Una lenta nave per la Cina
Vorrei farti salire su un mercantile per la Cina, riservare la nave per noi due... (vecchia...
244 downloads
2624 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
Una lenta nave per la Cina
Vorrei farti salire su un mercantile per la Cina, riservare la nave per noi due... (vecchia canzone)
Quand'è stata la prima volta che ho incontrato un cinese? Questa frase, così com'è, nasce per così dire da una preoccupazione archeologica. Etichettare i diversi reperti, dividerli per genere, analizzarli. Ad ogni modo, quand'è che ho incontrato il mio primo cinese? Suppongo sia stato nel '59 o nel '60, ma un anno o l'altro non ha nessuna importanza. Anzi, direi che non fa la minima differenza. Ai miei occhi, il '59 e il '60 sono come due gemelli che indossano brutti vestiti uguali. Supponendo di poter salire su una macchina del tempo e tornare indietro a quegli anni, farei molta fatica a distinguere l'uno dall'altro. Eppure continuo con perseveranza la mia opera. Allargo l'area degli scavi e trovo nuovi frammenti, a volte minuscoli, che incominciano a formare una figura. Sì, era sicuramente l'anno in cui Johnson e Patterson si disputarono il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. A questo punto mi basterebbe andare in una biblioteca e sfogliare le pagine sportive di qualche raccolta di vecchi giornali. Così sarebbe tutto risolto. L'indomani mattina prendo la bicicletta e mi reco alla biblioteca del quartiere. Vicino all'ingresso, non so perché, c'è un piccolo pollaio, dove cinque galline stanno mangiando quella che sembra una colazione tardiva, o un pranzo anticipato. La giornata è così bella che prima di entrare nella biblioteca mi siedo su una pietra di fianco al pollaio e accendo una sigaretta. Poi mentre fumo rimango a contemplare le galline che mangiano. Beccano senza sosta nella scatola del cibo, a un ritmo così frenetico che la scena del pasto sembra uno di quei vecchi notiziari che si vedevano una volta al cinema. Quando finisco la sigaretta, dentro di me qualcosa è decisamente cambiato. Il perché non lo so, eppure il mio nuovo io, che è ormai cinque galline e una sigaretta più in là, pone a se stesso due domande. La prima: a chi può interessare la data esatta del giorno in cui incontrai per la prima volta un cinese? La seconda: cosa possiamo mai scambiarci io e un mucchio di vecchi giornali posati su un tavolo soleggiato della sala di lettura? Sono domande sensate. Seduto vicino al pollaio fumo un'altra sigaretta, poi riprendo la mia bicicletta e saluto galline e biblioteca. Così quel mio ricordo resta senza data, come non hanno nome gli uccelli che volano in cielo. D'altronde la cronologia dei miei ricordi lascia molto a desiderare. La mia memoria è terribilmente imprecisa. Tanto che qualche volta mi chiedo se non stia cercando di dimostrare qualcosa a qualcuno. Ma di cosa si tratti, non ne ho la minima idea. Tanto più che di solito l'imprecisione non è qualcosa che possa provare alcunché. Ad ogni modo, o piuttosto poiché questa è la situazione, la mia memoria è molto vaga. Ricordo le cose all'incontrario, confondo la realtà con la fantasia, qualche volta scambio quello che ha visto qualcun altro con quello che ho visto io. Può darsi che non si possa neanche parlare di memoria. La prova? Di tutti gli anni della scuola elementare (quei giorni bui di quei miserabili sei anni nella democrazia del dopoguerra), gli episodi che riesco a ricordare con esattezza sono soltanto due. Uno è questa storia del cinese, l'altro una partita di baseball in un pomeriggio delle vacanze estive. Io giocavo in centro, ma persi conoscenza dopo il terzo ìnnìng. Ovviamente c'erano dei motivi. In primo luogo, la nostra scuola per quella partita era
autorizzata a usare parte del terreno sportivo del liceo vicino, così mentre correvo con tutte le mie forze dietro a una palla, andai a sbattere con la faccia contro il palo del canestro di basket. Quando rinvenni mi trovai disteso su una panchina, sotto un ramo di vite, e il sole era al tramonto. La prima cosa che sentii fu l'odore dell'acqua che avevano sparso sul terreno riarso, e quello della pelle del guanto nuovo che mi avevano messo sotto la nuca come cuscino. Poi un dolore sordo nella testa. Pare che abbia mormorato qualche parola, non ricordo. Solo più tardi un mio amico che mi era rimasto vicino mi raccontò con aria imbarazzata cosa avevo detto: non c'è problema, basta togliere la polvere e lo si può mangiare. Ancor oggi non so perché abbia pronunciato quella frase. Probabilmente sognavo. Sognavo che mentre portavo il pane per la mensa, a un certo punto cadevo per le scale. Non riesco a immaginare altro. Tuttavia, ancor oggi che sono passati vent'anni, ogni tanto quelle parole tornano a frullarmi per la mente. Non c'è problema, basta togliere la polvere e lo si può mangiare. In quei momenti mi metto a pensare alla mia esistenza in quanto essere umano e alla strada che dovrò percorrere d'ora innanzi. E tali considerazioni mi conducono a riflettere su una cosa sola - la morte. Pensare alla morte per me è una faccenda a dir poco confusa. E non so perché, mi ricorda sempre il mio primo cinese. Dovevo andare alla scuola elementare per bambini cinesi che si trovava nel quartiere del porto, dalla parte della collina (non ricordo assolutamente a chi fosse intitolata, permettetemi di chiamarla la scuola elementare cinese, anche se è un nome bizzarro): era li che avrei passato l'esame di ammissione. Erano molte le scuole designate a quell'uso, ma di tutta la mia classe l'unico a essere stato assegnato a quella cinese ero io. Ne ignoro la ragione, probabilmente c'era stato qualche errore burocratico perché tutti gli altri ragazzi dovevano recarsi in istituti più vicini. La scuola cinese? Provai a chiedere in giro se qualcuno la conoscesse. Nessuno ne sapeva nulla. L'unica cosa che riuscii a capire era che si trovava a mezz'ora di treno dalla nostra scuola. A quell'epoca per me era praticamente come andare in capo al mondo, non ero il tipo di bambino capace di prendere il treno e andarmene in giro da solo. La scuola cinese in capo al mondo. Due settimane dopo, una domenica mattina, con la morte nel cuore feci la punta a una dozzina di matite nuove, poi infilai la scatola del pranzo e un paio di ciabatte in una busta di plastica, come mi era stato detto di fare. Nonostante fosse una bella domenica d'autunno, fin troppo calda per la stagione, mia madre mi fece indossare una maglia pesante. Presi il treno da solo, e per paura di saltare la mia fermata rimasi per tutto il tempo in piedi davanti alla porta, a osservare il paesaggio. Trovai la scuola elementare cinese anche senza guardare la pianta stampata sul retro del foglio di iscrizione. Bastava che seguissi il gruppo di bambini che portavano ognuno la propria busta rigonfia, contenente la scatola del pranzo e le ciabatte. Decine, centinaia di alunni delle elementari formavano una fila che si arrampicava nella medesima direzione, su per la ripida salita. Non si poteva negare che fosse uno spettacolo piuttosto inusuale. Non giocavano a palla, non tiravano i berretti dei più piccoli, camminavano soltanto in silenzio. Non so perché mi fecero pensare a una sorta di moto perpetuo irregolare. Mentre procedevo su per la salita, sudavo sotto la mia maglia pesante. Contrariamente alle mie previsioni, la scuola cinese non era molto diversa dalla mia, ed era tenuta molto meglio. Non ritrovavo da nessuna parte le immagini che per due settimane, chissà perché, avevano riempito la mia testa: lunghi corridoi bui, aria che sapeva di muffa... Oltrepassato il fantasioso cancello di ferro, si procedeva per un lungo sentiero di ciottoli che serpeggiava con curve lente, costeggiato d'alberi. Di
fronte alla porta d'ingresso l'acqua di uno stagno rifletteva con barbagli accecanti i raggi del sole delle nove del mattino. Lungo l'edificio correva una fila di alberi, a ognuno dei quali era appeso un cartellino con una spiegazione in cinese. Alcuni ideogrammi li sapevo leggere, altri no. Al di là dell'ingresso c'era un campo sportivo interno, una sorta di patio quadrato, nei cui angoli si vedevano il busto di chissà chi, una piccola scatola bianca per le osservazioni meteorologiche e una sbarra da ginnastica. Mi tolsi le scarpe nell'ingresso, come mi fu ordinato, ed entrai nell'aula che mi indicarono. Nella classe luminosa c'erano una quarantina di banchi con delle piccole ali ribaltabili, e su ogni banco era attaccato con del nastro adesivo un pezzo di carta con il numero del candidato. Io che avevo il numero di registrazione più basso dovevo sedermi in prima fila, di fianco alla finestra. La lavagna era di un verde scuro ridipinto da poco, sulla cattedra c'era la scatola dei gessetti e un vaso di fiori contenente un crisantemo bianco. Tutto era pulito, e perfettamente in ordine. Non c'erano disegni o temi attaccati ai pannelli di sughero sui muri. Poteva anche darsi che li avessero tolti perché non fossero motivo di distrazione per noi che dovevamo sostenere l'esame. Mi sedetti, disposi sul banco le matite e il panno per scrivere, appoggiai il mento sulle mani e chiusi gli occhi. Passarono quindici minuti prima che il supervisore entrasse nell'aula con il fascio dei fogli d'esame sotto il braccio. Non doveva avere più di quarant'anni, ma zoppicava trascinando la gamba sinistra sul pavimento. Con la mano sinistra si appoggiava a un bastone, uno di quelli che si vendono nei chioschi di souvenir nelle mete di escursioni alpinistiche, di fattura grossolana, in legno di ciliegio. Quell'oggetto rozzo dava sgradevolmente nell'occhio, nonostante l'uomo zoppicasse in maniera piuttosto disinvolta. I quaranta bambini guardarono verso di lui, o piuttosto verso il fascio che teneva sotto il braccio, e immediatamente calò un silenzio totale. Il supervisore salì sulla predella, posò i fogli sulla cattedra e con un leggero rumore appoggiò il bastone sul lato. Poi verificò che tutti i banchi fossero occupati, si schiarì la gola, e gettò un'occhiata all'orologio. Appoggiò le mani agli angoli della cattedra come per sostenersi, alzò il viso e rimase qualche secondo a guardare un angolo del soffitto. Silenzio. Il silenzio si prolungò per una quindicina di secondi. I bambini intimoriti guardavano i fogli d'esame posati sulla cattedra, trattenendo il respiro, mentre il supervisore zoppo contemplava immobile il soffitto. Portava un abito grigio chiaro, una camicia bianca, e una cravatta insignificante di cui ci si dimenticava il colore e la forma un attimo dopo averla vista. - Procederò alla supervisione di quest'esame, - iniziò. Disse proprio così, procederò. - Quando vi consegnerò il vostro foglio, lasciatelo così com'è sul vostro banco. Non dovete assolutamente voltarlo. Tenete le mani posate in grembo. Quando vi darò il via, voltate il foglio e rispondete alle domande. Dieci minuti prima che il tempo scada vi avvertirò. A quel punto controllate di non aver fatto degli errori di disattenzione. Poi quando io ve lo dirò, dovete smettere di scrivere, voltare il foglio e posare le mani in grembo. Avete capito tutti? Silenzio. - Non dimenticate di mettere all'inizio il vostro nome e il numero di iscrizione. Silenzio. Il supervisore guardò di nuovo il suo orologio. - Bene, abbiamo ancora dieci minuti. Ne vorrei approfittare per farvi un discorsetto. Cercate di rilassarvi, per favore. Si udirono alcuni sospiri. - Io sono un maestro cinese e insegno in questa scuola. Ecco, è così che ho incontrato il mio primo cinese. A me non sembrava affatto cinese, ma rispetto a chi? Non avendone conosciuti prima, non avevo termini di paragone. - In questa classe, - continuò il supervisore, - di solito degli scolari cinesi più o meno della vostra età
studiano con tutto l'impegno... Come sapete anche voi, la Cina e il Giappone sono Paesi vicini. Perché tutti possano vivere felici, i Paesi vicini devono cercare di essere amici. Siete d'accordo? Silenzio. - Ovviamente i nostri due Paesi sono simili in molte cose, e in molte altre non lo sono. Ci sono cose in cui ci comprendiamo a vicenda, e altre in cui non ci comprendiamo. Lo stesso succede tra voi e i vostri amici, no? Perfino gli amici più cari, non sempre capiscono tutto di noi. Non è così? Tra i nostri due Paesi accade una cosa analoga. Ma facendo uno sforzo riusciremo certamente ad andare d'accordo, io ne sono convinto. Per ottenere questo risultato, però, prima di tutto dobbiamo rispettarci reciprocamente... E questo il primo passo. Silenzio. - Per esempio, provate a immaginare una cosa del genere: tanti bambini cinesi vengono a passare un esame nella vostra scuola. Si siedono nei vostri banchi, proprio come state facendo voi adesso. Provate a pensarci. Visioni... - Il lunedì mattina, tornate alla vostra scuola. Vi sedete nei vostri banchi. E vi accorgete che sono tutti scarabocchiati e tagliuzzati, che alle sedie hanno attaccato del chewing-gum, che mancano delle ciabatte. Allora, che cosa provereste? Silenzio. - Tu, per esempio -. Il supervisore indicò proprio me. Avevo il numero di registrazione più basso. Saresti contento? Tutti si voltarono a guardarmi. Io divenni di fuoco e scossi energicamente la testa. - Sei capace di rispettare i cinesi? Annuii. - Quindi... - continuò il supervisore rivolgendosi di nuovo alla scolaresca. Gli occhi di tutti finalmente tornarono a guardare verso la cattedra. - ... non scarabocchiate sui banchi, non attaccate il chewing-gum alle sedie, non prendete le cose dentro i cassetti per fare degli scherzi. Avete capito? Silenzio. - I bambini cinesi rispondono in maniera più chiara. - Sììì! - Fece un coro di quaranta bambini. - D'accordo? Testa alta, petto in fuori! Alzammo la testa e spingemmo in fuori il petto. - Allora coraggio! Ho dimenticato che risultato ebbi a quell'esame, sono passati vent'anni. Tutto ciò che ricordo sono i bambini che percorrevano quella strada in salita, e quell'insegnante cinese. Sei o sette anni dopo, durante il mio terzo anno di liceo, un pomeriggio di una bella domenica d'autunno, proprio come allora, percorrevo la stessa strada con una mia compagna di classe. Io ne ero innamorato. Cosa provasse lei nei miei confronti, non lo so. In ogni caso era la prima volta che uscivamo insieme, e stavamo tornando dalla biblioteca. Entrammo a bere qualcosa in un caffè che si trovava a metà salita. Poi io le parlai di quella scuola cinese. Quando arrivai alla fine del racconto, lei fece un risolino. - Che strano, - disse. - Ho passato quell'esame lo stesso giorno nello stesso posto. - Non è possibile! - Davvero, - rispose lei versando la crema dal bordo sottile del bricco. - Ma dovevo essere in un'altra classe, a noi non hanno fatto nessun discorso. Prese il cucchiaino e si mise a girare il suo caffè guardando nella tazza.
- Il supervisore era un cinese? La mia compagna di scuola scosse la testa. - Non ricordo. Mica stavo a pensare se era cinese o no! - Hai fatto degli scarabocchi? - Degli scarabocchi? - Sul banco, insomma. Lei portò la tazza alle labbra con aria assorta - Mah, chi lo sa, ho dimenticato, - disse, e ridacchiò. - È passato tanto tempo! - Sì, però erano dei banchi così belli, così puliti. Te li ricordi? - le chiesi. - Sì, può darsi, forse hai ragione, - rispose lei con noncuranza. - Come dire...? C'era un buon odore, di pulito, in tutta la classe. Non so esprimermi bene, ma era come un velo sottile. E poi... - presi il cucchiaino e riflettei un po', - e poi tutti i quaranta banchi erano lucidissimi, e anche la lavagna era di un bel colore verde. Restammo qualche secondo in silenzio. - Sei sicura di non aver scarabocchiato? Davvero non te lo ricordi? - le domandai di nuovo. - Ma come potrei? - rise la ragazza. - Adesso che me ne parli, non posso assicurarti di non averlo fatto. È passato tanto di quel tempo... Probabilmente le sue parole erano più ragionevoli delle mie, come può uno rammentarsi se ha fatto o no degli scarabocchi su un banco tanti anni prima? E che importanza aveva, ormai? Dopo averla riaccompagnata a casa, nell'autobus chiusi gli occhi e provai a immaginarmi un bambino cinese: un bambino cinese che un lunedì mattina trova sul suo banco degli scarabocchi fatti da qualcun altro. Silenzio. Il mio liceo si trovava in una città portuale, di conseguenza si vedevano parecchi cinesi in giro. Con questo non voglio dire che fossero diversi da noi. Né avevano qualche caratteristica che li accomunasse. Erano tutti uno differente dall'altro, e in questo ci assomigliavano. Ho sempre pensato che la peculiarità di ogni individuo va al di là di qualunque categoria o generalizzazione. Anche nella mia classe c'erano dei cinesi. Alcuni erano bravi a scuola altri no, alcuni allegri, altri taciturni. C'era chi viveva in un palazzo, e chi in un buco di una camera e cucina dove non batteva mai il sole. Ragazzi di tutti i tipi. Io però non avevo fatto amicizia con nessuno di loro. Per carattere di solito non lego facilmente, che si tratti di giapponesi, cinesi o cos'altro sia... Mi è capitato di incontrare per caso uno di quei ragazzi dieci anni dopo, ma non è il momento di parlarne. La scena ora si sposta a Tokyo. Procedendo con ordine, la seconda persona di origine cinese che incontrai - a parte quei compagni di classe con i quali non parlavo quasi mai - era una studentessa silenziosa che conobbi quando ero al secondo anno di università; in primavera, in un posto dove avevo trovato un impiego occasionale. Aveva diciannove anni come me, era piccolina, e molte persone l'avrebbero giudicata bella. Per tre settimane lavorammo insieme. Lei era piena di entusiasmo. Trascinato dal suo esempio, anch'io cercavo di fare del mio meglio, ma guardandola lavorare mi rendevo conto che il suo fervore era di un'altra qualità, non c'era confronto. Il mio cioè era del tipo quando si fa qualcosa, meglio farlo con impegno, c'è tutto da guadagnarci, mentre quello di lei era molto più legato al fondamento stesso della sua esistenza. È difficile da spiegare, ma tanto zelo dava una strana impressione di urgenza, come se la vita quotidiana di quella ragazza fosse tenuta insieme da quell'atteggiamento. La maggior parte degli altri dipendenti non riuscivano a mantenere il suo ritmo di
lavoro, e finivano coll'irritarsi. L'unico che resistette fino alla fine senza litigare fui io. Questo non significa che fossimo amici. La prima volta che le parlai lavoravamo insieme già da una settimana. Lei quel pomeriggio era caduta in una sorta di panico durato una mezz'oretta, non le era mai successo prima. Un piccolo errore iniziale a poco a poco si era ingigantito nella sua testa, fino a trasformarsi in un'enorme confusione dalla quale non sapeva come venir fuori. Per tutto il tempo non aveva detto una parola, era rimasta ferma in piedi dove si trovava. Mi sembrava una nave che affondi lentamente nel mare, di notte. Interruppi il mio lavoro, la feci sedere su una sedia, le feci distendere ad una ad una le dita che teneva serrate, bere un caffè caldo. Poi le spiegai che non era successo nulla di terribile. Non aveva commesso un errore basilare, poteva rifare da capo la parte sbagliata senza che questo comportasse gravi ritardi. Dopo aver bevuto il suo caffè, lei mi parve un poco più calma. - Scusami tanto, - disse. - Figurati, - risposi. Poi parlammo un po' del più e del meno. Mi disse di essere cinese. Lavoravamo entrambi nel magazzino angusto e buio di una piccola casa editrice, dove svolgevamo un compito semplice e poco interessante. Munito del foglio con le ordinazioni, io portavo il numero di volumi domandati fino all'ingresso. Lei li legava e li segnava nel registro. Tutto lì. Il magazzino non era riscaldato, e per non morire congelati eravamo costretti a lavorare freneticamente. Nella pausa di mezzogiorno uscivamo e andavamo da qualche parte a mangiare qualcosa di caldo, poi per tutta l'ora di riposo restavamo li a scaldarci, sfogliando dei giornali o delle riviste. Il padre della mia collega gestiva un piccolo negozio di articoli d'importazione a Yokohama, vendeva soprattutto vestiti di poco prezzo, saldi provenienti da Hong Kong. Lei era nata in Giappone, benché fosse di nazionalità cinese non era mai stata né in Cina, né a Hong Kong, né a Taiwan, e non aveva frequentato la scuola cinese ma quella giapponese. Era iscritta in un'università femminile, e in futuro sperava di diventare interprete. Condivideva un appartamentino col fratello a Komagome. Cioè, per usare la sua espressione, era sbarcata da lui con armi e bagagli. Perché col padre non andava d'accordo. Di lei non sapevo altro. Quelle due settimane di marzo passarono insieme alla fredda pioggia che a volte diventava nevischio. L'ultima sera di lavoro, dopo aver ricevuto la paga in ufficio, la invitai in una discoteca di Shinjuku dov'ero stato parecchie volte in precedenza. Lei ci pensò su per cinque secondi. - Però non ho mai ballato in vita mia, - disse poi con aria contenta. - È facilissimo, - risposi. Andammo prima in un ristorante dove cenammo senza fretta con una pizza e una birra, poi in discoteca per un paio d'ore. Il posto era caldo e affollato, c'era puzza di sudore misto a un profumo di incenso che qualcuno stava bruciando chissà dove. Quando ci sentivamo sudati ci sedevamo e bevevamo una birra, poi una volta asciutti tornavamo a ballare. Ogni tanto le luci prendevano a lampeggiare, e in quei bagliori lei era stupenda, sembrava uscita da un vecchio album di fotografie. Dopo esserci sfogati a ballare, lasciammo la discoteca. Il vento serale di marzo era ancora freddo, ma portava un sentore di primavera. Eravamo ancora surriscaldati, così gironzolammo per le strade a caso, senza mettere i cappotti. Passammo un momento da una sala giochi, bevemmo un caffè, riprendemmo a passeggiare. Le vacanze di primavera erano solo a metà, e soprattutto avevamo diciannove anni. Se qualcuno ci avesse detto camminate!, saremmo arrivati anche fino al fiume Tama. Quando furono le dieci e venti, lei disse che doveva tornare a casa. - Devo rientrare per le undici. - Così presto?
- Sì, mio fratello è piuttosto severo. - Non ti dimenticare una scarpa. - Una scarpa? – Fatti cinque o sei passi, lei rise imbarazzata. - Ah, come Cenerentola! Stai tranquillo, non me la dimentico. Scendemmo le scale della stazione di Shinjuku, e ci sedemmo uno di fianco all'altra ad aspettare il treno. - Posso invitarti di nuovo? - Mmm, - assentì lei mordendosi un labbro. - sì, per me va bene. Le chiesi il numero di telefono, e lo segnai sul retro della scatola di fiammiferi della discoteca. Quando il treno arrivò aspettai che lei vi salisse e le augurai la buonanotte. - Grazie, mi sono divertito moltissimo, a presto. Le porte si chiusero, il treno si mosse, io mi accesi una sigaretta e guardai i vagoni verdi sparire in fondo alla stazione. Mi appoggiai a un pilastro e fumai la mia sigaretta fino alla fine. Per qualche ragione però non mi sentivo a mio agio. Schiacciai il mozzicone sotto il tallone e mi accesi un'altra sigaretta. Nella leggera oscurità si mischiavano i diversi rumori della città. Chiusi gli occhi, respirai a fondo, e scossi leggermente la testa. Continuavo a non sentirmi a posto. Non era successo nulla di sgradevole. La serata non era stata un successo strepitoso, ma per essere un primo appuntamento non era andata male. Perlomeno tutto si era svolto nell'ordine giusto. Eppure c'era qualcosa che mi disturbava. Un dettaglio minimo, una sensazione inafferrabile. Qualcosa a un certo punto era andato storto, ne ero sicuro, qualcosa non aveva funzionato. Mi ci volle un quarto d'ora per capire di cosa si trattasse: all'ultimo momento avevo fatto un terribile errore. Un errore idiota, senza senso. Addirittura grottesco. Insomma l'avevo fatta salire sul treno sbagliato, la linea Yamanote che andava nella direzione opposta. Non riuscivo a capire come fosse successo. Il mio dormitorio si trovava a Mejiro, avremmo potuto prendere lo stesso treno. Era colpa della birra? Poteva darsi. Oppure ero troppo assorto a pensare ai fatti miei. In ogni caso qualcosa era andato nel verso sbagliato. L'orologio della stazione indicava le dieci e quarantacinque, lei non sarebbe tornata a casa in tempo. A meno che non avesse preso subito il treno che tornava in qua. Qualcosa mi diceva che era molto improbabile, non lo avrebbe fatto nemmeno se si fosse accorta immediatamente del mio errore, prima ancora che le porte si chiudessero. Erano le undici e un quarto quando la vidi apparire alla stazione di Komagome. Scorgendomi in piedi di fianco alle scale, non potè impedirsi di ridere. - Mi sono sbagliato, - dissi andandole incontro. Lei non rispose. - Non so cosa mi sia successo, ma mi sono sbagliato. Chissà a che cosa pensavo. Sempre nessuna risposta. - Così ti ho aspettato. Per chiederti scusa. Le mani nelle tasche del cappotto, lei strinse le labbra. - Veramente è stato uno sbaglio? - Cosa vuoi dire? È evidente. Non ti avrei mai messa in questa situazione, altrimenti! - Ho pensato che l'avessi fatto apposta. - Io? - Non capivo cosa volesse dire. - Perché avrei dovuto fare una cosa del genere? - Non lo so. Parlava con voce flebile. La presi per un braccio, l'accompagnai a un sedile e mi sedetti accanto a lei. Lei allungò la gambe davanti a sé e fissò le punte delle sue scarpe bianche.
- Perché credi che l'abbia fatto apposta? - le chiesi di nuovo. - Pensavo che tu fossi arrabbiato. - Arrabbiato? - Sì. - Perché? - Perché... perché ti ho detto che dovevo tornare a casa presto. - Solo un imbecille può arrabbiarsi perché una ragazza deve tornare a casa presto. - E poi dev'essere stata una bella seccatura, stare con me. - Ma cosa dici? Se sono stato io a invitarti! - Però è stata una seccatura, di' la verità. - Non è affatto vero! È stata una bellissima serata. Te lo giuro. - Non ci credo. Non c'è niente di divertente a stare insieme a me. Può anche darsi che tu ti sia davvero sbagliato, ma è perché in fondo al cuore era quello che speravi. Sospirai. - Non te la prendere, - fece lei, - non sarà né la prima né l'ultima volta. Nei suoi occhi comparvero due lacrime, che caddero rumorosamente sul cappotto. Cosa potevo fare? Non ne avevo la minima idea. Restammo a lungo in silenzio. A intervalli arrivavano i treni, i passeggeri scendevano e scomparivano in cima alle scale, poi tutto tornava tranquillo. - Lasciami sola, per favore. Continuai a restare lì senza dire nulla. - Davvero, puoi andare, - insistette lei. - Devo ammettere che ho passato proprio una bella serata, con te. Era tanto tempo che non mi succedeva. Per questo ne ero veramente felice. Le cose sembravano andare proprio bene. Tanto che quando mi hai fatto salire sul treno che andava nella direzione opposta, mi sono detta che non era grave, che ti eri sbagliato. Però... Smise di parlare, le lacrime formavano macchie scure sul suo cappotto. - Però quando il treno ha superato la stazione centrale di Tokyo, mi sono venuti i nervi. Mi sono detta che non avevo più voglia di venire trattata così, che non volevo più fare sogni. Era la prima volta che faceva un discorso tanto lungo. Quando tacque, tra noi calò un lungo silenzio. - È tutta colpa mia, - dissi. Il vento freddo della notte scompigliava le pagine di un giornale della sera, sospingendole al fondo del marciapiede. Lei si tirò indietro i capelli bagnati di lacrime e sorrise. - Non ti preoccupare. Tanto per cominciare io non dovrei trovarmi in questo posto. Cosa voleva dire con questo posto? Il Giappone? Questo pezzo di roccia che gira nell'oscurità dell'universo? Non lo sapevo. Le presi una mano e me la posai sulle ginocchia. Era calda, il palmo umido, vi appoggiai sopra la mia. Quel tenero calore risvegliò alcuni vecchi ricordi a lungo sopiti nel mio cuore. - Senti, - dissi ad un tratto, - perché non ricominciamo tutto da capo? Non so quasi nulla di te, e vorrei conoscerti un po' meglio. Sono sicuro che mi piacerai sempre di più. Lei non disse nulla. Soltanto le sue dita si mossero un poco nella mia mano. - Andrà tutto bene, vedrai. - Veramente? - Forse. Non te lo posso giurare, ma farò del mio meglio. E poi voglio diventare più onesto. - Ma io cosa devo fare? - Vorrei vederti anche domani. Sei d'accordo? Lei annui in silenzio. - Ti telefono. La ragazza si asciugò con la punta delle dita le tracce di lacrime, poi infilò di nuovo le mani nelle
tasche: - ... grazie. Scusami per tutto. - Non sei tu che devi scusarti, è stato un errore mio. Quella sera ci separammo così. Io rimasi seduto dov'ero, da solo, mi accesi l'ultima sigaretta e gettai la scatola vuota nel cestino. L'orologio segnava quasi mezzanotte. Fu solo nove ore dopo che mi accorsi del secondo sbaglio di quella notte. Una svista troppo stupida, e irrimediabile. Insieme alla scatola di sigarette vuota, avevo gettato via quella dei fiammiferi, dove avevo segnato il suo numero di telefono. Non riuscii a rintracciarlo da nessuna parte, né nel posto dove avevamo lavorato, né sulla guida del telefono. Da allora non ho più visto quella ragazza. Era la seconda cinese che incontravo.
Il terzo cinese. Come ho già detto, era uno che conoscevo dai tempi del liceo. Un amico di un amico. A volte avevamo anche scambiato qualche parola. Il nostro ritrovamento non ebbe nulla di drammatico. Non fu teatrale come l'incontro di Stanley e Livingstone, non separò il giorno dalla notte come quello tra l'ammiraglio Yamashita e il vice-ammiraglio Percival. Non ne scaturirono scintille come in quello tra Goethe e Beethoven, non fu glorioso come il confronto di Cesare con la Sfinge. Se dovessi proprio paragonarlo a un evento storico, assomiglia piuttosto all'episodio riportato tanto tempo fa da una rivista per ragazzi (ammesso che meriti di essere definito storico): l'incontro casuale che avvenne, su un'isola che fu teatro di una terribile battaglia durante la seconda guerra mondiale, tra due soldati. Uno era giapponese, l'altro americano. Si erano persi e tutt'a un tratto si trovarono faccia a faccia in una radura nella giungla. Entrambi rimasero attoniti, non avevano neanche avuto il tempo di imbracciare il fucile, finché uno dei due (quale fu?) alzò due dita nel segno degli scout. In silenzio se ne tornarono ognuno al proprio battaglione, senza toccare le armi. Avevo ventotto anni, ed ero sposato da sei anni e qualche mese. Nel frattempo avevo sepolto tre gatti, bruciato alcune speranze, avvolto in una maglia pesante e sotterrato più di un dolore. Tutto questo in quell'immensa e inafferrabile città che è Tokyo. Era un pomeriggio di dicembre, coperto da una fredda e sottile membrana. Non c'era vento, l'aria era gelida, e i pochi raggi di sole che ogni tanto filtravano tra le nuvole non riuscivano a scacciare le ombre grigie che riempivano le strade. Di ritorno dalla mia banca, ero entrato in un bar tranquillo, le cui vetrine davano su Aoyama-dòri. Avevo ordinato un caffè e mi ero messo a sfogliare le pagine di un romanzo comprato poco prima. Di tanto in tanto mi stufavo e sollevavo lo sguardo a osservare il flusso continuo di automobili, poi tornavo a leggere. - Questa poi! - Disse a un tratto un uomo, facendo il mio nome. - Ma sei proprio tu? Molto stupito alzai gli occhi dal libro, assentendo. Non ricordavo di averlo mai visto. Aveva più o meno la mia età, vestiva formalmente, un impermeabile blu di buona qualità e una cravatta regimental intonata, ma in qualche modo sembrava in via di deterioramento. La stessa cosa si poteva dire della sua faccia, era come un quadro ben ordinato a cui, a guardar bene, mancasse qualcosa. L'espressione che appariva sul suo volto sembrava forzata, assunta per l'occasione, nient'altro che un aggregato provvisorio. Questo era l’effetto che mi faceva. Come dei piatti di servizi diversi, messi insieme a caso su una tavola imbandita a festa. - Posso sedermi?
- Prego – risposi. Cos’altro potevo dire? Lui prese posto di fronte a me, tirò fuori dalla tasca le sigarette e l’accendino, e posò tutto sul tavolo. - Non ti ricordi di me? No, mi spiace, confessai, senza fare sforzi di memoria. Scusa, ma è un mio difetto, non sono bravo a ricordare la faccia della gente. È perché vuoi dimenticare il passato. Dev’essere un tuo desiderio latente. Può darsi, - ammisi. Forse aveva ragione. Quando la cameriera ci portò due bicchieri d’acqua, lui ordinò un caffè lungo. Molto lungo, precisò. Ho dei problemi di stomaco, in realtà il medico mi ha vietato sia il caffè che le sigarette, disse giocherellando con la scatola posata sul tavolo, un sorriso franco e rassegnato sulle labbra. Già, già. Ma per continuare il discorso di prima, abbiamo le stesse ragioni di ricordarci le cose accadute tanto tempo fa, tutte senza eccezione. È proprio strano, più uno cerca di dimenticarle, più tornano alla memoria. Davvero irritante. Io ero piuttosto seccato per il fatto che quell’uomo venisse a disturbarmi nel mio tempo libero, eppure metà della mia mente cominciava a seguire il suo discorso. Anche di quella volta, ne ho un ricordo vividissimo. Che tempo faceva, che temperatura c’era, che odore... a volte faccio fatica a capire. «Sono proprio io, questo?» mi chiedo. «Dov’è il mio vero io? » Tu non hai quest’impressione, ogni tanto? No, non ce l’ho Non era nelle mie intenzioni essere scortese, ma le mie parole suonarono terribilmente brusche. Lui però non sembrò risentirsene. Dopo aver annuito alcune volte, proseguì: Per questo mi ricordavo benissimo di te. Quando ti ho visto al di là del vetro, passando di qui, mi è bastata un’occhiata per riconoscerti. Ti ho disturbato, venendoti a parlare? - No, - risposi. - Però non mi ricordo assolutamente di te. Ne sono veramente desolato. - Non hai bisogno di scusarti, l'iniziativa è stata mia. Non ti preoccupare, quando verrà il momento ti tornerò in mente. Succede sempre così. - Perché non mi dici come ti chiami? Non mi piacciono gli indovinelli. - Non è un indovinello. Il fatto è che adesso io praticamente è come se non avessi un nome. Una volta ce l'avevo. Quando ero ancora pulito e innocente come un neonato. - Rise divertito. - Bah, che tu ti ricordi di me o meno, fa lo stesso. Ad essere sinceri, nell'uno e nell'altro caso la cosa non mi riguarda quasi. Gli portarono il caffè, che lui sorseggiò con l'aria di non apprezzarlo. Non riuscivo ad afferrare il senso di quello che diceva. - Com'è che c'era scritto sul testo d'inglese, quando eravamo al liceo? Ne è passata di acqua sotto i ponti. Ti ricordi? Al liceo? - In dieci anni le cose cambiano! È evidente che se esiste il mio io attuale, è perché è esistito quel mio io di allora, ma mi sento diverso. Come se fossi cambiato dentro. Tu che ne dici? - Che non ci capisco niente. Lui incrociò le braccia e si sedette in modo più comodo, sul viso un'espressione dubbiosa. - Sei sposato? - mi chiese senza cambiare posizione. - Sì. - Figli? - No, non ne ho. - Io ne ho uno. Un maschio. L'argomento bambini si esaurì lì, per un po' restammo in silenzio. Quando portai una sigaretta alle labbra, immediatamente lui me l'accese con l'accendino. - E che lavoro fai? - chiese. —
—
—
—
—
—
—
—
—
—
—.
—
- Ho un piccolo commercio. - Un commercio? - ripetè dopo essere rimasto qualche secondo a bocca aperta. - Niente di eccezionale, - risposi, poi tacqui. - È sorprendente, però. Che tu ti sia messo nel commercio. Sembravi portato a tutt'altro. - Davvero? - Passavi il tuo tempo a leggere, una volta, - continuò lui in tono meravigliato. - Se è per questo leggo anche adesso, - risposi sorridendo. - Ed enciclopedie? - Enciclopedie? - Sì, ne hai? - No... - scossi la testa, senza capire. - Non usi enciclopedie? - Be', se ne avessi una credo che la userei. - Sai, io vado in giro a vendere enciclopedie, è questo il mio lavoro attuale. L'interesse per quell'uomo, che fino ad allora aveva occupato metà della mia attenzione, svanì in un secondo. Feci un sospiro e spensi il mozzicone nel portacenere. Mi sentii diventare leggermente rosso. - Mi piacerebbe averne una, ma adesso non me la posso permettere. Ho appena incominciato a pagare le rate del mutuo. - Lascia perdere, lascia perdere, non hai bisogno di giustificarti. Sono povero anch'io. Navighiamo nelle stesse acque, per così dire. E poi non sto cercando di venderti un'enciclopedia. Se devo essere sincero, non ho bisogno di vendere ai giapponesi. Insomma, è convenuto così. - Come convenuto così? - Cioè mi occupo solo dei cinesi. Cerco nella guida del telefono i nomi delle famiglie cinesi che vivono a Tokyo, poi vado a trovarle una dopo l'altra. Non so chi abbia avuto l'idea, ma funziona. Non è poi tanto male, la vendita porta a porta, suono il campanello e dico il mio nome. Basta quello. Tra connazionali ci si intende... A quel punto qualcosa scattò nella mia testa. - Adesso ricordo! - Davvero? Feci il nome che mi era venuto in mente. Il nome del cinese che avevo conosciuto ai tempi del liceo… - Non so neanch'io perché ho finito col fare questo mestiere, vendere enciclopedie ai cinesi. Ovviamente non glielo potevo dire io. Per quel che mi ricordavo, lui non veniva da una famiglia povera, e a scuola era più bravo di me. Aveva anche abbastanza successo con le ragazze. - È una storia molto lunga, triste e banale, meglio che non te la racconti, - disse. Annuii in silenzio. - Chissà perché sono venuto a romperti le scatole, chissà cosa m'è preso... Forse per natura non sono capace di autocommiserazione. Be', comunque sia, ti ho disturbato. - No, per niente. Non mi hai disturbato affatto. - Ci guardammo attraverso il tavolino. - Vediamoci di nuovo! Per un po' restammo senza parlare. Io finii di fumare la mia sigaretta, lui di bere il suo caffè. - Be', adesso devo andare, - disse poi rimettendosi in tasca le sigarette e l'accendino. - Non posso perdere troppo tempo a vendere aria. Ho altre cose da vendere. - Non hai dei depliant? - Dei depliant? - Dell'enciclopedia. - Ah, - rispose lui distrattamente. - In questo momento no. Vorresti vederli?
- Perché no? - Allora te li mando a casa. Se mi dici dove abiti. Scrissi il mio indirizzo sulla mia agenda, strappai la pagina e gliela diedi. Lui la piegò bene in quattro e la mise nell'astuccio per i biglietti da visita. - È una buona enciclopedia. Ci sono anche tante fotografie a colori. Ti sarebbe certamente utile. - Non so quanti anni ci vorranno, ma se metto qualcosa da parte la compero. - Speriamo -. Di nuovo lui fece un sorriso da cartellone elettorale. - Però può darsi che a quel punto io non abbia più nulla a che fare, con le enciclopedie. Magari sarò nelle assicurazioni. Per i cinesi, naturalmente.
Se adesso, a trent'anni suonati, andassi di nuovo a sbattere a tutta velocità contro il palo di un canestro di basket, e di nuovo mi svegliassi con un guanto da baseball per cuscino, questa volta che cosa direi? Non lo so. Anzi sì, direi: ehi, non è il mio posto, questo! È stato in un vagone della linea Yamanote che mi è venuta quest'idea. Ero in piedi davanti alla porta, per non perdere il biglietto lo tenevo ben stretto in mano e guardavo il paesaggio fuori dal finestrino. La nostra città... lo spettacolo che offriva non so perché mi rattristava moltissimo. Tutti quelli che ci vivono cadono in questa malinconia torbida come gelatina. Il cielo leggermente offuscato. I palazzi e le abitazioni strette le une alle altre, a perdita d'occhio, le file di automobili che liberano nell'aria i gas di scarico. Vecchie tende appese alle finestre di appartamenti piccoli e brutti - come quello dove abito io - in edifici di legno. E dietro le tende l'affaccendarsi di innumerevoli persone. Illimitato orgoglio e illimitata autocommiserazione. Tutto questo è la città. Non è diversa da un depliant che pubblicizza un nuovo rossetto per la nuova stagione, appeso all'interno del vagone. Nessuna sostanza, nell'una e nell'altro. Un immenso impero di mediatori che si regge sulla compra-vendita d'aria... Tanto per cominciare, aveva detto quella ragazza, io non dovrei trovarmi in questo posto. La Cina. Ho letto un sacco di libri sulla Cina. Dagli Annali a La stella rossa cinese. Eppure la mia Cina esiste soltanto per me. In altre parole è me stesso. Come esistono soltanto per me New York, Pietroburgo, la Terra, l'Universo. La Cina gialla che occupa un'estesa superficie della Terra. Non credo che visiterò mai quel Paese. Quella non è la mia Cina. Come non andrò a New York o a Leningrado. Non sono posti per me. Il mio vagabondare si svolge nella metropolitana o sul sedile posteriore di un taxi. Le mie avventure hanno luogo nella sala d'aspetto di un dentista o allo sportello di una banca. Non posso andare da nessuna parte, e non ci vado. Tokyo. Poi un giorno, in un vagone della linea Yamanote, persino questa città di Tokyo ha incominciato a perdere la sua realtà... Proprio così, questo non è un posto per me. Prima o poi le parole si esauriranno, i sogni si infrangeranno. Come se quell'adolescenza confusa che sembrava dover durare per sempre si fosse dileguata. Tutto perisce, svanisce, quel che resta è solo silenzio e oscurità infinita. L'errore... l'errore, come aveva detto quella ragazza cinese (o come potrebbe dire uno psichiatra) in fin dei conti sono le nostre speranze che vanno all'incontrano. Non c'è uscita, da nessuna parte. Eppure ho stipato il mio bell'orgoglio di fuori-campo fedele in fondo a un camion, mi sono seduto sui gradini del porto, e sto aspettando che prima o poi appaia sopra la linea dell'orizzonte vuoto una lenta nave
diretta in Cina. E penso ai tetti splendenti di quel Paese, ai suoi campi verdi. Non ho più paura di nulla, infatti. Come il battitore non teme la palla che arriva. Come il rivoluzionario non teme la garrotta. Se solo fosse possibile... Amici, amici, la Cina è troppo lontana.
Granai incendiati
La incontrai al matrimonio di amici, tre anni fa, e andammo subito d'accordo. C'era una differenza di undici anni tra noi, quasi un intero zodiaco cinese, lei ne aveva venti, io trentuno. Ma questo non costituiva un problema. All'epoca avevo tante di quelle cose di cui preoccuparmi, che onestamente non mi restava il tempo di badare a inezie del genere. D'altronde anche lei, fin dall'inizio, non aveva dato la minima importanza ai miei anni. Altra circostanza irrilevante, io ero sposato. Ma età, famiglia, stipendio e cose del genere sembravano essere per lei fattori puramente congeniti, come la grandezza dei piedi, il timbro della voce o la forma delle unghie. Uno ci si poteva arrovellare sopra quanto voleva, non li poteva cambiare. E a pensarci bene, è proprio così. Lei studiava pantomima con un certo Tal dei Tali, un maestro famoso, e per vivere faceva la modella pubblicitaria. Però trovava quel lavoro noioso e spesso rifiutava gli ingaggi che le procurava il suo agente, di conseguenza guadagnava ben poco. Tanto all'insufficienza dei guadagni suppliva la benevolenza dei suoi numerosi innamorati. Non ne sono certo, ma è quello che tra un discorso e l'altro dedussi dalle sue parole. Non sto però dicendo che andasse a letto con degli uomini per denaro. Forse si trattava di rapporti molto più spontanei. Tanto spontanei che probabilmente molte persone finivano col riversarle addosso in diverse forme, senza neanche rendersene conto, vaghe emozioni che tenevano sopite dentro di sé - la benevolenza per esempio, l'affetto, la rinuncia. Non riesco a spiegarmi bene, ma grosso modo si trattava di un fenomeno del genere. Naturalmente non sono cose che possano continuare indefinitamente. Se durassero in eterno, il funzionamento stesso dell'universo ne verrebbe rovesciato. Possono verificarsi soltanto in determinati luoghi, in determinati momenti. Come il fatto di «sbucciare i mandarini». Parliamone un po', di questa storia di sbucciare i mandarini. Quando la conobbi, mi disse che studiava pantomima. Ah, dissi. Non ero molto impressionato, le ragazze di oggi fanno un sacco di cose. Inoltre lei non sembrava il tipo da dedicarsi seriamente a un'attività dando il meglio di sé. Lei «sbucciava i mandarini». Alla lettera cioè, toglieva proprio la buccia ai mandarini. Alla sua sinistra era posato un vaso di vetro pieno zeppo di mandarini, alla sua destra un altro vaso dove mettere le bucce questa era la disposizione. Ma in realtà non c'era nessuno di questi oggetti. Lei prendeva in mano un mandarino immaginario, fingeva di sbucciarlo lentamente conservando alla buccia la sua forma, metteva in bocca uno spicchio per volta, ne succhiava la polpa, quando aveva finito metteva la pellicina che restava con tutte le altre nella buccia, alla fine chiudeva il tutto e lo depositava nel vaso alla sua destra. Ripeteva l'operazione più e più volte. A parole non sembra niente di speciale, ma a vederlo fare per dieci o venti minuti - stavamo chiacchierando seduti al banco di un bar, e lei parlando continuava quasi inconsciamente a «sbucciare i mandarini» - avevo l'impressione che a poco a poco il senso della realtà venisse risucchiato dall'ambiente intorno a me. Una sensazione davvero strana. All'epoca in cui Eichmann venne processato in Israele, alcuni sostenevano che la condanna più adatta sarebbe stata chiuderlo in una cella dalla quale venisse gradualmente aspirata via tutta l'aria. In che modo sia poi morto non lo so, ma tutt'a un tratto mi venne in mente quella storia. - Hai proprio talento! - le dissi. - Figurati, è semplicissimo. Non ci vuole nessun talento. Cioè, non si tratta tanto di far finta che ci siano i mandarini, ma di dimenticare che non ci sono. Tutto lì. - Puro zen, insomma. Fu a quel punto che cominciò a piacermi. Non ci incontravamo molto spesso. Più o meno una volta al mese, al massimo due. Cenavamo
insieme, poi andavamo a bere qualcosa in un bar o in un locale di musica jazz, facevamo delle passeggiate notturne. Quando ero solo con lei, riuscivo a rilassarmi completamente. Dimenticavo gli aspetti fastidiosi del mio lavoro, i tanti piccoli problemi per i quali non trovavo una soluzione, le cose assurde che si andavano a immaginare persone assurde. Per qualche ragione lei aveva questa capacità. Le parole che diceva non avevano quasi senso, ma quando scivolavano nelle mie orecchie riuscivano a calmarmi e a farmi sentire a mio agio, come quando si guardano delle nuvole che scorrono lontano nel cielo. Anch'io le raccontavo tante cose, però mai nulla di importante. Non c'era nulla di cui dovessi parlarle. Sinceramente. Non c'è nulla di cui si debba mai parlare. Due anni fa, in primavera, suo padre mori di un disturbo cardiaco, e lei ereditò una discreta somma di denaro. Perlomeno era quello che diceva. Con quei soldi voleva andare nell'Africa del Nord. Non so perché avesse quel desiderio, ma per caso conoscevo una ragazza che lavorava all'ambasciata algerina di Tokyo, e gliela presentai. Così lei andò in Africa. Il corso degli eventi fece sì che mi recassi a salutarla all'aeroporto. Aveva soltanto una vecchia sacca con dentro qualche vestito di cambio. A vederla quando passò il controllo dei bagagli, più che partire per un viaggio in Nordafrica, sembrava che rientrasse al suo paese. - Non è che non torni più in Giappone? - le chiesi. - Torno, torno, stai tranquillo, - mi rispose. Ricomparve verso la fine di marzo. Abbronzatissima, con tre chili di meno. E si portava dietro un nuovo fidanzato. Pare si fossero conosciuti in un ristorante in Algeria. Ci sono pochi giapponesi lì, così avevano fatto subito amicizia, e si erano messi insieme. Per quel che ne sapevo era il primo vero innamorato che avesse. Lui doveva avere tra i venticinque e i trent'anni. Alto, l'atteggiamento molto corretto, si esprimeva educatamente. In certe espressioni sembrava un po' limitato, ma si poteva definire un bel ragazzo e nel complesso faceva buona impressione. Aveva delle grandi mani, e lunghe dita. Se posso darne questa descrizione dettagliata, è perché andai ad accogliere i due al loro arrivo. Un giorno ricevetti da Beirut un telegramma sul quale erano segnati soltanto una data e un numero di volo. Evidentemente mi si domandava di andare all'aeroporto. Quando l'aereo atterrò - a causa delle cattive condizioni atmosferiche arrivò con quattro ore di ritardo, ore che trascorsi alla caffetteria leggendo dei racconti di Faulkner - loro uscirono sottobraccio dalla porta. Sembravano due sposini felici e contenti. Lei mi presentò il giovanotto. Quasi per riflesso ci stringemmo la mano. Aveva una stretta ferma, come ce l'hanno spesso le persone che hanno vissuto a lungo all'estero. Poi entrammo in un ristorante. Lei voleva assolutamente mangiare del tempura col riso, io e lui bevemmo della birra alla spina. Mi disse che lavorava nell'import-export, ma non mi spiegò in cosa commerciava. Non capivo bene se non avesse voglia di parlare del proprio lavoro, o se esitasse per timore di annoiarmi. Non nutrendo grande interesse per l'import-export, neanch'io gli feci domande. Così, per mancanza di altri argomenti, discutemmo della sicurezza a Beirut, e dei rifornimenti d'acqua a Tunisi. Sembrava ben informato sulla situazione del Nordafrica e del Medio Oriente. Lei finì di mangiare il suo tempura, poi fece un grande sbadiglio e ci annunciò che aveva sonno. Sembrava che si dovesse addormentare da un momento all'altro. Mi sono scordato di dire che dormire ovunque si trovasse era la sua specialità. Lui si offri di accompagnarla a casa in taxi. Io dissi che avrei preso il treno, avrei fatto prima. Non riuscivo proprio a capire cosa diavolo fossi andato a fare all'aeroporto. - Mi ha fatto piacere conoscerti, - disse lui con l'aria di scusarsi. - Piacere mio, - risposi. In seguito incontrai quell'uomo parecchie volte. Ogni volta che per caso mi imbattevo in lei, al suo fianco immancabilmente c'era lui.
Quando avevo un appuntamento con lei, spesso lui l'accompagnava in macchina fino al luogo convenuto. Aveva una vettura sportiva tedesca metallizzata, lucida come uno specchio. Non capendo nulla di automobili non posso farne una descrizione dettagliata, ma avrebbe potuto benissimo figurare in un film di Federico Fellini. - Deve avere un sacco di soldi, il tuo fidanzato, - dissi una volta alla ragazza. - Si, credo di sì, - rispose lei in tono indifferente. - È tanto redditizio, l'import-export? - L'import-export? - È stato lui a dirmelo. Che era quella la sua attività. - Già, è vero... Però è strano, non dà affatto l'impressione di lavorare. Incontra spesso della gente, telefona, ma è tutto, non mi sembra che si ammazzi di fatica. - Una sorta di Gatsby, insomma. - Una sorta di che? - No, niente. Una domenica pomeriggio, in ottobre, lei mi telefonò. Ero solo, mia moglie era uscita fin dal mattino per assistere al funerale di un parente. In quella bella giornata di sole, stavo guardando l'albero di canfora nel giardino e mangiavo una mela. Quel giorno ne mangiai sette. - Siamo nei paraggi di casa tua, possiamo venire a trovarti? - mi chiese. - Chi, possiamo? - Io e lui. - Sì, certo. - Allora fra una mezz'ora siamo lì, - disse, e riattaccò. Io rimasi ancora un po' a poltrire sul divano, poi andai nel bagno, mi feci una doccia e la barba. Mi asciugai, e pulii bene le orecchie. Ero indeciso se riordinare o no la casa, ma alla fine rinunciai. Non c'era tempo di rimettere tutto a posto, e per fare le cose a metà, tanto valeva lasciar perdere. C'erano libri, riviste, lettere, dischi, matite, maglie e roba varia disseminati per tutta la casa, ma non si aveva un'impressione di sporcizia. Avevo appena finito un lavoro e non mi andava di fare niente. Mi sedetti di nuovo sul divano e mangiai un'altra mela. Arrivarono poco dopo le due, sentii il rumore di un'automobile sportiva che si fermava davanti a casa. Dall'ingresso, vidi la ben nota vettura color argento accostata sul lato della strada. La mia amica sporse la faccia dal finestrino e mi salutò agitando la mano. Gli indicai il posto-auto sul retro del giardino. - Eccoci qui! - disse lei sorridendo contenta. Indossava una maglietta tanto sottile che si vedeva benissimo la forma dei capezzoli, e una minigonna verde oliva. Lui portava un doppio petto blu marin, e aveva un'aria un po' diversa dalle volte precedenti, ma forse era a causa della barba lunga di due giorni. Il fatto di non essere rasato però non gli dava un aspetto disordinato, metteva piuttosto un'ombra più densa sul suo volto. Infilò nel taschino della giacca gli occhiali da sole che teneva in mano, e tirò leggermente su col naso, in una maniera molto distinta. - Scusaci, veniamo a disturbarti così, in un giorno di riposo... - disse. - Non fa niente. Qui è sempre giorno di riposo, si può dire. E poi da solo mi annoiavo, - risposi. - Abbiamo portato il pranzo! - annunciò lei prendendo dal sedile posteriore della macchina un grosso involucro bianco. - Il pranzo? - Niente di speciale, - aggiunse lui. - Sbarchiamo di domenica, all'improvviso, abbiamo pensato che fosse meglio portare almeno qualcosa da mettere sotto i denti. - Be', vi ringrazio. Anche perché da stamattina ho mangiato solo mele.
Entrammo in casa, mettemmo il pacco sul tavolo e lo aprimmo. C'era di tutto, una cosa fantastica. Del vino di buona marca, panini con il roastbeef, dell'insalata, salmone affumicato, del gelato al mirtillo, e tutto in quantità abbondante. Nei panini non mancava nemmeno il prezzemolo. Persino il peperoncino era fresco. Una volta travasato il cibo sui piatti e stappato il vino, sembrava una piccola festa. - Mi dispiace che vi siate presi tutto questo disturbo, - dissi. - È normale, la proposta è venuta da noi, - rispose lui. - Mangiamo, mangiamo, sto morendo di fame, - fece lei. In veste di padrone di casa, riempii i bicchieri. Poi brindammo. Il vino aveva un sapore un po' strano, ma bevendo si stemperava in bocca. - Posso mettere dei dischi? - chiese lei. - Certo. Era già venuta una volta a casa mia, e conosceva già tutto, non aveva bisogno di chiedere spiegazioni. Tirò fuori dallo scaffale alcuni LP, li spolverò con la mano, e li mise sul caricatore automatico dello stereo. - Che nostalgia, questi stereo automatici di una volta, - disse lui riferendosi al mio vecchio Garrard. Era vero che si trattava di un apparecchio piuttosto antiquato, per procurarmelo avevo fatto una fatica tremenda, ed ero contento di vedere che qualcuno lo apprezzava. Per un po' parlammo di audio e di hi-fi. A lei piacevano i vecchi cantanti jazz, e mise dei dischi di Fred Astaire e Bing Crosby. In mezzo c'era anche una serenata di Cajkovskij. Poi di nuovo Nat King Cole. Mangiavamo senza fretta un panino, un po' d'insalata, una fetta di salmone. Quando la bottiglia di vino finì, tirai fuori dal frigo delle lattine di birra. Nel frigorifero di casa mia la birra non manca mai, ho un amico che ha una piccola ditta e mi cede a basso prezzo tutta quella che avanza dalle scorte per i regali ai clienti. Lui poteva bere quanto voleva, non si ubriacava. Anch'io posso mandare giù parecchia birra. Quanto a lei, per tenerci compagnia ne bevve più di una. Insomma in meno di un'ora sul tavolo c'erano ventiquattro lattine vuote. Niente male. Quando i dischi finirono, lei scelse altri cinque LP. Il primo pezzo era Airegin, di Miles Davis. - Ho dell'erba, - disse lui, - vuoi fare due tiri? Esitai un po', avevo smesso di fumare da un mese e non era il momento adatto, non sapevo che effetto poteva farmi la marijuana in quel momento. Alla fine però accettai. Lui tirò fuori un pacchetto di carta di alluminio da una busta bianca, mise l'erba su una cartina, arrotolò il tutto e leccò il bordo da incollare. Portò la fiamma dell'accendino all'estremità dello spinello e tirò alcune boccate perché prendesse bene, poi me lo passò. Era marijuana di prima qualità. Per un po' tutti e tre fumammo in silenzio, una boccata per uno a turno. Quando Miles Davis fini, fu la volta di un album di valzer di Strauss. Finito il primo spinello, lei disse che aveva sonno. Non aveva dormito a sufficienza di recente, e poi c'erano le tre birre e il fumo. Ripeto, si addormentava facilmente. L'accompagnai al piano di sopra, e la feci stendere sul letto. Mi chiese di prestarle una maglietta. Quando gliene porsi una, lei si tolse con disinvoltura i vestiti e rimase in mutandine, si infilò la maglietta dalla testa, si raggomitolò nel letto e dopo cinque secondi era già addormentata. Scossi la testa e scesi al piano di sotto. Nel salotto il suo fidanzato stava arrotolando un altro spinello. Era un duro. A dir la verità, io avrei preferito infilarmi nel letto di fianco a lei e farmi anch'io una bella dormita, ma non era possibile. Fumammo il secondo spinello. I valzer di Strauss non erano ancora finiti. Non so perché, mi venne in mente di quando avevo interpretato la parte di un vecchio guantaio in una recita scolastica, alla scuola elementare. Un vecchio guantaio dal quale un cucciolo di volpe va a comprare un paio di guanti. Ma i soldi che il cucciolo ha portato non sono sufficienti.
«Con quei soldi non puoi comprare dei guanti», dicevo io. «Però mia mamma ha terribilmente freddo. È piena di geloni». «No, non posso. Torna quando avrai messo insieme il denaro necessario. Allora...» - Sai, ogni tanto do fuoco a dei granai, - disse a quel punto lui. - Scusa? - chiesi. Ero soprappensiero, e credetti di aver sentito male. - Ogni tanto do fuoco a dei granai, - ripetè lui. Lo guardai. Con le unghie stava tracciando dei motivi sull'accendino. Poi aspirò una lunga boccata di fumo, la tenne per alcuni secondi in fondo ai polmoni, e la ributtò fuori lentamente. Il fumo uscendo dalla sua bocca stagnò nell'aria come un ectoplasma. Mi passò lo spinello. - È roba buona, questa, vero? - disse. Annuii. - L'ho portata dall'India. Ho scelto la migliore. Quando la fumi, ti vengono in mente un sacco di cose strane. Luci, e odori, cose del genere. La qualità dei ricordi... - a quel punto si interruppe e fece schioccare parecchie volte le dita, - cambia. Non pensi? Dissi che ero d'accordo. Io stesso stavo rivivendo l'emozione del palcoscenico durante la recita scolastica, risentivo l'odore dello scenario di cartapesta dipinta alle mie spalle. - Raccontami un po' questa storia dei granai, - feci. Lui mi guardò. Sul suo viso come al solito non c'era traccia di espressione. - Davvero posso parlarne? - Certo. - È una cosa semplicissima. Si cosparge tutto di benzina, e si butta un fiammifero acceso. Così, senza pensarci due volte, ed è fatta. A bruciare mettono meno di un quarto d'ora. - Ma senti... - dissi, poi strinsi le labbra, non riuscendo a trovare le parole adatte. - Perché lo fai? - Ti sembra strano? - Non lo so. Tu incendi i granai, io no. Tra le due cose c'è una netta differenza, e prima di dire quale delle due è strana, vorrei valutare con precisione questa differenza. Sia per te che per me. E poi sei tu che hai tirato fuori questa storia. - Sì, hai ragione. È giusto. Tra parentesi, hai dei dischi di Ravi Shankar? No, non ne avevo. Lui rimase per un po' soprappensiero. - Ne incendio circa uno al mese, - disse, poi fece di nuovo schioccare le dita. - Mi sembra il ritmo giusto. Evidentemente per quel che mi riguarda. Annuii in maniera vaga. Di quale ritmo parlava? - Senti, ma i granai che incendi, sono tuoi? - chiesi. Lui mi guardò con l'aria di non capire. - Perché dovrei dar fuoco a dei granai che mi appartengono? E perché pensi che io abbia tutti questi granai? - Il che significa che dai fuoco ai granai di altre persone, - ne conclusi. - Esatto. È ovvio. Quindi in una parola è un crimine. Come il fatto di stare qui con te adesso a fumare marijuana. Decisamente un'azione criminale. Io non dissi niente, rimasi col gomito appoggiato al bracciolo della sedia. -Metto fuoco senza autorizzazione ai granai di altre persone. Naturalmente scelgo dei posti dove non rischio di causare grossi incendi. Infatti non è questo il mio obiettivo, voglio solo veder bruciare dei granai. Annuii. Spensi lo spinello che era diventato troppo corto. - Se ti beccano, però, non la passi liscia. Bene o male è incendio doloso, puoi anche finire in galera. - Non mi beccano, non mi beccano, - fece lui con noncuranza. - Spargo la benzina, butto il fiammifero, e scappo. Poi da lontano mi godo lo spettacolo col binocolo. Stai tranquillo che non mi faccio scoprire. Tanto
per cominciare la polizia non si muove per un misero granaio che va a fuoco. - E poi chi andrebbe mai a pensare che un giovanotto elegante con una macchina straniera vada in giro a incendiare granai. Lui ridacchiò. - Proprio così, - disse. - E lei è al corrente, di questa cosa? - Lei non sa nulla. Non l'ho mai raccontato a nessuno. - E perché lo racconti a me? L'uomo distese le dita della mano destra e si strofinò la guancia, facendo scricchiolare la barba lunga. - Perché sei uno scrittore, e mi sono detto che probabilmente conosci bene gli schemi mentali secondo cui agiscono le persone. Inoltre credo che uno scrittore sia qualcuno che prima di trinciare giudizi, le cose le apprezza per quello che sono. E per questo che ti ho raccontato tutto. Riflettei un poco su quanto mi aveva appena detto. Per essere logico, lo era. - Temo che tu stia parlando di grandi scrittori, - dissi. Lui rise divertito. - Forse è un modo strano di vedere le cose, - ribatté allargando le mani davanti al viso e battendole poi insieme, - ma al mondo ci sono innumerevoli granai, che mi danno tutti l'impressione di stare solo ad aspettare di essere incendiati da me. Granai che stanno al di là del mare, o in mezzo ai campi di riso... insomma, granai di tutti i generi. In un quarto d'ora si riducono in cenere. Come se non fossero mai esistiti. Nessuno se ne rattrista. Spariscono, così. - Però sei tu che li giudichi inutili. - Io non giudico nulla. Osservo solo. Come la pioggia. La pioggia cade. I fiumi scorrono. Trasportano cose. Forse che la pioggia giudica qualcosa? Senti, io credo nella moralità. Senza moralità la gente non potrebbe esistere. E penso che essere morali significhi esistere simultaneamente. - Esistere simultaneamente? - Cioè io sono qui, e sono anche lì. Sono a Tokyo, e al tempo stesso sono a Tunisi. Sono il colpevole, e sono quello che perdona. Oltre a questo, cos'altro c'è? Uno schiocco di dita. - Mi sembra un'opinione un poco estrema, - dissi. - Insomma si regge solo su un'ipotesi. Per la precisione, anche adottare il concetto di simultaneità è qualcosa di discutibile. - Questo lo so. Ho solo espresso le mie sensazioni in quanto tali. Adesso però smettiamola. Forse quando fumo parlo troppo, dico anche quello che di solito mi tengo per me. - Un'altra birra?. - Grazie, volentieri. Andai in cucina, presi sei lattine di birra e del camembert. Bevemmo tre birre ciascuno, e mangiammo il formaggio. - Quand'è stato l'ultimo granaio che hai incendiato? - Vediamo un po'... - fece lui riflettendo, con la lattina vuota in mano, - in estate, alla fine di agosto. - E quando sarà la prossima volta? - Questo non lo so. Non è che mi faccia un programma, che me lo segni sul calendario e aspetti il giorno stabilito. Quando me ne viene voglia vado e appicco il fuoco. - Sì, ma non è che ogni volta che ti salta il ticchio ci sia un granaio bell'e pronto a portata di mano. - È vero, - ammise lui a bassa voce. - Per questo cerco in anticipo quelli adatti. - Insomma ti fai una scorta. - Si può dire così. - Posso chiederti ancora una cosa sola?
- Prego. - Hai già deciso quale sarà il prossimo? Tra i suoi occhi apparve una ruga. Poi aspirò rumorosamente l'aria col naso. - Sì, l'ho già deciso. Non dissi nulla, sorseggiai quel che restava della mia birra. - È un ottimo granaio. Il primo che valga davvero la pena di incendiare da tanto tempo. A dir la verità, oggi sono venuto a verificare. - Il che significa che è qui vicino. - Vicinissimo. Detto ciò, non parlammo più dell'argomento. Alle cinque lui svegliò la sua ragazza, e si scusò per l'irruzione in casa mia. Aveva bevuto qualcosa come venticinque birre, ma era del tutto sobrio. Tirò fuori la macchina sportiva dal posto-auto nel giardino. - Vacci piano, con i granai, - gli dissi quando ci separammo. - Stai tranquillo. In ogni caso, è proprio qui vicino. - Cos'è, questa storia dei granai? - chiese la ragazza. - Una cosa fra uomini, - disse lui. - Figuriamoci! - fece lei. Poi se ne andarono. Io tornai in salotto, e mi sdraiai sul divano. Il tavolo era cosparso di ogni sorta di cose. Presi il mio montgomery che era caduto per terra, me lo infilai, e sprofondai nel sonno. Quando mi svegliai, la stanza era buia. Le sette. Un'oscurità bluastra, stranamente ineguale, e un forte odore di marijuana riempivano la stanza. Senza alzarmi dal divano, provai a ricordarmi il seguito di quella recita scolastica, ma invano. Era poi riuscito il cucciolo di volpe a comprare quei guanti? Mi tirai su, aprii la finestra per cambiare l'aria nella stanza, poi andai in cucina e mi feci un caffè.
Il giorno seguente mi recai in libreria e comprai una mappa della zona in cui abitavo, in scala 1 : 20000, su cui erano segnate anche le stradine più piccole. Con la mappa in mano feci il giro del quartiere intorno alla mia casa e segnai a matita con una X tutte le proprietà dove c'era un granaio. In tre giorni percorsi tre chilometri in tutte le direzioni. Poiché abito fuori città, nella zona ci sono ancora parecchie fattorie, e di conseguenza parecchi granai. In tutto ne contai sedici. Il granaio che lui voleva incendiare era probabilmente fra questi. Da quanto aveva detto, vicinissimo, non doveva trovarsi a distanza maggiore dalla mia casa. Andai a fare uno scrupoloso controllo dei sedici granai, uno per uno. Prima di tutto esclusi quelli che si trovavano troppo vicini alle case di abitazione, o di fianco a delle serre. Poi eliminai anche quelli ancora in uso, dov'erano riposti attrezzi agricoli o fertilizzanti, difficile che lui avesse intenzione di bruciare quella roba. Ne restarono cinque. Cinque granai che andavano incendiati. O piuttosto che si potevano incendiare senza dare fastidio a nessuno. Sarebbero bruciati in un quarto d'ora, e una volta ridotti in cenere, forse nessuno se ne sarebbe rammaricato. Non riuscivo a immaginare a quale lui avesse deciso di dare fuoco, a quel punto la cosa dipendeva solo dal suo capriccio, però morivo dalla voglia di saperlo. Dispiegai la mappa, e cancellai tutte le X, tranne quelle che indicavano quei cinque granai. Mi procurai una regola curva, una squadra, un compasso, uscii e cercai di stabilire qual era il percorso più breve da un granaio all'altro, partendo da casa mia e facendovi ritorno. Cosa piuttosto laboriosa, considerato che le strade disegnavano parecchie curve seguendo i corsi d'acqua e le alture. In conclusione il percorso era
lungo sette chilometri e duecento metri, lo misurai diverse volte senza notare grandi differenze. Il mattino seguente alle sei, in tuta e scarpe da jogging, feci quella strada di corsa. Ero abituato a correre per sei chilometri ogni mattina e ogni sera, uno in più non era una gran fatica. Inoltre il paesaggio era bello, e i due passaggi a livello sul percorso erano raramente chiusi. Prima di tutto feci il giro del campus universitario vicino a casa mia, poi percorsi tre chilometri di strada sterrata lungo il fiume, dove non incontrai anima viva. Più o meno a metà tragitto si trovava il primo granaio. Quindi passai di fianco a un bosco. Una leggera salita. Un altro granaio. Un po' più avanti c'era una stalla per dei cavalli da corsa, vedendo il fuoco poteva darsi che si agitassero. Il terzo e il quarto granaio si assomigliavano come due anziani e brutti gemelli. Erano a neanche duecento metri di distanza tra loro, tutti e due vecchi, sporchi. Se bisognava bruciarli, meglio bruciarli insieme. L'ultimo granaio si trovava di fronte a un passaggio a livello. Più o meno al sesto chilometro. Sembrava del tutto abbandonato, e ci avevano attaccato sopra un'insegna pubblicitaria della Pepsi-Cola. Il fabbricato - ma si poteva davvero chiamarlo cosi? - era quasi in rovina. Come aveva detto il fidanzato della mia amica, sembrava proprio aspettare che qualcuno gli desse fuoco. Mi fermai qualche secondo li davanti, respirai a fondo alcune volte, poi attraversai il passaggio a livello e tornai a casa. Trentun minuti e trenta secondi in tutto. Bisognava migliorare il tempo. Feci una doccia, la colazione, e prima di mettermi al lavoro ascoltai un disco guardando l'albero di canfora. Per un mese feci la stessa strada di corsa ogni mattina. Nessun granaio bruciò. Mi capitò perfino di pensare che lui avesse cercato di indurre me ad appiccare il fuoco. Quell'immagine, un granaio incendiato, si era infatti introdotta nella mia mente, e a poco a poco si gonfiava come quando si pompa aria nelle gomme di una bicicletta. Tanto che a volte mi dicevo che per stare ad aspettare che lui si decidesse, tanto valeva che strofinassi io un fiammifero, facevo prima. In fin dei conti si trattava soltanto di un vecchio granaio diroccato. Ma era solo la mia fantasia che correva troppo, in realtà io non sono il genere di persona che va in giro ad appiccare il fuoco. Quello era lui. Che avesse cambiato idea, che avesse deciso di incendiare un altro granaio? Poteva anche darsi che fosse troppo occupato e non trovasse il tempo di attuare il suo progetto. La mia amica non si faceva più sentire. Arrivò dicembre, l'autunno finì, l'aria del mattino divenne fredda da far venire la pelle d'oca. La situazione-granai era stabile, sopra il loro tetto passavano bianche nuvole, gli uccelli invernali fra i rami gelati degli alberi sbattevano rumorosamente le ali. Il mondo continuava ad andare avanti senza mutamenti. Fu verso la metà di dicembre che lo incontrai di nuovo, dopo quella volta. Poco prima di Natale. Dovunque si andasse si sentivano solo canzoni natalizie. Ero in giro per acquisti, regali per varie persone. Avevo comprato una maglia di alpaca grigia per mia moglie, una cassetta di canzoni di Natale cantate da Willy Nelson per mio cugino, dei libri illustrati per i bambini di mia sorella, per la mia amica del cuore una gomma a forma di cerbiatto, e una camicia verde per me. Stavo camminando dalle parti di Nogizaka, la borsa contenente gli acquisti nella mano destra, la sinistra nella tasca del montgomery, quando vidi la sua macchina. Non potevo sbagliarmi, si trattava proprio di quell'automobile sportiva metallizzata. La targa era di Shinagawa, e la carrozzeria aveva un leggero graffio vicino al fanale anteriore sinistro. Era ferma nel parcheggio di un caffè. Vi entrai anch'io senza esitare. L'interno del locale era poco illuminato, c'era un forte odore di caffè. Non si udivano voci di gente che parlava, solo musica barocca a basso volume. Facendo finta di scegliermi un posto, cercai lui con lo sguardo. Lo vidi subito. Era seduto da solo vicino alla finestra, e beveva un caffelatte. Non si era tolto il cappotto di cachemire nero, e neanche la sciarpa, benché nel locale facesse un caldo soffocante, tanto che gli occhiali mi si erano subito appannati.
Esitai qualche secondo, poi decisi di andargli a parlare. Non gli dissi però che avevo visto la sua macchina nel parcheggio, finsi di essere entrato nel caffè per caso, e di averlo visto lì. - Ti spiace se mi siedo? - gli chiesi - No, figurati! Prego, - mi rispose lui. Ci mettemmo a discorrere di varie cose, senza entrare in nessun argomento. Fin dall'inizio non avevamo interessi in comune, e in più lui pareva avere la testa da tutt'altra parte. Non per questo però la mia compagnia sembrava dargli fastidio. Mi parlò di un porto in Tunisia. E dei gamberi che si pescavano da quelle parti. Non lo faceva per buona creanza, mi illustrava seriamente la situazione. Ma lasciò il discorso a metà, e non andò più avanti. Alzò un braccio per ordinare un secondo caffelatte. - A proposito, com'è poi andata a finire, quella faccenda del granaio? - gli chiesi di punto in bianco. Lui sorrise appena a fior di labbra. - Il granaio? L'ho incendiato, naturalmente. È bruciato tutto. Come ti avevo detto. - Vicino a casa mia? - Sì, vicinissimo. - Quando? - Dieci giorni dopo essere venuto da te, quella volta. Gli dissi che mi ero segnato su una mappa la posizione di tutti i granai e che ogni giorno ci ero passato davanti facendo jogging. - Quindi non è possibile che non me ne sia accorto, conclusi. - Molto meticoloso! - commentò lui con aria divertita. Meticoloso e logico. Eppure quel granaio lì non l'hai notato, non c'è altra spiegazione. Succede. Di non accorgersi di ciò che è troppo vicino. - Non capisco. Lui si aggiustò il nodo della cravatta, e gettò un'occhiata all'orologio. - Troppo vicino, - ripetè. - Adesso però devo andare. Ti spiace se ne parliamo un'altra volta con calma, di questa storia? Scusami, ma c'è gente che mi aspetta. Non avevo motivo di trattenerlo. Lui si alzò, mise le sigarette e l'accendino in tasca. - A proposito, l'hai ancora vista, lei, da quella volta? - aggiunse. - No, non l'ho più vista. E tu? - Neanch'io. Non so dove trovarla, a casa non c'è, non risponde al telefono, e alla scuola di pantomima non ci va più. - Sarà partita, così, per un colpo di testa. L'ha già fatto un sacco di volte. In piedi, le mani nelle tasche del cappotto, lui rimase a lungo a fissare il tavolino. - Senza un soldo, per un mese e mezzo? E poi siamo in dicembre. Dissi che non sapevo cosa pensare. Lui fece schioccare le dita alcune volte, senza togliere le mani di tasca. - Io la conosco bene, non ha un soldo, alla lettera. E nemmeno amici. La sua agenda è piena di nomi, ma di amici non ne ha. Anzi no, in te ha fiducia. Non te lo dico per educazione -. Guardò di nuovo l'orologio. - Devo andare. Vediamoci di nuovo, uno di questi giorni. - Arrivederci, - dissi. –
Dopo quell'incontro, cercai di telefonare alla mia amica parecchie volte, ma la linea era stata staccata dalla Società dei telefoni. Preoccupato, andai fino al suo appartamento. Era chiuso. Il portiere non si vedeva, quindi non riuscii a sapere se lei abitasse ancora li o no. Strappai una pagina della mia agenda, ci scrissi sopra «fatti viva», il mio nome, e la infilai nella cassetta delle lettere. Ma lei non si fece sentire. La volta seguente che andai all'appartamento, sulla targhetta di fianco alla porta c'era il nome di
un'altra persona. Provai a bussare, ma non venne ad aprire nessuno. Di nuovo non riuscii a trovare il portiere. Così rinunciai. Questo succedeva quasi un anno fa. Lei è scomparsa.
