TED WHITE IL MONDO DI QANAR (Phoenix Prime, 1966) 1 Era vivo. Ne era cosciente. Per la prima volta si sentiva veramente ...
23 downloads
1536 Views
558KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
TED WHITE IL MONDO DI QANAR (Phoenix Prime, 1966) 1 Era vivo. Ne era cosciente. Per la prima volta si sentiva veramente vivo e consapevole di esserlo. Si identificava con ogni cosa esistente al mondo. Lui... Circondava il suo corpo di fiamme, lasciando che gli si riversassero sopra e tutt'intorno. Mentre stava in piedi al centro della stanza, ebbe un fremito. Era un semplice riflesso; poi si rilassò e si concesse al terribile piacere di quel fuoco ruggente che lo avvolgeva. Vi si crogiolò. Anche la sua mente aveva preso fuoco. Era come... ghiaccio ruvido? No, quelle erano soltanto parole: questo, invece, era diverso, completamente nuovo. I suoi sensi stavano appena abituandosi alla nuova realtà e la mente non trovava concetti per definirla. Non vide né sentì Fran aprire la porta. «Max!» Il corpo in fiamme ebbe un tremito, e alcuni piccoli tizzoni caddero producendo scintille. Poi, all'improvviso, spento l'alone infuocato, si trovò in piedi nudo sulla moquette fumante, a cercare di abbozzare un sorriso alla ragazza. Trattenne il fiato e disse: «Hai scelto proprio un bel momento per farti viva, Fran.» Lei lo osservava inespressiva, guardandolo come se non lo vedesse, con la faccia tirata e la pelle d'un pallore innaturale. Max socchiuse gli occhi, tornando lentamente alla realtà. Buon Dio, aveva proprio pensato che lui si fosse dato fuoco. L'odore della moquette combusta era simile a quello di capelli bruciati. «Mi sono dimenticato della moquette.» La guardò mentre lei abbassava gli occhi. Spire di fumo acre si alzavano dalle bruciature su cui si trovava. Max, senza riflettere, alzò lo sguardo. Sì, il fuoco aveva gonfiato anche la tinteggiatura del soffitto. In futuro avrebbe dovuto prestare più attenzione nel compiere bravate di quel genere. Quando la guardò, vide che anche Fran lo fissava. «Max...!» disse. Con passo malfermo si diresse verso di lui, ma inciampò. Max la prese tra le braccia mentre cadeva, stringendola forte. Il contatto fisico dei loro corpi lo riportò completamente alla realtà, rendendolo conscio della condi-
zione di Fran e di Fran stessa. Cercò di rendere la sua stretta più ferma e più rassicurante, per riportarla in un mondo nel quale non vi erano uomini capaci di farsi avviluppare dalle fiamme rimanendo vivi e illesi. «Max!» Si raddrizzò con un risolino isterico. «Sei nudo!» «Lo so. Ho rovinato molti pigiami in quel modo» rispose allegramente, mantenendo un tono di voce normale. "Piano, con calma" si ammonì. "Hai fatto prendere un bello spavento a questa ragazza." «Puoi attendere un momento, Fran? Siediti, vado a mettermi almeno un paio di pantaloni.» La faccia di Fran era bianca come il gesso; dalle sue labbra era scomparsa ogni traccia di colore, rendendo il rossetto simile al belletto su un cadavere. La paura l'aveva irrigidita. Sembrava udirlo a malapena e si lasciò condurre al divano come una bambina. Maledizione, perché doveva arrivare proprio in quel momento? «Stenditi qui un momento, Fran. Ecco, appoggia i piedi sul bracciolo. Fran, va tutto bene, sto bene. Stai calma, torno subito.» Si ritirò in camera da letto, chiudendo la porta dietro di sé senza far rumore e vi si appoggiò per un momento. Crollò a terra pesantemente. Sarebbe stato facile, così facile, bastava solo dimenticare, dimenticare tutto. Si trovava a un bivio: davanti a sé aveva due possibili strade. Quale seguire? Una direzione significava normalità, sicurezza. L'altra... cosa? Ma la risposta poteva essere solo una. La sua vita era cambiata, era stata cambiata, e ora lui aveva cambiato la vita di un'altra persona. Innegabile. La stanza era tranquilla, una semplice stanza da letto al terzo piano di una vecchia casa ora trasformata in un pensionato per studenti, diretto da una vecchia zitella la cui famiglia, morta da tempo, era stata un tempo orgogliosa di quella casa di città. La stanza era tappezzata con carta da parati a fiori e farfalle, appena visibili sotto la forte luce del sole che in quel momento la illuminava per metà. Nel silenzio, Max sentiva il rumore del proprio respiro; si guardò il corpo nudo, poi i pantaloni distesi sul letto. Li osservò e chiuse gli occhi. Il suo corpo divenne teso e rigido. Lentamente, i pantaloni cominciarono a muoversi come agitati da una brezza, mentre tutto il resto rimaneva tranquillo. La luce del sole penetrava attraverso l'immobile pulviscolo sospeso a mezz'aria, e il caldo mezzogiorno d'estate sembrava trattenere il respiro. Le gambe dei pantaloni sbattevano come ali. Poi, all'improvviso, la stanza si riempì di una densità senza tempo. Il silenzio di un momento prima si intensificò fino ad assumere una dimensio-
ne tangibile e misurabile, che viveva di una realtà propria. Riusciva a sentirla. Si alzò in aria di quasi un metro, sfiorando il soffitto di pochi centimetri. Così facendo, la tensione si dissolse dai muscoli; se ne stava disteso mollemente in aria e guardava i suoi vestiti. Prima le mutande, quindi i pantaloni, il maglione, i calzini e per ultime le scarpe, che si muovevano verso di lui e gli si stendevano sopra e sul corpo, ricadendo su di lui come se fossero anch'essi fluidi. La porta si aprì prima che lui la raggiungesse. Trasse un profondo respiro, appoggiò i piedi sul pavimento e oltrepassò la porta. Dietro di lui era come se fosse scoppiata una diafana bolla di sapone. Quando uscì, Fran balzò in piedi e indietreggiò. «Fran, hai paura di me?» Lei annuì, muovendo la bocca senza parlare. "Calma, ora." «Paura di me? Anche se ora sono vestito e non cerco di aggredirti?» «Non ridere» gli disse lei ritrovando la voce. «Per piacere, so cosa stai cercando di fare. Ma... non farlo. E non provare a dirmi che quello che ho visto non era vero.» I suoi occhi si spostavano velocemente, quasi un movimento da coniglio, verso la moquette bruciacchiata, e si allontanavano di nuovo. «Fran.» Si sedette vicino a lei, prendendole il volto tra le mani. «Non ho intenzione di negare niente. Non ho intenzione di convincerti di niente. Quello che hai visto è successo realmente. Ti piacerebbe sapere come?» «Allora non sono pazza? Non è stata una... un'illusione?» «No. E io non sono uno stregone, né ordisco neri incantesimi. E non ho neppure venduto l'anima al diavolo. Okay?» Gli occhi di Max brillavano, o perlomeno lo sperava. Lei fece un sorriso, debole e titubante ma spontaneo. Poi alzò la mano a prendere quella di Max e lo tirò a sé finché non furono fianco a fianco. Il contatto fisico fece ciò che le parole avevano solo tentato di fare; mentre lei lo stringeva, lui sentì che il terrore agghiacciante che la attanagliava stava scomparendo. Con un sospiro, lei gli si rannicchiò contro il petto, accoccolandosi nella rassicurante cavità delle sue braccia. Una conferma, una certezza di ciò che li teneva uniti, l'intendimento che esisteva tra di loro. Era importante che lei capisse che niente era veramente cambiato. Non tra loro. Quello era il modo migliore per farlo. Gli era venuto senza parole, e forse non ce n'erano. Ma cosa aveva fatto a Fran, a
quella timida ragazza che si stringeva tanto a lui? Percepiva, attraverso la tensione del terrore e il suo sciogliersi, che lei lo amava ancora. Lui ricambiava quell'amore? Era importante che lei lo pensasse, che lo sapesse. Ma lui? Quanto avevano influito i cambiamenti? Quando se lo domandò, non gli riuscì di rispondere. Tuttavia, a giudicare dalle reazioni che aveva nei confronti di Fran, riusciva a trovare una risposta. Parole, semplici parole: cosa significavano? Il ragionamento poteva essere una barriera invece che una via. Si era sentito molto lontano da Fran quando aveva cercato di spiegare a parole la loro relazione. Meglio lasciarle perdere, meglio reagire. Rimasero stesi immobili sul divano, per un periodo di tempo indefinibile. Forse un quarto d'ora, forse due o tre ore. Il tempo era una dimensione dalla quale Max si era progressivamente estraniato. Non si scambiarono parole, gesti, nemmeno un bacio. Condividevano semplicemente un momento di quell'intricato e tangibile silenzio nel quale non c'era Max e non c'era Fran; al loro posto c'era invece una gestalt, un'entità emotiva separata e integra. «Parlamene» disse finalmente lei. Era come riemergere dopo un tuffo profondo. Max batté gli occhi. «Non so cosa sia successo.» «Com'è cominciato?» Max si mosse leggermente, in maniera tale da averla di fronte e poterle guardare il viso rivolto al soffitto e gli occhi penetranti. Fece una pausa, cercò le parole, e infine le trovò. «Se vogliamo proprio essere razionali, cioè, sempre che si possa, penso si tratti di una specie di talento sfrenato.» «Sfrenato è proprio la parola giusta» disse lei con una risata incerta. «Capacità paranormali. Penso si chiamino così. Posso far accadere certe cose. «Ho fatto un sogno, l'altra notte. Era un sogno strano, sai, come quando si sogna di volare. Come se si stesse correndo con i piedi per terra, ma si potesse però anche saltare e alzare i piedi in aria e muovendo le mani farsi strada nell'aria come se si stesse nuotando, capisci? Ho sognato che lo stavo facendo. Galleggiavo in aria senza peso, muovendomi come un astronauta in una navicella spaziale, solo che mi appendevo ai rami di un albero. Galleggiavo e mi tenevo all'albero. «Le cose cominciarono a sembrarmi strane. Come se ci fossero due immagini sovrapposte, come se stesse accadendo tutto due volte. Il sogno
svaniva, come quando si è sonnambuli e si è consci contemporaneamente degli elementi del sogno in cui ci si trova e di quelli reali. «Poi mi sono svegliato. «Fran, ero appeso alle tende della finestra vicino al letto, e galleggiavo a mezz'aria sopra la finestra aperta!» Lei sentì che la stringeva con forza, ma non lo interruppe. Lui continuò. «Mi spaventai a morte, ma in modo quasi pratico. Il mio primo pensiero fu: "Dio mio, sono quasi uscito dalla finestra". Proprio come se fossi stato un sonnambulo che si sveglia e dice: "Toh, per poco non sono caduto dalle scale". Poi penso di essermi svegliato del tutto e di essermi reso conto di cosa stesse succedendo realmente, perché l'ultima cosa che ricordo è che ero sdraiato per traverso sul letto e mi mancava il respiro.» Il corpo di Fran si era teso nuovamente nel sentire l'emozione che gli animava la voce. Lui la sentì tremare di paura. «Fran, non preoccuparti. Non ho intenzione di fare niente.» Lentamente, sentì che la tensione si scioglieva al suono rassicurante della sua voce, e così continuò a parlare con tono cauto e gentile. «Quando mi sono svegliato, stamattina, pensavo che fosse stato tutto un sogno. O meglio, lo volevo credere, ma sapevo che non era vero. «Mi sono trascinato qui in sala da pranzo e ho fatto colazione, quasi senza rendermi conto di quello che facevo. Ricordo di aver guardato per un momento l'orologio e di aver visto che erano quasi le nove e mezzo. Ho pensato di marcare visita, ma non mi è sembrato tanto importante da dovermene prendere la briga. «Dopo un po' mi... be', mi sono ripreso... Ero seduto al tavolo, guardavo il mio caffè e mi sono accorto che era freddo. Non stavo pensando a niente di particolare. Stavo solo pensando al caffè e desideravo che ridiventasse caldo e... e all'improvviso l'ho visto bollire. «Non l'avevo toccato. L'avevo solo guardato. Mi sembrava importante fissarlo, quando all'improvviso mi sono reso conto che non stavo più guardando semplicemente una tazza di caffè. La vedevo, la vedevo veramente. Avevo smesso di considerarla un oggetto familiare, un qualcosa di stereotipato rappresentante una serie di simboli allineati nella mia mente dalle classiche associazioni innate. La gente prende per scontato qualsiasi oggetto familiare, Fran, e così facevo anch'io. «Fino a quel momento. Poi ho cominciato ad abbattere la facciata fasulla che diceva tazza-di-caffè, e ho visto le singole relazioni tra ogni componente della tazza e del caffè, le relazioni chimiche, molecolari e altre anco-
ra. Non trovo le parole per descrivere ciò che ho visto, ma potevo in un certo modo capirle, dal momento che non le vedevo veramente con gli occhi, ma sentivo l'intera serie di relazioni esistenti tra i campi di energia sovrapposti, o...» Si fermò, incerto. «Sono solo stupide parole. Sto cercando di trovare un senso per te quando non ne ho ancora trovato uno per me. «Ascolta. Ogni cosa è in movimento. Non saprei spiegartelo meglio, ma potevo vedere, sentire che la tazza era fatta di campi d'azione. Come ragnatele finemente intessute e intricate, come sentieri tortuosi di luce. Come... sì, quelle lunghe file di macchine e luci nelle strade di notte, luci intrecciate insieme per creare l'entità, l'identità che noi chiamiamo tazza o caffè. «Ho visto quel movimento e sapevo che avrei potuto, estendendo i miei sensi, accelerarlo o rallentarlo. L'avevo già fatto. Avevo riscaldato il caffè. «Ne ero rimasto affascinato. Cominciai a guardarmi intorno e a osservare ogni cosa. Dapprima guardai le cose piccole, gli oggetti singoli. Era come metterli sotto un microscopio e scoprire cosa fossero realmente. Prendevo in mano qualcosa e l'osservavo. Devo avere passato un'ora a osservare la mia radio. Non riuscivo a smettere di ammirarla, di ammirare il perfetto intreccio dei componenti. Quei transistor e quei diodi... Meraviglioso! «Era come una seconda vista, che potevo accendere o spegnere a mio piacimento. Potevo sovrapporla alla vista naturale, o addirittura sostituirla a essa. Il buffo è stato scoprire che potevo usare questo nuovo senso ugualmente bene. Potevo guardare in quel modo l'intera stanza, ignorando le cose piccole e guardando solo le grandi. In un certo senso, tutto si fondeva perfettamente con la mia vista naturale. Voglio dire: hai mai veramente guardato le cose? Se smetti di limitarti a dare solo un'occhiata agli oggetti familiari e guardi una stanza come se non l'avessi mai vista prima, può essere affascinante. Si distinguono tutte le relazioni, i ritmi dei colori, la collocazione delle masse e dei vuoti, le somiglianze e i contrasti tra le linee di mobili diversi. Fra parentesi, questo posto è un caos. Si può considerare la stanza come un'area tridimensionale, un'unità integrata.» Lei si guardava attorno nella stanza, mentre lui sorrideva tra sé. Quel tocco di estraneità, era quello a spaventarla. Considerare le cose familiari come un mucchio di fili colorati era un concetto spaventosamente estraneo, mentre considerare una stanza dai mobili antichi come un problema di arredamento, affascinava l'arredatrice che c'era in lei. Conosceva lo Zen, aveva letto gli scritti di Watts sul Tao: quel concetto di integrazione, quel
considerare ogni cosa come parte di un disegno più ampio, Fran lo capiva perfettamente. «In realtà non ho ancora provato niente. Non sono andato molto al di là. Ho avuto un po' di paura a osare di più, perché mi sembra di giocare a fare il dio, così mi sono divertito con dei giochetti da salotto. Mi spiace che tu sia arrivata nel bel mezzo di uno di questi, Fran. È stato infantile da parte mia fare una simile bravata.» «Di cosa... di cosa si trattava?» «Fondamentalmente, mi beavo di me stesso. Una cosa molto avventata e bizzarra, sai. La Torcia Umana e tutto il resto. Ho infiammato l'aria che mi circondava e ho bruciato il pigiama prima ancora di pensare a proteggermi il corpo. Ho fatto anche qualche altra esibizione: ho levitato, mi sono vestito senza muovermi e ho anche fatto muovere diverse cose, ma sono solo sciocchezze. Cose da poco. Più che altro perché non ho voluto confrontarmi realmente con il fatto che avrei potuto fare molto di più se solo l'avessi desiderato.» Fran si allontanò da lui e si mise a sedere. Max si alzò e si stirò. L'odore della moquette bruciacchiata era sparito quasi del tutto; dalle finestre penetrava una lieve brezza. L'aria sembrava pulita e tersa. Lei gli sorrise. «Grazie, Max.» Gli prese la mano e si alzò in piedi, restandogli vicino. «Cos'hai intenzione di fare, ora?» «Vorrei saperlo anch'io» rispose lui, lentamente. «Vorrei sapere come sono arrivato a tutto ciò e cosa farmene. Questi poteri sono enormi, sai. Non so fino a dove posso spingermi, quanto posso veramente ottenere.» Si accigliò e scosse la testa, come se volesse spazzare via quei pensieri. «Forse posso aiutarti» disse Fran, continuando a tenerlo per la mano. Max le sorrise, sicuro ora del suo amore per lei. «Forse puoi» le disse. 2 Erano distesi sull'erba, con le dita intrecciate, a scrutare il cielo estivo. Nuvole basse si muovevano maestosamente da occidente e l'aria era immobile e pesante nella calda luce del sole. Lì vicino uno scoiattolo armeggiava con aria seccata. Oggetto della sua attenzione era un piccione che beccava un sacchetto di noccioline ai limiti del prato. Una donna robusta, vestita da infermiera, spingeva lentamente una carrozzina lungo il sentiero pavimentato, fermandosi ogni tanto ad a-
sciugarsi il viso florido. In lontananza si sentì il debole ma distinto rumore di una mazza da baseball, e più lontano il rombo attutito della città. L'aria era piena del dolce profumo dell'erba tagliata di fresco. Lo scoiattolo, nel vedere la donna con la carrozzina, si girò e corse rumoreggiando arrabbiato verso l'albero più vicino, poi tornò indietro avvicinandosi alle noccioline ora incustodite. Maximillion Quest era giovane, abbastanza da essere a volte scambiato per uno studente, cosa che due circostanze della sua vita gli avevano impedito di diventare. La prima era stata la morte dei suoi genitori in un incidente aereo, quando lui aveva diciassette anni. La seconda era la completa mancanza di qualsiasi interesse per la cultura accademica. Durante i sei anni successivi alla morte dei genitori, aveva lavorato come magazziniere per un grossista di libri, come marinaio, come direttore di una caffetteria al Village e, più recentemente, come tassista. Qualche volta diceva scherzando che non gli rimaneva da fare che il venditore di scarpe prima di diventare un romanziere di successo. Era alto, ben piantato, e si era fatto dei bei muscoli con i suoi impieghi. Aveva lineamenti leggermente angolosi, rudi in misura non sgradevole, che gli davano un aspetto onesto e aperto. Anche se lontano dai canoni tradizionali della bellezza maschile, le donne a volte mostravano di apprezzare la sua "cupa avvenenza", soprattutto durante il suo periodo alla caffetteria. A volte gli amici gli chiedevano perché non avesse cercato di fare qualcosa di più, perché non avesse cercato di finire la scuola superiore e di andare al college, così da poter avere, in conclusione, il loro stesso successo. Lui rispondeva sempre con un sorriso e un'alzata di spalle, dando a intendere che forse quella non era la strada che avrebbe voluto seguire. «Non riesco a pensare a me come a uno di quei colletti bianchi seduti dietro a una scrivania in qualche ufficio» aveva confessato una volta a Fran. «Non so dove finirò, ma certo non sarà un piccolo buco ordinato.» Gli piaceva il lavoro manuale, gli piaceva quel genere di lavoro che permettesse alla sua mente di vagare in altri mondi. In un certo senso, era questo ciò che non aveva funzionato nella sua carriera al Village: lo assorbiva troppo e lui ne era troppo coinvolto. Non aveva mai voluto lasciarsi coinvolgere tanto in niente. Alla fine, naturalmente, ne era uscito incolume: la caffetteria era fallita, come di solito succede ad aziende di quel tipo, e lui si era ritrovato libero un'altra volta. Ora aveva un solo vero impegno nel mondo: Fran.
Il loro primo incontro era stato casuale. Lei occupava l'appartamento sotto al suo. Lo stabile nel quale vivevano era una tipica e angusta casa in arenaria, piuttosto comune lungo il lato occidentale di Central Park alla metà degli anni Settanta; una casa abitata una volta da persone benestanti e ora divisa in tanti piccoli appartamenti; unico ricordo dell'antico splendore era il parquet che ancora spuntava qua e là tra il linoleum consumato. L'aveva incontrata un giorno mentre lei stava portando fuori l'immondizia e l'aveva aiutata. Lei non era certo la tipica bellona hollywoodiana, ma, nonostante la trovasse attraente, lui non aveva tentato alcun approccio. Però la vicinanza aveva avuto il suo effetto. Sei mesi più tardi lei gli preparava la cena, e trascorreva spesso i pomeriggi nell'appartamento vuoto di lui ad ascoltare musica dal suo stereo. Le cose erano andate così. Avevano iniziato la loro relazione con facilità e gradualmente, senza sentirsi stringere all'improvviso dalla morsa dell'infatuazione tipica dell'innamoramento. Max, da parte sua, era contento di accettare qualsiasi cosa potesse succedere e non sentiva il bisogno di affrettare la situazione. Sentiva che Fran aveva nel suo passato una ferita ancora aperta, perché anche lei preferiva la tranquilla comodità del loro graduale crescere insieme a un amore più tumultuoso. Frances Towne, all'età di ventun anni, non era più bella come lo era stata da adolescente, quando era arrivata, semplice e innocente, a New York. L'esperienza si era portata via l'ingenuità giovanile, segnando in modo indelebile la sua femminilità. Era piccola, ma non minuta. I capelli scuri tagliati corti e i riccioli fitti la facevano assomigliare a un folletto, e il naso all'insù le dava una certa malizia. Di solito il suo modo di fare si confaceva al suo aspetto: era allegra e vivace. Ma Max sapeva di essere riuscito a penetrare quel guscio, e non avrebbe più potuto vederla in quel modo. «Sarebbe quasi più facile se sparisse» disse lui. L'erba gli solleticava il collo mentre lui, con la mano libera, costruiva un piccolo nido con ciò che restava dell'erba falciata. «Ci sono troppe implicazioni, troppo a cui pensare. Non so nemmeno da dove cominciare.» Raccolse un po' d'erba e la sparse su di lei, un battesimo scherzoso. «Per esempio, perché dovrei continuare a lavorare? Non ne ho bisogno, sono sicuro che in un modo o nell'altro posso avere tutto ciò di cui ho bisogno, tutto ciò che voglio. Ma cosa voglio? Per tutta la vita ho cercato il modo di poter vivere senza lavorare. Ora posso. Allora cosa farò? Voglio dire, oltre a starmene disteso tutto il giorno sull'erba.»
«Veramente puoi fare molto di più» disse Fran stringendogli la mano. «Pensa a tutti i grandi problemi del mondo... la fame, la sovrappopolazione, le guerre, le malattie... forse potresti fare qualcosa!» «Sai» disse Max dopo una pausa «da ragazzo leggevo i fumetti. Quando avevo dieci o undici anni, ricordo di aver contrattato con un altro ragazzo per avere una raccolta di fumetti della Seconda guerra mondiale. Mi piacevano molto, erano dei vecchi tesori. «Era una grande guerra. Ascoltavo mio padre parlare delle campagne che aveva combattuto. Una guerra più grande e terribile di qualsiasi altra mai combattuta prima. Ha colpito il mondo intero. «Tra tutti quei fumetti che ero riuscito ad avere, ce n'erano alcuni di Superman, che combatteva delinquenti, scienziati pazzi e altri tipi loschi mentre la guerra era in corso. Per me non aveva senso. Mi chiedevo perché Superman non combattesse in quella guerra. Avrebbe potuto sistemare tutto in un batter d'occhio. «È stato molto tempo dopo, quando non facevo più finta di credere nei supereroi, che capii in che situazione si erano trovati i suoi editori. Non potevano farlo andare in guerra proprio perché aveva tutti quei superpoteri. Se l'avessero fatto, noi avremmo realmente combattuto ancora quella guerra nonostante Superman avesse spazzato via tutti i nemici... e chi poi ci avrebbe creduto più? Era meglio non farlo passare alla visita di leva perché riusciva a vedere attraverso la tabella per misurare la capacità visiva con la sua vista a raggi X, e far dire a qualche generale: "Con i nostri uomini lontani, abbiamo bisogno di te per mantenere al sicuro le nostre coste", o qualcosa del genere, tanto per tenerlo lontano dai veri problemi del mondo. «Io sono come Superman. Non so quanto vasti siano i miei poteri o in che misura possano essere applicati. Ma sono qui, nel mondo reale, con poteri da fumetto. Non riesco a crederci. A questo punto non mi serve altro che un pigiama rosso e un mantello per volare via. «Ma una cosa continua a tormentarmi. Perché io? Perché non è successo a nessun altro prima? E se è successo, perché non ne abbiamo visto gli effetti?» Fran aveva trovato una nocciolina tra l'erba e la stava porgendo allo scoiattolo. Lo chiamò con dei versetti e lo scoiattolo, annusando l'aria, cominciò ad avanzare esitando verso di lei. «È una cosa troppo grande, Max» disse lei. «Troppo grande da immaginare. Per il momento devi prenderla per quello che è, abituartici, finché non riuscirai a padroneggiarla come si deve.»
Lo scoiattolo fece un salto all'indietro quando Max si girò su di un fianco, si sporse verso Fran e le diede un bacio. «Hai ragione» le disse. Si rigirò e lasciò vagare nuovamente lo sguardo verso il cielo. Il sole era sbucato da dietro uno dei banchi di nubi che si stavano ammassando, e Max guardava in silenzio, affascinato, la ribollente turbolenza del temporale. Come se non riuscisse più a mettere a fuoco, cominciò a usare la sua nuova capacità visiva. Vi fu un improvviso e discordante cambio di prospettiva, come una di quelle illusioni ottiche che si trovano nei supplementi domenicali dei quotidiani, in cui sembra che le scale o le case si allontanino e poi improvvisamente si muovano verso il lettore, tutto perché di colpo si comincia a guardarle in un altro modo. Max aveva trovato quest'altro modo. Di fronte, non essendo direttamente illuminate dalla luce del sole, le nuvole sembravano, a occhio nudo, di un freddo colore bianco-azzurro. Ma più in su, sulla parte esposta al sole, Max scoprì un intreccio cristallino di interstizi riflettenti la luce, un graticcio di energie sfreccianti e luminose. Il suo sguardo penetrò ancor più in profondità, fino all'interno della nuvola, e vi trovò un'oscura forza fiammeggiante, una compressione di forze attorcigliate che aumentava sempre più d'intensità. All'improvviso, un urlo squarciò i suoi pensieri e lo fece tornare con lo sguardo al terreno erboso. Sempre usando la sua seconda vista, volse lo sguardo stupito verso Fran. Per un attimo ebbe l'impressione di un caos totale. Quello che vedeva non aveva senso: forze sconosciute che sembravano muoversi a casaccio. «Max!» urlò nuovamente Fran, e allora lui si rese conto di cosa stava succedendo. Lo scoiattolo aveva afferrato con i denti il polso della ragazza e lo stava morsicando! Proprio nell'istante in cui lo percepiva, Max si scagliò sull'animale, afferrandogli la testa con una mano e aprendogli la bocca con l'altra, e lo staccò dal braccio di Fran, che stava sanguinando copiosamente. Stava per scagliare lontano la bestia impazzita, quando questa gli si avventò al collo, lacerandogli i polsi e le mani con le unghiette affilate. Il forte dolore e lo shock del rendersi conto che lo scoiattolo lo stava attaccando fecero sì che Max ricordasse i suoi poteri. In quel breve attimo fuori dal tempo si maledì per essersene scordato. Il tempo si arrestò. Un silenzio pesante si impossessò di lui, un velo di immobilità che lo circondava per proteggerlo. Contorto, fremente ma im-
mobile, lo scoiattolo era sospeso in aria a circa mezzo metro da lui. Si sporse ancora in avanti, ma con la mente invece che con le mani ferite. Toccò lo scoiattolo, che si afflosciò. Guardò quindi dentro l'animale e ci trovò qualcosa di sbagliato, in modo indefinibile ma che tuttavia c'era, qualcosa di alieno, come uno squilibrio. Non si trattava di un animale reso pazzo da una qualche malattia, non era niente di cui potesse essere sicuro: solo qualcosa di simile a quel sesto senso che hanno i buoni meccanici, capaci di ascoltare o guardare una macchina mai vista prima e scoprire cosa non va. Lo scoiattolo era stato... manovrato. Rilasciò la tensione mentale che aveva provocato lo scarto temporale e posò a terra l'animale ormai. senza vita. Si girò verso Fran. Lei lo fissava a occhi spalancati, cone se fosse cieca. Lui allungò una mano e la toccò. «Fran, cara, va tutto bene. È tutto a posto.» L'improvviso e insensato attacco l'aveva colta di sorpresa, e l'apparente velocità con cui lui aveva sistemato tutto non le aveva lasciato il tempo di riaversi. Doveva esserci un modo per... All'improvviso l'aria si riempì di vibrazioni. Abbandonando per un attimo la visione paranormale, Max guardò in alto e vide che un gruppo di piccioni stava calando in picchiata su di loro. Piccioni? Per un attimo non capì, ma poi gli fu tutto chiaro. Prima lo scoiattolo, ora questi. Si irrigidì, concentrandosi, pronto a usare la sua mente come un pugno. Subito dopo l'aria si riempì di uno sbattere d'ali, zampe graffianti, becchi affilati. Gli uccelli gli erano addosso. Con la mente sempre serrata come un pugno, cominciò a menare colpi. Questa volta senza esitazione, senza pause per analizzare la situazione. Sapeva che, se avesse guardato dentro di loro, vi avrebbe trovato lo stesso turbamento presente anche nello scoiattolo. Prima che potessero toccare Fran o lui, scagliò contro di loro una forza feroce, nata dalla sua rabbia, che allontanò gli uccelli. I piccioni emisero un verso strano e irreale, e sparirono. Qualche piuma svolazzante cadde intorno a loro, muta testimonianza dell'attacco. Lentamente, si rilassò. "È finita?" si chiese. "O la prossima volta sarà qualcosa di più pericoloso?" Come per risposta, l'aria intorno a loro si fece rovente, e Max venne colpito con tale violenza che gli parve di disintegrarsi. L'istinto di sopravvivenza! La sua mente gridava in un'agonia silenziosa, ma lui tenne duro. Non doveva mollare: finché fosse riuscito a tenere a
fuoco l'immagine delle fonti d'energia dei loro corpi, non avrebbero potuto essere annientati. La carne poteva essere strappata dalle loro ossa e bruciata nel biancore della distruzione, ma se fosse riuscito a mantenere quell'istinto, se solo fosse riuscito a tenerli insieme, carne e ossa avrebbero potuto essere ricreate, rimesse insieme grazie agli elementi primordiali e all'energia vitale dell'Universo, e sarebbero diventati nuovamente integri. Riorganizzò quel modello, e il dolore lacerante si calmò; poi ricreò la materia. Si trovavano in piedi al centro di un'area devastata e carbonizzata, che poco prima era ricoperta di erba tagliata di fresco. Adesso l'aria puzzava di ozono, ed era così carica di elettricità che Max aveva i peli delle braccia e del collo dritti. Non sapeva se sarebbe stato in grado di sopportarlo di nuovo. Era stato solo un colpo di fortuna a dargli la forza di afferrare, in quella bruciante frazione di secondo, i loro istinti vitali con la consapevolezza che quella era la loro unica speranza. Si era sentito quasi spaccare in due e ora la sua forza, svanita durante i primi attacchi, era quasi esaurita. Lo scoiattolo, i piccioni... ora sapeva che erano soltanto diversivi con lo scopo di distrarlo, di dargli una falsa sicurezza che l'avrebbe reso impreparato al vero attacco. L'aveva sentito nascere e crescere in quella nuvola, e la sua attenzione era stata astutamente distolta. Aveva disteso un velo protettivo su di loro subito dopo averli ricostruiti, e il suo buon senso era stato messo alla prova. In pochi secondi, che gli sarebbero bastati a mala pena per valutare il luogo in cui si trovava, il buio infernale seguito al primo tuono fu spazzato via da un secondo lampo sfolgorante. Ora, però, un muro li proteggeva, e furono colpiti solo di striscio. Seguirono un terzo tuono e un altro lampo. Sarebbe mai finita? Quanto ancora avrebbe potuto mantenere le difese? Mentre stringeva la ragazza tremante, usò la sua seconda vista e cominciò a vedere, a vedere realmente. Grandi serpenti salivano contorcendosi dalla terra devastata che li circondava, muovendosi verso il cielo lungo sentieri invisibili, ribollendo verso il cielo come un osceno zampillo. Erano al centro e si diramavano in ogni direzione per più di sei metri. I serpenti luminosi salivano, indietreggiavano, salivano nuovamente sibilando invitanti. E su, in alto... Molto in alto, dal profondo del calderone elettrico del tuono, viticci che brancolavano a tentoni verso il basso, sfrecciando, allungandosi in rispo-
sta alle lingue schioccanti... Si toccarono. All'improvviso si creò un sentiero che poi esplose di un'energia immensa. Erano come pesci in un barile. La terra intorno a loro era stata elettrizzata con una scarica ad alto voltaggio che attirava i lampi dalle nuvole. Non era un caso fortuito. Era una cosa voluta. E come tale, poteva essere allontanata da loro allo stesso modo. Doveva essere così. Max raccolse le forze che gli venivano meno e si allontanò dalla sua mente. Come serpenti vivi, i viticci di energia sfuggivano alla sua presa e si allontanavano. Prima ne seguì uno, poi un altro, e ognuno di essi sfrecciava via, prima solidi e poi simili a fantasmi elusivi. Cominciò a sudare, e sentiva i muscoli tendersi e contrarsi in sintonia. Non era questo il modo. Stava dimenticando, interpretando troppo letteralmente i simboli che la mente gli presentava. Non c'era corrispondenza visiva per ciò che "vedeva", nessun paragone diretto. Ma poiché non poteva fare a meno di visualizzare con gli occhi della mente, "vedeva" i serpenti sfrecciare e intrecciarsi attorno a lui. Ma non erano serpenti. Non erano viticci solidi, che poteva afferrare, torcere, rompere. Erano fasci d'energia, particelle ionizzate, eterei e senza sostanza. Avrebbe dovuto affrontarli come un'entità unica, doveva reprimerli, sopprimerli, annientarli. Richiamò a sé le ultime energie e creò attorno a loro un unico grande campo di forza che li avvolgeva e li assorbiva, prosciugandoli e abbattendoli, spegnendoli con la facilità con cui si soffia su una candela. Finì tutto in un secondo solo. Una volta trovata la risposta giusta, il problema era risolto, finito. Si sentì mancare per il sollievo. Poi, con grande sorpresa, trovò qualcos'altro: l'energia che aveva assorbito con il campo di forza gli aveva ridato vigore. "Naturalmente! Ho assorbito quell'energia" pensò. Il campo di forza era una sua estensione, una forma di se stesso che solo un'erronea interpretazione dei fatti gli aveva fatto vedere come qualcosa di estraneo. Era stato fortunato, concluse cupo, che fino a quel momento i suoi errori si fossero risolti a suo favore... Guardò il cielo. Non c'erano più lampi ora, lo strano spettacolo era finito. I nuvoloni avanzavano placidamente, privi della fosca presenza che li aveva caricati. Il nemico se n'era andato; chiunque, o qualunque cosa fosse quella gran-
de forza, Max almeno sapeva che non era solo al mondo, e che forse anche il destino di un superuomo contemplava la fatica. Avrebbe dovuto proteggersi con più attenzione, ora. Il suo avversario l'aveva messo alla prova, aveva quantificato l'entità della sua forza e la prossima volta... Max era sicuro che ci sarebbe stata una prossima volta, e che la partita non sarebbe stata tanto facile. Mentre guardava il cielo, le prime pesanti gocce di pioggia cominciarono a cadere, rumoreggiando, sulla polvere ai suoi piedi, riportandogli nuovamente lo sguardo verso il basso, in un ritorno alla vita normale. 3 Fran lo osservava con occhi cupi e ansiosi. «Max... non te ne andare.» Ma la decisione era stata presa. «È meglio così» le disse, in piedi con la mano appoggiata alla porta. «Mi comporterò come se non fosse successo niente; farò finta che le mie difese si siano esaurite. Lo sai, o faccio così o mi limito ad aspettare. Preferisco fare qualcosa.» «Ci sono altre cose che si possono fare, oltre guidare un taxi.» «Lo so, Fran» disse lui con un sorriso condiscendente. «Ma non capisci, se restiamo qui i nostri pensieri rimarranno fissi a quell'attacco, e rimarrà tra noi per sempre.» Afferrò la maniglia della porta, l'aprì con cautela, come sempre. «Tornerò dal lavoro stasera, Fran, come al solito. Prova a pensare che sia stato solo un brutto sogno.» Lei gli si avvicinò e gli mise le braccia attorno al collo. «Stai attento, Max» gli disse. Lui si chinò e la baciò. Poi si chiuse la porta dell'appartamento alle spalle e corse giù per le scale. Indossava una camicia sportiva e pantaloni larghi, e aveva con sé la licenza di tassista. Aveva telefonato, spiegando che era stato poco bene, ma che ora si sentiva meglio e voleva lavorare per il resto della giornata. Non ci sarebbe stato problema. "Il bello del fare il tassista è che puoi sceglierti le ore in cui lavorare", pensò. La pesante porta di legno e vetro si chiuse dietro a Max che, socchiudendo gli occhi, uscì sulla veranda illuminata dal sole. C'era un fresco odore di pulito nell'aria; il temporale l'aveva ripulita per un po'. Scese saltellando i gradini che portavano al marciapiede e si diresse verso la Central Park West. Il sole gli batteva caldo sulla schiena, l'acqua delle pozzanghere e dei rigagnoli lungo i marciapiedi aveva già cominciato a evapora-
re. Mentre camminava nel caldo pomeriggio estivo, faceva fatica a rendersi conto che non era stato solo un brutto sogno. Per tranquillizzarsi, lasciò che la sua seconda vista prendesse il sopravvento. Onde gli danzavano davanti agli occhi, come una tenda in movimento. Comprese che si trattava delle vampate di calore che provenivano dal marciapiede. Mescolate a loro ce n'erano altre: il vapore acqueo che si alzava verso il cielo. Tutto veniva squarciato da raggi di sole che sembravano quasi palpabili. Pura energia. Si fermò, affascinato. Era circondato da tutte quelle meraviglie: la meraviglia della vita, il miracolo della realtà. Da qualsiasi parte decidesse di guardare, c'erano nuove meraviglie da contemplare. Per un attimo, tenne d'occhio un solitario granello di polvere nella sua corsa lungo le correnti ascensionali, finché la sua attenzione fu distolta da un uomo al quale aveva dato una brusca spallata. «Stupido imbambolato» imprecò l'altro. Max l'osservò e scosse la testa. Capì che le meraviglie erano tutt'intorno, alla portata di tutti. Non soltanto per quelli che possedevano una seconda vista. Forse erano meno ovvie per chi usava soltanto la vista normale, ma c'erano. Max ricordò improvvisamente che da ragazzo passava ore a guardare i piccoli particolari della vita che gli passava davanti. Aveva osservato gli insetti che, strisciando, eseguivano i loro compiti, le api e le farfalle tra i fiori e le nuvole che si muovevano nel cielo. Allora il mondo per lui era pieno di straordinarie meraviglie. Ricordava di aver sentito un ronzio lontano e di essere corso fuori casa per ammirare un piccolo aereo che volava alto nel cielo. Il mondo allora brillava di più, almeno così gli sembrava. Era pieno di colori primari, di vita e movimento. Allora il mondo era più grande, e le giornate molto più lunghe. L'avventura si nascondeva dappertutto, tra le cose di tutti i giorni. Bastava guardare la più vicina colonna di formiche che si facevano largo con magica precisione avanti e indietro lungo lo stesso percorso che portava al formicaio. "È cambiato" pensò Max. Lui era "cresciuto". Era un processo che sembrava nascondere alla vista la chiarezza e la lucentezza, sembrava offuscare le cose di tutti i giorni e privare di ogni meraviglia i luoghi in cui si vive. Succedeva così a tutti? A giudicare dall'uomo che l'aveva spinto rudemente per passargli avanti, sembrava proprio di sì. E tuttavia, a lui, a Max, era stata data una seconda opportunità. Gli era stata data una vista di nitidezza enorme, tale da strappare la cortina della familiarità e fargli osservare il mondo con occhi nuovi. Era un dono prezioso. Un dono del quale si sarebbe potuto fare facil-
mente cattivo uso, e che portava la responsabilità di non farlo. I suoi pensieri si rivolsero all'Altro. Gli era stato dato lo stesso dono dato a lui, e lui lo usava in modo diverso? O c'erano forse al mondo forze oscure che stava scoprendo solo ora, così come loro avevano scoperto lui? Quel dono gli aveva concesso una nuova vista, aveva snudato le cose di tutti i giorni. Cosa si nascondeva dietro di esse? Quel pensiero lo inquietava. Stava camminando lungo la Central Park West. Alla sua destra, dall'altra parte della strada, c'era il Central Park. Ricordare che luogo pericoloso fosse diventato lo raggelò. Tuttavia lo divertiva pensare che, mentre il parco aveva la reputazione di essere sede di aggressioni e in preda ai giovani delinquenti, lui l'aveva fino a quel giorno sempre considerato un luogo tranquillo, piacevole, dove andare quando aveva tempo libero e desiderava stare in pace. Non aveva mai visto niente di strano nel parco... fino a quel giorno. Davanti, a sinistra, c'era il grande e imponente Museo di Storia Naturale. Dominava il piccolo parco, coprendo un'area di alcuni isolati. Era un edificio grigio e brutto, con le sue torrette angolari e la pietra scura, ma lui vi aveva trascorso molti pomeriggi piovosi, fra le collezioni che sembravano infinite, ed era sicuro che non ne avrebbe mai visto tutte le meraviglie. In Max era sempre rimasto qualcosa di infantile, cosa che costituiva gran parte del suo fascino, anche se lui non se ne rendeva conto. Mentre costeggiava l'edificio, il marciapiede girò verso sinistra e le scale portarono alla metropolitana. Le scese, mentre i suoi passi echeggiavano secchi nella tranquilla atmosfera pomeridiana. Un corridoio, freddo a confronto del sole che prima gli batteva sulle spalle, lo condusse alla biglietteria dove comprò il biglietto. Passò il cancelletto girevole e scese al livello inferiore. Le chiacchiere dei bambini lo raggiunsero prima che vi arrivasse. Li vide dall'alto: un gruppo di forse trenta, di un'età compresa tra gli otto e i dodici anni, a quanto poteva capire. Si muovevano disordinatamente con la frenesia tipica dei bambini sguinzagliati e temporaneamente lontani da scuola. Alcuni insegnanti dall'aria nervosa si occupavano di loro, rimproverandoli di tanto in tanto perché si avvicinavano troppo al ciglio della banchina. Alcuni dei ragazzi più vecchi correvano verso il ciglio, sporgendosi e sbirciando dentro la galleria, poi tornavano in fretta nel gruppo, sfidandosi
l'un l'altro e schernendo i loro insegnanti. Max andò verso di loro lungo la banchina; i piccoli treni che facevano servizio a metà giornata non fermavano lì. Per superare i bambini doveva costeggiare lo spazio vuoto vicino al bordo. Loro ridevano e scherzavano, e dagli sguardi annoiati degli insegnanti capiva che nessuno di loro voleva un'altra rapida visita al museo. Ma l'avrebbero fatta, naturalmente. Dalla galleria proveniva un rombo crescente e Max, stando così vicino al ciglio, vedeva le luci brillanti del treno che si stava avvicinando. Superò di corsa i bambini, ansioso di allontanarsene. Avrebbe preferito evitare di dividere la carrozza con loro. Successe mentre stava per superare il gruppo più numeroso. Si era girato per guardarli, quando all'improvviso uno dei ragazzi più grandi saltò fuori dal gruppo a braccia rigide, allungate in avanti. Non vi fu preavviso, solo un fremito di follia negli occhi del ragazzo. Max si sentì spingere e cadde, agitando le braccia, oltre la piattaforma. Per una frazione di secondo si fece prendere dal panico. Le luci del treno gli sembravano proprio addosso, e il pensiero gli attraversò la mente: "Morire così, dopo tutto quello che ho passato?". Poi si riprese. Riuscì a fermare il tempo. Era sospeso immobile nel vuoto. Non c'era alcun suono. Il tempo aleggiava pesantemente intorno a lui. Davanti, il treno era in procinto di entrare in stazione, immobile nonostante fosse ancora in piena velocità. Il conducente stava guardando con occhi spalancati dai finestrini della cabina, ma lo vedeva a malapena. Attentamente, con i gesti cauti di chi fa qualcosa di nuovo per la prima volta, Max cambiò posizione. Ora, invece di essere a testa in giù, stava in piedi, sempre sospeso a mezz'aria, in alto sopra i binari. Poi, attentamente, muovendosi come se stesse camminando sul ghiaccio, cominciò a tornare verso un appoggio. Ritornato sulla banchina, si rese conto all'improvviso che stava ancora trattenendo il respiro. Ansimando profondamente, rimise in moto il tempo. E all'improvviso la stazione si riempì di rumori: lo stridere acuto dei freni del treno, le grida dei bambini e dei loro insegnanti, il fragore potente del treno che entrava in stazione. Max si sentiva esausto. Era un esaurimento emotivo, la reazione ritardata allo shock fisico. Si girò e fissò il gruppo dei bambini, ora tranquillo. L'avevano visto perdere l'equilibrio e cominciare a cadere; non si erano
ancora resi conto che era al sicuro sulla banchina. Cercò tra loro gli occhi del colpevole e li trovò. Ma in essi non vi era più segno di pazzia: vi vide solo un bambino spaventato. Max si rese conto che vi era una costante negli attacchi. Arrivavano tutti sotto forma di qualcosa di familiare: scoiattoli, piccioni, temporali e ora la spinta di un ragazzo dispettoso su una banchina della metropolitana. Se uno di quei tentativi avesse avuto successo, si sarebbe pensato che la sua morte fosse stata provocata da cause strane, ma "naturali". Significava anche qualcos'altro: era costantemente sorvegliato dall'Altro. Era contento che non si interessasse a Fran. Tuttavia, gli attacchi erano infantili. A quel punto, l'Altro avrebbe dovuto sapere che non poteva colpirlo semplicemente spingendolo sotto un vagone della metropolitana. Che scopo aveva? Forse voleva stancarlo? O tenerlo vigile, in modo che il nervosismo lo tradisse una volta o l'altra? Impossibile indovinare le motivazioni o le ragioni dell'Altro... senza sapere prima chi o cosa fosse. "Forse è questa la ragione per cui si sta esponendo" pensò Max. Forse, provocando l'ira dell'Altro, ne avrebbe scoperto l'identità. La cosa tragica era che stava lavorando alla cieca. Aveva meno di dodici ore per scoprire e dominare le sue capacità, alcune delle quali, ne era sicuro, le avrebbe scoperte solo sbagliando. E in quella partita mortale non era concesso sbagliare. Max era sicuro di essere all'altezza del suo rivale. La sua abilità nel respingerne gli attacchi sembrava provarlo. Ma tatticamente era lontano dall'esserne uguale. Aveva bisogno di saperne di più, molto di più. E non sapeva come fare. In definitiva, le cose stavano così: era molto più forte di quanto non fosse mai stato, ma non era più saggio. E si domandava come fosse l'Altro. Alla fermata di Columbus Circle, scese dal treno e risalì verso la strada. Si trovava nell'Ottava Avenue. Dietro di lui c'era l'estremità del Central Park, e il Circle era circondato dal Museo Huntington Hartford e dal Colosseum. Lungo l'Ottava Avenue, il chiassoso centro di Manhattan, le luci al neon lampeggiavano anche in pieno giorno e i taxi strombazzavano raucamente andando avanti e indietro. Una scena familiare, che Max amava. Un grande termometro sopra il Circle segnava 29 gradi. Erano le 15.30. Il sole, che non seguiva ancora l'ora legale, batteva forte su di lui come se fossero le 14.30.
