcò qualcosa in bocca e gli ci volle un secondo per rendersi conto che era un inalatore. Poi, il buio. E l'ambulanza, dove si sentì nauseato e debole, ma la maschera dell'ossigeno in faccia era straordinariamente rassicurante. Il paramedico la sollevò appena in modo da lasciarlo parlare, lui gli chiese se si trattava di attacco cardiaco, il paramedico scosse la testa e rispose: «No, non credo». Poi Theo si addormentò. Si svegliò in un letto, in una corsia laterale. Nell'altro letto c'era un vecchio collegato a un sacco di tubi. Si rese conto di essere collegato a un sacco di tubi anche lui. Quando si risvegliò il vecchio era scomparso e al risveglio successivo si trovò in una corsia diversa, era l'orario delle visite e la gente entrava a frotte con riviste, frutta e borse di plastica piene di vestiti. Girò la testa per seguire il flusso dei visitatori e vide una ragazza seduta su una sedia accanto al suo letto. A un tratto si rese conto di due cose: primo, che era la mendicante con i capelli giallo uovo, e poi che era stata lei ad aiutarlo, a Christ's Pieces. Non Laura. Era là anche il pomeriggio successivo, attentamente seduta sull'orlo della sedia come se non la credesse in grado di sopportare il suo peso, benché fosse magra come un grissino. Non gli aveva portato riviste, frutta o quelle cose che portavano gli altri, ma gli premette qualcosa nella mano chiusa e quando la aprì vide che era un sasso, liscio e ancora caldo del suo palmo asciutto e sudicio: gli parve un dono stranamente intimo. Theo si chiese se fosse una sempliciotta. Era certo che esistesse un termine più politicamente corretto, ma non gli veniva in mente. Aveva il cervello annebbiato, probabilmente per colpa dei farmaci. Lei non aveva tanta voglia di parlare, ma andava bene così, perché non ne aveva tanta voglia nemmeno lui. Però gli disse che si chiamava LilyRose, lui commentò: «Che nome carino» e lei gli rivolse un sorriso piccolo e timido dicendo: «Grazie, è il mio vero nome,» risposta abbastanza strana. Venne un'infermiera a misurargli la temperatura. Gli ficcò il termometro in bocca e, sorridendo a Lily-Rose, disse: «Credo che suo padre sarà di-
messo domani». Lily-Rose rispose: «Bene» e Theo non disse niente perché aveva ancora il termometro in bocca. La sera venne Jackson e Theo si commosse perché lo vide sinceramene preoccupato. «Dovrà prendersi cura di sé, grand'uomo,» gli disse e gli accarezzò la mano e Theo sentì le lacrime pizzicargli gli occhi perché era il primo che lo toccava, a parte le dita curiose dei medici. E quelle fredde della ragazza dai capelli gialli, Lily-Rose. Jackson aveva l'aria di essere stato picchiato di nuovo e Theo disse: «Sta bene?» Jackson fece una faccia addolorata e rispose: «Dipende da cosa intende per "bene", Theo.» Lei lo accompagnò al taxi, reggendolo per il gomito come se fosse pronta a sollevarlo in caso di caduta, anche se non sembrava abbastanza forte nemmeno per sorreggere un rampicante. Il conducente e un'infermiera lo aiutarono a salire a bordo. L'infermiera tenne lo sportello aperto per LilyRose. Il cane saltò dentro, ma quando si rese conto che Lily-Rose non l'aveva seguito balzò fuori. Theo voleva darle il proprio indirizzo e numero di telefono, ma non aveva un pezzo di carta. Lily-Rose disse: «Ecco, usa questo,» e gli diede un cartoncino bianco, e solo dopo aver scritto l'indirizzo e il numero Theo lo girò e si accorse che era di Jackson. Le lanciò un'occhiata interrogativa. «Conosci Jackson?» le chiese. «Chi?» rispose lei, poi l'infermiera chiuse lo sportello del taxi e l'autista partì. L'infermiera e Lily-Rose restarono sul marciapiede e lo salutarono con la mano. Theo fece altrettanto e pensò che era assurdo il modo in cui, quando aveva creduto che lei sarebbe salita in auto, il suo cuore aveva palpitato di gioia. Era stato via solo due giorni, eppure la casa aveva già cominciato ad apparirgli estranea. L'inalatore era ancora sul tavolino dell'ingresso. Nelle stanze c'era odore di chiuso, così Theo aprì tutte le finestre e pensò che avrebbe comprato una candela profumata, una di quelle costose, non quelle che sapevano di vaniglia e di deodorante da quattro soldi. Salì nella camera degli ospiti, la «sala operativa», come l'aveva chiamata Jackson, e per la prima volta la vide con gli occhi di un estraneo e capì quanto doveva sembrare macabra e spaventosa. Sedette al computer, si collegò al sito di un grossista di cartoleria e ordinò delle scatole, delle scatole carine stampate a fiori, perché voleva inscatolare ed etichettare tutto per bene, e magari chiedere a Jackson di dargli una mano a metterle in soffitta. Poi si collegò al sito del supermercato e
fece la spesa, ma non consultò la pagina dei Preferiti perché sapeva che erano pericolosi - cheesecake surgelati, gelato, brioche e yogurt interi. Invece iniziò una nuova lista a base di latte scremato, crusca, frutta e verdura, pane integrale e grosse bottiglie di Evian, e poi pensò che era una lista della spesa davvero triste. Non si sentiva meglio, né più allegro, non intravedeva per sé un futuro più positivo, ma continuava a pensare al modo in cui si era aggrappato alla vita mentre stavano per portargliela via, come aveva lottato per sopravvivere a Christ's Pieces. Laura non aveva avuto la stessa possibilità di combattere e forse questo significava qualcosa, anche se non sapeva esattamente cosa. Stava per uscire dal sito ma ci ripensò, aprì la pagina degli animali domestici e ordinò sei barattoli di «cibo per cani di prima qualità». Così, tanto per sicurezza. Pagò, uscì dal sito e spense il computer. Poi attese. 16 Caroline Ancora non l'aveva detto a nessuno. Era di quattro mesi ma non si vedeva. Buoni addominali. Aveva fatto un'ecografia ed era tutto "normale" niente gemelli, o alieni. La ginecologa era una stronza di poche parole con un'aria di superiorità e quand'era arrivata la domanda sulle "gravidanze precedenti" Caroline aveva pensato di mentire, ma quella avrebbe potuto scoprirlo, così si limitò a dire: «Sì, venticinque anni fa, il bambino è stato dato in adozione» (il che era vero). Vide la ginecologa fare i conti a mente: venticinque anni prima «Caroline Edith Edwards» ne avrebbe avuti dodici. La donna sollevò un sopracciglio e a Caroline venne voglia di aggiungere: «Vaffanculo, stronza», ma non lo fece perché sarebbe stato come lasciar parlare Michelle, e non Caroline Edith Edwards. Le sarebbe piaciuto informarsi sui rischi di avere un figlio a quarantatre anni ma non poteva certo dire: «In realtà ho sei anni di più di quanto creda lei», no? E poi quella bambina le sembrava ancorata, la sentiva completa e sana, e aveva l'impressione che possedesse anche una volontà propria. Cercò di immaginare l'annuncio ad Hannah e James dell'arrivo di una sorellina (o fratellino, ma era sicura che fosse femmina); riuscì quasi a vedere le loro espressioni di gelosia e disgusto, e poi i loro astuti sorrisetti complici mentre escogitavano gli orrori che avrebbero potuto infliggerle. Si portò una mano protettiva al ventre e sentì il gel freddo che quella
stronza di ginecologa non si era preoccupata di asciugare. E Jonathan cos'avrebbe detto a Jonathan? «Tesoro, indovina un po': diventerai di nuovo papà» e lui si sarebbe gonfiato d'orgoglio al pensiero che il suo seme si era dimostrato infallibile, perché non si sarebbe trattato di un bambino, una persona, bensì di un'altra cosa, come il nuovo trattore John Deere, o il castrone baio di Hannah, un pony da dressage troppo grosso per lei; chissà, forse con un po' di fortuna sarebbe caduta e si sarebbe rotta l'osso del collo. (Non doveva pensare a cose del genere, poteva far male alla bambina). Il dressage era il nuovo progetto di Rowena per Hannah: «Non è mai troppo presto per imparare ad assumere il controllo,» aveva dichiarato durante una "colazione" a cui aveva invitato Caroline nella sua "deliziosa casetta", cioè non «in quella maledetta reggia che tu mi hai portato via». Dressage. Era così inglese, così anale. Jemima, non c'era nemmeno bisogno di dirlo, era un'esperta in materia. «Non ti dispiace se te lo chiedo, vero, cara?» aveva detto Rowena, allungandosi sui resti di un salmone in crosta che doveva aver cucinato qualcun altro, perché lei riusciva a malapena a trovare il coltello del pane. «Come posso esprimermi...» I suoi pallidi occhi azzurri avevano uno sguardo distante, quasi visionario, e Caroline pensò, «Non la sopporto». «Vuoi sapere se ho una pagnotta nel forno?» suggerì in tono sollecito, e al linguaggio di Caroline Rowena ebbe un guizzo di disagio. «No». Caroline era brava, molto brava a mentire. «Ne sei certa?» «Sì». E osservò Rowena sforzarsi di sopprimere un sorriso di sollievo mentre diceva: «Il caffè lo prendiamo in giardino?» Era la prima volta che andava a messa a St Anne, la prima volta che lo sentiva pronunciare il sermone. Con quella cotta bianca inamidata della domenica sembrava diverso dal solito, e si chiese chi gliel'avesse lavata e stirata in quel modo. Forse una qualche "signora", a pagamento? Non parlò molto di Dio, Caroline gliene fu grata, e divagò un poco, ma il succo generale del discorso era che le persone dovrebbero essere più gentili le une con le altre e Caroline pensò «È giusto», e i dieci fedeli presenti, lei compresa, annuirono entusiasticamente a quel concetto e quando la messa finì tutti si scambiarono una stretta di mano, cosa che Caroline trovò un po' quacchera. Quand'era in prigione era andata a un sacco di funzioni religiose perché era un modo di interrompere la routine, e i cappellani erano particolarmente gentili con lei, forse a causa di ciò che aveva fatto. Più grave
era il crimine e più i cappellani ti trattavano bene, se ti facevi vedere in chiesa. La pecorella smarrita e tutte quelle storie là. Lui era fermo sulla soglia, strinse di nuovo le mani a tutti ed ebbe una parola carina per ciascuno, naturalmente. Lei fece in modo di essere l'ultima a uscire dalla chiesa e si aspettava quasi che la invitasse a prendere un caffè, o magari anche a pranzo, ma lui non lo fece, disse soltanto: «Mi fa piacere vederla qui, Caroline», come se fosse una nuova convertita e lei provò una delusione assurda, ma sorrise e disse qualcosa di irrilevante prima di allontanarsi girando attorno al cimitero, sperando che la seguisse. Invece lui rientrò in chiesa. Dopo Keith non si era più innamorata, e anche quella era stata una folle cotta adolescenziale che, nell'ordine normale delle cose, si sarebbe dovuta concludere con un divorzio indifferente. Era bello essere innamorata di nuovo. Sentiva che le restituiva un po' della personalità perduta. Certo, aveva amato anche il mostriciattolo. Tanya. Ma era stato un amore diverso, di tipo primario. Allora non l'aveva amata, o almeno non in modo a lei comprensibile, era una cosa che aveva imparato dopo, negli anni successivi di assenza. E anche se l'aveva capito troppo tardi, l'aveva comunque aiutata a riempire quegli anni mancanti. Amore retroattivo. Ovviamente Tanya non l'avrebbe vista così. Non avrebbe mai saputo quanto sua madre l'aveva amata, a meno che non gliel'avesse detto Shirley («La tua mamma ti voleva tanto bene, ma non poteva tenerti con sé»). Aveva fatto promettere a Shirley di fare come se lei fosse morta, e di badare al mostriciattolo. Aveva amato anche Shirley in quel modo primario, altrimenti non avrebbe fatto quello che aveva fatto. Un nuovo inizio. Ecco cos'aveva detto a Shirley: «Porta via Tanya, dalle un nuovo inizio, sii la madre che io non posso essere». Anche se chiaramente non si era espressa proprio così, date le circostanze... «Credevo che avesse una bella casa a cui tornare». Pareva divertito. Si era tolto la cotta e aveva indossato di nuovo il suo vecchio cardigan. Era un abbigliamento molto femminile, un cardigan sopra quella che in fondo, diciamo la verità, era una gonna, e Caroline non poté fare a meno di chiedersi pigramente che aspetto avesse sotto quelle pieghe nere, ma con sua piacevole sorpresa si rese conto che, anche se le sarebbe piaciuto inginocchiarsi sull'erba e succhiarglielo lì, su due piedi, nel cimitero, quello che avrebbe veramente voluto fare era badare a lui, fare per lui qualcosa di buono, preparargli le uova strapazzate, il pane tostato e il tè, massaggiargli la schiena e leggergli a voce alta qualche vecchio classico inglese. Era de-
cisamente impazzita. «Sono incinta,» disse. «Oh, congratulazioni. È meraviglioso». Poi la scrutò in viso alla ricerca di indizi. «O no?» «Sì». Lei scoppiò a ridere. «È meraviglioso. Per favore, non lo dica a nessuno, ancora.» «Oh, cielo, certo che no.» Come poteva essere innamorata di un uomo che diceva "cielo"? Evidentemente era abbastanza facile. Lo tenne d'occhio. Lo seguì lungo la cresta della collina e poi fino ai pascoli vuoti per gli agnelli giù in fondo, dove lo vide sostare con i gomiti appoggiati su un cancello di legno, il fucile posato di traverso sul braccio. Era così prevedibile, con gli stivali di gomma verde, il Barbour blu e i cani che gli correvano intorno. Parlava di Meg e Bruce come di "cani da penna", però incapaci. Probabilmente era uscito a caccia di conigli. Che diritto aveva di uccidere un coniglio? Cosa rendeva la sua vita più preziosa di quella di un coniglio? Chi poteva decidere una cosa del genere? Armò il grilletto. La testa costituiva un bersaglio perfetto. Da lì avrebbe potuto sparargli un colpo che sarebbe entrato dritto dalla nuca, spaccandogliela: centro. Come una zucca, un melone o una rapa. Bang, bang. Naturalmente non l'avrebbe fatto, non aveva mai ucciso nessuno in vita sua, nemmeno un insetto, almeno non di proposito. Lui riprese a camminare, uscì dal campo, girò intorno al bosco e scomparve alla vista. Caroline guardò l'orologio era l'ora del tè. 17 Jackson Jackson mandò giù un paio di antidolorifici con una tazza di pessimo caffè. Stava aspettando che Nicola e gli altri dell'equipaggio sbarcassero al terminal. Erano le sette del mattino, orario particolarmente infernale per trovarsi in un aeroporto. Se non lo ammazzava un assassino sconosciuto ci avrebbe pensato il dente. L'aereo aveva appena sbarcato i passeggeri fiacchi e disorientati. Jackson non era mai stato a Malaga. Quand'erano sposati Josie insisteva perché facessero vacanze costose ogni anno, vacanze in villa, "ville con piscine private", in luoghi "incantevoli", Corsica, Sardegna, Creta, Toscana. Ora lui riusciva soltanto a evocare una generica immagine mediterranea -
Marlee coperta di scivolosa crema solare, che galleggiava e sguazzava con i braccioli nel punto più basso della piscina; Josie distesa sulla sdraio, a leggere un romanzo, mentre lui nuotava avanti e indietro, il suo corpo una sagoma scura sotto l'acqua azzurra, come uno squalo inquieto e ossessivo. Tenere d'occhio Nicola era solo un'attività sostitutiva, per cercare di non pensare al fatto che qualcuno stava tentando di ucciderlo (anche se, ammettiamolo, era piuttosto difficile dimenticare una cosa del genere). E adesso doveva pensare anche a Tanya. Su cosa gli aveva mentito, Shirley? Dopo l'omicidio, Walter e Ann Fletcher, i genitori di Keith, si erano trasferiti a Lowestoft e a quanto pare non erano stati molto bravi a crescere l'unica figlia del loro unico figlio. Shirley diceva di aver cercato di restare in contatto con la nipote, ma i Fletcher le avevano chiesto di stare alla larga. «La sorella della donna che gli ha ucciso il figlio» aveva aggiunto, «non li si può certo biasimare». A dodici anni Tanya aveva cominciato a scappare di casa e a quindici aveva smesso di tornare. «L'ho cercata ovunque,» aveva detto Shirley, «ma pare proprio che sia riuscita a sfuggirmi.» Jackson aggiunse Tanya alla cupa serie di calcoli che in quei giorni gli affollavano la testa. Ammesso che fosse viva, ora Tanya Fletcher doveva avere venticinque anni. Olivia Land ne avrebbe avuti trentasette. Laura Wyre ventotto, Kerry-Anne Brockley ventisei. Sperava che Tanya stesse vivendo il proprio futuro, che avesse davvero venticinque anni e che le sue giornate si susseguissero senza sosta, non come quelle di brave ragazze come Kerry-Anne, Olivia e Laura. E Niamh. La sorella maggiore di Jackson, che quella settimana avrebbe compiuto cinquant'anni. Nel terminal apparvero i membri dell'equipaggio, seguiti dalle loro belle valigette su ruote, e attraversarono l'atrio a passo sostenuto, tutti concentrati sul proprio ritorno a casa, sulla fine del turno. Se un passeggero li avesse intercettati, alla ricerca di una bottiglietta di whisky in miniatura o di un secondo panino, probabilmente l'avrebbero atterrato con un pugno e gli sarebbero passati sopra con i trolley. Gli assistenti di volo erano tutte donne, niente uomini - anche se era piuttosto improbabile che Nicola avesse una storia con uno di loro. Jackson doveva ancora trovarne uno che fosse eterosessuale. Portavano cappellini che le facevano assomigliare a collegiali anni Cinquanta. Nicola chiudeva la sfilata insieme al copilota. Dimostrava una trentina d'anni, era belloccio (come può esserlo un pilota) ma poco più alto di lei. La stava toccando? Il pilota - più vecchio e serio del copilota -
si girò e disse qualcosa che fece ridere Nicola. Questo prometteva già meglio: Jackson non ricordava di averla mai vista ridere prima. Li seguì fuori dal terminal e poi nel parcheggio. Nicola e il pilota avevano parcheggiato vicini e Jackson pensò che potesse trattarsi di un segno, ma i due si salutarono con noncuranza, senza baciarsi né toccarsi, senza scambiarsi occhiate significative. Nessun accenno di adulterio. Nicola salì in auto, accese il motore e partì nel suo solito stile da Formula Uno. Jackson la seguì a un'andatura meno suicida. Al posto dell'Alfa aveva noleggiato una Fiat Punto. La Punto era di un arancione che gli faceva sentire tutti gli occhi addosso. Decisamente un'auto da donna. La sua era ancora nella rimessa della polizia, dove quelli della scientifica la stavano sottoponendo ad altri esami. «La polizia prende molto sul serio questo genere di sabotaggi, signor Brodie,» gli aveva spiegato un nuovo sovrintendente (o almeno nuovo per Jackson) e lui gli aveva risposto: «Bene». Non aveva nominato Quintus. Non credeva che la polizia potesse fare molto più di quanto avrebbe potuto fare lui stesso. La sera prima era passato da Binky per vedere se Quintus era ancora lì, ma quando aveva suonato non aveva ricevuto risposta. La Lexus non c'era più e Jackson si chiese se Quintus avesse portato la prozia a fare un giro in macchina o fuori a cena. Era un'eventualità probabile? Perse Nicola nel giro di pochi minuti e quando accostò, a una distanza sufficiente dal prato di casa sua, si era già cambiata, aveva indossato jeans e felpa e stava tagliando l'erba del prato antistante con una falciatrice a mano e un piglio aggressivo, in un modo che gli fece tornare in mente l'atteggiamento combattivo di Deborah verso la tastiera del computer. O quello di Josie nei confronti del mondo - prima che Lastingham la lobotomizzasse trasformandola nella mogliettina ideale. Nicola portava ancora il travestimento protettivo del trucco, che stonava con quegli abiti così sportivi. Il linguaggio del suo corpo parlava di aggressività, ma il viso era una maschera. Avrebbe dovuto portare qualcosa a Theo - fiori, frutta, un buon libro ma non ci aveva pensato e adesso era troppo tardi. Nel letto d'ospedale sembrava più piccolo. Meno uomo montagna e più ragazzino gracile e orfano. Jackson avrebbe voluto trovare il modo di renderlo felice. Gli disse che era andato a Londra a parlare con Emma, ma lo trovò troppo stordito per provare interesse per quell'argomento, anche se gli aveva chiesto se stava bene (quasi un'ironia, data la sua stessa situazione). Jackson aveva ri-
sposto: «Dipende da cosa intende per "bene", Theo.» In realtà aveva paura che sarebbe riuscito a trovare l'uomo con il maglione da golf giallo (anche se gli sembrava improbabile) e che questo non sarebbe affatto servito ad alleviare il dolore di Theo, anzi, l'avrebbe acuito, perché avrebbe finalmente trovato la "conclusione" che cercava. E Laura sarebbe stata comunque morta. Percorse i corridoi ultrariscaldati dell'ospedale, dall'accettazione al reparto cure intensive pediatriche. Entrò senza che nessuno lo ostacolasse; l'infermiera al banco lo riconobbe e non gli fece domande. Avrebbe preferito che lo facesse: non avrebbe dovuto essere così facile entrare. Jackson osservò Shirley attraverso un vetro, ma avrebbe anche potuto essere uno specchio unidirezionale, visto che nessuno gli prestò la minima attenzione. Shirley portava un camice chirurgico azzurro. Jackson trovava che non ci fosse nulla di più sexy di una donna in camice chirurgico e si chiese se fosse il solo a pensarla così, o se invece fosse un'idea condivisa dalla maggior parte degli uomini. Erano argomenti su cui avrebbero dovuto condurre dei sondaggi. Shirley era in piedi accanto a un lettino per cure intensive e sollevava delicatamente un neonato minuscolo e cereo con una serie di tubi e monitor attaccati al corpo, che lo facevano sembrare una creatura antica e fragile proveniente dallo spazio. «Mi dia un secondo e le dico che è qui,» gli disse un giovane infermiere australiano. (Ma chi c'era rimasto, in Australia? Erano tutti lì, Dio solo sa perché). Jackson vide un medico avvicinarsi a Shirley, toccarle una spalla e dirle qualcosa. C'era qualcosa di indefinibilmente intimo in quel gesto e dal modo in cui lei si girò e sorrise Jackson capì subito che erano andati a letto insieme. Osservarono entrambi il bambino. Jackson si sentì più voyeur del solito. L'infermiera che l'aveva riconosciuto (come si chiamava? Elaine? Eileen?) gli si avvicinò e commentò: «Ah, che carini.» «Carini?» esclamò Jackson, chiedendosi che cosa ci fosse di tanto carino in quel quadretto. Una donna con cui aveva appena trascorso una notte di lussuria senza freni sussurrava parole dolci a un bambino malato insieme a un altro amante. «Be', dovrei dire che tristezza,» disse Elaine/Eileen. «Non possono avere figli.» «Cosa? Quei due stanno insieme? Shirley Morrison e quel dottore?» Elaine/Eileen lo guardò accigliata. «Sì, il professor Welch è suo marito.
