José Saramago
Di questo mondo e degli altri A cura di Giulia Lanciani Titoli originali Do este Mundo e do Otro – A Baga...
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José Saramago
Di questo mondo e degli altri A cura di Giulia Lanciani Titoli originali Do este Mundo e do Otro – A Bagagen do Viajante © 1983, 986 José Saramago e Editorial Cammino SA, Lisboa by arrangement with Dr. RayCiide Merlin Litcrarische Agentur,Bad Homburg, Germany © 2006 Giulio Finaudi editore s.p.a., Torino Traduzione di Giulia Lanciani
Indice Nota editoriale .......................................................................3 Intervista a José Saramago di Lorenzo Misuraca .........................3 DI QUESTO MONDO E DEGLI ALTRI...................................................... 4 Prefazione – di Giulia Lanciani ..................................................4 Da “Di questo mondo e dell’altro” ......................................... 6 L’apparizione .........................................................................6 Il ciabattino prodigioso ...........................................................8 Lettera a Josefa, mia nonna.....................................................9 Mio nonno, anche ................................................................. 10 L’arrotino ............................................................................ 11 Nessuno si bagna due volte nello stesso fiume ......................... 12 Le bondosas ........................................................................ 13 Le parole ............................................................................ 15 Il cieco dell’organetto ........................................................... 16 Gli occhi di pietra ................................................................. 17 A volte il mattino aiuta.......................................................... 18 Le tre del mattino ................................................................ 19 Speculando sul sisma ........................................................... 20 Il vestito rivoltato ................................................................ 21 Giardino d’inverno ................................................................ 23 Discorso contro il lirismo ....................................................... 24 La bambina e l’altalena ......................................................... 25 L’isola deserta ..................................................................... 27 La vita sospesa .................................................................... 28 Vendono gli dèi quello che danno ........................................... 29 Un incontro sulla spiaggia ..................................................... 30 La vita è una lunga violenza .................................................. 32 il gruppo ............................................................................. 33 La parola resistente .............................................................. 35 Ricetta per uccidere un uomo ................................................ 36 Gli animali pazzi di collera ..................................................... 37 La nuova Veronica................................................................ 38
Il Diritto e le campane .......................................................... 39 Manoscritto trovato in una bottiglia......................................... 41 I navigatori solitari ............................................................... 42 “Salta, vigliacco!” ................................................................. 43 Il pianeta degli orrori ............................................................ 44 Un azzurro per Marte ............................................................ 46 Cuore e luna ....................................................................... 47 La neve nera ....................................................................... 48 La luna che ho conosciuto ..................................................... 49 Un salto nel tempo ............................................................... 50 Sempre più soli .................................................................... 52 Le vacanze .......................................................................... 53 L’estate .............................................................................. 54 Da “Il bagaglio del viaggiatore” .......................................... 55 Ritratto di antenati ............................................................... 55 La mia ascesa all’Everest ...................................................... 56 Molière e la Capinera ............................................................ 58 E anche quei giorni ............................................................... 60 Di quando morii rivolto verso il mare ...................................... 61 I personaggi sbagliati ........................................................... 63 L’estate è il mantello dei poveri .............................................. 66 Il delitto della pistola ............................................................ 67 Il miglior amico dell’uomo ..................................................... 69 Storia per bambini ............................................................... 70 Le terre .............................................................................. 72 Il lucertolone ....................................................................... 73 Nel cortile, un giardino di rose ............................................... 74 Il bianco gioca e vince .......................................................... 76 Storia del re che faceva deserti .............................................. 78 La piazza ............................................................................ 79 Una lettera con inchiostro di lontano ....................................... 81 Apologo della vacca lottatrice................................................. 82 Cavalli e acqua corrente ........................................................ 84 Le grida di Giordano Bruno .................................................... 85 Le coincidenze ..................................................................... 86 Il recupero dei cadaveri ........................................................ 88 Meditazioni sul furto ............................................................. 90 Quattro cavalieri a piedi ........................................................ 91 Del principio del mondo ........................................................ 93 L’officina dello scultore.......................................................... 94 Il giardino di Boboli .............................................................. 96 Terra di Siena bagnata.......................................................... 97 Il tempo e la pazienza .......................................................... 98 Il fiume più grande del mondo ............................................... 99
Una notte in Plaza Mayor..................................................... 101 Il perfetto viaggio .............................................................. 102 Nota editoriale Che Saramago sia uno straordinario inventore di storie, lo mostrano appunto già le cronache, suo primo, pieno e regolare esercizio della prosa. È quello delle cronache un universo tematico senza frontiere, dove in filigrana si scorgono nella loro figurazione embrionale personaggi, situazioni, immagini, colori, fantasie, linguaggio, inventiva, ironia, dei suoi romanzi a venire. È lo stesso autore, del resto, ad affermare che “Esta la tudo”, ovvero il cammino percorso nei romanzi che lo faranno scrittore internazionalmente famoso è tutto tracciato in quelle lontane microstorie. Saramago penetra nella realtà delle cose come se si immergesse in un fluido resistente, avvertendone le asperità e le dolcezze; ne insegue, lui che ha per “dovere e vocazione di negare l’insignificanza”, un senso – il senso , lottando contro le correnti dell’abitudine e del preconcetto, riservando alle cose, sempre, “un’attenzione morbosamente acuta”. È questo, in fondo, lo spirito che informa il caleidoscopico mondo delle cronache, un mondo dove i fili del presente si intrecciano con un passato mai perso, dove la rappresentazione simbolica trascorre nella concretezza cronachistica o nel pathos memoriale, e si scopre con emozione, commozione, stupore, godimento che “il mondo e quanto esso contiene non è poi quel poco che la gente crede”. (Giulia Lanciani)
Intervista a José Saramago di Lorenzo Misuraca Ad un anno dalle elezioni in Portogallo, che hanno visto l’amministrazione comunale della capitale e il governo passare in mano alla Destra, qual è il suo giudizio sul suo operato nel paese?
Il problema in Portogallo è che la crisi economica e le difficoltà in cui si trova il paese sono di antica data. Sarebbe da vedere a quando risale questa situazione: a cinque anni fa? A dieci anni fa? Io credo che il compito del cittadino sia quello di accertarsi e controllare l’operato dei politici. Negli ultimi anni si è sviluppato un movimento di persone che, da Genova a Firenze, chiede un mondo migliore. Crede che sull’onda di questo movimento possa nascere anche una nuova letteratura impegnata socialmente, e al tempo stesso di valore?
Non è importante che nasca una nuova letteratura impegnata. L’importante è che nasca, da questo movimento, una nuova mentalità, perché non c’è bisogno di un mondo più giusto, ma semplicemente di un mondo giusto, che ancora manca. In questa azione è molto importante quello che faranno i giovani. Questo nuovo mondo lo costruiranno i giovani, con l’aiuto semmai di alcuni della mia età, che dovranno aiutarvi con l’esperienza. Il 25 Aprile, il giorno in cui si festeggia in Portogallo la liberazione dalla dittatura nel 1974, quest’anno c’erano pochissimi giovani per le strade a manifestare. Questo perché le nuove generazioni portoghesi stanno
perdendo la memoria del passato, non s’interessano per nulla di ciò che è stato il passato recente del loro paese. E questo è molto grave. Qual è la sua posizione riguardo all’annunciata guerra in Iraq? È contrario?
Chiaro che sono contrario! A parte i motivi direttamente collegati alla guerra, che mi portano ad essere fermamente contrario, provi a riflettere su una cosa: in questo momento, mentre noi parliamo, nei paesi poveri una persona muore ogni quattro secondi di fame, o malattia, o per mancanza d’acqua. Basta riflettere su ciò per capire quanto la guerra in Iraq sia sbagliata, e quanto bisogni adoperarsi per risolvere questi problemi innanzi tutto. (Questa Intervista è stata pubblicata sul numero 99, 1 dicembre 2002, di Girodivite.it)
Di questo mondo e degli altri Prefazione – di Giulia Lanciani Se fisso i miei ricordi sulla carta è soprattutto perché non si perdano (in me) minuti d’oro, ore che risplendono come soli nel cielo tumultuoso e immenso che è la memoria. Cose che sono anche, con il resto. la mia vita. Il silenzio è fecondo... Cadono su di esso le parole. Tutte le parole. Quelle buone e quelle cattive. Il grano e il loglio. Ma solo il grano dà pane. Nell’autunno del 1993, al Fanta Brutos del Bairro Alto – dove cinque anni dopo avremmo festeggiato il suo ritorno dai trionfi di Stoccolma – nacque con José Saramago l’idea di approntare un’edizione italiana, ridotta, del volume di cronache A Bagagem do Viajante. Detto, accordato e fatto. Pochi mesi più tardi usciva per i tipi della Bompiani il libro che intitolavo Il perfetto viaggio, non sembrandomi opportuno conservare a una parte ciò che apparteneva a un tutto, e mantenendo però l’idea del viaggio come di un tragitto culturale ed esistenziale, testimone di una svolta determinante nella vita di uno scrittore d’eccezione. A distanza di tredici anni, e sempre nell’euforia di riti prandiali, stavolta nella bella casa lisboeta di Pilar e José, ma con cena arrivata dal ristorante di cui sopra (a pensarci bene, non sarà stato proprio questo in fondo a stuzzicarmi di nuovo?) proponevo di dar seguito all’avventura iniziata tanto tempo prima, traducendo una scelta del secondo volume di cronache, ma primo in ordine cronologico, De este Mundo e do Outro. È nato così Di questo mondo e degli altri, che raccoglie grande parte dei testi dei due libri di cronache scritte da José Saramago tra il 1968 e il 1969 per i giornali di Lisbona “A Capital” e “Jornal do Fundão”, e riunite poi nei due volumi citati, pubblicati rispettivamente nel 1971 e nel 1973. Che Saramago sia uno straordinario inventore di “storie” lo mostrano appunto già le cronache, suo primo, pieno e regolare esercizio della prosa. E quello delle cronache un universo tematico senza frontiere, dove in filigrana si scorgono nella loro figurazione embrionale personaggi, situazioni, immagini, colori, fantasie, linguaggio, inventiva, ironia, dei suoi romanzi a venire. È lo stesso autore, del resto, ad affermare che “està là tudo”,
ovvero il cammino percorso nei romanzi che lo faranno scrittore internazionalmente famoso è tutto tracciato in quelle lontane microstorie. Saramago penetra nella realtà delle cose come se si immergesse in un fluido resistente, avvertendone le asperità e le dolcezze; ne insegue, lui che ha per “dovere e vocazione di negare l’insignificanza”, un senso – il senso , lottando contro le correnti dell’abitudine e del preconcetto, riservando alle cose, sempre, “un’attenzione morbosamente acuta”. È questo, in fondo, lo spirito che informa il caleidoscopieo mondo delle cronache, un mondo dove i fili del presente si intrecciano con un passato mai perso, dove la rappresentazione simbolica trascorre nella concretezza cronachistica o nel pathos memoriale, e si scopre con emozione, commozione, stupore, godimento che “il mondo e quanto esso contiene non è poi quel poco che la gente crede”. Una mobilità tutta giocata con naturalezza sui temi più vari: la forza evocativa di un verso, di una frase, di una scritta su un muro, esili eventi del quotidiano anonimo, affabulazioni di tipo onirico che esitano tra la favola per un destinatario infantile e un’accentuata propensione per i domini del meraviglioso e del fantastico, e molto altro ancora, tutto è materia per una cronaca. C’è la statua, figura di carne pietrificata, con i suoi occhi scavati, occhi di pietra che vedono; e c’è il bambino che nel disegno del Natale dipinge la neve di nero perché proprio in quel giorno era morta sua madre, e il bambino che salva il fiore vizzo in cima alla collina attraversando il mondo più volte fino al fiume Nilo e raccogliendo ogni volta nel concavo delle mani quant’acqua vi entra. C’è l’enorme ramarro apparso misteriosamente a sconvolgere uomini e traffico allo Chiado, che si muta, prima di essere ucciso, in una rosa color sangue posata sull’asfalto nero come una ferita nella città, e c’è il re che nato con una tara nel cuore non sopporta che lo scandalo della natura ferisca i suoi occhi e crea attorno a sé e finn all’orizzonte il deserto. C’è la città notturna dell’uomo che viveva fuori delle sue mura, ma che a un certo punto decide di espugnarla: con lotta e dolore, perché la città era lui stesso. Città di José, se vogliamo darle un nome. Un José che da quel remoto 1969 tende la mano attraverso i decenni all’altro José, l’autore dei capolavori che lo condurranno al Nobel. Ma è al versante memorialistico, soprattutto ai segni lasciatigli dall’infanzia – ricordi, immagini, atmosfere, visioni della mitica età in cui “le verità si diluiscono e risplendono come monete d’oro abbandonate nel fango” – che appartengono forse i momenti di maggiore struggimento, di abbandono alla tenerezza, di cedimento alla nostalgia: nitido nel ricordo è il ragazzo poverissimo che egli era stato, accanto al nonno pastore di porci, il quale, nelle sere di gelata, si portava a letto, sotto le rozze coperte, i porcellini appena nati per impedirne la morte per congelamento. Il nonno Jerónimo, che nelle notti d’estate dormiva accanto a lui sotto il fico mentre nel cielo si avvicinava, come un lume silenzioso, il chiarore opalescente della Via Lattea, Cammino di Santiago per gli abitanti della Penisola. Il nonno che, sentendo arrivare la sua ora estrema, andrà di albero in albero del suo podere ad abbracciarne i tronchi, a congedarsi da loro, dai frutti che non mangerà più, dalle ombre amiche. Una figura, quella del nonno analfabeta (“l’uomo più saggio che io abbia conosciuto in vita mia non sapeva né leggere né scrivere”), che assieme ai ritratti di famiglia – il bisnonno berbero, la nonna Josefa, i genitori belli e impacciati nella fotografia di cinquant’anni prima – si faranno parabola e mito nell’orazione di sapienza pronunciata nel 1998 a Stoccolma, inseriti tacitamente nella schiera dei suoi personaggi, di quei personaggi di fronte ai quali egli si colloca oggi in posizione di allievo, apprendista di vita: come se in ciascuno di loro egli avesse posto una parte di sé, cui dovrà ogni volta ricorrere, per conforto e scelta, nelle decisioni future, perché nulla si disperda e perché non ci si dimentichi di quel che si è stati, nel bene e nel male. E lui stesso, ragazzo scalzo nel suo tentativo di raggiungere la vetta di un albero: “Non mi ricordo se il ragazzino arrivò sulla cima dell’albero. Una nebbia persistente copre quel ricordo. Ma forse è meglio così: non aver allora raggiunto la vetta è una buona ragione per continuare a salire. Come un dovere che nasce da dentro e perché il sole è alto nel cielo”.
Materia varia, si è detto, quella delle cronache, strutturata tuttavia secondo un modello fisso, una sorta di architettura discorsiva bipolare, una costruzione duale del testo. Partendo da un fatto reale, il fatto di cronaca appunto, Saramago crea le condizioni oniriche per rivoltare il mondo e raccontare, con amarezza, con ironia, con tenerezza, gli scombussolamenti derivati dagli errori e dalle certezze, dagli inganni e dai disinganni; la faccia volutamente nascosta delle cose. Il mondo messo a rovescio di se stesso e delle sue certezze apparenti e reali si apre allora all’avventura romanzesca della decostruzione delle certezze delle parole e degli oggetti, si lascia viaggiare nello straniamento che ne deriva, reincontra in segni antichi e cristallizzati nuovi segni per riscrivere la propria storia. A esemplificare, congruamente si presta la cronaca “Il bianco gioca e vince”, che dopo un riferimento al Diablo cojuelo di Vélez de Guevara – nel quale, com’è noto, l’autore immagina che un diavolo buontempone scoperchi i tetti delle case per mettere a nudo il comportamento intimo degli abitanti della città – prosegue con un ricordo personale: “Mi rivedo ora al tempo in cui ero un frequentatore assiduo della piccionaia del teatro San Carlo, quell’incredibile loggione ad angolo e inclinato dove s’ammucchiavano gli spettatori meno abbienti. Per non so quale diabolica punizione, nessuno di noi, eccetto quelli della prima fila, poteva vedere il palco per intero. Se i cantanti si spostavano sul lato nascosto, era come se fossero passati sull’altra faccia della luna. Ne sentivamo le voci, ma dovevamo aspettare pazientemente che le circostanze dell’azione li portassero di nuovo nello spicchio di palco visibile. Responsabile d’un gioco di collo che ci triturava i muscoli era la corona reale di legno dorato che sovrasta il palco presidenziale. In realtà, però, quel che vedevamo non era proprio la corona, che riservava i suoi splendori al pubblico privilegiato della platea e dei palchi. Noi poveretti ci accontentavamo del suo rovescio, il quale rovescio era davvero sgradevole: quattro assi mal piallate, fissate con chiodi ritorti, molta polvere e ragnatele. Insomma, quanto bastava per citare Salomone (Vanità delle vanità. tutto è vanità) o il canzoniere popolare (Sopra è tutta merletti, sotto neppure le braghe). Il lettore attento avrà già capito dove voglio arrivare: sotto o dietro quel che si vede, c’è sempre qualche altra cosa che conviene non ignorare e che dà, se conosciuta, l’unico vero sapere. Un tetto è una maschera, e il punto di vista della piccionaia aiuta a vedere meglio la corona.” Morale delle cronache: non guardiamo il mondo, gli uomini, le cose con gli occhi dell’abitudine, non contentiamoci dell’apparenza, scopriamolo questo mondo in cui volenti o nolenti siamo costretti a vivere, nel senso di “togliergli di dosso quel che lo copre”, E forse, allora, questa commedia di inganni che è la nostra vita non ci apparirà solo come tale.
Da “Di questo mondo e dell’altro” L’apparizione Non è una storia di fantasmi, sebbene sia una storia dell’altro mondo. E potrei raccontarla tanto in quattro frettolose righe, come riempiendo fogli su fogli, questa cronaca e un’altra, e le successive, all’infinito, fino alla resa e alla desistenza. Perché so in anticipo che tutto quel che dico o dirò non basterà a far affiorare neppure il contorno luminoso dell’apparizione notturna. È questo il difetto delle parole. Stabiliamo che non c’è altro mezzo d’intenderci e di spiegarci, e finiamo con lo scoprire che restiamo a metà della spiegazione e così lontani dal comprenderci che sarebbe stato molto meglio lasciare agli occhi e al gesto il loro peso di silenzio. Forse anche il gesto è un di più. In fin dei conti, non è altro che il disegno di una parola, il
muoversi di una frase nello spazio. Ci restano gli occhi e il loro accesso privilegiato alle apparizioni. Certe cose non accadono spesso nella vita. Dipendono da una congiunzione di tempo e di luogo, dal viaggio terrestre di un determinato essere e dagli impulsi oscuri o coscienti che lo hanno guidato in quel viaggio. Dipendono (chissà?) dagli astri, dalla loro posizione nel cielo, dalla fase della luna, dall’ora in cui è sorta o tramonterà. Dipendono da un’ombra, da una vibrazione dell’atmosfera. Dipendono dall’arrivare al momento giusto nel posto giusto. C’è una probabilità su un milione – eppure succede. È notte. Un sentiero tra due file di alberi. Qualcuno avanza su quel sentiero, qualcuno che il silenzio spaventa vagamente e, più del silenzio, la solitudine e il gioco di luci e ombre che si spande al suolo. È un ragazzo che viene da lontano, da una festa di paese dove c’è quell’eterna ragazza da cui non avrà mai nulla, ma che è, di per sé, la promessa del futuro amore. Da lì a casa, il ragazzo deve camminare ancora una lega. Passerà la notte (quel che ne resta) in una baracca di legno, su un letto di foglie secche e cartocci di granturco. Ci sarà nebbia quando si sveglierà, lo sa da certi segni nel cielo. Intanto, procede lungo il sentiero silenzioso. Non pensa. A quell’ora la ragazza dorme, si è ritirata, di nuovo crisalide, nel suo bozzolo da cui era uscita farfalla. Il ragazzo aguzza l’udito per distinguere i rumori notturni e le loro minacce. Sul lato destro del sentiero c’è uno stagno dove, ogni tanto, brillano lame di spade. La notte è terribile, si sa. D’improvviso, la strada sembra finire. Fa una curva brusca, si nasconde dietro una siepe e mostra, come per tagliare il passo a chi vi passi, un albero isolato, alto alto, scuro sullo sfondo nerazzurro del cielo. Il ragazzo sente il morso gelido della paura. Si ferma, si guarda attorno, fa due passi indietro. La campagna si è raccolta in un silenzio ancora più grande sotto la luce fantasmatica della luna. L’albero empie il sentiero e lo spazio. Condensa nei suoi rami tutta l’oscurità della notte. Forse vi si rifugiano uccelli dai nomi lugubri e gli occhi gialli. E vi saranno pipistrelli appesi a testa in giù, avvolti nelle loro ali come in neri sudari. Sono lì, in attesa, gli innominati terrori del mondo delle tenebre. E venne l’apparizione. Da molto lontano si approssimò una brezza mormorante. Mosse i teneri steli dell’erba, i verdi coltelli dei canneti, fece ondeggiare in un brivido di luce le grigie acque dello stagno, sollevò come un’onda i rami tesi, avvolse il ragazzo in un rapido turbine e proseguì fino all’albero che la aspettava. E salì lungo il tronco e su per i rami, sempre mormorando. E le foglie rivolsero alla luna la loro faccia nascosta, e tutto l’albero si coprì di bianco fino al ramo più alto. E agli occhi stupefatti del ragazzo, ora tremante di commozione e sgomento, l’apparizione del faggio miracoloso si mostrò in un vertiginoso secondo – che durerà finché dura la vita.
Il ciabattino prodigioso Oggi vorrei una prosa distesa, tranquilla, che dicesse le cose più serie nella forma più semplice. Una prosa che si sostenesse da sola, in cui io non intervenissi o non avessi altra presenza che quella del contemplativo che si riposa sulla riva del fiume e vede scorrere le acque. La storia delle persone è fatta di lacrime, qualche sorriso, piccole gioie e un grande dolore finale. E tutto può essere raccontato nei toni più diversi: elegiaco, drammatico, ironico, riservato, e tutti gli altri la cui enumerazione non entra qui e, se vi entrasse, mi rovinerebbe il ritmo della frase. Conosco quest’uomo da quando mi conosco. Non è rigorosamente vero, ma mi sembra di averlo sempre visto seduto sul suo sgabello, con il deschetto ingombro degli attrezzi del mestiere e di mille piccoli oggetti che ormai non servivano più a niente. E tutto giaceva su un immemoriale strato di terriccio accumulato, da cui emergevano chiodi storti, ritagli di suole, residui di un lavoro continuo e attento. La bottega era un cubicolo con una porta alta un metro e mezzo (o poco più), dalla quale potevano entrare senza curvarsi solo i bambini. Mi scoprii uomo il giorno in cui dovetti abbassare la testa. Lì passavo ore interminabili, mentre fuori il calore arroventava i selci arrotondati che lastricavano la piazzetta. Anche nei tardi pomeriggi, quando la prima brezza annunciatrice della sera faceva rabbrividire come un avviso i platani che fiancheggiavano la fontana. Il mio ciabattino aveva molti amici, ma le ore di visita variavano secondo la posizione sociale di ciascuno. Il medico non si faceva vedere quando c’era un poveraccio, il priore non passava dalla porta, i contadini evitavano di incontrarsi con i nemici del podere confinante e dicevano cose gravi e profonde, o pettegolezzi a mezza bocca, mentre continuavano a frugarsi nei taschini del gilè. Solo io ero un cliente di tutte le ore. La mia condizione di ragazzo di città (perché li vivevo), che si godeva le vacanze estive, faceva di me un palco dove chiunque poteva rappresentare il suo numero. Ascoltavo i casi clinici del medico, i monosillabi del povero, i rimproveri del prete e le interminabili litanie del contadino. Intanto, il mio ciabattino batteva la suola, incerava lo spago, tirava i punti e fermava la tomaia con due colpi secchi e vigorosi. Era un uomo malato, vecchio anzitempo, torto come un tralcio o un antico olivo. Tutta la sua forza gli si concentrava nelle braccia. E io, che non sono mai stato ragazzo di grandi muscolature, provavo un’invidia folle per quelle spalle possenti, dove le corde dei tendini vibravano e si gonfiavano a un ritmo che oggi mi piace chiamare solenne. Al mio ciabattino piaceva parlare e ascoltare. Raccontava fatti della sua giovinezza, vaghe aspirazioni di tempi remoti, la terribile e dolorosa storia di una pistola che forse un giorno, passati tanti anni, scriverò. Mentre lui parlava, io mi intrattenevo facendo buchi su un pezzo di cuoio con un punteruolo. Oppure rimestavo nell’acqua che la suola a bagno rendeva astringente. E così passavo il tempo. E poi, il mio ciabattino voleva sempre le novità. Io gliele fornivo, se
potevo, inventavo e infioravo, per farmi bello. Venivo dalla città, non potevo lasciarlo senza le risposte di cui aveva bisogno. Finché un giorno. Era verso sera. Arrivavo dal fiume, dopo molte ore di sole, sporco di fango, con l’anima pulita da tanto azzurro e verde – e mezza dozzina di pesci ormai insecchiti, infilati per le branchie in un rametto di salice. Gli feci vedere quel che avevo pescato. Il mio ciabattino non mostrò molto interesse. Qualcosa lo preoccupava. Si lisciava i radi capelli con la lesina, sospendeva i movimenti delle braccia nel tirare lo spago – segni che ben conoscevo e che annunciavano una domanda di altissima importanza. E la domanda venne. Deciso, il mio vecchio amico reclinò all’indietro il corpo deformato, spinse gli occhiali sulla fronte e sparò: – Tu credi nella pluralità dei mondi? Che risposi allora? Che sì, che no, che forse, che Fontenelle aveva detto, che l’altro aveva smentito. Ma oggi chiedo alle grandi potenze che mandano uomini nello spazio il favore di verificare rapidamente e dare la risposta al mio ciabattino. È un uomo pieno di interessi che vive in un paese e ha una bottega con un orizzonte di platani che di notte stormiscono, quando il cielo si copre di stelle. Lettera a Josefa, mia nonna Hai novant’anni. Sei vecchia, piena di acciacchi. Mi dicono che sei stata la più bella ragazza del tuo tempo – e io ci credo. Non sai leggere. Hai le mani grosse e deformate, i piedi induriti. Hai portato sulla testa tonnellate di stoppie e legna, laghi d’acqua. Hai visto nascere il sole ogni giorno. Con tutto il pane che hai ammassato si potrebbe imbandire un banchetto universale. Hai allevato persone e bestie, ti sei messa i maialini nel letto quando il freddo minacciava di gelarli. Mi hai raccontato storie di apparizioni e di lupi mannari, vecchie questioni di famiglia, di un morto ammazzato. Trave della tua casa, fuoco del tuo focolare – sette volte incinta, sette volte hai partorito. Non sai niente del mondo. Non ti intendi di politica, né di economia, né di letteratura, né di filosofia, né di religione. Hai ereditato un centinaio di parole pratiche, un vocabolario elementare. Con questo sei vissuta e vivi. Sei sensibile alle catastrofi e anche ai fatti di strada. Nutri grandi odi per ragioni che non ricordi più, e grandi dedizioni basate sul nulla. Vivi. Per te, la parola Vietnam è appena un suono barbaro che non si confà al tuo cerchio di una lega e mezza di raggio. Della fame sai qualcosa: hai già visto una bandiera nera issata sul campanile della chiesa (me lo hai raccontato tu, o avrò sognato che me lo raccontavi?). Porti con te il tuo piccolo bozzolo di interessi. E, tuttavia, hai gli occhi chiari e sei allegra. Il tuo riso è un fuoco d’artificio colorato. Come te, non ho mai visto ridere nessuno. Ti sto davanti, e non capisco. Sono della tua carne e del tuo sangue, ma non capisco. Sei venuta al mondo e non ti sei curata di sapere che cos’è il mondo. Arrivi alla fine della vita e il mondo, per te, è ancora quel che era
quando nascesti: un interrogativo, un mistero inaccessibile, una cosa che non fa parte della tua eredità: cinquecento parole, un fazzoletto di terra di cui si fa il giro in cinque minuti, una casa di tegole e pavimento di terra battuta. Stringo la tua mano callosa, passo la mia mano sul tuo viso rugoso e sui tuoi capelli bianchi, rovinati dal peso dei fardelli – e continuo a non capire. Sei stata bella, dici, e vedo bene che sei intelligente. Perché allora ti hanno rubato il mondo? Chi te lo ha rubato? Ma questo forse lo capisco io, e ti direi il come, il perché e il quando se solo sapessi scegliere delle mie innumerevoli parole quelle che tu potresti comprendere. Però ormai non ne vale la pena. Il mondo continuerà senza di te – e senza di me. Non ci saremo detti l’un l’altro quel che più importava. Non ce lo saremo detto, davvero? Io non ti avrei dato, perché le mie parole non sono le tue, il mondo che ti era dovuto. Resto con questa colpa di cui non mi accusi – ed è ancora peggio. Ma perché, nonna, perché ti siedi sulla soglia della porta, aperta sulla notte stellata e immensa, sul cielo di cui nulla sai e nel quale mai viaggerai, sul silenzio dei campi e degli alberi attoniti, e dici, con la tranquilla serenità dei tuoi novant’anni e il fuoco della tua adolescenza mai perduta: “Il mondo è così bello, e io ho tanta pena di morire!” È questo che non capisco – ma la colpa non è tua. Mio nonno, anche Forse il giorno piovoso è responsabile di questa malinconia. Siamo una macchina complicata, in cui i fili del presente attivo si intrecciano nella tela del passato morto, aggrovigliandosi in nodi e cappi sicché a volte la vita ci crolla addosso o ci lascia perplessi, confusi, e improvvisamente amputati del futuro. Cade la pioggia, il vento scompiglia l’arida compostezza degli alberi senza foglie – e dai tempi passati giunge un’immagine perduta, un uomo alto e magro, vecchio, ora che si avvicina, per una carrareccia allagata. Ha in mano un bastone, un pastrano infangato e antico, e su di lui scorrono tutte le acque del cielo. Davanti gli camminano animali stanchi, a capo chino, sfiorando il suolo con il muso. Uomo e bestie avanzano sotto la pioggia. È un’immagine ordinaria, senza bellezza, terribilmente anonima. Ma l’uomo che si avvicina, vago, tra corde di pioggia che sembrano diluire quel che nella memoria non si è perso, è mio nonno. È stanco, il vecchio. Si trascina dietro settant’anni di vita difficile, di sconforto, di ignoranza. E tuttavia, è un uomo saggio, silenzioso e introverso, che apre bocca solo per dire parole importanti, quelle che contano. Parla così poco (sono poche le parole davvero importanti) che tutti tacciamo per ascoltarlo quando sul viso gli si accende come una spia luminosa. A parte ciò, ha un modo di star seduto, con lo sguardo lontano, anche se questo lontano è solo la parete più vicina, che arriva a essere intimità. Non so quale dialogo muto ce lo renda estraneo. Il suo viso è tagliato con l’accetta, fisso ma espressivo, e gli occhi, piccoli e acuti, hanno ogni tanto un brillio chiaro come se in quel
momento qualcosa fosse stato definitivamente compreso. Sembra una sfinge, dirò io più tardi, quando le letture erudite mi aiuteranno in paragoni garanti di una facile cultura. Oggi dico che sembrava un uomo. Ed era un uomo. Un uomo uguale a molti altri di questa terra, di questo mondo, un uomo senza opportunità, forse un Einstein perduto sotto una spessa coltre di impossibilità, un filosofo (chissà?), un grande scrittore analfabeta. Qualcosa di serio, che non poté mai essere. Ricordo ancora quella tiepida notte d’estate, quando dormimmo, noi due, sotto il fico – lo sento ancora parlare della vita che aveva avuto, della Via Lattea che risplendeva sulle nostre teste (le cose che lui sapeva del cielo e delle stelle), delle bestie che lo conoscevano, delle storie e leggende che erano il suo capitale di un’infanzia remota. Ci addormentammo tardi, avvolti nella coperta, perché all’alba sicuramente sarebbe rinfrescato e la rugiada non cadeva solo sulle piante. Ma l’immagine che non mi abbandona è quella del vecchio che cammina sotto la pioggia, ostinato e silenzioso, come chi compia un destino che nulla può cambiare. Se non la morte. In quel momento, però, questo vecchio, che è mio nonno, non sa ancora come morirà. Ancora non sa che pochi giorni prima del suo ultimo giorno avrà la premonizione (perdona la parola, Jerónimo) che la fine è arrivata, e andrà, di albero in albero del suo podere, ad abbracciarne i tronchi, a congedarsi da loro, dai frutti che non mangerà più, dalle ombre amiche. Perché sarà arrivata la grande ombra, finché la memoria non lo farà risorgere sul sentiero allagato o sotto la concavità del cielo e l’interrogativo delle stelle. Solo questo – e anche il gesto che d’improvviso mi fa scattare in piedi e l’urgenza dell’ordine che riempie la stanza riscaldata in cui scrivo. L’arrotino Non conviene guardare al passato. Il passato è quell’armadio pieno di scheletri di cui parlano gli inglesi, gente discreta, di poco sole e di ancor meno emozioni. Ma a volte la memoria, per vie che non sappiamo spiegarci, riporta all’oggi che stiamo vivendo immagini, colori, parole e figure. Come posso sapere, ad esempio, per quale diavoleria mi appare ora un ometto con il basco, che spinge la sua carriola a una ruota, mentre trae da un flauto di Pan o siringa la melodia che è il suo biglietto da visita? Se non è nostalgia da reprimere, è almeno difettoso adattamento al presente. Non so. È vero che la figura di quest’uomo, in genere di poche e galeghe parole, introverso, aveva un suo che di simpatia. Veniva da lontano, l’arrotino, era di passaggio. Radici, nessuna, o lassù, molto lontano, nelle airinhas della sua terra. Ma, per gli anni che avevo, quelli da cui ora mi giungono l’uomo intero, la ruota e il flauto, c’era qualcosa di sinistro nell’insieme che da tutto ciò si ricavava. Come posso spiegarlo? La strada era tranquilla, ordinata, con panni stesi alle finestre, forse dei garofani, se era l’epoca, o gerani, che fioriscono quasi tutto l’anno. D’improvviso (non
proprio d’improvviso, a pensarci bene, perché il suono cominciava a udirsi da lontano), la melodia invadeva la strada e metteva le donne di casa in fermento. Era un rovistare dissennato nei cassetti di cucina, nelle ceste del cucito, un precipitarsi giù per le scale. L’arrotino si installava e lì restava, a volte tutto il giorno, attaccando ganci a catini di terracotta, rimettendo bordi alle pentole, aggiustando ombrelli – e soprattutto affilando e arrotando coltelli e forbici rovinati dalla domestica azione del taglio. A me, che spiavo da dietro i vetri, metteva i brividi l’espressione concentrata dell’arrotino, attento al filo, come se per lui non ci fosse (e non c’era) missione più importante nella vita che dare a ogni lama un taglio ben vivo per il prosaico compito di sbucciare patate, decapitare meno prosaicamente una gallina (allora i polli erano una rarità), o mettere al sole le budella di un nemico. Indifferente, l’arrotino affilava il taglio. Quanto all’uso, se mai glielo avessero chiesto, avrebbe forse risposto con un’aria del suo flauto. Ogni tanto scompariva. Nelle case si provava il filo, c’erano freddi scintillii di acciaio disponibile, e se io avessi saputo allora quel che ciò significava, avrei detto che tutta la strada era appestata da un’atmosfera di sadismo. Le pacifiche donne di casa, forbici in pugno, gettavano attorno sguardi impazziti, in cerca di vittime. Quel giorno, non si poteva parlare a voce alta o compiere un atto fuori della quotidianità. La presenza viva dell’acciaio spaventava i bambini e gli animali da cortile. Frattanto, in lontananza, il suono del flauto svaniva. E io, ragazzino che si sentiva stretto nella pelle che gli era toccata in sorte, alitavo sui vetri e tracciavo disegni incomprensibili, con la vaga inquietudine di chi indovina che nelle cose ci sono significati occulti che solo occultamente possono essere compresi. Nessuno si bagna due volte nello stesso fiume Sto sdraiato sulla riva. Due barche, legate a un tronco di salice, tagliato in tempi remoti, oscillano al gioco del vento, non della corrente, che è leggera, lenta, quasi invisibile. Il paesaggio di fronte, lo conosco. Da un’apertura tra gli alberi vedo la terra piatta della palude, in fondo una frangia di vegetazione verde scuro e poi, inevitabilmente, il cielo dove galleggiano nuvole che non sono bianche solo perché sta per scendere la sera e tendono al color perla, dato che è il giorno che si estingue. Intanto, il fiume scorre. Più propriamente si dovrebbe dire: va, si trascina – ma non si usa dirlo. Tre metri sopra la mia testa sono impigliati nei rami grumoli di paglia, fusti di granturco, agglomerati di fango secco. Sono i segni della piena. A. sinistra, sull’altra riva, si allineano i pioppi che a questa distanza, a causa del vento che ne fa fremere le foglie in un’interminabile vibrazione, mi ricordano l’interno di un alveare. È lo stesso borbogliare, una sorta di ronzio vegetale,
una palpitazione (è quel che penso ora), come se diecimila uccelli fossero sbocciati dai rami in un’ansia di ali che non possono spiccare il volo. Intanto, mentre penso, il fiume continua a passare, in silenzio. Viene ora nel vento, dal villaggio non lontano, un rintocco lamentoso di campane: qualcuno è morto, so chi è, ma a che serve dirlo? Molto in alto, due aironi bianchi (o forse non sono aironi, ma non importa) disegnano un balletto senza inizio né fine: sono venuti a inscriversi nel mio tempo, andranno poi a continuare il loro, senza di me. Guardo ora il fiume che conosco così bene. Il colore delle acque, il modo in cui scivolano lungo le rive, i verdi zampilli, la piattaforma di limo dove hanno trovato dimora le rane, dove le libellule (dette anche cavalocchi) posano l’estremità delle piccole grinfie – questo fiume è qualcosa che mi scorre nel sangue, a cui sono legato da sempre e per sempre. In esso ho navigato, ho imparato a nuotare, ne conosco il fondale e le tane dove i barbi si librano immobili. È più che un fiume, forse è un segreto. E, tuttavia, queste acque già non sono più le mie acque. Il tempo vi fluisce, le trascina ed è trascinato nella corrente liquida, lentamente, alla velocità (qui, sulla terra) di sessanta secondi al minuto. Quanti minuti sono già passati da quando mi sono sdraiato sulla riva, sul fieno secco e dorato? Quanti metri è avanzato quel tronco marcio che galleggia? La campana suona ancora, un brivido ha scosso ora la sera, dove sono gli aironi? Lentamente mi alzo, scuoto i fili di paglia dal vestito. Mi infilo le scarpe. Prendo un sasso, un sasso rotondo e compatto, lo lancio in aria, in un gesto del passato. Cade in mezzo al fiume, s’immerge (non lo vedo, ma lo so), attraversa le acque opache, si posa sul fango del fondo, s’interra un po’. Ha cambiato posto, forse l’inverno lo trascinerà più lontano o lo restituirà alla riva da cui l’ho preso. O forse resterà lì per sempre. Scendo fino all’acqua, vi immergo le mani e non le riconosco. Mi vengono alla memoria altre mani immerse in un altro fiume. Le mie mani di trent’anni fa, il fiume antico di acque che si sono ormai perse nel mare. Vedo passare il tempo. Ha il colore dell’acqua ed è carico di detriti, di petali strappati da fiori, di un rintocco lento di campane. Intanto, come un lampo passa un uccello color del fuoco. La campana tace. E io scuoto le mani bagnate di tempo, alzandole fino agli occhi – le mie mani di oggi con cui afferro la vita e la verità di quest’ora. Le bondosas Nella vita di ciascuno di noi c’è sempre una Vecchia Casa. La mia non esiste più. Per oltre cent’anni, le sue quattro pareti cieche (dico cieche perché non avevano finestre, solo una finestrella) hanno difeso dal freddo e dalla pioggia chi ci viveva. Difendere è un modo di dire, perché, alla fine, d’inverno l’acqua gelava negli orci e la pioggia stagnava sul pavimento di terra. Tra le tegole si vedevano le stelle e il chiaro di luna passeggiava per
casa tutta la notte, silenzioso come una pacifica anima dell’altro mondo che avesse conservato un buon ricordo di questo. La casa dunque non esiste più. L’ha demolita una storia di spartizioni e di odio fraterno, urlata davanti allo sgomento di un vecchio volto. Aveva ragione Gide quando esclamava: “Famiglie, io vi odio!” Il catechismo del rancore non ha mai avuto migliori catecumeni. Erano quattro palmi di terra povera, e furono disputati come se del mondo si trattasse. Carta bollata, leggi e avvocati sparsero sale sulla ferita, ed ecco una famiglia fatta a pezzi, e ogni pezzo tra grida. Una storia come tante. Non vale la pena insistervi: ho già fin troppi motivi di pessimismo. Davanti allo spazio prima occupato dalla casa, mi son reso conto che il tempo, a parte i guasti che opera su di noi, non ha molta importanza: l’essere vivi è già di per sé una vittoria. Ma la scomparsa della casa è grave. Se mi è lecito esprimermi così, direi che la casa aveva organizzato lo spazio in un certo modo, aveva disegnato un profilo particolare del cielo, aveva disposto i suoi volumi come elementi del paesaggio, era paesaggio. E ora lì c’era un’altra casa, ornata di marmorino dove la polvere troverà buon alloggio, con vasi appesi alle finestre perché i fiori, laboriosamente, cerchino di onorare la loro natura di piante. Ho visto e sono passato oltre, e non mi sono neppure guardato indietro. Non avevo niente a che vedere con quel che c’era lì: una casa senza passato, che lo avrà, certo, ma che, ritagliato in un altro spazio, non sarà mio. È così che muoiono le infanzie, quando i ritorni non sono più possibili perché i ponti tagliati inclinano verso l’instancabile acqua le travi sconnesse nello spazio estraneo. Non c’è allora altro rimedio che quello del serpente: abbandonare la pelle nella quale non entriamo più, lasciarla a terra, tra i cespugli, e passare all’età successiva. La vita è breve, ma in essa entra più di quel che siamo in grado di vivere. Più tardi, ho sentito il resoconto circostanziato della guerra familiare. Già allora la commozione era svanita nell’abitudine recente di non aver più la Vecchia Casa: ho ascoltato serenamente la lamentevole storia, il gioco delle alleanze interessate, la rabula degli uomini di legge, la chiacchiera calunniosa, le dicerie di piazza. Un caso di ambizione senza grandezza, da cui non si ricava nulla, se non disprezzo e indifferenza. Ma mi sono guadagnato la giornata. Perché a un certo punto, quando il discorso è entrato nei particolari della demolizione (e lì ho tremato: era il mio spazio che scompariva), mi hanno detto che erano arrivate le bondosas. Ho avuto un soprassalto: in una storia senza bontà, che c’entravano le bondosas? E chi erano, queste creature apparse all’ultimo momento a riconciliarmi con la specie umana? Non ci ho messo molto a capire: le bondosas non erano esseri viventi, ma i bulldozer che avevano abbattuto, in tre tempi, le sacre e centenarie pareti della Vecchia Casa, che avevo assunto come pretesto per liriche evocazioni.