Ogni mattina, passo ancora correndo davanti ai cinque granai. Di quelli intorno a casa mia non ne è bruciato nemmeno uno. Né ho sentito parlare di qualche granaio incendiato da qualche altra parte. È di nuovo arrivato dicembre, gli uccelli invernali passano sopra la mia testa. E io vado avanzando negli anni. Nell'oscurità della notte, qualche volta penso a un granaio che crolla in fiamme.
Il nano ballerino Mentre dormivo mi apparve un nano che mi chiese di ballare. Sapevo benissimo che stavo sognando, ma dato che anche nel sogno ero esausto, rifiutai educatamente: «Mi scusi, ma sono stanco, non me la sento». Il nano non se la prese, e si mise a ballare da solo. Aveva posato per terra un giradischi portatile, e danzava al suono dei dischi che andava cambiando. Dopo averli ascoltati una volta li lasciava così, senza infilarli nella loro custodia, tanto che alla fine erano sparpagliati tutt'intorno allo stereo e non si capiva più niente. Finì col cacciarli in custodie a caso, i Rolling Stones in quella dell'orchestra di Glenn Miller, il coro di Mitch Miller in quella di Dafni e Cloe di Ravel. Comunque il nano non sembrava preoccuparsene, danzava al ritmo di un disco di Charlie Parker che era venuto fuori dalla custodia di Raccolta di pezzi per chitarra classica. Io lo guardavo mangiando dell'uva, la sua danza mi ricordava il vento. Mentre ballava, il nano sudava abbondantemente. Quando scuoteva la testa il sudore gli schizzava via dalla fronte, quando agitava le mani gli cadeva dalla punta delle dita. Eppure continuava a ballare senza fermarsi. Appena il disco finì, io posai a terra la scodella dell'uva e ne misi un altro. Il nano riprese la sua danza. «Balli proprio bene, sai? - gli dissi. - Sei la musica personificata». «Grazie», rispose lui in modo affettato. «Balli sempre cosi?» «Più o meno...» Poi fece una bella piroetta sulla punta dei piedi. I capelli morbidi e vaporosi gli ondeggiavano al vento. Era magnifico, lo applaudii. Lui si inchinò educatamente, e a quel punto la musica finì. Il nano smise di ballare, e si asciugò il sudore con un asciugamano. Io sollevai la puntina che batteva sempre sullo stesso solco e spensi l'apparecchio. «È una storia troppo lunga da raccontare, - disse lui lanciandomi un'occhiata, - magari tu non hai tutto questo tempo...» Mangiucchiando qualche acino d'uva, mi domandavo cosa rispondergli. Di tempo ne avevo quanto volevo, ma l'idea di ascoltare il nano dilungarsi su se stesso non mi attirava, e poi comunque era solo un sogno. I sogni di solito non durano tanto a lungo, a un certo punto possono finire in nulla. «Vengo da un paese del Nord, - cominciò comunque lui senza aspettare la mia risposta, e fece schioccare le dita. - Fra la gente del Nord, nessuno balla, nessuno sa ballare. Nessuno sa che esiste una cosa come la danza. Io però volevo danzare. Far ruotare le braccia, scuotere la testa, fare piroette, così... » e batté il suolo con i piedi, agitò le braccia, mosse la testa, girò su se stesso. Osservandolo si aveva l'impressione che le sue movenze scaturissero tutte insieme dal suo corpo, come quando una palla di fuoco si espande. I singoli gesti non erano molto difficili, ma globalmente formavano un movimento di incredibile bellezza. «Volevo danzare in questo modo, per questo sono venuto al Sud. Qui sono diventato un ballerino, mi sono esibito nelle taverne e nei cabaret. Così sono diventato famoso, e ho ballato perfino davanti al re. Evidentemente prima della rivoluzione. Quando scoppiò la rivoluzione il re mori, come sai anche tu, e io fui cacciato dalla città. Allora venni a vivere nei boschi». Il nano tornò nel centro dello spiazzo e riprese a danzare. Io misi un disco, vecchie canzoni di Frank Sinatra. Lui ballò, cantando Night and Day insieme a Sinatra. Me lo immaginai mentre volteggiava davanti al
trono del re. Vidi i lampadari scintillanti, le belle damigelle, la frutta esotica, le sciabole della guardia reale, i grassi eunuchi, il giovane sovrano che indossava una veste tempestata di gemme, e il nano grondante sudore che ballava senza distrarsi un momento... figurandomi la scena, mi sembrò di sentire in lontananza il rombo dei cannoni della rivoluzione: stavano arrivando. Il nano continuava a ballare, io a mangiare uva. Il sole calava a occidente, facendo allungare le ombre degli alberi. Una farfalla nera grande come un uccello passò in diagonale sullo spiazzo e sparì in fondo al bosco. L'aria si rinfrescò. Era tempo che anche il sogno svanisse. «Pare che sia ora di andare», dissi al nano. Lui si fermò e annui in silenzio. «Grazie per avermi permesso di guardarti ballare. Mi è piaciuto moltissimo». «Non c'è di che». «Può darsi che non ci incontriamo più. Stammi bene». «No, no...» fece il nano scuotendo la testa. «Cosa c'è?» chiesi. «Tu in questo posto ci tornerai. E da qui ad allora avrai imparato a ballare benissimo anche tu». Fece schioccare le dita. «Perché dovrei vivere qui e ballare con te?» domandai sorpreso. «Perché così è stato deciso. E ciò che è deciso nessuno lo può cambiare. Per questo tu ed io prima o poi ci incontreremo di nuovo». Dicendo quelle parole, il nano alzò lo sguardo su di me e mi scrutò fisso in viso. L'oscurità tingeva già il suo corpo di azzurro, come l'acqua di notte. «Arrivederci», disse. Poi mi voltò le spalle e riprese a ballare da solo. Quando mi svegliai, ero solo: disteso bocconi sul letto, madido di sudore. Fuori dalla finestra vedevo gli uccelli. Non sembravano quelli soliti. Andai a lavarmi scrupolosamente la faccia, mi feci la barba, tostai del pane, scaldai il caffè. Diedi da mangiare al gatto, cambiai la sabbia nella sua cassetta, mi misi la cravatta, le scarpe, poi presi l'autobus e andai in fabbrica. Una fabbrica che produce elefanti. Naturalmente un elefante non lo si fa in una volta sola, lo stabilimento è diviso in tanti settori, ognuno caratterizzato da un colore diverso. Quel mese io ero assegnato al settore-orecchie - fabbricavo orecchie tutto il tempo - e lavoravo nell'officina con il soffitto e i pilastri gialli. Anche i caschi e le tute erano gialle. Il mese precedente ero nell'officina verde, portavo un casco verde, indossavo una tuta verde, e facevo teste. Fabbricare la testa di un elefante è un lavoro estremamente gratificante. Si ha proprio l'impressione di «creare qualcosa». In confronto le orecchie sono facilissime, si fa una roba larga e piatta, ci si mettono delle rughe, e sono bell'e finite. Infatti lavorare in quel settore lo chiamavamo «prendere un congedoorecchie». Dopo un mese di «congedo-orecchie», fui spedito al settore-nasi. Fabbricare un naso è un lavoro minuzioso che richiede nervi saldi. Perché quand'è finito deve muoversi sinuosamente, l'aria deve passare bene attraverso i fori, altrimenti l'elefante si arrabbia e si imbizzarrisce. I nasi sono il lavoro più snervante. Tanto perché si sappia, noi non creiamo gli elefanti dal nulla. Per l'esattezza, li scomponiamo rendendoli meno densi. Cioè prendiamo un elefante e con la sega lo separiamo in tanti pezzi, orecchie, naso, testa, petto, piedi e coda, che ricomponiamo poi con maestria formando cinque nuovi elefanti. Ognuno dei quali è vero soltanto per un quinto, per i restanti quattro quinti è falso. Però dall'esterno non si vede nulla, non se ne accorgono nemmeno gli elefanti stessi. A tal punto il prodotto finito è perfetto. Ma perché, mi chiederete voi, è necessario fabbricare - o diluire - degli elefanti? Perché non abbiamo
la loro pazienza. Se si lasciasse fare alla natura, nascerebbe un piccolo ogni quattro o cinque anni. Ma gli elefanti ci piacciono troppo, quindi sarebbe molto irritante rispettare questa loro abitudine, attendere i loro comodi. Così abbiamo deciso di fabbricarli noi stessi Per evitare che una volta ricomposti vengano trattati male, prima li diamo all'Associazione di Fornitura degli Elefanti, che li tiene sotto controllo per due settimane e verifica seriamente il loro funzionamento, poi li rilasciamo nella giungla col marchio dell'Associazione impresso sotto una zampa. Normalmente fabbrichiamo quindici elefanti alla settimana. In piena stagione però, sotto Natale, facendo andare le macchine a tutto vapore arriviamo anche a venticinque, ma diciamo che quindici è una media ragionevole. Come ho già detto, nel nostro stabilimento la fase di fabbricazione delle orecchie è la meno impegnativa di tutte. Non richiede sforzi fisici o mentali, e nemmeno macchinari complicati. Anche la quantità di lavoro non è eccessiva. Uno può metterci tutta la giornata, oppure darci dentro il mattino, e quando ha raggiunto la quota richiesta prendersela comoda per il resto del tempo. Io e il mio collega non amavamo lavorare lentamente, cosi finivamo tutto il lavoro in mattinata, e passavamo il pomeriggio a chiacchierare, leggere, fare quello che ci piaceva. Anche quel pomeriggio, dopo aver appeso al muro dieci orecchie in fila - complete di rughe a regola d'arte - ci eravamo seduti per terra a prendere il sole. Parlai al mio collega del nano ballerino che mi era apparso in sogno. Mi ricordavo tutto nei minimi dettagli, e glieli descrissi uno ad uno, anche i più irrilevanti. Quando le parole non mi bastavano mi aiutavo con i gesti, scuotevo la testa, roteavo le braccia, battevo il suolo con i piedi. Il mio collega mi ascoltava bevendo del tè, e annuendo vagamente. Era un tipo robusto, dalla barba folta, più vecchio di me di cinque anni e piuttosto taciturno. Inoltre aveva l'abitudine di stare a braccia conserte quando pensava. Forse a causa di quel suo atteggiamento, sembrava assorto in riflessione, ma in realtà non era così. Il più delle volte dopo un po' si alzava con fatica e lasciava cadere un laconico «è troppo difficile». Anche quella volta, dopo avermi ascoltato fino alla fine si mise a pensare per conto suo. Dato che ci metteva un'eternità, io per ingannare il tempo mi misi a pulire con uno straccio i pannelli elettrici di controllo. - È troppo difficile, - disse lui come al solito dopo un po', alzandosi pesantemente, - un nano... un nano che balla... troppo difficile. Non aspettandomi una risposta precisa, non rimasi particolarmente deluso. Regolai i pannelli di controllo sulla posizione originaria, poi bevvi il mio tè ormai tiepido. Il mio collega però restò ancora a pensare a lungo, cosa rara per lui. - Cosa ti succede? - gli chiesi. - Ho l'impressione di aver già sentito, da qualche parte, la storia di un nano. - Ma va? - feci un po' meravigliato. - Ne ho un vago ricordo, ma ho dimenticato chi me l'ha raccontata. - Cerca di ricordartelo. - Sì, - fece lui, e ricominciò a pensare. Passarono tre ore prima che si rammentasse finalmente di quella storia. Ormai eravamo vicini alla chiusura. - Ci sono! - esclamò a un tratto. - Ci sono, mi è tornato in mente! - Bravo! - Sai il tipo che lavora al settore sei, dove si innesta il pelo? Quello con i capelli bianchi lunghi fino alle spalle, quasi senza denti? Che lavorava qui già prima della rivoluzione...? - Sì, - risposi. L'avevo visto un sacco di volte alla taverna. - Quello lì tanto tempo fa mi ha parlato di quel nano. Un nano che ballava bene. Sul momento
credetti che farneticasse, vecchio com'è, non lo presi troppo sul serio, ma ora che mi hai detto questa cosa, incomincio a pensare che forse non erano tutte fandonie. - Che cosa ti ha raccontato? - E chi lo sa, è passato tanto tempo... - Sospirò incrociando le braccia, poi si rimise a pensare. Ma non riusciva a farsi tornare in mente nient'altro - Non mi ricordo, - disse alla fine alzandosi con uno sforzo, - faresti meglio a chiederlo tu stesso a quel vecchio. Decisi di fare così. Quando suonò la sirena di chiusura, andai a vedere al settore sei, ma il vecchio non c'era più. C'erano solo due ragazze che stavano pulendo il pavimento. - Forse è andato alla taverna, la taverna vecchia, - mi spiegò la ragazza più magra. Infatti lo trovai lì. Era seduto al banco, su uno sgabello, aveva posato accanto a sé la scatola del pranzo e stava bevendo del sake tenendosi molto eretto. Era davvero un locale molto antico. Esisteva già prima che io nascessi, prima della rivoluzione. Per generazioni i fabbricanti di elefanti erano andati lì a bere, giocare a carte, cantare. Alle pareti erano attaccate file di vecchie fotografie della fabbrica, del primo direttore che controllava una zanna, di un'attrice d'altri tempi venuta in visita, di una festa in una notte d'estate... Solo le foto del re e della sua corte, giudicate «favorevoli alla monarchia», erano state bruciate tutte dall'esercito rivoluzionario. E poi naturalmente c'erano fotografie della rivoluzione, dell'esercito rivoluzionario che occupava la fabbrica, dei soldati che impiccavano il direttore... Il vecchio stava bevendo del Mecatol seduto sotto un'istantanea scolorita e datata con sotto l'etichetta: Tre ragazzi della fabbrica che puliscono delle zanne. Quando lo salutai e mi sedetti di fianco a lui, indicò la foto dicendo: - Quello sono io! La osservai attentamente. Il primo da destra dei tre, un ragazzino di dodici o tredici anni, poteva anche essere quell'uomo da giovane. Se non me l'avesse detto lui non l'avrei mai immaginato, eppure mostrava gli stessi tratti, il naso aquilino, le labbra piatte. Probabilmente il vecchio sedeva sempre a quel posto, e ad ogni cliente nuovo che entrava nel locale diceva: «quello sono io! » - Piuttosto vecchia, quella foto, - feci per incoraggiarlo. - Di prima della rivoluzione, - rispose lui con aria indifferente. - Ero ancora un bambino, a quell'epoca. Tutti invecchiamo. Anche tu, a tuo tempo diventerai vecchio come me. Aspetta e vedrai! Così dicendo aprì la bocca dove restavano solo la metà dei denti e sghignazzò schizzando saliva. Poi attaccò a parlare della rivoluzione. Non gli piacevano né il re né l'esercito rivoluzionario. Io lo lasciai parlare quanto voleva, poi quando venne il momento opportuno gli offrii dell'altro Mecatol, e di punto in bianco gli chiesi se sapeva qualcosa di un nano che danzava. - Il nano ballerino? - chiese lui. - Vuoi sentire la storia del nano ballerino? - Sì, esatto, - risposi. Il vecchio mi lanciò un'occhiata penetrante. - E perché? - Ne ho sentito parlare da uno, - mentii, - e vorrei saperne di più. Sembra una storia interessante. Il vecchio continuò a guardarmi fisso negli occhi, finché ritrovò il tipico sguardo offuscato degli ubriachi. - D'accordo, - disse, - mi hai offerto da bere, e te la voglio raccontare. Però, - e così dicendo mise un dito davanti alla mia faccia, - però non devi parlarne a nessuno. Dalla rivoluzione sono passati tanti anni, ma ancora adesso ti metti nei guai, se parli del nano ballerino. Quindi acqua in bocca, e non fare il mio nome. Capito? -Sì.
-Ordina da bere. E spostiamoci in quei sedili più appartati. Chiesi altri due Mecatol, e andai a sedermi con lui a un tavolo dove potevamo parlare senza essere sentiti dal barista. Sul ripiano c'era una lampada a forma di elefante. - Il nano veniva da un paese del Nord, era arrivato prima della rivoluzione, - prese a raccontare il vecchio. - Ballava benissimo. Anzi, sarebbe meglio dire che era l'essenza stessa della danza. Nessuno poteva imitarlo. Riuniva in sé il vento, la luce, gli odori, le ombre, tutti gli elementi. Solo lui ne era capace. Era davvero straordinario -. L'uomo bevve, battendo i pochi denti che gli restavano contro il vetro del bicchiere. - Lei l'ha visto ballare? - gli chiesi. - Se l'ho visto? - Dopo avermi fissato intensamente, il vecchio allargò le mani sopra il tavolo. - Certo che l'ho visto. Tutti i giorni, l'ho visto. Tutti i giorni. - Qui? - Esatto. Proprio qui. Il nano ballava qui tutti i giorni. Prima della rivoluzione. Secondo il racconto del vecchio, il nano era arrivato nel nostro paese senza un soldo e aveva lavorato come sguattero in quella taverna frequentata dagli operai della fabbrica degli elefanti. Finché il padrone aveva notato la sua bravura nella danza e lo aveva ingaggiato come ballerino. Gli operai, che volevano veder ballare delle ragazze, all'inizio lo avevano coperto di fischi e proteste, ma poi tutti erano rimasti a guardarlo incantati con i bicchieri in mano, senza fiatare. Il nano ballava in maniera incomparabile. In poche parole, riusciva a tirar fuori dal cuore di ogni spettatore emozioni mai provate, insospettate come si estraggono le interiora dalla pancia di un pesce. Per circa un anno e mezzo aveva ballato in quella taverna, sempre affollata di gente che veniva a vederlo. Ormai con un passo di danza era capace di plasmare in mille modi, a suo piacere, le emozioni degli spettatori, che guardandolo provavano gioia infinita, e infinita tristezza. Alla fine la fama del nano arrivò alle orecchie del gran cerimoniere di corte, che aveva forti legami con la fabbrica degli elefanti, contigua al suo feudo. Il cerimoniere - venne poi catturato dall'esercito rivoluzionario e gettato vivo in una tinozza di colla bollente - riferì la cosa al giovane re, che amando la musica espresse subito il desiderio di veder ballare quel fenomeno. Venne mandata alla taverna la nave con lo stemma del sovrano, e il nano fu portato a palazzo in pompa magna dalla guardia reale. Il proprietario della taverna ricevette in compenso una somma di denaro più che adeguata. I clienti espressero a bassa voce il loro malcontento, ma cosa potevano fare contro un ordine del re? Rassegnati, ripresero a guardare le danze di giovani ragazze, bevendo birra e Mecatol. Il nano intanto fu condotto nella stanza del palazzo che gli era stata assegnata, dove le ancelle lo lavarono, lo vestirono con abiti di seta, e gli spiegarono come comportarsi davanti al sovrano. La sera seguente, venne accompagnato nel salone da ballo. Li lo aspettava l'orchestra reale, che esegui una polka composta dal re. Il nano ballò al ritmo di quella polka, lentamente all'inizio, quasi volesse assuefare il proprio corpo alla musica, poi a poco a poco sempre più in fretta, fino a volteggiare come un tornado. La gente lo guardava col fiato sospeso, incapace di dire una parola. Alcune dame di corte svennero e scivolarono al suolo. Il re, trasognato, lasciò cadere sul pavimento la sua coppa di cristallo piena di un liquore di polvere d'oro, ma nessuno fece caso a quel rumore di vetri infranti. Arrivato a quel punto del racconto, il vecchio posò il bicchiere sul tavolo, e si asciugò la bocca con il dorso della mano. Poi sfiorò con le dita la lampada a forma di elefante. Io aspettavo che riprendesse a parlare, ma lui rimase a lungo in silenzio. Allora chiamai il barista e gli ordinai una birra e un Mecatol. Il locale incominciava a riempirsi, e sul palcoscenico una giovane cantante stava accordando la sua chitarra. - Poi cos'è successo? - domandai. - Ah, - disse il vecchio, come tornando col pensiero alla storia, - ci fu la rivoluzione, il re fu ucciso, e il nano scappò.
Poggiai i gomiti sul tavolo e bevvi la mia birra tenendo il boccale con entrambe le mani. - La rivoluzione scoppiò subito dopo che il nano era entrato a palazzo? - chiesi guardando in faccia il vecchio. - Più o meno, dopo un anno, - mi rispose ruttando rumorosamente. - Però non capisco. Perché prima ha detto che di questa storia non devo parlarne ad anima viva? C'è qualche rapporto, tra il nano e la rivoluzione? - Mah, questo non lo so neanch'io. L'unica cosa che so è che quelli dell'esercito rivoluzionario lo cercarono come pazzi per terra e per mare. Da allora sono passati molti anni, la rivoluzione ormai è storia vecchia, eppure lo stanno ancora cercando. Che relazione ci fosse tra lui e la rivoluzione, però, lo ignoro. Corrono solo voci. - Quali voci? Sul viso del vecchio apparve un'espressione indecisa. - Voci, soltanto voci. La verità non si sa. Ma stando a quello che dicono, il nano all'interno del palazzo esercitava un potere malefico. C'è anche chi sostiene che fu quel suo potere a scatenare la rivoluzione. E tutto quello che so, veramente. Il vecchio sospirò con un lungo fischio, e vuotò il suo bicchiere in un fiato. Il liquido rosa gli traboccò dagli angoli della bocca, gocciolando sulla camicia spiegazzata. Da allora non avevo più sognato il nano. Ogni giorno andavo alla fabbrica degli elefanti, e modellavo orecchie. Dopo averne ammorbidita una col vapore, l'appiattivo sotto una pressa, la tagliavo in pezzi, aggiungevo il materiale necessario e ne creavo cinque. Poi le facevo asciugare e formavo le rughe. Un giorno, nella pausa di mezzogiorno, io e il mio collega, mentre mangiavamo quello che ci eravamo portati da casa, ci mettemmo a parlare di una ragazza nuova che era appena entrata nel settore otto. In fabbrica lavoravano parecchie ragazze. Le loro mansioni consistevano soprattutto nell'attaccare i fili del sistema nervoso, ricamare, fare pulizia... Erano il nostro argomento di conversazione preferito nei momenti di riposo, e anche loro, le colleghe, quando avevano del tempo libero, dovevano parlare di noi. - È una ragazza stupenda! - disse il mio collega. - Tutti ci stanno provando, ma nessuno ci è ancora riuscito. - È davvero così bella? - chiesi in tono dubbioso. Non si contavano le volte che sentendo vantare qualche bellezza rara ero andato apposta a controllare di persona, per restare poi deluso. Non c'era mai da fidarsi di quelle voci. - È la pura verità. Se non ci credi perché non vai a vedere? Tanto hai tutto il tempo! La pausa di mezzogiorno era finita, ma come al solito nel nostro settore non avevamo più nulla da fare. Decisi di recarmi con un pretesto qualunque al settore otto. Per arrivarci bisognava percorrere un corridoio sotterraneo lungo e tortuoso, all'ingresso del quale c'era un guardiano. Conoscendomi bene, l'uomo mi lasciò passare senza fare obiezioni. All'uscita dal tunnel scorreva un fiumiciattolo, lungo il quale, un po' più a valle, si trovava l'officina numero otto, il settore-zampe. Il tetto e il camino erano dipinti di rosa. Avendo lavorato in quell'edificio quattro mesi prima, lo conoscevo bene. All'ingresso però c'era di guardia un tizio nuovo che non avevo mai visto. - Cosa vuoi? - mi chiese. - Non abbiamo più cavi per i nervi, sono venuto a prenderne uno, - dissi schiarendomi la gola. - Strano, - fece lui osservando attentamente la mia uniforme. - I cavi per i nervi delle orecchie e quelli per le zampe non si possono scambiare. - È lungo da spiegare. Prima avevo pensato di andare a chiederlo al settore-naso, ma non ne avevano in eccedenza. Siccome però a loro mancavano dei cavi per le zampe, mi hanno detto che se gliene procuravo uno, erano disposti a darmene uno sottile. Allora ho chiamato qui e mi hanno detto che ne
avevano uno in più e potevo venirlo a prendere, così sono venuto. - A me però nessuno mi ha avvisato. - Be', hanno fatto malissimo. Adesso gliene dico quattro, a quelli lì, devono stare più attenti alle comunicazioni! Il guardiano brontolò ancora qualcosa, ma alla fine mi fece entrare. Il settore otto era un edificio seminterrato grande e piatto, lungo e stretto, con il pavimento di sabbia. Il terreno esterno si trovava giusto all'altezza degli occhi, e la luce arrivava soltanto da piccole finestre a vetri. Sul soffitto erano appese delle rotaie mobili dalle quali pendevano decine di zampe. Sembrava che dal cielo stesse per calare giù un enorme branco di elefanti. Nel settore lavoravano una trentina di persone in tutto, sia uomini che donne. L'interno dell'edificio era poco illuminato e tutti portavano un berretto, una mascherina e degli occhiali di protezione, così era impossibile capire dove si trovasse la ragazza nuova. Lo chiesi a uno degli operai, un tale con cui avevo già lavorato. - È quella al tavolo quindici, quella che sta mettendo le unghie, - mi spiegò. - Ma se hai intenzione di provarci, facci una croce sopra, è coriacea, sembra il guscio di una tartaruga. - Grazie. La ragazza che metteva le unghie al tavolo quindici era molto snella, sembrava uscita da un dipinto del medioevo. - Scusa, - le dissi. Lei alzò gli occhi su di me, osservò la mia uniforme e mi squadrò dalla testa ai piedi. Poi si tolse il berretto e gli occhiali di protezione. Era davvero bellissima. Aveva lunghi capelli ricci, e occhi fondi come il mare. - Cosa vuoi? - mi chiese. - Se sei libera, verresti a ballare con me sabato sera? - le proposi. - Sabato sera sono libera e ho intenzione di andare a ballare, ma non con te. - Hai già promesso di andarci con qualcun altro? - Non ho promesso niente a nessuno. La ragazza si rimise il berretto, gli occhiali, prese in mano l'unghia d'elefante che era sul tavolo, la posò sull'estremità di una zampa e ne controllò le dimensioni. Era un po' troppo grande, bisognava ridurla con lo scalpello. - Be', se non sei già impegnata, perché non esci con me? Conosco un ristorante dove si mangia benissimo. - Senti, io ho piacere di andare a ballare da sola, se tu ci vuoi andare per conto tuo, liberissimo! - Certo che ci vado. - Fai come ti pare. La ragazza appoggiò di nuovo all'estremità della zampa l'unghia modellata con lo scalpello: questa volta era della misura giusta. - Sei brava per essere una principiante, - dissi. Lei non si degnò di rispondere. La notte stessa, di nuovo mi apparve in sogno il nano. Era seduto su un ceppo in mezzo a una radura nel bosco e stava fumando. Questa volta non c'erano né giradischi né dischi, e lui aveva un'aria molto stanca, sembrava un po' invecchiato. Ad ogni modo non si sarebbe mai detto che era nato prima della rivoluzione, gli avrei dato due o tre anni più di me, ma è difficile indovinare l'età dei nani. Non sapendo cosa fare, gironzolai un poco lì intorno, guardai per aria, poi andai a sedermi accanto a lui. Il cielo era grigio e coperto, nuvole scure navigavano verso ovest. Poteva mettersi a piovere da un momento all'altro. Forse era la ragione per cui il nano aveva messo via il giradischi e i dischi, al riparo.
«Ciao», gli dissi. «Ciao». «Oggi non balli?» «No, oggi non ballo». Quando non danzava, il nano dava un'impressione di debolezza e di tristezza. Chi avrebbe mai detto che un tempo aveva avuto tanto potere a palazzo! «C'è qualcosa che non va?» gli chiesi. «Sì. Non mi sento molto bene. Fa troppo freddo, qui nel bosco. Quando si sta sempre soli, si finisce col risentirne fisicamente in tanti modi». «Strano». «Ho bisogno di energia vitale. Di energia fresca da immettere nel mio corpo. Che mi permetta di continuare a ballare indefinitamente, di bagnarmi sotto la pioggia senza prendere raffreddori, di correre per monti e per valli. È di questo che ho bisogno». «Ah». Per un po' restammo seduti sul ceppo uno accanto all'altro, in silenzio. Alte sopra le nostre teste, le fronde degli alberi sussurravano nel vento. Fra i tronchi a volte si intravedeva qualche grossa farfalla. «A proposito, - disse lui, - non avevi un favore da chiedermi?» «Un favore da chiederti? - ripetei sorpreso. - Quale favore?» Il nano spezzò un rametto e se ne servì per disegnare una stella per terra. «Riguardo a quella ragazza. La desideri, no?» Parlava della bellissima ragazza che era stata appena assunta al settore otto. Come faceva a sapere di lei? Mah, nei sogni succedono tante cose... «Sì che la desidero, ma a cosa serve che chieda aiuto a te, cosa puoi farci, tu? Devo contare sulle mie sole forze». «Non otterrai nulla, con le tue forze». «Davvero?» domandai un po' seccato. «Proprio così. Non otterrai un bel nulla. Per quanto la cosa ti possa contrariare, quello che non puoi avere non l'avrai». Probabilmente vedeva giusto, mi dissi. Ero un ragazzo normalissimo, in tutti i sensi, non avevo una conversazione brillante, non ero ricco. Me la potevo scordare, una ragazza così. «Se io ti presto un po' del mio potere, però, può darsi che tu ottenga qualcosa», mi sussurrò il nano. «Quale potere?» chiesi, spinto dalla curiosità. «Quello di ballare. A quella ragazza piace, ballare. E se tu danzerai bene davanti a lei, sarà tua. A te non resterà che metterti sotto l'albero e aspettare che cadano i frutti». «Vuoi dire che mi insegnerai?» «Potrei anche insegnarti. Ma la danza non è una cosa che si possa imparare in uno o due giorni. Ci vorrebbero almeno sei mesi di esercizio quotidiano. È il minimo, per riuscire a catturare il cuore della gente». Deluso, scossi la testa. «Non ho tutto questo tempo. Se aspetto sei mesi, qualcun altro arriverà prima di me». «Quand'è che la vedrai?» «Domani sera. Domani è sabato, lei andrà alla sala da ballo. Ci sarò anch'io, e le chiederò di ballare con me». Il nano disegnò per terra col rametto diverse linee rette, poi le unì con delle linee orizzontali e formò uno strano schema. Io osservavo in silenzio i suoi movimenti. Finalmente lui buttò a terra la sigaretta che era ormai diventata un mozzicone, e la spense col piede.
«Un mezzo c'è... se veramente desideri quella ragazza», disse. «Sì che la desidero». «Vuoi sapere in cosa consiste, questo mezzo?» «Certo, spiegami». «Io devo entrare in te. E danzare servendomi del tuo corpo. Mi sembri un ragazzo robusto, pieno di forza. Di energia sufficiente per ballare». «Fisicamente, non temo confronti con nessuno. Ma davvero puoi fare una cosa del genere? Entrare in me e ballare?» «Sì. E farò in modo che quella ragazza sia tua. Te lo garantisco». Mi leccai le labbra con la punta della lingua. Sembrava fin troppo facile. Una volta che il nano si fosse trovato dentro di me, magari non avrebbe più voluto uscire, e c'erano molte probabilità che si impossessasse del mio corpo. Per quanto desiderassi fare l'amore con quella ragazza, non volevo finire così. «Mi sembri preoccupato», disse il nano come se leggesse nei miei pensieri. «Preoccupato che io mi appropri del tuo corpo». «Ho sentito dire parecchie cose, su di te», gli risposi. «Brutte cose, vero?» «Be', sì». Lui sorrise con aria grave. «Stai pure tranquillo. Nessuno è in grado di appropriarsi indefinitamente del corpo di una persona, nemmeno io. Ci vuole un'intesa reciproca, per farlo. Insomma bisogna essere d'accordo tutti e due. Tu non vuoi che io mi impossessi indefinitamente del tuo corpo, vero?» «È ovvio», risposi rabbrividendo. «Però io che vantaggio avrei, a prestarti il mio potere di seduzione senza farti pagare un prezzo? C'è una condizione, disse il nano alzando un dito. - Non una condizione dura, ma c’è. «Quale?» «Io entro nel tuo corpo. Poi tu vai alla sala da ballo, inviti la ragazza e la seduci con la tua danza. E la possiedi. Per tutto il tempo però non devi dire una parola. Non devi neanche far sentire la tua voce. Finché lei non sarà completamente tua». «Ma come faccio a sedurla se non posso parlarle?» «No, - fece il nano scuotendo la testa, - di questo non ti devi preoccupare. Domani danzerai in modo tale da conquistare qualunque donna senza bisogno di dire una parola. Per questo non devi aprire bocca da quando metterai piede sulla pista a quando avrai posseduto la ragazza. Mi sono spiegato?» «E se invece parlo?» «In quel caso mi prenderei il tuo corpo», disse il nano come se fosse una cosa evidente. «Se invece sto zitto e va tutto bene fino alla fine?» «Allora la ragazza sarà tua. Io me ne andrò via e me ne tornerò nei miei boschi». Feci un profondo sospiro, domandandomi cosa fare. Intanto il nano aveva tracciato un'altra strana mappa sul terreno con il rametto. Una farfalla venne a posarsi proprio nel bel mezzo. «Ci sto, - gli dissi. - Proviamo». «Affare fatto», rispose lui. La sala da ballo si trovava di fianco al cancello principale della fabbrica degli elefanti, e il sabato sera si riempiva di giovani operai, ragazzi e ragazze. Attraversai la folla in cerca di lei. «Che nostalgia! - diceva intanto il nano dentro di me. - La danza è anche tutto questo, la folla, l'alcol, le luci, l'odore di sudore, il profumo che hanno addosso le donne... che bei ricordi! » Dei ragazzi che conoscevo quando mi videro mi salutarono, qualcuno mi diede una pacca sulle spalle. Io risposi ai saluti con un sorriso affabile, ma non dissi una parola. A quel punto l'orchestra cominciò a suonare. Lei però non si faceva vedere.
«Non avere fretta, la notte è ancora lunga», mi diceva il nano. La pista era rotonda, un motore elettrico la faceva ruotare lentamente. Tutt'intorno erano disposte le sedie. All'alto soffitto era appeso un enorme lampadario, e le luci si riflettevano nel legno ben lucidato della pista come in una lastra di ghiaccio. La pedana dell'orchestra era un po' elevata, ricordava la disposizione delle gradinate di uno stadio. Vi avevano preso posto due complessi che si alternavano ogni trenta minuti suonando ottima musica ballabile, ininterrottamente. L'orchestra di destra, i cui musicisti portavano sul petto l'immagine di un elefante rosso, aveva due magnifici tamburi, mentre l'attrattiva principale dell'orchestra di sinistra, contraddistinta da un elefante verde, erano dieci tromboni in fila. Presi posto su una sedia, ordinai una birra, allentai la cravatta e mi accesi una sigaretta. Una delle ragazze che ballavano a pagamento si avvicinò al mio tavolo: - Di', bello, non vuoi ballare con me? - Feci cenno di no. Appoggiai il mento su una mano, e bevendo ogni tanto un sorso di birra aspettavo intanto che lei arrivasse. Passò un'ora, niente. Sulla pista si susseguirono invano valzer, fox-trot, duelli di tamburi, solo di tromba. Cominciai a pensare che mi avesse preso in giro. «Stai tranquillo, - mormorò il nano. - Verrà di sicuro, quindi non ti agitare». Erano già passate le nove quando lei apparve all'ingresso della sala da ballo. Indossava un vestito aderente e luccicante, e calzava scarpe nere dai tacchi alti. Era così sexy e splendente che tutta la sala sembrò sparire, dissolversi in una nebbia bianca. Alcuni giovanotti, notandola immediatamente, si fecero avanti per accompagnarla, ma lei li allontanò con un gesto distratto della mano. Bevendo a piccoli sorsi la mia birra, seguii con gli occhi i suoi movimenti. Dopo aver aggirato la pista, la ragazza andò a sedersi a un tavolo dall'altra parte, di fronte a me. Ordinò un cocktail dal colore rosso, si accese una sigaretta lunga e stretta arrotolata a mano. Non toccava quasi il suo bicchiere. Quando ebbe finito di fumare schiacciò il mozzicone, poi si alzò e avanzò lentamente verso la pista, come se si dirigesse verso un trampolino. Si mise a danzare da sola, senza far coppia con nessuno. L'orchestra stava suonando un tango. Lei lo ballava divinamente, a guardarla c'era da cadere in estasi. Ogni volta che si chinava i suoi lunghi capelli splendenti frustavano la pista come una folata di vento, e le snelle dita bianche sembravano pizzicare corde nell'aria. Danzava trasognata, per se stessa. Mentre la contemplavo, ebbi l'impressione di sognare di nuovo. Nella mia testa si creò un po' di confusione. Se stavo servendomi di un sogno per risolverne un altro, dov'era il vero me stesso? «Balla davvero bene, quella ragazza, - disse il nano, - con lei, vale la pena. Forza, è il momento di muoversi». Mi alzai quasi senza rendermene conto e avanzai verso la pista. Mi feci largo spingendo da parte alcuni uomini, arrivai di fianco a lei, e diedi un colpo di tacchi come per annunciare a tutti che stavo per iniziare. Senza fermarsi la ragazza mi lanciò un'occhiata. Io le feci un bel sorriso. Lei non rispose, e continuò a ballare da sola. Cominciai a danzare lentamente. Poi a poco a poco accelerai, fino a piroettare come un tornado. Il mio corpo ormai non mi apparteneva più. Le braccia, le gambe, il collo, disconnessi dalla mia mente, volteggiavano selvaggiamente sulla pista. Mentre mi abbandonavo a quei movimenti, potevo sentire il moto delle stelle, e il flusso delle maree, e l'infuriare dei venti. Ecco cos'era la danza! Battevo il suolo con i piedi, roteavo le braccia, scuotevo la testa, giravo su me stesso. Ad ogni piroetta nel mio cervello scoppiava una palla di luce. La ragazza mi lanciò un'occhiata. Poi cominciò a volteggiare e battere i piedi all'unisono con me. Capivo che anche dentro di lei esplodeva la luce. Mi sentivo felice. Era la prima volta in vita mia che provavo una sensazione del genere. «Cosa ne pensi, molto meglio che lavorare nella fabbrica degli elefanti, no?» mi disse il nano.
Non risposi. Avevo la bocca secca e anche volendo non avrei potuto parlare. Continuammo a ballare per ore e ore. Io guidavo la danza, la ragazza mi seguiva. Per un tempo che sembrava dover durare in eterno. Alla fine lei si fermò, esausta, e mi prese per il gomito. Mi fermai anch'io o forse dovrei dire che si fermò il nano. In piedi nel bel mezzo della pista, ci guardammo tranquillamente negli occhi. Poi lei si chinò, si tolse le scarpe dai tacchi alti, e tenendole in mano mi guardò di nuovo in viso. Uscimmo dalla sala da ballo e ci avviammo lungo il fiume. Non avendo una macchina, non ci restava che camminare, camminare, camminare... La strada cominciò a salire leggermente, si sentiva nell'aria un profumo di fiori che sbocciavano nella notte. Voltandoci, potevamo vedere in basso la vasta area della fabbrica, con i suoi edifici scuri. La sala da ballo diffondeva tutt'intorno luce gialla e musica, come polline di fiori. Soffiava una brezza leggera, i raggi della luna posavano sui capelli della ragazza un lucore bagnato. Nessuno di noi due parlò. Non avevamo bisogno di parole, dopo aver ballato insieme. Per tutto il tempo lei mi tenne per il gomito, come se mi chiedesse di mostrarle la strada. In cima alla salita si apriva una larga radura, circondata da un bosco di pini. Sembrava un lago tranquillo. L'erba morbida arrivava all'altezza dei fianchi, e ondeggiava alla brezza notturna come se danzasse. Qua e là facevano capolino dei fiori dai petali splendenti, in attesa degli insetti. Tenendole un braccio intorno alle spalle camminai fino al centro della radura, poi sempre in silenzio la feci sdraiare. - Sei proprio un ragazzo taciturno, - disse lei ridendo, lanciò le scarpe da qualche parte e mi mise le braccia intorno al collo. Io posai la bocca sulle sue labbra, poi mi staccai per guardarla di nuovo. Era bella come un sogno. Poterla tenere abbracciata così, non riuscivo a crederci neanch'io! Lei chiuse gli occhi, e parve attendere il mio bacio. Fu allora che l'espressione del suo viso cominciò a mutare. Prima vidi qualcosa di bianco che veniva fuori strisciando da una narice: era un verme, un verme enorme, come non ne avevo mai visti. Ora ne uscivano in continuazione da entrambe le narici, e tutt'a un tratto un odore soffocante di morte si diffuse tutt'intorno. I vermi dalle labbra le cadevano nella gola, alcuni attraverso gli occhi le si infilavano tra i capelli. La pelle del naso le scivolò via, e sotto la carne marcita si liquefece, e restarono solo due buchi neri. Da entrambi gli occhi veniva fuori del pus, che spingeva le palle degli occhi. Queste tremarono due o tre volte in modo innaturale, poi caddero da una parte e dall'altra della faccia. In fondo alle cavità un groviglio di vermi, come una matassa di filo bianco, occupava il suo cervello imputridito. La lingua le pendeva dalle labbra come un'enorme limaccia, finché si staccò. Le gengive si liquefecero, i denti bianchi cascarono uno dopo l'altro, poi la bocca stessa si dissolse. Del sangue le sgorgò all'attaccatura dei capelli, che caddero via a ciocche. Qua e là fecero capolino dei vermi che avevano rosicchiato il molle cuoio capelluto. Eppure la ragazza continuava a stringere con forza le braccia intorno alla mia schiena. Ero incapace di staccarmi dal suo petto, di distogliere la faccia da lei, perfino di chiudere gli occhi. Un grumo dallo stomaco mi sali fino in gola, ma non riuscii a espellerlo. Avevo la sensazione che la pelle mi si fosse rivoltata. Accanto all'orecchio udii la risata del nano. Il viso della ragazza continuava a liquefarsi. La mascella le si staccò, come se i muscoli avessero subito qualche torsione, e cadde spalancata, un ammasso di carne marcia, di pus e di vermi si sparpagliò dappertutto. Io mi riempii i polmoni d'aria per urlare, urlare perché qualcuno, chiunque fosse, mi tirasse fuori da quell'inferno. Alla fine però non lo feci. Un'intuizione improvvisa mi disse che tutto ciò non stava accadendo realmente. Era un trucco, un volgare trucco ad opera del nano. Voleva farmi parlare. Se io avessi emesso un solo suono, il mio corpo sarebbe stato suo per sempre. Era questo che lui desiderava. Presa la mia decisione, chiusi gli occhi. Questa volta riuscii a stringerli con forza, nulla me lo impedì. Sentii il vento frusciare attraverso l'erba, le dita della ragazza affondare nella mia schiena. L'abbracciai di
slancio, la strinsi a me, e posai la mie labbra su quella massa di carne putrefatta, nel punto dove una volta doveva esserci la bocca. Pezzi di carne umida, vermi formicolanti toccarono il mio viso, un odore insopportabile di morte mi riempi le narici. Ma durò solo un istante. Quando riaprii gli occhi, stavo baciando la splendida ragazza di prima. La luce morbida della luna illuminava le sue guance rosee. Mi resi conto che avevo sconfitto il nano. Avevo superato ogni ostacolo, senza emettere un suono. «Hai vinto tu, - disse il nano con voce stanca. - La ragazza è tua. Io me ne vado». E uscì dal mio corpo. - Non finisce qui, però, - aggiunse. - Puoi vincere finché vuoi, ma basta che tu perda una volta, una sola volta, e perderai tutto. E prima o poi stai tranquillo che accadrà. Allora sì che sarà finita. Ascoltami bene, io ti aspetterò, aspetterò quel momento. - Perché hai scelto proprio me? - gridai allora contro di lui. - Perché non te la prendi con qualcun altro? Il nano non rispose, rise soltanto. La sua risata per un po' risuonò nell'aria, poi si perse nel vento. In conclusione, aveva ragione lui. La polizia del Paese intero mi sta dando la caccia. Qualcuno che mi aveva visto danzare alla sala da ballo - forse quel vecchio - andò a dire alle autorità che il nano era tornato a ballare servendosi del mio corpo. La polizia cominciò a controllarmi, e sottopose la gente che mi conosceva a minuziosi interrogatori. Il mio collega raccontò che una volta gli avevo parlato del nano ballerino. Fu spiccato un mandato d'arresto contro di me. Le forze di polizia circondarono la fabbrica. La bellissima ragazza del settore otto venne di nascosto ad avvertirmi, al posto dove lavoravo. Io scappai di corsa, mi rifugiai nel recinto dov'erano tenuti gli elefanti già finiti, saltai in groppa a uno di essi e con lui corsi nel bosco. Nella mia fuga schiacciai parecchi poliziotti. Da allora è passato quasi un mese, e io continuo a fuggire, di bosco in bosco, di monte in monte. Per tenermi in vita mangio le bacche degli alberi, gli insetti, bevo l'acqua del fiume. Ma i poliziotti sono troppi, prima o poi mi cattureranno. E quando mi avranno catturato, in nome della rivoluzione mi legheranno all'argano e mi squarteranno. Così si dice. Il nano mi appare in sogno ogni notte, e mi chiede di lasciarlo entrare nel mio corpo. «Perlomeno ti salverai, non verrai arrestato dalla polizia e non verrai squartato». «In compenso dovrò danzare in eterno nei boschi?» «Esatto. O l'una o l'altra cosa, sei tu che devi decidere», risponde il nano, e si mette a ridacchiare. Io però non riesco a scegliere. Sento abbaiare i cani. Tanti cani. Ormai sono qui.
Il messaggio del canguro
Allora, come sta? Questa mattina sono andato a trovare il canguro nello zoo qui vicino. Non è uno zoo famoso, ma gli animali ci sono tutti, dal gorilla all'elefante. Però se lei è una patita dei lama o dei formichieri è inutile che ci vada, non ci sono né gli uni né gli altri. Neanche gli impala o le iene. Neanche i leopardi. In compenso ci sono quattro canguri. Uno è ancora piccolo, è nato due mesi fa. Gli altri sono un maschio e due femmine. Che razza di famiglia formino, non riesco a immaginarlo. Ogni volta che li guardo mi chiedo cosa si provi ad essere un canguro, mi sembrano così strani... Insomma a che scopo se ne vanno in giro saltellando in un posto balordo come l'Australia? E perché si fanno ammazzare da quelle specie di bastoni mal riusciti che sono i boomerang? Proprio non lo capisco. Bah, comunque non importa. Non è un problema grave. Il fatto è che mentre guardavo i canguri mi è venuta voglia di scriverle. Può darsi che la cosa le sembri strana, si chiederà perché mai i canguri suscitino in me il desiderio di scrivere a lei, che relazione ci possa essere tra lei e loro. Non si crei di queste preoccupazioni, per favore. E un fatto senza nessuna importanza. I canguri sono canguri, lei è lei. Insomma le cose stanno così. Sono arrivato fino a lei percorrendo a una a una, nell'ordine giusto, le trentasei piccole tappe che la separano dai canguri. È tutto qui. Non serve che le spieghi in cosa consista ognuna di quelle tappe, probabilmente non capirebbe, e soprattutto non me le ricordo bene neanch'io. Lo credo, sono trentasei! Se ne avessi anticipata o posticipata anche solo una, non le avrei scritto questa lettera. Magari sarei finito nell'Oceano Antartico, a cavallo di una balena. Oppure avrei dato fuoco alla tabaccheria del quartiere. Invece seguire nell'ordine quell'insieme di trentasei casualità mi ha portato alla stesura di questa lettera. Che cosa misteriosa. Okay, cominciamo con le presentazioni. Ho ventisei anni e lavoro nella sezione controllo-merci di un grande magazzino. Come lei si può ben immaginare, è un lavoro paurosamente monotono. Prima di tutto devo assicurarmi che la merce che la sezione-acquisti ha deciso di comprare non abbia difetti. Lo scopo è di evitare problemi con i fornitori, ma a dir la verità non è un'operazione tanto seria, basta tirare le stringhe di qualche scarpa, assaggiare qualche biscotto, niente di più impegnativo. Intanto si chiacchiera con i colleghi. In questo consiste il controllo della merce. In più - e questa sarebbe la parte più importante del nostro lavoro - dobbiamo rispondere ai reclami dei clienti riguardo alla merce. C'è chi si lamenta che due paia di collant appena comprati si sono smagliati subito uno dopo l'altro, per esempio, o che un orsacchiotto meccanico ha smesso di funzionare solo perché è caduto dal tavolo, che un accappatoio si è ristretto della metà in lavatrice, questo tipo di lagnanze insomma.
Forse lei non lo sa, ma di reclami così ne riceviamo fino alla nausea. Al punto che non riusciamo a rispondere a tutti, benché siamo in quattro a occuparcene per tutta la giornata. Alcuni sono seri, altri completamente irragionevoli. E spesso ci sono casi difficili da risolvere, sia tra gli uni che tra gli altri. Li abbiamo divisi in tre categorie. Nel mezzo della stanza ci sono tre grandi scatole, A, B e C, nelle quali gettiamo le lettere. Chiamiamo questo lavoro «valutazione trivalente del grado di ragionevolezza», ma naturalmente è uno scherzo fra colleghi. Non ci faccia caso. Ad ogni modo le categorie si dividono come segue: a) Reclami giustificati. Tutti casi di cui dobbiamo assumerci la responsabilità: andiamo a trovare i clienti con una scatola di dolci e cambiamo la merce. b) Casi di cui moralmente, legalmente, dal punto di vista delle usanze commerciali, non abbiamo alcuna responsabilità: adottiamo misure adeguate per non danneggiare l'immagine della ditta, e per evitare inutili complicazioni. c) Casi in cui la responsabilità è chiaramente del cliente: forniamo spiegazioni e chiediamo il ritiro del reclamo. Ora, riguardo al reclamo pervenutoci da parte sua l'altro giorno, dopo seria valutazione abbiamo deciso che meritava di venire classificato nella categoria C. La ragione... E pronta? Mi ascolti bene per favore: 1) Una volta che un disco è stato acquistato, 2) ed è stato usato per una settimana, 3) e in più manca lo scontrino, non è possibile cambiarlo. Non c'è un posto al mondo dove glielo cambierebbero, può andare dove vuole. Capisce cosa le sto dicendo? E con questo la mia spiegazione è terminata. Il suo reclamo è stato respinto. Tuttavia se ci stacchiamo dal punto di vista professionale -a dir la verità me ne stacco molto spesso - personalmente riguardo al suo reclamo - che si è sbagliata e ha comprato Mahler al posto di Brahms - ha la mia piena simpatia, dal profondo del cuore. No, veramente. Perciò le voglio mandare questo messaggio in un certo senso confidenziale, e non la solita lettera d'ufficio. Ad essere sincero, nell'ultima settimana ho cercato di scriverle parecchie volte. Una roba tipo: «sono spiacente, non è una pratica commerciale corrente cambiare i dischi, ma qualcosa nella sua lettera mi ha turbato, ecc.. ecc..» Però non riuscivo a spiegarmi bene. Di solito non ho difficoltà a scrivere, ma con lei, ogni volta che incominciavo poi non trovavo le parole. Quelle che mi venivano in mente erano del tutto fuori luogo. Davvero strano. Così avevo deciso di non risponderle. Meglio non rispondere affatto che mandare una lettera approssimativa, non pensa? Io ne sono convinto. Un messaggio imperfetto è come un orario tutto sbagliato. Invece stamattina, davanti alla gabbia dei canguri, grazie a quell'insieme di trentasei casualità, ho avuto una rivelazione. Cioè quella dell'imperfezione globale. Probabilmente lei si chiederà cosa sia, quest'imperfezione globale - è ovvio che se lo chiederà. Be', l'imperfezione globale, per dirla in parole povere, si ottiene quando ognuno perdona qualcun altro. Io perdono i canguri, i canguri perdonano lei, lei perdona me... questo tipo di catena insomma. Già. Questo ciclo tuttavia non è perpetuo, ovviamente. Può darsi che a un certo punto i canguri non abbiano più voglia di perdonarla. Per favore non si arrabbi con loro, però, non è colpa né loro né sua. E neanche mia. I canguri vivono in circostanze complicate. Chi mai potrebbe prendersela con quelle povere bestie? Tutto ciò che possiamo fare è cogliere l'istante. Cogliere l'istante e fissarlo in una foto-ricordo. Tutti in fila, da sinistra a destra, lei, i canguri, e io.
Mi sono stufato di scrivere, per quanto mi sforzi non riesco a spiegarmi bene. Per esempio scrivo la parola caso. Ma ciò che lei intende leggendo questa parola può essere del tutto diverso da quello che intendo io - forse addirittura il contrario. A me sembra una cosa del tutto iniqua. Inoltre io sono in mutande, mentre lei ha solo slacciato tre bottoni della sua camicetta, e già questa è una condizione iniqua. Così ho deciso di comprare una cassetta e registrarvi direttamente la mia lettera per lei. (qualcuno fischia otto battute della Marcia del Colonnello Bogey) Allora? Mi sente?
Chissà che effetto le farà ricevere questo nastro. Non riesco proprio a immaginarlo. Magari sarà seccatissima. Perché è del tutto inusuale che un impiegato della sezione controllo-merci di un grande magazzino risponda al reclamo di una cliente mandandole la registrazione di un messaggio - e per di più un messaggio personale! Molti la giudicherebbero una cosa veramente idiota. Inoltre se lei la prendesse male e decidesse di rispedire questa cassetta a un mio superiore, probabilmente mi metterebbe in una posizione molto delicata, all'interno della ditta. Comunque la spedisca pure, se vuole. Non credo che mi arrabbierei per questo, né che la odierei. Mi permette? La nostra posizione è al cento per cento paritaria: io ho il diritto di mandarle una lettera, lei ha il diritto di minacciare la mia sussistenza. Non è d'accordo? Siamo in posizione paritaria. Cerchi di non dimenticarlo, per favore. Ah, scordavo di dirle una cosa. Questa lettera l'ho intitolata Il messaggio del canguro. Tutto infatti ha bisogno di un nome. Supponiamo per esempio che lei tenga un diario. Al posto di scrivere una frase interminabile tipo «oggi è arrivata la risposta dell'impiegato della sezione controllo-merci dei grandi magazzini», basterebbe che scrivesse «arrivato il messaggio del canguro». Non pensa che sia un titolo magnifico? Non le dà l'impressione che da quelle immense praterie laggiù, un canguro stia arrivando a grandi balzi, col marsupio pieno di lettere? Tung, tung, tung (rumore di qualcuno che picchia sul tavolo). Adesso si sente bussare: Toc, toc, toc... ha capito, vero? Se non vuole aprire la porta, non ha bisogno di farlo. Davvero, non ha importanza. Se a questo punto si è stufata di ascoltare, può anche spegnere il registratore e buttare la cassetta nel cestino della carta straccia. Vorrei semplicemente sedermi davanti all'ingresso di casa sua e restare un momento a parlare da solo, tutto qui. Non ho modo di sapere se lei mi stia ascoltando o meno, e se non lo posso sapere, che lei mi ascolti o no praticamente non è la stessa cosa? Ah, ah, ah. Okay, proviamo, forza! Però che fatica, anche l'imperfezione! Non avrei mai pensato che parlare in un microfono senza copione e senza una traccia fosse così difficile. È come stare in mezzo al deserto e spruzzare acqua in giro con un bicchiere. Senza vedere reazioni, senza che nessuno risponda. Per questo adesso sto parlando rivolto all'indicatore VU. Sa cos'è, l'indicatore VU? È quell'ago che oscilla in funzione dell'intensità del volume. Che cosa significhino la V e la U non lo so neanch'io, ma in ogni caso sono i soli elementi che manifestino una reazione al mio discorso.
Proprio così. Tra parentesi, i loro criteri sono davvero molto semplici. Cioè i criteri di V e di U. Sono come una coppia di comici, insomma. Dove c'è V c'è U, dove c'è U c'è V, un piccolo prodigio. Io posso dire quello che voglio, loro se ne fregano. La sola cosa che a loro importi è la quantità d'aria che la mia voce smuove, nient'altro. Per loro, l'aria si muove dunque io esisto. Fantastico, non trova? Guardandoli, mi viene voglia di continuare a parlare, di qualsiasi cosa, purché sia. Mica male! A proposito, l'altro giorno sono andato a vedere un film tristissimo. Una commedia in cui facevano una battuta dopo l'altra, ma nessuno rideva. Rendo l'idea? Per tutto il tempo non si è sentita una sola risata. Mentre parlo dentro al microfono, mi vengono in mente una dopo l'altra le scene del film. Strano, vero? Le stesse frasi, quando le dice una persona fanno morire dal ridere, e quando le dice un altro non hanno niente di comico. Davvero sorprendente. E poi ho pensato una cosa, la differenza tra una persona e l'altra, credo proprio che sia qualcosa di congenito. Insomma, è come per i canali semicircolari delle orecchie, che possono essere più o meno curvi. A volte mi dico che sarei l'uomo più felice del mondo, se avessi del talento comico. Invece quando mi viene in mente qualcosa di buffo, io me la faccio sotto dalle risate, ma quando cerco di raccontarlo nessuno ci trova niente da ridere. Mi fa sentire come l'uomo di sabbia egiziano. E poi, tanto per cominciare. A proposito, sa chi era l'uomo di sabbia egiziano? Allora, l'uomo di sabbia egiziano era un principe di stirpe reale. Tanto tempo fa, all'epoca delle piramidi e della Sfinge e tutta quella roba lì. Siccome però era bruttissimo - era veramente orrendo, cioè - il re l'aveva ripudiato e fatto gettare nel cuore della giungla. Poi, se vuole sapere come va finire, venne allevato dalle scimmie, o dai lupi, e se la cavò. Succede spesso nelle storie, no? E per qualche ragione divenne l'uomo di sabbia. Il quale qualunque cosa toccava la trasformava in sabbia. Sì, il vento diventava sabbia, il bambù diventava sabbia, le praterie diventavano sabbia. È questa la storia dell'uomo di sabbia. La conosceva? No, vero? Infatti me la sono inventata io. Ah, ah, ah. Ad ogni modo, facendole tutti questi discorsi ho l'impressione di essere diventato io stesso l'uomo di sabbia egiziano. Tutto quello che tocco diventa sabbia, sabbia, sabbia, sabbia... ... sto parlando troppo di me. Però a pensarci bene è inevitabile, di lei non so assolutamente nulla. Tranne il nome e l'indirizzo. Non so quanti anni ha, qual è il suo reddito annuale, che forma ha il suo naso, se è grassa o magra, se è sposata o no, niente. Questo però non è un problema. Anzi forse è meglio così, è più facile intendersi. Possibilmente vorrei tenere le cose su un piano essenziale, molto essenziale, addirittura metafisico. In ogni caso, qui c'è una lettera per lei. Per me questo è più che sufficiente. Gli zoologi possono risalire alle abitudini alimentari, agli spostamenti, al peso e alla vita sessuale degli elefanti dagli escrementi che raccolgono nella giungla. Allo stesso modo io da una sua sola lettera posso sentire la sua esistenza. Non i dettagli, naturalmente, non le caratteristiche fisiche, il profumo che usa e così via. L'esistenza in sé, insomma . Devo dire che la sua lettera è davvero affascinante. Le frasi, la calligrafia, la punteggiatura, la disposizione delle righe, la retorica, tutto è perfetto. Non è sublime, ma perfetta sì. Ogni giorno devo leggere qualcosa come cinquecento lettere, ma onestamente nessuna mi ha mai dato tanta emozione come la sua. Me la sono portata di nascosto a casa, e l'ho letta e riletta non so quante volte. Poi ne ho fatto un'analisi profonda. Non è stata una gran fatica, la lettera è piuttosto corta. Mentre l'analizzavo ho capito tante cose. Prima di tutto che la punteggiatura è eccessiva. Una media
di 6,36 punti per ogni periodo sono troppi. Ma non è tutto, anche il modo di distribuirli è irregolare. Non creda che stia mettendo in ridicolo la sua scrittura, per favore. Anzi, l'ho trovata emozionante. Emozionante, capisce? Ma non si tratta solo della punteggiatura. Ogni parte della sua lettera perfino ogni macchia d'inchiostro - mi ha turbato, scosso. Perché? Perché in quelle frasi lei non c'è. Naturalmente c'è una storia. Una ragazza oppure una donna compra il disco sbagliato. Crede che in quell'album ci siano certi brani, ma una settimana dopo si accorge che tutto il disco non è quello giusto. La commessa non vuole cambiarglielo. A quel punto scrive per reclamare. Questa è la storia. Ho dovuto leggere la sua lettera tre volte prima di capirla. Perché era del tutto diversa dagli altri reclami che ci arrivano. Per parlar chiaro, non conteneva nessuna lamentela. E nessuna emozione. Solo la storia. Onestamente, la cosa mi ha un po' angosciato. Non capivo se lo scopo della sua lettera fosse reclamare, confessarsi, fare una dichiarazione, o imbastire una sorta di tesi. Mi faceva venire in mente una fotografia presa da un cronista sul luogo di un massacro. Senza commento, senza articolo che l'accompagni, solo una foto. Cadaveri riversi sul bordo di una strada di un paese sconosciuto. Non capisco a cosa miri. È aggrovigliata come un formicaio costruito in fretta e furia, ma trovare il bandolo della matassa è impossibile, nulla suggerisce dove si trovi. È veramente qualcosa di straordinario. Bang, bang, bang, bang... è il massacro. Già, cerchiamo di semplificare le cose. Di ridurle all'essenziale. Insomma, la sua lettera mi ha eccitato sessualmente. Ecco di cosa si tratta. Adesso vorrei parlare un poco di sesso.
Toc, toc, toc. Sto bussando. Se non le interessa spenga il registratore, per favore. Parlerò da solo rivolto all'indicatore VU. Bla, bla, bla... Okay?
Le zampe anteriori sono corte e hanno cinque dita, quelle posteriori, incredibilmente robuste e lunghe, ne hanno quattro, uno dei quali grosso e forte mentre il secondo e il terzo sono sottili e fusi insieme. È la descrizione di un canguro. Ah, ah, ah. Allora, a proposito di sesso. Da quando mi sono portato a casa la sua lettera, non ho pensato ad altro che a fare l'amore con lei. Quando la sera vado a letto lei è di fianco a me, e quando il mattino mi sveglio lei è sempre lì. Si è alzata prima di me e si sta vestendo, sento il rumore della cerniera che sta tirando su. Io però tengo gli occhi chiusi e faccio finta di dormire - sa, non c'è niente che si rompa più facilmente della cerniera di un vestito. Non riesco a guardarla. Poi lei attraversa la stanza e sparisce nel bagno. Allora finalmente apro gli occhi. Faccio colazione, e vado a lavorare.
La notte è molto buia - per farla ancora più buia ho messo degli schermi speciali alle finestre - e quindi non riesco a vederla in faccia. Non so nulla di lei, neanche l'età o la corporatura. Per questo non posso nemmeno toccarla. Comunque non fa niente. Per dire la verità, non mi importa più molto di fare o meno l'amore con lei. anzi no, non è vero. Mi lasci pensare un momentino, per favore.
Okay, le cose stanno così. Voglio andare a letto con lei. Però se non lo faccio è uguale. Insomma nella misura del possibile desidero stare in una posizione equa nei suoi confronti. Non voglio spingere nessuno a fare niente, né essere spinto. Mi basta sentire la sua presenza vicino a me, la sua punteggiatura volteggiare intorno a me. Rendo l'idea? Insomma il fatto è questo. Ogni tanto per me è molto difficile pensare all'individualità - quella dell'individuo. Quando ci provo, immediatamente ho l'impressione che il mio corpo debba disgregarsi. ... per esempio sono sul treno. Nel vagone ci sono decine di persone. Di solito per me sono semplicemente dei «passeggeri». Passeggeri che vengono trasportati da Aoyama-i -chôme ad AkasakaMitsuke. A volte però capita che l'esistenza di ognuno di loro mi incuriosisca. Chi saranno mai, questo qui, quello lì? Perché sono saliti sulla linea di Ginza? Allora non ho più scampo, una volta che incomincio a farmi queste domande non la smetto più. Quel tizio che sembra un impiegato sta perdendo i capelli, quella ragazza ha le gambe troppo pelose, dovrebbe depilarsele almeno una volta alla settimana, la cravatta del giovanotto seduto di fronte a me è un pugno in un occhio... considerazioni di questo tipo. Finché mi metto a tremare e mi viene voglia di saltare immediatamente giù dal treno. L'altro giorno - sono sicuro che le verrà da ridere - stavo quasi per schiacciare il pulsante d'emergenza di fianco alla porta. Queste mie confidenze però non devono farle pensare che io sia una persona troppo sensibile o troppo nervosa. Non sono né l'una né l'altra cosa. Sono del tutto normale, un impiegato come se ne trovano da tutte le parti, che lavora nella sezione controllo-merci di un supermercato. Mi piace persino prendere la metropolitana. Non ho problemi sessuali. Ho per così dire una fidanzata, da circa un anno vado a letto con lei un paio di volte alla settimana, e ci riteniamo entrambi soddisfatti. Semplicemente mi sforzo di non prendere la cosa troppo sul serio. Non ho nessuna intenzione di convolare. Se poi mi dovessi sposare con quella ragazza, incomincerei a pensare a lei seriamente, ma non sono affatto sicuro che a quel punto la cosa funzionerebbe. E naturale no? Quando uno si preoccupa se i denti della ragazza con cui vive sono regolari, o se ha delle belle unghie, nulla di strano che vada tutto a rotoli. Mi lasci parlare ancora un poco di me. Questa volta non busso. Visto che è stata ad ascoltarmi per tutto questo tempo, vada fino in fondo, per favore. Aspetti un momento. Mi accendo una sigaretta. (Click, click, click) ... finora non le ho mica parlato di me, sa? Infatti non ho nulla da raccontare. E anche se l'avessi, credo che a nessuno gliene fregherebbe niente. Allora perché sto parlando con lei? Perché come le ho già detto, in questo momento sto mirando all'imperfezione globale. E cosa ha fatto nascere l'idea dell’imperfezione globale) La sua lettera e quattro canguri. I canguri?
Sì, sono animali affascinantissimi, posso restare a guardarli per ore senza stufarmi. Mi chiedo sempre a cosa stiano pensando. Saltellano tutto il giorno per la gabbia senza uno scopo, e ogni tanto scavano una buca per terra. E poi sa cosa fanno? Niente. Hanno solo scavato una buca. Ah, ah, ah. I canguri mettono al mondo un piccolo alla volta. Per questo quando ne nasce uno, la femmina resta di nuovo incinta. Altrimenti il numero globale dei canguri diminuirebbe. Insomma la femmina canguro passa quasi tutta la sua vita incinta o ad allevare i piccoli. Se non è incinta alleva i piccoli, se non alleva i piccoli è incinta. Infatti si può dire che esista solo per assicurare la continuazione della specie. Senza canguri la specie non continuerebbe, e se non ci fosse l'obiettivo della continuazione della specie, non ci sarebbero i canguri stessi. Assurdo, vero? Ma sto andando troppo avanti, mi scusi. Parliamo un po' di me. A dir la verità, sono estremamente scontento di essere quel che sono. Non tanto riguardo al mio aspetto, o alle mie capacità, o alla mia posizione sociale. Semplicemente riguardo al fatto di essere quello che sono. Sento che non è affatto equo. Non deve pensare però che io sia una persona insoddisfatta. Non mi sono mai lamentato del mio lavoro o del mio stipendio. È vero che non ho un posto interessante, ma quale lavoro lo è? Ben pochi. I soldi non costituiscono un grosso problema. Parliamoci chiaro. Vorrei avere il dono dell'ubiquità, questo è il mio desiderio. Non ho nessun'altra aspirazione. Però il fatto di essere me stesso, la mia natura di individuo, mi è d'ostacolo. Ecco la triste realtà. Credo infatti che il mio sia un desiderio piuttosto modesto. Non voglio diventare il padrone del mondo o un artista di genio. Non voglio nemmeno volare. Soltanto essere in due posti contemporaneamente. Badi bene, non tre, non quattro, solo due. Vorrei stare in una sala da concerto ad ascoltare un'orchestra, e al tempo stesso andare sui pattini a rotelle. Essere un impiegato nella sezione controllo-merci dei grandi magazzini, e un hamburger da un quarto di libbra da McDonald's. Vorrei andare a letto con la mia ragazza, e contemporaneamente con lei. Vorrei essere un individuo e un principio generale insieme. Mi lasci fumare un'altra sigaretta. Uff! Mi sento un po' stanco. Non sono abituato a tutto questo - a parlare onestamente di me stesso cioè. Vorrei mettere in chiaro soltanto una cosa, non è che io provi desiderio sessuale nei confronti della donna che lei è. Come le ho già spiegato, è il fatto di essere soltanto me stesso che mi irrita. E terribilmente sgradevole essere soltanto un individuo. Non posso sopportare i numeri dispari. Quindi non desidero venire a letto con lei in quanto individuo. Sarebbe fantastico se lei potesse dividersi in due, e io potessi dividermi in due, e tutti e quattro potessimo stare insieme in un letto! Non pensa? Non mi risponda, per favore. Se proprio vuole scrivermi una lettera, la mandi al mio ufficio sotto forma di reclamo. E se non ha reclami da fare, si faccia venire un'idea. È tutto. Ho riavvolto il nastro e ho provato a riascoltare quanto registrato finora. Onestamente, ne sono molto scontento. Mi sento come il responsabile di un acquario che per sbaglio abbia lasciato morire le foche. Ho esitato a lungo se mandarle la cassetta o no. Anche adesso che ho deciso di farlo, sono angosciato
Ad ogni modo, aspiro all'imperfezione. Di conseguenza atteniamoci allegramente ad essa. Siete stati lei e i quattro canguri a provocarla. Arrivederci
Vedendo una ragazza perfetta al 100% n una bella mattina di aprile
In una bella mattina di aprile, in una via laterale del quartiere di Harajuku, sono passato accanto a una ragazza perfetta, al 100%. Non era una gran bellezza. E nemmeno di un'eleganza strepitosa. I capelli dietro la testa le avevano preso una brutta piega dormendo, e doveva essere vicino alla trentina. Eppure già a cinquanta metri di distanza avevo capito che era la ragazza perfetta per me. Dal momento in cui la vidi il cuore prese a battermi all'impazzata e l'interno della bocca mi divenne secco come la sabbia del deserto. Forse anche a voi piace un tipo particolare di ragazza. Quelle che hanno le caviglie sottili, per esempio, o dei grandi occhi, o delle belle mani... non so, magari vi attirano quelle che amano mangiare con calma, lentamente, o qualche altra caratteristica del genere. Ovviamente ho anch'io il mio tipo. Mi è già successo di andare al ristorante e restare affascinato dal naso della ragazza che sedeva alla tavola accanto. Nessuno però può dire come dev'essere quella perfetta al 100%. Prendiamo la ragazza di quel mattino, non ricordo neppure che forma avesse, il suo naso. Anzi, non ricordo neppure se avesse un naso. Tutto quello che ricordo è che non era una gran bellezza. Molto strano, vero? - Ieri sono passato accanto alla ragazza perfetta al 100%, dico a uno. - Ah si? - mi risponde lui. - Era molto bella? - No, non direi. - Allora era proprio il tuo tipo? - Non mi ricordo. Ho dimenticato tutto, che forma avessero i suoi occhi, se avesse molto seno o no... - Strano. - In effetti. - Allora cos'hai fatto? - continua lui con aria annoiata. - Le hai parlato, l'hai seguita? - Non ho fatto nulla, - rispondo io. - Le sono semplicemente passato accanto. Lei camminava da est a ovest, io da ovest a est. In una mattina di aprile veramente piacevole. Avrei voluto parlarle, anche soltanto per una mezz'oretta. Chiederle di lei, raccontarle di me. E soprattutto spiegarle le complicate combinazioni del destino che avevano fatto sì che noi due passassimo uno accanto all'altra in una strada laterale di Harajuku in una bella mattina di aprile del 1981. Di sicuro tutto ciò era denso di caldi segreti, come un antico meccanismo costruito in tempi di pace. Dopo aver parlato di queste belle cose, avremmo potuto pranzare insieme, andare a vedere un film di Woody Allen, fermarci al bar di qualche albergo a bere qualcosa. E con un po' di fortuna, magari finire insieme in un letto. Una tale possibilità bussava alla porta del mio cuore. La distanza tra lei e me si era ridotta a quindici metri. «Bene, adesso le rivolgo la parola, - ho pensato. - Ma cosa le dico?» «Buongiorno. Posso parlarle un momento, per favore? Mi bastano trenta secondi». Assurdo. Mi avrebbe preso per un rappresentante di una compagnia di assicurazioni. «Mi scusi, sa se c'è una tintoria aperta ventiquattr'ore su ventiquattro, da queste parti?»
Ancora peggio. Tanto per cominciare, non avevo neanche la borsa con la roba sporca! Che fosse meglio dirle subito tutta la verità? «Buongiorno. Lei per me è la ragazza perfetta al 100%». Non mi avrebbe mai creduto. E anche supponendo il contrario, era probabile che non avesse nessuna voglia di parlare con me. «Io per lei sarò pure la ragazza perfetta, ma lei per me non è affatto l'uomo perfetto», mi avrebbe risposto. In tal caso, mi sarei sentito perduto, ne sono certo. Ormai ho trentadue anni, tutto sommato invecchiare significa proprio questo. Le sono passato di fianco davanti a un negozio di fiori. Un lieve spostamento d'aria tiepida mi ha accarezzato la pelle. Il marciapiede d'asfalto era bagnato d'acqua, ho sentito un profumo di rose. Non le ho rivolto la parola, non ce l'ho fatta. Lei indossava una maglia bianca, e nella mano destra teneva una busta bianca alla quale mancava il francobollo. Una lettera per qualcuno. A giudicare dagli occhi terribilmente assonnati, poteva darsi che avesse passato la notte a scriverla. Poteva darsi che quella busta contenesse tutti i suoi segreti. Ho fatto pochi passi e quando mi sono voltato la sua figura era già scomparsa tra la folla.