È il primario di pediatria.» «Sono sposati?» «Sì, ispettore Brodie. Sta svolgendo indagini su Shirley?» «Sono solo il signor Brodie. Ho lasciato la polizia due anni fa, Eileen.» «Elaine.» «Perché dovrei svolgere indagini su di lei?» Elaine si strinse nelle spalle. «Non so, dalle domande che mi faceva...» «Mi dispiace.» Elaine gli si avvicinò, assumendo un tono più confidenziale. «Lo sa, vero, che è la sorella di...» «Sì» la interruppe Jackson. «Lo so». Shirley Morrison non aveva cambiato nome dopo l'arresto della sorella e nemmeno quando si era sposata. A un certo punto, nella nebbia quasi allucinogena del mattino dopo, le aveva chiesto: «Non hai mai cambiato identità?» e lei aveva risposto: «È l'unica cosa che mi è rimasta». Suo marito passò a esaminare un altro bambino alieno e Shirley posò quello che teneva in braccio nella piccola culla a forma di astronave. L'infermiere australiano entrò in reparto e le disse qualcosa, lei alzò gli occhi e quando vide Jackson si accigliò. Lui alzò le spalle e fece un'espressione impotente. Indicò il proprio anulare nudo e poi indicò lei. Lei alzò gli occhi al cielo, incredula davanti a quel suo modo ridicolo di comunicare. Gli fece segno di avvicinarsi all'ingresso del reparto e socchiuse appena la porta, come se Jackson rappresentasse una minaccia. «Perché non mi hai detto che sei sposata?» le domandò. «Avrebbe fatto qualche differenza?» «Sì.» «Cristo, Jackson, ma cosa sei, l'unico uomo serio rimasto al mondo? È stato solo sesso, non ci pensare più». E gli chiuse la porta in faccia. Jackson aveva avuto un brutto presentimento e avrebbe dovuto assecondarlo. Era una perfetta bugiarda oppure era solo brava a evitare la verità? E c'era differenza? Gli piaceva pensare che la verità fosse assoluta, ma forse questo faceva di lui un fascista rigido e moralista. Uscendo dal reparto andò quasi a sbattere contro la ragazza dai capelli gialli appostata in corridoio. Borbottava sottovoce, come se stesse recitando il rosario, e Jackson avrebbe voluto salutarla perché negli ultimi tempi l'aveva vista così spesso che gli pareva di conoscerla, anche se non era vero, quindi restò sorpreso quando fu lei a salutarlo. «Lo conosci, giusto?»
«Chi?» «Quel vecchio ciccione.» «Theo?» fece lui. «Sì, guarirà, vero?» «Sta bene,» disse Jackson. La ragazza fece per allontanarsi dal reparto cure intensive e Jackson disse: «L'orario delle visite non è finito. Puoi andare a trovarlo, è all'accettazione.» «No, lui l'ho visto oggi pomeriggio, ora sono venuta a trovare qualcun altro.» Jackson la accompagnò fuori dall'ospedale. Lei rabbrividì anche se era una serata mite, si accese una sigaretta, disse: «Scusa,» e poi gliene offrì una. Lui l'accese e disse: «Sei troppo giovane per fumare,» e lei rispose: «E tu sei troppo vecchio. E comunque ho venticinque anni, sono grande abbastanza per tutto». Jackson pensò che ne dimostrava diciassette, diciotto al massimo. Lei andò a riprendersi il cane dove l'aveva lasciato, legato a una panchina, fuori. «Sei un suo amico?» gli domandò. «Di Theo? Più o meno». Era amico di Theo? Forse. Era amico di Amelia e Julia? Per carità. (Ma lo era?) E non era amico di Shirley Morrison, nonostante quello che avevano fatto la sera prima, protetti dall'oscurità. «Sì,» rispose alla fine, «sono amico di Theo. Mi chiamo Jackson.» «Jackson,» ripeté lei come se cercasse di trovargli un posto nella memoria. Lui tirò fuori dalla tasca una manciata di biglietti da visita. "Jackson Brodie - investigatore privato" e gliene diede uno. «A questo punto dovresti dirmi come ti chiami,» disse poi e lei rispose: «Lily-Rose». Vista da vicino non sembrava una drogata, piuttosto una vittima della trascuratezza e di una cattiva alimentazione. Era così magra che pareva che un colpo di vento potesse spazzarla via e Jackson provò il desiderio di portarla al più vicino Pizza Express e guardarla mangiare. Aveva una pancetta rotonda come i bambini africani affamati che si vedono in televisione. Jackson si chiese se fosse incinta. «L'ho trovato,» disse lei, «nel parco. Christ qualcosa.» «Christ's Pieces.» «Che nome stupido.» «Molto,» aggiunse Jackson. «Gli stava venendo un colpo.» «Ha detto che qualcuno gli ha dato un inalatore.» «Io no,» disse Lily-Rose, «è stata una donna. Guarirà?» insisté. «Sicuramente,» rispose Jackson e poi si rese conto che le stava parlando
come se avesse avuto l'età di Marlee. Non riusciva a credere che avesse venticinque anni. «Ma non sta bene,» aggiunse. «Dieci anni fa gli hanno assassinato la figlia e non l'ha ancora superato.» «E perché dovrebbe?» Stan Jessop ora insegnava in una scuola diversa, ma viveva nella stessa casetta bifamiliare anni Trenta di dieci anni prima. "Stan" era un nome da vecchio pensionato, anche se aveva solo trentasei anni. Quando Laura era morta ne aveva ventisei. Per Jackson ventisei anni erano incredibilmente pochi - solo uno più di Lily-Rose e due meno di Emma Drake (doveva smetterla di ragionare così). Nel vialetto c'era una Vauxhall Vectra parecchio usata, con un seggiolino sul sedile posteriore e il pavimento coperto di giocattoli, incarti di dolci e sporcizia domestica varia. Secondo Emma Drake, dieci anni prima Stan Jessop aveva avuto una bambina, Nina; adesso pareva che ne avesse un intero zoo - il giardino davanti sembrava il campo di battaglia di una guerra combattuta con articoli di Toys 'R' Us. «Bambini,» disse Stan Jessop stringendosi nelle spalle. «Non ci si può fare niente». E Jackson pensò «Be', prima di tutto potresti dare una pulita», ma si strinse nelle spalle anche lui, accettò la tazza di caffè istantaneo annacquato che gli offrì Stan e si accomodò in soggiorno. Sul lato della tazza c'erano tracce di gocce, come se non fosse stata lavata bene. Jackson la posò sul tavolino e non bevve. Emma Drake gli aveva detto che dieci anni prima Stan Jessop era «davvero carino» e infatti aveva ancora un'aria affascinante e fanciullesca. «Sto indagando su alcuni aspetti del caso Laura Wyre,» disse Jackson e Stan esclamò: «Oh, davvero?» in modo brusco e poco convincente. Dal piano di sopra proveniva il fracasso di bambini piccoli che non volevano andare a dormire e la voce sempre più frustrata di una donna. Sembrava una routine consolidata. «Tre maschi,» disse Stan, come se questo spiegasse tutto. «È come cercare di mettere a letto le orde barbariche. Dovrei darle una mano,» aggiunse e si ingobbì sul divano. Pareva proprio che le orde barbariche l'avessero sconfitto da parecchio tempo. «Ci sono novità?» chiese in tono irritato. «In che senso?» «Laura, - ci sono novità sul suo caso? Lo vogliono riaprire?» «Non è mai stato chiuso, signor Jessop. Sto parlando con alcuni suoi amici. Ritengono che lei avesse una cotta per Laura.» «Una cotta?» Jackson credette di vedergli passare un'ombra sul viso. «È
per questo che è qui, perché io avevo una "cotta" per Laura Wyre?» «Ce l'aveva?» «Sa...» sospirò, come se qualsiasi spiegazione non valesse davvero lo sforzo, «quando sei giovane e ricopri quel ruolo, a volte le cose ti sfuggono di mano». Si accigliò. «Tutte quelle ragazze intelligenti e carine hanno gli ormoni fuori controllo e ti stanno continuamente addosso.» «Ma lei avrebbe dovuto essere quello adulto.» «A quell'età sono tutte delle rizzacazzi, scopano in continuazione, aprono le gambe a chiunque. Non mi dica che lei si sarebbe comportato diversamente. Se gliel'avessero offerta su un piatto d'argento cos'avrebbe fatto?» «Avrei rifiutato.» «Oh, non faccia il santo. In fondo è un uomo anche lei». (Cos'aveva detto Shirley? «Ma cosa sei, Jackson, l'ultimo uomo serio rimasto al mondo?» Davvero? Sperava proprio di no). «Nella mia posizione qualsiasi uomo si sarebbe lasciato tentare. Anche lei.» «Io avrei rifiutato,» disse Jackson, «perché ho una figlia. Come lei.» Stan Jessop si alzò dal divano come se stesse per sferrargli un pugno (E perché no? Tanto lo facevano tutti). Ma in quel momento entrò sua moglie, che lanciò a entrambi un'occhiata sospettosa. Non si attagliava alla descrizione fornita da Emma Drake («bionda volgare», «ordinaria»). Portava jeans e maglietta e aveva i capelli corti e scuri. Emma aveva detto che lei e Laura andavano d'accordo, eppure nessuno aveva mai interrogato Kim Jessop. (Perché no?) Jackson tese la mano e disse: «Piacere, signora Jessop, sono Jackson Brodie. Sto indagando su alcuni aspetti della morte di Laura Wyre» e lei lo guardò con un'espressione vuota e disse: «Chi?» Jackson chiamò Deborah Arnold a casa, dall'auto. «Per favore scrivi una lettera standard alla signorina Morrison e dille che non siamo più in grado di offrirle i nostri servizi.» «Hai mai sentito parlare di orario d'ufficio?» «E tu?» Era stato troppo meschino? Va bene, Shirley era sposata ed era andata a letto con lui, gli adulteri erano cose di tutti i giorni (sua moglie ne era un esempio): ma questo bastava a spiegare i sentimenti negativi che provava nei suoi confronti? Spiegava perché c'era qualcosa di strano nel suo racconto su Michelle? Forse se Tanya avesse voluto trovare Shirley l'avrebbe già fatto? Jackson non voleva aiutare Shirley. Non voleva vederla. Frugò
nel portaoggetti alla ricerca del Cd di Lee Ann Womack e cercò la canzone Little Past Little Rock. Quasi la metà delle canzoni country parlavano di donne che lasciavano qualcosa - la città, il passato, ma soprattutto gli uomini. Dopo che la sua donna se n'era andata, Jackson aveva messo insieme su nastro una compilation di canzoni tristi cantate da donne che soffrivano; un assortimento di Lucinda, Emmylou e Trisha, ciascuna con la propria partenza: in treno, in autobus, in aereo, ma soprattutto in auto. Un secondo esodo. Quando arrivò a casa riscaldò qualcosa di insapore nel microonde. Erano solo le nove ma era stanco morto. Sulla segreteria telefonica c'era un messaggio solo, di Binky. Avrebbe voluto passare a vedere come stava, ma ora sentiva di non averne la forza. Ascoltò il messaggio. «Signor Brodie, signor Brodie, ho davvero bisogno di vederla, è urgente» e poi basta, nemmeno un saluto. Le telefonò ma non rispondeva nessuno. Nell'istante in cui riabbassò la cornetta il telefono squillò e lui rispose di scatto. Era Amelia. Amelia isterica. Di nuovo. «Chi è morto, adesso, Amelia?» le domandò quando lei si fermò per riprendere fiato. «Perché se è più piccolo di un cavallo gradirei davvero che ci pensasse da sola». Purtroppo quella risposta ebbe l'effetto di renderla doppiamente isterica. Jackson mise giù, contò fino a dieci, poi premette il tasto "ripeti" e vide sul display il numero di Binky Rain. Ebbe un brutto presentimento. (Ne aveva mai di belli?) «Cos'è successo?» domandò quando gli rispose Amelia e lei riuscì a calmarsi quel tanto da rispondergli: «È morta. La vecchia strega è morta.» Quando Jackson arrivò a casa era l'una. Si sentiva come se fosse arrivato oltre il sonno, in un altro luogo, un luogo grigio e nebbioso in cui tutte le sue energie venivano utilizzate per tenere in attività il sistema nervoso e il resto del cervello e del corpo si erano spenti molto tempo prima. Salì le scale a quattro zampe. Il suo letto non era stato rifatto dalla notte che aveva trascorso con Shirley Morrison e non era nemmeno sicuro di avere dormito, da allora. All'anulare portava un anello celtico. Era stata colpa sua, che non le aveva chiesto: «Sei sposata?» - sarebbe stata una domanda abbastanza diretta. Lei avrebbe mentito? Probabilmente sì. La donna che amava i bambini e che non poteva averne uno suo: era stato per quello che era andata a letto con lui, per restare incinta? Per carità. Il marito lo sapeva? La donna che amava i bambini e che aveva perso i contatti con l'unica bambi-
na di cui avrebbe dovuto occuparsi. Tanya. Qualcosa emerse ai confini della sua memoria, ma era così stanco che riusciva a malapena a ricordarsi il suo nome. Aprì una finestra. Nella stanza mancava l'aria. «Che clima pesante». Se un temporale non spezzava in fretta quella cappa di calore, la gente avrebbe cominciato a impazzire. Dopo la scomparsa di Olivia il tempo era cambiato. Secondo il racconto di Amelia, Sylvia aveva detto che era «Dio che piangeva per la sua pecorella smarrita». Si era comportata in modo anche più strano del solito, blaterava di Olivia, anche se era il corpo di Binky quello che aveva trovato. Blaterare. Quella era una delle parole che usava suo padre. Ormai era passato quasi un anno da quando il vecchio era morto. Solo come un cane nel suo letto d'ospedale. Aveva settantacinque anni e tutte le malattie possibili, silicosi, enfisema, cirrosi epatica. Jackson non voleva diventare l'uomo che suo padre era stato. Cos'avrebbe voluto dirgli Binky? Non l'avrebbe mai scoperto, vero? Pensò a quel corpo minuscolo, leggero come una piuma, disteso tra i resti del frutteto, e l'erba alta umida di rugiada, tranne che sotto di lei, dov'era rimasta asciutta come le sue vecchie ossa. «È rimasta distesa là per ore,» disse il patologo e Jackson sentì un sussulto al cuore. C'era passato davanti in auto, forse avrebbe potuto aiutarla. Avrebbe dovuto scassinare la porta, scavalcare il muro. Avrebbe dovuto aiutarla. Stava per chiudere le tende quando qualcosa attirò la sua attenzione. Sull'altro lato del vicolo c'era qualcosa che camminava lungo il muro, entrando e uscendo dai malvoni che crescevano come gramigna. Un gatto nero. Se Binky Rain si fosse reincarnata sarebbe tornata in vita sotto forma di gatto? Nero? Quanti gatti neri c'erano a Cambridge? Centinaia. Jackson aprì di più la finestra, si sporse e - davvero non riusciva a credere che lo stesse facendo - gridò piano: «Negro?» nella calda aria notturna. Il gatto si fermò e si guardò attorno. Jackson si precipitò giù dalle scale, uscì di casa e poi rallentò fino ad assumere un'andatura in punta di piedi da cartone animato, in modo da non spaventare l'animale. «Negro?» sussurrò ancora e il gatto miagolò e saltò giù dal muro. Jackson lo prese e ne sentì tra le braccia il corpo magro. Provò uno strano senso di cameratismo con l'animale infangato e disse: «Va tutto bene, vecchio mio, vuoi venire dentro?» In casa non aveva cibo per gatti - non aveva cibo di nessun genere ma un po' di latte c'era. Fu sorpreso da un inaspettato slancio d'affetto per la bestiola. Naturalmente, era probabile che non fosse Negro (e, Dio santo, chiunque l'avesse preso avrebbe dovuto cambiargli nome). Probabilmente
avrebbe risposto a qualsiasi richiamo, ma quella coincidenza era troppo per un Jackson esausto. Si girò per tornare in casa. E la casa esplose. Così, come se niente fosse. Cos'è che cantava Hank Williams? Qualcosa sul fatto che non si esce mai vivi da questo mondo? 18 Amelia Amelia era l'unica ad aver notato che ce n'erano degli altri. Julia era troppo impegnata a flirtare - signor Brodie qui, signor Brodie là - e Jackson era troppo occupato a guardarle il seno. Ovviamente per un uomo era difficile evitarlo, dal momento che era in bella vista. Quando gli aveva suggerito di nuotare nudi si era anche leccata le labbra! Avevano nuotato nel fiume da bambine, anche se Rosemary aveva detto loro di non farlo. Di loro tre, Julia era quella che nuotava meglio. Anzi, di loro quattro. Olivia sapeva nuotare? Ad Amelia sembrò di rivedere l'immagine di quel suo corpicino da ranocchia, in costume azzurro goffrato, che si muoveva nell'acqua, ma non sapeva se fosse o meno un ricordo autentico. A volte Amelia aveva la sensazione di avere trascorso tutta la vita ad aspettare il ritorno di Olivia, mentre Sylvia parlava con Dio e Julia era occupata a scopare. E provava una tristezza insopportabile quando ripensava a tutte le cose che Olivia non aveva mai fatto: non era mai andata in bici, non si era mai arrampicata su un albero, non aveva mai letto un libro, non era mai stata a scuola, a teatro o a un concerto. Non aveva mai ascoltato Mozart e non si era mai innamorata. Non aveva mai nemmeno scritto il proprio nome. Olivia l'avrebbe vissuta la sua vita: Amelia l'aveva soltanto sopportata. Mi sta guardando le tette, signor Brodie. Julia sapeva essere una tale sgualdrina. Amelia ricordava che una volta Victor, trascinando in casa una Julia adolescente che stava cercando di scappare di nascosto per vedere un ragazzo, le aveva urlato che sembrava proprio una «volgare sgualdrina». (Con quanti uomini aveva dormito? Sicuramente troppi per poterli contare). Poi l'aveva costretta a straccarsi con uno spazzolino per le unghie. A volte Victor le ignorava per giorni e usciva dal suo studio solo per mangiare, altre volte non faceva che stargli addosso, come una specie di patriarca integralista. Dopo la morte di Rosemary, Victor aveva assunto una donna che veniva tutti i giorni a cucinare e pulire. Si chiamava signora Gordon e nessuno sa-
peva quale fosse il suo nome di battesimo. Era tipico di Victor assumere qualcuno a cui non piacevano i bambini e che cucinava in modo pessimo. A volte la signora Gordon preparava lo stesso pasto per giorni e giorni: salsicce bruciate, fagioli in scatola e patate lesse annacquate erano il suo menu preferito. Apparentemente Victor non se ne accorgeva. «Il cibo è carburante, e basta» diceva sempre. «Non importa che cosa sia». Che infanzia orribile avevano avuto. E Jackson era davvero l'ultima persona che avrebbe voluto vedere. Perché era seduto sulla riva del fiume? Perché proprio lui? Non era giusto. (Niente era giusto). Gli dei lo usavano per prendersi gioco di lei. Non aveva voluto andare a Grantchester, affatto, era stata Julia a convincerla a fare una gita in barca, blandendola come se fosse una fragile invalida o un'agorafobica: «Su, Milly, non puoi stare seduta tutto il giorno davanti alla tivù con il muso». Non aveva il muso, era depressa, Cristo santo. E poteva essere depressa, se voleva, poteva starsene seduta a guardare Cani da lavoro sul canale del National Geographic e mangiarsi un pacchetto intero di biscotti al cioccolato con dentro la crema, se le andava, perché a nessuno importava di lei. Anzi, poteva starsene seduta là tutto il giorno, da Barney il dinosauro a Le porno porcellone mettendoci in mezzo i programmi del canale Landscape e mangiarsi il contenuto di un'intera fabbrica di biscotti, fino a diventare un pallone obeso incapace di alzarsi da terra, il cui corpo gonfio e morto avrebbe dovuto essere sollevato da una squadra di pompieri con una leva idraulica, perché a nessuno importava. A me importa, Milly. Sì, come no, avrebbero detto i piastrellisti. Se a Julia fosse importato davvero non avrebbe flirtato con Jackson in sua presenza. Li immaginò in acqua insieme, Julia che sguazzava come una lontra attorno al corpo nudo di lui, le labbra rosse che si chiudevano attorno al suo... «No! Non pensarci, non pensarci, non pensarci». Una sera Amelia, tra Discovery Health e Fashion Channel, aveva trovato il canale God, scoprendo l'esistenza di un programma che iniziava a mezzanotte intitolato Una parola da Dio e l'aveva guardato! Così, per vedere se Dio aveva davvero qualcosa da dirle. Invece niente. Ovvio. Milly, tu ci vuoi del miele sugli scones? E adesso si era messa a parlare di Rupert Brooke nudo: ma perché non la smetteva? Starsene lì seduti su una sdraio nel frutteto, ad assorbire il calore dell'estate, era piacevole perché non poteva essere lì sola con Jackson, senza Julia, perché non poteva essere lui a versarle il tè e imburrarle gli scones, perché ci doveva essere Julia, con il seno che quasi le usciva dal reggipetto quando si chinava su
di lui e gli faceva colare il miele sugli scones. Un reggipetto così carino, tutto di pizzo bianco: ma perché Amelia non aveva mai biancheria del genere? Non era giusto. La sera prima si era resa completamente ridicola («È sposato, signor Brodie?») come la giovane protagonista in rovina di un romanzo rosa vittoriano. Dal modo in cui lui la guardava aveva capito che la credeva una povera illusa (ed era vero?) Era così imbarazzata che non riusciva a ricambiare lo sguardo, grazie a Dio portava occhiali da sole e cappello. (La facevano almeno sembrare un pelino misteriosa ed enigmatica?) L'adorabile viso di Jackson era tutto ammaccato (perché, ovviamente, lei sì che l'aveva guardato) e le sarebbe piaciuto consolarlo, prendergli la faccia e farla riposare tra i seni (che erano grossi come quelli di Julia, anche se non occupavano lo stesso piano orizzontale). Ma non sarebbe mai accaduto, no? Però li aveva visti. Gli altri. Jackson e Julia credevano che l'uomo che leggeva Principia mathematica fosse solo, ma lei ne aveva visti altri, setto o otto, tutti nudi come lui. Un paio si erano tuffati, ma gli altri chiacchieravano distesi sulla riva in diverse posizioni di riposo, come se stessero rappresentando una scena pastorale ideale. Che fossero naturisti? A un tratto, inaspettatamente, Amelia si ricordò che una volta aveva nuotato nel fiume e il suo corpo scaldato dal sole si era mosso agile nell'acqua fresca e lucente. Provò un improvviso desiderio fisico, simile alla fame. Perché era intrappolata in quel corpo goffo e informe, perché non poteva riavere quello della sua infanzia? Perché non poteva riaverla tutta, la sua infanzia? Forse erano situazionisti e stavano creando una bizzarra opera d'arte, senza preoccuparsi di essere visti oppure no. O forse seguaci di qualche religione. Un'accolita nudista? Parevano quasi tutti ultraquarantenni e avevano corpi imperfetti - cosce cellulitiche e sederi cascanti, peli pubici grigi, nei, lentiggini e vecchie cicatrici, e alcuni erano rugosi come mastini napoletani. Erano abbronzati dappertutto, quindi qualsiasi cosa stessero facendo la facevano spesso. Poi scomparvero dietro un'ansa del fiume, svanendo come un sogno. Amelia precedette Julia a grandi passi perché era arrabbiata con lei per tutto, ma in particolare perché aveva flirtato così tanto con Jackson il giorno prima, sul fiume. Julia le corse dietro ma poi udirono la campanella di un furgone dei gelati e Julia esclamò: «Odi il rintocco della mezzanotte». Amelia commentò: «Non mi pare un'analogia appropriata», ma al suono