Mi sono profondamente rallegrato. Quella gente, di fronte alla parola barbara, aveva dato un’aggiustatina alla fonetica e l’aveva adattata al gusto della lingua. Per i miei conterranei, quelle macchine potenti che con due scossoni buttano giù un muro, scavano fossati, spingono, livellano, aprono vie, sono le bondosas. Ho perso una casa vecchia, ma ho guadagnato una parola nuova. Non è stato un cattivo affare. Le parole Le parole sono buone. Le parole sono cattive. Le parole offendono. Le parole chiedono scusa. Le parole bruciano. Le parole accarezzano. Le parole sono date, scambiate, offerte, vendute e inventate. Le parole sono assenti. Alcune parole ci succhiano, non ci mollano; sono come zecche: si annidano nei libri, nei giornali, negli slogan pubblicitari, nelle didascalie dei film, nelle carte e nei cartelloni. Le parole consigliano, suggeriscono, insinuano, ordinano, impongono, segregano, eliminano. Sono melliflue o aspre. Il mondo gira sulle parole lubrificate con l’olio della pazienza. I cervelli sono pieni di parole che vivono in santa pace con le loro contrarie e nemiche. Per questo le persone fanno il contrario di quel che pensano, credendo di pensare quel che fanno. Ci sono molte parole. E ci sono i discorsi, che sono parole accostate le une alle altre, in equilibrio instabile grazie a una sintassi precaria, fino alla conclusione del “Dissi” o “Ho detto”. Con i discorsi si commemora, si inaugura, si aprono e chiudono riunioni, si lanciano cortine fumogene o si dispongono tende di velluto. Sono brindisi, orazioni, conferenze, dissertazioni. Attraverso i discorsi si trasmettono lodi, ringraziamenti, programmi e fantasie. E poi le parole dei discorsi appaiono allineate su dei fogli, dipinte con inchiostro tipografico – e per questa via entrano nell’immortalità del Verbo. Accanto a Socrate, il presidente dell’assemblea affigge il discorso che ha aperto il rubinetto della fontana. E le parole scorrono, fluide come il “prezioso liquido”. Scorrono interminabili, allagano il pavimento, salgono alle ginocchia, arrivano alla vita, alle spalle, al collo. È il diluvio universale, un coro stonato che sgorga da milioni di bocche. La terra prosegue il suo cammino avvolta in un clamore di pazzi che gridano, che urlano, avvolta anche in un mormorio docile, sereno e conciliatore. C’è di tutto nel coro: tenori e tenori leggeri, bassi, soprani dal do di petto facile, baritoni trasbordanti, mezzocontralti. Negli intervalli, si ode il suggeritore. E tutto ciò stordisce le stelle e perturba le comunicazioni, come le tempeste solari. Perché le parole hanno cessato di comunicare. Ogni parola è detta perché non se ne oda un’altra. La parola, anche quando non afferma, si afferma. La parola non risponde né domanda: accumula. La parola è l’erba fresca e verde che copre la superficie dello stagno. La parola è polvere negli occhi e occhi bucati. La parola non mostra. La parola dissimula.
Per questo urge mondare le parole perchéla semina si muti in raccolto. Perché le parole siano strumento di morte – o di salvezza. Perché la parola valga solo ciò che vale il silenzio dell’atto. C’è anche il silenzio. Il silenzio, per definizione, è ciò che non si ode. Il silenzio ascolta, esamina, osserva, pesa e analizza. Il silenzio è fecondo. Il silenzio è terra nera e fertile, l’humus dell’essere, la tacita melodia sotto la luce solare. Cadono su di esso le parole. Tutte le parole. Quelle buone e quelle cattive. Il grano e il loglio. Ma solo il grano dà il pane. Il cieco dell’organetto Amici, questa storia è vera. Tutte le mie storie sono vere, solo che a volte mi scappa la mano e inserisco nell’arida trama della verità un sottile filo colorato che prende il nome di fantasia, immaginazione o visione duplice. Altre volte, niente di tutto questo, appena il piacere o la convenienza del gioco cifrato. Se oggi apro questa cronaca con una dichiarazione di veridicità, cui manca solo il giuramento e la registrazione notarile, non è tanto perché la storia non mi appartiene (non ho visto né vi ho partecipato), ma per la sua singolarità, in una terra dove non succede niente o dove quel che succede solo raramente è inteso nel suo esatto significato. Come ho detto, non vi ho partecipato. E meno male, perché in tal caso non ci sarebbe storia, o sarebbe diversa: le storie, è bene che si sappia, sono quel che devono essere grazie a chi le vive. Non esistono storie a ufo. E questa, che mi ha raccontato un’amica, più che una storia è il resoconto di una conquista. Di una battaglia contro quegli alti muri che separano gli. esseri. Si immagini una strada. L’ora è mattutina. Il luogo, tranquillo, della provinciale tranquillità che ancora si tiene a galla in questo villaggio di un milione di abitanti che è Lisbona. Le finestre dei palazzi sono chiuse o, se aperte, sono vuoti inespressivi, ciechi. La parola viene a proposito. Perché, lo dice già il titolo, in questa storia c’è un cieco. Ha un organetto, e un accompagnatore che stavolta non canterà. Cosa suonerà il cieco? Un fado? Uno yéyé da strada? Una canzone sentimentale? Niente di tutto questo. L’organetto riempirà la strada di valzer di Strauss. Ma che succede con questo cieco? Che gesti sono i suoi, larghi, vibranti, appassionati? Quale protesta, quale grida, quale forza si vuole esprimere nelle note iniziali di un valzer? C’è gente alle finestre. Il cieco, rapito, alza lo strumento come un vessillo. E la via si riempie di musica. I suoni precipitano, si accavallano, prendono il volo come stormi di uccelli impazziti, irrompono tra i palazzi e si liberano nell’azzurro dove tutte le note musicali e tutte le parole giuste dovrebbero essere tetto e riparo per gli uomini. Il valzer finisce. È il momento dell’elemosina. Questo giorno sarà come tutti gli altri. Ma “le storie sono quel che devono essere grazie a chi le vive”. D’improvviso, si odono degli applausi. Il cieco alza gli occhi smarriti. Che
succede? E che voce è questa che grida strozzata dalla commozione: “Lei è un artista!” Non si può reggere a un colpo simile. Insopportabile. Il cieco, un uomo grande, robusto, quadrato – impallidisce. Barcolla, come se tutta la sua forza svanisse nelle lacrime che ora gli cadono sul viso marcato e duro. Questo giorno è prezioso. Di colpo, è crollato ogni muro, si sono abbassati i ponti levatoi, le persone vanno l’una incontro all’altra a braccia aperte. Si metta un sassolino bianco su questo giorno. Si innalzi una bandiera nel luogo dove, per un breve minuto, un semplice uomo è stato un uomo felice. Se qualcuno leggerà questa storia al cieco dell’organetto, gli porti anche i saluti dell’amica che me l’ha raccontata. Gli occhi di pietra Mi è sempre parso che scolpire la pietra fosse opera di magia. So bene che tutto dipende dall’inclinazione con cui si nasce, dal gusto di maneggiare e di lottare con la materia bruta. Non è questo dunque che turba la mia tranquillità. Sono capace di guardare una statua nella più perfetta pace di spirito, senza che la contemplazione susciti in me altri trasalimenti se non le cosiddette emozioni estetiche. La cosa peggiore sono gli occhi. Non so quando, né dove, né perché, mi è entrata nell’animo la superstizione che gli occhi delle statue vedano. A nulla serve chiedere aiuto al buonsenso. La realtà è davanti a me: una figura di pietra è una figura di carne pietrificata. Si è immobilizzata in un certo movimento, in una certa posizione, non parla, non respira – ma vede. Non ha neppure bisogno che le disegnino nei globi oculari il cerchio della pupilla. Anche lisci, nudi, essi guardano, implacabilmente. Non sopporto lo sguardo di una statua. E mi rifiuterò sempre di essere presente quando lo scalpello dello scultore si fa strada verso l’ultimo velo, verso il punto dove gli occhi della statua si apriranno. So che soffrirei il timore di un gesto precipitoso che svuotasse gli occhi della pietra. Fantasie? Non si sa mai. C’è a Lisbona un piccolo giardino privato (giardino? Piuttosto venti palmi quadrati di aiuole verdi di umidità tra due muri sudici) dove per molti anni una statua di donna, del peggior gusto accademico, ha sollevato il viso verso tutti i colori e tutti i mutamenti del cielo e del fiume. La pietra non deve essere stata ben scelta: il volto della statua era corroso dal tempo, aspro, con macchie di licheni e funghi. Naturalmente, gli occhi non erano rimasti intatti, ma, profondi e aridi sotto l’arcata della fronte, conservavano una durezza di diamante opaco, se ne esistono. Il sole vi batteva in pieno, veniva il freddo, la pioggia le scorreva dai capelli, gocciava dagli occhi. Ogni giorno più corrosa, la statua puntava verso il fiume la freccia di uno sguardo interminabile. E io, nelle ore di minor coraggio, cambiavo strada, passavo al largo. Un giorno (c’è sempre un giorno, anche nelle storie non inventate), della statua rimase solo il piedistallo, uno zoccolo la cui parte superiore appariva sorprendentemente bianca, mentre il giardino, libero della presenza
che lo rendeva insignificante e misero, acquistava una nuova dimensione. Che cosa era accaduto alla donna di pietra? Era stata venduta? Era caduta dal piedistallo? Se ne era andata sulle sue gambe, con il favore della notte? Si era gettata nel fiume? O, più modestamente, si sta coprendo di polvere e di ragnatele in qualche baracca lì intorno? Va a sapere. Va a sapere, per esempio, la ragione del mio sospiro di sollievo. Va a sapere, ora, il motivo di questa nuova inquietudine che d’improvviso mi assale. Da qualche parte, non so dove, gli occhi di pietra stanno vedendo (chissà?) tutte le cose che ai nostri occhi di uomini piacerebbe vedere e apprendere: il reale valore del tempo e di ciò che vi è contenuto, la serenità di sapersi transitori e sorriderne – e anche il coraggio di essere fermi nel tempo dell’inconsistenza. Ma forse, per fare ciò, bisogna essere di pietra. O avere occhi di pietra. O essere occhi di pietra. A volte il mattino aiuta Da tempo sto pensando di scrivere una cronaca che avrebbe per titolo: “Non sempre il mattino aiuta”. E ho persino l’inizio appuntato su un foglio, finito da qualche parte sulla scrivania. Comincia così: “Uscire di casa, imbattersi nella faccia del sole (anticamente, lo raffiguravano così, con un largo sorriso e occhi allegri, e una chioma di raggi splendenti), sarebbe da cadere in ginocchio, offrire qualcosa al culto pagano della luce e sentir poi di aver conquistato il mondo. Ma tutti abbiamo altro da fare”. E proseguirebbe sullo stesso tono, scivolando verso la malinconia, giustificando il titolo, insomma. Qualcosa mi ha impedito di continuare. E oggi so che non concluderò una prosa che certamente non andrebbe a genio al lettore. Il fatto è che, senza sperarci, mi è tornato in mente un caso avvenuto tra due uomini, un caso che prova come a volte il mattino invece aiuta. Ed ecco la storia. Immagini il lettore la carrozza di un treno. Piena. La giornata non è né brutta né bella: c’è un po’ di sole, qualche nuvola che lo copre, e una brezza pungente là fuori. I passeggeri sono silenziosi, fanno tutti gli stessi gesti involontari, a seconda degli scossoni. Alcuni leggono il giornale, altri si estraniano per un paese silenzioso abitato solo da pensieri oscuri e indefiniti. C’è una grande indifferenza nell’aria, e il sole, scoprendosi, illumina una platea di volti spenti. Allora l’uomo più giovane (non è certo un adolescente), che è seduto accanto al finestrino, comincia a canticchiare in sordina una vaga canzone. Forse non ha un particolare motivo di contentezza, ma a quell’ora il bisogno di cantare è irresistibile. Tutto quel che gli torna alla memoria serve. Ed è così assorto nella sua pura e gratuita allegria da non accorgersi neppure che il suo vicino di posto si mostra irritato e fa quei gesti eloquenti che sostituiscono le parole quando non si ha il coraggio di dirle. Davanti all’uomo che canta, c’è il vecchio. Da quando è uscito di casa, va ruminando pensieri che lo tormentano. È molto vecchio e malato. Ha
dormito male. Sa che lo aspetta una giornata difficile. E dietro di lui una voce snocciola canzoni, tralalàlalà, note di musica, in modo impreciso – ma ostinatamente vivace e assertivo. Il sole continua a giocare a nascondino. E il mare, che appare d’improvviso, si popola di isole d’ombra tra grandi laghi d’argento fuso. Lontano, la città si diluisce in fumo e nebbia secca. Silenziosa, a quella distanza, ha un’aria di fatale rassegnazione, come un corpo che ha ceduto e lentamente si estingua. C’è il grande pericolo che la malinconia trionfi definitivamente. Ma l’uomo insiste. Ormai non è possibile distinguere quel che canta. Gli esce dalla bocca un flusso di armonia, un linguaggio che ha desistito da ogni articolazione coerente per meglio impregnarsi della sostanza della musica. Finirà certo in un grido irrefrenabile di allegria, con indignazione e scandalo dei viaggiatori. Succede però che arrivi di colpo la città. Si aprono le porte, le persone si precipitano, spingono, si dimenticano l’una dell’altra. L’uomo si alza, ancora sussurrando. Avanza lungo la banchina, verso la sua vita, con la sua musica. Ed è allora che qualcuno lo afferra per un braccio. Il vecchio è accanto a lui, si direbbe che ha gli occhi umidi, e mormora: “Grazie. Ero preoccupato e triste. Quando l’ho sentita cantare, ho provato una grande pace, e per tutto il tempo ho sperato che non smettesse. Molte grazie”. L’uomo delle canzoni ha sorriso, prima imbarazzato, poi come se fosse un signore del mondo. Si sono separati. Ciascuno per la sua strada, con la musica che era di entrambi. Le tre del mattino Le tre del mattino: dov’è Lisbona? Questo spazio battuto dal vento, illuminato da fantasmi di lampioni, deserto da un capo all’altro – è ancora il Rossio? E questo lastricato liscio, dove i passi risuonano come all’interno di una caverna, che c’entra con la distesa da fiera della luce diurna? Da qualche parte, mentre scendevo per Rua do Carino, una finestra sbatteva e rintronava il budello della strada. E all’imbocco della piazza un mulinello sollevava in aria foglie e cartacce, mentre al centro un piccolo folletto invisibile (così almeno mi hanno detto) ripeteva giochi di un’infanzia mai vissuta. Lisbona dorme. Dorme profondamente. Tutte queste finestre chiuse proteggono l’oscurità delle case. E li dentro vivono gli uomini e le donne di questa città, più i vaghi personaggi dei sogni e degli incubi. Al di sopra dei tetti, v’è un incessante mutare di figure e immagini. Lisbona è una rete di trasmigrazioni. Nessuno è sicuro dentro il proprio corpo. In un punto della città, qualcuno che dorme chiama un altro che dorme, e questa atmosfera che si muove nel vento freddo è tutta attraversata da appelli urgenti. Si aprono le pareti di questo dormitorio di un milione di anime, lunga infermeria o camerata moltiplicata all’infinito per un effetto di specchi. E le
figure dei sogni si uniscono agli uomini addormentati, e Lisbona mi appare irreale, come sospesa tra l’essere e il non essere più. Senza il prestigio della luce, i manichini appaiono scialbi, quasi evanescenti sotto gli abiti e gli ornamenti. Tutto sembra insignificante e falso. Tra il vetro e il diamante non c’è differenza, e i profumi sono liquidi inerti che non si risveglieranno mai alla vita degli aromi. Dorme molto la città. Parlo e ascolto, e queste voci sono, fra tutte, le uniche che hanno resistito alla letargia. Ora rifiutiamo la porta falsa del sogno – e camminiamo per strade d’improvviso interminabili, dove solo i nostri passi ricostituiscono Lisbona, purezza trasparente e quasi angustiante del paradiso perduto e ritrovato, ritrovato e perduto, in quest’ora così breve che non potremo trattenere, ma che non si perderà (che non si perderà) mai. Le tre del mattino, forse le quattro. Il giorno non tarderà a spuntare. La notte dura ancora, ma v’è già in essa un sospetto di mattino. Sul fiume comincerà a nascere quel biancore indeciso che precede il sole. L’aria si è fatta più fredda. Da qui si vedono le stelle. Come brillano, nitide, dure e, per noi, eterne. Dorme ancora la città. Il fiume passa, scuro e profondo, vivo e profanato, con rapidi scintillii in superficie, come teste luminose di un cristallo nero. Sulla muraglia di pietra che difende la città, le nostre mani sorreggono ardentemente il mondo. Speculando sul sisma Mi perdonerà il lettore se ogni tanto mi lascio scivolare lungo i declivi di facili filosofie. Freno più che posso per non precipitare nel tono di pretenziosa gravità, che è, a mio avviso, il peggior nemico di una convivenza pacifica. Preferisco questa corda complice, tra cronista e lettore che la vita un po’ la conoscono e, proprio per questo, non si prendono troppo sul serio. Ciò viene a proposito, anche se non sembra, della scossa di terremoto che ha spaventato tutti e qualcuno lo ha ucciso. Ci sono rovine, piccoli avvisi di quel che avrebbe potuto essere. E qui cadrebbe a fagiolo la risaputa aria sulla precarietà della vita umana, sulla fragilità di questo mondo, l’allusione fatalista al vecchissimo Salomone: “Vanità delle vanità...”, ecc., ecc. Non ne vale la pena. Conoscevamo già tutto prima, anche quando sembrava che non ce lo ricordassimo. Nel profondo sappiamo che la vita (questa nostra vita) è, come si dice correntemente, appesa a un filo. Ma poi i giorni passano, passano gli anni, la terra obbediente fa il suo giro e noi finiamo col credere di aver afferrato qualche briciola dei manicaretti dell’eternità. È questo che ci aiuta: così, andiamo facendo progetti per il domani, per l’estate ancora lontana. Fino a che venti o trenta secondi di scosse (e che sono trenta secondi?) ci mostrano quanto poco significhiamo. Qualche milione di animali spaventati, con l’anima tremante come il mondo che ci sfugge sotto i piedi. Tutto finirà, sta finendo, ormai è finito. Ma la terra torna alla serenità, si
finge solida e sicura, giovinetta di buone maniere, e allora quell’irresistibile desiderio di continuare a vivere raccoglie i pezzi (i nostri e quelli delle cose) e li ricompone, gli dà senso e persistenza. Abbiamo vinto la partita: non abbiamo sconfitto il terremoto, ma abbiamo sconfitto la paura, non le abbiamo permesso di mettere radici nell’animo che si è spaventato – e che si spaventerà ancora. Non so che cosa unisca di più, se le grandi catastrofi o le grandi gioie. Le catastrofi sono una buona marea per far venire a galla l’istinto di conservazione, l’egoismo istintivo (le gioie, a pensarci bene, hanno anch’esse i loro peccati). Ma almeno, dopo una catastrofe, quando ci ritroviamo alla luce del giorno, ancora non del tutto ripresi dallo spavénto, forse vergognosi delle fughe dissennate, della ferocia del “si salvi chi può” – ci guardiamo l’un l’altro negli occhi e ci vediamo uguali, un po’ fratelli e amici. Perciò parliamo tanto di quel che ci è accaduto, con questo, con quello, con lo sconosciuto che ci è capitato davanti per caso. C’è un bisogno impellente di abbandonarci, di comunicare, come se tutti insieme acquistassimo forza per far fronte a quel che ancora potrebbe succedere. Tutti insieme – ecco il fiore di questo piccolo arbusto che è la cronaca. Di colpo, le persone vogliono delle soluzioni, si afferra il terremoto con entrambe le mani, virilmente. Stavolta è così. Non abbiamo vinto la paura, ma abbiamo guadagnato solidarietà. Siamo un blocco saldo, senza crepe. Un progetto in atto che ha fatto marcia indietro e si è installato nel giorno di oggi. Non siamo in salvo da una catastrofe futura (nessuno lo è), ma abbiamo imparato la lezione: ora tutto sarà fatto per proteggere tutti. Potremo restare sepolti sotto le macerie, ma non per incuria, non per indifferenza. Avremo fatto tutto quello che era alla portata delle nostre piccole forze umane. Mi perdonerà il lettore se mi son lasciato scivolare lungo il declivio delle utopie. L’uomo ha la memoria corta. Una giornata di sole basta per far dimenticare tutto, il pavimento solido della strada smentisce la paura. Ciascuno per sé, nessuno per tutti, e il vicino ha una faccia sgradevole che decisamente non quadra con le mie esigenze. Fino al prossimo terremoto. Il vestito rivoltato Incorreggibile fabbricante di illusioni, l’uomo (io, tu, lui) non lo è mai tanto come l’ultimo giorno dell’anno. Indifferente come quasi sempre, l’orologio batte i dodici rintocchi. Si ascolta in silenzio, con attenzione e riverenza. Milioni e milioni di persone sospendono ogni occupazione (grave o spensierata) per ascoltare la risultante sonora di un meccanismo cieco. Mentre l’orologio scocca questi dodici colpi (e ciò richiede ben un minuto, dunque nessuno saprà mai quando l’anno è realmente cominciato), le nazioni si trasformano in giganteschi tribunali della coscienza. Se il mondo
finisse in quelle poche decine di secondi, non ci sarebbe posto in paradiso per tanti angeli e santi – ai quali non hanno dato il tempo di diventarlo. È la storia del vestito rivoltato. Con l’uso, ci si stanca del modello e del colore della stoffa, che appare sospettosamente lucida nei fondelli e nei gomiti. Cominciamo a fare brutta figura in società (che è impietosa e non perdona certe cose), e allora, siccome i soldi non bastano per comprare un vestito nuovo, portiamo il capo dal sarto il quale, in tre tempi e tre imbastiture, ci riconsegna un indumento che a prima vista sembra proprio nuovo di zecca. Guardandolo meglio, si scopre però che le asole sono state cucite, che il rovescio, alla fine, non differisce molto dal dritto. Ad ogni modo, per qualche giorno la società ci degna di sguardi di maggior considerazione. E cos’altro serve per essere felici? Dunque, l’ultimo giorno dell’anno rivoltiamo i vestiti. È un frenetico lavorio di ago e forbici che spaventerebbe se non avvenisse tutto nell’intimo del soggetto. Il bugiardo si fa veritiero, l’ipocrita sincero, il volubile scopre che la costanza è virtù che gli si addice, l’invidioso promette di applaudire, l’avaro comincia a metter mano ai cordoni della borsa. Insomma, ciò che è turpe, dannoso, pregiudizievole, nocivo si ricrede e si pente. Ha inizio la fraternità universale. Ed è cosa tanto sicura che anche i calendari designano così il primo giorno di gennaio. Ah, illusioni, illusioni, che così poco durate. I buoni propositi della notte non resistono al giorno dopo, alla sua luce demistificatrice: l’autobus in ritardo, la pioggia che entra nelle scarpe estive usate d’inverno, lo scontro con qualcuno che ha fatto, anche lui, grandi promesse ma non è in grado di mantenerle. Il giorno dopo è ironico e autentico: arriva con le bilance di precisione dove saranno pesate le intenzioni, e siccome le virtù per le quali abbiamo optato (nella misura delle nostre capacità) non arrivano a equilibrare la fedeltà, fedelmente torniamo a essere quel che eravamo, quel che non avevamo mai cessato di essere. E a questo non v’è rimedio? Ebbene, purtroppo non c’è. La natura umana è proprio così e l’uomo è lupo dell’uomo, dichiara il mio barbiere, che ha uno spirito affilato come il rasoio con cui mi sbarba. Ma non sarà possibile?, insiste questa ingenuità congenita che mi ha provocato parecchi dispiaceri. Possibile, possibile, forse, è quel che risponde il figaro dando energiche e rapide sforbiciate nell’aria. Ma ci vorrebbe un mondo diverso: Primo, che tutti i giorni fossero l’ultimo dell’anno, per non dar tempo alle promesse di raffreddarsi. Poi, e qui sta la difficoltà più grande, che la verità fosse lucrativa come la menzogna, la sincerità desse più proventi dell’ipocrisia. E così via, ribaltando tutto. Sprofondo nella sedia, sconfortato. Mi credevo con un barbiere e salta fuori un profeta, un Elia. Quando finalmente mi ritrovo per strada, respiro. Frugo dentro di me e vi trovo tutti i difetti. Non mi manca niente. Neppure la frase che lancio alla donna che chiede l’elemosina: “Abbia pazienza!” Perché
la pazienza è anch’essa una virtù, come tutti noi abbiamo appreso e non dimentichiamo. Giardino d’inverno Se avessi visto prima il giardino, non lo avrei attraversato. Ma quando me ne accorsi, ero già sul primo viale, sotto il grande albero, i cui rami orizzontali, ad altezza d’uomo, sembravano serrarsi d’improvviso come una trappola. Mi fermai, inquieto: davanti a me c’era un paese sconosciuto. Li accanto, una piccola fontana lanciava in aria un getto tremulo e stanco. La siepe che la cingeva, a semicerchio, creava uno spazio misterioso, di minaccia, come lo sono le radure dei boschi, illuminate da una luce che non si sa da dove venga, e dove c’è sempre una tensione d’attesa, di qualcosa che si avvicina o sta per accadere. Le panchine del giardino, verdi e consunte, reclinavano su un sostegno invisibile e brillavano come bisce d’acqua. Era piovuto da poco. Nei canali di scolo scorreva ancora l’acqua, senza rumore, e sull’asfalto dei viali si allargavano piccoli specchi liquidi che non riflettevano nulla. Le aiole, circondate di erbacce, mostravano la terra nera, che già in superficie appariva profonda e sempre più nera. E gli alberi sbucavano dal suolo viscosi fino alle prime radici, coperte e mangiate dal muschio. Era questo l’inverno: un giardino silenzioso ed ermo, sotto una cupola di vetro opaco, grigio, del colore dell’atmosfera. Ai quattro lati del giardino, il transito era un corteo di fantasmi senza peso, una processione d’ombre. Si riaffacciò lentamente il mio vecchio incubo dell’infanzia, avvolto in nebbie che non erano solo della memoria. Di nuovo mi compariva la città deserta, di case disabitate, le lunghe strade invase dall’erba e, soprattutto, il lento depositarsi della polvere, la fanghiglia dispersa e anarchica, i rifiuti che si moltiplicano e offendono. Avanzai nel giardino. Il grande lago sembrava piombo, non fuso, ma duro, solido, rugoso, con venature brillanti in superficie. Dentro, navigando con difficoltà, scuri pesci oscillavano nello spessore dell’acqua. Cominciò a piovere – e il giardino divenne ancora più abbandonato. Il lago si coprì di piccoli e molteplici crateri, e i pesci scomparvero. Sotto la pioggia il giardino si fece d’improvviso più grande. Potevo mettermi a correre, ma pensai che nella precipitazione della corsa, della fuga, ci fosse un che di sacrilego. L’ora plumbea esigeva movimenti lenti, un atteggiamento di rispetto dinanzi all’indefinibile malinconia che pesava sul giardino. Di questa sostanza siamo fatti o ci riconosciamo quando ci lasciamo prendere da certi scrupoli, da certi pudori, da certe delicatezze per cui perfino un giardino d’inverno non può essere offeso – anche se cade la pioggia, aspra e aggressiva. Che del resto smise di colpo, come era cominciata. Ripresi a camminare, sotto gli alberi. Fu allora che vidi un uomo. Era seduto sull’orlo di una panchina. Vestiva un mantello nero e lucido, di pelle di foca. Aveva le mani in tasca, le ginocchia strette come se si
difendesse dal freddo. Senza cappello. L’acqua gli scorreva dai capelli, scivolava sul viso ossuto e segnato. Mi piazzai davanti a lui. Non dava segni di malattia, né di malessere, neppure di tristezza. Gli occhi fissi, non batteva ciglio. Non mi vedeva, continuò a non vedermi quando deliberatamente mi spostai in quello che ritenni fosse il suo campo visivo. Gli occhi continuavano a superare la stessa distanza. Mi voltai indietro: volevo cogliere, sorprendere l’immagine che lui aveva scelto. Vidi l’imbocco vuoto di una strada, il cielo smorto in fondo – il nulla. Lo guardai di nuovo. Il volto di pietra sembrava ora carico di malevolenza, di odio. E anche di una solitudine senza disperazione, inumana. Indietreggiai di qualche passo. L’uomo raccolse lo sguardo, lo portò più vicino, me lo rivolse, mi ferì con esso. Allo stesso tempo gli si aprì la bocca in un sorriso morso da denti aguzzi. Cominciò ad alzarsi, ed era alto, alto, e non finiva più di crescere, e le pieghe del mantello si allungavano interminabilmente. Arretrai, spaventato. Davanti a me, grazie alla diversa prospettiva, c’era la pacifica statua di un uomo celebre. Con la data di nascita e la data di morte. E un’iscrizione laudatoria. Il cielo allora si scoprì un po’ come di proposito e la luce sovrannaturale del crepuscolo passò sopra gli alberi. Propongo che si verifichi quanto accade in quel giardino. La primavera non tarda, non tardano i bambini e i fiori. E anche gli innamorati, che vengono qui a inventare l’amore. Basta con i fantasmi, ormai è tempo di sole. Discorso contro il lirismo Signori, prendo la parola per dovere di coscienza e chiedo tutta la vostra attenzione perché dirò cose molto serie. Penso sia arrivato il momento di. definire le posizioni, di prendere partito pro o contro, affinché siano ben distinti i campi e ciascuno di noi conosca il posto che occupa. È imperioso. È urgente. È indifferibile. E spero fermamente che usciremo da qui più sicuri delle nostre certezze e sapendo, una volta per tutte, dove sono e chi sono i nostri avversari. Circola, con inattesa reviviscenza, contrariando e minando i nostri sforzi per l’obiettività e la freddezza, senza le quali nulla di utile può essere costruito, un’antica malattia che molto male ha fatto al mondo in tempi passati. Parlo del lirismo. Affermo che è una dottrina perniciosa. E perniciosi sono i suoi propagatori, soggetti malatissimi, intossicati, veri focolai ambulanti di infezione. Definiscono se stessi poeti. Ed è questo il nome che anche noi diamo loro, ma per fortuna riusciamo, con un disciplinato lavoro delle corde vocali, coadiuvato da una certa espressione del volto, a trasformare questa parola in ingiuria. Che essi meritano, sia detto per inciso. Chiedo di nuovo la vostra attenzione. Non mi piace che vi distraiate solo perché fuori c’è un bel sole e un piccione sta svolazzando. I piccioni, l’ho
detto tante volte, sono più nocivi di quanto si creda. All’estero, lo hanno riconosciuto. E sono stati presi provvedimenti adeguati per la salvaguardia dei monumenti e della salute pubblica. Ma torniamo ai poeti, ora che l’usciere di questa società ha chiuso le finestre. I poeti dovrebbero essere eliminati, puramente e semplicemente. Si impongono atteggiamenti drastici, radicali, che non lascino pietra su pietra, o meglio, verso su verso. Questa gente va distribuendo fogli su cui compaiono certe parole che dovrebbero essere cancellate dai dizionari. Ne citerò qualcuna, anche se la mia formazione spirituale si ribella alla violenza cui mi costringo per dovere di obiettività. Amore, speranza, nostalgia, rosa, mare – eccole alcune di queste parole. Un piccolo campionario di un vocabolario decadente, inopportuno, direi addirittura sovversivo. Come se non bastasse, i poeti (avete notato il modo in cui ho articolato la parola?) traggono dalla loro maliziosa attività un non so che di insopportabile arroganza, un olimpico sdegno che ci fa fremere di indignazione. Alcuni si celano dietro una coltre di modestia e di umiltà, che a prima vista inganna. Sono i peggiori. Con la loro aria mansueta che, dicono loro, gli viene da una particolare conoscenza del mondo, lusingano alcuni dei nostri migliori elementi, li pervertono, li sviano dalle funzioni essenziali. Affermano di sapere qualcosa anche sulle funzioni essenziali. Diffidate, amici. Tra noi e loro non v’è nulla di comune. Il poeta è il nostro principale nemico. Solo quando riusciremo a estirpare questa lebbra dalla faccia della terra potremo vivere in pace. So che mi state ascoltando con attenzione, che ogni parola che pronuncio rafforza la nostra unione, ma non posso fare a meno di notare una certa (come dire?), una certa irrequietezza in sala. Non riesco a capire l’atteggiamento di alcuni presenti che seguono con gli occhi il fumo delle sigarette. O è distrazione, o perversione, o nessun rispetto per il conferenziere. Comunque sia, è deplorevole. Così come non capisco che interesse trovino nella bottiglia dell’acqua. Io non ci vedo altro che effetti di luce, rifrazioni luminose, fenomeni spiegati da un qualsiasi manuale di fisica elementare. E dichiaro che mi sta irritando quel coro di uccelli (o saranno bambini?) che viene da là fuori. E a quel signore, li in fondo, che gli è preso che si mette a sorridere? E lei, si, lei, perché si alza e va ad aprire la finestra? Perché questo sole? E il verde di questi alberi? E perché non stanno zitti i bambini? O saranno uccelli? Signori, mi sento profondamente disgustato. La seduta è tolta. Ho detto. La bambina e l’altalena Accompagnarono la bambina all’altalena e la lasciarono sola. Non era uno di quei comuni giochi da giardino, dalla solida armatura di ferro e dalla breve oscillazione pendolare. Aveva due corde altissime che si perdevano nelle nuvole e su di esse si avviluppavano rampicanti fioriti. C’erano sempre
fiori che si aprivano e altri che appassivano, sicché le corde sembravano vivere. Il sedile era una tavola d’oro e poiché era alto vi si saliva per quaranta gradini di spuma. Intorno, c’era molto silenzio e un cerchio ininterrotto di uccelli bianchi. La bambina cominciò a salire la scala, gradino dopo gradino, e quando arrivò all’ultimo e afferrò le corde, vi fu una grande vibrazione musicale. Si sedette sulla tavola d’oro, e nel medesimo istante i gradini scomparvero in grandi fiocchi che un vento spinse lontano, mentre gli uccelli scendevano a terra trasformandosi in parole di commiato. La bambina si guardò attorno: l’orizzonte era, come al solito, circolare, e a distanza si vedevano vaghe città che crescevano lentamente e a volte scomparivano: perché il tempo, lassù sull’altalena, aveva un’altra dimensione e i secoli duravano minuti. È un grande mistero inspiegabile. Le altalene sono fatte per dondolare. Piano piano la bambina cominciò a oscillare, un po’ stordita a causa dell’altezza. Era sospesa tra cielo e terra, appena con una tavola d’oro e due corde che nessuno sapeva dove si agganciassero. Lentamente, l’arco si fece più grande, e la bambina contribuiva con quei movimenti che tutti i bambini apprendono, o già sanno, quando salgono su un’altalena. Ora la vertigine dell’altezza era scomparsa, sostituita dalla confusa sensazione di paura e di vittoria che accompagna il corpo proiettato in aria. Quando la bambina era lanciata in alto, vedeva solo il cielo, profondo e azzurro: gridava di allegria e di stupore, anche di paura. Poi, arrivata alla fine della spinta, cadeva dall’alto, descriveva una lunga curva, ed era la terra ad apparire ai suoi occhi, verde e gialla, e nera, e azzurra, perché da lassù si vedeva molto bene il mare. E in quell’andare e venire la tavola d’oro sfavillava, e i capelli della bambina, sciolti e fulvi, erano come una bandiera o una fiaccola. E la bambina rideva perché erano suoi il cielo e la terra, ora l’uno, ora l’altra, e perché era seduta su un’altalena con le corde fiorite, sebbene, come si è detto, alcuni fiori appassissero e si staccassero: cadevano in spirale come se scendessero una lunga scala verso le profondità del suolo. E ogni volta ne cadevano di più, tanto che alla fine le corde restarono nude e lisce. Al tempo stesso, il movimento dell’altalena andò facendosi più breve, finché le corde divennero due colonne rigide, verticali, definitivamente immobili. La bambina téntò ancora di muoverle, fece tutti i gesti necessari: impossibile. Una densa nebbia cominciò a salire dal suolo. Dietro di essa, si nascosero le città, e i campi, e il mare. Non c’era più cielo azzurro, tutto era una spessa e umida nuvola attraversata da mormorii e antiche voci. La bambina tremava di freddo. Non aveva paura, solo freddo. Tese i piedi in cerca dei gradini, e non c’erano gradini. Allora si lasciò scivolare dalla sua tavola d’oro e cadde. Cadde lentamente, come nei sogni, un po’ triste e stanca. Quando arrivò a terra, rimase raggomitolata come un animaletto o il guscio di un frutto. La nebbia cominciò piano piano a dissiparsi, rotolando in
volute sfrangiate, attraversate da raggi di sole. E d’improvviso scomparve. La bambina guardò in su. L’altalena era lì, molto più in alto di prima, con la sua tavola d’oro e le corde fiorite. Ma non c’erano scalini. Allora la bambina si sedette e attese. Accanto a lei una rosa si apriva con la pazienza del tempo ritrovato. La bambina accostò il viso al fiore terrestre e così restò, aspettando che venissero a cercarla: perché era bambina e aveva nostalgia di un’altra mano nella sua. L’isola deserta Per essermi mostrato troppo esigente con il comandante della nave che mi trasportava fui sbarcato su un’isola deserta. Mi dettero cibo per quindici giorni o quindici anni (non sono mai riuscito ad appurarlo con certezza), armi e munizioni (bombe atomiche incluse), e tra i passatempi della nave mi consentirono di prendere un libro e un disco. Scelsi il Don Chisciotte e l’Orfeo. Converrà spiegarne il perché. Avrei vissuto solo, e in pace, se possibile. Avrei avuto molto lavoro e poche distrazioni. Dunque, quale migliore libro del Don Chisciotte, che fa ridere e ha una Dulcinea inesistente, e dell’Orfeo, che fa piangere e ha un’Euridice morta? Con questa deliberata assenza avrei popolato le mie interminabili notti. Vissi così sull’isola deserta. Non so quanto, ma fu più di quindici giorni e meno di quindici anni. Non arrivai a percorrere tutta l’isola, ma so che era deserta, altrimenti non mi ci avrebbero sbarcato. Persi la parola per l’abitudine di non parlare, e con ciò regalai al mondo un po’ di silenzio. Oltre al canto degli uccelli e al ruggito di una bestia feroce (non la vidi mai, ma dal ruggito era sicuramente feroce) non si udiva sull’isola altro che gli appelli disperati di Orfeo e le risate di Sancio Panza. Don Chisciotte, lui, passeggiava tutte le mattine lungo la spiaggia odorosa di alghe e di sale, sempre più magro, a cavallo delle ossa di Ronzinante. Di notte saliva su un’alta roccia e se ne stava a contare le stelle. Infilato al braccio sinistro teneva l’elmo di Mambrino, girato al contrario per offrire un rifugio al piccolo uccello che vi si era abituato a dormire. Con la lancia nella destra, Don Chisciotte vegliava sul sonno dell’uccellino. Ogni tanto mandava un sospiro. Non riuscii a chiedergli per quale ragione sospirasse, perché nel frattempo ero arrivato alla fine del libro. Vivemmo tutti e quattro in buona pace sull’isola deserta. Un giorno si arenò sulla costa una grande cassa. Mentre l’aprivo, si raccolsero attorno a me i miei compagni. Non vi restarono a lungo: videro subito che dentro non c’era né Euridice, né Dulcinea, e neppure una botticella di vino. Ciascuno tornò alla sua vita, mentre io mi scervellavo per capire che cosa fosse quella roba. Aveva luci che si accendevano e si spegnevano e sembrava respirare. Solo più tardi, quando la vita sull’isola cominciò a modificarsi, scoprii che si trattava di un computer, cervello elettronico o qualcosa di simile. Onnisciente, non io, la macchina, è chiaro. Era comunque una compagnia. Il peggio fu che la nostra bella anarchia finì. Orfeo poteva piangere solo in
certe ore, l’uccellino di Don Chisciotte fu accusato di trasmettere la psittacosi (e non era un pappagallo, lo giuro), e Sancio Panza dovette mettere da parte i proverbi e imparare l’inglese. In un certo senso, da questi e da altri cambiamenti traemmo giovamento, ma si insinuò in tutti noi un’inquietudine che era quasi una malattia e che il computer non seppe curare. Fu questa, se ben ricordo, la sua unica dimostrazione di ignoranza. Quel che il computer fece di me non è bello dirlo. Mi provò che mi ero ingannato su tutto quel che era stata la mia ragione d’essere e di sentire. Che, al contrario, il comandante della nave aveva avuto mille motivi per sbarcarmi, e che l’isola deserta non era tale perché lui, computer, stava lì. Che l’uomo (l’uomo in generale, e io in particolare) è solo un bell’aneddoto anche quando (o soprattutto quando) piange, soffre, ride o sogna. Di modo che morii. Il computer sta ancora li. Ma io ho grandi speranze. Se Dulcinea prende corpo ed Euridice risuscita, questo mondo forse può ancora diventare abitabile. La vita sospesa Immagini il lettore di essere posto, in virtù e per opera di quelle droghe che la chimica quotidianamente sforna, in stato di vita sospesa, ossia, di morte rinviata. Sarebbe vivo, ma immobile. Tutte le funzioni del corpo ridotte a zero, ogni bisogno abolito. Né fame, né sete, né freddo, né caldo. Nulla. Per tutto il tempo di durata della droga, sarebbe come se al lettore fosse stata concessa l’eternità. Finché non sarà restituito alla vita, è un essere eterno. Sembra un paradosso, ma non lo è. Le droghe hanno di questi effetti, anche quando non vanno oltre i domestici e benigni (o maligni) vizi che sono l’alcol, il tabacco, il gioco, a cui aggiungo un ecc., dove possono entrare tutte le sue predilezioni inconfessate. Abbiamo dunque il lettore in stato di vita sospesa. Lo hanno dotato di ogni conforto, il che, del resto, gli è indifferente perché non avvertirà né crampi né nausee. Iniettandogli la droga, lo hanno liberato da un’infinità di piccoli e grandi problemi che gli rendevano la vita un inferno. Lo hanno ritirato dal mondo, pur lasciandovelo. Nessuno lo piange, perché è vivo. Non c’è nulla che lo affligga. Nulla. Eccetto il pensiero. Qui, la chimica ha fallito. Il lettore continua a pensare. All’inizio può succedergli, se è ottimista, di trovare piacevole quel che gli è capitato. Gli sembrerà perfino una gran fortuna. Non ha inquietudini e gli è stato concesso il privilegio di assaporare la consapevolezza di non averne. Dal fondo del suo silenzio sorride beato (o pensa di sorridere) e si dispone a godersi la situazione. E se il lettore è intelligente (ogni lettore è, per definizione, intelligente), scopre di avere un’eccellente opportunità di raggiungere, attraverso il puro pensiero, chissà quali altezze o illuminazioni. Si dice anche che il digiuno risvegli il cervello e gli metta le ali – sempre che, naturalmente, non si prolunghi fin dove le ali (che sono macchine per volare) ormai non reggono più il volo.
