Amelia Crisantino
Della segreta e operosa associazione Una setta all'origine della mafia
Sellerio editore
2000 © Sellerio editore via Siracusa 5o Palermo
Indice
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Della segreta e operosa associazione Prologo
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Le condizioni generali - i. L'Unità - 2. Le società giurate - 3. L'ossessione dell'ordine pubblico - 4. Definire il diverso
Capitolo primo Le dinamiche di fondo 1. I domini dell'arcivescovo -
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La rivolta - 3. La pubblica sicurezza, fra rigore e compromessi - 4. La nomina dei vescovi - 5. Il regime delle acque - 6. L'incertezza del diritto - 7. La guerra del custode dell'acqua Felice Marchese 2.
Capitolo secondo Il tramonto della Destra
Crisantino, Amelia <1956>
Della segreta e operosa associazione : una setta all'origine della mafia / Amelia Crisantino. - Palermo : Sellerio, 2000. (La diagonale ; 107) ISBN 88-389-1576-8 1. Mafia - Monreale - Storia. 364.106045823 CDD-20 SBN Pa10167691 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana
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1. L'ultimo governo dei moderati - 2. Il prefetto Rasponi. La sconfitta di un illuminista ingenuo - 3. I crimini diminuiscono, le paure aumentano - 4. La «maffia»: l'analisi del prefetto Rasponi Il prefetto Rasponi protesta e finisce col dimettersi - 6. I -5. rituali di affiliazione: la prima testimonianza - 7. I provvedimenti speciali - 8. Il manutengolismo governativo - 9. La cacciata dei vescovi
Capitolo terzo Monreale i. I caratteri de lla classe media - 2. L'amministrazione comunale
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- 3. Il controllo delle risorse - 4. Le guardie campestri - 5. Stuppagghieddi - 6. Il delegato Savoja - 7. La mancata ammonizione di Pietro Di Liberto - 8. Alla ricerca dell'equilibrio: lo stile di comportamento - 9. Pietro Mirto Seggio diventa sindaco di Monreale
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Capitolo quarto La Sinistra al potere
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1. La caduta della Destra - 2. Una scomoda Commissione d'inchiesta Un giornale all'opposizione - 4. La società dei mugnai e dei carrettieri - 5. Veleni in questura - 6. La campagna d'estate
Capitolo quinto La setta
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Il delegato Bernabò - 2. Il caso Di Mitri - 3. Il Corvo - 4. Assassinio di Simone Cavallaro - 5. Il capro espiatorio - 6. La società degli stuppagghieri - 7. Il delegato Bernabò cattura la setta - 8. La causa Palmeri-Banchieri - 9. Calcedonio Inghilleri deputato di Monreale Io. La setta: gli stereotipi 1.
Capitolo sesto L'istruzione del processo
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Le ramificazioni degli stuppagghieri - 2. La rete delle associazioni: i caratteri - 3. Il delegato Bernabò è isolato - 4. Latitanti eccellenti Un incidente diplomatico - 6. L'improvviso apparire del pentito Sal- -5. vatore D'Amico - 7. Cattura dei fratelli Miceli - 8. Salvatore Marino -9. I sistemi del prefetto Malusardi 1.
Capitolo settimo Il processo
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Z. Bernabò liquidato - 2. Il paese degli stuppagghieri - 3. Il processo 4. Il trionfo degli assenti - 5. Il prefetto Corte, una storia che si ripete
Capitolo ottavo I risultati r.
Epilogo Bibliografia Indice dei nomi
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Il buon governo del sindaco Mirto - 2. L'arcivescovo torna a casa -3. L'arruffata matassa delle acque - 4. A Catanzaro 2 59
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Della segreta e operosa associazione
Nel maggio del 1878 la Corte d'appello di Palermo condanna 12 uomini per il reato di associazione. Sono i famigerati stuppagghieri di Monreale, l'origine di tutte le sette mafiose che come una rete malefica soffocano la Sicilia occidentale.
Prologo
Abbreviazioni
ASDM Archivio storico diocesano di Monreale FGO Fondo Governo Ordinario FM Fondo Mensa ASCM Archivio storico comunale di Monreale ASP Archivio di Stato di Palermo AGQ Archivio Generale Questura EGBV Economato generale benefici vacanti GP Gabinetto Prefettura GQ Gabinetto Questura
Avvertenza
Tranne i casi diversamente segnalati, i documenti relativi all'istruzione del processo Stuppagghieri, le corrispondenze, i verbali, i resoconti che quotidianamente vengono inviati al questore durante le udienze a Palermo e a Catanzaro, le carte che a vario titolo si riferiscono alla setta sono in ASP, GQ, anno 188o, busta 7 (processo stoppaglieri). Nei documenti ci si riferisce alla setta col nome stoppaglieri, forma italianizzata del monrealese stuppagghieri che qui viene adottato.
Ringraziamenti
Ringrazio tutti quelli che, in modo diverso ma sempre con affetto, hanno seguito il miolavr.Ungzetopariclvsned'ArchivoSta Palermo, dell'Archivio diocesano e della biblioteca comunale di Monreale, per la sua disponibilità. Ringrazio Anna Puglisi e Umberto Santino per i consigli che mi hanno dato e soprattutto perché, da molto tempo, sono per me un esempio di lavoro coerente e rigoroso. Giovanna Fiume è stata un'interlocutrice generosa e sempre disponibile. Nicola Tranfaglia, Salvatore Lupo e Giuseppe Casarrubea hanno letto il manoscritto e mi hanno incoraggiato. Un pensiero infine a Giuliana Saladino, luminoso esempio di spirito critico.
Nel 1875, a Roma e a Palermo, erano tanto numerosi e profondi i rancori che s'erano accumulati da sembrare che secoli fossero trascorsi dall'Unità. La parola mafia era già stata inventata e adoperata con generosa larghezza, la Sicilia sembrava pullulare di sette segrete che richiedevano leggi speciali. Dal canto loro i siciliani si sentivano traditi e trascurati, e imputavano al nuovo Stato tutti i mali del mondo. Una Commissione parlamentare stava indagando, affrontava il freddo e piovoso inverno e girava per i paesi ad ascoltare il parere dei notabili. Un giorno si trovò dinanzi ad una discrepanza teorica con quanto andava via via elaborando, la conclusione in fondo rassicurante che la mafia fosse prodotta dalla povertà e dall'arretratezza. Fosse stato sempre vero, per quanto laboriosi dei provvedimenti potevano essere tentati, strade costruite e scuole edificate. In quegli anni il rimedio principale era sembrato l'enfiteusi della proprietà ecclesiastica, cioè il frazionamento dei latifondi della Chiesa e la colonizzazione delle campagne. In qualche zona pochi proprietari si erano accaparrati le terre migliori, anche se le intenzioni erano state di aumentare il reddito complessivo e la sicurezza nelle campagne. Secondo Simone Corleo, che aveva curato le enfiteusi, buoni risultati erano stati raggiunti nella provincia di Siracusa, dove si avevano alte rendite e pochi reati tutti scoperti e regolarmente puniti. Ma nella deposizione che lo stesso Corleo rende alla Commissione emerge una discrepanza, che rivela l'inadeguatezza dell'interpretazione canonica. Corleo: l'agro palermitano è un'eccezione veramente degna di studio, è una questione di natura diversa, non bisogna studiarla più nel complesso. Io per l'agro palermitano non potrei parlare con quella conoscenza con cui parlo di altri luoghi, perché non venne nell'enfiteusi. E tutto migliorato, e perciò fu escluso, e poi le chiese non avevano fondi [...1. Commissario De Cesare: senta professore, queste teorie sono esatte nella scienza, però in Sicilia accadono dei fenomeni che non fanno più credere 13
all a scienza [...]. A Monreale sono quasi tutti proprietari, ognuno ha un pezzo di terra. Ebbene, non vi è paese dove la sicurezza pubblica sia in più cattive condizioni che a Monreale. Commissario Paternostro: aggiungo che è un comune molto ricco. De Cesare: tutti questi bei paesi interni dove vi è la proprietà che dà il maggiore prodotto che si dia da tutte le terre italiane, sono in eguali condizioni, perché là i maggiori reati di sangue, là le maggiori grassazioni, là i maggiori mafiosi. Eppure là la proprietà è sminuzzatissima: come va tutto questo, ciò turba la mente della scienza.'
Su questa eccezione veramente degna di studio sono stati tutti d'accordo: viaggiatori, testimoni, illustri corrispondenti, scrittori, sostenitori della subcultura, del retaggio feudale, dell'intreccio col potere politico o della mafia imprenditrice, quelli che si sono fermati a riflettere sulle dinamiche della differenza siciliana hanno concordato su un punto: quei paesi che nell'800 sembravano una «corona di spine che circonda Palermo» erano all'origine di quell'insieme di pratiche che poi sarebbero andate sotto il nome mafia. A guardare più da vicino veniva il sospetto che un paese fosse più coinvolto degli altri, l'intuizione di una diversità, a segnare uno scarto che però non trovava spiegazione: solo l'impressione che Monreale fosse il primo centro di irradiazione de ll e cosche mafiose. Mancava però una analisi in grado di isolare e osservare la specificità del luogo: perché l'agire mafioso si presenta, si radica e si espande a partire da una piccola zona della Conca d'Oro. Osservando a distanza ravvicinata quanto avviene a Monreale otteniamo uno spaccato di storia locale con qualcosa in più, che rinvia ad altro. Le dinamiche degli avvenimenti, i giochi di potere, i personaggi, non restano ancorati al paese ma forniscono uno strumento interpretativo della realtà. Perché, come la Ginevra di Calvino, Monreale appare uno di quei luoghi che diventano la cu ll a di un nuovo agire, in questo caso un modus operandi e una filosofia che si contrappongono all'etica della burocrazia impersonale e del diritto elaborate da una borghesia che è la nervatura del capitalismo. A Monreale non troviamo la mafia dai ritmi lenti dell'entroterra agrario, la prepotenza distillata nel feudo e nella masseria, con E. Iachello, Stato unitario e disarmonie regionali: l'inchiesta parlamentare del x875 sulla Sicilia, Napoli 1987 (da ora inchiesta Bonfadini, ed. Iachello), pp. 259-26o.
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campieri e curatoli ad assorbire le rendite e monopolizzare le me-
diazioni, attori di una storia che sembra non conservare alcun mistero. Monreale è su tutt'altro scenario, ha ambizioni da protagonista sullo sfondo della città, del dinamismo dei traffici e della politica. Si presenta come punto di passaggio fra i latifondi dell'interno e i mercati urbani, con un vasto territorio agricolo che gravita su Palermo; non subisce quegli ostacoli al commercio che derivano da lle scarse vie di comunicazione. Eppure tutto questo non basta, si tratta di requisiti indispensabili ma non sufficienti a fare scattare la diversità. Bisogna includere altri elementi, allora avremo quelle condizioni particolari, che ne fanno un laboratorio aperto: - in prossimità del paese i terreni sono dati in enfiteusi da gran tempo, originando una classe sociale relativamente numerosa e assimilabile ai proprietari; - la figura dell'arcivescovo, cioè un potere vicino ma svuotato di senso; - la latitanza del potere centrale: l'arcivescovo conserva dei privilegi ma, incalzato dagli eventi, non ha la forza di mantenerli. Si crea un vuoto dove il disinteresse assume una coloritura politica. E mentre l'arcivescovo arretra, qualcun altro occupa lo spazio. Dinamica che si sviluppa nell'assenza apparente dell'organo statale delegato ad avere funzioni di controllo; - l'arcivescovo possiede l'acqua, un bene prezioso da cui dipende la coltivazione degli agrumi. Non riuscendo a regolarne la distribuzione, a gestirla in modo monopolista sono degli individui che agiscono in suo nome, come dipendenti della Mensa arcivescovile; - la lotta fra Chiesa e Stato: a Monreale viene destinato un vescovo apertamente ostile al nuovo governo, circostanza che imprime un'accelerazione ad un processo che per sua natura avrebbe forse seguito ritmi più lenti. Mentre si celebra il processo contro gli stuppagghieri, altre associazioni vengono giudicate. Ma attorno ai monrealesi si coagulano degli elementi che li isolano e differenziano: sono la nera origine di ogni altra setta e, come se non bastasse, sono gli unici a potere vantare quello che nelle carte processuali viene definito un apostata. Si tratta di Salvatore d'Amico, compare nella sentenza istruttoria e sulle sue presunte dichiarazioni viene costruito il successivo grado di ^5
giudizio. Dalle rivelazioni del D'Amico emerge il profilo di un'associazione segreta, con rituali di affiliazione che altri pentiti racconteranno quasi uguali sino ai nostri giorni. Solo che D'Amico non depone in aula, perché già ucciso; la sua figura è molto sfuggente e le dichiarazioni a lui attribuite appaiono costruite ad arte. Le sue rivelazioni hanno una duplice funzione: permettono il rito del processo e al contempo calano un modulo standard, presente da anni nella corrispondenza della questura, su una realtà molto più complessa. Così, le dichiarazioni del primo pentito di mafia pongono una rigida barriera a protezione de lla struttura elaborata negli uffici di questura, separandola dalle dinamiche circostanti, e diventano un ostacolo alla comprensione dei meccanismi che agiscono per l'affinamento del metodo mafioso. Resta aperta la questione se la mafia fosse già allora un'associazione strutturata. 2 Nei primi anni '7o i ministri lo chiedevano ai prefetti, che giravano la domanda ai delegati. Le indagini erano rese più difficoltose da un luogo comune che veloce s'era imposto dopo l'Unità, quando oppositori politici e criminali più o meno organizzati erano stati accomunati in uno stereotipo cospirativo comodo per tutte le evenienze. E l'ipotesi di una congiura antigovernativa è all'origine della teoria, elaborata da lla Destra, sull'associazione segreta che come una rete malefica avvolge il circondario di Palermo. Probabilmente, non c'è il tipo di associazione che viene cercato ma altri più fluidi modelli. Le rivelazioni del D'Amico, o meglio il loro assurgere a dogma, ne impediscono la rilevazione. Le condizioni generali 1
. L'Unità
Dopo l'impresa di Garibaldi, se un viaggiatore avesse fermato la sua attenzione sull'isola ancora in fermento avrebbe avuto non poche perplessità. Perché geograficamente la Sicilia era interna all'Europa, culturalmente poteva vantare delle punte avanzate, dal punto di vista politico c'erano degli uomini che niente avevano da in2 Per un'analisi delle posizioni espresse dagli studiosi cfr. U. Santino, La mafia interpretata, Soveria Mannelli 1995, pp. 22-25. In sintesi, «la tesi sostenuta da lla stragrande maggioranza di studiosi ed operatori è chiara: ci sono le associazioni mafiose, ma non c'è la Mafia come organizzazione unitaria».
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vidiare ai settentrionali: solo che si trattava di individui isolati, non inseriti in un contesto coerente, anzi staccati e in qualche modo diventati estranei al loro stesso ambiente. La gran parte della società viveva arroccata nella difesa di privilegi che niente avevano da spartire con l'idea di bene pubblico. Attraverso la promulgazione di decreti, licenziamenti ed assunzioni nella pubblica amministrazione, durante la prodittatura di Garibaldi era cominciata la costruzione di un nuovo Stato. I guai arrivano subito dopo, con il plebiscito basato sulla paura delle riforme e la volontà di escludere il partito garibaldino, cui pure tanto si doveva, e perseguitarlo. Il 21 ottobre 186o si vota per l'annessione, il i° dicembre i risultati vengono consegnati nelle mani di Vittorio Emanuele. Gli entusiasmi e la fretta annessionistica delle province meridionali non riescono a nascondere che il nuovo regno, riunendo popolazioni con storia e usi tanto diversi, nasce sotto un cielo denso di incognite. Luigi Carlo Farini arriva al sud per prendere in mano il governo e le sue lettere al Cavour sono inorridite, giudica che l'annessione sia stata voluta «per parossismo di due paure: negli uni la paura del ritorno del Borbone, negli altri la paura del garibaldinismo [...]. Questa moltitudine brulica come i vermi nel corpo marcio dello Stato: che Italia, che libertà! Ozio e maccheroni... ». 3 L'estrema rapidità con cui si stava costituendo lo Stato nazionale impediva lo stratificarsi di comportamenti molto articolati sul piano politico. Prima dell'Unità il partito moderato aveva mostrato simpatie per il decentramento ma, davanti all'insorgere del brigantaggio nelle province napoletane e all'opposizione autonomista borbonica e garibaldina, ogni precedente buona intenzione passa in secondo piano. Il nuovo regno appena formato appare fragile, la scelta dell'accentramento sembra il rimedio più immediato e sicuro. Consigliati dagli emigrati napoletani, che giudicavano il meridione ingovernabile in altro modo, si impone una pacificazione fittizia e lo Stato viene costruito da una minoranza, che poggia su un consenso molto sottile; nel 187o Jacini scrive che il governo unitario dal 1859 al '66 può considerarsi un «governo provvisorio», retto dalla dittatura del ceto «il più colto e il più rivoluzionario». 4 R. Romeo, Dal Piemonte sabaudo all'Italia liberale, Torino 1963, p. 243. E. Passerin D'Entrèves, L'ultima battaglia politica di Cavour, i problemi dell'unificazione italiana, Torino 1956, p. 1 5. 3
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In una sorta di riconquista, subito dopo l'Unità troviamo la guerra al brigantaggio, i procedimenti sommari, la sospensione delle libertà garantite dallo Statuto, l'impiego dell'esercito per il controllo del territorio, la lotta contro i renitenti, tutte scelte che guadagneranno al nuovo Stato l'ostilità di gran parte del Mezzogiorno. In Sici lia c'è paura e desiderio di ordine ma l'adesione politica è debole, il punto di partenza sembra essere l'odio verso lo Stato centralizzato. Una volta che la classe dirigente si sente messa da parte diventa insofferente, ben presto è poco meno che ostile. Dal canto suo, il popolo si era ubriacato di propaganda e sperava di cambiare le proprie condizioni; ma il nuovo Stato si mostra lontano ed estraneo, pronto a introdurre sgradevoli novità come la leva obbligatoria. Il problema dell'ordine pubblico è da subito un fattore destabilizzante all'interno e un imbarazzante capitolo nei rapporti internazionali, l'attenzione che tutti mostrano di dedicarvi crea il confronto con i passati regimi e fa prendere poco sul serio l'Unità. Il nuovo regno appare improvvisatore, ignaro delle difficoltà e dei compiti che l'attendono, incapace e incompetente, rigidamente legalitario ma allo stesso tempo, a causa dell'isolamento dei moderati, portato ad accettare i compromessi. Mancando il coraggio, la forza o la volontà di affrontare le cause che avevano prodotto la rivoluzione, il nuovo Stato si trova nella necessità di combattere su due fronti, contro le masse rurali e contro le vecchie classi dominanti. I municipi liberali diventano ben presto proprietà dei possidenti, luogo privilegiato per lo scontro fra le diverse fazioni, dove il rinnovamento della classe dirigente meridionale viene attivamente ostacolato. Perché le cose andassero diversamente ci sarebbe voluto un rovesciamento della struttura sociale nelle campagne e la conquista della terra da parte dei contadini, cosa di cui avevano paura sia i moderati che i liberali. «La lotta è tanto più dura in quanto, profittando dell'incompiutezza della rivoluzione e del malcontento della masse rurali, le vecchie classi dominanti riescono a mobilitarle contro il nuovo regime, e trovano in esse una larga base per le loro velleità di restaurazione». 5 Anche il Vaticano contribuisce ad accrescere le difficoltà dello Stato appena formato. La Chiesa ha una forte base economica ed un'organizzazione capillare: da Roma si diramano le fila 5
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E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Torino 198o, pp. 5o - 51.
di congiure borbonico-clericali che tentano di ostacolare íl nuovo regno sul piano interno e isolarlo su quello internazionale. L'istituto luogotenenziale doveva garantire alla Sicilia e al Napoletano una maggiore attenzione verso le esigenze locali e un avvio al decentramento. Ma si partì da una aperta ostilità per tutto quello che sapeva di garibaldino e mazziniano, uno dei cardini della politica governativa sembrava la persecuzione di quel partito d'azione che altrimenti sarebbe stato un naturale antidoto all'opposizione reazionaria. La fragilità della prassi legale genera la paura del complotto e la parallela attitudine a complottare. Il 16 dicembre 186o il luogotenente del re in Sicilia scriveva al ministro dell'Interno Marco Minghetti: Ciascuno di noi poteva vagamente presupporre il carattere e la natura delle difficoltà che si sarebbero qui incontrate, e credo che siamo risolti a superarle ad ogni costo. Forse un tumulto che ci dia plausibile occasione di mettere la mano sopra alcuni dei capi avrebbe conseguenze più felici che funeste. Si sta con gli occhi aperti ed Ella non tema che non mancheremo al debito [...]. Sarebbe follia l'impastoiarsi con inopportune consulte, consigli o altro. Posso assicurarle che si farà la convenuta pubblicazione dei codici ed ordinamenti e che già eravamo decisi a non crearci [impacci] ed opposizioni costituendo magistrature, anche consultive, sopra gli Atti del Governo. 6
La Sicilia entra nel nuovo regno con un ruolo di opposizione; è la roccaforte del partito d'azione, rivoluzionaria e violenta. Si aspettava gratitudine, una posizione privilegiata, una larga autonomia. Evolvendosi le cose in tutt'altro modo, lo Stato unitario eredita tutto l'astio prima riservato a quello borbonico: la storia dei rapporti fra l'isola e il nuovo governo sembra un lungo elenco di errori e reciproche insofferenze. Nel meridione troviamo un elettore su 38 abitanti, tre volte meno che al nord; in occasione delle prime elezioni i governativi, cioè i cavouriani, erano quasi stretti d'assedio fra reazionari, democratici e autonomisti. Garibaldini e moderati si accusano a vicenda di far parte di sette segrete, mentre al governo non si risparmia il sospetto di avere montato degli intrighi pur di far trionfare il partito unitario e moderato. In Sicilia il partito governativo controlla un'esigua minoranza e in effetti è anch'esso all'opposizione, scarsamente uni6 G. Scichilone, Documenti sulk condizioni della Sicilia dal 186o al 187o, Roma 1952, pp. 62-63.
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tario e tendente all'autonomia. Per l'autonomia è anche il partito garibaldino, dove confluiscono tutti gli scontenti: da parte del governo la repressione è violenta e ben presto coagula quel senso di delusione, di sfiducia e sospetto che costituisce il complicato miscuglio della turbolenza siciliana sotto i governi di Destra. A questo si aggiunga l'irrequietezza e l'insoddisfazione del popolo, la manifesta incapacità di mantenere l'ordine pubblico e l'alto numero di latitanti: il momento po litico appariva a tutti incerto, sembrava che l'ipotesi di un cambiamento di regime non fosse poi tanto peregrina. Qualche mese dopo l'annessione, il luogotenente in Sicilia chiede al ministro dell'interno come comportarsi con la pletora di impiegati che popola la pubblica amministrazione. Chi si era succeduto nel governo dell'isola ne aveva aumentato il numero con uomini che credeva fedeli, allontanando gli avversari «ma lasciando quasi sempre a questi ultimi lo stipendio che si godevano nell'impiego». Adesso «gli oppositori al governo si agitano per vendersi, i partigiani domandano una paga». Il luogotenente Alessandro della Rovere suggerisce una soluzione, «dimettere gli inetti senza distinzione di colore politico». 7 Invece, la politica della Destra fu di assorbire i clienti e cercare di comprare gli avversari, col risultato che lo Stato si ritrovò ad essere rappresentato da una burocrazia che mancava di senso dello Stato. L'Unità d'Italia, fortemente voluta da mazziniani e garibaldini, appare ai moderati come un rischioso dono e di fronte ai problemi del sud prevale lo scoraggiamento, il senso di inadeguatezza. Comincia a diffondersi la convinzione che le radici del brigantaggio siano nel tessuto della società meridionale, e si vorrebbe colpirne le radici. La repressione militare sembra la via più facile, con risultati subito visibili, ma l'impegno richiesto da una simile impresa è notevole: già nel 1861 gli uomini dislocati nel Mezzogiorno passano da 15.000 a 50.000 e poi a centomila unità, quasi la metà dell'esercito italiano è impegnato in una vera e propria guerra civile. La truppa arriva ignorando luoghi, lingua, costumi, percorsi. Trova il silenzio complice delle vittime, l'ostilità del clero, l'ambiguità dei notabili. «Presto il disordine dilagante nelle province, il brigantaggio, le paure dei proprietari, la caccia agli impieghi e ai favori di ogni sorta, la inet' Scichilone, cit. , pp. 73-74. 20
titudine e la inefficienza rilevate in ogni strato della società meridionale, divennero il fatto dominante agli occhi dei settentrionali». 8 Dall'aprile del 1861 al febbraio del '62 il luogotenente Alessandro della Rovere cumula i poteri civili e mi li tari, dopo Aspromonte nelle province meridionali viene decretato lo stato d'assedio e dal 20 novembre al 2 dicembre 1862 si tiene la prima discussione parlamentare sulla Sicilia. Nel frattempo la renitenza alla leva è massiccia, il governo la combatte mettendo a ferro e fuoco i paesi e moltiplicando così i latitanti. Nel 1862 si comincia a parlare di leggi eccezionali per reprimere il brigantaggio, il 15 agosto 1863 entra in vigore la legge Pica, intitolata «procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle province infette». Dal giugno al novembre del 1863 viene proclamato lo stato d'assedio e ampi poteri vengono dati al generale Govone, che conduce una spedizione contro la renitenza e il brigantaggio. I presunti briganti potevano essere passati per le armi senza troppe formalità, lasciando strascichi di risentimento nella popolazione. Le iniziative di Govone causano un'interpellanza alla Camera, ma la proposta di un'inchiesta parlamentare viene respinta mentre il generale ottiene un avanzamento di grado. I garibaldini e altri Io deputati democratici si dimettono per protesta. Alla fine del 1863 i propositi di insurrezione armata erano largamente diffusi. Il compito principale del nuovo Stato era la restaurazione del senso della legge, ma le frequenti violazioni delle libertà politiche e personali, le leggi speciali, gli stati d'assedio e anche l'arbitrio delle autorità certo non giovarono. In breve, i governi della Destra partono sempre con buone intenzioni e tentano di importare le forme dello Stato liberale: poi si scontrano con situazioni avverse che li spingono a continui compromessi, e la loro politica si risolve in un misto di rigore e cedimento. 8 Romeo, cit., p. 242. Dopo il plebiscito i garibaldini vengono circondati da un'atmosfera pesante e ci sono diversi attentati strumentali al loro isolamento. Ci sono anche casi di terrorismo indiscriminato, come la congiura dei pugnalatori su cui hanno scritto Leonardo Sciascia (1976) e lo storico P. Pezzino (1992). Episodi che, a seconda dei punti di vista, servono a chiedere un rafforzamento del nuovo Stato oppure a dimostrarne l'incapacità. La strategia della tensione in nuce, che affretta e mostra necessari gli accordi per l'esclusione delle opposizioni.
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Il grande brigantaggio nel Napoletano fu sconfitto nel giro di pochi anni, in Sicilia i problemi sembravano più sfuggenti e meno risolvibili. Fra i tanti, quello che avrebbe prodotto le conseguenze più visibili era il modo in cui i siciliani si rapportavano alla violenza e alla sua gestione, non riconoscendo allo Stato il monopolio del suo uso sociale, anzi giudicando biasimevole ricorrere al pubblico giudizio. 2. Le società giurate
Nella prima metà dell'800 il reato più redditizio e diffuso nelle campagne siciliane era l'abigeato, che implicava ampie complicità e una certa organizzazione. Nello stesso periodo viene registrata la presenza di unioni o fratellanze, originariamente nate per il mutuo soccorso, con una cassa comune per le necessità dei soci. 9 La loro principale caratteristica è il coinvolgimento della pubblica amministrazione e dei civili in genere, per cui ad indagare sino in fondo vengono fuori connivenze tali da consigliare di lasciar correre. Il problema delle bande armate che infestano le province di Palermo, Trapani e Girgenti diventa allarmante dopo il 1838, a causa del grande numero di latitanti. Negli anni che seguono troviamo una alternanza di repressioni, accomodamenti, scoppi di ribellione a carattere sociale, 9 Nelle relazioni che Pietro Calà Ulloa indirizza a Ferdinando II nel 1838 sono descritte le «unioni o fratellanze, specie di sette che si dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa sovviene ai bisogni di fare esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d'incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati; il popolo è venuto a tacita convenzione coi rei. Così come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazioni pel recuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s'inscrivono nei partiti. Molti alti funzionari li coprono di un'egida impenetrabile» (E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del '70o e dell'800, Roma 1 945, PP. 225 - 235). Analoghe testimonianze sulla Sicilia occidentale le forniscono il procuratore Giuseppe Ferrigno e l'economista napoletano Ludovico Bianchini, che visse in Sicilia con incarichi presso la luogotenenza del re dal 1837 al '48. Bianchini scrive delle componende, veri e propri ricatti subiti dalle famiglie più ricche, e «guai a quel proprietario che non prestavasi a siffatte convenzioni, ché i suoi poderi sarebbero distrutti o incendiati ed ucciso il bestiame, senza che la giustizia facesse il suo corso ed i rei fossero menomamente perseguiti e puniti. Quindi i proprietari, nel difetto delle istituzioni o nell'impotenza de ll e leggi e della podestà, paventando delle vendette sia de' ladri, sia degli stessi uomini d'arme, non osavano muovere doglianze» (F. Brancato, Mafia e formazione dello stato unitario, in Nuovi quaderni del Meridione, n. 81 (1983), PP. 4 -5).
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momenti rivoluzionari in cui la capacità di violenza si cerca di usarla come scorciatoia per l'affermazione individuale. 10 Nel corso dell'800 le associazioni segrete sono molto diffuse, non solo in Sicilia. Affondano le radici nella tradizione risorgimentale, sono attive già nel periodo napoleonico. Sono il luogo privilegiato per l'organizzazione dei nuovi ceti: attivando contatti verso l'alto, mentre veicolano modelli culturali e di comportamento verso il basso, creano canali di solidarietà e comunicazione fra i diversi strati sociali. Una volta che nel ceto medio si diffonde l'abitudine di agire per mezzo di società giurate, segrete, diventa spiegabile l'esistenza di molte mafie, alcune prevalentemente criminali e altre soprattutto politiche, accomunate dalla capacità di agire come gruppo in vista di un fine. I carbonari, che si diffondono soprattutto nel sud dell'Italia, sono dei massoni dissidenti con aspirazioni rivoluzionarie. In Sicilia ha una notevole diffusione anche la propaganda mazziniana, il lavoro di Nicola Fabrizi e della sua Legione Italica introducono l'isola in una rete cospirativa a carattere nazionale. Vi era poi un pullulare di sette minori fra cui è difficile orientarsi, ma i caratteri di segretezza e gradualità gerarchica sono comuni a tutte. Così, piuttosto che rimandare ad una mitica mafia delle origini, i rituali di iniziazione appaiono una riproduzione imperfetta di rituali massonici filtrati attraverso la carboneria e altre sette segrete. È rimasta traccia di un'associazione, la vendetta di Mentana, che dalla sede di Livorno diffondeva i suoi manifesti anche a Palermo. Fra le carte del generale Medici è stato ritrovato uno di questi fogli, datato Livorno 9 agosto 1868: esorta ad «affiliare tutta la buona gioventù approntando armi ed altro». L'associazione è segreta, gerarchica, è previsto un capozona per ogni quartiere e il pagamento di una somma mensile per i bisogni comuni» negli anni '7o, nei rapporti di delegati e questori sulle mafie che infestano il circondario di Palermo, ritroveremo la stessa struttura. Le società di mutuo soccorso erano abbastanza diffuse, nel novembre del 1868 la Prefettura compila un «quadro sinottico delle associazioni politiche, filantropiche e miste esistenti nella provincia di Palermo» registrandone 11: 15 Cfr. G. Fiume, Le bande armate in Sicilia. Violenza e organizzazione del potere (r819. 9 - 1 0 6. I84?), Palermo 1984, 1 P . Alatri , Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra (1866-74), Torino 1
954,
pp. 2 5 8-2 59. 23
7 formate da lavoratori e 4 logge massoniche. Delle logge massoniche si ignorano i componenti, i mezzi economici e «trattandosi di associazioni segrete che tengono un mistero strettissimo, si ignorano gli statuti». Le altre sono società di mutuo soccorso, dove i soci depositano un contributo a favore dei disoccupati, degli infortunati, delle vedove e degli orfani. Troviamo la corporazione dei mugnai e carrettieri che registrano 30o e 200 aderenti, e quella dei sensali. 12 Sarnoscilte'd1876,quanoelsricdtte criminali la questura si imbatterà nella loro spregiudicata abilità a monopolizzare il mercato. Torniamo alle associazioni politiche. Dopo l'Unità diventano patrimonio dell'opposizione mazziniana, rispetto alla struttura della vendetta di Mentana ci sono notevoli cambiamenti. La Giovane Italia supera il gradualismo dell'iniziazione, la clandestinità è solo un elemento contingente e il destinatario è il popolo. Ma in Sicilia le associazioni segrete legate all'influenza del giacobinismo, della carboneria e della propaganda mazziniana si inseriscono in un contesto che include altre strutture associative. Complice l'insularità della regione, le caratteristiche originali vengono inglobate ed elaborate in un prodotto nuovo, che solo in parte le conserva. Ad esempio ci sono numerose associazioni mazziniane, ma anche coloro che sostengono di essere adepti fedeli e ferventi modificano le teorie originarie e si scindono in numerose tendenze. Col risultato che i seguaci diventano di ostacolo alla diffusione delle idee mazziniane. 13 L'esigenza di distinguere la mafia dai reati comuni porta a darle una configurazione di setta e d'altronde l'idea della mafia come società segreta si afferma senza alcuna difficoltà: perché si tratta di un modulo comportamentale diffuso e a portata di mano, ed anche di un modello conoscitivo che spiega una realtà complessa semplificandola. Già nel 1864 Turrisi Colonna scriveva che la mafia, fiduciosa nell'impunità e nelle amnistie che avevano fruttato le rivoluzioni del 1848 e del '6o, era diventata una setta che ogni giorno 12
Scichilone, cit., p. 230. «La legione italica, alla quale è dovuto il più dell'azione mazziniana in Sicilia, voleva essere essenzialmente un organismo per l'azione», distinto da lla Giovane Italia. Mazzini si mostrò contrario, giudicando che si trattasse di uno snaturamento del suo ideale (Romeo, cit., pp. 273-274). Il contrasto si ripeterà in occasione della progettata insurrezione del 187o, quando i siciliani proporranno il solito utilizzo delle squadre e Mazzini rifiuterà perché « il moto deve uscire da convincimento e non da altro» (F. Brancato, La Sicilia nel primo ventennio del regno d'Italia, Bologna 1956, p. 375). 13
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trovava nuovi affiliati nella gioventù più svelta della classe rurale, custodi, contrabbandieri, manutengoli. 14 Di fronte alla riottosità dell'isola il governo mette nello stesso calderone clericali, borbonici, estrema sinistra e criminalità comune: mafioso diventa un'accusa per colpire gli avversari. Essendo un termine inclusivo, in grado di tollerare diverse sedimentazioni di significato, la parola mafia comincia ben presto ad essere presente nei rapporti ufficiali. Il Procuratore generale Giovanni Interdonato ne parla nella relazione per l'anno giudiziario 1865, giudicando l'istituzione delle giurie popolari di buon auspicio per il futuro e segno di sicuro progresso. Sempre al 1865 risalgono i rapporti del prefetto Gualterio, dove i capi dell'opposizione sono accusati di essere malandrini e mafiosi. Quell'anno vengono emanate nuove normative di pubblica sicurezza, le province di Palermo, Trapani ed Agrigento vengono divise in tre zone militari. Arriva in Sicilia il luogotenente generale Medici, che assieme al prefetto Gualterio coordina un'operazione militare in grande stile: per 6 mesi quindicimila uomini setacciano le campagne della Sicilia occidentale, col compito di reprimere il malandrinaggio. L'accusa di mafia viene utilizzata per eliminare l'opposizione, specialmente l'ala estrema della sinistra repubblicana. I risultati furono clamorosamente evidenti nelle politiche dell'ottobre 1865, quando Mazzini venne eletto a Messina con 262 voti contro i 51 raccolti dal generale Medici nelle vesti di candidato governativo. 3. L'ossessione dell'ordine pubblico
A tutti i dominatori venuti da oltremare Palermo era sembrata una città infida, per qualche viceré spagnolo era lei, città senza industrie e con una massa di plebe disoccupata, che manteneva un lusso arcaico in epoca moderna, ad essere il vero problema della Sicilia. E così sembrò anche ai piemontesi. Il problema dell'ordine pubblico era legato a Palermo e alla sua provincia, le cui frequenti emergenze finivano per assorbire e quasi cancellare il resto dell'isola. Dopo l'Unità è a Palermo che si temono complotti e rivolte. Talvolta le cospirazioni erano inventate, offrivano l'occasione 14 N. Turrisi Colonna, Cenni sullo stato attuale della pubblica sicurezza in Sicilia, Palermo 1864.
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per comode repressioni; altre volte esistevano. Le circostanze in cui si era formato il nuovo Stato, sommate al suo stile autoritario, creano un humus in grado di produrre cospiratori di tutte le tendenze. Ad esempio, i borbonici non hanno la forza per tentare una restaurazione ma, sfruttando la delusione verso il nuovo regime, organizzano dei comitati e cercano i capisquadra del 1848 e del '6o, incuranti del fatto che in precedenza erano insorti proprio contro i Borboni. All'inizio del 1866 numerosi rapporti ufficiali denunciano un crescente malcontento, ma le notizie che dal ministero si chiedono a delegati e questore sono sempre sulle condizioni dell'ordine pubblico; raramente ci si occupa di questioni economiche o delle amministrazioni locali. Durante la primavera e l'estate del 1866 numerosi repubblicani e mazziniani vengono incarcerati, colpiti da provvedimenti di ammonizione e domicilio coatto. Nella sola provincia di Palermo gli ammoniti sono circa 5.000, nelle campagne ricompaiono le bande armate, «a nessuno degli abitanti era dato di uscire dalle mura pei continui ricatti». La rivolta era nell'aria, tanto che vennero preparate delle Istruzioni nel caso di insurrezione della città e campagna di Palermo.ls Scoppiata per un insieme di circostanze, non ultima l'abitudine dell a questura a giocare con i complotti, la rivolta del settembre 1866 vede unite dietro la stessa barricata le due opposizioni estreme, i repubblicani e i filoborbonici. L'interpretazione ufficiale è che si tratti di un complotto borbonico-clericale-repubblicano, cementato dall'utilizzo delle squadre mafiose. Sembra una conferma del legame fra mafia, malfattori e oppositori politici che l'anno prima era stato denunciato dal prefetto Gualterio. Allora il prefetto aveva chiesto misure per stroncare la malefica alleanza, cosa che troppo facilmente equivaleva alla persecuzione degli oppositori. Adesso, dopo la repressione della rivolta, viene decisa una campagna militare che impiega 15.00o uomini agli ordini del generale Medici: provvedimento che nell'immediato allontana ulteriormente società siciliana e Stato unitario, e a medio termine ha altre sgradevoli conseguenze; perché nel Mezzogiorno le spese dello Stato sono minori che al nord e, servendo soprattutto a mantenere l'apparato repressivo e burocratico, non presentano un carattere produttivo. I fondi destinati al
sud si esauriscono nel pagare l'esercito, i carabinieri, le pattuglie che numerose perlustrano il territorio, i gendarmi, le carceri. Secondo lo stereotipo, dopo l'Unità il Meridione subisce una piemontesizzazione a tappeto, una violenza culturale che va di pari passo con quella militare. Ma, al di là delle norme coercitive e delle imposizioni fiscali, l'accentramento della struttura statale è molto relativo. Infatti, nel compromesso tra Stato e ceti dominanti locali, l'accentramento viene depotenziato da una politica di favori che diventa un surrogato dell'autonomia negata. I notabili sperimentano la possibilità di sottoporre al proprio controllo gli organi dello Stato, attraverso la rete tesa fra grandi elettori, deputati e ministri; tanto basta per ottenere nei fatti il potere locale. Un dato che emerge prepotente in occasione delle varie inchieste è la difficoltà dello Stato a raggiungere le periferie, dove resta a rappresentarlo una burocrazia sensibile alle pressioni locali e poco qualificata. Le difficoltà sono di ordine materiale, ad esempio la mancanza di strade che diventa uno strumento di resistenza passiva verso l'esterno. Ma ci sono altri ostacoli, che riguardano la qualità dei rapporti fra centro e periferia. Perché l'estraneità rispetto alle amministrazioni locali porta lo Stato ad appoggiarsi proprio sulla classe che gli è più ostile. Col risultato che spesso le amministrazioni locali boicottano le disposizioni generali, e per il centro diventa impossibile perseguire le infrazioni. Ad esempio, l'amministrazione comunale di Monreale ha l'abitudine di non seguire il complesso sistema di regole arrivato coi piemontesi, nemmeno se si tratta di mettere le divise ai vetturini di piazza, e di lasciare decantare reclami e reprimende finché non se ne perda la memoria. Nonostante il proclamato accentramento, il nuovo Stato si limita a controllare solo i macroelementi del sistema. Per il resto, funziona cedendo notevoli poteri ed autonomia ai gruppi locali, che all'analisi si presentano come strutture informali prosperanti negli opachi interstizi del sistema. In Sicilia troviamo una realtà periferica con ampi margini di autonomia, inserita in uno Stato che si propone come autoritario e accentratore. Due modi contraddittori di coesistere, che talvolta cozzano fra loro. Nel suo delegare poteri e responsabilità, nell'erigere i gangli periferici a suo unico interlocutore esaltandone le capacità di controllo e mediazione, il centro opera una delega in bianco e scommette su un'identità di intenti che esiste solo nelle comme-
15 Cfr. i documenti riportati da Scichilone, cit., alle pp. 1 7o -1 95. 26
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morazioni ufficiali. La mafia è il prodotto di questa contraddizione, riflette il modo in cui si presenta lo Stato unitario in Sicilia. L'Unità s'era compiuta in fretta, più velocemente di quanto i suoi protagonisti avessero osato sperare. Finito il momento esaltante delle lotte, comincia l'estenuante opporsi alle continue emergenze e la classe politica al governo chiede solidarietà. Soprattutto, la chiede per il controllo del territorio e per risanare il bilancio. Nei primi anni la differenza fra le spese e le entrate ordinarie si aggirava su una media di 400 milioni. In seguito il debito pubblico aumenta in modo preoccupante e nel 1870 il regno d'Italia aveva 88o milioni di entrate, 1.022 milioni di spese, 8 miliardi e 300 milioni di debito. Era urgente correre ai ripari. Nel marzo del 1868 viene approvata l'imposta sul macinato che frutta 2 lire al quintale per il frumento e r lira per il granturco. In sé l'imposta non è esorbitante ma, aggiunta a quella sul sale e altri consumi di prima necessità, risulta profondamente immorale. Ne seguono proteste in tutta Italia ma il popolo subisce le decisioni, è disorganizzato, compare sullo sfondo a giustificare le leggi eccezionali e le cariche di cavalleria: secondo le statistiche apparse sulla stampa il bilancio conclusivo dei moti sul macinato sarà di 257 morti, 1.099 feriti e 3.788 arresti.' 6 Era difficile giustificare questi numeri: anche se il tempo incalzava e l'emergenza era reale, non si poteva chiedere molta solidarietà con una politica pronta ad ogni compromesso ma a tratti ferocemente autoritaria. Così il partito al governo perde consensi, le elezioni del 21 novembre 1870 vedono una scarsa affluenza alle urne: circa il 50% degli aventi diritto preferisce astenersi e ben pochi candidati riescono a superare il primo scrutinio. Al sud, la Sinistra riesce a convogliare i voti di tutte le opposizioni in favore dei suoi uomini. -
4. Definire il diverso
Dopo la sommossa del 1866 c'è un progressivo deteriorarsi dei rapporti fra la classe dirigente nazionale e quella siciliana, ritenuta responsabile della rivolta e complice delle apparentemente insanabili condizioni dell'ordine pubblico. Nell'isola, gli interventi del 16
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Sereni, cit., p. 89.
governo contro il malandrinaggio accrescono i sentimenti di estraneità verso lo Stato, mentre il partito governativo diventa sempre più debole. Palermo è divisa fra diversi estremismi, nel luglio del '69 i clericali si alleano con i borbonici e vincono le elezioni amministrative. Ma ci sono anche tentazioni rivoluzionarie: nel 1870 si afferma il progetto di un'insurrezione mazziniana, che partendo dalla città doveva coinvolgere tutta l'Italia. Si tratta di un piano che rivela come Giuseppe Mazzini ignori le condizioni della Sicilia occidentale, tenuta in condizioni di regime eccezionale sotto il comando del generale Medici e dove non esiste un vero partito repubblicano. Non fidandosi del tutto, Mazzini decide di recarsi personalmente nell'isola, per rendere l'insurrezione più potente e controllarla. Arriva a Palermo il 13 agosto, viene subito arrestato. Nel corso dell'anno 1871 dal ministero dell'interno arrivano continue e pressanti richieste di informazioni, si cerca di definire i contorni della specificità siciliana. Il 3 marzo il ministro Lanza, «nell'intento di portare efficace rimedio al lamentevole stato in cui versa la sicurezza pubblica, specialmente in alcune province dello Stato», chiede ai prefetti: r) un elenco nominativo degli imputati che furono assolti o verso i quali non si è proceduto per mancanza di prove; 2) un elenco nominativo delle persone denunziate per l'ammonizione e che poi non furono ammonite; 3) notizie su quei reati di cui non erano stati scoperti i colpevoli, per intimidazione su chi poteva deporre. Nei giorni che seguono il ministero continua a inviare questionari, le risposte tardano ad arrivare. A fine mese il ministro scrive: «Attendo tuttora di conoscere [...] se abbiano acquistato consistenza i sospetti che si avevano intorno ad un possibile risvegliarsi della segreta ma operosa associazione della mafia», chiede «di conoscere se per avventura ne siano stati scoperti o arrestati i componenti». In mancanza di una organizzazione burocratica efficiente, se sono gli uomini ad essere archivi viventi e non esiste una rispondenza sulle carte, non è facile rispondere. Il rapido turnover dei responsabili della questura e della prefettura, l'avvicendarsi dei delegati, tutto concorre a vanificare eventuali ambizioni conoscitive, anche in questo campo l'Italia paga lo scotto della sua tardiva unità. 29
A Palermo il prefetto inoltra richiesta di informazioni alle sottoprefetture e ai delegati. Il 26 aprile il comandante della sottozona militare risponde da Monreale in merito al terzo punto: Nessun fatto del genere venne a manifestarsi palesemente, ed ho luogo di ritenere che l'azione della autorità di pubblica sicurezza sia stata energica -ed indipendente, e la giustizia abbia proceduto regolarmente. Di tutto ciò che in argomento possa essere andato diversamente non esiste memoria, né presso questo ufficio né presso la pretura o delegazione [...j. Presso la questura di Palermo, ove si tien conto e registro, come mi si assicura, d'ogni avvenimento delittuoso, potrebbe avere qualche luce quel soggetto.t 7
Le condizioni dell'ordine pubblico appaiono critiche. Palermo 1873, discorso del Procuratore del re per l'apertura dell'anno giudiziario: nel 1872 ci sono stati quasi 5 crimini al giorno e 5 delitti, 30o reati al mese con la prevalenza dei reati di sangue, «una corrente rossa che ha mantenuto la stessa direzione negli ultimi anni: circuisce Palermo, s'avvia per Monreale a Partinico e da Partinico per Alcamo s'inoltra nel finitimo circondario». Rivolgendosi a Palermo il procuratore Floreno si rifugia nell'invettiva retorica: «L'angelo de lla Palingenesi possa col caduceo della giustizia mondarti di quel lubrico insetto, la mafia, che sfigura il tuo volto immortale, che corrode le tue membra d'amazzone». 18 Il 6 luglio 1871 il generale Medici aveva sollecitato e ottenuto provvedimenti straordinari che inasprivano il regime dell'ammonizione e del domicilio coatto. Nel corso dello stesso 1871 e nel 1872 troviamo un conflitto fra l'autorità di pubblica sicurezza e la magistratura, che culmina nell'incriminazione del questore Albanese come mandante di omicidio. L'accusa più grave che la magistratura rivolgeva al questore era di combattere la delinquenza con la delinquenza, riciclando i malviventi come tutori dell'ordine. Cosa che, se nell'immediato garantiva il controllo del territorio, di certo non favoriva il rispetto per le istituzioni. Ormai si era entrati in un circolo vizioso, dove per mantenere gli stessi risultati era necessario rafforzare di continuo le disposizioni restrittive. Ben presto i pote17 18
ASP, GP,
anni 1871-72, busta 24, fascicoli 19 e 23.
Discorso inaugurale per l'apertura dell'anno giuridico 1873 al tribunale di Palermo, letto dal procuratore del re Girolamo Floreno, Palermo 1873, p. 50.
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ri concessi dalla legge del 1871 non sembrano più sufficienti e il generale Medici riprende un provvedimento adoperato dalla polizia borbonica l'empara, che in attesa del decreto ministeriale permette di trattenere in carcere i segnalati per il domicilio coatto e gli imputati già assolti. 19 L'emergenza dell'ordine pubblico viene contrastata a forza di provvedimenti illiberali, ma un'attenta lettura dei documenti mostra come molti funzionari siano consapevoli delle cause sociali dell'emergenza siciliana, anche se in altri momenti chiedono di rafforzare le misure eccezionali o sono alla guida dei battaglioni che setacciano le campagne. Di fronte al progressivo assottigliarsi del partito governativo, nel secondo trimestre del 187o il prefetto generale Medici scrive al ministro del grave malcontento causato dalle molte tasse, sottolinea la miseria del popolo, suggerisce che la questione politica è subordinata a quella sociale, sostiene come «per distruggere la mala pianta del malandrinaggio che tutti gli sforzi dell'autorità non giungono, purtroppo, che a tenere a freno» sia indispensabile migliorare le condizioni economiche della provincia. 20 Infatti, oltre ai provvedimenti restrittivi delle libertà individuali, durante la prefettura Medici c'è anche l'avvio di numerose opere pubbliche. Ma saltuari episodi di segno diverso non bastano a recuperare un rapporto che appare incrinato. Tanto più che gli unici interlocutori dello Stato continuano ad essere quegli stessi notabili verso cui cresce la diffidenza, mentre manca una classe sociale su cui poggiare la politica del governo.
19 D. Foti, Sull'andamento di taluni pubblici servizi in Sicilia, Palermo 1875, p. 9. Il provvedimento dell'empara è riconosciuto illegale nel 1874, quando il prefetto Rasponi rilascia gli ammoniti di vecchia data su cui non pesa alcun carico specifico. 20 Scichilone, cit., pp. 243-246.
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Capitolo primo
Le dinamiche di fondo
Chi discendendo da Monreale getta lo sguardo sopra questo vaghissimo anfiteatro, la Conca d'Oro, e ne contempla i mi lle giardini irrigati da chiare e fresche acque, e i fitti boschetti e poi vi ll e e florette e giù giù attraversando la storica Panormus, lungo il Corso, ampio, affollato, discende al Foro italico, alla più fantastica, elegante e ricca passeggiata d'Ita lia [...] rimane estatico e pensa essere questa la città dell'Eden, dove tutti si è ricchi e felici, senza eccezione e restrizione. Ma pur troppo tutto ciò che luce non è oro...'
1. I domini dell'arcivescovo A partire dall'Unità, le molte denunce sulle condizioni dell'ordine pubblico in Sicilia non tralasciano mai di soffermarsi su Monreale. Fonti diverse fanno riferimento ad un particolare clima morale e alludono a gravi disordini senza entrare nel merito, come per cosa da tutti conosciuta. Monreale sembra nata sotto il segno della violenza, con le radici penetranti in un magma di lotte non risolte che la condizioneranno nei secoli futuri. Città artificiale, fondata nel 1182 come risultato dello scontro che oppone il re normanno Guglielmo all'alto clero e ai baroni, la cattedrale e il monastero benedettino ricevono dal re 72 feudi per un totale di circa 50.000 ettari, di cui 21.000 coltivabili e il resto rocce, acquitrini o boschi. 2 La valenza politica della nuova cat1 Relazione statistica dei lavori compiuti nel distretto della Corte d'appello di Palermo nell'anno 1878, letta ila gennaio 1879 dal procuratore generale del Re Carlo Morena,Paler-
mo 18 79, P. II. 2 I feudi erano sottoposti a diverse forme di dominio: to erano liberi, cioè nel pieno dominio dell'arcivescovo, 18 a censo enfiteutico, 39 a masserie, 5 versavano decime. Il territorio si divideva in 6 camperie, quella di Monreale raccoglieva i feudi di Caputo, Ambleri, Moharda, Vallecurta, Renda, Cannavera, Giacalone, Regalicelsi, SuvareiAi, Sagana, Giardinello, Monchilebi, Mandra di mezzo, Piatti, Mirto o Sardo (Asp, iGBV, serie la, busta 18, relazione del delegato M. Puglia al regio economo generale del 6/1/1880).
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prestigio delle parti, mentre all'ombra della rivalità fra preti e frati si radica e cresce una tradizione di violenza.
tedrale è evidente, allo splendore e all'interna profusione di ricchezze corrisponde lo scabro aspetto esterno, l'immagine di chiesa fortificata la cui architettura si protende a minacciare il territorio circostante. La cattedrale appare molto riccamente dotata, ma dei feudi concessi una parte era in mano ai saraceni, solo un nome sulle pergamene. Prima di fruttare rendite e diritti avrebbero richiesto una lunga e sanguinosa crociata interna e una lenta ripopolazione. Emanazione e contraltare delle lotte per il potere sullo sfondo della capitale, Monreale appare collegata al re in contrapposizione ai baroni. Troppo ricca per non suscitare l'altrui odio; la cattedrale e il suo vescovo gestiscono un patrimonio enorme, uno stato ottenuto a danno di comuni e chiese. Senza contare che il fasto della cattedrale e i domini dell'arcivescovo suonano eterna offesa al presule della capitale. La storia di Monreale coincide con quella del suo arcivescovado, segnata dal conflitto fra benedettini e clero secolare. All'ombra della cattedrale preti e monaci operano per screditarsi a vicenda, i primi scontri risalgono addirittura al 1200 e, visto che nessuno è abbastanza forte da sottomettere l'altro, nessun potere riesce a legittimarsi. 3 Fra la Chiesa e il paese c'è troppa vicinanza, una quotidiana consuetudine poco edificante. L'importanza della sede arcivescovile moltiplica i casi di prelati interessati solo a lle ricchezze della diocesi, mentre il paese è imperniato sul clero, diviso in fazioni che ne riproducono le spaccature, e sviluppa un profondo disincanto lontano da qualsiasi spirito religioso. Il ceto medio non rispetta neanche l'arcivescovo da cui a vario titolo dipende: può accadere che, mentre la sede è vacante, proprio sotto il palazzo arcivescovile venga costruito un ricettacolo per le acque sporche provenienti dal quartiere Ciambra. 4 Fra i signorotti polacchi o nelle fazendas messicane, ogni volta che la struttura statale non è in grado di esercitare il monopolio della violenza ritroviamo l'organizzazione militare del potere locale. A Monreale ci sono due poteri antagonisti e troviamo le bande in lotta, apparentemente incontrollabili: la capacità di proteggerle è misura del
Il decadimento del potere vescovile viene diluito nel corso dei secoli e comincia presto, non appena la chiesa di Monreale diventa dispensatrice di privilegi a favore di chiese minori, conventi e monasteri. Gli attacchi congiunti del governo, dei baroni e dei ceti medi provocano una notevole diminuzione del patrimonio e, nel 1742, il regio visitatore monsignor De Ciocchis trova che le Mense di Catania e Monreale lamentano molte usurpazioni, numerose ma poco estese a Catania, solo zo a Monreale ma di grande estensione, interi feudi di cui si sono impadroniti baroni, chiese o monasteri. Simone Corleo ricostruisce che «dei 72 feudi della Mensa arcivescovile di Monreale, all'epoca della visita di Monsignor De Ciocchis se ne trovavano già alienati 16 sotto forma di enfiteusi o di massaria con obbligo di decima o con un canone senza titolo particolare, e allora intendevansi impugnare dalla Mensa istessa come irregolari».' In Sicilia l'arcivescovado di Monreale è uno dei molti enti che godono di potere politico, le particolari vicende storiche dell'isola lo mantengono vivo e autonomo invece di inglobarlo all'interno di un più vasto e complesso organismo. Esaurito il legame diretto con la monarchia, e continuando a mantenere numerosi privilegi, l'arcivescovado diventa un ostacolo al tentativo di costruire uno Stato moderno, un centro di potere che il re vorrebbe smembrare e assimilare. Nel 1775 Ferdinando II di Borbone ne ottiene la soppressione da papa Clemente xiv, che lo accorpa alla diocesi di Palermo mentre i beni della Mensa vengono incamerati dal demanio: l'arcivescovo li amministra per conto del sovrano, solo una congrua di 4.000 onze è destinata ai bisogni della chiesa. Nel 1802 papa Pio vu ripristina l'arcivescovado e reintegra la Mensa nei suoi possedimenti; nomina poi un nuovo arcivescovo, che però si ammala poco dopo l'insediamento e muore nel 1805. L'amministrazione ricade in mano regia sino al 1816, quando al nuovo arcivescovo viene consegnato lo stato delle temporalità incompleto: mancano gli atti del catasto fondiario, non si conoscono i nomi dei censuatari, l'indicazione delle terre è sommaria. Col risultato che 15 feudi si volatilizzano.
3 In un'epistola del 17 giugno 1203 papa Innocenzo iII minaccia i monaci di scomunica e riepiloga i molti eccessi in cui sono incorsi nella lotta contro l'arcivescovo Caro (J. L. Huillard Breholles, Historia diplomatica Federici Secundi, Parigi 1852-61, riportato in G. La Fiura, La terra, la chiesa, gli infedeli, inedito). 4 est)M, FM, busta 401. L'episodio accade nel 1820.
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S. Corleo, Storia della enfiteusi dei terreni ecclesiastici di Sicilia, Caltanissetta-Roma 977, P. 7.
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Altra disgraziata circostanza, nel 182o l'archivio della Mensa subisce un incendio. Per una volta si rivela provvidenziale la consuetudine di concentrare i titoli negli studi di notai e avvocati, ed è possibile la parziale ricostruzione della memoria patrimoniale. Dal canto loro, anche le rendite subiscono notevoli diminuzioni: dopo il I812 quei diritti variabili ed incerti che non erano stati aboliti in quanto angariali ed ex feudali vengono assicurati con prestazioni di frumento e orzo. Ma nel 1841 un decreto permuta questi canoni in denaro e espone alle variazioni inflazionistiche, rendendoli sempre più irrisori. Con l'obiettivo di creare uno stato accentrato, un regno ispirato all'idea del dispotismo illuminato, la legislazione dei Borboni perseguì a lungo l'obiettivo di limitare la potenza baronale ed ecclesiastica e favorire i contadini senza terra. La proprietà de ll a Chiesa era più vulnerabile e assistiamo a diversi tentativi di frazionarla, ma ancora nel decennio precedente l'Unità gli enti ecclesiastici possedevano più di un decimo della proprietà terriera, ottenendone una rendita pari alla metà di quella percepita dai privati. Le grandi riforme tardavano ad avverarsi, comunque in Sicilia la storia del colono nelle proprietà baronali e in quelle ecclesiastiche è molto diversa: mentre il primo riceveva la terra in affitto solo per due o tre anni, senza alcuna continuità nel possesso e nella coltivazione, nei fondi ecclesiastici i contratti sono molto più lunghi e a partire dalla seconda metà del '700 le antiche prestazioni vengono trasformate in canoni fissi. Nei domini dell'arcivescovo di Monreale il sedimentarsi della proprietà si intreccia con le mutevoli relazioni di forza che si dispiegano nella breve distanza, cioè con l'avvicendarsi dei prelati e lo stile della loro presenza. La storia dell'agro monrealese non è riconducibile alle vicende generali che attraversano le campagne siciliane, è tutta interna alle dinamiche della Mensa arcivescovile. Per quanto se ne ha memoria, i feudi dell'arcivescovo sono sottoposti a diverse forme di dominio e quelli più vicini al paese, divisi in piccoli lotti, sono sottoposti a decima. Nel corso dei secoli le concessioni diventano ereditabili e la parola decima viene sostituita da «canone enfiteutico». Nel monrealese la distribuzione della pro6
Per una cronaca generale degli avvenimenti cfr. G. Schirò, Monreale (territorio, po-
polo e prelati dai normanni ad oggi), Palermo 1984•
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prietà ecclesiastica e la creazione di una classe di piccoli proprietari è anteriore all'Unità d'Italia: i più bei giardini sulle pendici del monte Caputo e nella vallata di Palermo hanno origine dalle estese enfiteusi dell'arcivescovo Testa e nel 1773, anno in cui l'arcivescovo muore, erano già diffusi i canoni fissi. All'inizio del xix secolo l'arcivescovo di Monreale possedeva 36 feudi ma negli anni successivi i passaggi di proprietà subiscono una notevole impennata, e «di tutti gli altri feudi che nel 1742 possedevansi dall'arcivescovo, non gliene restava nel 1863 che uno solo, Scalilla e Giardinazzo, vicino Calatafimi, perché gli altri erano stati tutti concessi o usurpati».' 2.
La rivolta
Le insurrezioni che scoppiano in Sicilia nel corso dell'800 si presentano come potenziali acceleratori, occasioni in cui la violenza e la capacità di gestirla diventano un capitale socialmente utilizzabile. La tradizione rivoluzionaria di Palermo, la sua forza e la sua debolezza, sono le squadre che al primo segnale si raccolgono e scendono verso la città. Per 6 tari al giorno anche i pregiudicati vengono arruolati, e le squadre sono ingombranti ma sempre a portata di mano, pronte ad accorrere. Poi i più ambiziosi fra quegli uomini, i più decisi e valenti, potranno anche occupare posizioni importanti per il mantenimento dell'ordine pubblico. I luoghi di provenienza delle squadre sono Monreale, Misilmeri, Villabate, Carini, Cinisi, i Colli, Sferracavallo, gli stessi che nel corso degli anni '7o ritroveremo al centro delle indagini sulle associazioni mafiose. Rispetto al territorio urbano siamo in campagna, ma la vicinanza de lla città e del potere plasmano un particolare tipo di violenza. Molto più spesso che altrove in questi luoghi la violenza è merce, facilmente se ne spe7 Relazione sulle condizioni della Mensa datata 20/12/1879, ASDM, FM, busta 384. Per la visita di monsignor De Ciocchis cfr. Romeo, Il risorgimento in Sicilia, Bari 1 973, pp. 114-115. Per la ricostruzione de lla proprietà ecclesiastica prima dell'Unità cfr. A. Scifo, La proprietà della terra nella Sicilia preunitaria, in Nuovi quaderni del Meridione, n. 54 (1976); su Monreale cfr. M. Lo Monaco Aprile, Le decime e la Mensa arcivescovile di Monreale, Palermo 1901. Nel 1866 il feudo Scalilla viene diviso in lotti e dato in enfiteusi, le sue rendite vanno all'intendenza di finanza. In Corleo (cit., p. 588), la campagna di Monreale è fiorente e frazionata ma in gran parte appartiene ai signori residenti in città; nei fondi vivono le famiglie dei curatoli e dei braccianti. Questa descrizione è più aderente alla periferia di Palermo (cfr. S. Lupo, Storia della mafia, Roma 1 993, pp. 5 2-59) che a Monreale.
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rimenta il valore di scambio. La rapidità con cui la si può spendere ne determina la particolare natura, lontana da quella del marginale e dell'escluso che si contrappone frontalmente alla società: qui troviamo un miscuglio di insubordinazione e calcolato spirito anarchico, senza però tralasciare quei caratteri di razionalità e oculatezza çhe, noterà Franchetti nel 1876, altrove la classe media utilizza per il mantenimento dell'ordine. Durante le rivoluzioni le conseguenze della gestione privata della violenza sociale diventano più evidenti, perché squadre e Guardia Nazionale, entrambe inaffidabili, si comportano nell'identico modo. Ad esempio, col senno di poi fu facile accorgersi che la grande fiducia accordata alla Guardia Nazionale nella rivoluzione del 1848 era stato un grave errore, perché quell'istituzione si rese assai fatale alla libertà, e ne precorse la rovina, rendendosi funesta quanto le squadre [...], specialmente pei terribili fatti di sangue accaduti a Monreale, in cui le rivalità dei monaci benedettini e de' preti secolari avevano stabilito feroci divisioni di famiglie e di classi, che a vicenda proteggevano gli assassini occultandoli alla giustizia». Venne fatta una sorta di epurazione ma il rimedio si rivelò peggiore del male, «poiché i congedati, privi di mezzi, sull'incominciare dell'inverno si diedero a' furti e agli ammazzamenti.'
All'interno della particolarità e dei privilegi che la Sicilia reclamava a gran voce, Monreale voleva riconosciute ulteriori sue diversità. Si richiamava a ll e sue origini, a lla spropositata estensione del territorio, alla ricchezza dei giardini, alla potenza del vescovo e alla magnificenza della cattedrale. Così, dopo l'Unità le cose si mettono subito male. Nonostante fosse fra i luoghi che più avevano contribuito alle varie rivoluzioni, il paese è visto come un covo di reazionari e non manca di suscitare impressioni negative, rifuggendo dall'instaurare un legame di fiducia con le nuove istituzioni che da pochissimo s'erano affermate. In un rapporto del 1861 leggiamo: Signore, la missione da lei affidatami in questo comune, con somma mia pena vedo non presentare alcun favorevole risultato, giacché tutti gli abitanti di questo, non esclusi il sindaco, il comandante della Guardia Nazionale e i capitani dell a stessa, accusano parecchi monrealesi come veri e sfacciati bor8
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F. Guardione, La rivoluzione siciliana degli anni 18 48 -49, Milano 1927, pp. 145- 1 46.
bonici, che macchinano e congiurano apertamente tutto il giorno, che cercano di attraversare tutte le operazioni del real governo e che giornalmente tentano di gettare il paese nel disordine e nell'anarchia, ma intanto portati al punto di dovere fare una formale dichiarazione rotondamente diniegano, accusando dei timori per le loro persone e le proprietà [...]. Per mancanza di verbali deggio soffrire con rabbia di vedermeli passeggiare sul muso.
Il paese è insubordinato e portato alla ribellione, ma non sempre è chiaro per cosa combatta. Durante la rivolta del 1866 nella chiesa delle Croci, sopra la città, sventola una bandiera rossa con sopra scritto Repubblica ma è il convento dei benedettini, che si pensa sede di un comitato borbonico, ad essere il centro dell'insurrezione. La popolazione appare tutta coinvolta, dalle case si riversano uomini armati, frati e preti agli ordini del benedettino padre Spadaro distribuiscono armi ai rivoltosi. In attesa di vedere chi vince il municipio resta a guardare e la Guardia Nazionale, che «aveva dato tanta prova dello spirito di anarchia e di malandrinaggio da cui era dominata», 10 sino ad essere prosciolta, si organizza in squadre e non impedisce l'assassinio di un ispettore di pubblica sicurezza. L'insurrezione viene repressa con l'arrivo del corpo di spedizione dell'esercito comandato dal generale Cadorna, che il 2 settembre sbarca a Palermo. Il 24 è proclamato lo stato d'assedio, che durerà sino a dicembre. Lo stesso giorno, cambio di guardia alla questura. Il questore Pinna, addensando i dubbi sulla sua gestione, rifiuta di consegnare al suo successore Biundi molti documenti riservati, fra cui un pacco con su scritto «atti ricevuti dalla delegazione di pubblica sicurezza di Monreale, gestione Palmeri Paolo». 11 A Monreale, viene sciolto il consiglio comunale e nominato un regio delegato straordinario. La Guardia Nazionale non ha assolto il suo compito, «impedire che le orde dei ribaldi piombassero sopra Palermo»: 12 viene sciolta e disarmata. I benedettini vengono dispersi, i conventi di Monreale e San Martino occupati. Il 13 ottobre 1866 è l'ultimo giorno di esistenza giuridica del monastero benedettino: in applicazione 9 Rapporto al questore del 14 dicembre 1861, su carta intestata Ispezione di pubblica sicurezza, mandamento palazzo reale, in ASP, AGQ, busta 435. 12 ottobre 1866, rapporto del regio commissario per la provincia di Palermo al Presidente del Consiglio dei ministri in Scichilone, cit. p. 202. 11 Il questore sostiene che ha consegnato i documenti in pacco chiuso al prefetto Tore lli, ma non se ne trova traccia (ASP, Cr, anno 1866, busta 8, fasc. 19). 12 Decreto di scioglimento in ASCM, busta 522.
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della legge approvata il 7 luglio di quell'anno i beni degli enti religiosi passano al demanio. La legge di soppressione delle corporazioni religiose crea uno stato di estremo disordine amministrativo: i religiosi «allegando di avere riacquistato i diritti civili se ne andarono senza dare consegna alcuna, senza pagare le passività arretrate, senza rendere conto della gestione. Sciolto l'ente morale, senza surrogarvi altra amministrazione che per mezzo di inventari conoscesse lo stato delle cose, ninno poté sapere più né a cui pagare né da cui riscuotere». 13 Dopo la repressione, il paese appare tutt'altro che pacificato. La pubblica sicurezza in Monreale è nelle più anormali condizioni; le campagne mal sicure, e da ciò la necessaria conseguenza dello abbandono delle medesime da parte dei buoni; nello stradale di Palermo avvengono ben spesso delle grassazioni, anche pria del tramonto del sole. Non son tre giorni che con la massima inconcepibile temerità si derubò un mulino a zoo passi dalla città [...]. Da due giorni non si è rinvenuto in città un individuo nominato Faraci Antonino, e si dubita se fosse stato sequestrato o assassinato. I capibanda della reazione sono spesso in città. 14
Nel dicembre il prefetto marchese di Rudinì invia una lettera circolare ai sindaci della provincia: per evitare aggressioni sugli stradali, è preferibile che gli eventuali viaggiatori si riuniscano in carovane e chiedano la scorta ai comandanti dei distaccamenti militari. l > Il 3o maggio 1867 la commissione parlamentare incaricata di studiare le condizioni «morali ed economiche» della città e della provincia di Palermo si reca a Monreale, ascolta la ricostruzione de lla rivolta, più volte resta perplessa. Se le condizioni della pubblica sicurezza sono migliorate, perché all'imbrunire ognuno si ritira nella propria casa ? Tutti sono d'accordo nel sostenere che «ora si respi13 Deposizione di Fumagalli, regio economo generale, davanti a ll a commissione d'inchiesta del 1866 in M. Da Passano (a cura di), I moti di Palermo del r866. Verbali della Commissione parlamentare d'inchiesta, Roma 1981, p. 16. Su Monreale cfr. anche le pp. 246-248. Circa gli eventi successivi cfr. G. Millunzi, Il capitolo della cattedrale di Monreale e il suo patrimonio, Palermo 1919. A Monreale i benedettini rappresentano canonicamente e civilmente il capitolo della cattedrale; nel 1866 si apre il contenzioso se i beni sono monastici o capitolari, cioè se appartengono ai benedettini o alla cattedrale. Per il momento i monaci vengono espulsi e se ne incamerano i beni. 14 ASP, GP, anno 1866, busta 8, fasc. 29. 15 ASCM, busta 56o, fasc. 53
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ra, ma il fuoco è sempre sotto la cenere», il relatore Fabrizi registra una lieta novità: grazie alla repressione che ha ripulito le campagne,
i proprietari possono andare in villeggiatura. La commissione sostiene che per eliminare la mafia basta aumentare le opere pubbliche, fondare scuole e aprire strade, migliorare il tenore di vita della popolazione. Eppure, una vena di perplessità che non si lascia ricacciare indietro affiora anche nella relazione conclusiva: Quella serie di grossi villaggi guasti per gente assai pervertita, che attornia Palermo e, quasi corona di acute spine, talvolta l'insanguina, non sarebbe per avventura causa di un pernicioso circolo di azione e reazione tra campagna e città, talché i campagnoli alla città e ai suoi ricchi dintorni mirassero come chi spera raccogliervi preda, e i facinorosi che in questa si annidano ai vicini monti volgessero lo sguardo, come a luoghi di rifugio per sottrarsi a ll a punitiva giustizia? 16
Dopo la rivolta del 1866 altre più urgenti vicende portano il caso Sicilia lontano da lla pubblica attenzione, ma non per questo l'isola smentisce la sua tradizione di ribelle. Nel 1867 il questore Albanese scrive al prefetto che nei paesi della provincia non si trova un vero partito governativo, «un elemento d'ordine tanto numeroso e compatto da essere un forte appoggio al governo». 17 Dal 1868 il generale Medici riunisce nelle sue mani il potere civile e quello militare, comanda le truppe di stanza in Sicilia ed è prefetto di Palermo. Le sue buone intenzioni vengono vanificate dalle continue emergenze: la crisi economica è grave e continua, i generi di prima necessità rincarano, le condizioni dell'ordine pubblico sembrano sempre ad un passo dal collasso. Lo Stato cerca di ancorarsi alla classe dei civili, chiama i notabili ad essere parte in causa: il generale Medici veste i panni di prefetto e cerca la loro alleanza. Ad esempio, per il rilascio del porto d'armi è indispensabile un «attestato di probità firmato da tre proprietari o altrettante persone opinate del paese». 18 I malandrini ritenuti meno pericolosi sono rimessi in libertà dietro la garanzia di persone probe ed oneste. Viene saltata la fase in Relazione della commissione per l'inchiesta sul16 Camera dei deputati, sessione 1867, le condizioni morali ed economiche della città e provincia di Palermo, di G. Fabrizi, Ro-
ma 1867, p. 30. 17 Scichilone, cit., p. 210. 18 Decreto prefettizio del 7/12/1866, in
ASCM,
busta 56o, fasc. 53.
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risvegliarsi del malandrinaggio, chiede misure eccezionali. Per evitare che simili fatti possano ripetersi in quello che è «paese di gente trista e dedita a delinquere», il comandante dell'arma dei carabinieri propone «il disarmo dell'inutile e anzi dannosa Guardia Nazionale e l'apertura di accurate indagini sulla condotta delle guardie campestri e specialmente sul loro comandante, uomo dubbio e pericoloso per la pubblica sicurezza». Nei giorni seguenti, non appena cala l'oscurità, in diversi punti del paese si odono spari, senza che la forza pubblica riesca a individuarne il motivo e tanto meno gli autori. Il 23 dello stesso mese alcune fucilate vengono esplose in direzione dell'abitazione di un uomo che gestisce una «casa a pegno», Alberto Caruso. I colpi partono dalla dirimpettaia campagna contro il balcone al secondo piano, il delegato e alcune guardie accorrono, rinvengono per terra gli stoppacci. Il delegato Palmeri scrive che probabilmente si tratta di uno scrocco tentato verso il Caruso, per intimorirlo e indurlo al pagamento. «Ed invero si tratta di una tecnica che i malandrini di Monreale adoperano spesso. Quale che sia la causa il fatto è grave, tanto più se si mette in relazione col risvegliarsi in quel paese della maffia, ed alla recrudescenza di reati che vi si deplorano». Vengono arrestati 14 individui. Durante la loro detenzione non ci sono altre fucilate nella notte ma, in assenza di altri elementi di prova, ben presto sono rilasciati. 21
cui si crea un rapporto di fiducia e identificazione fra cittadini e istituzioni, lo stesso Stato che presidia militarmente città e campagne chiede aiuto. Ed è tutto un colossale compromesso che si va edificando, un edificio costruito sulle amichevoli transazioni, dove i metodi adoperati dalla polizia per il controllo del territorio non disdegnano le illegalità e il sistema di garanzie rappresentato dalla magistratura viene considerato un inutile intralcio. 3.
La pubblica sicurezza, fra rigore e compromessi
Nel censimento del 15 dicembre 1872 a Monreale vengono registrati 16.211 abitanti," c'è un vistoso apparato di forza pubblica per controllarli: carabinieri, guardie di pubblica sicurezza a piedi e a cavallo, guardie campestri, numerosi bersaglieri per il servizio esterno. Ma il luogo appare lo stesso in balia degli eventi, agitato da avvenimenti che di continuo ne turbano la tranquillità. Anche se talvolta i protagonisti coincidono, bisogna distinguere i reati sociali, da riportare ad una protesta di tipo anarchico e all'intenzione di aggirare il sistema fiscale che grava soprattutto sui meno abbienti, da altri reati finalizzati al controllo del territorio e al monopolio su beni essenziali come l'acqua. Nel 187o il contrabbando di farina causa almeno una vittima, la guardia daziaria Napoleone Orsatti di Sondrio, che il 14 giugno viene ucciso da due giardinieri. Uno degli assassini viene arrestato, l'altro riesce a fuggire «nei circostanti boscosi giardini d'agrumi» lasciando nelle mani delle guardie solo il suo berretto di lana nera e un fucile.20 Di segno diverso è quanto avviene nell'ottobre di quell'anno: la notte del 18 una banda di numerosi armati percorre la parte superiore del paese, passa vicino al posto di guardia della Madonna delle Croci, arriva sino alla Carrubella, scende per una via assai recondita e assale il posto daziario vicino porta san Michele, sulla strada principale. È una simbolica dimostrazione di forza, solo una guardia riporta leggere ferite alle mani. Le guardie dichiarano di non avere inimicizie o contrasti con chicchessia, e di non avere riconosciuto nessuno dei malviventi. Il delegato Palmeri indaga, arriva solo a congetture. Ad ogni buon conto, viste le apprensioni che provoca il 19 ASP, GO, anni 2875-81, busta 6s, fasc. ASP, AGQ, anno 1872, busta 671.
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«Alle detonazioni accorsero il delegato e guardie di pubblica sicurezza che rinvennero per terra gli stoppacci».
Il processo del 1878 stabilisce che a Monreale esistono due associazioni rivali di vecchia e nuova mafia: la più recente fondata dal fratello del delegato che, per mantenere l'ordine, aveva reclutato i più facinorosi e ben presto ne aveva perso il controllo; la vecchia insidiata nel suo potere. A vicenda si erano dati dei nomi per dileggio; i giovani erano stati chiamati stuppagghieri, ad indicare dei buoni a nulla capaci solo di fabbricare turaccioli, in dialetto stuppagghi. Scurmi fitusi, sgombri andati a male, erano i vecchi, per dire che il loro tempo era già finito. Un'interpretazione tutto sommato rassicurante. Ma il dialettale stuppagghiu, che nei documenti della polizia diventa stoppaglio o stoppaccio, è anche una parte della miccia che i fucili a re-
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AS P , GP,
anni 1871-72, busta 24, fasc.