Naturalmente adesso so benissimo in che modo avrei dovuto abbordarla, quella volta. Ma comunque sarebbe stato un discorso troppo lungo, non avrebbe funzionato. Le idee che mi vengono in mente non sono mai molto pratiche. Ad ogni modo quel discorso cominciava con «c'era una volta...» e finiva con «non pensa che sia una storia molto triste?»
C'erano una volta in un posto lontano un ragazzo e una ragazza. Il ragazzo aveva diciotto anni, la ragazza sedici. Né l'uno né l'altra potevano dirsi molto belli, erano soltanto due ragazzi normali e solitari come ce ne sono ovunque. Però erano fermamente convinti che da qualche parte al mondo esistessero la ragazza e il ragazzo perfetti per loro, al 100%. Un giorno camminando per la strada si trovarono faccia a faccia. - Che sorpresa, ti ho cercata dappertutto, - disse il ragazzo alla ragazza. - Forse non mi crederai, ma tu per me sei la ragazza perfetta al 100%. - Anche tu per me sei il ragazzo perfetto al 100%, - disse la ragazza. - Sei esattamente come ti immaginavo, in tutto e per tutto, mi sembra di sognare. I due sedettero su una panchina nel parco, e parlarono, parlarono, senza stufarsi mai. Non si sentivano più soli. Trovare il compagno, la compagna perfetta, ed essere a propria volta trovati da lui, da lei, che cosa meravigliosa! Nel cuore però nutrivano un piccolo, piccolissimo dubbio. Era giusto che un sogno si realizzasse così facilmente? - Senti, facciamo un'altra prova, - disse allora il ragazzo in una pausa della conversazione. - Se siamo veramente perfetti al 100% l'uno per l'altra, di sicuro un giorno ci incontreremo di nuovo da qualche parte. E quando ci rincontreremo, se ci troveremo ancora perfetti al 100%, ci sposeremo subito, lì sul posto. Sei d'accordo? - Sì, sono d'accordo, - rispose la ragazza. Così i due si separarono. Invece non c'era nessun bisogno di fare un'altra prova. Erano assolutamente perfetti l'uno per l'altra, al 100%. Ma le onde inevitabili del destino si presero gioco di loro. Un inverno, entrambi si buscarono una brutta influenza che imperversava quell'anno, e dopo essere
rimasti per molte settimane tra la vita e la morte, al risveglio avevano dimenticato completamente il proprio passato. Le loro teste erano vuote come il salvadanaio del giovane D. H. Lawrence. Siccome però erano due ragazzi intelligenti e perseveranti, a costo di molti sforzi acquisirono una nuova coscienza e nuove capacità emotive, e tornarono a fare magnificamente parte della società. Furono di nuovo in grado di prendere la metropolitana, di cambiare linea, di andare alla posta per spedire una raccomandata. E sperimentarono di nuovo l'amore, al 75 o all'85%. Intanto il ragazzo aveva compiuto trentadue anni, la ragazza trenta. Il tempo era passato a una velocità strabiliante. Poi, in una bella mattina di aprile, lui stava camminando in una via laterale di Harajuku, da ovest a est, per fare colazione al bar, mentre lei percorreva la stessa strada da est a ovest per spedire una raccomandata. Si incrociarono a metà strada. Per un attimo un barlume dei vecchi ricordi illuminò i loro cuori. «È la ragazza perfetta per me, al 100%», si disse lui. «È il ragazzo perfetto per me, al 100% », si disse lei. La luce dei loro ricordi però era troppo debole, le loro parole non erano chiare come quattordici anni prima. Si passarono accanto senza parlarsi, e scomparvero tra la folla in direzioni opposte. Non pensa che sia una storia molto triste?
È così che avrei dovuto parlarle.
Le piace Burt Bacharach?
12 marzo
Buongiorno. Il freddo diminuisce ogni giorno che passa, e ultimamente nei raggi del sole si percepisce già un lieve sentore di primavera. Lei come sta? Ho letto con delizia la sua lettera dell'altro giorno, soprattutto il passaggio in cui parla della relazione tra un hamburger e la noce moscata. Era pieno di vita e molto ben scritto. Potevo sentire il buon odore della cucina e il rumore sordo del coltello che tagliava le cipolle, come se fossi stato lì. Leggendo la sua lettera mi è venuta una voglia irresistibile di mangiare un hamburger, e la sera stessa al ristorante ne ho ordinato uno. Ce n'erano di otto tipi, alla texana, alla californiana, alla hawaiana, alla giapponese, e altri ancora. L'hamburger alla texana era soltanto molto grande. In quello all'hawaiana c'erano delle fette di ananas. Il californiano... be', ho dimenticato. Quello alla giapponese veniva servito con della rapa grattugiata. Il locale era di un gusto piuttosto ricercato e le cameriere, tutte carine, portavano uniformi molto corte. Comunque io non ero entrato li per studiare l'arredamento o sbirciare sotto le gonne delle cameriere, volevo solo mangiare un hamburger, un semplicissimo hamburger alla niente di niente. Questo ho spiegato alla ragazza che è venuta a servirmi. Mi ha risposto che era desolata, ma li avevano soltanto degli hamburger «alla qualche cosa». Naturalmente non potevo prendermela con lei. Non era lei a fissare il menu, e non era neanche per suo piacere che indossava un'uniforme tanto corta da lasciar vedere le mutandine ogni volta che portava via un piatto. Così le ho fatto un sorriso, e ho ordinato un hamburger all'hawaiana. Lei mi ha suggerito di togliere l'ananas, prima di mangiarlo: chi me lo impediva? Viviamo in un mondo davvero strano! Uno desidera un normalissimo hamburger, ma capita che lo possa avere solo sotto forma di hamburger all'hawaiana senza ananas. A proposito, quello che ha cucinato lei era normalissimo, senza niente, vero? Era di un hamburger così che mi è venuta una voglia tremenda, leggendo la sua lettera. In confronto, il passaggio sui distributori automatici di biglietti delle ferrovie nazionali mi è sembrato un poco approssimativo. Gli aspetti che mette a fuoco sono sicuramente interessanti, ma il lettore non ricava un'impressione abbastanza vivida della scena. Non cerchi di essere acuta a tutti i costi. La scrittura in fin dei conti è un espediente. Nel complesso, direi che il punteggio della sua ultima lettera è un 70. Comunque la sua capacità di scrivere a poco a poco migliora. Perseveri, ma non abbia fretta. Attendo il piacere di leggere la sua prossima lettera. PS Grazie per i biscotti assortiti, erano ottimi. Tuttavia le regole della nostra associazione vietano ogni scambio personale al di fuori delle lettere. La prego quindi di astenersi d'ora in poi dal prendersi tale disturbo. In ogni caso, la ringrazio nuovamente. PPS Spero che abbia trovato una buona soluzione alle «tensioni nervose» tra lei e suo marito, di cui mi ha parlato nelle lettere precedenti.
All'età di ventidue anni, per dodici mesi feci quel lavoro, a tempo parziale. Avevo un contratto con una piccola agenzia dall'assurdo nome di Pen Society, situata a Idabashi, e in
un mese dovevo scrivere almeno una trentina di lettere dello stesso genere, per duemila yen l'una. Lo slogan dell'agenzia era anche tu puoi scrivere una lettera che faccia vibrare il cuore. I membri pagavano una tassa di iscrizione e una quota mensile, per la quale potevano mandare alla Pen Society una lettera alla settimana. Noialtri pen master rispondevamo dando pareri e consigli, come nell'esempio che ho riportato. Agli uomini rispondeva un master femmina, alle donne un master maschio. Delle mie ventiquattro corrispondenti, la più giovane aveva quattordici anni, la più vecchia cinquantatre. La maggior parte però erano donne tra i venticinque e i trentacinque anni, il che significava che io ero quasi sempre più giovane di loro. Per tutto il primo mese infatti mi sentii terribilmente disorientato, per lo più scrivevano molto meglio di me e avevano maggiore dimestichezza con quel genere di corrispondenza. Io fino ad allora non avevo quasi mai scritto una lettera seria. Trascorsi quel periodo con i sudori freddi, ma in qualche modo me la cavai. Passato un mese, nessuno era venuto a lamentarsi della mia scarsa capacità letteraria. Al contrario, la mia reputazione era alle stelle, mi dissero in agenzia. In capo a tre mesi erano addirittura dell'avviso che grazie alla mia «guida» anche le mie corrispondenti stavano facendo notevoli progressi. Stranamente, sembrava che quelle donne nutrissero una sincera fiducia in me come maestro. Allora non lo potevo capire, ma a ripensarci adesso, credo che fossero semplicemente molto sole. A loro bastava poter scrivere a qualcuno, creare un rapporto di reciproca indulgenza, non desideravano altro. Dall'inverno dei ventun anni alla primavera dei ventidue, vissi in quell'harem fatto di lettere, come un'otaria zoppa. Le corrispondenti mi mandavano ogni sorta di lettere. Ce n'erano di noiose, allegre, e tristi. In un anno credo di essere invecchiato di due o tre insieme. Quando per non so quale ragione dovetti lasciare quel lavoro, tutte le donne alle quali avevo fatto da guida lamentarono Il loro dispiacere. E anche a me in un certo senso dispiaceva benché fossi un po' stufo, ad essere sincero, dell'attività in sé.
Riguardo agli hamburger, riuscii a mangiarne uno cucinato dalla donna che me ne aveva descritto la preparazione. Lei aveva trentadue anni, niente figli, un marito con un buon posto in una multinazionale prestigiosa forse la quinta nella graduatoria nazionale. Quando le annunciai, nell'ultima lettera, che con mio rincrescimento alla fine del mese avrei lasciato quel lavoro, lei mi invitò a pranzo. Scrisse che mi avrebbe preparato un «normalissimo» hamburger. Le regole dell'associazione lo vietavano, ma io decisi di accettare ugualmente, senza stare a pensarci troppo. Non c'è nulla che possa fermare la curiosità di un ragazzo di ventidue anni. Il palazzo dove abitava quella signora si trovava lungo la linea ferroviaria Odakyü. Un appartamento adatto a una coppia senza figli, molto in ordine. I mobili, le luci, la maglia che lei indossava non sembravano costosi, ma mi piacevano. Lei aveva l'aria molto più giovane di quanto mi aspettassi, e a sua volta si stupì di apprendere che avevo molti anni meno di quanti avesse immaginato. Pen Society non rivelava l'età dei pen master. Terminato di stupirci l'uno dell'altra, avevamo rotto il ghiaccio. Mangiammo i nostri hamburger e bevemmo del caffè in un'atmosfera insolita: sembravamo passeggeri che avessero perso lo stesso treno. L'appartamento era al terzo piano, e dalla finestra si vedeva la ferrovia. Quel giorno c'era un tempo magnifico, i balconi degli alloggi intorno erano pieni di trapunte e lenzuola. A volte si sentiva il rumore di qualcuno che batteva le coperte col battipanni. Un suono strano, privo del senso della distanza, come se venisse dal fondo di un pozzo.
Gli hamburger erano squisiti. Ben conditi, croccanti in superficie, innaffiati dal sugo della carne. Anche la salsa era perfetta, e quando le feci i complimenti lei ne fu felice. Finito di bere il caffè, parlammo di noi mentre ascoltavamo un disco di Burt Bacharach. Io però non avevo molto da raccontare, così parlò quasi sempre lei. Negli anni da studentessa avrebbe voluto diventare una scrittrice, mi disse. Era un'ammiratrice di Françoise Sagan, sulla quale mi fece un lungo discorso. Le piaceva soprattutto Aimez-vous Brahms? A me la Sagan non dispiaceva, perlomeno non la trovavo noiosa come la giudicavano tutti. - Non ho scritto nulla, però, - concluse. - È ancora più che in tempo, - risposi. - È lei che mi ha detto che non sono in grado di scrivere, ribatté la signora ridendo. Arrossii. A quell'età arrossivo facilmente. - Però nelle sue lettere c'erano dei passaggi molto sinceri. Lei non rispose, si limitò a sorridere lievemente. Un sorriso appena accennato, forse una frazione di centimetro. - Perlomeno leggendo una sua lettera mi è venuta voglia di mangiare un hamburger. - Probabilmente in quel momento aveva fame, - commentò lei in tono gentile. Poteva anche darsi. Il treno passò con un rumore sordo sotto le finestre dell'appartamento.
Quando furono le cinque, dissi che era tempo di andarmene. - Fra un po' suo marito tornerà a casa, penso che debba preparare per cena, - dissi. - Mio marito torna tardi, tardissimo, - rispose la signora con la guancia appoggiata sulla mano. - Dev'essere molto occupato. - Già -. Una pausa. - Come le ho forse detto nelle lettere, non andiamo molto d'accordo. Cosa avrei potuto rispondere? - Comunque non fa niente, - continuò lei in tono pacato, e le sue parole suonavano sincere. - La ringrazio per la nostra lunga corrispondenza. È stato molto piacevole. - Anche per me. E grazie per l'hamburger.
Ancora adesso che sono passati dieci anni, ogni volta che prendo la linea Odakyù e passo vicino alla sua casa mi ricordo di lei e di quell'hamburger così croccante. Ho scordato quali fossero le sue finestre, ma ho l'impressione che al di là dei vetri quella donna stia ancora ascoltando da sola Burt Bacharach. Chissà, forse quella volta avrei dovuto fare l'amore con lei. Non lo so. Ecco il tema di questo racconto. Ci sono tante cose che pur andando avanti negli anni continuo a non capire.
L'ultimo prato del pomeriggio
Dovevo avere diciotto o diciannove anni quando tagliavo l'erba dei prati, quindi ne sono passati una quindicina. Era tanto tempo fa. Ogni tanto mi capita di pensare che quindici anni non siano poi molti. Era l'epoca in cui Jim Morrison cantava Light My Fire, e Paul McCartney The Long and Winding Road - forse faccio un po' di confusione, comunque, più o meno quell'epoca lì - e non riesco a sentirla come appartenente a un passato lontano. E anch'io, non credo di essere tanto diverso da allora. Anzi no, non è così. Di sicuro sono molto cambiato. Altrimenti ci sarebbero troppe cose che non riuscirei a spiegarmi. D'accordo, sono cambiato. E quattordici o quindici anni sono proprio tanti. Vicino a casa mia - mi sono appena trasferito da queste parti - c'è una scuola media pubblica, vi passo sovente davanti per andare a fare la spesa o a sgranchirmi un po' le gambe. E mentre cammino guardo distrattamente gli allievi che fanno ginnastica, disegnano, o fanno solo baccano. Non è che li trovi molto interessanti, ma non c'è nient'altro da guardare. Tranne la fila di ciliegi alla mia destra, ma tutto sommato preferisco i ragazzi e le ragazze della scuola media. Ad ogni modo, a forza di osservarli, un bel giorno tutt'a un tratto mi è venuta in mente una cosa: hanno quattordici o quindici anni. Per me è stata una piccola scoperta, e anche uno shock. Quattordici o quindici anni fa non erano ancora nati, o tutt'al più erano dei pezzi di carne rosa quasi senza coscienza. E adesso mettono il reggiseno, si masturbano, mandano biglietti cretini ai disc-jockey, fumano di nascosto in un angolo della palestra, scrivono «figa» con la vernice spray rossa sulla palizzata di qualche casa, leggono forse - Guerra e pace. Pazzesco. Ho veramente pensato così, pazzesco. Quattordici o quindici anni fa, io tagliavo l'erba dei prati.
La memoria è qualcosa di simile a un romanzo, o forse un romanzo è qualcosa di simile alla memoria. Da quando ho incominciato a scrivere, provo veramente questa sensazione, che tra memoria e romanzo ci sia una somiglianza. In entrambi i casi, ci si sforza di mettere tutto in ordine, ogni cosa al suo posto, ma il contesto tende a sfuggire, e alla fine si dilegua. Come mettere quattro gattini esausti uno sull'altro. Caldi di vita, e tremendamente instabili. Ogni tanto mi dico che è imbarazzante considerare un tale materiale alla stregua di merce - merce, vi rendete conto? A volte mi capita davvero di arrossire. E se divento rosso io, lo diventano tutti. Tuttavia, se si prende l'esistenza umana come una condotta stupida basata su motivi relativamente puri, il problema di cosa sia giusto o sbagliato perde drammaticità. E da lì nasce la memoria, nasce il romanzo. Un meccanismo di moto perpetuo che nessuno può arrestare. Percorre rumorosamente il mondo intero, tracciando sul suolo una linea ininterrotta. Speriamo che vada tutto bene, dice uno. Ma non c'è motivo che vada bene. E neanche nessuna prova che sia andata bene. Allora cosa bisogna fare? Allora io cerco di radunare di nuovo i gattini e di metterli uno sull'altro. Sono stanchi morti e mollissimi. Cosa penserebbero se si svegliassero e scoprissero di essere stati messi in pila come della legna per un fuoco da campo? «Oh, c'è qualcosa di strano», si direbbero forse. In quel caso - se la reazione fosse tutta lì - io ne ricaverei un piccolo aiuto.
È questo che volevo dire. Quando tagliavo l'erba dei prati avevo diciotto o diciannove anni, quindi era tanto tempo fa. A quell'epoca avevo una ragazza della mia età, ma per qualche ragione lei era andata a vivere in una città molto lontana, potevamo stare insieme più o meno un paio di settimane all'anno. In quel lasso di tempo facevamo l'amore, andavamo al cinema, a cena in qualche ristorante, il che per noi era già un lusso, parlavamo senza sosta di tanti argomenti. Poi finivamo sempre col litigare ferocemente, quindi ci riconciliavamo, e andavamo di nuovo a letto. Insomma facevamo tutte le cose che fanno di solito due innamorati, ma a un ritmo accelerato, come in un film proiettato a velocità doppia. Adesso non so più se fossi veramente innamorato di quella ragazza. Eppure me la ricordo bene. Succede a volte. Mi piaceva mangiare con lei, guardarla mentre si toglieva i vestiti ad uno ad uno, penetrare nella sua morbida vagina. Mi piaceva anche, dopo l'amore, guardarla parlare, o dormire, con il viso sul mio petto. Ma è tutto, non ricordo nient'altro. A parte le due settimane che passavo con lei, la mia vita era terribilmente monotona. Seguivo le lezioni all'università in modo saltuario, con risultati più o meno nella media. Andavo da solo al cinema, o bighellonavo per la città, mi incontravo con qualche amica che mi era simpatica, ma senza fare sesso. Le riunioni rumorose con tante persone non mi piacevano, di conseguenza avevo la reputazione di essere un ragazzo tranquillo. Quando stavo solo ascoltavo sempre musica rock. A volte mi sentivo felice, a volte infelice. Ma a quell'epoca eravamo tutti così. Una mattina d'estate, all'inizio di luglio, ricevetti una lunga lettera della mia ragazza: mi diceva che voleva separarsi da me. Che mi aveva sempre voluto bene, mi voleva ancora bene, e anche in futuro... eccetera... eccetera... Insomma mi voleva lasciare. Aveva un altro. Scossi la testa, fumai sei sigarette, uscii a bere una birra, tornai nella mia camera e mi rimisi a fumare. Spezzai una dopo l'altra tre matite HB che erano posate sul tavolo. Non è che fossi particolarmente arrabbiato, semplicemente non sapevo come reagire. Poi mi cambiai e andai a lavorare. Risultato, per un certo tempo mi sentii dire da tutti quelli che mi stavano intorno che ero diventato molto più allegro. Questa è la vita, chi ci capisce niente! Quell'anno lavoravo part-time per una florida ditta che si occupava di prati, si trovava vicino alla stazione di Kyódò, sulla linea Odakyù. Il mio compito era di tagliare l'erba. La maggior parte della gente quando si costruisce una casa vuole un bel prato. Oppure un cane. Sono due cose in contraddizione fra loro, ma c'è chi le vuole entrambe. Desiderio comprensibile, i prati sono di un bel colore verde, i cani adorabili. Però non passano sei mesi che i proprietari a poco a poco cominciano a stufarsi. Smettono di tagliare l'erba, di portare il cane a spasso. Troppo impegnativo. Insomma noi tagliavamo l'erba per quel genere di persone. Avevo trovato quel posto l'estate dell'anno precedente, alla segreteria dell'università. Di tutti i ragazzi che erano stati assunti insieme a me, ero rimasto solo io, gli altri avevano smesso quasi subito. Il lavoro era duro, ma la paga piuttosto buona. Inoltre non era necessario parlare con la gente. A me andava benissimo. Da quando avevo cominciato a lavorare per quella ditta, ero riuscito a mettere un po' di soldi da parte. Bastavano per fare un viaggio con la mia ragazza in estate. Ma ormai che mi ero separato da lei, non se ne parlava più. Dopo aver ricevuto la sua lettera, per una settimana cercai di immaginarmi diversi possibili modi di usare quel denaro. O forse è meglio dire che non avevo altro a cui pensare. Una settimana del tutto assurda. Il mio pene mi sembrava quello di un altro. Intanto qualcuno, qualcuno che non conoscevo, mordeva leggermente i piccoli capezzoli di lei. Una sensazione che mi metteva a disagio. Non riuscivo a trovare un modo soddisfacente di spendere quei soldi. Un tale mi propose di vendermi la sua macchina una Subaru 1000 cc. L'automobile non era male, e il prezzo ragionevole, ma per qualche ragione non ero convinto. Pensai anche di comprare delle casse nuove per lo stereo, ma erano soldi sprecati per la stanza che affittavo in un modesto edificio in legno. Potevo sempre cambiare casa, ma che senso aveva? Una volta traslocato, non avrei potuto pagare le casse.
Non c'era modo di spendere quella somma. A parte l'acquisto di una polo per l'estate e di qualche disco, era ancora intatta. Poi comprai un ottimo stereo portatile della Sony. Aveva due grossi amplificatori, e l'emittente americana si sentiva benissimo. Passata quella settimana, arrivai a una conclusione: se non c'era modo di spendere il denaro, non aveva senso guadagnarlo. Una mattina dissi al titolare della ditta che intendevo lasciare il lavoro. Dovevo cominciare a studiare per gli esami, e prima volevo fare un viaggio. Ovviamente non gli potevo dire che non avevo più bisogno di soldi. - Veramente? Peccato, - rispose lui - un uomo di mezza età che sembrava piuttosto un giardiniere. Poi si sedette con un sospiro su una sedia e si accese una sigaretta. Alzò la faccia verso il soffitto e con due colpi secchi fece scricchiolare le articolazioni del collo. - Sei in gamba, tu. Tra i part-time, sei quello che è qui da più tempo, e ti sei fatto un'ottima reputazione. Sei giovane, ma sei bravo, ci sai fare. Lo ringraziai. Era vero, avevo una buona reputazione. Perché lavoravo in maniera precisa. La maggior parte degli altri ragazzi tagliavano il prato con grossi tagliaerba elettrici, e le parti dove non arrivavano le finivano alla bell'e meglio. In quel modo facevano in fretta e non si stancavano. Io invece procedevo all'incontrario. Il tagliaerba lo usavo poco, e curavo il lavoro manuale, ci dedicavo del tempo. Niente di strano che il risultato fosse bello. Ma siccome ero pagato a cottimo in proporzione alle dimensioni del giardino, il guadagno era minore. Inoltre mi veniva un tremendo mal di schiena, a stare tutto il tempo curvo. Solo le persone che hanno fatto quel lavoro lo possono capire, si arriva a un punto che si ha difficoltà anche a salire e scendere le scale. Poi ci si abitua. Comunque non era per farmi apprezzare che lavoravo in maniera così precisa. Forse non mi crederete, ma a me tagliare l’erba piaceva. Ogni mattina affilavo bene le cesoie, andavo nel posto indicatomi con un camioncino su cui era caricato il tagliaerba, e mi mettevo all'opera. C'erano giardini diversi, prati diversi, signore diverse. Alcune erano tranquille e gentili, altre brusche. Ce n'erano anche di giovani che non portavano il reggiseno, e si mettevano a quattro gambe davanti a me che lavoravo, lasciandomi vedere i capezzoli sotto la maglietta. In ogni caso io continuavo imperterrito a tagliare il prato. L'erba dei giardini più grandi spesso arrivava all'altezza dei cespugli. Più alta era più ero contento, perché a lavoro finito il giardino aveva un aspetto del tutto differente. Era una sensazione bellissima. Come quando le nuvole vengono spazzate via, e i raggi del sole illuminano tutto. Solo una volta andai a letto con una signora - dopo aver terminato il mio lavoro. Doveva avere trentuno o trentadue anni. Era minuta, con piccoli seni sodi. Chiuse tutte le imposte, spense la luce, e fece l'amore con me al buio. Si sfilò le mutandine senza togliersi il vestito e si mise a cavalcioni su di me. Non si lasciò toccare dalla vita in giù. Il suo corpo era sgradevolmente freddo, solo la sua vagina era calda. Non parlò quasi. Anch'io stetti zitto. L'orlo del suo vestito ondeggiava con un fruscio, ora più veloce ora più lento. A un certo punto squillò il telefono. Una volta, poi smise. Fu solo in seguito che tutt'a un tratto mi domandai se non era a causa di quella volta, che la mia ragazza mi aveva lasciato. Non c'era nessuna ragione particolare per pensare così, fu solo una mia idea. Perché nessuno aveva risposto al telefono. Bah, mi dissi, che importanza aveva? Era una cosa passata. - Certo che è un bel guaio, - fece il titolare. - Se adesso tu te ne vai, non potremo far fronte agli impegni. Siamo in piena attività. Nella stagione delle piogge l'erba cresce incredibilmente. - Non puoi rimandare di una settimana? In una settimana possiamo trovare qualcun altro, in qualche modo ce la caveremo. Se accetti ti do un premio speciale. Dissi che andava bene. Tanto non avevo programmi particolari per l'immediato futuro, e soprattutto il lavoro non mi dispiaceva. Però era strano, pensai, appena non avevo più bisogno di soldi, i soldi arrivavano.
Ci furono tre giorni di sole, un giorno di pioggia, poi di nuovo tre giorni di sole. L'ultima settimana se ne andò così. Era estate. Un'estate straordinaria, incantata. Nel cielo vagavano nuvole bianche come un vecchio ricordo. Il sole bruciava la pelle. La mia schiena si spellò completamente tre volte, e diventò nera come il carbone. Ero abbronzato fin dietro le orecchie. L'ultima mattina di lavoro, indossai dei bermuda e una maglietta, misi delle scarpe da tennis, gli occhiali da sole, salii sul camioncino e mi diressi verso il mio ultimo giardino. La radio sul cruscotto era rotta, così avevo portato da casa il mio stereo e guidavo ascoltando del rock. Dovevano essere i Creedence, o i Grand Funk. Tutto ruotava intorno al sole estivo. Ogni tanto accompagnavo la musica fischiettando, oppure fumavo. L'annunciatore del giornale-radio delle basi americane in Giappone deformava una serie di nomi di luoghi vietnamiti. L'ultimo giardino di cui ero stato incaricato si trovava vicino al parco di divertimenti Yomiuri Land. Assurdo, pensai, perché dalla prefettura di Kanazawa andare a chiamare una ditta di Setagaya? In ogni caso non avevo alcun diritto di protestare, quell'incarico me l'ero scelto io. Il mattino i diversi lavori della giornata venivano scritti su una lavagna in ufficio, e ognuno sceglieva quello che gli piaceva. La maggior parte dei ragazzi preferivano dei posti vicini, non si sprecava tempo negli spostamenti e si poteva lavorare di più. Io invece, nonostante fossi il più anziano tra i part-time e avessi il diritto di scegliere per primo, prendevo sempre i lavori distanti. Invariabilmente. Tutti lo trovavano molto strano. Non avevo un vero motivo. Mi piaceva andare lontano. Tagliare l'erba lontana di un prato lontano. Contemplare il paesaggio lontano di un posto lontano. Ma se avessi dato una spiegazione del genere, chi mi avrebbe capito? Guidavo con il finestrino completamente aperto. Man mano che mi allontanavo dalla città il vento si faceva più forte, e il verde più vivo. I fumi dell'erba e l'odore della terra secca erano più intensi, le nuvole si stagliavano contro il cielo con contorni nitidi e precisi. Un tempo magnifico. L'ideale per un viaggetto estivo con una ragazza. Mi vennero in mente l'acqua fresca del mare e la sabbia rovente. Poi una cameretta con l'aria condizionata e delle lenzuola celesti e pulite. Solo quello, non pensavo a nient'altro. La spiaggia e le lenzuola si alternavano nella mia testa. Facendo il pieno di benzina a un distributore, continuavo a pensare alle stesse cose. Mi ero sdraiato nell'erba di fianco alla stazione di servizio, e guardavo distrattamente l'inserviente che controllava il livello dell'olio e puliva il parabrezza. Appoggiando l'orecchio al suolo sentii diversi rumori. Anche quello di onde lontane, ma naturalmente doveva trattarsi di qualcos'altro. Forse era solo l'eco dei tanti suoni assorbiti dalla terra. Davanti a me un piccolo insetto camminava su un filo d'erba. Un piccolo insetto verde con delle ali. Quando arrivò in cima, esitò un poco, poi tornò indietro. Non sembrava particolarmente deluso. Chissà se anche gli insetti sentivano il caldo? Mah! In dieci minuti l'inserviente finì, e suonò il clacson per avvertirmi.
La casa dov'ero diretto era su una collina, a mezza costa. Una zona ridente, elegante. Ai lati della strada sinuosa si susseguivano file di olmi. Nel giardino di una villa due bambini piccoli, nudi, si innaffiavano l'un l'altro con una pompa. Lo spruzzo diretto verso il cielo formava un piccolo arcobaleno di una cinquantina di centimetri. Qualcuno si esercitava al piano con la finestra aperta. Suonava molto bene, sembrava quasi una registrazione. Fermai il camioncino di fronte all'indirizzo che mi era stato indicato, e suonai il campanello. Nessuna risposta. Tutt'intorno c'era un silenzio impressionante. Non si vedeva anima viva. L'atmosfera ricordava l'ora della siesta in un paese latino. Suonai ancora una volta il campanello. Aspettai.
La casa era una villetta dall'aria piacevole. In stucco color crema, con un comignolo quadrato dello stesso colore in mezzo al tetto. Le finestre erano grigie, con delle tendine bianche, le une e le altre cotte dal sole. Il tipo di costruzione che si trova spesso nei luoghi di villeggiatura, con una patina vecchiotta che le stava molto bene. Doveva essere abitata solo per metà dell'anno, e per il resto del tempo rimanere chiusa, perlomeno dava quell'impressione. Emanava un odore di vita. Il muretto di cinta di mattoni, alla francese, mi arrivava alle reni ed era sormontato da piante di rose. Le rose erano tutte sfiorite e le foglie verdi ricevevano i raggi ardenti dell'estate. Il prato non si vedeva, ma il giardino era piuttosto vasto, e un albero di canfora lasciava cadere la sua ombra fresca sui muri color crema. Quando suonai per la terza volta, la porta d'ingresso si aprì adagio e comparve una donna di mezza età. Incredibilmente alta. Io non sono certo basso, ma lei doveva avere almeno tre centimetri più di me. Era anche piuttosto robusta, e aveva l'aria irritata. Sarà stata sulla cinquantina. Non era bella, ma aveva una faccia pulita. Non voglio dire il tipo di fisionomia che di solito piace alla gente, ma le sopracciglia spesse e il mento quadrato lasciavano indovinare un temperamento forte, una di quelle persone che quando dicono una cosa non tornano indietro. Mi guardò con occhi assonnati, come si guarda un seccatore. I capelli duri, fra i quali ce n'erano di bianchi, le formavano delle onde sul viso, le braccia che uscivano dalle maniche del vestito di cotone marrone le pendevano inerti. Erano bianchissime. - Cosa vuole? - chiese. - Sono venuto a tagliare il prato, - risposi, togliendomi gli occhiali da sole. - Il prato? - ripetè lei con aria interdetta. - Ah già, deve tagliare l'erba. - Infatti, ci ha telefonato. - Sì, è vero. Quanti ne abbiamo oggi? - Quattordici. Sbadigliò. - Veramente? Quattordici? - E sbadigliò di nuovo. - A proposito, ha una sigaretta? Tirai fuori dalla tasca il pacchetto e glielo porsi, poi le accesi la sigaretta con un fiammifero. Lei inspirò il fumo con l'aria di gustarselo, il viso verso il cielo. - Ci mancava anche questa! - disse. - Quanto ci vorrà? - In termini di tempo? La donna spinse il mento in avanti e annuì. - Dipende dalla grandezza e dalle condizioni del prato. Posso dargli un'occhiata? - Venga pure. Se non lo vede non può dire niente. La seguii e feci con lei il giro del giardino. Era pianeggiante e di forma allungata, una sessantina di tsubo1, un duecento metri quadri in tutto. C'erano alcuni cespugli di ortensie, e l'albero di canfora. Il resto era prato. Sotto una finestra erano appese due gabbie per uccelli vuote. Un giardino ben curato, anche l'erba era piuttosto corta, non richiedeva un intervento immediato. Rimasi un poco deluso. - Può tenere ancora due settimane, questo prato, non è necessario tagliarlo adesso, - dissi. - Questo lo devo decidere io, non crede? - rispose la donna. La osservai per qualche secondo. Aveva ragione. - Lo voglio più corto. La pago per questo. D'accordo? Annuii. - In quattro ore avrò finito. 1 Tsubo: unità di misura che si usa per i terreni equivalente a 3,31 mq
- È piuttosto lento. - Mi piace lavorare lentamente. - Faccia come vuole, - disse lei. Tirai giù dal camioncino il tagliaerba elettrico, le cesoie, il rastrello, dei sacchi per la spazzatura, il termos con del caffè freddo, la radio, e portai tutto sul prato. Il sole si stava avvicinando allo zenit, e la temperatura saliva rapidamente. Mentre trasportavo gli attrezzi, la signora aveva messo una decina di paia di scarpe in fila nell'ingresso e le stava spolverando con uno straccio. Erano tutte da donna, ma di due misure, piccole ed enormi. - Posso ascoltare la musica, mentre lavoro? - chiesi. Sempre chinata lei guardò in su verso di me. - Sì, certamente. Anche a me piace la musica. Prima raccolsi le pietruzze che erano cadute sul prato, poi passai il tagliaerba. Se le lame avessero preso un sasso si sarebbero rovinate. Davanti all'apparecchio era attaccata una cesta di plastica dove andava a raccogliersi l'erba tagliata. Quando era piena la staccavo e la vuotavo nel sacco della spazzatura. Un prato di sessanta tsubo produce una bella quantità d'erba, anche se è corta. Il sole splendeva caldissimo. Mi tolsi la maglietta bagnata di sudore, e restai in bermuda. Proprio la tenuta adatta per un bel barbecue. Lavorando in quelle condizioni, potevo bere litri d'acqua, se ne sarebbe andata tutta in sudore, non un goccio di pipì. Dopo aver passato per un'ora il tagliaerba, feci una pausa e mi sedetti all'ombra dell'albero di canfora per bere del caffè freddo. Mi sembrava di sentire lo zucchero pervadere ogni cellula del mio corpo. Sopra la mia testa si udiva il verso ininterrotto delle cicale. Accesi la radio, e girai la manopola per sintonizzarla su qualche programma di musica rock. La fermai su Mama Told Me Not to Come, dei Three Dog Night's, mi sdraiai e attraverso gli occhiali da sole guardai i raggi del sole che filtravano fra i rami dell'albero. La donna si avvicinò e si fermò di fianco a me. Guardandola dal basso, sembrava un albero di canfora anche lei. Nella mano destra teneva un bicchiere. Dentro c'era del whisky, con del ghiaccio che ondeggiava nella luce estiva. - Fa caldo, vero? - Disse. - Caldo davvero, - risposi. - Come fa per il pranzo? Guardai l'orologio. Erano le undici e venti. - Alle dodici vado a mangiare da qualche parte. Ho visto un chiosco dove fanno degli hamburger, qui vicino. - Non c'è bisogno che vada fin lì. Le preparo io dei panini. - Non fa nulla, non si preoccupi. Sono abituato. Lei alzò il bicchiere, e in un sorso bevve la metà del whisky. Poi strinse le labbra e fece un lungo sospiro. - Non faccia complimenti, tanto devo preparare anche per me. Mangi qualcosa qui. - Allora accetto, la ringrazio molto. - Prego, prego, - rispose lei. Poi si avviò lentamente verso casa muovendo le spalle. Fino a mezzogiorno tagliai l'erba con le cesoie. Avevo raccolto con il rastrello tutta quella fatta cadere dal tagliaerba, poi avevo attaccato i punti dove non ero ancora passato. Era un lavoro che richiedeva pazienza. Si poteva anche fare una cosa alla bell'e meglio, ma se uno si metteva in testa di curare i dettagli, non c'era limite. Comunque la mia scrupolosità non veniva necessariamente apprezzata, ad alcuni sembrava che cincischiassi. Ma come ho già detto, a me piaceva lavorare bene, era una questione di carattere. E forse anche di orgoglio.
A mezzogiorno da qualche parte suonò una sirena, la donna mi fece entrare in cucina e mise in tavola dei panini. La cucina non era grande, ma pulita. Silenziosa inoltre, si sentiva solo il ronzio del grande frigorifero. I piatti e le posate erano di vecchio stile. Lei mi chiese se volevo una birra, le risposi che quando lavoravo non bevevo. Allora ne tirò fuori dal frigo una per sé, e per me del succo d'arancia. Sul tavolo c'era anche una bottiglia di White Horse piena a metà. Buttate sotto il lavandino ce n'erano altre vuote, di tutti i tipi. I panini erano buoni. Contenevano prosciutto, lattuga e cetrioli, con un po' di mostarda. Le feci i complimenti. - So fare bene solo quelli, - mi rispose lei, che non li aveva nemmeno toccati. A parte un paio di sottaceti, aveva soltanto bevuto la sua birra. Non aveva quasi parlato, e anch'io ero rimasto in silenzio. Alle dodici e mezza tornai al mio lavoro. Il prato dell'ultimo pomeriggio. Sintonizzai sull'emittente americana e al suono di un rock'n'roll mi rimisi a tosare l'erba con cura. A intervalli smettevo per raccogliere con il rastrello quella già tagliata, poi come fanno i barbieri controllavo da diversi angoli che non restassero dei punti intonsi. All'una e mezza avevo già svolto i due terzi del lavoro. Quando il sudore mi entrava negli occhi - tutti i momenti - andavo a lavarmi la faccia al rubinetto del giardino. Ogni tanto mi veniva duro, poi mi passava. Assurdo, avere un'erezione mentre tagliavo l'erba! Alle due e venti avevo finito. Spensi la radio, e a piedi nudi camminai per tutto il prato. Che soddisfazione, era ben tagliato, senza dislivelli, morbido come un tappeto! «Ti voglio ancora bene, - aveva scritto la mia ragazza nella sua ultima lettera. - Sei gentile, e sei anche un'ottima persona. Ma qualche volta avevo l'impressione che non mi bastasse. Non chiedermi perché sono arrivata a pensare così, non lo so. È una cosa molto brutta da dire, e per te non costituirà certo una spiegazione. Diciannove anni sono proprio un'età orrenda. Fra qualche anno forse riuscirò a spiegarmi meglio, ma forse allora non ci sarà più bisogno di spiegazioni». Mi lavai di nuovo la faccia al rubinetto, caricai gli attrezzi sul camioncino, e mi misi una maglietta pulita. Poi aprii la porta d'ingresso e annunciai che avevo finito. - Beva almeno una birra! - disse la donna. - Grazie -. Una birra la potevo anche accettare. In piedi uno di fianco all'altra davanti al giardino, guardammo il prato. Io bevevo la mia birra, lei una vodka con seltz e limone, in un bicchiere lungo e stretto. Il tipo di bicchiere che i negozi di alcolici regalano in omaggio. Le cicale non avevano ancora smesso di frinire. Lei non sembrava per nulla ubriaca, solo il suo respiro era un po' forzato, sembrava venire aspirato tra i denti con un fischio. - È proprio bravo, lei, - disse. - Finora mi sono rivolta a parecchie ditte, ma è la prima volta che qualcuno mi taglia il prato così bene. - Grazie, - risposi. - Mio marito era molto pignolo per il prato, quand'era vivo. Lo tagliava sempre lui personalmente, in maniera perfetta. Proprio come ha fatto lei, lo stesso metodo. Tirai fuori le sigarette, gliene offrii una, poi ognuno si accese la propria. Lei aveva delle mani più grandi delle mie. In confronto, il bicchiere che teneva nella destra e la sigaretta nella sinistra sembravano minuscole. Le dita erano spesse, senza anelli. Sulle unghie aveva diverse righe verticali molto nette. - Nei giorni di ferie, mio marito si occupava sempre e solo del prato. Anche se non era poi tanto eccentrico. Provai a immaginarlo, il marito. Impossibile, era come immaginarmi una coppia di alberi della canfora. Di nuovo lei aspirò l'aria con un fischio. - Da quando mio marito è morto, - continuò, - mi sono sempre rivolta a delle ditte. Non sopporto il sole, e mia figlia non vuole abbronzarsi. E poi non si può pretendere che una ragazza si prenda cura del giardino, abbronzatura a parte!
Annuii. - Il suo modo di lavorare mi piace, però. L'erba, è così che bisogna tagliarla. Guardai di nuovo il prato. Lei fece un rutto. - Venga di nuovo il mese prossimo. - Il mese prossimo è impossibile, - dissi. - Perché? - Questo è il mio ultimo giorno di lavoro. Devo tornare a fare lo studente e preparare gli esami, altrimenti questa volta rischio di venire bocciato. La donna rimase per qualche secondo a guardarmi, abbassò gli occhi verso il suolo, poi di nuovo li alzò su di me. - Lei è studente? - Sì. - Dove? Feci il nome della mia università. Non ne sembrò particolarmente impressionata, non era un nome che potesse far colpo. Si grattò dietro l'orecchio con l'indice. - Non farà più questo lavoro? - No, per quest'estate no -. Proprio così, per quell'estate non avrei più tagliato prati. Né l'anno seguente. Né quello dopo. La donna si riempì la bocca di vodka come se avesse l'intenzione di fare i gargarismi, poi ne inghiottì con precauzione metà per volta. Aveva la fronte tutta sudata, pareva coperta da piccoli insetti. - Venga dentro, - disse. Guardai l'orologio. Erano le due e trentacinque. Non capivo se fosse tardi o presto. Il lavoro era finito. Dal giorno seguente non avrei più tagliato un solo centimetro di prato. Una sensazione strana. - Ha fretta? Scossi la testa. - Allora venga in casa a bere qualcosa di fresco. Solo un momentino. C'è qualcosa che voglio mostrarle. Cosa mai poteva essere? Non ebbi il tempo di pensarci su, lei mi precedeva già a passi decisi, non si voltava neanche a guardare dalla mia parte. Non potevo far altro che seguirla. Per il caldo mi sentivo la testa vuota. Come prima, l'interno della casa era silenzioso. Venendo dall'esterno inondato dalla luce del pomeriggio estivo, quando entrai sentii come un bruciore in fondo alle pupille. Le stanze erano immerse in una oscurità lieve come acqua diluita, che sembrava installata lì da decine d'anni. Comunque non si poteva dire che fosse buio. Faceva fresco. Il fresco che produce una corrente d'aria, non un condizionatore. - Da questa parte, - disse la donna, e si incamminò ciabattando per un corridoio diritto. Nel corridoio c'erano parecchie finestre, ma il muro di cinta della casa vicina e i rami degli olmi troppo cresciuti bloccavano la luce del sole. Sentii diversi odori, odori prodotti dal tempo, che il tempo avrebbe poi disperso. Tutti mi ricordavano qualcosa, vecchi vestiti, vecchie suppellettili, vecchi libri, vecchie cose. In fondo al corridoio c'erano delle scale. Lei si voltò a vedere se la seguivo, poi cominciò a salirle. Ad ogni gradino il legno stagionato cigolava. In cima alle scale, la finestra senza tende lasciava finalmente entrare i raggi del sole, che formavano pozze di luce sul pavimento. Al primo piano c'erano solo due stanze, uno sgabuzzino e una bella camera. La porta verde scuro aveva dei piccoli vetri smerigliati. La vernice era un po' scrostata, e la manopola della maniglia d'ottone era dipinta di bianco. La donna strinse le labbra ed espirando rumorosamente l'aria posò sul davanzale della finestra il bicchiere di vodka quasi vuoto, poi tirò fuori dalla tasca del vestito un mazzo di chiavi e aprì la porta facendo molto rumore.
- Prego, - disse. Entrammo nella stanza. Era buia e sapeva di chiuso, l'aria calda vi ristagnava. Dalle fessure nelle imposte chiuse filtravano lame di sole parallele. Non si vedeva nulla, solo il pulviscolo che volteggiava. Lei tirò le tende, aprì i vetri e le imposte. Il sole accecante e la brezza fresca che soffiava da sud riempirono in un istante la stanza. Era la tipica camera di una adolescente. Di fianco alla finestra c'era una scrivania, dall'altra parte un piccolo letto in legno. Il letto era fatto, le lenzuola azzurre e il cuscino dello stesso colore erano perfettamente stirate. Ai piedi del letto vidi una coperta piegata. Lungo una parete c'erano un armadio e una toilette, sul cui ripiano erano posati parecchi oggetti, una spazzola, delle forbicine, dei rossetti, della cipria compatta... però non doveva essere una ragazza che dava eccessiva importanza al trucco. Sulla scrivania c'erano dei quaderni e due dizionari, uno di francese e l'altro d'inglese. Entrambi erano stati usati spesso, ma con cura, in modo da non sciuparli. Un vassoietto conteneva penne e matite disposte con ordine, e una gomma consumata solo da un lato. C'erano inoltre una sveglia, una lampada da tavolo e un fermacarte di vetro. Tutti oggetti comuni. Alle pareti di legno erano appese cinque stampe a colori di uccelli e un calendario senza fotografie. Provai a passare un dito sul ripiano della scrivania, era bianco di polvere. Polvere di circa un mese. Anche il calendario era fermo a giugno. Nel complesso la stanza era molto semplice, per essere quella di una ragazza d'oggi. Non c'erano né peluche, né poster di cantanti rock. Nessuna decorazione esagerata, niente cestini della carta straccia a fiori. Sulla libreria costruita su misura vidi parecchi libri. Antologie, raccolte di poesie, riviste di cinema, opuscoli di qualche esposizione. Molti erano libri inglesi in edizione tascabile. Provai a immaginare che aspetto avesse la proprietaria della stanza, ma con scarsi risultati. Mi tornava in mente solo la faccia della mia ex ragazza. La mastodontica donna di mezza età, seduta sul letto, mi osservava. Seguiva attentamente il mio sguardo, ma sembrava pensare a tutt'altro. Solo gli occhi erano rivolti verso di me, in realtà non vedeva nulla. Mi sedetti sulla sedia davanti alla scrivania e guardai la parete dietro di lei. Era bianca e vuota, non c'era attaccato niente. A forza di fissarla mi sembrò che la parte superiore si inclinasse in avanti, che stesse per crollare sulla testa della donna da un momento all'altro. Ma era solo una mia impressione, dovuta alle condizioni della luce. - Vuole bere qualcosa? - domandò lei. Rifiutai. - Non faccia complimenti, non le sto offrendo niente di speciale. Allora indicai il suo bicchiere e le chiesi di prepararmi la stessa cosa che beveva lei, ma leggera. Tornò dopo cinque minuti con un portacenere e due vodka tonic. Bevvi un sorso della mia. Altro che leggera! In attesa che il ghiaccio si sciogliesse, fumai una sigaretta. Lei si sedette sul letto e prese a sorseggiare la sua vodka, che probabilmente era molto più forte della mia. Ogni tanto si sentiva tintinnare il ghiaccio. - Ho un fisico robusto. Per questo non mi ubriaco. Annuii vagamente. Anche mio padre soleva dire così. Ma nessuno è più forte dell'alcol. Semplicemente la gente non si accorge di quello che succede finché non ci è dentro fino al collo. Mio padre è morto che io avevo sedici anni. Un modo di morire molto pulito. Tanto pulito che non mi ricordo neanche se sia veramente vissuto o no. La donna rimase a lungo in silenzio. Ogni volta che muoveva il bicchiere il ghiaccio tintinnava. Dalla finestra aperta entravano soffi di aria fresca. Venivano da sud, da oltre le colline. Un tranquillo pomeriggio estivo, di quelli che fanno venire voglia di dormire. Lontano, da qualche parte, squillò un telefono. - Guardi dentro l'armadio. Andai fino all'armadio, e come mi era stato chiesto aprii le due ante. Era pieno zeppo di vestiti. Per metà abiti interi, per metà camicette, giacche, e gonne, quasi tutte mini. C'erano solo cose estive, in parte vecchie, in parte nuove, alcune addirittura mai messe. Roba di qualità e di buon gusto, non particolarmente vistosa ma carina.
Con tutti quei vestiti, una ragazza poteva indossare qualcosa di diverso ogni volta che andava a un appuntamento. Rimasi per un po' a guardarli, poi chiusi le ante. - Proprio belli, - dissi. - Guardi dentro i cassetti, - insistette la donna. Ebbi un attimo di esitazione, poi mi rassegnai ad aprire uno per uno i cassetti dell'armadio. Perlustrare la camera di una ragazza in sua assenza - anche con il permesso della madre - non mi sembrava un comportamento corretto, ma rifiutare sarebbe stato ancora più difficile. Non capivo cosa potesse avere in testa una persona che alle undici del mattino era già attaccata alla bottiglia. Nel primo cassetto c'erano dei jeans, delle polo e delle magliette, tutto ben lavato, ben piegato, impeccabile. Nel secondo c'erano le borse, le cinture, i fazzoletti e i braccialetti, più alcuni berretti di stoffa. Nel terzo erano disposte calze e biancheria. Ogni cosa era pulita, in ordine. Per qualche ragione quei cassetti mi diedero un senso di tristezza, o di lieve oppressione. Li richiusi. Sempre seduta sul letto, la donna guardò il paesaggio al di là della finestra. Il bicchiere di vodka che teneva in mano era quasi vuoto. Tornai a sedermi anch'io e mi accesi una sigaretta. Fuori si vedeva un dolce pendio, in cima al quale cominciava un'altra collina. Nel verde che si perdeva in lontananza erano immerse file di villette, ognuna con il suo giardino, ogni giardino con il suo prato. - Cosa ne pensa? - chiese la donna, sempre con lo sguardo rivolto alla finestra. - Di mia figlia, voglio dire. - Non so, non l'ho mai vista. - Nella maggior parte dei casi, per capire il carattere di una donna basta guardare i suoi vestiti. Pensai alla mia ragazza. Cercai di ricordarmi che tipo di vestiti indossasse. Avevo dimenticato tutto, l'unica cosa che mi restava di lei era una vaga immagine globale. Se mi tornava in mente la gonna, svaniva la camicetta, se ricordavo il berretto, la faccia diventava quella di un'altra. Erano passati solo sei mesi, e avevo scordato tutto. In conclusione, che cosa sapevo veramente di lei? - Non saprei, - obiettai di nuovo. - Mi dica la sua impressione. Qualunque cosa. Mi basta il più piccolo commento. Per prendere tempo bevvi un sorso di vodka. Il ghiaccio si era quasi sciolto e l'acqua tonica aveva preso un gusto dolciastro. Sentii scivolarmi giù per la gola il sapore forte del liquore, che prese a riscaldarmi lo stomaco. La brezza che entrava dalla finestra sparse sulla scrivania la cenere delle sigarette. - Sembra una brava ragazza, ordinata, - dissi. - Non troppo prepotente, ma neanche debole. Ha dei voti superiori alla media della sua classe, frequenta un college femminile o un corso biennale, non lega con tutti, ma ha pochi buoni amici... Corrisponde? - Continui. Mi feci girare il bicchiere tra le mani alcune volte, poi lo posai sulla scrivania. - Oltre a questo non saprei proprio. Tanto per cominciare non so neanche se ho indovinato o no. - Più o meno corrisponde, - rispose la donna, senza nessuna espressione particolare sul viso. - Più o meno corrisponde. La presenza della ragazza a poco a poco stava riempiendo la stanza, come una vaga ombra bianca. Senza faccia, senza mani, senza piedi, senza nulla. Un'infinitesima piega nel mare di luce. Bevvi un altro sorso di vodka. - Ha un ragazzo, - continuai. - Uno o due. Non lo so. Non so che rapporti abbia con loro. Ma questo non ha la minima importanza. Il problema è... che lei non è veramente attaccata a nulla. Neanche al proprio corpo, ai propri pensieri, alle proprie speranze... a quelle che gli altri hanno in lei... - Già, - disse la donna dopo un po'. - Capisco cosa vuole dire. Io invece non lo sapevo. Le mie parole avevano un senso, ma non capivo a chi fossero dirette. Ero molto stanco, e avevo sonno. Se mi fossi addormentato, tante cose si sarebbero chiarite. Ma non per questo sarebbero diventate più facili, mi dissi.
La donna rimase in silenzio per parecchio. Io pure. Passarono così dieci o quindici minuti. Non sapendo cosa fare delle mie mani, finii col bere metà della mia vodka. La brezza si fece un po' più forte, e le foglie tonde dell'albero di canfora oscillarono. - Mi scusi per averla trattenuta, - disse la donna poco dopo. - Ha fatto proprio un bel lavoro con il prato. Ed è stato un piacere. - Grazie, - risposi. - Devo pagarla, - continuò lei infilando la grossa mano bianca nella tasca del vestito. - Quanto fa? - Le manderanno la fattura in seguito. Potrà pagare direttamente tramite la banca. - Ah. Scendemmo di nuovo le scale, e attraverso il corridoio passammo nell'ingresso. Il pianterreno era sempre altrettanto fresco, e leggermente oscuro. La stessa sensazione che provavo quando da bambino, d'estate, risalivo a piedi nudi il corso del torrente e passavo sotto un grande ponte di ferro. Faceva buio, improvvisamente la temperatura dell'acqua scendeva, e la sabbia diventava stranamente viscida. Nell'ingresso mi rimisi le scarpe da tennis e quando aprii la porta provai davvero un senso di sollievo. Il sole tutt'intorno a me, e il vento che portava l'odore del verde! Quattro vespe volavano in tondo sopra la siepe ronzando insonnolite. - È tagliato proprio bene, - disse ancora una volta la donna osservando il prato. Lo guardai anch'io. Era proprio stupendo. Lei tirò fuori dalla tasca diverse cose - c'era davvero di tutto - e scelse un biglietto da diecimila yen tutto accartocciato. Non molto vecchio, solo accartocciato. Quattordici o quindici anni fa diecimila yen erano una bella somma. Esitai un momento, poi li presi, mi sembrava brutto rifiutare. - Grazie, - dissi. Sembrava che lei volesse aggiungere qualcosa, ma non sapesse come farlo. Senza decidersi, guardò il bicchiere che teneva nella mano destra. Era vuoto. Alzò di nuovo gli occhi su di me. - Se riprende questo lavoro, mi telefoni. In qualunque momento va bene. - Certo. Stia tranquilla. Grazie per i panini e per tutto. La donna fece un suono incomprensibile in fondo alla gola, poi si voltò e si incamminò verso l'ingresso. Io misi in moto, e accesi la radio. Erano già le tre. A metà strada mi venne sonno, mi fermai alla caffetteria di una stazione di servizio e ordinai una Coca-Cola e degli spaghetti. Gli spaghetti facevano schifo, ne mangiai solo la metà. Tanto non avevo particolarmente fame. Quando la cameriera dal colorito scuro mi tolse il piatto davanti, mi appisolai sulla mia sedia di plastica. Il locale era quasi vuoto, e il condizionatore d'aria ben regolato. Fu un sonno molto breve, senza sogni, o piuttosto simile a un sogno esso stesso. Eppure quando aprii gli occhi i raggi del sole erano già meno caldi. Chiesi un'altra Coca-Cola, e pagai con il biglietto da diecimila che avevo appena ricevuto. Al parcheggio salii in macchina, e prima ancora di tirare fuori di tasca la chiave fumai una sigaretta. Tante piccole stanchezze mi stavano piombando addosso tutte in una volta. Ero esausto. Rinunciai a guidare, mi appoggiai allo schienale e fumai un'altra sigaretta. Ogni cosa sembrava accadere in un mondo lontano. Una visuale sgradevolmente nitida e innaturale, come se guardassi dalla parte sbagliata di un binocolo. «Di sicuro desideravi trovare in me tante cose, - mi aveva scritto la mia ra gazza, - ma non riesco a credere di poterti dare alcunché». Io desideravo solo una cosa, mi dissi, tagliare bene i prati. Prima passare il tagliaerba, poi raccogliere col rastrello l'erba caduta, e alla fine perfezionare il lavoro con le cesoie. Tutto lì. Quello lo potevo fare. Lo dovevo fare.
Giusto, no? Dissi ad alta voce. Nessuno rispose. Dopo dieci minuti il gestore della stazione di servizio venne di fianco al camioncino e piegandosi in avanti mi chiese se tutto andava bene. - Un po' di capogiro, - risposi. - È il caldo. Vuole che le porti un bicchier d'acqua? - La ringrazio, ma adesso va molto meglio. Davvero. Uscii dal parcheggio, e mi avviai in direzione est. Ai lati della strada c'erano case diverse, giardini diversi, persone diverse. Modi di vivere diversi. Stringendo il volante continuavo a osservare il paesaggio. Alle mie spalle il tagliaerba sbatacchiava con un rumore di ferraglia. È stata l'ultima volta che ho tagliato un prato. Se un giorno abiterò in una casa con un giardino, potrò farlo di nuovo. Ho l'impressione che debba passare ancora molto tempo, ma sono sicuro che quando verrà il momento, me la caverò egregiamente.
Lederhosen
Fu nell'estate di molti anni fa che pensai di buttare giù una serie di schizzi, prima di allora non mi era mai venuto in mente di scrivere questo tipo di cose, e se lei non mi avesse raccontato quella storia - se non mi avesse chiesto se mi poteva servire da materiale - probabilmente questi racconti non esisterebbero. Così si può dire che fu lei ad accendere il fiammifero. Poi, però, ci è voluto parecchio tempo perché il fuoco attecchisse dentro di me. Ciò che poteva servirmi da incentivo era infatti terribilmente distante. A volte la distanza era tale che superava perfino la durata di vita media dei miei criteri d'azione e dei miei sentimenti. Di conseguenza non era detto che quella fiammella, pur arrivando fino a me, trovasse necessariamente riscontro. Ma in tal caso si sarebbe spenta in tempo debito, e in conclusione io non avrei scritto questo racconto. La persona che mi ha parlato di questa storia è una ex compagna di scuola di mia moglie. A quei tempi loro non erano particolarmente amiche, ma si sono nuovamente incontrate un giorno per caso, quando avevano entrambe più di trent'anni, e da allora sono diventate piuttosto intime. Ogni tanto ho l'impressione che le amiche della moglie, agli occhi del marito, non siano creature particolari, ma per quella persona ho provato una sorta di attrazione fin dalla prima volta che l'ho incontrata. Era di corporatura piuttosto imponente per essere una donna, quasi alta come me e altrettanto robusta. Di professione faceva l'insegnante di elettronica, ma al di fuori dell'orario di lavoro passava la maggior parte del tempo a nuotare, giocare a tennis, sciare, così aveva dei bei muscoli, ed era sempre molto abbronzata. Nei confronti di ogni sport manifestava un tale fervore da potersi definire maniaca. C'erano giornate in cui cominciava col fare jogging, poi un po' di nuoto nella piscina riscaldata del quartiere, due o tre ore di tennis il pomeriggio, e finiva con la ginnastica aerobica. Anche a me lo sport piace, ma sia qualitativamente che quantitativamente non sono alla sua altezza. Pur nella sua dimensione maniacale, non si può dire che lei avesse atteggiamenti patologici o meschini o aggressivi. Al contrario aveva un carattere fondamentalmente gentile, non era invadente né prevaricatrice. Però il suo fisico - e forse lo spirito che lo accompagnava - aveva bisogno di movimento violento e perpetuo, come una cometa. Non so se la ragione fosse questa, ma era ancora nubile. Aveva avuto sì delle storie d'amore e delle proposte di matrimonio - era abbastanza bella, nonostante la sua corporatura - ed era stata in procinto di sposarsi. Ma quando doveva fare il passo finale, ogni volta sorgeva qualche ostacolo imprevisto, e la faccenda finiva in nulla. - Non ha avuto fortuna, - mi disse una volta mia moglie. - Proprio così, - convenni anch'io. Eppure non ero del tutto d'accordo con lei. È vero che alcuni aspetti della vita dipendono dalla fortuna, e quando vanno male finiscono col gettare un'ombra su tutta la nostra esistenza, a volte col rovinarcela. Se però una persona possiede forza di volontà - quella volontà ferrea che le permette di correre per venti chilometri, e nuotare per tre - credo che dovrebbe essere in grado di risolvere i problemi più gravi usando qualunque mezzo di fortuna a portata di mano. Se lei non si era sposata, pensavo, era perché in fondo non lo voleva. Perlomeno il matrimonio non rientrava nei limiti della sua cosmica energia. Così continuava a insegnare elettronica, dedicava tutto il tempo libero allo sport, e regolarmente incappava in amori sfortunati. Quando era all'università i suoi genitori avevano divorziato, e da allora lei era sempre vissuta sola in appartamenti d'affitto - È stata mia madre a lasciare mio padre, - mi raccontò un giorno. - A causa di un paio di calzoni corti.
- Un paio di calzoni corti? - ripetei sorpreso. - È una storia bizzarra. Troppo assurda per essere raccontata, ma visto che tu scrivi, chissà che non possa tornarti utile. La vuoi sentire? Dissi che mi avrebbe fatto molto piacere. In quella piovosa domenica pomeriggio lei doveva venire a farci visita, ma essendo arrivata con due ore di anticipo aveva trovato solo me, mia moglie era uscita a fare la spesa. - Scusami, - aveva detto, - per la pioggia la partita di tennis è stata annullata, così mi è rimasto un sacco di tempo. Mi annoiavo, da sola in casa, allora ho pensato di venire un po' prima. Ma forse disturbo? No, non disturbava affatto, risposi. Anch'io non avevo voglia di lavorare, avevo preso il gatto sulle ginocchia e stavo guardando distrattamente la videocassetta di un film. La feci entrare in casa, e andai in cucina a preparare del caffè. Poi ci mettemmo entrambi a guardare gli ultimi venti minuti dello Squalo con le nostre tazze in mano. Lo avevamo già visto più di una volta tutti e due, così lo seguivamo senza molta attenzione, soltanto perché avevamo bisogno di qualcosa su cui posare lo sguardo. Quando apparve la scritta FINE, mia moglie non era ancora tornata. Allora ci mettemmo a parlare del più e del meno, di pescecani, del mare, di nuoto... E mia moglie che tardava... Come ho già detto, quella donna mi era sempre stata molto simpatica, ma non avevamo abbastanza cose in comune per parlarci a quattr'occhi per un'ora intera. In fin dei conti era un'amica di mia moglie, non mia. Non sapendo cosa fare, stavo già pensando di mettere un'altra cassetta, quando lei tutt'a un tratto tirò fuori la storia del divorzio dei suoi genitori. Perché mai si sia messa di punto in bianco a parlare di quell'argomento - che nesso poteva mai avere con il nuoto? - non ne ho idea. Una ragione ci sarà. - Calzoni corti non è il termine giusto, - continuò lei. - In realtà si chiamano lederhosen. Sai cosa sono? - Quei pantaloni a mezza gamba che mettono spesso i tedeschi? Con le bretelle? - Esatto. Mio padre avrebbe voluto riceverne un paio in regalo dalla Germania. Un paio di lederhosen. Per un uomo della sua generazione è piuttosto alto, e magari avrebbe anche fatto la sua figura, col suo fisico. Per questo li voleva. Secondo me ai giapponesi stanno malissimo, ma è una questione di gusti. Per semplificare il racconto, le chiesi in quali circostanze suo padre avesse chiesto in regalo dei lederhosen. - Scusami, io le cose le racconto sempre all'incontrario. Perciò se non capisci qualcosa non farti scrupolo, domanda pure. Le risposi che lo avrei fatto. - Mia zia materna all'epoca abitava in Germania, e aveva invitato mia madre ad andarla a trovare. Mia madre non diceva una parola di tedesco, e non era mai stata fuori dal Giappone, ma dato che insegnava l'inglese da tanti anni, almeno una volta desiderava fare un viaggio all'estero. Inoltre era da molto che non vedeva la sorella. «Perché non ti prendi un congedo di una decina di giorni», propose a mio padre, «e non ci andiamo insieme, in Germania?» Lui però non poteva assolutamente lasciare il lavoro, così mia madre ci andò da sola. - È stato allora che tuo padre le ha chiesto di portargli dei lederhosen? - Esatto. Mia madre gli domandò cosa volesse in regalo, e lui rispose che voleva quelli. - Ma guarda... A sentire l'amica di mia moglie, a quel tempo i suoi genitori andavano abbastanza d'accordo. Perlomeno non litigavano più ad alta voce in piena notte, e il padre non se ne andava sbattendo la porta per assentarsi per parecchi giorni. In precedenza aveva avuto un'amante, e tali scenate si erano verificate spesso. - Non ha un cattivo carattere, ed è sempre stato un gran lavoratore, ma riguardo alle donne pare si comportasse relativamente male, - aggiunse la mia interlocutrice in tono distaccato quasi parlasse di un estraneo. Tanto che per un attimo pensai che suo padre fosse già morto, invece era vivo e vegeto. - A
quell'epoca però aveva già i suoi anni, quei problemi erano superati, e con mia madre ormai sembrava andare d'amore e d'accordo. In realtà le cose erano finite in modo molto diverso. Quel soggiorno in Germania, che secondo il programma originario sarebbe dovuto durare una decina di giorni, la madre lo aveva prolungato fino a un mese e mezzo, quasi senza avvertire; e anche dopo essere tornata in Giappone era andata a stare da un'altra sorella che abitava a Osaka, a casa non era più tornata. Perché fosse arrivata a tanto, né la figlia né il marito lo avevano mai capito. Infatti fino ad allora, quando c'erano stati dei problemi fra coniugi, la madre si era sempre mostrata molto paziente, al punto da far pensare che avesse poca immaginazione. Aveva sempre messo la famiglia al di sopra di ogni altra cosa, e si era sempre dedicata con amore alla figlia. Di conseguenza il fatto che non desse quasi sue notizie era assolutamente inspiegabile. La figlia e il marito si chiedevano preoccupati come sarebbe finita. Telefonarono parecchie volte a casa della zia di Osaka, ma la madre non venne quasi mai al telefono, e non poterono neanche chiederle cosa intendesse fare. Fu soltanto verso la metà di settembre che le intenzioni della madre furono chiare, un paio di mesi dopo che era tornata in Giappone. Un giorno telefonò all'improvviso: - Ti mando tutte le carte e i documenti necessari per il divorzio, - disse al marito, - mettici il tuo timbro e mandameli indietro, per favore -. Lui le chiese quale fosse la ragione. - Perché nei tuoi confronti non sento più alcun tipo di affetto, - rispose lei prontamente. Non c'era modo di arrangiare le cose? provò a chiedere il marito. No, nessun modo, fu la secca risposta. Nei due o tre mesi seguenti fra il padre e la madre ci furono assidue discussioni e negoziazioni telefoniche, ma la madre non fece il minimo passo indietro, e il padre si rassegnò ad acconsentire al divorzio. Considerato il suo passato, era in posizione di debolezza e non poteva prendere un atteggiamento fermo, a parte il fatto che già per natura era un rinunciatario. - Per me è stato un shock, - disse l'amica di mia moglie. - Non per il divorzio in sé, un sacco di volte avevo già pensato che avrebbero finito col separarsi e mi ero preparata spiritualmente. Un normale divorzio non mi avrebbe turbata più di tanto. Il problema è che mia madre non ha lasciato soltanto mio padre, ha lasciato anche me. Ne rimasi del tutto sconvolta, e profondamente ferita. Mi capisci? Annuii. - Fino ad allora io ero sempre stata dalla parte di mia madre, e lei si era sempre confidata con me. Ed ecco che senza una vera spiegazione mi abbandonava insieme a mio padre. Mi sembrò un trattamento ingiusto, e per molto tempo non potei perdonarla. Le scrissi decine di lettere, e le chiesi di spiegarmi chiaramente cos'era successo, ma lei non mi disse nulla in proposito, e neanche che aveva voglia di vedermi. L'amica di mia moglie incontrò la madre soltanto tre anni dopo. Si trovarono finalmente faccia a faccia al funerale di un parente. Lei si era laureata, era diventata professoressa di elettronica e si manteneva da sola, mentre la madre insegnava l'inglese. Dopo il funerale la madre si rivolse alla figlia e di punto in bianco le disse: - Se fino ad ora non ti ho parlato, è perché non sapevo come farlo. Io stessa non riuscivo a immaginare come sarebbero andate a finire le cose, ma all'inizio la causa di tutto sono stati quei calzoni corti. - Quei calzoni corti? - Ripetè la figlia, proprio come avevo fatto io. Aveva deciso che non avrebbe mai più parlato alla madre, ma alla fine si lasciò vincere dalla curiosità. Vestite com'erano, a lutto, le due donne si recarono in un caffè nelle vicinanze, dove una ascoltò il racconto dell'altra mentre sorseggiavano del tè freddo. Il negozio dove vendevano i lederhosen si trovava in una piccola città a un'ora di treno da Amburgo, la zia aveva preso tutte le informazioni. - Qui tutti dicono che per comprare dei lederhosen quello è il posto
migliore, - aveva detto, - sono di ottima qualità, e non troppo cari. La madre aveva preso il treno da sola e si era recata in quella città per comprare il famoso regalo. Nello scompartimento c'era una coppia di tedeschi di mezza età, con i quali conversò in inglese. Quando spiegò che stava andando a comprare dei lederhosen per il marito, i due le chiesero dove intendeva acquistarli. Lei fece il nome del negozio. - Allora non si sbaglia, - risposero all'unisono marito e moglie, - è il migliore! - Di che sentirsi davvero incoraggiata. Erano le prime ore di un bel pomeriggio d'inizio estate, il fiume attraversava in diagonale la città con un mormorio rinfrescante, l'erba verde sulle sponde ondeggiava alla brezza. Le antiche, lunghe strade lastricate di ciottoli disegnavano dolci curve, e c'erano gatti in ogni angolo. La signora vide una piccola sala da tè e vi entrò, al posto del pranzo aveva deciso di mangiare una fetta di cheesecake e bere un caffè. La città era bella, e tranquilla. Quando ebbe finito di bere il suo caffè, il padrone del locale, che stava giocando col gatto, si avvicinò. - Dov'è diretta? - le chiese. Quando lei rispose che era venuta a comprare dei lederkosen, l'uomo andò a prendere un notes e vi disegnò un piantina per arrivare al negozio in questione. La signora lo ringraziò. Che cosa meravigliosa viaggiare da sola, pensò mentre percorreva la strada di ciottoli. A pensarci bene, era il primo viaggio che faceva da sola in cinquantacinque anni di vita. Durante tutto il soggiorno in Germania non aveva provato neanche una volta malinconia, paura o noia. Ogni paesaggio era nuovo, ogni persona gentile. E tutte quelle esperienze fuori dell'ordinario risvegliavano diverse emozioni a lungo rimaste sopite dentro di lei. Adesso che si trovava dall'altra parte del mondo, non sentiva più il bisogno di preoccuparsi di tante cose che fino ad allora aveva sempre considerato preziose - il marito, la figlia, la famiglia. Trovò facilmente il negozio. Era piccolo, la vetrina e l’insegna erano poco vistose, ma attraverso il vetro si vedevano file ordinate di lederhosen. Spinse la porta ed entrò. All'interno c'erano due uomini anziani. Sistemavano la roba parlando a bassa voce, prendevano appunti su un taccuino. Sul fondo del negozio, separato da una tenda, c'era un atelier più grande, dal quale veniva il rumore regolare di una macchina da cucire. - In cosa posso servirla, signora? - chiese in tedesco l'uomo più grosso alzandosi in piedi. - Vorrei comprare dei lederhosen, - rispose lei in inglese. - Sono per lei? - disse il vecchio in un inglese dal forte accento. - No, vorrei portarli in regalo a mio marito che è in Giappone. - Ah, - fece il vecchio, poi dopo aver riflettuto un poco: - Devo dedurne che suo marito adesso non è qui? - No, infatti. È in Giappone - Questo purtroppo ci crea un problema, però, - disse il vecchio cercando delle parole educate. Vede, signora, noi non possiamo vendere mercanzia a clienti che non esistono. - Ma mio marito esiste! - Certo, suo marito esiste. È ovvio, - si affrettò a dire il vecchio. - Mi scusi, il mio inglese non è molto buono, quello che voglio dire... insomma, se adesso suo marito non è qui, non possiamo vendergli dei lederhosen. - Ma perché? - chiese la signora con aria confusa. - È la regola del negozio. La nostra regola, capisce? Noi chiediamo al cliente di provare dei lederhosen adatti alla sua taglia qui in nostra presenza, facciamo dei piccoli ritocchi, e poi glieli vendiamo. Sono più di cento anni che ci atteniamo a questa regola. Su di essa si basa la nostra buona reputazione. - Ma sono venuta da Amburgo, ho perso una giornata, per venire a comprare dei lederhosen da voi. - Non sappiamo come scusarci, signora, - disse il vecchio con aria veramente desolata. - Ma non possiamo fare eccezioni. Niente è più difficile da ottenere, in questo mondo instabile, e più facile da
perdere, che una buona reputazione. La madre della nostra amica fece un sospiro, senza muoversi dalla soglia del negozio. Poi si spremette il cervello per cercare se non ci fosse da qualche parte una soluzione. Nel frattempo il vecchio più alto spiegava la situazione a quello più basso. Quest'ultimo mentre ascoltava annuì parecchie volte, sembrava approvare. I due erano di altezza molto diversa, ma l'espressione della loro faccia era praticamente identica. - Senta, cosa ne pensa se facciamo così? - propose allora la signora. - Trovo qualcuno che abbia la stessa corporatura di mio marito e lo porto qui. Gli chiediamo di provare dei pantaloni, voi fate i ritocchi necessari, e li vendete a me. Il vecchio più alto la guardò con aria allibita. - Però, signora, questo è contrario alla regola. Non sarà quella persona a portare quei pantaloni. Sarà suo marito. E noi lo sappiamo. Non possiamo farlo. - E voi fate finta di non saperlo. Vendete i lederhosen a quella persona, e io li compero da lui. In questo modo la vostra regola è salva. Non ho ragione? Consideri questa possibilità, per favore. Io non credo che tornerò una seconda volta in Germania. Quindi se perdo quest'occasione di comprare dei lederhosen da voi, non potrò farlo mai più. - Uhm, - disse il vecchio. Rifletté qualche istante, poi si voltò verso il vecchio più basso e ricominciò a dargli spiegazioni in tedesco. Quando ebbe terminato, l'altro prese a parlare rapidamente. Si alternarono così parecchie volte, finché il più alto si voltò verso la signora. - Accettiamo, - disse. - Eccezionalmente - molto eccezionalmente - faremo finta di non sapere nulla di tutta la faccenda. Non ci sono tante persone che vengano apposta dal Giappone per comprare i nostri lederhosen, e noi tedeschi non siamo così rigidi. Cerchi di trovare una persona che abbia una corporatura più simile possibile a quella di suo marito. Anche mio fratello è d'accordo. - Grazie, - disse lei. Poi si voltò verso il fratello, e disse in tedesco: - Das istso nettvon Ihnen, - molto gentile da parte sua. Lei - cioè la figlia che mi stava parlando - arrivata a quel punto del racconto incrociò le braccia sul tavolo e sospirò, io bevvi il resto del mio caffè ormai freddo. Pioveva sempre, e mia moglie tardava ancora. Com'era andata a finire quella storia? Non riuscivo a immaginarlo. - Allora? - chiesi, morendo dalla voglia di sentire il seguito. - Tua madre è poi riuscita a trovare qualcuno con la corporatura di tuo padre? - Sì, - rispose l'amica di mia moglie in tono inespressivo, ci è riuscita. Si è seduta su una panchina a guardare la gente che passava, ha scelto uno che sembrava proprio mio padre, e in più una brava persona, e senza lasciargli dire né si né no - anche perché l'uomo in questione non diceva una parola d'inglese l'ha portato al negozio. - Però, piuttosto intraprendente! - commentai. - Non saprei. In Giappone era sempre stata una donna tranquilla, di buon senso -. Un lungo sospiro. Ad ogni modo quell'uomo venne informato dai proprietari del negozio su come stavano le cose, e accettò ben volentieri di fare da modello. Indossò dei lederbosen, ai quali vennero apportate diverse modifiche. Nel frattempo scherzò e rise con i due vecchi. Trenta minuti dopo, quando i pantaloni furono pronti, mia madre aveva deciso di divorziare. - Non ti seguo bene, - dissi. - In quella mezz'ora è successo qualcosa? - No, non è successo niente. I tre tedeschi scherzavano allegramente tra di loro, tutto lì. - Allora perché tua madre ha deciso di divorziare proprio allora? - Questa è una cosa che neanche lei ha mai capito. Inoltre era terribilmente confusa. L'unica cosa che sa è che, mentre guardava tranquilla quell'uomo che indossava i lederbosen, dal profondo del suo essere sentì venire su, come una bolla, un'intollerabile disgusto nei confronti di mio padre. Non poteva farci nulla. Quell'uomo - quello che indossava i lederhosen - colore della pelle a parte, era identico a lui: la forma delle gambe, della pancia, perfino il grado di calvizie. E con addosso i lederhosen nuovi rideva scuotendosi tutto.