Perché questo è il punto. A un certo momento (più presto o più tardi, dipende dalla debolezza o dall’intensità del legame alla sua vita anteriore) il lettore scopre che gli duole il pensiero. Ha risolto tutto, sa tutto, conosce le finalità ultime, ha in testa la spiegazione di ogni dubbio, le risposte a ogni domanda. Dovrebbe aver raggiunto la pace. Ma il pensiero gli duole. E l’angoscia, di cui credeva essersi liberato per sempre, si installa nel suo corpo tranquillo, sereno, intatto. D’improvviso, il pensiero vuole avere mani e piedi, vuole amare e odiare, vuole soffrire e far soffrire (unicamente perché non è possibile vivere senza far soffrire), vuole recuperare il corpo e le sue miserie, vuole i piaceri fugaci, i lunghi dolori, prima insopportabili e ora desiderati, vuole uscire insomma dalla vita sospesa, e forse eterna, e sacrificare un giorno ogni ventiquattro ore, pur sapendo ciò che perde in ciascun minuto di quel giorno. Se è nelle mani del lettore (o nella forza del suo pensiero) obbligare la mano che gli ha rinviato la morte, sappiamo già entrambi che il suo corpo immobile, e in superficie tranquillizzato, preferisce che con il ritorno alla vita gli portino la morte, anche se prossima. Perché, fin quando quel corpo sarà vivo e vigile, in convulsione, ardendo come una torcia che bruci alle due estremità, neppure la certezza della morte riuscirà a ridurre o a offuscare la più piccola gioia che vivamente fiorisca dal suo gesto. Lo immagini, il lettore. Non può, non è vero? Ha provato la vita, ci ha preso gusto, e ora vuol veder nascere il sole tutti i giorni. Mi dia la sua mano, lettore. Si sieda qui, accanto a me, e ascolti la storia semplice del cuore degli uomini. Vendono gli dèi quello che danno La cosa migliore di questa cronaca è il titolo, che del resto, come tutti sanno, non è mio. Appartiene a Fernando Pessoa. Nel caso vi fosse ancora qualcuno che non sa chi è Fernando Pessoa, dirò che quest’uomo fu un poeta che ne sapeva molto di queste faccende di dèi e degli affari che loro [anno. Ne sapeva tanto che dovette inventare, dentro di sé, altri personaggi che lo aiutassero a sopportare il peso e il giogo del sapere. E neppure così poté vivere in pace. Molto di quel che si scrive non sono altro che glosse del già detto. Sicché anche questa cronaca è una glossa, scritta in tono minore, di un verso che non ne ha bisogno. Ma le circostanze possono più della volontà, e stavolta non ho volontà sufficiente per resistere all’ossessione di questo verso: “Vendono gli dèi quello che danno”. E affinché la cronaca non sia del tutto gratuita, mi figuro un lettore ingenuo, di quelli che non vanno oltre il senso letterale del testo e che, dunque, non riescono a capire come e perché si vende una cosa data. Del resto, se mettiamo da parte queste alte cortesie poetiche, perfino in una raccolta di proverbi da quattro soldi troviamo l’equivalente. Dice il popolo (o diceva) che “quando l’elemosina è generosa, il povero diffida”.
Solo che qui il popolo e il poeta discordano. Perché il poeta, alla fine, non diffida. Riceve dalle mani degli dei quel che gli dèi gli danno e se ne va per il mondo, come un trionfatore, mostrando a tutti i benevoli doni di cui l’hanno colmato. Finché arriva il giorno che ne esigono il pagamento. E siccome in quest’affare non si impegnano soldi, né gli dèi accettano pagamenti in denaro, il poeta paga con l’anima, l’unica ricchezza che ha e l’unica che gli dèi accettano come moneta adeguata. Proprio per questo hanno messo in piedi l’affare. Allora il poeta (non deve esserlo necessariamente: basta che si tratti di un uomo che gli dèi hanno scelto, la cosa riguarda loro) lascia cadere le braccia, scopre l’inganno e mormora: “Vendono gli dèi quello che danno”. Che cosa vendono gli dèi, dando? Tutto quanto esalta l’uomo, tutto quanto lo innalza. Vendono l’intelligenza acuta, vendono la sensibilità esacerbata, vendono la lucidità implacabile, vendono l’amore appassionato. E tutto ciò, che è di fatto cammino di perfezione (di gloria, nel senso più alto del termine), diventa d’improvviso l’inferno in terra. Gli dei circondano di mura la vittima prescelta e la lasciano sola in quell’arena sacrificale. È la solitudine, è il più grande spettacolo del mondo. Siedono gli dèi sulle gradinate e se la spassano. Non entrano leoni nel circo – magari entrassero. Non ci sono combattimenti di gladiatori – magari ce ne fossero. Gli dèi sono intenditori e sanno che tali banalità nulla aggiungerebbero al piatto forte del menù: la lotta dell’uomo per conservare la propria anima. Come finisce lo spettacolo? Sempre allo stesso modo. L’anima è passata di mano in mano, girata e rigirata, gli dèi si sono indicati l’un l’altro le ferite sanguinanti, le vecchie cicatrici. Intanto, al centro dell’arena, l’uomo è un gomitolo informe. Di nuovo sazi, gli dèi, con un gesto sdegnoso gli restituiscono l’anima ed escono dal circo. Alla ricerca di un’altra vittima. Laboriosamente, con difficoltà, l’uomo reintegra in sé quel cencio che gli è stato reso. È ciò che ha di più prezioso. Ora che è nudo, sa di non avere altra ricchezza. Abbatte, come può, il muro con cui l’hanno circondato ed esce in campo aperto. Gli dèi si allontanano, conversando e ridendo. In fondo, non hanno colpa: sono fatti così. L’uomo si raddrizza e cerca di respirare. Fa i primi passi. E come chi si lamenta con se stesso, va dicendo: “Vendono gli dèi quello che danno”. Auguriamoci che non lo dimentichi. Ma sarà uomo se non lo dimenticherà? Un incontro sulla spiaggia Il caso è strano, ma a pensarci bene non più strano di una qualsiasi di quelle piccole cose che ci accadono ogni giorno e che, proprio perché sono piccole e ripetute, finiscono col perdere per noi di significato. E non parlo di meraviglioso, che è moneta logora, se non falsificata. Del resto, negli ultimi tempi mi sono successi parecchi casi strani che uno più uno meno nulla aggiungono né tolgono alla mia reputazione.
Il luogo non ha niente di stravagante. Scelga il lettore una spiaggia qualunque e mi immagini (o si immagini, se gli è più facile) seduto al sole, a ricevere dall’aria e dalla luce i benefici ammessi dalla nostra buona volontà. Intorno ci sono le persone che si trovano di solito sulla spiaggia: bambini, adolescenti, gente cresciuta e gente che non crescerà mai. Ci sono bei corpi, altri meno, nuotatori audaci, altri timidi – e tutto si confonde in azzurro e verde, alghe e aromi forti, grida di allegria, nel calore che scende dal cielo e sale dalla sabbia. È bello. Sto seduto, a ricevere la mia quota di salute. Guardo il mare, un po’ malinconico (io, non il mare), e comincio a pensare che è ora di fare il bagno. Sto iniziando il movimento che mi porterà nell’acqua, quando sento che qualcuno viene a sedersi accanto a me. Mi sembra un abuso quell’intimità. Faccio finta di niente, non guardo, ma sospendo l’impulso di alzarmi: sono una persona educata, non mi piace offendere. In questa indecisione, sento d’improvviso la mano posarsi sulla mia spalla. Guardo di lato: è una scimmia. Non sono pauroso, lo giuro, ma imbattersi così di punto in bianco in uno scimpanzè (è uno scimpanzè di taglia media), chi potrebbe evitare un soprassalto? Ma l’animale sembra pacifico. Giurerei quasi che sul suo muso c’è un’ombra di sorriso. Il mio primo pensiero (appena mi scopro capace di pensare) è cercare il padrone della scimmia. Guardo intorno, la spiaggia è deserta. Fatemi il favore di non sorridere. È un affare serio, e non ho nessuna colpa se queste cose succedono solo a me. La spiaggia è deserta, ripeto. Non so per quale magia sono scomparsi tutti i miei vicini. Ho il mare davanti a me e a fianco una scimmia. Che fare? Sorrido pallidamente, guardo di nuovo e mi rassegno. Lo scimpanzè mi prende le mani e le stringe. Lo fisso dritto negli occhi e resto di sasso per lo stupore: se quel che vedo non sono lacrime, è perché di lacrime non m’intendo. La scimmia si avvicina, senza lasciarmi le mani. E io, che ho urgente bisogno di fare qualcosa, comincio a parlare. Di che? Del mare, della spiaggia, del sole, delle rocce a fior d’acqua, dei gabbiani che passano in silenzio, delle nuvole bianche e leggere che galleggiano nell’aria e lentamente si dissolvono. Parlo della gente che era lì poco prima, dei bambini ridenti, degli adolescenti in fiore, degli adulti stanchi ma ancora con delle speranze. Parlo degli uomini in generale, del mondo, della pace e della guerra, dell’amore e dei suoi capricci, dei fiori e delle messi, del lavoro e del sogno – che so io? La scimmia ascolta. Risponde come può, stringendomi le dita. E io continuo. E quando non ho più niente da dire, parlo di me. E allora ripeto tutto quanto avevo detto prima. Poi c’è un grande silenzio. So che sono solo. La mano quasi umana cessa di tenere la mia. Mi alzo. La spiaggia è di nuovo popolata. Che è successo? Avrò sognato? Cerco il mio scimpanzè e vedo solo persone come me. Ho sognato, di sicuro. Mi accingo a sorridere di me stesso, ed è in quel momento che guardo a terra. Non ho sognato. Nitide, impresse, ci sono
orme inconfondibili. E sulla sabbia umida, che un’onda minaccia di lontano, leggo parole scritte da un dito maldestro: “Essere uomo è questo?” L’onda corre sull’acqua, si arrotola, so quel che accadrà, voglio evitare l’inevitabile, voglio la prova – e l’onda si rompe, si espande, scivola sulla sabbia, cancella le parole, l’interrogativo, lo stupore. Rimango abbandonato. Avevo tra le mani un segreto (di che cosa, non so) e ora me ne stavo li, vuoto, solitario, derubato. Ma è successo, lo giuro. Ed è bene che il lettore creda che queste cose accadono. Ho bisogno della sua compagnia. La vita è una lunga violenza Non so se il lettore è avvezzo a certe cose. Per esempio: se ne va tranquillamente per strada, guardando chi passa o non facendo caso a nessuno – e d’improvviso, svoltando l’angolo, senza avviso né previo sospetto, scopre una verità fondamentale, una nuova legge della natura, la spiegazione ultima dei destini, la quadratura del cerchio, il moto perpetuo. Già accade in un folgorante secondo, finito il quale egli torna alla sua quotidiana condizione, ossia di uomo senza problemi più alti della sua testa. Ma se gli capitano secondi del genere, si cauteli: è sintomo di paranoia. Cerchi un medico, che subito gli sottrarrà dalla sua squilibrata somma di provedelnove il numero perturbatore. Anche a me, che pure sono ormai disincantato, succedono cose del genere. Giorni fa, pensi un po’, ho scoperto che la vita è una lunga violenza. Per un minuto sono stato l’uomo più felice dell’universo: avevo appena formulato in una frase semplice e ragionevolmente lapidaria tutta una teoria della storia. In mezza dozzina di parole (le conti, vedrà che non sono più di sei) avevo riassunto la mia vita personale, la sua, lettore, e quella dell’intera umanità, senza distinzione di fede o razza. Mi sono guardato attorno, in cerca di discepoli, e non ho ravvisato nessuno che mi sembrasse degno dell’opera di catechesi cui mi accingevo. E meno male. Perché il giorno dopo, con residui di vanità della mia scoperta, ho voluto trasmetterla a una persona amica normalmente in grado di capire questi eccessi di ultravisione, e mi son sentito rispondere che già molti prima di me avevano detto la stessa cosa. Offeso nel mio amor proprio di illuminato ed eletto, sono ammutolito. Perdere il fazzoletto, il portafoglio, il mazzo di chiavi, oppure il giudizio, succede tutti i giorni, e ormai nessuno più se ne lamenta – ma perdere una teoria della storia è duro. Ho fatto uno sforzo, mi sono costretto a dargli ragione, e ho deciso che queste cose non sono trasmissibili, che santi di casa non fanno miracoli, che il silenzio è d’oro, ecc., ecc. Rimasto solo, ho sollevato la punta della tovaglia sulla quale avevo servito la mia ghiottoneria (questo linguaggio, sia ben chiaro, è tutto figurato) e l’ho scoperta lì, un po’ ammuffita, ma che ancora si confaceva al mio appetito e al mio palato. Ho borbottato aggressivamente:
“Certo, lo hanno già detto altri, ma sarà meno vero per questo?” E ho giurato che la faccenda non finiva lì. Ed eccomi a parlare al lettore ignoto. La vita, sappia, è proprio una lunga violenza. C’è stato un tempo in cui credevo che fosse piuttosto una lunga pazienza. Ero più giovane, e perciò più scettico. Ma oggi (con o senza paranoia) penso che, nossignore, la pazienza non fa al caso. Quando, come si usa dire, si è avanti negli anni, si scopre che solo violentemente si riempiono i giorni di vita. E allora tutto il passato appare sotto una nuova luce: quando ci credevamo addormentati e pazienti, stavamo invece accumulando energie per lo sforzo degli ultimi metri. Il traguardo è in un punto qualsiasi, non sappiamo dove, ma giacché dobbiamo tagliarlo, che sia (come dire) in gloria. Si badi, non si tratta di applausi. È invece il canto, il cantico, l’inno, la semplice intima aria che dà la cadenza al nostro passo accelerato. E per questo è necessaria molta violenza. Quella che assoggetta scoraggiamenti e rinunce, quella che trasforma in corda tesa e vibrante l’essere (paranoico o no) in cui essa abita. Ma non calpestiamo nessuno, non confondiamo questa violenza con quell’agitazione. Il mio vicino, che per cortesia legge tutte le cronache che scrivo, l’altro giorno mi si è accostato e, in tono mezzo vergognoso mezzo vendicativo, mi ha detto che non le capisce quasi mai. Al momento, mi sono sentito io confuso di vergogna. Ma adesso, arrivato a questo punto della cronaca e in cerca di un finale, trovo la risposta che non trovai allora e che mi vendica totalmente: “Legga due volte, amico, legga due volte”. il gruppo Sono dieci o dodici persone spaventate – un gruppo. Si siedono attorno a un sacco pieno di paure: la paura della solitudine, la paura del passato, del presente e del futuro. Sono un certo numero di persone trepidanti che per decisione unanime fingono di ignorare la presenza del sacco – e questo, lo chiamano coraggio. Persone mute di terrore, che lanciano risa, domande e risposte – e questo, lo chiamano comunicazione. Ma il sacco sta lì. Il gruppo si agita, provoca, organizza, ha idee, discute, pone, dispone e contrappone, si lancia in interminabili conversazioni durante le quali il mondo èdisfatto e rifatto – mentre dentro il sacco si arrotolano le paure, viscide come lumache, in attesa del loro momento. Sono dieci o dodici struzzi che nascondono prudentemente la testa sotto la sabbia e dimenano di concerto le code piumate. E sono intelligenti. Sono tutti venuti da lontano e sanno molto. Hanno letto tutte le biblioteche, visto tutte le pitture, ascoltato tutte le musiche. Hanno nella tasca della giacca o nella borsetta le trentasei maniere radicali di trasformare l’universo prossimo o remoto – ma nessuno di loro ha trasformato la sua piccola vita personale e, in qualche caso, infelicemente trasmessa. Quando il gruppo si disperde (cosa che non può evitare, ogni tanto, per ragioni di igiene), continua da lontano a gravitare attorno al sacco delle
paure. E la paura della solitudine fa di nuovo convergere i dodici pianeti verso il centro focale del sistema. Ciascuno allora espone la propria debolezza e si spera che da dodici debolezze nasca una forza. Il gruppo ha di queste illusioni. Ma è proprio della natura profonda dell’uomo (e sua responsabilità) che il confronto di se stesso con la vita debba passare attraverso una battaglia personale con le paure che la negano. E a nulla serve per la soluzione del problema ultimo (essere, restando integro) questa ubriacatura in comune, questo paradiso artificiale che è il gruppo. La paura della solitudine può essere vinta solo dopo un corpo a corpo con la totale nudità dell’anima (se è chiaro quel che dico) o dell’astrazione a cui diamo questo nome. Una vittoria mai raggiunta, forse neppure cominciato il combattimento, se si va a cercare nel gruppo il mitico rimedio, la panacea universale. È accettare la sconfitta prima della scaramuccia iniziale. Ci sono anche la vecchiaia e la morte. Qui sta lo specchio e il suo linguaggio. Qui il braccio che ormai più non cinge con l’antica forza. Qui il cuore che comincia ad accusare la salita. Qui il dolore sordo che annuncia l’irrimediabile. Qui il tempo e la fine del tempo. Del nostro. Del tempo che è toccato a ciascuno di noi e del quale non conosciamo la durata ma che suona come il canto veloce dell’acqua che sale dall’orcio. Qui stanno, dunque, la vecchiaia e la morte. Di fronte a questa paura saremo soli. È la nostra battaglia personale, quella in cui, a conti fatti, più rischiamo, perché è il corpo che è in gioco, il corpo che perde la freschezza e il vigore, la bellezza, se l’aveva – la splendida macchina fatta per la luce e che la luce abbandona. Ma sono tali le virtù del gruppo che in esso cerchiamo la cecità proficua, aiutati dallo spettacolo consolatorio della decadenza altrui. Infine, c’è la paura del passato, del presente e del futuro, generatrice delle angosce quotidiane, ombra e minaccia costanti. Il gruppo mette in comune tre o quattro scheletri del passato di ciascuno, e ciò permette l’instaurarsi di una benevola aristocrazia di sentimenti attraverso, naturalmente, la lusinghiera pratica dell’elogio mutuo. Ma l’armadio degli scheletri difettosi nell’osso, quello, continua a restare ben chiuso, e la chiave la custodisce lui stesso, o il suo socio, se il patrimonio dell’ossame è comune a entrambi. Quanto al presente, la paura è a portata di mano, a portata del gruppo, perché niente di tutto ciò dura, perché il gruppo secerne dalla sua propria contraddizione il veleno che lo distruggerà. Nel futuro. Domani. Fino al prossimo gruppo. O finché ciascuna delle dieci o dodici persone scopra che è in se stessa il male e forse il rimedio. E che il gruppo è, in fin dei conti, un po’ d’acqua torbida dove va a dissolversi e scomparire, come fragile zolletta di zucchero, la roccia amara e vertiginosamente lucida (perciò capace di gioia perfetta) che è la cosa migliore di quella grandezza che siamo soliti chiamare condizione umana.
La parola resistente Scelga il lettore una parola qualsiasi, la dica molte volte di seguito – a poco a poco andrà perdendo senso e densità fino a trasformarsi in un’articolazione sonora incoerente, che non esprime più nulla. Arrivato a questo punto critico, nasce in lui un moto di panico: deve recuperare la parola distrutta, impastarla di nuovo nel complesso di emozioni che le restituiscano l’antica e familiare fisionomia. È un’esperienza semplice che serve a mostrare il nostro estremo bisogno delle parole per continuare a essere. Se troverà l’introduzione pretenziosa, il lettore la dia per non letta. Né io l’avrei scritta se non avessi qui sotto gli occhi una parola che ha resistito a tutti i miei tentativi di polverizzazione: non per niente da secoli andiamo dicendo che l’eccezione conferma la regola. Tale parola è “orizzonte”. Sono arrivato a pronunciarla cinquanta volte. Dopo questa sgobbata, ho finito con il ritrovarmi io dentro una sfera risonante, al centro di un vertiginoso e inaccessibile cerchio. È stato allora che ho scoperto il prestigio di questa parola, prestigio che le deriva dal particolare carattere di ciò che esprime. Vediamo perché. L’orizzonte, secondo le definizioni correnti, è la linea in cui il cielo sembra confondersi con la terra o con il mare. In qualsiasi direzione l’osservatore si sposti, la linea dell’orizzonte si sposta con lui. Si va formando così una successione di cerchi secanti, come se l’osservatore spingesse lo spazio davanti a sé e si trascinasse dietro una cortina distante, che è il limite della sua portata visiva. Dal che si conclude che nessuno potrà mai trovarsi all’orizzonte. In qualsiasi punto ci troviamo, l’orizzonte è sempre un’immagine che ci sfida, che ci promette meraviglie. Gli andiamo incontro e subito si allontana, per ricominciare a lusingarci. Tutto ciò, come il lettore avrà ormai capito, ha due sensi: il proprio e il figurato. L’uno è quello della realtà fisica, contro il quale nulla possiamo dal momento che non ci è dato stare qui e là allo stesso tempo, essere simultaneamente l’osservatore e l’osservato, stare dove si sta e anche nella linea dove il cielo, ecc. ecc. Di questo senso non curiamoci per buona pace della nostra sanità mentale. L’altro senso invece (quello figurato) fa al caso nostro. Mi riferisco ora a un orizzonte trasposto sul piano della realizzazione personale, nei trentamila rami in cui essa può proiettarsi. E ciò è molto più importante che avere il dono dell’ubiquità. È chiaro che anche in questo caso la linea dell’orizzonte si sposterà a ogni passo che faremo. Oltre l’orizzonte c’è lo spazio infinito. La brevità della vita (della nostra vita) non consente un lungo tragitto sulla strada delle realizzazioni possibili. Ma, a pensarci bene, questa vita non avrebbe molto senso se non fosse, o non dovesse essere, un continuo sforzo per raggiungere orizzonti – anche se essi non si trovano più dove li avevamo visti prima.
Oggi mi è venuta così. Altre volte mi è capitato di raccontare casi reali o storie inventate, intricate al punto che non riesco più a distinguere dove finisce la realtà e dove comincia l’invenzione. Stavolta, nel silenzio e nell’isolamento in cui lavoro, è stato come se per magia mi fossi sdoppiato e mi vedessi camminare, sicuro e ostinato, nel paesaggio interiore della mia umanità, con gli occhi a un orizzonte cui nego l’inaccessibilità – perché è là che vado. Come chi si arrampica su una lunga e scabra corda, ben sapendo quanto lunga e scabra sia, ma a cui impongo la realtà del volere e di questa indefinibile certezza che non perdo neppure quando sembro annegare nei dubbi; non c’è altra via se non quella in cui possiamo riconoscerci in ogni gesto e in ogni parola, quella della tenace fedeltà a noi stessi. Oggi mi è venuta così, lettore. Abbi pazienza e volta pagina. Ricetta per uccidere un uomo Si prendono qualche decina di chili di carne, ossa e sangue, secondo parametri adeguati. Si dispongono armoniosamente in testa, tronco e membra, si riempiono di viscere e di una rete di vene e nervi, avendo cura di evitare errori di fabbricazione che siano pretesto alla comparsa di fenomeni teratologici. Il colore della pelle non ha alcuna importanza. Al prodotto di questo delicato lavoro si dà il nome di uomo. Si serve caldo o freddo a seconda della latitudine e della stagione dell’anno, dell’età e del temperamento. Se poi se ne vogliono lanciare prototipi sul mercato, gli si infondono alcune qualità che li distingueranno dalla massa: coraggio, intelligenza, sensibilità, carattere, amore per la giustizia, bontà attiva, rispetto per il prossimo e per il distante. I prodotti di seconda scelta avranno, in maggiore o minor grado, l’una o l’altra di queste virtù di attributi positivi, parallelamente agli opposti, in genere predominanti. La modestia impone di non ritenere fattibili prodotti integralmente positivi o negativi. Ad ogni modo, si sa che anche in questi casi il colore della pelle non ha alcuna importanza. L’uomo, classificato nel frattempo con un’etichetta personale che lo distinguerà dai suoi simili, usciti come lui dalla catena di montaggio, viene posto a vivere in un edificio cui si dà, a sua volta, il nome di Società. Occuperà uno dei piani di quest’edificio, ma raramente gli sarà consentito di salire la scala. Scenderla è permesso e a volte facilitato. Nei piani dell’edificio ci sono molte abitazioni, designate ciascuna o da ceti sociali o da professioni. La circolazione avviene per canali detti abitudine, usanza e preconcetto. È pericoloso andare contro la corrente dei canali, sebbene alcuni lo facciano per tutta la vita. Costoro, nella cui massa carnale si trovano fuse le qualità distintive dei prodotti che rasentano la perfezione, o che hanno optato deliberatamente per queste qualità, non si identificano dal colore della pelle. Ce ne sono di bianchi e di neri, di gialli e di bruni. Sono pochi i ramati, ma solo perché si tratta di una serie quasi estinta.
Il destino ultimo dell’uomo è, come si sa fin dall’inizio del mondo, la morte. La morte, in quel preciso momento, è uguale per tutti. Non però quanto la precede immediatamente. Si può morire con semplicità, come chi si addormenta; si può morire attanagliati da una di quelle malattie di cui eufemisticamente si dice che “non perdonano”; si può morire sotto tortura, in un campo di concentramento; si può morire volatilizzati all’interno del sole atomico; si può morire al volante di una Jaguar o investiti da essa; si può morire nel bagno o dal barbiere; si può scegliere la propria morte, e questo si chiama suicidio; si può morire di fame o di indigestione; si può anche morire di un colpo di fucile, al crepuscolo, quando c’è ancora la luce del giorno e non si pensa che la morte sia vicina. Ma il colore della pelle non ha alcuna importanza. Martin Luther King era un uomo come ognuno di noi. Aveva le virtù che sappiamo, sicuramente dei difetti che non ne sminuivano le virtù. Aveva un lavoro da compiere – e lo compiva. Lottava contro le correnti dell’abitudine, dell’usanza, del preconcetto, immerso in esse fino al collo. Finché arrivò il colpo di fucile a ricordare ai distratti quel che siamo e che il colore della pelle ha molta importanza. Gli animali pazzi di collera Quel che sto per raccontare non è ancora accaduto. Ma forse accadrà, quando non lo so, forse tra cinquecento o mille anni, precisamente (arrischio la profezia) nel 2968. Quale sarà il primo animale a impazzire di collera, non lo direi neppure se lo sapessi, perché di sicuro farebbero subito fuori la specie per evitare la catastrofe. E io, che non sarò più qui per vederla, e dunque la questione non mi interessa personalmente, non capisco perché dovrei risparmiare a vaghi e lontani posteri la più grande guerra della storia. Si compia allora il destino. A ogni modo, qualcosa mi dice che la prima ribellione verrà da un animale pacifico. Forse il cane, forse l’allodola. O la tortora, oggi così modesta e arrendevole. Non lo so, non lo so. Proprio ora (va a capire perché) ho avuto la certezza che sarà il puledro. L’ho visto in mezzo a un prato, con l’erba fino alle ginocchia, il sole ad accendergli vampe sul pelo setoso – e d’improvviso ergersi sulle zampe posteriori, brandire gli zoccoli, con la criniera in tempesta e le labbra digrignanti di furore. E se alla fine consegno qui questa rivelazione è solo perché so che in fondo nessuno mi crederà. Sarà il primo segnale. Il puledro esce dal prato verde e irrompe sulle strade degli uomini. Dove passa, fomenta la rivolta, risveglia la collera, batte con le zampe sui tronchi degli alberi e sulle oscure tane. Alza la testa verso le nuvole e chiama gli uccelli del cielo. In tutto il mondo comincia a muoversi il grande esercito degli animali. All’inizio, gli uomini restano sorpresi. Poi, l’interesse scientifico li porta a sorvolare in elicottero le mandrie e gli armenti, gli insetti alati e gli stormi
di uccelli, gli interminabili cortei di formiche e lucertole. Scattano fotografie e scrivono relazioni e reportages. Sorprendono qua e là un animale contratto, ne studiano il comportamento, lo vivisezionano e dissecano – non trovano nulla, perché non c’è né virus dell’ira né microbo della furia. Quando gli animali diventano molesti, gli uomini mettono mano alla panoplia domestica per i piccoli conflitti: armi da caccia, insetticidi, reti, veleni, trappole. Ma gli animali sono innumerevoli. Spuntano da ogni parte e accerchiano le città. E a nulla giova contare sull’inimicizia del cane e del gatto, né sulla bramosia del leone per la carne di gazzella. Gli animali si nutrono della loro stessa collera. Allora gli uomini sostituiscono il DDT con il TNT, il fucile con la bomba atomica, la carta moschicida con i gas. È inutile. Sui cadaveri degli uni avanzano gli altri. Dalle fogne escono eserciti di topi infuriati. Le cieche talpe fanno strada a lunghi serpenti che dormivano nel cuore della terra. Le notti sono popolate di strani rumori: sussurri, palpiti d’ali, mugolii, crepitare di mandibole riarse, ululati e ruggiti, sibili raccapriccianti. E quando nasce il giorno, gli uomini, pallidi di insonnia e di paura, leggono sui giornali che un’intera flotta è stata affondata da mostri marini e che trecento aerei sono caduti con i reattori asfissiati da penne e carne triturata. Arriverà allora il panico. La collera degli animali cresce fino a trasformarsi in follia di sterminio. Gli uomini si chiedono l’un l’altro che cosa hanno fatto per meritare tale condanna. Non possono inviare parlamentari perché gli animali non parlano. E se parlassero, la collera gli strozzerebbe la voce. Che fare? che fare? Vengono chiamati i saggi e i filosofi – e nessuno porta salvezza. Vengono i politici e gli ingegneri – e tacciono. Si chiede aiuto a tutti, vecchi, adolescenti, bambini – e niente. Il mondo degli uomini sta per finire. Forse finirà davvero. E se gli animali impazziranno di collera e scateneranno questa guerra (nel 2968, ad esempio), almeno l’ultimo uomo coperto di formiche che lo sminuzzano potrà ancora pensare di morire lottando per l’umanità. Non contro l’umanità... E sarà la prima volta che accade. La nuova Veronica Immaginiamo la terra deserta. Non è facile. Siamo troppo abituati alla nostra presenza, ai segni che il lavoro umano ha lasciato nella natura. Forse nei campi, ancora si può. Basta nascondersi dietro un albero e spiare pazientemente. Con un piccolo sforzo e se il luogo è ben scelto, si indovina quel che è un pianeta spopolato di uomini e, giacché ci siamo, di tutti gli animali di pelo e penna che ci fanno buona o cattiva compagnia. Restino solo gli insetti, che sono bestie dure e indifferenti. Ma spopolare città è un’altra cosa. Le strade si fanno interminabili, le facciate dei palazzi crollano. E c’è il silenzio e la paura.