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trocarica eliminano ogni volta che sparano, quanto resta sul terreno dopo un agguato. Quindi stuppagghiere, che produce stuppagghi, non è più un insulto per dire incapace di offendere, tutt'altro. Nell'agosto del 187o vengono sequestrati due giovani monrealesi, Salvatore Spinnato e Filippo Lo Verde, dopo un mese ancora non se ne ha notizia. Il ministro rimprovera il prefetto di Palermo, per la facilità con cui nei paesi si verificano simili reati. Piccato, il prefetto Medici risponde che avvengono e si ripetono perché nessuno collabora con le autorità, preferendo trattare coi criminali. Continua il prefetto: Questo gravissimo e perniciosissimo difetto è chiamato in gergo siciliano omertà, vale a dire segreto tenuto per minaccia subita e per timore di vendetta, fino ad un certo punto giustificabile perché mosso da un sentimento di timore che non venga al ricattato un danno maggiore, quando i ricattatori si accorgessero che le ricerche della forza pubblica sono state da essi provocate. 22
Nel 1871 continua lo stillicidio dei sequestri. Il 4 febbraio viene fortunosamente liberato il giardiniere Salvatore Di Liberto. Uno dei suoi sequestratori viene catturato perché si è rotto una gamba, la cancrena lo ha ridotto in fin di vita. Di Liberto era stato tenuto prigioniero in una grotta, dove «furono sequestrati 6 scapolari d'albagio, una coperta, bottiglie, piatti ed altri oggetti». 23 La grande facilità con cui si concedono i permessi d'arme, giustificando l'abitudine di girare armati con l'insicurezza delle strade, è il sintomo più evidente della difficoltà a mantenere l'ordine. E la violenza diventa una pratica quotidiana, solo casualmente visibile. Ad esempio il 1° maggio 1872, assieme alla moglie e ai due figli di 8 e 3 anni, Salvatore Cappello è in chiesa per la messa. I bambini prendono il revolver che il padre ha dimenticato su una sedia, cominciano a giocare, finiscono col ferirsi. 24 A più riprese si tenta di limitare la diffusione di armi e armati, ma i provvedimenti hanno il carattere di estemporanee ripicche. Fra le 22 ASP, GP, anni 1870-71, busta 25, fasc. 3 1. ASP, GP, anni 1871-72, busta 24, fasc. 23. 24 ASP, AGQ, anno 1872, busta 666. 23
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carte d'archivio è rimasta memoria di una vicenda esemplare per quell'insieme di rigore e compromesso, due atteggiamenti che sembrerebbero non avere niente in comune, con cui viene gestita la pubblica sicurezza in Sicilia. Il rigore è indossato quando il ripetersi di episodi criminosi rende visibile il conflitto fra i gruppi di interesse; il compromesso è l'abito mentale con cui si presentano le autorità in cerca di legittimazione. 29 gennaio 1871, il questore Albanese emana un decreto affisso nei punti principali del paese: Il questore viste le condizioni della Pubblica Sicurezza nel comune e nel territorio di Monreale, in conseguenza dei reati che vi si consumano, [...] in virtù dei poteri conferitigli dal sig. prefetto decreta: art. 1) restano provvisoriamente revocati tutti i permessi di porto d'arme conceduti sino al presente giorno agli abitanti del comune di Monreale e del suo mandamento. art. 2) Tutti coloro che sono provveduti di porto d'arme in detta località sono tenuti a presentarli all'ufficio di pubblica sicurezza di Monreale entro il termine di giorni 5 dalla data presente. art. 3) Potrà poi l'autorità di pubblica sicurezza rinnovare i permessi a quelle persone che stimerà essere meritevoli.
I permessi vengono ritirati a molti giardinieri, a qualche sacerdote, a possidenti e notabili a cominciare dal sindaco, il notaio Antonino Leto, anche se giudicato probo e di ottima condotta. È facile immaginare i malumori che ne derivano. Visto che le aperte proteste non sembrano fruttuose, il 28 febbraio il sindaco ringrazia il questore per i provvedimenti intesi a ristabilire la pubblica sicurezza e, «dopo alquanti giorni che non succedono reati in genere», chiede la restituzione del porto d'armi ai buoni «i quali hanno abbandonato le loro proprietà e sospeso le loro industrie appunto perché inermi si sentono, più malsicuri di prima ad uscire dal paese». Il sindaco prepara un elenco dei meritevoli, 184 nominativi di «cittadini riconosciuti onesti dall'autorità» e reclama la restituzione del porto d'armi «essendo i medesimi non solo privi di condursi nei loro poderi, ma di garantirsi i diritti e la vita». Non ottiene risultati, il 13 aprile interviene il delegato Palmeri. Scrive che su 2 individui inseriti nella lista del sindaco ha qualche riserva, invia un elenco aggiornato sottoscritto dal comandante de ll a sottozona militare. Però 45
lo stesso giorno quest'ultimo prende le distanze, precisa di avere firmato un elenco preparato dal delegato ma che in gran parte si tratta di individui a lui ignoti. Comincia la stagione de ll a caccia alle quaglie. Il 16 aprile il sindaco scrive al questore che tutti lo tormentano, lo prega di voler disporre la restituzione dei permessi. A lui si associa il delegato Palmeri: «I palermitani hanno cominciato a canneggiare le quaglie nella contrada di Monreale, urtando la suscettibilità dei dilettanti monrealesi [i quali] non vogliono sentire ragioni, dicendo che le quaglie vanno facendosela franca». Palmeri si rivolge al segretario del questore: «Non posso che raccomandarmi alla di lei valevole persona (...) onde secondare la smaniosa aspirazione di questi cacciatori, avuto anche riguardo alla perfetta tranquillità che qui si gode da più di tre mesi». Il paese è tranquillo ma gli abitanti sono nervosi ed esasperati, non sembra più il caso di escludere nessuno dall'elenco dei buoni cittadini. Il 15 maggio Palmeri consiglia il questore: «Per non nuocere alla suscettibilità di questi abitanti sarei di avviso non doversi fare alcuna eccezione in ordine ai permessi d'arme». Che infatti saranno tutti restituiti. 25 4. La nomina dei vescovi
Carico di privilegi e perciò naturalmente reazionario, l'alto clero siciliano era preoccupato dalla rapida avanzata delle idee liberali. La pretesa che il papa dovesse spogliarsi dei suoi domini temporali veniva vista come prova della corruzione dei tempi, immoralità e disordine. Nel marzo del 186o l'arcivescovo di Palermo invia alla diocesi ancora una pastorale contro il liberalismo, e c'è molta differenza fra l'alto clero più realista del re e il basso clero antiborbonico e liberale, che partecipa alle rivoluzioni e infine accorre fra i garibaldini. Fuggiti i Borboni, i vescovi siciliani si adeguano rapidamente al nuovo stato di cose. Compreso il vescovo di Palermo mons. Naselli, tutti rendono omaggio a Garibaldi. Solo due vescovi restano apertamente ostili: il vescovo di Patti mons. Celesia, che rifiuta di prestare giuramento a Garibaldi dichiarando di averlo già prestato al governo borbonico, e mons. Papardi, teatino messinese, che come amministratore apostolico regge la diocesi di Messina. Papardi dichiara che l'esercito garibaldino è composto da «predoni, disperati, 25
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anni 187o-71, busta 328.
nemici della giustizia e dell'ordine», e per queste parole viene encomiato dal papa. Quando, notabili in testa, la popolazione de ll a città si reca a rendere omaggio a Garibaldi, il vescovo resta nel suo palazzo rifiutando l'invito a riconoscere il dittatore. Resiste orgogliosamente, anche quando viene arrestato e condotto davanti ad una speciale commissione incaricata di indurlo a più miti consigli. Dichiara che lascerà la diocesi solo se costretto, Garibaldi ne ordina l'esilio e poco dopo il vescovo ripara a Roma. 2ó Tranne qualche segnalazione fra le carte riservate della Prefettura, in mezzo a elenchi di complottardi, del vescovo Papardi si perdono le tracce per lo anni. E a Roma, vicino a quella corte borbonica in esilio che non si stanca di ordire congiure. Il 12 febbraio del 187o il suo re senza Stato gli concede un'onorificenza, diventa Cavaliere Gran Croce del real ordine di Francesco I, «prendendo in considerazione le pregevoli qualità di lei e l'attaccamento alla legittima dinastia». 27 Nell'ottobre del 1871 Pio ix lo nomina arcivescovo di Monreale. Dopo l'Unità la Chiesa continua a sentirsi aggredita e defraudata in quella sfera temporale che considera sua di diritto, la formula «libera Chiesa in libero Stato» le appare come l'insopportabile sopruso di una cricca anticlericale al potere. La reazione fu una rigida intransigenza ufficiale, coniugata ad un costante appoggio a tutte le cospirazioni e al tentativo di screditare il nuovo Stato a livello internazionale. 28 Le manifestazioni quotidiane di una frattura altrove consumata coinvolgono aspetti tali da mettere in crisi le più elementari ambizioni burocratiche. Ad esempio, dal 1866 al 1871 nel circondario di Palermo ci sono 886 battezzati che non vengono iscritti allo stato civile e si celebrano 4.244 matrimoni col solo rito religioso, senza alcun valore giuridico. Rischia di mettersi in moto un processo di scollamento che si teme inarrestabile, si moltiplicano le reazioni di allarme, agli uomini d'ordine la società appare «in balia di una generazione di bastardi». 29 26 N. Giordano, Giuseppe Papardi, "servo fedele del Borbone" arrestato ed espulso dal77. la Sicilia in Monreale nostra, anno VIII, n. 5-6 (1965). Cfr. anche Scichilone, cit., p. fast. 22. 6, busta 2 a sez. 1a, serie 27 ASDM, lGO, Il clero palermitano nel primo decennio dell'Unità d'Italia, Pa28 Cfr. F. M. Stabile, lermo 1978. Discorso inaugurale per l'apertura dell'anno giuridico 1873 al tribunale di Palermo, let29 to dal procuratore del re Girolamo Floreno, Palermo 1873. ,
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Con la presa di Roma i problemi diventano ancora più evidenti, l'appena formata e fragile unità si trova ad affrontare la convivenza del re e del papa nella stessa città-simbolo. I vescovi sono un anello importante della politica papale: grazie alla legge delle guarentigie, formalmente respinta ma nei fatti utilizzata, il papa ha il potere di decidere autonomamente la loro nomina; è naturale che vengano di preferenza designati quanti si sono mostrati contrari al nuovo regime. La legge abolisce il regio exequatur, cioè il formale benestare del re alla nomina arcivescovile, che però è ancora necessario perché il vescovo possa occuparsi dell'aspetto civile del suo ministero. 30 Nel clima di attivo ostruzionismo fra Chiesa e Stato il regio exequatur diventa l'occasione per uno scontro diffuso; assieme agli arcivescovi di Palermo e Monreale molti vescovi nominati dopo il 187o compiono un atto di disconoscimento verso lo Stato e non lo richiedono, aprendo un contenzioso che si trascina per anni. D'altronde precorrono i tempi solo di poco, poiché ben presto la segreteria di Stato vaticana proibisce di avanzare la richiesta a tutti i vescovi nominati dopo il 1872. Per essere un paese che viveva attorno alle chiese, all'inizio degli anni '7o Monreale aveva più di un motivo per preoccuparsi. I benedettini erano stati dispersi dopo la rivolta del 1866 e, anche se la proibizione governativa di risiedere in paese era durata un solo anno, i diritti capitolari continuavano ad esercitarli da lontano. L'arcivescovo D'Acquisto era morto il 7 agosto 1867, dopo quattro anni la sede vescovile era ancora vacante. Perché non fossero menomati i diritti dello Stato in materia di patrimoni ecclesiastici, nell'ottobre del r869 l'amministrazione della Mensa passa fra le attribuzioni dell'Economato generale per i benefici vacanti. La carica di pro-amministratore per conto dell'arcivescovo esiste ancora 31 mailsuopterb dimnuto:lasiptrimonio viene gestito da Faro Scarlata, che ricopre il ruolo di «su3°
A Monreale il problema si complica, perché la chiesa è di regio patronato, col sovrano direttamente interessato alla nomina dei vescovi. Sino a non molto tempo prima il re proponeva al papa gli arcivescovi della diocesi; ad esempio mons. Balsamo, arcivescovo sino all'aprile del 1844, riceve la bolla pontificia 8 mesi dopo la regia segnalazione (Cfr. Schirò, cit., p. 75). 31 Antonio Martines è pro-amministratore sin dal 1855 (ASDM, FM, busta 366,
Stato nominativo dei funzionari e impiegati).
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beconomo nella diocesi di Monreale» e figura anche nell'organico della Mensa. L'unico superiore di Faro Scarlata è l'economo generale per i benefici vacanti in Sicilia Antonio Crisafulli, solo un nome in qualche documento. Il subeconomo è un amministratore per conto dello Stato, preleva il 2,5% sulle rendite riscosse dai procuratori di Alcamo e Monreale e la sua presenza dovrebbe garantire la regolarità dell'amministrazione. Ma Faro Scarlata non sembra curare né gli interessi de lla Mensa né quelli dello Stato, che d'altronde in questo momento coincidono, e durante la sua gestione la poca trasparenza diventa una regola. Diverse volte dagli uffici dell'economato si richiedono chiarimenti, l'amministrazione a cui Faro Scarlata sovrintende dà sempre risposte evasive. Arrivano lettere prima sorprese e infastidite (18 gennaio 187o: «Il sunto del bilancio da lei trasmesso è affatto insufficiente») e alla fine anche indignate. Con insistenza si sollecitano notizie sulla situazione di cassa, l'amministrazione non risponde. Per gli impiegati della Mensa, il disservizio si spiega inserendolo in una tradizione che spesso caratterizza la gestione dei patrimoni ecclesiastici, ma è anche disinteresse ostentato e rifiuto a sottostare alle disposizioni dell'Economato. Però, non si capisce perché a rappresentare l'Economato venga mantenuto Faro Scarlata, che con tutta evidenza adotta un comportamento contrario agli interessi del ministero che rappresenta. Ci si aspetterebbe che alle rimostranze avesse fatto seguito qualche provvedimento, o anche la sostituzione del subeconomo con un funzionario più sensibile alle esigenze del ministero. Invece, dopo circa un anno non ci sono più richieste e l'economato si defila. 33 "
Nella seconda metà del 1871 a Monreale arriva la notizia che presto ci sarà un nuovo arcivescovo, Giuseppe Maria Papardi dei principi di Parco. Anche a Palermo la sede vescovile è vacante, il papa vi destina monsignor Celesia. 32 Nel 1855, aveva 28 anni, Faro Scarlata figurava in organico come «aiutante segretario» (ASDNM, FM, busta 366). Con decreto ministeriale del 1 0 giugno 1866 è «provvisoriamente incaricato di svolgere le funzioni di regio subeconomo» (ibidem, busta 379). Sembra che per un lungo periodo Faro Scarlata conservi il suo vecchio ruolo, o almeno lo stipendio: ancora il 3o/11/1873 risulta in un elenco di impiegati per cui si deve «spedire polizza di pagamento» (ibidem, busta 383). 33 Cfr. ASP, EGBV, serie 1 a, busta 57.
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La nomina dell'arcivescovo Papardi avviene in contrasto col governo, ma di questo tutti si mostrano lieti. I canonici prebendati hanno un sussulto di orgoglio e ricordano «la missione che diè Gesù Cristo ai suoi apostoli, quando li mandò a predicare il Vangelo senza il placet di Cesare». Papardi si trova a Roma, ed è nella capitale che vengono indirizzati numerosi messaggi gratulatori che, al di là delle formule di circostanza, lasciano intravedere una profonda ostilità verso il nuovo Stato. La nomina dell'arcivescovo viene più volte definita «concessione di una grazia speciale», l'eco della sua fama «apre i nostri cuori», anche se preoccupa notevolmente i funzionari della prefettura. Da 5 anni il capitolo dei canonici cassinesi è vacante, i vicari che hanno sostenuto il peso dell'officiatura monastica benedettina esprimono estremo giubilo per il nuovo arcivescovo, e davvero sembrano bisognosi di guida e conforto: «Co ll a sua alta mente conosce bene per quanti rispetti possa essere dagli stessi desiderata e di quanta consolazione dovette essere il sentirla». Anche il collegio dei 6 canonici secolari, arcipreti e parroci «occhi e braccia del vescovo», innalza sentite grazie alla misericordia di Dio perché sono «cessati i giorni della vedovanza» e, conoscendo i meriti del prescelto e i bisogni de lla cattedrale, «vediamo spuntare per noi l'aurora del sospirato giorno dell'ordine e della pace»: speranza che, viste le condizioni de ll a diocesi, non doveva essere dettata solo dall'amore per la retorica. Ben presto viene predisposta la consegna del palazzo arcivescovile. Sfrattati alcuni ex camerieri dell'arcivescovo D'Acquisto che vi abitano senza più averne titolo, i falegnami sono al lavoro per riparare mobili e infissi. Per conto del ministero delle finanze, il 7 dicembre del 1871 il regio economo Crisafulli consegna i palazzi arcivescovili di Palermo e Monreale ai rispettivi vicari capitolari. Il 9 febbraio del 1872 Papardi è trionfalmente accolto dal sindaco, da ll a giunta, dal pretore e dal coro dei notabili. La festa è di tutti, le campane suonano a stormo, le case vengono i lluminate. Monreale ha di nuovo il suo vescovo. 34 Molto spesso gli arcivescovi di Monreale hanno adoperato il prestigio della sede per accrescerne la magnificenza, nei secoli il loro nome è rimasto legato a una cappella, un ponte, una fontana. Di Papardi la memoria dei luoghi non serba traccia, le cronache storiografiche lo ricordano solo per scarni accenni. Eppure cercare di de34
ASOM, FGO,
cit., p. 468. 50
busta 6, fase.
22;
sulla nomina di Celesia e Papardi cfr. anche Alatri,
cifrarne la figura opaca è essenziale, non solo per comprendere le dinamiche del periodo o la decadenza de ll a potente Mensa arcivescovile, ma anche per osservare da vicino il funzionamento di quei meccanismi che permettono l'affermarsi del metodo mafioso. 5. Il regime delle acque La santa metropolitana maggiore chiesa di Monreale e i suoi illustrissimi arcivescovi, da che non vi à memoria d'uomo in contrario, ha posseduto come possiede tutte l'acque [che] nascono e scaturiscono nel proprio territorio [...] denominate con diversi nomi ordinariamente secondo il luogo ove scaturiscono. 35
Quell'insieme di pratiche di violenza sistematica chiamate mafia si fonda sul controllo monopolistico delle risorse. La mafia più vecchia è quella dell'acqua, preziosa per i giardini, per i mulini, per la città. Condizionati dall'immagine di un meridione riarso, si dà per scontato che siamo in presenza di un bene scarso, gelosamente protetto, concesso solo agli amici. La realtà può essere molto diversa. Osservando come si determina il monopolio dell'acqua in un luogo dove effettivamente lo si riscontra, cerchiamo di tenere presenti quelle particolarità che fanno di Monreale il laboratorio aperto ipotizzato all'inizio di questo lavoro. La prima condizione è la particolare struttura della proprietà: le enfiteusi di vecchia data e la vicinanza della città favoriscono lo sviluppo di una agricoltura intensiva, specializzata, basata sulla coltivazione degli alberi da frutto,36 che recepisce e cerca di sfruttare al massimo le congiunture favorevoli. Le campagne del circondario sono coinvolte nella rivoluzione agrumaria, 37 cioè in una coltura con una forte carica speculaRelazione senza data in ASP, EGBV, serie t a, busta 418. Le tecniche colturali del giardino irriguo, vicino a ll a città e contrapposto alle distese latifondistiche dell'interno, rimandano alla civiltà araba, come è testimonato dai nomi ancora oggi usati in Sicilia per indicare le opere irrigue (cfr. fl. Bresc, Les jardins de Palerme, 1290-1460, in «Mélanges de l'Ecole française de Rome», tome 84, 1972). Venezia 199o, dove 37 Sull a rivoluzione agrumaria cfr. S. Lupo, Il giardino degli aranci, viene ricostruita la coltura agrumaria, $ commercio e il variegato mondo degli intermediari dagli inizi del xix secolo sino al primo dopoguerra. Sulle sue caratteristiche di agricoltura ricca e speculativa, proiettata verso i mercati esteri, cfr. anche M. Aymard, Economia e società: uno sguardo d'insieme, pp. 5-37 in M. Aymard e G. Giarrizzo (a cura di) La Sicilia, Torino 1987. Sugli agrumeti nei dintorni di Palermo L. Franchetti scriveva: «La perfezione della coltura nei giardini d'agrumi della Conca d'oro è proverbiale; ogni palmo di terra è irrigato, ogni albero è curato come potrebbe esserlo una pianta rara in un giardino di orticoltura» (Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia, Firenze 1 974, P. 3). 33 36
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tiva che cambia il volto delle campagne e lascia ampio spazio di manovra agli intermediari. L'impianto degli agrumeti è possibile perché le terre sono ricche d'acqua, ma il boom agrumario moltiplica sia i profitti e la competizione che il bisogno d'acqua. Ne deriva che il valore dell'acqua e l'importanza di quanti ne regolano la distribuzione risultano notevolmente accresciuti, tanto più che gli agrumeti si impiantano anche su terreni sino ad allora incolti. Su questo sfondo agiscono degli uomini pronti a sfruttare sino in fondo una congiuntura favorevole, che riescono ad avere l'esclusiva di un bene essenziale ma sino ad allora non scarso. La ricostruzione del regime delle acque appare un'indispensabile operazione preliminare, che ci permette di isolare il momento in cui avviene il passaggio delle consegne a favore di un gruppo coeso, più motivato di quanti in teoria erano tutelati dal diritto. La cerchia di monti che per tre lati circonda Monreale forma il bacino idrografico del fiume Oreto, «...molte sono le sorgive che esistono nelle vaste tenute di terra che fanno da corona alla città di Monreale, a cominciare da Giacalone sino al confine di Palermo, toccando da un lato il monte dell'ex feudo Caputo e dall'altro l'ex feudo Moarda e il Parco». Le sorgive più importanti sono quelle del Giacalone, Api e Sant'Elia, dette nel complesso acque del Giacalone, ma sono più di 70 le sorgive, le scolature, gli spandenti che si immettono nel fiume della Cannizzara («poscia detto delli Mulini e in appresso della Sabucia»), che raccoglie tutte le acque. 38 Nella parte attiva del bilancio della Mensa sono registrate prestazioni per gabelle d'acqua, le troviamo elencate anche nella relazione che il regio visitatore Monsignor de Ciocchis stende nel 1742. In tutti i documenti è scritto che la Mensa concede in uso gratuito l'acqua de lle varie sorgenti per favorire le colture, assegnandola con ruoli di distribuzione compilati in genere ogni 7 anni; a seconda dei luoghi e de lla coltura, l'acqua viene distribuita ogni 8, 13, 14 0 16 giorni. 39 Sembra il 38 ASDM, FM, busta 397. L'acqua è della Mensa «per gli amplissimi privilegi di molti serenissimi re e imperatori corroborati da molte bolle pontificie», convinzione che anche dopo l'Unità riflette l'orientamento della legge. L'uso delle acque era regolato dall'articolo 54o del codice civile del 1865, che riproduceva l'articolo 563 delle leggi civili del 1819, nel solco del diritto romano. Recitava l'articolo 54o: «Chi ha una sorgente nel suo fondo può usarne a piacimento» (cfr. G. Ferrara, Brevi cenni sulla legislazione delle acque nell'interesse della Sicilia, Palermo s. d., in ASDM, FM, busta 393). s In ASDM, FM, buste 190 e 191 si trovano i ruoli di distribuzione dal 1468 al 1818.
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massimo della liberalità: un bene prezioso nemmeno venduto ma semplicemente distribuito, regolarizzato nell'uso. In realtà, una volta che i feudi attorno a Monreale sono concessi in enfiteusi, conservare il possesso delle acque coincide col tentativo di mantenere sotto controllo i fondi e ricavare un guadagno dalle acque, tanto abbondanti da superare di gran lunga il fabbisogno delle terre che attraversano. Sul possesso e l'uso delle acque, lunghissime liti oppongono i giardinieri dell'agro palermitano ai monrealesi. L'origine dei contrasti risale al 1761, quando l'arcivescovo di Monreale dà in gabella le acque di una sorgente poco lontana dal paese ai giardinieri del territorio di Palermo. La sorgente è quella di S. Rosalia, le sue acque hanno il volume di una zappa e mezzo. 40 Poco dopo lo stesso arcivescovo Testa avvia un vasto programma di opere pubbliche, fra le altre cose progetta di rifornire d'acqua la parte alta dell'abitato. L'acqua di S. Rosalia è l'unica che vi può arrivare con poca spesa, nel 1763 l'arcivescovo toglie la gabella ai giardinieri palermitani e la concede al municipio di Monreale. Le sorgenti complessivamente chiamate «acque del Giacalone» vengono poi raccolte in un canale, la saja,41 lungo ro km e mezzo, che irriga circa 400 ettari nel territorio di Monreale, aziona mulini e opifici, incontra diverse grandi vasche di misurazione. L'arcivescovo stabilisce che, come risarcimento, i palermitani abbiano perpetuo diritto a una zappa e mezzo sulle acque del Giacalone, da prelevarsi dopo che i monrealesi hanno usufruito delle loro tre zappe d'acqua. Così, a valle del canale le acque della Mensa servono ad irrigare i terreni fino quasi al fiume Oreto e, congiungendosi con quelle della Magione, anche in città fanno girare numerosi mulini. 42 Vi4° La zappa è l'unità di misura per l'acqua irrigua, un braccio d'acqua che comprende tanto spazio quanto ne occupa un cerchio dal diametro di 8 centimetri (V. Mortillaro, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Palermo 1876, alla voce). Col carico idraulico di un palmo (cm 25,8), cioè con l'altezza del livello d'acqua nel serbatoio di un palmo, «corrispondeva a 12,88 litri d'acqua al secondo (circa 1.300 mc. al giorno)» (F. Lo Piccolo, Sorgenti e corsi d'acqua nelle contrade occidentali di Palermo, Palermo 1994, p. 22). 41 Dall'arabo saqiya, canale scoperto in muratura dove scorre l'acqua utilizzata per i campi e i mulini (ibidem, p. 16). Anche gebbia, vasca in muratura per la raccolta delle acque irrigue, è parola araba. 42 Sin dal 1582 a Palermo esiste una «Amministrazione delle acque cittadine» ma per secoli vengono ignorati sia il volume de lle acque che i titoli dei concessionari. Solo nel 1850, sotto pena di sospensione del diritto, i possessori d'acqua presentano i loro titoli. Si ha così un elenco dei debitori e dei creditori e viene creato un archivio; sempre nel 185o l'architetto Giuseppe Caldara determina l'esatta unità di misura della zappa e la forma dei cannelli di misurazione. Sino a quella data Palermo era ritenuta ricca di acqua, negli anni successivi le usurpazioni causano una progressiva diminuzione delle acque che arrivano in città (ibidem, pp. 21-26).
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sto che le acque del Giacalone hanno un volume maggiore della zappa e mezzo su cui hanno diritto i palermitani, quelle eccedenti restano di proprietà della Mensa ed è previsto che siano date in gabella. 43 Una clausola apparentemente innocua di questa transazione, «dopo che i monrealesi hanno usufruito delle loro tre zappe d'acqua », fu capace di mettere in moto conflitti interminabili perché, riferendosi ad un meccanismo di controllo che non esisteva o era molto permeabile alle pressioni, faceva crollare il traballante edificio degli accordi. L'acqua a cui hanno diritto i giardinieri a valle è quella che cala, «aut plus aut minus», a loro rischio, pericolo e fortuna, 44 e da questo momento l'uso delle acque sembra dipendere da una sorta di sopruso codificato. Se i giardinieri a valle hanno diritto a quella che cala è evidente che ad essere favoriti sono quelli a monte; si aggiunga che il sistema di misurazione non è attendibile e le usurpazioni numerose. Infatti i contrasti cominciano subito e il tratto di fiume incanalato denominato Giacalone e poi Cannizzara, che raccoglie le acque su cui hanno diritto i giardinieri palermitani, è quello dove si concentrano le liti. Nel 1775 l'arcivescovado di Monreale e quello di Palermo vengono unificati, il patrimonio della Mensa passa al demanio e l'arcivescovo l'amministra per conto dello Stato. La negligenza viene amplificata dalla volontà di non facilitare la vita ad uno Stato impostore, e la carenza di controlli crea lo spazio per il proliferare delle pratiche illegali. Chi prende l'acqua della Mensa senza averne titolo è un usurpatore, ma la diffusione dei comportamenti illeciti unita all'impunità li rende socialmente accettati. Le usurpazioni non vengono represse, nemmeno in seguito a circostanziate denunce. Nel 1781, «nel giorno del giovedì, per come asseriscono i guardiani, si prendono l'acqua tutti i giardinieri di Monreale, e l'introducono in certi stagnoli a bella posta fatti, e manca tutto il fiume nel territorio di questa città di Palermo». Viene condotta un'ispezione e la maggior parte delle prese da mezza zappa risulta avere una carica doppia a quella busta 397. G.Adragna, Regio economato dei benefici vacanti in Sicilia nella rappresentanza della Mensa contro il consorzio delle acque del Giacalone, Palermo 1879, riepiloga le posizioni della Mensa in materia di concessioni d'acqua. Si richiama agli originari contratti di gabella, risalenti quasi tutti al 23 marzo 1764, dove le ore d'acqua venivano concesse senza che la Mensa avesse alcun obbligo in merito alla quantità d'acqua e alla sua custodia (ASDM, I M busta 393). 43 ASDM, FM, 44
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dovuta, le misure appaiono corrose, ai lati de lle vasche sono stati fatti dei buchi. «Per conservarsi l'acqua ai padroni li quali spetta di giustizia» l'ingegnere camerale Attinelli suggerisce di riparare le gebbie, aggiustare tutte le prese, regolare i buchi che sono fuori misura e renderli uniformi, riparare la saja. Ma «nessun provvedimento all'uopo fu emanato allora dal tribunale del real patrimonio». 4s Quando nel 1816 la Mensa torna in possesso dei suoi averi, riuscire a sbrogliare «l'arruffata matassa delle acque» 46 sembra solo una possibilità remota. In teoria l'acqua appartiene all'arcivescovo e questi è «libero dispositore delle cose sue», può toglierla quando crede e poi concederla a suo talento, 47 ma il lungo periodo in cui le usurpazioni sono rimaste impunite rende poco probabile che le disposizioni e i vecchi diritti della Mensa tornino ad essere rispettati. L'acqua attraversa i fondi e ognuno se ne serve secondo il suo bisogno, tanto abbondante da sopportare le appropriazioni che numerose si succedono lungo il suo corso e lo stesso riuscire ad arrivare a valle. È un sistema che si autoregolamenta, l'offerta della risorsaacqua è più abbondante della domanda. Il primo elemento di disturbo coincide col riapparire della Mensa e dei suoi agenti, di guardiani che parlano di turni di distribuzione e pretendono d'essere pagati per il loro lavoro. Non appena si profila la possibilità che un attore esterno con pretese di controllo possa intervenire, gli enfiteuti si costituiscono in consorzio nel tentativo di privatizzare le acque. Dichiarano di esercitare il loro diritto, ma al momento di esibire i documenti emerge «la carenza di titolo degli attori originali»: più volte il perito nominato dal tribunale riferisce che non può adempiere al suo incarico poiché «gli attori consorziati non hanno riprodotto i rispettivi titoli d'ognun di loro, nonostante le reiterate richieste». 48 Il precario equilibrio su cui si regge il regime delle acque rischia di precipitare a ogni congiuntura esterna sfavorevole: una siccità o 45 ASDM, FM, busta 397. 46 Definizione coniata il 31
ottobre 1913 dal regio economo, ma valida anche un sebusta 395). 4/ Così il 5 maggio 1877 il subeconomo Faro Scarlata risponde ad una interrogazione del barone di Maggio, su come si regolasse l'arcivescovo per stabilire il ruolo delle acque (ASDM, FM, busta 393). 48 Cfr. G. Adragna, Comparsa conclusionale per la Mensa di Monreale contro il sedicente consorzio delle acque della Cannizzara e del Giacalone, Palermo 1883, in ASDM, FM, busta 393.
colo _prima
(ASDM, FM,
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il boom degli agrumi sortiscono lo stesso effetto destabilizzante, rimettono in discussione equilibri già sedimentati. La Mensa arcivescovile torna ad essere visibile in coincidenza con la rivoluzione agrumaria, cioè con l'affermazione di una coltura che moltiplica i profitti ma necessita di irrigazioni abbondanti e ravvicinate. E a questo punto che. una risorsa sino ad allora abbondante diventa un bene prezioso, per cui si accende una feroce competizione. La Mensa si proclama padrona de lle acque e le assegna seguendo un ruolo di distribuzione rinnovato di frequente, per modulare i turni sulle colture praticate nei fondi. Il ruolo era stato compilato nel 1832, nel 1839 e nel 1846. Di quest'ultimo in molti dovevano essere rimasti scontenti e nel 185o viene pubblicato un altro turno, che a lungo non sarà rinnovato. Per le acque del fiume Cannizzara si provvederà solo nel 1880, e ci sono sorgenti per cui nel 1889 la distribuzione è fatta ancora sul ruolo del 1850, stravolto da numerose modifiche. Nel ruolo del 1850 il turno era generalmente stabilito ogni 14 giorni e 10 ore. Dopo alcuni anni il pro-amministratore fa qualche concessione e lo porta a 15 giorni. Nel 1865 viene modificata la distribuzione dell'acqua della Moarda, nel 1868 il procuratore Pietro Di Liberto, delegato del pro-amministratore per il servizio delle acque, fa degli speciali ordinativi ed estende il turno ad oltre 17 giorni. Si tratta di cambiamenti che favoriscono l'arbitrio, perché accampando speciali concessioni i custodi possono facilmente commettere abusi nella consegna. E infatti, i reclami degli utenti danneggiati sono continui; molti ricorrono alla Mensa chiedendo conto e ragione delle variazioni, denunciano le prepotenze e gli imbrogli dei custodi che spesso diminuiscono le ore d'acqua di un proprietario per favorirne un altro, o prolungano i turni di loro iniziativa. Aumentando la competizione e le liti vengono a galla i difetti costitutivi del regime delle acque, dove la labilità dei titoli originari rende improbabile la persecuzione degli abusi. In teoria, grazie al ruolo di distribuzione le terre hanno gratuitamente diritto alle acque; i guardiani sono pagati dagli utenti per regolare i turni, e nel fragile equilibrio dell'insieme hanno un compito essenziale poiché il rispetto del ruolo «si rimette tutto alla saviezza dei ministri, più che savji, ed alla pratica palpabile e ordinaria».n In effetti i guardiani vi49
ASP, EGBV,
la Mensa.
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serie r a, busta 418, relazione senza data sulle acque di proprietà del-
vono con le mance dei giardinieri 50 «e altri indebiti guadagni», ad esempio si riservano abusivamente ore d'acqua che poi rivendono, e assolvono la stessa funzione dei gabelloti nella mafia dell'interno, resi potenti dall'assenza dei proprietari. Solo che le dinamiche operanti a Monreale hanno una maggiore complessità. Partendo dal presupposto che l'acqua è di proprietà della Mensa, il guardiano deve essere persona di fiducia dell'arcivescovo e da lui nominato. Ma sono i giardinieri a pagarlo, deve quindi incontrare il loro gradimento o almeno si deve appoggiare ad un gruppo. Già nel 1847 c'è una lite su chi deve nominare il guardiano, e sono frequenti le lagnanze su custodi che favoriscono alcuni censuari a scapito di altri. Se non è un amico, il guardiano dell'acqua è di sicuro malvisto. Per seguire il corso dell'acqua scavalca i limiti dei giardini, controlla e vede troppe cose, gli enfiteuti ormai si sentono proprietari e sono piuttosto suscettibili. Dal 185o al 1865, quando una legge chiarisce l'impossibilità di negare l'accesso alle acque, troviamo una serie di liti perché l'acqua attraversa i fondi, cosa che viene vista come una limitazione del diritto di proprietà. 51 Fra la Mensa e gli enfiteuti ci sono molte liti per l'assegnazione delle acque, la Mensa sembra ricavarne solo spese e giudizi pendenti. A partire dal 1848 ci sono numerose note relative agli espurghi, relazioni tecniche sui lavori più urgenti e continue proteste per mancate riparazioni della saja. Nel 1864 il procuratore della Mensa Pietro Di Liberto chiede fondi per una serie di urgenti riparazioni. Da allora ci sono sempre conti di somme da versare al Di Liberto per manutenzione ed espurgo della saja, che ogni anno è detta in tale stato di grave deperimento da rendere difficoltoso il cammino delle acque. I litigi seguono due differenti tipologie: nel primo caso, il più semplice da risolvere, gli utenti protestano per usurpazioni che intaccano direttamente i loro diritti; il danneggiato è un giardiniere isolato, un escluso rispetto a ll a cordata degli amici di cui i custodi reggono le fila. Può capitare che diversi assegnatari si uniscano nella protesta contro un custode, ma il sistema tende ad avere un suo naturale equilibrio e l'aggressività è rivolta soprattutto all'esterno. Infatti nel seAd esempio, in ASDM, FM, busta 366 (Stato nominativo dei funzionari e impiegati, anno 1851), il guardiano d'acqua Biundo Vincenzo risulta senza soldo, «gode le regalie che pi agano i distributari dell'acqua». ASDM, FM, buste 393, 37 2 e 395.
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condo caso non troviamo usurpazioni contro utenti isolati, sono tutti i giardinieri di Monreale a configurarsi come usurpatori de lle acque che spetterebbero a quelli di Palermo. L'acqua che da Monreale dovrebbe pervenire ai giardinieri di Palermo sparisce prima di arrivare al luogo della consegna e, in quanto proprietari dei giardini di sotto, i palermitani vengono danneggiati da tutte le usurpazioni commesse a monte. Il risultato delle liti dipende dai variabili rapporti di forza fra i giardinieri a monte e quelli a valle. A volte pare che ci siano periodi di tregua. Nel mese di ottobre e novembre del 1829 due commissari, uno residente a Monreale e l'altro a Palermo, ispezionano il corso d'acqua di S. Rosalia e giudicano che i doccionati e le cannelle di misura sono in buono stato, anche se talvolta gli alberi crescono troppo vicini al fiume e con le loro radici ne ostacolano il flusso. 52 Tutosmanebr otzingave.Pròsfiscono ad un corso d'acqua che nel suo stato naturale non dovrebbe più esistere, perché tutto incanalato e regolato nell'uso. Se le radici ostacolano le acque allora la raja è inservibile, anche se si fa riferimento a doccionati e cannelle di misura. In genere il tenore dei rapporti è molto differente e viene denunciato come l'acqua sia usurpata lungo il suo corso, a monte dai giardinieri e a valle da tutti quelli che ne hanno bisogno; fra quanti ne usufruiscono senza pagare censi troviamo l'arcivescovo di Palermo, l'Ospedale Grande e l'ospedale di S. Bartolomeo. Tutti affermano di avere delle concessioni, ma al momento di mostrarle si tirano indietro; l'arcivescovo D'Acquisto non risparmia proteste e querele contro gli usurpatori, scrive «poiché clandestinamente usurpano l'acqua, credono di averne diritto». E dall'amministrazione della Mensa si riflette che certamente la chiesa non ha dato nessuna concessione senza utile per se stessa. 53 Considerazione che dimostra come né l'una né gli altri abbiano le carte che documentano la legittimità delle pretese, e non si tratta di casi isolati: i contrasti sono di norma avventurosi, visto che entrambi i contendenti hanno difficoltà a produrre i titoli; giurano le loro ragioni ma «la prova è sempre di là da venire». Nei documenti la Mensa è definita proprietaria, nel pieno dominio e possesso delle acque. Nella pratica gli appropriamenti indebiti sono numerosi e l'incertezza del diritto ne inibisce la persecu-
zione. Al punto che, continuando gli abusi e i reclami e mostrandosi la Mensa incapace di garantire la regolarità della distribuzione, nel 1854 vengono avanzati dei dubbi sui suoi stessi titoli. 54 Senza continuità, con lunghi momenti di silenzio quando la sede arcivescovile è vacante, sino a quando nel 1867 muore l'arcivescovo D'Acquisto la Mensa fa il tentativo di rientrare sulla scena come protagonista, padrona delle acque e detentrice della sovrana capacità di elargirle secondo il suo volere. Si presenta agli enfiteuti come proprietaria, ma si scontra contro l'ormai sedimentata abitudine di non riconoscere alcun potere al di fuori del proprio interesse. Al 1850 risale una lettera dell'arcivescovo al luogotenente di Sici lia perché, dopo il fallimento di diversi tentativi pacifici, intervenga «in modo che per torbidezza o malavoglia altrui non siano turbate le disposizioni di questa amministrazione, che tendono al pubblico bene». Stavolta si tratta del marchese Pensabene, di Stefano Giambruno e Gaetano Modica, che nei loro fondi ostacolano «le opere in corso per facilitare il percorso dell'acqua sino a Palermo». 55 In pratica impediscono che venga rimessa in uso quella saja che, costruita dall'arcivescovo Testa quasi un secolo prima, è la più importante de ll e condizioni da rispettare perché la Mensa possa considerarsi padrona delle acque. Nel 1858 viene denunciata l'ennesima usurpazione de lle acque del fiume Cannizzara, ma giardinieri si raggruppano attorno al conte Naselli e, fatti audaci dall'impunità, dichiarano di non avere commesso reato «perché l'acqua loro appartiene per averne fatto uso per tanti anni». L'avvocato che cura gli interessi della Mensa sostiene che «il possesso di un diritto precario non può esercitare azione possessoria», ma nel mare di cavillosi distinguo il giudice dà ragione agli usurpatori. 56 Nel 1859, in una delle sue tante denunce, l'arcivescovo D'Acquisto scrive al procuratore del re che la Mensa si trova spogliata delle acque per le numerose usurpazioni. Gli si consiglia di muovere un'azione di reintegra «contro i molestanti innovatori», facendoli condannare al ripristino delle vecchie condizioni e a pagare danni e interessi. Se poi volesse procedere in linea penale, potrebbe chiedere l'applicazione di numerosi articoli del codice. 57 Non ci sono tracce che 54 55
52
AscM, busta 554. 53 ASDM, FM, busta 401.
58
Ibidem.
ASDM, FM, 56 ASDM, FM, 57 ASDM, FM,
busta 393. busta 397. busta 40t.
59
sia stato intrapreso alcun provvedimento, la carenza di titoli impedisce di adottare la linea dura contro gli usurpatori; l'arcivescovo si configura come un potere debole e alla fine sarà sconfitto. 6. L'incertezza del diritto Fcustodi rappresentano la Mensa, ma il rapporto tra questi due attori appare difficoltoso e soggetto a continue contrattazioni. L'arcivescovo D'Acquisto interviene per dirimere i contrasti, e rende visibili i sintomi di quello che vent'anni dopo sarà un dato esplicito: l'arcivescovo non è in grado di controllare il personale alle sue dipendenze. Nel 1854 Ignazio Di Mitri riceve l'incarico di guardiano delle acque da alcuni giardinieri, che agiscono per proprio conto e interesse. Gli esclusi si rivolgono all'arcivescovo, il guardiano viene sostituito. 58 Del 1860 è una lettera autograf a di D'Acquisto: «Si fa ordine a Michele Modica di ritornare subito a lla custodia dell'acqua detta sorgiva del barone, e non permettere che persone non riconosciute dall'amministrazione prendano parte nella distribuzione de ll e acque». 5' L'arcivescovo interviene di frequente, cerca di controllare i guardiani e provvedere affinché i giardinieri palermitani abbiano la loro acqua, prova a regolarizzare la distribuzione e nel 1863 dispone che vengano adottati dei nuovi tubi di ferro per la misurazione, ma i lavori sono ostacolati da quanti non vogliono ombra di regole. L'accanimento contro i sistemi di misurazione è costante. Ad esempio, in un giardino detto di Salamone, sotto lo stradone di Monreale, c'è una sorgente dove l'acqua è raccolta in un'urna ed esce da cannelle di bronzo tarate. Ebbene, i forami vengono di continuo alterati e, rotte le cannelle, «i giardinieri commettono positivi inconvenienti nell'urna». 6° Fra il 1866 e il '67 una siccità rischia di fare saltare il precario equilibrio che, fra proteste e querele, ancora riesce a mantenersi. I giardinieri a valle scrivono che «i distributori dei fondi superiori ricevendo per intero il consueto volume suppliscono alla attuale diminuzione de lle sorgive con l'acqua che spetterebbe ai sottostanti». L'arcivescovo dispone che metà delle acque del Giacalone sia destinata ai giardini palermitani, solo così riesce a evitare lo scontro. 61 58
59
busta 393. busta 394. busta 398. FM, busta 397.
ASDM, FM, ASDM, FM,
6o ASDM, FM, 6i ASDM,
6o
Dopo la morte dell'arcivescovo D'Acquisto non ci sarà più nessuno a rispondere alle proteste e gli illeciti provengono dai custodi, cioè da chi avrebbe dovuto garantire la regolarità della distribuzione. Nel luglio del 187o i giardinieri dell'agro palermitano reclamano contro i custodi del corso d'acqua del Giacalone, i quali adoperano tubi di portata maggiore di quella regolare. Essendo vacante la sede arcivescovile, numerose volte gli utenti supplicano l'amministratore di impedire «l'ingerenza di chi non merita fiducia». Delle iniziative di Faro Scarlata non è rimasta traccia. E, visto il frequente ripetersi di proteste identiche nella sostanza, sembra legittima la conclusione che non ci siano mai state. Nel 1877 il subeconomo viene citato in giudizio perché gli utenti dell'acqua della Moarda avevano avuto arbitrariamente stravolto il loro turno, da 8 a 14 giorni. Il guardiano si appella ad un presunto ruolo sottoscritto dall'arcivescovo D'Acquisto nel 1865, che si guarda bene dall'esibire. 62 Già nel 187o la Mensa appare esautorata, incapace di garantire la regolarità della distribuzione. Gli utenti avanzano dubbi sui suoi diritti: non vogliono più riconoscerne le prerogative e propongono di diminuire l'acqua loro spettante, purché non si intrometta. Naturalmente non ottengono risposta. 63 Non trovando una soluzione legale, il problema de lla distribuzione dell'acqua si ripresenta di continuo e diventa più grave, perché il fallimento dei vari tentativi finisce col lasciare spazio solo alle soluzioni basate sulla forza. L'aspirazione a vivere protetti da un sistema di regole è comune a tutte le latitudini, altrettanto diffusa che non la prepotenza. Ma è necessario un sistema di riferimento, che funzioni da garanzia. Abbandonati a se stessi, quelli che invano chiedono il rispetto dei patti sono destinati a diventare lo sfondo su cui agiscono quanti praticano la violenza come scorciatoia per la riuscita sociale. Non abbiamo un venditore di fiducia che si rivolge ad un mercato neutro,ó4 piuttosto troviamo un complicato sistema regolare che si basa su un diritto incerto, associato all'incapacità di garantirne l'applicazione. E, contro ogni generica affermazione sulla sfiducia nelle istituzioni che avrebbe provocato la nascita della mafia, è possibile busta 372. busta 393. Cfr. D. Gambetta, La mafia siciliana, Torino 1992. Sul fenomeno mafioso come realtà complessa, «prisma a molte facce», cfr. Santino, cit. 62 63 64
ASDM, FM, ASDM, PM,
61
ricostruire le dinamiche attraverso cui avviene l'appropriazione monopolistica di una risorsa solo attraverso le denunce degli utenti che subiscono le usurpazioni. Il modo in cui è regolata la distribuzione de lle acque sembra ideato apposta per il mantenimento dell'illegalità. La prima condizione che favorisce l'abuso è la confusione, la non chiarezza delle condizioni e la loro artificiosa complessità. Ad esempio, causa di eterni contenziosi è l'acqua del giovedì, quando dalle 14 alle 24 la Mensa è nel possesso di tutto il volume delle acque della Cannizzara che, previa chiusura dei mulini, servono per il territorio di Monreale senza passare nell'agro palermitano. Poi per 24 ore, sino alle 24 del venerdì, la Mensa preleva mezza zappa sull'intero volume delle acque. Ma nel ruolo del 1832 i giardinieri palermitani avevano diritto all'acqua del giovedì, quindi i tentativi di rivalersi sulla Mensa per le nuove disposizioni sono continui. 65 Particolari doti di convinzione doveva possedere chi prendeva le gabelle per l'acqua di sopravanzo, cioè l'acqua che rimaneva una volta esauriti i ruoli di distribuzione: significava scommettere su un bene che tutti potevano insidiare. Tanto più che l'art. 7 del bando de lla gabella (anno 1878) recitava che «la consegna dell'acqua intendesi fatta alla sorgiva, restando a cura, spesa e responsabilità degli aggiudicatari la condotta sino al luogo ove vorranno portarla». 66 La procedura per ottenere le gabelle era ineccepibile, l'intendenza di finanza di Palermo pubblicava il bando e si faceva un'asta. La gabella veniva «liberata in vantaggio del migliore ed ultimo offerente». Ma il potere della Mensa nell'esigere il rispetto degli accordi appare una pallida formalità burocratica. 67 Solo un caso, fra i molti che si potrebbero addurre ad esempio: nel 1873 Salvatore Sciortino aveva la gabella del sopravanzo per la sorgente Acqua del Ga llo e l'amministratore scriveva al procuratore delle acque Pietro Di Liberto, per pregarlo di interporre i suoi buoni uffici e convincerlo a pagare. Anche nel '74 e nel '75 ci sono proteste contro Sciortino, si ricorre regolarmente al procuratore Di Liberto, eppure Sciortino continua a prendere la gabella di sopravanzo dell'Acqua del Gallo. Assieme a un personaggio che incontreremo ancora,
Giuseppe Cavallaro fu Simone, nel 1882 se la aggiudica per altri 4 anni. Come al solito c'era stato un appalto, l'usciere del tribunale civile e correzionale di Palermo aveva affisso sei copie dell'avviso di gara nei luoghi prescritti dalla legge e in altri soliti e consueti: alla porta dell'amministrazione della Mensa, a lla porta del tribunale e della casa comunale di Palermo e Monreale, in corso Calatafimi verso villa Rocca, ma nessun altro si era presentato.ó 8 Ogni estate i proprietari cercano di rimediare alle usurpazioni: si fanno amici i guardiani, tentano di entrare in uno dei consorzi che rispetto ai singoli hanno maggiore potere di contrattazione, ricorrono alle proteste scritte e indirizzate non solo alla Mensa ma anche alla prefettura e alla questura. Al 1871 risalgono le prime denunce che gli utenti dell'agro palermitano presentano alla prefettura, perché le continue usurpazioni vanificano il loro diritto sulle acque del Giacalone. La prefettura scrive che i guardiani sono sospettati di illeciti maneggi e frodi, esige provvedimenti. E così la regia intendenza di finanza chiede all'amministratore della Mensa una copia del piano di consegna e distribuzione delle acque. L'intendenza di finanza è l'ufficio da cui l'amministrazione della Mensa dipende, attraverso l'economato generale per i benefici vacanti. Eppure il documento viene negato, perché «essendo in potere della Mensa l'amministrazione del corso, lo sono egualmente i titoli». L'intendenza rinnova la sua richiesta, «onde per mezzo del soprintendente delle acque esercitare nel corso la più stretta sorveglianza ed eliminare i non pochi reclami che pervengono da parte degli utenti». Non risultano risposte. E poi, grazie alle parziali modifiche disposte dal procuratore Di Liberto, il vecchio ruolo non corrisponde più alla reale turnazione delle acque e i custodi sono i soli a sapersi districare nel dedalo delle variazioni. Un piano di consegna e distribuzione delle acque è di fatto inesistente. 69 Passa un anno e nel maggio del 1872, prima che inizi un'altra lunga estate, i giardinieri palermitani si rivolgono ancora a ll a prefettura. 68
busta 401. busta 396. 67 Notizie sull'acqua del giovedì e sull'acqua di sopravanzo in ASDM, FM, 66 ASDM, FM,
62
ASDM, FM,
busta 393.
ASDM, FM, busta 396. ASDM, FGO, busta 6. La
mancata trasparenza non si li mita al ruolo de lle acque. L'esiguità e addirittura l'assenza di documentazione che a partire dal 1855 interessa gli impiegati, soprattutto il personale esterno, confermano la diffusa opacità di questo periodo (ASDM, FM, buste 365 e 366). 69
65
63
Non protestano solo i piccoli enfiteuti, scrivono anche dall'Ospedale Civico di Palermo (ex Ospedale Grande) che ha diritto a 24 ore settimanali di mezza zappa d'acqua, da prendere allo stagnone Olio di Lino in territorio di Palermo. L'Ospedale concede 16 ore di quest'acqua ad alcuni giardinieri, ma le usurpazioni causano la scomparsa dell'acqua prima della sua consegna e i giardinieri rinunciano alla gabella. L'amministrazione dell'Ospedale chiede che cambi il luogo della consegna, «diversamente accadrebbe se il diritto a godere le ore 16 dell'acqua in ogni settimana fosse concesso nel territorio di Monreale, ove l'amministrazione facilmente potrebbe dare a gabella ed a titolo enfiteutico la stessa acqua che nel territorio di Palermo non giunge ed è derubata». A Monreale la sede arcivescovile è occupata da Papardi e un capitolo di canonici cura l'aspetto ecclesiale. L'amministrazione della Mensa si trova a Palermo, alla Magione. Si tratta di pochi chilometri, ma contribuiscono ad accelerare la catastrofe perché curia ed economato si configurano come due scompartimenti non comunicanti e difficilmente influenzabili dall'esterno. Nel caso che stiamo osservando, dalla curia scrivono all'amministratore per avere notizie sull'acqua dell'Ospedale; lo si invita a verificare quale fondamento abbiano le proteste e si chiedono urgenti provvedimenti. Non risulta che ci sia stata una spiegazione, solo uno scantonare, la debole giustificazione che se l'acqua non arriva si deve al -lostadeprbicnl.L'aquoti nvedrs,l mese di luglio dalla prefettura tornano a protestare con l'amministrazione della Mensa, sostengono che l'acqua non arriva perché viene distribuita secondo l'interesse dei custodi. Visto che l'acqua viene derubata prima di arrivare a Palermo, adesso è la prefettura che per conto dell'Ospedale ne chiede la consegna nel territorio di Monreale. A questo punto il regio subeconomo si rivolge al procuratore Pietro Di Liberto per un parere. Pietro Di Liberto è procuratore della Mensa in Monreale, il suo nome figura nello stato nominativo dei funzionari ed impiegati aggiornato al 19 giugno 1855 e, nonostante le disgrazie degli ultimi tempi, continuerà a rappresentare la Mensa sino a lla morte avvenuta nel 1879. Di Liberto incassa le rendite e controlla la distribuzione delle acque («delegato dal pro-amministratore per il servizio de ll e acque»). In virtù della sua carica preleva un aggio del 3% e il regolamento prevede che ogni 15 giorni presenti all'amministrazione un 64
rendiconto completo. 70 Attorno al nome di Pietro Di Liberto avrebbero dovuto depositarsi un gran numero di carte, si resta sorpresi dalla pochezza di accenni alla sua figura: questa è una delle poche occasioni in cui si incontra un suo scritto che non sia la solita richiesta di fondi per la manutenzione della saja. Di Liberto, cioè il responsabile della distribuzione delle acque, usa un tono impersonale e fa riferimento ad ostacoli esterni e governati da un destino avverso, sostiene che «difficilmente si potrebbe assumere di far la consegna dell'acqua nello stagnone della Vignazza, (nel territorio di Monre al e) poiché essendo lo stagnone ben lontano dalle scaturigini le acque vi pervengono con molto stento, non già per difficoltà naturali ma per inscrutabili abusi contro i quali non è facile sperare si possa [operare], per le audaci usurpazioni che impunemente si commettono». E il luogo di consegna dell'acqua non viene modificato. 71 Nell'agosto del 1872, continuando ad essere numerose le proteste, su sollecitazione dell'intendenza di finanza il questore di Palermo incarica Paolo Palmeri, delegato di pubblica sicurezza a Monreale, di condurre un'ispezione sul corso d'acqua del Giacalone. Assistito dal maresciallo Luciano Alongi e dal comandante delle guardie campestri Giovanni Riolo, Palmeri comincia la sua ispezione da un mulino detto il Paratore, percorre a ritroso il corso artificiale dell'acqua e, salendo lungo il canale verso le sorgive, certifica quello che tutti sanno. Le usurpazioni avvengono coi mezzi più diversi: per lesione a fianco della presa d'acqua, per fori sotterranei, attraverso condutture che non dovrebbero esserci, per percolamenti che riempiono le gebbie. Su tre chilometri il delegato ne elenca 47 ma di ogni deviazione usufruiscono più proprietari. Il corso principale ne viene di continuo diminuito e si capisce come, avvicinandosi allo stagnone dell'Olio di Lino dove avviene la consegna delle acque ai palermitani, il fiume diminuisca sino a sparire. La pratica delle usurpazioni riguarda democraticamente tutti, la prima che Palmeri incontra è una lesione a fianco della presa che serve ad arricchire d'acqua il sacerdote Giovanni Minasola. Addirittura, Palmeri registra l'esistenza di «un piccolo acquedotto inla Mensa. La 70 ASDM, FM, busta 366, Stato nominativo dei funzionari ed impiegati del nomina di Pietro Di Liberto risale ad un regio rescritto del 20 aprile 1850, confermato il 25 ottobre 1851. 71 Ricorsi degli utenti a ll a prefettura e relativa corrispondenza in ASDM, FM, busta 397.
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tersicatore, che devia quella quantità d'acqua che si vuole dal corso principale, portandola nel fondo dei fratelli Baldassarre e Paolo Miceli», e quest'ultimo è campiere al servizio della Mensa. 72 Stilato il suo rapporto il delegato lo inoltra al pretore, che segue la trafila burocratica e lo rimette all'intendenza di finanza, chiedendo istanza di procedimento a carico degli usurpatori. Ma nessun provvedimento viene adottato. Il vero ostacolo è che il regime delle acque è confuso, i diritti sono labili, non si sa bene quali siano i titoli dei destinatari ultimi, non è chiaro chi debba risentirsi per le usurpazioni o rivalersi contro gli usurpatori e, ogni volta che dall'intendenza chiedono ragguagli, l'amministratore della Mensa lascia cadere ogni addebito e risponde che deve essere l'intendenza a prendere l'iniziativa. Nel dicembre dello stesso 1872 dall'intendenza richiedono all'amministrazione l'elenco degli aventi diritto, con le consegne e i turni, «ritenuto che codesto ufficio trovasi a conoscenza dello andamento della pratica e di tutte le circostanze influenti». Seguono diverse sollecitazioni, dall'intendenza e dal tribunale, ma non risulta nessuna risposta. L'ultima richiesta è del 28 febbraio 1873, quando Vincenzo Gioia, giudice istruttore del tribunale civile e correzionale di Palermo, torna a sollecitare informazioni e conclude scrivendo: «Codesta amministrazione si è resa sorda alle preghiere inoltrate dalla intendenza di finanza». 73 Luglio del '73, un'altra estate sta passando. Dall'intendenza di finanza tornano a scrivere all'arcivescovado, ancora una volta l'acqua non viene consegnata, «con grave danno di tutti i proprietari di sotto». Nonostante la presenza del subeconomo, cioè di un funzionario dipendente dal ministero delle finanze che ha come suo compito il controllo dell'amministrazione, si rivolgono all'arcivescovo chiedendogli che «si piaccia dare le occorrenti disposizioni per essere consegnata la suddetta acqua del Giacalone». 74 Non risultano risposte. Paolo Mice li era stato nominato campiere con decreto ministeriale del 23 ottobre 1869, alla morte del suocero Giuseppe Traina. Il campiere aiuta il procuratore, è «braccio necessario per sollecitare le riscossioni, scoprire e denunziare i passaggi e facilitare la redazione degli atti d'obbligo» (ASDM, FM, busta 376). La relazione di Palmeri in ibidem, busta 395. 73 ASDM, FM, busta 397. 74 ASDM, FM, busta 393. 72
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7. La guerra del custode dell'acqua Felice Marchese
Il regime delle acque si configura come un quadro normativamente debole, i guardiani sembrano l'unico elemento in grado di agire come calmiere fra le diverse esigenze. Il guardiano d'acqua è un personaggio complesso: dispensatore di un bene prezioso, ha il potere di togliere e dare facendo sempre attenzione a che il suo tratto di fiume, e quindi i suoi giardinieri, non siano danneggiati da altri che concorrono al possesso dello stesso bene. Il guardiano deve essere in grado di incutere rispetto, capace di usare la violenza al bisogno e al contempo riscuotere la fiducia dei suoi utenti, che da lui sono rappresentati negli interessi e per questo lo pagano. Può decidere una distribuzione poco corretta solo se è appoggiato da un gruppo di giardinieri che, ricavandone un utile, è pronto a sostenere il suo operato. Le numerose proteste sui frequenti soprusi, usurpazioni e cambi arbitrari nelle turnazioni testimoniano la vivacità dello scontro in atto. Ci sono le proteste, di solito la Mensa non risponde, in un modo o nell'altro si sarà trovato un accordo. In questi accomodamenti informali trovano spazio que ll e catene di rapporti privilegiati che, utilizzando una risorsa fondamentale in modo monopolistico, all'esterno si configurano come cosche. L'abitudine ad agire senza vincoli esterni fa sì che i guardiani siano personaggi poco controllabili, nel 1899 Arnao scriveva «non c'è modo di richiamarli al dovere, né legalmente perché la giustizia costa, né economicamente perché sono brutti ceffi pericolosi e compromettenti». 75 Contro di loro i reclami sono numerosi e frequenti ma l'omicidio di un guardiano d'acqua resta un dato eccezionale, un episodio-limite nella guerriglia che li oppone a una parte dei proprietari. Segna una frattura in tutto il precario equilibrio che caratterizza il mondo dei giardinieri e, in un contesto in cui è presente un forte controllo sociale, può verificarsi solo se non è contrastato dalla maggioranza degli utenti. Monreale, agosto 1873. All'inizio del mese i «proprietari giardinieri godenti dell'acqua del corso de ll a Vanella», come si definiscono nella corrispondenza, si rivolgono all'amministratore de lla Mensa contro il custode Fe lice Marchese. «Si è fatto lecito appropriarsene quel75 E. Arnao,
La coltivazione degli agrumi, Palermo 1899, p. 373.
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la quantità [di acqua] che lo stesso crede, consegnandola al più tardi di giorni 24 e 25 di ogni vicenda invece di giorni 14 e per le ore destinate nel ruolo». Il Marchese riserva l'acqua a chi non ha diritto e i giardinieri rischiano di perdere le piante, la produzione, la fatica e il denaro speso nei fondi. Quando reclamano, il custode «risponde smodatamente, offende la proprietà con ignominiose parole, ognuna tale che un giorno o l'altro ne verrebbe a succedere qualche sinistro caso, perché ogni individuo non solo perde quello che dovrebbe percepire [...], ma anche si vede insultato da un suo dipendente». I giardinieri chiedono di sostituire il Marchese col vecchio custode Nicolò Terrasi, onesto cittadino. Altrimenti «un giorno o l'altro si veniva a vie di fatto, perché il Marchese, per la protezione che ha dall'Intravaia, si crede volere calpestare i proprietari giardinieri con altri abusi più di quelli che vi ha servito pel passato» .7G La prima cosa da notare è che gli utenti non si definiscono più enfiteuti della Mensa ma proprietari giardinieri, l'amministrazione della Mensa è solo la destinataria di proteste sullo scorretto comportamento di questa figura ibrida, un custode delle acque che è pagato dai giardinieri ma, quasi un retaggio di vecchie consuetudini ormai svuotate di senso, formalmente dipende dalla Mensa. E, fra le tante proteste che si sedimentano sull'operato dei guardiani, il caso di Felice Marchese è l'unico in cui troviamo un riscontro da parte della Mensa, segno forse della pericolosità sociale dei protagonisti. Anche se coinvolto dai giardinieri la denuncia viene inoltrata a Benedetto Intravaia, fiscale delle acque, cioè garante della regolarità della distribuzione, e diretto superiore del Marchese. Passa qualche giorno, il fiscale Intravaia scrive che si è recato ad ispezionare il corso d'acqua e ha sentito molte lagnanze sul Marchese, accusato di non rispettare il ruolo. A suo favore ci sono 6 giardinieri, secondo le accuse favoriti nella distribuzione. 77 Fra di loro troviamo Baldassarre e Paolo Mice li , in seguito accusati di essere capi della setta degli stuppagghieri. Possiamo dedurne che Felice Marchese, fidando nella protezione dei Miceli, non abbia esitato a favorirli vistosamente incorrendo così nelle ire di quanti venivano danneggiati. Evidentemente il Marchese credeva di essere ben coperto, ma sono già presenti gli elementi che lo porteranno alla morte: non è accusato di 76 ASDM, FM, 77
68
Ibidem.
busta
usurpazioni contro singoli ma di un esibito atto di ostilità e disprezzo verso i giardinieri che lo pagano, di cui quindi è non solo rappresentante ma anche dipendente. Il Marchese aveva spostato i turni, la distribuzione delle acque sembra affidata al suo arbitrio ma si scontra con la opposta determinazione dei giardinieri, che non esita a diventare aperta ostilità. Si tratta di una sfumatura nuova nei rapporti fra guardiano e utenti e piuttosto pericolosa per il Marchese, dal momento che la sua forza sta tutta nella capacità di essere ubbidito senza troppe discussioni. Adesso il Marchese deve fare i conti con una premeditata insubordinazione: alla presenza di testimoni un certo Girolamo Granato aveva dichiarato che non appena l'acqua fosse passata dal suo fondo egli l'avrebbe trattenuta fino a irrigare completamente il suo giardino, aggiungendo che «non intendeva rispettare né ruolo, né guardiano, né amministrazione della Mensa» . 78 Siamonelsdgt,quaolcrfentavgzione in un torpore simile a quello invernale. Un'abbondante irrigazione ad agosto è come una sferzata di energia, miracolosa per la produzione. Quando l'acqua passa per il suo giardino, Girolamo Granato la trattiene per più di cinque ore oltre il suo turno. Il custode Marchese si è comportato come chi è in grado di fare e disfare secondo il suo tornaconto ma, adesso, gli farebbe comodo potersi appellare a un sistema di garanzie. Si rivolge al fiscale Intravaia, che suggerisce una querela. Nel frattempo, non arrivando l'acqua secondo i turni previsti, i giardinieri insistono perché Felice Marchese venga rimosso. Il fiscale Intravaia accusa Girolamo Granato, ma i giardinieri protestano che que llo ha trattenuto l'acqua per alcuni cambi che aveva fatto, avrebbero testimoniato in suo favore. A questo punto l'Intravaia scrive che non gli pare prudente dar corso alla querela, «siccome i giardinieri sono inviperiti in un modo straordinario contro Marchese è timore che possa succedere qualche sinistro, e ad evitarlo proporrei di sospendere la querela ed allontanare provvisoriamente Felice Marchese dal corso dell'acqua». Senza troppi giri di parole, il fiscale Intravaia suggerisce all'amministratore quale comportamento dovrà tenere: «Vi chiamerete dunque il detto Marchese, gli direte lo stato delle cose, e che l'amministrazione, anche nell'idea di salvarlo da qualche grave pericolo nel quale corre, ha disposto che provvisoriamente e sino a nuovo ordine
402. 78
Ibidem.
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sia sospeso dalle funzioni di custode de ll e acque perché veramente si è condotto male».' 9 Poco dopo il fiscale Intravaia cambia idea, dichiara di volere allontanare il Marchese ma opera perché resti in servizio: Ho sospeso il custode de lle acque della Vanella Felice Marchese, il quale si è sottomesso di buon animo all'ordinata sospensione in presenza di tre testimoni. Lo stesso giorno, volendo sostituirlo con Nicolò Terrasi, questi ha ricusato l'incarico di custode di questo corso, per trovarsi in età di anni 80. Onde non lasciare poi il detto corso in balia dei giardinieri, ho dovuto pregare Felice Marchese di custodirlo, come nel passato, aspettando che un altro lo sostituisse e questi ha accettato provvisoriamente. Pertanto alcuni distributari di quell'acqua insistono nel volerlo rimosso il più presto possibile. 80
dinieri e un gruppo di uomini che si presenta come custode dell'acqua e pretende di averne il controllo monopolistico. Il guardiano dell'acqua è un proprietario che arricchisce il suo status di nuove potenzialità, i contrasti fra guardiani e giardinieri si configurano come una lotta fra il gruppo dei mediatori e quello dei produttori. I mediatori sono più visibili, fra loro avvengono quegli scontri per le risorse che all'esterno sono letti come «guerre di mafia». Difficile che il gruppo dei produttori lasci dei segni così evidenti. Eppure, proprio l'anno in cui viene ucciso Felice Marchese, a Monreale i produttori si consorziano, con la speranza di «svincolare il mercato degli agrumi dalle spire in cui lo hanno avvinto gli speculatori che se ne fanno intermediari».S 1
Si tratta di una furberia, rimuovere il Marchese e nello stesso tempo dargli l'incarico di guardiano supplente finché non si fosse altrimenti provveduto, forse fidando sulle capacità del Marchese di recuperare in prestigio. Il fiscale Intravaia si era sbagliato, ai torti subiti sembrava sommarsi la beffa di un rimedio che lasciava tutto come prima, col custode fatto più audace e gradasso dalla convinzione che alla fine era stato lui ad avere l'ultima parola. Ma non per molto. Felice Marchese viene ucciso il 22 ottobre 1874 nel fondo Leto, poco lontano da Monreale. Nonostante una laboriosa procedura avviata a carico di due giardinieri, la sua morte resta avvolta nel mistero. Dopo qualche anno e senza molte prove, a lla ricerca di crimini da ascrivere alla setta degli stuppagghieri, il delegato Bernabò sosterrà che l'omicidio era stato compiuto per mano dei fratelli Miceli, mandante il procuratore della Mensa Pietro Di Liberto. L'omicidio di Fe li ce Marchese avviene sullo sfondo delle lotte interne per il controllo dell'acqua e gli uomini indicati dal delegato ne gestiscono il mercato. Ma in questo caso i fratelli Mice li vengono favoriti dal Marchese, quindi difficilmente avrebbero avuto interesse ad eliminarlo. Il custode Felice Marchese appare piuttosto come un esponente del gruppo a loro direttamente legato, la lotta non è solo fra giardinieri a monte e a valle della stessa acqua ma anche interna, fra i giar79
Ibidem, rapporto del 20 agosto 1873. Ibidem, rapporto del 23 agosto 1873. Per A. Cutrera (La mafia e i mafiosi, Palermo 1900, p. 131) il guardiano era molto legato alla setta dei giardinieri, cioè i proprietari sotto Monreale. Avendo deciso di passare agli avversari, comincia a favorirli e per questo viene ucciso. Versione semplificata ed anche errata, se non altro perché è impossibile, per un guardiano dell'acqua a valle, favorire gli utenti a monte de lla stessa acqua. 80
70
81
F. Alfonso, Trattato sulla coltivazione degli agrumi, Palermo 1875, p. 263.
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Capitolo secondo
Il tramonto della Destra
Per prima cosa è necessario cambiare l'impatto ambientale. Scrive Cantelli: Io cominciai coll'aumentare e migliorare il personale degli uffici tanto direttivi che esecutivi, portando la maggiore attenzione nella scelta dei funzionari di ogni ordine e di ogni grado inviati in Sicilia; aumentai il numero degli agenti di pubblica sicurezza; concedei ai prefetti quei maggiori mezzi dei quali si poteva supporre avessero bisogno, o che essi stessi mi chiesero.'
1.
L'ultimo governo dei moderati
In seguito all'opposizione di Minghetti ai provvedimenti finanziari decisi dal ministro Sella, il 25 giugno 1873 cade il governo Lanza. Il re conferisce l'incarico di formare un nuovo governo allo stesso Minghetti, che tenta di costituire una stabile maggioranza attraverso l'accordo con la Sinistra moderata. Il ro luglio 1873 l'ultimo governo della Destra storica si presenta alle Camere. Il dicastero dell'Interno è retto da Girolamo Cantelli. I due grandi temi su cui si articola l'ultimo governo della Destra storica sono il pareggio del bilancio e l'ordine pubblico, fra loro variamente intrecciati. Il problema dell'ordine pubblico in Sici li a è uno dei più gravi, forse l'unico che non solo non accenna a risolversi ma rischia di peggiorare. Al perdurare dell'emergenza siciliana contribuivano gli errori commessi dalla Destra in 13 anni di governo, periodo in cui la politica verso la Sicilia era stata all'insegna di un apparente rigore e del compromesso più miope. Infatti, si era cercato di stroncare con la forza l'insubordinazione e la vocazione anarchica degli isolani, senza mostrare alcun interesse a creare quel rapporto di fiducia che sempre dovrebbe esserci fra cittadini e istituzioni. Ora, se l'impiego della forza è efficace nei tempi brevi, alla lunga è oneroso e rischia di stabilizzare un meccanismo perverso, dove anche il mantenimento di risultati poco soddisfacenti ha bisogno di sforzi sempre maggiori. Ragionamento che ormai doveva apparire evidente ai più avvertiti esponenti della Destra. E così lo stesso governo che, pochi mesi dopo, avrebbe represso senza scrupoli mazziniani e internazionalisti parte con le migliori intenzioni, deciso a modificare i rapporti con l'isola. 72
Considerando che si tratta di iniziative che comportano un aumento delle spese, e che il risparmio anche taccagno era una scelta obbligata, bisogna ammettere che il governo investe uomini e mezzi in Sicilia. Negli ambienti vicini al governo la parola d'ordine sembra essere consapevole autocritica. Il Monitore di Bologna, giornale moderato e vicino a Minghetti, scrive che dopo il 186o nell'isola avevano agito «le impazienze dei governati, gli errori dei governanti e la inevitabile fiacchezza di un governo nato dalla rivoluzione». Il malandrinaggio aveva tentato la sua grande prova nel '66, dimostrando che una grande città come Palermo poteva cadere nelle sue mani. Allora il Governo se ne preoccupò, e il nuovo prefetto marchese di Rudinì, col nuovo questore Albanese, rivolsero ogni loro sforzo, ogni loro pensiero a combattere e distruggere il malandrinaggio; ma sventuratamente quei due valentuomini, con le migliori intenzioni del mondo, si posero per una via storta, nella quale li seguì l'egregio generale Medici: questa via doveva necessariamente condurre la Sicilia al punto ove si trova, e rimettendosi in essa la si trascinerebbe in breve nell'abisso. 2
Attaccato da tutti, nell'agosto del 1873 il generale Medici lascia la carica di prefetto e comandante delle truppe in Sicilia. Provvisoriamente lo sostituisce Agostino Soragni. Il generale continua a sostenere che durante la sua prefettura le condizioni della pubblica siArchivio centrale dello Stato, L'inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia, (1875-1876), a cura di S. Carbone e R. Grispo, Bologna 1968 (da ora inchiesta Bonfadini). Oltre ad una selezione dei verbali d'inchiesta, nel volume sono pubblicati dei documenti che riflettono il percorso del governo nella presentazione del progetto per le leggi speciali. La nota di Cantelli al Presidente della Camera, del 18 gennaio 1875 è a ll e pp. 12-29. Riportato in A. Berselli, Il governo dei moderati e la Sicilia, Palermo 1959, p. u.
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curezza sono migliorate, ma sembra smentito dai fatti. Tanto più che il tema dell'ordine pubblico è utilizzato come arma di pressione politica dall'opposizione, con i giornali che amplificano la percezione del disagio facendo da cassa di risonanza alle imprese delle bande. A Palermo cresce l'allarme, e un senso di inadeguatezza a fronteggiare la realtà, di incapacità a capirne i meccanismi, sembra trasparire anche dai discorsi ufficiali. Ad esempio, i magistrati sembrano in preda allo sconforto e riservano accenti accorati alle condizioni della giustizia penale. Il Procuratore generale del re Vincenzo Calenda afferma «ad essa sempre mi affaccio con un gran senso di paura, quasi naufrago venuto a riva che si rivolge a guatare l'acqua perigliosa, nelle cui onde fu miseramente travolto». Eppure, nella stessa relazione consuntiva Calenda afferma che durante il '73 sono aumentati i crimini ma si tratta di reati non gravi, mentre «de' maggiori è grandemente scemato il numero». Rispetto al 1872, nella circoscrizione della Corte d'appello si contano 235 reati di sangue e 123 cadaveri in meno. Palermo e Siracusa sono ai due estremi, Palermo ha il doppio degli abitanti ma un numero di crimini di molte volte superiore. Nella prima si sono verificati 78 omicidi premeditati, «modesta e orgogliosa» Siracusa ne contrappone solo 4. A Siracusa vengono denunciate 16 grassazioni, ben 355 a Palermo. Ma la preoccupazione del magistrato va oltre il numero dei delitti, investe il rapporto malato fra lo Stato e i cittadini. Precorrendo più famose analisi, il procuratore Calenda descrive il rapporto di patronato esistente fra malviventi e classi abbienti: «È agli uni assicurata protezione per quando hanno a far conti con la giustizia, agli altri l'opera del braccio, e quel potere d'intimidazione, per cui si procaccia rispetto alla persona ed agli averi, e spesso ajuto di suffragi, se del voto popolare è mestieri ad attingere alcun seggio ne' pubblici consessi». Sono le classi dirigenti locali a nominare le guardie campestri e a rispondere dei proposti per l'ammonizione («ingannano tristamente il governo con false assicurazioni di moralità e rettitudine»). Se i malviventi fossero abbandonati a se stessi, allora «ad essi cadrebbero le forze». 3 Nel giro di pochi giorni, un altro Procuratore del re sembra farsi carico della generale preoccupazione e, nel discorso inaugurale per 3 Della amministrazione della giustizia nell'anno 1873, relazione all'assemblea generale della Corte di appello di Palermo letta il5 gennaio 1874 dal Procuratore Generale del Re Vincenzo Calenda, Palermo 1 8 74, PP. 46- 4 8 .
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l'anno giudiziario 1874, pronunzia parole accorate destinate a restare senza risposta. Il magistrato sente l'urgenza di porre una serie di ansiose domande: Ma perché lo spirito di associazione al delitto non diminuisce collo accrescere della persecuzione a suo danno, ma tende vieppiù a particolareggiarsi, e non fa che mutar forma ed impiego a misura delle scoperte? Come va quest'affare? Se la cagione estrinseca del male è la mafia, ma perché, insisto, questa pianta parassita ha scelto giusto appunto di abbarbicarsi con tanta tenacità in un suolo, piuttosto che in un altro dell'isola stessa? Perché in taluni punti e non altrove la passione criminosa ha decisa tendenza organizzativa sin nelle minime imprese? Ma perché, perché? [...]. Chi ci dà la chiave di questo mistero?». 4 2.
Il prefetto Rasponi. La sconfitta di un illuminista ingenuo
Il governo vuole una rapida soluzione per la questione della pubblica sicurezza e nella nomina del prefetto di Palermo cerca un uomo nuovo e gradito anche alle opposizioni, tanto più che la Sicilia vota compatta per la Sinistra. Le trattative sono piuttosto laboriose, la Destra resiste all'idea di cedere una postazione tanto importante. Solo nel dicembre si arriva a un accordo sul conte Gioacchino Rasponi, un esponente della Sinistra moderata in quel momento sindaco di Ravenna. «Andresti ad inaugurarvi l'amministrazione meramente civile, e l'esercizio della piena legalità» gli scrive Minghetti per esortarlo ad accettare l'incarico. 5 Rasponi ignora quasi tutto della Sicilia, ma crede nel progresso. In partenza da Ravenna pronuncia un discorso di commiato: Perché non dovranno là pure sotto l'impero dello Statuto e della legge comune sorgere come nelle altre province d'Italia giorni di fiducia, di benessere, di tranquillità? [...]. Nutro piena fiducia che la generosa popolazione della provincia di Palermo, che sono chiamato a reggere, camminerà anch'essa trionfante nel cammino della civiltà e del progresso e concorrerà potentemente alla grandezza della patria italiana. 4 Discorso inaugurale per l'apertura dell'anno giuridico 1874 al tribunale di Palermo, letto il 9 gennaio 1874 dal Procuratore del Re Girolamo Floreno, Palermo 1874, pp. 29-30. 5 Berselli, cit., p. 5. 6 Ibidem, p. 8.
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Una volta a Palermo, il nuovo prefetto si trova a dovere affrontare una situazione molto più complessa di quanto non avesse immaginato nella sua ingenua fiducia illuminista. Rasponi arriva in un momento critico, mentre la politica del governo ha un ulteriore forte calo di popolarità in seguito alla legge che estende alla Sicilia la privativa sulla manifattura dei tabacchi. Solo una parte degli operai occupati nelle manifatture può essere assorbita nelle fabbriche del monopolio, ed è un duro colpo per la fragile economia dell'isola. Invano il prefetto cerca di convincere il Presidente del Consiglio Minghetti a non estendere il provvedimento a lla Sicilia: «Qui bisogna costantemente combattere l'opinione, purtroppo prevalente, che il governo tratti la Sicilia come un figlio bastardo, che cerchi occasione di nuocerle». 7 Al governo servono nuovi introiti, e per la Sicilia sta già spendendo abbastanza. Il popolo vive in condizioni miserevoli ma, ad esclusione degli internazionalisti, tutti riducono i problemi dell'isola ad una faccenda di ordine pubblico, per cui basta rendere più efficiente la polizia. Il governo ha cambiato il prefetto, rinnovato e aumentato il personale degli uffici, investito dei soldi, si aspetta di ottenere rapidamente dei risultati. Il prefetto Rasponi si trova a combattere su più fronti: contro il governo e i suoi provvedimenti, contro la diffidenza del partito al potere e dell'opposizione, contro la radicata abitudine a trovare compromessi che nell'immediato sembrano risolvere problemi quotidiani, ma a medio termine si erano dimostrati ostacoli disseminati a piene mani nel funzionamento della macchina statale. Il 22 febbraio del '74, due mesi dopo il suo insediamento, Rasponi invia ai sindaci della provincia una lettera circolare che dovette lasciarli perplessi, parlava ufficialmente di cose che di solito era meglio tacere e sapeva di rimprovero: «... Coloro che sono chiamati dalla legge a rappresentarla [...] adempiano strenuamente il dover loro e siano esempio agli altri di virtù cittadina e di quel civile coraggio che non tollera transazione alcuna con gli uomini del delitto e coi nemici naturali dell'umana società». 8 Appena due giorni dopo, altra lettera ai sindaci. Mantenendosi anomale le condizioni della pubblica sicurezza nelle campagne, il governo ha fatto ricorso a ulteriori mez7 A. Berselli, La Destra storica dopo l'Unità, l'idea liberale e la chiesa cattolica, Bologna 1963, p. 16. 8 Alatri, cit., p. 56o.