della campanella Julia aveva reagito con obbedienza pavloviana ed era trottata via alla ricerca di un gelato. Amelia proseguì, attraversò Christ's Pieces, oltrepassò il Princess Diana Memorial Rose Garden, lanciando uno sguardo di disprezzo, perché tutte quelle storie sulla principessa Diana (viva o morta) erano davvero assurde. Per Olivia non esisteva alcun monumento, né un roseto né una panchina, nemmeno una lapide su una tomba vuota. E poi, a un tratto, improvvisamente, fu avvicinata dalla vagabonda con i capelli giallo canarino. La ragazza la afferrò per un braccio e iniziò a tirarla lungo il sentiero e Amelia pensò, vuole rapinarmi, che situazione grottesca, poi cercò di urlare, ma scoprì di essere diventata muta come succede negli incubi. Si dibatté per riuscire a guardarsi attorno, per vedere dov'era Julia - Julia l'avrebbe salvata dalla ragazza con i capelli gialli, Julia era sempre stata attaccabrighe, da bambina - ma la ragazza la stava trascinando lungo il sentiero come una mocciosa recalcitrante. Era assurdo, perché Amelia era grossa almeno il doppio della sua rapitrice, eppure la ragazza dai capelli gialli era dotata di un'energia strana e inquietante, e poi era sporca, senzatetto, drogata e forse anche ritardata, e ad Amelia faceva paura. Il cane della ragazza correva accanto a loro, saltando su e giù come un complice eccitato. Se la ragazza avesse mollato la presa per un istante le avrebbe dato il portafoglio o la borsa, o quello che voleva. A un tratto ad Amelia venne in mente l'espressione "o la borsa o la vita" (sotto stress il cervello faceva davvero delle cose strane). Brigantessa da strada... si poteva dire? Erano mai esistite? I briganti erano come i pirati o i grassatori personaggi più mitici che storici? Cos'era un grassatore? La brigantessa non le aveva detto: «O la borsa o la vita», ma stava ripetendo quello che diceva sempre: «Aiutami.» No. Stava dicendo: «Aiutalo, aiutalo» indicando un grassone che, su una panchina, moriva sibilando come Victor, tranne che Victor era soffocato senza reagire, mentre il grassone sulla panchina lottava per respirare, e gesticolava come se potesse raccogliere l'ossigeno con le mani. «Aiutalo,» le ripeté la ragazza con i capelli gialli, ma Amelia restò in piedi, paralizzata, a fissare il ciccione morente. Non le veniva in mente proprio nulla che avrebbe potuto in qualche modo aiutarlo. Fortunatamente per il ciccione in quel momento comparve Julia, reggendo trionfante due coni gelato come una persona (o un'attrice) con in mano due torce fiammeggianti. Quando vide ciò che stava accadendo lasciò cadere i gelati e corse verso la panchina, estraendo dalla borsa il suo
inalatore di Ventolin e avvicinandolo alla bocca spalancata da pesce del grassone. Poi tirò fuori il cellulare e lo allungò ad Amelia urlando: «Chiama un'ambulanza!» come se avesse ricominciato a recitare in Casualty, ma Amelia non riuscì nemmeno a prenderlo in mano. «Cazzo, Milly,» sbottò Julia e porse il telefono alla ragazza con i capelli gialli, che sarà anche stata ritardata, stupida, lercia, senzatetto e drogata, ma almeno, a differenza di Amelia, fu capace di comporre il numero e salvare la vita di un uomo. Julia preparò uova strapazzate per cena e dopo aver mangiato chiamò l'ospedale e riferì ad Amelia: «Pare che stia bene». Amelia disse: «Davvero?» e Julia: «Non t'importa?» e Amelia: «No». Perché non le importava affatto, forse in teoria sì, ma non nel profondo, perché avrebbe dovuto importargliene di qualcuno (e come avrebbe potuto?) se a nessuno importava di lei? Julia esclamò: «Oh, Cristo, Amelia, datti una regolata» (frase che, è risaputo, non bisognerebbe dire alle persone depresse) e Amelia si precipitò in giardino in lacrime, si buttò sull'erba e si mise a singhiozzare. Sotto il suo corpo il terreno era duro e scomodo, anche se ancora tiepido del calore del giorno, e a un tratto le tornò alla mente com'era stato dormire nella tenda. Anzi, quello era quasi il punto esatto in cui era stata piantata, quella fatidica notte. Si mise a sedere e si guardò intorno. Lì era dove aveva dormito Olivia. Passò la mano sull'erba, come se il corpo della bambina potesse averla appiattita. Lì Olivia aveva detto: «Notte, Milly,» piena di sonno e felicità, stringendo tra le braccia Topoblù. Amelia era rimasta a guardarla mentre si addormentava e si era sentita saggia, adulta e responsabile perché Rosemary le aveva affidato il compito di starle vicino, e solo lei aveva avuto il permesso di dormire fuori in tenda. Con Olivia. «Milly» era forse l'ultima parola che aveva pronunciato? O ce n'erano state altre prima del silenzio, parole spaventose di paura e terrore mortale che Amelia non sarebbe mai, mai riuscita nemmeno a immaginare? Il cuore iniziò a batterle forte al pensiero dell'orrore che la sorella aveva dovuto sopportare. «No, meglio non pensarci». Olivia era vicinissima, palpabile. Dove? Amelia si alzò troppo in fretta, le vennero le vertigini e barcollò tra l'erba cercando di percepire una direzione, come se il suo corpo fosse una verga da rabdomante. No, doveva fermarsi e ascoltare. Se si metteva in ascolto l'avrebbe sentita. E poi udì qualcosa di appena accennato, un lieve miagolio proveniente dall'altro lato del muro, un gatto, non Olivia, ma era sicuramente un segno. Cercò di aprire il cancello di legno nel muro, strappando l'edera che lo teneva chiuso.
Tirò forte i vecchi cardini arrugginiti finché non riuscì a infilarsi attraverso l'apertura e si ritrovò nel vicolo. Il gatto, anzi, un minuscolo essere metà gatto e metà cucciolo, parve intimidito quando la vide, ma non scappò, e Amelia si chinò, cercò di rendersi più piccola e amichevole (bella sfida), gli tese la mano e disse: «Qui micio, micio, micio», finché l'animale non avanzò cauto nella sua direzione e lei riuscì ad accarezzarne il corpo esile e ossuto. Alla fine, dopo parecchie blandizie, si lasciò tirare su, lei gli premette la faccia sul pelo e si chiese se poteva tenerlo. Il cancello di fronte, quello che portava nel giardino della signora Rain, era aperto. Quand'erano piccole si arrampicavano in un punto in cui il muro era crollato e si nascondevano là dentro. La signora Rain non poteva essere ancora viva. Sylvia era caduta giù dal suo faggio e si era rotta un braccio. «Diamo un'occhiatina?» sussurrò al gatto. Sì, una volta era stato un frutteto. Loro ci rubavano le mele e le susine. Bussavano alla porta e urlavano: «La strega è in casa?» e poi correvano via, terrorizzate. Sylvia, Sylvia era sempre la capobanda, ovviamente. Sylvia l'aguzzina. Sylvia era ancora Sylvia allora, e Amelia ripensò alla bambina strana e piena di energia che era stata, al fatto che le cacciava sempre nei guai. Era un giardino enorme, sproporzionato rispetto alla casa. Quand'erano piccole era soffocato dalle erbacce e ora era tornato allo stato naturale. Sarebbe stato meraviglioso mettere le mani su quella selvatichezza indomabile. Avrebbe potuto piantare nuovi alberi, inserire uno stagno popolato di animali, un arco di rose, magari anche una bordura di erbe aromatiche da fare invidia a quella di Newnham. Lì la presenza di Olivia era ancora più forte. Amelia la immaginò nascosta dietro un albero, come un folletto pronto a guidarla. I piedi le si invischiarono nella gramigna e nella bardana, fu punta da ortiche e graffiata dalle rose canine, ma avanzò trascinata da una mano invisibile finché non rischiò di inciampare nella sagoma scura distesa sul terreno, un groviglio di stracci e rametti buttato sotto un albero... «Frisky,» disse Jackson, indicando con il capo il gattino tra le braccia di Amelia. Amelia non riusciva a lasciarlo andare. Una donna poliziotto l'aveva accompagnata a casa e le aveva preparato una tazza di tè. (Perché erano sempre le donne a farlo? Ancora?) C'erano un sacco di poliziotti nella
cucina di Victor, che pareva fungere da centrale operativa provvisoria (era quella la definizione giusta?) Svegliata da quella confusione, una Julia assonnata entrò in cucina con espressione attonita. Era mezza nuda, naturalmente, indossava solo mutandine e maglietta. E la cosa non la disturbava minimamente. Oh, signor Brodie, dobbiamo smetterla di vederci così. Quando Amelia aveva toccato il cadavere della vecchia signora Rain l'aveva trovato fragile e ossuto come quello del gatto che stringeva tra le braccia. La polizia aveva messo sul corpo una piccola tenda e aveva piantato delle torce, cose che non si fanno per una donna anziana morta di morte naturale, il che significava che Amelia non aveva soltanto scoperto un cadavere, ma il cadavere della vittima di un omicidio. Un brivido le percorse le membra e svegliò il gatto, che saltò giù dalle sue braccia. Julia cominciò a ripetere «Micino, micino, micino», lo raccolse e se lo strinse ai seni anche troppo scoperti e Amelia disse: «Cristo santo, Julia, mettiti qualcosa addosso!» Julia fece una smorfia e si allontanò noncurante dalla cucina, stringendo ancora il gatto, mentre tutti i poliziotti le guardavano il sedere; grazie a Dio non portava un tanga - di sicuro il capo di biancheria più ridicolo mai inventato, a parte le mutandine senza cavallo, naturalmente, inventate solo per il sesso. «Amelia, vuole dell'altro tè?» Jackson la guardava preoccupato, come si fa con i malati di mente. Era quasi mattina ed erano appena andate a dormire. Sentiva ancora le auto della polizia che partivano e arrivavano, il rumore delle radio. Almeno la camera di Sylvia era sul davanti della casa, lontana dalle luci delle torce. Non aveva più nemmeno il gatto perché l'animale aveva seguito Julia in camera sua. Non sarebbe mai riuscita a dormire, se non prendeva qualcosa. Julia teneva le pastiglie contro l'insonnia in bagno. Aveva sempre con sé farmaci per cui era necessaria una ricetta: rientrava tutto nel lato teatrale della sua vita. Amelia non riusciva a leggere l'etichetta senza occhiali, ma che importanza aveva? Due ti facevano dormire, quattro ti facevano dormire meglio, no? E con dieci dove finivi? Erano così minuscole! Come pillole per bambini. Rosemary dava loro un'aspirina per bambini ogni giorno, anche se non stavano male. Probabilmente Julia aveva imparato da lei. Rosemary aveva sempre avuto l'armadietto delle medicine pieno, anche quando stava morendo. E venti? Quello sì che sarebbe stato un lungo sonno. Certo, niente aveva potuto salvare Rosemary, e comunque niente avrebbe potuto salvare nessuno di loro, no? Trenta? E se ti facevano
solo venire sonno? Jackson la giudicava ridicola, non sarebbe mai riuscita a ritrovare Olivia e adesso Julia aveva un gatto e al mondo non c'era giustizia. Nessuno la voleva, nemmeno suo padre l'aveva trovata abbastanza attraente. Non era giusto. Neanche un po'. Non era giusto, non era giusto, non era giusto. Tutto il flacone? Perché non era giusto. Non era giusto, non era giusto, non era giusto. «Puoi aiutarmi? No». Noneragiustononeragiustononeragiustononeragiustononeragiustononera giustononeragiustononeragiustononeragiustononeragiustononeragiustonon eragiustononeragiustononeragiustononeragiustononeragiustononeragiuston oneragiustononeragiustononeragiustononeragiusto... «Milly, stai bene? Milly? Milly?» 19 Jackson Si era dimenticato di quanto facesse freddo su al nord. La Gran Bretagna era un paese così piccolo che pareva impossibile riscontrare un clima diverso nell'arco di soli trecento chilometri. Però faceva ancora abbastanza caldo da stare seduti nel giardino del pub, o quanto meno faceva caldo per i settentrionali. Jackson ordinò da bere. Si trovavano in una vecchia stazione di posta, in un posto sperduto nel Northumberland. Di posti sperduti ce n'erano un sacco, nel Northumberland. Jackson pensò che avrebbe potuto comprarsi una villetta lì nella zona. Costava sicuramente meno che a Cambridge, dove ormai una casa non ce l'aveva più. La sua era ancora in piedi, ma aveva perso più o meno tutto ciò che conteneva - abiti e Cd e libri, tutti i dossier di Theo su Laura - per via dell'esplosione e dell'acqua degli idranti. Be', era comunque un modo per ricominciare da zero, per iniziare una nuova vita: bastava far saltare in aria quella vecchia. «Gas?» suggerì speranzoso all'agente del dipartimento incendi dolosi. «Dinamite,» rispose l'uomo. (Dialogo breve e virile). Chi poteva avere accesso alla dinamite? Qualcuno che lavorava in una miniera, ovvio. Jackson pescò nel portafoglio il biglietto da visita del detective Lowther e lo chiamò. «La trama s'infittisce,» disse e poi se ne pentì perché gli pareva la battuta di un romanzo giallo di infima qualità. «Credo che abbiamo un sospetto». Il tono non migliorava. «A proposito, casa mia è appena esplosa». Quello sì che era materiale da romanzo. («Quintus Rain,» rimuginò il detective Lowther, ma che razza di nome è? «Un nome di merda,» replicò Jackson).
Portò fuori i drink, un succo d'arancia per lui, una coca per Marlee e un gin tonic per Kim Jessop, anche se adesso si chiamava Kim Strachan perché nel corso degli ultimi dieci anni si era sposata e aveva divorziato da un "caso clinico psichiatrico scozzese" di nome George Strachan. Ora possedeva un bar a Sitges e un ristorante a Barcellona in società con un "uomo d'affari" russo. Era ancora bionda e sfoggiava l'intensa abbronzatura color cuoio di chi pensa che il cancro alla pelle venga solo agli altri, anche se, a giudicare dalla tosse da fumatrice, con il cancro ai polmoni sarebbe stata una dura lotta. Sembrava una mafiosa da manuale e portava gioielli che sarebbero bastati per un intero matrimonio indiano. Kim Strachan, ex Jessop, non aveva perso il suo accento nordorientale e in corpo non aveva un singolo frammento di fiacco Dna meridionale. Jackson la trovò subito simpatica. «È stato fortunato a trovarmi,» disse tirando una profonda boccata da una Marlborough. «Sono venuta solo per un paio di settimane, a trovare mia madre. In questo periodo non si regge bene in piedi, sto cercando di convincerla a trasferirsi in Spagna.» Stan Jessop aveva dato a malincuore a Jackson il numero di cellulare della sua prima moglie, lamentandosi imbronciato del fatto che non vedeva spesso la figlia, Nina, perché quella "stronza" l'aveva iscritta a un collegio quacchero di York e Jackson pensò che un collegio quacchero a York suonava molto più raggiungibile di una qualsiasi scuola neozelandese. Kim Strachan e famiglia stavano facendo una "vacanza agrituristica" in una località lì vicino. «Un allevamento di agnelli,» disse. «Gli agnelli fanno un sacco di rumore, altro che silenzio degli innocenti». La sua "famiglia" evidentemente comprendeva non solo Nina e la madre con le gambe malferme, ma anche "Vladimir" e una serie di "soci" di quest'ultimo, uno dei quali le faceva da autista e in quel momento beveva una Fanta due tavoli più in là scrutando ogni passante come se potesse essere un potenziale assassino. «Oh, in realtà è un coccolone,» disse Kim ridendo. Aveva fatto molta strada da quando divideva la piccola bifamiliare anni Trenta con Stan Jessop. Gli raccontò di avere lasciato Stan la settimana prima dell'omicidio di Laura. Era già "entrata in contatto" con George Strachan e quando Laura era stata uccisa si trovava dietro il bancone di un pub per inglesi espatriati ad Alicante. Poi non era più tornata a Cambridge e dopo essersene andata non aveva più nemmeno parlato con Stan, «perché era un grandissimo stronzo», così quando Jackson l'aveva chiamata per dirle che stava «inda-
gando su alcuni aspetti della morte di Laura Wyre» aveva risposto: «Cristo. Laura Wyre è morta? E come?» A Jackson si era stretto il cuore perché parlare di una ragazza morta da dieci anni era molto diverso che dare la notizia fresca del suo decesso. «Ha solo ventotto anni,» aveva aggiunto Kim. Jackson sospirò pensando, «No, ne aveva solo diciotto», e aggiunse: «In realtà è morta dieci anni fa. Purtroppo è stata assassinata». All'altro capo del filo cadde il silenzio, disturbato soltanto dallo scontroso brusio di una voce in sottofondo che parlava russo. Jackson ripensò a Emma Drake, che diceva che era peggio venire a sapere della morte di Laura quando «per tutti gli altri era già storia passata». Pareva che il mondo intero si trovasse all'estero, quando Laura era morta. «Assassinata?» «Mi dispiace moltissimo,» disse Kim pescando la fettina di limone nel gin e mettendola nel posacenere. «L'assassino non è mai stato trovato,» spiegò Jackson. «È anche possibile che Laura non fosse la vittima designata». Poi lanciò a Marlee un'occhiata incerta. Gli sembrava di raccontare un episodio di Law & order o di CSI, non di parlare della realtà. Sperò che sua figlia ci credesse, che non guardasse Law & order e CSI ma la tivù dei ragazzi e le repliche di La casa nella prateria. Le aveva parlato di Laura, le aveva detto che era stata uccisa da una «persona cattiva» perché «a volte alle persone buone succedono cose brutte» e Marlee si era accigliata e aveva detto: «Theo dice che si chiamava Jennifer» e Jackson aveva risposto: «Quella è l'altra sua figlia». Cosa provava Jennifer a essere sempre l'altra figlia, quella che riceveva meno attenzioni della sorella morta? «Laura era una ragazza simpatica,» disse Kim Strachan. «Quando ci siamo conosciute faceva molto la sostenuta, ma sa, era una borghese. Non era colpa sua, no? Be', in realtà avrei potuto prendermela, ma non con lei. Era buona come il pane.» «Sto soltanto raccogliendo alcune informazioni, da persone che allora non sono state interrogate,» spiegò Jackson. «Mi ha assunto suo padre.» «Il ciccione?» «Sì, il ciccione.» «Theo,» intervenne Marlee. «È simpatico.» «Sì, è vero,» disse Jackson. Guardò Marlee e aggiunse: «Vuoi andare a comprarti un sacchetto di patatine, tesoro?» Infilò una mano in tasca alla
ricerca di spiccioli, ma Kim Strachan aveva già aperto il borsellino e tirato fuori una banconota da cinque sterline che consegnò a Marlee dicendo: «Prendi, cucciola, comprati quello che vuoi. Questi idioti di inglesi,» aggiunse rivolta a Jackson, «perché non vogliono adottare l'euro? Cazzo, tutti gli altri paesi europei ci sono riusciti.» Poi si accese un'altra sigaretta, scuotendo il pacchetto per offrirne una a Jackson e quando lui rifiutò disse: «Cristo santo, sta morendo dalla voglia, amico, si vede lontano un chilometro.» Jackson ne prese una. «Non ho fumato per quindici anni.» «Cos'è che l'ha fatta ricominciare?» Jackson si strinse nelle spalle. «Un anniversario.» «Dev'essere stato uno di quelli importanti,» disse Kim Strachan. Jackson rise senza divertimento. «No, per niente. Trentatre non è un numero significativo, no? Trentatre anni dalla morte di mia sorella.» «Mi dispiace.» «Credo di avere esagerato. Quest'anno ne avrebbe compiuti cinquanta. Questa settimana. Domani.» «Cose della vita,» replicò Kim Strachan, come se questo spiegasse tutto. Si accese la sigaretta con un pesante accendino d'oro con una incisione in cirillico. «Aspetti, non me lo dica,» disse Jackson. «"Dalla Russia con amore".» Kim Strachan scoppiò a ridere e rispose: «Molto peggio.» «Lei non ha idea di chi avrebbe voluto uccidere Laura, eh?» le domandò Jackson. «Un'idea qualsiasi, anche se improbabile.» «Come le ho detto era una simpatica ragazza borghese, di solito quelle non hanno molti nemici.» Jackson tirò fuori la fotografia del maglione da golf giallo e gliela porse. Lei la prese e la studiò attentamente. Poi cambiò completamente espressione. «Cristo santo,» esclamò. «L'ha riconosciuto?» domandò Jackson. Kim buttò giù il resto del gin e prese una lunga boccata dalla sigaretta prima di staccarsela dalle labbra. Aveva gli occhi pieni di lacrime ma la voce era carica di rabbia. «Avrei dovuto capirlo,» disse, «cazzo, avrei dovuto capirlo che era lui.» Andarono a Bamburgh in auto e Jackson portò Marlee a fare una lunga passeggiata sulla spiaggia. Non si tolse scarpe e calzini (come i vecchi, come suo padre), ma Marlee invece si arrotolò i pantaloni alla pescatora a
quadretti e corse dentro e fuori dalle onde. Non si preoccuparono di dare un'occhiata al castello, anche se Jackson trovava che avesse un'atmosfera un po' alla Harry Potter, che all'inizio aveva entusiasmato sua figlia. Jackson tendeva a non ascoltare quando Marlee chiacchierava senza sosta del maghetto (lui aveva avuto un'infanzia priva di magia e non riusciva a coglierne il fascino), proprio come non ascoltava Christina e Justin e tutte le band clonate di adolescenti che si era portata dietro e insisteva a voler alternare ai suoi Cd. Era più interessata a giocherellare con il cellulare che le aveva comprato. Era rosa-Barbie e lei passava le ore a scambiarsi Sms con le amiche. Jackson non riusciva a immaginare cos'avessero da dirsi. Invece di andare al castello mangiarono fish and chips all'aceto sui sedili anteriori dell'auto, guardando il mare (come dei pensionati). «Che bello, papà,» disse Marlee, e Jackson: «Vero?» Avrebbe dovuto stare con lei per le ultime due settimane delle vacanze scolastiche e Josie gli aveva telefonato per dirgli: «Senti, degli amici di David ci prestano un torrione nell'Ardèche per una settimana e pensavamo che sarebbe carino andarci solo noi due.» «Così potete scopare senza che tua figlia sia presente?» aveva domandato lui e Josie gli aveva sbattuto giù il telefono. C'erano volute altre due telefonate prima di arrivare a una conversazione semicivile sull'argomento. Certo, David aveva degli amici che possedevano un torrione nell'Ardèche. Di sicuro non era una coincidenza che torrione facesse rima con coglione. Jackson scrollò la carta delle patatine fuori dal finestrino, per i gabbiani (ricreando all'istante una scena de Gli uccelli), mise in moto e si allontanò il più in fretta possibile prima che la Punto venisse ricoperta di merda di volatile. «Adesso torniamo a casa?» Marlee stava mangiando un Cornetto che si scioglieva troppo in fretta per la sua lingua e sgocciolò sulla tappezzeria dell'auto. Dopo tutto le auto a noleggio qualche vantaggio ce l'avevano. «Papà?» «Sì?» «Ti ho chiesto se torniamo a casa.» «Sì. No.» «Quale dei due, papà?» Nella sua vecchia città natale, Jackson trovò un bed & breakfast scadente, che comunque sembrava il migliore disponibile. Alla finestra campeggiava la scritta "Libero" in neon rosso, dandogli l'impressione di alloggiare