Immaginiamo ancora che su questa terra, da dove tutti gli uomini sono fuggiti o dove tutti gli uomini sono morti, scenda una nave, capsula o disco volante, e che esseri come quelli che la fantascienza ci promette vengano a sapere che gente ha abitato qui. Se hanno tendenze necrofile o archeologiche, dovranno dissotterrare corpi e restituire forme; se già portano in sé o se gli si attacca qui il virus dell’arte, hanno i musei, senza guardiani né ciceroni; se gli è toccato in sorte il dono delle lingue, ci sono per lo meno un milione di romanzi e dieci miliardi di poesie che diranno tutto su chi li ha scritti e li ha letti – o non li ha letti. Ma c’è a Hiroshima un muro, una parete, il fianco di una casa. Il 6 agosto del 1945 vi si proiettò e restò impressa l’ombra di un uomo. E poiché non c’è ombra senza luce, ci fu prima una bomba, un lampo, un’onda di calore. L’uomo che stava lì assorbì le radiazioni come una spugna e fece da barriera all’onda incandescente che cozzò contro il muro. Scomparve l’uomo. Lasciò l’ombra, la figura, la dimensione che occupava in questo mondo. La suapiccola dimensione che al mondo dava senso, la sua piccola gioia, il suo profondo e irrimediabile dolore. A Hiroshima c’è un muro. Gli esseri dell’altro pianeta che ho chiamato alla sbarra di questa cronaca, se avranno intelligenza e saranno capaci di indignazione, si riuniranno davanti a quella nuova e rigida Veronica, anche se nel pronunciare questo nome non sappiano a rigore quel che dicono, e fonderanno una nuova religione, quella della protesta contro la fredda follia, quella della rivolta contro la crudeltà dissennata. E non avranno più occhi (se li hanno) per la bellezza dei dipinti e delle statue, e dei campi restituiti (per che cosa?) alla loro naturale verità. E faranno un magnifico autodafé delle opportunità perdute dagli antichi abitanti di questo globo. E il muro di Hiroshima sarà guardato come il più fedele ritratto dell’uomo, bocca silenziosa e unica dove passano le grida del dolore e il ringhio dell’odio, Veronica rugosa, dove si è rifugiato questo vecchio volto dell’uomo che di se stesso si lamenta – e si accusa. Il Diritto e le campane Ho un grande rispetto per gli storici. Penso che svolgano un compito di enorme responsabilità e delicatezza. In essi apprezzo l’onestà, l’obiettività, la capacità di consumare una vita intera a disseppellire una verità. E sono tutto tolleranza e comprensione per gli errori commessi in buona fede – perché non sempre gli archivi sono a portata di mano e perché tra mille interpretazioni di un evento non c’è altro da fare che sceglierne una. Insomma, una persona in grado di spiegarmi la storia degli Ittiti o dei faraoni della XX dinastia, la Guerra delle Due Rose o la morte di Ines de Castro, può contare su almeno un lettore interessato, che ha il vizio di pensare storicamente. Quel che non perdono è che i fatti vengano distorti in base alla
propria o all’altrui convenienza. Non si scherza con le cose serie, e io non conosco nulla di più serio della storia del genere umano. Detto ciò, si può immaginare il piacere che ho provato giorni fa, sfogliando un libriccino senza pretese, nel trovare il racconto di un episodio accaduto nel XVI secolo, in un paese dei dintorni di Firenze. Il lettore mi faccia il favore di tornare immediatamente indietro e rileggere: “Nel XVI secolo, in un paese dei dintorni di Firenze...” E ora che non ha dubbi, veniamo al caso. Sia subito chiaro che non assisteremo a scene di battaglia, assassinii politici o firme di trattati celebri. L’episodio avvenne, come si è detto, in un paese. Gli abitanti stanno nelle loro case o a lavorare nei campi, ciascuno intento alle proprie occupazioni e preoccupazioni, quando improvvisamente la campana della chiesa si mette a suonare. A morto. Sorpresa generale perché non c’era in paese nessuno che stesse per passare a miglior vita. Escono in strada le comari, si riuniscono i bambini, gli uomini abbandonano il lavoro dei campi, e tutti si radunano sul sagrato per sapere la novità. La campana continuava in quel doppio melanconico che fa venir voglia di coprirsi il viso e piangere di tristezza. Che è, che non è, chi è il morto che non sappiamo – ed ecco che la campana tace e sulla porta della chiesa compare il contadino che aveva fatto le veci del campanaro. Raddoppia lo stupore come aveva raddoppiato la campana e alle domande il contadino risponde: “È per il Diritto che ho suonato a morto, perché il Diritto è morto”. Proprio così, come chi già sapesse di parlare per la Storia. Questo contadino, dice il narratore, vedeva che ogni giorno il signore del luogo gli toglieva una fetta del suo campicello. Reclamò, protestò, senza risultato. Decise allora di annunciare urbi et orbi – il mondo può avere le dimensioni di un villaggio – la morte del Diritto. Se la storia è inventata, giuro di non averla inventata io. L’ho trovata in un libro, nero su bianco, in bella scrittura, con tanto di nome dell’autore e dell’editore – tutte le garanzie, dunque. Credo pertanto alla verità di questo contadino e del suo atto, nel XVI secolo e a Firenze. E ora immaginiamo le campane del mondo, in tutti i templi che usino campane per chiamare, piangere e protestare, suonare a morto in un echeggiare universale di città in città, saltando oltre le frontiere, lanciando ponti sonori sugli oceani. Diventeremmo tutti sordi. Chi potrà sopportare tanto clamore? Non c’è modo, lo sappiamo, di porre rimedio alle tante ingiustizie della vita. Ma l’oblio cui era condannato il mio contadino, prima che lo scoprissi nel XVI secolo e a Firenze, grazie a me è stato emendato. Propongo perciò una grande colletta pubblica per un monumento all’anonimo paesano che fece del suo cuore offeso una campana. Apro con il compenso che mi spetta per questa cronaca. Chi mi segue?
Manoscritto trovato in una bottiglia La settimana scorsa me ne stavo ruminando filosofie al Rossio (luogo del tutto inadeguato a causa del traffico, il che dimostra fino a che punto le filosofie siano un intrattenimento rischioso) quando d’improvviso lo sguardo mi cadde sulla vasca della fontana, quella dal lato sud, dove ci sono le fioraie, e che vedo? Né più né meno che una bottiglia galleggiare sull’acqua. La cosa mi lasciò perplesso tanto che cominciai a pensare che si trattasse di un’allucinazione. Ma spinta dal vento la bottiglia si avvicinava al bordo della vasca, oscillando dolcemente. La gente continuava la sua vita e nessuno si accorgeva della bottiglia. Guardai in alto, verso le finestre, verso il cielo, facendo finta di niente. Poi feci il giro della vasca e mi fermai di nuovo. La bottiglia era più vicina, si stava arenando. Di colpo, allungai il braccio. Era proprio una bottiglia, reale, lucida, grondante acqua. Confusamente, mi resi conto di varie cose allo stesso tempo: non aveva etichetta, era leggera e il tappo sembrava molto vecchio. Osservai la bottiglia controluce: dentro c’era un foglio. Rabbrividii dalla testa ai piedi. La situazione si faceva d’improvviso scomoda. In mezzo al Rossio, con in mano una bottiglia messaggera, e tutta quella gente a guardarmi, a sorridermi, forse a mormorare. Questo credevo, ma quando feci scorrere di soppiatto gliocchi sulla gente, vidi che nessuno s’interessava a me. O almeno sembrava. Accostato a un albero, per esempio, c’era un uomo che leggeva il giornale con eccessiva applicazione. Lo trovai strano: perché non guardava verso di me? Sarebbe stato naturale che qualcuno si avvicinasse, mi chiedesse che cos’era quella roba, venisse a condividere con me quel ritrovamento. Ma la gente, in modo ostentato, fingeva di non vedere. E l’uomo del giornale mi girò le spalle e andò a parlare con un altro uomo che esaminava gli oggetti di una vetrina come se da ciò dipendesse la sua sopravvivenza. Mi sentivo nervoso e feci qualche passo, titubante. Pensai di consegnare la bottiglia al vigile. Ma avrei dovuto dargli delle spiegazioni, rispondere alle domande che mi avrebbe fatto, insomma, una seccatura. E il foglio. Presi infine la grande decisione e nascondendo la bottiglia sotto il braccio attraversai in direzione della rua Augusta. Ma pretesi troppo dalle mie forze: un così breve tragitto mi scatenò un folle batticuore. Mi girai e rimasi di sasso: l’uomo del giornale attraversava tra le macchine, impavido, sempre leggendo, e l’altro, quello della vetrina, portava la vetrina con sé e contemplava una cravatta a righe. E ancor peggio rimasi quando vidi che tutti, ora, mi guardavano con un misto di riprovazione, ammonimento, ansietà e stupore. Mi precipitai per la rua Augusta, definitivamente spaventato, girai al primo angolo, a un altro, e un altro, e un altro. Spesi il tempo a girare angoli, a imbattermi in uomini che accendevano sigarette, che leggevano giornali, che guardavano vetrine, che si fermavano o camminavano con una strana e ingiusta sicurezza e che sembravano possedere il dono dell’ubiquità tanto si somigliavano gli uni con gli altri.
In quest’incubo a metà mi ritrovai sul molo. Ci fu un grande turbinio di gente che s’imbarcava e fui scaraventato a bordo del battello. Per poco non mi sfuggì la bottiglia. Il battello dette uno scossone, un muggito, e si allontanò dalla banchina. Ebbi la certezza di essere in salvo quando vidi a terra una fila di uomini che si sbracciava di stizza, facendo segni con giornali, vetrine e pacchetti di sigarette. Il battello ora scivolava sull’acqua e io, seduto a poppa, guardavo la città che mi si apriva davanti, sempre più grande. Allora, proprio al centro del fiume, tirai fuori la bottiglia e cercai di toglierle il tappo: non ci riuscii. Deciso, ne ruppi il collo contro la fiancata di ferro, vi infilai cautamente le dita e presi il foglio. Lo srotolai e lessi: “Aiuto!” Non era firmato. Alzai gli occhi. La città si spandeva sulle colline, adorna di colori. Bella, incomparabile città! Ma chi aveva scritto quel foglio? Chi aveva chiesto aiuto? E perché? La bottiglia si perse nel limo del fiume. Il foglio volò in pezzi e fu portato via dalle acque, e i gabbiani giocarono con essi, e i pesci. Io sbarcai sull’altra riva, feci un lungo giro in corriere di linea, attraversai di nuovo il fiume a Vila Franca e tornai a Lisbona ormai già a notte fonda. C’era ancora molta gente per le strade. Molta gente. E io cercavo di indovinare l’isola da cui era giunta quella bottiglia, quale naufrago l’avesse lanciata nella vasca del Rossio. I navigatori solitari Se ne vedono di cose in questo mondo. Confessa, lettore, che vale la pena viverci. Difficilmente si troverebbe, in qualsiasi altro angolo dell’universo, uno spettacolo più vario, tutto a colpi di teatro, situazioni ingarbugliate, incontri inattesi, uscite false o entrate fuori tempo. E raggiri. Gli scrittori che si dedicano alla fantascienza non sono riusciti finora, che io sappia (e mi vanto di saperne qualcosa), a creare un mondo che somigli al nostro in fatto di eccentricità. Al punto di lasciarmi freddo e indifferente anche quando pigiano sul pedale amplificatore di mostri verdi o monocoli o di alghe parlanti. Sono invece sensibile alle fantasie poetiche, ma questo di sicuro è un preconcetto di classe. Tale preambolo viene a proposito dei navigatori solitari. Un tempo ammiravo ciecamente questi uomini, il loro coraggio, la disinvoltura con cui si lasciano andare tra cielo e mare, in balia di se stessi e della fortuna, che tanto protegge gli audaci quanto freddamente li elimina. Ancora oggi riservo loro un angolo del mio cuore. È vero che ammiro chiunque ardisca fare quel che io non sono capace di fare, ma questi navigatori meritano da parte mia una stima speciale, o non sarei discendente di un popolo di marinai. Capita a volte che il navigatore si perda nell’immensità degli oceani. E qui calza a pennello la frase che apre questa cronaca: “Se ne vedono di cose in questo mondo”. Perché appena il navigatore ritarda di ventiquattr’ore l’arrivo al prossimo scalo, è saputo e risaputo che il mondo intero cade in una terribile inquietudine, perde il sonno e passa a nutrirsi della prima
pagina dei giornali grandi e piccoli. Tutti vogliono aiutare, come che sia, telefonare ai pompieri o agli ospedali, rimboccarsi le maniche. In spirito, sono tutti sul molo o sulla spiaggia a scrutare l’oceano per vedere se spunta la vela. E non si parla d’altro. Queste due parole (navigatore e solitario) sono cariche di tale prestigio che dirle o ascoltarle è come sentire una ventata di eroismo agitare i capelli e le cravatte. Da un momento all’altro il mondo si riempie di eroi senza opportunità né impiego. E non finisce qui. Flotte solcano il mare, si levano in volo elicotteri e aerei, si spendono fiumi (o meglio, oceani) di denaro, tutto per ritrovare il navigatore perduto. L’umanità si sente rigenerata, umanitaria. Darebbe il sangue, la borsa, chissà che, per recuperare la serenità e il navigatore. Finché dura il pericolo, la terra è un concerto di armonie che empie gli spazi infiniti di concordia e di pace. È bello vivere, allora. Quasi sempre il navigatore ricompare. Si era allontanato dalla rotta, era stato colpito da un tifone, gli si era guastata la radio, aveva forse sentito il desiderio di tagliare definitivamente con il mondo, chi sa che altro. Grandi e generali sospiri di sollievo, così sincero che nessuno pensa a chiedere magari chi pagherà le spese. Non importa. Ci eravamo identificati a tal punto con il navigatore che è come se la barca fosse nostra e nostra l’avventura. Se ne vedono di cose in questo mondo. Perché nel frattempo, e prima, e dopo, ci passano accanto ogni giorno altri navigatori solitari, alcuni infermi, sfortunati, senza casa né lavoro, senza gioia, senza speranza – e nessuno attraversa la strada per chiedergli: “Ti sei perduto, amico? Ti sei perduto?” “Salta, vigliacco!” Molte volte queste mie prose navigano su barche pavesate, con accompagnamento di poetici violini, di effetti luce che cerco nelle trasparenze cristalline, nelle trine vegetali, negli sfumati della visione acquatica. È come un vezzo di cui non mi libererò mai e del quale (perché non dirlo) non mi vergogno. Ma oggi ho deciso di bloccare la vena lirica, stagnare le effusioni, sbarrare il passo alle immagini e alle similitudini. Ho una storia brutale da raccontare. E se il lettore è stato dotato di un cuore sensibile, mi permetto di consigliargli di non proseguire la lettura: disgustato del mondo e di chi lo abita, perderà l’appetito a pranzo, rischierà l’insonnia. È successo nella città di Kassel, in Germania. La Germania è un paese civile, di moneta forte, patria di filosofie, culla di scrittori e di artisti. Tecnicamente è quel che si sa: una potenza. Ebbene, a Kassel, città tedesca sulle rive del fiume Fulda, con i suoi duecentomila abitanti, viveva fino a poco tempo fa un ragazzo di diciannove anni chiamato Jürgen. Viveva, non vive più. Per un qualche dispiacere che la notizia non menziona, Jürgen decise di suicidarsi. Non lo fece discretamente. Forse con la segreta speranza di essere dissuaso (è duro morire a diciannove anni, pur con i profondi dispiaceri che si hanno a diciannove anni), salì in cima a un serbatoio
d’acqua, una costruzione di trentadue metri, per gettarsi da lì verso la soluzione dei suoi problemi: la morte. Si radunarono centinaia di persone. Pompieri e poliziotti cercarono di convincerlo a scendere. Una ragazza sua conoscente (amica? fidanzata?) passò di lì per caso, gridò con quelli che gridavano: “Non farlo, Jürgen! Scendi! Non farlo!” Il ragazzo esitò, credette di uscire dall’incubo, accettò una sigaretta che due pompieri gli fecero arrivare, la fumò tranquillamente. Sotto, la folla (centinaia di persone) aspettava. Ci furono certo sospiri di sollievo, si distesero i volti contratti dal nervosismo. E Jürgen, lentamente, cominciò a scendere. È allora che dalla folla si levano grida di scherno, fischi, insulti. La cattiveria prende voce, si articola in parole impossibili: “Salta, vigliacco! Salta!” Chi dice queste cose? Chi grida? Non si sa. Le voci escono dalla folla e non si può soffocarle: “Salta, vigliacco! Salta, vigliacco!” Jürgen risale i gradini. È solo, lassù. Nessuno sa quel che pensa, quel che sta sentendo. “Salta, vigliacco!” E Jürgen salta. Cade sulla rete che i pompieri avevano teso. Ma la rete non basta a salvarlo. Jürgen viene trasportato all’ospedale, con gravissime lesioni interne. Muore. Era questa la storia che avevo da raccontare. Eccotela, lettore. Fanne quel che vuoi. Su questo pianeta terra, abitato dagli uomini, ci sono ore di felicità, sorrisi, amore, qualche bellezza, fiori per tutti i gusti. E ci sono i mostri. Non si distinguono da noi, che non lo siamo. Hanno casa, famiglia, amici, una vita normale. Sono civili. Ma arriva il giorno che gridano: “Salta, vigliacco!” Non hanno ucciso con le mani. Hanno detto appena.: “Salta, vigliacco!” Poi vanno a cena, dormono in santa pace, difesi dalla legge e suoi difensori. E baciano i figli. Addio, Jürgen. Che dispiaceri saranno stati i tuoi, non lo so. Ma quale dispiacere più grande che quello di vivere in mezzo a una simile umanità? Il pianeta degli orrori Stamattina, uscendo in strada, ho trovato che il mondo era scuro. In certi casi, comincio sempre con il dare la colpa agli occhiali: li ho tolti, li ho puliti scrupolosamente, li ho rimessi: non c’erano dubbi, il mondo si era oscurato. Mi sono palpato il fegato, cose del genere a volte dipendono da scombussolamenti epatici. Nulla di anormale. Non mi dolevano né i denti né l’anima. Problemi, quelli di tutti i giorni, e a questi ci ho fatto l’abitudine. Ma il mondo era più che scuro: era nero. E non era notte. Il sole saliva come al solito nel solito cielo azzurro. Era il mondo a essere scuro. Allora, con il mio spirito adeguatamente riflessivo, ho capito che il caso meritava studio e ponderazione. Ho dunque meditato e alla fine ho scoperto che il mondo si era deciso a mostrarmi il suo altro lato, il mr.Hyde del nostro dr.Jekyll. Dicono i cosmonauti che la terra, vista da lontano, è una festa, tutta bianco, verde e azzurro: una sorta di sposa. Ci credo. Non sono mai stato tanto in alto e non compete a me, che ho bisogno ogni tanto di pulire gli occhiali, mettere in dubbio ciò che occhi sani hanno visto e macchine
fotografiche registrato. Vista qui in basso, in un giorno da mr.Hyde, so che la terra è il pianeta degli orrori. Non lo è, mi dice il lettore fiducioso e ottimista. Lo è, rimbecca il mio cattivo umore. Ci sono, ad esempio, le rose e i bambini, insiste il lettore, facendo ricorso all’arsenale lirico. Certo, ci sono, gli concedo – e subito dopo gli sparo la salva degli orrori incombenti: guerra, fame, miseria, crudeltà, discriminazione, intolleranza, odio. Ce ne sono sempre stati, e il mondo non è ancora finito, replica il pio lettore. E vero, lo ammetto, ma proprio di ciò morirà, mi dice a questo punto il mr.Hyde rivelatosi in un mattino d’estate. Se il lettore crede che io sia masochista, se lo tolga di mente. Mi piace la luce del giorno, la chiarezza, la stretta di mano di un amico, una buona parola di conforto, mi piace la speranza, amo l’amore, amo la bellezza delle cose e delle persone (sono tutte belle) – ma tutto ciò mi può essere tolto da un momento all’altro. In ogni parte del mondo vi sono missili puntati contro ogni parte del mondo, al di sopra del mondo si incrociano aerei con bombe nucleari in grado di liquefare il mondo, in certi posti del mondo si conservano batteri sufficienti a sterminare la vita in tutto il mondo. Il pianeta degli orrori di mr.Hyde è questo, amico lettore, fiducioso lettore, forse, ingenuo lettore. Ma niente di questo è accaduto, e forse non accadrà. Sono armi destinate all’intimidazione, a imporre rispetto, sono semplici mezzi dissuasori, come si dice ora. Già i romani affermavano, in quel loro latino; “Se vuoi la pace, preparati alla guerra”. L’esempio non calza: lo dicano i popoli non romani che subirono quella guerra e quella pace. Chiunque disponga di forza finisce con il cedere un giorno o l’altro alla tentazione, o alla necessità, o al piacere, di farne uso. Si racconta sempre che tra morti e feriti qualcuno la scampa – e non saranno certo i deboli. Allora oppongo alla tua forza la mia più grande. Uno di noi è di troppo – e oltre al resto, che è già abbastanza, ho dalla mia il diritto, un diritto speciale, che ho foggiato sui miei interessi e sui miei piani. Guerra nucleare, guerra batteriologica, guerra chimica, guerra biologica. Di questi quattro cavalli dell’Apocalisse cavalchi il diavolo quello che vuole. Il corpo dell’uomo è un’eccellente cavia. Lo spirito, anche. È già passato per tutte le torture antiche, medievali e moderne, ha già ululato in campi di concentramento, si è già volatilizzato nella luce accecante di una modesta bomba atomica, ha già fornito pelle per paralumi migliore della pergamena. È già allenato e preparato per le più alte avventure. Il pianeta degli orrori. Se avessi ambizioni da scrittore di fantascienza, andrei all’Ufficio Brevetti e depositerei questo straordinario titolo. O quest’altro, più adatto a un libro giallo, che non è da meno: La morte paga in contanti. Come si vede, la fantasia non mi manca. Come non manca neppure a chi vuole che la morte paghi in contanti – e all’ingrosso. Ah, lettore, lettore, quanto siamo distratti!
Un azzurro per Marte La scorsa notte ho fatto un viaggio su Marte. Vi ho trascorso dieci anni (se ai poli la notte dura sei mesi, non vedo perché non dovrebbero entrare dieci anni in una notte marziana) e ho preso nota di molte cose della vita che vi si conduce. Mi sono impegnato a non divulgare i segreti dei marziani, ma verrò meno alla mia parola. Sono uomo e voglio contribuire, nei limiti delle mie piccole forze, al progresso dell’umanità cui sono orgoglioso di appartenere. È molto importante questo punto. E spero, se un giorno mi chiederanno conto delle mie azioni, cioè, dello spergiuro commesso, che i non so quanti miliardi di uomini e donne che vivono sulla terra prendano tutti le mie difese. Su Marte, ad esempio, ogni marziano è responsabile per tutti i marziani. Non sono certo di aver capito bene che cosa ciò significhi, ma finché ho vissuto lassù (e sono stati dieci anni, ripeto) non ho mai visto un marziano scrollare le spalle (devo chiarire che i marziani non hanno spalle, ma il lettore ha certamente compreso quel che voglio dire). Un’altra cosa che mi è piaciuta di Marte è che non ci sono guerre. Non ce ne sono mai state. Non so come se la sbroglino né loro hanno saputo spiegarmelo, forse perché non sono riuscito a dirgli che cos’è una guerra, secondo i parametri terrestri. Anche quando gli ho mostrato due animali selvaggi che lottavano (ce ne sono anche su Marte) ruggendo e azzannandosi, hanno continuato a non capire. A ogni tentativo di spiegazione per analogia, rispondevano soltanto che gli animali sono animali e i marziani sono marziani. Ho desistito. È stata l’unica volta che ho dubitato della loro intelligenza. Tuttavia, ciò che più mi ha disorientato su Marte è il non sapere dove erano i campi e dove le città. Per un terrestre confesso che è un’esperienza molto sgradevole. Si finisce col farci l’abitudine, ma ci vuole tempo. Alla fine non mi sorprendeva più vedere un grande ospedale o un grande museo o una grande università (anche i marziani hanno tutto questo, come noi) in luoghi per me inattesi. All’inizio, quando ne chiedevo la ragione, la risposta era sempre la stessa: l’ospedale, l’università, il museo stavano lì perché lì erano necessari. Mi hanno dato tante volte questa risposta che ho finito per accettarla con naturalezza, come ho accettato, ad esempio, l’esistenza di una scuola con dieci professori marziani in un posto dove c’era un solo bambino, anche lui marziano, è chiaro. Non ho potuto però trattenermi dal dire che dieci professori per un solo allievo mi sembravano uno sperpero. Ma neppure in quel caso l’ho avuta vinta; mi hanno risposto che ogni professore insegnava una materia diversa, e dunque. Ai marziani è piaciuto molto sapere che sulla terra ci sono sette colori fondamentali da cui si possono ricavare migliaia di tonalità. Lì ce ne sono soltanto due, il bianco e il nero (con tutte le gradazioni intermedie), ma essi avevano sempre sospettato che ne esistessero di più. Mi hanno garantito che era l’unica cosa che gli mancava per essere completamente felici. E sebbene mi abbiano fatto giurare che non avrei parlato di quel che lì ho visto, ho
l’impressione che sarebbero disposti a scambiare tutti i segreti di Marte con il procedimento per ottenere un azzurro. Quando sono partito da Marte nessuno mi ha accompagnato alla porta. Penso che in fondo non vi diano molta importanza. Vedono da lontano il nostro pianeta, ma sono molto presi dalle loro faccende. Mi hanno detto che cominceranno a pensare ai viaggi spaziali solo quando avranno conosciuto tutti i colori. È strano, no? A questo punto, sono indeciso. Potrei portargli un po’ d’azzurro (un lembo di cielo, una tovaglia di mare), ma poi? Essi verrebbero sicuramente quaggiù, e ho l’impressione che non gli piacerebbe. Cuore e luna È già stato detto che l’uomo è un animale abitudinario. Di cattive abitudini, soprattutto. E neppure è una novità che il medesimo sia un animale di miti. Li crea, vi si assoggetta, poi se ne lamenta e, finché non se ne libera, trasforma la situazione in una fonte di opere varie e pubbliche cui dà, semplificando, il nome di arte. Il profitto che ricava dai miti compensa abbondantemente i brutti momenti che gli fanno passare. E se la realtà palesa il fondo irrazionale del mito, l’uomo esegue il salto mortale della trasposizione e della sublimazione, come se parallelo al mondo reale esistesse (o esista) un altro mondo più gradevole e abitabile. Sono misteri ancora tutti da svelare. I miti finiscono, altri ne sorgono. Per ora, l’uomo non è capace di vivere senza e non so se un giorno potrà farne a meno, o se gli converrà. Ma questa è riserva di caccia in cui non mi avventuro. Oggi voglio solo parlare della morte della luna e della morte del cuore. Ecco, miei signori e mie signore, due solidi miti in cui l’umanità aveva messo radici. La luna era quel prato di sogni, quel paradiso terrestre a portata di tutti i peccati, raggiungibile con un semplice impulso della fantasia. Un pianeta democratico dove convivevano in santa pace il grande poeta e il cantastorie, il mendicante e Onassis, la zarina di tutte le Russie e la popolana. Bastava che il cuore entrasse in fibrillazioni sentimentali – e pronta, la luna, bianca e verginale (sempre), ad accogliere le espansioni liriche del genere umano. Quasi senza accorgermene, si è infilato nella cronaca (ma era già annunciato) l’altro mito – il cuore. E qui, in ogni caso qualcuno mi contesterebbe. Per gli arabi, ad esempio, la dimora dei sentimenti era, econtinua aessere, il fegato. Avranno le loro ragioni. E una mia amica, che araba non è, neppure per metà, asserisce, con la gravità di chi crede in quel che dice, che proprio nel fegato sta la sua fonte di allegria o la macchia dilagante delle sue tristezze. Chi lo sa? Non ricordo quale personaggio di Júlio Dinis (o sarà un altro romanziere?) affermava che il fegato è il “maestro della banda”. Sia come sia, quel che è certo è che dobbiamo rassegnarci alla morte di questi due fecondi miti, che tanto hanno contribuito alla fecondità della specie. La luna, hanno detto i cosmonauti, è un pianeta morto, che sembra
fatto di gesso, tutto picchiettato di buche come una spiaggia alla fine di una domenica d’estate. Quanto al cuore, poveretto – che fiducia meriterà da oggi in poi un semplice muscolo imbottito di valvole e tubi, per di più – o Amor de Perdicão! – sostituibile come la batteria di un’automobile? Già vedo un innamorato trattenere il romantico gesto di portare le mani al petto: come può offrire un cuore che forse non è più neanche quello originario? E se con il cuore nuovo avesse ereditato anche i sentimenti del donatore? Che confusione, che scambi di coppia, che instabilità. Ma in fatto di miti l’uomo ha molte risorse. Ha perso la luna? Bene. In cielo ci sono stelle e pianeti dove ognuno di noi può approdare con l’anima gemella: basta solo consultare il catalogo astronomico, Ma non è il cuore quell’organo sacro che si agitava amoroso nel petto di Cherubino? Non importa. Dalla testa ai piedi, per tutta la larghezza delle braccia, in quest’involucro di pelle che contiene la meravigliosa macchina del corpo – in qualche posto dovrà pur trovarsi la dimora degli affetti, O forse no. Perché capita a volte che l’amore sia tanto da non entrare nella pelle, come si dice, nella carne, nel sangue, nelle ossa, nell’anima, che pure dicono sia lì. Scopriamo allora, contro l’insegnamento dei miti, che alla fine siamo noi e soltanto noi, in corpo intero e anima accompagnante, la dimora dell’amore. La neve nera So bene che siamo fuori stagione: l’inverno è ormai lontano, ora c’è il caldo, la spiaggia, le ombre dei grandi alberi, il duro sole che ci rammollisce, le sospirate sere, le tiepide notti che ondeggiano come pesanti e morbidi velluti neri. Parlare di neve a giugno dimostra una deplorevole mancanza di senso dell’opportunità. Ma a volte gli incontri casuali possono invertire l’ordine delle stagioni e portare l’inverno in piena estate, facendoci patire un freddo terribile contro il quale non c’è riparo che tenga. Perché, non mi stancherò mai di dirlo, bisogna fare molta attenzione ai bambini. Questi piccolifigli degli uomini sono talvolta comparsi nelle mie cronache. Ma di bambini ho parlato come chi li conosce bene solo perché anche lui lo è stato. E ora chiedo: che cosa sono i bambini? Diecimila pedagoghi sono pronti a rispondermi. Scanso previamente le risposte, alcune che già conosco, altre che indovino, e chiedo di nuovo: che cosa sono i bambini? Che strani esseri sono costoro che girano verso di noi i loro visi freschi, che a volte ci turbano con uno sguardo improvvisamente profondo e saggio, che sono ironici e gentili, fragili e implacabili, e sempre così estranei? Abbiamo fretta di vederli crescere, di ammetterli senza sorprese nel clan degli adulti. Siamo impazienti, nervosi, perché ci troviamo di fronte a una specie sconosciuta. Quando diventano come noi, gli parliamo dell’infanzia che hanno avuto (quella che ricordiamo, come osservatori esterni) e ci sentiamo quasi offesi perché non amano sentirsi rammentare una situazione in cui non si riconoscono più. Sono adulti, ora: un’altra specie umana, dunque.
A quest’infanzia appartiene, ad esempio, la storia che sto per raccontare e che devo appunto a uno di quegli incontri casuali di cui dicevo. E dopo averla riferita qui, mi direte se non ho ragione di insistere: bisogna fare attenzione ai bambini. Non la normale attenzione che tende a prevenire incidenti, quelli che compaiono sotto questa rubrica nelle notizie dei giornali, ma un’altra attenzione, più acuta e sottile. Mi spiego. Una maestra chiese un giorno ai suoi alunni di preparare una composizione plastica sul Natale. Non si espresse in questi termini, è chiaro. Disse una frase del genere: “Fate un disegno sul Natale. Usate matite colorate, o acquerelli, o carta lucida, quel che vi pare. E portatelo lunedì”. In un modo o nell’altro, gli alunni eseguirono il compito. Venne fuori tutto quel che di solito viene fuori in questi casi: il presepio, i re magi, i pastori, san Giuseppe, la Vergine e il Bambinello. Ben fatti, mal fatti, rozzi o accurati, i disegni caddero il lunedì sulla cattedra della maestra. Lei li guardò subito e li valutò. Stava segnando “bene”, “male”, “sufficiente”, insomma i paterni che tutti noi abbiamo vissuto. D’improvviso. Ah, ma bisogna fare molta attenzione ai bambini! La maestra prende in mano un disegno, che non è né migliore né peggiore degli altri. Ma lei lo fissa, è turbata: il disegno mostra l’inevitabile presepio, il bue e l’asinello, e tutto il resto della figurazione. Su questo scenario senza mistero cade la neve, e la neve è nera. Perché? “Perché?”, chiede ad alta voce la maestra al bambino. Il ragazzino non risponde. Forse più nervosa di quanto voglia sembrare, la maestra insiste. Nell’aula risolini crudeli e i mormorii di rigore in queste situazioni. Il bambino è in piedi, molto serio, un po’ tremante. E alla fine risponde: “Ho fatto la neve nera perché è stato questo Natale che mia madre è morta”. Tra un mese arriveremo sulla luna. Ma quando e come arriveremo all’animo di un bambino che dipinge la neve nera perché gli è morta la madre? La luna che ho conosciuto Potrebbe sembrare strano se non spendessi neppure una parola sulla luna. Che figura farei se di qui a cent’anni venisse in mente a un eccentrico qualsiasi di disseppellire queste cronache e scoprisse la mia decisione di ignorare del tutto “il più grande evento del secolo”? Ma non sarà così. Scettico, forse, ma non indifferente. Ben venga dunque la luna, ma che sia la luna che ho conosciuto. Anche questo accadde d’estate. Avevo combinato con degli amici di andare a passare il fine settimana con la tenda, dalle parti della laguna di Albufeira. Sono passati più di vent’anni. Se la memoria non m’inganna, eravamo in quattro. Eravamo, o meglio, saremmo stati: la vigilia della partenza i compagni avevano desistito tutti. Uno di loro (me ne ricordo bene) perché il padre riteneva che una notte fuori casa solo in un albergo. Mi ritrovai dunque con lo zaino pronto – e senza la tenda, perché il padrone non volle imprestarmela. La gente è fatta così. La situazione era per
me una sfida: vado? Non vado? Mi convinse la baldanza della giovinezza. Partii verso sera, attraversai il fiume e mi misi in cammino, a piedi. Quando comparvero le prime case della brughiera della Caparica, il giorno stava finendo. Presi per il Pinhal d’El-Rei, detto anche Pineta delle Paure, e dopo circa due chilometri decisi di accamparmi in una piccola radura. La notte scendeva velocemente. Tutt’intorno, i pini si fondevano in una muraglia nera, compatta come le pareti di un pozzo. Mangiai, non ricordo più cosa, stesi la coperta, misi lo zaino sotto la testa e attesi il sonno, che tardò. Non mi sentivo bene. Tuttavia, per farla breve, il mio tremore non aveva nulla a che vedere con il freddo. Ammetto che si trattava di paura. La gioventù però ha molte risorse. Sicché finii con l’addormentarmi beatamente.Verso mezzanotte (o prima?) mi svegliai: in prossimità del mare c’era da aspettarsi che l’aria rinfrescasse, e la coperta di casa non poteva sostituire la tenda. Mi coprii meglio che potei e mi girai sull’altro fianco. Fu allora che accadde. Sulla vetta dei pini, alla mia sinistra, posava la luna più grande che i miei occhi avessero mai visto. Gialla, con striature color sangue, era enorme, terribilmente vicina – e silenziosa. Cerco di spiegarmi. C’erano la grandezza, la vicinanza e il colore – ma c’era anche il silenzio. Rinuncio a spiegarmi. C’era il silenzio. Era questa la luna che ho conosciuto. La storia non è né pittoresca né impressionante – se non per chi l’ha vissuta. Ma ognuno parli di quel che sa. Del resto, ora che gli uomini approderanno sulla luna e ci cammineranno sopra, so anche che, nossignore, la luna non perderà il suo mistero, neppure per quelli che vi andranno e che ne torneranno. Non sarà rubata ai poeti e agli innamorati. Sapere che stanno lassù due uomini, o duecento, o diecimila – toglie forse qualcosa alla profondità del chiaro di luna? Sarà meno evocativa e misteriosa la luce della luna piena che si spande sulla terra? Se da lontano vedo un’isola, una città, una montagna, il fatto che siano abitate diminuirà di un atomo la loro bellezza? Si tranquillizzino i sognatori, i contemplativi. Anche la terra vista da lontano è, a quanto dicono, uno spettacolo di indescrivibile bellezza. E per quel che so, gli occhi degli astronauti non si accorgono delle bruttezze terrestri. Ordunque, amici miei, non perdiamo la terra, che è ancora l’unico modo per non perdere la luna. Un salto nel tempo È stato magnifico, senza dubbio. Una lunga notte bianca, con gli occhi incollati al rettangolo luminoso del televisore, in attesa del momento in cui sarebbe stato trasmesso il primo passo sulla luna. Ore e ore a lottare contro il sonno per non perdere l’immagine che mai più si sarebbe ripetuta. Ma se la fantasia non ci fosse venuta in soccorso (quella fantasia che per migliaia e migliaia di anni anche della luna si è nutrita), forse sarebbe subentrato in ciascuno di noi un forte e amaro senso di delusione: ci appariva tutto come
un semplice episodio di un film di fantascienza, tecnicamente primitivo, scadente nel montaggio. Gli stessi movimenti degli astronauti avevano una flagrante somiglianza con i gesti delle marionette, come se braccia e gambe fossero tirate da fili invisibili – fili lunghissimi, tenuti dalle dita dei tecnici del Centro di Houston, che, attraverso lo spazio, li facessero muovere a seconda delle necessità. Tutto cronometrato. Perfino il pericolo era incluso in uno schema. Nella più grande avventura della storia non c’è stato posto per avventure. Ma l’amica fantasia ci è venuta in soccorso. Soprattutto in quei rapidi secondi in cui la telecamera ha spazzato il breve orizzonte lunare. Allora abbiamo sentito il nodo in gola, il panico, la paura dell’ignoto – il reale prestigio della grande incognita dello spazio. Poi, per nostro sconforto (per il mio, almeno), quello stravagante cerchio in cui sono comparsi il telefono e il profilo del presidente degli Stati Uniti. Il terribile silenzio lunare meritava molto di più che un discorso di circostanza. È così che ho visto il primo allunaggio. Ma quando le immagini sono finite, non è finita la fantasia. Avevo ancora davanti agli occhi il paesaggio arido e deserto della luna, le pietre che mai nessuna mano aveva fatto cambiare di posto, la pianura certamente coperta di polvere che mai nessun passo aveva calcato. Ed è stato allora che la fantasia mi ha aggredito in pieno. Ha deciso lei che il viaggio sulla luna non era stato un salto nello spazio, ma un salto nel tempo. Ho cercato di ragionare, ma ho desistito. Avrei saputo subito dove voleva portarmi la fantasia. Ed è stato molto semplice. Secondo lei, gli astronauti lanciati nello spazio avevano camminato lungo il filo del tempo, si erano posati di nuovo sulla terra, non la terra che conosciamo, bianca, verde, bruna e azzurra, ma la terra futura, una terra che occuperà ancora la stessa orbita, girando attorno a un sole spento – anch’essa morta, deserta di uomini, di uccelli, di fiori, senza un sorriso, senza una parola d’amore. Un pianeta inutile, con una storia antica e senza nessuno per raccontarla. Non sono un’eccezione. La mia morte personale è una certezza che oggi mi disturba, dopo avermi terrorizzato nell’adolescenza. Ho rivissuto quel terrore quando gli occhi penetranti della fantasia mi hanno mostrato la morta immagine di un pianeta, dove non ci sarà nulla che mi sia appartenuto, nulla che sia appartenuto all’umanità di cui sono parte. Ben poca cosa sembra la morte individuale di fronte a questa mano del tempo che inevitabilmente spazzerà via dalla terra gli uomini e le loro opere. E se ancora sarà vivo in qualche luogo, se avrà trasferito la sua casa su un altro pianeta, questo globo resterà forse come un rimorso – di un bene che non era meritato e per ciò si è perduto. La terra morirà, sarà quel che oggi è la luna. Che almeno la sua storia non sia in eterno la sequela di miserie, guerre, fame e torture che è stata finora. Perché non si cominci a dire già oggi che l’uomo, alla fin fine, non è servito a nulla.