Guardandolo, mia madre sentì un pensiero rimasto fino ad allora vago dentro di lei farsi a poco a poco lucido e saldo: per la prima volta si rese conto di quanto violento fosse l'odio per suo marito.
Quando mia moglie tornò con la spesa e si mise a chiacchierare con la sua amica, io per conto mio continuai a pensare a quella storia dei lederhosen. E non smisi neanche durante la cena, o dopo, quando tutti e tre prendemmo un bicchierino di liquore leggero. - Allora tu adesso non la odi più, tua madre? - chiesi a un certo punto, approfittando del fatto che mia moglie si era alzata un momento. - No, non la odio più. Tra noi non c'è più una relazione tanto affettuosa, ma perlomeno non la odio più. - E questo da quando ti ha raccontato la faccenda dei lederhosen? - Sì, da allora. Penso proprio che sia così. Dopo aver sentito quella storia, non sono più riuscita ad odiarla. Non so spiegarmi bene il motivo, ma sono sicura che è perché siamo tutte e due donne. Annuii. Se invece togliessimo da quanto mi hai raccontato la parte che riguarda i lederhosen, e restasse soltanto la storia di una donna che durante un viaggio riesce a diventare indipendente, avresti perdonato a tua madre di averti abbandonata? - No, mai, - rispose l'amica di mia moglie con decisione. - La chiave di questa vicenda sono proprio i lederhosen. - Lo penso anch'io, - dissi.
L'elefante scomparso
Appresi dal giornale la notizia che l'elefante era scomparso dal suo capannone in città. Quella mattina mi ero svegliato al suono della sveglia alle sei e tredici, come sempre: ero andato in cucina e mi ero preparato del caffè e delle fette di pane tostato. Poi avevo sintonizzato la radio sull'emittente americana e mi ero messo a mangiare il mio pane col giornale del mattino aperto sul tavolo. Avendo l'abitudine di leggerlo tutto con ordine dall'inizio alla fine, mi ci volle parecchio tempo prima di arrivare alla notizia della scomparsa dell'elefante. Gli articoli in prima pagina riguardavano le frizioni negli scambi commerciali internazionali e la politica interna, poi venivano la politica estera, l'economia, la critica letteraria, la corrispondenza con i lettori, gli annunci economici, lo sport. Le notizie locali occupavano le ultime pagine. L'articolo in questione era in testa alla cronaca regionale. L'elefante sparisce dalla città, diceva il titolo a grossi caratteri, poi il sottotitolo in caratteri più piccoli: Fra i cittadini cresce la paura. Messa in causa la responsabilità del guardiano. C'era anche la fotografia di alcuni poliziotti che ispezionavano il capannone dell'elefante, ormai deserto. Aveva qualcosa di innaturale, sembrava troppo vuoto, senza espressione, come un grande animale disidratato al quale avessero tolto le interiora. Spazzai via le briciole di pane cadute sul giornale, e lessi attentamente quell'articolo riga per riga. Avevano constatato la scomparsa il 18 maggio - il giorno precedente cioè - alle due del pomeriggio. Ad accorgersi che il capannone era vuoto erano stati gli inservienti della ditta di ristorazione che ogni giorno, con un camion, portavano il cibo all'elefante (veniva nutrito principalmente con gli avanzi della mensa della scuola elementare comunale). L'anello di ferro che di solito teneva incatenata una zampa dell'animale era intatto e ancora chiuso a chiave, come se fosse stato sfilato senza venire aperto. E non era sparito solo l'elefante, se n'era andato anche il suo guardiano, l'uomo incaricato di curarlo e nutrirlo, che parlava sempre e solo di lui. Erano stati visti per l'ultima volta il giorno precedente - il 17 maggio - poco dopo le cinque del pomeriggio. Cinque bambini delle elementari si erano avvicinati al capannone per disegnare l'elefante e fino a quell'ora avevano lavorato ai loro schizzi a matita. Erano gli ultimi ad averlo visto, diceva l'articolo. Perché alle sei, quando suonava la sirena, il guardiano chiudeva i cancelli d'accesso all'area e non lasciava più entrare nessuno. Secondo quanto affermavano all'unanimità i cinque ragazzini, né l'elefante né il guardiano erano apparsi diversi dal solito. L'elefante come d'abitudine se ne stava tranquillo in mezzo allo spiazzo, ogni tanto dondolava la proboscide a destra e a sinistra, stringeva gli occhi rugosi. Era così vecchio che sembrava muoversi con notevole sforzo, al punto che la gente, quando lo vedeva per la prima volta, si domandava preoccupata se non stesse per crollare a terra ed esalare l'ultimo respiro. Proprio a causa dei suoi anni l'elefante era stato a suo tempo adottato dalla città - la città in cui vivo io, un sobborgo di Tokyo. Quando il nostro piccolo zoo dovette chiudere per problemi finanziari, tutti gli altri animali, grazie alla mediazione di un agente che si occupava di questo tipo di scambi, furono mandati in altri giardini zoologici sparsi in tutta la nazione. Solo per quell'elefante troppo vecchio non si trovò un posto dove fossero disposti ad accoglierlo, di elefanti ce n'erano già abbastanza ovunque e nessuno li amava tanto da volerne prendere uno in più; soprattutto una bestia decrepita che sembrava dover morire di un attacco di cuore da un momento all'altro. Così nel nostro zoo sempre più scalcinato e ormai deserto - tutti gli altri
animali erano spariti - l'elefante restò solo per altri tre o quattro mesi, del tutto inoperoso. D'altronde non è che avesse mai fatto nulla. Sia per lo zoo che per la città, quell'animale costituiva un bel problema. Lo zoo aveva venduto l'area a un costruttore che aveva intenzione di edificarvi dei palazzi di parecchi piani, per i quali aveva già ottenuto i permessi dal Comune. Più si prorogava la sistemazione dell'elefante più gli interessi da pagare al costruttore aumentavano. Non per questo però si poteva uccidere quella povera bestia. Pazienza se si fosse trattato di una scimmia-ragno o di un pipistrello, ma il fatto di eliminare un elefante non sarebbe passato inosservato, e se un giorno la verità fosse saltata fuori sarebbe scoppiato un putiferio. A quel punto le tre parti in causa si riunirono per discutere una soluzione, e raggiunsero un compromesso così concepito: 1) La città diventava proprietaria dell'elefante senza spendere un soldo, ma aveva l'onere del mantenimento. 2) Il costruttore avrebbe fornito a sue spese un luogo dove tenerlo. 3) I proprietari del vecchio zoo avrebbero pagato il guardiano incaricato di curarlo e nutrirlo.
Questo era l'accordo privato fra le tre parti interessate. Giusto un anno prima di quel 18 maggio. Nei riguardi della «questione-elefante», io nutrivo fin dall'inizio un interesse personale, così avevo conservato tutti gli articoli di giornale che ne parlavano. Ero perfino andato ad assistere al dibattito dell'assemblea comunale, motivo per cui ora sono in grado di fare un resoconto preciso degli eventi. Ne vale la pena, anche se il discorso rischia di diventare lungo, perché non è escluso che ci sia un nesso tra il modo in cui il problema fu risolto e la scomparsa dell'elefante. Quando il sindaco aveva firmato l'accordo, e la città aveva accettato di farsi carico dell'animale, nel Consiglio Comunale, in seno al partito di opposizione (fino a quel momento ne avevo ignorato l'esistenza), si era formato un movimento contrario, che pose al sindaco una domanda precisa: perché la città doveva farsi carico dell'elefante? Questa era la lista delle loro argomentazioni - scusate se è piuttosto lunga, ma in questo modo tutta la vicenda risulterà più chiara: 1) Quello dell'elefante era un problema privato tra lo zoo e il costruttore, non c'era nessun motivo che la città vi partecipasse. 2) Le spese di mantenimento e cura erano troppo alte. 3) Come veniva risolto il problema della sicurezza? 4) Qual era per la città il vantaggio di possedere un elefante?
Così stavano le cose. Prima di pensare a tenere un elefante, sostenevano quelli del movimento contrario, c'erano tante altre faccende di cui la città doveva preoccuparsi, riparare le tubature dell'acqua, procurarsi un'altra autopompa dei pompieri... insinuarono anche, senza tanti giri di parole, che il sindaco e il costruttore si fossero accordati in separata sede. A quel punto, anche la fazione pro-elefante aveva qualcosa da dire: 1) Se venivano costruiti dei grandi condomini, gli introiti ricavati dalle tasse municipali sarebbero saliti alle stelle, e mantenere un elefante non avrebbe più costituito un problema, era naturale che la città partecipasse a un tale progetto. 2) L'elefante era vecchio, e non mangiava molto. Quanto al rischio che costituisse un pericolo per i cittadini, era praticamente inesistente. 3) Quando l'elefante fosse morto, la terra donata dal costruttore per tenervelo sarebbe diventata proprietà pubblica. 4) L'elefante sarebbe divenuto il simbolo della città.
In conclusione, alla fine di un lungo dibattito venne deciso di tenere l'elefante. In quest'antica
cittadina residenziale alla periferia della metropoli la popolazione è relativamente agiata, e il Comune piuttosto ricco. Inoltre la gente approvava il fatto di prendersi cura di un vecchio elefante che non sapeva dove andare, di sicuro aveva più simpatia per lui che per le tubature dell'acqua o i mezzi dei pompieri. Io ero d'accordo con la decisione presa. Cominciavo a essere stufo di tutti quei grandi condomini, mentre l'idea che la nostra comunità adottasse un elefante non mi dispiaceva affatto. Fu disboscata un'area sulla collina, e vi spostarono la palestra della scuola elementare, che cominciava a dare segni di decrepitezza: sarebbe servita da dimora all'elefante. I pasti glieli avrebbe forniti la mensa scolastica. Così l'animale venne trasportato con un carro dallo zoo in disuso alla sua nuova casa, per passarvi i suoi vecchi giorni. Vi andò ad abitare anche il guardiano - pure lui in là negli anni - che si era sempre occupato del pachiderma. Alla cerimonia di inaugurazione del capannone partecipai anch'io. Il sindaco, in piedi davanti all'animale, fece un discorso sullo sviluppo della città e sul miglioramento delle strutture culturali. Un bambino che rappresentava gli alunni delle elementari lesse un componimento (Signor Elefante, per favore viva a lungo e in buona salute, eccetera eccetera...) Ci fu un concorso per chi realizzava il migliore schizzo dell'elefante (disegnarlo divenne da allora una delle attività di educazione artistica nella scuola elementare della città), e due ragazze in abiti vaporosi - non certo due bellezze - gli diedero due banane. L'elefante sopportò senza quasi muoversi quella cerimonia priva di senso - perlomeno per lui - e mangiò lentamente le sue banane con la solita espressione vacua negli occhi, che sembravano appena coscienti. Quando ebbe finito, venne applaudito da tutti. Alla zampa posteriore destra portava un pesante e solido anello di ferro, al quale era attaccata una spessa catena lunga una decina di metri, a sua volta saldamente fissata a un blocco di cemento. Chiunque poteva constatare che l'animale era ben legato, non sarebbe riuscito a liberarsi nemmeno in cento anni, per quanti sforzi avesse fatto. Era difficile dire se quella catena gli desse fastidio o no, ad ogni modo sembrava non badare al ceppo che gli cingeva la zampa, perlomeno in apparenza. Aveva sempre uno sguardo tranquillo e fissava un punto imprecisato nell'aria. Quando c'era vento le orecchie e i peli bianchi sulla sua spessa pelle si agitavano lentamente. Il guardiano dell'elefante era un vecchio magro e minuto, di età indefinibile, poteva avere sessantadue o sessantatre anni, come settantasei o settantasette. Ci sono persone il cui aspetto a un certo punto non si modifica più, resta sempre lo stesso, e lui era una di queste. La sua pelle era cotta dal sole d'estate come d'inverno, i capelli corti e duri, gli occhi piccoli. Il viso non aveva nulla di caratteristico, solo le orecchie a sventola quasi rotonde che sporgevano a destra e a sinistra dalla faccia minuta risaltavano sgradevolmente. Non era certo un uomo freddo, bastava scambiare qualche parola con lui per rendersene conto, e si esprimeva anche piuttosto bene. Se era dell'umore giusto poteva diventare molto simpatico, pur restando sempre un po' rigido. Fondamentalmente però era un vecchio silenzioso e solitario. I bambini gli piacevano e ogni volta che venivano faceva di tutto per trattarli con gentilezza, ma loro non gli prestavano molta attenzione, era solo un vecchio. L'unica creatura che l'avesse a cuore era l'elefante. Il guardiano, che dormiva in una casetta prefabbricata attaccata al capannone, si occupava di lui tutto il tempo, dal mattino alla sera. Stavano insieme da più di dieci anni, e in ogni gesto o sguardo fra i due si poteva sentire la familiarità del loro rapporto. Quando il guardiano voleva far muovere l'animale che se ne stava fermo in piedi, bastava che gli si mettesse di fianco, gli desse qualche colpetto sulla zampa anteriore con la mano e gli sussurrasse qualche parola. Allora lui dondolandosi pesantemente si spostava esattamente nel luogo che gli era stato indicato, si sistemava lì e riprendeva a guardare un punto vago nell'aria. Ogni fine settimana io mi recavo al capannone e osservavo attentamente il comportamento di quei
due, ma non riuscivo a capire su quale principio si basasse la comunicazione fra loro. Poteva darsi che l'elefante comprendesse alcune parole umane - aveva vissuto a contatto con gli uomini abbastanza a lungo oppure che recepisse le informazioni dal modo di picchiargli sulla gamba. O forse aveva il dono della telepatia, e perciò intuiva i desideri del suo guardiano. Una volta provai a chiedere al vecchio come facesse a dargli i comandi. - È tanto tempo che stiamo insieme... - mi rispose lui ridendo, senza spiegare nulla. Era passato così, senza che sorgessero complicazioni, un anno intero. Ed ecco che l'elefante spariva. Bevendo un secondo caffè, rilessi tutto il pezzo con più attenzione. Era concepito in modo strano, il tipo di resoconto che avrebbe fatto dire a Sherlock Holmes guardi un po ' qui, Watson, c'è un articolo molto, molto interessante. A dare quell'impressione di stranezza era il caos che pareva regnare nella testa del giornalista; il che nasceva, è ovvio, dall'assurdità della situazione. Cercando di districarla, il poveraccio aveva fatto del suo meglio per scrivere un pezzo attendibile, uno sforzo che al contrario l'aveva fatalmente portato a una confusione e un disorientamento disperati. Per esempio usava l'espressione l'elefante è scappato, ma considerando l'articolo nel suo insieme, appariva subito chiaro che non si poteva affatto parlare di una fuga. L'elefante era scomparso. Il giornalista rivelava la propria confusione mentale dicendo che alcuni dettagli restavano poco chiari, ma a mio avviso la situazione non era tale da poter venire liquidata così, in termini tanto riduttivi. Prima di tutto c'era il problema dell'anello di ferro che l'elefante portava alla zampa. Era intatto, con il lucchetto chiuso. La spiegazione più logica suggeriva che il guardiano l'avesse aperto, avesse sfilato la zampa dall'anello, richiuso il lucchetto e poi fosse scappato insieme all'animale - naturalmente anche il giornale accennava a tale possibilità; ma il bello era che il guardiano la chiave non l'aveva. Ne esistevano soltanto due, che per sicurezza venivano conservate una nella cassaforte del posto di polizia, l'altra in quella della caserma dei pompieri, rubarle non sarebbe stato possibile né al guardiano né a nessun altro. E anche se ci fosse stata mettiamo una probabilità su diecimila, che bisogno c'era di andare poi a rimettere la chiave al suo posto? Il mattino seguente infatti, quando si era controllato, entrambe le chiavi erano state trovate nelle rispettive casseforti, nella caserma dei pompieri e al posto di polizia. Non restava altro da pensare che il guardiano avesse sfilato l'anello senza aprirlo, cosa impossibile a meno di segare un pezzo di zampa all'elefante. Il secondo problema era la via di fuga. Il capannone con il relativo spiazzo erano circondati da un solido recinto alto tre metri. La questione della sicurezza era stata discussa in assemblea dal Consiglio Comunale, e la giunta aveva poi deciso di prendere delle misure che potevano definirsi addirittura eccessive per un vecchio elefante. Il recinto era fatto di cemento e grosse sbarre di ferro - le spese erano state naturalmente sostenute dalla ditta di costruzione proprietaria del luogo - e c'era solo un ingresso, che era stato trovato chiuso a chiave dall'interno. Né era pensabile che un elefante potesse scavalcare quella specie di fortificazione e scappare. Terzo problema: le tracce. Subito dietro il capannone cominciava la collina con un pendio scosceso: impossibile che l'elefante si fosse arrampicato su di lì. Di conseguenza, anche supponendo che fosse riuscito in qualche modo a sfilarsi l'anello dalla zampa e a scavalcare il recinto, avrebbe potuto andarsene soltanto dalla strada davanti allo spiazzo. Peccato però che su quella strada sabbiosa e friabile non ci fosse nemmeno un calco di forma e dimensioni corrispondenti all'impronta di un elefante. Insomma da quell'articolo pieno di penosa e confusa retorica, si poteva arrivare a una sola conclusione: l'elefante non era scappato, era sparito. Come c'era da aspettarsi però, né i giornali, né la polizia, né il sindaco avevano l'intenzione di ammettere apertamente la scomparsa. La polizia annunciò che l'elefante era stato o rapito o liberato in
maniera abile e programmata : le indagini sarebbero proseguite, e considerata la difficoltà di nascondere una bestia di quella mole, si sarebbe arrivati alla soluzione in brevissimo tempo, si prevedeva ottimisticamente. Avevano intenzione di battere le alture circostanti con l'aiuto delle associazioni locali di cacciatori e di un corpo di tiratori scelti dell'esercito. Il sindaco indisse una conferenza-stampa - il cui resoconto venne divulgato anche dai media nazionali - nella quale si scusò per la carenza organizzativa della polizia. Al tempo stesso tuttavia dichiarava che il sistema di vigilanza dell'elefante non era affatto inferiore a quello di strutture simili in altri zoo del Paese, era anzi più solido e perfezionato della media, probabilmente ci si trovava di fronte a un'azione antisociale e insensata, pericolosa e malevola, imperdonabile. L'ala dell'opposizione che era contraria alla cosa fin dall'inizio, come l'anno precedente dichiarò che il sindaco, alleandosi con l'impresa privata, con molta disinvoltura aveva coinvolto la popolazione in quella faccenda della sistemazione dell' elefante, e la sua responsabilità politica era in causa. Una madre - una donna sui 37 anni - si era lamentata, con aria molto preoccupata, che non c'era più da stare tranquilli a lasciar giocare fuori i bambini. Il giornale faceva una breve cronistoria dell'adozione dell'elefante da parte della città, e mostrava una pianta approssimativa del luogo dove l'animale era tenuto. C'era anche la storia dettagliata dell'elefante stesso, e un articolo sul guardiano scomparso insieme a lui: l'uomo era Watanabe Noboru, 63 anni. Watanabe era nativo di Tateyama, nella prefettura di Chiba, aveva lavorato a lungo allo zoo come guardiano di mammiferi, e aveva la piena fiducia dei superiori sia per la sua grande conoscenza dei pachidermi, sia per il suo carattere caloroso e leale. L'elefante era arrivato dall'Africa orientale ventidue anni prima, ma non si sapeva con esattezza quanti anni avesse, né quale fosse la sua «personalità». L'articolo finiva con un appello della polizia ai cittadini perché dessero tutte le informazioni possibili sull'animale. Considerai per qualche secondo quella richiesta mentre bevevo il mio secondo caffè, poi decisi di non telefonare. Non avevo molta voglia di avere a che fare con la polizia, e inoltre non pensavo che avrebbero creduto alle informazioni che avrei dato loro. A cosa sarebbe servito parlare a della gente che non considerava neanche la possibilità che l'elefante fosse scomparso? Presi dalla libreria il mio album di ritagli e vi attaccai l'articolo. Poi lavai la tazza e il piatto e mi recai in ufficio. La sera, al telegiornale delle 19.00 della rete nazionale, guardai il servizio sulle ricerche. Cacciatori che portavano grandi fucili caricati con tranquillanti, soldati delle truppe di difesa, poliziotti e pompieri frugavano palmo a palmo le alture della zona, sorvolate da alcuni elicotteri. Trattandosi delle colline tutt'altro che selvagge di un quartiere residenziale di una periferia metropolitana, un tale dispiegamento di forze doveva bastare a perlustrarle tutte in una giornata; inoltre l'oggetto della ricerca non era un pazzo assassino di bassa statura, ma un enorme elefante africano. Non erano molti i posti dove poteva nascondersi. Eppure a quell'ora di sera l'elefante non era stato ancora trovato. Sullo schermo apparve il capo della polizia che annunciò che le ricerche continuavano. Chi ha fatto scappare l'elefante e dove lo nasconde? concluse l'annunciatore, e perché l'ha fatto? Tutta la faccenda è avvolta dal mistero. Le ricerche continuarono per qualche giorno, ma dell'elefante non fu trovata traccia, né le autorità scoprirono il minimo indizio. Ogni giorno io leggevo attentamente le novità al riguardo, ritagliavo ogni articolo che vedevo e lo conservavo. Tenevo perfino i fumetti ispirati a quella storia. Il mio album fu subito pieno, e dovetti andare in cartoleria a comprarne un altro. Eppure anche in quell'enorme fascio di articoli non c'era una sola riga che presentasse qualche interesse. Sui giornali si leggevano solo scempiaggini o assurdità, sempre nessuna traccia dell'elefante, la ricerca si fa più angosciante, ci sarebbe dietro lo zampino della malavita? Passata una settimana, di quella faccenda si parlò sempre meno, finché sparì quasi dalle pagine dei quotidiani. Alcune riviste pubblicarono degli articoli sensazionali, una tirò in campo perfino una medium, ma a poco a poco tutto si dissolse nel nulla. La gente sembrava aver catalogato la vicenda nella
nutrita categoria dei «misteri senza soluzione». Che influenza poteva avere sulla società la scomparsa dalla zona di un vecchio elefante e del suo vecchio guardiano? La Terra continuava a ruotare come sempre, i politici a fare promesse difficilmente realizzabili, la gente a recarsi sbadigliando al lavoro, i bambini a studiare per gli esami. Nel continuo andirivieni della vita quotidiana, l'interesse per un elefante scomparso non poteva durare indefinitamente. Così trascorsero alcuni mesi senza nessun avvenimento notevole monotoni come un esercito stanco che passa davanti a una finestra. Quando trovavo un po' di tempo, mi recavo in quella che era stata la dimora dell'elefante e contemplavo il posto nel quale lui non c'era più. Il cancello d'ingresso era chiuso con una catena a parecchi giri perché non vi entrasse nessuno. Guardando attraverso le sbarre del recinto, si vedeva una catena anche alla porta del capannone. La polizia prendeva misure di sicurezza esagerate quanto inutili per compensare il fallimento delle ricerche. Tutt'intorno c'era silenzio e non si vedeva l'ombra di una persona, solo un gruppo di piccioni sbattevano le ali sul tetto del capannone. Nessuno si prendeva più cura dello spiazzo, invaso da erbacce estive rimaste a lungo in attesa di un'opportunità di crescere. La catena arrotolata intorno alla serratura della porta del capannone mi faceva pensare a un grosso serpente messo a guardia di un antico palazzo in rovina nella giungla. L'elefante se n'era andato da pochi mesi, e già il luogo era pervaso da un'atmosfera di cupa e fatale desolazione, che incombeva come nuvole temporalesche. Fu verso la fine di settembre che la incontrai. Quel giorno non aveva smesso di piovere dal mattino, una pioggerella leggera e monotona, tipica della stagione, che a poco a poco lavava via i ricordi dell'estate impressi nella terra; ricordi che attraverso i canali di scolo finivano nelle acque sotterranee e nei fiumi, per venire poi portati verso il mare profondo e scuro. Ci incontrammo a un party organizzato dalla mia ditta per una nuova campagna pubblicitaria. Io lavoravo nel settore promozionale di un grande produttore di apparecchi elettrici, e giusto a quell'epoca curavo la pubblicità di una serie di elettrodomestici da cucina: il lancio sul mercato era programmato per la fine della stagione autunnale dei matrimoni, che coincideva con l'inizio di quella invernale dei bonus di fine anno. Il mio compito consisteva nel contattare diverse riviste femminili perché ci sostenessero pubblicando degli articoli adeguati. Non erano pezzi di bravura che richiedessero grandi capacità intellettuali, ma andavano perlomeno concepiti in modo che i lettori non fiutassero la propaganda. In cambio noi davamo loro la pubblicità dei nostri prodotti, una mano lava l'altra... Lei era editrice in una rivista per giovani casalinghe, ed era venuta al party per raccogliere materiale per quegli articoli. Non avendo altro da fare al momento, le tenni compagnia mostrandole i frigoriferi di vari colori, le caffettiere, i forni a microonde e i frullatori disegnati da un famoso stilista italiano. - La cosa più importante è l'armonia, - dissi. - Un oggetto può essere stupendo, ma se stona con quello che c'è intorno non lo si nota. Armonia di colori, di forme, di funzioni - è questa l'esigenza di una kitchen, di una cucina moderna. Stando ai sondaggi, la cucina è il posto dove le donne passano il maggior numero di ore in una giornata. Per una casalinga la cucina è il posto di lavoro, lo studio, il soggiorno, e di conseguenza si sforzerà di renderla più accogliente possibile. La grandezza non c'entra. Che sia grande o piccola, il segreto del successo di una moderna kitchen è uno solo: la semplicità, la funzionalità, l'armonia. Questa nuova serie è stata programmata, e disegnata, secondo questi criteri. Guardi questo piatto di portata, per favore... - E avanti su questo tono. Lei annuiva, e prendeva appunti in un taccuino. Personalmente non sembrava nutrire grande interesse per quel materiale, quanto a me, il piatto di portata mi era del tutto indifferente. Stavamo semplicemente svolgendo i nostri rispettivi lavori. - Però, se ne intende, di cucine! - disse lei dopo che ebbi terminato la mia spiegazione. - Be', è il mio lavoro, - risposi, la faccia atteggiata a un sorriso professionale. - Ma a parte questo, cucinare mi piace. Cucino tutti i giorni, anche se mi limito a cose semplici.
- Ed è proprio necessario che ci sia tutta quest'armonia, in una cucina? - Kitchen, non cucina, - la corressi, - è un dettaglio insignificante, ma in ditta insistono perché usiamo la parola inglese. - Mi scusi. Ma in questa kitchen è davvero indispensabile che ci sia tanta armonia? Vorrei il suo parere personale. - Il mio parere personale, se non mi tolgo la cravatta non glielo posso dare, - risposi ridendo. Comunque oggi voglio fare un'eccezione, penso che prima dell'armonia, ci siano altre cose necessarie, in una cucina. Ma non sono cose che si possano vendere e comprare, e ciò che non è commerciabile non ha quasi significato in questo nostro mondo pragmatico. - Crede che il mondo sia davvero così pragmatico? Presi dalla tasca il pacchetto delle sigarette e ne portai una alla bocca. L'accesi con l'accendino. - Ho solo detto così per dire, - risposi. - È un criterio che rende le cose più comprensibili, e il lavoro più facile. È come un gioco. Essenzialmente pragmatico, o pragmaticamente essenziale, come preferisce. Attenendosi a questo criterio non si sollevano questioni, non si creano complicazioni. - Be', è un punto di vista interessante, - disse lei. - Non particolarmente, sono ragionamenti alla portata di chiunque. A proposito, lo champagne non è male, ne gradisce un po'? - Grazie, volentieri. Sorseggiando champagne ghiacciato continuammo a chiacchierare del più e del meno. Nel corso della conversazione venne fuori che avevamo parecchie conoscenze in comune, il nostro ambiente professionale non era tanto vasto, bastava lanciare qualche pietra perché una o due andassero a colpire qualcuno che conoscevamo entrambi. Inoltre scoprimmo che lei aveva frequentato la stessa università di mia sorella minore. Così, con qualche nome in mano, ci fu relativamente facile passare da un argomento all'altro. Eravamo entrambi single. Lei aveva ventisei anni, io trentuno. Lei portava le lenti a contatto, io gli occhiali. Lei ebbe parole di elogio per la mia cravatta, io per la sua giacca. Parlammo dell'affitto dei nostri rispettivi appartamenti, ci lamentammo dei nostri stipendi e del contenuto del nostro lavoro. Insomma cominciavamo a prendere confidenza. La ragazza era piuttosto affascinante, per nulla invadente. Nella mezz'ora durante la quale parlammo insieme, non trovai nulla in lei che non mi piacesse. Quando il party stava per finire, la invitai a bere qualcosa al bar dell'albergo, dove ci sedemmo e continuammo a conversare. Dalla grande finestra del locale si vedeva la pioggia di quell'inizio di autunno: continuava a cadere ovattata lasciando intravedere le luci della città che lanciavano messaggi vari. Nel bar quasi deserto regnava un pesante silenzio. Lei ordinò un daiquiri gelato, io un whisky con ghiaccio. Sorseggiando le nostre bevande, parlammo delle solite cose di cui possono parlare al bar un uomo e una donna che si sono appena conosciuti e hanno familiarizzato un po'. Di quando eravamo studenti, della musica che ci piaceva, di sport, delle nostre abitudini quotidiane... A un certo punto tirai fuori la storia dell'elefante. Non riesco a ricordare per quale connessione di idee tutt'a un tratto introdussi quell'argomento, forse stavamo discorrendo di animali. E anche probabile che inconsciamente volessi esporre a qualcuno a qualcuno con cui si potesse davvero parlare - il mio punto di vista sulla faccenda. Oppure ero semplicemente ubriaco. Nell'attimo in cui menzionai l'elefante, però, mi accorsi di aver tirato in ballo un argomento del tutto inadatto alla situazione. Non era il momento opportuno. Si trattava, come dire, di una storia ormai chiusa. Cercai di passare subito ad altro, ma per disgrazia avevo risvegliato il suo interesse più di quanto normalmente avrei potuto aspettarmi. Quando le dissi che io quell'elefante l'avevo visto un sacco di volte, lei cominciò a tempestarmi di domande. Che tipo di elefante era? Come pensavo che avesse fatto, a scappare? Che cosa mangiava di solito? Non era per caso pericoloso?
Le diedi le generiche spiegazioni che avevano fornito i giornali, ma lei avvertì una reticenza innaturale nel mio tono di voce. Non sono mai stato bravo a dire bugie. - Sarai rimasto sbalordito, quando l'elefante è scomparso! - disse con aria indifferente sorseggiando il suo secondo daiquiri. - Nessuno andrebbe a immaginarsi una cosa del genere! - No, forse no, - ammisi prendendo dal piattino di vetro un salatino. Lo spezzai in due e ne mangiai metà. Il cameriere venne a mettere dei portacenere puliti. Lei mi guardò per qualche secondo con aria di profondo interesse. Io mi accesi un'altra sigaretta. Per tre anni interi avevo smesso di fumare, ma da quando l'elefante era sparito avevo ricominciato. - Cosa significa forse no? Che un poco l'avevi previsto? - Be', proprio previsto no, - risposi ridendo. - Un fatto cosi, che un bel giorno tutt'a un tratto un elefante svanisca nel nulla, non ha alcun senso. Perché deve succedere? Non s'è mai sentita una cosa del genere. - Tu però ti sei espresso in maniera molto strana. Scusa, ma Io ho detto che nessuno andrebbe a immaginarsi una cosa del genere, e tu hai risposto: no, forse no. Normalmente una persona non avrebbe risposto così, avrebbe detto qualcosa come infatti, o impensabile, non ti pare? Guardandola io annuii vagamente, poi alzai una mano per chiamare il cameriere e gli ordinai un altro whisky. Fino a quando me lo portò tra noi calò un silenzio provvisorio. - Senti, c'è qualcosa che non capisco, - proseguì lei in tono pacato. - Fino a qualche minuto fa parlavi in maniera estremamente chiara. Fino a quando hai tirato fuori questa storia dell'elefante. Da quel punto in poi hai cominciato a esprimerti in modo strano. Non si capisce bene cosa tu voglia dire... Cos'è successo, insomma? C'è stato qualcosa di spiacevole, a proposito dell'elefante? Oppure sono le mie orecchie che mi fanno degli scherzi? - No, le tue orecchie funzionano benissimo, - risposi. - Allora sei tu che hai un problema? Misi un dito nel bicchiere e feci girare il ghiaccio. Mi piace Il rumore che fa urtando il vetro. - Non è qualcosa di tanto grave da potersi definire un problema. È davvero una sciocchezza, credimi. Se non ne parlo, non è perché abbia dei segreti, semplicemente non sono sicuro di saperlo fare nel modo giusto. Ma per essere una storia strana, lo è. - Sarebbe a dire? Ormai rassegnato a raccontare, bevvi un sorso di whisky e cominciai. - Quello che mi turba, è che probabilmente sono l'ultima persona che ha visto quell'elefante. È stato il 17 maggio, poco dopo le sette di sera, e la scomparsa è stata notata il giorno seguente verso mezzogiorno. In quel lasso di tempo nessuno l'ha visto. Alle sei infatti la porta del capannone veniva chiusa. - C'è qualcosa che non quadra, nel tuo racconto, - disse lei guardandomi negli occhi. - Se la porta era chiusa, come hai fatto a vedere l'elefante? - Dietro al capannone c'è una montagnola, quasi tutta rocciosa. È proprietà privata, non c'è neanche un vero sentiero, ma da lì, da un punto ben preciso, si può vedere l'interno del capannone. Credo di essere il solo a saperlo. Era stato per pura combinazione che avevo scoperto quel posto. Una domenica pomeriggio, durante una passeggiata da quelle parti, mi ero perso e camminando a caso mi ritrovai in uno spiazzo. Era abbastanza grande perché ci si potesse sdraiare, e attraverso i cespugli, in basso, si scorgeva il tetto del capannone dell'elefante. Subito sotto il tetto c'era una grande apertura di aerazione, attraverso la quale si vedeva benissimo l'interno. Da quella volta, per me era diventata un'abitudine recarmi ogni tanto su quella collina e guardare cosa faceva l'elefante dentro il suo capannone. Non saprei dire perché mi prendessi quella briga, semplicemente mi piaceva osservare l'animale nella sua «privacy». Non avevo motivi più profondi.
Quando cominciava a imbrunire non riuscivo a vedere più nulla, finché il guardiano, per fare il suo lavoro nelle prime ore della sera, accendeva le luci all'interno dell'edificio, e io potevo guardare indisturbato quel che vi succedeva. La prima cosa di cui mi accorsi era che quando il guardiano e l'elefante erano soli nel capannone, la relazione tra loro sembrava molto più calorosa di quanto apparisse di solito in pubblico. Bastava vedere uno scambio di gesti fra i due per rendersene conto. Come se durante il giorno si sforzassero di trattenere le loro emozioni, in modo che la gente non si accorgesse della loro intimità, e vi dessero libero sfogo soltanto la sera, quando restavano soli. Con questo non è che facessero qualcosa di speciale. L'elefante continuava a starsene tranquillo come sempre, l'uomo lo lavava con una spazzola, raccoglieva gli abbondanti escrementi che lui lasciava cadere sul pavimento, si occupava del suo pasto, insomma svolgeva le normali mansioni di un guardiano. Eppure non si poteva fare a meno di notare il senso di fiducia, l'affetto reciproco che legava l'uomo e l'animale. Quando il guardiano spazzava il pavimento, l'elefante dondolava la proboscide e gli dava dei colpetti leggeri sulla schiena. A me piaceva moltissimo starlo a guardare. - A te gli elefanti sono sempre piaciuti? A parte quello lì... - Sì, penso proprio di sì. Hanno un qualcosa che mi commuove. Credo di aver sempre avuto un debole per loro. Non so perché. - Allora anche quella sera, verso il tramonto, ti sei arrampicato da solo sulla collina e sei rimasto a guardare l'elefante. Che giorno di maggio era? - Il 17. Il 17 maggio alle sette del pomeriggio. Le giornate si erano già allungate, il sole stava tramontando e il cielo era ancora chiaro. Ma nel capannone le luci erano accese. - E non hai notato niente di speciale, nell'elefante o nel guardiano? - Mah, non saprei. Un po' sì e un po' no. Niente di preciso però. Non è che mi trovassi vicino a loro, che li avessi di fronte. Lo so, non sono molto attendibile come testimone. - Ma cosa è successo, insomma? Bevvi un sorso di whisky annacquato, ormai il ghiaccio si era sciolto. Guardai fuori dalla finestra, continuava a piovere, né più adagio né più forte di prima. La pioggia era un elemento fisso del paesaggio e sembrava dover durare in eterno. - Non si può neanche dire che sia successo qualcosa, - risposi. - Sia l'elefante che il guardiano si comportavano normalmente, uno spazzava il pavimento, l'altro mangiava, scherzavano un po' da buoni amici, tutto lì. Le solite cose che facevano sempre. Quello che mi ha disorientato, però, era l'equilibrio tra loro. - L'equilibrio? - L'equilibrio fra la loro mole. La proporzione tra la grandezza dell'elefante e quella del guardiano. Mi sembrava un po' diversa dal solito. Come se la differenza fra loro fosse diminuita. Per un po' lei rimase assorta a guardare il daiquiri nel suo bicchiere. Il ghiaccio si era sciolto, e l'acqua si faceva strada fra il liquido del cocktail come una piccola corrente marina. - Cioè vuoi dire che l'elefante era diventato più piccolo? - Oppure il guardiano era diventato più grande. Oppure erano cambiati tutti e due. - Hai informato la polizia, di tutto ciò? - Ovviamente no. Figurati se mi avrebbero creduto! Avrebbero sospettato di me, piuttosto, se fossi andato a raccontare che a quell'ora stavo osservando l'elefante dalla collina retrostante il capannone. - Però sei sicuro che la proporzione fra i due fosse diversa dal solito, vero? - Forse. Tutto quello che posso dire è forse. Non ho nessuna prova, e poi, come ti ho detto, stavo guardando attraverso l'apertura di aerazione. Però avevo visto quei due nelle stesse identiche condizioni decine di volte, è impossibile che mi sia sbagliato sulla proporzione fra loro. Già, quella volta mi ero chiesto anch'io se la vista non mi ingannasse. Avevo provato a chiudere e
riaprire gli occhi, a scuotere la testa, niente da fare, l'elefante sembrava essere diventato più piccolo. Al punto che all'inizio mi ero detto che forse il Comune ne aveva fatto venire un altro. Ma non ricordavo di aver letto o sentito quella notizia - è difficile che mi lasci sfuggire qualcosa che riguardi gli elefanti - di conseguenza potevo solo pensare che il vecchio elefante per qualche ragione fosse rimpicciolito di colpo. Inoltre compiva esattamente gli stessi gesti di sempre, lo osservavo con molta attenzione. Con la proboscide che si era assottigliata accarezzava la schiena del guardiano che lo lavava, e con la zampa destra colpiva il suolo tutto contento. Era uno strano spettacolo. Contemplando la scena attraverso l'apertura di aerazione, a un certo punto avevo avuto l'impressione che all'interno del capannone trascorresse un tempo di natura diversa, un tempo ibernato. E mi ero detto che l'elefante e il guardiano si abbandonavano con gioia a quella nuova dimensione che stava per avvolgerli, anzi, che in parte li aveva già avvolti. Ero stato a guardarli una mezz'ora scarsa. Il guardiano aveva spento la luce più presto del solito, alle sette e trenta, poi tutto era sprofondato nell'oscurità. Io ero rimasto ancora un po' lì dove mi trovavo, in attesa che il capannone si illuminasse di nuovo, poi avevo rinunciato. Ed era stata l'ultima volta che avevo visto l'elefante. - Insomma, pensi che sia diventato sempre più piccolo, finché è scappato da una fessura nella porta? O addirittura finché è sparito del tutto? - Non lo so. Sto solo cercando di ricordarmi con più precisione cos'ho veramente visto. Ma non posso fare congetture. L'emozione è stata troppo forte, quella volta, e sinceramente non credo di poter analizzare nulla. Era tutto quello che avevo da dire a proposito della scomparsa dell'elefante. Come avevo previsto, la vicenda era troppo strampalata, troppo chiusa su se stessa, per essere un buon argomento di conversazione tra un giovanotto e una ragazza che si erano appena conosciuti. Quando smisi di raccontare, per un po' tra noi calò il silenzio. Di che parlare dopo la storia quasi senza sbocco di un elefante scomparso? Né io né lei riuscimmo a inventarci qualcosa. Lei passò un dito sul bordo del suo bicchiere, io lessi e rilessi una ventina di volte la scritta sul cartoncino dov'era posato il mio. Non avrei mai dovuto tirar fuori quella faccenda, non era il tipo di storia da raccontare a qualcuno. - Tanto tempo fa, a casa nostra un giorno è sparito il gatto, - disse lei dopo parecchio tempo, - ma c'è una bella differenza, tra la scomparsa di un gatto e quella di un elefante. - Infatti. Sono di mole leggermente diversa. Mezz'ora dopo ci separammo all'uscita dell'albergo. Lei si ricordò di aver dimenticato l'ombrello al bar, così io tornai su in ascensore e glielo andai a prendere. Era un grande ombrello color mattone. - Ti ringrazio molto, - disse lei. - Buona notte, - risposi. Da allora non ci siamo più incontrati. Soltanto una volta le ho parlato al telefono, a proposito di qualche dettaglio nel suo articolo. Sono stato tentato di invitarla a cena, ma alla fine non l'ho fatto. Parlando, me ne era passata la voglia, non mi importava più. Dopo la vicenda della scomparsa dell'elefante, mi succede spesso. Mi viene il desiderio di fare qualcosa, ma non riesco a capire che differenza ci sarebbe tra l'agire e il non agire, quali risultati ne deriverebbero nell'uno e nell'altro caso. A volte sento che le cose intorno a me perdono il loro giusto equilibrio, ma può darsi che si tratti di una mia impressione. Può darsi che sia dentro di me che da allora qualcosa ha perso il suo equilibrio, e che sia questa la ragione per cui la realtà esterna mi appare distorta. Forse tutto dipende da me. Continuo a vendere frigoriferi, tostapane e caffettiere, basandomi su frammenti di ricordi pragmatici in questo mondo pragmatico. Più cerco di diventare pragmatico, più le vendite salgono - il successo della nostra campagna pubblicitaria ha superato le nostre più ottimistiche previsioni -, più mi faccio apprezzare.
Probabilmente la gente cerca una sorta di armonia in questa kitchen che è il mondo. Armonia di linee, di colori, di funzioni. Sui giornali non compaiono quasi più articoli sull'elefante. Pare che tutti abbiano dimenticato che la nostra città una volta ne aveva uno. L'erba che ricopriva lo spiazzo è ormai secca, l'inverno è vicino. L'elefante e il suo guardiano sono scomparsi, e non torneranno mai più.
Il secondo assalto a una panetteria
Ancor oggi non sono certo di aver fatto la cosa giusta, parlando a mia moglie dell'attacco alla panetteria. Ma è possibile che in sostanza non fosse una questione di giusto o sbagliato. Voglio dire, al mondo ci sono decisioni sbagliate che portano a risultati giusti, e viceversa. Per sfuggire a quest'assurdità penso che la si possa chiamare così - ho dovuto convincermi che noi non scegliamo un bel niente. Di solito questa è la mia visione della vita, quel che è successo è successo, quel che non è ancora successo non è ancora successo. Considerando le cose in quest'ottica, è capitato, chissà perché, che io abbia parlato a mia moglie dell'attacco alla panetteria. «Cosa fatta capo ha». Ne sono conseguiti gli eventi che dovevano conseguirne. Tuttavia, se vi parranno strani, penso che la ragione sia da cercarsi nel contesto globale in cui sono accaduti. Ma la mia opinione non conta, non modifica nulla, resta solo un modo di vedere le cose. Fu per combinazione che parlai a mia moglie di quella vecchia storia. Erano le due di notte. Avevamo fatto una cena leggera verso le sei, poi alle nove e mezzo eravamo andati a letto e ci eravamo addormentati, ma alle due, per chissà quale ragione, ci eravamo svegliati entrambi, nello stesso momento. Dopo qualche secondo eravamo stati presi da una fame che aveva la forza della tromba d'aria nel Mago di Oz. Una fame impellente, direi quasi irragionevole. Nel frigo però non c'era assolutamente nulla con cui preparare qualcosa da mangiare, qualcosa degno di venire definito cibo. C'erano sei lattine di birra, della salsa vinaigrette, due cipolle raggrinzite, del burro e del deodorante. Eravamo sposati da due settimane, e non avevamo ancora stabilito un criterio comune nelle abitudini alimentari... avevamo un sacco di altre cose da stabilire, prima. All'epoca lavoravo in uno studio legale, e mia moglie era segretaria in una scuola di design. Io avevo ventotto o ventinove anni - chissà perché, non riesco a ricordarmi la data esatta in cui ci siamo sposati - lei due anni e otto mesi meno di me. Con tutto quello che avevamo da fare, eravamo in uno stato confusionale e contraddittorio, non avevamo certo testa per le provvigioni alimentari. Ci alzammo, andammo in cucina e ci sedemmo al tavolo uno di fronte all'altra, senza uno scopo particolare. Avevamo troppa fame per rimetterci a dormire - bastava che ci sdraiassimo perché i crampi diventassero insopportabili - ma anche per fare qualsiasi altra cosa. Non riuscivamo a immaginare il perché e il percome di una fame così insopportabile. L'uno e l'altra avevamo aperto la porta del frigorifero non so quante volte, in un ultimo barlume di speranza, ma il contenuto non variava. Birra, cipolle, burro, salsa vinaigrette e deodorante. Si potevano fare le cipolle al burro, ma era impensabile che due cipolle rinsecchite bastassero a calmare la nostra brama di cibo. Le cipolle sono fatte per essere mangiate insieme a qualcos'altro, non per sfamare. - E se condissimo il deodorante con la vinaigrette? - Dissi per scherzo, ma come prevedevo la mia battuta venne ignorata. - Prendiamo la macchina e andiamo a cercare una caffetteria aperta tutta la notte. Lungo la nazionale ce ne devono essere, - proposi allora. Mia moglie però rifiutò. Disse che non aveva voglia di uscire. - Uscire dopo mezzanotte per andare a mangiare non mi sembra una bella cosa, - dichiarò. Per certi versi lei è terribilmente all'antica.
- Mah, forse hai ragione, - risposi dopo un respiro. Credo sia un fenomeno piuttosto frequente, ma all'inizio del nostro matrimonio tali opinioni (o teorie) di mia moglie suonavano alle mie orecchie come delle rivelazioni. Quando lei mi disse così, mi convinsi che la nostra era una fame particolare, un bisogno che non si poteva calmare in maniera banale, andando a cercare una caffetteria aperta tutta la notte. Ma cosa significava, una fame particolare? Lo rappresenterò con un'immagine cinematografica: 1) Sono su una piccola barca che galleggia sull'acqua molto calma. 2) In basso, sul fondo del mare, si vede la cima di un vulcano. 3) Tra la superficie dell'acqua e la cima del vulcano non c'è una grande distanza, ma non so valutarla con precisione. 4) L'acqua è troppo trasparente e altera il mio senso della distanza. Nei due o tre secondi che passarono da quando mia moglie disse che non aveva voglia di andare al ristorante a quando le risposi «forse hai ragione», quella fu l'immagine che mi passò per la testa. Non essendo Sigmund Freud, è ovvio che non riuscii ad analizzarne correttamente il significato, ma intuii subito che era rivelatoria. Per questo fui quasi automaticamente d'accordo con la teoria (o dichiarazione) di mia moglie, che non bisognava andare a mangiare fuori - ferma restando la mia fame esagerata. Non potendo fare altro, aprimmo delle lattine di birra. Cento volte meglio delle cipolle. Mia moglie però non ama molto la birra e ne bevve solo due, io mi scolai le altre quattro. Mentre io bevevo, lei frugò in tutti gli scaffali della cucina, come uno scoiattolo in novembre, e in fondo a una busta trovò quattro vecchi biscotti al burro. Molli e umidi, erano quel che restava della base di una torta che aveva fatto tempo prima, ma ce li mangiammo come cose preziose, due per uno. Purtroppo però sia la birra che i biscotti, sulla nostra fame vasta come la penisola del Sinai vista dall'alto, non lasciarono traccia. Si dileguarono in un baleno, come un miserabile frammento di paesaggio fuori dalla finestra. Leggemmo le scritte sulle lattine di alluminio della birra, decine di volte guardammo l'orologio e la porta del frigorifero, sfogliammo il giornale del giorno prima, raccogliemmo con il bordo di una cartolina le briciole dei biscotti cadute sul tavolo. Il tempo si accumulava cupamente come del piombo finito nella pancia di un pesce. – È la prima volta che ho una fame del genere, - disse mia moglie. - Pensi che ci sia qualche nesso col fatto di essermi sposata? Le risposi che non lo sapevo. Forse sì, e forse no. Mentre lei ricominciava a frugare in tutta la cucina alla ricerca di qualcosa che si potesse mettere sotto i denti, io mi sporsi di nuovo dalla barca e guardai la cima del vulcano nel fondo del mare. La trasparenza dell'acqua intorno alla barca mi metteva addosso una tremenda apprensione. Mi sentivo come se mi si fosse aperta una cavità in mezzo allo stomaco. Una semplice cavità, senza entrata né uscita. Quello strano senso di vuoto dentro di me - la presenza di qualcosa di inesistente - assomigliava al terrore paralizzante che uno prova quando sale in cima a una guglia altissima. Il fatto che ci fosse un legame tra la fame e il senso di vertigine era una scoperta. In quel momento mi ricordai che in passato avevo fatto un'esperienza simile. Anche quella volta avevo provato una fame tremenda. Quando era stato...? - Quando assaltammo la panetteria! - esclamai di riflesso. - Cosa significa, assaltammo la panetteria? - mi domandò immediatamente mia moglie. Così cominciai a parlare di quell'episodio. - Tanto tempo fa, mi è successo di dare l'assalto a una panetteria, - le spiegai. - Non era tanto grande, e neanche tanto rinomata. Il pane non era particolarmente buono, ma nemmeno cattivo. Una panetteria qualunque, come ce ne sono in tutti i quartieri. Si trovava in una via piena di negozi, e il padrone faceva tutto da solo, fornaio e commesso. Quando aveva venduto tutto il pane sfornato la mattina, chiudeva il negozio. Per dirti il suo giro d'affari.
- E perché volevi rapinare una panetteria così modesta? - Non avevamo bisogno di prenderne di mira una più grande. Non volevamo rubare del denaro, soltanto procurarci il pane necessario per sfamarci. Eravamo dei rapinatori, non dei ladri. - Eravamo? Chi, eravate? - All'epoca avevo un amico cui ero molto legato, - spiegai. - Ormai sono passati dieci anni, ma allora eravamo poveri in canna, non potevamo neanche comprarci il dentifricio. Non avevamo mai abbastanza da mangiare. E per procurarcelo abbiamo fatto delle cose tremende. L'assalto alla panetteria è una di quelle. - Spiegati meglio, - disse mia moglie guardandomi fisso in viso. I suoi occhi sembravano cercare una stella che sbiadiva nel cielo dell'alba. - Perché avete fatto una cosa del genere? Perché non lavoravate? Se vi foste trovati qualche lavoretto saltuario, almeno il pane avreste potuto comprarvelo. Era molto più semplice che rapinare una panetteria. - Perché non volevamo lavorare, - risposi. - In questo eravamo irremovibili. - Adesso però vai in ufficio regolarmente. Annuii, poi bevvi un sorso di birra. Mi strofinai gli occhi con i polsi, tutte quelle birre mi avevano fatto venire sonno. Sonno che calava sulla mia coscienza come fango sottile e lottava con la fame. - I tempi cambiano, e con i tempi cambia anche l'atmosfera, e il modo di pensare della gente. Ma perché non andiamo a dormire? Domani mattina dobbiamo alzarci presto tutti e due. - Non ho sonno, e voglio sentire questa storia dell'assalto alla panetteria. - Ma non è una storia interessante. Perlomeno non quanto ti aspetti tu. - E avete avuto successo? Rassegnato, aprii un'altra lattina di birra. Mia moglie ha un carattere tale per cui quando incomincia ad ascoltare qualcosa, vuole arrivare alla fine. - In un certo senso sì, e in un certo senso no. In poche parole ci siamo procurati tutto il pane che volevamo, ma come rapina in sé fu un fiasco. Insomma prima che ci impossessassimo del pane con la forza, il panettiere ce lo dette. - Gratis? - No, non gratis. E qui comincia la parte complicata, - dissi scuotendo la testa. - Il panettiere era un melomane, proprio in quel momento aveva messo un 33 giri di Wagner, una raccolta di ouverture*, e ci propose uno scambio: se avessimo ascoltato fino in fondo quel disco, avremmo potuto prendere tutto il pane che volevamo. Io e il mio amico ci consultammo, poi decidemmo che potevamo accettare. Non era un lavoro in senso stretto, e la musica non faceva male a nessuno. Così rimettemmo i nostri coltelli nella sacca, ci sedemmo e ascoltammo insieme al panettiere il Tannhäuser e L'Olandese volante. - E poi lui vi ha dato quello che volevate? - Sì, io e il mio amico buttammo quasi tutto il pane che c'era in negozio nelle borse e lo portammo a casa, ci bastò per quattro o cinque giorni, - dissi bevendo un altro sorso di birra. Il sonno, come un'onda silenziosa provocata da un terremoto sottomarino, fece vacillare leggermente la mia barca. - Avevamo ottenuto il nostro scopo, che era di procurarci del cibo, - proseguii, - ma non si poteva dire che avessimo commesso un crimine, in nessun modo. Era stato piuttosto uno scambio. Avevamo ascoltato Wagner, e in compenso avevamo ottenuto il pane. Dal punto di vista legale, era una transazione commerciale. - Ma ascoltare Wagner non è un lavoro, - disse mia moglie. - Appunto. Se il panettiere ci avesse chiesto di lavare i piatti, o di pulire le finestre, ci saremmo rifiutati, e avremmo proceduto a rapinare la panetteria. Lui però non ha preteso nulla del genere, solo che ascoltassimo un 33 giri fino alla fine. Per questo io e il mio amico siamo rimasti interdetti. L'ultima cosa che ci aspettavamo era quella storia di Wagner, naturalmente. Era come se il panettiere ci gettasse addosso una sorta di maledizione. A ripensarci adesso, non avremmo dovuto accettare, dovevamo attenerci al piano originario, minacciarlo con i coltelli e prenderci semplicemente il pane. Se avessimo fatto così non ci
sarebbe stato nessun problema. - Perché, ci sono stati dei problemi? Di nuovo scossi la testa e mi strofinai gli occhi con i polsi. - No, non dei problemi concreti, tangibili. Ma a partire da quell'episodio tante cose sono andate lentamente cambiando. E quando una cosa cambia, non torna più com'era prima. In conclusione ho ripreso gli studi e mi sono laureato, ho trovato lavoro in uno studio legale e intanto ho cominciato a preparare l'esame di procuratore. Poi ti ho incontrato e mi sono sposato. Non ho più potuto assaltare panetterie. - È tutto qui? - Tutto qui, - risposi finendo la birra. Le sei lattine erano vuote. Nel portacenere restavano sei capsule di latta, come scaglie di una sirena arenata. Che proprio non fosse capitato nulla non era vero, erano successe alcune cose ben reali e concrete. Però non avevo voglia di parlarne a mia moglie. - E adesso cosa fa, quel tuo amico? - mi chiese lei. - Non ne ho la minima idea, risposi. - Poco tempo dopo dev'essergli successo qualcosa, perché non ci siamo più visti. Non l'ho mai più incontrato, non so cosa stia facendo adesso. Mia moglie rimase qualche momento in silenzio. Probabilmente era molto sorpresa, doveva trovare il mio racconto poco chiaro, ma non cercò di farmi dire altro sull'argomento. - Però il motivo per cui non vi siete più visti è stato quell'assalto alla panetteria, vero? - Può darsi. Lo shock che ricevemmo quella volta probabilmente fu molto più forte di quanto ci sembrasse sul momento. Per molti giorni, dopo, discutemmo della relazione che intercorreva tra quel pane e la musica di Wagner. Chiedendoci se avevamo fatto la scelta giusta. Senza trovare una risposta. La ragione ci diceva di sì. Non avevamo danneggiato nessuno, e tutti erano rimasti più o meno soddisfatti. Il panettiere - anche se a tutt'oggi non capisco perché ci tenesse - aveva fatto propaganda al suo Wagner, e noi ci eravamo riempiti la pancia. Eppure sentivamo la presenza di un nodo irrisolto. Avevamo commesso uno sbaglio che avrebbe gettato un'ombra sulla nostra vita, per una ragione che ancora adesso non conosco. E per questo che poco fa ho usato la parola maledizione. Dev'essere proprio stata una maledizione, ne sono certo. - E se n'è andata, quella maledizione? Da sopra la vostra testa? Con le capsule delle lattine avevo formato sul tavolo un cerchio d'alluminio della grandezza di un braccialetto. - Non lo so. Mi pare che il mondo sia pieno zeppo di maledizioni, e quando succede qualcosa è difficile dire quale abbia agito. - No, io non credo che sia così, - disse mia moglie guardandomi fisso negli occhi. - Se uno ci riflette bene riesce a fare la differenza. Inoltre se non ti liberi da solo, da una maledizione, è come il mal di denti, ti perseguita finché non muori. E non perseguiterà solo te, ma anche me. - Te? - Certo, adesso sono io la persona a cui sei più legato. Prendi per esempio questa fame terribile che stiamo provando tutti e due. Prima di sposarmi non mi era mai successo. Non pensi che sia anormale? Di sicuro la maledizione che pesa su di te si è estesa anche a me. Annuii, dispersi di nuovo le capsule che avevo disposto in cerchio e le rimisi nel portacenere. Non sapevo se quello che lei stava dicendo fosse vero o no, ma ascoltandola parlare sentivo che poteva anche avere ragione. La fame che per un momento si era allontanata dalla mia coscienza ritornò. Era diventata molto più forte di prima e mi dava un mal di testa terribile. I crampi in fondo allo stomaco trasmettevano spasmi ai nervi della testa, come se il mio corpo fosse percorso da una rete di piccoli cavi. Guardai di nuovo il vulcano in fondo al mare. L'acqua era molto più trasparente di prima, bisognava guardare con molta attenzione per accorgersi che c'era. La barca dava l'impressione di galleggiare nell'aria, senza alcun sostegno. Ogni singola pietra sul fondo si distingueva in maniera nitidissima, sembrava di poterla prendere in mano. – Sono solo un paio di settimane che viviamo insieme, ma ti giuro che anch'io ho sentito tutt'intorno
una sorta di presenza malefica, - disse mia moglie. Poi incrociò le mani sul tavolo guardandomi intensamente negli occhi. - Prima di sentire questo tuo racconto non avevo capito di cosa si trattasse, è ovvio, ma adesso ne sono certa anch'io: su di te pesa una maledizione. - In che modo, la senti? - Si direbbero... delle tende non lavate da anni, coperte di polvere, che pendono dal soffitto. - Può darsi che non si tratti di una maledizione, ma di un problema mio, - dissi ridendo. Lei non rise. - Non è così. Ne sono sicura. - Se è davvero una maledizione, come dici tu, cosa dovrei fare? - Assaltare di nuovo una panetteria. Ora, subito. Non hai altro modo di liberartene. - Ora, subito? - Sì, ora, subito. Finché dura questa fame. Quello che non hai finito allora, lo devi finire adesso. - Ma ci saranno delle panetterie aperte, a quest'ora? - Cerchiamone una! Tokyo è grande, da qualche parte ce ne sarà una che apre tutta la notte. Salimmo sulla nostra Toyota Corolla di seconda mano, e ci mettemmo per le vie di Tokyo, alle due e mezza del mattino, alla ricerca di una panetteria aperta. Io al volante, mia moglie sul sedile di fianco, scrutavamo la strada da entrambi i lati con l'occhio acuto di un uccello predatore. Sul sedile posteriore riposava un fucile automatico Remington, lungo e rigido come un baccalà, nella tasca del piumino di mia moglie si sentivano sbatacchiare le pallottole di riserva. Nel cassetto del cruscotto c'erano due paia di occhiali da sci neri. Perché lei possedesse un fucile automatico era un mistero. Stessa cosa per gli occhiali, nessuno di noi due aveva mai messo gli sci ai piedi. Ma lei non mi diede spiegazioni in proposito, né io le feci domande. Mi dissi semplicemente che la vita matrimoniale riservava delle sorprese. A dispetto di quell'equipaggiamento sensazionale, non riuscimmo a trovare una sola panetteria aperta. Guidai per le strade quasi vuote da Yoyogi a Shinjuku, da Yotsuya ad Akasaka, Aoyama, Hiroo, Roppongi, Daikanyama, Shibuya. Nella Tokyo notturna si trovava di tutto, uomini, donne, negozi, qualunque cosa tranne una panetteria. I fornai non fanno il pane durante la notte. Due volte incrociammo una pattuglia della polizia. Una se ne stava acquattata sul bordo della carreggiata, l'altra ci superò a velocità relativamente moderata. Entrambe le volte a me vennero i sudori freddi, mia moglie invece non li degnò di uno sguardo e continuò a cercare con gli occhi l'insegna di un panettiere. A causa della sua posizione inclinata, le pallottole che aveva in tasca frusciavano come la crusca all'interno dei cuscini. - Rinunciamo, - dissi. - Non ci sono panetterie aperte, a quest'ora. Bisognerebbe informarsi prima, per un'azione come questa. - Ferma, ferma! - Esclamò mia moglie tutt'a un tratto. Frenai immediatamente. - Ecco il posto giusto, - disse lei in tono calmo. Sempre con le mani sul volante mi guardai intorno, ma non vidi nulla che somigliasse a una panetteria. I negozi lungo la strada erano tutti bui, con le saracinesche chiuse, nessun segno di vita. Dall'oscurità emergeva l'insegna di un barbiere, indifferente come un occhio di vetro deformato. Tutto quello che si vedeva era la scritta luminosa di un McDonald's, duecento metri più avanti. - Non c'è nessuna panetteria, qui, - dissi. Mia moglie non rispose, aprì il cassetto del cruscotto, prese un rotolo di nastro adesivo e scese dalla macchina. Aprii anch'io la portiera dalla mia parte e scesi. Lei si accucciò davanti alla vettura, strappò un pezzo di nastro della lunghezza adeguata e lo attaccò sulla targa, in modo che non si potesse leggere il numero. Poi andò a coprire allo stesso modo la targa posteriore. Si muoveva come se compisse gesti
abituali. Io stavo come uno scemo a guardarla. - Assaltiamo quel McDonald's, - disse. Parlava in tono tranquillo, quasi mi stesse annunciando il menu della cena. - Un McDonald's non è una panetteria, - obiettai. – È quasi la stessa cosa, - ribatté lei risalendo in macchina. - Ci sono momenti in cui è necessario fare dei compromessi. Portati li davanti. Rinunciai a discutere, avanzai di duecento metri ed entrai nel parcheggio del fast-food. C'era soltanto un'altra automobile, una Bluebird rossa, lucentissima. Mia moglie mi tese il fucile automatico avvolto in una coperta. - Non ho mai usato un arnese del genere, - protestai, - né ho intenzione di farlo ora. - Non avrai bisogno di usarlo, basta che tu lo tenga imbracciato, nessuno farà resistenza. Okay? Fai come ti dico. Entriamo, poi appena i commessi dicono «benvenuti da McDonald's», quello sarà il segnale, ci mettiamo gli occhiali da sci e passiamo all'azione. Tutto chiaro? - Sì, sì, però... - Tu tieni sotto tiro i commessi e fai radunare tutti in uno stesso punto, clienti e personale. Molto in fretta. Al resto penso io, non ti preoccupare. – Sì ma... - Quanti hamburger credi che siano necessari? Una trentina basteranno? - Forse, - risposi. Poi con un sospiro presi il fucile. Spostai un poco la coperta per guardarlo, era nero come la notte, e pesante come un sacco di sabbia. - È proprio necessario fare tutto questo? - chiesi. La domanda era rivolta per metà a mia moglie, per metà a me stesso. - È ovvio! - rispose lei. Benvenuti da McDonald's! - fece la commessa dietro il banco, in testa un berretto McDonald's e sulle labbra un sorriso McDonald's. Quando la vidi ebbi un istante di smarrimento, ero convinto che da McDonald's i turni di notte li facessero solo gli uomini, ma mi ripresi subito e mi infilai immediatamente gli occhiali da sci. Vedendoci d'un tratto con quegli arnesi sulla faccia, la ragazza ci guardò con un'espressione sbigottita, sul manuale del perfetto inserviente McDonald's non dovevano esserci istruzioni su come reagire in tale circostanza. Dopo averci dato il benvenuto, cercò dunque di procedere nel modo abituale, ma le parole le restarono in gola. Solo il sorriso professionale le aleggiava ancora agli angoli della bocca, come una luna di tre giorni nel cielo mattutino. Tirai fuori il fucile il più in fretta possibile e lo puntai verso i tavoli dei clienti, ma vidi soltanto una giovane coppia, probabilmente due studenti, buttati sul tavolino di plastica e profondamente addormentati. Sul ripiano le loro due teste e i due bicchieri di frappé alla fragola erano allineati come delle sculture d'avanguardia. Visto che dormivano entrambi come sassi, bastava non disturbarli, non ci avrebbero dato alcun fastidio. Tornai a puntare il fucile verso il banco. Il personale si componeva della ragazza dietro il banco, del gestore - un uomo vicino ai trenta, dalla faccia a uovo e il colorito livido - e di un tizio del tutto inespressivo addetto ai fornelli, una sorta di ombra vaga, probabilmente il solito studente part-time. Tre persone in tutto. Si raggrupparono davanti alla cassa, gli occhi fissi sulla bocca del mio fucile puntato contro di loro, sul volto l'espressione di turisti che guardino in fondo a un pozzo Inca. Nessuno gridò, nessuno cercò di reagire. Il fucile era così pesante che lo appoggiai sulla cassa, senza togliere il dito dal grilletto. - Le do i soldi, - disse il gestore con voce rauca. - Non resta molto perché alle undici c'è stata la raccolta, ma prenda pure tutto. Siamo assicurati, non fa niente. - Chiuda le saracinesche e spenga l'insegna esterna, - disse mia moglie. - Un momento, - replicò il gestore, - questo non lo posso fare. È vietato chiudere il locale fuori orario, mi mettete nelle grane. Mia moglie ripetè lentamente l'ordine. - Meglio che faccia come le è stato detto, - intervenni io, vedendo che l'uomo esitava sul serio. Lui spostò più volte lo sguardo dalla bocca del fucile alla faccia di mia moglie, poi si rassegnò a spegnere l'insegna e a premere un pulsante su un pannello per far scendere le saracinesche. Io controllai che non schiacciasse anche qualche allarme o qualche campanello d'emergenza, ma inspiegabilmente sembrava che
i locali della catena McDonald's ne fossero sprovvisti. Forse nessuno era andato a immaginarsi che si potesse rapinare un posto dove si vendevano hamburger. Le saracinesche calarono con un fracasso tremendo, sembrava che qualcuno desse dei colpi di bastone su un secchio, ma la coppia al tavolo non si svegliò. Era parecchio tempo che non vedevo qualcuno dormire così. – Trenta Big Mac, da portare via, - disse mia moglie. - Vi do tutti i soldi che volete, ma non potete andarveli a comprare? - chiese il gestore. - Da un'altra parte cioè. Così mi scombinate tutta la contabilità, e... - Meglio che faccia come le è stato detto, - dissi di nuovo io. I tre si recarono in fila nel cucinino, e cominciarono a preparare i trenta Big Mac. Lo studente parttime friggeva gli hamburger, il direttore li metteva nel pane, la ragazza li avvolgeva in fogli di carta bianchi. Nessuno diceva una parola. Io stavo appoggiato al grande frigorifero, il fucile puntato verso la griglia sulla quale sfrigolavano le polpette, allineate come un disegno di gocce marroni. L'odore dolce della carne arrostita, come uno sciame di minuscoli insetti, penetrava in tutti i pori della mia pelle, si mescolava al flusso sanguigno percorrendo il mio corpo da capo a piedi, poi si ammassava intorno alla cavità formata dentro di me dalla fame e restava saldamente attaccato alle sue pareti rosa. Avevo voglia di afferrare un paio dei panini incartati che andavano formando una pila di fianco a me, e mangiarmeli subito, ma non ero sicuro che una tale condotta fosse consona al nostro obiettivo, così aspettai in silenzio che tutti i trenta hamburger fossero pronti. Nel cucinino faceva caldo, e cominciavo a sudare sotto gli occhiali da sci. Preparando gli hamburger, i tre gettavano fuggevoli occhiate alla bocca del fucile. Infatti io ogni tanto mi grattavo l'interno delle orecchie col dito mignolo della mano sinistra - quando sono teso mi viene sempre prurito dentro le orecchie - e dato che per grattarmi passavo il braccio sopra gli occhiali, ogni volta facevo oscillare il fucile. Il che sembrava metterli in grande agitazione. In realtà non c'era pericolo che partisse un colpo perché non avevo tolto la sicura, ma loro questo non lo sapevano, né io avevo intenzione di dirglielo. Nel frattempo mia moglie teneva d'occhio i tavoli, contava gli hamburger già pronti e li metteva in due borse di carta, quindici per una. - Perché fate una cosa tanto assurda? - chiese a un tratto la ragazza rivolta a me. - Potevate prendere il denaro e andarvi a comprare tutte le cose da mangiare che volevate. E soprattutto che senso ha, mangiare trenta Big Mac? Io scossi la testa senza rispondere. - Ci dispiace, ma non c'erano panetterie aperte, - le spiegò mia moglie. - Se ne avessimo trovata una, avremmo assaltato quella. La risposta probabilmente non era servita a chiarire la situazione, mi dissi, ma ad ogni modo quelli non fecero altre domande, continuarono a friggere la carne, metterla nel pane, impacchettare gli hamburger. Quando ebbe sistemato i trenta Big Mac nelle due borse, mia moglie chiese alla ragazza di darle due Coca-Cola grandi e le pagò. - Rubiamo solo il pane, nient'altro, - le spiegò ancora. La ragazza mosse la testa in maniera complicata, un po' come se la scuotesse, un po' come se annuisse, probabilmente voleva fare le due cose insieme. Mi sembrava di capirla, più o meno. Poi mia moglie tirò fuori dalla tasca un rotolo di corda da pacchi - aveva pensato proprio a tutto - e legò rapidamente i tre a un pilastro, con la destrezza con cui avrebbe cucito dei bottoni. I tre, rendendosi conto che protestare non sarebbe servito a nulla, la lasciarono fare in silenzio. - La corda non vi fa male? Qualcuno vuole andare alla toilette? - domandò mia moglie. Nessuno fiatò. Io riavvolsi il fucile nella coperta, lei afferrò con entrambe le mani le borse contenenti i
Big Mac, e uscimmo sgusciando sotto la saracinesca. I due clienti al tavolo continuarono a dormire imperturbati come due pesci d'acqua profonda. Mi chiesi cosa mai avrebbe potuto scuoterli dal loro sonno. Dopo aver percorso qualche chilometro, ci fermammo nel parcheggio di un condominio e ci buttammo sugli hamburger. Ne mangiammo fino a saziarci, bevendo intanto le nostre Coca Cola. Io spedii verso la cavità nel mio stomaco sei Big Mac in tutto, mia moglie ne divorò quattro. Sul sedile posteriore ne restavano venti. Verso l'alba la nostra fame profonda, che sembrava dover durare in eterno, si era calmata. I primi raggi del sole tinsero di viola i muri sporchi del palazzo di fronte e fecero brillare in maniera accecante una grande insegna di uno stereo Sony Beta. Insieme al rumore dei pneumatici di grossi camion, ogni tanto si sentiva il verso degli uccelli. La radio americana diffondeva musica country. Fumammo una sigaretta in due. Dopo, mia moglie posò piano il viso contro la mia spalla. - Ma era davvero necessaria, quest'incursione? - Provai di nuovo a chiederle. - È evidente, - rispose lei. Fece un profondo sospiro, poi si addormentò. Il suo corpo era morbido e leggero come quello di un gatto. Rimasto solo, io mi sporsi fuori dalla barca e guardai in fondo all'acqua: il vulcano non si vedeva più. La superficie del mare era calma e rifletteva l'azzurro del cielo, piccole onde venivano a urtare dolcemente i fianchi della barca, come pieghe di un pigiama di seta mosse dal vento. Mi sdraiai sul fondo e chiusi gli occhi, aspettando che l'alta marea mi portasse nel luogo al quale appartenevo
Il mondo del vento scatenato
1) La caduta dell'Impero Romano. Domenica pomeriggio a un certo punto mi sono accorto che si era levato il vento. Alle due e sette minuti, per l'esattezza. In quel momento, come al solito - cioè come tutte le domeniche pomeriggio - ero seduto al tavolo della cucina e scrivevo il diario della settimana ascoltando musica leggera. Dal lunedi al sabato infatti annoto brevemente gli avvenimenti della giornata, poi la domenica li redigo in un discorso ben strutturato. Ero arrivato al martedì, quando mi sono accorto che fuori dalla finestra soffiava un vento tremendo. Ho interrotto la stesura del diario, e, messo il cappuccio alla penna, sono andato sul balcone per ritirare la biancheria stesa. I panni sbattevano rumorosamente nell'aria come la coda strappata di una cometa. Il vento si era rafforzato a poco a poco senza che vi facessi caso. Il mattino infatti - per l'esattezza alle dieci e diciotto minuti - quando avevo messo la biancheria a stendere sul balcone, non spirava un soffio d'aria. Su questo punto la mia memoria è salda come il coperchio di una fornace. Tanto che mi ero detto che in una giornata come quella non c'era bisogno di fermare la roba con le mollette. Lo giuro, non c'era un alito di vento! Dopo aver ritirato e piegato la biancheria, ho chiuso bene tutte le finestre dell'appartamento. A quel punto il rumore non si sentiva quasi più. Al di là dei vetri gli alberi - dei cedri dell'Himalaya e degli ippocastani - si torcevano silenziosamente, come cani presi da un insopportabile prurito, stralci di nuvole simili a spie dallo sguardo sospettoso attraversavano il cielo a grande velocità e sparivano, e sul balcone di fronte alcune camicie si attorcigliavano attorno al filo di plastica, aggrappate come bambini abbandonati. Proprio un bel vento, mi sono detto. Ho aperto il giornale e ho guardato la cartina delle previsioni del tempo, ma il simbolo del tifone non c'era, da nessuna parte. La probabilità che piovesse era dello 0%. A credere quel che c'era scritto, doveva essere una domenica pacifica come l'era più gloriosa dell'Impero Romano. Dopo un sospiro al 30% della mia capacità, ho chiuso il giornale, ho sistemato la biancheria pulita nell'armadio, e mi sono fatto un caffè. Poi ho ripreso a scrivere il diario bevendo un sorso ogni tanto. La musica era la stessa di prima. Giovedì sono andato a letto con la mia ragazza. A lei piace coprirsi gli occhi quando fa l'amore, infatti ha sempre con sé una di quelle mascherine di stoffa che si trovano nei pacchetti che distribuiscono in aereo per la notte. A me non è che la cosa faccia impazzire, ma lei è così carina con la sua mascherina sugli occhi che non posso davvero trovarci nulla da ridire. In fin dei conti tutti hanno il loro piccolo lato strano. Nella pagina di giovedì ho fatto dunque un resoconto approssimativo del nostro incontro. Nella stesura del diario mi attengo all'80% di fatti, 20% di commenti, è una mia regola. Venerdì in una libreria di Ginza ho incontrato un vecchio amico. Portava una cravatta tremenda, stranissima: infiniti numeri di telefono su un fondo a righe... A quel punto è suonato il telefono.
