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ijine di scienza
Roberto Buonanno
La fine dei cieli di cristallo L’astronomia al bivio del ‘600
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ROBERTO BUONANNO Dipartimento di Fisica Università degli studi di Roma “Tor Vergata”
Collana i blu - pagine di scienza ideata e curata da Marina Forlizzi © Springer-Verlag Italia 2010
ISBN 978-88-470-1497-8
e-ISBN 978-88-470-1498-5
DOI 10.1007/978-88-470-1498-5
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Prefazione
Luci e ombre del ‘600. Si usa spesso questa metafora, per alludere alle contraddizioni di un secolo che ha la responsabilità dei roghi e delle abiure e il merito degli splendori di un’arte significativa e illuminante, commissionata da principi della Chiesa e uomini di potere, affascinati dalle meraviglie del mondo che essi stessi dominavano. Ma come i roghi, anche l’arte è sempre carica di un pensiero che la anima. E mai come nel ‘600 il pensiero è stato tanto lucido è contradditorio: drammatico insomma. I pensatori, gli scienziati, gli artisti, gli uomini di fede e di potere di questo secolo erano consapevoli che davanti a loro si presentava un bivio: da una parte c’era la strada rassicurante che subordinava l’accettazione delle nuove scoperte ai riferimenti nelle Scritture, dall’altra c’era quella che conduceva al capovolgimento della visione del mondo. A monte c’erano il progresso, le scoperte astronomiche, le tesi luterane, la Riforma e la Controriforma che avevano aperto il cammino alla scienza e al rinnovamento del pensiero filosofico, che la Chiesa voleva controllare e dominare, ma non poteva impedire. C’era Galileo, per esempio, che non rinunciava a sostenere che sono le sensate esperienze ad avere l’ultima parola sulla interpretazione dei fenomeni naturali. Ma chi volesse ridurre il confronto fra Galileo e la Chiesa alla contrapposizione tra due tesi, una giusta e una sbagliata, avrebbe delle sorprese. E proprio queste sorprese arricchiscono lo scenario storico dando al dramma coloriture particolari, che fanno apparire Galileo ironico e vincente, proprio mentre sta per capitolare.
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Prefazione
Sullo sfondo si muovono personaggi interessanti, laici, gesuiti, missionari carichi di informazioni di un altro mondo: uomini non da poco e inclini a prendere in seria considerazione ogni scoperta scientifica, desiderosi di farne altre, tutto per dimostrare la grandezza del creato e di Dio, in un ordine precostituito e perfetto. Lo spirito complessivo che li elettrizzava era la meraviglia. Chissà, forse bastava poco a Galileo per salvarsi. In fondo, anche egli era uomo di fede, ma era, ancora di più, convinto che la scienza non potesse fermarsi davanti all’autorità delle Sacre Scritture. C’era anche un gesuita, Athanasius Kircher, in questo scenario della storia: gran maestro di luci e ombre. Indefesso ricercatore, inventore, amante della realtà, prestigiatore della verità devoto a Dio e alla scienza. Un non-galileiano, certo, ma a Galileo molto complementare. Galileo e Kircher, pure così distanti, insieme ci aiutano a capire molte cose del secolo che ha aperto la strada alla conoscenza moderna. Di Galileo sappiamo molto, quasi tutto, se così si può dire di un pensatore e di uno scienziato tanto complesso. Ma è proprio la limpidezza dei suoi scritti, la prosa affascinante, la chiarezza delle sue dimostrazioni e la capacità di fare un passo indietro quando si accorge di aver sbagliato, che ci fanno conoscere bene il personaggio. Rimangono dei dubbi, delle ombre sulla sua abiura e su altri momenti della sua vita intellettuale. Ma sono i dubbi della fede nonostante tutto, i dubbi su quale linguaggio, umano, astratto, matematico, usasse il Creatore; sono i dubbi di uno scienziato che vuole continuare a indagare, a pensare, a insegnare e a dialogare con gli altri filosofi. Un uomo amatissimo da una delle due figlie suore e pressoché ignorato dall’altra. Luci e ombre. Di Kircher si sanno cose strane, tante, interessanti, curiose, incredibili, affascinanti. È un prete della Compagnia del Gesù, un curioso, a modo suo uno scienziato, innamorato di tutto ciò che vede e crede di vedere, maniacale nel collezionismo, divertito dai suoi stessi esperimenti, scopritore e inventore che a volte arriva a credere così tanto ai propri preconcetti da non ritenere necessario verificarli con un esperimento. Ma se uno è un genio se lo può permettere? Sì, se il fine ultimo è lo stupore, quello che si prova di fronte alla miracolosa e indiscutibile prova dell’intelligenza divina. Così doveva pensare Athanasius Kircher quando organizzava
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Prefazione
il suo museo, quando si calava nelle viscere della terra, quando ricreava, misure alla mano, l’Arca di Noè. Viaggi, studi indefessi, elogi e critiche, fatiche e sofferenze. Ma che soddisfazione poter dimostrare che Dio ha pensato proprio a tutto! Che meraviglia il creato! Dove non si vede lo si può immaginare. Anzi, lo si può disegnare nelle splendide illustrazioni di tanti dei suoi libri. E c’è anche la musica nell’universo; e le parole, il linguaggio, che ha regole universali, per le quali si può capire e interpretare anche una lingua sconosciuta. E quindi interpretare i geroglifici egizi, leggendo anche i segni che non ci sono. L’interpretazione che Kircher dà della misteriosa scrittura, proprio perché assolutamente fantastica, è rivelatrice della cultura e dei sogni del gesuita. Le meraviglie del mondo sono per Kircher oggetto di devozione, ma anche feticismo, esaltazione. Mentre scienziati e inventori spesso mostravano imprudenza e impudenza pericolose, come sappiamo dai tragici epiloghi dei processi a loro carico, la Chiesa invece appariva cauta, anche disponibile ad accogliere tesi nuove e dirompenti, a patto che si trovassero i necessari riscontri nelle Scritture. Poiché la teologia non è superstizione, ma ragionamento corredato di seri tentativi di dimostrazione, nessuno degli studiosi del Collegio Romano, pur nella difesa ostinata dei cardini della fede tratti dalle sacre scritture, sentiva di poter negare l’evidenza delle nuove scoperte, la stringente validità delle disquisizioni scientifiche. Questa era la disposizione di Cristoforo Clavio che aveva seguito il percorso di Galileo fin dagli anni della gioventù del pisano, e questo era probabilmente l’animo di Roberto Bellarmino, sofferto inquisitore, ma attento indagatore di ciò che Galileo descriveva come risultato delle sue ricerche. Non oscurantismo, di sicuro, ma forte difesa di un impianto fideistico e, anche, preoccupazione per la gestione delle novità tra un popolo di credenti che, allora come adesso, alla fede chiedeva certezze e offriva in cambio devozione e obbedienza. La scienza che nasceva proprio in quegli anni, le scoperte galileiane, invece, partivano dal dubbio, dalla possibilità di mettere tutto in discussione per arrivare alla prova. Siamo ancora lontani dalla gestione di una scienza al servizio dell’uomo, da una filosofia liberatoria, ma al bivio del ‘600, la strada era stata imboccata e la Chiesa lo sapeva benissimo.
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Indice
Prefazione
Il Teatro del mondo
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Orologi e girasoli che ruotano sulla Terra immobile
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Gesuiti, bilance e cannocchiali
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La luce e le ombre
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Le macchie sul Sole immutabile
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Il Diluvio Universale
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I geroglifici e il sogno della sapienza universale
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I Cieli di cristallo e i gironi dell’Inferno
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Conclusione
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Galileo Galilei e Athanasius Kircher: cronologie parallele 221
Athanasius Kircher e Galileo Galilei nella loro maturità
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Il Teatro del mondo Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, 1904
È proprio così: il Signore ci ha messi a vivere in un mondo complicato ma ordinato. La grande quantità di meraviglie del creato risponde all’ordine che Egli ha voluto infondere nella natura, un ordine che era a conoscenza dei nostri progenitori nel Paradiso Terrestre e che ora è andato perduto. Solo a Roma potrò ritrovare le tracce sbiadite di questa conoscenza primordiale e, con l’aiuto di Dio, sarò in grado di ricostruirla. L’incanto di conoscere tutto: non c’è fatica troppo grande per un obbiettivo tanto meraviglioso […] Così probabilmente ragionava Padre Athanasius Kircher quando nell’autunno del 1633 la sua nave si avvicinava a Civitavecchia. Il viaggio da Marsiglia era stato di quelli che non si dimenticano, ma Athanasius Kircher alle disavventure e ai mezzi miracoli che puntualmente lo avevano salvato ci si era abituato fin da piccolo. Come quella volta che, da ragazzino, era finito sotto gli zoccoli dei cavalli che partecipavano a una gara e ne era uscito senza un graffio, o quell’altra quando si era sperduto nel bosco ed era andato girovagando per un paio di giorni come Pollicino ed era stato ritrovato per caso da dei contadini del posto o, ancora, quando a 15 anni era andato a pattinare su un lago ghiacciato e aveva rimediato un principio di congelamento ai piedi. Era il 1617 e rischiava l’amputazione se non fosse intervenuta, in sogno, la Vergine Maria che aveva intercesso a suo favore. A Kircher, giovane gesuita che aveva l’unico obbiettivo di passare la propria vita nello studio e nella ricerca, era invece capitato in sorte di vivere in quei tempi terribili di conflitto con i luterani nei
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quali per un cattolico l’assistenza celeste risultava indispensabile. Lo aveva capito quando, dovendosi trasferire nel 1623 dall’Università di Coblenza a quella di Heiligenstadt, si era imbattuto in una pattuglia di lanzichenecchi che l’avevano giurata a tutti i papisti e in particolare ai gesuiti. Alla soldataglia non sembrava vero di aver catturato un seguace di Ignazio di Loyola e, dopo aver proceduto a una specie di processo a carico di tutto l’Ordine, avevano deciso di impiccarlo. Padre Atanasio – è egli stesso che lo racconta – reagì mettendosi a pregare mentre gli mettevano il cappio al collo e a invocare la Vergine Maria. Sarà perché i soldatacci rimasero impressionati dalla fede del giovane gesuita o, forse, per un diretto intervento celeste, fatto sta che quei mangiapreti sospesero l’esecuzione e lo lasciarono libero dopo avergli restituito anche un po’ del denaro che gli avevano rubato. Anche il viaggio verso Roma, dieci anni più tardi, aveva dimostrato a Kircher la protezione speciale sulla quale poteva contare. Lui e i suoi confratelli gesuiti avevano impiegato una diecina di giorni solo per arrivare da Marsiglia a Genova perché due burrasche avevano costretto la galera inviata dal Papa a fermarsi in cerca di riparo. Partiti da Genova, una terza tempesta li aveva dirottati in Corsica e fu solo perché si scatenò un inatteso vento di maestrale che erano riusciti a raggiungere Civitavecchia. Qui avevano infine attraccato quando oramai il vascello era sul punto di naufragare. Da come ce lo racconta Padre Atanasio nella sua autobiografia, sembra che egli non fosse granché preoccupato di queste disavventure, un po’ perché temprato dall’esperienza e confortato dalla sua fede e un po’, forse, perché il suo racconto vede la luce molti anni più tardi quando, magari, i dettagli si sono sbiaditi nella sua memoria e della sua vita gli rimane solo il ricordo della parte eroica1. Il vero pericolo che a lui sembrava di star correndo era quello di doversi trasferire a Vienna alla corte dell’Imperatore Ferdinando II per ricoprire il ruolo di “matematico imperiale” rimasto vacante dopo la morte di Giovanni Keplero, perché questo incarico lo avrebbe catapultato nella vita di corte, impedendogli di
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A. Kircher (1684) Vita a semetipso conscripta…, Manoscritto. Traduzione in N. Seng (1901) Die Selbstbiographie des P. Athanasius Kircher, Fulda.
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Il Teatro del mondo
fatto di coltivare gli studi di suo interesse. Questa prospettiva gli appariva ancora più deprimente nel momento in cui stava per concretizzare uno dei sogni della sua vita, quello di arrivare a Roma, sia pure di passaggio, dove avrebbe avuto la possibilità di osservare le reliquie della sapienza antica e, in particolare, di quella nascosta nei geroglifici di cui Roma era ricca. Passare per Roma per andare da Avignone a Vienna è di sicuro un percorso bizzarro, ma in quell’epoca di forti contrasti religiosi e nel bel mezzo della guerra dei trent’anni, la strada più diretta era davvero poco sicura per un gesuita. E poi, visto che se ne presentava l’occasione, Padre Kircher non avrebbe perso per nessun motivo al mondo l’occasione di visitare il “Teatro del mondo”, come Galileo aveva definito la Città Eterna. Il fatto è che Urbano VIII da qualche anno aveva deciso di abbandonare l’atteggiamento autoflagellante della Controriforma militante e aveva imboccato risolutamente la via della promozione del senso di orgoglio di una città che grondava di storia e di bellezza; Caravaggio aveva già lasciato il suo segno e Bernini, Borromini e Pietro da Cortona in quegli anni avevano iniziato a plasmare il nuovo volto di Roma. Non fa meraviglia, quindi, che Padre Kircher, al suo arrivo, iniziasse immediatamente a sognare quali progetti avrebbe potuto realizzare in quella città se, solo, avesse potuto rimanerci. C’è da dire che egli arrivava a Roma preceduto dalle lettere di raccomandazione che Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, un erudito francese che era in rapporto con gli studiosi di mezza Europa, aveva inviato a Francesco Barberini, il cardinal nipote del Papa, e a Cassiano del Pozzo, che Kircher era particolarmente ansioso di conoscere perché faceva parte della cerchia dei Lincei. Questi formavano un gruppo di giovani studiosi che si era raccolto attorno al principe Federico Cesi e che annoverava fra le sue fila Galileo Galilei, il quale, particolarmente orgoglioso di questa appartenenza, aveva regalato al principe un microscopio da lui stesso costruito. La cosa che più affascinava il giovane gesuita era che Cassiano aveva realizzato il Museo Cartaceo di Via dei Chiavari, a due passi da Piazza Navona, nel quale aveva riunito disegni di artisti rinascimentali, riproduzioni delle antichità di Roma, paesaggi bucolici, studi di animali e di piante e aveva inoltre raccolto una quantità ragguardevole di accurate illustrazioni di funghi e uccelli eso-
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tici che, in un’epoca nella quale ancora non esisteva la fotografia, suscitava particolare interesse nel pubblico. È forse nel Museo di Cassiano del Pozzo che nasce in Kircher l’idea di realizzare qualcosa di ancora più completo, un “Museo del Mondo” addirittura, che raccolga i documenti della storia, le invenzioni e le creazioni artistiche umane assieme a quelle della natura, in una parola le testimonianze di tutto l’esistente. Le lettere di raccomandazione che una persona influente come Peiresc aveva inviato a Cassiano e a Francesco Barberini non erano di quelle standard che si scrivono tanto per accontentare qualcuno che le chiede, ma erano lettere con elogi addirittura imbarazzanti e che manifestavano il reale interesse dell’erudito francese che Kircher potesse rimanere a Roma a proseguire la sua attività di studioso e di ricercatore. Presentando il giovane gesuita, infatti, Peiresc scrive [dichiarando me stesso] suo servitore intrinseco, et ammiratore del suo Genio et del suo valore, molto maggiore di quelli che si veggono d’ordinario [e che V. Eccellenza] riconoscerà sin dal primo aspetto della sua persona, et nulla dimeno quella magnanimità, acutezza d’ingegno, che gli hanno fatto penetrare tant’avanti, nella scoperta di molti secreti, così della natura, come dell’antiquità, et delle principali lingue della Christianità.2 A dire la verità, tanto calore non appare del tutto comprensibile, perché Peiresc non aveva poi così tanti motivi di riconoscenza verso il giovane tedesco il quale aveva lasciato la Francia senza aver mantenuto la sua promessa di rivelare la chiave di lettura dei geroglifici egizi che dichiarava di avere trovato. Ma tale era la passione per la cultura dell’antico Egitto, che i due condividevano sulla scia della tradizione neoplatonica cinquecentesca, che ambedue puntavano a bruciare i tempi dell’impresa, con il risultato che il francese si trovava spesso in una disposizione d’animo da rasentare l’ingenuità e il gesuita tedesco era tanto sinceramente coin2
Nicolas-Claude Fabri de Peiresc a Cassiano del Pozzo, 10 settembre 1633, in Daniel Stolzenberg, Egyptian Oedipus: Antiquarianism, Oriental Studies & Occult Philosophy in the Work of Athanasius Kircher (PhD Dissertation, Stanford University, 2004).
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A. Kircher (1652) Oedipus Aegyptiacus…, Roma, Ex Typographia Vitalis Mascardi.
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volto in questi studi da perdere di vista la necessaria valutazione critica delle sue fonti. Il fatto è che Kircher è convinto che la cultura egizia derivi direttamente da quella di Adamo, il primo uomo che, anche dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre, aveva conservato la sapienza che il Signore gli aveva concessa e, attraverso il figlio Seth, l’aveva trasmessa da un patriarca all’altro fino a Henoch il quale, secondo la tradizione, l’aveva tramandata a sua volta attraverso diverse scritture segrete3. Henoch generò Matusalemme che ebbe Lamech il quale a sua volta generò Noè. Questi, scampato con la sua famiglia al Diluvio Universale, aveva passato la conoscenza che aveva ereditato dai suoi antenati ai suoi figli e uno di loro, Cham, arrivato in Egitto aveva consegnata la sapienza divina a Mosè e ai sacerdoti iniziati ai misteri della natura. La conoscenza profonda delle cose che, anche secondo il Vangelo di Matteo, sono “nascoste fin dalla fondazione del mondo“ deve essere trasmessa in forme che siano accessibili solo agli iniziati e la scrittura geroglifica ha proprio la funzione di trasmettere le verità segrete a chi è in grado di interpretarla. Secondo Kircher la chiave per interpretare questa scrittura è comprendere che serve a esprimere concetti e non semplici parole. Il progetto è irto di difficoltà ma il giovane gesuita è convinto che lui, che conosce perfettamente ventitré lingue e che il Signore ha voluto gratificare con la sua assistenza continua, ha i mezzi per venire a capo dell’interpretazione della scrittura dei sapienti egizi. La possibilità di rimanere per un po’ a Roma è indispensabile a questo scopo, perché solo lì si possono esaminare direttamente i geroglifici degli obelischi o quelli della Mensa Isiaca, arrivati nella città ai tempi dei romani antichi. Gli obelischi sono, secondo Kircher, i reperti fondamentali per affrontare lo studio del geroglifico, perché i sacerdoti egizi avevano avuto inizialmente l’intenzione di tramandare i loro misteri incidendo le pareti delle piramidi, ma successivamente si erano resi conto che queste, essendo troppo oblique, risultavano poco pratiche per la scrittura e avevano optato per gli obelischi. Una spie-
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gazione a metà strada fra la logica elementare e la fantasia sfrenata che si ritrova spesso nella vita di Padre Atanasio. Un punto fisso del percorso intellettuale di Kircher è la sua incrollabile fiducia che le Scritture costituiscano nel loro complesso una specie di mappa della via della conoscenza per cui anche il contenuto sapienziale dei geroglifici deve trovarvi una traccia. La testimonianza che il gesuita identifica è la lettera di S. Paolo ai Corinzi, nella quale l’apostolo fa esplicito riferimento alla misteriosa sapienza divina, “che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria”4. In aggiunta Kircher è convinto di avere in mano delle carte importanti, costituite dalle notizie degli antichi storici greci e addirittura da un misterioso trattato, il cosidetto Barachias Nephi, nel quale si illustra un metodo per interpretare i geroglifici egizi. La sfortuna vuole però che il suo progetto è, se vogliamo, in anticipo sui tempi, perché la Stele di Rosetta non è stata ancora ritrovata e, in assenza di riferimenti concreti, il gesuita è costretto ad affidarsi a fonti sconsolatemente improbabili, per cui finisce con l’infilarsi in un vicolo cieco, non senza aver tuttavia portato il proprio contributo alla futura interpretazione della antica scrittura identificando la vicinanza strutturale fra la lingua egizia antica e quella copta. Il fallimento in quello che era l’obbiettivo principale di Padre Atanasio non è dovuto solo alla sfortuna di essersi basato su fonti incerte, ma a questa si aggiunge la sua incapacità a resistere al fascino del mistero che lo porta a dare credito a notizie che hanno relazione più diretta con i sogni che con la storia. C’è il suo interesse per l’ermetismo e in particolare per la figura di Ermete Trismegisto, un autore mitico già studiato nel contesto di pratiche magiche e alchemiche e il cui stesso nome – Trismegisto – è soggetto a varie interpretazioni, sia nel significato letterale di “Tre volte grande” sia in quello che lo identifica con tre personaggi diversi, Enoch, Elia e un re egiziano del dopo-diluvio. Kircher si convince che il Corpus Hermeticum, il testo che viene attribuito a Ermete, sia fondato sulla prisca teologia, cioè su quella che Mosè ha personalmente trasmesso agli egiziani e dalla quale deriva la scrittura sacra che, sola,
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S. Paolo, Lettera ai Corinzi, 1, 2-7.
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è diversa da quella che usiamo tutti i giorni, fatta di lettere, parole e determinate parti del discorso. I geroglifici sono una scrittura molto migliore, più sublime e vicina alle menti astratte, più vicina alla natura intrinseca delle cose e che trasmette il senso dei misteri nascosti in seno alla natura.5 È da questa impostazione, arricchita da una eccezionale e poliedrica erudizione, che proviene la tecnica per l’interpretazione della scrittura geroglifica che Kircher propone dopo anni di studio: In primo luogo riproduciamo ordinatamente i singoli geroglifici. Indichiamo le azioni proprie delle figure ovvero le trasformazioni delle immagini; quindi aggiungiamo i significati mistici dei singoli segni […] 6 Un approccio che ben giustifica l’esclamazione finale liberatoria del gesuita: Ma in nome di Dio immortale, quanti percorsi abbiamo dovuto tentare! Quale immenso oceano di segreti abbiamo dovuto superare! Con quanti mostri e portenti abbiamo dovuto combattere! Se Kircher riuscirà a lavorare per tanti anni sullo studio della lingua geroglifica, che è per lui obbiettivamente non interpretabile, è perché le lettere di raccomandazione di Peiresc raggiungono lo scopo di convincere Francesco Barberini a impegnarsi a sistema5
A. Kircher (1636) Prodromus Coptus sive Aegyptiacus, S. Congregazione de Propaganda Fide ed., Roma. 6 A. Kircher (1650) Obeliscus Pamphilius, in S. Donadoni (2001) Il Museo del Mondo, Edizioni De Luca.
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è in grado di esprimere la natura misteriosa della conoscenza divina. Anche se il Corpus Hermeticum e la stessa credibilità storica della figura del Trismegisto è messa in discussione già all’inizio del ’600, il gesuita è convinto di avere risposte valide a queste obiezioni e continua a pensare che i geroglifici siano una forma di scrittura utilizzata per trasmettere il sapere divino. Questa scrittura naturalmente
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re con l’imperatore la questione del matematico di corte inviandogli Christoph Scheiner, l’autore di Rosa Ursina, professore di Matematica al Collegio Romano e acerrimo nemico di Galileo, e trattenendo in cambio a Roma il giovane Athanasius Kircher. C’è una cosa che in questa vicenda salta agli occhi. Sebbene sia evidente che un erudito come il giovane gesuita tedesco, che si interessa di sistemi cosmologici e di astronomia, conosca perfettamente le opere di Galileo, Kircher non cita mai il nome del famosissimo scienziato, sia pure caduto in disgrazia, se non nelle sue opere più tarde, quando oramai sono passati più di vent’anni dalla sentenza del Sant’Uffizio. Certo, si può immaginare che, con la sentenza ancora fresca di inchiostro, la prudenza avrà spinto Kircher a presentarsi sopratutto come cultore di lingue orientali, evitando di enfatizzare il suo interesse per le scienze astronomiche; ma la tenacia con la quale il gesuita mantiene il punto di ignorare per tanti anni lo scienziato pisano fa pensare che il motivo non sia né la prudenza né eventualmente una banale antipatia personale. Anche il corrispondente disinteresse di Galileo verso Kircher,il quale già dalla fine degli anni ‘30 sta diventando un personaggio di riferimento nella vita romana e che è quindi spesso nominato dai suoi corrispondenti, merita di essere segnalato. È probabile che i due studiosi non si citino l’un l’altro perché rappresentano due mondi che semplicemente non sono in condizioni di comunicare fra loro: Galileo aveva espresso chiaramente i concetti ai quali si ispirava quando, rivolgendosi al docente di matematica del Collegio Romano, Orazio Grassi, aveva scritto chiaramente che la Natura è un grande libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.7
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G. Galilei (1623) Il Saggiatore, http://www.liberliber.it/biblioteca/g/galilei/il_saggiatore/html/01.htm
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È vero che i triangoli e i cerchi sono solo delle approssimazioni di una realtà più complessa e che, di conseguenza, il mondo che possiamo conoscere con l’esperimento è un mondo semplificato nel quale avvengono i fenomeni regolari e ripetibili, quasi il contrario di quello nel quale viviamo. Tuttavia è l’esame di questo mondo semplice che ci permette di derivare le regole generali che sono alla base del mondo reale. Per Galileo la scienza procede astraendo i principi dagli esperimenti. A Kircher questo approccio va stretto perché per lui la scienza consiste nella generalizzazione dei risultati degli esperimenti. Ha studiato le lingue antiche proprio per ritrovare la conoscenza globale che è andata perduta quando la Terra è stata sommersa dal Diluvio Universale. Altro che mondo semplificato! Il gesuita è affascinato proprio dalle eccezioni e dai mostri che, secondo lui, occupano un posto specifico nel grande disegno della Natura. La sua idea è che l’indagine scientifica debba partire realizzando un inventario delle cose esistenti e poi procedere cercando di identificarne gli aspetti comuni. La conoscenza globale che Kircher persegue consiste, in conclusione, nel trovare le relazioni che esistono fra le diverse manifestazioni dell’esistente. Come capita nelle opere di Kircher dove spesso l’immagine è più parlante del testo, questo concetto è espresso chiaramente nell’anteporta del suo libro dedicato proprio all’arte della conoscenza (figura 1). La figura centrale rappresenta la Divina Sophìa che disperde le nebbie dell’ignoranza e che mostra l’alfabeto universale di tutto il sapere, dal quale, secondo le regole dell’arte combinatoria di Raimondo Lullo, si ricava la chiave per la comprensione del cosmo. L’apprendimento può essere raggiunto con i sensi umani, indicati con l’occhio e l’orecchio. I cartigli sotto quello centrale indicano le regole per giungere alla conoscenza: la Ragione, l’Esercizio e l’Esperimento. Le scienze indicate nel festone centrale, Teologia, Metafisica, Fisica, Logica, Medicina, Matematica, Etica, Estetica, Giurisprudenza, Politica, Interpretazione delle Sacre Scritture, Controversia, Teologia Morale, Retorica e Concionatoria, che sono emanate dalla sapienza divina, vengono unificate da Kircher in una scienza universale secondo l’arte combinatoria illustrata nel testo. Alla base del trono appare la scritta, che costituisce il senso dell’opera, Medèn kàllion è pànta eidènai che Kircher
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La fine dei cieli di cristallo Figura 1. Ars Magna Sciendi sive Combinatoria, anteporta. Da A. Kircher (1669) Ars Magna Sciendi…, Amstelodami, Apud Joannem Janssonium a Waesberge, Viduam Eliz. Weyer
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Stante, dunque, ciò, mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie.8
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G. Galilei (1615) Lettera a Madama di Lorena Granduchessa di Toscana.
Il Teatro del mondo
riprende dal Cratylo di Platone per dire che “Nulla è più bello della conoscenza del tutto”. Non potrebbero esistere due approcci più diversi allo studio della natura: Kircher, giovane, brillante e certamente non inviso alla gerarchia ecclesiastica, intende la scienza in maniera conservatrice, cioè come riscoperta e ritrovamento di nuove relazioni fra nozioni già note (quando, poi, questa tecnica non produce risultati particolarmente convincenti si può ricorrere a delle “dimostrazioni”, che hanno più l’obbiettivo di confondere e stupire l’interlocutore che quello di convincerlo). Galileo per tutta la sua vita intende la scienza come attività autonoma basata sull’esperimento che per sua natura non può sottostare al principio di autorità. Anche quando, vecchio e sconfitto dalle circostanze, deve limitarsi a corrispondere esclusivamente con amici fidati, non rinnega quanto aveva scritto nella lettera a Cristina di Lorena, moglie del Granduca di Toscana e nota baciapile:
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Orologi e girasoli che ruotano sulla Terra immobile Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci (Raggiunge la perfezione chi unisce l’utile al dilettevole) Orazio, Ars poetica L’arrivo a Roma di Athanasius Kircher non passa sotto silenzio. C’è per esempio Raffaello Magiotti, un prete toscano che da giovane ha studiato con Galileo, che ne informa immediatamente il suo vecchio professore: […] di nuovo, c’è in Roma un Gesuita, stato gran tempo in Oriente, quale, oltre al posseder 12 lingue, buona geometria etc., ha seco di gran belle cose, e fra l’altre una radica, quale si volta secondo gira il sole, e serve per horiolo perfettissimo. Questa è incastrata da lui in un pezzo di sughero, quale la tenghi libera sopra l`acqua, e sopra il sughero una lancetta di ferro che mostri le hore, con un calcolo per sapere qual ora sia in altre parti del mondo […] 1 Il messaggio è un po’ approssimativo perché a Magiotti sfugge il nome di Kircher e perché gli attribuisce una permanenza in Oriente dove lui non è mai stato, ma dalla lettera traspare quanto egli sia ammirato della cultura del Gesuita e incuriosito da questa strana invenzione di un orologio basato su una radice o un seme che, come il girasole, ha la proprietà di ruotare seguendo il movimento del sole. A noi l’orologio eliotropico, come lo chiama Kircher, può apparire un tentativo di stupire qualche interlocutore di bocca buona, ma non è così.
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R. Magiotti (1634) Lettera a Galileo Galilei, Roma, 18 marzo, 1634.
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Il fatto è che all’inizio del secolo un medico inglese, William Gilbert, ha pubblicato De Magnete, magneticisque corporibus et de magno magnete tellure Physiologia nova, uno studio del campo magnetico terrestre, e ha proposto l’idea che la Terra si comporti come un grande magnete che è sottoposto a sua volta al campo magnetico associato al Sole. La conseguenza di maggiore impatto sulla cultura dell’epoca è che la Terra-magnete sarebbe trascinata dal campo magnetico esterno, che la costringerebbe a ruotare su stessa e, poiché Gilbert è un medico abituato a verificare sul campo le sue intuizioni, realizza un modello di sfera terrestre, una “terrella” come lui la chiama, sagomando un piccolo magnete a forma di sfera con il quale spera di dimostrare che la piccola Terra ruota esattamente come quella vera. Kircher, da buon gesuita, non può condividere l’idea della Terra che ruota ma, nondimeno, si entusiasma allo studio del magnetismo, perché ritiene che questo possa essere la chiave per comprendere una quantità di fenomeni naturali altrimenti inspiegabili, e non è un caso che la descrizione dell’orologio botanico appaia nel trattato Magnes, sive de Arte Magnetica, che è dedicato proprio allo studio degli effetti del magnetismo. Kircher è tanto convinto della ubiquità della forza magnetica, che arriva a sostenere esattamente il contrario di quello che afferma Gilbert, e cioè che l’immobilità della Terra è dovuta al fatto che i poli magnetici terrestri sono attratti da due immaginari poli magnetici celesti, che hanno le polarità opportunamente invertite rispetto ai poli terrestri per cui la Terra è obbligata a restare eternamente immobile nella sua posizione centrale nell’Universo. Padre Atanasio si avvicina così alla scuola della “filosofia magnetica” già condivisa da suoi autorevoli confratelli, come Nicolò Cabeo e Nicolò Zucchi, ma, con l’entusiasmo che lo contraddistingue, si spinge a vedere nella forza magnetica non solo l’architrave che regge la struttura dell’Universo, ma addirittura la chiave per comprendere il funzionamento del cosmo minuto che ci circonda. Poiché la Terra si trova immersa nel campo magnetico del Sole – ipotizza Kircher – è naturale pensare che tutta la sfera biologica ne venga influenzata. Per esempio le piante crescono verso l’alto e le radici affondano verso il basso per un effetto di polarità magnetica, così come si inclinano in direzione del Sole per lo stesso motivo. Se questo è vero, come dimostra il comportamento di
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diverse piante “eliotropiche”, un elementare principio di simmetria ci autorizza a ipotizzare che anche la Luna deve avere una influenza magnetica sulla Terra. Naturalmente una ipotesi tanto innovativa richiederebbe una verifica diretta, cioè la scoperta di qualche pianta che mostri un effetto “selenotropico”. Il pensiero di Kircher corre così all’estremo oriente che, per le differenze culturali e linguistiche amplificate dai resoconti approssimativi che gli inviano i missionari gesuiti, viene considerato una specie di archivio nel quale è possibile scoprire le manifestazioni più sorprendenti della natura e invia messagi ai confratelli per richiedere notizie di piante che mostrino un effetto notturno di questo tipo. Già che ci si trova, poi, arriva a suggerire di verificare se non si trovino anche piante che mostrino analoghi indizi di essere influenzati dal moto degli altri pianeti. L’ipotesi è senza dubbio spericolata, ma avviene in un contesto nel quale molti studiosi affidano all’influenza magnetica la spiegazione di fenomeni che, se si vuole fare a meno delle sfere di Aristotele, restano da decifrare. Fra questi c’è anche Giovanni Keplero, astronomo alla corte del Sacro Romano Impero, il quale, avendo a disposizione la preziosa raccolta di misure di Tycho Brahe, riesce a determinare le leggi che regolano le orbite dei pianeti ma, non essendo in grado di spiegarne la causa, si perde nella ricerca di complicate spiegazioni geometriche che odorano di magia. Non c’è dubbio che, quando parla di orologi-girasoli, Kircher ceda al gusto tutto barocco di stupire l’interlocutore, ma non si tratta, come potremmo pensare, di abbandonarsi a un divertimento, magari un po’ infantile. Secondo i dettami della filosofia aristotelica, infatti, quella di suscitare lo stupore nell’interlocutore è una vera e propria tecnica didattica per permettere a chi ascolta di rendersi conto della propria ignoranza e iniziare così il percorso della conoscenza. Kircher, d’altra parte, utilizza un approccio specifico dell’indagine scientifica che è quello dello studio per analogia che, rinunciando a indagare le cause prime dei fenomeni naturali che ritiene nascoste nella mente di Dio, si rivolge a studiare gli eventi – diciamo così – del secondo ordine. Lo studio delle piante che risentono dell’influsso del sole e di tutti i pianeti, per esempio, promette di rivelarsi una manifestazione minore della stessa causa che permette al sistema planetario di ruotare pur restando stabile nei millenni.
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È in questo contesto che Kircher progetta gli orologi basati sulle supposte proprietà magnetiche delle piante. Questi oroscopi (così vengono chiamati) affascinano molte persone, anche di
Figura 2. L’orologio eliotropico. Da Kircher (1641) Magnes, sive de Arte Magnetica libri tres, Roma, Ex Typographia Ludouici Grignani
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Non m’imagino potere finire questa per nuova più grata a lei di quella dell’inventione d’uno horologio, dove l’hore vengono notate da una certa radica, la quale per proprietà naturale si va movendo continuamente col sole dell’istesso suo moto, posta che sia in libertà dentro all’acqua. Un tal Giesuita Tedesco, arrivato a Roma da poco tempo in qua, il quale si domanda P. Anastasio, n’è stato l’inventore. Egli confessa nondimeno haverlo cavato da certi autori Arabi, essendo detto Padre molto versato nelle lingue orientali. Non dubito che V. S. col suo sublime intelletto non rechi un giorno da questa inventione qualche utilità grande al mondo, benché hora mai fatto indegno di così fatti suoi beneficii […] 2
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G. Bouchard (1634) Lettera a Galileo Galilei, 18 marzo 1634.
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cultura, che non resistono alla curiosità di osservare il funzionamento di un orologio tanto miracoloso. La figura 2 mostra il famoso orologio botanico che utilizza la pianta del girasole, la quale è sorretta da una piattaforma di sughero che galleggia in un catino. Le braccia che sostengono il cerchio dove sono segnate le ore rappresentano l’influenza magnetica del Sole. Il principio di funzionamento è basato sul fatto che il girasole risente dell’influenza del Sole. Allorché questo si sposta nel corso della giornata, la pianta, sensibile al campo magnetico, ne risulta attratta e ruota. Piazzando un piccolo specchio al centro del fiore si ottiene che il quadrante delle ore venga illuminato, realizzando così un orologio naturale. Siccome l’orologio dovrebbe funzionare anche di notte, è consigliabile sostituire lo specchio con un piccolo stilo, in modo da poterlo osservare al lume di una candela. Kircher avvisa il lettore che un oroscopio come questo tende a funzionare per un tempo limitato, per cui raccomanda di fasciare le radici del girasole con un panno bagnato in modo tenerle umide per qualche tempo. Magiotti non è l’unico a essere intrigato dai progetti del gesuita, perché, nello stesso giorno in cui questi scrive a Galileo, uno studioso francese che lavora al servizio di Francesco Barberini, Giacomo Bouchard, si affretta anche lui a informare il vecchio scienziato pisano:
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(Girasoli e orologi a parte, vale la pena di notare l’ultima riga di questa lettera nella quale Bouchard, un dipendente del nipote del Papa, fa un riferimento sconsolato al modo con il quale Galileo è stato trattato proprio a Roma). Lo studio dell’orologio eliotropico viene da lontano, cioè da quando Kircher, in fuga dalla Germania che era stata investita dalla Guerra dei Trenta anni, era approdato al Collegio dei Gesuiti di Avignone. Inutile dire che, anche nella fuga da Würzburg dove si trovava, Kircher era stato assistito da qualche intervento miracoloso, perché l’orribile invasione del Collegio da parte dei soldati svedesi di re Gustavo Adolfo gli era stata annunciata da un sogno premonitore che gli aveva permesso di fuggire in tempo assieme al suo allievo Kaspar Schott. È il 1631 e l’arrivo nel Collegio di Avignone deve aver avuto sul giovane gesuita tedesco un effetto di liberazione che si ritrova nella introduzione al suo trattato sullo studio della luce e nella quale definisce Avignone, città particolarmente propizia agli studi di astronomia “ad astronomicis incumbendu studiis situm admodum opportunum”3. Ad Avignone Kircher si sente finalmente libero di dedicarsi alle sue svariate passioni e, pur adempiendo regolarmente ai suoi doveri di docente di lingue orientali, filosofia e matematica, si impegna immediatamente a realizzare un orologio planetario sul muro della Tour de la Motte all’interno del Collegio. Un orologio planetario, appunto, non un semplice orologio solare come ne aveva già realizzati parecchi, un orologio, cioè, che utilizza una serie di specchi per inviare la luce del Sole e della Luna all’interno della torre dove, sulle pareti, assieme alle usuali ore segnate dal Sole, sono tracciate diverse proiezioni uranografiche, insieme alle costellazioni e ai segni zodiacali4. È qui in Provenza che Kircher incontra Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, un incontro dal quale dipenderà tutta la futura carriera del gesuita, poiché sarà grazie all’eccellente presentazione dell’astronomo francese che Kircher riuscirà a realizzare il sogno di stabilirsi a Roma, libero di dedicarsi allo studio del numero sterminato di argomenti di cui si occupa e, in aggiunta, senza particola-
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A. Kircher (1635) Primitiae gnomonicae catopriticae, Avignone. J. Fletcher (1970) Isis, Vol. 61.
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ri impegni didattici. L’interesse che Peiresc nutre nei confronti del giovane gesuita è dovuto soprattutto alla speranza che questi sia sul punto di fornire la chiave di lettura dei geroglifici egizi ma, oltre a questo, non c’è dubbio che egli subisca il fascino della sconfinata erudizione di questo giovane tedesco che è in grado di discutere con competenza di fisica, teologia, combinatoria e astronomia. Tanta è la fiducia di Peiresc nelle capacità di Kircher che si offre ripetutamente di interporre i suoi uffici per ottenere che il gesuita venga trasferito dal convento di Avignone a Aix, dove Peiresc vive, in modo da poter avere occasione di collaborare in maniera continua con una persona che egli considera di impareggiabile cultura. Kircher probabilmente preferisce rimanere ad Avignone, dove gli sembra di poter lavorare con maggiore tranquillità senza la continua pressione di Peiresc, il quale lo sollecita a pubblicare almeno i primi risultati del lavoro sui geroglifici e, in effetti, la trovata dell’orologio eliotropico ha tutto il sapore di un diversivo che Kircher mette in campo per resistere alle insistenze di Peiresc. L’orologio perfezionato dal gesuita consiste in un pezzetto di sughero che galleggia in una bacinella piena di acqua e sul quale è fissato un seme di girasole che – assicura Kircher – conserva la stessa proprietà che ha la pianta di seguire il movimento del sole anche quando il cielo è nuvoloso e che pertanto si presta a funzionare come un orologio (in effetti Kircher deve aver preparato differenti orologi di questo tipo, perché le diverse persone che lo hanno visto parlano a volte di una misteriosa “radica” e altre di semi o della intera pianta del girasole). Peiresc non ha mai visto personalmente l’orologio eliotropico in funzione, ma non lo ritiene indispensabile perché, con un ragionamento tipico dell’epoca, è a conoscenza che diversi personaggi autorevoli sono rimasti particolarmente impressionati dalle proprietà meravigliose del seme di girasole per cui decide di organizzare un esperimento pubblico sul funzionamento dell’orologio-botanico. Padre Atanasio, che forse avrebbe voglia di sfuggire a questa specie di dimostrazione popolare, si presenta con due dispositivi, uno che utilizza il seme di girasole incastrato nel sughero e l’altro che, al posto del seme, utilizza un piccolo magnete. L’apparato sperimentale è identico per i due congegni. Ambedue richiedono
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un catino riempito di acqua sul quale sono segnate le 24 ore del giorno e della notte mentre sul sughero che galleggia è applicato un indicatore ricavato con del cartoncino: la tesi è che, poiché ambedue i sistemi risentono dell’influenza magnetica del Sole, la loro posizione, che deve variare seguendo il movimento del Sole, costituisce un orologio naturale. Il risultato della dimostrazione è un successo a metà, perché l’orologio con il magnete in effetti mostra di ruotare quando lo si sposta dalla posizione che aveva raggiunto (tutto sommato si tratta di un risultato che ci si poteva aspettare visto che si sa da secoli che un ago magnetizzato tende a conservare la sua direzione …), mentre quello con il seme di girasole, che pure dovrebbe subire l’effetto magnetico del Sole, non mostra un movimento convincente. Peiresc non appare particolarmente deluso di questo risultato, forse perché l’effetto sul magnete è di per se stesso un risultato interessante. Infatti, se è vero che la capacità dell’ago magnetico di orientarsi verso il polo nord è nota da secoli, la causa rimane misteriosa: qualcuno favoleggia di una leggendaria montagna di magnetite posta nei pressi del circolo polare artico e altri suggeriscono che sia la stella polare ad attrarre l’ago. Kircher invece è fra coloro che sostengono l’ipotesi di Gilbert che la Terra costituisca un enorme magnete i cui poli attraggono o respingono quelli dell’ago magnetico, per cui l’esperimento in qualche misura aumenta la credibilità del gesuita, il quale, in aggiunta, promette a Peiresc un orologio botanico in regalo in modo che egli possa verificarne il funzionamento personalmente. L’orologio magnetico, in ogni caso, rappresenta un argomento di grande attualità tanto più che gira voce che a Liegi esista un altro fantastico orologio magnetico. La notizia, secondo il costume dell’epoca, assume una credibilità totale, perché è riportata da Silvestro di Pietrasanta che è il confessore del Nunzio papale Pierluigi Caraffa il quale, secondo quanto racconta Pietrasanta, ha avuto agio di osservarlo a casa sua per diversi giorni. Come se non bastasse c’è una ulteriore testimonianza che merita fede assoluta, la lettera che il pittore barocco per eccellenza, Pietro Paolo Rubens, invia a Peiresc: […] non si deve dubitare della autenticità dell’orologio (il mistero consiste in una certa attrazione e nella influenza
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Autore del marchingegno è un gesuita inglese, Padre Linus, […] che ha realizzato un orologio costituito da una sfera (di cera o di rame) che resta ferma al centro di una sfera più grande riempita di acqua, esattamente come – parole di Pietrasanta – la Terra resta stabile al centro dell’aria che la circonda. La sfera piccola, sospinta da una forza misteriosa, si muove con un movimento contrario a quello dei cieli da est a ovest. Nell’acqua c’è un piccolo indicatore a forma di pesce che, col muso, punta alla sfera piccola e, poiché sulla sfera piccola sono riportate le 24 ore del giorno, sembra che col suo occhietto guardi attentamente le ore che gli scorrono davanti […] 6 Peiresc che, fino a quel momento, ha avuto verso gli orologi magnetici e idraulici l’atteggiamento nulla più che di curioso interesse che è normale per uno studioso del suo tempo, di fronte alle notizie che sembrano confermare che il campo magnetico del Sole abbia effetti osservabili sulla Terra, sembra essere colto da una speranza improvvisa perché inizia a chiedersi: Se si dimostra che l’orologio ruota per effetto della misteriosa virtù magnetica emanata dal Sole, non potrebbe essere questa la prova che anche la Terra ruota per un effetto simile? Di fronte a un riscontro di tale evidenza – prosegue Peiresc nel suo ragionamento – persino il Tribunale dell’Inquisizione sarebbe costretto a rivedere le proprie posizioni intransigenti su questo argomento e, in ogni caso, la posizione del povero Galileo ne risulterebbe alleggerita, magari fino al punto di far sospendere la condanna al confino nella sua casa di Arcetri […] In effetti Peiresc, che è un copernicano convinto e che conosce Galileo dai tempi di Padova, non sa darsi pace della situazione
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P.P. Rubens (1634) Lettera a Fabri de Peiresc, 18 dicembre 1634. S. Pietrasanta (1634) De Symbolis Heroicis Libri IX, Antuerpiae.
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magnetica); io ho parlato con un uomo di ingegno il quale lo ha visto e fatto funzionare con facilità […] 5
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nella quale si trova lo scienziato pisano dopo il processo del 1633 e vorrebbe fare qualcosa in favore del suo amico e, sembrandogli che si sia presentata l’occasione, scrive al nipote del Papa, cardinale Francesco Barberini: Una supplica mi resta ancora a fare all’Em.za V., della quale io la preggo quanto so et posso di schusare la speranza ch’ella si degnarà far qualche officio per la consolatione d’un buon vecchio settuagenario et poco sano di corpo, la cui memoria difficilmente sarà scancellata nell’avenire […] Questo dico per la compassione che tengo del povero buon vecchio S.r Galileo Galilei […] confinato in una sua villa vicino ad un monasterio, dove gli era morta una figlia monacha, sua unica consolatione, et che gli erano prohibite le visite et corrispondenze degli amici, non che l’accesso della città et della propria casa […] Dopo aver toccato la corda della pietà, Peiresc tocca quelle del ragionamento, non esclusa quella di negare che l’opinione di Galileo fosse quella riportata nel Dialogo, e continua: Io veggo che a pittori excellenti nell’arte loro si sonno condonati peccati gravissimi, et l’enormità de’ quali era a sommo horrore, per non lasciare inutile il precedente merito; et tante inventioni, le più nobili che si fussero scoperte in tanti secoli, non potranno meritare l’indulgenza d’un scherzo problematico, dove egli non ha mai affirmativamente asserito esser suo proprio parere quello che non s’è voluto approvare? 7 Peiresc si entusiasma tanto di questa possibilità che arriva a comunicare direttamente all’amico Galileo la sua fiducia: […] par che sia una pruova et testificatione caduta dal Cielo in mano d’un Padre Giesuita, più tosto che d’un’altra professione, […] per convincere il torto di quelli trovavano tanta repugnanza nella dottrina Copernicana et in ciò che V.S. n’haveva proposto per scherzo problematico […] cercarò qualche prattica et corrispon-
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N.C. Fabri de Peiresc (1634) Lettera a Francesco Barberini, 5 dicembre 1634.
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Galileo, però, è costretto a richiamare l’amico Peiresc alla realtà ricordandogli che già nel Dialogo sopra i due Massimi Sistemi del Mondo aveva ridicolizzato l’idea che una sfera magnetica potesse girare su se stessa in 24 ore, infatti […] l’horologio Hydraulico sarà veramente cosa di estrema maraviglia quando sia vero che il globo pendente nel mezo dell’Acqua vadia naturalmente volgendosi per occulta virtù magnetica. Io feci già molto anni sono una simile invenzione , ma con l’aiuto di un ingannevole artifizio, e la machina era tale. Il globetto, diviso con 12 meridiani per le 24 ore, era di rame, voto dentro, e con un pezzetto di calamita postogli nel fondo […] E, dopo aver descritto nel dettaglio il trucco, non sa resistere a liquidare la questione con la sua irrinunciabile ironia toscana: […] ma se questa del P. Lino senz’altro artificio fa sì che il suo Globo ubbidisca al moto del Cielo, sarà veramente cosa celeste e divina e havremo così il moto perpetuo […] 9 Galileo è purtroppo un facile profeta quando mostra di non nutrire la stessa fiducia di Peiresc nella possibilità di una sorta di revisione del suo processo come tristemente conferma al suo amico lucchese Elia Diodati […] arrivato a casa, trovai il Vicario dell’Inquisitore che era venuto a intimarmi […] con lettere del Signor Cardinal Barberino (l’amico di Peiresc!) ch’io dovessi desistere dal far dimandare più grazia della licenza di poter tornarmene a Firenze, altrimenti che mi arebbono fatto tornare là, alle carceri vere del Santo Offizio […] 10 8
N.C. Fabri de Peiresc (1635) Lettera a Galileo Galilei, 1 aprile 1635. G. Galilei (1635) Lettera a Fabri de Peiresc, 12 maggio 1635. 10 G. Galilei (1634) Lettera a Elia Diodati, 25 luglio 1634. 9
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denza con detto P.re Lino [e] procurrerò di farlo chiamare in Roma […] il tutto per haver sempre nuovi argomenti di rammemorare V. S. Ill.re a que’ che la possono aiuttare meglio di me […] 8
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Kircher, che si trova a Roma da quasi un anno, rimane estraneo a questo dibattito, né il suo mentore Peiresc prova a coinvolgerlo, forse per non metterlo in imbarazzo, visto che gli echi del processo a Galileo sono ancora ben presenti nella città. Padre Atanasio, dal canto suo, sembra aver perso interesse al suo orologio magnetico concentrando tutta la sua attenzione sull’orologio botanico e, nonostante l’insuccesso di Aix di qualche anno prima, continua a produrne diversi esemplari che, in qualche maniera, arriva a collocare addirittura nel presepio della casa del defunto Cardinal Sacchetti, come Magiotti si premura di scrivere a Galileo: Fui per le feste di Natale, in compagnia delli SS. Sacchetti, a vedere il presepio (in questo erano diversi orologii, che si movevano in virtù d’una radica, del P. Atanasio Giesuita) […] 11 Sebbene non sia una figura di primo piano nella Roma dell’epoca, Magiotti è tuttavia una persona influente tanto che riesce a farsi promettere da Kircher “un pezzo di quella radica”12 anche se il suo entusiasmo dovà rimanere deluso perché, come confessa sconsolato a Galileo, “quel buon Padre della radica s’è partito all’improvviso […] et io son restato senza la radica promessami”13. Il fatto che il gesuita non mantenga la sua promessa è, forse, il segno che egli trova difficoltà a far funzionare l’orologio botanico, ma non è questo l’unico indizio. Perché, per esempio, conoscendo il gusto di Kircher per le scene a effetto, non mostra almeno una volta l’orologio basato sull’intera pianta di girasole, come quello raffigurato nel frontespizio del suo Magnes? In effetti Kircher sembra rendersi conto che il pubblico si aspetterebbe una dimostrazione scenografica come quella di una grande pianta di girasole che, incastrata su una piattaforma galleggiante, si muova a indicare il trascorrere delle ore e, in qualche modo, si giustifica per questa mancanza: in primo luogo – spiega – è difficile usare un fiore intero perché
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R. Magiotti (1637) Lettera a Galileo Galilei, 21 marzo 1637. R. Magiotti (1637) Lettera a Galileo Galilei, 25 aprile 1637. R. Magiotti (1637) Lettera a Galileo Galilei, 16 maggio 1637.
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e poi egli ha verificato che quando il sole è debole e la pianta un po’ appassita, essa tende a rallentare come se desiderasse fermarsi. Infine, un orologio così fatto non riesce a sopravvivere per più di un mese.14 Questi motivi sono, tutto sommato, ragionevoli e facili da credere, ma sorge il sospetto che ci sia qualcosa di più serio che impedisce l’esibizione di un vero e proprio orologio-girasole quando si vada a leggere il resoconto che, diversi anni più tardi, Kircher fa di un suo incontro a Marsiglia avvenuto nel 1633, alla vigilia della partenza per il suo avventuroso viaggio che lo porterà a Roma e del quale non ha mai fatto menzione precedentemente. Nel porto di Marsiglia, secondo il racconto, egli avrebbe incontrato un misterioso mercante arabo il quale, dopo aver chiacchierato del più e del meno, gli rivela che nel suo paese esisteva un famoso medico che, con l’aiuto di una sostanza che ha la proprietà di orientarsi costantemente verso il sole, riesce a conoscere l’ora sia del giorno che della notte e la fortuna aveva voluto che l’arabo avesse portato con sè un pezzetto di quella sostanza e avesse accettato di fare un baratto con Kircher. La storia sembra fatta apposta per aggiungere il mistero dell’oriente all’enigma dell’orologio botanico ma, sopratutto, suggerisce il sospetto che gli orologi di Kircher funzionino (quando funzionano) solo perché il padre gesuita ha nascosta da qualche parte un pezzetto del materiale misterioso. Almeno questa è l’idea che si fa Peiresc dell’arcano, anche se rimane convinto fino alla sua morte che il movimento degli orologi magnetici è legato alla rotazione della Terra, tanto è vero che nel suo lascito testa14 A. Kircher (1641) Magnes, sive de Arte Magnetica libri tres, Roma, ex Typographia Ludouici Grignani, citato in T. L. Hankins & R. J. Silverman (1995) Instruments and the Imagination, Princeton Un. Press, Princeton, NY.