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zi repressivi; nel tentativo di coinvolgere i sindaci, il prefetto promette l'invio di nuove truppe e chiede la collaborazione delle amministrazioni perché «in ogni punto del territorio della provincia ci siano guardie sicure». 9 Rasponi è un esponente dell'opposizione e la sua nomina quasi doveva costringere quel partito a collaborare. Ma è proprio dall'opposizione che, mentre la Destra resta ad osservarlo in diffidente attesa, il nuovo prefetto viene di continuo attaccato. I giornali, che non si stancano di chiedere l'adozione di mezzi energici per dare sicurezza alle campagne, amplificano l'allarme e montano la protesta. 10 Sulla difensiva, il governo alza il tiro e il 17 aprile il ministro Cantelli scrive al prefetto per chiedere informazioni «intorno alla così detta maffia ed alle sue attinenze». Il i 6 giugno una delegazione di proprietari incontra il prefetto Rasponi, gli chiede di prendere «misure radicali» contro il brigantaggio. Denuncia di essere in balia «di una setta formidabile di malfattori che in bande organizzate, forti di numero, di armi e di affiliati, scorazzano liberamente all'aperto, tranquilli e pieni di sé medesimi». 11 Questa è la prima volta che si parla di una setta organizzata per bande: sentendo come intorno a loro cresca un senso di sfiducia e disistima generalizzato, i notabili giocano d'anticipo. I proprietari chiedono il controllo della violenza, vogliono che lo Stato ne faccia loro delega e per questo hanno tutto l'interesse a mostrarlo incapace. Si dipingono come vittime, sostengono che per paura non possono allontanarsi dai paesi, non ammettono alcuna responsabilità. Reclamano sicurezza per i loro averi, pagano le tasse e vogliono essere protetti, lesti a mettere in risalto l'inefficienza dello Stato tranne poi ostacolarlo non appena si muove. Le misure? aumentare il potere dei militi a cavallo, da loro direttamente controllati e simbolo di una gestione privata dell'ordine pubblico: i militi dovevano versare una cauzione con cui risarcire i danni avvenuti nel loro mandamento, se di un reato non scoprivano il colpevole dovevano 9
ASCM, busta 641, fasc. 82. 1° Nella campagna contro il prefetto intervennero i giornali L'opinione, La perseveranza e Il precursore, che diedero ampio spazio alle tesi dei proprietari. Cfr. Berselli, Il governo dei moderati e la Sicilia: la prefettura Rasponi, in Quaderni del Meridione, n. s , pp. 3 - 2 5; n. 4, PP. 347 - 359; n. 6, pp. 560 - 597 ( 1 95 8- 59). 11 Alatri, cit., p. 567.
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pagare un indennizzo col loro soldo. Così, stavano ben attenti a non farsi troppi nemici; un capobanda perseguitato poteva per ripicca devastare un podere, mandando in rovina un comandante e i suoi dipendenti. 12 Inoltre, i reati denunciati dai militi erano sempre di lieve entità; a Monreale indagano soprattutto su furti di piccole partite di limoni, sia frutti che piante da mettere a dimora.l 3 Con uno slittamento di secoli, come nelle lotte fra il re e i suoi feudatari all'inizio dell'età moderna, la posta in gioco è il potere. Il prefetto Rasponi, che ha ricevuto dai proprietari numerosi attacchi e nessun aiuto, li accusa di essere parziali e ingiusti, non sa accattivarsene le simpatie. Da questo momento la rottura è esplicita. 3. I crimini diminuiscono, le paure aumentano 2 luglio 1874, rapporto sullo spirito pubblico. «Strenui sforzi si sono durati di fronte a lla maffia con le sue clientele e coi suoi pervertimenti», rispetto ai reati commessi nell'ultimo trimestre '73 si riscontra un certo miglioramento che - scrive il questore Biundi al prefetto - «se non può dirsi sensibilissimo, è certamente foriero e lusinga di maggior benessere per lo innanzi». Gli ultimi fatti accaduti nel circondario non sembrano molto gravi, lontani dalle imprese dei feroci banditi che riempiono le pagine dei giornali. Le operazioni dei delegati appaiono coronate dal successo e riportate in bella prosa barocca:
Una cricca di birbanti insidia e penetra in Monreale nella casa di agiata e infermiccia vedova, la rende impotente legandola con funi, la deruba di alquanti oggetti preziosi e di denaro, e quando è perplessa se strozzare la vittima o svignarsela baldanzosa del fatto, gli agenti della forza pubblica ghermiscono intera questa ribalda associazione, col plauso di quei comunisti.
Sembra però che lo spirito pubblico resti critico e fortemente negativo, che non si lasci impressionare dalle tante operazioni andate a buon fine. E allora, «che resta al funzionario di polizia dopo la coscienza di avere adempiuto a tutto il compito suo?» Il questore ripropone la vecchia pratica di utilizzare la mafia: «Il solo dovere Cfr. la deposizione di Gerra in inchiesta Bonfadini cit., p. 75. 13 ASCM, busta 646, fasc. 79. 12
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,
non basta oggidì per colpire il malaffare. L'autorità di pubblica sicurezza - mi si permetta l'espressione - è giocoforza che cospiri contro di esso». 14 Per il ministro Cantelli i più gravi timori vengono dalla Romagna coi suoi sovversivi e dalla Sicilia. Al centro-nord le preoccupazioni derivano dall'Internazionale socialista, basta il nome ad evocare squadre rivoluzionarie in marcia. Nell'isola le condizioni dell'ordine pubblico continuano ad essere anormali, tutti chiedono provvedimenti urgenti. C'è la paura che possa scoppiare un moto simile a quello del settembre '66 e si cominciano a cercare le prove dell'esistenza di tenebrose associazioni che, guidate dalla città, esercitano il loro potere nelle campagne. Rasponi aveva rassicurato il ministro ma, visti i rapidi progressi registrati dall'Internazionale nelle province infestate dalla mafia, sembrava impossibile che le due associazioni fossero tra loro estranee e le preoccupazioni aumentano di molto. Le richieste di informazioni sulla setta internazionalista sono costanti, mafia e opposizione vengono accomunate e l'etichetta associazione di malfattori comprende anche i socialisti." Durante l'estate del '74 diversi sequestri di persona accrescono l'allarme, si teme che possa scoppiare una rivolta. Non si tratta di paure infondate: il carico fiscale e il caroviveri rendono incandescente la situazione nei paesi dell'interno, col rischio che al primo segnale bande di rivoltosi si riversino su Palermo. A Termini nella notte fra il 29 e il 3o luglio vengono esplosi alcuni colpi d'arma da fuoco, è una richiesta di soccorso per spegnere un incendio che attira in piazza circa 30o armati, credevano fosse il segnale dell'insurrezione. 16 Il prefetto sostiene che non è aumentato il numero dei reati, anzi è diminuito. Ma il governo si sente come accerchiato e pretende che il problema dell'ordine pubblico appaia risolto, anche per motivi di decoro internazionale: attraverso l'avvicinamento agli Imperi Centrali, l'Italia cerca di ottenere un maggiore prestigio e l'isola diventa l'anello più debole di uno Stato troppo fragile. Il prefetto Rasponi non deve contrastare il numero dei reati ma la loro percezione emotiva, e non ha alcuna possibilità di modificare le dinamiche che lo emarginano e 14 ASP, AGQ, busta 409. 15 Alatri, cit., pp. 561 sgg. 16 Cfr. Brancato 1956, cit.
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condannano il suo operato al fallimento. Il 3o luglio scrive al ministro che gli scontri avvenuti fra comitive armate e la forza pubblica hanno portato all'arresto del bandito Massaro Domenico da Monreale. Insiste che le condizioni dell'ordine pubblico non sono peggiorate, «e neppure l'esagerata importanza attribuita al malandrinaggio in seguito a due audaci e clamorosi sequestri di ricchi possidenti può autorizzare un giudizio sfavorevole»." Intanto nel circondario di Termini e Cefalù le bande sembrano agire indisturbate, di sicuro hanno la loro base nelle vicine masserie. Rasponi ordina di perquisire la masseria del barone Turrisi Colonna, cosa che il barone interpreta come un oltraggio. Scrive lettere indignate ai giornali, si dimette dal consiglio provinciale di Palermo anche se poi, in una lettera personale a Minghetti, ammette di avere ospitato i banditi. 18 4. La «maffia»: l'analisi del prefetto Rasponi
Il 17 aprile il ministro Cantelli aveva chiesto informazioni «intorno alla così detta maffia ed alle sue attinenze»; Rasponi aveva preso tempo. A fine luglio, dopo 7 mesi di permanenza a Palermo, il prefetto è in grado di tracciare un quadro completo, allarmato ma razionale, che va oltre i singoli episodi delittuosi e inserisce in una visione d'insieme. Per Rasponi, «il pervertimento morale e la reazione all'autorità del governo» sono eredità del passato, e la maffia potrebbe definirsi un latente ed esiziale lavorio, mercé il quale [...] persone di ogni classe esercitano e scambievolmente si prestano aiuto proteiforme, senza leggi e norme, a scopo di difesa, per malinteso timore di ambizione, di prepotenza, di lucro, vendetta, rapina e impunità, servendosi di tutti quei mezzi che la legge, la morale, la civiltà, detestano e condannano.
Il governo è alla ricerca di tenebrose associazioni, il prefetto nega la presenza di sette con «legami e patti convenuti»: la maffia non ha norme prefinite, ma si esercita anche sotto forma per così dire di istintiva ed abituale so lidarietà nell'illegalità diffusa e per atti reciprocamente 33, fasc. 14. Berselli 1958-59, cit., p. 351. Le lettere del Turrisi Colonna furono pubblicate sul Precursore del 22 e 23 agosto 1874. 17
accettati nel loro essere sempre immorali, o quanto meno contrari alle norme della civile società [...]. Non avendo norme fisse e regolatrici, ma ravvolgendo la maffia tutte le classi sociali con diverse gradazioni e con diversi pervertimenti più o meno inclinati sulla via della immoralità, non corrono vincoli determinati fra coloro che ne fanno parte.
Gli aderenti sono inseriti in una rete informale, si riuniscono all'occorrenza e poi sono pronti a sciogliersi, senza bisogno di ricorrere ad associazioni segrete. La solidarietà di un'azione o cooperazione qualsiasi è il principale vincolo dominante [...]. La maffia infatti invade tutte le classi della società: il ricco se ne avvale per serbare incolume dalla piaga del malandrinaggio la sua persona e le sue proprietà, o se ne fa strumento per mantenere quella preponderanza che ora vede venirgli meno per lo svolgersi e progredire delle libere istituzioni; il ceto medio vi si dà in braccio e la esercita, o per timore di vendetta o perché la ritiene mezzo potente per acquistare malintesa popolarità, o per ottenere ricchezza, o per riuscire al compimento di propri desideri ed ambizioni; il proletario infine si rende più agevolmente maffioso, sia per l'odio naturale per chi possiede qualche cosa, o trovasi in posizione più elevata, sia perché abituato a reagire contro l'autorità pubblica. [...] [I manutengoli] partecipano ai guadagni dei malandrini per timore o per calcolo e sono i più pericolosi perché, avvalendosi de lla loro rispettabile posizione sociale per censo e per carica, proteggono, difendono, scagionano i birbanti.
Il ministro vorrebbe risultati rapidi, Rasponi sostiene che non esistono facili rimedi. Risanare la Sicilia richiede tempo, una diversa cultura, il miglioramento delle condizioni economiche. Diventato un esperto a sue spese, come primo rimedio il prefetto consiglia di ricucire la frattura ormai evidente fra siciliani e governo e di lavorare con obiettivi comuni, poiché molto dipende dal contegno delle classi elevate. 19 g. Il prefetto Rasponi protesta e finisce col dimettersi
La lucidità delle analisi non serve al prefetto, che diventa oggetto di una campagna di delegittimazione articolata in due momenti. Dapprima giornali e opposizione lo attaccano, lo isolano e l'accusano
ASP, GP, anno 1875, busta
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Inchiesta Bonfadini cit., pp. 3o - 33. ,
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di non essere in grado di prendere provvedimenti. Poi gli si chiedono iniziative che abbiano una doppia contraddittoria caratteristica: essere efficaci nell'immediato e non disturbare nessuno, cosa che forse si può ottenere solo affidandosi a vecchie connivenze. Mentre il questore gli consiglia di riprendere i metodi di Medici e cospirare contro la mafia, gli stessi che ne hanno distrutto l'immagine sostengono che il prefetto è isolato e senza autorità. Il malcontento e le accuse di debolezza diventano un coro, il 25 agosto Il Precursore lo definisce «un pesciolino fuori acqua o un pulcino nella stoppa!». Durante l'estate il problema della pubblica sicurezza diventa più visibile e il potere dello Stato, troppo giovane e troppo tardi formatosi, appare in ritardo di secoli sul resto d'Europa: una rete a maglie larghe, spettacolare nella punizione dei rei che vi incappano ma inefficiente nel quotidiano controllo e nella pianificazione, non appoggiato nemmeno dalle classi dirigenti. Vengono messe grosse taglie sugli individui giudicati più pericolosi, cosa a cui viene data la massima pubblicità con manifesti affissi nelle cantonate. In uno di questi, diffuso all'inizio di luglio, il prefetto illuminista cerca di fare quadrare il cerchio: sostiene che le condizioni dell'ordine pubblico a Palermo e nel suo circondario sono migliorate. Però, visto che nei circondari di Termini, Cefalù e Corleone recenti ed audaci misfatti delle bande hanno provocato molto sgomento nella popolazione, chiede la collaborazione dei municipi e fissa «importanti premi per chiunque e in qualunque modo riuscirà ad assicurare i più famigerati banditi in potere alla giustizia». Rapportati agli stipendi (£ 1.8o0 annue guadagna un delegato di terza classe) i premi appaiono davvero importanti: per i banditi Vincenzo Capraro di Sciacca, Vincenzo Rocca di S. Mauro, Angelo Rinaldi di S. Mauro, Gioacchino Di Pasquale di Alia, Antonino Leone di Ventimiglia la taglia è di £ 25.000, per Antonino Lombardi di Gratteri è di £ 10.000. 20 Sull'onda degli arresti che c'erano stati in Emilia e in Toscana, anche in Sicilia per tutto agosto vengono arrestati i probabili capi del20 Il manifesto, datato 2 luglio 1874, in ASCM, busta 641, fase. 82. Brancato 1956, cit., p. 414, dà notizia della condanna a morte di tre fratelli, Agostino, Rosolino e Vincenzo Drago di Alia. Venne giustiziato solo il primo, la mattina del 12 maggio 1874.
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la futura rivolta, con l'accusa di attentato alla sicurezza dello Stato. 21 Daquestomn,ciuosrpledtng,Raoi non è più utile. Tanto più che il governo si è indebolito, non può permettersi di difendere un prefetto impopolare di suo. Il 14 agosto Cantelli chiede ai prefetti di stanza in Sicilia un parere sull'adozione di mezzi straordinari per ristabilire le condizioni dell'ordine pubblico, e sollecita il prefetto di Palermo ad allestire una migliore organizzazione contro il brigantaggio e la mafia. Il 28 agosto Rasponi convoca nel suo ufficio i prefetti di Trapani, Caltanissetta e Girgenti: sono concordi nel chiedere un aumento del personale e l'applicazione delle leggi esistenti, già abbastanza restrittive. Solo il prefetto di Caltanissetta, Fortuzzi, è per i provvedimenti straordinari. Da parte sua Rasponi sostiene che da brevissimo tempo i nuovi sottoprefetti e delegati hanno dato un diverso impulso al servizio e che «nell'amministrazione della pubblica sicurezza bisogna assolutamente ripudiare la tradizione, che ha durato a Palermo dal borbonico Maniscalco al questore Albanese, secondo cui senza la mafia non può farsi buona polizia nelle città e nelle campagne». E conclude: «Io sono propenso allo sperimento dei mezzi ordinari fino all'estremo limite, temo sotto diversi punti di vista l'unione nelle mani di una sola persona dei poteri civili e militari» . 22 Il primo settembre, le risposte dei prefetti non sono ancora arrivate a Roma, il governo scavalca il parlamento chiuso per la pausa estiva ed emana speciali istruzioni che danno maggiori poteri alle autorità militari, sottoponendo a queste i prefetti. La direzione delle operazioni è affidata ad un comandante generale in Palermo, in ciascuna provincia o circondario è istituito un comando di zona e una commissione di pubblica sicurezza presieduta dal prefetto. Al contempo Cantelli cerca di seguire le indicazioni dei prefetti: vengono inviati 1.000 carabinieri in sovrannumero e gli agenti di pubblica sicurezza vengono aumentati «sino all'estremo limite possibile». 23 21 Il due agosto la polizia aveva arrestato i capi del movimento repubblicano e di quello internazionale, sorpresi in riunione a villa Ruffi, in Romagna. Da vari rapporti della questura, nell'aprile 1874 in Sicilia risultano 14 delle 129 sezioni internazionaliste esistenti in Ita li a, con 3.618 iscritti su un totale di 26.704. Nell'agosto del '76 il numero de ll e sezioni era salito a 25 (Alatri, cit., pp. 561-562 e Brancato 1956, cit., p. 414). 22 Inchiesta Bonfadini, cit., pp. 49 - 58. 23 Ibidem, p. 24.
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Il prefetto Rasponi era partito da Ravenna sicuro del successo, convinto che se lo Stato applicava le regole del gioco democratico e smetteva le connivenze, allora anche i suoi interlocutori siciliani sarebbero stati costretti a cambiare codici e comportamenti. Nel giro di pochi mesi si trova a vivere come una cavia, a muoversi entro percorsi che altri hanno stabilito, e sembra non avere alcun potere di modificare gli esiti sempre rovinosi delle sue scelte. Rasponi aveva toccato con mano l'ostilità dei notabili e la loro malafede, avrebbe avuto buoni motivi per essere favorevole alle leggi speciali. Eppure il 7 ottobre scrive a Minghetti: «Alle esagerazioni dei giornali non si deve rispondere con l'annuncio di misure ad effetto, destinate ad impressionare chi sta lontano e non conosce la Sicilia, si deve rispondere coi fatti». Ma si tratta di fatti che hanno lo svantaggio di essere poco eclatanti: «E opera di tempo lenta ma sicura il restaurare la pubblica sicurezza in Sicilia per le vie normali; l'altra via che avete scelto è gravida di inconvenienti e di pericoli». 24 Il 24 ottobre Luigi Gerra, segretario speciale del ministero dell'interno, arriva a Palermo per controllare l'applicazione dei provvedimenti del 1 ° settembre. Il prefetto Rasponi chiede invano spiegazioni, si dimette. In tempo per candidarsi a Ravenna alle politiche di novembre. Ma il governo non l'appoggia e l'ex prefetto diventa «una bandiera dell'opposizione democratica» contro la politica illiberale del governo. 25 Con l'arrivo di Gerra l'atteggiamento dei proprietari cambia di colpo: volevano misure radicali ma sotto il loro controllo, adesso sentono in pericolo la patria siciliana e i suoi diritti. Gerra stabilisce una specie di stato d'assedio: divide il territorio in zone e sottozone, istituisce commissioni mi li tari con compiti di polizia a cui le autorità amministrative devono sottostare. Il risultato è una nuova ondata di arresti e deportazioni. 6. I rituali di affiliazione: la prima testimonianza Oltre ai frequenti episodi che vedono le bande protagoniste, nel 1874 avvengono numerosi omicidi all'interno di ambienti ristretti, che rimandano a lotte fra gruppi per il monopolio de lle risorse. Nella bor24 25
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Berselli 1959, cit., P . 34. ßerselli 1 95 8 -59, cit., p. 359.
gata palermitana dell'Uditore 34 omicidi su 800 abitanti sono il risultato della lotta per la guardiania dei giardini, 26 ed è a partire dai casi dell'Uditore che comincia una corrispondenza fra il nuovo questore Rastelli e il ministro. Il problema da risolvere è se gli omicidi siano opera di singoli malviventi o di associazioni strutturate. Secondo il questore, nella borgata dell'Uditore sono all'opera associazioni non del tutto formalizzate (mancano statuti scritti), che hanno però forme e regole precise, quali il giuramento iniziatico per i nuovi adepti. Il questore descrive la cerimonia, che rimanda a formule massoniche filtrate attraverso la carboneria, e questa è la prima testimonianza su rituali che poi saranno raccontati quasi identici sino ai nostri giorni. Il neofita è portato nel fondo del barone Turrisi, alla presenza di capi e sottocapi. Uno di questi, estratto a sorte col tocco, gli fa una puntura sul braccio o sulla mano per fargli uscire del sangue poi asciugato con un'immagine sacra. Mentre l'adepto giura di essere fedele il santino viene bruciato, la sua cenere gettata in aria e dispersa a simboleggiare l'annichilimento dei traditori. Secondo le informazioni del questore, l'associazione stenderebbe le sue ramificazioni oltre Passo di Rigano e l'Uditore e non tutti gli adepti si conoscerebbero tra loro. Per questo è necessario un segnale di riconoscimento, un dialogo in codice, «che mostra indole volgare e difetto di intelligenza»: - Sangue di Dio! Mi duole questo scaglione! (accennando a uno dei canini della mandibola superiore) - A me pure - quando ti doleva? - il giorno dell'Annunziata - e dove ti trovavi? - a passo di Rigano - e chi c'era? - bella gente - e chi erano? - Antonino Giammona n. 1, Alfonso Spatola n. 2 etc. - e come fecero il misfatto? - fecero il tocco all'infuori di me e ne uscì Alfonso Spatola. Pigliò una santa, la tinse col mio sangue, la pose nella pianta de ll a mia mano, la bruciò. La cenere la buttò per aria. 26
Lupo 1993, cit., p. 56.
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- a chi dissero di adorare? - il sole e la luna - e chi è il vostro dio? - un Aria - e a quale regno appartiene? - a quello dell'indice.
In Sicilia, dove la campagna elettorale fu dominata dalla psicosi delle leggi speciali, i ministeriali si riducono a 6 su 48 deputati. 28
Il 18 e il 23 ottobre, invece del ministro è Gerra, in procinto di arrivare a Palermo, che risponde al questore: «Complimenti! Ora si apre un vastissimo e intricato campo alle investigazioni delle autorità. [Bisogna] mantenersi vigili per raccogliere e riannodare le diverse fila che mettono capo a lle sanguinarie associazioni dell'Uditore e dell'agro palermitano». 27 7. I provvedimenti speciali Il zo settembre 1874 avviene lo scioglimento delle Camere, l'8 e il 15 novembre ci sarebbero state le elezioni politiche. Il programma di Minghetti verte su tre punti: pareggio del bilancio, riforme che non comportino nuove tasse, ordine pubblico. Consapevoli che si prepara una sconfitta, i ministeriali cercano di mantenere il potere mettendo a frutto i timori che la parola sinistra evoca nell'opinione pubblica. Ricorrono a tutti i mezzi, ancora una volta la repressione della delinquenza diventa un alibi per perseguitare gli oppositori e a ridosso delle elezioni vengono arrestati numerosi esponenti internazionalisti. A favore delle opposizioni giovano gli errori della Destra: una concezione chiusa della vita pubblica, il centralismo, l'autoritarismo, soprattutto le tasse eccessive che gravano sui ceti più poveri. Nel Mezzogiorno si raccolgono solo frutti avvelenati: per la stabilità interna era importante che la borghesia meridionale fosse legata allo Stato e il governo, giudicando che attraverso la borghesia si arrivasse al popolo, aveva cercato di conservarne il favore con una serie di compromessi. Ma, più che essere espressione dei ceti popolari, la borghesia meridionale era proprio quella che li opprimeva e, scontenta del poco prestigio e potere che otteneva all'interno dello Stato unitario, ormai votava in massa per l'opposizione. 27 La corrispondenza fra il questore Rastelli e $ ministro in sta 35, fasc. 6.
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ASP, GP,
anno 1875, bu-
Il 5 dicembre 1874 il ministro dell'Interno Cantelli presenta alla Camera dei deputati il progetto di legge per l'applicazione dei provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza, che suona come una dichiarazione di guerra contro i notabili siciliani. I provvedimenti davano ampi poteri discrezionali alle autorità politiche e di polizia a danno della magistratura, e dovevano essere decisi da una giunta formata da prefetto, procuratore del re e comandante dei carabinieri, senza tenere in alcuna considerazione i locali. L'articolo che doveva fare più paura era il secondo, su manutengoli e favoreggiatori i quali, ancora prima che fosse pronta la documentazione, potevano essere arrestati per ordine del prefetto. Cantelli ammette che le misure chieste «non tanto contro gli autori dei reati stessi, quanto contro le persone sospette» possano sembrare eccessive. Ma l'esperienza di ogni giorno dimostra che né il numero, né la scaltrezza, né la ferocia dei malandrini prevarrebbe a lungo contro l'autorità della legge senza l'assistenza e l'aiuto ad essi prestato da chi, protetto dal vincolo di segreta associazione, pur non partecipando direttamente a lla consumazione dei reati, prepara nell'ombra i mezzi, fa pervenire gli avvisi, protegge e rende sicuri i ricoveri, veglia alle difese.
Il ministro ammette che in Sicilia «non vi era peggioramento nei risultati numerici dei reati», non era comparsa nessuna nuova banda di briganti ma, quasi esistesse un piano preconcetto, vari banditi s'erano associati e le loro gesta avevano avuto nuova e maggiore audacia mentre aumentava il panico delle popolazioni [...]. Senza accordare intera fede a coloro che credono quei banditi diretti e sorretti da sette politiche ed antisociali - come l'internazionale e il clericalismo - sono certamente favoriti da straordinari e ben saldi appoggi, tanto da potersi sorreggere e agire frammezzo a numerosissime colonne di forza pubblica. 29 28 Sulle elezioni del 1874 cfr. G. C. Marino, L'opposizione mafiosa, Palermo 1986 (seconda edizione riveduta ed aumentata), pp. 126 sgg., ed inoltre G. Procacci, Le elezioni del 1874 e l'opposizione meridionale, M il ano 1956. 29 Cfr. Inchiesta Bonfadini, pp. 3-16.
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Le leggi speciali sono un attacco ai notabili siciliani in genere ma anche l'ammissione di una sconfitta dello Stato, una sconfessione dei metodi messi in pratica in Sicilia e dei suoi stessi interlocutori. Infatti, se i banditi sono solo l'aspetto più evidente di una situazione omogenea, bisogna ridiscutere sia la politica del governo che la clas s e dirigente dell'isola, senza badare alle appartenenze. E si riaffaccia il problema del bilancio perché, se la classe dirigente non collabora con lo Stato, allora ogni provvedimento sarà vano. Di fronte a lla grande quantità di proteste che provengono non solo dalla Sinistra ma anche dall'area governativa, il progetto sulle leggi speciali viene accantonato, per essere poi discusso in aula nel giugno '75 condensato in un unico articolo che Cantelli prepara in collaborazione con Gerra. Il governo ha solo una fragile maggioranza. Mentre aumenta l'opposizione politica, con i deputati siciliani che diventano una mina vagante, comincia un dibattito conoscitivo sulle condizioni delle province siciliane, che porterà alla costituzione della commissione d'inchiesta presieduta da Bonfadini. Il prefetto Rasponi lascia Palermo nel novembre 1874. Per quasi tutto il 1875 la prefettura è retta da Agostino Soragni, che lo aveva già fatto nell'intervallo Medici-Rasponi. Nel dicembre il ministro Cantelli torna a rivolgersi ai prefetti, ricorda che in passato erano stati concessi tutti i sussidi pecuniari e di uomini, di nuovo chiede il loro parere sulle leggi speciali. Ancora una volta il prefetto di Caltanissetta si esprime con accenti di autentico disprezzo e razzismo; gli altri prefetti restano contrari all'adozione di provvedimenti eccezionali, si limitano a chiedere il rinnovo e l'aumento del personale giudiziario. La relazione di Soragni al ministro è datata 15 gennaio: I reati perpetrati e che compaiono nelle ufficiali statistiche non possono dare che una lontana idea delle condizioni reali di questi paesi; il fatto complessivo che definisce la situazione si è che i cittadini sono tanto intimoriti dal malandrinaggio che hanno abbandonato, per così dire, la base sicuramente efficace e civile della protezione del governo da loro stimata inferiore a ll a forza del malandrinaggio e si sono piegati al malandrinaggio stesso, sperando di avere minori mali possibili. 30
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anno 1875, busta 33, fasc. 49.
I crimini non erano aumentati ma il continuo battere dei giornali sul tema della pubblica sicurezza doveva dare l'impressione di una escalation incontrollabile. Sensazione che contagia anche la magistratura. Nella relazione conclusiva dell'anno giudiziario leggiamo che a partire dall'ultimo scorcio del '73 le imprese del bandito Pugliese erano apparse più formidabili; ordinati in numerose bande «i malviventi hanno spadroneggiato nelle campagne, minacciando di stringere i popolosi comuni del circondario nelle spire della paura». I cittadini sono in ansia, i terrorizzati viandanti vengono depredati o «inseguiti col coltello alle reni», lo spavento dei possidenti è universale e, anche se qualche bandito è caduto in conflitto o nei lacci de ll a giustizia, le orde brigantesche non sono né distrutte né scomparse. 31 8. Il manutengolismo governativo
In attesa della discussione parlamentare, le reazioni di offesa e le manifestazioni di protesta in Sici lia andavano di pari passo con le polemiche antimeridionali al nord. A maggio, per dimostrare le sue ragioni e spiazzare le ipocrisie, il governo pubblica una serie di rapporti di prefetti e magistrati residenti nell'isola, a suo tempo inviati al ministro dell'interno in forma riservata. I giudizi negativi erano contenuti soprattutto nei rapporti del prefetto di Caltanissetta, che ad esempio scriveva: «Conosco per lunga pratica il pervertimento morale di questa popolazione, per la quale l'idea del giusto, dell'onesto e dell'onore sono lettera morta». 32 29 maggio è datato un rapporto di Soragni al ministro, chiaramente a favore dei provvedimenti eccezionali: la mafia che s'insinua e penetra ovunque mantiene vivo il malandrinaggio nelle campagne, è veramente desolante lo stato di avvilimento e di violenza dei territori infestati dalle bande malandrine. Il manutengolismo di fittavoli e campieri è
di rado forzato. Il punto è la mafia, perché rinnova le assottigliate schiere dei malandrini. Ho visto distrutte nel 1865 le bande del circondario di Termini e dopo 10 anni ho visto nuove e più formidabili comitive. 33 31
Sull'amministrazione del la giustizia nell'anno 1874, relazione letta alla Corte di appello di Palermo dal sostituto procuratore generale del re cav. A. Sangiorgi il4 gennaio 1875,
Palermo 1875, pp. 23 sgg. 32 Alatri, cit., p. 504. 33 ASP, GP, anno 1875, busta 33, fast. 49.
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La discussione sui provvedimenti speciali fu tenuta in Parlamento dal 3 al 16 giugno. Il ministro Cantelli mise in primo piano la drammaticità delle condizioni dell'ordine pubblico in Sicilia: «Abbiamo in Sicilia 42 battaglioni, la sesta parte dell'esercito attivo. Che succederebbe in caso di bisogno ? Come si potrebbe garantire la Sicilia dal malandrinaggio ?» Il dibattito fu come un grandioso psicodramma dove il governo ammise che la pubblica sicurezza a Palermo era stata mantenuta per mezzo della corruzione e del manutengolismo governativo, cercando di giustificare il ricorso a mezzi illegali con le condizioni di emergenza che i passati governi avevano dovuto affrontare. Il ministro Cantelli dichiarò che «uno dei mali principali che hanno prodotto la grave condizione in cui ora si trova quell'isola è l'avere ricorso a questi mezzi» 34 e certo l'aspetto più drammatico fu la conclusione: il governo non aveva una classe di funzionari di cui potesse pienamente fidarsi, le sue intenzioni naufragavano a causa del personale che lo rappresentava. Infine la legge venne approvata il 3 luglio 1875 per 22o voti contro 203, con l'astensione delle sinistre e specificando che i poteri al ministero si concedevano solo per la durata di un anno. Al contempo si costituì una commissione parlamentare d'inchiesta, con il compito di presentare i suoi lavori entro un anno. A Palermo si moltiplicano gli appelli per scongiurare l'applicazione dei provvedimenti, lo stato d'animo prevalente fra quanti agognano un po' di normalità è lo sgomento. Rispetto al 1874, lo spauracchio delle leggi speciali ha avuto il merito di fare calare il numero complessivo dei reati: «È diminuita l'audacia, la violenza, la ferocia dei misfatti e dei delinquenti, non c'è stato nessun sequestro seguito da omicidio». Nella relazione sull'amministrazione della giustizia nell'anno 1875 il sostituto procuratore del re ammette una graduale cessazione delle scorrerie brigantesche, dei ricatti, delle sfide. «Il malandrinaggio compresso ha abbassato la baldanzosa fronte, una certa calma è nell'animo dei cittadini. Ne sia lode al governo e alle truppe venute a logorarsi nell'ingrato e rischioso servizio». Le bande sono state sconfitte: purtroppo non sono una casuale accolta di fuo34 Alatri, cit., pp. 6o6 sgg.; sulla discussione parlamentare cfr. anche F. Renda, Storia della Sicilia dal 186o al 1970, volume ii, Palermo 1985, pp. 4o sgg. e D. Novacco, La mafia nella discussione parlamentare del 1875, in Nuovi quaderni del Meridione, n. 1 (1963),
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rusciti senza base per le operazioni, «ma legioni tratte dai quadri permanenti di quel vasto e terribile organismo malandrinesco che nelle proteiformi spire della mafia involve il civile consorzio, lo conturba, lo affanna, lo corrode in tutti i modi». Il magistrato chiude la sua relazione con un accorato appello: Io so che indegnamente ci calunniano tutti quanti, ignorando la nostra storia ed il nostro passato. Ci dissero protettori dei ribaldi, dei facinorosi e dei banditi, quasi che fosse della gente onesta qui perduta la semenza, e tutta la Sicilia divenuta covo di malfattori, hanno scambiato la vittima col complice [...1. Allora disprezziamo col nobile sdegno di coscienza incontaminata la turpe ingiuria di comunanza di sentimenti coi tristi di qualunque risma, respingiamo l'accusa di manutengolismo ma non neghiamo che mafiosi e latitanti trovano alloggi e soccorsi per paura. Ribelliamoci, denunciamoli, contiamoli. Davanti ai buoni cittadini sono poca cosa, facciamo una lega degli onesti contro i malvagi. 35 9. La cacciata dei vescovi
La battaglia per i provvedimenti speciali che nell'estate del 1875 si combatte in Parlamento ha ricadute anche in periferia, e non solo per quanto riguarda le preoccupazioni o il risentimento. Infatti, deciso a rifiutare le vecchie connivenze, il governo elimina molte forme di tolleranza che in nome del quieto vivere aveva sino ad allora praticato. Quando nel 1872 la segreteria di Stato vaticana proibisce ai vescovi di nuova nomina di chiedere il regio exequatur, in tutta Italia si apre un contenzioso fra Chiesa e Stato che, a seconda dei luoghi e dei personaggi, assume un carattere di ostilità più o meno dichiarata. Il buon senso suggerisce di cercare un compromesso, e molti politici diventano mediatori fra il loro vescovo e lo Stato. A Firenze è il sindaco ad adoperarsi presso il ministero, altrove basta l'intervento di un deputato. Durante il 1875 negli arcivescovadi di Palermo e Monreale si rompe il delicato equilibrio, fondato soprattutto sul lasciar correre, sino ad allora esistente tra gli arcivescovi e la prefettura. Ci sono nuovi motivi di ordine pubblico o, meglio, sono i motivi di sempre. Solo che, nel momento in cui lo Stato guarda i notabili come un esercito di complici 35 Sull'amministrazione della giustizia nell'anno 1875, relazione letta dal sostituto procuratore del Re cav. A. Sangiorgi alla corte di appello di Palermo il5 gennaio 1876, Palermo 1876.
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e manutengoli, diventa inevitabile riconsiderare il ruolo della Chiesa. Specialmente di quei prelati che si sono sempre mostrati ostili, e in Sicilia l'ostilità degli arcivescovi sembra avere un peso diverso che in altre parti d'Italia. Nonostante non abbiano chiesto l'exequatur, sia l'arcivescovo di Monreale che quello di Palermo pretendono di decidere in merito all'amministrazione delle opere pie, sostengono che il diritto canonico basta a garantire il godimento dei beni temporali. Molto diversamente la pensava il procuratore generale del re a Palermo 3ó e la magistratura in genere. Messo alle strette, l'arcivescovo di Palermo mons. Celesia si dichiara disponibile a chiedere l'exequatur al sindaco Notarbartolo, che avrebbe poi inoltrato la richiesta al ministero. Il governo rifiuta, laconico Cantelli scrive: «Sembra che il vescovo non voglia avere contatti con questo ministero». Nonostante le possibili pesanti ripercussioni su quello che si usava chiamare lo spirito pubblico, lo Stato affronta lo scontro coi vescovi e caccia dai loro episcopî 33 prelati. Per gli arcivescovi di Palermo e Monreale si interessa direttamente il ministro, il 21 maggio scrive a Soragni che entrambi avevano occupato l'episcopio abusivamente, cosa che poi non è vera visto che avevano ricevuto il palazzo dall'economo generale per i benefici vacanti. Date queste premesse, considerando che la sede vescovile è di regio patronato, Cantelli conclude che l'intimazione di sgombero è regolare. Dopo ripetute diffide e richieste di proroghe, l'ultima firmata dall'arcivescovo di Monreale è datata 22 luglio, il 5 agosto 1875 il ministro di grazia e giustizia scrive a Crisafulli, regio economo per i benefici vacanti, di «impartire opportune disposizioni perché l'opera del subeconomo delle diocesi di Palermo e Monreale possa, nella eventualità che il bisogno il richiedesse, essere avvalorata dalla forza». Il 9 agosto Crisafulli può comunicare in prefettura che gli episcopî di Palermo e Monreale sono stati sgomberati dai rispettivi arcivescovi. Non è stato necessario l'uso della forza, i prelati si sono limitati a protestare mentre lasciavano il palazzo. Nello stesso mese di agosto viene condotta una capillare offensiva contro le tradizionali esternazioni religiose. Il questore comunica ai delegati che le feste sono una sfida del partito clericale, che si avvale 36 Lo Stato ha abdicato al solo diritto di nomina, l'exequatur «sta di fronte all'atto della Chiesa, ed è l'abilitazione che lo Stato accorda all'esercizio pubblico, esterno, legale dell'ufficio intero in tutte le sue manifestazioni» (Sangiorgi 1876, cit., p. zo).
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dell'ignoranza delle masse per organizzare delle provocazioni. Vengono quindi proibiti i concerti bandistici, i fuochi d'artificio, le questue, le processioni, gli altarini nelle pubbliche vie. D'altronde, è guerra da entrambe le parti. Quando l'arcivescovo Papardi lascia l'arcivescovado va ad abitare nel palazzo del conte di Capaci in corso Calatafimi, il lungo stradone che collega Monreale a Palermo. È a pochi chilometri dal suo palazzo eppure, poiché la diocesi è tutta proiettata verso l'interno, ne è già fuori. Il conte di Capaci non è un qualsiasi notabile di orientamento clericale, è un ex ministro borbonico a Roma. Organizzatore di complotti e comitati, nella sua casa si riuniscono gli esponenti del partito clericale e i nostalgici in genere: sceglierla come dimora ha un ostentato significato politico. L'arcivescovo di Monreale resta ospite del conte di Capaci per ben quattro anni. Nel marzo '77 il delegato Bernabò scrive al questore che Papardi ha ormai cambiato opinioni politiche e dà prova di moderazione e rispetto delle istituzioni. Però nel giugno dello stesso anno il questore segue con attenzione una sua progettata partenza per Roma, classificandola sotto la voce «mene del partito clericale». 37 Quando Papardi si rifugia nel palazzo del conte di Capaci, smette di essere un referente anche solo formale per l'amministrazione della Mensa. Anche la carica di pro-amministratore per conto dell'arcivescovo è vacante da un anno, è morto Antonio Martines che a lungo l'ha tenuta e nessuno gli è subentrato. 3S Sino al 1879 il patrimonio della Mensa ricade fra le competenze esclusive del ministero delle finanze, che lo gestisce attraverso l'economato generale per i benefici vacanti.
37 Qualche notizia sul conte di Capaci in Alatri, cit., p. 571, e Scichilone, cit., p. 15o. La corrispondenza sulla cacciata dei vescovi in ASP, GP, anno 1875, b. 31, fasc. 7. Rapporto del marzo 1877 al questore in ASP, AGQ, busta 442. Corrispondenza intorno alla partenza di Papardi in ASP, GP, anno 1877, busta 38, fasc. 1o. 3 La carica verrà poi cumulata da Faro Scarlata (ASDM, FM, busta 379). '3
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Capitolo terzo
Monreale
1. I caratteri della classe media
A Monreale è difficile separare braccianti, piccoli proprietari e borghesi: risultano predominanti le figure miste, a testimonianza di quanto sia difficile mutare la propria condizione sociale. Altrove in Sicilia il possesso della terra implica un passaggio di status, qui la commissione d'inchiesta del 1867 registra la presenza di una proprietà eccessivamente frammentata, «piccoli proprietari particellari» su terreni dati in enfiteusi dalla cattedrale.' Il frazionamento della proprietà più vicina al paese spiega la poca incidenza di una figura che invece è molto diffusa nell'agro palermitano, il guardiano. Nel monrealese il guardiano per definizione è quello dell'acqua. Nel 1866 si erano registrati i primi casi di gommosi, un attacco da virus alle radici e al tronco dei limoni. L'unico rimedio era «abbattere gli individui ammorbati e lasciare qualche anno scoperte le fosse occupate da lle radici infette, perché si dissolvessero completamente i germi del morbo in parola» 2 e, dopo i forti investimenti per impiantare i limoneti, molti proprietari rischiano di andare in rovina. Siamo in una situazione di produzione molto limitata e i prezzi lievitano, il 187o è l'anno in cui sono più alti. Poi entrano in produzione i nuovi agrumeti e le condizioni esterne favoriscono il commercio: con l'avvento del vapore i viaggi sono più rapidi, diminuiscono le spese per il trasporto e anche le perdite che si registravano nelle lunghe traversate. Il commercio agrumario produce benessere, ma nella testimonianza che il sindaco Andrea Di Bella rende alla commissione del 1875 tutti i contadini sono piccolissimi proprietari che, non riuscendo a fare risparmi, sono costretti a ricorrere
agli usurai e a lavorare le terre altrui. 3 Nei primi anni '7o una serie di cattivi raccolti aumenta il carovivere, e fa crescere il malcontento. Pochi monopolisti mantengono alti i prezzi, vengono arrestati. Nel 1874 un buon raccolto fa diminuire il costo del pane. 4 Nel settembre del '75 il delegato di pubblica sicurezza Achille Filippone risponde alle domande del ministero dell'industria e agricoltura sui lavoratori delle campagne; scrive che nei dintorni di Monreale la condizione prevalente è quella di proprietario, poche le gabe lle e le mezzadrie. Nell'ultimo decennio il salario è aumentato di quasi 42 centesimi al giorno, al momento è intorno alle 2 lire più il vino. Le donne lavorano solo per brevi periodi, per la raccolta e l'imballaggio degli agrumi o per la raccolta delle olive, ricevono 85 centesimi al giorno; i ragazzi 42 centesimi. Non siamo nei latifondi coltivati a grano, il bracciante lavora quasi tutto l'anno e l'andare a giornata non implica necessariamente miseria, per lo più si tratta di manodopera specializzata come potatori e innestatori. I pochi fittavoli sono indebitati coi proprietari, ricevono in prestito frumento che poi conteggiano quando lavorano, e sembra che tutti vadano d'accordo.' Lasciando sullo sfondo i meccanismi che governano l'economia-mondo, 6 possiamo affermare che in agricoltura la modernizzazione dei processi produttivi risulta dalla combinazione di tre fattori: l'estendersi dei rapporti mercantili, l'instaurarsi della pace e dell'ordine su una vasta area e la creazione di un forte governo centrale. Nel caso dell'agrumicoltura abbiamo una produzione destinata al mercato, mancano però le altre condizioni. Il modo in cui si forma lo Stato lascia lo spazio per l'affermarsi di una rete di associazioni informali, che diventano visibili solo quando si forzano gli equilibri. Passata la crisi la situazione torna normale. Nella seconda metà dell'800 il Mezzogiorno d'Italia è periferia da secoli e, anche se in continua evoluzione, i rapporti centro-periferia all'interno dell'economia-mondo difficilmente potevano essere modificati da 3
Inchiesta Bonfadini, ed. Iachello, cit., p. 36.
4 ASP, AGQ, busta 461. 5 ASP, AGQ, busta 460.
«Nella procura di Monreale (si contano) 952 partite, che si frazionano fra circa 5.000 persone sparse in tutta l'estensione del territorio di Boccadifalco, Monreale, Parco e Grisì» (lettera dell'avv. Puglia al regio economo del 24/1/1880 in ASDM, FM, busta 376). 2 Alfonso, cit., p. 456.
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6 Sul concetto di economia-mondo, sui rapporti di forza e i meccanismi politico-economici creatori di egemonie e dipendenze cfr. I. Wallerstein, Il sistema mondiale del-
l'economia moderna. L'agricoltura capitalistica e le origini del sistema mondiale dell'economia europea nel xvi secolo, Bologna 1978.
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uno Stato fragile. Il sud viveva in un clima di continua emergenza, la soluzione più facile e immediata era di puntare sul nord industriale, che presentava un tessuto produttivo coeso. L'affermarsi degli agrumi avviene ai margini dell'economia-mondo e per assenza di concorrenti: si offre un prodotto richiesto dal mercato, che gli altri non -hanno. L'agrumicoltura, che permette la crescita e l'affermazione di un gruppo di mediatori monopolisti della violenza, a sua volta ha i caratteri di una coltura che monopolizza il mercato, fortemente speculativa. Quando spunteranno i concorrenti la Sicilia verrà inevitabilmente surclassata. All'interno di questo panorama, Monreale si caratterizza come un luogo dove predomina la classe media, l'enfiteusi ecclesiastica ha creato numerosi piccoli proprietari, il seminario e la presenza del clero originano una tradizione culturale di cui la città è orgogliosa. Dopo nità ci sono altri elementi che ne potenziano le caratteristiche di classe media, cioè borghesia come si può esserlo in una situazione anomala: la vastità del territorio comunale, l'essere collegio elettorale con i relativi collegamenti nella rete del potere, il commercio degli agrumi. Monreale non risente della mancanza di strade e ferrovie che ostacola gli scambi nelle province dell'interno, solo una strada-monumento la separa dalla lunga via che taglia in due Palermo e conduce al porto. Fattori non immediatamente percepibili come la struttura della proprietà, un regime delle acque caratterizzato dall'incertezza del diritto, la natura stessa del commercio agrumario con i suoi ampi margini di rischio, creano le condizioni perché la classe media si formi con precise caratteristiche che l'ambiente provvede a selezionare e affinare. La più visibile è la capacità di adoperare la violenza come strumento per l'affermazione e il mantenimento delle posizioni acquisite. L'apparente inefficienza dei regolamenti e degli istituti preposti a lla loro osservanza viene utilizzata da gruppi di violenti, che l'adoperano per imporre il proprio predominio. Solo un esempio, sui caratteri tipici di un esponente della classe media. Fra le carte della Questura di Palermo si trova una lettera in difesa di Salvatore Mice li , proprietario, giardiniere nel territorio di Monreale, affittuario di molti giardini che coltiva e amministra personalmente con obbligo di migliorarli, speculatore di agrumi, detentore di una gabella per il giardino del duca Airoldi in contrada Colli. «A causa dei tristi» ha dovuto per parecchi anni abbandonare la sua patria Monreale, 96
ma adesso assieme ad altri vi ha l'appalto dei dazi di consumo. Quindi, un notabile in piena regola. L'ispettore Sangiorgi' - mandamento Molo - ha dei sospetti sul suo conto, non vuole che dimori nel suo mandamento. Ma il Miceli non può confinarsi a Monreale, gli affari andrebbero in rovina. Sicuramente nei suoi confronti ci sono solo voci calunniose mosse da invidia, perché «Mice li è onest'uomo, forse il nome lo pregiudica, e per questo in altra epoca ha sofferto qualche breve carcerazione, senza però condanna alcuna. Egli ormai, capo di numerosa famiglia, non ha altro scopo che far vita onesta». 8 2. L 'amministrazione comunale Tutti i pettegolezzi, i puntigli e i partiti che dividono questi galantuomini, hanno l'origine nella brama di vivere in carico della pubblica amministrazione. 9
Dopo l'Unità le amministrazioni comunali, col loro contorno di appalti e quindi soldi, sono campi privilegiati in cui si esercita il contrasto fra gruppi rivali all'interno dei comuni. Nel 1865 il prefetto Gualterio ne scrive al ministro dell'interno, sono «solo gare individuali, e si riassumono in prevalenze di famiglie, in prepotenze e in aspirazioni alla prepotenza». Il prefetto ricorda il caso di Monreale, dove l'amministrazione comunale era travagliata da crisi continue e si dovette sciogliere il consiglio comunale dopo le nuove elezioni, perché mi vennero segnalati 5 consiglieri come dilapidatori delle sostanze comunali e come - pertanto - dei malandrini; eppure a giudicare dalle memorie dei fatti a cui avevano partecipato s'avrebbe dovuto ascriverli al partito liberale. Però si trovano sotto processo per delitti di sangue e per lo accennato ma-
nutengolismo del malandrinaggio.I°
Siamo di fronte ad un caso che incontreremo spesso: nel bene e nel male, non ci si può fidare dei precedenti dei singoli. La politica ' Si tratta dello stesso Ermanno Sangiorgi che ricoprirà la carica di questore di Palermo e che, in una serie di rapporti compilati negli anni a cavallo tra il XIX e il xx secolo, sosterrà la tesi della mafia come organizzazione strutturata (cfr. Lupo 1993, cit.
pp. 80-89). ft
busta 409. busta 435, lettera anonima del 16/2/83. Io Scichilone, cit., p. 168.
9
ASP, AGQ, ASP, AGQ,
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è un campo dove con spregiudicatezza si aggirano individui decisi a trarre vantaggi da circostanze in rapido mutamento, che promettono ascese personali. L'avere combattuto nelle rivoluzioni non implica il successivo adeguamento alle norme dello Stato liberale. Allo stesso modo, sarà un errore cercare nel curriculum del mafioso le stimmate dell'oppositore politico. Uno degli strumenti di controllo dei prefetti era la possibilità di sciogliere i consigli comunali, provvedimento che il più delle volte risulta inutile perché i gruppi di potere locale non tardano a ricompattarsi. Nel 1868 la lista degli elettori monrealesi comprende 390 nomi, ridotti a 353 dopo una verifica sul censo. Il consiglio comunale elegge una giunta che, scrive il questore al prefetto, «è l'istessa che fu sciolta dopo aver dato non dubbie prove di regresso e di ogni ostilità alla disposizione governativa ed al mantenimento della pubblica sicurezza. I risultati quindi non possono essere che quelli già deplorati»." Secondo una delle tante lettere anonime, nel 1870 il consiglio comunale viene sciolto «perché composto da gente affamata». Il paese appare dominato da una forte maggioranza clericale, diviso da lotte intestine, nessuno che accetti la carica di sindaco. Scrive il prefto: Cagione di questa ripugnanza dei buoni ad assumere il duro ed ingrato ufficio di sindaco in quel comune, sono purtroppo le anormali condizioni di sicurezza in cui trovasi il paese, l'indole perversa ed incorreggibile della maggioranza di quegli abitanti e il continuo urto dei partiti che spesso trascende a deplorevoli scene di sangue. 12
Il questore Albanese si reca sul posto ma il suo intervento, visto come un'ingerenza, provoca molte proteste. Il 29 dicembre sarà poi nominato sindaco Antonino Leto Saputo, che si dimette dall'incarico il 2 luglio 1871 per un incidente politico: il 21 giugno il sindaco si trovava ai bagni segestani e l'assessore anziano G. Battista Pensato, «spalleggiato e consigliato da alquanti preti suoi amici», per commemorare l'incoronazione del papa fa illuminare a festa il palazzo di città. Era una provocazione ostentata e, nelle sue dimissioni, il ASP, GP, 12
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2/í1/70,
anno 1870, busta 17, fasc. 21. il prefetto al ministro degli interni,
in ASP, GP,
anno
7870,
busta
17, fasc. 21.
sindaco scrive che non vuole più rappresentare un municipio che per tale fatto passerà alla storia. 13 D'altronde, il conflitto fra Chiesa e Stato aveva inevitabili e continue ripercussioni nella vita quotidiana. A partire dal marzo del 1871, eccetto che per la festa del patrono, sono vietate le processioni. Disposizione che dovette sembrare un sopruso e non mancò di aizzare il naturale spirito di insubordinazione dei monrealesi, pronto a cogliere le occasioni per proteste appena camuffate da devozione. È rimasta memoria di un episodio, avvenuto l'8 ottobre del 1873. Sono le 7 di sera, uno dei parroci della cattedrale sta portando il viatico al canonico sig. Modica, accompagnato da otto preti e «molto popolo portante mazzi di paglia incendiata, salmeggiando e gridando evviva Gesù sacramentato». Lo spettacolo allarma molto il tenente colonnello che comanda la truppa di stanza in paese, sempre in attesa di congiure e insurrezioni. In precedenza il delegato Palmeri aveva tentato di convincerlo che in simili casi non era necessaria l'autorizzazione: lo stesso si sente in dovere di intervenire, ed ordina al luogotenente di disperdere l'assembramento per mezzo di una pattuglia di bersaglieri. Le modalità di comportamento sono que lle di un esercito che occupa un paese straniero e nemico. E, come spesso accade quando una forzata accettazione nasconde la reciproca ostilità, la comunicazione ci mette poco a degenerare. Di fronte a quegli estranei, che non comprendono quanto li circonda ma pretendono di dare ordini, riaffiora la vecchia insofferenza. Va a finire che i bersaglieri caricano la folla, mentre i preti si rifugiano nella vicina chiesa di San Giuseppe. Il sindaco scrive veementi proteste al ministro, «iersera arbitrio inqualificabile vieta tornare in duomo viatico precedente ceri, caricando baionetta popolo devoto, violando domicilio moribondo viaticato». La tranquillità appare compromessa, è necessario che la forza pubblica sia rafforzata da un ulteriore distaccamento di bersaglieri. 14 Nell'ottobre del 1873 è sindaco Andrea Di Bella, nominato dopo che il 9 giugno si era dimesso Giovanni Salerno. Il quale aveva dichiarato di lasciare la carica per assistere il padre ottantenne e seguire meglio gli affari di famiglia; ma le sue dimissioni sono il sintomo evidente dei conflitti che lacerano il consiglio comunale, dove nessuna 13 ASP, GP, 14 ASP, GP,
anno 1875, busta 32, fasc. 13. anni 1871-73, busta 28, fasc. 25.
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fazione sembra abbastanza forte da imporsi. Andrea Di Bella aveva fatto parte dell'esercito, il questore di Palermo lo definisce liberale. In seguito verrà detto debole ma onesto, con parecchi nemici e fortemente osteggiato in consiglio. Neanche il sindaco Di Bella conclude il suo mandato, si dimetterà il 18 novembre del 1875. In quell'occasione il questore scrive che aveva molti nemici, non poteva contentare tutti. Ma questo, in un paese travagliato dai partiti come Monreale, sarebbe stato difficile da ottenere." 3. Il controllo delle risorse
Monreale è al centro dell'attenzione nazionale nel giugno 1875, durante la discussione parlamentare sulle leggi speciali di pubblica sicurezza. Le dichiarazioni che l'ex procuratore generale Diego Tajani pronuncia in quell'occasione ne fanno l'esempio del modo arbitrario e corrotto con cui lo Stato gestisce la pubblica sicurezza in Sicilia, il simbolo di una società che presenta l'illegalità come tratto distintivo anche negli istituti preposti a tutela delle leggi. A Palermo Diego Tajani era stato il protagonista perdente della lotta fra potere politico e magistratura; adesso rivela una sequela di circostanze che il To agosto 1871 erano culminate nell'arresto di Salvatore Lo Biundo, comandante della guardia nazionale di Monreale, accusato di avere assassinato Sante Termini l' 1 I dicembre 1869. Secondo Tajani, l'ordine pubblico era mantenuto reclutando i delinquenti più in vista e dandogli da rappresentare lo Stato: Si chiamarono le spine più grosse di Monreale. Queste spine più grosse erano sei, tutta gente coperta di delitti, tuttavia ad uno di essi si dette la carica di comandante le guardie campestri, ad un secondo quella di comandante una specie di guardia nazionale suburbana, ed agli altri quattro mafiosi si diede quella di capitani della guardia nazionale. Erano tutti mafiosi, ed uniti insieme formavano una bella compagnia d'armati [...]. Quasi tutti i misfatti che accadevano nelle campagne di Monreale accadevano o colla loro complicità o col loro permesso. Queste compagnie erano accampate nelle campagne, avevano delle casine. Ed un funzionario giudiziario che era stato quattro anni colà, in un suo rapporto, pro-
15
TOO
ASP, GP,
anno
1870,
busta
17, fasc.
21.
ruppe in questa esclamazione: qui si ruba, si uccide, si grassa; tutto in nome del reale governo. 16
Due latitanti che sembrano disposti a fare delle denunce, Sante Termini e Pietro Lepre, cadono in un agguato. D'accordo con Tajani, il pretore di Monreale Salvatore Barraco inizia le indagini. Viene però convocato dal questore Albanese e invitato a non insistere, perché i due erano facinorosissimi e «ragioni di ordine pubblico avevano indotto l'autorità ad ordinare la loro morte»." Lo scontro fra potere politico e magistratura che nel 1871 avviene 12 agosto il questore Albanese trasmette al prefetto generale Medici quanto gli ha comunicato il delegato Palmeri, che quel pretore «aveva ricevuto severe istruzioni di processare chicchessia, se mai si trasgredissero menomamente i dettami del Codice e della procedura penale». 18 Il delegato di pubblica sicurezza Paolo Palmeri, a Monreale dall'inizio del 1866, non può appoggiare il questore sino in fondo ma è chiaro qual è il potere più forte. E poi l'abitudine a non vedere sindacate le proprie decisioni, privilegio antico della polizia, doveva istintivamente portarlo ad essere avverso a qualsiasi ipotesi di controllo esterno. a Palermo si riflette anche a Monreale. Il
16 Discorso di Tajani in N. Russo (a cura di), Antologia della mafia, Palermo 1964, pp. 1 35 -1 76 . Dopo le denunce di Tajani, per conto del ministro il reggente la prefettura cav. Soragni chiede chiarimenti al questore Rastelli. Secondo il questore le accuse sono troppo vaghe, comunque: «Sussiste che in un'epoca assai vicina le guardie campestri di Monreale fossero cadute in sospetto di appartenere a lla mafia e di favorire i reati anziché concorrere a scoprirli [...1. Dagli atti risulta che dietro il sequestro di Giovanni Campane lla da Monreale, avvenuto il 23 gennaio '71, nonché di altri sequestri di persona e gravi reati commessi nella campagna di Monreale, la questura ordinò l'arresto delle guardie campestri di detto comune e il loro scioglimento» (rapporto del 16/9/1875, in ASP, GP, anno 1876, busta 35, fase. 11). 17 Il processo contro ignoti sull'uccisione di Sante Termini si conclude con un non luogo a procedere, «non essendovi tracce da percorrere». Nell'aprile del '71, nominato giudice istruttore a Caltanissetta, il pretore Barraco risolleva la questione con un suo rapporto al procuratore del re a Palermo. Nell'istruttoria in seguito riapertasi Barraco dichiara: «Io fui per circa quattro anni pretore in Monreale, cioè da luglio 1867 ad aprile 1871. In così lunga dimora mi acquistai una profonda conoscenza del personale non solo, ma dei vari fatti che succedevano. Ebbi a convincermi che la pubblica sicurezza rappresentata dal questore Albanese cercava di dare tranquillità al mandamento per mezzo di segrete violenze, le quali maggiormente alteravano l'ordine pubblico abbastanza demoralizzato» (cfr. Brancato 1956, cit., pp. 386-387 e Lupo 1993, cit., p. 30). 18 Alatri, cit., p. 377.
IOI
Nella seconda metà dell'anno continua l'ostilità fra Palmeri e il pretore. Circostanza che, nel giudizio del comandante generale della divisione militare di Palermo, avvilisce ulteriormente il già malandato ordine pubblico. L'ufficiale ne dà notizia al ministro dell'Interno, assieme alle sue pessimistiche considerazioni, sopra molti reati commessi difficilmente si potrà fare luce, quantunque sia pronta l'istruttoria del pretore, perché essa va a riuscire necessariamente sterile, pel modo con cui si conduce, e pei temporeggiamenti che sono lungamente sfruttati da gente che di proposito inganna la giustizia E...]. In Monreale, non esistendo più intendimenti conformi fra il delegato e il pretore, l'interesse pubblico in atto soffre ed io stimerei cosa provvidenziale che uno dei due venisse traslocato.
Il comandante Masi teme che si scateni il finimondo. Niente di tutto questo, a dimostrazione del fatto che nei tempi brevi il numero dei crimini non è da collegare all'efficienza del sistema repressivo. Nel rapporto di ottobre lo stesso Masi scrive: «Nella sotto zona di Monreale si ebbero a lamentare 1 omicidio, 6 ferimenti, 4 grassazioni, 2 furti. Se si considera l'accordo mancato tra l'autorità giudiziaria e quella di pubblica sicurezza, può dirsi che i reati non avvennero in numero più ragguardevole del passato». A novembre: «La pubblica sicurezza non fu turbata in modo speciale, essendo avvenute tre sole grassazioni, su strade differenti. I latitanti seguitano a mantenersi tali, per la solita ragione che gli abitanti sono restii a dare qualunque indicazione, rendendo vana ogni ricerca». 19 Il questore Albanese viene incriminato come mandante dell'assassinio di Sante Termini; il processo a suo carico si conclude con la dichiarazione di non luogo a procedere per mancanza di indizi, mentre il procuratore Tajani rassegna le dimissioni. A questo punto il delegato Palmeri può tornare a giocare in proprio e col nuovo procuratore Vincenzo Calenda ricomincia i suoi tentativi di fare carriera. Essere delegato di pubblica sicurezza a Monreale comporta un carico di lavoro non indifferente, il circondario accoglie numerosi latitanti e ogni tanto si intraprendono grandi manovre per la loro cattura. Nel dicembre del '71 Calenda scrive di Palmeri al prefetto Medici: grazie ai suoi buoni uffici sono stati riconciliati i partiti che nel 19 ASP, GP, 102
anni 1871-72, busta 24, fasc. 23.
vicino paese di Parco fomentavano i reati di sangue. 2° Il delegato Pal-
meri sembra ben integrato, impastato con un buon senso classista che non nasconde. Ad esempio, durante l'estate del '72 nelle contrade Real Celsi e Giacalone viene segnalata la presenza di tre uomini che fanno grassazioni nei vicini stradali. Mancano le denunce ma il delegato scrive al questore che conosce i loro nomi, per averli ricevuti da persone che giudica degne di tutta la fede possibile, visto che non sono bisognose. 2 ' Nella ricostruzione fin troppo precisa fornita dalla questura, l'anno 1872 vede la nascita della setta degli stuppagghieri ad opera del fratello del delegato Palmeri. Nel 1872 Palmeri è a Monreale ormai da parecchi anni, ha imparato a coesistere con l'ambiente ed è una singolare figura di delegato-notabile, esemplare non molto diffuso considerato il poco prestigio e la bassa paga che offrivano i ranghi del pubblico impiego. Di certo Palmeri aveva altre ambizioni, e il loro fallimento finì per avvelenargli la vita. Di famiglia nobile, per 16 anni rimase nel gradino più basso della carriera, delegato di terza classe nonostante vari prefetti avessero elogiato la sua opera. Ma i prefetti erano di nomina governativa e cambiavano spesso, per fare carriera non bastava catturare la loro benevolenza. E Palmeri ogni volta era costretto a ricominciare, mentre si vedeva scavalcato da individui che non stimava. Avanzare nella carriera è un obiettivo costante del delegato Palmeri. Ma, sarà la poca considerazione che ha dei suoi interlocutori, sarà che troppe volte deve ripetere le stesse mosse, a volte i suoi tentativi diventano sciatti nei particolari. Allora invece di essere umile tende ad assumere un tono sufficiente, che doveva sorprendere non poco il superiore di turno. Dopo lo scandalo Albanese la questura di Palermo è retta dal procuratore del re Virzì. Che, viste le circostanze della sua nomina, vorrebbe portare a termine azioni encomiabili e il 31 luglio sollecita iniziative per la cattura dei latitanti. Palmeri si adatta a malincuore. Assieme a Giovanni Riolo, comandante delle guardie campestri, il 3 agosto è alla guida di un drappello misto di bersaglieri, guardie di pubblica sicurezza e guardie campestri: battono la montagna della Cannavera 21
ASP, GP, anni 187o-71, busta 25, fasc. 31. ASP, AGQ, anno 1872, busta 667 .
103
alla ricerca di due latitanti, Ignazio e Nazzareno Trifirò, che possono vantare un'infruttuosa taglia di 1.000 lire sin dal 1868. L'indomani Palmeri riferisce al questore che tutti i nascondigli sono stati esplorati senza risultato, «durante il servizio si fu molto penato e si corse pericolo d'insolazione, perché con gli attuali straordinari calori furono percorsi oltre 12 km di montagna. Magari ci fosse stato qualche risultato le fatiche sarebbero state dimenticate, ma non ve ne furono, si rimase molto sofferenti ed io tutt'ora soffro di dolori a ll e gambe» .22 Nel 1873 il delegato Palmeri viene trasferito, a Monreale troviamo un funzionario di cui restano solo deboli tracce. Qualche rapporto, qualche tentativo di farsi notare e subito c'è un altro cambiamento, al posto del delegato Negri arriva Achille Filippone. Degli anni che seguono restano pochi documenti negli archivi di polizia. Il z 1 gennaio del 1875, in risposta alle sollecitazioni della prefettura che richiede l'elenco dei latitanti, il sindaco Di Bella afferma che l'ordine pubblico è molto migliorato, «ed in atto può dirsi invidiabile lo stato della pubblica sicurezza nel comune e nel suo territorio». Cercando al solito di svicolare di fronte a domande precise, l'elenco dei latitanti non viene inviato, «perché da quest'ufficio si sconoscono le particolarità che nella circolare si richiedono». Vengono annotati 12 latitanti notori, fra cui Ignazio e Nazzareno Trifirò e Salvatore Marino. 23 Filippone è un delegato prudente, vuole vivere in pace con tutti. Tipico esempio del suo comportamento: in una delle frazioni di Monreale, ad Aquino, il 15 marzo 1875 rubano 15o piantine di limone. Nel suo rapporto Filippone scrive: «Il derubato non seppe dare alcun lume sugli autori di detto furto», e la cosa finisce 1ì. 24 La storia di quegli anni a Monreale è la storia degli uomini che rappresentano lo Stato, del loro carattere e delle loro debolezze. Il numero dei delitti sembra una variabile del tutto indipendente dalla politica dei vari delegati, deriva dai conflitti interni 22 ASP, AGO, anno 1872, busta 669. Ancora nell'ottobre del 1873 il procuratore Virzi è reggente alla questura di Palermo (ibidem, busta 724). Notizie sui fratelli Trifirò in ASP,
GP,
anno 1869, busta 19, fasc. 42. busta 646, fasc. 82. ASP, AGO, anno 1875, busta 693.
23 ASCM, 24
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ai vari gruppi che si scontrano per il monopolio dell'acqua o per mediazioni nel traffico degli agrumi. I delitti rendono evidente la lotta per il controllo delle risorse, sono incidenti di percorso che mostrano la violenza dello scontro in atto. Tanti muoiono senza che di loro resti neppure il nome, solo qualche indizio che non porta a niente. Il 13 giugno del 1875 in contrada Venero, appena fuori dall'abitato, viene rinvenuto un cadavere irriconoscibile, semicarbonizzato. Per primi si recano sul luogo i regi carabinieri, che trovano sul corpo tracce di ferite di punta e taglio. Il delegato Filippone invia il suo rapporto al questore, «si proseguono le indagini per accertare a chi appartenesse quando vivente il cadavere e per assicurare alla giustizia gli autori». Poi, più nessuna notizia. 27 29 giugno 1875, relazione sullo spirito pubblico: «Le condizioni morali del comune sono di gran lunga migliorate per l'arresto di facinorosi individui spediti al domicilio coatto e per la presentazione di diversi latitanti. Ci sono sempre quelli che cercano di pescare nel torbido, ma le loro maligne insinuazioni non danno nulla a temere, perché lo spirito pubblico è tranquillissimo». 26 Il delegato Filippone minimizza ogni cosa, più volte il questore gli scrive sollecitando maggiore solerzia, lui sembra impassibile. Al questore che gli chiede informazioni su Vincenzo Lo Piccolo, il 21 agosto scrive: «Figura nel numero degli antichi ammoniti, ma siccome in atto è un milite a cavallo si aspetta che venga licenziato per farlo riammonire». 27 Dopo una movimentata rissa, un certo Paolo Bruno fugge per i giardini. Non riuscendo a catturare il ricercato, Filippone ne spedisce in questura la coppola e il revolver. 28 Tutto si risolve sempre nel migliore dei modi: nel settembre Filippone riferisce al prefetto che la maffia, disfatta in Monreale per l'arresto dei capi, aveva stabilito nel comune di Parco la sede di una società, scegliendo come locale per le riunioni la casa di Gioacchino Romeo. Ma lui ha provveduto subito, arrestando 5 individui. E non importa che poco dopo vengano scarcerati. 29 le
ASP, AGO, anno 1875, busta 696. ASP, AGO, busta 461. 27 ASP, AGO, anno 1875, busta 700. 28 ASP, AGO, anno 1875, busta 695. 29 ASP, GO, anno 188o, busta 7. 25 26
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4. Le guardie campestri
Nel dicembre del 1866 il prefetto Torelli scrive al sindaco di Monreale perché si accinga ad istituire le guardie campestri, 30 che con alterne fortune provvedono alla sicurezza nelle campagne finché nel 1872 non vengono tutte arrestate. Si tratta di un «provvedimento reclamato dalla pubblica opinione a causa del cattivo servizio dei suddetti agenti, che però furono poi rimessi in libertà senza essere denunciati all'autorità giudiziaria». 31 Allontanati i più compromessi, nel dicembre del 1873 le guardie campestri di Monreale contano 18 individui alle dipendenze del sergente Giovanni Riolo. La formula del giuramento che prestano davanti al pretore è piuttosto sbrigativa: «Giuro d'essere fedele al re, d'osservare lealmente lo Stato e tutte le leggi dello Stato e di adempiere da uomo d'onore e di coscienza le funzioni che mi sono affidate». 32 Gli uomini vengono reclutati con un criterio di conoscenza e affidabilità che porta alla creazione di un gruppo amicale e parentale molto coeso. Grosse lagnanze sul loro conto non se ne trovano. Talvolta il questore scrive al sindaco lamentando il comportamento di qualcuno «proclive a tradire il proprio mandato» ma si tratta di poca roba, magari uno dei due figli del comandante che si rifiuta di multare un pastore per pascolo abusivo. 33 Disoltrcmpaenosb lr,tachen marzo del '74 il questore Biundi le gratifica di un encomio in quanto «garanzia del mantenimento della pubblica sicurezza in questa già travagliata campagna» e le segnala al ministero come le migliori guardie campestri della provincia. 34 La loro fortuna è di breve durata. Nel mese di luglio due guardie vengono accusate di omicidio, arrestate in pieno giorno e tradotte in città «senza riguardo di sorta per l'arma di cui facevan parte». Offeso, il comandante Riolo reclama col sindaco e col questore, protestando che il modo in cui venne compiuto l'arresto «destò l'indignazione degli onesti cittadini e il gaudio della trista maffia». 35 3° ASCM, busta 641, fase. 79. ASP, AGQ, anno 1876, busta 32 ASCM, busta 646, fasc. 79.
31 33
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o6
Ibidem. ASCM, busta 641, fasc. 79. Ibidem.
Nel giugno del '76, quando a Palermo la carica di prefetto sarà tenuta da un uomo particolarmente attento e curioso, il sindaco si troverà a dover difendere due guardie, Saverio Riolo e Francesco Petrigno, dalle brutte voci circolanti su di loro. Il sindaco tace che nel '72 il Riolo ha subito un arresto per non precisati motivi e nella sua difesa si riferisce solo al padre. Il comandante delle guardie «per i molti e interessanti servizi resi alla pubblica sicurezza è mal sopportato dalla mafia, e per questo credo poco conveniente privarlo di un braccio ben forte qual è il di lui figlio, che per il suo coraggio è garanzia del padre». 36 Le guardie campestri devono garantire la tranquillità delle campagne, i molti latitanti che si aggirano nei dintorni ne fanno i depositari di tanti segreti. Capita abbastanza spesso che il comandante Riolo venga invocato come testimone della buona condotta tenuta durante una latitanza. I ricercati non sono degli emarginati ma uomini in affari, trafficanti e mediatori che le traversie dei tempi e il carattere impulsivo hanno fatto entrare in urto con qualche rappresentante della legge. Col loro soldo le guardie campestri indennizzano esclusivamente i furti di beni agricoli, gli uomini comandati da Giovanni Riolo sembrano occuparsi solo dei furti di limoni, che sono tanti. Di preferenza vengono rubati ancora all'albero, ma capita che si involino mentre nei magazzini aspettano di essere imballati e spediti lontano. 37 La ripartizione delle competenze è artificiosa: se in un fondo vengono rubati i frutti, ad interessarsene e ripagare i danni sono le guardie campestri. Ma se vengono prelevati oggetti, un fucile o una zappa, allora le indagini e l'eventuale indennizzo spettano ai militi a cavallo. Se poi il danneggiato ha un nemico, e quindi dei sospetti, allora il reato si inserisce in una dinamica diversa che contempla la vendetta per puro sfregio, e non dà diritto ad alcun indennizzo. Nelle campagne vengono rubati anche alberelli di limone, appena trapiantati o da trapiantare. Infatti l'alto prezzo dei limoni, la favorevole congiuntura del mercato, persino la gommosi che falcidia molte coltivazioni e rende più preziosi i frutti, tutto contribuisce al-
703. 36
ASCM, busta 652, fasc. 79. busta 478 (guardie campestri 1872-77).
37 ASCM,
I07
la creazione di un microcosmo molto conflittuale. Il ripetersi dei furti dimostra che non ci troviamo di fronte ad una signoria territoriale ben definita, i giochi sono aperti e molti sono i battitori liberi. I rapporti sullo spirito pubblico dei diversi delegati di stanza a Monreale concordano su un punto: i nativi si disinteressano della politica, badano- solo alla loro industria. È come se l'opportunità di bruciare le tappe ricorrendo alla violenza politica non fosse più tenuta in gran conto e nel traffico di agrumi confluissero tutte le chances per la riuscita sociale. g. Stuppagghieddi
Anche prima che esplodesse il caso stuppagghieri, in diverse occasioni a Monreale s'erano ricercate le tracce di sette o associazioni criminali. Più volte a partire dal 1872 si allude a sette di stuppagghi e simili, ogni volta per darle come spacciate dopo l'arresto dei capi. Per analogia col nome, «stuppagghi» sono i tappi di sughero, la società degli stuppagghieri è qualcosa che torna a galla nei momenti tempestosi. Il 20 agosto del 1872 alla Carrubella, alle pendici della montagna che sovrasta Monreale, avviene l'uccisione di Giuseppe Sinatra, giardiniere di 4o anni. Un altro giardiniere di 27 anni, Giovanni Colletta, resta gravemente ferito. I bersaglieri sorprendono ed arrestano 4 individui, il più vecchio ha 34 anni, che non sanno giustificare la loro presenza. Scrive il delegato Palmeri: «Difficilmente quelle riposte località potevano essere frequentate da persone oneste ed in ispecie poi da coltivatori di agrumi, quando là non esistono altro che piante di fichi d'India». Evidentemente si tratta di un regolamento di conti, in questo come in tanti altri casi è evidente quanto fra qualche anno noterà Franchetti: nei dintorni di Palermo a commettere delitti non sono gli emarginati ma la classe media, con la stessa solerzia, attenzione e previdente buon senso con cui altrove conduce gli affari e i commerci. 3ß Con sorpresa, visto che nel '76 Palmeri sarà accusato di essere il fondatore della setta, nello stesso rapporto riservato troviamo: 38
108
Cfr. L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, cit.
«Per la società dei stuppagghieddi, ne ho finora raccolto ventotto. Sto ricontando i loro antecedenti. Oggi stesso ne conferirò col pretore, per non fare una inutile denuncia sia in tutto sia in parte e poi, domani o domani l'altro, appena avrò compiuto la pratica, passerò alle formalità per ottenere l'ammonizione giudiziale». 39 Sempre alla ricerca di misteriose associazioni, si seguono anche le tracce più labili. Nell'ottobre '73 il delegato Negri scrive che «da qualche tempo nella località denominata la Montagnola andavano ripetendosi con frequenza reati di furto, grassazioni sugli stradali vicini e minacce a quegli abitanti, senza che si potesse mai conoscerne gli autori, dimodoché regnava un grande sgomento per quella contrada». Il delegato arresta un contadino, Salvatore Biundo di 24 anni, che denuncia 6 complici. Hanno tutti meno di 4o anni, durante l'estate abitano nelle campagne vicine e fra loro si è formata «una società di divertimento che andavano riunendo ora nel fondo dell'uno ora in quello dell'altro ove facean progetti per guadagnar denari sia commettendo furti per le campagne e case, quanto sulle strade». Naturalmente, il Biundo dichiara di essere ormai estraneo ai vecchi complici. Cominciano le ricerche sulla presunta associazione ma non ci sono prove, e dalla prefettura di Palermo scrivono al questore: «A meno che questo risulti in seguito ad altre indagini, sulla semplice deposizione dell'arrestato Biundo Salvatore non si può affatto ammettere l'esistenza di una vera associazione di malfattori in Monreale». 4° Il 26 agosto del '74 il delegato Filippone invia al questore di Palermo copia di una lettera anonima contro «individui tristissimi, capaci di ogni sorta di reato», fra cui due fratelli, due cognati e un guardiano d'acqua alla fontana del Lupo, che ordiscono una congiura, una piccola strategia della tensione. Si riuniscono nella taverna di Pietro Vaglica, hanno lo scopo di turbare l'attuale ordine governativo, con furti continui nello stradone, nella città e nelle campagne, assassinare la gente colle componende, minacciare i proprietari colle lettere ed attaccarsi come meglio si può co lla forza pubblica ma sopra d'ogni altro levarsi di mezzo l'attuale delegato di questura e il maresciallo dei carabinieri E...]. Ecco dunque sig. questore donde provengono le continue schioppettate nella notte, ecco qual è la compagnia 39 ASP, GQ, anno 188o, busta 7. 40 ASP, AGQ, anno 0872, busta 664.