2) La rivolta degli Indiani del 1881.
L'orologio segnava le due e trentasei minuti. Forse è lei, mi sono detto - cioè la mia ragazza a cui piace coprirsi gli occhi. Infatti quel giorno doveva venire a casa mia, e ha l'abitudine di chiamarmi prima di arrivare. Avrebbe portato gli ingredienti per la cena, avevamo deciso di mangiare del riso con le ostriche, la sera. Ad ogni modo quando è squillato il telefono erano le due e trentasei. Ne sono assolutamente sicuro perché di fianco all'apparecchio c'è un orologio, e lo guardo ogni volta che qualcuno mi chiama. Quando ho sollevato il ricevitore però, dall'altra parte ho sentito solo il sibilo spaventoso del vento. Un vhuuuuu furibondo turbinava nella cornetta, pareva la rivolta degli Indiani del 1881. Stavano bruciando le baracche dei pionieri, tagliando le linee del telefono, violentando Candice Bergen. - Pronto? - ho detto, ma la mia voce è stata sventuratamente assorbita dal tumulto incontenibile della storia. - Pronto? - ho gridato allora. Stesso risultato. Tendendo le orecchie, nelle infinitesime pause del vento mi è sembrato di sentire qualcosa che assomigliava alla voce di una ragazza, ma poteva essere una mia illusione. Il vento era troppo forte e furioso. O forse troppi bufali erano stati ammazzati dai visi pallidi. Per un po' sono stato zitto in silenzio, con l'orecchio schiacciato contro la cornetta. Tanto forte da chiedermi se non avrei finito col restarci attaccato. Sono rimasto in quella posizione per quindici o venti secondi, poi la linea è caduta, come se un infarto ne avesse spezzato il filo vitale. Restava soltanto un silenzio vuoto e freddo, mi ricordava della biancheria lasciata troppo tempo nella candeggina.
3) Quando Hitler invase la Polonia. Cose da pazzi, ho pensato con un altro sospiro. Poi mi sono rimesso alla stesura del diario. Meglio sbrigarmi a finire. Sabato le truppe di Hitler avevano invaso la Polonia. Bombe a caduta rapida su Varsavia... No, no, mi sbagliavo. È stato il I° settembre del 1939 che Hitler ha invaso la Polonia. Non sabato scorso. Sabato scorso dopo aver cenato sono andato al cinema e ho visto La scelta di Sophie, con Meryl Streep. È in quel film che si vede l'invasione della Polonia da parte di Hitler. Meryl Streep divorzia da Dustin Hoffman, poi nel treno tornando dal lavoro incontra un ingegnere civile di mezza età, interpretato da Robert De Niro, e si risposa. Un bel film davvero. Mi è piaciuto. Seduti di fianco a me c'erano due liceali, un ragazzo e una ragazza, che per tutto il tempo si palpeggiavano la pancia. Niente male, la pancia dei liceali. Anche io una volta avevo una pancia da liceale.
4) Poi il mondo del vento scatenato
Finito di scrivere tutto il diario della settimana precedente, mi sono accovacciato davanti allo scaffale dei dischi per scegliere della musica consona a una domenica pomeriggio di forte vento. I più adatti alla circostanza mi sono parsi il concerto per violoncello di Šostakovic e un disco degli Sly and the Family Stone, li ho ascoltati uno dopo l'altro. Fuori dalla finestra passavano volando oggetti diversi. Un lenzuolo bianco che procedeva da est a ovest, pareva uno stregone che preparasse una bevanda magica di radici ed erbe. Un'insegna di latta lunga e stretta tutta piegata all'indietro, come uno dedito al sesso anale. Mentre guardavo quello spettacolo fuori dalla finestra, al suono del concerto per violoncello, di
nuovo è squillato il telefono. L'orologio segnava le tre e quarantotto minuti. Ho sollevato il ricevitore, aspettandomi di nuovo di sentir soffiare il vento col rumore dei reattori di un Boeing 747, ma questa volta non è stato così. - Pronto? - ha detto una voce di donna. - Pronto? - ho risposto io. - Sto andando a fare la spesa per stasera, poi vengo lì. Per te va bene? - Era la mia ragazza. Stava venendo da me con gli ingredienti per preparare la cena e la mascherina per gli occhi. - Sì, va benissimo. Ma senti… - La pentola di terracotta ce l'hai? - Certo che ce l'ho. Ma dove sei? Non si sente più il vento. - Sì, ormai si è calmato. Qui a Nakano ha smesso alle tre e venticinque, vedrai che fra poco smetterà anche lì. - Può darsi, - ho detto, poi ho riattaccato, sono andato in cucina, ho tirato fuori la pentola di terracotta dallo scompartimento sotto il soffitto e l'ho lavata nel lavandino. Il vento, come aveva previsto la mia ragazza, è cessato alle quattro e cinque precise. Ho aperto la finestra e ho guardato fuori. Sotto, un grosso cane nero stava fiutando freneticamente il terreno. È andato avanti così senza stufarsi per quindici o venti minuti. Cosa diavolo cercava? A parte ciò, il mondo non aveva subito il minimo cambiamento da quando si era scatenata quella bufera, né nell'aspetto né nel funzionamento. I cedri dell'Himalaya e gli ippocastani si ergevano placidi nell'aria come se non fosse successo nulla, la biancheria se ne stava appesa immobile alla sua corda di plastica, e i corvi, appollaiati in cima ai pali della luce, sbatacchiavano le ali lucenti come carte di credito. Poi la mia ragazza è arrivata e ha cominciato a preparare la cena. In piedi in cucina lavava le ostriche, affettava la verza, disponeva su un piatto cubetti di tófu2, preparava il brodo. Le ho chiesto se per caso non mi avesse telefonato alle due e trentasei. - Certo che ti ho telefonato! mi ha risposto mentre lavava il riso. - Non si sentiva assolutamente nulla. - Sì, lo so, il vento era troppo forte. Ho tirato fuori dal frigo una birra, mi sono seduto al tavolo e l'ho bevuta. - Chissà come mai tutt'a un tratto si è messo a soffiare con tanta forza, e poi altrettanto improvvisamente ha smesso? - le ho chiesto. - Mah, chi lo sa! - ha risposto lei sempre voltandomi la schiena, mentre sbucciava con le unghie i gamberetti. - Ci sono un sacco di cose che non sappiamo, a proposito del vento. Come ci sono un sacco di cose che non sappiamo a proposito della storia antica, dei tumori, del fondo marino, del cosmo o del sesso. - Già... - ho detto. Che razza di risposta era? Ma discutere con lei di quell'argomento non sembrava portare a nessuno sviluppo, così ho lasciato perdere e sono rimasto a guardare in silenzio i preparativi del riso con le ostriche. - Posso toccarti un po' la pancia? - ho chiesto. - Dopo. Aspettando che la cena fosse pronta, ho annotato brevemente gli avvenimenti di quel giorno, in modo da poterli raccontare con precisione nel diario la settimana prossima. 22 tófu pasta di soia di colore biancastro e conoscenza molle
1) 2) 3)
La caduta dell'Impero Romano. La rivolta degli Indiani del 1881. Quando Hitler invase la Polonia.
Questo ho scritto. Così alla fine della settimana mi ricorderò esattamente cos'è successo domenica. E grazie a questo meticoloso sistema che per ventidue anni ho potuto tenere un diario senza saltare nemmeno un giorno. Per ogni azione significativa c'è un sistema specifico. Che ci sia il vento o no, è questo il modo in cui vivo.
Affare di famiglia
Sono situazioni che si verificano spesso, credo, ma a me il fidanzato di mia sorella minore non era mai piaciuto, fin dall'inizio. E col passare dei giorni cominciavo ad avere dei dubbi anche su di lei, che aveva deciso di sposarsi con un uomo del genere. Per dire tutta la verità, ero molto deluso. È possibile che il mio atteggiamento nascesse dalla mia ristrettezza mentale. Perlomeno era quello che pensava mia sorella. Non abbiamo mai parlato apertamente di quell'argomento, ma lei sapeva bene che io non apprezzavo molto la sua scelta, il che pareva renderla furibonda. - Il tuo modo di vedere le cose è troppo limitato, - mi disse una volta. In realtà stavamo parlando di spaghetti, era di limitatezza nei loro confronti che lei mi stava accusando. Ovviamente non si riferiva solo a quelli, dietro gli spaghetti faceva capolino il suo fidanzato, ed era a proposito di lui che mia sorella stava attaccando briga. Insomma stavamo litigando per procura. Tutto cominciò una domenica a mezzogiorno, quando lei mi propose di andare fuori a mangiare un piatto di pasta. Ne avevo giusto voglia, e fui subito d'accordo. Entrammo in una Spaghetti House piccola e graziosa, che era stata aperta da poco davanti alla stazione. Io ordinai degli spaghetti con aglio e melanzane, lei col basilico. Aspettando che ce li portassero, bevvi una birra. Fin lì tutto bene. Era una domenica di maggio, e in più faceva bel tempo. I guai cominciarono quando arrivarono i nostri spaghetti: erano immangiabili, un vero disastro. La pasta in superficie era farinosa e dentro ancora cruda, il burro evidentemente riciclato, avrebbero fatto schifo anche a un cane. Io ne mangiai la metà, poi rinunciai e dissi alla cameriera di portarli via. Mia sorella mi lanciava occhiate, ma sul momento non disse nulla e mangiò lentamente, con calma, gli spaghetti che aveva davanti, tutti fino all'ultimo. Nel frattempo io guardavo fuori dalla finestra, bevendo una seconda birra. - Non era necessario lasciare tutta quella roba in maniera tanto ostentata, - disse quando portarono via anche il suo piatto. - Facevano schifo, - risposi laconicamente. - Non tanto da lasciarne la metà. Potresti anche sforzarti di sopportare un po'. - Quando ho voglia di mangiare mangio, e quando non ne ho voglia non mangio. Lo stomaco è mio, cara, non tuo. - Non usare certi termini, sembriamo una vecchia coppia -. Da quando aveva compiuto vent'anni, mia sorella non voleva che la trattassi in maniera troppo confidenziale. - Questo posto l'hanno appena aperto, la persona che cucina non sarà ancora abituata. Potresti anche mostrarti un poco più indulgente, - continuò, mentre beveva la brodaglia di caffè che le avevano portato, doveva essere pessimo anche quello, bastava vederlo. - Può darsi, ma anche lasciare la roba cattiva nel piatto è una forma di discernimento, mi pare, - le spiegai. - Da quando sei diventato così saggio? - Che rompipalle! Hai le mestruazioni o cosa? - Maleducato! Come ti permetti di parlarmi in questo modo? - Non c'è bisogno di prendertela così! Se so persino quando ti sono venute, le prime mestruazioni! Eri in ritardo, e con la mamma sei andata a farti vedere dal dottore. - Se non stai zitto ti do la borsa in faccia!
Rendendomi conto che era arrabbiata sul serio, tacqui. - Hai un modo così limitato di vedere le cose, tu, - proseguì lei versandosi della panna nel caffè - lo sapevo che era imbevibile. - Sei troppo critico, consideri sempre e solo i lati negativi. Non cerchi neanche di vederli, quelli positivi. Se qualcosa non corrisponde ai tuoi criteri, non la tocchi neppure. È estremamente irritante, starti a guardare. - Però è la mia vita, non la tua. - Sì, ma in questo modo ferisci la gente, o dai fastidio. Come quando ti masturbavi. - Quando mi masturbavo? - chiesi stupito. - Cos'è, questa storia? - Quando eri al liceo ti masturbavi in continuazione e sporcavi sempre le lenzuola. Lo so bene, io, ogni volta bisognava lavarle. Potresti perlomeno masturbarti senza sporcare il letto! - D'ora in poi farò attenzione, - dissi. - A parte questo, però, ripeto che io ho la mia vita, ci sono cose che mi piacciono e altre no. Non ci posso fare nulla. - Sì, però ferisci gli altri. Perché non fai uno sforzo? Perché non cerchi di vedere i lati buoni delle cose? Perché non cerchi di avere un po' di spirito di sopportazione? Perché non cresci? - Sono cresciuto, invece, - risposi un po' offeso. - E sono anche capace di sopportare, e di vedere i lati buoni delle cose. Semplicemente non vedo le stesse cose che vedi tu. - Sei semplicemente arrogante. E per questo che a ventisette anni suonati non hai una vera relazione sentimentale. - Sì che ho una ragazza. - Per andarci a letto. O sbaglio? Ogni anno ti trovi una ragazza nuova per andarci a letto. Sei felice così? Che senso ha, se non ci sono comprensione, affetto, considerazione reciproca... È come masturbarsi, è uguale. - Non è affatto vero che cambio ragazza ogni anno, - obiettai debolmente. - È la stessa cosa. Se cominciassi a pensare in maniera più seria, a vivere in maniera più seria? Se cominciassi a diventare adulto? La nostra discussione finì lì. Io provai ancora a intavolare il discorso, ma lei non mi rispose. Non riuscivo a capire perché si fosse fatta di me una tale opinione. Fino a un anno prima si godeva la vita, la sua condotta era incurante quanto la mia. Potevo anche sbagliarmi, ma avevo l'impressione che in un certo senso mi ammirasse. Era da quando stava con quello li che a poco a poco si era allontanata da me. Se le cose stavano così, non era giusto, pensai. Il nostro legame durava da ventitre anni. Eravamo fratello e sorella, andavamo d'accordo e potevamo parlarci apertamente di qualunque cosa. Non avevamo quasi mai litigato. Quando da ragazzo mi masturbavo, lei ne era al corrente, e io sapevo quando le erano venute le prime mestruazioni. Lei sapeva quando avevo comprato il mio primo preservativo (a diciassette anni), io quando lei aveva comprato il suo primo completo intimo in pizzo (a diciannove). Io ero spesso uscito con le sue amiche (senza andarci a letto, naturalmente), lei con i miei amici (senza andarci a letto, credo). Insomma eravamo cresciuti insieme. Ed ecco che la nostra relazione, una volta tanto confidenziale, in un anno era cambiata. A quel pensiero sentivo la collera montare dentro di me. Arrivati ai grandi magazzini davanti alla stazione, mia sorella disse che voleva guardare delle scarpe, allora la lasciai e tornai a casa da solo. Provai a telefonare alla mia ragazza. Non la trovai. Non c'era da meravigliarsi, uno non può telefonare a una ragazza la domenica pomeriggio alle due e sperare che gli vada bene. Riagganciai, presi l'agenda degli indirizzi e feci il numero di un'altra ragazza, una che avevo conosciuto in una discoteca. Era in casa. - Ti va di andare a bere qualcosa? - le chiesi. - Ma se sono solo le due! - mi rispose lei in tono annoiato. - L'ora non è un problema, tra un bicchiere e l'altro vedrai che si fa sera, - dissi. - Conosco un bar da dove si vede un bellissimo tramonto. Bisogna arrivarci prima delle tre, però, altrimenti non si trova posto. - Quanto sei snob!
Comunque accettò di uscire. Per bontà d'animo, credo. Percorremmo in macchina una strada lungo la costa fino un po' oltre Yokohama, poi, come le avevo promesso, la portai in un bar da dove si vedeva il mare. Li io bevvi quattro I. W. Harper con ghiaccio, lei due banana daiquiri. E guardammo il tramonto. - Puoi guidare, dopo aver bevuto tanto? - mi chiese la ragazza con aria preoccupata. - Stai tranquilla, - le risposi, - nessuno regge l'alcol come me. - Sei modesto. - Dopo quattro whisky comincio appena ad essere normale. - Addirittura! Al ritorno ci fermammo a cenare a Yokohama, poi in macchina ci baciammo. Le chiesi di andare in un albergo, ma lei rifiutò. - Ho messo un tampax. - Lo puoi togliere. - Non sto scherzando, è solo il secondo giorno. Ci mancava anche questa, pensai. Che razza di giornata! Se doveva finire così, tanto valeva che fin dall'inizio fossi uscito con la mia ragazza. Se non avevo preso appuntamenti, quella domenica, era perché volevo passarla tranquillamente con mia sorella, dopo tanto tempo. Ben mi stava! - Mi dispiace. Ma non ti ho contato una balla, - disse la ragazza. - Non fa nulla, non ti preoccupare. Tu non c'entri niente, è colpa mia. - Il fatto che abbia le mestruazioni è colpa tua? - chiese la ragazza con l'aria di non capire bene. - No, tutto l'insieme, - dissi. Era evidente, no? Perché le mestruazioni di una ragazza che conoscevo appena dovevano essere colpa mia? La accompagnai in macchina fino a casa sua, nel quartiere di Setagaya. A metà strada la frizione cominciò a fare un rumore di ferraglia, leggero ma udibile. Con un sospiro, mi dissi che mi conveniva farla vedere. Era proprio una di quelle giornate sballate in cui non ne va bene una, in cui tutto si concatena per andare storto. - Posso invitarti di nuovo, uno di questi giorni? - chiesi. - Per uscire o per andare in un albergo? - Tutt'e due, - risposi ridendo. - Sono due cose che vanno insieme, come lo spazzolino da denti e il dentifricio. - Be', ci devo pensare, - disse lei. - Ecco, buon'idea, pensando il cervello non arrugginisce. - E a casa tua? Non ci si può andare? - Impossibile, vivo con mia sorella. Abbiamo delle regole ben precise. Io non porto a casa donne, lei non porta uomini. - Figuriamoci, tua sorella! - Te lo giuro. La prossima volta ti porto una copia del certificato di residenza. Lei rise. Dopo aver aspettato che la ragazza entrasse nel portone, accesi il motore e tornai a casa tendendo l'orecchio al rumore della frizione. L'appartamento non sembrava illuminato. Aprii la porta, accesi la luce e chiamai mia sorella. Non c'era. Erano soltanto le dieci, doveva essere uscita. Mi misi a cercare il giornale della sera, ma non lo trovai. Per forza, era domenica. Tirai fuori dal frigorifero una birra, la versai in un bicchiere e me la portai in soggiorno. Accesi lo stereo e misi un disco nuovo di Herbie Hancock. Poi bevendo la mia birra aspettai che il suono uscisse dalle casse. Nulla, nessun segno di vita. Allora tutt'a un tratto mi ricordai che tre giorni prima lo stereo si era rotto. La corrente arrivava, ma il suono non usciva.
Il che rendeva impossibile anche guardare la televisione, il mio apparecchio aveva soltanto il monitor, se non era collegato allo stereo non si sentiva nulla, funzionava così. Pazienza, pensai, e ripresi a bere la mia birra guardando le immagini senza suono. Davano un vecchio film di guerra. Le truppe di Rommel si battevano silenziosamente sul fronte africano, i cannoni lanciavano bombe silenziose, i fucili automatici sparavano colpi silenziosi. E silenziosamente la gente moriva. Cose da pazzi, mi dissi facendo il sedicesimo sospiro della giornata - sì, dovevano essere almeno sedici.
Era stato cinque anni prima, in primavera, che io e mia sorella avevamo deciso di vivere insieme. All'epoca avevamo rispettivamente ventidue e diciotto anni. Io m'ero laureato da poco e avevo appena incominciato a lavorare, lei aveva finito il liceo ed era appena entrata all'università. Papà e mamma le avevano permesso di venire a studiare a Tokyo a condizione che vivesse con me. A lei andava bene, e anch'io ero d'accordo. I nostri genitori affittarono allora per noi un appartamento abbastanza spazioso dove avevamo ognuno la nostra stanza, e di cui io pagavo metà dell'affitto. Come ho già detto, andavo molto d'accordo con mia sorella, abitare con lei non comportava per me quasi nessun disagio. Lavorando nell'ufficio pubblicitario di un produttore di apparecchi elettrici, uscivo relativamente tardi il mattino e rientravo tardi la sera, quando mi svegliavo lei di solito era già uscita, e quando tornavo a casa era già andata a dormire. Inoltre passavo quasi tutti i sabati e le domeniche fuori con delle ragazze, quindi non mi capitava spesso di avere una vera conversazione con lei, forse una o due volte alla settimana. E penso che andasse bene così, non avevamo il tempo di litigare e ognuno si faceva gli affari suoi. Probabilmente anche mia sorella faceva le sue esperienze, ma io non mi intromisi neanche una volta nelle sue faccende. Era una ragazza di diciotto anni, e non erano fatti miei se andava a letto con qualcuno. Una volta soltanto mi era successo di tenerle stretta la mano, dall'una alle tre di notte. Tornando a casa l'avevo trovata seduta al tavolo della cucina, che piangeva. Se era rimasta lì, ne dedussi, era perché desiderava che io facessi qualcosa. Altrimenti sarebbe andata a piangere sul letto in camera sua. È probabile che io sia una persona limitata ed egoista, lo ammetto, ma fin li ci arrivavo. Così mi sedetti di fianco a lei e le tenni stretta la mano per tutto quel tempo. Era da tanto che non lo facevo, forse da quando eravamo bambini e andavamo a catturare libellule. La sua mano, non c'è bisogno di dirlo, era diventata molto più grande e ferma di come me la ricordassi. Insomma lei rimase a piangere in silenzio per due ore di fila. Ero in ammirazione, non avrei mai detto che tenesse in serbo tutte quelle lacrime. Io, se piango per due minuti, mi sento diventare tutto secco. Verso le tre però anch'io cominciai a sentirmi stanco, e decisi di porre fine a quella scena. In quanto fratello maggiore, era venuto il momento di dire la mia. Sono negato per queste cose, ma non avevo scelta. - Non ho intenzione di intromettermi in quello che fai, dissi, - è la tua vita, e puoi viverla come vuoi. Mia sorella annuì. - C'è solo un consiglio che vorrei darti, però. È meglio che non porti dei preservativi nella borsa, ti prendono per una prostituta. A quelle parole, lei afferrò la guida del telefono che era sul tavolo, e me la scagliò addosso. - Come ti sei permesso di andare a frugare nella mia borsa? - gridò. Quando si arrabbia, incomincia subito a lanciare oggetti, quindi per non contrariarla ulteriormente evitai di dirle che non avevo mai toccato la sua borsa. Ad ogni modo smise di piangere, e io potei andare a letto. Il nostro stile di vita non cambiò nemmeno dopo che mia sorella si laureò e trovò impiego in
un'agenzia di viaggi. Lei faceva un orario di lavoro normale, dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, mentre la mia vita diventava sempre più irregolare. Ogni giorno arrivavo in ufficio verso mezzogiorno, mi sedevo alla scrivania a leggere il giornale, intanto si faceva ora di pranzo... soltanto verso le due del pomeriggio cominciavo a lavorare sul serio. La sera andavo con i colleghi a bere qualcosa in qualche locale, e quando tornavo a casa era notte fonda. Nel primo anno di lavoro, durante le ferie estive, mia sorella partecipò con un'amica a un viaggio organizzato sulla costa occidentale degli Stati Uniti - naturalmente aveva diritto a un grosso sconto - e strinse amicizia con un ingegnere elettronico che faceva parte dello stesso gruppo. Tornata in Giappone, cominciò a vedersi spesso con lui. Sono storie che succedono tutti i momenti, lo so, ma io non riesco proprio a trovarle belle. Detesto i viaggi organizzati, e il solo pensiero di incontrare qualcuno in una circostanza del genere mi fa cadere le braccia. Da quando si era messa con quell'ingegnere, comunque, mia sorella era diventata molto più vivace. Si occupava della casa, e faceva molta attenzione a come si vestiva. Fino ad allora l'avevo sempre vista in maglietta, jeans slavati e scarpe da tennis, in qualunque occasione, era quel tipo di ragazza. Grazie a quel nuovo interesse per il proprio abbigliamento, invece, andava riempiendo di scarpe la scarpiera nell'ingresso, e la casa di attaccapanni in filo di ferro della tintoria. Faceva spesso il bucato, stirava - fino ad allora i vestiti sporchi si erano accumulati nel bagno come formicai dell'Amazzonia - cucinava, faceva pulizia. L'esperienza mi diceva che erano sintomi pericolosi. Quando una ragazza comincia a manifestarli, un uomo ha due alternative, squagliarsela al più presto, o sposarla. Poco dopo, mia sorella mi mostrò delle fotografie dell'ingegnere elettronico in questione. Una cosa che non aveva mai fatto. Altro sintomo pericoloso. Delle due foto, una era stata scattata al porto di San Francisco. L'ingegnere elettronico e mia sorella erano in piedi davanti a un pescespada, e sorridevano. - Magnifico pescespada! - commentai. - Piantala di scherzare, - disse lei. - È una cosa seria. - Cosa dovrei dire? - Non hai bisogno di dire nulla. È lui. Ripresi in mano le foto, e guardai l'uomo. Se c'era al mondo un tipo di faccia che trovavo antipatica alla prima occhiata, era quella. In più aveva la stessa identica espressione di un mio ex compagno di liceo; uno più vecchio di me che non potevo soffrire, un ragazzo non brutto, ma prepotente e sciocco. Con una memoria da elefante però, ricordava in eterno anche le cose più insignificanti, con la memoria compensava la sua stupidità. - Quante volte l'avete fatto? - chiesi. - Non dire sciocchezze, - rispose mia sorella, ma diventò rossa. - Non giudicare gli altri col tuo metro, non sono mica tutti come te. La seconda fotografia era stata scattata in Giappone, dopo il viaggio. Questa volta si vedeva soltanto l'ingegnere elettronico, indossava un giubbotto di pelle e stava appoggiato a una moto di grossa cilindrata. Aveva posato il casco sul sellino, e in viso aveva esattamente la stessa espressione che a San Francisco. Magari non sapeva assumerne altre. - Gli piace andare in moto, - disse mia sorella. - Lo vedo. Chi si metterebbe un giubbotto del genere, se no? Io i fanatici della motocicletta - anche questo forse fa parte della mia ristrettezza mentale - non li sopporto proprio. Le arie che si danno, con quelle tute assurde... comunque decisi di non fare commenti. Resi in silenzio le foto a mia sorella. - Allora? - chiesi. - Allora cosa? - Che intenzioni hai?
- Non lo so. Può anche darsi che me lo sposi. - Vuoi dire che ti ha chiesto di farlo? - Già... Però non gli ho ancora dato una risposta. - Ah. - Ad essere sincera, ho appena cominciato a lavorare, per quel che mi riguarda vorrei spassarmela ancora un po'... anche se non ho intenzione di arrivare ai tuoi livelli. - Be', mi sembra un atteggiamento molto sano, - ammisi. - Lui però è così bravo che potrei anche sposarlo. Ci devo pensare. Presi di nuovo in mano le foto sul tavolo e le guardai. Per carità, mi dissi. Questo succedeva poco prima di Natale. Agli inizi dell'anno nuovo, un mattino ricevetti una telefonata di nostra madre. Erano le nove e mi stavo lavando i denti, intanto ascoltavo Born in the Usa di Bruce Springsteen. Mi chiese se conoscessi il fidanzato di mia sorella. Le dissi di no. Mia sorella, mi spiegò la mamma, le aveva scritto annunciando la sua visita insieme a quel ragazzo, sarebbero andati a trovare lei e papà la settimana dopo, nel week-end. - Magari vuole sposarlo, - dissi. - È appunto per questo che ti sto chiedendo che tipo di persona sia. Vorremmo sapere qualcosa di lui, prima di incontrarlo. - Be', io non l'ho mai visto... Ma so che ha un anno in più di lei ed è ingegnere elettronico. Lavora all'Ibm o qualcosa del genere. Un nome con tre lettere dell'alfabeto latino, Nec, o Tnt... Sulle foto ha una faccia normale, niente di particolare. Non è il mio tipo, ma non sono io che me lo devo sposare, quindi... - In quale università si è laureato, da che famiglia viene? - Cosa vuoi che ne sappia, io?! - Fammi il piacere, una volta incontralo, e cerca di fargli qualche domanda. - Che rottura di scatole! Credi che abbia tutto questo tempo da perdere? Perché non gliele fai tu quando lo vedi, le domande? In conclusione, non potei fare a meno di incontrare l'ingegnere elettronico. La domenica seguente mia sorella doveva andare da lui per conoscere i suoi genitori, e mi chiese di accompagnarla. Mi rassegnai a mettere una camicia bianca, una cravatta, il vestito più sobrio che avevo, e a recarmi insieme a lei a casa di quella gente, nel quartiere di Meguro. Una bella villa in una zona residenziale. Davanti al garage era parcheggiata la Honda 500 che avevo visto sulla fotografia. - Proprio un magnifico pescespada! - dissi. - Senti, ti pregherei di una cosa, evita le tue solite battute. Per oggi cerca di tenerti tranquillo. - Ricevuto. I genitori di lui erano persone per bene - anche troppo, per i miei gusti. Suo padre era dirigente in una compagnia petrolifera. Visto che il mio era proprietario di una catena di distributori di benzina a Shizuoka, almeno da quel punto di vista era un'unione indovinata. La madre servì il tè su un vassoio molto fine. Una volta seduti, procedemmo alla presentazioni. Io diedi il mio biglietto da visita al padre, che mi porse il suo. Gli dissi anche che in realtà avrebbero voluto venire i miei genitori, ma quel giorno avevano un impegno improrogabile, così al posto loro ero venuto io. I miei speravano che in futuro si potesse trovare una data conveniente per fare delle vere presentazioni formali. Lui rispose che suo figlio gli aveva parlato molto di mia sorella, e adesso poteva constatare con i suoi occhi quanto fosse bella, era quasi sprecata per suo figlio... e poiché veniva da una buona famiglia, da parte loro non avevano nessuna obiezione a quell'unione. Ne dedussi che dovevano aver fatto scrupolose indagini. Di sicuro però non sapevano che mia sorella non aveva avuto le mestruazioni fino all'età di sedici anni, e che soffriva di stitichezza cronica.
Una volta terminate le formalità senza errori da parte mia, il padre mi versò del brandy. Un ottimo brandy. Sorseggiandolo, parlammo dei nostri rispettivi lavori. Ogni tanto mia sorella con la punta del piede mi avvertiva di non bere troppo. Nel frattempo il figlio, l'ingegnere elettronico, stava seduto di fianco al padre con aria molto tesa, non apriva bocca. Si capiva alla prima occhiata che era completamente sottomesso alla sua autorità, perlomeno quando si trovava in quella casa. Bel cretino, pensai. Indossava un golf con dei motivi strani, mai visto niente del genere prima di allora, e una camicia che non vi si intonava affatto. Ma perché mia sorella non si era trovata un uomo che avesse almeno un po' più di gusto? Verso le quattro, la conversazione cominciò a languire. Mia sorella ed io ci alzammo. L'ingegnere elettronico ci accompagnò fino alla stazione. - Perché non prendiamo un tè o qualcosa da qualche parte? - ci propose. Io non avevo voglia di bere nulla, e neanche di sedermi allo stesso tavolo con uno che indossava un golf tanto orrendo, ma rifiutare sarebbe stato scortese, così accettai di entrare in un caffè nelle vicinanze. Lui e mia sorella ordinarono un espresso, io della birra, ma non ne avevano. Mi rassegnai a prendere anch'io un caffè. - Ti devo ringraziare per oggi. Ci sei stato di grande aiuto, - mi disse lui educatamente. - Figurati, ho fatto solo il mio dovere, - risposi buono buono. Ormai non avevo più la forza morale di fare battute. - Tua sorella mi parla sempre di te, o-nii-san13. O-nii-san? Mi grattai dietro l'orecchio col manico del cucchiaino, poi lo riposai sul piattino. Di nuovo mia sorella mi diede un calcio, ma lui non sembrò cogliere il significato di quel gesto. Forse capiva soltanto il linguaggio computerizzato. - Come vi invidio, di andare tanto d'accordo, - disse. - Già, infatti quando siamo felici ci prendiamo a calci. L'ingegnere elettronico prese un'espressione interdetta. - Sta scherzando, - disse mia sorella con aria annoiata. Deve sempre fare battute. - Sì, faccio battute, - commentai. - In casa ci dividiamo i lavori, lei fa il bucato, io faccio le battute. A quelle parole l'ingegnere elettronico - il suo nome era Watanabe Noboru - sorrise con aria un poco sollevata. - Be', mette allegria. Spero che anche la mia famiglia sarà così. L'allegria è la cosa più importante. - Sentito? - dissi a mia sorella. - L'allegria è la cosa più importante. Tu sei troppo nervosa. - A condizione che le battute siano divertenti... - rispose lei Possibilmente, vorrei che ci sposassimo in autunno, - disse Watanabe Noboru. - Ottima cosa, sposarsi in autunno. Al matrimonio si possono ancora invitare gli scoiattoli e gli orsi! L'ingegnere elettronico rise, mia sorella no. Cominciava ad essere seriamente in collera. Allora dissi che avevo da fare e me ne andai. Tornato a casa, telefonai a mia madre e le spiegai più o meno la situazione: - Non è poi tanto male, - feci grattandomi un orecchio. - Cosa significa, non è tanto male? - chiese lei. - Che è un ragazzo serio. Perlomeno sembra più serio di me. - Non ci vuole molto, tu non sei affatto serio. 3 O-nii-san: fratello maggiore, appellativo usuale tra fratelli, sorelle, cognati e cognate (alla sorella maggiore si dice o-né-san).
- Felice di sentirtelo dire. Grazie, - dissi guardando il soffitto. - Allora, l'università? - Che università? - In quale università si è laureato, quel ragazzo? - Domandalo a lui, dove si è laureato! - dissi, e riattaccai. Poi presi una birra dal frigo e la bevvi, di pessimo umore.
Il mattino successivo alla lite con mia sorella a proposito degli spaghetti, mi svegliai alle otto e mezza. Come il giorno precedente, faceva un tempo bellissimo, in cielo non c'era nuvola. «Sembra il proseguimento di ieri», mi dissi. La vita continuava dopo la pausa notturna. Mi tolsi il pigiama e la biancheria umidi di sudore, li gettai nella cesta della roba sporca, feci una doccia e cominciai a radermi le guance. Nel frattempo pensavo alla ragazza della sera prima, con la quale non ero riuscito ad andare a letto, anche se ci era mancato poco. Pazienza, mi dissi. Voleva dire che non era destino, io avevo fatto del mio meglio. Avevo ancora parecchie chance. Magari la domenica seguente sarebbe stata la volta buona. Andai in cucina, tostai due fette di pane, scaldai il caffè. Stavo per accendere la radio, ma mi ricordai che lo stereo non funzionava e rinunciai. Mangiando lessi le recensioni letterarie sul giornale. Nessuna mi diede voglia di leggere i libri presentati: un romanzo che parlava della «vita sessuale tra fantasia e realtà di un vecchio ebreo», uno studio storico sulla schizofrenia, un resoconto completo dell'incidente del 1907 nella miniera di rame di Ashio. Meglio andare a letto con la capitana di una squadra di baseball femminile, che leggere quella roba. Sicuramente era per irritare i lettori, che il giornale sceglieva quei libri. Dopo la prima fetta di pane dispiegai il giornale sul tavolo, quando mi accorsi che sotto il barattolo della marmellata c'era un foglietto con un messaggio. Nei suoi piccoli caratteri, mia sorella mi aveva scritto che la domenica seguente aveva invitato a cena Watanabe Noboru, quindi ero pregato di restare a casa e mangiare con loro. Finii di fare colazione, spazzai con la mano le briciole di pane cadute sulla camicia, misi i piatti sporchi nel lavandino, e telefonai all'agenzia di viaggi dove lavorava mia sorella. Me la passarono. - Adesso ho da fare, non posso, ti richiamo fra dieci minuti, - mi disse. Ne passarono venti prima che mi richiamasse. Nel frattempo io avevo fatto quarantatre flessioni sulle braccia, mi ero tagliato le unghie delle mani e dei piedi e avevo scelto quello che mi sarei messo, camicia, cravatta, giacca e pantaloni. Poi mi ero lavato i denti, mi ero pettinato, e avevo sbadigliato due volte. - Hai letto il mio messaggio? - chiese. - L'ho letto. Mi dispiace ma questa domenica non posso, ho un impegno, già da tanto. Peccato, se lo avessi saputo prima mi sarei tenuto libero. - Non contare balle. Avrai appuntamento con una di cui non ti ricordi neanche il nome, per portarla da qualche parte a fare sappiamo cosa, - disse mia sorella in tono gelido. - Non puoi anticipare a sabato? - Sabato devo stare tutto il giorno in ufficio. Stiamo preparando la pubblicità di una coperta elettrica. Di questi tempi abbiamo un sacco da fare. - Be', allora annulla quell'appuntamento. - Se l'annullo lei mi farà pagare un prezzo. Siamo in una fase delicata. - Con me invece la delicatezza è superflua, vero? - Non voglio dire questo, - risposi accostando la cravatta alla camicia appesa alla sedia. - Ma non avevamo stabilito la regola di non intrometterci tu negli affari miei e io nei tuoi? Tu ceni con il tuo fidanzato, io esco con la mia ragazza. Mi sembra corretto, no? - No che non lo è. È da secoli che tu e lui non vi vedete. Da quando l'hai conosciuto, quattro mesi fa.
Non sta affatto bene. Avevi mille occasioni per incontrarlo, ma hai sempre fatto in modo di evitarlo. È una maleducazione tremenda, non credi? In fin dei conti è il fidanzato di tua sorella, degnati una volta di cenare con lui, non ti chiedo poi molto. Non aveva del tutto torto, non sapendo cosa dire rimasi in silenzio. Era vero che evitavo sempre le occasioni di sedermi allo stesso tavolo con Watanabe Noboru. Non pensavo ci fossero molti argomenti di cui poter parlare con lui, ed era faticoso fare battute che avevano bisogno dell'interprete. - Ti prego, soltanto per questa volta, cena con noi. Se lo fai ti prometto di non ostacolare più la tua vita sessuale fino alla fine dell'estate, - disse mia sorella. - La mia vita sessuale è ridotta a ben poca cosa, - risposi, non so se supererò l'estate. - Ad ogni modo domenica prossima a casa ci sarai, vero? - Mi arrendo, - risposi rassegnato. - Penso che lui sia in grado di aggiustare lo stereo. È bravissimo in questo genere di cose. - Con le mani ci sa fare, insomma. - Sempre a pensare porcherie! - fece lei, e riattaccò. Misi la cravatta e andai in ufficio. Fu una settimana di tempo splendido, ogni giorno sembrava la continuazione di quello precedente. La sera di mercoledì telefonai alla mia ragazza e le dissi che anche quel week-end probabilmente sarebbe saltato, avevo troppo lavoro. Erano già tre settimane che non ci vedevamo, e come c'era da aspettarsi lei andò su tutte le furie. Dopo quella telefonata, senza nemmeno posare la cornetta feci il numero di casa della ragazza della domenica precedente, ma non la trovai. Giovedì neanche, venerdì neanche. La domenica mattina, mia sorella mi svegliò alle otto scuotendomi. - Alzati, devo lavare le lenzuola. Non vuoi mica stare a dormire fino a domani? - disse strappandomi letteralmente lenzuola e federa da sotto. Mi fece togliere anche il pigiama. Non sapendo dove mettermi, andai in bagno a farmi la doccia e la barba. «Sta diventando sempre più come la mamma, quella lì, - pensai, - le donne sono come i salmoni, alla fine bene o male tornano tutte nello stesso posto». Uscito dal bagno, m'infilai un paio di calzoni corti, una maglietta dalla scritta quasi scolorita, e sbadigliando da slogarmi la mascella bevvi un succo d'arancia. Nel mio corpo restava un notevole residuo alcolico dalla sera prima. Non avevo neanche voglia di aprire il giornale. Sul tavolo c'erano dei crackers, così ne mangiai tre o quattro, e fu tutta la colazione. Mia sorella mise le lenzuola in lavatrice, e cominciò a riordinare la mia stanza e la sua. Finito quel lavoro, munita di straccio e secchio lavò le pareti e il pavimento della cucina e del soggiorno. Io me ne stavo sdraiato sul divano a guardare le foto di «Hustler», incensurate perché un amico che stava negli Stati Uniti mi aveva mandato la rivista per posta. Si fa in fretta a dire un sesso di donna, in realtà ce ne sono di varie forme e grandezze, è come per il quoziente intellettuale o l'altezza di una persona. - Di' un po', invece di startene stravaccato sul divano, perché non vai a fare la spesa? - disse mia sorella dandomi un foglietto su cui aveva segnato parecchie cose. - Inoltre fammi il piacere di togliere di mezzo quella roba, che lui non la veda, è un ragazzo serio. Lasciai Hustler sul tavolino, e presi il foglietto. Lattuga, pomodori, sedano, salsa vinaigrette, salmone affumicato, mostarda, cipolle, dadi da brodo, patate, prezzemolo, filetti di manzo... - Filetti? - chiesi. - Senti, non ne ho voglia, ne ho mangiato uno ieri sera. Perché non fai delle polpette? - Può darsi che tu ieri sera abbia mangiato un filetto, ma noi no. Non esagerare, non si servono polpette quando si invita qualcuno. - Io, se una ragazza mi invitasse a casa sua e mi servisse delle polpette, le apprezzerei moltissimo. Con del cavolo bianco ben condito, del brodo di miso con le vongole... quella si che sarebbe vita. - E invece stasera mangeremo del filetto! Le polpette te le faccio un'altra volta, te ne faccio una
montagna se vuoi, quindi oggi non fare i capricci e porta pazienza. Contentati di un bel filetto, per favore. - Va bene, va bene, - accondiscesi. Protesto sempre, ma alla fin fine sono una persona gentile e comprensiva. Andai al supermercato del quartiere e comprai tutto quello che c'era scritto sul foglietto, poi passai dal negozio di alcolici e presi una bottiglia di Chablis che mi costò quattromila e cinquecento yen. Voleva essere un regalo da parte mia per i due giovani fidanzati. Sono pensieri che vengono solo alle persone gentili. Tornato a casa, trovai posati sul letto una polo blu di Ralph Lauren e un paio di pantaloni beige di cotone pulitissimi. - Mettiti questi, - mi disse mia sorella. Stava proprio esagerando, pensai, ma mi cambiai senza protestare. Qualunque cosa avessi detto, non sarebbe servita a restituirmi la mia giornata di riposo abituale, con la sua calda trasandatezza.
Watanabe Noboru arrivò alle tre. In sella alla sua moto, ovviamente, accompagnato da un piacevole venticello. Sentii il rombo antipatico della sua Honda 500 cc. quando era ancora a mezzo chilometro di distanza. Mi sporsi dal balcone a guardare e lo vidi, aveva parcheggiato di fianco all'ingresso del palazzo e si stava togliendo il casco guarnito di adesivi. Per fortuna, senza il casco, quel giorno era vestito più o meno come una persona normale, portava una camicia a quadri dal colletto aperto - troppo inamidata - dei pantaloni bianchi con le pince, e dei mocassini marroni con le nappe. Il colore delle scarpe però stonava con quello della cintura. - Pare sia arrivato il tuo amico del porto di pesca di San Francisco! - dissi a mia sorella che stava pelando le patate davanti al lavello della cucina. - Okay, tienigli compagnia tu per il momento. Io comincio già a preparare qualcosa per la cena di stasera. - No, non ne ho voglia, non so cosa dirgli. La cena la preparo io, vacci tu a parlare con lui. - Non dire sciocchezze! Che figura ci faccio? Tienigli compagnia tu. Suonò il campanello, andai ad aprire, era Watanabe Noboru. Lo feci accomodare in soggiorno, e sedere sul divano. Aveva portato una confezione di gelato, che faticai non poco a far entrare nel nostro freezer, piccolo e già pieno zeppo. Che seccatore, di tutte le cose che poteva portare, proprio del gelato doveva andare a prendere! Gli chiesi se voleva una birra. Lui rifiutò. - Sono astemio, - disse, - se ne bevo anche solo un bicchiere, mi sento male. - Io invece una volta, quand'ero studente, ne ho bevuta una catinella, avevo fatto una scommessa con un mio amico. - E cosa ti è successo? - Per due giorni la mia pipì puzzava di birra. In più ruttavo... - Senti, perché non ne approfitti per fargli vedere lo stereo? - intervenne mia sorella. Quasi avesse fiutato odor di bruciato, stava entrando con due bicchieri di succo d'arancia che posò sul tavolo. - Sì, volentieri, - fece Noboru. - Pare che tu ci sappia fare, con le mani, - gli dissi. - Sì, è vero, - rispose lui senza scomporsi. - Fin da bambino mi piaceva mettere insieme i modellini e le radio. Aggiustavo tutte le cose che si rompevano in casa. Cos'ha che non va, lo stereo? - Il suono non esce, - spiegai, quindi accesi l'apparecchio, misi un disco, e feci vedere che non funzionava. Lui si accovacciò davanti allo stereo come una mangusta, e provò uno per uno ogni pulsante.
- C'è un problema con l'amplificatore, ma non è interno. - Come fai a saperlo? - Per deduzione. Ovvio, per deduzione, pensai. Noboru tirò fuori gli amplificatori, staccò tutti i cavi, e li controllò scrupolosamente uno per uno. Nel frattempo io presi dal frigo una lattina di birra e bevvi da solo. - Dev'essere una bella cosa, poter bere, - disse lui svitando una spina con la punta di una matita. - Mah, chi lo sa! Non saprei dire, ho sempre bevuto, fin da ragazzo, e non ho termini di paragone. - Io sto cercando di allenarmi. - Allenarti a bere? - Sì, esatto. Ti sembra strano? - No, per nulla. Meglio cominciare con il vino bianco però. In un grande bicchiere, con del ghiaccio, dell'acqua minerale e qualche goccia di limone. Io lo bevo sempre al posto del succo di frutta. - Allora proverò. Ah, ecco dov'era il problema! - Cos'era? - Il cavo di connessione tra l'amplificatore e la spina. Era staccato sia a destra che a sinistra, alla radice. Queste spine patiscono ad essere spostate in su e in giù, inoltre è materiale di cattiva qualità... qualcuno ha spostato l'amplificatore, di recente? - Sì, io, per pulire dietro, - rispose mia sorella. - Ecco perché. - Be', sono apparecchi che produce la tua ditta, no? - disse lei rivolta a me. - Fanno malissimo, a usare della roba di qualità scadente. - Non l'ho mica fabbricato io, io mi occupo solo della pubblicità, - protestai a bassa voce. - Se hai un saldatore, lo aggiusto subito, - fece Noboru. Gli dissi che non l'avevo. Cosa me ne sarei fatto? - Be', faccio un salto in moto a comprarne uno. È sempre utile averne uno in casa. - Sì, hai ragione, - dissi senza energia, - ma non so se c'è un negozio di ferramenta, qui vicino. - C'è, c'è, ci sono passato davanti poco fa. Di nuovo mi sporsi dalla veranda e lo vidi che si metteva il casco, inforcava la moto, e si allontanava. - È una persona gentile, no? - disse mia sorella. - Ti scioglie il cuore, - risposi.
Mancava poco alle cinque quando Noboru finì di aggiustare la spina dello stereo. Quindi espresse il desiderio di ascoltare un po' di musica leggera, al che mia sorella mise un disco di Julio Iglesias. Di Julio Iglesias, non ci mancava altro! Perché avevamo in casa una tale schifezza? - A te che musica piace, o-nii-san? - chiese Noboru. - Questa qui, l'adoro, - risposi disperato. - E poi Bruce Springsteen, Jeff Beck, i Doors... - Non li conosco, più o meno assomigliano a Julio Iglesias? - Più o meno. A quel punto lui cominciò a parlarmi del nuovo sistema informatico che stava mettendo a punto con la sua équipe. Si trattava della creazione di un diagramma istantaneo per far rientrare nel modo più vantaggioso i treni al deposito dopo un incidente. Io ascoltavo la sua appassionata spiegazione dicendomi che sicuramente era una cosa di grande utilità, ma il principio su cui si basava per me era oscuro quanto le coniugazioni del finlandese. Infatti mi limitavo ad annuire vagamente, e intanto pensavo alle ragazze. Cioè a
trovarne una per andare a bere qualcosa insieme la domenica seguente, poi a cena, poi in qualche stanza d'albergo. E questo che a me piace fare, è nel mio carattere. C'è gente a cui piace costruire modellini e diagrammi dei treni, io invece adoro andare in qualche locale con una ragazza e poi infilarmi con lei in un letto. Si tratta sicuramente di tendenze irrefrenabili che superano la comprensione umana. Alla mia quarta birra, la cena era pronta. Il menu si componeva di salmone affumicato, filetti con salsa vichyssoise, insalata, patate fritte. La cucina di mia sorella non era male, come d'abitudine. Io aprii lo Chablis, e bevvi da solo. - Perché hai deciso di lavorare in una ditta che produce apparecchi elettrici? - mi chiese Noboru mentre tagliava il suo filetto. - Prima, quando parlavamo, ho avuto l'impressione che non ti interessino molto. - Non gli interessa nulla che sia utile alla società, - rispose mia sorella per me. - Gli sarebbe andato bene qualunque posto. Per caso conoscevamo qualcuno in quella ditta, così è entrato lì. - Esatto, - ammisi con convinzione. - Pensa solo a divertirsi. Non ha nessuna intenzione di diventare una persona seria, di migliorare. - Una cavalletta in estate, - dissi. - E si diverte a disprezzare le persone che vivono in maniera responsabile. - Questo non è vero! - protestai. - Gli altri possono fare quello che vogliono, non sono affari miei. Non disprezzo nessuno, io, semplicemente brucio le mie calorie in accordo con le mie idee. È possibile che sia una persona da poco, ma perlomeno non do fastidio a nessuno. - Ma non sei affatto una persona da poco, - disse Noboru per riflesso. L'avevano educato davvero bene. - Grazie, - risposi alzando il bicchiere. - Allora congratulazioni per il vostro fidanzamento. Scusatemi se bevo da solo. - Pensiamo di sposarci in ottobre. Anche se non potremo invitare gli scoiattoli e gli orsi. - Non fartene un problema -. Questa poi, pensai, sa anche scherzare! - E dove andrete in viaggio di nozze? Avrete un bello sconto, no? - Alle Hawaii, - rispose brevemente mia sorella. Allora ci mettemmo a discutere di viaggi. Avendo appena letto un libro sull'incidente aereo avvenuto nelle Ande, parlai di quella storia. - Quando hanno mangiato carne umana, l'hanno fatta cuocere sulla lamiera dell'aeroplano arroventata dal sole, - dissi. - Devi proprio tirar fuori un argomento tanto disgustoso mentre siamo a tavola? - mi chiese mia sorella fissandomi e smettendo di mangiare. - Quando cerchi di imbambolare qualche ragazza, a tavola parli di queste cose? - Non hai intenzione di sposarti, prima o poi? - domandò Noboru come per calmare le acque. Pareva uno che è stato invitato da una coppia che non va d'accordo. - Non ne ho mai avuto l'occasione, - dissi infilandomi in bocca una patata fritta. - Ho dovuto occuparmi di mia sorella più piccola, poi c'è stata quella lunga guerra... - Guerra? - chiese Noboru sorpreso. - Quale guerra? - È una delle sue battute idiote... - fece mia sorella scuotendo il flacone della vinaigrette. - Una delle mie battute idiote, - ripetei io. - Però è vero che non ho avuto occasioni. Ho una mentalità ristretta, e inoltre ho sempre i calzini sporchi, così non l'ho incontrata, la ragazza fantastica che avesse voglia di vivere con me. Al contrario di te. - Hai qualche problema, con i calzini? - chiese Noboru. - È una battuta anche quella, - spiegò mia sorella con voce stanca. - Figurati se non gli lavo tutti i giorni almeno i calzini! Noboru annuì, e sorrise per un secondo e mezzo. La prossima volta l'avrei fatto sorridere per tre
secondi, decisi. - Lei però è vissuta con te tutti questi anni, - disse indicando mia sorella. - Sì, ma siamo fratelli. - E soprattutto potevi fare tutto quello che ti pareva, io non mi sono mai intromessa, - intervenne lei. Però non è una vita vera, la tua, una vita vera da persona adulta. Nella vita vera le persone si confrontano più onestamente. Ad ogni modo i cinque anni passati con te a loro modo sono stati piacevoli. Ero libera, senza problemi. Di recente però ho incominciato a pensare che non è una vita autentica, questa. Come dire? Non ha sostanza, non la sento. Tu pensi soltanto agli affari tuoi, e quando io voglio fare un discorso serio, mi prendi in giro. - Sono solo riservato. - No, sei solo arrogante. - Sono riservato e arrogante, - dissi rivolto a Noboru, riempiendomi il bicchiere di vino. - Passo da una cosa all'altra in continuazione. - Credo di capirti, - fece Noboru annuendo. - Ma quando resterai solo - cioè quando tua sorella vivrà con me - probabilmente ti verrà voglia di sposarti. - Probabilmente. - Davvero? - mi chiese mia sorella. - Se lo pensi sul serio, ti posso presentare una mia amica, una bravissima ragazza. - Quando verrà il momento, - dissi. - Per adesso è ancora troppo rischioso. Finito di cenare, ci spostammo nel soggiorno per prendere il caffè. Questa volta mia sorella mise un disco di Willie Nelson, per mia fortuna, sempre meglio che Julio Iglesias. - In realtà, anch'io avevo intenzione di restare single almeno fino ai trent'anni, come te, - mi confidò Noboru mentre mia sorella lavava i piatti in cucina. - Ma quando ho incontrato lei, mi è venuta una voglia tremenda di sposarmi. - È una brava ragazza, - dissi, - un po' testona, un po' stitica, ma credo che tu abbia fatto la scelta giusta. - Sì, però mi fa anche paura, il matrimonio. - Tu cerca di vederne solo i lati positivi, di pensare solo alle cose belle, vedrai che non c'è nulla di cui avere paura. Se ci saranno dei problemi, ci penserai quando sarà il momento. - Può darsi che tu abbia ragione. - Perché non si tratta di me, - feci. Poi andai da mia sorella, e le dissi che andavo a fare due passi nella zona. - Non torno prima delle dieci, quindi prendetevela pura comoda, divertitevi. Hai anche cambiato le lenzuola, no? - Non sai proprio pensare ad altro! - rispose lei con aria rassegnata, ma non fece obiezioni. Tornai da Noboru, e gli dissi che uscivo perché dovevo sbrigare una faccenda nel quartiere, forse avrei fatto un po' tardi. - Sono contento di aver potuto parlare un poco con te, è stato un piacere, - rispose lui. - Anche dopo che saremo sposati, vienici a trovare spesso. - Grazie, - dissi, frenando temporaneamente la mia fantasia. - Non prendere la macchina, hai bevuto troppo, oggi! - La voce di mia sorella m'inseguì mentre stavo già uscendo: - Vado a piedi, - risposi. Mancava poco alle otto quando entrai in un bar vicino a casa. Mi sedetti al banco e bevvi un I. W. Harper con ghiaccio. Il televisore sopra il banco trasmetteva una partita di baseball tra i Giants e gli Swallows. Senza suono, l'avevano sostituito con un disco di Cyndi Lauper. I battitori erano Nishimoto e
Obana, e gli Swallows vincevano per 332. Niente male, la televisione senza suono. Guardando la partita, bevvi tre whisky. Alle nove la partita finì, in pareggio 3 a 3 al settimo inning, e qualcuno spense il televisore. Due sgabelli più in là era seduta una ragazza sui vent'anni che avevo già visto in quel bar. Aveva guardato anche lei la partita, così ci mettemmo a parlare di baseball. Mi disse di essere una tifosa dei Giants. E io per chi tenevo? mi chiese. Per nessuno, le risposi, semplicemente mi piaceva guardare il gioco. - Ma come fai a trovarlo divertente, ad appassionarti, se guardi solo per guardare? - domandò lei. - Non c'è bisogno di appassionarsi. Cosa me ne frega, di quelli lì? Bevvi altri due whisky, e offrii due daiquiri alla ragazza. Lei si stava specializzando in design commerciale nientemeno che all'Università di Tokyo, così parlammo di estetica pubblicitaria. Alle dieci uscimmo insieme dal bar, e ci spostammo in un locale con dei sedili un po' più comodi. Li io bevvi un altro whisky, lei un grasshopper. Era decisamente ubriaca, e un po' lo ero anch'io. Alle undici l'accompagnai a casa. Mi fece salire nel suo appartamento e venne a letto con me con l'ovvietà con cui di solito si offre agli ospiti un cuscino e una tazza di tè. - Spegni la luce, - disse, e io la spensi. Dalla finestra si vedeva una grande insegna della Nikon, dalla stanza vicina arrivava nitidamente il suono della televisione, davano i risultati delle partite di baseball. La stanza era buia e io, un po' sbronzo, non mi rendevo neanche ben conto di quello che stavo facendo. Non si poteva chiamare sesso, quello, muovevo semplicemente il pene avanti e indietro, finché eiaculai. Quando il nostro coito mediocre e concluso alla svelta finì, lei si addormentò subito, come se non avesse aspettato altro, e io senza neppure asciugarmi bene mi vestii e uscii. La cosa più difficile fu trovare nel buio la polo, i pantaloni e le mutande nel mucchio dei vestiti di lei. Una volta fuori, l'alcol si propagò per il mio corpo con la foga di un treno merci nella notte. Mi sentivo una schifezza, cigolavo tutto, come l'uomo di latta nel Mago di Oz. Per farmi passare la sbornia bevvi un succo di frutta che comprai in un distributore automatico, col risultato che qualche secondo dopo stavo vomitando sul marciapiede tutto il contenuto del mio stomaco. Resti di filetto, di salmone affumicato, di insalata, di pomodori. Per carità, pensai, quanti anni erano che non vomitavo per aver bevuto troppo? Cosa diavolo stavo facendo, negli ultimi tempi? Ripetevo sempre le stesse cose, e ogni volta era sempre peggio. Poi, di punto in bianco, pensai a Watanabe Noboru e al saldatore che aveva comprato. «È sempre utile averne uno», aveva detto. Un'ottima idea, pensai asciugandomi la bocca con il fazzoletto. Grazie a lui adesso in casa c'era un saldatore. Peccato che non la sentissi più casa mia, per via di quell'arnese. Probabilmente era colpa della mia ristrettezza mentale. Quando rincasai era mezzanotte passata. Naturalmente di fianco all'ingresso del palazzo la moto non c'era più. Salii in ascensore al quarto piano, infilai la chiave nella toppa, aprii la porta ed entrai nell'appartamento. A parte una piccola lampada al neon accesa sopra al lavello della cucina, era tutto buio. Probabilmente mia sorella, disgustata di me, era già andata a dormire. La capivo. Mi versai del succo d'arancia in un bicchiere e lo bevvi d'un fiato, poi mi ficcai sotto la doccia, insaponandomi per mandar via l'odore sgradevole di sudore, poi lavai i denti con cura. Uscito dalla doccia, mi guardai nello specchio del bagno: mi feci spavento da solo, avevo una faccia tremenda. La faccia di uno di quegli uomini di mezza età sporchi e ubriachi che vedevo qualche volta accasciati sui sedili dell'ultimo treno, la notte. La pelle opaca, gli occhi spenti, i capelli grassi. Scossi la testa e spensi la luce, tornai in cucina con un asciugamano intorno ai fianchi e bevvi dell'acqua del rubinetto. Domani è un altro giorno, pensai, in qualche modo ne verrò fuori. E se va tutto in malora, ci penserò domani. Obladi, obladà, la vita continua. - Hai fatto piuttosto tardi -. Nella penombra, mi arrivò la voce di mia sorella. Era seduta sul divano del
soggiorno e stava bevendo una birra. - Sono andato in un bar. - Bevi troppo, tu. - Lo so, - dissi. Poi presi anch'io una birra dal frigo e mi sedetti di fronte a lei. Per un po' restammo in silenzio, limitandoci a portare ogni tanto le nostre lattine alle labbra. Sul balcone, il vento faceva oscillare le foglie delle piante nei vasi, al di là si vedeva una placida mezza luna. - Ti segnalo che non l'abbiamo fatto, - disse mia sorella. - Che cosa? - Non abbiamo fatto niente. Ero nervosa, non ho potuto. - Ah. Non so perché, nelle notti di mezza luna divento taciturno. - Non mi domandi cos'è che mi ha innervosito? - Cos'è che ti ha innervosito? - Quest'appartamento. Quest'appartamento mi rende nervosa, qui non lo posso fare. - Ma guarda - Cosa ti succede, non ti senti bene? - Sono stanco. Succede anche a me, di stancarmi. Mia sorella mi guardò in viso senza dire niente. Dopo aver bevuto l'ultimo sorso di birra, mi lasciai andare contro lo schienale, vi appoggiai la testa e chiusi gli occhi. Sei stanco per colpa nostra? - No, voi non c'entrate, - risposi sempre ad occhi chiusi. - Sei troppo stanco anche per parlare? - domandò allora lei a bassa voce. Mi tirai su, e la guardai. Poi feci segno di no con la testa. - Senti, ho paura di averti detto delle cose tremende, oggi. Su di te, sulla tua vita. - Ma no... - Ne sei sicuro? - Tutto quello che mi hai detto di recente è la pura verità. Quindi non ti preoccupare. Come mai tutt'a un tratto ti vengono certi scrupoli? - Dopo che lui è andato via, sono rimasta tutto il tempo qui ad aspettarti, e di colpo ho pensato che forse avevo esagerato. Presi dal frigo altre due birre, accesi lo stereo, e misi a basso volume un disco di Richie Beirach. Ascolto sempre quello quando torno a casa ubriaco la notte. - Probabilmente sei un po' confusa, - dissi. - Riguardo a questo cambiamento nella tua vita. È come una variazione della pressione atmosferica. Anch'io, a modo mio, sono un po' confuso. Lei annuì. – - Ti ho offeso? - chiese. – Tutti offendiamo qualcuno. Se tu hai deciso di offendere me, hai fatto la scelta giusta. Per questo ti dico che non ti devi preoccupare. - A volte mi viene una paura tremenda, pensando al prossimo futuro. - Tu cerca di vederne solo gli aspetti positivi, di considerarne solo i lati buoni, - dissi, dandole lo stesso consiglio che avevo dato a Watanabe Noboru. - Ma credi che andrà tutto bene, che non sarà troppo difficile? - Se qualcosa andrà storto, avrai tempo per pensarci. Mia sorella ridacchiò. - Sei sempre il solito strampalato, tu! - Senti, posso farti una domanda? - le chiesi sollevando la linguetta della lattina. - Certo.
- Con quanti sei andata a letto, prima di lui? Lei esitò un poco, poi alzò due dita. - Due, - disse. - Uno era un ragazzo della tua età, l'altro un uomo più vecchio di te. - Come fai a saperlo? - È un classico, - dissi bevendo un sorso di birra. - Non mi diverto inutilmente, io, almeno questo l'ho imparato. - Insomma sono banale. - Sana, direi. - E tu, con quante ragazze sei andato a letto? - Ventisei, - dissi. - Di recente ho provato a contarle. Quelle che mi ricordo sono ventisei, ma può darsi che ne abbia scordato qualcuna. Non tengo un diario. - E perché sei andato a letto con tutte quelle ragazze? - Non lo so, - risposi onestamente. - A un certo punto dovrò fermarmi, ma non ho ancora trovato l'occasione buona. Restammo per un po' in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Lontano, si sentì il rumore della marmitta di una moto, ma non poteva essere quella di Watanabe Noboru. Ormai era l'una di notte. - Cosa ne pensi, di lui? - Di Noboru? -Sì - Be', non è un cattivo ragazzo. Anche se non è il tipo d'uomo che mi va a genio, e si veste in modo un po' strano, - dissi sinceramente dopo aver riflettuto un poco. - Ma forse è un bene, se in famiglia c'è uno come lui. - Lo penso anch'io. A me le persone come te piacciono, ma se fossero tutti come te, credo che il mondo diventerebbe invivibile. - Probabilmente hai ragione. Poi ognuno di noi bevve quel restava della sua birra, e se ne andò nella sua stanza. Le lenzuola erano belle pulite, non facevano una grinza. Mi ci sdraiai sopra, e da una fessura nelle tende guardai la luna. Dove mai volevamo arrivare? mi chiesi. Ma ero troppo stanco per certe riflessioni. Quando chiusi gli occhi, il sonno mi calò silenziosamente addosso, come una rete buia.
L'uccello-giraviti e le donne del martedì
Quando quella donna mi telefonò ero in cucina, mi stavo preparando un piatto di spaghetti. Erano quasi cotti, alla radio suonavano La gazza ladra di Rossini, la musica perfetta per quell'operazione, e io l'accompagnavo fischiando. Allo squillo del telefono, pensai di non rispondere e continuare a occuparmi dei miei spaghetti. Dovevo toglierli dal fuoco, e in più Claudio Abbado stava per portare l'orchestra filarmonica di Londra all'apice dell'intensità drammatica. Invece abbassai il gas e con i bastoncini in mano andai nel soggiorno e sollevai il ricevitore. Chissà, magari era un amico con qualche nuova proposta di lavoro - Vorrei dieci minuti del tuo tempo, - disse senza preamboli una donna. - Come ha detto scusi? - chiesi sorpreso. - Ho detto che vorrei solo dieci minuti del tuo tempo, - ripetè lei. Ero sicuro di non conoscerla. Io sono bravissimo a riconoscere le persone dalla voce, e quella non l'avevo mai sentita, ci avrei messo la mano sul fuoco. Una voce bassa, suadente ed elusiva. - Mi scusi, con chi desidera parlare? - domandai molto educatamente. - Cosa ti importa, dammi solo dieci minuti del tuo tempo. Vedrai che riusciremo a intenderci perfettamente, - rispose svelta la donna, in tono insistente. - Intenderci? - Parlo di feeling, - sintetizzò lei. Sporsi la testa oltre la porta che avevo lasciato aperta e gettai un'occhiata in cucina. Dalla pentola dove cuoceva la pasta si alzava bianco vapore invitante, e Abbado continuava a dirigere La gazza ladra. - Mi scusi, ma ho gli spaghetti sul fuoco, sono quasi cotti, se sto dieci minuti al telefono con lei saranno immangiabili. Posso riattaccare? - Spaghetti? - fece lei sconcertata. - Ma se sono le dieci e mezzo del mattino! Ti prepari degli spaghetti a quest'ora? Assurdo! - Assurdo o no, la cosa non la riguarda. Non ho quasi fatto colazione, e mi è venuta fame. Visto che preparo tutto da solo, ho il diritto di mangiare quello che mi pare all'ora che mi pare. - Va bene, va bene. Allora vuol dire che metto giù, - disse la donna con un tono di voce piatto come l'olio. Davvero una strana voce, bastava un lieve mutamento d'umore perché cambiasse tono, come se un interruttore ne avesse alterato le onde sonore. - Ti richiamo più tardi. - Aspetti un momento, - risposi in fretta. - Se è per vendermi qualcosa, guardi che perde il suo tempo. In questo momento sono disoccupato, e non posso permettermi di comprare nulla. - Lo so, non ti preoccupare. - Come sarebbe a dire, lo sa? - So che sei disoccupato. Quindi vai pure a prepararti i tuoi spaghetti. - Ma lei, cosa diavolo... - Non feci in tempo a terminare, che la donna aveva interrotto bruscamente la comunicazione. Non aveva messo giù, ma schiacciato col dito la forcella. Non sapendo dove sfogare il mio malumore, rimasi per un momento attonito a guardare il ricevitore che tenevo in mano. Poi mi venne in mente la pentola sul fuoco, riattaccai e andai in cucina. Spensi il gas, scolai gli spaghetti, vi versai sopra il sugo di pomodoro che avevo riscaldato in un padellino e sedetti a mangiare. Per colpa di quell'assurda telefonata la pasta era scotta, ma non immangiabile. Inoltre avevo
troppa fame per fare il difficile sul suo grado di cottura. Ascoltando la radio, mandai giù tutti quei duecentocinquanta grammi di spaghetti senza lasciarne neanche uno. Mentre lavavo i piatti nel lavello, misi a bollire dell'acqua, per prepararmi un tè. Tra un sorso e l'altro, continuava a tornarmi in mente la telefonata di poco prima. Intendersi? Cosa voleva da me quella donna, perché mi aveva chiamato? E chi era, tanto per cominciare? Era tutto molto confuso. Non avevo mai ricevuto una telefonata anonima da una sconosciuta, e non riuscivo a immaginare cosa volesse da me. Ad ogni buon conto, mi dissi, non avevo nessuna voglia di «intendermi» con una di cui non sapevo nulla. A cosa poteva servirmi? Io avevo bisogno di trovare un lavoro, altroché, e di costruirmi a modo mio un nuovo ritmo di vita. Tornai sul divano del soggiorno e mi misi a leggere un romanzo di Len Deighton che avevo preso in prestito alla biblioteca. Però continuavo a gettare occhiate al telefono, domandandomi con un senso di disagio che cosa significassero le parole di quella donna: «in dieci minuti possiamo intenderci». Cosa potevamo mai capire l'uno dell'altra in dieci minuti? A pensarci bene, lei aveva fissato quel preciso limite di tempo fin dall'inizio. E con grande sicurezza, anche. Forse nove minuti erano troppo pochi e undici troppi. Come il tempo di cottura degli spaghetti... Con quei pensieri in testa non riuscivo a seguire il filo del racconto, feci un po' di ginnastica, poi mi misi a stirare delle camicie. Ogni volta che mi trovo in uno stato confusionale, io stiro camicie. Da sempre, che io ricordi. Eseguo l'operazione in dodici fasi, comincio dal collo e finisco con il polsino della manica sinistra. Non cambio mai l'ordine delle fasi, procedo contandole a una a una, altrimenti non ottengo un risultato soddisfacente. Gustandomi l'odore inconfondibile del cotone scaldato dal ferro a vapore, stirai tre camicie, controllai che non avessero pieghe e le appesi nel guardaroba. Dopo aver staccato il ferro dalla presa di corrente e averlo riposto insieme all'asse da stiro nell'armadio a muro, il mio cervello sembrava essersi abbastanza rischiarato. Stavo per andare in cucina a bere un bicchier d'acqua, quando squillò nuovamente il telefono. Ci risiamo, pensai. Esitai qualche secondo - dovevo rispondere o no? - poi decisi di restare in soggiorno e sollevare il ricevitore: se era ancora quella lì, potevo sempre riattaccare con la scusa che stavo stirando. Invece era mia moglie. L'orologio sopra il televisore segnava le undici e mezza. - Come stai? - chiese. - Bene, - risposi sollevato. - Cosa stavi facendo? - Ho appena finito di stirare. - È successo qualcosa? - Nella sua voce vibrava una leggera apprensione, lei sa bene che quando sono un po' fuori fase mi metto a stirare. - Non è successo niente, ho semplicemente stirato delle camicie, - risposi sedendomi su una sedia e spostando il ricevitore nella mano destra. - Ma come mai mi hai telefonato? - Per il tuo lavoro, c'è l'opportunità di fare qualcosetta, pare. -Ah. - Tu sai scrivere poesie, per caso? - Poesie? - ripetei sorpreso. Come, poesie, cosa diavolo voleva dire? - Uno che conosco lavora in una casa editrice che pubblica una rivista letteraria per ragazzine. Sta cercando una persona che selezioni e corregga le poesie inviate dalle lettrici. Inoltre ogni mese dovresti scrivere una poesia per la prima pagina. Per essere un lavoretto facile, non è mal pagato. Ovviamente non si tratta di un posto fisso, ma se la cosa funziona, può darsi che ti passino anche dei lavori di editing.
- Facile? - risposi. - Un momento, per favore. Io sto cercando un'attività nel campo della giurisprudenza. Da dove diavolo salta fuori, questa storia di correggere poesie? - Be', non hai detto che quando eri al liceo scrivevi delle cose? - Sul giornalino. Sul giornalino della scuola. Commentavo i risultati del torneo di calcio, riferivo che l'insegnante di scienze era caduto per le scale finendo all'ospedale... articoli di questo livello, cavolate. Mica poesie. Mica so scrivere poesie, io. - Sì, ma non è che tu debba comporre dei capolavori. Solo poesiole che vadano bene per delle liceali. Nessuno ti chiede di diventare un nuovo Alien Ginsberg, basta che butti giù delle cose così, come ti vengono. - Buttate giù o no, io di poesie non ne so scrivere, - risposi decisamente. Era escluso. - Come vuoi, - disse mia moglie in tono di rammarico. Però un lavoro nel campo della giurisprudenza, non credo che tu lo possa trovare tanto facilmente. - Ho due o tre trattative in corso, dovrei ricevere una risposta entro la settimana. Se poi non se ne fa niente, allora ci penserò. - Davvero? Vabbe', lasciamo perdere. Senti, ma oggi che giorno è? - Martedì, - dissi dopo averci riflettuto un po'. - Allora dovresti andare in banca a pagare le bollette del gas e del telefono. - Va bene. Più tardi, quando vado a fare la spesa per stasera, passo anche in banca. - Cosa prepari per cena? - Non so, non ho ancora deciso. Ci penserò dopo aver fatto la spesa. - Senti... - fece mia moglie col tono di voler ricominciare. - Tutto sommato, puoi anche fare a meno di trovarti un lavoro. - Come sarebbe a dire posso farne a meno? - risposi. Questa era un'altra sorpresa, tutte le donne del mondo quel giorno mi telefonavano per darmi delle sorprese, pareva. - Fra tre mesi non sarò neanche più in cassa integrazione, mica posso restare indefinitamente a girarmi i pollici tutto il giorno! - Sì, ma io ho avuto l'aumento e di lavoretti supplementari me ne passano in continuazione. Un po' di risparmi li abbiamo... Certo non possiamo concederci grandi lussi, ma ce la caviamo egregiamente. - E io dovrei continuare a occuparmi dei lavori domestici, vero? - Ti dà fastidio? - Non lo so, - risposi. Ero sincero, non lo sapevo. - Ci devo pensare. - Allora pensaci. A proposito, il gatto è tornato? - Il gatto? - ripetei. Mi resi conto che per tutta la mattina quel pensiero non mi aveva nemmeno sfiorato. - No, non ancora. - Perché non provi a cercarlo un po' nel quartiere? Con oggi sono quattro giorni che è scomparso. Passai di nuovo il ricevitore nella mano sinistra, e risposi che lo avrei fatto. - Può darsi che sia nel giardino della casa disabitata in fondo al vicolo. Sai, quella dove c'è la statua di un uccello. L'ho visto entrare non so quante volte, lì dentro. Sai qual è? - No. Ma tu quand'è che sei andata da sola nel vicolo? È la prima volta che ti sento dire... - Senti, scusa ma devo riattaccare, devo proprio andare. Mi raccomando il gatto! La telefonata si interruppe. Restai ancora un attimo a guardare il ricevitore, poi misi giù. Perché mia moglie era stata in quel vicolo? mi chiesi interdetto. Per entrarci bisognava scalare il muro del giardino, che senso c'era a fare una cosa del genere per infilarsi li dentro? Andai in cucina a bere un bicchier d'acqua, accesi la radio, e cominciai a tagliarmi le unghie. La radio trasmetteva un nuovo album di Robert Plant, ma dopo un paio di pezzi la spensi perché mi dava fastidio alle orecchie. Poi andai sulla veranda a controllare la ciotola del gatto: era piena, le sardine secche che vi avevo messo la sera prima erano ancora lì, non ne mancava neanche una. Segno che lui non era tornato.
