Giovanni Pico della Mirandola
Della Dignità dell’Uomo
Traduzione di Patrizia Moradei
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DELLA DIGNITA' DELL'UOMO
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Giovanni Pico della Mirandola
Della Dignità dell’Uomo
Traduzione di Patrizia Moradei
2
DELLA DIGNITA' DELL'UOMO
Lessi, reverendissimi Padri, in documenti arabi, che, interrogato Abdala Saraceno che cosa in questa per così dire scena del mondo vi fosse di più straordinario da ammirare, rispose che non vedeva niente di più meraviglioso dell'uomo. E a questa risposta s'accorda pienamente quell'esclamazione di Mercurio:"Grande miracolo, o Asclepio, è l'uomo!". A me che meditavo sulla ragione di questi giudizi non soddisfacevano sufficientemente le molte argomentazioni che da molti vengono addotte a proposito della superiorità dell'umana natura: che l'uomo è messaggero fra le creature, familiare coi superni, reggitore degli inferiori, interprete della natura con la finezza dei sensi e la speculazione mentale, interstizio fra l'eterno mobile e il fluire del tempo e, come dicono i Persiani, la copula, anzi l'imeneo del mondo, di poco da meno degli angeli, come ci testimonia Davide.1 Ragioni queste di gran conto, per la verità, ma non fondamentali, tali cioè che valgano a rivendicargli il privilegio della somma meravigliosità. Perché infatti non s'ammirano di più gli stessi angeli ed i beatissimi cori celesti? Alla fine m'è parso d'aver capito perché fortunatissimo e quindi creatura degna d'ogni ammirazione sia l'uomo; e quale sia davvero la condizione che, nell'ordine dell'universo, gli è toccata: invidiabile non solo dai bruti, ma dagli astri, perfino dalle intelligenze ultramondane. Cosa al di là del credibile e stupenda. Perché no? Dal momento che proprio per questo l'uomo è detto e considerato grande miracolo ed essere certamente da ammirare. Ma qual'è questa condizione? Prestate ascolto, o Padri, e con benigne orecchie, in grazia della vostra umanità, usatemi indulgenza per questo mio lavoro. Già il sommo Padre ed architetto Iddio aveva fabbricato, con leggi d'arcana sapienza, questa che noi vediamo casa mondana della divinità, augustissimo tempio. Aveva ornato l'ultracelestiale regione d'intelligenze, dato vita agli eterei globi con anime eterne, riempito d'ogni più varia folla le parti putrescenti e fermentanti del mondo inferiore. Ma, compiuta l'opera desiderava l'Artefice vi fosse qualcuno in grado di ponderare la ragione di cotanta opera, che ne amasse la bellezza e ne ammirasse la grandiosità. Per questo, quando già tutto, come ci testimoniano Mosè e Timeo, era stato portato a compimento, da ultimo pensò di por mano all'uomo. Non v'era però negli archetipi donde imitare la nuova progenie, né nei tesori che largire al nuovo figlio in retaggio, e non v'erano sedi ove questi potesse assidersi, contemplatore dell'universo. Ormai pieni tutti i luoghi: già tutti gli spazi erano stati distribuiti ai sommi, ai medi e agli infimi ordini. Ma non era della Potestà del Padre proprio nell'atto della suprema creazione se fosse venuta meno, come sfiancata dal parto; non era della Sapienza se avesse esitato per mancanza di determinazione all'occorrenza; non era del beneficante Amore che colui che era destinato a glorificare la liberalità divina fosse costretto poi a biasimarla riguardo a se medesimo. Stabilì alla fine l'ottimo Fattore che a colui al quale non poteva essere assegnata nessuna sede sua propria, fosse comune tutto ciò che era stato dato in particolare alle singole creature. Prese allora l'uomo, opera di aspetto indefinito, e postolo nel mezzo dell'universo, così gli parlò: "Non ti abbiamo dato né una sede determinata, né un aspetto tuo proprio, né alcun dono speciale; o Adamo, perché quella sede, quell'aspetto che tu in sicurezza avrai bramato, tu, per tua desiderio, per tua decisione ce li possa avere e possedere. Per tutti gli altri la loro natura già di per sé definita è costretta entro leggi da noi prescritte: tu, non costretto da nessuna limitazione, di tuo libero arbitrio, sotto la cui potestà ti ho posto, te la determinerai da solo. Ti ho collocato nel mezzo del cosmo perché tu avessi maggior agio di guardarti attorno quel che c'è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché di te stesso quasi arbitrario ed onorario plasmatore ed artefice, ti componga nella forma che avrai preferito. Potrai degenerare in quelle inferiori, che sono brute; potrai, per tua intima decisione, rigenerarti nelle superiori che sono divine. 1
Cfr. Psalm., VIII, 5 sg. 3
O somma liberalità di Dio Padre, somma e mirabile fortuna dell'uomo! A cui è dato d'avere quello che desidera, d'essere quello che vuole. Gli animali bruti nel momento stesso in cui nascono si portano appresso, come dice Lucilio2, dalla "vagina della madre" quello che possiederanno. Gli spiriti superiori furono o dal principio o subito dopo poco quelli che sempre saranno per l'eternità. All'uomo, nel nascere, il Padre assegnò semi d'ogni sorta e i germi di ogni specie di vita. Secondo quelli che ciascuno coltiverà, quelli si svilupperanno ed in lui produrranno i loro frutti: se vegetali, diverrà pianta, se sensuali, abbrutirà, se razionali ne sortirà un'anima celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. E quand'anche non contento della sorte di nessuna delle creature, si raccoglierà nel centro della sua unità, divenuto allora un solo spirito con Dio nella brumosa solitudine del Padre che è costituito sopra gli esseri tutti, sovrasterà su tutti. Chi v'è che non ammiri questo nostro camaleonte? o che comunque non lo ammiri più di qualunque altra cosa? Che non a torto Asclepio Ateniese, in considerazione di questa sua versipelle natura in grado di trasformare anche se stessa, disse che nei misteri veniva rappresentato da Proteo3. Di qui quelle metamorfosi celebrate presso gli Ebrei ed i Pitagorici. Giacché anche la teologia ebraica più segreta ora trasforma il santo Enoch in un angelo della divinità che chiamano malakh ha-shekhinah, ora altri sotto altri nomi. Ed i Pitagorici trasformano gli uomini scellerati in bruti e se si dà credito ad Empedocle, perfino in piante. Ad imitazione dei quali Maometto aveva spesso sulle labbra quella famosa frase: "Chi si allontanerà dalla legge divina, finisce un bruto". E certamente a ragione. Ed infatti non è la corteccia che fa la pianta, bensì la sua natura priva d'intelligenza ed insensibile; né il cuoio fa le bestie da soma, ma l'anima bruta e sensuale; né la forma rotonda fa il cielo ma il giusto ordine; e non la mancanza di corporeità ma l'intelligenza dello spirito fa l'angelo. Ché se infatti vedi qualcuno dedito al ventre, essere strisciante a terra, è un vegetale che hai davanti, non un uomo; se vedi qualcuno che brancola fra i vani inganni della fantasia, come di Calipso4, e adescato dalla solleticante lusinga, schiavo dei sensi, è un bruto, non un uomo, che vedi. Se invece è un filosofo che tutto distingue col giusto metodo, che tu n'abbia venerazione: è una creatura celeste, non terrena; se puro contemplatore dimentico del corpo, relegato nelle profondità della mente, costui non è terreno né creatura celeste, egli è un nume più augusto, rivestito di umana carne. V'è forse chi non ammiri l'uomo? che non a torto nei sacri scritti mosaici e cristiani è designato ora con la definizione di qualunque corporeità, ora di qualunque forma creata, dal momento che egli stesso ritrae fabbrica e trasforma se medesimo sotto forma di ogni corporeità, nell'indole di ogni creatura. Per ciò scrive Evante Persiano, là dove espone la teologia caldea, che l'uomo non ha nessuna sua specifica ed innata immagine, molte estranee ed avventizie; di qui il famoso detto caldeo: Enosh hu shinnujim vekammah tebhaoth baal haj, l'uomo animale di varia e multiforme e dall'uno all'altro aspetto transeunte natura. Ma a che pro tutto questo? Perché comprendiamo, dacché siamo nati sotto questa condizione, cioè che siamo quel che vogliamo essere, che dobbiamo soprattutto curare che questo non s'abbia a dire proprio contro di noi: che essendo in alto grado non ci si renda conto d'essersi ridotti simili ai bruti e ai giumenti insensati; ma sia piuttosto vero il verso del profeta Asaph: "Dei siete e figli, tutti, dell'Altissimo"5, acciocché non convertiamo, abusando dell'indulgentissima liberalità del padre, quel libero arbitrio ch'egli ci diede da salutifero in nocivo. Ci penetri l'animo una per così dire santa ambizione, talché, non soddisfatti delle mediocrità, aneliamo alle altezze e quelle, dal momento che si può quando si vuole, ci sforziamo di raggiungere con tutte le nostre forze. Sdegnamo le cose terrestri, trattiamo con indifferenza quelle del cielo, e volgendo infine le spalle a tutto ciò che appartiene al mondo, voliamo al consesso oltremondano che è il più prossimo alla più 2