in un bordello. Il viaggio era stato più lungo del previsto e li aveva costretti ad attraversare una serie di deprimenti terre di nessuno industriali che, al confronto, facevano sembrare Cambridge un vero e proprio paradiso. «Non dimenticare mai che lo devi a Margaret Thatcher, se la tua eredità si è ridotta così,» disse Jackson a Marlee, che rispose: «Okay» e fece saltare il tappo di un tubo di Smarties. Nell'ultimo autogrill aveva speso fino all'ultimo centesimo la banconota da cinque di Kim Strachan. Il bed & breakfast era gestito da una donna dai lineamenti affilati, la signora Brind, che guardò con aria diffidente Marlee, poi Jackson, e lo informò che non aveva più «letti gemelli, solo matrimoniali». Jackson si aspettava quasi che chiamasse la Buoncostume. Quella camera triste con la carta da parati e le tende impregnate da anni di nicotina era perfetta per provocare un'avversione al fumo. Avrebbe smesso il giorno dopo. O magari quello dopo ancora. La mattina seguente la signora Brind osservò ben bene Marlee alla ricerca di segni di tensione o violenza, ma la bambina sgranocchiava allegramente una scodella di Frosties, cereali banditi dalla cucina di David Lastingham, più incline al muesli. Dopo i Frosties, Marlee mangiò un viscido uovo fritto servito con una fetta di pancetta grassa e rigida e una salsiccia dall'aria oscena. Jackson immaginò il proprio risveglio in Francia: scendere fino alla panetteria del villaggio per comprare una baguette calda, il caffè fatto con una piccola caffettiera espresso e miscela macinata di fresco. Per ora doveva accontentarsi di una tazza di istantaneo acre e un paio di Nurofen, perché aveva finito i soliti antidolorifici. Non sapeva più bene che cosa gli facesse male, in realtà, se il dente, la testa o il pugno che David Lastingham gli aveva sferrato a sorpresa. Era soltanto dolore, dolore generalizzato. «Non dovrebbe prenderle a stomaco vuoto» gli disse inaspettatamente la signora Brind spingendogli davanti un piatto di pane tostato. Pioveva quando risalirono sulla Punto ed entrarono in città. Jackson aveva una sensazione di pesantezza crescente allo stomaco che non aveva nulla a che fare con quel tempo orribile o con quell'acido caffè da quattro soldi. «Tutto bene, tesoro?!» «Sì, papà.» Si fermò in un'area di servizio e fece il pieno alla Punto, inspirando il profumo confortante della benzina. Fuori dal negozio erano disposti secchi pieni di fiori, ma non c'era molta scelta. Grosse margherite rosa che pare-
vano artificiali, alcune dalie dai colori squillanti e un sacco di garofani. Gli tornò in mente la sincera dichiarazione di una delle clienti di Theo in attesa di divorzio: Mi compra i garofani, i garofani fanno schifo, lo sanno tutte, ma allora perché lo fa? Fece cenno a Marlee di scendere, le chiese di scegliere e lei senza esitare indicò le dalie. A Jackson le dalie facevano sempre venire in mente il lotto di terreno in affitto dove suo padre aveva trascorso gran parte del tempo libero. La madre di Jackson diceva sempre che il capanno era molto più attrezzato di casa loro. Erano appena passati accanto ai lotti e se avessero preso la prima svolta a sinistra, dopo l'incrocio, sarebbero arrivati alla strada dove Jackson aveva abitato dai nove ai sedici anni, ma non svoltarono e Jackson non ne fece parola a Marlee. Erano dieci anni che non tornava al cimitero, ma sapeva esattamente dove andare. Molto tempo prima, nella sua mente era rimasta impressa a fuoco una cartina. C'era stato un periodo in cui ci andava quasi tutti i giorni, tanti anni prima, quando i morti erano le uniche persone che gli volevano bene. «Qui è sepolta mia madre,» disse a Marlee. «Mia nonna?» fece lei, tanto per essere sicura, e lui rispose: «Sì, tua nonna». Lei rimase rispettosamente in piedi davanti alla lapide che sembrava corrosa da ben più che trentatre anni di intemperie e Jackson si chiese se per la tomba della moglie suo padre avesse ordinato dell'arenaria economica. Guardandola non provò granché. Trovò difficile evocare molti ricordi di lei. Proseguirono, Marlee era preoccupata perché lui non aveva deposto i fiori sulla tomba della nonna, ma Jackson rispose: «Non sono per lei, tesoro.» 20. Caso n. 4 1971 Ragazze perfette Jackson non aveva mai riflettuto a lungo su niente in particolare, prima che sua madre iniziasse a morire. Era solo un ragazzo e faceva le cose che fanno i ragazzi. Apparteneva a una banda che si rifugiava in un magazzino dismesso, giocavano sulle sponde del canale, rubacchiavano dolci da Woolworth, facevano gite in bicicletta per la campagna, si dondolavano sul fiume appesi ai rami, rotolavano giù per le colline, pagavano ragazzi più grandi per farsi comprare le sigarette, fumavano e si ubriacavano di sidro fino a star male nel loro rifugio o nel cimitero cittadino, dove di notte entravano da un buco nel muro che conoscevano solo loro e un branco di ca-
ni inselvatichiti. Faceva cose che avrebbero scandalizzato sua madre (e probabilmente anche suo padre), ma quando in seguito ci ripensò gli parve di avere avuto un'infanzia sana e innocua. Era il piccolo della famiglia. Sua sorella Niamh aveva sedici anni e suo fratello Francis diciotto e aveva appena finito l'apprendistato come saldatore alla Commissione mineraria. Suo padre ripeteva sempre ai due figli maschi di non seguire il suo esempio, di non scendere nel pozzo, ma era difficile stare lontani dalla miniera, che in città era l'unica risorsa industriale. Jackson non aveva mai pensato al futuro, ma trovava che diventare minatore non fosse poi tanto male: il cameratismo, le bevute, in realtà era come far parte di una banda di adulti. Ma suo padre sosteneva che era un lavoro indegno anche di un cane, e lui i cani li odiava. Tutti votavano laburista, uomini e donne, ma non erano socialisti, «bramavano i frutti del capitalismo» più di chiunque altro, così diceva suo padre. Lui era socialista, uno di quei socialisti scozzesi amareggiati e aggressivi che davano a qualcun altro, e soprattutto ai "padroni capitalisti", la colpa di tutto ciò che era andato storto nella loro vita. Jackson non sapeva cosa fosse il capitalismo e non aveva nessuna voglia di appurarlo. Francis sosteneva che significava guidare una Ford Consul e comprare una lavatrice Servis per sua madre, e Jackson era l'unico a sapere che quando Francis, l'anno passato, era entrato a far parte della prima generazione di diciottenni a beneficiare del diritto di voto, aveva messo la croce accanto al nome del candidato conservatore, anche se pensava che avesse «meno chances di vincere di una scoreggia in un tornado». Il padre avrebbe anche potuto diseredarlo (e magari anche ammazzarlo), perché i conservatori volevano cancellare i minatori dalla faccia della terra, ma Francis diceva che non gliene fregava un cazzo, perché aveva intenzione di risparmiare abbastanza per comprarsi una Cadillac e attraversare gli Stati Uniti, fermandosi soltanto per rendere omaggio a Elvis il Re ai cancelli di Graceland, e proseguire fino alla Pacific Highway. La madre era morta la settimana dopo le elezioni, quindi per un po' non avevano pensato alla politica, anche se il padre aveva cercato in tutti i modi di scaricare sul governo la colpa del cancro che aveva divorato Fidelma, risputandola ormai ridotta a un involucro raggrinzito e giallognolo che si era spento ancora attaccato a una flebo di morfina in una corsia dell'ospedale Wakefield General. Il padre era un bell'uomo, ma la madre era una donna grassa e anonima
che sembrava appena uscita dalla mungitura delle vacche o dalle cave di torba. Il padre diceva: «Puoi portare quella donna fuori dalla contea di Mayo, ma non puoi portare la contea di Mayo fuori da quella donna». Era una battuta, ma nessuno la trovava divertente. Non le comprava mai dei fiori e non la portava mai fuori a cena, ma allora non lo faceva nessuno, con le mogli, e se Fidelma si sentiva trattata male, lo erano anche tutte le altre donne che conosceva. Dalla vita, Niamh si aspettava qualcosa di diverso. Aveva finito la scuola a quindici anni e si era iscritta al college, dove studiava stenografia e dattilografia, e ne era uscita con i diplomi e una scatola di cioccolatini al latte che le aveva regalato l'insegnante perché era stata la migliore del corso. Ora prendeva tutti i giorni l'autobus per Wakefield, dove lavorava come "segretaria personale" dell'amministratore di una concessionaria di auto. Consegnava a sua madre un terzo delle sei sterline a settimana che guadagnava, un terzo lo metteva in banca e il resto lo spendeva in vestiti. Le piacevano quelli che la calavano nel suo ruolo, gonne a tubo e cardigan di angora, twin-set di pura lana vergine e gonne a pieghe, il tutto indossato con calze velate e scarpe nere con tacco da sette centimetri, al punto che sembrava stranamente fuori moda anche a sedici anni. A completare il look, portava i capelli ben raccolti e si era comprata un filo di perle false con orecchini coordinati. Per l'inverno aveva investito in un buon cappotto di tweed a lisca di pesce con i bottoni sulla martingala e, quand'era arrivata l'estate, si era comprata un impermeabile di gabardine bello pesante, con la cintura, che secondo suo padre la faceva somigliare a un'attrice francese. Jackson non aveva mai visto un film francese, quindi non sapeva se era vero o no. Per sua fortuna Niamh non aveva ereditato i geni contadini di sua madre e, a detta di tutti, era "una ragazza deliziosa" sotto ogni punto di vista. Aveva preso la morte di Fidelma peggio degli altri. Non era stata tanto la sua morte, quanto il tempo che ci aveva messo a morire, e quando aveva esalato l'ultimo, faticoso respiro, tutti ne erano stati sollevati. In quel periodo, oltre a recarsi a Wakefield ogni giorno con quei suoi bei vestiti, Niamh si occupava della cucina e del bucato e una volta, qualche settimana prima che la madre morisse, era entrata nella stanza che Jackson divideva con Francis «Francis era in città, come al solito», si era seduta sul lettino a una piazza che quasi non ci stava e aveva detto: «Jackson, io non ce la faccio». Jackson stava leggendo un numero di Commando chiedendosi se Francis avesse nascosto delle sigarette da qualche parte e non sapeva come affrontare le labbra tremanti della sorella e i suoi grandi occhi scuri traboc-
canti di lacrime. «Devi aiutarmi,» gli aveva detto lei, «me lo prometti?» e lui aveva risposto: «Va bene», senza avere alcuna idea di ciò a cui aveva acconsentito. Così si era ritrovato a trascorrere tutto il proprio tempo libero a passare l'aspirapolvere e a spolverare, pelare patate, spalare carbone, stendere lenzuola e andare al supermercato: gli amici gli ridevano dietro e dicevano che era diventato una femmina. Ormai andavano già alle medie, Jackson sapeva che la sua vita stava cambiando e se avesse dovuto scegliere tra sua sorella e una banda di idioti avrebbe scelto sua sorella (anche se avrebbe preferito stare con gli idioti), perché a parte i sentimenti, il sangue veniva sempre per primo, ed era una cosa che non si imparava, era così e basta. E comunque lei gli dava dieci scellini la settimana. Era un giorno normale. Era gennaio, qualche mese dopo la morte di Fidelma e una settimana dopo il dodicesimo compleanno di Jackson. Francis gli aveva comprato una bici usata e gliel'aveva sistemata, quindi ora era anche meglio che nuova. Suo padre gli aveva dato cinque sterline e Niamh gli aveva comprato un orologio, un orologio da grande con il braccialetto elastico che gli pendeva pesante dal polso. Erano tutti bei regali e immaginò che stessero cercando di fargli dimenticare il fatto che non aveva una madre. Il padre faceva il turno di notte e tornava a casa mentre loro facevano colazione alla bell'e meglio prima di iniziare di corsa la giornata. In quel periodo dell'anno era ancora buio quando uscivano di casa ed era già di nuovo buio quando rientravano; quel giorno, poi, pareva perfino più buio degli altri perché pioveva, una pioggia invernale fredda e umida che faceva venir voglia di piangere. La sera prima Francis si era ubriacato ed era di pessimo umore, ma offrì a Niamh un passaggio alla fermata dell'autobus. Niamh diede un bacio a Jackson, anche se lui cercò di ritrarsi. Fidelma lo baciava sempre prima che uscisse per andare a scuola e adesso Niamh aveva preso il suo posto. A Jackson la cosa non piaceva perché gli lasciava sempre un'impronta di rossetto sulla guancia e se non riusciva a toglierselo tutto gli altri ragazzi gli ridevano dietro. Andò a scuola con la bici nuova di zecca e quando arrivò era così bagnato che costellò di pozzanghere il corridoio che portava alla sua classe. Jackson tornò a casa da scuola e infilò la biancheria sporca nella lavatrice Servis che sua madre non era vissuta abbastanza a lungo per poter apprezzare, poi pelò le patate, affettò le cipolle e tirò fuori un pacchetto di
carne macinata morbida, che odorava di morte, dal frigo dove Francis teneva un contenitore Tupperware con i vermi per pescare, visto che non c'era più la madre a impedirglielo. A Jackson non sarebbe dispiaciuto cucinare, se avesse potuto evitare di fare i compiti, ma Niamh gli si metteva alla spalle tutte le sere e lo teneva d'occhio, e quando sbagliava gli mollava uno scappellotto. Quando ebbe messo su la carne e le patate salì di nascosto di sopra, in camera sua. Suo padre era ancora a letto e non voleva svegliarlo per tutta una serie di ragioni, ma soprattutto perché voleva rubare una delle sigarette di Francis dal nascondiglio che aveva scoperto nel suo armadio. Per fumare dovette aprire la finestra, così una volta entrato Francis non ne avrebbe fiutato l'odore. Il vento gli soffiò la pioggia sulla faccia, congelandolo a morte e infradiciando la sigaretta, che divenne impossibile da fumare. Così la infilò sotto il cuscino e sperò che durante la notte si sarebbe asciugata. Se Francis tornava prima di Niamh e il tempo era brutto, di solito andava a prenderla in auto fino alla fermata, ma quel giorno, nonostante la pioggia incessante, crollò in poltrona accanto al fuoco, con la tuta ancora addosso, e si accese una sigaretta. Odorava di metallo e carbone e aveva un'aria astiosa e perfino più irritabile di quella mattina. La sera prima doveva essersi sbronzato parecchio. Jackson gli disse: «Non dovresti bere così tanto» e Francis gli rispose: «Cazzo, quand'è che sei diventato una donna, Jackson?» «Avrà perso l'autobus,» disse il padre. I piatti erano in tavola e per un istante si chiesero se fosse il caso di iniziare senza di lei, ma Jackson disse: «Le metto il piatto in caldo nel forno». Naturalmente Niamh non perdeva mai l'autobus, ma come disse suo padre: «C'è sempre una prima volta» e Francis aggiunse: «È grande ormai, può fare il cazzo che le pare». Ora che Fidelma era morta Francis diceva molte più parolacce. Ormai la carne e le patate si erano seccati. Jackson tirò il piatto fuori dal forno e lo mise sulla tavola, al posto della sorella, come se questo potesse farla arrivare prima. Il padre era andato al lavoro - da quand'era morta Fidelma faceva il turno di notte. Secondo Niamh lo faceva perché non voleva dormire solo e Francis diceva: «Dorme solo comunque» e Niamh: «Dormire soli di giorno è diverso che dormire soli di notte». Francis era andato ad aspettare l'autobus successivo. «Probabilmente è andata a bere qualcosa con le amiche,» disse a Jackson, che rispose: «Sì, è probabile», anche se
Niamh usciva soltanto di venerdì e sabato. Rientrando, Francis si bagnò fino alle ossa per correre dalla macchina a casa. Erano solo le sette e mezza e la preoccupazione li fece sentire stupidi entrambi. Guardarono Coronation Street, che detestavano, in modo da poter raccontare a Niamh cos'era successo, quando fosse tornata. Alle dieci Francis disse che andava «a fare un giretto in macchina» per vedere se la incontrava, come se fosse possibile che lei vagasse per le strade sotto quel diluvio. Jackson lo accompagnò, perché era sicuro che non sarebbe riuscito a rimanere seduto ad aspettare senza diventare matto. Finirono alla fermata e aspettarono l'ultimo autobus. Francis diede a Jackson una sigaretta e gliel'accese con l'accendino nuovo, regalo di una ragazza. Francis aveva un sacco di ragazze. Quando avvistarono l'autobus e i fari giallo vivo che brillavano attraverso la pioggia, Jackson fu assolutamente certo che lei era a bordo, non ne dubitò nemmeno per un secondo, e quando vide che non era così saltò giù dall'auto e corse dietro all'autobus perché credeva che si fosse addormentata e non si fosse accorta della fermata. Tornò all'auto, le spalle inutilmente ingobbite per difendersi dalla pioggia. Vedeva i tergicristalli della Ford Consul muoversi instancabili avanti e indietro sotto la pioggia battente e la faccia pallida di Francis dietro il vetro. «Meglio andare alla polizia,» disse Francis quando Jackson risalì in auto. Quarantotto ore dopo ripescarono il corpo nel canale. Portava ancora la gonna al ginocchio di lana verde bouclé acquistata con i soldi di Natale che le aveva dato il padre. L'ombrello fu ritrovato accanto alla fermata. Le scarpe e alcuni indumenti, compreso il cappotto buono di tweed a lisca di pesce, furono rinvenuti sulla riva del canale e una settimana dopo venne recuperata la borsetta, lungo la A636. La camicetta non fu mai ritrovata, e nemmeno il piccolo crocifisso d'oro che le aveva comprato sua madre per la prima comunione. La polizia pensò che la catenina doveva essersi rotta e forse l'assassino l'aveva presa come "souvenir". L'unico souvenir che Jackson possedeva era un piccolo pozzo dei desideri che Niamh gli aveva portato due anni prima da una gita a Scarborough. Su un lato c'era scritto: "Saluti da Scarborough". Appurarono che Niamh aveva preso l'autobus per tornare a casa dal lavoro, come ogni giorno, ed era scesa nel solito posto, poi, a un certo punto
dei dieci minuti di strada che separavano la fermata dalla porta di casa sua, qualcuno doveva averla convinta (o costretta) a salire su un'auto, l'aveva portata al canale e l'aveva violentata e strangolata, anche se non necessariamente in quell'ordine. La notte il cui il cadavere fu ritrovato, Jackson si trasferì nella sua camera e ne uscì soltanto per arruolarsi nell'esercito. Non cambiò le lenzuola per due mesi - era sicuro che profumassero ancora dell'antiquata colonia alla violetta che lei ci spruzzava su quando le stirava. Per un bel po' tenne la tazza da cui Niamh aveva bevuto quell'ultimo giorno, a colazione. Si lamentava sempre che dopo aver mangiato nessuno lavava mai i piatti. Sulla tazza c'era ancora l'impronta rosa della sua bocca, come il fantasma di un bacio, e Jackson la custodi come un tesoro per mesi, finché una mattina Francis la vide e la lanciò fuori dalla finestra, sul cemento del cortile. Jackson sapeva che Francis si sentiva in colpa per non essere andato a prenderla alla fermata, quella sera. Un lato oscuro della mente di Jackson gli diceva che faceva bene a sentirsi colpevole. Dopo tutto, se fosse andato a prenderla, ora non si sarebbe ritrovata sotto due metri di terra pesante e umida. Sarebbe rimasta carne calda e viva, si sarebbe lamentata che nessuno lavava i piatti, sarebbe andata al lavoro nelle tristi mattine d'inverno e la sua bocca rosa avrebbe parlato, riso, mangiato e baciato la guancia riluttante di Jackson. Un giorno, sei mesi dopo il funerale, Francis diede a Jackson un passaggio a scuola. Pioveva, un diluvio da monsone estivo, e Francis disse: «Salta su, figliolo». Parcheggiò davanti ai cancelli della scuola, tirò fuori un pacchetto di sigarette dal portaoggetti e glielo porse. Jackson, sorpreso, disse: «Grazie» e aprì lo sportello, ma Francis lo tirò indietro e gli sferrò un bel pugno alla spalla che lo fece gridare di dolore e poi gli disse: «Avrei dovuto andare a prenderla, lo sai, vero?» e Jackson rispose: «Sì,» che a ripensarci era la risposta sbagliata. «Sai che ti voglio bene, peste, eh?» disse Francis e Jackson rispose: «Sì», imbarazzato per il fratello, che non pronunciava mai parole come "voler bene". Poi si precipitò fuori dall'auto perché era tardi e aveva appena sentito la campana. Nel bel mezzo della più noiosa lezione di matematica mai impartita nella storia della scuola, a Jackson venne in mente che quel giorno sarebbe stato il diciassettesimo compleanno di Niamh e la consapevolezza lo sconvolse al punto che balzò su dal banco. Il professore di matematica disse: «Dove credi di andare, Brodie?» e Jackson si sedette borbottando: «Da nessuna parte, signore», perché era morta, non sarebbe tornata mai più e non avrebbe mai compiuto diciassette anni. Mai.