In piedi nella veranda, mi lasciai inondare dai raggi splendenti del sole di prima estate, e guardai il piccolo giardino di casa. Non è uno di quei giardini la cui contemplazione possa placare lo spirito. Il terreno è sempre umido e nero perché il sole vi batte solo per pochissime ore al giorno, e tutta la vegetazione consiste in due o tre modestissimi cespugli di ortensie in un angolo. E a me le ortensie non piacciono neanche. Dagli alberi intorno arrivava senza sosta il verso di un uccello, stridente come se qualcuno stesse avvitando qualcosa. Noi lo chiamavamo l'uccello-giraviti. Un'idea di mia moglie. Il suo vero nome lo ignoravamo, non sapevamo neanche che aspetto avesse. Ma questo all'uccello-giraviti era indifferente, ogni giorno veniva sugli alberi lì intorno a stringere le viti del nostro piccolo mondo tranquillo. Perché dovevo uscire apposta per andare a cercare il gatto? mi chiesi mentre ascoltavo quel verso. E anche se lo avessi trovato, poi cosa dovevo fare? Convincerlo a venir via con me? Implorarlo di tornare a casa perché stavamo tutti in pensiero? Cose da pazzi, pensai. Veramente, cose da pazzi. Perché il gatto non poteva andare dove voleva e vivere come gli piaceva? E cosa ci facevo io lì, a trent'anni suonati, a fare il bucato, pensare alla cena, cercare il gatto...? Una volta, mi dissi, anch'io ero una persona seria piena di speranze. Ai tempi del liceo avevo letto l'autobiografia di Clarence Darrow e avevo deciso di diventare avvocato. I miei voti erano abbastanza buoni. In terza liceo i miei compagni mi avevano eletto secondo nella classifica di «quello che sarebbe diventato più importante», ed ero riuscito a entrare alla facoltà di legge di un'università relativamente buona. Dove avevo sbagliato? Seduto al tavolo della cucina, appoggiai il mento sulle mani e scivolai nella riflessione su quel problema: in che momento, a che punto, l'ago della mia vita aveva preso a sbandare? Non lo sapevo. Non mi veniva in mente nessun episodio particolare. Non ero naufragato nella politica, non ero rimasto deluso dall'università, né avevo perso la testa per qualche ragazza. Mi sembrava di aver vissuto in maniera del tutto normale. Poi, quando stavo per laurearmi, tutt'a un tratto mi ero accorto di non essere più lo stesso. Un mutamento di cui all'inizio non mi ero reso conto nemmeno io. Ma col passare del tempo ero cambiato enormemente, arrivando a una frontiera da cui rischiavo di perdere di vista il modello originario. Facendo riferimento al sistema solare, dovevo essere ormai da qualche parte tra Saturno e Urano. Ancora un po' e sarei arrivato in vista di Plutone. E oltre Plutone, cosa avrei trovato? All'inizio di aprile, senza una ragione particolare avevo dato le dimissioni dallo studio legale dove lavoravo da alcuni anni. Non perché quell'impiego non mi piacesse. Certo le mie incombenze non avevano nulla di esaltante, ma lo stipendio non era male, e l'atmosfera amichevole e simpatica. La mia funzione nello studio era quella di un fattorino specializzato. A modo mio, penso di essermi reso utile, lì dentro. So che suona strano farsi dei complimenti da solo, ma nei limiti delle mie mansioni avevo un certo talento. Capivo in fretta, agivo prontamente, non facevo storie, e avevo una maniera molto realistica di affrontare i problemi. Tant'è che quando annunciai che mi volevo licenziare, il vecchio avvocato - cioè il primo dei due titolari dello studio, il padre, l'altro era il figlio mi disse che potevano anche concedermi un piccolo aumento di stipendio. Finii col licenziarmi ugualmente. Non so bene nemmeno io perché, non avevo nessuna precisa speranza o prospettiva per il mio futuro professionale. Ma l'idea di chiudermi di nuovo in casa a preparare l'esame di Stato non mi attirava per niente. Tanto per cominciare, non avevo neanche voglia di diventare avvocato. Una sera a cena avevo bruscamente annunciato a mia moglie che volevo lasciare il lavoro. - Già... - aveva solo commentato lei. Chissà cosa intendeva dire, con quel già... ma non aveva aggiunto altro, per un po' era rimasta in silenzio. Anch'io stavo zitto. - Se non vuoi più lavorare lì, fai bene a smettere, - aveva detto allora lei. - Si tratta della tua vita. Fai
come ti pare -. E dopo quelle parole si era concentrata nell'operazione di togliere con i bastoncini le spine del pesce e posarle in un angolo del piatto. Mia moglie lavorava come segretaria in una scuola di design, dove riceveva uno stipendio decente. Un introito supplementare non disprezzabile le arrivava inoltre da lavori saltuari di illustrazione che le passava un amico redattore. Quanto a me, per sei mesi avevo diritto ai sussidi di disoccupazione. E poiché stando a casa avrei potuto occuparmi regolarmente dei lavori domestici, si potevano ridurre anche tante spese superflue, ristorante e tintoria, così il nostro tenore di vita non avrebbe dovuto subire grandi cambiamenti rispetto a quando lavoravo e ricevevo uno stipendio. Tali erano le circostanze in cui avevo lasciato il mio impiego. Alle dodici e mezza come sempre uscii per andare a far la spesa, una grossa borsa di tela appesa alla spalla. Prima mi recai in banca per pagare le bollette del gas e della luce, poi al supermercato a prendere il necessario per la sera, e infine da McDonald's dove mangiai un cheeseburger e bevvi un caffè. Tornato a casa, stavo sistemando le provviste nel frigo quando suonò il telefono. In maniera molto insistente, mi sembrò. Posai sul tavolo il tófu che stavo togliendo dalla confezione di plastica, andai nel soggiorno e sollevai il ricevitore. - Chissà se hai finito di mangiare i tuoi spaghetti... Era la donna di poco prima. - Sì, - risposi, - però adesso devo andare a cercare il mio gatto. - Potrà ben aspettare dieci minuti, il tuo gatto, no? - E va bene, dieci minuti soltanto, - concessi, chiedendomi al tempo stesso che cavolo stessi facendo. Perché dovevo parlare dieci minuti con quella lì che non sapevo neanche chi fosse? - Vedi che ci intendiamo, noi due? - disse la donna in tono pacato. Pur non conoscendola, mi sembrava di vederla, all'altra estremità del filo, mentre cambiava indolentemente posizione sulla sedia e incrociava le gambe. - Mah, chi lo sa... c'è gente che sta insieme anche dieci anni, senza intendersi... - Non vuoi provare? Mi tolsi l'orologio, inserii la funzione cronometro e schiacciai il pulsante. I numeri digitali cominciarono a scattare, da uno a dieci. Già dieci secondi. - Perché hai cercato proprio me? - chiesi. - Perché non hai telefonato a qualcun altro? - Ho i miei motivi, - disse la donna scandendo bene le parole, come quando si mastica accuratamente un boccone. - Ti conosco. - Dove ci siamo incontrati, quando? - Una volta, da qualche parte. Ma che importanza può avere? Quello che importa è adesso. Non credi? Non c'è tempo, per entrare in certi dettagli. Abbiamo i minuti contati. - Dammi qualche prova. Qualche prova che mi conosci. - Per esempio? - Quanti anni ho? - Trenta, - rispose la donna prontamente. - Trent'anni e due mesi. Questo ti basta? Rimasi in silenzio. Quella donna mi conosceva, era esatto. Ma la sua voce non mi diceva niente, per quanto mi sforzassi di riconoscerla. E io la voce delle persone me la ricordo, a volte mi capita di dimenticare un volto o un nome, ma una voce no. - Be' questa volta allora prova tu a immaginare me, - disse lei in tono suadente, - dalla voce lo puoi intuire. Che tipo di donna sono, cioè. Ci riesci? Era la tua specialità, no, questo tipo di indovinello? – Non ne ho idea, - risposi. - Prova a indovinare.
Gettai un'occhiata all'orologio. Era passato solo un minuto e cinque secondi. Con un sospiro rassegnato, accettai di stare al gioco. E se stavo al gioco, dovevo andare fino in fondo. Come avevo spesso fatto in passato, concentrai l'attenzione sulla voce della donna - aveva ragione lei, una volta era stato un mio talento. - Hai tra i venticinque e i trent'anni, sei laureata, sei nata a Tokyo, da bambina avevi un livello di vita medio-alto, dissi. - Incredibile! - sbalordì lei, accendendosi una sigaretta accanto al ricevitore, dal rumore dell'accendino si sarebbe detto un Cartier. - Dai, continua. - Sei piuttosto bella. O perlomeno credi di esserlo. Però hai un complesso, non so, magari sei un po' bassa, o forse hai il seno piccolo. - Be', ci stai andando vicino, - commentò la donna ridacchiando piano. - Sei sposata. Ma non va tutto liscio, ci sono dei problemi. Una donna che non ha problemi non telefona a un uomo senza dire chi è. Io però non ti conosco. Perlomeno non ti ho mai parlato. Non riesco a ritrovare il tuo volto, neanche dopo aver immaginato di te tutte queste cose. - Veramente? - chiese lei in tono quieto, come se mi infilasse nel cervello un morbido cuneo. - Hai molta fiducia nelle tue capacità! Non pensi che nella tua mente ci sia un angolo fatalmente morto, da qualche parte? Altrimenti alla tua età saresti riuscito a dare un po' più di consistenza alla tua vita. Una persona della tua intelligenza... - Mi sopravvaluti. Non so chi tu sia, comunque io non sono tanto straordinario. Mi manca la capacità di portare a termine qualcosa. Mi perdo per strada, e mi ingarbuglio sempre di più. - A me però piacevi. Tanto tempo fa. - Tanto tempo fa? Due minuti e cinquantatre secondi. - Be', non proprio tanto tempo fa. Non stiamo parlando di storia. – Sì che stiamo parlando di storia. Un angolo morto, pensai. Probabilmente aveva ragione lei. In qualche parte della mia testa, del mio corpo, del mio essere stesso, c'era una sorta di perduto mondo sotterraneo che disturbava sottilmente il mio modo di vivere. No, anzi, non sottilmente. Con violenza. In modo incontrollabile. - Adesso sono nel mio letto, - disse la donna. - Mi sono appena fatta la doccia e addosso non ho niente. Per carità, pensai, addosso non ha niente, questa è di sicuro una telefonata porno. - Vuoi che mi metta qualche capo di biancheria intima? O preferisci delle calze di seta? Le trovi più eccitanti? - Per me puoi metterti quello che vuoi. Però scusami, ma io non ho nessun gusto per questo tipo di conversazioni al telefono. - Ma per dieci minuti! Dieci piccoli minuti. Non credo che la tua vita subirà delle perdite fatali per avermi dedicato qualche minuto, no? Non ti chiedo nient'altro. Comunque rispondi alla mia domanda, avrai pure qualche gusto particolare! Preferisci che resti nuda, o che mi metta addosso qualcosa? Ho parecchie cosucce, sai, giarrettiere, tante cose... Giarrettiere? Stavo sognando o cosa? C'erano ancora delle donne che portavano le giarrettiere al giorno d'oggi? Giusto le modelle di Penthouse! - Puoi restare nuda, - dissi, - e non è necessario che ti muova. Ed erano quattro minuti. - I miei peli intimi sono ancora bagnati, - proseguì la donna. - Non li ho strofinati bene con l'asciugamano. Per questo sono ancora bagnati. Sono caldi e tutti umidi. Morbidi morbidi. Peli nerissimi e morbidi. Prova ad accarezzarli. – Senti, scusa ma...
- Anche lì sotto sono così calda... burro fuso. Caldo caldo. Davvero sai? Adesso in che posizione credi che sia? Ho il ginocchio destro sollevato e la gamba sinistra aperta di fianco. Sul quadrante di un orologio... diciamo le dieci e cinque. Dal tono della sua voce, mi resi conto che non mentiva. Aveva veramente aperto le gambe a un angolo tale da segnare le dieci e cinque, e il suo sesso era caldo e umido. - Accarezza le labbra. Lentamente. Finché si schiudono. Lentamente, eh? Accarezzale adagio col polpastrello. Così, adagio adagio. Poi con una mano palpami il seno sinistro. Accarezzalo dolcemente, dal basso verso l'altro, poi stringimi piano il capezzolo. Ripetilo ancora. Ancora. Finché ti sembra che io stia per venire... Senza dire nulla misi giù il ricevitore. Poi mi sdraiai sul divano e fumai una sigaretta, lo sguardo rivolto al soffitto. Il cronometro si era fermato a cinque minuti e ventitre secondi. Chiusi gli occhi, e su di me calò un buio screziato da tutti i colori di una tavolozza. Cosa diavolo significava? Perché la gente non mi lasciava in pace? Dopo dieci minuti suonò di nuovo il telefono, ma questa volta lo ignorai. Al quindicesimo squillo tacque. Quando il suono cessò, un silenzio intenso fece vacillare la forza di gravità. Un silenzio freddo e profondo come macigni sepolti nel ghiaccio da cinquantamila anni. Poco prima delle due, scavalcai il muro di cemento del giardino e scesi nel vicolo. Non è un vicolo nel vero senso della parola, ma sinceramente non saprei con quale altro termine chiamarlo. Ad essere precisi non è neanche una via di passaggio, una via ha un'entrata e un'uscita e porta in un luogo determinato. Invece quel vicolo non ha sbocchi, a un'estremità il muro laterale è chiuso da un'inferriata. Ma non è neppure quel che si dice un cul de sac, che perlomeno ha un entrata. E soltanto un sentiero lungo un duecento metri che passa serpeggiando fra i giardini sul retro delle case, e che la gente del quartiere chiama il vicolo per comodità. E largo un metro e qualcosa, ma a causa delle siepi che sporgono e di tutti gli oggetti gettati al suolo, in parecchi punti non si riesce a passare se non sgusciando di lato. A quel che si dice - l'ho appreso da mio zio, che ci affitta questa casa a un prezzo eccezionalmente basso - anche il vicolo una volta aveva un'entrata e un'uscita, e fungeva da scorciatoia per passare da una via all'altra. Ma quando i prezzi del terreno salirono, negli spazi che una volta erano vacanti furono costruite nuove file di case, e la larghezza delle strade si ridusse al punto che le abitazioni sembravano schiacciate le une contro le altre. Le persone che ci vivevano però, non apprezzando molto la vista di estranei che andavano e venivano tra il proprio giardino e quello di fronte, fecero in modo, fingendo che la cosa avvenisse per caso, che fossero chiuse le entrate di quella scorciatoia. All'inizio si trattava solo di comuni siepi, nessuno ci badò, poi a un certo punto qualcuno degli abitanti bloccò uno degli ingressi con un muro di cemento per allargare il proprio giardino, e la reazione immediata fu che anche l'altro ingresso venne chiuso da una solida inferriata: così non ci entravano più neanche i cani. Comunque fin dall'inizio quel passaggio era sempre servito solo da scorciatoia e nessuno protestò per la sua chiusura, era meglio così, anche ai fini della prevenzione del crimine. Ormai il vicolo è diventato una sorta di canale abbandonato che nessuno conosce, nessuno usa, ha solo la funzione di zona neutra di separazione tra casa e casa. Il terreno è invaso dalle erbacce, dappertutto i ragni costruiscono tele appiccicose che aspettano la visita degli insetti. A che scopo mia moglie fosse entrata e uscita di lì in continuazione, non riuscivo proprio a immaginarlo, tanto più che lei detesta i ragni. Per quel che mi riguardava, in quel vicolo ci ero passato solo una volta. Se mi sforzavo di pensare, la mia testa si riempiva di una sostanza vischiosa, e le tempie cominciavano a dolermi. La sera prima non avevo dormito bene, faceva già caldo per essere l'inizio di maggio. Inoltre c'era stata quella strana telefonata. Pazienza, mi dissi, tanto valeva cercare il gatto. A tutto il resto avrei pensato dopo. E poi piuttosto che
restare in casa ad aspettare che squillasse il telefono, meglio farmi una camminata fuori. Perlomeno avevo qualcosa da fare. Nel vicolo, il sole dardeggiarne dell'estate ormai prossima proiettava sul suolo l'ombra maculata dei rami sopra la mia testa. Non c'era vento, e quelle ombre sembravano macchie per sempre fissate sulla terra. Forse il mondo avrebbe continuato a girare indefinitamente intorno al sole con quelle piccole macchie impresse su di sé. Quando passavo sotto i rami degli alberi quelle ombre traballanti percorrevano rapidamente la mia camicia bianca, poi scivolavano di nuovo sul terreno. Intorno non si sentiva un rumore, credevo di percepire persino il respiro dei fili d'erba inondati dalla luce del sole. Nel cielo vagavano alcune nuvolette, semplici e nitide come quelle dipinte nei paesaggi delle stampe medievali. Qualunque cosa colpisse il mio sguardo era miracolosamente limpida, avevo la sensazione che il mio corpo fosse qualcosa di illimitato che non riuscivo a contenere. Faceva un caldo tremendo. Portavo solo una maglietta, dei pantaloni di cotone sgualciti e delle scarpe da tennis, ma a camminare sotto il sole sentivo il sudore bagnarmi le ascelle e la cavità del petto. Sia la maglietta che i pantaloni li avevo tirati fuori proprio quella mattina dallo scatolone degli indumenti estivi, e ad ogni profondo respiro che facevo mi colpiva l'odore penetrante della naftalina, come se qualche piccolo insetto appuntito mi si fosse infilato nelle narici. Percorsi il vicolo lentamente, a passi regolari, guardando con attenzione a destra e a sinistra. Ogni tanto mi fermavo e chiamavo a bassa voce il gatto. Le case sui lati erano di due tipi, distinti come due liquidi di densità diversa messi nello stesso recipiente. C'erano quelle più antiche, con ampi, gradevoli giardini sul retro, e comode case di costruzione relativamente recente. Queste ultime non avevano dei veri giardini ma esigue strisce di terreno, alcune nemmeno quello, tra il tetto e il muro di cinta c'era appena lo spazio sufficiente per stendere due file di panni. A volte i panni sporgevano fin nel vicolo e io dovevo avanzare sgusciando tra asciugamani, camicie e lenzuola sgocciolanti. Qua e là, oltre le siepi, si udiva il suono nitido dei televisori e il rumore degli sciacquoni dei gabinetti, a un certo punto sentii un odore di cucina al curry. Nelle case più antiche, invece, non si avvertiva quasi alcun segno di vita. Le siepi erano formate da cespugli di diverso tipo accostati con arte e in modo da coprire la vista, e i giardini che si intravedevano tra le fessure erano vasti e ben curati. Le costruzioni erano in stili diversi, c'erano case giapponesi circondate da un lungo corridoio, villette occidentali dai tetti di rame ossidato, abitazioni moderne ricostruite di recente. Tutte avevano una cosa in comune, non si vedeva la minima traccia di chi vi abitava. Era la prima volta che percorrevo il vicolo con calma guardandomi intorno, e tutto quello che vedevo era nuovo per me. Sul retro di una casa un albero di Natale ormai secco e color marrone era buttato in un angolo. Su un prato giacevano tutti i giochi per bambini possibili e immaginabili, come in un'esposizione collettiva dei ricordi d'infanzia di parecchie persone: tricicli, cerchi, spade di plastica, palle di gomma, finte tartarughe, piccole mazze da baseball, camion di legno, c'era di tutto. In un giardino era installato un canestro per giocare a basketball, in un altro si vedevano delle bellissime sedie da giardino e un tavolo in terracotta. Le sedie bianche erano coperte di terriccio, evidentemente non le usavano da mesi, se non da anni. Sopra il tavolo, a causa della pioggia, erano rimasti appiccicati dei petali di fior di loto viola. In un'altra casa, attraverso le porte-finestre dal telaio in alluminio, potei gettare un'occhiata all'interno del soggiorno. Vidi un divano e due poltrone in pelle color fegato, un grande televisore, un mobile intarsiato sul quale erano posati due trofei di chissà cosa, una vaschetta con dei pesci tropicali, e una decorativa lampada a piede. Sembrava l'ambientazione di uno sceneggiato televisivo. In un giardino circondato da una rete metallica, c'era una cuccia per un cane di grossa taglia, ma dentro non si vedevano cani e la tendina era aperta. La rete metallica era sfondata come se dall'interno
qualcuno vi fosse rimasto appoggiato per mesi. La casa di cui mi aveva parlato mia moglie era un poco più in là. Si capiva subito, alla prima occhiata, che era disabitata, e da parecchi mesi. Era una costruzione a due piani relativamente recente, ma le imposte di legno ermeticamente chiuse erano vecchie e scrostate, e anche le ringhiere che proteggevano le finestre al primo piano erano macchiate di ruggine. Nel comodo giardino, su un piedistallo, c'era in effetti una statua di pietra raffigurante un uccello con le ali spiegate, ad altezza del petto di una persona. Tutt'intorno le erbacce crescevano alla rinfusa, così alte che arrivavano a toccare i piedi dell'uccello. Questo era di una specie a me sconosciuta, e sembrava che stesse per spiccare il volo, irritato di trovarsi in quelle condizioni. A parte la statua di pietra, il giardino non aveva ornamenti di alcun tipo. Sotto la tettoia c'erano due sedie in plastica tutte rovinate, sulla siepe di camelie erano sbocciati dei fiori di un rosso acceso, che davano la strana sensazione di essere finti. Per il resto, non si vedevano che erbacce. Mi appoggiai alla recinzione metallica alta fino al mio petto, e per un po' rimasi a guardare quel luogo: era proprio uno di quei giardini che piacciono ai gatti, ma intorno non se ne vedeva nemmeno uno. Sul tetto, un piccione si era posato sull'estremità dell'antenna della televisione, e faceva risuonare intorno il suo verso monotono. L'ombra dell'uccello di pietra cadeva sopra le erbacce rigogliose spezzandosi in forme discontinue. Tirai fuori dalla tasca le sigarette e me ne accesi una, che fumai appoggiato al recinto. Il piccione sull'antenna continuava a tubare sullo stesso tono. Finita la mia sigaretta la spensi sotto la scarpa, ma rimasi ancora a lungo fermo dove mi trovavo. Non so quanto tempo restai appoggiato a quel recinto, avevo sonno e mi sentivo la mente offuscata, guardavo l'ombra dell'uccello di pietra quasi senza rendermene conto. È possibile che stessi pensando a qualcosa, ma in tal caso quest'azione è uscita dai confini della mia coscienza ed è svanita. In pratica osservavo immobile quell'ombra che cadeva sull'erba, mi sembrava di percepirvi la voce di qualcuno. Non sapevo di chi, ma era una voce di donna. Una donna mi stava chiamando. Quando mi voltai, nel giardino retrostante alla casa di fronte c'era una ragazza di quindici o sedici anni. Era minuta, coi capelli corti e lisci. Portava degli occhiali da sole color ambra dalla montatura spessa, e una maglietta celeste dalla quale aveva tagliato via le maniche all'attaccatura delle spalle. Ne spuntavano due braccia dalla bella abbronzatura uniforme, nonostante fossimo soltanto in maggio. Stava piegata in avanti in una posizione poco stabile, una mano posata sul cancelletto di bambù che le arrivava alle reni, l'altra nella tasca dei calzoncini corti. - Fa caldo, vero? - fece. - Già, davvero, - risposi. Che strano, mi dissi, oggi tutti quelli che mi rivolgono la parola sono donne. - Ha una sigaretta? - mi chiese lei. Estrassi di nuovo dai pantaloni il pacchetto di Hope, e lo porsi alla ragazza. Lei tolse la mano di tasca, prese una sigaretta, poi, dopo averla guardata per un po' come se fosse una cosa rara, la portò alla bocca. Una bocca piccolina, col labbro superiore appena appena rivolto all'insù. Io strofinai un fiammifero, e le accesi la sigaretta. Piegando la testa lei mostrò la forma dell'orecchio, un bell'orecchio liscio che dava l'impressione di essere stato appena fatto. La peluria che ne seguiva il contorno sottile splendeva. La ragazza arrotondò la bocca e soffiò fuori il fumo con un gesto abituale, l'aria soddisfatta, poi alzò improvvisamente lo sguardo su di me come se si fosse ricordata della mia presenza in quell'istante. Vidi la mia faccia riflessa due volte nelle lenti dei suoi occhiali. Lenti scure che riflettevano la luce, impedendomi di vedere i suoi occhi. - Lei abita da queste parti? - mi chiese. - Sì, - risposi, e feci per indicare dove si trovava la mia casa, ma non riuscivo più a orientarmi, ero arrivato fin lì percorrendo quell'angusto passaggio che faceva parecchie svolte. Indicai una direzione a caso,
tanto non aveva alcuna importanza. - Cosa sta facendo qui, per tutto 'sto tempo? - Cerco il mio gatto, - dissi asciugandomi sui pantaloni le mani sudate. - È scomparso tre o quattro giorni fa. Qualcuno lo ha visto da queste parti. - Che tipo di gatto è? - Un grosso maschio. È marrone, tigrato, e ha la punta della coda un po' storta. - Come si chiama? - Cosa vuol dire? - Qual è il nome del gatto? Ce l'avrà un nome, no? - disse la ragazza guardandomi fisso negli occhi da dietro le lenti, perlomeno così mi sembrò. - Noboru, - risposi. - Watanabe Noboru. - Un nome impegnativo per un gatto! - È il nome del fratello di mia moglie. Gliel'abbiamo messo per scherzo perché per certi versi gli assomiglia. - In che senso gli assomiglia? - In certi atteggiamenti. Il modo di camminare, lo sguardo sornione... Per la prima volta la ragazza sorrise. I suoi tratti si distesero, e sembrò molto più bambina di quanto mi fosse parso in un primo momento. Il labbro superiore leggermente rivolto all'insù puntò verso il cielo a un angolo strano. Mi parve di sentire una voce che diceva «accarezzami», ma era la voce della donna della telefonata, non quella della ragazza. Mi asciugai il sudore con il dorso della mano. - Ha un collare o qualcosa del genere? - Un collare nero di quelli contro le pulci. La ragazza, sempre appoggiandosi con una mano al cancelletto, rifletté per dieci o quindici secondi. Poi gettò a terra, vicino a me, il mozzicone della sua sigaretta. - Può spegnerla, per favore? Sono a piedi nudi. Schiacciai scrupolosamente il mozzicone sotto la suola delle scarpe da tennis. - Può darsi che io l'abbia visto, quel gatto, - disse la ragazza lentamente, separando bene le parole. Non ho notato se avesse la coda storta, ma era un gatto marrone tigrato, grosso, forse aveva un collare. - Quand'è stato? - Mah, chi lo sa... comunque l'ho visto un sacco di volte. Di questi tempi sto sempre in giardino a prendere il sole, e faccio un po' di confusione, ad ogni modo è stato tre o quattro giorni fa. Il giardino di casa nostra è diventato una via di transito per i gatti del vicinato, ce ne sono tantissimi che vanno e vengono in continuazione. Dalla casa dei Suzuki tagliano di qui per entrare nel giardino dei Miyawaki. Così dicendo la ragazza indicò la casa abbandonata di fronte. Dove l'uccello di pietra continuava a dispiegare le ali, le erbacce a prendere i primi raggi di sole dell'estate, e il piccione a fare il suo monotono verso sull'antenna della televisione. - Grazie delle informazioni, - dissi. - Senta, cosa ne dice di aspettare nel mio giardino? Tanto per i gatti è diventato un passaggio obbligatorio, per andare lì di fronte. E poi a bighellonare qui intorno rischia di venir preso per un ladro e fermato dalla polizia. È già successo un sacco di volte. - Ma non posso neanche piazzarmi nel giardino di gente che non conosco ad aspettare il mio gatto! - Si figuri, non faccia complimenti. A casa ci sono solo io, non ho nessuno con cui parlare e mi annoio mortalmente. Ci mettiamo a prendere il sole, e intanto guardiamo se passa il gatto. Ho una buona vista, io, posso esserle utile. Guardai il mio orologio. Le due e trentasei. In tutta la giornata, quello che mi restava da fare era
ritirare il bucato prima che facesse buio e preparare la cena. - Allora resto magari fino alle tre, - risposi, incapace di valutare bene la situazione. Aprii il cancelletto di bambù ed entrai. Camminando sul prato dietro la ragazza, mi accorsi che trascinava leggermente la gamba destra. Le sue piccole spalle, inclinate a destra, dondolavano regolarmente, come gli ingranaggi di una macchina. Dopo qualche passo lei si fermò e mi fece segno di camminare al suo fianco. - Il mese scorso ho avuto un piccolo incidente, - disse semplicemente. - Stavo sul sellino posteriore di una moto, e sono stata sbalzata fuori. In mezzo al prato c'erano due sedie a sdraio di tela. Sullo schienale di una era appoggiato un grande telo blu di spugna, sull'altra, alla rinfusa, una scatola rossa di Marlboro, un portacenere, un accendino, un grosso stereo portatile, delle riviste. Lo stereo era acceso e diffondeva a basso volume dell'hard rock che non conoscevo. Lei spostò tutto sul prato, mi fece sedere sulla sedia e spense lo stereo. Da quella posizione, tra i rami degli alberi scorgevo il vicolo e la casa disabitata dall'altra parte. Anche la statua bianca dell'uccello, le erbacce e la recinzione metallica. Mi immaginai la ragazza seduta lì a osservarmi per tutto il tempo. Era un giardino vasto ma sobrio. Il prato aveva ondulazioni su tutta la superficie, alcuni alberi piantati qua e là. A sinistra delle sedie a sdraio c'era una grande vasca con un bordo di cemento, ma non doveva essere usata da molto tempo perché del tutto a secco e il fondo illuminato dal sole era diventato di un verde pallido che ricordava un animale acquatico rivoltato a pancia in su. Dietro agli alberi alle mie spalle si vedeva una vecchia casa all'occidentale, ma l'edificio in sé non era particolarmente grande, né sembrava lussuoso. Solo il giardino era ampio, e tenuto con molta cura. - Anni fa, ho lavorato saltuariamente per una ditta che tagliava i prati, - dissi. - Sul serio? - fece la ragazza in tono poco interessato. - Dev'essere una bella fatica tenere in ordine un giardino così, - continuai guardandomi intorno. - A casa sua non c'è un giardino Sì, ma è molto piccolo. C'è posto solo per due o tre cespugli di ortensie. Ma sei sempre sola, tu? - Durante la giornata sì, sto sempre qui sola. Il mattino e il pomeriggio viene una donna ad aiutare in casa, altrimenti sono sempre sola. Ma non vuole bere qualcosa di fresco? Ho anche della birra. - No, grazie. - Davvero? Guardi che non deve mica fare complimenti. - Non ho sete. Ma tu a scuola non ci vai? - E lei a lavorare non ci va? - Anche volessi, non ho lavoro. - È disoccupato? - Be', sì. Ho dato le dimissioni poco tempo fa. - E cosa faceva, prima? - Qualcosa come il fattorino per un avvocato, - risposi, con un lento respiro per rallentare il ritmo della conversazione. Andavo al municipio o all'agenzia del palazzo imperiale per procurarmi documenti vari, riordinavo i dati, controllavo i precedenti penali, svolgevo le pratiche burocratiche per il tribunale... cose del genere. - Però ha smesso. - Sì. - Sua moglie lavora? - Sì, lavora. Tirai fuori una sigaretta, la portai alla bocca, strofinai un fiammifero e l'accesi. Su un ramo vicino l'uccello-giraviti faceva il suo verso. Dodici o tredici giri di vite, poi si spostò su un altro albero.
- I gatti passano sempre di lì, - disse la ragazza indicando un punto in fondo al prato. - Vede quell'inceneritore dietro alla siepe dei Suzuki? Escono da li di fianco, attraversano il prato, scivolano sotto al cancelletto e vanno nel giardino di fronte. Sempre lo stesso percorso. Sa, il signor Suzuki è un professore universitario, uno che compare spesso alla televisione. Lo conosce? - Il signor Suzuki? La ragazza mi parlò di questo Suzuki, ma io non sapevo assolutamente chi fosse. - Non guardo quasi mai la televisione, - le spiegai. - Gente antipaticissima, con la puzza al naso. Tutti dei palloni gonfiati, quelli che compaiono alla televisione! - Ah sì? La ragazza prese la scatola delle Marlboro, tirò fuori una sigaretta e prese a farla rotolare fra le dita senza accenderla. - Be', magari fra loro ci sono anche dei tipi fantastici, ma in genere è gente che non mi piace. I Miyawaki invece erano brave persone. La moglie era molto gentile, e lui gestiva due o tre ristoranti. - Perché se ne sono andati? - le chiesi. - Non lo so, - disse lei picchiettando con l'unghia sulla punta della sigaretta. - Forse avevano dei debiti, o qualcosa del genere. Se la sono squagliata in fretta e furia. Ormai saranno quasi due anni. La casa è rimasta abbandonata, i gatti aumentano, nessuno se ne occupa... mia madre protesta sempre. - Ci sono così tanti gatti? Lei mise infine la sigaretta fra le labbra, e l'accese con l'accendino. Poi annuì. - Ce ne sono di tutti i tipi. Alcuni sono spelacchiati, altri senza un occhio... cioè, al posto dell'occhio c'è un ammasso di carne. Pazzesco, vero? - Pazzesco. - Tra i miei parenti, c'è una ragazza che ha sei dita. E una un po' più grande di me, di fianco al dito mignolo ne ha un altro, piccolo come quello di un neonato. Ma siccome lo tiene sempre ben piegato, non lo si vede quasi. È una bella ragazza. - Ah. - Pensa che siano ereditarie, quelle cose lì? Come si dice... che siano nel lignaggio della famiglia? - Non ne ho idea. Per un po' lei rimase in silenzio. Io fumavo, e intanto tenevo d'occhio il percorso dei gatti. Fino ad allora non se n'era visto nemmeno uno. - Senta, è sicuro che non vuole bere niente? Dissi che non avevo bisogno di nulla. Lei si alzò dalla sedia a sdraio e trascinando un po' la gamba sparì sotto l'ombra degli alberi. Allora presi in mano una rivista ai miei piedi e mi misi a sfogliarla. Contrariamente a quanto mi ero immaginato, era un mensile per soli uomini. Nella fotografia centrale, una ragazza con delle mutandine tanto sottili da lasciar intravedere la forma del sesso e i peli pubici era seduta su uno sgabello e divaricava le gambe in una posizione innaturale. Questa poi! mi dissi. Posai nuovamente la rivista a terra, incrociai le braccia sul petto e mi rimisi a controllare il percorso dei gatti. Dopo un bel po', la ragazza fece ritorno con un bicchiere di Coca-Cola in mano. Si tolse la maglietta dell'Adidas, e rimase in calzoncini e reggiseno del bikini; un reggiseno minimo, legato sulla schiena, che lasciava indovinare la forma dei capezzoli. Era un pomeriggio molto caldo, a restare seduto sulla sdraio sotto i raggi del sole la mia maglietta grigia era diventata nera per il sudore in vari punti. - Cosa farebbe, lei, se si accorgesse che una che le piace ha sei dita? - chiese la ragazza riprendendo il discorso di prima.
- Be', la venderei a un circo. - Davvero? - Ma scherzo, - risposi ridendo. - Non credo che mi importerebbe molto. - Anche se c'è la probabilità che la cosa si trasmetta ereditariamente ai figli? Ci pensai un po' su. - Non credo che avrebbe importanza. Non è un handicap, un dito in più. - E se avesse quattro seni? Riflettei anche su quell'eventualità. - Non saprei, - dissi. Quattro seni? Si poteva andare avanti così indefinitamente, meglio cambiare argomento. - Quanti anni hai? - chiesi. - Sedici. Li ho appena compiuti. Sono in prima liceo. - In questo momento non vai a scuola? - Se cammino troppo la gamba mi fa ancora male. E mi sono anche ferita di fianco all'occhio. Nel mio liceo sono dei rompiscatole, per la disciplina, se sanno che mi sono ferita cadendo da una moto chissà quante storie fanno... cosí mi son data malata. Per quel che mi riguarda posso anche restare a casa un anno, non ho nessuna fretta di passare in seconda. - Ah. - Comunque, per tornare al discorso di prima, con una ragazza che ha sei dita potrebbe anche sposarsi, ma con una che ha quattro seni le farebbe senso... - Non ho detto che mi farebbe senso. Ho solo detto che non saprei. - Perché non saprebbe? - Be', non riesco a immaginarmela. - Sei dita riesce a immaginarsele? - Più o meno. - Ma che differenza c'è? Tra avere sei dita e avere quattro seni, cioè? Ci riflettei ancora su, ma non mi venne in mente nessuna risposta convincente. - Faccio troppe domande, vero? - disse la ragazza. Da dietro le lenti guardava fisso verso i miei occhi. - Te l'hanno già detto? - Sì, qualche volta. - Non c'è niente di male a fare domande. Obbliga gli altri a far funzionare il cervello. - La maggior parte della gente però non fa funzionare un bel nulla, - disse lei guardandosi la punta dei piedi. - Si limitano a darmi delle risposte così, tanto per rispondere. Scossi vagamente la testa, e tornai a osservare il percorso dei gatti. Cosa diavolo stavo a fare lì? Di gatti non se n'era visto nemmeno uno. Sempre a braccia conserte, chiusi gli occhi per venti o trenta secondi. Immobile a occhi chiusi, sentivo varie parti del mio corpo imperlarsi di sudore: una lieve sensazione sulla fronte, sul naso, intorno al collo, come se vi si fosse posata sopra una piuma bagnata. La maglietta mi stava appiccicata addosso come una bandiera in una giornata senza vento. I raggi del sole cadevano su di me con una strana pesantezza. Ogni tanto la ragazza girava il bicchiere facendo tintinnare il ghiaccio come una campanella. - Dorma pure, se ha sonno. Se vedo un gatto la sveglio, disse a bassa voce. Io annuii senza aprire gli occhi. Per un po' tutt'intorno ci fu silenzio. Sia il piccione che l'uccello-giraviti se n'erano andati chissà dove. Non un alito di vento, nessun rumore di tubi di scappamento di automobili. Pensavo alla donna della telefonata. Ma era proprio vero che la conoscevo? Non riuscivo a immaginare chi potesse essere. Come in un quadro di De Chirico, la sua ombra si allungava verso di me tagliando la strada di traverso, ma lei si trovava in un luogo ben al di fuori della sfera
della mia coscienza. Nelle mie orecchie il telefono continuava a squillare. - Si è addormentato? - domandò la ragazza in tono esitante, incerta se io sentissi o no. - No, non dormo. - Posso venire più vicino? Per me è più facile, parlare a bassa voce. - Fai pure, - risposi senza aprire gli occhi. La sentii spostare la sua sedia a sdraio e metterla attaccata alla mia. I due telai urtandosi diedero un colpo secco. Che strano, pensai. A occhi chiusi la voce della ragazza suonava del tutto diversa. Cosa mi succedeva? Era la prima volta. - Posso parlare un pochino? - chiese lei. - Parlerò a voce bassa, non è necessario che risponda, può anche addormentarsi. - Come vuoi. - È meraviglioso, che gli esseri umani muoiano. Mi parlava vicinissimo all'orecchio, le sue parole scivolavano quietamente dentro al mio corpo insieme al suo fiato caldo e umido. - Perché? - chiesi. Lei pose un dito sulle mie labbra come se volesse sigillarle. - Non faccia domande, adesso non mi va, - disse. - E non apra gli occhi. D'accordo? Io feci un cenno d'assenso lieve come la sua voce. Lei tolse il dito dalle mie labbra, e lo posò sopra il mio polso. – - È qualcosa che mi piacerebbe tagliare e aprire con un bisturi. Non un cadavere. Proprio la sostanza stessa della morte. Ho l'impressione che da qualche parte qualcosa del genere debba esistere. Qualcosa dai nervi paralizzati, molle e soffice come una palla da softball. Vorrei prelevarla dalle persone morte, e provare ad aprirla. Ci penso sempre. Come sarà dentro? Magari all'interno c'è un nucleo indurito e secco, come il dentifricio nel tubetto. Non crede? Non fa niente, non risponda. Una cosa molle tutt'intorno, che s'indurisce man mano che si va verso il centro. Prima aprirei la scorza esterna, tirerei fuori la materia molle e la taglierei a pezzi con un bisturi, o un tagliacarte. Poi procederei allo stesso modo verso l'interno, troverei della materia sempre più dura, e alla fine solo un piccolo nucleo. Piccolo come la pallina di un cuscinetto a sfera, e durissimo. Non le fa quest'impressione? La ragazza ebbe due o tre colpi di tosse. – Di recente ci penso sempre, a questa cosa. Sarà perché ogni giorno ho un sacco di tempo libero. Davvero. Quando non si ha niente da fare, i pensieri vagano sempre più lontano. E quando si allontanano troppo, poi non si riesce più a seguirli. Tolse il dito che aveva posato sul mio polso, prese il bicchiere e bevve la Coca-Cola che restava. Dal rumore che faceva il ghiaccio capii che il bicchiere era vuoto. - Non si preoccupi per il gatto, sto all'erta. Se vedo comparire Watanabe Noboru la avverto, continui pure a tenere gli occhi chiusi. Sono sicura che in questo momento si sta aggirando da queste parti, i gatti vanno sempre tutti negli stessi posti. Scommetto che adesso compare. Mi pare di vederlo, Watanabe Noboru, sta camminando nell'erba, scivola sotto la siepe, si ferma da qualche parte ad annusare l'odore dei fiori, a poco a poco si sta avvicinando... cerchi di immaginarselo. Provai a fare come mi diceva lei, ma riuscii solo ad abbozzare la figura molto sfocata di un gatto, come una fotografia che sia stata esposta alla luce. I raggi del sole attraverso le mie palpebre disperdevano le tenebre in maniera discontinua, e per quanto mi sforzassi l'immagine precisa del mio gatto non mi tornava in mente. Riuscivo solo a intravedere una figura tremendamente innaturale, una sorta di ritratto mal riuscito: i tratti caratteristici erano somiglianti, ma nell'insieme era molto diverso. Non mi ricordavo neppure il suo modo di camminare. La ragazza posò di nuovo il dito sul mio polso, e tracciò adagio qualcosa, una strana figura dalla forma imprecisa. Quasi per reazione, mi sentii scivolare in un'oscurità diversa da quella che aveva offuscato la mia
coscienza fino a quel momento. Probabilmente stavo per addormentarmi. Non è che avessi sonno, ma mi pareva di non poter fare nulla per resistere. Sentivo il mio corpo orribilmente pesante sulla sedia a sdraio di tela che disegnava una dolce curva. Dalle tenebre della mia coscienza affioravano soltanto le quattro zampe di Watanabe Noboru. Erano quattro zampe marroni e silenziose, con sotto dei cuscinetti morbidi come gomma. Da qualche parte, quelle zampe stavano calpestando il suolo senza fare rumore. Il suolo dove? Non lo sapevo. «Non pensi che nella tua testa ci sia un angolo fatalmente morto?» aveva detto adagio quella donna. Quando mi svegliai, ero solo. La sdraio accostata alla mia era vuota, e la ragazza non si vedeva. Il telo di spugna, le sigarette e la rivista sempre lì, ma il bicchiere di Coca-Cola e lo stereo erano spariti. Il sole si era un po' abbassato a occidente, e proiettava l'ombra dei rami dei pini fino alle mie caviglie. Il mio orologio segnava le tre e quaranta. Scossi la testa parecchie volte, come se fosse una lattina vuota, mi alzai in piedi e mi guardai intorno. Non era cambiato nulla. Il vasto giardino, la vasca prosciugata, la siepe, l'uccello di pietra, le erbacce, l'antenna della televisione. Del mio gatto nessuna traccia. E neanche della ragazza. Sedetti sul prato, e carezzando l'erba col palmo della mano tenni d'occhio il famoso percorso obbligato. Intanto aspettavo che lei tornasse. Passati dieci minuti, non erano ricomparsi né lei né il gatto. Intorno tutto era immobile. Avevo l'impressione di essere tremendamente invecchiato, mentre dormivo. Di nuovo mi alzai, e guardai verso la casa. Neanche li sembrava esserci anima viva. Soltanto i vetri delle porte-finestre, colpiti dai raggi del sole calante, splendevano accecandomi. Pazienza, mi dissi, attraversai in diagonale il prato, uscii nel vicolo, e tornai a casa. Il gatto non l'avevo trovato, ma avevo fatto del mio meglio. Una volta a casa, ritirai il bucato, e cominciai a preparare qualcosa di semplice per cena. Poi mi sedetti sul pavimento in soggiorno e appoggiato alla parete lessi il giornale della sera. Alle cinque e mezza il telefono squillò dodici volte, ma non risposi. Anche quando furono cessati, gli squilli continuarono a vibrare nella stanza come polvere nella penombra serale. La sveglia ticchettava, la lancetta come la punta dura di un'unghia che batteva su un asse invisibile vagante nel vuoto. Il mondo era un giocattolo a molla. Una volta al giorno gli uccelli-giraviti venivano, e ne avvitavano le viti. In quel mondo soltanto io invecchiavo, dentro di me andava crescendo una morte simile a una palla da softball bianca. E mentre dormivo profondamente tra Saturno e Uranio, gli uccelli-giraviti svolgevano scrupolosamente il loro compito. E se scrivessi una poesia sugli uccelli-giraviti? pensai. Ma per quanto mi sforzassi, non riuscii a comporre nemmeno il primo verso. E poi ero sicuro che delle liceali fossero contente di leggere delle poesie su un uccello che girava delle viti? Ne ignoravano perfino l'esistenza. Mia moglie tornò alle sette e mezza. - Scusami, ho dovuto fare delle ore straordinarie, - disse. Non riuscivo a trovare la registrazione di pagamento di uno studente. La ragazza part-time è una fannullona, devo fare tutto io. - Non importa, - risposi. Poi mi misi a rosolare in padella il pesce col burro e a preparare la salsa vinaigrette. Nel frattempo mia moglie seduta al tavolo della cucina leggeva il giornale. - Dov'eri andato, verso le cinque e mezza? - mi chiese. Ti ho chiamato per avvisarti che avrei tardato un po'... - Non c'era più burro, sono andato a comprarlo, - mentii. - In banca ci sei stato?
- Certo. - E il gatto? - Non l'ho trovato. - Ah. Dopo cena mi feci il bagno, e quando tornai in soggiorno trovai mia moglie seduta da sola al buio. Aveva spento la luce e se ne stava così, accovacciata immobile nell'oscurità con una camicetta grigia addosso. Sembrava un pacco scaricato lì. Mi faceva molta pena. Era stata lasciata nel posto sbagliato. Se si fosse trovata in un posto diverso, forse sarebbe stata più felice. - Che cosa c'è? - le chiesi. - Di sicuro ormai il gatto è morto. - Ma figurati! Sarà andato a farsi un giro da qualche parte. Quando gli verrà fame tornerà. È già successo una volta, no? Quando vivevamo a Kòenji, ricordi? - Questa volta è diverso. Lo so. È morto, e sta imputridendo nell'erba chissà dove. Hai cercato nel giardino della casa disabitata? - Ma ti rendi conto? Disabitata o no, è sempre casa d'altri. Mica ci si può entrare così come si vuole. - L'hai ucciso tu, - disse mia moglie. Sospirai, e ripresi a strofinarmi la testa con l'asciugamano. - L'hai lasciato morire senza alzare un dito, - ripetè mia moglie nell'oscurità. - Non ti seguo, sai? Il gatto se n'è andato per i fatti suoi, che colpa ne ho io? Lo capisci anche tu, no? È abbastanza semplice! - A te non è mai piaciuto, quel gatto. - Può anche darsi, - ammisi. - Perlomeno non gli voglio bene quanto gliene vuoi tu. Ma non l'ho mai maltrattato, e gli ho dato da mangiare ogni giorno. Ero io che gli preparavo la pappa. Altro che ammazzarlo perché non mi piaceva! Secondo la tua logica, dovrei ammazzare la maggior parte della gente sulla faccia della Terra. - È tipico tuo. Fai sempre così, tu, sempre. Senza fare un gesto, sei capace di uccidere tante cose. Cercai di dire qualcosa, ma quando capii che lei stava piangendo rinunciai. Gettai l'asciugamano nella cesta del bagno, andai in cucina e presi una birra dal frigo. Era stata una giornata assurda. Una giornata assurda di un mese assurdo di un anno assurdo. Watanabe Noboru, dove sarai mai? mi chiesi. L'uccello-giraviti non ha girato la tua vite? Sembravano le parole di una poesia. Watanabe Noboru Dove sarai mai? L'uccello-giraviti Non ha girato la tua vite?
Avevo bevuto solo metà della mia birra quando il telefono prese a squillare. –Rispondi tu! - gridai rivolto alle tenebre del soggiorno - No, io non ci vado! Vai tu! - Non ne ho voglia! Il telefono continuò a suonare senza che nessuno andasse a rispondere. Il trillo rimescolava blandamente il pulviscolo stagnante nel buio. Per tutto il tempo né io né mia moglie pronunciammo una parola, io bevevo la mia birra, lei piangeva in silenzio. Contai fino a venti squilli, poi rinunciai. Che senso aveva contarli? Continuassero pure indefinitamente.
SONNO
Sono già diciassette giorni che non riesco a dormire. Non si tratta di insonnia. L'insonnia un po' la conosco, quand'ero all'università una volta ho sofferto qualcosa di simile. Con «qualcosa di simile» intendo dire che non so come si possa definire esattamente il disturbo di cui soffrivo. Forse un medico me l'avrebbe detto, se l'avessi consultato, ma a cosa mi sarebbe servito? Intuivo che andare a farmi visitare sarebbe stata fatica sprecata, pur non avendo un motivo particolare per pensarlo, di conseguenza non lo feci né parlai della cosa ai miei familiari o a qualche amica. Tanto mi avrebbero solo consigliato di vedere uno specialista. Quella condizione «simile all'insonnia» era durata un mese. Per tutto un mese non feci mai un bel sonno profondo neanche una volta. La sera andavo a letto e mi dicevo «be', adesso si dorme». E nello stesso istante come per reazione mi ritrovavo più sveglia di prima. Sforzarmi non serviva a nulla. Anzi, più cercavo di dormire più restavo lucida. Provai a bere qualcosa di forte, a prendere qualche sonnifero, niente, non mi facevano nessun effetto. Sul far dell'alba, cominciavo ad avvertire una certa sonnolenza. Ma non si poteva veramente dire che dormissi. Era come se toccassi appena con la punta delle dita le frange del sonno. La mia mente però era vigile. Mi appisolavo un po', ma in una stanza vicina, separata da mura sottili, la mia coscienza era ben desta e non mi perdeva di vista. Nel debole chiarore, continuavo a sentirne lo sguardo e il respiro, mentre il mio corpo si abbandonava al torpore. Ero al tempo stesso un corpo che cercava di dormire e una mente che voleva restare sveglia Quella sorta di semi-torpore andava e veniva per tutto il giorno. La mia coscienza era sempre offuscata. Non riuscivo a valutare esattamente la distanza, il peso o la consistenza delle cose. Il torpore mi coglieva a intervalli regolari, come un'ondata. Mentre ero seduta in treno o in classe, oppure la sera a cena, senza rendermene conto mi appisolavo. La mia mente si separava dal mio corpo. Il mondo oscillava silenziosamente. Gli oggetti mi sfuggivano di mano, la matita, la borsa o la forchetta cadevano rumorosamente a terra. Come sarebbe stato bello sdraiarmi e farmi una bella dormita! Niente da fare. La mia lucidità non mi abbandonava. Continuavo a sentirne l'ombra gelida. Era la mia stessa ombra. «Strano, pensavo nel mio torpore, - sono all'interno della mia ombra». E in quel torpore camminavo, mangiavo, conversavo. Ma la cosa sorprendente era che nessuno si accorgeva della mia condizione. In quel mese persi sei chili. Eppure non una sola persona vi fece caso, né i miei familiari, né i miei amici, nessuno. Praticamente vivevo dormendo. Sì, vivevo dormendo, alla lettera. Il mio corpo perdeva coscienza come quello di un annegato. Tutto mi appariva lento, torpido. La mia stessa esistenza e appartenenza alla realtà mi sembravano sensazioni incerte e illusorie. Avevo l'impressione che un forte vento mi avrebbe soffiato via fino al bordo del mondo. E al bordo del mondo c'era un luogo che non avevo mai visto, di cui non sapevo nulla, dove il mio corpo e la mia mente sarebbero rimasti separati in eterno. Per questo volevo afferrarmi saldamente a qualcosa. Ma avevo un bel guardarmi intorno, non vedevo nulla a cui potermi aggrappare. Poi la notte, tornavo ad essere esasperatamente sveglia. Un fenomeno nei confronti del quale ero del tutto impotente. Una forza irresistibile mi obbligava a restare ferma e sveglia fino all'alba, vigile e lucida nell'oscurità, senza scampo. Non pensavo quasi a nulla. Mentre ascoltavo l'orologio scandire i secondi, per tutto il tempo guardavo il buio farsi più profondo, e più tardi dileguarsi di nuovo. Poi un giorno, la cosa cessò. Così, di colpo, senza alcun preavviso né alcuna causa apparente. Stavo facendo colazione, quando d'un tratto la mente mi si offuscò. Mi alzai senza dire una parola. Credo di aver
fatto cadere qualche oggetto dal tavolo. Qualcuno deve aver detto qualcosa. Però non ricordo nulla. Andai come una sonnambula fino alla mia camera, mi infilai nel letto senza neanche spogliarmi, e mi addormentai immediatamente. Dormii per ventisette ore di fila. Mia madre preoccupata venne a scuotermi parecchie volte. Mi diede perfino qualche schiaffo sulle guance. Ma io non mi svegliai. Ventisette ore senza interruzione. E quando finalmente aprii gli occhi, ero tornata ad essere quella di prima. Forse. Perché abbia sofferto di insonnia, e perché tutt'a un tratto sia guarita, non ne ho la minima idea. È stato come se una spessa nuvola nera, portata dal vento, fosse giunta da lontano. Una nuvola piena di brutte cose ignote anche a me. Impossibile dire da dove arrivasse, dove andasse. Però è venuta, è passata, sopra la mia testa, e si è allontanata. La mia insonnia attuale è molto diversa da quella di allora. Tutta un'altra cosa. Ora semplicemente non riesco a dormire. Non chiudo occhio un secondo. Eppure, insonnia a parte, sono in perfetta forma. Non provo alcuna sonnolenza, e la mia mente è lucidissima. Potrei perfino dire che è più lucida del solito. Anche il mio fisico funziona normalmente. Ho appetito. Non mi sento affaticata. Insomma da un punto di vista pratico non ho nessun problema. Solo che non riesco a dormire. Né mio marito né mio figlio hanno notato che la notte non chiudo occhio. Né io ho intenzione di parlargliene, mi direbbero subito di andare da un dottore. E invece io so bene che non servirebbe a nulla. Così me ne sto zitta. In questo senso è come all'epoca della mia prima insonnia. Lo so e basta. Questa è una cosa che devo risolvere da sola E così loro non sanno niente. La mia vita in apparenza non ha subito cambiamenti, è molto regolare e tranquilla. Il mattino, dopo aver salutato mio marito e mio figlio, vado come al solito a fare la spesa in macchina. Mio marito è dentista, il suo studio si trova a dieci minuti di strada dal nostro appartamento. Lo divide con il suo socio, un amico d'università. Così possono permettersi un tecnico e una segretaria. Quando uno dei due ha troppo lavoro, passa i pazienti all'altro. Non sono ancora trascorsi cinque anni da quando hanno aperto lo studio, senza nessun appoggio, ma essendo entrambi molto bravi hanno già molto successo. Fin troppo, a dir la verità. - Veramente avrei voluto prendermela un po' più comoda, - dice sempre mio marito, - ma non posso lamentarmi. - Già, - rispondo io, - non ti puoi lamentare -. Proprio cosi. Per aprire lo studio abbiamo dovuto chiedere alla banca un prestito superiore al previsto. E un'attività che richiede grossi investimenti in attrezzature. La competizione è feroce. E non è che i pazienti comincino ad arrivare il giorno seguente. Ci sono moltissimi studi che chiudono per mancanza di lavoro. All'epoca eravamo ancora giovani e poveri in canna, con un bambino appena nato. Impossibile dire se saremmo sopravvissuti in questa dura società. Invece sono passati cinque anni, e bene o male siamo ancora qui. Non è il caso di lamentarsi. Del mutuo restano da pagare ancora i due terzi. - Forse le pazienti arrivano perché sei un bel ragazzo, - gli dico. Scherzo sempre così. Perché mio marito non è affatto bello. Direi piuttosto che ha una faccia strana. Ancora adesso mi succede di domandarmi perché mi sono sposata con uno dalla faccia così strana. Quando avevo un ragazzo molto più bello. La stranezza della sua faccia non è facile da descrivere. D'accordo, non è bello, però non è neanche brutto. E non ha nemmeno quel che si dice un viso interessante. Si può dire solo che è strano, tutto qui. O forse l'espressione «non ha nulla che attiri l'attenzione» sarebbe più azzeccata. Il che però non esaurisce la questione, la cosa più importante credo sia proprio l'elemento che rende i suoi tratti così insignificanti. Se riuscissi a coglierlo, magari capirei la stranezza complessiva della sua faccia. Ma finora non ci sono riuscita. Una volta, non so per quale motivo fosse necessario, ho provato a disegnarla. Non ci sono riuscita, non me la ricordavo. Prendevo in mano la matita, col foglio davanti a me, ma niente da fare. Quella volta sono
rimasta piuttosto sconcertata. Dopo tanto tempo che vivevamo insieme, non ricordarmi neanche che faccia avesse mio marito! Ovviamente quando lo vedo lo riconosco. Ce l'ho anche in mente. Ma se cerco di disegnarlo, i suoi tratti mi sfuggono, lo ammetto. Resto del tutto disorientata, come se andassi a sbattere contro un muro invisibile. Tutto quello che riesco a ricordarmi è che ha una faccia strana. A volte tutto ciò mi mette in ansia. Eppure alla maggior parte della gente lui è simpatico, e questo, non c'è bisogno di dirlo, nel suo lavoro è una cosa importante. D'altronde avrebbe avuto successo in qualunque professione. La maggior parte della gente quando parla con mio marito a poco a poco si rilassa, senza rendersene conto. Non avevo mai conosciuto una persona così, prima di incontrare lui. Anche tutte le mie amiche lo trovano simpatico. A me, naturalmente, piace. Credo anche di amarlo. Ma se devo esprimermi con precisione, non è che lo trovi particolarmente attraente. Ad ogni modo, ha un sorriso spontaneo, allegro, come quello di un bambino. È raro che un uomo adulto riesca a sorridere in quel modo. Inoltre, cosa probabilmente ovvia, ha dei denti magnifici. - Non è colpa mia se sono così bello, - mi risponde invariabilmente lui ridendo. È un piccolo gioco che capiamo soltanto noi due. Scambiandoci quelle battute verifichiamo la realtà. Ci assicuriamo di essere ancora vivi. Per noi è un rito importante. Il mattino, alle otto e un quarto, mio marito tira fuori la Bluebird dal garage, e fa sedere nostro figlio sul sedile di fianco al suo. La scuola si trova sulla strada dello studio. «Fai attenzione», gli dico io. «Non ti preoccupare», mi risponde lui. Sempre lo stesso copione. Eppure non posso fare a meno di dire quella frase, fai attenzione. E lui di rispondere allo stesso modo, non ti preoccupare. Poi infila nello stereo una cassetta di Haydn o di Mozart e mette in moto, canticchiando la melodia. Padre e figlio salutano con la mano, poi se ne vanno. Hanno un modo di salutare stranamente simile. Piegano la faccia allo stesso angolo, e agitano leggermente la mano da destra a sinistra, col palmo rivolto verso di me. Come se si fossero allenati. Per il mio uso personale, io ho una Honda City di seconda mano. L'ho avuta quasi gratis due anni fa da una mia amica. È un vecchio modello, il paraurti è ammaccato, la carrozzeria arrugginita in più punti. Ha già fatto circa centocinquantamila chilometri. Ogni tanto, una o due volte al mese, l'accensione mi dà dei problemi. Ho un bel girare la chiave, il motore non parte. Ma non c'è bisogno di portarla dal meccanico. Lasciandola riposare per una decina di minuti e riprovando, si mette in moto con un bel rombo. Bisogna avere pazienza, mi dico, capita a tutti, a qualunque cosa, di avere una piccola crisi, qualche problema, una o due volte al mese. Così va il mondo. - Il tuo asino, - dice mio marito riferendosi alla mia macchina. Ma non m'importa come la chiamano gli altri, tanto è mia. Dunque prendo la City e vado al supermercato. Poi faccio le pulizie di casa, il bucato, preparo il pranzo. Per tutto il mattino mi do da fare. Possibilmente comincio a cucinare anche per cena. Così ho tutto il pomeriggio per me. Poco dopo mezzogiorno mio marito torna a casa. Non gli piace pranzare fuori, dice che i locali sono affollati, si mangia male, e i vestiti poi puzzano di fumo. Preferisce venire a casa, anche se perde un po' di tempo. Comunque non è che a mezzogiorno io gli prepari chissà che. Se ci sono dei resti della sera prima li riscaldo nel forno a microonde, altrimenti faccio cuocere un po' di pasta. Il pranzo insomma non costituisce per me un gran lavoro. D'altronde, molto meglio sedermi a tavola con mio marito che mangiare da sola in silenzio! Prima, quando lo studio era aperto da poco, all'inizio del pomeriggio succedeva spesso che lui non avesse appuntamenti, così subito dopo pranzo ci infilavamo nel letto. Era bellissimo fare l'amore così. La stanza era silenziosa, illuminata dalla quieta luce pomeridiana. E noi eravamo più giovani, e più felici. Siamo tuttora felici, naturalmente. In famiglia non ci sono problemi, davvero. Amo mio marito e ho fiducia in lui. Ne sono convinta. E una cosa reciproca. Ma la vita non è più la stessa, col passare degli anni a
poco a poco è cambiata, come evitarlo? E lui ha tutto il pomeriggio pieno di appuntamenti. Finito di mangiare si lava i denti in bagno, sale in macchina e torna subito in studio. Ci sono centinaia e migliaia di denti cariati che lo attendono. Non possiamo pretendere che le cose vadano sempre come desideriamo. Uscito mio marito, io prendo il costume da bagno e un asciugamano e mi reco al centro sportivo del quartiere. Nuoto una mezzora. Senza risparmio di energie. Non è che ami nuotare, lo faccio solo perché non voglio mettere su dei chili di troppo. Sono sempre stata contenta della mia linea. Della mia faccia no, non l'ho mai trovata granché, ad essere sincera. Non credo che sia brutta, ma non mi piace. Il mio corpo invece sì. Adoro mettermi nuda davanti allo specchio, e contemplare la morbidezza delle sue linee, la sua armoniosa vitalità. Sento che c'è lì qualcosa di estremamente importante per me. Non so cosa sia, ma non voglio perderlo. Ho trent'anni. Il mondo non finisce, dopo i trenta, ma lo si capisce solo quando ci si arriva. Non voglio dire che invecchiare sia piacevole, ma ci sono alcune cose che con gli anni diventano più facili. È una questione di mentalità. Una cosa tuttavia è chiara: se una donna di trent'anni è contenta del proprio fisico e lo vuole davvero mantenere nella forma giusta, deve fare un certo sforzo... è così. L'ho imparato da mia madre. Mia madre una volta era una bella donna snella. Adesso purtroppo non lo è più. Non voglio diventare come lei. Dopo aver nuotato, passo il resto del pomeriggio in vari modi, dipende dalla giornata. A volte vado fino alla stazione a guardare le vetrine. Oppure torno a casa e mi siedo in poltrona a leggere un libro, ascolto la radio, sonnecchio un po'. Finché mio figlio torna da scuola. Allora gli faccio togliere l'uniforme, e gli do la merenda. Poi lui esce, va a giocare con gli amici. È ancora in seconda elementare, non frequenta corsi supplementari né fa altre attività. Meglio lasciarlo giocare, dice mio marito. Lasciarlo crescere naturalmente. Quando esce, gli dico di fare attenzione. - Non ti preoccupare, - mi risponde lui. Come suo padre. Nel tardo pomeriggio, comincio a preparare la cena. Mio figlio torna prima delle sei, e si mette a guardare i cartoni alla televisione. Mio marito invece arriva verso le sette, a meno che non abbia del lavoro straordinario. È astemio, e non gli piace buttare via il suo tempo con gente inutile. Quando in studio ha finito se ne torna subito a casa. Durante la cena, chiacchieriamo tutti e tre. Ci raccontiamo come abbiamo passato la giornata. Ma quello che parla di più è sempre nostro figlio. È naturale, per lui tutto ciò che accade intorno è nuovo, e pieno di mistero. Lui parla, io e mio marito facciamo i nostri commenti. Finita la cena, nostro figlio fa quello che vuole, guarda la televisione o legge. Oppure gioca con suo padre. Se ha dei compiti si chiude nella sua stanza e studia. Alle otto e mezza va a letto e dorme. Io gli rimbocco le coperte, gli accarezzo i capelli, gli auguro la buona notte e spengo la luce. Il resto della serata è tutto per noi due coniugi. Mio marito si siede sul divano, legge il giornale della sera e ogni tanto parla un po' con me. Di qualche paziente, di qualche articolo sul giornale. Poi ascolta Haydn o Mozart. Anche a me non dispiace ascoltare la musica. Però non sono mai riuscita a distinguere Haydn da Mozart, per me sono quasi uguali. Quando glielo dico, mio marito risponde che non fa nulla. Che quando una cosa è bella è bella, l'importante è quello. - Già, proprio come te, - osservo io. - Infatti, proprio come me, - risponde lui. Poi sorride. Un sorriso allegro, divertito. Questa è la mia vita. Cioè, lo era quando riuscivo a dormire. Più o meno sempre la stessa, ogni giorno che passava. Tenevo una sorta di diario, ma se mi dimenticavo di scriverci per due o tre volte di fila, non riuscivo più a distinguere una giornata dall'altra. Avrei potuto scambiarne l'ordine, non l'avrei nemmeno notato. Ogni tanto mi chiedevo che razza di vita fosse quella. Ma non per questo mi sentivo insoddisfatta. Ero solo stupita. Del fatto che le mie giornate fossero tutte uguali. Che le mie orme venissero spazzate via
dal vento in un baleno, prima che avessi il tempo di riconoscerle. In quei momenti, mi guardavo nello specchio del bagno. Mi fissavo per un quarto d'ora di fila. Facevo il vuoto nella mia testa e non pensavo a nulla. Osservavo il mio viso in silenzio come se fosse un semplice oggetto. Finché a poco a poco si separava da me. Come se la sua esistenza disgiunta fosse contemporanea alla mia. Allora riconoscevo che il presente era quello. Nessuna relazione con le orme. In quel momento la realtà ed io eravamo due entità simultanee, contava solo quello. Adesso però non dormo più. E ho anche smesso di tenere un diario.