Lucilius, v.623 ed.Marx. Conosceva il futuro, ma non voleva rivelarlo ai mortali: perciò sfuggiva assumendo innumerevoli aspetti. Cfr. Omero d IV 351 sgg. 4 La ninfa che trattiene Ulisse nella sua isola con gli allettamenti dell'amore. Cfr. Omero e 55-225. 5 Psalm. LXXXII 6. 4 3
eccelsa divinità. Quivi, come insegnano i sacri misteri, Serafini, Cherubini e Troni6 occupano i primi posti. Di loro procuriamo noi, che ormai non intendiamo più di recedere e insofferenti delle seconde sedi, di emulare la maestà e la gloria. Non saremo loro, purché lo si sia voluto, per nulla inferiori. Ma in che modo o facendo che cosa, infine? Vediamo che fanno loro, che vita vivono. Se anche noi la vivremo, giacché lo possiamo, già avremo raggiunto la loro sorte. Arde il Serafino del fuoco della carità; rifulge il Cherubino dello splendore dell'intelligenza; sta il Trono nella fermezza della giustizia. Se dunque, dediti alla vita operosa ci assumeremo con retto criterio il governo delle cose inferiori, saremo resi saldi con la ferma solidità dei Troni. Se, riusciti a liberarci delle cose pratiche, meditando nella creazione il Creatore, nel Creatore la creazione opereremo nella quiete della contemplazione, rifulgeremo da ogni parte di cherubica luce. Se arderemo d'amore soltanto per l'Artefice stesso, del suo fuoco che consuma fiammeggeremo d'un tratto, a immagine dei Serafini. Superiore al Trono, ossia al giusto giudice, siede Dio, giudice di tutte le generazioni. Sopra al Cherubino, ossia al contemplatore, egli vola e quasi covandolo lo riscalda. Giacché lo spirito di Dio trascorre sopra le acque, quelle dico che sono oltre i cieli, quelle che in Giobbe tessono lodi al Signore con inni antelucani.7 Chi è Saraf, cioè amante, è in Dio e Dio è in lui; di più, e Dio e lui sono una cosa sola. Grande la potestà dei Troni che col giudicare, somma la sublimità dei Serafini che amando ci è dato di raggiungere. Ma come può uno giudicare o amare quello che non conosce? Mosè amò Dio, che vide, ed applicò, giudice in mezzo al popolo, quello che vide prima contemplatore sul monte. Pertanto il Cherubino che sta in mezzo ci prepara con la sua luce alla fiamma serafica e nel contempo ci illumina verso il giudizio dei Troni. Questo è il nodo delle menti prime, l'ordine palladico che presiede alla filosofia contemplativa; questo noi dobbiamo cercare di raggiungere e cingere e afferrare infine, onde veniamo rapiti ai fastigi d'amore e discendiamo bene istruiti e pronti per gli uffici attivi. Ma di certo il prezzo dell'opera, se la nostra vita dev'essere formata sull'esempio della vita dei Cherubini, è d'avere davanti agli occhi e in soldoni quale sia e di che qualità, quali le loro azioni e l'opera loro. Il che non essendoci dato con le nostre sole forze, noi che siamo carne ed assaporiamo le cose che sono della terra, di conseguire, ricorriamo dunque agli antichi padri, che di tali cose, come a loro domestiche e connaturate, possono farci abbondantissima e sicura fede. Domandiamolo all'apostolo Paolo, vaso d'elezione, che cosa, una volta innalzato al terzo cielo, personalmente vide che andavano compiendo gli eserciti dei Cherubini. Ci risponderà senz'altro, interprete Dionigi, che si purificavano, poi s'illuminavano, infine erano perfetti. Pertanto anche noi, emulando sulla terra la vita dei Cherubini, tenendo a freno gli impeti delle passioni attraverso la dottrina morale, dissipando la tenebra della ragione con la dialettica, come se lavassimo via la crosta dell'ignoranza e dei vizi, purghiamo l'anima, perché né le passioni ci si agitino confusamente dentro, né la ragione sconsiderata presto o tardi deliri. Allora, compenetriamo l'anima ben ricomposta e purificata della luce della filosofia naturale, per renderla in ultimo perfetta con la conoscenza delle cose divine. E per non limitarci ai nostri, consultiamo il patriarca Giacobbe, la cui immagine sfavilla scolpita nella sede della gloria. Ci istruirà il Patriarca sapientissimo dormiente nel mondo inferiore, veggente in quello supremo8. Ma ci istruirà figuratamente - così apparivano loro tutte le cose -, che vi sono scale che si protendono dall'imo suolo al sommo dei cieli, distinte in serie di molti gradini, in cima alle quali siede il Signore; per esse, alternandosi a vicenda, gli angeli contemplanti salgono e discendono. Perché se questa stessa cosa si dovrà andar facendo noi che aspiriamo alla vita angelica, chi, mi domando, oserà toccare le scale del Signore con il piede sporco o con mani mal pulite? All'impuro, come sta scritto nei misteri, non è lecito accedere al puro. Ma quali piedi? quali mani? Di certo il piede dell'anima: che è quella parte dispregiatissima che per sua natura si poggia sulla materia come al suolo della terra, la facoltà, vi dico, alimentatrice e nutritiva, fomite della libidine e maestra della mollezza voluttuaria. Le 6
Sono le tre gerarchie angeliche più alte. Cfr. Gen. 1, 2 e Job 38, 7. 8 Cfr. Genesis 28, 11 sgg. 7
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mani dell'anima: perché non dire l'iracondia, che combatte per l'ingordigia e per lei lotta e sotto la polvere e il sole predatrice arraffa le cose che quella, sonnecchiando all'ombra, si pappa? Queste mani, questi piedi, vale a dire tutta la parte sensuale in cui risiede la lusinga che tiene in suo possesso l'anima, come si dice per la collottola, perché non s'abbia ad essere respinti dalle scale come profani e sordidi, laviamoli con la filosofia morale come in onda viva. Ma non sarà abbastanza neppur questo se aneliamo a divenire compagni degli angeli che percorrono la scala di Giacobbe se non saremo stati prima messi bene in grado ed istruiti a procedere di gradino in gradino nel modo dovuto, a non esorbitare mai dalla tratta delle scale e ad incontrare gli alterni percorsi. E quando lo avremo conseguito attraverso l'arte della parola o dei numeri, animati ormai da spirito cherubico, filosofando attraverso i gradini delle scale, che è come dire della natura, tutto penetrando a partire dal centro e volgendoci al centro, ora discenderemo smembrando con titanica forza l'uno, quasi un Osiride9, in molte parti, ora saliremo raccogliendo con forza febea le molte parti, quasi fossero le membra di Osiride, nell'uno: finché in seno al Padre, che sta alla sommità della scala, finalmente posando non giungeremo alla perfezione nella felicità della conoscenza teologica. Interroghiamo anche il giusto Giobbe, che strinse il patto con Dio della vita prima d'essere generato in vita, che cosa il sommo Iddio nelle decine di centinaia di migliaia di entità che gli stanno accanto prediliga su tutto. Senza meno risponderà: la pace. Per l'appunto quel che si legge in Giobbe stesso: "che fa pace nell'alto dei cieli".10 E poiché l'ordine mediano è interprete per quelli inferiori degli ammonimenti dell'ordine supremo, c'interpreti le parole del teologo Giobbe il filosofo Empedocle. Questi c'insegna che una duplice natura è insita nelle nostre anime, dall'una delle quali siamo innalzati alle cose celesti, dall'altra sospinti in giù verso le infernali: attraverso la lite e l'amicizia o, per meglio dire, la guerra e la pace, come ci dicono i suoi poemi, nei quali si duole d'essere, sconvolto dalla lite e dalla discordia, simile a forsennato, esule dalla divinità, lanciato in alto mare11. Di certo, Padri, molteplici aspetti ha in noi la discordia, guerre gravi e intestine e peggio che civili abbiamo dentro: che, se noi non le vorremo, se aspireremo a quella pace che ci tragga così in alto da farci stare fra gli eccelsi del Signore, soltanto la filosofia potrà pienamente raffrenare e placare. Quella morale dapprima, se soltanto il nostro uomo chiederà tregua dai nemici, rintuzzerà le sfrenate escursioni del bruto sotto i suoi molteplici aspetti e gli impeti e i furori e gli impulsi leonini. Poi, se con più saggio consiglio, desidereremo per noi la sicurezza di una pace perpetua, l'avremo, e liberalmente compirà i nostri voti, come colei che uccisa l'una e l'altra bestia, quasi col sacrificio della scrofa, sancirà fra la carne e lo spirito un inviolabile patto di sacrissima pace.12 La dialettica sederà i turbamenti della ragione ansiosamente tumultuante fra le contraddizioni del linguaggio e le capziosità dei sillogismi. La filosofia naturale sederà i conflitti di opinione e i dissidi che l'anima inquieta di qua e di là travagliano, disgiungono e dilacerano. Ma li sederà in modo da obbligarci a ricordare che la natura, secondo Eraclito, è stata generata dalla guerra: per ciò da Omero è stata chiamata contesa.13 Per questa ragione non può offrirci in essa vera quiete e solida pace: della sua signora questo è compito e privilegio, ossia della santissima Teologia. A quella essa ci mostrerà la strada e ci accompagnerà come guida, e quella da lontano scorgendoci affrettare verso di lei: "Venite a me - esclamerà - voi che faticaste; venite, ed io vi ristorerò; venite; venite a me, e darò a voi la pace che il mondo e la natura non possono darvi." 9