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è impossibile racchiuderlo in una teca di vetro ed evitare che un alito di vento lo sposti dalla posizione che vorrebbe raggiungere
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mentario si trovano menzionati due orologi magnetici, quello di Linus e quello di Kircher. Il compendio del pensiero di Padre Atanasio sulla natura del magnetismo si trova nel Magnes, sive de Arte Magnetica libri tres che egli pubblica nel 1641, a qualche anno di distanza dall’inizio degli esperimenti sugli orologi magnetici. Qui il gesuita, partendo addirittura dalla etimologia, esamina tutti i fenomeni che, secondo lui, possono essere ascritti alle influenze magnetiche che pervadono la natura e, naturalmente, esamina a fondo orologi e planetari magnetici. Il testo è piuttosto tecnico ma, come capita spesso nei libri di Kircher, gran parte del messaggio viene affidato alle illustrazioni. I disegni, però, mostrano immediatamente una stranezza e cioè che assieme all’orologio magnetico viene mostrato anche il meccanismo nascosto che permette all’orologio di funzionare, in altri termini viene mostrato l’espediente che Padre Atanasio ha sempre tenuto celato nei suoi esperimenti. La cosa appare ancora più strana se si considera che il gesuita, fin dai tempi delle sue dimostrazioni ad Aix, aveva sempre insistito che quelli che egli mostrava erano genuini fenomeni naturali: cosa lo aveva convinto, dopo sette o otto anni, a rivelare che gli orologi richiedevano un meccanismo esterno per funzionare? Possiamo immaginare a questo proposito che magari era stato lo stesso Peiresc che, involontariamente, lo aveva indotto a considerare la pericolosità della strada sulla quale si stava incamminando: la rotazione degli orologi eliotropici avrebbe potuto suggerire a qualcuno che, rifacendosi alla teoria di Gilbert, si poteva concludere che anche la Terra ruota su se stessa, trasformando così il povero Kircher in un sostenitore di posizioni filo-copernicane. E di questo il gesuita non ne ha proprio voglia, anzi egli è disponibile piuttosto a sostenere che l’influenza magnetica abbia l’effetto di stabilizzare la Terra nella sua posizione centrale nel sistema solare! Certo è che a Kircher deve essere costato parecchio ammettere dopo tanti anni di aver utilizzato un artificio nelle sue dimostrazioni pubbliche, e si sarà sentito un po’ come un illusionista costretto a svelare il trucco di una sua magia. Resta per Kircher il problema dell’orologio magnetico di Padre Linus, anche egli un gesuita, il quale, secondo quanto riportato da Silvestro da Pietrasanta, è perfettamente funzionante. Kircher non conosce di prima mano questo orologio ma ha modo di parlare
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Figura 3. Orologio di Padre Linus (Francis Line), S.J. Da Kircher (1641) Magnes, sive de Arte Magnetica libri tres, Roma, Ex Typographia Ludouici Grignani
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con Silvestro da Pietrasanta che, nel frattempo, si è trasferito al Collegio Romano e si fa una chiara idea della sua architettura, che sostanzialmente è identica a quella dell’orologio che egli stesso ha costruito (figura 3). La sfera esterna nella figura contiene un
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liquido nel quale galleggia una sfera più piccola che secondo alcuni testimoni è di cera, secondo altri di bronzo o di rame. La sfera interna ruoterebbe a causa dell’influenza magnetica del Sole e il pesciolino, che è fisso rispetto alla sfera esterna, svolge la funzione delle lancette in un orologio moderno indicando col muso l’ora che è disegnata sulla sfera ruotante. Quasi a dimostrare che egli è in grado di costruire orologi anche più complicati di quello di Linus, Kircher pubblica anche il modello di un suo orologio magnetico (figura 4) che si basa sugli stessi concetti di quello di Padre Linus, ma è dotato di un meccanismo più complesso anche se spiegato in maniera assai lacuno-
Figura 4. Orologio perpetuo magnetico di Kircher. Da Kircher (1641) Magnes, sive de Arte Magnetica libri tres, Roma, Ex Typographia Ludouici Grignani
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Come noi osserviamo le sfere dell’orologio e leggiamo le ore senza vedere i meccanismi che le muovono, allo stesso modo noi osserviamo le benedizioni e le punizioni del Signore senza comprenderne le segrete cause […] 15. 15 G.P. Harsdörffer (1651) Delitiae Mathematicae et physicae, Norimberga, 1651, citato in T. L. Hankins & R. J. Silverman (1995) Instruments and the Imagination, Princeton Un. Press, Princeton, NY.
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sa. Da notare che il disegno svela l’esistenza della “clessidra” cioè del meccanismo che trasmette la rotazione alla piccola sfera di sinistra, ammettendo così che la rotazione non avviene per effetto di trascinamento magnetico da parte del sole. Nella parte superiore a destra il cartiglio che riporta la dicitura “Inventore Athanasio Kircherio” sottolinea che si tratta di un meccanismo differente da quello di Padre Linus. La sfera di sinistra è di vetro e al centro è posto un globo cavo “che può essere di qualsiasi materiale escluso il ferro” che viene introdotto dall’imboccatura della sfera esterna. La sfera interna è mantenuta in posizione per effetto di un magnete. Il parallelepipedo alla base è di metallo e contiene un diaframma che permette che la porzione di destra sia riempita di acqua a metà. La sfera di destra, metallica e cava, ha la funzione di attivare un sifone che permette di rifornire di acqua il piccolo serbatoio che costituisce il motore del meccanismo. L’acqua, gocciolando in maniera assai regolare, fa girare la ruota dentata che, a sua vota, trasmette la rotazione al magnete indicato con la lettera E. Il campo magnetico rotante così realizzato trasmette la rotazione alla piccola sfera B. La sirena funge da indicatore delle ore che sono dipinte sulla piccola sfera di sinistra. La sua “ritrattazione” dell’orologio magnetico non significa che Kircher abbia cambiato opinione sul ruolo che il magnetismo svolge nel funzionamento del mondo. Egli ritiene che l’orologio magnetico sia stato semplicemente un esperimento mal riuscito e il suo interesse per l’orologio botanico ne è addirittura rafforzato. D’altra parte gli orologi dei quali si interessa Padre Atanasio non sono una macchina come un’altra ma, più che strumenti di misura del tempo, sono dei modelli di Universo, del quale, come conferma un seguace del gesuita, rafforzano l’inconoscibilità dei principi primi di funzionamento:
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La visione di un Universo che possa essere raccontato attraverso un orologio non è solo di Kircher. Keplero, che pure è un copernicano convinto e lontanissimo per molti versi dalla filosofia del gesuita, sposa pienamente l’idea che l’Universo sia rappresentabile per similitudine di macchine costruite dagli esseri umani: Un tempo […] credevo che la causa motrice dei pianeti fosse un’anima […] Lo scopo che qui mi propongo è di affermare che la macchina dell’Universo è simile a un orologio […] e in essa tutti i vari movimenti dipendono da una semplice forza attiva materiale, così come tutti i moti dell’orologio sono dovuti al semplice pendolo.16 Se a volte la filosofia di Kircher trova dei punti di contatto con quella misticheggiante di Keplero, la sua distanza dalla ideologia di Galileo è, al contrario, sempre nettissima. Mentre il pisano ritiene che lo scienziato debba indagare la Natura sulla base di esperimenti dai quali dedurre le regole del suo funzionamento, agli occhi del gesuita il progetto generale del mondo è essenzialmente inconoscibile. Lo spazio di libertà che, nella visione di Kircher, ha lo scienziato è quello di procedere per analogie: macchine come l’orologio botanico funzionano secondo principi analoghi a quelli che osserviamo in altre manifestazioni della natura. Di conseguenza l’unica maniera per accreditare la sua visione di un universo magnetico è quella di raccogliere centinaia di similitudini osservabili in natura e riportarle diligentemente nel Magnes, accrescendo così, presso alcuni, la sua fama di studioso enciclopedico e, presso altri, una perplessità che sconfina nel sarcasmo, come nella lettera che l’allievo di Galileo, Evangelista Torricelli, scrive al suo professore: Due nuove famose ci sono: la morte del Card Pio, e la stampa, aspettatissima già sono anni, del P. Atanasio Kircher. Questo è il Gesuita matematico di Roma. L’opera stampata è un volume assai grosso sopra la calamita; volume arricchito con una gran supelletile di bei rami. Sentirà astrolabii, horologii, anemosco-
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J. Keplero (1868) Opera Omnia, vol I, Frankfurt/Erlangen 1868.
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E. Torricelli (1641) Lettera a Galileo Galilei (post scriptum), 1 giugno 1641.
Orologi e girasoli che ruotano sulla Terra immobile
pii, con una mano poi di vocaboli stravagantissimi. Fra l’altre cose vi sono moltissime carraffe e carraffoni, epigrammi, distici, epitafii, inscrittioni, parte in latino, parte in greco, parte in arabico, parte in hebraico et altre lingue. Fra le cose belle vi è, in partitura, quella musica che dice esser antidoto del veleno della tarantola. Basta: il S.r Nardi e Maggiotti et io habbiamo riso un pezzo.17
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Gesuiti, bilance e cannocchiali Astronomos in rebus astronomicis esse consulendos (Per l’astronomia bisogna rivolgersi agli astronomi) Cristoforo Clavio
Magiotti e Bouchard scrivono a Galileo per informarlo sull’orologio eliotropico di Kircher nel 1634, quando Galileo ha oramai 70 anni. È anziano, da pochi mesi gli è venuta a mancare la sua affezionatissima figliola, Suor Maria Celeste, e in una lettera al suo vecchio amico, Elia Diodati, si trova a riflettere sul commento che Cristoph Grienberger, suo vecchio conoscente al Collegio Romano, aveva fatto all’indomani della sua condanna: Se il Galileo si avesse saputo mantenere l’affetto dei Padri di questo Collegio, viverebbe glorioso al mondo e non sarebbe stato nulla delle sue disgrazie, e arebbe potuto scrivere ad arbitrio suo d’ogni materia, dico anco di moti di terra, etc […] 1 Lo scienziato pisano non sa darsi pace perché Non è stato, dunque, quello che ho scritto sulla rotazione della Terra la causa della mia disgrazia – conclude – ma di essere in disgrazia coi gesuiti! La cosa lo addolora e gli risulta incomprensibile. In effetti i suoi rapporti con i gesuiti romani in passato erano stati eccellenti a partire da quando, nell’estate del 1587, egli era stato cordialmente ricevuto a Roma dal più importante matematico del Collegio Romano, Padre Cristoforo Clavio.
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G. Galilei (1634) Lettera a Elia Diodati, 25 luglio 1634.
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Ritornato a Firenze, Galileo aveva iniziato una amichevole corrispondenza che, pur vertendo generalmente su aspetti tecnici dei suoi studi, lascia indovinare, nel suo svolgersi, la sincera disponibilità dell’autorevole professore verso il giovane studioso. La prima lettera è di Galileo: Parmi hor mai tempo di rompere il silenzio sin qui usato con VSMR da che mi partii di Roma, si per rinfrescarli nella memoria il desiderio che ho di servirla, come ancora per darle occasione di satisfare al desiderio mio che è d’intender nuova di lei: et sentire di parer suo circa alcune mie difficoltà […] 2 Per rispondere alla quale Clavio non pone tempo in mezzo: Ho ricevuto la lettera di V.S., a me gratissima per intendere come si ricordi tanto particolarmente di me, si come lo fo anco io di lei […] Poi esamina le questioni tecniche che Galileo gli aveva posto e risponde alla richiesta del suo trattato sul calendario Gregoriano, del quale era stato uno dei maggiori artefici: Quanto al trattato del Calendario, l’ho finito, ma l’ho da rivedere co‘l Cardinale di Mondevi, il quale è occupatissimo, et trattiene questo negotio […]. Con questo fo fine, offrendomi in ogni sua occorrenza potrò.3 La corrispondenza era continuata con Galileo che si scusava per il ritardo di pochi giorni col quale risponde: Ricevetti più giorni sono una di V.S.R. à me gratissima alla quale non prima che hora ho dato risposta si per essermi convenuto fare alcuni viaggi sì ancora per non l’infastidire sapendo quanto sia di continuo occupata […] 4 E con Clavio che usa un tono di sincera cordialità 2 3 4
G. Galilei (1588) Lettera a Cristoforo Clavio, 8 gennaio 1588. C. Clavio (1588) Lettera a Galileo Galilei, 16 gennaio 1588. G. Galilei (1588) Lettera a Cristoforo Clavio, 25 febbraio 1588.
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Le difficoltà alle quali Galileo si riferisce in questa corrispondenza riguardano un suo saggio sul baricentro dei corpi solidi al quale il giovane scienziato sta lavorando da diverso tempo. Un paio di anni prima, infatti, aveva scritto un trattatello, La Bilancetta, nel quale la questione del peso specifico dei solidi veniva affrontata in maniera attraente proponendo un racconto che inizia ricordando che […] è assai noto a chi di leggere gli antichi scrittori cura si prende, avere Archimede trovato il furto dell’orefice nella corona d’oro di Ierone, così parmi esser stato sin ora ignoto il modo che sì grand’uomo usar dovesse in tale ritrovamento […] 6 Si tratta della leggenda che è riportata nel De architectura di Vitruvio, nel quale si racconta che il tiranno di Siracusa, Gerone, venne assalito dal dubbio che l’artigiano al quale aveva dato l’incarico di eseguire la sua corona non avesse utilizzato tutto l’oro che gli era stato consegnato, ma che lo avesse fuso assieme a un metallo vile e avesse trattenuta una parte dell’oro per sè. La domanda che Galileo si pone nel trattato è: come fece Archimede, al quale Gerone si era rivolto, a svelare l’imbroglio? Egli non può accettare la leggenda puerile che vuole che l’idea sia apparsa all’improvviso nella mente di Archimede mentre faceva il bagno e che questo poi fosse corso per la strada, mezzo nudo, gridando “Eureka! Eureka!”. Galileo immagina piuttosto che Archimede avesse ideato una piccola bilancia idrostatica, una bilancetta appunto, che gli aveva permesso, con un sistema di pesate successive, di trovare il peso specifico della corona di Gerone, che aveva poi confrontato con quella dell’oro puro. Per la cronaca risulta che l’artigiano infedele sia stato smascherato, ma quello che va sottolineato è che il giovane Galileo non
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C. Clavio (1588) Lettera a Galileo Galilei, 5 marzo 1588. G. Galilei (1586) per es. in Opere di Galileo Galilei, UTET, 1980.
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[…] mi dispiace di non potere per le continue mie occupationi attendere con piu studio alla materia per satisfare a V. S. nel suo quesito, come io desidero […]. Della promessa mi ricordarò, et sarò sempre pronto a servirlo […] 5
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si era limitato a inventare un divertissement immaginando un esperimento che fosse degno della fama di Archimede, ma egli stesso aveva eseguito la misura del peso specifico di 39 elementi che vengono accuratamente riportati in due tabelle. Con La Bilancetta, insomma, Galileo aveva presentato a 24 anni il suo biglietto da visita di fisico sperimentale. Galileo è oramai lanciato nel mondo accademico, lanciato ma sempre pagato pochissimo e con parecchie antipatie nell’accademia pisana. A questo stato di cose si aggiunge il 2 luglio del 1591 la morte del padre Vincenzio, per cui Galileo si ritrova con la responsabilità di mantenere tutta la famiglia e non può fare altro che decidere di trasferirsi all’Università di Padova, dove è meglio pagato e dove l’insegnamento non lo impegna più di tanto visto che gli obblighi didattici non superano un paio d’ore a settimana. Questo gli lascia parecchio tempo per i suoi studi di meccanica e per la realizzazione di strumenti, come il compasso geometrico e militare, che gli farà conoscere il primo serio bisticcio della sua vita nel quale, come gli capiterà una quantità di altre volte, parte con tutte le ragioni di questo mondo e termina essendosi creato un buon numero di nemici giurati, che avrebbe potuto facilmente evitare se solo avesse tenuto a freno le ruvidità del suo carattere. Il compasso è essenzialmente un regolo per fare calcoli complessi e Galileo spera di poterci fare qualche soldo perché, oltre che da scienziati e persone di buona cultura, esso può essere utilizzato per calcolare l’alzo per realizzare un lancio efficace di una palla di cannone di un dato peso (per questo lo chiama “militare”). Lo strumento inoltre può risultare utile ai commercianti che debbono calcolare interessi composti o conoscere il costo delle merci acquistate in moneta differente da quella locale. Galileo tuttavia, avendo avuto sentore che, una volta messo in commercio, uno strumento meccanico di questo tipo sarebbe stato immediatamente copiato, si premunisce scrivendo un trattato sul suo uso, in modo da disporre di un documento che testimoni la priorità della sua scoperta ma, per non regalare nulla agli avversari, evita di entrare nei dettagli della realizzazione e in particolare sulla tecnica utilizzata per tracciare sulle due braccia del compasso le scale necessarie per effettuare i calcoli7.
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G. Galilei (1606) Le operazioni del compasso geometrico et militare, Padova.
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Nonostante questa precauzione un certo Baldassarre Capra di Milano scopiazza il trattato di Galileo, lo pubblica a Padova con il titolo Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis e, già che ci si trova, sostiene che il trattato del pisano, che è del 1606, è copiato dal suo, che è del 1607… La reazione di Galileo è puntuale. Il professore pisano trascina il milanese in tribunale anche se è a tutti noto che Capra è un povero sprovveduto che non sarebbe mai stato in grado di costruire un compasso e che probabilmente ha agito su istigazione di qualcuno. Tanto è vero che l’azione legale si conclude rapidamente con l’ordine del tribunale di distruggere tutte le copie dell’opuscolo del milanese con ordine di diffondere la sentenza all’interno dell’ateneo “a suon di trombe nell’ora di maggior frequenza”. Forse, una volta ottenuto il riconoscimento dei propri diritti, Galileo si sarebbe potuto ritenere soddisfatto, ma invece pubblica un ulteriore opuscolo dal titolo quanto mai esplicito Difesa di Galileo Galilei contro alle calunnie ed imposture di Baldassarre Capra Milanese che, certamente, fa passare a Capra la voglia di utilizzare per il futuro armi tanto scorrette ma che, allo stesso tempo, indispettisce ancora di più la persona che si nasconde dietro il povero milanese che è il precettore di questo, un certo Simon Mayr (o Simon Mario), persona astiosa e spudorata che arriverà, forse proprio per la rabbia accumulata in questa circostanza, a tentare di appropriarsi addirittura della scoperta dei satelliti, i cosiddetti medicei, di Giove. A parte questi fastidi gli anni che Galileo trascorre a Padova sono, come racconterà egli stesso,“i migliori della mia vita“ perché gode di una ampia libertà di pensiero e di insegnamento. Per quanto riguarda l’astronomia, le sue lezioni, nelle quali si analizza l’Almagesto di Tolomeo, la Meccanica di Aristotele, e il Trattato sulla sfera di Giovanni di Sacrobosco, cioè tutte le opere classiche dell’astronomia dell’epoca, sono sempre affollate di studenti, mentre, per quanto riguarda la sua vita privata, egli rimane amante del buon vino e degli scherzi, con i quali, assieme al suo allievo Francesco Sagredo, si diverte di solito a prendere di mira l’ipocrisia di certi religiosi. Resta famosa la volta nella quale i due, spacciandosi per una ricca vedova, avevano iniziato una corrispondenza con il convento dei gesuiti di Ferrara per chiedere suggeri-
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menti sul migliore testamento da fare per salvaguardare la propria anima nell’aldilà e avevano ottenute chiari suggerimenti… Nel periodo a cavallo fra il ‘500 e il ‘600 non è ancora iniziata la grande offensiva anticopernicana e, a parte episodi inquietanti come quello di Giordano Bruno, si respira in tutta Europa un’aria di dicreta tolleranza, che nel 1597 permette al famoso astronomo tedesco Giovanni Keplero di scrivere nel Prodromus dissertationum cosmographicarum continens Mysterium Cosmographicum quella che è la più esplicita difesa del sistema copernicano pubblicata fino a quel momento, sia pure in un Paese di fede luterana. Quando Galileo riceve una copia del Mysterium scrive una lettera di ringraziamento a Keplero, nella quale dichiara che anche lui è da molti anni un copernicano convinto anche se probabilmente non rimane granché persuaso dalla quantità di ipotesi mistiche e la vena neoplatonica che impronta il trattato, per cui non si cura molto della prosecuzione del rapporto epistolare. Da lì a qualche anno però gli avvenimenti nel cielo si impegnano a indirizzare nuovamente l’attenzione di Galileo allo studio dell’astronomia. Capita cioè quell’evento rarissimo che consiste nell’apparizione di una “nuova stella” in cielo, quella che oggi chiamiamo una “supernova”. Quasi fosse una sfida per gli astronomi, la nuova stella, che è apparsa improvvisamente nel 1604, dopo alcune settimane comincia a affievolirsi fino quasi a scomparire. Le cause del fenomeno sono ai giorni nostri ben comprese, nonostante il fatto che quella del 1604 sia l’ultima volta che è stato osservato nella nostra Galassia. Alla base c’è un complesso meccanismo di straordinaria importanza nell’Universo come lo concepiamo oggigiorno, perché è l’unica maniera che riusciamo a immaginare per creare quegli elementi pesanti come il piombo, il tungsteno, l’uranio, l’oro e l’argento che ritroviamo sulla Terra e che pensiamo si siano formati dopo la nascita dell’Universo8. 8
La massa delle stelle che vanno verso la fine della loro esistenza, le nane bianche, non può superare un certo limite perché altrimenti la struttura della stella non potrebbe sostenerne il peso. Poiché una gran parte delle stelle esistenti non è costituita da stelle singole ma da sistemi di almeno una coppia di stelle, capita che una nana bianca si trovi a orbitare assieme a una stella di dimensioni maggiori. Se la distanza fra le due stelle non è eccessiva, gli strati esterni della stella più grande, per un effetto di attrazione gravitazionale, si staccano da questa e si trasferiscono sulla nana bianca la quale accresce così la sua massa. La
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stella più piccola si trova così a superare il limite oltre il quale la struttura stellare diventa instabile e collassa violentemente, innescando un processo di rapida fusione nucleare durante il quale vengono creati gli elementi pesanti che vengono violentemente espulsi dalla stella. La nana bianca, che, a causa delle sue dimensioni ridotte e della bassa luminosità, non era visibile dalla Terra, diventa di colpo un oggetto estremamente luminoso che sembra apparire nel cielo all’improvviso e che tornerà a scomparire in capo a qualche settimana, quando i resti della esplosione nucleare si saranno dispersi.
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Lo studio di questo evento è oggigiorno di grande rilevanza per una quantità di ragioni che riguardano l’astrofisica, la fisica nucleare, la fisica teorica e la cosmologia, ma anche nel ‘600, lungi dal rappresentare una semplice curiosità, è considerato un avvenimento tanto importante da rischiare di mettere a soqquadro l’impalcatura aristotelico-tolemaica della cosmologia, tanto che Keplero decide di dedicare all’argomento un intero trattato dal titolo De stella nova. La questione, ancorché gravida di conseguenze rivoluzionarie, è di grande semplicità. Il mondo di Aristotele, che arriva quasi immutato al ‘600, è il mondo delle sfere di cristallo. Il cosmo cioè è una grandissima sfera materiale che contiene altre sfere nelle quali si trovano incastonati i pianeti che si osservano nel cielo, Mercurio,Venere, Luna, Sole, Marte, Giove e Saturno. In una ulteriore sfera, quella delle stelle fisse, sono incastonate gli astri più lontani. Tutte queste sfere, che sono di materia trasparentissima come il cristallo, ruotano attorno alla Terra compiendo un giro ogni giorno, anzi, la lunghezza del giorno è determinata proprio da una rotazione delle sfere celesti. Naturalmente il sistema cosmologico, che arriva nell’Europa cristiana filtrato dai ragionamenti svolti da diecine di filosofi nell’arco di quasi due millenni, è parecchio più complicato di questo schema di base. Per esempio, una volta che la rotazione delle sfere ha spiegato l’alternarsi del giorno e della notte, ci si può chiedere come mai il Sole sembra cambiare posizione durante l’anno, rimanendo d’inverno basso sull’orizzonte e salendo in alto durante l’estate. Il vecchio Eudosso di Cnido, quasi 400 anni prima di Cristo, aveva dato una interpretazione soddisfacente di questo movimento immaginando che esista una seconda sfera, che si muove più lentamente e in senso contrario della prima, la quale trascina il Sole e gli fa percorrere un giro completo in un anno e immagi-
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nando che una sfera analoga debba esistere per la Luna e gli altri pianeti. La differenza sostanziale fra i due sistemi non è nel numero delle sfere richieste, ma nel fatto che per Aristotele le sfere sono reali sfere fisiche mentre per Eudosso sono un semplice artificio matematico che permette di comprendere i movimenti degli astri e calcolarne le traiettorie. Questo schema di sfere concentriche, a prima vista logicamente soddisfacente, ha però il difetto di non riuscire a spiegare un fenomeno che tutti gli astronomi osservano regolarmente, cioè che alcuni pianeti cambiano direzione mentre si stanno muovendo! Il fenomeno è stupefacente e Tolomeo, anticipando una tecnica matematica che oggi chiamiamo analisi di Fourier e che verrà identificata più di quindici secoli più tardi, immagina che, oltre alla sfera che spiega il movimento giornaliero che egli chiama deferente, esista per ogni pianeta una sfera più piccola, che chiama epiciclica e che è incastrata in quella maggiore. Il pianeta è obbligato a ruotare assieme alla sfera epiciclica, la quale a sua volta è trasportata dalla sfera deferente in modo che il movimento che ne risulta a volte sia la somma dei movimenti delle due sfere (così che il pianeta appare muoversi in una verso) e a volte sia la loro differenza (e, in questo caso, il pianeta appare muoversi nel verso opposto). Anche per Tolomeo queste piccole sfere aggiuntive non sono altro che artifici matematici che hanno il pregio di permettere di calcolare il moto dei pianeti. Un altro fenomeno difficile da comprendere in un sistema di sfere concentriche è che i pianeti sembrano avvicinarsi e allontanarsi dalla Terra. I filosofi naturali del Medioevo avevano già spiegato questo comportamento introducendo il concetto di sfera totale, cioè la sfera centrata sulla Terra, e sfera parziale, che è una sfera che ha un centro diverso da quello dell’altra. Il movimento lungo la sfera totale di ogni pianeta è tale da poter essere scomposto nella somma dei movimenti lungo tre sfere parziali, in modo che l’idea centrale che tutto il cosmo si muova armonicamente attorno alla Terra, che ne costituisce il centro, sia salva. Il prezzo da pagare è che il cosmo dei cieli di cristallo alla fine risulta composto da un numero di sfere che va da 27 a 55 a seconda dei diversi autori. Certo, il sistema è complicato, ma è anche bellissimo: è come avere la percezione di vivere all’interno di un grande orologio nel quale tutte le ruote si muovono in maniera diversa le une dalle altre ma che costituiscono, tutte insieme, un meccanismo perfetto.
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[…] è fra le figure la più perfetta e la più simile a se medesima, perché Dio giudicò il simile infinitamente più bello del dissimile. I moti circolari perfetti sono proprio l’opposto di quanto avviene sulla Terra, dove i movimenti naturali avvengono solo lungo linee verticali. Se ne deve dedurre, quindi, che l’Universo si divide in due regioni differenti: la prima regione si trova al di là dell’orbita della Luna, la cui distanza è nota fin dall’antichità, è caratterizzata dalla perfezione e dalla immutabilità dei corpi celesti, la seconda regione, cosidetta sublunare, si distingue per il processo continuo di cambiamento, di nascita e di morte, e per i movimenti naturali che sono diretti verso l’alto e verso il basso. Anche la struttura materiale delle due regioni è differente. I pianeti e le stelle sono costituiti da una materia incorruttibile che si chiama etere o quinta essenza ed è cristallina, trasparente e imponderabile. La regione terrestre, invece, è composta da quattro elementi, la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco i quali, anche loro, sono disposti in quattro sfere concentriche attorno al punto geometrico che è il centro del sistema di tutte le sfere celesti. L’ordine secondo il quale sono disposte le sfere dei quattro elementi si trova con semplici esperimenti: se si prende un catino riempito di acqua e vi si lascia cadere dentro un po’ di terra, si osserva facilmente che la terra precipita per cui si deduce che l’elemento “terra” è più pesante dell’elemento “acqua”. Se poi con una cannuccia si soffia un po’ di aria nell’acqua, si osservano le bollicine di aria che salgono nell’acqua, da cui si deduce che l’elemento “aria” è più leggero dell’elemento “acqua”. È infine esperienza di ogni giorno osservare che il fuoco tende a muoversi verso l’alto, per cui questo deve essere l’elemento più leggero di tutti gli altri.
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Questo orologio fantastico realizza un sistema filosofico coerente con tutte le conoscenze del mondo antico, per cui risulta psicologicamente soddisfacente per gli uomini di cultura, a nessuno dei quali, per secoli, viene in mente di metterlo in discussione. I moti circolari dei pianeti e delle stelle fisse costituiscono un moto divino perché la sfera non ha un punto di inizio e, come spiega Platone nel Timeo,
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Da queste considerazioni si deduce che la sfera della terra deve essere quella più in basso, come peraltro si osserva, e che, attorno a questa, si trovino nell’ordine le sfere dell’acqua, dell’aria e del fuoco. Le quattro sfere costituiscono i luoghi naturali dei quattro elementi. In questa maniera si spiega l’origine dei movimenti naturali in quanto i corpi terrestri, che sono pesanti per natura, tendono a cadere verso il basso mentre quelli ignei, che sono leggeri, si muovono verso l’alto. I corpi intermedi, quelli aerei e quelli acquei, hanno dei moti analoghi, verso l’alto o verso il basso a secondo del luogo dove si trovano. Il moto degli elementi che tendono a raggiungere il luogo naturale di ciascuno dà conto anche di diversi fenomeni particolarmente appariscenti nel mondo sublunare. In effetti gli elementi sono caratterizzati,oltre che dalla loro pesantezza,cioè la causa del loro movimento verso l’alto o verso il basso, anche da altre caratteristiche come il secco e l’umido, il caldo e il freddo. Poiché nel loro movimento gli elementi si incontrano, essi possono anche combinarsi in base alle loro caratteristiche. La causa dei terremoti e delle eruzioni vulcaniche, per esempio, è dovuta – secondo Aristotele – proprio al fatto che il fuoco, elemento caldo per eccellenza, incontra la terra, che è un elemento freddo, e in questa combinazione si creano i fenomeni esplosivi che si osservano sulla superficie della terra. Questo sistema cosmologico arriva nel mondo cristiano attorno al 1175,quando Gherardo da Cremona traduce dall’arabo l’Almagesto di Tolomeo, rimasto sconosciuto perché in Europa è andata largamente perduta la conoscenza della lingua greca. I filosofi cristiani impiegano diversi anni a comprenderne il contenuto perché nel Medioevo, oltre al greco, è andata perduta la conoscenza della geometria e della capacità di calcolo necessaria per comprendere un testo complesso come quello di Tolomeo, nel quale si affrontano i problemi non-intuitivi della geometria sferica. Non è, naturalmente, che non esista più una sola persona che sia in grado di leggere l’Almagesto in greco, ma all’epoca dei copisti è necessario che ne esista una conoscenza diffusa per poter tramandare un testo: se un amanuense non ha alcuna idea di ciò che sta copiando tenderà a infarcire il testo di una quantità di errori che un secondo copista cercherà di interpretare, aggiungendo errori a sua volta, in maniera tale che in poco tempo il testo originale risulterà irriconoscibile. È questa mancanza di cultura media che genera quella
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scarsità di testi sui quali studiare e che nel Medioevo fa regredire la conoscenza anche delle classi più colte. Quando gli studiosi occidentali arrivano infine a comprendere la struttura del cosmo tolemaico si rendono conto che la divisione del mondo in due regioni centrate sulla Terra, una mutevole e imperfetta nella quale ci troviamo a vivere e l’altra che assomiglia molto al Regno divino della Bibbia, sembra adattarsi perfettamente alle Sacre Scritture, a patto che si stabilisca senza mezzi termini che il nostro è un mondo creato, cioè che non esiste da sempre, come invece pensa Aristotele. La distinzione è profonda perché, se il mondo è stato creato, è evidente che deve avere anche uno scopo, a differenza del mondo immaginato dal filosofo greco che, eterno sia nel passato che nel futuro, appare a un cristiano privo di speranza e senza un traguardo. Per il resto la cosmologia aristotelica presenta diversi aspetti che non sono estranei a un cosmo cristiano, come per esempio quello dell’unicità della Terra, che proprio nel ‘600 diviene un argomento di dibattito teologico. Il mondo aristotelico, infatti, esclude la possibilità fisica che possa esistere un’altra Terra come la nostra, in quanto il moto dei quattro elementi è necessariamente limitato alle sfere che si trovano attorno alla Terra. Se per ipotesi esistesse un altro luogo diverso dalla Terra che fosse costituito di acqua, aria, terra e fuoco, è chiaro che, in base alla fisica aristotelica, quegli elementi sarebbero costretti a muoversi in direzione delle sfere che costituiscono i loro luoghi naturali e che circondano la nostra Terra. La conclusione è che, ammesso che possa esistere un altro luogo costituito della stessa materia del nostro, questo sarebbe condannato a scomparire immediatamente. C’è da dire che il concetto dell’unicità della Terra, che nel mondo greco viene accettato senza particolari discussioni, nel mondo cristiano apre automaticamente la questione dell’onnipotenza di Dio. Ci si chiede, cioè, se Dio, volendolo, potrebbe creare un’altra Terra come la nostra, ma si tratta di questioni sottili che vengono lasciate ai teologi, mentre tutti gli altri continuano a pensare senza imbarazzo che la Terra è sì unica e contemporaneamente che Dio è onnipotente. Il cosmo cristiano mutua dal cosmo tolemaico anche il concetto delicato di quale sia la causa della rotazione delle sfere. Il moto parte dal Primo Mobile, che è una sfera esterna alla sfera delle stel-
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le fisse, la quale si muove per volontà di Dio e che, proprio per la sua vicinanza al Signore, si muove velocemente e trasmette il suo moto alle sfere dei pianeti, che si muovono tanto più lentamente quanto più sono distanti dalla sorgente del movimento. Il Primo Mobile è una sfera non trasparente per cui si può ipotizzare che, al di là di questo, sia fisicamente localizzato l’Empireo, che è la sede dove Dio accoglie le anime benedette e che quindi è immobile e immutabile. Qui per il cosmo cristiano nasce un problema che non esiste in quello greco: come è possibile – ci si chiede – alle anime sante di raggiungere il Paradiso attraversando le sfere dei pianeti e delle stelle fisse? Questa è la stessa domanda che, in maniera scientificamente più appropriata, si pongono coloro che dibattono sulla natura delle comete e cioè: Se le comete provengono da un punto lontano nel cosmo, come possono giungere fino a noi attraversando le sfere cristalline? Questa è una delle domande alle quali viene data risposta da una visione cosmologica radicalmente differente che viene introdotta nel 1577.Tycho Brahe è uno dei più importanti astronomi osservativi prima dell’introduzione del telescopio. Le sue misure permetteranno di pervenire a importanti scoperte astronomiche, fra cui quelle sulle orbite e sulle velocità dei pianeti che saranno sistematizzate da Keplero. Brahe, sulla base delle sue osservazioni, introduce un sistema cosmologico che è in grado di descrivere con elevatissima accuratezza quello che vede in cielo un osservatore posizionato sulla Terra, e propone che il Sole e la Luna ruotino attorno alla Terra mentre i pianeti Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno ruotino attorno al Sole assieme alle stelle fisse. Il sistema cosidetto Ticonico, non solo prevede movimenti degli astri che si trovano in eccellente accordo con le osservazioni disponibili, ma ha la conseguenza di superare di fatto l’esistenza delle sfere cristalline, le quali, attraversandosi l’un l’altra, devono essere considerate fluide, cioè penetrabili. Tutto sommato si tratta di un modo come un altro per sostenere che le sfere cristalline possono essere utili per rappresentare i movimenti nel cosmo ma che, in ultima analisi, non è che esistano veramente. Il sistema cosmologico di Tycho presenta diversi vantaggi. Il primo è che, rappresentando il punto di vista di un osservatore
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posizionato sulla Terra, permette il calcolo delle orbite dei pianeti in maniera diretta e intuitiva; il secondo è che, essendosi liberato delle sfere rigide di cristallo, non si scontra con il problema di spiegare come facciano le comete a attraversarle anche se sembrano provenire da distanze grandissime. Un ulteriore vantaggio del sistema Ticonico emergerà quando Galileo scoprirà quattro satelliti che ruotano attorno a Giove: nel sistema tolemaico, nel quale tutti i corpi celesti ruotano attorno alla Terra, il movimento di questi satelliti è inspiegabile, mentre nel nuovo sistema di Tycho non costituisce una difficoltà logica in quanto questi nuovi corpi celesti semplicemente condividono con tutti i pianeti la proprietà di non ruotare attorno alla Terra. L’ultimo vantaggio del sistema Ticonico è anche il suo limite. Si sa che una delle obiezioni al sistema copernicano è che dalla Terra non si osserva la parallasse delle stelle: se la Terra si muovesse attorno al Sole, infatti, noi che ci troviamo sulla Terra dovremmo osservarne il moto riflesso e vedere le stelle effettuare un circolo nel cielo durante l’anno. Poiché non si osserva che le stelle percorrono questo circolo cosidetto di “parallasse”, si conclude che la Terra non ruota attorno al Sole, esattamente come prevede il sistema Ticonico e contrariamente a quanto predice il sistema copernicano. La conclusione è sbagliata per un motivo che Tycho non poteva sapere, e cioè che la parallasse delle stelle in effetti esiste, ma non si osserva perché è piccolissima in quanto le stelle si trovano a distanze enormi, molto maggiori di quanto si immaginasse quattrocento anni fa. Ai gesuiti il nuovo sistema piace parecchio perché, contrariamente allo scomodo e ingombrante sistema di deferenti e epicicli, fornisce un quadro logico ai movimenti celesti che vengono osservati e, poi, tanto di guadagnato se mette anche in grado di confermare che le comete, come sosteneva il confratello Padre Orazio Grassi, vengono da parti distanti del cosmo e se toglie alle anime benedette gli ostacoli nel loro percorso per raggiungere il Paradiso. Inutile dire che ai cattolici progressisti il sistema Tychonico piace anche perché li autorizza in qualche modo a mettere da parte il sistema copernicano che si trova al centro di polemiche violente sia nel mondo cattolico che in quello protestante. D’altra parte l’esigenza di semplicità che era stata la motivazione principale che aveva mosso Copernico, era risultata largamente disattesa dal suc-
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cessivo sviluppo del sistema che continuava a richiedere, non solo la conservazione delle sfere cristalline, ma anche dell’armamentario di sfere minori introdotto dal sistema tolemaico, per cui il problema del moto delle comete e dell’ascesa in cielo delle anime sante restava tutto intero. Kircher, con il gusto delle immagini che lo distingue, rappresenta i diversi sistemi cosmologici nel suo Itinerarium exstaticum (figura 5). Il sistema Tolemaico, quello Tychonico e quello Copernicano sono indicati rispettivamente con i numeri romani I, IV, e VI. Da notare che il sistema cosmologico che Kircher definisce semi-Tychonico è essenzialmente un aggiornamento di quello di Tycho, nel quale vengono riportati i quattro satelliti di Giove che, all’epoca di Tycho, non erano stati ancora scoperti. I due corpi attorno all’ultimo pianeta indicano l’anello di Saturno.
Figura 5. I sistemi cosmologici del ‘600. Da A. Kircher (1656) Itinerarium exstaticum qvo mvndi opificivm id est Coelestis expansi… Roma, Typis Vitalis Mascardi
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I gesuiti, come si sa, sono la punta avanzata della scienza cattolica e la loro adesione al sistema cosmologico di Tycho aumenta le frizioni con la parte più conservatrice dell’ortodossia cattolica rappresentata dai domenicani che, forte della supposta adesione delle gerarchie ecclesiali, rimane testardamente ancorata alla cosmologia classica. La stella nova del 1604 sembra essere l’occasione per dirimere la questione fra cosmo tolemaico e cosmo ticonico. Secondo la cosmologia aristotelica e tolemaica la nuova stella che è apparsa improvvisamente nel cielo non può trovarsi nella parte di Universo, immutabile, che si trova al di là della Luna, per cui i tradizionalisti, fra cui gran parte della ortodossia cattolica, sono obbligati a sostenere che quella che sembra una nuova stella non sia veramente un nuovo astro ma sia piuttosto il risultato di un qualche fenomeno o addirittura un effetto ottico che ha origine nell’atmosfera terrestre. Per risolvere la questione non resta che misurarne la distanza: se la nova si trovasse a una distanza inferiore a quella della Luna, si potrebbe concludere che si tratta di un fenomeno locale ma, se si confermasse che quell’oggetto si trova a una distanza grandissima, magari paragonabile a quella delle stelle fisse, si otterrebbe la prova definitiva che la vecchia cosmologia è superata e che il mondo va immaginato in maniera diversa da come è stato fatto fino a quel momento. Diversi astronomi si mettono così all’opera per misurare la parallasse della stella nova, una misura che può essere fatta accuratamente anche se Galileo non ha ancora introdotto il cannocchiale, e che consiste nell’osservare da due luoghi diversi della Terra la posizione dell’oggetto e di alcune stelle fisse nel cielo e misurarne lo spostamento relativo. È chiaro che se la stella nova si trova alla stessa distanza delle stelle fisse, la sua posizione rispetto a quelle sarà la stessa da qualunque luogo la si osservi, mentre se si trova vicino alla Terra si osserverà uno spostamento diverso. I risultati, ripetuti da diversi astronomi, sono inequivocabili, perché la stella osservata da due città considerate sufficientemente distanti come Padova e Verona appare nella identica posizione rispetto alle stelle più lontane. La conclusione inevitabile è che la nuova stella si trova nella regione del cosmo immutabile, a una distanza molto maggiore della Luna e al di là anche di Giove e di Saturno. A questo colpo gli aristotelici reagiscono balbettando cose illogiche
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come quella di Lodovico delle Colombe, accademico fiorentino, il quale sostiene che, se la nuova stella non è un effetto dell’atmosfera, sarà senz’altro il risultato di un rigonfiamento locale di una sfera celeste, tesi che, se si vuole salvare la perfezione dei cieli, equivale a curare una malattia con una medicina che ha un effetto peggiore del male da curare. Galileo, inutile dirlo, non perde l’occasione per esercitare il suo sarcasmo e in un libello in dialetto veneto che egli scrive utilizzando un prestanome fa dire al protagonista “Cànchero, l’ha avuto torto questa stella a rovinare così la filosofia di costoro!” È naturale che, soprattutto nelle questioni importanti, il comportamento di un aristotelico cocciuto come Delle Colombe si distingua chiaramente da quello di uno studioso attento e prudente come Cristoforo Clavio che, dal Collegio Romano, osserva la nuova stella e, dovendo concludere che deve trovarsi molto distante dalla Terra, addirittura al di là di Giove9, scrive a Galileo: Qui è stato un gran bisbiglio della stella nova, la quale habbiamo trovata nel 17 grado di altezza, con latitudine borea di gradi 1 1/2 in circa. Se V. S. ha fatto qualche osservatione, mi farà piacere d’avisarmi […] 10 La richiesta del gesuita è del tutto comprensibile, perché, anche se la corrispondenza si è parecchio diradata a causa dei crescenti impegni di tutti e due, i rapporti fra i due studiosi sono rimasti eccellenti, come si vede nella lettera nella quale Clavio si scusa e fornisce una curiosa spiegazione del fatto che Galileo non ha ricevuto il trattato sul calendario: Mi vergogno quasi della mia negligentia, in fare a saper V.S. come molti anni sono, almeno 11, che finito di stampare il mio Astrolabio, l’anno 1593, mandai subito uno a lei, et indrizzai al S.or Balì di Siena; et andando io l’anno 1600 a i bagni di S. Casciano et a Siena, trovai che ‘l libro non era mandato a V.S.,
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C. Clavio (1604) Lettera a G.A. Magini, citata in I. Altobelli (1604) Lettera a Galileo Galilei, 30 dicembre 1604. 10 C. Clavio (1604) Lettera a Galileo Galilei, 18 dicembre 1604.
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Nell’estate del 1609, per una di quelle circostanze fortuite che hanno il potere di cambiarti la vita, Galileo viene a conoscenza dell’esistenza di un cannocchiale e, valutando lo strumento rozzo e costoso, su suggerimento del suo amico Paolo Sarpi decide di costruirne uno nell’officina che ospita a casa sua. Già a fine estate è in grado di mostrarne un prototipo alle autorità della Repubblica, che rimangono stupefatte delle capacità di quel piccolo strumento che ingrandisce gli oggetti di quasi una diecina di volte. L’occhiale o il cannone, come viene da lì in poi chiamato il cannocchiale, cambia la vita professionale (e anche quella personale) di Galileo, sia perché gli frutta un aumento di stipendio all’Università, sia perché gli procura un discreto aumento del numero di persone che sparlano alle sue spalle. Quello che è certo è che quello strumento offrirà agli uomini una visione completamente nuova del mondo nel quale vivono. A partire dall’autunno del 1609 Galileo alza al cielo il cannocchiale e rimane egli stesso stupefatto delle cose che osserva e che racconta, di lì a pochi mesi, nel Sidereus Nuncius. La pubblicazione è un libricino di poche pagine, quasi un registro delle osservazioni, che racconta in prima persona: Primamente vidi la Luna così vicina come distasse appena due raggi terrestri […] fummo tratti alla convinzione che la superficie della Luna non è liscia e levigata ma scabra e ineguale, e, proprio come la faccia della Terra, piena di grandi sporgenze, profonde cavità e anfratti. Galileo osserva le Pleiadi e la cintura di Orione e realizza di suo pugno due bellissime mappe di quelle regioni per passare poi alla
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C. Clavio (1604) Lettera a Galileo Galilei, 18 dicembre 1604.
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perché s’era partito da Pisa senza sapere io niente di questo; et un gentilhuomo Sanese s’ l’haveva usurpato per sé, et pregandomi gli lo donai. Interim gli mando la Geometria Prattica, stampato adesso, benché non è degna di lei; ma lo fo per continuare l’amicitia tra noi.11
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[…] essenza o materia della Via LATTEA, la quale attraverso il cannocchiale si può vedere in modo così palmare che tutte le discussioni, per tanti secoli cruccio dei filosofi, si dissipano con la certezza della sensata esperienza […] – perché – […] la GALASSIA non è altro che un ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi.12 Ma si capisce che l’autore conserva per ultima la scoperta più importante. Galileo inizia in maniera solenne per sottolineare l’evento storico che sta per annunciare: Il giorno sette gennaio, dunque, dell’anno milleseicentodieci, a un’ora di notte, mentre col cannocchiale osservavo gli astri mi si presentò Giove; […] intorno gli stavano tre stelle piccole ma luminosissime […] E passa a una descrizione minuziosa delle posizioni delle stelline che vanno cambiando giorno dopo giorno, una descrizione che sembra prolissa perché occupa tre quarti di tutta l’opera, ma è semplicemente il resoconto di un esperimento che funziona quasi da espediente retorico per mostrare quanto inevitabile sia la conclusione che si accinge a trarre: […] stabilii dunque e conclusi fuor d’ogni dubbio che in cielo v’erano stelle vaganti attorno a Giove, come Venere e Mercurio attorno al Sole […] Cade così – seguita Galileo – la vecchia obiezione al sistema Copernicano che richiedeva che la Luna, considerata un pianeta come gli altri, rivestisse lo status tutto particolare di ruotare attorno alla Terra e non attorno al Sole, perché ora, infatti, non abbiamo un solo pianeta che gira intorno a un altro, mentre entrambi percorrono la grande orbita intorno al Sole, ma la sensata esperienza ci mostra quattro stelle erranti
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Le maiuscole sono nel testo.
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Il contenuto rivoluzionario del Sidereus Nuncius non è soltanto nelle cose che vi sono scritte, ma si trova soprattutto nel concetto, espresso per la prima volta nella storia, che gli scienziati, utilizzando la propria razionalità, possono indagare su quella parte di universo che non può essere oggetto di esperimenti. Le reazioni di coloro che si mostrano increduli a queste notizie a volte appaiono rabbiose e insensate ma a volte risultano anche degne di attenzione. Le obiezioni vanno dal suggerimento che la trasparenza dell’aria potrebbe avere creato dei miraggi, all’ipotesi che le immagini che Galileo ha osservato al cannocchiale non siano reali ma siano state create dalle ottiche dello strumento. Forse la reazione più significativa è però quella di Cesare Cremonini, che è un collega e un amico personale di Galileo, ma che, aristotelico convinto, rifiutandosi di mettere l’occhio al cannocchiale, sbotta “quel mirare per quegli occhiali m’imbalordiscon la testa: basta, non voglio sapere altro”. Ma non si tratta d’altro che di punture di spillo, tanto più che la fama di Galileo è oramai a livello europeo e che nel giugno 1610 il Granduca gli offre la possibilità di tornare in Toscana a condizioni economicamente vantaggiose e senza obbligo di insegnamento, attività che il pisano ha sempre visto un po’ come una perdita di tempo. Naturalmente ci sono poi anche quelli che riconoscono immediatamente la fondatezza delle sue osservazioni, come Giovanni 13
In effetti, oltre allo status particolare della Luna, esistono all’epoca diverse altre obiezioni al sistema copernicano e ci si può chiedere quale sia il motivo per cui Galileo lo sostenga tanto convintamente. Una possibilità è che questo sistema ha, agli occhi di uno scienziato come Galileo, il pregio intrinseco di non permettere aggiustamenti ad hoc. In altri termini il merito del sistema è quello di non permette di modificare a piacimento le dimensioni o le posizioni degli epicicli o del deferente perché, come recita Copernico nel De Revolutionibus orbium coelestium,
l’ordine e la magnificenza di tutte le stelle e le sfere e il cielo stesso risulta così collegato che in nessuna sua parte si può spostare nulla senza generare confusione delle parti e del tutto.
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attorno a Giove, così come la Luna attorno alla Terra, mentre tutte insieme con Giove, con periodo di dodici anni si volgono in ampia orbita attorno al Sole.13
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Keplero che è il “matematico imperiale” e che immediatamente scrive una breve composizione, la Dissertatio cum nuncio sidereo,che invia a Galileo il quale, va detto, non mostra grande disponibilità verso l’astronomo tedesco. Forse la sua non è semplice freddezza ma è riservatezza professionale, perché il suo occhiale gli continua a mostrare delle meraviglie in cielo che lo scienziato non può ragionevolmente anticipare a qualche collega, sia pure illustre come Keplero. Nel luglio di quell’anno, infatti, in una lettera al segretario di Stato, Belisario Vinta, il pisano mostra di avere intuito che la forma di Saturno è del tutto speciale perché, pur non riuscendo a osservare l’anello che circonda il pianteta, afferma che Saturno sembra essere composto di tre stelle allineate e scrive: Ho cominciato il dì 25 stante a rivedere Giove orientale mattutino, con la sua schiera de’ Pianeti Medicei, et più ho scoperto un’altra stravagantissima meraviglia […] la stella di Saturno non è una sola, ma un composto di 3, le quali quasi si toccano, né mai tra di loro si muovono o mutano; et sono poste in fila secondo la lunghezza del zodiaco, essendo quella di mezzo circa 3 volte maggiore delle altre 2 laterali: et stanno situate in questa forma .14 Galileo si trova quindi in un momento di grazia ma non per questo trascura le sue relazioni col vecchio professore del Collegio Romano e scrive a Clavio con il consueto ossequio: È tempo ch’io rompa un lungo silenzio, che la penna, più che ‘l pensiero, ha usato con Vostra Signoria. E, avendo saputo che al Collegio dispongono di un cannocchiale donato da un artigiano veneto, Antonio Santini, lo incoraggia a proseguire i suoi tentativi di osservare i satelliti di Giove: Ho inteso come ella, insieme con uno dei loro Fratelli, havendo ricercato intorno a Giove, con un occhiale, de i Pianeti Medicei, non gli era succeduto il potergli incontrare. Di ciò non mi fo io
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G. Galilei (1610) Lettera a Belisario Vinta, 30 luglio 1610.
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Non meno cordiale è la risposta di Clavio, il quale si scusa per non aver risposto immediatamente perché Volevo prima tentare di vedere i novi Pianeti Medicei: et così l’habbiamo qua in Roma più volte veduti distintissimamente […] chiarissimamente si cava che non sono stelle fisse, ma erratiche, poi che mutano sito tra sè et tra Giove. Veramente V.S. merita gran lode, essendo il primo che habbi osservato questo […] 16 A questa lettera Galileo risponde con riconoscenza, perché la testimonianza di Clavio lo aiuterà nel dibattito accademico, ma anche con la sua immancabile vena ironica dove afferma che la lettera del gesuita ha guadagnato alcuno degl’increduli; ma però i più ostinati persistono, et reputano la lettera di V.R. o finta o scrittami a compiacenza, et insomma aspettano che io trovi modo di far venire almeno uno dei quattro Pianeti Medicei di cielo in terra a dar conto dell’esser loro et a chiarir questi dubbii; altramente, non bisogna che io speri il loro assenso…17 Quello che è evidente che, a qualche mese della pubblicazione del Sidereus Nuncius, gli astronomi del Collegio Romano, sia pure con prudenza, riconoscono che il paradigma cosmologico che si insegna nelle scuole dei Gesuiti richiede una profonda revisione, come ammette Cristoph Grienberger, allievo di Clavio, che dal Collegio Romano scrive a Galileo: 15 16 17
G. Galilei (1610) Lettera a Cristoforo Clavio, 17 settembre 1610. C. Clavio (1610) Lettera a Galileo Galilei, 17 dicembre 1610. G. Galilei (1619) Lettera a Cristoforo Clavio, 30 dicembre 1610.