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armata che scorrazza nello stradone e nelle campagne per i furti, ecco la mano onde emanano le lettere di componenda, ecco le braccia de lla rivoluzione. Le prove? Per ora non si possono produrre, ma essi hanno molte armi in casa e in campagna, mangiano e bevono lautamente ogni giorno al di là delle loro condizioni, vestono di panno e stivaletti fini [...]. Siete in tempo d'impedite i disordini che possono commettere. Se avessero ad uccidere il delegato come si uccise il maresciallo dei carabinieri tempo addietro, che rimedio ci darete allora? E...]. Essi appartengono alla setta dei Stuppagghi, sono quasi tutti marcati nella faccia o nelle braccia o nelle gambe per i colpi di rasoio ricevuti o per le schioppettate o per altre armi. 41
Il 31 agosto 1874, vengono arrestati 6 individui e il delegato Filippone scrive: «Da che la società degli stuppagghieri, accoltellatori, ebbe in questa la disfatta coll'arresto dei capi e dei più mafiosi, Monreale può dirsi ormai un comune dove si sono allontanati i reati in genere e specialmente di sangue». 42 6. Il delegato Savoja Il 29 ottobre del 1875 il delegato Achille Filippone si reca a testimoniare presso la Corte d'assise di Milano. Viene provvisoriamente sostituito dal delegato di prima classe Nicola Savoja, originario di Benevento. A partire dal I o novembre, Filippone è ancora a Milano, la nomina di Savoja diventa definitiva, e chissà quali intrighi e pettegolezzi ci sono dietro, perché subito qualcuno scrive al questore: «A parer nostro il delegato, venuto in quei pochi giorni che il Filippone andò a testimoniare, venne certo dalla S.V. a mentire e a far delle trame contro il nostro delegato [...]. Sappiamo che i nostri concittadini non vogliono mai essere trattati bruscamente ma con buone maniere». Altra lettera anonima: Quando venne il delegato Filippone la città si trovava in continui sconcerti. Il Filippone, con le sue buone maniere e abilità, arrivò a quietare il paese che trovavasi in preda di alcuni che, con spirito di mafia, commetteano la sera nelle pubbliche vie e il giorno nelle campagne delitti e nefandezze. Il nostro delegato, che crediamo unico per Monreale, seppe sop41 ASP, GQ, 42
Ito
Ibidem.
anno 188o, busta 7.
primere questi tali mafiosi. E diede con le buone maniere nelle mani della giustizia alcuni fuggiaschi da molto tempo e da recente [...1. Se qualche vile sussurrerà nell'orecchio della S.V. qualche cosa, tutto è menzogna, è per disturbare il paese. 43
Le informazioni sono essenziali al funzionamento della macchina a mministrativa, e sui delegati di pubblica sicurezza grava il peso di fornire notizie che rendano visibili e controllabili i luoghi spesso lontani e sperduti da cui vengono inviate. Ai delegati di pubblica sicurezza viene chiesto un continuo lavoro informativo che confluisce in rapporti semestrali indirizzati ai prefetti, che poi ne fanno relazione al ministro. I rapporti seguono sempre lo stesso ordine espositivo: spirito pubblico, partiti politici, associazioni politiche e società operaie, stampa periodica, pubblica sicurezza, amministrazione comunale e provinciale, opere pie, sanità, carcere, aspirazioni della popolazione, considerazioni diverse, sempre raccomandando «la massima concisione nel riferire». Spesso i delegati erano uomini che dal nord civile si sentivano catapultati in mezzo ai selvaggi, i rapporti sullo spirito pubblico erano una delle poche occasioni in cui comunicavano con le autorità invece che coi barbari. Al ministero che raccomanda sintesi, il delegato di Partinico risponde: «Mi limiterò a dire soltanto la verità dei fatti, in poche parole, senza belle frasi, e senza rivestirle di ricca forma, non consentendolo affatto la pochezza dell'ingegno mio». 44 E chiaro che il delegato, specie se di fresca nomina, deve poter contare su un serbatoio di informatori. Il 7 novembre del '75, pochi giorni dopo il suo arrivo, Savoja compila un elenco delle persone influenti nel paese. A Monreale non ci sono nobili, l'arcivescovo è l'unico vero signore. Per secoli i ricchi sono cresciuti alla sua ombra, fidando nel suo favore o derubandolo. I notabili del paese sono suddivisi in due categorie, «borbonico ma onesto» e «liberale intelligente». Fra questi ultimi c'è Pietro Mirto Seggio, che per parecchi anni ricoprirà la carica di sindaco. Sui partiti politici il delegato Savoja scrive: «In Monreale un sol partito esiste ed è il borbonico clericale. Nelle circostanze tutti i preti, anche i meno influenti, avrebbero superiorità sulle masse». 45 43 Entrambe le lettere sono nel fascicolo personale di Nicola Savoja in sta 4456. 4 AsP, AGQ, busta 461. 45 ASP, AGQ, busta 409.
ASP, AGQ,
bu-
III
Forse perché è saltata la mediazione di Filippone, più probabilmente per inciampi interni al precario equilibrio su cui si basa la pace, in paese sono aumentati i reati, soprattutto incendi e tagli di piante. Non appena cala la sera si odono esplosioni d'arma da fuoco, il 14 novembre avviene un attentato contro Giacomo Mammina, un macellaio di 34 anni. Si trovava nel suo negozio sulla via grande, gli sparano dall'esterno colpendolo alla scapola destra e ferendo il suo commesso Calogero Sorrentino. Il Mammina viene detto un uomo dai molti nemici, ammonito come mafioso e sospetto in genere, di sicuro doveva avere contatti con gli abigeatari. Anche se ferito, si rifiuta di rispondere alle domande del delegato. 46 Qualche proprietario riceve lettere di scrocco. Chissà come il delegato Savoja è riuscito a sequestrarne una, che invia al questore: Morreale signor don Gilomo noi vennemo a pregallo che remo una poco di giovine e ni bisognano lire z.000. Si lei li manna e va bene, se non li manna lei none patrone ne dilla sua vita e nemmeno della sua robba, perciò badasse di no parlare atrimenti sarete amazato sino dentro paese.47
Visto che non hanno avuto esito le missive indirizzate al questore, l'anonimo estensore di proteste contro il delegato Savoja si rivolge al prefetto firmando un gruppo di cittadini: Il paese è quasi avvilito. Gli amministratori di sicurezza pubblica eseguono gli arresti a loro talento, molti soprusi da loro sono commessi. Il delegato di pubblica sicurezza non è per Monreale, vi sono questurini che proteggono la mafia, insultano la buona gente e fanno sinanco debiti, avviliscono i gentiluomini e la buona gente che badano ai fatti propri. La plebe, quasi tutta ammonita irragionevolmente, non si sa qual cosa vorrebbe fare. Qualche misfatto cominciò a sentirsi ad onta di queste vili autorità, e qualche pistolettata rimbomba la sera nella piazza e nelle pubbliche vie. Tali cose non succedevano mentre era delegato in Monreale il sig. Achi lle Filippone Vogliamo sapere perché fu richiamato mentre teneva in freno la mafia. Questo delegato attuale chiama la buona gente, la minaccia, senza sa[...].
anno 1876, busta 702. anno 1875, busta 699. (Signor don Girolamo, siamo qua per pregarla. Siamo molti giovani e ci bisognano 1000 lire. Se lei ce le manda, allora va bene. Se non le manda, lei non è più padrone né della sua vita né de lla roba. E stia attento a non parlare, altrimenti sarà ammazzato anche dentro il paese). 46 ASP, AGQ, 47 ASP, AGQ,
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pere il perché, forse non conosce che i monrealesi vogliono essere carezzati e non già trattati bruscamente. Noi ci siamo querelati col questore quando richiamò Filippone, ma lui si finse sordo prestando fede ai bricconi e menzogneri e a tutte le ciance degli impostori. La piazza del duomo è due anni che è scavata, per basolarla, ma invano. La giunta municipale sconvenne con l'appaltatore per causa che voleva qualche buona mancia [...]. La sera si cammina al buio, di rado si vede qualche fioco lampione, le strade sono piene di fango e fossa. 48 7. La mancata ammonizione di Pietro Di Liberto
Il delegato Nicola Savoja non si inserisce nel nuovo ambiente, fra lui e i monrealesi c'è solo diffidenza. Ad esempio, viene danneggiato un giardino di limoni in contrada Aquino, gli alberi risultano mutilati ad arte, i proprietari dichiarano di non avere sospetti. Il delegato Filippone non avrebbe aggiunto nulla di suo, Savoja scrive: «Ricavo dalle dichiarazioni che essi in qualche modo tacevano la verità». 49 Il 26 dicembre il delegato denuncia tre individui, Stefano Vaglica, Agostino Terzo e Benedetto Zerbo, sospettati di avere provocato guasti al contatore meccanico di un mulino. Uno di essi, Vaglica, è ferito senza che se ne sappia il motivo. Inoltre, qualcuno ha confidato che si sta preparando una di quelle sparatorie che ogni tanto, di notte, ricordano ai più che è meglio stare in casa. Alla denuncia di Savoja seguono indignate le lettere del sindaco Pupella e del pretore, che commenta: «Denuncia che mi limito a qualificare come ingenua e fatta con molta leggerezza».'° Anche se servono a definire il clima di ostilità che subito si crea attorno al delegato, si tratta comunque di episodi marginali. Un peso ben diverso ha invece la decisione di non guardare in faccia nessuno e attaccare il procuratore della Mensa, cioè uno degli individui più potenti del paese, il personaggio mai nominato che controlla la riscossione delle rendite della cattedrale e gestisce la distribuzione delle acque. Appena il tempo d'ambientarsi e, confortato dall'appoggio dei carabinieri, Savoja scrive al questore che l'individuo più pericoloso in paese, appartenente all'alta maffia e capo di stupanno 1875, busta 32, fasc. 13; la lettera è del 15/1/1876. 1875, busta 694• 50 Ibidem. Il contatore del mulino serviva a calcolare l'importo della tassa sul macinato. 48 ASP, GP,
49 ASP, AGQ, anno
1
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pagghi, protetto da ogni fastidio grazie all'amicizia del delegato Fi-
lippone e del pretore, è Pietro Di Liberto. Pare che sia in strette relazioni coi noti mafiosi fratelli Miceli, che solo il giorno prima hanno ottenuto il rinnovo del porto d'armi. La denuncia del delegato Savoja ci permette di avere un ritratto a tutto tondo di un uomo che appare come il prototipo del mafioso, lontano dai profili spesso indulgenti che ancora si adoperano quando si parla della vecchia mafia. 51 Un ostacolo che si frappone all'isolamento e alla definizione delle caratteristiche del mafioso è che si cerca di farne anche un avversario politico. Le leggi ufficialmente preparate per combattere il malandrinaggio servivano contro gli oppositori, e anche al livello delle indagini si tende a fare coincidere i due profili. Nel fragile organismo statale che si ottiene come risultato di rapide annessioni e deludenti rivoluzioni, l'oppositore politico è perseguitato con l'accanimento dei deboli e miopi. La sua eventuale forza, la vitalità che se ne poteva ricavare, vengono sacrificate in omaggio a quei tratti illiberali che troppo spesso ritornano come una costante della storia italiana. Ma il mafioso non indossa i panni dell'avversario politico, tutt'altro. Si appropria de lle forme dello Stato liberale e le svuota dall'interno sino a renderle una vuota spoglia. Si pone come interlocutore privilegiato, mediatore per quel consenso sociale che ci si contenta di ottenere, sottile e quasi vano purché immediato. Anche il delegato Savoja cerca di fare del Di Liberto un oppositore, nella certezza che così l'appoggio dei superiori sarà garantito: questo è il punto debole de ll a sua denuncia. Savoja, che è uomo scrupoloso, non può fare a meno di notare che il procuratore Di Liberto ha buoni motivi per essere un conservatore. Non si arrende, continua a cercare le cause di un eventuale scontento. Scava nel passato, senza troppa fortuna: «Non ho trovato nulla che provasse il coinvolgimento del Di Liberto nei fatti del '66 ma la voce pubblica lo indica come il principale istigatore, in quanto avverso all'attuale ordine delle cose». Il 13 dicembre 1875 il sindaco Pupella può sinceramente scrivere: «Non so per quale fine il Di Liberto possa essere attaccato al passato governo. Egli ha un fondo d'agrumi in contrada San51
Le carte su ll 'ammonizione di Pietro Di Liberto sono in
sta 6 94. 11 4
ASP, AGQ,
anno 1875, bu-
ticelli, alla proprietà assomma la procura della Mensa e vive da benestante. Ha sostenuto l'elezione di Inghilleri, spesso passeggia con i fratelli preti». L'annotazione sulle passeggiate coi fratelli preti non è una semplice nota di colore, solo 8 giorni prima un colpo d'arma da fuoco era esploso contro le finestre della loro casa, un colpo che non voleva uccidere né ferire, solo spaventare i due canonici. I sospetti s'erano subito appuntati sul fratello Pietro. Le accuse contro il procuratore della Mensa, inconsistenti sotto il profilo politico, hanno ben altro peso quando restano ancorate ai fatti. Il delegato Savoja si decide e il 18 dicembre presenta denuncia per l'ammonizione di Pietro Di Liberto, «perché sospetto capo mafia, avverso all'ordine e in relazione con persone di simil fatta. Si sospetta che sia manutengolo di latitanti e ricercati, per imporsi così ad ogni onesto cittadino». Il delegato raccoglie quanto la voce pubblica va mormorando su tanti fatti rimasti inspiegati, dall'uccisione di Felice Marchese, nonostante un processo che Savoja definisce «solo voluminoso», a lla morte di un fratello dello stesso Di Liberto e alla recente intimidazione contro i canonici. La denuncia del delegato Savoja è centrata su tre episodi: - avvelenamento di Benedetto Di Liberto, fratello del denunciato; - assassinio di Felice Marchese; - attentato contro i canonici Di Liberto, fratelli del denunciato. Da questo momento comincia una corrispondenza a tre, dove sia il pretore amante del quieto vivere e a tratti arrogante che l'esasperato delegato tentano di convincere il questore. Il pretore rintuzza le accuse con sufficienza: - omicidio di Benedetto Di Liberto: non si tratta di veleno ma di «altra malattia istantanea». Ogni maligna insinuazione ebbe termine con l'autopsia. - Uccisione di Felice Marchese: «vennero arrestati parecchi individui con causa a delinquere conosciuta e nessuno fece accuse nei confronti del Di Liberto. D'onde dunque germinò questo novello sospetto ?» - Attentato contro la casa dei canonici: Quando un colpo d'arma da fuoco fu tirato contro le finestre dei canonici Nunzio e Giovanbattista Di Liberto, canonici della Collegiata e il secondo anche giurista della curia arcivescovile, interrogati all'istante essi non seppero accennare nulla sull'autore di quel colpo. Interrogati un'altra volI15
ta sul sospetto contro il fratello, protestarono vivamente e respinsero quel sospetto come perfida insinuazione, dicendo che fra loro fratelli erano sempre esistite fraterne relazioni.
Il delegato Savoja si trova tutti contro, è costretto a giocare in difesa e giustificarsi. Scrive al questore: «Non feci altro che far rilevare il sospetto della pubblica opinione né, se non vado errato, il sospetto è provabile se non per convinzione di colui che se ne fece eco». Non sarà piuttosto colpa del pretore, «che si trova qui sin dall'infanzia, vuole stare in pace con tutti e gli indizi non gli bastano mai? Benedetto Di Liberto era in lite col fratello Pietro, il figlio di Pietro venne persino arrestato per lite e percosse allo zio, poi quello morì misteriosamente». La morte dell'avvocato Benedetto Di Liberto era avvenuta il 3o marzo di quell'anno, nel bollettino firmato dal sindaco Di Bella si attribuiva ad un'affezione gastrointestinale. Al solito, in questura era arrivata una lettera anonima, poi un'altra: «Il paese sa le liti feroci, le ire, gli odi e i rancori che correvano tra il morto e i fratelli, e più col Pietro. Il paese sa di cosa sono capaci quei preti e inoltre più il Pietro. Il paese sa delle liti fra il morto e un figlio di Pietro, la cui fama è macchiata perché l'opinione pubblica lo giudica assassino di Gaetano Anselmo». Lettere che si erano moltiplicate finché non era stata avviata un'indagine. 52 Il medico del defunto Di Liberto riferisce le circostanze, lascia che siano gli altri a tirare le conclusioni: l'avvocato Benedetto Di Liberto abitava a Palermo, era venuto a Monreale in casa dei fratelli canonici per seguire certi loro affari comuni. Lì s'era ammalato, ma infine sembrava avviato verso la guarigione. La sera precedente il decesso le sue condizioni erano migliorate, tanto che il medico aveva consigliato la somministrazione di un tuorlo d'uovo. L'indomani il dottore viene chiamato d'urgenza, si affretta. Per strada una donna gli dice che può anche risparmiarsi la visita, il suo malato è morto. Il pretore Orlando Venuti ammette che gli «hanno sussurrato dei sospetti» però, essendo parente dell'estinto, aveva declinato ogni incarico. E per noi questa informazione a margine sulla sua parentela col Di Liberto apre uno spiraglio sull'intreccio di relazioni che 52
116
I documenti su lla morte di Benedetto Di Liberto in ASP, AGQ, anno 1875, busta 693.
condizionano il suo operato nel comune. Il giudice istruttore ordina l'autopsia, la causa del decesso viene attribuita ad un colpo apoplettico ma, viste le rivalità fra i fratelli e i modi della morte, non tutti i dubbi vengono dissipati. Comunque, anche da morto Benedetto Di Liberto torna utile alla famiglia, che può dimostrare come tenga in poco conto qualsiasi regola. Così, in violazione delle norme sulla sepoltura, Benedetto Di Liberto viene seppellito nell'ex chiesa dei Cappuccini. 53 Il pretore non ha accolto la denuncia del delegato Savoja, e tanto potrebbe bastare. Però Pietro Di Liberto è un personaggio molto al di sopra dei tanti ammoniti di cui è pieno il paese, anche se respinte le accuse contro di lui sembrano inopportune. Così, al di fuori della procedura d'ufficio, il pretore lo invita a discolparsi personalmente. Il delegato Savoja subisce come un affronto questo aperto schierarsi, è sicuro che le vendette non tarderanno ad arrivare. Chiede il trasferimento, per mantenere il prestigio della pubblica sicurezza e «perché io non abbia come cittadino a soffrire qualunque umiliazione». Nel memoriale che Pietro Di Liberto indirizza al questore, l'aperto richiamarsi ai propri meriti di grande elettore è un chiaro invito a fare attenzione. Di Liberto si presenta come uomo di condizione civile, proprietario agiato, amministratore della Mensa, tesoriere del locale monte dei prestiti, archivista della congregazione di carità e interessato in diverse altre opere pie. La sua famiglia è lo specchio delle ambizioni di riuscita sociale del ceto medio improduttivo, la presenta con orgoglio: un fratello occupa un alto grado nella carriera amministrativa ed è pensionato perché malato di nervi; un altro, magistrato, è da poco morto (si tratta di Benedetto, della cui morte è accusato); due fratelli sono preti e uno anche cancelliere della curia. Scrive: Come proprietario e come buon cittadino fui sempre attaccato all'ordine e al governo. Fui attaccato al governo borbonico per ragione dell'ordine, come per la stessa ragione lo sono all'attuale governo e ho sempre gridato morte ai ladri e agli assassini. La mia posizione sociale di proprietario e amministratore della Mensa mi mette in contatto con ogni sorta di persone e 53 Il 10 marzo del 1876 è il prefetto Gerra a lamentarsene col sindaco (AscM, anno 1876, busta 652, fasc. 78).
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specialmente giardinieri, sui quali se ho avuto qualche influenza di questa mi son giovato perché in questo collegio fossero risultati deputati dell'ordine così detti governativi. Il sig. duca di Gela, il compianto sig. Caruso, l'attuale deputato Inghilleri ebbero nelle elezioni il mio concorso e due di loro possono farne testimonianza. Altresì l'ex prefetto Gualterio, l'ex prefetto di Rudinì, il questore Pinna, il consigliere delegato cav. Soragni ed altre autorità che mi onorano della loro fiducia e confidenza. Ebbene sig. questore, io, propriamente io, sono stato già chiamato dal pretore di Monreale per essere ammonito giudiziariamente in seguito a denuncia dell'autorità locale di pubblica sicurezza! Qui metto argine alla foga dell'animo mio, perché temo di soccombere alla bile e al crepacuore! L'animo mio onesto rifugge anche la discolpa di tante e gravi nefandezze e mi scoppia il cuore al solo pensarvi [...]. Son manutengolo di briganti! Ma dove sono i briganti in Monreale? Ma si dice davvero o dobbiamo credere che siamo in un manicomio? [...]. Dunque un fratricida son io? Mi gela il sangue nelle vene e temo seriamente per la mia salute. [...].
Su Felice Marchese decisamente esagera: «Dico in prima che non ebbi mai a conoscere quel tal Marchese», e chiude minacciando di querelare l'autorità giudiziaria. Il delegato Savoja è costretto a difendersi. Per la morte di Benedetto Di Liberto può riferirsi solo alla voce pubblica, ma sulla morte di Felice Marchese [...] non è concepibile che il Di Liberto abbia coi suoi rilievi a far mancare di non conoscere Felice Marchese, giacché è noto come quest'ultimo era al servizio della Mensa, di cui il Di Liberto è qui il supremo rappresentante. Marchese era alle dipendenze del Di Liberto, [...] è forse in seguito a gravi rivelazioni del Marchese che si fa uccidere costui.
Attentato contro i canonici: In seguito alla morte di Benedetto Di Liberto i contrasti fra Pietro e i canonici si sono acuiti e allora Pietro, credendosi escluso dall'eredità, col noto suo atteggiamento maffioso ha commesso l'attentato di cui sopra. Il pretore dice che i colpi sparati contro le loro finestre furono esplosi in seguito ad una rissa, ma tutti videro che non c'era alcuna rissa. Questa reticenza o meglio questa malizia per me come per ogni altro onesto funzionario dovrebbero dichiararsi inqualificabili [...]. La Mensa arcivescovile e l'acqua irrigatoria sono e saranno le sorgenti di ricchezza del Di Liberto ma senza prepotenza, senza maffia e senza camorra questa sorgente produrrebbe poco, e la tanto vantata ricchezza potrebbe anche svanire se la giustizia avesse qui il suo pieno vigore. 118
Il delegato Savoja è il solo a parlare dell'acqua, a collegare il potere del Di Liberto al suo controllo e a vedere un'organizzazione nel-
la rete di legami che il procuratore mantiene. Per il resto, anche quando ci sarà il processo contro la setta degli stuppagghieri non si chiarirà mai qual è l'oggetto attorno a cui si scatenano gli interessi, e gli omicidi si collocheranno sullo sfondo di un centro vuoto. Dal zo ottobre la carica di prefetto di Palermo è ricoperta da Luigi Gerra. Nell'aria c'è una diffusa ostilità e anche negli uffici il clima deve essere teso, c'è la psicosi delle leggi speciali. Gerra era stato il collaboratore più fidato del ministro Cantelli, aveva personalmente contribuito all'elaborazione del progetto di legge sulla pubblica sicurezza. Inoltre, Gerra era stato in Sicilia per coordinare e controllare l'applicazione dei provvedimenti emanati il 1° settembre: bastava molto meno per essere considerati nemici. Gerra, che aveva appoggiato il questore Rastelli nella individuazione delle sette dell'Uditore, sostiene che a partire dal circondario di Palermo una rete di associazioni si allarga verso l'interno della Sicilia. In linea con la filosofia che ispira il suo progetto di legge, il prefetto non si limita ad eliminare i banditi ma cerca di colpire l'humus in cui prosperano. Ad esempio a San Mauro, patria della banda Rinaldi, vengono arrestate più di 4o persone con l'accusa di manutengolismo. Sono i parenti del capobanda che, da poverissimi che erano, ostentano un inspiegabile benessere. Il prefetto mette in discussione quella zona grigia su cui ricadono i benefici delle attività illegali, quando con poco rischio i redditi lievitano e le proprietà si moltiplicano. E adesso notabili e giornali di opposizione, che durante la prefettura Rasponi avevano accusato il governo di essere debole e incapace, gridano al tradimento delle istituzioni liberali. L'eco del contrasto che a Monreale oppone il delegato al pretore arriva sino al prefetto Gerra, che il 3o dicembre scrive al questore: «Il grave disaccordo fra il delegato di pubblica sicurezza e il pretore è un fatto eccezionalmente grave, per se stesso e per le conseguenze a cui potrebbe dar luogo, tenuto anche calcolo della località, eccezionalmente pericolosa, ove il fatto stesso si è verificato». Il prefetto chiede informazioni su Di Liberto e anche su una voce preoccupante giunta al suo orecchio, che il procuratore della Mensa ha saputo in via riservata quale risposta avrebbe ricevuto la sua pratica. Si tratta di un punto cruciale, è evidente che Di Liberto ha le coI19
noscenze giuste e intrattiene rapporti con quelle cariche che dovrebbero controllarlo. Insomma, è uno di quei manutengoli appartenenti a civile condizione che Gerra è deciso ad avversare. Tutto dipende dalla risposta del questore. Rastelli, che era stato il solerte esecutore delle intuizioni di Gerra, ha una posizione di attesa neutrale e -si limita a una puntigliosa precisazione su quanto suona come una critica al suo ufficio: «Egli ha parlato con me soltanto, ed io mi sono limitato a dirgli che, esaurite le incombenze richieste dalle circostanze, si sarebbe provveduto in conformità alla giustizia». La denuncia per l'ammonizione di Pietro Di Liberto è del 18 dicembre 1875, nel giro di pochi giorni le informazioni, i chiarimenti e le accuse si inseguono ad un ritmo concitato. 3 I dicembre è datata la relazione di Giovanni Riolo, comandante delle guardie campestri: Il Di Liberto è un impiegato della Mensa arcivescovile di Monreale col quale impiego si ha fatto una fortuna, che unita al suo patrimonio lo fa credere uno dei più ricchi di quel comune. Aggiunga essere un avaro. Da questo l'invidia di tutta quella massa di galantuomini che vive parassita in Monreale e che per afferrare un impiego farebbe qualunque cosa. Per il suo impiego è stato obbligato a trattar coi preti ed essendo questi visti come nemici del nuovo ordine, il Di Liberto viene tacciato di complicità. Nei disordini del '66 fu chiamato a far parte di un certo comitato, ma conoscendo che lo volevano per scroccargli del denaro si negò. Nemico dei fratelli? Niente di sicuro [...]. Alcuni dicono: "egli è amico di taluni affiliati della cosiddetta setta de' stuppagghiari, come sarebbero i fratelli Miceli e e li dirige", altri dicono che si tiene amici costoro perché dubita di quella setta essendo ricco, ma né li protegge e tanto meno li dirige ma li accarezza pel proprio utile. Non è uomo da congiurare perché avaraccio e anche la perdita di un centesimo lo dispiacerebbe.
Anche se il delegato Savoja scrive che «il comandante è noto amico del pretore e del Di Liberto», nel rapporto viene ammesso più di quanto si neghi. Nel ruolo dell'oppositore politico il procuratore della Mensa è poco credibile ed è convincente, nella sua banalità, il motivo per cui Di Liberto non congiura. Il comandante dei militi dà per scontata l'esistenza di una setta, ne indica alcuni componenti, riporta la voce che Di Liberto sarebbe il loro capo e comunque di sicuro in relazione con loro. Ci sono abbastanza elementi, non solo per decidere su I20
un'ammonizione ma per attirare l'attenzione di Gerra. E non è finita. I carabinieri rincarano la dose e, anche se confondono la figura dell'oppositore po li tico con quella del mafioso, sono d'accordo col delegato Savoja nel ritenere il Di Liberto un individuo decisamente pericoloso. Scrivono che l'opinione pubblica gli è sfavorevole, «è di fatto ritenuto per individuo affezionato all'antico ordine delle cose, intrigante, influente assai per estese aderenze maffiose, anzi designato come capo dell'alta maffia». Nemico dei fratelli, comp lice nell'omicidio di Felice Marchese, «egli ha in Monreale un partito favorevole nella classe maffiosa ed avversa all'attuale ordine de lle cose, ma per contro le persone dabbene lo vedono assai di malocchio, e ne hanno anche timore». Come in un mosaico ancora incompleto, le tesi dell'accusa stanno prendendo forma. A disposizione del questore ci sono abbastanza elementi per prendere una decisione contraria a Di Liberto. Tanto più che il prefetto Gerra è alla ricerca di sette da eliminare e quella che offre il delegato Savoja è l'occasione per sgominarne una importante, perseguendone il capo sulla base di formidabili indizi. Il questore decide altrimenti, forse per le oggettive aderenze e pressioni che Di Liberto riesce a mettere in moto. O forse per ostilità contro il prefetto, per non dare forza alla sua teoria sulla rete di associazioni che copre la provincia. Il questore, che era stato un gratificato segugio quando si era trattato di scoprire le associazioni dell'Uditore, diventa un filtro che blocca le informazioni quando, nel clima di preoccupazione e risentimento provocato dalle leggi speciali, la scoperta di un'associazione con tanto di notabile a capo rischiava di dare ragione a Gerra e alla sua teoria. Allora le leggi speciali non sarebbero più state un'ingiustizia subita, rischiavano di apparire necessarie. Il 5 gennaio 1876 il pretore Orlando Venuti risponde ufficialmente alla richiesta di ammonizione contro Pietro Di Liberto. «Assunte le più accurate e coscienziose informazioni, [...] i fatti accennati nella detta denuncia devono dirsi per lo meno immaginari. L'opinione pubblica è favorevole al Di Liberto, e lo qualifica come buon uomo. Egli appartiene a civil casato monrealese e, come colui che ha molto da perdere, è attaccato all'ordine». Il delegato ha raccolto i suoi sospetti «da fonte ignominiosa e impura», la sua richiesta viene respinta perché infondata. Ormai i giochi sono fatti, non c'è bisogno di fingere che poteva andare diversamente. Il delegato Savoja incontra per strada il preI21
tore, che gli dice: «Voi siete stato leggiero nel denunciare il Di Liberto. Prima di fare ciò dovevate prendere da me l'imbeccata». Savoja si affretta a riferire l'episodio al questore, rinnovando la sua richiesta di trasferimento «perché il fatto potrebbe portare a qualche conseguenza che non potrei prevedere». Ma il questore non si impressiona più di tanto, ormai lo ha abbandonato. Gli scrive: «Invito la S.V. a prendere esatta conoscenza del ricorso - il memoriale scritto dallo stesso Di Liberto - onde approfondire le informazioni con la massima coscienza e calma, quali sono richieste dalla condizione sociale della persona e dalla gravità del provvedimento. Non vorrei che la S.V. prestando facile orecchio a relazioni partigiane si fosse fatta eco di accuse vaghe ed inconsistenti». E aggiunge: «Nulla risulta in questo archivio a suo carico». Si chiude così il fascicolo sulla mancata ammonizione di Pietro Di Liberto. Una continuazione esiste però nell'incartamento personale informazioni riservate - di Nicola Savoja. Il 6 gennaio del '76 il delegato Savoja chiede un lungo permesso, addirittura un mese, senza specificarne la ragione: per interessi particolari, non portando a supporto vecchi padri malati o mogli partorienti, i motivi che più di frequente ricorrono nelle domande di congedo. Inoltre, non rispetta la via gerarchica e si rivolge direttamente al prefetto. Il prefetto Gerra ne scrive al questore, che risponde: «Per le qualità generali del Savoja e per il profitto che ne ebbi a trarre sia in Palermo che in Monreale, vedrei con piacere che la superiorità si determinasse ad allontanarlo definitivamente dalla giurisdizione di mia dipendenza». Il 1 2 gennaio altra lettera del questore a Gerra: Dal pretore di Monreale mi si partecipa che il delegato Savoja non si perita di tenere in pubblico discorsi sconvenienti all'indirizzo mio e del suo predecessore il delegato Filippone. Egli si sarebbe permesso di dire che ha raccolto quanto basta per rovinare il Filippone e la sua famiglia. Quanto a me, che ha tanto in mano per farmi saltare, al quale scopo si recherà fra breve a Roma. Nuove preghiere io pongo alla S.V. perché un funzionario siffatto, che non saprei definire se più stolido o tristo, abbia al più presto un'altra destinazione fuori da questo circondario. 54 '4 ASP, AGO,
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bust a 456.
Gerra dovrebbe essere messo sull'avviso dalla particolare carica del Di Liberto ma, forse troppo occupato a seguire casi più evidenti, prende il contrasto fra pretore e delegato come uno dei tanti ostacoli che si frappongono al funzionamento della pubblica amministrazione e si rimette al questore, in cui mostra di avere piena fiducia. Il 22 gennaio 1876 Nicola Savoja ottiene un permesso di 15 giorni, subito dopo viene trasferito presso l'ufficio provinciale di pubblica sicurezza di Siracusa. A Monreale lo sostituisce il delegato di seconda classe Antonino Braga, da Arezzo. Nel verbale di consegna il delegato Savoja si permette un ultimo appunto: dopo circolari, materiale di cancelleria, due tavoli e tre cassoni, un armadio dipinto di rosso e il ritratto del re dichiara di consegnare anche un divano di tela pelle, inservibile; una sedia a braccioli, inservibile; dodici sedie dipinte di giallo, inservibili; un lume a gasolio, senza tubo; alquanta legna che una volta aveva dato forma a diverse sedie, fradice sin dal 1874.." Perduta l'occasione di catturare una vera setta con tanto di notabile a capo, il prefetto Gerra continua a cercare nel circondario le prove della ipotizzata rete di associazioni malandrinesche che copre la Sicilia E incalzato dalla necessità di ottenere dei risultati, rischia di vedere società mafiose in tutti quegli addensamenti sociali che si formano sulla base di un lavoro o un comune mezzo di sopravvivenza. Ad esempio, a Misilmeri sembra accertata l'esistenza dell'associazione detta fontana nuova. Il i° febbraio il prefetto chiede informazioni su quella che chiama una specialità di mafia, gli sparacellai. Il questore gira la richiesta al delegato, che risponde: Mai ho sentito da alcuno far menzione di una società di mafia detta degli sparacellai». Sono «persone che vanno per le campagne a raccogliere verdure che poi rivendono in paese e anche a Palermo, sono individui rozzi e facinorosi, ma non formano una società di mafia [...]. Si vuole che in questo paese vi siano 2 società, la fontana nuova e la badia. La più antica è la prima, composta dagli elementi peggiori, la seconda si dice nata per difendersi dall'altra e si compone, almeno a quello che si riferisce e senza essere garantita l'esattezza, di elementi giovani e meno facinorosi e si sospetta che a capo possa esservi un prete. Qualcuno ritiene che l'antica banda della fontana nuova abbia anche una cassa e un cassiere e che si serva dei denari che vi vengono depositati per mantenere le famiglie di quei che vengono arre55 ASP, AGQ,
busta 394, fascicolo personale del delegato Braga. 1
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stati. Per non dare nell'occhio con le adunanze gli ordini vengono fatti circolare da un individuo all'altro. Queste sono le notizie imperfettissime e dubbie che ho potuto a poco a poco raccogliere. 56 8. Alla ricerca dell'equilibrio: lo stile di comportamento
Appena arrivato a Monreale, contro il delegato Braga comincia il balletto delle lettere anonime. Una, firmata «i cittadini monrealesi», lo accusa di incapacità: «Vogliamo Filippone, bravissimo, che assicurò alla giustizia briganti fuggiaschi dal 186o. Forse è destino che in questo paese non si possono avere cose buone». 57 Il delegato comincia a mandare i suoi rapporti sul taglio di qualche partita di limoni, vengono recise 507 viti ma il danneggiato non ha sospetti e quindi non può dare indicazioni. Scoppia qualche incendio sempre casuale, il delegato non fa domande e non s'immischia. Nella sua voglia di andare d'accordo con tutti piglia qualche scivolone. Come quando accorda parere favorevole al rinnovo del porto d'armi dell'ex guardia campestre Benedetto Scarpello, lo definisce stimato da tutti senza considerare quanto spesso la stima può scolorire nel timore. E d'altronde i delegati si trovano a dovere decidere su casi che non possono ben valutare, tanto più che, scrive Braga al questore, «nei moti anarchici del settembre '66 rimasero preda de ll a vandalica distruzione tutte le carte di quest'ufficio». Su Benedetto Scarpello viene fuori una lunga sfilza di precedenti: nel 1862 imputato per l'assassinio del milite a cavallo Pietro Di Girolamo, nel 1866 partecipa ai moti e pare sia complice nell'assassinio dell'ispettore governativo, nel 1869 imputato di grassazione, nel 1871 arrestato per sequestro di persona, nel 1872 arrestato assieme a tutte le guardie campestri del comune, nel 1873 ha una ferita d'arma da fuoco «per non dichiarato motivo». Messo di fronte al passato dell'ex guardia campestre, il delegato Braga deve sentirsi come un uomo costretto fra due scelte ugualmente penose. Scarpello sa essere convincente, alla fine Braga scrive perorando il rilascio del porto d'armi: del resto la sua reputazione è ottima, il censo discreto. «Quest'ufficio riconosce come assoluta necessità il non lasciare senza mezzi di difesa,
esposto alla vendetta dei malvagi, un individuo in odio alla mafia». Non ottiene alcuna risposta, torna a insistere: «Senza porto d'armi lo si lascerebbe indifeso, esposto alla vendetta dei tristi che mai non perdonano». 58 La tecnica di far finta di niente, aspettando che l'interlocutore si stanchi, viene applicata dall'amministrazione comunale in tutti i suoi rapporti con l'esterno. Prima ancora del calcolo su vantaggi e svantaggi c'è il rifiuto di sottoporsi a qualsiasi richiesta che, in quanto proveniente da fuori, assume comunque il carattere di una limitazione. Si tratta di un comportamento che raggiunge livelli di perfezione quando l'interlocutore è un rappresentante dell'amministrazione centrale. Allora il non rispondere diventa una questione di principio. Si possono fare molti esempi: nel 1865 si tratta di una serie di disposizioni che tentano di aumentare la sicurezza negli stradali e nelle campagne, dalla prefettura scrivono: «Non essendo pervenuto riscontro di sorta, con la presente la prego di bel nuovo di un cenno di risposta» .' 9 Nell'aprile del 1874 cadono nel vuoto i ripetuti inviti dell'ispettore provinciale, perché vengano inviati i dati sulla guardia nazionale. Il prefetto Rasponi è costretto ad intervenire, ricorda che la comunicazione dei dati è obbligatoria, «devo credere che le S.V. non vorranno mostrarsi ancora inadempienti come hanno fatto finora». 60 Nell'aprile del 1875 il reggente di prefettura Soragni protesta perché il comune è ancora sprovvisto di regolamento edilizio 61 e persino l'accomodante delegato Braga si lamenta col sindaco per il mancato rispetto di leggi e regolamenti. Il 21 marzo Braga nota che, anche se vietato sin dal giugno '65, in paese continua l'uso di seppellire i morti all'interno delle chiese. Invita il sindaco a fare depositare in municipio le chiavi delle cripte e a segnalare gli inadempienti. Cosa che non dev'essere andata per come il delegato s'aspettava, se i1 3o luglio dello stesso anno dalla prefettura si rimprovera il sindaco che non vigila come dovrebbe «sul pernicioso abuso di dare sepoltura ai cadaveri all'interno delle chiese». 62 Il 18 luglio del '76 il delegato protesta col sindaco perché non 58
ASP, AGQ, anno 1876, busta ASCM, busta 56o, fasc. 53. C0 ASCM, busta 638, fasc. 6. 61 ASCM, busta 646, fasc. 83. 62 ASCM, busta 652, fasc. 78.
703.
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busta 434. anni 1875-81, busta 61, fasc. 63.
ASP, AGQ,
57 ASP, GP,
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viene osservata una «provvida disposizione» di pubblica sicurezza, che prevede la patente e la divisa per i cocchieri di piazza.G 3 L'unico caso di risposta solerte è del 25 febbraio 1876, per una volta ottimisti. Il prefetto Gerra aveva chiesto a lle amministrazioni comunali di compilare un prospetto sulle acque potabili. Da Monreale si risponde che ci sono acque ottime, sorgenti da rocce granitiche, limpide, fresche e di sapore gradevole. L'acqua è abbondante («non solo non ne fa mai difetto ma non occorrono precauzioni per assicurarsene e la fonte può dirsi inesauribile»), fornita da sorgenti interne (Canale, Arancio e Pozzíllo) ed esterne (S. Rosalia e Calcerano), portata in paese da ottimi condotti. Per lavare i panni le donne si recano a Venero, distante 30o metri, dove ci sono molte sorgive di ottime acque. In sintesi: «La catena delle alte montagne che circonda questa gran valle somministra un immenso numero di sorgive di ottima acqua potabile». 64 Al principio dell'estate 1876 si cerca ancora di scongiurare l'applicazione del decreto che, sin dal i° luglio 1873, autorizzava la rettifica del territorio monrealese a vantaggio dei comuni limitrofi. Si è arrivati a questa data grazie alla consumata abilità esibita dall'amministrazione comunale nell'ignorare le richieste, ma adesso dalla prefettura e dal ministero arrivano numerosi solleciti per la consegna di documenti su ex feudi e tenute. Nell'aprile del '75 il reggente di prefettura Soragni scrive che sarebbe spiacevole se, continuando ancora a perdere tempo, si dovesse ricorrere a un commissario esecutivo. Il 26 maggio insiste: «Non credo che il ritardo frapposto da codesto municipio nello ammannire i documenti possa tornare utile agli interessi del comune» ,65 Monreale riesce a resistere sino al 3 ottobre del 1876, quando il giornale Lo Statuto scrive che una apposita commissione ne ha smembrato il territorio assegnandone una parte ai comuni di Marineo, S. Cristina Gela, Piana degli Albanesi, S. Giuseppe, S. Cipirello, Montelepre, Giardinello, Partinico e Borgetto. Palermo ottiene Pietratagliata e quella parte di Boccadifalco che apparteneva a Monreale. Ibidem, fasc. 79 Ibidem, fasc. 78. 65 Ibidem, fasc. 83. Sulla legge del 1873 e le pretese dei comuni limitrofi, vedi Modifiche della circoscrizione del territorio di Monreale e dei comuni finitimi, Palermo 1875. 63
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28 giugno '76, rapporto sullo spirito pubblico: a Monreale le condizioni della pubblica sicurezza sono soddisfacenti, la popolazione non si occupa di politica ma solo di trovare maggiori guadagni per la propria industria agricola. 66 Fra soli due mesi esploderà il caso stuppagghieri. 9. Pietro Mirto Seggio diventa sindaco di Monreale
Anche se non ufficiale, fra i monrealesi e il questore c'è un rapido aggiornamento sulle opinioni e gli affari più interessanti, una forma di comunicazione che le autorità non possono ricambiare ma sembrano tenere in grande considerazione. Si tratta di lettere anonime particolari, spesso non si limitano ad accusare qualcuno ma offrono un'analisi della situazione. A scriverle sarà il farmacista o qualche impiegato, un civile che la sera nel casino di compagnia raccoglie gli umori circolanti e li mette in bello stile. In occasione delle elezioni amministrative per il triennio 1876-78 l'atmosfera si fa vivace ed è tutto un fiorire di anonimi al prefetto, per «mettere in guardia le autorità superiori nella scelta del novello sindaco». Monreale è divisa in 2 partiti, liberale l'uno e reazionario l'altro. Il primo composto da un numero sparutissimo e slegato, numeroso e disciplinato il secondo. Modesti e riservati i liberali, arroganti e faccendieri i reazionari [...]. Un Gaetano Macaluso, un Antonino Leto Saputo e oggi un Domenico Pupella si avvicendano al governo della cosa pubblica [...], [ma] richiami alla mente sig. prefetto i processi pubblici del 1866 e allora potrà conoscere chi fossero i Leto, i Pupella, i Di Giovanni ed altri non pochi affiliati in società segreta che appellasi società del cuore. Richiami sig. prefetto i processi politici del 1866, e troverà i Pensato imputati del furto della carta da bollo rubata in quei giorni luttuosi all'ufficio del registro [...]. L'impunità dei delitti politici e criminali ha ingrossato le fila della reazione e la rende audace [...]. Sappia sig. prefetto che i reazionari monrealesi mutano di colore come i camaleonti. Essi sono plastici: colle autorità sciorinano idee liberali, col popolino si mostrano quali sono [...]. Badi sig. prefetto. I reazionari monrealesi sono sottili e vaporosi, in tutto penetrano, in tutto si infiltrano [...]. Stia in guardia sig. prefetto. I reazionari si affaccendano per avere un sindaco della loro parte. Se riusciran66
AsP, AGQ,
busta 461. I
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no nel loro pravo intendimento, allora le cose qui a Monreale andranno nel migliore dei modi possibili.G7
Una lamentela costante è che «per mezzo della cabala e dell'intrigo gli amministratori sono stati sempre gli stessi», portando il comune alla rovina. «In quel municipio esistono che per ben caratterizzarli dovresti chiamarli lupi rapaci». 68 Nel marzo del 1876 il prefetto Gerra dichiara alla Commissione d'inchiesta che la compilazione delle liste elettorali amministrative era uno degli strumenti con cui si aggirava il controllo statale e si vanificava l'accentramento. «Per impedire ai consigli comunali di assumere rilevanza politica la legge prescriveva l'obbligo di rinnovare ogni anno un quinto dei componenti, nonché la metà della giunta municipale e della deputazione provinciale. La risposta dei gruppi locali era la estrema irregolarità de ll e liste elettorali», infarcite di non aventi diritto che, in attesa di controlli, continuavano a votare anche in caso di reclami.G 9 Di sicuro Gerra si riferisce anche a Monreale. In quegli stessi giorni si preparavano le elezioni amministrative e il prefetto aveva ripetutamente invitato il comune a fornire le liste perché fossero controllate dalla deputazione provinciale. Invano aveva chiesto che fossero inviate «con sollecitudine, esattezza e imparzialità». Forse per interesse, forse per l'abitudine a lasciar cadere inviti e sollecitazioni, le elezioni si erano svolte sugli elenchi precedenti. 70 Al momento di nominare il sindaco la scelta è assai ristretta, il questore scrive che «innumerevoli e contraddittori reclami esistono a carico del consiglio comunale di Monreale, il quale contiene nella maggioranza individui dai principi retrogradi e di dubbia condotta morale». Questore, pretore e carabinieri propongono la nomina di Pietro Mirto Seggio, l'on. Inghilleri, che è suo amico, lo dice unico per quel posto. Il prefetto Gerra scrive che Monreale è «comune fra i peggiori della provincia», se egli non riesce nessun altro potrà farlo. Sono tutti d'accordo, anche l'ex sindaco Di Bella lo raccomanda. anno 1875, busta 32, fasc. 13. Ibidem. Inchiesta Bonfadini, ed. Iachello, cit. pp. 6o-61. 70 Il zo luglio, visto che le liste elettorali amministrative non erano ancora state inviate, le ritira un usciere di prefettura. A carico del comune bisogna pagargli un pedatico di £ 6. (ASCM, busta 65o, fasc. 5o).
La nomina di Pietro Mirto Seggio avviene sotto i migliori auspici. Il 27 marzo viene investito della carica direttamente da Gerra, nel palazzo de ll a prefettura:" inginocchiato a capo scoperto, la destra sui vangeli e alla presenza di due testimoni, Pietro Mirto Seggio diventa sindaco di Monreale per il triennio 1876-78.
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ASCM, busta 647, fasc. s. I29
Capitolo quarto
La Sinistra al potere
1.
La caduta della Destra
I modi in cui si era realizzata l'Unità e i problemi che il nuovo Stato si era trovato ad affrontare avevano creato un clima da accerchiamento, con i moderati che mantengono il potere mentre si succedono le emergenze: la lotta contro la Chiesa, il raggiungimento del pareggio, la questione dell'ordine pubblico nel meridione, il riconoscimento internazionale... un accavallarsi di problemi dall'incerta soluzione che generano un atteggiamento di difesa dello Stato appena formato, un arroccamento dove le necessità del centro fanno passare in seconda linea altre esigenze. Giudicando che fosse in gioco la sopravvivenza dello Stato si erano accettati molti compromessi, e l'incombente fallimento finanziario aveva spinto a subordinare ogni altro obiettivo al conseguimento del pareggio. Per non alienarsi le simpatie dei ceti medi, che avevano il diritto di voto, era più facile accertare e colpire le rendite basse che le alte e l'imposta sulla ricchezza mobile agiva in questa direzione. Infatti, pur suscitando le proteste della borghesia, dal momento che prelevava il 13,2o% sia su un reddito di 700 lire che su uno di 40.000, gravava soprattutto sui redditi più bassi. I possidenti si lamentavano delle sovrimposte locali sulla fondiaria, ma in Sicilia l'imposta fondiaria e le sovrimposte relative avevano una bassa incidenza, come pure le tasse su vacche e buoi posseduti dai proprietari; una maggiore incidenza l'avevano i dazi sulla farina e sui muli, in genere di proprietà dei contadini. Molto peso avevano le imposte indirette, nel marzo del 1876, al momento della caduta della Destra, i tributi indiretti costituiscono il 65% de lle entrate tributarie. Particolarmente odiate sono la tassa sul sale, che porta nelle casse dello Stato 75 milioni l'anno, e quella sul macinato che dà un gettito di 83 milioni. Al di là delle singole motivazioni, ciò che divide la Destra dall'opposizione e ne provoca la caduta è il suo aclassismo, il non ap130
poggiarsi ad una classe sociale. Il personale politico moderato aveva la sua base in ristretti gruppi di proprietari agrari centro-settentrionali, sostanzialmente indifferenti sia alle pretese delle frazioni borghesi più avanzate in senso capitalistico che al decentramento amministrativo chiesto dalla Sinistra, portatrice di istanze democratiche ma talvolta espressione di gruppi locali reazionari e antiunitari, specie al sud. I moderati al governo avevano una ristretta base sociale e scontentavano un po' tutti: i primi a soffrire della loro politica tributaria erano gli interessi locali, per la tendenza a scaricare su province e comuni spese che originariamente erano a carico dello Stato, mentre si tentava di sottrarre parte delle entrate dalle casse dei comuni. La Destra aveva mantenuto il potere per 16 anni, convinta della propria elitistica superiorità e staccandosi sempre più dagli interessi dei vari ceti sociali. La mancata alternanza del partito al potere e la persecuzione degli oppositori era stato uno degli errori più gravi che, mentre privava lo Stato di preziose risorse, aveva causato un crescente malumore verso la politica del governo.' Infine il principale obiettivo de lla Destra viene raggiunto, il 9 marzo 1876 il ministro Minghetti annuncia alle Camere l'agognato pareggio. Risultato importante, ma che non basta a prolungare la vita del ministero. Il 18 marzo il governo cade, va al potere la Sinistra e si forma il primo governo De Pretis. Con la caduta della Destra diventa fondamentale allargare la base del governo. E da parte del Paese reale c'è la riscossa degli scontenti, in primo luogo della borghesia meridionale che sino ad allora non aveva ricevuto molti favori. Nel primo ministero della Sinistra i meridionali sono ampiamente rappresentati: Nicotera all'Interno, Zanardelli ai lavori pubblici e Majorana-Calatabiano al ministero dell'agricoltura, in rappresentanza degli agrari siciliani. 2. Una scomoda Commissione d'inchiesta
La Commissione d'inchiesta del 1875 ebbe un destino per più versi ingrato. Varata dalla Destra dopo molte titubanze, fu investita dal 1 Cfr. G. Carocci, Agostino De Pretis e la politica interna italiana del 1876 al 1887, Torino 1956, pp. 22 sgg. e Sereni, cit., pp. 63 sgg. Cfr. inoltre G. Marongiu, Storia del fisco in Italia. La politica fiscale della Destra storica (1861-1876), Torino 1995 e G. Luzzatto, L'economia italiana dal 1861 al 1894, Torino 1968.
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cambio del partito al potere e il 3 luglio del '76, ultimo giorno utile, presentò i suoi risultati ad un governo di Sinistra. Esigenze ed equilibri politici che avevano presieduto alla sua formazione erano mutati, era ormai fuori moda. Al momento dell'insediamento era sembrato che fosse chiamata a dare delle risposte, a prospettare una soluzione. Il governo aveva dato ordine che al suo arrivo in Sicilia fosse festeggiata nei modi più solenni, accolta da un battaglione di fanteria con musica e bandiera, non dimenticando il rituale colpo di cannone. I nove componenti, fra cui due siciliani, erano animati da grande buona volontà. Dal 4 novembre al 22 febbraio si sobbarcarono molti disagi, affrontarono l'inverno piovoso e le sommarie vie di comunicazione dell'interno, cercarono i motivi della continua emergenza in cui viveva la regione. Furono surclassati da due dilettanti, sia pure di grande talento che, armati di lettere di presentazione e poco tenuti alle convenienze politiche, potevano andare in giro e chiedere «come si fa ad essere siciliani?». E, mentre le conclusioni della Commissione per voler contentare tutti finirono per non soddisfare nessuno, le analisi di Franchetti e Sonnino davano dignità sociologica e spessore teorico alle posizioni della Destra. Se nell'immediato scontentarono molti, col tempo finirono per diventare le uniche ad essere ricordate. I lavori della Commissione avvengono dopo che si è consumata la frattura fra Stato e notabili siciliani, quando ormai è stata elaborata la teoria sulla rete di sette mafiose che copre la provincia e se ne cercano le prove, incalzati dalla fretta: perché questa volta non si tratta solo della caduta di un governo, quando un altro se ne può fare. Stavolta è nell'aria la caduta rovinosa del partito che per 16 anni ha avuto il potere. Alle elezioni di novembre la Sicilia aveva votato in massa per l'opposizione: dimostrare che è coperta di associazioni mafiose equivale a trovare una causa per il perdurante, irrisolvibile problema dell'ordine pubblico, e anche una spiegazione che penalizzi le opposizioni. La Sici lia coperta di sette mafiose è una semplificazione comprensibile per un problema che rifiuta di lasciarsi razionalmente spiegare. La debolezza dello Stato sta nel presentarsi come una struttura accentratrice, che però non_ può avere come unica risorsa la costrizione e la repressione. Non volendo disturbare gli equilibri già costituiti, ne derivano compromessi e transazioni tali che infine lo Stato si ritrova ad essere rappresentato dagli stessi che lo 132
boicottano. Dal canto loro, dopo avere teso la corda sin quasi a spezzarla, i proprietari si presentano come campioni degli interessi generali dell'isola e non ammettono alcuna responsabilità, mentre il loro punto di forza è la capacità di vanificare l'azione dello Stato a livello locale. Anche nelle testimonianze più volenterose, le cause appaiono troppo complesse da affrontare e si cerca di limitarsi ai risultati. Con qualche sgomenta perplessità. Il procuratore generale Calenda riflette che non si possono moltiplicare all'infinito gli ammoniti, perché poi non si possono sorvegliare, e l'ammonizione diventa inutile se non è accompagnata da stretta sorveglianza. Invece, la testimonianza del questore Rastelli è quella di un uomo d'azione: nega che la situazione sia allarmante, «ci sono i reati che ci sono sempre stati». Per mantenere queste insoddisfacenti condizioni sono necessari carabinieri, guardie, pattuglie miste di carabinieri, guardie di pubblica sicurezza e soldati, le vetture corriere devono essere scortate dai carabinieri, le strade percorse e sorvegliate da soldati e militi a cavallo, le campagne costellate da drappelli di truppa, senza contare i bersaglieri stanziati nei paesi che circondano la città. Una moltitudine di uomini che sorveglia, investiga o reprime, a seconda dei corpi. Sembra un paese nemico presidiato, e il questore vorrebbe aumentare il distaccamento. I commissari chiedono cosa succederebbe se si levasse tutta questa forza, perché una provincia, una città, non possono vivere per sempre come in stato d'assedio. A parte ogni altra considerazione, costa terribilmente. Ora, il problema è proprio questo. Perché, se si dovesse ritirare la truppa, «tutto l'elemento cattivo si scatenerebbe». Presidente: ci sono associazioni? Questore: ci sono que lle piccole mafie divise in diverse frazioni o comuni. Presidente: i porti d'arme vengono concessi con troppa faci lità, non c'è un vero controllo sul numero degli ammoniti. Ci sono complicità con la questura? Questore: l'ho inteso ripetutamente. 2
Dalla lettura delle deposizioni emerge l'immagine dello Stato come macchina complessa, che bene non funziona a nessuno dei 2 Testimonianza del questore Rastelli in Inchiesta Bonfadini, cit., pp. 397 407. Le affermazioni del procuratore Calenda in ibidem, p. 358. Sui lavori de lla Commissione d'inchiesta cfr. inoltre P. Pezzino, Una certa reciprocità di favori, Milano 1990 e, sempre di Pezzino, La tradizione rivoluzionaria siciliana e l'invenzione della mafia, in Meridiana n. 7-8, 199o. -
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suoi molteplici livelli. Ma non si può essere troppo severi: il governo di Destra che aveva varato la Commissione vedeva i notabili come manutengoli, quello di Sinistra da poco formato ha propositi riparazionisti. Così la relazione finale salva i proprietari: i manutengoli non si devono confondere con le vittime della paura. Ogni responsabilità viene scaricata sullo Stato, che ha un apparato repressivo disorganizzato, una burocrazia malpagata e poco affidabile, è permeabile alle pressioni esterne. Se l'ordine pubblico continua ad essere un problema la responsabilità è tutta sua, perché non sa garantire la sicurezza. 3. Un giornale all'opposizione
Con la rivoluzione parlamentare del marzo 1876 cambia il tipo di rapporto fra classe dirigente siciliana e Stato, quindi anche il modo in cui lo Stato affronta e gestisce il problema mafia. Si tratta di un passaggio storico di importanza essenziale, un cambiamento che si attua attraverso momenti a volte drammatici per l'asprezza dello scontro che a Palermo oppone gli esponenti della Destra diventati opposizione e la nuova Sinistra al potere. Il momento in cui chiare emergono le differenze è, subito dopo la rivoluzione di marzo, la prefettura Zini. Pochi mesi dal maggio al dicembre 1876, finora mai analizzati. 3 Per cercare di ricostruire gli avvenimenti, gli umori e gli schieramenti, è estremamente interessante osservare la politica dei giornali. Durante la permanenza a Palermo degli ultimi due prefetti di Destra, Rasponi e Gerra, era naufragata l'intesa fra notabili e governo, la proposta di leggi eccezionali che il ministro Cantelli aveva presentato alla Camera colpiva quella zona opaca in cui per comodità, abitudine, incapacità a rompere i vecchi legami o paura, vivevano troppi notabili. La stampa era stata ferocemente critica, le accuse di 3 In Marino, cit., troviamo: «Il comm. Gerra, dopo appena pochi mesi, era stato spazzato via dal vento di marzo e prefetto di Palermo era stato nominato un altro commendatore, il Malusardi, uomo di fiducia del ministro Nicotera e della Sinistra» (p. 207). Brancato (1956, cit.) non fa alcun cenno a Zini. P. Pezzino (Una certa reciprocità di favori, cit.), scrive che «apparentemente la politica del primo governo Depretis non si distaccò dalle linee già seguite da quelli della Destra: il ministro dell'Interno Nicotera inviò a Palermo il prefetto Malusardi con il compito di debellare il banditismo» (p. 135). Renda (cit., pp. 96-97) dedica solo un accenno alla prefettura Zini.
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incapacità, le proteste circa l'onore infangato, le bordate al governo e gli attacchi erano stati quotidiani e, anche se Rasponi si era dimesso per protesta contro le leggi speciali e Gerra era stato uno degli estensori del progetto, le differenze fra i due personaggi erano state poco considerate. Quando la Sinistra va al potere i giornali d'opposizione diventano di colpo governativi: sino a quel momento avevano esasperato la questione dell'ordine pubblico facendone un'arma di pressione, adesso sospendono il giudizio e scelgono il silenzio. Ilio marzo 1876 esce però il primo numero di un nuovo giornale dichiaratamente di Destra, Lo Statuto organo di stampa dell'Associazione Costituzionale di cui era presidente il marchese di Torrearsa, che condurrà una singolare campagna stampa durante la prefettura Zini. Il suo motto è ordine con libertà, tanto per segnare le distanze dalla protesta gridata e talvolta in malafede che aveva caratterizzato i giornali di opposizione. La questione che subito qualifica il nuovo giornale è quella della pubblica sicurezza, e non a caso: al livello più immediatamente percepibile in Sicilia, lo scontro da cui la Destra era uscita perdente riguardava soprattutto le leggi speciali. Lo Statuto concorda con le valutazioni che avevano portato alla loro promulgazione e conduce una analisi precisa e impietosa sul modo in cui il problema dell'ordine pubblico era stato gestito dalla Sinistra. Il giornale pratica quella che oggi viene definita educazione alla legalità ed ha l'ambizione di creare fra i suoi lettori un orgoglio consapevole, che porti al rifiuto di prassi quotidianamente accettate. Gli articoli dello Statuto non sono pubblicati in seguito alle emergenze della cronaca, si tratta di analisi complessive che tendono a bonificare l'ambiente: non attaccano i banditi di strada ma quanti li appoggiano ed aiutano. Il 16 aprile scrive: «Se le mura dei gabinetti dei questori, dei prefetti, dei segretari generali e dei ministri dell'interno potessero parlare, quante persone che il volgo crede autorevoli cadrebbero nel discredito per avere usato tutta la loro influenza a vantaggio di assassini abietti e di grassatori di strada!» Quando la Sinistra va al governo, fra funzionari dimissionari, messi a riposo o trasferiti, nemmeno una prefettura conserva il titolare che aveva avuto prima del 18 marzo. Seguendo le sorti del ministero Minghetti anche Gerra lascia Palermo, e subito cominciano le trattative per il nuovo prefetto. A varie riprese, Lo Statuto ricorda il 135
comportamento ostile tenuto dai giornali durante le prefetture Rasponi e Gerra e attacca polemicamente sul futuro. L'8 aprile, ricordando che Rasponi era un esponente della Sinistra, scrive: Nessuno dei vostri gli fu largo di consigli pratici per riuscire nelle cose della piibblica sicurezza; le bande di briganti si coprirono di infausta celebrità. La guerra al Rasponi venne fatta dai vostri amici fitta e spietata. Un prefetto di Sinistra lo lascereste solo nelle cose in cui avrebbe bisogno del concorso valido e coscienzioso della cittadinanza, lo attorniereste troppo in tutto quello che lo imbarazzerebbe.
I deputati siciliani erano stati determinanti per il cambio del partito al potere, circostanza che aveva innescato grandi aspettative. La prefettura di Palermo è come un banco di prova per il nuovo governo e una sfida per gli ambiziosi: nel giudizio degli osservatori contemporanei «riuscire in Sicilia, e precisamente nella Prefettura di Palermo, vale lo stesso che assicurarsi una riputazione bri llante di uomo di Stato». 4 Le ipotesi si rincorrono, partendo dall'ovvia considerazione che un siciliano ha una conoscenza più approfondita dei problemi dell'isola si vorrebbe un prefetto siciliano. Purtroppo i notabili più influenti sono in relazioni più o meno evidenti con personaggi non proprio cristallini, che ne hanno facilitato l'elezione e la fortuna politica. Nessuno di loro sembra adatto all'incarico: a mostrarsi troppo morbidi c'è il rischio di essere giudicati incapaci, ma in caso contrario bisogna inimicarsi vecchi amici la cui ostilità può essere pericolosa. Dopo lunghe trattative viene scelto l'onorevole Luigi Zini, alto funzionario, deputato, già prefetto di Ferrara, Padova e Catanzaro, autore di un testo sugli abusi illiberali della Destra. 5 Nel giudizio di molti contemporanei la caduta della Destra non fu un normale avvicendamento del partito al potere ma un disastro, ed in questo giudizio troviamo concordi anche posteri illustri. 6 LoStandlerivuzoaftensioav G. Pagano, La Sicilia nel 1876 - 77, Palermo 1877, p. 17. Dei criteri e dei modi di governo del regno d'Italia, lettere e note a Luigi Carboneri, stampato a Bologna nel marzo 1876. Scrive Lo Statuto del 17 aprile che forse a questa 4
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pubblicazione Zini doveva la prefettura di Palermo. 6 Ad esempio, nella sua Storia d'Italia (Bari 1928) B. Croce scrive de ll a «catastrofe del 18 marzo», quando «la sollevazione degli interessi offesi, specie nelle province meridionali, non poteva più frenarsi e il "paese reale" sobolliva contro l'Italia legale» (p. 7).
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elaborato una democrazia troppo fragile, dove facilmente le opposizioni vengono demonizzate. Ma, se è vero che ci fu la corsa degli interessi, ci furono anche funzionari e politici che, giudicando inadatto il primo modello di Stato, cercano di stabilire le regole di una nuova convivenza. Il prefetto Zini è il perfetto esemplare di una tipologia umana bistrattata, quella dei servitori dello Stato: personaggi la cui limpidezza e dirittura morale torna molto utile per esibirla sull'altare delle buone intenzioni, finché non diventano scomodi e allora vengono accusati di essere rigidi, di non avere il senso della realtà, e vengono lasciati so li proprio da quello Stato che rappresentano. Zini arriva a Palermo il 2 maggio 1876. A leggere il suo proclama d'insediamento (pubblicato il giorno dopo dallo Statuto), sembra di vederlo andare al massacro: non conosce i problemi che dovrà affrontare ma è animato da lla stessa presunzione maieutica del conte Rasponi. Il prefetto fa esplicito riferimento al suo essere il rappresentante di un governo che rinnega i minacciati provvedimenti eccezionali, vuole governare «con la legge e solo per la legge». In parlamento s'era detto che in Sicilia il governo era stato il principale artefice dell'illegalità: Zini è pronto ad addossargli tutte le colpe, nella certezza che basterà attenersi alle leggi per ristabilire condizioni normali. Zini arriva in Sicilia e vorrebbe ricominciare daccapo, istituire un rapporto di mutua fiducia fra Stato e cittadini dove lui, la più alta autorità della provincia, è il garante della corretta applicazione della legge. Dà per scontato il rispetto delle regole, preoccupato solo di dimostrare che il governo è ormai al di sopra de lle complicità e dei compromessi. Purtroppo la questione che aveva provocato una mezza rivoluzione è ancora aperta, non essendo mai stato risolto torna a riproporsi il problema dei manutengoli e dei fiancheggiatori, quell'insieme di relazioni tra brigantaggio e classi superiori che rendeva di difficile riuscita qualsiasi iniziativa intesa alla cattura dei banditi. Per il nuovo prefetto è un affare scottante, l'estate vede in azione la banda Rinaldi nel territorio di S. Mauro, la banda Leone a Lercara, numerose bande nei dintorni di Sciacca, Cefalù e Racalmuto. Il prefetto sembra destinato all'insuccesso, qualsiasi decisione prenda. Dall'opposizione arrivano critiche, il partito che avrebbe dovuto appoggiarlo sembra composto da ombre. La Destra rimpiange il decisionismo di Gerra, e certo i metodi piuttosto sbrigativi da lui praticati sembrano più efficaci ed immediati; la scrupolosa applicazione della legge 137
non fa che essere strumentalmente utilizzata da quanti hanno tutto l'interesse ad ostacolarla.' Anche nel territorio di Cefalù le bande operano indisturbate, inseguimenti e agguati predisposti dall a forza pubblica sembrano cadere nel vuoto. Vengono perquisite due grandi masserie di proprietà del barone Turrisi Colonna, che sembrano essere rifugio abituale per la banda Rinaldi e per i polizzani. Se Zini prende la stessa iniziativa che ai tempi del prefetto Rasponi aveva causato una pronta levata di scudi, gli indizi devono essere schiaccianti. Tanto più che il personaggio preso di mira è adesso l'uomo più rappresentativo del partito al potere, capo dell'associazione democratico-progressista e presidente del comitato di redazione del Precursore. Vengono arrestate e processate persone al servizio del barone, accusate di avere dato asilo ai briganti (Lo Statuto del 27 giugno e 3 luglio), cosa che naturalmente provoca le proteste del Precursore e l'indignata reazione del barone. Ma, scrive Lo Statuto è noto a tutti che di giorno gli «esercenti d'industria agraria» devono difendersi dall'accusa di manutengolismo e di notte dalle pretese dei briganti. Però le masserie del barone alloggiano da 6o a 8o persone mentre la banda Rinaldi non ha mai contato più di Io 0 12 uomini: sembra delinearsi uno di quei casi in cui il sempre accampato alibi della paura sfuma nella complicità. Il 27 giugno Lo Statuto, unico giornale a sostenere l'operato del prefetto, scrive: «In questo stato di cose non è più governo di Destra o di Sinistra. E puramente e semplicemente quistione di essere o di non essere per qualunque governo. Chiunque sia alla direzione della cosa pubblica non deve tollerare che, contro la legge, esista la protezione palese o occulta al malfattore». L' I I luglio la redazione dello Statuto sembra presa dallo sconforto: Non abbiamo difficoltà ad ammettere che la parte moderata in Palermo abbia governato male. Governi bene la Sinistra e le popolazioni saranno ben liete di applaudirla [...]. In Sicilia non si è di fronte a pochi malfattori ma ad abitudini perverse e a complicità delittuose coi delinquenti, nelle classi che per educazione o censo dovrebbero perseguitare i malfattori. 7 In Italia furono in pochi ad apprezzare il rispetto delle regole praticato da Zini, gli osservatori stranieri lo liquidarono con un superficiale giudizio negativo. K. Hillebrand scriveva che «il politicante che il nuovo ministero aveva fatto succedere a Gerra aveva rovinato tutto con la sua mollezza» (Die politische Lage, in Italia, Firenze-Leipzig 1877, rip. in E. Ragionieri, Italia giudicata 1861 1945, Bari 1969). -
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4. La società dei mugnai e dei carrettieri
La Sinistra aveva ridicolizzato la teoria che la Sicilia fosse coperta da una rete di associazioni ma, contro tutte le aspettative, è con la Sinistra al potere che riprende corpo la teoria associativa. Il 2 aprile 1876 ad Altarello di Baida, una delle borgate esterne alla città, viene ucciso il mugnaio Angelo Celona. Secondo le indagini, a causarne la morte erano stati i contrasti con le società che controllano i mulini dell'agro palermitano. Le associazioni vengono scoperte nel mese di giugno, Lo Statuto ne scrive il 14 e il 16. Negli stessi giorni l'azione del prefetto che tanto scrupolosamente vuole applicare la legge pare avviarsi al fallimento, mentre di fronte all'aumentare dei crimini cresce la sensazione di frustrante impotenza. Le associazioni che controllano i mulini sono due corporazioni, sindacati che agiscono alla luce del sole: hanno capi, esattori e uffici. Una controlla i mugnai, l'altra carrettieri e apprendisti mugnai. Grazie ad un uso disinvolto della violenza impongono un regime di monopolio, controllano gli addetti e decidono i prezzi: Lo Statuto scrive che c'è stato un ottimo raccolto, il grano costa il 3o-4o% in meno, ma il prezzo del pane è rimasto invariato. Vengono fatti numerosi arresti, chiusi 22 mulini, la molenda ribassata di quasi un quinto. Quasi alibi a un fallimento accettato troppo in fretta, ricomincia a prendere corpo l'idea de lle sette criminali che come una rete coprono l'entroterra palermitano. Fra i giornali, solo lo Statuto prende sul serio la scoperta delle associazioni ma, considerando debole l'opera del prefetto, il 24 giugno si rivolge al ministro dell'interno «perché non sappiamo come e in che far conto del funzionario che regge la nostra provincia». Zini manca degli strumenti eccezionali che la Destra aveva chiesto e di suo è poco inc line a violare le leggi, seppure a fin di bene. Sembra non esserci rimedio: Una società che novera 224 membri e che è abituata a disporre di un incasso di £ 204 al giorno, difficilmente può diventare ad un tratto ossequiente alla legge. I suoi membri sono abituati a considerare come diritto una percezione di camorra e riguardare come lesiva dei loro interessi qualunque intrusione di estranei [...1. La perniciosa abitudine di conculcare il diritto e vivere sulle spalle de lla povera gente è assai più forte de lle disposizioni della legge e delle energie dell'autorità.
Ricomincia a tappeto la ricerca de lle «malefiche associazioni». Le informazioni vengono cercate nei paesi del circondario, il tono del139
le risposte dipende dalla personalità del delegato oltre che dalla sua conoscenza dell'ambiente. Anche a Monreale si cercano dettagliate notizie su eventuali sette. Il delegato Braga replica che, nonostante si sia adoperato per trovare le prove del contrario, non ha alcun fondamento la voce che vorrebbe Saverio Spinella associato con Michele Di Gregorio e Saverio La Fiura. 8 Due mesi dopo ci sarà la grande retata, e la teoria sulla società degli stuppagghieri sarà offerta dalla questura alla magistratura, già compiuta e pronta per essere applicata. Restiamo a Monreale dove, in contrasto col questore e il pretore, il prefetto Zini chiederà il trasferimento del delegato Braga. Non appena Zini arriva a Palermo il solito anonimo l'avverte che la condotta del delegato di Monreale non è proprio esemplare, e subito parte la richiesta di più precisi ragguagli. Il questore Rastelli risponde che il delegato «tiene in Monreale una condotta prudente, riservata, di modo che riscuote la generale approvazione. In poco più di tre mesi dal suo arrivo ha saputo conquistarsi la simpatia di tutti e l'appoggio dei sindaco e del pretore per le sue capacità burocratiche [...] e la prudenza colla quale si è mantenuto alieno dalle locali lotte partigiane». Non può fare a meno di ammettere che, per redigere i verbali d'ammonizione, Braga si serve dell'opera di un detenuto di quelle carceri mandamentali. Allora cerca sostegno presso il pretore Orlando Venuti, che scrive: «Si vuole cercare il pelo nell'uovo, è un onesto e indipendente funzionario, contro il quale non si trovano altri appunti». Questore e pretore fanno fronte comune, insistono. Il prefetto comincia a disapprovare apertamente la condotta del pretore, indirettamente anche quella del questore. Vista l'importanza dell'ufficio, Zini decide di sostituire Braga con un funzionario «che abbia migliori caratteristiche di attività ed energia» e chiede al questore dei nominativi fra cui scegliere. Il questore: «Gradirei che non venisse mutato. Se nonostante ciò la S.V. volesse sostituirlo con altro funzionario che possa dar prova di maggiore attività non mi rimane che proporre i delegati Francesco Zallegra o Paolo Palmeri, il primo in servizio presso la sezione di Castellammare, il secondo presso quella Monte di Pietà». Si tratta dello stesso delegato Palmeri che fra un paio di mesi sarà accusato d'essere all'origine della setta degli stuppagghieri.
I candidati del questore non vengono scelti, il 19 luglio è il delegato Emilio Bernabò a ricevere le consegne dell'ufficio di pubblica sicurezza di Monreale. Braga viene trasferito nella più tranquilla provincia di Catania. Le sollecitazioni del questore gli ottengono la promozione a delegato di prima classe, con l'annuo stipendio di £ 2.500.' 5. Veleni in questura
Nell'estate del 1876 continuano i trasferimenti, anche la questura di Palermo è interessata al movimento che investe gli uffici. Il 7 luglio il questore Rastelli lascia Palermo con destinazione Livorno. Il primo di agosto arriva da Messina il nuovo questore, Gennaro Forte. A Palermo, dove ci si aspettava molti vantaggi dal cambio del partito al potere, dopo un breve periodo di attesa sembra essere tornato il solito clima ostile, peggiorato dalla delusione. A riprova del fatto che i sentimenti di scontento ed estraneità non accennano a diminuire, il 2 agosto le elezioni amministrative sono vinte dai clerico-regionisti, le due opposizioni antistatali che si alleano col programma di conquistare il municipio. Il nuovo questore è preceduto e accolto da diverse lettere anonime sui funzionari più in vista. In una di queste si accenna a tre ispettori, Banchieri, Santagostino e Parenti. Il Santagostino vi ha già dato dell'imbecille [...], il Banchieri propaga stretta amicizia con voi. Dice che dominerà la posizione come l'ha sempre dominata col ministero passato. Il Parenti agisce più da gesuita, ma anche lui vi getta intercapedini tra i piedi per farvi sfigurare [...]. Io vi sono amico perché mi siete stato raccomandato dai miei amici politici di Roma e di Napoli, mi astengo per ora di avvicinarvi, vi scriverò all'occorrenza.
La chiusa riecheggia motivi massonici: «Un abbraccio al cittadino Forte che stimo di cuore, salutando in esso l'uomo della novella era politica, del simbolo apostolico di libertà». Firmato: marchese Foscolo. 10 Leltranoimsucveprnodiaz.Equesta mise in moto un meccanismo di ripicche, sdegni e vendette che 9
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Rapporto del g giugno 1876 in
ASP, AGQ,
anno 1876, busta 702.
ASP, AGQ,
10 ASP, AGQ,
busta 394, fascicolo personale del delegato Braga. busta 441, fascicolo personale di Palmeri. 141
in ultimo portarono la questura ad indicare in un delegato di pubblica sicurezza il padre fondatore di una setta mafiosa. 6. La campagna d'estate Era agosto e settembre c'è una recrudescenza di delitti, le bande imperversano nelle campagne di Sciacca, Racalmuto e S. Mauro, i giornali non ne danno notizia, perché «da quando è andata al governo la Sinistra hanno perso la vista e l'udito». «Sono stati bravi solo a sollevarsi contro Gerra, quando ha tentato di colpire i manutengoli», e «quando mai gli organi della Sinistra hanno tentato di creare in Sicilia un'opinione pubblica che schiacciasse come una valanga le abitudini perverse che sostengono il delitto contro la legge ?» (Lo Statuto 24 luglio e 3 agosto). Il prefetto Zini, che aveva riassunto il suo programma nello slogan «per la legge e con la legge», si trova isolato e paralizzato. Non vuole agire al di fuori de lla legalità, anche se attorno a lui tutto sembra suggerire che qualche compromesso potrebbe servire a rendere meno rovinosa la caduta. Così, mancando della necessaria duttilità, verso la fine d'agosto Zini scrive al ministero che in Sicilia sono necessari maggiori poteri per l'autorità amministrativa." Si tratta di una clamorosa inversione di tendenza: su una questione che aveva causato scontri feroci, il primo prefetto del governo di Sinistra e la Destra si ritrovano sulle stesse posizioni. Con l'intensificarsi del ritmo dei delitti torna un clima di emergenza, esasperato dall'ostilità della Chiesa. Ognuno combatte con le proprie armi, tranne casi eccezionali vengono vietate le processioni fuori dal recinto delle chiese. Lo Statuto fa appello agli altri giornali ma quelli, prima così facili alle denunce, sono diventati governativi. Almeno formalmente, perché nella sostanza non fanno nulla per appoggiare il governo. Lo Statuto alza il tiro, propone ai suoi lettori di denunciare briganti e manutengoli. 12 Il ro agosto si lascia andare ad amare considerazioni, lo stesso genere praticato da Franchetti o da disillusi funzionari governativi, con la differenza non da poco che a scriverle è un giornale di Palermo: «Le nostre popolazioni, immaginose per indole e facili ad agire per sentimento, son venute a go-
dere i benefici della vita libera avendo succhiato col latte tradizioni e massime interamente contrarie alla giustizia e a lla libertà». Nella sua attenzione globale verso tutto quello che riguarda la pubblica sicurezza Lo Statuto analizza anche le condizioni degli impiegati statali. La retribuzione dei pubblici funzionari è poco prestigiosa: un giudice istruttore ha uno stipendio fra le 2.000 e le 3.000 lire, «meschina retribuzione, mi ll e brillanti carriere sono aperte ad un uomo che abbia capacità di studi e attitudine necessaria» (Io agosto). Le guardie poi, sono malissimo retribuite e peggio considerate. 7 20 lire l'anno, un povero artigiano guadagna di più. Vanno ad arruolarsi vecchi soldati che hanno disimparato il loro primitivo mestiere, vagabondi o sfaccendati E...]. La popolazione pensa che sia vergogna essere protetto dalle guardie o dai carabinieri, pensa sia più onorevole camminare in città armato come in una foresta, e accompagnato da mafiosi E...]. Non avremo mai una buona polizia degna di un popolo civile, se non considereremo le guardie di polizia come incaricate, per conto nostro, di un servizio interamente liberale perché è il servizio dell'ordine (22 novembre).