La divinità egizia Osiride è fatto a pezzi dal fratello; Iside, sua sorella e moglie, ne raccoglie i pezzi e lo ricompone. 10 Iob 25, 10. 11 Empedocles, fr. 115: tw``n kai; ejgw; nu``n eijmi, fuga;_ qeovqen kai; ajlhvth_ Neivkei mainomevnw/ pivsuno_. 12 Riferimento al rituale romano della pace, quando dall'una e dall'altra parte veniva sacrificato un maiale, con l'auspicio che gli dei colpissero allo stesso modo chi dei due non avesse rispettato i patti. Cfr.Liv. I 24. 13 S 107: wJ_ e[ri_ e[k te qew``n e[k tæ ajnqrw``pwn ajpovloito .... 6
Così lusinghevolmente chiamati, invitati con tanta benignità, con piedi alati, quasi terrestri Mercuri volando all'amplesso della beatissima madre, godremo della pace desiata: pace santissima, congiungimento inscindibile, amicizia unanime, per cui tutte le anime non solo concordino veramente in un'unica mente che è al di sopra di tutte le menti, ma in un certo qual modo ineffabile raggiungano, nel profondo, l'uno. Questa è quell'amicizia che i Pitagorici asseriscono essere il fine di tutta quanta la filosofia. Questa è quella pace che Dio attuò nell'alto dei suoi cieli e che gli angeli scendendo in terra annunziarono agli uomini di buona volontà, perché tramite essa gli stessi uomini salendo al cielo divenissero angeli. Auguriamo questa pace agli amici, all'epoca nostra, auguriamola in ogni casa dove entriamo, auguriamola all'anima nostra, perché per suo tramite essa stessa divenga casa di Dio, di modo che, dopo che abbia scosso via con la morale e la dialettica le proprie sozzure e si sia adornata, quasi principesco apparato, della filosofia nelle sue parti e abbia incoronato i frontoni delle porte con le ghirlande teologiche, discenda il Re della gloria14; e venendo col Padre prenda dimora presso di lei. E se si sarà mostrata degna di cotanto ospite, ché tale è l'immensa clemenza di Lui, avvolta nella veste indorata, quasi abito nuziale, della molteplice varietà delle scienze, accoglierà il bellissimo ospite non già come ospite, ma come sposo, da cui, per non esser giammai divisa, bramerà d'esser divisa dalla sua gente e dimentica della casa del padre suo e fin di se stessa, desidererà di morire a se stessa per vivere nello sposo, al cui cospetto è preziosa di certo la morte dei suoi santi. Quella morte, dico, se si deve definire morte la pienezza della vita, la cui speculazione dissero i sapienti essere il massimo interesse della filosofia. Invochiamo anche lo stesso Mosè, di poco sminuito rispetto alla piena sorgente della sacrosanta ed ineffabile intelligenza donde gli angeli s'inebriano del loro nettare.15 Udremo il venerando giudice così sentenziare a noi che abitiamo nella desolata solitudine di questo corpo: "Gli immondi che ancora necessitano della morale restino col volgo fuori del tabernacolo, a cielo aperto, a purificarsi nel frattempo come sacerdoti tessali. Quelli che di già hanno messo ordine nei loro costumi, accolti nel santuario, pur tuttavia non tocchino ancora gli arredi sacri, ma prima, come zelanti leviti, siano ministri ai sacri uffici della filosofia. Poi a questi anch'essi ammessi, a questo punto contemplino la reggia dai molti colori, ovvero il sidereo aulico splendore di Dio che risiede al di sopra; solo ora il candelabro celeste distinto in sette lumi, solo ora gli elementi di pelle16, perché alla fine, per i meriti della sublimità teologica accolti nei penetrali del tempio, nessun velo frapposto d'immagine illusoria, possiamo godere la gloria della divinità. Questo di certo a noi Mosè comanda e comandando ci consiglia, incoraggia ed esorta perché attraverso la filosofia ci prepariamo, fino a che possiamo, la via verso la gloria dei cieli. Di certo non soltanto i misteri mosaici o cristiani, ma anche le teologie degli antichi ci mostrano i vantaggi e la dignità di queste arti liberali di cui sono entrato a discutere. Giacché che cos'altro stanno a significare i gradi osservati negli arcani dei Greci per gli iniziati? Ai quali, resi mondi dapprima per mezzo di quelle che abbiamo detto quasi arti purificatrici, la morale e la dialettica, era dato il permesso di accesso ai misteri. Che cos'altro può essere se non l'interpretazione, attraverso la filosofia, della natura più occulta? Allora soltanto, una volta che erano così disposti, avveniva l'ejpopteiva, cioè l'introspezione delle cose divine per il lume della teologia. V'è chi non ambisca ad essere iniziato a tali sacri misteri? Chi non brami, lasciate da parte tutte le cose umane, disprezzando i beni della sorte, non curando quelli del corpo, di diventare, ancora vivendo sulla terra, convitato degli dei? e, madido del nettare dell'eternità, ricevere, creatura mortale, il dono dell'immortalità? Chi non vorrebbe essere così ispirato da quei socratici furori decantati da Platone nel Fedro da essere, fuggendo con remeggio d'ali e di piedi rapido di qui, cioè dal mondo che è posto nel maligno, portato con un rapidissimo volo alla Gerusalemme celeste? Siamolo, padri, siamolo agitati dai furori socratici, che ci portino fuori di mente in modo tale da riporre in Dio la mente nostra e noi stessi. E lo saremo, agitati da quei furori, certamente, se prima avremo compiuto noi stessi quanto 14
Johann, XIV 23. Secondo la Qabbalah Mosè, nonostante la sua altissima iniziazione, non poté raggiungere appieno la conoscenza divina. 16 Cfr. Exod. 26, 14; 36, 19; 39, 34. 15
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sta in noi. Poiché se, e attraverso la morale le forze degli affetti saranno state, con i dovuti giusti rapporti volte alla misura, così da armonizzare vicendevolmente in un non turbato accordo; e attraverso la dialettica la ragione sarà andata avanti progredendo fino al numero, scossi dal furore delle Muse, assorbiremo con le intime orecchie l'armonia celeste. Allora la guida delle Muse, Bacco, nei suoi misteri, cioè coi segni visibili della natura, rivelando a noi che filosofiamo quelli invisibili di Dio, c'inebrierà con l'abbondanza della casa di Dio nella quale se, come Mosè, saremo interamente saldi, sopraggiungendo la santissima Teologia ci animerà di duplice furore. Poiché sublimati fino alla sua eminentissima specola, da lì e misurando col metro dell'eternità infinita le cose che sono che saranno e che furono, e veggenti la primeva bellezza, saremo di quelle febei vati, di questa alati amatori; e dall'ineffabile amore, infine, quasi da estro eccitati, come Serafini ardenti messi fuori di noi, pieni del nume, non più noi stessi, ma Quegli stesso che ci creò noi saremo. I sacri nomi di Apollo, se qualcuno va ad approfondirne i significati ed i misteri che vi si nascondono, sono sufficienti a dimostrare che quel dio non è meno filosofo che vate. Il che, avendolo Ammonio di già sufficientemente dilucidato, non c'è motivo per cui io adesso altrimenti ne tratti; ma ricordiamoci, o Padri, dei tre precetti delfici assolutamente necessari per chi ha in mente di entrare nel sacrosanto ed augustissimo tempio non del falso, bensì del vero Apollo, che illumina ogni anima che viene in questo mondo: vedrete che a null'altro esse ci esortano se non ad abbracciare con tutte le forze questa tripartita filosofia di cui si tratta in questa dissertazione. Infatti quel mhde;n a[gan, ovvero nulla di troppo, giustamente prescrive la norma e la regola di tutte le virtù per la via del giusto mezzo, di cui tratta la morale. Poi quel gnw``qi seautovn, conosci te stesso, incita ed esorta alla conoscenza della natura totale, di cui la natura dell'uomo è interstizio e quasi mistura: poiché chi si conosce, riconosce in sé tutte le cose, come Zoroastro prima, Platone poi nell'"Alcibiade" hanno scritto. Finalmente, illuminati da questa conoscenza attraverso la filosofia naturale, ormai prossimi a Dio, ei\, cioè tu sei, dicendo con