Due isolati e mezzo più avanti, lungo la Cinquantottesima Avenue, tra la Decima e l'Undicesima, scese la rampa di scale che dalla strada portava al garage della compagnia di taxi. Dopo aver chiacchierato per alcuni minuti con un impiegato, salì in un taxi, fece scivolare la tessera nell'indicatore munito di finestrella che rendeva possibile identificarlo ai passeggeri seduti sul sedile posteriore, segnò l'ora sulla sua tabella e infine avviò la macchina su per la rampa e quindi in strada. L'auto non era un modello nuovo: la sua punizione per essere arrivato in ritardo. Infatti il cambio si inceppò quando uscì nell'Undicesima. Ebbe per un momento l'orribile sensazione di essere attaccato di nuovo, ma la sua percezione paranormale lo rassicurò. Tuttavia avrebbe dovuto stare attento, perché mentre lui si trovava in macchina in mezzo alla strada c'erano mille modi per colpirlo. Gli sembrava di essere il bersaglio di un poligono di tiro. Non era un pensiero rassicurante. C'è un modo particolare di guidare a New York, ed era quello che Max aveva istintivamente imparato. Gli automobilisti di altre città confessano di avere paura a guidare in quella grande città, ma Max sapeva che per un autista esperto era più facile guidare a Manhattan che in qualsiasi altra grande città del paese. Bastava soltanto stare attenti, capire quello che succedeva attorno, le condizioni del traffico davanti a sé, la sincronizzazione dei semafori e, soprattutto, le abitudini degli altri guidatori. Bastava sapere quando muoversi e quando fermarsi. Non si scherza con i guidatori di New York; l'uno dà all'altro il permesso di avanzare frenando, oppure con un semplice cenno della mano. Nelle strade a semafori sincronizzati, cioè tutte le Avenue a senso unico, si tiene la massima velocità, augurandosi che la classica nonnetta venuta da Westchester faccia lo stesso invece di mantenere una velocità costante di trenta chilometri all'ora, bloccando il traffico finché inevitabilmente non supera il verde e costringe gli altri a fermarsi al rosso. Quel giorno Max si accorse che la sua abituale attenzione era notevolmente rafforzata, grazie anche alle nuove capacità percettive. Gli ingorghi senza uscita sembravano disegni finemente intessuti, e lui scoprì di poterli intuire dalle linee che tracciavano a distanza di isolati, riuscendo così a evitarli più facilmente. Guidare era un grande gioco, e le strade della città erano simili a una scacchiera. Max ebbe un moto di ilarità: la gioia di giocare per vincere. Sembrava assurdo scivolare così facilmente tra i complicati intrecci di quella danza
delle strade. La sua macchina, che aveva imparato a usare perfettamente, rispondeva completamente ai suoi comandi e il passare di cliente in cliente sembrava una quadriglia nella quale si cambiava compagna a ogni canzone. Erano le 17.30, la grande corsa verso casa era all'apice e a Max sembrava di aver finalmente capito la sfida della vita. Si accostò al marciapiede per far salire un nuovo cliente. L'uomo era basso e grosso. Secondo la sua sensibilità superiore era più che grasso: era obeso. Mentre si sistemava ansimando sul sedile e chiudeva la porta, Max si girò per guardarlo. Era ben vestito, nonostante il caldo del tardo pomeriggio. Indossava un classico vestito nero con panciotto, e aveva un aspetto ordinario. Aveva faccia tonda, con pochi capelli ben pettinati che uscivano dal cappello di feltro nero. Tracce di talco sulle guance indicavano che si era appena rasato. Aveva un'espressione indecifrabile, la sua faccia non tradiva alcuna emozione e i lineamenti erano indistinti. Nella mente di Max risuonava un presagio sinistro. «Dove, signore?» «Verso il centro. Vi dirò dove più tardi» rispose ansimando. La voce dell'uomo ricordava il frusciare delle foglie cadute da tempo. Mentre si stava allontanando dal marciapiede, una donna gli corse incontro e bussò insistentemente al finestrino. Perplesso, Max indicò il passeggero, quindi si accorse che non aveva ancora abbassato la leva del tassametro; probabilmente la donna aveva pensato che il taxi fosse ancora libero. Oppure...? Cercò di esaminare l'uomo seduto dietro di lui. La prima cosa che l'aveva colpito era stata la sua obesità. Ora non riusciva più a definirlo in nessun modo. Era proprio come se il sedile fosse vuoto! Diede un'occhiata furtiva allo specchietto retrovisore. Lo sguardo assente dell'altro incontrò il suo. Lui abbassò gli occhi e riprese a guardare la strada. Cos'era quella nuova minaccia? «Non hai la minima possibilità, sai» ansimò da dietro la voce monotona. Max manteneva lo sguardo fisso sul traffico. «Me la sono cavata abbastanza bene fino a questo momento» rispose. «Bah! Finora abbiamo solo giocato. La partita è appena cominciata. Quanto pensi di resistere?»
Max scrollò le spalle. «Finché ce ne sarà bisogno, credo.» Fece una pausa. «Posso chiederti una cosa?» L'Altro non rispose, ma sospirò. «Qual è il tuo scopo? Voglio dire, cosa sono per te?» «Diciamo che tu... disturbi l'equilibrio...» Proseguirono in silenzio per alcuni minuti, mentre Max pensava che finalmente si trovava di fronte all'Altro, il che era esattamente ciò che aveva sperato. Ma all'improvviso si chiese che beneficio ne avesse tratto. L'Altro era un enigma; non sapeva molto di più di quanto sapesse prima, eccetto che... «Ci sono altre persone oltre a te?» L'Altro ansimò di nuovo, prendendo tempo per rispondere. Max si chiese se avrebbe risposto, ed era quasi giunto alla conclusione che non l'avrebbe fatto, quando la voce monotona disse: «Noi siamo in dieci. Siamo padroni del mondo. Ti dico questo perché tu capisca. Ognuno di noi ha grandi poteri, uguali o superiori ai tuoi. Contro uno solo di noi, sarò, ehm, sincero, non so. Ma contro tutti non hai scampo.» «Così io sarei un problema per voi, eh?» «Sì. Ti abbiamo controllato per molto, moltissimo tempo. A quanto pare noi, o meglio io, ho fatto un piccolo errore; non era previsto che tu raggiungessi la maturità. È un errore di cui mi sono reso conto stamattina. Naturalmente è intollerabile.» «Che hai intenzione di fare?» «Ti propongo di rinunciare volontariamente al tuo Dono.» «Davvero? E perché dovrei?» «Perché se non lo farai, non potrai goderti il resto dei tuoi giorni.» «Sai cosa penso?» disse Max dopo averci riflettuto per un attimo. «Penso proprio che tu stia mentendo. È un trucco. Ti sei comportato da sciocco, e ora sei nei guai. Così pensi di potermi spaventare. Penso che ne abbiamo già discusso stamattina.» «Uhm» ansimò pensoso l'Altro. «Ci sono, uhm, ci sono molti modi per ingannare un gatto.» «Cosa?» Max alzò nuovamente lo sguardo verso lo specchietto. Il sedile posteriore era vuoto. Accostò al marciapiede e si fermò a osservare il sedile posteriore. Scosse la testa. «E non mi ha nemmeno pagato la corsa» borbottò.
4 Max rincasò qualche ora dopo, stanco ed esausto per le dure prove affrontate durante quella lunga giornata. "Nessuno ottiene niente per niente" pensò tristemente. La lunga giornata e lo sforzo di usare i suoi nuovi sensi e le nuove capacità lo avevano sfibrato. E moriva di fame. Ma più di tutto ciò pensava: "Perché mai i doni del cielo si rivelano poi sciagure?". Suonò il campanello del suo appartamento. Non sembrava quasi ne valesse la pena. Cosa aveva avuto prima di quel giorno? Non molto, in senso materiale. Ma aveva potuto vivere la sua vita come aveva voluto, quasi senza interferenze, ed era stata una vita serena. Fran... Perché non rispondeva? Suonò il campanello dell'appartamento di lei. Forse era tornata là. Tuttavia, quando quel... grosso individuo... l'aveva minacciato, era stato come se avesse chiesto a Max di rinunciare al suo diritto di nascita. E forse era proprio così. In quel momento gli era sembrato troppo prezioso per arrendersi. Ma in che guaio si era cacciato? Era stato vigile e circospetto per tutto il resto del pomeriggio e della sera e tutto ciò che aveva ottenuto era stanchezza. Dov'era Fran? Cominciò a cercare le chiavi di casa, poi scosse la testa irritato. Si mise a osservare attraverso l'oscurità dell'atrio la sua porta. Per un attimo l'oscurità sembrò farsi più fitta; poi il chiavistello della porta scattò e la catenella ricadde tranquillamente. La porta si aprì e lui entrò, i passi misurati come quelli di un sonnambulo. Salì faticosamente gli scalini; levitare avrebbe richiesto uno sforzo maggiore. Si fermò prima nell'appartamento di Fran. Era vuoto. Quando vi giunse, scoprì che lo era anche il suo. «Fran...?» La voce rimase sospesa nell'aria, mentre gli echi morenti interrogavano ogni angolo delle piccole stanze. Ma non ebbe risposta. Nessuna traccia di Fran. L'aveva capito fin da quando aveva suonato e nessuno gli aveva aperto. Non voleva rendersene conto; aveva cercato, senza riuscirci, di allontanare la consapevolezza che lei se n'era andata. Era una situazione nuova. Ora doveva affrontare la domanda che non aveva mai voluto porsi prima: Quanto significava Fran per lui?
Cos'era per lui? Era più di un semplice sostegno? Quanto dell'amore che provava per lei era vero e profondo? Amore è una parola che si usa liberamente nella società moderna. È una parola che si spreca nei film, nelle canzoni pop, nei fumetti, e così la spreca chi desidera essere parte di quella cultura. Ma cos'è l'amore? Significa trovare qualcuno quando si è insicuri? Oppure lo si identifica in quei momenti magici in cui il mondo assume i colori di una pellicola cinematografica con contorno di violini nascosti che suonano musica mielosa in sottofondo? Oppure è sesso, un momento di orgasmo con un altro corpo? Dove mai, in questa confusa miscellanea di simboli ed esperienze, si trova l'amore? Chi può dirlo? L'amore è un carro impazzito. Se ne sente parlare quando inizia l'adolescenza, un'adolescenza sempre più precoce. Amore è ciò che hanno i due Tipi Qualunque, che stanno insieme da tre settimane. Amore è ciò su cui piange l'uomo della canzone nel juke-box, quello che scimmiottano gli attori sullo schermo. L'amore è quello che non si ha. Colora i nostri pensieri, inevitabilmente. Un uomo che sta morendo di fame pensa solo al cibo. Ma amore è solo una parola, non un concetto tangibile. Evoca immagini confuse: il tizio con la bella ragazza. Si vorrebbe avere una bella ragazza di cui fare mostra, o la notte in cui al buio si inciampa su una coppietta; sesso, amore e romanticherie sono confusamente mescolati nella mente, e sai soltanto che si tratta di qualcosa che ancora non hai, che però desideri. Lo cerchi. Puoi anche trovare qualcuna con cui uscire; ma per te è solo una bella ragazza e dentro di te non provi quello che vuoi far credere, mentre fai del tuo meglio per impressionare gli altri con il tuo successo. Non comunichi veramente con lei; scambi soltanto banalità, parli di scuola, di sport, di qualsiasi cosa a eccezione di quello che ti preoccupa veramente. Poi, più tardi, forse non molto più tardi, ti trovi con lei in una stanza buia. Non importa chi sia la ragazza, quale lei potrebbe essere; forse è la ragazza che il tuo amico si vanta di essersi fatto, forse quella di cui sei segretamente infatuato da sei mesi, o forse soltanto un essere di sesso femminile utile in quel momento. E tu, che non ti sei mai sentito così solo come da quando stai con lei, fatichi duramente, brancoli nel buio e cominci a scoprire i misteri del sesso. Le braccia ti fanno male per lo sforzo di sostenere il tuo corpo e, nonostante il rilassamento fisico, la tua mente sembra in qualche modo sempre turbata da dettagli e domande che non danno pace. Sono al sicuro? Cosa succederebbe se entrasse qualcuno? Continui a
sbagliare. Era ossuta in un punto insospettabile. Scomodo. Eri nervoso, ansioso e goffo. E forse, a malapena, abbastanza sensibile da domandarti: cosa sta provando lei? Mi sto comportando bene? Ma non la conosci, nonostante il tuo armeggiare maldestro, i baci e le carezze, tu non la conosci proprio per niente. È amore, questo? Forse pensavi che lo fosse, ma in fondo sapevi che non era così. Quando poi la vedevi, provavi vergogna. Arrossivi, non riuscivi a guardarla negli occhi. Non hai mai veramente notato le sue reazioni. Cos'è l'amore? Ora sei più vecchio, hai più "esperienza". Hai percorso tutte le tappe. Cos'è l'amore, Max? Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare. L'osservò. Continuava a suonare. Con la paura di sentire quello che sapeva attenderlo, Max alzò il ricevitore. Un presentimento lo mise in guardia. Non portò all'orecchio il ricevitore. Infatti ne uscì serpeggiando un esile viticcio di vapore verdastro, che si scagliò contro la sua mano. Lo toccò di striscio, ma lo punse. Max lasciò cadere il ricevitore e fece un balzo all'indietro. L'odore di materia in decomposizione aleggiava pesante nella stanza. Il vapore si diffondeva cercandolo come una serie di dita indagatrici. Dal ricevitore uscì uno scoppio di risa metalliche. Era stanco, Dio se era stanco. Come sarebbe finita? Era questo il loro piano? Logorarlo, lentamente e metodicamente, finché non sarebbe più stato in grado di resistere ai loro attacchi? Reagì. Il vapore si contorceva e sembrava quasi soffrire, poi si ritirò nel telefono. Lasciò il ricevitore lì dov'era caduto, sul vecchio tappeto consumato. «Quest? Max Quest!» era una voce metallica e ansimante. La conosceva. «Allora?» chiese. Non si avvicinò al telefono. «Abbiamo una donna. Crediamo che lei, hmmm, ti appartenga.» Ci sono molti modi per ingannare un gatto. «Sì?» disse Max. Aveva la voce inespressiva. «Lei è solo un essere mortale, di cui non ti importa molto ora, immagino» ansimò la voce, che aveva assunto un tono mellifluo. «Nella tua condizione, non avrai difficoltà a trovarne altre per soddisfare i tuoi bisogni.» Max si sentì scorticare intimamente. Non era vero, lo sapeva. Non a-
vrebbe potuto trovare altre Fran. Né aveva mai pensato a lei solo in riferimento ai suoi bisogni. Era diventata parte di lui. Era una consapevolezza improvvisa e incoraggiante. Non aveva più pensato a se stesso da solo, ogni volta che visualizzava il suo futuro. Inconsciamente, aveva incluso Fran. E ora quest'Altro, questa voce ansimante, volgare e soddisfatta, che gli parlava in modo irreale dal ricevitore sul pavimento, risvegliava e stimolava la sua comprensione. «Cosa le hai fatto?» Le parole gli apparivano ridicole, sembravano il classico dialogo dei melodrammi del sabato pomeriggio. «Ahhh! Allora sei vulnerabile! Ahah!» Max si irrigidì. «Ovviamente questa telefonata ha uno scopo, e dubito che fosse quello di provare il trucco infantile del vapore.» La sua voce era più ferma. «Hmm, sì, proprio così. Perché non continuare questa discussione, mmm, faccia a faccia? Mi troverai nello studio della Edwards & Archer.» Riferì un indirizzo del distretto finanziario del centro di Manhattan. «Ti aspetteremo» aggiunse l'Altro. Poi uno scatto, e la linea cadde. Quando uscì, la notte appariva tetra. Era fredda e umida; dal fiume la nebbia era arrivata fino a lì, e sentiva il suono lontano delle sirene. Ma era piena estate. La nebbia si forma quando una massa di aria calda si muove verso un luogo freddo, mai in estate. Ora che ci pensava, Max si rese conto di non aver mai visto nebbia in quel periodo dell'anno a New York. Gli Altri... doveva essere opera loro. Max si sentì stanco e infreddolito. Mentre si dirigeva verso la stazione della metropolitana, passò davanti all'edificio della New York Historical Society. Era un edificio vasto e imponente. Ci fu uno schianto improvviso dietro di lui, che lo fece sussultare e girare. Frammenti di pietra lo colpirono violentemente, la polvere fitta lo fece starnutire. Frantumato sul marciapiede a non più di un metro e mezzo da dove si trovava, c'era un pezzo del cornicione dell'edificio. Mentre lo osservava immobile, una sirena risuonò cupa. Lo stavano circondando. La nebbia cominciò a chiudersi su di lui, trasformando le vicine luci della strada in chiazze luminose, smorzando il suono dei passi. Era fredda e umida, di un umido untuoso, quasi grasso, come l'acqua del porto con le
sue macchie sudicie di petrolio grezzo. Era così stanco... Questo lo rendeva furioso, sapeva che lo stavano spronando, forzandolo a estendersi. E poiché doveva, lo fece. Lentamente la nebbia si assottigliò, si alzò e infine si ritirò. Non sapeva quanto si fosse esteso, ma l'aveva respinta di un isolato in ogni direzione. Inciampò e si appoggiò a un lampione. Stava tremando, e vi si aggrappò. Di fronte a sé vide un taxi che veniva verso di lui; un taxi vuoto e in servizio. Lo chiamò. Durante il tragitto verso il centro avrebbe avuto la possibilità di riposarsi, almeno un po'. «Dove, signore?» chiese il taxista con voce secca e inespressiva. Max diede l'indirizzo senza pensarci e la macchina si allontanò lentamente dal marciapiede. Era così bello appoggiarsi al sedile e rilassarsi. Sembrava di essere in ferie. Guardava fuori dai finestrini con un vago interesse professionale. Che strada avrebbe preso il taxista? Giù per Broadway? Il panorama oltre i finestrini era grigio, un vuoto impenetrabile. Max si voltò per guardare avanti. Anche la vista dal parabrezza era grigia. Non si vedevano nemmeno le traiettorie gemelle dei fari nella nebbia fitta... sempre che si trattasse di nebbia. «Ehi» disse Max, afferrando la spalla del tassista. La spalla dell'uomo gli si sbriciolò in mano. Max la ritirò spaventato e osservò quello che stringeva. Pezzi di stoffa, vecchi e rinsecchiti come le bende di una mummia, e pezzi di... terra? L'autista si voltò a guardarlo. La faccia dell'uomo era incavata e vuota, gli occhi vuote orbite. Attento, fu l'ammonimento che provenì dalla sua mente. Controllati. Il controllo, per Max, era qualcosa di nuovo, e con grande sforzò ci riuscì. Per prima cosa dovette calmarsi. Rallentò l'afflusso di adrenalina nel sangue e rallentò il metabolismo. Non gli avrebbe giovato avere la mente annebbiata dal panico. Era necessario essere razionali. Aprì di nuovo gli occhi. La creatura che guidava il taxi era qualcosa di costruito, un'ombra. Non aveva vita propria, e non l'aveva mai avuta. Era sotto il controllo degli Altri. Ma, in quelle circostanze, cosa avrebbe guadagnato strappandola a loro? Stava per incontrarli; non sarebbe stato più saggio semplicemente rilassarsi e lasciare che quella cosa lo portasse a destinazione?
Ma lo stava davvero portando da loro? C'era qualcosa di sbagliato nel modo in cui stavano viaggiando. Preoccupato, usò la sua seconda vista per guardare al di là della coltre di grigio che avvolgeva i finestrini. Niente. Niente, eccetto uno spazio illimitato. Dov'era? Colto dalla disperazione, Max aprì a forza la portiera dell'automobile. Ululando, una raffica di vento gli strappò via la portiera dalla presa e la spalancò del tutto. Max afferrò velocemente i bordi della portiera e, tenendosi stretto, guardò giù... Fasci di nuvole illuminate dalla luna aleggiavano tutt'intorno a loro. Sotto di esse scorgeva le luci scintillanti della città. E con gli altri sensi riusciva a sentire il calore lontano e il muoversi della gente. La macchina in cui si trovava stava sorvolando veloce la città. Per un lungo istante, Max rimase attaccato alla portiera della macchina guardando giù. Il vento lo sferzava, strappandogli i vestiti. Era un vento freddo e leggero, e le mani gli si intirizzivano. Gettò uno sguardo diperato all'autista. Il vento ora soffiava tagliente attraverso la macchina e, afferrando e tirando con forza la creatura, le sfilacciò e ne disfò i vestiti. Mentre la stoffa sciupata volava via, il corpo della cosa sembrava disintegrarsi. Si stava sbriciolando. Ciò nonostante, la creatura non faceva nulla; non sembrava nemmeno conscia della sua situazione. All'interno dell'auto non vi era alcun suono a eccezione dell'ululare crescente del vento. Le luci della città cominciavano ad allontanarsi dietro di loro, sotto era tutto vuoto e buio. Dovevano trovarsi sopra l'acqua, e Max si chiese all'improvviso se quella fosse una prova per vedere se era in grado di sopravvivere. Cosa gli volevano fare? Scaraventarlo nell'Atlantico? Lottando contro le sue paure, Max si tese, raccolse tutte le forze e si gettò oltre la portiera. Le sue mani non volevano lasciare la presa: ci volle un atto di volontà per liberare ogni dito dalla morsa ferrea. Ma quando l'ebbe fatto, fu libero. Diede un ultimo calcio alla carrozzeria e si gettò nel vuoto. La cosa più importante da ricordare era che aveva tempo. Aveva tutto il tempo del mondo, tutto il tempo di cui aveva bisogno. Mentre cadeva, la prima reazione fu di vero e proprio panico, paralizzante. I muscoli gli si irrigidirono per il terrore e il cervello correva come una macchina in folle per una discesa. Ma aveva tempo. Tempo di prendere co-
scienza di sé, di uscire dalla paura e scoprire in sé una grande meraviglia. Cadeva velocemente. Il vento gli lacerava i vestiti e quasi gli strappava la camicia. Gli lacrimavano gli occhi, e le lacrime gli solcavano le guance con la stessa velocità con cui spuntavano. Cercò di ricordarsi cosa aveva sentito dire sulla caduta libera, sport che consisteva nel lasciarsi cadere per alcuni minuti prima di aprire il paracadute. I cultori di questo sport avevano imparato a fare delle acrobazie, a rallentare o accelerare la caduta solo stendendo o rivirando gli arti. Cercò di allungare le braccia, e si sorprese per la pressione esercitata dall'aria sulle mani. Si distese completamente: era come se stesse nuotando in una nuova sostanza per metà liquida. Scoprì che inclinando le mani poteva girare il corpo come voleva. Era come volare. C'era solo un motivo per cui si era affidato alla sorte ed era saltato giù. Era stato capace di levitare in quella lontana mattina. Infatti si era reso conto per la prima volta del cambiamento quando, svegliatosi, si era ritrovato a galleggiare sopra il letto. Non era del tutto sicuro della sua capacità di levitare. Non aveva mai pensato di servirsene per volare. Ma pensò amaramente che l'avrebbe scoperto presto. Quanto tempo era trascorso da quando si era gettato fuori dalla macchina? Non lo sapeva. Il tempo, per lui, era del tutto soggettivo. Se l'avesse desiderato, avrebbe potuto deliberatamente rallentare o sospendere il tempo e trascorrere un'eternità fermo nel vuoto. Non sarebbe stato necessario, naturalmente, ma gli dava la possibilità di fare tentativi durante la levitazione. Avrebbe potuto fermare il tempo e anche la sua caduta, a prescindere dalla distanza da quello che avrebbe potuto esserci sotto, o semplicemente, rallentando il tempo, avrebbe potuto continuare a scendere con la leggerezza di una piuma. Ma ci sarebbe stata sempre l'enorme inerzia che aveva generato cadendo. Si sarebbe comunque schiantato ovunque cadesse, anche se fosse disceso con estrema lentezza. Poteva distinguere a una a una le luci che c'erano sotto di lui. L'angolazione della caduta e i venti dominanti l'avevano portato sopra l'area meridionale di Brooklyn. Alla sua sinistra, in basso, c'era l'arco illuminato del Ponte di Verrazzano, che conduce a Staten Island. Proprio sotto di lui c'erano le luci, adombrate dagli alberi, dell'area residenziale di Bay Ridge. Attentamente, cominciò ad assumere il controllo delle orbite magnetiche della spinta gravitazionale che univano il cielo sopra e sotto di lui. Stabiliva e poi rompeva legami, per rallentare e ritardare la caduta. Finché alla fi-
ne... Completamente esausto, cadde sul marciapiede della Quarta Avenue di Brooklyn. Un vecchio dalla barba incolta l'osservò con occhi spalancati e scosse la testa. Un cane abbaiò dietro di lui con un guaito improvviso di paura. Max si lisciò i capelli con una mano, mentre con l'altra si metteva a posto camicia e pantaloni. Poi cominciò a camminare, a passo veloce, verso l'entrata della metropolitana dell'isolato vicino. Mentre scendeva le scale, si mise automaticamente le mani in tasca. Tutte vuote. Nella caduta aveva perso portafoglio e monete. Scrollò le spalle e passò attraverso il cancelletto girevole, senza preoccuparsi del distributore di biglietti alle sue spalle. 5 Max era preparato a scoprire che l'indirizzo che gli avevano dato era falso. Ma poi scoprì che l'edificio esisteva veramente e che nell'elenco degli affittuari compariva la scritta EDWARDS & ARCHER, AVVOCATI. Firmò il libro che gli porgeva un vecchietto sdentato e poi prese l'ascensore fino al quattordicesimo piano. Si accorse, mentre stava salendo, che quello non era veramente il quattordicesimo piano. Aveva osservato pigramente i bottoni indicanti i piani e con aria divertita aveva notato il salto da 12 a 14. Non c'era tredicesimo piano; l'edificio era preda di una comune superstizione moderna. Nondimeno, la sua destinazione era il tredicesimo piano. Poi le porte si aprirono, e si trovò in un atrio. L'edificio non era moderno, benché gli ascensori fossero nuovi; il pavimento era di marmo, coperto da una lunga passatoia. Le entrate dei diversi uffici erano decorate in modo pacchiano, e le dorature si facevano portavoce, secondo i canoni di un'altra epoca, della rispettabilità e della responsabilità finanziaria delle persone i cui nomi apparivano sulle porte. I passi erano attutiti dalla passatoia; Max andò direttamente verso l'unica porta dalla quale filtrava la luce. Esitò per un momento davanti all'uscio. L'atrio era freddo e vuoto; era difficile immaginare che di giorno fosse percorso da normali impiegati. Ebbe un brivido. Forse non era così. Che tipo di affari conducevano mai in quegli uffici?
Era ancora stanco, ma la caduta nel vuoto l'aveva completamente svegliato, l'aveva rallegrato, e adesso era pronto a un altro confronto. Fino a quel momento non aveva incontrato nessun altro ostacolo; continuava a stare all'erta, ed era anche riuscito a recuperare le forze. Si richiamò all'ordine, fece appello alle proprie forze mentali e aprì la porta. Mentre entrava si circondò di uno scudo d'energia, quella che sperava fosse un'adeguata protezione. Non si era aspettato ciò che vide. Si trovava in un'entrata rialzata che si stendeva davanti a lui per un breve tratto e che poi si apriva, due gradini più in basso, in una grande stanza infossata. Non era un ufficio; era un salone, uno di quelli che si vedono nelle riviste di lusso. Il pavimento era coperto da una spessa moquette color porpora, sulla quale erano stesi tappeti più piccoli di colori intonati. Attorno a ognuno dei tappeti dai colori vivaci era disposto un mobilio moderno ma confortevole e imbottito: sedie, divani e sofà. Vicino c'erano bassi tavolini e lampade a stelo, che creavano oasi di luce calda su ciascun gruppo di mobili. Il salone era affollato. Quasi tutte le sedie e i posti a sedere erano occupati; diverse persone, per lo più giovani donne, erano distese sui tappeti. Un mormorio gentile caratterizzava la conversazione, i cui echi gli giungevano come onde calme su una spiaggia. Era sconcertato. Non era per niente ciò che si sarebbe aspettato di trovare. Dove, tra tutte quelle persone «sicuramente un centinaio» avrebbe potuto trovare l'uomo grasso... o Fran? Mentre era sulla porta, gli si avvicinò una donna giovane e bella con due bicchieri in mano. «Non volete bere qualcosa e unirvi a noi?» gli chiese con voce limpida di contralto. Max accettò da bere senza dire niente. Con il bicchiere in mano, senza però assaggiarne il contenuto, squadrò la donna. Apparentemente... doveva essere sulla ventina o poco più. Lunghi capelli neri che le cadevano dritti sulle spalle, una lunga frangia che le copriva la fronte, incorniciando un volto che a Max sembrava più adatto a uno schermo cinematografico. Aveva lo sguardo e il portamento di una modella o di un'attrice nel muovere il corpo sinuoso, fasciato strettamente dagli abiti, con una grazia così lungamente studiata da esserle divenuta naturale.
Interiormente... Max era scioccato. Si aspettava in tutto e per tutto un'altra ombra. Si aspettava un'altra di quelle ragazze che l'Altro gli aveva menzionato al telefono: un involucro senza anima fatto per accontentare i suoi, o loro, desideri. Ma non lo era. A quanto poteva vedere, era semplicemente quella che appariva: una giovane attraente e sana, in pieno possesso delle sue capacità mentali. Lesse nella sua mente che si chiamava Sally Remington e che di professione girava spot televisivi. Non c'era segno di possesso da parte degli Altri. «Scusate» disse Max, rendendosi conto che gli aveva chiesto qualcosa. «Stavo dicendo, conoscete le persone che sono qui?» «No, ma...» esitò, pensando a cosa dire. «Pensavo di dover incontrare il signor Edwards o il signor Archer. Non ho idea...» «Oh, sì» disse lei con un sorriso cordiale «Il signor Archer è un produttore. Gli piace dare grandi feste per la gente del... del giro.» «È basso, molto grasso e respira ansimando?» «No... no, il signor Archer è piuttosto robusto, ma è molto alto.» Rise. «Ha l'aspetto di un vero texano, sapete. Tutto casa e bestiame.» «Forse è la persona che cerco» disse Max. Diede uno sguardo al salone, ma il buio e le dimensioni lo fecero desistere. Non riusciva a vedere nessuno che corrispondesse alla descrizione di Archer. «Non lo vedo» disse lei dubbiosa. «Ma non importa. Si farà vedere di nuovo.» Lo prese per mano, in modo gentile e affettuoso. «Vieni, ti presento agli altri.» Si lasciò condurre giù dai gradini entro il salone. La moquette sotto i piedi sembrava lussuosa, e la bella ragazza al suo fianco gli paralizzava i sensi. Si trovò ad assaggiare il drink. Era un Manhattan. Di solito non si interessava a quelle cose, ma scoprì che gli piaceva. Attento, attento... risuonò l'allarme interiore. Ma semplicemente, non riusciva a identificare come un pericolo il luogo in cui si trovava. Non vedeva segno degli Altri, né all'interno del salone né tra la gente presente. Si sentiva disturbato dalla loro assenza. Era andato lì per incontrarli faccia a faccia; invece si ritrovava a uno strano quanto tipico cocktail-party newyorkese. Non aveva senso, ma sarebbe rimasto lo stesso a vedere. «Questo è il signor Smith» stava dicendo Sally, presentandolo a un avvenente uomo di colore. «Melvin Smith, poeta e commediografo. Due delle sue commedie sono state rappresentate a Broadway.»
Smith gli porse la mano e lui la strinse forte. «Non scriveva su una rivista di jazz, qualche anno fa?» gli chiese. La stretta dell'uomo era leggera, prolungata. Ma il tono della sua voce si fece all'improvviso violento quando si girò a fissarlo sporgendosi in avanti. «Sì, amico, scrivevo su quei giornali da bianchi, finché non mi è girata più bene. Troppo! Voi bianchi che mettete in mostra noi neri come se foste i padroni nostri e della nostra musica!» Non smise mai di sorridere. Max si tirò indietro come se fosse stato ferito. «La vostra musica?» disse. «Sì, amico, il jazz è la nostra musica. Voi bianchi avete quattro, cinque secoli su cui sparare scemenze a modo vostro; Stravinskij, Bartok, Stockhausen, quella gente lì, ma noi abbiamo Bird, Bud, Monk e Mingus. Abbiamo Ornette. E sai cosa puoi fartene dei tuoi Bartok? Bravo, vedo che hai capito.» «Non sapevo che suonaste uno strumento, signor Smith» disse Max. «Ehi, amico, io sono un fiatista razziale, muso bianco» rispose lui sprezzante. «E bravo, anche» ribatté Max. Il sorriso del nero si allargò e poi tutto d'un tratto gli voltò le spalle. Max trovò Sally ancora al suo fianco. «È sempre così?» le chiese. «È il ruolo che recita in pubblico» rispose. «A conoscerlo bene è un tipo molto simpatico.» «Probabilmente gli fa salire i diritti d'autore» disse Max dubbioso. Sally gli presentò tutta una varietà di persone, mentre passavano da un gruppo all'altro, e Max cominciò a chiedersi se fosse incappato nel tipico ritrovo di gente dello spettacolo. Erano tutti lì: i ragazzi che si danno da fare, le ragazze che vogliono fare carriera, gli uomini che fanno fare carriera alle ragazze, quelli che trovavano sbocchi più "artistici", la classica giungla di sfruttati e sfruttatori. Mentre passava dall'uno all'altro, Max iniziò a ipotizzare che quelle persone fossero le uniche esistenti nel loro genere; tutte le altre che affollavano il mondo dell'editoria, della televisione e della pubblicità non erano altro che ombre che Edwards & Archer avevano creato basandosi su di loro. «E tu cosa fai, caro?» gli chiese una donna che, vista a distanza di circa tre metri, sembrava avere vent'anni. Max era affascinato dalla parte superiore del suo vestito; sotto non portava niente. «Guido un taxi» disse lui, e aspettò la reazione. Aveva intanto bevuto altri due bicchieri portigli dalla fedele signorina Remington, sempre al suo
fianco. Ma a parte una vivace allegria che gli era rimasta addosso dalla tarda mattinata, quando era disteso sull'erba del parco, l'alcol non gli faceva effetto. «Un taxi! Divino» fece la donna ridendo. Gli lanciò un'occhiata maliziosa: «Vuoi venire a letto con me? Come vedi, mi mantengo bene.» Max arrossì. Molto abilmente, Sally lo allontanò dalla donna, mentre alle loro spalle risuonava dolcemente una risata. «Hai visto se è tornato il signor Archer?» chiese a Sally, tanto per dire qualcosa prima che lei facesse commenti sulla sua reazione alla proposta. «Non l'ho ancora visto» rispose lei. «Vuoi sederti?» disse indicando un divano vicino. Era apparentemente comodo e disegnato per due persone, così lo occuparono loro. Max sospirò e appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolino alla sua sinistra. Sally si sistemò i piedi sotto il corpo e gli si raggomitolò contro. Lì vicino tre giovani ben vestiti chiacchieravano tra loro, sottolineando occasionalmente la conversazione con le mani, che si muovevano descrivendo gesti armoniosi. Allontanò lo sguardo da loro e osservò la coppia che sedeva di fronte a loro su un divano uguale. La ragazza era rannicchiata contro l'uomo, che sembrava fuori luogo in quegli ambienti così lussuosi. Aveva lineamenti rudi e bruciati dal sole, i capelli erano una zazzera incolta. A differenza delle persone eleganti che giravano lì intorno, indossava una camicia sportiva sgualcita, un paio di pantaloni larghi non stirati e scarpe consumate e polverose. Max l'osservò a lungo prima di percepire la realtà e accorgersi che il suo sguardo veniva ricambiato. Stava guardando la sua immagine riflessa. Il salone era grande, ma si rese conto all'improvviso che non era grande come credeva. Era coperta di specchi. Specchi a ogni estremità, che coprivano tutti i muri ininterrottamente. Guardò attentamente lo specchio, e di colpo gli fu tutto chiaro. Sì, se guardava attentamente, si poteva individuare anche il muro di fronte, quindi l'immagine si sdoppiava di nuovo e ripercorreva il suo percorso. L'effetto prodotto era quello di un'immagine che si ripeteva continuamente. Mentre recuperava i sensi, divenne consapevole di qualcos'altro. Non era stanco né affamato. Curiosamente, si sentiva rinvigorito. Incuriosito, si guardò dentro... e scoprì che il suo corpo aveva utilizzato le calorie fornite dall'alcol per rinvigorirlo. Di nuovo, aveva riconvertito energia per proprio uso personale.