Mi ricordo perfettamente della prima sera in cui non sono più riuscita ad addormentarmi. Avevo avuto un incubo. Un brutto sogno viscido. Non ne ricordo il contenuto, solo la paura provata. Mi ero svegliata proprio nel momento culminante. Se mi fossi inoltrata ulteriormente nel sogno non avrei più potuto fare ritorno, ma in quell'attimo critico qualcosa mi aveva trattenuta e avevo aperto gli occhi. Continuai per un po' ad ansimare, mani e piedi mi si erano intorpiditi e non riuscivo a muoverli. Rimasi ferma, il mio respiro era orribilmente rumoroso, come se occupasse tutto lo spazio di una caverna vuota. È stato un sogno, pensai. Poi restai supina, aspettando che il mio respiro si calmasse. Il cuore mi batteva all'impazzata, e i polmoni che vi pompavano in fretta il sangue si gonfiavano e si contraevano lentamente, come mantici. L'ampiezza di quelle contrazioni tuttavia andava diminuendo col passare dei minuti. Mi chiesi che ore fossero. Volevo guardare la sveglia sul comodino, ma non riuscivo a voltare la testa. In quel momento tutt'a un tratto mi sembrò di vedere qualcosa vicino ai miei piedi. Come una lenta ombra nera. Trattenni il respiro. Cuore, polmoni, ogni organo del mio corpo per un secondo si fermò, come pietrificato. Mi sforzai di guardare in direzione di quell'ombra. Nel momento in cui cercai di metterla a fuoco, l'ombra prese rapidamente forma, come se non aspettasse altro. Il suo contorno si delineò, l'interno si riempì, apparvero dei dettagli. Era un vecchio magro che indossava uno stretto abito nero. Aveva i capelli grigi, corti, e le guance incavate. In piedi al fondo del letto, se ne stava immobile, senza dire nulla, e mi fissava con uno sguardo molto penetrante. Aveva occhi enormi, potevo distinguere le venuzze rosse che correvano sulla cornea. Il viso però era del tutto inespressivo. Non diceva nulla. Era vuoto, come un buco. «Questo non è un sogno, - mi dissi. - Ormai sono sveglia. E non ho la mente offuscata, sono lucidissima. Di conseguenza quello che vedo è ben reale». Cercai di muovermi. Di svegliare mio marito, o di accendere la luce. Ma tutti i miei sforzi erano inutili, mi sentivo paralizzata. Non potevo muovere neanche un dito. Quando compresi che non c'era nulla da fare, improvvisamente ebbi paura. Un terrore primordiale, come una corrente gelida che salisse silenziosamente dal pozzo senza fondo della memoria. Una corrente che penetrò fino alla radice del mio essere. Cercai di gridare, ma non riuscii a produrre alcun suono. La lingua non rispondeva. Tutto quel che potevo fare era restare ferma a guardare quel vecchio. Teneva in mano qualcosa. Qualcosa di lungo e sottile, arrotondato in centro. Bianco e lucente. Fissai quell'oggetto, che cominciò anch'esso a prendere una forma precisa. Era una brocca, il vecchio in fondo al letto teneva in mano una brocca di foggia antiquata. Poi la sollevò e prese a versarmi dell'acqua sui piedi. Però io non la sentivo sulla pelle, vedevo che lui la versava, ne sentivo il rumore, ma sui piedi non sentivo niente. Il vecchio continuava imperterrito. La cosa strana era che per quanta acqua versasse, la brocca non si vuotava. Cominciai a pensare che i miei piedi sarebbero marciti e si sarebbero disfatti. Nulla di sorprendente che imputridissero, con tutta l'acqua che prendevano. Ma quel pensiero mi era insopportabile. Chiusi gli occhi, e gridai più forte che potevo. La mia lingua però non riuscì a spostare l'aria, il grido rimase dentro di me. Risuonò silenziosamente
all'interno del mio corpo, lo percorse tutto e bloccò il cuore. Nella mia testa per un attimo tutto divenne bianco. Il grido penetrò in ogni singola cellula. Qualcosa dentro di me si sciolse, e morì. Rimase solo il vuoto, le cui vibrazioni, come la luce di un'esplosione, assurdamente bruciarono alla radice tutte le cose da cui dipendeva la mia esistenza. Quando riaprii gli occhi, il vecchio non c'era più. Neanche la brocca. Guardai ai miei piedi. Nessuna traccia d'acqua sul letto, la coperta era asciutta. In compenso il mio corpo era madido di sudore. Una terrificante quantità di sudore, non potevo credere che una sola persona ne avesse prodotto tanto. Eppure era solo mio. Piegai ad una ad una le dita, poi provai a muovere le braccia. Le gambe. Feci ruotare le caviglie, i fianchi. Ogni cosa bene o male funzionava, anche se non alla perfezione. Dopo aver controllato attentamente che ogni parte del mio corpo fosse a posto, mi alzai a sedere. Esplorai con lo sguardo la stanza, fiocamente illuminata dalle luci della strada. Il vecchio non si vedeva da nessuna parte. La sveglia sul comodino segnava le dodici e mezza. Ero andata a dormire poco prima delle undici, quindi avevo dormito solo un'ora e mezza circa. Nel letto di fianco mio marito era profondamente addormentato. Respirava senza rumore, come se avesse perso conoscenza. Quando dorme, non lo svegliano neanche le cannonate. Mi alzai, andai nel bagno, mi tolsi gli indumenti intrisi di sudore e li infilai nella lavatrice, feci una doccia. Mi asciugai, presi dall'armadio un pigiama pulito e lo indossai. Poi accesi la lampada in salotto, sedetti sul divano e mi versai un bicchiere di cognac. È molto raro che io beva. Non sono del tutto astemia come mio marito, da ragazza bevevo abbastanza, ma da quando mi sono sposata ho smesso. Al massimo mi concedo un sorso di cognac ogni tanto, quando non riesco a dormire. Quella sera invece per calmarmi ne bevvi un bicchiere intero. Nella credenza c'era una bottiglia di Rémy Martin, l'unica bevanda alcolica che esistesse in casa. Un vecchio regalo di qualcuno, non ricordavo neanche di chi. Sulla bottiglia c'era un velo di polvere. Ovviamente non possediamo i bicchieri adatti, così versai il cognac in un bicchiere normale e lo bevvi a piccoli sorsi. Tremavo ancora leggermente, ma la paura a poco a poco stava passando. Mi dissi che doveva essere stata una sorta di paralisi provvisoria. Non mi era mai successo, ma una mia amica d'università una volta aveva provato la stessa cosa. Mi aveva detto che si trattava di una sensazione molto chiara e vivida, niente a che vedere con un sogno. Non le era parso un sogno né sul momento, né dopo. D'altronde a me era successa la stessa cosa, avevo fatto un sogno che non sembrava tale. La paura mi era passata, ma continuavo a tremare. Tremiti leggeri e persistenti sulla pelle, come onde concentriche dopo un terremoto. Perfettamente visibili. Tutta colpa di quel grido, pensai. Quel grido che non si era tramutato in voce, che era rimasto intrappolato nel mio corpo e lo faceva tremare. Chiusi gli occhi e bevvi un altro sorso di cognac. Sentivo il calore scendere lentamente dalla gola allo stomaco. Una sensazione molto reale. Tutt'a un tratto ebbi paura che fosse accaduto qualcosa a mio figlio. A quel pensiero il cuore riprese a battermi all'impazzata. Mi alzai e corsi nella sua stanza. Era profondamente addormentato, una mano sulla bocca, l'altra distesa di fianco. Anche lui dormiva come un sasso. Gli sistemai meglio le coperte. Il fenomeno che aveva sconvolto il mio sonno, qualunque cosa fosse, aveva colpito solo me. Mio marito e mio figlio non avevano sentito nulla. Tornai nel soggiorno, camminai un po' avanti e indietro. Non mi sentivo affatto insonnolita. Pensai di bere un altro sorso di cognac. Ad essere sincera, ne avrei bevuto volentieri più di uno. Volevo riscaldarmi, calmare i nervi. E riempirmi di nuovo la bocca di quell'odore forte e penetrante. Esitai un po', poi rinunciai. Non potevo ubriacarmi fin dal mattino. Rimisi la bottiglia nell'armadio, portai il bicchiere in cucina e lo lavai. Poi tirai fuori dal frigo delle fragole e le mangiai. Mi accorsi che il tremito della mia pelle
era quasi cessato. Chi poteva essere, mi chiesi, quel vecchio vestito di nero? Non ricordavo di averlo mai incontrato in vita mia. Anche i vestiti che indossava erano strani. Una sorta di tuta aderente, ma a guardar bene di foggia antica, mai visto qualcosa di simile. E poi gli occhi. Iniettati di sangue, senza un battito di ciglio. Chi era? E perché mi versava dell'acqua sui piedi? Che motivo aveva di farlo? Non ci capivo nulla. Non mi veniva in mente nessuna spiegazione. La volta in cui la mia amica era stata colta da paralisi, si era fermata a dormire dal suo fidanzato. Era profondamente addormentata, quando le era apparso un uomo sulla cinquantina, dall'aria adirata, che le aveva detto: - Vattene subito via da questa casa! - Lei però non era riuscita a muoversi, si era solo sentita inondare di sudore. Doveva essere il fantasma del padre del suo fidanzato, pensò, non c'era dubbio. Che le ordinava di andarsene. Ma quando il giorno seguente lui le mostrò la fotografia del padre morto, non assomigliava per niente all'uomo che le era apparso durante la notte. «Probabilmente ero molto tesa, - ne concluse, - per questo sono rimasta paralizzata». Io però non ero affatto tesa. Inoltre ero in casa mia, dove non c'era nulla che mi minacciasse. Perché diavolo avevo sperimentato quella sorta di paralisi? Scossi la testa. Meglio smetterla di pormi domande, a cosa serviva? Avevo semplicemente fatto un sogno molto realistico. Senza rendermene conto dovevo aver accumulato fatica. Tutta colpa del tennis. Due giorni prima, al centro sportivo, uscendo dalla piscina avevo incontrato un'amica che mi aveva invitato a fare una partita con lei. Forse avevo giocato troppo, per un po' braccia e gambe mi erano rimaste molli. Dopo aver mangiato le fragole, mi sdraiai sul divano e provai a chiudere gli occhi. Sonno, zero. «È pazzesco», pensai. Meglio leggere qualcosa finché non mi veniva voglia di dormire. Andai in camera da letto e scelsi un libro. Per cercarlo accesi la luce, ma mio marito non si mosse. Presi Anna Karenina, avevo voglia di leggere un lungo romanzo russo. In realtà l'avevo già letto tanto tempo prima, forse ai tempi del liceo, ma non ne ricordavo quasi la trama, solo le prime righe e la fine, quando l'eroina si uccide gettandosi sotto il treno. «Le famiglie felici si somigliano tutte, ogni famiglia infelice lo è invece a modo suo», diceva l'inizio, se ricordavo bene. Fin da quelle prime righe l'atmosfera suggeriva il suicidio finale dell'eroina. Poi c'era la scena al galoppatoio? Oppure era in un altro romanzo? Tornai sul divano e aprii il libro. Erano anni che non mi sedevo così, tranquilla, a leggere. D'accordo, il pomeriggio passavo una trentina di minuti o anche un'ora del mio tempo libero con qualche libro in mano. Ma non si poteva veramente dire che mi dedicassi alla lettura. Leggevo, ma immediatamente la mia mente si distraeva. Pensavo a mio figlio, a quello che dovevo comprare, o al frigorifero che non funzionava bene, a cosa potevo mettermi per il matrimonio di un parente, o a mio padre che un mese prima era stato operato di stomaco... tutti pensieri che uno dopo l'altro mi si presentavano alla mente, si gonfiavano e partivano in diverse direzioni. A un certo punto mi accorgevo che il tempo era passato, ed io ferma sempre alla stessa pagina. Così finii con l'abituarmi a una vita praticamente priva di letture. A pensarci bene, era una cosa sorprendente. Fin da bambina, leggere era stata la cosa più importante della mia vita. Già alle elementari avevo letto tutti i libri della biblioteca scolastica, e spendevo in libri quasi tutta la mia paghetta. Per comprarmi quelli che desideravo risparmiavo sui soldi della mensa. Alle medie, al liceo, ero l'unica a leggere tanto. Ero la terza di cinque figli e i miei genitori, lavorando entrambi, dovevano occuparsi di troppe cose, nessuno in famiglia badava a quello che facevo, potevo leggere quanto mi pareva. Partecipavo sistematicamente a ogni concorso che avesse qualcosa a che fare con i libri. Era il premio a farmi gola, un buono da spendere in libreria, e di solito lo vincevo. All'università mi ero iscritta alla facoltà di letteratura inglese, ed ero molto brava. Mi ero laureata a pieni voti con una tesi su Katherine Mansfield. Il mio professore mi aveva suggerito di iscrivermi al corso di dottorato. Io però a quel punto volevo entrare nella
società, sapevo benissimo di non essere il tipo della studiosa. Semplicemente mi piaceva leggere. E poi anche se avessi desiderato continuare gli studi, la mia famiglia non aveva certo i mezzi economici per permettermelo. Non è che fossimo poveri, ma dopo di me c'erano altre due sorelle. Per questo una volta laureata avrei dovuto uscire di casa e rendermi indipendente. Avrei dovuto guadagnarmi da vivere con le mie mani, alla lettera. Quand'era stata l'ultima volta che avevo davvero letto un libro? E di che libro si trattava? Provai a pensarci, ma era fatica sprecata, non mi ricordavo il titolo. Mi chiesi perché la vita di una persona dovesse subire un cambiamento tanto radicale. Dov'era finita quella ragazza che leggeva come un'invasata? Quel tempo, e quella passione tanto forte da potersi quasi considerare anormale, cos'erano ormai per me? Eppure quella notte riuscii a concentrarmi su Anna Karenina. Voltavo le pagine assorta nella lettura, senza pensare a nulla. Dopo essere arrivata d'un fiato al punto in cui Anna Karenina e Vronsky si incontrano alla stazione di Mosca, misi un segno alla pagina e andai di nuovo a prendere la bottiglia del cognac. Me ne versai un bicchiere e lo bevvi. Quel romanzo, contrariamente alla prima volta che l'avevo letto, mi sembrava ben strano. L'eroina compariva solo alla pagina 116. Che per i lettori dell'epoca fosse una cosa normale? Ci riflettei su un momento. Durante tutta l'interminabile descrizione della vita di un personaggio minore come Oblonsky, tutti aspettavano pazientemente che la bella eroina facesse il suo ingresso? Probabilmente sì. A quell'epoca la gente aveva tempo da perdere. Perlomeno quelli che potevano permettersi il lusso di leggere libri. A quel punto mi accorsi che l'orologio segnava le tre. Come le tre? Non avevo il minimo sonno! Cosa potevo fare? Ero più sveglia che mai, avrei potuto continuare a leggere indefinitamente. Mi sarebbe piaciuto farlo. Però dovevo dormire. Tutt'a un tratto mi ricordai di quando soffrivo d'insonnia, quando passavo le mie giornate come in trance, persa tra le nuvole. No, grazie. All'epoca ero ancora una studentessa, bene o male me l'ero cavata. Ora era diverso. Ero una moglie, una madre. Avevo delle responsabilità. Dovevo preparare il pranzo a mio marito, occuparmi di mio figlio. Tornare a letto era escluso, probabilmente non sarei riuscita a chiudere occhio. Anzi ne ero sicura. Scossi la testa. Non ci potevo far nulla, non avevo sonno e in più volevo continuare a leggere. Feci un sospiro, e guardai il libro sul tavolino. In conclusione, lessi Anna Karenina fino all'alba. Anna e Vronsky si scambiarono sguardi al ballo, poi vennero travolti dal loro amore fatale. Anna sconvolta vide cadere il cavallo di Vronsky al galoppatoio (la scena al galoppatoio c'era davvero) e confessò al marito il suo tradimento. Io ero con Vronsky sul suo cavallo, saltavo gli ostacoli, sentivo le grida d'incitamento del pubblico. Poi dalle tribune guardavo la caduta. Quando la finestra cominciò a schiarire, posai il libro, andai in cucina e mi feci un caffè. La testa ancora piena delle scene del romanzo, in preda a un improvviso e impellente appetito, non riuscivo a pensare a nulla. La mia mente, bloccata, non era in sintonia col mio corpo. Tagliai due fette di pane, ci spalmai del burro e della mostarda e mi preparai un sandwich al formaggio. Lo mangiai in piedi davanti al lavandino. Era raro per me provare una tale fame, così violenta da rendermi faticoso il respiro. Un sandwich non bastò a calmarla, così me ne preparai un altro e mangiai anche quello. Poi bevvi un altro caffè. Non dissi nulla a mio marito di quella paralisi notturna, né del fatto che ero rimasta sveglia fino al mattino. Non è che volessi tenerglielo nascosto, ma non mi sembrava necessario raccontarglielo. Non avrebbe cambiato nulla, e in fin dei conti non riuscire a dormire per una notte non era un dramma. Succede a chiunque, ogni tanto. Come ogni giorno, versai il caffè a mio marito, feci bere a mio figlio il suo latte caldo. Mio marito mangiò una fetta di pane tostato, mio figlio dei cornflakes. L'uno sfogliò rapidamente il giornale, l'altro
cantò a voce bassa una filastrocca che aveva appena imparato a memoria. Poi salirono entrambi in macchina e se ne andarono. Dopo il solito dialogo, naturalmente, «fai attenzione», «non ti preoccupare». E il solito saluto con la mano. Usciti loro, andai a sedermi sul divano. Cosa mi conveniva fare? Cosa dovevo fare? Cosa era indispensabile fare? Andai in cucina, aprii il frigorifero e ne controllai il contenuto. La spesa me la potevo risparmiare, non sarebbe stato un problema. Pane ce n'era, latte anche. E poi delle uova, della verdura. La carne era nel congelatore. Fino al pranzo dell'indomani c'era cibo a sufficienza. Avrei dovuto passare in banca, ma non era necessario che lo facessi subito. Potevo benissimo rimandare al giorno seguente. Mi sedetti sul divano e ripresi Anna Karenina. Avanzando nella lettura mi resi conto che avevo quasi completamente scordato la trama. Personaggi, scene, non ricordavo quasi nulla. Era come leggere un libro nuovo. Strano, pensai. Quando l'avevo letto la prima volta mi aveva sicuramente emozionato, eppure nella mia testa non ne restava traccia. Non serbavo ricordo alcuno di quel fremito, di quell'onda emotiva, quand'è che si era placata, ch'era svanita? E tutto il tempo incredibile che all'epoca avevo passato a leggere, che significato aveva? Chiusi il libro, e per un po' mi concentrai su quel problema. Però non riuscivo a darmi una risposta, e a poco a poco finii col non capire neanche su che cosa stessi riflettendo. Tutt'a un tratto mi accorsi che stavo osservando svagatamente la strada fuori dalla finestra. Scossi la testa, e ripresi a leggere. Poco dopo la metà del primo volume, tra le pagine, attaccati alla carta, c'erano dei resti di cioccolata, secca e sbriciolata. Di sicuro la stavo mangiando mentre avevo letto quel passaggio. Quando ero al liceo mi piaceva sgranocchiare qualcosa, leggendo. A dir la verità, da quando mi sono sposata anche la cioccolata non l'ho più toccata. In casa non tengo cose dolci, a mio marito non piacciono, e a mio figlio non ne do quasi. Guardando quelle briciole vecchie di dieci anni, ormai bianche, mi venne una voglia irrefrenabile di cioccolata. Volevo gustarmela leggendo Anna Karenina, come una volta. Sentivo che ogni singola cellula del mio corpo anelava disperatamente a un pezzo di cioccolata. Infilai un golf e scesi con l'ascensore al pianterreno. Poi andai alla pasticceria del quartiere e comprai due tavolette di cioccolata al latte che dovevano essere dolcissime. Appena uscita dal negozio ne scartai una e camminando cominciai a mangiarla. Il suo gusto particolare mi si diffuse in bocca. Sentii quella dolcezza pura pervadermi il corpo da capo a piedi. Nell'ascensore ne morsi un altro pezzo. Il suo profumo riempì la cabina. Mi sedetti sul divano, e ripresi a leggere Anna Karenina gustandomi la mia cioccolata. Non avevo affatto sonno. Non mi sentivo neanche stanca. Avrei potuto continuare a leggere all'infinito. Finita la prima tavoletta, scartai la seconda e ne mangiai la metà. Quando fui ai due terzi del primo volume, guardai l'orologio. Erano le undici e quaranta. Le undici e quaranta! Mio marito sarebbe arrivato tra poco. Chiusi in fretta il libro, e andai in cucina. Riempii una pentola d'acqua, accesi il fuoco, poi affettai dei cipollotti e preparai tutto per cucinare un po' di soba4. In attesa che l'acqua bollisse, misi a bagno delle alghe, e preparai il brodo. Tirai fuori dal frigorifero del tófu da servire freddo, tagliato a cubetti. Quindi andai in bagno e mi lavai i denti per eliminare l'odore della cioccolata. Mio marito arrivò quando l'acqua stava cominciando a bollire. Disse che aveva finito prima del previsto. Mangiammo il nostro soba. Nel frattempo lui mi parlò di una nuova attrezzatura che stava 4 Soba: tagliatelle di grano saraceno, che si mangiano generalmente in brodo
considerando di comprare. Un apparecchio che avrebbe permesso di togliere la placca dai denti molto meglio di tutti quelli in uso. E in molto meno tempo. Il prezzo come al solito era piuttosto elevato, disse, ma l'avrebbe ammortizzato presto. Di recente erano molti i pazienti che venivano solo per farsi pulire i denti. Tu cosa ne pensi? - mi chiese. Io non avevo nessuna voglia di pensare alla placca dei denti. Non volevo parlare di certi argomenti a tavola, né ci volevo riflettere seriamente. La mia mente era ancora al concorso ippico a ostacoli, altro che placca! Ma dovevo rispondere qualcosa, mio marito mi aveva fatto una domanda molto seria. Chiesi quanto costasse quell'apparecchio, e feci finta di soppesare la spesa. Se ne aveva bisogno, che lo comprasse, dissi poi. I soldi li avremmo fatti bastare. Mica gli serviva per divertirsi. - Già, - rispose mio marito ripetendo quello che avevo detto io. - Non lo compro per divertirmi -. Poi continuò a mangiare il suo soba in silenzio. Fuori dalla finestra, un grosso uccello cinguettava, fermo sul ramo di un albero. Lo guardavo senza veramente vederlo. Non avevo sonno, per niente. Com'era possibile? Mentre lavavo i piatti, mio marito si sedette sul divano a leggere il giornale. Non fece caso ad Anna Karenina, posato accanto a lui. Che io leggessi o meno, gli era indifferente. - Oggi c'è una bella notizia, - mi disse quando ebbi rigovernato. - Prova a indovinare. - Non ne ho idea, - risposi. - Il primo paziente del pomeriggio ha annullato l'appuntamento. Sono libero fino all'una e mezza -. Così dicendo sorrise. Ci pensai un po' su, ma non riuscivo a capire in cosa consistesse la bella notizia. Cosa significava? Mi resi conto che mi stava proponendo di fare l'amore solo quando lui si alzò e mi tirò verso il letto. Io però non ne avevo nessuna voglia. Non capivo che bisogno ci fosse di fare una cosa del genere. Volevo tornare subito al mio libro. Stendermi da sola sul divano e voltare le pagine di Anna Karenina mangiando cioccolata. Lavando i piatti avevo continuato a pensare a Vronsky. Mi chiedevo come faceva Tolstoj a manovrare tanto bene i suoi personaggi. Li descriveva in maniera meravigliosamente precisa. Ma proprio per questo erano privati di salvezza. E quella salvezza... Chiusi gli occhi e mi schiacciai un poco le tempie con le dita. Dissi che mi doleva la testa, fin dal mattino. Mi dispiaceva. Ma avevo davvero molto male. Dato che ogni tanto soffrivo di forti emicranie, mio marito non ne fu sorpreso. - Non ti affaticare, - disse, - stenditi un poco e riposa. - Non è poi tanto terribile, - risposi. Fino all'una passata lui rimase seduto sul divano, a leggere il giornale ascoltando la musica. Poi mi parlò di nuovo di quella nuova attrezzatura. Uno aveva un bel comprare gli apparecchi più nuovi e più cari, nel giro di due o tre anni erano obsoleti e bisognava sostituirli con altri più recenti, a guadagnarci erano solo i produttori di strumenti odontoiatrici, e via di seguito. Io ogni tanto facevo un breve commento, ma non ascoltavo quasi. Quando mio marito tornò al suo lavoro, ripiegai il giornale e sprimacciai i cuscini del divano. Poi mi appoggiai allo stipite della finestra e osservai la stanza. Come mai non avevo sonno? In altri tempi avevo passato la notte in bianco un sacco di volte, ma non ero mai rimasta sveglia per tutto quel tempo. Normalmente avrei dovuto addormentarmi già da un pezzo, o in ogni caso avere un sonno tremendo. Invece niente, la mia mente era vigile e lucida. Andai in cucina e bevvi un caffè. Poi mi misi a riflettere sul da farsi. Ovviamente volevo continuare a leggere Anna Karenina. Però volevo anche andare in piscina come al solito. Dopo lunghe esitazioni, optai per la piscina. È difficile da spiegare, ma provavo il bisogno di fare dell'esercizio fisico e scacciare qualcosa dal mio corpo. Ma che cosa? Ci pensai un po' su. Di cosa mi dovevo liberare? Non lo sapevo. Eppure quel qualcosa era dentro di me come una sorta di potenziale. Volevo dargli un nome, ma la
parola giusta non mi veniva in mente. Non sono brava a trovare le parole. Probabilmente Tolstoj ne avrebbe trovata una perfetta. Ad ogni modo misi come sempre il costume da bagno nella borsa, presi la macchina e mi recai al centro sportivo. In piscina non c'era nessuno che conoscessi, solo un giovanotto e una donna di mezza età che stavano nuotando. Il bagnino controllava la superficie dell'acqua con aria annoiata. Mi cambiai, misi gli occhialini, e nuotai per una mezz'ora come sempre. Ma non mi bastava. Continuai per altri quindici minuti. Alla fine ce la misi tutta e feci due vasche a stile libero. Ero senza fiato, ma sentivo che mi restava ancora molta forza in corpo. Quando uscii dall'acqua notai che la gente intorno mi guardava stupita. Poiché non erano ancora le tre, passai in banca e sbrigai quel che avevo da fare. Pensai anche di andare al supermercato a comprare qualcosa, ma rinunciai e tornai a casa. Ripresi a leggere Anna Karenina. Mangiai parte di quel che restava della cioccolata. Quando mio figlio tornò da scuola, alle quattro, gli diedi del succo di frutta e della gelatina di frutta che avevo fatto io. Poi cominciai a preparare la cena. Prima di tutto tirai fuori la carne da scongelare e tagliai la verdura da fare in padella. Quindi preparai del brodo di miso5 e feci bollire il riso. Lavoravo molto rapidamente, in maniera meccanica. Finito il tutto ripresi la mia lettura. Nessuna sonnolenza Verso le dieci andai a dormire insieme a mio marito. Io feci solo finta. Lui invece si addormentò subito, appena spense la lampada sul comodino quasi immediatamente cadde in un sonno profondo, come se l'interruttore fosse direttamente collegato alla sua coscienza. Che cosa meravigliosa, pensai. Sono rare le persone così, probabilmente sono molto più numerosi gli infelici che soffrono d'insonnia. Mio padre era uno di loro, si lamentava sempre perché non solo aveva difficoltà a prendere sonno, ma bastava il minimo rumore a destarlo. Mio marito è molto diverso. Una volta che si è addormentato, potrebbe cascare il mondo, lui non si sveglia fino al mattino. Poco dopo averlo sposato, cominciai a trovare la cosa strana e provai in tanti modi a fargli aprire gli occhi. Gli spruzzai dell'acqua sul viso con uno stantuffo e gli strofinai il naso con una spazzola. Niente da fare. Se insistevo, alla fine bofonchiava qualcosa con voce irritata, tutto lì. Non sogna neanche, o perlomeno non si ricorda se ha sognato o no. Né ha mai avuto degli accessi di paralisi. Semplicemente dorme, come una tartaruga sepolta nel fango. Che cosa meravigliosa. Dopo essere rimasta coricata per una decina di minuti, sgusciai fuori in silenzio dal letto. Poi andai in salotto, accesi la lampada e mi versai da bere. Sedetti sul divano e ripresi a leggere, sorseggiando adagio il mio cognac. Quando ne avevo voglia mangiavo dei biscotti o un po' della cioccolata che avevo nascosto nella credenza. E così si fece giorno. Giunta l'alba, chiusi il libro e mi feci un caffè. Poi mi preparai un sandwich. Ogni giorno si ripeteva la stessa storia. Finivo in fretta i lavori di casa, e per tutto il mattino leggevo. Prima di mezzogiorno posavo il libro e preparavo il pranzo per mio marito. Quando lui tornava in studio, prima dell'una, prendevo la macchina e andavo in piscina. Da quando non dormivo più, ogni giorno riuscivo a nuotare un'ora di fila. Mezz'ora di movimento non mi bastava. Mentre nuotavo ero totalmente concentrata in quello che facevo, non pensavo a null'altro. Mi preoccupavo soltanto di fare i movimenti giusti, di inspirare ed espirare regolarmente. Quando incontravo qualcuno che conoscevo non conversavo quasi più, scambiavo solo un breve saluto. Se mi invitavano a fare qualcosa, mi scusavo col pretesto che avevo un impegno. Non avevo voglia di incontrare 5 Miso: impasto di fagioli di soia bolliti
nessuno. Non avevo tempo da perdere in stupide chiacchiere. Dopo aver nuotato fino al limite delle mie forze, desideravo solo tornare a casa e mettermi a leggere senza perdere un secondo. Fare la spesa, cucinare, fare pulizia, giocare con mio figlio... tutte queste cose erano diventate soltanto un dovere. Anche avere rapporti sessuali con mio marito. Una volta che ci si abitua, non è affatto difficile, al contrario. Basta staccare il contatto tra la testa e il corpo. Il mio corpo si muoveva per conto suo, mentre la mia mente vagava in un'altra dimensione. E con il pensiero da un'altra parte sbrigavo le faccende di casa, davo la merenda a mio figlio, conversavo con mio marito. Da quando non riuscivo più dormire, mi rendevo conto di quanto fosse banale la realtà. Di quanto fosse facile manovrarla. Era soltanto la realtà. Erano soltanto le pulizie di casa, soltanto una famiglia. Era come manovrare un semplice macchinario, una volta che si impara come farlo funzionare, poi basta solo ripetere gli stessi gesti. Schiacciare questo bottone, tirare quella leva. Regolare i gradi, chiudere il coperchio, predisporre il timer. Semplice routine. Ovviamente ogni tanto c'era qualche cambiamento. Veniva mia suocera e cenava con noi. La domenica andavamo tutti insieme allo zoo. Mio figlio ebbe una terribile diarrea. Tuttavia nessuno di quegli avvenimenti riusciva a scuotermi. Come un vento silenzioso mi passavano intorno e se ne andavano. Parlavo del più e del meno con mia suocera, preparavo la cena per quattro, scattavo una fotografia davanti alla gabbia dell'orso, tenevo al caldo la pancia di mio figlio, gli facevo prendere la medicina. Nessuno si accorse del mio cambiamento. Vivevo senza dormire, leggevo uno dopo l'altro libri su libri, la mia mente si trovava a centinaia d'anni e migliaia di chilometri dalla realtà, ma nessuno vi faceva caso. Mi occupavo degli avvenimenti reali come di un dovere, senza metterci il minimo affetto o la minima emozione, eppure mio marito, mio figlio e mia suocera avevano nei miei confronti lo stesso comportamento. Anzi, sembravano ancora più a loro agio di prima in mia presenza. Passò in quel modo una settimana. Quando entrai nella seconda settimana di insonnia costante, cominciai a preoccuparmi. Non era normale, dovevo ammetterlo. La gente deve dormire, non esistono persone che possano farne a meno. Una volta avevo letto da qualche parte di una tortura che consisteva nel non far dormire una persona. La praticavano i nazisti. Chiudevano uno in uno stanzino, poi per impedirgli di dormire gli tenevano aperti gli occhi, lo illuminavano costantemente, lo assordavano con rumori fortissimi. In questo modo il poveraccio impazziva, e alla fine moriva. Non mi ricordavo quanto tempo ci volesse perché si manifestassero i primi segni di pazzia. Due o tre giorni, probabilmente. Io invece non dormivo da una settimana. Era comunque troppo. Eppure fisicamente non mi ero affatto indebolita. Anzi, ero più in forma che mai. Un giorno, dopo aver fatto la doccia, mi misi nuda davanti allo specchio. Mi stupii di scoprire che il mio corpo sembrava scoppiare di vitalità. Mi controllai tutta dalla testa ai piedi, ma non trovai un'oncia di grasso, non una sola ruga. Cambiata, evidentemente, rispetto a quand'ero ragazza, eppure la mia pelle era molto più luminosa e tesa di un tempo. Mi pizzicai con le dita la pancia per controllare. Era dura come il marmo, meravigliosamente soda. Poi mi accorsi che ero diventata più bella di quanto pensassi. Sembravo incredibilmente giovane, potevo passare per una ventiquattrenne. La mia pelle era morbida, gli occhi splendevano. Le labbra poi erano piene, l'incavo delle guance sotto gli zigomi (la parte di me che detestavo di più) non si vedeva quasi più. Mi accovacciai davanti allo specchio, e per mezz'ora rimasi a contemplare la mia faccia. Provai a guardarmi da vari angoli, oggettivamente. Non mi ero sbagliata, ero davvero diventata più bella. Che cosa mi succedeva, insomma? Considerai la possibilità di consultare un dottore. Magari il medico di famiglia che mi seguiva da quando ero piccola. Ma che atteggiamento avrebbe preso ascoltando il mio racconto? Più ci pensavo più mi
sentivo in ansia. Avrebbe veramente creduto a quello che gli dicevo? Se gli spiegavo che non dormivo da una settimana, prima di tutto avrebbe dubitato delle mie facoltà mentali. Oppure, semplicemente, mi diagnosticava un'insonnia nevrotica. O magari mi avrebbe creduto, mandandomi poi in un grande ospedale per farmi fare delle analisi. E poi cosa sarebbe successo? Mi avrebbero chiusa lì dentro, portata da un reparto all'altro, sperimentato su di me varie terapie. Mi avrebbero fatto un encefalogramma e un elettrocardiogramma, l'analisi delle orine e del sangue, test psicologici e chissà cos'altro. Non l'avrei sopportato. Io volevo leggere tranquilla i miei libri. Nuotare un'ora esatta ogni giorno. E soprattutto essere libera. Era tutto quello che desideravo. Perché dovevo farmi ricoverare? E in ogni caso, che cosa avrebbero capito quelli lì? Mi avrebbero soltanto fatto un sacco di analisi, per poi imbastire un sacco di teorie. Non volevo essere rinchiusa in un posto del genere. Un pomeriggio, andai in biblioteca, e lessi un libro sul sonno. Ce n'erano pochi, e poco interessanti. Tutti dicevano una sola e unica cosa, il sonno è riposo. È come spegnere il motore di una macchina. Se si fa funzionare un motore senza sosta, prima o poi si rompe. Un motore in funzione produce necessariamente calore, e il calore accumulato logora il motore stesso. Se lo si fa riposare è dunque per dare sfogo al calore. Per farlo raffreddare. Dormire equivale dunque a spegnere il motore. Nel caso degli esseri umani, è un riposo fisico e al tempo stesso mentale. La gente fa riposare i muscoli sdraiandosi, e chiudendo gli occhi stacca mentalmente. Ciononostante i pensieri in eccesso si scaricano sotto forma di sogni In un libro c'era qualcosa di interessante. L'autore diceva che gli esseri umani, sia nei loro pensieri che nei loro movimenti fisici, non possono sfuggire ai propri meccanismi fissi individuali. Senza rendersene conto costruiscono a poco a poco delle routine fisiche e mentali, e queste, una volta costruite, restano, non spariscono se non in circostanze eccezionali. Insomma la gente vive rinchiusa in certi schemi. Ed è proprio il sonno che neutralizza in una persona il deterioramento via via prodotto dai suoi meccanismi, concludeva l'autore - proprio come si consuma un lato solo del tacco delle scarpe. Il sonno cioè regola e cura il deterioramento. La gente immersa nel sonno riposa i muscoli che sono stati usati in un solo modo, calma i circuiti mentali che hanno funzionato in una sola direzione e li scarica. In questo modo si «raffredda». Gli esseri umani sono stati programmati per funzionare in tal modo, è il loro destino, nessuno può sfuggirvi. Se qualcuno lo facesse, perderebbe il fondamento stesso della propria esistenza. «Dei meccanismi?» mi chiesi. Tutto quello che mi faceva venire in mente quella parola erano le faccende di casa. Quei lavori che svolgevo per l'appunto macchinalmente, senza emozione, uno dopo l'altro. Cucinare, andare a fare la spesa, fare il bucato, allevare mio figlio, tutte quelle occupazioni non erano altro che meccanismi. Avrei potuto svolgerle ad occhi chiusi. Si spingevano dei bottoni, si tiravano delle leve. In questo modo la realtà scorreva in avanti veloce. Movimenti sempre uguali - semplice routine. Nella quale mi consumavo, proprio come si consuma il tacco delle scarpe, e per compensare questo logoramento ogni giorno avevo bisogno di dormire. Ma era proprio così? Rilessi quel passaggio con attenzione. Poi annuii. sì, probabilmente era così. Cos'era allora la mia vita? Venire consumata dai miei meccanismi, e dormire per sanare il danno. Era dunque tutto lì, un ripetersi di questo schema? Ma non portava a nulla! Seduta al tavolo della biblioteca, scossi la testa. Io non avevo affatto bisogno di sonno, mi dissi. Poco mi importava se diventavo pazza, se per il fatto di non dormire perdevo il fondamento della mia esistenza. Tanto per cominciare non volevo essere consumata dai miei meccanismi. Inoltre se il sonno doveva visitarmi regolarmente per compensare un logoramento, ne facevo volentieri a meno. Non ne avevo bisogno. Se fisicamente non potevo evitare di deteriorarmi, il mio spirito era soltanto mio. L'avrei tenuto per me. Non l'avrei dato a nessuno. Non
desideravo nessuna cura. Non avrei dormito. Presa quella decisione, uscii dalla biblioteca. Fu così che il fatto di non dormire smise di spaventarmi. Non c'era nulla di cui avere paura. Avrei potuto pensarci prima, tutto sommato la mia vita si ampliava! Dalle dieci di sera alle sei del mattino, le ore erano tutte mie. Fino ad allora avevo passato un terzo delle mie giornate a dormire - una terapia per «raffreddarmi» dicevano loro. Adesso quel tempo mi apparteneva. Non era di nessun altro. Solo mio. Potevo usarlo come mi pareva. Nessuno mi veniva a disturbare, nessuno mi domandava niente. sì, la mia vita si era proprio ampliata. Ampliata di un terzo. Si poteva obiettare che dal punto di vista biologico non era normale. Forse era così. Forse in futuro avrei dovuto pagare il prezzo di quell'anomalia, di quel debito. La parte di vita che si era ampliata - insomma quella che prendevo in anticipo - forse in seguito avrei dovuto restituirla. Era un'ipotesi del tutto gratuita, ma non c'era neanche motivo di negarla, e a me sembrava logica. In conclusione il tempo dato e avuto si sarebbero compensati. Onestamente però, devo dire che me ne infischiavo. Se per qualche ragione dovevo morire innanzi tempo, non aveva alcuna importanza. Le ipotesi prima o poi avrebbero trovato smentita o conferma. Adesso stavo ampliando la mia vita. Era una cosa meravigliosa. L'effetto era ben reale, era la sensazione con- 254 creta di vivere nel presente. Perlomeno non mi consumavo. Non mi consumavo ed ero reale, attuale. Una vita in cui manchi questa sensazione, può essere lunga quanto si vuole, non presenta alcun interesse. Ne ero del tutto convinta. Dopo aver controllato che mio marito dormisse, andavo a sedermi sul divano, mi versavo un cognac, e aprivo il mio libro. La prima settimana lessi tre volte di fila Anna Karenina. Ogni volta ci trovavo delle cose nuove. Quel romanzo interminabile era pieno di rivelazioni e di misteri. Come il gioco delle scatole di carta, il mondo ne conteneva un altro più piccolo, che ne conteneva uno ancora più piccolo, e così via. E tutti quei mondi insieme formavano un universo. Quell'universo era sempre presente, e aspettava che il lettore lo scoprisse. Quand'ero ragazza ne avevo capito soltanto il primo involucro, ma adesso lo comprendevo in profondità. Cosa aveva voluto dire Tolstoj in quel punto, cosa aveva voluto trasmettere al lettore, in che modo il suo messaggio si era organicamente cristallizzato in un romanzo, e infine cosa in quell'opera aveva superato l'autore stesso. Riuscivo a vedere attraverso tutto ciò. Concentrarmi non mi stancava. Dopo aver letto e riletto Anna Karenina, attaccai Dostoevskij. La mia capacità di lettura non aveva limiti. Non ricordo che lo sforzo mentale mi abbia mai affaticato. Riuscivo a capire senza difficoltà anche i passaggi più complessi. E provavo forti emozioni. Quella era la mia vera vita, mi dicevo. Avendo smesso di dormire, ero cresciuta. Sapevo che la cosa più importante era la capacità di concentrazione. Le persone incapaci di concentrarsi tengono gli occhi aperti, ma non vedono nulla. Ben presto il cognac finì. Ne avevo bevuta una bottiglia quasi intera. Andai ai grandi magazzini e ne comprai un'altra della stessa marca. Insieme a una bottiglia di vino rosso. E mentre che c'ero, dei bellissimi bicchieri da cognac di cristallo, e dei biscotti al cioccolato. Ogni tanto, mentre leggevo, provavo una forte eccitazione. In quei momenti posavo il libro e mi aggiravo per la stanza. Facevo un po' di ginnastica o semplicemente camminavo su e giù. Se ne avevo voglia facevo anche un giro fuori, in piena notte. Mi cambiavo, tiravo fuori dal garage la City, e percorrevo a caso le strade del quartiere. Occasionalmente entrai anche in qualche caffetteria aperta 24 ore su 24 per bere un caffè, ma siccome non avevo voglia di vedere gente, di solito me ne restavo in macchina. A volte sostavo in un posto che mi sembrava sicuro e pensavo tranquillamente ai fatti miei. Mi capitava anche di andare al porto a osservare per un po' le navi. Una volta soltanto si è avvicinato un poliziotto per farmi qualche domanda. Erano le due e mezza di notte, io avevo fermato la macchina sotto un lampione vicino al molo e ascoltavo la musica alla radio.
Intanto guardavo i movimenti delle imbarcazioni. Il poliziotto bussò al finestrino. Tirai giù il vetro. Era un uomo giovane. Un bel ragazzo, che mi parlò in maniera educata. Gli spiegai che non riuscivo a dormire. Lui mi chiese di mostrargli la patente, e io gliela diedi. La osservò per qualche istante. Poi disse che il mese precedente in quel luogo c'era stato un omicidio. Tre giovani avevano aggredito una coppia di innamorati, avevano ucciso l'uomo e violentato la donna. Ne avevo sentito parlare anch'io, risposi annuendo. «Quindi, signora, - proseguì lui, - se non ha nulla da fare qui, è meglio che non si attardi di notte da queste parti. A quest'ora». Lo ringraziai e gli dissi che me ne andavo. Lui mi restituì la patente. Io misi in moto. Fu l'unica volta in cui qualcuno mi rivolse la parola. Solevo girare una o due ore per le strade senza che nessuno mi disturbasse. Poi rimettevo la macchina nel garage del palazzo. Di fianco alla Bluebird bianca di mio marito, il quale dormiva tranquillo nell'oscurità. Tendevo l'orecchio al rumore del motore che andava raffreddandosi. Quando cessava, uscivo dalla macchina, e salivo al nostro appartamento. La prima cosa che facevo entrando in casa, era andare in camera da letto e verificare che mio marito dormisse. Non c'era pericolo che non fosse così. Poi andavo nella camera di mio figlio. Anche lui era profondamente addormentato. Né l'uno né l'altro sospettavano di nulla. Credevano che il mondo non avesse subito cambiamenti e continuasse a funzionare come al solito. Si sbagliavano. Il mondo a loro insaputa stava mutando rapidamente. Tanto da non poter più tornare indietro. Questa notte ho osservato a lungo il viso di mio marito addormentato. Avendo sentito un forte rumore in camera da letto, sono corsa e vedere e ho trovato la sveglia per terra. Forse lui aveva mosso un braccio nel sonno, e l'aveva fatta cadere. Eppure dormiva placidamente come se non fosse successo nulla. «Incredibile, - ho pensato, - qualunque cosa accada, questo qui non si sveglia! » Ho raccolto l'orologio e l'ho posato sul comodino. Poi ho incrociato le braccia e sono rimasta ferma a osservare la faccia di mio marito. Era da tanto che non lo guardavo dormire. Da quanti anni? Nei primi tempi del mio matrimonio lo facevo spesso. Era una cosa che mi dava sollievo e tranquillità. Mi dicevo che finché lui dormiva sereno in quel modo, io ero protetta. Così a quell'epoca, quando lui si addormentava, io spesso restavo a guardarlo. A un certo punto però ho smesso di farlo. Quando? Ho cercato di ricordarmene. Probabilmente quando ho bisticciato con sua madre a proposito del nome da dare a nostro figlio. Lei è devota di non so quale setta, e si era «fatta dare» un nome da quelli lì. Non ricordo quale fosse, ma ad ogni modo io non avevo nessuna intenzione di «farmi dare» un nome per il mio bambino. Per ciò io e mia suocera avevamo litigato violentemente. Mio marito però non era intervenuto, era rimasto a guardare senza fiatare. Da allora non mi sono più sentita protetta da lui. Proprio così, quella volta lui non mosse un dito per difendermi. Ero furibonda. Ovviamente è una vecchia storia, con mia suocera abbiamo fatto la pace. Il nome a mio figlio l'ho dato io. Anche con mio marito mi sono subito riconciliata. Eppure credo sia da allora che non l'ho più guardato dormire. Ora invece, in piedi davanti a lui, osservavo la sua faccia addormentata. Secondo il suo solito, dormiva come un sasso. Dal bordo della coperta spuntava un piede ad un angolo strano, come se appartenesse ad un'altra persona. Un grande piede rigido. La sua bocca era semiaperta, il labbro inferiore pendeva, e ogni tanto le sue narici avevano un fremito involontario. Sotto l'occhio c'era un grande neo, brutto e volgare. Anche il modo di chiudere gli occhi non si poteva certo dire bello, le palpebre molli sembravano dei coperchi di pelle sbiadita. Dormiva proprio come un cretino. Come se fosse in letargo. Che brutta faccia aveva! Era inguardabile, altroché! Una volta non doveva essere cosi, mi sono detta. Nei primi tempi del nostro matrimonio era molto più espressivo. Anche quando dormiva profondamente come adesso, di sicuro non aveva una faccia così scombinata. Ho cercato di farmi tornare in mente il suo viso di allora, addormentato. Ogni sforzo è stato vano, mi ricordavo soltanto che non poteva essere tanto orrendo. Oppure era solo una mia illusione. Magari è sempre stato lo stesso. Magari ero io che all'epoca lo vedevo diverso, per amore. Mia madre probabilmente
direbbe così. E il suo tipico modo di ragionare, il suo Leitmotiv, «tanto sai, l'idillio, dopo il matrimonio, non credere che duri più di due o tre anni. Per forza ora quando dorme ti fa tenerezza, sei innamorata». Mi pareva di sentirla. Io però so che non è così. Mio marito è imbruttito, non mi sbaglio. Il suo viso si è scomposto. Può darsi che stia invecchiando. Che stia invecchiando e sia stanco. Esausto. E senza dubbio diventerà ancora più brutto. E io dovrò sopportarlo. Ho sospirato. Un grosso sospiro, ma naturalmente mio marito non si è mosso. Non si sveglia certo per così poco. Sono uscita dalla camera da letto, e sono tornata in soggiorno. Ho bevuto dell'altro cognac, ho ripreso a leggere. Eppure non mi sentivo tranquilla. Ho posato il libro e sono andata in camera di mio figlio. Ho lasciato la porta aperta, e alla luce della lampada del corridoio l'ho guardato a lungo. Anche lui era profondamente addormentato, come al solito. Sono rimasta ad osservarlo per un po'. Che viso incredibilmente liscio! Del tutto diverso da quello di mio marito. Per forza, è un bambino. La pelle luminosa, senza nessuna traccia di volgarità... Eppure qualcosa mi ha dato sui nervi. Una sensazione che non ho mai provato prima nei confronti di mio figlio. Cosa poteva irritarmi in lui? Di nuovo ho incrociato le braccia, in piedi davanti al suo letto. Lo amo, è ovvio. Lo amo moltissimo. Ciononostante in quel momento qualcosa in lui innegabilmente mi infastidiva. Scossi la testa. Per un po' tenni gli occhi chiusi. Poi li ho riaperti e di nuovo l'ho guardato. E allora ho compreso che cosa mi irritava: il suo viso addormentato è identico a quello di suo padre. E a quello di mia suocera. Loro ce l'hanno nel sangue, la protervia, l'appagamento di sé... detesto quella sorta di arroganza nei familiari di mio marito. È vero che lui mi tratta bene, è affettuoso e premuroso con me. Non mi tradisce ed è un gran lavoratore. È serio e gentile con tutti. Tutte le mie amiche dicono che un altro bravo come lui non esiste. Non ho motivo di lamentarmi. Ma è proprio questo che qualche volta mi irrita, nella sua perfezione c'è qualcosa di rigido, che esclude la fantasia. E a me dà sui nervi. Ora nel viso di mio figlio addormentato affiorava la stessa espressione. Di nuovo ho scosso la testa. Tutto sommato anche lui mi è estraneo. Quando sarà cresciuto probabilmente non capirà i miei sentimenti, come ne è incapace adesso mio marito. Naturalmente gli voglio bene. Eppure ho il presentimento che in futuro non l'amerò allo stesso modo. Non è una riflessione degna di una madre, nessuna madre al mondo pensa delle cose del genere. Ma io so che un giorno lo disprezzerò. Questo mi sono detta guardando il suo viso addormentato. Quel pensiero mi ha rattristato. Ho chiuso la porta della sua stanza e spento la luce nel corridoio. Poi mi sono seduta sul divano del soggiorno e ho aperto il libro. Dopo aver letto alcune pagine, l'ho richiuso. Guardo l'ora. Quasi le tre. Quanti giorni sono che non riesco a dormire? Dal martedì di due settimane fa. Il che significa che fanno ormai diciassette giorni. Per diciassette giorni e diciassette notti non ho chiuso occhio. È un tempo lunghissimo. Non ricordo più tanto bene che cosa si provi, a dormire. Chiudo gli occhi e cerco di ritrovare la sensazione del sonno, ma dentro di me c'è solo un vigile buio. Un vigile buio... mi fa pensare alla morte. Sto forse morendo? Se muoio così, che senso ha la mia vita? Non lo so, naturalmente. Ma cos'è in fondo la morte? Fino a questo momento, ho sempre considerato il sonno come un abbozzo della morte. Supponevo
che la morte fosse un'estensione del sonno, un'assenza di coscienza molto più profonda del solito... un riposo che dura per sempre, un distacco definitivo. Questa era la mia convinzione. Invece può darsi che non sia così. Che la morte sia una condizione del tutto diversa dal sonno... come il buio senza fine, profondo e vigile che vedo ora. In queste tenebre, forse la morte rimarrà eternamente all'erta. È una cosa troppo orrenda. Se la morte non è una condizione di riposo, che cosa riscatterà la nostra vita imperfetta e rosa dal logoramento? In realtà chi lo sa, cosa sia la morte? Qualcuno l'ha vista in faccia? Nessuno. Soltanto i morti. Nessuna delle persone viventi può dire nulla in proposito. Si possono solo fare supposizioni. Che per quanto elaborate, resteranno sempre e solo supposizioni. Anche dire che la morte deve essere un riposo non ha alcun fondamento logico. Per esserne sicuri bisogna morire. La morte può essere qualunque cosa. A questo pensiero sono colta dal terrore. Una sensazione di gelo mi pervade fin nel midollo e mi paralizza. Di nuovo rimango ferma ad occhi chiusi. Non riesco più ad aprirli, guardo il buio spesso che si erge davanti a me, un buio profondo e disperato come l'universo stesso. Sono sola. La mia coscienza si sta concentrando e dilatando. Ho l'impressione che volendo potrei vedere l'universo tutto intero, fino in fondo. Però non lo faccio. E troppo presto E se fosse questa la morte? Cosa devo fare, se morire significa restare eternamente sveglia a guardare il buio? Alla fine riapro gli occhi, e bevo d'un fiato il cognac che resta nel bicchiere.
Mi tolgo la camicia da notte e metto dei jeans, una maglietta e una giacca a vento. Poi mi lego stretti i capelli in una coda di cavallo che faccio scomparire nella giacca a vento, e mi calco in testa il berretto da baseball di mio marito. Mi guardo allo specchio, sembro un ragazzo. Benissimo. Infilo delle scarpe da ginnastica e scendo in garage. Salgo sulla mia macchina, metto in moto e faccio andare il motore per qualche minuto. Ascolto con attenzione il rumore che fa. È quello solito. Poso entrambe le mani sul volante e respiro a fondo parecchie volte. Poi inserisco la prima ed esco dal palazzo. La guida mi sembra molto più leggera del solito, come se scivolassi sul ghiaccio. Facendo molta attenzione nel cambiare le marce, mi lascio alle spalle la città e prendo la superstrada per Yokohama. Benché siano le tre di notte passate, per strada c'è abbastanza traffico. Grossi camion per il trasporto su lunghe distanze procedono verso ovest facendo tremare l'asfalto. I camionisti sono svegli. Per incrementare il ritmo di trasporto dormono di giorno e lavorano di notte. Io potrei lavorare giorno e notte, mi dico, non ho bisogno di dormire. Probabilmente da un punto di visto biologico sono un'anomalia. Ma chi conosce veramente la natura? Hanno un bel dire che qualcosa è biologicamente naturale, in fin dei conti è soltanto una conclusione basata sull'esperienza. Io mi trovo al di là. Potrei venire considerata un essere trascendente che ha superato la specie umana. La donna che non dorme. Una dilatazione della coscienza. Finisco col sorridere. Un essere trascendente. Guido fino al porto ascoltando la radio. Vorrei sentire della musica classica, ma non trovo nessuna stazione che ne trasmetta a quest'ora di notte. Ovunque danno solo dello stupido rock giapponese. Canzoni sdolcinate da far venire il latte ai gomiti. Mi rassegno ad ascoltare quella roba. Mi dà la sensazione di essere finita in un luogo terribilmente lontano. Sono ad anni luce da Mozart o da Haydn. Fermo la macchina in uno degli spazi del grande parcheggio, e spengo il motore. Ho scelto il posto più in vista possibile, ben illuminato dai lampioni. Nel parcheggio c'è soltanto un'altra macchina, del tipo che piace ai giovani, un coupé bianco a
due porte. Un vecchio modello. Devono essere due innamorati. Probabilmente non hanno i soldi per andare in un albergo e stanno facendo l'amore in macchina. Per evitare seccature mi calco bene il berretto, in modo che non si capisca che sono una donna. Verifico che le portiere siano ben chiuse. Osservando con calma il paesaggio intorno, tutt'a un tratto mi torna in mente quando con il mio ragazzo, al primo anno di università, andavamo da qualche parte in macchina e ci fermavamo a pomiciare. Ogni volta lui a un certo punto non ce la faceva più e mi chiedeva di farglielo mettere dentro, ma io rifiutavo. Con le mani sul volante, ripenso a quei momenti ascoltando la musica. Però non riesco a ricordarmi bene che faccia avesse lui. Tutto ciò appartiene a un passato così lontano... I ricordi di quel che è accaduto prima che smettessi di dormire sembrano allontanarsi a velocità crescente. È una sensazione stranissima. Ogni giorno quando si fa notte ho l'impressione che la persona che dormiva non fossi veramente io, e che il ricordo di quel tempo non sia veramente mio. La gente cambia, mi dico. Ma nessuno sa del mio cambiamento. Nessuno vi fa caso. Ne sono al corrente soltanto io. Spiegarlo non servirebbe a nulla, la gente non capirebbe perché non vuole crederci. E anche se ci credesse, di sicuro non saprebbe mettersi nei miei panni. Tutti mi vedrebbero soltanto come una minaccia al loro mondo fatto di supposizioni Invece io sto realmente cambiando. Sempre con le mani sul volante, chiudo gli occhi e resto così per non so quanto tempo... contemplo l'oscurità vigile. Tutt'a un tratto torno in me, conscia della presenza di qualcuno. C'è gente. Apro gli occhi e mi guardo intorno. C'è qualcuno vicino alla macchina. Sta cercando di aprire la portiera. Per fortuna l'ho chiusa. Due ombre scure appaiono ai due lati della vettura. Alla portiera destra e a quella sinistra. Le facce non si vedono. Neanche i vestiti. Solo due ombre nere in piedi vicino a me. Presa in mezzo a quelle due ombre, la City sembra minuscola. Una piccola scatola di dolci. Sento che viene scossa da destra a sinistra. Un pugno sta picchiando sul vetro del finestrino accanto a me. È chiaro che non è la polizia, la polizia non picchia in quel modo. E non scuote la macchina. Trattengo il respiro. Cosa posso fare? Sono frastornata. Sento il sudore inondarmi le ascelle. Devo mettere in moto e andarmene, mi dico. La chiave, girare la chiave. Protendo una mano e giro la chiave verso destra. Sento il rumore della batteria. Ma il motore non parte. Le mie dita tremano. Chiudo gli occhi e provo di nuovo a mettere in moto. Niente da fare. Si sente solo un rumore stridente, come se qualcuno grattasse su un muro. Riprovo a girare. Riprovo a girare. Gli uomini - quelle ombre - continuano a scuotere la macchina. Sempre più forte. Forse hanno intenzione di farla ribaltare. C'è qualcosa di sbagliato, mi dico. Calmati e cerca di pensare, vedrai che funziona. Pensa. Calmati. Pensa con calma. Cosa c'è di sbagliato? Cosa c'è di sbagliato? Non riesco a capire. Ho la testa piena di fitte tenebre. Che non mi porteranno da nessuna parte. Le mani continuano a tremarmi. Tolgo la chiave, e provo a inserirla un'altra volta. Ma il tremito mi impedisce di trovare la fessura. Quando provo di nuovo, la chiave mi cade a terra. Mi chino e cerco di raccoglierla. Non ci riesco, la macchina viene scossa troppo forte. Chinandomi sono andata a sbattere violentemente con la faccia contro il volante. Rinuncio e mi appoggio alla spalliera. Mi nascondo il viso con le mani. Poi mi metto a piangere. Cos'altro posso fare? Le lacrime mi colano sulle guance in continuazione. Sono sola, chiusa in questa piccola scatola, e non posso andarmene. E l'ora più buia della notte, e quegli uomini continuano a scuotere la macchina. Stanno cercando di capovolgerla.
Gli uomini Tv
Fu una domenica sera che gli uomini Tv vennero a casa mia. Era in primavera. Sì, in primavera, credo. In ogni caso una stagione in cui non faceva né caldo né freddo. Comunque la stagione in questa storia non c'entra granché, quello che conta è che incominciò una domenica sera. A me non piace molto, la domenica sera. O diciamo piuttosto che non mi piacciono alcune circostanze che la riguardano - una certa atmosfera che inevitabilmente si crea, insomma. Tanto per cominciare, mi viene sempre mal di testa. più o meno forte, dipende dalle volte. Ad ogni modo mi fa male il cervello. Un centimetro o un centimetro e mezzo sotto le tempie, parti di tenera materia grigia pulsano insolitamente. Provo la sensazione che ne escano dei fili invisibili, fili che qualcuno che si trova a grande distanza tiene per l'estremità opposta e tira di nascosto. No, non crediate che sia molto doloroso. È piuttosto come se qualcuno mi infilasse dei lunghi aghi in organi anestetizzati. Inoltre sento un rumore. Anzi, più che un rumore, è come se uno spesso silenzio crepitasse attraverso l'oscurità. Qualcosa come un ccmshaaatm... ccrrshaaatrrr... zzzzzccrrzrmmmz. Il mal di testa è il primo sintomo. Sintomo in conseguenza del quale la mia visione del mondo comincia a distorcersi. Le premonizioni evocano i ricordi, e i ricordi evocano le premonizioni, come ondate che si confondono. Nel cielo appare una falce di luna bianca appena nata, sottile come un rasoio, e il dubbio affonda le sue radici nella terra scura. La gente cammina rumorosamente nel corridoio, apposta, per darmi sui nervi. La sento fare cmbamk, dab, cmbamk, dabk, crrzbamk, kb... È per questo che gli uomini Tv hanno scelto una domenica sera per venire da me. Si sono infilati qui nel buio leggero dell'ora, come un'idea melanconica, come la pioggia che cade in silenzio, adorna di un segreto.
Innanzitutto vorrei spiegare che aspetto hanno, gli uomini Tv. Sono più bassi di me o di voi. Non di molto, ma più bassi. Forse un 20 o un 30 per cento in meno. Ma ogni parte del loro corpo è in proporzione, quindi sarebbe più esatto dire che rispetto a noi sono «ridotti». Vedendoli, infatti, può darsi che in un primo momento non vi rendiate conto che sono più piccoli. In ogni caso è probabile che vi facciano un'impressione strana. Che vi mettano a disagio. Penserete sicuramente che in loro c'è qualcosa di insolito, e li guarderete di nuovo, con più attenzione. In questo consiste la loro innaturalezza, nel fatto che a prima vista non hanno niente di specificamente innaturale. Nulla a che vedere con i bambini o i nani. Se vedendo un bambino o un nano pensiamo che sono piccoli, è perché la loro disproporzione fisica li fa apparire tali ai nostri sensi. È vero che lo sono, ma non in maniera uniforme. Hanno le mani piccole, ma la testa grossa. Generalmente è così. Invece la piccolezza degli uomini Tv è tutta un'altra cosa. Sembrano delle fotocopie in formato ridotto, costruite in ogni dettaglio secondo un rigoroso principio geometrico. Se l'altezza è ridotta del 70 per cento, lo saranno in ugual misura anche la larghezza delle spalle, la grandezza dei piedi, della testa, delle orecchie, la lunghezza delle dita. Quasi fossero dei modellini riprodotti a grandezza un poco inferiore a quella naturale. Si può anche dire che sembrano visti in prospettiva. Li abbiamo davanti, e crediamo che siano
lontanissimi. Come delle pitture in trompe l'oeil, in cui le superfici piatte sembrano piegarsi e ondeggiare. Ci sembra di poterli toccare con la mano, ma non riusciamo a raggiungerli. Oppure succede il contrario. Così sono gli uomini Tv. Così sono gli uomini Tv. Così sono gli uomini Tv. Così sono gli uomini Tv.
In tutto erano tre. Non bussarono alla porta, non suonarono il campanello. Non dissero nemmeno buongiorno. Semplicemente entrarono in silenzio nella stanza. Non sentii neanche il rumore dei loro passi. Uno di loro aprì la porta, gli altri due portarono dentro il televisore. Non un apparecchio tanto grande, un normalissimo Sony a colori. Credevo di aver chiuso la porta a chiave, ma non ne ero sicuro, poteva anche darsi che me ne fossi dimenticato. In quel momento era l'ultimo dei miei pensieri, quindi non ci metterei la mano sul fuoco, ma forse era chiusa. Quando entrarono, io ero sdraiato sul divano e guardavo distrattamente il soffitto. In casa c'ero solo io. Quel pomeriggio mia moglie era uscita, doveva incontrare delle ex compagne di liceo con cui era rimasta amica, avrebbero fatto due chiacchiere da qualche parte e poi cenato insieme al ristorante. - Tu in qualche modo ti arrangi, vero? - mi aveva chiesto prima di uscire. - Nel frigo ci sono dei surgelati e della verdura. Sei capace a cucinarti qualcosa da solo, no? Inoltre dovresti ritirare la biancheria stesa prima che faccia sera. - Va bene, - avevo risposto. Non mi dava nessun fastidio, occuparmi della cena, della biancheria stesa... inezie, piccole cose. Non richiedevano nessuno sforzo, Un semplice saryupppcrrrzl - Hai detto qualcosa? - chiese mia moglie. - No, non ho detto nulla. E così avevo passato il pomeriggio comodamente steso sul divano. Non avevo nulla da fare. Mi ero messo a leggere qualcosa - l'ultimo romanzo di Garcia Màrquez - ascoltando un po' di musica, bevendo un po' di birra, senza concentrarmi in nessuna di queste cose. Avevo anche pensato di andarmi a sdraiare un po' sul letto e fare un sonnellino. Ma non riuscivo a concentrarmi abbastanza nemmeno per dormire. Così mi ero disteso sul divano a guardare il soffitto. Per me è normale passare la domenica pomeriggio in questo modo, disperdendomi in tante piccole attività. Qualunque cosa cominci, la lascio a metà, non riesco ad appassionarmi veramente a nulla. Il mattino ho l'impressione che tutto debba filare liscio. Mi propongo di leggere un certo libro, ascoltare determinati dischi, rispondere a una lettera. Di mettere ordine nei cassetti della scrivania, fare un certo acquisto indispensabile, lavare la macchina che ne ha un gran bisogno. Ma le lancette dell'orologio avanzano, segnano le due, le tre, a poco a poco si fa sera, e io non ho combinato nulla. E alla fine mi ritrovo sempre sul divano, completamente disorientato. Mi arriva alle orecchie il tic-tac dell'orologio, trup-k-shastrup-k-shas, un rumore che a poco a poco erode ogni cosa intorno, come gocce di pioggia. La domenica pomeriggio tutto sembra restringersi e diventare più piccolo, proprio come gli uomini Tv.
Mi ignorarono completamente fin dall'inizio. Dall'espressione dei loro volti si sarebbe detto che io non ero nemmeno presente. Aprirono la porta e portarono dentro il televisore. Due di loro lo posarono sulla
credenza, il terzo infilò la spina nella presa elettrica. Sulla credenza c'erano un orologio da tavolo e un mucchio di riviste. L'orologio, regalo di nozze di un amico, era molto grande e pesante, pareva l'essenza stessa del tempo. Faceva anche un rumore infernale, un trup-k-shas-trupk-skas che risuonava per tutta la stanza. Gli uomini Tv tolsero tutto quanto e lo posarono sul pavimento. Mia moglie di sicuro sarebbe andata su tutte le furie, pensai. Lei detesta che in casa si spostino le cose senza chiedere il suo parere. Se tutto non è sempre al suo posto, diventa di pessimo umore. E poi cosa ci faceva quell'orologio per terra? Avrei di sicuro finito coll'inciamparci. Ogni notte poco dopo le due io mi sveglio e vado in bagno, sempre, e dato che sono mezzo addormentato, mi capita spesso di andare a sbattere contro qualcosa. Sistemato il televisore, gli uomini Tv raccolsero le riviste e le posarono sul tavolo. Erano tutti periodici femminili di mia moglie, io non leggo quasi riviste, soltanto libri, personalmente sarei felice se tutte le riviste esistenti al mondo fallissero e sparissero dalla circolazione. C'erano «Elle», «Marie Claire», «La famiglia illustrata» e così via, tutte messe bene in pila sulla credenza. A mia moglie non piace che qualcuno tocchi le sue riviste, se l'ordine di successione viene cambiato è capace di fare una scenata tremenda. Di conseguenza me ne tengo a rispettosa distanza. Non le ho mai neanche sfogliate. Gli uomini Tv invece non si fecero tanti scrupoli, le spostarono una dopo l'altra. L'idea di trattarle con riguardo non li sfiorava neanche, l'unica cosa che volevano era metterle da qualche altra parte per liberare la credenza. Ne scombinarono completamente l'ordine di successione, «Marie Claire» si ritrovò prima di «Croissant», «La famiglia illustrata» dopo «An An». Era tutto sottosopra. In più fecero cadere sparpagliati a terra i segnalibro che mia moglie aveva messo tra le pagine. Gli articoli contrassegnati dovevano contenere delle informazioni molto importanti. Non sapevo quanto, né in cosa consistessero gli articoli stessi, ma forse avevano attinenza con il suo lavoro, oppure erano cose personali. Ad ogni modo lei ci teneva, di sicuro me ne avrebbe dette di tutti i colori. «Per una volta tanto che vado fuori con le mie amiche e mi diverto, quando torno a casa trovo questa baraonda! » Potevo figurarmi ogni singola parola che avrebbe pronunciato. Per carità, mi dissi scuotendo la testa. Sulla credenza comunque non restò più nulla. Gli uomini Tv vi posarono il televisore, inserirono la spina nella presa a muro e premettero l'interruttore. Lo schermo si illuminò con un crepitio. Aspettai un po', ma non apparve nessuna immagine. I tre uomini provarono a cambiare frequenza col telecomando. Non c'era un canale che funzionasse, lo schermo restava bianco. Per forza, pensai, il televisore non era collegato all'antenna. Da qualche parte nella stanza doveva esserci l'arrivo di un cavo, mi sembrava di ricordare che quando eravamo venuti a vivere in quell'appartamento l'amministratore ci avesse mostrato come collegarci, dove bisognava inserire lo spinotto. Però io me l'ero scordato. Non avendo il televisore, mi era del tutto passato di mente. Gli uomini Tv non parevano comunque interessati a ricevere le trasmissioni. Non si misero nemmeno a cercare la presa del cavo, a loro era del tutto indifferente che si vedesse qualcosa o meno, che apparissero o no le immagini. Una volta schiacciato l'interruttore e acceso l'apparecchio, avevano ottenuto il loro obiettivo. Il televisore era nuovo fiammante. Si capiva alla prima occhiata, anche se lo avevano portato senza imballaggio. Il libretto delle istruzioni e la garanzia erano in una busta di plastica, attaccata sul lato con del nastro adesivo. Il cavo luccicava come un pesce appena pescato. I tre uomini Tv osservarono lo schermo bianco da diversi angoli della stanza, uno venne a sedersi di fianco a me per verificare come si vedeva dalla posizione in cui mi trovavo io. Sembravano soddisfatti della collocazione dell'apparecchio, con lo schermo rivolto verso di me a una distanza conveniente, avevano l'aria di dirsi che il lavoro era stato portato a termine con buon esito. Uno di loro - quello che si era seduto accanto a me - posò il telecomando sul tavolo basso. Per tutto il tempo non avevano detto una parola, si erano mossi secondo un ordine ben preciso che eliminava il bisogno di parlare. Ognuno dei tre aveva svolto il compito che gli era stato assegnato con
scrupolo ed efficienza. Con competenza e rapidità. L'operazione si era svolta in un batter d'occhio. Alla fine uno degli uomini Tv prese in mano l'orologio da tavolo che era rimasto per terra e si guardò intorno per cercargli una sistemazione adatta, ma poi rinunciò e lo posò nuovamente sul pavimento. Trup-k-shas-trupk-shah. L'orologio continuava a scandire faticosamente il tempo. Prima o poi avrei inevitabilmente inciampato in quell'arnese, mi dissi con un sospiro, l'appartamento in cui vivo è piuttosto piccolo, inoltre tra i miei libri e il materiale da lavoro di mia moglie non c'è quasi spazio per mettere i piedi. Ci avrei inciampato, ero pronto a scommetterci. I tre uomini Tv indossavano dei jeans e delle giacche blu scuro di uno strano tessuto scivoloso, e calzavano delle scarpe da tennis. Sia gli abiti che le scarpe erano di dimensioni ridotte. A forza di guardarli, a poco a poco ebbi l'impressione di essere io di proporzioni sbagliate. Provavo una sensazione strana, come se avessi messo degli occhiali molto forti e stessi andando all'incontrario su un ottovolante. Il paesaggio invece di venirmi incontro mi sfuggiva, facendomi prendere coscienza di quanto l'equilibrio del mondo al quale inconsciamente mi affidavo non fosse qualcosa di assoluto. Gli uomini Tv fanno sentire così la gente che li osserva. Non dissero una sola parola fino alla fine. Con un ultimo sguardo al televisore si assicurarono che non ci fossero problemi di sorta, poi lo spensero col telecomando. Il colore bianco e il lieve crepitio scomparvero gradualmente dallo schermo, che tornò all'inespressivo grigio abituale. Fuori dalla finestra cominciava a imbrunire. Si sentì qualcuno chiamare qualcun altro. Una persona passò lentamente nel corridoio fuori dal mio appartamento, facendo baccano apposta, come al solito. Un rumore di scarpe, crrzpamk-darb-cmpakdek. Domenica sera, insomma. Gli uomini Tv gettarono ancora un'occhiata circolare di verifica per la stanza, poi aprirono la porta e se ne andarono. Come quando erano venuti, non fecero alcuna attenzione a me. Mi ignorarono, per loro non esistevo.
Da quando quegli uomini entrarono a quando uscirono, io non dissi una parola, non mossi un dito, osservai in silenzio il loro lavoro senza alzarmi dal divano. Probabilmente vi sembrerà molto strano. Tre persone, tre perfetti sconosciuti, entrano tutt'a un tratto in casa mia, si prendono la libertà di piazzarvi un televisore, e io resto a guardarli senza fiatare. Che razza di storia è questa? Comunque è la pura verità. Forse perché loro non facevano alcun caso alla mia presenza, mi limitai a seguire tutta l'operazione con lo sguardo. Se vi foste trovati nei miei panni, credo che avreste fatto la stessa cosa. Non sto cercando di difendermi, ma quando si viene ignorati totalmente da qualcuno che vi sta davanti, poco alla volta si finisce col dubitare della propria presenza. Guardavo le mie mani con l'impressione che fossero trasparenti. Provavo una sensazione di impotenza, come se fossi vittima di un incantesimo. Sentivo il mio corpo, la mia persona dissolversi lentamente. Alla fine non riuscivo più a muovermi, né a dire una parola, né a fare nulla se non osservare immobile i tre uomini Tv che posavano un televisore in casa mia e uscivano. Parlare mi era impossibile, avevo persino paura di sentire la mia voce. Quando loro se ne andarono, mi ritrovai solo. E ritrovai la sensazione di esistere. Le mie mani tornarono ad essere mie. Mi accorsi che il buio della sera aveva invaso completamente la stanza. Accesi la luce, e chiusi gli occhi. Adesso in casa c'era un televisore. L'orologio continuava a segnare il tempo, trup-kshastrup-k-shas.
La cosa strana, è che mia moglie non fece alcun commento riguardo alla presenza improvvisa di quell'apparecchio. Non ebbe nessuna reazione. Zero. Sembrava che non se ne fosse nemmeno accorta. Era davvero incredibile. Come ho già detto, lei è molto suscettibile riguardo alla posizione e all'ordine dei mobili
e degli oggetti. Se in sua assenza si cambia o si sposta qualcosa in casa, anche di pochissimo, lo nota immediatamente. Ha questo talento. Allora aggrotta le sopracciglia e rimette l'oggetto al suo posto. Tutto il contrario di me, per me non ha importanza se «La famiglia illustrata» finisce sotto «An An» o se una biro finisce tra le matite. Non ci faccio neanche caso. Troverei estremamente faticoso vivere come lei. Però è un problema suo, non mio, per questo non dico nulla e la lascio fare come vuole. Sono un tipo fatto così. Lei invece è diversa, a volte si arrabbia terribilmente, dice che non può sopportare la mia apatia. Allora le rispondo che anch'io non posso sopportare la sua apatia nei confronti della gravitazione e del ñ e dell'equazione E = me2. È la pura verità. Ma quando le dico così lei mette il broncio, prende la mia reazione per un insulto personale. Invece sbaglia, io non ho nessuna intenzione di insultarla, esprimo semplicemente quello che sento. Anche quella sera, appena entrata in casa mia moglie si guardò intorno. Io mi ero preparato delle frasi di spiegazione. Erano venuti gli uomini Tv, e avevano messo sottosopra un sacco di cose... Sarebbe stato molto difficile spiegarle chi erano gli uomini Tv, non mi avrebbe mai creduto. Comunque ero deciso a raccontarle tutto per filo e per segno. Invece lei non disse nulla, lanciò soltanto un'occhiata circolare nella stanza. Il televisore era sulla credenza. Le riviste sul tavolo, in ordine sbagliato. L'orologio sul pavimento. Eppure mia moglie non disse una parola. Così nemmeno io le diedi spiegazioni. - Hai cenato? - mi chiese poi mentre si toglieva il vestito. - No. - Perché? - Non avevo fame. Lei rimase a pensare un momento, con il vestito sfilato a metà. Mi osservò a lungo, come fosse indecisa se fare commenti o meno. L'orologio scandiva fragorosamente il silenzio, trupk-shas-trup-k-shas. Io cercavo di ignorarlo, di non lasciar entrare quel rumore nelle mie orecchie. Impossibile, era irrimediabilmente forte e pesante, anche controvoglia non potevo fare a meno di sentirlo. Pure mia moglie vi prestò attenzione per un attimo, poi scosse la testa. - Vuoi che ti prepari qualcosa di semplice? - chiese. - Perché no? - risposi. Non è che avessi particolarmente fame, ma se ci fosse stato qualcosa di pronto, l'avrei mangiato volentieri. Mia moglie indossò degli abiti comodi, e mentre mi preparava in cucina una zuppa di riso e una frittata, mi parlò del pomeriggio passato con le amiche. Quel che ognuna di loro aveva detto, cosa aveva fatto, quale di loro era diventata più bella perché aveva cambiato pettinatura, chi si era separata dal fidanzato. Più o meno le conoscevo tutte. Io annuivo distrattamente bevendo una birra, ma in realtà non stavo affatto ascoltando. Pensavo agli uomini Tv. E a perché lei non aveva detto niente sulla presenza del televisore. Che non se ne fosse accorta? Figurarsi, un televisore faceva la sua comparsa improvvisa in casa e lei non se ne accorgeva! Allora perché non aveva fatto commenti? Era tutto molto strano. Un vero mistero. Doveva esserci un errore. Però non sapevo come correggerlo, quell'errore. Appena la zuppa di riso fu pronta, mi sedetti al tavolo della cucina e la mangiai, insieme alla frittata e a qualche sottaceto. Quando ebbi finito di cenare, mia moglie lavò i piatti e riordinò. Io bevvi un'altra birra. Anche lei ne prese un po'. A un certo punto alzai di colpo lo sguardo sul ripiano della credenza. Il televisore era sempre lì. Spento. Sul tavolo basso del soggiorno era posato il telecomando. Mi alzai dalla sedia, lo presi, e schiacciai il pulsante di accensione. Lo schermo si rischiarò immediatamente, con un rumore. Come prima, sul tubo catodico non apparvero immagini, solo luce bianca. Provai ad alzare il suono, ma aumentò soltanto il crepitio. Guardai lo schermo illuminato per venti o trenta secondi, poi spensi. Luce e rumore cessarono in un attimo. Intanto mia moglie si era seduta sulla moquette e sfogliava «Elle», del tutto indifferente al fatto
che io avessi acceso e spento il televisore. Posai il telecomando sul tavolo, e mi sedetti di nuovo sul divano, pensando di rimettermi a leggere quel lungo romanzo di Garcia Màrquez. Leggo sempre, dopo cena, a volte smetto dopo trenta minuti, altre vado avanti per ore. Ad ogni modo leggo ogni giorno. Quella sera però non avanzai nemmeno di mezza pagina, cercavo di concentrarmi nel racconto ma la mia attenzione tornava immediatamente al televisore, finivo sempre col sollevare gli occhi a guardarlo. L'apparecchio era stato sistemato con lo schermo rivolto verso di me.
Alle due e mezza di notte, quando mi svegliai, il televisore era sempre allo stesso posto. Mi ero alzato con la speranza che fosse scomparso, invece era ancora lì. Andai in bagno a orinare, poi mi sedetti sul divano e allungai i piedi sul tavolo. Presi il telecomando e provai di nuovo a schiacciare il pulsante di accensione. Ancora una volta si ripetè la stessa cosa, luce bianca, crepitio. Nient'altro. Rimasi per qualche secondo a guardare, poi spensi e tutto scomparve. Tornai a letto e cercai di dormire. Avevo un sonno tremendo, ma non riuscivo ad addormentarmi. Quando chiudevo gli occhi mi apparivano gli uomini Tv che portavano il televisore, toglievano l'orologio, spostavano le riviste, poi inserivano la spina nella presa elettrica, controllavano lo schermo, aprivano la porta e se ne andavano in silenzio. Non volevano uscire dalla mia mente, ci camminavano dentro. Di nuovo mi alzai e andai in cucina, presi una tazza posata di fianco al lavandino, e la riempii di cognac. Dopo aver bevuto, tornai a sdraiarmi sul divano e aprii il libro di Màrquez. Le frasi però non mi entravano in testa, non capivo nulla di quello che stavo leggendo. Rassegnato, misi via Garcia Màrquez e cominciai a sfogliare «Elle», per una volta potevo anche fare un'eccezione e leggere una rivista. Ma non c'erano articoli interessanti, solo servizi sulle nuove pettinature, su eleganti camicette di seta bianca, su un ristorante dove si poteva gustare uno stufato di bue dall'aria deliziosa, sull'abbigliamento adatto per andare a teatro. Nulla poteva importarmi di meno. Misi via anche «Elle». Poi osservai di nuovo il televisore sulla credenza. In conclusione restai sveglio fino all'alba senza fare nulla. Alle sei scaldai l'acqua e mi feci un caffè. Non sapendo come passare il tempo, prima che mia moglie si alzasse preparai dei panini al prosciutto. -Ti sei svegliato presto, stamattina, - disse lei con aria ancora assonnata. - Mhm. Facemmo colazione scambiandoci poche parole, poi uscimmo insieme di casa per recarci ognuno al proprio lavoro. Mia moglie lavora in una piccola casa editrice, dove si occupa di una rivista specializzata in cibi naturali. Vi si possono leggere articoli dal titolo La cucina con i funghi è ottima per la prevenzione della gotta, o Il futuro dell'agricoltura biologica. Non se ne vendono molti numeri, ma per pubblicarla non si spende quasi nulla ed è seguita si può dire religiosamente da un manipolo di lettori appassionati, di conseguenza non c'è rischio che lasci sul lastrico i suoi redattori. Io invece sono impiegato in una ditta che produce apparecchi elettrici, mi occupo della pubblicità dei tostapane, delle lavatrici, dei forni a microonde...