Sempre più soli Voglio chiedere scusa ai miei tre lettori. Tempo fa scrissi su questo stesso giornale una cronaca che intitolai Un azzurro per Marte. Era una piccola utopia, un breve esercizio della fantasia – ma era anche un amaro colpo d’occhio sui materiali che costituiscono ciò che chiamiamo civiltà terrestre. Alla fine, il Pianeta Rosso, quello dei misteriosi canali che ha ispirato a Bradbury le terribili Cronache marziane, sembra morto, come la luna. Lo dicono le fotografie: quei crateri sono diventati per noi sinonimo di aridità, di desolazione, di abbandono. Speriamo che soffi almeno un po’ di vento perché il pianeta non sia così solo. Soli siamo noi, a quanto pare. Il sistema solare non ci offre ormai grandi speranze. Giove è molle, fluido, non ha consistenza per sopportare i duri passi dell’uomo; su Saturno la temperatura si aggira sui centocinquanta gradi sotto zero, ci sono metano e ammoniaca, gas non certo consigliabili ai polmoni umani; su Mercurio il piombo sarebbe sempre fuso sulla faccia rivolta al sole; Urano e Nettuno sono talmente freddi che i gas comuni si potranno trovare solo allo stato liquido; di Plutone basti dire che è di quattromila milioni e mezzo di chilometri la distanza minima che lo separa dal sole; anche da Venere sembra che non ci sia da aspettarsi molto; e Marte è la nostra più recente delusione. Sicché siamo soli. Attorno al sole si muove una corona di pianeti la cui unica pietra preziosa – smeraldo, rubino, diamante – è la terra. Il resto sono polveri, fornaci., vortici di ghiaccio. E qui, dove la vita è stata possibile (pur con polveri, qualche fornace, ghiaccio a sufficienza), non troviamo niente di meglio che inventare procedimenti per eguagliare in aridità, desolazione e abbandono i pianeti che ci accompagnano. E siamo tanto impegnati in questo che ormai non ci è impossibile aprire pozzi atomici, in obbedienza allo stile paesaggistico della luna, e ora di Marte: una sorta di orografico luogo comune: il cratere. Da questo mio modesto buco (mi perdoni il lettore, ma tutto è buchi, pozzi, crateri) credo che dovremmo ripensare a quel che stiamo facendo. Va bene divertirsi, andare al mare, alle feste, allo stadio, questa vita dura due giorni, l’ultimo chiuda la porta – ma se non ci decidiamo a guardare il mondo seriamente, con occhi severi e giudicanti, la cosa più certa è che avremo un giorno solo da vivere, che lasceremo la porta aperta su un vuoto infinito di morte, oscurità e fallimento. Accettiamo di essere soli. Accettiamolo senza disperazione. Da questa parte della galassia, in un insignificante sistema solare, ecco la nostra patria. La popolano tre miliardi di persone, altrettanti satelliti vivi che forse non potrebbero sussistere fuori di essa. Accettiamo allora di essere soli e a partire da qui facciamo la nuova scoperta di essere invece accompagnati – gli uni dagli altri. Quando volgeremo gli occhi al cielo stellato, con la furiosa voglia di arrivarci, anche se solo per trovare quel che non è per noi, anche se dovremo rassegnarci all’umile certezza che in molti casi non basterà una vita
per fare il viaggio – quando volgeremo gli occhi al cielo, ripeto, non dimentichiamo che i nostri piedi poggiano sulla terra e che è su questa terra che il destino dell’uomo (questo nodo misterioso che vogliamo sciogliere) deve compiersi. Per una semplice questione di umanità. Le vacanze Oggi parlerò delle vacanze: è tempo loro, come si dice che è tempo di ciliegie. Un altro albero dà questi frutti, e lo stesso albero li coglie: i giorni ce le portano, i giorni ce le tolgono. Così scorrendo passa il tempo, ma all’approssimarsi delle vacanze è tutto un desiderarle, fare progetti, cullare illusioni. Arrivato il momento, abbiamo davanti a noi uno spazio vuoto che ci aspetta, come una grande sala che dobbiamo occupare. Che ci metteremo dentro? C’è chi passa qualche giorno al suo paese, chi si arrischia all’estero, chi conta i centesimi per un ombrellone in spiaggia. C’è anche chi non esce di casa e resta a guardare, tutto il giorno, la strada dove abita. Sia come sia, i giorni delle vacanze acquistano d’improvviso un valore che gli altri non avevano. Sono giorni totalmente disponibili, alla mercé della fantasia e delle possibilità di ciascuno. Il tempo si è scollegato dal meccanismo dell’orologio, è una dimensione non delimitata, informe, un pezzo di argilla davanti alle mani che lo modelleranno. Le vacanze sono anche un’opera di creazione. Non stupisce, dunque, che al loro approssimarsi un subito timore ci prenda. Quell’intervallo tra due rappresentazioni, quella radura circondata da foresta nera su ogni lato – che ne faremo dell’argilla del tempo? Se torniamo al paese, bastano due giorni per rivedere i conoscenti, i luoghi e la famiglia; se andiamo all’estero, che risultato trarremo da quattromila chilometri in otto giorni? E se andiamo al mare? E se restiamo a casa? E poi, ci sono un sacco di complicazioni: orari, pasti indigesti, notti mal dormite, vecchie storie di famiglia, stanchezza di viaggi andata-e-ritorno, rabbia di stare rintanati al chiuso. Ah, le vacanze. Quando finiscono, ci restano ricordi sbiaditi, come di un vecchio sogno. Nulla è accaduto come l’avevamo immaginato: è piovuto, ci è venuto mal di denti, i musei erano troppi, i paesaggi non erano così belli come in fotografia, se ne è andato un mucchio di soldi – o non ce ne sono stati da spendere. E ricomincia il lavoro in rigoroso stato di collera, perché peggio dell’aver avuto e non aver più è restare al di qua di quel che si è sognato. In fondo, questo sogno, tante volte rinnovato e altrettante frustrato, è appena il desiderio inconscio di ripetere le uniche vacanze meravigliose che abbiamo avuto: quelle dell’infanzia – mesi infiniti per i quali non c’erano progetti, perché allora non si facevano e perché, prima ancora di viverli, erano già realizzati. Il mondo era tutto da scoprire – e il mondo entrava nel cerchio che gli occhi tracciavano. Due alberi e uno stagno: l’Europa. Un cammino tra le rocce: l’America. O l’Asia. O l’Africa. Nuotare o navigare nel fiume era lo stesso che attraversare l’oceano. E scoprire un nido abbandonato valeva quanto la caverna di Alì Babà. Per questo oggi le
vacanze non possono essere riposo. Vogliamo, a viva forza, scoprire il mondo, come se fossimo noi i primi: altro non significa la nostra soddisfazione quando costringiamo un amico a confessare di non aver visto, al Louvre, quella statua greca che a nostro avviso vale da sola il viaggio. È tutto un’illusione. Il mondo è stato visto e imparato a memoria. Nessuno scoprirà l’Europa, e la statua greca, alla fine, è una misera copia romana. Ma che importa? Dichiaro qui solennemente che quest’anno le mie vacanze saranno, quanto a rivelazione e scoperta, uguali a quelle in cui, con gli occhi nuovi dell’infanzia, mi capitò di trovare una fonte che nessuno conosceva. E se non sarà quest’anno, sarà per il prossimo. Perché la fonte sta lì. L’estate La chiamano mantello dei poveri, segno di freddo il resto dell’anno. D’estate scappano di casa gli adolescenti, desiderio di fuga nato forse in primavera, ma solo la promessa dei giorni vibranti e delle notti benigne maschera di conforto i pericoli dell’avventura. L’estate è tutta un richiamo, un clamore di festa che si ode nel ronzio delle grandi calure. E quando il sole popola di rive e isole d’ombra l’oceano infuocato di luce, siamo tutti un po’ naufraghi e ansimiamo dolcemente, mentre il sudore stilla dai pori come fontane e ci bagna di sale. L’estate è esigente, non aspetta. Si propone come la polpa carnosa di un frutto che reclama la bocca predestinata – e che marcisce, inutile, se il tempo è passato invano. Sul ramo più alto dell’albero il frutto rivolge al sole la pelle profumata e convoca gli uccelli alla gioia della maturazione. Ma la corona che lo merita è la mano dell’uomo. E il frutto riposa un istante sotto lo sguardo che lo desidera, mentre al suo interno, come il sangue che d’improvviso scorre più veloce e imperioso, il succo si prepara alle migrazioni della sostanza. E c’è il mare, che l’estate inquieta e placa. E la frescura delle onde che di colpo s’induriscono e coprono di indolenti fili d’acqua le lunghe sabbie ardenti. E l’ombra di un canneto abbandonato che disegna al suolo il lento passo delle ore luminose. Tutto ciò ha senso se sotto il sole e sulla sabbia, e dentro l’acqua, e proiettato nella nitida trasparenza della distanza, il corpo è accompagnato dall’uguale certezza che lo riflette e sublima. L’estate promette, e mantiene. Cantano meno gli uccelli, le messi hanno perso quel che sembrava eterno rigoglio – ma è il tempo dei nidi, e la stoppia, ormai insecchita e rigida, si aggrappa alle dure zolle dove il grano, per grazia del sole e della terra, ha firmato con l’uomo il più sacro degli impegni: tu mi rispetti, io ti alimento. In questi giorni di fuoco è necessario essere di fuoco. L’estate è un corpo di donna che avanza come polena, fiamma che rompe le fiamme. Ha in mano gli innumerevoli fiori che resistono al tempo. Trasporta con sé un segreto di vita che corre sulle onde del mare, sulle cime rumorose degli
alberi, tra la soffice lanugine che riveste l’incavo delle ali degli uccelli. L’estate canta trionfale. È un grido di giubilo lanciato verso i misteri minacciosi. E diviene un mormorio dentro le notti scure e profumate, quando una lieve e tiepida brezza giunta dalle arche dell’orizzonte passa sul volto come un’imponderabile carezza di mani amate. Canto l’estate che mi canta. E giro lentamente il corpo in questo spazio come un figlio del sole, mentre il mare risplende. Pianto i piedi sulla sabbia che ubriaca e colgo con le mani avide i frutti più alti. È tempo loro. Mi distendo lungo sulla barca portata dalla corrente e vedo passare rami verdi, bianche nubi, cieli di azzurro e perla, uccelli prodigiosi. Cade su di me una profonda e dolorosa allegria: verrà l’inverno, ma oggi è estate.
Da “Il bagaglio del viaggiatore” Ritratto di antenati Non sono mai stato affetto da quella vanità necrofila che spinge tanta gente a indagare il passato e i trapassati, ricercando i rami e gli innesti dell’albero che nessuna botanica menziona – l’albero genealogico. Penso che ciascuno di noi sia, soprattutto, figlio delle proprie opere, di quel che va facendo mentre sta quaggiù. Sapere da dove veniamo e chi ci ha generati ci dà solo un po’ più di fermezza civile, ci concede solo una specie di franchigia per la quale non abbiamo dato nessun contributo, ma che ci risparmia risposte imbarazzanti e sguardi più curiosi di quel che la buona creanza dovrebbe permettere. Essere figlio di qualcuno molto noto perché non restino in bianco le righe della carta d’identità è come venire al mondo timbrato e fornito di salvacondotto. Per quanto mi riguarda, non mi disturba affatto sapere che al di là della terza generazione regnano le tenebre assolute. È come se i miei nonni fossero nati per germinazione spontanea in un mondo già del tutto formato, di cui non avevano nessuna responsabilità: il male e il bene erano opera altrui che ad essi spettava appena ricevere nelle loro mani innocenti. Mi piace pensare così, specialmente quando evoco un bisnonno materno, che non feci in tempo a conoscere, oriundo dell’Africa settentrionale, sul quale mi raccontavano storie favolose. Lo descrivevano come un uomo alto, magrissimo e scuro, dal volto di pietra, dove un sorriso era così raro da rappresentare un avvenimento. Mi dissero che aveva ucciso un uomo in circostanze misteriose, a freddo, come chi strappa un arbusto. E mi dissero anche che la vittima aveva ragione: ma non aveva il fucile. Malgrado una così densa macchia di sangue in famiglia, ricordo volentieri quell’uomo venuto di lontano, misteriosamente di lontano, da un’Africa di burnùs e sabbia, di montagne fredde e ardenti, forse un pastore, forse un brigante – e che lì si era iniziato all’antica scienza agricola, da cui subito si allontanò per andare a sorvegliare maremme, il fucile sotto braccio, camminando a passo elastico e ritmato, infaticabile. Presto scoprì i segreti
dei giorni e delle notti, e presto scoprì anche il fascino tenebroso che esercitava sulle donne il suo mistero di uomo venuto dall’altra parte del mondo. Proprio per questo ci fu il delitto di cui parlavo. Non lo presero mai. Viveva lontano dal villaggio, in una baracca tra i salici, e aveva due cani che guardavano gli estranei fissamente, senza abbaiare, e non smettevano di guardarli finché non si allontanavano, tremando. Questo mio antenato mi affascina come una storia di predoni arabi. Al punto che se si potesse viaggiare nel tempo, vorrei vedere lui piuttosto che l’imperatore Carlo Magno. Più vicino a me (tanto vicino che stendo la mano e tocco il suo ricordo carnale, il viso secco e la barba lunga, le spalle magre che da lui ho ereditato), quel nonno guardiano di porci, dei cui genitori non si sapeva niente, deposto nella ruota della Misericordia, uomo segreto per tutta la vita, di scarse parole, anche lui sottile e alto come una pertica. Costui fu preso di mira dal rancore di tutto il villaggio, perché era venuto da fuori, perché era figlio dell’erba, e, malgrado tutto, di lui si era innamorata la mia nonna materna, la ragazza più bella di quel tempo. Per questo mio nonno dovette passare la sua prima notte di nozze seduto sulla porta di casa, all’addiaccio, con un bastone ferrato sulle ginocchia, in attesa dei rivali gelosi che avevano giurato di fracassargli il tetto a sassate. Alla fine, non si fece vivo nessuno, e la luna viaggiò tutta la notte in cielo, mentre mia nonna, a occhi aperti, aspettava suo marito. Ed era già l’alba quando si abbracciarono. E adesso i miei genitori in questa fotografia di oltre cinquant’anni fa, scattata quando mio padre era già tornato dalla guerra – quella che sarebbe rimasta per sempre la Grande Guerra – e mia madre era incinta di mio fratello, morto bambino di difterite. Stanno tutti e due in piedi, belli e giovani, di fronte al fotografo, con un’aria di gravità solenne, forse timore della macchina che fissa l’immagine impossibile da trattenere, sui visi così preservati. Mia madre ha il gomito destro appoggiato su un’alta colonna e nella mano sinistra, abbandonata lungo il corpo, tiene un fiore. Mio padre passa il braccio dietro la schiena di mia madre e la sua mano callosa appare sulla spalla di lei come se fosse un’ala. Entrambi se ne stanno, intimiditi, su un tappeto a fiori. In fondo, la tela mostra vaghe architetture neoclassiche. Doveva pur arrivare il giorno in cui avrei raccontato queste cose. Niente di ciò ha importanza, se non per me. Un nonno berbero, un altro nonno deposto nella ruota (figlio segreto di una duchessa, chissà?), una nonna meravigliosamente bella, due genitori gravi e gentili, un fiore in un ritratto – quale altra genealogia può interessarmi? a quale albero migliore di questo potrei appoggiarmi? La mia ascesa all’Everest Sarà a causa della pressione atmosferica o per effetto di un imbarazzo di stomaco, certi giorni ci mettiamo a guardare al tempo trascorso della nostra vita e lo vediamo vuoto, inutile, come un deserto di sterilità sul quale
brilla un grande sole autoritario che non osiamo guardare in faccia. Qualsiasi angoletto ci farebbe allora comodo per celare la vergogna di non aver raggiunto un pianoro qualunque da dove ci si riveli un altro paesaggio più fertile. Mai come in tali occasioni ci si rende conto di quanto sia difficile questo compito apparentemente immediato del vivere, che non sembra richiedere nessun apprendistato. È in tali momenti che facciamo risoluti progetti di modificare il mondo. Lo specchio è di grande aiuto nell’approntare le fattezze adeguate al modello che ci disponiamo a seguire. Ma sale la pressione, il bicarbonato ha riequilibrato l’acidità – ed ecco, la vita continua, zoppicante, come se avesse un chiodo nella scarpa e un’invincibile pigrizia di toglierlo. Sicché il mondo sarà di fatto trasformato, ma non da noi. Non starò, tuttavia, commettendo una grave ingiustizia? Non ci sarà nel deserto una subita ascensione che ancor da lontano affretti l’impari vertigine che è la densa zavorra che ci giustifica? In altre parole, e più semplicemente: non saremo tutti noi trasformatori del mondo? un dato e breve minuto dell’esistenza, non sarà questa la nostra prova, invece di tutti i sessanta o settanta anni che ci sono toccati in sorte? Il guaio è se incontriamo questo minuto in un passato lontano, o se al momento non abbiamo occhi per altre ascensioni più imminenti. Ma forse ci sarà una scelta deliberata, a seconda del luogo in cui parliamo del nostro deserto personale, o delle orecchie che ci ascoltano. Oggi, per esempio, quale che ne sia il motivo, sto vedendo, a distanza di trenta e più anni, un albero gigantesco, tutto proiettato in altezza, che sembrava, nel pantano circolare e liscio, l’asta di un grande orologio solare. Era un frassino dalla corazza rugosa, tutta fenditure alla base, e che sviluppava lungo il tronco una serie di protuberanze ramose, come aggetti che promettevano una facile scalata. Ma erano per lo meno trenta metri d’altezza. Vedo un ragazzino scalzo girare attorno all’albero per la centesima volta. Odo il battito del suo cuore e sento il palmo umido delle sue mani e un vago odore di linfa calda che sale dall’erba. Il ragazzo alza la testa e vede lassù in alto la cima dell’albero che si agita lentamente come se stesse pennellando il cielo d’azzurro. Le dita del piede scalzo si aggrappano alla corteccia del frassino, mentre l’altro piede ondeggia l’impulso che farà arrivare la mano ansiosa al primo ramo. Tutto il corpo si stringe contro il tronco aspro, e l’albero ode sicuramente i colpi sordi del cuore che gli si affida. Fino al livello degli altri alberi prima conquistati, l’agilità e la sicurezza si alimentano dell’abitudine. Ma a partire da li, il mondo si allarga d’improvviso, e tutte le cose, fino ad allora familiari, si vanno facendo estranee, piccole, è come un abbandono di tutto – e tutto abbandona il ragazzo che sale. Dieci metri, quindici metri. L’orizzonte gira lentamente e barcolla quando il tronco, sempre più sottile, oscilla al vento. E c’è una vertigine che minaccia e mai si decide. I piedi scorticati sono come artigli che si afferrano
ai rami e non vogliono lasciarli, mentre le mani cercano frementi la vetta, e il corpo si contorce contro il corpo verticale dell’albero. Il sudore scorre, e di repente un singhiozzo secco irrompe all’altezza dei nidi e dei canti degli uccelli. È il singhiozzo della paura di non aver coraggio. Venti metri. La terra è definitivamente lontana. Le case appiattite sono insignificanti, e le persone è come se fossero scomparse, e di tutte restasse appena il ragazzo che sale – proprio perché sale. Le braccia già possono cingere il tronco, le mani si uniscono dall’altra parte. La cima è ormai prossima, oscillante come un pendolo capovolto. Tutto il cielo azzurro si addensa sopra l’ultima foglia. Il silenzio copre il respiro affannoso e il sussurro del vento tra i rami. È questo il grande giorno della vittoria. Non rammento se il ragazzo sia arrivato in cima all’albero. Una nebbia persistente copre questo ricordo. Ma forse è meglio così: non aver raggiunto allora il pinnacolo è una buona ragione per continuare a salire. Come un dovere che nasce da dentro e perché il sole è ancora alto. Molière e la Capinera Mi metto a pensare alle coppie celebri di cui sono piene la storia e la letteratura – Paolo e Virginia, Ettore e Andromaca, Otello e Desdemona, Pedro e Ines, e tante tante altre, senza dimenticare accoppiamenti e connubi che la natura tollera appena nella mitologia, come quelli di Leda e il Cigno, di Europa e il Toro – mi metto a pensare a tutto questo e sorrido tra me, mentre osservo dalla finestra della mia casa il dialogo di piani che i tetti vanno alternando per il pendio. Ho nel ricordo un’altra finestra, stretta, incassata tra due muri che a malapena mi lasciavano scorgere la strada (sesto piano, abbaino, vicino al cielo), da dove, per tutto il tempo che vi ho abitato, potevo vedere poco più che tetti e nuvole, e un sole che faceva tutti i giorni lo stesso percorso e che spostava, da un lato all’altro, fino a farla salire lungo la parete e scomparire, una striscia di luce sul pavimento consunto dove giocavo. Racconto queste cose in periodi lunghi, respirando profondamente per immergermi nel passato fugace dell’infanzia, in cui le verità si diluiscono e risplendono come monete d’oro abbandonate nel fango. Fu su quella sedia che posai il cartoccio di pastiglie di cioccolata che la signora Albertina mi aveva dato nella cucina dove andavo a trovarla. Potevo anche uscire nel giardino, piccolo e umido, con i vialetti pieni di muschio e terriccio, dove si trascinavano, lenti e grigi, sulle molte zampette biancastre, i porcellini di sant’Antonio che spesso non volevano arrotolarsi, con grande scandalo della mia fiducia negli istinti naturali che li facevano appallottolare alla più piccola carezza sul dorso corazzato di anelli. E in piena notte mi alzai piano piano, per non svegliare i miei genitori che dormivano nella stessa stanza, e andai a cercare, palpando il buio che mi copriva di ragnatele le mani e il viso, il cartoccio di pastiglie di cioccolata, e in tre passi furtivi, con il cuore che mi
batteva forte, tornai nel mio lettino, e scivolai tra le lenzuola mangiando, felice, finché mi addormentai. Quando la mattina mi svegliai, avevo schiacciato sotto di me quel che restava del pacchetto, appiccicoso e molle per il calore. Piansi per il dispiacere, ma mia madre non mi picchiò, e ancora oggi le bacio le mani per questo. Avevo otto anni e sapevo già leggere molto bene. Scrivere, non tanto, ma facevo pochi errori per quell’età, solo la calligrafia era brutta, e tale è rimasta. Scrivevo su quei vecchi quaderni con le belle lettere disegnate, che ripetevo con prodigi d’attenzione, ma già alla fine della riga cominciavo a inventare un alfabeto nuovo, che non riuscii mai a organizzare completamente. Leggevo molto bene i giornali e sapevo tutto quel che accadeva nel mondo. Almeno, io credevo che fosse tutto. Avevo anche dei libri: una guida alla conversazione portoghesefrancese, finita lì non so come, le cui pagine, divise in tre parti, erano per me un enigma che decifravo solo parzialmente, poiché a una colonna di sinistra, in portoghese, che potevo capire, se ne affiancava un’altra in francese, per me come cinese, e infine la pronuncia figurata, di gran lunga peggiore di tutti i crittogrammi del mondo. C’era poi un altro libro, uno solo, molto grande, rilegato in azzurro, che tenevo a lungo sulle ginocchia, per poterlo leggere, e nel quale si narravano profusamente le avventure romantiche d’una fanciulla povera che viveva in un mulino, così bella che la chiamavano la Capinera. Per questo il libro s’intitolava La Capinera del mulino: l’autore, se la memoria non m’inganna, era un certo Emile de Richebourg, un avventuriero specialista in storie lacrimevoli. E il libro, quando non veniva usato, passava il tempo in un cassetto del comò, avvolto in carta di seta, e mandava, quando si tirava fuori, un odore di naftalina da stordire. Mia madre me lo consegnava con attenzione e mille raccomandazioni. Di qui mi viene forse il rispetto superstizioso che ancora oggi ho per i libri: non sopporto che li pieghino, che li maltrattino in mia presenza. Per molto tempo (giorni? settimane? mesi? che dimensione ha il tempo nell’infanzia?) mi intrigò la guida alla conversazione. Vi leggevo cose che mi piacevano, che mi divertivano: fatti accaduti su treni e diligenze, cavalli spossati, bagagli smarriti, ruote che si rompevano in aperta campagna, arrivi in locande, stanze che bisognava riscaldare con grandi fuochi di legna. Anche se fatti del genere non mi capitavano da casa a scuola, pensavo che doveva essere bello vivere così, con tanti imprevisti del destino. Ma quel che più mi affascinava erano certi dialoghi a volte compassati e solenni, altre volte vivaci e rapidi come il riflesso del sole spazzato via da una finestra che si chiude. Quando mi capitava di leggerli, sorridevo in un modo che solo ora capisco: sorridevo come l’adulto ancora lontano. Solo molti anni dopo ho scoperto che in fondo conoscevo Molière fin dai tempi dell’abbaino: aveva parlato con me, era stato mia guida alla lettura, mentre la Capinera dormiva abbandonata, tra due lenzuola, nel cassetto del comò, dall’odore di naftalina ancora oggi non del tutto svanito.
E anche quei giorni E ci furono anche quei due giorni gloriosi in cui fui aiutante pastore, e la notte di mezzo, generosa quanto i giorni. Si perdoni a chi è nato in campagna, e ne è stato portato via presto, questo insistente richiamo che viene da lungi e ha nel suo silenzioso appello un’aura, una corona di suoni, di luci, di odori conservati miracolosamente intatti. Il mito del paradiso perduto è quello dell’infanzia – non ce n’è altri. Il testo sono realtà da conquistare, sognate nel presente, custodite nel futuro inattingibile. E senza di esse non so che faremmo oggi. Io almeno non lo so. I miei nonni avevano deciso, poiché la vendita dei maialini era stata fiacca, di vendere quel che rimaneva della nidiata alla fiera di Santarém, a un prezzo più favorevole e senza un’altra perdita di denaro. Perché la strada si sarebbe fatta a piedi, quattro leghe di campi, a passo di porcellino, affinché gli animali arrivassero alla fiera in condizioni di trovare un compratore. Mi avevano chiesto se volevo andare come aiuto dello zio più giovane – e io avevo detto di sì – magari carponi. Ingrassai gli stivali e sotto la tettoia scelsi il bastone che più si adattava ai miei allampanati dodici anni. Sono sempre state mute le mie gioie, per questo non detti sfogo alle grida che avevo in petto e che fino a oggi non ho potuto liberare. Ci mettemmo in cammino a metà del pomeriggio, mio zio dietro, a badare che non si perdesse nessun maialino, io davanti, con la scrofa alle calcagna. M’immaginavo essere una polena avanzante per strade e sentieri come sapevo che facevano nei mari le navi di pirati di cui parlavano i miei libri di avventure. Ogni tanto mio zio mi dava il cambio e io dovevo mangiare la polvere che le minuscole zampe degli animali sollevavano da terra. Tra loro, madre di alcuni e a prestito di tutti gli altri, la scrofa li manteneva uniti. Era quasi notte fonda quando arrivammo al podere dove saremmo rimasti fino al giorno dopo. Mettemmo le bestie in una baracca e mangiammo l’esigua cena accanto a una finestra illuminata, perché non eravamo voluti entrare (o non ci avevano lasciato?). Mentre mangiavamo, venne un servo a dirci che potevamo dormire nella stalla. Ci dette due rozze coperte e se ne andò. Sciolsero i cani e non ci restò che metterci a dormire. La porta della stalla sarebbe rimasta aperta tutta la notte, e a noi andava bene, poiché dovevamo rimetterci in cammino presto, molto prima che spuntasse il sole, per arrivare a Santarém all’apertura della fiera. Il nostro letto era un’estremità della mangiatoia che accompagnava tutta la parete di fondo. I cavalli ansimavano e battevano gli zoccoli sulle pietre del pavimento, coperto di paglia. Mi distesi come in una culla, avvolto nella coperta, respirando l’odore forte dei cavalli, tutta la notte inquieti, o almeno così mi sembravano negli intervalli del sonno. Mi sentivo stanco, con i piedi martoriati. L’oscurità era calda e densa, i cavalli scuotevano la testa con forza, e mio zio dormiva. Passavano sul tetto i rumori della notte. Mi addormentai come un angelo: così avrebbe detto mia nonna se fosse stata lì.
Mi svegliai quando mio zio mi chiamò, di primo mattino. Mi misi a sedere sulla mangiatoia e guardai verso la porta, con gli occhi ammiccanti di sonno e abbagliati da una luce insperata. Saltai a terra e andai nel cortile: avevo di fronte una luna rotonda ed enorme, bianca, che versava latte sulla notte e il paesaggio. Era tutto bianco splendente dove cadeva la luna e buio fitto nelle ombre. E io che avevo solo dodici anni, come ho già detto, sentii che mai più avrei visto una luna così. È per questo che oggi poco mi commuovono i chiari di luna: ne porto uno dentro di me che non può essere superato. Radunammo i maiali e scendemmo a valle, con cautela, tra la macchia e i dirupi, con gli animali che scombussolati dalla levataccia si perdevano facilmente. Poi tutto diventò semplice. Proseguimmo costeggiando vigne mature, per un viottolo coperto di polvere che l’umidità della notte manteneva rasoterra, e io saltai fra i tralci e colsi due grandi grappoli che m’infilai sotto la camicia mentre mi guardavo attorno per vedere se arrivava il guardiano. Tornai sul sentiero e detti un grappolo a mio zio. Riprendemmo a camminare mangiando i chicchi freddi e dolci, che sembravano cristallizzati tanto erano duri. Iniziammo a salire verso Santarém mentre il sole nasceva. Restammo alla fiera tutta la mattina e parte del pomeriggio. Non riuscimmo a vendere tutti i maialini. Perciò dovemmo fare a piedi anche il ritorno, e fu allora che accadde quel che non è mai più accaduto. Sopra di noi si formò un anello di nuvole che quasi al tramonto diventarono nere e cominciarono a rovesciare pioggia, e intanto noi andavamo avanti senza che ci cogliesse una sola goccia, mentre attorno, circolarmente, una cortina d’acqua ci chiudeva l’orizzonte. Alla fine le nuvole scomparvero. La notte avanzava lentamente tra gli olivi. Gli animali facevano quei rumori che sembrano un interminabile chiacchiericcio. Mio zio, davanti, fischiettava piano piano. Tutto questo mi fece venire una gran voglia di piangere. Nessuno mi vedeva, e io vedevo il mondo intero. Fu allora che giurai a me stesso di non morire mai. Di quando morii rivolto verso il mare Lasciai la laguna a metà mattino, quando il sole aveva ormai pulito tutto il cielo. Sull’acqua, che le rapide brezze agitavano appena, non era rimasta traccia della nebbia densa che, all’alba, aveva ricoperto la superficie. Era valsa la pena di svegliarsi presto e vedere la bruma rotolare sulla luna in fiocchi sciolti, come se il sole la spazzasse accuratamente fino a non lasciar nulla tra l’acqua e il cielo azzurro. Riordinai il bagaglio, me lo gettai sulle spalle e, scalzo, cominciai la lunghissima camminata lungo la spiaggia, tra il battere delle onde e il quieto scenario della costa vermiglia. La marea cresceva, ma c’erano ancora estese tovaglie di sabbia bagnata e dura, su cui era agevole camminare. Il sole era caldo. A capo scoperto, il corpo un po’ inclinato per compensare il peso dello zaino,
marciavo spedito, come era mia abitudine, cercando di dimenticare che le gambe mi appartenevano, lasciandole vivere di vita propria, del loro movimento meccanico. Mi è sempre piaciuto camminare così, venti o trenta chilometri senza una sosta, appena il rapido sorso alla cannella d’una fonte, e via. Non mi fermai neppure per pranzare: mi mancava soprattutto la pazienza di cucinare sulla spiaggia. Mi limitai a mangiare due arance che si disfacevano in dolcezza. Addentavo buccia e polpa insieme e poi sputavo lontano i granelli, come un ragazzo felice. Quando le cinghie dello zaino cominciarono a tagliarmi la pelle bruciata, mi tolsi la camicia, ne feci un cercine che accomodai sulla spalla sinistra e vi appoggiai il peso. Proseguii, alleviato dei dolori. Il sole ardeva sempre più infuocato. Lo sentivo sulla schiena come il palmo d’una mano rovente, mentre sulla nuca cominciava a nascere e a irradiarsi una specie di torpore. Il sudore faceva rabbrividire la pelle in quel punto. Mi pareva di scoppiare e mi sfregai il viso, le spalle, la nuca. Mi gettai manciate d’acqua sulla schiena. Lo zaino s’era fatto più pesante. Lo passai sulla spalla destra e la camicia scivolò lenta sulla sabbia incandescente. Rimasi a guardarla, come se non l’avessi mai vista, mentre le cinghie mi solcavano la spalla. Riuscii tuttavia a fare ancora qualche passo e fu necessario un grande sforzo per capire che dovevo tornare indietro e raccoglierla. Mi sentivo strano, come sospeso nell’aria, e questa sensazione non mi abbandonò neppure quando mi sedetti e mi lasciai cadere sulla schiena. Avvertivo dentro di me una nausea ondeggiante che mi costrinse a girarmi su un fianco. Il sole mi batteva sulle palpebre chiuse: tra i miei occhi e il cielo c’era una cortina rosa, il colore delicato del sangue che mi scorreva confusamente nel corpo. Rapido mi passò il pensiero che stavo sentendo i primi effetti di un’insolazione. Inquieto, mi alzai di scatto, mi scrollai come un cane e ripresi la marcia. Frattanto la marea mi aveva spinto verso la sabbia asciutta, che vibrava sotto il calore. Dalla riva giungeva il ronzio di migliaia di insetti che il sole ubriacava. Nelle pause del cedimento, lo strepitio, aspro come lo stridere d’una sega circolare, mi stordiva e accentuava la sensazione di nausea che non mi aveva lasciato. Fu così per molti chilometri. Varie volte mi fermai e decisi di non fare più un passo. Ma subito la calura mi costringeva a rialzarmi. Dal lato della costa, neppure un’ombra. Il sole ora la bruciava di fronte e continuava a trapanarmi la nuca. Persi coscienza. Andavo come un automa, ormai senza sudore, con la pelle secchissima, salvo le grosse gocce che si formavano sulle tempie e scorrevano lentamente, vischiose, lungo il viso. Passò così tutto il pomeriggio. Il sole cominciava ad abbassarsi quando raggiunsi il villaggio che doveva essere la mia prima tappa. là potevo mangiare, dissetarmi, riposarmi all’ombra. Ma non feci nulla di questo. Mi infilai le scarpe come in sogno, gemendo per il dolore dei piedi bruciati, e
imboccai il sentiero che serpeggiando saliva su per la costa. Mi fermai ancora una volta, come sperduto, guardando dall’alto il mare che si mutava in una macchia scura. Continuai a salire, e mi trovai fuori strada, senza sapere come, a inerpicarmi fra i massi fino al ciglio dell’altissima roccia a picco. Il terreno si inclinava pericolosamente, prima di inabissarsi in verticale. Decisi di passare lì la notte. Mi sdraiai con i piedi verso il mare e il precipizio, mi avvolsi nella coperta e, ardente di febbre del sole, chiusi gli occhi. Mi addormentai e sognai. Quando riaprii gli occhi, il sole già sfiorava l’orizzonte. “Che ci faccio qui?”, mi chiesi ad alta voce. E fu con movimenti di paura che riunii le mie cose e tornai sul sentiero, fuggendo. Camminavo e pensavo che lì non c’ero io, che il mio corpo morto era rimasto rivolto verso il mare, sull’alto della costa, e che il mondo era tutto pieno d’ombre e di confusione. La notte mi colse sulla sponda del fiume, davanti a una città che non riconoscevo, come le torri minacciose degli incubi. Ancora oggi, dopo tanti anni, mi chiedo che immagine di me sarà rimasta dispersa nel biancore delle sabbie o fissata in pietra nella costa tagliata dal vento. E so che non c’è risposta. I personaggi sbagliati Non mi era andata bene la giornata. Suppongo di non potermela prendere con nessuno, ma mi piacerebbe davvero che mi dicessero per quale infausto destino certe mattine arrivano così aride, così nemiche, così armate di coltello e continuano a esserlo fino a tarda sera, come una condanna a vita. Ci infiliamo nella notte come se ci avvolgessimo in un bozzolo e cominciamo a innalzare i muri che il giorno ha abbattuto lasciandoci fragili, sfibrati, più afflitti d’una tartaruga girata a pancia all’aria (altri paragoni: pesce fuor d’acqua, serpente con la spina dorsale rotta, maiale alla mercé del castratore). Uscii per andare a cena, sebbene l’amaro di fiele che avevo in bocca smorzasse il piacere dell’appetito. Camminai rasente i palazzi, che è il mio modo di rendermi invisibile, calpestando le prime immondizie della notte, mentre uccidevo sul nascere, deliberatamente, le idee che preferivano cammini coerenti. Passando, gettavo rapide occhiate dentro le osterie e le pasticcerie che offrivano la televisione ai clienti: sempre lo stesso ambiente da acquario, la stessa luce livida delle lampade fluorescenti, gli stessi colli torti ad angoli uguali, gli stessi volti imbambolati o con gli occhi fissi. La stessa desolazione. In giornate come queste non mi salvo né sono una buona compagnia. Sono contento di sapere che gli amici sono lontani, che i nemici non mi scovano, e che né gli uni né gli altri verranno da me a reclamare le prove di amicizia e di odio che sono le monete di scambio del nostro commercio. E se qualcosa desidero veramente in tali circostanze, è trovare le parole minime, brevissime, le onomatopee, se possibile, che mi spieghino il mondo fin
dall’inizio. Perché, quanto al futuro, posso segnare tre date per distrarmi: una, in cui probabilmente sarò ancora vivo; un’altra, in cui forse non lo sarò più; la terza, in cui non lo sarò certamente. Fino a quel giorno, lavorare sempre, anche per cose che non vedrò. Mi capitò di scegliere uno di quei ristoranti apparentemente a prezzi modici, che però diventano facilmente rovinosi se si abbocca all’esca del piattino di olive e del vinello in bottiglia. Chiesi non ricordo che, forse una di quelle pietanze che la memoria dell’infanzia si ostina a insinuare, come un tropismo, una malinconica delusione. Mi rifaccio con il vino ghiacciato, che calma e riconforta, luce interiore che percorre il corpo e lascia tracce scintillanti nelle vene. Arrivò finalmente il caffè. È il momento migliore del pasto, quello in cui si alza la testa per guardare ciò che ci circonda. Era orrendo quel che c’era da vedere: un arredamento stravagante, carico di luci colorate, di maioliche e mosaici con motivi da tappezzeria ricca, soffitti foderati di sughero e, in aiuole pensili, piante di plastica, eterne, senza odore, abominevoli. Chiesi il conto, chiesi rapidità e, mentre il registratore di cassa mi preparava l’enigma delle abbreviazioni, cifre, percentuali e somme esorbitanti, guardai alla mia sinistra, da dove veniva un trascinare ostensivo di sedie. Si stavano sedendo tre donne di mezza età, cinquanta-sessanta, una di loro immensa, strabordante, le altre bassine e raggrinzite. Le odiai subito, per istinto. E indovinai chi erano, quel che erano, come erano. Erano personaggi sbagliati, quelli che vivono per interposta imitazione, gli alienati per opzione. Erano venute al ristorante solo per mostrare che fumavano. Facendo maiuscole con i gesti, presero dalle borsette i pacchetti e gli accendini (tutte avevano l’accendino) e tirarono fuori le sigarette allo stesso tempo, mascolinamente, senza inibizioni. Le accesero, lanciarono grossi sbuffi di fumo, chiesero caffè, grappa, conversarono. Una di loro disse che fumava due pacchetti al giorno, e la cicciona, con l’aria di chi c’era già passata e ora si cautelava, espresse l’opinione che erano troppi, al che l’altra rispose che non poteva farne a meno, non poteva proprio, erano i nervi, sapeva di essere “viziosa”, pazienza. Avevano imparato a fumare dolorosamente, a casa, di nascosto, con violenti attacchi di tosse, ansiti mortali, vomiti, nausee, mal di testa, ma il sacrificio le avrebbe portate all’affermazione definitiva di se stesse, al podio dei vincitori, alla dignità degli uomini. Ora vivono i giorni in attesa dell’ora della grande prova pubblica, qui, nel ristorante, con caffè, grappa e sigarette, parlando ad alta voce perché nulla si perda dell’esempio. Il cameriere mi porge il piattino con il conto ipocritamente piegato. Perché mai si piegheranno i conti? Perché mai falsifichiamo tutto? Eh? Eh, le onomatopee. Pago e mi alzo, lascio qualche moneta in più, anch’esse ipocrite, passo accanto alle donne, tre parche malefiche, tre volte tre nove, e