La ragazza accanto a lui sembrava addormentata. I suoi capelli gli sfioravano l'orecchio; la guancia era appoggiata alla spalla di Max. Si domandò che ora fosse, e vide che lei aveva un piccolo orologio. Segnava mezzanotte. Tutt'a un tratto si sentì allarmato. I sensi gli urlarono un avvertimento. Guardò nuovamente lo specchio, cercando la stanza dietro di sé. Erano rimaste poche persone; la compagnia si era ridotta a meno della metà. I suoi occhi vagavano di gruppo in gruppo, quando... In piedi, soli, c'erano due uomini che non aveva visto prima. Uno era alto, robusto e sovrastava quasi tutti quelli che gli erano vicini. Aveva un volto tozzo e impassibile. E con lui... c'era quell'uomo! L'uomo che quel pomeriggio era stato nel suo taxi, che gli aveva parlato al telefono. Che l'aveva minacciato. L'Altro. Incurante della ragazza che gli stava accanto, Max si alzò e si girò. Con un gridolino, Sally aprì gli occhi e l'osservò spaventata. Max la ignorò e osservò incredulo la stanza. Lontano, dall'altra parte, la sua immagine lo fissava. Non c'era traccia dei due. Ma... Più oltre... Oltre la sua immagine riflessa, con le spalle rivolte a lui, c'erano i due uomini. Si girò nuovamente per osservare lo specchio più vicino. Lì, molto più vicino, c'erano loro. Lo osservavano con aria beffarda. L'uomo piccolo e grasso alzò la mano e gli fece cenno con un dito. Senza distogliere lo sguardo da loro, cercò di attivare i suoi sensi paranormali. Il salone dietro di lui era privo della loro presenza maligna, come quando vi era entrato per la prima volta. Ma davanti a lui, al di là dello specchio, lo aspettavano due degli Altri. Sally, alzandosi in piedi, l'afferrò per il braccio. «Max! Cosa stai facendo?» «Non li vedi?» chiese lui indicandole i malefici padroni di casa. «Cosa? È uno specchiò, sciocco. Hai bevuto troppo. Come me. Perché non...?» Si liberò di lei e avanzò verso lo specchio. Mentre la ragazza lo osservava con muto stupore, Max allungò la mano dentro lo specchio. "È come immergere la mano in un catino d'acqua" pensò, e immaginò
che la superficie dello specchio gli si increspasse confusa attorno al braccio. Però riusciva ancora a vedere la mano, che si allungava oltre lo specchio come se non ci fosse proprio niente. Deciso, la seguì, e vi passò attraverso. Si ritrovò in una stanza esattamente uguale a quella che aveva lasciato, ma speculare. Tuttavia c'era una differenza significativa. Su quel lato dello specchio solo lui e i due Altri erano reali. Quelli che vi si riflettevano dall'altra parte erano spettri, pallidi e privi di sostanza, benché lui potesse, guardando indietro, vedere i loro corpi reali nella stanza oltre lo specchio. Lo spettro di Sally Remington guardò incredulo lo spazio vuoto, poi, muovendo silenziosamente le labbra, si allontanò. Max sapeva che per lei era scomparso. I mobili, come le altre suppellettili, erano solidi. I suoi sensi paranormali trasmisero a Max che la stanza e ciò che conteneva erano reali. «Benvenuto, signor Quest» disse il più basso dei due Altri. La sua voce era sempre ansimante, ma ora, vicino al suo compagno, l'uomo non appariva più molto sicuro; c'era in lui una certa servilità. «Certo ti ricorderai di me: sono Edwards. Costui» disse ansimando, indicando l'Altro che gli era vicino «è Archer. Ti è piaciuta la nostra festicciola?» «Era in mio onore?» «Oh, certamente no. Pensi che ci saremmo veramente dati tanta pena? L'hai visto da te: sono reali. Ma a dire la verità, non ci aspettavamo di vederti qui.» Max si concesse un sorriso cupo. «Sì, lo so.» Poi accennò col capo ai fantasmi che si muovevano lentamente e inosservati attorno a loro. «Qual è la loro funzione?» «Devono proprio averne una? Una funzione ulteriore?» chiese Edwards. «A noi piace la compagnia delle persone vere. Archer e io, tutti noi, ci stanchiamo presto di manipolare fantocci. È molto più divertente muoversi qui tra tanti sciocchi e ignari homo sapiens e goderceli con la loro collaborazione.» Edwards sorrise, con un sorriso che fece venire a Max voglia di ridurgli la faccia una marmellata. Quella gente, con le loro sciocche vanità, veniva sfruttata in un modo che non immaginavano neppure. Edwards e Archer, avvolti nella rispettabilità dei ruoli che si erano scelti, si divertivano con loro e le manipolavano nel modo più subdolo: approfittando delle loro personali aspirazioni. Era una raffinatezza che aveva superato i loro poteri paranormali. Sfruttando le qualità che trovavano nelle persone
stesse. Poi Max ricordò il motivo per cui si era spinto fino a lì. «Fran» disse. «Cosa le avete fatto?» Edwards indicò un gruppo di poltrone e divani che si trovava dall'altra parte della stanza. Noncurante della loro presenza, Max passò loro davanti e attraversò la stanza. Si fermò di fronte allo schienale del sofà. Fran era proprio lì. Era distesa sul divano, priva di sensi. Non aveva segni di violenza. «Fran» disse, chinandosi su di lei e toccandole la fronte. Era fredda, e Max, sempre più smarrito e spaventato, le prese la mano per sentirle il polso. Lo sentì, ma lento e quasi impercettibile. Sembrava che fosse in animazione sospesa. Si alzò. I due erano in piedi lì vicino e l'osservavano inespressivi. «Che cosa le avete fatto?» chiese. «L'abbiamo mandata in un altro posto» rispose Edwards. «In un altro posto? Cosa intendete dire?» «Davanti a te vedi un corpo un... ehm... involucro vuoto. La forza motrice, come la chiamereste? La, ah! L'anima, thetan. Non c'è più. Questo è semplicemente un corpo. Un corpo meccanico. Riflessi, niente altro.» Max si sentì schiacciare, come se una morsa gli stringesse le tempie. «La sua... anima? Cosa le avete fatto?» «Come ho detto» replicò imperturbabile Edwards «l'abbiamo spedita da un'altra parte.» «Perché? Cosa sperate di ottenere?» gridò Max. «Ahhh... cosa? Sarò franco con te, Max Quest. Desideriamo liberarci di te. E c'è un solo modo per poterlo fare. Dobbiamo fornirti una motivazione. Ammetto che temevamo non fosse sufficiente, ma ora ci sembri abbastanza motivato; per lo meno quanto desideravamo. «Abbiamo mandato il thetan, l'essenza della tua Fran, nella realtà di un'altra dimensione. Se desideri riaverla, devi cercarla lì per ritrovarla.» «Capisco» disse Max. «Non potete attaccarmi direttamente, così vi siete serviti di Fran.» «È un sintomo della tua debolezza» disse ansimando Edwards con tono indulgente e compassionevole «il fatto che si possano facilmente sfruttare le tue emozioni. Osserva» disse, e indicò lo spettro vicino di una persona nell'altra stanza. Sally. «Lei potrebbe essere facilmente tua. È vera, non ha
bisogno di essere dominata dai vasti poteri. Ti ha scelto e si è unita a te spontaneamente. È vera e, secondo i tuoi canoni, ciò è positivo, dato che è un essere umano...» accompagnò le parole con un ghigno. «Vale forse meno della tua amata Fran? O è qualcosa di più?» Max capì che quello era il loro ultimo attacco. Un attacco molto tortuoso, il cui fine non era distruggerlo fisicamente, come gli altri, ma piuttosto farlo in maniera molto più subdola: portarlo al loro livello, farlo diventare uno di loro, vecchio, logoro, inumano. «Come posso raggiungere Fran?» chiese Max. 6 L'avevano ingannato! Nel buio che gli si infrangeva contro, sentiva esaurirsi la sua forza e con essa anche le nuove doti. Stava girando, girando nel profondo del suo essere, come se nel centro vi fosse un vortice che lo risucchiava per poi gettarlo non sapeva dove. «La realtà di un'altra dimensione» aveva detto Edwards. Un'altra realtà. L'epressione gli aveva detto poco, allora; solo un luogo, una destinazione nella sua ricerca di Fran. Un'altra realtà... le cose non sarebbero state come le aveva conosciute. Forse... ma ci sarebbe stata anche una realtà fisica corrispondente o in contrasto con quella che aveva conosciuto? Non c'era modo di saperlo. Sapeva soltanto che nella nuova realtà nella quale stava per entrare non avrebbe avuto con sé le sue armi più potenti. Sarebbe stato inerme, privo di quei poteri che aveva improvvisamente ereditato meno di 24 ore prima. Si svegliò lentamente, con le tempie che pulsavano per il caldo. Aprì gli occhi, che furono trafitti da una luce abbagliante, che gli penetrò nel cervello. Si lamentò e si girò dall'altra parte. Il petto gli bruciava; era come se fosse stato scorticato vivo. Quando si spostò, una pietra affilata gli si conficcò nel fianco. Sentiva la pelle secca e dolente, i muscoli rigidi. Ora sentiva caldo su una spalla e sulla schiena. Riaprì gli occhi, tenendoli socchiusi. Li colpì un bagliore, ma lui li tenne aperti. Diede un'occhiata al luogo in
cui si trovava. Pietra gialla, immersa nel sole. Non vedeva altro. Una grande distesa di pietre, sabbia e argilla che si allungava verso un lontano orizzonte, dove un cielo arancione, arso e senza nuvole, scendeva a incontrarla. Faceva caldo, tremendamente caldo. Quando si leccò le labbra, sentì la lingua secca e gonfia, le labbra screpolate. Si mise a sedere. Era nudo. A quanto poteva vedere, il corpo era il suo; non aveva mai avuto segni o cicatrici, ma gli sembrava proprio che si trattasse del suo corpo. E oltre tutto malandato. Il petto, la parte anteriore delle braccia, delle gambe e il tronco erano rossi per le scottature. Con attenzione, alzò lo sguardo. Un sole più piccolo di quanto ricordasse, bianco nel cielo arancione, ardeva quasi a perpendicolo su di lui. Si chiese se fosse rimasto steso là tutta la mattina. Gli sembrava possibile. Lì vicino, dietro al punto in cui si era svegliato, c'era una roccia alta. L'ombra che proiettava era minima, ma lui vi si diresse, pieno di gratitudine. Ingannevolmente il terreno non era liscio, anche se lo sembrava. Gli dolevano i piedi, delicati e da tempo non più abituati a camminare scalzi, a causa delle appuntite asperità della roccia, dei sassi sparsi e per il calore bruciante. Quando scivolò sotto la sporgenza della roccia, zoppicava. Fece il punto della situazione. Si trovava solo, nudo e totalmente inerme in un mondo sconosciuto, in un deserto inospitale. Si chiese che possibilità avesse. Era abitato? C'era qualcosa di vivo? Fu più facile rispondere alla seconda domanda. Vicino al luogo dove si era riparato, una piccola pianta spinosa cresceva a fatica in una fessura della roccia. La guardò attentamente. Gli steli erano di un colore marrone nerastro, le spine nere e lunghe pochi centimetri. Le foglie corte, fitte e di un verde argenteo, gli ricordavano la salvia. Strappò alcune foglie e le schiacciò tra le dita. Con sua grande sorpresa, vide che erano piuttosto grosse. Schiacciandole, una linfa verdastra e acquosa gli sporcò le dita. Con circospezione, alzò la mano e l'annusò. Tirò fuori la lingua e la avvicinò cautamente a un dito. Lo punse una specie di ago di fuoco, e lui allontanò velocemente la ma-
no. La lingua toccò la parete interna di una delle guance e il dolore si diffuse anche lì. D'impulso spazzò via la linfa dalle dita. Il dolore cessò velocemente, lasciandolo con una sensazione di torpore e depressione. La bocca, dopo quel tormento, era più riarsa che mai. Si chiese se tutto ciò che avrebbe trovato in quel mondo sarebbe stato velenoso. Poi un altro pensiero più cupo gli attraversò la mente. Se per lui era così difficile sopravvivere, che possibilità aveva Fran? Capì che era una trappola ben costruita, e ci era cascato come un pollo. Ma non c'era stata possibilità di scegliere. O quella strada, o l'altra, quella che gli avrebbe fatto rifiutare tutti i suoi valori e i suoi principi e l'avrebbe fatto inevitabilmente diventare uno degli Altri. L'aveva capito quella notte, in piedi nella stanza fantasma, circondato dalle ombre degli esseri reali. La scelta era semplice: perseguire i suoi valori o rinunciarvi. Gli avevano presentato un'alternativa interessante. Quella trappola di cui si era reso conto facilmente. La ragazza, Sally: lei era immune dal loro male e in ciò stava il messaggio. Non avevano bisogno di contaminare le creature in loro possesso se sceglievano di non farlo. Erario in grado di controllarle, senza creare schiavi. Gli offrivano il loro mondo, un mondo che lo avrebbe corrotto facilmente come aveva corrotto loro. Sarebbe stato indolore e ogni passo piacevole, se fosse riuscito a controllare la sua coscienza. Ma invece aveva scelto di seguire Fran e i suoi veri obblighi. Nonostante il caldo, tremava. Aveva preso la decisione giusta. Quali torture fisiche o mentali stava sopportando Fran in quel mondo se, davvero, era ancora viva? Dio, aveva sete. Le ombre che lo proteggevano dal bagliore diretto del sole si stavano ora allungando, e Max si chiedeva quanto fossero lunghe le giornate. Il sole era più caldo e luminoso di quanto avesse mai visto, e l'avrebbe tenuto inchiodato lì fino al crepuscolo. Sapeva che passare altre due o tre ore sotto il sole significava morire disidratato. Era facile oziare al riparo della roccia. Era secca e calda al tatto, ma sicuramente più fredda che non il lato esposto. La pelle della fronte gli si era bruciata e ora, curiosamente, sembrava unta e irritata. Era molto che non mangiava, ed era più facile dimenticarlo se rimaneva tranquillo. Si chiese cosa vi fosse al di là di quelle aride pianure. Quel mondo era forse un unico deserto?
Il sole era calato abbastanza perché il suo bagliore non colpisse più la terra. Si trovava da qualche parte dietro di lui poiché i raggi lo colpivano obliquamente, mandando lontano il riflesso. Zone di calore luccicavano ancora qua e là, rendendo il lontano orizzonte confuso e ondeggiante, ma gli sembrava comunque di vedere delle montagne. Più da vicino, poteva vedere che la piana desertica non era informe come aveva inizialmente supposto. In certi punti c'erano sporgenze rocciose, simili a quella sotto cui si era rifugiato, che si erigevano con strane inclinature sull'argilla bruciata che le circondava. Occasionalmente scorgeva anche canali scavati nella roccia, che gli parvero corsi d'acqua prosciugati, poco profondi, che spesso sparivano nel nulla. Il terreno non era pianeggiante come gli era sembrato, e ora che le ombre erano più lunghe, distingueva collinette e poggi, e cespugli e arbusti sparsi qua e là. Tutto aveva sfumature argentee, e lui si chiese se lì crescesse qualcos'altro oltre al cespuglio velenoso di poco prima. Con il trascorrere del pomeriggio, comparvero le nuvole. Prima sotto forma di soffioni sparsi, poi più tardi si raggrupparono in banchi ammassati ma non uniformi. Le guardò con avidità. Le nuvole significavano pioggia, e la pioggia acqua. Quando il sole si abbassò ancor più sull'orizzonte (Max calcolò che fossero circa le cinque, anche se non sapeva quanto poteva durare lì il giorno) si alzò e si stirò. Lo fece malvolentieri, perché ogni movimento era una tortura per i muscoli doloranti. L'ombra della roccia si allungava per un lungo tratto davanti a lui e alla sua destra. Aveva arbitrariamente deciso di usare punti cardinali che seguissero il sole, per cui quello era il sud. C'era un gruppo di nuvole scure e minacciose. Mentre le osservava, vide un qualcosa che assomigliava a un piccolo arco di scintille che scendeva fino a un altipiano, quindi uno scroscio di pioggia nera. Era lontana molti chilometri da dove si trovava. Non si avvicinò mentre continuava a guardarle. Si alzò lentamente una brezza leggera. Scoprì che veniva da est; avrebbe spazzato via il temporale. La brezza gli accarezzava la pelle, e almeno di questo ne era grato. Poi girò intorno alla roccia e guardò verso occidente. Il sole era basso sull'orizzonte, il suo colore sfumava verso un giallo fiammeggiante e la circonferenza si era trasformata, schiacciandosi in un ovale piatto. Sarebbe tramontato presto. Max cercava segni di qualcosa di diverso da quel deserto infinito, ma
non ne vide. Non vedeva neppure il gruppo di montagne sparse sull'orizzonte occidentale. E più vicino, il deserto non sembrava diverso da come appariva a oriente. Max sapeva che sarebbe morto lì, se non avesse trovato acqua, e presto. Dubitava di poter resistere un altro giorno. E il cibo: fino a quel momento non aveva visto traccia di vita animale. La notte si avvicinava velocemente, e Max ricordava quanto bastava dei deserti della Terra per capire che la maggior parte delle creature del deserto si sarebbero avventurate fuori dai loro nascondigli solo col fresco della notte. I predatori abbastanza grandi da poterlo cercare non lo preoccupavano. Si preoccupava soltanto di procurarsi cibo. Fremendo a ogni passo, cominciò a girare in cerchio partendo dalla sua roccia, cercando qualcosa, qualche segno di vita. Li cercava attentamente quando incontrava strisce di polvere, dopo essersi reso conto dell'inutilità di cercarli sull'argilla e sulla roccia e cominciò a seguire la polvere, conscio anche del fatto che gli avrebbe reso il cammino più agevole. La polvere si era raccolta sulle collinette e nelle fenditure della roccia e aveva formato un rigagnolo asciutto che cercava di raggiungere i livelli più bassi. Vagava qua e là, spargendosi a volte su una vasta area, a volte restringendosi a un semplice filo o scomparendo del tutto. Ma Max si teneva vicino alla polvere, cercando il più attentamente possibile dei segni... qualsiasi segno: tracce di qualche genere. La luce splendeva rossastra sul deserto quando le trovò. Una serie di piccole orme di due piedi saltellanti che si incrociavano in continuazione, dove la polvere era abbastanza densa. Max ritenne che risalissero a qualche giorno prima, e quel pensiero lo rattristò di nuovo, perché gli ricordò che la pioggia era poca e rara. Ma cominciò a seguire le tracce. Le tracce andavano a zig-zag avanti e indietro l'una sull'altra, ma prese nel loro insieme, seguivano un percorso sorprendentemente dritto. Max decise di seguirle prima verso la roccia e poi verso nord. La polvere finì presto, ma le tracce proseguivano sempre dritte. Così le seguì sopra la nuda roccia e poi sull'argilla spaccata e quando incontrò un altro accumulo di polvere trovò di nuovo le tracce, che puntavano ancora dritte in avanti. Le seguì su una piccola altura e al di là, e poi, mentre la luce veniva meno, riuscì a identificare qualcosa che non aveva notato prima quando era
passato diretto a occidente: una serie di piccole buche nere. Erano cinque o sei, sparse senza ordine preciso, sopra l'argilla dura della collinetta. Le buche avevano un diametro di circa cinque centimetri. Aveva seguito le creature fino alle loro tane. Ma l'interrogativo rimaneva: cosa c'era all'altro capo del sentiero? Max sperava che la sua intuizione fosse giusta. Seguì le tracce lungo l'accumulo di polvere da dove le aveva viste per la prima volta, lasciando grandi impronte che contrastavano con quelle ormai familiari. Solo in un punto il percorso cambiava direzione: dove costeggiava un'altra roccia. Poi scomparivano in un burrone più grande di tutti quelli che aveva visto in precedenza. Ora ne era certo, e la vista di una grande macchia di arbusti ribadì le sue supposizioni. Max cominciò a correre e, mentre gli ultimi raggi del sole svanivano, oltrepassò i cespugli e si trovò davanti a una pozza d'acqua. Senza pensare che forse la composizione chimica del suo corpo era diversa da quella di quel mondo, si inginocchiò e immerse la testa nel piccolo specchio d'acqua. Inizialmente fu felice di sentirne l'effetto benefico sulla sua pelle e di lasciare che la bocca si riempisse d'acqua. Si sedette e trattenne l'acqua in bocca un po' prima di inghiottirla. Era buona, Dio se era buona. Giunse le mani e bevve a sazietà. Poi, con cautela, si distese completamente nella polla d'acqua. Anche se non l'aveva vista crescere, la luna stava già salendo dall'orizzonte. Era grande, almeno una volta e mezzo la luna che ricordava. La sua luce era quasi luminosa quanto quella del sole, sebbene molto più fredda. Si alzò ed esaminò i dintorni. La pozza era larga poco più di tre metri e mezzo ed era poco profonda. Il fondale roccioso si abbassava verso l'estremità in cui sgorgava una sorgente spumeggiante. La pozza era circondata da sabbia e dalla flora tipica del deserto. Non c'era alcun ruscello; l'aria asciutta e la terra secca assorbivano tanta acqua quanta ne affiorava. La boscaglia non era tutta uguale. Alla luce della luna, sembrava tutta dello stesso bianco argenteo, ma le foglie avevano forme diverse e alcune non avevano spine. Max non trascorse molto tempo alla pozza. Illuminate dalla luna, vedeva numerose piccole tracce che conducevano all'acqua e ciò gli ricordò le impronte che aveva seguito. Cautamente, salì su per il burrone, quindi si ac-
covacciò e si mise ad aspettare. Si svegliò di soprassalto. Era molto più buio di prima, e in alto il cielo era illuminato da migliaia di puntini luminosi che sembravano pietre preziose. Quelle erano stelle, le stelle più lucenti che avesse mai visto. Aveva sentito dire in precedenza che nel deserto l'aria è più limpida e le stelle sono più lucenti, ma non c'era mai stato un panorama come quello nel mondo da cui proveniva. Le costellazioni gli erano sconosciute, ma risplendevano di colori intensi. Poteva distinguere stelle verdi, gialle, arancione, rosse e persino azzurre, un miscuglio di ricchezze celestiali che avrebbero costituito un ricco bottino. Per alcuni lunghi istanti rimase incantato ad ammirare quella meraviglia. Si ricordò allora la ragione per cui era lì e imprecò contro se stesso per essersi addormentato. Si alzò in piedi, si stirò e si guardò intorno. Non c'era segno di vita, né di movimento. La grande luna era bassa e gialla sull'orizzonte occidentale. Si girò verso est, dove si trovava la pozza d'acqua. Una seconda luna stava crescendo. Era molto più piccola, una mezzaluna così piccola da essere quasi invisibile. Era ovviamente all'inizio o alla fine di una fase; Max avrebbe voluto saperne di più. Diffondeva poca luce. Il deserto, ora, appariva come un mondo diverso; un mondo senza ombre. Max si spostò verso il sentiero. Aveva cancellato camminando le impronte che aveva visto in precedenza. Si acquattò per cercare nuove tracce. Non ce n'erano. Si accorse allora di essersi comportato stupidamente. Aveva fiancheggiato il sentiero per tutta la sua lunghezza. Si sarebbe sentito il suo odore. I piccoli animali non sarebbero venuti, quella sera. Si diede dello stupido, ma senza troppa convinzione. Almeno aveva trovato l'acqua. Pensò ad altro. Non poteva esserci molta acqua lì intorno. Le piccole orme avevano percorso molta strada per arrivare fin lì. Inoltre c'erano molte altre piste che conducevano all'acqua. Con molta cautela, Max cominciò a farsi strada di nuovo verso la pozza. Inizialmente pensò che non ci fosse niente. Poi capì che la luce lo ingannava. Dall'altra parte della pozza, sopra una roccia che non aveva toccato,
sedevano quattro piccoli animaletti. Fu sorpreso dal fatto che sembravano molto familiari. A prima vista infatti assomigliavano a cani della prateria. Max decise di chiamarli cuccioli del deserto. Avevano una pelliccia molto chiara, con sfumature simili a quelle della roccia. Era impossibile distinguerne il colore. I musi, le zampe e le piccole code tozze erano di un colore più scuro. Uno di questi era disteso sulla roccia, con le zampe anteriori immerse nell'acqua. Sembrava che stesse facendo dei movimenti simili a quelli di un uomo quando si lava le mani o, come ricordò all'improvviso Max, di un procione quando lava il cibo. Mentre Max continuava a guardare, la creaturina tirò fuori le zampe dall'acqua e fece cadere di lato qualcosa sulla roccia. Raccolse quindi qualcosa dall'altro lato e ripeté i movimenti di prima. In quel momento, una delle creature sfrecciò in avanti e gli strappò quello che stava lavando, poi si accucciò e lo portò alla bocca, come uno scoiattolo con le noccioline. Max li osservava, affascinato. Gli animaletti avevano portato alla pozza una serie di cose che sembravano noccioline o semi. Se le passavano fra le zampe, una alla volta in successione irregolare, mentre quello disteso continuava a svolgere la sua mansione lavandole accuratamente. Dopo aver consegnato il proprio carico, ogni cucciolo aspettava pazientemente in fila il suo turno per poterne afferrare una di quelle lavate e mangiarsela. Uno di loro si spazientì, e passò avanti. In un concerto di squittii infuriati, il trasgressore fu gettato nella pozza, dalla quale riemerse bagnato e mortificato. Max giunse alla conclusione che quegli animaletti erano ben organizzati. Si trovava a ovest delle creature e sotto vento, così non era stato scoperto. Facendo molta attenzione, raccolse tre pietre adatte. Poi, sistematosi accuratamente, tese il braccio e le scagliò. La prima pietra colpì il mucchio di semi da lavare, sparpagliandoli tra gli animali che si misero immediatamente a rumoreggiare e ad azzuffarsi tra di loro. Disgustato e arrabbiato con se stesso per aver mancato il colpo, tentò di nuovo. La seconda pietra colpì, quasi per caso, uno degli animali, che stava saltando via dal punto di impatto della prima pietra e che si era trovato così direttamente sulla traiettoria della seconda. Il cucciolo emise un lamento acuto e cadde. Gli altri, con lamenti striduli, sfrecciarono via. A Max dispiaceva: sembravano un piccolo gruppo di animali organizzati e industriosi. Ma nel deserto non c'era posto per il sentimentalismo. Aveva
bisogno di cibo. Stava morendo di fame quando raggiunse la pietra sulla quale si trovavano gli animali. Raccolse il corpo inerte del cucciolo senza pensarci due volte. Poi si fermò. Era un animale peloso, e non aveva coltello per scuoiarlo. Né aveva i mezzi per accendere un fuoco. Esplorò lì intorno, ma le rocce più vicine erano di argilla friabile o di pietra con vene ferrose. Non c'era niente che potesse usare per tagliare. Mentre teneva l'animale in mano, lo sentì muoversi. Non era morto, l'aveva solo stordito. Represse la commozione crescente e sbatté la testa dell'animale contro la roccia. Le mani gli si coprirono di sangue mentre strappava la pelle dal piccolo cranio dell'animale e la toglieva poi dal corpo. Faceva resistenza, non veniva via facilmente. Dovette morderla parecchie volte per staccarla. Aveva odore di polvere e muschio, ma non era sgradevole. Max mangiò l'animale crudo. La carne era dura, ma non come se fosse stata cucinata. La cottura indurisce la carne, prima di intenerirla. Il sangue dell'animale era salato, e la carne sapeva di selvatico. La finì in un tempo sorprendentemente breve. Si lavò le mani e bevve un po' d'acqua. L'acqua aveva un sapore vagamente amaro che prima non aveva notato, e ciò lo lasciò perplesso un attimo. Poi si spostò e si appoggiò su qualcosa di piccolo e molle. Era uno dei semi che gli animali stavano lavando. Era coperto di un rivestimento argenteo, non diverso da quello che caratterizzava la maggior parte delle piante vicine. Era soffice al tatto. Tenendolo tra le dita, Max lo immerse nella pozza e lo lavò. Come per magia l'argento sparì, e quando lo tirò fuori vide che aveva un colore pallido. Incuriosito, l'annusò, facendo molta attenzione. Aveva un odore forte, simile a quello della frutta matura. Lo spremette e ne fece uscire il succo. Ricordandosi delle foglie del cespuglio spinoso, ma anche che gli animaletti mangiavano quei semi, l'assaggiò. Aveva un gusto leggermente acido, ma dolce, non dissimile da quello degli agrumi. Mise il frutto in bocca e l'addentò. Aveva una consistenza spugnosa, pieno di piccole celle che contenevano il succo; celle che si rompevano e liberavano il contenuto in bocca mentre le masticava. Il frutto era solo un piccolo boccone; non rimasero che semi duri, simili a noccioli, che sputò.
Uscendo dalla pozza, bevve di nuovo. Poi guardò in alto. La piccola luna crescente era alta sopra di lui, e il cielo si stava illuminando a est. Sarebbe stato presto giorno. Ricordandosi che in futuro niente gli sarebbe stato più utile di un arnese o un'arma, Max raccolse le ossa e la pelle del cucciolo del deserto e le restanti bacche del deserto, come le aveva battezzate, rimaste sulla roccia. Poi girò intorno alla pozza dirigendosi verso il lato orientale, dove il bordo del canale scavato nella roccia gli avrebbe dato un po' di riparo dal sole. Si riaddormentò presto di nuovo. 7 Nei giorni che seguirono, Max temprò il suo fisico alla vita del deserto. I primi giorni furono i più duri. La scottatura divenne d'un rosso infiammato e il prurito continuava a infastidirlo, finché cominciò a spellarsi. Trascorreva la maggior parte del tempo in acqua, galleggiando disteso a pancia in su. Viveva di bacche e cuccioli del deserto. Costruiva trappole usando strisce della loro pelle e le piazzava lungo le piste. A volte tendeva loro imboscate lanciando pietre. Divenne esperto nel lanciare pietre, esercitandosi ogni giorno con dei bersagli. Si fabbricò un perizoma e una borsa dove mettere le pietre che gli servivano per la caccia. All'inizio usava ossa essiccate come rudimentali coltelli, ma poi, esplorando aree più vaste intorno alla pozza d'acqua, scoprì una roccia dalla quale poteva ricavare sottili schegge di argilla. La maggior parte erano troppo fragili per resistere all'uso, ma tra gli strati ne trovava occasionalmente qualcuno di roccia più dura, e fu proprio grazie a uno di questi che costruì il suo primo vero coltello. Aveva rinunciato al fuoco. Non ne aveva bisogno, poiché il deserto tratteneva molto calore durante la notte e la poca rugiada cadeva sulle rocce soltanto all'alba, quando già il cielo a oriente cominciava a schiarirsi. I piedi gli si erano rafforzati, ma non appena poté si fabbricò un paio di rudimentali sandali con la pelle degli animali. Non aveva mezzo con cui conciarle adeguatamente: le lasciava seccare e poi le batteva con una pietra finché non ritornavano flessibili. I primi sandali si consumarono subito, ma ne fece altri di spessore doppio, rinforzati con le foglie dure e fibrose di una delle piante del deserto.
Si abbronzò, e i suoi muscoli acquistarono nuovo vigore, in quei giorni e quelle notti frenetiche. Dormiva durante le lunghe mattinate e lavorava nel tardo pomeriggio. Di notte andava a caccia e poi tornava a dormire di nuovo prima che sorgesse il sole. Gradualmente, il luogo gli divenne familiare, e scoprì che il deserto era molto più ospitale di quanto non si fosse immaginato all'inizio. Ma, verso la fine della seconda settimana, stava cominciando a preoccuparsi. Era rimasto lì abbastanza a lungo da poter essere in un certo senso orgoglioso del modo in cui se l'era cavata. Tuttavia non aveva fatto progressi. Aveva imparato come sopravvivere nel deserto, ma era lontano da Fran quanto il giorno in cui era arrivato. Presto avrebbe dovuto cominciare a pensare a come abbandonare quel posto. Tanto più che la selvaggina stava diminuendo di giorno in giorno. Per Max era stato facile, la prima settimana, cacciare i piccoli e i grossi animali che venivano alla pozza per lavare via il veleno dai semi. Ma gradualmente, gli animali, nonostante variasse le modalità e i luoghi dei suoi attacchi, erano diventati più prudenti. O li aveva seriamente decimati, oppure avevano trovato altre fonti a cui abbeverarsi e lavare i semi. In entrambi i casi, la situazione non poteva continuare a lungo. Fu durante il nono giorno che arrivarono i lupi. Erano sei: Max ne vide le prime tracce mentre stava andando a controllare la trappole. Era tardo crepuscolo, e il deserto era d'un rosso acceso, il cielo sopra di lui blu-nerastro, solcato da striature scarlatte che sfumavano in un rosso brillante a mano a mano che si avvicinavano all'orizzonte. Max dovette ammettere che i tramonti erano bellissimi. Il deserto aveva uno splendore naturale che a volte gli faceva desiderare di potersi costruire una casa vera dalla quale non allontanarsi più. La trappola era vuota, ma prima non lo era. Le tracce nella polvere che aveva pazientemente rilevato dopo aver sistemato un'altra trappola, spiegavano cos'era successo. Un animale più grosso, tridattilo, aveva saccheggiato la trappola, portandosi via la preda. Max sedette sui talloni. Era il primo segno dell'esistenza di qualcosa di più grosso nel deserto. Cercò il coltello. Era seduto vicino alla pozza, nascosto nell'ombra, sotto una sporgenza di roccia, quando scesero per bere. Cinque arrivarono sino al limite dell'acqua
e cominciarono a bere avidamente, mentre il sesto rimase sopra, da dove dominava il panorama e montava la guardia. "In questo mondo gli animali sembrano vivere in gruppi ben organizzati" osservò Max tra sé. Erano simili a cani, grandi quanto pastori scozzesi, dal pelo corto striato di grigio. A Max ricordavano lupi, e lupi diventarono da quel momento per lui. Mentre guardava, pensò a loro, incuriosito e preoccupato. La loro presenza avrebbe potuto solo accelerare l'esaurimento della selvaggina. Gli avevano già svuotato le trappole, lasciandolo una notte senza carne. Il livello di sussistenza era troppo basso per poterlo condividere con sei lupi. Il vento girò all'improvviso, facendo giungere il suo odore agli animali che stavano bevendo. Il più vicino alzò il muso e annusò, poi ringhiò. Immediatamente, gli altri alzarono la testa e il branco cambiò posizione. Il capobranco scese con passo felpato per unirsi agli altri, e i suoi occhi parvero trafiggere la fitta ombra nella quale Max era rannicchiato. La luna più grande splendeva con tutta la sua luce sulla scena, evidenziandola con colori lucenti. D'un tratto Max si rese conto di essere in pericolo. Sarebbe stato una buona preda per i lupi, migliore dei piccoli cuccioli del deserto. Cercò con attenzione alcune pietre nella sua sacca. Erano piccole, pesavano a sufficienza da poterle tirare con precisione e uccidere o stordire i piccoli cuccioli. Avrebbero ucciso un lupo? Vedeva il capo contrarsi per sferrare l'attacco. Era il momento di agire, prima che entrassero in azione! Balzò in piedi, con una pietra stretta in ciascun pugno, e cominciò a tirare pietre, velocemente e con precisione mortale. Passava una pietra dalla sinistra alla destra, la lanciava e contemporaneamente ne prendeva un'altra con la sinistra. Si era esercitato, ed era diventato molto veloce. I lupi furono colpiti da una scarica di pietre. Non se lo aspettavano certo: erano animali selvatici abituati a combattere soltanto con le unghie e i denti. Quando la prima pietra colpì il capobranco sul muso, questo guaì e si strofinò furiosamente il naso con una zampa. Quando una seconda pietra colpì un altro lupo al fianco, quello si girò e si morsicò, infastidito dall'invisibile nemico. Ma le pietre non ferirono seriamente i lupi, e Max stava cominciando a disperarsi. Doveva riuscire a farli combattere tra di loro. Si chinò e sollevò da terra una pietra più grande. Era troppo pesante e troppo poco maneggevole per poterla lanciare con una mano sola; così l'alzò sopra la testa con
entrambe le mani. I lupi non avevano scomposto la formazione; erano raggruppati in un fitto branco dall'altro lato della pozza rispetto a lui. Max la lanciò con tutta la sua forza in mezzo al branco. Il silenzio della notte fu rotto da un improvviso grido di dolore e poi i lupi si separarono. Con guaiti e latrati di rabbia, si lanciarono verso l'estremità della spaccatura e a balzi salirono in alto per scomparire nella notte con la coda tra le gambe. Uno dei lupi non correva. Era rimasto da una parte, leccando e mordicchiandosi la zampa anteriore. Max trovò un'altra pietra abbastanza grande e la raccolse. Questa volta avrebbe dovuto uccidere. Circospetto, non sapendo quanto gravemente fosse ferito il lupo, Max girò intorno alla pozza. Ma quando si avvicinò al lupo, la bestia fece una cosa curiosa. Si accucciò, girò gli occhi verso Max e fece una specie di lamento strano e triste, scodinzolando. Max, sorpreso, guardò più attentamente. Poi lo vide, alla debole luce della luna, mezzo nascosto nel pelo fitto: portava un collare. Era rozzo, fatto di cinghie intessute, e sembrava vecchio e consumato. Ma rivelava la provenienza del lupo e ciò rappresentò il fattore determinante nella decisione di Max. Significava avere due bocche da sfamare, ma avrebbe potuto essere velocemente ripagato di quello sforzo; era un alleato e, per estensione, l'arma più efficace che avesse trovato fino a quel momento. Rimise giù la pietra. Quando parlò alla bestia, questa sembrò rassicurarsi. I lamenti cessarono, e l'animale prese ad ansimare e scodinzolare. Attentamente, parlando sempre con tono rassicurante, Max si inginocchiò davanti al lupo e gli esaminò la zampa. Era rotta. L'animale si lasciò esaminare; anzi, gli sembrava riconoscente, e si lamentava solo quando lui gli faceva male muovendola. Usando alcune ossa sottili e piatte, che prima aveva usato come coltelli, e alcune cinghie prese dalla sacca, modellò delle stecche rudimentali per la zampa rotta. Con cautela, fece alzare l'animale e vide che ora riusciva a camminare, anche se zoppicava vistosamente. Non se ne era reso conto prima, ma ora si accorse che alle sue spalle soffiava una brezza costante. Era più forte delle solite brezze della notte e veniva da occidente. Portava uno strano odore. Si alzò in piedi e si guardò in-
torno. La polvere e la sabbia gli giravano vorticosamente intorno a causa di una raffica improvvisa che si era incanalata nella spaccatura. Più su vide un ammasso di nubi che avanzava lentamente da ovest. Le nuvole che precedevano il gruppo avevano già quasi coperto la luna maggiore e la stavano circondando con un alone argenteo che mascherava lo spessore dell'ammasso che le seguiva. Una tempesta! Ne sentiva l'odore. Lo strano odore di pioggia sulla terra arida da tempo, dell'ozono dei lampi che si diffondeva prima del temporale e che ne presagiva l'arrivo. Il lupo aveva abbassato le orecchie; anche lui sentiva che si stava avvicinando una tempesta. Una tempesta: cosa significava? Riparo; doveva trovare un riparo migliore. La spaccatura si sarebbe presto allagata con l'acqua di scolo. Aveva bisogno di un luogo più alto, ma non tanto da attirare i fulmini. Ora vedeva i lampi a occidente. Gli sembrava strano trovarsi al chiaro di luna e contemporaneamente sentirsi accarezzare la pelle dal vento e vedere quella grande e sinistra zona nera, illuminata dalla luce dei tuoni fragorosi. "Il temporale deve essere lontano chilometri" pensò Max. Il deserto era esteso. Tuttavia avanzava velocemente. Già i viticci delle nuvole temporalesche erano su di lui, e poi la luna sparì dietro l'ammasso di nubi, eclissata dalla tempesta. Era la notte più buia che avesse mai visto. C'era un'oscurità palpabile, infernale, e il vento che la perforava continuava a crescere. L'unica fonte di luce proveniva dai lampi ancora lontani. Il lupo si era accucciato di nuovo, con le orecchie basse e il collo rigido. Max si sentì toccare il piede da qualcosa di freddo e umido e nel lampo seguente vide che si trattava del lupo. Senza pensarci, si chinò e gli accarezzò la testa. Poi, afferratolo per il collare, lo costrinse ad alzarsi di nuovo e a seguirlo verso la scarpata meno ripida del terrapieno. Qualche minuto dopo, i due erano in piedi su una bassa altura del terreno. Max si sforzò di guardare verso occidente per rendersi conto dell'entità del temporale. Poi, di colpo, vi fu un lampo accecante e la scena che momentaneamente rivelò gli rimase stampata sulla retina nell'oscurità del tuono che seguì. Ad occidente, meno di mezzo chilometro rispetto al luogo in cui si tro-