teologico saluto, familiarmente e per ciò stesso felicemente appelleremo il vero Apollo. Interroghiamo anche il sapientissimo Pitagora: per ciò soprattutto sapiente, per non essersi mai ritenuto degno del nome di sapiente. Ci darà come primo precetto di non seder sopra il moggio, di non perdere cioè, rilassandola in un'oziosa inerzia, la parte razionale con cui l'anima tutto misura, giudica ed esamina, ma di dirigerla assiduamente e di tenerla desta con l'esercizio e la regola della dialettica. Poi, due cose ci indicherà che sono soprattutto da evitare, di non mingere di faccia al sole e di non tagliarci le unghie nel mezzo di un sacrificio; ma, dopo che attraverso la morale ci saremo sia liberati dei fluidi bisogni delle passioni traboccanti, sia avremo tagliato le punte delle unghie come se fossero le acute prominenze dell'ira e gli aculei dell'anima, allora finalmente incominciamo a prendere parte alle sacre cerimonie, vale a dire ai già menzionati misteri di Bacco e ad attendere alla nostra contemplazione di cui a ragione è detto padre e guida il Sole. In ultimo ci consiglierà di nutrire il gallo, che è come dire pascere con la conoscenza delle cose divine, quasi solido cibo e ambrosia celeste, la parte divina dell'anima nostra. Questo è il gallo il cui aspetto il leone, cioè ogni potenza terrena, teme e riverisce. Questo è il gallo a cui leggiamo in Giobbe essere stata data l'intelligenza. Al canto di questo gallo l'uomo aberrante si ravvede. Questo gallo nel crepuscolo mattutino, di concento con gli astri del mattino canta ogni giorno lodiamo il Signore. Questo gallo Socrate morendo, con la speranza di unire l'anima sua alla divinità del mondo più grande, disse di dovere ad Esculapio, cioè al medico delle anime, lui che era di già posto fuori da ogni pericolo di malattia. Esaminiamo anche i monumenti dei Caldei: vedremo, se diamo loro credito, che per virtù delle medesime arti si apre per i mortali la strada per la felicità. Scrivono gli interpreti caldei che fu parola di Zoroastro che l'anima è alata; cadendole le ali, essa è precipitata nel corpo; il momento che quelle le ricrescono, torna a volare verso il cielo. Interrogandolo i discepoli su come potevano ottenere anime alate con ali bene impiumate, rispose: "irrigatele con l'acque della vita." Di nuovo chiedendogli da dove prendere quest'acqua, rispose loro, come era abitudine del nostro, con una parabola: "Da quattro fiumi è bagnato ed irrigato il Paradiso di Dio. Precisamente di lì dovete attingere le acque a voi salutari: ha nome Pischon quello da settentrione che lo indica come retto; Gichon quello 8
da occidente che significa purificazione; Chiddekel quello da oriente, che suona come luminoso; Perath quello da mezzogiorno, che si può interpretare come amore.17 Rivolgeteci la mente ed attentamente considerate, Padri, che cosa vogliano dire questi dogmi di Zoroastro. Certamente niente altro se non che dobbiamo purificarci il sudiciume degli occhi con la scienza morale, quasi come con le acque iberiche18; con la dialettica, quasi una boreale livella, aggiustiamo il loro fuoco al retto. Quindi dobbiamo abituarci a sostenere nel contemplare la natura l'ancor debole luce della verità, quasi prime luci del sole nascente, per potere, alla fine, attraverso l'amore teologico e il santissimo culto di Dio, come aquile del cielo, sostenere intrepidamente il più radiante splendore del sole meridiano. Queste son forse quelle conoscenze mattutine, meridiane e vespertine di già cantate da David e più diffusamente spiegate da Agostino. Questa è quella luce meridiana che a piombo infiamma i Serafini, e del pari illumina i Cherubini. Questa è la regione19 verso la quale sempre partiva l'antico padre Abramo; questo è il luogo dove i dogmi dei cabalisti e dei Mauri insegnarono non esserci posto per gli spiriti immondi. E se è lecito rendere di pubblico dominio qualcosa dei più segreti misteri, sia pure sotto allegoria, dopo che la precipitosa caduta dell'uomo dal cielo condannò il capo alla vertigine e che la morte, entrata secondo Geremia attraverso le finestre, ammalò il fegato e i polmoni, invochiamo Raffaele, il medico celeste, che ci liberi con la morale e la dialettica, a guisa di farmaci salutari. Allora, una volta rimessi in buona salute, albergherà ormai in noi la forza di Dio, Gabriele, che, giudandoci attraverso le meraviglie della natura e dovunque mostrandoci la perfezione e la potenza di Dio, ci consegnerà finalmente al sommo sacerdote Michele che ci fregi, giunti al termine nella milizia della filosofia, del sacerdozio teologico come di una corona di pietra preziosa. Queste sono, Padri reverendissimi, le ragioni che non solo mi animarono, ma mi costrinsero allo studio della filosofia. E che di certo non ero incline ad esporre se non per rispondere a coloro i quali sogliono condannare lo studio della filosofia principalmente negli uomini in alto stato o per lo meno senz'altro in quelli che vivono in condizione mediocre. Tutto questo filosofare è ormai infatti - giacché questa è la sterilità mentale dell'epoca nostra - piuttosto motivo di disprezzo e d'ingiuria che d'onore e di gloria. Tanto ha invaso le menti più o meno di tutti questo esiziale e mostruoso convincimento che niente affatto o da parte di pochi s'abbia a coltivare la filosofia. Quasi che l'avere investigatissimi dinanzi agli occhi e per le mani i perché delle cose, le vie della natura, la ragione dell'universo, le leggi di Dio, i misteri dei cieli e della terra non giovi a nulla se poi uno non ne coglie qualche vantaggio o ne ricava un guadagno per sé. Siamo anzi arrivati al punto che, oh tristezza!, non si considerano sapienti se non coloro che rendono mercenario lo studio della sapienza, così che si può vedere la pudica Pallade che alloggia fra gli uomini per dono degli dei, essere respinta, contestata, fischiata; non avere chi l'ami, chi le manifesti il suo favore, s'essa stessa, come prostituendosi, e ricevuta la meschina mercede della deflorata verginità, non vada a versare nella cassettina dell'amante il denaro mal procacciato. E tutte queste cose io le dico non senza grandissimo dolore e indignazione non contro i principi di questo tempo, ma contro quei filosofi che si sono convinti e vanno dicendo che non vale la pena di dedicarsi alla filosofia, dal momento che per il filosofo non c'è nessun guadagno, non gli viene assegnato nessun premio; quasi che non dimostrino, soltanto con questo, di non essere filosofi. Perché, essendo tutta la loro vita incentrata o sul profitto o sull'ambizione, non sono in grado di abbracciare la conoscenza della verità in sé e per sé. Me lo concederò, e non arrossirò di lodare, sotto questo punto di vista me stesso, che io non ho mai filosofato per nessun altro motivo se non per filosofare, e che dai miei studi, dai miei pensamenti non ho mai sperato o ricercato altra compensa o frutto che l'elevazione dell'animo e la conoscenza della verità da me sempre fortissimamente desiderata. E di questa fui sempre talmente bramoso ed amantissimo che, lasciata ogni cura degli affari privati e pubblici, mi son dedicato completamente all'ozio della contemplazione, da cui nessuna malignità degli invidiosi, 17
Cfr. Gen., II 10 sgg. Come a dire più occidentali. 19 La regione, ovvero il culto del Dio vero che s'identifica col luogo dove vi si può stabilire. Cfr. Gen. XII e XIII. 18