al nove zero. Perché piegano i conti? Perché li piegano? Perché si piegano le persone? Perché si piegano? Perché? Quest’altro ristorante, dove vado ogni tanto, dev’essere uno di quei posti di Lisbona che più si prestano a una succulenta analisi sociologica. Non c’ero mai entrato da solo, ma questa volta era successo, di modo che l’attenzione morbosamente acuta che riservo alle cose, senza doversi troppo occupare del quadrato bianco del tavolo, poté circolare come un filtro intorno alla sala, cogliendo gli esemplari più degni di riflessione. Subito al primo colpo d’occhio si ravvisa chi è seduto ai tavoli: funzionari, commercianti, spiriti subalterni, tutti con quell’aria di famiglia nei modi, nelle parole, negli abiti, e soprattutto nelle idee, che definisce il piccolo borghese. Proprio per questo, tutti hanno lo sguardo spento, il viso vorace e al tempo stesso umile, l’aspetto ottuso. Il ristorante è rumoroso e grande. I pochi bambini si distribuiscono fra tutte le età, dal marmocchio bavoso e frignante al cataclisma infantile; le rughe cominciano come segni di espressione e finiscono in pelle di carta spiegazzata, buona da buttar via. Gli adolescenti sono rari, o si limitano ad accompagnare silenziosamente gli adulti. Non c’è dubbio che il Portogallo invecchia. Alla mia destra c’è una coppia di mezza età. Hanno scelto i piatti con la bocca contratta, il marito ha ordinato il vino, e sono rimasti in silenzio ad aspettare. Lui porta una spilla da cravatta che è come un mazzolino di pietre, probabilmente vere; lei non ha molto che la distingua se non, forse, il sorseggiare sibilato con cui ingoierà la minestra. Questi due non parleranno tra loro per tutto il pranzo. A sinistra ho due generazioni: una coppia di vecchi, la figlia e il genero. La figlia serve tutti dal vassoio, mettendo il cibo nei piatti come a dire: <<Mangiate!”, e riservandosi i bocconi peggiori come a dire: “Guardate! “. I vecchi sono golosi, masticano con le labbra molli e bisunte, e lanciano rapidi sguardi al vassoio per vedere se resta ancora qualcosa e se avranno il tempo di partecipare al secondo giro. Tutti bevono birra. Che dirò di quell’uomo dal viso duro, al centro d’una famiglia vociante e chiassosa, che non vedrò mai parlare e i cui occhi a volte affogano nell’odio? Che potrò raccontare del lungo tavolo a filo del mio, tutto coperto di croste e di macchie di vino versato e perduto? Che dirò di quel che diranno quelli che mi guardano di sottecchi, se è sguardo il rapido lampeggiare che dirigono su di me, se non è solo un movimento involontario e incosciente come il batter di ciglia? Poso ora gli occhi su una coppia appena entrata e che riassume tutti gli altri che masticano, deglutiscono e sudano. Sono entrambi alti, corpulenti, avventori abituali come si deduce dalla familiarità con cui trattano e sono trattati dal personale. Vanno a sedersi in un angolo, lui un po’ nascosto dalla signora che è alla mia destra e che, in questo momento, mangiata la minestra, estrae accuratamente dalla bocca, con le dita, le spine del pesce
spada; ma la moglie, che fa angolo retto con lui, è facilmente alla mia portata. Guardiamo bene, ne vale la pena. Anche da seduta, continua a essere alta. Della corpulenza è rimasto il seno prominente che invade il tavolo dalla frontiera d’una scollatura rotonda e ampia. Ha i capelli tinti di un colore che fa a pugni con gli occhi e la pelle, una specie di mogano con striature rosate. Le labbra sono sottili e dipinte oltre l’orlo a simulare una bocca carnosa. E durante il pasto si vanno sbavando, con il rossetto che sale capillarmente lungo le minuscole rughe che le solcano la parte superiore della bocca. Ha le mani coperte di anelli vistosi e usa orecchini lunghi che oscillano come bargigli di un tacchino. Il vestito è tutto in azzurri, gialli, rossi, e mostra le braccia bianche e dilaganti come cosce. Fisso lo sguardo sul braccio destro, che vedo meglio. È veramente un magnifico tocco di carne, di grandi dimensioni, che la padrona esibisce ai circostanti con sussulti e tremolii non solo casuali. Crede probabilmente che sia il suo grande atout afrodisiaco e lo offre agli uomini che le stanno attorno, lo getta nel mio piatto con un’aria da donna pubblica. Cautamente, lo spingo verso il bordo, tra i resti e la salsa ormai fredda, e chiamo il cameriere per chiedergli il caffè e che porti via tutto. E se in quel momento fosse entrata nel ristorante un’adolescente in minigonna, slanciata e sfolgorante, mostrando la pelle pulita e giovane, le borghesi avrebbero accostato le teste oleose, odiose, e l’avrebbero accusata di oscenità. Ma osceno era quel braccio enorme che il cameriere portava via nel mio piatto e che sarebbe finito nel secchio della spazzatura. L’estate è il mantello dei poveri Ho pranzato sul limitare dell’aria aperta, accanto a una finestra spalancata. Era già metà pomeriggio e il ristorante era deserto: il sole mi aveva catturato sulla spiaggia, avvolgendomi di sonnolenza, e tra il bagno e la sabbia erano trascorse le ore. È una sensazione piacevole quella di avere il corpo aspro di sale, pregustando la doccia che ci aspetta a casa. E mentre la bistecca non arriva, si va sorseggiando il vino fresco e spalmando il burro su pezzetti di pane tostato, per ingannare la fame risvegliatasi all’improvviso. Vita beata. Il momento è così perfetto che possiamo parlare di cose importanti senza dover alzare la voce, e nessuno di noi pensa di avere la meglio nella conversazione o di aver più ragione di quella d’un comune mortale rispettoso della verità. Inoltre è estate e, come ho detto, siamo sul limitare dell’aria aperta. La brezza fa fremere certe piante odorose che arriviamo a sfiorare con le dita e attorno alle quali ronzano gli insetti di stagione. Rotta dal fogliame, una striscia di sole si spande sul legno verniciato della finestra. Vita beata. Abbiamo la pelle dorata e sorridiamo molto. Dentro il ristorante si alza una gran fiammata: è la cucina che offre i suoi misteri. Subito dopo il cameriere porta la bistecca, affogata nel suo sugo naturale, e infrangiamo le
più elementari norme della gastronomia ordinando altro vino bianco. Ed eccola, la bottiglia, con la sua traspirazione gelata e il trucco magico di appannare i bicchieri che l’accolgono. Ah, vita, vita beata. Ora stiamo zitti, assorti nella delicata operazione di separare la carne dall’osso. Sotto l’affilato coltello, le tenere fibre si staccano senza sforzo. Il sugo le penetra, ne ravviva il sapore – oh, come è bello mangiare così, dopo un’ardente giornata di spiaggia, nel ristorante con le finestre aperte, il profumo dei fiori e quest’odore forte dell’estate. Riprendiamo a parlare, diciamo cose vaghe e lente, intelligenti, in una pienezza di persone fortunate. Il sole, che è sceso ancora un po’, scivola sui bicchieri, accende bagliori sul vetro e dà al vino una trasparenza di fonte. Ci sentiamo bene, con il ristorante tutto per noi, circondati da legni fulvi e tovaglie colorate. È a questo punto che avviene l’eclisse. Un’ombra s’interpone tra noi e il mondo esterno. Il sole s’allontana violentemente dal tavolo e la mano d’un uomo oltrepassa la cornice della finestra, avanza e si posa immobile sul ripiano del tavolo – il palmo in alto. Il gesto è semplice e non ci sono parole che l’accompagnano. Solo la mano aperta, in attesa, librando come un uccello morto sui resti del pranzo. Nessuno parla. La mano si serra stringendo l’elemosina e l’uomo s’allontana, senza ringraziare. Ci guardiamo, adagio, con le labbra deliberatamente chiuse. D’un tratto, tutto appare inutile e codardo. Poi, con mille cautele, affrontiamo l’argomento scottante. Se non fossimo stati a tavola, gli avremmo dato l’elemosina? E che sarebbe successo se gliel’avessimo rifiutata? Avremmo sentito poi più rimorsi del solito?O era stato solo il timore che la mano ossuta e scura piombasse sul tavolo come un avvoltoio e strappasse la tovaglia, tra un infrangersi di vetri e stoviglie, in un interminabile e definitivo terremoto? Il delitto della pistola La pistola, quella mattina, uscì in un tale stato di irritazione che nel chiudere la porta lasciò cadere il caricatore. Le pallottole saltarono qua e là sul pianerottolo, e se la pistola era già furiosa, si può immaginare in che stato si trovasse quando finì di ricaricarsi. Ad aggravare l’incidente, l’ascensore non funzionava, il che, per un’arma di questo tipo, è il colmo. La sua anatomia infatti le rende difficile scendere le scale. E costretta a scivolare di lato e per quanta attenzione ci metta, finisce sempre con rigare la canna. E assume, evidentemente, un’aria un po’ sciatta. L’uomo abitava nello stesso edificio, voglio credere nella stessa casa. I vicini notavano in lui una certa preoccupazione, una malinconia, un modo distratto di salutare, come chi pensi a un altro mondo o a dialogare con se stesso. A nessuno però passava per la testa che tra l’uomo e la pistola vi fossero problemi, che litigassero, perciò fu una sorpresa che fece parlare, non solo nel palazzo ma in tutta la strada e nel quartiere. Anche la città,
nonostante fosse molto più grande e avesse altro cui pensare, seppe del caso, ma non gli dette importanza più di tanto. Motivi precisi, dunque, non se ne conoscono. La gente fa congetture su congetture, ma di certo nessuno riesce a capire come mai in una curva della scala, dove i gradini si aprono a ventaglio, la pistola abbia sparato due colpi nel petto dell’uomo. Furono due scoppi che scossero il palazzo dal tetto alle fondamenta, con tanta violenza da sembrare un terremoto o la fine del mondo. Quando le vicine si arrischiarono a spiare, videro l’uomo caduto di traverso sul ventaglio dei gradini, bocconi, come una marionetta disarticolata, mentre un rivolo di sangue filtrava dai vestiti e si spandeva sul legno incerato. Lo so, lo so, lettore, che questa storia è assurda, che le pistole non scendono le scale (né le salgono) e che, per quanto malvagie siano, non sparano a bruciapelo su uomini che salgono le scale (o le scendono). Ma è pur vero che non mi sono divertito alle tue spalle. Quel che ho raccontato è solo una delle mille versioni possibili della notizia che lessi tempo fa su un giornale di Lisbona, secondo cui “un uomo era stato raggiunto, sulle scale di casa, da due colpi della sua stessa pistola. E ne era morto”. Lettore, tu sai bene quel che accadde in realtà. E anch’io. Potremmo entrambi mettere un punto fermo a una questione che non ci tocca né da vicino né da lontano, e andare oltre. Ma considera che in questo modo di dare notizia dell’ultimo atto d’un uomo c’è una certa petulanza che viene dall’abitudine di giocare con le verità, anche le più semplici, come questa del dissolversi di una vita. E accresce ancor più l’ironia implicita nel rubare il significato di un gesto, di una decisione, questo rubare la morte di un uomo la cui vita era già stata rubata (come? da chi?) prima di quell’incontro tra la mano e l’arma. E come è singolare la scelta del luogo. La scala, l’improvvisa rinuncia a scendere o a salire un solo gradino, come se la riserva della vita si fosse esaurita in quel preciso istante. Il piede inizia il movimento che lo porterà al gradino successivo, ma ecco, no, una repentina stanchezza, lo sforzo che non è piú possibile concludere, e il piede torna al posto che ha lasciato, rassegnato, poi estraneo, semplice sostegno meccanico per l’equilibrio del corpo, subito abbattuto da se stesso, contro se stesso. Due esplosioni, un fumo azzurro, l’odore violento e acre della polvere che sale su per la scala. La marionetta è stata portata via, coperte di segatura le macchie, poi sfregate con liscivia le placche livide dei gradini, livide come il viso e le mani dell’uomo che, alla fine, aveva pur sempre dei problemi con la propria pistola. So soltanto che hanno giocato con la sua morte. M’immagino, se queste inibizioni dovessero estendersi ad altre interruzioni brusche della vita (si noti l’eufemismo), come sarebbe data la notizia di un incidente automobilistico: “Mentre il signor Tal dei Tali attraversava la strada, secondo una linea retta che lo avrebbe condotto all’altro marciapiede, sentì con fastidio che la sua linea veniva violentemente intersecata da un’altra linea
lungo la quale si muoveva un’automobile. Trasportato all’ospedale, il signor Tal dei Tali vi arrivava ormai senza vita”. Sfogati lettore, di tutto quel che pensi di questa commedia di inganni che è la nostra vita. Il miglior amico dell’uomo È il cane. Così mi dicevano nei lontani tempi della scuola elementare, lezioni al mattino e vacanza al giovedì (c’era poco da insegnare in quelle preistoriche ere: la pacifica analisi grammaticale, i buoni esempi di storia patria e i volteggi di frazioni e decimali). Il maestro, Vairinho di nome, era un uomo alto e calvo, grave quanto bastava per accentuare la rispettabilità della sua posizione di direttore, ma ciononostante nostro amico e per nulla esagerato in fatto di disciplina. Metteva tuttavia grande impegno in questioni di formazione morale, e il cane era il suo grande tema. Almeno una volta alla settimana teneva una lezione sentimentale: famose prodezze della gente canina, bracchi abbandonati che tornavano a casa dopo aver superato centinaia di chilometri, “terranova” che si gettavano in acqua per salvare bambini da cui (“pagate il male con il bene”) avevano ricevuto maltrattamenti. Insomma, cose da 1930. Non mi furono di grande aiuto le lezioni del maestro. I cani che conobbi da vicino mostrarono sempre una sorta di vendicativa avversione per la mia timida persona. Sia perché fiutassero la paura sia perché li offendesse la baldanza con cui cercavo di nasconderla – tra me e i cani ci fu sempre, se non guerra aperta, almeno uno stato di pace circospetta. Ricordo, per esempio, e con dispetto, quel mastino marrone che trotterellava, trascinando la catena spezzata, per il viottolo dove portavo a spasso la mia distrazione e la mia fiducia. Probabilmente, feci qualche gesto sospetto (“il cane attacca solo se provocato o se crede che il padrone e la proprietà siano in pericolo”) o manifestai timore (“non si deve mai fuggire da un cane: è un animale nobile che non attacca alle spalle”): certo è che, mentre passavo, senza provocazione da parte mia, quel mastinaccio mi addentò lo stinco e, dopo avermi dato uno strattone, continuò per la sua strada, scodinzolando di pura allegrezza. Questo episodio mi servì di lezione, a conferma che non c’è miglior maestro dell’esperienza. Anni dopo me ne andavo (sempre fiducioso e distratto) a zonzo per i campi, là nella pianura dove sono nato, quando d’improvviso mi trovo faccia a faccia con un cane. Era un lupo di cattiva fama, che non ammetteva cane o gatto nel suo feudo, pronto a spezzargli la schiena se riusciva ad acchiapparli – e che non aveva mai ascoltato le lezioni del maestro Vairinho. Volle il caso che avessi con me un bastone lungo e robusto. Quando la terribile apparizione mi balzò davanti, tesi il bastone, con la punta a un palmo dal suo muso, e così restammo quasi mezz’ora, il drago rampante, che ringhiava tra finte e schivate, simulava indifferenza per tornare subito
dopo alla carica, io che sudavo di spavento, con la voce aggrovigliata in gola, lontano da qualsiasi soccorso, abbandonato al nero destino. La scampai. La bestiaccia alla fine si stancò di quella lotta senza profitto né gloria. E dopo avermi fissato per un po’ da lontano, con minuziosa attenzione, gli sarà parso che non meritassi la sua collera. Fece mezzo giro e scomparve con un inciampicare corto e sdegnoso, senza guardarsi indietro. Mi allontanai piano piano, rinculando, ancora tremante, finché arrivai a casa di mia zia Elvira, la quale zia, ascoltatrice benevola ma scettica, non credette alla storia (era tale la fama di quella canaglia che averlo vinto solo grazie a un bastone parve a tutti una spudorata panzana). Da allora smisi di aver fiducia nella bontà dei cani, se mai ci avevo creduto. Perdono al maestro Vairinho le illusioni che volle far nascere in noi: era a fin di bene. E tuttavia mi piacerebbe sapere quali sarebbero oggi le sue lezioni se vedesse i suoi amati modelli ben trattati, pelo lucido, zampa forte e dente affilato, dotati di una profonda conoscenza dell’anatomia umana e dei modi adeguati a danneggiarla. Caro, buono e indimenticato maestro Vairinho, che tanto si dilettava a spiegare i complementi-circostanziali-diluogo-dove, senza sapere in che guai ci avrebbe cacciato. Storia per bambini Se non ho scritto il libro definitivo che farà finalmente della letteratura portoghese una cosa seria, è solo perché non ne ho ancora avuto il tempo. È quanto mi dice il mio amico Ricardo e lo dice con tale convinzione che sarei molto scettico se non gli credessi sulla parola. Ora, nella piccola cerchia dei miei lettori è risaputo che io sono l’essere più disponibile a lasciarsi convincere dalla forza delle altrui certezze. Come potrei dubitare, se costoro affermano tanto e così frontalmente, con lo sguardo sicuro e la mano che non trema? Dico “sissignore”, se l’intimità non ammette di più, e se invece è il caso, come con il mio amico Ricardo, divento così eloquente da costruire una frase di sette parole: “veditela tu, io sto qui ad aspettare”. Del resto, per essere del tutto sincero, so perfino da dove mi viene quest’universale comprensione che crede in particolare all’opera definitiva di Ricardo. Sappiamo sempre molto meglio degli altri quando sono sfilate davanti alla nostra porta illusioni del genere. Ci rammentiamo di essere stati seduti sui gradini, a veder passare il mondo, a vedere avvicinarsi un’idea dalla nostra parte, intuendo subito da segni inequivocabili che era per noi – e poi, va a sapere, o abbiamo esitato, o l’idea ha perso le gambe, e siamo rimasti seduti, sputando la saliva del disinganno e inventando la scusa che poi propineremo a noi stessi. Per me il caso non è stato così grave, ma mi ha dato lo spunto per immaginare che sarei in grado un giorno di scrivere la più bella storia per bambini, una storia molto semplice, con relativo insegnamento morale a beneficio delle future nuove generazioni che, ovviamente, non diventerebbero adulte se non ne raccogliessero il succo.
Al contrario di quel che si crede, non scriverò oggi questa storia. Mi limiterò a raccontarla, a dire quel che vi accadrebbe, cosa ben diversa (non dimentichiamolo) dallo scriverla. Scrivere è opera d’altra perfezione, è fare quel che dice il mio amico Ricardo – e per questo, ripeto, ne ho tolto via il senso, anche per mancanza di tempo. Ma veniamo al racconto. Nella storia che scriverei c’era un paese. Non temano, però, quelli che fuori delle città non concepiscono storie neppure infantili: il mio eroe bambino ha le sue rinviate avventure oltre la tranquilla terra dove vivono i genitori, suppongo una sorella, forse uno scampolo di nonni, e una parentela varia di cui non si ha notizia. Subito nella prima pagina, il bambino esce dal podere e, di albero in albero, come un cardellino, scende al fiume, e poi lungo esso, in quell’indugevole divertimento che il tempo alto, largo e profondo dell’infanzia ha permesso a noi tutti. A un certo punto, arrivò al limite delle terre fin dove si avventurava da solo. Da li in poi, cominciava il pianeta Marte, effetto letterario di cui lui non è responsabile, ma con il quale la libertà dell’autore crede di poter oggi comporre la frase. Da lî in poi, per il nostro bambino vi sarà solo una domanda senza letteratura: “vado o non vado?”. E andò. Il fiume faceva una deviazione molto grande, si allontanava, e di fiume lui già era un po’ stufo, tanto l’aveva visto da quando era nato. Si decise pertanto a tagliare per i campi tra estesi oliveti, costeggiando misteriose siepi coperte di campanule bianche, o inoltrandosi per boschi di alti frassini dove c’erano soffici radure senza traccia di gente o d’animale, e intorno il silenzio che ronzava, e anche un calore vegetale, un profumo di stelo inciso di fresco come una vena bianca e verde. Oh, com’era felice il bambino. Camminò, camminò, gli alberi si andavano rarefacendo, e ora c’era una landa piatta, di macchia rada e secca, e in mezzo un’insolita collina rotonda come una pentola rovesciata. Si mise il bambino a salire su per la costa, e quando arrivò in cima, che vide? Né la sorte né la morte, né le tavole del destino. Era solo un fiore. Ma così abbiosciato, così vizzo, che il bambino si avvicinò, stanchissimo. E poiché questo bambino era nunzio di storia, pensò che doveva salvare il fiore. Ma l’acqua dov’era? Lassù, neppure una goccia. In basso, solo nel fiume, e quello quant’era lontano. Non importa. Scende il bambino giù per la montagna, attraversa tutto il mondo, arriva al grande fiume Nilo, nel cavo delle mani raccoglie quant’acqua vi entra, riattraversa il mondo, si trascina su per il pendio, tre gocce che là arrivarono, le bevve il fiore assetato. Venti volte su e giù, centomila viaggi sulla luna, il sangue sui piedi scalzi, ma il fiore rigoglioso già profumava l’aria, e come se fosse una quercia gettava ombra sul suolo. Il bambino si addormentò sotto il fiore. Passarono le ore, e i genitori, com’è consuetudine in questi casi, cominciarono a essere molto preoccupati. Uscì tutta la famiglia e parecchi vicini, alla ricerca del bambino perduto. E non lo trovarono. Frugarono dappertutto, ormai bagnati di lacrime, ed era
quasi il tramonto quando alzarono gli occhi e videro lontano un fiore enorme che nessuno ricordava di aver mai visto. Accorsero tutti, salirono in cima alla collina e trovarono il bambino addormentato. Sopra di lui, a proteggerlo dal fresco della sera, c’era un grande petalo odoroso, con tutti i colori dell’arcobaleno. Il bambino fu portato a casa, circondato da ogni attenzione, quasi fonte di miracolo. Quando poi passava per la strada, la gente diceva che era uscito dal paese per fare qualcosa di molto più grande della sua età e di tutte le età. E questa è la morale della storia. Le terre Come un essere vivente, le città crescono a spese di quel che le circonda. Il grande alimento delle città è la terra che, presa nella sua accezione immediata di superficie limitata, acquista il nome di terreno, sul quale, fatta questa operazione linguistica, diventa possibile costruire. E mentre noi andiamo a comprare il giornale, il terreno sparisce, e al suo posto sorge l’immobile. Ci fu un’epoca in cui questa città cresceva lentamente. Qualche palazzo di periferia aveva il tempo di perdere il segno della novità prima che un altro venisse a fargli compagnia. E le strade davano direttamente sui campi, sui poderi abbandonati, dove pascolavano autentiche greggi di montoni, custodite da autentici pastori. Questo paese diverso, punteggiato di olivi nani, di fichi contorti, di rozzi muri in rovina e, di tanto in tanto, di solitari cancelli spalancati sul vuoto – erano le terre. Le terre non si coltivavano. Davano, inerti, il loro addio alla fertilità, sopportavano qualche pausa intermedia tra la morte e l’inumazione. La loro grande vegetazione, il loro grande trionfo di flora, era il cardo. Se gli avessero dato spazio, il cardo avrebbe coperto di verde cenere il paesaggio. E dai piani più alti dei palazzi la vista era malinconica, uniforme, come se in tutto ciò vi fosse una grande ingiustizia e un vago rimorso. Ma le terre erano anche il paradiso dei bambini suburbani, il luogo d’azione per eccellenza: lì si facevano scoperte e invenzioni, lì si tracciavano piani, lì l’umanità in calzoncini già si divideva, a imitazione degli adulti. E c’erano ragazzi immaginosi che davano nomi agli accidenti topografici, e altri, molto sensibili, che si intristivano quando, un giorno, rudi uomini silenziosi cominciavano a scavare buche nel posto dove era arso il falò rituale del gruppo, il fuoco attorno al quale si disponevano, in grave deliberazione, volti attenti e ginocchia scorticate. I gruppi avevano capi autoritari, piccoli tiranni che un giorno inesplicabilmente venivano destituiti, messi al bando, e andavano a cercar fortuna in altri gruppi, dove non riuscivano a mettere radici. Ma la grande disgrazia era quando un ragazzo cambiava quartiere. Il gruppo si cicatrizzava in fretta, il ragazzo invece, con l’animo pesante, percorreva chilometri per rivedere i suoi amici, i luoghi felici, e ogni volta era più difficile ricostituire l’antico vincolo, finché
sopraggiungevano l’indifferenza e l’ostilità e il ragazzo scompariva definitivamente, forse aiutato da nuove amicizie e nuove terre. Oggi la città cresce così in fretta che lascia indietro, irrimediabilmente, le infanzie. Quando il bambino si prepara a scoprire le terre, esse sono ormai lontane, ed è un’intera città che si interpone, aspra e minacciosa. I paradisi vanno allontanandosi sempre di più. Addio, fraternità – ciascuno per sé. Ma è destino degli uomini, a quel che sembra, opporsi alle forze dispersive che essi stessi mettono in movimento o che insorgono dentro di loro. La città si svuota dove prima era il suo nucleo, nel seme che dovrebbe essere la sua continuità. E allora ci si accorge che le terre sono dentro la città e che tutte le scoperte e le invenzioni sono ancora possibili. E che la fraternità rinasce. E che gli uomini, figli dei bambini che furono, ricominciano l’apprendistato dei nomi delle persone e dei luoghi e di nuovo si siedono attorno a un falò, parlando del futuro e di quel che a tutti importa. Perché nessuno di loro muoia invano. Il lucertolone Non posso continuare a rimandarla. È da molto che ho in mente di raccontare una storia di fate, ma questo delle fate è terreno battuto, nessuno ci crede più, e per quanto giuri e spergiuri, è certo che rideranno di me. In fin dei conti, è solo la mia parola contro quella di un milione di abitanti. Ma mettiamo la barca in acqua, il remo si troverà. La storia è di fate. Non che esse appaiano (né io l’ho affermato), ma che altro potrebbe essere la storia del lucertolone sbucato allo Chiado? Si, è comparso un lucertolone allo Chiado. Grande e verde, un ramarro imponente, con degli occhi che sembravano di nero cristallo, il corpo flessuoso coperto di squame, la coda lunga e agile, le zampe rapide. Si è piazzato in mezzo alla strada, con la bocca semiaperta, sparando la lingua bifida, mentre la pelle bianca e fine del collo pulsava ritmicamente. Era un animale superbo. Un po’ sollevato, come se stesse per lanciarsi in una corsa improvvisa, affrontava persone e automobili. La paura fu grande. Gente e macchine, si fermò tutto. I passanti rimasero a guardare da lontano, e qualcuno più nervoso s’infilò nelle vie traverse facendo finta di niente, dicendo a se stesso, per non confessare la codardia, che la fatica, lo dicono i medici, provoca allucinazioni. La situazione era chiaramente insostenibile. Un lucertolone fermo, una pallida folla sui marciapiedi, automobili abbandonate in punti morti – e d’improvviso una vecchia che gridava. Non ci fu bisogno d’altro. In un amen le strade rimasero deserte, i negozianti calarono le saracinesche, e una ragazza che vendeva violette (era stagione) lasciò cadere il cesto, e i fiori rotolarono per terra fino a formare attorno al lucertolone un cerchio perfetto, come una ghirlanda di aromi. L’animale non si mosse. Agitava lentamente la coda ed ergeva la testa triangolare, fiutando.
Qualcuno doveva aver telefonato. Si udirono sirene, e le due estremità della via furono bloccate. Da un lato, i pompieri con tutta l’attrezzatura; dall’altro, l’esercito con tutto l’armamentario. Chi diceva che il lucertolone era velenoso, chi affermava che le squame resistevano alle pallottole. La vecchia continuava a gridare, anche se nessuno sapeva dove. L’atmosfera si caricava di panico. Una squadriglia di aerei passò nel cielo, in ricognizione, e dalla parte del Rossio cominciò a sentirsi il caratteristico cigolio dei carri armati. Il ramarro fece qualche passo, rompendo la ghirlanda di violette. La vecchia venne trasportata d’urgenza all’ospedale. La storia sta per finire. Siamo arrivati precisamente al punto in cui intervengono le fate, anche se per indiretta manifestazione. Riunite tutte le forze disponibili, fu dato il segnale di avanzare. Idranti da un lato, baionette dall’altro, e il tuonare dei carri che ruggivano su per la salita – si sferrò l’attacco generale. Dalle finestre, persone al sicuro davano consigli e suggerimenti. Ma tutti contro il ramarro. Il quale ramarro, d’un tratto (per intervento delle fate, non si dimentichi) si trasformò in una rosa rossa, color sangue, posata sull’asfalto nero, come una ferita nella città. Sospettosi, gli attaccanti esitarono. La rosa cresceva, apriva i petali, olezzava, lavava di profumo le facciate sudicie dei palazzi. La vecchia all’ospedale chiedeva: che cosa è successo? E allora la rosa si mosse rapidamente, divenne bianca, i petali si mutarono in piume e ali – e una colomba si alzò in volo verso il cielo azzurro. Una storia così può solo finire in versi: Molti in silenzio ricordano, Nella prosa delle loro case, Il ramarro che era una rosa, Quella rosa con le ali. C’è qualcuno che non ci crede? Lo dicevo, io: le storie di fate non sono più quelle d’una volta. Nel cortile, un giardino di rose Al cader della sera (singolare espressione questa, che fa della luce o del suo dileguarsi, “al cader della notte”, qualcosa di pesante e denso che scende sulla terra aggressivamente), dopo un giorno di lavoro, se il tempo è mite e la stanchezza non reclama un rapido rientro a casa, dove per lo più ci aspetta un altro lavoro, mi piace vagare per le vie della città, distratto nei confronti di quelli che mi conoscono, acutamente attento a tutto quel che è sconosciuto, come se cercassi decisamente un altro mondo. Posso allora fermarmi davanti a una vetrina dove non c’è nulla che mi interessi, essere un microscopio puntato sulle persone, radiografare volti al di là delle ossa, penetrare nella città come se mi immergessi in un fluido resistente, sentendone le asperità e le dolcezze. È in queste occasioni che faccio le mie grandi scoperte: un po’ di fatica, un po’ di disincanto sono, al contrario di
quel che si direbbe, gli ingredienti migliori per captare al vivo quel che mi circonda. Fu in un giorno così, mentre scendevo per una via stretta dove il traffico scorre di solito a fiotti, lasciando negli intervalli una pace quasi rurale, che scoprii (l’avevo già vista prima, ma non l’avevo mai scoperta, cioè, non le avevo mai tolto di dosso quel che la copriva) la rovina. Al di là del muro basso, delle grate e del cancello arrugginito, vidi il cortile invaso dalle erbacce e dai detriti. In fondo, un edificio di due piani mostra una facciata scrostata, tutta crepe, con placche di sclerosi che sono le larghe abrasioni provocate dalla caduta della malta. I vetri sono quasi tutti rotti, e all’interno c’è un’oscurità che dalla strada mi sembra impenetrabile, ma dove certamente s’aggirano animali famelici: topi protetti dall’abbandono, grandi ragni tremuli sulle alte zampe, forse anche disgustosi gechi, tristi e palpitanti. Me ne sto lì sul marciapiede, al sicuro, con un sorriso represso, a immaginare gli sgradevoli abitanti della casa, come se mi disponessi a fantasticare di abitanti d’altri pianeti, quando qualcosa attira il mio sguardo a sinistra, e subito dimentico tutto. Su un lato dell’edificio a fianco, all’altezza degli occhi, una frase scritta a lettere rosse, maiuscole, pianta d’improvviso un giardino di rose: LENA AMA RUI. È talmente insolita la presenza di una siffatta dichiarazione in questo posto, che ho bisogno di leggerla una seconda volta per convincermene: LENA AMA RUI. Ma anche così, mi costa arrendermi all’evidenza. In genere, questi muri abbandonati si riempiono di graffiti insolenti, spesso osceni, e lì c’era solo un’affermazione d’amore, scagliata contro l’indifferenza della città. E non si trattava di scarabocchi tracciati in fretta, nel timore di un’interruzione, di un dileggio, del ridicolo che sempre minaccia chi al pubblico si espone. Al contrario: le lettere, grandi, erano state disegnate con cura e, da dove io potevo vederle, si distingueva bene che era stata usata una vernice densa, come chi dipingesse un’altra Cappella Sistina per l’eternità. Un torrente di traffico avanzò giù per la strada. Mi lasciai trasportare, nel mio passo di sonnambulo, saldo e remoto, e mentre scendevo spuntò la bizzarra domanda: chi aveva scritto quelle parole? A molti la questione sembrerà insignificante, ma non a me che ho per dovere e vocazione di negare appunto l’insignificanza. La cosa più sicura, io credo, è che sia stato un ragazzo. Si era appena dichiarato, lei gli aveva detto di si, e allora, esaltato e nervoso, aveva sentito il bisogno irreprimibile di comunicare l’evento alla città. Dev’essere successo proprio così, sono gli uomini in genere a fare certe cose. Ma supponiamo che sia stata una ragazza. In tal caso, tutto cambia aspetto: non è più l’orgoglio tinto di fatuità che caratterizza quasi sempre le esplosioni sentimentali degli uomini, è qualcosa di più grave, è un impegno più grande. La ragazza non si limita a registrare sul muro che qualcuno la ama: la sua, come sanno fare le donne, è una sfida, e allora, consapevole di
dirlo al mondo intero, consapevole di quel che rischia, di quel che potrà costarle il suo coraggio, scrive, in maiuscolo rosso, la sua proclamazione. Cammino e penso, e non trovo risposta alla mia domanda. È stato Rui? È stata Lena? Preferisco immaginare che sia stata lei. Mi piace questa ragazza che non conosco, mi auguro che sia felice, che sappia sempre quel che vuole, anche che sta desiderando cose diverse nella vita. E credo che sia proprio lei, sull’altro marciapiede, ragazza comune, che agile e fresca avanza decisa nel mondo che è questa stretta via, dove il traffico irrompe cieco. Eccola ormai laggiù, domani donna, che con un barattolo di vernice ha piantato rose in un cortile abbandonato. Il bianco gioca e vince In un romanzo che probabilmente più nessuno legge – Il diavolo zoppo, di Vélez de Guevara – l’autore immagina un Farfarello buontempone che conosce l’arte di scoperchiare i tetti delle case per mettere a nudo il comportamento intimo degli abitanti della città in cui si svolge la storia. Assistiamo a scene edificanti e ad altre molto meno, ma tutte pretesto per gli ammaestramenti morali in chiave letteraria di cui è stato prodigo il Seicento spagnolo. Gli esigenti palati della nostra epoca ne troverebbero insipida la lettura, senza nessuno di quei piatti forti che ha il diritto di aspettarsi chi si disponga a scoperchiare tetti o ad aprire porte all’improvviso. Ma al proposito, il buon Guevara è di una discrezione assoluta. Un ricordo tira l’altro. Mi rivedo ora al tempo in cui ero un assiduo frequentatore della piccionaia del teatro São Carlo, quell’incredibile loggione ad angolo e inclinato dove s’ammucchiavano gli spettatori meno abbienti. Per non so quale diabolica punizione, nessuno di noi, eccetto quelli della prima fila, poteva vedere il palco per intero. Sei cantanti si spostavano sul lato nascosto, era come se fossero passati sull’altra faccia della luna. Ne sentivamo le voci, ma dovevamo aspettare pazientemente che le circostanze dell’azione li portassero di nuovo nello spicchio di palco visibile. Responsabile d’un gioco di collo che ci triturava i muscoli era la corona reale di legno dorato che sovrasta il palco presidenziale. In realtà, però, quel che vedevamo non era proprio la corona, che riservava i suoi splendori al pubblico privilegiato della platea e dei palchi. Noi poveretti ci accontentavamo del suo rovescio, il quale rovescio era davvero sgradevole: quattro assi mal piallate, fissate con chiodi ritorti, molta polvere e ragnatele. Insomma, quanto bastava per citare Salomone (“Vanità delle vanità, tutto è vanità”) o Camões (“O gloria di comando, o vana brama”) o il canzoniere popolare (“Sopra è tutta merletti, I sotto neppur le braghe”). Il lettore attento avrà già capito dove voglio arrivare: sotto o dietro quel che si vede, c’è sempre qualche altra cosa che conviene non ignorare e che dà, se conosciuta, l’unico vero sapere. Un tetto è una maschera, e il punto di vista della piccionaia aiuta a vedere meglio la corona.
E ora, perché il bianco gioca e vince? Sembrerebbe un’altra storia, ma è la stessa che continua. Sere fa stavo cenando in uno snack, così deprimente che non poteva essere stato inventato se non da un dispeptico, e avevo, come faccio sempre quando sto solo, il giornale sotto gli occhi. Lessi le notizie, tutte pessime per la digestione, e quando il giornale non ebbe più niente da offrirmi, mi soffermai sulla sezione del gioco della dama, tutta diagrammi e cifre che gli iniziati capiscono ma che io, sebbene non del tutto ignorante del passatempo, ho rinunciato a intendere. C’erano vari problemi e sotto ciascuno di essi la cabalistica frase che è il titolo di questa cronaca. Rimasi a guardare ipnotizzato mentre sentivo quel prurito al cervello che annuncia le grandi scoperte. Sembrava che stessi per scoperchiare un tetto, o per vedere una corona da dietro. Perché semplici e innocenti problemi di dama mi causavano tali fremiti d’inventore? E di colpo scoprii: che il bianco gioca e vince. Mi capisci, lettore? Qualcuno obietterà che è una frase comune, una specie di codice, di orientamento, niente di più. D’accordo. Ma che cosa ha spinto il creatore della frase, il damista, il problemista, o la società di damisti, o la compagnia di problemisti, a costruirla così? Perché al suo posto non si è convenuto di usarne altre, ad esempio: il nero gioca e vince, o il bianco gioca e perde? Venga fuori il diavolo zoppo e risponda: perché? Perché – dice il demonio sarcastico – nessun bianco sarebbe capace di ignorare il proprio inconscio per negare, anche se solo in una semplice formula di gioco, la superiorità del proprio colore, perché nessuno starebbe così all’erta da evitare che trasbordi nel dominio del linguaggio la denuncia del singolare complesso di relazioni tra bianco e nero. Per cui, sotto la pelle del linguaggio, apparentemente imparziale e libero, è rimasta la torbida materia del comportamento che si maschera con sotterfugi. Adesso, senza pelle, senza tetto, dietro la corona. In fondo, nulla è semplice. Una frase su una pagina di giornale, mezza dozzina di parole insignificanti, impersonali – ed ecco, vi scopri parecchi motivi di riflessione. Mi resta solo da raccomandare al lettore che applichi il metodo nel suo quotidiano: prenda le parole, le pesi, le misuri, veda il modo in cui si legano, quel che esprimono, decifri l’arietta birbesca con cui dicono una cosa per un’altra – e poi venga a raccontarmi se non si sente meglio dopo averle scorticate. Per esercitarsi e come esempio, gli lascio il titolo di un libro che circolava molti anni fa, e che naturalmente circola tutt’ora: Il negro che aveva l’anima bianca. E noi che credevamo che l’anima non esistesse, o che se esisteva non avesse colore, e alla fine è bianca, e i negri ce l’hanno nera, perché quel negro del libro è un’eccezione, e solo per questo la sua anima è bianca, e così via, e così via. Al lettore la sciarada, e se gli verrà mal di testa, è buon segno: anche nascere, a quel che dicono, è una sofferenza.