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gran meraviglia, potendo essere che lo strumento o non fusse esquisito sì come bisogna, o vero che non l’havessero ben fermato; il che è necessariissimo, perché tenendolo in mano, benché appoggiato a un muro o altro luogo stabile, il solo moto dell’arterie, et anco del respirare, fa che non si possono osservare, et massime da chi non gli ha altre volte veduti et fatto, come si dice, un poco di pratica nello strumento […] 15
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Quanto tu asserisci non può essere accettato a cuor leggero ed è certamente difficile abbandonare opinioni che si sono consolidate in tanti secoli grazie al lavoro di tanti sapienti. E se non avessi osservato con i miei occhi quei prodigi che tu hai osservato per primo, non so se potrei crederci […] 18 Gli stessi matematici del Collegio Romano non esitano a spiegare al Cardinal Bellarmino, membro influentissimo della cultura cattolica e Consultore del Sant’Uffizio, che […] non si può negare che non ci siano ancora nella Via Lattea molte stelle minute […] habbiamo osservato che Saturno non è tondo, come si vede Giove e Marte, ma di figura ovata et oblonga in questo modo […] è verissimo che Venere si scema, et cresce come la luna: et havendola noi vista quasi piena, quando era vespertina, habbiamo osservato che a puoco a puoco andava mancando la parte illuminata […] non si può negare la grande inequalità della luna […] e, infine, che […] si veggono intorno a Giove quattro stelle, che velocissimamente si movono hora tutte verso levante, hora tutte verso ponente, et quando parte verso levante, et quando parte verso ponente, in linea quasi retta: le quali non ponno essere stelle fisse poiché hanno moto velocissimo et diversissimo dalle stelle fisse, et sempre mutano le distanze fra di loro et Giove […] 19 Va notato che l’atteggiamento attento alle nuove scoperte che mostrano gli astronomi del Collegio Romano fa a pugni con quello degli esponenti dell’accademia aristotelica che preferiscono dare torto al mondo piuttosto che mettere in dubbio i propri inveterati convincimenti. Uno degli esponenti di questo gruppo è, ancora una volta, Lodovico Delle Colombe, il quale, non potendo più negare che la Luna sembra essere molto simile alla Terra con vallate e montuosità, escogita la scappatoia che quelle ombre che si osservano sulla superficie della Luna potrebbero essere delle irregolarità al suo interno che vengono viste in trasparenza. L’idea 18
C. Grienberger (1611) Lettera a Galileo Galilei, 20 gennaio 1611. Lettera dei Matematici del Collegio Romano a Roberto Bellarmino, 24 aprile 1611. 19
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[la] differenza tra me ed il Sig. Galileo, ch’egli tiene ch’elle siano nella superficie, a guisa della terra ch’è circondata dall’aria; ed io tengo ch’elle siano per entro quel corpo, e non nella superficie, perché sono parti più dense, e il restante del corpo sia ripieno di parti più rare, sicché sia tutto un corpo, con una sola superficie liscia e in niuna parte diseguale o dentata […] 20 La risposta di Galileo è di quelle che lasciano il segno ed è affidata a una lettera a Gallanzone Gallanzoni, segretario del cardinale Francesco di Joyeuse. La lettera, lunghissima perché deve smontare pezzo a pezzo tutte le inconsistenti argomentazioni di Delle Colombe, arriva alla conclusione che […] sono errori tanto grossolani, che generano meraviglia immensa come possino ritrovarsi al mondo cervelli così stolidi, che di sì solenni scempiaggini siano capaci […] 21 Non è che Galileo abbia torto ma, certo, mostra una noncuranza speciale di fronte al rischio di crearsi nemici che non aspetteranno altro che di fargliela pagare. L’interesse per le nuove scoperte non è limitato alla cerchia ristretta degli specialisti. C’è per esempio l’affresco di Ludovico Cardi, detto Il Cigoli, qui mostrato in figura 6, il quale, quando gli viene commissionata la decorazione della cappella Paolina a S. Maria Maggiore, non trova nulla di strano (e ne è ovviamente autorizzato) a dipingere la Vergine che ascende ai cieli con i piedi poggiati sulla Luna. Non ci sarebbe nulla di sorprendente se non fosse che la Luna è dipinta in maniera particolarmente realistica con i crateri che Galileo ha osservato e con l’aspetto del tutto differente da quello di una sfera perfetta come voleva il vecchio
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L. Delle Colombe (1611) Lettera a C. Clavio, 27 maggio 1611. G. Galilei (1611) Lettera a Gallanzone Gallanzoni, 16 luglio 1611.
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di Delle Colombe, evidentemente ridotto in un angolo, è che si possa ancora salvare la cosmologia aristotelica se si accetta che i pianeti siano costituiti da cristallo trasparente e perfettamente liscio in superficie ma, per quanto riguarda le irregolarità
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La fine dei cieli di cristallo Figura 6. Ludovico Cardi, Il Cigoli (1610-1612) Assunzione della Vergine, Roma, S. Maria Maggiore
schema aristotelico. Lodovico Cardi è un appassionato di astronomia e vecchio amico di Galileo, col quale discute di tecniche di osservazione: Non credo avere scritto a V. S. come io ò uno ochiale, et è assai buono, tanto che veggo da Santa Maria Maggiore l’orivolo di S.o Pietro […] La luna la veggo benissimo, e nel dintorno, pur di verso la parte luminosa, qualche inegualità: le stelle di Giove me le mostra benissimo […] 22
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F. Cesi (1612) Lettera a G. Galilei, 23 dicembre 1612.
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Gesuiti, bilance e cannocchiali Figura 7. Adam Elsheimer (1609) La fuga in Egitto, Monaco, Altepinakothek
La scelta del pittore ha tutto il sapore della sfida alla parte più retriva dell’ortodossia, come conferma la lettera che Federico Cesi invia la pisano: Il S. Cigoli s’è portato divinamente nella cupola della capella di S. S.tà a S. Maria Maggiore, e come buon amico e leale, ha, sotto l’imagine della Beata Vergine, pinto la luna nel modo che da V.S. è stata scoperta, con la divisione merlata e le sue isolette. Spesso siamo insieme, consultando contro l’invidia della gloria di V.S.23 Ancora più significativo in questo contesto è un piccolo quadro nel quale Adam Elsheimer, un pittore tedesco trasferitosi a Roma all’inizio del secolo, rappresenta la fuga in Egitto della Sacra Famiglia (figura 7). Il quadro, che attualmente si trova all’Altepinakothek di
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L. Cardi (1612) Lettera a G. Galilei, 23 marzo 1612.
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Monaco, è stato oggetto di studio non solo per la sua qualità artistica e per la suggestione che infonde ma anche per le sue valenze astronomiche24. Nel dipinto, nel quale non appaiono gli angeli tipici dell’iconografia dell’epoca, l’immagine della Sacra Famiglia è piccola e completamente decentrata, mentre gran parte del quadro è occupato dall’immagine del cielo notturno e dalla Via Lattea che lo attraversa diagonalmente da sinistra a destra. Questa è rappresentata non da una striscia luminosa come appare a occhio nudo, ma da un insieme di stelline che risultano visibili soltanto se la si osserva al cannocchiale come ha fatto Galileo. Nel cielo notturno si distingue forse l’Orsa Maggiore, e la Luna, che si riflette magicamente in un laghetto, mostra i dettagli della sua superficie ineguale. Le uniche sorgenti di luce non astronomiche sono il fuoco di alcuni pastori in una grotta e la lampada di Giuseppe che illumina il viso della Madonna e del bambino che appare addormentato. Sul retro del dipinto è scritto Adam Elsheimer fecit Romae, 1609, anno in cui Galileo effettua le sue osservazioni astronomiche. Può destare qualche sorpresa il periodo di relativa quiete che segue la pubblicazione del Sidereus Nuncius. Da parte dell’ortodossia cattolica non si tratta certo di sottovalutazione delle conseguenze che potrebbero avere le osservazioni di Galileo, perché, una settantina di anni prima, nel 1546, la pubblicazione delle tesi copernicane aveva già visto la pronta reazione della Curia quando il domenicano Giovanni Maria Tolosani aveva scritto un’opera, De coelo supremo immobili et terra infima stabili, ceterisque coelis et elementis intermediis mobilibus, nella quale si scagliava violentemente contro il nuovo sistema cosmogonico. C’erano state, è vero, le avvisaglie degli attacchi del domenicano Niccolò Lorini, che nel 1612 aveva dichiarato che la cosmologia copernicana era contraria alle Sacre Scritture, ma si trattava di un tentativo di scaldare gli animi che non aveva avuto seguito. Forse qualcuno aspettava che i tempi fossero maturi per scatenare l’offensiva o, forse, le osservazioni di Galileo venivano accettate come dati di fatto che fino a quel momento non suscitavano nella gerarchia cattolica preoccupazioni particolari. Negli anni della segregazione di Arcetri Galileo ha la consolazione di ricevere una
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M. Kemp (2006) Nature, 442, 276.
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Mi dispiace infin all’anima che la sua poca salute non le lascia godere il saggio del mio vino; ma se almeno le gustasse, prenderei animo di serbargnene qualche poco per quando ella si fusse rihavuta […] 25 È probabile che l’intenzione dell’arcivescovo non sia solo di fargli presente la sua fraterna amicizia, ma anche quella di farlo sorridere rievocando i tempi di Pisa di cinquant’anni prima, quando l’allora giovane professore di matematica dimostrava tutta la sua insofferenza per la cultura manierata nelle forme e ingessata nella sostanza, che a Pisa si manifestava con l’obbligo che avevano i docenti di indossare la toga accademica in ogni momento della giornata. Una costrizione che era indubbiamente di ostacolo a un giovanotto che non disdegnava la sera di andare con gli amici per osterie delle quali dimostra, nel suo poemetto del 1590 Contro il portar la toga, di avere una conoscenza non superficiale: […] Ch’importa aver le vesti rotte o intere, Che gli uomini sien Turchi o Bergamaschi, Che se gli dia del Tu o del Messere? La non istà ne’ rasi o ne’ dommaschi; Anzi vo’ dirti una mia fantasia, Che gli uomini son fatti com’i fiaschi. Quando tu vai la state all’osteria, Alle Bertuccie, al Porco, a Sant’Andrea, Al Chiassolino o alla Malvagia, Guarda que’ fiaschi, innanzi che tu bea Quel che v’è dentro; io dico quel vin rosso, Che fa vergogna al greco e alla verdea:
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A. Piccolomini (1639) Lettera a Galileo Galilei, 19 luglio 1639.
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quantità di lettere dai suoi vecchi amici, uno dei quali, l’arcivescovo di Siena, Ascanio Piccolomini, nell’estate del 1639 gli richiama un comune amore:
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Tu gli vedrai che non han tanto in dosso, Che ‘l ferravecchio ne dessi un quattrino; Mostran la carne nuda in sino all’osso: E poi son pien di sì eccellente vino, Che miracol non è se le brigate Gli dan del glorioso e del divino. Gli altri, ch’han quelle veste delicate, Se tu gli tasti, o son pieni di vento, di belletti o d’acque profumate, O son fiascacci da pisciarvi drento Strano confino quello di Galileo a Arcetri. Domicilio coatto vero e severo, non c’è dubbio, ma con tolleranza a mantenere una corrispondenza intensa con diecine di persone con le quali scambia, dal 1633 fino alla sua morte nel 1642, dubbi, confessioni e opinioni tecniche. Molto lo impegnano le richieste di lenti per realizzare un telescopio come quelle che invia al suo vecchio amico Elia Diodati a Parigi affinché le consegni all’abate Pierre Gassendi, astronomo e matematico di buon nome: Con questa riceverà anco V.S. i cristalli per un telescopio, domandatimi dal medesimo S.re Gassendo per suo uso e di altri, desiderosi di fare alcune osservazioni celesti; li quali potrà V.S. inviargli significandoli che il cannone, cioè la distanza tra vetro e vetro, deve essere quanto è lo spago che intorno ad essi è avvolto, poco più o meno secondo la qualità della vista di chi se ne deve servire […] 25 Ma Galileo è stanco e nella stessa lettera, riferendosi al fatto che anche Fabri de Peiresc gli aveva chiesto delle lenti si scusa per non poterlo accontentare, almeno per ora, perché si sente
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G. Galilei (1634) Lettera a Elia Diodati, 25 luglio 1634.
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e prega Gassendi e Peiresc di adattarsi a utilizzare entrambi l’unica coppia di lenti che gli è riuscito di preparare. Termina così la lettera che, per chi ha confidenza con il suo periodare raffinato, è più parlante di un intero libro: Sono stracco e averò soverchiamente tediata V.S.: mi perdoni e mi comandi. Gli bacio le mani.
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pieno di molestie che mi violentano a mancar talvolta a quelli officii che io più desidero di essequire
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La luce e le ombre E sognò; ed ecco una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; ed ecco gli angeli di Dio, che salivano e scendevano per la scala. Genesi 28,12 (Il sogno di Giacobbe)
Anche Padre Atanasio si occupa di lenti, di cannocchiali e di rifrazione, ma l’obbiettivo è del tutto diverso da quello di Galileo: mentre questi vuole realizzare uno strumento per meglio indagare la natura, Kircher desidera solo scoprire gli effetti infiniti che, attraverso la luce, la natura è capace di creare, e osservarli affascinato. Ce lo racconta John Bargrave, canonico della Cattedrale di Canterbury e antiquario, il quale conserva nella sua collezione una lente capace di proiettare in una camera oscura l’immagine ingrandita di oggetti distanti: L’ho acquistata – racconta – per 50 sterline da un tale che iniziò a parlarmi male di Padre Kircher, un gesuita di Roma che io conosco bene, che gli aveva fatto spendere più di mille sterline per metter in pratica le sue speculazioni di ottica delle quali nessuna funzionava e, parlando, tirò fuori una grande cesta di pezzi di vetro del tutto inutili […] 1 La cattiva pubblicità che il rivenditore di vetri fa a Padre Kircher non va presa alla lettera ed è probabilmente il frutto di qualche bisticcio personale. Sta di fatto che studiosi di mezza Europa continueranno per tutto l’arco della sua vita a chiedere a Kircher informazioni su svariati strumenti ottici anche perché le sue opere sullo studio della luce e delle ombre, come l’Ars Magna Lucis et Umbrae
1 J. Bargrave (1660) Pope Alexander VII and the College of Cardinals, Pub. of the Camden Society, 1867 citato in J. Fletcher (1970) Isis, vol. 61, n. 1.
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del 1646, mostrano una notevole dimestichezza con le macchine ottiche, sia pure spesso orientata più al divertimento che allo studio scientifico. D’altra parte, continuando a leggere il racconto di Bargrave si capisce che quello che il rivenditore si aspettava da Kircher era proprio la specialità del gesuita, cioè ottenere lenti che realizzassero gli effetti ottici più sorprendenti: Mi mostrava meravigliosi pezzi di vetro, alcuni ovali, altri tondi, altri convessi, altri concavi, che producevano artifici che non si possono raccontare. Ricordo bene che quando avvicinai il mio braccio a un vetro, vennero fuori da questo vetro un braccio e una mano grande come la mia; e sembrava che potessi toccare dito con dito e palmo con palmo, e quando sono andato a stringere le due mani, non ho toccato altro che aria. C’era poi nella bottega un’altra meraviglia […] un grande vetro appeso a una parete della stanza mentre, appesa alla parete opposta, c’era una immagine dell’interno di una cattedrale […] l’effetto era tale che io, in mezzo alla stanza, avevo l’impressione di camminare all’interno della cattedrale. Se poi si sostituiva l’immagine della cattedrale con quella di un giardino, con piante di arance e di limoni, si aveva l’impressione di camminare in un giardino […] 2 Se quel tizio si rivolge a Kircher evidentemente è perché il gesuita gode di una solida fama di padroneggiare il funzionamento di sorgenti di luce, specchi e lenti e che è sempre pronto a dare pubbliche dimostrazioni dei magici effetti che ottiene nei suoi esperimenti. Kircher, che appare così il continuatore della tradizione magica cinquecentesca arricchita di un approccio che mira a “diletto e meraviglia”3, diventa estremamente popolare perché anche quando parla di argomenti non particolarmente nuovi, li interpreta e li addomestica alle sue finalità didattiche e dottrinali, li espone alla
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J. Bargrave ibidem. I. de Comitibus (1647) citato in M. G. Janniello (1986) in Enciclopedismo in Roma Barocca, Marsilio ed.
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[…] è da notare che, non so per quale misterioso artificio della natura pittrice, le singole lettere appaiono colorate di tutti i colori […] E si consola perché l’effetto suscita l’ammirazione di tutti gli spettatori. Kircher si mostra convinto che la natura è così duttile che l’unico compito dello scienziato sia quello di compilare un elenco dei fenomeni osservati, ben sapendo che questo rappresenta una porzione insignificante del catalogo generale che è custodito dalla natura stessa. È uno scienziato Kircher? Certo che lo è, ma non nel senso moderno del termine, cioè di un osservatore pronto a modificare
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luce della sua ingegnosità, li utilizza per i suoi ammonimenti sull’aldilà ma sempre con un senso dello spettacolo che gli fa perdonare la prosa spesso pedante e prolissa. L’opera di Kircher che si occupa dello studio della luce, l’Ars Magna Lucis et Umbrae, è divisa in dieci capitoli dove colpisce l’impasto di termini colti e a volte coniati che inzeppano il libro a cominciare dall’indice. Non è difficile immaginare la reazione che avrebbe avuto Galileo e che i suoi allievi in effetti hanno quando si trovano a leggere parole come Actinobolismo, Photosophia, Sciasophia, Arte Sciagrafica e così via, dimostrazione del baratro che si è creato fra l’approccio allegorico e fantasioso alla scienza di Kircher e quello sobrio e rigoroso di Galileo. Gli argomenti trattati, tutti un po’ stantii, spaziano dalla natura della luce e dell’ombra alla teoria dei colori e alla propagazione dei raggi luminosi, che, secondo il gesuita, avviene indiscutibilmente in modo rettilineo, per cui non c’è spazio neppure per menzionare la diffrazione sulla quale un altro gesuita, Francesco Maria Grimaldi, si sta interrogando proprio in quegli anni. Allo stesso modo Kircher annota di aver osservato quell’effetto che oggi chiamiamo “interferenza”, che si verifica quando egli proietta delle immagini su uno schermo e osserva che le lettere, bianche in origine, assumono contorni colorati una volta che raggiungono lo schermo. Questa osservazione, però, non lo spinge a proporre una spiegazione o, come si direbbe oggi, a creare un modello per inquadrare tutti i fenomeni che gli si mostrano davanti, ma è tanto convinto delle infinite possibilità della natura che si limita ad appuntare:
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la propria visione del mondo se un solo esperimento lo richiede. Anche la scienza del gesuita è basata sull’ esperimento, ma le sue deduzioni sono sempre basate sulla certezza di vivere in un mondo dotato sì di regole, ma all’interno delle quali la Natura gode di discreti spazi di libertà nei quali dare forma alle sue stesse fantasie che di tanto in tanto gli viene voglia di esprimere. È indubbiamente un serio vincolo per uno scienziato quello di limitarsi a studiare un fenomeno come quello della luce, così pervasivo dell’Universo, essenzialmente per utilizzarlo a scopi teatrali, ma Kircher è consapevole che la discussione sulla natura della luce va assumendo un ruolo sempre più centrale nel dibattito scientifico della sua epoca e il gesuita sulle questioni fondamentali preferisce affidarsi alle direttive del suo ordine senza impegnarsi a esplorare territori che possono portarlo lontano dall’ortodossia. D’altra parte i fenomeni celesti più imbarazzanti per il sistema cosmologico Aritotelico-Tolemaico, quali le comete che sembrano perforare le sfere cristalline e i satelliti di Giove che riproducono un sistema solare in miniatura, sono stati tranquillamente assimilati nel sistema cosmologico di Tycho Brahe, che è quello che riscuote maggiore simpatia fra i gesuiti. Nella prima metà del ‘600, quindi, non sono i problemi dei cieli che dividono la scienza galileiana da quella dei gesuiti, ma è tutta la scienza, e la fisica in particolare, che si trova ad affrontare problematiche nuove che fino a quel momento sono state, per così dire, messe sotto il tappeto. Forse questa è l’epoca nella quale ci si rende conto che il sistema cosmologico si trova, per così dire, in una posizione di equilibrio instabile, in una situazione, cioè, nella quale è sufficiente rimuovere anche uno solo degli elementi che la costituiscono per far crollare tutto il sistema. Come capita per tutti i sistemi di idee che hanno una validità costitutiva di una società, l’elemento in discussione rischia di assumere una larga diffusione e, anche se spesso è conosciuto in maniera approssimativa, genera discussioni e polemiche e finisce col coinvolgere aspetti del mondo che all’inizio non sono stati neppure immaginati4.
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P. Rossi (1997) La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza ed.
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Fra queste idee quella della natura della luce assume un ruolo centrale nel dibattito scientifico dell’epoca. La diffrazione, le ombre che appaiono circondate da bordi colorati e le strisce di colore che appaiono quando si fa passare la luce attraverso un vetro molto sottile, sono tutti fenomeni che chiunque può osservare e che dovrebbero portare a concludere non solo che la luce non si propaga seguendo una linea retta, ma che i colori sono una proprietà intrinseca della luce e non della materia che appare colorata. Può apparire strano ai nostri occhi, ma questo è un punto di vitale rilevanza perché all’epoca l’interpretazione del mondo si basa sui concetti di sostanza e di accidente. Per chiarire il punto ricordiamo che quando, per esempio, si parla di una persona bionda, è chiaro che il colore dei capelli è un attributo della persona che non ne cambia la natura, per questo il colore dei capelli si chiama, in termini aristotelici, accidente, da distinguersi con l’essenza stessa della persona che si definisce sostanza. Gli accidenti e la sostanza costituiscono così, secondo la filosofia di Aristotele, gli enti reali. Questi sono gli stessi concetti che, a metà del ‘500, sono stati utilizzati nel Concilio di Trento per razionalizzare il dogma della transustanziazione nell’Eucarestia: in poche parole, il pane e il vino consacrati che divengono corpo e sangue del Signore conservano gli stessi accidenti, conservano cioè lo stesso colore e lo stesso sapore del pane e del vino, mentre cambiano la loro sostanza. Questo avviene per un miracolo che si ripete per intervento divino e che, per definizione, non è riproducibile in un esperimento di laboratorio. Se però si ammette che il colore è una proprietà della luce e non del corpo al quale il colore è associato, bisogna concludere che esistono degli accidenti che non appartengono ad alcun corpo, e questo rischia di mettere in discussione le basi stesse del dogma eucaristico (in termini moderni, la conseguenza non è poi così stringente, tanto è vero che al giorno d’oggi ci sono tanti scienziati cattolici che non hanno difficoltà a credere alla transustanziazione e, contemporaneamente, alla realtà scientifica che la luce del sole è costituita di innumerevoli lunghezze d’onda, cioè di innumerevoli colori). Quasi a sottolineare l’importanza del tema nel dibattito scientifico del XVII secolo, Galileo in Il Saggiatore aveva esaminato criticamente i concetti fondanti della fisica aristotelica, contestando pro-
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prio il concetto che gli accidenti siano una proprietà del corpo che li manifesta, ma che risiedono piuttosto nel soggetto che li percepisce: Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità. E prosegue arrivando a ipotizzare che la materia potrebbe essere composta di atomi che generano la luce […] che poi arrivando all’ultima ed altissima risoluzione in atomi realmente indivisibili, si crea la luce, di moto o vogliamo dire espansione e diffusione instantanea, e potente per la sua, non so s’io debba dire sottilità, rarità, immaterialità, o pure altra condizion diversa da tutte queste ed innominata, potente, dico, ad ingombrare spazii immensi.5 L’analisi di Galileo è certamente rivoluzionaria ma non al punto da non poter essere tranquillamente metabolizzata all’interno di una visione aggiornata della Ratio Studiorum gesuitica, ma sembra quasi che lo scienziato pisano non veda motivo per avere un atteggiamento “politico” quando, l’una dopo l’altra, si susseguono le evidenze scientifiche che indicano che è tempo di dare una profonda scossa all’impalcatura asfissiante dell’aristotelismo. È forse questo il motivo per cui nel Saggiatore Galileo non perde occasione per menare fendenti a destra e a manca, con particolare attenzione proprio verso i gesuiti che considera i suoi avversari previlegiati. Se la prende in particolare con Padre Orazio Grassi, alla polemica col quale è dedicato gran parte del trattato, e con Christoph Scheiner, un gesuita tedesco col quale è in contrasto sul tema di chi fra loro due abbia osservato per primo le macchie solari. La controversia con Grassi, che è professore di matematica al Collegio Romano, scivola quasi nella sbeffeggiamento perché il gesuita aveva
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G. Galilei (1623) Il Saggiatore, Roma, Mascardi ed.
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E ben ch’io m’avvisi che questo nome, non mai più sentito nel mondo, di Lotario Sarsi serva per maschera di chi che sia che voglia starsene sconosciuto […] Per poi dare il colpo finale, con una trovata degna di una commedia, quando dichiara che è sicuro che mai il professor Grassi avrebbe né detto né pensato quanto Sarsi va affermando: Tengo per fermo che il detto Padre non abbia mai né dette né pensate né vedute scritte dal Sarsi tali fantasie, troppo lontane per ogni rispetto dalle dottrine che si apprendono nel Collegio dove il P. Grassi è professore […] È vero che Galileo trova il modo di affermare che l’unico suo desiderio è quello di voler continuare a vivere in pace: E ben che tali e somiglianti ragioni, addottemi dall’autorità di questi signori, fusser vicine al distogliermi dal mio risoluto pensiero del non più scrivere, nulladimeno prevalse il mio desiderio di viver quieto senza tante contese […] Ma il contrasto è diventato tanto acceso che a permesso di far avanzare addirittura il sospetto (anche se non è mai stato dimostrato) che Grassi sposti completamente i termini della contesa e decida di colpire Galileo accusandolo presso il tribunale dell’Inquisizione di sostenere l’atomismo, un concetto che di fatto confina con l’eresia in quanto incompatibile con il dogma dell’Eucarestia. La denuncia, se fosse vera, sarebbe gravissima, non solo perché riguarda un dogma fondamentale della religione cattolica, ma anche perché l’idea della transustanziazione era stata contestata da Lutero in persona, che l’aveva sostituita col concetto di consustanziazione, col concetto, cioè, che il pane e il vino coesistono nell’Eucarestia con il corpo e il sangue di Cristo.
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scritto un suo saggio sulle comete, Libra astronomica ac philosophica, firmandolo con lo pseudonimo Lothario Sarsio Singesano che trasparentemente è un anagramma imperfetto di Horatio Grasio Savonensis e Galileo, mostrando di non aver indovinato il nome dell’autore che si è peraltro dichiarato allievo di Padre Grassi, scrive:
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Quando Kircher scrive l’Ars Magna Lucis et Umbrae sono trascorsi ventitré anni dalla pubblicazione del Saggiatore e tredici dalla condanna di Galileo alla ritrattazione, ma non c’è dubbio che la natura della luce sia rimasto un tema estremamente delicato. Tuttavia, se vuole che il suo trattatto rimanga nel novero delle opere scientifiche di ampio interesse, il gesuita non può ignorare la questione che rimane fra le più dibattute dell’epoca per cui si industria, per così dire, a mantenere un basso profilo e si limita a dedicare all’esame della natura della luce un piccolo paragrafo del Libro II dal titolo molto esplicito De radiorum entitate; an accidentia sint? An corpus? A conferma forse del suo modesto interesse nelle questioni fondamentali della scienza, Kircher tenta di salvare ambedue le posizioni, quella tradizionale degli aristotelici e quella innovativa di Galileo. In poche parole egli esamina, senza schierarsi, i motivi che portano ad attribuire alla luce la natura esclusiva di accidente, “i raggi sono immateriali” e “penetrano tutto i corpi durissimi, anche cristallini” e quelli che, al contrario, portano ad attribuire alla luce il carattere di sostanza “i raggi […] sono corporei in quanto sono capaci di assumere le tre dimensioni” e arriva a concludere che deve esistere una classe aggiuntiva di enti non caratterizzati né dalla sostanza né dagli accidenti […] esistenti in sè e per sè come forme semplici ma mai slegate dalla loro origine e sostanze corporee senza corpo […] 6 Allo stesso modo Padre Atanasio si mantiene equidistante anche quando, nelle prime pagine dell’opera, parla di astronomia. Prende esplicitamente partito con il suo confratello Scheiner che “con fatica erculea“ ha effettuato moltissime osservazioni che ha pubblicato nella sua Rosa Ursina e che sono da tutti riconosciute come fondamentali per lo studio del Sole ma contemporaneamente ammette che la sua superficie non è quella immutabile della cosmologia aristotelica, perché essa è continuamente variabile “oggi diversa da ieri e domani diversa da oggi”.
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A. Kircher (1646) Ars Magna Luci et Umbrae, Roma, ex Typographia Ludouici Grignani.
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loro colore non può derivare da quello del Sole perché quando questo cambia colore tutti i pianeti dovrebbero cambiare colore, il che non capita. È coraggioso Kircher a non ricoprire il ruolo di aristotelico allineato o è eccessivamente prudente nel non riconoscere che la classificazione tradizionale è superata? Probabilmente non è vera né l’una né l’altra tesi, egli semplicemente vuole liberarsi del problema teorico per arrivare a parlare di quello che veramente gli interessa: gli orologi solari e le macchine ottiche, tutti argomenti che è in grado di trattare senza porsi troppe domande su che cosa sia, in effetti, la luce. C’è da dire che gli orologi solari sono per Padre Atanasio un’antica passione che aveva coltivato fin da studente, quando nel seminario di Coblenza aveva realizzata una meridiana decorata con i segni dello zodiaco e sotto la quale aveva apposto un motto ammonitore che suonava come “Fugge l’ombra; fugge senza far rumore come fa il Tempo”7. Questa doveva essere la prima di diverse meridiane che Kircher avrebbe lasciato in tutte le città della Germania dove avrebbe risieduto prima di fuggire in Francia. Non desta sorpresa, quindi, che Kircher dedichi sette libri dell’Ars Magna Luci et Umbrae, dal III al IX, quasi interamente agli orologi solari e alle macchine ottiche, argomenti sui quali Kircher mostra la solita sconfinata conoscenza, senza rinunciare, naturalmente, a utilizzare gli usuali termini ammonitori per ricordare che si tratta di materie complicate, come la Progymnasmatica, la Uranografia Gnomonica e le Arti Anacamptica e Anaclastica. In effetti l’uso a piene mani di artificiosi prestiti dal greco o di strutture grammaticali estranee al latino classico è in qualche modo segno della modernità del gesuita, che si sforza di usare un latino facile da comunicare perché è quello che viene utilizzato nelle discussioni fra scienziati. Una modernità però che non riesce neppure ad avvicinarsi a quella di Galileo che, anche quando scrive in
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In J. Fletcher (1970) Isis, vol. 61, n. 1.
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Quanto poi al colore dei pianeti, è evidente, quando si mette occhio al cannocchiale, che il colore di “Saturno è plumbeo, Marte è igneo, Venere è argenteo, Giove è splendente“ da cui si deduce che il
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latino, utilizza uno schema logico costituito di fatti e conseguenze, gettando le basi per la creazione della vera e propria prosa scientifica moderna. Kircher, al contrario, è straripante: mentre descrive una infinità di orologi, si pone problemi di geometria, di ottica e di astronomia, senza rinunciare a quelli di astrologia e a quelli sul rapporto che esiste fra il tempo misurato dagli orologi e la stato fisico degli esseri umani. Ci sono le meridiane portabili munite di opportune tabelle di correzione in modo che possano fornire una sorta di ora assoluta in funzione del luogo in cui ci si trova, le meridiane che proiettano l’ombra dello gnomone su un cilindro in modo tale che l’orologio diventi abbastanza piccolo da potersi mettere in tasca, gli orologi costituiti da un semplice cubo nei quali lo gnomone è formato da un fascio di luce che entra da un foro, gli orologi che misurano l’altezza del sole sull’orizzonte per ricavarne l’ora e infiniti altri (figura 8). Anche quando parla di orologi Kircher non dimentica che è uno dei compiti di un buon prete quello di pensare (e far pensare) all’aldilà e quindi concepisce un orologio che costituisca un discreto memento mori. L’orologio solare è del tipo cilindrico – cioè portabile e quindi osservabile in ogni momento della giornata – e realizzato con una garza semitrasparente di colore nero con all’esterno uno scheletro di cartoncino con in mano la classica falce. L’orologio funziona esponendo l’immagine della scheletro al sole, per cui l’ombra, proiettata sul cilindro, sarà osservabile dal lato esterno e la punta della falce costituirà lo gnomone della meridiana, la quale, in cima, porta la scritta Mors ultima linea, casomai il messaggio non fosse abbastanza chiaro. L’Ars magna Lucis et Umbrae è probabilmente una delle opere meglio riuscite di Kircher, perché è quella nella quale la competenza tecnica si sposa con la passione dell’autore e praticamente ognuno degli orologi lì descritti merita una attenzione specifica. Anche limitandosi semplicemente a scorrere le pagine dell’opera si rimane catturati da alcune soluzioni che vi sono rappresentate come, per esempio, le numerose “meridiane simultanee” realizzate utilizzando l’acronimo simbolo dei gesuiti, IHS, o il nome dell’imperatore Ferdinando II (figura 9). In questa meridiana Kircher riesce a disegnare 25 meridiane distinte utilizzando le lettere del nome Ferdinandus con dei fori nella parte superiore delle lettere
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La luce e le ombre Figura 8. Meridiane. Da Kircher (1641) Magnes, sive de Arte Magnetica libri tres, Roma, Ex Typographia Ludouici Grignani
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La fine dei cieli di cristallo Figura 9. Meridiana para-equinoziale. Da Kircher (1646) Ars Magna Luci et Umbrae, Roma, Ex Typographia Ludouici Grignani
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stesse che fungano da gnomone luminoso. Anche l’aquila imperiale a due teste, penne, becco e artigli, viene utilizzata per ricavare altre meridiane utilizzando dei piccoli specchi. Questi orologi appaiono fin dal primo momento affascinanti per la sontuosità e la qualità artistica dell’immagine e, subito dopo, mostrano una vivacità e una fantasia delle soluzioni tecniche che lasciano completamente irretito chi li osserva. Un altro orologio che merita di essere menzionato, perché è spia di quanto sia importante per uno scienziato come Kircher essere anche un creatore di sorprese, è l’orologio eliocaustico, un orologio, cioè, che produce sia un effetto visivo che acustico. Si tratta di una semisfera metallica all’interno della quale è inciso il percorso del Sole nei diversi periodi dell’anno e che porta nel suo centro una lente, di solito costituita da una pallina di vetro. In corrispondenza di certe ore, per esempio il mezzogiorno, è scavato un solco abbastanza profondo nel quale si pone della polvere da sparo e, nelle vicinanze, dei mortaretti e un campanello. Il funzionamento è semplice: la lente concentra i raggi del sole sulla linea oraria incisa all’interno della semisfera e, quando arriva l’ora stabilita (e se la lente è abbastanza grande), il calore dei raggi solari incendia la polvere pirica che farà esplodere i mortaretti e questi, saltando in aria, faranno suonare la campanella a loro collegata. Fumo, fuoco, spari e campane: il divertimento di chi assiste è assicurato! Il massimo, forse, di effetti spettacolari è però raggiunto dall’orologio che Kircher escogita per riprodurre il prodigio di una antica statua parlante della quale parlano le leggende. Il gesuita si rifà in particolare al mito della statua di Mnemone, figlio della dea dell’aurora Eos e ucciso durante la guerra di Troia. Secondo il racconto, la statua, che era posta nei pressi della città egizia di Tebe, ogni mattina, al sorgere del sole, emetteva suoni quasi umani per salutare l’arrivo della dea madre che portava la luce agli uomini. Kircher sembra rendersi conto che l’orologio che egli ricostruisce sulla base delle notizie leggendarie (figura 10) è poco più della bozza di un progetto. Per questo motivo egli mette, in qualche modo, le mani avanti, assicurando che in un futuro libro fornirà una descrizione più approfondita del meccanismo e promettendo che spiegherà come dare alla statua una voce umana. Per il momento, tuttavia, egli rappresenta due diversi meccanismi di
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La fine dei cieli di cristallo Figura 10. Orologio con statua parlante di Mnemone. Da Kircher (1646) Ars Magna Luci et Umbrae, Roma, Ex Typographia Ludouici Grignani
funzionamento dell’orologio. Il primo meccanismo è quello nella parte bassa della figura che Kircher indica con Fig. III e si basa sul fatto che la radiazione solare riscalda il serbatoio a forma di parallelepipedo. Questo serbatoio contiene acqua nello scomparto di sinistra e aria in quello di destra. I due scomparti sono collegati da un tubicino. La testa e il corpo della statua di Mnemone (che per qualche motivo non chiarito ha l’aspetto di un fauno) sono collegati con due tubicini alla camera d’aria e un terzo tubicino collega la camera all’uccello che Mnemone tiene sul bastone che ha in mano. Le due semisfere collocate sulla parte superiore del serbatoio hanno lo scopo di aumentare l’area di raccolta della radiazione solare che va a riscaldare l’acqua, la quale va a incrementare la
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costruiti appositamente per assumere uno sguardo minaccioso [ma] provocherà la fuoruscita di una lingua gonfia dalla bocca, producendo uno spettacolo meraviglioso. Il terzo tubicino farà in modo che dalla bocca dell’uccello esca un fischio che, assieme agli effetti menzionati, non mancherà di provocare la più grande meraviglia negli spettatori. Il secondo meccanismo è quello rappresentato (in maniera abbastanza confusa) nella parte in alto della figura (che Kircher indica con Fig. I e Fig. II) e mostra la possibilità di far funzionare il meccanismo nei diversi periodi dell’anno quando il sole sorge in punti differenti dell’orizzonte. Gli specchi convergenti A, B, C, D, E raccolgono la luce del sole nelle diverse stagioni e la fanno convergere sul piccolo serbatoio X di fig. II (lo specchio piano F non ha alcuna funzione se non quella di deviare il fascio solare convergente). Le sfere di vetro numerate da 1 a 12 fungono da lenti che dovrebbero migliorare la convergenza del fascio luminoso prima che incida sul serbatoio. Quando l’acqua del serbatoio X avrà raggiunto la temperatura opportuna, salirà verso l’alto generando una piccola fontana. Il libro X dell’Ars Magna Lucis et Umbrae è largamente dedicato alle macchine ottiche e, se possibile, il contenuto è ancora più fantasmagorico di quello dei libri precedenti. Anche in questo libro l’importanza del testo è soverchiata da quella dell’immagine, perché questa, secondo Kircher, riesce a trasmettere un messaggio globale e non mediato che la scrittura non è in grado di comunicare. Non è facile individuare in queste macchine un proposito univoco: si percepisce un intento religioso quando si osserva che i marchingegni che il gesuita progetta presentano spesso degli aspetti didascalici e ammonitori, ma questi sono quasi sempre accompagnati da un rigore tecnico di tutto rispetto. Il pubblico che Kircher seleziona, è composto da spettatori disponibili a subi-
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pressione dell’aria nel serbatoio di destra. L’aria, così scaldata, tende a risalire (con violenza) lungo i tre tubicini. Il primo provocherà una uscita di suoni gutturali dalla bocca della statua (probabilmente simili a quelli che di solito vengono prodotti da una moderna macchina Moka per il caffè), il secondo farà non solo roteare gli occhi di Mnemone che sono stati
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re il fascino di quello spettacolo ma che, allo stesso tempo, siano in grado di apprezzare il fine religioso che egli si propone quando presenta, per esempio, l’immagine di un Cristo che sembra restare sospeso in aria mentre ascende alla gloria dei Cieli. Un grande spettacolo di illusionismo, insomma, ma – sia ben chiaro – non di magia perché questa viene considerata opera diretta del demonio. L’illusione più realistica che Padre Atanasio realizza è probabilmente quella della camera oscura portatile (figura 11) che consiste di due ambienti, uno dentro l’altro, all’interno dei quali viene fatto entrare lo spettatore al quale, di colpo, viene data l’impressione di trovarsi all’esterno. Le pareti di quella più interna sono semitrasparenti per cui l’osservatore posto al suo interno vede l’immagine proiettata dal foro stenopeico della camera esterna senza rendersi conto da dove provenga l’immagine. L’idea non è originale di Kircher che dichiara, in tutta onestà, di averla vista in Germania da un famoso inventore e non si stanca di magnificarla “avresti potuto scorgere montagne, campi, boschi, uomini, animali, scena di caccia” sottolineando che la macchina permette di vedere il movimento dei soggetti all’esterno:
Figura 11. Camera Oscura. Da Kircher (1646) Ars Magna Luci et Umbrae, Roma, Ex Typographia Ludouici Grignani
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In effetti è difficile che la camera oscura rappresentata nel disegno potesse destare tanta meraviglia, fosse solo perché le immagini prodotte dal foro stenopeico risultano rovesciate. È ragionevole però pensare che Kircher utilizzi delle lenti poste sul foro, ottenendo così il risultato aggiuntivo di aumentare la luminosità delle immagini. Non sappiamo se Kircher abbia mai pensato di organizzare degli spettacoli all’esterno della camera, ma, se lo ha fatto, possiamo concludere che ha offerto ai suoi spettatori la possibilità di godersi uno spettacolo cinematografico in anticipo sui tempi. Se la camera oscura è probabilmente la macchina ottica nella quale Kircher dà maggiore spazio al desiderio di compiacere il suo uditorio, la lanterna magica è quella nella quale l’intento ammonitore è più esplicito. Le finalità di intattenimento di questa macchina sono simili a quelle della camera oscura ma, a differenza di quella, che ospita essenzialmente uno spettatore alla volta, la lanterna magica offre la possibilità di proiettare davanti a un pubblico numeroso delle immagini che sono state dipinte su un vetro, proprio come un moderno proiettore di diapositive nel quale la lampada è stata sostituita da una lucerna. È probabile che Kircher, oltre a far divertire il suo pubblico, pensi di contribuire in questa maniera alle attività che i suoi confratelli stanno svolgendo nelle missioni in Asia e nelle Americhe: la lanterna magica è la soluzione al problema di trovare un linguaggio universale comprensibile immediatamente da qualunque essere umano, un problema che il gesuita ha studiato teoricamente nella ricerca del linguaggio universale e che sistematizzerà di lì a qualche anno, nella Turris Babel nel 1679.
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A. Kircher (1646) Ars Magna Luci et Umbrae, ex Typographia Ludouici Grignani, trad. M. Sonnino (1999) in Iconismi e Mirabilia, Roma, Ed. dell’Elefante.
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Ad un tale spettacolo si aggiungevano i gesti dei singoli uomini che stavano tutti intorno all’esterno […] nonché il volo degli uccelli rappresentati in maniera così vivace che non riesco a ricordare di avere mai visto nulla, in tutta la mia vita, di più piacevole […] 8
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La descrizione che Padre Atanasio fa della lanterna magica è quella di un modello realmente esistente che egli ha installato all’interno del Collegio Romano e del quale fornisce i dettagli: La luce della lucerna, passando attraverso una lente, poietterà sul muro […] l’immagine dipinta su un vetro liscio […] immagine che, se viene posta sul vetro al contrario, risulterà proiettata sul muro dritta e ingrandita […] 9 Kircher si preoccupa di suggerire che, al fine di ottenere una immagine abbastanza luminosa, si dovrebbe posizionare vicino alla fiammella della lucerna uno specchio metallico in modo da concentrare la luce sulla lente. Sebbene non è detto che le proiezioni così realizzate risultassero particolarmente luminose, il sistema è tuttavia efficace e Kircher può utilizzarlo per affascinare e, insieme, mettere in guardia il suo uditorio su quello che lo potrebbe aspettare nell’aldilà, visto che le due immagini che corredano l’edizione del 1671 mostrano la proiezione di un’anima nelle fiamme del Purgatorio, la prima, e uno scheletro con tanto di falce in una mano e di clessidra nell’altra, la seconda. Il Proteo catottrico, cioè basato esclusivamente sulla riflessione, è una macchina della quale Kircher ha sentito parlare e, anche se non l’ha mai visto personalmente, vuole dimostrare di saperla riprodurre. Scopo del congegno è quello di spaventare uno spettatore ignaro che viene fatto entrare in una camera appositamente preparata e all’improvviso vede la propria immagine con la testa di un asino (o di qualche altro animale, a scelta) al posto della propria. Kircher sembra quasi volersi giustificare per il fatto che si trova a proporre un esperimento che apparentemente non ha altro scopo che quello di far divertire la platea e che, inoltre, rischia di non risultare completamente nuovo per qualche spettatore (il pubblico del gesuita è spesso composto di personaggi in vista che hanno avuto la possibilità di viaggiare in diverse parti del mondo) ma – egli spiega – il suo scopo è quello di dimostrare che si tratta di un semplice artificio, sfatando così la leggenda che l’effetto sia dovuto a qualche sorta di magia. Padre Atanasio, quindi,
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A. Kircher (1646) Ars Magna Luci et Umbrae, ex Typographia Ludouici Grignani.
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[…] ci sono molte cose incredibili e paradossali nella natura che possono essere realizzate da coloro che conoscono i segreti della natura del sole. E si propone di dimostrarlo proprio con questa macchina catottrica (figura 12) che egli stesso – a quanto afferma – ha costruito.
Figura 12. Il Proteo Catottrico. Da Kircher (1646) Ars Magna Luci et Umbrae, Roma, Ex Typographia Ludouici Grignani
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conferma che i suoi esperimenti hanno uno scopo didattico per smascherare i falsi maghi che, a quanto pare, pullulano, anche se non nega che gli incantesimi diabolici effettivamente esistono ma “noi, sfuggendoli con i remi e con le vele, li condanniamo dal profondo e li detestiamo assieme alla Santa Chiesa”. Padre Atanasio rivela che l’idea gli è stata suggerita da un suo parente non meglio identificato, che aveva letto da qualche parte che un benedettino cinquecentesco con fama di esoterista, un certo Giovanni Tritemio, “prometteva di trasformare un uomo in qualunque animale“ e che, pur non conoscendo nel dettaglio a cosa si riferisca questa notizia, egli riconosce di non esserne particolarmente meravigliato perché è convinto che
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Lo spettatore, posto all’interno di una stanza, osserva la propria immagine riflessa da uno specchio sul muro. La piccola carrucola posta sulla parte posteriore dello specchio permette di farlo ruotare leggermente senza che lo spettatore se ne avveda. Cambiandone l’inclinazione, lo specchio riflette una delle immagini disegnate sulla ruota ottagonale che risulta nascosta allo spettatore. Con un movimento dello specchio molto accurato, e se lo spettatore è posizionato appropriatamente, questi osserverà nello specchio il suo corpo con una delle teste animali dipinte al posto della sua (in effetti, una macchina di questo tipo non può funzionare se si utilizza solo uno specchio piano). Il massimo dell’effetto si ottiene se, quando appare la testa, si fa in modo di far ascoltare il verso dell’animale. La descrizione della macchina termina con un consiglio che vale la pena di riportare perché fornisce l’idea del concetto, tutto suo, che Kircher ha del divertimento: Inoltre se qualcuno darà forma con qualsiasi materiale ad un teschio vuoto all’interno e con gli occhi perforati, e pure il naso e il ghigno della bocca e coprirà queste cavità con una pergamena sottile tinta con olio, e poi nasconderà una lampada nella posizione più oltre indicata, si vedrà senza dubbio una rappresentazione spaventosa più di quanto si possa dire.10 Sebbene la descrizione del funzionamento del Proteo sia piuttosto approssimativa, Kircher non dimentica di disegnare un foro sulla parete di sinistra, dal quale un osservatore (rappresentato in figura da un occhio) si può godere la scena senza essere visto. In tutta l’Ars Magna Luci et Umbrae, e in particolare nella iconografia, l’immagine del Sole è onnipresente al di là di quanto imposto dal tema. Già nel prologo Kircher celebra il Sole la cui luce,“arriva fino a noi attraversando gli spazi di cristallo per fornire la perfezione, la realtà, la vita e il movimento a tutte le cose…” e, citando Platone, Ficino e Plotino rischia così di ritrovarsi collocato nella scia
10 A. Kircher (1646) Ars Magna Luci et Umbrae, ex Typographia Ludouici Grignani, trad. M. Sonnino (1999) in Iconismi e Mirabilia, Roma, Ed. dell’Elefante.
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La luce e le ombre
neoplatonica rinascimentale che egli non rinnega ma che, piuttosto, integra nella visione cristiana del mondo. La sua passione per l’ermetismo e la magia risulta sempre bilanciata dal richiamo alla indagine empirica e naturale così come la magnificazione della funzione del sole, che egli distingue in lux, lumen e calore, finisce col tramutarsi in metafora della trinità cristiana.
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Le macchie sul Sole immutabile Una generazione va e una generazione viene, eppure la Terra resta sempre immobile al suo posto Ecclesiaste (1, 4-5)
La vita di Galileo e quella di Kircher si incrociano nell’estate del 1633 quando il giovane gesuita si trova ad Avignone e riceve una lunga lettera da Roma da parte del suo confratello Christoph Scheiner, il quale gli annuncia di aver scritto un trattato, il Prodromus de sole mobili et stabili terra contra Galileum, che vuole essere la risposta dell’ortodossia cattolica al Dialogo sopra i due massimi sistemi. Il Prodromus, nel quale la natura delle macchie solari e la rotazione del Sole attorno al proprio asse vengono esaminate con l’obbiettivo di difendere il concetto della stabilità della Terra, verrà pubblicato, per motivi che non conosciamo, solo nel 1651. Quello che colpisce nella lettera a Kircher è la soddisfazione di Scheiner, che emerge fra le righe, per il fatto che Galileo, già vecchio e malandato, è stato appena obbligato ad abiurare alle idee copernicane. Questo compiacimento, da solo, è spia di una violenta polemica in corso e che Scheiner continuerà a sviluppare contro il pisano per i restanti anni della sua vita. Appare molto significativo, proprio perché vuol sembrare niente più di una informazione, il finale glaciale della lettera nella quale Scheiner informa Kircher che Galileo, pochi giorni or sono ha abiurato e condannato la sua stessa affermazione riguardante il Sole fermo e la Terra in moto, davanti all’Inquisitore e in presenza di 20 testimoni […] Il suo libro sarà bandito.1
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C. Scheiner (1633) Lettera a Athanasius Kircher, 16 luglio 1633.
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La fine dei cieli di cristallo
Kircher, pur solitamente moderato nei suoi giudizi e alieno dalle polemiche accademiche, è tuttavia un giovane studioso che sente di dovere un certo rispetto verso il confratello che è un affermato docente di astronomia, e quando riceve la prima stesura del Prodomus non esita a farne un entusiastico commento al suo protettore Fabri de Peiresc, il quale, essendo un vecchio amico di Galileo, rimane certamente imbarazzato da questa esternazione. Tanto è vero che, dopo poche settimane, Peiresc confessa al suo amico Pierre Gassendi il suo sconforto per il trattamento che viene riservato a Galileo e la sua preoccupazione per le conseguenze che i reiterati attacchi che Scheiner, ora membro del gruppo dei matematici del Collegio Romano, possono avere sul destino di Galileo e scrive: Scheiner non riesce a astenersi dall’attaccare questo povero vecchio neanche dopo che è stato umiliato e dopo che è andato vicino alla condanna alla prigione a vita se non avesse ritrattato.2 La controversia fra Scheiner, che era all’epoca docente di matematica all’Università di Ingolstadt, e Galileo, che era appena rientrato a Firenze e forse all’apice della popolarità, risale al 1611 quando il gesuita aveva scritto di avere osservato delle macchie scure sul Sole. Galileo aveva sì confermata l’osservazione, ma sostenendo di aver riscontrato al cannocchiale lo stesso fenomeno con qualche mese di anticipo rispetto al tedesco. C’è da dire che la discussione che all’inizio si era mantenuta entro i limiti del normale dibattito fra due studiosi, scade ai livelli dell’inimicizia esplicita quando Scheiner nel 1624, appena arrivato a Roma, ha occasione di leggere la prefazione del Saggiatore, da poco pubblicato. Questa è una delle opere più belle di Galileo per la forza e l’ironia che la pervade, ma è anche quella nella quale la sua vis polemica emerge con tale irruenza da portarlo a sostenere tesi filo-aristoteliche pur di non ammettere le ragioni dei suoi avversari. Uno dei motivi alla base di questa polemica era la distanza di una
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N.C. Fabri de Peiresc (1633) Lettera a Pierre Gassendi, 6 settembre 1633, in J. Fletcher (1970) Isis, vol. 61, n. 1.
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Le Lettere delle Macchie Solari e da quanti e per quante guise fur combattute? e quella materia che doverebbe dar tanto campo d’aprir gl’intelletti ad ammirabili speculazioni, da molti, o non creduta o poco stimata, del tutto è stata vilipesa e derisa; da altri, per non volere acconsentire a’ miei concetti, sono state prodotte contro di me ridicole ed impossibili opinioni; ed alcuni, costretti e convinti dalle mie ragioni, ànno cercato spogliarmi di quella gloria ch’era pur mia, e, dissimulando d’aver veduto gli scritti miei, tentarono dopo di me farsi primieri inventori di meraviglie così stupende. In effetti l’accusa di plagio contenuta in queste righe è piuttosto precisa anche se qualcuno, appoggiando la propria opinione su un paragrafo successivo a questo, sostiene che Galileo, si riferisca essenzialmente a Simon Mayr, quel tedesco di Gunzenhausen nel quale Galileo si era già imbattuto quando quel tale Baldassarre Capra aveva provato a scopiazzare il suo compasso militare ma dietro al quale si celava, appunto, Mayr. Questa volta il plagio è più grave perché Mayr, che nel frattempo ha fatto carriera ed è diventato astronomo di corte del margravio di Branderburgo, scrive un trattatello, Mundus Iovialis, nel quale dichiara di aver osservato
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W.R. Shea (1972) Galileo’s Intellectual Revolution, MacMillan, Londra.