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nessuna invettiva da parte dei nemici della sapienza né hanno potuto fin qui, né potranno in futuro distogliermi. La filosofia stessa mi ha insegnato a dipendere piuttosto dalla mia propria coscienza che dal giudizio degli altri e a pensare sempre non tanto a che non si parli male di me, quanto a non dire io stesso o fare qualcosa di male. Di certo non ignoravo, reverendissimi Padri, che questa stessa mia disputazione sarebbe stata tanto gradita e piacevole per tutti voi, che favorite le arti oneste, e la voleste onorare della vostra augustissima presenza, quanto incomoda e molesta per molti altri; e so che non mancano quelli che finora hanno biasimato la mia iniziativa e ancora seguitano a biasimarla per molti versi. E' sempre stato così, che abbiano meno, per non dire di più, che gli abbaiano contro le cose che si fanno bene e santamente in vista della virtù, che quelle che si compiono iniquamente ed errando volte al vizio. Vi sono poi quelli che disapprovano tutto questo modo di disputare e questo sistema di discutere pubblicamente di letterature, affermando che quest'ultimo è piuttosto volto a far pompa d'ingegno e ostentazione di cultura piuttosto che a scopo di ammaestramento. Vi sono quelli che, pur non disapprovando questo tipo di esercitazione, tuttavia nel mio caso non ammettono assolutamente che io a questa età, vale a dire solamente ventiquattrenne, abbia osato proporre una disputa sui sublimi misteri della teologia cristiana, sui punti più alti della filosofia, su dottrine sconosciute nella città più famosa, nel più ampio consesso di uomini eruditissimi, nel Senato Apostolico. Altri questo concedendomelo, che io disputi, si rifiutano di ammettere che io discuta novecento questioni, insinuando che il far questo è altrettanto superfluo e ambizioso quanto oltre le mie forze. Alle loro obiezioni io e immantinente avrei rinunciato se così mi avesse insegnato la filosofia che professo, e adesso, dacché ella così m'insegna, non risponderei se ritenessi questa discussione tra di noi impiantata col proposito di rissare e di altercare. Pertanto via ogni intento di denigrazione e di sfida e quel livore che Platone scrive sempre essere lontano dal coro divino, via anche dalle nostre menti, ed amichevolmente indaghiamo se è ammissibile che io disputi e su così tante questioni anche. E prima di tutto a quelli che criticano quest'uso di disputare pubblicamente non starò a dir molto dal momento che questa colpa, se la si può considerare colpa, è comune con me non solo a tutti voi, eccellentissimi dottori, che tanto spesso non senza somma lode e gloria avete adempiuto questo ufficio, ma a Platone, ad Aristotele, ma ai più apprezzati filosofi di tutte le epoche. Ai quali appariva palesissimo che non c'era niente che valesse meglio per loro, per conseguire quella conoscenza della verità che andavano ricercando, dell'esercitarsi frequentissimamente nella discussione. Giacché come con la ginnastica si rinvigoriscono le forze del corpo, così, lungi da dubbio, in questa quasi palestra letteraria le forze dell'animo si fanno di gran lunga più forti e più vegete. Né crederei che o i poeti con le celebrate armi di Pallade, o gli Ebrei quando dicono barzel, ferro, simbolo dei sapienti, ci abbiano rappresentato altro che questo genere di gare onorevolissime quanto affatto necessarie all'acquisizione della conoscenza. E forse per questo anche i Caldei, al momento del concepimento di colui che sia destinato ad essere filosofo, richiedono che Marte guardi Mercurio in aspetto trigono, come se, togliendo queste combinazioni, questi contrasti, dovesse poi risultare soporifera e sonnacchiosa tutta la sua filosofia. Tuttavia con quelli che mi dicono impari all'assunto veramente m'è più difficile il modo di difendermi. Infatti se mi dichiarerò all'altezza, forse mi taccerete d'immodestia e di presunzione; se mi confesserò impari di temerarietà e di sconsideratezza. Vedete in quale trappola son caduto, in che posizione mi sono venuto a mettere, che non posso senza biasimo promettere per parte mia quello che poi non posso subito dopo non mantenere senza biasimo. Forse potrei anche citare la famosa frase di Giobbe: "lo Spirito è in tutti"20 e udire con Timoteo: "Nessuno disprezzi la tua adolescenza."21 Ma avrò più veramente detto secondo la mia coscienza questo: che in me non v'è niente di grande o di singolare. Pur non negando di essere studioso in caso ed avido delle arti oneste, non mi attribuisco né mi arrogo il titolo di dotto. Per cui, anche se mi sono addossato un peso tanto grande, non è stato perché non avessi coscienza della mia debolezza; bensì perché 20 21
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Job XXXII 8. I Thim. IV 12.
sapevo esser peculiare di questa specie di battaglie, delle letterarie cioè, che il guadagno sta nell'essere battuti. Onde avviene che anche i più deboli non solo non ricusarle ma anzi possano e debbano giustamente andarne in cerca: dal momento che colui che soccombe riceve un beneficio, non un danno, dal vincitore, come quello che, grazie a lui, torna a casa più ricco, vale a dire più dotto, e più attrezzato per le future battaglie. Animato da questa speranza, io debole combattente non ho avuto timore di stabilire una battaglia tanto impegnativa con i più forti e i più valorosi di tutti. Il che, tuttavia, se sia stato fatto temerariamente o no, si potrà più correttamente comunque giudicare dall'esito del combattimento che dalla mia età. Mi rimane in terzo luogo da rispondere a quelli che si sono sentiti offesi dalla quantità svariata delle tesi proposte, quasi che questo peso gravasse sulle spalle loro e non fosse piuttosto questa fatica, per grande che possa essere, da sopportarsi unicamente da parte mia. Sconvenienza davvero, questa, ed eccesso di bizzarria, voler pretendere di porre un limite all'altrui operosità; e, come dice Cicerone, in ciò che tanto meglio quanto di più, rimpiangere la mediocrità. Insomma, in sfide così grandi non c'erano alternative per me: o soccombere o riuscire. In caso di riuscita, non vedo perché quello di cui è lodevole aver dato prova con dieci questioni, si debba ritenere colpevole darne prova anche in novecento. In caso di fallimento, avranno essi, se mi odiano, di che incolparmi; se mi amano, di che scusarmi. Poiché in un'impresa così seria, così impegnativa, l'esser venuto meno un adolescente di poco ingegno e di scarsa dottrina sarà piuttosto degno di perdono che di condanna. Per dirla con il poeta: .... se ti vengono a mancare le forze, ti sarà lode l'avere osato: nelle grandi imprese anche l'aver voluto è abbastanza.22 Perché se, all'epoca nostra, molti, imitando Gorgia di Leontini, sono stati soliti non senza plauso non solo di proporre la discussione di novecento questioni, ma su tutte mai le questioni di tutte le arti, perché non dev'esser lecito a me, ed anche senza venirne accusato, disputare di molte sì, ma certe e determinate? Ma superfluo lo definiscono e ambizioso. Ma io ribatto che ho fatto questo non in modo superficiale, bensì necessario. E se essi considerassero il mio modo di filosofare, sarebbero costretti ad ammettere, quantunque controvoglia, che veramente è necessario. Coloro infatti che si sono affiliati a qualcuna delle scuole filosofiche, vale a dire aderendo o a Tommaso o a Scoto, che adesso stanno andando per la maggiore, loro sì possono sperimentare la loro dottrina nella discussione anche di poche questioni. Ma io ho sempre avuto per principio, senza prestar giuramento secondo la formula di nessuno, di effondermi per tutti i maestri della filosofia, d'esaminar tutte le pagine, di conoscere tutte le scuole. Per cui, dovendo io parlare di tutti loro, per non sembrare, qualora io avessi, sostenitore d'un insegnamento in particolare, trascurato gli altri, d'esser legato a codesto, non è stato possibile, anche proponendo poche questioni riguardo a ciascuno, che non ce ne fossero moltissime che facevano riferimento nello stesso tempo a tutti. Né vi sia chi biasimi in me il fatto che "dovunque mi sbatte la tempesta io mi lasci ospite trasportare".23 Come fu infatti osservata dagli antichi questa regola: che, studiando ogni genere di scrittori, non lasciassero non letto nessun trattato, se potevano; così soprattutto da Aristotele che per questa ragione veniva chiamato ajnagnwvsth_, cioè lettore, da Platone. E di certo è proprio di una mente angusta l'essersi limitato ad un sol Portico o ad una sola Accademia; né fra tutte può scgliersi giustamente la sua chi prima non le abbia tutte familiarmente conosciute. Aggiungi che in ciascuna scuola c'è qualcosa di egregio che non le è comune con le altre. E per cominciare ora dai nostri ai quali da ultimo è pervenuta la filosofia, c'è in Giovanni Scoto24 qualcosa di vitale e dialettico, in Tommaso25 di solido e di equilibrato, in 22
Prop. II 10, vv. 5-6 (III 1, vv. 5-6) Hor. Epist. I 1, 15. 24 Giovanni Duns Scoto (1225 - 1308), scolastico. 25 Tommaso d'Aquino (ca. 1226 -1274), il maggior rappresentante della filosofia scolastica. 23