Storia del re che faceva deserti C’era una volta un re che era nato con un difetto al cuore e che viveva in un grande palazzo (come lo sono sempre i palazzi dei re), circondato dovunque da deserti, meno che da un lato. Assecondando l’impulso della tara con cui era venuto al mondo, aveva fatto radere i campi attorno al palazzo, di modo che, quando al mattino si affacciava alla finestra della sua stanza, poteva vedere desolazione e rovine sino alla fine e al fondo dell’orizzonte. E chi questo leggerà e non racconterà, In cenere morta si tramuterà. Accostato al palazzo, dalla parte posteriore, c’era un piccolo spazio murato che sembrava un’isola e che aveva potuto scamparla perché fuori portata degli sguardi del re, che si compiaceva piuttosto della vista dalla facciata nobile. Un giorno, tuttavia, il re si svegliò con sete di altri deserti e si ricordò del giardino che un poeta di corte, adulatore come la lingua di un cane da salotto, già prima aveva paragonato a una spina che pungesse la rosa quale, a suo dire, era il palazzo del monarca. Fece dunque il sovrano un giro attorno alla reale dimora, portandosi dietro i cortigiani e gli esecutori delle sue giustizie, e torvo guardò il muro bianco del giardino e i rami degli alberi che là dentro erano cresciuti. Si meravigliò il re della propria indolenza che aveva consentito quello scandalo e dette ordini ai servitori. Saltarono essi il muro, con grande frastuono di voci e di saracchi, e tagliarono le cime che lo sovrastavano. E chi questo leggerà e non racconterà, In cenere morta si tramuterà. Contemplò il re il risultato, per vedere se era soddisfacente, consultò il suo cuore difettoso, e decise che il muro doveva essere abbattuto. Subito avanzarono pesanti macchine che portavano appesi grandi blocchi di ferro, i quali, ondeggiando, buttarono giù il muro, tra fragori e nuvole di polvere. Fu allora che apparvero alla vista i tronchi decollati degli alberi, i campicelli e, a un’estremità, una casa tutta coperta di campanule azzurre. E chi questo leggerà e non racconterà, In cenere morta si tramuterà. Dagli interstizi tra gli alberi il re poteva vedere la fine dell’orizzonte, ma temette che i rami d’improvviso ricrescessero e arrivassero a strappargli gli occhi, e allora dette altri ordini, e una moltitudine di uomini si lanciò nel giardino e tutti gli alberi furono divelti dalle radici e lì stesso bruciati. Il fuoco si estese ai campi e si dice che per questa ragione la corte decise di organizzare un ballo, che il re aprì da solo, senza dama, perché, come abbiamo detto, questo re aveva un difetto al cuore. E chi questo leggerà e non racconterà, In cenere morta si tramuterà Finì la danza quando già si spegnevano le ultime fiamme e il vento trascinava il fumo verso il fondo dell’orizzonte. Il re, stanco, si sedette sul
trono e ammise al baciamano, mentre accigliato guardava la casa e le campanule azzurre. Gridò un nuovo ordine e di li a pochi minuti non c’erano più né campanule azzurre, né altro, se non, insomma, il deserto. E chi questo leggerà e non racconterà, In cenere morta si tramuterà. Per il malizioso cuore del re, il mondo era finalmente giunto alla perfezione. E il sovrano già si preparava a tornare, felice, a palazzo, quando dalle macerie della casa sbucò una figura che cominciò a camminare sulle ceneri degli alberi. Era forse il padrone della casa, il coltivatore della terra, il raccoglitore di spighe. E quest’uomo, camminando, tagliava la vista al re e approssimava l’orizzonte al palazzo, come se lo soffocasse. E chi questo leggerà e non racconterà, In cenere morta si tramuterà. Allora il re sguainò la spada e alla testa dei cortigiani avanzò verso l’uomo. Si gettarono su di lui, lo afferrarono per le braccia e le gambe, e nel mezzo della confusione si vedeva soltanto la spada del re abbassarsi e sollevarsi, finché l’uomo scomparve e al suo posto restò una grande pozza di sangue. Pu questo l’ultimo deserto fatto dal re: durante la notte il sangue si sparse e circondò il palazzo come un anello, e la notte seguente l’anello si fece più largo, sempre di più, sino alla fine e al fondo dell’orizzonte. Su questo mare c’è chi dice che un giorno navigheranno navi cariche di uomini e sementi, ma c’è anche chi afferma che quando la terra avrà finito di bere quel sangue, mai più nessun deserto sarà possibile rifare su di essa. E chi questo leggerà e non racconterà, In cenere morta si tramuterà. La piazza Si riunivano in piazza la domenica – piovesse o ci fosse il sole. Mettevano una camicia di bucato, i calzoni di fustagno meno rammendati, gli stivali ingrassati di fresco, quando non quelle scarpacce che nessun lucido riusciva a far brillare. Il gilè era indispensabile, o la giacca, quando i mezzi lo permettevano. In testa, il cappello nero, floscio, o il berretto dello stesso colore. Verde solo per i contadini, quelli della piazza erano gente comune. E tutti con in mano il bastone, simbolo di virilità e di potere, strumento di attacco e di difesa, messo di traverso sulle spalle come il ramo orizzontale di una croce, sul quale riposavano sovrapposte le braccia. Si raccoglievano in gruppi aspettando l‘arrivo dei fattori. Davano rapidi strattoni ai ragazzini che giocavano a toccaefuggi e così interrompevano i dialoghi intervallati, le mezze frasi che trasportavano i temi principali della conversazione: il lavoro, il padrone che aspettavano, l’ultimo sverginamento, la probabile paga della giornata. I più vecchi si appoggiavano al bastone, facendo della mano sinistra un nido che gli proteggeva l’ascella, e restavano così per ore in un discorrere lento, interrotto da puntate all’osteria. I più giovani bevevano meno, infioravano il bastone in segno di corteggiamento,
quando le ragazze, sempre in gruppi, attraversavano a braccetto la piazza in una provocazione sorridente e un po’ sorniona. In quelle occasioni si facevano grandi giochi di sguardi mal dissimulati, che venivano a confermare amori incipienti, o a suggerire idee di matrimonio ai ragazzi. In certi periodi dell’anno, alcuni giovani lasciavano il paese. Era la chiamata alle armi. Solo qualcuno non tornava. Quasi tutti., finito il tempo del servizio militare, riprendevano la zappa, la falce e il badile – e continuavano a raccogliersi in piazza la domenica – più vecchi, strapazzando i propri figli, in attesa che venissero a proporgli la giornata, secondo la formula tradizionale: tot soldi e un litro di vino. Gli si raggrinzivano i visi, i capelli imbiancavano e si rarefacevano, lì, nella piazza, sotto i platani e accanto alla pompa di benzina, circondati dalle stesse case basse. Non sempre c’era lavoro. E altre volte c’era, ma gli uomini non lo volevano. I fattori alzavano la paga fin dove erano autorizzati: era una guerra, ora vinta, ora persa. Fino a oggi. Si riuniscono in piazza la domenica mattina e vi restano per qualche ora. Parlano sottovoce, come se non volessero disturbare neppure le pietre. Usano un linguaggio incomprensibile, in cui ogni tanto sembra affiorare una parola conosciuta, che subito si perde in una cascata di suoni strani. In tutto il perimetro della piazza le botteghe mostrano le porte chiuse, e la statua che è al centro, quella che rappresenta il poeta, sembra una rovina morta, estranea agli uomini che la circondano. Costoro vestono quasi tutti di scuro. Alcuni sono belli. Alti, snelli, hanno lineamenti fini e melanconici. Altri sembrano contraffatti, contorti come piante del deserto che a lungo avessero cercato l’acqua. La parte centrale della piazza gli appartiene. Gli abitanti della città passano alla larga, fingono di non vedere, guardano di lato, come se non riuscissero a essere naturali o non si fossero ancora abituati a esserlo. Guardano golosamente e di soppiatto le rare mogli degli uomini della piazza. L’odore del tropico, il segreto delle isole, turba un po’ il cinismo maldestro del bianco. E loro, le donne, quasi tutte ragazze giovanissime, sono belle senza eccezione, gli occhi umidi e vellutati, e quando parlano con gli uomini della loro razza sorridono molto. Forse non sono allegre, ma sanno che cos’è l’allegria. I compagni sono gravi: camminano lentamente in maniera ondeggiante, come se sentissero ancora sui fianchi lo sfregare dell’erba e delle piantagioni. Per ore, la piazza è gremita di uomini estranei. Lì si è trasferito lo spiazzo di terra calcata dai piedi di generazioni, una sorta di porto di salvezza dove si raccolgono notizie dell’isola e dei compagni. Da li andranno al lavoro della settimana dopo con la soddisfazione di sapersi insieme. Uno slargo di provincia, una piazza di Lisbona: la stessa necessità di spazio libero e aperto, dove gli uomini possano parlare e riconoscersi l’un l’altro. Dove possano contarsi, sapere quanti sono e quanto valgono, dove i nomi non siano parole morte ma anzi si incollino a volti vivi. Dove le mani
fraternamente si posino sulle spalle degli amici, o accarezzino lentamente il volto della donna scelta e che ci ha scelto, siano essi dell’altra riva del fiume o dell’altra riva del mare. Una lettera con inchiostro di lontano Chi scrive penso lo faccia come all’interno di un immenso cubo, dove null’altro esiste se non un foglio di carta e la palpitazione di due mani veloci, esitanti, ali violente che di colpo cadono di lato, tagliate dal corpo. Chi scrive ha intorno a sé un deserto che sembra infinito, regno attentamente spopolato perché rimanga appena l’immagine di un campo aperto, di un tavolo da scrivano all’ombra d’un albero inventato, e un profilo angolato che fa di tutto per somigliare all’uomo. Chi scrive credo cerchi di occultare un difetto, un vizio, una tara ai suoi stessi occhi indecente. Chi scrive sta tradendo qualcuno. Scrivo questa cronaca da lontano, dalla grande e infelice città cresciuta sulle rive del Tago, la scrivo da ancor più lontano, da un paese molto amato, dove i campi sono piantati a cipressi e i luoghi si chiamano sonoramente Ferrara o Siena, terra italiana che più amo dopo la mia, scrivo da una strada che ha nome Esperanza, dove si riunirono per l’ultima volta i congiurati del 5 ottobre, dove oggi passano i miei vicini bianchi e neri, dove a volte, davanti alla mia porta, si ferma gente che non è del quartiere, che nessuno conosce e che rimane a guardare in aria come se stesse misurando il grado di inquinamento o decifrando misticamente i misteri della creazione del mondo. Non ho nessuna storia da raccontare. Sono stanco di storie come se d’improvviso avessi scoperto che tutte sono state raccontate il giorno in cui l’uomo è stato capace di dire la prima parola, se mai c’è stata una prima parola, se le parole non sono tutte, ciascuna e in ciascun momento, la prima parola. Allora torneranno a essere necessarie le storie, allora dovremo riconoscere che nessuna è stata ancora raccontata. È davvero un piacere star seduto all’ombra d’un albero inventato, in questo cubo immenso, in quest’infinito deserto, a scrivere con inchiostro di lontano – a chi? Al di là del filo che separa le sabbie e il cielo, così distanti che seduto non le vedo, vanno le persone che leggeranno le parole che scrivo, che le disprezzeranno o le intenderanno, le conserveranno nella memoria il tempo che essa consentirà e poi le dimenticheranno, come se fossero appena il boccheggiare soffocato di un pesce fuor d’acqua. Seduto in mezzo al campo spopolato, chi scrive mantiene il suo curvo profilo perché non vi si perdano le tracce di un’umanità che ogni istante rende più imprecisa. E va tracciando segni sulla carta, desideroso di farla diventare aperta e concava come il cielo notturno perché non si perda l’incoerente discorso, custodito ora in piccole luci che impiegheranno più tempo a morire. Chi leggerà il messaggio intraducibile nel linguaggio del mangiare e del bere? Chi lo porterà con sé nel suo letto, più la donna o più l’uomo con il quale dormirà? Chi sospenderà l’arco della zappa, il movimento del martello,
per ascoltare quel che non è una storia narrata della grande e infelice città? Chi accosterà il camion al ciglio della strada, nella corsia di sosta, con ombre sparse, per sapere, respirando l’olio e il caldo del motore, le notizie di Giove gigante nel cielo nero? Chi dirà suo quel che è stato scritto all’interno del cubo, nel luogo in cui si conficca il compasso, nell’intersezione tra chi scrive e il tempo? Chi giustificherà, insomma, le parole scritte? È un piacere è anche fare domande quando si sa che non avranno risposta. Perché se ne potranno aggiungere altre, oziose come le prime, altrettanto impertinenti, altrettanto capaci di consolazione al ritorno dal silenzio che le accoglierà. Seduto nel deserto, chi scrive si sentirà dolcemente incompreso, chiamerà in suo aiuto gli dèi che più ama, a loro si confiderà, e tutti insieme, punto per punto, sapranno trovare le buone ragioni, gli acquietamenti della coscienza, finché il benefico sonno li riunisca e li ritiri da questo basso mondo. Non sia però così questa volta. Pieghi chi scrive il suo tavolo, ne faccia il suo fardello e il suo zaino, se non è in grado di modificarlo altrimenti, muti il foglio in vessillo, e affronti la traversata del deserto, nelle tre dimensioni del cubo, dove sono le persone e le domande che esse fanno. Allora il messaggio diverrà traducibile, sarà tovaglia da pane e con esso ci ripareremo dal freddo. Allora si torneranno a raccontare le storie che oggi diciamo impossibili. E tutto (forse davvero, forse davvero) comincerà a essere spiegato e compreso. Come la prima parola. Apologo della vacca lottatrice Non invento nulla. Faccio subito questa dichiarazione perché già immagino i sorrisi solerti o diffidenti di quelle persone per le quali l’inconsueto è sempre sinonimo di menzogna. Questa povera gente non sa che il mondo è pieno di cose e di momenti straordinari. Non li vede, perché il mondo le appare come coperto di cenere, corroso da uno smorto verderame, popolato di figure che usano gli stessi vestiti e parlano allo stesso modo, con gesti ripetuti su gesti già fatti da altri esseri scomparsi. È gente per la quale forse non c’è rimedio, ma a cui dobbiamo continuare a dire che il mondo e quanto contiene non è quel poco che essa crede. Questo mi ricorda un piccolo incidente capitatomi giorni fa, anch’esso straordinario, almeno altrettanto, o forse di più, non si sa mai. Stavo risalendo la mia strada, una strada tranquilla dove di tanto in tanto avvengono delle discussioni, alterchi di gente triste, ed era quasi mezzanotte, quando vedo a poca distanza, impalato in mezzo al marciapiede, un uomo che gesticolava e parlava ad alta voce. Faceva gesti ampi, violenti, come se stesse trasmettendo molto lontano un messaggio il cui senso nessuno avrebbe decifrato. Come chiunque faccia dell’alcol un consumo appena normale o al disotto della media, ho un certo timore istintivo degli ubriachi. Per me, sono usciti dall’umanità del mondo e al di là hanno creato delle leggi che non conosco. L’irresponsabilità di un ubriaco mi
toglie la parola. Curiosamente, è quel che mi succede anche con i bambini: non ho mai saputo parlargli. Torno al fatto. Esitai, ma mi costrinsi a proseguire, fosse quel che fosse. E feci bene, perché fu allora che mi accadde quella cosa straordinaria, che avrei perduto se avessi attraversato la strada, come avevo pensato di fare. Passando accanto all’uomo, che continuava a far gesti e a parlare violentemente, lo vedo tendere il braccio verso di me, con impeto. Non mi spaventai. Avevo di fronte la mano aperta, tesa con aria di fraternità imperiosa a cui non mi era consentito sfuggire. Gli detti la mano e restammo, occhi negli occhi, in silenzio, sia l’ubriaco, sia il lucido. E devo dichiarare che rare volte nella vita ho stretto una mano tanto ferma e tanto calda, tanto densa e tanto franca. L’asprezza della pelle vibrava nella mia come una comunicazione viva. Quanto tempo durò? Neppure un secondo, ma queste cose non si misurano col tempo. La storia che avevo deciso di raccontare e che il titolo riassume durò molto di più. Furono dodici giorni e dodici notti sui monti della Galizia, con freddo, e pioggia, e gelo, e fango, e pietre come coltelli, e bosco come unghie, e brevi intervalli di riposo, e ancora combattimenti e assalti, e ululati, e muggiti. È la storia di una vacca che si perdette nei campi con il suo vitello da latte, e si vide circondata dai lupi per dodici giorni e dodici notti e fu costretta a difendersi e a difendere il figlio. Potremo immaginare questa lunghissima battaglia, questa agonia di vivere al limite della morte, dover lottare per se stessa e per un animaluccio debole che non sa ancora farsi valere? Un cerchio di denti, di fauci aperte, gli attacchi repentini, le cornate che non possono sbagliare. E anche quei momenti in cui il vitello cercava le mammelle della madre, e succhiava lentamente, mentre i lupi si avvicinavano, con la schiena appiattita e le orecchie ritte. Non immaginiamo di più, ché non possiamo. Diciamo adesso che alla fine dei dodici giorni la vacca fu ritrovata e salvata, con il vitello, e portati in trionfo al villaggio, come eroi d’altri tempi di quelle antiche storie che si dicevano ai bambini perché apprendessero lezioni di coraggio e di sacrificio. Ma questo racconto è a tal punto esemplare da non terminare qui: continuerà per altri due giorni, alla fine dei quali, poiché era diventata selvaggia, poiché aveva imparato a difendersi, poiché nessuno poteva più dominarla e neppure avvicinarla, la vacca fu abbattuta. La uccisero non i lupi che aveva vinto in dodici giorni, ma gli stessi uomini che l’avevano salvata, forse lo stesso padrone, incapace di capire che, avendo appreso a lottare, quell’animale sottomesso e pacifico non avrebbe potuto mai più fermarsi. Volevo raccontare questa storia semplicemente, senza estrarne alcuna morale, tanto più che non sto qui per dare lezioni. Ma vi si è intrufolata la storia dell’ubriaco a cui ho stretto la mano, e ora non so perché nel mio spirito le due storie si accostano, quando tutti noi (io e i lettori) vediamo chiaramente che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra. Decido di riportare qui questi due casi, senza commenti. Pensiamo ad essi come chi,
lentamente, maneggia due oggetti di uso sconosciuto, in attesa di una chiave che li apra o di trovare il lato che hanno in comune. Cavalli e acqua corrente Un uomo va alla guerra, lascia la donna come ha lasciato il cavallo o la casa, con il senso del proprietario che tanto ama quel che possiede quanto tranquillamente lo dimentica, perché è il padrone e non ammette che il mondo sia altra cosa se non il servo del proprio tornaconto. Dà alla donna il poco che può, e non di più, poiché l’avere è spesso disamore e altrettanto indifferenza e sospetto. La donna è stata colta di passaggio, come una spiga nata sul ciglio della strada e divelta con il cereale ancora da latte, così lontana dalla maturazione come dal primo verdeggiare del seme aperto. Queste cose si sono ripetute in ogni tempo e nessuno accetterà che possano essere diverse, solo perché il tempo è di guerra e la donna si chiama Dzamilja. Tuttavia, è questa la ragione per cui il romanzo di Ajtmatov e il film che ne è stato tratto non si riducono a una banale storia d’adulterio e di abbandono del focolare che tra le cortine borghesi si condisce di piccante e si bovarizza. Questa donna si chiama Dzamilja, lavora la terra, lontano nell’Asia centrale, tra montagne a cui le nuvole si afferrano come barche che hanno lanciato stancamente l’ancora. E nel seno di queste montagne, in valli ondulate come il palmo della mano e solcate da ruscelli come esse lo sono da linee di vita e di morte, crescono messi, come oceani in costante movimento, perché c’è un vento sbrigliato che si espande e si esalta fino a non essere più vento ma respiro dell’aria e di tutte le cose. Per questo i capelli di Dzamilja le coprono il volto e si ergono come la coda sciolta di una cavalla in corsa. E un giorno un soldato che fu ferito nella stessa guerra viene ad aiutarla nel lavoro dei campi con la forza che ancora gli resta. Carica sacchi di grano, guida il carro che ha la forma di una larga culla, e discretamente tace mentre osserva Dzamilja che solleva le braccia per tenersi i capelli nel movimento circolare della falce, che avanza tra le onde delle messi come polena che offre alle acque i seni bruniti. E l’altro giorno, che giorno non era, ma soffocante notte d’estate, Dzamilja entrò vestita nelle acque del fiume e ne uscì ardendo come la prima donna e andò a sdraiarsi sulla paglia dove il soldato ferito aspettava il principio del mondo. E tutto fu come doveva essere.. È tutta qui la storia di Dzamilja e di Danijar, il resto nessuno può raccontarlo. Mentre i due fuggono dall’odio e si perdono (o si trovano) al di là dell’orizzonte e delle montagne, lontano da tutto e tutto portando con sé, è tempo di raccogliere la parte che ci spetta, la nostra quota, il pugno di terra, l’invisibile profumo del vento, questo interminabile ondeggiare delle messi. E il pelo lucido e umido dei cavalli, la morbidezza delle loro narici tremule, la tiepida concavità della groppa, e quel loro scuotersi che fa volare
le criniere. Fissiamo, prima che fuggano, il rapido galoppo in cui si confondono le zampe e i dorsi, lo scalpitare di tuono, la forza e la vertigine. Ma ora, contrappunto a tutto ciò che è libero e veloce, guardiamo quel cavallo impastoiato che avanza con difficoltà, a balzi, mentre pascola sotto un cielo nero tutto circondato di montagne. Tanta bellezza e tale, che non si sopporta e ci copriamo gli occhi con le mani. Ma ci sono i fiumi, le correnti d’acqua che scivolano sui sassi, sulle pietre rotolanti, rotonde come seni o come guance di bambini, e che mormorano senza fine nei luoghi poco profondi, per espandersi serenamente più avanti, con un sospiro che non si ode perché è appena un subito silenzio. Per questi fiumi avanzano cavalli sollevando spuma, in queste acque fredde ravvivò Dzamilja il suo ardore e la sua libertà – e l’immagine della corrente vivissima resta negli occhi come una via lattea che il sole semina di specchi e la luna copre di fiori bianchi. In verità vi dico che in principio era l’acqua. Il film è finito. L’ultima immagine si è congedata. Ho un secondo, prima che le luci si accendano, per scoprire quel che ancora mi manca. È in questo secondo che la memoria mi restituisce un sogno antico, di quei sogni rari in cui si uniscono tutti i colori del mondo: per una corrente di acque basse, poco più di un palmo di altezza, avanzo nudo verso la sorgente, su un fondo di pietre rotolanti che stridono sotto i piedi, mentre l’acqua fa un rumore sonoro di seta strappata. Avanzo su per questo fiume, nudo, sotto il sole chiaro, e sulle sponde c’è un’erba verde, bassa, e alberi enormi e quieti. Non so che significhi, quali cose mi siano mormorate in questo sogno, ma certamente il futuro me lo dirà. Nudo, risalgo le acque della corrente – caso poche volte visto, ma così semplice, come una legge che tutto spiegasse. Le grida di Giordano Bruno In fin dei conti, non c’è grande differenza tra un dizionario biografico e un normale cimitero. Le tre righe secche e indifferenti con cui nella maggior parte dei casi i dizionaristi riassumono una vita sono l’equivalente della semplice sepoltura che accoglie i resti di coloro che (mi si perdoni il facile gioco) non lasciano resti. La pagina piena, con autografo e fotografia, è il mausoleo di bella pietra, porte di ferro e corona di bronzo, più il pellegrinaggio annuale. Ma il visitatore farà bene a non lasciarsi confondere dalle facciate d’architetto, dalle sculture e dalle croci, dalle prefiche di marmo, da tutto lo scenario che la morte pomposa ha sempre apprezzato. Così come dovrà fare attenzione, se si trova in campo aperto, senza riferimenti, a dove mette i piedi perché non gli accada di trovarsi sotto le scarpe il più grande uomo del mondo. Non starà tuttavia calpestando la tomba di Giordano Bruno, perché questi fu bruciato a Roma, arse atrocemente come arde il corpo umano, e di lui, che io sappia, neppure le ceneri furono conservate. Ma allo stesso Giordano, affinché ogni cosa stia nel posto che le compete e giustizia infine sia fatta, furono riservate quattro righe in questo dizionario biografico. In
così poco spazio, in così poche lettere, tra la data di nascita (1548) e la data di morte (1600), limiti di un universo personale che visse nel mondo, ben poco si dice: italiano, filosofo, panteista, domenicano, abbandonò l’ordine, si rifiutò di rinunciare alle proprie idee, fu bruciato vivo. Nient’altro. Nasce e vive un uomo, lotta e muore, così, per questo. Quattro righe, riposa in pace, pace alla tua anima se in lei credevi. E noi facciamo un’eccellente figura tra amici, in società, in riunione, a un tavolo di ristorante, nelle discussioni profonde, se lasciamo cadere al momento opportuno, in modo spigliato e competente, la mezza dozzina di parole di cui abbiamo fatto una specie di grimaldello o di chiave falsa che crediamo possa aprire una vita e una coscienza. Ma, per nostra costernazione, se siamo in un momento di rara lucidità, le grida di Giordano Bruno erompono come un’esplosione che ci strappa di mano il bicchiere di whisky e ci spegne sulle labbra il sorriso intellettuale che abbiamo scelto per parlare di certi casi. Sì, questa è la verità, la scomoda verità che viene a sconvolgere il pacato intento del dialogo: Giordano Bruno gridò quando fu bruciato. Il dizionario dice soltanto che fu bruciato, non dice che gridò. E allora, che dizionario è mai questo che non informa? A che mi serve una biografia di Giordano Bruno che non parla delle grida che egli lanciò, li, a Roma, in una piazza o in un cortile, circondato dalla folla, chi attizzava il fuoco, chi assisteva, chi redigeva serenamente l’atto dell’esecuzione? Troppo spesso dimentichiamo che gli uomini sono di carne che facilmente soffre. Fin dall’infanzia gli educatori ci parlano di martiri, ci danno esempi di civismo e di morale a loro spese, ma non dicono quanto furono dolorosi il martirio, la tortura. Tutto rimane astratto, filtrato, come se guardassimo la scena, a Roma, attraverso spesse pareti di vetro che soffocassero i suoni, e le immagini perdessero la violenza del gesto per opera, grazia e virtù della rifrazione. E allora possiamo dire, tranquillamente, gli uni agli altri che Giordano Bruno fu bruciato. Se gridò, non lo abbiamo udito. E se non l’abbiamo udito, dov’è il dolore? Ma gridò, amici miei. E continua a gridare. Le coincidenze Non mi ritengo uno spirito forte, ma non sono neppure di quelle inquiete persone sensibili a presagi, divinazioni, brezze segrete, che vivono costantemente occupate nella decifrazione di messaggi di questo e dell’altro mondo, complicando con ciò la propria vita e macinando la pazienza altrui. Tuttavia, si danno a volte dei casi che fanno pensare che la vita non è affatto semplice, e che le sue strade sono così disseminate di deviazioni e trabocchetti da stupirci che non ci si perda in essa a ogni passo. Una cosa che mi ha fatto molto riflettere, come se fosse prodigio, è proprio quel che di più banale si possa concepire: l’incidente stradale.
Mi spiego meglio. Un uomo esce di casa al mattino, saluta la famiglia, va al lavoro, passa la mattina occupato, esce per il pranzo, torna in ufficio, dedica il pomeriggio ai suoi impegni, esce all’ora fissata, o più tardi, se ha fatto lo straordinario, chiacchiera con gli amici, passa al bar, compra il giornale, prende l’autobus o il tram, scende alla fermata, imbocca la sua strada, vede già la porta di casa – e d’improvviso arriva una macchina e lo scaraventa a terra, ferito gravemente, se non peggio. E che cosa ha fatto durante il giorno il conducente di quell’auto? È uscito di casa, magari anche lui al mattino, è salito in macchina, ha acceso il motore, è partito, ha girato per la città, è andato al lavoro, è entrato e uscito dall’ufficio, ha visto gente, ha chiacchierato, e a un certo punto, alla fine della giornata, è dovuto passare per una via che non era neppure sul suo tragitto, ma c’erano lavori in corso, sensi vietati – e d’improvviso gli sbuca un pedone da destra, sente un colpo, vede una figura per aria. Una disgrazia. Noti bene il mio lettore i giri che questi due uomini hanno fatto durante la giornata, uno lontano dall’altro, a ore diverse, tutto sembrava allontanarli e, in un momento preciso, hanno cominciato ad avvicinarsi, mossi dal caso senza che se ne rendessero conto, per una ironica fatalità, fino a quell’istante che non sarebbe dovuto accadere, ma è accaduto. Si pensa a cose del genere e si perde la voglia di uscire. Oppure si sta in casa (è quanto è successo a me ed è ciò di cui voglio parlarvi oggi) a leggere il giornale, la cronaca, la politica internazionale, i fatti del mondo, e d’un tratto ci si imbatte in una notizia insolita: il professor Paul L. Cabell junior, dello stato del Michigan, si è suicidato per la concordia razziale, per la pace. Sto leggendo queste righe, turbato, e contemporaneamente sento alla radio la voce dell’annunciatore: “Trasmettiamo l’Ode alla Pace di Hàndel”. E mentre finisco di leggere la notizia si levano le voci dei solisti e del coro, che esaltano la stessa pace a causa della quale un uomo lontano, lontano, laggiù nel Michigan, ha deciso di spararsi un colpo in testa. Un uomo che aveva scritto una lettera ai suoi allievi, in cui diceva: “Muoio per ricordare a voi, e a tutti i giovani che sognano di essere liberi, che la pace può essere conseguita solo se lavoreremo uniti per essa”. Uno se ne sta tranquillo nella città di Lisbona, a leggere il giornale, ad ascoltare la sua musica, e va a capire perché, si associano la notizia di lontano e i suoni di duecento anni fa – ed è lo stesso voto, la stessa sete di pace e di armonia. Un uomo si perde nel sangue per un atto che sembra follia, un altro ha messo insieme battute che potrebbero raccontare un’altra storia – un altro ancora, io, il lettore, recepisce tutto ciò e resta disorientato, senza sapere che pensare di un mondo che credevamo tanto piccolo e che, alla fine, ha la sua grandezza moltiplicata dal numero infinito di istanti che formano, tutti assieme, il tempo del mondo.
Come chiudere questa cronaca? Sembra che i fatti debbano bastare, che si debba consegnarli all’intelligenza del lettore, perché da essi tragga le lezioni possibili e, soprattutto, quelle necessarie. Ma qualcosa mi dice che non basta. Soprattutto, io credo, perché questa musica mi sembra avere un che di mercenario, opera commissionata per una pace che forse nascondeva una futura guerra; soprattutto, perché la morte del professor Cabell, per bella che sia la testimonianza, mi lascia in bocca un gusto di inutilità: la pallottola che lo ha ucciso non taglierà la traiettoria di nessuna di quelle che si stanno sparando in questo stesso istante. Tutto ciò per concludere che l’Ode alla Pace (in fondo, forse sincerissima) non gioverà molto se ascoltata distrattamente alla radio, fuori dal cuore degli uomini, che la difesa della pace può essere fatta dai vivi morendo ma non sarà fatta dai vivi uccidendosi. Tutto ciò per concludere che le coincidenze, così distribuite nel mondo e nel fortuito, se mi hanno offerto il tema di questa cronaca, meritano un destino migliore: quello di portare il lettore a meditare su queste cose di pace e di guerra, a pensare a questi fili che non dovrebbero sembrare misteriosi, ma che ci sfuggono continuamente dalle mani. Teniamoli ben stretti, giacché delle mani di Haendel neppure la polvere resta, e le mani di Cabell hanno alzato un’arma contro se stesse – e si stanno raffreddando. Il recupero dei cadaveri Ricordate? Dal profondo della notte, camminando sul crinale di una collina, sorgevano due figure terrificanti che poi avanzavano fra i tumuli, mentre una nebbia di circostanza compiva il proprio dovere nella composizione della scena e si muoveva con le paure dello spettatore. Era il dottor Frankenstein assieme al suo servo che andavano a dissotterrare il cadavere fresco del giorno. Lo portavano poi per sentieri e altre colline propizie ai tagli artistici del controluce, mentre la tempesta si accumulava ovviamente all’orizzonte, e noi, rannicchiati sulle sedie come topi, battevamo i denti, mezzo pentiti, senza sapere che cosa ci aspettava. Poi veniva lo spaventoso mulino, dove accadevano cose deliziosamente terribili: le buonissime intenzioni del medico; la malignità del servo; la fabbricazione del nuovo essere per giustapposizione, sutura e graffe; l’insufflazione della vita grazie alle scariche elettriche di un temporale di tutto rispetto; e poi il resto, il mostro sciolto, i crimini che commetteva, insomma, un putiferio. E quando il film finiva, tornavamo a casa col cuore stretto, con la paura delle ombre, degli angoli, della guardia notturna, delle scale senza luce. Tutta la notte sognavamo e sudavamo di sgomento. Bei tempi. Oggi, i Dracula e altri vampiri riescono solo a farci ridere. Quanto a me, ho sempre pensato che il dissotterrare cadaveri con intenti lucrativi si potesse vedere solo al cinema, e che nella vita reale l’antico rispetto per i morti (tanto piú in un paese così rispettoso di tradizioni
necrofile) trattenesse il gesto profanatore. Ma pare che non sia così. Mutano i tempi, mutano i costumi, e quel che sembrava male si tramuta in bene – e ora va molto di moda andare per cimiteri, percorrere i viali più malfamati, le sepolture che ritenevamo umili, la fossa comune, dissotterrare il corpo, le ossa, la polvere, i resti, e uscire in strada, gridando: “È nostro. È stato un grande uomo, un grande patriota, è nostro. Non credete a quel che abbiamo detto di lui in altri tempi. Giustizia è fatta. È nostro”. Ben sa il mio lettore quanto io sia cittadino pacifico, disposto a voler bene alla gente, sempre alla ricerca del lato buono, il lato del sole – ma deve pur riconoscere che ci sono certe cose che irriterebbero lo stesso san Francesco d’Assisi, santo di tanta virtù e pazienza che non faceva distinzione tra lupi e agnelli, e tutti chiamava fratelli: Non sono così meschino da ritenere che sia obbligo di chi ha creato un odio restargli abbarbicato sino alla fine dei suoi giorni, solo per non smentirsi e confessare l’errore. È un’ottima cosa che le persone evolvano in senso buono, che abbandonino rancori, acquisiscano quella dirittura morale che impone il rispetto per gli avversari; è cosa eccellente che si perda la smania di troncare teste, vite, carriere, idee, convinzioni. Fin qui, tutto bene. Ma non sono piú d’accordo (perché il gesto non è certo disinteressato) con questa frenesia di recuperare cadaveri di persone che in vita (nella loro unica vita, signori miei) furono odiate, calunniate, private della cittadinanza, persone il cui solo crimine fu di avere opinioni diverse sul modo di governare la Città. Piuttosto, che li lascino in pace questi morti, se in vita fu loro negata. E non vengano a dirmi che la morte livella tutto, e che pertanto con essa finiscono gli affronti, le invidie, le avversioni. E che lì comincia la fratellanza universale – e nazionale. Perché se è così, allora quel che sta accadendo ricorda irresistibilmente i rituali di antropofagia, la quale, a dire degli esperti, si spiegherebbe con il desiderio di acquisire la virtù, la forza, il coraggio dei nemici morti. Il che non impedisce (oh ironia) che si continui a perseguitare i nemici vivi, per poterli poi mangiare, in un ciclo ripetitivo, e così via. E sempre, trascorso il tempo necessario a una facile digestione, con i clamori della giustizia tardiva e per ciò stesso inutile: “È nostro perché ha servito la Patria. È nostro perché è stato un buon cittadino. È nostro perché è stato onesto. È nostro”. Non so se negli altri paesi succedono le stesse cose. Forse si, e tutte queste inumazioni ed esumazioni saranno appena un’altra modalità dell’alternanza del si e del no, come quei manifesti per la strada, incollati uno sull’altro, che contano sulla debole memoria di chi passa e getta uno sguardo sui muri, pavesati con parole che sembrano nuove, con disegni che sembrano altri, con volti che sembrano diversi. Maneggiati così, i morti oppongono grande resistenza. Sanno molto bene, nel silenzio in cui si sono installati, qual è la loro vera famiglia. Che non sia questa a dimenticarli. Allora, sì, sarebbe la fine.