vava, una grande ondata stava avanzando verso di lui, estendendosi come un muro lungo le piane rocciose. Era impossibile capire quanto fosse alta: un metro, due, o più? Capì in quel momento l'origine delle aree di polvere, come pure il perché la roccia avesse quell'aspetto arido e levigato. Le tempeste provocavano la formazione di grandi torrenti d'acqua che spazzavano le piane desertiche, lavandole a fondo e lasciando su di esse depositi limacciosi che, asciugando, diventavano polvere. Quell'altura non costituiva un riparo sicuro. Avrebbe dovuto andare più in alto. Il lupo percepì la sua intenzione e guaì con impazienza quando lo spinse verso un rialzo roccioso. La roccia era simile a molte altre, una sporgenza inclinata che si stagliava nel cielo per più di dieci metri. La pendenza costituiva un aggetto che Max avrebbe sicuramente scelto come riparo, se non avesse visto avanzare quel muro d'acqua. Ora, spingendo disperatamente davanti a sé il lupo, che si arrampicava aggrappandosi con gli artigli, salì lungo il masso per raggiungerne la cima. Ci fu un altro lampo di luce, che gli mostrò quattro piccoli cuccioli pelosi del deserto già appollaiati sulla roccia. Sembravano paralizzati dalla paura del temporale e dei nuovi arrivati. Max provò una gran pena, ma, fattosi coraggio, li uccise con una pietra fissata a una cinghia che usava come fionda. Il lupo non si avventò sugli animali morti, dando così prova di essere stato addestrato. Aspettò che Max li raccogliesse prendendoli per le zampe posteriori, che li legasse e li appendesse alla cintura. All'improvviso il vento gli fu addosso, questa volta molto più freddo, con spruzzi di pioggia. Max udì il fragore dell'acqua. Scrutò nella notte impenetrabile, cercando di immaginare a che altezza potesse arrivare l'acqua, sperando disperatamente di non restare intrappolato e che un fulmine non scegliesse di colpire il loro rifugio. L'acqua si scagliò rabbiosamente contro la pietra e uno spruzzo improvviso arrivò fino in alto, bagnandoli completamente. Poi lo scroscio d'acqua si spostò verso il deserto. Max si domandò che tipo di tempesta potesse provocare una tale inondazione. Non ebbe molto tempo per chiederselo, perché udì provenire da occidente un altro rumore, il fragore smorzato della pioggia. Ci furono poi altri lampi, incredibilmente vicini, e vide quella che gli parve una specie di cortina d'acqua, che saliva verso il cielo nero e per un un momento pensò che
si trattasse di una seconda ondata molto più alta. Poi colpì. Max si gettò sopra il lupo, che ringhiò, poi sembrò capire la sua intenzione. I due giacevano rannicchiati sullo stretto orlo della roccia. Non riuscivano ad assumere altra posizione; la pioggia si abbatteva su di loro sotto forma di un torrente in piena, sbattendoli incessantemente contro la pietra. Max faceva fatica a respirare. L'acqua gli arrivava sul corpo con un flusso costante, e non solo l'avvertiva sulla schiena, ma la sentiva battere intorno. Sdraiato con la faccia a terra, divideva con il lupo lo spazio sotto i loro corpi; se avesse esposto il volto alle raffiche di pioggia, sapeva che sarebbe morto annegato. Faceva freddo. La temperatura era scesa di più di venti gradi, secondo Max, e il vento soffiava ululando da occidente, sferzandogli la pioggia contro il fianco e la schiena, infradiciandolo di acqua gelata. Max tremava, bagnato, boccheggiante ed esausto. Poi notò sollevato che il lampeggiare si spostava sempre più verso est. Lo preoccupava la loro posizione. Poi, quando si era ormai rassegnato all'interminabile assalto del temporale, i venti si placarono e la pioggia si fece più leggera. Max si chiese quanto fosse rimasto disteso sotto il temporale. Un'ora? Due? Ma ora stava finendo. La pioggia sembrava tornata normale. I muscoli gli dolevano, fece fatica a mettersi a sedere. La pioggia smise rapidamente, finché di colpo, attraverso uno squarcio tra le nuvole, Max vide un lucente raggio di luna che si inclinava verso di loro da occidente. Mentre il temporale si era spostato verso est, la luna aveva seguito il suo corso verso ovest. Quando la luna splendette piena e lucente su di loro, Max vide dall'alto un panorama diverso. Sotto c'era un'area di vasti laghi e mari interni. La luce della luna scintillava sull'acqua per un lungo tratto verso occidente. Non avrebbero potuto scendere dal rifugio roccioso quella notte. Sotto, l'acqua mulinava ancora e girava vorticosamente a causa delle correnti nascoste. Lontano, verso oriente, c'erano ancora archi e scintille di luce. Era stata veramente una tempesta colossale. Max slegò due delle bestie che aveva ucciso e ne diede una al lupo. E, mentre lontano la luna si spostava a occidente, lui e il lupo si divisero un pasto freddo e bagnato. Dormirono fino al sorgere del sole. Quando Max sentì il calore sulle
spalle si svegliò, sorprendendosi per un attimo di non trovarsi all'ombra. Poi si guardò intorno. Il sole filtrava da oriente attraverso una fitta foschia. Ma la luce era abbastanza forte da dare al deserto un raro splendore. I laghi che aveva notato alla luce della luna, ora erano più piccoli e l'area immediatamente sotto di loro era asciutta e pulita. Ma sorprendentemente, lungo tutte le sponde delle numerose pozze d'acqua piovana, era cresciuta una profusione di piante! Alzatosi da terra con difficoltà, Max osservava la loro crescita a vista d'occhio. Le piante spuntate per prime, raggiunta un'altezza che andava dal mezzo metro ai due metri, stavano cominciando a fiorire. I fiori erano tutta una varietà di colori, in particolare di un violento azzurro elettrico e rosso scarlatto. Ma c'erano anche tutti gli altri colori dello spettro. Max li ammirava affascinato. Poi sentì il lupo, svegliatosi in quel momento, muoversi al suo fianco. «Bene, vecchio mio» disse Max, e la sua voce gli sembrava strana e sorprendente in quella mattina irreale «siamo sopravvissuti.» Il lupo lo guardò con occhi spalancati e la lingua penzoloni. Aveva il pelo ancora bagnato, e alla luce del sole emanava vapore. «Sai, mi fai capire molte cose» rifletté ad alta voce Max. «Tanto per cominciare, hai un collare; secondo, sei sicuramente addestrato. Il che mi fa supporre che in questo mondo vi siano altri uomini. .. che una volta ti possedevano. Ma dove vivono, eh?» A questa domanda, l'animale drizzò le orecchie. «E cosa facevi con quel branco selvaggio?» Max si alzò e si stirò. I muscoli gli dolevano, ma si sentiva bene e pronto per il nuovo giorno. Quindi scese dalla roccia, seguito dal lupo. L'animale non manifestava l'intenzione di abbandonarlo. Di colpo, ricordando la circostanza in cui si erano incontrati, si inginocchiò per terra e gli esaminò la frattura. I lacci, sistemati in fretta la notte precedente, si erano allentati e spostati dopo essersi inzuppati d'acqua durante il temporale. Ora, asciugandosi, si stavano restringendo. Max li spostò e controllò che non ferissero la zampa. Mentre gli prestava quelle cure, l'animale lo guardava, fiducioso e sicuro, e ancora una volta Max fu colpito da come fosse stato ben addestrato. Chi l'aveva avuto come compagno e cosa gli era successo? Si chiese se l'avrebbe mai saputo. Trascorsero la mattinata nel riparo in cui avevano dormito, dato che, nonostante la foschia, il calore del sole era sempre molto forte e l'umidità non
faceva altro che aumentarlo. Max guardava ammirato la veloce crescita e morte delle piante del deserto. Non avevano la lucentezza argentea delle piante più robuste e rispetto a esse erano meno carnose. Di tanto in tanto arrivava a Max una brezza proveniente da uno dei numerosi gruppi di piante, e si sentiva la fragranza inebriante dei fiori. Aveva visto pochi insetti nel deserto, troppo pochi per poter competere con l'invasione di fiori. Mentre il sole saliva sopra di loro, le pozze d'acqua evaporavano e si restringevano, e contemporaneamente nuove piante spuntavano lungo ognuna delle nuove strisce d'acqua. E mentre le nuove piante iniziavano il loro ciclo vitale, quelle più vecchie lo finivano. I fiori avvizzivano nei baccelli e, mentre il sole colpiva direttamente steli e foglie, bruciavano al sole e la linfa veniva assorbita dai bollenti raggi dell'astro lucente. Quello che stava guardando Max era un vero e proprio ciclo vitale che si esauriva nel giro di poche ore; i semi delle piante, piccoli e duri, cadevano nella polvere dove sarebbero rimasti fino al successivo rovescio di pioggia, per dare nuovamente vita a una giungla dall'effimera esistenza. Chissà perché, gli sembrava tutto inutile. 8 Quando partirono quella sera per iniziare il loro viaggio, le pozze si erano assottigliate e molte delle piante decidue del deserto erano morte. Il lupo e il temporale gli avevano fatto prendere la decisione. Non sarebbe stato facile, anche se il lupo avrebbe potuto cacciare per lui, se veramente fosse riuscito ad addestrarlo a trovare abbastanza cacciagione da poter rimanere più a lungo, anche se la tempesta non avesse fatto danni. Purtroppo non era così: il temporale aveva cancellato le tracce delle loro prede e allagato le tane nelle quali vivevano i cuccioli del deserto. Le loro abitudini sarebbero cambiate troppo per renderne possibile la caccia. Max aveva imparato molte cose durante i suoi primi giorni nel deserto. Aveva imparato a sopravvivere in un ambiente apparentemente ostile, armato solo del suo cervello e del suo corpo nudo. Ma gli sarebbe servito a poco rimanere lì, anche se la selvaggina fosse stata abbondante. Avrebbe soltanto fatto passare il tempo, aspettando un cambiamento della routine per costringersi a prendere la stessa decisione. Decise di dirigersi verso est, perché solo in quella direzione l'orizzonte era interrotto da montagne. Non aveva modo di sapere quanto si estendesse
il deserto al di là dell'orizzonte, ma almeno c'era qualcosa di concreto: una meta per la quale lottare. Poteva solo sperare che esistesse qualcosa di diverso dal deserto al di là di quella catena montuosa, e di poter trovare un valico. Dopo aver aspettato che passasse la parte più calda della giornata, gettò al lupo uno dei due restanti cuccioli morti e mangiò l'altro. Non fu un pranzo piacevole, nonostante si fosse ormai abituato alla carne cruda dei piccoli animali. Di solito li mangiava subito dopo averli uccisi. Le sue armi erano una sacca di pietre e una fionda. Aveva trascorso un intero pomeriggio a impratichirsi, perché il suo scontro con i cuccioli del deserto la notte precedente gli aveva insegnato che non era ancora abbastanza abile. Poteva non solo utilizzarla come bastone, come aveva già fatto, ma anche, secondo le sue originali intenzioni, farla roteare e lanciare proiettili con estrema precisione e con forza tale da uccidere. Oltre a queste armi possedeva solo il suo coltello di pietra. Sapeva di avere un aspetto strano, vestito soltanto di piccole pelli, forte e abbronzato, con il lupo che gli camminava al fianco. Tuttavia era più fiducioso, dopo essersi scontrato con le avversità primitive ed essere sopravvissuto. Dovette costeggiare una pozza d'acqua, ma fu facile attraversare le piane. Camminarono senza mai fermarsi e con passo deciso, per molte ore attraverso il deserto immutabile, mentre la luna più grande si alzava indicando la strada. Fecero una breve sosta vicino a uno specchio d'acqua per lavarsi e bere, poi ripartirono. Max calcolò che dovevano aver coperto una buona distanza quando il cielo cominciò a illuminarsi, sfumando verso l'azzurro pallido sopra le montagne. Le montagne sembravano un po' più alte e vicine. Incominciava a distinguerne alcuni particolari. Quel giorno dormirono sotto una sporgenza di roccia dall'aspetto familiare, ma Max era preoccupato. Le rocce erano diventate più rare negli ultimi chilometri, e ne vedeva poche davanti a sé. Calcolò che ci sarebbe voluto almeno un altro giorno prima di raggiungere le colline. Si domandò cosa avrebbero usato come riparo quel giorno. Quel pomeriggio, trovarono una piccola pozza d'acqua, dove bevvero e si fermarono per la caccia. Non trovarono nessuna preda. Preoccupato, Max decise di spingersi avanti, sperando di incontrarne un branco durante il viaggio. Quella notte passò lentamente. Trovarono una pozza d'acqua, videro il calare della luna più grande e il sorgere di quella piccola, e trovarono orme
tutt'intorno, ma non c'era segno dei cuccioli del deserto. Erano arrivati troppo tardi: Max aveva scoperto che era molto più facile trovare gli animaletti nelle prime ore della sera. Dovette accontentarsi di un po'di bacche del deserto. Il lupo non le mangiò. L'alba li sorprese mentre si trascinavano stancamente lungo il deserto. Non c'erano in vista né un luogo d'ombra, né un riparo. Non c'erano neppure precipizi, o canali scavati nella roccia di una certa dimensione, per poter avere un po' di refrigerio. Col sole negli occhi, si spinsero avanti. Il lupo uggiolava, lasciando penzolare la lingua con aria triste. «Sì, vecchio mio» disse Max con voce stanca «so che hai caldo, che sei stanco e hai fame. È così per tutti, amico, per tutti...» Davanti a loro il terreno scendeva un po', e, avanzando lungo il piccolo declivio, vide il familiare verde-argento dei cespugli del deserto. A fatica, si precipitò giù nella conca, verso la polla d'acqua. Si trattennero a lungo per bere, rinfrescandosi e spegnendo la sete con l'acqua. Anche se non si trovava cibo per riempire lo stomaco, l'acqua era meglio che niente. Dopo essersi seduto vicino alla pozza, Max si appoggiò con il braccio sopra una pietra piatta. Sotto il suo peso, questa si spostò leggermente. Incuriosito, si alzò in piedi, quindi si piegò e capovolse la pietra. La faccia inferiore era umida e viscida. Sotto i suoi occhi, creature simili a vermi cominciarono lentamente e goffamente a muoversi verso un nuovo riparo. Con un breve ringhio, il lupo vi si avventò sopra e in poco tempo li spazzò via dalla roccia con la lingua. Poi annusò la pietra che Max aveva capovolto, deluso nel non trovarne altri. Max trasalì, ma poi gli venne un'idea. Cominciò a cercare altre pietre da capovolgere. Ne trovò alcune, e sotto ognuna i vermi bianchi. Dopo che il lupo si fu gustato quello che a Max era sembrato un disgustoso pranzo a base di vermi, avvertì l'animale: «Lasciami i prossimi. Ho bisogno anch'io di qualcosa da mettere sotto i denti.» Combattendo un forte senso di ripugnanza, segnalata anche da un rigurgito di bile, Max afferrò una manciata di vermi teneri dalla roccia successiva. Si fermò, immerse le mani in acqua e li lavò. Poi, superando la ripugnanza, se li cacciò in bocca. Non avevano quasi gusto, erano solo vagamente dolci e teneri. Se gli
fossero stati serviti stufati non ci avrebbe pensato due volte a mangiarli. A parte il sapore, gli ricordavano le ostriche crude. Quel giorno bighellonarono intorno alla pozza, immergendosi spesso nell'acqua poco profonda per combattere il caldo. Superato il disgusto per i vermi, ne mangiò un bel po' quella sera, prima di ripartire. Il terreno cambiava. Inizialmente sembrò che fosse solo diventato più difficile camminare; la terra divenne meno uniforme, lasciando spazio di volta in volta a macigni sparsi e buche profonde. Era anche più pietrosa, e Max si domandò quanto ancora avrebbero resistito i suoi rudimentali sandali. Poi si trovarono in mezzo ai cactus. Erano i primi che Max avesse visto, e da pochi e sparsi che erano aumentarono fino a costituire una vera e propria foresta: erano così fitti che era impossibile camminarvi in mezzo in linea retta. Max scoprì che il terreno era diventato una specie di terriccio sabbioso. Le nude sporgenze e le larghe zone di argilla disseccata erano scomparse dietro di loro. E su quel nuovo suolo ghiaioso crescevano i cactus. La maggior parte era costituita da fusti simili ad alte botti, sovrastate da spine. Alcuni avevano parti lisce, altri ramificazioni coperte di spine aguzze. Max faceva attenzione a non urtare i cactus spinosi: sembravano acuminati quanto bastava per tagliarlo come un foglio di carta. Quando l'orizzonte orientale si illuminò di nuovo, le montagne si stagliarono alte e nitide nell'azzurro pallido. Erano vicine, a meno di una giornata di cammino. Anche se nessuno dei saltuari ammassi di rocce era abbastanza alto da fornire ombra per il giorno a venire, Max ne trovò uno abbarbicato sopra un canale di roccia poco profondo. La combinazione era sufficiente. Con il lupo al fianco, si sdraiò e si addormentò presto. Fu svegliato dal sommesso ringhiare del lupo. Max aprì gli occhi. Il lupo era accucciato ai suoi piedi. E, di fronte a lui, Max vide una strana e quasi incredibile creatura. Assomigliava a un gigantesco rospo. Era lungo quasi un metro, coperto di squame finissime. Mentre Max lo osservava, la creatura ricambiò direttamente il suo sguardo, socchiudendo due volte gli occhi. Poi spalancò la bocca e una lunga lingua biforcuta guizzò fuori. La cosa sibilò, e Max si chiese se fosse carnivora o solo insettivora. L'avrebbe attaccato? Il sibilo
era forse un avvertimento? La creatura si sedette, implacabile, ad aspettare. Max alzò lo sguardo. Il sole stava calando verso occidente. Era tardo pomeriggio. Il movimento della testa allarmò la creatura, che si tese. Con cautela, Max si alzò in piedi e si spostò lateralmente. Come l'ebbe fatto, la creatura-rospo balzò in aria, atterrando sul punto da cui Max si era allontanato. Seguì un momento di confusione. Abbaiando quasi come un cane, il lupo saltò addosso al rospo e, ringhiando, l'attaccò. Max vide in quel momento ciò che non aveva visto prima: le zanne sottili che sporgevano dall'ampia bocca del rospo. Sibilando, la creatura si torceva cercando di affondare i denti. Ma il lupo, mostrando così la sua familiarità con quei pericoli, dopo aver azzannato gli arti posteriori, sgusciò rapidamente fuori dalla portata dei denti del rospo. Mentre il lupo straziava la creatura, Max afferrò la fionda e cominciò a farla roteare, aspettando il momento giusto per scagliare la pietra. Il lupo stava dilaniando la zampa posteriore sinistra della bestia, quando all'improvviso questa si staccò. La creatura si girò, sibilando malignamente, e il lupo, sempre tenendo stretta in bocca la zampa sanguinante, indietreggiò ringhiando. Poi il rospo si voltò di nuovo, questa volta verso Max. Era proprio l'occasione che stava aspettando. Max lasciò partire la pietra che, rotando vorticosamente, colpì la testa del rospo. Il rozzo proiettile schiantò il cranio della sgraziata creatura, che cadde a terra. Morta. Max si avvicinò con molta attenzione e rimase sorpreso per le sue dimensioni. Il corpo era piccolo e tozzo, e misurava in altezza circa un metro. Ma la zampa che il lupo stava lacerando a morsi era lunga almeno due metri. E il rospo aveva dato prova di saper saltare molto in alto. Max tagliò un bel pezzo di carne dall'altra zampa posteriore e la addentò. La carne aveva uno strano sapore ed era molto stopposa. Più la masticava, più aveva un gusto sgradevole. Finì il pezzo che aveva tagliato, ma non ne prese altra. Cominciò invece a esaminare più attentamente la creatura. Scoprì che assomigliava più ai varani terrestri che ai rospi e alle rane. La pelle aveva le scaglie proprie dei rettili, il collo era ricoperto da una dura corazza a cerchi concentrici. Gli spalancò la bocca e scoprì che la mascella
era così grande da fare dell'intera testa un'unico orifizio. Non aveva dubbi che la creatura l'avrebbe mangiato, se solo avesse potuto ingurgitarlo per intero, come un serpente con una grossa preda. Come sospettava, i denti erano canalizzati. Non era sicuro se quello che ne usciva era veleno o saliva, ma fece attenzione a non toccarlo. Finito il suo esame, prese il coltello e cominciò a tagliare grossolanamente la giuntura dell'altra zampa posteriore. Fece presto a staccarla, quindi attaccò il ventre della creatura, tagliando via la pelle e la carne in strisce. Fece dei mucchi compatti di carne e li avvolse nella pelle. La pelle della schiena della creatura era molto più dura, e aveva intenzione di farne altro uso. Con grande pazienza, lavorò con il coltello poco affilato, finché riuscì a tagliare alcune larghe sezioni che usò, ripiegate in due, per rinforzare la suola dei sandali. I sandali non erano mai stati gran che, e ora erano ridotti quasi a brandelli. Ma la pelle squamata era molto più dura e, con un po' di fortuna, avrebbe resistito sulle montagne. Max mise da parte quella avanzata per usarla in futuro, e usò alcune delle strisce ricavate dal ventre per farne lacci, per sistemare l'involto che comprendeva anche la scorta di carne sulla schiena. Alla fine, così incuriosito da dimenticare ogni prudenza, ritornò ai denti. Erano lunghi almeno quindici centimetri, e li voleva. Erano sottili, ben appuntiti e pensava di farne molti usi. Sarebbero stati anche un trofeo. Si rimise all'opera con il coltello spuntato e, tirandoli con le mani, li staccò dalla mascella. Li lasciò penzolare, gocciolanti, finché non si furono svuotati di tutto il veleno. Nel frattempo il sole era ingiallito sull'orizzonte e il lupo aveva finito il suo pasto, lasciando soltanto le lunghe ossa della zampa che aveva strappato. Max era tentato di prendere anche quelle ossa, che sarebbero state buone mazze e, appuntite, ottime lance; ma il suo carico era già abbastanza voluminoso e ne aveva sulla schiena un altro paio, nella zampa da spolpare. Partirono nuovamente, sempre diretti verso est, dato che Max aveva visto un avvallamento tra le montagne davanti a sé e sperava che indicasse l'esistenza di un valico. Camminò per più di un'ora, quando la sete lo sopraffece. In bocca aveva ancora il gusto sgradevole della carne del rospo, e ricordò di non aver bevuto da molto tempo. Ma non si vedeva nessuna polla d'acqua. Era un terreno diverso, e non aveva alcun dubbio che, se avesse scavato come facevano i cactus con le loro radici, avrebbe trovato acqua, ma non ne affiorava neanche un po'.
Rimuginò quell'idea per un po', mentre la sete aumentava. I cactus... erano come grandi botti, e indubbiamente le loro radici attingevano a qualche fonte sotterranea. Non avrebbe potuto a sua volta spillare dell'acqua? Max pensò che sulla Terra era possibile e, a quel punto, non aveva altra possibilità. La scelta sembrava facile: c'erano principalmente due tipi di cactus, quelli lisci e quelli spinosi. Sarebbe stato molto più facile con i primi. Ne scelse uno alto quasi quanto lui e tirò fuori il coltello. Ma prima di usarlo, un'altra idea gli balenò per la mente, e prese invece uno dei denti del rospo. Non era sicuro che fosse abbastanza lungo, ma valeva la pena provare. Il dente era un po' più piccolo della sua mano e terminava in una radice alla cui estremità c'era una cavità che si estendeva a formare un canale che copriva l'intera lunghezza del dente, restringendosi come questo, ma un po' più corto da un lato. Il dente sembrava pulito, ma Max lo strofinò comunque nella sabbia, mentre il lupo accucciato lo osservava incuriosito. Quindi Max prese il dente e lo conficcò nel lato carnoso del cactus. La ricompensa fu lo sgocciolare di un liquido chiaro e, quando spinse più a fondo il dente, il flusso divenne abbondante. Lo lasciò scorrere per un po' per rimuovere qualsiasi eventuale residuo di veleno. L'acqua cadde sul terreno, dove fu immediatamente assorbita dalla sabbia asciutta; il lupo andò ad annusarla ma non cercò di leccarla. Max avrebbe ricordato quel particolare più tardi. Compiaciuto del suo successo e della sua fortuna, e appagato il suo istinto di prudenza, mise la bocca sotto il rivolo d'acqua. L'acqua aveva un sapore leggermente alcalino. Lavò via dalla bocca il gusto persistente della carne e calmò la sete impellente, quindi bevve a lungo e abbondantemente dal cactus. Placata finalmente la sete, estrasse il dente dal cactus. Quasi subito il tessuto spugnoso della pianta richiuse il buco, lasciando solo una cicatrice sulla scorza rotta a indicarne il punto. Max si alzò e si rimise in marcia, appesantito dall'acqua. Mentre camminava, il ritmo dei suoi passi gli sembrò vivacizzarsi e si sentiva girare stranamente la testa. Gli pareva di essere una macchina ben oliata che picchiava in modo deciso sulla terra arida. Si fermò trasalendo a questo pensiero, e l'interruzione gli risuonò nel cervello come un'improvvisa pausa di silenzio nel frastuono di una fonderia. Cosa gli stava succedendo? Max si guardò intorno nell'estesa foresta dei
cactus e poi guardò l'animale alle sue spalle. Il lupo sgattaiolò via spaventato. Sopra di lui le stelle ammiccavano, accendendosi e spegnendosi. Le osservò, chinandosi per poterle vedere meglio. Si sentiva bruciare le articolazioni e, inginocchiandosi, gli sembrò di avere le gambe di piombo. Senza togliersi il fardello dalla schiena, si distese a terra e guardò il cielo. Ebbe un solo momento di lucidità, prima che i suoi pensieri si dissolvessero: Quella che ho bevuto... non era acqua! 9 Era in piedi in una grande stanza. Alti specchi erano situati senza supporto in angoli insoliti, distribuiti, per quanto poteva vedere, senza ordine e, tuttavia, qualsiasi posizione assumesse, la sua immagine gli compariva davanti agli occhi. La luce era fioca, dato che la stanza era illuminata soltanto da luci colorate e intermittenti poste sul basso soffitto. Si sentì toccare il gomito. «Benvenuto signor Quest. Gradisce qualcosa da bere?» La ragazza era alta e bella; una cascata di lunghi capelli neri le ricadeva sulle spalle nude e invitanti. Un fermaglio a buccia di limone le teneva i capelli lontani dagli occhi. «Da bere? Sì, volentieri» rispose. «Molto volentieri.» «Da questa parte» disse lei, prendendolo per mano e conducendolo verso uno specchio. «Attenta!» gridò Max, ma lei scivolò dolcemente nello specchio e ne uscì dall'altra parte. Si voltò a guardarlo facendogli cenno. Ora lei era solo un'immagine riflessa e poco lontano, in mezzo a un animato gruppo di persone, vide un'altra figura familiare: piccola, impertinente, femminile. Ma gli volgeva le spalle. «Fran?» chiamò, e con qualche esitazione entrò nello specchio. Lo specchio si ruppe in mille pezzi che caddero tintinnando sul pavimento, con un rumore simile a una cascata che si riversava sulle rocce. Trovò la ragazza inginocchiata sulle rocce lì davanti, che immergeva una mano a coppa nell'acqua argentina. I capelli sciolti le ricadevano sul collo e sulle spalle, non abbastanza lunghi da toccare i seni nudi, piccoli e ben formati. La luce del sole le faceva splendere i capelli di tonalità dorate. Osservò la pozza d'acqua, poi spostò lentamente lo sguardo dalla figura inginocchiata al cactus gigante sovrastante, dal quale sgorgava un abbon-
dante flusso d'acqua. «No!» urlò. «No! Non toccherò quella roba!» Mentre continuava a osservare, l'acqua assunse una tonalità giallastra e il cactus si trasformò in un uomo dalle dimensioni gigantesche. «Archer!» gridò «Archer, di' qualcosa almeno ora!» «Si è stancato di parlare tre secoli fa» disse una voce ansimante dietro di lui. Max si girò e vide Edwards. Allungò le braccia e afferrò il grassone per il bavero, cercando di scuoterlo, ma Edwards rimase immobile; Max si sentì arrossire per la vergogna. «Vuole da bere?» disse Edwards con voce vagamente compassionevole, porgendogli un bicchiere. Max lo accettò con gratitudine e si voltò per guardarsi intorno. Da qualche parte... quale? La piana desertica era popolata di gente, alcuni seduti, altri in piedi, altri ancora che parlavano; il tintinnio dei bicchieri si mescolava al mormorio delle loro conversazioni. Vicino c'era un gruppo di tre uomini e quattro donne. Una di loro era piccola, e aveva capelli scuri e corti: gli volgeva le spalle. Tenendo sempre il bicchiere in mano, attraversò lo spesso tappeto diretto alla loro oasi di luce, prodotta da una lampada abilmente disegnata a forma di luna crescente. Quando fu vicino a loro, rimase deluso nello scoprire che due delle donne erano solo immagini riflesse su uno specchio vicino; le altre due erano alte e avevano lunghi capelli biondi. Sia loro sia gli uomini indossavano eleganti vestiti da sera, e le donne avevano stole leggere di pelliccia buttate negligentemente sulle braccia. Le voci sofisticate salivano e scendevano. Rimase un momento vicino a loro, cercando di capire cosa dicevano, poi alzò il bicchiere e cominciò a sorseggiare la sua bibita. Aveva un sapore leggermente alcalino. Rabbrividendo, lo scagliò lontano e il bicchiere prima rimbalzò sul tappeto, poi cadde su di una pietra e si frantumò. I presenti si girarono e lo osservarono con garbata sorpresa. Quindi una delle donne cominciò a ridere. Le altre si unirono a lei e Max, guardandosi, si accorse di essere nudo. Imbarazzato, voltò loro le spalle, ma quel gesto servì solo ad accrescere l'ilarità. La ragazza accanto a lui si tolse un indumento bianco e glielo passò. «Tieni» disse dolcemente «mettiti questo. Andrà bene, per il momento.» Lui l'accettò con gratitudine, senza soffermarsi ad ammirare la sua nudità. Era bella, ma di una bellezza fredda, simile a quella di una bella statua. «Sei qui per i tuoi quaranta giorni di servizio, non è vero?» gli chiese lei.
«No» rispose, colpito da quella domanda. «Sto cercando una ragazza.» «Potrei andare bene io?» Gli si avvicinò e gli mise le braccia al collo. L'indumento che si era messo gli scivolò di dosso e sentì il corpo di lei unirsi al proprio. «No, no» balbettò, cercando di indietreggiare. Ma le braccia della ragazza gli si erano avviluppate attorno al collo e alle spalle, mentre le mani gli accarezzavano i capelli. «Non ti vado bene?» disse, spingendogli contro il corpo con un movimento ritmico. Quindi abbassò la testa e lo baciò. Con la coda dell'occhio, Max sbirciava la piccola figura scura che aveva continuato a cercare. Gli volgeva le spalle. Ma stava per girarsi... "Non deve vedermi così" pensò, e si liberò della ragazza. Si alzò un vento che lo spinse indietro, lontano dalla figura che sapeva essere Fran, di nuovo verso la ragazza. Il vento rinforzò e spazzò via tutti, tutti eccetto Max e la ragazza. "Aveva i capelli scuri o biondi?" si chiese con aria distaccata. Lei gli stava di fronte con la bocca aperta, e diceva qualcosa, ma il vento le strappava le parole di bocca e le allontanava da lui. Mentre la guardava, inorridito, vide il vento penetrarle nella bocca e dilatarla, scoprendole i denti e gonfiandole le guance. Gridando senza emettere suono, perché non riusciva a sentire niente a causa dell'ululare crescente del vento, l'afferrò. Un grosso pezzo della spalla nuda e bianca si staccò sotto la sua presa e, come se avesse tirato l'estremità libera di un arazzo, disfandolo, vide il suo corpo volare via in pezzi, sotto il vento che la smembrava. Alla fine rimase solo, nella vasta piana deserta. «È amore che vuoi, o solo la mia gratitudine?» Sobbalzò al suono della sua voce. «Fran!» «Ebbene, Max, come vedi mi hai trovato.» «Uhm, sì.» Era profondamente sconcertato. «Non sei contento di avermi trovato, Max?» «Sì. Sì, lo sono. E tu no, Fran?» «Dio sa quanto ci ho provato, ma proprio non riuscivo ad allontanarmi da te abbastanza a lungo.» «Cosa? Cosa stai dicendo, Fran?» «Pensi che volessi farmi seguire da te?» gli chiese. Il suo sorriso lasciava trasparire un'altra espressione, quasi un sogghigno.
«Mia cara» ansimò una voce. «È ancora in circolazione questa piccola peste?» Edwards le sopraggiunse alle spalle, alto non più di lei. La prese per un braccio. «Toglimelo di torno. Per piacere, tesoro» disse lei. «Fran!» gridò Max. «Quest» disse il grassone. «Levati dai piedi.» «Ma Fran! Eri tu... l'ho fatto per te» singhiozzò Max. «No, non è vero» rispose lei, girandosi a guardarlo «Lo hai fatto per te stesso. Cosa vuoi, una medaglia?» Un ombra scura gli colpì la caviglia, e il lupo ringhiò. «Fran?» chiamò Max. Il lupo balzò ringhiando dietro la figura che stava scomparendo. «Max!» gridò lei. Si svegliò, sudato, sotto le stelle. Le lune non si vedevano. Il lupo era accucciato lì vicino, e ringhiava sommessamente. Si sentiva fiacco ed esausto, come se avesse preso parte a un combattimento lungo ed estenuante. I muscoli erano affaticati, gli dolevano. Si sentiva la gola arsa. Con un certo sforzo, riuscì a sedersi e si tolse il carico dalle spalle. Aprendo il pacco, prese uno dei pezzi di carne e lo diede al lupo. L'animale vi si precipitò sopra con avidità, cominciando a masticare la carne. Max era terribilmente assetato. Poi ricordò il cactus, quel sapore salato. Avrebbe dovuto tenere conto dell'avvertimento del lupo. Non era acqua. Circolavano molte storie sui cactus della Terra, cactus che secernevano alcaloidi che causavano nausea o allucinazioni; sapeva che gli indiani li usavano nei loro riti magici. Quella roba l'aveva fatto sognare, gli aveva causato allucinazioni. Cercò di ricordarli, ma non ci riusciva. Ricordava soltanto che erano sogni terribili, che lasciavano un dubbio persistente, una sfiducia nella sua missione e in se stesso. E quel liquido infernale l'aveva lasciato assetato quanto lo era prima di bere. Con cautela, si alzò in piedi. Si sentiva debole e malfermo. Aveva un tremendo bisogno di acqua e cibo. Barcollando, si avvicinò a un altro cactus. Questo era spinoso. Non c'era stato errore nella sua logica; le piante rac-
chiudevano davvero liquido. Sarebbe stato più fortunato, questa volta? Con il coltello staccò parte della corteccia del cactus, quindi vi spinse dentro di nuovo il dente. Non fu facile come prima; il cactus era meno polposo, ed era come cercare di infilare il dente in un pezzo di legno tenero. Ma quando infilò il dente fin quasi alla radice, anche da questo cominciò a sgorgare del liquido. Questa volta non lo assaggiò immediatamente. Chiamò il lupo. «Qui, amico; vieni, vecchio mio. Assaggia questa roba, eh? Bagnati la gola.» Il lupo, che aveva finito il suo pasto, si avvicinò incuriosito e annusò il terreno bagnato. Poi, allungata la lingua, leccò l'acqua che scendeva. Max aspettò che il lupo avesse finito, poi bevve a sua volta dal rivolo. Il liquido aveva un sapore leggermente salmastro ed era caldo, ma sapeva di acqua vera. Max bevve a lungo. La strada si incurvava gentilmente verso sud. Aveva seguito un percorso che portava direttamente al passo tra le montagne, quando aveva incontrato la strada. Era sera, stavano camminando dalle cinque, secondo i suoi calcoli che tenevano conto della posizione del sole; cioè da circa due o tre ore. Era di nuovo il crepuscolo; inizialmente, percorsa la salita e visto l'ampio nastro che costituiva la strada, pensò che gli occhi gli stessero giocando un brutto scherzo. Descriveva una curva proveniendo da sud, seguendo una direzione nordest che in quel punto incrociava il percorso seguito da Max, si incurvava di nuovo e poi raddrizzava puntando direttamente a est verso il passo. Era una strada strana e meravigliosa. Quando Max si avvicinò, scoprì che la superficie era consumata e presentava in certi punti buche nelle quali si ammucchiava la sabbia. Era vecchia, così vecchia e poco frequentata che la sabbia ammucchiata non recava traccia di viaggiatori, mentre un cactus cresceva su un mucchio di sabbia al centro. Era larga: Max stimò che fosse larga quanto un'autostrada a sei od otto corsie. Allontanò col piede la polvere e la sabbia e cercò di capire la composizione della strada. Si inginocchiò e la toccò: era nera. L'aveva visto anche da lontano: una striscia nera che tagliava di netto il paesaggio rovinato. Poteva guardarla più da vicino: qualsiasi cosa fòsse quella sostanza nera, sembrava più pietra che asfalto, un'ossidiana nera, compatta e senza soluzione di continuità. Dopo averla seguita per un certo tratto, trovò un punto dove un canale si era riempito di limo e un nuovo corso d'acqua aveva ero-
so il terreno sotto la strada. Osservò attentamente la sezione trasversale che l'interruzione rivelava. La strada, in quel punto, era spessa più di mezzo metro e la fenditura era netta, quasi tagliente, come vetro. I costruttori avevano forse versato una sostanza che, indurendosi, faceva diventare la pietra simile a vetro. La strada puntava direttamente verso il valico, e aveva già iniziato lentamente a salire. Felice, la seguì: nonostante l'occasionale presenza di fenditure e cumuli di detriti, il cammino era molto più facile di quanto non lo fosse stato lungo l'accidentato paesaggio circostante. Si chiese quanto a lungo avesse camminato parallelamente alla strada prima di scoprirla. Si chiese anche cosa significasse. Era un segno, il secondo incontrato fino a quel momento, che quel mondo fosse abitato da esseri intelligenti. Il collare del lupo era stato il primo, ma gli aveva detto poco. Ma la strada, ora, gli diceva molto. Gli parlava di una civiltà diffusa, di un popolo di costruttori di strade, realizzate, ne era sicuro, per veloci mezzi di trasporto su ruote. La strada era ben livellata: attraversava basse colline, seguiva dei terrapieni sopra canali e piccole valli e l'approccio alla montagna era dolce e sicuro. Per la prima volta, Max considerò la possibilità che il valico che aveva davanti non fosse naturale. Ma se la strada gli rivelava il fulgore dei suoi costruttori, gliene rivelava anche il declino, perché era abbandonata da tempo. Non se ne serviva più nessuno. Tranne Max. L'alba li sorprese sulla cima delle montagne: Max tremava dal freddo. Non si era fermato fino a quel momento solo perché faceva troppo freddo per restare fermi. Si era fermato due volte per dare del cibo al lupo e lui stesso ne aveva mangiato qualche boccone, che aveva masticato senza appetito. La carne aveva per lui un sapore sgradevole: il sapore disgustoso del rospo del deserto. Si era accorto che, dopo lo strano malessere dovuto all'acqua del cactus, aveva bisogno di poco cibo, ma aveva sempre sete. Fortunatamente avevano incontrato alcuni torrenti, dove aveva potuto bere abbondantemente. Non si fermò a cercare un posto in cui dormire finché il sole non fu alto nel cielo. L'aria era rarefatta, e ci voleva molto tempo perché si riscaldasse. Ansimava ancora, alcuni minuti dopo essersi sdraiato sul liscio fondo stradale, una volta tanto senza doversi preoccupare di trovare in fretta un riparo. Si svegliò nel tardo pomeriggio, sentendosi molto rinvigorito. Il sole era giallo e basso sull'orizzonte e, guardandosi indietro, si sorprese della gran-
de distanza che aveva percorso. Si trovava abbastanza in alto: forse ci sarebbero volute altre due ore per arrivare in cima al valico. Se si guardava alle spalle vedeva la strada, con le sue dolci curve, che si snodava tra le montagne per poi allungarsi verso l'arida pianura. Riusciva a vedere dove cominciava la lontana curva a sud e poi, molto più avanti, il punto in cui si incurvava nuovamente a ovest. Ma all'altezza a cui si trovava, non riusciva a vedere niente al di là del deserto a ovest. Gli dispiaceva un po'di non essersi diretto subito a sud; la strada non doveva passare molti chilometri a sud rispetto ai suoi originari territori di caccia. Il cammino sarebbe stato molto più agevole, e forse avrebbe risparmiato un giorno o più di viaggio. Ma tutto ciò faceva ormai parte del passato: adesso era finita. Aveva agito come meglio gli era sembrato in quel momento, e non trovava alcuna pecca nel suo ragionamento. Quando raggiunse la cima, il sole era basso alle sue spalle e quella parte della montagna era in ombra. Lontano a est gli parve di scorgere uno scintillio d'acqua, ma la zona era già immersa nel crepuscolo e lui non riuscì a distinguere niente. Faceva più freddo, sul lato orientale delle montagne; camminava speditamente, sia per percorrere più strada possibile sia per riscaldarsi. Come calava la notte, così faceva anche la temperatura. Il cammino era tutto in discesa e Max, curiosamente, lo trovò più faticoso della salita. I suoi muscoli non erano adatti alle scalate. La strada scendeva in piccole valli e poi scalava catene più basse, con regolarità, concedendogli un'andatura più variata. Non aveva immaginato che la catena montuosa potesse essere così estesa. Quando si fece giorno, era ancora tra le montagne. Queste, tuttavia, erano abbastanza basse perché il calore del sole le riscaldasse velocemente, e stavolta Max non dormì sotto il sole. Quel pomeriggio si svegliò prima del solito. Il sole era ancora alto sopra la catena alle sue spalle. Ne fu contento. La notte scendeva presto, ed era molto curioso di vedere cosa ci fosse davanti a lui. Sentiva in qualche modo che non sarebbe stata una continuazione del deserto. Una camminata di poco più di un chilometro li portò in cima all'ultima bassa catena, la quale più che una catena era una collina pedemontana. Max, dritto in cima alla collina e con i piedi ben piantati sulla ruvida superficie della strada nera, ammirava il panorama.