11 Pagano 1877, cit., p. 30. Numeri 26, 36, 9o, 123 e 146 del 1876.
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Capitolo quinto
La setta
r . Il delegato Bernabò
Il delegato Emilio Bernabò da Torino è il creatore degli stuppagghieri, la decisione di trovare la Sicilia coperta di tenebrose associazioni trova in lui un esecutore entusiasta. La personalità e i problemi del delegato Bernabò influenzano pesantemente il suo lavoro. È uno dei tanti funzionari di basso livello che vivono il trasferimento dal nord come una deportazione, impotenti e facilmente disgustati da tutto quello che li circonda. Del resto, avevano le loro ragioni. Le condizioni di vita dei delegati di pubblica sicurezza erano obiettivamente difficili, specie di quelli che, come Bernabò, erano armati di buona volontà ma mancavano di protettori. Ad esempio, poteva capitare d'essere sballottati senza requie. E, prima di arrivare a Monreale, gli ultimi due anni della vita di Bernabò sono un turbinio di trasferimenti che hanno gravi ripercussioni su un'economia familiare già molto fragile. Nel 1874 Bernabò è a Roma, applicato presso la questura. Il 14 aprile di quell'anno viene trasferito a Palermo. L'8 agosto viene destinato all'ufficio di Marineo, dopo un paio di mesi nuovo trasferimento a Montemaggiore. È delegato di terza classe, ha moglie e due figli. Scrive la prima di una lunga serie di lettere al questore, «sono appena 3 mesi che da Roma sono stato inviato in Sicilia e da questo viaggio sono stato rovinato. Ora sono perfettamente dissestato, in finanze tali che non mi rimane di far fronte alle spese più necessarie del sostentamento». Nel giugno del '74 la prefettura definisce la sua situazione economica «poco felice» e gli accorda una sovvenzione straordinaria di £ 150. Bernabò si sprofonda in sentimenti di riconoscenza, scrive «se vi sono arrischiate imprese nelle quali la debole mia opera possa riuscire di qualche utilità mi si comandi pure, ch'io mi stimerò ben felice se potrò porre a repentaglio la mia vita per acquistare la stima dei miei superiori e benefattori». 1 44
Il delegato Bernabò si dà sempre molto da fare, per senso del dovere e per bisogno, visto che in genere alle azioni più importanti segue una gratifica in denaro o una promozione col relativo aumento di stipendio. Nel dicembre del '74 libera dai rapitori il sacerdote Antonino Romano, ottiene una gratifica di £ 1oo. Viene trasferito a Carini, ogni volta si tratta di mettere su casa. Ha un incidente sul lavoro, che gli porta via molti denari in medici. Nel novembre del '75 chiede un sussidio, gli viene negato per mancanza di fondi. Si distingue nel servizio, ma la promozione resta lontana: lui suggerisce che gli sia concessa per merito. Tramite la prefettura, il 4 luglio del '76 da Roma gli rispondono che non è possibile promuoverlo, né per anzianità né per merito, «dovendosi in questo secondo caso avere riguardo all'anzianità relativa di coloro che vi possono concorrere». Nell'aprile dei '76 viene trasferito a Misilmeri. Scrive al questore, «una sventura per la mia famiglia. Chino la testa e subisco un'umiliazione non meritata. Mi trovo nell'assoluta impossibilità di partire per mancanza di mezzi pecuniari». Il 19 luglio del '76 nuovo trasferimento, Bernabò arriva a Monreale.' Il delegato Bernabò è tutt'altra cosa rispetto a Braga, i monrealesi se ne accorgeranno ben presto. Ha urgente bisogno di essere visibile, lui incarna lo Stato ed è bene che tutti se ne rendano subito conto. Ma soprattutto ha bisogno di essere visibile agli occhi dei superiori, da loro dipende la sua vita. Non è passato un mese dal suo arrivo e critica l'operato dei militi a cavallo, i quali hanno partecipato allo spegnimento dell'incendio casuale che avvolgeva una siepe ma, al contrario dei bersaglieri che sono tornati ai loro reparti senza pretendere alcuna ricompensa, esagerano l'importanza del fatto e il loro ruolo nell'evitare improbabili disastri.2 Subito dopo, trova da ridire su una prassi da tutti accettata e denuncia ai superiori uno spicciafaccende ben inserito negli ambienti della questura, un certo Giuseppe La Ferla detto Sordiddo, che in cambio di £ ro sbriga le pratiche relative ai porto d'arme.' busta 395, fascicolo personale del delegato Bernabò. anno 1876, busta 701. 3 Fascicolo personale di Bernabò, cit. 1 ASP, AGQ,
2 ASP, AGQ,
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2. Il caso Di Mitri Come nel resto del circondario, nell'agosto del 1876 anche a Monreale si registra un aumento dei delitti. In buona parte si tratta di reati di cui non sappiamo niente, resta notizia solo del ritrovamento dei cadaveri. Il 7 in contrada Real Celsi viene ritrovato un morto sotto un fico, l'ha fatto fuori una scarica di fucile. Quattro giorni dopo è la volta di un giovane capraio, trovato morto in contrada Ponte Parco.`' È un lento stillicidio di morti senza volto, macabro indicatore della violenza dello scontro in atto. Però ci sono altri delitti che, per il calibro degli uccisi e le reazioni che innescano, lasceranno un segno nella storia di quegli anni. La sera del 14 agosto Stefano Di Mitri, 55 anni, «agiato possidente di Monreale» e capitano della Guardia Nazionale, sta rientrando a casa in un giardino appena fuori paese, accanto al mulino de lla semola in contrada Scirba. Gli sparano mentre apre la porta, appostati dietro uno degli alti muri che delimitano i giardini e sembrano fatti apposta per favorire gli agguati. Di sicuro lo chiamano, perché il Di Mitri viene ferito all'addome e non alle spalle. Ne dà notizia il giornale Lo Statuto che aggiunge «la palla venne estratta felicemente, ma si dispera di salvarlo». Infatti muore pochi giorni dopo. Poco prima di morire Di Mitri dichiara a due suoi dipendenti e al maresciallo dei carabinieri di avere riconosciuto l'assassino per il lampo prodotto dall'esplosione del fucile. Accusa Antonino Rossello, suo creditore per una somma considerevole che non aveva restituito nonostante le reiterate richieste. Troppo semplice, il delegato Bernabò ha dei dubbi su questa tardiva confessione. Il Di Mitri non era uomo da passare inosservato e poi stupidamente morire, aveva molte inimicizie, per ben cinque volte era stato ferito in seguito ad agguati. Bernabò continua a cercare indizi e moventi, annota che in passato vi erano stati contrasti fra il Di Mitri e Salvatore Faraone, suo confinante di giardino. Interroga i figli del Di Mitri ma, come scrive nel suo rapporto al questore, «essi non vollero dare alcun lume alla giustizia». Vengono arrestati tre uomini, il Rossello e altri due, Nocera e Cammarata, che in base ad indizi a noi ignoti si pensano suoi complici. Il delegato Bernabò scrive al questore che la maffia ha fatto un 4 ASP, AGQ,
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anno 1876, busta
702.
gran scalpore intorno a questi arresti, teme che «con notizie sparse ad arte si voglia mandare a male il processo contro i detti individui». È il 19 agosto 1876, nessun accenno ad una setta. La famiglia Di Mitri è attivamente inserita nelle dinamiche per il potere. Giuseppe Di Mitri è «custode delle acque sotto il Parco», cioè di un territorio marca di confine fra l'agro monrealese e quello palermitano. Quattro anni prima, nel giugno del '72, era stato ucciso un altro Stefano Di Mitri, giardiniere di 32 anni. Modalità simili, tornava a casa al crepuscolo, in contrada Cannizzara viene ferito al petto con un colpo d'arma da fuoco. Subito interrogato, disse che a causa delle siepi non aveva visto il suo aggressore. 5 Bernabò è a Monreale da meno di un mese, non conosce le persone e i probabili moventi, difficilmente potrà chiarire l'intrico di motivi che si nasconde dietro l'omicidio. Il delegato Paolo Palmeri, che solo un mese prima era stato proposto come delegato di Monreale, conosce molto bene il paese dove per anni ha retto la delegazione di pubblica sicurezza. Nel momento in cui avviene un omicidio che sembra inserirsi in una vecchia trama, gli viene chiesto un parere. Palmeri presenta il suo rapporto rilevando il garbuglio di interessi e possibili rancori che aveva attraversato la vita del Di Mitri. Sottolinea l'importanza di fatti prima ignorati, si riferisce a persone diverse da quelle ufficialmente incriminate, arriva a conclusioni che gli porteranno solo guai, visto che la sua interpretazione verrà in seguito giudicata come «tendente a trarre in errore e a sviare l'azione punitiva della giustizia» 3. Il Corvo
Paolo Palmeri era in servizio a Palermo, mandamento Molo. Delegato di terza classe, non era riuscito a fare carriera e non godeva di molte simpatie in questura. Da poco era tornato da Corleone, sede che gli era stata assegnata quasi come misura punitiva. L'insofferenza sempre maggiore che Palmeri provava verso il suo grado e i compiti da subordinato, l'arrabattarsi molto per ottenere poco, ba5 Uccisione di Stefano Di Mitri (1876) in ASP, AGQ, busta 401. Informazioni su Giuseppe Di Mitri in ASDM, FM, busta 401. Uccisione di Stefano Di Mitri (14 giugno 1872) in ASP, AGQ, anno 1872, busta 671.
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stavano a farne un uomo scontento e litigioso. Nonostante gli apparenti buoni rapporti, l'ispettore Felice Banchieri lo sospetta quale autore dell'anonimo contro di lui, dato che la lettera l'accusa di essersi vantato dell'amicizia col nuovo questore e Banchieri sostiene di averne accennato solo a Palmeri e al brigadiere suo assistente. Così, il 23 - agosto Banchieri accusa apertamente e davanti a testimoni il delegato Palmeri, lo invita a giustificarsi. L'orgoglio di Palmeri aspettava solo l'occasione per farsi notare: il delegato pensa che il suo onore sia macchiato, si presenta al questore Forte per protestare indignato la propria innocenza. Il questore promette una sistemazione, poi per tutta risposta il delegato viene nuovamente trasferito. Provvedimento che dovette sembrare solo l'ultimo di una serie di torti subiti, e Palmeri decide di dimettersi. Però non era uomo da sparire senza fare rumore, il questore sembra ripensarci, vorrebbe fare rientrare la faccenda senza scandali. «Ma - il 2 settembre il questore ne scrive al prefetto - non valsero né le mie esortazioni né i severi richiami per farlo rimuovere dal suo proposito, e la mattina seguente, giusta la conclusione del giorno innanzi, mi esibì un foglio col quale intese dimettersi dalla carica». Sull'onda dell'indignazione Palmeri alza il tiro, mette al corrente i giornali. La stampa cittadina si mostra favorevole, e il rumore intorno al caso ottiene al delegato l'ostilità del questore Forte, che rifiuta le dimissioni e gli dice: «Dunque lei è ostinato: ci pensi bene!». Palmerinotdcamproesi,ntldam esclama: «Non temo codeste minacce: la mia coscienza è serena». E poi, coi giornali che seguono la vicenda, è difficile tornare indietro. Il delegato cerca quello che giudica naturale per un gentiluomo: una riparazione cavalleresca. Visto che non c'è niente da fare, sporge querela per diffamazione contro l'ispettore Felice Banchieri e presenta nuovamente le dimissioni pubblicate da tutti i giornali, da qualcuno anche commentate.' Palmeri rischia di diventare l'esempio perfetto di come nelle promozioni il governo mortifichi i funzionari locali, a favore di uomini che, cambiando ad ogni nuovo questore o prefetto, vengono da fuori e non conoscono l'ambiente. Da una parte abbiamo un delegato dalla carriera mancata, nonostante abbia partecipato alle giornate del 186o, appartenga ad una famiglia in vista ed abbia ricevuto numerosi encomi per i suoi servizi. Dall'altra troviamo 6
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Documenti sul caso Palmeri in
ASP, AGQ,
busta 441, fascicolo personale del delegato.
il suo arrogante superiore, l'ispettore Felice Banchieri, che non vanta meriti particolari ma ha avuto una brillante carriera. Riportando la notizia delle dimissioni di Palmeri, il 2 settembre il giornale La nuova forbice scrive: «Di bene in meglio! Ecco scomparso un altro dei pochi funzionari che, conoscendo il paese, aveva reso lodevolissimi servigi, comportandosi sempre con quella prudenza che è tanto importante nell'esercizio di tali funzioni». Qualche volta il delegato Palmeri era stato accusato di abusare del potere che gli derivava dal suo ruolo, di arrestare i parenti dei ricercati o i testimoni dei numerosi reati che accadevano nel suo mandamento.' Non aveva fatto carriera ma disponeva di una notevole autorità, rafforzata dalle varie leggi speciali, nei confronti di quanti avevano la ventura di suscitare i suoi sospetti. Nel 1874 il prefetto Rasponi aveva lasciato una nota elogiativa sul suo operato. 8 Adesoilurècambt,delgoivnam neggi della questura. 4.
Assassinio di Simone Cavallaro
Simone Cavallaro era il tipo d'uomo che il delegato Bernabò avrebbe definito «tristissimo soggetto», se solo se ne fosse presentata l'occasione. E avrebbe aggiunto: 56 anni, possidente, intermediario fra persone di dubbia fama, uno dei capi maffiosi di Monreale, intrigante e faccendiere con moltissime aderenze in tutta la provincia. Il 28 agosto del '76 Simone Cavallaro doveva recarsi a testimoniare in favore del nipote Castrenze, accusato di avere ucciso Paolo Salerno.' Tracotante e fino a quel momento impunito, s'era vantato che avrebbe salvato il nipote senza fatica e aveva crudelmente offeso parenti e amici del morto. Andava dicendo che, pure se colpevole, suo nipote avrebbe meritato un premio piuttosto che una condanna. Perché con l'uccisione del Salerno, essendo stato costui un noto stuppagghiere, aveva reso un servizio alla società. Alatri, cit., p. 365. Conservata nel fascicolo del delegato, cit. L'uccisione di Paolo Salerno si inserisce nella trama di delitti che porta alla scoperta della setta: era avvenuto due giorni dopo l'uccisione di Salvatore Caputo, per vendicarlo. Ne vengono accusati Castrenze Cavallaro e Diego Soldano, appartenenti a lla stessa fazione del Caputo (cfr. G. Di Menza, Cronache delle assise di Palermo, Palermo 1878, p. 268). 7
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Intanto, alle sette di sera del 27 agosto Simone Cavallaro passeggiava in strana compagnia. Era con Giovanni Salamone e Pietro Sinatra, un amico dei suoi nemici, forse si preparava una tregua. Camminavano per la via grande parlando animatamente. Arrivati davanti al vicolo dell'orto Sarrica, una stretta viuzza che subito immette nei giardini, il Sinatra nella foga del discorso si ferma, poi si allontana di qualche passo come per guardar meglio in faccia l'altro, tenendo fermo il Cavallaro con lo sguardo e i gesti. Ed ecco la trappola. Nascosto nel vicolo, qualcuno spara due colpi di fucile in rapida successione. Simone Cavallaro è colpito alle gambe e al revolver che porta al fianco, che per il momento gli salva la vita. Alcuni ufficiali dei bersaglieri si lanciano all'inseguimento. Ad avere sparato sono due uomini, svelti a fuggire e fortunati: trovano aperta la porta solitamente chiusa che immette nelle campagne, assente il padrone e legato il cane. I bersaglieri non sanno dove dirigersi, i luoghi sembrano impraticabili per le molte acque che li attraversano, infine rinunciano. Accanto al ferito accorrono pretore e delegato, subito lo interrogano. Cavallaro dichiara di non conoscere i suoi assalitori e di non avere sospetti su alcuno; non fa altro che dire traditore all'indirizzo del Sinatra che l'aveva condotto sul luogo dell'attentato, «insistendo su ciò con parole ingiuriose e provocanti e serbando un atteggiamento maffioso, e anche se ferito lo si dovette redarguire». Il 28 agosto Bernabò scrive al questore: «I parenti del Cavallaro persistono nel non volere dare alcun indizio a lla punitiva giustizia e mostrano un cinismo che è ributtante». In paese si mormora che i nipoti e il figlio Giuseppe vogliano vendicarsi, vengono loro sequestrate le armi. Tre giorni dopo, poco prima di morire, Cavallaro si vendica nell'unico modo che gli resta. Fa le sue accuse a lla presenza del delegato, dichiarando che a colpirlo erano stati gli stuppagghieri, perché lui aveva parlato contro la setta e quelli avevano giurato lo sterminio dei nemici.
In occasione della morte di Simone Cavallaro, non poteva mancare qualche anonimo. Illustrissimo sig. questore, vorrà la signoria vostra restituire la pace a questo disgraziato paese? Tolga la cancrena degli internazionali (così detti stuppagghieddi) di cui sono capi il fratricida Di Liberto Pietro fu Salvatore, procuratore de lla Men15 0
sa arcivescovile, Di Liberto Salvatore di lui figlio, e Di Miceli Paolo, impiegato della cennata Mensa». Firmato: «Il popolo devoto alla giustizia e a lla sicurezza del proprio paese in grave pericolo.l 0
Il delegato Bernabò è da poco arrivato in un paese ostile, ha bisogno di confidenti per capire i motivi degli scontri, qualcuno che gli spieghi cosa accade. È pronto a darsi molto da fare, è naturale che cerchi alleati. Arresta Paolo Di Gregorio e Nazzareno Sinatra, amici dell'ucciso Paolo Salerno e quindi nemici dei Cavallaro, sospettati d'essere stuppagghieri. Una vera setta, pronta ad essere combattuta, ricostruita nei suoi numerosi legami e complicità, stanata, inseguita e infine vinta deve sembrare un vero dono dal cielo ad un delegato di terza classe sballottato da un paesino all'altro. Significa encomi, un rapporto privilegiato coi superiori, premi per la cattura dei latitanti, promozioni. Consapevole dell'occasione che gli viene offerta, Bernabò comincia il suo lavoro. 5. Il capro espiatorio
L'estate aveva visto una recrudescenza di delitti che frustrava le buone intenzioni del prefetto Zini. Qualche tempo dopo un giornale darà una disincantata spiegazione: per ottenere qualche mese di fittizia sicurezza troppo spesso l'autorità non aveva disdegnato transazioni coi più noti mafiosi. Venendo meno quest'intesa le condizioni dell'ordine pubblico erano rapidamente peggiorate." Anche se cominciata da poco, la prima prefettura della Sinistra al governo è avviata al fallimento e il motto «con la legge e per la legge», appare una formula vuota. Il più grosso difetto di Zini sembra essere la sua correttezza, che in un ambiente abituato agli accomodamenti amichevoli diventa un ostacolo. Zini era arrivato a Palermo con l'intenzione di riformulare il rapporto fra lo Stato e i siciliani, ma il successo delle sue 10 Come già segnalato, il riferimento per i documenti relativi all'istruzione del processo e le carte che a vario titolo si riferiscono alla setta degli stuppagghieri è in ASP, GQ, anno 1880, busta 7. Col cognome Di Miceli vengono a volte indicati i fratelli Paolo e Baldassarre Miceli. 11 La Gazzetta di Palermo, 7/12/76, porta l'esempio del capobanda Leone, liberato perché aveva promesso di catturare il brigante Valvo mentre poi si era unito a lui. Sull'argomento ci furono interrogazioni alla Camera. 151
azioni non dipende da lui. A Palermo la Sinistra era profondamente antistatale, certo non cambiava orientamento perché era cambiato il partito al potere. Raccoglieva le stesse persone che avevano fatto la guerra al prefetto Rasponi, e la fiducia che Zini aveva manifestato all'inizio del suo mandato doveva essere sembrata molto ingenua: i notabili volevano maggiori poteri e autonomia e non rientrava fra le facoltà del prefetto modificare gli equilibri tra centro e periferia. Ogni giorno Zini deve fare i conti con problemi che derivano dalla difficile interazione con l'ambiente. Il caso Palmeri, col suo contorno di lettere anonime, incertezze e risentimenti, deve sembrargli un'altra delle intricate vicende isolane fatte di puntigli e gelosie. Il 2 settembre il prefetto riceve una nota informativa dal questore, la figura del delegato emerge a fosche tinte: la sua condotta ha sempre lasciato molto a desiderare, appartiene a famiglia di indole perversa «un suo fratello per vita sregolata ebbe fine col suicidarsi; un altro serba tristissima condotta, stretto in intima relazione coi più temibili pregiudicati e tiene un posto non indifferente fra le associazioni maffiose». Il giorno prima era arrivato in questura un rapporto riservato del delegato Bernabò: prima di morire Simone Cavallaro aveva detto che a Monreale esisteva una setta, gli stuppagghieri, colpevole dell'attentato contro la sua vita. Dalla questura viene subito formulata l'ipotesi che la setta sia stata fondata dal fratello del delegato Palmeri, ma ancora si tratta di vaghe calunnie. Nella demolizione del delegato l'accusa più pesante è di avere sviato le indagini circa l'assassinio Di Mitri. Si tratta di un'accusa necessaria: Palmeri s'era ostinato a presentare le dimissioni, nonostante le insistenze e le larvate minacce del suo superiore le aveva sbandierate come una sfida. Ora, se il delegato diventa oggetto di un'accusa infamante, i piani si ribaltano e diventa possibile prendere un provvedimento disciplinare nei suoi confronti: non accettarne le dimissioni ma sospenderlo dal servizio. Palmeri aveva inviato un rapporto confidenziale su richiesta del questore, raccontando della lite che in passato c'era stata fra Di Mitri e un giardiniere suo confinante, Salvatore Faraone. Adesso viene taciuta la circostanza che il rapporto gli era stato chiesto e il delegato è accusato di avere volontariamente sviato le indagini. La mafia di Monreale fin dal primo momento si dette molto da fare per sviare l'azione repressiva della giustizia, e tentò tutti i mezzi E...]. Senza dubbio il Palmeri dovette essere interessato dai suoi corrispondenti mafiosi di Mon152
reale, e la mattina del 18 spontaneo si presentò a me mostrandosi grandemente zelante di rendere utile servizio a lla giustizia, e mi consegnò un suo scritto nel quale è detto con molte verosimili circostanze che autori dell'assassinio Di Mitri non erano gli arrestati, ma certi fratelli Faraone, che per precedenti rancori avevano da parecchi mesi determinato di assassinare il Di Mitri.
Il questore ammette che nel '6o e nel '66 Palmeri si era «adoperato per il bene della patria», ma rilancia sul piano della diffamazione scrivendo che Palmeri è generalmente ritenuto affiliato alla maffia, la sua condotta è sempre stata dubbia e sospetta. Le affermazioni del questore Forte si possono spiegare solo considerando che, a Palermo da un mese, probabilmente è molto prevenuto verso il personale di questura e mette la massima distanza tra sé e gli altri, che cordialmente disprezza. Invece di stare a guardare ed essere prudente, il questore tende ad agire d'impulso e sostituisce diversi impiegati che occupano posti chiave, tra cui l'ispettore capo Santagostino. Siccome tutto si basa sulle conoscenze personali, disordinato l'ufficio aumentano le difficoltà e cresce la tendenza del questore a giocare d'azzardo. Nel caso Palmeri non considera il danno globale che ricade sulle istituzioni e, teso com'è a distruggerne la figura, finirà per accusare il delegato di essere il fondatore degli stuppagghieri. A creare il caso stuppagghieri concorrono diversi fattori: il primo è la decisione di trovare le associazioni, quindi di accogliere ed esaltare tutti quegli elementi che possono confermarne l'esistenza. Abbiamo l'omicidio di Simone Cavallaro che la stessa vittima imputa agli stuppagghieri, mentre dopo la sua morte i parenti forniranno una teoria completa che si presta ad essere utilizzata per spiegare altri crimini. C'è un delegato pronto ad accogliere confessioni e confidenze, a lanciarsi nelle ricerche. E poi, elemento importante, una setta a Monreale, per il lungo periodo che vi aveva trascorso il delegato Palmeri, si presta ad essere utilizzata come un'arma contro il delegato che aveva fatto scoppiare uno scandalo in questura. 6. La società degli stuppagghieri Sino alla fine di agosto il delegato Bernabò non aveva mai accennato ad alcuna setta ma il 16 settembre, in una comunicazione riservatissima al questore, traccia la storia della società degli stuppag153
ghieri così come poi il questore la riferirà al giudice istruttore e da lì a noi. Ed è una ricostruzione così precisa e sicura nei particolari
che non si sa bene se è Bernabò ad offrirla al questore o se invece non è il questore a suggerirne alcuni elementi essenziali. La setta degli stuppagghieri è fondata nel 1872 («la mafia allora era all'apogeo della potenza per modo che il principio d'autorità non era più sentito») dal fratello del delegato Palmeri. Un'iniziativa poco saggia ma intrapresa a fin di bene, visto che la società era stata creata per contrastare la vecchia mafia del paese. Poi la situazione era sfuggita di mano, quelli che erano nati per opporsi alla mafia erano diventati peggio del vecchio male, imbaldanziti dalla protezione accordatagli dall'autorità di pubblica sicurezza. Le grassazioni, i furti e gli omicidi furono all'ordine del giorno, e lo sgomento divenne generale. L'anno 1873 fu quindi assai funesto e se il delegato Negri, che successe al Palmeri, non avesse con gran coraggio fermato la tracotanza degli stuppagghieri, a quest'ora Monreale sarebbe un covo di assassini e di ladri.
L'organizzazione degli stuppagghieri è identica a quella di altre società segrete coeve: divisione in più sezioni, con altrettanti capi. I delitti vengono consumati da esecutori estratti a sorte e che non possono rifiutarsi, pena la morte. Nella descrizione di Bernabò si mescolano intuizioni sulla natura generazionale degli scontri mafiosi e abbagli sulla loro natura po li tica: gli stuppagghieri sono in gran parte giovani in guerra contro la vecchia mafia detta dei galantuomini perché i componenti di questa, essendosi oggi arricchiti, veggono di mal'occhio il sorgere di una nuova società che contrasta i loro diritti [...]. La guerra degli stuppagghieri è diretta a tutti coloro che per lo addietro facendo parte della Guardia Nazionale cercarono di nuocere alla società [...]. I vecchi mafiosi che si sono arricchiti mediante le loro tenebrose macchinazioni sono ora invidiati dai giovani pure maffiosi, che colle stesse arti vorrebbero crearsi una posizione. L'urto quindi fra le due sette è continuo, ma queste si trovano pur sempre d'accordo per occultare i fatti quando interviene l'autorità. Gli stuppagghieri dell'oggi sono una specie di internazionalisti, i quali fanno la guerra a ll e persone e alle proprietà E...].
Il delegato Bernabò ha l'occasione della sua vita, la possibilità di annientare tutta una setta segreta, ma la buona volontà non basta. 1 54
Per prima cosa avrebbe bisogno di interlocutori meno pusillanimi, perché «per sgominare tale società bisogna prima di tutto colpire i capi, ed a ciò difficilmente credo che si presti questo signor pretore, il quale si lascia facilmente piegare da questa o quella influenza e manca di coraggio civile». Bernabò fa sul serio. Il 17 settembre ritira i permessi per il porto d'arme ai fratelli Miceli, che definisce uomini dal passato assai sospetto e noti capi della società degli stuppagghieri. Questa misura da me presa ha suscitato un gran scalpore nella maffia. I detti fratelli in aria quasi di minaccia hanno dichiarato che sapranno farsi rendere giustizia dell'affronto ricevuto, avendo persone altolocate che li proteggono. Il Paolo Mice li specialmente è un tristissimo soggetto e non so come abbia ottenuto il permesso per il porto d'armi. A suo carico risulta: nel 1863 ammonito dal pretore di Monreale come maffioso e sospetto in genere; il 5 ottobre '65 prosciolto dall'ammonizione in seguito ad intrighi di setta; il 12 luglio '66 arrestato come soggetto pericoloso alla pubblica sicurezza; il 6 agosto '66 condotto in domicilio coatto a Cagliari, prosciolto il 22 settembre '67; 1' 11 ottobre '73 denunziato dal delegato per essere riammonito come maffioso e diffidato per reati contro le persone e le proprietà. Questa denuncia rimase lettera morta perché, sostenuto dal Di Liberto, Miceli riuscì a intimorire il pretore. Ora io denuncerò per l'ammonizione tutti e due i fratelli; ma sono sicuro che non troverò appoggio nel pretore, il quale essendo amico del Di Liberto finirà col cedere alle pressioni di costui. Qualche giorno dopo Bernabò deve fare i conti con la realtà: su pressione dello stesso questore è costretto a ritirare la denuncia contro i fratelli Miceli, nonostante i numerosi riscontri con cui l'aveva corredata. Il delegato ubbidisce, seppure malvolentieri. E in una delle sue riservatissime scrive al questore: «Ciò che io avevo preveduto si è però avverato. I detti fratelli hanno saputo del ritiro della denuncia e pubblicamente si vanno vantando». Per Bernabò il ritiro della denuncia è un vero e proprio scacco, gli stuppagghieri riprendono coraggio contro chi li accusa e Giuseppe Cavallaro, figlio dell'ucciso Simone, vorrebbe abbandonare Monreale per mettersi al sicuro. Bernabò lo interroga sull'assassinio del padre, lui replica che risponderebbe se avesse fiducia nell'autorità giudiziaria e «a questo proposito fece menzione che il sig. pretore nel casino di compagnia pubblicamente si vantò di avere respinta la denuncia per ammonizione sporta contro i fratelli Miceli». Bernabò 155
protesta contro quello che definisce «il contegno inqualificabile di questo signor pretore», non smette il tono ossequioso, ma resta fermo nel sottolineare i suoi compiti: «Io mi raccomando alla S.V. ill.ma perché mi sostenga nella lotta che sto impegnando con questi audaci malfattori, e perché vegga di affrettare un provvedimento che è urgentemente richiesto nell'interesse dell'ordine e della pubblica sicurezza di questa città». Giuseppe Cavallaro è fra i principali sostenitori dell'esistenza della setta e, assieme all'omonimo nonno, fonte di continue informazioni per Bernabò. Per molti anni sarà consigliere comunale e tesoriere, avversario del sindaco Mirto Seggio. Mancano ancora trentasei anni, ma anche lui morirà ammazzato: una sera di novembre del 1912, mentre torna a casa da un suo giardino, colpito da un uomo appostato dietro una siepe. 12 Le comunicazioni riservatissime di Bernabò al questore diventano quasi quotidiane. Il 24 settembre, mentre si sta preparando la denuncia alla procura, il delegato aggiunge nuovi particolari al ritratto della setta. Distingue due periodi: dal 1872 a tutto il '73, «di laboriosa formazione allo scopo di acquistare col terrore il dominio nel paese». Seguono anni «di perfetta organizzazione e pieno esercizio». In principio erano pochi elementi, ora gli aderenti sono più di 15o e aumentano ogni giorno. Ci sono varie sezioni, ognuna ha un capo che fa parte del consiglio direttivo. Vi è uno statuto, ogni socio è vincolato da un giuramento e i soci si chiamano compari perché fra di loro tengono i figli a battesimo. Capi: Di Liberto, fratelli Miceli ed altri, per un totale di 1o. Tutti sanno i nomi ma nessuno parla, confidenzialmente io mi sono procurato delle notizie riguardanti la detta società e posso garantire che le persone che in me riposero la loro fiducia sono superiori ad ogni eccezione e meritano il massimo rispetto. Gli onesti vedrebbero con piacere rotte le file di sì nefanda associazione, ma per quanto io abbia insistito non ho potuto ottenere da essi una denuncia formale. Essi sperano che le autorità superiori pongano fine ad un tale stato anormale di cose, sostenendo che ristabilendosi la supremazia della legge e del principio di autorità succederà il risveglio delle pubbliche coscienze e dell'individuale coraggio. 12 Lupo 1993,
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cit.,
p. 125.
Il 29 settembre 1876 ha termine il procedimento informale. Sulla base dei rapporti del delegato Bernabò il questore denuncia al procuratore del re l'esistenza della setta degli stuppagghieri. La storia dell'associazione è ormai chiara in tutti i dettagli: Istituita nel 1872 sotto la forma apparente di associazione artigiana da Giuseppe Palmeri di Nicasio, fratello del delegato di p. s. Paolo Palmeri, allora reggente quest'ufficio mandamentale, che se ne riprometteva un valido appoggio all'autorità [...1. Egli però non si diede cura di raccogliere elementi di condotta incensurata, di illibata morale ed amanti dell'ordine ma, servendosi al contrario de lle molte relazioni sue con persone sospette, di queste compose il proprio partito, al quale non tardò ad unirsi quanto di più terribile e più tristo agitavasi nei bassifondi di quel comune. All'inizio resero qualche servizio, poi diventarono baldanzosi per la protezione dell'autorità [...]; il 1872 e il 1873 furono assai funesti. Per la massima parte la società è composta da elementi giovani, combatte per interesse e per principio la vecchia mafia perché i componenti di questa, essendosi oggi arricchiti, veggono di mal'occhio e contrastano con ogni loro possa lo sviluppo del nuovo sodalizio [...]. Sono una specie di internazionalisti che fanno la guerra alle persone e alle proprietà. Si può francamente affermare che tutti i reati che si consumano nel territorio di Monreale sono organizzati dalla setta degli stuppagghieri, la quale a differenza di altre che già furono tratte a subire i rigori della giustizia (ad esempio la società della posa dei mugnai e carrettieri) non ha per obiettivo il monopolio forzato di una industria determinata, la coattiva tassazione o l'arbitrato della mano d'opera, ma attacca in genere tutte le sorgenti della proprietà, tutte le manifestazioni economiche della ricchezza, dell'industria e del lavoro, imponendosi colla minaccia, col terrore e col delitto. Nel suo seno convengono tutti quei miserabili che hanno un torto da vendicare, una vendetta da compiere, una passione scellerata da sfogare: e nel suo seno trovano il sicario pronto a consumare per conto loro il misfatto, o sicarii essi medesimi si assicurano con patti nefandi la impunità, garantita da un tribunale di settari che giudica senza appello della vita e degli averi altrui. Gli stuppagghieri, costituitisi coi principi e colle costumanze della mafia, di cui non sono che una singolare procreazione e manifestazione, osservano religiosamente il principio dell'omertà, la sostanza del quale si riduce al silenzio, al mendacio, alla dissimulazione ed all'assoluto diniego di illuminare l'autorità sopra fatti che interessano la giustizia penale [...1. Resistere all'autorità, opporsi anche con la forza alla forza pubblica, incepparne e tergiversarne in ogni maniera le operazioni, tale è la sintesi dei precetti consacrati dalla setta [...]. Lo stuppagghiere non divien tale se non seguendo 157
una fila di riti tenebrosi, consacrati da una formula speciale di giuramento, e compiuto che abbia il suo noviziato. Nei primi tempi gli stuppagghieri, per riconoscersi tra loro, portavano una berretta di lana con riga bianca tutta speciale. Ma il contrassegno dava troppo nell'occhio, epperò lo sostituirono con segni convenzionali, una parola d'ordine a domanda e risposta: - Vi duole lo scaglione? - Mi duole. - Come vi maritarono? - Col stoppaglio. Infine pensarono di chiamarsi tra loro semplicemente compari, sebbene abbiano de lle gerarchie, dei capi, dei sottocapi e dei semplici gregari, e la società sia divisa in tante sezioni quanti sono i quartieri di Monreale; alla testa di ogni sezione c'è un capo che fa parte del consiglio direttivo, eletto in base a uno statuto. Attualmente sono 15o soci, forti dell'impunità finora conseguita. Gli uomini che compongono la setta: - Di Liberto Pietro: anni 5o, possidente, settario capo, uomo facinoroso, dedito all'intrigo, proclive ai reati di sangue, sospetto di fraticidio per veneficio, già denunciato per l'ammonizione e generalmente noto nel paese come capo mafia. Mandante dell'assassinio di Felice Marchese; - Mice li Paolo, anni 38, giardiniere, tristissimo arnese, notissimo per aderenze mafiose; - Miceli Baldassarre, anni 32, uomo violento e dedito ai reati di sangue; arrestato in Palermo nel luglio 1869, gravemente sospetto di attentato in persona di tale Ignazio Di Giovanni; - Strano Salvatore, anni 27, fruttivendolo da Monreale, capace di ogni nequizia, temutissimo caposetta, arrestato nel maggio 1873 per complicità nell'omicidio di Tusa Francesco; - Salerno Antonino, ammonito nello stesso anno, arrestato per l'attentato contro il maresciallo Alongi, implicato coi Miceli; - Spinella Saverio, anni 36, giardiniere, comp li ce nel mancato assassinio di Mannino Giacomo, accusato nel 1866 di saccheggio, tradotto davanti alla Corte d'Assise di Termini per compartecipazione ai moti settembrini, uomo assai facinoroso e temuto; - Di Gregorio Michele inteso Sinatrella, anni 31, ammonito, fratello di Paolo e Giuseppe Di Gregorio, uomini sanguinari. Intorno a costoro stanno i non meno audaci capi setta Spinnato Saverio, Lo Cicero Raimondo, Sciortino Antonino inteso Bestia, Spinella Salvatore, Amato G. Battista ed altri.
Il questore fa riferimento a diversi processi per reati che ritiene consumati nell'interesse della setta e decretati dal consiglio diretti158
vo della società, per cui tutti gli affiliati sono accusati come complici. I processi sono: 1) assassinio della guardia campestre Lipari Giuseppe, commesso la sera del 4 aprile 1873 nel corso di un conflitto a fuoco per l'arresto del latitante Pizzo Benedetto, anche lui ucciso nello scontro; 2) tentato omicidio, commesso l'8 dicembre 1873, del maresciallo Luciano Alongi, «perché operoso e zelante»; 3) assassinio di Felice Marchese, commesso il 22 ottobre 1874 nel fondo Leto, poco lontano da Monreale. Crimine rimasto sempre nel mistero e che ora il delegato Bernabò sostiene essere stato commesso per mano dei fratelli Miceli, mandante Pietro Di Liberto; 4) mancato assassinio del brigadiere Giuseppe Muzzini, «audace persecutore di tristi», commesso la sera del 17 marzo '75 per mano dell'ammonito Antonino Bosco con la complicità di altri stuppagghieri («fors'anche per gelosia, perché la moglie del Bosco aveva una tresca col brigadiere. Comunque, una lettera anonima accenna a complicità dei Miceli»); 13 5) mancato assassinio di Giacomo Mammina per opera degli stuppagghieri Saverio Spinella, Saverio La Fiura e Michele Di Gregorio inteso Sinatrella, avvenuto il 12 novembre 1875 in Monreale; 6) assassinio di Salvatore Caputo, avvenuto il 13 luglio 1875 in contrada Cappuccini nel territorio di Monreale, autore il noto stuppagghiere Paolo Miceli, complici Vincenzo Sinatra e Giovanni La Venia. Esistono due versioni sul movente dell'assassinio, in due diversi allegati indirizzati al procuratore del re. La prima: Nell'anno 1874 il Caputo, che fu già un tristo arnese, fu minacciato del domicilio coatto dal delegato di Monreale signor Negri, perché si adoperasse a procurare la cattura o la presentazione del famigerato latitante Marino Salvatore. Egli promise di assecondare i giusti desideri del delegato, ed infatti iniziò pratiche a tale scopo con Rosario Marino, padre del latitante. Quegli però, amico del Di Liberto e dei fratelli Paolo e Baldassarre Miceli, capi degli stuppagghieri, riferì a costoro i discorsi fatti dal Caputo. Fu tenuto un conciliabolo [...] e venne decretata la morte del Caputo. Il 13 luglio 1875, pertanto, di buon mattino Rosario Marino, padre 13 I1 4 agosto 1875 il tribunale di Palermo aveva assolto i fratelli Trifirò dall'imputazione di mancato assassinio in persona del brigadiere Giuseppe Muzzini, per insufficienza di indizi (AsP, GP, anno 1875, busta 31, fasc. 53).
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del latitante, col pretesto di voler vendere al Caputo una partita di limoni, condusse costui in un suo giardino sito in contrada Tre Canali. Giunti ad un dato punto si intese un colpo d'arma da fuoco, e il Caputo cadde immerso nel proprio sangue. Paolo Miceli, La Venia e Sinatra avevano compiuto il misfatto.
Arrestandone i capi, io credo che non sarà difficile ottenere qualche dichiarazione ed aprire un grandioso processo per associazione a malfattori [...]. Resi ardimentosi ed arroganti per l'assicurata impunità gli stuppagghieri non si celano più nel mistero ma si fanno a tutti conoscere, presentandosi perfino nelle case onde minacciare e imporre tributi.
Nella seconda versione il Caputo ha una diversa personalità, si sostiene la responsabilità della setta ma non si fa il nome di Paolo Mice li : «Il Caputo, di professione sensale di agrumi, aveva estesa clientela e faceva buoni affari perché onesto nei suoi contratti. I giardinieri speculatori, di cui buona parte appartengono alla società degli stuppagghieri, mal lo soffrivano. Fu decretata quindi la sua morte e tal decreto venne eseguito». La prima versione diventerà quella ufficiale; 7) assassinio di Stefano Di Mitri, avvenuto il 14 agosto 1876. Come capitano della Guardia Nazionale il Di Mitri aveva ostacolato la setta. Imputati della sua uccisione sono Antonino Rossello, Filippo Cammarata, Giacomo Nocera; 8) assassinio di Simone Cavallaro, avvenuto il 27 agosto 1876. Imputati Paolo Di Gregorio, Nazzareno Sinatra, Pietro Sinatra, Antonino Madonia. In un rapporto confidenziale il delegato Bernabò aggiunge: «Mi si assicura che il vero autore sia il noto Miceli Baldassarre colla complicità dei suddetti e del famigerato Strano Salvatore. Fra i Miceli e il Cavallaro vi fu un alterco quel giorno stesso. Il Cavallaro poi, come capo della vecchia maffia, era odiato dagli stuppagghieri».
Nel 1900 il delegato di pubblica sicurezza Antonino Cutrera pubblica una storia della mafia, e alcuni grandi processi li ricostruisce sulle carte della polizia. Per la storia degli stuppagghieri utilizza il rapporto che il 29 settembre 1876 il questore aveva presentato al procuratore del re, parecchie volte ricorrono le stesse espressioni. Senza lasciare spazio al dubbio, con l'implacabilità del modo indicativo, Cutrera scrive: «L'associazione [...] fu istituita dal fratello del delegato che in quel tempo reggeva quell'ufficio mandamentale». Il delegato Cutrera, con la sua mancata carriera, il risentimento che andava accumulando verso quelli che ingiustamente lo scavalcavano nei gradi e nella considerazione dei superiori, l'insofferenza con cui negli ultimi tempi trattava i compiti del suo ufficio, aveva più di un tratto in comune col delegato Palmeri. Eppure, grazie alla ricostruzione di Cutrera, gli stuppagghieri sono rimasti legati all'origine che per loro aveva scelto il questore Forte. 14
,
Il processo contro gli stuppagghieri sarà tutto centrato sulle dichiarazioni di un pentito ucciso prima di comparire in aula, Salvatore D'Amico. La versione ufficiale sosterrà che solo in seguito alle dichiarazioni del D'Amico inizia il procedimento contro la setta. Ma in questa fase e per tutta l'istruttoria non si accenna mai al D'Amico. Il questore scrive che per provare l'esistenza della società e avere qualche lume sui reati potranno essere sentiti il comandante delle guardie campestri Giovanni Riolo e suo figlio Giorgio, il carabiniere a cavallo Rosario Mezzapelle che da dieci anni si trova in servizio a Monreale, il vicebrigadiere Domenico Riccina. La questura sembra sapere tutto, ma non ci sono testimoni che dall'interno svelano i segreti dell'organizzazione. Il successo dell'operazione si regge su una scommessa, il delegato Bernabò riflette: 16o
7. IZ delegato Bernabò cattura la setta
Nella notte fra il 3o settembre e il 1° ottobre 1876 c'è la prima grande retata. Vengono arrestati 12 individui, sequestrate armi e una gran quantità di oggetti, fra cui diversi orologi, anelli, lettere e persino una sciarpa di lana rossa a fiori e due spalline di metallo bianco. Nelle case dei Miceli vengono sequestrati un fucile a due canne, due fucili a una canna, una pistola. Nella notte fra il 3 e il 4 ottobre altra operazione di polizia, stavolta partecipa anche l'ispettore di pubblica sicurezza sezione Orto Botanico: 12 arresti. Il g ottobre Bernabò chiede altri r4 mandati di cattura, destinatari individui pericolosi per i loro precedenti e per l'autorità che hanno su soci di minor conto. Poi scrive una delle sue confidenziali al questore: «Ebbi ad osservare in Monreale che la maffia 14
Cfr. Cutrera, cit., p. 132. Sulla sua figura di delegato-sociologo cfr. M. Genco, Il
delegato, Palermo 1991. 161
era presa in timore, dietro gli arresti operatesi, perché nessun gruppo di maffiosi vidi riunito nella piazza come era loro solito. Ebbi ad osservare però che tutti i buoni cittadini erano col viso tranquillo e risolente». Il delegato si mostra particolarmente soddisfatto per la cattura di Pizzo Salvatore, contadino di 26 anni, e di Michele Di Gregoriò detto Sinatredda, carrettiere di 36 anni. Ma i fratelli Mice li, che erano in cima alla lista dei ricercati, riescono a fuggire. La cattura dei Mice li impegna il delegato e ne mette in gioco il prestigio. Eppure, solo pochi giorni prima era stato lo stesso questore a pressare perché fosse ritirata la denuncia per l'ammonizione e il 2 agosto, in vista del rinnovo del porto d'armi, i carabinieri di Palermo avevano inviato al comandante di Monreale un rapporto molto favorevole. Accusato di leggerezza, Bernabò è costretto a discolparsi. Scrive al questore che non si è per niente fidato delle guardie campestri, chiamate all'ultimo momento e «appena presentate non le ho più abbandonate, per modo che non potevano avvisare i Miceli del pericolo che li sovrastava». Pare che i Miceli si siano allontanati da casa la mattina precedente: viste le molte aderenze con impiegati giudiziari, cancellieri e vicecancellieri, il tradimento è avvenuto nell'ufficio istruzione. Post scriptum: «Il noto Pietro Di Liberto mi promette in questo momento di far costituire i Miceli». Anche il comandante dei militi a cavallo scrive al questore: prima che fosse spiccato il mandato di cattura, i Mice li erano andati a chiedere consiglio al loro avvocato di Palermo. Il maggiore comandante della sottozona di Monreale ha le stesse notizie. Il 12 ottobre cadono i sospetti di complicità, resta la leggerezza. Un confidente assicura che i Miceli si sono salvati solo per un caso fortunato: quella notte erano in casa, semplicemente nascosti sul tetto. Coi suoi arresti a raffiche il delegato Bernabò sta rivoluzionando il paese. A Monreale la lotta tra i vecchi che hanno un loro potere sicuro e i giovani che vogliono scalzarli è chiaramente leggibile nella trama dei delitti. I vecchi si appoggiano ai rappresentanti dello Stato e fanno coincidere l'ordine pubblico col loro dominio, i giovani appaiono turbatori della pace sociale. Bernabò è abbastanza avvertito da saper leggere la dinamica dello scontro, ma quello che gli si chiede è la scoperta di una setta. Probabilmente non c'è alcuna setta, solo una comunanza di interessi. E se si volesse andare per il sottile e chiedere un mandato d'arresto per tutti quelli che sono sospetti in genere... 162
Com'è ovvio che accada, Bernabò comincia a percepire una certa avversione. Il 2 ottobre si reca nel vicino comune di Parco per ragioni inerenti al suo ufficio e avverte «un contegno quasi ostile», non riesce a legare nemmeno coi notabili. Scrive: «Quel sindaco da vero idiota si lascia interamente guidare e influenzare dal segretario comunale, che è persona oltremodo sospetta anche dal lato della pubblica sicurezza». Sul letto trova un biglietto su cui è disegnata una croce nera che interpreta come minaccia di morte, dietro sono segnati alcuni numeri. I sospetti di Bernabò si appuntano sul segretario comunale, l'unico ad avere libero accesso alla stanza. Una rapida indagine gli basta per stabilire che si tratta di un individuo noto per aderenze mafiose, sospetto di manutengolismo e forse aderente alla setta degli stuppagghieri. La denuncia parte immediata, il questore chiede una spiegazione al sindaco. Il quale sostiene che la croce è stata disegnata per scherzo, per parodiare le minacce che in quel comune si fanno contro il municipio a causa di alcune nuove tasse, e dimenticata nella stanza. Episodio insignificante, avvenuto pochi giorni prima che il delegato arrivasse in paese. Secondo Bernabò si tratta di una spiegazione concordata col segretario comunale e altri impiegati, per tentare di salvare l'intero municipio, che altrimenti sarebbe stato compromesso nella faccenda. Un ufficiale di pubblica sicurezza si reca a Parco per interrogare il segretario comunale, sembra che fra i siciliani e gli estranei non riesca ad esserci alcuna comunicazione. Il segretario dichiara che «le parole e i numeri che scorgonsi a tergo della stessa [lettera] furono tracciati per puro esercizio calligrafico», e tratta l'ufficiale con melliflua sufficienza, come uno scemo: minimizza il fatto in sua presenza, lo sfotte appena quello volta le spalle, va a raccomandarglisi umilmente prima che parta, col solo risultato di provocare un risentito rapporto al questore.is I16 ottobre, uscito di buon mattino per recarsi a lla posta, Bernabò trova affisso alla porta di casa un biglietto, a matita vi è scritto la vostra ora è suonata. Firmato i stuppagghieddi. Bernabò deve pensare che se lo minacciano allora è nel giusto, non si lascia impressionare e prega il questore di spiccare al più presto i mandati di cattura già richiesti. Una volta eliminati gli affiliati tutto andrà per il meglio, «le minacce da parte di alcuni stuppagghieri seguitano a farsi e, se non si arresteranno almeno gli individui da me indicati, l'opera non 15
ASP, AGQ, busta 461.
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potrà dirsi compiuta e non potrà ottenersi alcuna rivelazione dai buoni cittadini». Il giorno dopo Bernabò comunica al questore che Pietro Di Liberto, già segnalato come presidente della associazione degli stuppagghieri, dopo avere formalmente promesso che si sarebbe adoperato per la presentazione dei latitanti fratelli Mice li , successivamente è partito da questa città, facendo sapere per mezzo d'un suo figlio che egli abbandonava la Sici lia e non avrebbe fatto ritorno in Monreale se prima non avesse scongiurato ogni pericolo per lui.
L'uso attivo del verbo certo non è casuale, Di Liberto si accinge ad attivare i contatti giusti e, nonostante sin dal primo momento sia da tutti indicato come capo della setta, riuscirà a non essere processato. Spesso il delegato Bernabò si scontra con dei comportamenti che devono sembrargli opposti al buon senso e alle intenzioni a gran voce proclamate. Ad esempio alcuni individui sospetti, lui ha insistito perché fossero destinatari di mandati di cattura, ottengono il permesso di caccia con relativo porto d'armi senza che gli venga chiesto alcun parere. Il 9 ottobre Bernabò se ne lamenta col questore, in particolare per il caso di Sciortino Antonino detto Bestia. Ogni volta Bernabò protesta ma i permessi di caccia continuano ad essere rilasciati con una certa larghezza, una mano dà ciò che l'altra toglie. Il più indulgente è l'ispettore del mandamento Orto Botanico, guarda caso controlla il territorio che è destinazione ultima delle acque di Monreale. Nei rapporti della questura il mandamento Orto Botanico è descritto come molto popolato di maffiosi ed associati tra loro per delinquere in ogni genere di reati contro le persone e le proprietà. Si tengono associati per mantenere la supremazia sui pastai, fornai, mugnai e crivellatori allo scopo di fare rincarare i prezzi [...]. Ne ricavano significativi vantaggi, perché la loro camorra resta indomabile e ogni azione legislativa e governativa resta innocua.'
La storia delle associazioni palermitane era venuta fuori nel mese di giugno, erano stati fatti arresti e chiusi mulini, ma l'i16
164
ASP, AGQ,
busta 41o.
spettore è pronto a giurare sull'onestà di tutti, specie di quelli che non raccolgono le simpatie di Bernabò. Solo con l'arrivo del prefetto Malusardi, quando si farà una vistosa epurazione, segnalerà al questore qualche individuo come «tristissimo soggetto uso a delinquere contro le persone e le proprietà». Per il momento fa orecchie da mercante. Nella seconda metà di ottobre viene concesso il porto d'armi a un certo Sapienza Pietro, su cui Bernabò aveva espresso sfavorevolissimo parere. Ma, scrive Bernabò al questore, il Sapienza l'ha aggirato pagando il guardiano d'acqua Carmine Nocera che, vantando la protezione dell'ispettore del mandamento Orto Botanico, vende i permessi dopo avere falsificato l'indirizzo del richiedente. Ad esempio, per il Sapienza dichiara che abita a Pagliarelli mentre abita a Molara, una piccola differenza fra due frazioni vicine, però cambia il domicilio. L'ispettore della sezione Orto Botanico definisce il Sapienza «uomo di inappuntabile condotta sotto ogni riguardo», che si è formato un discreto capitale col suo lavoro di fornaio, di recente tornato a Monreale dopo avere a lungo dimorato a Pagliarelli. Bernabò reagisce, scrive al questore una lettera riservatissima e al solito molto indignata: «Ho ricevuto due permessi di caccia rilasciati senza chiedere informazioni né a questo ufficio né all'arma dei carabinieri. Uno [il Sapienza] è un tristissimo soggetto, noto stuppagghiere e come tale da me ultimamente proposto per essere arrestato». Poco dopo il Sapienza incontra il vicebrigadiere e protesta per il rapporto di Bernabò al questore. E Bernabò: L'ultima lettera da me scritta [...] deve essere stata letta da qualcuno che in cotesto ufficio tradisce la sua missione. L'animo mio ripugna dal credere a tanto; ma allo stato de lle cose non posso fare a meno di parlare chiaro, onde si faccia luce e si ponga fine al lamentato inconveniente di vedere resa di ragione pubblica le informazioni che a codesto ufficio si danno, specialmente per individui che chiedono il porto d'armi.
Bernabò sente che tutto il suo lavoro è in pericolo. Una lettera del comandante della sottozona militare al questore, scritta per appoggiarne il lavoro, capita in un momento fin troppo opportuno: «E sperabile che anche il paese di Monreale, rattristato per tanti anni dalle condizioni di uno stato sociale morboso, rientri esso pure nei limiti della vita ordinaria». 165
Il 24 ottobre a Cinisi viene arrestato Pietro Di Liberto, definito nel verbale di polizia possidente, manutengolo dei Miceli, uomo che la voce pubblica e particolari notizie pervenute in questura designano, con appellativi squisitamente massonici, come Presidente e Gran Maestro della incriminata associazione. E inviato alle grandi prigioni-di Palermo. Sino a questa data restano detenuti 17 individui, che il questore dice rappresentare la parte più importante e più temuta della setta. In un momento di ottimismo Bernabò scrive che la città di Monreale pare tornata alla tranquillità ed alla sicurezza, varie persone hanno fatto insperate rivelazioni. Se l'autorità giudiziaria riuscirà a superare le moltissime influenze della mafia e andrà avanti sino a concludere la procedura, questo diventerà un comportamento generale. A fine mese Bernabò vorrebbe arrestare altri «noti e pericolosi stuppagghieri», ma i mandati da lui invocati tardano ad arrivare. Il delegato scrive al questore una lettera confidenziale e accorata, lamentando un intiepidamento che può essere causa di deplorevolissime conseguenze [...]. Arrestarsi ai primi successi non è opera saggia, poiché domani il fuoco rimasto sotto la cenere può riaccendersi ed espandersi con maggiore violenza [...]. Bisogna scuotere ed atterrire questo pugno di ribaldi ed impedire che l'ordinamento così tenebroso e tremendo possa da un giorno all'altro ricomporsi [...]. Qui si fa di tutto per riversare su di me tutta l'odiosità possibile e quel che mi è più deplorevole si è che le arti maligne vengono esercitate da chi per debito del suo ufficio dovrebbe sostenermi.
E racconta cosa gli è successo con Benedetto Cangemi che, avendo terminato il biennio, aveva fatto domanda per essere prosciolto dall'ammonizione. Il pretore chiede il parere di Bernabò e «risultandomi che il Cangemi è un tristissimo soggetto e uno dei capi della società degli stuppagghieri, risposi negativamente». Il pretore dà risposta negativa al Cangemi, premurandosi però di scaricarne la responsabilità sul delegato. Così l'indomani il proprietario Salvatore Di Bella e il suocero del Cangemi vanno da Bernabò, a chiedergli in base a quali elementi possa qualificare stuppagghiere il Cangemi. «Io risposi poche parole, dicendo che non ero obbligato a rendere conto del mio operato altro che ai miei superiori. Gli odi contro di me sono molti e se si aggiunge fuoco alla legna non so quel che potrà succedere». 166
Le persone di cui il delegato può fidarsi sono poche, deve stare sempre all'erta. Il comandante delle guardie campestri Giovanni Riolo è fra i suoi alleati, su lui si basa parte dell'accusa, ma non è il caso di farci troppo affidamento. È un uomo esposto alla vendetta dei ricercati, teme la mafia e la vita gli è più cara di qualunque ricompensa. Se si tratta di latitanti di poco conto collabora, ma non per quelli più pericolosi. A Monreale i Trifirò furono per 55 anni latitanti nelle campagne intorno al paese e il comandante delle guardie campestri non fece mai niente per la loro cattura [...]. Si mostra più che mai pusillanime, sia lui che suo figlio, caporale nello stesso corpo, non si fanno vedere perché pare che temano di farsi vedere in mia compagnia.
Pensando di non potere ottenere altro, Bernabò chiede almeno due guardie per rafforzare la sua posizione. A novembre il delegato continua ad aggiungere nuove informazioni, c'è sempre qualche altro individuo da aggiungere alla lista dei sospetti. Questa volta le segnalazioni riguardano Francesco Bruno, di 36 anni, detto Be). Come tutti quelli che attirano la sua attenzione, «è uno dei più temibili stuppagghieri, in intima relazione coi fratelli Miceli E...]. Sul medesimo ho disposto la più severa e cauta sorveglianza, onde cogliere il pretesto di arrestarlo». A metà novembre Bernabò ottiene dal giudice istruttore la promessa di altri mandati. Scrive al questore: « Spero che l'operazione avrà il più felice successo e che per molti anni sarà assicurata la quiete e la sicurezza in questa disgraziata città». Compiuta la sua missione, Bernabò si ripromette di fare domanda di trasferimento a Roma. Da 3 anni è in Sicilia, dove «non ho avuto promozioni, ho reso non pochi servizi e mi sono logorato la salute». Sempre nel novembre, il pretore Orlando Venuti è trasferito a Bagheria. 17 Lo sostituisce l'avvocato Luigi Orestano, che però resta ancora nella sua vecchia sede. Nel frattempo le funzioni dell'ufficio sono 17 Ritroviamo il pretore nel settembre del '77, sta per essere trasferito da Bagheria ad Alcamo in seguito alle rivelazioni contenute in una lettera anonima indirizzata al prefetto, dove lo si accusa di avere inventato gli attestati popolari. I proposti per l'ammonizione richiedono la firma dei concittadini sotto un attestato di esemplare condotta, certificato spontaneo e popolare, dopo di che vengono dichiarati onestissimi e calunniati (ASP, AGQ, busta 469, fascicolo personale del pretore Saverio Orlando Venuti).
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esercitate dal vicepretore che è persona del paese e - scrive Bernabò non riscuote la fiducia di alcuno, perlomeno non la sua. Il delegato deve limitarsi a sorvegliare i molti sospetti stuppagghieri che vorrebbe denunciare per l'ammonizione, sperando di scoprire prove a loro carico. A leggere la grande quantità di verbali, lettere riservate e riservatissime, solleciti, indignate perorazioni che a ritmo continuo il delegato Bernabò invia al questore, più di una volta si ha l'impressione che l'unico rimasto in campo a combattere la feroce setta sia il delegato. Che insomma dalla questura venga ben poco sostegno, e nasce il sospetto che gli stuppagghieri, oltre ad essere un importante tassello nella teoria che vede la Sicilia occidentale coperta di sette, nell'immediato siano serviti soprattutto a vendicarsi del delegato Palmeri. A Monreale, dove si parla di stuppagghi e simili già dai primi anni '7o, non si scopre una setta: viene utilizzato un modulo standard su cui si innestano le lotte generazionali che dilaniano il paese. Le stesse che sino ad oggi, con dinamiche diverse ma in fondo simili, sono rintracciabili in tutti gli scontri vecchia-nuova mafia. Non sono in molti ad esporsi pubblicamente, ma gli anonimi non mancano e forniscono un inaspettato appoggio al delegato Bernabò, alla sua ferma decisione di continuare a combattere la setta sino a sgominarla. Lettera al questore, ottobre '76: «Tutti gli omicidi, i latroneggi e le vessazioni per lo più taciute dai sofferenti per tema di essere poi massacrati, provengono da quella congiura detta stuppagghi, che a lei non sarà ignota». Firmato: «Un suo amico che per degni sospetti tace il nome». Altra lettera, sempre al questore: Venuto a conoscenza che la S.V. avete preso misure su questa setta di mafiosi dei stuppaioli di Monreale adesso darò alla S.V. qualche chiarimento su questa setta di stuppaioli, che tutti i reati di sangue che si commettono, e lettere di scrocco, tutto è ordinato da questa setta. Firmato: Scusate signore, lo esento dalla mia firma perché l'epoca comanda così. 8. La causa Palmeri- Banchieri
La causa per diffamazione intentata da Paolo Palmeri contro l'ispettore Felice Banchieri viene discussa in tempi brevi. Il 14 ot168
tobre, due giorni prima del processo, il questore Forte invia al pretore un rapporto informativo sui due contendenti, con lo scopo evidente di influenzarne il giudizio. Definisce Palmeri ex delegato e non mostra alcun dubbio nell'attribuirgli la lettera anonima all'origine di tutta la vicenda. Il questore prova a spiegarne la mancata carriera: Egli interpretò qualche apparente deferenza al suo casato per un'espressione di rispetto alla sua personalità onde in ogni tempo si rese sprezzante nei riguardi dovuti a compagni e superiori [...]. Nessuno dei superiori che dal 186o a questa parte si sono succeduti nella carica di questore di questa città, ebbe mai a contare sulla piena sua devozione, e quindi non fu mai proposto per miglioramenti o promozioni.
Nel suo rapporto al prefetto Zini il questore aveva sostenuto che Palmeri gli si era spontaneamente presentato, per sviare le indagini sull'assassinio Di Mitri. Però in un pubblico giudizio potrebbe essere imbarazzante sostenere una tesi che troppo facilmente si presta ad essere smentita dalle carte. Allora il questore Forte scrive che il rapporto sull'assassinio Di Mitri era stato richiesto a Palmeri «per saggiarne la fedeltà». Con questa ammissione cade l'accusa principale contro di lui, quella che ne ha causato la sospensione dal servizio. Ma in questa data Palmeri è un ex delegato, l'attacco che subisce da parte della questura va avanti a forza di rapporti riservati e lui può solo subirne gli esiti. Nella memoria che il questore Forte invia al pretore, la posizione di Palmeri non viene esaminata solo in relazione alla lettera anonima. La sua personalità viene descritta con astio, la demolizione è completa. Quasi non si parla più dell'episodio che ha messo in moto il processo, la posta si è alzata e l'ex pubblico funzionario degradato e svilito diventa l'origine certa di una setta già pronta. Il questore Forte si mostra molto sicuro del fatto suo, spiega il comportamento di Palmeri per mezzo di legami con gente pregiudicatissima di Monreale, componenti dell'associazione degli stuppagghieri, «creata nel 1871 a Monreale per opera del signor Giuseppe Palmeri, fratello di lui e sotto i suoi auspici allorché egli era delegato di pubblica sicurezza in quel mandamento». Anche l'ispettore Banchieri indirizza al pretore una sua memoria, sorvola l'episodio dell'anonimo e insiste sulla personalità dell'ex de169
legato, ma si tratta di un ritratto che si presta a giustificare molte nef andezze: Il tempo che fu a ll e mie dipendenze come delegato di 3 a classe manifestò sempre una speciale e pronunciata tendenza ad emanciparsi dai doveri e dalle esigenze de ll a sua condizione di subalterno, tenendo verso il superiore contegno altero e provocante, minacciando scandali e pubblicità ad ogni tratto [...]. Egli non fu vittima di un partito o d'una cricca interessata a nuocere a lui ed a tutti gli impiegati del paese, come volle col mezzo dei giornali far credere. Al suo carattere e alla sua insubordinazione deve se il governo lo ha escluso per tanti anni dal beneficio d'una promozione e se recentemente fu dispensato dal servizio invece d'assecondare la domanda di dimissioni.
C'era nell'aria un astio generale, dopo l'insediamento del primo governo riparazionista molte speranze erano andate deluse e lo svili-
mento del personale locale diventava l'esempio di come, ancora una volta, lo Stato fosse lontano ed estraneo. Ormai le ostilità erano esplicite. Il 12 settembre il questore Forte aveva colpito i palermitani nel loro amor proprio, emanando delle disposizioni che limitavano il numero delle armi in circolazione in città. In particolare aveva proibito quelle a canna corta, facilmente mimetizzabili, che facevano parte dell'abbigliamento di molti galantuomini. Per colmo di arroganza aveva dichiarato che, tranne i casi ritenuti necessari per la sicurezza personale, i permessi di porto d'armi non sarebbero stati rinnovati. In questo clima il processo contro l'ispettore Banchieri si trasforma in un atto di accusa contro l'arroganza dei funzionari venuti dal nord, nella requisitoria Banchieri viene definito «avanzo di quella rancida camarilla piemontese che olim ci chiamò barbari e ci suppose carne da conquista e macello». E un gioco pesante da entrambe le parti, i locali non nascondono di essere pieni di risentimento contro i colonizzatori, dalla questura accusano Palmeri di essere mafioso e all'origine di una setta criminale. Arrivati al processo, le calunnie contro Palmeri non si limitano più ai rapporti riservati. Interrogato dal pretore, il 16 ottobre Banchieri sostiene che il delegato aveva sviato l'azione della giustizia e favorito la mafia, recandosi dal questore per dargli una falsa traccia sull'omicidio Di Mitri. Quasi non si parla più della lettera anonima all'origine del caso: il processo è stato intentato da Palmeri ed è una causa per diffa170
mazione contro l'ispettore Banchieri, ma il vero accusato, in una prova di forza tutta sbilanciata a favore della questura, sembra essere Palmeri. Ed è tale la mole di accuse che si riversa sull'ex delegato da ottenere l'effetto contrario: il pretore non tiene in alcun conto le informazioni e le analisi negative che la questura fornisce con abbondanza di particolari. Il 16 ottobre l'ispettore Banchieri viene condannato per ingiuria semplice a un'ammenda di lire Io, convertibili in 5 giorni di carcere in caso di mancato pagamento, più l'ammontare delle spese. Il questore reagisce poco sportivamente alla sentenza, dichiara che Palmeri l'ha ottenuta perché protetto dall'alta mafia e vi appartiene. Scrive al prefetto: «Ebbi facilmente ad accorgermi che gravi influenze si erano mosse [...] una condanna era stata determinata a danno del sig. Banchieri [...]. L'aggiunto giudiziario funzionante da pubblico ministero si scagliò con violenza contro l'ispettore». Accusato apertamente di essere all'origine di una setta mafiosa, Palmeri presenta una nuova querela per diffamazione. Ma l'ex delegato si è rivelato un personaggio difficile da gestire, troppo rumoroso: i palazzi del potere si ricompattano e lo escludono. La sua denuncia cade nel vuoto, il 6 novembre Palmeri la ripresenta ma il magistrato inquirente non lo chiama a ratificarla. Di contro, nonostante si tratti di una sentenza pretorile che consente il ricorso solo se si è arrivati all'arresto, Bancheri si appella e il ricorso viene accolto. La causa viene più volte rimandata, sino a quando il 26 novembre Banchieri ottiene una sentenza favorevole, che si affretta a comunicare ai giornali. I quali pubblicano la notizia in un trafiletto, per dovere di cronaca e forse per non inimicarsi troppo la questura, ma senza alcun commento. 1S L'ex delegato Palmeri, perseguitato dalle accuse della questura e diventato il simbolo del merito non riconosciuto e anzi vilipeso, vive comunque un suo breve momento di gloria. Addirittura, anche se poi non ci sarà un seguito, il 23 novembre La nuova forbice dà notizia della futura nascita di un nuovo giornale Il leone, «diretto dall'egregio signor Paolo Palmeri, con un programma democratico-progressista». 18 Tutta la vicenda Palmeri-Banchieri in Palmeri.
ASP, AGQ,
busta 441, fascicolo personale di
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9. Calcedonio Inghilleri deputato di Monreale
Dal marzo del 1876 la Sinistra governa in parlamento, ma la sua base elettorale è instabile. Per rafforzare la propria posizione il governo non si fa molti scrupoli e nel novembre dello stesso anno, in occasione delle elezioni politiche, il ministro dell'interno Nicotera interviene facendo leva sui prefetti e ottenendo una vittoria schiacciante. Complessivamente vengono eletti 414 candidati ministeriali e 94 dell'opposizione. Tra i rappresentanti della Destra, persino alcuni ministri dell'ultimo governo Minghetti perdono il loro seggio. A partire dalla campagna elettorale il giornale Lo Statuto si avvicina al prefetto. Il 14 settembre scrive: «Al prefetto Zini, da leali avversari, riconosciamo il pregio di tenersi estraneo agli intrighi elettorali». Comportamento che però non dovette risultare molto gradito al governo. Infatti da questo momento le fortune del prefetto diminuiscono a vista d'occhio, per precipitare dopo le elezioni di novembre. Il mandamento di Monreale formava collegio elettorale con Carini, Capaci, Isola delle femmine, Giardinello , Parco, Terrasini, Favarotta, Torretta. A votazione compiuta questi comuni rimettevano l'urna coi voti a Monreale, dove veniva fatto lo spoglio. Il deputato di Monreale era il consigliere di Corte d'appello Calcedonio Inghilleri, nativo del paese ed esponente della Destra. Negli anni in cui era montata la protesta contro il partito governativo Monreale era stato fra i pochi collegi che avevano mantenuto un deputato di Destra, dimostrando così di avere i propri interessi saldamente rappresentati e che Destra o Sinistra erano solo dei referenti, in grado o meno di convogliare le richieste dal basso. Nel caso in cui questo avviene, non c'è motivo per cambiare partito. Si resta fedeli, giocando d'azzardo anche quando tutti abbandonano la barca. Piuttosto ingenuamente, Bernabò prevede che il deputato Inghilleri dovrà misurarsi con l'opposizione. Scrive al questore che i monrealesi non sono tanto contenti del deputato «perché con poco calore perorò come consigliere provinciale la causa della circoscrizione territoriale di questo comune» e che vorrebbero votare Luigi Di Benedetto, candidato delle sinistre e oriundo di Torretta. L'esito generale della votazione è stato sempre deciso dal partito di maggioranza che si forma a Monreale, ma stavolta Carini, Parco e Giardi17 2
nello annunciano opposizione; Bernabò prevede che Di Benedetto potrebbe avere la maggioranza a Torretta, Capaci e Isola. 4 novembre, La Gazzetta di Palermo: a Monreale credono «che il governo dei destri non sia finito e che la mafia debba governare, ed elevarsi in tutto a dirigere le sorti del paese». Si sono presi accordi per pilotare la votazione, «la parola d'ordine è: il deputato non lo faranno gli elettori né le altre sezioni, lo facciamo noi. Queste parole sono sufficienti per ispirare terrore e togliere libertà e sincerità alla votazione, e per dire il vero vi è poco da scherzare in Monreale». Secondo La Gazzetta, il sindaco aveva convocato nel suo ufficio un gran numero di elettori col preciso scopo di intimidirli, ed un'altra riunione era prevista per la sera del 4. «Niente di male che il sig. Mirto Seggio come privato cittadino agisse secondo le proprie convinzioni, ma come sindaco ciò non sta bene». La Gazzetta ricorda che non vi sono i moderati al governo: quindi l'ufficio elettorale sarà legalmente composto, i tavoli saranno regolarmente disposti, il nome sui bollettini sarà scritto al momento della votazione senza che nessuno guardi, non ci saranno pressioni di sorta e «non compariranno come elettori tutti gli analfabeti e tutti i pregiudicati, dei quali sventuratamente è ricchissima la lista di Monreale». Nel 1876 la procedura delle elezioni è piuttosto macchinosa, tale da scoraggiare la partecipazione e lasciare un margine piuttosto ampio per l'arbitrio. Il seggio è elettivo, la sua composizione influenza sia gli elettori amici che quelli ostili ed è «l'espressione del colore degli elettori, né può essere altrimenti. In molti vi è la convinzione che padroni del seggio si è padroni dell'elezione, e non si rifugge dal broglio e dalla malafede per far trionfare il proprio partito». Così forse si spiega perché le percentuali dei votanti sono sempre molto più basse degli aventi diritto, ad esempio nel novembre del '76 a Palermo si registrano 59 votanti su Zoo elettori. Per le fazioni che dominano i municipi, la conquista del seggio è la prima e più importante tappa per il controllo dei risultati e gli uffici elettorali fanno il lavoro a loro comodo, «l'allungano quando credono di potere stancare gli elettori avversi, che devono sorvegliarlo; o lo fanno di seguito nel cuore della notte, per evitare i presenti». 19 19 F. Maggiore Perni, Statistica elettorale, politica ed amministrativa della città di Palermo dal 1861 ah-877, Palermo 1879, p. 3 r .
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Il delegato Bernabò si era recato dal sindaco, per ricordargli che sotto il vigile sguardo dell'autorità di polizia non si possono commettere abusi o intimidazioni. Vane raccomandazioni. Il 4 novembre scrive al prefetto:
me un appoggio per fare trionfare l'Inghilleri. M'accorgo che il risentimento verso di me, già motivato per gli arresti degli stuppagghieri, va ora aumentando a causa dell'elezione del deputato, e che la posizione mia in Monreale si fa ogni giorno più difficile. 20
Questa mane a lle 7,3o si aprì il locale scelto per le elezioni e i primi ad invadere l'aula furono i più arrabbiati partigiani dell'Inghilleri. Quello che ha fatto maggiormente stupore fu il vedere entro l'aula le guardie campestri in divisa e armate, nonché le guardie municipali, e ciò prima ancora che si formasse il seggio presidenziale, e senza che alcun inizio di disordine vi fosse. Si voleva ad ogni costo intimidire gli elettori, ecco perché il municipio faceva intervenire la forza armata contrariamente a quanto dispone la legge [...]. Io fin dalle prime ore del mattino mi aggirai per le strade onde vegliare al mantenimento dell'ordine, ed ebbi ad osservare l'attività febbrile con cui da parte dei partigiani dell'Inghilleri si violentava la libertà del voto [...]. Persino un cieco fu trasportato nella sala e gli fu data la scheda già firmata. Ad alcuni che si mostrarono più ritrosi si mandarono nelle case le guardie campestri per obbligarli a portarsi a votare E...]. Moltissimi dei votanti sono analfabeti e a costoro veniva presentata la scheda col nome del candidato già scritto.
Bernabò sembra sinceramente indignato, ma bisogna considerare che i comportamenti da lui denunciati per Monreale erano stati largamente adottati. Inoltre, la Sinistra si era distinta per irregolarità e probabilmente Bernabò calca la mano perché il suo senso dell'opportunità glielo suggerisce; se i comportamenti registrati a Monreale fossero stati esclusivi di quel collegio, considerando che a vincere era stato un candidato di Destra di sicuro ne sarebbe seguito uno scandalo. Anzi, a proposito dei risultati del collegio di Monreale, il 12 novembre la Gazzetta di Palermo commenta che l'elezione di Inghilleri è la prova più evidente della non ingerenza del ministero, «perché le cose in questo collegio sono situate in modo che sarebbe bastato il menomo cenno dell'autorità per mutare radicalmente le sorti della votazione».
Inghilleri riporta una vittoria schiacciante, 348 voti contro i 9 dell'avversario Di Benedetto. Nel resto del collegio raccoglie 186 voti, Di Benedetto 95. Rapporto di Bernabò al prefetto:
Io. La setta: gli stereotipi
I contatti fra il delegato Bernabò e la famiglia Cavallaro sono ormai regolari, il 16 novembre Bernabò, che di suo è molto sospetto-
Io mi sono tenuto totalmente estraneo a tutte le operazioni. Ma non ho mancato di seguire attentamente lo svolgersi di tutti i fatti, onde d'ogni cosa potere informare la superiorità. Pare che la vigilanza da me esercitata sia dispiaciuta a molti, poiché mi avveggo che ora si usa con me un contegno quasi provocante [...]. Questa sera ho saputo che alle guardie campestri poste di sentinella alla sala era stato dato ordine espresso che, qualora avessi voluto entrare nella sala, dovevo essere respinto. Ciò è per me un insulto, conosco benissimo i miei doveri e so che mi era proibito entrare.
Nel suo stile, Bernabò fa seguire al rapporto ufficiale una lettera riservata: L'anima mia ripugna al vedere ta li e tante vergogne [...1, le bassezze a cui scesero gli amici dell'Inghilleri fanno poco onore allo stesso. Si è voluto vincere per forza e si sono usati i mezzi più disonesti E...]. Mi sono tenuto estraneo alla lotta, ma la vigilanza che ho esercitato sull'andamento de ll e elezioni pare che abbia urtato la nervatura ad alcuni che avrebbero preteso da 1 74
20 Corrispondenza sulle politiche del 1876 in ASP, GP, anno 1876, busta 34, fasc. 6. I risultati delle elezioni in ASP, AGQ, busta 409. Prima di Inghileri il deputato di Monreale era stato il consigliere di corte d'appello Gaetano Caruso, eletto nel novembre del '7o. Una nota della questura lo definisce «in relazione con persone appartenenti alla maffia e sempre pronto a favorirle» (ASP, AGQ, anno 1877, busta 708). Al solito, le liste elettorali di Monreale erano state inviate in ritardo e dopo diversi solleciti della Prefettura. Il 9 settembre il prefetto "Lini aveva scritto al sindaco che, «non essendo più tollerabile tanto ritardo», se le liste non fossero pervenute entro il 15 avrebbe inviato un commissario. Dal comune chiedono un'ulteriore proroga, il 16 settembre il prefetto scrive: «Non sarò disposto a tollerare ulteriore ritardo, mi dispiacerebbe dovere attuare la misura coercitiva dell'art. 145 della legge comunale» (ASCM, busta 65o, fasc. 5o). La lista viene poi spedita il 19 settembre. A Palermo le percentuali degli elettori sono molto più basse che nel resto d'Italia. Nel 1861 vota il 75% degli elettori, corrispondente allo 0,27% della popolazione. Nel 1866 vota il 47% degli aventi diritto, ed è necessario il ballottaggio. Nuove elezioni nel 1867, dopo l'annessione del Veneto, a cui partecipa il 41% degli elettori. Altre elezioni nel 1870, dopo la proclamazione di Roma capitale, vota il 24%. Nel 1874 partecipa il 33%, che corrisponde allo 0,38% de ll a popolazione. Nel '76 vota il 35% e «i cittadini che disertano l'urna è un pessimo sintomo in libero reggimento, in cui la base del potere sono le elezioni» (Maggiore Perni, cit., p. 47).
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so, chiede al questore che sia ritornato il porto d'armi a Filippo Cavallaro, nipote dell'ucciso, «di regolare condotta, che avendo anch'esso da parte sua somministrato qualche lume alla giustizia intorno agli autori dell'assassinio in persona dello zio I...] trovasi in qualche pericolo di vita». E il porto d'armi viene ridato. 21 Anche a costo di notevoli sacrifici, Bernabò ha colloqui periodici con tutti i Cavallaro. Ad esempio, il vecchio padre dell'ucciso Simone abita a S. Giuseppe Jato, a parecchi chilometri di distanza. Eppure Bernabò si reca regolarmente a trovarlo. E, quando arriva a Monreale, Giuseppe Cavallaro è fra i pochi a frequentare la delegazione; forse perché ormai ha 85 anni e gli hanno ucciso un figlio, questo è il suo modo di vendicarsi. A lungo il vecchio Cavallaro aveva promesso di fare delle rivelazioni, ma solo a fine novembre il delegato Bernabò può scriverne un dettagliato resoconto al questore. Ad apertura del suo rapporto il delegato premette che, non fidandosi del suo testimone, ha fatto rimanere non visto in un angolo della stanza la guardia Stefano Gattoni. «Un testimone non visto in un angolo della stanza». Ci sarà stato un paravento? Siamo a novembre, magari una giornata buia e brumosa?, con un lume stento, già a sera? Forse questa è l'ipotesi più probabile, alla luce del giorno era più imbarazzante varcare la soglia della delegazione. Anche se a tratti confuse, le confidenze del vecchio Cavallaro sono molto interessanti. Racconta che il 24 agosto, tre giorni prima dell'uccisione di Simone, lui e il figlio erano stati fermati dai fratelli Miceli, invitati a far parte de ll a società degli stuppagghieri e pressati per andare in casa di Pietro Di Liberto, dove avrebbero dovuto prestare giuramento. I Miceli avevano dichiarato che «la detta società aveva un colore politico che si accostava all'antico sodalizio dei carbonari.
una tale idea e per questo si lasciò facilmente indurre ad accettare la presidenza de ll a setta.