Quando tornò da scuola ed entrò in casa ebbe la sensazione che mancasse qualcosa, ma fu solo dopo essersi tolto l'uniforme ed essersi preparato un panino che andò in soggiorno a guardare la televisione e trovò il corpo di Francis appeso al lampadario pacchiano che era stato la gioia e l'orgoglio di Fidelma. L'assassino di sua sorella non fu mai trovato. 21 Jackson Si fermarono alla chiesa cattolica e Jackson accese due candele, una per suo fratello e una per sua sorella. Marlee gli chiese di accenderne una anche per Fidelma. Passio Christi, conforta me. Le due sorelle di sua madre erano morte di cancro - Jackson pregò che Marlee non avesse ereditato quel particolare gene. Il padre di Jackson era figlio unico, quindi Marlee era l'unica consanguinea che Jackson avesse al mondo, ora che suo padre era morto. Gli sembrava improbabile che avrebbe avuto altri figli. Era tutto lì: una bambina in jeans rosa e maglietta con la scritta "Tanti ragazzi e poco tempo". La gente che disegnava quelle magliette, la gente che fabbricava quelle magliette taglia "8-10 anni" si fermava mai anche un solo istante a pensare che potevano essere immorali? Certo, probabilmente quelli che le fabbricavano avevano a loro volta "8-10 anni" e lavoravano in una fabbrica da qualche parte nelle Filippine. «Papà?» «Sì?» «Possiamo accendere una candela per il mio criceto?» «Dovresti comprarti una maglietta con la scritta "Tanti criceti e poco tempo"» disse Jackson. «Spiritoso. Andiamo a casa adesso?» «No. Facciamo una piccola deviazione. Devo andare a trovare una signora che si chiama Marian Foster.» «Perché?» «Perché sì.» Erano sulla tangenziale quando Jackson si rese conto che qualcosa non andava. La rapidità di quella sensazione lo stupì. Un attimo prima si sentiva bene - acciaccato, contuso, pesto e dolorante, ma bene - e un attimo do-
po sentì che il suo corpo raggiungeva una temperatura incredibile, di lì a pochi secondi iniziò a vedere il mondo proprio come immaginava l'avrebbe visto una mosca e dopo un istante scivolò nell'incoscienza. L'ultimo briciolo dell'energia che gli restava lo concentrò nel fermare l'auto sul ciglio della strada e poi - buio. Si svegliò in ospedale con gli occhi di Howell puntati addosso. «Che ci fai qui?» Jackson notò che gli sembrava di avere la voce di qualcun altro. «A quanto pare sono il tuo parente più prossimo.» «Ah sì,» replicò Jackson debolmente, «Josie ha rifiutato l'incarico.» Howell sorrise. «Ho sempre saputo che da qualche parte avevi del sangue nero, Jackson. Una volta non eri il tipo che si porta dietro un tesserino da donatore d'organi.» «Be', immagino di esserlo diventato», Jackson si mise a sedere a fatica. «Howell, qualcuno sta cercando di uccidermi.» Evidentemente Howell trovò la cosa alquanto divertente. Quando smise di ridere disse: «Non fare il paranoico, Jackson, si è trattato di setticemia. Pare che sia stata colpa di un dente che avresti dovuto farti curare.» A un tratto Jackson fu colto dal panico: ma cosa diavolo gli era venuto il mente? «Dov'è, dov'è Marlee? Sta bene?» «Sta benissimo, non perdere la testa.» «Ma dov'è, Howell?» «In un allevamento di agnelli.» Jackson non capiva perché Marlee avesse dato alla polizia il numero di Kim Strachan - forse aveva scorso il menu della rubrica del suo cellulare e aveva pensato che Kim era una persona di cui fidarsi. Forse perché Kim le aveva dato cinque sterline (Marlee era fatta così). Era stata lei a chiamare la polizia e l'ambulanza? Le era già capitato di chiamare il numero per le emergenze con il suo telefono rosa-Barbie? E se lui non fosse riuscito a fermare l'auto? O se un autoarticolato li avesse investiti mentre erano fermi sulla corsia di emergenza? Tutto sommato sua figlia era piuttosto al sicuro in un allevamento di agnelli in un posto sperduto, circondata da gangster russi. «Da quanto tempo sono qui?» domandò a Howell. «Tre giorni.» «Tre giorni. Cristo, Josie torna domani, devo riportare Marlee a Cambri-
dge.» «Non sapevo che fossi così succube delle donne, Jackson.» Jackson ignorò il commento. «Josie vuole portare Marlee in Nuova Zelanda.» «Be', è solo per un anno,» disse Howell. «Passerà in un lampo.» «No, per sempre,» disse Jackson. «No, Jackson, non è vero,» insisté Howell, «è solo per un anno. Domandalo a Marlee.» «Maledetta stronza,» urlò Jackson, «quello stronzo del tuo fidanzato se ne va in Nuova Zelanda solo per un anno e tu mi hai detto che era per sempre». All'altro capo del telefono Josie rispose qualcosa di inintelligibile - la sua voce aveva il timbro profondo e pigro che prendeva subito dopo l'orgasmo. Se non fosse stata nell'Ardèche e lui non fosse stato in un ospedale da qualche parte a sud di Doncaster, l'avrebbe sicuramente ammazzata. Era seduto su una panca fuori dall'ospedale, ancora legato alla flebo. Un sacco di gente gli lanciava strane occhiate e lui abbassò un poco la voce. «Perché, Josie? Perché mi hai mentito così?» «Perché eri fuori di te, Jackson. Fattela passare,» aggiunse. «Dimenticami.» Jackson voleva una sigaretta, la voleva da impazzire. La lingua trovò la cavità del dente. Dente e radice erano stati rimossi dal dentista del pronto soccorso di turno mentre Jackson era beatamente anestetizzato. Sapendo che le era stato negato il piacere di torturarlo, Sharon si sarebbe di certo risentita. Colse la propria immagine riflessa nel vetro dell'ospedale, somigliava a quei feriti dei documentari di guerra. Compose un altro numero. «Theo?» «Jackson!» Theo sembrava quasi felice. «Dove sei?» «All'ospedale disse Jackson.» «Di nuovo?» «Sì, di nuovo.» Si fece dimettere contro il parere del medico. Riuscì a convincerlo solo quando Howell promise di accompagnarlo in macchina in Northumberland per prendere Marlee e poi riportarlo a casa, a Cambridge. «Cristo, Jackson,» disse Howell cercando di infilarsi con la sua gigantesca mole dietro il volante della Punto, «cos'è successo, ti sei trasformato in una femmina?»
«Poteva andarmi peggio,» rispose Jackson. «Posso guidare io.» «No, invece». Howell passò in rassegna i Cd di Jackson. «Ascolti ancora questa merda?» «Sì.» Howell gettò Trisha, Lucinda, Emmylou e le altre donne affrante sul sedile posteriore e mise su uno dei Cd di Christina Aguilera di Marlee. Quando l'ebbero sentito per la terza volta ormai erano sulla A1 e mancava poco per quel posto sperduto. «Non eri obbligato a farlo,» disse Jackson. «Invece sì, perché sono tuo amico. E poi mi andava di prendermi una pausa, un po' di cultura, la città delle guglie sognanti e compagnia bella.» «Credo che quella sia Oxford.» «È uguale,» disse Howell. «Chi è che sta cercando di ucciderti?» «Un tizio con una Lexus dorata.» «Allora è quello che ci segue?» fece Howell, lanciando un'occhiata allo specchietto retrovisore. Jackson cercò di voltarsi a guardare, ma non riusciva a girare il collo. Howell lesse il numero di targa. «Sì, è lui». Jackson prese il telefono e disse: «Non uscire», proprio mentre Howell sterzava bruscamente a sinistra in corrispondenza di uno svincolo. «Perché no?» ribatté Howell. «Portiamo la Lexus in un posto tranquillo, un bel viottolo di campagna, e poi lo sistemiamo.» «Lo sistemiamo?» ripeté Jackson. «E cioè? Lo facciamo fuori?» «Be', non pensavo a niente di così drastico, ma se vuoi sì, perché no?» disse Howell. «No, non voglio. Voglio fare tutto secondo le regole. Chiamare la polizia. Per lui c'è un mandato d'arresto.» «Sei proprio un poliziotto, Jackson.» «Sì, lo so. Sono un poliziotto, mi sono trasformato in una femmina, sono succube delle donne e ho un tesserino da donatore di organi: si chiama mezza età.» La Lexus gli stava incollata addosso. Jackson girò lo specchietto retrovisore in modo da poter dare un'occhiata a Quintus. Quella faccia snob da luna piena scoppiava dalla collera. Jackson non riusciva a immaginare che cosa poteva aver fatto per farlo arrabbiare tanto. In lontananza si sentivano le sirene. Jackson restò al telefono con la centralinista, anche se faticava a darle un'idea della loro posizione. Ora si tro-
vavano su una strada stretta, resa ancora più angusta dalle siepi troppo cresciute. Howell guidava come se giocasse a un videogioco. Imboccarono una curva a gomito e si ritrovarono quasi cofano a cofano con una Mercedes SL 500 guidata alla stessa velocità. Jackson chiuse gli occhi e si preparò all'impatto, ma in qualche modo la conducente della Mercedes riuscì a sterzare alla sua sinistra e Howell altrettanto - Jackson ebbe l'impressione di essere finito in un Muro della Morte - e si mancarono per un pelo. «Cazzo,» esclamò Howell in tono ammirato, «che sventola, che guidatrice, che macchina!» «Cristo,» aggiunse Jackson. Si guardò le mani: tremavano sul serio. La Lexus pareva scomparsa dai radar. Howell fermò la Punto, fece inversione con cautela tornando sulla strada e ripercorrendo la curva. L'urlo delle sirene della polizia si avvicinava sempre di più. La Lexus era riuscita a evitare la Mercedes ma non la curva e si era conficcata, senza riportare troppi danni, nella siepe, restando intrappolata come un insetto in una rete. All'interno, Quintus spintonava invano lo sportello. Comparvero un paio di autopattuglie, seguite da un'auto senza contrassegni, e frenarono con eccessivo zelo, finendo in testacoda. Un elicottero della polizia in avvicinamento accentuò ancora di più l'atmosfera drammatica e carica di adrenalina. Jackson sapeva come doveva piacergli tutto questo, come ogni altra cosa che esulasse dalla solita routine di multe per eccesso di velocità e la tristezza degli incidenti stradali. Howell e Jackson scesero dall'auto e si avvicinarono alla Lexus. «Perché vuole ucciderti, allora?» domandò Howell. «Non ne ho idea,» rispose Jackson. «Chiediamolo a lui.» «E quando vedi tua madre,» disse Jackson a Marlee, «potrebbe essere una buona idea evitare di fare sfoggio del tuo russo.» «Perché?» «Perché...» Jackson si accigliò, pensando a tutte le cose che non voleva che Josie sapesse. «Perché sì. Va bene, tesoro?» Lei fece una faccia dubbiosa. Jackson le diede una banconota da dieci sterline. «Spassiba,» rispose Marlee. Quando Jackson gli aveva telefonato dall'ospedale, Theo gli aveva detto che con lui c'era Lily-Rose, la ragazza con i capelli gialli. Jackson non sapeva che pensare, ma dal momento che la cosa non lo riguardava decise di
non dargli troppo peso. Stava cercando di non pensare troppo perché gli faceva letteralmente male al cervello. A Theo rispose: «Bene» e sperò che fosse davvero così. Al telefono gli disse che gli avrebbe mandato un nome, il nome, quello che cercava da dieci anni, il nome che gli aveva rivelato Kim Strachan. Naturalmente poteva non essere l'assassino di Laura (innocente finché non si dimostrava il contrario - ma lui ci credeva? No) e Jackson sapeva che avrebbe dovuto confidare i propri sospetti alla polizia, ma il caso apparteneva a Theo e adesso toccava a lui. Scrisse nome e indirizzo sul retro di una cartolina acquistata in un distributore di benzina vicino alla scultura dell'Angel of the North. L'immagine raffigurava una delle margherite rosa dall'aria artificiale che aveva snobbato per la tomba di Niamh. Forse era un nuovo tipo di fiore. Appiccicò un francobollo e Marlee corse alla cassetta postale, perché era ancora abbastanza piccola da trovare eccitante imbucare una cartolina. Probabilmente da lì a un anno, quando fosse tornata, non le avrebbe più fatto tanto effetto. Nel giro di dodici mesi non sarebbe più stata la stessa: avrebbe cambiato pelle e capelli, le scarpe e gli abiti che portava non le sarebbero andati più bene, avrebbe imparato un nuovo gergo (neozelandese) e forse non avrebbe più amato Harry Potter. Ma sarebbe stata sempre Marlee. Però non la stessa. Jackson accompagnò Marlee a casa di David Lastingham. Josie gli lanciò un'occhiata gelida. «Hai un aspetto orribile.» «Grazie.» Si girò, pronto ad andarsene, ma Marlee imboccò il vialetto di corsa e lo raggiunse al cancello. Gli gettò le braccia al collo e lo strinse. «Dasvidanja, papà,» sussurrò. Jackson tornò a ciò che rimaneva di casa sua. L'edificio puzzava di acido e fuliggine, come se nell'aria fossero state liberate le spore dormienti di antiche malattie. Frugò con i piedi tra le macerie e le scorie che ora ricoprivano il pavimento del soggiorno. Si chiese cosa fosse accaduto alle ceneri di Victor; nessuna traccia dell'urna. Cenere alla cenere. Trovò un pezzo di ceramica, un bel frammento del pozzo dei desideri, con le lettere "luti da Scar" ancora leggibili. Lo lasciò ricadere tra i detriti. Proprio mentre si voltava per andarsene, qualcosa catturò la sua attenzione. Si accovacciò per guardare meglio. Un braccio blu coperto di cenere puntato verso l'alto,
come il sopravvissuto di un terremoto che chieda aiuto. Jackson tirò il braccio e dalle macerie estrasse Topoblù. Il soprintendente Marian Foster si era trasferita a Filey dopo il pensionamento dalla polizia e quando Jackson e Marlee giunsero alla sua porta si stava ancora ostinando a disfare gli scatoloni in cucina. Jackson le aveva telefonato dall'auto per dirle che stavano arrivando e lei sembrò contenta di essere stata interrotta, come se si fosse già resa conto che seppellirsi in una piccola cittadina costiera poteva non essere il modo migliore di trascorrere la vita non lavorativa. «Credo che troverò qualche associazione che abbia bisogno di una mano,» disse, ridendo, «prenderò finalmente quella laurea a Oxford o mi iscriverò a un corso serale». Sospirò e aggiunse: «Cavolo, sarà proprio spaventoso, eh, ispettore?» «Oh, non lo so, signora,» replicò Jackson, «ma sono sicuro che ci si abituerà». Per quanto ci avesse provato non era riuscito a trovare nulla di più positivo da dire. Gli sembrava già di vedere il limpido riflesso del suo futuro. Marian Foster era perfettamente in grado di riconoscere un crisi d'astinenza da zuccheri e così piazzò Marlee davanti al televisore con una lattina di coca e un piatto di biscotti al cioccolato. Poi preparò una tazza di tè spaventosamente forte per sé e per Jackson. «Ti sei rammollito?» disse quando lo vide fare una smorfia dopo averlo assaggiato. «Ora sei tornato nello Yorkshire, ragazzo.» «Come se non lo sapessi.» «Allora,» disse Marian Foster adottando subito un tono professionale, «Olivia Land? Cosa posso dirti? Ero solo un detective, e per di più donna. Avevo interrogato le sorelle Land, ma dubito di poter aggiungere qualcosa a quello che già sai.» «Non ci giurerei,» replicò Jackson. «Sensazioni, impressioni, sesto senso, tutto quanto. Mi dica come si sarebbe comportata lei, se fosse stata incaricata del caso.» «Sapendo tutto ciò che so ora sul mondo?» Sospirò, in modo grave. «Avrei indagato più a fondo sul padre. Avrei ipotizzato un caso di molestie.» «Davvero? E perché?» «C'era qualcosa di strano in Sylvia, la più grande. C'erano cose che nascondeva, che non diceva. Se iniziavi a interrogarla in modo più approfondito si metteva a divagare. Ed era... non lo so. Strana». Strana: la stessa parola che aveva usato Binky Rain.
«E il padre era un tipo freddo,» continuò Marian Foster, «controllato e prevaricatore. Il resto, la madre e le figlie, erano un disastro. Non ricordo come si chiamassero.» «Amelia e Julia.» «Ma certo. Amelia e Julia. Vuoi la mia sincera opinione?» «Più di ogni cosa al mondo,» disse Jackson. «Credo che sia stato il padre. Credo sia stato Victor Land a uccidere Olivia.» Jackson tirò fuori dalla tasca la prova schiacciante e la posò sul tavolo di cucina. Gli occhi di Marian si riempirono di lacrime e per un istante non riuscì a parlare. «Topoblù,» disse finalmente. «Dopo tutto questo tempo. Dove l'hai trovato?» Di Sylvia c'era da dire che non era rimasta stupita nel rivedere Topoblù. Era come se avesse aspettato di rivederlo prima o poi. E non aveva chiesto dove l'avessero trovato; Jackson gliel'aveva spiegato, ma senza che lei facesse domande. Non avrebbe dovuto essere curiosa? Al suo posto io fu Marian Foster: «Dove l'hai trovato?» Jester agitò la coda quando Jackson si presentò, ma Sylvia, dall'altra parte della grata del parlatorio, parve meno felice di vederlo. Si accigliò e disse: «Cosa vuole?» Jackson credette di cogliere una Sylvia diversa, meno spirituale. L'effetto degli antidolorifici stava svanendo. Gli sarebbe piaciuto staccarsi la testa e metterla a riposo. Come avrebbe affrontato il discorso? Prese un respiro profondo e guardò Sylvia in quegli occhi color fango. «Sorella Mary Luke,» disse, «Sylvia». Nell'udire il suo vero nome lei socchiuse gli occhi, ma il suo sguardo non vacillò. «Sylvia, pensi a me come a un prete nel confessionale. Qualunque cosa mi dirà non uscirà di qui. Mi dica la verità, Sylvia, non voglio altro». Perché alla fine era tutto lì, no? «Mi dica la verità su ciò che è accaduto a Olivia.» Dovette spingere forte il cancello per aprirlo. Si sentì un intruso. Era un intruso. Impigliato in un ramo di melo c'era un pezzo di nastro per delimitare la scena del crimine. Ma ormai non serviva più. Binky era morta di morte naturale, «di vecchiaia, in realtà», gli aveva detto il patologo. Jackson trovava che andarsene a quel modo poteva anche essere considerato un successo. Sperava che Marlee morisse di vecchiaia, sotto un melo, da qualche parte, molto dopo la sua dipartita.
Quel posto somigliava a una specie di riserva naturale. C'erano pipistrelli che volavano dentro e fuori dai cornicioni della casa, al suo avvicinarsi una rana si allontanò saltellando pigramente e, nonostante avesse scandagliato il sentiero con la grossa pila Maglite in dotazione alla polizia, mentre cercava di aggirare le spine e le erbacce per raggiungere l'angolo del giardino rischiò di calpestare un cucciolo di porcospino. In quel punto i rovi erano quasi impenetrabili e Jackson capì che era possibile che qualcosa fosse passato inosservato. Qualcosa di prezioso. Non sarebbe stato facile come rastrellare erba e foglie secche, niente affatto, e Jackson non si aspettava di trovare nulla. Non solo perché lì c'erano un sacco di animali selvatici - era quasi impossibile entrare in uno di quei giardini senza incontrare una volpe - ma perché è raro trovare un oggetto prezioso e perduto, quando lo si cerca. Nell'angolo, aveva detto Sylvia, sotto il melo, oltre il grosso faggio. Jackson non distingueva i faggi dalle betulle e non riusciva a identificare gli alberi, quindi seguì il muro finché non cambiò angolazione e ne dedusse che era arrivato al punto giusto. Scavò con le mani, un metodo sporco e inefficiente, ma una vanga gli sembrava troppo brutale. Non scavò, disseppellì. Delicatamente. Il terreno era duro e secco e dovette grattare. Era buio pesto quando scoprì la prima traccia di lei. La faccia e gli avambracci gli pizzicavano per la polvere e il sudore. Continuava a pensare a Niamh, ai due giorni in cui lui e Francis l'avevano cercata, in ogni bidone puzzolente e mucchio di spazzatura, in ogni angolo di ogni tratto di discarica, finché Jackson non si era sentito una specie di bestia, una creatura che ha oltrepassato i limiti della normalità e della società. Aveva osservato la polizia dragare il canale e ripescare il corpo di sua sorella, viscido di fango e acqua. Gli venne in mente che la prima sensazione, prima che lo invadessero altri sentimenti più complessi, era stata un senso di sollievo al pensiero che l'avessero trovata, che non sarebbe rimasta là fuori, perduta per sempre. Sylvia aveva detto che Olivia era stata lasciata più o meno dov'era morta, coperta con qualche ramo e un po' d'erba. Ogni centimetro quadrato di quel giardino avrebbe dovuto essere setacciato a quattro zampe: Jackson avrebbe fatto così, una ricerca capillare della zona immediatamente circostante. Gli venne in mente che Binky gli aveva raccontato di avere visto dei poliziotti vagare nella sua proprietà, e di avere dato loro "il benservito". Era bastata una vecchia conservatrice autoritaria che gli intimava di togliersi dai piedi, a scoraggiarli? E per tutto quel tempo Olivia era rimasta
distesa là, in paziente attesa che qualcuno la trovasse. Jackson pensò a Victor che copriva la figlia più piccola con erbacce e rifiuti, come se non valesse niente, lasciandola in uno strano posto mentre il suo corpo era ancora caldo. Non l'aveva portata a casa. Victor era tornato nel suo letto, aveva chiuso a chiave la porta posteriore e aveva lasciato Amelia fuori, da sola, a scoprire la scomparsa della sorella. Victor, che per trentaquattro anni aveva tenuto sotto chiave Topoblù e la verità. Le ragazze Land giocavano sempre nel giardino di Binky, ma a un certo punto Sylvia le aveva avvertite di stare alla larga. Perché sapeva che là c'era Olivia. La prima cosa che trovò fu una clavicola e poi una cosa che somigliava a un'ulna. Smise di scavare e spostò la Maglite finché non incontrò la piccola e pallida luna del teschio. Poi tirò fuori il telefono e chiamò il commissariato di Parkside. Sedette sui talloni ed esaminò la clavicola togliendo la terra con la tenerezza di un archeologo che ha trovato qualcosa di raro, di unico, il che in fondo era vero. La clavicola era minuscola e fragile, come quella di un animale, un coniglio o una lepre, la forcella di un uccellino. Jackson la baciò con reverenza perché sapeva che era la reliquia più sacra che avesse mai trovato. Iniziò a piovere. Non riusciva a ricordare quand'era stata l'ultima volta che aveva piovuto. Aqua lateris Christi, lava me. Pianse. Non per Niamh o Laura Wyre o Kerry-Anne Brockley o qualcuna delle altre ragazze scomparse, pianse per la bambina con i nastri a quadretti nei capelli, la bambina che un tempo aveva stretto tra le braccia Topoblù e gli aveva detto di sorridere davanti all'obiettivo. Jackson si sistemò al suo posto in classe turistica, fila numero 20, accanto al finestrino. Avrebbe potuto permettersi la business, ma non voleva fare lo spendaccione fin da subito. In fondo era sempre il figlio di suo padre. Era ricco. Inaspettatamente, assurdamente ricco. Binky l'aveva nominato unico beneficiario del suo patrimonio - due milioni di sterline, in azioni e obbligazioni, rimasti in una cassetta di sicurezza per tutti quegli anni mentre lei non aveva speso un centesimo, se non per i gatti. «Al mio amico, signor Jackson Brodie, perché è stato gentile». Aveva pianto quando il notaio gliel'aveva letto. Aveva pianto perché non era stato particolarmente gentile con lei, perché lei non aveva avuto un amico migliore, perché era morta sola senza nessuno a stringerle la mano. Pianse perché si stava trasformando in una femmina.