Meditazioni sul furto Quelli di noi che hanno letto in altri tempi I miserabili (chi ha oggi la pazienza di sopportare Victor Hugo?), ricorderanno che fu a causa del furto di un semplice pane che Jean Valjean passò diciannove anni in prigione. Piccole cause, grandi effetti. Uno spirito obiettivo, di quelli che tutto pesano e valutano, scrupolosi al capello, dirà che se Jean Valjean avesse espiato con rassegnazione la pena che la società gli aveva imposto non sarebbe rimasto prigioniero piú di cinque anni. Il male fu la sua ribellione, l’assurda ansia di libertà che lo portò per quattro volte a tentare la fuga. Insomma, casi tristi. Queste riflessioni vengono a proposito nel momento in cui ricostruisco nella memoria la mia indifesa deambulazione nella grande sala del British Museum che contiene le sculture strappate al Partenone. Dico indifesa deambulazione perché non credo a un visitatore in grado di darsi almeno una vernice di serenità. O altrimenti il visitatore è stupido. Perfino un cieco, con i suoi occhi digitali, rabbrividirà di commozione passando le dita sulle figure antichissime dei fregi e delle metope. S’immagini dunque quel che può offrire il privilegio di occhi sani, anche se miopi. Ma stavo parlando di Jean Valjean e del pane che non era suo e che lui rubò. E sto davanti alle sculture del Partenone. E mi circonda il conforto del riscaldamento inglese. Ma sento freddo. L’errore, in fondo, sta nel rubare poco. Diciannove anni passò Jean Valjean nelle prigioni, e quando ne uscì quante altre disgrazie gli piovvero addosso, con quel mascalzone di Javert a perseguitarlo, come ci riferisce Victor Hugo, punto per punto. E Thomas Bruce, diplomatico, uomo sicuramente finissimo, nato per sventura della Grecia con manie di predatore, va e saccheggia l’acropoli di Atene, strappa pietre di duemila e cinquecento anni, porta tutto a Londra – e nessuno lo perseguita, nessuno gli fa del male, anzi al contrario, e oggi è nella storia come un grande uomo, mentre a Jean Valjean, solo a causa del pane, gli accadde quel che si è visto, e senza andare tanto lontano, ecco il nostro José do Telhado, che rubava ai ricchi per darlo ai poveri. Ditemi ora come è possibile intendere questo mondo. Vago perplesso per l’enorme sala e nei primi minuti non riesco a vedere nulla. Penso continuamente: “È questo che hanno rubato? E sono tutti d’accordo? E non si fa niente? Non si istituisce un tribunale supremo per giudicare e punire i grandi latrocini? Non si dà il suo al suo padrone?” Poi (che sollievo!) mi rasserenai, e mi abbandonai alla contemplazione delle panatenee e dei cavalieri, delle acefale figure di dei, delle lotte tra i centauri e i làpiti. Feci lentamente due volte il giro della sala, sapendomi complice a partire da quel momento, e anche cosciente delle mie deboli forze, che mi avrebbero comunque impedito di agire. Che potevo fare? protestare a Hyde Park? organizzare un comizio a Trafalgar Square? marciare su Buckingham Palace? arruolarmi nell’esercito clandestino dell’IRA? Io, povero portoghese li sperduto, incapace perfino di
riconquistare Olivença? Con una stretta di spalle, uscii dalla sala e mi diressi verso le altre collezioni con quell’insaziabile fame di conoscenza che certe indigestioni intellettuali mi hanno provocato. E vidi tutto quel che c’era da vedere: le sculture egizie, le mummie, la stele di Rosetta, i leoni assiri dalla testa umana, oggetti, armi, utensili, tutto il mondo antico ordinato ed etichettato, un’esemplare lezione d’arte e di storia che mi riempì di rispetto per le teste inglesi responsabili. E fu allora che si fece luce nel mio turbato spirito. Avevo notato che nei musei inglesi non c’è nessuno all’entrata, biglietti in resta, a riscuotere denaro. Ci sono, sì, sparse per le sale, delle cassette col coperchio di vetro, e apposita fessura, dove il visitatore è invitato a deporre la sua offerta, e dove un avviso dice che il denaro è destinato all’acquisto di opere d’arte per il museo. Avevo visto tutto questo e lo avevo trovato curioso e civile, nient’altro. Ma, ripeto, il British Museum fu la mia via di Damasco. Lì capii che gli inglesi, vergognosi di tante rapine istigate o consentite, cercavano di far dimenticare i loro misfatti stendendo la mano alla pubblica carità. Capii che i poveretti vivevano tormentati dai rimorsi – e ne ebbi pena. Sentimentale, con l’occhio inumidito dalla lacrima lusitana, aprii il portamonete, ne estrassi mezza sterlina generosa e la infilai nella cassetta. Dopo di ciò, posso annunciare a tutti che l’Inghilterra non cadrà più in tentazione. Sta mettendo insieme il denaro per comprare il museo del Louvre, con annessi e connessi. Nella giusta e conveniente forma, e per il suo giusto valore. Il lettore mi perdonerà lo scherzo: la colpa è di questo pazzo mondo in cui entrambi siamo costretti a vivere. Quattro cavalieri a piedi La chiamano piccola colazione e io mi azzardo a chiedere che cosa ci guadagniamo con questa novità. Avevamo già colazione, pranzo e cena, tre parole distinte per l’atto del mangiare, e ancora una quarta parola, merenda, forse di tutte la più fresca, magica perché arricchiva la memoria gustativa dei bambini, almeno di quelli che di tale abitudine o privilegio beneficiavano. Era, insomma, un vocabolario di gente di scarsa alimentazione, che non inghiottiva un boccone dopo le otto di sera e andava a dormire con le galline. Poi sono arrivati i prolungamenti di serata, le nottate, l’appetito dell’una dopo mezzanotte, e allora si è distorta la nomenclatura, rapinandola alla Francia, si è lusitanizzata in lanche la colazione britannica, facendola slittare di quattro ore – e in tal modo crediamo di aver regolato gli orologi sul tempo dell’Europa. Ingenuità di creature semplici quali noi siamo. Ed è per accidenti linguistici del genere che devo dire che faccio la piccola colazione (non la colazione, come una volta) in una delle pasticcerie che si trovano sulla strada del lavoro, non sempre la stessa, ma che non cambio finché non mi viene a noia il gusto del pane, del caffellatte e la faccia
del cameriere, oppure la frequenza con cui vedo e rivedo i visi degli altri clienti. In fondo, sono un animale un po’ selvatico, scontroso, schivo, irascibile nei brutti momenti, con sgomento di chi, credendo di conoscermi bene, non mi conosce affatto. Se non fosse il deliberato ritegno dietro cui mi nascondo, non so quale più costante rabbia mi si diffonderebbe intorno. Mi avvicino al banco, dove addento, in fretta e senza piacere, il sandwich di prosciutto, e dove soffio con impazienza sul caffellatte, che ingoio bollente e sa di tutto – ogni giorno in modo diverso – meno che di questi due liquidi, che non dovrebbero riservare sorprese. Guardo l’ora, penso al lavoro, e poi cerco di distrarmi facendo scorrere gli occhi sul paesaggio di dolci, bottiglie, scatole di caramelle, formaggi, che finiscono per darmi una nevrastenia da cortile, o tipica di chi ha solo un cortile come vista d’evasione. È a questo punto che cambio pasticceria, per finire col trovare lo stesso latte, lo stesso pane, lo stesso caffè. Lo stesso profondo scoramento, anche, la stessa tristezza. È noto il gusto dei decoratori di questi ambienti. Soffrono tutti di neoricchismo artistico, molto attento alle mode, usano plastica che imita il marmo, carta che simula il legno, pannelli di finto sughero, rivestimenti di nappa, e soprattutto – ah, soprattutto – introducono nell’ambiente un non so che di insolenza pretenziosa che si stampa sulle facce dei camerieri, indifferenti o visceralmente servili, secondo l’importanza del cliente. Ma che farci? L’uomo si compiace spesso di essere un semplice servo dell’ambiente, muta con esso, come appare dal fatto che i servi con anima di servo accompagnano gli umori del padrone. Continuando così, finisco col non raccontare la mia storia, e sarebbe un peccato. Arriviamo perciò al dunque, prima che si raffreddi. Mi stavo, come ho detto, sottoponendo al fastidio della piccola colazione (era prestissimo, il bar aveva appena aperto), quando entrano quattro paesani. Li avevo già visti prima, mentre guardavano la vetrina della pasticceria e il trionfalismo della porta. Mi accorsi subito che pativano gli orrori della timidezza contadina dinanzi agli splendori che la città esibisce. Erano sicuramente arrivati la sera prima dal paese, per visitare il parente all’ospedale, e la notte l’avevano passata in una stanzuccia di pensione con la lampadina che pendeva dal soffitto, smorta e senza paralume, con gente che russava e strani odori dai pagliericci, un misto di sudore, orina e altre secrezioni segrete. Li avevo visti dal bancone e avevo scommesso con me stesso: entrano, non entrano, osano, non osano. Eccoli. Ho vinto la scommessa, e mentalmente mi metto a provocarli: sedetevi, ordinate, reclamate, discutete il conto, sfidate lo sfacciato cartello all’entrata: “Diritto di ammissione riservato”. Ora sono accanto a me, in gruppo, sempre a confabulare, forse a fare i conti con i soldi che hanno in tasca, con il biglietto di ritorno, con il lusso del negozio, con il sorriso del cameriere. Lo dissimulano più che possono, ma tremano di paura: ci sono cinquanta scatole diverse di cioccolatini, trenta specie di dolci sconosciuti ed è tutto così caro, Manuel.
Si avvicinano di nuovo alla porta, con l’aria indugiosa di chi pretende di salvare soltanto la faccia, e in un attimo scompaiono, sopraffatti dalla vergogna, dalla paura, sconvolti dal loro stesso coraggio che non è durato a lungo (fino a un momento fa, il caffellatte non era amaro, e il sandwich non aveva questo sapore di paglia). Erano entrati nel bar quattro cavalieri a piedi, in sella all’oblio della loro importanza, dimentichi o ignari che nulla è più alto dell’uomo, di qualsiasi uomo e in qualsiasi luogo, anche se in questo è riservato il diritto di ammissione. Quattro cavalieri che sembravano piuttosto legati alla coda dei cavalli, come rei. Quattro cavalieri che mi hanno lasciato a guardare il fondo di questo fetido cortile che molta gente garbata chiama gerarchia, pace sociale, rassegnazione di tanti alla sorte prescelta da pochi. Mancano cavalli, amici, mancano cavalli. Del principio del mondo Avevamo parlato per ore, nel nostro solito modo dispersivo, esagerando il valore delle banalità e discutendone come se nella discussione avessimo deciso di impegnare la vita o di disimpegnare (doppio senso) il destino dell’universo. I pensieri sensati (e ce n’erano) venivano a galla per caso, erompevano un attimo come lo splendido dorso di un delfino, e poi, perduti nella retorica fiammeggiante, affondavano rassegnati. Tutti ci conoscevamo bene e non ci saremmo condannati mutuamente per il modo sconnesso in cui avevamo cercato di vincere quella piccola battaglia verbale, che nessuno sapeva piú com’era cominciata. Per fortuna, la conversazione si era dissolta ed era morta proprio quando a ciascuno di noi conveniva per convincersi che la vittoria gli spettava. Niente di meglio per cominciare una nuova discussione. Ma non sarebbe stato così. Per tutto il tempo aveva fluttuato una musica di fondo, piatta e umile sotto la carica di cavalleria che irrompeva qua e là nel dialogo a perder tempo e ferrature. E ora, in mezzo al silenzio che si era imposto, la musica cominciava a percepirsi meglio, a meritare un’opinione, ultimo argomento per conciliare i punti di vista ancora divergenti. Un Beethoven ci fece tacere tutti, entrando dalla porta del corridoio, curvo come raccontano le biografie, la chioma spettinata e poco pulita, le mani dietro la schiena, il sopracciglio direttamente riprovatore per coloro che così disponevano della sua musica. Ritenni che non gli fossimo del tutto sgraditi, poiché se ne restò lî sino alla fine del disco, appoggiato allo stipite, le braccia conserte. Poi venne un Mozart felice che si sedette sul tappeto, battendo il tempo, mentre beveva dal bicchiere di vino che aveva preso dalle mani di una nostra amica. Un ragazzo allegro. Ma quasi alla fine, non so perché, Mozart posò lentamente il bicchiere, chinò la testa sulle ginocchia piegate e cominciò a piangere. Di lì a poco mi accorsi di pensare se per caso non avessi bevuto un po’ troppo, mentre per il corridoio vedevo avanzare Monteverdi, con la sua barba dal taglio mefistofelico e la sua musica di
giubilo celeste, al tempo stesso che le voci del coro si materializzavano in volti che si avvicinavano cantando dal fondo dello spazio ed esplodevano in silenzio sulla mia testa, come un’onda gigantesca vista da lontano. Non so se i miei amici vedevano esattamente le stesse cose, ma se ne stavano tutti in silenzio, con un’aria di compenetrazione meticolosa che sicuramente dissimulava la convinzione di essere essi gli unici beneficiari di quelle visite. Il più disinteressato era ancora il padrone di casa, che continuava a cambiare dischi, forse perché da lui era abitudine invocare a quel modo gli spiriti. Fu allora che cominciò a sentirsi una musica nuova, qualcosa che era aperta campagna, bosco, valico, montagna innevata. Un flauto, un tamburino che dal suono si sarebbe detto di pelle di serpente, uno sbattere di sabbia grossa dentro una capsula vegetale, nulla che si potesse dire: è Mozart, è Beethoven, è Bach, è Monteverdi. Stavolta nessuno avanzò per il corridoio illuminato. I miei amici non girarono la testa, non adocchiarono di straforo per vedere se arrivava qualcuno. Incapaci di guardarci, fissammo tutti il pavimento della sala, in attesa, mentre la musica diceva cose intraducibili, le diceva frammezzate, come chi impara la propria lingua mentre parla, come chi, esitante, crea tutto a partire dal nulla. Lo sapevamo senza dircelo. Ma, evidentemente, mancava qualcuno che ci spiegasse, a viva voce (oh meravigliose parole, quelle che solo la viva voce sa dire), che cosa tutto ciò significasse. Non furono parole. Quando la musica divenne minaccia e gridò come un animale selvaggio nel mezzo della foresta, come un falco tra due dirupi verticali, una delle nostre amiche – animale snello, scuro di pelle, inguainato in una tunica lunghissima – avanzò al centro della sala e cominciò a danzare da sola, facendosi prima avvolgere dalla musica, impadronendosene poi in un atto successivo di assorbimento espresso in un discorso infinito di gesti, di movimenti., di flessioni, che erano il suono divenuto visibile del flauto, il cuore del tamburo, la pioggia sospinta per i campi, sotto il vento che trasformava i granelli di sabbia in gocce d’acqua. Il primo suono a morire fu il flauto: un’eco lievissima si disfece come un’ombra che si allontana da un volto. Poi la grande pioggia diminuì, svanì lontano e, per qualche istante, rimase solo il cuore del serpente, battendo sempre più intervallato, fino a fermarsi, ingiustamente. La nostra amica negra piegò le ginocchia, ansante. E quando, vinta, lasciò cadere la testa all’indietro, la sua chioma, palpitante, era un sole notturno del principio del mondo. L’officina dello scultore L’officina dello scultore è alta come una caverna che abbia svuotato una montagna. Ed è anche sonora come un pozzo, e i suoni vi cadono dentro in modo rotondo, liquido, e sono come acqua fredda spruzzata su una campana di cristallo. Non è raro che la musica riempia tutto lo spazio. Allora
l’officina si trasforma in sala da concerto, in cattedrale, in vulcano, e la musica si apre come un fiore rosso e gigantesco sotto i cui petali chiniamo la testa. Ma non è questo il lavoro. Le sculture iniziate, avvolte come spettri in bianche tele, in sacchi di plastica traslucida che all’interno condensano la respirazione della creta, attendono il gesto delicato che le spogli come un corpo vivo e le mani capaci, nel medesimo gesto, di schiacciare o di scoprire dolcemente la linea esatta. E poiché le mani hanno lanciato nello spazio il movimento giusto, la massa di argilla si ricrea dal di dentro ed è un volto cupo o aperto, un labbro, una luce nella pupilla immobile, uno sguardo retto. Ci sono anche i disegni, i fogli di carta che dormono preziosamente coricati a proteggere il tratto imponderabile del carboncino. E quel foglio che un gesto assurdamente calmo fissa sul trespolo verticale, come se subito dopo non si aprissero le porte del grande combattimento. Forse non si ammette altro gesto: se non vogliamo dire che ha inizio una cerimonia religiosa, diremo che è una lotta corpo a corpo, un atto d’amore, proprio come quel gesto che ha spogliato le statue. Ora lo scultore affronta il foglio bianco, verticale e nudo come un corpo. Tende il braccio armato del frammento nero del carboncino e con un movimento breve o lungo, ma sicurissimo come una stoccata, apre nel foglio la prima cicatrice. Tutto il disegno sarà un gioco di finte, di allunghi e di rapidi ritiri, fino al momento in cui l’oggetto si arrende, la distanza si riduce e lo scultore dimentica il modello ormai definitivamente assimilato e dialoga faccia a faccia con l’immagine posseduta. L’officina è popolata di figure. Ci sono volti di bronzo sul pavimento, il volto stesso della terra che ci guarda. Il lieve strato di polvere che copre le terrecotte è terra su terra, morte su vita, la traccia che il tempo trascina via, la frantumazione delle ore. Animali vivi, oggetti colti nella casualità di incontri che sono scoperte e invenzioni, introducono nell’officina dello scultore tutti i regni della natura: radici d’albero sospese nell’aria come se di aria alimentassero le foglie perdute, tronchi ramosi che sono crocifissioni o turbe di genti pugnalate; pietre che l’acqua, il vento e il sale hanno lavorato per mille anni e un giorno, finché due vivide mani le hanno sollevate da terra e accostate per la prima volta all’alito dell’uomo; e due colombi liberi, le remiganti intatte, tagliano l’atmosfera come se attraversassero un bosco o osassero il volo su una valle profonda dove figure immobili assistessero allo sfilare dell’invisibile. Centomila oggetti creati da altre mani sono disposti su gradini, ripiani, rastrelliere. Ciascuno, perché è stato trovato, perché si è lasciato trasportare lì, perché ha occupato quel posto e non un altro, perché è stato messo in consonanza o in opposizione a quelli che lo circondano, è un’entità viva, opaca o trasparente, sulla quale la luce e l’ombra si armonizzano come la notte e il giorno, il crepuscolo del mattino o della sera. Le bottiglie arrotondano i loro ventri vuoti accanto a sottili vasi dove un ramo rinsecchito e contorto sostituisce il fiore. E ci sono innumerevoli calamai, con le mille
forme che un calamaio può assumere senza rinunciare alla funzione per la quale è stato creato: piramidi d’Egitto, palme vegetali, mani aperte, scatole misteriose che sembrano da musica, sfere chiuse, gusci di animali. Su tutto questo, i colombi volano veloci, fendendo l’aria, mentre in una gabbia due tortore si bagnano nella luce argentata che passa attraverso il vetro traslucido. Questa luce apre rilievi su una corteccia d’albero che fodera una striscia di muro a calce. Negli interstizi della scorza rugosa, licheni secchi e funghi morti sono, anch’essi, l’involucro inerte di una vita infima interrotta. In questo pozzo, in questa caverna, in questo vulcano sonoro, in questo spazio gelido, in questa montagna abitata internamente – lo scultore circola come l’abitante unico di un paese dove c’è spazio per lui solo e dove egli si muove lentamente, come una vena del polso. Perché c’è davvero un movimento di palpitazione in queste alte pareti. Frattanto, una figura aspetta, creta vischiosa e bagnata, statua incompiuta. E accanto il foglio bianco, secco e imperioso. Entrambi saranno vita nella solitudine subitamente popolata di voci minerali, mentre i colombi disegnano una spirale fino al lucernaio del soffitto. Il giardino di Boboli Il corpo deforme di Pietro Barbino è seduto su una tartaruga, dalla cui bocca o becco scorre entro una vasca di marmo un filo d’acqua viva. È la fontana del piccolo Bacco, la fontana del Bacchino, come la chiamano i fiorentini. Questo Pietro Barbino, mi dice il libro, era un nano che distraeva il duca Cosimo I dagli affanni e dalle mortificazioni del governare. Di sicuro avrà avuto meriti particolari per essere così immortalato e posto all’entrata del giardino, a sinistra di chi entra. Parlo del giardino di Boboli, su cui dà il favoloso e anarchico museo di Palazzo Pitti, assurdo museologico da dove il visitatore esce saturo e perduto. Per recuperare l’equilibrio, presi a camminare nei viali, ascoltando il mormorio delle acque, scoprendo il nitore delle statue tra la mitezza di quei verdi toscani, per apprendere, insomma, a poco a poco, già lontano dai quadri, quel che gli stessi quadri dovevano ancora darmi. E alla curva di una strada alberata mi appare la statua di Pietro Barbino, nuda e obesa, mano alla Vita e gesto da oratore. È enigmatica questa figura. È anche un po’ ripugnante. V’è in essa una specie di insolenza, come se Pietro Barbino fosse il riflesso animale di ciascuno dei visitatori che gli si fermano davanti: “Non illuderti, sei esattamente come me – nano e deforme, oggetto di divertimento per un altro più potente di te”. Rimasi immobile dinanzi alla statua, solo, per alcuni secondi, il tempo sufficiente per pensare tutto questo, più di questo e meno lusinghiero di questo. So bene che furono appena pochi secondi, anche se al momento mi sembrò che il tempo si fosse fermato. C’era un grande silenzio nel giardino, e un gruppo di giapponesi che avanzava alla mia sinistra pareva fluttuare senza peso, in un lampeggiare di occhiali e di camicie bianche. Feci alcuni
passi verso la statua, (per vedermi meglio?), ma d’improvviso fui sommerso da una valanga di uomini sudati e di donne grasse, con vestiti chiassosi, ridicoli cappelli di paglia legati alla barbozza, macchine fotografiche – e grida. Tutta quella gente si precipitò verso il Bacchino, in un grande scoppiettio di frasi italiane e di interiezioni universali. E le donne grasse vollero essere fotografate accanto alla statua nuda, spingendosi l’un l’altra, isteriche e convulse, frenetiche come baccanti ubriache, mentre gli uomini ridevano, grevi e lenti, dandosi gomitate e protendendo il mento lucido. Il gesto del Bacchino si era fatto protettore, benediceva quei suoi fedeli pellegrini, al tempo stesso che la tartaruga lanciava lontano i suoi occhi vuoti. I giapponesi si avvicinarono. Rimasero allineati davanti alla statua, gravi, senza una goccia di sudore, puntando freddamente gli obiettivi. Poi si raccolsero disciplinatamente attorno alla guida per ascoltare le spiegazioni che dava in inglese. Tornarono a guardare la statua, tutti allo stesso tempo, parlarono nella loro lingua e si allontanarono. Gli italiani prendevano ora d’assalto le scale del museo, dove li aspettava un uomo dagli occhi grigi, di Tiziano. Restai di nuovo solo. Mi bagnai distrattamente le mani nel filo d’acqua che la tartaruga mi offriva e mi ritirai sospirando. In portoghese. Terra di Siena bagnata (E ci sono anche quelle parole che abbiamo udito nell’infanzia, già di per sé misteriose, ma che gli adulti poco istruiti rendevano ancora più segrete, perché le pronunciavano male, con l’aria contraffatta di chi veste un abito che non è stato tagliato per lui. Così era, ad esempio, quella tinta scura, per i mobili, cui si dava il nome di vioxene o bioxene, e che solo molto piú tardi ho capito che era vieux chene, vecchia quercia, antica, annerita dal tempo. Era anche il caso di quell’altro colore, terra cena, terra sona bagnata, che io vedevo comprare, in polvere, di un giallo cupo e ardente, come se fosse pulviscolo di sole. Magnifiche parole dell’infanzia, che hanno bisogno di aspettare lunghi anni per non essere più un cieco cantare di suoni e trovare l’immagine reale che loro corrisponde). Durante tutto il viaggio, dopo aver lasciato Perugia, il cielo si andò a poco a poco coprendo. Il giorno si oscurò quando eravamo ancora lontani da Siena, e la pioggia cominciò a cadere con forza. Si chiuse la notte in acqua e fu sotto un furioso temporale che entrammo nella città, tra lampi allucinanti che lanciavano fuoco sulle case. L’automobile attraversava una città deserta. Per le strade strette, lastricate, l’acqua correva a fiumi. E nel breve silenzio fra due tuoni, la pioggia risuonava sul tettuccio come bacchette sulla pelle di un tamburo. Dopo innumerevoli giri, la macchina si fermò in un ampio spazio, accanto a dei gradini. Eravamo nella piazza del Duomo. Attraverso i vetri appannati, vedevamo vaghe luci, gente riparata nei portoni e, a destra, una
forma enorme, tutta a fasce nere e bianche, che si perdeva nella notte e nell’altezza: era la cattedrale. La violenza dei tuoni scuoteva la macchina; e la pioggia finì con l’isolarci dal mondo. Siena ci riceveva male. Rimettemmo in moto la macchina e tornammo nel labirinto delle stradine, finché sfociammo in quel che mi sembrò un largo cratere. “È il Campo”, disse uno di noi. E io, neofita, molto compenetrato come chi si mette per la prima volta la cravatta, ripetei, rispettosamente: “Il Campo”. E la pioggia continuava a cadere. Bagnati, stanchi, scoprimmo un posto per passare la notte. Non un albergo (erano tutti pieni), ma un vero palazzo del XIII secolo, le cui pietre gemevano acqua e storia. All’interno, però, era simultaneamente primitivo e confortevole. C’erano stanze affittate a studenti, e che ero io a Siena, se non uno studente? Aprii la pesante finestra e guardai fuori. Il temporale si era allontanato o era venuto a morire lì, e la pioggia ora cadeva lentamente, mite, senza la frustata degli scrosci. Il mattino seguente, dopo una notte tormentata dall’inquietudine di un nuovo giorno di tempesta, aprii di nuovo i battenti medievali: il cielo era levigato e limpido, e la luce del sole, ancora bassa, mi mostrava finalmente i tetti di Siena. Fu come se dalle antiche terre della memoria un bambino venisse a mettersi accanto a me, un ragazzino magro e timido, in maglietta e calzoncini. Eravamo due: io, silenzioso e grave, ormai conscio che in tali circostanze solo il silenzio è sincero; lui, mozzo che dall’alto della coffa dell’albero maestro scopre per la prima volta la terra che cercava, mormorando con timore: “Terra sena, terra sena bagnata”, e scomparve, tornò al passato, felice di aver visto, di aver saputo finalmente quel’ che significavano le misteriose parole che aveva udito dire dagli adulti, morti nell’ignoranza di quel che avevano detto. Qualcuno mi si avvicinò. E io dissi, senza guardare, con una voce divertita che si dominava: “Terra di Siena, terra di Siena bagnata”. Il tempo e la pazienza Se qualcuno mi chiede che cosa è il tempo, dichiaro subito la mia ignoranza: non lo so. Proprio ora sento il battere del pendolo, e la risposta sembra essere lì. Ma non è vero. Quando gli finisce la corda, il meccanismo continua nel tempo ma non lo misura: lo subisce. E se lo specchio mi mostra che non sono più quello di un anno fa, neppure questo mi dice che cosa è il tempo. Solo ciò che il tempo fa. Mi si perdonino questi pensieri falsamente profondi. Niente mi avrebbe spinto ad arrancare dietro ad Einstein se non fosse stato per quella notizia dalla Francia: nel fiume Saòne tutta la fauna si è estinta a causa di prodotti tossici che vi sono stati accidentalmente versati, e ci vorranno cinque anni perché si ricostituisca. Lo stesso tempo che invecchia, rovina, distrugge e uccide (addio, specchio), purificherà le acque, le popolerà a poco a poco di creature, finché, passati cinque anni, il fiume risusciterà dalla fossa comune
dei fiumi morti, per la gloria e il trionfo della vita (e poi si sposarono, ed ebbero molti affluenti). Non avrebbe seguito questa cronaca se non fosse per quella benedizione dei cronisti, che è (qui lo confesso) l’associazione di idee. Va trascinando il fiume Saóne la sua corrente avvelenata, ed è in questo momento che una goccia d’acqua mi si disegna nella memoria, come un’enorme perla sospesa, che lentamente s’ingrossa e tarda tanto a cadere e non cade fin quando la guardo affascinato. Mi circonda un fantastico ammasso di rocce. Sono all’interno del mondo, attorniato da stalattiti, da bianche tovaglie di pietra, formazioni calcaree che hanno l’aspetto di animali, di teste umane, di segreti organi del corpo – immerso in una luce che dal verde al giallo degrada all’infinito. La goccia d’acqua riceve la luce da una fonte laterale ed è trasparente come l’aria, sospesa su una forma rotonda che sembra un bulbo vegetale. Cadrà non so quando, dall’altezza di sei centimetri, e scivolerà sulla superficie liscia, lasciando un’infinitesimale pellicola calcarea che renderà più breve la prossima caduta. E poiché ci siamo fermati a guardare la goccia d’acqua, il custode di Aracena ci ha detto: “Tra duecento anni le due pietre saranno unite”. È questa la pazienza del tempo. Nella grotta immensa, il tempo sta avvicinando due pietre insignificanti e promette la silenziosa unione da qui a duecento anni. All’ora in cui scrivo, in piena notte, la caverna sarà sicuramente in profonda oscurità. Si ode il gocciolare delle acque libere sui laghi senza pesci mentre in silenzio la montagna stilla la torpida goccia della promessa. La pazienza del tempo. Duecento anni a fabbricare pietra, a costruire una piccola colonna, un misero moncone cui nessuno in seguito farà caso. Duecento anni di lavoro monotono e applicato, indifferente alle meraviglie che ricoprono le pareti altissime della grotta e fanno sbocciare fiori di pietra dal suolo. Duecento anni così, solo perché così deve essere. Parlo del tempo e di pietre e, tuttavia, è agli uomini che penso. Perché sono essi la vera materia del tempo, la pietra superiore e quella inferiore, la goccia d’acqua che è sangue ed è anche sudore. Perché sono essi il paziente coraggio, e la lunga attesa, e lo sforzo senza limiti, il dolore accettato e ricusato duecento anni, se così deve essere. Il fiume più grande del mondo Oggi ho compiuto un gesto come solo potevano compierne i grandi conquistatori del passato, un Alessandro il Macedone, che poteva offrire il mondo intero per il semplice motivo che ne era padrone. Non sono arrivato a tanto, è chiaro, ma ho regalato un fiume. E se qualcuno, sapendo di che fiume sto parlando, si metterà a malignare che non ho regalato proprio un bel niente, che il fiume continua nello stesso posto e nello stesso letto, ho qui la risposta pronta: se un giorno il pianeta sarà proprietà esclusiva di un
nuovo Alessandro, certamente non ne modificheranno l’orbita. Ho regalato il fiume, è fatta, ma è anche vero che non lascerei orfano un paesaggio. E così lontano si spingono la mia generosità e il mio rispetto che tutta la gente e tutte le imbarcazioni continueranno ad avervi diritto di passaggio e di navigazione. In fondo, solo due persone sanno che il fiume ha cambiato padrone. È quanto basta. Ma la cosa più importante non è stata ancora detta. È raro l’aver scoperto che con un solo colore si fa un fiume e un paesaggio, il sapere inoltre che il silenzio si compone di innumerevoli rumori – e che sotto un cielo coperto, dimentico della primavera, può nascere una verde canzone. Lungo il fiume, mentre la barca scende per la corrente con il rapido ausilio della pertica che stride sulla sabbia o si conficca come lancia nel limo, gli uccelli invisibili trasformano gli alberi in strani esseri cantori. E il mistero si dissolve solo quando uno degli uccelli si affaccia sui rami che si protendono sull’acqua o accompagna la barca svolazzando, in un gioco di ali tremule, in cui c’è limite, ma non nullo, audacia, ma non troppa. Arditi, invece, maliziosi, i merli rischiano da lontano e attraversano il fiume con quel loro volo un po’ goffo: sono neri di inchiostro e hanno il becco giallo come imbrattato del polline dei fiori. Grandi nuvole scure empiono il cielo. E poiché il sole solo furtivamente appare, c’è in tutto il paesaggio, nei colori e nei suoni, una piacevole sordina. Il tempo stesso è indugioso. Si naviga come in sogno, e l’aria è più spessa, trattiene in sospeso i gesti, le brevi parole scambiate. E quando da uno squarcio degli alberi la riva acquitrinosa si dilata d’improvviso fino all’estremo del mondo, c’è un pioppo solitario piantato lì di proposito per marcare l’approdo, come quella piccola figura posta in un disegno ai piedi delle piramidi d’Egitto e che subito riconosciamo essere un uomo. Allora, scendendo giù per il fiume che è stato donato e ricevuto, parliamo delle persone che continueranno a vederlo tutti i giorni. Di quelle persone per le quali il fiume non è né paesaggio né verde canzone, ma una linea ipnotizzante che le ha ancorate allo stesso luogo e dentro se stesse. Parliamo di queste cose gravemente, divisi tra quel che ci appartiene e quel che solo con un rispetto infinito possiamo toccare. Immaginiamo una lunga fila di uomini che si lanceranno di corsa, e sappiamo che per una basilare ingiustizia, per un’assurdità mostruosa, alla maggior parte di essi sarà tagliata una gamba: amareggiati e menomati si trascineranno su quel che resta loro della terra. Ma rassegnati, no, ci diciamo. L’acqua ci trasporta lentamente. Sfiorano le nostre spalle i rami pendenti dei salici. Non è comparso il martin pescatore, il custode dei fiumi dal petto azzurro. Non ce n’era bisogno. Lo custodivamo noi, come custodivamo la vita, la speranza e questo lungo sguardo silenzioso. Ecco qui, dunque, il più grande fiume del mondo. Non c’è nulla di più grande, nulla di più grande.
Una notte in Plaza Mayor Vuoi o non vuoi, mi sorgono nella memoria immagini d’altri luoghi e d’altri giorni, casi di viaggio, atmosfere, visioni rapide o placide contemplazioni. Se a volte parlo di tutto ciò, non è senza una certa riluttanza, così come capita a chi esce di casa con un vestito nuovo e teme che gli chiedano se ha già pagato il sarto. Mi sembra quasi (eccessivo scrupolo di coscienza, che posso farci?) che il lettore agiti impaziente il libro e dica: “Presuntuoso, il tipo”. Ma giuro che non lo sono. Se fisso i miei ricordi sulla carta, è soprattutto perché non si perdano (in me) minuti d’oro, ore che risplendono come soli nel cielo tumultuoso e immenso che è la memoria. Cose che sono anche, con il resto, la mia vita. Purtroppo, non tutto può essere recuperato. Anche se tornassi cento volte a Firenze, anche se scegliessi il giorno e la luce, non sentirei come allora il brivido fisico (sì, il brivido fisico, nel senso letterale, fisiologico, dell’espressione) che mi percorse dalla testa ai piedi davanti all’entrata della Biblioteca Laurenziana progettata e costruita da Michelangelo. Sarebbe un miracolo, e i miracoli, se accadono, sono troppo preziosi per ripetersi. E non rivedrei sulla strada per Venezia quel sole sospeso tra una nebbia oleosa, da cui si irradiavano i colori dell’arcobaleno, ma blandi, smorti, come la città che sembrava fluttuare su zattere e andare alla deriva nella corrente. Funzione della memoria è conservare queste cose prodigiose, difenderle dall’usura banalissima della quotidianità, gelosamente, perché forse sono la miglior ricchezza che abbiamo. Essa è come la caverna di Alì Baba, sfolgorante di pietre preziose, di ori, di profumi, o come il forziere di antichi pirati, tornato alla luce, che accende le perle come fuochi. Proprio ora ho teso il braccio e ho colto un diamante nero: quella mia notte nella Plaza Mayor di Madrid, tanto a portata di mano, che tutti ci sono già andati, o stanno per andarci, o non ci andranno mai, sì, non ci andranno mai. Ma io ho un diamante, che è nero perché era notte, e che scintilla perché c’erano dei falò. Meglio raccontare tutto dal principio. Era dicembre, l’antivigilia di uno di questi ultimi natali, e a Madrid faceva freddo, molto, e a notte inoltrata alcuni uomini lavavano le strade con grandi getti d’acqua gelida, e tutto scorreva e brillava in larghe tovaglie di riflessi: ma questo accadeva più tardi. Uscimmo dalla Gran Via verso calle Mesonero Romanos, poi per Rompelanzas, attraversammo Arenal e prendemmo Coloreros. I lampioni della piazza rendevano gloriosamente luminosa la nebbia. Quell’enorme quadrilatero sembrava un pozzo lunare, o un’arena dove forse si nascondevano tori di bruma. Fantasie. Era soltanto la Plaza Mayor, nell’antivigilia di Natale, con il selciato tutto coperto di rami e foglie, e mezza dozzina di falò sparpagliati qua e là, e la nebbia alta che vedevamo muoversi a onde, come se qualcuno alitasse contro il fiume. E c’erano anche degli stranissimi suoni di strumento musicale (flauto? scacciapensieri? fischio d’uccello di montagna?) che risuonavano violentemente tra le quattro
facciate filippine, in una festa che era al tempo stesso divertimento e minaccia. Avanzammo con timore, perché non dovrei confessarlo? L’atmosfera era così insolita, così inatteso lo spettacolo, che d’improvviso non eravamo più a Madrid, al centro d’una città civile e vigilata, ma in una qualche gola della Sierra Morena, tra personaggi di Cervantes o dei romanzi picareschi. Sotto i piedi, la sofficità delle foglie ci rendeva fantasmi tra fantasmi. I flauti (le grida) continuavano, e i falò, visti più da presso, alla fine non erano falò, ma lampioni soffocati dalla nebbia. Ci avvicinammo ancora. E tutto (o quasi tutto) si spiegò. C’erano branchi di tacchini, e gli uomini che li guardavano a vista suonavano quei rudimentali strumenti, una corda tesa su una cassa di risonanza, come quei giocattoli che costruivamo una volta, con una scatola di lucido da scarpe e uno spaghino incerato. Tutto senza mistero. Cose banali, comuni, semplice situazione di uomini nel loro pacifico mestiere, e gente che li attorniava, superbamente indifferenti a turisti come noi. Girellammo lì attorno, non ancora convinti che quel che vedevamo fosse solo normale. Nebbia di foresta pietrificata, rami sul selciato, lampioni che sembravano falò, uomini come tronchi di leccio – il tutto avvolto dalla risata moltiplicata, infinita, delle corde schiamazzanti e ironiche. Queste cose dovevano per forza avere un senso. Scendemmo dal lato opposto, per Cuchilleros. Cominciammo a udire suoni di viole e battere di mani, i rumori tranquillizzanti della notte madrilena. Ma verso il cielo aperto sulla piazza continuavano a salire le risate stridule. Chi rideva così nella notte sgomenta di Plaza Mayor? E di che? E di chi? Il perfetto viaggio Uscimmo da Lisbona sul finire del pomeriggio, ancora con la luce del giorno, per una strada poco trafficata. Potevamo chiacchierare tranquillamente, senza precipitare le parole né temere le pause. Non avevamo fretta. Il motore dell’automobile ronzava come un violoncello la cui vibrazione di una sola nota si prolungasse all’infinito. Negli intervalli tra le frasi ci giungeva lo sfrigolio soave dei pneumatici sull’asfalto e, nelle curve, l’ansimare delle gomme era come un avvertimento, ma subito dopo riprendeva lo stesso pacifico mormorio. Parlavamo di cose forse già note, che ripetute apparivano tuttavia così nuove e così antiche come un albeggiare. Le ombre degli alberi si stendevano sull’asfalto, molto allungate e pallide. Quando la strada cambiava direzione, verso il sole, ci arrivava sul viso una rapida raffica di lampi fulvi. Ci guardavamo l’un l’altro e sorridevamo. Più avanti, il sole si spense dietro una collina inaspettata. Non l’avremmo rivisto. La notte cominciò a nascere da se stessa e gli alberi radunarono le ombre sparse. In un rettilineo più lungo, i fari si lanciarono
impetuosi come due braccia bianche che stessero tastando il cammino in lontananza. Cenammo in una città, l’unica esistente tra Lisbona e la nostra meta. Nel bar-ristorante la gente del luogo guardò con curiosità gli sconosciuti che credevamo di essere. Ma nel mezzo di una frase, udimmo pronunciare il nome di uno di noi: mai nessuno è abbastanza ignoto. Proseguimmo il viaggio, in piena notte. Eravamo in ritardo. La strada era peggiorata, tutta dossi, il fondo pessimo, le banchine franose e muri alti nelle curve. Non era più possibile chiacchierare. Entrambi ci raccogliemmo deliberatamente in un dialogo interiore che cercava di indovinare altri dialoghi, che prevedeva domande e costruiva risposte. E c’era la penombra di volti opachi da cui venivano le domande, dapprima timide, esitanti, e poi ferme, con una vibrazione di collera che tentavamo di capire, che aggiravamo prudentemente, o decidevamo di affrontare proponendo nella risposta una collera maggiore. Attraversammo paesini deserti, illuminati agli angoli da lampioni la cui luce smorta si perdeva senza occhi che la vedessero. Raramente un’altra macchina incrociava la nostra e ancor più raramente i nostri fari captavano il fanalino di una bicicletta fantasma che ci lasciavamo dietro, come un profilo tremulo perduto nella notte. Cominciammo a salire. Dal finestrino semiaperto entrava un’aria fredda che circolava nella macchina e ci metteva un brivido alla schiena. Le luci blande del cruscotto diffondevano sui nostri volti un chiarore sereno. Arrivammo quasi senza accorgercene, dietro una curva della strada. Girammo e rigirammo attorno a una chiesa che sembrava stare dovunque, ormai perduti. Finalmente trovammo la casa. Un baraccone smilzo, con due porte strette. C’era gente ad aspettarci. Entrammo, e mentre in un angolo parlavamo con chi ci aveva accolti, la sala s’andò riempiendo lentamente. Occupammo i nostri posti. Sul tavolo c’erano due bicchieri e una brocca d’acqua. Ora i volti erano reali. Uscivano dalla penombra e si volgevano verso di noi, gravi e interrogativi. Era di quella gente cui il nome di popolo si adatta come se fosse la sua pelle. C’erano tre donne con bambini piccoli, e una di loro, più tardi, aprì la camicetta e lì stesso si mise ad allattare il figlio, mentre ci guardava e ascoltava. Con la mano libera copriva un po’ il viso del bambino e il seno, senza troppo preoccuparsi, tranquilla. C’erano uomini con la barba lunga, lavoratori dei campi, operai, qualche impiegato (ufficio? negozio?), e bambini che volevano star quieti e non potevano. Parlammo fino all’alba. E quando tacemmo e tacquero, qualcuno disse semplicemente, nello strano tono di chi chiede scusa e insieme impartisce un ordine: “Tornate quando potete”. Ci congedammo. Era tardi, molto tardi. Ma né io né l’altro avevamo fretta. L’automobile procedeva senza rumore, cercando il cammino dentro una notte altissima, con il cielo coperto di fuochi. Solo dopo molti chilometri riuscimmo a dire
qualcosa di più delle poche parole di soddisfazione che ci eravamo scambiati nell’allontanarci. Avevamo dinanzi a noi un viaggio ancora lungo. Era un mondo disabitato quello che attraversavamo: canali silenziosi le vie dei paesi, con le loro facciate addormentate, e subito irrompevamo di nuovo nei campi, tra alberi che sembravano tagliati e che da vicino esplodevano in verde quando i fari li perforavano. Non avevamo sonno. E allora parlammo come due bambini felici. A sinistra della strada, un fiume correva fianco a noi.