I Cavallaro rifiutano l'affiliazione e, per timore che possano tradire, ne viene decretata la morte. «Forse il Cavallaro Giuseppe sarebbe rimasto anch'egli vittima di qualche attentato, se per consiglio del figlio non fosse subito ripartito per San Giuseppe». La setta terribile, sanguinaria e assetata di vendetta, che si lascia scoraggiare da pochi chilometri... senza contare che adesso il vecchio Cavallaro è apertamente uno degli informatori del delegato, non si spiega perché non lo uccidano. Nelle confidenze del Cavallaro senior sono contenuti alcuni stereotipi che puntuali si ripresenteranno negli anni a venire: il più evidente è dato dalla sovrapposizione fra mafia e Internazionale, un altro degli incubi ricorrenti in quegli anni. La setta sembra sommare e racchiudere tutte le caratteristiche negative che via via si sedimentano a creare l'immagine di un nemico interno. È insieme internazionalista, reazionaria e anarchica, tende al delitto, avversa l'interesse dei galantuomini amanti dell'ordine ed è contraria a tutto quello che è il buon andamento della pubblica amministrazione. Abbiamo poi l'unione degli opposti estremismi nel Di Liberto che, pur essendo borbonico e clericale, stando alle confidenze del Cavallaro non disdegna la presidenza di una setta internazionalista. Come sempre accade per gli stereotipi, anche di questi non si sa bene l'origine. Diverse volte li abbiamo ritrovati, sotto forma di ipotesi o di affermazioni tout court nei verbali della questura, utili a giustificare un'ammonizione o a pianificare la repressione degli oppositori. E adesso li ripete il vecchio Cavallaro, non si sa se per convinzione, per vendetta, perché si respirano nell'aria, perché Bernabò aiuta e magari suggerisce qualche risposta.
Quest'ultima circostanza — argomenta Bernabò — mi viene avvalorata da altre confidenze avute. La società degli stuppagghieri riveste tutti i caratteri di una setta internazionalista. Si diceva con insistenza che dei moti rivoluzionari sarebbero scoppiati in Sic ilia, se l'Italia si fosse complicata in una guerra per gli affari d'Oriente. Allora gli stuppagghieri avrebbero inalberato la bandiera della riscossa, uccidendo tutti gli uomini d'ordine e saccheggiandone le case. Il Di Liberto, borbonico e clericale sfegatato, vagheggiava 21 Rapporti confidenziali di Bernabò al questore in ASP, AGQ, anno 1877, busta 708. Notizie sul ferimento di Simone Cavallaro anche in ASCM, busta 652, fasc. 79.
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Capitolo sesto
L'istruzione del processo
I.
Le ramificazioni degli stuppagghieri
Nel giugno del 1876 a Palermo vengono scoperte le associazioni che controllano i mulini e, dopo tante teorie, al questore Forte devono sembrare la materializzazione di un'idea a lungo inseguita. Peccato che il monopolio sui mulini abbia una limitata importanza sociale, molto più utile appare la scoperta di un'associazione generica, in grado di figurare come possibile origine de lle tante diramazioni che di sicuro agiscono nei paesi del circondario. A questo scopo gli stuppagghieri sembrano perfetti: per la collocazione geografica e per il loro essere sanguinari e volti al malfare, ma senza una precisa connotazione che rischia di diventare un limite nelle successive proliferazioni. Ancora una volta, era già successo col questore Rastelli che scriveva delle associazioni dell'Uditore a Gerra, l'unico problema è trovare le prove. Il 29 settembre 1876 il questore denuncia alla regia procura l'esistenza degli stuppagghieri a Monreale, ma gioca d'azzardo: perché si assume il compito di suffragare le affermazioni con elementi di prova che non possiede. Nei successivi rapporti alla procura il questore Forte rilancia, gli stuppagghieri diventano l'origine della rete associativa che copre il circondario. Così, fino a dicembre c'è tutto un lavorio per portare a galla, intuire e tentare di collegare, talvolta suggerire e quasi creare, la rete dei legami oscuri che stringono in una sola grande associazione i tronconi rinvenibili nei paesi della provincia. Non tutti i delegati si mostrano pronti ed entusiasti come Bernabò. Il delegato di Partinico risponde che le indagini su eventuali affiliati hanno dato esito negativo, il questore si spazientisce, cerca di guidarlo, replica che non deve cercare un'associazione estranea agli elementi mafiosi del luogo. «Se la S.V. vorrà scorrere le associazioni mafiose come altrove organizzatesi, rinverrà forse due elementi 178
ben marcati, quello della vecchia mafia e quello della giovane mafia, con intendimenti opposti e con rivalità di azione, sebbene istituiti con un comune substrato E...]. In questa giovane mafia la S.V. troverà gli aderenti degli stuppagghieri. Le investigazioni praticate in base a siffatto criterio hanno condotto in Monreale a vantaggiosissimi risultati». Ancora più recisa è la risposta che per due volte arriva da Bagheria. Anche dopo le insistenze del questore, il delegato scrive che non gli risulta nessun affiliato: «Negli anni precedenti più di una volta ebbero ad istituirsi associazioni di malfattori indipendenti da quella di Monreale ma, scoperte, furono arrestate ed incriminate». Risposte analoghe arrivano da Sferracavallo, Tommaso Natale e Misilmeri. Dietro insistenza del questore, i delegati di alcuni comuni arrivano a nuove conclusioni: da Ficarazzi vengono segnalati 12 affiliati, 7 da Sferracavallo, addirittura 3o da Tommaso Natale. A Parco, dove Bernabò gioca in casa, una ramificazione della setta raggruppa 6 contadini. «Intermediario con Monreale era il noto Busicchia Lorenzo, 26 anni, giardiniere, ex ammonito e triste pregiudicato». Infine la questura prepara elenchi di nomi, li segnala a lla regia procura come «anello di congiungimento e ramificazioni della setta nei comuni di Sferracavallo, Tommaso Natale, Ficarazzi, Villabate, Misilmeri, Marineo, Altarello di Baida, San Giuseppe Jato, Montelepre, Borgetto e Partinico». Il questore ostenta una gran quantità di informazioni precise e dettagliate, ad ottobre il giudice istruttore Chiaja gli chiede maggiori particolari sulla nascita degli stuppagghieri. Trattandosi di un delegato di pubblica sicurezza e dei suoi familiari, il giudice cerca di essere cauto. Suppone che la società sia stata fondata «col diverso intendimento, nel fine di combattere l'invadente predominio della mafia». Chiede al questore se il fondatore della setta sia stato il fratello morto suicida, Mario, oppure quello ancora vivente. Il questore risponde che la setta, nata nel '72, non può essere stata fondata da Mario, suicida nel 187o in occasione dell'arresto del Mazzini. Aggiunge: «Ma vi ha di più, perché le recenti informazioni hanno posto in luce che la società in parola ebbe effettivamente fondatori il Paolo Palmeri ex delegato e il di lui fratello Giuseppe, tuttora vivente». Il delegato non è più sullo sfondo ma in primo piano, e di buone intenzioni non si parla più. 179
Il suicidio di un fratello del delegato Palmeri è un elemento nuovo, che genera uno scenario ad hoc. Il questore Biundi, a Palermo in quegli anni, dichiara al giudice istruttore che la setta era stata fondata tra il 1870 e il '72 da Mario Palmeri come società internazionale. Non riuscendo ad attecchire si era poi trasformata in associazione per delinquere. Si tratta di una versione che probabilmente ha qualcosa di vero: basti ripensare all'importanza delle bande nella tradizione rivoluzionaria siciliana, alle squadre che partecipano alle rivolte sommando generiche aspirazioni di giustizia sociale e voglia di affermazione personale, a quanto fossero diffuse le sette segrete e i tentativi insurrezionali. Della buona fede di Mario Palmeri è suf ficiente testimonianza il suo suicidio, specie se collocato su uno sfondo di feroci doppiogiochisti. 1 2. La rete delle associazioni: i caratteri La questura continua la ricerca delle associazioni affiliate agli stuppagghieri, tenta di allargare il cerchio. A metà novembre si rivolge ai sottoprefetti di Corleone, Sciacca ed Alcamo e al prefetto di Girgenti, fornendo un identikit: «La setta tende al sangue e alla difesa dei suoi componenti quante volte cadranno nelle mani della giustizia. Per fare questo è necessario che si tenga una cassa, quindi con il furto l'impinguano, e sebbene essi non siano soprattutto ladri, quando capita l'occasione ne approfittano». Fra Girgenti, Sciacca e Bivona vengono fatti numerosi arresti, il prefetto di Girgenti risponde che ha trovato 4 punti di contatto fra la società dell'oblonica e gli stuppagghieri. Il più significativo è che in entrambi i casi gli affiliati si riconoscano dal detto mi doli stu scagghiuni. Il Ig dicembre, stesse affermazioni dalla sottoprefettura di Sciacca. Si tratta di un modo di riconoscimento che nel 1874 il questore Rastelli aveva già registrato fra le sette dell'Uditore. Questa è l'unica prova di un tessuto semantico persistente, che non garantisce 1 Alatri, cit., p. 599, a proposito dei fermenti repubblicani presenti dopo i moti del '66, riferisce di una perquisizione subita da Nicasio Palmeri, sospettato di essere punto di collegamento fra i più noti repubblicani. Il prefetto di Palermo comunicava a quello di Napoli che Palmeri era un agente repubblicano. Da Napoli si rispondeva «Palmeri è della maffia», dove ancora una volta oppositori e mafiosi vengono mischiati e confusi. Considerando come in queste corrispondenze i nomi siano spesso imprecisi, possiamo collegare Nicasio Palmeri a Palmeri di Nicasio, nome di famiglia del delegato Paolo, del repubblicano suicida Mario e di Giuseppe.
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l'esistenza di associazioni segrete ma certo ci dice qualcosa sulle abitudini linguistiche dell'epoca. Scagghiuni sono i canini superiori: affermare di avere un dolore lì localizzato, in un'epoca priva di analgesici e dove il dentista si identifica col barbiere, coincide con l'avere un problema non facile da risolvere. E se l'altro lamenta lo stesso fastidio, allora hanno qualcosa in comune. Secondo il prefetto di Girgenti, oltre ai segni di riconoscimento quasi identici, sia l'associazione dell'oblonica che quella degli stuppagghieri sono nate con lo scopo della mutua assistenza, diventando poi covo di ladri e assassini. Entrambe hanno al loro interno un tribunale e dispongono di sicari, hanno un giuramento e ricorrono a riti tenebrosi per affiliare i nuovi associati. Per la questura l'esistenza di una rete di associazioni segrete è ormai certa, bisogna solo stabilirne le caratteristiche con maggiore precisione. La difesa dei componenti è importante ma non basta, è un carattere reattivo. Il questore Forte ragiona che gli stuppagghieri, «costituitisi coi principi e colle costumanze della mafia, di cui non sono che una singolare procreazione, osservano il principio della omertà, la sostanza del quale si riduce al silenzio, al mendacio, alla dissimulazione ed alla violenza». Non c'è da meravigliarsi se ci sono punti di contatto fra gli stuppagghieri, l'oblonica ed altre associazioni, poiché il substrato di tutte è la mafia, «cioè quel tanto di non bene definito che in queste province isolane costituisce, a così dire, uno strato morboso generale». L'edificio a cui con tanta lena lavora il questore si delinea come una realizzazione in tono minore della teoria avanzata dalla Destra sulla natura associativa della mafia. Adesso le sette segrete non hanno una composizione sociale tale da giustificare esiti disastrosi o generare paure, non si parla di manutengoli. Ma in pratica, pur essendo al governo quella Sinistra che aveva radicalmente osteggiato le leggi speciali, a Palermo si tornano a cercare le associazioni segrete. Intanto nel circondario continuano ad esserci molti abigeati. Senza contare quelli di cui non si ha notizia, durante il 1876 nel mandamento di Monreale ne vengono denunciati 69, nemmeno in un caso i proprietari sono monrealesi. L'abigeato è un reato che necessita di un'organizzazione, certo gli animali rubati non spariscono nel nulla. Il questore chiede se non vi sia un'associazione a coordinare i traffici. Il comando dei militi a cavallo, sezione occidentale, 181
risponde che certo un'associazione deve esserci, perché non si trova alcuna traccia di dove gli animali si dirigono. Ma per dimostrarne l'esistenza bisognerebbe che un arrestato facesse i nomi dei complici, «cosa che rarissime volte si è verificata». Dalla sezione orientale rispondono che le associazioni di malfattori esistono ovunque, ma le loro -macchinazioni sono talmente avvedute che è impossibile conoscere i colpevoli. Ci vorrebbe un delatore, non è mai successo di trovarne uno. Il verosimile è parente stretto del vero, la logica suggerisce che deve esserci un'organizzazione a smistare il traffico degli animali rubati: lo stillicidio dei reati, la conclamata impunità, il loro ripetersi, tutto indica la presenza di organizzazioni collegate fra loro. Dalla questura si arriva alla conclusione che certi segni di riconoscimento, certe caratteristiche dell'organismo e del moto di esplicazione ravvicinano la società degli stuppagghieri alla oblonica, e se si considera che entrambe hanno a quanto finora si conosce a scopo prevalente l'abigeo, ed il danneggiamento e la manomissione della proprietà rurale non è difficile l'argomentazione che entrambe formano una sola cosa con quelle piccole ramificazioni che ho ragione di credere esistano in codesto circondario, e che partecipano della stessa natura. 2
Come risultato di tanto lavoro, negli ultimi mesi del 1876 nel circondario di Palermo vengono scoperte diverse associazioni segrete: oltre agli stuppagghieri di Monreale ci sono i fratuzzi e i buoni figlioli a Bagheria, i malfattori a Borgetto, lo zubbio a Villabate, fontana nuova a Misilmeri. Vengono tutte presentate come filiazioni degli stuppagghieri, nate nel 1872 sotto forma di società di mutua assistenza che finiscono per essere altro a causa dell'unione dei più pericolosi soggetti di ogni paese, avendo per sostrato la maffia in tutte le sue più svariate manifestazioni. I riti tenebrosi e strani degli affiliati non sono dissimili, come pure i segni di riconoscimento, perché comune è lo scopo. Generale a tutti è il nome di fratuzzi. Hanno tribunali composti da affiliati e regolamenti; i capi si conoscono, perché altrimenti non potrebbero mantenere quell'unione e dare quel potente impulso a delinquere. 3 2 3
182
ASP, AGQ, ASP, AGQ,
busta 44o. busta 429.
Nel dicembre '76 il giudice Chiaja scrive al questore su un testimone di cui poi si perderà ogni traccia, che ha fatto delle rivelazioni sugli affiliati di Borgetto: La giustizia è stata potentemente aiutata dalle sicure ed esplicite dichiarazioni del testimone Santo Saputo, il quale iniziato anch'egli ai misteri e ai simboli di quella terribile setta ne svelò le organiche modalità additando i nomi dei più compromessi associati. Questo testimone però (è facilissimo l'indovinarlo) trovasi già in grave pericolo, preso di mira perché sospetto di tradimento [...], ridotto nella necessità di esulare ramingo senza pane e senza tetto.
Il giudice chiede che Santo Saputo «sia impiegato quale semplice guardiano di ferrovia, in lontane contrade». Anche dal comando dei militi a cavallo, avuta notizia che il Saputo era casualmente scampato ad un attentato («una notte che il Saputo non era in casa vi entrarono due individui, che cercavano suo figlio ma trovarono solo la vecchia madre»), chiedono per lui «un pane nelle strade ferrate». 3. Il delegato Bernabò è isolato
Intanto, a Monreale il delegato Bernabò continua le sue ricerche senza concedersi pause. Controlla, sorveglia, interroga, perquisisce, si apposta nei giardini sospettando segreti colloqui e congiure, vede stuppagghieri ovunque. Ma tutto il suo attivismo sembra girare a vuoto. Fra coloro che tiene d'occhio c'è Antonino Sciortino detto Bestia, «giardiniere di 3o anni, uno dei capi dell'incriminata setta degli stuppagghieri, reazionario e partecipe dei luttuosi fatti del '66, manutengolo del bandito Marino Salvatore». Col vecchio metodo del falso domicilio ha ottenuto il rinnovo del porto d'arme dal solito ispettore del mandamento Orto Botanico, che di lui traccia tutt'altro ritratto: «Dalle assunte informazioni Sciortino Antonino fu Francesco risulta persona di specchiata condotta tanto politica che morale, non si riscontrano precedenti a suo carico. Di carattere quietissimo e incapace di far mal uso delle armi, che porta per esercitare la caccia della quale è appassionatissimo». Sciortino ha ottenuto il rinnovo del porto d'arme il 29 settembre del '76, data della prima retata contro gli stuppagghieri, cosa che per Bernabò deve avere il sapore di un affronto. A metà novembre il delegato gli ritira il permesso, «per motivi d'ordine pubblico, essendo il me183
desimo un tristissimo soggetto, ed uno dei capi più attivi de lla incriminata setta degli stuppagghieri». E costretto a ridarglielo, nuovo sequestro il 13 gennaio. Questa volta il permesso viene inviato al questore e la gravità del caso sottolineata con la dovuta diligenza ma, per quanto si adoperi, Bernabò non riesce a provare che i suoi- sospetti siano fondati. A fine novembre viene arrestato Giuseppe Salerno, di soli 20 anni ma con precedenti di tutto rispetto ed inserito nella trama di delitti che porta alla scoperta della setta. Denunciato al procuratore del re come «tristissimo soggetto che fin dal 1874 fa parte della criminosa setta degli stuppagghieri», arrestato una prima volta l' 11 luglio 1 875 perché sorpreso nottetempo in campagna, «appostato in compagnia dell'altro stuppagghiere Giovanbattista Sinatra e armato di due pistole cariche a palla senza essere provvisto del regolare permesso» recita il verbale sottoscritto da Bernabò, come se esistessero permessi per gli agguati notturni. Ammonito il 13 luglio '75. Nel dicembre di quell'anno uccidono suo fratello Paolo, vengono incriminati ed arrestati Castrenze Cavallaro e Diego Soldano. Ed è all'uccisione di Paolo Salerno, all'arresto di Castrenze Cavallaro e alla successiva testimonianza che Simone Cavallaro avrebbe dovuto rendere davanti alle Assise di Termini che risale l'attentato contro Simone Cavallaro, a cui, secondo «persona degna della massima fede», Giuseppe Salerno ha partecipato. Prove contro il Salerno non ce ne sono ma, scrive Bernabò, «dopo gli arresti di alcuni stuppagghieri il Salerno ha vissuto in preda a continua agitazione, e ogni volta che come ammonito si presentava per fare vistare il suo libretto teneva un contegno titubante e pauroso, come chi si aspetta da un momento all'altro di essere arrestato». Naturalmente, anche Salerno è amico e complice dei Miceli, anzi abita nella loro stessa casa. Bernabò pensa di essere spiato, è sicuro che al Salerno sia stato dato l'incarico di attentare alla sua vita «e a quella di alcuni altri che si prestano a dar lumi alla giustizia». Infatti, sembra che il Salerno abbia tenuto un contegno minaccioso nei confronti di Giuseppe Cavallaro, figlio dell'ucciso Simone, che riferisce l'episodio in via del tutto confidenziale: una sera, mentre si recava a casa uscendo dal casino di compagnia, «il Salerno avrebbe spianato contro di lui un fucile e avrebbe fatto fuoco 184
se non ne fosse stato dissuaso dal sopraggiungere di alcune persone. Cavallaro dice che di tal fatto è bene informato il sig. Riolo, comandante dei militi». In breve, Giuseppe Salerno è un nemico dei Cavallaro, questa sembra la sua colpa principale. E, ancora una volta, il comandante delle guardie campestri viene invocato come testimone da accusatori e accusati. Il 5 dicembre i colpiti da mandato di cattura risultano 33, di cui 27 arrestati e 6 latitanti. Non ci sono più grandi retate, è uno stillicidio che segue pigramente i verbali e le richieste di Bernabò. Il 26 dicembre, mentre era a domicilio coatto a Genova, viene arrestato Saverio Spinnato. L'ri gennaio è la volta di Filippo Paolo Amato, dolciere di 24 anni. Qualche giorno dopo viene spiccato mandato di cattura contro Vincenzo Termini, «di anni 34, statura m. 1,65, capelli castagni, fronte spaziosa, occhi cerulei, naso piccolo, barba castagna cioè con basette», anche se ormai da parecchi anni fa il fruttivendolo a Canicattì, in provincia di Agrigento. Nonostante i numerosi arresti, non sembra che diminuisca il numero dei delitti. Il 5 gennaio si sparge la voce di un omicidio avvenuto in campagna, nell'ex feudo Cannizzara; per quante indagini si facciano, il cadavere non viene trovato. Le ricerche continuano per qualche giorno, con la partecipazione delle guardie campestri. Un mattino da un rilievo che domina la vallata vengono avvistati 8 armati. Fuggono per i giardini in direzione della vicina montagna di Miccini, le guardie li aggirano, setacciano le campagne, chiedono rinforzi, ma ogni sforzo per catturarli risulta vano. 4 Non tutti gli omicidi suscitano indagini e clamori. Il 9 gennaio viene ucciso Giovan Battista Romano, calzolaio, non aveva pagato le 200 onze che gli erano state chieste con due lettere di scrocco. Un anonimo accusa dell'omicidio i fratelli Bonafede, appartenenti alla setta stopaioli.5 Il giornale La nuova forbice aggiunge che è stato ucciso a colpi d'arma da fuoco, e che sono stati arrestati 3 individui, poi non se ne trova più notizia Il 2 febbraio viene trovato il cadavere del latitante Giuseppe Di Gregorio, detto Sinatrella. Per una volta laconico, Bernabò lo definisce «stuppagghiere di anni 26, colpito da mandato di cattura il 29 settembre 1876». 6 4 ASP, AGQ, 5 ASP, AGQ,
6
busta 435.
anno
1877,
busta 708.
Ibidem.
185
Passati i giorni esaltanti delle grandi retate, resta la malinconia del vivere in un paese nemico, pressato dalle difficoltà. I rapporti di Bernabò raramente hanno la pretesa di essere asettici, spesso lui scrive in preda allo sconforto. Il delegato ha adottato il punto di vista dei Cavallaro e della questura, vuole definire i contorni della setta e catturarla. Forse sperava in un'identità di intenti col paese ma i monrealesi continuano ad essere prevenuti, fondamentalmente estranei, in bilico fra l'indifferenza e l'ostilità. Fine dicembre, rapporto sullo spirito pubblico: La posizione dei pubblici funzionari in Monreale è una delle più difficili, perché qui non si può sperare alcun appoggio morale da parte dei cittadini [...1. Le autorità nessuno osa avvicinarle per timore di essere compromesso, e ciò perché è credenza che chi accosta un funzionario sia un delatore. Anche sotto i Borboni è sempre stato paese turbolento e sanguinario, senza principi politici e che pensa solo al suo interesse [...]. In un paese così triste, in un ambiente così corrotto, non può certo far meraviglia se la maffia vi ha già forti radici e se il germe del delitto è così profondo che talvolta la stessa giustizia ne fu scossa e atterrita. 4. Latitanti eccellenti
I fratelli Miceli sono ufficialmente latitanti dal 29 settembre, e la loro cattura sembra diventare l'impegno più importante nella vita del delegato Bernabò. In paese gira la voce che i Miceli non rinuncino a visitare la loro casa. Per sorprenderli Bernabò conduce molte operazioni diurne e notturne, tutte molto diligenti ma senza risultato. In più, il ripetersi dell'insuccesso gli procura dei rimbrotti. Il 23 novembre risponde al questore, una lettera al suo solito fra l'accorato e l'orgogliosamente indignato, concludendo: «La casa dei Miceli viene spessissimo da me perquisita E...]. Ho fatto umanamente quanto mi è stato possibile per conseguire ciò che superiormente si desidera. Se non vi sono riuscito la colpa non è mia. Quelli che più potrebbero aiutarmi non vogliono o temono di farlo». La latitanza e la posizione di rilievo nell'organigramma della setta fanno depositare intorno ai Miceli un gran numero di carte, richieste di notizie e verbali che per mesi si rincorrono. Paolo Mice7 ASP, AGO,
186
busta 461.
li è nato nel 1838 ed è domiciliato nel quartiere Ciambra, cioè a un
tiro di schioppo dall'arcivescovado. Di condizione proprietario, notazione che altrove segnerebbe uno stacco con la gran massa dei nullatenenti ma a Monreale è spesso distribuita fra le note segnaletiche. Campiere della Mensa, è quindi il braccio del procuratore Di Liberto nella riscossione delle rendite ma, nonostante in questa fase delle indagini si faccia un gran parlare dei legami fra i Miceli e Di Liberto, i loro rapporti restano sfumati in una comune e generica attitudine alla prepotenza e al malfare. Connotati di Paolo Miceli: statura alta, fisico corpulento, senza baffi. Alle carte è acclusa una fotografia che lentamente sta virando verso il colore ocra: pantaloni a quadretti e giacca di fustagno scuro, aria sicura, due abbondanti e vaporosi scopettoni che si chiudono sotto il mento. Baldassarre, più giovane di 5 anni, ha gli stessi connotati e manca una foto che permetta di trovare le differenze. L'impegno di Bernabò non conosce pause. La vigilia di Natale scrive al questore Forte: La notte scorsa, con carabinieri e guardie, dopo avere preso tutte le debite precauzioni, ho assaltato la casa de lla Teresa Mice li . La perquisizione fu fatta colla massima esattezza e diligenza, però non fu trovato il Di Gregorio Giuseppe inteso Sinatrella, che si sospettava fosse là. Per agire con maggiore segretezza non venne richiesto l'aiuto delle guardie campestri. La prossima notte tenterò una sorpresa nella casa dei Miceli e dei loro parenti. 26 dicembre, Bernabò al questore: «Ieri giorno di Natale ho perquisito tutte le case dei latitanti colpiti da mandato di cattura quali appartenenti alla setta degli stuppagghieri, ma il risultato fu negativo». Al cader della notte, altra missione. Il delegato tende un'imboscata agli autori di alcune lettere di scrocco arrivate al proprietario Stefano Procida. Nel punto fissato disposi cinque appiattamenti di carabinieri, guardie di pubblica sicurezza e guardie campestri. Io stesso presi parte ad uno di questi appiattamenti. La notte però fu orribile perché ebbe a scatenarsi un uragano con pioggia, grandine e vento. Si stette cinque ore appostati esposti a tutte le intemperie, ma il risultato anche qui fu negativo, poiché forse a cagione del tempo i malfattori non vennero nel luogo designato. 1 87
L'indomani Bernabò si ammala, «appena ritiratomi in casa fui assalito da una febbre fortissima che ancora mi tormenta orrendamente L..]. Le fatiche d'ieri, gli strapazzi della notte scorsa, la rabbia per non avere potuto prendere i Miceli mi hanno scosso. Io non avrò pace finché non avrò consegnato costoro alla punitiva giustizia». A gennaio Bernabò vive assediato, ci sono molti latitanti, si temono disordini. Due donne, ed è una delle pochissime volte che compaiono figure femminili in questa storia, si presentano al delegato per recapitare un messaggio. Dicono che sono state fermate da tre armati, le hanno incaricate di avvertire il delegato che c'è un tumulto alla Molara. Ma si contraddicono, non sanno descrivere gli uomini con cui hanno parlato. Bernabò diffida, soprattutto perché «non potrò mai persuadermi come esse si siano azzardate a fare a noi una simile ambasciata, mentre qui si è contrarissimi a fornire notizie alla forza». Ne deduce che vogliono allontanarlo da Monreale per preparare qualche disordine, aumenta la truppa circolante per il paese e chiede rinforzi. 8 Per Bernabò il nuovo anno sembra cominciare nel peggiore dei modi, i dispiaceri familiari si sommano a ll e altre difficoltà. Il 22 gennaio, dopo 15 giorni di costosa malattia, muore la figlioletta terzogenita di pochi mesi. La moglie è inferma e bisognosa di cure, i medici consigliano di distrarla dal suo dolore. Bernabò vorrebbe accompagnarla in città, chiede un permesso di 4 giorni. Lo sconforto sembra sommergerlo, il delegato torna a supplicare che lo trasferiscano lontano dalla Sicilia.' 5. Un incidente diplomatico
Lo stillicidio di delitti e le bande che imperversano non raggiungono lo stesso effetto che provoca un solo rapimento eccellente. A novembre, nei pressi di Lercara, la banda Leone rapisce l'inglese John Rose. Circostanza oltremodo imbarazzante, Rose viene prelevato mentre si trova in numerosa compagnia, fra 18 persone distribuite su tre carrozze scortate da 3 carabinieri. Come avranno fatto i banditi a riconoscerlo? Di sicuro hanno avuto informatori e appoggi. Interviene il console inglese, ne scrive il Times, le voci si rincorrono. Si assicura che 8 9
188
ASP, AGQ, ASP, AGQ,
busta 435. busta 39 1 .
i funzionari del circondario di Lercara hanno 8 giorni di tempo per distruggere la banda Leone, in caso contrario saranno trasferiti o dispensati dal servizio (La Nuova Forbice, 21 novembre). Nei giorni che seguono il Times attacca il governo italiano, sembra che il console inglese ritenga il prefetto Zini responsabile dell'accaduto. A questo punto Lo Statuto insorge: «Gli inglesi residenti tra noi hanno sopportato soprusi e violenze e hanno avuto estese relazioni con la mafia, mai le autorità isolane hanno avuto da loro una denuncia o un avvertimento [...I. Le trattative per il rilascio di Rose vengono portate avanti con l'astuzia o il mistero o con le relazioni di mafia. Che ne sa il console?» (29 novembre). Rose viene liberato vicino Cerda, dopo un sequestro durato 20 giorni. Senza molti eroismi e dietro pagamento di un forte riscatto. Il sequestro Rose sembra mettere in crisi anche quei giornali che più avevano irriso l'azione del prefetto. Dapprima Il Precursore accusa Lo Statuto di volere gettare nel panico la popolazione, scrive che i moderati non avevano fatto niente per migliorare le condizioni della pubblica sicurezza. Però il 17 novembre riconosce che in Sici lia c' è più diffidenza verso i rappresentanti dello Stato che verso i banditi, e che il governo non può fare nulla per migliorare le condizioni della pubblica sicurezza se non è aiutato dai cittadini. Ma ormai è tardi. Il prefetto Zini si è dimostrato poco compatibile con l'ambiente, è isolato dal suo stesso partito e l'unico appoggio sembra essere Lo Statuto, cioè il giornale dell'opposizione. E infatti Nicotera li accomuna, il prefetto ormai scomodo e il quotidiano irriducibile sulla questione dell'ordine pubblico, nell'accusa di esagerare la gravità della situazione siciliana. Il Diritto, giornale vicino alla Presidenza del Consiglio, si affanna a sostenere che le condizioni della pubblica sicurezza sono migliorate; il 4 dicembre Lo Statuto scrive di essere impaurito da queste dichiarazioni. La situazione è in rapido mutamento, il 2 dicembre la Gazzetta di Palermo si allinea su posizioni simili a quelle dello Statuto e scrive: Il popolo siciliano vive in uno stato morboso, dove il governo è visto come nemico del popolo e dove l'essere più spregevole del mondo è lo sbirro. I principi dell'omertà sono adottati da tutti e, quello che è più grave, anche dalla classe civile. Qui risiede la vera causa del male: devono essere i civili a rompere e a fare le denunce, la classe pensante deve dare l'esempio. 189
Sembra che sui favoreggiatori e sugli omertosi in genere si delinei una frattura, fra chi dolorosamente riconosce gli errori passati e li definisce per allontanarsene e chi resta nelle posizioni di sempre. Ilio novembre il Giornale di Sicilia aveva scritto: «Sperare che i proprietari, fittuari, coloni, costretti a vivere in campagna si facciano delatori e indicatori dei movimenti delle bande, o ricusino loro ricoveri o foraggi, è un'altra illusione di perfetto ottimismo alquanto egoista». Il 1 ° gennaio 1876 l'elenco nominativo dei latitanti del circondario di Palermo comprende 251 nomi, che diventano 292 sommando il circondario di Termini, 35o con Cefalù e 399 con Corleone. 10 Il 3o novembre la relazione di chiusura dell'anno giudiziario registra 619 latitanti nella provincia di Palermo e 31 sequestri di persona. I crimini sono complessivamente aumentati, il procuratore generale Mangano Pulvirenti può affermare che le bande capitanate dai banditi Leone, Nobile, Merlo e Calabrese, «audacissime e a viso scoperto, fanno guerra contro la società». 11 Il 14 dicembre, in pieno disaccordo col ministero, il prefetto Zini si dimette. Correttezza e buone intenzioni gli sono riconosciute soprattutto dagli avversari, che però giudicano la sua prefettura un fallimento. Lo Statuto (14 dicembre) scrive che la sua è stata «un'esperienza crudele: pensava che bastasse restaurare la legge per accomodare ogni cosa. Ma il suo partito, che ha una grande maggioranza alle elezioni, non presta alcun aiuto nella causa dell'ordine, e nessuno gli ha mai fatto conoscere una legge violata o da rimettere in vigore». Il 22 dicembre Zini invia una lettera di commiato ai sindaci: «Io cesso da prefetto in questa provincia [...]. Mi duole che il breve tempo della mia prefettura non mi abbia conceduto di tradurre in atto tutti i miei propositi e s'abbia interrotto in sulle prime l'opera lunga e laboriosa che mi era stata addossata». Il 2 gennaio parte da Palermo. 12 Per la Sinistra al potere non è più tempo di sperimentalismi. Nicotera cerca di andare sui sicuro, e nomina Antonio Malusardi pre10 Elenco dei latitanti al r° gennaio 1876 in ASP, GP, anno 1876, busta 35, fasc. zo. In Sicilia i latitanti ammontavano a 1.3oo (Brancato 1956, cit., p. 439). 11 Cfr. Sulla amministrazione della giustizia nel distretto della Corte d'Appello di Palermo
dal 10 dicembre 1875 al jo novembre 1876. Relazione del sostituto procuratore generale G. Manano Pulvirenti, Palermo 1877. 1 ASCM,
190
busta 633, fasc.
95.
fetto di Palermo. Già reggente nell'intervallo fra i prefetti Gualterio e Torelli, dopo la rivolta del 1866 Malusardi aveva curato la distribuzione delle truppe destinate al servizio di pubblica sicurezza nel circondario di Palermo." È reduce da un buon successo nella repressione del brigantaggio in provincia di Catanzaro, impresa che gli guadagna una favorevole accoglienza anche da parte dello sconfortato Statuto. Infatti il primo gennaio il giornale scrive che la mafia, ringagliardita dal fatto di avere aderenti e protettori di vaglia, persuasa di avere a che fare con un governo debole, ha attirato contro di sé l'attività del ministro dell'interno. 6. L'improvviso apparire del pentito Salvatore D 'Amico Una volta che la questura ha denunciato la setta degli stuppagghieri, completa di ramificazioni nei paesi del circondario, la teoria sulla natura associativa della mafia non è più solo un'ipotesi. Si lavora all'istruzione dei processi, all'inizio di gennaio il giudice istruttore Chiaja fa riferimento ad un centinaio di affiliati. Quello che serve è solo un rafforzamento degli elementi probatori. Nonostante il successo che sembra arridergli nella scoperta delle associazioni, il 13 gennaio 1877 il questore Forte viene trasferito. Lo Statuto commenta che, per i palermitani, il questore ha commesso il suo più grave errore quando ha vietato «di portare indosso pistole e rivoltelle, e di cavarle fuori al menomo capriccio, e di tirar colpi, con danno gravissimo, e certo, di pacifiche persone passanti per le vie». Per il giornale i problemi del questore sono stati ben altri: negli uffici mancano registri e archivi, tutto si basa sulla conoscenza personale. Una volta trasferito l'ispettore capo e cambiato il gabinetto di questura, Forte non poteva «farsi un concetto». Giustificazioni avanzate (il 13 gennaio) quasi a giustificare qualche guaio successo. E certo, c'era stato il caso Palmeri a gettare più di un'ombra sulla scoperta delle associazioni. Comunque, le indagini continuano. Fra il 24 e il 25 vengono fatti nuovi arresti nel circondario di Palermo e il 31 gennaio, ormai a Napoli, l'ex questore scrive allo Statuto sottolineando i propri meriti e suggerendo un'interpretazione: «Una tale operazione [...] fa parte di un sistema precedentemente inaugurato, che produsse già la repres13 ASCM,
busta 560, fasc.
53. 191
sione di altre eguali ed ancor più malefiche associazioni, fra le quali primeggia quella degli stuppagghieri di Monreale». Non è un caso che Forte scriva allo Statuto: gli altri giornali guardano con sufficienza la scoperta de lle associazioni e contro di loro, specialmente contro Il Precursore, Lo Statuto è durissimo. Il 22 febbraio 1877 scrive: Assumere che non esistano in Sicilia associazioni di malfattori, è lo stesso che cancellare la nostra storia e distruggere gli archivi dell'isola nostra. Le abitudini, i rapporti, il linguaggio delle nostre prigioni hanno da un pezzo costituito una specie di massoneria tra tutti i malfattori dell'isola, ed è questo vincolo morale sublimato dalle politiche convulsioni che è diventato ciò che oggi chiamasi omertà e mafia.
Il nuovo questore sarà Antonio Santagostino, proveniente da Messina ma già ispettore di questura a Palermo e reggente nell'intervallo fra Biundi e Rastelli. Conosce la provincia, e si ritrova a dovere dimostrare la veridicità e soprattutto la verificabilità di una teoria associativa elaborata da altri, con cui forse non è del tutto d'accordo. A fine gennaio, il giudice istruttore Chiaja gli scrive che «proseguite le indagini per tutti i reati sopraccennati ed assunti in novello esame direttamente le parti interessate, non si è riuscito a stabilire indizii sicuri e precisi a determinare la reità di tutti o di alcuni degli imputati suddetti» e chiede nuovi elementi, «con una certa sollecitudine». La scoperta delle sette, la loro paternità dichiarata senz'ombra di dubbio, gli imputati e i loro carichi, tutto quello che a settembre veniva proclamato in toni trionfalisti si complica, diventa da dimostrare. Il questore pressa il delegato per avere più elementi, e c'è da credergli quando Bernabò risponde di avere fatto quanto umanamente possibile per ottenere maggiori riscontri. Si cercano conferme per circostanze che il questore Forte aveva dato per certe. Ad esempio, il 3 febbraio Bernabò scrive al nuovo questore: persone degne di fede gli hanno confidato che nel 1872 Giuseppe Palmeri, mentre suo fratello Paolo era delegato a Monreale, «ebbe ad intrattenersi per più tempo in questo comune». Ii zo febbraio la casa dei fratelli Giuseppe e Paolo Palmeri subisce una perquisizione e presso l'ex delegato Paolo vengono sequestrate carte e documenti da esaminare. Perché, anche se il questore Forte è stato trasferito, i guai dell'ex delegato Palmeri non sono terminati. Una volta lanciata, la calunnia gli resta incollata addosso e, senza andare 192
troppo per il sottile, il suo nome viene inevitabilmente collegato alla nascita di una setta criminale. Palmeri cerca di difendersi come può. Sempre nel febbraio del '77, scrive al prefetto Malusardi. Non ricevendo alcuna risposta, dopo un mese gli riscrive. Mantiene un tono dignitoso, ma la grande distanza fra lui e il prefetto dà inevitabilmente un tono di supplica alla lettera. Racconta la sua storia, come i suoi nemici siano stati gli uomini che controllavano la questura: Cadde loro in acconcio la mia lunga residenza in Monreale, la collegarono col processo dei cosiddetti stuppagghieri. Mi rappresentarono all'autorità inquirente come istitutore di quella malefica associazione; la indussero ad una coattiva visita nel mio burò, sebbene senza frutto. Avrebbero ancora preteso di più, ma l'oculato ed integerrimo istruttore, accortosi in tempo della maligna trama, arrestò le sue procedure e volle sentirmi personalmente Mi recai dall'istruttore sig. Chiaja. Domandai prima di tutto di che si trattasse e cosa si volesse da me, dietro l'affronto della subita visita domiciliare. Egli accennò al carico fattimi dalla questura con queste testuali parole: "la questura coi suoi soventi, ripetuti rapporti sino alla nausea ha sostenuto che lei e suo fratello Giuseppe siete stati, sebbene senza idea di delinquere, gl'istitutori della società degli stuppagghieri di Monreale. La giustizia ha dovuto compiere il suo dovere col fare eseguire quella visita nella sua casa". [...].
Il giudice restituisce all'ex delegato le carte sequestrate. Palmeri chiede quando sono cominciati i rapporti contro di lui e ha la conferma che sono tutti posteriori al 23 agosto, data de lle sue dimissioni. Ormai la faccenda è andata troppo avanti, sconfessare l'operato della questura significa mettere troppe cose in discussione. Più facile sacrificare un ex funzionario che, non adattandosi in dignitoso silenzio alle nuove per quanto spiacevoli circostanze, dimostra comunque poco attaccamento al governo. Il prefetto Malusardi scrive al questore: «Prevenire, usare prudenza e circospezione, specialmente se quanto si insinua dell'autorità giudiziaria dal Palmeri ha qualche apparenza di vero». 14 Intanto a Monreale le indagini sono su un binario morto, novità non se ne registrano ed è difficile trovare le prove dei vecchi reati. 14
ASP, AGQ,
busta 441.
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Altri avrebbero lasciato perdere ma Bernabò è il segugio ideale per stanare sette riottose, resta il solo a lottare ma non si arrende. Ad esempio, la caccia ai Miceli continua per mesi. A gennaio sembra che siano nascosti in un paese del circondario, a Borgetto. Le notizie sul loro avvistamento e i piani per catturarli si susseguono, poi all'ultimo-momento qualcosa va sempre per il verso storto. Bernabò tiene sotto pressione le famiglie dei latitanti, ne fruga le case, fa continui interrogatori. La mancanza di risultati visibili non gli impedisce di continuare. Il 1 2 febbraio scrive al questore Santagostino: «La perquisizione fatta nella casa dei Miceli fu diligentissima e durò parecchie ore. Furono tolti tutti i mobili, tastati i muri, levati i mattoni del pavimento, ma nessun nascondiglio si rinvenne». La sera del 1° marzo arresta Giuseppe Damiani, un contadino di 26 anni accusato di complicità nell'assassinio di Stefano Di Mitri e cognato di Salvatore Strano detto Allustra, «una de lle più sinistre figure dell'associazione»; ma il suo pensiero fisso resta la cattura dei Miceli. 11 marzo, Bernabò al questore: «Cerco di stancare i loro parenti con continue perquisizioni domiciliari, variando sempre le ore. Sto facendo un po' di sosta, per dare poi un assalto generale nelle feste di Pasqua». Il 21 febbraio, il questore gli comunica che lo ha proposto per una promozione immediata e gli spedisce la risposta del ministero: si provvederà non appena si faranno le promozioni in base ai nuovi organici. 15 Il delegato è costante nel suo impegno, che venga blandito o redarguito dipende dall'andamento dell'istruttoria. Il 5 marzo il questore gli scrive che le testimonianze da lui raccolte non soddisfano le esigenze del processo istruttorio, e «in questa condizione di cose io non ho saputo far di meglio se non richiamare i precedenti di ciascuno degli imputati». Nel circondario c'è la campagna militare orchestrata dal prefetto Malusardi, i banditi vengono catturati o uccisi, i giornali pubblicano resoconti sulle operazioni. Il dispiegamento di forze produce risultati visibili ed immediati, ben lontani dalle logoranti attese che comportano le indagini indiziarie. Insomma, l'interesse per gli stuppagghieri sembra diminuire, mentre la promozione tarda ad arrivare. Bernabò sostiene che, una volta abbassata la guardia, la setta sta riorganizzando i ranghi. Ma non bastano i sospetti, ha bisogno di qualcosa che lo aiuti a tenere sveglio l'interesse. ls
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ASP, AGQ,
busta 39z.
Il giudice Chiaja sta concludendo il suo lavoro. Non sembra convinto della reità degli imputati ma assolverli tutti in istruttoria non è possibile, sarebbe come dichiarare guerra alla questura. A fine marzo l'istruttoria è terminata, il processo viene rimesso alla sezione di accusa. 19 imputati vengono rinviati a giudizio, per altri 8 gli elementi sono giudicati insufficienti a provarne la responsabilità penale e il 29 marzo ne viene disposta la scarcerazione. Subito vengono accompagnati davanti al pretore e proposti per l'ammonizione. Malgrado gli addebiti a suo carico, fra loro c'è il procuratore della Mensa Pietro Di Liberto. Il proscioglimento in istruttoria di Pietro Di Liberto appare sorprendente per più motivi, riassumibili nella considerazione che dal giudice Chiaja, che sembrava così diffidente e scrupoloso, non ce lo saremmo aspettati. Perché, trattandosi comunque di un processo indiziario, contro Di Liberto si accumulano i sospetti più consistenti: dalle ombre mai completamente chiarite che avvolgono la morte del fratello alle reiterate accuse che, a cominciare dall'ucciso Simone, la famiglia Cavallaro al completo lancia contro di lui. Pietro Di Liberto appare il principale beneficiario della sentenza istruttoria, ma il suo proscioglimento non è l'unica sorpresa. A parte un accenno a Santo Saputo, che avrebbe fatto rivelazioni sugli affiliati di Borgetto e per cui si chiede «un pane nelle strade ferrate», nella copiosa corrispondenza che affianca l'istruzione non esiste alcun testimone privilegiato che, dall'interno della setta, ne sveli i segreti. Eppure il rinvio a giudizio per 19 imputati viene motivato con le dichiarazioni di un testimone mai prima incontrato, un apostata: mancando i necessari elementi per dimostrare la tesi dell'accusa, sugli stuppagghieri viene calato un modulo standard presente da anni nella corrispondenza della questura. Secondo la versione ufficiale, perfezionata e diffusa dopo il processo di appello, sul finire del settembre 1876 l'ex stuppagghiere Salvatore D'Amico rivelava tutto quello che sapeva sulla setta, dando il via alla procedura contro l'associazione. Le sue rivelazioni sono intrecciate con ingarbugliate vicende personali, che non una volta trovano riscontro nelle preoccupazioni di chi sta preparando l'istruzione del processo. Lo stratificarsi di particolari indimostrabili, forse falsi ma verosimili, crea una sorta di archetipo mitico: la setta da cui origina la rete malefica che avvolge il circondario. Modulo cono195
scitivo per più versi zoppicante, ma in grado di reggere interpretazioni di comodo e generare altri stereotipi falsificanti. Dalla sentenza istruttoria: B'Amico era stato in carcere dal 187o al '72, condannato per l'omicidio di un certo Barbera. Li aveva appreso che a Monreale esisteva una società segreta, con diramazioni in altri paesi e costituita allo scopo di delinquere. Viene affiliato, ma una volta libero perde i contatti e anzi, avendo sposato una nipote dei Caputo, entra in rapporti di amicizia e addirittura di parentela con i nemici de lla setta. Il giorno zo agosto 1876 Salvatore D'Amico doveva recarsi a Partinico per lavoro e pernotta a Monreale, dove incontra Salvatore Cavallaro che lo invita a bere e ordina all'oste di servirgli la colazione per l'indomani. «Sul far del giorno uscito dall'albergo si vide seguito e poscia circuito da alcune persone». Allora «pensò di ritirarsi sotto gli occhi della forza. Si avvicinò al quartiere bersaglieri, ove rimase qualche tempo. Ma quelli si sparsero in quel vicolo e circondarono la strada, e perciò risolse di correre dai carabinieri per essere difeso [...1. "Uno di quei 1 o infilò il suo braccio sotto il mio e mi trascinò in un angusto vicoletto ove tutti mi accerchiarono e volevano sapere il motivo de ll a visita in Monreale. Dissi che dovevo recarmi in Partinico, dicendo loro di essere in errore"». «A forza lo trassero nella casa degli imputati fratelli Mice li , ove uno stretto e minuzioso interrogatorio gli fe' comprendere che era presso di quelli caduto in sospetto di essere un mandatario venuto in Monreale per uccidere qualcuno della setta, sia per vendetta della famiglia Caputo, che aveva avuto ucciso un congiunto, sia qual braccio dei Cavallaro avversi ai settari». D'Amico giura la sua innocenza e si rivolge a Pietro Gorgone che aveva conosciuto in carcere, facendosi riconoscere come stuppagghiere. Allora «mutossi in benevolo il minaccioso contegno di quanti erano in quella casa, e profferte di colazione gli furono fatte». Bestemmiando dissero che per primo doveva cadere Simone Cavallaro, «né qui ebbero fine gli attestati di fiducia. Gli manifestavano come essi tutti facevano parte di una vasta associazione segreta diramatasi nei comuni di Bagheria, Borgetto, Partinico e San Giuseppe Jato». Poi gli stuppagghieri Gorgone e Benedetto Cangemi accompagnano il D'Amico all'osteria di Zerbo, continuando a parlare dei soci della setta e di quelli che avevano conosciuto in carcere. «Pietro Gorgone gli confida che la setta consisteva nel doversi tutti difendere, si riconoscevano da certi segni e tra questi vi ha quello di dover manifestare di soffrire un dolore da uno dei denti molari e l'altro dovrà rispondere anche a me duole lo scaglione».
La sentenza si occupa diffusamente del procuratore della Mensa: Pietro Di Liberto ottiene il non luogo a procedere perché, non essendo ac196
cusato dal D'Amico, si giudica che le prove contro di lui non siano sufficienti. L'istruttore scrive che ci sono stati dei dubbi, le informazioni avute lo indicavano come capo-direttore. La famiglia dell'ucciso e lo stesso morente credettero che avesse avuto parte nell'uccisione Cavallaro Contro Di Liberto ci sono poi gli stretti rapporti in cui si trova coi Miceli e con altri stuppagghieri e le affermazioni delle autorità di pubblica sicurezza. Ma «Pietro Di Liberto non figura nelle rivelazioni di D'Amico. Quindi la prova dell a sua reità è incompleta». 7. Cattura dei fratelli Miceli
Forse è solo un'impressione ma dopo la sentenza istruttoria, fra la promozione che non arriva e lo smacco subito con la scarcerazione di Pietro Di Liberto, le azioni del delegato Bernabò assumono un tono stanco e da questo momento perde il favore dei superiori. Una notte d'aprile, mentre controlla i giardini, Bernabò decide di perquisire «la casa del noto Sciortino Antonino inteso Bestia». L'uomo è assente ma nell'abitazione riparata fra gli alberi vengono scoperte armi e munizioni, subito sequestrate. Solerti informatori assicurano che negli ultimi giorni ci sono state riunioni di stuppagghieri, si prepara un'insurrezione. Sciortino viene arrestato in casa di un suo cugino, «perché è di indole malvagia e si sarebbe dato alla latitanza non appena avesse scoperto il sequestro delle armi». Altri g individui vengono arrestati con l'accusa di essere affiliati alla setta e ancora liberi quasi per miracolo, in relazione coi famigerati fratelli Miceli, sospetti manutengoli di latitanti, appartenenti al partito reazionario, avere partecipato ai moti anarchici del settembre '66: «Sono i più facinorosi di Monreale, ed essendosi sparsa la voce di un movimento insurrezionale si agitano nel senso di prepararsi a una riscossa». Perquisite le loro case, vengono sequestrati 4 fucili, 4 revolvers, 3 involti con munizioni e due lettere scritte da Ignazio Trifirò, condannato a 10 anni di lavori forzati. Lettere che vengono considerate elemento di reità, anche se Trifirò è parente del destinatario. I cinque arrestati vengono deferiti all'autorità giudiziaria. Il giudice Chiaja vorrebbe maggiori elementi, e Bernabò: «Che appartengono alla setta degli stuppagghieri è fatto a tutti noto e per provarlo legalmente non avrebbero che essere sentiti quegli stessi testimoni che deposero a carico degli altri imputati». Risposta che sembra educata197
mente polemica, visto che gli unici stuppagghieri mantenuti in galera sono quelli accusati da un pentito mai nominato da Bernabò. Come sempre, la vita privata del delegato si intreccia alle sue pubbliche funzioni. Da 3 anni è nella provincia di Palermo, non ha mai avuto congedi. I vecchi genitori abitano a Roma, nell'aprile chiede ed ottiene un permesso di 15 giorni per incontrarli. Non si decide a partire perché, avendo intavolato trattative per la cattura dei Miceli e di Salvatore Marino, crede sia finalmente arrivata l'occasione giusta. Naturalmente si sbaglia. Il 1° maggio le mogli dei Miceli si presentano a Bernabò, chiedono una tregua di 4 giorni con la promessa di adoperarsi per la costituzione dei mariti. Lui acconsente, ma predispone un servizio di sorveglianza delle loro case. Il 2 maggio gli comunicano che in giornata i Miceli si costituiranno. Bernabò scrive al questore: «Prego la S.V. ill.ma di voler tenere in considerazione le fatiche sostenute da me e dalla forza pubblica, per costringere i detti latitanti a presentarsi». Passa la giornata, i Miceli non si vedono. Per Bernabò la sensazione più frustrante era certo quella di girare a vuoto, dovendo fare affidamento su un potere che agiva in senso contrario agli intenti ufficialmente dichiarati. Da novembre a Monreale manca il pretore, il t° febbraio Bernabò torna a protestare. L'amministrazione della giustizia è affidata ad un uomo ignorante all'ultimo grado e senza coraggio civile E...]. Io ho pronte molte denunce per ammonizione ma fino a quando non arriverò il nuovo pretore non darò loro corso, per non espormi all'umiliazione di vedermele respinte per influenze partigiane. In questi 3 mesi si è fatto uno strazio orrendo della giustizia, quasi tutti i contravventori al porto d'armi, che furono assai, vennero assolti. Per riuscire meglio nell'intento fu quasi sempre chiamata a rappresentare il pubblico ministero qualche persona del paese. Io non fui richiesto che pochissime volte, cioè soltanto per quei processi che ammettevano una qualche responsabilità, e si fece ricadere su di me tutto l'odio de lle sentenze date. 16
La conferma più dolorosa a lle sue impressioni Bernabò dovette riceverla per il modo in cui vennero infine «assicurati alla punitiva giustizia» i fratelli Miceli . La nota che annuncia la cessazione de lle ricerche è del r 7 maggio. I due fratelli hanno un salvacondotto e, passando sopra la testa di quello che poi è solo un delegato di terza classe, si costituiscono 16
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direttamente a Malusardi, vestiti civilmente e con grosse catene d'oro al gilet. Da parte di Bernabò, nemmeno una parola. E a chi poteva scrivere ? Ai suoi superiori, cioè a chi aveva concesso quel salvacondotto mentre lui si logorava in perquisizioni e appostamenti notturni? Il caso dei fratelli Miceli non è l'unico in cui ritroviamo la presenza di un salvacondotto concesso a dei latitanti, pratica che getta una luce significativa sui contatti che si tengono con uomini ufficialmente ricercati. Ad esempio, il 9 aprile Bernabò è sulle tracce di Salvatore Spinnato e Giuseppe Segreto. Del secondo scrive: «Vedrò di procurarmi una fotografia ma credo sarà difficile, perché essendo egli un povero calcaraio, difficilmente si sarà fatto ritrattare». Segreto ha 3i anni, per la sua cattura viene fissato un premio di lire 300. Tre giorni dopo, Bernabò al questore: «In seguito ad incessanti ricerche fatte da questo ufficio ed obbligato dai parenti tutti, in seguito a continue perquisizioni, si è per questo spontaneamente costituito al sig. prefetto della provincia, dal quale ebbe un salvacondotto sino al giorno 20 del corrente mese» . 17 L'impersonalità delle norme e dei provvedimenti che derivano dalla loro infrazione erano concetti troppo astratti e lontani, uno Stato da poco formatosi e costituzionalmente portato al compromesso faticava ad affermarli. Il prefetto Malusardi è il simbolo della campagna contro il banditismo, ma non disdegna il vecchio realismo un po' miope che aveva permesso a diversi suoi predecessori di convivere coi più noti delinquenti, arrivando ad accordi giudicati vantaggiosi da entrambe le parti. Talvolta Bernabò è più fortunato, e poi non tutti i latitanti hanno le risorse e le protezioni dei fratelli Miceli. Francesco Romanotto è un giardiniere di 39 anni, colpito da mandato di cattura dal 3o settembre. Il 28 gennaio '77 arriva in questura una lettera anonima: «Signore, ogni uomo onesto deve cercare il bene del paese, ed io che mi credo onesto voglio cercare il bene del mio paese». E di seguito vengono elencati i luoghi solitamente frequentati dal Romanotto, che a quanto pare nemmeno si è spostato da Monreale. In queste case ha notizia di quello che fa la polizia. Che fare dunque? In una notte circondare tutte le case alla stessa ora e cercare bene in tutti i tetti morti, in tutti li magazzini, in tutti i sotterranei, in tutte le stanze per inSecondo la deposizione di Tajani, l'unico caso in cui si potesse lecitamente concedere
ASP, AGQ,
busta 44o.
il salvacondotto ad un latitante era per permettergli di testimoniare (Alatri, cit., p. 380).
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cassare, per riporre legna e ferramenti ed io son sicuro che in una di queste tane troverete il tristo lupo. Ecco quello bene che posso fare al mio paese, per levar via questo omicida, questo capo di stuppagghi, questo uomo sanguinario, questo uomo barbaro e nemico di dio, del governo e della società.
Francesco Romanotto viene catturato il 23 febbraio, in un giardino appena fuori Monreale; è subito interrogato da Bernabò, alla presenza di carabinieri e guardie di pubblica sicurezza. «Protestando di essere innocente, si lasciò scappare di bocca queste parole: il comandante delle guardie campestri può dire quale sia stata la mia condotta durante la latitanza».18 8. Salvatore Marino
Nel febbraio '77 prende il via la campagna militare coordinata dal prefetto Malusardi. Al questore che chiede informazioni, Bernabò risponde: «Nessuno dei latitanti di questo mandamento si è dato fin qui al malandrinaggio o è associato in bande, sia in modo permanente che ininterrottamente» .' 9 Risposta strana, specialmente se si riflette che i latitanti sono per lo più uomini sfuggiti all'arresto a causa di un'unica accusa, far parte di una setta sanguinaria che è la matrice di tutti i delitti commessi sin dal 1872. Oltre ai fratelli Miceli, nel marzo 1877 i più importanti latitanti sono Giuseppe Segreto, Pietro Parisi, Antonino Cassarà, Gaetano Zuccarello detto Ustica Bonaventura, Salvatore Spinnato e Salvatore Marino. Le possibilità di catturarli sono diseguali, pare che il Segreto si aggiri nei dintorni di Monreale, verso S. Martino, e «per la cattura di costui ho qualche speranza, avendo interessato persona di confidenza alla quale ho promesso metà del premio». Per gli altri le probabilità appaiono minime. «Pietro Parisi è in America e, come mi viene assicurato, lavora da carrettiere con tale Francesco Incontrera, pure da Monreale. Il suo domicilio sarebbe in New Orleans, St. Peters Street n° 205». Salvatore Marino, trafficante, imputato di vari crimini, «ha molta e pericolosissima importanza» e diverse condanne. E un latitante storico, con una lunga lista di accuse a suo carico. Sospettato di essere «uno dei componenti la banda di malfattori che in quel tempo infestava i circostanti giardini di Monreale», nel marzo del 1869 era stato condannato 18
Bernabò al questore, in busta 429
19 ASP, AGQ,
200
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ASP, GQ,
anno 188o, busta
7.
in contumacia a 15 anni di lavori forzati. 20 Nato il 7 aprile1 8 42, Salvatore Marino è l'unico ricercato a non essere mai catturato: in un rapporto del luglio 1877 è annotato che sfida l'autorità da ben 16 anni. Secondo le accuse che l'ex procuratore generale di Palermo Diego Tajani pronuncia alla Camera, Marino era un informatore della questura, che nell'agosto del 187o aveva provocato l'arresto di Giuseppe Mazzini. Sembra che ci avviciniamo al mistero della fondazione degli stuppagghieri: Marino è di Monreale; il delegato Paolo Palmeri aveva non uno ma due fratelli: uno di loro si è suicidato «in occasione dell'arresto di Giuseppe Mazzini». Forse il fratello del delegato ha fondato una de ll e tante sette che pullulano nell'ambiente mazziniano. Poi, quando Mazzini viene arrestato per la delazione di Salvatore Marino, cioè di un aderente a lla setta da lui fondata, è tanta l'onta che sceglie il suicidio. Ipotesi abbastanza convincente, che ha il merito di presentare in modo onorevole, con un alone ideale, la nascita altrimenti indecorosa di una setta segreta dagli scopi troppo generici. Solo che non si tratta dello stesso Marino: il latitante monrealese e il Marino denunciato alla Camera da Tajani sono due persone differenti, con lo stesso cognome. 21 busta 431. Nel suo discorso alla Camera (in Russo, cit.), Tajani denuncia un'associazione che agiva in città, responsabile di numerosi furti. «Il caporione di quest'associazione, lo possiamo dire poiché è catturato, era un certo Marino». Lupo (1993, cit.) collega la denuncia di Tajani con la presenza nelle campagne di Monreale del latitante Salvatore Marino (p. 29), indicato come punto di contatto ed elemento di continuità fra la vecchia mafia e gli stuppaggbieri (p. 6o). Ma il Marino denunciato da Tajani è già catturato, mentre il Salvatore Marino di Monreale resta sempre latitante. Che si tratti di due distinti individui lo dimostra il resoconto, pubblicato il 12 febbraio 1876 da ll a Gazzetta di Palermo, del processo celebrato presso la Corte di assise di M ilano contro i responsabili del furto al Monte di pietà, reato a cui si era riferito Tajani. Scrive la Gazzetta che il processo aveva attirato l'attenzione per la presenza fra gli imputati di Ignazio Marino, il cui nome «aveva fatto il giro d'Europa» nei giorni delle rivelazioni Tajani. Il processo era stato trasferito a M ilano per paura di intimidazioni a lla giuria: timore ingiusto e puer ile, commenta il giornale. Ma, secondo il ministro Cantelli, il processo si era celebrato a M ilano perché «tali e tante furono le arti e le intimidazioni della maffia, che in Palermo non fu possibile di costituire il giurì» (Inchiesta Bonfadini, p. 23). A Milano i giurati assolvono comunque il Marino dal reato di associazione di malfattori. Il giornale traccia un ritratto del Marino che sembra un'antologia di topos: di condizione civ ile, amministratore dei beni del barone Tortorici, apparentemente viveva con mezzi leciti. Però era un uomo misterioso. «Non si sapeva che pensava, che facesse, dove stesse in certi giorni, quali fossero i suoi principi politici. Professava repubblicanesimo, e a lui si era confidato Mazzini quando ebbe in animo di sbarcare a Palermo, non si sa con quali progetti. E gli altri repubblicani di Palermo erano verso di lui diffidentissimi e mormoravano che facesse la spia. Difatti il Marino non lasciava di avere rapporti con la polizia e specialmente col questore. Il Marino ha non poca cultura, un ingegno acuto e riflessivo. Congiurò nel 186o contro i Borboni, ebbe parte nella rivoluzione, era massone da lungo tempo. Un anno prima dell'arresto lo avevano scelto a venerabile di una loggia, composta in gran parte da operai e marinai». 20 ASP, AGQ,
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20I
Nel 1877 il delegato Bernabò fa diversi tentativi per catturare Salvatore Marino, tutti vani. Anche se con una certa riluttanza, il 22 aprile perquisisce il fondo del principe di S. Antimo, nel quartiere Malaspina; solo nel giugno vengono perquisite le case dei parenti. Il 13 luglio Bernabò scrive: «Occorre procedere contro amici e parenti, stancarli con misure e perquisizioni giorno e notte, quando non troverà più appoggio sarà catturato». Lo stesso giorno Giuseppe Madonia («cognato, giardiniere alla Molara, fece parte delle bande del '66, per più anni latitante, tristissimo soggetto») e un altro Salvatore Marino («giardiniere di Molara, non ha precedenti ma è maffioso di prima stampa, ed avendo stesso nome e connotati vuolsi che abbia ceduto al cugino la sua carta di circolazione o passaporto per l'interno») vengono chiamati per essere ammoniti come manutengoli del latitante. Con la promessa di farlo arrestare, ottengono dal pretore una proroga di 15 giorni. Poi non se ne ha più notizia. Marino è latitante ma non si allontana di molto, continua a gravitare nelle masserie attorno al paese. Secondo una lettera anonima ha la barba, gira per le campagne con un abito di panno alla cacciatora e due cani, in spalla un fucile a due colpi. Pare che frequenti una masseria di proprietà del sindaco Mirto al piano Renda, proprio di fronte al posto di guardia dei carabinieri. Il campiere è un tipo poco raccomandabile ma il comandante dei militi a cavallo si dice sicuro che non oserà ospitare il latitante, per la sorveglianza del padrone e la vicinanza dei carabinieri. E poi, i rapporti fra il sindaco Mirto e le autorità sono ottimi; perché disturbarli con inutili accertamenti? Verso altri non si usano le stesse attenzioni, fra il 1877 e il '78 vengono ammoniti 18 individui come sospetti manutengoli del Marino. Il prefetto Malusardi mette una taglia di £ 3.00o sulla sua testa, dopo molte ricerche ottiene un elenco di connotati: Salvatore Marino ha «statura piuttosto alta, corporatura vantaggiosa, viso tondo, mustacchi biondi e radi, piedi piccoli, bell'aspetto, portamento ardito. Veste da persona agiata, vuolsi eserciti il commercio d'agrumi». Manco a dirlo, è amico di Pietro Di Liberto. La commistione di affari leciti e illeciti è una costante del metodo mafioso, con la violenza usata come denominatore comune per affrettare i tempi della riuscita sociale. Nell'aprile del '77 gli amici di Marino cominciano a fare spedizioni di agrumi in America e nell'ottobre di quell'anno, all'interno dell'ennesima comunicazione sulla sua mancata cattura, il prefetto Malusardi scrive al que202
store: «Con qualche fondamento, si ritiene che Marino abbia abbandonato la Sicilia». Salvatore Marino figura ancora nell'elenco dei più pericolosi latitanti della provincia pubblicato dalla prefettura il 3o giugno '78, ma pare che sia ben lontano da Palermo. A Monreale è rimasto il padre, Rosario. Lui passa da Boston a New York e poi a New Orleans, città dove si ritrovano molti dei monrealesi che in cerca di fortuna partono verso il nuovo mondo. Una città ideale per il commercio agrumario dove, in assenza di strutture finanziarie e commerciali consolidate, c'è spazio per i mediatori. A New Orleans troviamo le famiglie dei Provenzano e dei Matranga, che negli anni '8o daranno vita ad una guerra di mafia per il controllo del mercato agrumario. I Matranga sono a capo della fazione detta degli stuppagghieri, i Provenzano dei giardinieri. Anche Salvatore Marino, sotto il nome di Ciccio Alessi e assieme ad altri due monrealesi, il latitante Pietro Parisi e l'ammonito Rosario La Mantia, si dedica al commercio degli agrumi. Per poco tempo, sino a quando il 2 ottobre del 1878 non muore di febbre gialla. 22 9.
I sistemi del prefetto Malusardi
La prefettura Zini era stata tutto un drammatico rotolare verso l'epilogo, un «crudele esperimento» che sembrava dimostrare l'impossibilità di riportare la pace sociale rispettando i limiti imposti dalle leggi. Il prefetto Zini, legalitario sino ad essere accusato di poco realismo da amici ed avversari, aveva chiesto maggiori poteri per la sua carica. Ma la Sinistra non poteva certo presentare al parlamento quelle leggi eccezionali che come opposizione aveva ostacolato. Specialmente se, come allora, l'interesse era tutto verso quella zona dagli incerti confini dove prosperavano i manutengoli. Grazie al sequestro Rose, all'inizio del 1877 l'attenzione internazionale era ancora una volta rivolta al sud dell'Italia. Ad essere sotto osservazione era non solo la Sicilia ma l'Italia tutta, in quanto Stato troppo giovane e incapace di mantenere al suo interno un livello accettabile di convivenza civile. Quando Malusardi viene nominato prefetto di Palermo il governo ha bisogno di azioni eclatanti, da cui ricavare autorità e prestigio. 22 Notizie su Salvatore Marino in ASP, AGQ, busta 431. Sulla rivalità Matranga-Provenzano cfr. Pezzino, Una certa reciprocità di favori, cit., pp. 172 - 73. 203
Il prefetto Malusardi arriva a Palermo il 17 gennaio 1877 e subito comincia una campagna in grande stile, che nasce sotto i migliori auspici. Il governo ha carta bianca. Purché vi siano dei risultati, anche l'opposizione di Destra ne appoggia l'opera, diverse volte Lo Statuto scrive che «in quanto alla pubblica sicurezza non vi sono che due partiti, gli onesti e i disonesti». Riprendendo un metodo adoperato da Gerra, Malusardi preferisce utilizzare una sua polizia personale, una task force che scavalca competenze e attribuzioni e, inevitabilmente, crea malumori. Nessuna legge speciale è stata licenziata dal Parlamento, ma i poteri concessi al prefetto tengono in poco conto i limiti della legislazione in vigore. Lo Statuto segue con attenzione gli avvenimenti, il Io marzo scrive: «Le notizie che pervengono dal circondario di Palermo dimostrano che un salutare terrore comincia ad invadere l'animo dei tristi. L'impunità sino ad adesso è stata favorita da persone che si atteggiavano ad oppositori politici, ma adesso che il governo fa sul serio non resterà più spazio per simili manovre». Il 2 1 marzo pubblica un giudizio complessivo molto amaro: «La nostra è una società malata, in cui l'autorità è considerata come un nemico e il delitto una cosa scusabile». Sullo sfondo poli tico si disegnano nuove preoccupazioni, il 24 aprile scoppia la guerra fra Russia e Turchia. Tutti i giornali dedicano ampio spazio alla questione d'oriente, al ministero dell'interno nuove paure si sommano alle vecchie e il Ministro esprime il timore che, in caso di coinvolgimento dell'Italia, le associazioni segrete possano approfittarne. Nella provincia di Palermo le iniziative intese a debellare il malandrinaggio assumono un ritmo serrato, il 27 maggio viene sciolto per decreto il corpo dei militi a cavallo. A tardiva conferma che si trattava di un'arma pronta ad accogliere anche i soggetti meno raccomandabili, un centinaio di ex militi viene mandato direttamente al domicilio coatto. Gli altri sono trasformati in guardie di pubblica sicurezza a cavallo, senza responsabilità pecuniaria, mentre i 27 comandi circondariali vengono ridotti a 7 comandi provinciali. La quantità dei risultati viene esibita come misura dell'efficienza di Malusardi. E troviamo che nel primo semestre del 1877 si moltiplica il numero delle associazioni scoperte (35 contro le 5 del 1° se204
mestre '76), mentre i provvedimenti dell'ammonizione e del domicilio coatto vengono adoperati con larghezza. 23 L'esigenza di rapidi risultati porta il prefetto ad essere accomodante coi notabili. I proprietari sono pronti a collaborare, e il loro aiuto viene accettato senza fare tante storie. Ad esempio, Termini era un paese particolarmente difficile, il 16 novembre '76 La Gazzetta di Palermo aveva pubblicato la notizia che Zini ne aveva sciolto il consiglio comunale perché la giunta operava a favore di sospetti ed anche di ammoniti. Eppure, arrivato Malusardi, molti proprietari di quel circondario partecipano alle operazioni contro i banditi. Per Lo Statuto (I° giugno) ciò contribuisce a rialzare lo spirito pubblico perché «il terrore non nasceva dal pericolo noto e valutabile di un brigante o di una banda di briganti [...]: derivava dall'ignoto e dall'indeterminato che circondava le relazioni delle bande, e i suoi protettori e compartecipi». Termini non è un caso isolato. Il 1° giugno cade in conflitto il brigante Leone, il 20 La nuova forbice dà notizia che, forti dell'autorizzazione del prefetto, parecchi proprietari di Alia hanno formato delle squadriglie che perlustrano le campagne circostanti assieme alla forza pubblica. Il loro scopo principale è dare la caccia ai banditi Salpietra e Randazzo, alla guida dei due tronconi in cui si era divisa la banda Leone. «Così è dimostrato che le popolazioni collaborano col governo, con gravi sacrifici». Sempre La nuova forbice, 24 giugno: notizie confortanti da Misilmeri. Non solo l'abitato ma le campagne sono perfettamente sicure. Se cade a terra una pera, un grappolo d'uva, si è sicuri di ritrovarli al punto dove son caduti, senza che nessuno ardisca di toccarli. Il libro nero della cronaca ladresca può dirsi, per Misilmeri e il suo territorio, chiuso e sigillato. Pare addirittura che siano ritornati i tempi patriarcali [...]. Ci auguriamo che quello che si è fatto per Misilmeri si faccia per altri comuni, che Malusardi se ne occupi con quella intelligenza che lo distingue. 23 Lo Statuto, 9 gennaio 1877: al 3o novembre 1875 gli ammoniti nel circondario di Palermo erano 3.706; nel 1876 ci sono 500 denunce per ammonizione da parte delle autorità di pubblica sicurezza, zoo dai carabinieri e nessuna dai militi a cavallo. Sempre Lo Statuto, 4 dicembre 1877: dal 1 aprile del '76 al 3o settembre del '77 sono stati «tolti alla campagna in Sicilia» 947 pericolosi latitanti. Nello stesso periodo sono stati ammoniti 4.795 individui, di cui 959 possidenti e 3.836 nullatenenti; 662 individui sono stati mandati a domicilio coatto, di cui 207 possidenti e 455 nullatenenti.
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Nel luglio continuano le scaramucce contro i resti della banda Leone, i risultati sono decisamente positivi. Il 5 luglio Lo Statuto pubblica la notizia che il brigante Mariano Gullo inteso Carretto da Caccamo si è costituito ai carabinieri. È imbarazzante che abbia un salvacondotto, ma Lo Statuto discretamente sorvola. Il 12 luglio cade nelle-mani della giustizia il brigante Randazzo, a fine mese 5 banditi sono stati uccisi e 19 catturati. Il circondario di Termini viene dichiarato libero dal malandrinaggio. Quando l'operazione condotta da Malusardi viene data per conclusa e dai consigli comunali si alzano concordi i voti di lode e ringraziamento, allora Lo Statuto prende le distanze. Il 12 luglio troviamo la prima analisi: il governo si gloria di avere ristabilito l'ordine pubblico senza uscire dalla legalità e senza l'impiego di mezzi eccezionali, Lo Statuto scrive «siamo stati zitti per non ostacolare l'opera del governo», ma la sparizione del brigantaggio è un piccolo risultato, ed è falso sostenere di non avere adoperato mezzi eccezionali. «Non sarebbe giusto disconoscere l'operosità e l'efficacia di Malusardi», ma i provvedimenti chiesti da Minghetti nel '74, da adottare alla luce del sole, erano libertari al confronto di quelli adottati da Nicotera in silenzio e nell'ombra: «mezzi eccezionali non regolati da leggi eccezionali». Come ai tempi della prefettura Zini, con inesorabile regolarità Lo Statuto pubblica i suoi articoli sull'ordine pubblico, sui mezzi adottati per risanarlo, sui modi in cui le leggi sono state violate mentre si sosteneva di rispettarle. Il 18 agosto, riflettendo che i risultati ottenuti da Malusardi dipendono troppo dalle facoltà eccezionali a lui concesse, torna a chiedere una modifica delle leggi esistenti. Lo sfoggio di potere ed efficienza esibito dal prefetto Malusardi ha un raggio d'azione molto limitato. Sino a quando si tratta di sterminare le bande che infestano le Madonie i proprietari collaborano volentieri, per loro i benefici vanno oltre la soluzione del problema delle bande. Infatti ricevono un importante riconoscimento, rivendicato sin dai tempi della prefettura Rasponi. Allora i proprietari, protestatari e schierati all'opposizione, accusavano lo Stato di incapacità e chiedevano di avere delegato il diritto di violenza sociale. Col prefetto Rasponi ed anche con Zini il governo aveva tentato una tardiva resistenza, di proporre una sorta di contratto sociale dove lo Stato fosse il garante de ll e regole e il depositario de ll a fiducia 2 o6
dei cittadini. Anche se rappresentano l'ultimo governo della Destra e il primo de ll a Sinistra, le parabole che i due prefetti compiono a Palermo sono simili. Si tratta di due personaggi limpidi e disarmati, hanno la missione di ricondurre gli antichi alleati alla ragione e fare osservare le regole. Di fronte alle difficoltà vengono abbandonati, entrambi si dimettono in contrasto col ministero. Adesso, con la sua richiesta di aiuto, il prefetto Malusardi non fa che accettare le pretese dei proprietari. Essi hanno delle squadre armate alle loro dipendenze, il prefetto ne riconosce la liceità e ne chiede l'intervento. Così, una classe che affida il proprio prestigio all'uso della violenza ottiene tolleranza e deleghe. L'allargamento democratico nell'uso della violenza è il contrario del cammino che percorre uno Stato nel suo processo di formazione, e nel sud dell'Italia coincide col consolidarsi di una classe media avversa alle istituzioni in tutte le sue fibre. Il io novembre, nel discorso pronunciato a chiusura della sua campagna, Malusardi affermava che «il brigantaggio era spento in tutta la Sicilia», ormai vivo solo nella memoria. Ma la sua resta un'operazione di facciata: nel corso della sua espansione il sistema di potere nazionale non ingloba i poteri locali, scende a patti con essi. E da questo momento la mafia prospera. Nonostante i proclami ufficiali, a dispetto del controllo che prefettura e questura esercitano sulla stampa, appare evidente che la fortuna di Malusardi è molto breve. A fine agosto lo stato dell'ordine pubblico è dato per ristabilito, e i giornali che avevano tessuto le lodi del prefetto prendono le distanze con disinvoltura. D'altronde, una volta uccisi o catturati i briganti, il prefetto diventa un personaggio scomodo. Meno imbarazzante sarebbe stato se Malusardi fosse stato richiamato mentre tutti ostentavano di ammirarlo. Siccome questo non accade, l'atmosfera attorno a lui si raffredda rapidamente. Ufficialmente tutto va nel migliore dei modi, non ci sono reati. Il 23 agosto il Giornale di Sicilia scrive che in piena città, in corso Pisani, le guardie di pubblica sicurezza a cavallo hanno sorpreso ed arrestato in flagrante furto di un cappello un giovane ammonito di Misilmeri. In quest'atmosfera falsamente idilliaca gli interventi dello Statuto risultano quasi inopportuni. Ad esempio, l'8 settembre pare poco elegante il suo non stancarsi di ricordare che, uccidendo o catturando i briganti che in campagna si mostravano a viso aperto, si è fatta solo una parte dell'opera. 2 07
Il disamore dei giornali verso Malusardi appare motivato dal fatto che, conclusa la campagna contro i banditi, l'attivismo del prefetto non si sa contro cosa puntarlo. A lasciarlo fare c'è il rischio che vengano di nuovo tirati in ballo imbarazzanti questioni di connivenze e appoggi, specialmente se il giornale della Destra non si stanca di suggerirgli nuove direzioni adducendo una gran quantità di ragionevoli argomenti. La Destra vuole dimostrare la necessità ancora attuale delle leggi speciali, alla Sinistra basta avere dato una ripulita alla facciata, cercare di essere presentabili senza mandare tutto all'aria. Non per questo manca la consapevolezza dei compromessi che si tengono in piedi. Lo stesso Nicotera, a proposito di un'azione repressiva del governo contro la mafia, il 24 settembre 1877 aveva scritto sul giornale Perseveranza che «si mostrerebbe poco criterio a negare che, ove quest'azione riuscisse, il partito di Sinistra ne scapiterebbe grandemente di influenza e di potere nelle province napoletane e siciliane». 24 L'attacco contro il prefetto ha un carattere preventivo: mentre si rifiuta la specificità siciliana, si aggredisce per paura di essere attaccati. Ad esempio, sotto un'apposita rubrica «scandali» il giornale Il Paese scrive: «Nei giornali di Napoli leggiamo scandali di cui in Sicilia non si ha idea. Deputati che prendono sotto la loro protezione noti camorristi, vicesindaci che rilasciano certificati di buona condotta a sospetti e pregiudicati che invitano i cittadini a firmare petizioni» (i r ottobre). Il prefetto lo si può attaccare anche ignorandone l'esistenza, per cui sparisce dalla cronaca mondana. Ad esempio, il 15 ottobre 1877 si inaugura l'Hotel des Palmes, il Giornale di Sicilia ne dà una cronaca dettagliata. L'albergo sorge nella posizione più bella ed igienica della città. Il sig. Enrico Ragusa, proprietario della Trinacria ed ora anche del nuovo albergo, ha dato uno splendido pranzo, facendo servire il caffè nella serra. Gli invitati non erano molti, ma sceltissimi. C'erano il marchese di Torrearsa, il comandante delle truppe in Sicilia, i consoli di Inghilterra, Germania, Austria, Spagna, Belgio, Svizzera e America, il commendatore Notarbartolo, l'imprenditore Ignazio Florio. Sulla vicina terrazza, musica militare ad allietare i convitati. Nessun accenno al prefetto.