Una terra di campi e foreste, pianure e colline. In lontananza riusciva a vedere due fiumi che confluivano a sud. Era una terra verde e bella; gli sembrava di aver raggiunto la terra promessa, dopo un lungo soggiorno nel deserto. La striscia nera della strada gli si apriva davanti, allungandosi e volgendo ora a nord, ora a nordest, verso il più vicino dei due fiumi. E lì, presso la vicina sponda del fiume, dove la riga nera correva a incontrarlo... una città? Max sforzò gli occhi, ma il sole era troppo basso per vedere bene. Avrebbe dovuto aspettare finché non fosse stato più vicino. Tuttavia, quando iniziò a scendere lungo quell'ultima discesa, si sentiva emozionato. Una città... gente! Finalmente sarebbe giunto in un luogo dove avrebbe potuto trovare vestiti e cibo decente, e forse... gli si gonfiò il cuore di speranza, mentre il cervello lo invitava a stare calmo... forse avrebbe trovato tracce di Fran! E tuttavia... non doveva essere troppo ottimista. La città poteva aver subito lo stesso destino della strada. Avrebbe potuto essere il prodotto abbandonato di una civiltà ora estinta. Comunque era una terra fertile, e Max era sicuro che vi avrebbe trovato delle persone. Il lupo aveva le orecchie dritte, e annusava con il muso rivolto verso l'alto, mentre Max avanzava con ansia lungo la strada. Era sicuro che l'animale fosse venuto da quella terra, forse proprio da quella strada. Mangiarono bene, quella notte; il lupo per due volte era sfrecciato dalla strada nel sottobosco non molto fitto ai lati della strada, tornando con un animale peloso simile a un coniglio dalle orecchie corte. Max prese il primo e lo mangiò da solo. Il secondo lo divorò il lupo. Max si sorprese di gradire il gusto della carne cruda ancora calda; ormai vi si era abituato. Si fermò molto prima dell'alba. Era più caldo, là in basso, abbastanza da non rendergli troppo scomodo fermarsi a dormire in quel momento. Voleva raggiungere la città alla luce del giorno; la vita notturna era meno importante in quella terra più ospitale. Quella notte dormì sopra un tenero mucchio d'erba, che per il suo corpo temprato era come un soffice materasso. 10 Quando si svegliò, il lupo non c'era. Il sole era ancora a ovest. Erano circa le dieci. Si alzò e si stiracchiò. Si sentiva riposato. Ci fu un fruscio nel sottobosco, e il lupo uscì con un altro coniglio in
bocca. Il lupo gettò l'animale morto ai piedi di Max e scomparve di nuovo. Fatta colazione, dopo che Max si fu lavato e dissetato a una sorgente vicina, scesero a valle. Il paesaggio era completamente diverso da quello che si erano appena lasciati alle spalle. La terra si stendeva placida, coperta da una vegetazione lussureggiante. Grandi alberi crescevano ai lati della strada, nascondendo così alla vista quel vasto panorama che aveva visto dall'ultimo crinale. Alcuni alberi pendevano bassi sulla strada, inarcandosi in modo che i loro rami si congiungevano ad altezza d'uomo, creando così un tunnel di foglie, una macchia verde contro l'oro del sole che vi batteva sopra. "Era una campagna veramente bella", pensò Max, come quella del suo mondo natale, fatta eccezione per il piccolo sole bianco. Ma là, sotto gli alberi, non doveva pensare a quella piccola differenza, e si lasciò pervadere da un grande senso di pace e comunione con quel mondo così bello e tranquillo. Camminare per quella strada, in quel momento, era forse la cosa più piacevole a cui pensare. Gli alberi si diradarono gradualmente, allontanandosi dalla strada, e si trovò così in una prateria punteggiata di boschetti. E più avanti... Le torri della città erano spezzate, le strade ostruite da macerie. Era una città morta da tempo. Alberi crescevano nei cortili, circondati da muri che dovevano essere stati alti, ingombri delle macerie dei tetti crollati. L'erba cresceva nelle sacche di polvere e fra le macerie esposte all'aria accumulatesi nelle strade, il cui tracciato non era ancora scomparso; piante rampicanti che ricordavano l'edera si arrampicavano su molti dei muri che ancora si ergevano a stento, coprendoli con un soffice strato di foglie e nascondendone le crepe. Era proprio una città morta da secoli. Max camminava per le strade silenziose e si guardava intorno meravigliato. Una volta le strade dovevano essere state ampie, ed erano quasi tutte ancora percorribili. Molti dei muri crollati mostravano spaccature di un colore nero vitreo, benché la maggior parte presentasse colori chiari sulla superficie. Qua e là Max trovò resti rugginosi di qualcosa che una volta era stato metallo... e che gli diede un'idea di quanti anni quella città fosse rimasta abbandonata. Cercò di trovare qualche traccia della causa che aveva provocato la distruzione della città, ma non c'era segno di catastrofe. Alcune rovine mostravano ancora i neri segni del fuoco, altre no. Alcuni edifici si ergevano alti in mezzo ad altri di cui non erano rimaste che le fondamenta. Terremoto, incendio, guerra? L'unica conclusione a cui giunse Max fu che era
semplicemente una città abbandonata alle molteplici furie del tempo, che avevano compiuto il loro lavoro una alla volta o tutte insieme. Seguì un percorso attraverso la città diretto verso nord-est, senza lasciare la strada che l'aveva portato lì. Più avanti c'era il fiume, e oltre...? si chiese Max. Ci doveva essere ancora gente da qualche parte; il collare del lupo era una silenziosa testimonianza della loro presenza. Ma dov'erano? Una parte della città aveva sopportato meglio il passare del tempo. Era quella lungo il fiume. I palazzi erano ancora in piedi. Non c'erano le torri che aveva trovato a sud-ovest, ma bassi e lunghi palazzi costruiti su terrapieni e collegati da strade curve. Max abbandonò la strada principale per una strada laterale. Questa era più stretta e Max dovette tenersi al centro, perché gli arbusti e i rampicanti l'avevano resa ancora più stretta. Molte delle piante erano fiorite, e Max si chiese se una volta fossero appartenute ai giardini che adesso invadevano la fila di case. Aveva tutta l'aria di essere stata, una volta, una prestigiosa zona residenziale della città. Continuò a salire, con il lupo ancora alle costole, che si fermava ogni tanto ad annusare ciò che Max pensava fossero tracce di animali, finché raggiunse il livello di uno dei terrapieni. Da lì poteva guardare le parti più basse della città e vedere l'intreccio delle strade, ancora netto. Una griglia squadrata, su cui ne era stata messa un'altra spostata di circa 45 gradi. Dove le due griglie si intersecavano c'erano cerchi e quelli che una volta dovevano essere stati dei parchi. Nell'altra direzione il fiume vicino scintillava limpido alla luce del sole. Era ampio e tranquillo. Non lontano, seguendo la corrente, vi confluiva un altro fiume; la città era posta un po' più in alto rispetto alla confluenza. La terra tra i fiumi era piana e ricca di zone verdeggianti. E... era forse una voluta di fumo, quella che si alzava oltre quel bosco? Max sforzò gli occhi, ma non poté averne la sicurezza, in quanto l'aria era più pesante e meno limpida che nel deserto. Max sospettò che anche il deserto fosse più in alto. Se ne era reso conto scendendo dalle montagne; la discesa era stata molto più lunga della salita. Si girò a guardare la casa sul terrapieno. Era a due piani, e dava l'impressione di essere in bilico. Le pareti laterali erano fittamente coperte da edera e rampicanti, ma il tetto era intatto. La porta era larga e bassa, l'entrata conficcata nella spessa pietra dei mu-
ri. Questa pietra non appariva artificiale; erano blocchi uniti strettamente che, per quello che poteva vedere, non erano cementati. Tuttavia le fessure erano così strette che nessuna delle piante che si arrampicavano sui muri era riuscita a penetrarli. Dentro era tutto in disordine. Foglie morte riempivano gli angoli delle stanze e alcune mostravano le tracce di nidi abbandonati. C'era parecchio legno, ma fortunatamente usato solo per quelli che dovevano essere stati scopi ornamentali, perché era marcio e putrefatto. Max si appoggiò a uno stipite, che si disintegrò in una sottile polvere gialla che lo fece starnutire. La casa puzzava di muffa, e Max si chiese cosa po.tesse trovarci, ma frugò lo stesso in ogni stanza. Le stanze erano tutt'altro che vuote, ma il contenuto non aveva resistito all'usura del tempo; le stanze erano piene di cianfrusaglie. Si sentì ingannato. Ma solo finché non trovò la cucina. Là trovò la prima cosa utile. Era sopra un rivestimento di plastica, e quando lo prese in mano non assomigliava ad altro che a un accendino. Piccolo, piatto, misurava mezzo centimetro di altezza per quindici di lunghezza. La parte superiore era fatta della stessa lega metallica chiara del resto, solo che si sollevava a mostrare una sottile spirale e una levetta. La premette. Il sottile luccichio di una fiamma uscì dalla spirale. Gli cadde quasi di mano, ma non appena fece scivolare via il dito dalla levetta, la fiamma sparì. Con cautela, lo provò di nuovo. La fiamma balenò di nuovo, levandosi fino a un'altezza di circa quindici centimetri. Max rilasciò un poco la pressione sulla levetta, facendo molta attenzione. La fiamma si abbassò fino a mezzo centimetro, poi ancora di più e infine scomparve del tutto quando tolse via il dito. Cos'era? Un accendino? Impossibile dirlo. Ma era emozionante vedere che dopo tutto aveva il mezzo per accendersi un fuoco e potersi così cucinare il cibo. Richiuse e soppesò con curiosità l'aggeggio. Era sorprendente che solo quello, di tutto ciò che c'era in casa, avesse resistito alla furia del tempo. Era una cosa che gli dava una sensazione di sicurezza. Lo mise via pensoso. Ci potevano essere altri oggetti. Cominciò a cercare più attentamente. In uno scaffale trovò alcuni coltelli. Coltelli da cucina, di una lega che luccicava quanto quella dell'accendino che aveva appena trovato. Avevano
i manici di un materiale simile a plastica. Li guardò avidamente. Aveva trovato un tesoro! Ma alla fine ne scelse solo due, quelli che giudicò i più affilati, e li ripose nel sacco che aveva sulle spalle, assieme alle lunghe ossa della seconda zampa del rospo che si portava ancora dietro; adesso si sentiva ben armato. Il ringhio del lupo all'entrata lo mise in guardia. Si mantenne al riparo dell'ombra della stanza aspettando, ascoltando. Non udì più nulla. Il lupo stava muovendosi furtivamente, facendo molta attenzione, scivolando lungo un basso muro esterno, toccando quasi terra con il ventre. All'improvviso nell'aria risuonò uno schiocco, e una lunga freccia si conficcò nel muro, dietro al lupo. Il lupo emise un latrato e spiccò un balzo. Max si spostò sulla soglia con il coltello in mano, e saltò fuori e poi dal muro di cinta passò sul terrapieno superiore. Il lupo stava lottando con un uomo! Gli aveva afferrato il braccio con le fauci e lo stava tirando verso il basso, costringendolo a rimanere in ginocchio. L'uomo, gettata la sua arma, stava lottando a mani nude con l'animale, quando Max scavalcò la bestia e gli puntò il coltello al petto. «Buono!» disse, e subito sentì che il lupo abbandonava la presa. Non era un uomo, ora che Max poteva vederlo. Un ragazzo, un ragazzo con le guance ancora coperte da una sottile peluria non rasata. Era alto, magro e aveva un aspetto strano, con la pelle chiara e i capelli di un biondo quasi incolore. La faccia, contorta adesso in un misto di dolore e paura, era magra e dall'aspetto sensibile, gli occhi di un azzurro pallido che dava sul grigio, il naso lungo e dritto. Il ragazzo era vestito di una semplice tunica e di braghe corte, di una stoffa chiara, la camicia rossa e i pantaloni azzurri entrambi decorati con elaborati fregi lungo le cuciture e gli orli. Ai suoi piedi c'era uno strumento che ricordava un arco, e alla vita aveva una faretra con le frecce, frecce uguali a quella che aveva quasi colpito il lupo. Se l'avesse colpito l'avrebbe sicuramente ucciso, Max ne era sicuro. Era un'arma molto potente. Max rivolse lo sguardo al braccio del giovane. Il ragazzo se lo stava tenendo, sfregandolo e massaggiandolo, con l'altra mano. Presentava solo i segni rossi dei denti del lupo; l'animale l'aveva afferrato senza ferirlo. Ancora una volta Max si sorprese dell'addestramento del lupo. Qualcuno l'aveva addestrato bene.
Rimase tutto immobile per un lungo momento mentre Max soppesava il suo prigioniero e la sua arma e il ragazzo, a sua volta, fissava Max con cautela. Poi Max si rialzò e allontanò l'arco dal ragazzo con un calcio. «E adesso cosa ne farò di te?» disse Max ad alta voce. «Scusa, signore... non sapevo che fosse tuo» disse il ragazzo, indicando il lupo che era ancora all'erta. Max sentì che stava spalancando la bocca, e la richiuse immediatamente. Il ragazzo parlava inglese! O forse...? Tornò indietro con la mente oltre quei lunghi estenuanti giorni, fino al nero momento che gli aveva presagito la sua presenza lì. Allora aveva capito tutto, prima che i poteri gli fossero portati via completamente. Un'altra realtà. Sebbene tutto potesse assomigliare alla realtà dove era cresciuto, non era la stessa. Ricordò che non era sicuro ci fossero esseri umani lì. Ma ce n'erano... a patto che ricordasse che anche lui era ora parte della realtà che vedeva e sperimentava dal di dentro, come se ne fosse stato prodotto. La spiegazione era nei corpi. Max aveva lasciato il suo sulla Terra, a fianco di quello di Fran. Tuttavia aveva un corpo anche lì, e non lo sentiva diverso da quello di prima, se non per l'irrobustimento che aveva subito da quando era arrivato. E Fran, doveva avere anche lei un corpo lì. E se non assomigliava all'altro suo corpo, l'avrebbe potuta cercare anche tutta la vita senza trovarla. Bene; erano corpi nuovi, uguali ai vecchi e tuttavia diversi. Perché, se quella realtà fisica era davvero distorta, diversa da quella da cui venivano, altrettanto dovevano esserlo i loro corpi e persino le loro anime, o thetan, come le aveva chiamate Edwards. Essendo parte di quella realtà, una realtà soggettiva, Max la osservava, la sentiva e la sperimentava come un mondo non diverso, negli aspetti fondamentali, dal suo. Ma era sufficientemente diverso da far sì che le sue capacità paranormali non funzionassero. E quella differenza bastava e avanzava. Il suo corpo, pensò, era un prodotto di quella realtà, di quel mondo. E, senza che se ne fosse accorto prima di allora, parlava anche la lingua locale. «Chi sei?» gli chiese, con voce profonda e autoritaria. «Io... sono Ishtarn, figlio di Ishmight» balbettò il ragazzo, con gli occhi fissi sul coltello che brillava in mano a Max e che era ancora puntato contro di lui. Il corpo abbronzato, seminudo e muscoloso di Max lo spaventava. Max abbozzò un sorriso, mentre si accorgeva dell'aspetto barbaro che
aveva, coperto solo da una pelliccia tagliata rozzamente e a brandelli, con un improvvisato sacco di pelle squamosa sulle spalle. Tuttavia, mentre il ragazzo pronunciava il nome del padre, gli era parso che avesse riacquistato uh po' di coraggio. «Molto bene, Ishtarn» disse Max, riponendo il coltello nel sacco. Sollevò l'arco e lo soppesò. «Hai mirato al mio lupo e lui ti ha disarmato. Non sei ferito: rilassati. Parlami di tuo padre, della tua gente. Da dove vieni? Dove vivi?» Il ragazzo sembrava più a suo agio, adesso; aveva capito che la sua vita non era più in pericolo e vedeva in Max un potenziale amico o alleato. Indicò oltre il fiume. «Siamo nomadi, signore. Viviamo nelle terre basse. Alleviamo bestiame. Mio padre» la sua voce si inorgoglì «è il capo. È il potente Ishmight e...» La voce gli si fermò quando si accorse che si stava vantando. «Chi sei?» chiese con la franchezza ingenua di un bambino. Max sorrise. Gente; aveva finalmente incontrato della gente. Finalmente aveva fatto un passo avanti. «Sono Max Quest» rispose. «Sono arrivato da quella strada.» Indicò verso sud-ovest, la strada nera. Il ragazzo spalancò gli occhi. «Da quella strada? Ma quella arriva solo al...» «Al deserto. Certo» concordò Max. «Sono venuto dal deserto.» «Non credevo fosse possibile che degli uomini ci vivessero» disse Ishtarn. «Infatti è così, per quanto ne so» osservò Max. «Io sono il solo... e non ci sono rimasto.» Il ragazzo lo guardò con enorme soggezione. Il ragazzo aveva traversato il fiume con un'imbarcazione che assomigliava a una canoa col fondo piatto, per esplorare la città morta. «Questa è la città di Shanathor» disse a Max «e si raccontano strane storie sulla sua fine. Noi delle pianure discendiamo dalla gente di questa città.» «Cos'è successo?» domandò Max. «Cos'ha distrutto la città?» «Si dice che la gente fosse diventata troppo orgogliosa» rispose il ragazzo. «E che il loro orgoglio abbia scatenato su di loro l'ira del cielo. Non saprei; so solo che le leggende dicono che ci furono grandi pestilenze e carestie e altre cose inimmaginabili, ma solo poche persone rimasero uccise.» «Ci deve essere stata una civiltà universale qui, una volta» rifletté Max.
«Mi chiedo se ci sono altri sopravvissuti, in altre città...?» «Non so» disse Ishtarn. «Ci sono solamente le tribù delle pianure, che io sappia. Si narra di una terra lontana, a est, oltre la via delle grandi nevi, e della città di Paraganat, ma nessuno c'è mai stato, per cui può trattarsi solo di una leggenda. Non credo ci sia un'altra città in tutto il mondo... perché dovrebbe esserci? Le pianure sono vuote, se si escludono Rassanala e i suoi predoni.» «Il mondo è grande» disse gentilmente Max. «Tu non hai nemmeno visto il deserto, e nessuno di noi sa che cosa ci sia oltre.» «Com'è il deserto, signore?» chiese il ragazzo. Max si trovò seduto al sole a descrivere il deserto e le sue arse distese, le strane creature, le piante che ci vivevano e le terribili tempeste. Poi la vista della sua ombra che si allungava gli ricordò che ora era. «È tardi» disse. «Non ti aspettano a casa?» Il ragazzo saltò in piedi. «Oh, sì! Devo tornare prima di notte, altrimenti si preoccuperanno. Non gli piace che venga qui» confessò. «Be', andiamo» disse Max, e, vedendo la faccia sorpresa di Ishtarn, aggiunse: «Vengo con te. Muoio dalla voglia di vedere di nuovo della gente. O...» guardò Ishtarn più da vicino «...pensi che alla tua gente andrebbe di incontrare uno straniero?» «Oh, sì, certo signore; vi chiederanno di sedervi vicino al fuoco e di raccontare le vostre storie» disse il ragazzo, con un sorriso malizioso. «Non vi crederanno, ma ne resteranno estasiati. Vediamo poche facce nuove, se non ai matrimoni.» Si strinsero tutti e tre nella piccola canoa, ma con Max alla pagaia attraversarono il fiume facilmente. Tratta a secco la canoa in alto sulla sponda opposta, seguirono un sentiero ben marcato lungo la riva, giù per un prato, poi oltre una collina e dentro una macchia d'alberi. «Ho fatto questo viaggio più volte di quanto sappiano» confidò Ishtarn. Presero quindi una piccola discesa e davanti a loro, nell'incombente crepuscolo, trovarono un branco di bestie simili a capre che si estendeva oltre il prato, e lì vicino un gruppo di tende e di fuochi da campo. Max vedeva molte persone, vestite con stoffe dai colori vivaci, che si muovevano tutte affaccendate per l'accampamento. I loro movimenti non erano guardinghi; era una scena pacifica. Poi il lupo sollevò il muso e ringhiò piano. Sotto di loro si sollevò un improvviso coro di cani che abbaiavano.
Un uomo si staccò dalle tende e si incamminò per la salita verso di loro, con un lungo bastone ricurvo in mano e vesti fluenti di colori vivaci che gli svolazzavano intorno. Dietro di lui c'erano tre piccoli cani che guaivano. Mentre si avvicinava, Max riuscì a cogliere altri dettagli dell'aspetto dell'uomo. Era alto, dritto e magro come un chiodo. Ma la sua magrezza non dava idea di fragilità; Max sentì che c'era una forza notevole in lui molto prima che si trovassero faccia a faccia. Era il suo portamento, il modo in cui si muoveva. I capelli dell'uomo erano bianchi, e così i baffi e la barba fluente, ed era impossibile dire se il colore era dovuto al sole o all'età dell'uomo. La sua pelle era chiara come quella del ragazzo, ma mentre quella di Ishtarn era liscia e senza alcun segno, quella dell'uomo era stagionata e rugosa, la pelle di un uomo abituato a vivere all'aria aperta da tempo. I cani, animali a pelo corto che ricordavano terrier, ora esitavano, non volendo salutare il lupo troppo precipitosamente. Anche loro stavano in silenzio, mentre il lupo continuava a ringhiare leggermente. Gli occhi dell'uomo andavano da Ishtarn a Max, avanti e indietro. Sembrava contento di vedere di nuovo il ragazzo, sorpreso dell'aspetto di Max. Poi si trovarono l'uno di fronte all'altro e Ishtarn, con voce allegra, disse: «Maxquest, questo è mio padre, Ishmight!» 11 Lo circondarono, lo osservarono, si sussurrarono cose su di lui. A volte sentì un dialetto che non capiva del tutto. Lo toccarono e lo contemplarono, e infine lo condussero a un fuoco davanti alla tenda più alta. Lo fecero sedere e gli diedero da mangiare. Era ospite di Ishmight. Erano gente semplice, nomadi che vivevano nelle pianure tra i fiumi, allevando bestiame e piantando accampamenti. Gli dissero che gli inverni erano miti e c'era raramente la neve; avevano un timore quasi riverenziale delle terre dove nevicava sempre, vivevano una vita piacevole e semplice, la cui monotonia era spezzata ogni tanto dalla furia degli elementi e dai predoni. Erano furbi e di sicuro non stupidi. Max riconobbe in Ishmight un'intelligenza pronta e la stoffa del capo. L'uomo l'aveva portato al suo focolare e l'aveva trattato come un ospite, ma la sua generosità non era certo priva di secondi fini. Max si chiese quali. Il cibo era abbondante e buono. La portata principale era stufato con su-
go e carne di capra, con verdura e radici di contorno assieme ad altre erbe aromatiche e spezie che crescevano nelle vicinanze. L'aroma lo stuzzicò molto prima che ricevesse la sua porzione; lo stufato gorgogliava delicatamente in una vecchia pentola posta sopra il fuoco su un tripode annerito. «Vieni da oltre le montagne, mi ha detto mio figlio» disse Ishmight, indagando garbatamente. «Sì» rispose Max. «Dal deserto che c'è oltre.» Un coro di sospiri salì da tutto il crocchio, ma Ishmight lo stava ascoltando attentamente, e a Max vennero in mente le parole del ragazzo: «Non ti crederanno, ma ne resteranno incantati». Indicò il rozzo sacco dietro di sé. Ishmight si era gentilmente astenuto dal fare domande al riguardo. Non conteneva più carne adesso, solo pezzi di pelle del ventre del rospo, le lunghe ossa della gamba rosicchiate dal lupo e i coltelli. «Questi sono di una bestia che ho ucciso nel deserto» disse senza enfasi. Liberi di non crederci. Ishmight si allungò a toccare il sacco. «È di una strana pelle. Non l'avevo mai vista prima.» Max gli raccontò del rospo. Ishmight annuì saggiamente. Aveva già sentito dei racconti su delle creature simili. «Il lupo» chiese. «Dove l'hai trovato?» Max guardò con affetto il lupo accucciato ai suoi piedi, intento a rosicchiare un osso bollito che gli era stato gettato da Ishtarn. «Nel deserto. L'ho trovato in mezzo a un branco di lupi selvatici. Gli ho rotto una gamba e poi gliel'ho risistemata. È ben addestrato; era sicuramente di qualcun altro.» «Un lupo ammaestrato...» rifletté Ishmight. «Non ho mai sentito di una cosa simile. Tuttavia l'abbiamo davanti, e possiamo rendercene conto tutti.» Guardò di nuovo in alto. «E in più, ci sei tu. Sei un uomo strano, Maxquest. Non sembri di qui; sei vestito come un animale. Hai poca roba con te e viaggi con un lupo al fianco. E arrivi dal deserto. Chi sei?» Max soppesò la domanda. Sarebbe stato facile liquidarlo con una risposta qualunque, o non dargliene affatto. Non doveva dare alcuna spiegazione su se stesso oltre quella che già dava il suo aspetto. Tuttavia c'era qualcosa in quell'uomo che gli dava fiducia, che gli faceva sentire il bisogno di renderlo partecipe. «Vengo da un altro mondo» disse Max alla fine. «Sono venuto a cercare una donna.» L'altro sedeva silenzioso e ponderava la sua affermazione.
«Vieni dal deserto» disse, con una domanda che aveva più l'intonazione di una conferma. «Non ho potuto scegliere la mia destinazione» rispose Max. «E sei uscito a piedi dal deserto.» Max annuì. «Non conosco nessuno che l'abbia fatto prima di te, solo storie su quelli che si sono avventurati oltre la montagna. La loro curiosità è stata la loro fine...» lasciò che la sua voce si affievolisse. Poi continuò: «E cerchi una donna. Una donna qualunque?» gli occhi erano duri, ora. Max sentì un fremito di paura. Forse aveva detto troppo; non aveva idea di quali fossero le superstizioni di quella gente. Per sua stessa ammissione, non era di quel mondo; lo avrebbero forse considerato un demone, venuto a cercarsi una sposa tra loro? Sentì che il cerchio si stava come ritraendo da lui e che altri occhi scintillanti gli si puntavano addosso. «No» rispose. «La mia donna, una donna del mio mondo. I miei nemici l'hanno portata qui per costringermi a seguirla, per sbarazzarsi di me.» «Allora sei una persona importante sul tuo mondo?» «Io... io non l'ho mai pensato, ma i miei nemici...» Max si fermò un attimo per afferrare completamente l'idea. «Credo che per loro lo fossi.» «E della tua donna... hai trovato qualche traccia?» «Nessuna, per il momento.» «Il deserto?» «Non so.» Max si passò una mano stanca sulle tempie. «Posso solo sperare. Non hai mai sentito parlare di una strana donna che forse veniva dalle montagne?» «No.» Max capì che non sarebbe andato al di là di quella pista. Non si era aspettato niente; sapeva che nessuno l'aveva preceduto lungo quella strada, che costituiva il percorso più diretto verso la terra di quella gente. «Ma potrebbero saperlo più a nord» disse Ishmight. «I predoni...» si udì sussurrare intorno al cerchio, come il fruscio del vento tra l'erba. Max aspettò. «Sì» disse l'altro, lentamente. «Potresti trovarla tra i predoni.» «Chi sono?» «Rassanala e i suoi uomini. Hanno costruito una fortezza vicino a dove il Fiume Orientale si biforca. Sono pericolosi. Rubano capre e qualche volta fanno schiavi della gente delle pianure. Cavalcano grandi animali e sono
molto veloci.» «Hanno fatto danni?» chiese Max. La sua curiosità era a metà tra la cortesia e un vero interesse; non era del tutto certo che un simile gruppo di furfanti avesse Fran con sé. E tuttavia, se qualcuno un po' strano, una donna giovane e attraente, fosse apparsa su quella terra, ne sarebbero stati attirati? «Hanno preso solo greggi sparse e i loro pastori» disse Ishmight. «Almeno alla nostra tribù. Altre non se la sono cavata così a buon prezzo. La tribù di Jermiad è stata presa in trappola e catturata completamente. Ma loro non avevano le nostre armi... un arco se la cava bene contro le spade, se ci si sa avvantaggiare della gittata...» un sorriso amaro gli incurvò le labbra. Poi, come se leggesse i pensieri di Max: «Non puoi andare da loro apertamente. Non accolgono forestieri, non rispettano i mercanti. Quello che vogliono lo prendono, e i viaggiatori vengono fatti schiavi.» Sfamarono Max e poi gli diedero da dormire. Gli diedero pelli, un posto nella tenda di Ishmight e compagnia. Era una ragazza. Max si chiese se potesse avere più di quindici anni. Si stava facendo donna. Era piccola, magra e con lunghi capelli biondi che le arrivavano alla vita quando si scioglieva le trecce. Max era imbarazzato. Il suo lungo e silenzioso soggiorno nel deserto l'aveva messo di fronte alla forza degli elementi, che richiedeva da lui tutta la sua forza e il suo intelletto. Quando pensava al sesso, era quando ricordava Fran: come parte di un altro mondo, meno selvaggio. Il nome della ragazza era Bajra, e lui non la voleva. Non era tanto, come disse a se stesso, che fosse fedele al ricordo di Fran. Una vaga sfiducia tormentava i lontani ricordi che il cactus gli aveva portato: un senso di colpa oscura e vergogna. E neppure perché era troppo giovane. Ma in un certo senso era per entrambe le ragioni e altre ancora. Il pensiero di essere un cavaliere errante gli attraversò per un attimo la mente, ma lo liquidò come la fantasia di un adolescente, anche se c'era qualcosa di vero, dopo tutto. «Perdonami» disse a Ishmight. «Sono uno straniero e sono tuo ospite. Ma preferirei...» e indicò l'apertura della tenda. Ishmight capì. «Hai dormito troppo all'aperto» disse e Max annuì. La ragazza, Bajra, era in piedi, in silenzio, a pettinarsi i capelli biondi. Max prese le pelli che gli erano state offerte e le portò fuori all'aperto, sull'erba. L'aria si era fatta più fresca, dopo che era scesa la notte e l'erba
era umida di rugiada. Tirò un sospiro profondo. Ishmight aveva ragione: stare rinchiuso in una tenda, con i suoi forti odori di corpi unti e profumati e di cibo che ancora la impregnavano, aveva contribuito al suo disagio. E poi c'era la mancanza di privacy. Non che gliene importasse, ma non gli piaceva stare vicino al letto dove c'era un altro uomo con la sua donna. Dipendeva dalla propria cultura, pensò. A Ishtarn non importava affatto. Si era comodamente sistemato tra le pelli e si stava godendo, mezzo addormentato, comodità a cui non era più abituato, quando sentì un fruscio. Poi le pelli sopra di lui furono sollevate e un corpo morbido gli si raggomitolò vicino. «Starai molto più caldo» gli disse una voce nell'orecchio. «Fa più freddo prima dell'alba.» Si sentì circondare il petto da un braccio, e sentì il volto di lei che gli si appoggiava tra il collo e le spalle, mentre i suoi lunghi capelli gli facevano il solletico. Si addormentò in fretta. La mattina dopo lei c'era ancora, e Max le guardò il volto innocente. I primi raggi del sole illuminavano l'accampamento. Nessuno si muoveva ancora. Aveva preso tutto per scontato? Era così giovane... forse qui la gente dormiva insieme per comodità. Si ricordò di qualcosa che Ishmight gli aveva detto la notte prima, che nessuno sposava gente della propria tribù. Quando si raggiungeva l'età giusta, le tribù si incontravano e si scambiavano gli sposi. Era un'occasione di gala, celebrata con festeggiamenti e danze. Era una legge genetica. Le tribù erano troppo piccole e mostravano i segni evidenti di troppi incroci consanguinei. Non avevano intenzione di incoraggiarne ancora. Così, se i ragazzi e le ragazze non sposati dormivano insieme non era necessariamente per ragioni di sesso; poteva anzi essere proibito. Si domandò se di solito Bajra dormisse con Ishtarn. Il pensiero fece scattare una punta di gelosia che non sapeva di avere e che represse con rabbia. Non erano certamente fatti suoi. Fissò la sincera innocenza sul viso della ragazza. Tuttavia, se la consanguineità era un problema, un nuovo venuto doveva essere accolto a braccia aperte. Nel qual caso... che gliel'avesse mandata Ishmight? Ma cosa voleva da lui? Provava sentimenti amichevoli nei confronti di quella gente. L'avevano accolto e gli avevano dato ospitalità. Erano gente di buon cuore, e si rese conto di apprezzarli. Ishmight era un uomo astuto. E se voleva introdurre una discendenza di uomini forti, alti e scuri nella sua tribù, poteva forse biasimarlo? Ridacchiò tra sé. Non era poi così terribile che gli chiedessero
di... e tuttavia... La ragazza aprì gli occhi e lo guardò interrogativamente. «Bajra» disse Max sussurrandole nell'orecchio «cosa ti aspetti da me?» La sua risposta fu semplice e diretta. «Che tu sia uomo» disse dolcemente. «Tu sai che cerco un'altra donna?» «Non ti sto chiedendo di sposarmi» gli rispose, fissandolo intensamente. «So che non ti tratterrai a lungo qui.» «Vuoi un figlio da me?» «Anche» rispose lei. Ma il suo sguardo gli disse che un figlio non era la sola ragione. Le sorrise. «Sei sicura di volerlo?» La risposta fu semplice. «Sì. È per questo che sono, stata scelta.» «E ti ha fatto felice?» «Non ti conoscevo, allora» rispose e sollevò la faccia, con le labbra pronte e gli occhi socchiusi. Quella mattina Max andò nei campi con Ishtarn. In apparenza il loro compito era di fungere da pattuglia mobile in previsione di un possibile attacco. Ma la maggior parte del giorno la trascorse con Ishtarn che gli insegnava come usare la balestra che gli era stata data. Era uno strumento facile da usare; Max lo provò a distanze progressivamente più grandi contro un tronco d'albero segnato, che si riempì considerevolmente di segni con il passare delle ore. La balestra non era molto diversa da quelle che aveva visto nel Museo, se non per il fatto che era completamente di legno. Era pesante e spessa, fatta di un legno, come gli disse Ishtarn, stagionato a fuoco, di un tipo di albero che cresceva solo più a nord. C'erano volute molte pericolose spedizioni per procurarsene una quantità sufficiente. L'arco era inserito in un teniere intagliato apposta per contenerlo. Una leva era fissata lungo tutto il teniere e quando veniva alzata e tirata indietro serviva a caricare l'arco. Il teniere era incavato e fresato sopra l'arco, per contenere la freccia. L'arco era posto sotto il livello della freccia nel teniere, perché non avevano voluto indebolirlo con la lavorazione e questo voleva dire che la corda doveva essere tesa sopra il suo piano naturale. Il fusto, tra l'arco e la noce, era molto lucido a causa dello sfregamento della corda e Ishtarn gli disse che le corde si consumavano velocemente. Era un'arma potente, molto più potente di quella più piccola che aveva
portato via al ragazzo il giorno prima. Era difficile persino per un uomo come Max caricarla. Ma avrebbe trafitto un uomo a cinquecento metri di distanza, come gli disse orgogliosamente Ishtarn. La giornata passò rapida. Max scoprì che il ragazzo era ansioso di raccontargli della sua gente e delle loro tradizioni e persino più avido di racconti sul deserto e, come diceva lui, del "mondo oltre". Max non gli raccontò granché del suo mondo, intuendo che per il ragazzo tutto sarebbe suonato troppo simile alle fantasie del cactus. Il lupo era con loro, e Max scoprì di esserglisi molto affezionato. Era più un utile partner che un semplice animale, ed era ormai diventato un punto fisso nella sua esistenza. Il lupo causò l'unico incidente della giornata, quando scomparve in una vicina macchia d'alberi per poi riemergere qualche minuto dopo con un piccolo animale simile a uno scoiattolo. Lo gettò ai piedi di Max e poi scomparve di nuovo. «E quello cos'è?» chiese Ishtarn sorpreso. «Ti ha portato una bestia morta.» Max rise. «Mi ha portato la cena. Ha cacciato spesso per me quando stavamo scendendo dalle montagne.» Ricordò che anche lui aveva procurato cibo per il lupo. Era stato uno scambio reciproco. «Mangi queste bestie?» chiese il ragazzo a occhi spalancati. «Poco altro» rispose Max, prendendo in mano la bestia morta. Si sentì l'acquolina in bocca. Aveva fame, e il sangue fresco aveva un buon odore. Tirò fuori il coltello e incominciò a scuoiarlo. «Non c'è fuoco» disse il ragazzo. Max alzò lo sguardo, sorpreso. «Sai, me ne ero dimenticato. Ho un aggeggio con cui posso accendere un fuoco. L'ho trovato nella casa, proprio prima che tu arrivassi.» «Ma come te la cavavi prima?» Max finì di scuoiare la bestia e la guardò attentamente. «Be'» disse. «Le mangiavo crude.» Affondò i denti nella carne calda e tenera dell'animale. Si ripulì la bocca dal sangue col dorso della mano. «È molto buono. Ne vuoi?» Ishtarn fece un balzo indietro, con un'espressione di sorpresa mista a disgusto. «No, grazie.» Max squadrò pensosamente per un attimo il ragazzo, mentre ancora masticava. Inghiottì il boccone. «Sai» disse «vivere nel deserto non è roba da cantastorie.»
Gli occhi di Ishtarn mostrarono comprensione. I predoni li assalirono durante la notte. Max era addormentato, raggomitolato nelle pelli assieme a Bajra, i loro corpi nudi abbracciati. Quando lei l'aveva raggiunto quella notte, lui ne aveva anticipato la venuta ripensando ai momenti che avevano trascorso insieme quella mattina. Si era accorto che la ragazza era vergine, e si era sentito goffo e inadatto, perché quella verginità aveva trasformato il tutto in qualcosa di cui lui era inesperto. Così era stata lei a dirigerlo, a guidarlo. Se ne era sorpreso. Ci aveva ripensato, più tardi, mentre era occupato con la balestra, con le chiacchiere di Ishtarn che scavalcavano i suoi pensieri senza farvi breccia. Aveva una cultura diversa, si rammentò Max. La gente aveva idee diverse. Non erano tanto le loro occupazioni quotidiane, quanto le loro credenze più elevate, le loro abitudini nei confronti di sesso, matrimonio e procreazione. In un certo modo li invidiava. Bajra sarebbe diventata una buona moglie per uno di loro e suo marito sarebbe stato orgoglioso del suo figlio adottivo, quello con i capelli neri e le spalle larghe. Avrebbero parlato dell'uomo venuto dal deserto (un dio, forse? Ma avevano dei?) che aveva lasciato loro il suo seme per renderli più forti. O si stava solo vantando? Ma quando erano ritornati al campo quella notte, l'aveva cercata e quando i loro sguardi si erano incontrati, non si erano più allontanati. E lui l'aspettò, non vedendo l'ora che arrivasse. Si erano comportati diversamente quella notte; c'erano stati meno preparativi e una partecipazione più spontanea e appassionata. Quella ragazza smilza l'aveva aspettato per far emergere la sua straripante sensualità, per risvegliare i propri istinti. Max sentì il misterioso rimescolio delle emozioni che si dirigevano verso la ragazza, che stabilivano un legame con lei. Il suo corpo caldo e sottile era rannicchiato contro di lui, e Max si disse: "Questa è una persona vera. Ha sentimenti, emozioni. È giovane, e tu le hai ridato i sentimenti più reconditi, Max. Puoi ancora andare al di là delle pianure e abbandonarla così? "Cosa ti lega a Fran? Il fatto che hai dormito con lei? Il fatto che si sono creati dei legami affettivi tra voi due e ti sei intrappolato in quello che chiami amore senza saper trovare una parola migliore per definirlo, o un significato migliore? "Puoi amare due donne, Max? Può essere ancora sincero il tuo amore
per Fran, mentre stai qui con Bajra? A chi devi essere fedele?" Scivolò in un sonno agitato, pieno di incubi. Una volta strinse freneticamente Bajra, e lei si girò e lo baciò nel sonno. La tensione se ne andò. Era passata mezzanotte; la luna più grande era apparsa da dietro le montagne qualche ora prima e quella più piccola, che era piena adesso, simile a una stella, era alta nel cielo. Le stelle formavano come un arazzo luminoso. I fuochi erano stati sistemati affinché bruciassero più lentamente e il campo era addormentato. All'improvviso, il caos. Max non ricordò dove si trovava all'inizio. Un corpo di donna stringeva il suo e, per un attimo, pensò che fosse quello di Fran. Ma era circondato da rumori che non conosceva, che non aveva mai sentito nella ormai lontanissima New York. Pesanti zoccoli facevano rimbombare il terreno, e nelle orecchie gli risuonavano grida di trionfo e pianti di paura. Un cavaliere su una bestia immensa passò davanti alla tenda di Ishmight e l'animale scalciò il fuoco, scagliando tizzoni ardenti dentro la tenda. Il tessuto della tenda prese fuoco immediatamente, e fiamme lucenti si alzarono a illuminare la scena. Bajra era aggrappata al suo braccio, con la faccia contratta dalla paura. Aveva la sua bocca spalancata, ma lui non la sentì urlare. Se ne liberò e si girò a prendere la balestra e le frecce. Si inginocchiò. Il suo corpo abbronzato era ancora troppo vicino al terreno per poter essere notato dai predoni. Combatté per un attimo con la corda della balestra e vi inserì una freccia. Tese l'arco e aspettò che gli apparisse un bersaglio. «Max!» urlò Bajra. Senza staccare gli occhi dalla scena che aveva davanti, Max allontanò la ragazza, facendole segno di stare al riparo. Forse non l'avrebbero notata. Poi un altro cavaliere si avvicinò a loro su un destriero scuro, facendo a pezzi le tende. I rumori gli si avvicinavano, un fracasso tremendo che gli saliva nelle gambe e gli spaccava i timpani, ma rimase al suo posto e mirò con cura. Fece partire la freccia. 12 La freccia trapassò il collo dell'animale per conficcarsi nel petto del cavaliere. Uomo e cavallo emisero un terribile gemito. Ma Max non se ne
accorse. Senza aspettare di vedere se aveva messo a segno il colpo, armeggiò di nuovo con l'arco, maledicendone l'impraticità. Se fosse stato più leggero non avrebbe avuto una lunga gittata, ma ora che gliene importava? Aveva bisogno di un'arma veloce. Molte tende stavano bruciando, e il bagliore illuminava il campo, mentre le scintille venivano trasportate dal vento. Max si liberò con la mano di una che gli era caduta sulla schiena. Disarcionò un altro cavaliere. La freccia lo aveva trapassato da parte a parte. Max era in piedi, a ricaricare e tirare con la regolarità di una macchina. Non prestava attenzione agli altri; era solo vagamente cosciente del fatto che la donne combattevano caricando le balestre dei loro uomini, dei bambini che cercavano di spegnere gli incendi tra le tende con i piedi e degli altri che cercavano di liberarsi dai resti dei loro colorati indumenti, alcuni dei quali bruciavano come roghi funebri. La sua attenzione era rivolta solo ai predoni notturni, le cui ombre correvano su e giù per l'accampamento, brandendo spade o gettando tizzoni sulle tende che ancora non bruciavano. Non c'era penuria di bersagli. Il sudore gli luccicava sulla schiena e gocciolava lungo le cosce. Ci fu un ringhio che sfondò quel muro di rumore e un urlo dietro di lui. Si girò e vide il lupo attaccare un uomo a piedi. L'uomo era vestito di pelle, era uno dei predatori. Si girò di nuovo e continuò a caricare e a tirare. Il lupo aveva afferrato l'uomo per la gola; non aveva certo bisogno d'aiuto. Le fiamme erano alte in tutto il campo, e Max non aveva difficoltà a distinguere il mulinare dei cavalieri dai difensori seminudi. Gli invasori avevano spade, gli uomini della tribù balestre. In campo aperto sarebbe stata un'altra cosa, perché i nomadi avrebbero avuto il vantaggio della maggior gittata. Ma le balestre erano armi da caccia, le spade dei predoni armi da battaglia. E benché fossero inferiori numericamente, i predoni avevano il controllo della situazione. Max poteva immaginare come sarebbe finita la battaglia notturna. Aveva finito le frecce, e fu quasi con gratitudine che buttò via la balestra per afferrare la spada dell'uomo ucciso dal lupo. La spada era rozza e primitiva. Era spuntata, e benché entrambi i lati fossero stati taglienti, ora erano tutti e due intaccati e smussati. Ferro battuto dall'elsa in su. I predatori erano scesi a terra e stavano trascinando via dalle tende verso le loro cavalcature alcune donne, che cercavano disperatamente di fuggire.