Le macchie sul Sole immutabile
cometa apparsa nel 1577, argomento che aveva come conseguenza la natura stessa di questo visitatore celeste. Tycho Brahe, e dopo di lui il gesuita Orazio Grassi che riprende il tema con le comete del 1618, misurandone la parallasse, aveva giustamente concluso che doveva trattarsi di oggetti che provenivano da regioni al di là del cielo della Luna, da regioni, cioè, che erano parte del cosmo immutabile. Galileo, probabilmente per non dare alcun supporto alla cosmologia di Tycho che, secondo lui, era un ostacolo all’accettazione del sistema copernicano, aveva sostenuto che le comete sono dei semplici fenomeni atmosferici e, per mantenere il punto, era stato costretto a schierarsi con gli aristotelici e inoltrarsi in un ginepraio di incoerenze3. Come se questo non bastasse, Galileo, avendo deciso di togliersi alcuni sassi dalla scarpa, nel Saggiatore aveva scritto:
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i satelliti di Giove qualche giorno prima di Galileo stesso. Il risentimento del pisano è pertanto giustificato e del tutto comprensibile è la dura risposta che Mayr riceve nel Saggiatore. Che la polemica di Galileo sia rivolta solo a Mayr o riguardi anche Scheiner è affare da studiosi. Quello che conta veramente è che il gesuita si convince che l’accusa di plagio sia rivolta proprio a lui a causa di quella vecchia polemica sulla priorità della scoperta delle macchie sulla superficie del Sole. L’offesa che egli ritiene di aver ingiustamente subita da Galileo è talmente profonda che, anche a distanza di diversi anni, Scheiner nella sua opera maggiore, la Rosa Ursina, la ricorda con umiliata amarezza: […] per tutti questi anni e, in aggiunta, in mia assenza sono stato accusato e attaccato per aver compiuto un orribile furto. 4 Quale che sia il motivo prossimo della controversia, il risultato è che Galileo si ritrova un acerrimo nemico nel cuore dell’accademia dell’ortodossia astronomica, il Collegio Romano, il quale farà in modo che la sua guerra personale diventi la guerra del suo Ordine contro il pisano, una guerra che continuerà anche dopo la scomparsa sua e del suo avversario principale. È naturale che una disputa durata tanti anni si arricchisca col tempo di contenuti aggiuntivi rispetto a quelli per cui era iniziata e, in un periodo nel quale si dibatte sulla visione del mondo copernicana, diventa inevitabile che la questione travalichi il problema di chi abbia osservato per primo le macchie solari e porti i due contendenti a irrigidirsi sulle rispettive posizioni ideologiche, scopertamente eliocentrica quella di Galileo e dichiaratamente ticonica quella del gesuita. Quello che diventa via via più chiaro è che, se si immagina che il conflitto di questi anni sia fra galileiani e antigalileiani, si rischia di non cogliere la complessità dei problemi che agitano la politica del tempo e anche l’animo di molti dei protagonisti. Non c’è dubbio, in effetti, che all’interno dell’Ordine, almeno fino alla ritrattazione che viene imposta a Galileo nel 1633, avesse libera circolazione l’idea che il paradigma copernicano meritasse di
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C. Scheiner (1626-1630) Rosa Ursina…, Bracciano.
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Si trova qui [a Roma] – scrive Stelluti – il Padre Scheiner Giesuita, che credo stampi le sue osservationi delle macchie solari; e disse alcuni giorni sono al nostro Sig.r Fabri, che cosa stampava di nuovo V.S.; a che rispose di non saperlo; e lui replicò c’haveva inteso che stampava del flusso e reflusso del mare, e che desiderava di vederlo, e concorre con l’opinione di V.S. circa al sistema mondano.5 Questa rivelazione che Stelluti attribuisce a Fabri, per quanto sorprendente, è in qualche modo confermata da una seconda lettera nella quale Peiresc racconta che, nell’ultimo incontro che egli ha avuto ad Aix, Kircher gli ha riferito che il vecchio professore del Collegio Romano, Cristoforo Clavio si sentiva obbligato e costretto a scrivere in favore delle teorie aristoteliche, e che lo stesso Padre Scheiner le supportava solo per senso del dovere.6 Molte le opinioni, molti i sentito dire, le informazioni di seconda mano e le supposizioni attorno ai rapporti fra Galileo e i Gesuiti del Collegio Romano alcune delle quali hanno portato addirittura a sospettare (anche se non è mai stato dimostrato) che o Scheiner o Grassi abbiano svolto un ruolo attivo nel giungere alla condanna di Galileo. Atteniamoci dunque ai fatti. Il 12 novembre 1611 Christoph Scheiner invia una lettera a Markus Welser, duumviro di Augusta e banchiere dei Gesuiti, nella quale dichiara:
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F. Stelluti (1626) Lettera a Galileo Galilei, 10 gennaio 1626. N. C. Fabri de Peiresc (1633) Lettera a Pierre Gassendi, 6 settembre 1633, in J. Fletcher (1970) Isis, vol. 61, n. 1. 6
Le macchie sul Sole immutabile
essere esaminato con attenzione e che addirittura potesse essere adottato come ipotesi di lavoro. Ce lo ricorda, per esempio, Francesco Stelluti, Linceo e vecchio amico del pisano. Nel 1626 egli racconta a Galileo che, secondo il comune amico Giovanni Fabri, Scheiner propende per la tesi copernicana, e che sia il Sole a star fermo mentre la Terra gli gira intorno:
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La fine dei cieli di cristallo
Circa sette o otto mesi fa [cioè fra il 12 marzo e il 12 aprile], in compagnia di un mio collaboratore abbiamo diretto il nostro cannocchiale verso il Sole e abbiamo notato delle macchie nerastre […] Questa lettera, assieme a altre due, rispettivamente del 19 e del 26 dicembre, viene successivamente pubblicata da Scheiner utilizzando, come era costume per un gesuita quando trattava argomenti sensibili, uno pseudonimo. Scheiner firma quindi le tre lettere come Apellis latentis post tabulam, cioè “Apelle nascosto dietro il quadro”, facendo riferimento alla leggenda secondo la quale una volta il grande pittore greco Apelle, nascosto dietro un suo quadro, aveva ascoltato un ciabattino criticare un dettaglio di una scarpa dipinta nel quadro. Il pittore aveva prontamente provveduto a correggere quel particolare e aveva esposto nuovamente il quadro, nascondendosene dietro. Questa volta il ciabattino, forte del successo della volta precendente, si era lasciato andare a estendere la sua critica a altri particolari del quadro per cui il grande pittore, uscito all’improvviso da dietro al quadro, lo aveva fulminato con la frase “Non andare oltre le scarpe, calzolaio!” La prima lettera di Scheiner mostra quanto seriamente egli prenda l’osservazione delle macchie solari perché affronta l’analisi del fenomeno in maniera particolarmente rigorosa. Dapprima si chiede se le macchie siano un fatto fisico o siano piuttosto un effetto della sua strumentazione e, dopo aver concluso che si tratta di un fenomeno reale, conclude che “o si trovano sul Sole o in qualche cielo (cioè in qualche sfera cristallina) al di fuori del Sole”. Poiché il Sole, secondo i postulati della filosofia scolastica, è un corpo perfetto che non può ospitare alcuna imperfezione, ne consegue che le macchie scure non possono che essere dei corpi, per esempio satelliti simili a quelli medicei, sia pure in numero molto maggiore dei quattro scoperti da Galileo, che si frappongono fra la Terra e il Sole. La conclusione di Scheiner potrebbe farlo apparire come un ottuso difensore di una cosmologia superata, ma non è così. Infatti, già all’indomani della pubblicazione del Sidereus Nuncius le osservazioni di Galileo sono state ampiamente metabolizzate dalla punta avanzata della filosofia ortodossa, tanto che l’esistenza dei satelliti di Giove è addirittura utilizzata da Scheiner per
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[…] essendo stato quasi necessitato a usare tanto silenzio da varii accidenti, ed in particolare da una lunga indisposizione, o, per meglio dire, da lunghe e molte indisposizioni […] 7 [e, inoltre] […] a me conviene andare tanto più cauto e circospetto, nel pronunziare novità alcuna, che a molti altri […] Pur manifestando la prudenza che le circostanze impongono, segno che Galileo è consapevole di quanti nemici si stiano coalizzando contro di lui, egli si rende disponibile a commentare le cose che Apelle ha scritto. La prima è che le macchie siano cose reali, e non semplici apparenze o illusioni dell’occhio o de i cristalli, non ha dubbio alcuno, come ben dimostra l’amico di V.S. nella prima lettera; ed io le ho osservate da 18 mesi in qua, avendole fatte vedere a diversi miei intrinseci, e pur l’anno passato, appunto in questi tempi, le feci osservare in Roma a molti prelati ed altri signori. Galileo, quindi, conferma quanto ha scritto il finto Apelle ma allo stesso afferma di aver osservato le macchie nell’ottobre del 1610, cioè 5 o 6 mesi prima di Scheiner, di fatto togliendo a questi il merito della scoperta. La ricerca di chi dei due, Scheiner o Galileo, abbia osservato per primo le macchie solari è argomento da specialisti, anche se sembra probabile che, come è avvenuto tante volte nella storia della scienza, la scoperta sia avvenuta autonomamente e pressoché nello stesso periodo. D’altra parte in senso strettamente letterale altri studiosi dovrebbero entrare nella gara di chi sia arrivato primo a osservare le macchie solari, quali, per esempio, Keplero nel 1609 o Harriot e Fabricius fra il 1610 e il 1611. Ci sembra tut-
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G. Galilei (1612) Lettera a M. Welser, 4 maggio 1612.
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spiegare le nuove osservazioni delle macchie solari. Welser, che è a conoscenza della fama di Galileo come scienziato, il 6 gennaio gli invia le lettere, che Apelle ha oramai pubblicate, perché spera di interessarlo a questa nuova scoperta astronomica e per conoscere la sua opinione. Galileo tarda quasi tre mesi a rispondere
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tavia di poter restringere la discussione a Galileo e Scheiner, sia per l’effetto sullo svolgersi, anche drammatico, degli avvenimenti successivi, sia perché è fra questi ultimi due che il dibattito non resta limitato alla semplice osservazione ma si allarga alla interpretazione del fenomeno, con frequenti capovolgimenti dei motivi del torto e della ragione. La ragione, nella lettera che Galileo invia a Welser, immediatamente ci appare, per così dire, dalla parte di Galileo quando esamina il ragionamento di Apelle che lo porta ad affermare che le macchie non possono risiedere sul Sole. Infatti – argomenta Galileo in maniera modernissima – possiamo dire che il Sole non ha macchie se osserviamo che le macchie non ci sono e non viceversa […] perché il dire, come egli mette nella prima ragione, non esser credibile che nel corpo solare siano macchie oscure, essendo egli lucidissimo […] ma quando ci si mostrasse in parte impuro e macchiato, perché non doveremmo noi chiamarlo e macolato e non puro? I nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose, e non l’essenza a i nomi; perché prima furon le cose, e poi i nomi. Galileo passa poi – dobbiamo dire, con efficacia minore – ad analizzare la natura delle macchie concludendo che si tratta di fenomeni atmosferici, come le nuvole sulla Terra, perché nota che le macchie solari si producono e si dissolvono in termini più e men brevi; si condensano alcune di loro e si distraggono grandemente da un giorno all’altro; si mutano di figure, delle quali le più sono irregolarissime, e dove più e dove meno oscure […] Ora, moli vastissime ed immense, che in tempi brevi si produchino e si dissolvino, e che talora durino più lungo tempo e tal ora meno che si distragghino e si condensino, che facilmente vadino mutandosi di figura, che siano in queste parti più dense ed opache ed in quelle meno, altre non si trovano appresso di noi fuori che le nugole. Galileo quindi, dopo aver escluso che le macchie solari possano essere dovute alla interposizione di stelle o satelliti fra la Terra e il
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Parmi per tanto di scorgere che Apelle, come d’ingegno libero e non servile, e capacissimo delle vere dottrine, cominci, mosso dalla forza di tante novità, a dar orecchio ed assenso alla vera e buona filosofia […] La discussione fra Galileo e Scheiner sulla natura delle macchie e sulla supposta incorruttibilità del Sole procede per diverso tempo con i due contendenti che, pur mantenendo in larga misura le rispettive posizioni, conservano la naturale correttezza di carattere accademico, tanto che Scheiner arriva a sottoporre a Galileo il suo lavoro Sol ellipticus con una lettera nella quale scrive: Illustrissimo Signore, a valle delle recenti ricerche ti invio il mio Sole Ellittico che, per quanto si tratti di un libricino, spero che non ti risulti sgradito. Ti prego, se ne avrai tempo e se valuterai che ne valga la pena, di darmi tranquillamente il tuo giudizio. Non ti preoccupare che io mi possa offendere sia se la tua valutazione sarà a mio vantaggio o contro perché la Verità è sempre gradita.8 Questa lettera è importante per due motivi, il primo è che Scheiner dimostra di nutrire stima per Galileo, almeno fino al 1615, data della sua lettera, il secondo è che in questa occasione la ragione passa dalla parte del gesuita e il torto da quella del pisano. La tesi di Scheiner per spiegare il motivo per cui il sole all’orizzonte appare di forma ellittica, è che, durante il loro percorso, i raggi luminosi che provengono dal Sole si curvano quando attraversano l’atmosfera della Terra. Poiché i raggi provenienti dalla parte superiore del Sole risultano meno incurvati di quelli che arrivano dalla parte inferiore per un effetto che già ai tempi di Scheiner è conosciuto col nome di rifrazione differenziale, il disco
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C. Scheiner (1615) Lettera a G. Galilei, 11 aprile 1615.
Le macchie sul Sole immutabile
Sole e suggerendo che le macchie solari siano assimilabili alle nuvole sulla Terra, concede una sorta di onore delle armi ad Apelle dichiarando:
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solare appare schiacciato. Il pensiero di Galileo sul fenomeno è spiegato in Il Saggiatore dove, polemizzando con Orazio Grassi, il famoso Lotario Sarsi della cometa, che sostiene la stessa tesi di Scheiner della rifrazione, egli afferma che il Sole appare di forma ellittica per un semplice effetto di prospettiva, come è facile verificare osservando una circonferenza in obliquo. Qui Galileo dimostra che, come capita a tutti i grandi scienziati, a volte può sbagliarsi! Se pensassimo che la discussione accademica fra Scheiner e Galileo si sviluppi in un clima di generale disponibilità a comprendere le ragioni degli altri, non avremmo una visione complessiva del momento storico perché, assieme al gruppo di studiosi interessati a interpretare le nuove osservazioni che si vanno accumulando, il partito del dogma irrazionale inizia a giocare la sua partita. Un indizio, veramente poco rassicurante, ce lo fornisce una lettera che Niccolò Lorini, predicatore generale dell’Ordine dei Domenicani, invia inopinatamente a Galileo per rassicurarlo: […] il sospetto che io la mattina de’ Morti fussi per entrare a favellar in materia di filosofia contro di veruno, fu in tutto falso e senza veruno fondamento né vero né verisimile […] e non solo non ho mai sognato di voler entrare in simil cosa, ma mai ho io profferito parola ch’habbia accennato quello… Io desidero di compiacer e servir V. S. come a mio padrone, e mentre che la non comanda qualcosa, come desidero, prego per l’agumento d’ogni sua felicità spirituale e temporale […] 9 A chi avesse un po’ di esperienza del mondo, la chiusa untuosa sarebbe risultata particolarmente allarmante, ma Galileo in questa occasione appare un po’ ingenuo e si limita a cogliere la pochezza degli argomenti utilizzati e racconta a Federico Cesi che il domenicano nella sua lettera, riferendosi a Copernico, lo ha chiamato “Ipernico”: È stato in Firenze un goffo dicitore, che si è rimesso a detestar la mobilità della terra; ma questo buon huomo ha tanta pra-
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N. Lorini (1612) Lettera a G. Galilei, 5 novembre 1612.
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È in questo periodo che Galileo compie l’errore di affidarsi alla logica stringente del ragionamento per ribattere agli argomenti degli avversari senza chiedersi quando mai la logica sia riuscita a convincere una persona in malafede. I suoi amici più fidati, come Federico Cesi, si rendono conto che la strada imboccata dal pisano può come minimo esporlo a antipatie che sarebbe meglio evitare e gli suggeriscono di non esporsi in prima persona: M’assicuro, tutti sentiranno con V.S. e si moveranno contra suoi aversari; a’ quali sempre è stato mio pensiero V.S. non risponda, ma si facci risponder da gioveni, per mortificarli: e quelli che faranno le risposte possono esser in parte, e anco in tutto, aiutati, et anco farli adottare l’opre compite.11 Galileo, tuttavia, è tanto persuaso della forza del ragionamento deduttivo che commette l’ingenuità di addentrarsi nel terreno scivoloso dell’interpretazione delle Scritture dove rischia, appunto, di scivolare. Il pisano, che mai si era fatto capace che l’interpretazione del mondo si dovesse fermare di fronte a una o due frasi prese dalla Bibbia e estrapolate dal contesto, decide di rompere gli indugi e dimostrare che il passo del Libro di Giosuè “Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici”12 può essere utilizzato a supporto dell’ipotesi copernicana tagliando, come si dice, l’erba sotto i piedi degli aristotelici. Galileo compie questa spericolata operazione scrivendo a un suo vecchio allievo, Padre Benedetto Castelli, che è ora professore a Pisa13. La lettera fin dalle prime battute confonde le posizioni degli avversari, perché afferma che le Sacre Scritture non possono mai errare e che quanto è lì riportato è sempre indiscutibil-
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G. Galilei (1613) Lettera a F. Cesi, 6 gennaio 1613. F. Cesi (1612) Lettera a G. Galilei, 6 ottobre 1612. Bibbia, Giosuè, 10, 12-13. G. Galilei (1613) Lettera a B. Castelli, 21 dicembre 1613.
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tica sopra l’autor di questa dottrina, che lo nomina l’Ipernico. Hor veda V.E. dove e da chi viene trabalzata la povera filosofia […] 10
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mente vero. Certo – e qui è il punto – a volte il senso letterale delle parole utilizzate nella Bibbia va interpretato correttamente, in quanto le Scritture hanno lo scopo di essere comprese da tutti, anche da persone che non sono particolarmente colte. A volte capita addirittura – continua Galileo – che l’interpretazione letterale sembri attribuire a Dio delle caratteristiche umane che, come è ovvio, sono lontanissime dalla Sua natura. Essendosi così incamminato lungo la strada infida dell’interpretazione delle Scritture, Galileo si lascia andare a dichiarare: Io crederei che l’autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell’istesso Spirito Santo.14 La lettera è solo a metà, ma ce ne sarebbe già abbastanza per i nemici del pisano: che un filosofo si arroghi il diritto di interpretare la Bibbia sostituendosi al giudizio dei teologi è inaccettabile. Galileo sembra quasi non avvedersi del rischio che sta correndo e passa a spiegare il significato del passo biblico nel quale Giosuè ordina “Sole fermati!”, che è uno dei pilastri dell’ortodossia cattolica dell’epoca, per concludere che il vero significato è che il Sole è fermo e la Terra gli gira attorno. Quello che è peggio è che il suo ragionamento non fa una grinza. Infatti, se è vero che nel sistema Tolemaico – spiega Galileo – il movimento diurno del Sole è dovuto al moto trasmesso dalle sfere dei pianeti superiori, non è possibile in questo sistema fermare il movimento del Sole senza sconvolgere l’equilibrio di tutto il sistema planetario. Poiché, inoltre, il moto di tutte le sfere nelle quali sono incastonati i pianeti è trasmesso dall’una all’altra a partire dalla sfera più esterna, che è quella del Primo Mobile, in un sistema coerentemente tolemaico Giosuè avrebbe dovuto ordinare, con una evidente ironia da parte di Galileo, “Fermati Primo Mobile!”.
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G. Galilei (1613) Lettera a B. Castelli, 21 dicembre 1613.
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Ecco, dunque – conclude Galileo – il modo secondo il quale, senza introdur confusione alcuna tra le parti del mondo e senza alterazion delle parole della Scrittura, si può, col fermar il Sole, allungar il giorno in Terra. Il significato del passo biblico, a lungo utilizzato per sostenere l’immobilità della terra, viene così stravolto e portato a sostegno della teoria copernicana! Non c’è dubbio che la dimostrazione di Galileo sia elegante e disarmante, eppure rischia di ritorcersi contro l’autore, perché offre su un piatto d’argento ai suoi oppositori l’argomento che egli e i filosofi suoi amici vogliano sostituirsi ai teologi nell’interpretazione delle Sacre Scritture. D’altra parte Galileo, nella lettera a Castelli, ha già fatto affermazioni come: […] mi par che nelle dispute naturali ella [la Scrittura] doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo
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Se poi qualcuno non cogliesse il grottesco della situazione di un generale che, per rispetto alla cosmologia aristotelica, pronunciasse una frase come questa al cospetto di un esercito che non ha alcuna idea di che cosa stia parlando, Galileo provvede ad affondare il coltello della polemica per dimostrare che la frase, al contrario, ha senso nel sistema copernicano e chiede “io dimando all’avversario s’egli sa di quali movimenti si muova il Sole”. Il pisano prepara così la stoccata finale: assumiamo, solo per ipotesi, che sia il Sole e non la Terra al centro dell’Universo. Poiché lo studio delle macchie solari – osserva Galileo – ha dimostrato che il Sole compie una rotazione su se stesso in circa un mese lunare e, poiché sappiamo che i moti celesti avvengono per trascinamento, ci dobbiamo aspettare che tutti i pianeti – Terra compresa – ruotino su se stessi, sia pure a velocità differente da quella del Sole. Ora, quando il Signore decise di esaudire la richiesta di Giosué fermando il Sole, Egli avrebbe dovuto necessariamente fermare l’unico movimento del Sole cioè la sua rotazione. La conseguenza sarebbe che tutti i pianeti, e la Terra in particolare, avrebbero cessato di ruotare su se stessi, con l’unica conseguenza che il Sole non sarebbe più tramontato.
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che suonano come un esplicito disconoscimento dell’interpretazione che Roberto Bellarmino dà delle tesi del Concilio di Trento che proibiscono di commentare le Scritture “contra il commune consenso de’ Santi Padri”. Senza contare poi che quello della libera interpretazione dei testi sacri è stato proprio uno dei cavalli di battaglia della Riforma luterana per cui sembra proprio che Galileo di tutto si stia preoccupando eccetto che di utilizzare un po’ di sana prudenza. Il pisano sembra tanto convinto di trovarsi di fronte degli interlocutori disponibili a lasciarsi persuadere dalla coerenza logica degli argomenti che, dopo la nuova interpretazione del classico “Sole fermati!”, decide di addentrarsi nel terreno ancora più scivoloso di rintracciare nelle Sacre Scritture altri passi che possano confermare la validità della cosmologia copernicana. Così, in una serie di lettere a Monsignor Piero Dini fra il 1614 e il 1615, Galileo, pur non avendo mai altra mira che alla dignità di Santa Chiesa e non dirizzando ad altro fine le mie deboli fatiche, si avventura nell’interpretazione del Salmo 18. Si tratta quasi di una sfida perché secondo Dini questo salmo è fra “i più repugnanti“ al sistema copernicano e Galileo si impegna a dimostrare che, al contrario, il salmista fa riferimento al sistema eliocentrico perché, interpretando correttamente il passo, vi si trova che è il Sole che “fa raggirarsi intorno tutti i corpi mobili del mondo”. Due sono gli errori di Galileo a questo punto: il primo, che abbiamo già osservato, è di non rendersi conto che l’interpretazione dei passi biblici è proprio il terreno sul quale i teologi ortodossi rifiutano il confronto perché riservano a se stessi il diritto della corretta interpretazione; il secondo errore è di natura metodologica perché, se si cerca nei testi sacri il supporto alla teoria copernicana, si entra in contraddizione con una delle tesi fondamentali della scienza galileiana, cioè che l’ambito scientifico e quello della fede sono distinti e separati e che uno non può essere utilizzato a supporto dell’altro. Inutile dire che a questo punto il gruppo di coloro che vogliono fermare Galileo e le nuove idee si sente pronto per l’attacco. Fra i primi a uscire allo scoperto è un predicatore domenicano, Tommaso Caccini, il quale, nel dicembre 1614, dal pulpito di
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[…] che quando Iosuè comandò al sole che si fermasse non si deve inten[de]re che il comandamento fussi fatto ad altro ch’al primo mobile, e non [all’] istesso sole […] 15 È difficile immaginare una lettera più insidiosa di questa, visto che richiede in sostanza l’intervento del Santo Uffizio, ma è anche difficile pensarne una più ipocrita sopratutto per la conclusione nella quale Lorini afferma: Mi protesto ch’io tengo tutti costoro, che si domandono galileisti, huomini da bene e buon christiani, ma un poco saccenti e durettí nelle loro opinioni; come ancho dico che in questo servizio non mi muovo se non da zelo… La situazione è tutt’altro che delineata se, contemporaneamente a queste denunce, a Napoli il teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini pubblica un libricino sotto forma di lettera al Padre Generale del suo Ordine, la Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico […] 16, nel quale il religioso si schiera a difesa della visione copernicana del mondo che permette di spiegare le recenti osservazioni di Galileo. Il cardinal Bellarmino, a questo punto, ritiene necessario inter-
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N. Lorini (1615) Lettera al card. Paolo Camillo Sfrondati, 7 febbraio 1615. P.A. Foscarini (1615) Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico della mobilità della Terra e stabilità del Sole e del nuovo Pittagorico sistema del mondo, ed. Lazzaro Scoriggio, gennaio 1615.
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S. Maria Novella cita una frase degli Atti degli Apostoli che si riferisce alla resurrezione di Cristo, “Viri Galilaei, quid statis aspicientes in coelum” (Uomini della Galilea, cosa state guardando in cielo) ma con una chiara allusione a Galileo che si occupa troppo delle faccende celesti. Lo segue quel Niccolò Lorini che qualche tempo prima aveva negato in una lettera a Galileo di aver sparlato di lui e che ora non esita a informare il card. Paolo Sfrondati, Prefetto della Congregazione dell’Indice, del suo timore che Galileo e suoi amici professino opinioni contrarie alle Sacre Scritture e che, in particolare, predichino
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venire per chiarire i termini della questione con una lettera indirizzata a Foscarini nella quale scrive: Dico che mi pare che V. P. et il Sig.r Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente […] Perché il dire,che supposto che la terra si muova et il sole stia fermo si salvano tutte l’apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il sole stia nel centro del mondo […] , è cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante. E conclude Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra […] 17 Il punto, definitivo, che fa Bellarmino è chiaro: il sistema copernicano può essere utilizzato da un buon cattolico come rappresentazione del mondo e come tecnica di calcolo e quand’anche si dimostrasse, “ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata”, che la Terra ruoti attorno al Sole, non è compito degli astronomi interpretare le Scritture, che sembrano dire il contrario, e il massimo che è permesso agli astronomi è dire che non le comprendono. Secondo Galileo il significato di questa lettera (o, almeno, quello che lui mostra di credere) è uno schietto invito ai filocopernicani a offrire la dimostrazione che la Terra abbia un movimento di rotazione, dimostrazione che crede di avere trovata nel fatto che esistono le maree. La tesi di Galileo è chiaramente esposta in una lettera al cardinale Alessandro Orsini nella quale sostiene:
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R. Bellarmino (1615) Lettera a P. A. Foscarini, 12 aprile 1615.
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E attribuisce la causa delle maree al doppio movimento della Terra, la quale ruota su se stessa mentre compie la sua rivoluzione annua attorno al Sole. È chiaro che in un dato momento – osserva Galileo – ci sarà un punto sulla superficie della Terra che si muoverà “velocissimamente“ perché la velocità di rotazione e quella di rivoluzione si troveranno nella stessa direzione. L’acqua dei mari in quella zona della Terra, per inerzia, rimarrà ritardata rispetto alla Terra e si osserverà, di conseguenza, “un reflusso“ delle acque. Contraria sarà la situazione in un punto della superficie della Terra opposto al primo: questo si muoverà “tardamente“ perché la velocità di rotazione ha verso opposto a quella di rivoluzione con la conseguenza che l’acqua dei mari precederà il movimento della Terra mostrando così “un flusso“ delle acque. Naturalmente a distanza di 12 ore la situazione sarà capovolta per cui la situazione di flusso e riflusso avrà un andamento periodico. La conclusione di Galileo è che questa spiegazione ha il pregio di mettere assieme il moto della Terra e le maree, “prendendo quello come cagione di questo e questo come indizio ed argomento di quello”. Noi sappiamo che le maree sono dovute all’azione combinata della Luna e del Sole, che risulta molto più efficace dell’effetto invocato da Galileo, ma il fatto è che una prova concreta della rotazione della Terra, quella cioè che il passo biblico di Giosuè sembra contraddire, al tempo di Galileo è impossibile da trovare19 per cui lo scienziato, che forse nutre egli stesso qualche dubbio, cerca testardamente di dimostrare che esistono due moti della terra e che questi sono realmente osservabili, che poi è l’unica cosa che a lui interessi veramente di dimostrare.
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G. Galilei (1616) Discorso del flusso e reflusso del mare, 8 gennaio 1616. La prova della rotazione sarà fornita da Gian Battista Guglielmini solo nel 1791 attraverso la caduta di gravi dalla Torre degli Asinelli di Bologna. L’esperimento di Guglielmini è delicatissimo per cui non sarà ripetuto che ai nostri giorni. La prova regina della rotazione è costituita dal pendolo di Foucalt del 1851. 19
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[…] la ragione dei flussi e dei reflussi dell’acque marine potesse resiedere in qualche movimento dei vasi che le contengono […] 18
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Questa atmosfera contradditoria, nella quale agiscono studiosi che interrogano la natura,uomini che vivono dentro se stessi il contrasto fra la nuova scienza e la loro fede e personaggi ottusi che utilizzano gli uni e gli altri nella speranza di opporsi al cambiamento che i tempi richiedono, precipita il 5 marzo 1616 quando la Congregazione dell’Indice pubblica un Decreto nel quale l’eliocentrismo è dichiarato contrario alle Sacre Scritture e che spazza via le speranze di poter confrontare le diverse visioni del mondo senza dogmatismi20. Lo stesso decreto condanna anche l’opera del padre Antonio Foscarini. La sentenza, che viene emessa esclusivamente sulla base delle opinioni dei teologi, non è diretta contro la persona di Galileo e i suoi scritti ma specificamente contro la cosmologia di Copernico e ha tutta l’aria di un avvertimento. Purtroppo Galileo sembra non capire che la lezione che gli è stata impartita andrebbe presa molto sul serio. I rapporti fra Scheiner e Galileo, che si erano interrotti nel 1615 alla vigilia del Decreto di condanna dell’eliocentrismo, riprendono, come abbiamo visto, nel peggiore dei modi nel 1624, quando il gesuita viene trasferito al Collegio Romano per continuare i suoi studi sulle macchie solari che aveva iniziato a Ingolstadt. Purtroppo questi rapporti riprendono nel peggiore dei modi perché Scheiner, una volta a Roma, si imbatte in “un libro in Italiano che portava il titolo de Il Saggiatore e che era stato stampato a Roma nel 1623”. Sebbene inizialmente a Scheiner la lettura di Il Saggiatore sembri “l’occasione per imparare un po’ di italiano”, quello che vi trova è l’offesa peggiore che possa essere fatta a uno studioso come lui, cioè che egli, dopo essersi indebitamente appropriato della priorità della scoperta delle macchie solari sarebbe successivamente scomparso rendendosi irreperibile21. L’accusa è tanto infamante che Scheiner in un primo momento pensa che sia impossibile che Galileo si riferisca proprio a lui, che ritiene di essere stato sempre corretto nei confronti del pisano, ma, dopo aver letto attentamente il testo, è costretto a concludere che l’obbiettivo della denuncia è proprio lui. 20 Per una storia dettagliata, si veda per es., E. Festa (2007) Galileo, la lotta per la scienza, Laterza editore, Bari. 21 Per una storia dettagliata, si veda L. Ingaliso (2005) Filosofia e Cosmologia in Christoph Scheiner, Rubettino ed., Soveria Mannelli.
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Quanto alli disgusti del Sig.r Galileo, gli dico sincerissimamente che n’ho sentito grandissimo despiacere, perché gli ho sempre portato assai maggiore affetto di quello che si sia degnato egli portare a me; et essendo stato richiesto in Roma l’anno passato che cosa mi paresse del suo libro intorno al moto della terra, procurai con ogni sforzo mitigare gli animi inaspriti verso di lui e renderli capaci dell’efficacia degli argomenti da lui apportati, tanto che si meravigliarono alcuni come io, stimato da essi offeso dal Sig.r Galilei e per tanto fossi poco ben affetto, parlassi per lui con tanta premura.22 La Rosa Ursina (figura 13) è opera rispettabile e ricca di seri resoconti di osservazioni astronomiche. Consta di oltre 800 pagine ed è dedicata al Duca di Bracciano Paolo Giordano II Orsini, che ne
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O. Grassi (1633) Lettera a Girolamo Bardi, 22 settembre 1633.
Le macchie sul Sole immutabile
Quale possa essere la reazione del gesuita che si sente accusato ingiustamente è facile da immaginare e se ne vedranno gli effetti nelle pagine di La Rosa Ursina, un voluminoso compendio delle sue ricerche che Scheiner inizia quando arriva al Collegio Romano e che termina nel 1630. L’opera è divisa in quattro libri, il primo dei quali è dedicato completamente alla difesa dall’accusa di plagio e che costituisce solo la punta dell’iceberg di risentimento che, col tempo, muterà in un rancore che non si placherà neppure di fronte alla condanna dello scienziato che oramai si è trasformato nel peggiore nemico. È sorprendente che questo atteggiamento tanto rancoroso non sia condiviso, a distanza di anni, proprio da Orazio Grassi, il gesuita del Collegio Romano che pure era stato l’obbiettivo principale degli strali di Galileo in Il Saggiatore. Tanto buoni sono i motivi che Padre Grassi avrebbe per polemizzare con il pisano che, come abbiamo visto, qualcuno ha avanzato il sospetto che egli abbia addirittura avanzata un denunzia al Santo Uffizio contro il pisano, ma, mentre non esiste alcun documento che provi questa accusa, esiste al contrario la prova che, di fronte alla sconfitta del suo vecchio avversario, Orazio Grassi ne resta umanamente colpito, tanto da non poter fare a meno di scrivere:
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La fine dei cieli di cristallo Figura 13. La Rosa Ursina frontespizio. Da C. Scheiner (1626-1630) Rosa Ursina sive Sol ex Admirando Facularum…, Bracciano
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E chi non trasecolerà nel considerar l’arguzia dell’impresa delle 3 orse nelle 3 caverne, l’una delle quali col telescopio riceve le macchie del sole, l’altra lambe i suoi orsacchini, e la 3a si succia le mani? Con li 2 motti, tanto significanti e con sì bell’arguzia contraposti: Rosa Ursina/Ursa Rosina. Ma a che metter mano a registrar le fantoccerie di questo animalaccio, se elle sono senza numero?23 Galileo mostra verso Scheiner un’ostilità speciale che appare, quasi distillata, nel sarcasmo di una lettera al suo amico Cesare Marsili che, prima ancora della pubblicazione della Rosa Ursina, il pisano dispensa apertamente:
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G. Galilei (1636) Lettera a F. Micanzio, 9 febbraio 1636.
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finanzia gli alti costi autorizzando la stampa nella tipografia ducale. Il titolo utilizza il gioco delle frasi Rosa Ursina e Ursa Rosina, ambedue impresse nei cartigli dell’immagine centrale. L’orsa nella grotta in alto mostra la tecnica di osservazione del Sole utilizzando un’immagine riflessa e tiene nella zampa un compasso per misurare le posizioni relative delle strutture sulla superficie solare. L’orsa nella grotta inferiore a sinistra che si prende cura di due orsacchiotti simboleggia la didattica, mentre quella nella grotta a destra, che sta riposando, indica la soddisfazione che deriva da un lungo infaticabile lavoro. Mentre il primo libro, come abbiamo visto, è interamente dedicato alla polemica con Galileo, il secondo libro è rivolto quasi esclusivamente allo studio della strumentazione e delle metodologie osservative, non esclusa l’analisi della fisiologia dell’occhio. Il terzo libro è quello scientificamente più interessante, perché contiene un’impressionante serie di tavole che riproducono con molta accuratezza un lavoro osservativo durato quasi vent’anni e nel quale, oltre alle macchie, il gesuita descrive le facole, le plagae e le umbrae. Il quarto libro, infine, contiene la sintesi teorica che Scheiner ricava dall’analisi dei dati esaminati alla luce della scienza, della filosofia e della teologia. Certo, l’opera è tipicamente seicentesca, piena di giochi di parole, di simbolismi e di allusioni che Galileo non perde occasione di sbeffeggiare, a cominciare dall’analisi del frontespizio:
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Sento all’incontro che il finto Apelle stampa in Bracciano un lungo trattato de maculis solis; et quello esser lungo mi fa assai dubitare che non sia pieno di spropositi, li quali, per essere infiniti, possono imbrattare molti fogli, dove che il vero tien poco luogo: et io tengo per fermo che se egli dirà altro che quello che dissi già io nelle mie Lettere solari, dirà tutte vanità e bugie.24 È chiaro che uno scontro tanto violento e persistente negli anni ha motivi più profondi della disputa, tutto sommato abbastanza puerile, relativa a chi spetti il diritto di fregiarsi del merito di avere osservato per primo le macchie solari, fosse solo perché sia Scheiner che Galileo sono probabilmente consapevoli che a nessuno dei due spetti tecnicamente questo merito. Probabilmente Galileo vede in Scheiner un autorevole rappresentante dell’ideologia cattolica più retriva, mentre il gesuita sicuramente cova un astio personale verso il pisano. Sta di fatto che Galileo non perde occasione per criticare l’opera di Scheiner, non solo in diverse lettere ai limiti dell’insulto personale, che poi in un modo o nell’altro finiscono con arrivare fino alle orecchie del gesuita, ma, quasi non bastasse, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi mantiene viva la polemica criticando sia la Rosa Ursina che le Disquisitiones di Scheiner. Il gesuita, da parte sua, non perdonerà mai Galileo per l’accusa di plagio e gli porterà un rancore tanto persistente che anche Scheiner, dopo Grassi, è stato ripetutamente sospettato di aver partecipato attivamente alle denunzie contro Galileo che arrivano al Santo Uffizio, sospetti però che, come si sa, non hanno mai trovata una conferma documentale e che, anzi, vengono generalmente considerati infondati. Illazioni a parte è interessante esaminare come procede il dibattito sulle macchie solari. Man mano che i due contendenti si confrontano, si osserva che la concezione cosmologica del gesuita evolve in senso anti-aristotelico mentre lo scienziato pisano, che diviene sempre più impaziente, mal sopporta la prudenza della cultura ufficiale, che non fa altro che ritardare il passo decisivo dell’adozione ufficiale, del sistema copernicano. La posizione di partenza di Scheiner è chiaramente espressa nelle sue lettere del 1611, nelle quali è costretto a interpretare le macchie solari
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G. Galilei (1629) Lettera a C. Marsili, 21 aprile 1629.
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come piccoli satelliti, simili a quelli da poco scoperti attorno a Giove, che si interpongono fra il Sole e la Terra perché deve salvare l’ipotesi che il Sole, come tutti i corpi celesti, è perfetto, costituito cioè da una materia immutabile, completamente diversa da quella che noi troviamo sulla Terra. Questa posizione si modifica negli anni che intercorrono fra le prime lettere e la pubblicazione della Rosa Ursina e, pur rimanendo fedele al concetto che la Terra è immobile al centro dell’Universo, Scheiner giunge a liberarsi dell’idea che il Sole sia un corpo privo di imperfezioni. La conseguenza è che il gesuita nella Rosa Ursina non ha difficoltà ad accettare che le macchie e le facole sono poste sulla superficie del Sole, “ipsae extra solem non sunt ponendae”, e arriva a correggere Galileo che resta dell’idea che le macchie risiedono nell’atmosfera del Sole e sono qualcosa di simile alle nuvole che si vedono sulla Terra. È chiaro che Scheiner deve far riferimento alle scelte dottrinali del suo Ordine e sa che il semplice esperimento o la semplice osservazione con un cannocchiale non bastano per ricavarne una nuova costruzione della realtà, perché il mondo, che è stato creato da Dio, va compreso all’interno della descrizione che ce ne forniscono le Scritture. La procedura che segue uno scienziato cattolico del ‘600, per sorprendente che ci possa apparire, è che l’osservazione fornisce un indizio che lo studioso utilizza per creare un abbozzo di teoria. Questa però è solo una traccia per la propria ricerca perché la teoria diviene affidabile quando si trova nella Bibbia un passo che la confermi. In ossequio a questo criterio Scheiner, per confermare che le facole si trovano sulla superficie solare, individua un passo dell’Ecclesiaste che afferma che “niente è più luminoso del Sole”. Questo passo sembra fatto proprio apposta per il gesuita, perché le facole appaiono al telescopio più luminose della superficie del Sole per cui, secondo la Bibbia, si deve dedurre che esse fanno parte proprio della superficie, altrimenti bisognerebbe concludere che nell’Universo esiste qualcosa che è più luminoso del Sole25. E questo è contro il testo biblico. Non sarà il massimo della percorso deduttivo come lo interpretiamo oggi, ma non va sottovalutato che Scheiner per questa via arriva a concludere che i cieli non sono immutabili, superando così uno dei paradigmi fondamentali della vecchia filosofia ari-
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stotelica. Ne resta un altro, quello della reale esistenza delle sfere cristalline, una proposizione che anche Copernico non ha voluto mettere in discussione. Sulla reale esistenza delle sfere di cristallo, i filosofi avevano avuto posizioni variegate, a partire da Eudosso stesso e da Tolomeo che consideravono i loro sistemi come semplici mezzi di calcolo sui quali non valeva la pena di interrogarsi se corrispondessero a enti reali e astratti: anche lo stesso Bellarmino, riprendendo le tesi di autorevoli Padri della Chiesa come Tommaso d’Aquino, aveva ritenuto che si trattasse di semplici strumenti matematici, anche se la parte più ortodossa della cosmologia cristiana, forse solo per mancanza di fantasia, considerava le sfere come oggetti fisici realmente esistenti. Restava per costoro anche il problema dell’ascesa delle anime dalla Terra al Cielo, ma era uno dei casi nei quali, per risolvere un problema di fisica (l’attraversamento di un corpo rigido), si faceva ricorso alla teologia e ai miracoli. In un ordine colto come quello dei gesuiti la soluzione non può essere di qualità tanto modesta, per cui Scheiner tenta di dimostrare che le sfere celesti devono essere di natura eterea. Se le sfere cristalline fossero solide – argomenta il gesuita nella Rosa Ursina – la luce, attraversandole, dovrebbe subire la rifrazione e noi dovremmo vedere le stelle in maniera confusa, come se le guardassimo attraverso una finestra, e poi – continua Scheiner – la scoperta dei satelliti medicei ha offerto la prova definitiva che le sfere vengono effettivamente attraversate l’un l’altra altrimenti non si comprende come potrebbero i quattro satelliti ruotare attorno a Giove. L’atteggiamento di Scheiner, in poche parole, non è certo quello di un ottuso bigotto che rifiuta di ragionare sulle conseguenze delle nuove scoperte scientifiche, ma piuttosto quello di un uomo che, alla luce della sua educazione religiosa, si propone di attuare un rinnovamento della cosmologia all’interno della tradizione cristiana. Naturalmente il gesuita comprende che per compiere una operazione così delicata egli ha bisogno della protezione delle autorità del suo Ordine e pensa di ottenerla attraverso il prestigio e il rigore teologico di Roberto Bellarmino la cui memoria, anche
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L. Ingaliso (2005) Filosofia e Cosmologia in Christoph Scheiner, Rubettino ed., Soveria Mannelli.
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Quello ch’io posso testificar per la verità è questo: che essendo la felice memoria del Sig. Cardinal Bellarmino molto mio Signore e che mi portava particolar affetto, voleva spesso sentir da me delli miei studii e compositioni; e dandoli ragguaglio della mia opra del cielo, e particolarmente ch’io tenevo che fusse fluido, qual opinione mi pareva molto ben confermata dalla Sacra Scrittura e dall’auttorità de’ Santi Padri […] ne mostrò grandissima allegrezza, e mi disse che questo haveva tenuto lui sempre come conforme alle Sacre Carte et interpretationi de’ Santi Padri, e che in ciò non haveva dubio […] 26 Il rapporto fra Scheiner e Galileo, anche se indiscutibilmente segnato da una profonda inimicizia, lascia intravedere i contenuti scientifici e ideologici che pervadono l’atmosfera dell’epoca. È evidente che se si tenta di collocare lo scontro di questi due personaggi dentro lo schema di un Seicento polarizzato fra scienziati galileiani e dogmatici antigalileiani si rischia di non comprendere le motivazioni, e a volte anche le sofferenze, degli attori. In questo quadro la figura di Christoph Scheiner si presta a rappresentare quella dello scienziato che, dibattendo con onestà scientifica le sue idee all’interno dello schema ideologico per lui di riferimento, ha il torto di non riuscire ad aggiornarsi e a modificare la sua concezione del mondo con la velocità che i tempi richiedono.
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F. Cesi (1628) Lettera a Giovanni Faber, 1 giugno 1628.
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a distanza di diversi anni dalla sua scomparsa, gode ancora di un prestigio indiscutibile presso tutti coloro che lo hanno conosciuto. Scheiner progetta così di chiedere una sorta di testimonianza postuma a Federico Cesi, il fondatore del gruppo dei Lincei, che contatta attraverso il comune conoscente Giovanni Faber. La risposta di Cesi, che ha frequentato regolarmente Bellarmino mentre questi era in vita, è proprio quella che Scheiner si aspetta perché il principe in una lettera gli conferma che il cardinale è stato un sostenitore della natura liquida dei cieli. Scheiner quindi non esita a includere integralmente questa lettera nella Rosa Ursina, in modo da rassicurare i censori dell’Ordine che avrebbero dovuto concedere l’imprimatur all’opera:
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Sembra quasi che Scheiner, attraverso le missive che invia al giovane Padre Atanasio, voglia allargare a quest’ultimo l’onere di mantenere viva l’inimicizia con Galileo. Kircher, però, che appartiene alla generazione successiva a quella di Galileo e Scheiner, appare quasi disimpegnato rispetto alle polemiche violente qui descritte e, una volta arrivato a Roma, si limita a mantenere un atteggiamento di adesione totale ai dettami dell’Ordine senza prendere ufficialmente parte alla disputa. Non è semplice prudenza la sua, piuttosto egli sente che troppe sono le cose delle quali intende occuparsi. Non c’è dubbio che Padre Atanasio apprezzi il lavoro del suo autorevole confratello, al quale dedica una realistica illustrazione nel suo Mundus Subterraneus27 (figura 14). Il Sole non è più visto come una sfera perfetta e immutabile, segno dell’avvenuto superamento dell’aristotelismo classico. La superficie appare come una specie di mare agitato, nel quale appaiono le facole come fuochi brillantissimi e le macchie come nuvole di fumo scuro. Vulcani, voragini e vapori completano il quadro. Nel cartiglio sorretto da due angioletti appare la scritta Schema Corporis Solaris, prout ab Auctore et P. Scheinero, Romae Anno 1635 observatum fuit, che attribuisce le osservazioni a Cristoph Scheiner e a Kircher stesso. All’esterno la scritta Spatium Ethereum. Il Sole tuttavia rappresenta solo una piccola parte delle cose che il Signore ha creato, tanto è vero che nella sua opera Kircher trova sì posto per l’immagine del Sole, ma lo fa assieme a cose per lui altrettanto importanti come i fossili, i resti dei giganti, i demoni, gli animali del sottosuolo, la medicina astrologica e via dicendo. Emerge così la diversità della figura di Kircher da quella di Scheiner. Questo rigoroso, ma anche astioso e monocromatico, capace di concentrarsi su un solo obbiettivo per tutta la vita; quello, considerando meritevole di attenzione qualunque dettaglio in un cosmo unitario, tale da finire con il sostituire l’indagine scientifica con la raccolta acritica di notizie che a volte diventano contraddittorie e quasi sempre superficiali. Il Mundus Subterraneus, che Kircher pubblica nel 1665, ma che concepisce già nel suo viaggio nell’Italia meridionale nel 1637, è
27 A. Kircher (1665) Mundus Subterraneus, in XII libros digestus…, Amstelodami, Apud Joannem Janssonium et Elizeum Weyerstraten, 1665.
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Le macchie sul Sole immutabile Figura 14. Il Sole. Da A. Kircher (1665) Mundus Subterraneus, in XII libros digestus… Amstelodami
significativo in questo senso. Visto che non è più il tempo di mettersi a ragionare sulla struttura del cieli, il giovane gesuita, affascinato dagli spettacoli dell’Etna e del Vesuvio ai quali ha avuto modo di assistere, decide di studiare le cose che si trovano al di sotto della Terra. I segni dell’opera del Creatore sono identificabili non solo nel cosmo celeste ma anche nel “geocosmo” – come lo chiama Kircher – nel quale si trovano indizi straordinari che aiutano a comprendere il modo di operare della Natura. Anche l’acqua e il fuoco che convivono all’interno della Terra, per esempio, altro non sono che l’analogo terrestre del Sole e della Luna nel cielo e, come Scheiner ha introdotto nella cosmologia ortodossa il concetto che i cieli non sono immutabili, Kircher mostra che è vero anche il contrario, cioè che anche nel nostro mondo, corruttibile per definizione, si trovano gli indizi del disegno cosmico celeste.
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Il Diluvio Universale Sulle sue basi fondasti la Terra, e starà immota negli evi degli evi Libro dei Salmi (104)
Quando Galileo, nel 1612, affronta il problema del perché le cose galleggino nell’acqua non può mai immaginare che sta lasciando un messaggio che sarà ripreso da Athanasius Kircher sessanta anni più tardi. Come a volte accade quando si parla di cose antiche, l’importanza delle motivazioni che agitano i protagonisti rischia di risultare poco comprensibile, ma è un dato di fatto che la controversia fra Galileo e gli accademici ortodossi che lo sfidano a spiegare il motivo del galleggiamento sull’acqua di alcuni oggetti in natura ha come posta in gioco la credibilità di tutto l’edificio aristotelico. La sintesi di Aristotile, infatti, è un edificio nel quale la fisica e la matematica si intrecciano così strettamente alla geometria e alla logica che, se uno solo dei principi dovesse dimostrarsi infondato, ne potrebbe risultare compromessa tutta la costruzione che ha improntato da secoli la visione del mondo. Nella fisica di Aristotele il tema del galleggiamento degli oggetti parte dai concetti di caldo e freddo che determinano il comportamento della materia. Se, infatti, un corpo si dilata o si restringe quando viene riscaldato o raffreddato ne consegue che tutti i corpi, compresa l’acqua, aumentino di densità quando vengono portati a temperature più basse. È sulla base di questi concetti che, nell’estate del 1611, si apre il dibattito fra Galileo e gli aristotelici fiorentini sul tema “come mai il ghiaccio galleggia nell’acqua?” Poiché, in base al principio dei corpi freddi e dei corpi caldi la densità del ghiaccio (corpo freddo) deve essere superiore a quella dell’acqua (corpo caldo), gli accademici conservatori sono obbligati a sostenere che le lastre di ghiaccio galleggiano a causa della
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loro forma che è larga e piatta. Galileo, che durante la sua permanenza a Padova e a Venezia ha osservato galleggiare sull’acqua pezzi di ghiaccio di tutte le sagome, sostiene invece che non può essere la forma che permette al ghiaccio di galleggiare, concludendo implicitamente che il principio aristotelico è contraddetto dall’esperienza e, anche su richiesta del Granduca di Toscana, decide di mettere per iscritto la sua opinione in una piccola opera, il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono1. Questo libretto però rappresenta l’inizio della fase più violenta delle polemiche degli aristotelici contro Galileo. Gli accademici tradizionalisti di Firenze e di Pisa, trovandosi in difficoltà, si coalizzano contro l’opinione di Galileo e uno di questi, Lodovico Delle Colombe (che nella cerchia di Galileo viene chiamato il Pippione, appellativo che di sicuro non suona come un vezzeggiativo), lo sfida proprio sul terreno dell’esperimento, mostrando che pezzetti di ebano a volte galleggiano e a volte affondano a seconda della forma che gli viene data. È di tutta evidenza che l’esperimento non dimostra nulla se non che l’ebano ha un peso specifico un po’ superiore a quello dell’acqua e che a volte riesce a galleggiare a causa della tensione superficiale del liquido. Naturalmente quello della tensione superficiale non è un concetto pienamente acquisito nel Seicento ma uno spirito critico avrebbe potuto chiedersi perché mai è necessario utilizzare proprio l’ebano per dimostrare l’assunto di Aristotele e concludere che è la natura dell’oggetto che viene immerso e non la sua temperatura a svolgere un ruolo nell’esperimento. Galileo di fronte all’inconsistenza di queste dimostrazioni riuscirebbe forse a mantenere un atteggiamento distaccato, ma quando Delle Colombe mette per iscritto che Galileo “vuol far credere col discorrere quello che non può far vedere col senso“ decide che è necessario dargli una risposta e, usando l’unica accortezza di chiedere al fidato Benedetto Castelli di fungere più o meno da prestanome, rifila al Pippione un pugno negli occhi:
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G. Galilei (1612) Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, Giunti, Firenze.
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E con questo Galileo chiude la questione del ghiaccio che galleggia sull’acqua. La verità è che Galileo è ben preparato sull’argomento perché aveva ragionato su questo tema già da ragazzo quando, nel 1586, aveva scritto La Bilancetta,nella quale aveva immaginato che il vecchio Archimede avesse utilizzato il concetto di peso specifico dei diversi materiali arrivando a concludere che i corpi affondano quando pesano più del volume di acqua che spostano quando vengono immersi,e probabilmente non è per niente interessato a perdere tempo su questa faccenda. D’altra parte, poiché è il Granduca in persona che vuole conoscere la sua opinione, Galileo, appena rientrato a Firenze, non può esimersi e così, quando nel maggio 1612 pubblica il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, quasi si scusa con i suoi lettori e li rassicura che presto tornerà a occuparsi delle sue scoperte astronomiche: Perch’io so, Principe Serenissimo, che il lasciar vedere in pubblico il presente trattato, d’argomento tanto diverso da quello che molti aspettano e che, secondo l’intenzione che ne diedi nel mio Avviso Astronomico, già dovrei aver mandato fuori, potrebbe per avventura destar concetto, o che io avessi del tutto messo da banda l’occuparmi intorno alle nuove osservazioni celesti, o che almeno con troppo lento studio le trattassi; ho giudicato esser bene render ragione sì del differir quello, come dello scrivere e del pubblicare questo trattato […] Il fatto è – continua Galileo – che effettuare misure astronomiche è un’attività che ti occupa interamente e che non può agevolmente essere svolta assieme a un’altra per cui presto tornerà a occuparsi di un altro fenomeno astronomico, cioè l’osservazione d’alcune macchiette oscure, che si scorgono nel corpo solare: le quali, mutando positura in quello […] porgo2 B. Castelli (1612) Risposta alle opposizioni del S. Lodovico delle Colombe e del S. Vincenzo di Grazia contro al Trattato del Sig. Galileo delle cose che stanno in su l’acqua, Giunti, Firenze, 1615.