A novembre la fortuna di Malusardi è definitivamente tramontata, ma le cerimonie ufficiali seguono ugualmente il loro lento ritmo e anche a Monreale il consiglio comunale si riunisce per ringraziarlo. Lo fa il 3 novembre in seconda convocazione straordinaria, la prima era andata deserta. 25 In seduta non pubblica, dichiarando di farsi portavoce del «partito degli onesti cittadini», la giunta ringrazia frettolosamente il prefetto. Il sindaco dichiara che Malusardi «imprimendo forza coi suoi opportuni provvedimenti alle leggi esistenti, senza passarne i limiti e senza scapito delle individuali prerogative, ha restaurato l'ordine nella nostra provincia». Le condizioni della pubblica sicurezza possono considerarsi «rientrate nei termini della loro vera normalità, non solo nel nostro comune ma bensì nella provincia, anzi nell'isola tutta», che ora può tornare a chiamarsi «paese civile». 26 Si tratta di panegirici rituali, nel frattempo l'isolamento del prefetto prosegue veloce. L'analisi dello Statuto è critica e dettagliata ma ad essere sotto accusa sono le decisioni del governo, non il prefetto. 10 novembre: Zini aveva chiesto che fossero accresciuti i poteri del prefetto. Nicotera non volle leggi, preferì l'arbitrio. Le province di Girgenti, Caltanissetta e Trapani sono state messe sotto la direzione del prefetto di Palermo, gli arresti sono stati fatti senza mandato del giudice. Assolti nei processi, gli imputati sono stati mantenuti in prigione e mandati a domicilio coatto facendoli ammonire in galera. 1 r novembre: «Il sistema di Nicotera è un sistema di mafia, non può valere ad altro che a ringagliardirla non appena cessata l'attuale provvisoria oppressione». L'arbitrio e soprattutto la non controllabilità de lle decisioni ha guidato anche i provvedimenti benevoli: dal luglio al dicembre del '77, quando il governo e il prefetto credevano che in Sicilia ogni pericolo fosse ormai cessato, 462 condannati al domicilio coatto sono stati messi in libertà senza dare alcuna pubblicità alla cosa. All'inizio di dicembre, in una lunga relazione presentata alla Camera sugli affari del suo ministero, Nicotera dedica molto spazio 25 Malusardi era stato trattato alla stessa stregua di quanti chiedevano informazioni e chiarimenti. L'8 agosto il prefetto aveva scritto al sindaco, «la S. V. è nuovamente pregata di volere dare risposta e con tutta sollecitudine alla mia nota del 27/6 relativa ai latitanti di codesto comune» (ASCM, busta 657, fasc. 15). Palermo, sopra i provvedi-
Manifestazioni della pubblica opinione nella provincia di pubblica sicurezza in Sicilia e sopra l'operato dementi adottati dal governo per restaurarela Palermo 1877, pp. 139-14o. 26
Rip. in P. Turiello, Governo e governati in Italia, a cura di Piero Bevilacqua, Torino 1980, p. 32. 24
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gli uffiziali e agenti di pubblica sicurezza che li attuarono,
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a difendersi dalle accuse della Destra. Per giustificare i sistemi adottati in Sicilia enfatizza la pericolosità delle sette segrete che pullulano nell'isola, Lo Statuto commenta: «Non possiamo lagnarci delle tinte esagerate e fosche di romanzieri lontani [...1, quando sentiamo un ministro della Corona sballarne di così grosse sopra associazioni segrete dai contrassegni misteriosi, di cui bisognerebbe provare l'esistenza» (4 dicembre). Relazione sui lavori compiuti nel distretto della Corte d'Appello di Palermo nel 1877: la pubblica sicurezza è stata restaurata, aumentato il numero degli uffici di polizia, delle caserme e dei presidi militari. Il quadro ha sfumature bucoliche: le vie sono tranquille, «pei sentieri campestri non più paurose comitive di viandanti ma individui so li e spensierati», le campagne si ripopolano. Unica nota stonata i 74 suicidi, ben 3o in più rispetto al 1876 e 43 in più rispetto al 1875. «Grida di approvazione e incoraggiamento» vengono indirizzate a «quei benemeriti cittadini che tanta onorifica parte vollero avere nella crociata bandita dal governo contro il malandrinaggio, che aveva in ogni classe patroni e compari». Adesso il brigantaggio appare spento ma la mafia, «eterno semenzaio di masnadieri», a parere del prudente procuratore Morena è viva e sta spiando l'opportunità per tornare ad essere visibile. 27 Qualche giorno dopo lo stesso procuratore Morena tiene il discorso inaugurale dell'anno giudiziario 1878. Questa volta il suo tono è dimesso, ha perso smalto e sicurezza, le sue dichiarazioni vengono soppesate senza indulgenza dal giornale Il Paese. Sembra che siano passati molti anni da quando un coro di commenti entusiasti seguiva le imprese di Malusardi e non si trovava una critica nemmeno sullo Statuto. Il 7 gennaio Il Paese pubblica un resoconto al vetriolo dove nessun merito è riconosciuto a quello che più volte era stato salutato come il salvatore della patria: Sventuratamente ricordiamo tutti quali siano stati gli avvenimenti dolorosi dai quali è stata contristata la nostra provincia nel decorso anno 1877. Ricordiamo tutti quali e quante violenze siano state commesse dall'autorità politica ne' nostri paesi sotto il pretesto di restaurare la pubblica sicurezza 27 Relazione statistica dei lavori compiuti nel distretto della Corte d'Appello di Palermo nell'anno 1877, letta il a gennaio 1878 dal procuratore generale del Re Carlo Morena,
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e quanto ingiustificabile sia stata la condotta dell'autorità giudiziaria di fronte alle esorbitanze e sopercherie dei poliziotti che ci hanno recentemente governato. Era quindi desiderio dei cittadini ascoltare la parola del procuratore generale presso la nostra Corte d'Appello, per sapere sino a qual grado si era spinta la complicità del potere giudiziario nelle turpitudini commesse dall'autorità politica. «La mafia baldanzosa, i ricatti audaci, le bande armate scorazzanti la vicina campagna, era il funesto retaggio che il 1877 aveva ricevuto dai suoi avi». Così esclamava ieri il Comm. Morena nelle prime pagine del suo resoconto. E nel constatare sì dolorosa verità veniva poi con la più sorprendente ingenuità a dichiarare che mercé la crociata, così egli la chiamò, bandita dal governo contro i malfattori, il brigantaggio è di già spento, e che delle parecchie centinaia di latitanti, tra briganti e galoppini di briganti nessuno più ne esiste, perché taluni si sono spontaneamente costituiti alle autorità, taluni sono caduti in conflitto e taluni sono stati in altro modo tolti. L'ultima frase fece grave sensazione sull'uditorio, perché sfortunatamente non accade raramente che pregiudicati spariscano in modo misterioso. Il comm. Morena tace addirittura se i mezzi usati sinora per abbattere il brigantaggio militare e per sgomentare la mafia siamo o no stati entro i limiti di quella legge che la sua carica gli impone di tutelare.
Una volta dichiarato che l'ordine pubblico era stato ripristinato, il prefetto Malusardi diminuisce le pattuglie che perlustrano la città. I suoi molti nemici l'aspettano al varco e non gli perdonano il sequestro di un uomo, Alessandro Parisi, rapito in pieno giorno vicino la sua casa, fuori porta Maqueda. Malusardi cerca di diffondere la voce che si tratta di volontaria sparizione, non di sequestro. Ma Parisi viene tenuto in ostaggio per 12 giorni e liberato dopo il pagamento di un riscatto di £ 67.000. Malusardi era stato nominato prefetto di Palermo da Nicotera. Nel novembre del '77 si forma il terzo ministero De Pretis, con Crispi al ministero dell'interno. La prefettura di Palermo resta uno di quei test da cui si giudicano i governi, tutti si aspettano che Malusardi venga richiamato. Tardando la nomina di un nuovo prefetto, nel febbraio del '78 i giornali vicini al ministero attaccano Malusardi, scrivono che Crispi non è soddisfatto della sua opera ma non lo ha sostituito perché non ha trovato nessuno disposto ad accettare un'eredità tanto compromessa. Il 27 febbraio Lo Statuto riporta le sorprendenti esternazioni del ministro dell'interno: Crispi aveva dichiarato di non potere valutare l'operato de lla prefettura di Palermo, 2I1
a causa dei poteri straordinari concessi da Nicotera e da lui confermati senza però conoscerne l'esatta portata. Crispi resta in carica per pochi mesi, nel marzo si forma il governo Cairoli con Zanardelli agli interni. Le voci sui candidati alla prefettura di Palermo si infittiscono, il primo aprile i giornali di Roma danno come certa la nomina dell'on. Clemente Corte, deputato della Sinistra per il collegio di Rovigo. Lo Statuto scrive che aspetterà i fatti prima di giudicare. Nel frattempo invita il nuovo prefetto a stare ben attento alle sassate degli amici. A Palermo si preparano i processi contro la rete delle associazioni. Oltre gli stuppagghieri verranno giudicate le associazioni di Misilmeri, di Marineo e dell'Uditore mentre, a causa della poca collaborazione fra polizia e magistratura, il giudizio contro la società dell'Oblonica ha «un rincrescevole esito». Non appena ricevuta la nomina, il nuovo prefetto scrive al questore perché metta tutto l'impegno per evitare che il lavoro già fatto vada perduto e lamenta come la regia procura, non credendo all'esistenza di associazioni o almeno al loro collegamento, attribuisca la recrudescenza dei reati a condizioni transitorie. 28
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2I2
Lettera del 2 aprile 5878, dal prefetto al questore, in
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busta 388.
Capitolo settimo
Il processo
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. Bernabò liquidato
Il delegato Bernabò è poco amato, e ha un punto debole nel suo continuo bisogno di soldi. Bisogno che non deve essere solo una pena privata, perché alla fine sarà adoperato come un'arma contro di lui. Le circostanze materiali in cui il delegato Bernabò trascorre la vita sono avvilenti. Ha tre figli da mantenere, prima di morire a Monreale la più piccola gli costa molto in cure mediche. Dopo averne letto i rapporti, le lettere riservatissime, gli sfoghi e le amarezze che gli causa il servizio, averne conosciuto la correttezza e la puntigliosità, sembra di vederlo mentre si dispera perché il decoro sia salvo. Nonostante i numerosi meriti e i tanti encomi è sempre delegato di terza classe con £ 1.800 annue, il gradino più basso della carriera e dello stipendio. E poi, pare che le circostanze congiurino contro di lui. Fa sorvegliare i parenti dei latitanti, ha anticipato ad un confidente delle somme sottratte al suo magro bilancio. Fatica a recuperare i soldi ed è costretto a chiederli al questore, scendendo a spiegazioni umilianti, «ora per la circostanza della morte della mia bambina e della malattia di mia moglie mi trovo in ristrettezze». L'8 aprile del '77 gli viene comunicato che ha ottenuto un aumento di stipendio di cui ha urgente bisogno, ma a fine mese non lo percepisce. Nel maggio tutti gli impiegati di pubblica sicurezza ricevono un aumento: considerando che ne doveva percepire uno a partire da aprile, l'aumento di maggio non gli viene calcolato. Ma non arriva nemmeno quello concesso ad aprile. Bernabò sembra sull'orlo della disperazione. Ed ecco il colpo a tradimento. Nel maggio del '73 era stato delegato a Palestrina: quattro anni dopo, nel maggio del '77, salta fuori un bottegaio di quel paese che avrebbe una sua obbligazione per il valore di £ 500. Bernabò protesta che non è vero, e poi perché mai il bottegaio ha aspettato tutto questo tempo? Non sarà che qual213
cuno fra i tanti a cui ha dato fastidio a Monreale ha trovato il modo di vendicarsi ? Ma basta il sospetto, il doversi difendere, mentre le sue condizioni economiche non migliorano. Il 4 giugno chiede al questore che gli vengano anticipate 300 lire che gli spettano per le trasferte, «trovandomi per circostanze di famiglia in qualche bisogna», ma non le ottiene. Sempre nel mese di giugno, un anonimo informa il prefetto che Bernabò avrebbe contratto debiti a Monreale. Lettere analoghe vengono inviate al questore.' Monreale 3 luglio 1877, relazione semestrale sullo spirito pubblico. Il delegato Bernabò può vantare molti servizi e neanche uno sbaglio, se si esclude l'essere stato un entusiasta esecutore della volontà del questore. Eppure la sua posizione è diventata molto critica, il delegato cerca di presentarsi sotto una buona luce. Scrive che le condizioni del paese sono molto migliorate: «In questo ultimo semestre infatti, cosa veramente straordinaria per Monreale, non si ebbero a deplorare che so li 2 omicidi avvenuti in rissa, mentre per il passato gli assassinii si succedevano con una rapidità che incuteva un serio spavento nell'animo dei buoni». Bernabò distingue i diversi crimini: «Gli omicidi di forza sono reati che non fanno impressione nell'opinione pubblica, perché furono e saranno sempre il risultato dell'impeto dell'ira che non tutti sanno dominare. E l'assassinio il crimine che atterrisce e che con sé trae conseguenze funeste e terribili». Bernabò loda il questore che ha rapidamente curato la piaga della mafia. Loda anche le guardie campestri, i carabinieri, le guardie daziarie e municipali. Ammette che in paese vi è un po' di malumore, ma solo nei tristi e nei parenti degli arrestati. Per il resto «la popolazione si è risvegliata e riacquista il coraggio da tanti anni perduto. E cosa veramente consolante vedere ora la sera le pubbliche strade frequentate da insolita popolazione e i civili attendere nelle stanze di compagnia a geniali passatempi, mentre per il tempo passato ad un'ora di notte la città pareva una necropoli tanto era il terrore». Ci sono lodi anche per il sindaco Mirto Seggio: si sta lastricando la piazza, da Palermo sono arrivati degli uomini addetti alla pulizia delle strade, il regolamento della polizia urbana si fa rispettare da guardie civiche in uniforme. Sembra insomma che tutto vada nel migliore dei modi. Sei mesi prima Bernabò aveva definito 1 ASP, AGQ,
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busta 391.
Monreale «paese turbolento e sanguinario», per non dire dei suoi abitanti che «non hanno mai avuto principi politici. Per essi l'amore della patria, la nazionalità, l'unione delle province italiane sono sofismi. [...] Essi [vi] antepongono il proprio interesse e coll'egoismo più sfacciato non si peritano di asserire che il loro dio è il denaro» . 2 L'8 luglio la fermentazione della paglia stipata nel sottotetto del giardiniere Michele Modica provoca un incendio, che rischia di propagarsi alle case vicine. Bernabò si adopera strenuamente perché non ci siano troppi danni, riceve molti ringraziamenti dal sindaco e dalla giunta. La sua azione viene segnalata al prefetto,] sembra che tutto possa tornare a posto. Ma il 22 luglio, lettera riservatissima al questore, gli eventi stanno già precipitando. L'appuntato che comanda il drappello delle guardie di Boccadifalco va dicendo in giro che Bernabò sarà trasferito a Termini, l'ha sentito dal suo delegato. Forse ciò sarà soltanto un pio desiderio del detto mio collega. Detta notizia divulgatasi in Monreale mise in contentezza certi individui che osteggiano la pubblica sicurezza, ed io ho dovuto notare che i tristi rialzarono alquanto la loro audacia. Io certo m'augurerei una migliore residenza, ma in questo momento farei qualsiasi sacrificio per non darla vinta a certuni che millantano che riusciranno a farmi da qui trasferire. Partirei volentieri da questa città con una promozione, perché allora il mio amor proprio sarebbe soddisfatto E...]. Le promesse fattemi svaniscono come nebbia al vento.
Il 26 luglio Bernabò fa un gesto da disperato, inoltra al ministero domanda di promozione. Nessuna risposta. Il 3o luglio 1877 viene trasferito a Termini Imerese, senza alcun avanzamento di grado. Resterà ancora in Sicilia per più di un anno, in varie delegazioni. Sempre a lottare con la mancanza di soldi, resa più acuta dai frequenti traslochi. Nel giugno del '78 viene destinato a Palermo. Propone al questore la creazione di una scuola per guardie di pubblica sicurezza, dove si possa loro insegnare a leggere e scrivere, oltre ai rudimenti delle leggi. Bernabò è maestro elementare, abilitato per l'insegnamento, offre la sua opera. Il questore ringrazia, poi non se ne fa niente. 2
Relazioni su llo spirito pubblico datate 1/12/1876 e 3/7/1877 in busta 716.
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busta 461.
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Bernabò si chiude in un silenzio per lui insolito. Nel novembre del 1878 si reca a Termini, ma non ne sappiamo più di tanto. Il 3r di quel mese, in un laconico rapporto a firma illeggibile indirizzato al prefetto troviamo: «Ieri sera col collega Bernabò giungemmo a Termini». I suoi problemi sono sempre gli stessi: il 9 novembre del '78, delegato presso l'Ispezione marittima, scrive al questore. Da 5 mesi è in città, vive di stenti, vorrebbe tornare a reggere la delegazione mandamentale in uno dei paesi della provincia. Lì, anche se il lavoro e la vita per la famiglia sono più disagiati, tutto costa meno. Non riceve risposta, qualche mese dopo viene trasferito a Livorno. Muore nell'ottobre dell'82, non sappiamo di quale malattia. La sua povertà gli sopravvive come un marchio indelebile: nel comunicare la notizia al questore, il prefetto chiede se per caso «non sia rimasto debitore verso lo Stato». 4 2.
Il paese degli stuppagghieri
A Monreale, dove spesso le amministrazioni comunali erano travagliate da crisi e da dimissioni a catena, l'elezione del sindaco Mirto inaugura un periodo di calma che sembra svanire nel luglio del 1877, quando l'ex sindaco Andrea Di Bella si dimette da assessore e consigliere e, avuta notizia che anche il sindaco Mirto presenterà le dimissioni, scrive al prefetto perché invii un abile e scaltro regio delegato straordinario: «guai se in quell'amministrazione metterà le mani il partito degli usurai, borbonici, reazionari e settembrini». Il 21 luglio sul corso principale si trova affisso un manifesto manoscritto, contro 2 funzionari municipali parenti del sindaco che si erano molto adoperati per la sua elezione: Popolo di Monreale stabilemo la morte ragionale Inghilleri, cassere Mirto. E pure a galantomini si avi bruciari anzina le case. Tutte per tutte.
Il ragioniere e il cassiere «sono ora i consiglieri intimi del sindaco e incontrano l'odio di coloro che per il passato ebbero maneggio nelle cose del comune». 5 I galantuomini a cui si devono bruciare perbusta 3 91, fascicolo personale di Bernabò. anno 1875, busta 61, fasc. 63, rapporto del questore.
sino le case sono i notabili che sostengono Mirto. Il manifesto è simile, nel tono e nell'elementare contenuto, a lle tante proteste sociali sempre presenti nel meridione: fiammate violente come paglia che brucia, subito cenere. Sembra che ci sia aria di ricambio, poi la crisi rientra perché in effetti il sindaco Mirto riesce ad essere un abile mediatore fra le diverse fazioni e, grazie ai suoi rapporti privilegiati con l'amministrazione e col deputato Inghilleri, riesce a mettere in moto la macchina dei lavori pubblici. Il sindaco Mirto ha il merito di intrattenere ottimi rapporti con la questura e la prefettura, che infatti lo spalleggiano nel caso di «incidenti di percorso». Anche se nessuno è del tutto contento, è molto difficile trovare un nome che raccolga maggiori consensi. Così le dimissioni rientrano e Mirto mantiene la carica. Il 9 agosto 1877 arriva il nuovo delegato di pubblica sicurezza Pio Cicognani, Monreale gli dà subito delle preoccupazioni. Nella notte Ball' 1r al 12 agosto avviene un furto nella ricevitoria di registro e bollo. Si involano 7.000 lire e fedi di credito per un ingente valore, a nulla varranno le indagini e i numerosi interrogatori condotti dal coscienzioso delegato.' Il delegato Cicognani è una persona ordinata: sicuro che la giustizia non può essere efficiente se non dispone di registri ed archivi ben organizzati, è infastidito da tutto quello che non è a posto. Sulle condizioni in cui è tenuta la delegazione di Monreale trova subito molto da ridire. Nell'anno che Bernabò ha trascorso in paese il ritmo degli avvenimenti è stato incalzante: il delegato ha impiegato il suo tempo a cercare indizi, tendere agguati ai latitanti, tracciare il ritratto di un'intera setta da consegnare nelle mani de ll a punitiva giustizia e dei posteri. Non ha avuto modo di tener dietro a tutte le quotidiane burocratiche incombenze, per cui il suo successore trova l'ufficio e l'archivio nel più completo disordine. Fra le altre cose, Cicognani si lamenta molto di un registro di protocollo che, a partire dal 187o, risulta compilato nei modi più diversi ma tutti difettosi e insufficienti; nel 1876 non è stato affatto utilizzato, le pratiche giacciono in disordine. In seguito alle proteste di Cicognani arriva un ispettore, che rileva un'altra mancanza: da molto tempo nessuno si è curato dei nulla osta per l'estero e «rimane dunque sempre più di-
4 ASP, AGQ,
s ASP, GP,
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' ASP, AGQ,
busta 708.
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mostrato [...] che questi isolani vanno all'estero senza passaporto, sottraendosi così (abbiano o non abbiano interesse a sottrarvisi) a tutte le precauzioni contro i catturandi, i renitenti, i disertori».' Anche il delegato Cicognani incontra qualche ostacolo nell'esercizio delle sue funzioni. Il 14 ottobre denuncia per l'ammonizione due giardinieri, Giuseppe e Giacomo Sciortino, come mafiosi, manutengoli del bandito Salvatore Marino e sospetti affiliati alla setta degli stuppagghieri. Come contromisura i due fratelli presentano al pretore una autocertificazione, un attestato di buona condotta redatto da un notaio e firmato da 46 concittadini. Aggiungono poi un atto ufficiale, rilasciato dal sindaco, in cui si dichiara che gli Sciortino hanno sempre tenuto regolare condotta morale e politica. Il delegato protesta col questore, sull'onda dell'indignazione chiede se non sia il caso di denunciare il sindaco di Monreale.'
di e a cavallo, nonché carabinieri a cavallo. Tutto procedette con ordine, il che fa molto onore al municipio e al sindaco cav. Pietro Mirto.
All'inizio del 1878 scompaiono due fra i più importanti protagonisti del risorgimento, il 10 gennaio muore Vittorio Emanuele ii, il 7 febbraio Pio ix. Con un po' di ritardo, anche a Monreale viene celebrata «una mesta cerimonia funebre» in onore del defunto re; Il Paese ne scrive il 28 febbraio, sembra di leggere la cronaca di una rappresentazione teatrale:
A parte qualche sporadico accenno, trasferito Bernabò quasi non si parla più degli stuppagghieri. Ormai l'istruzione del processo è conclusa, le indagini hanno inseguito gli individui sospetti a ritroso negli anni, il delegato Bernabò ha battuto le piste del rancore individuale, tirato in ballo la rivalità generazionale, cercato in tutti i modi di tracciare il ritratto di un'associazione criminale i cui contorni restano indefiniti. Perché Bernabò cerca la setta e ne bracca gli affiliati, ma dai suoi verbali non si capisce perché avvengano i reati. Ad esempio, è consapevole dell'importanza di Pietro Di Liberto ma, nel suo cercare i moventi degli omicidi senza troppo considerare gli scopi dell'eventuale organizzazione, non vede niente di sospetto nella rete di legami informali che Di Liberto mantiene, né accenna mai all'acqua della Mensa e agli interessi che vi gravitano. Gli stuppagghieri vengono definiti una associazione che agisce contro le persone e la proprietà, la prova della loro esistenza è negli omicidi. Frutto di rivalità personali o esito dell'ostilità contro un avversario, gli omicidi si stagliano su uno sfondo che resta vuoto, non bastando a definirlo e specificarlo le rivalità contingenti o una generica attitudine al malfare.
Ieri, sebbene il cattivo tempo ci avesse fatto arrivare un po' tardi, abbiamo assistito ai solenni funerali celebrati dal municipio di Monreale in quel duomo per il re Vittorio Emanuele. A lla luttuosa commemorazione prendeva parte tutta la città; tutti i negozi erano listati a lutto, e i balconi de ll a piazza del duomo erano tutti tappezzati con drappi bianchi orlati di nero ed ornati di corone d'alloro e di bandiere, il casino di compagnia e la casa comunale erano parati a lutto, con cortine di velluto nero. Sulla porta laterale del duomo e in quella principale, festoni di fiori e drappi neri [...]. Le arcate della grande navata erano adorne di cortine nere, fermate a metà delle colonne con trofei di bandiere e scudi con lo stemma dei Savoia. In mezzo al coro, tutto decorato da drappi neri tempestati di stelle d'oro, c'era il catafalco [...]. Signore e signori in abito nero occupavano la grande navata riservata agli invitati. Le due navate laterali erano zeppe di popolo [...]. Tanto all'andare quanto al ritorno trovammo scaglionate sullo stradale da Palermo a Monreale un buon numero di guardie di pubblica sicurezza a pie7 ASP, AGO, busta 435. ASP, GP, anno 1877, busta
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39, fasc. r9.
A Palermo la vita scorre, non sarà economicamente sana ma è una delle più grandi città d'Italia. Il 17 ottobre 1877 il Giornale di Sicilia scrive: «Una persona del 1877 mangia per 3 del 1857, e se tornassero in vita i nostri avoli del 1807 vedrebbero con meraviglia che uno di noi mangia quanto 6 dei nostri rispettabili nonni messi assieme». Il 23 marzo del '78 Il paese pubblica la cronaca dell'inaugurazione dei tramways, più economici delle carrozzelle di piazza, che da Piazza Marina all'Acquasanta attraversano la zona più ricca e vivace della città. 3. Il processo
Avvicinandosi la data del processo, ogni tanto dalla questura arriva l'eco di qualche preoccupazione. Si teme che la setta torni a 9 Nell'aprile del 1877 Pietro Mirto Seggio aveva ricevuto la croce di «cavaliere della corona d'Ita li a» (Lo Statuto, 4/4/ 18 77) .
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colpire, per intimidire i giurati o incutere timore nei testimoni e costringerli al silenzio. 10 La difesa è sostenuta dai più bei nomi del foro palermitano, per ottenere il loro patrocinio «occorrono dei mezzi che le sole contribuzioni degli affiliati non bastano a fornire»: dalla questura si ipotizza che per arrotondare le entrate vengano praticati furti ed estorsioni. A Monreale c'è stato il furto nella ricevitoria di registro e bollo, un altro furto è stato perpetrato ai danni dell'esattoria. I colpevoli saranno gli stuppagghieri, visto che si tratta di imprese condotte nel migliore dei modi e loro sono maestri del delitto. Non essendoci traccia di reati volti a intimidire il giudizio, dalla questura arriva l'anticipazione che le vendette avverranno dopo la sentenza, a prescindere dal verdetto. I giornali seguono i processi con attenzione, ma niente supera la passione con cui vengono riferiti anche gli avvenimenti più minuti di cronaca nera. A volte pare di essere capitati in una fantasia collodiana, il ribaldo che ruba un cappello viene arrestato e le guardie di pubblica sicurezza vigilano occhiute anche dentro le pentole. Ad esempio, il 17 febbraio 1878 un trafiletto su Lo Statuto ha un titolo che attira l'attenzione, Una gallina sospetta Un ammonito era intento a cucinare una gallina. Due guardie di pubblica sicurezza, incaricate probabilmente di sorvegliare quel pregiudicato, ed attratte forse dal magnifico odore dell'apparecchio, vollero entrare in cucina. Furono un po' curiose, veramente - curiosità che d'altronde apprezziamo molto in siffatti agenti - e chiesero al gastronomo la provenienza della gallina. L'ammonito, che non s'aspettava tale domanda, si confuse, non potè giustificare il fatto suo; e gli importuni visitatori pensarono di condurlo seco.
Il processo contro gli stuppagghieri si celebra dal 25 aprile all'8 maggio 1878, davanti la Corte di assise di Palermo. Il questore segue il dibattimento attraverso i quotidiani resoconti riservati di un suo inviato, il delegato Varnara. Il dibattimento comincia a mezzogiorno, i 18 imputati in aula più il latitante Salvatore Marino sono accusati di «far parte di una soSecondo Lo Statuto (13 agosto '76) «attorno ad ogni Corte d'assise esiste una formale o non formale associazione di gente che vive corrompendo in tutti i modi i giurati. Ogni giurato ha il suo prezzo [...]. Nei processi di mafia uno dei più comuni mezzi di corruzione è quello di far sapere a un giurato che g sono favorevoli all'imputato e che l'assoluzione dipende perciò da lui. Il giurato crede che i suoi atti e le sue intenzioni siano spiati e non ardisce più avere volontà e criterio». 220
cietà segreta di delinquenti detta degli stuppagghieri» e alcuni di carichi speciali." Il Presidente introduce i lavori: dopo il 187o a Monreale avvenivano frequenti attentati contro le guardie di pubblica sicurezza, attribuiti dalla voce pubblica ad una setta il cui nome bastava a evocare terribili vendette. Si trattava degli stuppagghieri, il cui vero nome era società dei compari. Per essere accettati bisognava avere coraggio e fama di mafioso, giurare cieca obbedienza, nella sventura essere solidali coi compagni, aiutare i soci carcerati con ogni mezzo. L'affiliazione avveniva durante una cerimonia segreta: il neofita si pungeva il pollice destro sopra una sacra immagine, facendovi gocciolare un po' di sangue. Il santino veniva poi bruciato e le ceneri disperse, a significare la sorte dei traditori. Il processo è costruito sulla testimonianza di Salvatore D'Amico, celebrato contro gli uomini da lui accusati: gli stuppagghieri che con la violenza lo hanno portato in casa dei fratelli Miceli, quelli conosciuti in carcere, altri a cui ha riservato dichiarazioni particolari (è il caso di Salvatore Marino). Definito nell'udienza di apertura «teste ucciso in marzo ultimo», Salvatore D'Amico è morto, ma la sua uccisione non lascia più tracce della sua vita. Nei voluminosi incartamenti della questura niente rimanda a lui o ai suoi assassini, fra le sentenze della Corte d'assise non c'è quella che condanna il suo uccisore e le varie ricerche incrociate sul suo nome non approdano a nulla.l 2 Fra il 26 e il 27 aprile vengono interrogati gli accusati. Nessuno ammette di avere conosciuto D'Amico, di fare parte dell'associazione 11 Imputati: i fratelli Paolo e Baldassarre Miceli, Paolo e Michele Di Gregorio, Pietro Gorgone, Ignazio e Francesco Romano detti Romanotto, Vincenzo Sinatra, Salvatore Strano, Filippo Cammarata, Giovanni La Venia, Salvatore e Giuseppe Segreto, Salvatore Pizzo, Saverio Spinnato, Vincenzo Termini, Benedetto Cangemi, Ustica Bonaventura, Salvatore Marino. Le accuse: Salvatore Strano: assassinio con premeditazione e agguato contro Stefano Di Mitri. I due Miceli, Strano, Pizzo, Gorgone e Cangemi: assassinio con premeditazione e agguato contro Simone Cavallaro. La Venia e Sinatra: assassinio con premeditazione e agguato contro Salvatore Caputo. Segreto: recidiva di crimine. I due Miceli, Gorgone, Cangemi, Strano e Pizzo cumulano più reati. La Corte è presieduta dal cav. G. Di Menza, l'accusa è sostenuta dal sostituto procuratore generale sig. I. Broggi. Dai resoconti del delegato Varnara, il collegio di difesa degli imputati risulta composto dagli avvocati Caputo, Cuccia, Donatuti, Figlia, Garritti, Gestivo, Giambruno, Lucifora, Messineo, Nasca, Puglia, Rizzuto e Zucco. 12 I rari accenni all'esistenza di Salvatore D'Amico rimandano tutti alla stessa indicazione, «vedi associazione malfattori Bagheria». I so li documenti classificati sotto questa voce sono in ASP, GP, anno 1887, busta too, fascicolo 116: riguardano reati compiuti nel 1883 e un processo per associazione di malfattori celebrato nel 1887 contro 64 imputati. 221
o di avere responsabilità negli omicidi Di Mitri e Cavallaro. L'imputato La Venia riferisce di avere recentemente sentito in carcere, da persona a lui sconosciuta, la voce che gli stuppagghieri fossero informatori raccolti dal delegato Palmeri, che li pagava una lira al giorno. Una parte degli accusati definisce la parola stuppagghiere come un insulto. Saverio Spinnato dice che nel carcere con stuppagghiere si intende «uomo da nulla». Il dibattimento prosegue l'indomani e, scrive Il Paese (27 aprile), si aspettano «rivelazioni poco onorevoli per le autorità di polizia. Sembra difatti accertato che l'associazione sia stata fondata a Monreale nientemeno che da un delegato o da un suo fratello, e che avesse avuto per molto tempo intime relazioni con la questura». L'imputato La Venia riferisce la voce secondo cui a Monreale era di pubblico dominio che gli stuppagghieri ricevessero la paga di 1 lira al giorno dalla questura. 4. Il trionfo degli assenti
Il 28 aprile comincia l'escussione dei testimoni. Il processo si sviluppa attorno a tre grandi assenze: è assente perché morto il teste principale, e l'impossibilità del confronto rende statiche le sue dichiarazioni, mai modificabili. D'Amico è un testimone interno, ammette di essere stato uno stuppagghiere ed è l'unico abilitato a rilasciare una simile patente: le sue parole restano lontane come un dogma, le uniche ad essere considerate vere. Col risultato che Pietro Di Liberto, indicato da tutti quelli che ammettono qualcosa come capo de lla setta, dopo essere stato prosciolto in istruttoria non compare nemmeno fra i testimoni. Il nome di Pietro Di Liberto, la sua influenza sugli imputati e soprattutto sui fratelli Miceli, il suo ripetuto comparire nelle dichiarazioni dei testi, fanno del procuratore de lla Mensa l'accusato assente. Ruolo che Di Liberto condivide con l'ex delegato Paolo Palmeri: neanche lui è fra i testimoni mentre tornano a galla, difficili da respingere quanto più sono vaghe e calunniose, le vecchie accuse del questore Forte. E, per restare sulle irragionevoli assenze, neanche l'ex questore Forte compare fra i pubblici ufficiali chiamati a testimoniare, nonostante possa vantare la scoperta della setta. Il primo dei 155 testimoni ad essere introdotto in aula è Giovanni Riolo, comandante delle guardie campestri di Monreale, che Il Paese definisce testimone omnibus. La sua deposizione è fra le più 222
esplicite: gli stuppagghieri esistono, lo afferma la voce pubblica. Gli imputati in aula appaiono una misera rappresentanza, visto che gli aderenti sono circa 30o con diramazioni a Bagheria, Parco ed altri comuni. Si ritiene che i capi siano Saverio Spinnato, i fratelli Miceli e Di Liberto. Uccisione Cavallaro: in piazza furono visti 5 stuppagghieri: i fratelli Di Gregorio, Salerno, Sinatra e Pizzo. A suo giudizio costoro uccisero Cavallaro. Omicidio Di Mitri: si dice che sia stato deciso dalla setta e che gli autori siano Salvatore Strano e Damiani. Strano era stato visto armato nei paraggi del fondo Di Mitri, qualche giorno prima che quest'ultimo venisse ucciso. Omicidio Caputo: la voce pubblica incolpa La Venia e Sinatra. Riolo è uno dei testi principali, ma riferisce solo voci e vaghi indizi. Scrive Il Paese (29 aprile): «La difesa assalisce da tutti i lati il teste Riolo, ed in mezzo alle moltissime ed argute interrogazioni che partono dal banco della difesa egli se la cava ora bene ed ora male. La deposizione dura 2 ore ed assorbe l'intera udienza». Nel rapporto del delegato Varnara leggiamo che i testimoni a carico dicono di sapere dell'esistenza della setta dalla voce pubblica. La difesa rilancia: responsabili sono le autorità politiche, che scendevano al solito sistema delle transazioni. Testimonianza del delegato Negri, a Monreale nel 1873: seppe che esisteva la società, si spaventò perché era imponente e sanguinaria. Durante la sua permanenza a Monreale i fratelli Miceli mantennero buona condotta. Chiesero il rinnovo del porto d'armi e lo ottennero al patto di comportarsi bene e sciogliersi da lla società. Nel parlargli della setta il delegato Palmeri si mostrava impaurito. Delegato Nicola Savoja: «Avvenivano dei reati di sangue, venni a sapere che i fratelli Miceli erano tra quelli che avevano mano nei reati e denunziai per l'ammonizione. Seppi che fra i capi della società c'era Di Liberto». Maresciallo Luciano Alongi, a Monreale nel 1872: sentì parlare della società, in tutto sarebbero stati circa 30o e ne facevano parte Spinnato e i fratelli Miceli. Subì un attentato, perché sapeva dell'esistenza della setta. i° maggio, continua l'esame dei testimoni. Brigadiere dei militi a cavallo Gaetano Gandolfo: D'Amico è stato guardia campestre a Misilmeri, ha sposato una sua nipote e gli ha confidato l'esistenza di 223
una società segreta a Monreale. Dopo la sua morte si disse che era stato ucciso dagli stuppagghieri, perché li aveva offesi. Sul suo cadavere c'erano ferite d'arma da taglio sulla parte destra del corpo e all'inguine, lato sinistro, cosa che avvalorerebbe l'ipotesi di un ferimento in seguito a rissa. Qualche giorno prima del suo omicidio uno s tuppagghiere era stato visto a Bagheria. Il 2 maggio viene ascoltato il delegato Filippone: nel giugno '74 sentì dire che in paese esisteva una setta, si diceva che l'avesse organizzata il fratello del delegato Palmeri. «All'inizio era internazionalista, poi prese il carattere criminale». Ne facevano parte i Miceli, Di Liberto, Di Gregorio, Spinnato e altri. Furono condotte indagini. In un rapporto al questore aveva scritto che la società poteva dirsi estinta, però si sbagliava. Maria Grazia Milazzo, vedova Di Mitri: suo marito era stato ucciso davanti la grata del giardino. Lo ha trovato ancora vivo, gli ha chiesto chi l'avesse colpito ma lui non le ha risposto. Interrogato dalla giustizia aveva detto: «Signore mi lasci stare, voglio morire». Per quanto ne sa, «non aveva questioni con alcuno». Era incaricato della questua per la festa di san Pao lino, per questo era in giro. Gli stuppagghieri li sentiva nominare dal marito, non sa cosa siano. Giuseppe Di Mitri, figlio dell'ucciso. Avvicinò il padre prima di morire, ma non ricevette nessuna confidenza. Ha sentito dire che il colpevole è Strano, ma non sa dire che rapporti c'erano fra suo padre e Strano.
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Il 28 aprile Lo Statuto aveva dato notizia della partenza del prefetto Malusardi, col piroscafo per Napoli. L'on. Clemente Corte e il generale Pallavicini, destinato al comando de ll e truppe stanziate in Sicilia, arrivano a Palermo il 2 maggio. L'on. Corte era stato garibaldino, ufficiale di artiglieria e, scrive IZ Paese, intemerato patriota. Viene accolto con grandi feste e speranze. Malusardi se ne era andato nel gelo. Il pomeriggio del 2 maggio vengono ascoltati diversi testimoni sull'assassinio di Simone Cavallaro. Secondo la sentenza istruttoria, l'uccisione di Cavallaro era avvenuta «perché avverso alla setta degli stuppagghieri e perché aveva spiegato ogni impegno per liberare il nipote Castrenze Cavallaro», accusato di avere ucciso Paolo Salerno. Dell'omicidio vengono ac224
cusati i Miceli, Pizzo, Strano, Gorgone e Cangemi. Di Salvatore Strano, principale accusato, si dice che per eliminare ogni idea di vendetta, «prudentemente aveva chiesto a Simone Cavallaro del denaro in pro della madre di Paolo Salerno». Testimonianza di Giuseppe Cavallaro, padre di Simone: in cornpagnia del figlio era andato a Palermo, a comprare merci per il suo negozio. Al ritorno vengono fermati dai Miceli e da Sinatra, che propongono loro di far parte della società degli stuppagghieri e vogliono portarli da Pietro Di Liberto per fare il giuramento. Rifiutano, e Simone viene ucciso per non lasciare testimoni. Giuseppe Cavallaro resta fedele alla sua tesi: la setta uccide per non lasciare tracce, lo ripete mentre va facendo le sue accuse a destra e a manca ed è ancora vivo. Il vecchio Cavallaro sospetta da sempre che Sinatra sia l'assassino del figlio. Quanto al Di Liberto, è lui il capo degli stuppagghieri: poco prima di morire, Simone aveva ricevuto una visita del Di Liberto. Voltandosi verso il muro aveva detto: «E con quale faccia viene a visitarmi! ». La testimonianza di Giuseppe Cavallaro è tutta contro Di Liberto, ma il processo è un rito che si regge sulle presunte dichiarazioni di un teste già morto, le dichiarazioni dei vivi non hanno peso. Testimonianza di Castrenze Cavallaro, nipote di Simone, già imputato dell'omicidio di Paolo Salerno: ha sentito dire che i fratelli Miceli ed altri erano stuppagghieri, la gente li temeva, ma a lui non hanno mai fatto del male. Non sa nulla sull'assassinio dello zio. La società è organizzata con ramificazioni a Borgetto ed altri paesi, si viene ammessi dopo una cerimonia. Un giurato gli domanda come potevano sapersi i particolari sulla setta, essendo questa segreta. Risponde «per voce popolare». Ignora chi siano i capi, però in giro si diceva Di Liberto e i fratelli Miceli. Vengono ascoltati anche Salvatore Cavallaro, nipote dell'ucciso e il figlio Giuseppe: sono gli unici che fanno riferimento al D'Amico. Salvatore sostiene di averlo incontrato a Monreale, Giuseppe che ha saputo di quest'incontro. Secondo la versione ufficiale Simone Cavallaro sarebbe stato ucciso proprio perché gli stuppagghieri avevano visto D'Amico assieme a Salvatore Cavallaro e, nonostante poi il D'Amico avesse chiarito l'equivoco, avevano sospettato guerre e congiure. La sala del dibattimento è piena di curiosi, amici e parenti degli imputati, questurini in borghese. Il 3 e 4 maggio sfilano i notabili: 225
Antonino Leto, già sindaco, Giuseppe Inghilleri, Andrea Di Bella, già sindaco, Angelo Sangiorgio, Vincenzo Vaglica, il conte Ranchibile (garantisce personalmente per Pietro Gorgone, che è stato fattore presso suo fratello il principe), il parroco Salvatore Mirto: tutti quanti a giurare che gli imputati sono bravissime persone. Per- l'accusa i fratelli Miceli sono i più tristi e prepotenti individui ma i testimoni li ritraggono come le migliori persone del mondo, che mai si sono allontanati dalla moralità. Anzi, i fratelli Miceli sono quelli che hanno più testimoni a favore. Si leggono documenti dai quali risulta che non avevano alcun carico al 1876, e sono gli unici. 13 Il 6 maggio Il Paese scrive che molti testimoni hanno deposto sulla buona condotta degli imputati. «Fra i testimoni a discolpa fu notato il cav. Biundi, ex reggente della questura di Palermo ed in atto questore a Venezia». Biundi contraddice quanto aveva dichiarato in istruzione, quando aveva sostenuto che la setta poteva ritenersi di carattere internazionalista. In udienza afferma che «il credere internazionalista l'associazione degli stuppagghieri è cosa stupida ed accredita l'idea che gli associati, più che discepoli di Marx erano ammiratori dei Leone, dei Capraro, dei Nobile e di quella pleiade di illustri briganti che spadroneggiarono per molto tempo nelle nostre province». Sempre il 6 maggio Il Paese riporta la notizia che la sezione d'accusa della Corte d'appello ha prosciolto 9 individui di Castelbuono accusati di far parte dell'associazione della Portella. Sentenza che è l'ultima di una serie, per cui i 143 imputati originari sono stati tutti scarcerati. Fatto «grave, strano e mostruoso», che «rivela nei sistemi di polizia praticati in Sicilia o una colpevole cecità, o una sconfortante impotenza, o infine una negligenza deplorevolissima, non potendo e non volendo ammettere una scellerata malvagità». Il Precursore commenta: «Legga il prefetto Corte le fasi di questo processo e vegga che razza di polizia e di giustizia si aveva col Malusardi in Sicilia». La testimonianza del delegato Bernabò merita un intero rapporto del delegato Varnara. I fatti li sappiamo: Bernabò è destinato a Monreale nel luglio 1876, gli omicidi di Caputo e Cavallaro sono 13 In attesa del giudizio, Paolo Miceli viene sospeso dalla carica di campiere della Mensa arcivescovile (ASP, FGBV, serie r a anno 1878, busta 55). ,
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dell'agosto. Il delegato indaga, scopre una setta fondata da un certo Minasola di Pioppo - che qui compare per la prima volta - e dal fratello del delegato Palmeri. Scopo: togliere di mezzo tutti coloro che la ostacolavano. Capi: i fratelli Miceli e altri che ha indicato nei suoi rapporti. Permessi d'arme ai Miceli: non erano stati concessi all'epoca sua. La voce pubblica indica Di Liberto e i fratelli Mice li come capi. Di Liberto è lo stesso individuo che oggi pressa la giustizia per ottenere la libertà degli stuppagghieri e di altri mandati a domicilio coatto: evidentemente Bernabò non riesce a stare zitto, ma anche in questo caso si lascia correre. A domanda della difesa: non può rivelare i nomi di chi gli ha rivelato l'esistenza della setta, potrebbero essere assassinati. La difesa chiede l'incriminazione di Bernabò per reticenza, il pubblico ministero respinge l'istanza, la Corte dichiara il non luogo a procedere. La difesa protesta, la Corte invita Bernabò a riferire qualche nome, lui risponde negativamente. Nuove proteste da lla difesa, pubblico ministero e Corte ripetono le loro argomentazioni mentre la difesa continua a protestare. La testimonianza di Bernabò, reticente solo ad una prima lettura, è al contrario molto esplicita: non segue la versione ufficiale, non fa alcun cenno a Salvatore D'Amico ed è un chiaro atto d'accusa contro Di Liberto. Tutti gli imputati hanno diversi precedenti, tanto che la difesa si oppone alla lettura de lle biografie. Comunque ogni imputato presenta una dettagliata discolpa, con numerosi testimoni che assicurano della bontà dell'indole e dell'affidabilità. Ad esempio, Termini è un commerciante di agrumi, ha traffici con la città di Cag liari, 8 persone assicurano che è uomo buono e onesto. Dopo la costituzione al generale Medici e la scarcerazione nel 187o, i fratelli Romano si sono comportati più che bene. Giuseppe Segreto è un sorvegliato speciale, non si spiega come potrebbe far parte della setta. Il pubblico ministero sottolinea che il giudice Chiaja ha deciso il rinvio a giudizio per gli stuppagghieri ma ha liberato gli imputati di Castelbuono, evidentemente aveva abbastanza prove. Però, appellarsi al giudizio dell'istruttore per sostenere l'accusa è ammettere di essere in difficoltà. Gli avvocati hanno buon giuoco nell'attaccare le prove raccolte e deriderle, irridono anche la sentenza della sezione d'accusa che «non ritenne sufficienti gli indizi a carico di Pietro Di Li227
berto anche se agli atti figurava come capo settario». Per l'assassinio Di Mitri erano stati denunciati Rossello e Cammarata, il primo riconosciuto dal ferito stesso al lampo del fucile, ma si erano lasciate cadere le accuse perché ad ogni costo si voleva dimostrare l'esistenza dell'associazione. D'Amico aveva detto che a Monreale era stato preso in mezzo a 10 uomini e portato a forza nella casa dei Miceli. La difesa argomenta che è impossibile, troppi testimoni, fra cui i bersaglieri e gli operai che in quel periodo basolavano la piazza del duomo; chiede di ripetere l'esperimento, la Corte rifiuta. Gli avvocati sostengono che la setta è un'invenzione della polizia, non è mai esistita. Il lungo elenco di imposture riconducibili alla questura finisce con l'accusa che il processo contro gli stuppagghieri è un'operazione politica, per «incolpare queste popolazioni e trattarle da iloti». Il delegato Varnara scrive: «La società appare essere stata organizzata dalla polizia I testimoni prodotti dall'accusa non parlano degli accusati». E non si capisce se si tratta di una sua considerazione o di quanto sostengono gli avvocati. Dopo 18 giorni di dibattimento, la Corte assolve 6 imputati e r2 li condanna come colpevoli di associazione di malfattori, risultato che il questore giudica soddisfacentissimo. La sentenza distingue diverse posizioni e responsabilità, per cui 9 imputati vengono condannati a 5 anni di reclusione, Salvatore Segreto a 6 anni, Vincenzo Sinatra e Salvatore Strano (accusati degli omicidi Caputo e Di Mitri) ai lavori forzati a vita. «Strano accolse con segni di furore la notizia de ll a sua condanna: fu mandato un carabiniere a fare cessare le di lui grida, ma Strano gli strappò l'arma accennando a ferirsi; fu necessario fare uso de lle manette e l'accusato fu portato fuori dall'aula» (Lo Statuto, 17 maggio). Salvatore Marino, latitante, accusato di far parte dell'associazione e coinvolto nell'assassinio del «miserando Caputo» (la polizia «voleva trarre in arresto il latitante capo stuppagghiere Marino mercé i buoni uffici del disgraziato»), viene condannato a 7 anni di reclusione. 14 14
La sentenza contro gli stuppagghieri e quella contro il latitante Marino in ASP, fondo Tribunale, Sentenze Corte d'assise ordinaria, anno 1878, vol. 2359. Gli imputati, Romano Ignazio, Ustica Bonaventura, Romano Francesco, Segreto Giuseppe, Termini Vincenzo, Cangemi Benedetto vengono assolti. Miceli Paolo, Miceli Baldassarre, Di Gregorio Paolo, Di Gregorio Michele, Gorgone Pietro, Cammarata Filippo, La Venia Giovanni, Pizzo Salvatore e Spinnato Saverio, sono condannati a 5 anni di reclusione, tutti con la riduzione di 6 mesi per effetto dell'amnistia. 228
Il delegato Cicognani al questore: «Ieri sera si era sparsa la voce che gli stuppagghieri fossero stati liberati e che non fosse stata ritenuta l'associazione criminosa, tanto che le famiglie parenti ed amici dei detenuti si posero in allegria e si vociferava ancora che alcuni dei loro amici avessero deciso di andare incontro agli stuppagghieri, quando ritornavano in Monreale». A lla notizia che r z erano stati condannati e 6 liberati «spariva l'allegria e tutto ritornava nella solita calma». Sembra che tutto sia finito bene, il prefetto si congratula col questore per la sua opera «tendente a mettere alla luce le diverse tenebrose associazioni di malfattori che come una vasta rete si estendono per tutto il circondario di Palermo». E così l'ipotesi che la Destra aveva inseguito ma non era riuscita a dimostrare trova conferma sotto il governo della Sinistra, che quella teoria aveva attaccato e ridicolizzato. Ma è una teoria a cui ormai è stato tolto il suo potenziale offensivo, non è rivolta contro manutengoli e facinorosi della classe media ma contro generici malfattori e le prove, restando insufficienti a dimostrare la struttura associativa, vengono create ad hoc mescolando intuizioni, qualche vecchio rapporto di questura e un po' d'azzardo. Agli stuppagghieri si riconosce la primogenitura, le altre associazioni processate in quegli anni sono viste come una loro emanazione. Del resto, quando la questura sostiene che la setta è stata fondata da un delegato dà una sorta di imprimatur. E poi, le altre sette non possono esibire testimoni interni: le rivelazioni di Salvatore D'Amico resteranno in filigrana nei racconti sui rituali di affiliazione alla mafia, sino ad oggi. II 21 maggio '78 sul Corriere giudiziario del Giornale di Sicilia veniva riportata la cronaca del processo agli stuppagghieri, dando per buona la tesi del questore Forte sulla loro origine. Il 28 maggio lo stesso giornale pubblica una lettera di Giuseppe Palmeri: non può avere fondato alcuna setta, nel '71 si era allontanato da Palermo per tornare solo nel 1875. È la lettera di un dandy un po' annoiato dalle insinuazioni: «Del resto quanti mi conoscono sanno che io non ho bisogno di logorarmi la vita e la coscienza per soddisfare i miei bisogni. Io vivo di rendita e non d'impiego; e per indole, e per educazione, sono stato e sono sempre alieno dal mescolarmi in cose o serie, o tristi, o profonde come il racconto del suo appendicista». Diverso è lo stile dell'ex delegato Paolo, che addirittura pubblica un opuscolo indirizzato al direttore del Giornale di Sicilia. 229
Ma le calunnie sono difficili da lavare, resta sempre un alone. E poi, sarebbe stato facile sostenere che c'entrava la questura, se fosse stata ipotizzata la sua estraneità. Una volta che la versione ufficiale è sulla colpevolezza di un delegato, indirettamente la setta viene presentata come il risultato di una delle tante transazioni poco chiare operate dalla questura. Ed era improbabile che qualcuno si provasse a dimostrare la falsità di tale ammissione... 5. Il prefetto Corte, una storia che si ripete
Sul Precursore leggiamo che, in occasione dell'incontro col procuratore generale comm. Morena, il prefetto Corte e il generale Pallavicini hanno visitato l'aula dove è in corso il processo contro gli stuppagghieri. Sempre Il Precursore del 5 maggio dà notizia che nel loro giro per i comuni della provincia il prefetto Corte e il generale Pallavicini sono andati a Monreale. Il sindaco Mirto ha fatto gli onori di casa in modo esemplare, Lo Statuto aggiunge che il pranzo comprendeva 16 portate. Il prefetto Corte non lo sa, ma sta beneficiando del periodo di tregua che spetta a quasi tutti i prefetti di nuova nomina. Lo stesso giorno Il Precursore scrive: «Il Nicotera aveva il genio inventivo delle cospirazioni, delle congiure, delle associazioni pericolose, per avere poi la ragione delle repressioni a casaccio e degli arresti arbitrari. Lo Zanardelli lascia che ogni cittadino esprima liberamente le sue opinioni». La tregua ottenuta dal prefetto Corte al momento del suo arrivo, l'apertura di credito che gli accordano i giornali, i benevoli resoconti di visite nei paesi del circondario e pranzi coi notabili, tutto questo è di breve durata. Ben presto non sarà più possibile sostenere che tutto va nel migliore dei modi, che i problemi sono risolti. Nonostante quello che Lo Statuto definisce «il manto pietoso steso dalla questura», gli episodi di brigantaggio tornano ad essere visibili. Il 16 giugno viene pubblicata una notizia che invano s'era cercato di bloccare: da 8 giorni il figlio del sindaco di Prizzi è nelle mani dei rapitori. Avvenimento che fa una pessima impressione, di botto sembra di tornare a un clima di guerriglia che s'era pensato per sempre superato. Perché il giovane (i giornali lo chiamano «il giovane Sparacio») viene rapito dalla banda del brigante Reina dopo uno scontro a fuoco in cui un rapitore viene ucciso e un altro ferito, mentre gli altri spariscono fra le montagne col sequestrato. 230
Il prefetto tenta la linea dura, viene impedita ogni trattativa con i banditi, ma intanto la tregua che gli era stata concessa è terminata. Lo Statuto scrive: «Siamo tornati all'età eroica del brigantaggio» e ricomincia a pubblicare le sue analisi che non lasciano vie di scampo. Il 2 luglio scrive: «La Sinistra ha creduto di poter guarire senza l'impaccio delle leggi, insegnando alle nostre popolazioni educate male che il solo diritto de lla forza ha ragione di esistere». E, agli avversari che gli rimproverano il comportamento poco edificante tenuto da lla Destra a Palermo, risponde: «Che doveva fare il governo quando per ogni nonnulla gli si minacciava ribellione ? Il prefetto Zini aveva chiesto un aumento dei suoi poteri: lo si è sconfessato, preferendo agire senza leggi eccezionali ma come se ci fossero». Il 9 di luglio «il giovane Sparacio» è liberato dai suoi stessi rapitori: sulla dinamica dell'avvenimento restano molti punti oscuri, ma la tensione sembra allentata. Alla Corte d'assise si celebrano diversi processi contro le bande sconfitte da Malusardi, vengono processate le bande Rinaldi, Sajeva, i resti della banda Leone. A fare il conto delle bande distrutte da Malusardi sembra comunque di potere tirare un sospiro di sollievo: Don Peppino il lombardo, la banda del brigadiere Oliva, quella di Valvo, Cicero, Plaja, Rocca, Rinaldi, Capraro, Leone, Di Pasquale e Sajeva non riempiranno più le cronache dei giornali. Ci sono ancora molti latitanti, il 5 agosto Lo Statuto scrive che, secondo una statistica pubblicata dalla prefettura, in provincia se ne contano più di 15o. Segue una precisazione: «Non si tratta di bande ma di una associazione segreta che potrebbe rapidamente estendersi ad una lega terribile di scellerati». Esercitano il delitto per il trionfo della repubblica internazionale, hanno adepti in altri paesi, «sono filiazioni della celebre associazione degli stuppagghieri e prendono vari nomi secondo i diversi paesi, come l'oblonica di Girgenti o lo zubbio di S. Stefano». 5 settembre: 8 briganti fra cui Randazzo, Salpietra e Passafiume della banda Leone, fuggono dalla vettura cellulare che dal carcere li portava in Corte d'assise. Lo Statuto scrive che alcuni vengono catturati con l'aiuto della popolazione, ma la fuga dei banditi diventa l'occasione per attaccare il prefetto Corte sulle condizioni generali dell'ordine pubblico. Si scopre che al momento de lla fuga i tre carabinieri di sorveglianza erano senza rivoltelle e con le carabine scariche, mentre «i detenuti avevano addosso cinghie di pelle con fibbie munite di artiglioni atti a rompere le serrature della vettura cellulare e 231
anche le catenelle di fil d'acciaio fuso». Negligenza o complicità? Il direttore del carcere viene trasferito a Oneglia, il comandante della legione carabinieri è messo sotto inchiesta, i tre carabinieri consegnati al potere giudiziario sino a quando il 23 settembre ottengono la libertà provvisoria e sono trasferiti o collocati a riposo. 4 ottobre, Lo Statuto pubblica un'altra notizia poco confortante: dal carcere di Nicosia sono fuggiti 12 detenuti. La fuga dei banditi riporta l'attenzione sulle condizioni del circondario. Pochi mesi prima le bande erano state date per distrutte ma ora sembra di tornare ai tempi di Malusardi, con squadre di fattori e contadini guidati dai proprietari che danno la caccia ai briganti. Il prefetto ha rapidamente perduto il favore de lla stampa, né glielo riguadagnano le numerose condanne con cui si concludono i processi contro le bande Sajeva, Alfano e Plaja. Nella prima metà di dicembre cade il ministero Cairoli. Il 13 La nuova gazzetta pubblica le dimissioni del prefetto Corte, che il 20 dicembre offre un pranzo d'addio all'Hotel des Palmes e il 23 parte da Palermo. Si forma il nuovo governo De Pretis. Subito cominciano a rincorrersi le voci sul nuovo prefetto di Palermo.
Capitolo ottavo
I risultati
I. Il buon governo del sindaco Mirto 2 luglio 1878, rapporto sullo spirito pubblico: a parere del delegato Cicognani le condizioni politiche e morali del mandamento sono molto migliorate, per lo meno in paese e negli immediati dintorni. Per i6 anni questa popolazione
fu sottomessa perché atterrita dai continui reati di sangue che tutto il dì si verificavano per opera di una vasta rete di malandrinaggio astutamente disciplinata e con numerosi associati [...]. Dopo il processo contro gli stuppagghieri nell'animo degli onesti è subentrata la calma e il coraggio, nei tristi lo scoraggiamento e l'umiliazione e con essi più specialmente il loro capo, nella persona dell'ammonito Pietro Di Liberto. Contro costui, che però dispone di mezzi pecuniari e fa uso di quella malefica influenza che per lo passato fece piangere e mise nella disperazione molte oneste famiglie, fa d'uopo una speciale ed incessante vigilanza, che sola può bastare a fermare i suoi malvagi istinti, e per ottenere la quale era assolutamente necessaria la provvista misura dell'ammonizione.
Scrivendo al questore, senza testimoni di mezzo, il delegato Cicognani dà per scontato che Di Liberto sia il capo de lla presunta setta. Il procuratore della Mensa è diventato «l'ammonito Di Liberto», ma ha conservato la sua carica: come già Bernabò prima di lui, nemmeno il delegato Cicognani sembra capire il potere che gliene deriva. E più facile analizzare i dettagli: Di Liberto è ricco ma ancora avido e pensa solo al suo interesse: il mafioso inserito in una solida rete di legami familiari ed elemento di una famiglia allargata, policentrica, con più fratelli uniti contro tutti, è un modello a lui estraneo. Ha un fratello interdetto per motivi che non sappiamo, di cui è stato nominato curatore e, litigando per questo con i fratelli canonici, tiene in gabella un suo fondo. Il figlio del fratello interdetto vorrebbe togliergli la gabella ma, scrive Cicognani al questore, è un giovane istruito ed educato. Di Liberto sostiene di avere il contratto di gabella 232
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ma non vuole esibirlo e accusa il nipote di averlo minacciato, anche se con tutta probabilità le cose stanno in tutt'altro modo.' A giudizio di Cicognani, c'è tranquillità: «Per non incorrere nella contravvenzione all'ammonizione nelle prime ore de ll a sera i tristi si ritirano nelle loro case, non si fidano ad uscire di notte poiché sono sicuri che troverebbero appiattate de ll e pattuglie da ll e quali verrebbero arrestati». Vengono chiesti altri 4 agenti oltre ai 31 che ci sono, specialmente dopo il mese di ottobre, «quando le notti sono lunghe e la stagione propizia ai malfattori». Le condizioni della pubblica sicurezza sono soddisfacenti, avuto riguardo che in Monreale i tristi abbondano, in un paese dove non si conoscono principi pubblici propriamente detti se non l'egoismo e il malfare, e dove i reazionari hanno sempre dato prova in ogni tempo della loro malvagità, fa d'uopo stare in guardia, perché un sol momento che si dovesse rallentare la sorveglianza contro i tristi e le preventive energiche misure sarebbero capaci di vendette di sangue le più terribili [...]. Che bella cosa e quanta tranquillità porterebbe alla pubblica sicurezza se un bel giorno si potesse fare una buona retata, mandarli al domicilio coatto liberando questo mandamento da tanti barbari che per le molte loro nequizie non avrebbero il diritto di far parte della società civile.
Il delegato Cicognani è contento del sindaco Mirto e ne scrive al questore in termini entusiasti: rappresenta ottimamente la sua carica, è stimato da tutti meno che da pochi egoisti, sa ispirare fiducia nella popolazione. Ha avuto cura di aumentare la scuola pubblica, sistemare la piazza e le strade interne, «gli orologi pubblici sono riformati al sistema francese. Le strade comunali e provinciali sono date in affitto [...J. Una piccola osservazione io però dovrei fare, nei professori de ll a scuola vi abbonda in moltissima parte l'elemento pretino, dannazione del paese! »2 Il 7 agosto 1878 il questore di Palermo raccomanda al prefetto la riconferma di Mirto Seggio nella carica di sindaco, «perché sarebbe ben difficile trovare chi potesse degnamente rimpiazzarlo»; la prefettura ne propone la riconferma al ministro degli interni. 3 Pietro Mirto Seggio sarà sindaco anche per il triennio 1879-81. ASP, AGQ, anno 1878, busta 719. Rapporto sullo spirito pubblico in ASP, AGQ, busta 461. 3 ASP, GP, anni 1875-81, busta 61, fasc. 63. 2
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Nel 1878 continua lo stillicidio dei morti, prova evidente di uno scontro di interessi che si intreccia con appartenenze familiari e di gruppo. Il 25 settembre viene ucciso Giuseppe Salerno, arrestato dal delegato Bernabò come appartenente a lla setta degli stuppagghieri e liberato in istruttoria. Probabilmente la sua uccisione è una vendetta per la morte di Simone Cavallaro: Giuseppe Salerno era stato sospettato in quanto fratello di Paolo, del cui omicidio era stato accusato il nipote di Simone Cavallaro, Castrenze. Castrenze Cavallaro era stato assolto per l'omicidio di Paolo Salerno, tant'è che testimonia al processo contro gli stuppagghieri. Viene nuovamente arrestato per l'uccisione di Giuseppe Salerno, il 12 agosto 1879 verrà assolto. 4 Nel corso del 1878 a Monreale vengono rilasciate 589 licenze di porto d'armi e 72 individui sono denunciati per l'ammonizione. 5 La paura dei «maneggi dell'internazionale» è sempre presente: nel novembre dalla prefettura ricordano al sindaco che «l'internazionale e le sette che ai suoi principi si informano costituiscono la più grave e la più condannevole delle aberrazioni del senso politico e della morale». Una circostanziata lettera anonima del febbraio 1879 toglie un po' di smalto alla figura del sindaco Mirto Seggio, facendolo diventare simile ai tanti notabili che, sparsi per la provincia, controllano i municipi a capo delle loro fazioni. In Monreale [...] l'amministrazione è tenuta da Pietro Mirto Seggio, sindaco, Girolamo Mirto, cassiere e cugino del sindaco, Giuseppe Inghilleri, razionale dei comune, cognato del cassiere. Rubano e metà lo tengono per sé, con l'altra metà tengono pranzi per prefetti, ufficiali e delegati, e in cambio ottenerne lodi [...]. Il sindaco Pietro Mirto Seggio a forza di camorra presso il demanio si comprò 50o salme di terra nella contrada Renda, di proprietà allora dei benedettini, oggi coltivata tutta a sommacco e data a molte persone con terribile usura. Il Mirto nell'inverno esce denaro a quei poveri villani, e nella raccolta ne ricava prodotto più del doppio del denaro, e quindi a ogni raccolta vi era in quella contrada Renda una rivoluzione fra il sindaco e i villani. Fu perciò che il sindaco ammise al suo servizio due famigerati briganti, Nicolosi e Noto, parenti e cognati dei Trifirò, più 4 ASP,
fondo Tribunale, sentenze Corte d'assise ordinaria, anno 1879, vol. 2360.
5 ASP, AGQ, busta 467. 6 ASCM, busta 657.
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briganti dei primi, i quali con la loro spaventevole mafia, e con tutte le prepotenze del mondo, bastonano, rubano, ed all'occasione uccidono quei poveri villani.
L'anonimo consiglia al prefetto di verificare le sue affermazioni presso persone «non da Monreale». Il prefetto chiede informazioni al questore, che cerca di minimizzare: «Vi ha un fondo di verità, ma altresì alquanta esagerazione». È vero che Girolamo Mirto e Giuseppe Inghilleri sono parenti del sindaco, in loro preferisce riporre la sua fiducia, ma che male ne riceve il comune?, non è vero che rubano e rovinano le finanze comunali. «Io ritengo il cav. Mirto l'unico in Monreale che possa sostenere la carica di sindaco, soprattutto perché onesto». L'usura? vera, ma «tutti i proprietari la fanno». I briganti? vero, però «da quando sono al suo servizio nessuno si lamenta, sono interamente dediti all'esercizio delle loro attribuzioni».' Quanto avviene nel corso del 1879 lo troviamo sintetizzato nei due semestrali rapporti sullo spirito pubblico scritti dal delegato Cicognani. Nella prima parte, sulle condizioni del vasto mandamento, il rapporto del 28 giugno sembra una di quelle sconfortate analisi così frequenti durante la prefettura Rasponi: lo scorso inverno la miseria si mostrava potente a S. Giuseppe Jato, S. Cipirello, Borgetto, Corleone, Alcamo, Camporeale. I crimini sono aumentati, i malviventi «non lasciano mai di funestare con continue rapine e furti questo territorio e consumato che abbiano i reati si ritirano nei propri paesi, sfuggendo in tal guisa la sorveglianza locale. Confortati da esperti manutengoli, fanno sparire in altra giurisdizione e in luogo sicuro la refurtiva». Tutto quello che è accaduto nel frattempo, leggi speciali, inchieste, cambio del partito al governo, prefetture partite alla grande e finite in miseria, associazioni segrete e campagne mi li tari, tutto sembra una leggera increspatura che muove solo la superficie. A Monreale va meglio, basta non perdere mai di vista quelli che in passato hanno fatto parte dell'infame società degli stuppagghieri, perché se oggi costoro sembrano assopiti, al lasciarli senza una continua sorveglianza sorgerebbero più temuti e feroci che nel passato e farebbero ricordare i tristi giorni quando in Monreale gli auASP, GP,
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busta 6s, fasc. 63.
daci sicari avvolti nel loro mistero uccidevano e depredavano impunemente. Bisogna ricordare quanti audaci e atroci delitti si sono verificati in Monreale per dire sorveglianza senza fine [...]; i naturali di questo mandamento non hanno principi politici ed il principio unico dal quale tutti sono dominati si è l'interesse con l'egoismo più sfacciato [...]. Il contegno del clero è indifferente, i preti hanno qui molta influenza, essendo questi naturali molto, apparentemente, religiosi. 8
Più ottimista è l'umore che traspare dal rapporto di fine anno. Cicognani scrive che nel primo semestre del '79 sono avvenuti 8 omicidi volontari e 78 furti qualificati. Troppi? «se si guarda alle condizioni politiche e morali e all'indole al malfare di queste popolazioni, al fatto che il mandamento è uno dei più vasti della Sicilia e ad altre circostanze speciali, bisogna dire che il numero dei reati non è poi così sconfortante». Nel mese di agosto, settembre e ottobre i bersaglieri in servizio di pubblica sicurezza non sorvegliavano gli stradali, a pattugliare c'erano solo pochi carabinieri e le guardie di pubblica sicurezza a cavallo. I malfattori ne hanno approfittato per consumare le loro grassazioni (ne sono state denunciate 28). Per il resto non sembra che le cose vadano poi tanto male, anche la infame società dei cosiddetti stuppagghieri, che prima era il terrore degli onesti cittadini, oggi è pressocché morta, e qualcuno dei vecchi stuppagghieri che si aggira in Monreale cerca di rendersi accetto ai buoni e benvisto al governo. Anche la mafia è in ribasso, e temono la giustizia, perché sanno che sono attentamente sorvegliati o pedinati. Gli ammoniti e le persone sospette stanno sul chi va là.
Le elezioni amministrative si sono fatte nel massimo ordine, e tutto va al solito modo: Senza curarsi dell'indomani i braccianti si mangiano quello che guadagnano alla giornata, a causa della stagione avversa il lavoro scarseggia e la povertà si sente [...]. Ma i locali sono abituati a vivere non molto bene, quindi la miseria non è da essi sentita in quel grado che la potrebbero sentire i cittadini de lle grandi città. [In conclusione] se si eccettua l'egoismo che questi abitanti antepongono a qualsiasi principio politico e nazionale, lo spirito pubblico è abbastanza soddisfacente.' 8 9
ASP, AGQ, ASP, AGQ,
busta 461. busta 461.
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2. L'arcivescovo torna a casa
Dopo otto anni di resistenza, quattro dall'abbandono dell'episcopio, l'arcivescovo Papardi e mons. Celesia si adeguano: compiono un atto di resa allo strapotere de lla storia e richiedono il regio exequatur a ll a bolla pontificia con la loro nomina. Ila 1 luglio 1879 l' ottengòno. In tal modo mons. Papardi viene istituito canonicamente nell'arcivescovado e il ministero di grazia e giustizia dispone che gli venga affidata la presidenza della deputazione del duomo, ferme restando le disposizioni speciali in vigore per la Mensa. 10 A Monreale si prepara il ritorno dell'arcivescovo, il 21 agosto viene ispezionato il palazzo che Papardi ha lasciato nel 1875. Oltre al parroco Mirto e al canonico Nunzio Di Liberto, sono presenti l'avvocato Puglia per conto dell'arcivescovo e il subeconomo Faro Scarlata in rappresentanza del ministero. Nella galleria al pianterreno i falegnami stanno riparando le aperture esterne, l'avvocato Puglia accetta la consegna dell'edificio ma protesta «per lo stato materiale in cui si trovano le fabbriche, i parati e le aperture»." Durante il suo esilio l'arcivescovo non si era occupato della situazione patrimoniale della Mensa, ma che fosse oltremodo ingarbugliata era facile da capire. Così, quasi un'ultima insofferente ribellione, prima di rientrare a Monreale Papardi dichiara di non avere più bisogno di un sub-economo: vuole assumere direttamente l'amministrazione e nomina l'avvocato Puglia suo delegato. 12 Dal ministero di grazia e giustizia l'economo Crisafulli provvede subito a chiarire l'equivoco: il governo ha diritto di ingerenza nell'amministrazione, a lui solo spetta la scelta di un pro-amministratore. «Questo ministero si limita per ora a rimanere inteso della destinazione fatta del cav. avv. Giuseppe Maria Puglia a suo delegato» però, in nome del diritto di ingerenza, viene imposto un controllore il cui stipendio di £ 3.00o annue grava sul bilancio de lla Mensa. Si tratta dell'inamovibile Faro Scarlata, che dovrà controllare «tutto l'andamento generale e particolare dell'amministrazione» e «apporre il suo visto su tutti gli atti». 13 busta 6, fasc. 22 ed anche ASP, GP, anno 1879, busta 47, fasc. 25. Verbale di riconsegna in ASDM, FGO, busta 6, fasc. 22. L'avv. Puglia era professore di diritto penale all'università di Palermo. Amico di Crispi, viene eletto deputato nella xvi legislatura. ASDM, FM, buste 378 e 384. Il decreto ministeriale che nomina Faro Scarlata controllore governativo è dell'ottobre 1879. Viene confermato nel 1882 e nel 1886. 10 ASDM, FGO, 11
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Dopo pochi mesi l'avvocato Puglia prepara due relazioni sullo stato dell'amministrazione, una indirizzata all'arcivescovo Papardi e l'altra al regio economo generale Antonio Crisafulli. 14 In entrambe scrive: «Uno dei sintomi del dissesto è la confusione e l'abbandono dell'archivio e della scrittura, che in codesta occorrenza deve spesso e bene maneggiarsi». L'archivio e i protocolli di entrata e uscita erano affidati all'archivista Martines, infermiccio, spesso assente e del tutto inadatto all'incarico. 15 Col risultato che le scritture vengono «ammonticchiate senza ordine alcuno». Negli uffici gli impiegati sembrano una corte dei miracoli, sono in 10 e bisogna escluderne 3, due ciechi e uno malato di nervi e quasi idiota. Fra i restanti c'è un altro malato di nervi, un asmatico, un dilettante senza stipendio: «così si spiega il dissesto dell'amministrazione, l'inesistenza di registri, la mancata sorveglianza sui procuratori, il disordine dell'archivio». La negligenza con cui è stato gestito il patrimonio è documentata dall'avvocato Puglia con abbondanza di prove; ad esempio, nei registri dell'amministrazione si trova solo il nome del primo enfiteuta, in alcuni casi è annotato chi possedeva il fondo nel 1660. Quindi «è difficile indagare chi sono gli attuali possessori, è difficile l'esazione del corrente e quasi impossibile recuperare gli arretrati, col pericolo di perdere i canoni perché trascorsi ro anni è difficilissimo che la Mensa venga riconosciuta dai nuovi proprietari, che restano alliberati in faccia alla Mensa arcivescovile». L'avvocato Puglia denuncia le responsabilità che, nell'incuria dolosa con cui è stato amministrato il patrimonio, si possono ascrivere a Faro Scarlata: «Il metodo di riscossione adottato dal subeconomato [...] lasciava in pieno arbitrio ai procuratori locali" di tenere occulte le riscossioni». Il procuratore era un funzionario del ministero, ma non aveva «una scrittura propria soggetta a revisione» 14 Relazione del 20/12/79 indirizzata all'arcivescovo in ASDM, FM, busta 384. Rea lazione del 6/1/8o al regio economo in ASP, EGBV, serie 1 busta 18. 15 Puglia incarica un funzionario dell'archivio di Stato di mettere ordine fra le carte. Viene creato un abbozzo di struttura organica ma, non essendo singolarmente registrati, i documenti continuano ad essere esposti a continue manomissioni. Sulle vicende generali dell'archivio cfr. Il fondo Mensa dell'archivio storico dell'arcivescovado di Monreale, relazione e inventario a cura di G. Schirò, inedito. 16 Ancora per molti anni ci sarà un procuratore della Mensa a Monreale, Palermo, Alcamo, Corleone e Partinico (ASDM, FM, busta 379, Stato attuale della Mensa arcivescovile di Monreale, relazione senza data ma successiva al 1924, anno della morte dell'arcivescovo Intreccialagli).
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e non veniva quindi sorvegliato dall'economato." Incassava le rendite, rilasciando una ricevuta provvisoria; 18 versava poi le somme al subeconomo che «staccava le ricevute direttamente a nome dei debitori ai quali, si suppone, il procuratore locale doveva poi consegnarle, ritirando le proprie ricevute provvisorie». Ma alquanti enfiteuti da me chiamati per regolare i conti, e come per una specie di controllo al procuratore di Monreale, sono venuti presentandomi le ricevute provvisorie rilasciate dal Di Liberto, mai o raramente quelle definitive rilasciate dal subeconomo che dovevano trovarsi in loro potere. Loro erano contenti, perché il Di Liberto non trascurò mai di annotare in testa a ll e ricevute la sua nomina per Decreto Ministeriale: ecco dunque il metodo semplicissimo usato dal Di Liberto per esigere e non versare. 19
Puglia propone un registro a madre e figlia, Di Liberto lo accusa di invadere la sua procura. Poi Di Liberto muore il 25 ottobre 1879 per una non meglio precisata «malattia di pochissimi giorni», lasciando i conti molto in disordine. Non si sa di preciso quali rendite siano state riscosse, verso la Mensa ha debiti per entrate riscosse e non versate che risalgono addirittura al 1874. 20 17 Un tentativo di controllare l'operato dei subeconomi e dei procuratori c'era stato nel 1872, quando l'economato generale aveva predisposto un'ispezione, a causa «del disservizio che sperimentasi in alcuni subeconomati». In seguito i subeconomi erano stati richiamati all'osservanza del regolamento, a verificare la tenuta di registri, titoli e scritture, a risolvere gli affari pendenti. Si disponeva che i procuratori rilasciassero una ricevuta per le somme ricevute, con la causale «scritta tanto nel tallone da rilasciarsi ai contribuenti che nella matrice»; ogni quindici giorni le ricevute dovevano essere presentate alla contabilità della Mensa. Istruzioni che saranno completamente disattese (ASDM, FM, buste 379 e 384). 18 II sistema di riscossione adottato dal procuratore Di Liberto è identico a quello che negli stessi anni è in uso presso l'amministrazione del dazio di Palermo: non esistevano libri contabili, alla ricevitoria centrale i conti erano tenuti su un foglio di lume dove erano annotati l'attivo o il passivo del giorno precedente e i conti della giornata, che ogni sera veniva distrutto. Sul sistema daziario cfr. A. Blando, I confini della legalità. L'amministrazione dei dazi di Palermo (1860-1900) in Quaderni storici n. 96 ( 1 997), pp. 795 -82 9. 19 In entrambe le relazioni, cit., l'avvocato Puglia fa riferimento alle acque di cui la Mensa si dichiara padrona. All'economo Crisafulli scrive: «Oggi poco o nulla si riscuote dalle rendite sulle gabelle d'acqua ma, per le pretese messe avanti da molti fra i godenti e per le liti da costoro intraprese, parve al subeconomo prudente non insistere per l'esazione di codeste prestazioni, fino a che le liti non avessero preso una figura netta e determinata». All'arcivescovo scrive quasi negli stessi termini, aggiungendo: «Mi riserbo di dare più precisi dettagli sopra questa intricatissima partita delle acque, di cui appena mi sono posto allo studio, anche per indagare la nera origine degl'inconvenienti che i godenti di esse lamentano». 20 Gli eredi ottengono di estinguere il debito dilazionandolo in anni e in diverse ra5 te. Non saldano il dovuto e nel 1889 si passa alle vie legali (ASP, EGBV, serie 1 a, busta 18).