Con il lupo che lo seguiva, Max fece un balzo in avanti menando un fendente al predone più vicino. La spada affondò nella spalla dell'uomo con un contraccolpo che gli risalì lungo il braccio. Il braccio del predone fu troncato di netto, con la mano che ancora stringeva spasmodicamente una ragazza. La ragazza aveva la bocca spalancata, ed emise un urlo che sembrò non finire mai. Non sembrava essersi resa conto di cosa succedeva. Sentiva il gusto del sangue che gli scorreva dentro. Max sentiva la spada ferire mentre continuava a colpire a destra e a manca, attaccando il grosso dei predatori. Tirare con una balestra era come starsene seduti, distaccati, davanti a una galleria di bersagli. Prima aveva tirato a dei bersagli in movimento, ora era in mezzo a loro. Rideva selvaggiamente mentre menava fendenti. Più tardi si meravigliò delle emozioni primeve che aveva scoperto di possedere in quel mondo. Ma in quel momento non si poneva certo domande sul piacere che gli dava colpire fisicamente i suoi nemici. Era uno sfogo che aveva atteso da tempo, dal momento in cui aveva cominciato a sentirsi frustrato a causa degli Altri. Adesso era come impazzito, combatteva ferocemente, col sangue e il sudore che gli brillavano sul corpo nudo, come mai si era visto combattere un uomo delle pianure. Poi, all'improvviso, i predoni furono di nuovo nella mischia, calpestando con le imponenti cavalcature chiunque fosse a piedi, sia che fosse dei loro o della tribù. Uno dei predoni assalì Max alle spalle, e lui riuscì solo a sentire il rumore dei pesanti zoccoli dell'animale sul terreno, senza avere il tempo di girarsi. Il predone lo colpì sulla testa con la spada. Solo il lupo lo salvò in quel frangente. Gli era sempre stato vicino, proteggendolo, e quando il predone aveva calato la spada l'animale aveva spiccato un balzo, andando a morsicargli il braccio. Non fu sufficiente a fermare il colpo, ma la presa del lupo fece sì che l'uomo, invece di colpirlo col filo della lama, lo colpisse di piatto. Il colpo gli fece perdere i sensi, e Max cadde in un immenso pozzo oscuro. Mentre stava cadendo, un altro cavaliere si abbassò a raccogliere la figura traballante e, afferratala per un braccio e per i capelli, la issò di traverso sulla sella. Il dolore improvviso gli fece riguadagnare conoscenza per un attimo, giusto in tempo per vedere il lupo che si lanciava contro il suo rapitore e subito dopo l'orgoglioso animale trafitto e decapitato dalla spada del cava-
liere. Poi cadde in una profonda incoscienza. Gli pareva di avere il mal di mare. Quando si svegliò si trovò a testa in giù, sopra qualcosa di peloso che ondeggiava. La notte era ancora scura; non riusciva a vedere granché, ma si rendeva conto di essere in movimento. Era gettato a mo' di coperta su un animale puzzolente e ogni passo dell'animale gli procurava fitte allo stomaco. Si sentì male. Vomitò. Sopra di lui sentì una voce bestemmiare e solo allora capì che l'oggetto scuro alla sua destra, coperto dai resti del suo ultimo pasto, era la gamba di un uomo infilata in una staffa. L'animale si muoveva con andatura dondolante. Max sentì che stava per vomitare di nuovo; fu percorso da uno spasmo che culminò in un rumoroso conato che percepì forte nelle orecchie. Vide allora un piede alzarsi dalla staffa e fu colpito da un calcio in testa. Fu una prova tremenda. Molte volte riprese conoscenza e subito la perse di nuovo. Non si rese assolutamente conto del passare del tempo; solo che a un certo punto quell'incubo infinito si fece tutt'uno con l'inferno del giorno, col sole che gli picchiava crudelmente sulla schiena. Le sua braccia erano legate dietro la schiena e i piedi legati insieme. Era nudo. Avrebbe potuto essere scambiato per un sacco di grano. Era in una posizione indecente, aggravata dal fatto che ogni tanto si sentiva toccare, esplorare da mani gentili e curiose. Mentre il calore aumentava con il passare del tempo, sentiva che stava sudando copiosamente e il sudore gli scendeva per la schiena, attorno al collo e per la faccia. Gli gocciolava in bocca, nel naso, negli occhi. Era salato, gocciolava furiosamente, pungeva. Vedeva a malapena il fianco della bestia su cui si trovava, la gamba e un piede del suo custode e il terreno che sfilava sotto di lui. La pelle della bestia era di un colore che dava sul giallo ed era sporca di polvere, sudore, sangue e vomito. L'odore che emanava era decisamente poco gradevole. Gli apparvero davanti agli occhi macchie nere che gli impedivano di vedere. Non aveva modo di misurare quei periodi di incoscienza e non gliene importava. Si augurava solo che quell'inferno finisse. Tuttavia, quando finì, era di nuovo senza conoscenza e la sua unica certezza del cambiamento venne dal fatto che si trovava per terra, con acqua che gli scorreva addosso. Le sue mani erano libere e così pure i piedi, ma riusciva a malapena a muoversi. Si sentiva le membra pesanti e lontane. Fu colpito di nuovo da
un getto d'acqua e aprì gli occhi. Si trovava in un recinto all'aperto. Sulle alte mura sopra di lui sentinelle controllavano la situazione incessantemente. Sul terreno sottostante si trovavano i prigionieri. Erano tutti uomini della tribù; ne riconobbe molti. Una ragazza era in piedi vicino a lui, con un secchio di legno in mano. Bajra. «Sei sveglio?» gli chiese. «Stai bene?» Alzò una mano intorpidita e se la passò sulla faccia, ancora stordito. Si sentiva la mano gonfia. «Ti ho trovato e slegato» disse la ragazza, con l'orgoglio negli occhi. Max si diede un'altra occhiata intorno, inquadrando la massa sporca e cenciosa dei prigionieri, per poi tornare con lo sguardo alla ragazza. Era seminuda; si era legata un brandello di stoffa attorno alla vita. Era la prima volta che le vedeva veramente il corpo; le altre volte erano sempre stati sotto alle pelli o al buio. Anche se era piccola se ne stava eretta senza vergogna. Come si era immaginato, era magra, sottile. Era ancora una ragazza, doveva ancora svilupparsi completamente. I seni erano piccoli ed eretti, coi capezzoli all'insù. Il torso terminava in uno stomaco muscoloso e una vita sottile. La forma dei fianchi era invitante, anche se aveva ancora un che di infantile. I capelli sciolti e spettinati formavano come un tappeto dorato disteso sulla schiena e una spalla. Aveva chiazze di sangue coagulato e forse fuliggine sia sulle braccia sia sul volto, benché fosse evidente che avesse cercato di lavarsele via. Teneva la testa eretta, ma le piccole labbra tremavano, e Max si rendeva conto dello sforzo che faceva per sembrare coraggiosa, per essere l'adulta che voleva essere considerata. Aveva legato un pezzo di stoffa simile al suo anche attorno alla vita di Max, e aveva fatto del suo meglio per lavarlo e ripulirlo un po'. Max sentì l'odore acre del sudore, ma standosene seduto sotto il sole non poteva certo evitarlo. «Li ho visti catturarti» gli stava dicendo. «Hai combattuto magnificamente.» «Ishmight? Ishtarn?» chiese Max. «Morti» disse lei semplicemente. Una lacrima le scese lentamente per la guancia. «Lo hanno ucciso perché aveva opposto resistenza, per dare a lui e a noi una lezione. Dicono che la gente delle pianure deve imparare che deve pagargli un tributo.» Max sentì una profonda commozione. Ishmight, Ishtarn, padre e figlio, li
aveva conosciuti per poco, ma ne sentiva profondamente la mancanza. E ora, cosa sarebbe stato della loro gente, dei loro piani, di Bajra? «Questo è il recinto dei prigionieri» gli spiegò. «Saremo scelte, alcune donne finiranno nell'harem di Rassanala, altre diventeranno serve e gli uomini finiranno schiavi e... altro. Tu, non so... ti temono per come combatti, e ti avrebbero sicuramente ucciso se non fosse stato per uno di loro, credo il figlio di Rassanala, che ti voleva e ti ha preso. Adesso non so dirti. Forse sarai fatto schiavo per i lavori più pesanti. O... non so.» «Ma tu, Bajra?» La ragazza rabbrividì. «L'harem, se sono fortunata. Una sguattera, se no. Hanno bisogno delle donne. Sono gli uomini che temono e disprezzano e... usano.» «Cosa vuoi dire?» «Questa gente, loro... non so come dirlo. Non agiscono secondo natura. Non la pensano come noi. Loro... usano le donne per la riproduzione, ma non ne ricavano piacere.» Max ricordò le mani che gli frugavano il corpo e capì. Si trovavano all'interno della fortezza di Rassanala. La gente che ci viveva la chiamava Città Rassanala, col nome del loro capo, e Max, basandosi sulla descrizione fattagli da Bajra, la paragonò a un villagio feudale dell'Europa medievale. C'era un grande muro esterno, che serviva come anello difensivo esterno della città, e dentro c'era un grottesco conglomerato di palazzi a due o quattro piani, sparsi senza alcun ordine, separati da stradine e vicoli tortuosi di cui solo i più larghi erano pavimentati. La stessa residenza di Rassanala non era esattamente un castello, ma costituiva piuttosto una seconda linea difensiva. Max si chiese se non potesse servire a proteggersi dagli stessi abitanti della città, oltre che dai forestieri. Gli venne data da mangiare una brodaglia servita dentro truogoli come se fossero stati degli animali, ma Max si accontentò perfino di quello: aveva lo stomaco ancora sottosopra, e quella brodaglia era digeribile. Tuttavia, in un angolo della sua mente, c'era il ricordo del sangue caldo, e, nel suo stato mentale, non gli sarebbe dispiaciuto quello dei predoni. Cosa gli stava succedendo? L'aveva già provato con i nomadi; il disagio a indossare vestiti, la claustrofobia quando l'avevano messo nella tenda. E, per quanto potesse apprezzare il cibo che gli avevano offerto, si era comunque nutrito dell'animale appena ucciso che gli aveva portato il lupo. E con grande piacere. Perfino in mezzo ai nomadi, era un selvaggio.
E qui sentiva di esserlo ancora di più. La battaglia aveva fatto emergere tutto, la voglia di sangue, la rabbia, la passione. Gli venne in mente l'immagine del lupo che lo aveva difeso fino all'ultimo, con la testa staccata di netto dalla spada, e che ancora mostrava i denti pronti ad azzannare. Quei predoni, quegli avvoltoi che planavano a depredare uomini onesti: pensare a loro lo riempì d'ira. Non parlò più con Bajra e la ragazza smise di chiacchierare e gli si sedette vicino con gli occhi rivolti a terra. Più tardi, nel pomeriggio, sorveglianti con fruste enormi entrarono nello steccato. Le usarono sui prigionieri, colpendo quelli che ancora potevano offrire resistenza. Una frustata fece stramazzare Max al suolo, stordito ma ancora cosciente. La rabbia salì al culmine. Era passato oltre la rabbia pura per giungere alla calma sottile di una decisione. Senza alzarsi dalla sua posizione supina, osservò quello che succedeva... I prigionieri erano tutti spaventati. Avevano visto amici, parenti, membri della loro stessa famiglia feriti o uccisi: erano stati fatti prigionieri e trattati peggio di quanto loro trattassero le loro capre. Erano stanchi, esausti fisicamente e psicologicamente. Erano atterriti. I sorveglianti passarono tra loro, sprezzanti, e separarono le donne dagli uomini, spingendo i due gruppi a colpi di frusta nei due angoli opposti del recinto. Max fu afferrato per i capelli e rialzato perché si unisse agli altri uomini. Ma il suo sguardo furioso fece sì che perfino gli altri prigionieri si ritraessero spaventati. Aveva lo sguardo di un pazzo. Poi, con l'insensibilità di uomini che esaminano bestie da fiera, i sorveglianti spogliarono le donne e le disposero in ordine di bellezza fisica. Le donne tenevano la testa alta, con espressioni orgogliose e distaccate, come se le offese che subivano non le riguardassero. Tra gli uomini attorno Max sentì, come il lontano infrangersi delle onde sulla riva, il crescente montare della rabbia. Quegli uomini stavano esaminando le loro mogli, le loro sorelle, le loro figlie. I sorveglianti stavano dividendo le donne in due gruppi, quelle più giovani e carine destinate all'harem, le altre ai lavori più umili. C'erano solo pochi sorveglianti nel cortile che li separava dalle prigioniere, ma questi avevano immense fruste intrecciate lunghe fino a tre metri. Il loro schiocco era simile a uno sparo e poteva marchiare un uomo a vita con un colpo, se prima non lo uccideva. Oltre i gruppi delle donne e degli uomini che le esaminavano c'era il cancello del recinto. Quando erano entrati non lo avevano richiuso del tut-
to. Una tale leggerezza sarebbe costata cara, pensò Max. L'ispezione era quasi finita. Si vedeva chiaramente che le guardie erano abituate a farla e sembravano rilassate. Ogni tanto qualcuno giocava con la frusta, facendola schioccare in aria come per riaffermare la propria virilità, ma non erano più attenti come prima, preferendo guardare le donne scelte per l'harem. Si scambiavano battute e oscenità. Il sole batteva forte sul muro della palizzata da ovest. Non c'era un alito di vento. La polvere era sospesa in aria, i singoli granelli fissati dai raggi del sole. Gli uomini di Rassanala lavoravano con la stanca naturalezza di chi è abituato a un compito da tanto. La puzza di escrementi umani e sudore impregnava tutto il recinto. Una delle guardie si portò una mano sul naso e sorrise a un'altra. A Max parve di sentire la frase «...quelle bestie...». Si gettò improvvisamente in ginocchio e poi, ancora piegato, in avanti. Con i tendini induriti dalla vita nel deserto, conficcò una mano, con le dita distese e irrigidite, nel plesso solare di una guardia. Sentì i muscoli, sotto la pelle ancora intatta dell'uomo, che si staccavano dalla cassa toracica mentre piegava la mano sotto le costole del fianco sinistro. Accadde velocemente, tanto che Max non vide nemmeno l'espressione spaventata dell'uomo, diventata improvvisamente di un rosso acceso, con la lingua che penzolava dalla bocca, finché non crollò a terra col cuore scoppiato. In quel lungo ma fuggevole istante in cui aveva portato a segno il suo attacco, Max non colse rumore, non si rese conto del passare del tempo. L'universo si era ridotto a un minuscolo puntino illuminato dal sole grande circa cinque metri quadrati, nel quale esistevano solo lui e la guardia. Mentre afferrava la frusta della guardia, i rumori lo raggiunsero di nuovo e, alzando lo sguardo, vide che il cortile del recinto ribolliva di confusione e urla. Il fatto che avesse attaccato la guardia aveva galvanizzato gli altri. Avevano solo avuto bisogno del suo esempio per muoversi. Soverchiavano le guardie per numero e ora gli stavano sciamando addosso, con la rabbia frustrata a indirizzarli contro le guardie per colpirle, graffiarle, soffocarle e ucciderle a mani nude. Urla di allarme si alzarono dalle guardie ma furono rapidamente soffocate dagli uomini della tribù, spietatamente decisi. Ogni volta che una guardia veniva sopraffatta, la sua frusta diventava preda di uno dei prigionieri. Facendo schioccare furiosamente la sua, Max si scagliò contro quelli che avevano condotto l'ispezione. Le donne si erano allontanate da loro, la-
sciandoli allo scoperto. Erano sei, tutti vestiti di stoffe pregiate, forse rubate, alcune delle quali Max era convinto di aver visto nel campo di Ishmight. Un urlo sanguinario fendette l'aria, ma Max non ebbe il tempo di pensare se fosse suo o no, mentre prendeva a frustate il gruppo di uomini. Il primo colpo fu diretto contro quello che li comandava, e il sangue uscì copioso dallo squarcio che gli si aprì in gola. Poi Max diresse i suoi colpi contro gli altri, che ora si erano divisi e correvano verso il cancello aperto. Max corse a tagliar loro la strada. Se avessero raggiunto il cancello, se lo avessero scavalcato e richiuso...! Uno di loro aveva ancora una frusta. Era più corta della sua, ma Max capì a cosa servisse. L'uomo avrebbe cercato di attorcigliarla attorno alla sua per poi strappargliela. Max sogghignò. Un'arma a doppio taglio. L'altro portò il braccio con la frusta all'indietro e fece per far partire la frustata, quando una delle ragazze scelte per l'harem si gettò in avanti, con le braccia protese. Era Bajra, e la frusta le si attorcigliò sulle braccia con uno schiocco maligno. Ma lei vi si aggrappò e diede uno strattone. L'uomo perse l'equilibrio. Max diede il colpo di grazia. Gli altri prigionieri stavano sciamando verso il cancello, e Max si trovò assieme a Bajra in un vortice formato dalla gente che correva. Con la coda dell'occhio li vide raggiungere il cancello e ammucchiarvisi dentro, ma la sua attenzione era tutta per la ragazza. La frusta le si era staccata dalle braccia e al suo posto c'erano segni rossi dai quali sgorgavano rivoletti di sangue. La ragazza era nuda, ma Max non se ne accorse mentre la tirava a sé, la stringeva e la baciava. Poi, ruvidamente, la allontanò da sé, la fece girare e la indirizzò verso il cancello. «Sbrigati» le disse «abbiamo una possibilità.» Si chinò per afferrare la frusta che aveva gettato a terra e in quel momento l'intero universo gli crollò addosso e perse conoscenza. 13 Quando si svegliò era in grande letto, avvolto da lenzuola di seta. Sopra di lui c'era un baldacchino arancione. Aveva un terribile mal di testa, e quando cercò di mettersi a sedere le tempie incominciarono a battergli e ogni pulsazione era come una martellata per il suo cervello dolorante. Si distese di nuovo, con molta attenzione,
e aspettò che il cuore rallentasse i battiti. Tuttavia aveva potuto scorgere qualche particolare della stanza in cui si trovava e ne era rimasto colpito. Quando era stato ferito era crollato sulla polvere del recinto; ora si trovava in una stanza arredata con opulenza. I muri erano coperti da pannelli di legno, con drappi e arazzi. Il letto era largo, abbastanza per poter contenere altre persone come lui. Vicino c'era un tavolino, e su di esso una brocca di cristallo e un bicchiere altrettanto pesante. La brocca conteneva un liquido torbido. Max si appoggiò faticosamente sui gomiti, questa volta meno bruscamente. Con le mani che gli tremavano si versò un mezzo bicchiere di quella roba. Poi, appoggiatosi ai cuscini, ne bevve un sorso. Assomigliava al vino, e dal gusto che gli lasciò in bocca sospettò che fosse ricavato dal miele. Era aromatizzato, e il suo gusto fresco gli liberò in qualche modo la mente. Incominciò a osservare più attentamente ciò che lo circondava. La stanza era ben arredata, ma c'era ben poco che potesse essere usato come un'arma. Gli armadietti e gli scaffali erano a muro. Mentre si guardava attorno, si accorse di essere di nuovo nudo, ma anche che gli avevano fatto un bagno ed era stato profumato. Si annusò il braccio: emanava una fragranza pepata. Nonostante il letto e le cure prestate, provava dolore. Sentiva male dappertutto. Aveva i muscoli affaticati ed esausti. Quando aveva sollevato la brocca di vino, aveva dovuto fare un grosso sforzo per non rovesciarla; si era sentito debole come un bambino. Nonostante tutto, non poteva sprecare tempo standosene a letto. Con molta attenzione, cosciente del fatto che gli battevano ancora le tempie, appoggiò i piedi sui tappeti che coprivano il pavimento e si alzò in piedi. Per prima cosa controllò la porta. Come sospettava, era chiusa a chiave. Poi controllò il resto della stanza. Guardò dietro ogni drappo e arazzo, ma trovò solo muri spogli e solidi. Alla fine arrivò davanti alla finestra. Era spaziosa, e guardando fuori vide una balconata che correva alla sua sinistra lungo il muro e oltre. Ma la finestra era chiusa con una pesante sbarra di ferro lavorato, che dava un che di ornamentale senza venire meno alla sua funzione principale. Era calato il tramonto sulla città, e Max riuscì a scorgere solo i tetti e la forma delle case. La finestra guardava a ovest e, molto lontano, scorgeva il giallo bagliore del sole scomparso dietro le montagne lontane. Per alcuni attimi si fermò a pensare al deserto, dove il sole splendeva
ancora e dove, se vi si fosse trovato, sarebbe stato preso dalle occupazioni pomeridiane in attesa della caccia notturna. Provò un momentaneo sentimento di nostalgia. Poi ricordò perché si trovava lì, perché si trovava in quel mondo. Frati. C'era davvero? Che tremenda crudeltà, se gli Altri lo avessero spedito in un mondo sul quale lei non aveva mai messo piede. Frati. Perché mai la cercava? Aveva perso i suoi poteri; non sarebbe potuto tornare indietro. L'immagine di lei era ora sfuocata nella sua mente, mentre il ricordo di Bajra era molto più forte. Ma tuttavia... Fran era un'aliena quanto lui in quel mondo, se davvero c'era. Bajra (che fosse riuscita a scappare con la sua gente?) conduceva una vita ordinata e questo era il suo mondo. Non provava molta curiosità. Ma il ricordo di Bajra occludeva quello di Fran. Ci fu uno scatto, e la porta si aprì. Max si girò e guardò attraverso il buio della stanza che aumentava a ogni minuto. Entrò un uomo che si richiuse la porta alle spalle, raddrizzandosi velocemente per fronteggiare Max mentre si buttava una chiave in una tasca del vestito. Max non si ricordava di averlo mai visto prima, ma ne riconobbe il tipo. Era alto e magro, biondo come tutti gli abitanti delle pianure, ma con la pelle molto più abbronzata e, come si accorse in seguito Max, gli occhi scuri. I capelli, che gli cadevano sulle spalle, non erano dello stesso biondo, quasi albino, di quelli di Ishmight e della sua gente, ma piuttosto di una tonalità più scura con alcuni ciuffi schiariti dal sole. Aveva un pizzo ben curato, che però non gli smagriva la faccia. Le guance erano leggermente incavate, ma se anche questo avesse potuto conferirgli un'aria ascetica, il tutto era rovinato dalla sgraziata pienezza delle labbra. Aveva l'aspetto debole di una persona viziata; la bocca aveva una piega imbronciata quasi per natura. Ma era un uomo imponente, alto, la cui magrezza non nascondeva una forza prepotente. «Ti sei svegliato, vedo. Stai meglio?» Max non rispose e continuò a soppesare l'uomo. L'altro scoppiò a ridere, mostrando denti marci. «Non devi avere paura di me, amico. È grazie a me che sei ancora vivo.» Fece un passo in avanti e allungò una mano, sfiorando leggermente il braccio di Max. «Mi piace il tuo aspetto. Molto cupo, affascinante.» Max non disse niente.
«Ti ho salvato la vita!» disse l'uomo con improvvisa enfasi. «Mi appartieni.» Si leccò distrattamente le labbra. «Mi servirai in tutti i modi che io ti comanderò, Scuro. La tua vita è nelle mie mani.» «E cosa vuoi da me?» chiese Max, rompendo finalmente il suo silenzio. Ma conosceva già la risposta. La risposta fu di una semplcità scioccante. L'uomo si sporse ad accarezzarlo dolcemente. «Piacere» disse. Max cominciò a tremare in modo quasi incontrollabile mentre si scostava bruscamente dall'uomo. «Cosa ti fa pensare che io sia disposto a collaborare?» chiese. Sentì l'altro avvicinarsi da dietro e con una mano palpargli le natiche mentre con l'altra gli cingeva la vita. «Piacere» ripeté. All'improvviso Max si allungò ad afferrare il braccio che lo cingeva con entrambe le mani, lo alzò sopra la sua spalla e poi fece volare il corpo sopra di sé. L'uomo emise un grido terrorizzato mentre volava oltre le spalle di Max, per poi atterrare pesantemente sul pavimento. L'uomo era stordito, senza fiato, ma non era svenuto. Max afferrò la brocca di cristallo e gliela ruppe sulla testa. Il vino gli corse per la faccia mescolandosi al sangue che usciva a fiotti. Ma i suoi occhi non si chiusero. Rimasero aperti, lo sguardo fisso nel vuoto. Max lo fissò. Ma la sua morte era come un'astrazione. Max non riusciva a paragonare quella figura floscia a un essere umano. Poi cominciò a spogliarlo dei vestiti e li indossò. In una tasca trovò la chiave, grande, rozza e ridicolamente ornata, di ferro battuto. L'infilò nella serratura e aprì con cautela. Il corridoio era illuminato da candele poste a intervalli sui muri. Non c'era nessuno in vista. Chiuse la porta dietro di sé e si avviò furtivamente. Era nel castello di Rassanala, non c'era alcun dubbio. Nessun altro edificio in quella misera città poteva essere così riccamente arredato. Fermò un vecchio su una scala. Aveva un vassoio in mano con i resti di un pasto sopra. Max prese un frutto che assomigliava a una mela. Afferrò il vecchio per la barba. «Dov'è l'harem?» chiese maleducatamente. «Ehi, ehi» balbettò il vecchio. «Quello è un posto riservato solo a Rassanala e ai suoi ufficiali.» «Sto diventando sordo» disse Max. «Dimmelo di nuovo: dov'è l'harem?» Il suo sguardo spaventò il vecchio. Glielo disse. Max lasciò l'uomo in
una nicchia dietro una tenda, legato con i suoi stessi vestiti. Non fu difficile trovare l'harem. C'era poca gente in giro per il castello, la maggior parte dei quali erano servi. Max era ben vestito e, nella penombra creata dalle candele, poteva benissimo essere scambiato per uno dei predatori. L'importante era camminare con fare sprezzante, non furtivamente, per dare l'idea di essere uno di loro. I servi non gli fecero alcuna domanda. L'harem era composto da un gruppo di stanze separate, unite al resto del castello tramite un'anticamera chiusa a chiave da entrambi i lati. Max trovò che la sua chiave funzionava su entrambe le serrature. O queste erano rozze, o forse solo persone molto importanti possedevano chiavi in grado di aprire qualunque porta; non gliene importava molto. La guardia nell'anticamera era vecchia e grassa, e gli servì solo un attimo per liquidarla. Oltre la stanza c'era solo la continuazione del corridoio. Visioni di harem orientali, come aveva visto ritratti da una moltitudine di disegnatori, gli erano tornati in mente, ma non c'era niente che li ricordasse. Con prudenza, procedette lungo il corridoio, passando oltre una serie di porte chiuse affacciate su entrambi i lati. Una volta sentì il vagito di un bambino e si fermò. Poi continuò. Improvvisamente si spalancò una porta e ne uscì una ragazza. Gli stava dando le spalle, ma doveva averlo visto con la coda dell'occhio, perché si girò e lo fissò con gli occhi che lampeggiavano per la rabbia. «Tu!» esclamò imperiosamente. «Cosa pensi di fare qui?» Max sorrise. «Ti stavo aspettando.» «Cosa?» la ragazza fece un passo indietro. «Vorrei parlarti» indicò la porta da cui lei era appena uscita. «Entriamo.» La ragazza indietreggiò di un altro passo e Max aggiunse: «Non voglio darti fastidio. Voglio notizie di una ragazza che potrebbe essere stata qui.» «Chi sei?» Max si girò e aprì la porta della stanza di lei. Senza risponderle, entrò e sedette su una sedia. Dopo un momento di esitazione la ragazza lo seguì e sedette a sua volta di fronte a Max. La stanza non era lussuosa come quella in cui si era svegliato, ma Max si disse che andava bene lo stesso. Aveva un aspetto più vissuto, come se la ragazza le avesse trasmesso un po' della sua personalità. C'erano ninnoli sparsi qua e là e quadri, alcuni dei quali molto rozzi, alle pareti. Il letto non
aveva baldacchino, ma era grande e comodo. Max stimò che la ragazza fosse alta sul metro e sessanta, bionda. Il colore della sua pelle era quello dei nomadi e Max si immaginò che fosse stata catturata in una delle incursioni precedenti. Era attraente, ma le mancava la fresca bellezza di Bajra. Aveva il volto lungo e teso. «Mi chiamo Max Quest» le disse. «Vengo dal deserto, da oltre le montagne occidentali.» Negli occhi della ragazza apparve per un attimo un'espressione di spavento misto a sorpresa; poi la camuffò di nuovo. «Sono venuto a cercare una donna» disse. «Dovrebbe essere arrivata da ovest, credo. La troveresti insolita tra la tua gente, o anche qui. Ha i capelli scuri come i miei.» Di nuovo quel lampo di consapevolezza negli occhi della ragazza, ma si limitò a dire: «Perché la cerchi? Cosa rappresenta per te?» «Eravamo sposati, una volta. Poi è stata rapita. È tanto che la inseguo.» «È la tua donna? Come si chiama?» Max sentì il polso accelerare i battiti. La ragazza sapeva! Capì che la ragazza sapeva di Fran! «Fran» disse. Si alzò. «È qui?» La ragazza lo guardò freddamente. Annuì. «È qui. L'hanno portata al castello dopo l'incursione sul Fiume Occidentale, qualche giorno fa. È diventata la preferita di Rassanala. Ne è affascinato.» Parlava con tono sprezzante, e Max le lesse dentro che era gelosa. «Dov'è adesso?» le chiese. «L'ultima volta era con il vecchio Kashrath» disse la ragazza. «Ma non tengo nota dei suoi movimenti.» Max rifletté. Fran c'era; la sua ricerca era finita. Era tutto così improvviso, sconcertante. Adesso che l'aveva trovata, cosa sarebbe successo? Un altro pensiero più profondo lo tormentava. Era cambiato molto da quando era arrivato in quel mondo. Che fosse cambiata anche Fran? E se lo era, in che modo? L'harem... quanto poteva averne risentito? «Sei stata catturata anche tu durante un'incursione, non è vero?» «Sì, molto tempo fa. Ero solo una ragazzina.» «Non senti nostalgia della tua gente?» «La mia gente? Non ho nostalgia del modo in cui vivono, se è quello che intendi. Guardati intorno, io vivo qui. Questa è la mia stanza. È bella, non ti pare? Vivo in un'ottima posizione; sono la compagna del Duca. Mangio bene, ho dei vestiti. Come puoi paragonare tutto questo con il pascolare capre puzzolenti, con il vivere tra la polvere in capanne pidocchiose indos-
sando stracci consunti al posto dei vestiti?» Max stava per sollevare obiezioni sul quadro che aveva dipinto della vita dei nomadi, ma si trattenne. Lei non sapeva che anche lui aveva condiviso quella vita; non c'era bisogno di farglielo sapere. E forse la ragazza aveva vissuto in una tribù più povera, anche se c'era da scommettere che, se la tribù era più povera, Rassanala ne era stato sicuramente la causa. «Questo Kashrath... chi è?» La ragazza trasalì, rimanendo per un attimo sorpresa per il fatto che non lo conoscesse. «Non l'hai ancora incontrato? Ne sono sorpresa. È molto curioso riguardo alla terra da cui provieni.» «Sono appena arrivato» le spiegò Max. «È il consigliere del Duca. Può scrutare il cielo e predire il futuro. Dice che tempo farà e trae auspici per le incursioni.» «Capisco.» Un vecchio imbroglione che si dava arie da astrologo. «Dove posso trovarlo? Penso che sarebbe interessato a vedermi.» Kashrath era vecchio, con la faccia rugosa e incartapecorita e occhietti acquosi. Doveva essere stato alto, una volta, ma ora era tutto curvo. Era un vecchietto loquace, e salutò cordialmente Max senza chiedergli cosa facesse al Castello di Rassanala. «Dal deserto, dici? È proprio meraviglioso. Non ho mai sentito di qualcuno che sia sopravvissuto a lungo oltre le montagne. «Mi viene in mente Tanashoth, il padre di Rassanala... benché il Duca non ami ricordarlo...» emise un lungo respiro «...ma ho un ricordo che va oltre... «Sì, uhm, Tanashoth... guidò una spedizione oltre le montagne... e perché? Eh?» il vecchio gettò uno sguardo a Max, sempre più impaziente. «Seguì la strada per molti giorni. E quando tornò, cosa aveva mai trovato?» sospirò. «Niente. Assolutamente nulla. È uscito dal deserto, nudo come un verme, senza nessun altro superstite...» Max pensò che l'uomo stava divagando. «Un'altra persona è arrivata dal deserto... una ragazza coi capelli scuri come i miei.» «Ah, quella...!» il vecchio sputò con una smorfia di disgusto. «Quella non è arrivata da nessun deserto. Troppo debole, troppo ben curata. Come te, dici? Potrebbe darsi; ora che ci penso, ricordo che era scura. Ma non veniva dal deserto.» Max si sentì mancare. Potevano esserci altre donne in quella terra che
corrispondevano alla descrizione di Fran? «Come fai a dirlo, vecchio?» chiese aspramente. «Be'... Per cominciare, da quello che ha detto. Non ha mai parlato del deserto, neppure una volta. E l'abbiamo catturata in una tribù dell'est... e come mai era con loro, se era venuta dal deserto? E poi era debole, come ho già detto. Guardati. Tu, posso dirlo con sicurezza, vieni dal deserto, anche se non ci sei stato molto. Sei forte. I marchi del sole e di una vita dura sono impressi su di te. Quella ragazza, Fran, non aveva nemmeno un callo sulle mani.» Annuì come per confermare le sue parole. Max si illuminò. «Ma il suo nome... era Fran?» «Sì. Un nome strano come tutto il resto, diverso da ogni altro essere umano che abbia mai visto a questo mondo.» «E adesso dov'è?» «Se ne è andata» disse il vecchio Kashrath. «Se ne è andata in un altro mondo.» I ceri gettavano una luce fioca nella stanza col tetto basso. Le fiamme illuminavano dei particolari, qua e là, lasciando il resto avvolto nell'oscurità. Max aveva notato le pesanti e grossolane travi sospese pochi centimetri sopra di lui, con lastre di pietra che colmavano il vuoto tra l'una e l'altra, formando così anche il pavimento del piano superiore. Aveva anche notato il forte odore di muffa che regnava nella stanza, parzialmente mitigato dai ceri, ma comunque forte. Max si scosse. L'umidità gli dava brividi che la temperatura non giustificava. Le cantine di Kashrath sembravano quasi una prigione medievale. Rimase in piedi, impassibile, senza mostrare quello che provava, mentre la sua mente fremeva. Così vicino... aveva mancato Fran per un solo giorno, la sua Fran. Quando tutto era sembrato una follia e la sua ricerca il vagare di un pazzo, un alito di speranza gli era soffiato nello spirito al sentire voce di Fran, la prima volta che ne sentiva in quel mondo. Era la dimostrazione di quanto aveva sempre pensato da quando aveva sentito nominare per la prima volta Rassanala e i suoi predoni, e cioè che se c'era la minima possibilità che Fran fosse in quel mondo, era lì che avrebbe dovuto cercarla. Tutto gravitava attorno a quel fatto, perfino lui. E cosa aveva detto quel vecchio pazzo?... se ne era andata di nuovo. "In un altro mondo." Kashrath indietreggiò, involontariamente, urtando un banco di lavoro e facendone tintinnare la parte in vetro, mentre l'uomo scuro di fronte a lui
reagiva a quello che gli aveva detto. La faccia dell'uomo si era indurita e Kashrath si preparò a essere colpito. Il colpo non giunse. Max invece gli chiese semplicemente: «Come? Come ha fatto?» con voce tranquilla e gelida. «Ah» disse il vecchio. «Vieni. Te lo mostrerò.» E così fece. Guidandolo attraverso le cianfrusaglie che riempivano lo studio, il vecchio giunse davanti a uno strano oggetto. All'inizio Max credette che fosse una semplice porta, una porta che conduceva in un'altra stanza di quella cantina simile a un labirinto. Poi vide che era staccata dal muro; ma era una vera porta, col suo telaio, solo che si trovava lontana dal muro. Sembrava fuori posto in mezzo agli strumenti da alchimista che occupavano quello strano laboratorio. Le forme erano completamente diverse da quelle che la circondavano. La luce era fioca, ma la porta sembrava di una lega metallica che ancora brillava di un argento scuro, con scintillii azzurri causati dalla luce dei ceri. La porta era fissata su cardini nascosti, e sulla parte anteriore presentava oggetti che Max inizialmente prese per fregi ornamentali. Poi si accorse che erano bottoni. Erano tutti, tranne uno, ricoperti di polvere e umidità. Quello che non lo era brillava di più. Ed era premuto. Kashrath si piegò in avanti, afferrò la maniglia della porta e la aprì. «Guarda!» esclamò. Non era riuscito nel suo tentativo di essere drammatico. La voce gli si era spezzata. Max non vide nulla. Poi si accorse che stava veramente guardando il nulla. La via che si apriva oltre la porta spalancata era nera. Troppo nera. Dove la luce dondolante dei ceri avrebbe dovuto illuminare il muro di pietra che c'era dietro, non vide nulla. «Osserva» disse Kashrath. Sollevò un pezzo di vetro da un bancone polveroso che gli stava di fianco e lo gettò oltre la porta. Il sottile tubo di vetro brillò un attimo e poi sparì. Max guardò dietro la porta. Lo spazio tra la porta e il muro era vuoto. «Un altro mondo?» chiese al vecchio. «Chi può dirlo? Un altro luogo... è tutto quello che so.» Il vecchio ridacchiò. «È utile per smaltire la spazzatura, molto più comodo per le mie vecchie ossa che portare carichi pesanti su per le scale.» «E... e Fran se ne è andata per di qua?» «Proprio così.» L'uomo sputò di nuovo. «Le avevo parlato di come avevo trovato quest'oggetto tra le rovine della vecchia città di Shanathor e di
come l'usavo e lei si è eccitata tutta. E poi, prima che potessi fermarla, vi si è gettata dentro. Eh... non l'ho ancora detto a Rassanala, puoi starne sicuro. Ehi, cosa stai facendo?» Max si girò un attimo. «Non c'è neppure bisogno che gli parli di me» gridò. E oltrepassò la porta. 14 Ci fu un attimo di stordimento e buio. In quel mezzo secondo Max provò una vertiginosa familiarità... una familiarità che gli veniva dal suo primo viaggio in quel modo. Poi si trovò in un'altra stanza. C'era un pesante odore di chiuso nella stanza e la polvere era alta su ogni superficie esposta. I gialli raggi del sole entravano da una finestra, ma la finestra stessa era così incrostata di polvere che era impossibile distinguere qualcosa guardando fuori. La stanza gli ricordava un'altra in cui era già stato, ma in un primo momento non riuscì a ricordarsi esattamente quale. Poi, come starnutì, gli venne in mente. Le rovine di Shanathor. Era tornato in quella città morta? Si guardò attorno. La stanza aveva un aspetto spoglio; era stata vuotata di tutto e l'unica cosa rimasta era la porta vicino al muro, ora chiusa. Max osservò pensosamente il portale e poi guardò per terra. La polvere era alta e uniforme sulla maggior parte del pavimento. Ma c'erano impronte che partivano dalla porta. Per la maggior parte erano le sue, che andavano dalla porta alla finestra e si arrestavano nel punto in cui si trovava. Ma un'altra serie andava dal portale a un'altra porta. Max si chinò e le esaminò più da vicino. Non erano tracce come quelle che si lasciano sulla neve, erano più strascicate, come se qualcuno avesse smosso la polvere camminando, spostandola in aria, polvere poi ricaduta di nuovo al suo posto. Ma Max aveva imparato molte cose durante il suo soggiorno nel deserto, era ovvio che quelle impronte erano state lasciate da piedi più piccoli dei suoi. Quelli di Fran? Più avanti nel corridoio trovò una finestra aperta. Il pavimento del corridoio era lastricato da blocchi di forma irregolare, leggermente fluorescenti. I pannelli del soffitto luccicavano sommessa-
mente. L'effetto era quello della luminescenza senza ombre di una giornata nuvolosa. Non c'era polvere, neanche sul davanzale. Max si sporse e guardò fuori verso la città. Alte e integre torri si ergevano da strade tracciate ordinatamente. I palazzi erano di diversi colori, raddolciti da un manto di verde. Max pensò che dovesse trattarsi di un rampicante simile all'edera. Altri palazzi erano a terrazze, con piante che gli crescevano ai lati, ricordandogli lontanissime lezioni scolastiche sui giardini pensili di Babilonia. Il sole era basso a occidente e un po' più a nord c'era il bagliore dell'acqua. Dov'era? Guardò con più attenzione i canyon che si aprivano tra i palazzi. Stimò di trovarsi circa dieci piani più in alto. Gli parve di vedere movimento sotto di lui. All'inizio aveva pensato a Shanathor, ma questa città non era affatto morta. Dove l'aveva mandato il portale magico del vecchio Kashrath? Un colpo improvviso gli spostò la testa di lato, lo colpì sulla spalla e lo fece cadere in ginocchio. Ancora vestito di stoffe svolazzanti, Max incespicò mentre cercava di alzarsi e girarsi e così si accucciò invece su di un fianco e si volse verso l'avversario. L'uomo era piccolo e tarchiato, arrivava a stento al metro e cinquanta. I capelli erano color sabbia, mentre la pelle assomigliava a cuoio stagionato e la faccia era dominata da un imponente naso aquilino. Il naso gli nascondeva quasi il volto e rimpiccioliva la bocca minuscola dalle labbra sottili, serrata. La testa svettava poco sul collo, dando l'impressione di essere attaccata direttamente sulle spalle e che sostenesse poco oltre a quell'enorme naso. Era in piedi a gambe divaricate, con un pesante bastone da passeggio stretto al petto, pronto ad affrontare la prossima mossa di Max. Max rimase calmo, ancora accovacciato, coi muscoli tesi. L'altro fintò di lato, poi lasciò partire una bastonata. Frustò l'aria sopra la testa di Max, che l'aveva prontamente abbassata, con un fischio potente. Poi Max si gettò in avanti, sotto la guardia dell'altro, prima che potesse colpirlo di nuovo col bastone. Caricò con la spalla contro lo stomaco dell'uomo e tutti e due caddero a terra, con Max sopra. Ma il suo avversario non era certo gracile; il torace era un muro di mu-
scoli, e Max non era riuscito nemmeno a cingerlo. Allungò le braccia e allontanò Max, sgusciando via da sotto e rimettendosi di nuovo in piedi. Ancora una volta Max si trovò accovacciato, in attesa delle mosse dell'altro. Il suo unico vantaggio era che l'uomo aveva perso il bastone. Senza levargli gli occhi di dosso, Max si spostò con un salto a sinistra e afferrò il bastone. Mentre lo stringeva, l'uomo dai capelli color sabbia lo assalì. Max fece finta di saltare di nuovo a sinistra e poi andò a destra, maneggiando il bastone come aveva fatto l'altro. Infilò l'asta di legno tra le gambe dell'avversario, che cadde. Il bastone sfuggì dalle mani di Max, che saltò nuovamente addosso al suo avversario. Lo colpì in faccia e poi gli si portò dietro, stringendogli la testa e torcendogli un braccio dietro la schiena con l'altro. Era una presa efficace, ma improvvisata. L'uomo cercò di liberarsi, ma Max strinse ancora di più e l'uomo grugnì per lo sforzo e il dolore. L'uomo cercò di balbettare qualcosa, senza rilasciare i muscoli tesi. Max non lo lasciò andare, ma allentò leggermente la presa sulla gola. «Cosa dici?» chiese. «Mi arrendo» biascicò. «Mi... mi arrendo.» Max liberò cautamente l'avversario. Si alzarono e si squadrarono di nuovo, misurandosi da testa a piedi. Quel piccoletto aveva una forza enorme, pensò Max; una forza di cui non si sarebbe mai accorto se non vi avesse lottato contro. Sembrava un negoziante inoffensivo, e la sua familiarità faceva in qualche modo parte del suo aspetto insignificante. Il volto si aprì in un sorriso improvviso. «Bravo, straniero! Era tanto che non mi allenavo seriamente.» Max sentì la tensione svanire, si rese conto di aver vinto, aveva vinto una battaglia più grande di quella combattuta dai suoi muscoli, quasi senza averlo capito. «Sono Max Quest» disse, e rilassò il volto in un sorriso stanco. «E ho avuto proprio una giornata faticosa.» «Ah» esclamò l'altro. «Io sono Hagendorf, ma i miei amici mi chiamano Dorf. Sarai mio ospite a cena stasera.» Allungò la mano e Max la strinse. La stretta fu forte e decisa, la stretta di due uomini che avevano scoperto il loro valore reciproco e si rispettavano. «Questa è la città di Zominor» gli disse Dorf mentre Max si godeva una
cena che era un vero piacere culinario. A Max vennero serviti quattro differenti tagli di carne, un'infinità di verdura fresca e cotta e bicchieri di un vino leggero e frizzante, il tutto proveniente da una consolle automatica che si apriva a lato della tavola. Ogni tanto Dorf premeva alcuni bottoni, e da un'apertura della consolle sottili dita metalliche si allungavano e servivano un altro piatto. Tuttavia Max era troppo stanco e affamato per soffermarsi sul modo in cui il cibo veniva servito. L'aveva preso una sonnolenza che era effetto di quasi ventiquattro ore di tensioni e sforzi incredibili. Riusciva a concentrarsi a stento su quello che gli diceva il suo ospite. «Fummo l'unico continente non colpito dal cataclisma di secoli fa» stava spiegando Dorf. «Le città gemelle di Zominor e Azanor sono ancora in piedi. Siamo gli unici sopravvissuti che ancora ricordano e conservano le antiche arti. Le altre grandi città... Ialla, Vagar, Shorgot, Qanala, Shanathor, Takanor, tutte le altre... sono scomparse, sono solo polvere.» «Shanathor» disse Max, il nome gli aveva risvegliato l'attenzione. «Ci sono stato.» «Ah!» esclamò Dorf. «Davvero? Parlamene.» Max si passò una mano sulla faccia e desiderò che arrivasse una ventata d'aria fresca a ripulirgli la mente. Si sentiva in uno stato di semi-torpore; gli effetti della stanchezza e del ricco pasto si facevano sentire pesantemente. «Morta... come hai detto tu» disse Max gravemente. «Un cumulo di rovine che la gente evita.» «Gente! Allora c'è gente lassù!» «Nomadi. Gente delle pianure. E predoni. Rassanala. Un impero feudale da quattro soldi. Sono arrivato da laggiù, oggi.» «Cosa?» Il piccoletto spalancò gli occhi per la sorpresa. «Dal continente Settentrionale?» «Dove siamo?» chiese Max. «Voglio dire, da che parte di questo mondo?» La domanda sorprese l'uomo, che si sforzò di dare una risposta onesta. «Diavolo, questo è il continente zanoriano... siamo nell'emisfero Meridionale... noi... questa è un isola, staccata dagli altri continenti, quello Settentrionale, quello Meridionale e quello Orientale. Ecco perché la nostra civiltà è sopravvissuta... noi soli abbiamo ancora navi capaci di andare in mare aperto fino agli altri continenti.» «Uhm» disse Max tra sé. «E Shanathor? Si trova nell'emisfero Setten-
trionale?» «Sì» rispose Dorf. «Sembrava stupito, ma improvvisamente si illuminò tutto come se avesse finalmente capito.» È chiaro! Sono solo un vecchio stupido! È chiaro! Ecco perché ti ho trovato in quel corridoio! Sei arrivato col trasmettitore, non è vero? «Trasmettitore? Intendi quel portale che c'è in quella stanza polverosa?» «Sì, sì. Allora è vero!» Max annuì. «Sì, un trasmettitore di materia. Ora capisco. Anche l'altra persona arrivata da Shanathor. Un vecchio mago borioso ha il trasmettitore nella cantina della topaia di Rassanala, lo usa per gettarvi la spazzatura. Così... mi ha portato qui.» Una scossa di adrenalina lo riportò alla realtà. «Fran! Una ragazza mi ha preceduto per il trasmettitore. Ieri... ho visto le sue tracce nella polvere del pavimento. Dov'è?» Uno sguardo triste passò sulla faccia di Dorf. «Mi spiace, Maxquest, ma solo una persona ti ha preceduto, che io ricordi, e si tratta della sacerdotessa di Zominor.» Quella notte dormì a lungo e profondamente. All'inizio fu un sonno tormentato perché si sentiva in colpa, era così vicino a Fran adesso e tuttavia le esigenze del corpo erano difficili da ignorare. Aveva cercato di riordinare gli avvenimenti della giornata in una sequenza logica, ma era impossibile. Dov'era incominciata la sua giornata? Con l'incursione notturna nel campo di Ishmight? Col suo arrivo, disidratato e frustato quasi a morte nel recinto di Rassanala? Aveva fatto troppe cose e troppe cose gli erano state fatte... nel breve spazio di ventiquattro ore. Adesso giaceva in un letto soffice, con coperte di seta sul corpo dolorante. Spirito e corpo combattevano per avere il sopravvento. Il corpo vinse. Si addormentò. Quando si svegliò, il sole era entrato dalla finestra, e Max vide quello che non aveva visto la notte prima quando era troppo stanco: l'intero lato della stanza era una vetrata. Quando uscì dal letto si sorprese delle nuove energie che aveva. In teoria avrebbe dovuto essere un cumulo di dolori. Invece si sentiva riposato e smanioso di alzarsi e camminare. Il tempo trascorso nel deserto lo aveva maturato; ora doveva stare attento a non farsi condizionare altrettanto facilmente da una vita comoda. Scoprì che la sua stanza aveva un bagno annesso, con un box che sembrava una doccia. L'olio con cui era stato strofinato il giorno prima si era mescolato al sudore ed era diventato rancido. Non vedeva l'ora di toglier-
selo. Non c'era il sifone della doccia.. Vide solo un pulsante rotondo. Lo premette con cautela. Ci fu un leggero scatto e poi un ronzio. All'improvviso fu circondato da vapore. C'erano quattro piccoli getti che si sprigionavano dai quattro angoli del box, a circa venti centimetri da terra, che gli arrivavano fino al collo. Il vapore era così spesso che formava quasi una nebbia intorno a Max. La nebbiolina era tiepida ma non calda. E non era acqua. Più tardi Dorf, gli spiegò il procedimento chimico e il modo in cui l'occhio elettronico misurava la sua altezza. Ma ora sapeva solo che il vapore lo pizzicava, come un dopobarba, sollecitandogli la circolazione, aprendogli i pori e ripulendo il sudore, lo sporco, il grasso accumulatisi coi giorni. Dopo cinque minuti il vapore sparì e un getto di acqua calda pulita lo colpì, questa volta anche in faccia. In un attimo l'acqua smise di uscire e getti d'aria lo colpirono asciugandolo. Era un modo meraviglioso di lavarsi, pensò Max; lussuoso e quasi sensuale. Rivestitosi, osservò più da vicino la vetrata e scoprì che ogni pannello poteva essere spalancato. E fuori c'era una terrazza. Uscì. Il muro della terrazza gli arrivava alla vita ed era massiccio. Un rampicante, una specie di edera, copriva tutto il muretto allungandosi sia in alto sia in basso. Max sporse la testa ma non riuscì a capire quanti piani avesse il palazzo. Sembrava alto almeno il doppio del piano su cui si trovava. Il sole, bianco come sempre, ma a nord del meridiano, non scottava forte come era abituato. L'edera era di un verde scuro, con macchie di un verde più chiaro qua e là, dove cominciava a crescere. Max tirò un ramo che sporgeva oltre il muro e che si stava insinuando sul muro interno della terrazza. Era forte e robusto, con piccoli viticci che spuntavano da sotto cercando di trovare appiglio sul materiale liscio del muro, simile all'ossidiana. C'era uno strano odore nell'aria, e all'inizio Max non riuscì a identificarlo. Era l'odore dei bossi; un profumo forte, quasi aromatico, che gli solleticava le narici. L'edera. Un alito di vento gli mosse la manica del vestito, sempre più insistentemente. L'edera frusciava leggermente. Sopra di lui le nuvole si muovevano stancamente. Gli pareva di trovarsi a ovest. Era ancora prima mattina, forse le dieci. La città si stendeva per molti chilometri in ogni direzione. C'erano molti palazzi alti come il suo, ma non erano ammassati l'uno sull'altro. C'erano anche palazzi più piccoli, e ognuno si distingueva per il verde di parchi e
giardini. Anche degli alberi punteggiavano i lati delle strade vicine. Mentre guardava vide un piccolo veicolo procedere per la strada sotto di lui e poi fermarsi. Ne scesero uomini simili a formiche. Verso sud, montagne frastagliate si stagliavano nettamente sull'orizzonte, formando un muro che copriva tutto. A est, nord-est e anche a nord, oltre il verde dei campi e dei boschi, c'era il lontano scintillio dell'acqua, acqua che si estendeva in tutte le direzioni. Zominor, una città che una volta aveva avuto molti milioni di abitanti, aveva ora una popolazione di alcune migliaia di abitanti che diminuivano sempre più. Una volta era stata una grande città, una delle più popolose nel mondo di Qanar, ma il cataclisma aveva messo fine a tutto. Le grandi città erano sparse su tutta l'immensa superficie del globo, collegate dapprima per mare e per terra e poi dagli ingegnosi trasmettitori di materia. C'erano ancora molti trasmettitori, ma non erano più affidabili, e pochi osavano ancora usarli. Le arti scientifiche e magiche erano del tutto scomparse e benché i cittadini del continente Zominor sapessero usare ancora a malapena molte delle loro macchine e i loro domestici automatizzati, anche qui la lontana catastrofe aveva fatto i suoi danni. Dopo che erano state tagliate le linee di comunicazione con la terraferma e che erano scomparse le città della terraferma, la gente di Zominor era scivolata in una tranquilla vita di routine, i cui bisogni erano soddisfatti dalle macchine, e i cui passatempi stavano leziosamente rovinando le arti. «Viene ancora scritta musica nuova, e vengono ancora dipinti quadri. Rappresentiamo ancora commedie nuove, perché una commedia occupa le menti e i corpi di molti. Ma nessuno dei lavori più recenti può avvicinarsi ai capolavori del passato. Stiamo anche noi morendo lentamente come la gente dei continenti della terraferma» gli disse Dorf. «Noi siamo gli ultimi lontani e deboli echi della razza che una volta dominava questo mondo.» Dorf aveva delle mappe, e gli spiegò la geografia di Qanar. C'erano quattro continenti maggiori, il più grande dei quali era quello Orientale, grande quanto gli altri tre messi insieme. Era tagliato al centro da una catena montuosa vasta e quasi impenetrabile, e solo le terre a occidente erano popolate densamente. Oltre le montagne, a est, c'era Arathdom, di cui si sapeva poco. C'era solo la città di Ialla, all'estremo lembo meridionale della vasta catena montuosa, che aveva commerciato con gli Arath, ma si sapeva poco anche di quel commercio.