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S’io avessi a mostrargli e ‘nsegnargli tutto quello che non vede e non intende, non verrei mai a fine di quest’opera […] 2
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no grand’argomento, o che ‘l Sole si rivolga in sé stesso, o che forse altre stelle, nella guisa di Venere e di Mercurio, se gli volgano intorno, invisibili in altri tempi per le piccole digressioni e minori di quella di Mercurio […] Le macchie solari, cioè, sono, secondo Galileo, una questione tanto importante quanto i satelliti di Giove, il che getta un po’ di luce sui motivi della sua polemica con Scheiner. È facile immaginare che Athanasius Kircher sia completamente all’oscuro sia del dibattito sul galleggiamento di tanti anni prima che forse anche dei dettagli della questione delle macchie solari quando nel 1640, centenario della fondazione della Compagnia del Gesù, gli viene richiesto di presentare una relazione sul racconto biblico dell’Arca di Noè. Presto l’incarico si rivela tutt’altro che semplice, perché la narrazione propone un’infinità di interrogativi, fra cui quello di valutare se l’Arca biblica fosse in condizione di galleggiare effettivamente, sopratutto per il fatto che il testo è estremamente dettagliato, tanto è vero che il Signore assume più che in altre circostanze una forma umana, quasi di architetto: Allora Dio disse a Noè: È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la terra. Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore […] 3 Kircher, come sempre, è convinto che le parole della Bibbia vadano interpretate in senso letterale, ma è consapevole che questa volta si trova di fronte a una sfida senza precedenti, perché la maniera precisa con la quale il Signore affida a Noè la sua volontà rischia di rivelare qualche contraddizione all’interno degli ordini
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Bibbia, Genesi, 6:13-15.
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4 A. Kircher (1675) Arca Noë in tres libros digesta, Quorum I. de rebus, quae ante Diluvium, II. De iis, quae ipso Diluvio ejusque duratione, III. De iis, quae post Diluvium a Noëmo gesta sunt. Quae omnia Nova Methodo, nec non Summa Argumentorum varietate, explicantur, et demonstrantur, Amstelodami, Apud Joannem Janssonium a Waesberge, 1675.
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che Egli impartisce, per cui diventa indispensabile esaminare il problema nei dettagli. Il gesuita si rende rapidamente conto che il compito che gli è stato affidato è particolarmente complesso perché non si tratta solo di raccontare un episodio biblico fra i più noti, ma anche di esaminarne tutte le conseguenza insite. L’impegno deve essere stato veramente significativo per Padre Atanasio tanto è vero che, a distanza di qualche anno, decide di raccogliere il risultato del suo lavoro in una delle sue opere più conosciute, l’Arca Noë in tres libros digesta4. Kircher inizia il suo studio cercando di smantellare l’idea che la storia dell’Arca sia poco più che un mito e, per convincere i lettori che si tratta invece di storia vera, realizza il libro in una forma particolarmente strutturata e quasi scientifica elencando, per poi smentirli successivamente, tutti i possibili argomenti che militano a favore di una lettura favolistica della narrazione. In primo luogo il gesuita sgombra il campo dall’obiezione che Noè non poteva avere la capacità tecnica di realizzare un’impresa tanto impegnativa e, a questo scopo, suggerisce che il Signore, nel momento stesso che dette l’ordine, provvide a infondere in Noè la sapienza necessaria per realizzare l’Arca e, poiché l’opera aveva una genesi divina, non può destare meraviglia che il risultato fu qualcosa di mai visto prima e che, anzi, è ragionevole pensare che l’Arca costituì di fatto l’ottava meraviglia dell’antichità. Il gesuita passa poi a fare i calcoli per stabilire le dimensioni dell’arca. Su questo punto il racconto biblico non lascia campo a equivoci, perché fornisce le dimensioni che dovrà avere il natante, ma Kircher, da esperto di lingue antiche quale egli è, confronta le versioni della Genesi in ebraico, in greco, in arabo, in siriaco e in caldeo e, calcolando che il cubito egizio non differisce troppo dal cubito babilonese e da quello ebraico, conclude che l’arca doveva essere un barcone lungo 135 metri (cioè più di un campo di calcio) largo 22 e alto 13. Nello stesso capitolo della Genesi si trova un ostacolo
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inatteso riguardo alle dimensioni non tanto dell’arca quanto dei suoi occupanti, perché si legge: In quel tempo c’erano sulla terra i giganti, e ci furono anche di poi, quando i figliuoli di Dio si accostarono alle figliuole degli uomini, e queste fecero loro de’ figliuoli.5 Questo, naturalmente, è un ostacolo da spazzare via immediatamente perché se Noè e i suoi famigliari fossero stati dei giganti, l’Arca, che già presenta problemi di spazio, sarebbe risultata ancora più insufficiente. Il problema dell’esistenza dei giganti non va preso alla leggera, perché non solo è la Bibbia che ne parla, ma Kircher è consapevole che da tempo vanno emergendo delle testimonianze che confermano il ritrovamente di resti di giganti. Anche uno studioso autorevole come Giovanni Boccaccio racconta di aver assistito al ritrovamento dello scheletro di un gigante alto 200 cubiti, cioè un centinaio di metri, in una caverna vicino Trapani (purtroppo al contatto dell’aria lo scheletro andò in polvere e rimasero solo pochissimi degli enormi denti che furono conservati in una chiesetta lì vicino6). Kircher è affascinato da questa storia, che egli mette in relazione con il mito dei Ciclopi, e, appena ne ha l’occasione, si reca a Trapani per visitare la grotta indicata da Boccaccio. La visita è deludente, perché il gesuita non osserva alcuna traccia del gigante, ma il viaggio risulta tuttavia fruttuoso perché, al ritorno, ha occasione di visitare delle grotte vicino a Palermo, nelle quali trova crani e arti di persone che, essendo pietrificati, non hanno nulla di umano, almeno agli occhi di Kircher. In quelle grotte si trovano inoltre delle strane rocce, alcune delle quali hanno l’aspetto di ossa e denti enormi, ma che, quando vengono toccate, si sbriciolano. Sembrano qualcosa a metà strada fra rocce e scheletri, che il gesuita non sa classificare ma che hanno tutto l’aspetto di creazioni della Natura che non sono andate a buon fine. Di questa spiegazione Kircher si accontenta e conclude che probabilmente i giganti sono esistiti,
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Bibbia, Genesi, 6:4. A. Kircher (1665) Mundus subterraneus…. Amstelodami, Apud Joannem Janssonium et Elizeum Weyerstraten. 6
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Farai all’arca una finestra, in alto, e le darai la dimensione d’un cubito; metterai la porta da un lato, e farai l’arca a tre piani: uno da basso, un secondo e un terzo piano.7 E Padre Kircher, seguendo fedelmente la lettera del testo biblico, rappresenta l’Arca come una specie di lungo caseggiato con un tetto spiovente (visto che ci si aspettava pioggia intensa), all’interno del quale sono ricavate delle piccole camere alle quali si accede attraverso cinque appositi corridoi. Nel piano superiore vengono alloggiati gli uccelli e i componenti della famiglia di Noè, nel piano intermedio viene conservato tutto il materiale necessario per la sopravvivenza del cospicuo numero di ospiti e al piano terreno vengono alloggiati tutti gli altri animali viventi. Tutti i rifiuti che non possono essere smaltiti immediatamente, infine, trovano posto negli appositi spazi al di sotto del piano terreno. Proprio a causa di questo approccio realistico che Kircher si propone di utilizzare, emerge immediatamente la domanda:“Può uno scatolone di queste dimensioni e di peso tanto ragguardevole essere in grado di navigare?” Padre Atanasio, che certamente conosce il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono che in quel momento costituisce il trattato più completo sul tema del galleggiamento, si rifà al principio di Archimede che Galileo nel Discorso ha difeso contro gli aristotelici e conclude che, anche se l’Arca non può essere considerata una nave in senso proprio, tuttavia era sicuramente in grado di galleggiare lasciandosi
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Bibbia, Genesi, 6:16 -18.
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visto che ne parla la Bibbia, ma che, già al tempo del Diluvio, erano spariti per cui le dimensioni dell’Arca dovevano essere proprio quelle indicate nel racconto biblico, tanto più che le sue proporzioni corrispondono a quelle del tempio di Salomone (che, a sua volta, è stato ispirato dal Signore) e a quelle del corpo umano quando si trova a braccia aperte, un po’ come nel famoso disegno di Leonardo che troviamo sulle nostre monete da 1 euro. Da queste considerazioni si conclude (magari in maniera un po’ oscura) che Noè non poteva essere un gigante, altrimenti non sarebbe potuto entrare nell’Arca. Gli ordini del Signore continuano:
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trasportare dalle correnti e dal moto delle acque, adempiendo così alla missione che il Signore gli aveva affidata. In queste considerazioni il gesuita è certamente confortato dall’affresco sul soffitto della Cappella Sistina, nel quale Michelangelo ha rappresentato l’Arca seguendo da vicino il racconto biblico e ha probabilmente ispirato l’iconografia che nel libro di Kircher ricorda da vicino l’affresco michelangiolesco. Una seconda domanda operativa che emerge è come abbiano potuto Noè e la sua famiglia tenere a bada tanti animali selvatici e aggressivi fra di loro. Qui il gesuita non può far altro che invocare l’intervento divino, che deve avere imposto a tutte le fiere una specie di pace temporanea per tutto il periodo di permanenza sull’Arca. A questo punto Kircher passa all’esame dei successivi passi dell’ordine biblico: E di tutto ciò che vive, d’ogni carne, fanne entrare nell’arca due d’ogni specie, per conservarli in vita con te; e siano maschio e femmina. Degli uccelli secondo le loro specie, del bestiame secondo le sue specie, e di tutti i rettili della terra secondo le loro specie, due d’ogni specie verranno a te, perché tu li conservi in vita. E tu prenditi d’ogni cibo che si mangia, e fattene provvista, perché serva di nutrimento a te e a loro.8 Su questo punto il gesuita deve ammettere di trovarsi in difficoltà perché il testo biblico non è chiarissimo su quali siano gli animali da salvare. Kircher, convinto che l’approccio più sicuro di fronte a un problema complesso sia sempre quello di ricorrere ai sapienti dell’antichità, utilizza tutta la sua erudizione e, richiamando il vecchio Plinio, suddivide gli animali candidati a entrare nell’Arca in insetti, quadrupedi e uccelli (i pesci e gli animali che in qualche modo se la sarebbero cavata in un mondo ricoperto dall’acqua vengono esclusi fin dal primo momento). Da questa prima lista di candidati vengono immediatamente cassati insetti e specie“inferiori”in genere, perché, secondo Kircher, che si rifa alla tradizione aristotelica, essi nascono spontaneamente dal fango e dai materiali in decomposizione.
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Bibbia, Genesi, 6:19-21.
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Questa della generazione spontanea di alcune specie animali direttamente dalla materia è, a metà del ‘600, una convinzione diffusa, anche se non mancano gli studiosi che, una volta appresa la lezione galileiana, la applicano a tutti i campi della conoscenza. C’è per esempio un studioso aretino membro della Accademia del Cimento, Francesco Redi, il quale, nella sua veste di medico e biologo, dichiara che non è possibile, come taluni affermano, che le rane possano nascere dal fango quando viene bagnato dalla pioggia: semplicemente capita – sostiene Redi – che all’arrivo della pioggia le rane che si trovano nascoste nell’erba escano allo scoperto. Alcuni dei confratelli di Kircher al Collegio Romano non la pensano così, anche se molti ritengono che la materia vada approfondita per cui organizzano un esperimento proprio nel cortile del Collegio spargendo sul pavimento terra e sabbia e aspettano che si verifichi un temporale per controllare se “nascano” delle rane in quel luogo dove nessuno le aveva viste prime. In effetti capita che, alla fine del temporale, vengano trovate alcune rane che, a quanto giurano gli sperimentatori, prima non c’erano. Il racconto dei gesuiti appare tanto onesto e convinto che, qualcuno, a distanza di anni ha cercato di farsi una ragione dell’esito di questo esperimento e ha ipotizzato che quel temporale deve essere stato così intenso, quasi una tempesta, per cui è vero che le rane sono state ritrovate in un luogo dove prima non c’erano, ma solo perché una tromba d’aria le aveva trasportate da chissà dove nel cortile. Quale che sia la spiegazione del fenomeno, fatto sta che Kircher si era assunto, alcuni anni prima del suo studio sull’Arca di Noè, il ruolo di portavoce di coloro che credevano alla autogenerazione degli animali inferiori, dedicando un intero capitolo del suo Mundus Subterraneus alla generazione delle rane direttamente dal fango e dalla pioggia. La polemica sulla creazione delle rane dal fango rappresenta in effetti solo la punta dell’iceberg di un dibattito che sarebbe andato avanti ancora per decine di anni e che riguarda, oltre alle rane, anche i topi, che qualcuno sostiene che nascano spontaneamente nelle cambuse delle navi, gli scorpioni che dovrebbero nascere dalle rocce riscaldate dal sole, gli insetti che sarebbero generati sia dalla carne in putrefazione che dal fango, e così via. Francesco Redi si prodiga in esperimenti e dimostrazioni per sostenere la sua tesi. Seziona, per esempio, delle rane appena “crea-
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te” dal temporale e mostra che il loro intestino contiene erba per cui devono essere nate già da qualche tempo; mostra che la carne lasciata in putrefazione non genera alcuna larva di insetto se viene coperta da una garza e viene così impedito ad altri insetti di deporvi le uova; ma sembra non comprendere che non è per questa via che può convincere un uomo come il gesuita, il quale è tanto convinto della propria tesi, che corrisponde al quadro generale che egli ha del funzionamento della Natura, che quando qualcuno osserva che i topi si accoppiano come il resto dei mammiferi, non esita a sostenere che si tratta solo di un modo come un altro per trovare sollievo da un prurito che hanno nelle parti posteriori… I rapporti fra Francesco Redi e Athanasius Kircher sono diretti. Il gesuita, che non è certo insensibile al gusto barocco di dare credito alle storie più fantastiche sulle miracolose proprietà di radici,
Figura 15. La caccia al cobra per prelevarne la pietra salutifera che si trova nella sua testa. Da A. Kircher (1667) China Monumentis, qua Sacris qua profanis, nec non naturae et artis spectaculis, aliarumque rerum memorabilium argumentis illustrata, Amstelodami, Apud Jacob de Meurs
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Reverendissimo padre. L’onore che mi avete fatto d’inviarmi vostre lettere, siccome da me non era mai stato sperato, così arrivandomi improvviso mi ha ripieno l’animo d’una indicibile contentezza; ed ancorché io creda che quelle lodi che mi date sieno figliuole non di merito mio alcuno, ma bensì della vostra bontà e della vostra gentilezza […] 9 (e così via per una intera pagina), dichiarazioni di stima talmente eccessive da lasciar sorgere il sospetto che si tratti più di sarcasmo che di sincera considerazione. Questo sospetto è confermato, se ce ne fosse bisogno, dal resto dello studio che è tutto dedicato a
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F. Redi (1671) Esperienza intorno a diverse cose naturali, …, scritte in una lettera al Padre Atanasio Chircher della Compagnia del Gesù, http://bonifacio.reggionet.it/Database/redi/redi.nsf/
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animali e oggetti esotici, scrive un paio di lettere al medico toscano per informarlo di aver condotto “due salutifere esperienze fatte in Roma“ che dimostrerebbero la incredibile proprietà di una pietra che viene ritrovata nella testa di un misterioso serpente che si trova in India e che possiamo forse identificare con un cobra (figura 15). Non solo la pietra ha la proprietà di combattere l’azione del veleno di altri serpenti, ma Kircher riporta la testimonianza del confratello Enrico Roth che ha visto con i suoi occhi guarire la ferita di uno scorpione e che ha visto addirittura un bubbone pestifero scomparire grazie all’azione della pietra del serpente. Le due esperienze sono state effettuate nel 1663 e consistono nell’aver preso un cane che era stato fatto mordere da una vipera (deliberatamente), aver applicato sulla ferita la pietra del serpente e di aver applicato lo stesso trattamento a un povero contadino (accidentalmente) morso dal serpente. Ebbene, il risultato è stato che, come una quantità di persone può testimoniare, ambedue i soggetti, cane e contadino, sono guariti. Quindi è dimostrato che questa pietra – conferma Kircher non senza una punta di entusiasmo – ha la favolosa proprietà di annullare gli effetti di qualunque veleno animale. A queste lettere Redi risponde con una specie di trattato di una quarantina di pagine che inizia così:
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smontare l’entusiasmo del gesuita. Egli stesso – scrive Redi – ha condotto questo tipo di esperimenti utilizzando una delle pietre–di–serpente che erano state portate a Pisa da “tre padri del venerabile ordine di San Francesco volgarmente detti Zoccolanti”. L’esperimento – continua Redi – era stato effettuato di fronte a molti de’ più savi e dei più accreditati filosofi e medici dello Studio di Pisa, desiderosi di vedere per opra ciò che quei padri con parole davano ad intendere ed era consistito nel ferire un galletto sulla coscia e bagnare la ferita con diversi tipi di veleno. Subito dopo era stata apposta la pietra miracolosa sulla ferita, ma il povero galletto era spirato di lì a poco. Nel trattatello si intuisce la sottile soddisfazione di Redi a dilungarsi nei dettagli delle diverse controprove effettuate: si cambia galletto, si cambia veleno, qualche animale viene curato con la pietra miracolosa e qualcuno lo si lascia nelle mani di madre Natura, finché si scopre che l’unico galletto sopravvissuto agli esperimenti è proprio uno che non è stato curato con la pietra del serpente! L’incisività con cui Redi si attarda a descrivere il suo esperimento può apparire pura crudeltà scientifica nei riguardi di un altro studioso al quale è capitato di dire uno sproposito, ma appare più comprensibile se si considera che egli, assieme a diversi altri suoi colleghi medici, vede con grande preoccupazione che i gesuiti, che finora si sono occupati di cristianizzare il mondo, comincino a occuparsi anche di medicina, col pericolo che anche in questo campo possano nascere i conflitti che tutti hanno potuto osservare nei campi della fisica e dell’astronomia. Il rischio è tanto più reale perché i missionari sono costretti a occuparsi delle malattie nei territori che vanno a cristianizzare e inevitabilmente vengono a contatto con i rimedi tradizionali delle popolazioni primitive e che tendono a portare in patria decantandone le proprietà senza aver compiuto i controlli adeguati. Kircher non è insensibile agli argomenti che Redi gli va snocciolando uno dietro l’altro, ma gli manca un procedimento codificato al quale fare riferimento, per cui alle obiezioni sperimentali del medico aretino egli ritiene di poter rispondere che è proprio lui che deve preoccuparsi, visto che non gli riesce di riprodurre un
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Aronne stese la mano con il suo bastone, colpì la polvere della terra e infierirono le zanzare sugli uomini e sulle bestie; tutta la polvere del paese si era mutata in zanzare in tutto l’Egitto.10 Sembra evidente, in conclusione, che gli insetti che troviamo al giorno d’oggi devono essere nati spontaneamente dopo il Diluvio! Ancora una volta osserviamo che per Kircher il quadro conoscitivo è subordinato al quadro della Rivelazione perché tutto il creato porta l’impronta del Signore. Il segno più importante della Sua presenza è la vita che pullula nel mondo e, essendo parte del disegno divino, non c’è da stupirsi che questa si riveli nelle forme più diverse. Il gesuita si era reso conto che il concetto di vita è forse troppo astratto per un pubblico interessato al modo di far entrare tutte le specie viventi in un barcone e, già molti anni prima, era ricorso a un concetto in qualche modo più operativo, secondo il quale la vita altro non è che la manifestazione di una forza vitale, la panspermia rerum, che si diffonde attraverso i raggi solari e rende la Terra gravida di tantissimi semi fecondi11. 10
Bibbia, Esodo, 8:13. A. Kircher (1641) Magnes, sive de arte magnetica, Roma, Ex Typographia Ludouici Grignani.
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esperimento che invece al Collegio Romano, e in presenza di molti autorevoli personaggi, è perfettamente riuscito. La generazione spontanea degli insetti è poi un esperimento estremamente semplice da riprodurre e Kircher non esita a descrivere il suo procedimento per creare le mosche: si mescolano in un recipiente mosche morte, acqua e miele, si scalda il tutto e infallibilmente si osserverà che, dopo qualche giorno, nella poltiglia nasceranno dei piccoli vermi che si traformeranno in mosche. La prova riesce ugualmente bene anche se si sterilizza sia il recipiente che la poltiglia (purtroppo non viene fatta menzione di mettere un coperchio sul recipiente). E poi, e questo dovrebbe essere il colpo finale per le tesi dell’avversario, non dimentichiamo che gli insetti nell’Arca, non solo non sono neppure citati nelle Scritture, ma anzi è scritto che, almeno in una occasione, sono stati creati dalla polvere quando
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Di cosa era fatta la panspermia quando il Signore la creò, probabilmente prima del mondo stesso? Secondo me – aveva spiegato – si trattava di uno spirito materiale (!) costituito da un’aurea celeste ancora più evanescente oppure di una mistura di sale, zolfo e mercurio la quale, a contatto di vapore e calore ha creato le cose esistenti al mondo. Kircher, una volta introdotto il concetto, aveva portato avanti l’idea della panspermia con assoluta determinazione, perché era diventata un’idea centrale nella sua visione del mondo. Il Signore stesso ha utilizzata la panspermia per trasformare il caos primordiale nell’universo ordinato che osserviamo, dalle sfere celesti alle stelle, dai minerali alle piante e agli animali12. Questa forza vitale della natura non è limitata alla superficie della Terra, ma penetra fino al suo interno, dove prende la forma di un succus lapidescens, cioè di un “succo pietrifero” che crea sassi e rocce delle forme più disparate. I cristalli, le gemme, e le stalattiti che, come ognuno può osservare, si creano e accrescono in tutte le caverne, sono la manifestazione dell’azione del succo pietrifero. Kircher aveva anche sentito la necessità di fornire le prove di quanto egli andava affermando e ricordava che la meravigliosa capacità creativa della natura non si limita a dar vita a gemme e pietre dai colori stupefacenti, ma arriva a plasmare immagini che, quasi con l’intento di impressionare l’osservatore, riproducono figure bibliche e effigi sacre della cristianità. Inutile dire che, per dare maggiore forza alla sua tesi, Kircher aveva pubblicato le riproduzioni di diversi disegni, profani e sacri, che si trovano nelle rocce (figura 16). Nella tavola si vedono alcune delle immagini che la Natura ha disegnato nelle pietre. Si vede in particolare: 1) un vecchio che tiene fra le mani un bambino in fasce, 2) un bambino nel seno di una gestante circondata da angeli non meglio identificati (commento dell’autore), 3) un uomo ricoperto di peli che dovrebbe identificarsi con S. Giovanni Battista,
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A. Kircher (1665) Mundus Subterraneus,… Amstelodami, Apud Joannem Janssonium et Elizeum Weyerstraten.
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Il Diluvio Universale Figura 16. Immagini che sono state ritrovate impresse nelle pietre. Da A. Kircher (1665) Mundus Subterraneus,… Amstelodami, Apud Joannem Janssonium et Elizeum Weyerstraten
4) un S.Gerolamo ritrovato su un sasso in una caverna di Betlemme, 5) un Cristo crocifisso che, secondo la testimonianza del Cardano, si trova nel Monastero Cartusiano in Svizzera, 6) la Madonna di Loreto che si osserva a San Pietro a Roma impressa nel marmo. Sembra, a volte, che il Padre Atanasio si lasci tanto prendere dalle sue fantasie che non sia più in grado di fermarsi nella rincorsa alle incredibili possibilità della natura ed è così che arriva a chiedersi se il succo pietrifero non possa agire anche nel corpo degli animali. Oltre alla ben nota pietra che nasce nella testa del serpente indiano, egli riporta infatti la notizia di pietre che si trovano nei rospi, nei porcospini e perfino nel petto delle aquile e,
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così come la pietra del serpente ha la proprietà di curare gli avvelenamenti, pare che la pietra dell’aquila sia utilmente adoperata dalle donne con difficoltà di parto13. Dalle pietre che la Natura plasma per riprodurre immagini sacre, alle pietre-negli-animali che hanno proprietà salutifere, Kircher non può evitare di esaminare una delle questioni più dibattute del ‘600, cioè quale sia la natura e l’origine dei fossili che riproducono le sembianze degli animali. Esiste già all’epoca una corrente accademica che classifica i fossili come forme organiche che provengono da epoche lontane, ma capita che proprio in questo periodo vanno ritrovandosi fossili di animali sconosciuti e di dimensioni impensabili. Il problema assume così una dimensione che al giorno d’oggi non è facilmente comprensibile. Se sono esistite delle forme di vita oramai scomparse se ne potrebbe dedurre che il Signore ha commesso un errore quando ha creato delle specie che non sono riuscite a sopravvivere neppure per il tempo sufficiente per arrivare all’Arca di Noè, un tempo, si badi, non particolarmente lungo (almeno ai nostri occhi) perché l’analisi letterale del testo biblico porta alla conclusione che la creazione sia avvenuta circa 4500 anni prima di Cristo e fissa la data del Diluvio al 2349 avanti Cristo. Padre Atanasio è turbato dall’idea che possano essere esistite delle specie che sono oramai estinte, perché il racconto biblico descrive il mondo appena creato come se fosse essenzialmente identico a quello che osserviamo oggi, con le stesse piante, gli stessi animali e gli stessi uomini. È vero che il Diluvio avrà avuto l’effetto di modificare alcuni aspetti della superficie terreste, ma il creato è, nella visione del gesuita, un’opera essenzialmente statica14. Gli aspetti di transitorietà che osserviamo nel nostro mondo sono caratteristiche degli individui e non delle specie, le quali mantengono invece un carattere di immutabilità. È ovvio che, in questo quadro, non ci sia spazio per l’esistenza dei fossili: come credere che degli animali abbiano potuto vivere, accrescersi ed estinguersi lasciando le loro immagini impresse nelle rocce? Sarebbe come 13 In T.E. Tummedal (2001) in The Great Art of Knowing, Stanford Un. Libraries, Daniel Stolzenberg editor. 14 P. Rossi (2009) Il tempo profondo: da Stenone a Darwin, http://www.ahistoryoflife.com/stenodarwin/Il_Tempo_Profondo/Convegno.html
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J.B. Robinet (1770) in P. Rossi op. citata. P. Rossi, op.citata.
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se, trovandoci di fronte al ritratto di una persona, magari annerito dal tempo, qualcuno volesse farci credere che dietro a quei lineamenti una volta ci sia stata veramente una persona in carne e ossa15. Chi trova difficile credere che si sia formata una roccia che assomiglia molto a una conchiglia, non trova altrettanto difficile pensare che una conchiglia o un pesce siano stati riempiti da una specie di succo pietrificante che li ha trasformati in pietre? Se ai nostri occhi questi argomenti non appaiono poi così stringenti è perché la nostra epoca ha assimilato il concetto che la ricerca scientifica occupa una sfera autonoma rispetto alle opinioni religiose di ognuno, ma per un gesuita del ‘600 non è così. Poiché non si mette neppure in discussione l’idea che le Scritture possano raccontare soltanto una verità parziale o simbolica, il compito che resta allo studioso è quello di inquadrare, magari con delle scappatoie, le osservazioni nel quadro metafisico precostituito. Si può immaginare, per esempio, che le specie che ci sono ignote non siano veramente estinte ma che si trovino in qualche regione della terra che ci è ancora sconosciuta. Una possibilità abbastanza popolare è che le conchiglie fossili siano state trasportate in luoghi lontani dal mare da qualche maremoto o che, addirittura, siano semplicemente i resti dei pasti di viaggiatori che si sono accumulati nel tempo. In maniera più scientifica si può congetturare che la vis plastica della panspermia si dedichi a duplicare nelle rocce le immagini delle piante e degli animali che ha creato in natura, un po’ come fa quando crea immagini di animali e persone nelle nuvole16. Posto di fronte a un bivio della conoscenza, ancora una volta Kircher ritiene di poter salvare ambedue le posizioni e divide i fossili in due categorie: quelli che riproducono la forma di animali tuttora esistenti, come foglie, gamberi e conchiglie, che sono in effetti resti di forme organiche che sono state modificate da qualche fluido pietrificante naturale, e quelli che sono invece vere e proprie opere della natura, come gli alberi pietrificati o le ossa di animali giganteschi come quelli che si trovano nelle grotte vicino a Trapani. Ha qualche ragione dalla sua Padre Atanasio quando si affida all’abilità inventiva della Natura per spiegare l’esistenza dei
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fossili giganteschi. In effetti i resti di questi strani animali che si trovano in diverse parti dell’Europa sembrano così diversi l’uno dall’altro, sia per morfologia che per dimensioni, che è difficile immaginare (naturalmente con le conoscenze a lui accessibili) che la Terra in passato abbia ospitato una così grande quantità di animali che sono poi tutti misteriosamente scomparsi. È facile rendersi conto che la voglia di strafare del gesuita, che lo porta a interessarsi di infiniti argomenti, spesso rischia di trascinarlo in regioni che confinano con quelle pericolose dell’eresia, ma la sua tecnica per rimanere sempre lontano da conseguenze pericolose è quella di utilizzare la sua enorme erudizione per citare in ogni occasione un passo o un episodio della Bibbia nella quale si ritrovano i concetti che egli si trova a esprimere in quel momento. Il mondo è esattamente come il Signore lo ha voluto: la curiosità del nuovo tipo di scienziato che si richiama all’impostazione rigorosa di Galileo si confronta con la certezza di Kircher, al quale qualunque manifestazione della natura non appare mai contraddittoria, convinto com’è che si tratti in ogni caso di un aspetto del progetto divino. Avere certezze nel ‘600 è però un affare complicato. Mentre ci si deve confrontare con il problema della generazione spontanea e con quello della natura dei fossili, giungono dalla Cina notizie che è sempre più difficile ignorare. Ci sono in particolare le relazioni che uno dei confratelli gesuiti, il padre Martino Martini, continua a inviare a Roma per informare i suoi superiori che egli è giunto alla conclusione che la storia umana deve essere ben più antica dei 7000 anni che si ricavano dalla Bibbia. Questo missionario in Cina ha addirittura pubblicato un libro, Sinicae Historiae Decas Prima, nel quale elenca i documenti conservati negli archivi cinesi che permettono di stabilire con certezza che gli imperatori e le popolazioni cinesi esistevano già almeno 1000 anni prima del momento in cui, secondo la Bibbia, il Signore ha creato Adamo. Le conseguenze di una tale conclusione sono incalcolabili. Una prima conseguenza riguarda direttamente il Diluvio e l’Arca, dei quali si sta interessando Padre Kircher, perché, se ammettiamo che esistono documenti storici ben precedenti l’epoca del Diluvio Universale, dobbiamo concludere che l’evento punitivo non fu veramente “universale”, ma probabilmente limitato all’area dove viveva Mosè e la sua famiglia. La seconda conseguenza è però addi-
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P. Rossi, op. citata. I. de La Peyrèr (1655) Praeadamitae sive Exercitatio super Versibus duodecimo… Amsterdam.
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rittura drammatica. Se il testo biblico definisce “universale” un episodio circoscritto a una specifica area geografica, ne segue che il valore del testo perde il suo carattere di storia universale del mondo e diventa, al massimo, il resoconto della storia del popolo ebraico17. Si capisce allora il motivo per cui lo studio della cronologia, che è stato fin a quel momento limitato a canonici in pensione che si appassionano a fare la somma delle età di tutti i personaggi nominati nella Bibbia, diventa di colpo una specie di campo minato nel quale bisogna muoversi con grande circospezione. L’età del mondo sembra diventata un vaso di Pandora. Se si dilata all’indietro l’età del mondo si rischia, per esempio, di riesumare quel concetto aristotelico che l’Universo è eterno sia nel passato che nel futuro. L’idea che l’Universo è essenzialmente una struttura senza scopo segue direttamente dal fatto che è sempre esistito, per cui si capisce perché quella della esistenza eterna è l’unica nozione della Fisica di Aristotele che non è stata accolta nella cosmologia cristiana ed è estremamente pericoloso che si rischi di farla riemergere in un momento in cui fra gli studiosi riaffiorano concetti atei e materialistici. Ma c’è addirittura di peggio. Un erudito calvinista di Bordeaux, Isaac de La Peyrère, basandosi sulla antichità del popolo cinese sostenuta dal Padre Martini e sospettando che anche le popolazioni delle americhe siano altrettanto antiche, fa un ragionamento tanto semplice quanto lucido. Se i documenti dimostrano che gli imperatori cinesi hanno regnato almeno un migliaio di anni prima della creazione di Adamo – ragiona La Peyrère – l’unico modo per non entrare in contrasto con la parola biblica è ammettere che siano esistiti dei popoli che hanno una origine più antica della stirpe di Adamo, i cosidetti preadamiti, i quali – si deduce – avendo avuto un percorso storico autonomo, non avrebbero conosciuto il peccato originale e per i quali non serviva il sacrificio di Cristo18. L’ugonotto si rende conto verso quali pericolosi lidi rischiano di farlo approdare le sue congetture e si affretta a scrivere una specie di ritrattazione per spiegare che anche
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i preadamiti, in qualche modo, potevano essere stati soggetti al peccato originale e, adottando un procedimento utilizzato dai gesuiti dell’epoca, chiama in causa, a suo sostegno, nientedimeno che l’autorità di San Paolo il quale, nella Lettera ai Romani ha scritto Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè […] Per La Peyrère quell’accenno alla esistenza del peccato nel mondo prima che ad Adamo fosse imposta la legge assume il peso di una prova che esisteva una stirpe di uomini che non conosceva la legge divina prima che questa fosse stata data al popolo ebraico. La Peyrère è probabilmente animato dalle migliori intenzioni perché la sua interpretazione gli permette di risolvere sia il problema della enorme antichità di alcuni popoli, che è oramai ampiamente documentata, sia il problema, che sta emergendo in maniera sempre più prepotente, di come abbia fatto la prole di Noè a popolare tutta la Terra in un paio di migliaia di anni. Il francese in ogni caso si cura poco delle reazioni inorridite che arrivano dalla ortodossia cattolica, perché sa che anche i teologi a volte sono costretti a cambiare opinione. Egli ricorda che, per esempio nell’antichità si escludeva che potessero vivere degli uomini agli antipodi, mentre questa possibilità è stata poi tranquillamente accettata. Non fa meraviglia che un uomo come La Peyrère, che esprime opinioni tanto rivoluzionarie, abbia una vita movimentata: lasciata la sua patria calvinista, si reca nei Paesi Bassi dove diventa intimo della Regina Cristina di Svezia, che lo aiuta a pubblicare un libro con le sue idee poco ortodosse; è al seguito delle truppe mercenarie spagnole del principe di Condé finché non viene arrestato a Bruxelles dall’Inquisizione spagnola. Peyrère, che non ha la tempra di Giordano Bruno (né lo si può pretendere), si converte infine al cattolicesimo e abiura le sue idee sui preadamiti. In questa situazione nella quale la storia narrata dalla Bibbia perde la sua universalità trasformandosi nella storia di un singolo popolo, il Santo Uffizio interviene con fermezza nel 1650 e mette definitivamente in chiaro che chi si ostina a scrivere che la storia umana è più antica di quanto si racconta nelle Scritture (con tutte le conseguenze che abbiamo visto) è nient’altro che un eretico.
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Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.20 Anche le culture non europee, come quella araba, e quelle che stanno emergendo nel ‘600, come quelle messicana e cinese, sono portatrici della antica cultura di Adamo per cui le attività dei missionari gesuiti in queste terre non solo vanno salvaguardate come attività religiose ma anche per il loro valore culturale indirizzato alla ricerca delle radici comuni a tutte le religioni umane. In questo quadro che riconosce la sostanziale dignità di tutte le religioni, Kircher non può nutrire la minima simpatia verso ipotesi eretiche come quella della esistenza degli uomini preadamiti e che contengono, fra le altre cose, le radici del razzismo.
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P. Rossi, ibidem. Vangelo di Matteo 7, 6.
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Quella copernicana, a ben guardare, non è l’unica rivoluzione che si afferma nel ‘600, ma di pari impatto è questa rivoluzione cronologica alla quale, ancora una volta e con gli stessi metodi, tenta di opporsi l’autorità religiosa19. Gli studiosi ortodossi si trovano ad affrontare contemporaneamente l’idea che la Terra si trova in un luogo marginale dell’Universo, che il mondo, da quando è stato creato, è stato sottoposto a profondi cambiamenti, addirittura con specie che sono scomparse, che non esiste un testo che racconta la storia completa di tutte le popolazioni sulla Terra, e infine che fra noi e la creazione si estende una specie di spaventoso abisso temporale. A queste nuove problematiche che si presentano di fronte agli studiosi dell’epoca, Kircher oppone una soluzione che, anche se non del tutto originale, difende con particolare ostinazione. Egli è convinto infatti che sia possibile ritrovare le tracce della conoscenza che il Signore ha trasmesso ad Adamo nel Paradiso terrestre. Questa conoscenza, secondo Kircher, è pervenuta agli antichi egizi che l’hanno registrata nei geroglifici, una scrittura che può essere compresa solo dagli iniziati. D’altra parte è proprio il Vangelo che fa la raccomandazione di trasmettere le verità profonde solo a chi è in grado di comprenderle, quando dice:
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Padre Atanasio, anche in un contesto che vede cambiare molte delle certezze che gli uomini hanno avute fino a quel momento, resta fedele al mandato che ha ricevuto e continua a ingegnarsi per stipare i suoi animali nell’Arca. Certo, avendo evitato di far entrare nella barca gli animali meno controllabili come gli insetti, ha risolto una parte delle difficoltà che egli, assieme a Noè, si è trovato ad affrontare, ma è ancora lontano da una soluzione definitiva, anche perché i problemi che il gesuita si trova di fronte sembrano non esaurirsi mai. C’è per esempio il problema delle sirene, mostri marini di uno dei quali egli conserva la coda e lo scheletro nel suo museo: per Kircher rappresentano una fonte di imbarazzo, anche perché nella rappresentazione che si trova nel suo trattato si tratta di creature dall’aspetto esclusivamente femminile, per cui non si capisce come salvarne un esemplare di ognuno dei due sessi, ma, dopo attento esame, si libera della questione prendendo la decisione di lasciarle al loro destino nella convinzione che se la possono cavare anche da sole nel mare. C’è poi il problema di cosa fare dei grossi anfibi, come foche, castori, lontre e ippopotami tutti animali che certamente avrebbero avuto grosse difficoltà a vivere in un mondo invaso dalle acque, ma, poiché questi animali per sopravvivere richiederebbero un enorme impegno di spazi per creare almeno una piccola pozza d’acqua per farli nuotare, Kircher decide che Noè li avrà sicuramente lasciati a terra. Kircher, in ogni caso, per motivi che non spiega, usa un criterio di favore verso i cani di razze diverse ai quali dedica ben cinque scomparti. Pur con qualche incoerenza, tuttavia, Kircher inizia a stilare l’elenco delle specie animali da ospitare nell’Arca procedendo secondo la dimensione. Si inizia con gli elefanti e si procede con cammelli, buoi, unicorni, rinoceronti, bufali, alci, leoni, cervi, cavalli, asini, asini selvatici, tigri, orsi, leopardi, pantere, lupi, cani, maiali, volpi, gatti, capre, pecore, conigli, lepri, scoiattoli, tassi, faine, topi, istrici, scimmie ecc. che Noè deve aver fatto entrare in coppie nell’Arca. Padre Atanasio riserva per se quasi un ruolo di assistente del patriarca e si preoccupa di stilare una specie di inventario figurato del contenuto dell’Arca, fornendo per molti animali una accurata immagine che rivela l’intento didascalico della sua opera. I criteri che vengono utilizzati per l’ammissione sono abbastanza elastici. Per esempio, sebbene la maggior parte dei rettili venga lasciata fuori dall’Arca, perché anche questi sono animali
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che vengono considerati capaci di generarsi spontaneamente dal fango, Kircher ritiene di dover fare un’eccezione per i serpenti che, sebbene siano notoriamente animali pericolosi, vengono accolti nell’Arca per ricordare al genere umano il peccato originale nel quale il serpente ha avuto, come si sa, un ruolo rilevante. Inoltre c’è da dire che i serpenti, nonostante il loro ruolo biblico negativo, presentano delle caratteristiche, per così dire, positive perché dalla carne delle vipere si ricava la Theriaca che è un antidoto universale per i veleni. In ogni caso, per non allargare troppo il numero di specie da introdurre nell’Arca, Kircher si limita a far entrare soltanto i serpenti del nostro continente perché, ragionevolmente, fu uno di questi a tentare i nostri progenitori nel Paradiso Terrestre. Per quanto riguarda i serpenti del Nuovo Mondo sarà sufficiente affidarsi alla generazione spontanea dalla putrefazione di materiale organico, mentre non c’è da preoccuparsi di imbarcare i grandi serpenti dell’India perché si tratta di normali serpenti che crescono a dismisura a causa dell’azione del sole, che è particolarmente intensa in quelle regioni. Il lavoro di schedatura di tutti gli animali esistenti al mondo è abbastanza impressionante da far perdonare alcune piccole incongruenze nell’inventario delle specie introdotte nell’Arca (per esempio il rinoceronte fa il suo ingresso dopo il bue, come se questo fosse più grande del primo) e alcune arbitrarietà. Fra queste salta agli occhi l’inclusione di animali fantastici come gli unicorni, che Kircher considera reali per il buon motivo che la regina Cristina di Svezia gli ha regalato il corno di uno di questi animali, o come i grifoni dei quali ha testimonianza diretta dai suoi confratelli che vivono in Cina. Ci sono poi specie arbitrariamente duplicate come i leopardi e le pantere, e specie strettamente imparentate, come i conigli e le lepri, che magari gli avrebbero potuto far risparmiare un po’ di posto nell’arca al prezzo, naturalmente, di ammettere che le specie possano evolvere in funzione dell’ambiente in cui vivono. Un prezzo che, come vedremo, il gesuita si vedrà alla fine costretto a pagare. Si tratta, sia ben chiaro, di dettagli, perché anche con una gestione rigorosa degli spazi dal punto di vista logistico, non c’è dubbio che il numero di specie conosciute e di quelle che continuano a emergere nel Nuovo Continente rappresenta una sfida formidabile per chiunque si proponga di stiparle tutte in un barcone, sia
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pure di enormi dimensioni. È appena il caso di ricordare che l’Australia al tempo di Kircher non è stata ancora esplorata altrimenti il problema avrebbe rischiato di dimostrarsi senza soluzione. Non c’è poi da dimenticare che, assieme a tutti gli animali, bisogna riservare uno spazio adeguato alle derrate alimentari per mantenerli in vita. Ma Kircher, che a poco a poco si va trasformando nel nuovo architetto dell’Arca, riesce a individuare al secondo piano una apposita stiva per le foglie, una per il frumento e una per l’avena, in modo da rispettare per quanto possibile i gusti degli erbivori. Allo stesso modo riserva un apposito spazio per un gallinarium e uno per una palumbara per le esigenze degli animali carnivori e per la famiglia di Noè (beninteso questi animali da sacrificare restano distinti dalle coppie più fortunate di polli e colombi necessari per ripopolare la Terra dopo il diluvio). Kircher compila così l’inventario delle specie salvate da Noè e, probabilmente soddisfatto di aver portato in porto la missione che i suoi superiori gli hanno affidata, realizza una vera e propria raffigurazione dello zoo universale come gli è stato possibile immaginare (figura 17). Nella figura si osservano i tre piani dell’arca in prospettiva. Il corridoio al centro di ognuno dei piani permette il passaggio dei famigliari di Noè per accudire gli animali. Al pian terreno sono racchiusi i quadrupedi, al terzo piano si trovano gli uccelli mentre il secondo livello è completamente occupato dalle derrate alimentari ed agli arnesi di lavoro. Gli animali che si osservano al centro del secondo livello sono polli e colombe che servono per nutrire i carnivori (la coppia di polli e quella di colombi per ripopolare il mondo si trovano al piano superiore). I serpenti, che sono stati imbarcati per ricordare alla futura umanità il peccato originale e per poterli utilizzare per ricavare un antidoto per il veleno, si trovano nelle sentine. In effetti Kircher si rende conto che gli è stata affidata una impresa disperata e ammette che non è ragionevole pensare che dentro l’Arca siano entrate tutte, proprio tutte, le specie di animali che si vedono al mondo “illas omnes intra Arcam introductas fuisse non est verisimile”21 e capisce che gli resta un’unica soluzione:
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A. Kircher (1675) Arca Noë in tres libros digesta… Amstelodami, Apud Joannem Janssonium a Waesberge.
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Il Diluvio Universale Figura 17. La disposizione delle specie animali nell’arca di Noè. Da A. Kircher (1675) Arca Noë in tres libros digesta… Amstelodami, Apud Joannem Janssonium a Waesberge
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se non si può allargare l’Arca non resta che restingere il numero degli animali. E si mette al lavoro. Kircher inizia con l’escludere, come ci si potrebbe aspettare, gli ibridi come il mulo e il bardotto, ma questo è lontano dal poter risolvere il suo problema e procede, senza dare particolare rilievo alla sua invenzione, a individuare altri sorprendenti incroci che devono necessariamente essere nati dopo il diluvio. Si comincia con la giraffa che, come dice il suo nome in latino, camelopardus, è un incrocio fra un cammello, dal quale ha ereditato il lungo collo, e un leopardo che ha trasmesso le macchie sul manto e si continua con il Tragelaphus (una famiglia di antilopi) il quale, poiché viene anche chiamato Hircocervus, è evidentemente, incrocio fra una capra (hircus) e un cervo… Non c’è dubbio che questo approccio alla zoologia può apparire ingenuo ma, come sempre, bisogna evitare di giudicare il passato con i riferimenti culturali dei nostri giorni. Per Kircher il linguaggio ha una relazione diretta col disegno divino che si è manifestato nella creazione, per cui ogni nome è essenzialmente una rappresentazione della realtà. Ne segue che un incrocio di due specie animali diverse deve necessariamente avere un nome che descriva l’origine dell’ibrido, in quanto i termini riflettono la natura degli oggetti. Una corrispondenza così meravigliosa deve essersi manifestata quando gli uomini ancora si esprimevano nel linguaggio che il Signore aveva originariamente donato al genere umano, un linguaggio dotato delle regole grammaticali che possono essere ancora oggi ricostruite attraverso lo studio dell’arte combinatoria della quale Kircher è uno dei massimi cultori della sua epoca. La capacità del gesuita di utilizzare tutta la sua cultura in un quadro unitario è davvero imponente: partendo da un problema di architettura e di gestione degli spazi, egli utilizza nozioni di zoologia, di grammatica, di matematica e di critica biblica per pervenire a una soluzione che non si trovi in conflitto con nessuna delle sue infinite nozioni. Il gesuita prosegue con la stessa logica a elencare altri ibridi identificati proprio dall’analisi del nome e trova incroci fra cavalli e cervi, fra cavalli e leopardi, fra volpi e scimmie e perfino un incrocio fra un leone (leo) e una pantera (pardus) che genera un leopardo, che, evidentemente, egli considera specie diversa dalla pantera.
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[…] una razza di bovino deve essersi trasformata in questa maniera o per qualche particolare influsso del cielo o per la natura del luogo e del clima, come è accaduto per quasi tutti gli animali dell’ America.
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Per quanto riguarda l’armadillo, animale sconosciuto in Europa e del quale Kircher conserva gelosamente un esemplare nel suo museo, è ovviamente impossibile ricostruirne l’origine attraverso l’analisi del nome, e non può far di meglio che cercare di indovinarne l’origine da un esame superficiale delle sue caratteristiche e azzarda che si potrebbe trattare di un incrocio fra un’istrice e una tartaruga. Anche utilizzando tutta la fantasia della quale dispone, Kircher si rende conto di non riuscire a portare le specie di animali prediluvio a un numero abbastanza ridotto da farle entrare nell’arca e che bisogna trovare espedienti ulteriori. Comincia così ad accarezzare la soluzione di considerare che il diluvio non sia stato veramente “universale”, ma che abbia sommerso soltanto la regione dove si trovava l’umanità che il Signore intendeva castigare. In questo modo si risolverebbero diverse difficoltà: in primo luogo il problema di far entrare nell’Arca tutte le specie esistenti sarebbe notevolmente alleggerito, perché l’Asia potrebbe costituire un eccellente serbatoio dove conservare le specie animali che non si riesce a salvare nell’Arca e, in secondo luogo, ci si libererebbe dalla necessità di immaginare un meccanismo in grado di creare un disastro meteorologico capace di sommergere l’Europa, l’Asia e le Americhe. Purtroppo a sbarrare questa strada è già intervenuto il pronunciamento del Santo Uffizio che ha bollata come eretica questa proposizione. A Kircher resta così l’unica possibilità di sostenere che gli animali che si salvano nell’Arca altro non sono che degli archetipi dai quali derivano tutti quelli che troviamo oggi sulla Terra. Il gesuita, non intendendo rinunciare né al suo ruolo di uomo di chiesa né a quello di studioso, si trova, quasi involontariamente, ad aprire la strada a un concetto che maturerà soltanto due secoli più tardi e che sarà accesamente combattuto dall’ortodossia cristiana, quello dell’evoluzione delle specie animali. Così, per spiegare la diversità del bisonte americano (che sull’Arca non poteva esserci) da quello europeo, immagina che
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Kircher si rende conto delle conseguenze che potrebbe avere questa tesi e, secondo la prassi consolidata, si affretta a trovare un supporto alla sua idea ricordando che, a ben vedere, nelle sacre Scritture si trova un indizio di questo concetto di evoluzione a patto che il precetto “Crescete e moltiplicatevi“ venga inteso come diretto non solo agli individui ma anche alle diverse specie animali, le quali, seguendo questo comandamento, andarono a popolare tutto il mondo. A quanto sembra, l’esame dell’episodio biblico del Diluvio Universale si rileva particolarmente fruttuoso per un erudito come Kircher, il quale riesce a ottenere una certo numero di bonus, cioè di risultati che emergono dallo studio pur senza essere stati ricercati. Per esempio il Diluvio potrebbe spiegare il motivo per cui sulla Terra non si trova alcun indizio di dove fosse collocato il Paradiso Terrestre, in quanto questi luoghi risultarono distrutti dal cataclisma, così come furono cancellati dalla furia degli elementi i quattro fiumi dell’Eden (dei quali non esiste traccia) per dare vita al Tigri e all’Eufrate. Il Diluvio, secondo Kircher, è addirittura in grado di spiegare le proibizioni alimentari alle quali deve sottostare il popolo ebraico. Queste infatti furono imposte dal Signore il quale, avendo osservato che l’abitudine di mangiare carne assieme al sangue dell’animale eccitava l’animo dei più malvagi, aveva imposto severe limitazioni alla maniera di macellare gli animali in modo da non essere costretto a inviare sulla Terra un secondo Diluvio Universale. Naturalmente la cosa non riguarda i cristiani che, grazie all’avvento di Cristo, sono stati successivamente esentati dalle regole alimentari più severe. Tante sono le conseguenze del tentativo di voler salvare la lettera del racconto dell’Arca di Noè che Kircher, arrivato (immaginiamo, con sollievo) alla fine della sua fatica, commette, proprio nelle ultime pagine, un piccolo errore. Dovendo illustrare la fase dell’arenamento Padre Atanasio non si rende conto di un errore tipografico perché l’immagine mostra prima l’Arca oramai arenata sulla cima del Monte Ararat e, successivamente, quello dell’Arca, ancora alla deriva sotto il cielo plumbeo (figura 18). A parte questo dettaglio, la figura, nella quale sono indicati fra gli altri il Caucaso, il monte Olimpo e l’Ararat, fornisce preziose informazioni: le acque al massimo di profondità raggiungono i 15 cubiti al di
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Il Diluvio Universale Figura 18. L’arca di Noè nel mondo sommerso. Da A. Kircher (1675) Arca Noë in tres libros digesta… Amstelodami, Apud Joannem Janssonium a Waesberge
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sopra dei monti più alti e, quando l’Arca si adagia sul monte Ararat, con il cielo oramai rischiarato, le acque si sono ritirate di 60 cubiti (qualcosa come 26 metri). Con il ritiro delle acque la fatica di Kircher non è ancora terminata, perché resta ancora da affrontare l’ultimo problema che consiste, per usare le sue parole, in “Quomodo animalia in universas globi terreni regiones et insulas devenierunt“ cioè, visto che l’Arca si è arenata fra l’Europa e l’Asia, come hanno fatto le specie primigenie a spostarsi negli altri continenti? Passi per l’Africa, che una connessione col vecchio continente ce l’ha, ma il popolamento delle Americhe e delle isole al largo dei diversi continenti, come le Filippine, il Giappone e il Madagascar, sembra un ostacolo veramente formidabile da superare. Per spiegare il popolamento animale anche delle isole più sperdute, Kircher ricorre ancora una volta alla grafica e mostra, sotto il titolo Geografia congetturale dell’orbe terrestre dopo il Diluvio, una accuratissima carta dei continenti emersi, nella quale si vede che diverse zone attualmente occupate dall’oceano, erano state, subito dopo il Diluvio, lingue di terraferma, con tanto di alberi e varia vegetazione. La congettura, peraltro supportata dall’opinione degli autori antichi, come si legge nel cartiglio della carta geografica, è rafforzata dall’esistenza di conchiglie e resti di pesciolini che si ritrovano in luoghi distantissimi dal mare. Il che, da una parte conferma che parte delle terre attualmente emerse si trovavano nelle epoche passate sotto la superficie del mare e, dall’altra, dimostra che il gesuita, recuperando in parte il concetto che i fossili siano resti di animali veri e propri, è costretto a ricorrere nuovamente al concetto della mutabilità del mondo. Naturalmente non è che Kircher concepisca la deriva dei continenti e che immagini che questi si spostino galleggiando sulla parte fluida della Terra, egli piuttosto ipotizza che i continenti si siano separati in seguito a quei cataclismi e terremoti che egli stesso ha avuto modo di sperimentare da giovane durante il suo viaggio nel meridione d’Italia. Proprio per il ruolo centrale che la struttura della Terra assume nella sua visione cosmica, Kircher aveva dedicato il suo Mundus Subterraneus all’interpretazione dei terremoti, alla funzione dei vulcani e alla circolazione delle acque, sforzandosi di identificare la causa dei violenti cambiamenti ai quali la Terra è soggetta.