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Egidio26 di lucido e di esatto, in Francesco27 di penetrante e di acuto; in Alberto28 di primitivo, di vasto respiro e di grande; in Enrico29, così mi è sembrato, di sublime sempre e venerabile. V'è presso gli Arabi in Averroè30 fermezza e imperturbabilità, in Avempace31, in Alfarabio32 gravità e riflessione; in Avicenna33 un che di divino e di platonico. Presso i Greci la filosofia è in genere nitida in verità, e fra i primi pure casta. In Simplicio34 ricca e abbondante, in Temistio35 elegante ed essenziale, in Alessandro36 coerente e dotta, in Teofrasto37 elaborata con gravità, in Ammonio38 scorrevole ed aggraziata. E se vai a vedere i Platonici, per volerne considerare solo alcuni, in Porfirio39 sarai dilettato dall'abbondanza della materia e dalla sua varia religiosità; in Giamblico40 venererai l'occulta filosofia ed i misteri dei barbari; in Plotino41 non c'è una cosa che sia principalmente da ammirare, lui che si mostra ammirevole dappertutto e che, parlando in maniera divina delle cose divine e di gran lunga oltre l'umano di quelle umane sapientemente con discorsi indiretti, sudandoci sopra i Platonici a malapena arrivano a capire. Tralascio i più recenti: Proclo42, lussureggiante di fecondità asiatica, e quelli che da lui derivarono: Damascio43, Olimpiodoro44 e molti altri, nei quali tutti riluce quel to; qei`on, cioè il divino peculiare dei Platonici. Si aggiunge che se vi è una scuola la quale si scagli contro i principi più autentici e dileggi con calunnia i giusti motivi della ragione, essa conferma la verità, non la infirma, e l'eccita come fiamma squassata dal movimento, non l'estingue. Mosso io da questa considerazione, ho voluto porre in campo i precetti non solamente di un'unica dottrina, come piaceva a qualcuno, ma di dottrine d'ogni sorta, affinché da questo confronto di molte scuole e dalla discussione di filosofie assai differenti quel fulgore di verità che Platone ricorda nelle lettere illuminasse più splendidamente l'anime nostre, quasi sole nascente dall'alto. Che senso aveva trattare soltanto del pensiero filosofico dei latini, cioè d'Alberto, di Tommaso, di Scoto, di Francesco, di Enrico, avendo tralasciato i filosofi greci ed arabi, quando tutta la conoscenza passò dai barbari ai Greci, dai Greci a noi? Per questo i nostri hanno sempre ritenuto sufficiente per loro nel metodo del filosofare starsene alle scoperte altrui e aver elaborato il pensiero degli altri. Qual risultato l'aver dissertato di fisica coi Peripatetici se non si chiamava in causa anche l'Accademia dei Platonici la cui dottrina anche riguardo alle cose divine è sempre stata, testimone Agostino, giudicata la più santa fra tutte le filosofie ed è stata da me per la prima volta che io sappia, lungi stia l'invidia da questa affermazione, dopo molti secoli portata in pubblico all'esame di una discussione? Che senso aveva aver discusso l'opinione degli altri, quanti erano, se quasi intervenendo a scrocco al simposio dei sapienti non 26 Egidio Romano, della famiglia Colonna, 1247-1316, agostiniano, discepolo di S. Tommaso d'Aquino. 27 Francesco di Meyronnes, _1323, teologo francescano, nativo della Provenza. 28 Alberto Magno (ca. 1193 - 1280). 29 Enrico di Gand (ca. 1220 - 1293). 30 Averroè (1126 -1198), commentatore delle maggiori opere di Aristotele. 31 Nome latinizzato di un filosofo arabo musulmano di Spagna della prima metà XII sec. 32 Uno dei più famosi filosofi musulmani, nato nel Turkestan, morto a Damasco (950?). 33 Avicenna (980 -1037), filosofo e medico. 34 Filosofo neoplatonico del VI sec. d. 35 Esegeta d'Aristotele, nato in Paflagonia ca 317 d. 36 Di Afrodisia, nella Caria. Insegnò filosofia aristotelica ad Atene fra il 198 e il 211 d. 37 Scolaro e successore di Aristotele nella guida della scuola Peripatetica. Morto ca 289. 38 Filosofo greco del V sec d.C., insegnò in Alessandria d'Egitto. 39 Porfirio (232 o 233 - ca. 305), allievo di Plotino a Roma. 40 Di Calcide di Siria, fondatore della scuola neoplatonica di quella regione. IV d. 41 Plotino (205 -270), il maestro del neoplatonismo. 42 Di Costantinopoli, filosofo neoplatonico, teurgo (V d.). 43 Neoplatonico, nato a Damasco. Vissuto fra il V e il VI sec. d., ultimo docente della scuola d'Atene per la sua soppressione decretata da Giustiniano nel 529. 44 Olimpiodoro il giovane, neoplatonico del VI sec. 12
portavamo niente noi di nostro, partorito ed elaborato dal nostro ingegno? Di certo che è sterile, come dice Seneca45, sapere soltanto dai libri e, quasi che le scoperte dei predecessori abbiano precluso la via alla nostra ricerca, quasi che in noi si sia fiaccata la forza della natura, non trarre nulla da noi stessi che, se non dimostra la verità, almeno la indichi da lontano. Perché se il contadino nel campo, il marito nella moglie odia l'infecondità, tanto più di certo l'anima divina avrà in odio l'anima sterile che le è connessa ed associata quanto di gran lunga più nobile prole ci si rammarica che non ne nasca. Pertanto, non soddisfatto di aver aggiunto, oltre le dottrine correnti, molto dell'antica teologia di Mercurio Trismegisto46, molto delle dottrine dei Caldei, di Pitagora, molto dei misteri ebraici più segreti, ho proposto per la discussione anche moltissimi argomenti, trovati e studiati per la mia persona, riguardo le cose naturali e divine. Ho proposto in primo luogo la concordanza di Platone e d'Aristotele da molti finora supposta, da nessuno sufficientemente dimostrata. Boezio fra i Latini, che aveva promesso di farlo, non si ha riscontro che abbia mai fatto quello che sempre dichiarò di voler fare. Simplicio fra i Greci che aveva professato lo stesso intendimento, magari mantenesse poi così quel che promette. Anche Agostino scrive negli Accademici che non mancarono molti che hanno tentato con sottilissime loro argomentazioni di provare lo stesso, e cioè che la filosofia di Platone e d'Aristotele sono la stessa cosa. Del pari Giovanni Grammatico47benché dica che Platone ed Aristotele dissentono solo per quelli che non intendono le affermazioni di Platone, ha poi lasciato ai posteri di dimostrarlo. Ho aggiunto poi anche diversi punti nei quali più volte le idee di Scoto e di Tommaso, di Averroè e di Avicenna che son giudicate discordi, io sostengo invece che concordino. In secondo luogo quello che in filosofia sia aristotelica che platonica abbiamo escogitato noi, quindi abbiamo posto settantadue nuove proposizioni fisiche e metafisiche, delle quali se qualcuno se ne renderà padrone potrà, se non m'inganno, - ma questo mi sarà manifesto fra breve - risolvere qualunque questione su argomenti naturali e divini con ben altro metodo che quella filosofia che s'impara e che s'insegna nelle scuole e si coltiva da parte dei maestri di questo tempo. E neppure uno si deve tanto stupire, Padri, che io, nei primi anni, in tenera età quando appena, come tuonano alcuni, è stato finora permesso di leggere i trattati altrui, voglia portare una filosofia nuova, piuttosto che lodarla se regge o condannarla si fa respingere; ed infine predisponendovi a giudicare di queste mie scoperte e quali siano le mie cognizioni, non mettetevi a contare gli anni dell'autore, ma piuttosto i pregi e i difetti di quelle. Vi è poi anche, oltre la filosofia di cui sopra, un altro sistema di filosofare che abbiamo portato, nuovo, sulla base dei numeri, antico esso pure ed osservato dagli antichi teologi, particolarmente da Pitagora, da Aglaofemo48, da Filolao49, da Platone e dai primi platonici, ma che ai giorni nostri, come altre cose di tutto rispetto è caduto talmente in disuso per l'incuria dei posteri che a malapena se ne ritrovano le tracce. Scrive Platone nell'Epinomide50 esser precipua e sommamente divina fra tutte le arti liberali e le scienze contemplative la scienza del numerare. Domandandosi anche:"perché l'uomo è il più sapiente degli animali?", risponde: "perché sa numerare".La cui sentenza anche Aristotele rammenta nei Problemi51. Abusamar52 scrive esser stata parola di Avenzoar di Balilonia che tutto conosce chi sa numerare. Le quali cose non possono in nessun modo essere vere se per arte del numerare intesero quell'arte in cui oggi i mercanti soprattutto sono espertissimi, il che anche Platone conferma, ammonendoci con decisione a non credere 45
Sen., ad Lucil. 33, 7. Presunto autore del Corpus Hermeticum di età alessandrina. Fusione di Hermes, messaggero degli dei e di una divinità egizia. 47 Giovanni Filopono, filosofo neoplatonico, VI d. 48 Iniziatore di Pitagora ai misteri orfici. 49 Filolao di Crotone, discepolo di Pitagora, V a. 50 La critica moderna ritiene spurio l'Epinomis, attribuendolo allo scolaro Filippo di Opunte. 51 Problemata, XXX 6. 52 Astronomo e astrologo musulmano. 46