Andando in ufficio, per le scale della ditta incrociai un uomo Tv. Credo fosse uno dei tre che il giorno prima avevano portato un televisore a casa mia, forse quello che per primo aveva aperto la porta ed era entrato. Non ne sono del tutto sicuro perché le loro facce non hanno tratti caratteristici, e distinguerli l'uno dall'altro è quasi impossibile, ma nove su dieci penso di non sbagliarmi. Indossava la stessa giacca blu del giorno precedente, aveva le mani libere e stava semplicemente scendendo le scale. Io salivo a piedi, come sempre, non mi piace prendere l'ascensore. Dato che il mio ufficio si trova al nono piano, non è una fatica
da poco. Quando vado di fretta arrivo su tutto sudato. Per quel che mi riguarda però preferisco inzupparmi da capo a piedi piuttosto che usare l'ascensore. Tutti mi prendono in giro per questo, e anche perché non ho il televisore, né un videoregistratore. Pensano che sia un po' matto. Oppure che sia a un livello incompleto di sviluppo, in un certo senso. Che strana idea, non riesco a capire questa loro reazione. Ad ogni modo, anche quella volta come sempre stavo salendo a piedi. Ero l'unico per le scale, non c'è quasi nessuno che le usi. Fu tra il quarto e il quinto piano che incrociai l'uomo Tv. Per la sorpresa non seppi come comportarmi. Pensai anche di parlargli, di dirgli qualcosa. Alla fine però stetti zitto, non mi veniva in mente nulla di appropriato e l'atmosfera rendeva difficile ogni approccio. Lui scendeva le scale in maniera molto meccanica, avanzava a ritmo regolare, con metodica precisione. Inoltre come il giorno prima ignorò del tutto la mia presenza, come se non mi vedesse. Finii col passargli di fianco senza decidermi. Nell'attimo in cui ci incrociammo la pressione atmosferica intorno sembrò oscillare. Quel giorno in ditta c'era una riunione che cominciava il mattino. Una seduta importante riguardo alla campagna promozionale dei nuovi prodotti. Parecchi impiegati lessero i loro rapporti, sulle lavagne si allinearono le cifre, gli schermi dei computer disegnarono grafici. Ci fu una discussione accalorata. Alla riunione partecipai anch'io, anche se la mia presenza non era indispensabile perché non avevo una relazione diretta con quel progetto. Rimasi per tutto il tempo immerso nei miei pensieri - gli uomini Tv. Comunque un intervento lo feci. Non un intervento importante, espressi solo un'opinione banalmente sensata in veste di osservatore, niente di più. Qualcosa la dovevo dire, per quanto il progetto non mi riguardasse. Io non sono molto ambizioso nel lavoro, ma oltre al fatto che la ditta mi paga uno stipendio, ho un posto di relativa responsabilità. Riassunsi le varie opinioni espresse fino a quel momento, e feci anche qualche battuta per alleggerire l'atmosfera. Probabilmente provavo un lieve rimorso per la scarsa attenzione con cui avevo seguito il dibattito. Alcune persone risero. Dopo aver parlato però ripresi il filo dei miei pensieri, facendo finta di osservare dei documenti. Non sapevo neanche se si stesse discutendo o meno sul nuovo nome per un forno a microonde, nella mia testa c'erano soltanto gli uomini Tv, pensavo soltanto a loro. Che cosa diavolo significava quel televisore? Perché l'avevano portato a casa mia? Come mai mia moglie non aveva detto nulla riguardo a quella presenza improvvisa? E perché gli uomini Tv si erano intrufolati perfino nella mia ditta? La riunione sembrava non finire mai. A mezzogiorno facemmo una breve pausa per il pranzo. Non c'era tempo per andare a mangiare fuori, vennero distribuiti a tutti dei panini e del caffè. Io li portai sulla mia scrivania perché la sala puzzava di fumo. Stavo mangiando, quando mi si avvicinò il capo-sezione. Se devo essere sincero, a me quell'uomo non è mai piaciuto, anche se non saprei spiegarne la ragione esatta. Non ha assolutamente nulla di repulsivo, anzi, ha l'aspetto di una persona per bene. Non è uno stupido. Porta cravatte di buon gusto. Non si dà arie, non tratta male i suoi sottoposti. Ha persino una considerazione particolare per me, qualche volta mi ha anche invitato fuori a pranzo. A me però continua a dare sui nervi. Penso che sia perché ha l'abitudine di toccare in maniera troppo confidenziale la persona con cui sta parlando. Mentre parla mette sempre le mani addosso al suo interlocutore, che si tratti di un uomo o di una donna. Non c'è nessun intento indecente in quel gesto, è un modo di toccare molto naturale ed elegante. Tanto naturale che probabilmente nessuno ci fa caso. A me però, non so perché, la cosa dà molto fastidio, di conseguenza ogni volta che lo vedo, per istinto mi tiro indietro. Ditemi pure che sono limitato, ma mi dà fastidio. Lui si piegò e posò una mano sulla mia spalla. - Mi è piaciuto, il tuo intervento di prima, bravo, - disse in tono confidenziale. - Semplice ed essenziale. Complimenti, ottime indicazioni. Quando hai preso la parola tu la sala si è risvegliata. Hai scelto bene anche il momento. Bene, continua così. Dette quelle parole, il capo-sezione si allontanò a passo deciso, probabilmente andava anche lui a
mangiare. Io l'avevo ringraziato, ma a dir la verità ero rimasto sbalordito. Non mi ricordavo una parola di quello che avevo detto durante la riunione. Tacere mi era sembrato brutto, così avevo buttato lì le prime cose che mi erano venute in mente. E il capo-sezione veniva apposta alla mia scrivania per lodarmi! C'erano un sacco di altre persone che avevano fatto degli interventi molto più acuti del mio. Era proprio strano. Continuai a mangiare, senza capirci nulla. Poi di colpo pensai a mia moglie. Che cosa stava facendo, in quel momento? Stava pranzando fuori, in qualche posto? Decisi di provare a chiamarla in ufficio. Volevo scambiare qualche parola con lei, non importava su cosa. Premetti sulla tastiera i primi tre numeri, poi cambiai idea. Non era successo nulla che giustificasse una telefonata. Avevo l'impressione che l'equilibrio del mondo fosse un po' alterato, ma che senso aveva chiamare mia moglie nella pausa di mezzogiorno, e per dirle cosa? Tanto più che a lei non piace che le telefoni sul lavoro. Rimisi la cornetta al suo posto e con un sospiro bevvi quel che restava del mio caffè. Poi gettai il bicchiere di plastica nel cestino.
Alla riunione del pomeriggio vidi di nuovo gli uomini Tv. Questa volta erano due. Attraversarono la sala portando un televisore Sony a colori, come il giorno prima, solo che l'apparecchio era molto più grande. Un bel guaio, pensai, la Sony è una nostra concorrente. E vietato portare in ditta un prodotto della concorrenza, se per qualche ragione qualcuno infrange questa regola succede l'ira-di-dio. Il che non significa che qualche volta non lo si faccia per confrontare la qualità, ma in quei casi si toglie il marchio di fabbrica, sarebbe molto disdicevole che qualcuno esterno alla ditta lo vedesse. Quei due però non si erano dati tanta pena, portavano il televisore con la scritta SONY rivolta verso di noi, ben in vista. Aprirono la porta ed entrarono nella stanza. Poi ne fecero il giro guardandosi intorno, come se cercassero un posto adatto dove posare l'apparecchio. Non trovandone uno, uscirono dalla porta posteriore, sempre con il televisore sulle braccia. Nella sala però nessuno fece una piega. Non era possibile che non li avessero notati, li avevano visti eccome! La prova? Al loro arrivo molti si erano scostati per farli passare. Ma era stata l'unica reazione manifestata nei confronti degli uomini Tv, come se fosse entrato il cameriere del caffè vicino con il vassoio delle ordinazioni! Tutti avevano fatto finta che non esistessero. Sapevano benissimo che erano li, ma li avevano ignorati. A quel punto non ci capivo più niente. Possibile che tutti fossero informati di quanto succedeva, e soltanto io ne fossi tenuto all'oscuro? Allora poteva darsi che anche mia moglie fosse al corrente. Doveva essere così, per questo non era rimasta sorpresa di trovare un televisore dentro casa, non aveva detto una sola parola in proposito. Era l'unica spiegazione possibile. Avevo una confusione tremenda in testa. Chi diavolo erano, gli uomini Tv? E perché portavano sempre dei televisori? Uno dei miei colleghi si allontanò per andare in bagno, mi alzai anch'io e lo seguii. Eravamo stati assunti insieme in quella ditta e andavamo piuttosto d'accordo. A volte dopo il lavoro ci fermavamo da qualche parte a bere qualcosa. Non era una cosa che facessi con chiunque indiscriminatamente. Ci mettemmo a orinare uno di fianco all'altro. - Per carità, di questo passo ne avremo fino a stasera, una sessione dopo l'altra, non si finisce più! disse lui con aria scocciata. Gli diedi ragione. Poi ci lavammo le mani. Anche lui mi fece i complimenti per il mio intervento del mattino. Lo ringraziai. - A proposito, quei due che sono entrati portando un televisore...? - buttai lì in tono indifferente. Lui non rispose. Chiuse con una stretta decisa il rubinetto, strappò due salviette di carta dal contenitore e si asciugò le mani. Non mi lanciò nemmeno un'occhiata. Finì di asciugarsi senza fretta, poi appallottolò la carta e la gettò nel cestino. Forse non aveva sentito le mie parole. O forse le aveva sentite ma faceva finta di no. Come saperlo? Qualcosa nel suo atteggiamento mi diceva che era meglio non fare altre domande. Mi asciugai anch'io in silenzio le mani con una salvietta di carta. L'atmosfera si era irrigidita. Senza dire una parola percorremmo in senso inverso il corridoio e tornammo nella sala riunioni. In seguito,
per tutto il tempo, mi sembrò che lui evitasse il mio sguardo.
Quando tornai a casa, trovai l'appartamento al buio. Fuori si era messo a piovere, dalle finestre della veranda si vedevano basse nuvole scure. L'odore della pioggia si sentiva anche dentro casa. Cominciava a imbrunire. Mia moglie non era ancora tornata. Mi tolsi la cravatta, e lisciandone le pieghe l'appesi al portacravatte. Spazzolai il vestito, gettai la camicia nella cesta della roba da mettere in lavatrice. Mi sentivo i capelli impregnati di puzza di fumo, così me li lavai sotto la doccia. Mia moglie detesta quell'odore. La prima cosa che ha fatto quando ci siamo sposati, è stata farmi smettere di fumare. Quattro anni fa. Uscito dalla doccia andai a sedermi sul divano con una lattina di birra, intanto mi strofinavo i capelli con un asciugamano. Il televisore che avevano portato gli uomini Tv era sempre sulla credenza. Presi il telecomando sul tavolo e schiacciai il pulsante. Nessuna reazione. Riprovai: stesso risultato, non si accese. Lo schermo rimase scuro e silenzioso. Controllai che la spina fosse ben inserita nella presa. La staccai una volta e la riinfilai spingendola fino in fondo. Tutto inutile, feci un altro tentativo ma lo schermo non si illuminò. Per scrupolo aprii la scatola del telecomando, tolsi le pile e verificai con la cartina apposita che fossero cariche. Erano praticamente nuove. Rinunciai, riposi il telecomando e mi feci scorrere in gola la birra. Assurdo, mi dissi, di che cosa mi stavo preoccupando? Se il televisore si fosse acceso, lo schermo sarebbe diventato bianco e si sarebbe sentito un crepitio, tutto lì. Cosa me ne importava, allora, se si accendeva o no? Eppure la cosa mi intrigava. La sera prima il televisore si accendeva. E da allora nessuno l'aveva toccato. Qualcosa non quadrava. Presi di nuovo il telecomando. Premetti con forza il pulsante, lentamente, con la punta del dito. Stesso risultato, nessuna reazione. Lo schermo non dava segni di vita. Freddo come il ghiaccio. Freddo come il ghiaccio. Presi dal frigo una seconda birra, la stappai e me la scolai. Mangiai un'insalata di patate trovata in un contenitore di plastica. L'orologio segnava le sei. Sedetti sul divano e diedi un'occhiata al giornale della sera. Era ancora più noioso del solito, neanche un articolo che mi interessasse, solo notizie del tutto insignificanti. Comunque mi misi a leggere, non sapendo cos'altro fare. Dopo un bel po' mi chiesi se c'era qualche altro modo di passare il tempo, ma continuai a leggere distrattamente, non avevo voglia di arrovellarmi. Però, ecco, potevo rispondere a delle lettere! Mia cugina mi aveva mandato l'invito al suo matrimonio, dovevo dirle qualcosa. Proprio in quella data io e mia moglie avevamo deciso di partire per un viaggio, saremmo andati a Okinawa. Era una cosa programmata già da molto tempo, avevamo preso apposta dei giorni di ferie nello stesso periodo. Di rinunciare non se ne parlava nemmeno, Dio solo sapeva quando avremmo potuto concederci un'altra lunga vacanza insieme. Inoltre non è che io fossi molto legato a quella cugina, per un motivo o per l'altro erano già dieci anni che non la vedevo. Comunque prima rispondevo meglio era, così potevano regolarsi, dovevano prenotare la sala per il banchetto nuziale. Invece non feci nulla, non era il momento di scrivere lettere, proprio non me la sentivo. Presi di nuovo il giornale e rilessi un articolo, poi all'improvviso decisi di mettermi a cucinare. Però poteva darsi che mia moglie cenasse fuori, per ragioni di lavoro. In quel caso era inutile preparare per due. Io mi sarei arrangiato con quello che c'era, non mi andava di cucinare per me solo. E se invece lei non aveva ancora cenato, potevamo mangiare fuori. Comunque era un po' strano, mi dissi. Noi ci avvertiamo sempre in tempo, quando pensiamo di tornare a casa dopo le sei. È una nostra regola. Al limite lasciamo un messaggio sulla segreteria. Così l'altro si sa regolare, mangia prima, o lascia qualcosa di pronto, o va già a dormire. Io per la natura del mio lavoro torno spesso tardi, e anche lei ha sovente delle riunioni o delle bozze da correggere. Nessuno dei due fa un'attività che permetta un orario regolare, dalle nove alle cinque. In certi periodi capita che passino tre
giorni senza che ci parliamo. Non possiamo farci nulla, le cose vanno così ormai. Per questo cerchiamo di rispettare le regole, in modo da non crearci inconvenienti reciproci. Se pensiamo di far tardi, prendiamo il telefono e avvertiamo. A me è successo ogni tanto di dimenticare, ma a lei no, neanche una volta. Sulla segreteria telefonica però non c'erano messaggi. Buttai via il giornale, mi sdraiai sul divano e chiusi gli occhi.
Sognai: mi trovavo a una riunione, ero in piedi e parlavo. Non capivo neanch'io di quale argomento, semplicemente blateravo qualcosa. Se avessi smesso sarei morto, per questo dovevo andare avanti, non potevo far altro che continuare in eterno a dire cose il cui significato mi era oscuro. Le persone intorno a me erano tutte morte, e pietrificate. Erano diventate dure come statue. C'era il vento, entrava dai vetri delle finestre, tutti rotti. E poi c'erano gli uomini Tv. Erano tre, come la prima volta, e naturalmente portavano un televisore a colori Sony. Sullo schermo si vedevano altri uomini Tv. Le parole mi stavano venendo meno. Di conseguenza sentivo indurirsi la punta delle dita. A poco a poco stavo per trasformarmi in una statua... Quando mi svegliai, la stanza era pervasa da un colore biancastro, come il neon di un acquario. Il televisore era acceso. Tutt'intorno era buio. In quell'oscurità lo schermo riluceva con un crepitio. Mi alzai a sedere sul divano, e mi schiacciai le tempie con la punta delle dita, che avevano ancora la loro morbidezza carnosa. In bocca conservavo il gusto della birra bevuta prima di addormentarmi. Avevo la gola così secca che ci misi del tempo a deglutire la saliva. Mi succede sempre così quando faccio un sogno molto realistico. Adesso era il risveglio a sembrarmi irreale. Invece ero tornato alla realtà, nessuno era diventato di pietra. Che ore potevano essere? Guardai l'orologio posato a terra. Trup-k-shas-trup-k-shas. Mancava poco alle otto. Come nel sogno però, sullo schermo si vedeva un uomo Tv. Era lo stesso che avevo incrociato per le scale della ditta. Senza possibilità d'errore. Quello che all'inizio aveva aperto la porta ed era entrato in casa. Ne ero sicuro al 100 per cento. Era in piedi, davanti a uno sfondo di luce bianca fluorescente, e mi guardava fisso in viso. Sembrava la coda del sogno che si fosse intrufolata nella realtà. Se avessi chiuso gli occhi per poi riaprirli, tutto si sarebbe dileguato rapidamente. Invece no, al contrario. L'uomo Tv sullo schermo diventava sempre più grande, la sua faccia riempiva tutto lo schermo. Ingigantiva come se da un punto lontano si stesse avvicinando progressivamente. Poi uscì dal televisore, come se fosse una finestra. Mise una mano sul bordo, lo scavalcò con uno sforzo e sgusciò fuori. Sullo schermo restò soltanto la luce bianca. Per un po' lui rimase a strofinarsi una mano con l'altra, per abituarsi all'atmosfera del mondo esterno. Con la mano destra di dimensioni ridotte si massaggiò a lungo la mano sinistra, ugualmente piccola. Non mostrava alcuna fretta, al contrario, sembrava avere a disposizione tutto il tempo che voleva. Come un presentatore abituato a uno show televisivo. Poi mi guardò in faccia. - Stiamo costruendo un aeroplano, - mi disse con una voce sottile, priva del senso della distanza, che dava l'impressione di essere scritta su un foglio di carta. In abbinamento alle sue parole, come succede nei servizi del telegiornale, sullo schermo apparve un apparecchio nero. Prima si vide uno spazio grande quanto un'officina, poi ci fu uno zoom su ciò che veniva costruito al centro. Due uomini Tv, totalmente assorti in quello che facevano, stavano lavorando a quell'apparecchio, stringevano bulloni con una chiave inglese, regolavano strumenti di misura. Era uno strano velivolo, un cilindro che si restringeva in punta, con delle sporgenze di forma aerodinamica che lo solcavano qua e là. Più che un aeroplano, sembrava un gigantesco spremiarance. Senza né ali né sedili. - Non si direbbe per niente un aereo, - commentai, con una voce molto strana che non mi sembrò la mia. Come se gli elementi vitali ne fossero stati aspirati via attraverso uno spesso filtro. Mi sentivo tremendamente invecchiato.
- È perché non l'hanno ancora verniciato, - rispose l'uomo Tv. - Domani gli verrà dato il colore, e si vedrà chiaramente cos'è. -Non è un problema di colore, ma di forma. Non è un aereo, quello. - E che cos'è, allora? - mi chiese l'uomo Tv. Non lo sapevo. Che cosa diavolo era, quella roba lì? - È tutta colpa del colore, - continuò l'uomo Tv in tono gentile. - Una volta dipinto, sarà un magnifico aeroplano. Rinunciai a discutere oltre. Poteva essere quello che voleva, un aereo che spremeva le arance, uno spremiarance che volava, qualunque cosa, per me era uguale. Mi era del tutto indifferente. Ma perché mia moglie non tornava? Massaggiai di nuovo le tempie con le dita. L'orologio continuava a scandire rumorosamente i secondi, trup-k-shas-trup-k-shah. Sul tavolo era posato il telecomando, di fianco alla pila di riviste femminili. Il telefono non suonava. La stanza era illuminata dal debole chiarore del televisore. Sullo schermo, i due operai continuavano a lavorare con fervore. Le immagini erano molto più nitide di prima, ormai si potevano leggere i numeri sugli strumenti di misura dell'aereo. Perfino sentirne il brusio quasi impercettibile. Un taaabshryafk-taaabshryafk-arp-arp-tabshryafk. Ogni tanto si sentiva un suono sordo e regolare di metallo battuto, ariiiiibz, ariiiibz, insieme a diversi altri rumori che non riuscivo a distinguere bene. Ad ogni modo i due sullo schermo si stavano impegnando al massimo, quello era il senso delle immagini. Per un po' rimasi a guardarli lavorare, e altrettanto fece l'uomo Tv uscito dal televisore. In silenzio. Quell'assurdo apparecchio nero - non riuscivo proprio a vederlo come un aereo - si stagliava contro la luce bianca. - Sua moglie non tornerà, - mi disse l'uomo Tv. Lo guardai. Non avevo afferrato bene. Lo fissai in viso, fingendo di concentrarmi sullo schermo bianco. - Sua moglie non tornerà più, - ripetè lui. - Perché? - Perché ormai è finita, ecco perché -. La sua voce sembrava una di quelle carte che negli alberghi si usano come chiavi. Piatte, inafferrabili, penetrano come lame attraverso una sottile fessura. «Non tornerà più perché ormai è finita». Non tornerà più perché ormai è finita, ripetei nella mia testa. Molto banale e irreale. Non riuscivo a capire il senso di quella frase. La causa sembrava voler sorpassare l'effetto. Mi alzai e andai in cucina. Aprii il frigo, respirai a fondo, presi una lattina di birra e tornai a sedermi sul divano. L'uomo Tv, in piedi davanti al televisore sul quale aveva posato il gomito destro, mi guardò tirare la linguetta metallica. Non avevo davvero voglia di una birra, ero andato a prenderla perché non sopportavo di stare senza far nulla. Ne bevvi solo un sorso, non era nemmeno buona. Stanco di tenere la lattina in mano, la posai sul tavolo. Poi pensai all'affermazione dell'uomo Tv, che mia moglie non sarebbe tornata. Era convinto che tra lei e me non ci fosse più nulla. E quella sembrava la ragione per cui lei se n'era andata. Io però non ero affatto d'accordo, la nostra relazione non la ritenevo finita. Ovviamente non eravamo una coppia perfetta, in quattro anni avevamo litigato un sacco di volte. Tra noi c'erano alcuni problemi, è vero, e ogni tanto ne parlavamo. Certi li avevamo risolti, altri no, li avevamo accantonati in attesa che venisse il momento di discuterne. Okay, eravamo una coppia con dei problemi, lo ammettevo. Ma non per questo tra noi era finita. E perché mai? Qual è la coppia che non ha dei problemi? E poi erano soltanto le otto passate da poco. Per qualche ragione lei non era riuscita a telefonarmi. Ne potevo elencare mille, di ragioni. Per esempio... invece non me ne venne in mente neanche una. Mi trovavo in uno stato confusionale tremendo. Mi lasciai andare contro la spalliera del divano. Quell'aereo - se era davvero un aereo - come faceva a volare? Da dove veniva la forza dei propulsori? Dov'erano le finestre? Qual era la testa e quale la coda? Ero terribilmente stanco. Spossato. Dovevo rispondere all'invito di mia cugina, mi dissi. Per cause di
lavoro non potevo assolutamente andare al ricevimento. Ne ero desolato. Congratulazioni per il suo matrimonio. Senza occuparsi di me, i due uomini Tv dentro il televisore continuavano a lavorare con zelo. Non si fermavano un momento. C'era ancora un numero infinito di cose che dovevano fare prima che l'aereo fosse pronto. Quando ne terminavano una, attaccavano subito la seguente. Non avevano libretti di istruzioni e progetti disegnati, sembravano sapere tutto a memoria. La telecamera seguiva con maestria il loro mirabile operato, con riprese precise e chiare. Immagini convincenti. Probabilmente al pannello di controllo c'era un altro uomo Tv - il quarto o il quinto. Strano a dirsi, ma mentre osservavo quel modo di lavorare praticamente perfetto, a poco a poco il tubo nero cominciò a sembrarmi un aeroplano. Perlomeno la possibilità che lo diventasse non era esclusa. Che importanza aveva quale fosse la testa e quale la coda? Il risultato di un tale miracolo di precisione poteva essere solo un aereo. Per loro lo era, anche se non lo sembrava ancora. Aveva ragione quell'uomo, cos'altro poteva essere, se no? L'uomo Tv fuori dallo schermo non si era mosso di un centimetro. Sempre col gomito appoggiato al televisore, mi guardava. Mi sentivo osservato. Gli uomini Tv dentro il televisore continuavano a lavorare. Si sentiva il ticchettio dell'orologio. Trup-k-shas-trup-k-shas. Nella stanza faceva buio, l'aria era soffocante. Nel corridoio risuonò un forte rumore di passi. «Può darsi che sia così, - pensai tutt'a un tratto, - che mia moglie non torni più. Ormai si trova in un posto lontano. Ha preso chissà quali e quanti mezzi di trasporto, e se n'è andata dove io non posso raggiungerla. Tra noi le cose si erano guastate, e non c'era modo di aggiustarle. Probabilmente l'ho persa. E sono stato il solo a non accorgermene». Nella mia testa tanti pensieri si dispersero, poi si riunirono nuovamente. - E possibile che sia così, - dissi ad alta voce. La mia voce risuonò vuota dentro di me. - Domani, quando metteranno il colore, si vedrà molto meglio, - fece l'uomo Tv. - Una volta colorato, diventerà un ottimo aereo. Mi guardai il palmo delle mani. Sembravano più piccole del solito. Appena appena. Forse era solo una mia impressione, dovuta alle condizioni della luce. Forse il mio senso della prospettiva si era un po' alterato. Anzi no, le mie mani si erano rimpicciolite davvero. Fermi un attimo, pensai. Vorrei dire qualcosa. Ho qualcosa da dire. Devo assolutamente parlare. Altrimenti mi restringerò, rinsecchirò, e diventerò una pietra. Come tutti gli altri. - Fra poco arriverà una telefonata, - annunciò l'uomo Tv. Poi fece una pausa, come se valutasse il tempo. - Altri cinque minuti. Guardai il telefono. Pensai al filo, al lungo filo che collega i telefoni illimitatamente. All'estremità di quel terribile labirinto tortuoso, da qualche parte, c'era mia moglie. Lontano, tanto lontano che io non potevo raggiungerla. Sentivo il suo polso. Altri cinque minuti, mi dissi. Qual è la testa e qual è la coda? Mi alzai e feci per dire qualcosa. Ma nell'attimo stesso in cui fui in piedi, le parole mi vennero meno, si dileguarono.
Il mostriciattolo verde
Mio marito era uscito all'ora solita per recarsi al lavoro, io ero rimasta a casa e non avevo nulla da fare. Mi sedetti sola soletta su una sedia di fianco alla finestra, a guardare il giardino da un'apertura nelle tende. Così, senza un motivo particolare né uno scopo, soltanto perché non sapevo come impiegare il mio tempo. Nel frattempo magari mi sarebbe venuta qualche buona idea. Di tutte le cose presenti in giardino, una quercia soprattutto attirava il mio sguardo. Mi era sempre piaciuta, quella quercia. L'avevo piantata io da bambina, e l'avevo vista crescere. La consideravo un'amica, e spesso le parlavo. Anche quella volta, probabilmente dentro di me stavo parlando con quell'albero. Non ricordo di cosa però, né quanto a lungo rimasi seduta lì. Il tempo passa sempre veloce quando guardo il giardino, ma dovevano essere trascorse parecchie ore, perché tutt'intorno si era già fatto buio. A un certo punto mi accorsi che molto lontano, da qualche parte, si sentiva uno strano fruscio, di qualcosa che strisciava. All'inizio mi sembrò una sorta di allucinazione formatasi dentro di me. Come un oscuro ammonimento emesso dal mio corpo. Trattenni il respiro e tesi le orecchie verso quel rumore, che si avvicinava lentamente ma con regolarità. Non riuscivo a immaginare cosa potesse produrlo, conteneva una vibrazione sgradevole che mi faceva venire la pelle d'oca. Alla fine il terreno intorno alle radici della quercia cominciò a gonfiare, come se qualche falda rigurgitante d'acqua stesse per sgorgare in superficie. Trattenni il fiato. Il terreno si spaccò, la terra sollevata si frantumò, e dal sottosuolo sbucarono delle cose strane, delle unghie acuminate. Io strinsi i pugni, e le osservai con gli occhi fuori dalle orbite. Mi dissi che qualcosa stava per incominciare. Le unghie raspavano con abilità la terra, allargando a poco a poco il buco. Finché ne sbucò fuori strisciando una sorta di bestia verde. Era ricoperta di scaglie lucenti. Quando emerse in superficie si scosse tutta, per far cadere la terra attaccata alle scaglie. Aveva un naso stranamente lungo, sempre più verde man mano che arrivava all'estremità, stretta e appuntita come una coda. Gli occhi erano quelli normali di una persona. Mi fecero venire i brividi, in quegli occhi c'erano sentimenti veri. Proprio come nei miei o nei vostri. Il mostriciattolo venne piano piano verso casa, e con la punta del naso bussò alla porta d'ingresso. Toc, toc, il rumore secco risuonò all'interno. Per non farmi notare mi spostai in punta di piedi in fondo alla stanza. Non riuscivo neanche a gridare. Tutt'intorno a noi non ci sono abitazioni, e mio marito non sarebbe tornato dal lavoro prima di sera. Impossibile scappare dal retro, la nostra casa ha solo una porta, e il repellente mostriciattolo vi stava bussando. Trattenni il fiato, facendo finta di non esserci, speravo che lui rinunciasse e se ne andasse. Invece non si diede per vinto. Aguzzò ancora di più la punta del naso, la inserì nel buco della serratura e dopo aver trafficato per qualche minuto riuscì ad aprire. Fece scattare la serratura con un rumore metallico, e socchiuse la porta. Introdusse appena il naso nella fessura e se ne servì per perlustrare a lungo l'interno della casa e studiare la situazione, come un serpente che sollevi la testa. Se doveva finire così, pensai, tanto valeva appostarmi di fianco alla porta con un coltello, uno dei tanti coltelli ben affilati che tengo in cucina, e tagliargli via con un colpo netto la punta del naso. Ma il mostriciattolo, quasi indovinasse il mio pensiero, sogghignò sornione. - Non serve a nu-nu-nulla, fare una cosa del genere, disse. Il suo modo di parlare era un po' strano, come se avesse imparato le parole nel modo sbagliato. Questo è come la coda-coda delle lucertole, puoi tagliarlo finché vuoi, cre-cre-sce di nuovo, in continuazione. E più viene ta-ta-tagliata più si allunga. Non se-se-serve a nulla -. Poi prese a roteare a tutta velocità, a lungo, quei suoi occhi sgradevoli. Questo qui sa leggere nel pensiero, mi dissi. In tal caso sono in un bel guaio. Se c'è una cosa che non posso sopportare, è che qualcuno capisca quello che ho in mente.
Soprattutto se si tratta di un assurdo mostriciattolo. Mi vennero i sudori freddi. Che intenzioni aveva nei miei confronti? Di mangiarmi, per caso? O forse di portarmi sottoterra? In ogni caso, non era poi tanto brutto da non potersi guardare. Le quattro zampette che spuntavano dalle scaglie verdi erano piuttosto carine, se si faceva astrazione dal resto, snelle, con le unghie lunghe. E a guardar bene, sembrava che per qualche ragione lui non avesse cattive intenzioni nei miei confronti. - È evi-vidente, - disse il mostriciattolo piegando la testa da un lato. Quel movimento fece tintinnare le scaglie, come quando si scuote un tavolino carico di tazzine di caffè. - Non ho nessu-suna intenzione di mangiarti. Che cattiva, perché didici certe cose? Non voglio farti del male. Perché do-dovrei? Si, non mi sbagliavo, capiva tutto quello che pensavo. - Senta, senta, signora, sono venuto a fa-farle una dichiarazione. Mi capisce? Sono venuto-nuto apposta fin quassù da un posto tanto, tanto profondo. Una fatica treme-menda. Ne ho spostata, di terra! Guardi le mie unghie, sono tutte ro-rovinate. Se avessi delle cattive intenzioni-delle cattive intenzioni-delle cattive intenzioni, come avrei potuto fare una cosa del genere? Se sono venuto fin qui è perché la amo-amo. Non ce l'ho fatta più, e sono sa-sa-salito fin qui. Tutti hanno cercato di dissuadermi, ma io non pote-potepotevo resistere. C'è voluto un bel-bel coraggio. Penserà che so-sono proprio uno sfrontato, un mostriciattolo come me venire a fa-fare una dichiarazione a lei. Ebbene sì, in fondo al cuore era proprio quello che pensavo, che mostriciattolo sfrontato, venire a fare una dichiarazione d'amore a me! A quel punto la sua faccia prese un'espressione molto triste. E come per esprimere quella tristezza le scaglie cambiarono colore, diventarono viola. In più tutto il suo corpo si ridusse un po'. Incrociai le braccia e lo guardai, rimpicciolito com'era. Poteva darsi che le sue dimensioni variassero secondo i mutamenti del suo umore. E forse il suo aspetto tanto repellente nascondeva un cuore tenero e vulnerabile come una mammola appena nata. In tal caso, avevo delle buone probabilità di vincere. Decisi di rimetterlo alla prova. « Sei proprio un brutto mostriciattolo schifoso, - pensai di nuovo. Nella mia testa parlavo a voce alta. Tanto alta da ripercuotersi sul mio cuore. - Sei proprio un brutto mostriciattolo schifoso! » Vidi le sue scaglie diventare sempre più viola. E i suoi occhi allargarsi sempre più, quasi assorbissero tutta la malevolenza che gli mandavo. Sporgevano dalla faccia come dei fichi, dai quali lacrime rosse come succo cadevano rumorosamente una dopo l'altra. Ormai non avevo più paura di lui. Provai a immaginarmi ogni sorta di crudeltà nei suoi confronti. Legarlo con del filo di ferro a una sedia, e con una pinzetta strappargli le scaglie verdi ad una ad una. Arroventare la punta di un coltello affilato e con quello fare profondi tagli nei polpacci color pesca, teneri e paffuti. Infilargli con tutte le forze un saldatore rovente in quegli occhi sporgenti come dei fichi. Ogni volta che mi figuravo una scena del genere, il mostriciattolo soffriva, urlava di dolore, boccheggiava come se veramente subisse quei supplizi. Versava le sue lacrime colorate, faceva cadere al suolo gocce di un liquido vischioso, buttava fuori dalle orecchie un vapore grigio che profumava di rose. E quei suoi occhi sporgenti mi guardavano con aria di rimprovero. - Senta, signora, la pre-prego, la su-supplico, non si immagini quelle orribili cose, - disse in tono triste, - anche se le pepe-pensa soltanto, non lo faccia. Non ho nessuna cattiva intenzione, non le faccio nulla di male. Semplicemente le vo-vo-voglio bene. Io però non l'ascoltai. «Non sto scherzando, - pensai, - te ne vieni fuori tutt'a un tratto dal mio giardino, ti permetti di aprire la porta di casa mia e di entrare senza permesso! Non sono stata io ad invitarti. E ho il diritto di pensare tutto quello che mi pare e piace». E così presi a figurarmi cose ancora più orrende. Con la fantasia torturai e tagliuzzai il mostriciattolo con ogni sorta di strumento e di attrezzo. Non tralasciai nemmeno uno dei sistemi per far soffrire un essere vivente. «Sai, mostriciattolo, tu le donne non le conosci, - pensavo. - Posso immaginarne quante ne voglio, di cattiverie del genere, non ci sono limiti». Finché a un certo punto i contorni del mostriciattolo cominciarono a sbiadire, e perfino il suo magnifico
naso verde si restrinse fino a diventare una sorta di verme. Mentre agonizzava per terra, mosse la bocca e rivolgendosi a me per l'ultima volta cercò di dirmi qualcosa. Sembrava che volesse trasmettermi un messaggio estremamente importante, qualcosa che voleva dirmi da tanto tempo, ma di cui s'era dimenticato. Una cosa molto grave. Però la sua bocca per il dolore cessò di muoversi, e alla fine sbiadì e scomparve. La figura del mostriciattolo impallidì come l'ombra al tramonto, e nell'aria rimasero soltanto i suoi tristi occhi sporgenti, riluttanti ad andarsene. - Inutile che tu faccia così. Puoi guardare finché vuoi, è fatica sprecata. Non puoi dire niente, non puoi pensare niente. Ormai hai completamente finito di esistere -. Allora anche gli occhi si dissolsero nell'aria, e il buio della notte riempì in silenzio la stanza.
Silenzio
Seduto di fronte a Òzawa, gli chiesi se avesse mai preso a botte qualcuno, durante una lite. Lui mi guardò in faccia socchiudendo le palpebre, come se qualcosa lo accecasse. - Perché mi fa questa domanda? - disse. Nei suoi occhi una luce vivida e tagliente aveva preso il posto dell'espressione solita, ma durò solo un istante. Quel bagliore ritornò in fondo alle pupille e la sua faccia ritrovò l'aria bonaria di sempre. Gli risposi che era soltanto una domanda, così, senza nessun significato profondo. Gliel'avevo fatta per semplice curiosità - una curiosità fuori luogo, probabilmente. Poi cambiai argomento. Ózawa però era svagato, sembrava assorto in qualche suo pensiero. Come se stesse resistendo a qualcosa, o al contrario ne fosse tentato. Non mi restava altro che guardare distrattamente le file di aerei argentati fuori dalla finestra. Se avevo fatto quella domanda, era perché lui mi aveva detto che frequentava una palestra di boxe, fin dai tempi della scuola media. L'argomento era venuto fuori tra un discorso e l'altro, mentre chiacchieravamo in attesa del nostro aereo. Anche ora che aveva trentun anni, Òzawa si allenava in palestra una volta alla settimana. Da studente aveva partecipato a parecchi incontri nei campionati universitari, ed era stato anche membro della squadra nazionale. Per me era proprio una sorpresa. In diverse occasioni avevo lavorato insieme a lui, ma non avrei mai detto che praticava la boxe da quasi vent'anni, non sembrava il tipo. Era un uomo tranquillo, piuttosto riservato. Nelle relazioni professionali era onesto e paziente, non cercava mai di imporre le cose. Non alzava mai il tono di voce né aveva scatti di irritazione, nemmeno quando era sovraccarico di lavoro. Né mi era successo di sentirlo parlare male di qualcuno o rivelare dettagli confidenziali. Insomma non si poteva fare a meno di trovarlo simpatico. Quanto all'aspetto, aveva un'aria gentile e bonaria, tutto fuorché aggressiva. Non riuscivo a immaginare che rapporto ci potesse essere fra un uomo del genere e la boxe, per questo gli avevo fatto quella domanda estemporanea. Dovevamo andare insieme a Niigata, e stavamo bevendo un caffè al ristorante dell'aeroporto. Era l'inizio di dicembre, spesse nuvole chiudevano il cielo come un coperchio. A Niigata sembrava che nevicasse abbondantemente fin dal mattino, l'aereo sarebbe decollato con notevole ritardo. Nell'aeroporto affollato, ogni volta che l'altoparlante annunciava lo spostamento di un volo la gente che riempiva le sale d'attesa prendeva un'espressione esausta. Il ristorante era surriscaldato e io continuavo ad asciugarmi il sudore con un fazzoletto. - In realtà, neanche una volta, - disse tutt'a un tratto Òzawa dopo un lungo silenzio. - Da quando faccio boxe, non ho mai picchiato nessuno. È una cosa che ti martellano in testa fino alla nausea, quando inizi. Non devi assolutamente prendere a pugni nessuno fuori dal ring, senza guanti. Se una persona comune picchia qualcuno e gli fa male, può anche finire nei guai. Ma se lo fa un pugile, gliela fanno pagare cara. È considerato uso improprio di armi. Annuii. - Però a dir la verità, un pugno a una persona una volta l'ho dato, una volta sola, - proseguì Ózawa. - A quindici anni, quando avevo appena iniziato la boxe. Non vorrei aver l'aria di scusarmi, ma all'epoca non mi avevano ancora insegnato nessuna tecnica di pugilato, tutto quello che facevo in palestra era la ginnastica di base per rafforzare i muscoli. Salto in alto, stretching, corsa, i soliti esercizi. Inoltre non avevo veramente l'intenzione di picchiare, ma ero talmente arrabbiato che la mia mano è scattata da sola, come una molla, non ho nemmeno avuto il tempo di pensarci. Impossibile trattenermi. Quando me ne sono reso conto, avevo già colpito. E anche dopo, continuavo a sentirmi in subbuglio per la rabbia. In sostanza, Ózawa aveva iniziato la boxe perché suo zio gestiva una palestra. Non si trattava del solito
club tanto per fare, come ce ne sono in tutte le città, ma di una scuola di prim'ordine, che aveva sfornato dei campioni nazionali. Da ragazzo Ozawa se ne stava sempre rintanato nella sua stanza a leggere, e i suoi genitori, preoccupati che il figlio crescesse robusto, gli avevano chiesto se non voleva provare ad allenarsi un po'. Lui personalmente non era tanto interessato a quel tipo di attività, ma lo zio gli era simpatico, così aveva cominciato senza prendere la cosa troppo sul serio. Poteva sempre provare, se proprio non gli fosse piaciuto avrebbe smesso. Però dopo qualche mese che si recava alla palestra dello zio - ogni volta ci voleva un'ora di treno - si appassionò al pugilato in maniera sorprendente. La ragione principale era che si trattava di uno sport sostanzialmente solitario. E molto individuale. Un mondo del tutto nuovo, che fino ad allora non aveva mai intravisto, mai sfiorato. E che irrazionalmente lo eccitava. L'odore di sudore di uomini più vecchi di lui, il duro cigolio della pelle dei guanti quando veniva schiacciata, la solitudine delle persone assorte nello sforzo di usare i propri muscoli con maggiore efficacia e rapidità... tutto ciò a poco a poco conquistava il suo cuore. Andare ogni sabato e ogni domenica alla palestra era diventato per lui uno dei suoi pochi piaceri. - La cosa che più mi è piaciuta, nella boxe, è la sua profondità, - disse. - E quello che mi ha affascinato. In confronto, il fatto di vincere o perdere non ha davvero la minima importanza. E solo un risultato. A volte va bene e a volte no. Ma se si riesce a capire quella profondità, comunque vadano le cose, non si resta feriti nello spirito. Non è possibile vincere sempre, in tutto. Prima o poi si perde, non c'è scampo. L'importante è sentire quella profondità. La boxe - almeno per quel che mi riguarda - è proprio questo. Quando uno si infila i guantoni e sale sul ring, a volte ha l'impressione di trovarsi in fondo a un buco profondo. Profondissimo, tanto che non vede nessuno, non è visto da nessuno. È lì dentro combatte contro l'oscurità. È solo. Ma non è triste. La gente usa spesso l'espressione «sentirsi solo», ma in realtà c'è solitudine e solitudine. C'è quella triste e dura che logora i nervi. Ma ce n'è anche una diversa. Per conoscerla, è necessario controllare il proprio corpo, la si ottiene in cambio di questo sforzo. È questa una delle cose che la boxe mi ha insegnato. Òzawa rimase in silenzio per una ventina di secondi. - Ad essere sincero, è una storia di cui non parlo volentieri, - proseguì poi. - Potendo, la cancellerei dalla mia memoria, ma è ovvio che non ci riesco. Non si dimentica mai quello che si vorrebbe dimenticare -. A questo punto sorrise, e guardò il suo orologio. C'era ancora un sacco di tempo, allora incominciò quietamente a raccontare.
Il ragazzo con cui ce l'aveva tanto, quella volta, era un suo compagno di scuola. Si chiamava Aoki. Ózawa non lo aveva mai potuto soffrire, non sapeva spiegarsi neanche lui perché. Gli risultò antipaticissimo fin dalla prima volta che lo vide. Prima di allora in vita sua non aveva mai detestato qualcuno tanto cordialmente. - Succede, no? - disse. - Credo che capiti a chiunque, una volta nella vita, di provare repulsione per qualcun altro, così, senza una ragione. Io non penso di essere il tipo di persona che prova antipatie ingiustificate, eppure una volta mi è successo. Non sto cercando di scusarmi. Il problema è che di solito è una cosa reciproca, l'altro nutre esattamente gli stessi sentimenti. Questo Aoki riusciva molto bene negli studi, molto spesso era il primo. Frequentavamo una scuola privata per soli maschi e lui aveva molto successo, in classe era il più popolare, oltre ad essere il cocco dei professori. Nonostante avesse ottimi voti non si dava arie, era socievole, alla mano, e scherzava volentieri. Aveva anche il senso della giustizia. Eppure io fiutavo in lui un istinto calcolatore, dietro quella sua generica bravura, e fin dall'inizio non lo potei sopportare. Se dovessi spiegare da cosa fosse provocata questa mia avversione, mi sarebbe difficile, non saprei fare degli esempi concreti. Era qualcosa che semplicemente sentivo, non so dire altro. Tutta la mia natura si rivoltava contro l'odore di egoismo e di arroganza che
emanava da Aoki, come a volte non si può sopportare l'odore del corpo di qualcuno. Però lui era intelligente, e quell'odore lo teneva ben nascosto, così la maggior parte degli altri allievi erano convinti che fosse un bravo ragazzo. Sentirli dire così mi metteva ogni volta di pessimo umore, ma ovviamente tenevo la mia irritazione per me. In tante cose, Aoki ed io eravamo uno l'opposto dell'altro. Io ero taciturno, e in classe passavo inosservato. Per carattere non mi piaceva farmi notare, e non soffrivo a stare solo. Naturalmente avevo anche alcuni amici, ma non tanto intimi. In un certo senso ero un ragazzo molto maturo per la mia età, più che incontrarmi con i miei compagni di classe mi piaceva isolarmi a leggere, a sentire i dischi di musica classica di mio padre, andare alla palestra e chiacchierare con persone più grandi. Come può constatare, fisicamente non sono nulla di eccezionale. A scuola non andavo male, ma non ero neanche tra i migliori, e agli insegnanti capitava spesso di dimenticare il mio nome. Insomma ero il tipo di ragazzo che evita di attirare l'attenzione. Non parlavo mai a nessuno del fatto che frequentavo una palestra di boxe, né dei libri che avevo letto o dei dischi che ascoltavo. In confronto a me, Aoki si faceva notare come un cigno in mezzo al fango, qualunque cosa facesse. Onestamente devo ammettere che era intelligente, il cervello gli funzionava con rapidità. Capiva subito cosa pensasse o desiderasse il suo interlocutore, e adattava le proprie reazioni di conseguenza. Era proprio in gamba, e tutti lo ammiravano. Tutti tranne me, io lo trovavo superficiale e falso. Se l'intelligenza consisteva nell'essere come lui, potevano anche considerarmi un cretino, me ne infischiavo. Aoki era molto astuto, lo ammettevo, però non aveva una sua personalità. Un individuo che fa a tal punto ricorso agli altri, non è nessuno, la sua unica soddisfazione è di venire accettato da tutti. Si esalta per il proprio piano, ma appena cambia il vento incomincia a girare come una trottola. Eppure non c'era nessuno, a parte me, che capisse tutto questo. Probabilmente, furbo com'era, Aoki sapeva benissimo cosa pensavo di lui. Inoltre sembrava provare nei miei confronti una sorta di malevolenza. Nemmeno io ero stupido. Forse niente di eccezionale, ma non uno stupido. Non è il caso che me ne vanti, ma già all'epoca avevo un mondo mio. Nessun altro ragazzo nella mia classe aveva letto tanti libri come me. Ero giovane anch'io, certo, ma forse a volte mi capitava di sentirmi superiore agli altri, e questo dovevo averlo scritto in faccia, mio malgrado. E credo che Aoki avesse capito perfettamente quella mia sorta di presunzione taciturna. Una volta risultai primo in inglese agli esami trimestrali. Per me era la prima volta. Non era stato un caso, all'epoca desideravo ardentemente una cosa - adesso non ricordo di che oggetto si trattasse - e i miei mi avevano promesso che se fossi risultato primo in almeno uno degli esami, me l'avrebbero comprata. Mi ero detto che conveniva provare con l'inglese, e avevo studiato seriamente. Avevo imparato la materia d'esame da un capo all'altro, appena trovavo un po' di tempo libero ripassavo le coniugazioni dei verbi. Avevo letto e riletto il libro di testo tante di quelle volte che lo sapevo a memoria. Di conseguenza prendere un voto vicino a cento e risultare primo per me non era stata una sorpresa, al contrario. Tutti però ne furono meravigliati, perfino l'insegnante. Quanto ad Aoki, ne ebbe uno shock, fino ad allora era sempre stato lui, il primo in inglese. Il professore, quando ci aveva restituito i fogli, l'aveva benevolmente preso in giro a questo proposito. Aoki era diventato scarlatto, di sicuro pensava di essere diventato lo zimbello di tutti. Ho scordato cosa gli abbia detto esattamente l'insegnante, ma qualche giorno dopo qualcuno mi riferì che Aoki stava divulgando una voce sgradevole sul mio conto: che all'esame io avevo imbrogliato. Che non riusciva a immaginare con quale altro mezzo avessi potuto ottenere il miglior punteggio. La stessa cosa mi venne ripetuta da parecchi altri, il che mi dette molto fastidio. In realtà, sarebbe stato meglio ridere di quella storia, ignorarla. Ma ero solo un ragazzino, non potevo avere tanto controllo su di me. Allora un giorno presi Aoki in disparte, e gli chiesi ragione di tutte quelle cattiverie che avevo sentito dire. Aoki impallidì. «Ehi, di che cosa mi stai accusando? - chiese. - Non crederai mica che mi lasci insultare da te?
Calmati, anche se per sbaglio sei risultato primo!» Quindi cercò di spingermi da parte con noncuranza e di andarsene. Era molto più alto e robusto di me, e di sicuro pensava di essere anche più forte. E stato allora che l'ho colpito, per istinto. Prima di rendermene conto gli avevo mollato un diretto sulla guancia sinistra, con tutte le mie forze. Aoki cadde a terra sul fianco, e cadendo sbatté la testa contro il muro. Tanto forte che si sentì il rumore dell'urto. Perse anche sangue dal naso, macchiandosi la camicia bianca. Rimase seduto a terra a guardarmi con aria attonita, forse per la sorpresa non riusciva a capire cosa gli fosse successo. Da parte mia, mi pentii di averlo colpito nell'attimo stesso in cui il mio pugno toccò il suo zigomo. Capii subito che un comportamento del genere non serviva a nulla. Ero ancora fremente per la collera, ma consapevole di aver fatto una sciocchezza. Pensai di scusarmi, ma non lo feci. Se non si fosse trattato di Aoki avrei chiesto scusa immediatamente, ma a lui no, non ci pensavo neanche. Mi rincresceva di avergli dato un pugno, ma non credevo di aver fatto qualcosa di scorretto. Niente di strano che una carogna del genere le prendesse, pensai, era come un insetto nocivo. In realtà sarebbe stato naturale che qualcuno lo schiacciasse sotto i piedi. Però io non avrei dovuto colpirlo. Era una verità che intuivo. Troppo tardi, ormai era fatta. Me ne andai lasciandolo dove si trovava. Alle lezioni del pomeriggio, Aoki non venne. Forse era tornato direttamente a casa, mi dissi. Dentro di me provavo una sensazione sgradevole che non se ne voleva andare. Qualunque cosa facessi, mi sentivo a disagio. Leggere, ascoltare la musica, non mi dava alcun piacere. In fondo allo stomaco avevo un malloppo oscuro che non mi permetteva di concentrarmi. Mi sembrava di aver inghiottito un insetto puzzolente. Mi sdraiai sul letto e rimasi a lungo a osservare il mio pugno. Ero davvero molto solo, pensai. E odiai Aoki ancor più di prima, perché mi faceva sentire in quel modo... Dal giorno seguente, Aoki evitò sempre di incontrare il mio sguardo, fingeva che io non esistessi. E continuò a risultare primo in tutte le prove. A me non successe più di studiare come un pazzo per un esame, mi sembrava che ormai non avesse importanza. Mi sforzavo quel tanto che bastava perché la mia media non si abbassasse, e il resto del tempo lo passavo come mi piaceva. Inoltre continuavo a frequentare la palestra di mio zio, dove mi allenavo con fervore. Con la conseguenza che per essere uno studente delle medie divenni piuttosto bravo nella boxe. Potevo sentire il mio corpo modificarsi a poco a poco. Le spalle mi divennero più larghe, il petto più ampio. Le braccia più robuste, i muscoli delle guance più fermi. Mi dicevo che di quel passo stavo diventando un adulto, ed era una sensazione magnifica. Ogni sera mi spogliavo e mi mettevo in piedi davanti allo specchio del bagno, all'epoca guardarmi era per me un grande piacere. Finita la scuola media, io e Aoki fummo assegnati a classi diverse. Che sollievo, ero felice già solo per il fatto di non doverlo vedere tutti i giorni! Mi dicevo che per lui doveva essere la stessa cosa, a poco a poco quel ricordo sgradevole si sarebbe allontanato. Pia illusione, Aoki attendeva solo il momento di farmela pagare. Le persone arroganti a volte sono così, e lui era un tipo vendicativo, se riceveva un insulto, non lo dimenticava più. Infatti stava aspettando in silenzio l'occasione buona per farmi lo sgambetto. Andavamo allo stesso liceo perché frequentavamo un istituto privato che riuniva medie inferiori e superiori. Ogni anno le classi venivano rimescolate, ma io e Aoki non fummo mai insieme. Tranne l'ultimo anno, in terza, quando ci ritrovammo nuovamente compagni. Appena lo vidi, entrando nell'aula, ne fui estremamente contrariato. Il suo sguardo in quel momento non mi piacque per nulla, provai lo stesso peso di una volta in fondo allo stomaco. E un presentimento funesto. Ózawa a quel punto strinse le labbra e rimase assorto a fissare la tazza davanti a sé. Dopo un po' alzò il viso e sorrise leggermente, guardandomi in faccia. Fuori dalla finestra si sentì il rumore del motore a reazione di un aereo, un boeing 737 si immerse in linea retta nelle nuvole come un cuneo, e sparì in lontananza. - Il primo trimestre passò senza incidenti, - riprese a raccontare Ozawa. - Aoki si comportava nel modo solito, in quattro anni non era quasi cambiato. Ci sono delle persone così, che non crescono e nemmeno
regrediscono. Fanno sempre le stesse cose nello stesso modo. Aoki era sempre il primo della classe, e aveva sempre molto successo. Quel ragazzo non aveva ancora vent'anni, ma aveva già capito il trucco per riuscire, nella società. Probabilmente anche ora vive così. Ad ogni buon conto, sia lui che io facevamo in modo che i nostri sguardi non si incrociassero. È brutto quando si ha un rapporto tanto cattivo con un compagno di classe, ma cosa ci potevo fare? La responsabilità in parte era anche mia. Arrivarono finalmente le vacanze estive. Le ultime per noi di terza. In quel primo trimestre io ero riuscito a cavarmela con dei voti passabili, e a patto di non mirare troppo in alto sarei riuscito ad entrare in un'università decente. Di conseguenza non mi ammazzai a studiare per il concorso di ammissione, mi limitavo a fare gli esercizi preparatori che ci davano a scuola ogni giorno. Era sufficiente. I miei genitori non mi rompevano le scatole. Il sabato e la domenica andavo in palestra ad allenarmi e il resto del tempo leggevo o ascoltavo dischi. Tutti gli altri ragazzi invece avevano gli occhi rossi per le ore passate sui libri. Ormai in tutta la scuola, medie e liceo, non si parlava d'altro che dei concorsi. Quanti sarebbero entrati in tale università, in quale altra il tasso di accesso era più alto, gli insegnanti perdevano il sonno su quelle cifre, alternando l'ottimismo alla costernazione. Anche gli allievi, soprattutto quelli di terza, avevano il cervello surriscaldato, e in classe l'atmosfera era molto tesa. A me non piaceva quell'aspetto della mia scuola, non mi era piaciuto quando ci ero entrato e non mi piaceva adesso che erano passati sei anni. Fino alla fine, lì dentro non ero riuscito a farmi neanche un amico con il quale potermi confidare apertamente. Durante tutti gli anni del liceo, le sole persone con cui avevo avuto un vero rapporto di amicizia erano quelle che incontravo in palestra. La maggior parte erano uomini più vecchi di me, molti lavoravano già, e in loro compagnia mi trovavo benissimo. Dopo gli allenamenti andavamo insieme da qualche parte a bere una birra, e a parlare di tante cose. Erano persone del tutto diverse dai miei compagni di classe, con loro conversavo di argomenti che a scuola non toccavo mai. Con loro mi sentivo tranquillo, e imparavo tante cose importanti. Se non avessi fatto boxe, se non avessi frequentato la palestra di mio zio, mi sarei sentito estremamente solo. Quando ci penso, ancora adesso mi vengono i brividi. Durante le vacanze estive successe un fatto grave, uno dei miei compagni, un certo Matsumoto, si suicidò. Era un ragazzo tranquillo che non dava nell'occhio, anzi, sarebbe meglio dire che passava del tutto inosservato. Al punto che quando mi dissero che era morto, non riuscii a farmi tornare in mente la sua faccia. D'altronde ci eravamo parlati forse due o tre volte, benché fossimo nella stessa classe. Ricordo solo che era un tipo fiacco dal colorito malsano. Si era suicidato un po' prima di Ferragosto, questo lo rammento bene perché il suo funerale si svolse nello stesso giorno dell'anniversario della fine della guerra, sotto un sole torrido. Mi avevano telefonato a casa per annunciarmi la sua morte e dirmi di venire alla cerimonia, cui avrebbero partecipato tutti. In effetti c'era la classe al completo. Matsumoto si era gettato sotto un vagone della metropolitana, nessuno sapeva perché. Aveva sì lasciato una lettera, ma c'era scritto soltanto che non voleva più andare a scuola, senza spiegarne il motivo. Perlomeno così mi dissero. Naturalmente al liceo l'atmosfera era elettrica, dopo il funerale tutte le classi vennero chiamate a riunione, e il preside fece un lungo discorso... che la morte di Matsumoto era una cosa tristissima, che dovevamo assumercene la responsabilità tutti insieme, che per superare quel dolore dovevamo studiare ancora di più... insomma i soliti luoghi comuni. Poi tutti se ne andarono, tranne la nostra classe che venne riunita nella nostra aula. In piedi davanti a noi, il preside e uno dei nostri professori ci dissero che se c'era una ragione precisa al suicidio di Matsumoto, dovevamo trovarla. Perciò se qualcuno di noi sapeva o intuiva qualcosa al riguardo, doveva dirlo sinceramente. Nessuno si mosse, nessuno aprì bocca. Io non detti molta importanza a tutta quella messa in scena. Mi dispiaceva per il povero Matsumoto, non avrebbe dovuto morire in quel modo orrendo. Se detestava la scuola, perché non si era ritirato? E poi, per quanto l'avesse in odio, gli restavano ormai solo sei mesi. Chi l'obbligava a suicidarsi? Non capivo, chissà, forse aveva una depressione nervosa. Ormai a scuola si parlava solo di esami, nient'altro che esami,
e non c'era nulla di strano che uno di noi non avesse retto. Tuttavia, quando finirono le vacanze e ripresero le lezioni, avvertii immediatamente che in classe regnava un'atmosfera insolita. Tutti erano estremamente freddi nei miei confronti. Se per qualche ragione chiedevo qualcosa a qualcuno, ricevevo soltanto risposte brusche e approssimative. In principio pensai che fosse solo una mia impressione, oppure che fossero tutti molto nervosi, e non me ne preoccupai molto. Ma cinque giorni dopo l'inizio del trimestre, di punto in bianco uno dei miei insegnanti mi chiamò e mi disse di restare dopo le lezioni, di aspettarlo nella sala dei professori. Quando arrivò, mi chiese se era vero che praticavo la boxe. Risposi di sì, le regole della scuola non lo vietavano. E quand'era che avevo cominciato? In seconda media. Ammettevo di aver picchiato Aoki, una volta? sì, era la verità, dissi sinceramente, non era il caso di mentire. Prima o dopo di iniziare la boxe? mi chiese ancora l'insegnante. Dopo, ma all'epoca non avevo ancora imparato nulla, gli spiegai, avevo cominciato solo da tre mesi e non avevo mai messo i guanti. L'insegnante non mi ascoltava quasi. Avevo picchiato Matsumoto? mi domandò a un certo punto. Rimasi sbalordito. Se non gli avevo quasi mai parlato! Risposi che non lo avevo fatto, non c'era nessuna ragione per farlo. Pare che Matsumoto venisse regolarmente picchiato da qualche compagno, mi disse l'insegnante con aria severa. Che tornasse spesso a casa coperto di lividi. Così aveva raccontato sua madre. A scuola, nella nostra scuola, veniva picchiato da qualcuno che gli estorceva anche delle piccole somme di denaro. Matsumoto però non aveva voluto rivelare a sua madre il nome del suo persecutore, per paura di maltrattamenti ancora peggiori. Così, incapace di sopportare oltre, si era suicidato. Non aveva potuto consigliarsi con nessuno, poveretto. Si era preso un sacco di botte. Adesso stavano indagando su chi di noi fosse il colpevole. Se mi veniva in mente qualcosa, dovevo dirlo sinceramente. In modo che quella storia si risolvesse senza scandali. Altrimenti avrebbero dovuto affidare l'inchiesta alla polizia. Lo capivo o no? Intuii immediatamente che era tutta opera di Aoki. Stava sfruttando abilmente la morte di Matsumoto. Forse non aveva neanche avuto bisogno di mentire. Era venuto a sapere che io praticavo la boxe. Non riuscivo a immaginare come, visto che non ne avevo parlato a nessuno, ma lo aveva saputo. Poi, prima che Matsumoto morisse, aveva sentito dire che qualcuno lo picchiava. Il resto era stato facile, era bastato sommare le due cose. Andare dal professore e raccontargli che io facevo boxe, e che una volta lo avevo preso a pugni. Ovviamente con l'aggiunta di qualche commento adeguato. Per esempio che non l'aveva mai detto a nessuno perché lo avevo minacciato. Ma non si era inventato nulla, nessuna bugia facile da smentire, lui stava molto attento a queste cose. Dava abili interpretazioni di ogni singolo fatto veramente accaduto, fino a creare un'atmosfera di innegabile accusa. Era il suo metodo, lo sentivo come se lo tenessi in mano. Era evidente che gli insegnanti mi ritenevano colpevole. Per loro tutti quelli che praticavano la boxe, chi più chi meno, erano dei poco di buono. E tanto per cominciare, non ero il tipo di allievo che i professori avevano in simpatia. Tre giorni dopo decisero di fare appello alla polizia. Non c'è bisogno di dire che per me fu uno shock, non avevano nessun fondamento, nessuna prova. Era tutto falso, dalla A alla Z. Ero veramente rattristato e avvilito. Nessuno mi credeva, gli insegnanti, che avrebbero dovuto essere imparziali, non mi proteggevano. Al posto di polizia subii un semplice interrogatorio. Spiegai che io con Matsumoto non avevo quasi mai parlato. Era vero che quattro anni prima avevo dato un pugno ad Aoki, ma era stata una banale lite, come ne capitano tutti i momenti, in seguito non c'erano stati problemi. Non sapevo altro. Il poliziotto incaricato del caso mi disse che correva voce che fossi stato io a picchiare Matsumoto. Era una menzogna, risposi. Qualcuno aveva diffuso quella voce per farmi del male. Il poliziotto non potè insistere, non c'era nessuna prova, era tutta una montatura. Subito la notizia della mia convocazione al commissariato si diffuse a scuola. Doveva restare segreta, ma trapelò. Tutti allora presero a guardarmi in maniera decisamente diversa. I poliziotti dovevano avere dei validi motivi, sembravano pensare, per convocare qualcuno. La convinzione che fossi stato io a picchiare
Matsumoto si rafforzò. Non sapevo che cosa raccontasse in giro Aoki, che razza di storia stesse prendendo forma tra i miei compagni, e neanche lo volevo sapere. Ma di sicuro doveva essere una brutta storia, perché nessuno di loro mi rivolgeva più la parola. Nessuno mi parlava, come se si fossero messi d'accordo - forse lo avevano fatto davvero. Se domandavo qualcosa a qualcuno - quando non potevo farne a meno - non ricevevo risposta. Anche i ragazzi con cui fino ad allora ero andato d'accordo si tenevano alla larga, tutti mi evitavano, quasi fossi portatore di qualche malattia contagiosa. Mi ignoravano totalmente, come se non esistessi. E non solo gli allievi, anche gli insegnanti cercavano di non guardarmi in faccia. Pronunciavano il mio nome soltanto quando facevano l'appello, altrimenti evitavano di chiamarmi. Il momento peggiore era l'ora di ginnastica. A qualsiasi cosa si giocasse, non venivo incluso in nessuna squadra, nessuno mi voleva come partner. L'insegnante non cercò di venirmi in aiuto nemmeno una volta. Andavo a scuola in silenzio, in silenzio seguivo le lezioni, poi me ne tornavo a casa. La stessa cosa si ripeteva ogni giorno, ogni giorno. Erano giornate penose. Dopo due, tre settimane, persi completamente l'appetito. Dimagrivo a vista d'occhio, e la notte non riuscivo più a dormire bene. Appena mi sdraiavo il cuore cominciava a battermi, mi venivano in mente una dopo l'altra tante immagini, e il sonno si dileguava. Ma anche quando avevo gli occhi aperti ero in uno stato confusionale, a volte mi chiedevo se fossi sveglio o dormissi. Cominciai a saltare qualche allenamento di boxe. Preoccupati, i miei genitori mi chiedevano se fosse successo qualcosa. Io però non dicevo nulla. «No, niente, - rispondevo, - sono solo un po' stanco». Tanto cosa avrebbero potuto fare, se avessi raccontato loro la verità? In conclusione, non seppero mai come venivo trattato al liceo. Sia mio padre che mia madre lavoravano, e non avevano tanto tempo da dedicare ai figli. Quando tornavo da scuola, mi chiudevo in camera mia e restavo a lungo con le mani in mano. Non riuscivo a fare nulla. Solo a far correre la fantasia, gli occhi rivolti al soffitto. Mi immaginavo tante cose. Prima di tutto, di riempire di botte Aoki. Di sorprenderlo una volta da solo, e pestarlo di santa ragione. Dirgli che era un'immondizia, e suonargliele con tutte le mie forze. Colpirlo, e colpirlo ancora, anche se avesse urlato, se avesse pianto e chiesto perdono. Fino a ridurgli la faccia in poltiglia. Ogni volta però finivo col sentirmi male. All'inizio provavo soddisfazione: ben gli sta, pensavo. Una sensazione magnifica. Poi a poco a poco mi veniva la nausea. Eppure non riuscivo a smettere. Quando guardavo il soffitto la sua faccia prima o poi mi appariva davanti, e a un certo punto mi accorgevo che lo stavo picchiando. E una volta che cominciavo, non potevo più fermarmi. Finché mi veniva la nausea, tanto che qualche volta vomitavo davvero. Cosa dovevo fare? Non ne avevo la minima idea. Pensai anche di andare a mettermi di fronte a tutta la classe e dichiarare la mia innocenza. Se avevo fatto qualcosa di riprovevole, che ne cercassero le prove. E se non avevano le prove, che la smettessero di incolparmi. Però avevo il presentimento che qualunque cosa avessi detto, non mi avrebbero creduto. E poi ad essere sincero, non avevo voglia di giustificarmi con della gente che aveva preso come oro colato le parole di Aoki. Tanto più che una tale dichiarazione avrebbe fatto capire ad Aoki che ero sconfitto. Io invece non volevo salire sullo stesso ring con una carogna come lui. Questa era la situazione, e io non sapevo come uscirne. Non potevo picchiare Aoki né punirlo, e nemmeno convincere gli altri. Non mi restava che sopportare in silenzio. Mancavano solo sei mesi alla fine della scuola, ancora sei mesi e non avrei più dovuto vedere nessuno di loro. Bastava che riuscissi a reggere quell'isolamento fino ad aprile. Però non ero sicuro di poter resistere tanto a lungo. Non ero neanche sicuro di poter resistere un mese. Ogni pomeriggio, tornando a casa, con un pennarello cancellavo dal calendario un giorno. Uno di meno, due di meno... Mi sentivo stritolare. E probabilmente avrei finito col soccombere, se un mattino non mi fossi trovato nello stesso treno con Aoki. Adesso mi rendo conto che i miei nervi erano sul punto di cedere. Fu circa un mese dopo che quella situazione infernale era incominciata, che potei venirne fuori. Nel
treno che prendevo per andare a scuola, una volta mi trovai per caso faccia a faccia con Aoki. Stavamo schiacciati come sardine, impossibile muoversi. A un certo momento lo vidi un po' più avanti, dietro le spalle di qualcuno, due o tre persone più in là. Eravamo rivolti uno verso l'altro. Anche lui si accorse di me. Ci guardammo. Dovevo avere una faccia tremenda, non dormivo bene, ero sull'orlo della depressione. Infatti all'inizio, i suoi occhi erano beffardi. Come a dirmi allora, come ti senti? Sapeva benissimo che io avevo capito che era tutta opera sua. Per un po' ci fissammo senza batter ciglio. Guardandolo negli occhi però, a poco a poco cominciai a provare un sentimento strano. Un'emozione del tutto nuova. Evidentemente nutrivo un rancore fortissimo verso Aoki, lo odiavo al punto che a volte desideravo ucciderlo. Eppure quella volta, ciò che provai in quel treno affollato, più che odio o collera era un sentimento vicino alla tristezza e alla compassione. «Veramente c'è gente che si sente in gamba o vincente per aver fatto una cosa del genere? - mi chiesi. - Costui davvero si sente soddisfatto e contento perché ha compiuto questa prodezza?» Tale pensiero mi rattristò profondamente. Mi dissi che quel ragazzo non avrebbe mai capito in cosa consistano la vera gioia e il vero orgoglio. Per tutta la vita, non avrebbe mai provato quella tranquilla vibrazione che nasce dentro di sé. Ci sono persone che mancano completamente di spessore. Non che io pensi di essere particolarmente profondo: quello che voglio dire è che bisogna avere la capacità di sentire l'esistenza della profondità. Aoki non l'aveva. La sua era una vita vuota e piatta. Brillava, sì, in apparenza vinceva, ma in realtà non era nessuno. Mentre elaboravo questi pensieri, continuavo a guardarlo tranquillamente in faccia. Ormai non ero più in collera con lui, di lui non me ne importava più niente. Sul serio, tanto che ne ero sorpreso io stesso. E mi dissi che avrei sopportato in silenzio i cinque mesi restanti, ero sicuro di farcela. Avevo ancora il mio orgoglio, non c'era nessuna ragione per cui dovessi lasciarmi abbattere da un essere come Aoki. Lo pensai molto lucidamente. Questo esprimevano i miei occhi mentre l'osservavo. Ci guardammo a lungo. Anche lui doveva pensare che se avesse distolto gli occhi avrebbe perso. Fino a quando il treno arrivò alla stazione seguente, nessuno dei due cedette. Ma alla fine lo sguardo di Aoki vacillò. Solo per qualche secondo, ma vacillò. Quando si pratica a lungo la boxe, si diventa molto acuti nel valutare lo sguardo dell'avversario. Quelli erano gli occhi di un pugile che non riesce più a muovere le gambe. Vorrebbe muoverle, ma non ce la fa. È convinto di muoverle, ma in realtà le tiene ferme. E quando le gambe sono ferme le spalle perdono scioltezza. E i pugni perdono forza. Questo c'era negli occhi di Aoki. È una sensazione strana, che il pugile stesso non sa spiegarsi. Fu così che mi salvai, quando ero ormai al limite. Ricominciai a dormire bene, ritrovai l'appetito, ripresi gli allenamenti di boxe. Mi dicevo che non dovevo cedere. Non si trattava di essere più forte di Aoki, era dalla vita stessa che non dovevo lasciarmi sconfiggere. Non dovevo lasciarmi abbattere da gente disprezzabile che per me non contava nulla. Tenni duro per tutti i cinque mesi. Non dissi una sola parola a nessuno, continuavo a ripetermi che non ero io a sbagliare, erano loro. Ogni giorno mi recavo a scuola a testa alta, e a testa alta tornavo a casa. E finito il liceo, mi iscrissi in una università di Kyùshù, dove non incontrai più nessuno dei miei compagni di liceo. Terminato quel lungo racconto, Ozawa fece un profondo sospiro. Poi mi chiese se non volevo un altro caffè. Rifiutai, ne avevo già bevuti tre. - Quando una persona ha avuto un'esperienza tanto intensa, volente o nolente cambia, - continuò lui. - Cambia sia in senso positivo che negativo. Il senso positivo, è che a causa di quella storia sono diventato una persona molto paziente. In confronto a ciò che ho provato in quei sei mesi, qualunque difficoltà abbia avuto in seguito mi è sembrata una sciocchezza. Con uno sforzo sono riuscito a superare anche le prove più dure, ripensando all'angoscia di allora. E forse sono diventato più attento al dolore e ai problemi delle persone intorno a me. Questo è il lato positivo. E grazie a questa qualità acquisita, mi sono fatto molti buoni
amici. Ma c'è pure un lato negativo. Da allora io non ho più creduto negli esseri umani. Non si tratta di misantropia, ho una moglie e dei figli. Formiamo una famiglia, e ci prendiamo cura gli uni degli altri. Se mancasse la fiducia reciproca, non sarebbe possibile. Però, sa cosa penso? Che adesso faccio una vita tranquilla e sicura, è vero, ma può sempre succedere qualcosa, sopravvenire qualche accidente veramente maligno a sconvolgerla. E in tal caso, benché ora sia circondato dall'affetto della mia famiglia e degli amici più cari, non so come finirebbe. Può darsi che da un giorno all'altro nessuno creda più a quello che dico. O a quello che dice lei. Queste cose improvvisamente succedono. Un brutto giorno accadono. E un pensiero costante. Quella volta la cosa si è risolta nel giro di sei mesi. Ma se dovesse capitare di nuovo, quanto potrebbe durare? E quanto a lungo potrò sopportare, la prossima volta? Non lo so, non ho tanta fiducia in me stesso. Quando mi vengono di questi pensieri, ho veramente paura. Mi succede di avere incubi del genere la notte, e balzo a sedere nel letto. Mi succede spesso. In quei casi sveglio mia moglie, mi aggrappo a lei e piango. A volte piango per un'ora di seguito. Per la paura, una paura intollerabile. Ózawa smise di parlare e guardò le nuvole fuori dalla finestra. Sembravano immobili, la loro ombra spessa assorbiva i colori della torre di controllo, degli aerei, dei carrelli, delle passerelle, degli uomini in abiti da lavoro, di tutto. - Non ho paura della gente come Aoki. Di Aoki ce ne sono ovunque, non ci si può fare nulla. Quando incontro persone cosi, cerco di tenermene alla larga, a qualunque costo. Scappo. Con loro non si può far altro che scappare. Non è tanto difficile, li posso individuare subito, gli Aoki. Al tempo stesso, penso che a loro modo siano davvero in gamba. Nessuno può negare che abbiano il talento di tenersi tranquilli in attesa dell'occasione buona, che sappiano cogliere il momento giusto, siano abilissimi nel manipolare e istigare l'animo della gente. Li detesto al punto che mi danno la nausea, ma devo ammettere che hanno un vero talento. No, quella che mi fa veramente paura, è la gente che beve come oro colato le parole dei tipi come Aoki, che ci crede incondizionatamente. Le persone che si lasciano incantare, che seguono in massa qualcuno che non produce niente, non capisce niente, ma parla bene, in maniera persuasiva. A queste persone non passa neanche per l'anticamera del cervello che potrebbero sbagliarsi. Non riescono neanche a immaginare che possono ferire qualcuno irreparabilmente, senza motivo. Non si assumono la minima responsabilità degli effetti della loro condotta. Sono loro, quelli di cui ho paura. Sono loro, quelli che vedo in sogno. Nel sogno tutto tace, e mi appaiono delle persone senza volto. Il silenzio si infiltra ovunque come acqua fredda, e in quel silenzio tutto si scioglie. Compreso me, che vado dissolvendomi, e grido, grido, ma nessuno mi ascolta. Così dicendo Ozawa scosse la testa. Io stavo aspettando il seguito, ma il racconto era finito. Òzawa posò le mani sul tavolino, e rimase così, senza aggiungere altro. - Le andrebbe una birra, anche se è un po' presto? - mi chiese dopo un po'. Per me andava bene, mi era giusto venuta voglia di berne una.