C'erano molte grandi città nel continente a est: le più grandi erano Ulloro, Banarajan, Tanakor, Vagar. «La città equatoriale» gli disse Dorf. «Era sistemata proprio sull'equatore tra le due ramificazioni delle Grandi Montagne, dove il mare si insinuava profondamente. Un posto strano, con gente strana, tanto neri quanto il deserto circostante era bianco. Alcuni dicevano che erano un incrocio tra gli Arath e gli umani. Io penso che sia stato esclusivamente il sole a renderli neri. Ma allora il sole non scaldava tanto come adesso, nessuno potrebbe vivere a Vagar oggi.» «L'ultima città era Ialla.» A ovest, oltre il mare, c'erano i continenti Settentrionale e Meridionale. Max aveva visto abbastanza di quello a nord; le città principali erano Paraganat e Shanathor. Il continente Meridionale era sotto quello Settentrionale, unito all'altro da due arcipelaghi che separavano le due catene montuose che andavano da nord a sud lungo tutti e due i continenti. Il continente Meridionale era in realtà diviso in due, perché, quando il sole era diventato più caldo, i ghiacciai si erano sciolti e il livello del mare era salito. Il mare era penetrato nelle terre basse, tagliando in due il continente. Le due maggiori città erano Qanala e Shorgot. Zanor era a ovest rispetto al continente Meridionale, un po' più spostato a sud. A ovest di questi tre continenti c'era solo un vasto oceano che ricopriva quasi metà del globo, fino a tornare all'estremità est del continente Orientale e di Arathdom. Max era affascinato dalle mappe che gli mostrava Dorf, e non poteva fare a meno di paragonare quel mondo, Qanar, al suo, la Terra. Le posizioni non erano esattamente le stesse, ma a grandi linee Zanor poteva essere considerata l'Australia, un'Australia molto più vicina al Sudamerica che all'Asia. Poi sembrava di vedere un Sudamerica con due catene montuose, di cui quella occidentale terminava a metà strada e quella orientale arrivava fino in fondo. Sotto c'era un altro pezzo di terra grande come un terzo del resto, al largo della costa sudorientale. Il continente a nord si poteva paragonare al Nordamerica. Le montagne Occidentali erano approssimativamente nella stessa posizione delle Montagne Rocciose, con un grande deserto che si estendeva a est dalle montagne che Max aveva attraversato. Ma quelle montagne seguivano idealmente il corso del Mississippi fino al Golfo del Messico, formando una nuova Florida un po' più a ovest e poi la catena di isole che conducevano al continente Meridionale. Una striscia di terra univa il continente a quello che Max non poteva fare
a meno di paragonare alla Groenlandia; all'estremità più Orientale c'era Paraganat. Max ricordò la storia che gli aveva raccontato Ishtarn su di una terra di neve perenne e cominciò a capire. Il continente Orientale era meno simile alla Terra. Faceva pensare alle Isole Britanniche unite saldamente al resto dell'Europa, a un'Africa più piccola, unita a un'Asia lunga e stretta, senza interruzioni, il cui piede si infilava molto a sud in una specie di stivale che curvava al di sotto dell'Africa e là poteva vedere una vaga somiglianza. Max era felice di aver avuto la possibilità di vedere quelle mappe, perché solo ora aveva un'idea reale della natura del mondo in cui era giunto. Aveva già pensato al fatto che avrebbe potuto anche invecchiare lì, sia che riuscisse a trovare Fran o no, e che non avrebbe potuto più abbandonarlo. Adesso finalmente poteva cominciare a comprendere il mondo che probabilmente avrebbe dovuto accettare come suo. C'erano anche i piaceri minori. Poteva finalmente soddisfare la sua curiosità su ciò che c'era a ovest del deserto in cui si era trovato appena arrivato. Era contento di avere scelto di andare a est. Era sicuro che non avrebbe potuto sopravvivere al molto più lungo viaggio a ovest e allora non avrebbe mai trovato tracce di Fran. 15 Un ascensore li portò al livello della strada e una piccola macchina a tre ruote li portò verso ovest lungo strade semivuote. Quella parte della città sembrava abbandonata; dava un senso di vuoto, di fittizio. «Questo era il centro commerciale, da dove si controllava il commercio mondiale» gli spiegò Dorf con un cenno della mano. «Non sappiamo cosa farcene, adesso.» Ma i prati erano ancora ben curati e i palazzi non erano decrepiti. Assomigliava a un parco o un museo. Svoltarono da un'ampia strada in un'altra, e Max si sentì mancare il respiro. Davanti a loro, in una piazza attorno alla quale girava la strada, c'era un immenso cubo nero. Era perfettamente liscio e regolare. Isolandolo dallo sfondo, non c'era modo di capire quanto fosse alto. Max si guardò intorno, guardò gli alberi allineati lungo la strada e i palazzi inespressivi che si alzavano dietro di lui. Poi ritornò con lo sguardo al cubo nero. Doveva essere alto cinquanta piani, pensò Max. Era mostruoso. Vi si fermarono davanti e smontarono. Max alzò lo sguardo sui muri li-
sci e neri. La luce del sole brillava passando tra le foglie degli alberi circostanti e la rugiada luccicava sull'erba ancora all'ombra. L'aria sapeva di pulito e di fresco, di primavera. Il sole colpiva la fiancata dell'edificio senza riflettersi. Max guardò più da vicino. Il muro era completamente nero. Standogli così vicino non riusciva a seguirlo con lo sguardo senza sentirsi girare la testa. Si ergeva su di lui come per abbracciarlo. Era insopportabilmente vicino. Max resistette alla tentazione di scappare. «Non riflette la luce» disse Dorf, rompendo il silenzio e scuotendo Max dal suo torpore. «Nessuna luce. Spesso terrorizza la gente, non ci si riesce a rendere conto della distanza quando si è così vicini.» Max annuì. «Ogni sezione del muro» continuò Dorf «è un pannello che assorbe radiazioni. Questa costruzione assorbe radiazioni di qualunque lunghezza d'onda. Sarebbe "nero" per qualsiasi strumento misuratore. Naturalmente non è progettato per questo. Le radiazioni sono trasformate in energia. Tra le altre cose, questa è anche la centrale elettrica di Zominor.» «Tra le altre cose?» «Sì. È anche la casa della sacerdotessa. È lei che cerchi, non è vero?» Max annuì di nuovo. Sentì che il cervello gli si paralizzava. «Sì, credo di sì.» L'entrata era poco appariscente, e una volta dentro Max sentì uno strano pulsare subsonico attraverso le suole delle scarpe. «Generatori» gli spiegò Dorf senza che Max gliel'avesse chiesto. Percorsero molti corridoi luminosi e fecero alcuni piani in ascensore. Finalmente arrivarono a un'anticamera. Davanti a loro c'era una porta, una porta senza alcuna particolarità. Max doveva solo aprirla e varcarla. Il cuore gli batteva forte. Dorf si sistemò su una sedia. «Ti aspetto qui» disse, e fece cenno a Max con la mano di entrare. Non aveva scelta. Aprì la porta. «Tu non sei Fran» disse. Era come scioccato e svuotato. Se l'era sentito quando si era avvicinato alla porta, una perdita incombente, la perdita di... cosa? Della speranza? La donna che gli stava davanti era impettita nei vestiti neri luccicanti. Era magra e snella. I seni sporgevano imperiosamente dal busto di seta e lunghi capelli neri erano sciolti sulle spalle. Era bella. Ma non era Fran.
«Chi cerchi?» gli chiese. Max si voltò dall'altra parte, con l'amarezza che gli turbava i pensieri. Un altro punto morto. Ricordò una frase che gli aveva detto Dorf: «I trasmettitori non sono più affidabili...». Era stato imbrogliato un'altra volta. Il fato si stava prendendo gioco di lui? O... gli Altri? «Una ragazza» rispose. «È entrata in un trasmettitore. L'ho inseguita e sono arrivato qui.» «Nessun altro oltre me è arrivato da quel trasmettitore» disse la sacerdotessa. «Non la troverai qui.» «Lo so» disse Max. La sua voce sapeva di sconfitta. «Avvicinati» disse la donna. «Voglio guardarti.» Max obbedì senza pensarci. Da vicino era più piccola di quanto avesse pensato. I capelli le arrivavano alla vita. Lo guardò con gli occhi azzurri e profondi. Max la guardò a sua volta. Il colore turbinava e luccicava in quegli specchi profondi, l'azzurro diventava grigio, poi verde e nuovamente azzurro, cambiando ogni secondo. «Sento attorno a te una grande mana» disse lei. «Un... Un'aura, forse?» Spalancò gli occhi. «Tu non sei di questo luogo, né di questo tempo. Sei un grande stregone, i cui poteri sono tenuti a freno!» Max era esterrefatto. Poteva essere veramente dotata di poteri magici? Aveva considerato le chiacchiere sulla magia sentite dai vecchi Kashrath e Dorf un fraintendimento della scienza. Ma la descrizione di quella donna, una volta riconosciuto il contesto metafisico del suo vocabolario, vi si avvicinava molto. «Io lo capisco» disse lei «perché vedi, nemmeno io sono di questo tempo.» «Vieni anche tu dalla Terra?» le chiese. «Terra? No» rispose perplessa. «Non ho mai sentito parlare della Terra. Io vengo dal passato.» Gli disse che proveniva da un'epoca antecedente al disastro. Non aveva idea di come fosse successo, ma apparentemente uno dei trasmettitori aveva funzionato male. L'aveva sbalzata avanti di circa tremila anni. Si era sorpresa di trovarsi in una stanza vuota e polverosa; ed era stata ancora più sorpresa e spaventata nel trovare la città di Zominor deserta. Si era diretta verso il Palazzo della Scienza, sperando di trovarvi delle risposte. Aveva trovato la gente, che l'aveva proclamata Sacerdotessa. «Veramente non ho nessun potere magico» disse lei. «O meglio, nella
mia epoca non li consideravo magici. Ora... non so. Qui sono la sacerdotessa, e lo sono veramente. Mi è stato dato uno dei Doni, posso leggere una parte dei pensieri altrui. Mi ero sottoposta ad alcuni test quand'ero più giovane, nella mia epoca. Ma le mie capacità erano troppo imprevedibili, non potevo fare affidamento su di loro. Mi esercitai come scienziato. Qui la mia intuizione sembra esaltata, e mi dà la possibilità di conoscere quelli che incontro. Se si aggiunge a questo la mia preparazione scientifica» rise leggermente «la combinazione fa di me una Sacerdotessa. Mi tengono in gran considerazione.» «C'è qualcosa di fuori posto in te» gli disse. «Qualcosa che non riesco a spiegare, ma che sento. Tu sei... hmm... sfasato.» Lo fece sistemare su una piccola piastra di metallo scintillante tra due pilastri. «Forse posso rimediare» disse. Sparì dietro l'angolo di un armadio voluminoso, e lui udì strani rumori: interruttori premuti, circuiti chiusi, il ronzio della corrente e il vago crepitio di elementi metallici che si riscaldavano e si espandevano. Si chiese cosa stesse facendo lì, in piedi e scalzo sopra una placca di metallo. Per quanto ne sapeva, avrebbe potuto anche essere fulminato. Quella donna, quella Sacerdotessa, non gli diceva niente; aveva anche ammesso di saperne un poco di più di un tecnico esperto del suo tempo. Cos'era quell'apparato, e cosa sperava di ottenerne? Ma rimaneva docile sulla placca metallica tra i due pilastri. Non aveva più volere e iniziativa. Non si era fatto sopraffare dalla disperazione. Si era aggrappato così a lungo alla tenue speranza, alla magra giustificazione della sua ricerca, che era diventata la sua ragione d'essere e senza di essa sarebbe stato perduto. Da quando era entrato in quel mondo, era stato costretto a lottare per sopravvivere. Si era visto opposto all'uomo e alla natura. E aveva vinto. Aveva combattuto per andare avanti, ogni battaglia che gli presentava, sempre aggrappandosi alla tenue speranza di trovare Fran. Nei primi tempi aveva avuto poco tempo per l'introspezione o per considerare la futilità della sua ricerca. Poi, quando (era solo ieri?) aveva veramente sentito parlare di Fran, si era acceso un tale fuoco di speranza e gioia da essere quasi insostenibile, e anche allora aveva avuto paura che la nuova speranza potesse risultare illusoria, un fuoco fatuo che si sarebbe spento una volta che lui l'avesse raggiunta. Ora era successo. Non poteva più essere sicuro che Fran fosse ancora in
quel mondo, Qanar. Quel maledetto trasmettitore. Come era capace di trasportare una persona nel suo futuro, così facilmente poteva spostarne un'altra nel tempo o nella distanza. Fran poteva essere da qualsiasi parte, in qualsiasi tempo. Non c'era modo per lui di frugare un migliaio di epoche per cercarla. I fuochi della speranza erano estinti, annientati. Il ronzio che aveva riempito l'aria fino a quel momento tremò con essa. Sentì odore di ozono, e la pelle gli pizzicava a causa dell'elettricità nell'aria. Gli sovvenne un debole ricordo di un altro tempo e un altro luogo, in cui l'odore di ozono cancellava quello dell'erba tagliata di fresco. Continuava a crescere, finché la stessa aria intorno a lui sembrò quasi congelarsi. Si guardò intorno con occhi spalancati. E poi cominciò a rendersene conto. Un guscio si era formato intorno a lui, uno strano e intricato guscio d'energia. Ne sentì, o forse vide, la struttura complessa. C'era qualcosa che non riusciva a capire, il modo in cui sembrava... entrare in conflitto con l'energia libera e accidentale della stanza. Poi capì. Con cautela, si trasse vicino il guscio di energia, finché gli aderì come una seconda pelle e poi ancora più vicino fino a diventare la sua pelle. Poi spense la macchina. L'aria diventò improvvisamente vuota, la stanza d'un silenzio assordante. La Sacerdotessa lo osservava dall'armadio a occhi spalancati. «La macchina» disse. «L'hai...?» Una grande stanchezza colpì Max come una martellata. Annuì. «Sì, l'ho spenta. Ha fatto il suo lavoro.» Scese dalla piattaforma e si rimise le scarpe. Esaminò la stanza in cerca di lei. E quasi svenne. Sentì braccia forti aiutarlo a rialzarsi, poi entrò barcollando in un'altra stanza e cadde pesantemente su un divano. La ragazza lo guardò con espressione preoccupata. «Sei ancora vittima di uno strano incantesimo» disse lei. Max scosse stancamente la testa. «No... O forse sì. Diciamo di sì. Ora capisco.» Tutto risaliva alla sua intuizione originale, che quel mondo non corrispondesse esattamente al suo. A non equivaleva ad A, ma piuttosto ad A1. Le realtà erano parallele nello spazio, ma non corrispondevano completa-
mente. Qanar non era la Terra. C'erano affascinanti similitudini, ma Qanar non era la Terra. E neanche l'universo di Qanar era l'universo della Terra. C'erano sempre piccole differenze. Erano state quelle piccole differenze a spogliare Max dei suoi nuovi poteri, come avevano sicuramente immaginato gli Altri. Tuttavia, pur senza i suoi poteri paranormali, Max non era ancora entrato "in sincronia", come aveva detto la Sacerdotessa, con quel mondo. Forse era quella la spiegazione della sua straordinaria capacità di sopportazione di tutti quei maltrattamenti fisici. La sacerdotessa aveva fatto uso di un dispositivo che era una variante delle macchine che fornivano l'energia ai trasmettitori di materia. I trasmettitori funzionavano tramite un deformatore dello spazio locale, che faceva piegare lo spazio su se stesso, in modo da poter andare direttamente da un'area all'altra. Così facendo si avvicinavano a un'entità temporale rimossa dall'universo di Qanar. Con la macchina, la Sacerdotessa aveva creato un'anomalia locale intorno a Max, un'anomalia di energie che permettevano al suo universo personale di coesistere in un difficile equilibrio con l'universo di Qanar. Max aveva attirato a sé l'involucro delle energie e l'aveva adattato ai suoi bisogni. E ora i suoi poteri erano stati reintegrati. Ma a un prezzo terribile. Il guscio di energia che gli permetteva l'uso dei suoi poteri non era più alimentato dalla macchina della Sacerdotessa, ma da Max stesso. «Lo sento consumarmi, assorbirmi» disse Max. Allontanò l'amarezza dalla voce. «Non appena mi estendo al di là di me, tutto tende a neutralizzarsi.» «Dovresti tornare al trasmettitore» disse la Sacerdotessa. «Al trasmettitore? Perché?» «Non hai detto che una volta in trasmissione non avresti avuto problemi di... esaurimento? Adesso, forse, visto che hai di nuovo i tuoi poteri magici, potresti rintracciare la ragazza che cerchi.» «Non solo i miei poteri magici. Anche il mio cervello si sta indebolendo» ribatté Max. La prese per un braccio e le fece fare una giravolta, per poi abbracciarla improvvisamente. «Hai ragione, naturalmente!» le disse ridendo. La baciò sulle labbra e la lasciò andare. Dorf alzò lo sguardo sorpreso quando Max spalancò di nuovo la porta e
irruppe nell'anticamera. «L'hai... l'hai trovata?» chiese. «No, non ancora» rispose Max. «Ma la troverò, vecchio mio. La troverò.» «Maxquest» disse Dorf mentre scendevano con l'ascensore «cosa ti è successo?» Max si calmò. «Sono pieno di speranza» rispose. «Vera e sincera. Riesco finalmente a vedere la soluzione ai miei problemi, la risposta a tutte le domande.» Si trovarono di nuovo nella stanza polverosa di fronte all'enigmatico portale del trasmettitore di materia. «Maxquest» disse Dorf. «Sento che sei molto cambiato. Mi sembri molto più forte, più saggio e vecchio. Sembra impossibile che ci conosciamo solo da così poco. Io..» esitò un momento, la voce rotta dall'emozione. Allungò la mano. «Ricordati di noi» disse con voce fioca. Max gli prese la mano e la strinse a lungo. Poi si girò e varcò la soglia del portale. Vi fu una forte torsione, e Max sentì il proprio asse ruotare attraverso la realtà. Contemporaneamente, rallentò al massimo il tempo soggettivo. Vagava nell'oscurità, che tuttavia non era oscurità. Era una assenza di tutto, inclusa' l'oscurità. Era fermo tra le realtà, una deformazione dell'universo di Qanar. Si sentì riempire di percezioni, tra cui la conoscenza dei quattro livelli dell'universo: materia, energia, spazio e tempo. Era sospeso lontano da tutto ciò. Era più facile ora capire perché i trasmettitori funzionavano male e come macchine sbadate del tempo: la loro funzione fondamentale dipendeva dal momentaneo spostarsi dei loro utenti fuori della materia, dell'energia, dello spazio e, sì... del tempo. Max si chiese cosa avrebbero pensato gli utenti delle macchine se fossero stati in grado di comprendere veramente i principi sui quali era basata la trasmissione di materia. Dov'era ora... In paradiso? Dov'era Dio? Ma lui sapeva già. Rivolse la mente al compito che gli si presentava. Si trovava fuori del tempo. Esercitando le sue facoltà mentali, poteva esaminare quel nonluogo e trovare le tracce di tutti quelli che vi erano passati senza saperlo. Tracce? Là, il tempo non esisteva. Tutti arrivavano contemporaneamente, fuori del tempo, fuori dal "passato" e dal "futuro" per
essere riuniti di nuovo in pochi secondi alla rassicurante realtà. Max vide tutto e capì. Ma non fece domande. Aveva visto troppo, in quell'eternità soggettiva, e sentì svanire ogni energia, ricordando soltanto la sua missione. C'era Fran. Una scia di ioni? Fran, prendendo una scorciatoia dove non c'erano scorciatoie... scomparve di nuovo... laggiù. Sottili raggi di luce solare risaltavano nel buio. Il luogo aveva un forte odore di terra e umidità. Qualcosa gli si sbriciolò sotto i piedi mentre usciva dal portale che da molto tempo non veniva usato. C'erano finestre, ma erano coperte di viti, radici e ogni genere di fogliame fitto. Max soffrì per un momento di claustrofobia, poi si orientò. Facendo molta attenzione, esaminò il luogo in cui si trovava. Era un edificio in rovina, e alla sua destra c'era una porta. Si avviò a tentoni verso di essa, strascicando i piedi sul pavimento sconnesso. Scivolò su qualcosa di bagnato. La porta si apriva su una sala alla cui estremità vedeva un rettangolo illuminato che indicava l'uscita. Ci fu un debole rumore e poi qualcosa di piccolo e scuro gli passò velocemente davanti per ritornare nel buio. In alto, la luce del sole disegnava riquadri bianchi, gialli, oro e verdi. Quando si avvicinò all'apertura, l'aria fresca allontanò momentaneamente gli odori fetidi del sottosuolo. Qualcun altro era penetrato attraverso le viti, e l'erba che cresceva sul cumulo di sporcizia che copriva per metà l'entrata era schiacciata e calpestata nel punto in cui qualcuno era salito e uscito. Quanto era lontana? Impossibile calcolare il momento esatto del suo rientro in quel mondo dal limbo tra i portali, e il trasmettitore aveva ancora il suo effetto su di lui. Con ogni probabilità era rientrato nel momento in cui l'aveva lasciato. Per cui quanto poteva essere lontana Fran? Uno, due giorni? Gli doleva la testa. Gli sembrava che più perseguiva quella tortuosa ricerca e più il percorso diventava complicato. Aveva capito tutto perfettamente nel momento in cui si era trovato fuori dal tempo, ma ora il peso delle realtà in conflitto lo opprimeva e lo confondeva di nuovo. Dopo essersi tirato fuori dal buco, si trovò in piedi in una piccola radura. Dietro di lui c'era una serie di collinette coperte fittamente da boscaglia, alberi che si facevano strada in modo tortuoso. Davanti c'era la fitta vegetazione della foresta, alberi così grandi che gli pareva di trovarsi in una fo-
resta preistorica. Si guardò nuovamente alle spalle. Una volta quelle colline erano state la base, le fondamenta di una potente città. Ora...? Erano irriconoscibili. Quale grande cataclisma si era abbattuto su quel mondo, migliaia di anni prima, tale da distruggere e seppellire così quella potente civiltà? Non era facile seguire le tracce di Fran, poiché, dove cadeva la luce del sole, l'erba e il muschio erano ricresciuti senza lasciare traccia del suo passaggio. Ma da qualche parte, dove la terra era abbastanza soffice da conservare le impronte, o l'erba abbastanza debole, servendosi delle sue percezioni paranormali, Max riusciva a trovare le sue tracce e le seguiva. Era evidente che lei aveva vagato. Quindi il percorso si allungava e un momento più tardi Max riuscì a vederne la ragione. Davanti, tra gli alberi, c'era una strada. 16 Osservò la superficie della strada dal margine. La strada era in realtà un largo sentiero che tagliava la foresta, serpeggiando tra gli alberi. In alcuni tratti era battuto, ed era ovvio che era stato percorso qualche volta da mezzi su ruote. Ma in altri tratti dove la strada si allargava e livellava, vedeva chiaramente il segno degli zoccoli di cavalli. Era di terra dura, su cui ogni tanto crescevano erba e muschio, e spuntavano rocce piatte e massi. Dava l'idea di essere molto antica, e a Max ricordò le escursioni della sua infanzia, in un bosco vicino a dove una volta aveva trascorso le vacanze estive. Vi aveva trovato una strada non molto diversa da quella, ma molto più piena di erbacce e non usata da molto tempo. Partiva dal nulla per terminare allo stesso modo, in un intreccio di arbusti che ne bloccava il percorso. A metà strada aveva trovato il telaio arrugginito di una vecchia automobile che riposava sui mozzi delle ruote, da tempo spogliata di tutto tranne che del blocco di ruggine che una volta era stato il motore e del piantone ancora sormontato dal volante di legno. Un arbusto cresceva al posto del sedile del guidatore. Max aveva provato uno strano senso di mistero in quel lontano pomeriggio estivo, come se si fosse avventurato in un altro mondo in cui la civiltà moderna era stata dimenticata. Ricordò cosa aveva provato quella volta mentre stava ai margini di quella strada, con il sole che illuminava il terreno davanti a lui e una brezza leggera e calda faceva muovere le cime degli alberi e in lontananza un uccello cantava tristemente.
Da che parte era andata? Non c'era segno di lei su quella strada, in ogni direzione. Sospirando, esaminò lo scenario con i suoi poteri e cominciò a ricontrollare l'area. Percepì il tonfo degli zoccoli ancor prima di sentirli e si rialzò prontamente in piedi, con il sangue che gli rifluiva vertiginosamente dal cervello stanco. Non c'era tempo per pensare; era troppo esausto per gli sforzi mentali per scherzare ancora col tempo. Si gettò rapidamente nel sottobosco a lato della strada e si nascose tra le foglie secche sotto gli alberi. Quattro uomini si avvicinarono a cavallo. Erano alti, ben piantati e robusti, e cavalcavano facendo molta attenzione, con lunghe armi simili a fucili in mano, pronte a far fuoco. Facce arcigne, occhi come fessure. Max vide tutto questo, ma vide anche altro, perché gli uomini cavalcavano animali cornuti che gli ricordavano cervi o antilopi, bestie orgogliose, dal mantello fulvo e dal corpo molto muscoloso, con zampe magre e aggraziate che procedevano con sicurezza lungo la strada. Gli uomini avevano la barba; il capo l'aveva nera e incolta. Gli altri tre avevano invece capelli rossi o castani, con barbe curate, e uno di loro aveva il pizzo. Indossavano vestiti di pelle attillati e casacche strette da una cintura sopra i calzoni. Assomigliavano a uomini della foresta, e Max si chiese di chi fossero rappresentanti e che significato avrebbe potuto avere per lui incontrarli di nuovo. Comunque, sapeva cosa fare. La sua indagine mentale era completa. Fran era stata raccolta da passanti e le loro tracce seguivano la stessa direzione che stavano prendendo i quattro. Li avrebbe seguiti. Fu piacevole camminare lungo la strada, in quanto i suoi poteri rigenerativi gli fornivano grandi risorse. L'uso delle sue capacità paranormali poteva scaricarlo, proprio come una pila, ma quando non li usava per un lungo periodo si ricaricavano velocemente. Si accorse che era pomeriggio, poiché il sole batteva forte dietro di lui. I grandi alberi lo proteggevano bene dai suoi raggi, ma Max poteva ancora seguirne il passaggio. Con il trascorrere del pomeriggio, piccoli insetti volanti cominciarono a seguirlo, ronzandogli intorno alla testa e lanciandosi contro gli occhi, il naso, le orecchie e la bocca, così cominciò a schiacciarli ritmicamente mentre camminava. Era felice di indossare indumenti ampi e svolazzanti, perché gli proteggevano la maggior parte del corpo dalle tediose creature. Ma c'era anche un'altra ragione: i suoi indumenti avevano tonalità verdi che si
mescolavano bene alle macchie di luce acquamarina della foresta. Dopo un po', arrivò a uno spiazzo dove si erano fermati prima di lui i quattro cavalieri. Le bestie avevano brucato l'erba e lasciato delle deiezioni, mentre gli uomini avevano lasciato i resti dei loro pasti. Quella scena gli risvegliò la fame. Non aveva più mangiato da quando aveva fatto colazione da Dorf. Sapeva che si doveva trovare in un'altra parte del mondo, perché era appena mattina quando aveva lasciato Dorf, e a ragione avrebbe dovuto essere meno tardi di quanto era in effetti. Comunque, sia perché stava scendendo il crepuscolo, o a causa dei chilometri percorsi e delle scosse ricevute dal suo sistema nervoso, Max aveva fame. E voleva un pasto completo. Trovò alcune bacche sul ramo di un albero che pendeva molto basso e ne mangiò numerose manciate, ma non era abbastanza. Si appoggiò facendo molta attenzione sull'erba e si rilassò. Poi aspettò. Lasciò riposare la mente e pensò a cose più piacevoli; pensieri rilassanti, amichevoli, ospitali. Forse era disonesto, ma tutte le trappole con esca lo sono. Dopo poco tempo una piccola creatura pelosa scese giù dal tronco di un albero e incominciò ad annusare il terreno attorno a Max. Faceva piccoli salti laterali, guizzando in avanti con il naso alzato, per poi fare mezzo salto indietro e balzare di nuovo in avanti, tracciando una specie di cerchio attorno a Max. Max aspettò fino a quando poté, poi vibrò il colpo. La scossa di energia stordì tutti e due, ma Max fu il primo a riaversi e gli si avventò sopra. La piccola creatura scalciò convulsamente e rimase immobile senza dar più segno di vita. La luce nella foresta era molto fioca quando Max, molto più riposato, si rimise in marcia. La notte era tiepida e Max seguì la strada finché pensò fosse giunta mezzanotte. Per gran parte della strada aveva avuto su di sé la luce argentea della luna e la foresta era un luogo di silenziosi incantesimi. Una volta gli sembrò di sentire un passo felpato dietro di lui e allora senza pensarci aveva chiamato ad alta voce il lupo, solo per poi accorgersi che la strada era deserta. Si sentiva più o meno come quando aveva scalato le montagne; c'era la consapevolezza di aver quasi raggiunto la sua meta, che allora era semplicemente una terra più verde al di là delle montagne, mentre adesso era la sicurezza di ritrovare Fran.
C'era qualcosa in lui che lo tratteneva come in un ultimo soffocante abbraccio quella notte, perché la capacità di prevedere il futuro, racimolata tra i portali del trasmettitore e ora affievolita, ma sempre persistente, lo avvertiva che non avrebbe avuto altre notti come quella in quel mondo. Improvvisamente sentì che ogni sua esperienza in quel mondo gli era preziosa. Assaporò i profumi, freschi e ricchi, di foglie morte, di fiori che sbocciavano in ritardo, del fresco autunno incombente, mentre abbracciava con lo sguardo il ricco disegno delle ombre, grigie con tracce di verde, marrone e argento. Aliti leggeri di vento muovevano le foglie sopra di lui e gli sfioravano i vestiti. Se anche c'erano ancora insetti in quelle ore, il vento li aveva allontanati. Respirò profondamente quell'aria così ricca e proseguì. Non si fermò finché non sorse la luna più grande e la foresta divenne come una cavità oscura e frondosa. Si svegliò giusto per vedere un'altra creatura pelosa che scavava nel terreno con le zampe anteriori a solo pochi centimetri dalla sua mano. Ne spiò un attimo i movimenti e sentì un profondo rimorso quando la colpì. Ma non si sentiva in torto; in quella grande e materna foresta era in sintonia con la natura, e quello era il modo in cui funzionava la natura, con l'esistenza di ogni creatura che partecipava all'esistenza dell'altra. Solo l'uomo, pensò Max, aveva tentato di rompere quel cerchio. E per cosa? Per lasciarsi alle spalle la moralità di cacciare per vivere e l'interdipendenza con la natura per l'immoralità di uccidere i propri simili, per la sconsiderata distruzione di ogni cosa, dichiarandosi indipendente da ciò che gli aveva dato la vita. Max si sentì in quel momento curiosamente lontano dalla specie da cui discendeva. Il sole era ancora basso a est quando Max si rimise in cammino. Non aveva idea di quanto avanti dovesse ancora andare, ma si sentiva sereno e fiducioso. Avrebbe trovato Fran, e sarebbe tornato con lei sulla Terra. Dopo meno di un'ora da quando era partito, arrivò al posto dove si erano accampati per la notte i quattro cavalieri. Le ceneri del fuoco scottavano ancora, e gli odori degli uomini e degli animali erano forti nella radura. Max alzò la testa in un gesto inconscio e annusò l'aria. Non dovevano precederlo di molto; doveva quasi averli raggiunti durante il viaggio notturno. Avrebbe dovuto essere molto attento finché non l'avessero distanziato di nuovo. Ma non avevano nessuna possibilità. Li raggiunse dopo pochi minuti. La foresta si era fatta meno fitta e il sole batteva direttamente attraverso i
rami e le foglie. Max sudava leggermente quando la strada all'improvviso curvò, scavalcò un'altura e si aprì su un prato. La rugiada era ancora abbondante e luccicava sull'erba del prato. Il sole non era ancora alto sopra gli alberi dall'altra parte dello spiazzo, ma il prato brillava di qualcos'altro che non era rugiada. In un primo momento la scena non ebbe alcun senso per Max, ma poi all'improvviso divenne chiara, le figure che si contorcevano erano individui, e allora cominciò a capire. Grida aspre e parole irose si alzavano dalla valle e le bestie cornute sbuffavano emettendo come degli urli. C'erano dieci persone su animali, che giravano in tondo e si scontravano. Solo due erano di quelli che l'avevano superato con cautela il giorno prima. Degli altri due, uno giaceva per terra alcuni metri più in là, il corpo nascosto solo in parte dall'erba alta, macchiata di rosso brillante dal suo sangue. L'altro giaceva mezzo coperto dalla sua cavalcatura morta, quasi al centro della mischia. Gli altri due brandivano degli spadoni e stavano cercando allo stesso tempo di colpire i loro avversari e di scansare i loro colpi. Era facile ricostruire le circostanze di quella battaglia: gli altri otto avevano teso un'imboscata e si erano lanciati sui quattro quando erano entrati nello spiazzo e avevano fatto la loro prima vittima quasi immediatamente. Ma perché? Per quale motivo combattevano quella battaglia, e per chi? Max si sistemò per terra davanti a un grosso albero e proiettò la sua mente fuori, sul prato, in mezzo al combattimento. Era un compito immane. Doveva fare i conti con dieci menti, e attribuirle ai rispettivi corpi era difficile. Lo sorprendeva anche il fatto che la distanza aveva un effetto considerevole sui suoi poteri. Era come essere di nuovo a scuola, quando davanti a un problema di aritmetica doveva pensare e ripensare ai diversi passaggi, controllandoli molte volte per essere sicuro delle soluzioni, e il procedimento gli rallentava la mente e la faceva incespicare. Ma finalmente raggiunse la risposta. La testa gli girava, e quando tentò di alzarsi in piedi non ci riuscì. Stordito, strisciò fino al corpo del morto che giaceva lì vicino. I quattro che aveva visto cavalcare nella foresta erano tutti nobili di secondo rango della zona, vassalli del Duca di Qar. Era impossibile capire la situazione politica. Max era riuscito solo a estrarre i pensieri dalla superficie della mente, ma sembrava che il Duca di Qar avesse ultimamente cercato di riportare la civiltà in quell'area.