Due milioni, a condizione che si occupasse dei gatti. Anche dei loro cuccioli? Avrebbe dovuto badare ai gatti di Binky per sempre, fino alla morte, e poi sarebbe toccato a Marlee e ai suoi discendenti? Per prima cosa aveva intenzione di sterilizzarli. Sapeva di non meritarselo, sicuramente non lo meritava, era come vincere la lotteria senza avere comprato il biglietto. Ma allora chi se lo sarebbe meritato? Non certo Quintus, l'unico consanguineo di Binky. Aveva trovato il testamento in favore di Jackson e aveva cercato di ammazzarlo per impedirgli di ereditare, e probabilmente avrebbe anche ammazzato la zia, se lei non l'avesse preceduto morendo tranquillamente di vecchiaia. Dapprima Jackson aveva avuto paura che i soldi fossero sporchi, che provenissero dalle miniere di diamanti, che fossero nati dal sangue, dal sudore e dallo schiavismo dei minatori "moretti". Denaro sporco. Si era chiesto se trasferirlo semplicemente nelle mani di Howell. «Perché sono nero?» aveva replicato quest'ultimo guardandolo come se gli fosse appena spuntata un'altra testa. «Stupido stronzo». Jackson pensò che forse era eccessivo scegliere Howell come simbolo di tutta la vergognosa storia dello sfruttamento imperialistico. Howell e Julia giocavano a cribbage e bevevano gin nella sala da pranzo di Victor, Julia sbatté sul tavolo il bicchiere vuoto ed esclamò: «Un altro!» Jackson non avrebbe mai sfidato nessuno dei due a una gara di bevute. Adesso che Jackson non aveva più una casa a Cambridge, lui e Howell alloggiavano al Garden House Hotel. Julia si era offerta di ospitarli, ma lui non riusciva a sopportare l'idea di dormire nella casa vecchia e fredda di Victor, in una camera che un tempo era stata occupata da una delle ragazze Land scomparse. Era stato lui a dirlo a Julia. L'aveva portata a vedere i delicati ossicini da leprotto esposti nell'obitorio della polizia. («È contro le regole, Jackson,» l'aveva dolcemente rimproverato il patologo forense). Julia era forte, e lui lo sapeva: riuscì a guardare ciò che restava del minuto scheletro di Olivia senza farsi venire una crisi isterica. Allungò una mano verso la sorella e il patologo disse: «Non tocchi niente, signora. Più tardi, potrà farlo più tardi» e Julia aveva ritirato la mano, se l'era posata sul cuore come se le facesse male e aveva detto: «Oh» molto piano e Jackson non si era reso conto che una parola così piccola potesse essere così insopportabilmente triste. La storia raccontata da Jackson era più o meno questa - si trovava fuori con il cane quando l'animale si era messo a fiutare qualcosa ed era entrato nel giardino di Binky, dove aveva rovistato tra gli arbusti abbaiando come
un matto finché Jackson non l'aveva raggiunto e aveva indagato. A quel punto aveva scoperto il corpo di Olivia. «E adesso il cane dov'è, ispettore?» gli aveva domandato il primo detective arrivato sulla scena. «Scappato». Jackson si era stretto nelle spalle e non si era preoccupato di aggiungere: «Adesso mi chiamo solo signor Brodie». Non raccontò né alla polizia né a Julia della sua visita al convento. Sentiva, a ragione o a torto, che se Sylvia voleva dire la verità doveva essere lei a deciderlo. Le aveva offerto la protezione del confessionale, le aveva dato la sua parola. «Pare proprio che sia stato un tragico incidente,» disse ai detective che indagavano. «Indagini poco accurate. È successo trentaquattro anni fa, cosa volete farci.» Howell versò dell'altro gin per sé e per Julia. «Perché non si unisce a noi, signor B.?» disse lei. «Possiamo giocare a Gladstone in tre. Gliel'insegno io.» «Possiamo provare a vincerti un po' di tutti quei soldi, che sono troppi e immeritati,» aggiunse Howell. Jackson rifiutò. «Miserabile bastardo.» Forse Jackson poteva avviare un'attività per Howell. Voleva depositare un po' di soldi in un fondo per Marlee. E un po' poteva darli a Lily-Rose. Era stato a trovare Theo e aveva visto la cartolina con la foto del fiore rosa appoggiata alla mensola del caminetto. Nessuno dei due ne aveva fatto parola. Lily-Rose aveva preparato il tè e l'avevano bevuto in giardino mangiando fette di pandispagna ripieno preparato da Theo. «Buono, eh?» era stato il commento di Lily-Rose. E un po' di soldi voleva donarli, se non altro per salvarsi la coscienza. Aveva scoperto che non provenivano dai diamanti. Molti anni prima uno degli antenati di Binky Rain aveva investito nella costruzione delle ferrovie americane, quindi il denaro proveniva dal sangue e dal sudore di chiunque avesse costruito la Union e la Central Pacific (cinesi? irlandesi?), cosa che di per sé non era molto etica, almeno secondo Jackson, ma in fondo non poteva farci niente. E donarli a chi? C'erano così tanti enti benefici. Pensò di chiedere ad Amelia, poteva farle bene occuparsi di qualcosa. Era diventata un po' "troppo agitata", come gli aveva spiegato Julia, aveva preso troppe pillole e ora si "riposava" in ospedale. «Vuol dire che ha cercato di uccidersi?» ne dedusse Jackson. Julia si accigliò. «Più o meno.» «Più o meno?»
Si era offerto di riportare Amelia a casa dall'ospedale. Era imbottita di farmaci e molto silenziosa. Quando arrivarono alla casa di Owlstone Road, Julia la attendeva sulla porta con il gatto che prima si chiamava Negro e che posò tra le braccia della sorella come dono di benvenuto. «Si chiama Lucky,» disse. Intanto Frisky - che era scomparso e poi era stato ritrovato la divertiva cercando di arrampicarsi con le unghie sulla gamba di Jackson. Jackson vide Amelia seppellire il viso nella pelliccia nera di Lucky e si rese conto che forse aveva trovato la custode perfetta per il lascito di Binky. «Che ne pensi?» domandò a Julia più tardi. «La casa va risistemata, naturalmente, ma Amelia potrebbe viverci e badare ai gatti.» «Oh, e potrebbe anche salvare il giardino,» aggiunse Julia, eccitata. «Le piacerebbe da morire. Oh, che splendida idea, signor Brodie!» Jackson non aveva pensato al giardino. «Credi che potrebbe funzionare?» disse. «Voglio dire, il fatto che Olivia sia rimasta là tutto questo tempo non le creerà dei problemi?» Amelia non sapeva di Olivia, Julia stava ancora cercando il "momento giusto". Jackson aveva detto: «Il momento giusto non arriverà mai» e lei gli aveva risposto: «Lo so.» «Credo,» disse Julia, «che sarebbe un'ottima cosa. In un certo senso lo trovo appropriato». Girò la testa sul cuscino per guardarlo - quella conversazione sul futuro di Amelia si stava svolgendo a letto - e gli rivolse uno dei suoi grandi sorrisi pigri. Si stiracchiò eccessivamente e con un piede caldo gli accarezzò il polpaccio. «Oh, signor Brodie,» esclamò, «chi avrebbe mai immaginato che sarebbe stato così delizioso!» «È proprio vero», pensò Jackson. «Ora puoi anche provare a chiamarmi Jackson,» disse. «Oh, no,» rispose lei, «preferisco decisamente "signor Brodie".» Mentre l'aereo svolgeva la sua routine predecollo, Jackson passò in rassegna i dati degli agenti immobiliari. C'erano un bel castello, non troppo sfarzoso, nel Minervois (evidentemente in Francia i castelli non si contavano), un presbiterio del tredicesimo secolo in un piccolo villaggio a sud di Toulouse e una maison de maître in un paese nei pressi di Narbonne. Non aveva ancora deciso in che zona andare a vivere, ma da qualche parte doveva pur cominciare. Pensò che forse poteva girare la Francia in auto, vedere case e prendersi tutto il tempo che gli serviva. Aveva venduto l'atti-
vità a Deborah Arnold. Se fosse stata una persona appena più gentile avrebbe anche potuto farle uno sconto. Chiuse gli occhi e pensò alla Francia. «Posso portarle qualcosa da bere?» Aprì gli occhi e vide la faccia insipida e indifferente di Nicola Spencer, che gli sorrise senza calore e ripeté la domanda. Chiese un succo d'arancia per prolungare un po' quell'incontro. Da un lato sapeva tutto di lei, e dall'altro non sapeva nulla. Con il succo d'arancia lei gli offrì un pacchetto di salatini e si rivolse al passeggero successivo. Lui la guardò spingere avanti il carrello, il sedere muscoloso che tendeva la gonna dell'uniforme. Pensò di seguirla dopo l'atterraggio - per curiosità e perché aveva lasciato il lavoro incompiuto - ma all'aeroporto di Toulouse, quando ebbe superato tutta la trafila per noleggiare un'auto, perse ogni interesse per lei. 22 Caroline Jonathan disse: «Cosa vuoi per il tuo compleanno?» e lei rispose: «Una Mercedes SL 500», ma ovviamente stava scherzando. Lui domandò: «Di che colore?» e lei: «Argento» e «cazzo», pensò poi, «adesso me la ritrovo nel vialetto, una roba da settantamila sacchi con un grosso fiocco rosa». Doveva essere più ricco di quanto lei immaginasse. Non aveva idea di quanti soldi avesse, tanto lei non li voleva, non aveva voluto nemmeno quell'auto, in realtà, anche se adesso che era sua l'adorava. Due posti, niente spazio posteriore per cani o bambini. «Cielo,» esclamò Rowena quando la vide. Incredibile quanto peso riuscisse a dare a una parola di sole due sillabe. Forse l'auto era un regalo d'addio. Forse si stava preparando a una nuova moglie. Era quasi sicura che a Londra avesse qualcuno. Sarebbe rimasta sorpresa del contrario, uomini come Jonathan avevano sempre delle amanti. Però non le sposavano mai. Lei avrebbe dovuto diventare un'amante, per carattere era molto più adatta a quel ruolo che a quello della moglie. Ancora non sapevano del bambino, che era al sicuro dentro di lei. Era pronta a cambiare pelle un'altra volta, a farsene crescere una nuova. Doveva andarsene prima di restare invischiata nell'inerzia, prima che qualcuno la trovasse. Prima che la costringessero a fermarsi, una volta venuti a sapere del bambino. Di sicuro avrebbero voluto metterci sopra le mani. Era un peccato, perché la scuola e il lavoro le piacevano davvero, ma in fondo di
scuole e lavori ce n'erano altri - tutto era possibile, se ti davi da fare. E avrebbe portato il bambino con sé (ovviamente) lontano da quel posto, perché non era l'ambiente giusto, sarebbe cresciuto parlando francese il mercoledì ma senza imparare niente sull'amore. Lo amava al punto da provare dolore. Era una cosa che in quella casa nessuno avrebbe capito. C'era stato un tempo in cui anche lei non era stata capace di capire l'amore, e aveva combinato un gran casino. Aveva detto a Shirley: «Fai finta che io sia morta», ma non si era aspettata di essere presa alla lettera. E invece niente, niente visite, niente cartoline, niente regali di compleanno, neanche una parola. Per mesi aveva aspettato che sua sorella si facesse viva per il giorno di visita, con in braccio Tanya (Guarda, ecco la tua mamma) o insieme ai loro inutili genitori (Su, dovete andare a trovare Michelle), ma niente. Le sue lettere non avevano ricevuto risposta, le sue speranze erano state frustrate, finché era arrivata a pensare che forse era stato meglio così, che continuassero a vivere le loro vite, che si liberassero di lei, in fondo era stata solo fonte di guai. Non aveva amato le persone che aveva il dovere di amare e questo ha un prezzo, che prima o poi si paga. Bisognava andarsene senza lasciare tracce. Mettere in valigia il minimo indispensabile, uscire come per andare a trascorrere una giornata a Leeds (prendendo però quella bellissima auto). Non bisognava lasciare prove, né impronte sull'impugnatura dell'ascia insanguinata, per proteggere qualcun altro. Stavolta aveva con sé il mostriciattolo, quello nuovo, e l'avrebbe amato così tanto da fargli affrontare ogni nuovo giorno in totale beatitudine, e anche lei, finalmente, avrebbe raggiunto uno stato di grazia. Doveva smetterla di vivere la sua vita come una serie di variazioni su un tema pastorale. La prossima volta doveva pensare a qualcosa di completamente diverso. Probabilmente si sarebbe trasferita all'estero, in Italia o in Francia. Certo, non si andava mai abbastanza lontano - Patagonia, Cina nessun luogo era abbastanza remoto, ma il trucco stava nel continuare a spostarsi. Il trucco stava nel non lasciarsi dietro il mostriciattolo. E una cosa era certa, tornare indietro non era possibile. Gli avrebbe offerto la possibilità di partire con lei, un'unica possibilità. Ne sarebbe rimasto sconvolto, e avrebbe risposto di no, ma una possibilità l'avrebbe avuta. Era in bicicletta (con le mollette - Cristo santo - fissate alle caviglie di quei pantaloni neri da quattro soldi) e si guardò attorno quando udì avvici-
narsi l'auto. Aveva la capote abbassata e quando arrivò alla sua altezza si fermò, lui scese, scoppiò a ridere ed esclamò: «Che bolide sgargiante, signora Weaver,» in tono da commerciante di auto usate e lei disse: «Ha ragione, vicario», poi diede un colpetto al sedile accanto al suo e aggiunse: «Vuole venire a fare un giro?» Lui fece un gesto rassegnato verso la bicicletta, poi disse: «Oh, be'...» e la adagiò sull'erba alta del ciglio della strada. Ma quando toccò la maniglia dello sportello lei si protese come per impedirglielo e disse: «Devo avvertirla che me ne vado e non tornerò più, mai più, e quando me ne vado lo faccio a tutta velocità». Lui replicò: «Sta scherzando?» e lei pensò che adorava quella sua aria solenne da ragazzino che cerca di pensare alla risposta giusta da dare. Mise in moto e disse: «Conto fino a dieci...» 23 Caso n. 3 1979 Tutto per dovere, niente per amore Michelle pensò che si era arrabbiata altre volte, ma mai a quel modo. Era come essere un vulcano, tappato, occluso e incapace di liberarsi della sostanza che ribolliva al suo interno. Come si chiamava...? Magma? Lava, Cristo, ormai non si ricordava più neanche le parole più semplici. "Amnesia post partum" la chiamavano i libri, ma se si trattava di amnesia doveva essere molto selettiva, no?, visto che non le permetteva di dimenticare la sua totale tristezza e infelicità. E quel giorno era andata davvero bene, fino a quel momento; era riuscita a fare tutto, a tenere tutto sotto controllo, ma poi lui era entrato in casa di corsa, senza nemmeno riflettere, e aveva svegliato la bambina. Michelle diede uno strattone all'ascia, ma era conficcata nel tronco come una maledetta Spada nella Roccia e lei era così persa nella sua furia che non udì Shirley e quando si girò e la vide trasalì e disse: «Oddio, mi hai fatto paura» e per un nanosecondo si dimenticò di quant'era arrabbiata, ma poi sentì la bambina urlare - sicuramente l'aveva sentita mezza East Anglia, quella maledetta mocciosa - e tutto ricominciò a ribollirle dentro, e a quel punto capì che sarebbe esplosa, e avrebbe combinato un casino. Il vulcano Krakatoa. Visto? Certe cose riusciva ancora a ricordarsele. «Con quell'ascia, hai la faccia di una che sta per ammazzare qualcuno,» scoppiò a ridere Shirley e Michelle rispose: «Infatti.» Imboccò la porta posteriore come un guerriero vichingo in piena furia e
quando Keith la vide scoppiò a ridere anche lui, le ridevano tutti dietro, cazzo, come se quello che diceva non fosse importante, come se non facesse sul serio, così sollevò l'ascia, anche se in maniera goffa perché non trovava il proprio centro di gravità, e gliela scagliò contro, ma fu un tiro da femmina, l'ascia rimbalzò pesantemente e atterrò innocua sul pavimento. Lui era fuori di sé, perfino più arrabbiato di lei, e dapprima Michelle pensò che fosse per colpa dell'ascia, anche se l'aveva mancato di chilometri, ma poi si rese conto che urlava qualcosa a proposito di Tanya. «Potevi colpirla, potevi farle molto male» e lei rispose: «Non essere ridicolo, non ci sono nemmeno andata vicina» e lui urlò: «Brutta stronza del cazzo, questo non c'entra» e lei a un tratto si spaventò, perché capì che Keith aveva perso la testa, non sembrava nemmeno più lui, fece il gesto di raccogliere l'ascia ma fu preceduta da Shirley, che non fece affatto un lancio da femmina, la sollevò semplicemente con tutta la forza che aveva, calò la lama sulla testa di Keith e poi tutto tacque, perfino il mostriciattolo. Shirley faceva la volontaria per la St John Ambulance, ma non serviva una laurea in medicina per capire che per lui non c'era più nulla da fare. Michelle era sul pavimento con le braccia avvolte intorno al corpo come una camicia di forza, dondolava avanti e indietro, poi udì uno strano lamento e si rese conto che era lei a emetterlo e Shirley disse: «Piantala» con voce fredda, ma lei non riuscì a soffocare quel rumore e Shirley la afferrò, la costrinse a rimettersi in piedi e le urlò: «Chiudi quella bocca, Michelle, basta!» ma lei non ci riusciva, e Shirley le mollò un pugno in faccia. Lo shock fu così grande che per un secondo pensò di avere smesso di respirare e provò soltanto il desiderio di raggomitolarsi e dimenticare tutto e tutti. Shirley disse: «Hai rovinato le nostre vite, cazzo, per non parlare di quella di Tanya» e Michelle pensò, per non parlare di quella di Keith, ma sapeva che Shirley aveva ragione perché, in fondo, era tutta colpa sua. Così si alzò dal pavimento - si sentiva rigida come una vecchia - e raccolse l'ascia, che per fortuna non era conficcata nella testa di Keith, cosa di cui ringraziava il cielo, ne pulì il manico sui jeans, la afferrò e disse a Shirley: «Vattene.» Tanya era in piedi, appesa al bordo del box, e ricominciò a urlare, come se l'avessero punta con uno spillo. Shirley la prese in braccio e cercò di tranquillizzarla, ma quella bambina aveva l'aria di non voler tacere mai più. «Vattene e basta,» aggiunse Michelle. «Per favore, Shirley, vattene». Shirley posò la bambina sul pavimento e disse: «Ti prometto che baderò a
lei» e Michelle rispose: «Lo so. Portala via, ricominciate da capo, sii la madre che io non posso essere», perché se c'era una persona al mondo di cui poteva fidarsi quella era Shirley. «Va bene,» disse Shirley, ed era così padrona di se stessa che sembrava che l'avesse già fatto altre volte. «Bene, adesso chiamo la polizia e dico che ti ho trovato così. Okay? Okay, Michelle?» «Okay.» Poi Shirley sollevò la cornetta, compose il numero e quando le rispose il centralino iniziò a urlare come un'isterica, pareva la migliore attrice del mondo, poi tacque e rimise a posto la cornetta e aspettarono insieme, in silenzio, l'arrivo della polizia. Il mostriciattolo si era addormentato sul pavimento. Faceva molto freddo e Michelle avrebbe voluto ripulire un po', ma non ne aveva la forza. Alla fine sentirono il suono di una sirena, e poi un'altra, e il rumore delle autopattuglie che percorrevano a sobbalzi la strada sterrata della fattoria e Michelle disse a Shirley: «Non hai mangiato la torta al cioccolato.» 24 Theo Si era tinta i capelli di un rosa acceso che ricordava quello dei fenicotteri. Le stava molto meglio del giallo crema. La faceva sembrare più sana. In effetti era più sana, in una settimana doveva aver messo su tre chili, anche se c'era poco da stupirsi, visto che Theo la nutriva con la risolutezza di un genitore che imbocca un pulcino: pane tostato e fagioli, salsicce e purè di patate, banane, ciliegie e pesche - le mele non le piacevano, e nemmeno a Theo. A Laura invece sì. Lily-Rose non era Laura, su questo Theo non aveva dubbi. Quanto a lui, continuava con il suo foraggio da mulo, veder mangiare Lily-Rose gli dava più soddisfazione. A guardarla non si sarebbe mai detto che avesse un tale appetito: era come se cercasse di recuperare anni di fame. Dormiva nella camera di Laura, con il cane ai piedi del letto. Theo non poteva avvicinarsi al cane e Lily-Rose temeva che questo gli scatenasse un altro attacco d'asma. La cosa preoccupava anche lui, ma le raccontò di Poppy e di come ci si era abituato, e del fatto che credeva che con il tempo ci si abitua a tutto e lei rispose: «Sì, lo penso anch'io». Guardarono le fotografie di Poppy e Laura e Lily-Rose disse: «È adorabile» e Theo fu felice che non avesse parlato al passato perché lo faceva sempre soffrire. Non
aveva detto a Jenny che viveva con una ragazza, perché s'immaginava cosa avrebbe commentato. Aveva la cartolina di Jackson, l'immagine di un fiore rosa, lo stesso rosa dei capelli di Lily-Rose. La cartolina era appoggiata sulla mensola del caminetto, accanto a una foto di Poppy da cucciola. Per qualche strano motivo, Theo identificava Poppy con Lily-Rose, piccole creature abbandonate e maltrattate con nomi nuovi e fioriti. Lily-Rose gli aveva detto di essersi scelta un nuovo nome per poter diventare una persona nuova, per avere "un nuovo inizio". Era il prodotto di un ambiente familiare profondamente disturbato e quasi sicuramente aveva bisogno di un aiuto professionale. Era scappata di casa, si era drogata, aveva commesso piccoli furti e si era prostituita, anche se ormai sembrava pulita. Sua madre aveva ucciso suo padre e lei era stata cresciuta dai nonni, che dai racconti non sembravano migliori dei genitori (sospettava che l'avessero maltrattata). Una vita irreale, da programma televisivo. Un documentario o una brutta telenovela. Eppure pareva davvero felice, giocava con il cane in giardino, mangiava un gelato, leggeva una rivista. Adorava farsi svegliare la mattina con una tazza di tè zuccherato e una fetta di pane tostato e imburrato. La sera avevano iniziato (che strano) a fare un puzzle insieme. «Siamo come una coppia di vecchi pensionati del cazzo,» disse lei, ma in tono non sgradevole. Theo non voleva salvarla o tenerla con sé o cambiarla, anche se in realtà faceva tutte queste cose, e avrebbe anche continuato, se a lei andava bene. L'unica cosa che non faceva era preoccuparsi. In fondo a Lily Rose erano successe così tante brutte cose che ormai era a prova di disgrazia. Era felice di poterle restituire un'infanzia, e basta. E quando fosse stata pronta se ne sarebbe andata, e lui se ne sarebbe preoccupato allora. 25 Caso n. 2 1994 Una giornata normale Con il professor Jessop era successa una cosa davvero stupida. (Lui diceva sempre «Chiamatemi Stan» ma lei non ci riusciva, le sembrava sbagliato, era un professore). Era strano perché non si era sentita prescelta in modo particolare. Lui aveva invitato Christina un paio di volte, e anche Josh, e l'anno prima aveva invitato a casa sua tutta la classe di biologia