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N. Morello (1986) in “Enciclopedismo in Roma Barocca”, 179, Marsilio ed.
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Sempre guidato dal concetto che tutto ciò che esiste è frutto di un disegno divino nel quale domina la razionalità e l’armonia, il gesuita dapprima immagina che il mondo sia una specie di macchina musicale con tubi e sifoni sotterranei che producono i suoni che si avvertono anche in superficie, ma poi sembra rendersi conto che gli episodi violenti che devono aver modellato il mondo richiedono un meccanismo ben diverso e arriva a poco a poco a immaginare il globo terrestre quasi come un organismo vivente nel quale la circolazione delle acque sotterranee ha le stesse funzioni del sistema circolatorio negli esseri viventi. Il cuore del sistema è costituito da un fuoco centrale che, riscaldando le acque interne, ha la funzione di assicurarne lo scorrimento, un po’ come per il sistema circolatorio di un essere umano, mentre i vulcani svolgono la funzione di liberare il globo terrestre dai vapori generati dall’enorme calore centrale. Il fuoco centrale, in aggiunta, riscalda l’aria che è contenuta nelle caverne sotterranee che a sua volta provoca lo sviluppo di ulteriori incendi. Sono proprio le esalazioni di questi incendi sotterranei che, quando non riescono a trovare una via di uscita, urtano violentemente contro le pareti delle caverne provocando i terremoti in superficie. A volte però la pressione delle esalazioni è tanto forte che questi gas riescono ad aprire enormi squarci nel terreno sovrastante e, con brontolii e rimbombi, fuoriescono, in maniera che il terremoto si acquieti. Assecondando la sua natura, che lo porta a vedere il momento della verifica coincidente con quello del divertimento, Kircher vuole condurre un esperimento per avvalorare la validità dei concetti che ha descritto nel Mundus e si fa costruire delle piccole palline di vetro soffiato riempite a metà con acido nitroso (un semplice composto di azoto e acqua). Quando vuole stupire qualche visitatore, Padre Atanasio dispone alcune palline su dei carboni ardenti e fa constatare che il vapore che si libera dopo un po’ riesce a frantumare il contenitore, portando così una prova della plausibilità della sua teoria sulla causa dei terremoti e riuscendo, a seguito degli scoppi fragorosi delle palline, a far divertire i suoi ospiti22. I risultati empirici e i modelli congetturali che Kircher sviluppa si innestano inevitabilmente all’interno dell’impianto conoscitivo
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aristotelico-tomista dell’epoca. Emerge tuttavia il suo desiderio di non respingere ciecamente le testimonianze sui fenomeni naturali che vengono osservati con obbiettività nuova, precedendo in questo modo l’accettazione del metodo scientifico da parte delle gerarchie cattoliche. Può apparire sorprendente che alcuni dei concetti più rivoluzionari della scienza dell’800, l’evoluzione delle specie, la separazione dei continenti e la stessa panspermia che fu riproposta dal premio Nobel Arrhenius nel XX secolo, possano essere stati fiutati già a metà del ‘600 e per strade, per così dire, poco canoniche. La verità però è che una intuizione è cosa ben differente da una teoria scientifica, tanto è vero che la storia della scienza è costellata da episodi di qualcuno che ha “immaginato” (non “previsto”), in una specie di scorciatoia sulla via della ricerca, un fenomeno che è stato poi osservato decine di anni più tardi. C’è da dire, in ogni caso, che l’atteggiamento di chi si lancia in queste proiezioni fantastiche si dimostra solitamente più fruttuoso di quello di chi si oppone a interpretazioni nuove della realtà per banale conservatorismo e mancanza proprio di fantasia. In ogni caso, tra voli di immaginazione e sistematico lavoro quotidiano, dobbiamo constatare che la frontiera della ricerca si sposta continuamente in avanti, come dimostra il fatto che, al giorno d’oggi, non esiste più uno scienziato che passi il suo tempo a tentare di stipare tutti gli esseri viventi in un barcone lungo 300 cubiti, largo 50 e alto 3023.
23 O. Breidbasch, M. Ghiselin (2006) Proceedings of the California Academy of Sciences, vol. 57, n. 36, p. 991.
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I geroglifici e il sogno della sapienza universale All’incirca nel 1500 dell’era della nostra salvezza, vicino ad Ateste mentre dei contadini scavavano la terra più profondamente del solito, fu trovata un’urna d’argilla, ed in essa ne fu trovata un’altra più piccola, in cui c’era una lucerna che ancora ardeva fra due ampolle, una d’oro, l’altra d’argento, piene di un liquido limpidissimo, grazie al quale si pensa che quella lucerna ardesse da tanti anni, e se non fosse stata scoperta avrebbe continuato a farlo per sempre Fortunio Liceto, libro I, capitolo IX.
Il Celeberrimo Museo del Collegio Romano Una delle immagini più popolari di Athanasius Kircher è quella che compare nell’antiporta del catalogo di Giorgio de Sepi1, un allievo di Kircher, nella quale si vede il gesuita che accoglie due visitatori del suo Museo (figura 19) che a metà del XVII secolo è diventata una tappa obbligatoria per qualunque viaggiatore che arrivi a Roma. Il Museo del Collegio Romano costituisce l’archetipo dei moderni Musei scientifici. Assieme a opere d’arte e reperti archeologici compaiono macchine costruite per suscitare la meraviglia del visitatore e stimolare in lui il desiderio di apprendere. Il Museo raccoglie inoltre materiale di interesse per le scienze naturali che i missionari all’estero inviano da ogni parte del mondo e fornisce a quelli in partenza il necessario bagaglio culturale per affrontare il compito che li aspetta. Il Collegio Romano era da molti anni carente di spazi, ma lo era diventato ancora di più da quando la chiesetta dell’Annunziata che ospitava gli studenti al tempo della fondazione del Collegio
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G. de Sepi (1678) Romani Collegii Societatis Iesu Musaeum Celeberrimum, Janson-Waesberg ed., Amstelodami.
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La fine dei cieli di cristallo Figura 19. Il Celeberrimo Museo di Athanasius Kircher, dal catalogo di Giorgio de Sepi (antiporta)
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era stata sostituita dalla Chiesa di S. Ignazio che, con la sua abside, aveva occupato una parte degli spazi dedicati alle aule per l’insegnamento. In quella situazione Kircher, con la sua passione per le cose antiche e misteriose, non aveva potuto far altro che trasformare il suo studio in una specie di museo personale, dove raccoglieva le testimonianze di civiltà lontane, tanto meglio se misteriose, che gli inviavano i suoi confratelli missionari. Già in questo periodo doveva esserci un discreto numero di persone che frequentavano questo piccolo museo se il gesuita, per evitare di scendere e salire continuamente le scale per accogliere i visitatori, aveva installato un lungo tubo che, dalla sua stanza, gli permetteva di parlare direttamente con la portineria e dare le indicazioni necessarie. Il dispositivo doveva risultare particolarmente efficace se, qualche anno più tardi, Kircher decide di utilizzarlo per aggiungere realismo alle macchine che andrà via via realizzando. Capita però che nel 1651 il patrizio Alfonso Donini, segretario del Senato Capitolino, decide di donare al Collegio Romano la sua collezione di reperti antichi che era stata fino a quel momento conservata al Campidoglio. I gesuiti colgono allora l’occasione per creare il Museo del Collegio Romano, mettendo assieme la donazione Donini, le collezioni zoologiche e geologiche, che sono già ospitate nel Collegio, e affidandone la direzione al Padre Kircher. Il Museo diventa per il gesuita l’occupazione più importante degli ultimi vent’anni della sua vita che, a poco a poco, lo plasma fino a trasformarlo in una proiezione della sua personalità, tanto che, in capo a pochi anni, il Museo viene comunemente chiamato “il Kircheriano” e assume una connotazione speciale fra i numerosi Musei delle Meraviglie che esistono in Europa. Il Museo del Collegio Romano, un po’ come è per i libri del gesuita, contiene oggetti meravigliosi sia per la bellezza che per l’originalità e ospita artifici che mostrano quei fenomeni straordinari dei quali, in quell’epoca di nuove scoperte, si favoleggia. Non è un Museo dove ci si limita a guardare gli oggetti esposti, ma addirittura se ne discute col Direttore in prima persona, il quale mette al servizio dei suoi interlocutori la sua sconfinata erudizione per illustrare i principi che ispirano i suoi fantasiosi esperimenti. La popolarità del Kircheriano è dovuta anche al particolare momento storico nel quale opera. Papa Alessandro VII, per reagi-
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re agli attacchi della Riforma protestante, sta continuando la politica dei suoi predecessori di far riacquistare alla città di Roma un ruolo centrale nella politica europea e farla tornare nuovamente a essere “il teatro del mondo”. Ingenti investimenti vengono dedicati ad abbellire la città e dotarla di servizi moderni, le arti vengono protette al fine di richiamare intellettuali da mezza Europa e il Museo di Padre Kircher serve giusto allo scopo di mostrare l’immagine di una città e di una Chiesa Cattolica vigorosa e progressista. In quegli anni, nel 1655, arriva a Roma la Regina Cristina di Svezia che è una dei pochi protestanti che si siano convertiti alla Chiesa cattolica e ha quindi lasciato il trono per stabilirsi a Roma, città che i suoi informatori le hanno descritta come un centro di arte e di cultura, città cosmopolita e cuore della cultura barocca, e fra i primi appuntamenti che vengono fissati per la festeggiatissima ospite c’è la visita al Museo del Collegio Romano. Questo incontro accresce enormemente la popolarità di Padre Kircher, il quale riceve in dono dalla Regina un corno che Cristina garantisce essere quello di un unicorno e, in cambio, le dona un piccolo obelisco in legno che ha costruito egli stesso e sul quale, alla base, è riportata la seguente iscrizione in trentatre lingue: Alla grande Cristina Iside rediviva quest’obelisco decorato con gli arcani segni degli antichi Egizi erige, dedica, consacra A.K.S.J.2 Il dono di un obelisco è particolarmente significativo e degno di una regina perché gli originali egizi nascondono un profondo significato cosmologico. Gli obelischi, secondo Padre Atanasio, sono stati infatti realizzati a imitazione della struttura del cosmo platonico: alla cima c’è il Mondo archetipico, cioè la causa prima dei mondi subalterni, al gradino immediatamente più in basso c’è il Mondo intellettuale che è emanato direttamente dal primo e che è sede dei Geni secondi; segue, terzo anche per importanza, l’universo visibile, quello cioè costituito dalle stelle e dai pianeti. Il posto più in basso è occupato dal mondo elementare della materia che riceve la sua stessa ragione di vivere dalle gerarchie superiori.
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G. de Sepi (1678) opera citata, trad. E. Lo Sardo in Scriptaweb, Napoli 2005.
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fu il primo che eresse quelle colonne che vengono chiamate Aghi del Faraone e su questi scolpì la conoscenza della quale era venuto in possesso.3 Da quel momento in poi il gesuita non perde occasione per pubblicizzare la sua frequentazione con la sovrana a dimostrazione di quanto sia importante il suo Museo e, quando pubblica una delle sue opere maggiori, l’Iter Extaticum, viene autorizzato a dedicarlo alla Regina. Il risultato di tanta popolarità è che in occasione del Giubileo del 1675 è tale la pressione dei visitatori che Kircher se ne mostra preoccupato e racconta al suo amico Hieronymus Langenmantel di trovarsi in difficoltà ad accogliere la gran moltitudine di visitatori, dignitari, letterati che vengono da me ogni giorno per visitare il museo. E sono così impegnato che mi resta pochissimo tempo, non solo per i miei studi, ma anche per i miei normali doveri spirituali.4 L’importanza del Museo Kircheriano è sottolineata dall’elegante antiporta del Catalogo di De Sepi, che rappresenta gli spazi a disposizione del Museo in maniera tale che qualcuno ha avanzato il sospetto che si tratti di un’immagine poco realistica e un po’ celebrativa, visto che non si ha memoria al Collegio Romano di locali con volte ampie come quelle lì rappresentate. Ci sono tuttavia una quantità di indicazioni che suggeriscono che l’incisione è certamente fedele alla realtà, almeno per quanto riguarda i contenuti: sono ben identificabili infatti il piccolo scheletro umano che oggi si trova al Museo del Liceo Visconti, il rostro di pesce-sega e la zanna di tricheco che attualmente sono conservati al Museo di anatomia
3 A. Kircher (1650) Obeliscus Pamphilius, hoc est, interpretatio Nova…, Roma, Typis Ludovici Grignani. 4 P. Findlen (2001) in Il Museo del Mondo, Edizioni De Luca.
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È proprio per il loro contenuto sapienziale che l’origine degli obelischi viene fatta risalire da Kircher alla figura mitica di Ermete Trismegisto, il quale
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comparata dell’Università “La Sapienza” e i busti di epoca romana provenienti dalla donazione Donini. Le pareti mostrano una vera e propria pinacoteca e sembrano costituire, assieme alle statue e alle ceramiche, una vera galleria d’arte. C’è – racconta De Sepi – una immagine di Cristo Salvatore […] opera autografa del pennello di Guido Reni. Sottostanno alcune opere di arte scultorea, tra cui una, realizzata dal celeberrimo architetto e scultore cavalier Bernini, rappresentante un bimbo che gioca ad afferrare una cicala […] una grandissima quantità di piatti e di vasi fittili, opera ammirevole di Raffaello d’Urbino […] Fa bella mostra di sé, penzolante dal soffitto, l’armadillo gigante che secondo alcuni è di ispirazione per Gianlorenzo Bernini per realizzare quella specie di drago che, nella Fontana dei Fiumi di Piazza Navona, emerge da una caverna sotto il gigante che raffigura il Rio della Plata, metafora di tutti gli animali misteriosi che vengono scoperti in questi anni nell’America del sud5. La sezione zoologica del Museo è certamente rilevante e i diversi esemplari vengono descritti da De Sepi in maniera dettagliata anche se l’allievo, seguendo le ombre del maestro, non rinuncia mai ad allargare la descrizione dei reperti alle loro caratteristiche più sbalorditive. La polvere di sirena (il Museo detiene la coda di un esemplare di questi mostri marini), per esempio, ha una insuperabile proprietà antiemorragica, il coccodrillo è sì una creatura orribile e mostruosa ma sembra soffrire per amore degli uomini, perché, se gli capita di afferrarli, li tormenta tanto a lungo e li serra tra gli artigli delle zampe fino a soffocarli, ma quando li vede ormai privi di vita, prima afflitto li compiange, poi se li divora. Le unghie dell’alce hanno l’invidiabile proprietà di lasciare morto stecchito un lupo che ne venga solo sfiorato. Inoltre, costituiscono un rimedio eccellente contro l’epilessia, tanto che conviene far-
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E. Lo Sardo (2001) in Il Museo del Mondo, Edizioni De Luca.
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[…] dalle rondini impariamo che il collirio chelidonio è utile alla vista, dal nibbio apprendiamo a curarci col ranno, dal tordo col ramo di mirto, dall’airone col gambero, dal merlo con il lauro, dalla gru col giunco di palude. Per capire lo spirito del Museo è necessario aver presente che nella didascalia dell’antiporta questo è definito Casa Kircheriana e teatro della natura, un teatro che mira alla rappresentazione di tutte le manifestazioni della natura nella giustapposizione di animali imbalsamati, fontane, orologi perpetui, fossili, macchine misteriose, giochi di luci e di specchi. L’obbiettivo è quello di creare un dominio del meraviglioso in una specie di spettacolo conturbante, ingenuo e divertente nello stesso momento. Puoi vedere – racconta De Sepi – il bicchiere di Tantalo nei cui nascosti anfratti rimane incapsulato il purpureo liquore del vino
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sene un anello che diventa tanto più efficace se viene portato all’anulare della mano sinistra piuttosto che a un altro dito. C’è chi assicura che la zanna di ippopotamo “contrasta l’effetto del veleno e guarisce le emorroidi“ (ma ne basta un piccolo frammento), la gazza del brasile ha proprietà particolarissime perché,“se dobbiamo credere ai reverendi padri che vanno e vengono dall’India, è antidoto contro ogni veleno”. Anche se le proprietà degli animali esotici sono quelle sulle quali De Sepi si sofferma maggiormente, egli non dimentica di far presente che non occorre andare troppo lontano per verificare le cose meravigliose che ci offre la natura perché, per esempio, anche i nostri uccelli europei hanno proprietà che meritano di essere conosciute. C’è per esempio la cicogna, dalle ossa e dal becco della quale si ricavano polveri molto apprezzate in caso di apoplessia e di paralisi. Dalle allodole, dai passeri e dai pipistrelli si ottengono medicine utili in caso di colica, dal rigogolo si ricavano medicine indicate per l’itterizia, le pelli d’avvoltoio, di cigno, di pellicano e di aquila, applicate sullo stomaco, facilitano assai la digestione. Dalle gazze si ricavano medicamenti che, utilizzati con parsimonia, calmano le modeste palpitazioni cardiache, e così via. Osservando il comportamento degli uccelli, inoltre, ricaviamo utili indicazioni contro diverse malattie perché
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Falerno, in modo tale che si potrebbe credere che il bicchiere sia colmo fino all’orlo, ma se lo capovolgi non versa neppure una goccia. Ci sono poi delle palline colorate e un cilindro nel quale sono racchiuse delle figurine immerse in un liquido che hanno la proprietà di salire o scendere a seconda se, attraverso un foro che si tappa con un dito, si diminuisce o si aumenta la pressione del liquido e – assicura l’autore – il divertimento dei visitatori è garantito. Le famose macchine costituiscono però la vera differenza fra il Museo di Padre Kircher e tutti gli altri musei in Italia. Quella che De Sepi considera la macchina più spettacolare è l’Oracolo Delfico che proviene da quel dispositivo costituito da un lungo tubo sagomato a forma di chiocciola che Kircher aveva escogitato per risparmiarsi la continua fatica di raggiungere la portineria dall’ufficio dove solitamente trascorreva le sue giornate e che era già stato descritto nella Phonurgia Nova. L’Oracolo che si trova nel Museo Kircheriano vuole sicuramente stupire i visitatori più ingenui, perché è capace di parlare, di emettere suoni e versi di animali e perfino di cantare, ma ha anche lo scopo di dimostrare l’artificio che utilizzavano gli antichi sacerdoti Greci e quelli Egizi per usare una normale statua come un oracolo che facesse profezie e pronunziasse ammonimenti, al fine di ottenere offerte e doni dai fedeli del dio. Il trucco è tutto nel tubo cocleato che, partendo da una stanza accanto, arriva alla testa del fantoccio che simula l’oracolo in modo che i suoni e le parole proferiti da qualcuno a una estremità del tubo sembrino emessi dal manichino. Due cose impressionano in modo particolare coloro che interloquiscono con l’oracolo del Collegio Romano, la prima è che il pupazzo è capace di roteare gli occhi, la seconda è che l’oracolo è in grado di rispondere in qualsiasi lingua venga interrogato (segno che Padre Kircher risulta molto impegnato dal funzionamento dell’Oracolo). Anche la Colomba di Archita riscuote un vivo interesse fra i visitatori del Museo. Kircher la descrive nel Magnes, sive de Arte Magnetica e consiste nel dare l’illusione di far volare una colomba di cartapesta all’interno di una camera chiusa utilizzando la forza magnetica, un argomento che da sempre affascina il gesuita. Si deve disporre – spiega Kircher – di una superficie metallica appesa al soffitto e sopra la quale si nasconde un magnete il quale, col-
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Farai ora una colomba di materiale leggerissimo – continua Kircher – e attraverso il suo corpo farai passare un filo d’acciaio magnetizzato che farai arrivare alla mano di Archita. Si fa in modo che il filo d’acciaio arrivi in prossimità della superficie posizionata in alto, dietro la quale si trova il magnete che è in continua rotazione. Il risultato finale è che il magnete trascinerà la colomba e Archita stesso, che ruoteranno assieme al magnete dando l’impressione che la colomba si sostenga da sola nell’aria. Con questo metodo – si sbilancia poi il collaboratore di Kircher – si possono imitare anche la statua di Dedalo che cammina spontaneamente, le quadrighe di Serapide, il Pegaso di Bellorofonte, ed altre invenzioni degli antichi. La motivazione che spinge De Sepi a creare un catalogo delle cose contenute nel meraviglioso Museo è forse proprio la consapevolezza che questo è indissolubilmente legato alle straordinarie capacità e alla insuperabile memoria del gesuita. È già nell’introduzione al catalogo che si trova un chiaro indizio della preoccupazione che l’autore nutre per il futuro del Museo, dove si legge: L’incerta vicenda delle cose umane come non ci garantisce nulla di saldo, stabile e duraturo, così pure secondo il suo costume riduce a poco a poco al nulla ogni cosa che, appena sorta, col tempo soggiace alla mutevole ruota della fortuna. De Sepi ci presenta poi un Padre Kircher che, oramai più che settantenne, si interroga sempre più frequentemente su che fine avrebbero fatto gli oggetti raccolti con tanta fatica e che, forse, proprio per salvare la sua creatura dall’oblio che vede incombente lo apre al maggior numero possibile di visitatori, rendendolo quasi un museo pubblico ante litteram. Quanto queste preoccupazioni sul futuro del Museo siano fondate sembra trovare rapida
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legato a un meccanismo rotante nascosto alla vista dell’osservatore, percorre regolarmente la superficie metallica. Al centro della stanza si crea una sopraelevazione sulla quale, incernierato su un perno, si colloca un fantoccio, fatto di carta leggerissima, che rappresenta il filosofo Archita, il quale, secondo la tradizione, è poi l’inventore del trucco.
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conferma in una lettera che Francesco Baldigiani, un vecchio allievo di Kircher, scrive proprio in quegli anni a Francesco Redi: Il povero vecchio Padre Kircher declina rapidamente. Da più di un anno è diventato sordo, non ci vede quasi più e sta perdendo la memoria. Lascia raramente la sua stanza solo per andare alla farmacia o alla portineria. Tutti noi oramai pensiamo che non potrà vivere ancora a lungo.6 De Sepi è un facile profeta perché quando a distanza di non più di una ventina di anni, nel 1689, Leibniz ha occasione di visitarlo, il Museo è già praticamente distrutto7 e a nulla serve un breve di Papa Clemente XI che arriva a minacciare sanzioni fino alla scomunica verso chiunque violi il Museo di Kircher. Sarà allora per il desiderio di confortare il suo maestro, la cui esistenza si avvia al tramonto, che De Sepi, nell’elencare tutte le macchine che sono l’orgoglio del Museo, ne infila anche qualcuna che di fatto non è mai stata in condizione di funzionare, almeno nella forma descritta. Racconta, per esempio che sulla finestra si vede galleggiare sull’acqua sostenuto da sughero un oroscòpio, seguace della luce, fenomeno di materia simpatica, nota al solo autore, e mirabile opera di natura. Ma questa indicazione, che non spiega se si tratta del fiore o dei semi di girasole con un magnete occultato da qualche parte, è tanto poco chiara che si potrebbe pensare che forse quell’exhibit non sia mai esistito. Si può dire più o meno la stessa cosa del Proteo catottrico che è già stato descritto così approssimativamente nell’Ars Magna Luci et Umbrae da far pensare che la macchina non abbia mai funzionato sul serio e che De Sepi elenca al solo scopo di rendere omaggio, non solo alle creazioni, ma anche alle fantasie del suo Maestro. D’altra
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A. Baldigiani (1678 circa) Lettera a Francesco Redi, citato in P. Findlen, Living in the shadow of Galileo: Antonio Baldigiani, a jesuit scientist in late seventeenthcentury Rome, http://www.yale.edu/macmillan/transitionstomodernity/papers/ Findlen-Baldigianishort.pdf 7 P. Findlen (2001) Il Museo del Mondo, Ed. De Luca.
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[…] parmi giusto penetrare in uno studietto di qualche ometto curioso, che si sia dilettato di adornarlo di cose che abbiano per antichità o per altro del pellegrino, ma che però sieno in effetto coselline, avendovi come saria a dire un granchio pietrificato, un camaleonte secco, una mosca, un ragno in gelatina in un pezzo d’ambra, alcuni di quei fantoccini di terra che dicono trovarsi nei sepolcri antichi di Egitto […] 8 L’anteporta, che sicuramente Kircher deve avere approvata prima della pubblicazione, ha la forma di un palcoscenico che ospita una commedia nella quale Padre Atanasio ha il ruolo di protagonista. In effetti quasi tutte le opere di Kircher presentano un frontespizio scenografico con immagini fortemente allegoriche, che spesso relegano il testo quasi al ruolo di una didascalia e, quando le semplici immagini non bastano, queste vengono arricchite da cartigli e scritte che agevolano il percorso di decifrazione dei significati.
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G. Galilei (fra il 1595 e il 1609) Le considerazioni alla Gerusalemme Liberata, in Le opere di Galileo Galilei (1856) Tomo XV, Società Ed. Fiorentina, Firenze.
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parte nell’ideologia di Padre Kircher la meccanica ha un valore speciale, non solo perché egli è convinto che i primi cultori della tecnica siano stati gli egizi e gli alessandrini, che ritiene detentori della vera conoscenza, ma perché attribuisce alle macchine un importante scopo educativo in quanto, attraverso queste, è possibile smascherare i maghi i quali, facendo leva sulla superstizione popolare, si accreditano di capacità soprannaturali che sono invece dei semplici trucchi. Combattere la superstizione, una delle debolezze umane sulle quali fa leva il demonio per tessere le sue trame malvagie, è per il gesuita un impegno al quale, magari con un po’ di divertimento personale, egli adempie per gran parte della sua vita. Il catalogo di De Sepi, così rappresentativo degli interessi coltivati da Kircher, fa risaltare ancora una volta l’abisso che separa la filosofia del gesuita da quella di Galileo. Mentre si esamina l’anteporta del catalogo, così ricca di dettagli, viene alla mente un passo di Le considerazioni alla Gerusalemme Liberata, in cui Galileo se la prendeva con Torquato Tasso ma che avrebbe potuto indirizzare al Museo di Padre Kircher se lo avesse visitato:
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Nulla di più distante dalla presentazione delle opere di Galileo, sobrie e tipografiche, dove è preponderante l’aspetto descrittivo del contenuto, quando non si trasforma addirittura in una sorta di indice, come è nel caso del Sidereus Nuncius. Anche le allegorie, come in Il Saggiatore dove appaiono la Filosofia Naturale e la Matematica, o nel Dialogo sopra i due massimi sistemi dove appaiono Aristotele, Tolomeo e Copernico, sono un esplicito riferimento al contenuto e non una semplice suggestione evocativa di misteri svelati9. Nel confronto della presentazione delle loro opere emerge l’incomunicabilità dei due personaggi: per il pisano c’è da capire il mondo, per il gesuita tedesco c’è da capire quelli che il mondo lo avevano già capito.
L’Egitto fantastico di Padre Atanasio L’anteporta del Romani Collegii Societatis Iesu Musaeum Celeberrimum presenta in primo piano degli obelischi da lui stesso costruiti a scopo didattico e che costituiscono il più concreto dei riferimenti alla vita di Athanasius Kircher. Lo studio della cultura dell’antico Egitto, che passa attraverso l’interpretazione della scrittura geroglifica, occupa gran parte della vita di Kircher perché egli, rifacendosi alla tradizione dei filosofi ermetici rinascimentali, condivide con questi la convinzione che lì si ritrovi la conoscenza originale che da Adamo è stata trasmessa all’umanità. Che poi la vera conoscenza debba essere trasmessa solo attraverso tecniche per iniziati, quali sono appunto i geroglifici, è un concetto che si ritrova lungo tutto il Medioevo e che raggiunge indenne il Rinascimento, come testimonia la larga diffusione del complesso dei trattati del Corpus Hermeticum che Marsilio Ficino traduce a metà del ‘400 attribuendolo al fondatore della religione degli Egizi, Ermete Trismegisto. La traduzione di Ficino, d’altra parte, arriva su un terreno già preparato, perché da qualche anno è giunto in Europa un manoscritto, opera di un egiziano di nome Orapollo, che ha il titolo quanto mai suggestivo di
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Per una analisi comparativa dei frontespizi, vedi L. Tongiorgi Tomasi (1986) in “Enciclopedismo in Roma Barocca”, Marsilio.
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U. Eco (1993) La ricerca della lingua perfetta, Laterza ed., Bari. C. Marrone (2002) I geroglifici fantastici di Athanasius Kircher, Stampa Alternativa e Graffiti, Pavona (RM). 12 C. Marrone (2002) ibidem. 11
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Hieroglyphica. Molti ritengono che il codice non sia veramente antico come si pretende, anzi che sia stato scritto nei primi secoli dell’era cristiana quando la lingua e la scrittura degli antichi egizi era andata oramai perduta, ma l’ambiente dei neoplatonici rimane convinto che, anche se così fosse, l’autore potrebbe avere a sua volta ricavato le informazioni da testi molto più antichi, per cui il contenuto è degno della massima attenzione. Purtroppo è proprio Orapollo (o chiunque sia l’autore del manoscritto) che mette gli aspiranti interpreti dei geroglifici sulla strada sbagliata, perché il suo testo indirizza gli studi verso una interpretazione simbolica di questa scrittura, per cui a ogni immagine viene attribuita una molteplicità di significati in un gioco di deduzioni che, pur affascinante, mette a nudo l’impossibilità di comprendere univocamente una frase geroglifica. La figura dell’avvoltoio, per esempio, indica la madre, il vedere, il termine di una cosa, la conoscenza del futuro, l’anno, il cielo, la misericordia, Minerva, Giunone, o, anche, due dracme10. Come si passa da “avvoltoio” a “madre” a “due dracme”? Presso gli egizi – spiega Orapollo – l’avvoltoio femmina era associato al concetto di madre perché è un uccello che si prende particolare cura dei piccoli. Inoltre, poiché le due dracme erano l’unità monetaria di base, queste venivano considerate la madre delle altre quantità di denaro e così via in una serie di deduzioni di scatenata fantasia11. Secondo Orapollo anche i numeri vengono utilizzati nei geroglifici. Per esempio il numero 16 esprime il piacere perché è a questa età che gli uomini iniziano l’attività sessuale, e l’amplesso (che implica un piacere condiviso da due persone) si esprime ripetendo due volte lo stesso numero 16. Allo stesso modo il numero 1095 esprime il concetto di “silenzio” o di “muto” perché questo è il numero di giorni pari a tre anni e quella è l’età alla quale un bambino impara a parlare. Partendo poi dall’idea del bambino che ancora non sa parlare ed è ancora irragionevole, questo numero arriva a indicare anche il concetto di impossibilità12.
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Kircher è naturalmente affascinato da questo gioco e nei suoi libri dedica molto spazio alla Arithmetica Hieroglyphica13,preoccupandosi di avvertire il lettore che i numeri di cui parla non hanno un significato matematico, cioè non servono a fare calcoli, ma sono piuttosto simboli esoterici portatori di arcane verità divine. Naturalmente è immediato a questo punto il richiamo a una concezione Pitagorica del numero come simbolo di una mistica armonia universale ma quello che veramente intriga Kircher è questa specie di scommessa che consiste nel trovare un buon motivo per attribuire a un’immagine il significato che si vorrebbe e che ha l’obbiettivo di dimostrare che la mentalità di carattere razionale degli attuali popoli europei è completamente diversa da quella immaginativa degli antichi egizi. Padre Atanasio è un maestro nella deduzione di concatenazioni di significati: l’icona dell’ippopotamo, per esempio, per gli egizi indicava “il trascorrere delle ore” perché questo animale di giorno se ne sta immerso nell’acqua e di notte si aggira per i campi a pascolare, ma poteva anche indicare “la primavera” perché è in quella stagione che i prati rinverdiscono e i tempi del pascolo vengono scansionati con maggiore regolarità14. Non si tratta solo di un divertissement, tuttavia, perché Kircher, essendo un religioso, ha una ragione specifica per gettarsi a capofitto nell’impresa di interpretare il messaggio nascosto nei geroglifici. Il suo ragionamento è semplice: se il Signore ha voluto confondere le lingue della Terra al tempo della Torre di Babele, vuol dire che, prima di quel momento, tutti parlavano la stessa lingua; di conseguenza, le culture di tutti i popoli della Terra derivano dalla stessa radice che, secondo le Scritture, è di origine divina. In questo modo il gesuita vede la possibilità di offrire un supporto di carattere storico all’aspirazione universalista della Chiesa Romana che, in un’epoca di straordinarie scoperte geografiche, rischia continuamente di essere messa in discussione. Attraverso lo studio dei geroglifici egizi, poi, Kircher intravede anche una strada per inglobare nella storia biblica una civiltà come quella cinese, la cui antichità continua a restare un serio ostacolo alla ricostruzione della storia secondo i canoni dei gesuiti.
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A. Kircher (1652) Oedipus Aegyptiacus, Roma. C. Marrone, op. citata.
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Il percorso fantastico parte da Cam, uno dei figli di Noè, il quale, dopo il diluvio, fonda alcune colonie in Cina dove trasmette sia la conoscenza originaria di Adamo che lui ha appreso dal padre, sia i caratteri geroglifici che ha conosciuto direttamente da Ermete Trismegisto. Mentre però gli egizi hanno conservato il valore simbolico di quella scrittura, i cinesi l’hanno successivamente trasformata in una scrittura come le altre, nella quale i segni corrispondono a dei suoni o a delle sillabe. Ermete diventa così in qualche modo l’inventore anche degli ideogrammi cinesi, i quali, vista la loro vicinanza con i geroglifici, diventano un ulteriore oggetto di studio per Padre Atanasio il quale, a quanto lui stesso racconta, impara anche il cinese. È sempre affascinante verificare che avvenimenti che nella storia hanno influenzato la vita di tante persone siano a volte basati su una serie di equivoci come è, appunto, il lavoro per l’interpretazione dei geroglifici da parte di Padre Kircher. È Ficino stesso che racconta come Cosimo de’ Medici, venuto in possesso di una copia del Corpus Hermeticum in greco, gli abbia dato ordine di sospendere tutti i suoi impegni per dedicarsi completamente alla traduzione. La priorità che Cosimo assegna a questa traduzione non deve sorprendere perché all’epoca è diffusa in occidente l’opinione che l’autore, Ermete Trismegisto, appartenga a una generazione di saggi addirittura precedente a quella di Mosè e che tutti i sapienti successivi, come Platone e Pitagora, abbiano derivato la loro filosofia direttamente dalle idee presenti nel Corpus. È proprio questa origine tanto antica che colpisce l’immaginazione dell’Europa cristiana, in quanto nell’opera viene descritta la creazione del mondo e l’ascesa dell’anima fino al regno celeste in termini simili a quelli della Bibbia, rafforzando così l’opinione che Ermete Trismegisto sia una persona realmente esistita e che i sui scritti contengano antichissime verità che provengono dalla Prisca teologia. D’altra parte questa è stata anche l’opinione non solo di personaggi del mondo antico come Cicerone, il quale nel De Natura deorum spiega che fu proprio una personificazione di Mercurio a portare in Egitto la conoscenza divina, ma anche di autorevoli Padri della Chiesa, come Agostino e Lattanzio, con quest’ultimo che arriva a considerare Ermete una specie di profeta pagano che aveva previsto l’avvento del cristianesimo. Già dal tempo del primo cristianesimo la cultura degli egizi,
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così come molte di quelle delle civiltà antiche, era considerata portatrice di conoscenze profonde e i Romani, seguendo una tradizione greca, avevano identificato il dio Ermete, cioè il Mercurio dei Romani, con Thoth, il dio egiziano che sovrintende alla cultura e alla sapienza. Poiché, secondo la tradizione, Ermete aveva donato agli Egiziani le leggi e le lettere, a lui veniva spesso attibuito l’aggettivo Trismegisto, cioè Tre volte grande15. È questo il contesto culturale nel quale si ritrova il giovane Kircher quando, in fuga da Wurzburg e dalle devastazioni della Guerra dei Trent’anni, arriva nell’ottobre 1632 al collegio dei Gesuiti di Avignone preceduto da una discreta fama di esperto di culture orientali. Questa reputazione, anche se il suo nome è ancora poco conosciuto nella Repubblica delle Lettere, gli vale un invito da parte di Nicola-Claude Fabri de Peiresc, un umanista di buon nome che vive a un centinaio di chilometri di distanza, ad Aix, e che è in corrispondenza con molte delle personalità dell’epoca, a cominciare da Galileo e dal cardinale Francesco Barberini. Peiresc è, come tanti intellettuali della sua epoca, affascinato dalla possibilità di svelare i segreti dell’antica sapienza egizia e non è certo l’unico a subirne il fascino, se è vero che già Copernico nel De Revolutionibus orbium coelestium aveva trovato non disdicevole citare proprio la figura di Ermete Trismegisto: […] e in mezzo a tutto sta il Sole. Chi infatti, in tale splendido tempio [l’universo], disporrebbe questa lampada in un altro posto o in un posto migliore, da cui poter illuminare contemporaneamente ogni cosa? Non a sproposito quindi taluni lo chiamano lucerna del mondo, altri mente, altri regolatore. Trismegisto lo definisce il dio visibile. Kircher è consapevole degli interessi del filosofo francese e tira fuori dalla sua manica di gesuita la carta vincente: egli è in possesso di un trattato che permette di decifrare i geroglifici. Peiresc ne resta ovviamente affascinato e scrive ai fratelli Dupuy che a Parigi avevano costituito un circolo di studiosi:
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In F.A. Yates (1985) Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza ed.
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Peiresc è tanto eccitato dalla notizia del ritrovamento del manoscritto che, da una parte cerca di procurarsi una copia di questo trattato il cui autore – a quanto afferma Kircher – è un misterioso rabbino di Babilonia di nome Barachias Nephi, e contemporaneamente tenta di organizzare un incontro a casa sua ad Aix per presentare questo straordinario gesuita ai suoi colleghi più illustri. Per molti eruditi del ‘600, e per Kircher in particolare, lo studio dei geroglifici merita qualsiasi sacrificio, perché fu l’egiziano Ermete Trismegisto, che per primo istituì i geroglifici, diventando così il principe e il genitore di tutta la teologia e di tutta la filosofia egiziane; fu il primo e il più antico fra gli Egiziani, il primo a pensare in modo giusto sulle cose divine; e scolpì il suo pensiero per tutta l’eternità su pietre indistruttibili e su rocce enormi. Da esse Orfeo, Museo, Lino, Pitagora, Platone, Eudosso, Parmenide, Melisso, Omero, Euripide ed altri appresero in modo giusto la conoscenza di Dio e delle cose divine […] 17 La fiducia che molti studiosi di ascendenza ermetica ripongono in Ermete aveva vacillato quando uno svizzero di nome Isaac Casaubon, nel 1614 aveva pubblicato un’opera intitolata De rebus sacris et ecclesiasticis, nella quale, con argomenti semplici e diretti, metteva in dubbio l’autenticità del Corpus Hermeticum. In primo luogo – notava Casaubon – nessun autore antico nomina Ermete Trismegisto, ma c’è sopratutto il fatto che nel Corpus appaiono concetti platonici, come Demiurgo, Mente, Infinito e addirittura con16
N.C. Fabri de Peiresc a J. Dupuy (11 ottobre 1632) in D. Stolzenberg, Egyptian Oedipus: Antiquarianism, Oriental Studies & Occult Philosophy in the Work of Athanasius Kircher (PhD Dissertation, Stanford University, 2004). 17 A. Kircher (1652) Oedipus Aegyptiacus, Roma.
I geroglifici e il sogno della sapienza universale
Abbiamo avuto qui un gesuita tedesco […] il quale racconta di avere trovato nella biblioteca del principe elettore di Magonza un manoscritto arabo su come interpretare e decifrare i geroglifici degli obelischi egiziani […] e che sta lavorando alla traduzione di questo trattato che, sono sicuro, getterà uno squarcio di luce su queste cose misteriose. 16
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cetti cristiani come Verbo, figlio di Dio ecc. che portano a concludere che quel libro non può essere antico come si vuol far credere, addirittura più di Mosè, ma deve risalire al massimo ai primissimi secoli dell’era cristiana18. L’analisi di Casaubon è rigorosa e stringente per cui rischia di mettere in crisi la costruzione dell’edificio neoplatonico e Kircher è la persona più indicata per assumere l’onere della risposta che, concepita in anni di ricerche, appare infine nell’Obeliscus Pamphilius. Anche se alcuni aspetti dell’analisi di Casaubon sembrano convincenti – sostiene Kircher – non si tratta però di elementi risolutivi. In primo luogo non c’è da meravigliarsi che a noi non sia giunto l’originale di un’opera tanto antica come il Corpus Hermeticum, ma un rifacimento di epoca tarda di un corpo sapienziale precedente il quale, scritto originariamente in egizio, fu successivamente tradotto in greco, introducendo qualche elemento spurio. In secondo luogo, e qui il gesuita sfoggia la sua erudizione, non è vero che Ermete Trismegisto non venga nominato da fonti antiche, semplicemente i diversi popoli si riferiscono a lui con nomi diversi, e quando un arabo nomina Idris, e un fenicio Tauti o un egizio Theuth tutti si stanno riferendo a quello che, con nome greco, noi indichiamo con Ermete Trismegisto19. Convincenti o meno che appaiano questi argomenti, è probabile che molti studiosi non rinuncerebbero per nulla al mondo alla possibilità di comprendere il contenuto delle iscrizioni che hanno lasciato i sacerdoti egizi e Peiresc, che è fra questi, fa di tutto per organizzare un incontro per presentare ai suoi colleghi di Parigi il giovane tedesco sul quale pone tanta fiducia. Tuttavia il rapporto fra lo studioso francese, che non vede l’ora di avere in mano la chiave per interpretare i geroglifici, e Kircher, il quale, mentre si dichiara sicuro che riuscirà a venire a capo dell’impresa, di fatto ritarda gli incontri in tutte le maniere, diventa imbarazzante per chi, come noi, segue lo scambio di lettere fra i due. Peiresc, però, resta granitico nella sua fiducia nel pieno successo del gesuita, come scrive allo storico Jacques de Thou:
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C. Marrone (2002) I geroglifici fantastici di Athanasius Kircher, Stampa Alternativa e Graffiti, Pavona (RM). 19 A. Kircher (1650) Obeliscus Pamphilius, in C. Marrone (2002) op. citata.
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Quando poi, nel maggio 1633, Kircher, pressato da Peiresc, non riesce più a evitare di recarsi a Aix, è evidente che non ha compiuto particolari progressi nella traduzione, ma riesce ciononostante a entusiasmare Peiresc perché gli porta l’orologio magnetico realizzato con i semi di girasole del quale abbiamo già parlato. Certo, l’interesse principale dell’erudito francese resta quello della decifrazione della scrittura egizia, ma deve accontentarsi della promessa di Kircher che presto gli porterà almeno un campione della traduzione. È anche vero, tuttavia, che egli sembra rimanere coinvolto dalla varietà di interessi del gesuita tedesco e ne scrive con entusiasmo ai suoi amici parigini raccontando le “bellissime notizie e i bei segreti della natura“ che Kircher ha recato con sé e in particolare di “un orologio, veramente meraviglioso, che è fatto con un seme di girasole che galleggia sull’acqua”. Nonostante questa eccitazione sugli orologi magnetici, Peiresc non sa più cosa inventare per accelerare il lavoro di traduzione: riempie il gesuita di libri che gli potrebbero tornare utili, acquista un dizionario arabo in quattro volumi che è stato appena pubblicato e, infine, promette il suo intervento per convincere i superiori di Kircher a farlo trasferire da Avignone ad Aix dove potrebbe lavorare tranquillamente e senza distrazioni21, ma, proprio quando egli crede di essere in vista del traguardo, arriva a Kircher, come un fulmine a ciel sereno, l’ordine di trasferirsi a Vienna perché l’imperatore, dopo la morte di Keplero, ha bisogno di un nuovo docente di matematica. Peiresc si rende conto che il nuovo incarico, sia pure di prestigio, rischia di distogliere completamente Kircher dal lavoro di traduzione facendo naufragare il progetto sul quale sta sognando da diversi mesi. Così, senza mettere tempo in mezzo, si rivolge direttamente al suo amico cardinale Francesco Barberini,
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N.C. Fabri de Peiresc a J. De Thou (4 aprile 1633) in Daniel Stolzenberg op. citata. 21 D. Stolzenberg (2004) ibidem
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Ho appena ricevuto una parte della memoria di P. Atanasio Kircher sui geroglifici degli obelischi egizi, basata su un testo in arabo di un vecchio Rabbino di Babilonia di nome Rabbi Barachias dove uno studioso troverà modo di fare esercizio.20
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per ottenere che l’ordine venga almeno spostato di un anno, anche per non offendere – aggiunge – la nobiltà della Provenza che spera “con tanta devozione“ che Kircher possa restare ad Avignone per dedicarsi allo studio dei Gieroglyphici Egittii. Il francese è un uomo pratico e, mentre muove tutte le leve a sua disposizione per ottenere l’annullamento del trasferimento, contemporanemente sollecita il giovane gesuita ché si affretti a mostrargli almeno un estratto della traduzione perché teme che, nonostante il suo intervento, il traferimento del gesuita possa diventare effettivo. Ancora una volta, Kircher dà l’impressione di trovarsi in difficoltà perché rassicura, sì, Peiresc che sta facendo progressi, ma si lamenta che potrebbe andare molto più spedito se non fosse distratto da tanti impegni, sia didattici che di rapporti con il pubblico, che i suoi superiori gli affidano22. Probabilmente non si tratta di semplici scuse, ma è sicuro che Padre Atanasio vive malissimo qualunque cosa lo possa distogliere dal suo lavoro, tuttavia, nonostante questi impedimenti, nel settembre del 1633 Kircher annuncia che, visto che la partenza per Vienna è oramai prossima, si recherà ad Aix per presentare a Peiresc un doveroso resoconto del suo lavoro e per dimostrargli che è finalmente in grado di leggere i geroglifici egizi. La reazione di Peiresc ce la racconta Kircher stesso, magari in maniera un po’ enfatica, nell’Obeliscus Pamphilius: […] egli si mostrò pervaso da una gioia incontenibile e da quel momento non trascurò di rigirare ogni pietra per permettermi di continuare il mio lavoro di interpretazione dei geroglifici.23 Per interpretare correttamente queste parole c’è da tenere presente che l’Obeliscus Pamphilius è del 1650 e che quindi Kircher scrive a distanza di una quindicina d’anni dall’incontro, quando i ricordi si sono forse sbiaditi nella sua memoria e quando la sua esperienza nella traduzione dei geroglifici – pur irrimediabilmente basata sulla fantasia – è oramai consolidata. La precisazione
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D. Stolzenberg (2004) ibidem. A. Kircher (1650) Obeliscus Pamphilius, hoc est, interpretatio Nova…, Roma, Typis Ludovici Grignani. 23
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D. Stolzenberg (2004) ibidem. G. de Sepi (1678) opera citata, trad. E. Lo Sardo in Scriptaweb (2005) Napoli. 26 N.C. Fabri de Peiresc (1633) Lettres à Saumaise et a son entourage, Olschki ed. (1992). 25
I geroglifici e il sogno della sapienza universale
sembra necessaria perché gli appunti personali di Peiresc, presi a ridosso dell’incontro, forniscono l’immagine dello studioso francese deluso e scoraggiato. Ad aumentare la delusione di Peiresc c’è l’incredibile infortunio nel quale è appena occorso Kircher, il quale, per far fronte in qualche maniera alle ansie del suo mentore di Aix, gli fornisce una anticipazione della traduzione del Barachias e, già che ci si trova, gli invia anche l’interpretazione dell’iscrizione che appare sull’obelisco di S. Giovanni in Laterano. Il testo dell’iscrizione sulla quale si basa Kircher, che fino a quel momento non si è mai recato a Roma, è ricavato da un disegno che appare nel Thesaurus Hieroglyphicorum, un’opera di Johann Georg Herwart von Hoenburg, un erudito bavarese corrispondente di Keplero. Il pasticcio, del quale Peiresc si rende conto alla prima occhiata, è che i “geroglifici” che Kircher ha appena tradotto non hanno nulla a che fare con la scrittura degli antichi egiziani, ma sono semplici disegni inventati dall’artista il quale aveva forse considerato che, visto che nessuno è in grado di leggere quella scrittura, tanto vale non perderci tempo e inventare dei disegni che, magari, gli sembrano anche più belli dell’originale. Il risultato in poche parole è che Kircher ha interpretato dei disegnetti senza significato scambiandoli per geroglifici egizi!24 Un incidente di queste dimensioni avrebbe potuto stroncare la carriera di qualsiasi apprendista di studi egizi, anche perché l’immagine che Kircher ha interpretato (figura 20) risulta improbabile anche agli occhi di una persona non esperta. L’obelisco della piazza del Laterano è considerato particolarmente importante, tanto è vero che De Sepi si dilunga a raccontarne la storia dettagliatamente25, e quindi l’errore di Kircher potrebbe rischiare di avere una grande risonanza, ma, a giudicare dai documenti a disposizione, il giovane gesuita non se ne fa un cruccio particolare e si dispiace, non tanto della cantonata, ma perché ha sprecato una buona occasione in quanto “aveva trovato una bella e solida interpretazione”26
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delle figure della pseudo-riproduzione dell’obelisco. Certo, di quando in quando, emerge nella sua corrispondenza un tentativo di difesa contro le malelingue che parlano di lui come di un impostore e se ne duole proprio con Peiresc: Sono addolorato che Vostra Signoria abbia di me l’opinione che io mi sia imbarcato in una impresa della quale non sono all’altezza […] ma questo è per me un dovere dovuto al rispetto per le capacità che il Signore nella sua bontà infinita mi ha voluto concedere. Questa autodifesa sembra avere effetto su Peiresc che gli risponde che non è in questione la sua affidabilità personale quanto quella delle fonti alle quali si affida e gli raccomanda di procedere con prudenza, proprio in ragione dell’importanza del tema che sta trattando27. A scusante del gesuita c’è da dire che, proprio perché la scrittura geroglifica è sconosciuta, è difficilissimo per tutti riprodurla, un po’ come chiedere a un europeo di riprodurre gli ideogrammi cinesi che non conosce, per cui Kircher già in partenza si aspetta che nel testo appaia una discreta quantità di imprecisioni per cui sa che probabilmente dovrà procedere per intuito (la scritta in latino sulla base è invece perfettamente corretta). Non va sottovalutato poi che, secondo la lezione di Plotino e che, passando per Porfirio, Giamblico e Erone di Alessandria, arriva a Ficino, i geroglifici non sono una scrittura come le altre ma dotata di un intrinseco valore simbolico. È chiaro quindi che i geroglifici, considerati simboli iniziatici che nascondono verità divine, non debbono essere “tradotti” ma semplicemente “interpretati” (questo, se vogliamo, è il fascino dell’approccio di Kircher ma è anche il suo limite, in quanto più che alla analisi filologica ci si affida direttamente all’assistenza dello Spirito Santo). Certo, avere interpretato dei disegnini come se fossero il messaggio di una antica cultura non è uno scivolone semplice da giustificare, ma se la chiave per interpretare il messaggio è un misto
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N.C. Fabri de Peiresc a A. Kircher (30 marzo 1635) in D. Stolzenberg (2004) ibidem.
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I geroglifici e il sogno della sapienza universale Figura 20. Riproduzione di alcuni obelischi romani con, al centro, l’obelisco di S. Giovanni in Laterano (“SEPTIMA EFFIGIES”). Da Johann Georg Herwart von Hoenburg, 1608, Thesaurus Hieroglyphicorum28
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L’immagine in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b2300699s.zoom.r= thesaurus+hieroglyphicorum.f3.langFR
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di fantasia e di intuizione – e Kircher ne è convinto – come ci si può meravigliare se il gesuita trovi un messaggio recondito anche in una sequenza di grottesche di sapore antico? Superato questo scivolone, Kircher ha modo di proseguire i suoi studi grazie alla protezione di Peiresc il quale resta convinto, nonostante tutto, che l’opera del gesuita costituisca la via più concreta per risolvere l’enigma della scrittura egizia. Il problema è che i superiori ecclesiastici, sui quali il francese ha una influenza limitata, sembrano aver deciso che il giovane gesuita debba cambiare convento, e tutto quello che Peiresc può fare è di ottenere che, invece che a Vienna dove sembra destinato, Kircher sia inviato a Roma, città ricca di cultura dove potrebbe continuare con profitto le sue ricerche sulla lingua egizia. Peiresc scrive così al nipote di Urbano VIII, il potente Francesco Barberini, e gli illustra tutte le capacità del giovane: [la sua] acutezza d’ingegno che gli hanno fatto penetrare nella scoperta di molti segreti e delle principali lingue della Christianità, [gli] horologii per reflessione delli raggi solari da diversi specchi [dichiarandosi] suo servitore intrinseco, et ammiratore del suo Genio et del suo valore, molto maggiore di quelli che si veggono d’ordinario. Sebbene Peiresc raggiunga lo scopo di ottenere per Kircher il permesso di rimanere a Roma con l’incarico di tradurre il Barachias Nephi, i rapporti fra i due restano quelli che abbiamo già visti, con il francese che fa di tutto per accelerare la pubblicazione della traduzione e con il tedesco che accampa nuove giustificazioni per spiegare i ritardi. Peiresc non sa più cosa fare per convincere Kircher, gli invia tutti i libri che gli sembra possano essergli utili in modo da “farlo sentire obbligato a mantenere la parola che mi ha dato“ anche per “evitare che questo libro possa andare disperso come Kircher ha potuto vedere di persona durante il saccheggio delle città tedesche”29, si offre di pagare tutte le spese di pubblicazione ma da Kircher ottiene solo la promessa che pubblicherà il Barachias
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N.C. Fabri de Peiresc a C. Saumaise (14 novembre 1633) in D. Stolzenberg, ibidem.