Gli attaccanti erano fuorilegge, facenti parte di una banda che assaliva quelli che viaggiavano su quella strada e tormentava il Duca. Avevano individuato gli uomini del Duca fin dal primo mattino e li avevano aspettati dove erano ragionevolmente sicuri che nessuno potesse sfuggirgli. Max pensò che era stato fortunato a non venire notato da loro. A fianco del morto trovò uno di quegli strani fucili che gli aveva visto in mano il giorno prima. Da vicino era meno imponente, e Max trafficò un attimo per capire come funzionasse prima di far ricorso alla sua seconda vista per svelarne i segreti. L'arma era strutturata come una lunga canna, di circa cinque centimetri di diametro e lunga circa sessanta centimetri, con una canna più sottile che partiva da una estremità e che era lunga altri sessanta centimetri, e un calcio fissato all'altra estremità. Non c'era mirino. Un elaborato grilletto si riduceva a un meccanismo a leva che affondava nel calcio e ne percorreva tutta la lunghezza. Era una semplice modificazione della balestra. Invece dell'arco o della molla a lamina, aveva una pesante molla a spirale nella canna più larga, della stessa potenza. Tirando il grilletto Max poteva caricare l'arma. Il sistema di leve era efficace e semplice, e Max non lo trovò complicato neppure debole com'era. Dovette alzare il morto per poter liberare la sua faretra con le frecce. Quindi ne inserì una nella canna, alzò l'arma e prese la mira. Il combattimento era proseguito senza che nessuno si fosse ancora accorto della sua presenza. Con molta attenzione, mirò a una delle cavalcature dei fuorilegge. Gli serviva un bersaglio imponente a cui mirare e non voleva sprecare i colpi. Il colpo trafisse l'animale alla spalla, e con un verso orribile questo crollò a terra disarcionando il suo cavaliere. Uno degli uomini del Duca colpì l'uomo caduto con la spada, ma non ce n'era bisogno. Aveva il collo spezzato. Con una virata, il nobile girò per affrontare un altro bandito. Max colpì sistematicamente e con molta attenzione, senza sprecare colpi. Era ancora molto debole e non riusciva a stare in piedi, ma si sistemò sulla schiena del morto e continuò a caricare e sparare con attenzione, finché improvvisamente... La radura era vuota. Due bestie cornute brucavano l'erba con disinteresse totale. Accanto a loro un altro animale scalciava convulsamente il terreno cercando di rialzarsi. I calci diventarono sempre più deboli finché la creatura cominciò a scuotere la testa selvaggiamente e a scavare con le
corna, gettando in aria zolle di terra. Poi rimase immobile. La radura era punteggiata di altre bestie morte e uomini. Max contò sei delle orgogliose bestie morte o moribonde. Un uomo era ancora a cavallo: il nobile con la barba nera che comandava il quartetto di cavalieri che lo avevano incrociato il giorno prima. Max si tirò, tremando, in piedi. In mano teneva stancamente l'arma carica. Il cavaliere gli si avvicinò e gli fece segno. «Ti ringrazio, straniero. Sembra che ti debba la vita.» «Li abbiamo fatti fuori tutti, vero?» chiese Max. «No, due sono fuggiti.» Le parole dell'uomo erano confuse e la testa gli pendeva stancamente. Poi si piegò all'improvviso, e precipitò a terra. Max gettò via l'arma e fece un salto per cercare di prenderlo al volo. L'uomo era ferito; il petto sotto alla spalla sinistra era stato colpito così violentemente che le costole erano state esposte. Aveva perso molto sangue, che però era corso all'interno dei vestiti, e non si era visto. Max, con molta attenzione, raddrizzò l'uomo e gli tolse la camicia. Fu sorpreso di scoprire che l'uomo non indossava veri pantaloni, ma brache e gambali, proprio come gli indiani americani del Far West. Max trovò dell'acqua in una specie di otre appeso alla sella e pulì e disinfettò la ferita meglio che poté. Poi, dopo essersi strappato un lembo della veste, ricompose la pelle sulla ferita e fece una fasciatura molto stretta sulla spalla dell'uomo, che non si sarebbe sciolta facilmente. Una volta fermato il sangue e aver soccorso l'uomo, almeno per quello che gli permetteva il suo fisico debilitato, Max si lasciò cadere al suo fianco sull'erba per riposarsi. Poi estese la sua mente a quella dell'uomo, facendosi strada tra i germi che potevano provocare un'infezione rimasti nella ferita in seguito al colpo con la spada, che doveva essere molto arrugginita e che ora circolavano per il corpo, stimolando il midollo osseo ad accelerare l'emopoiesi, in modo da rimarginare la ferita e accelerarne la guarigione. Quando ebbe finito stava quasi per svenire. 17 Il sole gli batteva sulla fronte, e Max si risvegliò consumato da una grande sete. Trovò lì vicino l'otre. L'acqua, grazie all'evaporazione, era ancora fredda.
«Acqua, per favore...» L'uomo ferito era cosciente e cercava di alzarsi puntellandosi sul braccio destro. Max si inginocchiò e avvicinò l'apertura dell'otre alle labbra dell'uomo. «Come ti senti?» chiese Max. L'uomo si toccò sotto il braccio sinistro e lo fletté con cautela. Un'espressione di sorpresa e meraviglia gli apparve sul volto. «Oh... Che strano! Mi sembra quasi di essere guarito.» «Ti senti forte abbastanza da poter cavalcare?» L'uomo alzò una mano, e Max lo aiutò ad alzarsi. Barcollò per un momento, poi ritrovò l'equilibrio. «Ce la farò» disse. «Quante possibilità hanno di tornare con dei rinforzi quei due che sono scappati?» L'uomo ci pensò per un momento. «Non va bene. Non va bene per noi, voglio dire.» Max si avvicinò guardingo a uno degli animali che pascolavano. Questo non si allontanò, e lui lo prese per le redini e lo condusse dove si trovava l'animale dell'altro. «Io sono Max Quest» disse. «E tu?» «Elron, al tuo servizio» rispose l'altro. Si inchinò, e impallidì per lo sforzo. «Lasciamo perdere i convenevoli e andiamocene» disse Max con fermezza. Guardò Elron montare il suo animale. Pensò che era proprio come montare un cavallo. Dopo aver controllato le borse della sella dell'animale per vedere se erano piene, montò e si trovò su una larga sella con le vesti ripiegate sulle cosce nude. Cavalcarono attraverso il prato ed entrarono nella foresta; seguirono la strada all'interno per l'intera giornata. C'erano poche occasioni per parlare. Max si accorse che l'andatura dell'animale gli toglieva il respiro ogni volta che cercava di parlare, ed Elron stava ovviamente conservando le forze che gli rimanevano per la dura prova. Quella notte, mentre si accampavano, Max fece a Elron delle domande. L'uomo non sapeva niente di Fran, ma una carovana aveva preceduto il suo gruppo di qualche giorno. Se, come pensava Max, qualcuno l'aveva raccolta, era stata sicuramente la carovana. La strada andava dalle montagne a occidente e la città distrutta di Ullore davanti a loro, oltrepassando la città scomparsa di Tanakor, fino alla nuova città di Qar, sulle rive del fiume omonimo. Si diceva che la strada fosse pa-
rallela a una strada antica, ma se fosse così ogni traccia della via precedente era comunque scomparsa, a eccezione di un avvallamento tra le montagne stranamente accessibile. La città di Qar era stata costruita vicino a dove il fiume era raggiunto dal suo affluente orientale, ed era la prima nuova città costruita in quella parte del mondo da un migliaio d'anni. L'allora Duca di Qar stava allargando la sua sfera di influenza a occidente e aveva mandato Elron e i suoi tre compagni verso ovest, oltre le montagne, per esaminare la situazione e chiedere alle popolazioni locali nomadi di unirsi allo stato di Qar. La carovana era una fra le tante che avrebbero portato i viaggiatori alla città di Qar. Ma c'erano fuorilegge che vagavano lungo la strada, assalendo le carovane e derubando i viaggiatori. Erano seccati dal diffondersi del potere del Duca, e ora avrebbero certamente subito la sua ira per avere attaccato i suoi uomini. Le borse della sella contenevano cibo in abbondanza, e i due mangiarono a sazietà. Elron, dopo aver risposto a lungo alle domande di Max, era curioso di avere notizie di lui. Perché indossava quegli strani indumenti verdi? Da dove veniva, per essere apparso sul prato in modo così opportuno? Max evitava la maggior parte delle domande, dicendo solo: «Sono uno straniero qui e sto cercando una donna che seguo da tempo» ma, in seguito alle insistenti domande di Elron, aggiunse che veniva da un'altra parte del mondo, attraverso mezzi che Elron poteva concepire soltanto come magici. «La mia ferita... hai usato la tua magia anche su di essa, vero?» Max sospirò. «Mettila così, se preferisci.» Ed Elron lo fece. Era chiaro che aveva deciso nella sua mente di considerare Max una persona dotata di grandi poteri magici. Uscirono dalla foresta il pomeriggio seguente e si trovarono sulle rive sabbiose di un grande fiume. Al di là del fiume si alzavano a perpendicolo le mura di una città. Curiosamente, ricordavano a Max la città di Rassanala, ma le porte erano aperte e vedeva la gente muoversi liberamente. Oltre la città c'erano animali al pascolo e colture. Lì vicino una grossa fune era fissata a un vecchio albero che cresceva sulla riva del fiume, più basso di tutti gli altri. Elron fece un segnale, e Max seguì con gli occhi la fune fino alla sponda lontana, dove un traghet-
tatore stava cominciando a spingere la sua chiatta lungo il fiume. Venti minuti più tardi attraversarono in sella le porte che conducevano alla variopinta città di Qar. Schierati lungo l'ampia strada che conduceva al centro della città c'erano negozi e bazar, mercanti che vendevano gridando le loro merci: da verdure e altro ancora a pellami, spade e ogni genere di articoli e tessuti: Max si sorprese di notare persino donne. Queste ultime sedevano sotto tendoni, vestite con stoffe pregiate, ma con i seni nudi e sulle gonne avevano spacchi strategicamente nascosti tra le pieghe, che non si vedevano finché non si muovevano. Gli uomini si avvicinavano, l'argento passava di mano e i due sparivano nella casa retrostante. In quella città, Qar, l'oscenità era esplicita, e Max decise che gli piaceva. Era la volgarità della gioventù, la truculenza unita alla forza, e Max percepì un grande inizio e un futuro sviluppo per quella gente. In un certo modo, li invidiava. Ma il pomeriggio fu deludente. Prima trovarono le tracce della carovana: Elron tirò all'improvviso le redini del suo destriero per farlo fermare e chiamò un uomo dall'aria stanca, vestito di pelle macchiata di sangue. «Ehi, Galt! Hai avuto guai, a quanto pare!» Galt alzò lo sguardo. «Ah, Elron» disse. Sputò sulla polvere ai suoi piedi. «Avreste dovuto esserci tu e i tuoi compagni, con noi. Quei maledetti predoni sono sbucati dagli alberi e ci hanno attaccato: hanno preso gran parte delle nostre merci e delle donne. E quegli stupidi che avevo con me se ne sono rimasti lì a bocca aperta!» Elron lo commiserò e gli raccontò cos'era successo invece alla sua compagnia. «Maledetti fuorilegge» disse Galt sputando di nuovo. «Andrai a trovare il Duca, eh? Forse lui farà qualcosa contro quella stirpe infernale!» Max era rimasto in silenzio durante quello scambio di battute. Una grande stanchezza interiore lo assalì. Avrebbe mai avuto fine quella grande farsa? Era ancora peggio, perché ora sapeva che alla fine avrebbe vinto, e quel continuo protrarsi era solo una seccatura. «Hai raccolto una donna lungo la strada?» chiese Max. «Nella foresta?» «Quella?» disse Galt. «Una spia dei fuorilegge, credo. Se non ci fossimo fermati per lei, non ci avrebbero preso così alla sprovvista.» Strinse gli occhi. «E cosa vorresti sapere di lei, straniero?»
Elron intervenne. «Questo è Max Quest» disse. Max provò un profondo turbamento nel sentire il suo nome pronunciato correttamente, come due parole distinte, per la prima volta in quel mondo. «Gli devo la vita, e non voglio sentire maldicenze sul suo conto. Cerca la ragazza. Tu dici che l'hanno i fuorilegge?» Galt annuì. «È un tipo strano» disse dubbioso. Guardò di nuovo furtivamente Max e i suoi assurdi vestiti verdi; sputò un'ultima volta nella polvere e poi volse loro le spalle. Cavalcarono lungo la strada per un po' in silenzio. Alla fine Elron parlò. «Tutti i suoi beni terreni, le sue tre mogli, la sua famiglia. Ha perso tutto. È amareggiato.» Max non incontrò mai il Duca. Elron aveva fatto rapporto al suo superiore ed era stata stabilita un'udienza con il Duca nel pomeriggio. Ma Max ne aveva abbastanza di aspettare. «Domani mattina» disse a Elron «parto. Prenderò l'animale che ho cavalcato.» «Dove hai intenzione di andare?» «Tu sai dove voglio andare. Andrò a caccia di quei fuorilegge, e quando li avrò trovati avrò trovato la mia donna. Sono stanco di aspettare.» Elron annuì lentamente e seguì Max sulla strada. Il crepuscolo stava scendendo, e delle torce erano state accese lungo le strade. Se non altro c'erano molte più persone, ora, che affollavano le strade. «Ma non dormono mai?» chiese Max a Elron. «Non mangiano?» Un pastore conduceva il suo gregge di capre lungo la strada e i passanti si scansavano imprecando, o erano spinti via dalla loro strada. Un uomo nerboruto fu spinto addosso a Max e gli pestò pesantemente il piede. Max borbottò, e l'uomo si girò guardando irato chi aveva osato mettere il piede sotto al suo. «Tu!» grugnì l'uomo. «Cosa credi di fare?» «Farmi gli affari miei, finora» ribatté Max. L'altro alzò il braccio e minacciò Max con il pugno. «Stai attento!» Max indietreggiò verso la porta della stalla e l'omone, sentendo di trovarsi davanti a una facile vittima, avanzò. «Perché indossi quella roba di merda?» gli chiese allungando le mani e toccando le vesti di Max. Erano lacere e macchiate, e lui aveva sperato di poterle sostituire con abiti più adeguati, ma non badava certo al tono di quel tipo. «Ehi, sei uno di quelli che pensano di essere delle femminucce, eh?»
Max calò velocemente la mano di taglio sul polso dell'uomo, allontanandogli la mano. Quello indietreggiò, tenendosi il polso con l'altra mano. Strinse gli occhi fin quasi a chiuderli e l'espressione sulla sua faccia si fece cattiva. «Max» disse Elron dietro di lui, afferrandogli il braccio «lascia che me la sbrighi io.» «No» disse Max, liberandosi. L'omone imprecava in continuazione, massacrando verbalmente i progenitori di Max, la sua condizione presente e le sue probabilità di sopravvivere in futuro. «Sta' attento alla lingua, amico» disse Max. Quindi allungò la mano e rivolse l'indice verso la bocca dell'uomo. Una lingua di fuoco gli scaturì dalla punta del dito e colpì la bocca aperta del tipo. Lui emise un grido spaventato, si premette le mani sulla bocca, guardò esterrefatto Max e scappò via. Max si appoggiò per un attimo alla porta, riacquistando le forze. «Cosa gli hai fatto?» chiese Elron. «Usava parole di fuoco, così gli ho mostrato quello vero» replicò Max truce. «Gli ha fatto più effetto di una bella bastonata.» Uscirono cavalcando dalla città subito dopo l'alba. Max aveva cercato di dissuadere Elron dall'unirsi a lui, ma l'uomo barbuto era irremovibile. «Tu mi hai salvato la vita e io mi sono impegnato a servirti per il resto dei miei giorni.» «Ma il Duca...» «Ascolterà in ogni caso quello che gli devo dire. È meglio per me cavalcare con te e sperare di vendicare i miei compagni.» Elron, convinto che Max fosse un grande stregone, aveva legato a lui il suo futuro. Cavalcarono per un giorno intero prima di raggiungere i confini del territorio dei fuorilegge. Quella notte Max si era steso dopo aver mangiato e aveva finto di essersi addormentato. Mentre il suo corpo si rilassava in uno stato quasi di trance, spedì fuori il suo spirito perché vagasse in cerca di tracce dei fuorilegge. Non trovò niente. Il mattino seguente Max, che aveva ancora un aspetto sciupato e stanco, indicò ancora una volta il percorso, seguendo un sentiero tranquillo attraverso la foresta che si risvegliava. Arrivarono al prato quel pomeriggio. Era vuoto come mai: solo la pista
battuta della strada tradiva la presenza di esseri umani. I fuorilegge avevano eliminato dal prato ogni segno del loro attacco. Elron disse che era tipico di loro; non ci sarebbe stato nulla a mettere in guardia i futuri viaggiatori, nel caso avessero usato di nuovo quel luogo per le loro imboscate. Max perlustrò attentamente i confini del prato, e sul lato nord trovò quello che stava cercando: una pista tenue e ben mascherata. Si incamminarono su di essa e si intrufolarono, facendo meno rumore possibile, tra gli alberi contorti e le occasionali sporgenze rocciose. Non era una strada facile per carri e veicoli a ruote: era una pista adatta a nascondersi e conosciuta da pochi. Continuavano a stare molto attenti, dal momento che Max arrischiava circa ogni mezz'ora perlustrazioni mentali dei luoghi innanzi a loro. Tuttavia fu solo dopo che i raggi dorati del sole furono scesi obliquamente tra le foglie a occidente che trovò ciò che cercava. Alzò la mano e tirò le briglie per fermarsi. Elron gli si affiancò e si fermò. «Sono davanti a noi, a non più di mezzo chilometro» sussurrò Max. «Dove?» chiese Elron. «Io non vedo niente.» «Li vedo nella mente» disse Max. «Tra gli alberi. Si sono costruiti un rifugio tra i rami degli alberi. In pieno giorno potremmo anche passargli sotto senza vederli.» «Ma loro vedrebbero noi» borbottò Elron. «Già» annuì Max. «Proprio così.» Mangiarono un pasto freddo e si accamparono lontano dalla pista in una cavità ben protetta, finché scese la notte. Quindi condussero, silenziosamente e con molta attenzione, i destrieri lungo il sentiero, il più vicino possibile. Il rifugio dei fuorilegge era una serie di costruzioni rudimentali, sistemata in alto tra i rami degli alberi, collegate da rampe e ponti di corde. Max calcolò che l'intero complesso coprisse cinque degli alberi giganti e ospitasse una quarantina di fuorilegge. Pensò che neppure la banda di Robin Hood ne aveva mai avuto uno simile. C'erano scale di corda arrotolate che potevano essere calate dagli alberi, ma solo due erano giù, entrambe sorvegliate. Mandò la mente alla ricerca tra i rami... Trovò Fran nella capanna del capo dei fuorilegge, legata sul letto. La mente di lei ribolliva di rabbia, una rabbia che rifluiva nella sua. «Andiamo adesso» disse a Elron, a bassa voce ma con decisione. «Non
lasciarti sorprendere. Sguaina la spada e tienila pronta per difenderti.» Quindi fece levitare sé e l'amico in aria. Stupefatto, Elron proruppe in un grido strozzato di meraviglia e paura: si ritrovarono tra i rami frondosi dell'albero, in piedi su di un largo ramo vicino al tronco. Davanti a loro c'era una capanna spoglia. Max, con uno sforzo enorme, ritrovò l'equilibrio e si avviò a larghi passi sul ramo. Strappò il drappo di pelle che copriva la porta ed entrò in una stanza puzzolente, poco illuminata. Fran era legata sul letto a braccia e gambe divaricate: il corpo le brillava di sudore. Era nuda. Un uomo magro, ma forte, con radi capelli grigi, stava in piedi su di lei. Era anche lui nudo e in erezione. Con una mano teneva Fran per i capelli, ed era facile capire cosa avesse in mente. L'uomo era così intento nelle sue azioni che non si accorse degli intrusi finché non furono entrambi nella stanzetta. Non girò la testa, ma si limitò a ringhiare: «Fuori, sono occupato!» Fran spalancò gli occhi nel riconoscere Max, e lo vide afferrare la spada che gli porgeva Elron. Quindi Max abbassò la spada e con un fendente sventrò il capo dei fuorilegge dalla spalla all'inguine. L'uomo riuscì a emettere un grido acuto prima di morire. «Siamo a posto!» disse Max, restituendo la spada a Elron. «Controlla la porta» aggiunse. Tirò fuori un coltello dalla cintura e liberò Fran. Poi si tolse gli abiti e glieli mise addosso. «Max, Max, Max» singhiozzò Fran stringendosi a lui, ancora scioccata ma felice. «Oh, Max, come sei arrivato fin qui?» La capanna cominciò a sussultare, e sopra di loro vi furono tonfi sordi. Alcuni uomini scesero dall'alto. All'improvviso una botola nel soffitto si aprì, e un uomo vi infilò la testa. Prontamente, Max allungò il braccio libero e, brandendo il coltello che aveva ancora in mano, squarciò la gola del fuorilegge, la cui testa e le spalle rimasero a penzolare giù dall'apertura. «Dobbiamo uscire di qui!» gridò Elron. «Maledizione, stanno occupando tutti gli alberi!» «Fran!» disse Max. La ragazza era ancora in stato di shock. La schiaffeggiò leggermente. «Fran.» Lei lo guardò. «Stai con Elron.» Fece un cenno. «Sto per mettere in scena lo spettacolo.» Velocemente, tirò giù dalla botola il corpo del fuorilegge morto. Poi vi si scagliò attraverso. Come emerse, richiamò a sé tutta la sua forza residua e si diede fuoco. Questa volta esercitò un controllo migliore, non lasciò che le fiamme
bruciassero lui o i suoi vestiti. Invece si circondò di un alone infuocato. Uscì fuori sul tetto della capanna, lasciando a ogni passo tizzoni carbonizzati al posto delle rozze assi, spingendo lontano i fuorilegge che vi si erano già ammassati. Allungò un braccio fiammeggiante e le fiamme bruciarono il volto di un uomo che era stato troppo lento. Lui avanzava e loro si ritiravano. Il tetto era piccolo. Ognuno si trovava di fronte alla scelta: morire bruciato oppure morire gettandosi giù. Nessuno affrontò la fiammeggiante apparizione sul tetto. 18 Quella notte, dopo una cavalcata lunga e faticosa, si accamparono, ma solo dopo che la luna più grande si era alzata e dopo aver messo abbastanza strada tra loro e la capanna. Nonostante ciò furono molto prudenti, e non accesero fuochi. Era comunque una notte calda, ed Elron si coricò a una certa distanza da Max e Fran. Max strinse Fran tra le braccia per un po', parlandole, raccontandole la storia del lungo inseguimento e dei luoghi remoti che aveva visto. Gli sembrò strano il fatto di averla tra le braccia, come se l'eventualità di rivederla di nuovo fosse stata solo un sogno, una meta che si estendeva oltre il possibile e il presente, un improbabile futuro in cui un uomo ha speranze solo fioche e non si aspetta mai di vederlo realizzato. Mentalmente Max aveva tracciato una demarcazione tra le due vite, quella di ora e quella di prima sulla lontana Terra. Fran apparteneva alla Terra e gli era difficile pensare a se stesso in quei termini. Adesso era Maxquest, sopravvissuto al deserto, adottato dai nomadi, guerriero, perfino stregone. Dov'era finito il Max Quest che guidava un taxi e viveva in un appartamento ammobiliato nel West Side? Ora, e in modo traumatico, le due metà si erano saldate: aveva trovato Fran. «Quasi quasi... non voglio tornare sulla Terra» disse Fran. «È come se là non fossi mai stata viva. Ero solo un piccolo fiore terrorizzato, che tu bagnavi ogni giorno di piccole gentilezze. Ma ero fragile, timida e spaventata. Ora... è come se, tornando indietro, tornassi a essere chi... O quella che ero prima.» Gli raccontò le sue avventure.
«Non sono state piacevoli o romantiche» disse. «Sono state più le notti che sono andata a letto stanca e affamata che le altre. Sono stata violentata molte volte... Ci ho fatto il callo, per così dire. Come nel vecchio proverbio cinese: "Quando lo stupro è inevitabile, rilassati e goditelo". Alcuni non erano poi male. Quando vivevo con i caprai mi davano ogni notte a un uomo diverso con la speranza che rimanessi incinta e immettessi nuovo linfa nella loro tribù. Erano gentili. Puzzavano, ma erano gentili.» «Ho sentito parlare di te per la prima volta al castello di Rassanala» disse Max. Fran si irrigidì un attimo e poi si rilassò. «Quelli sono stati i peggiori. Erano dei degenerati, tutti quanti. Molto raffinati. Niente di rozzo, come l'uomo nella capanna, ma molto crudeli, cattivi. Quando il vecchio stregone mi ha mostrato dove gettava la spazzatura, mi sono detta che non ci poteva essere niente di peggio di loro, e allora sono saltata dentro.» Gli si agitò tra le braccia. «Siamo cambiati, vero? Siamo cresciuti, invecchiati.» Lui l'accarezzò dolcemente. «È stata un'esperienza che ci ha rafforzati, Fran. Spero che entrambi ne trarremo profitto.» «Dobbiamo proprio tornare sulla Terra? Questo è un mondo enorme, e i posti che mi hai descritto... potremmo vivere in quella città dov'eri prima, Zominor.» «No» rispose tranquillamente Max «non possiamo. Dobbiamo tornare. Dobbiamo affrontare gli Altri. Ho combattuto con gente che seminava il male qui, ma erano solo esseri umani, non i nemici che cerco. Devo affrontare gli Altri, quelli che ci hanno spedito qui.» Rimasero a lungo semplicemente abbracciati, dividendo tranquilli lo stesso giaciglio come prima avevano diviso la stessa cavalcatura. Sentendo tornare le forze, Max cominciò ad accarezzarla, a spogliarla dei vestiti che le aveva gettato addosso, liberandola da quell'impedimento. E lei fece altrettanto con lui, mentre le labbra si raggiungevano in baci lunghi e soffocanti. Il loro rapporto quella notte ebbe un qualcosa di speciale: un'intensità, un'esaltazione mai provata prima. Durò a lungo perché Max sapeva con certezza, mentre Fran poteva al massimo intuirlo, che quello era un momento troppo speciale per sprecarlo. Quel pomeriggio arrivarono alle rovine sepolte della città di Tanakor, morta ormai da tempo. Cercarono attentamente la via tra le collinette, finché giunsero all'ampio buco nel terreno coperto di erbacce.
«Dobbiamo lasciarti» disse Max a Elron. L'uomo barbuto annuì con tristezza. Il suo sguardo si posò sui volti felici e orgogliosi della coppia e annuì per dire che capiva. Fran gli porse la mano. «Grazie, Elron. Da parte di tutti e due.» «State tornando su un altro mondo» disse Elron. «Sì» rispose Max. «Come devi aver capito, questo non è il nostro. Ma è un mondo buono e vecchio che sta rinascendo. Potrei imparare ad amarlo, se rimanessi qui...» rivolse a Fran un sorriso gentile «...e vorrei poter restare. Ma la nostra battaglia non è ancora finita. Dobbiamo nuovamente affrontare i nostri veri nemici.» Max saltò dentro al buco e allungò le braccia per prendere Fran; scomparvero entrambi nell'oscurità. Elron rimase tranquillo per un po' sull'orlo, pensieroso. Poi si batté il pugno sul palmo della mano e si gettò anch'egli nel buco. Si trovò in uno spoglio corridoio che si inoltrava nel buio. La luce del sole vi penetrava solo per un piccolo tratto. Ma più avanti scorse sulla destra un'apertura e vi si diresse con cautela passo dopo passo, finché la raggiunse e poté guardarvi dentro. Le piante avevano chiuso interamente le altre finestre della stanza; fasci di luce fioca si insinuavano dentro. Era una stanza riempita per metà di cianfrusaglie. In prossimità delle finestre la stanza era sgombra, con il pavimento spazzato dal vento e insozzato dalla pioggia. Ma all'altra estremità della stanza... Il pavimento era coperto da rifiuti: pezzi di vetro, arnesi di metallo offuscato che ogni tanto riflettevano un piccolo bagliore e perfino quello che sembrava il contenuto di un vecchio vaso da notte. Elron si diresse con cautela verso quel lato e si fermò davanti a una porta di metallo. Sulla porta c'erano in rilievo alcuni pulsanti rotondi e quadrati e, se avesse avuto un po' più di luce, avrebbe visto le iscrizioni arcaiche sopra ciascuno. Toccò il metallo della porta e provò un debole pizzicore sui polpastrelli. Osservò a lungo la porta. Poi, mentre la luce incominciava a diminuire nella stanza, si girò e si diresse alla porta che dava all'esterno. Si trovarono sospesi in un nonspazio non-tempo. Max si era liberato dell'inerzia paralizzante di cui era stato schiavo su Qanar... in quel luogo poteva lasciar crescere ed espandere la sua mente.
Si trovavano tra diversi portali. Ma questa volta non sarebbero tornati col trasmettitore di materia su Qanar. Si erano allontanati dall'universo di Qanar. Max l'aveva previsto, aveva visto loro che ne emergevano insieme, quando era passato l'ultima volta per i portali. Perché qui il tempo non passava e tutto era, per qualcuno che ancora considerava il tempo soggettivamente e non poteva andare con il pensiero oltre i limiti temporali, un ora, un eterno presente. Max non riuscì a far accettare alla sua mente questa sua esistenza; poteva afferrare intellettualmente quei concetti così vasti e osservarne alcune manifestazioni, se si potevano definire così, ma non cedere alla certezza della sua esistenza in quell'... ambiente. In termini più precisi, era un alieno che era penetrato lì. Era un personaggio bidimensionale uscito dal suo foglio di carta, e che ora si trovava in un mondo senza dimensioni. Tuttavia, siccome quella era una non-entità spaziale e temporale, quelli che vi entravano coesistevano e tutto era, semplicemente. Ma quella non-entità era al di fuori di tutti gli universi, sia da Qanar sia dalla Terra; e, altrettanto importante, la Terra doveva essere tanto accessibile quanto Qanar. Non c'erano distanze, la Terra poteva, doveva essere altrettanto "vicina". Ma... dove? Come si poteva trovarla? Là, tra spazio e tempo, coesisteva con Fran. In altro senso, era Fran e lei era lui; fu così che percepì come una scintilla che sembrava comunicare da lei alla... Terra? Ma non c'era un'analoga scintilla in lui. Poi capì. Era l'ultimo inganno degli Altri. Max e Fran non avevano portato i loro corpi nel mondo di Qanar; già lo sapeva. I loro corpi erano rimasti sul divano della stanza a specchi dell'ufficio della Edwards & Archer. Tuttavia, su Qanar, avevano corpi uguali a quelli che avevano sulla Terra. E c'era un sottile legame tra i due... la scintilla che aveva appena scoperto. Ma gli altri non avevano considerato il fatto che lui potesse tornare vincitore. Non gli avevano lasciato niente a cui tornare. Avevano distrutto l'inutile custodia rappresentata dal suo corpo. Non poteva portare con sé il suo corpo di Qanar, perché apparteneva alla realtà dell'universo di Qanar. Non avrebbe funzionato nella realtà della Terra. Poteva tornare sulla Terra senza un corpo? Ci provò... e sentì che qualcosa si staccava da lui. Stava perdendo Fran. "No, non mi perderai" pensò lei.
"Non posso tornare senza un corpo. Se ci provassi, il tuo thetan comincerebbe a ritornare nel tuo corpo, abbandonandomi qui... intrappolato nel limbo." "Ritorna con me, nel mio corpo." Coesistere, dividere lo stesso corpo con Fran? Max pensò a quell'ipotesi, conscio del fatto che mentre lo faceva, percepiva anche i pensieri di Fran oltre ai suoi. "Noi due..." "...Solo noi due...!" "Potremmo riuscirci? La coordinazione..." "Sarebbe facilissimo, tesoro." "La più intima forma di matrimonio..." "Finché morte non ci separi." Ma senza alcuni vantaggi. E, in fondo, sapeva qualcos'altro. Quella loro unione non sarebbe durata così a lungo. Ma tenne quel pensiero, con ciò che ne conseguiva, per sé. "Fran, voglio che tu sappia che ti amo." "Lo so, tesoro." Si risvegliarono nel corpo di Fran. Era disteso in un letto, a occhi chiusi, rilassato. Respirava lentamente. "Addormentato." "È meglio che tu ti occupi della... Uhm... Della parte strettamente femminile della cosa. Lascia che sia io a condurre il gioco, per così dire." "Certo, caro." Il corpo snello aprì gli occhi e si mise a sedere. Poi sbatté gli occhi, sbalordito, esaminando con lo sguardo la squallida stanza. Era sdraiato su un letto, un letto di ferro. Sul muro di fronte ai piedi del letto, così vicina che bastava allungarsi per toccarla, c'era una vecchia credenza. La stanza aveva due porte. Gli unici altri mobili oltre al letto e. alla credenza erano due sedie, una delle quali era un'enorme sedia superimpagliata e coperta di una fodera che non le si adattava, mentre l'altra aveva lo schienale ed era dipinta di marrone chiaro. C'erano due finestre, entrambe coperte da tendine di carta tirate. Il sole entrava dalle fessure e dagli strappi. L'aria era viziata e sapeva di fumo, alcol e qualcos'altro che il suo olfatto riuscì a identificare come un afrore di sudore e sesso. Era nuda, ma scese dal letto, alzò le tendine e aprì le finestre.
L'aria fuori era come nella stanzetta: calda e umida. Fece fatica a respirarne una boccata piena. Da sotto venivano i rumori del traffico del centro. Le finestre davano su una laterale piena di camion delle consegne e taxi. Una porta dava sul corridoio. Ne ricavò solo un'impressione di una incolore distesa marrone, prima di richiuderla. L'altra porta si apriva su un ripostiglio poco profondo. Appesi dentro c'erano i suoi vestiti, quelli che indossava quando era stata rapita dagli Altri. Erano sporchi, e puzzavano. Arricciò involontariamente il naso per il disgusto. Poi il suo corpo si irrigidì un attimo e la stanza si trasformò. La luce del sole sembrava fendere l'aria, bruciandola e pulendola. Un fresco alito di una fragranza sconosciuta in quel periodo dell'anno a Manhattan spazzò gli angoli della stanza. Gli abiti, appesi frettolosamente sugli attaccapanni, brillarono un attimo. Quando li tirò giù di nuovo, erano puliti e profumavano di fresco. Se li infilò velocemente e aprì di nuovo la porta sul corridoio. Una consunta guida di un marrone indefinibile faceva da pendant incolore e deprimente alle porte marrone scuro e ai muri. Seguì il corridoio fino all'ascensore e lo chiamò. Quando arrivò al piano, vide che era azionato da un vecchio sdentato con in testa pochi capelli bianchi tirati indietro con la brillantina. Il colletto, molto più scuro della camicia sporca, era dello stesso colore dei polsini. «Già sveglia, signorina?» disse con una risatina stupida. Lei non rispose, ma aspettò che l'ascensore finisse la sua discesa in silenzio. «Quel tizio con cui eravate ieri è rimasto un bel po', eh? Un cliente ricco, eh?» La porta sbatté aprendosi e lei uscì, lasciando il vecchio ancora seduto sul seggiolino a guardarle avidamente il sedere. L'albergo era nella Quarantatreesima Strada, vicino a Times Square, ed era malfamato. Ormai era ovvio. Era altrettanto ovvio che gli Altri non si erano accontentati di lasciare il corpo di Fran a riposo. L'avevano messo al lavoro. Camminò per un po' attorno a Times Square, godendosi con gli occhi e gli orecchi i rumori di quella rumorosa ma sfiorita folla, che era stata come attirata da una vaga magia: la promessa della folla che loro stessi formavano. I veri newyorkesi evitavano quella zona, se potevano. In un angolo, un uomo in maniche di camicia e un cappello di carta in testa guidava dei turisti; più in alto lungo la strada un altro uomo aveva steso sul marciapiedi
un'esposizione di scimmiette meccaniche multicolori. I turisti venuti dalla provincia si gustavano avidamente quelle scene: persone simili a loro e altre che volevano derubarli. Si rifugiò nell'androne di un palazzo. Non voleva vedere altro. Un uomo di mezza età, dal naso troppo grande e il mento troppo piccolo, arrivò dall'entrata del palazzo. «Scusate» disse, mentre passava oltre la bruna dall'aria impudente e le strizzò l'occhio. Ma non c'era più nessuno. La ragazza alla reception alzò lo sguardo sorpresa. Non aveva sentito la porta aprirsi, ma si trovava di fronte una giovane. «C'è il signor Edwards, o il signor Archer?» «Avete un appuntamento?» disse la segretaria. La donna scosse la testa e sorrise. «Non sarà necessario. So che sono qui.» Si sporse in avanti e abbassò la voce. La segretaria si sporse a sua volta senza rendersene conto. «È meglio che vi troviate un altro lavoro. Questo non durerà ancora molto.» Poi, sotto gli occhi terrorizzati della segretaria, la donna brillò e svanì. La stanza era di nuovo deserta. Fissò per un attimo lo spazio vuoto, sconvolta. Poi, mormorando qualcosa, scosse la testa e si girò verso le schede che aveva estratto dallo schedario. Ne prese cinque o sei e scosse di nuovo la testa. Dopo qualche esitazione, allungò una mano verso l'interfono. Poi, decisa, l'accese. «Signor Edwards» disse. Aspettò la risposta. Aspettò per un bel pezzo. Era stato facile sbarazzarsi di Edwards e Archer. Max pensò che fosse appropriato averli spediti nella stessa realtà ultradimensionale nella quale l'avevano spedito loro: Qanar. Sperava vivamente che si sarebbero divertiti a vivere i loro ultimi giorni come semplici esseri umani. Non si aspettavano che tornasse; li aveva sorpresi con la guardia abbassata e non aveva perso tempo con duelli e addii. Avevano fatto appena in tempo a rendersi conto del pericolo che era tutto finito. Se n'era liberato. "Hai vinto!" pensò Fran. "Ho vinto la battaglia, ma non la guerra" rispose Max secco. "Proprio così." Il pensiero li trafisse con un dolore quasi fisico. Il pavimento scomparve loro sotto i piedi e i muri si dissolsero. Il fragile corpo che li conteneva entrambi cadde, con le gonne che si sollevavano scoprendo le cosce nude, e Max sentì i muscoli della gola contrarsi mentre
Fran gridava. Calma. Mise tutta la sua sicurezza in quel pensiero, mentre vedeva, come flash della mente di Fran, immagini di loro due che camminavano a braccetto per un parco; loro due assieme a casa di Max, le sue braccia che la cingevano, che la stringevano forte, le labbra che si incontravano... calore... amore. Poi fu quasi come se sentisse la mano di lei nella sua, che la stringeva dolcemente. Erano in una grande stanza. Una lampadina penzolava poco più in alto di loro, illuminando il piccolo cerchio nel quale stava il corpo di Fran. Oltre il cerchio illuminato, c'erano otto uomini seduti. Fran avrebbe ricordato ben poco di quello che seguì. Era tutto incomprensibile per lei, troppo veloce. Colse solo immagini confuse delle colossali energie che si sprigionavano, degli sforzi immensi su piccole leve e fulcri, delle facce statiche e impassibili radunate intorno al suo corpo immobile. Più tardi Max abbandonò il suo corpo e le apparve sotto forma di spettro. «Potrei dire che abbiamo vinto perché eravamo dalla parte del bene» disse con un sorriso cupo. Le prese le mani tra le sue e le strinse. «Ma è stato semplice. Erano creature deviate, Fran... terribilmente. Erano corrotte e avevano sofferto il decadimento finale: non erano più padroni di loro stessi. «Dipendeva dal loro modo di pensare. Vedi, ognuno di loro, quando ha raggiunto il suo Dono, aveva già personalità e modi di pensare precisi. Il Dono non li ha cambiati... li ha solo aumentati. «Non hanno mai pensato a loro stessi per quello che erano veramente; non hanno mai cercato di usare i loro poteri immensi per capire lo schema delle cose e che ruolo avessero in esso. Erano soddisfatti di poter pensare a loro stessi come a esseri umani con grandi poteri. Non hanno mai minimamente pensato a ciò che sta oltre l'umanità. «Ecco cosa li ha portati alla rovina. Hanno scelto di pensare a loro stessi in un modo limitato, e così hanno perso gran parte dei loro poteri per il semplice motivo che non sapevano di averli... non li avevano mai provati. E nemmeno potevano. Quei poteri erano incompatibili con le loro menti traviate.» «E tu, Max?» «Io sono quello che sono, Fran.»
«E cosa sei?» «Il primo passo oltre l'umanità. Il prodotto dell'evoluzione umana.» 19 Le spiegò tutto con cura. Non era più un essere umano. Il suo diritto di nascita apparteneva all'universo. Non aveva più bisogno di un corpo materiale. Presto se ne sarebbe andato. «Ma... Max. E noi?» «Fran, io ti amo. Lo sai. Ma giorno dopo giorno divento diverso da quello che conosci. E presto neppure tu mi riconoscerai tanto da amarmi. In questo momento sono ancora un superuomo, per te. Ma non vedi? Questo mio corpo che vedi non è vero. L'ho creato per te, per darti un po' del vecchio Max a cui aggrapparti.» «Cosa ne sarà di quello che avresti potuto fare per il mondo? Ricordi? Avevi progetti ambiziosi. Avresti potuto porre fine a guerre, carestie, povertà.» «Ho fatto tutto quello che dovevo, Fran. Non sono Dio e non farò finta di esserlo. Gli Altri... Loro manomettevano la gente, gli esseri umani, perché avevano il potere di farlo. Soddisfacevano così la loro vanità. Un poco alla volta avevano incominciato a disprezzare l'umanità. Si divertivano a manipolare gli esseri umani in modi più sottili, finché gli esseri umani non cominciarono a manipolarsi a vicenda per soddisfare gli Altri. «L'umanità si è liberata della loro influenza corruttrice. Ma non ho completa fiducia in me stesso, Fran. In questo momento io esisto senza alcuna disciplina esterna. Niente mi tiene sotto controllo o mi disciplina. E qui sono un piccolo dio. Potrei cominciare a pensare di esserlo, se volessi. «No, non giocherò col destino dell'umanità. Ognuno deve cercare la propria strada. Gli uomini devono risolvere da soli i loro problemi, se vogliono soluzioni significative. Penso che tu lo capisca, Fran.» Trascorse l'ultima notte con lei, e per Fran fu così dolorosa che non l'avrebbe più scordata; l'ultima notte che avrebbe trascorso con il Max che conosceva sulla Terra. Fecero un'ultima passeggiata al Central Park, finché il sole sorse. Poi presero la metropolitana fino al parco di Fort Tryon, che una volta faceva parte della tenuta Rockefeller. Là passeggiarono sui pendii che sovrastavano il fiume Hudson, mentre i raggi caldi del sole sulle New Jersey Palisa-
des stagliavano le lunghe ombre dei filari di alberi bassi, illuminavano i sentieri e i fiori, la cui fragranza pervadeva l'aria. Passeggiarono per le collinette e salirono gli scalini che portavano alla piazzola panoramica circondata dagli alberi. Da là guardarono le barche a vela che navigavano sull'Hudson. Quindi passarono oltre con lo sguardo per ammirare il crepuscolo che scendeva sulla città, accompagnato dalla foschia che calava sui tetti, e le luci di un treno lontano che procedeva su un nastro d'acciaio. Era come se lei non avesse mai visto la città prima di quel momento, e Fran si sentiva come se non la potesse più rivedere. Ma Max era con lei e la confortava, mano nella mano, mentre con un braccio le cingeva la vita; ogni tanto gli si appoggiava contro chiudendo gli occhi, sentendo che quegli attimi erano più preziosi di ogni altra cosa. Dormirono insieme per l'ultima volta quella notte, e fu quasi come una luna di miele, per l'amore e la gioia che Fran provò dando il suo corpo a Max. Si svegliarono tardi, la mattina seguente, col sole che entrava prepotentemente dalle finestre spalancate e illuminava i granelli di polvere in aria. Fran si stirò, curvando la schiena in un movimento felino, e si girò dalla parte di Max per guardarlo. Lui contraccambiò lo sguardo e sorrise. «Ti piacerebbe fare colazione a letto?» le chiese, e al suo sorriso deliziato fece un gesto ieratico. Subito dopo Fran sentì il tonfo di un vassoio che le si appoggiava sulle ginocchia. Tenne il vassoio in grembo e lo guardò teneramente. «Adesso devi andare?» «Devo proprio, Fran. Ma non essere triste. Non è la fine, per noi. Sai bene che... anche tu l'hai provato. «Ricorda che ogni essere umano porta in sé i semi latenti dell'evoluzione. E tu... tu sei stata al mio fianco durante la battaglia contro gli Altri. Ho fatto ricorso ai tuoi poteri latenti, oltre che ai miei. Quell'esperienza può averli stimolati.» Fecero colazione insieme in silenzio, poi Fran appoggiò il vassoio sul pavimento a fianco del letto. Max si sporse verso di lei e Fran si abbandonò tra le sue braccia. Si baciarono. Poi si trovò di nuovo sola. Sola col vassoio. Era un bel vassoio di tek intarsiato. Lo strinse, accarezzandolo, con il ricordo del loro ultimo bacio ancora sulle labbra.
20 Quella notte Francine fece fatica ad addormentarsi. Quando finalmente ci riuscì, continuò a rigirarsi tra le lenzuola madide di sudore. Poi fece strani sogni... e levitò di dieci centimetri sopra il letto. FINE