dell'ultimo anno per un barbecue di fine trimestre. In effetti, quella era stata la prima volta che era andata da lui. Il barbecue era saltato per via della pioggia e lui era corso al supermercato, aveva comprato il necessario per qualche panino che lei aveva preparato insieme a Kim. La chiamava sempre Kim, non signora Jessop. Kim era parsa piuttosto irritata all'idea di averli tutti in giro per casa - aveva avuto un bambino solo qualche settimana prima, quindi non la si poteva biasimare. Aveva la stessa età di Jenny, eppure difficilmente si sarebbero trovate due persone più diverse al mondo. Prepararono dei panini con del prosciutto lucido ed economico - marca Kraft per vegetariani. Kim spalmava margarina su alcune fette di soffice pane bianco Sunblest e Laura pensò «che schifo», e poi si rimproverò per quei pensieri così snob. Suo padre era sempre stato fissato con il cibo sano - tutto fatto in casa, pane integrale e un sacco di frutta e verdura (anche se Dio solo sa che robaccia mangiava lui stesso, quando ne aveva la possibilità). Naturalmente i poveri non potevano permettersi tutta quella roba buona, ma i Jessop non erano mica poveri. Gli insegnanti non facevano che lamentarsi degli stipendi, ma non si poteva dire che fossero poveri. Anche se, a essere onesti, Josh aveva ragione quando diceva che Kim era una bianca in braghe di tela, e in effetti c'era da chiedersi come avesse fatto il professor Jessop a finire insieme a lei in quell'orribile casetta che puzzava di latte inacidito e merda di neonato. Portava un paio di scarpe rosse con i tacchi alti, cosa che normalmente non ci si aspetta dalle puerpere (o dalle mogli dei professori). Aveva i capelli quasi bianchi, chiaramente tinti con un colorante da quattro soldi, che davano alla sua pelle un'aria quasi malsana. Il professor Jessop era completamente in mano sua, Kim riusciva a controllarlo soltanto muovendo un sopracciglio, e questo lo faceva sembrare una persona molto diversa da com'era in classe (anche se non al punto da farti venire voglia di chiamarlo Stan). Lì era buffo e cinico e diceva sempre frasi sovversive sulla scuola. Era completamente diverso dagli altri insegnanti di scienze, somigliava più a un professore di inglese. Quand'era a casa, però, era meno interessante, e forse avrebbe dovuto essere il contrario. Quando Kim portò la bambina - Nina - di sotto, tutte le ragazze si misero a farle le moine. Anche i ragazzi si concentrarono su di lei, come se fosse un nuovo progetto di scienze («Riesce già a mettere a fuoco?», «Riconosce?»), ma a Laura non interessava affatto. Sapeva che quando ne avesse avuto uno suo sarebbe stato diverso, ma i figli degli altri la lasciavano indifferente. Kim non allattava al seno: una delle ragazze «Andi» gliel'aveva
domandato e lei aveva risposto: «Oddio, no», come se non riuscisse a immaginare niente di più innaturale; Josh e Laura si erano scambiati un'occhiata e avevano cercato di non ridere. «Naturalmente non sono istruita come te,» aveva detto poi Kim, mentre lavavano i piatti insieme, e a quel punto avevano formato una specie di alleanza, il professor Jessop aveva comprato una cassa di birra e uno scatolone di vino e in soggiorno erano tutti sbronzi, facevano un gran casino, ma né Kim né Laura avevano bevuto, Laura perché stava prendendo degli antibiotici per un'infezione all'orecchio e Kim per via del bambino «Devo restare sobria,» aveva detto, e Josh aveva sussurrato a Laura: «Se ci riesce,» cosa che lei aveva finto di non sentire perché il professor Jessop li stava guardando, come se avesse capito che stavano parlando di sua moglie. Kim veniva da Newcastle e aveva un accento che sembrava totalmente estraneo e alieno. Il fatto che fosse una tipica proletaria scozzese incuteva un po' di timore. Laura immaginava che il nord fosse popolato da donne dure e senza tante manfrine, che nessuno si augurava di dover affrontare in una lite. «Ho smesso di andare a scuola a sedici anni,» le aveva raccontato, «e ho fatto un anno di college, scuola per segretarie, se proprio vuoi saperlo», al che Laura aveva commentato: «Ah sì?» anche se in realtà non ascoltava perché stava pulendo il piano della cucina, che era già immacolato. Kim sarà anche stata volgare e stupida, ma teneva la casa molto pulita, cosa che papà avrebbe approvato. Sarebbe stato davvero bello se, quando lei fosse andata all'università (e quindi non prima) papà avesse incontrato una donna carina (non una come Kim), una donna matura, magari un po' fuori moda, perfetta casalinga, che sapesse apprezzare le sue buone qualità e desiderasse renderlo molto, molto felice. Se lo meritava, senza contare che quando lei fosse partita per l'università a lui si sarebbe spezzato il cuore, anche se avrebbe fatto finta di no. Forse il cuore non gli si sarebbe proprio spezzato, non come era successo a lei quand'era morta Poppy, ma sarebbe diventato molto triste perché erano rimasti insieme, loro due, per tanto tempo, e lui non viveva che per lei. Ecco perché aveva deciso di andare ad Aberdeen, perché non era dietro l'angolo - doveva andarsene, essere se stessa, diventare se stessa. Finché restava con papà sarebbe rimasta sempre una bambina. Non voleva diventare come Jenny. Jenny era davvero cattiva, non chiamava e non scriveva mai, era sempre papà a fare il primo passo. Era come se di lui non gliene importasse niente. Dopo essersene andata, Laura aveva
intenzione di telefonargli un sacco e aveva già comprato un mucchietto di cartoline, alcune buffe e alcune con sopra degli animali carini, che gli avrebbe spedito regolarmente. Era la persona che amava di più al mondo, ecco perché aveva accettato di lavorare nel suo ufficio, anche se al bar era molto più divertente, ma in fondo era solo per qualche settimana e poi sarebbe stata libera come una freccia puntata verso il futuro. E non vedeva l'ora. Dopo quella volta, il giorno che il barbecue era saltato, aveva iniziato a fare loro da baby-sitter - era stata Kim a suggerire il suo nome al professor Jessop, quindi in un certo senso le doveva essere piaciuta (anche se non se lo sarebbe mai aspettato). Un giorno, alla fine delle lezioni, il professore gliel'aveva proposto e lei aveva risposto: «Be', d'accordo, ma non so niente di bambini» e lui aveva replicato: «Oddio, Laura, neanche noi.» Di solito chiamava Emma e le chiedeva di farle compagnia, perché Emma era brava con i bambini, anzi, li adorava, il che era ironico e anche piuttosto triste, visto che aveva avuto quell'aborto e per un po' era parso che fosse davvero fuori di testa, ma comunque era il tipo di persona che finge sempre di essere allegra e felice, per questo a Laura era simpatica. Di solito se ne stavano sedute là a fare i compiti insieme, anche se a volte sbirciavano nell'armadio di Kim, esperienza sempre educativa, ma trovavano strano stare in quella camera da letto perché, a differenza di quanto accade con quasi tutti gli adulti, era facile immaginare Kim e il professor Jessop che facevano sesso, il che era piuttosto imbarazzante. Aveva detto a papà di essere vergine perché sapeva che era quello che voleva sentirsi dire, ed era una bugia innocua, anzi, a fin di bene. E non era poi così lontana dalla verità, perché aveva fatto sesso solo con quattro ragazzi, e uno di loro era Josh, che quasi non contava, perché erano andati alle elementari insieme e si conoscevano da quando avevano quattro anni e avevano deciso che sarebbe stata una buona idea affrontare insieme quella storia del "perdere la verginità", tanto per farne una cosa sicura e amichevole, anche se un po' strana. Meglio di quanto aveva fatto Emma, per esempio, che l'aveva persa con uno sposato (nell'auto di lui, santo cielo) o la povera Christina, che era stata violentata da un tizio che le aveva messo qualcosa nel bicchiere. L'avevano fatto in camera di Josh, dove i suoi genitori non entravano mai. Erano dei tipi artistici e alternativi che gli lasciavano fare tutto quello che voleva dall'età di dodici anni (quindi era incredibile che fosse diventa-
to un così bravo ragazzo). Erano di sotto a guardare un documentario sulle balene. All'inizio era stato buffo e non riuscivano a smettere di ridere, poi si erano comportati in modo molto formale, avevano esaminato l'uno il corpo dell'altro come studenti di anatomia e si erano dedicati ai preliminari secondo le regole, per poi lasciarsi prendere la mano e finire sul pavimento, come cani, e meno male che il volume del televisore era alto, perché lei si era messa a urlare e la sua voce le era sembrata quella di un'estranea, e dopo, mentre erano lì distesi a terra, stupefatti dal modo in cui si erano lasciati travolgere, avevano sentito i canti delle balene e avevano ricominciato a ridere perché i genitori dovevano averli sentiti, e comunque non ne avevano mai fatto parola. Josh aveva detto: «Be', possiamo dire di aver superato noi stessi, non trova, signorina Wyre?» e lei aveva risposto: «Possiamo rifarlo, per favore?» e lui: «Oddio, donna, dammi almeno un minuto.» Quando papà era venuto a prenderla le aveva chiesto: «Stai bene? Sei tutta rossa» e lei aveva risposto: «Credo di essermi presa qualcosa». Lui le aveva preparato una limonata calda con il miele, lei si era messa a letto con il pigiama di Winnie Pooh, l'aveva abbracciato e gli aveva detto: «Grazie, miglior papà del mondo», sperando che non sentisse l'odore dello sperma di Josh. Era successo quando avevano quattordici anni e da allora l'avevano fatto altre volte e sapeva che Josh era innamorato di lei, ma gli era riconoscente per avere avuto la delicatezza di non dirglielo mai. Un paio di volte era stata dai Jessop, anche se non avevano bisogno della baby-sitter. Kim aveva cominciato a starle simpatica. Essere sua amica la faceva sentire più donna e meno ragazzina. Una volta, dopo una cena a base di bistecca (dura) e patatine fritte, Kim le aveva sfoltito le sopracciglia e le aveva fatto la manicure, ma di solito andava a trovarla di sabato pomeriggio, quando Stan non c'era, e stavano sedute in giardino mentre Nina gattonava sull'erba. Di sabato Stan giocava in una squadra di calcio amatoriale. «A volte bisogna allentare un po' il guinzaglio,» aveva detto Kim, come se le stesse offrendo dei consigli su come educare un cucciolo ribelle. Era stato allora che aveva conosciuto Stuart Lappin - stava tagliando l'erba della casa accanto. Quando aveva finito aveva guardato oltre lo steccato e si era offerto di tagliare anche quella dei Jessop; Kim aveva continuato a limarsi le unghie e aveva risposto a voce alta: «No, grazie, Stuart», senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Laura l'aveva trovata un po' scortese e per compensare aveva rivolto a "Stuart" un sorriso d'incorag-
giamento. «Non lo sopporto,» aveva sibilato Kim quand'era scomparso. «Cerca sempre di essere simpatico, ma mi fa venire i brividi. Ha passato i trenta e vive ancora con sua madre, è patetico». Laura aveva detto: «Mi sembra innocuo» e Kim aveva replicato: «È proprio a quelli come lui che bisogna stare attenti.» L'ultima volta era stata subito prima dell'esame finale. Il professor Jessop le aveva suggerito di prendere delle lezioni supplementari e lei non ci aveva trovato niente di strano, perché l'aveva proposto anche ad altri. Fu delusa quando vide che Kim non era in casa. Stan disse: «Oh, ha portato Nina da sua madre», in tono molto brusco, come se non gliene fregasse niente di quello che faceva sua moglie. Aveva preparato un blocco e un paio di libri sul tavolo da pranzo, ma lei non era nemmeno riuscita a sedersi che lui aveva cominciato, le si era avvicinato da dietro, le aveva circondato la vita con le braccia e aveva cercato di baciarle la nuca, l'alito gli puzzava d'alcol e lei lo trovava disgustoso. Si era infuriata, come aveva osato, era una cosa così immorale. Gli aveva sferrato una gomitata e gli aveva urlato di lasciarla in pace, e lui aveva detto: «Oh, dai, Laura, l'hai fatto con metà dei ragazzi della classe, è ora che tu abbia un vero uomo, lo vuoi anche tu, e lo sai». «Che bastardo, che maledetto bastardo!» Gli aveva pestato forte un piede, come ti insegnano alle lezioni di autodifesa, ma era difficile perché lui la stringeva ancora forte in vita, e quando si era resa conto di non riuscire a sfuggirgli aveva iniziato a prenderle il panico. Lui aveva cercato di farla voltare perché potesse baciarla e poi le aveva messo una mano sull'inguine (grazie a Dio portava i jeans), ma non era riuscito a tenerla ferma, così Laura si era allontanata abbastanza da ficcargli un dito in un occhio. E poi si era messa a correre. Ripassava con Josh per gli esami nel cimitero della chiesa di Little St Mary. Faceva caldo e avevano iniziato a fare gli stupidi, tanto in quel posto non ci andava nessuno, ma poi avevano sentito un movimento tra le foglie, come se un animale si stesse facendo strada tra la vegetazione estiva, e a un tratto da dietro una lapide era spuntata la faccia di un uomo e lei aveva lanciato un gridolino proprio da femmina, e Josh aveva assunto un'aria virile anche se aveva i pantaloni calati alle caviglie e aveva urlato a quel tipo di andare a farsi fottere e poi si erano scompisciati dal ridere. Lei aveva pensato che quella faccia le era sembrata vagamente familiare, ma
soltanto un paio di settimane dopo, al bar, quando le aveva ordinato mezza pinta di birra e gazzosa, si era resa conto che era il vicino dei Jessop, quello che tagliava l'erba, e non era riuscita a ricordarsi il suo nome. Per fortuna lui non aveva dato segno di riconoscerla. Ormai se ne erano andati tutti: Christina insegnava in Tanzania per un anno, Ayshea trascorreva l'estate in Francia, Joanna stava facendo l'interrail con Pansy, Emma era in Perù (Emma, Cristo santo!) e Josh faceva l'assistente in un campeggio sperduto nel Michigan. Si era sentita abbandonata. Si erano messi d'accordo di incontrarsi di fronte all'Hobbs Pavilion in Parker's Piece, di lì a dieci anni, ma era improbabile che l'avrebbero fatto davvero. Il professor Jessop aveva cercato di organizzare una "riunione d'addio" per la classe, ma erano tutti impegnati - lei comunque non aveva alcuna intenzione di andarci, non l'aveva più visto da quando ci aveva provato. Papà, benedetta ingenuità, le aveva chiesto: «Laura, non vuoi andare a fare un viaggio?» anche se per lui sarebbe stato insopportabile pensarla da qualche parte all'estero, in un posto in cui non avrebbe potuto passarla a prendere in auto a fine serata. Poi andò a sbattergli contro mentre usciva dalla libreria Heffers e gli disse: «Salve» in tono neutro, perché non ci pensava nemmeno a iniziare una conversazione, e il giorno dopo aveva trovato un orsacchiotto sulla porta di casa. In realtà non aveva collegato le due cose, o almeno non in modo consapevole, era solo uno stupido orsacchiotto, brutto e rosa con gli occhi storti, non come quei begli orsacchiotti di una volta che Laura teneva ammucchiati sul letto. Era uno di quelli che avrebbe comprato una persona totalmente priva di gusto, convinta di fare cosa gradita a chi ama i peluche. Passò la giornata a Londra (stava cominciando a odiare tutti quelli che avevano lasciato Cambridge per l'estate). Visitò il British Museum e poi si comprò dei vestiti nuovi, ma da sola non si divertì molto. Non lo vide salire a King's Cross, ma lo vide entrare nel suo vagone circa dieci minuti dopo che il treno era uscito dalla stazione - era sicura che la stava cercando, anche se quando la notò cercò di fare una faccia sorpresa. Per fortuna accanto a lei non c'erano posti vuoti, ma quando si alzò, arrivati a Cambridge, lui la seguì fino in fondo al vagone, si fermò come lei accanto alla porta e le rivolse la parola per la prima volta: «Scendi qui?» domanda davvero stupida, visto che era ovvio, ma lei si limitò a rispondere: «Sì» e quando furono sul binario lui disse: «Posso darti un passaggio a casa? Ho la macchina nel parcheggio», lei rispose: «No, grazie, viene a prendermi
mio padre» e si allontanò in fretta. Poi le venne in mente che si chiamava Stuart. Kim aveva ragione, era patetico. Non poteva più andare a trovarla, perché questo avrebbe probabilmente significato vedere anche il professor Jessop. Le telefonò un paio di volte ma rispose sempre lui, così lei riattaccò senza dire niente. L'ultima volta, poi, Jessop urlò: «Kim, sei tu? Dove cazzo sei?» e Laura immaginò che tra i due le cose non andassero troppo bene. Era la sua ultima sera al bar, lui entrò, si sedette nell'angolo e si fece durare un'ora la mezza pinta di birra e gazzosa. Quando si alzò per andarsene le disse: «Non capisco perché mi ignori» e lei rispose: «Non capisco di cosa stia parlando» e lui: «Lo sai anche tu che tra noi esiste un legame incredibile, non puoi negarlo» e lei a un tratto diventò furiosa (quel tizio era fuori di testa, cazzo) perché prima le aveva fatto pena, ma in realtà si stava solo intromettendo nella sua vita senza che nessuno gliel'avesse chiesto proprio come il professor Jessop - e gli disse: «Senta, mi lasci in pace, mio padre è avvocato e può renderle la vita difficile se continua a comportarsi così», ma lui rispose: «Tuo padre non può ostacolare il nostro amore,» poi se ne andò via. «Tutto bene?» le domandò il padrone del bar. «Sì, è solo uno che non regge l'alcol». Naturalmente a suo padre non l'avrebbe mai raccontato, si sarebbe preoccupato da matti. E comunque Stuart Lappin era innocuo. Completamente fuori, ma innocuo. Il bello di lavorare in un bar era che faceva solo il turno di sera e aveva la giornata tutta per sé. Trovarsi rinchiusa in un ufficio per l'intera estate si annunciava un vero strazio. Papà era così felice, oltre che molto irritato all'idea di dover andare a Peterborough invece di essere presente per il suo primo giorno. Gli fece promettere di andare in stazione a piedi, perché dopo essere stato dal dottore stava (teoricamente) seguendo un nuovo stile di vita più sano. «Non dimenticare l'inalatore, papà,» gli ricordò mentre usciva, lui si diede un colpetto sulla tasca della giacca per farle vedere che ce l'aveva e disse: «Cheryl ti spiegherà tutto. Io torno in ufficio prima di pranzo, vuoi che andiamo a mangiare fuori?» e lei rispose: «Sarebbe carino». Poi lo accompagnò alla porta e gli diede un bacio sulla guancia dicendo: «Ti voglio bene papà» e lui le rispose: «Anch'io ti voglio bene, tesoro» e lei lo guardò allontanarsi perché a un tratto ebbe l'orribile sensazione che non l'avrebbe
mai più rivisto, ma quando lui arrivò all'angolo e si girò per guardarla lo salutò allegramente con la mano perché non voleva che capisse che era preoccupata, visto che già si preoccupava abbastanza da solo. Lo guardò sparire dietro l'angolo, sentì il cuore gonfiarsi in petto e si chiese se avrebbe mai amato nessuno come amava lui. Poi sparecchiò il tavolo della colazione, caricò la lavastoviglie e controllò che la casa fosse pulita e in ordine per quando sarebbero tornati a casa più tardi, insieme. 26 Amelia «Basta piastrellisti, basta Gary e Craig e Darryl. Basta Philip e il suo pechinese urlante. Basta Oxford. Basta vecchia Amelia. Un nuovo inizio, una persona nuova». Aveva temuto che fosse un'orgia, ma in realtà era solo il barbecue che le avevano promesso («Oh, dai, vieni») e la conversazione verteva sulla difficoltà di trovare un buon idraulico e sul metodo per tenere le lumache lontane dalle speronelle («Nastro di rame,» propose Amelia e tutti esclamarono: «Davvero? Che cosa affascinante!») L'unica differenza era che erano tutti nudi. Quand'era arrivata sulla sponda del fiume (troppo vestita e terrorizzata), Cooper («Cooper Lock, ex professore di storia al St Cat college, ora perfetto buono a nulla») le era venuto incontro a grandi passi, con le palle dondolanti, e aveva esclamato: «Amelia, sei venuta, che meraviglia» e Jean («Jean Stanton, avvocato, rocciatrice dilettante, segretaria del partito conservatore locale») si era precipitata, tutta sorrisi e tettine ballonzolanti aggiungendo: «Brava. Ragazzi, questa è Amelia Land, ed è molto interessante.» Poi aveva nuotato nuda nel fiume con loro, ed era proprio come lo ricordava, a parte il fatto che tra il suo corpo e l'acqua non c'era il costume da bagno e poteva sentire le piante acquatiche e le alghe accarezzarla come spessi nastri bagnati. Poi avevano mangiato salsicce e bistecche alla griglia e bevuto Chardonnay sudafricano mentre il tramonto si incupiva, e lei si era sdraiata accanto a Jean, nel suo letto in legno di pino a forma di slitta, in una mansarda intonacata di bianco e profumata da candele francesi, così costose che il prezzo di una sarebbe bastato a mantenere per un anno una famiglia del Bangladesh. Ma Amelia riuscì a non pensarci, come non pensò al fatto che Jean era segretaria del partito conservatore locale (anche se