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A. Kircher a N.C. Fabri de Peiresc (8 febbraio 1635) in D. Stolzenberg, ibidem. N.C. Fabri de Peiresc a F. Barberini (17 giugno 1635) in D. Stolzenberg, ibidem. 31
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Nephi appena avrà finito di lavorare sul commento ai geroglifici di quattro obelischi a Roma, un trattato che – assicura – è praticamente pronto. Sembra quasi incredibile che, anche a ridosso di questa comunicazione per lui tanto deludente, Peiresc, scrivendo ai suoi corrispondenti, continui a riferirsi a Kircher chiamandolo “ce bon Pere”, mostrando verso di lui un affetto quasi paterno. Ma le delusioni per il francese non sembrano esaurirsi, perché nel febbraio 1635 il gesuita informa il povero Peiresc che egli sarebbe, sì, sul punto di completare la traduzione del Barachias Nephi, ma che è sorto un ostacolo imprevisto in quanto il trattato sembra contenere la descrizione di pratiche magiche illecite30, per cui c’è il rischio che la censura ne possa impedire la pubblicazione. Peiresc è probabilmente vicino alla disperazione e suggerisce di dare alle stampe una versione purgata del trattato, fosse solo per mettere i buoni cristiani sull’avviso dei pericoli contenuti nel trattato, ma Kircher è irremovibile e obbietta che il modo più sicuro per non destare i sospetti della censura ecclesiastica è quello di inserire parti della traduzione in un’opera di ampio respiro. Il che, naturalmente, rimanda la pubblicazione del Barachias Nephi alle calende greche. Kircher, pur non venendo in alcun modo incontro alle richieste di Peiresc, non rinuncia neppure in questa occasione a chiedere una ulteriore raccomandazione presso il cardinal Barberini affinché gli venga concesso un accesso previlegiato alla Biblioteca Vaticana e il francese – inutile dirlo – si affretta a inviare una lettera nella quale si dilunga sui meriti del gesuita e chiede che questi venga autorizzato a portarsi i manoscritti a casa in modo da poterli studiare con maggior agio31. L’infinito tiro alla fune fra il buon Peiresc, che fa tutto quello che è in suo potere per vedere pubblicato il trattato, e Kircher che dimostra di non avere alcuna fretta, si conclude in maniera naturale il 24 giugno 1637 perché Peiresc muore senza avere avuto la soddisfazione di vedere neppure una pagina del Barachias Nephi,
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a parte quella dell’indice che il gesuita gli aveva mostrato qualche anno prima in uno dei suoi tentativi di guadagnare tempo32. Kircher non pubblicherà mai la traduzione del trattato e più di uno studioso si è chiesto se quest’opera sia mai esistita veramente. È certamente sospetto che questo trattato non sia mai stato ritrovato, così come lascia perplessi che il suo contenuto sia a volte proprio quello che serve a Padre Atanasio per supportare la sua interpretazione di alcuni geroglifici. È anche vero, però, che un esperto di cose antiche come Peiresc, che ha visto il trattato con i suoi occhi, ha creduto nel suo valore antiquario per cui è ragionevole pensare che un manoscritto, sia pure di incerta origine, sia esistito realmente anche se forse consisteva solo nella traduzione araba di opere di autori diversi. Quella che è certamente autentica è la passione di Kircher per l’antico Egitto che egli coltiva negli anni fino a diventare una autorità tanto riconosciuta nel campo dell’interpretazione della antica scrittura sapienziale che quando nel 1647, poco dopo la sua elezione, Innocenzo X decide di abbellire Piazza Navona con un obelisco che al momento giace in pezzi lungo la via Appia, non può che rivolgersi all’ormai famoso studioso gesuita. Papa Innocenzo appartiene alla casata Pamphili, il cui palazzo di famiglia si affaccia proprio su Piazza Navona, e il Papa vuole quindi che l’opera sia degna del luogo e decide che, assieme all’obelisco, debba essere realizzata una fontana che costituisca la “mostra”, cioè la parte finale, dell’acquedotto dell’Acqua Vergine. A quanto si dice, Bernini riesce ad assicurarsi la commessa perché ha l’idea di presentare il progetto della fontana alla potente cognata di Papa Innocenzo, Donna Olimpia. Questa, forse persuasa dal fatto che il modello, che lei trattiene, è realizzato in argento massiccio, convince il Pontefice ad affidare l’incarico a Gian Lorenzo Bernini che riesce così a battere il concorrente Borromini. È possibile che questa sia una maldicenza (anche se credibile per chi conosce l’insaziabile voracità di Donna Olimpia) e che il motivo della scelta di Papa Innocenzo sia semplicemente che egli
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Per una storia esaustiva dei rapporti fra Peiresc e Kircher vedi D. Stolzenberg, Egyptian Oedipus: Antiquarianism, Oriental Studies & Occult Philosophy in the Work of Athanasius Kircher (PhD Dissertation, Stanford University, 2004).
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Padre – lo informa il Papa – abbiamo deciso di erigere un obelisco di dimensioni significative e sarà tuo compito dare vita a quelle pietre interpretando quanto lì è scritto. Desideriamo quindi che, in virtù delle capacità che ti sono state concesse dal Signore, tu porti alla luce i segreti e i reconditi misteri racchiusi in quelle figure. Questa è per Kircher la spinta decisiva a portare a termine l’opera sull’interpretazione dei geroglifici sulla quale sta lavorando da più di vent’anni al termine dei quali egli è convinto che il mistero sia stato infine dipanato
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rimane colpito dalla grandiosità del progetto, fatto sta che la fontana realizza un gioiello dell’architettura barocca che riesce a valorizzare l’obelisco che il papa ha osservato a terra quando, appena eletto, si è recato in visita alla chiesa di S. Sebastiano sull’Appia. L’obelisco è quello che Domiziano aveva fatto costruire per esaltare la propria ascesa al trono all’epoca in cui la religione egizia, della quale egli stesso era un fedele, si stava diffondendo a Roma e che aveva posto nell’Iseum, la zona dei templi egizi che si trovava fra gli attuali Collegio Romano e S. Stefano del Cacco. All’inizio del IV secolo Massenzio aveva poi trasportato l’obelisco nel circo che aveva fatto costruire lungo la via Appia in onore del figlio Romolo, deceduto in giovane età, ed è lì che, oramai crollato e rotto in quattro pezzi, lo aveva trovato Papa Innocenzo il quale aveva visto nella riutilizzazione dell’obelisco l’attestazione della centralità di Roma come polo cristiano. L’affermazione della continuità della cultura cattolica con la sapienza degli antichi costituisce inoltre una coraggiosa contrapposizione con la storiografia della Riforma che, al contrario, rappresenta la propria immagine come momento di rottura con il passato. Kircher, massimo cultore della scienza antica, riceve così l’incarico di assistere Bernini nel recupero dei frammenti dell’obelisco, che è molto malandato, e di ricostituirne le diverse parti mancanti. Questo incarico è tanto importante che Padre Atanasio lo racconta a distanza di anni nella sua autobiografia, magari esagerando un po’ la confidenza che il Papa gli concede e arruolandolo fra i sostenitori dell’interpretazione misterica dei geroglifici. Così la racconta Kircher:
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[…] come un filo di Arianna, avvalendoci dell’aiuto della scienza analitica o combinatoria, mediante gli sforzi e le indagini di molti anni, alla fine, guidati e condotti da Dio, abbiamo penetrato gli arcani e gli enigmi dei geroglifici.33 Secondo l’approccio che gli è congeniale, Kircher affronta l’impegno definendo il quadro storico a partire dal momento in cui la religione dei faraoni penetra la cultura romana e cercando di localizzare la zona dove sorgevano i templi egizi a Roma. Il gesuita, affidandosi alle testimonianze di Sesto Rufo, Vitruvio e Varrone, colloca così correttamente l’Iseum a ridosso della Saepta Iulia, il muro che risulta ancora visibile lungo il lato sinistro del Pantheon. Fra i culti egizi, presenti a Roma a partire dal I secolo a.C., era particolarmente diffuso il culto di Iside, dea in grado di influenzare il destino degli uomini, che vide la costruzione di un grande tempio in suo onore nella zona di Campo Marzio, il cosiddetto Iseo Campense. All’esistenza di questo tempio si deve la presenza di alcuni degli obelischi ritrovati a Roma. L’Iseo ebbe alterne fortune per cui fu distrutto e ricostruito diverse volte. Le sue tracce risultarono visibili fino a tutto il Medioevo, quando le ultime 28 colonne superstiti di granito scuro furono utilizzate per costruire la navata centrale di S. Maria in Trastevere. Una volta identificato il luogo, Kircher si cimenta addirittura nella ricostruzione dell’Iseum (fig. 21) che realizza basandosi in particolare sul racconto di Giovenale, secondo il quale il tempio era stato costruito a imitazione del Serapeo di Menfi, per cui, seguendo il modello egizio, il gesuita colloca una statua del bue Apis all’ingresso della zona sacra e due sfingi a guardia del santuario. Sebbene l’incarico che Kircher riceve dal Papa sia quello di consulente di Bernini per quanto riguarda gli aspetti egittologici dell’opera, risulta evidente che egli svolge, in aggiunta, una funzione di primo piano nella realizzazione della grande macchina allegorica costituita dalla fontana: l’insieme degli animali che emergono dalla caverna che costituisce il basamento, il leone che si abbevera sotto una palma, il cavallo rampante, il delfino, il serpente sulle
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A. Kircher (1650) Obeliscus Pamphilius, hoc est, interpretatio Nova…, Roma, Typis Ludovici Grignani.
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Figura 21. Ricostruzione immaginaria dell’Iseo e, nella parte in basso, sua possibile localizzazione. Da A. Kircher (1666) Obelisci Aegyptiaci nuper inter Isaei Romani rudera effossi interpretatio hieroglyphica Athanasii Kircheri e Soc. Iesv, Roma, Ex Typographia Varesij
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rocce e l’armadillo a forma di drago si trovano rigorosamente elencati nei resoconti del gesuita e ricordano da vicino l’Arca di Noè, il cui progetto è probabilmente già nella sua testa.
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L’opera che Innocenzo X commissiona a Bernini rientra nelle magnifiche attività di abbellimento che da diversi anni coinvolgono la città di Roma e che vengono realizzate quasi miracolosamente nonostante la realtà economica dello Stato sia di seria precarietà. I pontefici che si si succedono dopo il breve periodo di rigore imposto da Sisto V ritengono che sia un legittimo diritto quello di rifarsi delle spese sostenute per la propria elezione previlegiando l’arricchimento delle proprie famiglie. Per molto meno stanno scoppiando rivolte in tutta Europa: dopo quella inglese del 1640 e quella di Napoli del 1647, ci sono quelle a Palermo, a Granada e in Francia del 1648 e quelle a Cordova, a Siviglia e in Svizzera del 1648. Ma a Roma, dove l’autorità del principe coincide con quella religiosa, la crisi economica si risolve in una specie di miracolo finanziario basato sui debiti di una istituzione, la Chiesa, che essenzialmente presenta come garanzia a chi le presta i propri denari la sua stessa esistenza millenaria34. A quanto sembra la Fontana dei Fiumi non è presa bene dal popolo di Roma che, per pagarla, si trova a dover sopportare nuove tasse particolarmente odiose quali quelle sul pane e sul vino e protesta con la voce della statua di Pasquino che, come in tutti i momenti difficili, riprende a parlare sia adattando alla situazione una delle tentazioni che Nostro Signore dovette sopportare nel deserto “Fa’ che queste pietre si trasformino in pane!”, sia con feroci pasquinate “Noi volemo altro che guglie e fontane, pane volemo, pane, pane, pane!”. Anche il tentativo dei gesuiti che, per festeggiare lo scoprimento delle statue dei quattro Fiumi decidono di effettuare al Collegio Romano una distribuzione straordinaria di pane, non migliora l’umore popolare giacché, nella calca che ne segue, si verificano morti e feriti, tanto che, quando nel giugno del 1651 c’è l’inaugurazione finale della fontana, questa viene protetta, per prudenza, da uno stuolo di gendarmi per impedire che la popolazione la riempia di rifiuti, tanta è la collera che si è andata accumulando35. Il ruolo che Kircher svolge nella realizzazione della fontana è certamente invisibile al popolino e, nonostante le proteste, egli, 34
E. Lo Sardo (1999) Iconismi e Mirabilia, Roma, Edizioni dell’Elefante. G. Gigli (1608-1679) Diario Romano, Riproduzione anastatica 1994 a cura di M. Barberito, Roma, Colombo ed. 35
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come maestro di cento arti, può portare tranquillamente a compimento l’opera che Papa Innocenzo gli ha affidato pubblicando due trattati sull’interpretazione dei geroglifici, l’Obeliscus Pamphilius del 1650 e il ben più corposo Oedipus Aegyptiacous del 1652. Come sempre i frontespizi di queste due opere costituiscono quasi un riassunto di quanto, in maniera a volte ripetitiva, è raccontato all’interno. Il primo di questi è riprodotto nella figura 22, dove si vede l’obelisco abbattuto dalla personificazione del Tempo con una grande falce nelle mani con la Fama, rappresentata da un angelo in catene, a significare l’oblio nel quale sono caduti i geroglifici che si vedono scolpiti sull’obelisco. Il dio Mercurio, che arriva in volo, indica i geroglifici a una figura alata femminile che, alla pagina “Athanasius Kircher” del libro della conoscenza, prende nota di quanto il dio va spiegando. La figura scrivente è appoggiata su quattro ponderosi volumi sulla Sapienza degli Egizi, sulla Matematica Pitagorica, sulla Filosofia dei Greci e sulla Astrologia dei Caldei, che indicano le discipline da apprendere per affrontare lo studio della scrittura geroglifica. Un putto alato che fa il segno del silenzio rappresenta Arpocrate che poggia il piede su un coccodrillo, riferimento all’oriente e alla difficoltà dello studio. Nel frontespizio dell’ Oedipus Aegyptiacous si vede Kircher nelle vesti di Edipo che interroga una sfinge dal sorriso provocatorio ma rassicurante. Nella parte alta dell’immagine si vedono due figure angeliche che portano due nastri praticamente con le stesse parole che compariranno in altre opere del gesuita Ragione, senso ed esperienza, a indicare l’atteggiamento costante che deve avere lo studioso di fronte ai problemi che la natura gli prospetta. Le due figure sorreggono un libro che indica le sedici lingue utilizzate dal gesuita nei suoi studi. Sotto il libro si vedono dei segnalibri che riportano le tradizioni culturali alle quali il gesuita si è rifatto, la Sapienza degli Egizi, la Teologia dei Fenici, l’Astrologia dei Caldei, la Cabala degli Ebrei, la Magia dei Persiani, la Matematica dei Pitagorici, la Mitologia, la Filologia dei Latini, la Teosofia dei Greci che indicano lo studio necessario a penetrare i misteri della conoscenza antica. I riferimenti a una tale quantità di culture diverse, il richiamo al senso e all’esperienza, sono indizi sufficienti a capire che quando si parla di geroglifici, secondo padre Atanasio, non si deve puntare a una traduzione parola-per-parola perché si sa che
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La fine dei cieli di cristallo Figura 22. Frontespizio dell’Obeliscus Pamphilius, hoc est, interpretatio Nova et hucusque intentata Obelisci Hieroglyphici… (1650)
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D’altra parte non esiste ancora una stele di Rosetta per sperare in una traduzione obbiettiva del messaggio e l’unica base della quale Kircher dispone per interpretare l’antica scrittura sapienziale non può che essere quanto si conosce (o quanto si crede di conoscere) sulla cultura egizia. La tecnica che il gesuita concepisce è costituita da quattro passi successivi. Il primo è quello di organizzare le immagini secondo diverse tipologie: c’è quella animale, che è la più ricca e contiene leoni, colombe, avvoltoi, coccodrilli, cani, serpenti e scarabei; c’è poi la tipologia vegetale con foglie, giunchi, loti ecc. Esistono poi le tipiche forme miste con uomini con teste di animali e quelle geometriche con croci, sfere, triangoli e quadrati. Il secondo passo consiste nell’organizzare le immagini elementari qui elencate in una lista alla quale Kircher associa un parallelo elenco di significati immediati dell’iconismo. Il passo successivo è di collegare a ogni immagine altri significati, vuoi sulla base di considerazioni filologiche o, più frequentamente, su basi di semplice deduzione logica. Per esempio l’immagine del leone è associata al concetto di un dio perché quando il sole entra nel segno del Leone, il Nilo esonda portando benefici alla terra d’Egitto37. Il quarto passo, quello decisivo e largamente basato sull’intuizione, è quello di attribuire un significato ai geroglifici composti: una sfera, per esempio, può indicare “il mondo” ma, se la sfera si trova sotto la figura di un serpente, il significato diventa “mondo animato”. Il fatto che uno stesso segno possa assumere diversi significati non è un difetto del metodo ma è, anzi, una sua caratteristica positiva se l’obbiettivo è di arrivare a trasmettere un concetto che proviene da Dio e che, come tale, deve contenere le molteplici possibilità del creato. Il punto è che nell’interpretazione c’è l’intervento dell’interprete che, nel caso di Padre Kircher, è carico di conoscenze, convinzioni, certezze, esperienze che, tutte, assumono un ruolo autonomo nella decodificazione del testo. 36
A. Kircher (1650) Obeliscus Pamphilius, hoc est, interpretatio Nova…, Roma, Typis Ludovici Grignani. 37 A. Kircher, ibidem. In C. Marrone (2002) op. citata.
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presso i sacerdoti egizi tutto era mistero [per cui] bisogna cercare l’interpretazione che si cela sotto gli involucri dei simboli.36
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Viene naturale chiedersi se, date queste premesse, ci sia una speranza di riuscire a ottenere un’interpretazione che abbia qualcosa a che fare con ciò che gli autori del messaggio abbiano inteso scrivere e, in effetti, la stessa domanda se la deve porre anche Padre Kircher se sente ripetutamente la necessità di ringraziare il Signore, la Madonna e perfino l’Angelo Custode che lo hanno ispirato fino a trovare una soluzione al problema che egli ha di fronte. Kircher, coerentemente alla tecnica di lettura che propone, è convinto che esistano almeno quattro maniere, o meglio, quattro livelli per interpretare quanto è raccontato da un geroglifico egizio: il primo livello è quello disponibile alle anime semplici (che in effetti vengono chiamati idioti) i quali, dando un’interpretazione letterale alle storie lì raccontate, non fanno altro che dar vita alla superstizione e all’idolatria; segue il secondo livello che è quello di coloro che aspirano a penetrare i misteri mistici, anche se non dispongono di mezzi intellettuali adeguati. Il terzo livello di interpretazione è quello di coloro che nelle storie narrate identificano le regole dell’Etica e della Teologia morale. Infine ci sono gli uomini che, partendo dallo studio e dalla conoscenza, si elevano fino a mettersi in grado di escogitare una rappresentazione di quella misteriosa sapienza egizia che ci giunge in forma di frammenti38. È la convinzione di essere finalmente in grado di mettere assieme i frammenti di sapienza egizia che sono giunti fino a noi (oltre alla richiesta di Papa Innocenzo) che dà a Kircher la spinta necessaria per cimentarsi per la prima volta nell’interpretazione del lungo testo geroglifico che appare sulle quattro facce dell’Obelisco di Piazza Navona. Naturalmente il gesuita non può sapere che il testo recita poco più che “All’imperatore Domiziano amato dagli dei”39 ma probabilmente, anche se lo sapesse, non rinuncerebbe a fornire la sua soluzione, convinto che non sia possibile che il testo di un geroglifico, sopratutto al suo livello più profondo, possa essere di una tale assoluta banalità.
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A. Kircher, ibidem. Per una traduzione puntuale vedi O. Marucchi (1898) Gli Obelischi egizi di Roma, Roma, Loescher&C.; E. Iversen (1968) Obelisks in Exile, I; The Obelisks of Rome, Copenaghen, G.E.C. Gad. 39
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Alla Divinità Triforme Hemfta, Mente prima motrice di tutte le cose, alla Mente amica del mondo, allo spirito pantamorfo; al trino, all’eterno, che non ha né principio né fine; all’origine degli Dei secondi. Questo Nume, dalla sua Monade solitaria, come diffuso dal centro e dall’apice nella ampiezza della piramide mondana, grazie alla sua bontà per la prima volta si offrì al Mondo intellegibile degli Dei secondi che presiedevano all’oriente; questi,insigniti dalle caratteristiche della divinità triforme, sono nominati signori del triplice Mondo. Il più elevato nell’ordine e Genio del suo Coro trasferisce al mondo inferiore, con influenza continua, la verità trasmessa da Hemfta attraverso i Geni Asecli, che sono obbedientissimi ai suoi ordini. Da questo proviene la varietà di tutte le cose, ora nascenti, ora morenti per rinascere nuovamente, origine nel mondo inferiore; e così si compie la felicità umana, modello per i sacerdoti affinché lo ripropongano nei loro riti. Hemfta, dal centro della sua monade all’interno della diade, e da qui attraverso la triade, sarebbe a dire le Menti Angeliche nella triade del mondo, cioè il mondo sensibile immerso nel mondo sidereo: [Hemfta] comunicò se stesso al supremo Osiride che presiede al mondo solare. Questi, anima del mondo sidereo, grazie alla virtù trasmessa [da Hemfta], guida e motore dei cieli, con il sostegno degli dei visibili [i pianeti] vivifica, feconda e arricchisce l’Universo insignito del carattere del Nume Triforme. La monade diffusa attraverso la diade nella triade e da questa nella tetradre, che sarebbe il mondo elementare, propaga in esso, mediante il potente Agathodemone la sua trina diffusione e potenza nel triplice aspetto del mondo elementare, ossia i Mondi Ilei; e da qui discesa nella Sfera della generazione distinta nel quintuplice ordine degli Enti, stimola così qualunque cosa alla generazione, alla fecondità e al rigoglio. Infine, dopo aver soddisfatto, il suo impulso circolare di bontà,dall’infima mescolanza dei mondi materiali ritorna nella sua monade solitaria quale Nume da venerarsi e adorarsi da parte di tutti con culto e onore divino.40
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A. Kircher (1650) op. citata, trad. G. Catalano.
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La traduzione di Kircher è quindi parecchio più lunga. L’interpretazione della faccia cosidetta orientale, per esempio, recita:
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Il lato “occidentale” invece, secondo Kircher, riporta: La fine dei cieli di cristallo
Alla Divinità Triforme Hemfta, Mente prima motrice di tutte le cose, alla Mente feconda di idee, allo spirito dalle mille forme; al trino, all’eterno, che conosce il principio e la fine; all’origine degli Dei secondi. Questo Nume, dalla sua Monade solitaria, come diffuso dal centro e dall’apice verso l’ampiezza della piramide mondana, grazie alla sua bontà si offre al Mondo intellegibile dei Geni secondi che presiedevano all’occidente, supremi ministri tutelari al comando della guida più alta; questi, insignito dalle caratteristiche intrinseche dell’essenza dell’Archetipo, diffonde la virtù, comunica con i Geni secondi del Sole-Luna, che dirottano l’influsso acquisito verso l’ordine di grado inferiore del mondo sottostante nella parte occidentale, secondo varie modalità istruiscono sui simboli, sull’atteggiamento da adottare nei sacrifici propiziatori,come disperdere le avversità e propiziarsi le forze benigne , come è necessario che sia. Da questi la virtù si trasferisce al mondo sidereo, dove il Dio del Sole Osiride, percettibile dal mondo, feconda tutto con le sue virtù; (Osiride) vera anima sensibile del mondo, guida, governatore, auriga dei cieli indica la via, imprime il moto, dona la vita, arricchisce e rende fertili tutte le cose attraverso il carattere impresso dal dio triforme; trasferisce poi la virtù partecipata al mondo elementare e in esso diffonde verso occidente. In questa parte del mondo elementare, Anubis e Iside, ricevono dal cielo un influsso concatenato, provvedono con cura e protezione alle rimanenti imprese, onde seguono la fertilità del Nilo, la beneficenza e la benevolenza degli Dei e di conseguenza l’abbondanza di tutto ciò che è necessario,complemento per la felicità degli uomini, si diffonde in Egitto.41 Le altre due facce dell’obelisco esprimono simili concetti i quali, con una chiara suggestione neoplatonica e magica, fanno riferimento alla creazione di tutto l’Universo da parte di una divinità trina che utilizza gli dei minori per trasmettere il suo influsso positivo al mondo materiale.
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A. Kircher (1650) op. citata, trad. D. Tecardi.
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Scavandosi nell’orto dei Reverendi Padri della Minerva, portò il caso che fosse ritrovato un obelisco, il quale quanto appariva inferiore nella grandezza a tutti gli altri, altrettanto appariva più perfetto e più intero. Al Padre Atanasio Kircher, competente su queste faccende, fu richiesto che ne desse piena contezza; ma capitava che dovendo compiere la sua annuale missione alla Madonna della Mentorella, lasciò a me l’incarico che, appena fosse stato completamente scoperto, ne inviassi un disegno a Tivoli, dove egli si sarebbe fermato. Accadde che solamente tre lati si potessero disegnare, per cui essendo io impaziente di non ritardare la missione che mi era stata affidata, inviai copia soltanto di quelli. Nella risposta fattami dal Padre, con grande meraviglia di chi vide, e di molte persone di dottrina non ordinaria, mi mandò il quarto lato, disegnato di pro-
I geroglifici e il sogno della sapienza universale
Non c’è dubbio che ricavare alcune pagine di traduzione da una dedica di quattro parole faccia sospettare una punta di lucida pazzia e Padre Kircher, quasi che sia consapevole dello scetticismo che potrebbe aleggiare attorno alla sua fatica, per quasi quattrocento pagine si preoccupa di indicare le tecniche che egli utilizza nell’interpetazione dell’antica scrittura sapienziale e, in fondo a un paio delle sue “traduzioni”, raccomanda esplicitamente al lettore di “esaminare le pagine precedenti e i singoli geroglifici“ per comprendere il percorso che lo ha condotto a quel risultato. Naturalmente non basterebbero questi inviti a dare credibilità alla sua interpretazione, ma di lì a qualche anno, nel 1665, capita un evento che ancora oggi incuriosisce gli studiosi e che, aumentando la sua credibilità, riempie di orgoglio Padre Atanasio. Capita quindi che nell’orto dei Padri Domenicani di S. Maria sopra Minerva, a ennesima riprova che quello era il luogo ove sorgeva l’Iseo Campese, venga riportato alla luce un obelisco di piccole dimensioni. Padre Kircher, che sta al Collegio Romano, a 100 metri di distanza, è naturalmente incuriosito dal ritrovamento ma è sul punto di partire per un suo annuale ritiro religioso e lascia a un suo allievo l’incarico di tenerlo informato. Il resto della storia viene raccontato proprio da questo collaboratore che si chiama Giuseppe Petrucci, il quale, nel suo racconto (che è in italiano nel testo originale), riesce a trasmettere tutto l’entusiasmo e l’ammirazione che ha per il suo Maestro:
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prio pugno. A vista cotanto inaspettata, stupefatto e curioso corsi di subito a vedere se corrispondeva con l’originale, e rinvenni essere il medesimo contenuto, senza segno di variazione alcuna, anzi in quei luoghi done non v’erano scolpite figure, Egli supplì, con espormi ciò che mancava […] 42 In poche parole Kircher riesce a indovinare l’iscrizione geroglifica sulla quarta faccia dell’obelisco semplicemente conoscendo le tre rimanenti: se qualcuno non fosse convinto che Padre Atanasio comprende perfettamente il significato dei testi in geroglifico, non si capisce di quale altra prova avrebbe ancora bisogno per esserlo! Proprio per questo desta qualche sorpresa il resto del testo di Petrucci che continua ricordando che su questo episodio […] vi fu più di uno che mostrò incredulità. Ma l’odio rende caliginoso l’intelletto […] e se costoro avessero visto gli elogi che Padre Kircher ha ricevuto e le testimonianze sulla sua capacità di ricostruire i frammenti dell’Obelisco Panfilio, non avrebbero il coraggio di aprire bocca […] Non è questa la prima volta che Kircher si deve difendere dallo scetticismo e dalle maldicenze che, a dispetto di tanti incontestabili riconoscimenti, lo hanno accompagnato per tutta la vita. Di fatto Padre Atanasio non sembra prestare molta attenzione alle critiche e sono piuttosto i suoi collaboratori che difendono la sua immagine raccontando una quantità di episodi e di circostanze che mostrano di quanto rispetto e di quanta considerazione il gesuita sia circondato fra i suoi giovani allievi. C’è Kaspar Schott, per esempio, che ricorda la conoscenza che il suo maestro ha delle lingue orientali a livello tale da poter parlare con greci, ebrei, arabi e stranieri dall’Asia e dall’Africa nella lingua di ognuno di questi. In particolare Schott sembra preoccuparsi di smontare l’accusa di mancanza di senso critico che alcuni rivolgono al suo maestro e ricorda la meticolosità con la quale egli verifica le sue fonti e come chieda ripetutamente ai suoi allievi di recarsi a verificare l’accura42 A. Kircher (1666) Obelisci Aegyptiaci nuper inter Isaei Romani rudera effossi interpretatio hieroglyphica Athanasii Kircheri e Soc. Iesv, Roma, Ex Typographia Varesij.
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nobile ed erudito arrivò al Collegio Romano da una terra lontana portando una gemma ritrovata ad Assisi durante la costruzione di una chiesa e sulla quale erano iscritti caratteri Greci. Quell’uomo aveva già mostrato la gemma a studiosi di lingua greca in tutta l’Italia e nessuno era stato in grado di comprendere quell’iscrizione. La gemma fu portata così a Kircher il quale, in presenza di Schott, spiegò immediatamente che si trattava
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K. Schott, in A. Kircher (1652) Oedipus Aegyptiacus. Hoc est Vniversalis… Roma, Typographia Vitalis Mascardi.
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tezza con la quale hanno copiato un geroglifico, in modo che le sue interpretazioni dei testi antichi risultino rigorosamente basate sugli originali. Che dire, per esempio, del suo lavoro di ricostruzione delle parti mancanti dell’Obeliscus Pamphilius che, quando furono ritrovati alcuni frammenti, si dovette riconoscere che risultavano identiche agli originali trovati successivamente?43 A seguito di questo ben noto rigore critico – racconta il suo affezionato allievo – si sono rivolti a Kircher decine di antiquari, principi e curiosi che gli hanno sottoposto iscrizioni sia sacre che profane, incisioni su pietre e manoscritti su pergamene, amuleti, lame incise, monete, libri antichi mangiucchiati dagli insetti o rosicchiati dai topi, sempre ottenendo soluzioni illuminanti al problema che il gesuita si è trovato davanti agli occhi. È fuor di dubbio – continua Schott – che Kircher ha tradotto un numero così elevato di documenti che, se si dovessero raccogliereli tutti, occuperebbero ben di più che un singolo volume. Non solo, ma quando è capitato che qualche individuo ha cercato di carpire la buona fede del suo maestro presentandogli qualche falso con scritte inventate, si è dovuto ritirare con la coda fra le gambe perché Kircher si è reso immediatamente conto della frode e ne ha smascherato l’autore. Non c’è dubbio che una lista di elogi tanto appassionati, ancorché sinceri, abbia il sapore di una difesa contro lo scetticismo che, spesso con ironia velenosa, circola negli ambienti della cultura dell’epoca. D’altra parte il gesuita è senza dubbio uomo di infinite risorse che può sempre rivelare delle abilità sorprendenti, come quella volta che un uomo
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di un Amuleto Gnostico. Le lettere andavano lette associandole a numeri e il Padre, presa la penna, immediatamente trascrisse l’interpretazione del contenuto.44 Non che Kircher sia spinto in ogni situazione dal desiderio di esibire la sua enorme cultura, anche se è sempre disponibile a misurarsi nelle sfide più difficili, ma è convinto che il Signore gli abbia fornito l’intelletto per comprendere il mistero della creazione e sente di dover condividere con gli altri la profonda soddisfazione che ne deriva, ed è tanto di guadagnato se questo avviene con un gesto di sicuro effetto scenico come quello di indovinare il contenuto della faccia nascosta dell’obelisco della Minerva, il quale, per una serie di circostanze, sta diventando il più popolare della città. L’interesse per il ritrovamento del piccolo obelisco di granito rosato, infatti, sarebbe probabilmente rimasto limitato alla cerchia degli studiosi di cose antiche se non fosse per il fatto che Papa Alessandro VII, personalmente appassionato di storia egizia, decida di innalzarlo in una piazza romana e incarichi Gian Lorenzo Bernini, che è l’architetto più famoso del momento, di progettarne la base. Questa è per Bernini un’occasione unica perché il progetto è già lì, bell’e pronto da diversi anni, da quando Francesco Barberini, il nipote di Urbano VIII, glielo ha commissionato nel 1632 quando aveva deciso di innalzare un obelisco nel giardino del suo palazzo a Via delle Quattro Fontane. Quando, trent’anni più tardi avviene il ritrovamento dell’obelisco della Minerva, del programma di Francesco Barberini, risultato troppo costoso, sono rimaste solo tre parti: l’obelisco (che rimarrà adagiato a terra nel giardino del palazzo finché non verrà innalzato al Pincio nel 1822), la presenza di Athanasius Kircher (che era stato chiamato a Roma proprio per decifrare l’iscrizione su quell’obelisco) e il progetto di Bernini che consiste in un elefantino sul quale si dovrebbe erigere la stele. Una situazione ideale, tutto sommato, per cui Papa Alessandro accede immediatamente alla richiesta dei Padri Domenicani che l’obelisco venga innalzato nella piazza antistante al loro convento e commissiona a Bernini la realizzazione di un ele-
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K. Schott, in A. Kircher (1652) Oedipus Aegyptiacus. Hoc est Universalis… Roma, Typographia Vitalis Mascardi.
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Con questo nome ci si riferisce a A. Kircher (1666) Obelisci Aegyptiaci nuper inter Isaei Romani rudera effossi interpretatio hieroglyphica Athanasii Kircheri e Soc. Iesv, Roma, Ex Typographia Varesij.
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gante monumento che consiste in un cucciolo di elefante che porta in groppa il piccolo obelisco. Padre Kircher, che ha già dato ampia prova della sua conoscenza dei geroglifici egizi, si occuperà dell’interpretazione delle iscrizioni e del restauro delle parti mancanti, ribadendo così il sodalizio con Bernini, ben collaudato da quando hanno entrambi lavorato sull’obelisco di Piazza Navona. I domenicani, però, ritengono di avere il diritto di esprimersi anche sull’architettura del monumento e, in mancanza di altri argomenti, esprimono dubbi sulla sua stabilità: l’obelisco – sostengono – pesando sulla pancia dell’elefante, rischia di far crollare tutta l’opera. Naturalmente Bernini si ribella a una critica tanto elementare che ignora il fatto che egli stesso ha posizionato l’Obelisco Pamphilio, ben più pesante di questo, sul vuoto della caverna nella Fontana dei Fiumi di Piazza Navona, ma la questione sembra essere diventata di principio e l’Ordine dei domenicani è tanto potente che Bernini, assieme a Papa Alessandro VII, deve cedere e collocare un orribile supporto di pietra sotto la pancia dell’elefantino, sia pure nascondendolo malamente con una gualdrappa appoggiata sulla schiena dell’animale. Si dice che l’architetto si sia vendicato della stupidità dei Padri posizionando l’elefante in modo da rivolgere il posteriore verso il Convento e spostando la coda dell’animale in modo da sottolineare la sua intenzione irriverente, ma è certo che questa polemica rende molto popolare il monumento e, di riflesso, anche la figura di Padre Kircher che sovrintende alla realizzazione del monumento, tanto da anticiparlo nell’Obelisco Alessandrino45 (figura 23). Il frontespizio di questa opera, come sempre nelle opere di Kircher, riassume il contenuto. L’immagine di Alessandro VII che domina l’incisione ha la stessa funzione celebrativa dello stemma della famiglia Chigi, sei monti e una stella, che è collocato sulla cima dell’obelisco. La città esotica, con piramidi e cupole, nella parte destra in basso ha nel frontespizio la funzione di richiamare la sapienza egizia della quale il rudere in primo piano suggerisce la vetustà. Nel monumento della Minerva questo richiamo all’antica sapien-
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za è affidato direttamente alle due scritte che appaiono sul basamento e che sono state dettate personalmente da Papa Alessandro. La prima scritta, che traccia la continuità fra la sapienza egizia e quella cristiana, recita:
Figura 23. Frontespizio dell’Obelisci Aegyptiaci nuper inter Isaei Romani rudera effossi interpretatio hieroglyphica Athanasii Kircheri e Soc. Iesv (1666)
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La seconda scritta, che richiama la forza dell’elefante come simbolo della potenza del papato, riporta: Chiunque tu sia che vedi nell’obelisco le figure scolpite dal sapiente Egitto sostenute dall’elefante, il più forte degli animali, sappi che è proprio di una robusta mente alimentare una solida sapienza. Il paesaggio orientaleggiante del frontespizio introduce al quadro filosofico che è alla base dell’interpretazione del testo geroglifico, così come l’obelisco rappresenta l’azione di Dio su tutto il creato. La fama che l’obelisco acquisisce rende ancora più celebre il coup de théâtre che Kircher aveva realizzato, forse con un po’ di fortuna e certamente con una buona dose di intuizione, disegnando il contenuto della quarta faccia. Con il senno del poi, magari, si rimane un po’ meno sorpresi perché si sa che la funzione di un obelisco era essenzialmente celebrativa, per cui ci si può aspettare che sui quattro lati fossero riportate iscrizioni convenzionali e ripetitive come peraltro Padre Atanasio aveva constatato di persona quando aveva studiato le quattro facce dell’Obeliscus Pamphilius ricavandone quei testi così simili che abbiamo visto. La meraviglia che Kircher vuole suscitare, tuttavia, lo rende quasi un archetipo dello scienziato barocco per il quale lo stupore è il primo stadio della curiosità e quindi costituisce lo stimolo a perseguire la conoscenza. Aver svelato la quarta faccia dell’obelisco, in ogni caso, è la prova – secondo il gesuita – che egli ha raggiunto il livello più elevato di padronanza dei misteri iniziatici che i geroglifici custodiscono e che si propone di trasmettere nell’Obelisco Alessandrino. L’opera è una delle più eleganti fra quelle di Kircher, finemente illustrata e ricca di riferimenti che egli ha utilizzato per l’interpretazione simbolica dei geroglifici e degli stessi obelischi, i quali finiscono con l’assumere essi stessi un significato sapienziale. Mentre la loro forma appuntita, infatti, rimanda all’origine del mondo e a Dio stesso, i quattro lati che si dipartono dalla cuspide rappresen-
I geroglifici e il sogno della sapienza universale
Questo antico Obelisco, monumento della Pallade Egiziana, scavato dalla terra ed eretto nella piazza già di Minerva, e ora della madre di Dio, Alessandro VII dedicò alla divina Sapienza nell’anno della cristiana salvezza 1667.
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tano la natura che si diversifica nei vari genera et species. Il significato è quindi che l’influsso di Dio passa dal mondo archetipico al mondo intellettuale al mondo delle stelle fino al mondo degli elementi46. La storia umana che Kircher tratteggia nell’Obelisco Alessandrino parte dai faraoni e, passando per gli imperatori romani, arriva fino ai papi, quasi a sottolineare la continuità che esiste fra il potere imperiale e quello religioso e, estensivamente, fra gli autori dei geroglifici ed egli stesso che si appresta a interpretarli. È questa fiducia di essere fondamentalmente in possesso della chiave interpretativa della scrittura egizia che, nelle sue ricerche, porta il gesuita a ignorare gli elementi che non coincidono con quanto egli presume e a sovrainterpretare i ritrovamenti che supportano le sue ipotesi, facendo in modo, in ultima analisi, che i suoi pregiudizi prevalgano sul dato. Per esempio per Kircher è imprescindibile che nella cuspide, visto il suo significato che rimanda all’origine del mondo, appaia il nome del nume sovramondano, che secondo il gesuita è rappresentato dallo scarabeo sacro con le ali aperte e che nel Pamphilius ha chiamato la Divinità Triforme Hemfta, Mente prima motrice di tutte le cose. Il fatto è che il segno dello scarabeo non compare affatto nell’Obelisco Alessandrino e Padre Atanasio, piuttosto che accettare il fatto, conclude che è vero che il geroglifico non c’è ma che, come segnala la scritta in basso a sinistra della figura “Obeliscus imperfectus est”, l’intenzione dell’autore era di scolpirlo e ci sarebbe stato se solo l’obelisco fosse stato terminato. Come ulteriore esempio del pregiudizio che spesso prevale sul dato, la figura 24 mostra la differenza fra l’immagine dell’obelisco come è stato ritrovato e quella che Kircher utilizza per la sua interpretazione. Nella parte di sinistra della figura è rappresentata la facciata orientale dell’obelisco, in quella di destra appaiono rispettivamente la facciata meridionale, settentrionale, orientale e occidentale dell’obelisco secondo la ricostruzione di Kircher. Da notare che nella faccia orientale ricostruita appare al centro un’ellisse che non compare nell’immagine di sinistra, ma la cui esistenza viene dedotta dal fatto che il segno appare nella faccia sud. La “ricostruzione” avviene per deduzione logica, in quanto Kircher
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H. Pfeiffer (1986) in Enciclopedismo in Roma Barocca, Marsilio editore.
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Figura 24. Sinistra: facciata orientale dell’Obelisco Alessandrino. Destra: ricostruzione dei geroglifici delle quattro facciate secondo Kircher. Da A. Kircher (1666) Obelisci Aegyptiaci nuper inter Isaei Romani rudera effossi interpretatio hieroglyphica Athanasii Kircheri e Soc. Iesv, Roma, Ex Typographia Varesij
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ignora che l’ovale rappresenta il nome del faraone che è stato scalpellato via in epoche successive all’edificazione originale. L’opera di cancellazione risulta approssimativa perché il nome del faraone risulta ancora visibile parzialmente sulla faccia occidentale. Le figure che rappresentano i venti sulla base dell’obelisco sono semplici decori che non esistono nel monumento. Con queste certezze il rischio di travisare il messaggio, come in effetti capita, è sempre presente, ma sarebbe sbagliato pensare che Kircher non faccia quello che a lui appare il massimo sforzo per appoggiare la sua interpretazione su elementi obbiettivi. Anzi, il gesuita tenta di applicare alle iscrizioni sul nuovo obelisco le rego-
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le che ha già esposto nella prefazione nell’Obeliscus Pamphilius e si mette all’opera con nuova lena e con una punta di modestia, per lui abbastanza inusuale, e scrive: […] finalmente diamo inizio con ordine all’interpretazione dei geroglifici contenuti nell’Obelisco, sotto l’auspicio felice del Nume divino. In essa ci applicheremo con la grazia divina delle luci del Padre, così da non tralasciare nulla per quanto minuto e esile, che non sia spiegato, e una volta spiegato lo correderemo di prove sostenute dalle autorevoli garanzie desunte dalla dottrina di Dio Creatore. Il Lettore comprenderà subito che io non ho accondisceso a semplici congetture, come certuni potrebbero immaginarsi ma ho connesso e combinato così felicemente, se non m’inganno, questa dottrina degli Egizi, ricavata dai monumenti degli antichi autori più stimati e dispersa dal succedersi dei tempi che ci sembra di aver ricostruito la desiderata catena di questo contesto geroglifico […] 47 Sono queste regole che lo portano a interpretare la frase: Oro risplendente che fa fiorire i due paesi, figlio del Sole e del suo fianco che l’ama, Uahabra da Neit nella sede dell’ape nel basso Egitto, amato, datore di vita come il sole in eterno 48 che è la scritta con la quale si celebra il faraone Uahabra sul lato nord dell’Obelisco Alessandrino, con la seguente “traduzione”: Hemphta, lo spirito supremo archetipo, infonde la sua virtù e i doni nell’anima del mondo siderale, cioè lo spirito solare a lui soggetto, da dove proviene il moto vitale al mondo materiale o elementare, assieme alla abbondanza di tutte le cose e la varietà delle speci. Dalla fruttificazione del bacino di Osiride nel quale, attratto da qualche meravigliosa simpatia, fluisce senza sosta, forte del suo stesso duplice dominio. Chenosiris che tutto
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A. Kircher (1666) op. citata, trad. G. Catalano. O. Marucchi (1898) Gli Obelischi egizi di Roma, Roma, Loescher & C, in C. Marrone, op. citata. 48
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Non è tanto l’inesistente aderenza al testo reale che qui colpisce, quanto l’intenzione di voler continuare a interpretare testi geroglifici anche quando il contenuto sapienziale non sembra poi così profondo. È probabile che Padre Kircher, in un mondo in cui la scienza moderna si afferma inesorabilmente a dispetto delle resistenze dei tribunali, dei roghi e delle Inquisizioni, si veda costretto ad aggrapparsi all’autorità degli antichi anche quando questa è poco più che un fantasma. Non c’è dubbio che egli rappresenti il vecchio, il mondo che sta per tramontare definitivamente, ma che porti, nonostante tutto, il proprio contributo al mondo che sta per nascere. La questione dell’interpretazione dei geroglifici è emblematica: le soluzioni che Padre Kircher propone, tanto ideologiche quanto fantastiche, contengono tuttavia quelle intuizioni, come il riferimento al copto e alle lingue che derivano dall’egiziano arcaico, che permetteranno la reale traduzione quando la stele di Rosetta sarà disponibile. Kircher supera quindi l’idea di Ficino e di Pico della Mirandola di trovare le verità trascendenti affidandosi a pratiche esoteriche e si veste dei panni dell’antiquario curioso che utilizza tutte le conoscenze che gli derivano dalla sua attività di studioso per la decifrazione delle più stupefacenti descrizioni antiche.
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vede, guardiano dei sacri canali che costituiscono la natura umida nella quale consiste la vita di tutte le cose. Il buon demone Ofione, per ottenere i cui favori e la propagazione della vita viene consacrata questa tavola, per la benevolenza di questo e con l’assistenza dell’umido demone del divino Osiride Agatho, le sette torri dei cieli e la fortezza dei pianeti sono protetti da ogni avversità. Perciò a questo fine la sua immagine deve essere mostrata intorno nelle cerimonie e nei sacrifici. La mano sinistra della Natura o la fonte di Ecate, o la circolazione, cioè il respiro della Natura, evocato attraverso i sacrifici. Attratto da questi il demone Polimorfo diffonde la generosa varietà delle cose nel mondo di quattro nature. Gli ingannevoli trucchi di Tifone restano sconfitti quando la vita felice delle cose viene conservata, per questo motivo porta i seguenti pentacoli o amuleti giacché sono costituiti sulle sue basi mistiche. Perciò essi sono potenti per ottenere tutte le buone cose di una vita piacevole.
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I Cieli di cristallo e i gironi dell’Inferno Mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie G. Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena
A 70 anni di età Galileo è provato nel fisico ma sta lavorando al suo ultimo saggio, Discorsi e dimostrazioni attorno a due nuove scienze, che oggigiorno viene considerato il capolavoro fra le sue opere scientifiche. Ci sono buoni motivi per ritenere che in quei giorni il pensiero deve essergli ritornato al suo periodo giovanile quando, subito dopo la Bilancetta, aveva condotto uno studio sulla forma e le dimensioni dell’Inferno di Dante che gli era stato richiesto dalla Accademia Fiorentina e che sarebbe risultato importantissimo per la sua carriera accademica. L’Accademia Fiorentina, assieme a quella del Disegno, era l’istituzione che nella Firenze della seconda metà del ‘500 riuniva gli studiosi più in vista della città. Ambedue le Accademie erano state fondate dal Duca Cosimo I con il compito specifico di glorificare la storia della città legandone il nome a quello della famiglia de’ Medici e si può quindi immaginare l’emozione che avrà provato il giovane Galileo quando l’Accademia Fiorentina lo ha invitato a tenere nel dicembre del 1588 “Due lezioni circa la figura, sito e grandezza del Inferno di Dante”. La questione, che si trascinava da oltre un secolo, riguardava le dimensioni dell’Inferno come si possono dedurre dall’analisi della Divina Commedia, ma era sconfinata al livello di difesa della fiorentinità di Dante ed era quindi entrata nella sfera di competenza dell’Accademia Fiorentina. Probabilmente non è un caso che la prima persona che si era posta la domanda di quanto realistica fosse la costruzione poetica di Dante fosse stato un architetto, il
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giovane Filippo Brunelleschi, il quale, come testimonia Giorgio Vasari, “diede ancora molta opera in questo tempo alle cose di Dante, le quali furono da lui bene intese circa i siti e le misure”. Il problema assumeva una particolare rilevanza a causa del mutamento della percezione dello spazio e della sua rappresentazione che nel ‘400 stava avvenendo a Firenze e che permetteva di affrontare la lettura dell’Inferno di Dante attraverso un’ottica diversa da quella unicamente religiosa e morale che era stata disponibile fino a quel momento e consentiva al lettore la raffigurazione realistica dei luoghi dell’aldilà. Per questo motivo la prima edizione fiorentina della Divina Commedia, celebrata dalla dinastia dei Medici come una riappropriazione della figura di Dante da parte della città, vede comparire all’interno del Proemio del commento di Cristoforo Landino1 un paragrafo dedicato al “sito, forma et misura dello ‘nferno et statura de giganti et di Lucifero”, nel quale si fa riferimento agli studi di Antonio di Tucci Manetti, amico di Brunelleschi e suo biografo. Nel 1544 era poi apparsa un’edizione della Commedia con un commento di Alessandro Vellutello, lucchese di nascita, il quale nella Descrittione de lo inferno ribaltava le conclusioni di Landino accusandolo apertamente di scarsa aderenza al testo di Dante2. Questa edizione, non a caso, era stata stampata a Venezia e risultava quindi un esplicito disconoscimento dell’autorità di Manetti e di tutta l’Accademia Fiorentina, della quale Manetti era membro, nell’interpretazione dei testi danteschi. È in questo quadro che a Galileo viene affidato il compito di tutelare il prestigio dell’Accademia difendendo le ragioni di Manetti che a questo punto erano diventate le ragioni di tutta la città di Firenze. Galileo, nonostante sia poco più che un ragazzo di nemmeno 25 anni, affronta il compito con discreta abilità, iniziando la prima lezione con un esame imparziale della tesi di Manetti (esposta da Landino) contrapposta a quella di Vellutello: Due sono che più diffusamente ne hanno scritto: l’uno è Antonio Manetti, l’altro Alessandro Vellutello, ma però questo da quello 1 C. Landino (1481) Comento sopra la Comedia, Firenze, Nicolò di Lorenzo della Magna. 2 A. Vellutello (1544) La Comedia di Dante Aligieri con la nove espositione di Alessandro Vellutello, Venezia, Francesco Marcolini da Forlì.
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Tuttavia, mentre procede nell’analisi, il tono diventa vieppiù sarcastico verso le argomentazioni del lucchese: […] e questa è l’invenzione che tanto è piaciuta ad esso Vellutello, che l’ha fatto ridersi del Manetti ed insieme di tutta l’Accademia Fiorentina, affermando, l’Inferno di esso Manetti esser più tosto una fantasia ed un trovato suo e degli altri Accademici, che cosa che punto sia conforme all’intendimento di Dante […] Fino a ridicolizzarle completamente alla fine della seconda giornata: Non molto importa al principale intendimento nostro, che è stato di dichiarare il sito e figura dell’Inferno di Dante, ed insieme difendere l’ingegnoso Manetti dalle false calunnie ingiustamente sopra tal materia ricevute, e massime perché non lui solo ma tutta la dottissima Academia Fiorentina pungevano, alla quale per molte cagioni obligatissimo mi sento. Con grande soddisfazione, si immagina, dell’uditorio fiorentino. Sfortunatamente, in questa esposizione, Galileo si fa tradire probabilmente dalla sua voglia di compiacere l’uditorio e cade in una trappola – è il caso di dirlo – infernale. In poche parole si tratta di questo: l’inferno di Manetti ha dimensioni precise che è facile calcolare se si hanno presenti tre elementi 1) che dopo la sua ribellione Lucifero fu precipitato fino al centro della Terra, creando nella sua caduta un cono, 2) che la città di Gerusalemme è posta al centro della base del cono, 3) che l’ingresso dell’inferno è posto, in analogia a quanto immaginato da Virgilio, dalle parti di Cuma (fig. 25). Galileo può così passare a individuare la posizione dell’Inferno […] immaginiamoci una linea retta che venga dal centro della grandezza della terra sino a Ierusalem, ed un arco che da Ierusalem si distenda per la duodecima parte della sua maggior circonferenza […] se ci immagineremo una buca in forma di conica superficie […] questa è l’Inferno. E da questo discor-
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assai diversamente, e l’uno e l’altro molto oscuramente, non già per loro mancamento, ma per la difficoltà del suggetto.
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La fine dei cieli di cristallo Figura 25. Schema dell’inferno di Dante secondo l’interpretazione di Antonio Manetti riportata da Girolamo Benivieni nella cosidetta “Giuntina”3
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D. Alighieri (1506) Comedia, Commento di Girolamo Benivieni, Filippo Giunti, Firenze.