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L'assenza di controlli ha fatto crescere l'importanza del procuratore, che esercita un potere in apparenza dipendente dall'esterno ma in realtà autonomo. Di Liberto continua ad agire in nome dell'arcivescovo, diventato alla fine solo un fragile paravento: il suo potere aumenta col diminuire di quello dell'arcivescovo, ma è proprio nel suo progressivo allontanarsi che l'arcivescovo diventa falsamente presente, perché di continuo il procuratore ne sbandiera il nome e i presunti ordini. La figura del procuratore cresce e si struttura come nucleo mafioso perché si espande fra due sistemi non funzionanti, la Mensa e il subeconomato. A causa delle sue vicende storiche la Mensa appare svuotata dall'interno, conserva privilegi e prerogative ma sempre meno Ii esercita. Di fronte ai continui problemi che pone la gestione del patrimonio, risponde solo quando non può farne a meno, quando è citata in giudizio. Meno comprensibile appare l'ignavia dell'economato generale per i benefici vacanti. L'avvocato Puglia documenta le responsabilità che nello sfacelo de lle rendite, nell'incuria dolosa con cui è stato amministrato il patrimonio, si possono ascrivere a quel regio subeconomo che doveva controllare l'amministrazione per conto dello Stato. Per tutta risposta Faro Scarlata viene nominato controllore governativo nella diocesi di Monreale. 21 La condotta di Faro Scarlata si potrebbe spiegare adducendo malanimo, o interessi personali, ma il disastro prodotto dal subeconomo può mimetizzarsi solo nel cattivo funzionamento generale. E viene in primo piano la profonda inadeguatezza di uno Stato che mantiene a fatica un'apparenza di ordine con l'esercito e i corpi speciali, ma non ha una burocrazia che ne garantisca il funzionamento. Grazie all'avvocato Puglia, l'arcivescovo riesce ad avere un quadro complessivo della situazione patrimoniale; ma i suoi interlocutori sono gli stessi individui che hanno gestito la rovina del patrimonio, hanno potere di veto sul suo operato. Dopo il piglio iniziale, Papardi sembra cadere in un torpore fatalista. Il figlio maggiore di Pietro Di 21 L'arcivescovo doveva presentargli i bilanci preventivi e i rendiconti consuntivi e da lui dipendeva per ogni atto, anche di ordinaria amministrazione. Il personale faceva riferimento sia all'arcivescovo e al suo delegato (pagato direttamente dall'arcivescovo) che al controllore governativo. Sugli esiti è molto indicativa una lettera del 1914, dove l'arcivescovo lamenta di essere un semplice amministratore, senza il potere di nominare gli ufficiali di alto e basso rango né fare licenziamenti. Il bilancio è stato caricato di un numero esorbitante d'impiegati, di cui l'amministrazione non ha bisogno (ASDM, FM, busta 366). 241
Liberto chiede di ricoprire l'incarico di procuratore e l'arcivescovo, come scrive Puglia, acconsente per evitare liti e giudizi. 22 3. L 'arruffata matassa delle acque La Mensa per le sue acque, e non son poche, è sotto una avversa stella, per la quale non le sarà mai possibile raccogliere dei vantaggi mentre le dette acque sarebbero un tesoro. 23
Il 31 marzo 1876 la Mensa arcivescovile aveva avuto una sentenza avversa in una delle numerose cause che la vedevano come controparte dei litigiosi consorzi di utenti. I quali l'accusano di essere responsabile delle continue usurpazioni, visto che la cattiva manutenzione della saja e dei condotti favorisce gli usurpatori. Dopo la sentenza, continuando numerose le frodi e le denunce, il tribunale di Palermo nomina un perito per riferire sui modi in cui l'acqua del Giacalone e della Cannizzara è goduta. L'ing. Salvatore Renzi adopera delle casse idrometriche per misurare la portata del fiume, e annota tutte le mancanze delle opere intese alla custodia e alla distribuzione delle acque. Il 21 dicembre 1877 deposita una perizia, su cui si appoggia il tribunale per condannare la Mensa alla costruzione di ricettacoli di immissione e misurazione, costruzione delle prese d'acqua, manutenzione del canale, in modo da dare a ciascuno il dovuto vigilando per impedire danni e frodi. Disposizioni che restano lettera morta. 24 Nell'estate del 1878 l'amministrazione della Mensa appare incalzata dalle sentenze avverse, incapace di districarsi nel dedalo delle variazioni gestite dai custodi, col procuratore Di Liberto che di continuo chiede fondi per le riparazioni della saja invece di versarli, come sarebbe stato più logico considerate le sue funzioni. La distribuzione delle acque avviene ancora sul ruolo del 185o, su cui si accumulano tante di quelle variazioni e abusi da rendere ogni anno più improbabile una soluzione pacifica delle controversie. Dall'intendenza de ll e finanze di Palermo scrivono all'amministratore: 22
Relazione del 6/1/8o al regio economo, cit. 13 luglio 1883, lettera dell'economo Crisafulli all'arcivescovo Papardi in ASDM, FM, busta 396. In questa data l'arcivescovo è malato, morirà il 3 agosto. 24 ASDM, FM, busta 393. A riprova del fatto che la situazione non cambia, il 6 marzo 1882 viene pronunciata un'altra sentenza analoga (ivi). 23
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a causa della mancata formazione di un nuovo ruolo di distribuzione, «non son credibili gli abusi e gli inconvenienti che sono successi». Invano viene chiesto di comunicare il ruolo e l'elenco dei custodi. Il 17 giugno dall'intendenza tornano a scrivere: È già introdotta la stagione estiva, la distribuzione delle acque è cominciata sin dal 15 di questo mese, e continuando cogl'inveterati abusi ho avuto luogo a conoscere che alcuni giardinieri [...] sturando in un tempo i loro doccioni attaccati alla saja grande fecero scorrere a loro arbitrio nei rispettivi fondi più della metà del volume dell'acqua e per tale disguido i molini non poterono in quel giorno affatto molire». 25 Questa corrispondenza si inserisce in un ricco filone dove troviamo utenti e istituzioni accomunati dallo stesso destino: protestano, scrivono, chiedono chiarimenti o riscontri all'amministrazione ma nessuna risposta li conforta. Le richieste vengono sempre ignorate, confidando nell'oblio che regala il tempo e nelle individuali capacità ad arrangiare in qualche modo le cose. Se c'è un aspetto per qualche verso sorprendente, è nelle caratteristiche degli attori di questa mancata comunicazione: dall'intendenza di finanza scrivono all'amministrazione della Mensa, lamentando inadempienze e abusi. Solo che l'amministratore è Faro Scarlata che, attraverso l'economato generale per i benefici vacanti, dipende dal ministero delle finanze: è un funzionario dello stesso ministero che protesta senza ricevere alcuna risposta. La divisione in compartimenti stagni e la loro artificiosa opacità diventa una condizione ideale: l'apparente inefficienza dell'apparato di controllo crea le circostanze esterne perché gli uomini raccolti attorno al procuratore Di Liberto si strutturino come gruppo che, dichiarando di agire per conto dell'amministrazione della Mensa, affina un metodo basato sull'interesse individuale per la gestione di un bene indispensabile e collettivo. Pressato dagli eventi, il 20 luglio 1878 l'economato generale dà disposizioni per la preparazione del nuovo ruolo; nell'ottobre gli enfiteuti vengono invitati a presentare le loro richieste. «Queste pubblicazioni produssero una immensità di domande, tendenti tutte ad ottenere un aumento d'acqua; ed intanto il perito della Mensa, 25
ASDM, FM,
busta
399.
24 3
come peraltro era notorio, faceva conoscere non potersi in altro modo eseguire il nuovo ruolo, che coll'aumentare il turno delle distribuzioni». Si decide che tutti quelli che hanno goduto dell'acqua concessa nel 1856 e nel 1868, per ordine di Martines pro-amministratore e Di Liberto procuratore, abbiano conservato il loro diritto perché «l'acqua è stata goduta da lunghi anni e non può più essere tolta». Per gli altri, il turno viene protratto sino a zo giorni. Nell'estate del 1879 viene presentato quella parte del ruolo che s'era arrivato a cornpletare: riguarda le acque di una sorgente chiamata della Vanella di Cannizzara, e lascia tutti scontenti. 26 L'acqua de lla Vanella di Cannizzara è solo una sorgente secondaria, nell'estate del 1879 il sindaco Mirto Seggio scrive a Faro Scarlata: Ho messo in opera tutta la forza campestre dipendente da questo municipio per concorrere unitamente ai custodi alla più stretta osservanza del ruolo istesso e delle disposizioni dalla S.V. impartite [...] e se in quest'anno non si arriverà a deplorare qualche spiacevole fatto lo si deve alla continua presenza della forza municipale sul luogo [...]. Facendo astrazione dagli abusi introdotti dai custodi, dalle clandestine parziali concessioni, dai favori fatti dagli stessi, dai cambi tra gli inquilini, la vera e principale cagione degli sperimentati disordini è il volere tenere tuttora in vigore il ruolo di distribuzione del 185o [...]. Da allora, quali e quante trasformazioni ha subito l'agro monrealese non può immaginarsi da chi non lo ha giornalmente sott'occhio: le terre che prima eran destinate al seminerio oggi sono rigogliosi giardini, mentre ta li altri dove allora vegetavano gli alberi più bel li sono già ritornati semineria [...]. Chi ha il più stretto bisogno dell'acqua è condannato a veder deperire il frutto delle sue sudate fatiche per difetto di essa, e chi non ne ha bisogno alcuno ne è abbastanza ricco, e la vende a suo piacimento a chi meglio gli aggrada [...]. Un nuovo ruolo toglierebbe di mezzo tutti i possibili inconvenienti, e gli abusi degli usurari, i quali, perché la Mensa non ha fin dal 1850 esercitato più tale diritto, credono e vogliono far credere che solamente loro sono i padroni dell'acqua, e ne possono disporre come meglio ad essi conviene. 27 Definire il ruolo di distribuzione comporta un tale vespaio che dall'economato si cerca di non concludere mai, nel luglio del 1884 nell'ex feudo Barone la distribuzione è fatta ancora sul ruolo del 26
luglio 1880, Faro Scarlata all'economo generale in ASDM, FM, busta 403. busta 397. Il sindaco è interessato alla gestione delle acque anche come proprietario; nel luglio del 1882 è presente alla stipulazione di una gabella per il sopravanzo dell'acqua di Giacalone, in veste di presidente del consorzio dei giardinieri di Monreale (ASDM, FM, busta 396).
185o. Nel frattempo le proteste contro i custodi delle acque sono sempre numerose: essendo di fatto inesistente il potere dell'arcivescovo e latitante quello del subeconomato, il diritto di ognuno è affidato solo a variabili rapporti di forza. Nel 1880 sono i giardinieri della contrada Ponte del Parco a scrivere all'arcivescovo, «preghiamo la sua carità di dar riparo prima che succeda qualche danno», perché il guardiano ruba l'acqua per poi venderla a caro prezzo. 28 Contro Giuseppe Venturella, accusato nel 188o di non applicare il ruolo, le proteste sono espresse con una be lla immagine plastica: «Avviluppa l'orario con cambi e controcambi, favorisce i suoi amici, minaccia i buoni e i pacifici giardinieri proprietari di lasciarli senza acqua [...]. Il suo carattere è bilioso e iracondo, e insulta quelli che reclamano i loro diritti». 29 Nel 1884 sono i giardinieri dell'ex feudo Barone a protestare perché il custode delle acque Michele Modica, «sì per l'età avanzata come per gli affari suoi, non ha potuto eseguire la distribuzione. Per tali motivi arbitrariamente diede facoltà ad un certo Salvatore Ferraro di dividere agli utenti le acque». Questi, essendo un prepotente, abusa della facoltà negando ad alcuni l'acqua spettante, e portando la deviazione fuori dall'ex feudo. Il Modica «non ha la forza morale, perché uomo dabbene, di condurre al dovere il suo eletto, il quale con grave danno dei giardinieri vende a suo esclusivo utile tutta quella quantità di acqua che abusivamente può togliere». 30 L'avvocato Puglia rappresenta l'arcivescovo nella gestione del patrimonio ma, dal momento che l'arcivescovo non ha alcun potere reale, il suo è un continuo remare controcorrente. Dover dare conto e ragione di ogni sia pur minimo atto al controllore governativo Faro Scarlata, non doveva essere una vita facile; Pug li a resiste solo per un paio d'anni. Nel 188o gli scrivono dall'ospedale civico, perché non ha ancora provveduto a ricollocare «i tubi per la mezza zappa da servire ad uso dei monrealesi, ciò che reca moltissimo danno a questi proprietari, poiché manca la misura dell'acqua che spetta ai primi i quali si abusano tirando quell'acqua che meglio loro piace». E la vecchia storia dei custodi che falsificano o distruggono i sistemi di misurazione: la rovina delle tubature e dei ricettacoli di misura è a dan,
26
27 ASDM, FM,
2 44
ASDM, FM, ASDM, FM, 30 ASDM, FM,
28 29
busta 402. busta 397. busta 393.
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no della Mensa ma i responsabili sono soprattutto i custodi perché, in assenza di altri referenti, il mancato funzionamento del complicato sistema permette loro di presentarsi come i soli in grado di garantire gli interessi degli utenti. 31 I consorzi sostengono che la Mensa ha l'obbligo di immettere l'acqua nella saja e tenerla espurgata, di modo che l'acqua possa arrivare ai fondi. La Mensa protesta di non avere obblighi di sorta e che anzi negli originali contratti di gabella, quasi tutti del 23 marzo 1764, le concessioni si facevano col patto che le ore di acqua fossero a rischio, pericolo e fortuna dello stesso gabelloto, «il quale debba la medesima custodire e farsi guardare, a suoi danni, interessi e spese, senza che detto illustrissimo monsignore arcivescovo fosse obbligato a cosa veruna in caso l'acque suddette non calassero per intero». 32 Le continue spese per le riparazioni della saja, la taratura dei tubi e il loro mantenimento, il deliberato danneggiamento delle cannelle di misurazione, si tratta di argomenti sui quali i documenti si accumulano. Sotto i nostri occhi avviene la rapida erosione di un diritto labile, che niente difende dai numerosi attacchi che l'incalzano. Dal momento che la Mensa non è in grado di garantire la regolarità della distribuzione, si moltiplicano i casi di utenti che non pagano le gabelle: il rappresentante della Mensa li metteva in mora formale, «nessuno degli intimati curava di pagare un centesimo del relativo debito». Però lo stesso si pretendeva «che la Mensa provvedesse ai molti ripari dell'acquedotto che porta l'acqua alle terre dei debitori, pretenzione strana ed esorbitante». 33 L'ostilità nei confronti de lle disposizioni de lla Mensa è ormai esplicita, nell'agosto del 1880 l'avvocato Puglia chiede al delegato Cicognani di assisterlo nella distribuzione dell'acqua del giovedì 34 e la 31 ASDM, FM, busta 395. Sempre nel 188o gli utenti delle acque del Giacalone citano la Mensa perché all'interno degli antichi tubi di creta dal diametro di 17 cm ne erano stati introdotti degli altri in lamina di ferro dal diametro di 7 cm, «nell'insidioso fine di restringere a danno degli utenti gli orifizi emissari». Iniziativa che, nonostante «tutti i possibili reclami fatti dai vari utenti», fu adottata «con apparato di violenza da parte del distributore de ll e acque e della persona incaricata dalla Mensa» (Cfr. Per la Men-
proprietà delle acque è a tal punto causa di continue liti e giudizi che l'arcivescovo Papardi vorrebbe rinunziarvi. L'economo Crisafulli è contrario, «non saprei trovare prudente consiglio l'abbandono della stessa, poiché essa rappresenterebbe un corrispettivo in rapporto all'intero patrimonio della Mensa [...], e l'abbandono senza meno aprirebbe il campo a svariate e non poche questioni». 35 Ormai il sistema degli abusi era cresciuto acquistando configurazione regolare, a volerlo modificare si danneggiavano una serie di diritti sedimentati. Senza contare che i cambiamenti si erano sviluppati su dei titoli originari che si sospettava incompleti. Nel 1882 il figlio di Pietro Di Liberto può scrivere all'amministratore che non possono essere richieste le somme di cui sono debitori i giardinieri dell'agro palermitano. «Perché io possa procedere alla riscossione mi occorrono i titoli relativi richiesti più fiate dal defunto mio padre a questa amministrazione e che non gli furono mai forniti. E siccome il detto mio padre senza i titoli non poteva procedere [...], così io non posso procedere e riesce inutile parlare di dette prestazioni». Nel 1885, ha appena assunto la carica, il nuovo procuratore Pietro Mirto trova un lungo elenco di debitori dell'agro palermitano «chi per oltre 1o, chi per un ventennio di loro rispettive gabelle e da essa [Mensa] non è stato fatto alcun atto interrompente, e di conseguenza, trattandosi di affare delicato, non intendo assumere responsabilità alcuna pel riguardo». 36 Negli anni che seguono, le proteste contro i guardiani sono un dato costante. Visti senza esito i reclami e le suppliche all'arcivescovo, nel 1886 Salvatore Sciortino, proprietario di Monreale e custode dell'acqua da più di 3o anni, viene allontanato «per vie di fatto da un partito avverso di utenti». 3? Non si rispettano più le forme: nel 1887 fra i custodi delle acque troviamo due guardiani che non sono stati nominati dalla Mensa, il procuratore Pietro Mirto scrive all'arcivescovo: «Bisogna che si intimi ai guardiani Salvatore Leto fu Pietro per la sorgiva Cannizzara e Sabucia e Marco Di Gristina per quella di Calcerano di farsi riconoscere da questa Mensa». 38 Nel 1889 pattuglie armate vigilavano sulla distribuzione delle acque, 39 e in una me-
sa arcivescovile di Monreale contro il consorzio degli utenti del Giacalone in corte di Appello,
senza autore e senza data, p. 6, in ASDM, FM, busta 393). 32 G. Adragna Regio economato dei benefici vacanti in Sicilia, nella rappresentanza della Mensa di Monreale contro il consorzio delle acque del Giacalone, Palermo 1879 (ASDM, FM, busta 393). 33 ASDM, FM, busta 4o1, memoria dell'avvocato della Mensa per una lite del 1886. 34 ASP, AGQ, busta 385. 24 6
serie ra busta 403. Corrispondenza relativa al 1882 e al 1885 in 37 ASDM, FM, busta 394• 38 ASDM, FM, busta 393. 39 ASDM, FM, busta 394. 35 ASP, EGBV, 36
ASDM, FM,
busta 395.
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moria datata 18 febbraio 1895 b malinconicamente annotato che nella procura di Monreale le bollette si redigevano senza indicare l'ammontare del credito né l'anno. 40 Quasi vent'anni dopo la prima perizia, nel settembre del 1894 l'ing. Renzi torna ad ispezionare le acque del Giacalone. Nel 1763,
ai tempi dell'arcivescovo Testa, una saja lunga dieci chilometri e mezzo portava le acque del Giacalone sino a Palermo. Dopo 120 anni di attive distruzioni e parziali riparazioni l'ing. Renzi può scrivere che il corso del Giacalone consiste in un canale preadamitico, senza manufatti, l'acqua scorre sulla terra permeabile dovendo superare molti ostacoli che ne diminuiscono la velocità e il volume. E siccome il terreno, spesso ad agrumi, è coltivato sino alle sponde del corso, queste non sono salde, con notevolissima dispersione delle acque.
Una parte di queste acque è goduta dai giardinieri di Monreale per mezzo di emissari che l'ing. Renzi definisce abusivi e fraudolenti, utilizzati per prendere l'acqua dai frontisti, i quali, quando che loro piaccia, la destinano per l'irrigazione delle loro terre. Ho detto quando che loro piaccia poiché, se pure un diritto essi vi abbiano, non è stato a me esibito il turno orario ovvero il ruolo di distribuzione [...]. Il sistema col quale va regolata tale distribuzione d'acqua è illegale, arbitrario e fraudolento, gli emissari sono costruiti in modo da non rispettare alcuna misura. Quando si chiede conto e ragione dei prelievi il capo contabile, fregiandosi del titolo di fiscale delle acque, dichiara che le prelevazioni (che lui non avrebbe dovuto permettere) si sono fatte in base ai verbali precedenti, naturalmente mai esistiti, giacché le prelevazioni sul letto non sono giustificate da titoli. L'arbitrio è talmente visibile da essere avvertito financo dai profani dell'arte. 41 L'ing. Renzi sostiene che l'accesso alle acque è libero, poi scrive di
un «fiscale delle acque» che comunque ne controlla la fruizione. Il sistema di distribuzione delle acque è arbitrario rispetto ai vecchi ruoli emanati dalla Mensa ma riflette il nuovo dominio, esercitato ormai in proprio dai consorzi e dai guardiani d'acqua che li rappresentano. ao
ASDM, FM, 41 ASDM, FM,
248
busta 365. busta 393
Nel 1896, dopo molti e inutili tentativi di recuperare almeno parzialmente i crediti, atti di mora intimati a debitori inadempienti, lettere di protesta e improvvise rassegnazioni, il procuratore Pietro Mirto rinuncia ad ogni responsabilità nella riscossione dei crediti per partite d'acqua. Era successo che, per pagare, i debitori chiedevano la notifica del titolo. «In tale stato di cose alquanto imbarazzante chiedo di darmi le dovute istruzioni al riguardo, ed esistendo i titoli, per come devo supporre, disporre gli atti coercitivi senza remore ed intercessioni». 42 I titoli, se esistevano, non vennero prodotti. La consapevolezza dell'enormità delle spese e dell'impegno necessari, basta a scoraggiare eventuali propositi di recupero delle rendite. Senza contare i pericoli. Si dovrebbe provvedere a reincanalare le acque e costruire acquedotti in muratura, per evitare che i giardinieri «con un colpo di zappa possano, come fanno ora, deviare le acque a loro arbitrio E...]. Sarebbe inoltre indispensabile la tanto ostacolata costruzione dei ricettacoli di misura» e fra i custodi impedire l'accesso a persone che non meritano fiducia. 43 Significa scendere in guerra contro i consorzi, non risulta che sia stata presa alcuna iniziativa. Anche compilare il nuovo ruolo «comporta spese senza guadagni: bisogna pagare un perito, diminuire o aumentare le assegnazioni, e ciò sarebbe causa di molestie per le pretese di alcuni e le lagnanze di altri». 44 Meglio prendere tempo e aspettare. Nel 1913, a causa dello sfacelo in cui versa l'amministrazione, la Mensa arcivescovile viene posta sotto sequestro. Dal regio economato si scrive all'arcivescovo: «Questo regio economato, nell'interesse della Mensa di Monreale è venuto nella determinazione di far riattivare la esazione dei canoni d'acqua, rimasti abbandonati con grave danno dell'ente». Il ministero ha autorizzato la compilazione di un progetto di massima «per un razionale rassettamento dei canali di convogliamento delle acque soggette alla attuale misurazione, nell'interesse della Mensa proprietaria». Per dipanare «l'arruffata matassa delle acque» il ministero chiede... «un accurato accertamento dei titoli»! 45 42 ASDM, FM, busta 395. Anche il demanio ha debiti verso la Mensa, per partite d'acqua che prima del 1866 erano date in gabella a corporazioni religiose. 43 ASDM, FM, busta 393, rapporto riservato sulle acque datato 1906. 44 Ibidem, dall'amministratore della Mensa al controllore governativo, 14/2/1907. 45 ASDM, FM, busta 393.
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Il ministero ignora che proprio l'impossibilità di condurre un accurato accertamento dei titoli è fra le cause di tanta rovina. L'economato trasmette la richiesta con burocratica indifferenza, ed è evidente che non se ne farà niente. Saranno i consorzi a gestire le partite d'acqua in modo necessariamente opaco, scontando il vizio d'origine dell'incertezza del diritto a cui si è sommata la pratica più recente delle usurpazioni. D'altra parte, la poca visibilità dall'esterno è la prima condizione per il controllo di una risorsa collettiva in condizioni di monopolio, dove l'esercizio del dominio territoriale passa attraverso la trasformazione degli aventi diritto in complici o questuanti. 4. A Catanzaro
La sentenza pronunciata il 16 maggio 1878 da lla Corte d'assise di Palermo contro la setta degli stuppagghieri viene annullata da lla Cassazione per un vizio nella composizione della giuria, e rinviata all'assise di Termini Imerese. Il 29 agosto del '79 il procuratore generale comm. Mirabelli presenta istanza perché, per motivi di pubblica sicurezza e legittima suspicione, la causa sia rimessa ad altra Corte nel continente. L'istanza viene accolta. Il 23 settembre la suprema Corte di cassazione di Roma assegna la causa a Catanzaro, motivando la scelta con le «difficoltà incontrate nel primo dibattimento contro gli accusati e le maggiori rivelatesi nel giudizio di rinvio presso le Assise di Termini Imerese, le influenze sinistre ivi spiegate e gli intimidamenti e le seduzioni dei giurati e testimoni, più volte e con vari mezzi tentate». Prima di adesso, solo nella testimonianza di Bernabò abbiamo trovato un rimando esplicito ai condizionamenti subiti dal processo di Palermo: il delegato ne accusava Pietro Di Liberto, senza peraltro provocare alcuna reazione nella Corte. I processi contro le associazioni appaiono molto diversi da quelli che negli stessi mesi si celebrano contro le bande sconfitte da Malusardi. Contro i banditi il giudizio va avanti senza intoppi, i crimini sono certi e i colpevoli sono stati colti in flagrante, si ottengono numerose condanne. Invece, l'instabile edificio costruito con la scoperta delle associazioni sembra pericolosamente traballare al momento del giudizio, quando diventa necessario produrre fatti, testimoni, prove. I motivi per preoccuparsi ci sono. Ad esempio, in seguito al processo celebrato presso la Corte d'appello di Palermo, il 7 maggio '79 250
il procuratore generale Morena aveva firmato la scarcerazione di Io indvuMslmer,actidfpel'socazin«ftana nuova». 46 E non era il solo caso. Tutta la teoria della mafia come organizzazione, setta segreta e pericolosa, rischiava di sgretolarsi a colpi di assoluzioni. Il 16 ottobre 1879 il questore Santagostino scrive al prefetto: il processo di appello contro gli stuppagghieri è molto importante «agli effetti di assodare l'esistenza del pericoloso sodalizio settario» e necessita di qualche particolare attenzione. E c'è da credergli: se vengono assolti anche gli stuppagghieri, indicati in tutti i rapporti come capostipiti da cui gli altri settari discendono, presentati sui giornali come la setta per eccellenza da cui le altre derivano, allora sarà molto difficile ottenere condanne per le diramazioni che secondo la questura erano proliferate nei paesi della Sicilia occidentale. Si cerca di correre ai ripari. In virtù della lunga pratica che hanno del paese e delle persone, il questore manda in missione a Catanzaro il delegato Pio Cicognani e la guardia di p. s. Stefano Gattoni. «L'importanza capitale della causa agli effetti di assodare l'esistenza della triste setta e colpire nel cuore la maffia» viene più volte ribadita ai distratti funzionari di Catanzaro, con accenti che spesso sfiorano la preoccupazione. Cicognani arriva a Catanzaro il 16 febbraio, col compito di ispirare fiducia, tenere a freno gli amici degli imputati, sorvegliare i più importanti testimoni a carico come il brigadiere Gandolfo e i familiari di Caputo e Di Mitri. Su di loro si basa l'accusa, il delegato lascia la guardia Gattoni a sorvegliarli. Lui si stabilisce in un'altra locanda, dove alloggiano due personaggi non meno centrali: il figlio dell'ucciso Cavallaro e il fratello del deputato Inghilleri. Il delegato vuole sorvegliare il primo e persuadere il secondo a fare una testimonianza favorevole all'accusa. La causa viene discussa dal 17 febbraio al 4 marzo 1880. Gli imputati sono 12, il pubblico ministero è il procuratore generale Bartolotti, che fa del suo meglio per provare l'esistenza de lla setta e i carichi che gravano sugli imputati. Ma ben presto le cose si mettono male. La prima sfavorevole impressione il delegato Cicognani la riceve quando si accorge che i 12 giurati sono tutti di Catanzaro, e che gli 46 ASP, AGQ,
anno 1879, busta 728.
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avvocati hanno molte relazioni di parentela ed amicizia in una città che pare indifferente al processo. I giurati vorrebbero dei fatti da analizzare, cosa che non è possibile trattandosi di una causa indiziaria. Il capo dei giurati è un avvocato, che durante le deposizioni dei testimoni fa delle domande tramite il cav. Spina, Presidente della Corte, come se lavorasse per la difesa. Cicognani si rende conto che «solo le dichiarazioni di Cavallaro (assente a causa dei suoi 85 anni) e quelle del D'Amico (disgraziatamente ucciso) potevano persuadere i giurati de lla provata esistenza degli stuppagghieri in Monreale». 47 Vengono lette le dichiarazioni da loro precedentemente rese, ma non è la stessa cosa. Le udienze sono poco frequentate, ad eccezione della madre dei Miceli nessuno ha accompagnato gli imputati. In attesa del pretore Orlando Venuti si fanno de lle allusioni nei suoi confronti: alcuni funzionari ammettono che era amico di Pietro Di Liberto, e il procuratore della Mensa arcivescovile viene chiamato in causa tante di quelle volte che davvero i giurati di Catanzaro si saranno chiesti come mai non figuri fra gli imputati. Nemmeno Cicognani si fida del pretore: «Mi auguro che dopo la morte del suo amico Di Liberto farà una deposizione contraria agli imputati, e se ciò non avverrà sarà peggio per lui. Speriamo che non cada in qualche scandalo». Il tempo trascorso gioca a favore degli imputati. Il 19 febbraio Cicognani scrive al questore che i testi a carico lasciano a desiderare, le loro deposizioni non sembrano sicure e spontanee come nel processo di Palermo. Alcuni vorrebbero che si leggessero le dichiarazioni già rese, da confermare. Il Presidente non lo permette, ed è chiaro che le incertezze impressionano negativamente i giurati. Tutti, a cominciare dai delegati Bernabò, Savoja, Filippone e Negri attenuano le rispettive deposizioni scritte. Il delegato Negri non conferma uno dei capisaldi dell'accusa, di avere ricevuto dai fratelli Miceli la confessione che appartenevano alla setta. Il brigadiere delle guardie a cavallo Gandolfo si confonde più volte, non sempre comprende quello che il presidente gli chiede. Giovanni Riolo, comandante delle guardie campestri, non vuole rivelare il nome di un confidente e allora il Presidente si sente in di4'
Dal rapporto riassuntivo di Cicognani al questore di Palermo. Come tutti gli altri documenti relativi agli stuppagghieri e non diversamente segnalati, il riferimento è in ASP, GQ, anno 188o, busta 7. 252
ritto di sentenziare che il dovere delle guardie campestri si limita alla sorveglianza delle campagne. Il Presidente non incrimina nessuno fra i testimoni che sembrano reticenti, cosa che secondo Cicognani sarebbe tornata utile per impressionare i giurati. Perché bisogna convincere i giurati che, «non conoscendo Monreale, i fatti passati e l'indole di quegli abitanti, sembrano non capire la gravità dei casi che dovranno giudicare». Sconsolato, Cicognani scrive: «Speriamo che tutto vada bene». Poi non resiste, e aggiunge: «Per mia parte, con quella delicatezza che si può immaginare, nulla lascio di intentato». Le sue ansie trovano una momentanea consolazione quando, non è ancora terminata l'audizione dei testimoni, ottiene dal prefetto l'assicurazione che la giuria al completo è contraria agli imputati e avrebbe sostenuto l'accusa. Sollievo di breve durata. 22 febbraio, Cicognani al questore: «Stamane, secondo il solito, mi son portato da questo sig. prefetto e mi ha detto "male, male. Ieri sera vidi il Presidente, che mi presentò l'avv. Marinuzzi della difesa e mi disse: è un processo tutto indiziario, e come tutti i processi indiziari terminerà". E dire che è il presidente dell'Assise che parla». In calce ad ogni suo rapporto Cicognani aggiunge: «Farò quanto posso, con la riservatezza voluta». Tenta maldestramente di pilotare il processo: «Stamane ho pregato il sig. prefetto a volere indirettamente sentire come la pensava il capo giurato ed egli mi ha risposto che col capo giurato non ha relazione alcuna, e che non può far nulla, e che se anzi il capo giurato sapesse che il prefetto è interessato farebbe diversamente. Mi ha però promesso che parlerà col fratello di un giurato». Il 24 febbraio, finalmente contattato dalla prefettura, il capo dei giurati promette che il suo giudizio sarà positivo. Cicognani incontra per strada il prefetto, che lo rassicura, «va bene, va bene, va benone». Scrive: «Io però non mi ci affido totalmente. Lavoro per quanto posso e con quella riservatezza voluta. La città è indifferente, il giornale locale non si occupa del processo». 25 febbraio, testimonianza del pretore Orlando Venuti. L'esistenza della setta viene presentata come una voce, ma Cicognani si accontenta: «Ha detto che quando era a Monreale si diceva che vi era la società degli stuppagghieri. Meno male». Trasferito da Monreale, il pretore era stato destinato a Bagheria. Allora l'avv. Marinuzzi lo interroga sugli affiliati di Bagheria, chiede se il brigadiere 253
Gandolfo gli ha mai confidato qualcosa. «Il pretore Venuti, rispondendo sul brigadiere Gandolfo a cui tanto deve la pubblica sicurezza, lo qualificò senz'altro un ciarlatano, ricordando anzi d'averlo un giorno rinviato colla raccomandazione che sorvegliasse i componenti la società e allora si sarebbe proceduto a punirli». Il. 26 febbraio testimoniano due notabili: il cav. Giovanni Salerno, un assessore comunale che dà ampie assicurazioni sulla buona condotta dell'imputato Sinatra, e il vicepretore notaio Leto, il quale dichiara che gli stuppagghieri sono come l'araba fenice, tutti li cercano e nessuno li trova. Dichiarazioni che fanno una pessima impressione sui giurati. Scrive Cicognani: «Quando avviene che uno ritenuto dei più onorati di Monreale depone e dice di buona condotta il Sinatra, che si vuole dagli altri monrealesi? A dire il vero anche io, giurato calabrese che sento deporre un assessore a favore di un imputato, mi metto sul chi va là. Il pubblico ministero è un bravo giovane, si vede che soffre, ma non ha che fare [...1. Bisogna combattere troppi elementi. Si rinunzia, ma co lla coscienza di avere tutto tentato [...]. Come al solito, non interviene il popolo e nessuno ne parla». I rapporti riservati che Cicognani spedisce al questore hanno un tono sempre più avvilito. Il 27 febbraio scrive: «L'avvocato Pucci [difende l'imputato Strano] ha finito per dire ai giurati che i calabresi devono far giustizia ai fratelli siciliani, martiri della libertà, e così liberarli dal penoso carcere in cui essi si trovano da molto tempo innocenti». Ormai Cicognani termina i suoi scritti con «speriamo bene». 2 marzo: Oggi tre avvocati hanno parlato in favore degli stuppagghieri, e se ne sono intese delle belle: l'avvocato dell'imputato La Venia ha dato del ribaldo ai delegato Filippone, gli stuppagghieri vengono trattati come martiri politici. È una vergogna! Maledetta quella volta che scelsero Catanzaro! [...]. Qui si credeva che gli stuppagghieri fossero briganti e, vedutili senza cappello pizzuto, non laceri e non malvestiti, dicono che sono galantuomini, che le loro fisionomie sono buone, senza sapere che sono iene peggiori dei briganti [...]. Stamani si è detto che il popolo generoso dei Vespri dal 187o fino al 1876 fu sempre malmenato, che il questore Albanese coi suoi dipendenti formarono le società dei malfattori, e che i capi erano pagati da quel governo Gli avvocati invitano i giurati a far giustizia alla Sicilia col liberare questi infami dei stuppagghieri, i quali sono vittime di una macchina infernale, montata dalle autorità politiche di allora. È una vergogna. Qui non si conoscono i siciliani, si crede che siano veramente i degni popoli dei Vespri. [•.•]•
2
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L'arringa dell'avvocato Marinuzzi, rafforza l'impressione negativa ricevuta dai giurati. «Nega l'esistenza della setta ed impugna la veridicità delle dichiarazioni del teste D'Amico, sebbene assassinato per esse. Sostiene che le autorità si mettevano d'accordo coi malfattori e che il delegato Palmeri aveva fondato la setta per conto del questore Albanese». L'avvocato Marinuzzi piazza un colpo basso: ricorda la vicenda del procuratore generale Tajani, legge un brano del discorso pronunciato alla Camera, quando l'ex procuratore aveva pubblicamente sostenuto che a Monreale erano agenti mantenuti dalla questura a commettere omicidi e ricatti. Il Presidente lo lascia parlare e - scrive Cicognani - «si può immaginare quale fu l'impressione che ne ebbe la giuria». L'avvocato Marinuzzi sostiene che il processo era stato fabbricato sugli anonimi, prodotto dalla questura per volere della Destra, per provocare le misure eccezionali di pubblica sicurezza. Marinuzzi presenta ai giurati la madre dei due Miceli, dice che l'aveva accompagnata lui a Catanzaro perché i monrealesi si erano rifiutati. Invoca la giuria, che dia finalmente giustizia ai fratelli siciliani. Cicognani è afflitto, scrive: «I giurati di Catanzaro non conoscono l'indole dei siciliani e specialmente quella dei cittadini di Monreale, le loro abitudini ed il loro carattere». Anche l'avv. Lombardi, che difende i due Miceli, comincia col leggere atti di accusa contro il questore Albanese. Il delegato Cicognani trepida, finalmente «il presidente si accorge del pregiudizio che da simile lettura sarebbe derivato e la interrompe, pregando il Lombardi di tenersi nei limiti della difesa. Ma era troppo tardi, perché il meglio era stato sentito con danno gravissimo della causa». L'avvocato Lombardi sostiene che le dichiarazioni del D'Amico sono false, che l'associazione è stata inventata dal governo per imporre le leggi eccezionali. Tutti sembrano dimenticare che al momento della scoperta della setta il pericolo delle leggi speciali era passato. O, forse, è solo che ad essere più precisi sarebbe mancato un motivo apparente altrettanto valido, in grado di suscitare la solidarietà dei giurati con la stessa automatica immediatezza: e allora conviene non andare troppo per il sottile sulle date. Il pubblico ministero ha poche chances, che certo non hanno la portata emotiva di quelle della difesa. Conclude la sua arringa dicendo: «Signori giurati, innanzi a voi ci stanno 12 giudicabili che furono condannati da 12 giurati di Palermo, che conoscevano Monreale 255
e i suoi abitanti. A capo di quei giurati vi era un'onesta e proba persona. Spetta a voi giurati calabresi il dichiarare se i giurati di Palermo avevano ragione». Cicognani è sulle spine, giudica che il Presidente della Corte abbia un contegno superficiale: dà troppa libertà a lla difesa, non ha preso tempo fra la lettura dei documenti Tajani fatta dall'avvocato Marinuzzi e la sentenza, non è stato abbastanza energico con i testimoni. Cicognani riflette: Forse perché nativo di Palermo, non è convinto della bontà della cosa. Forse gli sembra che ammettendo l'esistenza della setta si reca offesa al proprio paese. In sintesi: l'indirizzo dato al dibattimento non corrisponde alla sua importanza, le testimonianze non vengono approfondite, agli avvocati viene lasciata una libertà deleteria e soverchia. Il riassunto prima che la giuria si ritirasse fu breve, affrettato, tradiva il desiderio di finire presto.
Cicognani scrive che la sera precedente era stato dal prefetto «perché venisse fatto il possibile, trattandosi che l'indomani si pronunciava il verdetto». Ma sulla reità di Paolo Miceli si hanno sei voti favorevoli e sei contrari, percentuale che si ripete anche per Baldassarre Miceli e per Salvatore Strano. Dal momento che si è formato un muro di sei contro sei, per gli altri quesiti i giurati depositano scheda bianca. Il 4 marzo 188o i pochi calabresi presenti in aula, Cicognani li definisce «artisti e fannulloni», accolgono con applausi la sentenza di assoluzione. Che non si limita al reato di associazione ma cancella anche le imputazioni per i diversi assassinii. Dopo, all'afflitto delegato Cicognani il presidente sembra indifferente come al solito («non avrebbe dovuto dire a chicchessia che la causa era indiziaria e che non c'erano prove»), il prefetto poco partecipe («la causa prosegui, e che possiamo farci noi? quello che potevamo fare l'abbiamo fatto, nulla abbiamo lasciato di intentato»). L'unico in cui gli sembra che il suo dispiacere possa rispecchiarsi è il pubblico ministero Bartolotti, «caduto con tutti gli onori». A Palermo ben pochi si occupano dell'assoluzione degli stuppagghieri, i giornali la riportano con una sorta di compiaciuto vittimismo: «Manco male che essa avvenne fuori di Sicilia, ché altrimenti ci sarebbe stata da aggiungere questa alle molte vergogne che ci rin256
facciano. La giuria di Catanzaro ci fa rimpiangere i tempi delle sommarie misure di polizia, che se non altro con queste si poteano vedere i malfattori messi fuori dal consorzio della gente onesta» (La nuova gazzetta, 6 marzo). Chiuso il processo, da Catanzaro telegrafano al questore: «Monrealesi sono stati tutti muniti foglio via obbligatorio con ingiunzione presentarsi codesta questura». 7 marzo, le 8 del mattino, altro telegramma al questore. Dall'ispezione marittima di pubblica sicurezza comunicano che «col piroscafo proveniente da Messina arrivato in punto ingresso porto sono giunti i già implicati nella causa stuppagghieri». L'indomani il questore fa rapporto al prefetto «circa l'esito infame avvenuto contro ogni aspettazione, le cui gravi conseguenze a Monreale non si faranno attendere a lungo». Piuttosto sbrigativo, il questore non sta a discutere di alte motivazioni: «Avvalendosi di tutte le amicizie gli avvocati hanno ottenuto un verdetto favorevole, così da poter percepire dalle parti un doppio emolumento, e poi il capo dei giurati era un avvocato». A suo parere la notizia del verdetto aveva provocato sorpresa a Palermo e sgomento a Monreale: Ognuno pensò alle vendette che testimoni e parti in causa possono aspettarsi. La maffia, l'alta maffia ha riportato una vittoria a danno del principio d'autorità, senza contare che l'esito del processo potrà avere un'influenza negativa sulla causa dei fratuzzi di Bagheria che assieme all'associazione dell'oblonica, lo scaglione di Castrogiovanni e dell'Uditore, fontana nuova di Misilmeri, la zubbia di Villabate, la scattinlora di Sciacca sono sette diverse di nome, ma identiche per origine e scopo delittuoso, per modi di esistenza, collegate tra loro dall a solidarietà del delitto, manifestazioni tutte di un solo fatto morboso, la maffia. La vittoria di una è la vittoria di tutte. Ho dato disposizioni perché i reduci di Catanzaro siano almeno ammoniti a titolo preventivo.
Le previsioni del questore in buona parte si avverarono, i processi si conclusero con numerose assoluzioni. Però, ormai l'idea della mafia come setta si era radicata nel comune sentire. In seguito offuscata dalla diffusa trattazione come comportamento e subcultura, la mafia come associazione segreta riemerge negli anni '8o del nostro secolo. Con la legge antimafia, il maxiprocesso e le biografie dei pentiti, la struttura segreta della mafia si ripropone come un modello 257
vincente, che esce dal ghetto dei rapporti riservati di polizia e prende corpo nell'universo della comunicazione di massa. 48 Per quanto spurie, le dichiarazioni di Salvatore D'Amico si riveleranno di notevole vitalità. La struttura segreta della mafia sarà un simulacro vuoto in attesa di un contenuto, un modulo già pronto e tutto sommato rassicurante. Che non disturba il controllo del territorio ottenuto attraverso una gestione delle risorse che è sotto gli occhi di tutti, banalmente quotidiano, che non ha niente di segreto.
Epilogo
A Monreale il processo contro gli stuppagghieri non disturba la dinamica degli eventi. Al momento de ll e elezioni politiche del maggio 188o l'on. Inghilleri ha del tutto ritrovato il favore dei suoi elettori: su una lista che registra 473 iscritti e 402 votanti Inghilleri raccoglie 401 voti, r scheda è bianca. Risultati altrettanto plebiscitari si registrano negli altri comuni della circoscrizione. 1 Luglio del 188o: nel periodico rapporto sullo spirito pubblico, il delegato Cicognani ancora recrimina sulla libertà che la Corte di Catanzaro ha concesso ai famigerati stuppagghieri, i quali colpivano a morte vari cittadini, distinti per censo e posizione [...]. Costoro ritornerebbero più feroci di prima, ma il benefico provvedimento dell'ammonizione e la continua sorveglianza li ha in certo qual modo frenati [...]. Essi sognano il ritorno del momento in cui col terrore e col sangue si imponevano alla cittadinanza. I due principali capi della società criminosa degli stuppagghieri, i fratelli Paolo e Baldassarre Miceli, non per anco denunziati per l'ammonizione, la pubblica sicurezza li sorveglia attentamente e al benché minimo motivo che essi potranno dare saranno senz'altro denunziati per l'ammonizione. Quello però che in certo qual modo fa rialzare la cresta ai malvagi ed impensierisce gli onesti è che i colpevoli di reati molto facilmente sfuggono i rigori, per mancanza di prove legali che in queste località non possono assolutamente ottenersi. 2
48 Il dibattito sul crimine organizzato segue un destino sostanzialmente analogo negli Stati Uniti, a partire dai concetti polarizzanti di organized crime come alien cospiracy, complotto organizzato e setta segreta oppure come american way of life, subcultura e atteggiamento di vita. Sull'argomento cfr. U. Santino G. La Fiura, L'impresa mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, M il ano 1990, pp. 463 e sgg.
25 8
Rapporto da cui si deduce che, una volta tornati in patria, i fratelli Miceli ritrovano la protezione di amici influenti, non preoccupati dal gran baccano che s'è fatto attorno al processo, che evitano loro le umiliazioni e i fastidi connessi alla condizione di ammonito. Ma il successivo corso degli eventi dimostra come, nel tempo che i due fratelli hanno trascorso in carcere, i giochi siano cambiati. 1 ASP, AGQ, 2
ASP, AGQ,
busta 409. busta 461.
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Il 4 marzo del 1880, lo stesso giorno in cui viene emessa la sentenza di Catanzaro, Paolo Miceli indirizza una supplica all'arcivescovo: per quasi quattro anni è stato in prigione «per effetto di inimicizie e di false accuse»; adesso che giustizia è fatta chiede di «riavere il posto e il pagamento dei decorsi». Paolo Miceli avanza la sua richiesta come se l'amministrazione della Mensa e i suoi impiegati dipendessero dallo Stato e ne avessero le prerogative, ma non ottiene risposta. Diverse volte torna a scrivere all'arcivescovo, anche il procuratore Salvatore Di Liberto interviene in suo favore. Alberto Gorgone, che l'ha sostituito in via provvisoria, dichiara di essere disponibile a spartire col Miceli gli impegni che la carica di campiere comporta, dividendo a metà la paga. Il 21 settembre del 1881 Paolo Miceli si rivolge anche all'avvocato Puglia, che lo aiuti perché «la sua supplica non è stata in verun modo provveduta». Dichiara che «non ha commesso alcun delitto in ufficio per il quale meriti la destituzione, né fece mai sperimentare disservizio, in quel tempo che era libero di poter servire». L'avvocato Puglia gli è favorevole, a suo giudizio un solo campiere non riesce a svolgere la mole di lavoro che comporta la procura di Monreale, due «sollecitatori» per la riscossione delle rendite riuscirebbero assai meglio. Sono argomentazioni molto ragionevoli, quello che stride è il compenso irrisorio connesso a lle funzioni di campiere: appena 300 lire annue per curare l'esazione di migliaia di partite, l'avvocato Puglia calcola che nella procura di Monreale ci siano 5.000 enfiteuti, e tenere la relativa contabilità. Evidentemente i vantaggi e il prestigio connessi alla carica vanno ben oltre i compensi nominali. Su Paolo Miceli una decisione tarda ad essere presa; è il ministero a doversi pronunciare e da parte dell'economato non arrivano risposte, né tantomeno si sbilancia il controllore governativo Faro Scarlata. Datata 25 novembre 1882 troviamo un'altra supplica all'arcivescovo, stavolta firmata dalla moglie di Paolo Miceli. Scrive del marito, con sorpresa leggiamo che «trovandosi nell'assoluta miseria e nella condizione di non poter provvedere al mantenimento della sventurata sua famiglia, per disperazione si suicidò ad una trave di una casa di campagna ed ivi lasciò miseramente la vita». La moglie non sa come mantenere i sette figli tutti piccoli, torna a chiedere aiuto. Stavolta il regio economo generale si rivolge al comune, vorrebbe saperne di più sulle condizioni economiche 26o
della vedova e il sindaco risponde che, «a causa dei debiti lasciati dal defunto, gli eredi versano in critiche condizioni economiche». Non le si assegna un sussidio, ma infine la vedova viene aiutata; oltre che campiere, Paolo Miceli era stato un enfiteuta moroso della Mensa arcivescovile: nell'aprile del 1883 il ministero annulla una parte dei suoi molti canoni non pagati, riducendo il debito di quelle annualità che non gli erano state corrisposte perché in prigione. 3 Il servizio nel mandamento di Monreale è stato fonte di molti avvilimenti per il delegato Pio Cicognani, ma a lla fine arriva pure qualche soddisfazione. A differenza di Bernabò, che invano s'era logorato la vita per riuscirci, il 26 ottobre del 1880 Cicognani viene promosso delegato di 1 a classe, per merito. Cicognani scrive al questore, lo ringrazia «per quanto si è compiaciuto di fare in mio favore e per le sentite e affettuose espressioni con cui si è compiaciuto trasmettermi il decreto stesso». I giorni in cui il questore gli scriveva spazientito dal suo scarso acume, suggerendo piste e sollecitando rapporti, sono ormai lontani. Circondato dalla stima, Pio Cicognani resta nel mandamento di Monreale sino al 24 luglio dell'81, poi viene trasferito a Comacchio. Per nome del sindaco Mirto la giunta municipale emette un voto di lode e ringraziamento al suo indirizzo. 4 Mai chiamato a testimoniare, calunniato e consegnato alla storia con un marchio infamante, l'ex delegato Palmeri è ormai un sorvegliato. In un rapporto del 188o, inserito nel suo fascicolo personale riservato, viene trattato con un'acrimonia tanto più acida quanto più immotivata. Palmeri ha 44 anni e tutto nella sua vita è sotto il segno della colpa, anche l'aver lasciato la scuola dei gesuiti per quella pubblica. Viene cancellata la sua partecipazione alla rivoluzione del 1860, «quando il sangue del martire imporporò le zo ll e il Palmeri non fu in azione, era in via Divisi, in casa del marchese Palmeri duca di Villalba: il Palmeri fu generalissimo in tempo di pace, gran ciambellano in tempo di guerra. Dopo fu una delle cavallette che diede l'assalto agli 3 ASDM, FM, busta
376. Richiesta di sussidio per gli eredi anche in ASP, AGQ, busta 433.
4 ASP, AGQ, busta 399.
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impieghi nazionali». Naturalmente, il rapporto lo dà come fondatore degli stuppagghieri. Il Palmeri non ha alcun partito, la sua politica è utilitaria, perciò internazionalista. Avversione sistematica ad ogni principio autoritario, perciò rivoluzionario nel più stretto senso de lla parola. Vi sono degli esseri che amano le tenebre e sfuggono la luce come gli idrofobi. La tenebra è la più corta strada per salire alle dovizie, questo è il sentiero che il Palmeri assegnò a sé medesimo. Abita ora con la madre in via Lincoln, aveva aperto un negozio di zolfi moliti a porta Garibaldi, poi è stato mediatore in mutui e nella vendita di immobili, ma guadagna poco o nulla. Esce di casa quasi sempre al tocco, occupandosi nelle prime ore di un piccolo giardino aggregato alla casa. Poco si cura dell'educazione dei figli, anzi istilla odio contro il governo. È un Mefistofele in famiglia e un perturbatore nella società per le sue idee sovversive. Necessità vuole che lo si controlli di continuo, bisogna spiarne i passi, anatomizzarne i principi, intercettare le sue corrispondenze. 5
5 ASP, AGQ,
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busta 445 (fascicolo personale di Palmeri).
Bibliografia
Fonti d'Archivio ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO
Fondo Questura di Palermo, archivio generale (anni 1861-1903): Anni 1870-71, informazioni, ordinanze di servizio, provvedimenti e affari diversi: busta 328. Anni 1860-1886, informazioni riservate di gabinetto: buste 385, 388, 391, 394, 399, 401 , 409, 4 10 , 4 11 , 4 2 9, 43 1 , 433, 434, 435, 44 0, 44 1 , 44 2 , 456, 460 , 461 , 46 7, 4 69.
Anni 1860-1903, reati ed avvenimenti: anno 1872, buste 664, 665, 666, 667, 669, 671; anno 1875, buste 693, 694, 695, 696, 699, 700; anno 1876, buste 701, 702, 703; anno 1877, buste 708, 716; anno 1878, buste 719, 724; anno 1879, busta 728. Serie gabinetto, anno 1880, busta 7 (processo stoppaglieri). Fondo Economato generale dei benefici vacanti (1570-1920): anni 1866-73, serie 1 a busta 57; anni 1866-91, serie I a, busta 418; anni 1872-98, serie la, busta 18; anni 1879-95, serie la, busta 403. ,
Inventario prefettura di Palermo, serie gabinetto, (anni 1860-1905): anno 1866, busta 8, fasc. 19 e 29; anno 1869, busta 19, fasc. 42; anno 1870, busta 17 fasc. 21; anni 1870-71, busta 25, fasc. 31; anni 1871-72, busta 22, fasc. II; anni 1871-72, busta 24, fasc. 20, 21, 23; anni 1871-72, busta 25, fasc. 31; anni 1871-73, busta 28, fasc. 25; anno 1875, busta 31, fasc. 6, 7, 53; 2 65
anno 1875, busta 32, fasc. 13; anno 1875, busta 33, fasc. 6, 1 4, 49; anno 1876, busta 34, fasc. 6; anno 1876, busta 35, fasc. 6, I I, zo; anno 1877, busta 38, fasc. Io; anno 1877, busta 39, fasc. 19; anno 1879, busta 47, fasc. 25; anni 1875-81, busta 61, fasc. 63; anno 1887, busta 1oo, fasc. 116. Fondo Tribunale, sentenze Corte d'Assise ordinaria: anno 1878, vol. 2359; anno 1879, vol. 2360. ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI MONREALE
Fondo Mensa, classe 1 a , serie 5', buste 190 e 191; Fondo Mensa, classe 2 a , serie 4a, buste 365, 366, 372, 376, 378, 37 9, 383, 3 84;
Fondo Mensa, classe
2 a,
serie
5 a,
buste
4 01 , 4 02 , 403.
Opere a stampa Sono state incluse solo quelle opere utilizzate per la ricostruzione degli avvenimenti o per l'elaborazione di un quadro generale di riferimento.
393, 394, 395, 39 6 , 397, 39 8 , 399,
Fondo Governo Ordinario, sez. r a, serie
2 a,
busta 6.
ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI MONREALE
Fondo Comunale, A) scritture; Parte II: anni 1872-77,
busta 478; anni 1866-69, busta 522; anni 1861-73, busta 554; anno 1873, busta 56o, fasc.
Il Precursore, anno 1874, n. 237 del 25 agosto; anno 1876 n. 315 del 17 novembre; anno 1878 n. 125 del 5 maggio, n. 137 del 17 maggio, n. 142 del 22 maggio, n. 157 del 6 giugno. L'Amico del Popolo, anno 1880, n. 63 del 5 marzo. La gazzetta di Palermo, anno 1876, n. 42 del 12 febbraio; n. 308 del 4 novembre; n. 32o del 16 novembre; n. 326 del z dicembre; n. 336 del 7 dicembre. La nuova forbice, anno 1876, n. 245 del 2 settembre; n. 325 del 21 novembre; n. 327 del 23 novembre; anno 1877, n. ro del io gennaio; n. 171 del zo giugno; n. 175 del 24 giugno. La nuova gazzetta, anno 1878, n. 337 del 13 dicembre; anno 188o, n. 65 del 6 marzo. Lo Statuto, anni 1876, 1877 e 1878, nn. vv. La verità (giornale di Catanzaro), n. 68 del 9 marzo 1880.
AA. VV.
Discorsi inaugurali anno giudiziario, (vo l. II dal 1873 al 188o), Palermo, tip.
Lorsnaider 1873-80. Il moto palermitano del 2866, numero monografico di Nuovi quaderni del Meridione, n. 16 (1996). Storia del Parlamento italiano, Palermo, Flaccovio 1968. Mafia, numero monografico di Meridiana, n. 7-8 (1989-9o).
Adragna, G. 53;
Parte III: anno 1874,
Regio economato dei benefici vacanti in Sicilia nella rappresentanza della Mensa contro il consorzio delle acque del Giacalone, Palermo, tip. Maccaro-
busta 638, fasc. 6; anno 1874, busta 641, fasc. 79 e 82; anno 1875, busta 646, fasc. 79 e 82; anno 1876, busta 633, fasc. 95; anno 1876, busta 647, fasc. I; anno 1876, busta 65o, fasc. 5o e 52; anno 1876, busta 652, fasc. 78 e 79; anni 1877 79, busta 657.
ne 1879.
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Indice dei nomi
Adragna, G., 54T 1 •, 55n., 246n. Alatri, P., 23n, 5on.,76n., 77n., 79n., 83n., 89n., 9on., 93n., loin., 149n., 18on., 199n. Albanese, questore, 30, 4 1 , 45, 73, 83, 98, 1oi, 102, 10 3, 2 54, 2 55 Alessi, C., 203 Alfano, banda, 232 Alfonso, F., 7in., 94n. Alongi, L., 65, 158, 159, 223 Amato, F. P., 185 Amato, G. B., 158 Anselmo, G., rah Arnao, E., 67 e n. Attinelli, ingegnere camerale, 55 Aymard, M., 5in.
arcivescovo di Monreale, 48n. Banchieri, F., 141, 148, 149, 168Balsamo,
'71 Barbera, ucciso da S. D'Amico, 196 Barraco, S., roi e n. Bartolotti, pubblico ministero, 251, 256 Bernabò, E., 70, 93, 1 4 1 , 1 44-1 47, 1 49, 1 5 0 , 1 5 1 , 1 5 2 , 1 53 -1 68, 172-177, 178, 179, 183-188, 192, 194, 197-200, 202, 213-216, 217, 219, 226, 22 7, 2 33, 2 35, 2 5 0 , 252, 261
Berselli, A., 73n, 75n., 76n, 77n., Son., 84n. Bianchini, L., 22n. Biundi, questore di Palermo, 39, 78, 106, 180, 192, 226
Biundo, S., 109 Biundo, V., 57n. Blando, A., 24on. Bonafede, fratelli, 185 Bonfadini, 14n., 73n., 78n., 81n., 83n., 87n., 88, 95n., 128n., 133n., Zorn. Bosco, A., 159 Braga, A., 123 e n., 124, 125, 140, 141 e n., 545 Brancato, F., 22n., 24n., 79n., 82n., 83n., loin., 134n., 19on. Bresc, H., yin. Brigadiere Oliva, bandito, 231 Broggi, I., 221n. Bruno, F., 167 Bruno, P., 105 Busicchia, L., 179 Cadorna, generale, 39 Cairoli, B., 212, 232 Calà Ulloa, P., 22n. Calabrese, bandito, 190 Caldara, G., 53n. Calenda, V., 74 e n., 102, 133 e n. Calvino, G., 14 Cammarata, F., 146, 16o, 221n, 228 e n. Campanella, G., loin. Cangemi, B., 166, 196, 221n, 225, 228n.
G., 72, 73 e n., 77, 79, 8o, 83, 8 7, 88 , 9 0 , 9 2 , 11 9, 1 34, 2o1n. Capaci, conte di, 93 e n. Cantelli,
277
Cappello, S., 44 Capraro, V., 82, 226, 231 Caputo, famiglia, 196, 251 Caputo, S., 149n., 159, 160, 2210., 223, 226, 228.
Carbone, S., 73n. Carboneri, L., 136n. Caro, arcivescovo di Monreale, 34n. Carocci, G., 131n. Caruso, A., 43 Caruso, G., 118, 175 Cassarà, A., 200 Cavallaro, C., 149n., 184, 224, 225, 2 35 Cavallaro, F., 176 Cavallaro, famiglia, 150, 1 5 1 , 1 75, 176, 186, 1 95, 1 97. Cavallaro, G. (fu Simone), 63, 150, 1 55, 1 5 6 , 18 4, 185, 22 5, 2 5 1 Cavlro, . G., 176 177, 225, 252 Cavallaro, Salvatore, 196, 225 Cavallaro, Simone, 149-150, 152, 1 53, 16o, 176 e n., 184, 195, 196, 197, 2210., 222, 22 3, 22 4, -
225, 226, 235 Cavour, conte di, 17 e n. Celesia, arcivescovo di Palermo, 46,
49, 9 2 , 238 Celona, A., 139 Chiaja, giudice istruttore, 179, 183, 1 91, 1 9 2 , 1 93, 1 95, 1 97, 227 Cicero, bandito, 231 Cicognani, P., 217, 218, 229, 233, 2 34, 2 3 6 , 2 37, 2 4 6 , 2 5 1-2 5 6 , 259, 261
Clemente xlv, Papa, 35 Colletta, G., 108 Corleo, S., 13, 35 e n., 37n. Corte, C., 212, 224, 226, 230, 231, 232
Crisafulli, A., 49, 5o, 92, 238, 239, 24on., 242n, 2 47 Crispi, F., 211, 212, 238n. Croce, B., 136n.
278
Cuccia, avvocato, 2210. Cutrera, A., 7on., 161 e n. D'Acquisto, B., 48, 5o, 58, 59, 6o, 61 Da Passano, M., don. Damiani, G., 194, 223 D'Amico, S., 15, 16, 160, 191, 195, 196, 197, 221 e n., 222, 223, 225, 227, 228, 229, 252, 2 55, 2 5 8 De Cesare, commissario inchiesta Bonfadini, 13, 14 De Ciocchis, visitatore apostolico, 35, 37n., 52 De Pretis, A., 131 e n., 134n., 211, 232 Della Rovere, A., 2o, 21 Di Bella, A., 94, 99, 100, 104, 116, 128, 216, 226 Di Bella, S., 166. Di Benedetto, L., 172, 173, 174 Di Giovanni, famiglia, 127 Di Giovanni, I., 158 Di Girolamo, P., 124 Di Gregorio, fratelli, 158, 223, 224 . Di Gregorio, G. 185, 187 Di Gregorio, M., 140, 158, 159, 162, 22,n., 228n. Di Gregorio, P., 151, 160, 221n., 228n. Di Gristina, M., 247 Di Liberto, B., 115, 116 e n., 117 Di Liberto, G., 115 Di Liberto, N., 115, 238 Di Liberto, P., 56, 57, 62, 63, 64, 65 e n., 7o, 113-123, 1 5o, 1 55, 1 5 6 , 158, 159, 162, 164, 166, 176, 1 77, 18 7, 1 95, 1 96, 1 97, 202, 219, 222, 223, 22 4, 22 5, 22 7, 233, 240 e n., 241, 2 43, 2 44,
25o, 252 Di Liberto, Salvatore (fu Pietro), 1 5 1 , 2 41, 2 47, 26o Di Liberto, Salvatore (giardiniere), 44
Di Maggio, barone, 55n. Di Menza, G., 1490., 22rn. Di Mitri, famiglia, 147 Di Mitri, G. (fu Stefano), 224 Di Mitri, G., 147 e n. Di Mitri, I., 6o. Di Mitri, S. (ferito il 14/8/1876), 146-147, 152, 153, 16o, 169, 170, 194, 22rn., 222, 223, 228, 251
Di Mitri, S. (ucciso il 14/6/1872), 147n. Di Pasquale, bandito, 231 Di Pasquale, G., 82 Di Rudinì, marchese, 40, 73, r r8 Don Peppino il lombardo, bandito, 231 Donatuti, avvocato, 221n. Drago, fratelli, 82n. Fabrizi, G., 41n. Fabrizi, N., 23 Faraci, A., 4o Faraone, fratelli, 153 Faraone, S., 146, 152 Farini, L. C., 17 Ferdinando II, re delle due Sicllie, 22n., 35 Ferrara, G., 52 n. Ferraro, S., 245 Ferrigno, G. 22n. Figlia, avvocato, 221n. Filippone, A., 95, 104,
105, 109, 110, 112, 113, 11 4, 122, 124,
22 4, 2 5 2 , 2 54 Fiume, G., 23n. Floreno, G., 3on., 47n., 75n. Florio, I., 208 Forte, G., 141, 148, 153, 161, 169, 170, 178, 181, 187, 191, 192, 222, 229
Fortuzzi, prefetto di Caltanissetta, 83 Foscolo, marchese, 141
Foti, D., 3 1 n. Franchetti, L., 38, 51n., 108 e n., 132,
142
Fumagalli, regio economo, 4o Gambetta, D., 61n. Gandolfo, G., 223, 251, 252, 2 54 Garibaldi, G., 16, 17, 46, 47. Garritti, avvocato, 2 2 r n. Gattoni, S., 176, 251 Gela, duca di, 118 Genco, M., 161n. Gerra, L., 78n., 84, 86, 88, 117n., 119, 121, 122, 123, 126, 128, 134 e n., 1 35, 1 3 6 , 1 37, 138n., 142, 178, 204 12 9,
Gestivo, avvocato, 2210. Giambruno, avvocato, 221n. Giambruno, S., 59 Giarrizzo, G., 51 n. Gioia, V., 66 Giordano, N., 47n. Gorgone, A., 26o Gorgone, P., 196, 22rn., 225, 226, 228n. Govone, generale, 21 Granato, G., 69 Grispo, R., 73n. Gualterio, prefetto di Palermo, 25, 26, 97, 118, 191 Guardione, F., 38n. Guglielmo, re normanno, 33 Gullo, M., 206
Hillebrand,
K., 138n. Huillard Breholles, J. L.,
34n.
Iachello, E., 14n., 95n., 128n. Incontrera, F., 200 Inghilleri, C., 115, 118, 128, 172, 174, 175 e n., 21 7, 2 59 Inghilleri, G., 216, 226, 235, 236, 251 Innocenzo III, Papa, 34n.
279
Interdonato, G., 25 Intravaia, B., 68-70 Intreccialagli, arcivescovo di Monreale, 239n. Jacini, S., 17 La Ferla, G., 1 45 La Fiura, G., 34n., 258n. La Fiura, S., 140, 159 La Mancia, R., 203 La Venia, G., 159, 160, 2210., 222, 223, 228n., 2 54 Lanza, G., 29, 72 Leone, A., 82, 1510, 190, 205, 226 Leone, banda, 137, 188, 189, 205, 206, 231
Lepre, P., Io, Leto Saputo, A., 45, 98, 127, 226 Leto, S., 247 Leto, vicepretore, 2 54 Lipari, G., 159 Lo Biundo, S., 100 Lo Cicero, R., 158 Lo Monaco Aprile, M., 37n. Lo Piccolo, F., 53n. Lo Piccolo, V., 105. Lo Verde, F., 44 Lombardi, A., 82 Lombardi, avvocato, 2 55 Lucifora, avvocato, 221n. Lupo, S., 37n., sin., 85n., 97n., loin., 156n., Zorn. Luzzatto, G., i in.
Mangano Pulvirenti, G., 190 e n. Maniscalco, capo della polizia borbonica, 83 Mannino, G., 158 Marchese, F., 67-71, 115, 118, 121, 158, 159 .
Marino, G. C., 87n., 134n. Marino, I., 2orn. Marino, R., 159, 203 Marino, S., 104, 159, 183, 198, 200203, 218, 220, 221
e n., 228
Marinuzzi, avvocato, 2 53, 2 55, 2 5 6 Marongiu,G.13 Martines, A., 48n., 93, 2 44 Martines, archivista della Mensa ari vescovile di Monreale, 239 Masi, comandante generale della divisione militare di Palermo, 102 Massaro, D., bandito, 8o Matranga, famiglia, 203 e n. Mazzini, G., 24n., 2 5, 2 9, 179, 201 e n. Medici, G., 23, 25, 26, 29, 30, 31, 4 1 , 44, 73, 82, 88, Io', 102, 227 Merlo, bandito, 190 Messineo, avvocato, 22In. Mezzapelle, R., 160 Miceli, B., 66, 68, 158, 16o, 187, 22In., 228n, 256 Miceli, fratelli, 66, 70, 114, 120, 1 55, 1 5 6 , 1 59, 160, 161, 162, 164, 166, 167, 176, 184, 186, 187, 188, 194, 197, 198, 199, 200, 221, 222, 223, 224, 225,
259 Miceli, P., 66 e n., 68, 151, 1 55, 158, 159, 160, 187, 2210., 226n., 228n., 256, 260, 261 Miceli, S., 96, 97 Miceli, T., 187 Milazzo, M. G., 224 Millunzi, G., 4on. Minasola, da Pioppo, 227 Minasola, G., 65 226, 227, 228, 252, 255,
Macaluso, G., 127 Madonia, A., 160 Madonia, G., 202 Maggiore Perni, F., 173n. Majorana-Calatabiano, S., 131 Malusardi, A., 134n., 165, 190, 191, 1 93, 1 94, 199, 200, 202, 203211, 224, 226, 231, 232, 25o Mammina, G., 112, 159
Minghetti, M., 19, 72, 73, 75, 76, 8o, 84, 86, 131, 135, 172, 206 Mirabelli, procuratore generale, 250 Mirto Seggio, P., III, 127, 128, 129, 156, 173, 202, 214, 216, 217, 219 e n., 2 33, 2 34, 2 35, 236, 244 e n., 261 Mirto, G., 216, 235, 236. Mirto, P., 2 47, 2 49. Mirto, S., 226, 238 Modica, G., 59 Modica, M., 245 Modica, M., giardiniere, 215. Modica, M., guardiano delle acque, 6o, 2 45 Morena, C., 33n., 210 e n., 211, 230, 251 Mortillaro, V., 53n. Muzzini, G., 159n. Nasca, avvocato, 22in. Naselli, arcivescovo di Palermo, 46 Naselli, conte, 59. Negri, delegato p. s., 104, 109, 154, 159, 223, 252. Nicolosi, brigante, 2 35 Nicotera, G., 131, 134n., 172, 189, 190, 206, 208, 209, 211, 230
Nobile, bandito, 190, 226 Nocera, C., i65 Nocera, G., 146, 160 Notarbartolo, E., 92, 208. Noto, brigante, 235 Novacco, D., Son. Orestano, L., 167 Orlando Venuti, S., 116, 121, 140, 167 e n., 252, 253, 2 54 Orsatti, N., 42 Pagano, G., 136n., 142n. Pallavicini, generale, 224, 230 Palmeri di Nicasio, famiglia, i 8on.
Palmeri, G., 157, 169, 179, r8on., 192, 224, 227, 229 Palmeri, M., 179, 18o e n. Palmeri, marchese, 261 Palmeri, N., i8on. Palmeri, P., 39, 4 2 , 43, 45, 46 , 65, 66n., 99, Io1, 102, 103, 104, 1o8, 140, 1410., 147-149, 152, 153, 1 54, 1 57, 161, 168-171, 179, 18o e n., 192, 193, 201, 222, 22 3, 22 9, 255, 261, 262
Papardi, G., 46, 47 e 0., 49, 50 e n., 64, 93 e n., 2 3 8 , 2 39, 241, 242n., 2 47
Parenti, ispettore di p. s., 141 Parisi, A., 211 Parisi, P., 200, 203 Passafiume, brigante, 231 Passerin D'Entrèves, E., 17n. Paternostro, commissario inchiesta Bonfadini, ,4 Pensabene, marchese, 59 Pensato, famiglia, 127 Pensato, G. B., 98 Petrigno, F., 107 Pezzino, P., 210., 133n., 134n., 2o3n. Pinna, questore, 39, '18 Pio vii, Papa, 35 Pio Ix, Papa, 47, 218 Pizzo, B., 159 Pizzo, S., 162, 2210., 223, 225, 228n. Plaja, banda, 231, 232 Pontieri, E., 22n. Procacci, G., 87n. Procida, S., 187 Provenzano, famiglia, 203 e n. Pucci, avvocato, 2 54 Puglia, 33, 94, 221, 238, 239, 240, 2 4 1 , 2 45, 246, 26o Pugliese, bandito, 89 Pupella, D., 113, 114, 127 Ragionieri, E., 138n.
Ranchibile, conte, 226 28 1
280
Randazzo, bandito, 205, 206, 231 Rasponi, G., 31n., 75-84, 88, 119, 12 5, 1 34, 1 35, 1 3 6 , 1 37, 1 3 8 , 149, 152, 206, 236 Rastelli, 85, 86n., ioin., 119, 120, 133 e n., 140, 141, 178, 180, 192 Reins, brigante, 23o Renda, F., 9on., 134n. Renzi, S., 242, 248 Riccina, D., 160 Rinaldi, A., 82 Rinaldi, banda, 119, 137, 138, 231 Riolo, Giorgio, 160 Riolo, Giovanni, 65, 103, 106, 107, I20, 160, 167, 185, 222, 223, 252 Rio1o, S., 107
Rizzuto, avvocato, 221n. Rocca, bandito, 231 Rocca, V., 82 Romano, A., 1 45 Romano, F., 22m., 228n. Romano, fratelli, 227 Romano, G. B., 185 Romano, I., 22in., 228n, Romanotto, F., 199, 200 Romeo, G., 105 Romeo, R., 17n., 2m., 24n., 37n. Rose, J., 188, 189, 203 Rossello, A., 146, 160, 228 Russo, N., iorn., 201n.
principe di, 202 banda, 231, 232
S. Antimo, Sajeva,
Salamone, G., 150 Salerno, A., 158 Salerno, Giovanni, 99, 2 54 Salerno, Giuseppe, 184, 185, 2 23, 235 Salerno, P., 149, 151, 184, 224, 225, 2 35 Salpietra, bandito, 205, 231 Sangiorgi, A., 89n., 91n., 92n., Sangiorgi, E., 97 e n. Sangiorgio, A., 226 282
Santagostino, A. 14r 1 53 , 192, 1 94 , ,
,
251
Spinnato, 222,
Santino, U., 16n., 61n., 258n. Sapienza P., 165 Saputo, S., 183, 1 95 Savoja, N., 110-123, 223, 252 Scarlata, F., 48, 49 e n., 55n., 61, 93n., 238 e n., 2 39, 2 4 1 , 2 43, 2 44 e n., 2 45, 260 Scarpello, B., 124 Schirò, G., 36n, 48n, 239n. Sciascia, L., ern. Scichilone, G., 19n. 2on., 24n., 26n., 3m., 39n., 4m., 47n., 93n., 97n. Scifo, A., 37n. Sciortino, A., 158, 164, 183, 197 Sciortino, Giacomo, 218 Sciortino, Giuseppe, 2 i8 Sciortino, S., 62, 247 Segreto, G., 199, 200, 22111., 227, 228n. Segreto, S., 22in., 228 Sella, Q., 72 Sereni, E., 18n., 28n., 13m. Sinatra, Giovanbattista, 184 Sinatra, Giuseppe, 108 Sinatra, N., 151, 160 Sinatra, P., 150, 16o. Sinatra, V., 159, 221n., 223, 225, 228, 2 54 Soldano, D., 149n., 184 Sonnino, S., 132 Soragni, A.,73, 88, 89, 92, coin., 118, 125, 126 Sorrentino, C., 112 Spadaro, frate benedettino, 39 Sparacio, figlio del sindaco di Prizzi, 23o, 231 Spina, Presidente della Corte, 252 Spinella, S., 140, 158, 159. Spinnato, Salvatore (rapito nel 1870), 44. Spinnato, Salvatore (latitante), 199, ,
Saverio,
223, 224,
158, 185, 228n.
221n.,
Stabile, F. M., 47n. Strano, S., 158, 160, 194, 221n., 223, 224, 225, 228, 2 54, 2 5 6
Tajani, D., 100, moi e n., 102, 199n., 201 e n., 2 55, 2 5 6 Termini, S., 100, 101 e n. Termini, V., 185, 22M., 227, 228n. Terrasi, N., 68, 7o Terzo, A., 113 Testa, F., 37, 53, 59, 248 Torelli, prefetto di Palermo, 39n., rob, 191 Torrearsa, marchese di, 135, 208 Tortorici, barone, zo i n. Traina, G., 66n. Trifirò, frate lli, 104 e n., 167, 235 Trifirò, I., 197 Turiello, P., 208n. Turrisi Colonna, barone, 8o e n., 85, 138 Turrisi Colonna, N., 24, 25 e n. Tusa, F., 158
Vaglica, S., 113 Vaglica, V., 226 Valvo, bandito, r51n., 231 Varnara, delegato di p. s., 220, 221n., 223, 226, 228 Venturella, G., 2 45 Virzi, reggente questura di Palermo, 103, 104n. Vittorio Emanuele ii, re d'Italia, 17, 218
Wallerstein, I., 95n. Zallegra, F., 14o Zanardelli, G., 131, Zerbo, B., 113 Zerbo, oste, 196 Zini, L., 1 34, 1 35,
212, 230
1 3 6 , 1 37 -1 4 0 , 142, 151, 152, 169, 172, 175n.,
189, 190,
203,
205, 206, 209,
231
Zuccarello, G. (detto Ustica Bonaventura), 20 0, 221n., 228n. Zucco, avvocato, 22 1 n.
200 2
83
Questo volume è stato stampato su carta Grifo vergata delle Cartiere Miliani di Fabriano nel mese di aprile 2000.
La diagonale
Stampa: Officine Grafiche Riunite, Palermo Legatura: LE.I.MA. s.r.i., Palermo
1 Gilbert Keith Chesterton. Il hello del brutto 2 Luciano Canfora. La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile 3 Ludovico Antonio Muratori. Il cristianesimo fe lice nelle missioni dei padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai 4 Charles-Joseph de Ligne. I giardini di Beloeil 5 Francis Scott Fitzgerald. La crociera del Rottame Vagante 6 Gesualdo Bufalino. Cere perse 7 Mary McCarthy. Il romanzo e le idee 8 Simone Candela. I Florio 9 Ludovico Maria Sinistrari. Demonialità 10 Firmiano Arantes Lana, Luiz Gomes Lana. Il Ventre dell'Universo 11 Jeanne des Anges. Storia della mia possessione 12 Denis Diderot. Saggio sui regni di Claudio e Nerone, e sui costumi e gli scritti di Seneca 13 Giuseppe Scaraffia. La donna fatale 14 Rabindranath Tagore. Oltre il ricordo 15 Lapo Rinieri de' Rocchi, Giannantonio Stegagno. Storia di Giulia 16 Un tocco di classico 17 Andrea Vitello. Giuseppe Tomasi di Lampedusa 18 Mario de SA-Carneiro. La confessione di Lùcio 19 Maria Savinio. Con Savinio 20 Silvio D'Arzo. Contea inglese 21 Flavio Filostrato. Vite dei sofisti 22 Lidia Storoni Mazzolani. Sant'Agostino e i pagani 23 Robert Louis Stevenson. L'isola del romanzo 24 Giuseppe Scaraffia. Infanzia 25 Gesualdo Bufalino. La luce e il lutto 26 Charles Baudelaire. Per Poe 27 Virgilio Lilli. Racconti di una guerra 28 Charles-Pinot Dodos. Memorie segrete su lla Reggenza 29 Thomas Browne. Religio Medici 30 Franco Venturi. Giovinezza di Diderot 31 Rossana Bossaglia. Il giglio, l'iris, la rosa 32 Paul Fréart de Chantelou. Viaggio del Cavalier Bernini in Francia 33 Bernardino de Sahagún. Il libro dei destini 34 Michele Psello. Le opere dei demoni 35 James Boswell. Viaggio in Corsica 36 Vasilij Kamenskij. Il cammino di un entusiasta 37 Benjamin da Tudela. Libro di viaggi 38 Washington Irving. Storie di briganti italiani 39 Alberto Savinio. Souvenirs
285
Amelia Crisantino
Della segreta e operosa associazione Una setta all'origine della mafia
is
ISBN 88-389-1576-8
9 788838 91 5765
Sellerio editore Palermo