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che questa divina Aritmetica sia l'aritmetica dei mercanti. Quell'Aritmetica dunque che è così esaltata, parendomi dopo molte veglie al lume di lucerna di averla ben penetrata, per farne prova mi sono assunto l'impegno di rispondere pubblicamente a settantaquattro questioni che si giudichino le principali fra fisiche e divine col sistema dei numeri. Ho proposto anche teoremi di magia, nei quali ho dimostrato esservi una duplice magia, di cui una consiste in tutta l'opera e nel potere dei demoni, cosa che in fede mia è esecrabile e mostruosa; l'altra non è, se ben la si esamina, se non il perfetto compimento della filosofia naturale. Di entrambe facendo i Greci menzione, indicano la prima, non degnandola in nessun modo del nome di magia come gohteiva, la seconda la chiamano col suo nome proprio e peculiare mageiva, quasi perfetta e suprema sapienza. Infatti, come dice Porfirio, mago in lingua persiana suona lo stesso che presso di noi interprete e cultore delle cose divine. D'altra parte vi è una grande, anzi la massima disparità e difformità, Padri, fra queste due arti. La prima non solo la religione cristiana ma tutte le leggi, ogni governo ben costituito la condannano e la esecrano; l'altra l'approvano e l'abbracciano tutti i sapienti, tutti i popoli studiosi delle cose celesti e divine; quella è la più fraudolenta delle arti, questa la filosofia più alta e santa; quella inutile e mendace, questa efficace, sicura e solida; quella chiunque la praticò dissimulò sempre perché riusciva a disdoro e vituperio per il suo autore, da questa somma fama e gloria nel campo del sapere fino dai tempi antichi e pressoché sempre ambita; di quella non fu mai studioso nessun vero uomo filosofo nonché desideroso di apprendere le buone arti, per apprender questa Pitagora, Empedocle, Democrito, Platone traversarono il mare e ritornati la predicarono e la ebbero al primo posto nei loro arcani. Quella, così come non è suffragata da nessun dato razionale, così non è confermata da autori attendibili, questa, quasi riconosciuta legittima da padri illustrissimi, ha soprattutto due autori: Zalmoxide53, che Abbaris Iperboreo imitò, e Zoroastro, non quello che forse voi pensate, ma il figlio di Oromasio. Che cosa rappresenti la magia di questi due, se interroghiamo Platone ci risponderà nell'Alcibiade che la magia di Zoroastro non è altro che la scienza delle cose divine in cui i re persiani istruivano i figli perché sull'esempio del governo universale imparassero a reggere essi il loro. Ci risponderà nel Carmide che la magia di Zalmoxide è la medicina dell'anima in virtù della quale si può dire si ottiene la temperanza dell'animo come con la medicina la sanità del corpo. Sulle loro orme poi persistettero Caronda, Damigeron, Apollonio, Ostane e Dardano54. Vi persisté Omero che, un giorno o l'altro lo dimostreremo in una nostra teologia poetica, celò sotto la metafora delle peregrinazioni del suo Ulisse come tutte le altre conoscenze così anche questa. Vi persistettero Eudosso55 ed Ermippo56, vi persistettero quasi tutti quelli che studiarono a fondo i misteri pitagorici e platonici. Tra i più recenti poi che la fiutarono ne trovo tre: Alchindi l'Arabo57, Ruggero Bacone58 e Guglielmo di Parigi59. Ne fa menzione anche Plotino dove dimostra che il mago è il ministro e non l'artefice della natura: questa magia egli, qual uomo sapientissimo, approva e sostiene, mentre aborrisce l'altra al punto da aver detto, invitato ai riti degli spiriti maligni, che era più giusta se quelli andavano da lui anziché lui da loro. E ben a ragione. Come infatti quella rende l'uomo schiavo ed in balia delle potenze del male, così, questa, loro signore e padrone. Per ultimo, quella non può rivendicare a sé né il nome di arte né di scienza; questa, piena di altissimi misteri, abbraccia la più profonda contemplazione delle cose più occulte ed infine la conoscenza di tutta quanta la natura. Essa, quasi evocando alla luce dai lor penetrali le virtù sparse per 53
Erodoto, IV 95 sgg., parla di questo personaggio che sarebbe stato schiavo di Pitagora, che scomparve e fu ritenuto morto, mentre in realtà era nascosto in una dimora sotterranea. Ricomparso al quarto anno fu riconosciuto dio dai Traci. Era ritenuto dagli occultisti un fondatore della magia. 54 Figure di maghi che più o meno venivano citate assieme: cfr. Tert. De anima 57. 55 Eudosso di Cnido, astronomo, IV a., fondò a Cizico una scuola di dottrine matematiche; quindi fu maestro di scienze e di filosofia ad Atene. 56
Ermippo di Smirne, peripatetico, scolaro di Callimaco, III a. Filosofo e scienziato arabo, nativo di Bassora, I d. 58 Roger Bacon, (ca. 1214 - ca. 1292), filosofo e monaco inglese, studiò anche astrologia e fu sospettato di praticare la magia. 59 Guglielmo di Alvernia, morto nel 1249, filosofo e teologo, fu vescovo di Parigi. 14 57
beneficio di Dio e disseminate qua e là per l'universo, non tanto compie essa stessa cose mirabili, quanto zelante serve alla natura che li opera; essa, scrutando con profonda investigazione addentro all'accordo dell'universo, che assai significativamente i Greci chiamano sumpavqeia, ed avendo ben esaminata la conoscenza che le cose della natura hanno fra sé, abbinando a ciascuna cosa gli incantamenti innati e suoi propri che si chiamano le i{ugge_60dei maghi, svela al popolo, quasi ne fosse essa stessa l'artefice, le meraviglie latenti nei recessi del mondo, nel grembo della natura, nei depositi segreti di Dio. E come l'agricoltore marita gli olmi alle viti, così il mago la terra al cielo, vale a dire il mondo inferiore alle virtù e alle forze del superiore. Per cui avviene che, come quell'altra magia appare mostruosa e nociva, altrettanto questa si mostra divina e salutare. Soprattutto per questo, ché quella allontana l'uomo da Dio consegnandolo ai suoi nemici; questa lo eccita a quell'ammirazione delle opere di Dio da cui certissimamente conseguono bendisposta carità, fede e speranza. Giacché non v'è niente che spinge maggiormente alla venerazione di Dio quanto l'assidua contemplazione delle di Lui meraviglie e una volta che le avremo ben esplorate grazie a questa magia naturale di cui stiamo trattando, più ardentemente animati al culto e all'amore del Creatore, saremo sforzati a cantare:"I cieli e tutta la terra sono pieni della maestà della tua gloria".61 E questo basti riguardo alla magia a proposito della quale abbiamo detto questo, perché so esservi molti che, come i cani abbaiano sempre agli sconosciuti, così anch'essi spesso condannano e disdegnano le cose che non capiscono. Vengo ora a quelle cose che, scovate dagli antichi misteri ebraici, ho apportato a conferma della sacrosanta e cattolica fede, e perché esse non sembrino, alle volte, a coloro ai quali siano ignote, frottole inventate o vengano giudicate chiacchiere di perditempo, voglio che tutti vedano bene quali sono e di qual portata, da dove siano state tratte, da quali e quanto illustri autori confermate, e quanto riposte, quanto divine, quanto necessarie esse siano per i nostri per difendere la religione contro le impudenti calunnie degli Ebrei. Scrivono non solo celebri maestri ebrei, ma fra i nostri anche Esdra62, Ilario63 e Origene64, che Mosè non solo la legge ricevette da Dio sul monte, che poi lasciò ai posteri in una raccolta di cinque libri, ma anche la più occulta e la vera interpretazione della legge: ma gli fu posta come condizione principale, che pubblicasse sì la legge per il popolo; quanto all'interpretazione della legge né l'affidasse allo scritto né la divulgasse: ma egli la rivelava solamente a Giosuè e quello poi via via ai sommi sacerdoti che si susseguirono, sotto il vincolo sacro del silenzio assoluto. Doveva bastare venire a conoscere ora la potenza di Dio, ora la Sua ira verso gli improbi, ora la Sua clemenza per i giusti, la Sua giustizia nei confronti di tutti attraverso il semplice racconto, e l'essere educati, per mezzo dei precetti divini e salvifici, a vivere bene e in letizia e al culto della vera religione. Ma render noti alla plebe i misteri più riposti e gli arcani dell'altissima divinità che si celavano sotto la corteccia della legge e il grezzo pretesto delle parole, cos'altro era se non dar l'ostia ai cani e spargere le perle ai porci? Mantenere dunque queste cose nascoste al volgo, da comunicare ai perfetti, fra i quali soltanto dice Paolo di esprimere la sapienza65, non fu frutto di umano provvedimento, ma di divino precetto. E questa prassi gli antichi filosofi osservarono scrupolosissimamente. Pitagora non lasciò niente per scritto, se non alcune poche parole che morendo affidò alla figlia Damo. Le sfingi scolpite sui templi egizi di questo ammonivano, che i mistici dogmi fossero custoditi coi nodi degli enigmi inviolati dalla massa profana. Platone, scrivendo a Dionisio certe cose riguardo i modi supremi 60