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E poi a determinarne le dimensioni […] facendone il conto secondo le cose dimostrate da Archimede ne i libri della sfera e del cilindro, troveremo che il vano dell’Inferno occupa qualcosa meno di una delle 14 parti di tutto l’aggregato […] E, in particolare, a determinare le dimensioni della base del cono rovesciato e nella sua sboccatura, che è il cerchio attorno a Ierusalem, è altrettanto per diametro, per ciò che all’arco della sesta parte del cerchio gli è sottesa una corda uguale al semidiametro. Il giovane pisano, a questo punto, ritiene di avere in mano gli strumenti per calcolare lo spessore di crosta terrestre che sovrasta il grande pozzo e, assumendo che gli otto scomparti dell’Inferno di Dante siano tutti delle stesse dimensioni, giunge alla conclusione che il guscio dell’Inferno ha un raggio di 3.245 miglia, pari al raggio della Terra, con uno spessore di 405 miglia. Sin qui il ragionamento fila. La questione sorge perché questo Inferno è quasi 10 volte più profondo di quello che Vellutello ricava dalla sua analisi del testo dantesco, per cui Galileo si vede costretto a difendere la struttura di quello di Manetti anche se, come qualcuno sospetta, lo spessore della volta potrebbe non essere sufficiente a sostenersi senza crollare: Qui ci potrebbe essere opposto che né l’Inferno si deve credere esser così grande come il Manetti lo pone; essendo che, sì come alcuni hanno sospettato, non par possibile che la volta che l’Inferno ricuopre, rimanendo sì sottile quant’è di necessità se l’Inferno tanto si alza, si possa reggere, e non precipiti e profondi in esso Inferno […] A questa obiezione Galileo risponde:
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so ne aviamo, prima, la figura; secondo, il sito, essendo talmente posto, che il suo bassissimo punto è il centro del mondo, e la base o sboccatura viene verso tal parte della terra, che nel suo mezzo racchiude Ierusalem […]
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[…] che tal grossezza è suffizientissima: perciò che, presa una volta piccola, fabricata con quella ragione, se arà di arco 30 braccia, gli rimarranno per la grossezza braccia 4 in circa, la quale non solo è bastante, ma quando a 30 braccia di arco se gli desse un sol braccio, e forse ½, non che 4, basteria a sostenersi; onde […] nulla di meno rimarrà detta volta grossissima, e più assai che non è necessario per sostenersi. L’errore di Galileo è tutto qui, perché con questo ragionamento egli assume che nella scienza delle costruzioni si possa procedere per proporzioni il che, come qualunque studente di architettura può spiegare, non è. Seguendo la riflessione di Galileo emergono i termini del problema nel modo seguente: l’Inferno è un pozzo che arriva fino al centro della Terra e che ha un’imboccatura larga, grosso modo, 3.200 miglia, lo spessore della volta, considerando che la profondità dei mari è poca cosa, risulta di circa 400 miglia che è circa il 12% della profondità. Procedendo per analogia possiamo considerare che una cupola, per esempio quella del Duomo di Firenze, che è ampia circa 90 braccia, ha uno spessore di circa 4 braccia, che è circa il 4% della larghezza. Poiché la cupola di Brunelleschi si tiene in piedi magnificamente, ancora meglio si dovrà sostenere la cupola dell’Inferno, che proporzionalmente è spessa 3 volte quella della Duomo, per cui le critiche del lucchese Vellutello al fiorentino Manetti vengono ridicolizzate. Questo può sembrare un ragionamento convincente, a patto, però, di assumere che si possa procedere scalando le dimensioni centomila volte, e questo, purtroppo, è sbagliato: un Inferno fatto in questo modo collasserebbe immediatamente sotto il peso della volta!4 Le lezioni sull’Inferno di Dante erano in effetti una specie di intervista prima che l’Accademia acconsentisse che a Galileo venisse affidato l’incarico di “lettore” di matematica all’Università di Pisa e, fortunatamente, nessuno aveva rilevato l’ingenuità commessa dal relatore o, forse, l’amor proprio dei membri dell’Accademia era stato stimolato così abilmente che nessuno ritenne opportuno di guastare la festa. Quale motivo abbiamo per immaginare che, nel 1634, Galileo, confinato nella sua casa di Arcetri e carico delle tante mortifica-
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M.A. Peterson (2002) Am. J. Phys., 70, 575.
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[…] per qual ragione facevano tanto maggior apparecchio di sostegni, armamenti ed altri ripari e fortificazioni, intorno a quella gran galeazza che si doveva varare, che non si fa intorno a vasselli minori […] ciò farsi per evitare il pericolo di direnarsi, oppressa dal gravissimo peso della sua vasta mole, inconveniente al quale non son soggetti i legni minori? E, di lì a poco, si dà la risposta […] il solo esser materiale fa che la machina maggiore, fabbricata dell’istessa materia e con l’istesse proporzioni che la minore, in tutte l’altre condizioni risponderà con giusta simmetria alla minore, fuor che nella robustezza e resistenza contro alle violente invasioni; ma quanto più sarà grande, tanto a proporzione sarà più debole […] Galileo sembra così riprendere lo stesso argomento che aveva trattato tanti anni prima, quando aveva valutato che la volta dell’Inferno era sufficientemente robusta a sostenersi semplicemente scalando le proporzioni di una volta più piccola. Questa volta, però, Galileo padroneggia perfettamente la materia e quando Sagredo si dichiara sorpreso che non si possa trasferire alla fisica il ragionamento per proporzioni che è comune in geometria “io già mi sento rivolgere il cervello”, Salviati-Galileo risponde sem-
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zioni che aveva subito, ancora pensasse a quelle vicende di cinquanta anni prima? Il motivo è proprio nell’opera, Discorsi e dimostrazioni attorno a due nuove scienze, che, come sappiamo con certezza, egli sta scrivendo in quel periodo. In questo saggio, nonostante i danni che gli sono stati procurati dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, egli ne riprende la struttura di dialogo, mettendo nuovamente a confronto le opinioni degli stessi tre personaggi, Salviati, Sagredo e Simplicio. L’opera inizia con i tre amici che si incontrano all’Arsenale di Venezia e, osservando che le imbarcazioni più grandi all’asciutto vengono sostenute con apposite imbracature mentre le più piccole vengono appoggiate sulla sabbia senza particolari accorgimenti, iniziano a ragionare, – guarda il caso – di proporzioni, e Salviati, cioè Galileo, si chiede
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plicemente “Così è, Sig. Sagredo” e non esita ad ammettere che “alcun tempo fa“ egli stesso era caduto nell’errore di valutare la robustezza dei materiali semplicemente scalando le dimensioni lineari degli oggetti in esame facendo così l’unico accenno alla disavventura capitatagli all’Accademia Fiorentina. Galileo aveva studiato a lungo il problema della resistenza dei materiali in relazione alle loro dimensioni e ne fa un riferimento esplicito in una lettera che, nel febbraio del 1609, egli invia ad Antonio de’ Medici: Et pure ultimamente ho finito di ritrovare tutte le conclusioni […] attenenti alle forze et resistenze de i legni di diverse lunghezze, grossezze et figure […] 5 Ricapitolando. Le sfortunate lezioni all’Accademia Fiorentina sono del 1588, la lettera ad Antonio de’ Medici è del 1609 e i Discorsi e dimostrazioni attorno a due nuove scienze vengono pubblicati nel 1638 per cui, volendo mettere in relazione le tre circostanze, si dovrebbe concludere che Galileo abbia conservato una sorta di segreto per quasi cinquant’anni, il segreto di aver difeso la fiorentinità di Dante con un argomento sbagliato e che gli si sarebbe potuto rivoltare contro. Ci sono altri tre elementi da tener presenti in questa ipotetica relazione di circostanze. Il primo è che Galileo ha evidentemente ragionato per diecine di anni sul problema della linearità delle leggi della fisica, cioè se sia sempre lecito applicare la tecnica delle proporzioni nella risoluzione dei problemi. Il secondo elemento è che egli, in tanti anni, non trova l’occasione di citare le due lezioni sull’Inferno che, pure, toccano argomenti simili a quelli dei Discorsi e dimostrazioni attorno a due nuove scienze e che, tutto sommato, erano state il primo passo della sua carriera accademica. Il terzo elemento è che Galileo fa così poco per ricordare le sue lezioni all’Accademia Fiorentina che queste sembrano essere state dimenticate per un lunghissimo tempo e vengono riscoperte solo nel XIX secolo. Perché allora Galileo tira fuori questa storia a cinquant’anni di distanza, quando probabilmente tutte le persone che lo avevano
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G. Galilei (1609) Lettera a Antonio de’ Medici, 11 febbraio 1609.
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Quello che ora accade al Sig. Simplicio, avvenne per alcun tempo a me, credendo che le resistenze di solidi simili fusser simili […] Un riconoscimento di un grande scienziato che, nella vecchiaia che avanza, non teme certo di riconoscere gli errori commessi nella sua lunga carriera. Se Galileo si occupa dell’immagine dell’Inferno all’inizio della sua vita professionale e nuovamente verso la fine della sua vita terrena, forse è perché nella parte centrale della sua vita si è occupato della struttura del cielo. Anche Kircher nella sua maturità si occupa di cosmologia, ma lo fa in maniera diversa da quello che ci si aspetta da un filosofo della natura e, quando nel 1656 decide di scrivere l’Iter extaticum coeleste7, realizza un’opera più vicina a un poema che a un trattato scientifico, quasi ad affermare che lo studio dell’impalcatura del Creato richiede un approccio più vicino al sogno che all’analisi delle osser6
M.A. Peterson (2002) Am. J. Phys., 70, 575. A. Kircher (1656) Itinerarium exstaticum qvo mvndi opificivm id est Coelestis expansi… Roma, Typis Vitalis Mascardi.
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ascoltato sono oramai scomparse? Forse – è solo un’ipotesi6 – le cose potrebbero essere andate in questa maniera: Galileo si accorse molto presto del suo errore, magari già all’indomani delle sue lezioni, ma cosa avrebbe potuto fare in quella situazione? Avrebbe dovuto scrivere una smentita di se stesso e, contemporaneamente, inventare un’altra soluzione a favore dell’interpretazione di Manetti e contraria a quella di Vellutello: impossibile! L’unica strada praticabile, ed è quella che Galileo sceglie, era di preparare una risposta nel caso che qualcuno, anche a distanza di tempo, avesse rilevato l’equivoco nel quale il giovane scienziato era incappato ed è per questo che aveva continuato a ragionare sulla questione. Finalmente, dopo tanti anni, Galileo si rende conto che la materia non è mai stata trattata compiutamente per cui decide di presentarla nelle prime due giornate dell’ultima suo trattato, Discorsi e dimostrazioni attorno a due nuove scienze, ma naturalmente non c’è più nessuno che possa ricordare il suo errore giovanile e trova, giustamente, che sarebbe inutile citarlo. Tuttavia, a ben guardare, un accenno alla sua svista si trova quando Salviati confessa ai due amici:
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La fine dei cieli di cristallo Figura 26. L’Organo della armonia del Creato. Da A. Kircher (1650) Musurgia Universalis, Roma, Ex Typographia Haeredum Francisci Corbelleti
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In J. Fletcher (1970) Isis, Vol. 61.
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vazioni. Tanto è vero che il gesuita ha scritto già da qualche anno quella che viene considerata la sua opera più riuscita, la Musurgia Universalis, nella quale, come in un sogno, egli identifica nella struttura profonda del mondo un’armonia musicale che gli permette addirittura di risalire alla creazione del mondo che il Signore deve avere realizzato utilizzando un organo (figura 26) che ha scandito con i suoi diversi registri i sei giorni della creazioni. La prima voce dell’organo è stata utilizzata dal Signore nel primo giorno della creazione per generare la luce. Seguono nei giorni successivi i “preludi” della separazione delle acque dalla terra,quello della nascita delle piante e quello della creazione del Sole e delle stelle (da notare che la raffigurazione del cosmo è di impostazione Tolemaica e non Tychonica, probabilmente per puri motivi di simmetria del disegno). Iddio suonò poi il registro del quinto giorno quando si generarono rettili, serpenti e uccelli e poi quello del sesto giorno nel quale nacquero tutti gli animali del Paradiso terrestre. Alla fine il Signore dette fiato simultaneamente a tutti e sei i registri dell’organo e fece nascere l’uomo. Non c’è dubbio che diversa da quella di Galileo è la posizione sociale di Kircher che, da prete, non si sente autorizzato a esprimere opinioni scientifiche che non siano state approvate dai suoi superiori per cui tende a spostare le sue opinioni su un campo poetico, che egli percepisce come più libero per lui.Tuttavia è indubbiamente diverso l’atteggiamento dei due studiosi verso le scienze celesti: Galileo, sicuro delle proprie ragioni, è spesso portato a sottovalutare quelle della prudenza, Kircher invece evita accuratamente qualunque polemica e, teso com’è alla ricerca della trama invisibile che tiene insieme l’universo, vive come un’insopportabile perdita di tempo qualunque intralcio alle sue ricerche. Certo, il gesuita non si impegna in opere originali di cosmologia, ma questo non vuol dire che egli non sia informato sugli sconvolgimenti culturali che sono avvenuti già quando lui si trovava ancora a peregrinare fra Germania e Francia. Tale è la sua fama di enciclopedista che un docente dell’Università di Napoli, accostandolo a Pitagora, non esita a scrivere che la sua erudizione è così luminosa da essere paragonabile a quella di “una nuova luna che sia stata appena scoperta”8. Questa fama lo mette in contatto con molte autorità politiche e scientifiche
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della sua epoca, come Leibniz e Huyghens, che permettono al gesuita di rimanere costantemente aggiornato sull’avanzamento delle conoscenze astronomiche, le quali trapelano, a volte come semplici accenni, dalle pagine delle sue opere. L’impianto dell’Iter exaticum vuole ricordare da vicino quello della Divina Commedia con il protagonista che viene trasportato da una guida celeste a visitare il mondo dell’aldilà. L’opera inizia con Kircher che, in prima persona, racconta: Accadde non molto tempo fa che mi capitò di assistere nel nostro Collegio alla esibizione di un trio accademico di musici incomparabili, che chiamerei degli Orfeo del nostro tempo […] 9 Un racconto che, per almeno un paio di volte all’inizio del libro, egli si preoccupa di assicurare che è accaduto sul serio. Alla fine del concerto il gesuita cade addormentato in un sonno che lo rapisce in un’estasi spirituale durante la quale viene trasportato in un prato e trasformato in Teodidatto, un personaggio che da quel momento diventa il protagonista narrante e che rappresenta la parte giocosa dell’animo di Kircher, il quale utilizza questo artificio per esprimere le sue fantasie senza preoccuparsi troppo del rigore scientifico: Apparve all’improvviso un uomo di insolite fattezze: il suo capo e il suo volto risplendevano in modo meraviglioso, gli occhi brillavano come due rubini preziosi, il corpo era coperto di una veste strana e bellissima che non avevo mai vista prima, le ali rilucevano per lo splendido disegno e l’intrecciarsi delle piume [che esclama] Sorgi, Teodidatto e non temere perché sono stati esauditi i tuoi desideri e sono stato mandato per mostrarti la grandezza di Dio nel creato – Chi sei? – Sono Cosmiel, angelo di Dio e genio del mondo. L’angelo si offre di accompagnarlo in una visita per svelargli la forma più segreta del cielo e Teodidatto, inutile dirlo, accetta prontamente.
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A. Kircher (1656) op. citata, trad. R. Villani.
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Sarebbe ingeneroso sottolineare che in queste righe non c’è molto, oltre all’impianto narrativo, che richiami la poetica della Commedia, ma l’obbiettivo di Kircher non è certo la poesia, ma piuttosto quello di scrivere un’opera fantasiosa che gli permetta stravaganze e speculazioni sugli argomenti più disparati, con l’obbiettivo di realizzare una sintesi aggiornata della sua visione del mondo. Fa in ogni caso parte dell’educazione che viene impartita nei collegi dei gesuiti l’esercizio raccomandato da Ignazio di Loyola di immedesimarsi nei racconti sacri e cercare di provare mentalmente le sensazioni che si potrebbero provare in paradiso o all’inferno. Kircher sta quindi ripetendo un esercizio che per lui è abituale e neppure immagina di poter paragonare il suo racconto a quello del poeta fiorentino, tanto più che lo sprovveduto Teodidatto non somiglia per niente al severo Dante e tanto meno si vede alcuno sforzo per far assomigliare il suo accompagnatore, il garrulo e un po’ superficiale Cosmiel, alla celeste e diafana Beatrice. Anzi, proprio da questo confronto emerge prepotente la differenza fra la granitica visione cosmologica medioevale e quella seicentesca, fluida e aperta al dubbio. I concetti Aristotelici, che sono rigidamente alle fondamenta della Commedia, nell’ Iter si trasformano in idee plastiche che vengono sì accettate come dati di fatto (visto che come tali vengono insegnate nei collegi dei gesuiti), ma che si prestano a essere interpretate, e a volte smentite, per spiegare i tanti dati osservativi che si vanno accumulando. Padre Kircher affronta quindi un’ impresa della quale non bisogna sottovalutare l’enorme difficoltà, quella di descrivere il nuovo quadro cosmologico di Tycho Brahe, che è accettato da gran parte dei gesuiti come naturale evoluzione di quello cattolico classico, ma che risulta sospetto all’ortodossia conservatrice che lo considera un copernicanesimo sotto mentite spoglie e che fa ancora largamente riferimento al sistema aristotelico e tolemaico di quasi quindici secoli prima. Così Padre Atanasio, con consumata abilità scenica, nella sua opera utilizza le sciocchezze di Teodidatto e le chiacchiere di Cosmiel per realizzare un componimento divertente che permetta di rendere comprensibile a tutti come è fatto un mondo che metta d’accordo le osservazioni al cannocchiale con quanto è scritto nelle Sacre Scritture.
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Subito all’inizio del viaggio, mentre si dirigono verso la Luna, alla quale è stato ormai riconosciuto il ruolo di satellite della Terra, Teodidatto inizia a lamentarsi perché ha freddo, gli manca l’aria e nota che Cosmiel, al contrario, sembra trovarsi perfettamente a suo agio. L’angelo lo trasporta poi su un’alta montagna della Luna e Teodidatto continua sì a lamentarsi del freddo che diventa sempre più intenso, ma non può fare a meno di esprimere tutta la sua meraviglia nel vedere contemporaneamente sia la parte illuminata che quella oscura del satellite. Questa visione però lo spaventa a causa delle alture e dei crepacci che producono l’alternarsi di ombre grigie e ombre più scure che gli ricordano l’immagine di aculei di un’istrice spaventosa e dalla pelle ispida (paragone di Teodidatto). Non c’è dubbio che il racconto di Kircher appaia così semplice, se non a tratti addirittura infantile, da lasciare interdetti. Risulta difficile immaginare che un uomo famoso per la sua erudizione non si renda conto dell’ingenuità di alcune delle soluzioni narrative che propone, come quando si lamenta del gran caldo che c’è sulla superficie del Sole e viene soccorso con delle gocce di rugiada sul capo. Sembra allora probabile che Kircher racconti la sua storia in maniera volutamente banale ed elementare utilizzando lo sprovveduto Teodidatto per rendere accessibili a un pubblico di non specialisti i concetti fondamentali che si vanno precisando in quegli anni (anche se, essendo scritta in latino, la sua diffusione può essere stata immaginata perlomeno al livello degli allievi più giovani dei collegi dei gesuiti). Per esempio, la difficoltà a respirare di cui si lamenta Teodidatto appena arriva sulla Luna è un modo per volgarizzare le osservazioni di Giovanni Battista Cysat, un allievo e collaboratore di Scheiner, che afferma di aver notato con il suo cannocchiale che anche la Luna è dotata di un’atmosfera, sia pure estremamente più tenue di quella della Terra. E quando Cosmiel trasporta Teodidatto su una montagna lunare, e questi, non avendo riconosciuto un oceano lunare, chiede ingenuamente “Cosa è quella grande macchia scura che si osserva anche dalla Terra?”, Kircher sta semplicemente ribadendo il concetto che la Luna è una specie di Terra in miniatura con tanto di monti, valli e mari. Il registro comico riprende poi con Cosmiel che, per essere sicuro che Teodidatto impari la lezione e non la dimen-
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[…] da ragazzo, alla scuola peripatetica, ho sentito parlare molte volte della sfera del fuoco [che dovrebbe stare attorno alla Terra] ma io questa sfera non l’ho vista né sopra né attorno alla Luna […] Cosmiel (e Kircher con lui) non può essere più chiaro nella risposta: Se tu pensi che Aristotele abbia detto solo cose giuste riguardo alla natura dei corpi celesti, ti sbagli alla grande. Gli uomini che fanno le proprie ipotesi senza curarsi degli esperimenti arrivano a conclusioni tanto distanti dalla verità quanto la Terra è distante dalla Luna. Con il che, gli aristotelici sono serviti! È vero, quindi, che il racconto è elementare, ma bisogna dire che la riabilitazione del metodo sperimentale (che arriva purtroppo a quasi trent’anni dalla condanna di Galileo) non può essere più netta. Riconoscere che la Luna ha montagne e mari come la Terra richiede un coraggio superiore a quello che può sembrare perché, così facendo, Kircher va indirettamente a toccare un tema molto dibattuto, quello sulla pluralità dei mondi, che è un concetto già sanzionato dal Santo Uffizio nel 1650. D’altra parte il gesuita ha sicuramente studiato quelle realistiche mappe della Luna che Claude Mellan ha realizzato sotto la guida di Gassendi e Peiresc, suoi vecchi amici, nelle quali si vedono distintamente le montagne, le pianure e gli oceani della Luna e deve procedere con cautela, badan-
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tichi più, prende il poveretto e lo butta nell’oceano lunare esclamando “Hai capito come stanno le cose?”. Non è detto che Kircher abbia successo nel suo intento di far ridere il lettore, ma non è il suo senso dell’umorismo del quale si sta discutendo ma piuttosto del fatto che l’atmosfera e gli oceani sulla Luna vengano considerati degli elementi talmente acquisiti da far apparire Teodidatto, che non li riconosce, un povero tonto. Il gesuita-esploratore spaziale, in questo gioco delle parti, non se la prende a male per i modi spicci del suo angelo e, anzi, continua a chiamare Cosmiel “guida dolcissima“e “mio Signore“ perché gli insegna tante cose e trova il coraggio di confessare che
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do a non smentire i fatti pur senza evocare il fantasma di Bruno che aveva visto un universo popolato da tanti mondi come il nostro. Kircher, abile come al solito, schiva il problema e, quando Teodidatto chiede a Cosmiel il motivo per cui sulla Luna “non si vedono animali, piante o uomini”, l’angelo risponde che, esistono sì tanti mondi come il nostro nell’universo, ma non sono abitati che da angeli come lui, e la Terra, anche se si trova soltanto in uno dei centri del sistema cosmologico, è, in questo senso, diversa da tutti gli altri corpi celesti. Certo, la soluzione non è fra le più eleganti dal punto di vista filosofico, ma ottiene il risultato di evitare le domande più imbarazzanti che emergono allorché si tocca il tema della pluralità dei mondi, quali “Se esistono altri pianeti abitati oltre alla Terra, anche questi esseri nascono col peccato originale?” oppure “Nel caso, anche lì c’è stata la Redenzione attraverso il sacrificio di Cristo?”. E così via. È evidente che l’Iter extaticum non è né un trattato di cosmologia né un saggio di filosofia, ma è piuttosto un’opera didascalica a livello generale che non si propone di dare risposta alle questioni filosofiche più sottili. Si tratta tuttavia di un testo importante perché mostra che una quantità di nuove idee non sono più considerate argomento di dibattito, ma sono talmente accettate fra i gesuiti da renderle oggetto di un libro non specialistico come questo. La figura del maldestro Teodidatto che finisce nell’acqua del mare della Luna e che si sorprende di riuscire ad attraversare le sfere dell’acqua e del fuoco che dovrebbero circondare la Terra ha, tuttavia, il suo riscatto quando gli si presenta una visione in anticipo sui suoi tempi e, in viaggio verso la Luna, Cosmiel si ferma e gli mostra la Terra vista da lontano, un’immagine che è stata osservata dagli astronauti soltanto 400 anni più tardi. Non deve essere stata un’operazione semplice per Kircher quella di far passare tutti questi concetti, ancorché acquisiti fra gli studiosi, perché l’Iter extaticum resta l’unica opera del gesuita che incontra difficoltà con la censura e, anche dopo che Padre Atanasio corregge diverse parti del suo manoscritto, continuano ad arrivargli da diverse parti richieste di esaminare da vicino il testo che sembra essere un po’ troppo possibilista sull’esistenza di altri mondi simili alla Terra. Si fa tardi sulla Luna e Cosmiel mette fretta al suo ospite “Ma è ora di mostrati cose più importanti e anche più divertenti”.
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Teodidatto, dopo essersi “accomodato nella veste piumosa“ dell’angelo si lascia trasportare fino ai cieli di Venere e di Mercurio. A Venere, che nel sistema di Tycho è il pianeta più prossimo alla Terra, Teodidatto si affretta, senza troppa fantasia, a riconoscere che si tratta di un corpo di una bellezza straordinaria che lo affascina, anche se la prima cosa che gli viene in mente è di chiedere a Cosmiel se l’acqua che si trova sul pianeta potrebbe essere utilizzata per il battesimo di un pagano o di un ebreo. Una volta che è stato rassicurato sull’efficacia di questa improbabile purificazione,Teodidatto osserva che le influenze del pianeta sulla Terra, che sono la bellezza e l’amore, sono governate da stuoli di angeli che cantano e trasportano ceste di fiori profumati. Teodidatto però deve ammettere di rimanere col dubbio di come mai l’influsso del pianeta si manifesti prepotente su alcune persona mentre su altre non sembri avere alcun effetto. Anche Mercurio è popolato da presenze angeliche, le quali sono però fredde e distaccate perché il compito di questo pianeta è quello di diffondere la sapienza e Teodidatto, come già aveva fatto su Venere, torna a interrogarsi sul perché l’intelligenza e le altre influenze dei pianeti abbiano efficacia tanto differente fra una persona e un’altra. La risposta di Cosmiel è che le caratteristiche delle persone dipendono da due azioni diverse, da una parte c’è l’influsso naturale che è emanato dai pianeti a vantaggio di tutti, il quale però si aggiunge al dono soprannaturale che il Signore dispensa secondo la sua volontà imperscrutabile. In questa tappa dell’Iter extaticum, forse per sottolineare il ruolo di Mercurio, il tono dell’opera si eleva e Cosmiel si prodiga in richiami e riferimenti colti: cita Aristotele, fa una lunga disquisizione sul libero arbitrio con un rimando al Purgatorio di Dante e alla figura di Catone, il quale possedeva sì le virtù cardinali, che sono una caratteristica umana, ma, da pagano, era privo del dono divino delle virtù teologali. In effetti il volo poetico non dura a lungo perché Teodidatto vede qualcosa all’orizzonte e chiede “O Cosmiel, cosa è quel globo di fuoco che sorge dall’orizzonte mercuriale?” e Cosmiel spiega “È il globo del Sole!”. Al che Teodidatto, come se non se lo aspettasse, cade in una ammirazione che esprime con una lunga sequenza di espressioni arricchite di punti esclamativi, quasi a segnalare che è stato ripreso il registro elementare della narrazione “Che corpo meraviglioso! Che cosa ammirevole! Che opera divina!”
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Cosmiel, forse per non ascoltare ulteriormente le giaculatorie del suo ospite, decide di portarlo subito sul Sole e qui Teodidatto inizia una nuova litania che rischia di non finire più: Arriviamo sul Sole, occhio del mondo, grazia e decoro del cielo, fonte del giorno, cuore della natura, genitore dell’oro e delle gemme, moderatore del tempo, principe delle stelle, re dei corpi celesti, fonte di luce, miracolo dell’universo […] Fortunatamente Cosmiel si ricorda che il privilegio che è stato concesso al gesuita è quello di vedere la struttura del cosmo e prova a ricordarlo a Teodidatto “Guarda da vicino ciò che non hai mai visto né compreso, il Sole!”, ma questo si lamenta della luce accecante e del gran calore (!) per cui Cosmiel tira fuori un vaso di rugiada celeste e ne spruzza un po’ sulla testa del visitatore assicurandolo che lo proteggerà da qualsiasi disturbo. Il Sole è un grande oceano di fuoco, per cui l’allievo e il docente devono salire su una navicella che è condotta dallo stesso Cosmiel, il quale mostra a Teodidatto i monti di fuoco e i vulcani dai quali emergono i vapori purissimi che, osservati dalla Terra, appaiono come macchie solari. Quando Cosmiel spiega che la virtù del Sole è quella di fecondare con il suo calore le piante e gli animali, è il momento per Teodidatto di fare una domanda profonda: “Da dove proviene il calore che il Sole emana?” “Non bisogna concentrarsi sul calore del Sole“ – spiega Cosmiel – “perché questo è una virtù secondaria mentre la qualità primaria è la luce”. Cosmiel sta forse per iniziare una considerazione filosofica di rilievo, ma si vede interrotto da Teodidatto che, da arruffone qual è, crede di aver capito e esclama “Sarebbe come col vino e col pepe che, pur non essendo caldi, generano calore nello stomaco…” e il povero Cosmiel si sente cadere le braccia “Come puoi immaginare che il Sole sia un globo di panpepato? E poi vorrei sapere, secondo te chi lo avrebbe fatto questo panpepato?”. Anche in questa occasione Teodidatto fa lo figura dello sprovveduto solo per motivi scenici perché tutti sanno che Kircher ha
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O eterno creatore di tutte le cose! O vita mia! O mio desiderio! O bellezza antica, fine di tutte le bellezze, unica virtù, completamento di tutte le virtù! O eterna verità […] Finché Cosmiel lo deve interrompere – “Basta così” – perché debbono andare sul nuovo pianeta, Marte. Appena arrivati sul pianeta della guerra, Teodidatto si sente pieno d’ira, avvelenato dalla collera e dal risentimento, tanto da esserne preoccupato, ma Cosmiel, come al solito, interviene con un liquore celeste che funge da antidoto agli influssi negativi dell’atmosfera del pianeta che è densa di vapori venefici. L’angelo spiega poi che l’influenza negativa di Marte sulla vita degli uomini è simile a quella positiva di Venere: l’influenza esiste ma non determina le azioni degli esseri umani che dispongono del libero arbitrio. C’è giusto il tempo di osservare gli angeli di Marte che montano cavalli di fuoco, sono tremendi a vedersi e armati di tutto punto per portare a compimento il loro mandato divino di provocare le pestilenze, le guerre e gli orrori che Dio ordina per punire i malvagi e i peccatori che superano il limite della Sua pazienza. Il ruolo che ha l’influenza di Marte nel disegno divino, quello di provocare le guerre, le malattie e le pestilenze, pur se appena accennato, non può non ricordarci che il 1656, l’anno di pubblicazione dell’Iter extaticum, è anche quello di una epidemia di peste che è l’ultimo regalo della Guerra dei trent’anni che ha devastato l’Europa. Su questa epidemia, Kircher scrive, di lì a poco, lo Scrutinium Physico-
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mantenuto una lunga corrispondenza sulle macchie solari con Padre Scheiner e che conosce altrettanto bene la polemica sulle comete perché ha vissuto molti anni al Collegio Romano dove ha insegnato Orazio Grassi, e in effetti Cosmiel, sollecitato da Teodidatto, spiega che le macchie solari sono causate dall’attività eruttiva della superficie solare e si dilunga poi in una dissertazione sulle comete, le quali hanno origine dal Sole e le cui orbite dipendono dall’irregolarità delle eruzioni. Ancora una volta Kircher fornisce spiegazioni scientifiche ai limiti dell’assurdo, ma mostra di aver superato completamente il concetto aristotelico secondo il quale il Sole è una sfera perfetta e incorruttibile. Di lì a poco Teodidatto scorge i Serafini, gli angeli che vivono sul Sole, e restandone ammirato inizia la solita litania di ringraziamento:
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Medicum Contagiosae Luis, Quae Pestis dicitur, che, pur non contenendo idee particolarmente innovative, costituisce l’occasione per discutere di un concetto profondo nella visione religiosa del mondo, quello della incomprensibilità del male. Non c’è dubbio che il flagello della peste si scateni solo se Dio lo permette,ma questa è solo una delle infinite manifestazioni dell’azione del Demonio nel mondo. Anche se in certe occasioni è possibile identificare la causa materiale della pestilenza, il punto fermo è che l’origine del male ha cause metafisiche e che, come tale, nel mondo è inesauribile. La scienza umana è sicuramente di aiuto (e Kircher si impegna per tutta la vita a trovare rimedi improbabili a tante malattie), ma è la fede incrollabile nel Signore l’unico baluardo a disposizione degli uomini. Completamenta diversa è l’atmosfera di Giove, che si manifesta immediatamente all’arrivo dei due visitatori come piena di profumi e con un paesaggio di eccezionale bellezza con oceani, isole e continenti. Tanto sono meravigliosi i paesaggi del pianeta che Teodidatto pensa che, piuttosto che su un pianeta, si trovi nell’anticamera del Paradiso. Gli angeli sono appropriati al paesaggio e vestono abiti ricchissimi che brillano d’argento, i volti, circondati da riccioli d’oro, mostrano maestà e clemenza e le spade che portano con una mano (l’altra è occupata da un turibolo) hanno l’elsa decorata di gemme preziose. Al di là di queste descrizioni fantastiche, però, la visita a Giove è l’occasione per riconoscere a Galileo le sue scoperte e costituisce una delle rarissime occasioni che Kircher trova nella sua vita per nominare il grande scienziato. Già nell’introduzione il gesuita ricorda che i quattro satelliti di Giove “sono stati visti da Galileo con l’aiuto di un tubo ottico“ e attribuisce a Galileo un palese riconoscimento quando, per dimostrare che Giove è dotato di una atmosfera, fa affermare a Cosmiel: Non c’è alcun dubbio che esista l’atmosfera di Giove, come dice anche Galileo nel Sidereus Nuncius – e continua spiegando che – Giove non viaggia da solo in quella vasta regione fra Marte e Saturno ma, come un signore e un re, è seguito da quattro satelliti (che alcuni astronomi chiamano compagni) che per primo in Italia ha osservato Galileo Galilei nel 1610 con l’uso di un telescopio […]
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Teodidatto mio, mi rendo conto che sei veramente un credulone e bevi tutto quello che ti raccontano. Quella sfera cristallina che vai cercando, in natura non esiste e non puoi credere che le stelle siano incastonate in questa sfera. Gira il tuo sguardo, guardati attorno e vedrai che l’Universo è riempito da un Oceano limpidissimo ed etereo senza confine. È ufficiale: la vecchia cosmologia di Aristotele, almeno nella versione “fisica” cioè quella che afferma la reale esistenza delle sfere che trasportano i pianeti, non è più accettabile per uno studioso cattolico. È la fine delle sfere di cristallo. Una fine però che lascia gli uomini con la domanda del perché i corpi celesti ruotino uno attorno all’altro. A questa domanda Cosmiel non risponde se non con un richiamo alla volontà divina, ma fa nuovamente un annuncio importante a Teodidatto “Sei entrato nella regione delle stelle fisse che non sono illuminate dal Sole perché sono troppo distanti”. Così anche un’anima semplice come Teodidatto tocca con mano che l’Universo è grandissimo, un concetto che è stato difficilissimo da accettare, perché non si vedeva il motivo per il quale il Signore avrebbe dovuto creare uno spazio così inutilmente vasto. A ben vedere un Universo di piccole dimensioni è proprio quello che ci si aspetta se il fine del creato è quello di ospitare l’uomo e la Terra al suo centro. Accettando che le dimensioni dell’Universo
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Può non sembrare un granché questo riconoscimento a distanza di quasi 50 anni dalle osservazioni dei satelliti medicei, e probabilmente non lo è, ma è anche vero che sono passati solamente una diecina di anni da quando Galileo è morto agli arresti domiciliari e la semplice menzione del nome da parte di un gesuita suona come un parziale tentativo di riconoscimento della sua opera. D’altra parte, con questo richiamo a Galileo, Kircher sta probabilmente preparando il terreno per affermazioni ancora più radicali sulla struttura del cosmo e lo fa quando, superato Saturno, fa giungere i due viaggiatori al firmamento delle stelle fisse. Teodidatto, sprovveduto come al solito, ha paura che nel volo verso il firmamento non avvistino la sfera cristallina nella quale sono incastonate le stelle fisse e rischino di sbatterci contro, ma Cosmiel, con pazienza oramai collaudata, spiega:
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siano tanto grandi significa ammettere che non sia né la Terra né l’uomo il fine del creato. Un universo di grandi dimensioni, poi, rimuove uno degli ostacoli principali all’accettazione dell’ipotesi copernicana, quello che le stelle non mostrano l’effetto di parallasse, cioè non sembrano muoversi durante l’anno a causa del moto riflesso della Terra attorno al Sole. L’Universo di enormi dimensioni ha una inimmaginabile quantità di conseguenze che Cosmiel illustra senza apparente imbarazzo. Se le stelle sono così lontane le une dalle altre vuol dire che ognuna è, per così dire, un sistema indipendente, per cui l’intelletto Archetipico supremo ha voluto che l’Universo ospitasse tutte le possibili forme naturali, con innumerevoli globi celesti. Cosmiel, cioè, parla degli infiniti mondi che Giordano Bruno ha evocato nell’opera De l’infinito universo et mondi, dove scrive: Di maniera che non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente, luogo e cielo. Qui, non c’è dubbio, Kircher mostra un discreto coraggio, vista la fine che il povero Bruno ha fatto a Campo de’ Fiori. Il coraggio di Padre Atanasio, il quale resta un tipo tranquillo che aspira soltanto a passare il resto della sua vita a studiare le cose che lo interessano, alla fine emerge. Per gran parte della sua opera ha citato i risultati indiscutibili della nuova astronomia, le macchie solari, le comete, le montagne della Luna, le irregolarità di Saturno, i satelliti di Giove, la mutabilità del Sole, arrivando a rendere omaggio a uno scienziato come Galilei, ma sempre bilanciando la sua posizione con la riaffermazione di opinioni ortodosse, spesso particolarmente arretrate. Però quando si parla della visione cosmica di Giordano Bruno, un nome che mai la Censura dei suoi superiori gli avrebbero permesso di pubblicare, Kircher non resiste alla tentazione di scrivere che coincide con la sua stessa visione. Il fatto è che esiste una profonda affinità culturale col frate di Nola, al cen-
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Quando quell’omicciattolo italiano, che si autodefiniva magis elaborata Theologia Doctor ecc. visitò la nostra università, non stava nei panni per il desiderio di divenire famoso. Quando ebbe occupato il posto più alto della nostra più famosa scuola, rimboccandosi le maniche come un giocoliere […] egli intraprese il tentativo di far stare in piedi l’opinione di Copernico, per cui la terra gira, e i cieli stanno fermi; mentre, in verità, era piuttosto la sua testa che girava. Ma il racconto continua con un’infortunio di Bruno, perché: Un uomo grave, che occupava una posizione eminente in quella università, ebbe l’impressione di aver letto da qualche parte quelle stesse cose che il dottore stava esponendoci. Recatosi nel suo studio, trovò che sia la prima sia la seconda lettura erano state tratte, quasi parola per parola, dalle opere di Marsilius Ficinus.11 10
E. Buonanno (2008) “Giordano Bruno, il copernicano esoterico e panteista”, Il Riformista, 1 marzo 2008. 11 F. Yates (2006) Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza ed.
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tro della quale c’è la comune antipatia col sistema Copernicano e la comune frequentazione della filosofia neoplatonica rinascimentale, sulle orme di Marsilio Ficino e della sua traduzione del Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto. Kircher parte da qui per addentrarsi nei sentieri inesplorati dell’interpretazione della scrittura sapienziale dei sacerdoti egizi, Bruno segue il solco che conduce alla nascita della magia cinquecentesca, magia cristiana che coniugava gli amuleti e il misticismo biblico con una visione sacrale del cosmo come corpo vivente10. Quanto alla avversione per Copernico, Kircher non ne fa mistero e la rende esplicita nello Scolium VII del capitolo sul Sole, al contrario d Bruno in quale, pur presentandosi in università prestigiose per tenere conferenze sulla teoria copernicana mostra di non averla capita e, anzi, quando si trova in difficoltà di fronte alle obiezioni che gli vengono rivolte, invece di dare la risposta richiesta, si limita a insultare chi ha posto la domanda. Resta famosa, nel racconto di un cattedratico, la volta che si recò a Oxford:
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Sarà forse questo il motivo per cui, nella Cena de le ceneri, Bruno si scaglia contro quei “pedanti” di Oxford. C’è una poesia sottile nell’empatia che, a distanza di una settantina di anni,si sviluppa fra Bruno e Kircher; una poesia quasi barocca. Il nolano perviene a concepire l’infinità dell’universo, il moto dei pianeti, la natura dei mondi attraverso i culti ermetici. Le teorie eliocentriche vengono sostenute da un mago italiano per via rigidamente non-scientifica, bensì sulla base di un culto solare egiziano. Davvero nessun trionfo scientifico. In tempi in cui ancora il reale viene esperito in base al testo, o ad una fede (qualsiasi testo, qualsiasi fede), può ancora accadere d’imbattersi poeticamente nella verità. Bruno, teorizzando magici “teatri della memoria”, studiando cabale e influenze astrali, facendosi arrestare a Venezia per traffico di trattati esoterici e condannare poco dopo a Roma in quanto mago (non certo in quanto sostenitore di Copernico) era arrivato per caso al reale.12 Anche Kircher è attratto dalle conoscenze esoteriche, le rifugge ma torna sempre a parlarne e spende buona parte della sua vita a inseguire la prisca teologia i cui fondamenti sono nascosti nei messaggi geroglifici che gli antichi egizi ci hanno lasciati. Naturalmente gli anni che intercorrono fra il domenicano eretico e il gesuita rispettoso della gerarchia hanno cambiato lo scenario delle conoscenze astronomiche, ma è l’approccio alla conoscenza, fantasioso e sognatore, che lega i due. Kircher si mostra adagiato sulla visione tradizionale del mondo, quella degli angeli che dominano i pianeti e dell’arca di Noè, fino a risultare addirittura disarmante, ma quando arriva a parlare dell’Universo il gesuita vola alto, vede un Universo infinito, sogna altri mondi dei quali potremmo avere conferma se solo riuscissimo a recuperare quello che il Signore ha insegnato direttamente ad Adamo. Mentre il Cielo delle stelle fisse è lì a osservarci, immobile e, per sempre, armonico.
12 E. Buonanno (2008) Giordano Bruno, il copernicano esoterico e panteista”, Il Riformista, 1 marzo 2008.
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Conclusione Nessun limite, eccetto il cielo Miguel de Cervantes
Le vie del Signore sono infinite. Anche quelle della scienza. Per lo meno della scienza del ’600. Athanasius Kircher le prova proprio tutte pur di dimostrare che la fisica si può trovare tutta nelle Sacre Scritture e che la scienza è una grande Arca di Noè, una raccolta di fossili, un Museo, un sistema di orologi da collezione. Kircher è devoto a Dio che gli ha dato tutto l’universo da osservare e catalogare e gli ha fornito anche le parole chiave per comprenderlo. Leggendo i suoi scritti sorge il sospetto che egli veneri sì il Creatore, ma che sia veramente innamorato del Creato, che dal primo momento si prepara alla rivelazione cristiana, e del quale il gesuita si propone di offrire una visione che superi quella frammentata della nuova filosofia meccanica che va affermandosi in tutta Europa. Non c’è dubbio che per noi il fascino delle ricerche di Padre Atanasio risieda nella sua capacità di meravigliarsi, una capacità che la scienza moderna sembra aver perduto. Ma uno scienziato segue un diverso metodo. Non si innamora, osserva. Non cerca le spiegazioni nelle Sacre scritture, ma nella logica interna dei fenomeni. Oggi anche gli scienziati che operano animati dalla fede seguono un metodo di ricerca condiviso, fatto di rigore logico, di sperimentazione, di verifica pubblica dei risultati per il raggiungimento di risultati obbiettivi. Tra il modo di procedere di Kircher e il metodo scientifico moderno c’è Galileo, anche egli uomo di fede sincera ma convinto che per interpretare il mondo non ci sia bisogno di scomodare Nostro Signore. Se mai Galileo e Kircher avessero pensato di poter sopravvivere a loro stessi, scampando a condanne, critiche e abiure, sarebbe stato per poter continuare a curiosare, osservare e riflet-
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tere sui casi dell’universo, con scienza e coscienza, con la fede e con il dubbio; ma anche con ironia, spirito polemico, meraviglia e inventiva. Galileo ha volutamente ignorato Kircher e questi ha a malapena citato il pisano quasi che, consapevoli di non poter andare d’accordo, i due non volessero ammettere di essere complementari. Aveva ragione Galileo? Ovvio che sì, nel senso che il metodo che lui propone si rivela capace di fare previsioni e quindi in grado di far avanzare la nostra conoscenza del mondo. Ma le prove della rotazione della Terra non c’erano. L’oscurantismo dei gesuiti non c’era. Il ruolo che svolgono Clavio, Grassi e Scheiner non è quello dei nemici della scienza moderna, ma quello di chi propone spiegazioni diverse dei fenomeni che si osservano, un ruolo previsto dalla scienza moderna. Un ruolo, anzi, indispensabile nel percorso complesso, non sempre lineare, di acquisizione di nuove conoscenze. Il Collegio Romano dei Gesuiti era un luogo di conservazione della cultura, dove Galileo aveva trovato interlocutori attenti e critici puntuali, i quali, a volte frenati dalla loro fede, raggiungevano conclusioni di superamento dell’aristotelismo più avanzate di quelle di Galileo stesso. Aveva ragione Kircher? Ovvio che no, nel senso che il metodo che lui propone è quello di convincere l’interlocutore di cose che sono già note o a lui o qualche altra parte dell’umanità. Un metodo che non porta a un reale avanzamento della conoscenza. Non è un metodo sterile, però, perché è grazie a questo e alla sua collaborazione con Gian Lorenzo Bernini che vengono prodotti almeno due dei capolavori del Barocco romano. Di Padre Atanasio colpisce la sua indefessa attività di collezionista, ricercatore e scrittore che punta a inquadrare in maniera organica tutte le idee che circolano nella sua epoca. Per far questo è inevitabile conoscerle tutte, queste idee. Gli capita di vivere, però, in un’epoca in cui le cose da conoscere crescono a dismisura e con uno studio senza pari, egli diventa “l’ultimo uomo che conosceva tutto”, come lo definisce Paula Findlen. Kircher è animato dallo spirito di Ignazio di Loyola che gli suggerisce in modo severo e ossessivo di rendere visibile con forme e figure ciò che i Padri della Chiesa hanno inteso scrivere. Dunque un’ansia di dimostrazione fino all’assurdo, quindi una libido trasferita negli oggetti portatori di verità nascoste.
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[…] sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene e dell’unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare: come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si cibi d’aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andar de’ secoli, si formi il cristallo; e altri de’ più maravigliosi segreti della natura. Athanasius Kircher muore nel 1680 e dispone che il suo cuore, soltanto quello, venga sepolto al Santuario della Mentorella in una teca ai piedi della Vergine nella quale si legge: Athanasius Kircher sacerdote della Compagnia di Gesù, restauratore di questo tempio e istitutore del sacro pellegrinaggio che qui si celebra ogni anno, volle che il suo cuore fosse seppellito ai piedi dell’altare di Maria Nostra Signora. Non vede la pubblicazione dell’opera di Newton nella quale vengono gettate le basi teoriche solide a supporto della cosmologia
Conclusione
Questo atteggiamento così platealmente aderente alla lettera delle Scritture, espressione di una volontà controriformistica, tuttavia apre la strada a conoscenze misteriose, a una ricerca libera fino alla stravaganza. Capita però che a volte gli scienziati cerchino una cosa e ne scoprano un’altra, perché l’universo è complesso e perché la mente umana è complessa quanto l’universo. Non fa perciò meraviglia se, partendo da premesse sbagliate e seguendo percorsi fantasiosi, Kircher arrivi a volte a sorprendenti verità. Oddio, non proprio “vere vere”, ma vere abbastanza da rendere il suo nome ammirato, quasi venerato, fra i suoi allievi come Petrucci e Kestler che gli dedicano i frontespizi delle loro opere. Se solo gli fosse capitato di trovare il manoscritto dell’Anonimo di Manzoni, si sarebbe chiesto di sicuro se quel personaggio di Don Ferrante non fosse un suo ritratto, magari disegnato con un po’ di ironia:
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di Copernico, ma quei cieli di cristallo che hanno fatto ruotare il cosmo per quasi duemila anni si sono da tempo infranti definitivamente e il cielo nel quale, secondo Kircher, “si trovano le cose terrestri in modo celeste e in terra le cose celesti in modo terrestre” è diventato un oggetto di studio e ha cessato di essere una specie di grande contenitore delle piccole vicende umane.
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Galileo Galilei e Athanasius Kircher: cronologie parallele
1517 1543 1545 1564 1587 1589 1592 1596 1600 1600 1602 1603 1609 1610 1611 1611 1612
1614 1615 1616
Scisma di Lutero Copernico pubblica il De revolutionibus Inizio del Concilio Trento. Riforma cattolica Nasce Galileo Galilei (Pisa 15 febbraio) Galileo si reca a Roma per incontrare Cristoforo Clavio Galileo è professore all’Università di Pisa Galileo è professore a Padova Keplero pubblica il Mysterium Cosmographycum Giordano Bruno arso vivo a Roma. Nasce Virginia, primogenita di Galileo William Gilbert pubblica De Magnete, Magneticisque Corporibus… Nasce Athanasius Kircher (Geisa, 2 maggio) Federico Cesi fonda l’Accademia dei Lincei Galileo perfeziona il cannocchiale di Hans Lippershey e inizia le osservazioni celesti Galileo scopre i satelliti di Giove. Pubblica il Sidereus Nuncius. I gesuiti del Collegio Romano confermano molte delle osservazioni di Galileo Scoperta più o meno contemporanea delle macchie solari da Galileo, Scheiner Harriot e Fabricius Galileo scrive il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, o che in quella si muovono. Niccolò Lorini predica contro la teoria copernicana Tommaso Caccini attacca Galileo dal pulpito di S. Maria Novella. Galileo denunciato al Sant’Uffizio da Lorini Galileo pubblica Discorso del flusso e reflusso del mare
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1616 Il Sant’Uffizio condanna le teorie copernicane 1617 Kircher è miracolato dalla S. Vergine che lo guarisce da una cancrena ai piedi e da una sopravvenuta ernia addominale (notizia autobiografica) 1618 Kircher è novizio del Collegio dei Gesuiti di Paderbon 1618 Apparizione di tre comete che sono alla base della polemica fra Galileo e Orazio Grassi 1622 Kircher fugge a Colonia inseguito dalla soldataglia luterana. Cade nel Reno ghiacciato ma si salva a seguito di un intervento miracoloso (notizia autobiografica) 1623 Maffeo Barberini eletto Papa col nome di Urbano VIII. Galileo gli dedica Il Saggiatore 1623 Kircher è prigioniero dei luterani ma si salva per intercessione celeste (notizia autobiografia) 1628 Kircher è docente di filosofia, matematica, lingua ebraica e siriaca a Wurzburg 1629 Epidemia di peste bubbonica a Firenze 1631 Kircher fugge ad Avignone a seguito della Guerra dei Trent’anni. Collabora con Nicolas Claude Fabri de Peiresc a decifrare antichi papiri egizi 1632 Stampa del Dialogo intorno ai due massimi sistemi del Mondo 1633 Galileo subisce il processo per eresia. Condannato al carcere perpetuo poi commutato in arresti domiciliari. Il Dialogo intorno ai due massimi sistemi del Mondo è posto all’Indice 1633 Kircher è a Roma dove insegna matematica, fisica e lingue orientali al Collegio Romano 1634 Muore la figlia di Galileo, Suor Maria Celeste 1636 Kircher pubblica il Prodromus Coptus 1638 Galileo pubblica Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze 1641 Kircher pubblica Magnes, sive de Arte Magnetica libri tres 1642 Galileo muore (Arcetri, 8 gennaio) 1646 Kircher pubblica Ars Magna Luci et Umbrae 1650 Kircher pubblica Musurgia Universalis 1651 Kircher crea il Museo del Collegio Romano 1652 Kircher pubblica Oedipus Aegyptiacus 1665 Kircher pubblica Mundus Subterraneus 1668 La Regina Cristina di Svezia si converte al cattolicesimo e si stabilisce a Roma
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Galileo Galilei e Athanasius Kircher: cronologie parallele
1669 Kircher pubblica Ars Magna Sciendi 1675 Kircher pubblica Arca Noë in tres libros digesta 1680 Kircher muore (Roma, 27 novembre). Il suo cuore viene tumulato nella cappella della Vergine Maria nel santuario della Mentorella
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i blu - pagine di scienza
Passione per Trilli. Alcune idee dalla matematica R. Lucchetti Tigri e Teoremi. Scrivere teatro e scienza M.R. Menzio Vite matematiche. Protagonisti del ’900 da Hilbert a Wiles C. Bartocci, R. Betti, A. Guerraggio, R. Lucchetti (a cura di) Tutti i numeri sono uguali a cinque S. Sandrelli, D. Gouthier, R. Ghattas (a cura di) Il cielo sopra Roma. I luoghi dell’astronomia R. Buonanno Buchi neri nel mio bagno di schiuma ovvero L’enigma di Einstein C.V. Vishveshwara Il senso e la narrazione G.O. Longo Il bizzarro mondo dei quanti S. Arroyo Il solito Albert e la piccola Dolly. La scienza dei bambini e dei ragazzi D. Gouthier, F. Manzoli Storie di cose semplici V. Marchis Novepernove. Segreti e strategie di gioco D. Munari Il ronzio delle api J. Tautz Perché Nobel? M. Abate (a cura di) Alla ricerca della via più breve P. Gritzmann, R. Brandenberg Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio P. Magionami Chiamalo x! ovvero Cosa fanno i matematici? E. Cristiani
L’astro narrante. La Luna nella scienza e nella letteratura italiana P. Greco Il fascino oscuro dell’inflazione. Alla scoperta della storia dell’Universo P. Fré Sai cosa mangi? La scienza nel cibo R.W. Hartel, A.K. Hartel Water trips. Itinerari acquatici ai tempi della crisi idrica L. Monaco I lettori di ossa C. Tuniz, R. Gillespie, C. Jones Pianeti tra le note. Appunti di un astronomo divulgatore A. Adamo La fine dei cieli di cristallo. L’Astronomia al bivio del ‘600 R. Buonanno Il gesuita che disegnò la Cina. La vita e le opere di Martino Martini G.O. Longo
Di prossima pubblicazione Per una storia della geofisica italiana. La nascita dell’Istituto Nazionale di Geofisica e la figura di Antonino Lo Surdo, fondatore e primo direttore (1931-1949) F. Foresta Martin, G. Calcara Tutela ambientale e risorse: quale energia per il futuro? A. Bonasera La materia dei sogni R. Piazza