ovviamente non era pensabile riuscire a evitare per sempre l'argomento), e scoprì che poteva ignorare questa e molte altre cose, perché anche se aveva passato i cinquanta Jean aveva un corpo sodo, snello e abbronzato che fece scivolare accanto al suo, pallido e morbido (si sentiva una creatura marina appena privata del carapace) e le disse: «Sei gustosa, Amelia, come un grosso melone maturo» e a quel punto la vecchia Amelia avrebbe sbuffato, sprezzante, ma quella nuova invece gridò come un uccello spaventato perché Jean le stava leccando le grandi labbra come un gatto («Oh, chiamala pure fica, Amelia, non essere timida») regalandole il suo primo orgasmo. Ed era buffo perché prima aveva davvero voluto morire, mentre adesso voleva vivere. Tutto qui. In realtà non poteva chiedere molto altro. Aveva un enorme giardino di cui occuparsi, una quantità di gatti da nutrire e un orgasmo al suo attivo. Era davvero lesbica? Desiderava ancora Jackson. «Di questi tempi sono tutti bisessuali,» le aveva detto Jean in tono noncurante. Amelia pensò di presentarla a Julia. Le sarebbe piaciuto, per una volta, scioccarla («Jean, ti presento Julia, mia sorella. Julia, ti presento Jean, la mia amante. Henry? Oh, di questi tempi sono tutti bisessuali, Julia, non lo sapevi?» Ha!) Doveva cercare di essere carina con lei, dopo tutto era sua sorella. Avevano avuto qualche incertezza su cosa fare di Olivia. Nessuna delle due voleva cremarla, perdere quel poco che era rimasto, conquistato dopo così tanto tempo, a prezzo di tante fatiche. D'altro canto, era rimasta sepolta al buio così a lungo che pareva sbagliato rimetterla sotto terra. Se non fosse stato contrario a ogni norma sociale (e probabilmente anche illegale) Amelia avrebbe sistemato le ossa in bella vista, avrebbe costruito una specie di reliquiario, un tempio. Alla fine la seppellirono in una minuscola bara bianca accanto ad Annabelle, la bambina fuori programma, nella tomba di famiglia, sopra Rosemary. Durante il funerale Julia e Amelia piansero. La stampa locale aveva cercato di scattare delle foto («Bambina scomparsa finalmente trova pace») ma il grosso amico nero di Jackson aveva messo le cose in chiaro. Amelia trovava Howell terrificante e meraviglioso allo stesso tempo (e immaginò che questo affermasse definitivamente la sua natura bisessuale) e molto più politicamente corretto di Jean. Jackson - cosa strana - era insieme alla senzatetto con i capelli gialli, che però adesso li aveva rosa, e non era più senzatetto. «Perché?» disse Amelia a Jackson, e Jackson rispose: «Perché no?» e Amelia replicò: «Perché...» ma arrivò Ju-
lia a trascinarla via. Avere trovato Olivia la faceva sentire meglio? Sapere che si era allontanata, che l'aveva fatto mentre era sotto la sua responsabilità? Amelia si era addormentata, sua sorella si era allontanata ed era morta. Questo non la rendeva colpevole? Poi, al funerale, Jackson l'aveva presa da parte e le aveva detto: «Devo infrangere il voto del confessionale,» come se fosse un prete. Sarebbe stato un prete fantastico. Il pensiero di Jackson prete era molto seducente, in un certo qual senso perverso. «Ti dirò che cosa è accaduto,» disse «e poi starà a te decidere come comportarti». Non l'aveva detto a Julia, l'aveva detto a lei. Finalmente era diventata la custode di un segreto. Così Olivia avrebbe avuto un tempio, e un giardino. E Amelia avrebbe riempito il giardino di Binky di rose, Duchesse d'Angoulême, Félicité Parmentier, Eglantyne e Gertrude Jekyll, le piccole corolle pallide delle Boule de Neige e le Perdita dal fragrante profumo di pesca, per la loro bambina scomparsa. 27 Caso n. 1 1970 Complotto di famiglia Faceva caldo, troppo caldo per dormire. Il lampione brillava dietro le sottili tende estive come un sole minore e malato. Aveva ancora mal di testa, le pareva di avere una corda stretta attorno al cranio. Forse era questo che si provava, a portare una corona di spine. Dio voleva farla soffrire per un motivo. Una punizione? Aveva fatto qualcosa di male? Una cosa peggiore del solito? Poco prima aveva dato uno schiaffo a Julia, ma lo faceva sempre: il giorno prima aveva messo delle ortiche nel letto di Amelia, che era una moralista e se lo meritava. Ed era stata orribile con mamma, ma mamma era stata orribile con lei. Sylvia prese tre aspirine per bambini dal flacone nell'armadietto del bagno. Nell'armadietto delle medicine c'erano sempre un sacco di flaconi; alcuni erano lì da secoli. Mamma amava le medicine. Le amava più di quanto amasse loro. Il quadrante illuminato dell'enorme sveglia accanto al letto di mamma segnava le due. Sylvia lo illuminò con la sua piccola torcia Ever Ready. Suo padre russava come un maiale. Era un maiale, un grosso maiale matematico. Portava un pigiama a righe e mamma una camicia da notte di co-
tone con un volant floscio attorno al collo. Avevano gettato via le coperte e se ne stavano sdraiati con le membra scomposte, come se fossero caduti su quel letto da una grande altezza. Se fosse stata un'assassina avrebbe potuto ucciderli così, senza che se ne accorgessero - poteva pugnalarli, sparare o farli a pezzi con un'ascia, tanto non avrebbero potuto farci niente. A Sylvia piaceva vagare per casa di notte, era la sua vita segreta che nessuno conosceva. La faceva sentire potente, in grado di intuire i segreti degli altri. Entrò nella camera di Julia. Non c'era pericolo che si svegliasse: potevi farla cadere sul pavimento e saltarle addosso, tanto non si sarebbe svegliata. Potevi metterle un cuscino sulla faccia e soffocarla e non se ne sarebbe nemmeno accorta. Era madida di sudore, così calda che non si poteva nemmeno metterle una mano vicino, e sentivi il suo respiro entrare e uscire a fatica dai polmoni. A un tratto Sylvia si rese conto che il letto di Amelia era vuoto. Dov'era? Aveva un segreto, anche lei se ne andava in giro di notte? No, Amelia no non aveva lo spirito di iniziativa (un'espressione nuova, per Sylvia) di costruirsi una vita segreta. Dormiva con Olivia? Sylvia si precipitò nella camera di Olivia e scoprì che mancava anche lei. Una metà di loro era scomparsa: rapite dagli extraterrestri, forse? Se gli extraterrestri esistevano - e Sylvia lo sospettava - doveva averli creati Dio, perché Dio creava tutto, no? Oppure aveva creato soltanto la materia presente nella galassia? E se c'erano altri mondi, allora dovevano essere stati creati da altri dei, dei alieni. Che fosse un'idea blasfema? Non c'era nessuno a cui potesse rivolgersi per quegli spinosi quesiti teologici. Non le era permesso andare in chiesa, papà non credeva in Dio (o negli extraterrestri) e l'insegnante di religione a scuola le aveva detto di smetterla di darle tanto "fastidio". Era impossibile immaginare Gesù che diceva: «Vattene, non infastidirmi». Probabilmente Dio avrebbe spedito l'insegnante di religione dritta all'inferno. Era molto difficile scoprire che sentivi la voce di Dio, se eri stata cresciuta da un maiale matematico e ateo e da una madre a cui non importava niente di niente. C'erano tante cose che non sapeva - ma bastava pensare a Giovanna d'Arco, in fondo era una contadina francese ignorante e c'era riuscita, e Sylvia non era né ignorante né contadina. Dopo che Dio le aveva parlato, Sylvia aveva cominciato a leggere la Bibbia, di notte, sotto le coperte, alla luce della sua fedele torcia Ever Ready. La Bibbia non aveva alcuna relazione con la sua vita. Bastava questo a renderla tanto affascinante. Sylvia cercò di pensare a cos'era accaduto la sera prima, all'ora di andare
a letto, ma ne aveva un ricordo molto sfocato. Il caldo e il sole le avevano fatto venire la nausea e così era salita prima di tutti gli altri. E non appena aveva voltato le spalle mamma aveva permesso ad Amelia e Olivia di dormire nella tenda? Davvero? Per tutta l'estate (e senza nessun motivo) non aveva voluto saperne di farle dormire fuori. Sylvia sgattaiolò al piano di sotto, evitando i due gradini che scricchiolavano. La porta posteriore non era chiusa a chiave, quindi chiunque avrebbe potuto entrare e commettere gli omicidi di cui sopra. Ovviamente non era chiusa perché Amelia e Olivia dormivano nella tenda. Presto sarebbe sorto il sole, si sentiva già un uccello solitario salutare il mattino. L'erba del prato era umida. Da dove veniva tutta quella rugiada, se di giorno era così caldo e secco? Doveva cercare la risposta in un libro. Attraversò cauta il prato per paura di calpestare il corpo morbido e viscido di qualche altra creatura notturna impegnata a condurre la propria vita segreta. Sollevò un lembo della tenda. Sì, c'erano tutte e due! Che faccia tosta. Perché Amelia doveva essere premiata con il permesso di dormire tutta la notte nella tenda? E non solo, ma dormirci con Olivia e Rascal? Non era giusto, Sylvia era la più grande e nella tenda avrebbe dovuto starci lei. Rascal si allontanò dal fianco di Olivia, agitò la coda e leccò il naso di Sylvia. Dormivano entrambe a pancia in su, e sembravano morte, cadaveri. Sylvia scosse i piedi di Amelia ma non riuscì a svegliarla. Si infilò a fatica nella tenda, tra le due. Faceva un caldo incredibile lì dentro, probabilmente abbastanza da ucciderle. Il posto più caldo del mondo - era forse il deserto dell'Atacama? La Valle della Morte in America? Qualche punto della Mongolia? Non erano morte, vero? Pizzicò il naso di Amelia, che borbottò qualcosa e si girò. Sylvia pensò di svegliare Olivia e portarla fuori da quel forno. Nel buco nero di Calcutta la gente moriva di caldo, ma non per mancanza d'aria - un fraintendimento comune. Fraintendimento era una parola favolosa. Il fuori programma - quello sì che era un fraintendimento. Bah. Mamma doveva proprio smetterla di riprodursi, era così volgare. Forse in segreto era cattolica. Sarebbe stato meraviglioso, avrebbero potuto intrecciare lunghe conversazioni clandestine sui misteri, i riti e la Vergine Maria. Né la Vergine Maria né Gesù avevano mai parlato con Sylvia. Secondo lei Gesù non parlava alle persone, in realtà. Giovanna d'Arco era un altro discorso, Giovanna d'Arco era una chiacchierona. Sylvia strofinò il lobo dell'orecchio di Olivia perché una volta Rosemary aveva detto che era così che svegliava i pazienti quand'era infermiera. Oli-
via si stiracchiò e poi si riabbandonò al sonno. Sylvia la chiamò in un sussurro e lei lottò per aprire gli occhi. Era disorientata ma quando Sylvia mormorò: «Su, alzati,» la seguì fuori dalla tenda tenendo in mano le pantofole a forma di coniglietto rosa. Sylvia disse: «Lascia perdere le pantofole, senti com'è umida l'erba sotto le dita dei piedi», ma Olivia scosse la testa e se le infilò. Sylvia disse: «Devi imparare a ribellarti. Non fare tutto quello che ti dicono mamma e papà. Specialmente papà» e poi aggiunse: «Però a me devi obbedire». Avrebbe voluto dire: «Perché io ho sentito la parola di Dio», ma Olivia non avrebbe capito. Non la capiva nessuno, tranne Dio, naturalmente, e Giovanna d'Arco. La prima volta che Dio le aveva parlato era seduta in panchina durante una partita di hockey. Sylvia, fantasiosa ala destra, era stata espulsa per avere colpito un'avversaria alla caviglia con la mazza (ma non contava solo vincere?) e se ne stava lì, furiosa e imbronciata, quando una voce nei pressi aveva detto: «Sylvia». Quando si era guardata intorno non aveva visto nessuno, solo una ragazza che si chiamava Sandra Lees che aveva uno stridulo accento di Cambridge, quindi, a meno che non stesse esercitandosi nel ventriloquismo o si fosse trasformata in un uomo, non poteva essere lei. Sylvia decise di esserselo immaginato, ma la voce ripeté il suo nome una voce profonda e melliflua, una voce che la ricoprì di calore, e stavolta Sylvia sussurrò, molto piano per via della vicinanza con Sandra Lees: «Sì?» e la voce rispose: «Sylvia, sei stata scelta» e Sylvia disse: «Sei Dio?» e la voce rispose: «Sì». Impossibile ricevere un messaggio più chiaro di quello, no? E a volte si sentiva così trasformata dalla luce divina che andava in estasi. Le piaceva da matti quando succedeva, adorava quella sensazione di perdere il controllo, di non essere responsabile del suo corpo o della sua mente. Una volta (forse più di una) era andata in estasi nello studio di papà - era svenuta e si era accasciata sul pavimento come una santa torturata. Papà le aveva gettato in faccia un bicchiere d'acqua e le aveva detto di ricomporsi. Olivia stava quasi camminando nel sonno e Sylvia le sussurrò: «Su, andiamo a fare un gioco» e Olivia disse: «No,» in tono piagnucoloso e del tutto contrario alla sua consueta docilità. «È notte,» obiettò e Sylvia ribatté: «E allora?» e le prese la mano. Erano a metà del prato quando Olivia esclamò: «Topoblù!» e Sylvia disse: «Corri a prenderlo». Olivia strisciò nella tenda e riemerse stringendo un braccio del pupazzo, con Rascal che le saltellava allegro alle calcagna.
Giovanna d'Arco le aveva parlato mentre era seduta in alto, tra i rami del faggio della signora Rain. Giovanna d'Arco le aveva parlato all'orecchio, come se fosse amichevolmente seduta sul ramo accanto al suo. La cosa buffa era che dopo quelle conversazioni Sylvia non ricordava esattamente ciò che Giovanna d'Arco le aveva detto in realtà, e aveva l'impressione che non le avesse parlato affatto, ma che avesse cantato, come un grande uccello appollaiato sull'albero. Dio l'aveva scelta, l'aveva notata, ma a che scopo? Per condurre un grande esercito in battaglia e poi bruciare sul rogo della purificazione come la stessa Giovanna? Per essere sacrificata? Dal latino sacer che significa sacro e facere, fare. Fare sacro. Lei era sacra, come una santa. Era speciale. Naturalmente sapeva che nessuno le avrebbe creduto. L'aveva detto ad Amelia, che le aveva risposto: «Non dire sciocchezze». Amelia non aveva immaginazione, era così insulsa. Aveva cercato di raccontarlo a mamma, che però stava preparando una torta e guardava, come ipnotizzata, le pale del frullatore Kenwood girare in tondo, e quando Sylvia aveva detto: «Credo che Dio mi abbia parlato,» le aveva risposto: «Che bello», e Sylvia aveva continuato: «Julia è appena stata mangiata da una tigre» e sua madre: «Davvero?» con lo stesso tono sognante e astratto. A quel punto Sylvia era uscita altera dalla stanza. Dio aveva continuato a parlarle. Le parlava dalle nuvole, dai cespugli, le parlava mentre si addormentava, la sera, e la svegliava la mattina. Le parlava quand'era sull'autobus e nella vasca da bagno (non doveva vergognarsi della sua nudità davanti a Dio), le parlava quand'era seduta in classe o a tavola, davanti alla cena. E le parlava sempre quand'era nello studio di Victor. Era stato allora che le aveva detto: «Lasciate che i bambini vengano a me», perché, dopo tutto, lei era ancora una bambina. «No,» disse Olivia a voce alta e iniziò a tirare la mano di Sylvia. «Ssh, stai tranquilla,» ribatté Sylvia aprendo il cancello di legno nel muro del giardino della signora Rain. «No,» insisté Olivia puntando i piedi, ma rispetto a Sylvia aveva la forza di un gattino. «La strega,» sussurrò. «Non fare la stupida,» disse Sylvia, «la signora Rain non è una vera strega, è solo un nostro gioco». Sylvia stessa non sapeva se crederci o no. Ma Dio aveva forse creato un mondo in cui esistevano le streghe? E i fantasmi, allora? C'erano fantasmi nella Bibbia? Dovette trascinare Olivia. Voleva portarla al faggio, farla vedere a Giovanna d'Arco, mostrarle che era pura, una bimba santa, proprio come Gesù bambino. Non sapeva bene come avrebbe
fatto a farla salire sull'albero, probabilmente si sarebbe rifiutata. Olivia si mise a piangere. Sylvia cominciò a scocciarsi. La vecchia strega avrebbe sentito tutto. «Zitta, Olivia,» disse severa e le tirò forte il braccio. Non aveva avuto intenzione di farle del male, davvero, ma Olivia si era messa a piangere e a fare casino (il che non era da lei, per niente) e Sylvia aveva sibilato: «Basta», ma Olivia non la smetteva, così dovette metterle una mano sulla bocca. E poi dovette tenercela per tantissimo tempo, finché Olivia, finalmente, tacque. Lasciate che i bambini vengano a me. Un sacrificio. Sylvia aveva creduto che il sacrificio sarebbe stato il suo, che sarebbe diventata martire perché Dio l'aveva scelta. Ma poi si era scoperto che era Olivia, quella destinata a essere donata a Dio. Come Isacco, solo che, ovviamente, lui non era morto, o no? Adesso Olivia era sacra. Pura e santa. Pura, santa e al sicuro. Nessuno avrebbe potuto toccarla. Non avrebbe mai dovuto entrare nello studio, non avrebbe mai dovuto rischiare di soffocare con il coso puzzolente di papà in bocca, non avrebbe mai dovuto sentirsi addosso quelle mani enormi, che la rendevano impura ed empia. Sylvia guardava il corpicino disteso tra l'erba alta e non sapeva cosa fare. Doveva chiamare qualcuno ad aiutarla. L'unica persona che le venne in mente fu papà. Doveva chiamare papà. Lui sapeva sicuramente cosa fare. 28. E Julia disse Au revoir tristesse. Jackson guidava con la capote abbassata e le Dixie Chicks a tutto volume sullo stereo dell'auto. Era andato a prenderle all'aeroporto di Montpellier. Erano vestite in modo perfetto per la decappottabile, foulard di chiffon e occhiali da sole, Julia sembrava una star del cinema degli anni Cinquanta, Amelia invece no. Al telefono Julia gli aveva raccontato che Amelia era molto più allegra, ultimamente, ma se in quel momento lo era se lo teneva per sé e se ne stava seduta sul sedile posteriore della nuova Bmw M3 a mugugnare e criticare tutto quello che diceva Julia. A un tratto Jackson si pentì di non aver comprato una Bmw Z8 a due posti, almeno avrebbero potuto infilarla nel baule. «Sigaretta?» offrì Julia e Jackson disse: «No, ho smesso» e Julia replicò: «Bravo, signor B.» Entrarono a Montpellier, che era caldissima, e mangiarono il gelato su
piattini d'argento - glaces artisanales - in un caffè nella piazza principale. Fu Julia a ordinare e Jackson fu molto colpito dal suo ottimo francese. «Una volta era un barboncino,» disse Amelia (chissà perché) e Julia rispose: «Non fare tanto la scontrosa, Milly, siamo en vacances» e Amelia obiettò: «Tu sei sempre in vacanza» e Julia ribatté: «Be', ci sono modi ben peggiori di godersi la vita» e Jackson si domandò se era innamorato di lei e poi a un tratto il cielo si incupì e diventò del colore delle prugne mature d'Agen, un tuono rombò in lontananza e le prime pesanti gocce di pioggia tamburellarono sul tendone del caffè, Julia si strinse nelle spalle (in stile perfettamente francese), guardò Jackson e disse: «C'est la vie, signor Brodie, c'est la vie.» 1
Figura enigmatica riscontrata in migliaia di immagini scolpite nella pietra delle chiese medievali d'Europa. Di solito appare come una semplice faccia maschile, dalla quale germoglia fogliame, che diventa essa stessa fogliame o che dal fogliame spunta. È stato suggerito che questa immagine, oggi conosciuta come l'Uomo Verde, fosse un segno speciale per i muratori-scalpellini, ma probabilmente ce ne sono altrettante in legno. L'immagine comunque si trova quasi soltanto nelle costruzioni ed è molto rara nelle pitture, nei manoscritti e nelle vetrate. Per di più, e qui sta il mistero, non si conosce alcuno scritto medievale che spieghi il significato dell'Uomo Verde [N.d.T.]. 2 Bluestocking (lett. calze blu), termine spesso spregiativo per indicare una letterata, un'intellettuale [N.d.T.]. Grazie a: Il mio agente, Peter Straus. Il mio editor, Marianne Velmans. Maureen Allan, Helen Clyne, Umar Salam, Ali Smith e Sarah Wood per Cambridge a luglio, con particolare gratitudine ad Ali Smith. Reagan Arthur, Eve Atkinson-Worden, Helen Clyne e Marianne Velmans per avere letto il manoscritto con entusiasmo. Mio cugino, il maggiore Michael Keech. Stephen Cotton, lui sa perché. David Lindgren per la storia delle pecore. E, dulcis in fundo, Russell Equi, dio di tutti i mezzi di trasporto.
FINE