i{ugx, g. i{uggo_, hJ è il torcicollo, un uccellino dal collo mobilissimo: si faceva girare in una ruota nel fare incantesimi. Passò poi a significare lo stesso incantesimo. 61 Isaia VI 3. 62 Sacerdote ebreo della famiglia di Aronne, cfr. il libro canonico della Bibbia che porta il suo nome. Da un apocrifo è tratta questa citazione: Esdra IV XIV 45 - 47. 63 S. Ilario di Poitiers, IV d: Tractatus Psalmi II PL 9, 262c. 64 Filosofo e teologo cristiano di Alessandria, I sec.; il più grande erudito dell'antichità cristiana: in Evang. Joannis XIX 2. 65 I Cor. II, 6. 15
dell'essere, "per enigmi" disse "mi tocca di esprimermi perché, se mai la lettera capiterà in mano altrui, quello che ti scriviamo non venga inteso da altri". Aristotele i libri di metafisica nei quali tratta delle cose divine dichiarava che erano editi e inediti. Che più? Gesù Cristo, maestro di vita, ci attesta Origene aver rivelato molte cose ai discepoli che quelli, perché non divenissero di pubblico dominio non vollero scrivere. Il che soprattutto conferma Dionigi Areopagita, il quale dice che i misteri più segreti sono stati trasmessi dagli iniziatori della nostra religione ejk nou`` eij_` nou``n dia; mevsou lovgou, vale a dire da intelletto a intelletto, senza scrittura, col tramite del verbo. Venendo proprio in questo stesso modo rivelata, per comandamento di Dio, quella vera interpretazione della legge affidata da Dio a Mosè, fu detta Cabala, che è lo stesso per gli Ebrei del nostro ricevere. Per questo giust'appunto, perché l'uno riceveva dall'altro, quasi per diritto ereditario, quella dottrina non attraverso documenti letterari ma per via del rituale succedersi delle rivelazioni. Ma dacché gli Ebrei, restituiti grazie a Ciro dalla schiavitù babilonese e restaurato il tempio sotto Zorobabele, volsero l'animo a restaurare la legge, Esdra, allora capo della chiesa, dopo che fu emendato il libro di Mosè rendendosi conto chiaramente che nel corso di esili, stragi, fughe, schiavitù della gente d'Israele non era possibile mantenere la regola stabilita dagli antenati di tramandare la dottrina di padre in figlio e che gli arcani della dottrina celeste a lui affidati da Dio sarebbero finiti col perire, e senza l'interposizione di loro registrazioni scritte la loro memoria non poteva durare a lungo, stabilì che, convocati i sapienti che ancora sopravvivevano, ciascuno partecipasse quello che dei misteri della legge serbava nella memoria e che con l'impiego di scrivani si raccogliesse tutto in settanta volumi, tanti infatti all'incirca erano i sapienti nel sinedrio. E perché riguardo a questo non abbiate a dover credere a me solo, Padri, sentite Esdra stesso che dice così: "Passati quaranta giorni l'Altissimo parlò e disse: Le cose che scrivesti prima mettile a disposizione di tutti, che le leggano i degni e gli indegni: ma questi ultimi settanta libri li conserverai onde affidarli ai sapienti del tuo popolo. Giacché in essi risiede la vena dell'intelletto e la fonte della sapienza e il fiume della scienza. E così ho voluto.66" Questo dice Esdra, parola per parola. Questi sono i libri che riguardano la scienza della cabala: in questi libri ben a ragione chiarissimamente proclamò esservi la vena dell'intelletto, ovvero l'ineffabile teologia della supersostanziale Divinità; la fonte della sapienza, vale a dire l'esatta metafisica delle forme intellettibili ed angeliche; ed il fiume della scienza, cioè la solidissima filosofia della natura. Questi libri Sisto IV Pontefice Massimo, che precedette immediatamente questo sotto cui felicemente viviamo, curò con sommo impegno e studio che per la pubblica utilità della nostra fede fossero volti in latino. E già, al momento del suo trapasso, tre erano stati tradotti. Questi libri oggi sono venerati presso gli Ebrei con un così gran religioso rispetto che non viene permesso a nessuno di toccarli se non dopo i quarant'anni d'età. Essendomi io procurato detti libri, non con poca spesa, ed avendoli studiati con la massima attenzione e con un lavoro indefesso, vi ho visto, Dio ne è testimone!, non tanto la mosaica quanto la religione cristiana. Ivi il mistero della Trinità, l'incarnazione del Verbo, la divinità del Messia; ivi del peccato originale, della sua espiazione attraverso Cristo, della Gerusalemme celeste, della caduta dei demoni, le gerarchie celesti, le pene del purgatorio, dell'inferno. Le stesse cose vi ho letto che leggiamo tutti i giorni in Paolo e in Dionigi, in Girolamo e in Agostino. Per quanto attiene poi alla filosofia, ti par d'udire proprio Pitagora e Platone, i cui principi sono talmente affini alla fede cristiana che il nostro Agostino può rendere infinite grazie a Dio che gli siano venuti fra le mani i libri dei Platonici. Insomma non c'è praticamente nessun punto controverso fra noi e gli Ebrei sul quale non possano essere confutati e convinti sulla base dei libri cabalistici, sì che non rimanga loro neppure un angolo dove andarsi a nascondere. Del che ho testimone autorevolissimo Antonio Cronico, uomo di grandissima erudizione che con le sue orecchie, mi trovavo convitato a casa sua, udì Dattilo ebreo, profondo conoscitore di questa scienza, addivenire a proposito della Trinità in tutto e per tutto alle stesse conclusioni dei Cristiani. 66
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Esdra IV 14, 45 -47.
Ma per tornare all'esame dei capi della mia disputa, ho addotto anche il mio modo d'interpretare i carmi di Orfeo e di Zoroastro. Orfeo in Grecia è letto quasi integralmente, Zoroastro scarsamente, mentre presso i Caldei più compiutamente: ambedue sono ritenuti padri ed autori dell'antica sapienza. Giacché, per tacere di Zoroastro, di cui si fa frequentemente menzione presso i Platonici non senza sempre la massima venerazione, Giamblico Calcideo scrive che Pitagora teneva la teologia orfica ad esempio su cui plasmare e formare la sua filosofia. Per ciò anzi soltanto i detti di Pitagora si dice siano chiamati sacri, perché sono scaturiti dalle istituzioni orfiche: di lì la dottrina segreta dei numeri e quanto di grande e di sublime ebbe la filosofia greca proruppe come da sua prima fonte. Ma, ed era questo il costume degli antichi teologi, così Orfeo rivestì i misteri dei suoi dogmi di favolosi involucri e li dissimulò con poetico velamento sì che chi legge i suoi inni crede che non contengano nient'altro che vere e proprie favolette e divertimenti poetici. E questo l'ho voluto dire perché si sappia quale fatica sia stata la mia, quale difficoltà trar fuori dai voluti intrecci degli enigmi, dai pretesti delle favole i sensi della segreta filosofia che vi si nascondevano; soprattutto, in un'impresa così impegnativa, così segreta e inesplorata, senza il soccorso di nessuna opera o studio di altri. E tuttavia mi hanno abbaiato addosso i miei cani che ho messo insieme un mucchio di minuzie, e di poco conto, per far mostra del numero, come se io non avessi prodotto tutte quelle che sono le questioni più ambigue e controverse sulle quali le principali scuole filosofiche disputano a fil di spada, quasi che io non abbia apportato molti argomenti che, per questi stessi che bistrattano le cose mie e che si credono principi dei filosofi, sono affatto sconosciuti e mai finora proposti. Ché io son tanto lontano da questa colpa che ho curato di restringere la discussione al minor numero di punti che ho potuto. E se io, come altri usan fare, avessi voluto suddividerla nelle sue membra e dilacerarla, di certo sarebbe cresciuta ad un numero incalcolabile. E a tacer del resto, vi è chi non sappia che una sola proposizione delle novecento, quella cioè sulla conciliazione della filosofia di Platone e di Aristotele, l'avrei io potuta portare, fuori da ogni sospetto di artificiosa sovrabbondanza, a seicento capi per non dire di più solo enumerando uno per uno tutti i punti nei quali secondo gli altri dissentono, io trovo invece che concordino? Ma la verità, perché lo dirò quantunque immodestamente e contro alla mia indole, la dirò tuttavia perché gli invidiosi mi costringono a dirla, mi ci costringono i denigratori: ho voluto con questo mio confronto dimostrare non tanto di sapere molto, quanto di sapere quello che molti non sanno. E perché questo ora vi divenga manifesto, Padri reverendissimi, di per sé; perché l'attesa del mio discorso non prolunghi ulteriormente la vostra ansia, eccellentissimi dottori, che io vedo non senza grande piacere pronti ed armati aspettar la tenzone: il che ci sia di buon auspicio; come al richiamo di uno squillo di tromba, veniamo dunque a battaglia!
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